L'identità dei credenti in Cristo secondo Paolo 881040274X, 9788810402740

L'ambito della ricerca pluriennale dell?autore è costituito dalla soteriologia elaborata dall'apostolo Paolo,

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L'identità dei credenti in Cristo secondo Paolo
 881040274X, 9788810402740

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L'identità dei credenti in Cristo secondo Paolo '

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volume esamina in successione gli elementi caratterizzanti l'i­

dentità del credente nella teologia di Paolo. Anzitutto il suo elemento sor­ givo, consistente nell'incontro con il Cristo risorto e nella riflessione sul­ la sua morte; poi, le conseguenze sui credenti: resi giusti e riconciliati, uniti a Cristo e perciò figli, nonché la ricaduta nella comprensione del­ la legge ebraica. All'interno della riflessione sulla morte di Cristo trova ampio spazio il problema teologico della morte come sacrificio e come espiazione. La ricerca è imperniata sulla soteriologia paolina che, una volta messa a tema, si rivela come una sorta di sasso gettato in uno specchio d'ac­ qua, che ingenera vari cerchi d'onda concentrici. Di questi, vengono qui presi in esame gli sviluppi che ineriscono alla questione dell'identità. In Paolo la soteriologia culmina nella categoria della figliolanza adotti­ va, che dice la profonda relazione tra i credenti e Dio Padre, che li rende partecipi dello statuto stesso del Figlio. Essa porta a compimento un pro­ getto d'amore iscritto nella stessa creazione, e trova in questo la sua ra­ gione. Le questioni sono affrontate con una disamina a livello esegetico, o più precisamente di teologia biblica, ossia di ricerca di strutture costanti del pensiero paolino. Ne risulta un quadro di forte coerenza interna, la cui organicità rivela sicuri motivi di fascino e di attualità anche per un letto­ re non specialista.

STEFANO RoMANELLO è presbitero dell'arcidiocesi di Udine. Licenziato in e­ segesi biblica al Pontificio Istituto Biblico, e dottorato alla Pontificia Università Grego­ riana, insegna esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell'Italia Setten­ trionale (MI), alla Facoltà Teologica del Triveneto (PD), allo Studio Teologico affiliato del Seminario lnterdiocesano di Gorizia, Trieste, Udine e all'ISSA di Udine. Oltre a nume­ rosi articoli di ricerca, per le EDB ha pubblicato: Una legge buona ma impotente. A­ nalisi retorico-letteraria di Rm 7, 7-25 nel suo contesto, 2000. Per altre case editrici: Lettera agli Efesini, Milano 2003, Lettera ai Galati, Padova 2005; in collaborazione con R. Fabris, Introduzione alfa lettura di Paolo, Roma 22009; in collaborazione con R. Vi­ gnolo ha curato Rivisitare il compimento. Le Scritture d'Israele e la foro normatività secondo il Nuovo Testamento, Milano 2006.

In copertina Miniatura tratta dal Commentario suNe epistole di san Paolo, Parigi, Biblioteca Nazionale

collana LA BIBBIA NELLA STORIA diretta da Giuseppe B arbaglio La collana si caratterizza per una lettura rigorosamente storica delle Scritture sacre, ebraiche e cristiane. A questo scopo, i libri biblici, oltre che come documenti di fede, sa­ ranno presentati come espressione di determinati ambienti storico-culturali, punti di arrivo di un lungo cammino di esperienze significative e di vive tradizioni, testi incessantemente riletti e re-interpretati da ebrei e da cristiani. Si presuppone che la religione biblica sia essenzialmente legata a una storia e che i suoi libri sacri ne siano, per definizione, le testimonianze scritte. Più da vicino, ci sembra fecondo criterio interpretativo la comprensione, criticamente vagliata, della Bibbia in­ tesa come frutto della storia di Israele e delle primissime comunità cristiane suscitate dalla fede in Gesù di Nazaret e, insieme, parola sempre di nuovo ascoltata e proclamata dalle generazioni cristiane ed ebraiche dei secoli post-biblici. Il direttore della collana, i collaboratori e la casa editrice si assumono il preciso im­ pegno di offrire volumi capaci di abbinare alla serietà scientifica un dettato piano e ac­ cessibile a un vasto pubblico.

