L’inconscio del bambino. Dal sintomo al desiderio del sapere
 9788822901040, 9788822909459

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Campi della psiche. Lacaniana

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Lacaniana

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a cura di Antonio Di Ciaccia

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Hélène Bonnaud L’inconscio del bambino Dal sintomo al desiderio del sapere

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Prefazione di Jacques-Alain Miller

Quodlibet

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Prima edizione: febbraio 2018 © 2018 Quodlibet srl via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23, Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl, Lavis (tn) ISBN 978-88-229-0104-0 | ISBN 978-88-229-0945-9 Titolo originale: L’incoscient de l’enfant. Du symptôme au désir de savoir © Navarin éditeur, Paris 2013 © Le Champ freudien éditeur, Paris 2013

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Traduzione a cura di Laura Pacati Revisione a cura di Maria Grazia Balducci e Laura Pacati

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Indice

9 Prefazione di Jacques-Alain Miller Documento acquistato da () il 2023/04/23.





15 Premessa







I. Il bambino, posta in gioco della modernità

19 19 21 23 24

Il bambino, un sogno per tutti? Famiglia ideale, famiglia sintomo Trasparenza in trompe-l’œil Ritorno del bastone e della carota Luoghi per la parola

27 Desiderio di bambino 27 Maternità 30 Il bambino rimedio 32 Un posto nella storia familiare 34 Una dipendenza vitale 36 Il romanzo familiare 38 Soggetto di diritto, oggetto di misure 41 42 45 47 49

Scegliere la psicoanalisi lacaniana L’inconscio, la parola, il tempo L’incontro, un evento I registri dell’esperienza «Là dove parla, gode»

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indice



II. Il bambino in analisi

55 Il sintomo è un dire 60 Aline e la contaminazione significante 62 Jérémie e la sua incessante agitazione



65 La domanda inconscia 66 La domanda bloccata di Sarah 70 Julie scompare con l’anoressia

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75 Madri possessive 77 Milène e la madre possessiva 81 Alain e la trasmissione della dislessia 87 Assenza o presenza del padre 91 Justin e la colpa paterna 93 Nicolas si vergogna di suo padre 97 Trauma e trasmissione 99 La menzogna di Sophie 102 Marcia e la doppia madre

107 Il transfert e l’atto analitico

110 Sébastien ha paura di Dio 113 Lea e il sapere sulla femminilità

III. Dei luoghi per dire i legami 121 Lo psicoanalista e l’istituzione

122 122 125 128

Una psicoanalisi, non il suo sembiante Il tempo e il denaro nelle istituzioni Pensare l’atto terapeutico Una lettura a diversi

131 Niente clinica senza etica

131 Determinismo o responsabilità 133 Avventure del transfert

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indice



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136 Il desiderio dell’analista, una bussola 139 Trasmissione, controllo, formazione 142 Logica della clinica

145 Conclusioni

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155 Bibliografia

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Prefazione

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di Jacques-Alain Miller

Questo libro segnerà una svolta, lo si coglie già dal titolo. Provate a digitare su Google «l’inconscio del bambino» e non troverete niente, se non delle formule approssimative. Ripetete l’esperienza su Amazon e avrete lo stesso risultato. Nessuno prima di Hélène Bonnaud aveva dato a un libro un simile titolo. Il motivo è che gli psicoanalisti non sono del tutto sicuri che i bambini abbiano un inconscio degno di questo nome. Niente inconscio senza rimozione. La rimozione comincia con il periodo detto di «latenza»: dopo è sicuro che ci sia inconscio; prima, se ne dubita. Hélène Bonnaud ha un’altra concezione dell’inconscio, che le viene da Lacan, dalla sua analisi e dai controlli con me, e dalla sua pratica con i bambini. È l’inconscio reale, l’inconscio come l’impossibile da sopportare. Ci sono le formazioni dell’inconscio, che si decifrano, che fanno senso, ma c’è anche ciò che fa buco, che fa troppo, che fa tropmatismo o troumatismo. La difesa, come diceva Freud, non ha la struttura di una rimozione. Essa c’è già. Il parlessere vi è direttamente, crudamente, confrontato al reale, senza interposizione del significante – che è cataplasma, unguento, medicamento. Come disturbare la difesa? È la questione principale che la pratica pone a un analista. Per molti, la difesa è fuori tiro. Non la percepiscono neppure, non sanno che esiste, conoscendo dell’inconscio solo il simbolico, oppure, per gli zucconi, l’immaginario. Hélène vi si misura incessantemente. Capita che nel bambino si intervenga quando la difesa non è ancora cristallizzata; è un’occasione che bisogna prendere al volo, poiché la Fortuna è cieca. Dal suo incontro con il linguaggio, il soggetto sorge schiacciato, sepolto sotto il significante che lo sopraffà. Egli rinasce, born again, dall’appello fatto a un secondo significante. Ecco il tradue, rimosso, che si sposta, ex-sistente, soggetto barrato e che si bar-

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jacques-alain miller

ra. Se l’analista arriva a farsi essere questo secondo significante, con il bambino compie dei miracoli. Tutte le culture prevedono delle procedure destinate a far nascere o rinascere il soggetto attraverso l’imposizione di un significante supplementare. A questo scopo incidiamo, tagliamo, trafiggiamo, suturiamo dei pezzi di corpo: circoncisione, battesimo, infibulazione… Più tardi, il Bar e la Bat Mitzvah, la comunione solenne, ogni sorta di rito d’iniziazione. Ci sono quelli dei massoni, quelli della mafia, i sacramenti. Sono tutti dei raggiri, delle moine, degli imbrogli con il significante. Il significato non è molto chiaro ma, per l’appunto, lo si sente ancora meglio. L’iniziazione è il contrario dell’Illuminismo. Tutto riposa sulla tradizione, che sacralizziamo. Dovrei sognare questo perché per secoli si sono passati di mano in mano alcuni significanti dei quali non si capiva un bel niente? Ah! Non possum. Quando si vuole che adori l’assurdo, sono volterriano. Rispetto, ed è già molto. Vale a dire che tengo le distanze. Non credo che ridere sia sufficiente a sconfiggere gli idoli che ho già visto restaurati dopo la Grande Rivoluzione. Sono volterriano, ma non dell’età di Voltaire: di quella di Stendhal, più saggio per aver visto il ritorno nel reale di quel che è stato forcluso del simbolico – Dio, la monarchia, l’aristocrazia. La decristianizzazione della Francia non è stata esattamente un successo. Quella della Russia nemmeno. Non parliamo della deconfucianizzazione della Cina. Quanto al volterriano dell’età di Flaubert, monsieur Homais, mi fa vomitare. Torniamo al bambino. Intorno al «matrimonio per tutti» – denominazione ridicola – il coro delle prefiche: «Il bambino», dicono, «l’interesse del bambino! Attacco alla filiazione! Vergognosa mercificazione dei corpi!». Non abbiamo vissuto la stessa storia del mondo. Dove sono quando abbiamo bisogno di loro, queste associazioni che rivendicano che si risarciscano i discendenti degli schiavi? Il commercio degli esseri umani è cosa vecchia quanto l’umanità. Il primo legame sociale è quello del servo e del padrone. Jean-Jacques fa cominciare la società civile dall’enunciato: Questo è mio. Ma questo non era un terreno recintato, era il corpo dell’altro. Perché è attraverso il corpo che vi si aggancia, signori miei. Qualche giorno fa ho sfogliato un libro che celebrava nel Congresso di Vienna la rifondazione dell’Europa, come già aveva fatto

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prefazione

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Harold Nicolson. Sebbene io sia stendhaliano, poiché detesto Metternich e lo Spitzberg, ammetto che la concezione dell’equilibrio delle potenze ha della grandezza; un Kissinger ne fa l’alfa e l’omega della grande politica. Ma questi grandi trattati stabiliti su delle rovine fumanti, di Vestfalia o di Berlino, essenziali in effetti alla nostra civilizzazione, consistevano nell’affondare la lama nella carne di questi popoli e nel distribuirli senza domandare il loro parere. Non è stato diverso a Parigi nel 1919. Guardate Clémenceau, Lloyd George, Wilson, trio sinistro e imbecille così come ce lo rivela il bel libro di Margaret MacMillan, Peacemakers. Six months that changed the world. È sul commercio dei popoli che per secoli si è costruito l’ordine dell’Europa. Ma basta che si parli di pma e di gpa perché si gridi alla mercificazione dei corpi. «L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene». Niente è più falso. L’uomo nasce in catene. È prigioniero del linguaggio, e il suo primo statuto è quello di essere oggetto. Se è fortunato, oggetto causa del desiderio dei suoi genitori. Se non lo è, scarto dei loro godimenti. Oggi, i futuri genitori cominciano con uno studio dei costi prima di mettersi nella condizione di produrre un essere umano. Se la natalità francese è prospera, è dovuto in parte alle sagge disposizioni del legislatore. La politica è in primo luogo una regolazione delle popolazioni, «biopolitica», dice in maniera eccelsa Foucault. The Baby Business è all’apice. È il titolo del libro di Debora L. Spar, sottotitolato: How money, science, and politics drive the commerce of conception. Editore: Harvard Business School. Uomini e donne di politica, il peggio sarebbe se chiudeste gli occhi per continuare a sognare un mondo ideale in cui papà picche e mamma quadri. Sappiate rivolgere uno sguardo coraggioso sul reale. Solo allora avrete l’opportunità di agire per le libertà. Bangor, 15 marzo 2013

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Sì, il bambino che deve nascere è già, da cima a fondo, avvolto in quest’amaca di linguaggio che lo riceve e nello stesso tempo lo imprigiona. Jacques Lacan, Les clefs de la psychanalyse

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Premessa

Mi sono imbattuta nella psicoanalisi con i bambini agli inizi della mia pratica nelle istituzioni. L’angoscia era palpabile. Quella che indica che l’oggetto in questione è consistente, assoluto. Il bambino mi toccava da vicino, anche se ancora non lo sapevo con certezza. D’altronde non avevo altra esperienza dell’infanzia al di fuori della mia. Sebbene mi sembrasse lontana e passata, era stata tuttavia richiamata nella mia analisi. È qui che ho scoperto l’importanza della parola e della verità – non la verità oggettiva della mia storia, ma il concatenamento logico degli eventi della mia vita con quello che ero stata nel desiderio dell’Altro. L’incontro con l’opera di Freud, alla fine dell’adolescenza, aveva ulteriormente rafforzato il mio desiderio di saperne di più. Volevo sapere come funziona quella finestra oscura che chiamiamo inconscio. La mia prima lettura di Lacan è stata più tardiva. Avevo comprato un libro il cui titolo, Scilicet, era accompagnato da due piccole frasi: «tu puoi sapere», e sotto «cosa ne pensa l’École freudienne de Paris»1. È proprio su questa idea di poter sapere che si è avviata la mia analisi. È venuto per me il momento di trasmettere questo «tu puoi sapere» incontrato all’alba della mia pratica. Dopo tanti anni di esperienza, la mia curiosità resta viva. L’accoglienza dell’altro è sempre ciò che motiva la mia presenza, così come la certezza che la parola abbia un peso. Di fatto, si tratta di una pratica esigente e delicata che mette in gioco il proprio desiderio. Talvolta è davvero difficile sapere come fare con i bambini e i loro genitori, sostenere le loro angosce, le loro aspettative o i loro eccessi… Questo libro si rivolge in primo luogo a coloro che si chiedono cosa sia la pratica analitica con i bambini quando s’iscrive in un 1

Cfr. «Scilicet»,1, Champ freudien (diretta da Jacques Lacan), Seuil, Paris 1968.

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premessa

quadro terapeutico e come si serva dei concetti della psicoanalisi per orientare la sua azione. L’intreccio tra teoria e pratica mi sembra indispensabile. Senza di esso la pratica diventa routine, o peggio, si compromette al fine di soddisfare una domanda rimasta in sospeso. La pratica analitica non è fondata sull’ascolto dell’altro, anche se così potrebbe sembrare. Essa poggia sull’inconscio e sulla struttura che lo determina, e coglie il sintomo come una manifestazione della sua esistenza. È a causa del fatto che un soggetto soffre dei propri sintomi che l’incontro con uno psicoanalista può diventare necessario. La psicoanalisi deve essere trasmessa senza il gergo che la sorregge. Qui ho cercato di dire più che di insegnare, di testimoniare una pratica più che teorizzarla. Poiché credere all’inconscio2 – formula che Lacan impiega per indicare che si tratta di una credenza fondata su una decisione del soggetto – ha alcune conseguenze. La scrittura di questo libro è una di queste. Ringraziamenti. Ringrazio J.-A. Miller, il mio analista, senza il quale questo libro non avrebbe potuto vedere la luce e che è stato il mio primo lettore. I miei ringraziamenti vanno anche a Eve Miller-Rose, che ha accompagnato il lavoro editoriale di questo libro e ne ha sostenuto il progetto con il suo entusiasmo e la sua sensibilità riguardanti il bambino in analisi e la sua famiglia. Ringrazio Pascale Fari che con le sue osservazioni ha saputo apportare lumi nelle mie scelte per una trasmissione della psicoanalisi che sia leggibile da tutti. Ho apprezzato il grande rigore del lavoro di equipe dell’edizione che lei ha coordinato, e in particolare quello di Joëlle Hallet, che l’ha assistita in questo compito. I miei ringraziamenti vanno anche a Mathilde Madelin, Pierre Gaillard e Julien David per le loro letture attente e lungimiranti, così come a Fabrice Bourlez, Christine Carteron, Véronique Eydoux, Virginie Leblanc e Nathalie Marchaison per il loro contributo all’edizione di quest’opera. Ringrazio anche Cécile Jullien, la grafica, per la sua disponibilità e professionalità. Ci tengo a ringraziare anche mia sorella Catherine Chabert e mio fratello Philippe Cohen che hanno incoraggiato il mio progetto e la sua scrittura. Infine, penso a Richard Bonnaud che, con il suo humor e le sue osservazioni precise, mi ha aiutato a sostenerne la scommessa. Non dimentico i miei bambini, Octave e Hadrien, che non hanno smesso di essere presenti e mi hanno apportato il loro indefettibile sostegno.

2 J. Lacan, Discorso all’École freudienne de Paris, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 278.

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I. Il bambino, posta in gioco della modernità

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Il bambino, un sogno per tutti?

Il bambino non ha mai occupato un posto così importante nella nostra cultura. È un elemento cruciale a livello sociale, politico ed economico. Presentifica una forza che mantiene vivo il legame familiare e rappresenta di per sé un messaggio d’amore e di speranza. Fonda l’idea della famiglia come struttura che lo accoglie e se ne prende cura. È il prodotto di una coppia nuova, portatore di un desiderio consapevole. Se l’idea di coppia attuale non si accompagna più agli ideali di fedeltà e di eternità, si rinforza quella di una coppia di genitori fedeli ai loro bambini. Queste nuove famiglie sono un’invenzione della nostra epoca. Il bambino ne è la causa.

Famiglia ideale, famiglia sintomo Faccio l’ipotesi che la famiglia contemporanea sia un sintomo. La famiglia freudiana, tradizionale, non c’è più. Il declino del padre è manifesto e la sua autorità in via di scomparsa. La coppia eterosessuale non ne costituisce più la base. La famiglia assume nuove forme: monoparentali, allargate, omoparentali… le famiglie non finiscono mai di sorprendere nella loro diversità. Ieri si definivano a partire dalle leggi della parentela e della funzione paterna che presiedevano alla legge del desiderio. Il complesso di Edipo verificava la posizione del bambino nella coppia dei genitori e condizionava una scelta sessuata attraverso l’identificazione al genitore dello stesso sesso: maschio o femmina. Una logica che d’altra parte non è totalmente superata; gli effetti dell’Edipo sono ancora ben reperibili in numerosi casi. Ma i progressi della scienza offrono oggi nuovi mezzi per diventare genitori. Intervengono in particolare nella fecondazione e

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

nel controllo genetico, fabbricando così problematiche inedite. Chi è il padre? Il genitore o piuttosto colui che alleva il bambino? Simili interrogativi si pongono ormai anche per la madre. Tutti questi sconvolgimenti – non privi di implicazioni giuridiche complesse – scuotono i riferimenti simbolici tradizionali. Sostengo l’idea che la famiglia – anche nelle sue nuove versioni contemporanee – sia un significante principale della psicoanalisi. Questo significante incarna la storia del soggetto, la storia come effetto dell’inconscio di cui la ripetizione e l’identificazione sono i pilastri. In questo senso si può dire che la famiglia sia stata e resti uno dei sintomi della psicoanalisi, il suo ombelico, la sua via di ricerca. Dal momento in cui non si sostiene più questa ipotesi della famiglia come nodo di significazioni, si deteriora una certa concezione della libertà del soggetto in quanto legata alla parola. L’attacco sferrato contro la psicoanalisi al momento della pubblicazione del rapporto dell’inserm1, e poi del Libro nero della psicoanalisi2, mi ha scioccata. Mentre sulla stampa la psicoanalisi veniva rimessa in discussione dai comportamentisti, e saggi con pretese di serietà ne contestavano il metodo e l’efficacia dei trattamenti nelle cure, mi sembrava che il bambino freudiano non fosse attaccato senza motivo. Questo bambino che definisco «freudiano» è in effetti il bambino del desiderio eretto a ideale, il bambino che la psicoanalisi ha reso soggetto a pieno titolo, accordandogli il potere di pensare, di soffrire, di amare e di essere ascoltato in quanto tale. Il bambino freudiano è cresciuto con questa ideologia della parola – un’ideologia che oggi disturba, così come i sintomi tendono oggi a essere ridotti a comportamenti negativi, come se non fossero altro che cattive abitudini. Il bambino è oggi l’oggetto di una nuova lettura che si vorrebbe scientifica perché opera a partire dai progressi della diagnostica cerebrale attraverso le immagini. Gli esami tramite rm o tac permettono di sapere molte cose sull’attività cerebrale, ma non rivelano niente sulla causa dei sintomi. La psicoanalisi, al contrario, cerca di elucidare la causalità inconscia che opera nella loro formazione. I sintomi hanno in effetti un senso particolare e, ancor di più, una funzione: riguardano il soggetto che se ne lamenta e sono retti da regole precise. 1 inserm, Psycothérapie. Trois approches évaluées, expertise collective, inserm, Paris 2004. 2 Cfr. C. Meyer (a cura di), Il libro nero della psicoanalisi, Fazi, Roma 2006.

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il bambino, un sogno per tutti?

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La scoperta dell’inconscio ha mostrato l’impatto dei primi anni di vita nella costruzione di un soggetto. Il bambino è l’oggetto stesso di questa invenzione. Ne è la prova logica, il suo riferimento strutturale. Freud l’ha messo in evidenza nella sua teoria della rimozione. Egli ha mostrato che i sintomi isterici avevano la loro origine in scene infantili dimenticate. Ha formulato l’incredibile ipotesi che ci sia una corrispondenza, un legame causale, tra il sintomo di cui soffre un soggetto e il ricordo traumatico che gli è collegato. Procedendo a ritroso verso questo ricordo dimenticato, ha scoperto che il fatto di parlare di sé conduceva l’analizzante a parlare della propria infanzia, dei propri genitori e delle prime esperienze infantili. Lì si è svelata l’origine di un conflitto psichico che metteva in gioco il bambino in ricordi talvolta completamente sconnessi dalla sua realtà attuale, oppure in situazioni di vita considerate banali e che tuttavia custodiscono una verità dimenticata. L’inconscio ha illuminato il fatto che l’infanzia è il ricettacolo di esperienze decisive che hanno marchiato lo psichismo del soggetto. Mai il bambino è stato investito di così tante speranze e aspettative. Incarna da solo una prova di felicità alla quale tutti hanno diritto. Non stupisce che questo bambino portatore di godimento non sempre sia all’altezza della soddisfazione attesa. Il bambino è spesso sovrainvestito e chiamato a rispondere all’ideale che viene a simbolizzare. Quando decade da questo posto, diventa un sintomo familiare. Per raggiungere tale perfezione, il bambino deve rispondere a norme sempre più codificate. Deve adattarsi alle situazioni più complesse della sua esistenza, senza manifestazioni sintomatiche. Se fallisce nell’essere «normale», entra allora nel triste mondo del disturbo psichico e delle sue valutazioni. Trasparenza in trompe-l’œil Con il pretesto della «trasparenza» e della prevenzione, il bambino viene dunque classificato, identificato, misurato, confrontato. Ma qual è l’utilità segreta di questa trasparenza, questa preoccupazione di non mascherare niente, se non di preservare colui che deterrebbe il sapere? Alcuni medici prendono la cosa sul serio e si sentono tenuti a rivelare e predire gli effetti delle cure, così come le prognosi in termini di vita, di

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

morte e di handicap. Si è passati da una posizione medica che trattava con riguardo il soggetto e prendeva in considerazione la sua parola, a una posizione di oggettivazione assoluta ad opera del sapere medico, che trascura la parola del soggetto. Di conseguenza, c’è un dovere di nominare la malattia, di enunciare un sapere che valga come verità assoluta e di prescrivere la cura definita come sola risposta possibile alla malattia constatata. In tal modo non si rischia l’accusa di avere ingannato pazienti e genitori occultando una diagnosi. La trasparenza sostiene così l’ideale della classificazione. In effetti, questa concezione identifica gruppi di persone sotto un significante che li nomina attraverso il loro sintomo; i tossicomani, i bulimici, i depressi, ecc., inscrivono la loro singolarità nel nome di una differenza chiamata «disturbo» o «handicap». Trovano così il loro ruolo nella società che gli conferisce il diritto di esistere in quanto malati dando loro dei diritti. La trasparenza è il nome di una nuova modalità del sapere che oblitera e tratta la sofferenza umana attraverso il riconoscimento di un sintomo – che fonda l’handicap. Al contrario, la psicoanalisi interroga e cerca con i genitori la maniera di rispondere al sintomo in quanto esso è una particolarità del loro bambino. Offre così loro un luogo per dire il proprio malessere, la propria angoscia di fronte alle conseguenze legate alla patologia del loro bambino. La ricerca della causalità psichica ha certamente dato luogo a una colpevolizzazione delle madri che oggi suona come un abominio della psicoanalisi. Ed è un fatto che alcuni psicoanalisti abbiano accusato le madri di essere all’origine dei sintomi del loro bambino. Ebbene, la questione non è accusare, ma ascoltare e trattare. Non è raro in effetti che di fronte al loro bambino che non evolve normalmente, i genitori stessi cerchino di comprenderne il perché. Non esitano a raccontare come hanno agito, come un evento inatteso li abbia obbligati a separarsi dal loro bambino, o piuttosto come siano stati sommersi dall’angoscia o della paura di sbagliare. La psicoanalisi ha fatto valere in particolare che il legame madrebambino non era necessariamente immanente, che poteva tardare a istituirsi, ma anche essere ostacolato da ogni sorta di paure e di sofferenze legate alla propria storia. Ha aiutato a mettere parole su queste questioni segrete e vergognose; a elucidare, per molti, le cause del proprio malessere, della propria inibizione o del proprio fallimento, e a superarle. Ha accompagnato i cambiamenti sopraggiunti nella famiglia

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il bambino, un sogno per tutti?

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– in primis, tra questi sconvolgimenti, la questione della separazione delle coppie. Il ruolo e la funzione paterna ne sono stati riconfigurati. La situazione delle donne ne è stata trasformata, la posizione del bambino è stata fatta vacillare dalle nuove scelte di vita dei genitori. La psicoanalisi è certamente stata impotente a guarire tutto, ma non si è mai sottomessa al diktat di un ideale di adattamento forsennato.

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Ritorno del bastone e della carota Dagli Stati-Uniti e dal Canada ci arrivano continuamente nuovi metodi per promuovere l’educazione dei nostri bambini: programmi per individuare i sotto-dotati come i super-dotati, i fobici, i dislessici e gli agitati decretati iperattivi – futuri delinquenti che sarebbe importante individuare il più presto possibile, come se l’iperattività fosse l’indice di un sintomo già conosciuto che conduce alla delinquenza. Tali approcci sono semplicistici e conservatori, malgrado un vocabolario che si pretende scientifico ma che mal cela l’inconsistenza concettuale che promuovono. Come indica il suo nome, il comportamentismo parte da ciò che si mostra, da quello che si vede, supera o disturba. Cerca di far scomparire rapidamente il comportamento giudicato inadeguato. Il suo metodo sembra ridurlo a un errore, a un difetto che bisognerebbe correggere. Ridurre il sintomo a un comportamento, escludendo il fatto che è una formazione dell’inconscio; decretarlo inefficace e invalidante, senza interrogarsi sulla sua utilità e la sua funzione; poi fare di tutto per cancellarlo: è un metodo di condizionamento. Non è inventivo, nella migliore delle ipotesi prende appoggio sulla buona volontà del soggetto, ma più spesso su di una forzatura, sempre ricompensata, sempre valorizzata, come se i progressi fossero esclusivamente legati alla volontà e alla forza mentale dell’io cosciente. Sfortunatamente non si vede che il comportamentismo fiorisce proprio in questo periodo in cui la famiglia è resa fragile, rimaneggiata e la funzione paterna messa in scacco. Questo fatto ha una certa logica, la famiglia patriarcale non c’è più. Il comportamentismo trova in questo la sua leva di Archimede. Non s’interroga né sui legami familiari dei soggetti, né sulla loro storia, ma considera il paziente come un robot che deve programmare adeguatamente le sue azioni. Quando fallisce,

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

lo si riprogramma perché riesca finalmente in ciò che prima sbagliava. Il disturbo, riferito a un modello informativo, si suppone che sia radicato nei neuroni e nelle zone del cervello. Nessuna traccia di storia, nessun interrogativo sull’educazione, nessuna riflessione sulla trasmissione, nessun fenomeno d’interpretazione. I soggetti non sono considerati come presi in un catena significante inconscia che organizzerebbe la condizione degli uni in legame con gli altri. Si fa come se esistessero individualmente, in maniera assolutamente autonoma, e soprattutto come se non avessero niente da dire.

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Luoghi per la parola La psicoanalisi cerca di alleggerire le persone che soffrono della loro infanzia – che si tratti di maltrattamento, di una tristezza indeterminata o anche di malesseri apparentemente ordinari – e specialmente di ciò che non ha potuto dirsi. La lista dei danni sarebbe troppo lunga, ciò nonostante basti pensare alle malattie, ai suicidi, ai bambini nati morti, o anche a drammi familiari quali l’alcolismo, e avrete un piccolo quadro di ciò che può succedere ed essere taciuto in una famiglia considerata come «assolutamente normale». Giacché la paura di fare del male è spesso all’orizzonte del silenzio promosso. Come dire in effetti al proprio figlio meraviglioso che prima di lui c’è stato un altro bambino che è morto asfissiato nel suo letto? Come annunciare al proprio figlio di tre anni che suo padre ha un cancro e che rischia di morire? Come far sapere alla propria figlia di sei anni che non si sono potuti proseguire gli studi perché all’epoca si avevano alcune difficoltà di apprendimento? È frequente rifiutare di rispondere a tali domande. Diciamo che il bambino non capisce, che è troppo piccolo. Ci pensiamo, e poi lo vogliamo dimenticare. L’oblio è una forma di silenzio che ci si impone, ma di quello che resta dimenticato rimane sempre una traccia enunciata, un detto che ha lasciato un segno. Rispetto a questo, la parola è una forza inimmaginabile di cui ciascun soggetto in analisi può testimoniare. I sintomi dei bambini piccoli hanno questo di particolare, che sono manifesti e appaiono sempre in piena luce. Non sono velati né dall’ideale, né dalla coscienza morale, né dal «super-io», – quell’istanza, elaborata da Freud, che veglia e interdice – per l’ottima ragione che non sono istituiti nello psichismo del bebè. Questi non prova il bene e

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il bambino, un sogno per tutti?

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il male, sperimenta solo il piacere e il dispiacere. Per questo è un essere fragile e che domanda tante cure. I suoi sintomi molto spesso non sono altro che dei mezzi per manifestare la propria angoscia o rispondere a quella dei genitori, e talvolta anche proteggersi dalle aspettative di un genitore troppo pressante, troppo ansioso, o troppo esigente. È cruciale che esistano luoghi in cui questo incontro con la psicoanalisi resti vivente. Essa è un rifugio per chi ha subito un danno, una perdita – noi lo chiamiamo traumatismo. Per farne qualcosa e non essere roso o inghiottito da tale trauma, un soggetto deve potersi rivolgere a chi si è a sua volta costruito con la propria particolarità – cioè con il proprio sintomo – e che noi chiamiamo «psicoanalista». Arrivare a dirgli il proprio tormento è potersene distaccare cogliendolo in un’altra maniera. Così il soggetto costruisce un nuovo sapere. La clinica si fa nel letto della sofferenza del paziente. Questa evidenza è al principio di ogni lavoro attraverso la parola, che si chiami psicoterapia o psicoanalisi. Volendo far conoscere questo lavoro quotidiano con famiglie e bambini in difficoltà, ci tengo soprattutto a dimostrare l’effetto di alleggerimento, di pacificazione e di elucidazione che permette il trattamento psicoanalitico, a testimoniare gli effetti di scioglimento operati attraverso la parola indirizzata a chi sa come ci si imbroglia con le parole dei propri cari, del proprio Altro, e di sicuro con le proprie parole. Il concetto di grande Altro di Lacan definisce un luogo, quello dei significanti3, ma anche quello della relazione che ne apre la possibilità. Il desiderio dell’Altro è uno dei nomi del desiderio dei genitori che introduce il bambino piccolo alla particolarità di tale desiderio. La psicoanalisi permette di trattare il legame del soggetto con il suo Altro. Gli permette di assumere la propria responsabilità nei confronti di ciò che lo fa soffrire e che alloggia il suo godimento segreto. A partire dalla struttura di linguaggio del suo inconscio, il bambino in analisi si concepisce come un soggetto in legame con suo padre, sua madre e la storia della sua famiglia. Questo è il filo rosso, autentico, verificabile, che rimane a ciascun incontro con un paziente, la 3 Lacan ha spiegato le ragioni che l’hanno portato a privilegiare il termine di «significante»: «alla parola “parola”, [egli] ha sostituito la parola “significante” [perché questa] significa che si presta all’equivoco, cioè a sempre diverse possibili significazioni» [J. Lacan, Conférences et entretiens dans des universités nord-américaines, Yale University, 24 novembre 1975, «Scilicet», 6-7, Seuil, coll. Champ freudien (diretta da J. Lacan), Paris 1976, p. 34].

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

più chiara testimonianza del desiderio che vi si alloggia. La determinazione dei sintomi come nodi di sapere e di godimento costituisce un riferimento indefettibile per cogliere come essi siano legati, fissati per soddisfare il soggetto. Una psicoanalisi gli permette di mettere in luce ciò che ha determinato la sua esistenza e gli offre la possibilità di fare nuove scelte con maggiore cognizione di causa. La psicoanalisi difende e promette così una certa concezione della libertà. È chiaro che l’attacco frontale di cui è l’oggetto testimonia dell’avvento di un’ideologia che lascia meno posto alla singolarità. La clinica che desidero esporre qui non è quella dello studio dello psicoanalista, ma quella che si pratica in un’istituzione di cura, plurale nella sua concezione dell’aiuto, dove la psicoanalisi ha saputo trovare il suo posto. Questa clinica s’inscrive in un lavoro a diversi4, non è solitaria; rende conto dell’impatto delle politiche della salute mentale che mettono il bambino e la sua famiglia al centro delle loro preoccupazioni. Vorrei dirvi come il mio orientamento, quello di una posizione di transfert all’indirizzo della psicoanalisi lacaniana, mi permetta di testimoniare degli effetti principali dell’incontro del bambino e dei suoi genitori con un analista.

4  Tale dicitura fa riferimento all’espressione «pratica a diversi», a sua volta traduzione italiana della formula «pratique à plusiers», coniata da Jacques-Alain Miller per indicare il metodo di lavoro messo a punto all’Antenne 110 di Bruxelles da Antonio Di Ciaccia.

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Desiderio di bambino

Nella nostra cultura il bambino è quell’oggetto essenziale e meraviglioso che trionfa su tutti i pessimisti che hanno creduto che le donne, a partire dal momento in cui hanno avuto la padronanza dei loro ovuli, fossero riluttanti a voler procreare. Bene! Sembra che il fenomeno della maternità abbia guadagnato in dignità dal maggio del 1968 e che ora le donne la scelgano come un riferimento necessario al loro fiorire. «Avere solo figli che si desiderano», affermano ormai. Questa posizione è una vittoria sull’epoca in cui le donne vivevano la paura della maternità come una sfortuna legata al loro sesso, trasmessa sul filo dei secoli, e assolutamente contraria alla condizione stessa della donna. La sessualità ne pativa, poiché era la causa di gravidanze vissute come errori o legate ai rischi della vita sessuale femminile. Un buon numero di nascite erano allora degli «incidenti» e, in una certa maniera, la maternità una maledizione ordinaria. Oggi questa norma mortifera si è rovesciata. Il bambino è vissuto come una scelta, un desiderio singolare, un’avventura che si decide di vivere, di solito in due. È contemporaneamente ciò che fonda la coppia e ciò che gli dà la sua consistenza. Il bambino è l’elemento supplementare che trasforma la coppia in famiglia. In qualche modo la produce. In relazione a questo il bambino è un oggetto particolare per il padre e la madre da cui è nato. Occupa un posto e una funzione che lo porterà a essere – come dice Lacan – un sintomo della coppia dei genitori.

