Life skills: il problem solving 8874661886, 9788874661886

Nell'insegnamento delle life skills o 'abilità per la vita' individuate dall'OMS, il ruolo della scu

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Life skills: il problem solving
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SCUOLAFACENDO /TASCABILI 40 Relazione educativa

1a ristampa, gennaio 2008 1a edizione, maggio 2005 ©copyright 2005 by Carocci editore S.p.A.,

Editing e impaginazione Fregi e Majuscole, Torino ISBN 978-88-7466-188-6 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico l lettori che desiderano informazioni sui volumi possono visitare il nostro sito Internet: http://w w w .ca rocci.it

Roma

Giovanna Bada Silvia Landi

Life skills: il problem solving

Ca roe ci Fa ber

Il simbolo • indica i materiali on line. Per accedere ai documenti sul sito www.carocci.it, consultate il testo di guida a fine volume.

Indice Prefazione di Gaetano De Leo Introduzione 9

7

1.

Lite skills e problem solving

12

1.1. 1 . 2. 1.3.

Le l ife skills individuate dalla WH o 14 Effetti delle life skills sulla salute mentale 16 L'impatto delle life skills sulle performance scolastiche 16 17

2.

Le cornici teoriche delle lite skills

2.1.

2.3.

L'importanza d i imparare dall'esperienza: l' autoefficacia percepita 19 Le fonti di autoefficacia tra apprendimento e Insegnamento 20 Gli effetti dell'autoefficacia percepita 26

3.

Educare alle lite skills: il ruolo della scuola

2.2.

.

e delle agenzie di socializzazione

28

3·3·

I fattori di rischio in adolescenza 29 L'apprendimento attivo : metodi e tecniche per insegnare le life skills 32 Il nuovo ruolo del docente facilitatore 39

4.

Tecniche e strategie di problem solving

4. 1 . 4.2. 4·3· 4·4· 4·5·

L'influenza dei pensieri automatici negativi 49 L'influenza del locus of contro! 51 Le fasi del problem solving 58 Il ruolo dell' insegnante nel processo di controllo Il problem solving e le attività di controllo metacogntttve 77

3.1. 3.2.

45

76

5

4.6. 4·7·

Il problem solving e la visualizzazione creativa Altre tecniche e suggerimenti 82

5.

l campi applicativi del problem solving: alcune esperienze pratiche

8o

85

87

5 ·4·

Interventi di prevenzione del bullismo a scuola Il social skills training come strumento per combattere il bullismo 88 La promozione della sicurezza stradale negli adolescenti 90 Educare all'uso responsabile del denaro 9 2

6.

Peer education e life skills nella scuola

6. 1 . 6.2. 6. 3 .

Che cos'è la peer education ? 9 5 I fondamenti teorici della peer education 98 Il ruolo dei peer educator e la costruzione di un progetto di peer education 102 Peer education e scuola: la definizione e la costruzione di progetti 104 Le fasi da seguire per la costruzione di un progetto di peer education 105 La preparazione e la formazione dei peer educator 109

5.1. 5 .2. 5·3·

6.4. 6. 5. 6.6.

95

1.

La valutazione dei progetti di intervento

7.1.

Gli standard di valutazione di un progetto Bibliografia

124

Materiali on line

6

114

115

Prefazione Il recente proliferare di pubblicazioni e di iniziative sulle life skills e sulla peer education riflette l'esigenza di investire la scuola di un ruolo diverso, innovativo rispetto alla tradizio­ nale concezione di luogo deputato alla trasmissione dei sape­ ri. A una crescente complessità della realtà sociale, in conti­ nua evoluzione, sembra non corrispondere un rafforzamen­ to di quelle competenze e capacità a cui poter attingere per affrontare adeguatamente le accresciute richieste, le pressio­ ni e gli stress a cui sono sottoposti i giovani. Ecco allora che l' istituzione scolastica, in quanto agenzia educativa privile­ giata, diventa il luogo elettivo deputato alla formazione e alla socializzazione dei nostri ragazzi, assumendosi la responsabi­ lità di " equipaggiarli " di strumenti che siano all'altezza del­ l' attuale periodo storico-culturale. In questa direzione, le life skills, le cosiddette " abilità per la vita" , rappresentano a pieno titolo quel bagaglio di compe­ tenze diffuse a cui ciascun ragazzo deve poter attingere per essere in grado di rispondere alle incessanti sfide di una socteta sempre ptu estgente. Tra i molteplici obiettivi che la scuola deve porsi, quello di fornire ai ragazzi la capacità di risolvere situazioni problema­ tiche, fornendo loro gli strumenti necessari affinché siano in grado di affrontare in modo costruttivo i problemi che quo­ tidianamente incontrano e che, se lasciati in sospeso, posso­ no provocare stress e tensione. In questo senso, fornire abi­ lità e competenze di problem solving ai ragazzi, significa lavorare anche in senso preventivo, evitando l'instaurarsi, in una fase evolutiva estremamente delicata come quella dell'a­ dolescenza, di strategie comportamentali devianti o rischio­ se che nel tempo possono consolidarsi. Mai come oggi, la scuola è chiamata ad affrontare problemi .

'

. '

.

7

legati all'educazione alla legalità, all'attuazione di comporta­ menti violenti o devianti all'interno delle mura scolastiche, si pensi solo al crescente fenomeno dell' uso di droghe, delle bande giovanili e del bullismo. Ed è proprio in quest'ottica che l'insegnamento in ambito scolastico delle strategie per la soluzione dei problemi (problem solving) , non solo riguar­ danti situazioni conflittuali tra pari, ma anche legate a pro­ blemi interni, personali, permette di agire anche in senso preventivo promuovendo strategie di comportamento proat­ tivo. Aiutare i giovani ad affrontare i problemi in termini cooperativi e non solo in termini di vincente-perdente, aiu­ tarli ad acquisire strategie efficaci per fronteggiare le situa­ zioni problematiche o di pericolo, permettendo loro di acquisire una maggiore autoejfìcacia personale, ma anche regolatoria e collettiva, significa dar loro maggiori competen­ ze, rendendoli protagonisti attivi e responsabili delle loro scelte e del loro percorso di vita. Gaetano De Leo Professore ordinario di Psicologia sociale e giuridica, Università di Bergamo

8

Introduzione La Convenzione per i diritti dell'infanzia del 1989 , all'art. 29 , . recita: L'istruzione dovrà essere diretta allo sviluppo della personalità del bambino, alle sue capacità fisiche e mentali nel loro poten­ ziale più completo [ ...] per una vita responsabile in una società libera, nello spirito della comprensione, pace, tolleranza, ugua­ glianza dei sessi, amicizia.

Ogni insegnante si è ormai reso conto che nel nostro paese sono in atto profondi cambiamenti culturali, dello stile di vita e dell'organizzazione sociale. Anche le statistiche relative all'incidenza di problemi sociali e sanitari correlati al benes­ sere mentale e al comportamento (wHo, 2ooo ) mettono in evidenza una sempre maggiore diffusione di comportamenti dannosi o a rischio anche nelle fasce di età infantile: diffu­ sione di sostanze stupefacenti, dell'HIV/ AID S , aumento della percentuale di suicidi negli adolescenti, dell'incidenza di disordini psichici infantili e di problemi psicologici, diffusio­ ne della violenza e della microcriminalità nelle scuole, dello sfruttamento e abuso di minori. Di fronte a questi muta­ menti, molti giovani dimostrano di non possedere le capacità adeguate per affrontare correttamente le accresciute richieste, gli stress e le pressioni a cui sono sottoposti. A questo disagio si aggiunge l'inadeguatezza dei meccanismi tradizionali, che sembrano non essere in grado di tramandare in modo ade­ guato quelle competenze psicosociali (life skills) , che sono invece fondamentali per affrontare le difficoltà con successo. In questo panorama, la scuola diventa sempre più spesso sostitutiva o alternativa alla famiglia e alle classiche agenzie di

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socializzazione, divenendo il luogo dove per i ragazzi è possi­ bile sperimentare esperienze positive (socializzare, instaurare rapporti positivi con adulti e coetanei, sperimentare il suc­ cesso, la popolarità, il benessere) , ma anche vivere situazioni frustranti (emarginazione, scoraggiamento, disagio) . Come vedremo, la scuola è quindi chiamata a operare anche in ambiti non strettamente correlati all'apprendimento, ma che riguardano l'emergenza e la prevenzione, l'ascolto dei bisogni individuali dei ragazzi, il loro sostegno psicologico. Come ripeteremo molte volte, è sempre più necessario che, accanto ai processi di insegnamento e apprendimento delle abilità scolastiche tradizionali, trovi spazio anche l'insegnamento delle competenze psicosociali identificate dalla WHO (life skills) , con interventi che non siano diretti esclusivamente a bambini e ad adolescenti che presentano problemi e disagi o che sono stati già identificati come a rischio, ma rivolti a tutti i ragazzi, in modo da fornir loro degli strumenti adeguati per far fronte anche a bisogni futuri. In questo processo di insegnamento e apprendimento, un ruolo di fondamentale importanza è ricoperto dagli inse­ gnanti, i quali devono essere forniti di adeguati strumenti e conoscenze, per poter motivare e promuovere l'apprendi­ mento di competenze psicosociali negli alunni. È in tale ottica che questo libro affronta il tema delle life skills in generale e del problem solving in particolare, cer­ cando di fornire al lettore non solo informazioni che accre­ scano il suo " sapere " , ma anche strumenti che gli permet­ tano di " saper fare " . N el capitolo 1 affronteremo alcune tematiche generali ri­ guardanti le life skills, per poi passare a descrivere, nel capi­ tolo 2, le cornici teoriche alla base dell'apprendimento atti­ vo e cooperativo. Nel capitolo 3 approfondiremo il ruolo

lO

della scuola e degli insegnanti nel processo di insegnamento delle life skills , per poi descrivere, nel capitolo 4, i principa­ li fattori che influenzano i processi di soluzione dei proble­ mi e alcune tra le possibili strategie di problem solving che possono essere insegnate a bambini e adolescenti, proponen­ do alcuni esempi di esercitazioni che gli insegnanti possono facilmente utilizzare o riadattare alle proprie esigenze. Il capitolo 5 è dedicato alla descrizione di alcuni progetti di prevenzione attuati in scuole di diverso ordine e grado e nelle quali sono state utilizzate alcune tecniche di problem solving, in modo da dare al lettore un'idea della complessità e delle potenzialità degli strumenti descritti nel presente lavoro. Nel capitolo 6 viene approfondita la metodologia della peer education, soffermandosi sulle modalità e gli stru­ menti necessari per costruire progetti di intervento efficaci nei contesti scolastici. Infine, l' ultimo capitolo è dedicato alle procedure di valutazione degli interventi, con l'obiettivo di fornire al lettore dei suggerimenti per poter valutare even­ tuali progetti attuati da terzi presso gli istituti scolastici di appartenenza, o per valutare il successo/insuccesso di quelli pensati e attuati in modo autonomo.

11

1.

Life skills e problem

solving Il problem solving è stato definito dalla WHO come la capa­ cità di risolvere i problemi, come l' insieme di competenze che permette di affrontare in modo costruttivo i diversi pro­ blemi che quotidianamente le persone incontrano e che, se lasciati irrisolti, possono essere fonte di stress mentale e ten­ sioni fisiche. N ella vita di tutti i giorni, gli adulti come i bambini devono affrontare situazioni di scelta e di conflitto nelle quali mettono in atto delle strategie per risolvere i pro­ blemi e raggiungere l'obiettivo prefissato. Se da una parte è vero che tutte le persone, nel corso del tempo e in modo autonomo, attraverso le esperienze passate e l'osservazione di modelli di apprendimento, hanno sviluppato delle strategie per la soluzione dei problemi, è vero anche che queste pos­ sono rivelarsi non efficaci, del tutto o in parte, in quanto non considerano tutti gli elementi della situazione o si basa­ no su informazioni errate o parziali. In particolare, durante l'infanzia e l'adolescenza non si è ancora in grado di fronteggiare efficacemente le situazioni problematiche provenienti dal mondo esterno o da quello interno, in quanto non sono state acquisite tutte le compe­ tenze (ad esempio non è stato ancora acquisito il pensiero ipotetico deduttivo di primo e secondo livello) e le capacità di coping necessarie (Fuligni, Romito, 2002; Petter, 1973 , 2002) . Accade quindi che, in situazioni decisionali proble­ matiche o di conflitto, la risposta sia spesso influenzata da meccanismi di difesa come la fuga e l' evitamento (arrabbiar­ si o scappare davanti al problema) , da pensieri automatici,

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da pensieri negativi («T an t o lo so che andrà tutto male ! » ) ecc. In quest'ottica, chi riesce a far fronte a una situazione problematica pianificando una strategia si dimostra più adeguato nell'adattamento rispetto a chi invece utilizza i meccanismi di difesa citati. Naturalmente, le strategie di problem solving cambiano e diventano più complesse con l'aumentare dell'età e con la conseguente acquisizione di nuove capacità cognitive, ma anche con il complessificarsi dei bisogni. Di conseguenza, permettere ai bambini e agli adolescenti di acquisire nuove competenze nella soluzione di problemi all'interno di situazioni controllate e verificabili, come può avvenire in classe, diventa una grande opportunità di cre­ scita, una nuova sfida per gli insegnanti e per il mondo della scuola che, oggi più di ieri, è il luogo privilegiato per la trasmissione di competenze psicologiche e sociali. Le strategie di problem solving di cui parleremo in questo libro, sono strategie trasversali che vanno possibilmente insegnate inserendole all'interno di programmi che preve­ dano l'approfondimento anche delle altre skills individua­ te dalla WHO ( 1 9 9 3 ) e che sono state definite come quel­ l' insieme di abilità e competenze che è necessario apprendere per mettersi in relazione con gli altri e per affrontare i problemi, le pressioni e gli stress della vita quotidiana. La mancanza di queste skills socio­ emotive può causare, in particolare nei giovani, l'instaurarsi di comportamenti negativi e a rischio in risposta agli stress: tentativi di suicidio, tossicodipendenza, alcolismo ecc. Per insegnare ai gio­ vani le

skills for /ife è

necessario introdurre specifici programmi

nelle scuole o in altri luoghi deputati all'apprendimento.

(l

T40.1 S u l sito è d is po n i bi l e u n a p p rofo n d i m e nto d e l l e teo rie d i Mas l ow s u l l 'e­ vo l u zi o n e d e i biso g n i.

13

A \111 T4Q..i

1.1.

Le l ife s ki l l s i n d ivid u ate d a l l a

WHO

Le skills sono innumerevoli e variano a seconda del contesto socioculturale considerato, ma le skills fondamentali indivi­ duate dalla WHO , quelle che dovrebbero essere sempre pre­ senti nei programmi di intervento e prevenzione rivolti a bambini e adolescenti, sono le seguenti: • il decision making (prendere decisioni in modo consapevole) ; • la creatività (trovare nuove soluzioni e idee originali) ; • il senso critico (analizzare e valutare le situazioni) ; • la comunicazione efficace (linguaggio verbale e non ver­ bale efficace) ; • le skills per le relazioni interpersonali (mettersi in relazione in modo positivo con gli altri) ; • l'empatia (comprendere gli altri) ; • l'autocoscienza (conoscere se stessi) ; • la gestione dello stress (riconoscere e saper controllare le fonti di stress) ; • la gestione delle emozioni (riconoscere e saper regolare le emozioni) . Le diverse skills non vanno considerate separatamente l'una dall'altra dal momento che costituiscono abilità e competen­ ze strettamente correlate tra loro: ad esempio, la capacità di risolvere i problemi e la pianificazione di eventuali strategie di soluzione dipendono anche dalla capacità che la persona possiede di decidere, di formulare un giudizio in merito all'attuazione o meno di un'azione (decisio n making) . Infatti, i processi decisionali possono riguardare obiettivi immediati (compro un prodotto piuttosto che un altro) , ma anche obiettivi che sono lontani nel tempo e che sono di solito indi­ retti, in quanto presuppongono delle attività preparatorie predisposte secondo un ordine gerarchico o temporale (ad

14

esempio scegliere una certa facoltà universitaria per poi poter svolgere una certa professione) ; o, ancora, riguardare decisio­ ni problematiche di tipo conflittuale, nelle quali si devono valutare più alternative o risolvere aspetti problematici non solo di tipo pratico, ma anche relazionale (Petter, 2002 ) . E inoltre importante possedere una buona capacità critica che consenta di esaminare le situazioni e le informazioni libera­ mente, senza condizionamenti interni ed esterni (pensiero critico) e buone dosi di creatività, in quanto un soggetto crea­ tivo, partendo da dati noti, attraverso un processo di indu­ zione e deduzione, adattando e assimilando quanto ha a disposizione, riesce a produrre soluzioni nuove, innovative. La figura 1 mostra un modello ipotetico di come l'educazione alle life skills insegni agli individui a comportarsi in modo effi­ cace, attraverso la promozione del benessere mentale e l'acqui­ sizione di un bagaglio comportamentale basato sulla compe­ tenza psicosociale individuale (l'acquisizione e la pratica di life skills) e sulla comprensione delle intenzioni. L'ipotesi è che per raggiungere un comportamento positivo di promozione alla salute e di prevenzione, cioè gli strati esterni del modello, dob­ biamo prima ottenere un effetto sugli strati interni e medi. Da qui la necessità di sviluppare l'educazione alle life skills in inter­ venti a lungo termine, in quanto interventi a breve termine (di '

Educazione alle lite skills Benessere Bagaglio comportamentale Salute e comportamento prosociale Direzione degli effetti nel tempo

Figura 1. Modello degli effetti dell'educazione alle lite skills.

15

diverse settimane) avranno un impatto sul benessere mentale (strati più superficiali) , mentre interventi a medio termine (di diversi mesi) avranno un effetto sul benessere mentale, sulle capacità e sulle intenzioni comportamentali. Solo quando l'in­ tervento è mantenuto per un termine più lungo (diversi anni) si possono ottenere miglioramenti a ogni livello. Naturalmente, questo non significa che interventi brevi non servano assolutamente a niente, ma la durata degli interven­ ti deve essere calibrata a seconda del target di riferimento, dei problemi affrontati, degli obiettivi prefissati.

1.2.

Effetti d e l l e l ife ski l l s s u l l a s a l u te m e n ta l e

Gli effetti dell'insegnamento delle life skills sono numerosi, in particolare riguardo l'area della salute mentale e del benessere psicosociale. I risultati di numerose ricerche hanno mostrato che i partecipanti a progetti che prevedevano l'insegnamento e il potenziamen to delle l ife skills mostravano significativi miglioramenti nella propria immagine, nella stima di se stes­ si e una diminuzione dell'ansia sociale.

1.3. L' i m patto d e l l e l ife ski l l s s u l l e p e rfo rm a n ce sco l a sti c h e

Molti studi nel campo di life skills sono stati intrapresi per valutare l'impatto dei programmi di life skills nella scuola: i risultati mostrano notevoli miglioramenti nelle relazioni fra studenti, nelle relazioni insegnante/ studente, nel comporta­ mento nella classe; diminuzione dell'assenteismo e dell'ab­ bandono scolastico; aumento della fiducia reciproca tra stu­ denti; aumenti nel punteggio del quoziente intellettivo degli studenti; aumento della popolarità degli insegnanti.

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2. Le cornici teoriche

delle life skills I pres upposti teorici che sono alla base delle life skills sono le teorie sviluppate da Albert Bandura secondo la prospet­ tiva della teoria sociocognitiva. In base a questa teoria, le persone non sono semplicemente ed esclusivamente orga­ nismi plasmati dagli eventi ambientali o mossi da disposi­ zioni innate, sono invece considerate soggetti attivi, capaci di autorganizzarsi, autoregolarsi e riflettere su se stesse (Bandura, 1986, 1997) . Infatti, secondo l'autore, la capacità di esercitare forme di controllo su processi di pensiero, motivazioni, affettività e azioni consente alle persone di non essere semplici prodotti del proprio ambiente, bensì artefici attivi e, quindi, capaci di influenzare la natura e il corso della propria esistenza. Anche l'apprendimento, in quest ' ottica, non v1ene Inteso come processo passivo, ma come un processo attivo di cui la persona è protagonista e che avviene attraverso la ristrutturazione e la trasformazio­ ne delle esperienze vissute. Naturalmente, ogni periodo dello sviluppo comporta per l'individuo sfide nuove e pre­ suppone l' acquisizione di nuove competenze, affinché pos­ sano essere colte opportunità sempre diverse per far fronte a eventi e cambiamenti. Con il passare degli anni, nei bam­ bini mutano non solo le aspirazioni e gli atteggiamenti, ma anche le prospettive temporali (progetti a breve, media e lunga scadenza) , le pressioni normative (le regole a cui devono sottostare diventano sempre più numerose e com­ plesse) e, di conseguenza, cambiano anche le modalità di strutturare, regolare e valutare la propria vita. Secondo l'autore, le determinanti principali alla base del .

.

.

.

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funzionamento psichico dell'individuo sono tre: le determi­ nanti personali, quelle ambientali e quelle relative alla con­ dotta, le quali sono legate tra loro da quella che Bandura definisce una " causazione reciproca e triadica ", come esem­ plificato in figura 2.

Figura 2. Il modello di causazione reciproca triadica di Bandura. Con il concetto di " determinismo triadico reciproco " , Bandura vuole sottolineare che le azioni che ognuno di noi compie sono sempre il risultato di un'interazione reciproca fra i tre vertici dello schema. Qualsiasi cosa una persona voglia o pensi causerà un comportamento che a sua volta inciderà sull'ambiente circostante. Allo stesso modo, il luogo, la situazione fisica in cui la persona si trova, influenzeranno i suoi pensieri, le sue aspettative, gli affetti e di conseguenza anche il suo comportamento. Il comportamento prodotto dalla persona imporrà a sua volta delle modifiche sia sull' am­ biente sia sulla persona stessa (De Leo, 1996) . Per quanto ci riguarda, ne consegue che, nell'insegnare ai bambini e ai ragazzi come attuare delle strategie di problem solving, si deve tenere conto anche dell'impatto e dell'influenza di que­ ste tre dimensioni su vari livelli: sul processo decisionale, sulle scelte e le azioni che la persona dovrà compiere per arrivare a risolvere il problema in modo efficace ecc.

18

2.1. L' i m p o rta n za d i i m pa ra re d a l l 'es p e ri e n za : l ' a u toeffi cacia p e rce p ita

Abbiamo visto come alla base della teoria sociocognitiva pro­ posta da Bandura ci sia l'idea che l'individuo ricopra un ruolo di protagonista attivo nel determinare il corso della propria esistenza. Ma, affinché questo si realizzi, è necessario che la persona senta di essere all'altezza delle situazioni e, quindi, di poter esercitare una certa influenza sugli eventi. È facile intuire che una persona che non crede di poter pro­ durre gli esiti desiderati tramite le proprie azioni non sarà mai incoraggiata ad agire, a perseverare di fronte alle diffi­ coltà. N eli' analisi di Bandura, la capacità di pianificare le azioni in vista di obiettivi predefiniti (goal-setting) è la carat­ teristica tipica dell'agire umano; a questo proposito, l'autore introduce il concetto di " autoefficacia percepita" , cioè il senso di autoefficacia. Ogni persona, durante il corso della propria vita, cerca continuamente di esercitare un qualche controllo sugli eventi che la riguardano: in questo modo, cia­ scuno di noi cerca di realizzare gli scenari futuri desiderati e di prevenire il verificarsi di quelli non desiderati. A questo p ropos ito, con la locuzione " senso di autoefficacia " (Bandura, 1996, p. 15) ci si riferisce alla «convinzione che le persone hanno nelle proprie capacità di organizzare e realiz­ zare il corso di azioni necessario a gestire in modo adeguato le situazioni che incontreranno, in modo tale da raggiunge­ re i risultati prefissati» . Da quanto detto risulta evidente che le convinzioni di efficacia sono determinanti, in quanto influenzano il modo in cui le persone pensano, si sentono, si organizzano, trovano delle fon ti di motivazione personali e, di conseguenza, agiscono. Rispetto alla capacità di risolvere i problemi e quindi di superare gli ostacoli che non permettono il raggiungimento

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dell'obiettivo prefissato, l' autoefficacia percepita è di fonda­ mentale importanza. Infatti, quanto più è forte il senso di efficacia, quanto più la persona crede nelle proprie capacità, tanto più si impegnerà nell'affrontare situazioni problemati­ che e stressanti e, quindi, tanto maggiore sarà la probabilità che riesca a modificarle con successo. Al contrario, un basso senso di efficacia nelle proprie capacità alimenta l'ansia, la sfiducia e conduce, con molta probabilità, all'insuccesso. Anche se all'apparenza possono sembrare sinonimi, il senso di autoefficacia e l'autostima sono in realtà totalmente diver­ si. Infatti, le percezioni di autoefficacia sono legate a valuta­ zioni specifiche delle proprie capacità in determinati ambiti di azione, l'autostima invece, corrisponde a un giudizio di valore generale su se stessi.