Questi i t itoli programmati: l. L'ambiente storico-culturale delle Scritture Ebraiche (M. Cimosa: 2001) 2. Le tradizioni storiche di Israele. Da Mosè a Esdra (E. Corte s e: 22001)

3. l profeti d'Israele: voce del Dio vivente (G. Savoca: 1985) 4. l sapienti di Israele (G. Ravasi) 5. I canti di Israele. Preghiera e vita di un popolo (G. Ravasi: 1986) 6. La letteratura intertestamentaria (M. Cimosa: 1992) 7. L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata ( R. Penna: 52006) 8. Le prime comunità cristiane. Tradizioni e tendenze nel cristianesimo delle origini (V. Fusco: 1997) 9. La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (G. Barbaglio: 32008) 9b. Il pensare dell'apostolo Paolo (G. Barbaglio: 22005) 10. Evangelo e Vangeli. Quattro evangelisti, quattro Vangeli, quattro destinatari (G. Segalla: 32003) 11. Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica (G. Barbaglio: 22005) llb. Gesù di Nazaret e Paolo di Tarso. Confronto storico (G. B arbagli o: 32009) • 12. La tradizione paolina (R. Fabris: 1995) 13. Omelie e catechesi cristiane nel I secolo ( a cura di G. Marconi: 21998) 14. L'Apolica/isse e l'apocalittica nel Nuovo Testamento ( B. Corsani: 1997) 15. La Bibbia nell'antichità cristiana ( a cura di E. N o re ll i) l. Da Gesù a Origene (1993) · Il. Dagli scolari di Origene al V secolo 16. La Bibbia nel Medioevo (a cura di G. Cremascoli- C. Leonardi: 1996) 17. La Bibbia nell'epoca moderna e contemporanea ( a cura di R. Fabris: 1992) 18. La lettura ebraica delle Scritture (a cura di S.J. Sierra: 21996) 19. La Bibbia dei pagani. l. Quadro storico (G. Rinaldi: 1998) 20. La Bibbia dei pagani. II. Testi e Documenti (G. Rinaldi: 1998) 21. Donne e Bibbia. Storia ed esegesi (a cura di A. Valerio: 2006) 22. L'identità dei credenti in Cristo secondo Paolo (S. Romanello: 2011)

Stefano Romanello

L'IDENTITÀ DEI CREDENTI IN CRISTO SECONDO PAOLO

EDIZIONI

DEHONIANE BOLOGNA

Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl. Firenze

c

2011

ISBN

Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna www.dehoniane.it EDB® 978-88-10-40274-0

Stampa: Tipografia Giammarioli, Frascati (RM)

2011

Prefazione

La nota constatazione del Qoelet, che lamenta il proliferare senza fine dei libri (Qo 12,12), è tanto più attuale oggi, tempo in cui le pub­ blicazioni si susseguono a ritmo talmente frenetico da suscitare dubbi sulla reale novità dei pensieri ivi sostenuti e, di conseguenza, sulla loro effettiva utilità. Mandando alle stampe un libro, mi sento allora in do­ vere di dichiarare innanzitutto ai miei lettori che esso è frutto di ricer­ che pluriennali e di elaborazioni personali, confluite anche nei corsi di specializzazione della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale di Milano. Non manca, quindi, in queste pagine una certa pretesa di ori­ ginalità, la cui portata e utilità, ovviamente, sono affidate al giudizio insindacabile del lettore. L'ambito di questo testo è costituito dalla soteriologia elaborata dall'apostolo Paolo. Tema ampiamente discusso dalla pubblicazione del libro di Ed Parish Sanders, Pau/ and Palestinian Juidaism (London 1977; tr. it. Brescia 1986), che ha messo radicalmente in discussione la tradizionale visione del pensiero dell'apostolo imperniato sulla giusti­ ficazione per fede in polemica antilegalistica. A indicare il filone di ri­ cerca che da lì ha preso le mosse, è divenuta comune, tra gli studiosi, la locuzione New perspective, cui si contrappone, con vigore rinnovato in questi ultimi anni, una rivisitazione delle posizioni classiche. Ne è sorto un dibattito che, sebbene talvolta paia riproporre in veste solo apparentemente nuova tesi in fondo già ben risapute, merita di essere preso in considerazione, se non altro perché sulla soteriologia paolina non si è elaborata sinora una comprensione minimamente condivisa. Nella lettura di questo testo si noterà che mi muovo ora acconsen­ tendo, ora prendendo le distanze, sia da una come dall'altra prospet­ tiva. Non è, questo, un eclettismo spregiudicato, ai limiti della sofistica, bensì la constatazione che entrambe le linee di ricerca presentano sia pregi che limiti. Per superare l' impasse cui esse hanno condotto, si ren­ derebbe necessario il superamento del confronto formale tra i Patterns of religion che, introdotto da Sanders, caratterizza il dibattito sino a oggi. Si potrà, di questa strada, giungere anche per Paolo a parlare di