Maternità Sessualità e maternità si sono dunque disgiunte, cosa che ha delle conseguenze importanti sulla famiglia. Lacan per primo ha fondato

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

questa disgiunzione tra la donna e la madre. Là dove Freud aveva concluso la sua interrogazione riguardo alla femminilità sul fallocentrismo della bambina e il suo prolungamento nella maternità, Lacan ha introdotto la clinica della privazione fallica e del godimento femminile che si caratterizza per essere al di là del fallo. La questione sessuale ha ormai preso un posto importante nel discorso delle donne. Non si accontentano più di amare e di essere amate, vogliono anche conoscere il godimento sessuale. La maternità non ricopre la questione del godimento femminile, che oggi fa parte delle loro aspirazioni. Le donne rivendicano più ampiamente anche il diritto alla riuscita. Vogliono lavorare e condividere il carico della vita familiare con l’uomo che accetta di implicarsi nelle loro scelte comuni. Molti divorzi sono legati a questa difficoltà per le donne di essere sostenute nella loro posizione di donna responsabile, con le sue scelte e le sue aspettative. Finché si accontentavano di essere delle madri rinchiuse nei loro focolari, le cose erano più semplici per gli uomini. Essi vedevano nella loro donna solo la madre dei propri figli, occupata a educarli e ad attendere il proprio uomo a casa. Questo schema classico non è del tutto superato e abita ancora il modello che molti adulti hanno conosciuto durante la loro infanzia. Tuttavia, c’è stato un vero scombussolamento nella ripartizione dei ruoli femminile e maschile che obbliga a uscire da questo schema tradizionale e a inventare la propria posizione nella coppia. Un buon numero di padri non cerca più di cancellarsi dalla vita quotidiana dei propri figli, anche molto piccoli. La loro presenza costituisce uno dei cambiamenti più importanti della nostra cultura. La paternità è passata da una funzione di nominazione simbolica – il padre trasmette, dà il suo nome al bambino – a una funzione di presenza presso quest’ultimo. Questo genera, nel trio padre-madre-bambino, una nuova modalità di legame agile e vivente, più creativa e generosa. Ciò nonostante, capita che la ridistribuzione ugualitaria ma non differenziata delle funzioni dei genitori, perfino l’inversione dei ruoli tradizionali, crei delle rivalità tra i genitori. Il bambino non costituisce più l’oggetto in causa nei dissapori della coppia, anche se può essere strumentalizzato nella separazione dei genitori. Il bambino resta l’oggetto amato dal padre e dalla madre quando la coppia attraversa un divorzio. È sempre al cuore della coppia dei genitori. L’impegno del padre e della madre rimane. Tutta

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desiderio di bambino

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una clinica di queste nuove costruzioni mostra d’altronde come il bambino rimanga l’oggetto di un investimento importante per i due genitori che lo allevano. La famiglia decomposta non è esente da legami, al contrario. Il bambino, a questo titolo, è colui che ne porta la ragione. Ne è l’oggetto causa, vettore di un legame indefettibile. C’è una clinica di questo annodamento che mostra come, in ciascuna situazione, le funzioni del padre e della madre si appoggino su delle nuove forme di famiglia, nuove maniere di essere genitori. La scelta amorosa non è più considerata come l’impegno di una vita. Le giovani coppie sanno che c’è il rischio che la loro vita a due conosca un giorno una mancanza di respiro, e che allora la separazione potrà apparire come una soluzione inevitabile. Ciò nonostante «la famiglia coniugale»1, secondo il termine di Émile Durkheim che Lacan riprende nei Complessi familiari, non ha niente di antiquato. Al contrario, conosce un successo che rivela che i legami tra uomo e donna trovano il loro sbocco, s’incarnano, nel matrimonio. Malgrado le ferite inferte a tale istituzione, essa rimane la struttura che sostiene l’idea della famiglia: ha questa funzione. È l’ideale a mobilitare le rivendicazioni in merito al matrimonio omosessuale. Tale aspettativa fa valere che la vita di coppia non è fondata sulla differenza tra i sessi. A partire dal momento in cui il desiderio e l’amore vi sono alloggiati, il concetto di coppia risponde alla norma familiare. Con il riconoscimento «del matrimonio per tutti», i legami di coppia si fonderanno su una scelta del partner liberata dall’obbligo del modello eterosessuale. Il bambino di genitori omosessuali sarà accettato per il fatto di essere il bambino di una coppia che si ama. La legge riconoscerà così che «madre» e «padre» sono concetti che dipendono più da un dire, da un desiderio per il bambino, che dalla differenza sessuale. Il concetto di coppia si separerà dalla sua connotazione eterosessuale. Anche se non siamo ancora lì, questo al di là dell’Edipo è stato teorizzato da Lacan che ha dato un’interpretazione visionaria dei nuovi modi di vita degli uomini e delle donne. Essa mette al cuore della coppia, non una differenza, ma il malinteso e la solitudine propria a ciascuno, che si sia uomini o donne. Apre quindi a una clinica del 1 J. Lacan, I complessi familiari nella formazione dell’individuo, in Id., Altri scritti, cit., p. 27.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

sintomo sganciato dalle norme, per far consistere il soggetto in ciò che annoda il suo essere e il suo godimento. Quanto alla famiglia monoparentale, essa appare di solito ancora in maniera accidentale, legata al divorzio o al decesso del coniuge. La domanda di bambino eccede tuttavia la funzione della coppia, e alcuni soggetti decidono di avere un bambino senza passare da una relazione stabile con un partner. Questo fa sorgere delle forme inedite del legame parentale. Si desidera un bambino per conto proprio, indipendentemente da una vita di coppia. In effetti, la difficoltà a incontrare la persona che sarebbe il partner ideale non è più un cuscinetto per soddisfare un desiderio di bambino. Questo può realizzarsi in special modo attraverso l’adozione o, per le donne, tramite le tecniche di fecondazione con donatore anonimo. La maternità può così mantenersi al di fuori della vita di coppia. Essa dunque non è più sottomessa alla sessualità. Perciò il bambino non è più il frutto dell’unione tra un uomo e una donna, ma di un mezzo ottenuto dalla madre per procreare. La scienza a volte si mette al servizio del desiderio di bambino di una donna. Rendendolo possibile, essa assolve allora una funzione di partner per tale donna – cosa che non impedisce a quest’ultima di alloggiarci un partner sul piano immaginario (spesso un ex-amore), o il proprio padre sul piano inconscio. Questa figura del bambino desiderato è dunque anche una conseguenza dei progressi della scienza. Quest’ultima ha consentito dei grandi avanzamenti nel conseguimento di un bambino. Prima con la contraccezione, che ha cancellato l’idea del bambino come «incidente»; poi con la manipolazione degli ovuli e degli spermatozoi, che offre nuove modalità per concepire un bebè. Infine la madre in affitto, anche se attualmente interdetta in Francia, è una forma di scambio inedita, che mostra come il corpo di una donna possa servire a concepire, più tardi a dare un bambino, a una coppia o a un parente – di solito una sorella o una figlia sterile. Tuttavia, affittare il proprio corpo ad altri a fini commerciali è spesso condizionato e motivato da difficoltà economiche.

Il bambino rimedio Il bambino è dunque al centro di molti progetti, di molte aspettative. Si configura come ciò che resta quando l’amore è fallito. È il

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bambino come salvataggio, il bambino come conforto, il bambino come regalo fatto a se stessi, il bambino rimedio. Esso infonde un’energia formidabile alla nostra epoca. Riferimento onnipresente nel nostro mondo, serve anche tutta un’industria che si consacra a inventare nuovi prodotti per alimentarlo, abbigliarlo, divertirlo, curarlo, trasportarlo… Il bambino serve perfino a far vendere degli oggetti di consumo, come se la sua approvazione rendesse l’oggetto più desiderabile. Strizzatina d’occhio al suo potere e al suo posto nelle scelte dei genitori, ma anche trattamento del suo valore in termini di più di godere nel nostro mondo culturale. L’arte, lo spettacolo, la moda, la musica, l’industria alberghiera e tutto il turismo di massa mettono in campo questa concezione del bambino per dare forma a un ideale familiare centrato sulla sua presenza, il suo ben-essere. Questo la fa esistere con più forza che mai. In realtà, essa non è mai stata tanto idealizzata e non ha mai servito tanti interessi economici. In breve, il bambino ha un futuro! La mia esperienza di psicoanalista con i bambini mi ha rivelato fino a che punto non ci sia soluzione ideale per educare un bambino. Avere genitori di sessi differenti non assicura una riuscita, tutt’altro, sebbene l’assenza di uno dei genitori renda spesso la vita del soggetto più difficile. Anche se non fondiamo più l’idea di coppia sull’eterosessualità, l’idea dell’eteros – quello che non si conosce, che è differente e il cui desiderio e godimento fanno enigma – risuona sempre come sintomo dell’apertura all’altro. In effetti per la psicoanalisi lacaniana la scelta del partner sessuale è sempre traumatica e il rapporto sessuale fallisce sempre. Da questo punto di vista, Lacan è stato molto in anticipo sulla nostra epoca con il suo non c’è rapporto sessuale. Questa formula dice che non c’è rapporto, nel senso di un rapporto matematico, scritto, tra l’uomo e la donna. Quali che siano le loro scelte sessuate, non si completano. Di fronte a questo traumatismo sessuale, il soggetto deve sempre inventare la risposta che non c’è. È il motivo per cui le nuove modalità di fare coppia, che concepiscono delle forme esigenti sul piano del legame, partecipano spesso di un desiderio innovatore nei riguardi della relazione dei partner tra di loro. Esse mettono la parola al primo posto del legame con il bambino e gli danno così un’occasione supplementare di realizzarsi. Ciò nonostante, l’idea diffusa che l’amore sia una garanzia per fare in modo che il bambino venga allevato e cresca senza troppe

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

complicazioni non è la più giusta. L’amore in effetti non protegge da ogni cosa. Può anche causare danni accertati. Il bambino ha di certo bisogno di essere amato e di sentirsi sicuro per crescere. Però troppo amore soffoca, troppe prove d’amore obbligano a prendere le distanze, a respingere. C’è un paradosso messo in luce dalla psicoanalisi. L’amore può rivelarsi patogeno se non arriva niente a mettergli un limite. Non opera al contrario della mancanza di amore, che può avere destini diversificati. L’eccesso di amore può ostacolare il desiderio di un bambino e impedirgli di pensare. Quando l’amore soffoca, può distruggere. Le madri-tutte sono per esempio quelle che cercano di avere un bambino perfetto, una sorta d’immagine ideale che vogliono ottenere con ogni mezzo. Il bambino potrà allora rifiutare il legame sganciandosi dall’Altro, o piuttosto pervertirlo utilizzandolo per il proprio godimento. Di solito le madri incontrano i limiti dell’amore per il loro bambino. Si rendono conto che quell’esserino che le incanta può anche irritarle e metterle a dura prova. La maternità non colma la loro mancanza in maniera efficace. Il loro desiderio è diviso, cioè non è tutto diretto verso il bambino. Possono allora sentirsi colpevoli di non amarlo tanto quanto avevano immaginato. Per questo è inappropriato dire che gli psicoanalisti hanno colpevolizzato le madri di bambini in difficoltà. Se c’è colpevolezza, viene sempre dal soggetto stesso: ogni madre prova, a un certo momento, questo sentimento di non essere stata all’altezza del suo compito; è la sorte comune. L’amore non è un recipiente che funziona con un pulsante. Tantomeno il bambino può considerarsi come una pianta. La colpevolezza della madre può essere fonte di malintesi supplementari tra lei e il bambino. È importante che la colpevolezza non conduca il bambino e i suoi genitori nel tormento di una spirale di rimproveri.

Un posto nella storia familiare Fin dalla nascita, il bambino è preso nei significanti di quella che diventerà la sua storia, vale a dire che ha già un certo posto nel discorso dei genitori. Tutto quello che si dice tra di loro intorno al bambino che nascerà costituisce già un discorso articolato che non sarà senza incidenze su di lui. Ma c’è anche quello che non si dice, o quello che non ha potuto essere inteso nelle generazioni precedenti

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desiderio di bambino

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e di cui siamo più o meno prigionieri. La storia di un soggetto non comincia con il suo arrivo al mondo. S’inscrive in una continuità in rapporto al sapere inconscio. Essere bambino è anche ricevere un nome e un cognome. La nascita è in primo luogo un evento biologico che ha un’implicazione sociale. Il nuovo-nato entra nel mondo e deve essere dichiarato come nuovo essere vivente. La dichiarazione di nascita costituisce il marchio irreversibile della sua esistenza. Questo atto è anche simbolico, poiché iscrive il bambino in una discendenza determinata dai suoi genitori. Egli porta il cognome di uno dei due, o di entrambi. Quando è privato del cognome (per esempio perché sua madre ha partorito anonimamente), il bambino rischia di non potersi mai iscrivere nella relazione con l’Altro, o di farlo con maggiori difficoltà. L’evento che produce in ogni famiglia la nascita di un bebè permette anche a ciascuno di situarsi nuovamente nella genealogia della storia della propria famiglia. La nascita di un bambino rende la figlia madre – e il figlio padre –, ma trasforma anche i loro genitori in nonni. Quando si appoggiava su di una funzione di trasmissione del nome dando al nuovo nato quello dei suoi nonni o nonne, così come quello dei loro padri o madri, la nominazione del bambino determinava una continuità simbolica tra le generazioni. L’abbandono di questo uso indica la dispersione dei legami e il rifiuto delle determinanti simboliche. Questo appello al Nome-del-Padre è sempre meno vissuto come necessario. Oggi si nota anche una tendenza a differenziarsi dalla propria appartenenza familiare. Il sentimento di debito e di dovere verso la propria famiglia è molto affievolito. La nostra cultura è presa nell’istante e nel godimento immediato, che rifiuta l’attesa e preferisce disporre della vita come se non avesse né prima né dopo. Si tratta di una credenza inflessibile nell’esserein-sé, una credenza che si vorrebbe sbarazzare delle complicazioni che la trasmissione comporta. La scelta dei nomi dei bambini fa riferimento allora agli eroi delle serie americane o agli idoli dei genitori – maniera di inventarsi un’altra filiazione, al di fuori della propria famiglia. Il bambino introduce alla responsabilità della coppia dei genitori. Un nuovo significante ha fatto la sua comparsa negli anni ’90: «la genitorialità», che designa questa implicazione, in particolare nella pratica educativa verso i propri figli. Con questo concetto, i significanti «uomo» e «donna» spariscono, e la differenza delle funzioni «padre» e «madre» è cancellata. È la radicalizzazione di un’idea che consiste nel

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

non rappresentare più la sessuazione nella funzione genitoriale. Tale concetto definisce l’uguaglianza dei diritti tra il padre e la madre nei confronti dei figli. L’uguaglianza però non significa l’equivalenza delle funzioni. La maternità e la paternità non sono delle esperienze intercambiabili. La funzione «padre» e la funzione «madre» non si sovrappongono per il bambino, ed è importante preservare questa differenza. Il bambino è dunque implicitamente desiderato come colui che servirà il legame familiare. Proviene da questo desiderio di famiglia. Anche quando non è enunciato, c’è comunque l’idea di perpetuare un modello familiare, di promuoverlo, di rafforzarlo. Le identificazioni ai significanti «padre» e «madre» rimangono molto pregnanti. Diventare genitori è una scelta che procede da queste identificazioni fondamentali, indipendentemente d’altronde dal padre e dalla madre che si sono avuti. In quanto genitore, ci si può in effetti costruire «contro», «meglio», «a lato», o «identico» ai propri genitori… Inventare una nuova maniera per assumere di essere genitore è spesso una soluzione per cercare di superare i traumatismi della propria infanzia. Una dipendenza vitale La dipendenza del bambino è un fatto biologico, clinico e sociale. L’esistenza del bambino è assoggettata a un Altro, che si incarna spesso nelle funzioni di padre e di madre. L’estrema fragilità del bambino alla nascita, la sua prematurazione, la sua impossibilità a fare fronte ai bisogni fondamentali, caratterizzano l’essere umano. Per vivere e crescere il bambino deve ricevere l’amore e le cure senza le quali non può sopravvivere. Questo per dire che i legami che si creano tra il bambino e colui o colei che si occupa di lui hanno implicazioni immense nel suo avvenire. I molteplici studi sulla carenza di cure – che lo psicologo René Spitz nel secolo scorso ha descritto con il termine «ospitalismo» – hanno mostrato i danni irreversibili prodotti sui bambini che hanno trascorso i primi mesi di vita negli orfanotrofi2. Se la dipendenza del nuovo-nato necessita una risposta in termini di cure, di nutrimento e di pulizia, al di là del bisogno si manifesta 2 È cruciale, dice Lacan, che le cure ricevute dal bambino «portino il marchio di un interesse particolarizzato». Così, la costituzione della soggettività implica la relazione con «un desiderio che non sia anonimo» (J. Lacan, Nota sul bambino, in Id., Altri scritti, cit., p. 367).

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la domanda d’amore. Quest’ultima non si soddisfa con il pasto, ma con un annodamento nella relazione tra dare e ricevere. Il bambino che riceve il cibo si nutre anche dell’amore che attraversa chi gli dà da mangiare. Non si dà in un modo qualsiasi. «Amare è dare ciò che non si ha»3, diceva Lacan. È una maniera di nominare l’al di là della risposta alla domanda. Ciò definisce l’amore come qualcosa di più che può mancare, altrettanto necessario della soddisfazione orale nell’alimentazione. Il bambino che riceve il biberon unicamente come ciò che verrebbe a colmare il suo bisogno di essere nutrito sarà potenzialmente in pericolo di trovarsi fissato a tale dipendenza orale, separato dall’Altro come desiderante. La dipendenza perciò concerne il bambino per tutti gli anni della sua vita fino alla maturità legale, e spesso anche dopo. Al giorno d’oggi numerosi giovani adulti vivono in una grande dipendenza affettiva e finanziaria nei confronti dei loro genitori. È un paradosso della nostra modernità come quello di fabbricare contemporaneamente bambini che diventano molto rapidamente adolescenti: dai dieci-undici anni, escono dall’infanzia per diventare adolescenti con i loro codici per l’abbigliamento, i loro oggetti, le loro uscite, i loro piaceri… e questo pur rinviando il momento dell’indipendenza. Il prolungamento degli studi superiori indica in particolare la difficoltà a fare il passo dell’autonomia. È anche una maniera di ingannare il tempo, di differire la ricerca di impiego, che sappiamo quanto sia difficile e caotica. Esiste anche una sorta di fantasma dell’uguaglianza dei diritti, che si è inserito nei legami familiari. I posti di «padre», «madre» e «bambino» sono talvolta molto vaghi, mal differenziati; la coppia dei genitori fallisce perciò nel significare una barriera generazionale. I bambini non sono più trattati come tali, ma come adulti o piuttosto grandi adolescenti che continuiamo a servire. Non è raro che detengano il potere e ne abusino. Un simile controsenso nella situazione familiare causa molte sofferenze. Tale scombussolamento provoca delle forme di rottura nelle funzioni di genitori e figli e impedisce la presa di distanza necessaria alla costruzione della propria vita adulta.

3 J. Lacan, Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio, in Id., Scritti, vol. ii, Einaudi, Torino 1974, p. 753.

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Il romanzo familiare Il romanzo familiare4 è il nome che Freud ha dato a una costruzione fantasmatica comune a molti soggetti e che apre una breccia nella relazione con i propri genitori. Esso testimonia una discrepanza tra la realtà familiare e quella che il bambino può raccontarsi. Tale costruzione fantasmatica ha luogo all’uscita dal complesso di Edipo, precisamente nel momento in cui il bambino ha acquisito un certo sapere sui suoi genitori e in cui può, senza troppa inquietudine, fantasticarne degli altri, più soddisfacenti. La psicoanalisi degli adulti ha verificato l’impatto di tale romanzo familiare nello psichismo. Sono numerosi gli adulti che si sentono colpevoli per avere avuto simili pensieri immaginari nei quali facevano morire i loro genitori per sostituirli con altri più onorevoli. Il vantaggio di tale costruzione è quello di estrarsi dalla propria storia per vagheggiarne un’altra che può apparire, per esempio, sotto la maschera del bambino trovato, o del bambino adottato. Questo tema equivale a un fantasma del bambino venuto d’altrove, fuori dai legami conosciuti. Introduce il mondo esterno nel suo immaginario. Si tratta anche per un bambino della difficoltà ad ammettere che è nato da una relazione sessuale tra suo padre e sua madre. Tale scoperta in effetti può produrre un sentimento di orrore. Immaginare di essere adottato libera allora dal peso della sessualità dei genitori e permette di velare il godimento femminile nella madre e il desiderio dell’uomo nel padre. La psicoanalisi non si fonda tanto sui fatti della realtà supposta oggettiva, quanto sulla realtà soggettiva dell’analizzante. Le tracce del romanzo familiare indicano la capacità di un soggetto di proiettarsi su di un’altra scena, di fantasticare, di immaginarsi altro. La vita immaginaria è una protezione contro l’angoscia. Se i libri di racconti sono sempre tanto vivi è perché veicolano degli scenari familiari nei quali la violenza appare sotto forme crudeli (divorazione, morte, abbandono, perdita). Offrono così ai bambini dei supporti immaginari alle loro paure. Le nominano, le mettono in scena raccontandone la realizzazione. A un tratto, l’angoscia può essere inquadrata. I video 4 S.
Freud, Il
romanzo
familiare
dei
nevrotici,
in Id, Opere, vol. v,
Bollati Boringhieri, Torino 2001; J. Lacan, Il mito individuale del nevrotico, in Il mito individuale del nevrotico, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1986, pp. 13-29.

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giochi danno spesso il cambio ai libri: alcuni per esempio mettono in scena attacchi e crimini che si ispirano ai fantasmi di morte del padre per mano dei figli e mondi in cui la legge del padre è trasgredita. D’altra parte, l’idea di essere nato in un’altra famiglia consente di lottare contro il sentimento talvolta opprimente di essere l’oggetto esclusivo dei propri genitori e di essere loro debitore. Venire d’altrove è una versione attraente che permette di fantasticare la propria vita nella forma di un romanzo in cui ci si potrebbe alleggerire dai propri genitori, inventarsi una famiglia conforme al proprio desiderio. È sempre stato così fin dall’inizio dell’umanità: nessuno sceglie la propria famiglia. Essa ci è data, ci supera, e possiamo sempre rimproverare ai nostri genitori di averci messo al mondo – questo tema in effetti viene spesso enunciato in occasione di litigi. Non si scelgono i propri genitori. Non più di quanto non si scelga di nascere. Per il bambino e l’adolescente, tale rimprovero indirizzato ai genitori mette in causa la responsabilità genitoriale. I genitori servono a questo. Essere genitori è acconsentire alla filiazione e assumerne le conseguenze. Il romanzo familiare consente anche di immaginare e di credere ancora al bambino oggetto del desiderio della madre e oggetto della protezione del padre. Si rivela allora come una maniera di non saperne niente di ciò che si oppone a questa doppia funzione di padre e di madre dell’amore e della protezione, evincendone la relazione sessuale che orienta diversamente le loro rispettive scelte e lascia intravedere altri interessi. Dal momento in cui ne percepisce la dimensione reale, il bambino si vede sloggiato da un legame in cui si credeva l’unico. Ebbene, oggi i progressi della scienza toccano i fantasmi sulle origini. I padri possono verificare la loro paternità reale, come se la parola di una donna non fosse più sufficiente a nominare simbolicamente la loro funzione. La paternità non è mai stata certa, ma l’atto di riconoscimento del bambino come proprio veniva a garantire un atto del padre, d’ora in poi contraddetto dal sapere scientifico. Il padre genetico sloggia il padre simbolico e questo ha delle ripercussioni nella costruzione stessa dei legami familiari. La scienza introduce una rottura nel riconoscimento genitoriale. Fa intrusione e talvolta distrugge. Essa verifica allora un dubbio, una menzogna, una ferita e costituisce la paternità come un legame di sangue e non di nominazione. Segnaliamo che ciascun bambino, che sia o no ge-

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

neticamente proprio, viene «adottato» tanto da suo padre quanto da sua madre. Si tratta di un consenso a esserne responsabile, a divenirne genitori.

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Soggetto di diritto, oggetto di misure Altri discorsi incalzano intorno al bambino. Sono i discorsi educativi, pedagogici, psicologici, il discorso medico e quello della giustizia. Avendo funzioni cruciali nella comprensione di situazioni complesse, organizzano alcune posizioni che influiscono sulla concezione stessa del bambino, sulla sua protezione, la sua salute e la sua educazione. Nella seconda parte del xx secolo, il bambino è apparso come un soggetto di diritto. Il legislatore ha notificato i doveri che abbiamo nei suoi confronti e aperto luoghi in cui si riflette su quel che è, sui suoi bisogni, su ciò che deve ricevere per crescere e diventare un cittadino capace di essere felice e di rispondere alle esigenze morali e civiche. Questo ha modificato radicalmente lo statuto del bambino. Attualmente, la questione della protezione del suo corpo quando è oggetto del godimento dell’adulto ha consentito di sollevare uno dei tabù essenziali riguardanti la sessualità dei maggiorenni con i bambini, in particolare la pedofilia e l’incesto. È degno di nota che tale questione si sia potuta formulare a partire dal momento in cui è stata svelata l’ampiezza della prostituzione infantile nei paesi poveri. Per ammettere quello che non si vuole sapere in casa, occorre passare per quello che succede altrove. L’approccio evoluzionista conosce attualmente un ritorno di fiamma presso insegnanti e genitori. Esso entra in risonanza con la nostra epoca che vuole cifrare tutto e trova rassicurazione in metodi e test che valutano a tutto spiano. I test servono a consolidare una psicologia della normalità e della riuscita scolastica. Ciò nonostante, l’esperienza fa emergere che un bambino le cui capacità intellettuali sono normali non per questo è al riparo da un insuccesso nella vita scolastica. L’insuccesso scolastico è un sintomo che, abitualmente, non si decifra senza mettere in gioco il rapporto particolare del soggetto con l’Altro del sapere. È a partire da tale punto di non-rapporto, in particolare tra l’insuccesso scolastico e il qi, che si è costruita una clinica del bambino che opera a partire dal

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desiderio di bambino

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discorso psicoanalitico. Il bambino «cattivo scolaro» non ha più tanto l’immagine dello scolaro pigro quanto quella del bambino in difficoltà psicologica, che potrà essere aiutato e curato con la parola. È interessante notare che nell’epoca dell’infatuazione per il qi, è nata una nuova patologia, quella dei bambini superdotati. Quando un bambino più intelligente del mio è in scacco, lo si suppone «superdotato». La sua intelligenza superiore gli permetterebbe di comprendere molto più rapidamente degli altri, fatto che provocherebbe la sua noia in classe. Si distanzierebbe progressivamente dagli apprendimenti, fuggendo da tutto ciò che per lui sarebbe troppo facile e non rispondente ai suoi appetiti intellettuali. L’insuccesso scolastico è perciò considerato come il sintomo di un cattivo adeguamento dell’insegnamento al suo caso particolare. La cosa va così lontano che ora si sono create delle classi di superdotati in funzione dei risultati ottenuti ai test. Così facendo si produce una segregazione, speculare a quella che è all’opera per i bambini a scarso potenziale, estromessi dal percorso normale. Così è sul qi e il suo valore che si fondano tali circuiti, di solito senza che ci si preoccupi delle cause né delle conseguenze di questi percorsi, e soprattutto senza pensare che la sopravvalutazione della riuscita scolastica a lungo termine possa produrre un cedimento, in particolare all’uscita dall’adolescenza. Per la medicina, infine, la psicoterapia è il nome generico impiegato per dire che il bambino deve essere aiutato e che può beneficiare di diverse tecniche. Secondo questa concezione tassonomica, la psicoterapia analitica è una delle rubriche di questo catalogo e significa «trattamento con la psicoanalisi». Ai giorni nostri, l’indicazione di cura è spesso posta a partire da uno o diversi elementi sintomatici iscritti nelle categorie definite nel dsm-55, senza preoccuparsi né del parere del soggetto, né del senso che potrebbe avere per lui. In questa nuova psichiatria, le indicazioni di psicoterapia si mettono in atto perciò nell’ignoranza del concetto d’inconscio. Riposano piuttosto su di una rappresentazione del bambino come un tutto cerebrale e psicologico, di cui la medicina fa l’inventario mettendone in rilievo alcuni deficit. Una volta repertoriati tali deficit, l’arsenale delle differenti terapie viene convocato per ristabilire 5 Cfr. American Psychiatric Association, dsm-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano 2014.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

un equilibrio, ri-dinamizzare alcuni arresti dello sviluppo o colmare alcune lacune. Tali risposte che prediligono dei trattamenti rieducativi hanno un’apparenza scientifica e rassicurano i genitori. Nelle consultazioni ospedaliere, vengono favoriti i «bilanci» e le valutazioni che si suppone possano dare un’immagine totalizzante del bambino, come una foto del suo stato mentale. Poi viene il trattamento. Una simile pratica valutativa testimonia del viraggio a 180° che è stato realizzato nell’universo medico dall’epoca in cui la psicoanalisi in ambito ospedaliero aveva una funzione di ricerca clinica – ricordiamo ad esempio la memorabile consultazione assicurata da Françoise Dolto all’ospedale Trousseau. La psicoanalisi non si fonda né su un utilizzo rieducativo del comportamento, né su una concezione puramente adattativa del bambino; non si costruisce su un sapere medico-educativo, ma riposa sul desiderio di accogliere la parola e la singolarità del caso. I nuovi detrattori della psicoanalisi cercano di negare la portata del soggetto dell’inconscio. Le preferiscono una dimensione fondata sulla statistica e la norma ricavata dalla quantificazione. All’opposto del caso per caso, una simile campionatura istituisce una misura che serve da norma. Dalla culla alla casa di riposo, il soggetto è costantemente valutato e classificato, e da ciò iscritto in programmi che troppo spesso ricordano che ci siamo solo in quanto numeri. I numeri di una passione per la quantificazione e la statistica. Prima che questa era feroce ci inghiottisca, lasciate che vi dica a cosa servono questi luoghi (consultazioni genitori-bambini, cmp, cmpp, consultazioni ospedaliere o associative, sessad6, day hospital ecc.) che hanno fondato il loro lavoro sugli effetti della parola e il legame di transfert. Questi luoghi hanno il desiderio di rimanere aperti al procedimento psicoanalitico, cioè di credere alla causa inconscia nell’eziologia dei sintomi. In questi servizi l’esperienza della psicoanalisi dipende dai praticanti, e più specificamente dai medici psichiatri e dagli psicologi che vi esercitano. È lì che la psicoanalisi, giorno dopo giorno, si è costruita e sviluppata. Non l’ha fatto senza difficoltà, senza conflitto né dolore, ma è un fatto che il suo metodo abbia trovato nella clinica con i bambini e gli adolescenti una dimostrazione della sua efficacia.

6 sessad: i «sevizi di educazione e di cure specializzate a domicilio» intervengono presso persone handicappate, per servizi di prossimità, in particolare l’aiuto all’integrazione scolastica.

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Scegliere la psicoanalisi lacaniana

Ricevo in un piccolo studio, tutti i giorni della settimana. Da questa pratica in cmpp1 è nata l’idea di far conoscere il mestiere dello «psi» in questo luogo dove ciascuno ha il compito di cogliere in cosa consistano i sintomi dei bambini che vengono a consultarci. Il bambino è talvolta sottomesso a violenze verbali e a pensieri brutali che rivelano un rifiuto che compromette l’ascolto che se ne può fare. La crudezza dei sentimenti d’odio tocca l’essere, ed è difficile non esserne affetti. Il maltrattamento è diventato un fatto banale che può prendere molteplici evoluzioni. Perché ci sono molte maniere di essere maltrattati. La più violenta non è sempre la più insopportabile. A volte può presentarsi nella forma del sotto-inteso, della ripetizione dello stesso qualificativo che si finisce per non intendere più. Tale nominazione, che assegna al soggetto una verità offensiva e devastante, viene talvolta messa in pratica in maniera mascherata – nella forma del rancore, della delusione, del rimprovero o della derisione, comunque profondamente distruttiva. Il desiderio dello psicoanalista è un’arma potente per sopportare gli effetti deleteri della negazione o del rifiuto quando esso si fa intendere o viene agito per motivi che dovrebbero essere esplorati. La formazione alla psicoanalisi mi è stata e mi è sempre necessaria per non essere presa nel mio ideale. Essa consente di sloggiare le costruzioni sulla propria storia personale e al tempo stesso di non servire il proprio rifiuto di sapere. Ho dunque intrapreso la mia formazione continuando ad analizzarmi per diversi anni e a fare controlli della mia pratica con 1 Il cmpp (centro medico-psico-pedagogico) è un centro aperto sul quartiere che ha un ruolo di diagnosi e di trattamento dei sintomi del bambino. L’equipe pluridisciplinare che vi lavora è formata ai sintomi presentati dai bambini nella loro vita familiare, ma anche scolastica e sociale.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

analisti confermati. La mia credenza nell’inconscio non mi ha mai abbandonata, anche se è maturata dal progresso nella mia analisi, e anche dall’esperienza clinica fatta giorno per giorno. La mia analisi è stata un atto. Senza questo incontro vitale, avrei conosciuto solo lo smarrimento del sintomo e il suo immenso veleno che fa sì che si possa vivere senza volerne sapere niente delle cause certe che dettano la nostra scelta di vita.

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L’inconscio, la parola, il tempo L’inventore della psicoanalisi ha dedotto l’inconscio dalla realtà dei desideri, dei ricordi che si dimenticano, si rimuovono. Ha scoperto la prova dell’inconscio nei sogni, nei lapsus, nell’oblio e negli atti mancati. Ha soprattutto messo in luce i processi psichici che determinano i nostri destini e dipendono da una struttura logica. Ha dato il nome di traumatismo a ciò che resta indelebile ed estraneo al soggetto. Lacan ha proseguito la scoperta freudiana. Ha trasmesso Freud alla lettera, poi l’ha reinventato forgiando la tesi de l’inconscio strutturato come un linguaggio2. Ha restituito il loro valore ai concetti di pulsione, ripetizione, transfert, e ha chiamato «sapere» il risultato della parola analizzante. In questo insegnamento, il bambino non si configura come una piccola persona prigioniera della propria discendenza. È prima di tutto un soggetto, al tempo stesso soggetto della verità e soggetto del godimento. Ne abbiamo la conferma in ciascuna riunione clinica, in ciascun luogo in cui il bambino viene interpretato, che sia nelle scuole, negli ospedali o nella letteratura attuale. Il bambino come soggetto è nato dalla psicoanalisi e la sua parola ha un peso. Essa ha valore in quanto unica e in quanto effetto del bagno di linguaggio nel quale progredisce. Queste formule lacaniane – l’inconscio strutturato come un linguaggio, o anche l’inconscio, è il discorso dell’Altro3 – rendono sensibile il fatto che l’inconscio partecipa della parola presa nel desiderio dell’Altro. Il sapere in questione supera quel che è accessibile alla coscienza del soggetto. È un sapere che si dice nel transfert dell’espe2

Cfr. J. Lacan, in particolare La scienza e la verità, in Id., Scritti, vol. ii, cit., p. 871. Cfr. in particolare J. Lacan, Il seminario su «la lettera rubata», in Id., Scritti, vol. i, cit., p. 15; Introduzione al commento di Jean Hyppolite sulla Verneinung freudiana, in Id., Scritti, vol. i, cit., p. 371. 3

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scegliere la psicoanalisi lacaniana

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rienza analitica. Ciò apre alla dimensione del dire quello che non si sa e anche quello che non si vuole sapere. In alcuni casi, è il processo stesso della significazione a sembrare colpito. Il senso suppone «la parola piena»4 mentre la «parola vuota» non è un voler dire, non si indirizza all’Altro. Questo punto di riferimento può essere particolarmente utile nella clinica con i bambini. In effetti, alcuni bambini hanno un uso del linguaggio che non si impegna a significare. La loro parola è pressoché atemporale, non possono dire niente di loro, neppure in maniera semplice. Hanno una lingua che non è la lingua comune e molto spesso tali fenomeni rimangono misconosciuti o ripresi in termini di inadeguatezza scolastica. La psicoanalisi si impegna a cogliere tutto ciò che affetta il soggetto, la sua parola è sempre l’indice principale della sua posizione. Quando non comprendiamo un bambino, non è questione di pensare che non si esprima come si deve. Bisogna intendere ciò che dice, al di là delle parole che gli fanno resistenza. Il concetto di lalingua, che Lacan ha inventato alla fine del suo insegnamento chiarisce la maniera singolare in cui ciascun soggetto aggancia il linguaggio prima ancora di parlare. Freud ci ha lasciato un inconscio «riserva» di ricordi che avrebbero un effetto traumatico nella vita di un soggetto. L’analisi sarebbe il passaggio alla coscienza di ciò che era sepolto. Lacan ha reso l’inconscio più attuale: si tratta, non di un «passaggio alla coscienza», ma di un «passaggio alla parola» che deve essere «intesa da qualcuno là dove non poteva nemmeno essere letta da alcuno: messaggio la cui cifra è perduta o il cui destinatario è morto»5. Perché l’inconscio è al-di fuori, a venire. Non è una «tasca» di ricordi da far risalire in superficie, ma rappresenta un certo rapporto del soggetto con ciò che sa. L’inconscio lacaniano si scrive in seduta. Non è già lì; sarà lì nel senso in cui, per essere stato lì e poi dimenticato, potrà avere luogo come evento nella seduta stessa. L’analista è il testimone della parola che è un’invenzione in marcia, poiché i progressi nell’analisi richiamano la rapidità del lampo. È nello stesso movimento che Lacan ha ridotto il tempo della seduta freudiana. Le ha dato un ritmo proprio a ciascuna analisi, interrom4 J. Lacan, in particolare Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti, vol. i, cit., p. 249; Id., Le Séminaire. Livre XXIV. L’insu que sait de l’une-bevue s’aile a mourre, lezione del 15 marzo 1977, in «Ornicar?», 17-18, 1979, p. 11. 5 J. Lacan, Discorso di Roma, in Id., Altri scritti, cit., p. 139.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

pendo la seduta su di un punto che si staglia nel discorso continuo e che, al di là della seduta, risuona e mette al lavoro la catena associativa. Questo taglio fa punteggiatura nel discorso, sospende il senso e prende di mira il valore enigmatico di un significante; favorisce l’apertura dell’inconscio ed è propizio alla sorpresa che gli è propria. L’inconscio è al tempo stesso ciò che si manifesta nella maniera più inaspettata, come nei lapsus e negli atti mancati, ma anche nella maniera più attesa, quando è il sintomo a calcare la scena ed è causa della ripetizione. Esso può obbligare il soggetto a molteplici atti restrittivi o a fare il contrario di quello che avrebbe voglia di fare – per esempio, fuggire davanti al desiderio, o aggirarlo, o ricoprirlo di rituali ridicoli e comunque difensivi. La parola stacca il ricordo dal suo punto d’orrore. Proprio per quello che essa enuncia, polverizza la parte d’insopportabile che spesso paralizza il soggetto o lo fa soffrire. È per questo che essa è rivolta risolutamente verso l’avvenire, poiché il desiderio dell’analista è di rendere il soggetto più libero di scegliere la sua vita. C’è anche una logica propria al tempo dell’inconscio. Nel testo Il tempo logico…6, Lacan si serve del sofisma detto «dei tre prigionieri» per spiegare il movimento proprio di una psicoanalisi. È un testo fondamentale per comprendere come avvengano la decisione e l’atto che porteranno il cambiamento nel lavoro di un analizzante. Ciò procede da una temporalità tra il principio e la fine dell’analisi. L’associazione libera costituisce la regola fondamentale della psicoanalisi. Apre al desiderio di dire il proprio «questo non va» e di reperirne la causa; essa lavora per sapere. Nel dispositivo analitico la parola prende una risonanza particolare che sorprenderà il soggetto. Agisce un po’ come un rivelatore chimico; fa progredire, è un’invenzione propria, una maniera sconosciuta di parlare di sé. Ogni seduta consente di sperimentare questa piccola vertigine temporale, questa folle idea che si va avanti, e che c’è qualcuno che vi intende là dove non sapevate chi parlasse, poiché vi sa intendere quando quello che dite è offuscato dai vostri pensieri. Lo psicoanalista non consiglia né perdona: tenta di agire sulla pulsione di morte quando questa vi si impone e fa dei danni. D’altronde non può riuscirci sempre, tanto la lotta con il godimento mortifero sembra lunga, e la ripetizione il suo 6 Cfr. J. Lacan, Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata, in Id., Scritti, vol. i, cit., pp. 191-207.