2.2. Le fo nti d i a utoeffi ca c i a tra a p p re n d i m e nto e i n seg n a m e nto

Fortunatamente, il senso di autoefficacia non è innato ma appreso durante tutto l'arco della propria vita e cresce o diminuisce a seconda dalle esperienze (sia positive che negative) che ognuno vive direttamente sulla propria pelle, ma anche in base alle esperienze indirette, e quindi osser­ vate in altre persone. Una seconda caratteristica dell' au­ toefficacia è che non è una caratteristica generale della per­ sona, ma specifica rispetto alla situazione vissuta. Questo significa che si può avere un al t o livello di efficacia in un particolare ambito della propria vita, ad esempio nei rap­ porti di lavoro, a scuola, nello sport ecc. e contempora­ neamente un basso livello di efficacia in altri ambiti, ad esempio nelle relazioni con l'altro sesso o con i coetanei in genere, con le figure autoritarie o in situazioni di conflit­ to ecc. Ecco perché capita molto spesso di incontrare bam-

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bini (così come adulti) , che sono allo stesso tempo estre­ mamente capaci e sicuri in alcuni ambiti (ad esempio a scuola) e insicuri in altri ( ad esempio nel rapporto con i compagni) . Le modalità e le fonti attraverso le quali è possibile acquisire e aumentare il proprio senso di autoefficacia sono moltepli­ ci, in particolare se ne possono evidenziare quattro (Ban­ dura, 1996) . • Le esperienze di gestione efficace: si verificano quando la persona affronta con successo una determinata situazio­ ne, ad esempio la riuscita in una gara sportiva, un buon voto a un compito, la soluzione di un problema relaziona­ le ecc. Sono quindi esperienze dirette che, essendo caratte­ rizzate dal successo, consolidano la fiducia della persona nella propria efficacia personale in quel particolare ambito. In quest'ottica, i fallimenti, come ad esempio un brutto voto, un insuccesso relazionale ecc. , contribuiscono invece a indebolire l' autoefficacia, in p articolar modo se questa non si è ancora ben consolidata. Diverso è prendere un brutto voto quando in genere si prendono bei voti, dal prendere un brutto voto quando i successi scolastici sono stati sempre scarsi. Importante sottolineare che l' acquisi­ zione di un buon livello di autoefficacia tramite l' esperien­ za di gestione efficace è diversa dall'acquisizione di abilità fisse e precostituite, in quanto comporta l'acquisizione di strumenti cognitivi e comportamentali di autoregolazione che devono essere idonei a progettare ed eseguire le azioni appropriate e necessarie per gestire situazioni di vita che sono estremamente mutevoli . L'esperienza positiva di gestione diretta è di gran lunga il miglior modo di aumen­ tare il livello di efficacia, nonché il più duraturo, in quan­ to l'esperienza diretta permette di consolidare degli schemi di azione efficaci che potranno essere facilmente riutilizza-

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ti dalla persona in modo autonomo, anche in situazioni differenti. • L'esperienza vicaria: avviene quando si osservano modelli con caratteristiche il più possibile simili a quelle del­ l' osservatore e che raggiungono, attraverso le proprie azioni e il proprio impegno, gli obiettivi prefissati. Naturalmente, tanto più l'osservatore sente di essere simile al modello, tanto più sarà forte la convinzione di possedere quelle stesse capa­ cità che hanno reso possibile il successo e che potranno per­ mettergli di riuscire in situazioni analoghe. In questo senso, un ruolo di particolare importanza è ricoperto, soprattutto nel periodo dell'adolescenza, dai coetanei che, per le loro azioni e le loro caratteristiche, vengono considerati, nel gruppo dei pari, dei leader. • La persuasione: un ulteriore mezzo per aumentare il senso di autoefficacia è il convincere verbalmente le persone di possedere quelle caratteristiche che possono permettere loro di riuscire. Naturalmente, in questo caso, è necessario tener conto che la facilità con la quale è possibile convince­ re una persona di possedere certe caratteristiche è pari a quel­ la necessaria per farle credere il contrario. Infatti, per poter accrescere la fiducia delle persone nelle proprie capacità non è sufficiente comunicare delle semplici valutazioni positive, è invece necessario predisporre delle situazioni tipo, che per­ mettano loro di sperimentare il successo e l'efficacia. I n ambito scolastico, tali situazioni potrebbero concretizzarsi in esercitazioni, in situazioni strutturate, nelle quali è possibile per gli studenti sperimentarsi positivamente. In questo modo, in particolare per studenti in età evolutiva, è possibi­ le evitare premature situazioni fallimentari che potrebbero minare il loro senso di autoefficacia. È inoltre consigliabile insegnare alle persone a misurare i propri risultati non tanto in termini di competizione con gli altri, quanto in termini di miglioramento personale.

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Gli stati emotivi e fisiologici: per anticipare gli effetti delle loro prestazioni, le persone non si basano solo su ele­ menti esterni quali difficoltà degli obiettivi, validità degli strumenti a disposizione, esperienze precedenti ecc., ma anche sui propri stati emotivi e fisiologici. Le reazioni di stress e di tensione, come ad esempio l'ansia, la paura, la sen­ sazione di sudare, di avere la gola secca ecc. vengono inter­ pretate come segnali che presagiscono cattive prestazioni e, quindi, il fallimento. Il sentirsi di umore positivo e allegro aumenta il senso di autoefficacia; al contrario, il sentirsi di umore nero e negativo lo diminuisce. Anche la stanchezza e i dolori fisici possono essere interpretati dalla persona come segnali di debilitazione. Il non sentirsi al massimo delle pro­ prie capacità può diminuire il senso di autoefficacia. Non solo è quindi importante migliorare le condizioni fisiche del soggetto, ma è anche necessario (come prevedono i training specifici per alcune delle skills proposte dalla WHO ) incenti­ vare l'autocoscienza delle persone (conoscere se stessi) , la capacità di gestire lo stress (riconoscere e saper controllare le fonti di stress) e, infine, la capacità di gestire le proprie emo­ zioni e quindi di saperle regolare e riconoscere. •

Ai fini della valutazione dell'efficacia personale è comunque determinante l'elaborazione cognitiva dell'informazione qua­ lunque sia stata la fonte di acquisizione. Tale processo men­ tale seleziona, valuta e integra le informazioni in modo sog­ gettivo sotto l'influenza di molteplici fattori sociali, persona­ li e ambientali, fino a giungere al giudizio di autoefficacia. La convinzione di efficacia regola il funzionamento umano attraverso quattro processi principali: cognitivi, motivaziona­ li, affettivi e selettivi. • Per quanto riguarda i processi cognitivi bisogna rilevare che quanto maggiore è l'autoefficacia percepita, tanto più alti sono gli obiettivi che la persona si propone e tanto mag-

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giore è la sua capacità di prevedere gli eventi e di predispor­ re i mezzi per controllarli, utilizzando la tecnica del problem solving ed elaborando una quantità di informazioni com­ plesse e ambigue. Inoltre l' autoefficacia rinforza la capacità di rimanere orientati al compito anche in caso di pressioni o di insuccessi. • Quanto ai processi motivazionali, la convinzione di autoefficacia ha un ruolo determinante nell'autoregolazione della motivazione perché agisce sulle fonti cognitive della motivazione stessa, determinando processi di confronto e di aspirazione tra la situazione reale e quella ideale, individuan­ do la direzione del comportamento, determinando gli obiet­ tivi da perseguire, quanto impegno dedicare, quanto perse­ verare nonostante difficoltà e fallimenti. • Anche sui processi affittivi l' autoefficacia percepita esercita un controllo dei fattori di stress: trasforma cogniti­ vamente le situazioni minacciose in situazioni inoffensive, controlla e modera l'ansia e la depressione, promuove moda­ lità di comportamento efficace per rendere sicuro l'ambiente minaccioso. • N e i processi selettivi (delle scelte di vita) una forte fidu­ cia in se stessi favorisce il successo e il benessere perché deter­ mina comportamenti razionali ed efficaci, inducendo ad affrontare il compito come sfida da vincere e non come peri­ colo da evitare, ed elabora l' insuccesso in modo costruttivo. .

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A livello di realizzazione personale i benefici di un forte senso di efficacia sono rilevabili nella prassi quotidiana e nella qualità della vita del singolo che sa selezionare un mag­ gior numero di alternative ed è più determinato nel perse­ guire le sue scelte. A livello di convivenza sociale una consi­ derazione ottimista dell'efficacia dell'impegno collettivo nel­ l' apportare miglioramenti alla società è decisivo nei processi di innovazione.

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Se dunque è vero che l' autoefficacia può essere appresa, è vero anche che questa può in qualche modo essere insegna­ ta. E le modalità per farlo sono essenzialmente quattro: • proponendo situazioni stimolo nelle quali la persona possa sperimentare direttamente una gestione efficace; • utilizzando dei modelli nei quali i ragazzi si identifi­ chino il più possibile (modellamento) e dai quali possano apprendere strategie di gestione efficace. Questo processo può avvenire in due modi: utilizzando il confronto con modelli che sono già del tutto capaci e competenti e che, di conseguenza, padroneggiano del tutto l'abilità in questione (modellamento di mastery) oppure utilizzando modelli che non sono fin dall'inizio competenti, ma che si applicano con sforzo e tenacia nell'acquisire la capacità presa in considera­ zione (modellamento di coping); • sostenendo la persona attraverso la persuasione e con valutazioni positive rispetto al suo operato. Quindi, soste­ nendo ed esprimendo fiducia nei confronti delle capacità della persona in modo continuativo (non solo occasionai­ mente) ; • promuovendo il benessere psicofisico della persona, riducendo i livelli di stress a cui è sottoposta e la tendenza a emozioni negative; correggendo le errate interpretazioni dei suo1 stati corporei. o

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Nel processo di acquisizione di un buon senso di autoeffica­ cia, un ruolo importante è ricoperto anche dalle difficoltà, dai problemi e dai momenti di regressione che si incontra­ no. Sempre secondo Bandura ( 199 5) , è infatti necessario sba­ gliare, superare ostacoli, impegnarsi e perseverare continua­ mente al fine di raggiungere l'obiettivo. Infatti, se le persone costruiscono il proprio senso di efficacia grazie a successi facili, finiranno con l'aspettarsi dei risultati rapidi che saran­ no facilmente scoraggiati da eventuali insuccessi. In questo

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senso, l'uso di strategie di problem solving, che permettano di analizzare la situazione e facilitino il superamento degli ostacoli, possono essere strumenti preziosi.

2.3. G l i effetti d e l l ' a u toeffi ca c i a p e rce p ita

Abbiamo visto come un buon livello di autoefficacia sia importante e necessario per il benessere e il successo della persona nell'affrontare e risolvere i problemi. Abbiamo sot­ tolineato come l' autoefficacia non sia una caratteristica innata e come siano importanti, al fine di strutturarla e consolidarla, le esperienze positive (sia dirette che vicarie) . Vediamo ora, in via generale, quali sono gli effetti nelle persone di un basso o di un alto senso di autoefficacia. Infatti, esistono sostanziali differenze tra questi due estre­ mi, che può essere utile rimarcare sia allo scopo di avere maggiori elementi che permettano di distinguere uno stu­ dente con un buon livello di efficacia in particolari ambiti da uno con un basso livello di efficacia, sia perché è possi­ bile costruire percorsi e progetti scolastici che promuovano o potenzino tali abilità. I soggetti con un alto livello di efficacia si differenziano dagli altri in quanto sono in grado di: • affrontare anche i compiti più difficili come se fosse­ ro sfide da vincere piuttosto che pericoli da evitare e, anche per questo, sono persone solitamente molto attive e partec1pat1ve; • porsi obiettivi anche molto ambiziosi e impegnarsi in modo costante per raggiungere tali obiettivi; • affrontare le difficoltà e i problemi che possono insorgere durante il percorso aumentando il loro impegno; • recuperare il proprio senso di efficacia anche dopo alcuni insuccessi; .

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riconoscere che i fallimenti o gli insuccessi non sono dovuti a cause esterne (ad esempio la sfortuna, gli altri ecc.) , ma sono conseguenza di un impegno insufficiente o di abi­ lità e conoscenze che non erano presenti ma che potranno essere acquisite; • affrontare le situazioni vissute come minacciose (ad esempio quelle in cui è presente competizione o pericolo) in quanto sentono di poter esercitare un controllo su di esse e, quindi, di non essere soggetti passivi e succubi; • riuscire a gestire lo stress e le proprie emozioni. •

Al contrario, i soggetti che possiedono un basso livello di efficacia si distinguono in quanto: • evitano o si allontanano dalle attività che ritengono troppo difficili e che considerano minacciose; • hanno basse aspirazioni e si impegnano scarsamente per raggiungere gli obiettivi che scelgono; • se devono affrontare compiti difficili, si soffermano sulle proprie carenze personali, sugli ostacoli che incontre­ ranno, sugli aspetti negativi, piuttosto che concentrarsi su che cosa è necessario fare per riuscire; • se incontrano difficoltà o problemi da risolvere, rinun­ ciano facilmente o diminuiscono il proprio impegno perso­ nale; • gli insuccessi minano facilmente il loro senso di efficacia; • preferiscono attribuire la causa dei loro insuccessi alla loro mancanza di capacità e alle loro scarse doti personali: per questo, sono sufficienti poche esperienze negative per perdere fiducia nelle proprie capacità; • sono facilmente preda dello stress e della depressione. .

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3. Educare alle life skills: il ruolo della scuola e delle agenzie di socializzazione Oggi la scuola è chiamata ad affrontare una nuova sfida, ad assolvere nuovi obiettivi. N o n può più limitarsi esclusiva­ mente a fornire agli studenti delle buone basi culturali per poter affrontare la vita e il mondo del lavoro, ma deve anche attrezzarli per poter farli vivere bene in una realtà sociale che diventa sempre più composita e multiculturale. Una realtà nella quale vi sono molteplici possibilità di successo ma anche di fallimento, nella quale tutte le persone dovranno farsi cari­ co dell'esercizio di una libertà sempre più grande, una coo­ perazione sempre più stretta con la collettività e in cui saran­ no chiamate ad agire pienamente il diritto/dovere di cittadi­ nanza (Boda, 2001 ) . In questo mondo che allarga i suoi con­ fini e che si evolve, anche il ruolo dell'insegnante si sta profondamente trasformando: da insegnante che trasmette ai propri studenti nozioni e conoscenza a insegnante che media e facilita il processo di apprendimento; dall'uso di program­ mi fissi e prestabiliti all'uso di percorsi didattici costruiti sulle esigenze degli studenti e nei quali l'insegnante ha un ruolo di educatore che orienta il processo formativo. In quest'ottica, l'inserimento delle life skills in attività scolastiche o in pro­ getti specifici diventa un'opportunità preziosa, non solo per facilitare i percorsi di promozione alla salute richiesti dalla WHO (prevenzione dell'AI D S , dell'uso di droghe ecc. ) , ma anche per fornire agli studenti nuovi strumenti per affronta­ re le difficoltà della vita in genere (conflitti interpersonali ecc. ) o per potenziare le capacità già preesistenti. I ragazzi di

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oggi sembrano non essere più sufficientemente equipaggiati di quelle abilità di base (le skills) che sono necessarie per affrontare con successo le crescenti sfide e difficoltà che la vita pone sul cammino di crescita e i relativi stress. Questo perché i meccanismi tradizionali attraverso cui si apprendevano tali abilità e competenze (la famiglia, il gruppo di pari, la scuola ecc. ) , sembrano non funzionare più sufficientemente bene, in particolare rispetto alla sempre crescente complessità creata dai cambiamenti sociali e culturali degli ultimi decenni, alla crescente influenza e ingerenza dei mass media ecc. Quello che si verifica è che i ragazzi, le agenzie di socializzazione (la famiglia, la scuola ecc. ) e il mondo sembrano andare a velo­ cità diverse ! Da qui la necessità di reperire strumenti e moda­ lità educative che possono aiutare i giovani a far fronte a que­ sta complessità, prevenendo quei fenomeni di malessere e di difficoltà relazionale più diffusi rispetto al passato. Naturalmente, l'acquisizione e il consolidamento delle life skills non sono sufficienti. Come abbiamo già spiegato pre­ cedentemente, sono numerosi e molto complessi i fattori di cui bisogna tenere conto e che influenzano a diversi livelli la motivazione e l'abilità della persona a comportarsi in modo sano, positivo, adeguato.

3.1.

l fatto ri d i ri sc h i o i n a d o l esce n za

Oltre ai fattori interni come ad esempio l' autoefficacia per­ cepita, della quale abbiamo già ampiamente parlato, è neces­ sario tenere conto anche di fattori più specificamente di tipo ambientale, culturale e familiare. Le persone non vivono iso­ late l' una dall'altra in campane di vetro, ma sono influenza­ te continuamente dall'ambiente, dalle persone con le quali vivono, dalla cultura di appartenenza e dalla famiglia nella quale crescono. In alcuni casi, la pressione esercitata sulla

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persona, in particolar modo se non ancora adulta, è fortissi­ ma e può condizionare moltissimo il percorso di scelte e le strategie utilizzate nella ricerca di una soluzione ai problemi. È anche per questo, che ogni qual volta dobbiamo prendere una decisione per risolvere un problema, ci facciamo domande come: «Che diranno gli altri ? Come reagiranno ? Cosa penseranno di me ? Se mi comporto così, cosa mi suc­ cederà ? E cosa accadrà alle altre persone ? ecc.». Pensiamo solo al potere che ha la pubblicità sui bambini, o alla pres­ sione esercitata dal gruppo di pari sugli adolescenti, o anco­ ra all'influenza degli opinion-leader ecc. I fattori di rischio e di protezione che possono generare o pro­ teggere da situazioni problematiche in adolescenza e pre-ado­ lescenza sono numerosi e, come già accennato, riferibili a diversi contesti. Molte le teorie a riguardo, tra le più accredita­ te quelle che non considerano il rapporto tra fattori di rischio e l'attuazione di strategie inadeguate che possono concretizzar­ si in comportamenti rischiosi o devianti in adolescenza, come lineare e unidirezionale, ma in terattivo e circolare. Questo rap­ porto di tipo ricorsivo, inoltre, è influenzato non solo dai diversi contesti di azione, ma anche dai sistemi di appartenen­ za e dal periodo evolutivo in cui si trova il ragazzo. A questo proposito, De Leo (De Leo, Scali, 2002, p. 262) afferma che «non solo fattori personali, ambientali e comportamentali si influenzano reciprocamente, ma che nei diversi contesti e momenti della vita sociale di un individuo, la combinazione degli elementi che possono far emergere la devianza può cam­ biare, può avere un carattere emergenziale inedito)) . Vediamo ora i fattori di rischio e di protezione più rilevanti di cui bisogna tenere conto quando si lavora con minori: • il coping: cioè tutte quelle abilità che servono per affrontare efficacemente i rischi e i problemi, come ad esem­ pio la capacità di problem solving, la capacità di chiedere supporto sociale, la capacità di evitare i rischi;

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l'autoefficacia percepita, che, come abbiamo preceden­ temente visto, consiste nella convinzione che il soggetto ha di sentirsi in grado di portare a termine un compito con successo; • l'autoefficacia regolatoria, ovvero la convinzione della persona di saper resistere alle pressioni del gruppo di pari; • l'autoefficacia collettiva, in questo caso, il concetto di autoefficacia non è riferito alla persona, ma alla famiglia, alla scuola, alla rete sociale (vicini, servizi ecc. ) . Più le reti socia­ li e familiari in cui il ragazzo vive o è inserito sentono di poter essere efficaci rispetto alla soluzione di eventuali pro­ blemi quali ad esempio il controllo, la gestione, la preven­ zione dei rischi ecc. , più saranno presenti elementi protetti­ vi. Al contrario, una rete sociale e familiare che non si sente in grado di gestire efficacemente i problemi, può essere con­ siderata un fattore di rischio; • il disimpegno morale, ovvero tutte quelle strategie cognitive che le persone usano per svincolarsi dalle norme e per deresponsabilizzarsi. Queste strategie, diventano un modo potente per separare la trasgressione delle norme, dalla preoccupazione per le eventuali punizioni e quindi, per alleggerire le proprie responsabilità, per diminuire il senso di colpa o di vergogna. Espressioni come «Lo fanno tutti», «In fondo è solo una ragazzata» ecc. servono proprio a minimiz­ zare e deresponsabilizzare. Un uso costante di queste strate­ gie può essere letto come un indicatore di rischio; • il monitoring, cioè tutte quelle forme di monitoraggio tra ragazzo e adulti di riferimento appartenenti ai diversi contesti di socializzazione (genitori, insegnanti ecc. ) , che possono essere più o meno flessibili, più o meno chiuse o aperte. Un buon monitoraggio è sicuramente un fattore protetttvo, mentre un monttoraggto assente o carente puo diventare un fattore di rischio; • la funzionalità o disfunzionalità della famiglia: la fami•

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glia di appartenenza dei ragazzi ha un peso notevole. Un a famiglia coesa e flessibile, dove per coesa si intende la presen­ za di legami affettivi tra i membri, che siano di buona qualità e intensità, e per flessibile si intende la capacità del sistema famiglia di modificare le proprie regole, confini e ruoli a seconda delle diverse fasi del ciclo vitale che sta affrontando (es . progressive richieste di autonomia dei figli) , è un ele­ mento importante di protezione; • le competenze o incompetenze genitoriali della coppia e dei singoli genitori, anche rispetto alla capacità di gestire eventuali crisi adolescenziali o eventuali conflitti, così come gli stili comunicativi presenti all'interno della famiglia, sono solo alcuni tra gli innumerevoli fattori che vanno considera­ ti nell'analizzare le capacità protettive o le variabili di rischio presenti nel sistema familiare; • il gruppo dei pari: la capacità di fungere da elemento protettivo, o al contrario di rischio, del gruppo di pari, è legata a numerosi fattori. Tra questi, si deve tener conto della cultura del gruppo, cioè quell'insieme di regole, valori, ritualità, obiettivi e significati condivisi in modo più o meno forte dai vari membri, ai quali aderiscono in modo più o meno rigido e che influenzano e orientano le scelte del grup­ po così come quelle del singolo . Anche la figura del leader del gruppo è importante, non tanto in riferimento alla sua personalità, ma piuttosto rispetto alla sua capacità di mette­ re in atto dei comportamenti efficaci e proattivi.