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un qualcosa come di una terza prospettiva? Il presente libro non può certo pretendere di averla declinata, ma intende perlomeno motivarne l'esigenza. Se, a giudizio nuovamente del lettore, ciò è stato fatto in modo convincente, la sua originalità e utilità verranno confermate. Un libro, quindi, per i soli addetti ai lavori? Auspico di no. Certo, le questioni affrontate richiedono una precisa disamina a livello ese­ getico, o più precisamente di teologia biblica, se s'intende con questa qualifica la ricerca di strutture costanti del pensiero paolino. Tale pro­ cesso, a ogni modo, passa previamente per l'esegesi analitica di testi, che quindi è affrontata nel libro con il necessario rigore scientifico. Al contempo, non ignora le varie implicazioni di uno studio riguardante l'identità religiosa, sino alla considerazione che proprio la questione delle identità religiose è stata ed è origine di violenze e conflitti; pro­ blematiche che riguardano tutti, non i soli addetti ai lavori ! Più precisamente, la questione della soteriologia, una volta messa a tema, mi si è rivelata come una sorta di sasso gettato in uno specchio d'acqua, che ingenera vari cerchi d'onda concentrici. Al centro vi sono, propriamente, le categorie soteriologiche, ossia i tipi di linguaggio uti­ lizzati dall 'apostolo per descrivere lo statuto dei credenti (giustificazione, partecipazione, ecc.) e la comprensione di vari aspetti dell'esistenza cre­ dente in questo implicati ( ad es., la fondazione dell'etica). Esse però mettono in gioco dapprima la questione delle metodologie atte a con­ durre questa ricerca (letterarie di stampo tradizionalè, retoriche o deter­ minate dalle scienze sociali), di seguito, gli effetti di questa comprensione, vuoi nella relazione Paolo-giudaismo, che traspare direttamente dai testi dell'apostolo, vuoi nella relazione tra credenti delle generazioni successive, che hanno preso proprio tali testi come base fondativa dap­ prima per reciproche scomuniche, ora, per fortuna, per un perlomeno iniziale accordo ecumenico. Per ultimo, ma certamente non inessen­ ziale, vi è il tema dell'origine della soteriologia paolina, che necessa­ riamente rimanda all'evento pasquale, in forza del quale Gesù Cristo è annunciato e creduto quale Signore universale. Lo studio della soteriologia di Paolo richiede di tenere conto di tutte queste dimensioni (altre ancora possono essere evocate, ma non è possibile sviscerarle nei limiti ragionevolmente contenuti di una sin­ gola pubblicazione). Come studio, è ovviamente un procedimento di analisi attenta, guidata innanzi tutto da interessi letterari e storici su di un corpus letterario. Ma non può sottacere la dimensione interpellante insita proprio nello specifico linguaggio di tale corpus. Ed è ovvio che, accostandosi a testi che esprimono l'autocoscienza della propria iden­ tità, essi comunichino anche le dimensioni di valore avvertite come basilari per questa. Non c'è ragione perché una ricerca scientifica si esima, per il solo fatto di essere scientifica, dal rendere conto delle in6

terpellazioni che il testo paolino fa trasparire alla sua lettura. Ogni let­ tore del testo paolino è pertanto invitato a una fusione dei propri oriz­ zonti con quelli che emergono dal mondo del testo stesso. Ovviamente, questa è un 'opzione affidata alla sua libertà, ma uno studio sulla sote­ riologia di Paolo non può rilevare le dimensioni in cui questo invito si dipana tra le pagine dell'apostolo. E, in questo, il testo non è inteso per la ristretta cerchia di studiosi di professione. Infine, alcune precisazioni. L'ambito di indagine concerne le sette lettere ritenute dalla critica sicuramente aut entiche: Rm. 1 -2 Cor, Gal, Fil, l Ts, Fm. Sono persuaso che esse si ano state scritte nell'arco mas­ simo di sette/otto anni. Ciò suggerisce fortemente. nonostante il carat­ tere occasionato delle lettere, che non sono trattati sistematici ma esposizioni dettate dalle singole contingenze comunicative tra l'apo­ stolo e le diverse comunità, l'unità di fondo del pensiero i vi espresso. In ogni caso, questo assunto dovrà essere provato nella ricerca. L'am­ pia bibliografia citata potrebbe comunque, visto il proliferare contem­ poraneo degli studi, essere accusata di qualche omissione. Ritengo nondimeno che le linee essenziali del dibattito contemporaneo siano esaurientemente presentate e discusse, mentre per ciò che riguarda gli studi precedenti mi sono limitato ad alcuni studi classici che hanno se­ gnato a loro tempo la ricerca, e i cui influssi possono ben perdurare. L'ultima annotazione riguarda la traduzione dei testi biblici, che è opera mia. STEFANO ROMANELLO