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scegliere la psicoanalisi lacaniana

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ostacolo duro. È per questo – e ce ne fanno spesso l’obiezione – che la psicoanalisi è un trattamento che dura e che richiede un forte investimento. Ci vuole in effetti un certo tempo per ridurre la potenza del godimento quando è diventato invadente. Questa terminologia di guerra non è casuale. È proprio la pulsione di morte definita da Freud che ha scatenato i post-freudiani, come se la scoperta di questo al di là del bene, questo al di là del principio di piacere7, questa parte di reale insormontabile, fosse inammissibile.

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L’incontro, un evento Il primo appuntamento ha un’importanza cruciale. Costituisce un’apertura sulla realtà soggettiva delle persone che compongono la famiglia e che sono presenti all’incontro. Spesso, quando ricevo un bambino e la sua famiglia, ho già sentito parlare di lui in una riunione clinica, ma metto in riserva gli elementi diagnostici e clinici che mi sono stati trasmessi. Freud raccomandava di ricevere ciascun nuovo caso astraendosi dal sapere acquisito. Io applico questo consiglio, poiché è importante non essere parassitati da alcun giudizio preliminare, positivo o negativo. Ciascun caso è unico. È per questo che il primo appuntamento è sempre un momento molto particolare: si tratta di incontrare ciascun soggetto e, contemporaneamente, di dare un posto speciale a quello che significa, per ciascuno, la parola «famiglia». La maniera singolare in cui ciascuno farà funzionare o no tale significante è spesso rivelatrice delle relazioni che si sono annodate tra il bambino e il suo ambiente. Il legame genitore-bambino può apparire come molto potente o, al contrario, completamente sfilacciato o anche inesistente. È per cogliere questo legame, questo rapporto fondamentale, che in un primo tempo ricevo sempre il bambino insieme alla sua famiglia. Tale apertura sulla scena familiare dà una prima idea in merito al desiderio che circola tra madre, padre e bambino. Al momento di un primo colloquio può apparire come una sofferenza sia stata totalmente tappata e riemerga con l’evocazione di una semplice domanda. Può 7 Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Id., Opere, vol. ix, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 189-249.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

succedere anche che una domanda che implica il bambino sia il pretesto per non dire quello che zoppica nella vita di coppia dei genitori. L’analista può scorgere la maniera in cui un padre e una madre parlano con il loro bambino, come gli si rivolgono, il modo in cui lo ascoltano o no. È sempre in questo primo incontro che si rileveranno i controsensi, i non-detti, così come i troppo-detti, che perturbano il bambino, dal momento che anche questi ultimi hanno effetti complessi su di lui. La madre può richiamare qualche ricordo della prima infanzia del bambino? Cosa lascia intravedere di questo periodo in cui si è intessuta la relazione con il bambino, tanto essenziale per l’avvenire? Lei dice la storia del bambino e anche la sua. Libera così un sapere che aprirà il bambino al desiderio. È quella che Lacan ha chiamato la storia significante, che scrive S1-S2 per indicare che i significanti si susseguono in una catena articolata. È tale catena di parole che rende decifrabile il desiderio inconscio. Molti soggetti in analisi testimoniano della loro mancanza di ricordi precisi sulla prima infanzia e si preoccupano per il fatto di parlarne solo attraverso i detti dei loro genitori. Questo dato clinico mostra bene che l’oblio fa parte dell’infanzia. Per questo è importante che ci siano restituiti dei pezzi di sapere dalla persona che più ha contato nella nostra infanzia. Questa persona, madre, padre, fratello o sorella maggiore, nonna, balia, fa passare quello che siamo stati prima ancora che potessimo articolarlo noi stessi. Può dire l’importanza di un tale evento, raccontare un aneddoto che ci riguarda e che l’ha segnata. Ci restituisce così la nostra esistenza più sensibile, più «parlata», e dunque meglio annodata all’Altro della parola. Dà consistenza a questo Altro del desiderio, propriamente indispensabile. Questo dialogo è necessario affinché la storia del soggetto possa collegarsi al presente e perché s’inscriva un posto che nomini la sua esistenza particolare. Uno psicoanalista lo sa bene quando, al momento dei primi colloqui, interroga sulla gravidanza, la venuta al mondo, l’inizio della vita, gli eventi importanti che hanno preceduto o sono accaduti intorno alla nascita del bambino. Non lo fa per prendere nota di tutto, ma per intendere come si fabbrica il legame, come si è inaugurato, se ha incontrato ostacoli, impedimenti, specie di ferite trattenute. A differenza di un questionario che si vorrebbe esaustivo, uno psicoanalista non vuole sapere tutto, vuole che la parola sia libera di dirsi

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in quei luoghi in cui, per l’appunto, non si viene necessariamente con l’idea di parlare del proprio bambino com’era da piccolo, ma com’è adesso. Perciò non c’è un sapere preliminare che autorizzerebbe lo psicoanalista a dire ciò che questo bambino è, fintantoché non ha potuto decifrare quello che ancora non sa e che non deve precipitarsi a comprendere troppo velocemente. La prima volta è un evento. Sia per lo psicoanalista che per il futuro analizzante, si tratta di un momento che fonda un legame che perdurerà. È un patto. L’analista fa propria la trovata di Freud che ha proposto ai soggetti Dite quello che vi viene in mente, e ha scoperto che parlando si metteva in campo un sapere perfettamente articolato che ha chiamato l’inconscio. «Quando un soggetto improvvisamente viene a incontrare questo sapere che non si aspettava, a toccarlo, si trova, lui che parla, davvero assai disorientato»8. I registri dell’esperienza L’introduzione da parte di Lacan dei tre registri del simbolico, dell’immaginario e del reale consente di comprendere alcuni fenomeni e di articolarli tra di loro. Il simbolico permette di situare il senso che esige il significante e il luogo dell’Altro come luogo della struttura del linguaggio. Il simbolico è l’operazione stessa della psicoanalisi che consiste nel nominare, mettere in parole quello che era rimasto non formulato, rimosso, e nel dare senso a ciò che non ne aveva. Lacan ha simbolizzato tale luogo della parola con la lettera «A»: la parola si enuncia a partire dal luogo in cui ciò che si dice ha valore di verità. In effetti, l’inconscio non è solamente costituito da lembi di ricordi dimenticati, esso è anche quel momento particolare in cui il dire si fa verità di ciò che non si sapeva. «Questo Altro distinto come luogo della Parola, si impone anche come testimone della Verità»9, scrive Lacan. A questo asse simbolico si oppone l’asse immaginario, che corrisponde allo stadio dello specchio e alla circolazione della libido freu8 J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il Rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2001, p. 92. 9 J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Id., Scritti, vol. ii, cit., p. 809.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

diana, fondamentalmente narcisistica. La prima manifestazione di tale godimento si produce nel momento dello stadio dello specchio, quando il bambino fa l’esperienza inaugurale di immaginare il suo corpo come un’immagine globale, separata da sua madre, là dove c’era solo un corpo frammentato. La rivalità fraterna, per esempio, appartiene al registro immaginario. Il fratello maggiore è geloso del fratellino (o della sorellina) credendo che questi abbia preso il suo posto; può addirittura augurarsi la distruzione del rivale immaginario. Questa differenziazione tra il registro immaginario e il registro simbolico aiuta a reperirsi nel discorso. Non confonderli permette di separare quello che è dal lato del godimento da quello che fonda la parola. Questa disgiunzione tra simbolico e immaginario è portata avanti da Lacan nel primo periodo del suo insegnamento. In quel momento il reale, non è isolato come tale nell’esperienza. Interverrà nel secondo periodo del suo insegnamento, quando i tre registri andranno incontro a una nuova organizzazione: il simbolico e l’immaginario si situeranno allora in rapporto al registro del reale. All’inizio il reale è ciò che resiste all’operazione di simbolizzazione. Non tutto può essere significantizzato. C’è un resto che Lacan chiamerà «oggetto a». Il reale è dunque in una posizione di esclusione in rapporto al senso. È un fuori-senso. Ed è «senza legge»10, aggiunge Lacan – come un lancio di dadi o un gioco a testa o croce. L’imprevedibile di ciò che si ottiene rende conto del reale in quanto non ha senso ed è senza legge. Ma il gioco è simbolico, poiché i significanti testa o croce ne delimitano la struttura di linguaggio. Il reale di Lacan designa ciò che non è stato possibile simbolizzare, ciò che è venuto a otturare questo movimento di traduzione dell’immaginario verso il simbolico. Questo orientamento prezioso formalizzato da Lacan, consente all’analista di non lasciarsi imbrogliare dal tutto linguaggio e di intendere, negli enunciati del paziente, i differenti livelli che costituiscono la struttura stessa dell’inconscio. L’ascolto dello psicoanalista non è quello del senso comune. Si tratta al tempo stesso di intendere il senso di ciò che si dice e di reperire gli elementi significanti che sono i marcatori della catena associativa. Giacché quello che agisce 10 J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2006, p. 134. Cfr. anche J.-A. Miller, Un reale per il XXI secolo, presentazione del tema del IX congresso dell’amp, Alpes, Roma 2014, pp. XIX-XXV.

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all’insaputa del soggetto, è il lavoro di spostamento dei significanti gli uni dopo gli altri, gli uni in rapporto agli altri, gli uni tra gli altri. Quando si svela un lembo intero di tale sapere rimasto inconscio al soggetto, questi se ne trova liberato. Nella psicoanalisi con i bambini accade molto spontaneamente e cambia la vita e la relazione con gli altri. Ciò che si chiama «psicoanalisi» non è altro che l’incontro con qualcuno che scommette sul fatto che il soggetto possa servirsi di questo traumatismo che è l’inconscio.

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«Là dove parla, gode» Capita che alcune espressioni dipendano da un evento di parola caratteristico del discorso dei genitori. La loro reiterazione allora traduce bene il peso del significante e della sua parte di godimento nell’inconscio. «Là dove parla, gode, e non sa niente»11, precisa Lacan. Prendiamo l’espressione mi ha fatto… come un elemento clinico esemplare della parola materna. «Mi ha fatto una scenata», «mi ha fatto una gastrite», «mi ha fatto un’otite» ecc. La parola «fare» rinvia all’impotenza e alla difficoltà a sopportare quel che un bambino può produrre in termini di angoscia per i suoi genitori. Non si accontenta di essere, agisce e, anche molto piccolo, rappresenta una forma sintomatica per la madre. Ella non può controllare tutto, in particolare del suo corpo. Lui si sottrae come oggetto. Il corpo del bambino convoca spesso questo punto di insopportabile, impossibile da comprendere, impossibile da immaginare. È un reale, cioè sfugge alla significazione, il suo senso è enigmatico. Questo mi ha fatto… è la formula sintomatica che fa sorridere tutte le persone che lavorano con i bambini e le loro madri. Il ridere è una manifestazione dell’effetto comico prodotto da questo enunciato, effetto molto spesso legato al carattere anale della pulsione in gioco e alla sua ripetizione nel discorso. Il ridere segnala l’effetto di Witz (motto di spirito) così come Freud ci ha insegnato a riconoscerne il valore, quello che un significante prende quando, superata la sorpresa iniziale, incontra il riconoscimento dell’Altro. 11

J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 2011, p. 99.

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i. il bambino, posta in gioco della modernità

A volte le domande dell’analista sulla prima infanzia del soggetto vengono rifiutate dai genitori. Non c’è il desiderio di parlare di quel bambino lì, all’epoca in cui era un altro. I genitori vengono perché li si aiuti a risolvere un problema molto preciso, di solito da loro ben reperito e che hanno enunciato fin dal primo appello. Sono reticenti ad annodare la storia del bambino alla loro vita, sono nell’attesa che una soluzione per il bambino venga a riassorbire la loro angoscia. Sono in disaccordo con ciò che è diventato tale figlio, tale figlia, senza tuttavia tentare di cercarne la causa. Il bambino non mette in moto il loro desiderio di sapere. Non arrivano a sbrogliare i legami tra il sintomo del bambino e la loro storia, la loro soggettività. In una simile configurazione, il colloquio diventa subito una prova ed è necessario sapere se tale rifiuto è indirizzato all’Altro – ossia comporti, malgrado tutto, un’apertura, una domanda – o se piuttosto si tratti di un rifiuto più radicale della parola in quanto tale. In questi casi, ci potrebbero obiettare che la teoria comportamentale sia l’indicazione auspicabile. Essa non si interessa né al passato né alla storia e prende il sintomo del bambino come un disturbo, senza preoccuparsi della costruzione da cui esso risulta. I genitori vi troverebbero un alleggerimento, perché potrebbero allora considerare il bambino come portatore di un problema che non li riguarda. Effettivamente è una delle risposte attualmente auspicate. Ebbene, i sintomi sono spesso mezzi per tentare di lottare contro una comunicazione che viene meno. O piuttosto sono risposte per segnare questo punto di rottura. Alcuni sintomi di encopresi, di enuresi, di malattia della pelle, di rifiuto alimentare vengono così ad indicare questa rottura della parola. Il corpo si fa allora il ricettacolo di quello che non può dirsi e occupa la funzione di destinatario di una sofferenza che non può nominarsi ma che disturba. Farsi testimone della verità del soggetto è la funzione stessa dell’analista. Per questo occupa il posto dell’Altro della parola, poiché dà a quella del soggetto la sua carica di verità. È dunque un incontro con la causa nascosta – quella che non si sapeva, che era intravista, che era soffocata, ingarbugliata – che fonda la parola analizzante. Così, quello che fa ritorno nelle associazioni, conduce il soggetto a dare un senso a ciò che non ne aveva ed era stato respinto, scartato, rigettato. Si tratta di un lavoro di sapere: è un desiderio di sapere, un sapere al lavoro, che comanda.

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C’è un punto di insensatezza nel credere alla causa inconscia. L’incontro di questo punto nella propria cura fonda la decisione dell’analizzante di divenire psicoanalista. Occorre che lui stesso abbia avvicinato questa causa, che abbia stretto i punti di orrore di questo reale insensato, il suo impossibile, per accettare di essere responsabile tanto della verità come della menzogna dell’Altro.

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II. Il bambino in analisi

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Il sintomo è un dire

L’infanzia è un periodo in cui gli eventi della vita sembrano avere un impatto più diretto e più manifesto sullo psichismo rispetto all’età adulta. In effetti, il bambino non ha ancora i mezzi per sopportare l’angoscia, e i cambiamenti spesso possono esprimersi solo attraverso delle manifestazioni sintomatiche che toccano il corpo o il comportamento. A volte il sintomo appare in stallo, è incollato al soggetto, e lo mantiene in una posizione di svalutazione che questi non ha i mezzi per comprendere. Si tratta allora di decifrare il sintomo singolare che si manifesta sotto forme apparentemente aberranti o incomprensibili, come l’insuccesso scolastico, la tristezza o l’agitazione, il disinteresse tenace per ogni apprendimento e l’assenza del desiderio di assumere un ruolo nella società. Il materiale significante del sintomo può fare presa su una parte del corpo e provocare sintomi corporei. Il bambino può anche essere attraversato da preoccupazioni folli, terrificanti, come l’angoscia di contrarre malattie mortali, paure insopportabili che riguardano il suo corpo, idee di intrusione che lo paralizzano. Talvolta la relazione con la madre può configurarsi come fusionale, al punto che egli teme di perdere il posto prezioso che ha presso di lei; la sua sofferenza gli impedisce allora di scollarsene e di crescere. Anche la gelosia è un motivo frequente di consultazione; il bambino è alle prese con una rivalità nei riguardi di un fratello o di una sorella che embolizza la sua vita e rende difficile quella della famiglia. Talvolta un malessere ripetitivo accompagna il bambino: questo va dalle difficoltà nell’addormentarsi alle manifestazioni somatiche ripetute, dalle difficoltà scolastiche all’enuresi e all’encopresi. Altre volte l’aggressività, l’instabilità, le collere reiterate, o al contrario la depressione, le fobie, alcuni rituali, un rifiuto scolastico, preoccupano i genitori. In età

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ii. il bambino in analisi

adolescenziale l’angoscia, il rinchiudersi in sé stessi, o al contrario il rifiuto delle regole, i disturbi dell’alimentazione come l’anoressia e la bulimia, la tossicomania e le diverse dipendenze portano a frequenti domande di consultazione. Questi sintomi, che siano o no correlati a un evento, sono le manifestazioni di una rottura o di un conflitto con l’Altro, e più ampiamente di una sofferenza – come si dice di una lettera che è rimasta in giacenza, non letta. Freud ci dice che il sintomo è un messaggio, che vuol dire qualcosa. È il risultato della rimozione nella nevrosi, della negazione o della forclusione nella psicosi. Dice qualcosa, ma in maniera nascosta, che non può decifrarsi per approssimazione al sapere applicato – come fa tutta una psicologia adattiva. Meritando di essere ascoltato e preso sul serio, il sintomo del bambino deve essere considerato come la parte più sensibile dell’esperienza infantile. È nella cura analitica che il lavoro di deciframento consente una lettura del sintomo. In effetti, il sintomo si presenta molto spesso come un enigma per il soggetto stesso, qualcosa che si produce suo malgrado e che non comprende. La psicoanalisi del bambino è dunque in prima battuta il luogo dove si nominano i problemi e dove il bambino non è più considerato come qualcuno che subisce il proprio sintomo, ma come qualcuno che ha una responsabilità in ciò che gli capita. L’analista lo aiuterà ad assumersi la responsabilità di ciò che gli ritorna nel suo sintomo. Molti bambini, in effetti, subiscono i loro sintomi come un male che li terrorizza, li fa diventare vergognosi o infelici. Per evitare di essere triste e di soffrire, il bambino può installarsi nel suo sintomo e, per liberarsene psichicamente, negarlo. Non sono solo gli adulti che negano i propri sintomi, anche i bambini lo fanno. Per il lavoro dell’analisi la funzione del sintomo viene presa in conto, riconosciuta e trattata nella sua dimensione causale – cosa che spesso lo alleggerisce molto rapidamente. Ebbene, se il sintomo è un voler dire, esso è anche un godimento che si impone al soggetto. In effetti Freud molto presto si accorge che la scomparsa del sintomo non provoca la guarigione, ma piuttosto l’insorgenza di un altro sintomo, oppure il ritorno dello stesso. Poiché il sintomo è anche soddisfazione libidica. La sua ripetizione rivela che il soggetto, pur non volendo essergli più sottomesso, nella realizzazione stessa del sintomo, sperimenta un godimento che lo

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il sintomo è un dire

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supera. Lacan ha chiamato il rapporto del soggetto con tali eccessi di soddisfazione pulsionale «godimento» e ha messo in scrittura il sintomo come «godi-senso»1 per indicare che il significante che vi è implicato è contemporaneamente ciò che fa senso e che procura un godimento; si tratta di un senso goduto. Questo significante di «godi-senso» è accessibile all’analizzante adulto solo dopo un lungo lavoro in analisi, una volta decifrata la significazione dei sintomi e attraversato il fantasma inconscio. Può anche rimanere velato e addirittura ignorato dal soggetto. Ma il solo fatto di essere stato isolato dall’analista permette un effetto terapeutico: scollati gli uni dagli altri, i significanti del sintomo del bambino possono circolare di nuovo e giocare più liberamente nella catena che li struttura. L’effetto di simbolizzazione della parola trova qui la sua funzione più eminente. Certo, non c’è psichismo senza sintomi: ma non sono tutti molesti o inamovibili. La consultazione presso uno psicoanalista si farà dunque a partire dal momento in cui il sintomo disturba e spesso fa soffrire il bambino e/o i suoi cari – poiché esso è l’espressione di un disordine che può anche leggersi come una risposta a quello che non va nell’Altro. I bambini, in effetti, sono estremamente ricettivi rispetto alla maniera in cui si parla loro, ma anche alla maniera in cui li si tratta. Nelle questioni di maltrattamento, per esempio, il bambino reagisce a eventi traumatici di cui è l’oggetto e che subisce, senza necessariamente comprendere ciò che gli capita. Le politiche della sanità da diversi anni obbligano tutti i professionisti dell’infanzia a una grande vigilanza nei riguardi del maltrattamento e dell’incesto. In ciascun servizio, trattiamo alcuni casi di questo tipo. Tali questioni sono sempre estremamente complesse, poiché il bambino in quei casi non è più qualcuno che fa sintomo, ma è l’oggetto di atti perversi o folli. Questo cambia completamente le modalità della sua presa in carico. A volte il senso dei suoi sintomi non viene letto solo attraverso il prisma di tale traumatismo. Un lavoro con la giustizia è sempre necessario, ciascuno deve avere la sua funzione. La patologia familiare, spesso all’origine dei comportamenti incestuosi e perversi, deve innanzitutto essere segnalata al giudice dei bambini, ben prima che possa mettersi in campo un aiuto – quando 1

J. Lacan, Televisione, in Id., Altri scritti, cit., p. 512.

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ii. il bambino in analisi

auspicato – per ciascun membro della famiglia. Il bambino deve essere preso in carico a partire da tale sofferenza, che molto spesso non ha potuto farsi intendere, poiché l’adulto abusante gli interdice di parlare, perfino di manifestare con qualsivoglia indizio la relazione che sta vivendo. I luoghi per decriptare i segnali della sofferenza, che il bambino non può impedirsi di rivolgere suo malgrado, permettono che siano intesi dei sintomi che, di primo acchitto, possono sembrare senza legame con l’abuso. Come se cercasse di punirsi di una colpa di cui è vittima, il bambino prende a suo carico anche questi sintomi. Se reso fiducioso, potrà depositare il suo lamento e parlare. Ciò nonostante, la paura di tradire o di fare del male ai propri genitori a volte è così intensa da impedire di fare il passo della parola; starà allora all’analista pronunciare per primo le parole che alleggeriranno la sua colpevolezza e l’aiuteranno ad avere il coraggio di trattare l’insopportabile. Anche quando non si tratta dei casi estremi che abbiamo appena evocato, la psicoanalisi rende conto di una clinica in cui il sintomo del bambino si manifesta in maniera molto rumorosa. Non è raro ricevere in consultazione genitori esasperati che si lamentano del loro bambino che non smette di gridare, di prendere tutto il posto, di fare il clown, di disobbedire sistematicamente. Il bambino si rende impossibile; si sente di fatto amato male e rifiutato, mentre è lui a provocare la reazione negativa nei suoi riguardi. È insopportabile. Ma a cosa risponde questo insopportabile? La questione sarà messa al lavoro nei colloqui che lo psicoanalista terrà con il bambino, e a volte anche con i suoi genitori. I bambini non hanno sempre la possibilità di soggettivare il proprio sintomo, cioè di realizzare che qualcosa non va. Sono allora i genitori che vengono a chiedere delle spiegazioni. L’inquietudine dei genitori permette anche di introdurre il bambino alla questione di quello che lo fa soffrire. Il genitore domanda spesso di comprendere le ragioni delle manifestazioni sintomatiche, poiché si sente implicato in quello che succede a suo figlio. Il sintomo di un bambino è attraversato dal senso che gli dà l’Altro genitoriale. C’è dunque anche una clinica dei genitori, poiché il fatto di arrivare in consultazione per un bambino non è senza effetto sui genitori che l’accompagnano. È il motivo per cui può succedere che un trattamento analitico venga proposto a una madre o a un padre per aiutarlo a comprendere quello che è in gioco nella relazione con il pro-

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prio figlio. Molti genitori sono pronti a interrogarsi in merito al loro funzionamento. Lacan ha proposto una formula molto appropriata per qualificare la loro posizione: ha parlato di «genitore traumatico2, colui che, «innocentemente», senza saperlo, fa trauma per suo figlio o sua figlia. Altri hanno l’idea contraria e rifiutano ogni implicazione nella problematica del loro bambino. Non volerne sapere niente può essere una difesa utile e necessaria; non è per forza indicato scombussolare la difesa di chi sceglie questo atteggiamento per proteggere sé stesso. Ciò d’altronde non impedisce al genitore di accompagnare il proprio figlio alle sedute; semplicemente, rifiuta il fatto che ciò che lo riguarda come padre o come madre gli sia restituito nella forma di una questione su di sé. Nelle domande di genitori, insegnanti, educatori…, ascoltiamo talvolta l’imperativo scientista che reclama un sapere quantificato sul sintomo e non aspetta altro che una diagnosi la cui vocazione sarebbe organizzare un avvenire di caselle da barrare per ciascun bambino. Queste nuove parole d’ordine attingono i loro significanti padroni dalle terapie comportamentali: rieducazione emotiva, condizionamento positivo, modifica dei comportamenti, agenda di sedute, compiti cognitivi e comportamentali ecc. L’approccio psicoanalitico constata che è problematico ridurre la psicopatologia a una diagnosi prestabilita, così come alla prognosi che all’occorrenza l’accompagna. Voler sopprimere il sintomo come se fosse un’infezione microbica non fa che obbligare il soggetto a rinforzare la sua difesa. Il sintomo non è la malattia. Esso è solo il pezzettino che si vede e che disturba. È quel che serve a ricoprire la ferita e a ingannare il suo mondo. Nessuna riparazione sarà possibile se ci si accontenta di rimetterci sopra ancora un medicamento. Inoltre, per quel che riguarda la patologia mentale, l’imbastitura nosografica rischia di fissare gli elementi patogeni, di irrigidirli, e di rendere perciò l’evoluzione più difficile. Il marchio imposto da una posizione scientista può stigmatizzare e produrre segregazione. La psicoanalisi procede diversamente. Per lei il sintomo appartiene a un soggetto particolare nella sua relazione all’Altro – incluso quando questa è assente o interrotta.

2

J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIX. …ou pire, Seuil, Paris 2011, p. 151.

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Aline e la contaminazione significante Incontro Aline, sei anni, che manifesta un insuccesso scolastico da molto tempo. Aline vive nell’angoscia di essere affetta da malattie mortali: ogni volta che guarda una trasmissione medica in televisione o che sente parlare di una malattia, in modo particolare del cancro, Aline crede di esserne affetta. Lei assume letteralmente le malattie per contaminazione significante. Il suo caso effettivamente è paradigmatico della tesi lacaniana dell’incidenza del significante nell’inconscio. I nomi delle malattie gravi, quelle di cui si muore, vengono a significarsi nel suo corpo. Perciò i sintomi della malattia la sommergono. Si tratta di un’identificazione che passa attraverso il significante, attraverso un nome, e che s’inscrive nel corpo. La malattia e la morte le sono familiari al punto che ne fa una credenza. Sebbene sappia molto bene che tutto questo succede nella sua testa e che non è malata, nondimeno non può impedirsi di stare in questa forma d’angoscia che la porta a immaginare – per esistere – uno stato di morte programmata. I sintomi non durano e le malattie cambiano, ma il corpo rimane il luogo di elezione da cui Aline proferisce il suo nome di godimento. Per farsi intendere, ha scelto di prendere voce nel corpo e di fare uso dei nomi della malattia che marchiano il suo rapporto particolare all’esistenza. Produce il sintomo per annunciare la sua morte prossima all’Altro, che interpella: «Mi intenderai, mi ascolterai di più quando saprai che morirò, che sono affetta da una malattia mortale nel corpo?». Il senso peraltro non risolve la questione: chi le ha interpretato che ammalandosi cercava di produrre un effetto d’inquietudine sugli altri, ha voluto comprendere i suoi sintomi troppo velocemente. Per lei, la verità non sembra essere legata a questo desiderio inconscio. L’abuso di senso è sempre responsabilità dell’analista. Il sintomo a volte è alle prese con ciò che non ha alcun senso, che non è riassorbibile dal senso. Ridurre il sintomo al senso, fosse anche interpretandolo come un desiderio inconscio, equivale a ridurlo a quello che dice e a lasciare in sofferenza ciò che non dice e che non si spiega. L’interpretazione deve anche toccare questo godimento del sintomo che è il più intimo del soggetto. Giacché il sintomo non è solo una questione di sapere: qualcosa resiste al senso, è ciò che Lacan ha chiamato «il reale». Il reale del sintomo è ciò che non ha senso. Per

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Aline, il reale del suo sintomo risiede più nella paura di essere inghiottita dai suoi fenomeni corporei che nella significazione di ciò che in questa maniera provocherebbe nell’Altro. D’altronde, i suoi genitori hanno smesso di interessarsi ai suoi sintomi considerandoli come eccessi della sua immaginazione malata. Lei è dunque asservita a quella che fa valere come esperienza mortificante, che non ha senso, che la delocalizza come soggetto già morto. Le manca la parola per dirlo. È proprio questo ciò che fa la parte di impossibile del sintomo. Certo, lo studio dello psicoanalista è un luogo per arginare questa idea folle della malattia. È con l’analista che sarà stata inizialmente ascoltata nell’assurdità del suo sintomo, al quale nessuno vuole più credere. Lei stessa non è ingannata dall’irrazionalità del suo sintomo, ma è più forte di lei, non può cambiare nulla. L’angoscia di avere un cancro, o di finire paralizzata, è più forte dei ragionamenti. La fascinazione che esercita su di lei l’idea della propria morte è una costruzione per sopportare la sua esistenza di ragazza identificata al malessere normale di sua madre – la quale, malata e sola, soffre in silenzio, schiacciata dal marito. Il corpo è realmente l’oggetto della sofferenza materna, ma è chiuso, indicibile, mortificato. Via il proprio corpo, la ragazza si fa la porta-voce di sua madre. Come in eco al corpo materno, fa risuonare attraverso la sua paura il reale della malattia. Lacan ha evidenziato che «il sintomo del bambino è nella posizione di poter rispondere a quanto c’è di sintomatico nella struttura familiare»3, vale a dire che il sintomo del bambino è una manifestazione inconscia della struttura della famiglia. Questa formula indica che ciò di cui il bambino soffre ha la sua causa inconscia nella relazione tra i due genitori. Ne rappresenta la verità. «È questo il caso più complesso, ma anche il più aperto ai nostri interventi», aggiunge Lacan. Quando il suo sintomo risponde al godimento della madre, il bambino è «l’oggetto» di costei e serve solo a «rivelare la verità di questo oggetto». Secondo la formulazione di Lacan, il bambino allora «realizza la presenza [de] l’oggetto a nel fantasma» della madre. In questo caso, il sintomo rischia di essere il rivelatore di un funzionamento materno che esclude la funzione paterna come mediazione. 3

J. Lacan, Nota sul bambino, in Id., Altri scritti, cit., p. 367.

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ii. il bambino in analisi

Queste due modalità sono la chiave di volta che consente di cogliere il sintomo nella sua relazione ai genitori. Permettono di delimitare l’evoluzione del bambino nella sua famiglia, in particolare quando il sintomo non incarna la verità della coppia dei genitori e viene a servire il fantasma materno, come nel caso di Jérémie. Quel che fa sintomo per lui, è la sua relazione con la madre. Il padre ne è totalmente escluso. La sua esistenza è annessa. Non che non esista o non conti, ma non è presa nel legame che è annodato tra la madre e il bambino.

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Jérémie e la sua incessante agitazione Sento parlare di Jérémie per diversi mesi prima di incontrarlo con la madre. I genitori non erano molto dell’idea di richiedere una psicoterapia per il figlio. Ciò nonostante, quando incontro la madre e il bambino, ho di fronte a me una madre angosciata che confessa i gravi problemi relazionali che ha con il figlio. Fa fatica a sopportarlo da quando lui ha assunto un sembiante di indipendenza con il movimento. Finché era un bebè, andava a mettersi nel luogo e posto dell’oggetto tutto per lei, di cui poteva controllare il corpo e la mente. All’età di tre anni, le difficoltà di Jérémie vengono reperite dalla scuola, che ne informa la madre. Lei rifiuta l’idea che suo figlio abbia un problema. Per lei il bambino va molto bene. Lui è come era lei alla sua stessa età, allo stesso modo del figlio maggiore che ha manifestato grandi difficoltà a separarsi da lei e che ora va molto bene. Si sente perseguitata dalla scuola e denunciata come cattiva madre. I colloqui sveleranno che la cattiva madre non è altro che la formula significante spillata da sua madre per predire ciò che lei sarà come madre. «Mia madre ha voluto distruggermi», mi dice. Vive sotto l’influenza dei cattivi pensieri di sua madre. In tale contesto, i problemi di suo figlio sono una risposta all’odio materno espresso dalla nonna. Il bambino è qui oggetto a che realizza, come indica Lacan, la cattura nel fantasma materno, il quale si potrebbe enunciare così: «Io sono una cattiva madre come aveva predetto mia madre, e mio figlio ne è la prova». In questo caso il bambino viene a incarnare un «rifiuto primordiale», quello di sua madre che non può accedere all’ordine simbolico che la supera. Lei lo imprigiona nella propria problematica, senza la-

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sciare il minimo posto a una possibile mediazione tra lei e lui, poiché la voce della nonna si verifica nel reale, prova assoluta del sapere della madre sul bambino. Di conseguenza, suo figlio è potenzialmente nella posizione di minacciarla, poiché la rende cattiva madre, realizzando le predizioni della nonna. Per questo lo vive come pericoloso, capace di far insorgere questa minaccia che la tormenta. Di conseguenza, anche il bambino ha paura di sua madre. Anche lui è in preda all’angoscia di venire distrutto da lei. La sua agitazione incessante rivela che non può in alcun modo essere nel posto di soggetto. Durante le sedute entra ed esce, accende e spegne la luce in maniera ripetitiva, sembra poco sensibile a quello che gli si dice. Appare invaso da un’inquietudine massiccia. È prigioniero del desiderio della madre, del suo «no» alla maternità. Questo bambino è preso senza mediazioni nelle costruzioni deliranti di sua madre, che ciò nonostante lotta e cerca di estrarsi dai cattivi detti che la invadono e hanno predeterminato la sua funzione materna. La pacificazione del bambino sarà possibile a partire dal momento in cui sua madre avrà a sua volta trovato una soluzione all’insopportabile costituito dalle parole devastanti della propria madre. Non si tratta, in effetti, di comprendere il senso di ciò che la perseguita, ma di operare un cambiamento nella percezione che ha di suo figlio, prova per lei dell’onnipotenza dei pensieri della propria madre.