3.2. L ' a p p re n d i m e nto attivo : m etod i e tec n i c h e p e r i n seg n a re l e l ife s ki l l s

I n quest'ottica, il ruolo della scuola diviene più comples­ so, così come i suoi ob iettivi e gli strumenti di cui si può avvalere . La scuola sta diventando sempre più una scuola

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dell' autonomia, dove l' insegnamento delle life skills in generale e del p roblem solving in particolare non può esse­ re inserito in p rogrammi didattici class ici, ma in program­ mi che prevedano un apprendimento attivo inserito in un processo dinamico che coinvolga sia il docente sia il discente. È necessario che il docente si spogli del suo abito classico di insegnante, per diventare un conduttore, un " facilitatore " delle attività proposte, lasciando sempre più occasioni agli studenti di sperimentars i attivamente. A questo scopo, tutte le forme di apprendimento attivo e cooperativo tra pari, dalle più semplici alle più complesse, nelle quali la conoscenza non è intesa come individuale, ma socialmente condivisa, co-costruita e p rodotta in inte­ razione con gli altri risultano essere strumenti preziosi da utilizzare all' interno dei contesti scolastici . Questi metodi educativi prevedono una forte responsabilizzazione di alcuni membri del gruppo classe i quali vengono formati e reinseriti nel gruppo di appartenenza per realizzare precise attività con i coetanei. Utilizzando queste metodologie è possibile coinvolgere il gruppo classe in percorsi curricola­ ri in cui l'apprendimento diventa un vero e p roprio even­ to sociale. I noltre, è possib ile promuovere l'instaurarsi di un rapporto di educazione reciproca nel quale viene ridot­ ta sensibilmente la differenza tra sé e gli altri e migliorare la comunicazione tra coetanei attraverso l'uso di un lin­ guaggio comune che non è centrato sulla figura dell ' esper­ to (l'insegnante) . Solitamente, la scuola propone una comunicazione e una divisione di ruoli di tipo tradiziona­ le e unidirezionale (l' insegnante insegna e lo studente impara) , sottovalutando le potenzialità della comunicazio­ ne di tipo bidirezionale e circolare caratterizzata dalla pos­ sibilità da parte dei ragazzi di accedere liberamente alle informazioni e da una maggiore responsabilizzazione di questi ultimi rispetto al processo educativo. L' uso di siste-

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mi educativi che coinvolgano maggiormente i ragazzi ha diversi vantaggi in termini di efficacia in quanto le infor­ mazioni mediate dai pari hanno più successo ed efficacia di quelle mediate da figure adulte. Questo avviene perché, nel primo caso, entrambi i soggetti utilizzano lo stesso linguag­ gio e gli stessi schemi culturali di riferimento, cosa che inve­ ce non avviene nel secondo caso. In quest'ottica, educare alla cooperazione significa offrire agli studenti un contesto in cui promuovere una costruzione cooperativa della conoscenza. E per questo che sempre più spesso si parla di cooperative learning, un insieme di metodologie didattiche nelle quali gli studenti lavorano insieme, in gruppo, in modo attivo. A questo proposito vorremmo proporre di seguito una breve schematizzazione delle metodologie di apprendimento che prevedono l' uso del gruppo e del peer helping (aiuto tra pari) . • L'apprendimento cooperativo. Chiamato anche coope­ rative learning, si basa sull'apprendimento partecipativo e viene solitamente utilizzato in funzione di compiti e attività specifiche. Le metodologie di conduzione del gruppo sono numerose e sono tutte tese a far in modo che il gruppo diventi un luogo non solo di formazione rispetto al tema trattato, ma anche di scoperta di se stessi. N el lavoro di grup­ po, infatti, vengono dedicati dei momenti specifici alla discussione e alla riflessione sulle dinamiche e sui processi di interazione del gruppo. • Il eire/e time. P uò essere definito come un momento specifico in cui i ragazzi e gli insegnanti si siedono in cer­ chio e, attraverso attività, discussioni, giochi ecc. , acquisi­ scono consapevolezza di sé, degli altri e potenziano alcune abilità come l'ascolto e la fiducia reciproca. In genere sono incontri che durano 20-3 0 minuti e che si svolgono almeno una volta alla settimana. Questi incontri diventano un forum utile per affrontare i problemi e le difficoltà più rile,

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vanti che la classe attraversa, incluse situazioni problemati­ che di tipo interpersonale. In Italia, questa metodologia è stata usata soprattutto nelle scuole elementari e superiori per fare un'analisi dei bisogni della classe, per raccogliere eventuali richieste di aiuto e per verificare in itinere gli interventi degli operatori . • L'operatore amico. Prevede l' attivazione nella classe di un piccolo gruppo di compagni coinvolti attivamente nel dare supporto e sostegno agli altri . I ragazzi, a turno, vengono selezionati e formati con un training specifico che prevede lo studio delle tecniche di ascolto, di comunica­ zione empatica e socializzazione, al fine di ricoprire diver­ si ruoli nella classe . I ragazzi diventano veri e propri ope­ ratori ai quali possono essere affidati diversi compiti, ad esempio, attivita organizzative, animazione, sostegno emotivo , cons ulenza ai compagni ecc. Un esempio è il " circolo degli amici " , utilizzato soprattutto nelle classi in cui sono presenti casi di bullismo (subito e/o agito) . Questo model­ lo prevede il coinvolgimento dei ragazzi maggiormente vicini alla persona in difficoltà, i quali vengono attivati per fornire aiuto e sostegno. Di solito è p revisto un incontro di classe condotto da un esperto psicologo, che invita i ragaz­ zi a ragionare sulle difficoltà del soggetto su cui si intende attivare un intervento e li attiva nella ricerca di una possi­ bile soluzione per risolvere il problema (problem solving) . S e la classe si attiva, verrà chiesta l'adesione di alcuni volontari che andranno a costituire il " circolo degli amici " , i quali, nelle loro attività di aiuto, saranno monitorati da un supervisore. • Il counseling tra pari. Questi modelli prevedono un ruolo più professionale e strutturato, quale quello del consu­ lente. Solitamente, ragazzi che hanno ricevuto un training specifico, coadiuvati da un esperto che effettua una supervi­ sone continua sul loro operato, vengono messi a gestire .

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all'interno della scuola lo sportello di ascolto (chiamato in Italia CIC, Centro di informazione e consulenza) o una linea telefonica di aiuto. • Il mentoring. Chiamato anche mentore tra pari, preve­ de una relazione di uno a uno tra uno studente più giovane e uno più vecchio che ha la funzione di guida e sostegno. Utilizzato soprattutto nelle fasi di inserimento e di prima accoglienza (ad esempio studenti nuovi che entrano con il nuovo anno scolastico) o per fornire aiuto a studenti in dif­ ficoltà, il mentoring, che in Italia si è sviluppato dall' espe­ rienza della famosa Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, prevede anche specifici training che possono coprire aree molto diverse: analisi dei sintomi di disagio, problemi riguardanti la salute, lo stress, la gestione responsabile del denaro, comportamenti sessuali a rischio, dipendenze da sostanze ecc. • La peer education. Educazione tra pari, è stata definita da Finn (1981 , p. 9 1 ) come «la condivisione di informazioni, atteggiamenti o comportamenti, da parte di un gruppo di ragazzi che agiscono con intenti educativi nei confronti del gruppo più ampio. Attraverso un training formativo e la selezione di individui particolarmente significativi, è possibi­ le attivare percorsi di formazione e ruoli positivi che posso­ no agire come riferimento per il gruppo dal punto di vista della prevenzione dei comportamenti a rischio». Naturalmente, non si può parlare di apprendimento o coope­ razione tra pari ogniqualvolta in classe vengono formati dei gruppi per discutere tematiche specifiche o per studiare una lezione oppure ogniqualvolta i ragazzi vengono invitati ad aiutarsi tra loro (Boda, 2001 ) . Infatti, esistono alcune sostan­ ziali differenze tra un gruppo tradizionale o spontaneo di apprendimento e un gruppo di cooperative learning, come schematizzato nella tabella 1 .

Ta bella 1 D ifferenze tra gruppi di cooperative learni ng e gruppi tradi zionali o spontanei G ru p p i d i cooperative l ea rn i ng

G ru p pi tra d iziona l i o sponta n e i

lnterdipendenza positiva

Nessuna attenzione particolare all'interdipendenza

Leadership condivisa

Un unico leader scelto e formale

Tutti sono responsabili di tutti

Ognuno è responsabile solo di se stesso

Si enfatizzano il compito e la q ualità dei rapporti tra i membri del gruppo

Si enfatizzano solo il compito e i risultati

Le competenze sociali sono direttamente insegnate

Le competenze sociali sono supposte o ignorate

L'insegnante osserva e interviene

L'insegnante si disinteressa o interviene nel funzionamento del gruppo solo quando si verificano comportamenti negativi

l gruppi controllano la loro interazione l gruppi non si controllano nella loro ed efficacia mentre lavorano interazione mentre lavorano Valutazione individualizzata e di gruppo con riferimento al gruppo

Poca attenzione alla valutazione di gruppo e/o individuale senza impegno per un miglioramento e riferimento ai risultati di gruppo

Fonte: rie l a bo razi o n e da j o h nso n , j o h nson (1987) .

L'idea di base è che ogni momento di apprendimento che si svolge all'interno della classe, se trasformato da momento strettamente individuale a momento di gruppo, di classe o dell'intera scuola, può trasformarsi in una learning organiza­ tion . In questo modo, sarà possibile far circolare le informa­ zioni, le conoscenze, la condivisione dei problemi e la loro

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eventuale soluzione. Il coinvolgimento dei ragazzi può natu­ ralmente avere diversi livelli. La scala di partecipazione di Hart (1992) evidenzia le varie modalità di partecipazione che gli studenti possono mettere in atto a scuola, sottolineando le responsabilità dei docenti nel promuovere o meno le con­ dizioni per una loro partecipazione reale ed efficace. La scala va in ordine crescente e prevede sei livelli. 1 Manipolazione: si verifica se nei giovani non viene pro­ mosso lo sviluppo di un buon livello di efficacia personale e collettiva. In questo caso essi tenderanno più facilmente al conformismo per riuscire a vincere l'ansia. I noltre, se le per­ sone non conoscono o non comprendono le problematiche dell'ambiente in cui sono inserite (in quanto non sono state adeguatamente informate) , non potranno partecipare in modo consapevole alla realtà che le circonda, facendosi più facilmente condizionare e mani polare da parte degli adulti e dal gruppo di appartenenza. 2 Marginalità: si tratta del gradino direttamente supe­ riore alla manipolazione. Gli adulti sostengono una causa fingendo che sia stata direttamente indicata dagli studenti. In questo caso i giovani sono strumentalizzati dagli adulti che mirano a sostenere la propria causa in maniera indiretta. Rinforzo: ai giovani viene data la possibilità di espri­ 3 mere le proprie opinioni ma nella pratica le possibilità di scelta sull'argomento trattato e il relativo stile comunicativo sono molto limitate e gli studenti hanno ben poche o addi­ rittura nessuna possibilità di formulare proprie opinioni. In questo modo viene comunque rinforzato indirettamente il ruolo decisionale degli adulti. Subordinati ma ben informati: a questo livello possia­ 4 mo parlare di partecipazione consapevole. I giovani com­ prendono gli scopi del progetto, sanno chi ha deciso di coin­ volgerli e ne conoscono i motivi. Inoltre, svolgono un ruolo significativo, hanno accettato di partecipare al progetto

dopo che ne sono stati spiegati i contenuti, gli obiettivi e i percorsi. Consultati e informati: il progetto è definito e gestito 5 dagli adulti ma gli studenti ne comprendono i processi e le loro opinioni sono prese in seria considerazione per appor­ tare modifiche ai programmi in atto. I progetti vengono avviati dagli adulti ma i giovani sono coinvolti nel processo decisionale. 6 Iniziativa e gestione da parte di studenti: il processo decisionale avviene condividendo le proprie opinioni con gli adulti. Progetti di questo tipo sono rari e non certo per volontà dei ragazzi che non vogliono essere protagonisti, ma principalmente perché sono poco consultati durante la fase di elaborazione dei programmi che li riguardano o per­ ché non possiedono sufficienti strumenti e occasioni di par­ tecipazione attiva e consapevole ai vari momenti della vita scolastica. .

3.3.

I l n u ovo ru o l o d e l d oce nte fa ci l itato re

Questo nuovo approccio all 'insegnamento richiede ai docenti una profonda trasformazione professionale che dia vita a un diverso rapporto con gli studenti, con i colleghi, con i genitori. La funzione di mediatore e facilitatore del­ l'apprendimento fa assumere al docente un ruolo fonda­ mentale nella vita dei propri studenti, quale educatore che orienta il processo formativo, «difensore e promotore della speranza del futuro» (Charmet Pietropolli, 1990, 2000; Charmet Pietro polli, Riva, 1994) . L'apprendimento attivo impegna l' insegnante e lo studente in un processo dinamico, animato da metodi esperienzali o euristici, centrati sull' induzione, che si realizzano attraverso la partecipazione attiva.

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Una metodologia attiva d'insegnamento-apprendimento deve basarsi sul ruolo dell'insegnante come facilitatore del­ l' apprendimento che vede al centro di tale processo lo stu­ dente che, da oggetto del processo di insegnamento, diventa soggetto di apprendimento. Naturalmente, la buona riuscita di attività che prevedono il coinvolgimento diretto dei ragazzi dipenderà anche dagli insegnanti coinvolti. L' insegnante deve essere in grado di individuare obiettivi vicini alle possibilità degli studenti in modo da aumentare la loro autoeffìcacia e lo sviluppo delle abilità. Infatti, la possibilità di confrontarsi con risultati immediati e posi tivi gratifica i parte ci p an ti ed è un indicato­ re che lo sviluppo delle competenze è in atto. In seguito, sarà sempre compito degli insegnanti incoraggiare gli studenti a diventare autonomi ponendosi degli obiettivi, in modo da migliorarne il coinvolgimento e il senso di autoeffìcacia. Come il lettore avrà modo di osservare, molte delle esercita­ zioni e delle metodologie proposte in questo libro si basano sulla " padronanza guidata" , uno dei principali strumenti per lo sviluppo delle competenze intellettuali. Questo approccio ricorre al processo di " modellamento cognitivo " che tra­ smette conoscenze e strategie in progressione graduale: dap­ prima si predispongono situazioni personalizzate per attuare percorsi di padronanza guidata con feedback informativo sul­ l' utilizzo delle strategie cognitive per la soluzione di nuovi problemi in contesti diversi (come negli esercizi proposti) . In questo modo, organizzando opportunamente le attività, gli incentivi e gli obiettivi, sarà possibile sollecitare il coin­ volgimento e il miglioramento continuo dello studente, aumentandone il senso di autoeffìcacia nell'apprendimento autodiretto. Solo così gli studenti saranno in grado di utiliz­ zare quanto appreso a scuola in modo autonomo, nella vita di tutti i giorni. A questo proposito, vorremmo sottolineare alcune caratteri-

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stiche e compiti del docente. Rispetto al processo di appren­ dimento cooperativo, le attività del docente si concretizzano in una serie di obiettivi e compiti da svolgere che potremmo schematizzare nel seguente modo (Boda, 2001 ) . I niziare da esperienze personali

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Favorire lo scambio e il confronto di idee con gli altri

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Lavorare su compiti di problem solving

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Definire gli obiettivi intermedi

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Far riflettere sull'apprendimento personale

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Condividere i criteri di valu tazione

Figura 3- Schema delle attività del docente nel cooperative learning. In generale, a prescindere dal tipo di attività o esercitazione che la classe sta eseguendo, sarà necessario che il docente dia sempre chiare istruzioni, sappia motivare anche gli studenti che non contribuiscono attivamente al gruppo e, infine, rie-

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sca a m an tenere se m p re vivo l'in t eresse strutturando il lavo­ ro e richiamando l'attenzione sugli obiettivi da raggiungere . E opportuno che queste metodologie di lavoro non vengano mai utilizzate in modo casuale e incoerente, ma sempre all'interno di unità di apprendimento che siano parte di un programma sequenziale che abbia una coerenza e obiettivi ben definiti. ....

Compito dell'insegnante sarà anche quello di proporre, inventare e adattare i diversi tipi di attività, tenendo conto non solo delle caratteristiche del gruppo classe al quale si rivolge (età, dimensione, caratteristiche sociali ecc. ) , ma anche della problematica che si va ad affrontare e degli obiet­ tivi da raggiungere. Nel caso in cui vengano utilizzate meto­ dologie educative che prevedono il coinvolgimento diretto dei ragazzi, l'insegnante dovrà essere in grado di creare un clima di fiducia e di rispetto reciproco, all' interno del quale sarà possibile utilizzare al meglio le potenzialità offerte dal gruppo e, quindi, gestire eventuali conflitti, problemi e momenti di impasse. Durante lo svolgimento del progetto educativo dovranno essere programmati incontri e attività con gli studenti, che non prevedano esclusivamente il coin­ volgimento di tutta la classe, ma anche momenti individua­ li, di coppia o di sottogruppo, in modo che tutti abbiano la possibilità di partecipare e di esprimersi. È infatti più facile che ragazzi più timidi o vivaci o meno motivati si attivino in situazioni che non siano di tipo plenario, ma di tipo più ristretto. È necessario, inoltre, non prendere mai il posto dei ragazzi sostituendosi a loro quando questi non dovessero assolvere i loro compiti o il loro ruolo adeguatamente, ma piuttosto confrontarsi con loro sulle difficoltà incontrate, affinché non si sentano scavalcati o destituiti e in modo che possano attivarsi e sperimentarsi in modo efficace rispetto al problema. A tal fine, è bene sempre tenere a mente dieci

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semplici regole che, se seguite, permettono una efficace cor­ rezione degli errori (Boda, 2001 ) . 1 Fornire informazioni sia verbali che visive in modo frequente, soprattutto nella prima fase di apprendimento o quando il compito non è stato ben compreso. 2 Ridurre gradualmente i feedback, i suggerimenti, i con­ sigli forniti dagli insegnanti, man mano che il ragazzo pro­ gredisce nell'apprendimento e che, di conseguenza, diventa p1u competente e autonomo. Correggere sempre gli errori uno alla volta a partire da 3 quelli più rilevanti o urgenti, per poi passare a quelli meno Importanti . Permettere al ragazzo di modificare subito l' esecuzio­ 4 ne del compito, dell'azione ecc. , dopo l'intervento corretti­ vo. Non deve passare molto tempo tra l'errore e la correzio­ ne di quest' ultimo, perché l'allievo deve avere la possibilità di riprovare a eseguire il compito, l'esercizio ecc. quando ha ancora bene in mente cosa è necessario fare per non ripetere l'errore. Evitare istruzioni formulate in negativo, centrate sul­ 5 l' errore o su ciò che va evitato. Non bisogna quindi usare affermazioni come «Non devi fare cosÌ», « È sbagliato». 6 Fornire istruzioni in positivo descrivendo l'azione richiesta, come ad esempio: «Se tu provassi a fare in que­ st' altro modo, otterresti migliori risultati perché . . . » . 7 Usare parole stimolo e frasi brevi per richiamare l'az1one corretta. 8 Impiegare di frequente incoraggiamenti («Bravo ! » , «Ben fatto !», «Continua così !») , per innalzare la motivazio­ ne, aumentare l'interesse e rinforzare l'azione corretta. Coinvolgere il soggetto con domande volte ad analiz­ 9 zare e discutere la prestazione personale, come ad esempio: «Secondo la tua opinione come mai è accaduto questo ?», «Quali difficoltà hai avuto ?», «Come è andata a tuo avviso ?». . '

.

.

.

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Coinvolgere il soggetto con domande volte ad analiz­ zare la prestazione di un compagno che sta affrontando lo stesso compito, con domande del tipo: «Secondo te ci sono differenze tra il tuo modo di affrontare il compito e quello del tuo compagno ?», «Ci sono delle cose utili che lui ha pen­ sato o fatto e che tu potresti utilizzare ? » .

10

Rispetto alle attività che saranno svolte, è bene che l'inse­ gnante, in qualità di facilitatore, tenga conto che le esercita­ zioni possono riguardare anche l'area corporea dei ragazzi coinvolti. Anche gli esercizi da noi proposti spesso utilizzano il corpo e il movimento (giochi di ruolo, mimi ecc. ) , in quanto costituiscono un potente strumento di conoscenza, lavoro e apprendimento. I giochi o le esercitazioni che usano la corporeità e il movimento come porta di accesso per arri­ vare a contenuti più profondi (esperienze personali, senti­ menti, confronto su temi delicati ecc. ) rappresentano un buon modo per creare un clima empatico e per rompere il ghiaccio. Inoltre, riteniamo utile sottolineare che, nella pro­ gettazione di interventi complessi e che prevedono il coin­ volgimento diretto dei ragazzi anche attraverso training for­ mativi, è sempre bene lavorare con gruppi di progetto com­ posti da professionisti di diversi discipline (ad esempio psico­ logi, psicoterapeuti, esperti di un particolare settore o materia ecc. ) e appartenenti a diversi ambiti, enti o istituzioni.

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4 . Tecniche e strategie di problem solving Gli ambiti applicativi del problem solving all'interno della scuola sono molto numerosi: noi vorremmo soffermarci su due in particolare. Il primo riguarda le situazioni conflittua­ li tra pari, il secondo riguarda la soluzione di problemi per­ sonali. Spesso, tra bambini e adolescenti, capita che le situazioni conflittuali, dalle più banali a quelle più complesse, venga­ no risolte attraverso l'uso del potere. In queste situazioni, la disputa tra i contendenti si risolve quando uno dei due può definirsi vincitore, mentre l'altro risulta perdente. Queste situazioni lasciano spesso una scia di risentimenti, odio, umiliazione, disistima che può portare a escalation negative o a comportamenti di fuga, isolamento, sottomissione. Il risultato sarà che la relazione tra le persone coinvolte per­ derà le proprie caratteristiche positive di legame affettivo e si logorerà pian piano diventando un legame problematico e fonte di stress . L' uso del problem solving per trovare stra­ tegie alternative al conflitto ha il vantaggio di migliorare la relazione evitando sentimenti negativi di rabbia e frustraz1one. .

Il problem solving può essere inoltre utilizzato efficacemen­ te anche in situazioni in cui i problemi non sono di tipo interpersonale (nelle quali sono coinvolti più soggetti) , ma di tipo personale. In questo caso, il conflitto è interno alla persona, la quale si trova in una situazione di stasi dalla quale non riesce a uscire; le cause del conflitto, e quindi le origini del problema che si deve affrontare, possono essere diverse e

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sono riconducibili a situazioni in cui la persona deve decide­ T40.2

re tra diverse alternative. Queste alternative che creano con­ flitto possono essere di diverso tipo (Petter,

)

2002 .

Due alternative positive: è ad esempio il caso in cui si



deve decidere tra due cose o situazioni entrambe positive e quindi entrambe desiderabili, ma delle quali ne possiamo scegliere solo una (cfr. FIG. 4). È il caso del bambino che è invitato a scegliere solo uno tra due giocattoli che gli piac­ ciono molto, il giocattolo A e quello B, o del ragazzo che deve scegliere dove continuare il proprio percorso di studi e deve decidere tra due scuole superiori che lo interessano in ugual misura, la scuola A e quella B.

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soggetto

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(8

Figura 4. Due alternative positive.

Queste sono naturalmente situazioni semplici da risolvere. Di altra portata invece quelle che implicano dilemmi di tipo morale che pongono in conflitto dei vantaggi personali con delle regole e dei valori generali. È il caso, ad esempio, del bambino che può trovare casualmente un oggetto che deside­ ra tenere per sé (un cellulare, un gioco ecc.) e deve decidere se appropriarsene indebitamente, oppure avvertire un adulto (ad esempio i genitori, la maestra) rispettando un valore, quello dell'onestà, che ha una valenza positiva in quanto legata alla sensazione di aver fatto la cosa giusta e di essere una persona onesta. La situazione potrebbe poi complicarsi ulteriormente,



T40.2

Sul sito è disponibile un approfondimento relativo ad altre situazioni di

conflitto secondo il modello di Petter.

nel caso in cui le possibili alternative aumentino di numero, come nel caso esemplificato in figura 5·

0

soggetto .... ·.

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Fi g u ra 5 . D ive rs e a lte r n ative p o s itive.



Due alternative negative: in questo caso il conflitto sca­

turisce dal fatto che siamo obbligati a scegliere tra due alter­ native che non ci piacciono (cfr. F I G . 6) . È ad esempio il caso del ragazzo che deve scegliere tra fare il compito in classe al quale non è preparato o non presentarsi a scuola, con il rischio di essere scoperto e di ricevere rimproveri dai fami­ liari; o del ragazzo che, provocato e preso in giro da un com­ pagno più grande, deve decidere se rispondere con aggressi­ vità, rischiando di prenderle, o far finta di niente, subendo le umiliazioni e le angherie. Rispetto alla precedente situa­ zione (A+ e B + ) , questa risulta essere molto diversa, sia per­ ché la persona è dominata nell'immediato da valenze esclu­ sivamente negative, sia perché in questi casi è facile che si manifesti la tendenza a rinviare la decisione da prendere o a mettere in atto comportamenti di evitamento e fuga (scap­ pare, isolarsi ecc. ) .

soggetto

Fi g u ra 6 . D u e alte rnative n e gative.

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Anche in questo caso la situazione risulterebbe tanto più complessa, quanto più numerose fossero le alternative nega­ tive tra le quali la persona si trova costretta a scegliere ( F I G . 7 ) . Ad esempio, nel caso di un ragazzo vessato dai com­ pagni di scuola, le soluzioni al suo problema potrebbero essere tutte vissute come negative: fare a botte con i compa­ gni, rischiando di prenderle; andare a spifferare tutto ai pro­ fessori o ai genitori, rischiando di fare la figura dello spione e del debole; isolarsi da tutti cercando di diventare invisibi­ le; subire le angherie senza lamentarsi e reagire ecc.

soggetto

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'\,.., ... .... _ _ _ ... .,. ,''

Fi g u ra 7. D ive rse a lte rn ative n e gative .



Ambivalenza: sono quelle situazioni in cui la persona

deve scegliere tra due opzioni, ciascuna delle quali ha sia una valenza positiva che una negativa. Una situazione ambiva­ lente è ad esempio quella di un ragazzo che deve scegliere se frequentare una scuola che gli piace molto e dove vanno tutti i suoi amici, ma che è anche molto lo n tana da casa, per cui ogni mattina dovrà alzarsi molto presto per poter arrivare in orario. Oppure è il caso del bambino che vorrebbe parteci­ pare a un gioco, ma ha paura di fare brutta figura con i com­ pagni. Questi sono tutti casi nei quali la persona si trova in una posizione conflittuale nella quale la situazione, l' ogget­ to, l'azione ecc. allo stesso tempo attira perché è positiva, perché piace ecc. , ma contemporaneamente respinge e fa paura, come esemplificato in figura 8.

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soggetto

j

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(0

Fi g u ra 8. A m b iva l e n z a .

Queste sono anche le situazioni nelle quali si trovano molti adolescenti quando litigano con i genitori, i quali, al di là dell'affetto provato per loro, vengono vissuti come un osta­ colo alla propria autonomia; oppure è il caso dei bambini anche di età minore, che allo stesso tempo amano e ammi­ rano i propri insegnanti, ma li temono anche, in quanto pos­ sono rimproverarli e punirli.

4.1.

