L'identità italiana in cucina [2 ed.]
 8858106156, 9788858106150

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Economica Laterza 638

Dello stesso autore nella «Economica Laterza»:

Il cibo come cultura La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa Il formaggio con le pere. La storia in un proverbio Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo (con A. Capatti)

La cucina italiana. Storia di una cultura A cura dello stesso autore nella «Economica Laterza»:

Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi Dello stesso autore in altre nostre collane:

Alimentazione e cultura nel Medioevo «Quadrante Laterza»

Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al Medioevo «Storia e Società»

Convivio oggi. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età contemporanea «Storia e Società»

Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola «Storia e Società»

Nuovo Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età moderna «Storia e Società»

Storia medievale «Manuali di Base»

A cura dello stesso autore in altre nostre collane:

(con J.-L. Flandrin)

Storia dell’alimentazione «Grandi Opere»

Massimo Montanari

L’identità italiana in cucina

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Edizioni precedenti: «Il nocciolo» 2010 Nella «Economica Laterza» Prima edizione marzo 2013 1

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Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Progetto grafico di Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0615-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Indice

L’Italia, gli italiani

vii

Prima dell’Italia ci fu l’Europa

3

L’Italia è una rete di città

7

Modelli di cucina fra unità e varietà

13

Cultura popolare e cultura di élite

23

Uomini e prodotti che viaggiano

33

Conservazione e rinnovamento delle identità alimentari

39

Mangiamaccheroni. Come si costruisce uno stereotipo nazionale

49

La sintesi artusiana

56

Cresce il numero degli ‘italiani’

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Il «miracolo italiano» fra modernità e tradizione

69

L’invenzione delle cucine regionali

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Percorsi di lettura

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v

L’Italia, gli italiani

«L’Italia è fatta, ora facciamo gli italiani» avrebbe detto Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità del paese. Il punto di vista si sarebbe potuto rovesciare: finalmente, gli italiani avevano fatto l’Italia. Più che altro era una questione di numeri, di proporzioni: le masse contadine erano sempre vissute (e per lungo tempo avrebbero continuato a vivere) in orizzonti localmente circoscritti; gli strati superiori della società, aristocratici e borghesi, vivevano da secoli in una dimensione ‘italiana’ che sforava i confini politici e amministrativi dei tanti stati che punteggiavano la penisola e le isole. Come a dire che, almeno per alcuni, l’Italia esisteva da tempo. Era l’Italia dei modi di vita, delle pratiche quotidiane, degli atteggiamenti mentali. L’Italia della cultura — che ben più dell’unità politica definisce l’identità di un paese. vii

Parte integrante di questa cultura erano i modelli alimentari e gastronomici, elemento decisivo, sempre, delle identità collettive. Su di essi punteremo la nostra attenzione, per verificare come l’esistenza di un sentire comune, di stili e di gusti condivisi ci autorizzi a parlare di un «paese Italia» (felice espressione di Ruggiero Romano) fin dai secoli centrali del Medioevo, quando l’Italia era di là da venire e da pensare ma già esistevano italiani che tali si sentivano, e si rappresentavano, con assoluta chiarezza e senza alcuna ambiguità. Jacques Le Goff ha osservato che «le realtà politiche e mentali del Medioevo italiano sono, ben più che l’Italia, gli italiani». Lo stesso si potrebbe ripetere per l’età moderna, fino al 1861.

L’identità italiana in cucina

Questo volume ripropone, ampiamente rielaborato, il saggio Modelli alimentari e identità italiana, apparso in La cultura italiana, dir. L.L. Cavalli Sforza, UTET, Torino 2009, vol. VI, Cibo, gioco, festa, moda, a cura di C. Petrini e U. Volli, pp. 73-89.

Prima dell’Italia ci fu l’Europa

Il delinearsi di una cultura alimentare ‘italiana’ avvenne a poco a poco, all’interno della più ampia koinè europea che si era formata nei primi secoli medievali grazie all’incontro fra romani e «barbari» (come, in segno di disprezzo, li chiamavano i romani). Questo incontro, preceduto da una fase di durissimo contrasto, determinò la circolazione e, in parte, l’integrazione di modelli culturali diversi, dando origine a una realtà nuova che in qualche modo coniugava le tradizioni e gli stili di vita delle popolazioni mediterranee e di quelle continentali, spostando il baricentro dell’Occidente dal Mediterraneo all’Europa. Lo scontro-incontro fra romani e barbari fu anche uno scontro-incontro di valori alimentari: la cultura del pane, del vino e dell’olio (simboli della civiltà agricola romana) si mescolò con la cultura della car3

ne e del latte, del lardo e del burro (simboli della civiltà ‘barbarica’, legata all’uso della foresta più che alla pratica dell’agricoltura). Il prestigio del modello romano, che esaltava la capacità di addomesticare e trasformare la natura, dovette fare i conti con la centralità, anche ideologica, che i barbari vincitori davano al consumo di carne e di prodotti animali. Ne derivò un nuovo modello produttivo, che gli storici hanno denominato «agro-silvo-pastorale», in cui il pane e i cereali avevano la medesima reputazione della carne e dei latticini: una simbiosi al tempo stesso economica e mentale, da cui è derivata la ricchezza storica delle cucine europee. Il fenomeno fu accelerato dal diffondersi della religione cristiana, che costrinse gli europei a modelli di comportamento comuni. Da un lato essa conferì straordinario credito ai simboli tradizionali della civiltà mediterranea, pane vino e olio, divenuti emblemi e strumenti di culto della nuova fede (il pane e il vino per la celebrazione eucaristica, l’olio per la somministrazione dei sacramenti). Dall’altro introdusse in ogni parte del continente i medesimi obblighi di alternanza alimentare, legati al calendario 4

liturgico che scandiva lo scorrere del tempo, distinguendo i giorni e periodi ‘di grasso’ (quando mangiare carne era consentito, o addirittura raccomandato come segno della festa) dai giorni e periodi ‘di magro’ (quando la carne si doveva sostituire con cibi vegetali o tutt’al più con latticini, uova, pesce). In questo modo si sollecitava la compresenza di tutti i prodotti, di tutti i grassi, di tutti i condimenti su tutte le tavole dell’Europa cristiana. Il concorso di questi fattori politici, economici e religiosi generò una cultura relativamente omogenea, che definiamo europea. E fu in questo quadro d’insieme che a poco a poco si configurarono diverse identità regionali, legate al formarsi e al consolidarsi di tradizioni comuni, modi di vita, valori collettivi. In Italia, popoli diversi (dapprima i goti, poi i longobardi, che entrarono nella penisola assieme ad altri gruppi numericamente minori) si sovrapposero alla preesistente popolazione ‘romana’, essa stessa costituita da una molteplicità di stirpi tenute insieme dalla condivisione di una cultura comune. Per qualche tempo i documenti consentono di distinguere con una certa chiarezza le singole etnie, poi ne rimangono 5

solo tracce, prevalentemente linguistiche, mentre risaltano gli incroci che danno vita a una realtà nuova, sociale e culturale oltre che biologica. A poco a poco, da questa miscela di genti nacquero gli italiani.

L’Italia è una rete di città

Il paese Italia costruì la propria identità culturale (e politica) secondo modalità che oggi diremmo di rete. Mentre altrove (in Francia, in Inghilterra, più tardi in Spagna) già nei secoli centrali del Medioevo si definirono entità politiche relativamente omogenee e territorialmente ampie, in Italia per vari motivi – a cominciare dall’ingombrante presenza del papato nel bel mezzo della penisola – ciò non avvenne, nonostante gli sforzi dei longobardi prima, di altri poi. Si definì tuttavia uno spazio, materiale e mentale, all’interno del quale circolavano modelli di vita e di cultura, oggetti e saperi, uomini e abitudini. Anche alimentari. Anche gastronomiche. In tal modo prese forma, durante il Medioevo, un modello alimentare ‘italiano’, durato fino ai giorni nostri in alcuni suoi aspetti di fondo. 7

In questo meccanismo si individua un fattore chiave di trasmissione e diffusione culturale: la rete delle città, più forte in Italia che altrove, e con specifici particolarissimi caratteri. Perno del sistema amministrativo romano, anche nel Medioevo le città, nonostante la generale decadenza del sistema, restano un luogo determinante della vita civile. Le campagne e i centri rurali (le abbazie, i castelli) assumono un inedito rilievo, ma non per questo viene meno la centralità dei nuclei urbani come sedi del potere politico e religioso. A iniziare dall’XI secolo esplode nel centronord della penisola il fenomeno comunale: le città si propongono, prima attorno al vescovo, poi (in qualche caso) contro di lui, come centri di autogoverno e di controllo del territorio. È una particolarità tutta italiana: in assenza di poteri signorili in grado di coordinare ampi contesti regionali, la città riesce a esprimere, a differenza che altrove, una forza di espansione nel «contado» – come sarà chiamato – che di fatto la rende una piccola capitale e ne salda intimamente le fortune a quelle dell’area circostante. Nobili e borghesi concentrano in città i loro interessi e in forme più o meno coerenti costruiscono un 8

sistema di dominio sulle risorse economiche e alimentari delle campagne. Sul finire del Medioevo, dal XIV secolo in poi, le cosiddette «signorie» ereditano il fenomeno comunale modificandone gli orientamenti politici (fino a costituire vere e proprie dinastie famigliari) ma confermando, e rafforzando, il carattere territoriale del governo cittadino. Al di là delle differenze, anche importanti, fra esperienze sociali e politiche di diversa natura, il dato che le accomuna è la capacità dei centri maggiori di imporre un dominio sui centri minori, creando una gerarchia fra la città capitale e le altre, che tuttavia continuano a coordinare un proprio territorio: si costituiscono in tal modo stati ‘regionali’ che allargano l’orizzonte economico, oltre che politico, del potere cittadino. Resta, nella mutata situazione, il modello della città che governa il territorio. Resta il modello della rete che unisce insieme realtà politiche diverse, rendendole in varia misura omogenee sul piano culturale tramite la circolazione di uomini, idee, merci. Gli uomini: i professionisti della politica, i notai, i funzionari dell’amministrazione locale; ma anche gli artisti e gli intellettuali, i mercanti, i cuochi delle grandi famiglie, gli 9

specialisti del cibo di strada. Le idee: conoscenze, esperienze, atteggiamenti mentali. Le merci: i prodotti artigianali e le risorse alimentari che affluiscono sui mercati e ne ripartono. Le città medievali, col loro piccolo territorio, e le città che alle soglie dell’età moderna si impongono a capo del loro stato ‘regionale’ sono luoghi al tempo stesso centripeti e centrifughi. Centripeti perché concentrano sul mercato cittadino la maggior parte delle risorse del contado, con una politica annonaria spesso improntata a scelte di tipo protezionistico, volte a garantire sicurezza agli abitanti. Centrifughi perché il mercato cittadino, che con i prodotti di base (il grano anzitutto) tende a soddisfare i bisogni locali, apre anche spiragli importanti allo scambio con altri mercati, soprattutto quando si tratta di prodotti ‘fini’, apprezzati sul piano commerciale. Diverse città emiliane e lombarde, per esempio, fin dal XIII-XIV secolo legano il loro nome a un tipo particolare di formaggio, detto «parmigiano», «piacentino», «lodigiano» secondo la variante locale. Questo formaggio di gran pregio era prodotto nelle campagne attorno a Parma, Piacenza, Lodi, e attraverso i mercati di quelle città giungeva 10

ovunque: il suo uso come condimento della pasta, assieme al burro e a un po’ di «spezie dolci» (principalmente cannella), era pressoché obbligatorio sulle tavole di chi poteva permetterselo, da un capo all’altro della penisola. Nel caso specifico della denominazione «parmigiano», il carattere cittadino dell’attribuzione è ancora più esplicito di quanto già non appaia: nel linguaggio locale infatti, ancora oggi, «parmigiano» si riferisce a tutto ciò (persone e cose) che riguarda la città, mentre un altro aggettivo, «parmense», indica l’appartenenza al contado. Il meccanismo dunque è chiaro: la campagna produce; la città (che controlla l’economia rurale attraverso la proprietà dei cittadini) concentra il prodotto sul mercato urbano e lo denomina col proprio marchio di possesso (parmigiano, piacentino, ecc.); il mercato urbano distribuisce il prodotto in uno spazio commerciale, e di conseguenza culturale, che su questa circolazione di prodotti fonda la condivisione di gusti e di pratiche alimentari. La capacità di intercettare i circuiti commerciali, di essere luogo di partenza e di arrivo di prodotti gastronomici apprezzati, nel Medioevo è un punto di forza che garantisce a una città buon nome, fama, reputazio11

ne. Per questo motivo Bologna si guadagna l’attributo di grassa, aggettivo che all’epoca ha una connotazione francamente positiva e significa ‘abbondante’, ‘ricca’. Fin dal XIII secolo la diffusione europea di questo appellativo si lega alla presenza in città di un frequentato Studio universitario, all’andirivieni di studenti e professori in un luogo capace di accoglierli grazie alla prosperità di un mercato in cui si trova di tutto. Ma attenzione. Non è sulla floridezza delle campagne circostanti, né sull’eccellenza della cucina locale che si può costruire una fama come questa: tali condizioni sono necessarie, ma non sufficienti; tante altre città le condividono, ma non per questo riescono a guadagnarsi la reputazione di Bologna. Ciò che fa la differenza è la politica di interscambio e di apertura, la vocazione che Bologna precocemente sviluppa – grazie alla presenza dello Studio – a proporsi come luogo di mediazione, di incrocio fra culture diverse. La fortissima identità gastronomica di questa città non nasce da una indimostrabile superiorità della sua dimensione municipale ma, al contrario, dalla capacità di metterla in gioco, di attivare una rete di rapporti in questo caso particolarmente ampi. 12