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Sigle e abbreviazioni

AGJU AnchB AnBib ApcBar(syr ) ApcMos(gr ) ASE BArR bA Z BEThL Bib Biblnt BLE BTC BZNW

CBNT CBQ CSANT DeutRabba EB EKK

FRLANT Fs.

GenRabba gdt (;reg Hen ( aeth )

Arbeiten zur Geschichte des antiken Judentums und des Urchristentums Anchor Bible Analecta biblica Apocalisse siriaca di Baruch Apocalisse di Mosè, edizione greca Annali di storia dell'esegesi Biblica/ A rchaeology Review Talmud babilonese, trattato Avoda Zara Bibliotheca ephemeridum theologicarum Lovanien­ sium Biblica Biblica! Interpretation Bulletin de littérature ecclésiastique Biblioteca di teologia contemporanea Beihefte zur Zeitschrift fur die neuetestamentliche Wissenschaft Commentaire biblique Nouveau Testament Catholic Biblica! Quarterly Commentario storico ed esegetico all'Antico e al Nuovo Testamento Deuteronomio Rabba Etudes bibliques Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testaments Festschrift, scritti in onon; Genesi Rabba giornale di teologia Gregorianum Libro etiopico di Enoch ·

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Intemational Criticai Commentary Journal of Biblica/ Literature Jahrbuch fiir biblische Theologie lo urna/ for the Study of the New Testament Journal for the Study of the New Testament Supple­ ment Series Journal of Theological Studies JTS Kritisch-Exegetische Kommentar iiber das Neue Tes­ KEK tament LD Lectio divina LibBibNT Libri biblici, Nuovo Testamento Library of New Testament Studies LNTS mAv Mishnah, trattato Avoth Mishnah, trattato Nedarim mNed The New International Commentary on the New Tes­ NIC NT tament NT Novum Testamentum NTS New Testament Studies Novum Testamentum Supplements NT.S Prima grotta di Qumran, Hodayot (Inni) lQH 4QpNah Quarta grotta di Qumran, pesher a N ahum 40 394-399 Quarta grotta di Qumran, frammenti 394-399 ( 4QMMT) RB Revue biblique Revue de Qumran RdQ Rivista biblica RivB Studi biblici SB Society of Biblica/ Literature Seminar Papers SBL. SP Society of Biblical Literature Dissertation Series SBL.DS Stuttgarter Bibelstudien SBS Sifre Deuteronomio SifreDeut SJT Scottish Journal of Theology Society for New Testament Studies Monograph Se­ SNTSMS ries Scritti delle origini cristiane so c StTh Studia theologica Studien zum Umwelt des Neuen Testament SUNT SupplRivBiblt Supplementi alla Rivista biblica TanhumaGen Tanhuma Genesi Tesi Gregoriana Serie di teologia TGTeol TynB Tyndale Bulletin ThZ Theologische Zeitschrift Untersuchungen zum Neuen Testament UN'I' ICC JBL JBTh JSNT JSNT.S

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WBC WMANT WUNT Zerwick ZNW

Word Biblical Commentary Wissenschaftliche Monographien zum Alten und N euen Testament Wissenschaftliche Untersuchungen zum Neuen Tes­ tament M. ZERWICK J. SMITH, Biblica[ Greek, Pontificio i­ stituto biblico, Roma 1 994 Zeitschrift fur die neuetestamentliche Wissenschaft -

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Capitolo l

Definiamo l'atnbito: co111e e perché parlare dell'identità ·credente?