L' i nfl u e n za d e i pe n s i e ri a u to m ati ci n egativi

Non ci soffermeremo a considerare l' influenza che hanno sui processi decisionali riguardanti la soluzione di problemi fat­ tori quali l'ambiente, la famiglia, la cultura, i gruppi di appartenenza, i pari, la pubblicità ecc. Vorremmo invece approfondire l'influenza di quegli atteggiamenti mentali che possono rendere molto difficoltosa la soluzione dei problemi a causa del loro ripetersi in modo rigido e continuativo. A livello mentale, esiste una serie di fattori come ad esempio l' autoefficacia percepita, di cui abbiamo già parlato, e il locus of contro!, di cui parleremo più avanti, che vanno a formare dei veri e propri " schemi " che funzionano come delle chiavi di lettura che filtrano le informazioni. In questo modo, la persona leggerà il mondo esterno attraverso la sua personale chiave di lettura, selezionando le informazioni coerenti con lo schema iniziale e scartando le altre. Questi schemi costi­ tuiscono anche dei modelli di se stessi e del mondo, di ciò che ci si può aspettare che avvenga, di ciò che possiamo fare. Tutti noi possediamo questi schemi di lettura in quanto ci

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permettono di stare nel mondo e di interpretarlo, di utiliz­ zare in modo selettivo e funzionale le informazioni, di rico­ struire i ricordi e programmare delle azioni ecc. I problemi possono sorgere nel momento in cui questi schemi diventa­ no poco flessibili e si basano su una lettura delle informazio­ ni troppo ristretta, dando vita, ad esempio, a tutte quelle forme di pensiero che possono diventare vere e proprie con­ vinzioni negative di fallimento e di insuccesso. Questi pen­ sieri, che dagli esperti vengono definiti «pensieri automatici negativi» (Beck, 1963 ; Fuligni, 2002 ) , spesso non hanno un vero e proprio collegamento con gli eventi, sono arbitrari e non costituiscono il risultato di un'attività di pensiero con­ trollata. Vediamo alcuni esempi di pensieri e atteggiamenti negativi: • immaginare che possano accadere cose catastrofiche; • essere convinti che gli altri pensino di noi solo cose . negative; • criticare in modo distruttivo quello che gli altri fanno; • pensare che, nonostante tutti gli sforzi possibili, le cose andranno sicuramente male; • fare paragoni con gli altri in senso svalutativo; • chiedere continuamente agli altri conferma delle pro. . prie capacita; • ritenere che le cose accadano per sfortuna/fortuna o per caso. '

Vi sono poi pensieri e atteggiamenti di tipo più flessibile e positivo, che sono utili per la soluzione efficace dei proble­ mi, come ad esempio: • essere consapevoli che tutti possono sbagliare; • accettare il fatto che non sempre si può essere i più bravi o i migliori; • credere che mettersi in gioco possa essere un rischio ma anche un'occasione di crescita;

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ritenere che se ci si impegna è più probabile che si ottengano risultati positivi. •

In particolare, i pensieri negativi possono trasformarsi in veri e propri comportamenti automatici o " profezie che si avve­ rano " . Poniamo ad esempio il caso di un ragazzo che è con­ vinto, nonostante abbia studiato, che la sua interrogazione andrà sicuramente male. La sua convinzione di fallire lo por­ terà a essere particolarmente agitato e nervoso, tanto che poi durante l'interrogazione apparirà effettivamente insicuro, balbettante e incerto sulle cose da dire e, come previsto, la sua valutazione sarà scarsa. In questo caso è stato attuato un circolo vizioso, che ha condotto il ragazzo esattamente dove prevedeva, al brutto voto ! Questo è un banale esempio di come quotidianamente i pensieri negativi possono influire sulla vita delle persone. E importante sottolineare che questi pensieri negativi sono frutto di distorsioni e che dovrebbero essere sempre considerati non come verità assolute e immu­ tabili, ma piuttosto come ipotesi da verificare. Gli esperti sottolineano che è inutile affrontare questo tipo di problema tentando di convincere la persona che il suo pensiero nega­ tivo, ad esempio: «Sono un fallimento», è falso. In questi casi le sole parole non bastano ! È invece necessario rendere la persona consapevole delle proprie emozioni, dei vantaggi e degli svantaggi che stanno alla base di questi meccanismi for­ nendole le abilità (skills) necessarie. '

4.2. L' i nfl u e n za d e l l oc u s of co ntro l

I pensieri negativi, così come quelli positivi, sono legati al livello di autoeffìcacia percepita e al locus of contro!. Il con­ cetto di autoeffìcacia è stato già ampiamente trattato, cer­ chiamo invece di capire in che cosa consiste il locus of con-

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trol. Il locus of contro! o luogo del controllo, è un concetto introdotto da Rotter (1966) , che sta a indicare il modo in cui le persone danno senso e attribuiscono una causalità agli eventi. Secondo l'autore, le persone hanno la tendenza a rico­ noscere la causa degli eventi, del proprio successo o insucces­ so e, quindi, anche la causa delle proprie azioni, all'esterno o all'interno di se stessi. Le persone che tendono a fare attribu­ zioni esterne (locus of contro l esterno) sono quelle che pen­ sano che le cose accadono sempre per colpa degli altri, perché ci si mettono in mezzo la fortuna o la sfortuna, perché deci­ de tutto il destino, perché la società è fatta in un certo modo ecc. Invece, le persone con locus of contro! interno sono quelle che riconoscono nella propria responsabilità, intenzio­ nalità e volontà la causa delle cose che accadono loro. Una persona con locus esterno, ad esempio, penserà e dirà cose del tipo: «Sono andato male al compito in classe perché come al solito sono stato sfortunato», «Non riuscirò mai ad avere quel lavoro, perché lo otterranno i soliti raccomanda­ ti !», una persona con locus interno farà, invece, affermazio­ ni come le seguenti: « Il compito in classe mi è andato male perché non ho studiato abbastanza !», «Non ho ottenuto quel lavoro perché non ero sufficientemente qualificato rispetto agli altri concorrenti» . Come è facile intuire, una persona che sistematicamente attribuisce la causa dei suoi insuccessi a fattori esterni si impegnerà poco nel cercare situazioni alternative ai problemi incontrati, perché non si sentirà arte­ fice del proprio destino. Al contrario, una persona che è in grado di individuare le proprie responsabilità avrà maggiori possibilità di migliorarsi e quindi anche di trovare nuove soluzioni ai problemi incontrati. Dal nostro punto di vista, approfondire queste tematiche con i ragazzi è estremamente utile, in quanto si tratta di variabili che influenzano i com­ portamenti. A questo proposito, vi proponiamo alcuni sem-

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plici esercizi adatti soprattutto ai bambini più grandi (da 910 anni in su) . Le esercitazioni sono pensate per far riflette­ re il singolo ragazzo sui propri pensieri negativi, ma possono essere facilmente riadattate, cambiando i contenuti delle schede, per discutere problemi che non riguardano solo il singolo studente, ma sono legati ad atteggiamenti dell'intero gruppo classe.

Esercizio 1 Il sabotatore interiore Rielaborato da Vop el (1981 )

Partecipanti Da 9-10 anni in su. Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Fogli da disegno, pennarelli. Obiettivi Potenziare la capacità di risolvere problemi; far riflettere sui pensieri distruttivi e negativi. Note Questo esercizio è utile soprattutto quando la perso­ na (o la classe) ha un progetto da realizzare, un obiettivo spe­ cifico da raggiungere. Svolgimento Spiegate che, quando le persone (i gruppi o le classi ecc. ) raggiungono i loro obiettivi è perché hanno la capacità di riconoscere quali fatti determinano le situazioni in cui si trovano e sono in grado di procurarsi le informa­ zioni necessarie per la risoluzione dei problemi. Inoltre, sono in grado di pianificare, riflettere sulle conseguenze di deter­ minate scelte e, quando prendono delle decisioni, mettono sempre a confronto i rischi e le prospettive di successo. Accade, però, che questo processo, queste capacità possano essere disturbate o messe in crisi da dei " sabotatori interio­ ri " . I sabotatori sono delle idee, delle vocine che si annidano dentro i pensieri delle persone e che portano al fallimento. Queste vocine possono dare dei giudizi negativi e farci pen­ sare cose come: « Sei troppo bravo per questa cosa ! » , «Nessuno vuoi fare le cose con te ! » . Oppure possono fare

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delle prev1s1oni negative: «Non ce la farai mai!», «Andrà tutto storto!». Altre volte danno degli ordini tipo: «Non ti devi far aiutare da nessuno!», «Devi essere sempre il miglio­ re!». In altre occasioni possono dare indicazioni contraddit­ torie come: «Devi prevalere sugli altri, ma non recar danno a nessuno», «Devi essere amato, ma non farti avvicinare da nessuno». Dopo aver introdotto l'esercizio, chiedete ai par­ tecipanti di pensare a un progetto importante che hanno intenzione di realizzare a breve termine (nel caso ci sia già un progetto di classe suddividete gli studenti in gruppi di lavoro), e dite loro di immaginare che questo progetto abbia successo. In seguito, dovranno segnare su un foglio che cosa sono in grado di fare per mettere in pericolo e distruggere questo progetto, come potrebbero sabotare loro stessi, che cosa potrebbe dir loro il sabotatore per farli fallire o rinun­ ciare. E per ogni azione del sabotatore individuata, dovran­ no chiedersi: che cosa li ha portati ad agire in quel modo? Che cosa volevano raggiungere agendo così? Volevano appagare qualche particolare bisogno facendo o dicendo quelle cose? Invitate poi i ragazzi a fare un disegno del sabotatore, a dar­ gli un nome e a immedesimarsi in lui, immaginando tutto quello che potrebbero fare per sabotare il progetto ( 10 minu­ ti). E, infine, invitateli ad annotare su un altro foglio la rispo­ sta alle seguenti domande: quale sarebbe il guadagno, che cosa otterreste, come sabotatore, dal fallimento del progetto? Che cosa pensate dei messaggi del sabotatore? Se poteste parlargli, quale possibilità di intesa potreste proporgli? (15 minuti). Dopo aver compilato le schede e risposto alle domande, riu­ nite la classe (eventualmente in gruppi) e cercate di pro-



T40.3

tatore interiore.

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Sul sito sono disponibili due schede di domande per l'esercizio del sabo-

muovere una discussione sui seguenti punti: è stato facile identificare il sabotato re che è dentro ogni uno di noi ? Che tipo di messaggi usa per influenzarci ? È possibile venire a patti con il sabotato re ? In quali circostanze, in passato, il sabotato re ha creato delle difficoltà ?

Esercizio 2 Il gioco dei ruoli Partecipanti Da 9-10 anni in su. Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Questionario sugli atteggiamenti distruttivi. Obiettivi Far riflettere i ragazzi sugli atteggiamenti autodi­ struttivi che mettono in atto. Note Spiegare ai ragazzi in che cosa consistono gli atteg­ giamenti autodistruttivi. Il gioco, in particolar modo con i bambini più piccoli, può essere fatto utilizzando la tecnica del role play (vedi esercizio 5 : Qual è il problema ?) in alterna­ tiva al gioco dei ruoli. Svolgimento Distribuite a ognuno la scheda sugli atteggia­ menti distruttivi, fategliela leggere e compilare. Chiedete ai ragazzi di pensare a situazioni nelle quali hanno messo in atto i comportamenti distruttivi elencati nella scheda e nei quali si sono riconosciuti. Suddividete la classe in due squa­ dre e fate recitare a ciascun componente tre esperienze nelle quali sente di avere messo in atto i tre atteggiamenti distrut­ tivi più frequenti in lui. La squadra di chi sta recitando dovrà indovinare di quale atteggiamento si tratta. È importante sottolineare che l'attore di turno dovrà enfatizzare i compor­ tamenti. Mano a mano che gli atteggiamenti vengono rap­ presentati, è bene elencarli sulla lavagna. Una volta termina­ to il gioco dei ruoli sarà opportuno discutere quanto emerso

T40.4

S u l sito è d is p o n i bi l e u na s c h e d a s u g l i atteggia m e nti a utod istruttivi .

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e stimolare la classe con domande come: che cosa avete imparato di nuovo ? È stato facile capire quali atteggiamenti autolesionistici mettete in atto ? Che cosa si potrebbe fare per non ricadere in questa trappola ? Quali sono i vantaggi che traete dal mettere in atto questi comportamenti ?

Esercizio 3 La mentalità vittimistica Rielaborato da Vo p el (1 981 )

Partecipanti Da 9-10 anni in su. Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Cartellone, schede sulla mentalità vittimistica. Obiettivi Far riflettere i ragazzi sul fatto che in alcune occasioni possono avere una mentalità vittimistica e passiva, che li fa rinunciare o scappare davanti alle difficoltà . Note E necessario spiegare ai ragazzi, anche per sommi capi, che a volte le persone, di fronte alle difficoltà, preferi­ scono assumere degli atteggiamenti vittimistici o passivi piuttosto che impegnarsi e mettersi in gioco. In quest'ottica, è facile che le persone si sentano poco responsabili delle cose che accadono loro. Tutto diventa colpa della sfortuna, del caso ecc. , in questo modo non si fa altro che affibbiare la colpa dei nostri problemi e delle cose che non vanno agli altri. Invece, le persone che non fanno le vittime, messe davanti a delle difficoltà, si dicono: « O K ! Ho avuto delle dif­ ficoltà e ho sbagliato delle cose, ma se elaborerò un piano riuscirò a superare questi problemi e ad arrivare dove mi ero prefissato di arrivare ! » . Svolgimento Una volta introdotto il tema, distribuite a ogni ragazzo una scheda come la seguente (l'elenco può essere ria­ dattato a seconda delle esigenze) e lasciate almeno 15 minuti di tempo per completarla. Una volta completate le schede, sud­ dividete la classe in gruppi di massimo 4 persone e invitate i ragazzi a raccontarsi le cose sulle quali hanno riflettuto e a ....

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Qu estio n a rio s u l la m e nta l ità vittim istica 140.5 A volte, di fronte ai problemi o agli errori, capita di fuggire o di dire che siamo stati proprio sfortunati, che non è colpa no­ stra, insomma di fare le vittime della situazione! Questa " ma­ lattia della mentalità vittimistica" colpisce un po' tutti e, per superarla, è utile imparare a riconoscerne i sintomi, in modo da poter fare qualche cosa per non ricaderci! Le persone che hanno una mentalità vittimistica dicono cose tipo: « N on è colpa mia! Sono il solito sfigato! » , « È tutta colpa di. ... » , «Se non fosse successo... allora io... » ecc. O ra provate a pensare ad almeno 3 situazioni diverse, nelle quali avete agito passivamente o nelle quali vi siete sentiti vittime della situazione e provate a cercare le persone, le cose, le forze sconosciute che ritenete responsabili dell'ac­ caduta . P rovate a leggere questa lista e segnate con una crocetta i fattori che ritenete essere causa delle vostre difficoltà ; se ne­ cessario potete fare delle aggiunte per completare la lista. Avete 15 minuti di tempo.

D D D D D D D D D

mio padre mia madre i miei parenti la storia della mia vita un nemico in particolare .

1 m1 e1 am1 c1 la mia classe il/la mio/a ragazzo/a la pubblicità

T40.5

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i miei insegnanti la mia intelligenza l'epoca in cui viviamo la società la poi itica le multinazionali il governo altro......................................... altro.........................................

S u l sito è d is p o n i bi l e i l q u esti o n a rio sta m pa b i l e i n fo rmato A4.

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leggersi a vicenda la scheda che hanno completato. In seguito, il gruppo dovrà fare domande alla persona che sta raccon­ tando la sua esperienza di passività, invitandola a riflettere sui possibili modi, comportamenti ecc. che avrebbe potuto adottare per evitare di essere passivo (30 minuti) . Una volta terminata la discussione nei sottogruppi, riunite la classe e analizzate insieme quanto emerso. Potete anche scrivere su un cartellone le esperienze di passività più sentite o più ricor­ renti e le strategie che sono state suggerite dal gruppo come possibili soluzioni. Stimolate la classe con domande come: esistono dei sintomi fisici (voce bassa, respiro grosso, mani sudate ecc.) che vi fanno accorgere del fatto che state assu­ mendo un atteggiamento vittimistico ? La mentalità vittimi­ stica può anche riguardare dei gruppi di amici, la classe ecc. ? Come vi siete sentiti a raccontare le vostre esperienze ? Sono stati utili i suggerimenti dei compagni ? Che cosa si può fare per sentirsi più sicuri e competenti ?

4.3. le fas i d e l p ro b l e m s o lvi n g

Il problem solving potrebbe essere definito come un approccio didattico teso a sviluppare, sul piano psicologico, comporta­ mentale e operativo l'abilità di soluzione di problemi. Generalmente il problem solving viene associato allo svilup­ po delle abilità logico-matematiche di risoluzione di proble­ mi, anche se, come abbiamo visto, questa non si rivela l' uni­ ca area didattica nella quale trovano applicazione tali abilità. Nonostante ciò, gli innumerevoli libri e articoli scientifici che hanno approfondito la tematica fanno riferimento soprattutto a strategie inerenti la soluzione di problemi logico-matematici, in realtà molto distanti e diversi dai problemi della vita quoti­ diana che le persone si trovano ad affrontare giorno per gior­ no. Inoltre, le metodologie proposte per la soluzione di pro-

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blemi sono molte e sono diverse a seconda della tipologia di soggetti per le quali sono state proposte (bambini, adolescenti, adulti) , delle cornici teoriche di riferimento, dei diversi possi­ bili livelli di competenza (novizi o esperti) e dei campi di appli­ cazione per le quali sono state pensate (scuola, azienda ecc. ) . Per aiutare le persone ad apprendere come affrontare i proble­ mi nel modo più funzionale, in particolar modo se questi pro­ blemi derivano da conflitti interpersonali, è necessario inse­ gnare a considerare con attenzione le varie fasi che costituisco­ no il processo di soluzione (il problem solving) . Questo pro­ cesso è caratterizzato da cinque aspetti. • L'atteggiamento generale della persona: perché la perso­ na deve essere in grado di riconoscere che è normale incon­ trare situazioni problematiche; deve credere che queste situa­ zioni problematiche possono essere affrontate (locus of con­ tro!, autoefficacia percepita ecc. ) ; deve essere in grado di riconoscere una situazione problematica al suo insorgere; deve essere in grado di non reagire impulsivamente, ad esempio fuggendo dalla situazione o mettendo in atto com­ portamenti di emergenza. • La definizione del problema: spesso la mancata soluzio­ ne di un problema dipende dal fatto che non è stata fatta una giusta definizione dello stesso. È perciò necessario definire il problema in termini concreti e verificabili, stabilendo delle mete ragionevoli e chiare. • La produzione di possibili alternative: per trovare la soluzione migliore, spesso è utile produrre quante più alter­ native possibili e, solo successivamente, scegliere tra queste la migliore anche in base a un'analisi dei costi e benefici. Prendere una decisione: una volta prodotte molte alter­ • native, queste devono essere esaminate in modo da sceglier­ ne solo una, utilizzando dei criteri predefiniti. Risulta importante sottolineare che, soprattutto in questa fase, la scelta delle soluzioni è influenzata da fattori come ad esem-

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pio la società, la famiglia, i pari ecc. Poniamo ad esempio il caso di un ragazzo che è fortemente condizionato dalla fami­ glia a raggi ungere delle mete sociali molto al te e che deve affrontare un problema insorto proprio in questo ambito di vita. In questo caso, mete come il dominio, il successo, la vit­ toria a ogni costo porteranno il ragazzo a selezionare solo determinate alternative comportamentali tra tutte quelle possibili, condizionando fortemente le sue scelte. • Verificare: una volta presa la decisione e, quindi, fatta la scelta tra le possibili alternative, è necessario verificare anche se questa ha effettivamente funzionato. Nel caso in cui questo non sta avvenuto, sara necessario tn1z1are un nuovo processo di problem solving. .

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.

.

.

.

Da quanto detto, possiamo distinguere sei fasi nelle quali suddividere il problem solving. Se immaginiamo il percorso che dobbiamo fare per arrivare dal problema alla soluzione, come una scala, le fasi che adesso andremo ad approfondire corrispondono ai gradini che ci permetteranno di scavalcare il muro (il problema) , conducendoci alla soluzione ( F I G . g) .

Fi g u ra g .

l sei

g ra d i n i d e l p ro b l e m so lvi n g.

L'apprendimento da parte dei ragazzi delle fasi del problem solving richiede naturalmente un training che necessita di tempo e sforzi, anche da parte degli insegnanti. Soprattutto

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all'inizio, in particolar modo con i bambini più piccoli o in situazioni altamente problematiche, è bene che l' insegnante mantenga un ruolo di facilitatore lungo tutto il percorso. In questo modo, attraverso l'uso di esercitazioni, situazioni sti­ molo ecc. , faciliterà nei ragazzi l'apprendimento delle abilità (cognitive e relazionali) necessarie affinché possa essere risol­ to il problema. Così, sarà più probabile che anche in futuro 1 ragazzi possano mettere tn atto autonomamente e spontaneamente (in tutte le situazioni problematiche che incontre­ ranno) le stesse strategie apprese in classe. Cerchiamo ora di approfondire le sei fasi evidenziando di ognuna i momenti chiave. .

.

.

Fa se 1 : I n d ivi d u a re i l p ro b l e m a

Sembrerà banale, ma la prima cosa da fare, ancor prima di cercare la soluzione, è dare una precisa e concordata defini­ zione di quello che è il problema. Questo vale sia quando si tratta di un problema personale (in cui è coinvolta una sin­ gola persona) , sia quando si tratta di un problema che coin­ volge più persone. Soprattutto in quest' ultimo caso, le per­ sone che sono coinvolte e che partecipano al problem sol­ ving (ad esempio il gruppo classe) devono definire ed espor­ re agli altri le proprie esigenze non soddisfatte e devono esse­ re in grado di ascoltare le esigenze altrui. Solo in questo modo si creeranno le condizioni di disponibilità reciproca affinché possa essere trovata una soluzione soddisfacente per tutti. Il facilitatore (cioè l'insegnante che medierà la situa­ zione) dovrà cercare di far riflettere i partecipanti cercando di individuare, proprio come in una sorta di caccia al tesoro, il vero problema. Accade spesso che il problema emerso per primo sia solo un falso problema o un problema di copertu­ ra, mentre il vero problema emerga solo dopo un adeguato

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approfondimento. Facciamo un esempio: poniamo il caso di due ragazzi, Mario e Giacomo, che non si sopportano e liti­ gano spesso creando scompiglio in tutta la classe. La maestra chiede spiegazioni di tutte queste litigate e scopre che tutto è iniziato il primo giorno di scuola, quando, al momento di scegliersi il banco, sia Mario che Giacomo desideravano esat­ tamente lo stesso posto. Giacomo, che è più alto e forte di Mario, ottiene l'ambito posto e Mario è costretto a prender­ ne un altro. A prima vista, il problema potrebbe sembrare semplice: Giacomo e Mario devono imparare a trovare un accordo. Se però andassimo più a fondo, ad esempio doman­ dando ai due ragazzi come mai è per loro così importante sedersi in quel banco, potremmo scoprire cose molto inte­ ressanti, come ad esempio il fatto che Mario si sente escluso dalla classe e sedere in quel banco, che è vicino a quello di Simone, il leader dei compagni, è per lui il modo di trovare un suo spazio all'interno del gruppo dei ragazzi. In questo modo, dal falso problema di Mario (litigare con Giacomo) arriveremmo al vero problema (sentirsi escluso dalla classe) . Naturalmente questo percorso non deve essere frutto di un interrogatorio, ma di un processo di conoscenza e approfon­ dimento dei propri desideri ed esigenze da parte dei ragazzi stessi. Questo allenamento all'ascolto di se stessi e degli altri può essere fatto anche attraverso l'uso di alcuni esercizi come quelli proposti di seguito.

Esercizio

4

Se io fossi. . .

Partecipanti Da 9-10 anni in su. Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Fogli e penne. Obiettivi Aiutare i ragazzi a osservare i conflitti e i proble­ mi dalla parte dell'altro, in modo che sia più semplice arri­ vare a una soluzione pacifica della contesa.