Modelli di cucina fra unità e varietà

I ricettari di cucina, che appaiono in Italia a cominciare dal XIV secolo, sono buoni testimoni di questa circolazione di prodotti, gusti e saperi legati al cibo. Nel Medioevo se ne conoscono due gruppi o ‘famiglie’ principali: una di matrice meridionale, una di matrice toscana. La prima ha come apparente capostipite un testo elaborato nel Trecento alla corte angioina di Napoli, detto Liber de coquina; studi recenti però sostengono, con buone argomentazioni, che alle spalle di questo testo ve ne sia un altro, del secolo precedente, redatto in Sicilia alla corte palermitana di Federico II di Svevia. Ciò che a noi interessa notare è come questo ‘capostipite’ dell’alta cucina italiana sia stato preso a modello da molti autori di ricettari, compilati non solo al sud, ma anche al centro e al nord dell’Italia. Analoga circolazione ebbe 13

il testo toscano, realizzato forse a Siena nel XIV secolo: anch’esso fu copiato, adattato, rielaborato in diverse aree della penisola, dal nord al sud. I numerosi adattamenti alle situazioni locali (che non stupiscono, in testi per loro natura malleabili e ‘aperti’ come i manuali di cucina) non contraddicono la realtà di fondo di una cultura che appare diffusa e condivisa. Diffusa e condivisa su un piano che, con molte cautele, possiamo definire nazionale, pur se limitato a un pubblico ristretto, quello delle corti aristocratiche (che producono il Liber de coquina) e dei palazzi dell’alta borghesia (che producono il ricettario toscano). In ogni caso luoghi cittadini: Palermo, Napoli, Siena, e poi Bologna, Firenze, Venezia... In questa cucina medievale italiana si possono distinguere alcuni tratti originali. Il ruolo della pasta, per cominciare. Ancora incerto, e non equiparabile a quello che (come vedremo) la pasta assumerà in epoca moderna e contemporanea, eppure già significativo e caratteristico. La cultura della pasta non è esclusivamente italiana: in quei secoli, anche i ricettari francesi o inglesi la includono. Ma appare italiana la varietà dei tipi e dei formati, che si moltiplicano nel 14

Medioevo grazie al sovrapporsi – proprio in Italia – di diverse tradizioni gastronomiche: quella antica, romana, che già conosceva la pasta di forma larga (lasagne); quella medievale, araba, che introduce la pasta di forma allungata (vermicelli, fettuccine) e contemporaneamente diffonde l’uso di farla seccare per poterla conservare a lungo e trasportare lontano. Si delinea in tal modo la vocazione anche ‘industriale’ della pasta, attestata la prima volta nella Sicilia di tradizione araba, a Trabìa, vicino a Palermo, dove il cronista Edrisi segnala l’esistenza di una fabbrica che esporta «in tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani; e se ne spediscono moltissimi carichi di navi». Siamo appena a metà del XII secolo. Nel secolo successivo, pastifici nasceranno a Genova, altro luogo di mare, altro luogo di commercio. A ribadire che la fortuna dei modelli alimentari si costruisce attraverso la loro capacità di essere diffusi. Nel frattempo appare un altro tipo di pasta, quella ‘corta’ e forata: il maccherone. Una «bariscella plena de macaronis» è registrata a Genova nel 1279, nell’inventario dei beni lasciati in eredità dal miles Ponzio Bastone, ed è una delle prime volte che il 15

termine, impiegato spesso (nel Medioevo e dopo) per indicare gli gnocchi, è utilizzato per designare il manufatto che ancora oggi chiamiamo in questo modo. Non meno importante è il capitolo della pasta ripiena: ravioli e tortelli, dolci o salati, fritti o bolliti, paiono godere di particolare fortuna in area italiana, anche se si affermano su scala europea. Il Medioevo rappresenta insomma il momento decisivo nell’evoluzione di una cultura della pasta che resterà nei secoli un elemento portante del modello alimentare italiano. Nel ricettario quattrocentesco di Maestro Martino, e ancor più chiaramente nei ricettari rinascimentali, la fase che potremmo dire ‘sperimentale’ è ormai superata: la pasta, nelle sue molte varianti, non vi appare più in singole ricette sparse qua e là in diversi capitoli; essa è ormai diventata un ‘genere’ gastronomico a sé stante e merita appositi capitoli. Altro cibo distintivo della cucina medievale sono le torte di pasta dura, ripiene di carne, formaggio, pesce, verdura, geniale invenzione che consente di contenere, cuocere, trasportare ogni sorta di ingredienti. Anche le torte (o «pastelli», o «pasticci») paiono un elemento caratteristico del gu16

sto e del modello gastronomico italiano del Medioevo, che si trasmette e si precisa in età rinascimentale con una significativa innovazione: rendere friabile e commestibile l’involucro di contenimento del ripieno, utilizzando pasta imburrata. I molteplici formati della pasta e le illimitate varianti delle torte sono quasi una metafora della cucina italiana e del suo carattere di fondo: la riconoscibilità complessiva, l’esistenza di elementi comuni che definiscono un’identità culturale forte e precisa; le diversità locali, fortemente radicate negli usi dei territori e delle città, in cui tale identità si articola e si declina; la circolazione delle conoscenze e la possibilità di confrontare le varianti; la perfetta legittimità che ogni variante assume nel contesto complessivo e l’impossibilità (meglio: il disinteresse) a desumere da quelle varianti un modello unitario. Un esempio di particolare efficacia si ha nel ricettario di Bartolomeo Scappi, il più importante cuoco italiano del Rinascimento, autore di una fondamentale Opera (1570) che in qualche modo riassume la sua lunga esperienza di lavoro, svolta a servizio dei signori di Milano, di Venezia, di Bologna 17

e infine del pontefice Pio V, a Roma. Come procede Scappi? In quale orizzonte mentale si muove? Il suo è senza dubbio un orizzonte italiano, che guarda alle realtà locali, cittadine e territoriali, e in qualche modo tenta di riassumerle, di darne conto senza postulare ordini di valori. Prendiamo il caso – appunto  – delle torte. Scappi ne presenta alcuni tipi principali, all’uso di Milano, di Genova, di Bologna, di Napoli. Le differenze stanno negli ingredienti (verdure e carni diverse), nei condimenti (burro nelle varianti milanese e bolognese, olio in quella genovese), nella presenza o meno delle uova (presenti nella sfoglia all’uso milanese, assenti in quella bolognese), nella forma (più alta la milanese, più bassa la bolognese, mentre quella napoletana si caratterizza per essere aperta anziché chiusa, supporto anziché involucro, ed è «da napoletani detta pizza»). Non c’è, non esiste una torta italiana (nel monumentale ricettario di Scappi, questa attribuzione torna appena un paio di volte). Italiana è la torta come ‘genere’. Italiana è la rete di consuetudini, saperi, gusti che di volta in volta qualificano concretamente, e diversamente, l’oggetto comune. La metodologia, per così dire, antologica di Bartolomeo Scappi, che 18

mette insieme esperienze diverse, comparando le pratiche gastronomiche del nord e del sud, dell’est e dell’ovest (a proposito dei pesci, ripetutamente distingue fra gli usi dell’Adriatico e quelli del Tirreno), è esemplare e rivelatrice. Non si tratta di stilare giudizi o gerarchie, di scegliere o di rifiutare, ma semplicemente di conoscere e di mettere a confronto. Non per nulla gli studiosi hanno a lungo disquisito sull’identità biografica di Scappi, dichiarandolo ora lombardo (come ormai sicuramente appare), ora bolognese, ora veneziano o altro ancora: questa stessa ‘polivalenza’ è il segno della sua trasversalità culturale, di una ‘italianità’ che non si lascia rinchiudere – come ad alcuni piacerebbe – in dimensioni locali o municipalistiche. L’Italia di Scappi è l’Italia delle città che rappresentano territori e ormai, nel XVI secolo, ampie regioni: Milano è la Lombardia, e in senso lato il nord oltre il Po; Roma, con lo stato pontificio, è il cuore della penisola; Napoli è il sud con la Sicilia (forte, peraltro, di una sua peculiare e solida identità regionale). Il modello ‘cittadino’ che abbiamo descritto non è ovunque il medesimo: funziona perfettamente nell’Italia di tradizione comunale, ovverosia al nord e in parte del 19

centro, dove un’ampia rete di città, grandi medie e piccole, governa il patrimonio alimentare e gastronomico; funziona meno al sud, dove l’esistenza di un regno relativamente accentrato, risalente già al Medioevo, agisce come elemento di freno all’autonomia delle città e di concentrazione politica, economica e culturale nella capitale. Le città-stato del centro e del nord sono tante. Al sud, Napoli rappresenta l’intero territorio del regno, lasciando più spazio all’estrinsecarsi delle identità rurali. Per comprendere tale diversità, basta considerare le denominazioni dei prodotti agricoli e alimentari nei testi del XVI-XVII secolo. Nell’Italia delle signorie cittadine e regionali il punto di riferimento è di preferenza la città: Scappi (che prendiamo a solo titolo di esempio) ricorda il cavolo di Milano, il vitello di Roma, il piccione di Terni, le ranocchie e le olive di Bologna, le salsicce di Lucca e di Modena, le zucche di Savona, i funghi di Genova, le pere di Firenze, oltre ovviamente al parmigiano e a molto, molto altro. Per il sud, quando non ci si riferisce a Napoli, prendono il sopravvento le attribuzioni a territori rurali e ad aree costiere: un testo come la Lucerna de corteggiani di Giovan Battista 20

Crisci (1634), vero repertorio di prodotti e specialità del regno, colpisce per la connotazione prevalentemente non urbana della produzione e del mercato alimentare, riferiti a piccoli paesi o alle «campagne» o alle «coste». Non c’è una rete di città a sintetizzare (fin nella denominazione) la cultura gastronomica del territorio del regno, le «provole fresche di campagna d’Evoli» o i numerosi frutti «della costa di Posillipo». C’è solo la splendida capitale, Napoli. Si disegna in tal modo una situazione (al tempo stesso politica, economica e culturale) per certi versi più simile alla realtà francese, improntata fin dal Medioevo alla costruzione di uno stato con una capitale di cui, virtualmente, l’intero paese è campagna. Nonostante ciò, anche il sud partecipa alla rete di scambi e conoscenze che abbiamo descritto. Molti aspetti della gastronomia ‘italiana’ seguono, storicamente, un percorso da sud a nord: basti pensare alla pasta secca o al riso, che appaiono per la prima volta nella Sicilia arabo-normanna, o ancora agli agrumi, a verdure come gli spinaci e la melanzana, introdotti sempre in Sicilia dagli arabi, così come la canna da zucchero e l’arte dolciaria che ne derivò. E come si ricorderà, è napoletano (ma di ori21

gine probabilmente siciliana) il medievale Liber de coquina, archetipo della letteratura gastronomica italiana.

Cultura popolare e cultura di élite

Non comprenderemmo, tuttavia, la specificità del caso italiano senza introdurre un nuovo elemento di riflessione, che coinvolge non più i rapporti (centripeti e centrifughi, come li abbiamo definiti) fra città e territori, bensì i rapporti per così dire ‘verticali’ fra le diverse componenti sociali delle singole comunità. L’apporto della cultura ‘popolare’ alla costruzione del modello alimentare italiano sembra infatti essere stato particolarmente rilevante. La gastronomia urbana dell’Italia centro-settentrionale e, a maggior ragione, quella del sud mostrano un forte retrogusto rurale, percepibile con chiarezza, anche se con evidenza non immediata, nei libri di cucina e in tutta la documentazione. Non è una semplice opposizione/integrazione fra campagna e città, ma una più generale complicità fra culture dei ceti subalterni e 23

dei ceti dominanti, borghesi o nobiliari. Il fenomeno è di cruciale importanza e merita di essere esaminato con attenzione. Elementi distintivi della cultura alimentare delle élites europee, nel Medioevo e oltre, sono l’enfatizzazione del ruolo della carne – vero simbolo del privilegio e del potere – e la sottovalutazione dei prodotti della terra, cereali, legumi e soprattutto gli ortaggi, rappresentati in letteratura come cibi tipicamente ‘contadini’, umili e perciò inadatti alla mensa signorile, in un quadro ideologico che assegna al comportamento alimentare una fortissima valenza di differenziatore sociale. Sapori come l’aglio o la cipolla paiono di per sé sufficienti a ‘rivelare’ una natura contadina, così come le verdure in genere e i cereali cosiddetti inferiori, da cui si ricavano pani scuri (segale, spelta) o polente e minestre (orzo, avena, miglio, panìco). Questo in linea di principio. Ma se si vanno a leggere i ricettari di cucina riservati alle classi alte – siano gli anonimi ricettari trecenteschi o quello di Maestro Martino del secolo successivo, fino ai testi rinascimentali di Cristoforo Messisbugo o del già citato Scappi – ci si accorge che qualcosa non torna. Aglio, cipolla e poi cavoli e rape, 24