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La domanda inconscia

Se il punto di partenza dell’esistenza di un bambino si inscrive il giorno in cui esce dal ventre materno, la psicoanalisi sancisce che aveva già preso posto come oggetto del desiderio dei suoi genitori. Era già lì, parlato dall’Altro. Il posto che avrà nell’Altro si fonda su questa inscrizione nel desiderio. Alla nascita, il bebè si manifesta attraverso il pianto che prenderà, per l’Altro materno, il senso di un appello. Nel corso delle settimane, la madre interpreterà i pianti del bambino per riconoscervi i differenti registri del bisogno e della domanda. In effetti, quando il bambino si esprime attraverso il pianto, può farlo perché ha fame, sete, perché è bagnato, o perché prova un dispiacere – ma anche semplicemente perché desidera la presenza di sua madre. I cosiddetti «bisogni» del bambino piccolo sono l’espressione della sua totale dipendenza ai fini della sopravvivenza, dipendenza che fa la particolarità dell’essere umano. La maniera in cui il bambino viene accolto nella propria famiglia ha una portata inaudita. Quando, per esempio, la madre non è in condizione di sopportare questa dipendenza del bambino, quando perde la pazienza di fronte alle sue molteplici domande, quando le riceve come ostacoli alla propria libertà, il bambino può diventare un oggetto ingombrante. Può allora venire brutalmente disinvestito o sloggiato dal suo posto di ideale. La dipendenza del bambino e la sua domanda sono dunque intrinsecamente annodate e costituiscono la modalità principale di espressione della vita. Per l’essere parlante all’inizio della vita c’è una derelizione legata al fatto che non ha le parole che lo aiuterebbero a calmare le molteplici eccitazioni provate nel corpo. È confrontato a un buco, a un reale che è pura angoscia. Questa si manifesta attraverso segni diversi, regolarmente accompagnati da pianti che possono apparire

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ii. il bambino in analisi

come senza ragione – in ogni caso senza rapporto a un bisogno da soddisfare – e che lasciano i genitori nell’inquietudine, poiché non ne comprendono il senso. Loro spesso interpretano tale manifestazione bruta dell’angoscia come dei dolori di pancia inspiegabili (la famosa «colica» del lattante). Il corpo è spesso il luogo elettivo della manifestazione dell’angoscia. Del resto, quando il bambino viene preso in braccio e/o quando ascolta la voce materna o paterna, che riconosce molto presto, possono comparire alcuni effetti di pacificazione. La domanda del bambino è l’espressione più immediata della relazione che s’instaura con i suoi genitori. Essa veicola tutta la dimensione del linguaggio che vi si inscriverà. È vitale, e quando viene ignorata, il bambino rimane senza risorse nei confronti di ciò che prova. Sebbene nasca dal bisogno avvertito nel corpo, la domanda che rivolge all’Altro non è mai totalmente colmata. Da lì si instaura la mancanza. Il bambino infatti domanda la presenza della madre indipendentemente dal bisogno che la suscita. Il tempo della soddisfazione del bisogno non ricopre mai completamente quello della domanda. Così la domanda diventa domanda di presenza e, come tale, equivale a una domanda d’amore, al di là di ogni bisogno.

La domanda bloccata di Sarah Sarah ha esattamente tre anni quando mi parlano di lei. Nella sala d’attesa, mi dicono, Sarah non si muove, non parla, non gioca. È perciò seguita in un altro servizio dove usufruisce di alcune sedute di psicomotricità. Si è parlato di psicosi, se non addirittura di autismo infantile. La prima volta che la ricevo, sono colpita da due cose: Sarah non mi guarda, evita il mio sguardo, ma sa che suo padre parla di lei e che io ascolto quello che mi dice. Si mostra molto presente, esplora il luogo, prima di andare a prendere posto tra le braccia di suo padre. A un tratto, la diagnosi di autismo mi appare infondata. Sarah è la terza figlia dei suoi genitori. Il primogenito è deceduto molto piccolo, lasciando i giovani genitori in un grande smarrimento. La seconda è stata molto covata; oggi è una bambina intelligente, esigente, dall’immaginazione sfrenata. Poi è arrivata Sarah. Per lei l’ambiente familiare è stato meno inquieto. Sarah era un bebè tranquillo, una bambina che non dava alcun problema, dormiva, man-

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la domanda inconscia

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giava e viveva la sua vita. È cresciuta e poi ci si è resi conto che non parlava, che si muoveva poco. «Quello che era penoso», aggiunge tuttavia il padre, «è che piagnucolava molto». Al momento di questo primo colloquio, il padre è sotto l’effetto di quello che è accaduto la settimana precedente: sua figlia è caduta dal letto e si è procurata una frattura dell’osso temporale del cranio. Lui sente ancora, mi dice, il rumore della caduta, ricordando la paura di quando è arrivato nella stanza e ha visto la piccola sul pavimento. Questo riattiva l’angoscia di morte legata alla perdita del primo bambino. Fortunatamente, dopo tre giorni di ospedalizzazione durante i quali gli infermieri sono stati toccati dal «coraggio di Sarah» – che non piange, non si lamenta –, quest’ultima si è ripresa bene dalla caduta. I genitori hanno vissuto il divorzio in corso ciascuno a proprio modo. Una decisione che è stata presa sullo sfondo della terapia di coppia dopo la morte del primo bambino. La madre tornerà a vivere nella sua regione natale. È lei a lasciare la casa per prima, per andare ad abitare metà della settimana fuori Parigi. Nella vita di Sarah si installa così un nuovo ritmo. Sua madre lascia Parigi la domenica sera e ritorna il martedì sera. È lei che il mercoledì mattina accompagnerà Sarah alle sedute. Questo appuntamento per la figlia diventerà un punto di riferimento per la madre che si appoggerà su di esso come tempo di scansione nella propria settimana. «Andare a vedere Madame Bonnaud» diventa il significante del transfert. La madre parla alla figlia di questo appuntamento particolare, tempo che le dedica e che prende quindi una funzione di desiderio nei suoi riguardi. Come dice Lacan nel Seminario Le formazioni dell’inconscio «a livello della domanda, c’è tra il soggetto e l’Altro una situazione di reciprocità». Ma «ciò che deve essere introdotto, e che c’è fin dall’inizio, latente fin dall’origine, è che al di là di ciò che il soggetto domanda, al di là di ciò che l’Altro domanda al soggetto, devono esserci la presenza e la dimensione del fatto che l’Altro desidera»1. È proprio perché la madre ha potuto manifestare questa domanda di altra cosa al suo bambino, una domanda che non è solo che Sarah si alimenti bene, sia pulita, dorma bene e sia amabile; proprio perché 1 J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, Einaudi, Torino 2005, p. 369.

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c’è un al di là di questa domanda, che noi chiamiamo desiderio, che l’analisi ha potuto prendere per Sarah la funzione di ritrovamento con il desiderio dell’Altro. Così, nel giro di qualche mese Sarah esce dal suo mutismo e stabilisce una relazione di parola con me. Mi sorprende il giorno in cui mi dice: «Madame Bonnaud-lista». Nomina così la persona che viene a incontrare ogni mercoledì. Fin dall’inizio dei nostri colloqui, per indicarle il nostro appuntamento settimanale, le consegno un biglietto da visita che lei mette fieramente in tasca. Va via con questo «oggetto-lista» in tasca. Ne do uno anche a sua madre, che lo mette nella sua borsa. Sarah è molto contenta, perché anche sua madre ha il biglietto di «Madame Bonnaud-lista». Il tempo del ritrovarsi con la madre è scandito dai nostri appuntamenti. Così, al momento attuale il biglietto da visita su cui Sarah ama leggere il mio nome serve a un piccolo gioco: il cartoncino diventa un biglietto del treno per Marsiglia, la città della madre, dove si costruirà la sua prossima vita. La catena significante si mette in moto. Il cartoncino dove si inscrive il nome dell’analista può funzionare a titolo di biglietto di viaggio per sua madre. Ed è molto divertente per Sarah scoprire tutto quello che si può fare con questo… Lei va, viene, io sono la mercante di biglietti e poi, poco a poco, sarò la madre che ne acquista uno per partire. Dopo dieci mesi di psicoanalisi, malgrado l’inquietudine che ancora di tanto in tanto manifesta, Sarah si è trasformata. Parla molto bene e apprende con una facilità sorprendente. È molto viva, animata da una determinazione che sorprende tutti, sebbene abbia ancora dei momenti di chiusura dove, lo sguardo abbassato, ha l’aria di una bambina triste. Quando parte per vivere in provincia, ha capito che partire è prendere il treno e che si fa sempre un’andata e un ritorno. Sa che sua madre torna, che suo padre parte e ritorna, che viaggiare è come l’analisi, si scrive il proprio nome su di un biglietto e questo vuol dire «a domani». La successione delle sedute con Sarah mostra che abbiamo lavorato la questione della domanda di una presenza e quella di un’assenza: la messa in campo degli appuntamenti con l’alternanza delle andate e ritorni della madre ha permesso di significantizzare ciò che per lei era in sospeso. In effetti, la venuta al mondo di Sara sembra aver riattualizzato per la madre la perdita del primo bebè, di sesso maschile.

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Dare di nuovo un figlio a suo marito avrebbe attenuato il lutto legato alla perdita del loro primo bebè. Inconsciamente, la madre si sentiva colpevole per non aver potuto rimpiazzare il figlio perduto. La domanda di Sarah è rimasta senza risposta, è diventata una bambina che non si esprime. Tale assenza di domanda della bambina non era che la risposta alla tristezza materna, venendo a inscriversi come un fallimento dell’amore. A tal punto il suo desiderio a lutto la lasciava nel dolore, che era impossibile per la madre investire sulla bambina. In più, la separazione dal marito velava il suo destino di donna. Si sentiva piantata in asso come oggetto del desiderio e la perdita e l’abbandono invadevano la sua vita, riattivando così la castrazione che, per una donna, viene veicolata dalla privazione dell’amore. Sarah veniva «incollata», per così dire, a tale perdita; la sua dipendenza vitale dal desiderio dell’Altro ne risultava considerevolmente accresciuta. Il fort-da freudiano è la dimostrazione di una domanda di presenza sullo sfondo di un’assenza. Freud ha isolato il fenomeno mostrando che il piccolo si serviva di un gioco con un rocchetto2 per sopportare l’assenza della madre. Il bambino ripete l’esperienza che consiste nel lanciare il rocchetto e nel farlo ritornare pronunciando le sillabe fort poi da che sono un: qui poi là. C’è ripetizione dell’atto perché il soggetto ne ricava una soddisfazione. D’altronde noi sappiamo come i bambini piccoli sperimentino un piacere diabolico nel far cadere gli oggetti perché poi li si raccolgano loro, o nel giocare ancora e ancora alla stessa cosa. Nella ripetizione c’è un piacere a ricominciare, proprio alla nostra inscrizione nel linguaggio e alla soddisfazione pulsionale che comanda. Tale gioco del fort-da mostra che il bambino fa uso dei significanti «partito, arrivederci» ben prima di tutti gli altri. Questo testimonia dell’importanza della questione della presenza e dell’assenza nella strutturazione del soggetto, e della maniera in cui utilizza l’oggetto che sceglie per simbolizzare la coppia modulata della presenza e dell’assenza. Lacan e Freud hanno mostrato che la soddisfazione che il piccolo riceve dalla ripetizione del suo gioco, introduce il rapporto del soggetto con il godimento. Lacan distinguerà due tipi di domanda: la domanda di un oggetto – il soggetto avverte il bisogno e domanda l’oggetto per soddisfar2 Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, in Id., Opere, vol. ix, cit., pp. 200-203; J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti, vol. 1, cit., pp. 312-313.

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lo – e la domanda d’amore, che non è domanda di un oggetto, ma domanda di niente, domanda dei segni indirizzati dall’Altro. Vi è dunque modo di distinguere la domanda di un oggetto che viene a soddisfare un bisogno, da un’altra forma di domanda che è quella dell’amore. Perché Lacan parla dell’oggetto in quanto niente? Il niente è per lui un oggetto a parte. Serve a nominare quello che non si può dare, quello che non può colmare, quello che non può rispondere con un oggetto tappo alla domanda del bambino. Così, è fondamentale per la costruzione del bambino che ci sia posto per il niente nella risposta alle sue domande. Se la madre risponde a ogni appello dandogli da mangiare o da bere, mette in campo una risposta che esclude la mancanza e che può avere come conseguenza di rendere il bambino incapace di sopportare la frustrazione. Tra queste due domande, la domanda che ha per oggetto qualcosa e la domanda d’amore, Lacan inscriverà il desiderio: «Il desiderio si abbozza nel margine in cui la domanda si strappa dal bisogno: margine che la domanda, il cui appello può essere incondizionato solo nei riguardi dell’Altro, apre sotto forma del possibile difetto che il bisogno le può apportare per il fatto di non avere soddisfazione universale (ciò si chiama: angoscia)»3. Julie scompare con l’anoressia Julie ha tredici anni. Non mangia più da diversi mesi. Sua madre ne impazzisce e non sopporta più la figlia. La storia familiare è marchiata da un lutto recente: il fratello maggiore di Julie è deceduto brutalmente. Da quando la morte è entrata in casa, Julie, attraverso il rifiuto di mangiare, segnala che si sta domandando: chi è vivo e chi è morto all’interno della famiglia? Fa del suo corpo l’oggetto in cui si scrive la sua questione indirizzata all’Altro genitoriale: «Vuoi la mia morte?» – sottointeso al posto di quella di mio fratello – «Mi vuoi perdere?». Si trasforma di giorno in giorno, come per ritornare bambina, quella che era proprio prima dell’irruzione della morte nella sua famiglia. Manipola così la vita attraverso il suo corpo. Cosa vuo3 J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Id., Scritti, vol. ii, cit., p. 816.

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le dire mettendo la sua vita in gioco in questa maniera? La risposta potrebbe essere che i suoi genitori escano dal loro lutto impossibile. Che vogliano che lei esista. Che si occupino del suo corpo vivente, prima che sia troppo tardi. I genitori non vogliono vedere la magrezza della figlia. Vogliono che mangi e, quando lo fa, si sentono rassicurati. Ciò nonostante, Julie continua a dimagrire. Vomita o getta nella spazzatura tutti i piatti preparati dalla madre. I genitori non vogliono vederla scomparire. È lei che si mette in condizione di scomparire, in primo luogo rifiutando di mangiare alla loro stessa tavola, poi esigendo di mangiare da sola nella sua stanza, rendendosi così padrona dei propri agiti alimentari. Essere guardata le è diventato veramente insopportabile, poiché sua madre non smette di guardarla mangiare. Così Julie tenta di mettere a distanza sua madre e di costruire una separazione da quest’ultima. Vuole mettere della mancanza tra lei e sua madre. Dice «no» all’imperativo materno Mangia! come modalità di risposta alla sua domanda d’amore. Crea così un «vuoto» tra la domanda di cibo e la domanda d’amore. Esigendo un altro nutrimento, un nutrimento a parte, indica bene la sua necessità di sloggiare l’oggetto «cibo materno», e il posto di un altro oggetto che lei potrebbe desiderare, al di fuori del campo della madre. Il cibo che si concede è dunque quello che risponderebbe a un desiderio possibile, quello di mangiare per vivere, e non per amare ed essere amata. Questo esempio di anoressia mentale articola in maniera molto chiara lo iato tra il desiderio e la domanda. Perché questo rifiuto di mangiare, che potrebbe arrivare fino alla morte, se non per marcare la differenza assoluta tra bisogno, domanda e desiderio? L’anoressica nega il bisogno e «orchestra il suo rifiuto come un desiderio»4, rinviando all’Altro materno che ha confuso «le sue cure col dono del suo amore», di cui l’ha caricata. Troppo nutrita, dunque troppo amata, la bambina rifiuta di soddisfare la domanda della madre e attende che le doni questo niente, che finalmente le aprirà la via «che le manca verso il desiderio». L’anoressia è la forma più compiuta della messa in opera di questo niente del desiderio. Ciò nonostante, nella clinica con gli adolescenti si incontrano differenti variazioni di questo niente che può dirsi nel «Io non ho bisogno di niente», o nel classico «Io non sono niente». 4 J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Id., Scritti, vol. ii, cit., p. 624.

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Tale forma del rifiuto si configura come una rottura con il desiderio, cioè con la mancanza. Detto altrimenti, manca la mancanza. L’«Io non ho voglia di niente» dell’adolescente equivale a un «Io non ho bisogno di niente» indirizzato all’Altro, forma di negativizzazione della domanda dell’Altro. Al momento attuale, l’appetito per i giochi e per internet ha preso il posto di una tossicomania orale, rovesciando l’«Io non ho voglia di niente» in «Io gioco e mi connetto tutta la notte»: da una parte per annullare ogni forma di mancanza, dall’altra per evitare ogni forma di incontro con la domanda dell’Altro. C’è un godimento autistico nell’agganciare la propria vita a uno schermo su cui si gioca un incontro impossibile con i piccoli altri. Si evitano così le delusioni e si resta immaginariamente padroni del proprio destino, come se ci si imbattesse in una meccanica giubilatoria che si consuma e che svuota il soggetto del desiderio della sua sostanza. È la soddisfazione immediata a prevalere, mettendo ogni altra forma di godimento fuori gioco; anche la sessualità può trovarsene esclusa. Così l’adolescente corto-circuita le scelte da fare, gli incontri con l’Altro sesso, urta contro il niente del desiderio, credendo di padroneggiare il proprio godimento. Il soggetto della domanda è allora radicalmente eluso a profitto del soggetto consumatore di godimento virtuale. La necessaria riconnessione con l’Altro del desiderio passa per la parola. Essa è spesso molto difficile e richiede all’analista pertinenza e invenzione, poiché per il consumatore di schermi le parole sembrano povere. Occorre metterci un’altra cosa, una presenza incarnata e desiderante, ignota al soggetto, e che potrà renderlo, a sua volta, di nuovo desiderante. Occorre metterci qualcosa che stupisce, che sorprende chi si è disinscritto dalla credenza nell’Altro della parola per farsi partner di un godimento spesso illimitato. Per questo la presenza dell’analista, presenza incarnata in carne e ossa, è indispensabile per impegnare il soggetto a confrontarsi con un Altro che possa farsi partner del suo desiderio, per quanto tenue sia. La fortuna del bambino è quella di non essere del tutto costruito, anche se l’essenziale accade durante i primi anni di vita. Le sue difese non sono ancora totalmente edificate, l’accesso alla sua causa è più facile. Quando incontra l’analista, viene considerato come un soggetto che desidera e che non è uno qualunque. Il dire così può apparire

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semplicista, ma uno degli effetti più manifesti, più tangibili degli incontri con uno psicoanalista, è di venire ascoltato nella propria realtà più intima. La parola dell’analizzante, che si tratti di un bambino o di un adulto, vi è innanzitutto ricevuta come vera e autentica. Una circostanza di poca importanza può rivelarsi a un tratto cruciale, mentre il bambino all’opposto non le aveva riconosciuto alcun valore. Ciò che mostra la clinica è che l’analista prende sul serio quello che spesso la famiglia non intende. In effetti è sempre insopportabile per i genitori capacitarsi del malessere del proprio bambino. C’è una sorta di rifiuto a credere alla sua sofferenza, poiché lo si ama e gli si vuole bene. C’è malinteso.

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Madri possessive

Il bambino è prima di tutto un essere di parola. Che lo sappia o no, è dal desiderio dell’Altro che proviene il suo gusto per vivere, per amare, per imparare, per crescere, per diventare quello che diventerà. Quando il bambino comincia a parlare, siamo sorpresi dalla facilità con la quale ripete le nostre parole familiari, le comprende, ama ridirle, ancora e ancora. Questo apprendimento non ha niente a che vedere con quello di una meccanica che si tratterebbe di far funzionare. Il suo linguaggio, la maniera in cui si esprime, sono il risultato della sua inscrizione come soggetto attraversato dai significanti che lo rappresentano. Che apprenda a nominare le cose, a domandare, a entrare nella comunicazione con sua madre, suo padre, così come con le altre persone della sua famiglia e del suo ambiente, mostra come, fin dalla più tenera età, le parole abbiano un effetto primordiale sul suo avvenire. Se ne appropria e se ne serve a condizione di esistere per l’Altro e nell’Altro. Il desiderio dell’Altro è in primo luogo il desiderio della madre. Gli psicoanalisti sono concordi nel ritenere che la relazione madrebambino sia determinante per la costruzione di un soggetto. La madre è in effetti il primo oggetto di amore del bambino; è il suo «oggetto primordiale»1, il suo «Altro assoluto»2, dice Lacan. D’altra parte, una donna incontra nella maternità una soddisfazione che ha origine nel suo complesso di castrazione. In effetti, secondo Freud il desiderio di bambino della bambina proviene dalla privazione del fallo; si opera una sostituzione dal fallo al bambino 1 2

J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, cit., p. 201. J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994, p. 65.

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che le permette di supplire alla sua mancanza. Evidentemente, il desiderio di bambino non è la sola conseguenza possibile dell’invidia del pene, il Penisneid freudiano; tuttavia, la maternità costituisce una delle vie più classiche all’uscita dall’Edipo femminile. Una parte della castrazione femminile, del Penisneid, si risolve con essa. Il bambino rimpiazza il fallo mancante della madre, in qualche modo. Ne risulta che, per il bambino, c’è una relazione a tale fallo mancante. Poiché la maternità e la relazione madre-bambino non sono separate dalla femminilità, è importante sapere come il bambino sia venuto o no a rispondere al desiderio femminile, e che tipo di soluzione costituisca per sua madre in quanto donna. Sarà o no ciò che viene a colmare l’assenza del fallo? Verrà in posizione di oggetto a nel fantasma della madre? Prenderà tutto il posto, al punto che la madre non cercherà più di farsi desiderante per un uomo? Tali questioni si pongono tutte le volte che il bambino costituisce per la madre un sintomo di cui si lamenta come se per lei si trattasse di un insopportabile. Quando cambia, si autonomizza o tenta di farlo, il bambino è suscettibile di scombussolare la posizione materna. Ebbene, alcune madri hanno bisogno di mantenere il proprio figlio in una posizione di dipendenza, poiché vi alloggiano il sentimento di essere indispensabile all’esistenza del piccolo. Quando cresce, si sentono spossessate del suo amore. Senza neppure rendersene conto, cercano allora delle soluzioni per mantenerlo in tale assoggettamento. Spesso la questione sessuale è in primo piano. La sessualità infantile si infiltra nel rapporto che il bambino intrattiene con le cure materne; interviene nella soddisfazione che procurano e nelle aspettative che fanno nascere. Più sono investite dalla madre, per esempio al momento dell’apprendimento dell’uso del vasino, più avranno la tendenza a fissarsi come punti di godimento insuperabili. Così, l’incontro con i bambini mostra che la sessualità obbedisce a dei circuiti complessi e s’inserisce nel linguaggio. Se Freud ha fatto scandalo indicando che il bambino era un perverso polimorfo, è perché ha scoperto l’importanza della sessualità infantile nel suo sviluppo. Un primo godimento è incontrato dal bambino quando succhia il seno della madre; poi questa sessualità si sposta e incontra oggetti differenti nella misura in cui cresce e si apre a nuove esperienze. Freud ha chiamato «libido» questo godimento tanto presente fin dal principio della vita. Tale prospettiva consente di liberare la ses-

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sualità dalla sua accezione medica o morale per approcciarne il funzionamento nello psichismo. Lungi dall’appiattire la questione della sessualità sul rapporto sessuale e i suoi fallimenti, Freud al contrario mostra come essa palpiti al cuore della vita psichica. La libido si fissa sui bordi degli orifizi che sono, secondo Freud, delle zone erogene. Tali orifizi corporei servono a focalizzare e a delimitare la carica pulsionale. È a partire da lì che Lacan ha costruito la pulsione come un misto di significante e di godimento. Essa è, ci dice, «un montaggio che […] si presenta senza capo né coda»3. Ha solo uno scopo, il raggiungimento della soddisfazione4. L’educazione consiste appunto nell’aiutare il bambino a non essere in presa diretta con le sue pulsioni e a orientarle verso oggetti più sublimati o verso scopi più adeguati ai suoi interessi. Il concetto di pulsione permette di cogliere che la sessualità è un evento che si inscrive nella parte più intima della vita del soggetto. La sessualità può anche manifestarsi attraverso un incontro traumatico, cioè l’incontro di un godimento che colpisce, che disorganizza e si fissa nello psichismo. Il traumatismo è la scrittura di un godimento non riassorbibile, di un punto intrattabile per il soggetto. Milène e la madre possessiva La madre di Milène arriva in consultazione in preda all’urgenza. Da quasi un mese la sua bimba di quattro anni non lascia la tazza del wc per una parte della notte. Lei rifiuta di dare spiegazioni sui motivi per cui trascorre lì un tempo considerato da sua madre come troppo lungo per quello che ci deve fare. Milène agita molto sua madre, poiché all’improvviso è diventata Altro per lei. Nel corso del colloquio con la madre e la bambina, emerge che vivono entrambe in una prossimità molto rilevante. Condividono tutto. Non c’è intimità possibile né per l’una né per l’altra. La madre d’altronde ha il sentimento di sapere tutto di sua figlia. Per questo l’irruzione del sintomo provoca in lei angoscia e collera – legate all’impotenza nella quale la getta la figlia. 3 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 165. 4 Cfr. ivi, pp. 161-164.

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Per la madre, Milène è un «miracolo», il bambino che non aveva immaginato di potere finalmente avere, il bambino che la salva dalle sue gravi difficoltà a vivere, che la estrae dall’influenza di una pulsione di distruzione. Abbandonata dal padre di sua figlia, vive in un universo in cui tutto è centrato su quest’ultima. In tale contesto, l’irruzione del rifiuto di dare le feci quando sua madre lo richiede è il primo segnale di opposizione di Milène. Esso si accompagna contemporaneamente a un’angoscia che si manifesta attraverso la paura di perdere il contenuto del suo intestino. Le sedute mostreranno molto rapidamente che per Milène la domanda di sua madre è troppo esigente e che la sua pulizia è la posta in gioco di un rapporto di forza tra loro due. Milène oppone un «no» alla domanda materna, domanda di un Altro che sperimenta come assoluto. Il sintomo, in questo senso, è un meccanismo di difesa del soggetto di fronte alla domanda materna. Esso indica che, per potersi separare dalla madre, occorre passare per un’opposizione, per il fatto di dire «no» al suo volere. Quando la domanda della madre schiaccia il desiderio, si rischia di vedere apparire dei sintomi di rifiuto nel bambino. In qualche modo Milène decide di non essere più sotto lo sguardo di sua madre, e soprattutto sotto la sua ingiunzione, per soddisfare i suoi bisogni. Così, si alza la notte per sfuggire allo sguardo di sua madre, per sottrarsi alla sua influenza. Quando Freud ha scoperto l’importanza della sessualità infantile nella formazione dei sintomi, ha innanzitutto cercato di situare in una cronologia l’effetto traumatico dell’incidenza sessuale sul soggetto. Questo modo di apprensione del sintomo ha potuto avere la sua pertinenza, ma ha favorito un taglio normativo secondo degli «stadi di sviluppo» del bambino mentre c’è, a ciascuna tappa della vita, un intreccio di diverse pulsioni. Quello che è in questione nel sintomo è la cristallizzazione di un modo pulsionale elettivo, senza per questo escludere gli altri. È quella che Freud ha chiamato «fissazione», vale a dire che «alla rappresentanza psichica (ideativa) di una pulsione viene interdetto l’accesso alla coscienza»5. Essa rende conto dell’impatto di un funzionamento particolare a ciascun soggetto, della prevalenza di una pulsione data, che governa e si inscrive in maniera più specifica nella formazione di un sintomo. 5

S. Freud, La rimozione, in Id., Opere, vol. viii, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 38.

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Freud ha mostrato che l’auto-erotismo ha un valore cruciale; il bambino investe il proprio corpo – e in particolare le zone erogene – come oggett(i) di godimento6: «una bocca che si baciasse da sola» sarebbe «il modello ideale […] dell’autoerotismo»7, scriverà Lacan al seguito di Freud. Ma Lacan andrà molto più lontano in questa logica quando interpreterà «questa bocca che si bacia da sé [come] una bocca cucita, dove, nell’analisi, vediamo spuntare al massimo, in certi silenzi, l’istanza pura della pulsione orale che si richiude sulla propria soddisfazione». In analisi il silenzio rimanda alla pulsione orale che comanda la propria soddisfazione. Ma a partire da questo autoerotismo freudiano, percepiamo che potenzialmente vi è un indirizzo all’Altro, fosse anche silenzioso. Tangibile nella percezione della sessualità infantile dei primi mesi, l’autoerotismo molto presto fa posto a un allo-erotismo in cui la connessione all’Altro fonda la relazione con gli altri e con il mondo. La sessualità passa nelle reti della costituzione soggettiva, nei significanti, e il desiderio si mette in forma. Lacan ha denunciato la pseudo-maturazione naturale degli stadi che rinvia a una concezione cronologica dello sviluppo, senza inscrivere il rapporto con l’Altro da cui essa dipende. Piuttosto ha constatato che è nella relazione con l’Altro che il bambino cambia e rinuncia parzialmente alla soddisfazione. Nell’oralità, per esempio, lo svezzamento costituisce la prima forma di separazione che il bambino deve subire, accettando la privazione del seno, poi del biberon. Vi è dunque un passaggio in cui la madre non dona più. Ciò può provocare nel bambino alcuni sintomi di anoressia o dei ritiri depressivi. In questo senso lo svezzamento è la prima operazione di perdita. Lacan dice in effetti che l’angoscia di castrazione «è come un filo che perfora tutte le tappe dello sviluppo. Essa orienta le relazioni che sono precedenti alla sua apparizione propriamente detta – svezzamento, disciplina anale ecc. Essa cristallizza ciascuno di questi momenti in una dialettica che ha come centro un cattivo incontro»8. 6 Cfr. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale, in Id., Opere, vol. iv, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 492: «Peccato che io non possa baciarmi», fa dire con humour al bambino che più tardi cercherà «le labbra di un’altra persona», più soddisfacenti per il fatto di essere prelevate su di un corpo altro dal suo, come era il seno materno. 7 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 174. 8 Ivi, p. 62.

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ii. il bambino in analisi

Di conseguenza, non esiste continuità tra la pulsione orale e la pulsione anale. Non ci sono stadi che andrebbero nel senso di una progressione fino a raggiungere uno stadio genitale definitivo. Per Lacan, ciò che definisce il passaggio dalla pulsione orale alla pulsione anale si fa attraverso l’intervento di qualcosa che non è del campo della pulsione, ma attraverso l’inversione della domanda tra il soggetto e l’Altro. In effetti, il bambino non ha più bisogno di pannolini solo se la madre gli domanda di dare le sue feci. All’inizio della relazione madre-bambino, il bambino domanda e la madre dà; in un secondo tempo, la madre domanda e il bambino deve accettare di dare. Per lui questo costituisce il primo dono di una parte di sé. Senza questo scambio di parole ci sarà un fallimento, cioè fissazione o regressione con tutte le variazioni sintomatiche legate a questa doppia polarità: conservare o dare, accumulare o gettare, trattenere o espellere, ecc. Il caso di Milène dimostra che quando la domanda dell’Altro equivale a un comando, a un ordine senza appello, il bambino non risponde più alla domanda e cerca di indicare, a suo modo, che non è l’oggetto dell’Altro. Quella che si chiama regressione molto spesso è solo un rifiuto, non di progredire e di assumere il proprio corpo, ma di sottomettersi alle domande e ai desideri dell’Altro. Il bambino testa così il proprio potere sulla madre e può identificarsi a questo Altro nella sua onnipotenza. C’è allora inversione del circuito tra il bambino e la madre che, a sua volta, subisce i rischi del capriccio del suo bambino. Questo necessita un trattamento per il bambino e la madre, entrambi presi in tale circolo infernale che costituisce uno dei principali fondamenti della relazione tra due persone che Hegel ha chiamato «dialettica del servo e del padrone», e che oggi capita di nominare come la «relazione della vittima e del carnefice». Questa formulazione, molto utilizzata oggi, viene a configurare la relazione primordiale con il genitore che spesso ha conservato il suo impatto nella vita di un soggetto. «Non faccio la tua vittima», come si sente dire a tutto spiano, non è che una maniera d’interpretare il legame di un soggetto con l’Altro e questa interpretazione è sempre insopportabile da intendere perché è caricaturale e respingente.

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Alain e la trasmissione della dislessia Ricevo Alain accompagnato da sua madre che spiega il problema del figlio. Alain è dislessico e questo le pone molti problemi nella frequenza scolastica. Ha seguito diversi trattamenti per tentare di porvi rimedio. La maestra ha richiamato l’attenzione dei genitori sulla sua tristezza, legata, secondo lei, al suo sentimento di scacco. Per questo la maestra ha accennato a una consultazione da uno psicologo. La madre racconta che ha sofferto dello stesso sintomo del figlio e che all’inizio della gravidanza era molto angosciata all’idea di trasmettere la dislessia al suo bambino. Dice che, avendo scoperto in età adulta il metodo che le ha permesso di sconfiggere questo sintomo, aveva cercato di curare, o piuttosto di prevenire, in utero questa dislessia, attraverso alcune sedute dal medico che l’ha salvata. La madre cura il male del bambino ben prima della sua nascita. Ritiene in effetti che la dislessia faccia soffrire e che, nella vita di un soggetto, sia un handicap. Non vuole che il figlio patisca le sue stesse sofferenze. Alain è dunque stato contaminato dalla malattia materna. Qui si vede bene come il desiderio inconscio della madre possa perpetuare la necessità del sintomo. Il sintomo del bambino prolunga quello della madre. Sono entrambi annodati da un legame particolare, da un difetto nominabile: la dislessia, significante-padrone nel discorso della madre. In effetti «dislessia» per questa madre è un significantepadrone, poiché indica il valore di comandamento che ha per lei; la dislessia è il marchio del suo essere e l’ha trasmesso al suo bambino. Alain non soffre della sua dislessia. Essa non ha senso per lui. Ne è affetto come di un male di cui non si sente affatto responsabile. Subisce questo sintomo che i suoi genitori combattono con ogni sorta di metodo. È l’oggetto di questa malattia che provoca in lui alcune impossibilità che d’altronde illustra senza riserva. Così in seduta gli capita di sostenere che non si ricorda di quello di cui abbiamo parlato o che gli ho detto nella seduta precedente e di attribuire alla dislessia la responsabilità di questo stato di fatto. Crede al suo sintomo e contemporaneamente ci si aggiusta molto bene. Crede che quello che dice si cancelli dalla sua memoria a causa della sua dislessia. Vale a dire che tra lui e il suo sintomo non c’è il minimo scarto, la minima questione possibile. Il sintomo è diventato il suo essere. L’ha assorbito. Del resto ne ha fatto un vero io. È la sua carta d’identità,

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ii. il bambino in analisi

la sua inscrizione come soggetto. Siccome esso lo tiene, ci tiene. Il suo discorso sulla vita se ne trova affetto ma, come dice, ha finito per infischiarsene. Lui vive con esso. Per questo nella sua analisi non si tratta tanto di scoprire il senso nascosto della sua dislessia – ciò non gli appartiene – quanto di liberarlo dall’uso inconscio che ne fa. Così, il lavoro analitico ha permesso a questo soggetto di poter liberare i propri fantasmi sul suo funzionamento, sulla rappresentazione che si fa del suo corpo; immagina una moltitudine di soldatini che vivono nel suo ventre, che smistano l’urina dalla cacca, comandati da un generale di cui lui stesso è il capo. Per quel che riguarda la parte superiore del corpo, immagina il suo cervello funzionare con tante porte minuscole che si aprono e si chiudono secondo la sua volontà, gettando nella spazzatura le informazioni indesiderabili: «Escono dalle orecchie [sic] e cadono a terra». Anche in questo caso, è lui il capo. In un simile fantasma riconosciamo una costruzione che mette in campo un Altro onnipotente e che controlla il corpo, come un generale dell’esercito i suoi soldati. Questo indica come il fantasma del soggetto si costruisca nel legame con l’Altro e metta in campo il corpo come oggetto del godimento dell’Altro. La dislessia protegge Alain da questa onnipresenza dell’Altro sul suo corpo, poiché appunto sfugge a tale controllo sperimentato come una forza che comanda. Per lui la dislessia consiste nel lasciar cadere le parole, nel lasciarle fuggire dal suo cervello per gettarle nella spazzatura. In definitiva è un’operazione di smistamento. Alain non fa il legame tra le parole che sfuggono in questa maniera alla loro significazione. L’analista glielo farà notare, dal momento che egli non fissa niente del suo dire. Fa delle parole lo stesso uso che fa del suo sintomo: non le intende e non le mette in rapporto. Il legame sintomatico con sua madre glielo impedisce. Le parole sono oggetti identici alla cacca che bisogna separare dall’urina per evacuarle dal giusto orifizio. Escono e cadono a terra, sono staccate, in disordine e scritte non importa come. In questo caso, il desiderio della madre appare senza mediazione, senza deviazioni. Ella ritiene di aver trasmesso il proprio sintomo al figlio e che le tocchi dunque ripararlo. Alain è il suo oggetto, e perfino il suo oggetto «malato» che bisogna curare a tutti i costi. Vuole al tempo stesso riparare il suo bambino e riparare la bambina che è stata, e che non è stata né compresa né curata. Può così rettificare, attraverso le cure che prodiga al figlio, il rimprovero che rivolge ai suoi genitori che

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non l’hanno sollevata dalla sua sofferenza. La cura del bambino rivelerà come la madre sia presa in questa problematica, così come la solidità della sua ansia per la salute e della sua angoscia per la contaminazione. Durante una seduta il bambino mi parla di una storia che legge la sera e io gli propongo di venire alla seduta successiva con il suo libro. Mi risponde che non sarà possibile, poiché sua madre proibisce che i libri letti la sera nel suo letto vengano spostati, a causa dei microbi che circolano e che possono assalirlo. Segue allora l’elenco di tutti i rituali della madre per impedire che i suoi bambini prendano i microbi e altri virus che circolano. Si serve perfino del termometro per verificare lo stato di salute dei suoi bambini, controllando senza sosta se non siano stati l’oggetto di malattie trasmissibili. Da quando ha potuto parlarmi di questo, Alain ha capito che qualcosa apparteneva alla soggettività della madre. Io gli ho formulato che nessuna mamma avrebbe dovuto servirsi del termometro in maniera quotidiana. La questione della diagnosi ha la sua funzione nella cura con un bambino. Il valore del sintomo dipende in effetti dalla struttura del soggetto. Nel presente caso, il desiderio della madre induce un sapere sulla trasmissione di una patologia che porta un nome. C’è un reale trasmesso che fonda una certezza di filiazione del male. La dislessia non costituisce un sintomo simbolizzato come tale dalla madre, ma un reale che si riceve e si ripete per ciascun bambino. I bambini, a partite dal fatto di essere suoi figli, sono necessariamente come lei, dislessici. La via del padre è forclusa, la sua posizione barrata, esclusa. Essa non determina alcun rapporto tra il bambino, la madre, il padre. Ciò nonostante Alain adora suo padre. Ma come si ama un fratello maggiore. Suo padre non è amato come un padre che ha fatto della propria donna la causa del suo desiderio, il suo oggetto a 9, secondo l’espressione di Lacan. Non è messo in funzione nella metafora paterna, vale a dire che funziona senza legame di desiderio con la donna che è in questa madre. Lei non è divisa tra la madre e la donna: la madre predomina. Lacan ha formulato che per il bambino il desiderio della madre ha un lato capriccioso, un lato imprevedibile e spesso irrazionale. Dal punto di vista del bambino, il desiderio della madre può esse9 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXIII. R.S.I., lezione del 21 gennaio 1975, «Ornicar?», 3, maggio 1975, p. 107.