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Note Spiegare ai partecipanti quali sono gli obiettivi dell'e­ sercitazione, esplicitando che verrà insegnato loro un metodo che permetterà di affrontare meglio i problemi di comunica­ zione reciproca. Soffermarsi sul fatto che, in situazioni di con­ tesa, è sempre molto utile imparare a capire il punto di vista delle altre persone e che spesso, quando si litiga, ci si dicono molte cattiverie, ma si nascondono i veri sentimenti, e cioè che ci si sente insicuri, feriti, attaccati, non rispettati, dimen­ ticati ecc. Perciò, in queste situazioni, è sempre utile riflettere su come ci si sente e su come si sentono gli altri. Svolgimento Invitate tutti a prendere un foglio e una penna e a pensare a una situazione conflittuale che stanno vivendo in questo periodo (nella loro vita in generale o nella classe) o a una persona con la quale sentono di essere in disaccordo. Dite loro di immaginare che questa persona scri­ va una lettera nella quale spiega quali sono le cose che le sono state fatte che la infastidiscono, che la fanno soffrire, per le quali si sente ferita ecc. In sostanza, dovranno imma­ ginare che cosa potrebbe dire questa persona se avesse deci­ so di essere sincera con loro. Date ai ragazzi almeno 20 minuti per scrivere la lettera. Scaduto il tempo, dividete la classe in gruppetti di tre elementi, e invitate i sottogruppi a confrontarsi su quanto hanno scritto. Dovranno domandar­ si come si sono sentiti, quali sono le cose a cui hanno pensa­ to, se è stato facile o difficile immedesimarsi nell'altro, se hanno capito qualcosa di più rispetto al loro comportamen­ to in quella situazione ecc. Terminato il confronto, potran­ no, a turno, leggere le lettere al loro sottogruppo, senza però commentare quanto hanno scritto. Terminato il lavoro dei sottogruppi, dovranno nuovamente separarsi e scrivere una lettera di risposta a quella precedente (altri 20 minuti) . Termi nata la seconda lettera, dovranno riformare i sotto­ gruppi e discutere su come si sono sentiti, se è stato facile scrivere la risposta, se sentono di aver detto e capito cose

nuove ecc. Sarà poi utile discutere con tutta la classe quanto emerso dall'esercizio. Il facilitato re dovrà stimolare la classe con domande come: vi è piaciuto il gioco ? Avete imparato qualcosa di nuovo ? Siete persone che dimenticano facilmen­ te il punto di vista altrui ? Siete persone che cercano sempre di vincere nei conflitti con gli altri ? Avete capito quali sono i vostri atteggiamenti che potrebbero irritare gli altri ?

Esercizio 5 Qual è il problema ? Partecipanti Da 9-10 anni in su. Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Fogli e penne. Obiettivi Sperimentare dal vivo le situazioni conflittuali o problematiche, esplorare in modo attivo atteggiamenti ed emozioni propri e altrui in un contesto controllato. Note Questo esercizio fa uso di una tecnica molto nota, il role play, nella quale si chiede ai partecipanti di impersonare un ruolo, di mettere in scena una situazione immaginaria o reale, definita dal conduttore o dal gruppo stesso. Una parte del gruppo parteciperà in qualità di attore, una parte in qua­ lità di osservatore. Il role play è una tecnica jolly, facilmente adattabile a diverse situazioni e utilizzabile rispetto a numero­ si obiettivi, oltre a essere anche molto divertente ! Svolgimento Invitate i ragazzi a individuare il problema che vogliono rappresentare, un problema che li deve riguar­ dare da vicino. Per semplificare le cose, è possibile dare indi­ cazioni (ad esempio suggerire loro di rappresentare azioni trasgressive o dispute realmente accadute all' interno della classe ecc. ) o invitarli a scrivere in forma anonima, su un foglietto, il loro problema, per poi, una volta letti tutti i foglietti, decidere insieme qual è il problema più rilevante o urgente. Una volta individuato il problema, devono essere scelti il gruppo di attori e il gruppo di osservatori. Il grup-

po di attori dovrà decidere come rappresentare il tema emerso, suddividendosi le parti, decidendo i dialoghi ecc. Agli osservatori sarà invece consegnata una scheda con alcu­ ne indicazioni rispetto alle cose da osservare ad esempio il tipo di comunicazione, se si è giunti a una soluzione ecc. Un esempio di scheda di osservazione potrebbe essere il seguente. Sch eda d i osservazio n e 140.6 N o m e d e l l 'osse rvatore: ........................................... Età : ..................................... . L u ogo d e l l ' osse rva zio n e : ........................................ Data : . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . C hi sto osse rva n d o? C h e cosa sta fa ce n d o? C h e cosa sta d ice n d o? Si fa capi re d a g l i a ltri?

È

col l a borativo? Co m e ?

I l p ro b l e m a è chia ro? Qu a l i sol u zio n i sono e m e rse? Qu a l i d ecisio n i ve n go n o p rese? Ve n go n o t e n ute i n co nsid e ra zion e l e idee d i t u tti? N ote: . . . . . . ..................... . . .............................. . . ..................................... ........................... ....... .

Dopo la rappresentazione, sarà utile creare un momento di riflessione durante il quale il gruppo di osservatori esporrà

T40.6

S u l s ito è d i s po n i bi l e la scheda sta m pa bi l e in fo rmato A4.

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quanto ha segnato sulle schede e il gruppo di attori avrà la possibilità di dire come si è sentito in quella particolare situazione. Inoltre, il facilitatore dovrebbe far riflettere sulle eventuali soluzioni messe in pratica dagli attori per cercare di risolvere il problema, sulla loro efficacia o inefficacia e sulle possibili alternative.

Fa s e 2 : P ro po rre l e poss i b i l i so l u zi o n i

Una volta identificato il problema, è necessario cercare delle possibili soluzioni. Quanto più queste saranno nume­ rose, tanto più sarà facile che tra esse ce ne sia una partico­ larmente efficace. Questa fase, detta anche divergente (cfr. F l G . lO ) , è la fase nella quale deve essere stimolata la creati­ vità delle persone in modo da creare più alternative possi­ bili. Potremmo rappresentare questa fase come un imbuto rovesciato, da un unico problema vengono create più solu­ zioni, solo successivamente si passerà alla selezione delle idee (fase convergente) e quindi al rovesciamento dell'im­ buto (da più soluzioni possibili a una sola attuabile) . È necessario che tutti partecipino a questa fase e che le idee che emergono vengano tutte prese in considerazione senza essere giudicate o valutate. Tutti devono sentirsi liberi di esprimersi e di dire ciò che pensano, anche se lo ritengono sciocco, strano, poco importante. I n questa fase, è fonda­ mentale il ruolo di mediatore dell'insegnante, che dovrà arginare gli inevitabili commenti, prese in giro e risatine. L' insegnante dovrà far comprendere ai ragazzi che anche le idee che a primo avviso sembrano banali o illogiche non devono essere scartate, in quanto, a volte, nella loro stra­ nezza, possono rivelarsi assolutamente geniali e risolutive oppure, se opportunamente rielaborare, possono fornire stimoli utili o importanti suggerimenti .

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Fase divergente: produzione di idee

Fase co nverge nte: se l ezio n e d i idee

Fi g u ra 10. Fas e d ive rge nte e fa se co nve rge nte.

Un metodo che può essere usato in questa fase è il brainstor­ ming, vediamo in che cosa consiste.

Esercizio 6 La tempesta di cervelli ( 1 a parte, fase divergente) Partecipanti Da 7-8 anni in su (più i bambini sono picco­ li, più le istruzioni andranno semplificate) . Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Un cartellone o una lavagna. Obiettivi Facilitare la creazione di idee, stimolare la fanta­ sia e la creatività, facilitare il lavoro di gruppo. Note Affinché il brainstorming funzioni, è necessario che il facilitato re coinvolga tutti gli studenti nell'attività: nessuno deve rimanere escluso. Svolgimento Il facilitatore scrive al centro della lavagna o di un cartellone il tema della discussione, nel nostro caso il problema. Ognuno, a turno, dovrà esprimere brevemente la propria soluzione, che verrà segnata sul cartellone. Prima di dare la parola al gruppo, dovranno essere esplicitate alcune regole che dovranno essere rispettate da tutti. • Nessuno può mostrare approvazione né esprimere cri­ tiche. Questo perché, nel momento in cui vengono espressi giudizi positivi o negativi, è possibile che gli altri membri del gruppo, vedendo attaccare le loro idee, si sentano offesi.

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Ogni persona può dire tutto e fare le proposte più inu­ suali o apparentemente irrealizzabili. In un secondo momen­ to sarà più facile arrivare a una proposta vantaggiosa parten­ do da un'idea pazza che non da una noiosa. Se non emergo­ no idee stravaganti, significa che il gruppo si sta censurando. • Anche la quantità delle idee espresse è importante. Più proposte vengono fatte, più la qualità di queste migliora. • Ogni partecipante ha il diritto di far sue le proposte degli altri e trasformarle. Questo perché l'unione di idee diverse può portare a nuove proposte e quindi a un progres­ so nel lavoro di gruppo . .... • E importante parlare uno alla volta e parlare tutti. • I ritmi della discussione vanno regolati in base al fatto che c'è una persona che dovrà annotare tutte le idee sulla lavagna (o cartellone) . • Il gioco finisce quando tutte le idee saranno esaurite e nessuno avrà più niente da aggiungere. •

Fa se 3: Va l u ta re l e so l u zi o n i e m e rse

Questa è la fase in cui tutte le idee emerse vanno valutate e selezionate e che corrisponde alla fase convergente (cfr. F I G .... lO) . E importante sottolineare che ogni partecipante è libero di esprimere il proprio parere e le proprie idee, purché sia fatto in modo costruttivo e senza offendere o ridicolizzare gli altri. Tra tutte quelle emerse, saranno tenute solo le soluzio­ ni che hanno trovato il consenso di tutti. •

Esercizio

7

La tempesta di cervelli ( 2a parte, fase conver­

gente) Una volta conclusa la fase di produzione delle idee (fase divergente) , queste dovranno essere rilette e discusse insieme

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per poter scegliere quelle che sembrano essere più significati­ ve. In questa fase è bene stimolare i ragazzi con domande come: siete soddisfatti delle idee emerse ? Immaginavate che ce ne sarebbero state così tante ? Quale punto vi sembra par­ ticolarmente importante ? Quali idee vi hanno particolar­ mente colpito e perché ? Vi è piaciuta questa tecnica ? Siete riusciti a essere creativi ? Le idee degli altri vi sono state utili o le avete trovate irritanti ?

Fa se 4: I n d ivi d u a re l a s o l u zi o n e m i gl i o re

Questa fase, se le precedenti sono state svolte con precisione, risulterà essere molto breve. Infatti, le idee rimaste dovranno essere semplicemente vagliate per poter trovare la migliore fra tutte. Il facilitatore avrà il compito di far riflettere il gruppo sui diversi aspetti che possono far pendere l'ago della bilancia più a favore di un'idea che di un'altra. Ad esempio, sarà impor­ tante valutare fattori come la facilità di realizzazione dell'idea, se ci sono dei costi da sostenere, se serve la collaborazione di qualcuno (ad esempio un adulto) , se occorre poco o molto tempo ecc. È di fondamentale importanza che tutti siano d' ac­ cordo. A questo scopo, può essere utile il seguente esercizio.

Esercizio 8 La tabella della decisione Rielaborato da Vop el (1981 )

Partecipanti Da 10 anni in su (più i bambini sono piccoli, più le istruzioni andranno semplificate) . Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Un cartellone o una lavagna. Obiettivi Chiarire i diversi punti di vista, prendere una decisione comune.

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Note Questo esercizio è utile soprattutto quando il gruppo non riesce a decidere tra due opzioni, nonostante queste siano state attentamente vagliate. Svolgimento Disegnare su un cartellone o alla lavagna la seguente tabella della decisione: G ra d uato ria

O b i ettivi

O p zi o n i

Va l o re d e l l e o pzi o n i

Pensando al problema che stiamo cercando di risolvere, il gruppo dovrà riassumere nella colonna " obiettivi " gli obiet­ tivi che vuole raggiungere, questi dovranno poi essere nume­ rati in ordine di importanza nella colonna " graduatoria" . N ella colonna " opzioni " dovranno essere invece segnate le diverse soluzioni trovate e, infine, nella colonna " valore delle opzioni " dovranno essere segnati gli aspetti positivi delle diverse soluzioni. Una volta completata, la tabella dovrà essere discussa con tutti .

Esercizio 9 Il confronto Partecipanti Da 10 anni in su. Tempo Almeno 6o minuti. Materiale Un cartellone o una lavagna. Obiettivi Valutare gli aspetti negativi e positivi, prendere una decisione comune. Note Anche questo esercizio risulta utile in situazioni di

zmpasse. Svolgimento Disegnare sulla lavagna o su un cartellone il .

seguente schema:

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Sol uzio n e n . 1

Sol uzio ne n. 1

Sol uzio n e n . 2

So l uzio n e n . 2

Aspetti positivi

Aspetti n e gativi

Aspetti positivi

Aspetti n e gativi

Il facilitatore, una volta disegnata la tabella, dovrà invitare il gruppo a riflettere sugli aspetti positivi delle soluzioni emerse e sugli eventuali aspetti negativi . A turno ogni per­ sona dovrà scrivere nella tabella quello che pensa. Un a volta completata la tabella ed esaurite le critiche e le appro­ vazioni, queste dovranno essere numerate in ordine di importanza. Dovrà quindi essere disegnata una seconda tabella, nella quale dovranno essere trascritti i cinque aspetti positiVI p1u Importanti e 1 cinque aspetti negatiVI p1u importanti per ognuna delle due soluzioni prese in esame. A questo punto, il facilitatore dovrà invitare il gruppo a trovare il modo per neutralizzare gli aspetti negativi delle soluzioni emerse oppure per fare in modo che gli aspetti positivi di una delle due opzioni vengano sviluppati anche nell'altra. In questo modo si creerà una nuova soluzione, che accorperà gli aspetti positivi di entrambe le opzioni prese 1n esame. .

.

.

.

. '

.

.

.

.

.

.

.

. '

.

Fa se 5 : Sta bi l i re i l m od o i n c u i attua re l a s o l uzi o n e sce l ta

Una volta scelta la soluzione che si ritiene più adatta al pro­ blema, è necessario decidere come attuarla. I ragazzi dovranno suddividersi i compiti, pensare ai luoghi, agli strumenti da utilizzare ecc. E importante che tutti i dettagli vengano valutati e discussi e che alla fine tutti sappiano che cosa fare, come farlo e quando farlo. Per facilitare il ....

71

compito, può essere utile fornire al gruppo delle schede con dei suggerimenti sulle cose che devono tenere in considera­ zione, come la seguente:



Cose da decidere: ....................................................................................................

T40.7

La soluzione trovata è: ............................................................................................. Che cosa dobbiamo fare: ...................................................................................... . Chi lo deve fare: ............................................................................................................ Quando e dove: ........................................................................................................... .. Materiale che ci serve: ............................................................................................ Altre persone che devono essere coinvolte: ............................................ Altro: .....................................................................................................................................

Facciamo un esempio: poniamo che il problema da risolvere sia evitare che in classe si verifichino comportamenti di bul­ lismo o prepotenza nei confronti di alcuni bambini e che la soluzione trovata dalla classe sia quella di stilare un decalogo di regole comportamentali decise da tutti, accettate da tutti e che tutti devono rispettare. Il programma di attuazione potrebbe essere il seguente. Che cosa dobbiamo fare? •

Dobbiamo riunirei e discutere insieme delle regole che

vogliamo adottare all'interno della classe. •

Per la discussione possiamo utilizzare l'esercizio del

brainstorming.

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Sul sito è disponibile la scheda stampabile in formato A4.

Persone coinvolte Tutta la classe. L' insegnante.

• •

Quando e dove? La discussione può essere fatta durante l'orario scolastico. La discussione può avvenire in classe.

• •

Materiale che ci serve e dove reperirlo Cartelloni e pennarelli dove scrivere le idee del brainstorm1ng. • Un cartellone più grande dove scrivere le regole di comportamento. • Giornali e fumetti da ritagliare per abbellire il cartellone delle regole. • I cartelloni li comprano le insegnanti, i colori devono portarli tutti (perché quelli che abbiamo in classe non fun­ zionano bene ! ) , anche i giornali e i fumetti devono portarli tuttl. •

.

.

Altre persone da coinvolgere La psicologa della scuola per dei suggerimenti. • Tutte le altre insegnanti, alle quali bisognerà spiegare il cartellone. •

Altro Ricordarsi di fare più copie del regolamento, da distribuire a tutta la classe. •

Fa se 6 : Ve rifi ca re l a so l u zi o n e sce l ta

L'ultima fase del percorso è una fase di bilanci e verifiche. Una volta deciso come risolvere il problema e messa in atto

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la soluzione che si ritiene più efficace, è importante verifica­ re se effettivamente sono stati raggiunti gli obiettivi prefissa­ ti, se si sono verificati dei problemi o delle difficoltà partico­ lari, se poteva essere fatto qualcosa di più o di meno del pre­ visto e, infine, se sono tutti soddisfatti dei risultati ottenuti. È importante effettuare una verifica anche perché la validità della soluzione scelta potrebbe essere venuta a mancare a causa del verificarsi di nuove condizioni esterne o dell' emer­ gere di nuove esigenze da parte delle persone coinvolte. In questo caso, i nuovi elementi dovranno essere presi in consi­ derazione e analizzati per verificare se è necessario effettuare delle modifiche alla strategia di soluzione scelta o se, invece, è necessario ricominciare da capo il processo di problem sol­ ving per poter arrivare a una n uova soluzione. È quindi necessario riservare dei momenti specifici durante i quali la classe avrà l'occasione di fare il bilancio della situazione. Per facilitare la riflessione possono essere utili delle schede pre­ parate dall'insegnante, che i ragazzi, anche divisi per sotto­ gruppi, dovranno completare e analizzare. Queste schede dovrebbero stimolare i ragazzi a riflettere su q uest1on1 come: • il loro grado di soddisfazione rispetto al raggiungi­ mento degli obiettivi (se hanno riscontrato i cambiamenti o i miglioramenti che ci si aspettava) ; • i problemi che hanno riscontrato nell'attuare la soluzione concordata; • se sono intervenuti dei cambiamenti che hanno reso inefficace la soluzione pensata; • se tutti hanno svolto i loro compiti; • se tutti hanno partecipato attivamente a mettere in atto la soluzione pensata; • se ci sono stati elementi che non sono stati presi sufficientemente in considerazione fin dall'inizio; • che cosa può essere fatto per cercare di rimediare la .

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.

situazione (nel caso la soluzione attuata non sia stata suffi­ ciente a risolvere il problema) ; • se è necessario trovare una nuova soluzione al problema. Un esempio di scheda per la verifica potrebbe essere il seguente .

• 140.8

Sch eda d i verifica

N ome: . ... ..... .... ..... ......... ......... ..... .... ..... ......... ... .

D ata: .................................................. .

I l problema era: .......................................................................................................... .. La soluzione era: ........................................................................................................ .. •

È stato raggiunto l'obiettivo che ci eravamo prefissati ( si sono

verificati i cambiamenti o miglioramenti che mi aspettavo) ? •

Quanto sono soddisfatto dei risultati?



Si sono verificati dei problemi o dei cambiamenti che non

mi aspettavo di incontrare? H ann o tutti svolto i loro compiti e rispettato le decisioni prese insieme? •

• Ci sono stati degli elemen ti che non sono stati presi sufficientemente in considerazione fin dall'inizio



Che cosa può essere fatto per cercare di rimediare la

situazione (nel caso la soluzione attuata non sia stata sufficien te a risolvere il problem a) ? •

È necessario trovare un a n uova soluzione al problema?



Altro:

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ..

T40.8

S u l sito è d i s po n i b i l e l a scheda sta m pa b i l e in fo rm ato A4.

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Nel caso dovessero emergere problemi o insoddisfazioni, sarà necessario riflettere insieme a tutto il gruppo classe rispetto ai problemi emersi durante la discussione dei sotto­ gruppi e sulle possibili nuove soluzioni da attuare. Anche se a una prima verifica non dovessero emergere par­ ticolari problemi, è sempre opportuno anticipare che gli incontri di verifica saranno più di uno e si distribuiranno nel tempo . Ritorniamo all'esempio della classe con proble­ mi di bullismo, che come soluzione aveva scelto di pensare a un regolamento che suggerisse i comportamenti da attua­ re e non attuare in classe. In questo caso, potrebbe essere utile fare una verifica sul funzionamento del regolamento dopo qualche mese dalla sua e n t rata in vigore e, anche se dovesse funzionare alla perfezione, potrebbe essere oppor­ tuno prevedere un momento di riflessione anche verso la fine dell' anno scolastico . In questo modo, i ragazzi potreb­ bero fare un vero bilancio dell'esperienza e decidere se mantenere lo stesso regolamento anche l'anno successivo o se, eventualmente, apportarvi alcune modifiche, se è neces­ sario coinvolgere altre persone come ad esempio altre clas­ si, altri insegnanti, i genitori ecc.

4.4. I l ru o l o d e l l ' i n s e g n a nte n e l p rocesso d i co ntro l l o

Naturalmente, durante tutto il processo di problem solving, è necessario che gli insegnanti abbiano bene in me n te la sequenza di fasi da percorrere, in modo da non saltare alcun passaggio e da garantire una coerenza interna a tutto il pro­ cesso. Per praticità, abbiamo schematizzato una tabella che l'insegnante dovrebbe sempre tenere con sé e nella quale possono essere riassunte tutte le fasi del problem solving, gli esercizi utilizzati e annotati gli elementi importanti emersi

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durante tutte le fasi (decisioni prese, problemi emersi nella classe ecc. ) . Ta bella 2 Tabella di controllo per gli insegnan ti Data

Ese rcizi

Fa si

E l e m e nti i m porta nti e m ersi d u ra nte l e ese rcitazioni

Osse rvazio n i

l n d iv i d u a z i o n e d e l p ro b l e m a P ro p o r re l e p o ss i b i l i soluzioni Va l uta z i o n e d e l l e s o l u z i o n i e m e rse l n d ivi d u a z i o n e d e l l a s o l u z i o n e m i g l i o re Sta b i l i re i l m o d o i n c u i att u a re l a s o l u z i o n e Ve rifi c h e

4.5. I l p ro b l e m s o lvi n g e le attività d i co ntro l l o m eta cog n itive

Le fasi del problem solving prevedono diversi momenti durante i quali possono essere sviluppati diversi processi di controllo, anche a livello mentale. L'idea di base del training metacognitivo è che le performance della persona e la solu­ zione dei problemi (in particolar modo problemi di tipo emozionale e motivazionale) risultino migliori se questa diventa consapevole dei propri processi mentali (Meazzini, Galeazzi, 2004; Meazzini, 1997) . Le attività metacognitive di



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S u l sito è d is po n i b i l e l a ta b e l la sta m pa bi l e i n fo rmato A4.

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T40.9

controllo corrispondono a domande interne che la persona dovrebbe porsi e che, se diventano consapevoli, permettono di autocorreggersi, di riflettere su quanto sta avvenendo, di proseguire da una tappa all'altra evitando di dimenticare cose importanti, di analizzare tutti i dati a disposizione evitando di commettere errori. Il problem solving metacognitivo può essere considerato come una palestra nella quale i ragazzi pos­ sono allenarsi ad autoregolarsi, poiché, in modo sempre più puntuale, saranno in grado di monitorare, di valutare i gradi di utilità, necessità, appropriatezza dei diversi processi che concorrono a definire la soluzione al problema. Senza conta­ re che, in questo modo, viene facilitata l'attivazione delle stra­ tegie apprese anche ad altri contesti e situazioni. Stimolare i ragazzi, durante ogni fase del problem solving, a effettuare delle attività metacognitive di controllo, diventa quindi estremamente utile e importante. Da un esperimen­ to condotto da Swanson (1990), si è visto, infatti, che gli studenti altamente metacognitivi nel processo di problem solving e che, quindi, utilizzavano molto questa tecnica, avevano prestazioni scolastiche di livello nettamente più alto rispetto a studenti che erano scarsamente metacogniti­ T40.10

vi. Nella tabella 3 sono schematizzati alcuni esempi di atti­ vità metacognitive di controllo, che ogni ragazzo dovrebbe fare durante le varie fasi del percorso di problem solving. Secondo alcuni studiosi, il corretto funzionamento di queste forme di autocontrollo mentale dipende da diversi fattori legati al soggetto e cioè: •

la capacità di automonitoraggio (selfmonitoring): la

persona deve essere in grado di osservare il proprio ruolo e i propri obiettivi, soprattutto a breve termine;

T40.10

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Sul sito è disponibile la tabella stampabile in formato A4.