miglio e orzo, e ogni sorta di prodotti ‘poveri’ entrano prepotentemente nel repertorio dell’alta cucina, in ricette talora semplicissime, di evidente matrice popolare, che a prima vista sconcertano nel contesto in cui appaiono. Come quando il ricettario toscano trecentesco propone di bollire in acqua dei «raponcelli», di soffriggerli con olio, cipolla, sale... e la preparazione termina qui. Cavoli, rape, finocchi, funghi, zucche, lattuga, prezzemolo e ogni sorta di «herbette», oltre a legumi come le fave e i piselli, sono alla base di tante preparazioni (minestre, torte, frittelle) proposte da Maestro Martino e più tardi da Scappi, che non esita a riconoscere nella semplicità ‘popolare’ di certe preparazioni un punto di vantaggio difficilmente colmabile dalla raffinatezza del cuoco di corte. Più volte egli fa esplicito riferimento all’esperienza dei contadini o dei pescatori, dai quali afferma di avere appreso certi modi di trattare il cibo: per esempio, dopo aver fornito la ricetta del rombo «in pottaggio», dichiara di averla imparata «nel tempo ch’io mi son trovato in Venetia e in Ravenna... da pescatori da Chiozza, e Veneziani, li quali fanno i migliori pottaggi, che in tutti i liti del mare». È proprio la loro ricetta a essere 25

inclusa nell’Opera di Scappi, che per di più ammette: «credo che a loro riesca meglio che alli cuochi, percioché il cuoceno in quello instante, che l’hanno preso». Non sembra un luogo comune populistico ma solo una questione ‘tecnica’, di tempi: il pesce dei pescatori è migliore di quello dei «cuochi» semplicemente perché cucinato più fresco. Certo, le ricette ‘popolari’ non entrano tali quali nella cucina di élite. Varie strategie di nobilitazione servono a renderle compatibili con la cultura del privilegio e l’ideologia della differenza. Un modo semplice ma efficace per recuperare la diversità di status dei commensali, e manifestarla pubblicamente, potrà essere quello di aggiungere al prodotto povero costose spezie esotiche, che pochi si possono permettere: «quando sono cotti et apparecchiati», prescrive il testo trecentesco una volta terminata la preparazione (semplicissima, come abbiamo visto) dei raponcelli, «mettivi spezie in scudelle». In alternativa, o in aggiunta, si potrà sottolineare che quella preparazione non è fine a se stessa (come in ambito popolare poteva accadere) ma serve ad accompagnare, a guarnire un piatto di pregio: la ricetta di «cavoli delicati» inclusa nel trecentesco Liber de coquina può essere 26

destinata «a uso dei signori» soprattutto perché la loro destinazione è di far compagnia alle carni: si possono servire, precisa il testo, «cum omnibus carnibus». In ogni caso, la presenza di prodotti e ricette che esprimono una cultura diffusa (magari reinterpretata) è un dato di rilevanza assoluta, per nulla ovvio nella società medievale e rinascimentale europea. L’incipit del Liber de coquina è quasi un programma: «Volendo qui trattare della cucina e dei diversi cibi, per prima cosa cominceremo dalle cose più facili e cioè dal genere delle verdure» – e via con dieci ricette di cavolo, prima di passare agli spinaci, ai finocchi e alle «foglie minute», e poi alle preparazioni a base di legumi: ceci, piselli, fave, lenticchie, fagioli. Non tutte le aree culturali appaiono ugualmente sensibili a questo modello di consumo: la tradizione del sud ne è sicuramente più permeata. Ma questa tradizione, sia sul piano gastronomico sia sul piano produttivo, costituirà nei secoli un punto di riferimento comune. Da questo punto di vista è interessante osservare come l’identità alimentare di certi luoghi italiani del nord, che immagineremmo campioni di un modello continentale ‘padano’ contrapposto alla 27

tradizione ‘mediterranea’ del sud, sia stata percepita, nei secoli medievali e nella prima età moderna, in una inattesa chiave ‘mediterranea’, sentita, forse, come maggiormente specifica e caratteristica della cultura del paese. Si prenda il caso di Bologna, capitale storica della mortadella e dei tortellini di carne: se guardiamo ai testi del XVI-XVII secolo le emergenze gastronomiche della città sembrano essere – accanto a salsicce e salsicciotti – l’uva, i fichi, le pesche, le olive, i cavoli e i «finocchi dolci» (selezionati a partire dalle varietà selvatiche) che l’agronomo Vincenzo Tanara ascrive a «gloria degli agricoltori bolognesi». Fra le ricette ‘bolognesi’, particolare rinomanza sembra avere la «torta d’herbe» menzionata da Scappi, forse la stessa «torta di bieta» citata da Tanara nel secolo successivo. Altro bell’esempio è quello del modenese Giacomo Castelvetro, esule in Inghilterra agli inizi del Seicento per motivi religiosi (seguace della fede protestante, era perseguitato dall’Inquisizione pontificia), il quale a un certo punto sente nostalgia della sua terra e scrive un trattatello sulla cultura alimentare italiana, occupandosi però non di zamponi e cotechini (come magari ci sarem28

mo aspettati da un emiliano come lui) bensì di verdure. Il suo saggio si intitola Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano e serve a spiegare agli inglesi che ci sono molti altri cibi da gustare oltre alla carne; a spiegare come «la bella Italia» (così egli la chiama) per motivi di clima, di ambiente e di cultura abbia sviluppato una tradizione alimentare basata su una varietà di prodotti vegetali che altri trascurano. Non c’è dunque da stupirsi se la valorizzazione gastronomica delle verdure rappresentò l’apporto principale dell’Italia alla costruzione del patrimonio culinario europeo. Si è scritto anche troppo su Caterina de’ Medici, andata sposa al re di Francia Enrico II nel 1533, che avrebbe esportato oltralpe le raffinatezze della cucina di corte italiana, costituendola come modello di riferimento per l’evoluzione della cucina francese nel XVII secolo (il suo duraturo successo, poi, sarebbe stato garantito e sostenuto dall’egemonia politica e culturale imposta sull’intera Europa dalla monarchia di Parigi). La ‘leggenda di Caterina’, giunta in Francia con i suoi cuochi e ricettari (incluso quello di Scappi), ha un fondo di verità solo se la 29

collochiamo in una corretta prospettiva storica. La cucina francese, di per sé, sviluppò linee e ‘filosofie’ gustative che poco avevano a che fare con la tradizione italiana, tant’è che rivoluzionarono, fra Sei e Settecento, i tradizionali parametri dell’estetica gastronomica, esaltando la ‘naturalità’ dei sapori contro gli artifici dei cuochi di corte medievali e rinascimentali: in questa prospettiva proprio il modello italiano fu stigmatizzato come espressione di una cultura obsoleta. Venne però dall’Italia – magari anche per l’azione promozionale di Caterina – l’insolita e singolare attenzione prestata dalla cucina francese moderna ai prodotti degli orti. Peraltro, l’interesse per la cultura italiana non era una novità: già nel Quattrocento essa aveva incontrato larga fortuna in Europa, con le numerose ristampe e le traduzioni in francese e in tedesco del trattato «sul piacere onesto e la buona salute» (De honesta voluptate et valetudine) dell’umanista Platina, basato, per la parte culinaria, sul ricettario di Maestro Martino. A noi, qui, interessa soprattutto ribadire come questo carattere originale della tradizione gastronomica italiana fosse il risultato di un’integrazione fra cultura popolare e cultura di élite, forte 30

in Italia come forse in nessun altro paese europeo. Una chiave per comprendere il fenomeno è, ancora una volta, la particolarità tutta italiana del rapporto fra città e campagna. Luogo per eccellenza dello scambio economico, culturale, sociale, la città è per sua natura un ambito privilegiato dell’ibridazione e della contaminazione. Cultura popolare e cultura di élite vi si confrontano quotidianamente, mescolandosi e imitandosi a vicenda. I cuochi che lavorano a corte o nelle grandi famiglie, talvolta di origine nobiliare ma più spesso popolare, sono forse figure centrali di questo meccanismo, che rimane tutto da esplorare; il contadino, ideologicamente disprezzato dal cittadino, viene tuttavia spesso a incrociarlo nella realtà quotidiana del mercato o del servizio domestico. Sta di fatto che i ricettari italiani, e i modelli alimentari da essi proposti, paiono esprimere una cultura socialmente diffusa. Anche per questo è possibile parlare di un patrimonio gastronomico ‘nazionale’: perché la tradizione scritta, espressione della cucina di élite, nei secoli ha rappresentato e trasmesso una cultura in cui tutti possono riconoscere frammenti della propria identità. Se i fasti delle corti 31

rinascimentali sono ancora oggi un motivo di orgoglio per intere comunità, ciò non avviene solo a scopo di promozione turistica e per un uso strumentale della storia, ma anche perché quella tradizione rappresenta un pezzo importante della memoria collettiva e contiene, più o meno rielaborate, le culture dell’intera società. La comunità si riconosce in quella tradizione perché, nel corso dei secoli, ha attivamente contribuito a costruirla.

Uomini e prodotti che viaggiano

La rete di rapporti economici e culturali che tiene insieme le realtà locali italiane si esplica sia nella circolazione commerciale dei prodotti, e dunque nella loro utilizzazione in aree diverse da quelle di produzione, sia nella circolazione di quelli che oggi chiameremmo i consumatori, per finalità ‘turistiche’ o più in generale di conoscenza del territorio. Un buon esempio, ancorché letterario e virtuale, può essere il ‘viaggio gastronomico per l’Italia’ proposto dall’erudito milanese Ortensio Lando nel 1548, all’interno del suo estroso Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e d’altri luoghi (dove «mostruose» sta, alla latina, per ‘mirabili’). Rivolgendosi a un improbabile viaggiatore aramaico in giro per l’Italia, Lando sottolinea l’importanza – per capire il paese – di conoscere le specialità 33

gastronomiche ed enologiche delle varie zone che lo compongono: ne esce una sorta di guida che, partendo dalla Sicilia e dai suoi meravigliosi maccheroni, cotti «con grassi caponi e casci freschi, da ogni lato stillanti buttiro e latte», individua una serie di tappe – prevalentemente cittadine – lungo l’asse sud-nord. Ecco dunque sfilare Taranto con i suoi buonissimi pesci, Napoli che offre pani squisiti e ogni sorta di specialità. Si sale poi – un po’ frettolosamente a dire il vero, e con qualche incertezza d’itinerario – nelle regioni centrali fra Toscana e Umbria, toccando Siena, Foligno, Firenze, Pisa, Lucca. In Emilia è doveroso sostare a Bologna, dove si preparano «salcicciotti i migliori che mai si mangiassero», a Ferrara, «unica maestra nel far salami e di confettare erbe, frutti e radici» (si osservi, ancora, la centralità delle verdure nell’immaginario gastronomico italiano, anche nelle regioni settentrionali), poi a Modena, Reggio, Mirandola, Correggio, Piacenza col suo lodatissimo formaggio (Lando in questo caso ignora Parma), indi, passato il Po, Lodi, Binasco e il grande emporio di Milano; poi Monza e le sue salsicce, Como e le sue trote, Lugano, Chiavenna e i formaggi delle valli alpine. Ritornando sui 34

propri passi in direzione sud-est, Lando ci conduce a Padova, a Chioggia e a Venezia, con la sua imponente offerta di specialità ittiche. E di nuovo risalendo: Vicenza, il lago di Garda, i pesci di fiume di Treviso, i vini di Brescia e di Bergamo. Con una nuova imprevista deviazione il viaggio termina a Genova, ad assaggiare le famose torte e i vini leggeri della riviera. Non è certo una guida completa e attendibile: sorprende la ‘dimenticanza’ di Roma, e alcune aree sono assenti. Tuttavia il quadro disegnato da Ortensio Lando copre una bella fetta dell’Italia e mostra un forte senso di appartenenza a un paese dalla gastronomia ricca, capillarmente localizzata ma al tempo stesso riconoscibile in certi caratteri di fondo. Non è strano che in questo percorso identitario siano i salumi, i formaggi, le confetture a farla da padroni. Il nostro ipotetico viaggiatore avrebbe forse amato sostare in qualche trattoria a gustare ricette del posto, ma sono soprattutto le specialità alimentari a vocazione commerciale – quelle che, conservandosi a lungo, possono finire sul mercato e arrivare anche lontano – a costituire il tessuto di un sapere e di un gusto condiviso. Sarà anche il caso di osservare che le con35

serve costituiscono un importante, ulteriore punto di incontro fra cultura popolare e cultura di élite. Nella società contadina, infatti, le tecniche di conservazione rappresentano la principale strategia per combattere la fame nel corso dell’anno, senza doversi affidare al capriccio incontrollabile delle stagioni; ma il surplus di lavoro e di cultura che in tal modo si riversa sui prodotti naturali si trasferisce presto dall’area del bisogno a quella del piacere, ‘promuovendo’ le conserve al rango di specialità. Come quella dei viaggiatori, anche l’Italia dei mercati è appannaggio di pochi. Lo dice bene, anzi lo teorizza Bartolomeo Stefani, capocuoco di casa Gonzaga a Mantova, quando nel 1662 pubblica L’arte di ben cucinare, et instruire i men periti in questa lodevole professione. Dopo aver raccomandato ai suoi lettori (qualora se lo possano permettere) di non limitare le proprie attenzioni al «pane della Città natìa» ma di oltrepassarne i confini alla ricerca di buoni cibi, Stefani delinea un sistema di scambi articolato in ‘distretti gastronomici’ distinti ma intercomunicanti. Napoli e la Sicilia, scrive, producono verdure e frutti che «nella stagione fredda», quando è impossibile tro36

varne in altri luoghi, riforniscono «tutto il Regno». Analogamente, la riviera di Gaeta «serve de medesimi frutti Roma». Genova, con la sua riviera, ne provvede Milano, Firenze, Bologna, Torino, Piacenza «e le Città à quelle vicine». Bologna produce finocchi bellissimi, uve e grosse olive, «e di queste cose ne comparte à tutta la Lombardia, Romagna, Fiorenza, e provincie vicine, per fino a Roma». Naturalmente, per procurarsi questi prodotti occorrono «buoni destrieri e buona borsa»: rapidi mezzi di trasporto e una cospicua disponibilità di denaro. Per questo, mangiar cose che provengono da territori lontani rappresenta di per sé un segno del privilegio sociale. All’epoca di Stefani, l’Italia alimentare e gastronomica comprende ormai a pieno titolo il Piemonte sabaudo: se i «biscottini savoiardi» stanno diventando di moda (li ritroviamo anche nelle nature morte di pittori dell’epoca, come Cristoforo Munari) è perché quella regione, finora estranea alla rete di scambi e di saperi che abbiamo descritto, ora vi è stata inclusa – per evidenti motivi di natura politica, dal momento in cui i Savoia hanno spostato i loro interessi e la loro capitale al di qua delle Alpi, da Chambéry 37

a Torino (1563). Nel Medioevo questi territori costituivano una sorta di cerniera fra mondo ‘italiano’ e mondo ‘francese’. Ancora nel Cinquecento Torino sostanzialmente mancava nelle rappresentazioni del sistema alimentare italiano e delle sue articolazioni cittadine (il fatto che Lando la ignori nel suo itinerario non è forse rilevante, ma è estremamente significativa la sua assenza dall’orizzonte mentale di Bartolomeo Scappi, che oltre il Po risolve la cultura del nord Italia negli ambiti lombardo e veneto). D’ora in poi, la cultura italiana farà i conti anche con questa new entry.