SUL CONCETTO DI IDENTITÀ Questo è un libro scritto da un biblista, e necessariamente s'imper­ su di un'analisi letteraria e una ricerca di tipo storico, con l'intento di condurle in modo rigoroso. Ma prima di intraprendere questo per­ corso mi sembra necessario definirne l'ambito e il motivo. Non c'è dub­ bio, infatti, che il titolo del libro, che menziona l'identità dei credenti, potrebbe oggi risuonare fastidioso a qualche orecchio. Di conflitti, la­ tenti o espliciti, causati da una certa pretesa affermazione dell'identità, è infatti tragicamente costellata la storia recente e anche l'attualità. Balcani, Cecenia, Ruanda, Sudan . . . sono alcuni nomi semplicemente evocativi di un passato troppo recente per essere rimosso (o di un'at­ tualità ancora presente, seppur non amplificata dai mass media). Essi impongono di tenere presente la complessità di un fenomeno e impe­ discono di considerare la questione unicamente sotto la lente unifor­ tnante, e deformante, di un conflitto oriente-occidente, balzato in primo piano a seguito dell'l l settembre 2001 , di cui l'annosa vertenza israeliano-palestinese sarebbe eventualmente il prototipo. Il fattore religioso ha poi innegabilmente avuto la sua parte in molti conflitti. Quando un filosofo come Vattimo ritiene di poter - e dover - spogliare la rivelazione biblica di ogni contenuto che non sia il comandamento della carità, 1 potrebbe ben incontrare il desiderio del pensiero mo­ derno giustamente preoccupato da conflitti innescati anche da riven­ dicate appartenenze religiose. Certo, Vattimo è mosso da questioni tcoretiche, e parla di una - supposta - violenza «ideologica», della me­ tafisica. Le sue ragioni sono squisitamente razionali, e si appoggiano sulla lettura delle religioni naturali offerta da Girard, per il quale que­ ste sono veicolo di una canalizzazione della violenza nell'ambito del sacro, che la morte dell'innocente Gesù smaschera inderogabilmente, smascherando al contempo il carattere velleitario di ogni riferimento nia

1

G. VATilMO, Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, 77-82.

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alla sacralità.2 Ma il passo tra violenza ideologica e violenza fattuale è poi breve, e un pensiero «debole», che ritenga implausibile ogni tipo di istanza veritativa, potrebbe ben essere invocato come antidoto ne­ cessario contro pretese identitarie che costituirebbero il fomite di tanto paventati conflitti. Si potrebbe certo assolvere la dimensione religiosa da tali dinami­ che, ricordando che le cause radicali di tanti conflitti sono di natura sociale ed economica, come ogni analisi minimamente avvertita sa evi­ denziare. Che ciò è confermato dai conflitti tra appartenenti alle stesse confessioni religiose, come Hutu e Thtsi, o turchi e curdi. O si potrebbe inoltre rammentare che i più odiosi crimini in Europa del secolo scorso non hanno avuto motivazioni religiose, a iniziare dall'aberrante Shoah, per finire con i Gulag sovietici. Ma un'apologia a buon mercato, pur ricordando fatti inoppugnabili, lascia inevase troppe questioni. Come può una religione essere strumentalizzata sino a divenire giustifica­ ziòne ideologica di contrapposizioni violente? È possibile parlare po­ sitivamente di identità, anche religiosa, senza necessariamente dare il la a un meccanismo di violenza? In realtà, scienze quali la psicologia e la sociologia ricordano come la dimensione d eli 'identità sia necessaria. · L'individuo, infatti, si com­ prende e si costruisce a partire dai rapporti che intrattiene con membri di diversi gruppi sociali. 3 Tale processo di identificazione porta in sé connotazioni emozionali e affettive verso il gruppo, conduce l'indivi­ duo a considerarsi uguale e sodale con quelli i cui rapporti vengono a costituire una parte del sé. Su tale base poi si staglia il processo di in­ dividualizzazione, che conduce l'individuo a considerarsi comunque singolare, diverso anche da tutti coloro che considera a sé molto affini. Ma tale processo non avviene a prescindere dalla prioritaria identifi­ cazione, per cui ognuno è per certi versi definito dal gruppo di appar­ tenenza e da obblighi necessariamente insiti in essa. Il problema dell'identità sociale, ossia dell'appartenenza a una collettività, sia essa nazionale, etnica, religiosa, culturale, di interesse . . . non può essere eluso, per il solo fatto che è su essa che s'impianta quella personale. La questione, come qui posta, è molto ampia, e travalica certa­ mente gli interessi di questo libro, nonché le competenze del suo au­ tore. Ho qui solamente voluto ricordare la cornice entro cui si colloca la presente ricerca. Se, infatti, la questione dell 'identità non può essere elusa, diviene di per sé interessante scorgere come sia declinata in un corpus di scritti, nella fattispecie in quelli dell'apostolo Paolo, che tanto 2 VATIIMO, Credere, soprattutto 29-59.