Ta bella 3 Esempi di attività metacognitive di controllo Pro b l e m solvi ng

Attività m eta cogn itive di co ntro l l o

Com pre nsione

Prim a di lavorare rifletti:

Note

Qu e l l o che va i a d affro nta re è p ro p ri o u n p ro b l e m a ? C h e cos a s a i s u co m e s i fa ? H a i i n co ntrato p ro b l e m i s i m i l i ? Co m e l i h a i risolti? Previsione

Prim a di lavorare prevedi:

C h i ti p u ò a i uta re ? Qu a nto te m p o h a i ? D i q u al i / q u a nti stru m e nti h a i b i s o g n o ? Qu a l è l ' a m b i e nte i n c u i svo l g e ra i i l co m p ito ? Pian ificaz ione

Organizzati:

Id e ntifi ca i l p ro b l e m a . Vu o i / p u o i l avo ra re d a s o l o o i n g ru p p o ? R e p e risci m ate ri a l i e stru m e nt i . Sceg l i i m eto d i d i ra p p rese nta z i o n e d e i d at i . Sta b i l isci i te m p i d i l avo ro. Sta b i l isci i co m p iti e i r u o l i Mon ito ra ggio

Mentre svolgi il compito risolutivo controlla:

S e i s u l l a stra d a g i u sta ? C h e cos a va e l i m i n ato o i nvece s a lvato? Il co m p ito ti s e m b ra fa ci l e o d iffi ci l e ? S e n o n riesci a d a n d a re ava nti, cos a fa i ? Qu e l l a c h e h a i t rovato è u l a " so l u z i o n e ? Va l utazio ne

Quando hai risolto il problema, g uarda in dietro:

Le t u e p revi s i o n i e l a t u a p i a n ifi caz i o n e ti s o n o stati uti l i ? H a i l avo rato b e n e ? S i s a re b b e p otuto fa re i n u n a lt ro m o d o ? Qu esta p ro ce d u ra d i riso l uz i o n e p u ò esse rti uti l e i n a l tri co m p iti? C'è stato q u a l c h e p ro b l e m a i n s u p e ra b i l e ?

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la capacità di autovalutazione (self-evaluation) : saper attri­ buire correttamente le responsabilità dei propri successi e insuc­ cessi a se stessi (locus of contro!) o ad altre cause esterne reali; • l'autoefficacia percepita (selfefficacy) : saper avere delle aspettative realistiche circa la propria probabilità di successo in una situazione problematica; • l'aspirazione al successo (achievement need) : quanto la persona aspira al successo e viene da esso motivata; • l' autorinforzo (selfreinforcement) : la capacità di saper­ si gratificare quando si sono raggiunte delle mete, anche se minime. •

4.6. I l p ro b l e m s o lvi n g e l a vis u a l izzazi o n e c reativa

Il ricorso al pensiero visivo (immaginare mentalmente di svolgere un compito, di mettere in atto particolari strategie ecc. ) per affrontare e superare difficoltà di vario genere, cognitive, emotive, relazionali e comportamentali è una stra­ tegia antica. Utilizzare la visualizzazione come strategia nella soluzione di problemi può essere un' ulteriore risorsa, soprat­ tutto quando si lavora con bambini più piccoli o con pro­ blemi e le tecniche che utilizzano codici più astratti come quelle di tipo logico-matematico o verbale (discussioni ecc. ) risultano essere troppo complesse. Le seguenti attività di creazione e di trasformazione delle immagini mentali hanno come obiettivo il superamento di difficoltà di tipo compor­ tamentale e cognitivo. Inoltre, sviluppano la capacità e l'abi­ tudine a far uso della visualizzazione per scoprire modi alter­ nativi ed efficaci con cui far fronte a situazioni di disagio. In sostanza, si tratta di dotare i ragazzi di una strategia in più, rispetto a quelle normalmente usate o descritte precedente­ mente (Antonietti 1993, 1994, in stampa) .

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Esercizio 10 I cartoncini Far scrivere ai bambini, su cartoncini separati, le idee che vengono in mente in relazione a un problema. Una volta compilati quanti più cartoncini è possibile, provare con loro a disporli in vari modi, fino a quando non si ottenga una combinazione di idee utile alla soluzione del problema.

Esercizio 11 Il disegno del problema Una volta definito il problema, far disegnare ai bambini delle scene ispirate al problema stesso e alla sua possibile soluzione ( una sorta di brainstorming disegnato) . Una volta attaccati i disegni su un cartellone, al centro del quale è stata scritta una parola chiave che sintetizza il problema, discute­ re insieme ai bambini la possibile attuazione delle diverse soluzioni trovate o gli eventuali suggerimenti che da queste possono essere tratti. .

Esercizio 12 Il disegno della meta Far immaginare ai bambini, il più vividamente possibile, la meta che ci si è prefissati di raggiungere (ad esempio la soluzio­ ne di un problema) e l'eventuale soluzione che loro attuerebbe­ ro. Una volta raccontata l'immagine prodotta, sarà necessario farli riflettere sulle eventuali differenze tra l'immagine e la realtà. Identificate le eventuali problematiche, queste dovranno nuovamente essere immaginate, così come le possibili soluzio­ ni . E così via, fino al raggiungimento dell'obiettivo prefissato.

Esercizio 13 L 'associazione Far pensare ai bambini a un'immagine associabile al proble­ ma (ad esempio un muro) e alla possibile soluzione per il suo

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superamento (ad esempio aggirarlo, scavalcarlo, abbatterlo, smontarlo mattone per mattone ecc. ) . In seguito, dovranno essere trovate soluzioni realistiche che per analogia corri­ spondano alle soluzioni visualizzare (ad esempio ignorare il problema, affrontarlo con gradualità, cercare di risolverlo con decisione e radicalità ecc. ) .

4.7.

Altre tec n i c h e e s u gge ri m e nti

Come abbiamo visto , le tecniche che possono facilitare la ricerca di una soluzione a un problema sono molte e nasco­ no da prospettive anche molto diverse tra loro. Alcune, come il brainstorming, si basano sull' idea che la soluzione è favorita da un processo nel quale si produce una vasta gamma di idee. L' importante non è tanto la qualità di que­ ste idee, quanto la quantità. In altre, come la prospettiva della combinazione degli elementi, la soluzione risulta dalla combinazione degli elementi, per cui la persona deve esse­ re istruita a relazionare ogni elemento sistematicamente e a considerare i suggerimenti che nascono da ogni possibile combinazione. In alcune tecniche viene utilizzata l' analo­ gia, nella quale le persone devono pensare al passato, pen­ sare se si sono mai trovate di fronte a problemi simili e, quindi , cercare situazioni, superate in precedenza, che abbiano qualcosa in comune con il problema attuale per vedere se possono suggerire qualche idea da applicare al caso presente. Nella strategia step by step, invece, la persona deve indivi­ duare i passaggi da compiere e stabilire la loro sequenza. In questo modo è più semplice scomporre il problema, indivi­ duare gli obiettivi intermedi, fare un bilancio dei pro e dei contro ecc. N ella strategia della visualizzazione la persona è

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allenata a rappresentarsi il problema e la situazione mental­ mente con immagini, o attraverso disegni, schemi ecc. Infine, con la tecnica della combinazione, la persona è alle­ nata a combinare i vari aspetti del problema. In questo modo, mettendo insieme, anche a caso, i vari elementi del problema, è possibile ottenere risultati interessanti e origina­ li o stabilire associazioni e collegamenti utili. Alcune delle strategie sopra elencate sono state approfondite nel presente testo e utilizzate per dar vita a esercitazioni da utilizzare in classe, per le altre, adatte soprattutto a soggetti di età adulta, rimandiamo il lettore a testi più specifici. Prima di concludere il nostro breve viaggio all'interno delle principali strategie di problem solving e passare alla descri­ zione di alcune esperienze pratiche di progetti attuati nelle scuole, vorremmo fare qualche precisazione. Gli esercizi descritti in questo testo sono soprattutto pensati per preado­ lescenti, ma sono facilmente adattabili anche a bambini di età inferiore. Ogni tecnica suggerita può, e deve, essere uti­ lizzata in modo estremamente flessibile, per costruire situa­ zioni stimolo che siano adatte alla classe e al problema affrontato. Facciamo l'esempio di classi con bambini piccoli (6-8 anni) : in questo caso, è possibile introdurre una situa­ zione problematica con una favola o una storia apposita­ mente pensata che sia facilmente associabile al problema reale (ad esempio una situazione conflittuale tra pari) e che può essere raccontata o messa in scena dalle maestre con tanto di costumi, personaggi ambientazione ecc. In questo modo, sarà più semplice sollecitare i bambini a pensare (con il disegno, con la tecnica della visualizzazione ecc.) a possi­ bili soluzioni con le quali concludere la storia. Queste solu­ zioni dovranno poi essere analizzate con la classe ad esempio utilizzando il role play. In questo caso, i bambini dovranno mettere in scena le diverse soluzioni emerse (anche quelle

che ritenete sbagliate o inadatte) , per poi vedere quale fra queste risulta essere la più soddisfacente e la più funzionale tra tutte. In alternativa, è possibile che sia l' insegnante stes­ so a drammatizzare la situazione problematica e la sua solu­ zione, fungendo da modello positivo (tecnica del modelling) . Inoltre, gli esercizi proposti possono essere presentati alla classe dagli insegnanti, ma anche affidati alla conduzione dei ragazzi stessi. N el caso in cui il progetto di intervento preve­ da l'uso di metodologie di educazione tra pari, ad esempio la peer education, è necessario che i ragazzi che andranno a svolgere queste attività all'interno delle classi vengano ade­ guatamente preparati su tematiche quali la conduzione dei gruppi, la comunicazione efficace, il problem solving ecc.

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5 . l cam pi applicativi del problem solving: alcune esperienze pratiche Vorremmo ora introdurre alcune esperienze di progetti attuati in alcune scuole italiane, nelle quali sono state utiliz­ zate varie tecniche di problem solving. In questo modo, ci auguriamo non solo di dare idee utili al lettore sui diversi campi applicativi di queste tecniche, ma anche di fornire un' idea della complessità che caratterizza i progetti stessi, nei quali è stata utilizzata la peer education. L'idea comune di chi, come insegnante e operatore scolasti­ co, si trova a lavorare con i giovani e gli adolescenti, è che la trasgressione sia da considerarsi ormai un fenomeno ende­ mico. Gli esperti riconoscono che l' inizio di alcune fasi evo­ lutive, come ad esempio l'adolescenza, coincide con un per­ corso di autonomia e svincolo dalle principali figure affetti­ ve e normative di riferimento (genitori, insegnanti ecc. ) , che si concretizza anche con il manifestarsi di comportamenti a rischio o di tipo antisociale (comportamenti aggressivi, rischiosi, di isolamento ecc. ) . In un'ottica preventiva, tra i tanti compiti a essa affidati, la scuola non può esimersi anche dal riflettere e dall'intervenire sui fattori di rischio che pre­ dispongono a comportamenti antisociali o di rischio, anche attraverso la programmazione di percorsi formativi e di sen­ sibilizzazione che inizino sin dalla scuola elementare. Abbiamo spiegato quali sono le basi teoriche del problem sol­ ving, quali sono le sue fasi e come possono essere insegnate ai ragazzi tramite semplici esercizi e situazioni stimolo: vorrem-

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mo ora fornire qualche idea rispetto ai possibili campi appli­ cativi delle life skills in generale e del problem solving in par­ ticolare. A questo scopo, presentiamo alcuni programmi di prevenzione e di intervento nell'ambito dell'educazione alla legalità, attuati nelle scuole medie e superiori (ma facilmente riadattabili alle esigenze delle scuole elementari) , nei quali, per la promozione e il consolidamento dei fattori protettivi del­ l' infanzia e dell'adolescenza, sono state utilizzate le l ife skills e alcune tecniche di problem solving. Prima di addentrarci nella specificità dei progetti scolastici, è necessario sottolineare che, in particolare nell'ambito dell'e­ ducazione alla legalità, sono presenti due tipologie di approc­ cio al problema. Alcuni progetti partono dal presupposto che comportamenti positivi di tolleranza, cooperazione e rispetto delle leggi e degli altri possono essere interiorizzati dai ragazzi solo attraverso la loro pratica, solo tramite l'esperienza diretta; altri, invece, sostengono che, per ottenere gli stessi risultati, sia sufficiente fornire una semplice conoscenza teorica dei fatti, dei fenomeni sociali di cui si parla. I progetti che presentiamo hanno cercato di superare questa diversità di metodo proponendo dei percorsi nei quali sono stati affrontati sia aspetti inerenti l'educazione ai sentimenti, la comunicazione efficace, l'esercizio pratico di comportamenti positivi, sia aspetti di tipo nozionistico-conoscitivo dei feno­ meni trattati. Un ulteriore punto di forza e peculiarità di que­ sti progetti sta nel fatto che si pongono in modo innovativo rispetto al metodo classico di insegnamento utilizzato nella scuola, il modello verticale, nel quale i ruoli di discente e docente sono ben definiti. Si tratta, infatti, di progetti in cui è stata studiata una vera e propria educazione alla partecipazione e nei quali i ragazzi sono stati interpellati e coinvolti in tutte le fasi dei progetto. Inoltre, attraverso lo studio delle problemati­ che trattate e il confronto sulle possibili soluzioni, i ragazzi hanno avuto la possibilità concreta di intervenire sulla realtà

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esterna da protagonisti, consapevoli di potere svolgere un ruolo attivo su quei fenomeni sociali dei quali, spesso, sono stati meri spettatori passivi, a volte addirittura vittime.

5.1.

I nte rve nti d i p reve n zi o n e d e l b u l l is m o a sc u o l a

Un interessante campo applicativo del problem solving riguar­ da la promozione di comportamenti morali nell'ambito di interventi di educazione alla legalità. Oggi più di ieri, soprat­ tutto a causa del diffondersi di fenomeni di bullismo e di vio­ lenza tra pari (Manesini, 2000 ) , la scuola è tenuta a ricoprire un ruolo di " palestra" per l'apprendimento di quelle regole proso­ ciali, quali il rispetto reciproco, l'integrazione, la lealtà ecc. Come abbiamo più volte ripetuto, a livello metacognitivo, ognuno di noi utilizza in modo generalizzato strategie di auto­ regolazione. Le persone, infatti, non sono soggetti passivi, ma dirigono consapevolmente e attivamente se stesse e controlla­ no lo svolgimento dei propri processi mentali. L'autoregolazione di tali processi cognitivi comporta la capa­ cità di fissare gli obiettivi che si vogliono raggiungere, di deci­ dere quali modalità usare, di darsi suggerimenti, istruzioni per poter eseguire con successo le operazioni necessarie al rag­ giungimento dell'obiettivo. E, ancora, osservare e monito rare l'andamento del processo, anche confrontandolo con gli stan­ dard e gli obiettivi prefissati e, infine, valutare il successo otte­ nuto in base alla congruenza tra quanto conseguito e gli obiet­ tivi iniziali, per poter eventualmente effettuare correzioni e modifiche lungo tutto il percorso. Queste sono dunque strategie generali che, se padroneggia­ te, possono essere applicate a molteplici ambiti, contesti e problematiche. L'autoregolazione cognitiva rispetto all'attua­ zione di comportamenti di tipo prosociale o, al contrario, antisociale avviene anche attraverso l'uso delle abilità di pro-

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blem solving e di decision making che, come abbiamo prece­ dentemente visto, sono strettamente correlate. In quest'ambi­ to, le abilità di problem solving sono importanti in quanto presuppongono capacità che su diversi piani possono favorire o, al contrario, ostacolare il comportamento antisociale o pro­ sociale. Ogni fase, ogni punto della sequenza del problem sol­ ving può intervenire sulla " moralità" di un determinato com­ portamento: se, ad esempio, i repertori comportamentali della persona sono molto poveri e scarsi, essa non avrà molte possi­ bilità di scelta e, di conseguenza, si riducono sia la qualità morale della condotta, sia il senso di responsabilità della per­ sona rispetto alle proprie azioni. I ragazzi in cui sono presenti scarse strategie di problem sol­ ving sociale sono caratterizzati dal fatto che hanno un limita­ to repertorio di soluzioni dal quale attingere e dal possedere, da una parte, scarse soluzioni verbali di tipo assertivo e, dal­ l' altra, un eccesso di soluzioni che prevedono azioni dirette (in particolar modo se il ragazzo si trova in situazioni di rifiuto da parte dei coetanei) , come ad esempio i comportamenti aggres­ sivi, violenti, di isolamento, acting-out ecc. Inoltre, sono ragazzi che tendono ad attuare, soprattutto dopo un primo fallimento, per lo più soluzioni d'emergenza spesso di tipo aggressivo e che non riescono ad anticipare sufficientemente le conseguenze negative del proprio comportamento.

5.2. I l soc i a l s ki l l s tra i n i n g co m e stru m e nto p e r co m b atte re i l b u l l is m o

Gli obiettivi macroscopici dei progetti di intervento scolastico che affrontano la problematica del bullismo, come ad esempio il Progetto nazionale di educazione alla salute per la prevenzione dal disagio giovanile e dalle dipendenze, sono legati alla riduzio­ ne di comportamenti negativi di natura aggressiva o di isola-

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mento e al potenziamento dei comportamenti positivi che faci­ litano la comunicazione, l'adattamento, la ricerca di soluzioni alternative alla violenza. Tra i diversi approcci al problema, vi è quello che prevede dei training formativi delle abilità sociali del bambino (social skills) . In particolare, i metodi di questo tipo - quindi di stampo sociocognitivo - prevedono l'attiva­ zione di situazioni stimolo il cui obiettivo è quello di poten­ ziare il livello di consapevolezza dei partecipanti. Gli stimoli vengono inseriti in attività di lavoro per gruppi, creando così dei momenti specifici nei quali è possibile sperimentarsi, discu­ tere e acquisire coscienza sui problemi trattati in modo da defi­ nire delle regole condivise di comportamento. Naturalmente, è necessario affrontare con i ragazzi non solo le regole e i comportamenti positivi, ma anche e soprattutto quelli di tipo negativo e antisociale. A questo scopo, una delle tecniche maggiormente usate è quella del socialproblem solving, nella quale il target di intervento è costituito da bam­ bini o ragazzi che risultano " incompetenti " , che presentano delle difficoltà in quanto possiedono limitate capacità di generare possibili soluzioni ai problemi sociali che devono affrontare. Quindi, i bambini che risultano isolati, rifiutati dai compagni, che mettono in atto comportamenti aggressi­ vi. Questi programmi prevedono la presentazione di situa­ zioni stimolo, di situazioni problematiche (storie, racconti, filmati, testimonianze dirette ecc. ) che i ragazzi, suddivisi in gruppi o singolarmente, devono elaborare e discutere cer­ cando di trovare soluzioni alternative e individuando gli svantaggi e i vantaggi di ciascuna soluzione. Affinché l'intervento sia efficace e i suoi risultati durino anche nel lungo periodo, è necessario che gli interventi non siano limitati esclusivamente ai soggetti target, ma siano essi stessi oggetto di programmazione. A questo scopo è necessa­ rio prevedere anche interventi mirati e specifici, che riguar­ dino non solo i casi problematici, ma anche il gruppo classe,

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l'intera scuola, gli insegnanti, i genitori. Sono quindi inter­ venti di tipo sistemico caratterizzati dal fatto che si articola­ no su più livelli, non solo individuale, ma anche gruppale, ambientale, sociale e familiare (Olweus , 1993) . Gli insegnan­ ti, i genitori ecc. devono essere coinvolti e formati sull'argo­ mento, in modo da poter affrontare le situazioni problema­ tiche di cui gli allievi o i figli possono essere vittime, testi­ moni o protagonisti attivi. Gli obiettivi sono molteplici: garantire una coerenza educativa all'interno del team dei docenti e nella scuola come " sistema sin ergi co " ; garantire la presenza di soggetti adulti significativi (a casa come a scuo­ la) che siano anche competenti e ai quali siano stati forniti strumenti che permettano di utilizzare strategie efficaci in alternativa alle classiche strategie di fuga o evitamento del problema («Va tutto bene . . . vedrai che con il tempo si risol­ verà tutto») ; promuovere un lavoro di sinergia tra insegnan­ ti e genitori rispetto al loro ruolo educativo, eliminando i momenti di contrapposizione, favorendo un buon livello comunicativo nella struttura triangolare allievo-genitore­ insegnante e stabilendo strategie comuni per risolvere i casi problematici.

5.3. La p ro m ozi o n e d e l l a s i c u rezza stra d a l e n egl i a d o l esce nti

Si tratta di un progetto sperimentale promosso da AD icon­ sum (Associazione per la difesa dei consumatori) e curato dalla cattedra di Psicologia giuridica dell'Università La Sapienza di Roma. Attuato in alcune scuole di Roma e pro­ vincia, tiene conto dell'importanza e del ruolo giocato dal rischio e dai comportamenti di sfida nella costruzione dell'i­ dentità nel ragazzo adolescente e dell'importanza e influenza del gruppo dei pari nei processi che orientano le scelte e i

go

comportamenti. A fronte di ciò, attraverso la promozione di abilità e competenze psicosociali (le life skills) , il progetto ha cercato di promuovere il concetto di " rischio sostenibile " nell'ambito dell'educazione stradale, insegnando ai ragazzi a individuare quei comportamenti "salvavita", che potrebbero abbassare il livello di rischio in situazioni potenzialmente peri­ colose. Il progetto, seguendo le linee guida della peer educa­ tion (educazione tra pari) , ha previsto un intervento su più livelli, con attività specifiche di formazione per insegnanti, per peer educator (ragazzi che rappresentavano, per loro caratteristiche personali e comportamentali, dei leader sia positivi che negativi, ovvero ragazzi che avevano avuto inci­ denti stradali, attuavano comportamenti rischiosi e di sfida ma che erano considerati dai compagni dei capi, delle figure di riferimento) , per il gruppo classe, per l'intera scuola. Anche questo progetto prevede un intervento su più livelli e, in particolare, si articola in una prima fase di formazione specifica sulle life skills e sulla metodologia della peer educa­ tion, sia per gli insegnanti, che per i peer educator. A questa prima fase ne è seguita una seconda nei gruppi classe, dove i peer educator, precedentemente addestrati, dovevano dirige­ re e monitorare le attività. Compito dei gruppi, sotto la guida dei peer educator, era quello analizzare dei casi di inci­ denti stradali con lo scopo di analizzare i potenziali rischi presenti nei luoghi frequentati dai giovani, i percorsi di scel­ ta effettuati dai protagonisti (che cosa è successo, che cosa è stato fatto, quali sono state le decisioni prese ecc. ) , gli ele­ menti protettivi e di rischio presenti nelle situazioni analiz­ zate, i ruoli attivi e passivi dei protagonisti (che cosa hanno fatto e che cosa potevano fare, che cosa hanno detto ecc. ) . Successivamente, seguendo le fasi del problem solving, il gruppo aveva il compito di individuare, rispetto a ogni idea emersa, i comportamenti rischiosi messi in atto dai protago­ nisti dell'incidente analizzato (individuazione del proble-

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ma) , trovare delle soluzioni possibili, dei comportamenti sal­ vavita, valutare le soluzioni emerse con gli esperti (psicologi, periti ecc.) , individuare, tra le tante, le soluzioni migliori, stabilire quali strategie comportamentali sarebbe stato utile attuare per mettere in atto le soluzioni prescelte e, infine, verificare quanto emerso.

5.4. Ed u ca re a l l ' u s o res p o n sa b i l e d e l d e n a ro

In questi ultimi anni, in particolar modo in alcune aree geo­ grafiche a rischio, sono stati svolti numerosi progetti atti a favorire nei giovani l'apprendimento di strategie comporta­ mentali che permettessero un uso corretto e responsabile del proprio denaro. L'obiettivo generale di questi progetti è stato quello di prevenire nei giovani comportamenti a rischio o devianti relativi alla gestione del denaro, che potes­ sero condurre (a medio e lungo termine) al sovraindebita­ mento o addirittura all' uso di modalità illegali quali l' usura, per fronteggiare momenti di difficoltà economica. Sempre più spesso si assiste a un uso del denaro disinvolto e irre­ sponsabile, favorito non solo dalla pubblicità, ma anche dalla pressione al consumo e al consumismo, dalla continua offerta di nuove forme di pagamento che facilitano l'acqui­ sto di beni anche quando non si possiede sufficiente denaro, come ad esempio pagamento a rate, credito al consumo, carte di credito, scoperto del conto, carte prepagate ecc. Anche nel nostro paese il modo di consumare si sta evolven­ do e sta portando a una situazione nella quale le famiglie si indebitano sempre più per l'acquisto di beni, rischiando, nel caso in cui sorga una situazione di emergenza economica, di non riuscire a far fronte a tutti i debiti accumulati. Il pro­ getto che presentiamo nasce da una ricerca condotta da ADi­ consum con la collaborazione della Cattedra di Psicologia

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giuridica dell'Università La Sapienza di Roma (De Leo, Volpini, Landi, 2003 , 2004, in corso di stampa) , che ha approfondito gli aspetti psicologici e sociali di questi feno­ meni soffermandosi anche sulle modalità con le quali, all'in­ terno delle famiglie, viene gestito il denaro. I dati emersi hanno evidenziato come in numerose famiglie, nonostante una delle fonti di spesa maggiori fossero proprio i figli, que­ sti non venissero in alcun modo responsabilizzati rispetto all' uso del denaro. Da qui, l'esigenza di ideare un progetto da attuare nelle scuole, che non fosse solo di tipo informati­ vo (che cosa è il sovraindebitamento, che cos'è l' usura, come è possibile evitarla ecc. ) , ma anche formativo. Un progetto che, di conseguenza, andasse a promuovere nei ragazzi l'uso di strategie comportamentali che favorissero un uso respon­ sabile dei propri soldi, ma anche strategie di problem solving da utilizzare in situazioni di rischio. N el progetto era previ­ sto il coinvolgimento a vari livelli degli studenti, delle fami­ glie, degli operatori scolastici e del territorio. In particolare, era previsto il coinvolgimento degli studenti target del pro­ getto, nella partecipazione e gestione di diversi gruppi. • Gruppi di approfondimento su tematiche inerenti l'uso responsabile del denaro, il sovraindebitamento, l' usura. Il focus group è una metodologia, largamente utilizzata nelle ricerche intervento, mirata all'approfondimento di temi e argomenti non ancora esplorati dettagliatamente dalla lette­ ratura scientifica. Gli obiettivi degli incontri erano quelli di approfondire i temi trattati, attivare i partecipanti nel trova­ re indicazioni e strategie con le quali gestire il proprio dena­ ro, individuare fattori di rischio psicosociale e sociocultura­ le, che influiscono nella gestione del denaro. • Dibattiti e tavole rotonde con esperti, in modo da creare delle occasioni di approfondimento e verifica per potenziare e/ o attivare nei ragazzi capacità di problem sol­ ving rispetto alle problematiche trattate.