Conservazione e rinnovamento delle identità alimentari

Nel frattempo, nuovi prodotti sono entrati a far parte del patrimonio culinario italiano. Dopo i fondamentali apporti arabi del Medioevo, il Quattrocento ha segnato l’ingresso del riso anche nelle pratiche agronomiche e alimentari del nord, mentre il grano saraceno, arrivato da Oriente, si è diffuso nelle aree alpine e prealpine come nuovo cereale da polenta. Poi è stata la volta dei prodotti americani, in particolare del mais che dagli anni trenta del Cinquecento è entrato nei campi del nord-est, a poco a poco scacciandone coltivazioni tradizionali come quelle del miglio, del panìco e del sorgo. Ne ha preso anche il nome: melega, denominazione dialettale del sorgo in area veneta, passa a designare il cereale venuto da oltre Oceano. La sostituzione lessicale rappresenta assai bene, con perfetto paralle39

lismo, l’inserimento del nuovo prodotto nel linguaggio gastronomico tradizionale. Se il prodotto è nuovo, antico è l’impiego che se ne fa, costringendolo in una morfologia e in un sistema ‘grammaticale’ in uso da secoli. La polenta era un cibo tradizionale dei contadini della penisola: in età romana si faceva col farro, nel Medioevo col miglio e con ogni sorta di grani minuti o di legumi. Il mais, apprezzato per la sua straordinaria produttività, fu ‘piegato’ a quest’uso, al tipo di preparazione che si era soliti fare con i cereali non panificabili. È un fenomeno ricorrente nella storia dell’alimentazione: ricondurre le novità alla tradizione, rileggerle, reinterpretarle a partire dalla propria esperienza, da specifiche vocazioni culturali oltre che ambientali e produttive. La polenta di farina gialla non faceva parte delle tradizioni alimentari dell’America precolombiana; da noi fu l’uso pressoché esclusivo a cui quel cereale fu assoggettato. Non fu tuttavia nel Cinquecento che il mais si impose negli usi alimentari italiani. Nonostante la precocità degli esperimenti effettuati in area veneta (talora alla chetichella, coltivando il mais negli orti, al riparo dagli sguardi padronali e dal pagamento del40

la quota-parte che colpiva gli altri prodotti) fu solo due secoli più tardi che la sua ascesa accelerò fino a rovesciare gli equilibri produttivi preesistenti. Ciò accadde per il concorso di due fattori: il primo fu la fame, che nel XVIII secolo colpì in modo drammatico la popolazione delle campagne italiane, per l’inadeguatezza del sistema produttivo a sostenere la crescita demografica in atto. Il susseguirsi di crisi agricole e di carestie (particolarmente gravi quelle degli anni 1708, 1740, 1764-67, 1775, 1783, 1789) costrinse i contadini a scelte drastiche, come quella di abbandonare i cereali tradizionali in favore di una pianta che rendeva molto di più in termini di quantità, anche se comportava uno scadimento qualitativo della dieta (il consumo pressoché esclusivo di polenta di mais, non integrata da altri cibi come carne o verdure, nel secolo successivo provocò vere epidemie di pellagra, una malattia da carenza vitaminica che nei casi peggiori può provocare la pazzia o la morte). Il secondo fattore fu l’avvio del capitalismo agrario, che, sia pure in ritardo rispetto ad altri paesi europei, si avviò a costituire un mercato regionale o ‘nazionale’ di eccedenze agricole di qualità (in primo luogo frumento) mentre 41

la sussistenza della popolazione contadina si affidava a colture di minor pregio, come il mais appunto, coltivato non più solo per ‘libera scelta’ dei ceti rurali, ma dietro impulso e sollecitazione dei ceti padronali. I contadini affittuari, gravati dai canoni fondiari e dalle richieste di frumento, furono costretti a puntare sul mais nella parte di terreno destinata alla propria sussistenza; i salariati (sempre più numerosi nel contesto economico capitalistico) erano pagati direttamente in mais. Si diffuse in tal modo, nelle campagne dell’Italia settentrionale, una fame di tipo nuovo: non quella traumatica della mancanza di alimenti (l’ultima grave carestia si verificò nel 1815-16) bensì quella, più sottile e infida, della sottonutrizione endemica; gli scompensi vitaminici e proteici diventarono più significativi delle carenze caloriche. Anche la patata (originaria del Perù e conosciuta in Italia fin dal Cinquecento) si diffuse solo nel XVIII secolo, con vicende inizialmente analoghe a quelle del mais. Furono, ancora, le ragioni della fame a introdurre la nuova pianta nel sistema agricolo e alimentare: se si mettono a confronto le date delle principali carestie con quelle di inizio delle coltivazioni di patate nei singoli terri42

tori, la coincidenza è impressionante. Come se la diffidenza verso la sconosciuta pianta americana fosse vinta solo dal bisogno, dalla necessità di sperimentare soluzioni alternative, fortemente sollecitate dall’alto: anche i sovrani, oltre ad agronomi e scienziati, nei paesi d’oltralpe; da noi, le autorità locali che magari ricorrono alla collaborazione dei parroci, riconosciuti dai pubblici poteri come «uno degli stromenti più efficaci per insinuare e diffondere nel popolo le utili verità e le pratiche più vantaggiose alla società e allo stato» (come si legge in una circolare emanata nel 1816 dal regio delegato della provincia del Friuli, indirizzata ai parroci unitamente a un’Istruzione su come coltivare le patate, da illustrare e divulgare tra i fedeli). Anche in questo caso entrano in gioco fenomeni di coercizione, più o meno latente, che costringono i contadini a puntare sui nuovi prodotti lasciando ai padroni – e quindi al mercato – le colture di pregio: certi patti agrari del XIX secolo contengono una clausola che obbliga il nuovo conduttore di un fondo a riservare una parte del terreno alla coltivazione delle patate. L’obiettivo è quello di placare la fame, di scongiurare nuove carestie. L’agronomo ri43

minese Giovanni Battarra, nel 1778, ricorda quando agli inizi del secolo ancora non si coltivava «fromentone», cioè mais, e compiange i poveri contadini di una generazione prima che «si morivano di fame» quando mancava il frumento. Ora, poi, «si comincia a introdurre certe radici forestiere come i tartuffi bianchi, che chiamansi patate»: messa in bocca a un vecchio contadino che Battarra immagina dialogare con i due figli, l’affermazione suona a ulteriore speranza di una vita più sicura: «felici noi, se ne potremo introdur de’ buoni piantamenti; perché non soffriremo mai più carestia». Anche per le patate scatta il meccanismo di riduzione dell’ignoto al noto, del nuovo all’antico, che abbiamo visto attivarsi per il mais. Anche Battarra infatti, come il celebre Parmentier in Francia e come altri agronomi europei del tempo, sostiene, e fa dire al contadino padre, che la farina di patate può essere usata per fare il pane. Un pane, ammette, «alquanto duro alla digestione» – ma «ai contadini l’indigestione non noce», commenta uno dei figli con involontario umorismo, «anzi sembra loro d’esser più sazj». La patata non sarà usata per fare il pane, ma molte altre cose, in parte antiche (per esem44

pio gli gnocchi, fatti nel Medioevo con sola farina e pangrattato) e in parte nuove. Ma lo stesso tentativo di impiegarla nella panificazione rivela la tendenza all’assimilazione culturale, che si ripete costantemente nella storia dell’alimentazione e della cucina. Qualcosa di analogo accadde al pomodoro, altro prodotto americano guardato per secoli con circospezione e diffidenza, ma poi ‘riscoperto’ – secondo l’esempio spagnolo – sotto forma di salsa, un genere di straordinaria importanza nella cucina tradizionale, imprescindibile accompagnamento di carni e pesci. Appunto in questo modo i ricettari del XVII-XVIII secolo suggeriscono di impiegare la salsa di pomodoro; poi nasce l’idea di abbinarla alla pasta, che improvvisamente cambia colore. Era stata, nei secoli, rigorosamente bianca, condita (come abbiamo visto) di burro e formaggio, arricchiti di spezie; d’ora in poi tenderà decisamente al rosso. Fra i prodotti americani che si inserirono con successo nel sistema alimentare italiano di età moderna, notevole fortuna incontrarono il peperone e il peperoncino, di origine messicana. Il peperone si attestò ovunque nella penisola, affermandosi, al sud come al 45

nord (per esempio in Piemonte), come ingrediente essenziale di ricette poi divenute ‘tipiche’ della cucina locale. Il peperoncino fu adottato in certe zone, come la Calabria, fino a diventare elemento imprescindibile di una nuova identità gastronomica: i calabresi stessi lo riportarono con sé oltre Oceano al tempo dell’emigrazione otto-novecentesca, diffondendolo negli Stati Uniti dove lo slang italo-americano lo denominò «calabresella», ritenendolo un prodotto di origine italiana. L’apparente paradosso di questa vicenda insegna che le identità – alimentari, e di qualsiasi altra natura – non sono inscritte nei geni di un popolo o nella storia arcaica delle sue origini, ma si costruiscono storicamente, nella dinamica quotidiana del colloquio fra uomini, esperienze, culture diverse. L’italianità della pasta, o del pomodoro, o del peperoncino (o della pasta al sugo di pomodoro arricchito di peperoncino) è fuori discussione. Ma è anche fuori discussione che la pasta, il pomodoro, il peperoncino appartengano in origine a culture diverse: e che sia necessario scavare nello spazio, oltre che nel tempo, per recuperare i frammenti di storie diverse che alla fine si incrociano e danno origine a storie e identità nuove. In 46

fondo, la ricerca delle proprie radici finisce sempre per essere la scoperta dell’altro che è in noi. Un altro che, attraverso complicati processi di osmosi e adattamento, in vari modi ha contribuito a farci diventare quello che siamo. Proprio per questo parliamo di identità culturali che si costruiscono nel tempo, mediante il confronto e lo scambio. È esattamente questo il genere di identità che stiamo cercando nella storia alimentare e gastronomica di un’Italia che si modella come spazio di valori comuni, di saperi e di sapori conosciuti (non necessariamente apprezzati). Un’Italia di localismi e regionalismi che sono tali proprio perché confrontati e contrapposti ad altri localismi e regionalismi, magari vicinissimi. Il fenomeno del campanilismo, tipico della storia italiana, è l’altra faccia della conoscenza condivisa. Perfino il dileggio delle abitudini altrui (chiamare questi «mangiarape», quelli «mangiapolenta», quegli altri ancora «mangiafagioli» e via dicendo, come appare nei testi italiani fin da secoli remoti) non è pensabile senza che quelle abitudini siano note e magari sperimentate. Come scrive Vito Teti, le «ingiurie alimentari» attestano al tempo stesso la «varietà culinaria» e la sua condi47

visione in una rete di reciproca conoscenza: solo in questa prospettiva si comprendono appellativi come «mangiapatate, trippecotte, mangiasorci, mangiaranocchi, cipollari, scolabrodo, cucuzzari [mangiazucche], pizzula-fichi, mangiafagioli, castagnari, mangialardo», attestati in zone del Mezzogiorno relativamente omogenee sul piano culturale.