3 Cf. G. noscenza,

PoRCELLI, Identità in frammenti.

Prospettive globali di sociologia della co­

Franco Angeli, Milano 2005, 129-131.

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ha influito sulla costituzione delle prime comunità cristiane. Chiarisco pertanto, in via preliminare, che la prospettiva della ricerca è innanzi­ tutto storica, ossia volta a cogliere i costitutivi del pensiero paolino. In seconda battuta si terrà in considerazione la sua possibile attualizza­ zione, con l'attenzione alle emergenze culturali odierne, entro le quali l'attualizzazione avviene, ivi compresa la questione del rapporto tra identità e violenza. Detto altrimenti, il percorso del libro è quello tipico di una ricerca biblica, le cui ulteriori specificazioni metodologiche sa­ ranno successivamente chiarite nel seguito del capitolo. Le precedenti succinte righe, dal tenore diverso, non mi sono sembrate inutili per ri­ cordare l'interesse del tema. dati anche i vissuti e le problematiche odierne, cui di volta in volta si tornerà a fare riferimento. L'IDENTITÀ DEI CREDENTI SECONDO PAOLO. L'APPORTO DELLE SCIENZE SOCIALI Ogni testo è espressione di dinamiche sociali e identitarie, oltre che dell'intenzione dell'autore di interagire con queste. Da qui l'inte­ resse allo studio dell'epistolario paolino - e della questione dell'iden­ tità.ivi espressa - con gli strumenti desunti da scienze che mirano a riconoscere e interpretare tali dinamiche, ossia la sociologia e l'antro­ . pologia culturale. Si è così recentemente prodotto un filone di studi in cui possono essere compresi indirizzi anch� diversi, a seconda che pri­ vilegino l'antropologia culturale, come strumento ermeneutico per for­ nire una chiave interpretativa globale. o diversi approcci sociologici, utilizzati di volta in volta, a seconda del valore a loro riconosciuto per interpretare i dati variegati del Nuovo Testamento.4 Non rendo qui tonto di tali sfumature, accomunandoli, per un comunque riconoscibile loro comun denominatore, in metodologie determinate dalle scienze sociali. Philip F. Esler ha recentemente reso disponibili a un largo pub­ blico alcuni concetti basilari di tali discipline, da cui conviene partire. Innanzitutto quello di identità sociale, ossia quella parte di autoco­ scienza che deriva all'individuo dalla sua appartenenza a un gruppo (secondo il meccanismo prima definito di identificazione). Esso com­ porta la dimensione cognitiva, ossia il riconoscimento dell'apparte­ nenza, la connotazione di valore a essa attribuita, e la dimensione emozionale che questo suscita.5 Un sottogruppo particolare è poi co4 Eccellente status quaestionis in D.G. HORRELL, «Social Sciences Studying Formative Christian Phenomena: A Creative Movement», in A.J. BLASI J. DUHAIME- P.A. TuR­ COTTE (e dd.), Handbook ofEarly Christianity, Altamira Press, Walnut Creek 2002, 3-24. 5 P.F. ESLER, Conflict and ldentity in Romans. The Social Setting of Paul's Letter. Fortress Press, Minneapolis 2003, 20. L'importanza attribuita al riconoscimento di un -