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Gruppi di problem solving, per attivare il gruppo rispetto alle possibili soluzioni da attuare in alcuni casi stu­ dio di sovraindebitamento e usura, attraverso l' uso di eserci­ tazioni e tecniche di gruppo. • Gruppi di formazione e informazione presso altri isti­ tuti scolastici o luoghi di incontro. I ragazzi che hanno par­ tecipato al progetto sono stati attivati presso il territorio di appartenenza, in qualità di esperti e ulteriormente formati per poter fungere da peer educator per eventuali progetti di peer education. •

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6. Peer education e life skills

nella scuola Progettare degli interventi nella scuola legati alle life skills non è semplice e i fattori e le variabili di cui si deve tenere conto per produrre interventi di qualità e con una buona prospettiva di efficacia sono numerosi. Parte delle nuove competenze di cui si dovrebbero dotare gli insegnanti è lega­ ta anche alla costruzione di progetti di prevenzione e inter­ vento che utilizzino approcci metodologici coerenti e inno­ vativi, riconosciuti come validi per operare con successo con i minori all'interno dei contesti scolastici. Tra le metodolo­ gie più accreditate per insegnare o potenziare le life skills indicate dalla WH o, troviamo la peer education. Approfondiremo questo approccio, non solo da un punto di vista teorico e metodologico, ma anche pratico, cercando di eviscerare le fasi attraverso cui si costruisce un progetto, approfondendo i ruoli e i compiti dei soggetti coinvolti (gruppo target, peer educator, insegnanti ecc. ) , con l'obiet­ tivo di fornire al lettore gli strumenti base per poter progettare e attuare 1 propri Interventi. .

6.1.

.

C h e cos ' è l a peer ed u cati o n ?

La peer education è un approccio basato sulla comunicazio­ ne mirata fra coetaneo e coetaneo e sulle teorie appartenenti alle metodologie che riguardano la comunicazione e sugli effetti dei processi di influenza riguardanti il contesto socia­ le nel quale si opera. Infatti, il maggiore vantaggio della peer education è quello di adeguare messaggi preventivi di carat-

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tere generale (ad esempio riguardanti la promozione della salute, la prevenzione di comportamenti a rischio ecc. ) , alle specificità, ai valori e alle necessità del gruppo target. Il termine inglese peer education (lett. " educazione fra pari ") è di difficile traduzione in altre lingue soprattutto a causa della presenza del termine peer (pari, coetaneo) . Secondo il dizionario Webster, sta a indicare «one that is of equal stan­ ding with another; one belonging to the same societal group especially based on age, grade or status», che tradotto signi­ fica: persona dello stesso rango; persona della medesima estrazione sociale, in particolare coetanei, dello stesso grado o status . Pertanto il termine peer education, indica una forma di edu­ cazione tra pari o tra persone che appartengano al medesimo gruppo o che abbiano la stessa estrazione sociale, che instau­ rano un rapporto di educazione reciproca. Ogni insegnante sa che chiunque abbia avuto occasione di osservare le dinamiche di in terazione che avvengono tra bambini e giovani coetanei ha potuto notare che in queste occasioni si attua un processo di influenza sociale reciproca e continua e quindi, un processo di educazione tra pari. Molti gli studi a riguardo, in particolare gli psicologi esperti dell'educazione e della crescita, applicando le teorie di Piaget, provarono che le interazioni tra pari che avvenivano durante l'apprendimento fossero un utile strumento per dare l'avvio ai processi di ricostruzione intellettiva nel bambino. Questi studi si basano sul concetto secondo cui i giovani, nell'interagire tra di loro, ricorrono al medesimo linguaggio, attuano modalità relazionali molto dirette fra loro e sono inoltre motivati a ricomporre le differenze fra loro e gli altri giovani. I giovani sono molto più intimiditi dalla comunica­ zione adulto-adolescente che non da uno scambio comuni­ cativo informale fra di loro, il quale peraltro sembra ottene­ re una maggiore reciproca influenza.

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Due importanti contributi da citare per meglio approfondi­ re queste tematiche sono anche quelli forniti da due famosi autori, Vygotskij e Sullivan. Secondo le teorie proposte da Vygotskij , i giovani apprendono interiorizzando i processi del pensiero (cognitivi) , che sono impliciti nelle loro intera­ zioni e, attraverso queste, introducono nuovi pattern cogni­ tivi influenzando il pensiero individuale. Inoltre, secondo Sullivan, il peer tutoring (attività tutoriali fra pari) è un metodo utile per consentire ai soggetti di acquisire informa­ zioni e sviluppare strategie cognitive efficaci, attraverso un processo di condivisione di pensieri, di assunzione di impe­ gni reciproci e negoziazione di compromessi che consente di mantenere un atteggiamento di apertura nei confronti di nuove idee. Storicamente, questa tecnica iniziò a essere utilizzata siste­ maticamente solo nei primi anni dell'Ottocento con il moni­ tor system inglese, nel quale gli alunni delle scuole imparava­ no a tenere lezioni al cospetto di altre scolaresche su argo­ menti che avevano già appreso, anche se, in realtà, l'uso di questa metodologia non dipendeva tanto dai benefici e van­ taggi in essa contenuti, quanto principalmente per ragioni di ordine economico (il ricorso agli alunni era indubbiamente meno oneroso dell' utilizzo di docenti professionisti) . Sarà invece negli anni sessanta che il " tutoraggio " e l'inse­ gnamento fra coetanei vivranno una vera e propria fase di rinascita, in parti colar modo negli Stati Un i ti. In questo caso, l'obiettivo dei progetti di peer education e peer tuto­ ring, era principalmente quello di aiutare gli allievi più pic­ coli, proponendo loro un sostegno nelle materie oggetto d'insegnamento, fornito da allievi più grandi ed " esperti " , con notevoli vantaggi psicologici sia per i tutor che per gli allievi stessi. I benefici insiti nel peer tutoring, sono stati provati da numerose ricerche scientifiche nel corso degli anni. In parti-

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colare le indagini condotte negli anni ottanta hanno eviden­ ziato che tale approccio è maggiormente efficace quando è presente il sostegno degli insegnanti. Si è inoltre riscontrato che il peer tutoring è utile quale: • contributo all'apprendimento creativo; • aiuto al superamento di problemi motivazionali negli allievi che hanno problemi di rendimento; • sostegno nella costruzione dell'autostima e come esperienza sociale costruttiva; • metodo per acquisire e sviluppare le life skills . Oggi il peer tutoring è un approccio consolidato anche in Europa, in p articolar modo all'estero, non solo nelle scuole elementari, medie inferiori e superiori ma anche nelle uni­ versità, dove è stato utilizzato in particolar modo per svilup­ pare le life skills . I giovani coinvolti in questi progetti, veni­ vano preparati a fornire aiuto e consulenza ad altri giovani simili a loro, e in alcuni casi, questi " consulenti " avevano direttamente sperimentato e vissuto i medesimi problemi. Oggi, la peer education è considerata una metodologia assai promettente, in quanto si tratta di un approccio nuovo che mette in discussione il ruolo dell'esperto tradizionale, ponendo l'accento sul diritto dei giovani ad avere libero accesso alle informazioni. I giovani che vengono formati ad agire quali peer educator divengono degli " esperti " nei con­ fronti dei loro pari e quindi agiscono quali facilitatori di cambiamento di atteggiamenti.

6.2. l fo n d a m e n ti teo ri ci d e l l a peer ed u cati o n

Come abbiamo già sottolineato, la peer education è un metodo in base al quale un piccolo gruppo di " pari " , nume­ ricamente inferiore nell'ambito del gruppo di appartenenza

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e che fa parte di un determinato gruppo demografico, opera attivamente per informare e influenzare il resto, numerica­ mente maggioritario, di quel gruppo. Esistono numerose e validissime teorie comportamentali che possono essere applicate per orientare gli interventi di peer education. Tra le teorie più frequentemente citate nella let­ teratura internazionale troviamo quelle di seguito descritte.

I l m od e l l o d e l l e cred e n ze i n m a teri a d i sa l ute

(H BM,

H ea lth B e l i ef M o d e l )

Venne originariamente sviluppato negli anni cinquanta e fu successivamente modificato. Esso si basa su vari pattern di credenze personali ed è utilizzato per prevedere il comporta­ mento di un individuo (credenza è la convinzione che qual­ cosa è vero o che succederà) . In breve, secondo questo modello, affinché possa verificarsi un cambiamento compor­ tamentale, le persone devono essere convinte che sono vul­ nerabili a una minaccia, a una patologia o uno stato di man­ canza di salute caratterizzato da un elevato grado di gravità (in termini di dolore, rischio di morte, conseguenze sociali ecc. ) e che i vantaggi nell'adottare un comportamento pre­ ventivo sono superiori ai costi e ai disagi causati dal com­ portamento " errato " . Da questo meccanismo, deriverebbe la possibilità di adottare un nuovo comportamento sotto la spinta di " stimoli ad agire ", legati al desiderio di adottare un determinato comportamento. T ali stimoli possono proveni­ re da numerose fonti, quali ad esempio i mass media, ma anche essere conseguenti all'influenza esercitata da altri (lea­ der, figure affettive di riferimento ecc. ) . Il punto di forza di questa teoria starebbe nel fatto che le persone possano essere convinte della gravità di una condizione e che, se questo avviene, esse diventano automaticamente più consce della

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propria vulnerabilità. Se tutto fosse così lineare sarebbe molto facile fare prevenzione, in realtà le cose sono molto più complesse e questo modello, che si basa principalmente sulla logica, non tiene conto di alcuni meccanismi che met­ tono in atto le persone, come ad esempio la razionalizzazio­ ne delle proprie paure o la creazione di miti per sfuggire ai timori, all'ansia o ai sensi di colpa. La percezione di rischio viene comunque misurata principalmente in base a questa teoria. .

la teo ri a d e l l ' a p p re n d i m e n to soci a l e

Come abbiamo già ampiamente visto, la teoria dell'appren­ dimento sociale è legata alle teorie proposte da Bandura, il quale ha delineato il concetto di autoefficacia (cfr. C A P. 2) . Secondo la tale teoria gli individui non subiscono passiva­ mente le influenze del proprio ambiente ma mantengono con esso un rapporto di interazione reciproca e biunivoca, gli individui possono migliorare il proprio livello di autoef­ ficacia acquisendo nuove conoscenze e abilità per affrontare e gestire situazioni diverse e problematiche. L'apprendimento può verificarsi o attraverso l'esperienza diretta, oppure indirettamente, osservando e modellando le proprie azioni su quelle di altri in cui ci si identifica, o attra­ verso la formazione di abilità legate alla situazione specifica, come l'autovalutazione, che rafforza la fiducia di essere in grado di attuare un determinato comportamento.

la teo ri a d e l l ' a zi o n e ra gi o n ata

Include i determinanti comportamentali relativi alle " norme sociali percepite " e alle " intenzioni " . Secondo questo model-

100

lo, il comportamento di un individuo è influenzato dalle norme sociali prevalenti relativamente a un determinato comportamento presso un certo gruppo o cultura. Si utiliz­ za il termine " percezione" in quanto è difficile che un indi­ viduo possa sapere con esattezza cosa effettivamente pensa o fa la gente. Se un individuo è convinto che il proprio ambiente sociale percepisce positivamente un determinato comportamento, sarà assai più probabile che tale individuo attui effettivamente quel comportamento. Questo concetto è particolarmente rilevante se accettiamo l'ipotesi secondo cui i pari/coetanei sono in grado di influenzarsi reciproca­ mente molto più di quanto possano fare coloro che sono esterni al gruppo. Questa teoria considera il comportamen­ to come un processo costituito da una serie di fasi che gene­ rano infine " l'intenzione " di effettuare un'azione e sono poi le intenzioni comportamentali a predisporre una persona a compierla. E stato dimostrato che esistono diversi gradi di correlazione tra intenzioni e comportamenti effettivamente attuati, tuttavia, il possibile ricorso a un intervento sulle intenzioni per indurre un effettivo cambiamento comporta­ mentale è tuttora controverso. ....

la teo ri a d e l l a d i ffu s i o n e d e l l e i n n ova zi o n i/ca m b i a m e nti

Questa teoria, per spiegare i cambiamenti comportamentali ricorre al modello dell'influenza sociale. Ad esempio, gli interventi di prevenzione non sono mai diretti esclusiva­ mente al solo gruppo target, ma consentono di diffondere le innovazioni (cambiamenti) in modo indiretto, attraverso le reti sociali che esistono attorno a un gruppo target o una comunità, anche ad altri contesti e soggetti . Queste innova­ zioni possono essere rappresentate da nuove informazioni, attitudini, credenze e pratiche che i soggetti " esportano "

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anche in altri gruppi di appartenenza. A questo scopo, è fon­ damentale ricorrere a opinion leader, che possano fungere da " agenti di cambiamento " e a persone che il gruppo percepi­ sce come degne di fiducia, credibili e innovative e alle quali è possibile rivolgersi per ottenere un consiglio. Costoro devono godere di un'ampia rete sociale in modo da poter influenzare un grande numero di persone, scatenando una " reazione a catena" che si attua attraverso gli scambi interpersonali e il dibattito. Nell'ambito della peer education, si ritiene che i peer educator possano assolvere a questo compito, in quanto riescono a esercitare un'influenza non solo presso coloro con cui sono in contatto diretto in virtù delle attività svolte (ad esempio, in una classe) . ma riescono anche a provocare un effetto indiretto, raggiungendo altri gruppi target all'esterno della classe. L'efficacia di questo intervento dipende dalle caratteristiche dei peer educator, che devono essere essi stessi degli opinion-leader, il gruppo target deve essere inoltre coin­ volto in dibattiti nel corso dei quali vengano illustrati e discussi i contenuti degli interventi.

6.3. I l ru o l o d e i pee r ed u cato r e l a costru zi o n e d i u n p ro getto d i peer ed u cati o n

La peer education è stata riconosciuta dalla Comunità euro­ pea nel 1997 come una delle strategie più efficaci per svilup­ pare alcune competenze psicosociali, le life skills, anche alla luce dei risultati positivi ottenuti negli Stati Uniti e in paesi di altri continenti e di altre culture. La peer education è un metodo educativo in base al quale alcuni membri di un gruppo vengono responsabilizzati, formati e reinseriti nel proprio gruppo di appartenenza per realizzare precise attività con i propri coetanei. Si tratta di un approccio educativo, di una strategia che s'inserisce all'interno delle dinamiche di

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gruppo del mondo giovanile, sollecitando la partecipazione e il protagonismo dei ragazzi. La peer education si differenzia dall'educazione dei giovani in generale per il fatto che nella peer education i giovani assumono il ruolo di " esperti " e " agenti di cambiamento " presso i loro pari, in quanto vengono appositamente forma­ ti ed educati, divenendo degli " esperti " . Questa nuova visione di ruoli pone agli insegnanti e a colo­ ro che si vogliono cimentare nella costruzione di un proget­ to di intervento o prevenzione basato sulla metodologia della peer education, nuove sfide. Il rapporto tra i giovani e le figure adulte (insegnanti, esperti ecc.) è basato su presuppo­ sti di collaborazione, che prevedono la responsabilizzazione e l'autonomia dei ragazzi e la possibilità per gli adulti di tra­ smettere le proprie conoscenze ed esperienze ai giovani. Questo processo di collaborazione e responsabilizzazione, deve iniziare rivolgendo l'attenzione a quanto pensano i gio­ vani in merito a come affrontare i problemi, anche se i loro pareri possono apparire non professionali o non convenzio­ nali in rapporto alle teorie consolidate e deve avvenire in modo tale che i giovani percepiscano che possono " gestire " il lavoro in corso. La collaborazione con gli adulti renderà i giovani autonomi solo se questi metteranno in atto atteggia­ menti di apertura, utilizzeranno una buona comunicazione, ci sarà reciproco rispetto e fiducia. E assai importante che i progetti di peer education siano adattati al gruppo target di giovani a cui sono rivolti, tenen­ do conto del loro ambiente fisico, sociale ed economico, così come della fase (o età) del loro sviluppo evolutivo e delle loro peculiari necessità e problematiche. I giovani trovano le proprie radici nelle comunità in cui vivono attraverso i genitori, la scuola, i centri ricreativi, la sanità, gli enti e le associazioni locali e quelle giovanili. Le organizzazioni, associazioni e gli enti che fanno parte delle '

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reti presenti nelle comunità locali possono quindi fungere da base per i programmi di peer education.

6.4. Pee r ed u cati o n e s c u o l a : l a d efi n i zi o n e e l a costru zi o n e d i p rogetti

La peer education può essere introdotta in molti contesti. Nelle scuole essa può essere utilizzata come intervento indi­ viduale o come complemento di altri programmi. Costruire un progetto di peer education all'interno di un contesto come quello scolastico non è semplice e deve prevedere l' au­ silio di esperti del metodo e la disponibilità di numerose figure professionali. Per costituire un progetto di peer education, è infatti neces­ sario entrare a fare parte delle dinamiche di un gruppo o una comunità e individuare i ruoli, i compiti e le persone più adatte a svolgerli. È inoltre importante considerare le que­ stioni etiche che competono al ruolo di responsabilità degli adulti, come ad esempio le seguenti . • E necessario che i giovani a cui si vuole indirizzare il progetto di peer education siano veramente interessati al progetto. Deve essere spiegato loro con chiarezza il concetto di peer education. • Quando saranno chiamati ad assumere un nuovo ruolo da " esperti " e " agenti di cambiamento " su questioni " sensibili " , i peer educator saranno esposti alle critiche altrui. Amici e coetanei rivolgeranno loro domande persona­ li e complicate e i peer educator dovranno essere in grado di rispondere in modo preciso e puntuale, fornendo informa­ zioni aggiornate o indicando i nominativi di esperti cui rivolgersi. Inoltre, essi dovranno mantenere la riservatezza su informazioni e fatti di cui verranno a conoscenza e saranno sottoposti a pressioni che imporranno loro di " predicare bene e razzolare bene " , un compito certamente non facile. ....

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Ogni errore o svista può causare danni sociali ed emo­ tivi. Gli adulti dovranno accertarsi che venga adottata l'etica del " non nuocere " e che tale approccio sia mantenuto per tutta la durata del progetto. Per ottenere tutto questo sarà necessario fornire sostegno ai giovani, con informazioni chia­ re e precise ed evitando di abbandonare i giovani a loro stessi alla conclusione del progetto. Inoltre, dovrà essere chiaramen­ te sottolineato che ogni informazione ricevuta dai coetanei deve essere trattata con riservatezza. A questo scopo, grande attenzione dovrà essere dedicata alla scelta di affidabili forma­ tori, supervisori e coordinatori e gli adulti dovranno rendersi disponibili ogni volta che sarà necessario venire incontro alle esigenze o rispondere alle domande dei peer educator. •

6.5. Le fa s i d a segu i re p e r l a costru zi o n e d i u n p rogetto d i pee r ed u cati o n

La costituzione e l'attuazione di un progetto di peer educa­ tion implica la conduzione di svariate attività parallele. Tali att1v1ta sono: • reperire fondi e garantire la disponibilità finanziaria necessaria per sostenere il progetto; • creare e mantenere una " coalizione " di progetto; • lavorare con i giovani; • predisporre la logistica per le attività di formazione, attuazione e sostegno; • definire le metodologie valutative; • effettuare la valutazione. .

.

'

.

l/ lavoro con i giovani Le figure più importanti di tutto il progetto sono il gruppo target (i giovani) e i peer educator. I giovani raramente

10 5

conoscono la peer education, le sue implicazioni o cosa significhi esserne parte attiva. Sarà quindi necessario avvici­ nare i giovani, informarli, prestare ascolto alle loro opinioni e infine, far loro percepire che il progetto è veramente nelle loro mani. Questo rapporto di dialogo e collaborazione dovrà essere mantenuto per l'intera durata del progetto. Una volta reclutati i peer educator, sarà necessario prevede­ re la loro formazione, consentendo loro di operare e soste­ nendoli nel loro lavoro.

La /og istica Dovranno essere organizzati numerosi dettagli pratici per garantire il buon esito e la riuscita del progetto. In tal senso sarà necessario coordinare le attività di formazione e gli interventi di sostegno ai peer educator, prevedere la disponi­ bilità di strutture e materiali, organizzare attività e incontri, redigere rapporti e così via. Le attività di logistica richiedono il coinvolgimento di molte persone e intermediari e le persone coinvolte nel progetto dovranno essere sempre disponibili a fornire sostegno ai peer educator ogniqualvolta sia necessario.

La pianificazione La pianificazione di un progetto di peer education dovrà seguire le fasi seguenti, anche se non necessariamente nello stesso ordine cronologico ( O M S, 2 0 0 0 ) . • Valutazione di un gruppo di giovani da coinvolgere nella peer education. •

Definizione del progetto: individuazione di scopi e obiettivi di massima; sviluppo di un modello di progetto; definizione delle metodologie di valutazione.

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Avvio del progetto: creazione della coalizione di progetto; sviluppo di un piano d'azione; reclutamento dei peer educator; predisposizione delle attività di formazione dei peer educator; predisposizione delle attività di sostegno; nomina di un coordinatore di progetto.

Definizione del progetto Coloro che si occupano di progetti di peer education dovrebbero porsi obiettivi precisi. Fra questi: • agire in modo da favorire l'attuazione di un progetto presso uno specifico gruppo target; • misurare l'efficacia o i processi del progetto stesso; • rafforzare l'autostima o gli atteggiamenti di presa in carico dei giovani; Gli " obiettivi" non sono altro che i risultati che il progetto si prefigge di raggiungere, come ad esempio: cambiamenti nelle conoscenze, atteggiamenti, credenze e comportamenti poten­ ziamento di specifiche abilità o comportamenti corretti. Per comprendere a fondo gli obiettivi è importante conside­ rarli come mete " concrete e misurabili" che possono essere rag. g1unte.

Il reclutamento dei peer educator Il reclutamento dei peer educator è forse la fase più difficile quando si avvia un nuovo progetto. Vi sono tre fattori prin­ cipali su cui riflettere al momento del reclutamento dei peer educator ( O M S, 2 0 0 0 ) . • Devono essere accettati dal gruppo target. Il peer educa-

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tor " ideale " è un giovane amato dai suoi coetanei che dispo­ ne di un'ampia rete sociale, è affidabile, credibile e gli altri giovani si rivolgono a lui per chiedere consigli. Deve trattar­ si di una persona " innovativa" , nel senso che è abituata a introdurre nuove idee e comportamenti nel suo gruppo di coetanei, ma nel contempo non è troppo " radicale " o ester­ no al gruppo al punto che altri giovani non sarebbero dispo­ sti ad ascoltarlo. Questa persona viene solitamente definita un " opinionista nato " . Il van taggia nell'usare la figura del leader, dell' opinionista nato, dipende dall'approccio prescel­ to. Infatti, se il progetto si basa principalmente sull'effetto di diffusione dei risultati attraverso le reti sociali, è molto più probabile che gli opinionisti nati siano in grado di diffonde­ re le informazioni e il cambiamento molto più di altri mem­ bri del gruppo target.

Devono avere una personalità che ben si adatta al pro­ cesso diformazione cui parteciperanno e al lavoro che dovran­ •

no effettuare. In generale, le caratteristiche personali del peer educator sono: capacità d'innovazione e di affermazione delle proprie idee, mentalità innovativa e apertura nei con­ fronti del cambiamento, capacità di lavorare in un gruppo e di esserne parte in tegran te, interesse per l'argomento e gli scopi del progetto e per le specifiche modalità di intervento (es. produzione di video, attività teatrali ecc. ) . Le opinioni e gli atteggiamenti del gruppo target nei confronti dei peer educator sono un fattore cruciale: questo è un punto chiave da non trascurare nella fase di reclutamento. Se coloro che sono stati reclutati non sono adatti al progetto o vi perdono interesse, essi devono potersi ritirare senza sensi di colpa o vergogna. Accettare il ruolo di peer educator o rifiutarlo deve essere sempre una scelta libera e consapevole.