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re immaginarizzato come un «grosso coccodrillo nella cui bocca vi trovate […]. Non si sa cosa all’improvviso potrebbe venirle in mente, ad esempio di chiudere le fauci. Ecco cos’è il desiderio della madre»10. E in effetti, di fronte a questa madre vissuta come «divorante», il rischio per il bambino è di rimanere in questo posto di bambino-fallo. È così che si costruisce una patologia del bambino dipendente da sua madre, che resta il suo oggetto al posto del fallo che lei non ha. Essere il bambino-fallo è subire il desiderio della madre con il rischio di diventare il suo oggetto inseparabile, il suo feticcio, vittima della sua volontà di potenza o, nei casi gravi, scarto del suo corpo. Una sorta di equivalenza si stabilisce qui tra l’amore incondizionato di questa madre e il fatto di godere di un potere sul suo bambino. Nel nome di questa relazione intima, quante madri pretendono di sapere quello di cui il loro bambino ha bisogno e di sentire quel che gli è utile? Che questo sia vero o no non è importante. Ciò che può rivelarsi distruttivo è la certezza di essere, in quanto madre, quella che sa tutto ciò che serve per soddisfare il bambino. Ciò ha dato luogo ad alcune caricature di madri onnipotenti che non lasciano alcun posto al padre nel circuito madrebambino. Sono contemporaneamente padre, madre e mondo. Per il piccolo d’uomo, questa situazione è legata alla dipendenza totale del lattante. Poiché è sempre chiamato a incarnare questo fallo, il bambino dovrà trasformare questo essere il fallo in un avere il fallo, o no. Per questo, occorre che la madre sia divisa tra esseremadre e essere-donna. È essenziale che il bambino non sia tutto per la madre e che ella desideri altrove. Quando una donna, a partire dal momento in cui è madre, non trova più interesse a tornare verso un uomo, c’è il rischio che il bambino venga a saturare il suo desiderio costituendosi come l’oggetto che la soddisferebbe. In effetti, è cruciale considerare il bambino in quanto oggetto che «non completa solamente, ma divide. […] Se l’oggetto bambino non divide, o cade come scarto della coppia dei genitori, o entra allora con la madre in una relazione duale che lo subordina […] al fantasma materno»11, indica Jacques-Alain Miller. Questa funzione di separazione tra la madre e il bambino può operarsi con la mediazio10 11

J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il Rovescio della psicoanalisi, cit., p. 137. J.-A. Miller, L’enfant et l’objet, «La Petite Girafe», 18, dicembre 2003, p. 7.

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ne di un terzo che la madre desidera, che sia o no il padre del bambino. Tale funzione di taglio può anche essere occupata dal lavoro della madre, o da una passione che occupa un posto di desiderio per lei, e certamente, se è sola, il desiderio di incontrare un altro partner. Perché il bambino non sia schiacciato dal desiderio della madre, occorre che non resti avvitato all’identificazione fallica, cioè che abbia potuto uscire dalla posizione di essere il fallo della madre. Questa operazione non è mai compiuta in maniera totalmente irreversibile. Talvolta occorre una lunga analisi per raggiungere questo punto di separazione con la propria madre. Ed è solo nella relazione all’Altro sesso (anche quando si tratta di una relazione omosessuale) che un soggetto potrà o no fare la prova di ciò che orienta la sua scelta amorosa e il suo rapporto con la castrazione del partner.

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Assenza o presenza del padre

Cos’è un padre? Qual è sua la funzione presso il bambino? A cosa serve? Nell’epoca in cui la scienza può produrre dei bambini che cresceranno senza la presenza paterna, è importante chiedersi che cosa renda la funzione del padre tanto importante per gli psicoanalisti. Freud si è ampiamente interrogato sul posto del padre nella cultura e nella clinica, e Lacan ha inventato il concetto di Nomedel-Padre, significante che simbolizza questa funzione paterna, la quale non è obbligatoriamente incarnata da una funzione reale. La questione della sua presenza o della sua assenza nella realtà non è determinante per l’evoluzione di un bambino, dal momento che quest’ultimo può avere delle risposte su chi è suo padre, da dove viene, quello che fa – detto altrimenti dal momento che si parla di lui in quanto desiderante. In effetti, Lacan insiste nel dire che la madre deve fare caso alla parola del padre, che non deve né sminuirla né glorificarla. Fare caso alla parola del padre significa che tale parola ha un peso. Non si tratta di sostenere il suo posto di madre brandendo come una minaccia la voce di un padrone della casa giacché lei non riesce più a controllare i figli: «Lo dirò a tuo padre!»; «Tuo padre non vuole». Ma piuttosto di prendere la parola paterna come ciò che viene a nominare il suo posto e il suo desiderio verso il bambino, come ciò che «umanizza il desiderio»1. La sua parola serve da mediazione di fronte alla pressione delle esigenze del discorso universale. Egli particolarizza questo discorso di un Altro anonimo e trasmette al suo bambino come ci si distacca da questo universale alienante. Si vede dunque qui come il padre non ha la funzione di trasmettere la legge universale come un 1

J. Lacan, Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio, in Id., Scritti, vol. ii, cit., p. 751.

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diktat, ma di renderla accessibile per lui e la sua famiglia. Così, non è questione di interdire tutto come se il padre fosse supposto incarnare la legge degli uomini nel suo assoluto, ma di interdire secondo ciò che si è sicuri di poter umanamente sostenere. Lacan ha costruito la metafora paterna2 per spiegare come avviene l’operazione della significazione del fallo, che introduce il bambino alla legge edipica, all’Altro della legge. In questa operazione di sostituzione, il Nome-del-Padre viene al posto del primo termine, cioè il Desiderio della Madre. Da questa sostituzione significante deriva la significazione del fallo. Questa introduce il soggetto al senso, alla legge e al desiderio. Nome-del-Padre Desiderio della madre Per cogliere ciò di cui si tratta, riprendiamo il caso di Milène3, che è messa a confronto con una reale carenza del padre. Come sarà introdotta la bambina alla significazione fallica? La madre di Milène, abbiamo detto, vive solo per la figlia. Quale posto fa al padre della bambina, cosa dice a sua figlia in merito a suo padre? Gliene parla? Chi è lui per la madre? A volte le madri fanno fatica a spiegare l’assenza del padre al loro bambino. Si sentono colpevoli. Pensano che ci sarà un tempo, «più tardi», «quando sarà più grande», in cui il bambino potrà comprendere quello che è successo nelle loro vite. Fuggono inventandosi un futuro per dire le cose, come se il bambino arrivasse un giorno a chiedere delle spiegazioni e a voler sapere. I colloqui tra l’analista e sua madre hanno confermato a Milène che aveva un padre. Lei cresce con l’idea che lui non sia lì perché è lontano. Al momento, per lei suo padre esiste solo in forma di ritratto. La madre le ha mostrato una foto dicendole: «Ecco tuo padre». Milène lì per lì non ha veramente reagito. Questo sembra non avere molto significato per la ragazzina, che è felice con sua madre. È nel corso dell’analisi che costruirà un Nome-del-Padre di sostituzione. Milène presenterà una sorta di fissazione amorosa a un cantante 2 J. Lacan, Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento delle psicosi, in Id., Scritti, vol. ii, cit., p. 553. 3 Cfr. supra il caso di Milène, pp. 77-80.

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morto, Claude François, idolo della madre nella sua giovinezza. La piccola prende appoggio su questa immagine idealizzata per realizzare la metafora paterna. Rivolge al cantante una passione che la madre non reprime. Quest’ultima le compra tutti i cd e i dvd di Claude François, la porta a visitare il luogo in cui è sepolto e che lo celebra. Tale amore permette a Milène di ovviare all’assenza di suo padre. Claude François le serve da Nome-del-Padre per costruirsi un mondo in cui la madre non è più il suo unico oggetto d’amore. Il fatto che la madre non abbia impedito l’accesso a questo amore e lasci che Milène si appassioni all’idolo che esso incarna, è cruciale. Accetta che Milène ami qualcun altro oltre a lei, nella fattispecie un uomo che non è uno qualunque, poiché è amato anche da lei. Attraverso questo gioco di simbolizzazione immaginaria, la bambina viene introdotta a una simbolizzazione parziale della morte, dell’assenza. Si tratta nella fattispecie di una forzatura per supplire a un’operazione inconscia, fondamentale nella strutturazione del bambino. Il nome di Claude François non viene a sostituire il padre assente ma, nonostante ciò, ha un effetto importante: la madre dà alla figlia il consenso ad amare al di fuori di lei. Milène può legarsi a un sostituto paterno senza che sua madre se ne rammarichi e il significante «Claude François» permette di dare un senso a ciò che non ne aveva. Fino ad allora, sua madre occupava tutti i posti e non poteva esserci alcuna mancanza. Ora l’assenza del padre è simbolizzabile. Si può parlare di coloro che non ci sono più e amarli. Jérémie4, al contrario, ha un padre che si occupa di lui, che vive in casa e ha un certo posto presso i figli. Ma per lui il desiderio della madre resta marchiato da un godimento primario, non ha potuto simbolizzare sua madre come mancante. Non si è fatto prendere dal significante del Nome-del-Padre per smettere di occupare il posto d’oggetto a nel fantasma materno, per staccarsi, estrarsi da questa posizione in cui lui «satura la […] mancanza […] della madre»5 – cioè in cui alimenta questa posizione di oggetto che occupa per lei. La metafora paterna può compiere questo lavoro di sostituzione solo se il bambino acconsente alla castrazione originaria della madre. La scelta del soggetto è sempre una soluzione singolare: essa segna la determinazione del desiderio che gli è propria. 4 5

Cfr. supra il caso di Jérémie, pp. 62-63. J. Lacan, Nota sul bambino, in Id., Altri scritti, cit., p. 368.

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Freud ha mostrato che «il bambino fa di entrambi i genitori, e soprattutto di uno di essi, l’oggetto dei suoi desideri erotici. Di solito asseconda la stessa sollecitazione dei genitori, la cui tenerezza ha i connotati più chiari di un’attività sessuale, seppure inibita nelle sue mete. Di regola il padre predilige la figlia, la madre il figlio; il bambino reagisce desiderando di essere, se figlio, al posto del padre, se figlia, al posto della madre»6. Il complesso di Edipo costituisce uno scenario che sarà completamente rimosso e che avrà delle ripercussioni fondamentali nella scelta dell’oggetto d’amore, a partire dall’adolescenza. Lacan ha sviluppato nel seminario Le formazioni dell’inconscio i tre tempi dell’Edipo che rendono conto di una teoria strutturata dello sviluppo. Essi permettono in particolare di comprendere la funzione del padre nella costruzione del soggetto. Nel Seminario di Barcellona7, J.-A. Miller ha dato il suo valore princeps a tale testo che serve da filo conduttore nel reperimento delle identificazioni del bambino con l’uno o l’altro dei suoi genitori. Nel primo tempo, c’è l’identificazione del soggetto all’oggetto del desiderio della madre, cioè al fallo immaginario. Il bambino ricava una grande soddisfazione da tale posizione di fallo immaginario della madre. Evidentemente, dovrà disfarsi di questa posizione, ma è necessario che la occupi nei primi tempi della sua esistenza. Il padre in questa fase è presente, sebbene non intervenga obbligatoriamente nel legame esclusivo con la madre che nutre. Il secondo tempo dell’Edipo segna una svolta. È il tempo del padre che priva, che interdice, e in particolare interdice la madre al bambino; è il tempo del padre severo, colui che sottolinea la sua autorità e fa valere il suo posto presso la madre. Questo padre che dice «no» ha avuto un grande successo ed è anche valso a Lacan che lo si riconoscesse come l’inventore del padre che trasmette la legge. Non è tuttavia meno importante che sia la madre a servirsi della parola del padre per dire di «no» al bambino. Ciò nonostante, se il padre è rinchiuso in questo registro dell’autorità e del rifiuto, rischia di apparire come un persecutore. Egli deve anche poter essere il padre che autorizza, che dice «sì». 6 S. Freud, Cinque conferenze sulla psicoanalisi. Quarta conferenza, in Id., Opere, vol. vi, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 164. 7 Cfr. J.-A. Miller, Il nuovo. Fortuna e ordinaria virtù in psicoanalisi secondo Lacan, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2005, pp. 61-65.

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assenza o presenza del padre

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Il terzo tempo, è il padre che ha e che dà, che fa la prova della sua potenza, il padre che promette per dopo. È il tempo che permette al ragazzo di identificarsi con il padre in quanto detentore del pene e, per la bambina, di riconoscere l’uomo come colui che lo possiede.

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Justin e la colpa paterna Per Justin la separazione dei suoi genitori è tabù. Non conosce suo padre e non gli interessa sapere chi è. Lo ha giudicato da molto tempo. Suo padre è colui che ha abbandonato sua madre e questo solo fatto gli appare come una colpa imperdonabile. Mentre è cresciuto come un bambino dotato, senza problemi evidenti, una serie di sintomi insorgono l’anno della maturità. È molto angosciato, si rifiuta di uscire – salvo che per andare al liceo –, non vede nessuno e passa ore davanti al computer o alla finestra. Un giorno Justin arriva in seduta dicendomi: «Non potrà mai indovinare quello che mi è capitato». Mi racconta allora la maniera in cui suo padre gli si è presentato – gli ha inviato la sua seconda moglie come messaggera – e lo shock che ha provato nel conoscerlo. Di fatto, quest’ultimo ha aspettato che Justin avesse diciotto anni per farsi vivo, sapendo che la ex-moglie avrebbe fatto di tutto per impedirglielo. Justin dunque ritrova suo padre e una famiglia unita intorno a lui. In effetti, questi è sposato e ha quattro bambini. In un primo tempo, Justin è toccato da questo padre che fa di tutto per fargli piacere, gli offre regali e sorprese. È un padre felice di aver ritrovato il figlio di cui non può che essere fiero. Justin si lascia amare, pur rimanendo sulla difensiva. Nel giro di un anno, il giudizio su suo padre è senza sfumature: «È un poveraccio» che ha solo un ideale nella vita, avere dei soldi da investire in una bella macchina, simbolo della riuscita e della libertà. Justin sopporta sempre di meno i giri in macchina con lui. Non gli piacciono le sue idee politiche, non sopporta il suo atteggiamento maschilista nei confronti della moglie, gli rimprovera la maniera in cui alleva i figli. In breve, Justin rinnega suo padre. Smetterà di vederlo. Quali effetti ha avuto l’incontro tra padre e figlio? Prima di tutto, Justin ha scoperto di avere un padre che lo amava. Ha trovato sul camino di casa un quadro con un suo ritratto all’età di tre

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ii. il bambino in analisi

anni, l’età che aveva al momento della separazione dei suoi genitori. Sebbene il padre abbia lasciato sua moglie, non ha dimenticato suo figlio. Di conseguenza, ha avuto un’altra versione della storia dei suoi genitori. Anche se non lo ammette, suo padre non è stato il bastardo che gli ha descritto sua madre. È a livello dell’ideale che suo padre non risponde all’aspettative di Justin. Lui non può adottare il modello di suo padre né la sua modalità di godimento. Per Justin, tanto vale non avere padre piuttosto che avere un padre giudicato ridicolo. Il ridicolo del padre è imperdonabile. Lacan parla dell’«ombra di ridicolo»8 che caratterizza la virilità. Ebbene, Justin non può identificarsi con questo padre che dichiara la sua potenza tramite il denaro. Il denaro è un valore che manifesta la brillantezza fallica, il sembiante per eccellenza, e lui non può tollerare una simile dimostrazione di potenza. Preferisce le idee di sua madre che l’ha allevato con il suo magro stipendio, gli ha trasmesso gli ideali della modestia, della semplicità, dell’amore del prossimo. Infine, l’incontro con suo padre gli ha consentito di verificare la cattiva scelta amorosa della madre. Peraltro si occupa di difenderla dagli uomini, di cui diffida a priori. Ha rifiutato una coabitazione con il compagno di sua madre e si è impegnato a stroncare ogni relazione amorosa tra lei e un uomo. Per lui gli uomini sono solo dei bastardi che distruggono le donne. Le sue fantasie lo conducono a immaginare di essere il protettore e il salvatore di una ragazza che potrebbe perdere la sua innocenza cadendo sotto il fascino di un uomo perverso. Vorrebbe essere colui che preserva l’amore da ogni oscenità sessuale. La sua fobia del mondo esterno lo mantiene in un universo in cui i due sessi si oppongono, sono in guerra. Nel caso di Justin, l’incontro con il padre non ha permesso di ottenere una rettifica della sua posizione. L’identificazione con il padre che non ha avuto luogo al momento dell’Edipo è rimasta in sospeso. Justin è sempre l’oggetto della madre e prevede di rimanerci. Di suo padre non ha voluto sapere niente. L’incontro forzato con lui gli ha confermato l’idea che avere un padre non serve a niente. Ebbene, dietro il padre si profila la questione dell’avere il fallo e dell’identificazione con il padre come colui che ce l’ha. A questo riguardo, Justin non ha alcun «titolo in tasca»9, per riprendere l’espressione di Lacan, poiché non c’è stata un’identificazione possibile con il padre che dà, 8 9

J. Lacan, Il Seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio, cit., p. 198. Ivi, pp. 197, 206.

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assenza o presenza del padre

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il padre del terzo tempo dell’Edipo, il padre che ce l’ha, quello che in particolare consente il fatto di avere un pene di cui potrà fare uso più tardi. Nell’incontro con suo padre, fa l’esperienza dell’«uomo che ce l’ha» e ciò gli è propriamente insopportabile. Non può prendere appoggio su di un padre che ha il fallo e ne gode. Justin non può averlo, perché vuole esserlo: lui vuole rimanere il fallo della madre. Justin è il figlio di un padre che non aveva alcun valore per la madre. È rimasto il suo solo amore, il suo bambino.

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Nicolas si vergogna di suo padre Quando lo incontro, Nicolas ha quindici anni. Tutta la famiglia è seguita da un giudice del Tribunale dei minori a causa di una problematica di violenza genitoriale. I genitori non negano di aver maltrattato i loro bambini, e in particolare Nicolas, il figlio maggiore. È nell’adolescenza che questi compie le prime violenze, in principio contro il fratello minore, poi alla scuola media dove la sua istruzione è in continuo peggioramento. In classe non fa un granché, non ha alcun progetto, non immagina alcun avvenire. Un giorno Nicolas perde il controllo e colpisce violentemente una ragazza, i cui genitori sporgono denuncia. Nicolas dice che non ha visto il colpo partire. «Mi ha preso in giro e ha offeso mia madre» è il solo motivo che enuncia. Viene allora messo in un internato e isolato perciò dal suo ambiente abituale. Sopporta male questa decisione, lamentandosi di un’ingiustizia nei suoi riguardi, come se non potesse farsi carico del suo comportamento. Nicolas non ha veramente soggettivato la sua violenza. Fa parte di lui fin da quando era molto piccolo. Anche se i genitori cercano di uscire dalla ripetizione che li ha condotti a picchiare i propri bambini così come lo erano stati anche loro, Nicolas non può dire niente di questo fatto. E a buon diritto: la violenza per lui non ha preso veramente senso. Anche se sa che è proibita, questo messaggio viene cortocircuitato dalla pulsione che lo comanda. Quando si sente minacciato, colpisce. Non può spiegare i suoi atti aggressivi senza fare riferimento a questo sentimento d’inquietudine che lo spinge a difendersi. All’epoca dei nostri colloqui, Nicolas mi parla così di suo padre: «è inesistente. Fugge sempre». Per non essere violento, suo

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ii. il bambino in analisi

padre non si intromette più di tanto in casa; fa il morto. La madre, da parte sua, lotta contro una depressione permanente e passa il tempo sdraiata per sopportare l’esistenza. Nicolas e i suoi fratelli e sorelle sono perciò abbandonati a loro stessi, litigano e si prendono a botte. Per evitare la spirale della violenza, i genitori lasciano che i figli se la sbroglino tra di loro; sembrano avere definitivamente abdicato alla loro funzione genitoriale. Nicolas soffre della passività del padre. La vive come un cedimento, una perdita di vita. Suo padre tiene la testa abbassata, ha sempre paura e, sebbene lo ami molto, Nicolas non sopporta di vederlo scusarsi continuamente. Si vergogna di questo padre umiliato, incapace, perdente. Vorrebbe che le cose cambiassero per mostrare a sua madre e ai suoi fratelli e sorelle che la cattiva sorte non è irreversibile. L’analista sostiene Nicolas nel suo percorso di parola. È una parola che respira poco. È fragile, si cerca, ma quando si articola sembra sensibile e fa appello al dialogo. Con Nicolas la presenza dell’analista si manifesta attraverso una parola che nomina ciò di cui si tratta, che risponde alle domande. Nel corso delle sedute, l’analisi fabbrica un legame che durerà diversi anni. È per lui una maniera per non ripetere una violenza che gli era ordinaria. Insieme, abbiamo creato un tipo di relazione che non hai mai sperimentato, un legame in cui quello che fa non viene giudicato, ma resta enigma e sintomo da comprendere. Come dice lui stesso, «si tratta di trasformarlo in parole». Tale trasformazione non può avere luogo al di fuori di una struttura che permetta che si stabilisca il legame con l’analista. Ogni volta che Nicolas è stato messo di fronte a una rottura con me – per esempio all’epoca del suo allontanamento in un internato in provincia –, Nicolas ha saputo spiegare che non voleva cambiare «psicologa» e convincere i professionisti che l’hanno in carico ad acconsentire alla sua domanda di tornare a parlarmi, nel luogo in cui pratico, luogo conosciuto dai suoi genitori. In effetti questo luogo è il solo in cui hanno potuto essere accolti per depositare la loro storia senza essere giudicati come dei cattivi genitori. È un luogo di parola tenue. Nicolas mi ha fatto sapere che questo legame era importante, che questo luogo conservava la sua funzione di rifugio, garante del suo posto di soggetto, indipendente da coloro che lo «seguono» e lo considerano come un piccolo delinquente, un futuro marginale. Grazie a questo patto simbolico, quello della parola, lui continua a voler uscire dalla

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assenza o presenza del padre

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violenza che lo sommerge quando si sente aggredito dai suoi pari. Sa che i colpi dati rischierebbero di condurlo in prigione e apprende a fare la scelta di spiegarsi la rabbia che è in lui, di riconoscerla e di nominarla per poterla superare, farne un altro uso. Questo sforzo ha un nome: è il lavoro dell’analizzante. Per fare questo, gli è stato necessario incontrare un analista in istituzione, pronto a riflettere con lui sulla violenza che lo imprigiona come soggetto.

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Trauma e trasmissione

La trasmissione riguarda la questione della parola. Essa circola nel desiderio. Lacan in Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi ha indicato il suo valore simbolico: «L’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una menzogna: è il capitolo censurato. Ma la verità può essere ritrovata»1. Questo situa la trasmissione come già scritta, già programmata, diremmo oggi. Di fatto essa si fa spontaneamente dal momento che la parola ne è il vettore. Freud ha scoperto questi effetti dei significanti fin dall’inizio delle sue ricerche. Le tracce mnestiche scrivono l’inconscio. Esse scrivono una storia e costituiscono un marchio singolare per ciascuno, al quale Lacan ha fatto un posto assolutamente illuminante alla fine del suo insegnamento. In particolare ha chiamato lalingua la traccia lasciata dalla materia sonora dei significanti nell’inconscio. Questa lalingua rende conto di ciò che è più singolare del soggetto. Lacan precisa: «io scrivo in una parola sola, per designare ciò che per ciascuno è affar suo, lalingua chiamata, e non a caso, materna»2. Indica così che essa c’è in partenza. Tale concetto rende conto dell’impatto delle parole nella trasmissione. La clinica mostra che quello che non è nominabile, quello che non è preso nel linguaggio, fa ritorno nel reale – per riprendere la formula impiegata da Lacan. Cioè, fuori dal simbolico. Questo comporta un non-senso nel più profondo dell’essere – spesso pregnante in alcuni fenomeni psicotici. Peraltro, quello che i genitori vorrebbero trasmettere non è quello che il bambino sceglie di ricevere. Chi non ha cercato di trasmettere il 1 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti, vol. 1, cit., p. 252. 2 J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora, cit., p. 132.

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ii. il bambino in analisi

gusto della lettura o dello sport al proprio bambino, e constatato che, in ultima analisi, non è verso questa meta che orientava la sua scelta? Si tratta di un desiderio cosciente che organizza spesso le decisioni dei genitori di offrire al loro bambino degli apprendimenti particolari nello sport, la musica, la danza, perché loro stessi lo hanno fatto o proprio al contrario perché non hanno potuto realizzare questo desiderio. I genitori sperano così di ottenere un’identificazione che si innesterebbe a partire dalla loro passione. Non è raro constatare la dismisura delle attività extrascolastiche che alcuni genitori impongono al loro bambino, come se non dovesse mancare di niente. È un’illusione credere che la trasmissione dei saperi passi attraverso pratiche molteplici di apprendimento. Il fenomeno merita di essere sottolineato, poiché spesso conduce il bambino, una volta adolescente, a non volere più niente, come risposta a tale volontà di riempimento attraverso un attivismo intenso: si manifesta allora nel bambino un’anoressia rispetto al desiderio di apprendere, di sapere. E poi c’è quello che la madre e il padre trasmettono senza saperlo, a loro insaputa, e che alla fine è la cosa più sorprendente. È, per esempio, il «tale padre, tale figlio» che getta l’uno e l’altro in una complicità più o meno accettata, in particolare quando si tratta di un tratto negativo. Alcuni genitori hanno delle formule che la dicono lunga per indicare la cattiva scelta identificatoria fatta dal bambino: «Ha preso tutto da suo padre»; o ancora: «Non ha imparato niente a scuola, come sua madre». È là dove l’identificazione con il «cattivo genitore» viene a offuscare il quadro del soggetto, rinviando ciascuno al suo sintomo o alla sua colpa. La trasmissione è un’operazione complessa che passa attraverso l’identificazione con alcuni tratti dei propri genitori – ma anche dei fratelli e sorelle o di altri membri della famiglia, in particolare gli zii. La parola è la sola a essere chiamata in causa in questa faccenda. Per questo se ne può veramente cogliere la portata solo quando si fa un’analisi. Si realizza allora che una semplice osservazione ha avuto degli effetti essenziali nella nostra vita e ha aperto, o al contrario chiuso, delle porte. Questa questione della trasmissione è evidentemente cruciale nel mondo contemporaneo in cui la diversità delle famiglie invita a riflettere su ciò che si trasmette al bambino, a partire dal momento in cui si vive soli con lui o viene allevato da una coppia omosessuale. Niente indica che il bambino non potrà costruire la propria identità

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trauma e trasmissione

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sessuale senza il supporto di genitori di sessi differenti. In effetti, il solo rapporto che instaurerebbe una complementarietà tra il significante «uomo» e il significante «donna» sarebbe il rapporto sessuale tra «padre» e «madre». Ebbene, se c’è un rapporto tra «padre» e «madre», è sessuale? Segnaliamo che le funzioni «uomo» e «donna» non sono integralmente ricoperte da quelle di «padre» e «madre». La coppia dei genitori non può fondare il rapporto sessuale dell’uomo e della donna. Piuttosto, il rapporto alla madre fa ostacolo alla donna, nella stessa maniera in cui il padre all’occorrenza può fare ostacolo all’uomo. Il rapporto tra «padre» e «madre» non è sovrapponibile a quello tra «uomo» e «donna». Per questo la presenza del padre o della madre non è obbligatoria per il bambino, quando gli si risponde sulla maniera in cui è venuto al mondo. L’inscrizione in una posizione sessuata si radica anche nel discorso dell’Altro sociale. La realtà familiare non è un modello identificatorio obbligato per il bambino, a partire dal momento in cui ne comprende le carenze. Può soffrire di essere un bambino senza padre, o un bambino senza madre. Ma questo non gli impedirà di scegliere di essere lui stesso ragazzo o ragazza, a seconda della sua posizione nei riguardi del fallo.

La menzogna di Sophie Incontro la signora F. con Sophie, bambina meticcia dai grandi occhi scuri. «Sophie mi mente», mi dice sua madre; aveva una totale fiducia in sua figlia e la scoperta della sua menzogna l’ha turbata. È sconvolta dall’inquietudine. Di che menzogna si tratta? Sophie non ha detto a sua madre che non aveva preso dei buoni voti a scuola. Li ha nascosti. Per la madre è assolutamente inconcepibile e la colpa scoperta ha compromesso l’edificio di amore e di lealtà che – credeva – le legava entrambe. Decido di ricevere la madre da sola, lasciando la bambina nella sala d’attesa. Il rapporto di questa madre con la verità mi pareva in effetti molto particolare: l’effetto prodotto su di lei da un così piccolo scarto di rettitudine avrebbe potuto presagire un cattivo incontro con la colpa. Ecco quello che mi rivela. Da una parte, l’uomo che le aveva promesso il matrimonio e la vita di famiglia è fuggito dopo la nascita della bam-

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bina; essendo venuta a sapere in seguito che quest’uomo era già sposato e aveva dei bambini, non ha mai più voluto rivederlo. Dall’altra parte, aveva perso suo padre in condizioni sorprendenti: era stato assassinato e l’indagine non ha mai chiarito la verità a proposito di tale evento. Aveva dunque sofferto di due «menzogne» fondamentali nella sua vita. Suo padre aveva forse nascosto una doppia vita. L’uomo nel quale aveva riposto la sua fiducia, al punto di mettere al mondo un bambino insieme a lui, le aveva mentito: non era chi diceva di essere; aveva una doppia vita. Il significante «menzogna» ha dunque una connotazione singolare nella vita di questa donna. È un significante-padrone, vale a dire che agisce a sua insaputa e determina le sue scelte. La menzogna rinvia all’inganno e alla vergogna che lei non cessa di provare dalla nascita di Sophie. Sono dieci anni che vive con il sentimento della colpa, che si è tagliata fuori dalla sua famiglia, che non ha più legami con nessuno. L’abbandono nel quale si è trovata dopo la scoperta della menzogna del suo compagno ha sommerso la sua vita. «Essere abbandonata da un uomo», una cosa simile non poteva capitarle, si diceva. Madame F. non ha mai parlato di suo padre alla figlia. Le propongo dunque di riceverla con lei per parlarne. Al momento del colloquio, con grande stupore di sua madre, la piccola Sophie dice che tutte le volte che incrocia un uomo di colore per la strada, lei si domanda se non sia suo papà. La madre ne è sbalordita. Non aveva immaginato che sua figlia potesse porsi delle domande su suo padre, dal momento che non gliene aveva mai parlato…! Non poteva pensare che il fatto di non dire niente della sua filiazione alla propria bambina fosse una menzogna – fosse anche per omissione, e seppur credesse di farlo in nome del bene della bambina. Nel presente caso c’è una doppia colpa. La colpa nascosta del padre, da una parte, e quella della madre, dall’altra, che ha mentito a sua figlia nascondendole la verità su suo padre. Tutto questo perché la colpa del padre della giovane donna non ha potuto essere lavata. Suo padre è morto e ha portato con sé il suo segreto. La verità tuttavia non è sempre intollerabile – si può finire per ammetterla. Ciò che di solito è intollerabile al contrario, è il non sapere niente. La menzogna del nonno, impossibile da simbolizzare, ha avuto degli effetti sulle scelte amorose della figlia. Sophie ne è la prova inconscia; lei porta la colpa del nonno, la menzogna, via sua

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madre. Lei che nascondeva solo i suoi voti aveva delle ragioni per farlo. Poiché le avevano mentito non poco sulla sua storia. Le erano stati taciuti una serie di fatti. E i fatti che non passano al dire fanno il letto del destino che il soggetto si intreccia3. Sophie non ha colto l’offerta dell’analista di andarle a parlare ogni settimana. Ha rifiutato la parola e ha creduto nella propria colpevolezza. Vi si era identificata. Inaspettatamente, Sophie ha lasciato il posto a sua madre. I colloqui hanno permesso a quest’ultima di prendere atto del peso del silenzio nel suo funzionamento. Ha infine potuto dire quello che aveva determinato l’errore della sua vita e di cui aveva tanta vergogna. Questo lavoro ha permesso a sua figlia di avere finalmente qualche spiegazione sull’esistenza di un padre che avrebbe potuto conoscerla. Quando un bambino nasce, è già preso in una certa costellazione significante. Gli ideali, le costruzioni fantasmatiche, i segreti familiari, gli incontri della vita esercitano il loro peso di significazione e orientano il desiderio di ciascuno. Così, il bambino prende posto in una struttura di linguaggio che gli darà l’essere. S’inscrive nel desiderio dell’Altro, luogo in cui la parola è patto simbolico. Per questo la famiglia non è una forma di gruppo qualsiasi. Riconoscendo ciascun nuovo bambino come proprio, gli conferisce un senso nella filiazione. La madre e il padre lo nominano, e questa trasmissione del nome proprio è correlativa della trasmissione simbolica. Il bambino porta il cognome di uno dei suoi genitori o di entrambi. Ciò lo situa in una serie, una discendenza che indica la sua posizione nel seguito delle generazioni. Potrà così comprendere da dove viene. Ciò lo introduce al tempo e alla successione temporale logica che fonda la differenza tra le generazioni. La psicoanalisi è una pratica che si interessa ai disordini che affettano il soggetto. L’analizzante fa l’esperienza, nella cura, di quello che può dire dei suoi genitori, dei suoi fratelli e sorelle, dei suoi nonni, ecc. L’esperienza analitica rivela l’incidenza della storia familiare sul soggetto e gli offre l’occasione di posizionarsi de novo di fronte a questa storia, di fronte agli eventi che hanno interrotto la sua storia, scombussolato il suo ordine, modificato quello che avrebbe voluto essere o avere… Il destino di ciascuno non si scrive senza una scelta del 3

J. Lacan, Joyce il Sintomo, in Id., Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo, cit., p. 159.

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soggetto. Questa scelta inconscia è ciò che motiva l’analizzante – quali che possano essere i drammi della sua biografia – a cercare di sapere perché egli è ciò che è e, inaspettatamente, a trovarsene alleggerito. Quello che noi sappiamo, come psicoanalisti, è che le sofferenze e i dolori non sono proporzionali all’orrore realmente vissuto. Gli analizzanti fanno spesso l’osservazione di non aver vissuto un dramma atroce che spiegherebbe l’ampiezza dei danni che provano. Ebbene, la sofferenza non si misura. Al contrario è la colpevolezza di essere infelici che fa il nodo del sintomo. Si tratta dunque piuttosto di fare la scelta di uscire dal proprio cattivo passo, di rivedere la costruzione che ha prodotto le piccole e grandi catastrofi della propria vita, che siano reali o immaginarie.