Mangiamaccheroni. Come si costruisce uno stereotipo nazionale

Fra gli epiteti caratteristici della rete gastronomica italiana, legati a cibi e ad abitudini locali, se ne distinse uno che assunse, col tempo, un ruolo diverso e del tutto particolare, perché tendenzialmente unificante: quello di «mangiamaccheroni» ovvero – nell’accezione ampia che il termine ‘maccheroni’ tende ad assumere nei linguaggi del sud – mangiatori di pasta. L’importanza della pasta, che già nel corso del Medioevo si era ritagliata uno spazio ragguardevole nel sistema alimentare italiano, conobbe nella prima metà del XVII secolo un’improvvisa accelerazione, illustrata da Emilio Sereni in un celebre saggio del 1958. Il cambiamento si verificò a Napoli, dove, ai tempi del governo spagnolo, le difficoltà produttive e l’inefficienza del mercato cittadino provocarono la progressiva rarefazione di risorse che un tempo erano state 49

decisive nella dieta popolare: carne e verdura, soprattutto cavoli. Ciò determinò una modificazione degli equilibri dietetici con un forte sbilanciamento a favore dei carboidrati. Il pane e la pasta, come altrove la polenta o la patata, assunsero un ruolo sempre più decisivo. La pasta in particolare, grazie a una piccola rivoluzione tecnologica fondata sulla maggiore diffusione della gramola e sull’invenzione del torchio meccanico, cominciò a essere prodotta a costi più bassi, favorendone la promozione a cibo ‘di base’. Se fino ad allora essa era stata un prodotto fra i tanti, persino connotato da una certa immagine di lusso (al punto che, nel XVI secolo, a Napoli se ne proibiva la fabbricazione negli anni di carestia, per non diminuire la produzione di pane), ora la pasta diventò, per la prima volta, un cibo veramente popolare, il piatto-base del regime alimentare quotidiano dei ceti poveri urbani. Dal Seicento in poi saranno i napoletani a guadagnarsi l’epiteto di «mangiamaccheroni», strappandolo ai siciliani (che nel Medioevo avevano per primi accolto il modello arabo della pasta secca). L’accoppiata pasta-formaggio, a cui si aggiunse nell’Ottocento la salsa di pomodoro, prese il sopravvento sul tradizionale 50

binomio cavolo-carne: soluzione dietetica a suo modo geniale, che garantì un buon apporto calorico oltre al desiderato ‘volume’ alimentare. Perciò maccheroni diventò sinonimo di Napoli, ed è curioso che, nel momento dell’unificazione italiana, si sia potuto rappresentare la conquista di Napoli come una mangiata di maccheroni (e quella della Sicilia come una mangiata di arance). Il 26 luglio 1860, conclusa l’occupazione dell’isola, mentre si attende che le truppe garibaldine sbarchino sul continente, Cavour scrive all’ambasciatore piemontese a Parigi: «Le arance sono già sulla nostra tavola e stiamo per mangiarle. Per i maccheroni bisogna aspettare, poiché non sono ancora cotti». Il 7 settembre Garibaldi entra a Napoli e Cavour scrive: «I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo». Espressioni che potrebbero prestarsi a commenti maligni (il nord che ‘si mangia’ il sud) ma che più correttamente vanno interpretate – suggerisce Franco La Cecla – come riflesso della volontà, da parte del ceto politico piemontese, di accreditare un proprio ruolo di garante degli interessi e delle tradizioni di tutti, nel delicato momento conclusivo del processo di unificazione del paese. A tal 51

fine si attiva sul piano dell’immaginario – oltre che nei programmi politici – una sorta di ‘meridionalizzazione’ dell’identità subalpina, e in questa operazione i simboli alimentari sono, come sempre, decisivi: mangiare i maccheroni significa condividere una cultura, trasformando il simbolo di Napoli (e per estensione del sud) in simbolo della nazione. La ‘rivoluzione nazionale’, nella misura in cui significa «assunzione del sud da parte del nord», è anche una rivoluzione dell’immagine gastronomica che – ha scritto ancora La Cecla – «tira più a nord la coperta mediterranea, di cui i maccheroni sono una parte essenziale». Il ‘modello’ napoletano, nel frattempo, si diffondeva nel Mezzogiorno d’Italia, dove inizialmente aveva interessato solo le aree urbane e costiere, più legate alla logica e ai meccanismi del mercato alimentare. Nelle regioni rurali dell’interno la pasta restò a lungo un cibo per ricchi, consumato solo eccezionalmente dai poveri, tanto che, osserva Vito Teti, ancora agli inizi del Novecento le inchieste parlamentari raccolgono testimonianze che definiscono i maccheroni «pranzo da re». Già allora, tuttavia, l’appellativo «mangiamaccheroni» aveva assunto 52

un valore più esteso, rappresentativo non solo dei napoletani, ma dei meridionali in genere – nello stesso momento in cui il progetto politico-culturale dei Savoia tendeva a conferirgli un valore ancora più ampio di italianità. L’elaborazione di questa immagine dovette molto anche al drammatico fenomeno dell’emigrazione, che, negli ultimi decenni dell’Ottocento, sparpagliò per l’Europa e oltre Oceano milioni di italiani in cerca di lavoro e di cibo. Più tipico delle regioni del sud, da cui la maggior parte degli emigranti proveniva, il consumo di pasta fu riconosciuto come elemento distintivo della ‘diversità’ italiana. Lo stereotipo, come normalmente accade, fu costruito dagli altri, per individuare e in qualche modo dileggiare i nuovi venuti e le loro strane abitudini. Tuttavia esso funzionò anche come collante interno. Il sogno della pasta – tale essa era rimasta per molti italiani costretti a lasciare il loro paese – trovò in America più facile realizzazione: con il lavoro arrivavano nelle famiglie maggiori risorse e cresceva la possibilità di accedere al mercato della pasta, che aveva varcato l’Oceano proprio per rispondere a quell’abitudine, o a quel de53

siderio insoddisfatto. Terra di abbondanza, «Carnevale realizzato» che finalmente consentiva di avere pasta – e carne – nel piatto quotidiano, l’America fu il vero luogo di produzione del fortunato stereotipo italiano. Molti contadini meridionali, ha scritto ancora Teti, «diventarono ‘mangiamaccheroni’ proprio in America». E inventarono il piatto italo-americano per eccellenza, gli spaghetti con le polpette di carne (meatballs). Con la pasta, altri miti alimentari italiani (il parmigiano, l’olio, il vino, integrati dal nuovo mito della bistecca) si rafforzarono nelle comunità d’oltre Oceano, grazie all’integrazione che si realizzò fra abitudini domestiche, commercio di generi alimentari e ristorazione pubblica. E proprio in quelle comunità si costituì, tramite l’incontro di individui e di famiglie provenienti da diverse zone del paese, uno stile italiano di alimentazione che in molti casi precedette analoghe esperienze nel paese d’origine. Come ha notato Paola Corti, «attraverso il canale della ristorazione italiana si sono realizzati, all’estero, gli incontri delle tradizioni regionali della penisola», sicché si può dire che «il sincretismo alimentare... distingue l’esperienza dell’emigrazione nel suo complesso». 54

È semplicemente un problema di distanza: più l’obiettivo si allarga, più il disegno complessivo ha la meglio sui dettagli; più ci si allontana dalla prospettiva locale, più tendono a prevalere i tratti comuni e si costruiscono nuove connessioni. L’identità cittadina si stempera in un quadro regionale, quella regionale in un quadro nazionale. Ma una cosa non esclude l’altra, l’identità è sempre multipla: locale/cittadina, regionale, nazionale. Come dichiara una figlia di italiani nata in Argentina: «Io mi sento italiana... perché i miei costumi... la mia alimentazione... i miei gusti sono tutti italiani... Sì, e biellese. Piemunteis». Il dialetto non si oppone all’italiano, lo completa, lo ‘declina’.

La sintesi artusiana

Anche in Italia, così come fra gli emigranti, l’incontro delle tradizioni locali restava il modello attraverso cui realizzare uno stile di cucina condiviso. Fu questo il progetto lucidamente perseguito da Pellegrino Artusi, romagnolo di nascita, fiorentino d’adozione, patriota iscritto alla Giovine Italia, il quale, trent’anni dopo l’unità politica, dotò gli italiani – meglio: le italiane – di un vero ricettario ‘nazionale’. Pubblicato nel 1891, il manuale artusiano (La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene) si propone di unificare il paese negli usi gastronomici così come Manzoni aveva tentato di farlo sul piano linguistico (del resto, non abbiamo già osservato che anche la cucina è una forma di linguaggio?). A tal fine Artusi ‘pesca’ nelle tradizioni locali le ricette che gli sembrano proponibili a un pubblico più va56

sto. Incurante della diffidenza degli editori, stampa il libro a sue spese e lo vende per corrispondenza dalla sua casa di Firenze. Il meccanismo funziona e il ricettario cresce in modo interattivo, attraverso un fitto scambio di corrispondenza fra l’autore e le sue lettrici, che, subissandolo di suggerimenti, precisazioni e proposte, gli consentono di aumentare progressivamente, edizione dopo edizione, il numero delle ricette, che alla tredicesima edizione, nel 1909, risulta quasi raddoppiato (dalle 475 iniziali alle 790 definitive). È attraverso la rete postale che luoghi lontani come la Sicilia riescono a entrare nella raccolta di Artusi, che, nonostante la fortissima personalità dell’autore, finisce per configurarsi come opera collettiva – ciò che in gran parte spiega il suo strepitoso e duraturo successo. Altro strumento conoscitivo è la rete ferroviaria, che guida Artusi nelle sue peregrinazioni: come ha osservato Alberto Capatti, «la rete ferroviaria collega, nel 1891, tutte le soste gastronomiche citate nella Scienza in cucina e delimita il territorio a lui conosciuto». Il metodo artusiano, che si affida alle poste e alle ferrovie, è nuovo negli strumenti ma sa anche d’antico. Non è troppo diverso, 57

in fondo, da quello praticato da Bartolomeo Scappi tre secoli prima: assecondare la vocazione localistica e cittadina dell’Italia, senza presumere di ricavarne un modello ‘nazionale’ se non nella condivisione delle risorse e dei saperi, e nel rispetto delle differenze. Modello lontanissimo dalla codificazione rigorosa a cui proprio nel XIX secolo era sottoposta la cucina francese, sulla scorta di una lunga tradizione centralistica, politica e culturale, quindi gastronomica. Il modello italiano, anch’esso di antica tradizione, continua a funzionare secondo il principio della rete, come circolazione di esperienze locali che mantengono, ciascuna, la propria individualità. Pur senza completezza né omogeneità (il fulcro della Scienza in cucina sono le cucine che l’autore conosce meglio, quelle della Romagna, dell’Emilia, della Toscana, mentre altre regioni sono meno rappresentate e alcune del tutto assenti) il ricettario artusiano suggerisce la reciproca conoscenza di usi e prodotti, includendo la diversità come dato ineliminabile dell’identità nazionale. Così come Scappi aveva lasciato al lettore la scelta fra torte milanesi, bolognesi, genovesi o napoletane, Artusi esprime un messaggio di rispetto per la diversità delle 58

abitudini alimentari che si definiscono in base all’ambiente, alle risorse, alle tradizioni. Tollera grassi animali o vegetali di qualsiasi origine, evitando di tracciare barriere e di imporre steccati: «Ogni popolo usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana si dà la preferenza all’olio, in Lombardia al burro e nell’Emilia al lardo che vi si prepara eccellente». Rispetto ai tempi di Scappi era cambiato (e si era allargato) il pubblico: non più la ristretta élite delle corti e dei maggiorenti cittadini, ma la piccola e media borghesia. Restava la prospettiva ‘antologica’ – rappresentare il meglio della gastronomia italiana – così come la volontà di includervi i saperi popolari. Se Scappi aveva reinterpretato le tradizioni alimentari di contadini e pescatori, la cucina borghese di Artusi rivisita i piatti contadini dei giorni di festa, inserendoli in un patrimonio comune. Lo strategico «punto di incontro della campagna e della città» è il mercato, che Artusi ben conosce e frequenta di persona: il mercato in cui si concentrano i prodotti e la cultura del territorio. «L’uso delle erbe e degli odori in particolare, caro alle cucine più semplici, non ha per lui segreti» (Capatti). 59

Se ancora oggi, dopo oltre un secolo dalla sua prima edizione, La scienza in cucina si stampa, si legge, si discute, è perché Artusi seppe guardare lontano, giocando d’anticipo su tendenze che si sarebbero pienamente affermate nella cucina italiana del Novecento, ma che nel 1891 erano ancora in fieri. Soprattutto appare significativo lo spazio riservato alla pasta, sia industriale sia domestica: in questo il manuale artusiano è assolutamente originale e accompagna la nascita dello stereotipo italiano su cui ci siamo già soffermati. Molte ricette sono riservate agli spaghetti, che entrano ufficialmente nella cucina ‘nazionale’. Si configura in tal modo un sistema gastronomico centrato sulla «minestra», che per Artusi non è solo quella in brodo ma anche la pastasciutta: il ‘primo’ insomma, come lo chiamerà il pubblico borghese, potendosi permettere un ‘secondo’ e altro ancora. Per altri la pasta potrà essere il piatto unico o principale, perciò Artusi ironizza, con garbo, sul consiglio dei medici «di mangiarne poca per non dilatare troppo lo stomaco e per lasciare la prevalenza al nutrimento carneo», dato che «una buona e generosa minestra per chi ha uno scarso desinare sarà sempre la benvenuta». Con 60

la codificazione del ‘primo’ come piatto di apertura (che almeno teoricamente ne presuppone un ‘secondo’) si definisce in Italia un modello di pasto grammaticalmente diverso da quelli d’oltralpe, organizzati attorno a un solo piatto principale (plat francese, main dish inglese...) preceduto da un’entrata di minore importanza. Pellegrino Artusi segna la nascita della cucina italiana moderna, che si afferma non solo fra le borghesie cittadine, prime destinatarie della Scienza in cucina, ma, col tempo, anche fra le classi popolari. Da questo punto di vista il suo manuale costituisce «un vero e proprio spartiacque» (Piero Meldini): «non c’è ricettario italiano successivo, fino agli anni quaranta e oltre, che non si misuri con il modello artusiano», anche quando lo contesta (come farà Ada Boni nel 1925, perseguendo nel Talismano della felicità un modello elitario di cucina volutamente distante da quello di Artusi). Anche i ricettari domestici, gli appunti e i quaderni compilati nelle famiglie per il quotidiano lavoro di cucina devono molto alla Scienza in cucina, di cui spesso ricopiano le istruzioni. Perciò Meldini ha spiritosamente osservato che la «cucina della nonna», come ci piace 61

chiamarla, in tanti casi dovremmo piuttosto riconoscerla come «cucina del nonno». Alla morte di Artusi, nel 1911, gli italiani «da fare» (secondo l’auspicio di Massimo D’Azeglio) restavano molti, moltissimi, ma intanto aumentavano quelli già «fatti» – e in questo dobbiamo riconoscere, con Piero Camporesi, «che La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi sposi; che i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani».