Dovranno essere adeguatamente motivati a essere coinvolti nel progetto e a rimanerne parte attiva. L'esperienza ha dimo­ •

strato che i peer educator che portano a conclusione un pro-

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getto spesso vi partecipano per ragioni altruistiche e desidera­ no lavorare in modo nuovo con i loro coetanei. La peer edu­ cation può offrire loro l'opportunità di sviluppare abilità socia­ li o altre abilità specifiche. Quando il progetto sarà avviato, l'e­ sistenza di un rapporto di amicizia fra i peer educator e i loro rapporti e attività sociali costituiranno un importante stimolo. In alcuni progetti essere un peer educator contribuisce ad aumentare il proprio status e popolarità soprattutto per i sog­ getti con difficoltà emotive e di inserimento sociale. Al momento del reclutamento iniziale nella maggior parte dei progetti si tenta di reclutare ragazzi e ragazze in uguale pro­ porzione ma generalmente la percentuale di ragazzi che abban­ dona il progetto è maggiore rispetto alle coetanee di sesso fem­ minile. Sarà quindi necessario provvedere a stimolare l'interes­ se dei ragazzi e individuare un ruolo a loro consono nell'ambi­ to del progetto. Il successo di un progetto di peer education dipende general­ mente dalla creazione di un ambiente piacevole e informale, nel quale sia possibile gestire le attività in prima persona, con il ricorso a tecniche di apprendimento interessanti e diverten­ ti e nel quale gli adulti siano in grado di fornire sostegno, svi­ luppando un rapporto di empatia con i giovani educatori.

6.6. la p re pa ra zi o n e e l a fo rm a zi o n e d e i peer ed u cato r

Le attività di formazione generalmente iniziano con sessioni intensive, ad esempio con corsi della durata di alcune gior­ nate. Successivamente si organizzano incontri più brevi su questioni e abilità specifiche, con sessioni dedicate al soste­ gno e allo sviluppo personale. Lo scopo è sia quello di for­ mare i peer educator, sia quello di aiutarli a diventare un gruppo molto unito. In queste sessioni, una particolare

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importanza è svolta dalla figura degli adulti coinvolti, i quali non avranno solo il compito di formare, ma anche quello di mediare eventuali conflitti e problemi che emergeranno, contribuendo a migliorare le abilità sociali degli interessati. I peer educator avranno in questo modo la possibilità di capire che possono essere ciascuno per gli altri un importan­ te elemento di sostegno psicologico. In questa delicata fase, raccomandiamo il ricorso a formatori ben preparati a questo tipo di dinamiche e che abbiano un'esperienza di lavoro con i giovani. In generale, secondo le linee guida O M S ( 2000 ) il contenuto dei programmi di formazione dei peer educator deve prevedere gli elementi di seguito descritti.

Conoscenza I giovani devono essere messi nelle condizioni di compren­ dere a fondo l'argomento trattato (ad esempio, Hiv/ AI D S e sessualità, devianza ecc. ) . I peer educator saranno chiamati a rispondere ad alcune domande e verranno coinvolti in dibat­ titi nei quali non si utilizzerà necessariamente il metodo domanda-risposta. I giovani dovranno essere adeguatamente informati per poter correggere miti e informazioni sbagliate, intervenendo sui processi logici che possono avere condotto ad una visione distorta del problema. Dopo la formazione di base i peer educator dovranno essere regolarmente aggiorna­ ti e avere la possibilità di consultare gli esperti (es. consulen­ ti di area medica) che risponderanno, quando necessario, a eventuali domande.

Crescita personale Questo tipo di intervento formativo ha lo scopo di fornire delucidazioni sulle varie questioni. Si consiglia di affrontare anche la questione delle differenze in terpersonali, che devo­ no essere comprese e rispettate, incluse le dinamiche che

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portano al pregiudizio e alla discriminazione. Lo scopo prin­ cipale di questo intervento consiste nel consentire ai giovani di comprendere meglio se stessi e i rapporti interpersonali, come pure di migliorare le proprie abilità relazionali. Gli operatori coinvolti nel progetto saranno chiamati a for­ nire il necessario sostegno nel corso degli incontri di supervisione e ogni volta che ciò si renda necessario. E importante sottolineare che vi sono dei limiti a quanto i giovani pos­ sono fare in modo indipendente nell'ambito del progetto e che tutto dipende anche dalla loro età. Nonostante l' entu­ siasmo, i giovani non dovrebbero essere sovraccaricati di responsabilità e di ruoli che competono agli adulti. In breve, gli interventi di sostegno dovranno prevedere: • regolari incontri di supervisione, la cui frequenza dipen­ derà dall'età e dal grado di maturità dei giovani. N el corso di queste sessioni i peer educator saranno aiutati a definire e pianificare i loro interventi, potranno partecipare a ulteriori momenti formativi e di sviluppo delle abilità personali e impareranno a risolvere eventuali conflitti e differenze d'o­ ptntone; • sostegno tecnico in forma di informazioni, sviluppo di abilità, domande e risposte, aiuto nell'organizzazione di pre­ sentazioni e attività in presenza di un pubblico e questioni relative ai finanziamenti per l'attuazione di interventi e l' ac­ quisto di attrezzature; • sostegno sociale e della comunità per mantenere rapporti e contatti con i collaboratori del progetto e con altri progetti di peer education, sostegno nelle attività negoziali con gli adulti, aiuto nel risolvere problemi che potrebbero emergere con gli intermediari, le persone chiave e i genitori; ....



assistenza personale in forma di sostegno psicologico

quando richiesto, sia relativamente alle attività del progetto sia per questioni personali, mantenimento di un clima posi­ tivo nel gruppo di peer educator e sostegno nei casi in cui vi sia una crisi personale o nel gruppo.

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Per concludere, gli obiettivi del sostegno ai peer educator e la supervisione da parte degli adulti sono i seguenti ( O M S , 2000 ) : • fornire informazioni aggiornate e dare accesso al servizio di consulenza fornito dagli esperti; • organizzare attività di formazione continua nel processo di crescita personale; • organizzare incontri di brainstorming e problem sol­ ving nel corso dei quali possono essere delineati nuovi inter­ venti o risolti problemi specifici; • aiutare i peer educator a non perdere di vista l'obietti­ vo del progetto, a " tenere i piedi per terra" e non farsi tra­ volgere dal proprio entusiasmo; • fornire il sostegno tecnico nella definizione di nuovi interventi, ad esempio, poster, recite, presentazioni ecc. ; • assicurarsi che la dinamica di gruppo funzioni bene e contribuisca alla soluzione dei problemi quando questi emergono; • ottenere un feedback e dare un incoraggiamento per il lavoro svolto, garantendo il sostegno psicologico quando le cose non funzionano come dovrebbero; • intervenire quando sorgono problemi tra i peer educatar, gli intermediari o le persone chiave; • organizzare un programma per mantenere la coesione nel gruppo. Il sostegno e l'incoraggiamento da parte degli altri giovani è fondamentale per i singoli peer educator. Questo sostegno deve provenire dai membri del gruppo del progetto in cui lavorano, da coloro che si occupano di supervisione e dal­ l'intero gruppo dei peer educator. Gli scambi e i contatti con altri progetti di peer education possono essere molto inco­ raggianti e divertenti e favorire nel contempo la condivisio­ ne di idee ed esperienze.

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Il ruolo del coordinatore del progetto Il coordinatore si occuperà della organizzazione del piano d'azione e sarà chiamato a delineare la natura e le caratteri­ stiche del progetto stesso. Egli dovrà creare e curare i rap­ porti con tutte le figure coinvolte nel progetto stesso, quali ad esempio i responsabili politici, gli amministratori, gli intermediari, i professionisti, i genitori, i peer educator e il gruppo target. N ella fase di pianificazione sarà importante individuare la persona più adatta a questo incarico. Le carat­ teristiche del coordinatore ideale sono molte: è una persona esperta o che ha una specifica formazione in questo campo, che conosce a fondo le problematiche di cui tratta il proget­ to, che è flessibile, aperta e ha il pieno sostegno della propria istituzione di provenienza; e ancora: ha esperienza di colla­ borazione con i giovani, ama lavorare con loro, ha voglia di confrontarsi con i ragazzi per poterli aiutare e sostenere nel processo di crescita personale. Nella pratica, il coordinatore, oltre a mantenere i rapporti con le altre figure adulte coinvolte nel progetto, dovrà occu­ parsi della supervisione dei momenti formativi dei peer edu­ cator e dovrà mantenere regolari contatti con i giovani per verificare l'eventuale necessità di un intervento di sostegno con gli esperti. Il ruolo del coordinatore nella peer education è quindi estremamente complesso e difficile, ma è di fonda­ mentale importanza per la buona riuscita del progetto e per la soddisfazione dei peer educator.

11 3

7.

La valutazione dei progetti

di intervento Vorremmo concludere con alcune indicazioni sulle modalità attraverso cui è possibile valutare l'efficacia dei progetti di intervento attuati nelle scuole per insegnare le life skills, sof­ fermandoci in particolar modo su quelli che utilizzano la metodologia della peer education. Gli insegnanti si trovano spesso a decidere sulla qualità di pro­ getti proposti da terzi o a valutare gli eventuali risultati di pro­ getti attuati presso i propri istituti scolastici. A questo scopo, riteniamo utile fornire alcuni strumenti e nozioni di base, ai quali il lettore possa fare riferimento. La valutazione delle atti­ vità svolte è infatti di fondamentale importanza, in quanto una corretta valutazione costituisce un prezioso feedback per i partecipanti al progetto, per gli interessati, ma anche per gli eventuali responsabili politici e finanziatori coinvolti. Inoltre, la valutazione può essere utile per dare forma a progetti futu­ ri che si basino su esperienze positive ed efficaci. A livello generale, condurre una valutazione significa effettuare un'in­ dagine selettiva e sistematica di un fenomeno, nel nostro caso un progetto sulle life skills, con l'obiettivo di aumentare le conoscenze e comprendere meglio un determinato fenomeno. Nei progetti di una certa importanza e durata, le valutazioni vengono spesso condotte da professionisti esterni esperti nelle metodologie valutative e non dagli insegnanti che hanno par­ tecipato al progetto stesso. Alcuni progetti più di altri, come ad esempio quelli che utiliz­ zano metodologie quali la peer education, possono essere par­ ticolarmente difficili da valutare, senza contare che le attività di un progetto possono cambiare nel corso del tempo e pertanto

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divengono, per i valutatori, una sorta di " bersaglio in movi­ mento ". A questo scopo è sempre consigliabile preferire al fai da te la consulenza di valutatori esperti che possiedono le cono­ scenze necessarie. A livello generale, è bene tener presente che le verifiche sul buon andamento del progetto e sui risultati ottenuti possono essere distribuite lungo tutto l'arco del pro­ getto ed effettuate dopo particolari fasi. Può ad esempio essere effettuata una prima verifica a 3 mesi dall'inizio delle attività, una seconda a 6 mesi, una terza alla fine del progetto e una quarta verifica, dettafollow up, dopo un periodo di alcuni mesi dalla conclusione delle attività, per poter verificare se gli effet­ ti benefici del progetto perdurano nel tempo (ad esempio non si sono ripetuti più certi tipi di comportamenti ecc. ) . I tempi in cui attuare le verifiche, gli strumenti da utilizzare e gli obiettivi vanno naturalmente sempre decisi in anticipo e mai lasciati al caso. Se è stata utilizzata la metodologia della peer educaton, è importante coinvolgere i ragazzi anche durante la fase di valu­ tazione del progetto, in modo che tali soggetti si sentano mag­ giormente partecipi e divengano i reali artefici dei progetti e dei risultati ottenuti. Un passo in avanti in questa direzione potrebbe essere quello di chiedere a degli esperti di insegnare ai vari operatori coinvolti ad applicare le metodologie di valu­ tazione o a sviluppare metodi di più facile impiego. Quando poi i risultati saranno stati analizzati, essi potranno essere divulgati in un linguaggio facilmente comprensibile ai parte­ cipanti al progetto, ai responsabili politici e ai giovani.

7.1.

G l i sta n d a rd d i va l u ta zi o n e d i u n p ro getto

Condurre una valutazione significa esaminare sistematica­ mente e criticamente i processi e gli esiti di un progetto. Le

11 5

domande cui rispondere nell'ambito del processo di valuta­ zione possono essere definite dai partecipanti al progetto o da un esterno (ad esempio finanziatori od operatori di sanità pubblica ecc. ) . I quesiti cui rispondere nel corso del processo di valutazione devono essere correttamente formulati e riguardare proble­ matiche specifiche. Il contesto di valutazione deve prendere in considerazione le esigenze progettuali, le caratteristiche degli interessati - detti anche stakeholders - e i limiti impo­ sti dal tempo e dalle esigenze in termini di costi. Se non si prendono adeguatamente in considerazione questi fattori, si corre il rischio che il processo di valutazione perda di vista il proprio obiettivo nel tentativo di capire il significato del pro­ getto. Per poter contestualizzare correttamente il processo di valutazione potrebbe essere utile conoscere quello che i ricer­ catori chiamano standard di accettabilità. In questo modo è possibile individuare il giusto contesto comparando il pro­ getto ai vari standard esistenti. Gli standard arbitrari vengono invece fissati dai finanziatori del progetto o dagli operatori responsabili della struttura a cui esso si rivolge. Ad esempio, si può decidere che il pro­ getto deve raggiungere un certo numero di persone nel grup­ po target per poter documentare che vi è stato un reale cam­ biamento dei comportamenti. Se si utilizza lo standard storico, sarà invece necessario com­ parare la condizione attuale del progetto o del gruppo target con quella del periodo precedente. È inoltre possibile com­ parare i risultati di un progetto con quelli di un altro pro­ getto condotto presso un gruppo simile di giovani, ad esem­ pio in un'altra scuola: in questo caso si parla di standard n or-

matzvo. Gli standard scientifici si basano sull'utilizzo di metodologie .

di valutazione rigorose per poter raccogliere dati che vanno ad aumentare le conoscenze esistenti e per comprovare o svi-

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luppare nuove teorie. A prescindere dalle domande cui il processo di valutazione vuole dare risposta, è importante prendere sempre in considerazione il contesto sociale e ambientale del progetto, il contenuto e le modalità di inter­ vento e gli effetti immediati e nel lungo termine. I modelli di valutazione che approfondiremo sono tre, e si tratta di tre approcci metodologici al processo di valutazione alquanto diversi tra loro, ordinati per grado di complessità e profondità. • Il modello riflessivo è prevalentemente descrittivo e si basa sui processi di riflessione attuati mentre il progetto è in corso, mira alla risoluzione dei problemi e contribuisce atti­ vamente a far progredire il progetto. • Il modello basato sugli obiettivi ha un carattere più scientifico poiché impone la definizione di scopi e obiettivi progettuali misurabili, utilizza indicatori, applica variabili derivate dalle teorie scientifiche ed effettua misurazioni. • Il modello comparativo (sperimentale) è molto più complesso, implica un disegno sperimentale dove l'effetto dell'intervento progettuale sui vari gruppi viene comparato a uno o più gruppi di controllo simili dove non è stato attua­ to alcun intervento. Lo scopo consiste nell'individuare l' ef­ fetto del progetto su un gruppo target, isolandolo da altri effetti di disturbo in modo da individuarne il rapporto causa-effetto. Quando non è necessario ricorrere a un consulente esterno esperto in valutazione, gli operatori e gli insegnanti potran­ no utilizzare l'approccio dell'operatore riflessivo per valutare sistematicamente il progetto che hanno deciso di attuare. Questa metodologia richiede un continuo monitoraggio del progetto che deve essere contemporaneamente guidato verso il raggiungimento degli obiettivi e degli scopi stabiliti. Per questo è necessario riflettere sugli sviluppi compiuti dal pro-

11 7

getto in rapporto alla situazione passata ed essere in grado di prevedere gli sviluppi futuri. Tutto questo avviene principal­ mente attraverso un dialogo continuo con i giovani del gruppo target, gli eventuali peer educator, gli intermediari, la coalizione del progetto e la comunità locale, se coinvolta. S i tratta di una valutazione sistematica dello stato di svilup­ po del progetto e nel contempo di un processo di apprendi­ mento. Inoltre è possibile ottenere conoscenze e opinioni preziose grazie alla comunicazione con altri responsabili di progetti, consultando la letteratura ed esaminando i risultati di progetti simili. La conoscenza delle teorie relative ai cam­ biamenti sociali e comportamentali può essere d'aiuto nello spiegare i fenomeni, guidare il processo di cambiamento e fornire elementi obiettivi che possono essere ponderati per escludere gli effetti dovuti all'intuizione, alle ideologie ecc. In pratica, gli operatori possono documentare le attività, i processi e le conquiste di progetto . E utile tenere dei registri, delle schede di osservazione, in modo che gli operatori possano monitorare e valutare il lavo­ ro e le attività svolte e gli eventuali esiti positivi e negativi ottenuti. Questo tipo di documentazione è fondamental­ mente di tipo descrittivo ma risulta comunque utile per far progredire il progetto e prendere atto dei contesti che cam­ biano. ....

Per valutare gli obiettivi è necessario effettuare una valuta­ zione del gruppo target (ovvero dei soggetti ai quali era rivol­ to il progetto e che saranno oggetto della valutazione) , uti­ lizzando uno strumento predefinito costruito appositamen­ te, ad esempio un test o un questionario, prima dell'inizio del progetto stesso (fase test) . Tal e misurazione dovrà poi essere ripetuta dopo che il progetto è stato attuato per un sufficiente periodo di tempo (fase retest) . N ella struttura test­ retest le misurazioni sul gruppo target vengono effettuate

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prima dell'inizio del progetto e ripetute dopo un certo perio­ do di tempo per verificare se vi sono differenze. È possibile condurre una serie di valutazioni anche durante il progetto. La valutazione degli obiettivi fornisce preziose informazioni sullo stato di sviluppo del progetto. Un esempio di schema delle possibili verifiche test-retest, da effettuare durante il corso di un progetto della durata di 12 mesi, potrebbe essere il seguente. I n iZIO

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D u rata d e l p ro getto 12 m e si

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A 6 m es i

d i i n iz i a re

d e l p rogetto

d e l p rogetto

d al te rm n i e d e l p ro getto

i l p ro g etto

Fi g u ra 11. Es e m p i o d i ve rifi c h e test- retest.

La valutazione dei processi in corso è utile per sapere se un progetto procede bene ed eventualmente per applicare i necessari correttivi in corso d'opera. Il piano d'azione del progetto dovrebbe prevedere la raccol­ ta dei dati, delineare i problemi e le domande da affrontare nella valutazione, la metodologia da utilizzare, la procedura di valutazione, i responsabili della stessa, il calendario e la frequenza con cui verrà effettuata la valutazione. I metodi utilizzati per condurre le valutazioni dei processi possono essere numerosi e includono: • relazioni sul campo; • questionari; • test; o



11 9

• • •

osservazioni; Interviste; dibattiti. o

o

o

o

Quando verranno utilizzati i metodi statistici (per esempio i questionari o i test) è indispensabile consultare un esperto per la loro somministrazione e valutazione, in quanto questo compito può essere complesso e può richiedere molto tempo. Il metodo più comunemente utilizzato per effettuare la valu­ tazione degli obiettivi consiste nel distribuire questionari anonimi a un gruppo target, ad esempio alcune classi. I questionari possono essere: • descrittivi: con domande dirette sulle caratteristiche personali, sugli atteggiamenti nei confronti delle varie pro­ blematiche, rispetto al progetto e sui vantaggi ottenuti par­ tecipando al progetto stesso; • analitici: hanno lo scopo di misurare le caratteristiche demografiche, le variabili di mediazione, come si è entrati in contatto con il progetto ecc. , successivamente rarà necessario individuare i rapporti tra tutti questi elementi per poterli comprendere a fondo . ....

E molto importante che la percentuale di risposta ai questionari sia elevata. Se il ritorno dei questionari è pari solo al 50o/o non sarà mai possibile sapere in che misura il progetto ha avuto effetto sul rimanente 50°/o delle persone coinvolte, né sarà possibile conoscere le caratteristiche di questo grup­ po residuo. Inoltre, i questionari devono essere attentamente ideati e devo­ no essere formulati con chiarezza per essere compresi dai giovani che li compilano. E necessario accertarsi che le domande riguardino effettivamente quello che si vuole misurare. È bene tener presente che sottoporre a studenti questionari che indagano i loro atteggiamenti e comportamenti, in par....

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ticolare rispetto a temi quali la sessualità l'uso di droghe, può essere un compito molto delicato. A questo scopo è bene verificare il contenuto, le procedure e i metodi di sommini­ strazione e i processi di valutazione dei questionari, con degli esperti, con i colleghi e con i genitori. E sempre necessario garantire il completo anonimato ai ragazzi, in modo da tute­ lare la riservatezza e l'integrità degli intervistati. Solo in que­ sto modo i ragazzi potranno rispondere ai quesiti in modo sincero e rilassato. Inoltre, è sempre importante informare gli interessati sulle modalità con cui verranno raccolte e uti­ lizzate le informazioni, al fine di ottenere il consenso all' uso dei dati ottenuti. Se il tempo e i fondi a disposizione lo con­ sentono, per la lettura dei dati possono essere utilizzati con­ 140.11 giuntamente sia metodi qualitativi che quantitativi. ....

Purtroppo, sia il modello riflessivo che quello basato sugli obiettivi non forniscono molte informazioni sul rapporto causa-effetto in quanto non evidenziano eventuali rapporti di causalità. Inoltre, non dimostrano in modo scientifico e inequivocabile gli eventuali effetti positivi del progetto sul gruppo target. Per rispondere a queste domande è necessario strutturare la valutazione e l'analisi dei dati in modo tale da isolare l' effet­ to specifico dell'intervento progettuale e controllare l'effetto di altre variabili non progettuali, come avviene nelle valuta­ zioni di tipo comparativo o sperimentale. Un esempio è l'analisi di un gruppo di giovani molto simile al gruppo target ma che non è stato oggetto degli interventi progettuali: in questo caso si può misurare il gruppo con gli stessi metodi di indagine e secondo il medesimo calendario.



T40.11 S u l s ito è d is p o n i b i l e un a p p rofo n d i m e nto re lativo a va ntaggi e sva n taggi d e i m etod i q ua l itativi e q u a ntitativi i n re l a zi o n e a i progetti d i p e e r ed u cati o n .

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In questo caso si devono creare due gruppi, uno detto speri­ mentale, i cui componenti saranno sottoposti al progetto, e uno detto invece di controllo, i cui membri non effettueran­ no alcuna attività. I gruppi (ad esempio classi di studenti) dovranno avere caratteristiche simili (ad esempio numero­ sità, genere, estrazione sociale, cultura, tipo di voti ecc. ) e dovranno essere assegnati al gruppo di controllo o a quello sperimentale in modo randomizzato (casuale) . Possono comunque sussistere differenze intrinseche tra i due gruppi che, a volte, sono la reale causa dei cambiamenti avve­ nuti i quali non sono quindi stati indotti dal progetto. Esiste inoltre il rischio che l'effetto degli interventi effettuati presso il primo gruppo ricada sul secondo gruppo in virtù dei con­ tatti sociali esistenti e, pertanto, può accadere che gli inter­ venti influenzino indirettamente anche il secondo gruppo. Una soluzione consiste nell'assegnare un maggior numero di gruppi, in modo randomizzato, alle categorie sperimentale e di controllo. Quanto più numerosi saranno i gruppi e quin­ di maggiore la randomizzazione dell'assegnazione a una delle due categorie, tanto maggiore sarà la possibilità di dimostra­ re il ruolo causale degli interventi. Si parla in questo caso di trial randomizzati con controlli. Questo metodo, associato alle misurazioni test-retest sui gruppi sperimentali e di con­ trollo, è considerato lo standard ideale nella ricerca sulle metodologie di valutazione degli interventi progettuali. Le metodologie comparative sono utili per individuare le cause di particolari effetti (rapporto di causalità) del proget­ to, possono anche rivelarsi utili per sviluppare modelli teori­ ci e sono generalmente ritenute più affidabili. Gli svantaggi sono il costo elevato, la difficoltà di utilizzo, la necessità di esperti per la conduzione delle verifiche, il rischio di rallen­ tare lo sviluppo del progetto e la difficoltà di ottenere infor­ mazioni sulle conseguenze non prevedibili.

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Da quanto esposto si potrebbe dedurre che è difficile indivi­ duare e accertare gli effetti di un progetto su un gruppo di giovani, ma bisogna ricordare che la valutazione non ha necessariamente lo scopo di sancire il valore di un progetto o di spiegarlo nei minimi dettagli. La scelta della metodolo­ gia di valutazione può infatti dipendere dal tipo di elementi che si vuole valutare e da chi è interessato a conoscerle.

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