Marcia e la doppia madre Marcia ha quattro anni quando la incontro con sua madre che la alleva da sola fin dalla nascita. Quest’ultima viene in consultazione su consiglio della scuola che trova che la bambina sia troppo riservata; resta sola nel cuore della ricreazione, le braccia lungo il corpo senza fare nulla, oppure si incolla alla maestra – altrettanti comportamenti che evidenziano la sua difficoltà. La madre spiega che ha attraversato alcuni momenti difficili, in particolare alcuni problemi di salute che l’hanno inchiodata in casa per un periodo molto lungo. È sua madre che si è occupata di lei così come della piccola Marcia. Di fatto la signora è molto vicina ai suoi genitori e soprattutto a sua madre che l’aiuta ogni volta che ne ha bisogno. I primi colloqui mostrano che questa madre è stata messa di fronte a difficoltà ripetute con le balie che si sono susseguite con Marcia: nessuna andava bene. La balia aveva un’influenza nefasta, un ruolo negativo nell’evoluzione di sua figlia. La cattiva è sempre l’altra madre, la madre di sostituzione. Questo indica contemporaneamente la rivalità che si instaura tra la madre e la balia, e l’impossibilità per la madre di annodare una relazione di fiducia con le persone che si occupano di sua figlia. Nel corso dei nostri incontri comprenderò che in realtà la signora, a causa dei suoi orari di lavoro, si occupava molto poco di sua figlia durante i primi mesi di vita. Si accontentava, una volta rientrata, di

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metterla a dormire. Proiettava dunque «la cattiva madre» sulla balia. Peraltro – mi dice – Marcia dorme molto, più di 14 ore a notte. Il sonno sembra essere una risposta della bambina all’angoscia materna: dormendo, lascia sua madre in pace. Forse questo non è senza legame con la difficoltà della madre a investire il proprio bambino in quanto vivente, vale a dire assumere che sia un essere che domanda, che vuole, che non vuole, detto altrimenti a prendere il rischio di confrontarsi con la vita, con il desiderio di questo essere. Può in effetti accadere che alcune madri, sebbene amino profondamente il proprio bambino, cerchino di evitare l’incontro con lui perché provano un’angoscia molto grande di fronte a lui. Instaurano allora un rapporto fobico con il bambino. J.-A. Miller lo indica così: «Più il bambino completa la madre e più la angoscia, conformemente alla formula che è la mancanza della mancanza che angoscia. La madre angosciata, è prima di tutto quella che non desidera o poco o male, in quanto donna»4. La clinica consente di osservare che ogni madre può sperimentare dei momenti di angoscia legati alla relazione più o meno fusionale con il proprio bambino, senza che per questo si possa dire che lui completi totalmente la sua mancanza. Per la madre di Marcia però il bambino viene a otturare la sua mancanza. Ed è un punto ancor più vivo dal momento che nessun uomo viene a mediare la sua relazione con la figlia e a restituirla alla sua femminilità. La donna in questo caso è strettamente ricoperta dalla madre: la signora S. si è smarrita, in quanto donna, nella maternità. Marcia è stata curata per una ritenzione sfinterica grave – impediva a se stessa di andare alla toilette a scuola, anche per fare la pipì – legata, secondo il medico di base, a un’educazione precoce da parte della prima balia che l’avrebbe messa troppo presto sul vasino. Alla conclusione dei primi colloqui, siamo davanti a una situazione molto delicata, con una relazione madre-figlia indicibile, opaca. Oggetto apparente di tutte le cure, Marcia sembra non voler rispondere all’aspettativa materna. Si oppone a qualcosa. Nel mio studio, Marcia si mostra molto viva. Gioca a preparare il pranzo e mi include presto nel suo dialogo intorno al fatto di mangiare e di bere. È indaffarata come una vera donna di casa e cerca di testare i miei limiti. È molto provocatoria, dà ordini, ripro4

J.-A. Miller, L’enfant et l’objet, «La Petite Girafe», cit., p. 8.

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ducendo così la relazione che ha con la madre: esige e comanda. È interessante vedere come la bambina situi l’analista nella relazione transferale. In questo caso, l’analista non è il soggetto supposto sapere. Una relazione binaria si instaura tra la bambina e l’analista; lei passa allora dall’«essere la bambina» all’«essere la madre» in maniera istantanea. Quando fa la madre, si aspetta da me – la bambina – che obbedisca immediatamente; se non lo faccio, grida. Tale modalità rende conto di una relazione con l’altro come alter ego che può assolutamente capovolgersi in una lotta devastante. Si tratta di un rapporto di alienazione del soggetto all’altro, senza alcuna mediazione che verrebbe ad addolcire la relazione. La risposta è binaria: o tu, o io! È il regno «dello stadio dello specchio» [che] è la prima struttura del mondo primario del soggetto»5. Questo «transitivismo» è l’indice di un «mondo […] instabile, senza consistenza» e aperto a ogni pericolo. Ecco quello che la signora mi dirà della sua storia amorosa con il padre di Marcia. Conosceva quest’uomo da diversi anni. È rimasta incinta nel momento in cui hanno deciso di separarsi. Il compagno le ha chiesto di abortire, ma lei ha deciso di tenere il bambino. Per lei era impensabile abortire. Non ha mai più rivisto quest’uomo e non sa assolutamente come situare questo padre per sua figlia. Non gliene ha mai parlato. Si appoggia sulla coppia dei propri genitori per dire a Marcia qualcosa della normalità di una relazione tra un uomo e una donna e le dice che suo papà è lontano, che non può occuparsi di lei. La signora mi dice che non ha mai rimpianto il suo atto. La figlia è «la cosa più bella della sua vita». È tutto per lei. Del resto, non cerca di incontrare un altro uomo. Da quella parte, dice, non attende più niente. Prova anche una certa animosità per gli uomini in generale. Nel suo discorso, lei e Marcia fanno uno. Questo amore materno ripara la sua relazione di figlia con la propria madre. In effetti, è solo dopo la nascita della figlia che la signora si è riavvicinata a sua madre, la quale si mostra molto disponibile con Marcia e l’adora. Tale dedizione ripristina la signora S. come figlia ferita, malata, per la madre. Quest’ultima è percepita invece come forte, stabile, sicura delle 5 J.-A. Miller, Effetto di ritorno sulla psicosi ordinaria, «La psicoanalisi», 45, 2009, p. 231.

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proprie opinioni, mentre lei si descrive come più fragile, dubbiosa su tutto, senza certezze e influenzabile. Sembra che la signora S. sia sposata con sua madre. Le ha dato un bambino. Marcia è la bambina della figlia e della coppia genitoriale. Il padre della signora S. in effetti non è del tutto assente dalla faccenda. Anche lui è importante per la figlia, che ama e rispetta. D’altronde per la signora S. la coppia formata dai propri genitori incarna una certa immagine della felicità familiare. Tutto sommato, l’uomo ideale è sua madre ad averlo. Non possono essercene due, ed è sua madre a possederlo. Ma grazie a sua figlia, di cui non ha potuto prendersi cura nei primi mesi di vita poiché era «sofferente e inchiodata a letto», è riuscita a distogliere la propria madre dal suo uomo per occuparsi di lei. Di lei e di sua figlia che fanno Uno. Sarà dunque stato necessario mettere al mondo questo bambino per attirare l’attenzione di sua madre su di lei. Ebbene il sintomo di Marcia, la ritenzione anale, richiama giustamente l’attenzione. Sappiamo che Lacan ha definito quattro oggetti: l’oggetto orale (il seno), l’oggetto anale (l’escremento), l’oggetto voce e l’oggetto sguardo. I primi due si riferiscono alla domanda: l’oggetto orale incarna la domanda all’Altro e l’oggetto anale la domanda dell’Altro. Gli altri due oggetti si riferiscono al desiderio. Al momento dell’acquisizione dell’uso del vasino, la madre domanda al bambino di donare le feci. Domanda al bambino una cessione dell’oggetto; il bambino deve accettare di separarsi da un pezzo del contenuto del proprio corpo. Ma può farlo solo se questa domanda si accompagna a una gratificazione. Altrimenti, rischia di entrare in una problematica in cui dare non è più possibile, poiché significa perdere senza soddisfare l’Altro, cioè in fondo accettare una forma di castrazione vissuta perciò nella modalità della sottomissione alla volontà di un Altro onnipotente. Si può anche pensare che Marcia, nella sua ritenzione anale, sia presa nella problematica della coppia che i suoi genitori formavano alla sua nascita: tenere o no un bambino. Questo caso mostra bene come il bambino appaia come scarto, resto del rapporto sessuale. Possiamo fare l’ipotesi che Marcia conservi in lei l’oggetto anale perché è prigioniera del significante «tenere» che ha presieduto alla sua venuta al mondo. Incarna questo oggetto, lei è questo. Ciò renderebbe conto della maniera in cui, secondo sua madre, non manifesterebbe

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ii. il bambino in analisi

alcuna vergogna nel farsela addosso. Tutto accade come se le sue feci non avessero alcuna realtà, alcun senso né effetto su di lei. Appare indifferente e non esprime alcun affetto particolare a questo proposito. La sua posizione passiva mostra che è fissata sotto tale significantepadrone come equivalente dell’oggetto scarto che lei è stata, nel discorso della madre, per l’Altro paterno. Non sa come fare per tenere o no l’oggetto che ha e che al tempo stesso è. Quando l’oggetto cade, non è separato da lei e dunque lei è questo oggetto. L’educazione sfinterica consiste in effetti nel fare dell’oggetto anale un oggetto che precipita, che cade e assume un valore proprio – quello del regalo, diceva Freud. Per Marcia tale operazione non è simbolizzata, l’oggetto non può equivalere a una forma di regalo, marchio di un dono. Ci sono voluti alcuni mesi di colloqui perché questo sintomo cedesse. Marcia ha finito per uscire dalla relazione immaginaria con la madre. Ha potuto distinguersi da quest’ultima e prendere un posto che non fosse tutto incollato a lei. Si è messa a parlare sempre meglio e la scuola ha constatato che stava cambiando e diventava più autonoma. È riuscita a farsi delle amiche e, malgrado un piccolo ritardo, segue gli insegnamenti. Ciò nonostante, la rappresentazione che ha di sé rimane problematica. Disegna solo dei grandi scarabocchi. Anche se alla domanda della madre si sforza di abbozzare un omino, finisce sempre per annerire tutto, facendo scomparire le forme. Cancella tutto, imbratta tutto quello che ha fatto in maniera molto pulsionale. Il suo disegno finisce sempre per diventare una grande cacca. Sembra che il suo accesso alla simbolizzazione sia impedito. In questa operazione di annullamento, lei è attiva, come se, una volta apparsa come soggetto, qualche istante dopo, si facesse scomparire. Bisognava tenerla? È la questione di cui, inconsciamente, mi parla. Qualcosa di lei non è autorizzato a vivere. È un reale che la designa come oggetto a nel fantasma materno, resto della femminilità perduta della madre e del padre sconosciuto.

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Il transfert e l’atto analitico

Niente psicoanalisi senza transfert. Esso ne è il «perno», dice Lacan. Tuttavia il transfert senza dubbio esiste anche al di fuori della psicoanalisi. L’amore ne è il fondamento, un amore autentico, secondo Freud, che lo considerava come un fenomeno spontaneo legato alla ripetizione. Lacan ne ha fatto una molla fondamentale della parola. La parola è sempre indirizzata e implica l’essere intesa da un altro, anche se non lo si sa. L’entrata nel dispositivo analitico rende la parola così singolare per il fatto di essere indirizzata allo psicoanalista, che quello che credevo di dire non ha più, per me, lo stesso senso. Da quel momento, viene fatto posto a colui che saprà interpretare ciò che dico. Ciò che definisce il transfert nell’esperienza analitica, è il fatto di essere un fenomeno in cui sono inclusi insieme il soggetto e lo psicoanalista. Lacan ha criticato e denunciato la tesi avanzata dai post-freudiani che lo suddividevano in due modalità distinte, il transfert e il controtransfert1 – termine che rinvia ai sentimenti provati dall’analista nei riguardi dei sentimenti inconsci dell’analizzante. Per Lacan il transfert è prima di tutto legato alla situazione analitica in cui l’esigenza di amore si correla al desiderio di sapere. Per Lacan, la prima molla del transfert è la domanda. Ciò che si enuncia in analisi è sempre una domanda, la cui conseguenza è che un Altro sia presente, supposto poterla soddisfare. L’analista è al posto dell’Altro della domanda, colui al quale si rivolge la propria domanda. È il motivo per cui l’analizzante reitera nei suoi riguardi le domande più antiche, ripete ciò per cui è stato frustrato, di cui è stato privato, o ciò di cui ha mancato, cosa che mette l’analista nel posto di supportare tutte le figure dell’Altro della domanda. È da questa funzione dell’analista che si 1

J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino 2008, pp. 198-215.

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ii. il bambino in analisi

è dedotto che occupava per l’analizzante il posto dei genitori. Ebbene si tratta per lui di non lasciarsi identificare con i genitori del suo analizzante. Lacan ha dimostrato come Freud si fosse lasciato prendere nel transfert dell’isterica, mettendosi al posto del padre, di un padre desiderante. La conseguenza ne è stata l’uscita dall’analisi, come nel caso di Dora2 o quello della giovane omosessuale3. Lacan introduce l’idea che il transfert appare come «una fonte di finzione»4. Il soggetto costruisce una forma di finzione della sua vita, che indirizza all’analista. Se Freud avesse sgomberato questa finzione che l’analizzante costruisce per l’analista, al fine di farsi amare, avrebbe evitato la trappola dell’isterica. La domanda dei genitori non è sempre quella del bambino. Capita che i bambini non domandino di venire a parlare delle loro difficoltà, mentre i genitori se lo augurano. È spesso per colpevolezza che rifiutano l’aiuto che viene loro proposto, o perché non vogliono essere l’oggetto causa della domanda. Si sentono colpevoli di dispiacere ai loro genitori. I colloqui preliminari consentono di valutare questa domanda del bambino e di adattare le modalità dell’incontro con l’analista. Questo in effetti non è sempre costruito sul modello classico dell’analista e del bambino-analizzante. Quando si tratta di bambini molto piccoli, la madre e il bambino vengono ricevuti insieme. A volte è necessario ricevere uno dei genitori prima o dopo la seduta del bambino, per esempio per rassicurare l’uno o l’altro, poiché il bambino, quando ha investito la persona dell’analista, può provare il desiderio che anche sua madre ami l’analista, o se ne faccia amare. Teme anche che l’amore per l’analista dispiaccia a sua madre, che ella lo viva come un abbandono, un tradimento. È dunque importante sgonfiare queste paure fantasmatiche e indicare alla madre così come al bambino che si tratta di un lavoro di sostegno del desiderio, di avanzamento nel suo divenire, di un lavoro di parola e non solo di una storia d’amore, anche se questo, in quanto esperienza inaugurale, è il segno che il bambino può autorizzarsi a prendere le distanze dalla madre. L’analista non funziona mai come un genitore, anche se a volte può fare sembiante di esserlo, per mettere poi in campo lo scarto tra 2 Cfr. S. Freud, Frammento di un’analisi d’isteria. Caso clinico di Dora (1901), in Id., Opere, vol. iv, Bollati Boringhieri, Torino 1977, pp. 299-402. 3 Cfr. S. Freud, Sulla psicogenesi di un caso di omosessualità femminile, in Id., Casi clinici, cit., pp. 671-698. 4 J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert, cit., p. 191.

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il transfert e l’atto analitico

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la sua posizione e una posizione genitoriale e indicare al bambino il posto da cui agisce. In principio però deve tenere il posto di adulto estraneo alla famiglia. A volte il bambino fa fatica a concepire che la persona dell’analista non sia appunto della sua famiglia. Vuole invitarlo al suo compleanno o ad altre feste familiari… Come l’isterica freudiana, interroga il posto che occupa per l’analista e vuole esserne amato. Sta all’analista rispondere al bambino in merito alla posizione nei suoi riguardi. Anche se può ricevere i rifiuti alle sue domande come delle frustrazioni, il bambino accoglierà spesso come un sollievo il fatto di essere risituato nella propria storia familiare e considerato come un soggetto che ha un posto particolare nel transfert. Lacan ha introdotto un altro perno del transfert oltre alla domanda, un perno più radicale che ha chiamato «il soggetto supposto sapere»5. Per l’analizzante, l’analista incarna colui che sa, colui che detiene il sapere che lui non ha. Per il fatto stesso di parlare a questo Altro che è l’analista, si fa avanti l’idea che ci sia un senso sconosciuto da scoprire nella parola. Tale formazione del soggetto supposto sapere è «come distaccata dallo psicoanalizzante»6; essa è, aggiunge Lacan, «non d’artificio ma di vena». Questo significa che il soggetto supposto sapere non è reale; s’inscrive nella relazione e opera a partire dal desiderio dell’analista. Se non è interpretato in seduta, l’inconscio non si scrive come sapere, per questo esso dispiega la propria logica solo nella relazione transferale. L’interpretazione è quindi ciò che apre al transfert fin dalle prime sedute. Fa intendere al soggetto che quello che dice ha un senso che non percepiva, o si collega a quello che non aveva colto. Nell’analisi con i bambini, l’interpretazione e l’atto si situano spesso come una costruzione. L’analista interpreta traducendo per il bambino ciò che questi voleva dire o sapere. Perché ci sia analisi, occorre dunque che l’analista abbia permesso l’entrata nel dispositivo di parola e che abbia aperto la via verso la decifrazione del sintomo. L’analizzante cerca una risposta alla sua questione; l’analista gli indica che l’inconscio e le sue manifestazioni, sono la via per trovarla… L’analista orienta l’analizzante in questa scoperta, poiché ha tratto dalla sua cura un sapere sul funzionamento psichico e i suoi meccanismi. 5 J. Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Id., Altri scritti, cit., p. 246. 6 Ivi, p. 247.

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ii. il bambino in analisi

Il caso di Sébastien mostra come il paradosso del transfert possa essere maneggiato nella cura del soggetto per sventare la funzione di un Dio che sa tutto. L’atto dell’analista consiste qui nell’introdurre nello spazio della seduta la possibilità di un Dio che non sia onnisciente.

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Sébastien ha paura di Dio Sébastien ha sei anni. È alla scuola elementare e la maestra si preoccupa per la sua ansia estrema. Ha sempre paura di farsi sgridare e sembra terrorizzato dall’idea di sbagliare negli esercizi. Interrogato, il bambino non dice nulla e la maestra convoca i genitori. Nei primi colloqui, Sébastien parla facilmente della sua vita e del suo ambiente familiare. La madre è molto malata, ha sempre mal di testa e mal di pancia, e anche lui ha spesso mal di pancia. Pensa che sia il buon Dio a fargli questo. Poiché «il buon Dio sa tutto, vede tutto», mi dice. Sébastien è in rapporto con un Altro del sapere onnisciente e piuttosto inquietante. La sua grande ansia è legata a questa figura dell’Altro che ha ogni potere su di lui. Tenta dunque di far fronte a questa inquietudine cercando di essere sempre perfetto. Malgrado i suoi eccellenti risultati scolastici, gli capita di sbagliare e allora è preso dall’angoscia. Dorme male, ha paura della morte. Come potrebbe Sébastien, lui che crede in un Dio che sa già tutto, mettere in campo, nel processo analitico, un soggetto supposto sapere? Nel suo caso, ho deciso di non occupare questo posto nel transfert. Mi sono presa il tempo di ascoltare la sua verità senza smentirla; poi, quando il bambino ha preso posto in una relazione di fiducia, ho introdotto gradualmente alcune questioni intorno a questo sapere di Dio: «Tu credi veramente che Dio possa interessarsi a tutto quello che fai tu?». Non si trattava di impedire di credere, ma di alleggerire il bambino dal peso di tale certezza di un Dio severo e onnipotente. Molto rapidamente, Sébastien si è sentito meglio. Si è sentito alleviato dalla paura. Mi ha potuto confidare i timori che lo abitano e pormi liberamente le proprie questioni sulla vita, la morte, la sessualità, gli interdetti e i molteplici pericoli di farsi male e di morire. Prigioniero delle angosce materne, si è potuto liberare solo prendendo a poco a poco appoggio su un altro sapere, un sapere che prende

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il transfert e l’atto analitico

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in conto le cause e i loro effetti, dando loro un senso piuttosto che lasciando a Dio tutto il potere di decidere. Così, a poco a poco, per il bambino potrà incarnarsi un sapere differente, un sapere che gli parla e si rivolge a lui, un sapere che non è né guardone né potente. Con il suo atto, l’analista ha liberato uno spazio di apertura verso la messa in discussione, senza che il soggetto sia fulminato dalla paura. Egli permette al bambino di entrare in una dialettica con un Altro che gli risponde e non sa tutto. D’altra parte, Sébastien non può contemplare di essere il frutto di una relazione sessuale tra i suoi genitori. La sua esistenza dipende più dall’unione di Dio con la madre che da quella di un padre che sarebbe nella posizione di uomo desiderante per una donna. Secondo la logica di tale problematica, la madre occupa il posto di colei che sa e condivide tutto con Dio, al quale è sottomessa – sua madre e Dio condividono così il segreto della sua creazione. Il padre è amato per la funzione rassicurante di padre che lavora e provvede al benessere familiare. Per Sébastien nessun legame di desiderio sembra circolare tra il padre e la madre, essendo ciascuno isolato nella propria funzione e ben occupato nel proprio compito. Il bambino si fa così l’oggetto della potenza materna – essa stessa accoppiata a quella di Dio – senza che il padre possa intervenire in tale legame patogeno. Che la sessualità sia traumatica, è un fatto di struttura. Di questo, Lacan farà un assioma: non c’è rapporto sessuale. L’approccio alla sessualità dei genitori passa, in generale, come Freud ha mostrato, attraverso alcune teorie sessuali infantili, convocando scenari più o meno sadici. Nondimeno la presa in conto della differenza dei sessi per il bambino è importante. Il simbolo del fallo permette al soggetto di posizionarsi come colui che ce l’ha o no, e di scegliere quello che si chiama il proprio sesso psichico, che vale a dispetto del sesso biologico. Lacan ha chiamato questa operazione «la sessuazione»: il soggetto sceglie sotto quale forma si inscrive la propria sessualità, sia dal lato uomo, sia dal lato donna. Torniamo al transfert. La grande scoperta di Lacan, concernente il transfert e il suo maneggiamento, è il cambiamento radicale che consiste nel passare dal transfert come amore, al transfert come soggetto supposto sapere «perno a partire da cui si articola tutto ciò che riguarda il transfert»7. Si passa così dall’amore al dire. Giacché 7

Ivi, p. 246.

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ii. il bambino in analisi

l’importante in analisi non è amare – cosa che è addirittura un ostacolo principale all’avanzamento della cura – ma dire, far esistere un dire. Per questo l’analista non deve concentrarsi su tutto ciò che l’analizzante può raccontargli, a proposito delle variazioni dell’amore nei suoi riguardi e deve piuttosto indicargli che il lavoro consiste nel parlare di ciò che non va e che fonda il transfert. L’analista lacaniano non dà appiglio alla relazione immaginaria tra lui e il paziente. Sa che il transfert passa attraverso la sua presenza, ma che la parola dell’analizzante si indirizza all’Altro che lui incarna per il soggetto. Questo gli permette di non dare battaglia ai sentimenti dei suoi analizzanti, né ai propri. Ascoltare il lamento ha i suoi limiti; ciò che orienta il lavoro, è che il soggetto possa costruire la propria storia, situando la parte che vi ha preso, che arrivi a mettere insieme gli eventi con le scelte che gli si sono imposte. Cosa può sapere dunque l’analista? Attraverso l’interpretazione, egli cerca la causa: in primo luogo la causa del sintomo, del malessere. Il soggetto supposto sapere incarna anche la causa nascosta, è equivalente a ciò che il soggetto non sapeva e che accadrà, alla fine dell’analisi, come sapere dell’analizzante, nel luogo e nel posto del sapere dell’analista. L’idea principale, della psicoanalisi è che scoprire la causa sarebbe contemporaneamente guarirne. È una nozione che resta evidentemente molto importante, soprattutto nella psicoanalisi con i bambini, dove si tratta essenzialmente di azione terapeutica. Ciò nonostante, Lacan ci avverte che, dato che il soggetto supposto sapere è «determinato nel paziente per qualcuno di nominabile, per una figura a lui accessibile, ne risulterà, per colui che si incaricherà di lui in analisi, una difficoltà speciale che riguarda la messa in azione del transfert»8. La psicoanalisi con i bambini ci confronta con questa difficoltà. In effetti, i bambini mettono i loro genitori nel posto di soggetto supposto sapere. Pensano che i loro genitori detengano un sapere su loro stessi e su tutto ciò che li riguarda. La serie di perché? di cui subissano i genitori verso l’età di tre-quattro anni è la manifestazione di questa credenza illimitata nel sapere dei genitori, che mettono così alla prova. D’altra parte è così che potranno progres8 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 228.

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il transfert e l’atto analitico

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sivamente intravedere che i loro genitori non possono rispondere a tutti i loro interrogativi, che non sono onniscienti. Nel bambino i sintomi di angoscia sono spesso legati ai momenti in cui si strappa il velo dell’infallibilità dell’Altro genitoriale. A partire dal momento in cui vivono l’incapacità dei loro genitori a fermare la tempesta, a impedire la morte del cagnolino o la perdita dell’orsacchiotto, i bambini si confrontano con questo Altro impotente. È importante che attraversino questa prova, che prendano coscienza del fatto che l’Altro genitoriale non può dargli tutto, o che non ha ogni potere sull’universo. Realizzano allora che il potere e il sapere sono due cose diverse. Peraltro, apprendono anche che possono acquisire una certa padronanza su loro stessi e su quello che li circonda, che molte delle loro questioni trovano risposta nei libri. È fondamentale che facciano questa scoperta che leggere è apprendere delle cose. Io ho incontrato un buon numero di bambini che non avevano fatto questa esperienza. Pensavano che leggere fosse raccontare una storia, ma non avevano fatto il collegamento tra leggere e sapere. Per apprendere il bambino deve aver accettato che l’amore non completa tutto, che c’è qualcosa che l’amore non dà, da cui può sgorgare il desiderio, e in particolare il desiderio di sapere che apre al desiderio di apprendere. Ne deriva che il bambino, se non ha compiuto quell’operazione di simbolizzazione che è l’esperienza della castrazione, può leggere senza comprendere affatto.

Lea e il sapere sulla femminilità Lea ha otto anni quando arriva in consultazione per dei risultati scolastici mediocri e una disattenzione che interroga la maestra. Bambina viva e molto femminile, è subito interessata dall’offerta che le viene fatta di venire a parlare dei suoi problemi. I genitori si sono separati quando aveva cinque anni. Il padre si è risposato con una giovane donna che fa fatica a farsi rispettare da Lea e da suo fratello. Le visite al padre sono punteggiate da molte grida e lacrime. Quanto alla madre, è depressa da quando il marito se n’è andato. Ha preso molto peso. Lea cerca di confortarla ascoltandola. È diventata la sua confidente.

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ii. il bambino in analisi

Una svolta ha luogo quando la madre incontra un uomo. Il cambiamento provocato dall’arrivo di un intruso libera in Lea una certa aggressività. Perde il suo posto di preferita. Ciò nonostante, l’uomo scelto dalla madre è giovane e gentile, e lei ne è sedotta. Inoltre vede sua madre uscire dalla depressione e questo ha degli effetti per tutta la famiglia. Perché allora questo insuccesso scolastico? Da dove proviene questa inerzia, questo disinteresse nei riguardi del sapere? Da dove proviene il suo scacco e, in particolare, questa difficoltà a leggere lo scritto, a comprenderlo? Lea sembra presa da qualcosa di più oscuro, in rapporto alla questione della femminilità e del legame amoroso. Cos’è che una donna aspetta da un uomo? Cos’è essere una donna per un uomo? Tali interrogativi mobilizzano in lei la questione del rapporto sessuale che non può scriversi, ma anche il mistero della femminilità. Questo enigma fondamentale della sessualità è troppo messo in scena nella sua vita perché possa investire in un altro sapere. Il suo sintomo indica che un bambino non può leggere ciò che fonda il rapporto tra un uomo e una donna senza esserne affetto nel corpo e nel proprio rapporto con il sapere. Vediamo perché. In una seduta Lea mi racconta che sente la madre «piangere» dietro la parete della sua stanza. Questo l’angoscia molto. Spia così i rumori dei giochi amorosi della coppia formata dalla madre e dal suo compagno. Cosa succede dietro il muro, cosa significano i «pianti» della madre? Freud ha precisato che i bambini che percepiscono i rapporti sessuali dei genitori credono a «una concezione sadica del coito»9. Il bambino immagina che l’uomo violenti la donna. È quello che interpreta anche Lea che si preoccupa molto per sua madre. Di conseguenza, il suo sonno è agitato: cerca di comprendere quello che succede nella camera a fianco. In una seduta disegna una bambina su di una montagna, vestita di un velo bianco, tra due enormi fiori rossi. Ecco il commento che fa del suo disegno: «C’è una strega in cima alla montagna. Lei mette bianco ovunque e scolorisce tutto, i fiori, gli alberi, tutto. Quando si è bianchi, ci si può mimetizzare». Le interpreto allora che vorrebbe essere invisibile per vedere tutto quello che succede nella camera della madre. Ride dicendo di sì. 9 S. Freud, Le teorie sessuali dei bambini, in Id., Opere, vol. v, Bollati Boringhieri, Torino 1985, pp. 447-465.

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il transfert e l’atto analitico

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Lea in effetti sogna di mimetizzarsi per percepire l’enigma del sessuale. Questo la tiene in agguato. Ha gli occhi aperti tutta la notte. Le occorre rimanere sveglia per credere a tutto quello che ascolta. La sua «pulsione invocante, che è – ci indica Lacan – la più vicina all’esperienza dell’inconscio»10, si mette al servizio della questione sulla relazione sessuale tra un uomo e una donna. Cosa intende? Cosa dice, cosa fa sua madre? Lei sposta questo interrogativo mettendo perciò l’accento su quello che le piacerebbe vedere per sapere, al punto di farsi invisibile. Così fa esistere nel disegno la presenza del proprio desiderio inconscio: essere una strega invisibile. Il significante «strega» mostra che, per Lea, l’interdetto sulla sessualità ha una funzione di protezione. La strega è il nome di ciò che incarna la verità interdetta. Lei sa che non dovrebbe… ma immagina che potrebbe almeno sapere. Come avvicina Lea la sua femminilità? Fin dall’inizio dei nostri incontri, sono colpita dal contrasto tra la presentazione della madre e quella della figlia. Ingombrata dall’eccesso di peso, la madre è vestita senza cura e poco femminile. Lea indossa sempre vestiti o pantaloni molto fascianti, molto sexy; si direbbe una preadolescente. La sua femminilità è valorizzata dai lunghi capelli dorati e il corpo di bambina sessualizzato da completi molto aderenti. La bambina è l’oggetto femminile della madre, ha ciò che manca a quest’ultima, la completa nella giuntura più intima della sua femminilità perduta: la grazia dell’impubere. Tale posizione di signorina che sarebbe il più-di-godere materno, ma anche il suo far-valere femminile, dà alla bambina una funzione di seduzione, che investe con soddisfazione. Lea piace. Può perfino sedurre il compagno della madre e trattenerlo a sé. È il suo fantasma – inconscio certo –, ma anche la sua risposta alla domanda materna. Per soddisfarla, le occorre prestarsi a questa femminilizzazione precoce del corpo, le occorre incarnare la femminilità, renderla tangibile. Questa posizione di bambino dal corpo feticizzato non è senza effetti sulla bambina. Lei si lamenta di sintomi somatici a ripetizione, in particolare un mal di pancia che torna regolarmente e non ha causa. Si può dunque pensare che Lea non investa nel sapere scolastico perché è più interessata a quello che succede nel letto di sua madre. 10 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 102.

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ii. il bambino in analisi

Non può comprendere perché sua madre «pianga» e interpreta che l’uomo le fa violenza. Vorrebbe proteggerla e le dedica un amore illimitato. Questo amore per sua madre è una maniera di sublimare la scoperta della supposta violenza dei rapporti sessuali. Tale amore in eccesso si manifesta anche nel transfert. Lea mi dà molteplici prove del suo amore. Disegna, in maniera ripetitiva, alcuni cuori rosa. Ma non si tratta di un amore che si indirizza al sapere. È un amore che manifesta la sua necessità di piacere e di essere amata dall’Altro, come se i segni del suo amore fossero una condizione per sentirsi amata. Questo amore di transfert è anche una maniera di sublimare le pulsioni erotiche messe in gioco da ciò che vive e che l’angoscia, poiché Lea, per esistere, deve essere amante e sedurre. In realtà, l’analisi mette in luce la sua grande fragilità nel garantirsi un amore invariabile, rassicurante. Confrontata alle oscillazioni e alle vicissitudini degli amori dei genitori, ne subisce i danni come se, anche per lei, fosse in gioco la questione del farsi abbandonare e di non essere più amata. Da qui la sua vigilanza estrema per sapere quello che succede nelle relazioni amorose dei genitori. Li tiene d’occhio. Al punto che non può apprendere niente a scuola, come se la sua attenzione fosse interamente assorbita da quello che prova, via sua madre, dell’amore per un uomo. Se ha accesso alla libido materna, ai suoi tormenti, è anche perché si mostra del tutto capace di intenderli. Di fatto, teme che sua madre non sappia tenersi un uomo. È quello di cui mi parla. L’aiuta allora a non mangiare troppo e a fare sport. La bambina si fa carico di una funzione materna per la madre. La rassicura. Ma l’essere a questo posto trucca le questioni. Lea gioca tanto alla piccola donna con l’amante della madre, quanto alla piccola mamma con quest’ultima. Si è persa come bambina, la scuola l’annoia, i suoi compagni pure. Certo sa leggere, contare, scrivere, ma non è nel desiderio di sapere. Lavora sotto la costrizione della maestra, senza potersi interessare a quello che c’è da apprendere. Il sapere scolastico per lei non ha attrattiva. È un sapere che non si inscrive come sublimazione. Dal momento che quello che vuole sapere non è leggibile, le occorre cercarlo senza sosta, spiarlo, scoprirlo, ma è invano. Lea si è messa al servizio della femminilità perduta di sua madre; isterica precoce, la surclassa della sua femminilità nascente e ne gode.

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il transfert e l’atto analitico

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Per Lea l’incontro con il reale della sessualità materna ha fatto trauma e l’ha precipitata in una posizione di piccola donna sexy, altro nome della feticizzazione del corpo del bambino. Per l’analista, ciò che è determinante è il malinteso da cui si tesse la nevrosi. Gli occorre riconoscerlo e sloggiarlo del suo impatto negativo sul bambino. Il malinteso è di struttura. È sempre di partenza. Non si tratta di sopprimerlo o di negarlo. L’analisi, al contrario, permette di coglierne meglio la molla. La psicoanalisi non è un’impresa di riparazione. Non raccomanda il consiglio o il compromesso. Solleva il desiderio, fatto che dà un’altra maniera di vedersi e un altro sguardo sugli altri.