Cresce il numero degli ‘italiani’

L’insistenza di Artusi sull’utilità sociale del ‘primo piatto’ non era gratuita. Alla fine dell’Ottocento l’Italia era un paese povero, con un bilancio alimentare insufficiente. Il consumo di carne era di appena 16 kg annui a testa, contro gli oltre 40 della Germania, i 55 degli Stati Uniti, i 58 della Gran Bretagna. La progressiva ‘semplificazione’ della dieta in senso cerealicolo, accentuatasi nel XVII-XVIII secolo, continuava a far sentire i propri effetti. Esito drammatico di questa situazione fu l’imponente fenomeno migratorio, di cui abbiamo parlato. Ma già nel primo decennio del XX secolo, epoca del decollo industriale, il trend alimentare complessivamente migliorò: i tentativi di valutarlo in termini calorici (nonostante le incertezze metodologiche di calcoli come questi, e i dubbi che 63

ormai si nutrono in campo scientifico sulla validità di tali indici) suggeriscono la rassicurante cifra di oltre 2500 calorie pro capite, mantenutasi fino alla seconda guerra mondiale, che precipitò molti italiani nella denutrizione. La tragedia del 1915-18, invece, non lasciò tracce negative in questa tendenza. Si ritiene anzi che essa, per certi versi, «costituì una occasione per milioni di contadini al fronte di assaporare, pur nel contesto drammatico della trincea, la carne, la pasta, il pane di frumento, il vino, il caffè». Quei cibi entrarono nel patrimonio collettivo perché erano compresi nel pasto quotidiano. A essi si aggiungevano i cibi della tradizione domestica, inviati ai soldati dalle famiglie, che si scambiavano e si mettevano in comune. Costringendo migliaia di giovani a vivere fianco a fianco in trincea o nelle baracche, la guerra diede a molti la possibilità, per la prima volta, di confrontarsi con realtà culturali e alimentari diverse, uscendo dall’isolamento in cui erano sempre vissuti. Anche in questo modo, la condivisione di un modello alimentare ‘italiano’ poté allargarsi a nuovi strati sociali. Il confronto fra le tradizioni culinarie si fa perfino nei campi di prigionia: a Celle, nei 64

pressi di Hannover, tra la fine del 1917 e gli inizi del 1918 sono reclusi quasi tremila graduati dell’esercito italiano catturati durante la rotta di Caporetto; il sottotenente Giuseppe Chioni, genovese, per alleggerire la tensione e lo sconforto del momento si ingegna a raccogliere ricette nella memoria sua e dei compagni, mettendo insieme un manuale di Arte culinaria (così lo intitolerà una volta tornato a casa) che un po’ come la Scienza in cucina di Artusi è un’opera collettiva, scaturita «dallo scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desideri», scriverà Chioni nelle righe introduttive, non senza una riflessione sullo «strano fenomeno psicologico» che aveva indotto lui, e con lui tanti altri, a mutarsi «da guerrieri in cuochi». Nello stesso campo di prigionia e negli stessi mesi il sottoufficiale Giosuè Fiorentino, originario di Agrigento, compila un altro ricettario, anch’esso opera collettiva in cui confluiscono – con diverse grafie che si alternano nel manoscritto – le esperienze di vari commilitoni. L’analisi di questi materiali rivela la mescolanza di tradizioni del nord, del centro e del sud Italia, un compendio addirittura più equilibrato di quello artusiano, che abbiamo visto fortemente sbilanciato sull’asse Emilia-Roma65

gna-Toscana. «Non c’è niente che induca a ritenere che Giuseppe Chioni e Giosuè Fiorentino si siano conosciuti», ha scritto John Dickie, ma è sbalorditivo che «due giovani uomini affamati, delle due estremità opposte dell’Italia, siano arrivati autonomamente a inventarsi lo stesso identico modo per alleviare le strazianti sofferenze della fame e della nostalgia di casa», dandoci una «prova schiacciante del ruolo occupato dal cibo nell’identità nazionale italiana». I comandi militari, intanto, per tenere alto il morale delle truppe progettano un giornalino (La tradotta) dove il senso dell’identità nazionale si condensa anche in simboli gastronomici: una curiosa carta raffigura città e paesi tra il Piave e il Po con i relativi prodotti, ricette e specialità che al ‘nemico’ piacerebbe papparsi. La carta è accompagnata da alcune strofe di ottonari che descrivono il fallimento (dopo la ‘battaglia del solstizio’ del giugno 1918) della «austroungarica offensiva / culinario-mangiativa» preparata sui monti e in pianura «col sussidio tragicomico / d’un gran piano gastronomico». Il piano sarebbe stato quello di divorare gli asparagi di Bassano, le ciliegie di Marostica, polenta e uccelli di Schio, radicchio di Ca66

stelfranco, polenta di Cittadella, ciambelle di Vicenza, e ancora la luganega di Treviso, i baìcoli di Venezia, le galline padovane e il pan del Piave, bevendoci sopra bardolino e grappa, per finire con lo storione in riva al Po. «Ma la cosa andò così, / che mangiaron per sei dì / spezzatino di granata, / baionette in insalata». Morale: «Chi fa i conti senza l’oste / mangia un fracco di batoste». La catastrofe del secondo conflitto mondiale non consentì analoghe acrobazie poetiche. Non sprecate è il titolo di un opuscolo emanato nel 1941 dall’Ufficio stampa e propaganda del regime. Primo avvertimento: «fare attenzione a tutto ciò che viene gettato nelle immondizie... tutto può essere riutilizzato». Ha un bel da fare Petronilla, al secolo Amalia Moretti Foggia, autrice delle celebri «perline» gastronomiche sul «Corriere della sera», a convincere le agiate signore borghesi che anche senza materie prime si possono preparare «pranzetti deliziosi». Maionese senza olio, gelatina senza carne, dolci senza zucchero, cioccolato senza cacao, caffè senza caffè, ogni sorta di surrogati sono protagonisti dei suoi ricettari «per tempi eccezionali» (1941), «per i tempi difficili» (1942) o «...per questi tempi» (1943). Quotidiani e 67

periodici si associano: la rubrica Ricette autarchiche della «Gazzetta della domenica» insegna come fare «fagiolini senza fagiolini» utilizzando i gambi degli spinaci, ma anche «spinaci senza spinaci» sostituiti dalle foglie di carote e ravanelli.

Il «miracolo italiano» fra modernità e tradizione

La crisi alimentare provocata in Italia dalla seconda guerra mondiale fu talmente profonda da prolungare i suoi effetti per un decennio oltre la fine del conflitto. Il «miracolo italiano», come fu detto, trovò solamente nel 1958 il suo «anno di confine» (Crainz), dopo il quale il paese riuscì a riguadagnare i livelli di consumo prebellici. Negli anni sessanta la depressione poté dirsi conclusa e nel 1968 si raggiunsero, pare, le 3000 calorie medie per abitante, ritenute da certi studiosi (con una qualche sovrabbondanza, e coi limiti già rilevati) lo spartiacque fra povertà e benessere. In quel periodo di tempo si verificò in Italia il passaggio da società rurale tradizionale a società industriale moderna. A metà degli anni settanta cessarono i movimenti migratori verso l’Europa continentale e l’America; fra 1974 e 1984 si annullò il 69

duplice, storico divario alimentare fra nord e sud e fra città e campagna. Il modello alimentare italiano in quegli anni cambiò. Come in tutti i paesi industrializzati, fece largo posto ai prodotti confezionati, alle scatolette, a tutte le ‘modernità’ che il mensile La cucina italiana (fondato nel 1929) proponeva alla ‘massaia moderna’ come mezzo di riscatto dalla vita grama del recente passato. Parallelamente si intensificò il processo di omologazione culturale promosso dai mezzi di comunicazione di massa: non più solo la radio e il cinema, già importanti nel ventennio fascista, ma, dagli anni cinquanta, anche e soprattutto la TV, a cui qualcuno attribuisce, non senza ragione, il ruolo di vera unificatrice della cultura italiana, anche sul piano dei costumi alimentari. Questi, tuttavia, conservarono a lungo una natura intimamente dialettale, un forte radicamento nelle tradizioni locali, di cui il Viaggio nella valle del Po, la fortunata serie di reportage televisivi girati nel 1957 da Mario Soldati «alla ricerca dei cibi genuini», rappresenta uno straordinario documento storico. Il passaggio alla ‘modernità’, che anche Soldati evocava sostando negli stabilimenti industriali che affiancavano antiche osterie e 70

piccoli laboratori artigianali, in Italia è stato incerto e niente affatto lineare. La crisi della società contadina, su cui Pier Paolo Pasolini scrisse pagine memorabili, è stata devastante ma non ha completamente cancellato le tracce del passato. La ‘modernizzazione alimentare’, a causa della sua lentezza e delle sue contraddizioni, «non è stata in grado di garantire un miglioramento costante dei regimi alimentari, né di superare una tipologia di consumi dominata dal localismo e dalla stagionalità, che esprimevano rapporti con il mercato limitati e saltuari». Così Stefano Zamagni, secondo cui la destagionalizzazione e la delocalizzazione, «che segnalano inequivocabilmente le rotture nell’alimentazione tradizionale provocate dall’industrializzazione», in Italia non si sono mai compiutamente realizzate: se agli inizi del Novecento non si intravedevano ancora, negli ultimi decenni del secolo sono avanzate con decisione ma fra continui ripensamenti e arretramenti. Ma questo ‘ritardo’ – come lo si poteva considerare in termini di sviluppo economico – potrebbe oggi essere rivalutato come una risorsa culturale. La post-modernità alimentare ha infatti ribaltato scelte che sem71

bravano assodate, proponendo modalità di rapporto col cibo che paradossalmente vedono coincidere il massimo della modernità con il recupero (o la reinvenzione) della tradizione. La stessa ristorazione professionale – che in Italia si è sviluppata con caratteri prevalentemente ‘famigliari’, privilegiando il modello della trattoria rispetto a quello del ristorante – sembra oggi farsi carico delle tradizioni domestiche, da molti (non da tutti) abbandonate. Tradizione e modernità, nell’immaginario collettivo, non paiono più legate agli stereotipi più ovvi che le vogliono contrapposte e conflittuali: entrambe hanno molto da dire e si confrontano da pari a pari. Percorsi nuovi si intravedono, nuove domande si pongono. Sviluppare l’economia di mercato significa per forza negare i valori del territorio? Conservare i cibi in frigorifero significa per forza ignorare i ritmi stagionali? Essere in relazione col mondo attraverso la rete informatica significa per forza annullare le culture locali? Pare proprio di no. Gli strumenti della modernità possono servire a rivitalizzare in maniera intelligente il patrimonio di saperi e di pratiche che la storia ci ha consegnato, e la 72

stessa industria alimentare è oggi costretta a confrontarsi con quei medesimi valori che siamo soliti riconoscere nella ‘tradizione’: stagionalità e localizzazione del cibo, richiamate (non senza evidenti ambiguità) anche nei messaggi pubblicitari delle multinazionali, perché, evidentemente, sono parametri culturali che si continuano ad apprezzare (anzi: si apprezzano oggi più di un tempo, per il venir meno di antichi pregiudizi su cui subito torneremo). Allo stesso modo i supermercati e gli ipermercati, forme tipiche del commercio moderno e della globalizzazione alimentare, devono misurarsi con la controtendenza alla riscoperta del negozio di quartiere, del ‘piccolo’ che piace più del ‘grande’. Questi fenomeni, comuni a tutti i paesi industrializzati, in Italia sembrano particolarmente forti, non per una speciale attitudine nostrana a generare ‘anticorpi’ al processo di modernizzazione (questo semmai potrebbe valere per i paesi più avanzati) ma, al contrario, per quello che abbiamo detto essere il ‘ritardo’ italiano in tale processo. Il ‘ritorno’ alla dimensione territoriale e stagionale del cibo è in realtà il segno di un attaccamento antropologico alla tradizio73

ne, che il cibo dell’industria può occultare ma non cancellare. È anche una moda, che nasconde interessi non sempre innocenti. I miti della ‘tipicità’, della ‘tradizione’, della ‘genuinità’, della ‘autenticità’ sono etichette che oggi servono a vendere, soprattutto ai turisti. Ma sarebbe frettoloso liquidarle come una grande mistificazione. Meglio vedervi, con Vito Teti, «l’anticamera di nuove forme di consapevolezza», il segno di un solido «legame col passato» capace di persistenze anche nella modernità «nonostante le aggressioni esterne e interne».