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III. Dei luoghi per dire i legami

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Lo psicoanalista e l’istituzione

I centri di consultazione genitori-bambini (cmp, cmpp, consultazioni ospedaliere o associative, sessad, day-hospital ecc…) sono luoghi di accoglienza e di cura che hanno la funzione di ricevere le lamentele e ascoltare i problemi di ciascuno. La maggior parte delle istituzioni dipende dalla dases (Direzione dell’Azione Sociale, dell’Infanzia e della Salute) e funziona con un prezzo giornaliero determinato dal Fondo primario di assicurazione sanitaria. Su queste istituzioni viene esercitato un doppio controllo, amministrativo e medico. Di solito, le prese in carico si fanno sotto il controllo medico. Esistono dunque alcuni luoghi. È essenziale, poiché il luogo costituisce il posto in cui alloggiare il sintomo familiare nel cuore della città. È in tali luoghi che si viene a parlare dei legami che si fanno e si disfano, dei legami che si rompono, di quelli che non possono sciogliersi e di quelli che non possono istituirsi1. È questione degli effetti dell’amore e dell’odio, della difficoltà che c’è nell’essere genitore e anche nell’essere bambino. Giacché una famiglia è per eccellenza un legame tra persone che si amano, un legame di amore e di storia che si è annodato. A volte l’odio, il risentimento, l’indifferenza sono le manifestazioni della crudeltà familiare, della sua violenza, luogo chiuso delle devastazioni più distruttrici. Lo spazio che accoglie la parola del soggetto non deve dunque essere mortifero, ma vivente e un po’ protettivo. Nelle istituzioni, la posizione dello psicoanalista non è sempre chiaramente definita e la sua autorevolezza cambia da un luogo all’altro. Tutto dipende in effetti dal posto che vi è fatto alla psicoanalisi e dal rapporto che ciascuno intrattiene con essa. 1 J.-A. Miller sviluppa questa problematica in particolare nel corso dell’anno 20002001, L’orientation lacanienne. Le lieu et le lien, insegnamento pronunciato nell’ambito del dipartimento di psicoanalisi dell’Università Paris VIII, inedito.

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iii. dei luoghi per dire i legami

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Una psicoanalisi, non il suo sembiante Molti psicoanalisti ritengono che vi sia una grande differenza tra la pratica in studio e quella che si fa nelle istituzioni. Per alcuni, la pratica in istituzione è forzatamente limitata a essere solo un sembiante, un surrogato della psicoanalisi in studio. Essa perderebbe la sua radicale sovversione se applicata in istituzione, considerata come costrittiva e funzionando con regole che non hanno a che fare con la teoria analitica. Per me, la psicoanalisi è Una. Ma esistono due forme di pratica della psicoanalisi: quella chiamata «psicoanalisi pura»2 che va al di là della psicoanalisi terapeutica e «la psicoanalisi applicata alla terapeutica» che, come indica il nome, ha come obiettivo la cura. La prima si rivolge agli analizzanti che decidono di formarsi alla psicoanalisi per diventare a loro volta analisti. La seconda, la psicoanalisi applicata alla terapeutica, si pratica altrettanto bene sia nelle istituzioni che nello studio dello psicoanalista. A prescindere dal luogo in cui si esercita, la psicoanalisi con i bambini ha come obiettivo di trattare gli imbrogli dell’essere parlante, i vicoli ciechi soggettivi, così come l’enigma del desiderio – che sia impedito, impossibile o insoddisfatto. Tuttavia, la pratica in studio e la pratica nelle istituzioni non hanno le stesse condizioni di esercizio, cosa che crea alcune disgiunzioni. Il tempo e il denaro nelle istituzioni Le esigenze di produttività, di profitto, sono diventate sempre più manifeste e si fanno sempre più insistenti. Per esempio, le osservazioni sulla lunghezza dei trattamenti indicano in particolare che il tempo è prima di tutto denaro: «Bisogna fare degli atti». La cura deve essere redditizia, imperativo che talvolta accresce nei curanti l’angoscia di non potere garantire un miglioramento sintomatico. È anche una maniera d’inscrivere l’atto terapeutico in termini di costi, cosa che non sempre corrisponde alla nostra etica. Così, chi fa più atti sarà valutato meglio di chi ne fa di meno. Tuttavia questa logica 2

J. Lacan, Atto di fondazione, in Id., Altri scritti, cit., p. 230.

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lo psicoanalista e l’istituzione

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è falsa sul piano della responsabilità delle cure, dell’efficacia e della qualità che esse richiedono. Nelle istituzioni le cure vengono dette gratuite. Questa gratuità ha il vantaggio di offrire trattamenti di qualità a chiunque, indipendentemente dalla situazione finanziaria. Non c’è atto gratuito. Ciò nonostante, per contravvenire a questa idea di gratuità (non c’è di fatto atto gratuito, ma un pagamento tramite quel terzo che è la Previdenza sociale), in molti casi gli utenti ricevono la fatturazione degli atti, che si ritiene li responsabilizzi. Il denaro come oggetto non è negato o dimenticato. Fa parte del contratto di cure tra le tre istanze che sono la famiglia, il centro di cure e il Fondo di assicurazione sanitaria. C’è dunque un atto di pagamento, ma che rimane implicito per la maggior parte del tempo. Interferisce poco nelle cure, ma è evidente che entra nel circuito terapeutico. Così, un giorno, un’adolescente mi ha chiesto quale fosse il prezzo pagato dal padre perché lei venisse alla sua seduta settimanale. È emerso che il padre le faceva credere di essere lui a pagare la seduta per lei. «Guarda tutto il denaro che mi costi!», le diceva; lei si vergognava e si sentiva colpevole. Il padre la colpevolizzava e voleva impedirle di venire a parlare a qualcuno. Abusava della propria autorità per farle credere che era lui che saldava le fatture pagate dal Fondo di assicurazione sanitaria, di cui riceveva una copia. Questo può dare da riflettere sul posto del bambino tra il terzo pagante e i genitori. Essi pagano sempre per il bambino che non può provvedere ai propri bisogni; quando sono inadempienti, è la società che prende il loro posto. Il bambino è sottoposto a tale dipendenza finanziaria e le diverse maniere di utilizzare il denaro nella relazione genitoribambini sono spesso sintomatiche: la confluenza del denaro e del suo valore libidico trova qui numerose varianti; sia che serva a comprare l’affetto del bambino o venga a colmare tutte le mancanze con una pletora di oggetti di consumo; sia che serva al contrario a privarlo del piacere o della ricompensa, o ancora che manchi al punto che il bambino lo sperimenta come una perdita di amore o una punizione. Per il bambino, il denaro costituisce un oggetto di cui gradualmente comprende il significato attraverso i genitori. Finché è piccolo, percepisce il denaro come ciò che serve alla soddisfazione dei propri bisogni,

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iii. dei luoghi per dire i legami

e al conseguimento di regali. Coglierà solo più tardi la sorgente che gli procura, l’utilizzo che ne è fatto, come valore d’uso e come modalità di godimento. Non è dunque facile abbordare con lui la questione del pagamento delle sedute. Sono i genitori a essere responsabili per lui, e come per molte altre cose della vita, il pagamento circola per lui. Quando ha acquisito la nozione del valore di scambio del denaro, è importante che sia introdotta la nozione del pagamento e che il soggetto sappia che questo passa attraverso un terzo, altro rispetto ai genitori. In effetti, se l’accordo dei genitori è necessario per la presa in carico del bambino, il pagamento attraverso un terzo esclude l’introduzione di un debito di denaro tra il giovane e i genitori. È evidentemente una delle grandi differenze rispetto alla pratica privata. In studio, il pagamento è richiesto dallo psicoanalista e fa parte dell’esperienza. Lì niente psicoanalisi senza questo scambio che permette contemporaneamente di pagare l’analista per il suo lavoro, ma anche di pagare simbolicamente il prezzo per i propri sintomi e la loro sparizione. A volte all’analisi è rimproverato il suo costo troppo elevato che per alcuni può costituire un ostacolo. Ebbene, è pratica comune modulare le risposte secondo i soggetti e proporre dei prezzi in funzione delle possibilità finanziarie di ciascuno. Non c’è prezzo standard. Quello che importa per il soggetto è il suo impegno nel dispositivo della cura. È questa decisione che cambierà la sua economia soggettiva. Occorre pagare qualcosa perché ci sia una traccia di questa scelta. La perdita che costituisce il dono del pagamento include tale cambiamento soggettivo. Nelle istituzioni il denaro non ha prezzo soggettivo. Tutte le sedute si equivalgono in termini di «tariffe per prestazione». Quando il bambino incontra diversi terapeuti nello stesso giorno, o durante la stessa settimana, dal Fondo di assicurazione sanitaria viene contabilizzato un solo prezzo giornaliero. È importante che le famiglie comprendano che i prezzi di fatturazione della prestazione non sono versati integralmente a ciascun terapeuta, poiché spesso immaginano che sia così. Bisogna dunque spiegare loro la funzione del costo elevato delle sedute in termini di prestazione. È ugualmente indispensabile che i pazienti sappiano che i terapeuti vengono pagati per il lavoro con loro. La gratuità in effetti può costituire un ostacolo all’avanzamento del lavoro. In particolare suscita il fantasma che ci sarebbe del godimento nell’occupare il posto del curante e potrebbe cristallizzare l’idea di volere il bene altrui. È il rischio di deviazione principale degli atti gratuiti.

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lo psicoanalista e l’istituzione

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Fare pagare l’atto di ascoltare esige un’etica: è decidere che le parole, lungi dall’essere senza importanza, sono determinanti nella costruzione di ogni soggetto. È fondamentale averlo provato nella propria analisi. I significanti agiscono a partire dal momento in cui sono presi in un discorso che assume questa responsabilità del dire. Preso nel dispositivo dell’analisi, parlare è un atto che ha degli effetti sugli affetti e sul corpo. Il tempo fa sintomo. L’impossibilità di valutare il lavoro terapeutico in maniera quantificata, ha favorito un’interpretazione erronea del tempo delle sedute: si maneggia il tempo delle sedute come un’entità temporale che dà l’illusione di un tempo di lavoro effettivo. Ebbene, il tempo fisso aliena il terapeuta all’orologio. Questi incarna un Altro onnipotente (e dunque talvolta persecutore) o un Altro del riferimento a un ideale consensuale. In nome di una formattazione, si dimentica che l’atto analitico è prima di tutto l’interpretazione. È tramite questa che la parola di un soggetto è decifrabile. Senza questo, non c’è lavoro analitico. In più, capita che il valore di un’interpretazione sia accentuato da una sospensione della seduta, l’abbiamo già evocato. Questa scansione permette di far risuonare un significante o un enunciato nell’intervallo tra due sedute. La seduta a durata fissa impedisce questa sorpresa, poiché ignora l’effetto retroattivo dell’interpretazione. Questo provoca un’apertura su ciò che, in un primo tempo, era chiuso e può dunque essere raggiunto solo in un secondo tempo. Il primo tempo resta sempre dimenticato. Per ritrovarlo, l’interpretazione agisce come un boomerang. Per questo può prodursi in un qualunque momento della seduta. Le sedute a durata variabile puntano sugli effetti di sorpresa dell’interpretazione, sulla sua libertà di produzione e, dunque, su un inconscio che si afferra nella vivacità del lampo piuttosto che su un inconscio che si dispiega come una bobina.

Pensare l’atto terapeutico Nelle diverse strutture di cura, è sul responsabile dell’istituzione che grava il compito determinante di permettere e di aprire la parola

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iii. dei luoghi per dire i legami

a tutti. Quando, in qualità di clinici, si è confrontati con domande indecise e a volte negative, quando si sostiene il desiderio dell’Altro contro venti e maree, quando si cerca di intendere il rapporto tra un bambino e i suoi genitori, senza scatenare il reale in gioco nella patologia che si presenta, occorre un luogo per discutere intorno a questi detti, per accusarne ricevuta. In ogni lavoro a diversi, ci sono delle poste in gioco di potere. Il potere amministrativo disciplina il personale e il potere medico dà l’orientamento delle cure, per lo meno nelle istituzioni dove la funzione medica detiene una certa egemonia sugli altri curanti. È intorno al medico responsabile del servizio che prende forma il rapporto di ciascuno con la propria funzione. Il suo posto e la maniera in cui assume il suo atto sono centrali in tali strutture, poiché è lui a definire i trattamenti di cui beneficeranno i bambini, non senza avere scambiato opinioni con l’insieme dei suoi colleghi. Il suo senso clinico, il suo rapporto alla terapeutica sono necessari in ciascun trattamento proposto. In generale, la messa in campo della scelta terapeutica si affina nelle riunioni cliniche settimanali che riuniscono tutti gli operatori. L’istituzione è un’esperienza a diversi ed è quello che la rende vivente e interessante. Ciascuno ha una funzione e un posto nella struttura. Nell’Istituzione le modalità di un funzionamento dato hanno degli effetti e delle conseguenze sul posto di ciascuno… D’altra parte, ogni luogo terapeutico ha un posto e una funzione designati nel sociale. C’è una storia delle istituzioni di cura per bambini. Esse si inscrivono come spazi di prevenzione e di cura dei sintomi dei bambini nel sistema di sanità retto dal Ministero della Sanità. In questi luoghi la psicoanalisi è una scelta per pensare l’atto terapeutico con i bambini e gli adolescenti. A partire da lì, si apre tutta una dinamica di cure che possono fare appello a un’ampia gamma di terapie: le prese in carico ortofoniche e psicomotorie favoriscono, per esempio, approcci mirati su sintomi dall’apparenza strumentale e permettono, a volte, un’entrata nel dispositivo della cura più rassicurante per i genitori. Il trattamento analitico esige di solito che una certa sofferenza accompagni i sintomi e che una domanda sia più o meno enunciata dai genitori e dal bambino. È una delle condizioni per cominciare un lavoro analitico. Per i curanti, avere fatto la scelta di occuparsi di bambini non è insignificante. I professionisti hanno ragioni manifeste e ragioni inconsce

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lo psicoanalista e l’istituzione

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per avere scelto questa via. Può trattarsi del volere riparare la propria infanzia, o piuttosto di prolungarla, o ancora di comprendere retroattivamente ciò che è un bambino. Ma al di là di questa posizione, c’è la questione della relazione che si annoda con un bambino in particolare. Ho spesso notato che le persone che si occupano di bambini li idealizzano o talvolta proiettano su di loro un’immagine che ho chiamato «l’immagine del bambino picchiato». Freud ha scoperto la struttura del fantasma che si articola intorno alla frase un bambino è picchiato3 e rivela un desiderio inconscio di essere picchiato dal padre. È questo fantasma assolutamente inconscio che si manifesta nelle identificazioni con il bambino che soffre, sempre vissuto come un essere fragile o dipendente, che non può difendersi. Ed è un fatto che nei luoghi di cura a volte occorre proteggere il bambino da una madre o da un padre patologico, oppure dal suo destino nefasto. Questo rapporto all’oggettobambino sostiene il lavoro e partecipa di un altro fantasma – che viene a ricoprire il primo –, quello di «salvare i bambini». Si tratta di un fantasma che tutti i professionisti della salute, e specialmente quelli che dedicano il loro tempo a prendersi cura dei bambini, devono prendere sul serio. Questo desiderio di salvare, questo fantasma di riparazione, fa schermo e spesso impedisce di riconoscere ciò che è in questione, per ciascuno, in questa scelta di occuparsi di bambini. Le donne vi sono senza dubbio più esposte. Il desiderio di maternità o di educare vela talvolta un rancore primordiale, come quello di non essere stata desiderata o di non avere ottenuto dalla propria madre l’amore che se ne attendeva. Può trattarsi anche dell’idea che un bambino sia, al contrario degli adulti, una persona che dall’Altro, dall’adulto, attenderebbe solo amore e riconoscimento. Ebbene, i bambini non ci tengono particolarmente a essere amati da chiunque! Si aspettano che si parli loro semplicemente e non che ci si rivolga a loro come a degli oggetti, fossero pure unici e preziosi. I bambini saranno sensibili all’attenzione che gli operatori accorderanno a quello che dicono, piuttosto che a quello che sono in quanto bambini. L’analisi personale dei praticanti permette loro di ricevere la sofferenza dei bambini e dei loro genitori senza che siano messi in gioco il loro malessere e le loro proiezioni, le loro interpretazioni, poiché l’analisi alleggerisce dalla zavorra del pathos. 3

S. Freud, Un bambino viene picchiato, in Id., Opere, vol. ix, cit., p. 41.

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iii. dei luoghi per dire i legami

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Una lettura a diversi Nelle istituzioni, il transfert è diversificato su differenti persone che si occupano del bambino e della sua famiglia. Si indirizza così al luogo che è incarnato dai curanti stessi investiti dai genitori e dal bambino che prendono in carico. Si tratta di un transfert plurale che si fissa, si sposta, si annoda e si snoda. Capita che i transfert si sfaldino, o non siano mai autentificati e rimangano in giacenza. Il transfert è spesso decifrato in termini di agganciamento e di fiducia, mentre il transfert è l’amore che si indirizza al sapere. L’abbiamo detto, Freud che l’aveva scoperto, ne è stato sorpreso. Lacan ha chiarito e formalizzato la sua necessità all’avvio di una psicoanalisi. Spesso, nell’esperienza istituzionale, emerge che questo amore originale fa paura. In effetti può essere devastante e c’è un reale pericolo nel maneggiarlo senza sapere ciò che si fa. Nelle prese in carico ortofoniche e psicomotorie, per esempio, si suppone che non venga messo in gioco. Mi sembra tuttavia che il transfert non appartenga solo agli psicoanalisti. È altrettanto importante negli incontri con gli altri curanti: semplicemente, non è il perno della cura. Esso serve il trattamento solo a partire dal momento in cui si dispiega positivamente e sostiene il lavoro intrapreso e proposto al bambino. Se si rivela ostacolo, è considerato come un rifiuto e comporta delle inerzie, perfino l’arresto del trattamento. Quando insorgono animosità e aggressività, sono spesso il risultato di un’assenza di reperimento del posto e della funzione dei differenti curanti. Prese da un certo automatismo di ripetizione, le istituzioni hanno la tendenza a ripetere le stesse consegne, senza riconoscere gli effetti indesiderabili generati da un discorso normativo. Ne fanno uso, poiché questo soddisfa il gruppo fissandogli alcune regole e alcune procedure. Quando il gruppo dei curanti è intralciato, emerge il desiderio di proteggersi, di arrestare il godimento scatenato dell’altro e di mettere a distanza tale intrattabile che resta spesso fuori senso. La funzione dello psicoanalista è di non misconoscere gli effetti del transfert negativo e a volte di sopportare la sua manifestazione, senza cercare di evitarlo, ma considerandolo come un evento che si dovrà lavorare. In studio, c’è spesso una forma di urgenza della domanda nell’appello dei genitori ed è lo psicoanalista che ne accusa ricevuta. Egli

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lo psicoanalista e l’istituzione

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non risponde in termini di progetto, di presa in carico, di schede d’iscrizione, di spiegazioni sul come e il perché. Dice: «Venga». Sa che l’urgenza è feconda alla messa in gioco di un lavoro analitico di cui il transfert sarà il perno. Nelle istituzioni il lavoro di équipe ha senso solo se ciascuno acconsente all’elaborazione a diversi che la clinica del caso esige. Esso impegna il curante nel riconoscimento del proprio lavoro ed espone ciascuno ai limiti del proprio atto: il sentimento di non riuscire a far modificare un sintomo per esempio può essere enunciato in una riunione e aprire a una riflessione. La psicoanalisi permette una lettura a diversi dei casi che fondano la realtà clinica di un servizio. I suoi concetti sostengono il desiderio che anima la relazione terapeutica. Spesso, la preoccupazione che pone una famiglia attraversa tutta l’équipe per diverse settimane e può provocare alcune tensioni all’interno di un gruppo. Una divergenza può anche rivelarsi feconda e dare luogo alla discussione. Quello che è fondamentale, è che i casi dei bambini annodano e rinsaldano i legami tra i differenti operatori. La riunione clinica porta la verità propria a ciascun curante. La rende utile, feconda, articolata alla comprensione del caso. Essa è un luogo di lavoro vivente e costruttivo per ciascuno, quando è interessata alla lingua particolare di ciascun bambino. È lui in effetti il vero autore della riunione. All’occasione, la parola che se ne dice permette di cogliere in cosa è fondatrice di un cambiamento, o piuttosto manifesta al contrario un’inerzia nella sua evoluzione. Tali riunioni permettono anche di sopportare l’intollerabile di questo lavoro che urta talvolta con quella che sembra la parte più folle della natura umana – cioè l’incontro con il rifiuto dell’essere stesso del bambino.

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Niente clinica senza etica

Che si tratti di un lavoro nelle istituzioni o in studio privato, la pratica della psicoanalisi è fondata su alcuni principi fondamentali che è necessario ricordare. Determinismo o responsabilità Oggi molte persone dicono di avere «fatto un’analisi». La psicoanalisi si è ampiamente diffusa: alla radio, in televisione e sui giornali, viene presentata come un mezzo efficace per rispondere agli interrogativi sull’educazione dei bambini, la relazione di coppia, i conflitti familiari, i lutti, le malattie, ecc. Lo psicoanalista è convocato per dare il suo parere sull’attualità psicologica, politica e sociale del paese e del mondo. La pubblicità ha trovato nei significanti della psicoanalisi il mezzo per raggiungere il consumatore con humor, dando agli atti mancati e ai giochi di parole un valore di verità e di sorpresa; l’idea che questi dicano ben di più di quello che vogliono dire non è più da dimostrare. Un significante può avere molteplici sensi. Questo provoca una plasticità nel linguaggio, una forza particolare, un modo di godere del linguaggio. È su questa corda del godimento delle parole che si fabbrica una lingua. Mettendo in evidenza l’importanza del linguaggio e del gioco significante, la psicoanalisi lacaniana ha favorito l’amore della lingua. Essa promuove questa libertà del linguaggio che prende le parole in considerazione e offre loro una vita più sottile, più vicina al desiderio inconscio – e a la volontà di dire1 che esso implica. La lingua ha un carattere privato che tocca al di là delle asserzioni che si proferisco1

Cfr. J.-A. Miller, Il monologo dell’apparola, «La psicoanalisi», 20, 1996, p. 25.

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iii. dei luoghi per dire i legami

no, delle certezze che si enunciano. Questo privato, quando si è in analisi, diventa il più prezioso e il più giusto messaggio di sé, del più intimo del proprio essere. La psicoanalisi ha anche rivelato i paradossi delle scelte del soggetto. Li ha messi in rilievo. Alcuni l’accusano anche di rendere il soggetto irresponsabile dei propri atti. Una certa psicologia si è immischiata per far valere, in nome della psicoanalisi, che le azioni umane potessero spiegarsi attraverso traumatismi o carenze profonde incontrate nella storia familiare. Se questo non è falso, è invece sbagliato pensare che ogni azione colpevole o patogena sia giustificabile a causa di un passato difficile – ciascuno tra di noi risponde diversamente alla propria storia. Prendere in considerazione il determinismo dell’inconscio, l’incidenza della storia familiare, il peso degli eventi vissuti, non per questo giustifica gli atti di violenza gravi o i passaggi all’atto distruttivi. La psicoanalisi non scusa i bambini, come si sente ancora dire da coloro che credono che faccia pesare la colpa sui genitori – i quali del resto sono, anche loro, prigionieri della propria storia. La trasmissione della colpa familiare non dipende da un disordine psicologico. Quando vengono compiuti degli atti gravi, la psicoanalisi ne conclude piuttosto che il soggetto debba ritrovare la causa del proprio disordine e apprendere a fare con ciò che ha vissuto. La mancanza di amore, di sicurezza o di progetti per il futuro segna definitivamente un soggetto, questa è la sentenza spesso rivelata dalla clinica. È più complesso quando gli atti dei genitori risultano incoerenti per il bambino, e perversamente orientati per ottenerne delle soddisfazioni. Quando il bambino serve al godimento dei genitori incontra il fuori senso del predominio – quando equivale al cosiddetto «amore genitoriale», che però così è solo abuso di potere. Un ragazzino non aveva più gusto per niente e non riusciva più negli studi. Era diventato cupo e sua madre era convinta che fosse l’oggetto di sortilegi o di malefici. Dopo diversi mesi di analisi, il bambino confessa all’analista che non può parlargli liberamente dei suoi problemi, poiché la madre esige che le ripeta tutto ciò che dice in seduta. Quando l’analista gli risponde che non è obbligato a dire tutto a sua madre, poiché è libero di tenere i suoi pensieri per sé, il bambino a poco a poco arriva a dare un’idea della sua relazione con la madre.

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niente clinca senza etica

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Secondo costei, il figlio doveva essere allevato con metodi di un altro secolo: in particolare subire punizioni, quali mangiare la minestra fredda a cena nel caso in cui non avesse terminato quella vecchia. L’obbligava anche a verificare la consistenza delle feci; con il pretesto di curare una costipazione tenace, gli infliggeva enteroclismi ripetuti. Lo faceva regolarmente esaminare da ipnotizzatori e doveva ingoiare ogni sorta di pozione. La madre voleva controllarlo completamente, come se tutto quello che entrava o usciva dal corpo del bambino appartenesse a lei piuttosto che a lui. L’evoluzione del bambino si era interrotta, dal momento che crescere non ha alcun senso quando l’Altro vi invade e vi spossessa del vostro corpo. La sua costipazione cronica era la maniera che aveva trovato malgrado tutto per dire che il contenuto del suo corpo doveva restargli intimamente personale. Rifiutava di donarlo. Tratteneva le sue feci. Sfortunatamente per lui, la madre esercitava la sua onnipotenza su di lui e, in nome della medicina, utilizzava dei mezzi costrittivi. Il bambino ha allora rifiutato di imparare a leggere e a scrivere. Non tratteneva il sapere che la madre voleva fargli acquisire. Trattenere e rifiutare di trattenere erano legati, annodati in un legame speciale di alternanza, in un rapporto tra le parole e il corpo. Con questo caso, vediamo che il sintomo è contemporaneamente significante e godimento. Le parole possono inferire sul corpo – che non è, contrariamente a quello che la religione ci dice, un oggetto staccato dal pensiero. L’evento di corpo indica che c’è un effetto delle parole sul corpo. In questo rapporto con il sapere e con il corpo, il bambino era assoggettato a una madre che amava il proprio bambino come un oggetto che si costringe e che si sottomette.

Avventure del transfert Quando si ascolta, si prende un posto. Tale posto è quello dell’Altro. Ed è fondamentale. L’Altro è in effetti colui che riceve il lamento e lo rende decifrabile per il soggetto stesso. A partire dal momento in cui vi confida la sua vita, i suoi sentimenti, le sue speranze, le sue paure o i suoi rimpianti, il soggetto opera un transfert sull’Altro che lo ascolta. Uno psicoanalista lo sa. E si guarderà dall’utilizzare il potere che gli conferisce la sua posizione per indurre le sue proprie condotte

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iii. dei luoghi per dire i legami

o pensieri nel soggetto. La sua analisi lo avrà almeno condotto a non confondere il suo posto e la sua funzione. Sa che a prendersi per l’Altro del sapere, gli effetti di suggestione proliferano. Questo rappresenta un principio fondamentale. L’analista non risponde alla domanda a livello immaginario, poiché sarebbe allora in posizione di padrone della vita del soggetto. Al principio del suo insegnamento, Lacan ha definito l’analista come «il maître della verità»2 e non il padrone del soggetto. Si percepisce bene la differenza tra i due. Farsi padrone della verità è accettare di prendere un posto di servo della parola, quella che si articola in lettere segrete. L’analista è colui che sa decifrare le lettere nascoste, invisibili o perdute, le lettere staccate della storia di un soggetto. Per portare a termine questo compito, deve porsi al di fuori della relazione immaginaria tra il soggetto e i suoi interlocutori abituali. Non risponde mai allo specchio del legame del soggetto al suo alter ego. L’analista opera a partire da una posizione di Altro simbolico. È il garante della parola che gli è confidata. Non si immischia nei rapporti del soggetto con gli altri senza prendere in conto da dove proferisce quello che avrebbe da dirne. E a chi lo dice. Nelle istituzioni, la psicoanalisi con i bambini è sempre minacciata dalla posizione del padrone che potrebbe prendere chi riceve i genitori. Davanti a loro, venuti a esporre le difficoltà incontrate con il proprio bambino, può sembrare quasi «naturale» intervenire in nome dell’Altro che sa; che sa come educare, come comportarsi con i bambini, come uscire da un vicolo cieco. I genitori sollecitano i consigli, ma saranno i primi a denunciarne la falsità, se non funzionano. I colloqui con la famiglia mostrano la difficoltà che c’è nel parlare del proprio bambino, senza avvicinare i problemi in seno alla famiglia e spesso al cuore della coppia. C’è la posizione di un uomo e di una donna in una coppia e c’è la maniera in cui ciascuno è padre e madre. Queste due posizioni non sono prevedibili e non fanno rapporto. Così, una bambina esprimeva vivamente il sentimento di essere stata sempre lì tra i suoi genitori. Diceva di non essersi mai resa conto del fatto che formavano una coppia. Percepiva solo la loro posizione di padre e madre, sempre con lei, desiderando solo lei. Lei era il loro 2 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Id., Scritti, vol. i, cit., p. 307.

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nesso. E alla sua partenza da casa, a diciotto anni, ha provocato la rottura della coppia. Da quando erano diventati genitori, non erano più stati uomo e donna. Avevano dimenticato l’amore per meglio godere di un rapporto a tre, con la bambina che si incollava a loro per dare un senso alle loro esistenze. Così sono rimasti al margine finché lei non ha lasciato la casa. Al momento attuale sono soli, disperati, mentre per lei la vita è del tutto sconvolta. Oppure quell’uomo che è appena diventato padre. Si preoccupa per il posto che il bambino prende nella vita di coppia. Pensa che sua moglie non lo desideri più e trova questo insopportabile. Si sente in colpa per avere dei fantasmi che lo spingono all’inganno. Teme che lui e la sua donna siano preoccupati solo per il bambino. Sente una grande angoscia all’idea di vivere con questa donna esclusivamente per il bambino che hanno avuto insieme. Ma anche quella giovane donna che, da quando è madre, non prova più desiderio sessuale. Ha preso l’abitudine di dormire altrove rispetto al letto coniugale, con il pretesto che il bebè potrebbe svegliare il marito, che si alza presto al mattino. Questi non sembra preoccuparsi della situazione. Stanno bene insieme, si amano. La loro figlia maggiore, di quattro anni, ha ben percepito il vuoto lasciato dalla madre; e regolarmente viene a prendere il posto lasciato libero. E il padre non fa alcun commento. Sembra implicitamente d’accordo. Forse vi acconsente? La madre si sente colpevole… Queste tre posizioni del soggetto dicono tutte l’assenza di rapporto formalizzabile tra gli uomini e le donne. Indicano il malinteso fondamentale tra i sessi. Al contrario, il rapporto tra il padre e la madre esiste e per il bambino è primordiale. Nei colloqui con i genitori, l’analista deve guardarsi anche dall’identificarsi con il bambino contro i genitori. A volte è molto difficile non soccombere a questa tentazione. Sostenere la posizione del bambino contro quella dei genitori è rischiare di esacerbare la colpevolezza dei genitori e di farli fuggire. La fragilità del legame al momento dei primi colloqui comporta la necessità di non precipitarsi a credere troppo in fretta di averlo compreso. È preferibile cominciare con il circoscrivere da dove viene il lamento, ciò che esso significa, quello a cui punta la domanda, ciò che è atteso. Chi soffre d’altronde non è sempre chi parla: il lamento a proposito di un bambino può servire piuttosto a velare alcuni conflitti

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iii. dei luoghi per dire i legami

e ferite. Occorre pertanto reperire il posto e la funzione di ciascuno nella domanda indirizzata all’analista. Al contrario, quando si tratta di maltrattamento o di incesto, la condotta da tenere è tutt’altra. Bisogna smascherare gli atti, nominarli e spiegare i motivi per i quali il concorso della giustizia si rivela necessario, e perfino obbligatorio. In questi casi, la maniera di procedere dell’analista mira a proteggere il bambino. Non è raro che tale questione dell’incesto o del maltrattamento si scopra nel corso di un trattamento. Bisogna allora agire con tatto e concertazione, perché la parola del bambino ignora tutte le conseguenze del proprio dire. Le implicazioni che questa può scatenare devono ogni volta essere misurate con precauzione. Il lavoro in equipe si rivela qui particolarmente utile; permette una certa presa di distanza e una ripartizione dei ruoli nella presa in carico del bambino e della famiglia. Il medico psichiatra potrà ricevere i genitori per parlare loro della sua decisione di fare una segnalazione in merito al bambino, mentre il bambino proseguirà il lavoro con il suo psicoanalista.

Il desiderio dell’analista, una bussola Se chi è in posizione di ascolto cerca di rettificare le identificazioni del soggetto, si tratta allora di una psicoterapia. Lo psicoanalista si situa al di là di questa mira che consiste nell’adattare il soggetto alla norma sociale. Per supportare la questione del godimento, l’analista accetta di decadere dal posto che gli dà l’analizzante. Il desiderio dell’analista consiste nel rinunciare a una posizione di onnipotenza, a non servirsene, a rifiutare d’incarnare colui che ha un potere sull’altro e che potrebbe decidere per lui. Quando si confidano le proprie difficoltà e il proprio sconforto a qualcuno, si tesse con lui un legame particolare, unico. Lo psicoanalista non è lì per giudicare, né per prendere parte o predire. Accoglie ciò che dico, acconsente, accusa ricevuta dei miei detti. «Lo dico male», si ascolta a volte. Ma quello che si dice male è quello che occorreva dire, e il sentimento dell’averlo detto prevale, quando chi ascolta accetta ciò che si dice, nella maniera in cui si dice, più vicina al sintomo che si enuncia. Nei riguardi dell’inconscio, non ci sono mille maniere di dire. Quella buona non è quella che riesce. È piuttosto quello che fa cilecca, inciampa, sfugge; è quello che disturba che si manifesta nel luogo dell’inconscio.