L’invenzione delle cucine regionali

Quelle che oggi chiamiamo cucine regionali sono una costruzione moderna – postmoderna, anzi, la definisce Vito Teti, nel senso che vi confluiscono «elementi disparati, frammentari, disomogenei, provenienti da diverse località di una stessa regione e spesso da altre regioni». I piatti tradizionali, estrapolati dal contesto economico e sociale che li aveva prodotti (un contesto di povertà quotidiana e spesso di fame) e collocati in un ‘insieme’ alimentare nuovo, di sicurezza o perfino di benessere, un tempo inaccessibile o addirittura impensabile, assumono «un diverso valore dietetico, simbolico, rituale». Se quindi è possibile ricostruire singole ricette, «è impossibile riproporre una cucina, lo stile di vita ad essa legato, le disponibilità alimentari del passato». E «l’affermazione della tradizio75

ne in contesti diversi cos’altro è se non invenzione di nuove tradizioni?». L’idea di valorizzare il territorio come dimensione specifica della cultura gastronomica non appartiene al passato: nel Medioevo e nella prima età moderna, quando la cucina delle élites aveva di mira il superamento del localismo, percepito come immagine della povertà contadina, il territorio era semplicemente lo spazio da cui si attingevano prodotti, o magari ricette, che andavano a confondersi con altri prodotti e ricette in una sorta di ‘tavola globale’ che esprimeva la capacità dei pochi privilegiati di differenziarsi dai molti. L’ideologia della differenza, che assegnava allo stile alimentare il compito di manifestare le appartenenze sociali, era incompatibile con l’idea di attribuire al territorio un valore culturalmente significativo, per il semplice motivo che il territorio è un’entità spaziale che virtualmente include tutti, ricchi e poveri, contadini e cittadini: dunque, pensare al territorio come valore in sé significa accreditare l’idea che le differenze decisive non siano quelle fra le persone, bensì fra i luoghi. Perché l’immagine si rovesciasse era necessario che si affermasse l’idea, per lungo tempo inconcepibile, che 76

gli uomini sono tutti uguali (in teoria, almeno). In questo senso, solamente il pensiero liberal-democratico che accompagnò lo sviluppo della classe borghese e dell’economia industriale poté far assumere al ‘territorio’ un valore distintivo delle identità alimentari. È questo un motivo, fra altri, essenziale per comprendere la modernità dell’idea, che prende forma (può prendere forma) solo fra XVIII e XIX secolo. In Italia, la valorizzazione delle identità territoriali si muove dapprima in un’ottica cittadina, naturalmente suggerita dalla tradizione culturale del paese (su cui ci siamo ampiamente soffermati). Fino all’unità, se si prescinde da un paio di ricettari settecenteschi che intendono rappresentare una realtà di dimensione ‘regionale’ come quella piemontese, i riferimenti ‘cittadini’ sono quelli che tornano più spesso nei manuali di cucina: Il cuoco maceratese (Antonio Nebbia, 1779), La cuoca cremonese (1794), Il nuovo cuoco milanese (Giovanni Felice Luraschi, 1829), Il cuoco bolognese (1857), La cuciniera genovese (Giovanni Battista Ratto, 1863) ne sono solo alcuni esempi. Il tentativo di definire identità regionali è successivo, e va di pari passo con il processo 77

di unificazione politica del paese. Estranea alla prospettiva artusiana (dato che Artusi perseguiva un obiettivo esattamente opposto: costruire una rete ‘italiana’ di saperi culinari), la tendenza alla ‘regionalizzazione’ si fa strada nei medesimi decenni e rappresenta, per così dire, l’altra faccia della ‘nazionalizzazione’ gastronomica. Il primo ricettario che classifica i piatti secondo questa prospettiva è La nuova cucina delle specialità regionali di Vittorio Agnetti, pubblicata a Milano nel 1909. Poi sarà la retorica nazional-popolare del fascismo a enfatizzare i motivi del ruralismo e del regionalismo, paradossale pendant di uno statalismo radicale che portava alle estreme conseguenze la centralizzazione amministrativa dello stato unitario. Proprio la suddivisione regionale è assunta a base del primo progetto di inventariazione del patrimonio alimentare italiano. L’idea è lanciata nel 1928 durante una riunione del Rotary Club di Milano, alla presenza di Arturo Marescalchi sottosegretario all’Agricoltura. Sarà il Touring Club Italiano a realizzare e pubblicare (1931) la Guida gastronomica d’Italia, che suddivide prodotti e ricette secondo l’appartenenza regionale 78

e, al suo interno, provinciale. Si delinea in questo modo un’ambiguità, destinata a durare, fra ‘regioni’ intese come ripartizioni amministrative dello stato – peraltro, esse diventeranno veramente tali solo con la costituzione repubblicana del 1946 e con la sua completa attuazione nel 1970 – e ‘regioni’ in quanto unità culturali, di natura storica e geografica. Classificare ricette e prodotti entro i confini convenzionali e predefiniti delle regioni amministrative è un’evidente forzatura, che corrisponde solo in parte alla realtà storico-culturale, crea legami artificiosi là dove mancano, li spezza là dove esistono. Nello stesso 1931, un manifesto commissionato dall’Ente Nazionale Italiano per il Turismo al pittore Umberto Zimelli, destinato a propagandare presso gli stranieri le specialità gastronomiche dell’Italia, contrassegna ogni regione con un cartiglio, segnalandone piatti e prodotti. Questa carta dell’«Italia gastro-fascista» (la definizione è di Alberto Capatti), non priva di un suo «irredentismo gustativo» negli sconfinamenti territoriali verso Nizza, l’Istria e la Dalmazia, è interessante perché, a differenza delle contemporanee carte francesi, organizzate attorno al mercato della capitale, «manca di 79

un centro verso cui affluiscano tutti i prodotti». Essa conferma pertanto la dimensione de-centralizzata del patrimonio culturale italiano. La stessa Guida gastronomica del Touring Club è frutto – scrive ancora Capatti – di «una rilevazione tanto capillare da rendere impossibile qualsiasi sintesi». La cultura gastronomica italiana vi appare topograficamente polverizzata, irriducibile a spazi ‘politicamente’ determinati come quelli delle province o delle regioni. La ‘cucina delle regioni’ è un’invenzione che risponde a esigenze politiche, commerciali, turistiche. Non culturali. In un’ottica più propriamente culturale sarebbe opportuno riferirsi a cucine ‘locali’, ‘territoriali’, ‘cittadine’. E poi al circuito ‘nazionale’ che le integra, secondo il modello più volte evocato della rete. La dimensione intermedia della regione ingabbia la realtà storica entro confini artificiali, creando equivoci e fraintendimenti. Ma è stata quella la linea vincente, perché più semplice da gestire, più facile da comunicare. La sovrapposizione della politica alla cultura ha trasformato l’immagine della cucina italiana, conferendo arbitrarie identità regionali alla straordinaria ricchezza di contenuti che storicamente la 80

contraddistingue. Il mosaico delle cucine locali (rurali e cittadine) è stato accorpato in unità regionali che funzionano perfettamente sul piano commerciale, assai meno se guardiamo alla storia, alla geografia e a ciò che esse hanno impresso sul territorio in termini di cultura. Salvo che, dopo decenni di attività amministrativa, la stessa esistenza dell’ente regione ha finito per promuovere o per produrre realtà in parte nuove, che configurano una diversa geografia e una diversa percezione delle culture alimentari. Cercare oggi con un motore di ricerca «cucina regionale italiana» significa confrontarsi con oltre un milione di siti che trattano il tema gastronomico in questa prospettiva. L’immagine regionale della cucina italiana è stata anche esportata, e all’estero riplasmata e rafforzata, con il concorso dell’industria alimentare. I supermercati del nord America, negli scaffali dedicati alla cucina italiana, ne offrono un modello schematicamente regionale: formati e ricette di pasta, o sughi per condirla, sono definiti (con parecchia fantasia) «lombardi», «veneti», «emiliani», «toscani», «abruzzesi», «pugliesi», «siciliani»... e basta questo a rappresentare la ricchezza gastronomica, la ‘diversità di 81

tradizioni locali’ che da sempre si collega all’idea di Italia. Una bandierina biancorosso-verde, nell’angolo o in bella vista sulla confezione, rassicura l’acquirente che il prodotto è conforme a ciò che dall’Italia ci si aspetta: sapori buoni e genuini, legame col territorio, regionalismo. La profonda ambiguità di queste immagini – trasmesse da piccole aziende, da industrie multinazionali, da colossi della distribuzione alimentare – non ha neppure bisogno di essere sottolineata. Mi preme invece osservare come il ‘paravento’ delle regioni rischi di occultare i caratteri veramente identitari della cucina italiana, la sua natura assolutamente ‘locale’ e, al tempo stesso, profondamente ‘nazionale’. L’indole dialettale di questa cultura non è mai venuta meno. Se nella storia della lingua a un certo punto un dialetto si è imposto sugli altri, guadagnandosi, lui solo, la qualifica di ‘italiano’ grazie al prestigio ineguagliato di Dante, di Boccaccio e di Petrarca, e grazie agli auspici dell’Accademia della Crusca, la storia della cucina non ha conosciuto alcun Dante né Accademie della Crusca: solo Bartolomeo Scappi, o Pellegrino Artusi, che al pari di tutti gli altri ‘codificatori’ si sono limitati a confrontare e a mettere in 82

rete le tradizioni locali. Nell’età della globalizzazione, queste tradizioni sembrano godere di inaspettata attenzione e di crescente prestigio. L’Italia, con le sue mille identità di campanile, le sue forme di orgoglio municipale a volte bizzarre, a volte francamente inaccettabili, si trova forse nella posizione giusta per affermare la funzionalità del suo modello alimentare e gastronomico, particolarmente adatto a sostenere la sfida glocale che sembra aspettarci nel futuro più prossimo.

Percorsi di lettura

L’Italia, gli italiani Paese Italia. Venti secoli di identità è il titolo di un libro di R. Romano, Donzelli, Roma 1994. Che di ‘italiani’ sia possibile parlare fin dal Medioevo, pur in mancanza di una ‘Italia’ politica, è stato sostenuto da J. Le Goff, L’Italia fuori d’Italia. L’Italia nello specchio del Medioevo, in Storia d’Italia, vol. II, t. 2, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Einaudi, Torino 1974, pp. 1933-2088, a p. 1939.

Prima dell’Italia ci fu l’Europa Sullo scontro-incontro (anche di modelli alimentari) fra cultura romana e cultura ‘barbarica’ vedi M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 12-49. L’espressione «agro-silvo-pastorale» è di G. Duby, Le origini dell’economia europea. Guer-

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rieri e contadini nel Medioevo, Laterza, RomaBari 1973, pp. 22-32. Sulla natura culturale e non biologica delle identità etniche, ovvero la necessità di considerare queste ultime come prodotto di un processo storico o ‘etnogenesi’, vedi Typen der Ethnogenese unter besonderer Berücksichtigung der Bayern, hrsg. H. Wolfram und W. Pohl, Österreichische Akademie der Wissenschaften, Wien 1990.

L’Italia è una rete di città Sull’importanza della città nella definizione del modello alimentare e gastronomico italiano vedi A. Capatti e M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. x-xi e passim (l’idea è stata poi ripresa da J. Dickie, Con gusto. Storia degli italiani a tavola, Laterza, Roma-Bari 2007). Sulla natura ‘territoriale’ dei poteri cittadini e sulla capacità, in Italia, dei centri urbani di esercitare un dominio sul ‘contado’, mettendo in opera una complessa relazione di egemonia e di integrazione, mi limito a segnalare (in una vastissima bibliografia) il recente La costruzione del dominio cittadino sulle campagne. Italia centro-settentrionale, secoli XII-XIV, a cura di R. Mucciarelli, G. Piccinni e G. Pinto, Protagon, Siena 2009. Sullo sviluppo, a partire dalle esperienze delle

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città comunali, di stati ‘signorili’ di ampiezza regionale, vedi G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV-XVI, Einaudi, Torino 1979. Sulle implicazioni e il significato dello stereotipo ‘Bologna grassa’ rimando a M. Montanari, Bologna grassa. La costruzione di un mito, in Il mondo in cucina. Storia, identità, scambi, a cura di M. Montanari, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 177-196.

Modelli di cucina fra unità e varietà Per il Liber de coquina vedi l’edizione, ampiamente introdotta e commentata, di L. Sada e V. Valente, Liber de coquina. Libro della cucina del XIII secolo. Il capostipite meridionale della cucina italiana, Puglia Grafica Sud, Bari 1995. Le probabili radici normanno-sveve del ricettario angioino sono state sostenute, sulla base di considerazioni linguistiche e di contenuto, da A. Martellotti, I ricettari di Federico II. Dal “Meridionale” al “Liber de coquina”, Olschki, Firenze 2005. Sui ricettari medievali italiani e sulla loro ampia circolazione all’interno della penisola: B. Laurioux, Le règne de Taillevent. Livres et pratiques culinaires à la fin du Moyen Age, Publications de la Sorbonne, Paris 1997, pp. 210-216.

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Sulla storia della pasta: F. Sabban e S. Serventi, La pasta. Storia e cultura di un cibo universale, Laterza, Roma-Bari 2000. In particolare per quanto riguarda l’Italia: Capatti e Montanari, La cucina italiana cit., pp. 59-67 (a p. 60 il testo di Edrisi sul pastificio di Trabìa). Ivi, pp. 67-72, l’importanza delle «torte» o «pasticci» nella cucina medievale (F. Sabban e S. Serventi, A tavola nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 167, sull’evoluzione rinascimentale del ‘genere’). Sulla dimensione ‘italiana’ della cucina di Bartolomeo Scappi vedi ancora Capatti e Montanari, La cucina italiana cit., pp. 15-22. Ivi, pp. 26-27, l’Italia non-cittadina evidenziata nei testi di area meridionale come la Lucerna di Crisci.

Cultura popolare e cultura di élite Sui rapporti fra cucina povera (orale) e cucina ricca (scritta) vedi M. Montanari, La cucina scritta come fonte per lo studio della cucina orale, in «Food & History», I, 2003, n. 1, pp. 251-259. La considerazione di Bartolomeo Scappi sui pescatori di Chioggia è in Opera, Tramezzino, Venezia 1570, p. 120. Sull’immagine ‘mediterranea’ della Bologna

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medievale e della prima età moderna vedi Montanari, Bologna grassa cit., p. 186. Su Castelvetro Id., La fame e l’abbondanza cit., pp. 144145. Il ‘caso’ di Caterina de’ Medici è esaminato in Capatti e Montanari, La cucina italiana cit., pp. 127-131. Sulla ‘rivoluzione del gusto’ nella Francia del XVII-XVIII secolo vedi la recente sintesi di S. Pinkard, A revolution in taste. The rise of French cuisine, 1650-1800, Cambridge University Press, New York 2009 (con puntuali riferimenti alla bibliografia precedente, fra cui sono da segnalare i fondamentali studi di Jean-Louis Flandrin).

Uomini e prodotti che viaggiano Il testo di Ortensio Lando, Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia e altri luoghi di lingua aramea in italiana tradotto. Con un breve Catalogo de gli inventori delle cose che si mangiano e bevono, novamente ritrovato (Venezia, 1548), a cura di G. e S. Salvatori, Pendragon, Bologna 1994 è riprodotto in M. Montanari, Nuovo Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’Età moderna, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 43-47. Ivi, pp. 223-225, il brano di B. Stefani, L’ar-

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te di ben cucinare, et instruire i men periti in questa lodevole professione, Osanna, Mantova 1662, pp. 142-144, a cui ci si è riferiti nel testo. Sulla moda dei biscotti savoiardi nel XVII secolo: Capatti e Montanari, La cucina italiana cit., p. 29. Per gli esempi di ‘nature morte’ con savoiardi, citati nel testo: Cristoforo Munari 1667-1720. Un maestro della natura morta, a cura di F. Baldassari e D. Benati, Motta, Milano 1999.

Conservazione e rinnovamento delle identità alimentari Sulle vicende dell’introduzione del mais in Italia resta fondamentale L. Messedaglia, Il mais e la vita rurale italiana, Federazione italiana dei consorzi agrari, Piacenza 1927. Vedi anche Montanari, La fame e l’abbondanza cit., pp. 166-170. Sul significato ‘linguistico’ delle sostituzioni alimentari: Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 143-152. Sulle carestie del Settecento: A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, Introduzione a Storia d’Italia, «Annali» 13, L’alimentazione, Einaudi, Torino 1998, pp. xvii-lxiv, a p. xxxix. Sulla progressiva differenziazione sociale della dieta e le nuove modalità, più ‘qualitative’ che quan-

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titative, della sottonutrizione contadina: ivi, pp. xliv-xlv; inoltre Montanari, La fame e l’abbondanza cit., pp. 166-170. Sullo sviluppo del capitalismo agrario in Italia: E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Einaudi, Torino 1947. Sull’introduzione della patata in Italia: Montanari, La fame e l’abbondanza cit., pp. 170-175. Sulle istruzioni ai parroci friulani: G. Panjek, In margine alla storia dell’alimentazione: un dibattito settecentesco sull’introduzione della patata nel Veneto, in Raccolta di scritti per il cinquantesimo anniversario [della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli Studi di Trieste], Udine 1976, pp. 573-587, a pp. 580-581. Per un quadro storico generale: R.N. Salaman, Storia sociale della patata. Alimentazione e carestie dall’America degli Incas all’Europa del Novecento, Garzanti, Milano 1989. Il testo di G. Battarra si trova in Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, Biasini, Cesena 17822, pp. 104-105, 131-134 (riprodotto in Montanari, Nuovo Convivio cit., pp. 341-345). Sulla storia del pomodoro: D. Gentilcore, La purpurea meraviglia. Storia del pomodoro in Italia, Garzanti, Milano 2010. Sulle vicende economiche e culturali del peperoncino, e i valori identitari che ne sono de-

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rivati nella tradizione calabrese: V. Teti, Storia del peperoncino, Donzelli, Roma 2007. Sulla necessità di distinguere tra identità (noi) e radici (l’altro che è in noi) vedi Montanari, Il cibo come cultura cit., pp. 159-160; Id., Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 195-197. Sulle «ingiurie alimentari»: V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, in Storia d’Italia, «Annali» 13 cit., pp. 63-165, a p. 67. Sui precedenti di epoca medievale e rinascimentale: L. Messedaglia, Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, a cura di E. e M. Billanovich, Antenore, Padova 1974, pp. 140-141 (con riferimento al Baldus di Teofilo Folengo, vol. II, pp. 104 sgg., sorta di catalogo degli attributi, anche gastronomici, di numerose città italiane).

Mangiamaccheroni. Come si costruisce uno stereotipo nazionale Sulla ‘mutazione’ del ruolo alimentare della pasta nella Napoli seicentesca è fondamentale, e metodologicamente esemplare, lo studio di E. Sereni, Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i Napoletani da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni”, in «Cronache meridionali», IV-V-VI, 1958, poi in Id., Terra nuova e

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buoi rossi, Einaudi, Torino 1981, pp. 292-371 (da cui cito). F. La Cecla, La pasta e la pizza, Il Mulino, Bologna 1998, p. 17, riporta la lettera di Cavour del 26 luglio 1860, scritta in francese. Ho tradotto liberamente il testo originale, che suona: «Nous seconderons pour ce qui regarde le continent, puisque les macaroni ne sont encore cuits, mais quant aux oranges, qui sont déjà sur notre table, nous sommes bien décidés à les manger». Ivi, pp. 27-28, l’immagine della ‘coperta mediterranea’ «tirata più a nord». La lettera del 7 settembre, indirizzata come la precedente all’ambasciatore piemontese a Parigi Costantino Nigra, è citata in G. Mantovano, L’avventura del cibo. Origini, misteri, storie e simboli del nostro mangiare quotidiano, Gremese, Roma 1989, p. 83. Le osservazioni di Teti sullo statuto sociale della pasta, rimasta a lungo un cibo di lusso, compaiono in Le culture alimentari nel Mezzogiorno cit., p. 97. Ivi, pp. 98, 137-139, l’importanza dell’emigrazione in America per la realizzazione di un lungo sogno alimentare e il consolidamento del relativo stereotipo. Per gli spaghetti with meatballs vedi Dickie, Con gusto cit., pp. 280-281. Sull’importanza dei fenomeni migratori nella costruzione degli stereotipi alimentari: P. Corti, Emigrazione e consuetudini alimentari. L’espe-

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rienza di una catena migratoria, in Storia d’Italia, «Annali» 13 cit., pp. 681-719, a pp. 708, 719. Ivi, p. 714, la testimonianza dell’emigrata argentina.

La sintesi artusiana L’importanza di Pellegrino Artusi per l’unificazione culturale dell’Italia fu messa in luce per la prima volta da P. Camporesi, Introduzione a P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, Einaudi, Torino 1970 (a p. xvi il parallelo tra fonemi manzoniani e «gustemi» artusiani). A. Capatti, Lingua, regioni e gastronomia dall’Unità alla seconda guerra mondiale, in Storia d’Italia, «Annali» 13 cit., pp. 753-801, ha sottolineato l’importanza della ferrovia (p. 774) e del servizio postale (p. 775) nella costruzione del paradigma artusiano. Ivi, p. 776, la dimensione anche ‘popolare’ della cultura di Artusi (conoscenza diretta dei prodotti, dei mercati, ecc.). Alberto Capatti ha ora curato una nuova edizione della Scienza in cucina, uscita per Rizzoli (Classici BUR), Milano 2010. Un esame della corrispondenza fra Artusi e le sue lettrici, e del meccanismo ‘interattivo’ con cui il ricettario progressivamente aumentò di edizione in edizione, si può trovare in M. Fabretti, Pellegrino Artusi e la cucina di casa,

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Casa Artusi, Forlimpopoli 2008 (Quaderni di Casa Artusi, 3). Le citazioni da Artusi sono nell’introduzione al capitolo sulle minestre (garbata polemica con i medici che consigliano di limitare il consumo di pasta) e nella ricetta 209 (libertà di scelta nell’uso dei grassi). Le osservazioni di P. Meldini si trovano in A tavola e in cucina, in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a cura di P. Melograni, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 416-463, a pp. 441, 443.

Cresce il numero degli ‘italiani’ Sui consumi di carne nell’Italia di fine Ottocento: Introduzione a Storia d’Italia, «Annali» 13 cit., p. li. Ivi, tabella 1 a p. xxxv, l’evoluzione del consumo medio di calorie per abitante, desunta dalle statistiche ISTAT. Ivi, pp. lvi-lvii, il ruolo della Grande Guerra come «occasione» di integrazione ‘nazionale’ dei modelli di consumo alimentare. I due ‘ricettari di guerra’: G. Chioni, G. Fiorentino, La fame e la memoria. Ricettari della Grande Guerra. Cellelager 1917-1918, a cura di Q. Antonelli e G. Bettega, Agorà, Feltre 2008 (Ricettari della gente comune, 3). Ivi, pp. xiii-xvii e xix-xxvi, i saggi di F. Caffa-

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rena, Prigionieri nel paese di Cuccagna, e di A. Caputo, La memoria del cibo di casa tra i prigionieri italiani di Cellelager, sulla natura ‘collettiva’ delle due operazioni di scrittura e il loro valore fortemente identitario. La citazione di Dickie è da Con gusto cit., pp. 297299. Del giornalino La tradotta, ideato dall’Ufficio propaganda della Terza armata, uscirono 25 numeri tra il 1918 e il 1919 (una copia anastatica fu pubblicata da Mondadori nel 1933 e in seconda edizione nel 1965). Il testo citato, opera di Antonio Rubino, appare nel numero 13, del 23 luglio 1918. Di questa segnalazione sono debitore a Danilo Gasparini, che ringrazio. Sulla «cucina senza» di Petronilla e le raccomandazioni ‘autarchiche’ di giornali e opuscoli governativi: M. Montanari, Leggere il cibo: un viaggio nella letteratura gastronomica, in La cucina bricconcella, 1891/1991. Pellegrino Artusi e l’arte di mangiar bene cento anni dopo, a cura di A. Pollarini, Grafis, Casalecchio di Reno 1991, pp. 23-40, a pp. 37-38.

Il «miracolo italiano» fra modernità e tradizione L’espressione «anno di confine», riferita al 1958, è di G. Crainz, Storia del miracolo ita-

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liano, Donzelli, Roma 1996. Cfr. Introduzione a Storia d’Italia, «Annali» 13 cit., p. lx. Ivi, pp. xxxv-xxxvi, lo ‘storico’ superamento delle 3000 calorie annue pro capite. V. Zamagni, L’evoluzione dei consumi fra tradizione e innovazione, in Storia d’Italia, «Annali» 13 cit., pp. 169-204, a p. 193, per l’annullamento del divario città-campagna e nord-sud negli anni ottanta del Novecento. Ivi, p. 197, la resistenza della società italiana alla modernizzazione alimentare, su cui vedi anche la citata Introduzione al volume, p. lv. Ivi, p. 202, la diffusione in Italia (negli anni ottanta-novanta del XX secolo) delle nuove forme di «commercio moderno» ossia dei supermercati. Il giudizio di Teti sulla moda del tipico/autentico/genuino/tradizionale è in Le culture alimentari cit., p. 161.

L’invenzione delle cucine regionali La definizione delle cucine regionali come «postmoderne», e le citazioni connesse, si trovano in Teti, Le culture alimentari cit., pp. 159160. Sulla novità e modernità della nozione di ‘territorio’ come criterio di valorizzazione gastronomica: Montanari, Il cibo come cultura cit., pp. 109-116.

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Sui ricettari ‘cittadini’ del XVIII-XIX secolo: Capatti e Montanari, La cucina italiana cit., pp. 29-32. Sulla ‘regionalizzazione’ (anche gastronomica) come frutto secondario del processo di costruzione dello stato nazionale: P. Meldini, L’emergere delle cucine regionali: l’Italia, in Storia dell’alimentazione, a cura di J.-L. Flandrin e M. Montanari, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 658-664. Capatti, Lingua, regioni e gastronomia cit., pp. 789-790, sulla carta di Zimelli (1931). Ivi, p. 756, le valutazioni sulla Guida gastronomica del Touring Club.