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I bambini dicono la stessa cosa quando fanno un disegno: «Ho sbagliato, non è bello, l’ho fatto male». L’analista non risponde: «Non è grave, devi solo rifarlo». Prende il disegno e domanda: «Cos’è che non va, che non ti piace?». Si interessa al fallimento. Prende il disegno e spiega al bambino che un buon disegno non è quello che lui preferisce, che gli piace altrettanto quando ci sono degli errori, o delle mancanze. Spiega che ci sono delle cose che non si sanno dire bene con le parole, allora le si dice con i disegni. E commenta il disegno con il bambino, cercando di causare il desiderio che vi si è inscritto. Nella psicoanalisi applicata alla terapeutica, la preoccupazione dell’analista è di alleggerire il soggetto dai sintomi di cui soffre. In molti casi gli effetti dell’incontro con la psicoanalisi permettono l’alleviamento del sintomo, poiché la parola può sciogliere e pacificare la colpevolezza del bambino. Talvolta, il semplice fatto di riconoscere il posto che il sintomo prende nella famiglia, libera la causa che ne era stata all’origine. Una volta messa in chiaro la congiuntura di verità nella quale il sintomo era preso, esso non ha più ragione d’essere. Ma altre volte, il sintomo è fissato e non ha la struttura di un conflitto psichico. Non ha senso. Funziona come un fuori-senso. L’approccio evidentemente differisce secondo ciascun soggetto. Prendiamo per esempio il sintomo classico dell’enuresi, di una grande banalità nel bambino. In ciascun caso, ha una funzione particolare che si può mettere in serie: l’enuresi nel ragazzo ha spesso a che vedere con l’angoscia di castrazione; anche nella ragazza è l’angoscia di castrazione ad installare l’incapacità a trattenere l’urina, ma al rovescio – il ragazzo ha paura di essere castrato e la ragazza soffre per esserlo. Ma può anche trattarsi di una maniera per esasperare la madre ogni mattina, o per farsi umiliare dal fratello maggiore – in quest’ultimo caso può esserci un godimento nel farsi maltrattare e deridere, che trova a ripetersi a causa dell’importanza del sintomo. Infine, c’è anche l’enuresi che non disturba il soggetto. Egli la tratta come qualcosa che non lo riguarda, o piuttosto che non riguarda il suo corpo: la nega. L’intervento dell’analista consiste nell’operare a partire da queste ipotesi, mettendole alla prova e affinando quella che conviene al caso. È nello scambio con il bambino che si opera la creazione linguistica

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iii. dei luoghi per dire i legami

che apre all’interpretazione. Quest’ultima si vede tuttavia limitata dal fatto che il bambino non ha ancora costruito un rapporto con la scrittura. L’interpretazione allora può essere enunciata, essere detta con le parole, oppure agita disegnando o giocando con il bambino. Talvolta l’analista mette in gioco il proprio corpo. Non esita a produrre o a provocare una risposta che sorprenda il bambino, permettendogli allora di posizionarsi diversamente rispetto a come si posiziona di fronte a suo padre o a sua madre. Interpretare nei colloqui con i bambini piccoli è, in qualche modo, offrire al soggetto la possibilità di rigiocare la sua carta con un Altro che gli parla, gli risponde. Qualche volta il bambino piccolo non gioca con i significanti, li tratta come solidi. Si tratta allora di metterli in circolazione e di aprire loro l’accesso alla significazione che è stata congelata o perduta. Come quel ragazzino che disegnava sempre degli squali. La sua angoscia di divoramento era intensa. In una seduta mi dice: «Perché si dice che gli squali sono dei mangiatori di uomini?» Non appena gli faccio precisare la sua domanda, mi chiede: «Perché non mangiano le ragazze?» Questo ragazzino viveva una rivalità che lo consumava fin dalla nascita della sorellina. Si interrogava così sulla differenza tra ragazzi e ragazze, altra maniera di interrogare ciò che ne è della castrazione, riattivata per lui dalla vista dell’assenza di pene della sorellina. Il bambino è spesso in mancanza di significazione: le parole sono allora univoche. Le intende senza comprenderle, ma anche senza volerne conoscere il senso, che può apparirgli angosciante. Resta allora pietrificato senza cogliere l’impatto di tali parole. Occorre dunque parlargli molto perché possa parlare a sé stesso. È essenziale. La psicoanalisi dei bambini passa spesso per la domanda dei genitori, o di coloro che ne fanno funzione, come gli educatori. La posta in gioco è la soppressione di un sintomo, o di comportamenti inadeguati. Questo ha una conseguenza cruciale per la direzione della cura. Quando il bambino è aspirato in una relazione di onnipotenza con l’adulto, l’analista dovrà far deconsistere poco a poco questo posto. Accade al contrario che la relazione con il genitore non sia sufficientemente consistente, l’analista potrà allora essere un partner altro, differente, più esigente. L’analisi di bambini richiede una certa messa a disposizione del saper-fare dell’analista. Si tratta in effetti di non rimanere – come

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gli analisti dell’ipa3 hanno tanto raccomandato – nella neutralità di fronte al sintomo. Questa è la morte annunciata della psicoanalisi: essa è il controsenso del desiderio e serve come pretesto al mantenimento di un pregiudizio contro di lei. L’analisi con i bambini richiede di sapere entrare nella relazione immaginaria con il bambino, per diventare un partner simbolico. Per questo l’analista deve orientarsi in funzione della posizione del bambino nella relazione con il suo Altro. Dovrà necessariamente bucare questo Altro simbolico – che si tratti di indebolirlo o al contrario di fortificarlo. Egli isola il controsenso genitoriale, non per una qualsiasi preoccupazione morale o educativa, ma piuttosto perché il genitore «risponde» al sintomo del bambino completandolo o mascherandolo. Per il bambino, il genitore fa parte del proprio sintomo. La psicoanalisi scommette su un cambiamento del soggetto. È una causa inconscia che fa del sintomo una necessità radicale per il parlessere. In generale, egli non sceglie il suo sintomo, ma lo subisce. Deve dare battaglia contro di lui. Questa scelta forzata fa del sintomo un messaggio da decifrare. L’analista non può liberare il soggetto senza ottenere da lui gli elementi della sua storia familiare. Si tratta per ciascuno, come indica Lacan, di istorizzare4 ciò che è successo. Trasmissione, controllo, formazione L’inconscio è un oggetto di amore e di desiderio – è dunque abbastanza logico che contenga in sé delle contraddizioni e divergenze. La storia della psicoanalisi ripete in questo la questione della trasmissione di una verità di cui il padre morto è sempre l’agente. Il pubblico si figura una guerra fratricida tra freudiani e lacaniani, essendo i primi i difensori del padre della psicoanalisi, gli altri i suoi supposti detrattori. Lacan tuttavia ha compiuto quello che chiamava un ritorno a Freud; il suo lavoro di lettura e di elaborazione, così come l’opera costituita dai suoi Scritti e dal suo Seminario hanno prodotto degli effetti che non si riassorbono. L’influenza di Lacan è d’altronde 3 ipa: International Psychoanalytical Association [Associazione Psicoanalitica Internazionale]. 4 Cfr. J. Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI, in Id., Altri scritti, cit., pp. 563-565.

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iii. dei luoghi per dire i legami

perfettamente reperibile anche negli scritti di coloro che lo contestano. Lacan ha riletto il testo freudiano per coglierne il punto vivo e restituire il senso del suo lavoro, là dove i post-freudiani degli anni Cinquanta lo avevano snaturato. Questa rilettura ha permesso a Lacan di proseguire nella stessa via di Freud, quella di sapere come funziona l’inconscio e come fare della sua invenzione una realtà che serva nella cura. Ha reso la pratica analitica più vicina, più affine all’inconscio stesso che rimane, occorre riconoscerlo, un oggetto difficile da circoscrivere e da qualificare. Per i lacaniani, l’inconscio è un partner che bisogna braccare, perché non si presenta all’appuntamento in maniera saggia e docile. Versatile e piuttosto ribelle, richiede che si osi affrontarlo, invita a una certa strategia affinché il soggetto possa coglierne le manifestazioni, fosse anche contro la sua volontà. Allora non è solo un’ipotesi o una credenza: un incontro è stato fatto. Per questo la questione della trasmissione della psicoanalisi resta tanto fondamentale quanto delicata. Come trovare la buona maniera di comunicarla agli altri, quando porta in sé qualcosa che tocca un rifiuto primordiale, un «losco rifiuto»5, diceva Lacan, equivalente a un rifiuto di sapere? Così, oggi i giovani laureati in psicologia pensano spesso di inventare una nuova forma di esercizio professionale formandosi rapidamente ai molteplici metodi che sono loro proposti, andando dalle terapie familiari alla terapia comportamentale, passando per molte altre forme studiate velocemente e dando l’illusione di avere in mano un sapere che si possa applicare sugli altri (i metodi di rilassamento, le terapie di gruppo, di coppia, quelle che prendono appoggio sulla musica, l’arte, la pittura, la Gestalt-terapia, le terapie sistemiche, le tcc, ecc.). La psicoanalisi viene loro frequentemente presentata come desueta o rigida, mettendo in gioco questa cosa intollerabile che è l’inconscio, che non si lascia padroneggiare, domare con un colpo di bacchetta magica. Alcuni preferiscono farne l’economia, pensando che si possa controllare il proprio destino senza comprendere le cause che gli danno il suo rilievo: basterebbe solo la fiducia in sé, questo nuovo Dio del mondo contemporaneo. 5 J. Lacan, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Id., Altri scritti, cit., p. 251.

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Di fatto, non può esserci psicoanalisi diretta da un non-analista. Chi si avvale di questa pratica deve avere almeno un’esperienza solida e probante della psicoanalisi in quanto analizzante. È l’esigenza minima per lanciarsi nella pratica. È una posta etica. Dal momento che lo statuto di psicoanalista non è legato a un corso preformato, è sempre convocato il rapporto di ciascuno con la psicoanalisi. I giovani psicologi, o i giovani psichiatri, che hanno un’esperienza analitica in corso, fanno spesso la loro prima esperienza clinica nel quadro di un’istituzione, giacché la molteplicità dei luoghi in cui la parola può dirsi facilita gli scambi e le riflessioni sul lavoro effettuato. Si sa che Lacan ha enunciato la formula secondo la quale «lo psicoanalista si autorizza solo da sé»6 – «e da qualche altro», precisa un po’ più tardi. Questa frase tanto fraintesa rispondeva alla maniera in cui erano organizzati la formazione e il riconoscimento degli psicoanalisti all’ipa. Lacan voleva indicare che la psicoanalisi non dipende da criteri di valutazione, ma da un desiderio deciso che si ottiene nella propria esperienza analitica. Non si vede bene, d’altronde, come una regolamentazione o un sapere universitario renderebbe la faccenda più sicura. La psicoanalisi richiede certamente un insegnamento teorico e una trasmissione del sapere che la veicolino. Per questo l’organizzazione di convegni, giornate di studio, congressi dove un concetto viene messo allo studio, dove si tentano di elucidare alcune occorrenze cliniche, appare indispensabile alla trasmissione. Mi ricordo di Giornate de l’École de la Cause freudienne che furono incontri indimenticabili su temi che allora mi interessavano particolarmente: Tu peux savoir comme on analyse à l’École de la Cause freudienne, o L’Envers des familles, o più di recente le Giornate sull’autismo, risuonano ancora come momenti di insegnamento cruciali. Ogni volta, degli analisti rendono conto dell’esigenza della loro pratica, la mettono a cielo aperto, la offrono alla discussione e la criticano. Nella misura in cui rende conto della validità dei suoi concetti, la psicoanalisi ne risulta più trasmissibile. Poiché la psicoanalisi è in primo luogo e soprattutto una pratica, chi parla, testimonia, insegna, si assume un rischio, in particolare quello di dire a sua insaputa il proprio rapporto con l’inconscio. In effetti, quando si parla ci si scopre, si inciampa anche 6 Ivi, p. 241; J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXI. Les non-dupes errent, lezione del 9 aprile 1974, inedito.

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iii. dei luoghi per dire i legami

su quello che si dice. È per questo che Lacan diceva che insegnava in posizione di analizzante. Lo psicoanalista nelle istituzioni si autorizza dunque spesso da sé… e dall’istituzione che lo impiega. Resta da sapere come potrà farsi riconoscere dai suoi pari poiché in istituzione non si è mai soli. Gli altri sono lì per criticare, sloggiare, o accreditare il vostro sapere, la vostra azione. I legami di riconoscimento sono molto spesso complessi. Quello che è importante è poter lavorare e sentirsi liberi nella propria concezione della psicoanalisi. La pratica analitica implica l’esperienza del «controllo», che consiste nel parlare a un altro analista di ciò che succede con un analizzante in una cura. Il controllo è uno dei mezzi più operativi per reperire il posto dell’analista nella cura. Un transfert di sapere ne è il vettore essenziale. Si scopre allora che quello che si trasmette non è dell’ordine di una garanzia di sapere, ma piuttosto di un gusto per la verità nel suo rapporto con la parola. Lacan non si è tirato indietro davanti alla difficile questione della trasmissione della psicoanalisi. Il suo concetto di Scuola scommette sul desiderio di sapere dello psicoanalista, cioè sulla sua maniera di rimanere analizzante nei riguardi del sapere supposto. Alla questione «come si diventa psicoanalista?», ha proposto una risposta così originale, così sintonica alla sua etica della psicoanalisi, che questo ha avuto un peso nel mio desiderio di diventarlo.

Logica della clinica Freud prima di tutto ha descritto l’analista come un costruttore. È lui che raccoglie e mette insieme il materiale disordinato e aleatorio che l’analizzante consegna nelle associazioni libere. Nell’estrarre i significanti che sono stati al cuore del dramma del soggetto, ne coglie la logica. Freud si era dunque deciso a trasmettere la psicoanalisi attraverso la clinica del caso per caso. Questo suppone un’etica. I nomi dei soggetti non compaiono mai e i racconti sono scritti in maniera tale che non sia possibile riconoscere un caso. In questo, c’è certo un legame tra l’analista che scrive e l’analizzante. Questo legame è etico. Significa che il lavoro dell’analista è anche una costruzione a partire dal discorso dell’analizzante.

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niente clinca senza etica

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Tale costruzione non è una verità. È una dimostrazione che serve allo studio della psicoanalisi in ciò che ha di più serio, nel senso che Lacan ha dato al serio, quello di inscriversi in una serie. Freud è stato il primo, altri psicoanalisti hanno proseguito. Inscriversi nella serie è assumere la diffusione della psicoanalisi come sapere. I casi di Dora, del piccolo Hans, dell’Uomo dei Lupi, continuano a essere letti7 e studiati. Questa ricerca è fondamentale. Quando gli analisti trasmettono dei casi della loro pratica non servono una letteratura psicologizzante. Si tratta di un lavoro di trasmissione dell’atto analitico. Estrarre la psicoanalisi dal suo enigma o dal suo dogmatismo è anche una maniera nuova di renderla vivente. Per me, la psicoanalisi non è una teoria nebulosa, ma una costruzione utile. Non dirlo sarebbe incoerente. Parlare della propria pratica non è senza rischio, poiché, inclusa nell’esperienza, c’è sempre una parte che attiene al caso, all’imprevedibile. Da una parte, l’analista cerca di ordinare lo svolgimento di una cura e di velare perciò la mancanza fondamentale con la sua costruzione; dall’altra, rende conto di quella parte irriducibile che sfugge al senso, giacché la psicoanalisi non è una psicologia della comprensione, che riduce il soggetto a un senso. La costruzione di un caso si appoggia su di una logica, ma una logica del non-tutto. Questa indica che mancherà sempre qualcosa, che non c’è verità assoluta dell’esperienza. L’azione terapeutica tuttavia non è una finzione. I risultati sono dimostrabili. Il cambiamento del soggetto, la sua migliore dimostrazione. Per lungo tempo ho pensato che la psicoanalisi potesse esercitarsi senza scalpore né fracasso in un’istituzione confidando in essa. Oggi sembra che la psicoanalisi si risvegli un po’ dolorosamente dagli attacchi di cui è oggetto. Ci spetta far intendere che non è una vecchia signora ammantata del suo sapere e delle sue regole sacrosante. La psicoanalisi non è chiusa su sé stessa. Vuole parlare agli altri e attende da loro che le rispondano.

7 Cfr.

S. Freud, Casi clinici, cit.

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Conclusioni

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La trasmissione della psicoanalisi passa attraverso la testimonianza degli analizzanti. Sono loro che aprono una prospettiva sull’esperienza che essa cela. La psicoanalisi è prima di tutto un incontro inedito con qualcuno che vi dà fiducia e prende a suo carico quello che avete messo da parte, sradicato, perduto del vostro essere, o piuttosto quello a cui avete rinunciato. Lo psicoanalista vi permette di ritrovare i lembi della vostra storia e di reperire le menzogne che non hanno mancato di ingannarvi. La storia di ciascuno è sempre parziale, bucata, falsa; conserva il falso e dimentica il vero. Del resto, in analisi la verità è quella che si enuncia, mai un’altra. La psicoanalisi è il rovescio della scena, la primarietà del dettaglio, l’associazione inattesa, una logica irriducibile. Per parlarne, gli scrittori che vi si sono arrischiati hanno dovuto spiegare i meandri della loro sofferenza e accettare di restituire alcuni pezzi intimi della loro vita. Marie Cardinal, François Weyergans e Pascal Quignard hanno testimoniato di quello che la psicoanalisi aveva apportato loro, in cosa li aveva guariti e, ancora di più, resi a loro stessi. Dal momento che la nevrosi è un’alienazione del soggetto, ostacola l’atto, rende melanconico il soggetto, disfa la fiducia in sé, polverizza il desiderio e scrive un «no» su ogni pagina del libro della sua vita. Essa fabbrica l’interdetto e impedisce di amare. Rende l’esistenza indecisa e incerta, spesso statica. Ciò nonostante, è lei che, attraverso quello che chiamiamo sintomo, concorre a soddisfare in noi ciò che abbiamo al tempo stesso di più intimo e di più estraneo. Per il bambino, la questione della testimonianza rimane improbabile. Nondimeno non è raro, oggi, incontrare degli adulti che dicono di aver beneficiato, quando erano bambini, di una psicoterapia. La loro domanda di analisi s’inscrive allora nel ritrovarsi con la parola,

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che permette loro di riprendere ciò che era rimasto in sospeso dopo l’arresto del primo trattamento. Il bambino non è sempre capace di soggettivare la tristezza e la sofferenza. Quando i suoi genitori decidono l’interruzione della sua analisi, di solito non coglie necessariamente le ragioni che ne decretano la sospensione e non ha i mezzi di opporvisi. La solitudine del bambino che soffre, non è riconosciuta; gli avvenimenti della vita infantile sono frequentemente sminuiti, come se non fossero gravi. Gli adulti hanno la tendenza a raccogliere le lamentele del bambino senza veramente interrogarsi sui drammi che nascondono. I bambini ripetono spesso che non possono confidarsi con i loro genitori. Questa solitudine del bambino non appare sempre nella forma della tristezza e della pena. Agisce anche sotto la maschera della marginalizzazione, dell’inganno, dell’aggressività e dell’agitazione. Non utilizza come nell’adulto, perfino nell’adolescente, gli artifici dell’alcool, del prodotto tossico, o altri mezzi, per deviare le tensioni. Solo i suoi sintomi nascondono la sua tristezza. Più spesso, il bambino si lascia andare. Si mette in orbita, sogna, non ascolta, rifiuta quello che gli si offre senza nemmeno accorgersene. Fa il sordo e si protegge così da tutto quello che lo circonda e lo aggredisce. Guarda la televisione per dimenticare chi è e chi dovrà diventare. Il bambino triste non sa quello che potrà fare più tardi, perché più tardi per lui non ha senso. Non sa che è triste e non potrà dirlo se nessuno va verso di lui. Per questo gli adulti hanno un dovere verso i bambini. Quando emerge un malessere, piuttosto che minimizzarne la portata, devono preoccuparsi. L’infanzia è un momento che determina la vita futura di ciascun individuo. Françoise Dolto diceva che tutto veniva giocato prima dei cinque anni. Per la costruzione di un bambino è certo che i primi anni siano cruciali. Ma gli anni che seguono possono essere altrettanto importanti e segnare definitivamente il rapporto del soggetto con il futuro. Si è rimproverato alla psicoanalisi di avere colpevolizzato i genitori, facendo portare loro una responsabilità nella patologia dei loro bambini. Ebbene, la colpa è sempre lì, è di struttura. È addirittura necessaria alla strutturazione della personalità del soggetto. Ogni genitore porta la colpa della nascita del proprio bambino: Perché mi hai fatto? Non ti ho chiesto niente, gli ricorda all’occorrenza. E anche se è un Grazie di avermi fatto che viene a ricoprire la colpa, ciò non toglie che essa rimane e si trasmette.

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Alcuni genitori di bambini psicotici si lamentano di essere stati mal compresi dagli psicoanalisti. A volte hanno preferito fare ricorso ai metodi educativi e a una medicina che centra i suoi argomenti sul determinismo biologico, anche se assestato senza alcuna distanza: «il vostro bambino è schizofrenico, è una malattia la cui causa è interamente genetica». Si crede che la malattia mentale, una volta diagnosticata, possa essere accettata meglio dalla famiglia. Forse la nominazione arresta provvisoriamente l’angoscia di non sapere? Gli psicoanalisti diffidano delle diagnosi perché esse sono suscettibili di fissare il bambino sotto un’etichetta e di rendere la malattia causa dei suoi strani comportamenti, con il rischio di deresponsabilizzare il soggetto. La vittimizzazione attuale è una conseguenza del fatto che l’offerta diagnostica è diventata un dovere. Di fatto, ciò che si guadagna in sapere diagnostico lo si perde in speranza. La vittimizzazione allora, come la guarigione in psicoanalisi, viene in più. Sistematizza il lamento, rende permanente la patologia poiché assegna un diritto di esistere e una ragione d’essere. Oggi è diventata una vera patologia che, lungi dal responsabilizzare i soggetti quanto ai loro sintomi, fabbrica questa nuova passione. È in particolare il caso dei soggetti detti bulimici, come dei tossicomani, degli aggressori sessuali, dei fobici di ogni genere, dei dipendenti, dei delinquenti, ecc. La loro patologia dà loro un posto che rivendicano. Sono i loro sintomi prima di essere dei soggetti. Sono malati, vittime della loro malattia. La colpa non è in loro, ma sempre fuori: viene dall’Altro, dalla società, dalla sfortuna, da un cattivo incontro, perfino dalla biologia o dalla genetica… Questa identificazione attraverso la nominazione di un tratto sintomatico della personalità, permette ad alcuni soggetti di riuscire a stare nella società, di esserne riconosciuti. Questo induce dei fenomeni di appartenenza gruppale e comunitaria e tende a erigere il sintomo al posto dell’ideale. Ciò dà corpo a una comunità che si aggrappa al significante che la identifica con il pathos che la giustifica. Questa carta d’identità talvolta si fa garante di atti delittuosi e, in nome della malattia, deresponsabilizza il soggetto. La psicoanalisi va contro la dittatura ideologica del Non c’entro affatto. Postula, al contrario, che un soggetto è sempre responsabile della propria posizione e del proprio inconscio. Contrariamente a

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quello che si è detto, non fa poggiare la responsabilità sull’Altro genitoriale; si serve dell’implicazione dell’Altro nel sintomo, per liberare il soggetto dalla sua alienazione, ma in nessun caso propone la colpevolizzazione dei genitori. La psicoanalisi dunque bada piuttosto a che il soggetto possa circoscrivere le proprie identificazioni patogene, al fine di alleggerirsene; a che si faccia responsabile del proprio inconscio e si reinventi, utilizzando le risorse della sua nuova libertà. Mi è capitato di incontrare adulti che erano stati picchiati da bambini e che, diventati genitori, ripetevano con i loro bambini l’inferno che avevano conosciuto. Lo negavano. Avevano dimenticato il loro passato di bambini picchiati o preferivano non ricordare i loro terrori. La violenza genitoriale tuttavia non è inscritta nei geni. Si trasmette attraverso la parola o, al contrario, attraverso l’assenza di parola che scrive una modalità di relazione. L’atto senza parola non è fuori linguaggio. Vi si inscrive in caratteri attraverso il significante nascosto e riproduce il godimento che fonda la ripetizione nell’ansa dell’operazione. Il bambino picchiato può diventare un padre che frusta, la bambina picchiata una madre che picchia; colui o colei che ha visto i propri genitori picchiarsi, un uomo violento o una donna picchiata. Si ripete una modalità di relazione madre-bambino, padre-bambino, uomo-donna. A seconda del posto che si ha nella coppia, la relazione si rovescia, passando da una forma passiva a una forma attiva – essere picchiato/picchiare. Il mistero della ripetizione è da cogliere al cuore dell’inconscio. Elaborata da Freud per indicare la prevalenza della violenza e dell’odio nell’uomo, la pulsione di morte è la scoperta più radicale della psicoanalisi. Essa obbliga a guardare l’orrore in faccia. Questo non significa che occorra ammetterlo o comprenderlo. Piuttosto si tratta di tentare di sapere come meglio sbrogliarsi con questo inevitabile, come sublimarlo, o trasformarlo. L’analista non fa sembiante d’ignorare la pulsione che comanda il soggetto e contro la quale deve difendersi. La psicoanalisi ha consentito, in numerosi soggetti, una presa di coscienza. Non è raro che dei genitori – che hanno subito sevizie, sono stati abbandonati o che hanno avuto loro stessi dei genitori violenti – vengano in consultazione per sapere come sfuggire a questa ripetizione diabolica. La psicoanalisi è la sola a poter rispondere senza difendersi. Non dice che non ci siano dei rischi, né che sia sufficiente che il soggetto lo riconosca: ritiene che chi enuncia una tale

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domanda, per cambiare il corso della propria vita e quella dei propri cari, abbia da fare un lavoro, sulla propria storia. Essa sosterrà il suo sforzo per operare veramente un cambiamento nella grammatica pulsionale della sua storia. Il bambino subisce i sintomi dei suoi genitori, a partire dai quali fabbricherà poi i suoi propri sintomi, che saranno la sua maniera singolare di rispondere ai traumatismi che l’hanno segnato. La psicoanalisi li accetta senza giudicarli. Ne accoglie la logica che, come un filo invisibile, buca profondamente le corrispondenze, i parametri della relazione tra il bambino e i genitori. Rimette al suo posto la verità del sintomo familiare e dà al bambino il suo valore di parlessere. Il nuovonato, considerato come innocente e senza conoscenza del mondo, è già preso nelle reti significanti dei suoi cari. Non è nessuno. Non è niente. Ha già una storia che dovrà assumere, a condizione di aprirne le pagine. Evidentemente, non gli si legge la storia, poiché è inconscia, bucata e talvolta più o meno perduta. Però non si tappano le mancanze con la certezza di poter produrre un soggetto nuovo, che incarna un futuro spogliato di tutto quello che era poco chiaro o sbagliato. Sono sempre colpita dal poco sapere che i bambini possono restituire riguardo ai loro genitori. Certo, è importante che il bambino non sia invaso dalla storia di sua madre e di suo padre. Ma molto spesso i bambini non hanno alcuna rappresentazione della vita perché non hanno l’idea di un legame tra l’infanzia dei loro genitori e ciò che loro sono oggi. C’è allora un impossibile che fa buco nel sapere. La trasmissione se ne trova impedita. Il bambino si vive come imprigionato o aggiunto a una discendenza che lo supera. Il tempo gli è inaccessibile. Spesso riemerge un postulato che costituisce una difesa dei genitori: vogliono dimenticare le perturbazioni che hanno vissuto nella loro infanzia, poiché pensano che l’oblio sia la sola maniera per non trasmetterne niente. Ebbene, la psicoanalisi è radicale su questo punto: «ciò che non è nato al simbolico, appare nel reale»1, vale a dire in ciò che non avrà senso e provocherà danni. La parte non detta, rifiutata, risorge sotto forma di sintomo che farà consistere questo non saputo. Ciò che è perduto non è recuperabile. L’analisi non tapperà il buco, ma darà la 1 J. Lacan, Risposta al commento di Jean Hyppolite sulla Verneinug di Freud, in Id., Scritti, vol. i, cit., p. 380.

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maniera di fare con questa mancanza e questa perdita, prendendole in conto. Il bambino in analisi apprende dall’Altro che la sua esistenza non è incerta, che ha un senso e che, di questo senso, può servirsene. La psicoanalisi insegna le conseguenze soggettive dell’assenza della parola dell’Altro. Quando un bambino è confrontato a tale vuoto, questo può provocare la sua distruzione soggettiva. Quando non si sa niente dei propri genitori, c’è il rischio di non esistere come essere della parola, poiché l’assenza della parola dell’Altro equivale a un rigetto che tocca le radici dell’essere. Il messaggio della psicoanalisi è, in questo senso, una necessità. Apre non soltanto sull’idea di un cambiamento, di un dialogo tra genitori e bambini ma, al di là, sui benefici della parola, dell’enunciazione. Con la diffusione della psicoanalisi, l’idea che sia necessario comunicare per progredire è stata banalizzata. A un tratto si spera che parlare risolverà tutto. Tuttavia la comunicazione non è mai totale. Ci sono dei punti che rimangono oscuri, un reale di rifiuto, impossibile da dire. Questo «no» è catturato dalla categoria del reale, è un resto che non si scrive perché non si parla. Questi punti oscuri sono quello che la psicoanalisi tratta nell’intimità del suo dispositivo. Anche il bambino a volte presentifica un «no». L’analisi con i bambini obbliga a incontrare questa sorta di follia; a non tirarsi indietro davanti a questa constatazione e a confrontarsi con essa. Lo psicoanalista fa la scommessa che la vita sia al fondamento dell’essere. All’occorrenza la incarna presso alcuni bambini autistici o psicotici. La psicoanalisi è strutturalmente incaricata di scoprire dei pezzi di verità. E con dei pezzi si può fabbricare tutta una storia. Il comportamentismo, all’opposto, quando si tratta di sollevare un soggetto dalla sua fobia o dai suoi toc (disturbi ossessivi compulsivi), non ha cura della storia di ciascuno, non vede dove questa conduce e suggerisce piuttosto di aggirarla. Considera il sintomo come un errore cognitivo, un abuso o una distorsione dalla norma, per una cattiva interpretazione dell’ambiente; bisogna dunque rimetterlo al suo posto come si rimette a posto una vertebra. Avete paura dell’ascensore? Prendiamo l’ascensore insieme, una volta, due volte, tre volte, e poi potrete prenderlo da soli. Sarete accompagnati con il vostro sintomo nella vita reale. Vi insegneremo a farvi carico della vostra paura, a sopportala, a renderla abbordabile, meno terrificante, infine a superarla. Cosa c’è che non va? Niente di sbagliato, al

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contrario. La paura è umana. Chi non ha un ricordo d’infanzia in cui un parente prossimo ha cercato di sopprimere la sua paura, mostrandogli che era il frutto della sua immaginazione? Ha avuto meno paura per questo? Ma allora perché abbiamo paura degli ascensori? Spazi chiusi, scatole dove siamo rinchiusi il tempo di un piccolo viaggio, l’ascensore è una macchina che funziona da sé. Non ha comandanti a bordo. Vi lascia soli, senza alcun ricorso se mai la macchina si fermasse e voi piombaste nell’oscurità. Abbiamo paura degli ascensori perché abbiamo paura di vivere questa esperienza di non potere fare niente per uscire di là. Lo stesso in un aereo, accade spesso che ci si senta prigionieri e l’angoscia non manca quando il decollo produce questo effetto di rottura con il suolo, la terra ferma. Molto spesso l’uomo non ama sentirsi sottomesso a una macchina che non conosce, non padroneggia. Ma quello che provano i soggetti più sensibili, e che non formulano mai perché si tratta di un meccanismo perfettamente inconscio, è che si sentono allora come bambini. Sono impotenti e non hanno alcuna scelta possibile. Ecco il bambino che fa ritorno. Il bambino è quello che siete stati e nessuna rieducazione vi risolleverà da questo fatto. Vi si può aiutare ad attraversare una folla. È allegro pensare che in questo modo si guarirà. Ebbene, la folla siete voi. È nella vostra testa. È necessariamente correlata a un evento che vi ha angosciato. Vi indica che siete in pericolo. Trattiamo questa questione nella modalità della finzione di un mondo nuovo. Uscire di casa vi è impossibile? Potrete parlarne con il vostro futuro datore di lavoro: vi dirà che potrete lavorare a casa. E per le vostre uscite alimentari, non c’è più nessun problema: vi si potranno fare consegne a domicilio. Presto non ci saranno quasi più folle. Tutti saranno inchiodati al proprio computer. La vita si scriverà sulla rete. I bambini molto presto avranno delle risposte a tutto. I genitori saranno dei genitori iscritti all’albo. Il bambino sarà il piccolo maestro di sé stesso. Quando avrà paura farà alcune sedute di rilassamento e interverrà sul proprio corpo utilizzando programmi escogitati in funzione dell’età e della statura. La scienza cognitiva sarà la sentinella che vi dirà che cosa dovete fare per rimanere al vostro posto, il più normale possibile, cioè completamente sprovvisto di questa piccola idea dell’infanzia che attraversa la vita di ciascuno.

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È per questo che al bambino analizzante ci tengo. Perché è «colpevole», si comporta male, ma ne può parlare. È soggetto del suo sintomo, che non è una prova di malattia, ma un segnale. E la parola il suo principio di verità, il suo segno di umanità. La psicoanalisi non cerca di guarire a qualunque prezzo, né di soddisfare a ogni costo. Essa parte dall’idea che la parola sia un mezzo per soggettivare il proprio rapporto con l’Altro nel mondo. Il dialogo che instaura tra l’analizzante e l’analista è un legame sociale nuovo, inedito, diceva Lacan. Questo significa che c’è una possibilità di essere intesi nella propria parola quando essa arriva a dire ciò che si desidera, ma anche ciò che viene a impedire la realizzazione di questo desiderio. Un’analisi è una storia che termina con la soddisfazione di avere ottenuto una risposta ad alcune delle proprie questioni. Non a tutte. Poiché la psicoanalisi non misconosce il reale, quella dimensione che va ben al di là della voce della ragione di Freud. Il reale di Lacan resiste al senso. Non si dissolve nel discorso. Sbattere contro il reale è sempre una prova ardua. Il reale fa ostacolo, si rifiuta di obbedire e di farsi strumento del soggetto. «Il reale non ha ordine»2. Per questo la psicoanalisi non fa come se questo reale non esistesse. Al contrario, lo prende in conto e ammette che ci sia una parte irriducibile, insuperabile. Non sarà mai possibile comprendere un bambino totalmente. I molteplici consigli che cercano di aiutare i genitori a comprendere il loro bambino non tengono in conto questo fatto: per un genitore, un bambino è fondamentalmente un ostacolo per sé stesso, un limite alle proprie aspettative, una dimensione in movimento che occorre accompagnare perché possa crescere e amare altrove, da un’altra parte; cercare a sua volta le risposte che lo interessano e nominare quella che sarà la sua propria scelta.

2

J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo, cit., p. 134.

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Opere di Sigmund Freud Frammento di un’analisi d’isteria. Caso clinico di Dora [1901], in Casi clinici, Bollati Boringhieri, Torino 2002. Tre saggi sulla teoria sessuale [1905], in “I Grandi Pensatori”, Bollati Boringhieri, Torino 2015. Le teorie sessuali dei bambini [1908], in Id., Opere, vol. v, Bollati Boringhieri, Torino 1985. Il romanzo familiare dei nevrotici [1908],
in Id., Opere, vol. v,
Bollati Boringhieri, Torino 1985. Cinque conferenze sulla psicoanalisi [1909]. Quarta conferenza,
in Id., Opere, vol. vi, Bollati Boringhieri, Torino 2012. La rimozione [1915], in Id., Opere, vol. viii, Bollati Boringhieri, Torino 1992. Un bambino viene picchiato [1919],
in Id., Opere, vol. ix, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Al di là del principio di piacere [1920], in Id., Opere, vol. ix, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Sulla psicogenesi di un caso d’omosessualità femminile [1920], in Id., Casi clinici, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

Opere di Jacques Lacan I complessi familiari nella formazione dell’individuo [1938], in Id., Altri scritti, Edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, pp. 23-84. Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata [1945], in Id., Scritti, vol. i, Einaudi, Torino 2002, pp. 191-207. Il mito individuale del nevrotico [1953], in Id., Il mito individuale del nevrotico e altri scritti, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1986.

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Opere di Jacques-Alain Miller Pas de clinique sans étique, in Actes de l’École de la Cause freudienne, ottobre 1983, 5, pp. 65-70. Il monologo dell’apparola, «La psicoanalisi», 20, 1996, pp. 21-39. Il nuovo. Fortuna e ordinaria virtù in psicoanalisi secondo Lacan, AstrolabioUbaldini, Roma 2005. L’orientation lacanienne. Le lieu e le lien [2000-01], insegnamento pronunciato nell’ambito del dipartimento di psicoanalisi dell’Università Paris VIII, inedito. L’enfant et l’object, «La Petite Girafe», 18, dicembre 2003, pp. 6-11. Effetto di ritorno sulla psicosi ordinaria, «La psicoanalisi», 45, 2009, pp. 225-248. Un reale per il XXI secolo, presentazione del tema del IX congresso dell’AMP, Alpes, Roma 2014, pp. XIX-XXV.

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campi della psiche. lacaniana

Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psicoanalitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie Céline Menghi, Chiara Mangiarotti, Martin Egge, Invenzioni nella psicosi. Unica Zürn, Vaslav Nijinsky, Glenn Gould Noëlle De Smet, In classe come al fronte. Un piccolo, nuovo sentiero nell’impossibile dell’insegnare Yves Depelsenaire, Un’analisi con Dio. L’appuntamento di Lacan con Kierkegaard François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane Luisella Mambrini, Lacan e il femminismo contemporaneo Rosamaria Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psico-analisi Jacques-Alain Miller, Commento al caso clinico dell’Uomo dei lupi Nicolas Floury, Il reale insensato. Introduzione al pensiero di Jacques-Alain Miller Chiara Mangiarotti (a cura di), Il mondo visto attraverso una fessura. A scuola con i bambini autistici Roberto Cavasola, L’isteria, la depressione e Lacan François Ansermet, Ariane Giacobino, Autismo A ciascuno il suo genoma Éric Laurent, La battaglia dell’autismo. Dalla clinica alla politica Fabio Galimberti, Il corpo e l’opera. Volontà di godimento e sublimazione Clotilde Leguil, Sartre con Lacan. Correlazione antinomica, relazione pericolosa Leonarda Razzanelli, Logica della vita quotidiana. Il soggetto tra ripetizione, identificazione e sintomo Hélène Bonnaud, L'inconscio del bambino. Dal sintomo al desiderio del sapere

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