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stituito dall'identità etnica, comprendente un nome proprio identifi­ cativo dell'etnia, un mito d'origine, una memoria storica condivisa, una cultura con molte caratteristiche comuni, tra cui la lingua e la religione, un legame con un territorio, che può essere culturale nel caso di co­ munità di esuli nei confronti della loro madrepatria, e, per concludere, un senso di solidarietà comune. 6 Giova qui ricordare due caratteristiche delle culture antiche, ivi in­ cluse quelle dell'antico Vicino Oriente e del bacino mediterraneo. La prima è il loro carattere collettivo, ossia la preminenza assunta dal­ l'identificazione con il gruppo rispetto all'individualizzazione del sin­ golo.7 La seconda è la conseguente dimensione identitaria-sociale della religione. Anch'essa, infatti, diviene un fattore indotto dall'apparte­ nenza del singolo a una determinata comunità: familiare, cittadina e qua n t'altro. 8 Come si collocano, in questo quadro, l'esperienza e la percezione della propria identità dei credenti in Cristo cui Paolo si rivolge? Vale la pena ricordare che mai Paolo li denomina «Cristiani», né essi paiono riconoscersi con tale appellativo, assente nel suo epistolario. L'agget­ tivo christianoi appare per la prima volta in A t 1 1 ,26, e sembra una de­ signazione che i credenti di Antiochia ricevono dall 'esterno. Come pure la sua ulteriore menzione in tale libro (26,28) è sulla b�cca di un soggetto esterno alla comunità credente, il re Agrippa. Un sostantivo presente in Paolo, seppur non ideato da lui, è ekklesia, con il significato di «assemblea», «comunità riunita». È risa­ puto che la comunità cristiana non aveva edifici pubblici per le proprie riunioni, e che queste avvenivano in case private. Ciò è esplicitamente menzionato da Paolo: in Rm 16,5 e lCor 16,19 sono. ricordati Aquila e Priscilla, la cui casa ospita l'assemblea cristiana prima a Corinto e poi a Roma, a seguito del loro ritorno nella capitale, e in Fm 2 Ar­ chippo, altro ospite del raduno cristiano. La cena del Signore era cele­ brata in tale contesto di assemblea domestica (lCor 1 1 , 1 7-34) . A seconda della capienza delle case (una stima indica in 40 il numero medio dei possibili ospiti) e della consistenza numerica dei credenti in una determinata città, vi potevano essere in essa più case ospiti di assingolo da parte del suo gruppo di appartenenza nella società mediterranea coeva al NT è s tata rimarcata dal pionieristico studio di B.J. MALINA, The New Testament World. lnsights from Cultura[ Anthropology, John Knox Press, Atlanta 1981. 6 ESLER, Conflict, 44-45. 7 Cf. B.J. MALINA, «Who Are We? Who Are They? Who Am I? Who Are You? Ex­ plaining ldentity, Social and Individuai», in «Early Christian Identities. Identità cristiane in formazione», in ASE 24(2007)1, 103-109. 8 Cf. R.S. AscouGH, «Defining Community-Ethos in Light of the "Other": Recruit­ ment Rhetoric Among Greco-Roman Associations», in ASE 24(2007)1, 59-75; EsLER, Conflict, 8.

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semblee cristiane. Sovente l'adesione alla fede avveniva da parte di un'intera famiglia, ossia capofamiglia, congiunti e schiavi (lCor 1,16; Rm 16,11 ), che poteva in seguito essere impegnata come tale nella mis­ sione ( 1 Cor 16,15). Questa dimensione porta a riferire ai primi cristiani un vocabolario domestico che sarà particolarmente sviluppato nelle lettere della tradizione paolina, ma che comunque inizia da Paolo stesso, che raffigura i credenti come «edificio» (lCor 3,9), o se stesso come '. 111 Il «dato religioso>'> contenuto nella Lettera ai Romani non è trascrizione immediata di un sentire, rna sua interpretazione argomentata, riflessa e motivata- come d'al­ tronde una lettura già superficiale di essa fa ben capire. L'interpreta­ zione della lettera richiede allora di entrare nelle concatenazioni, spesso sottili e complesse, della logica paolina. c ciò vale per ogni sua lettera. Richiede il riconoscimento della sua elaborazione teoretica e concettuale, sebbene essa non si raffiguri come «sistematica>'> secondo i nostri parametri. Ciò che inficia la definizione di Esler è l'equazione tra studio sistematico e interpretazione. Una volta negato - corretta­ mente- che le lettere paoline siano il frutto di uno studio sistematico, non ne consegue che non siano espressione di un'accurata ermeneutica da parte dell'apostolo. Esse, quindi, non rappresentano il mero dato fenomenico, ma l'interpretazione dello stesso, precisamente attraverso quel processo di argomentazione e persuasione summenzionato. Riconoscere la dimensione teoretica e interpretativa, sebbene non sistematica, delle lettere paoline, implica l 'attenzione al loro procedere logico, alla sua consequenzialità. I singoli passaggi argomentativi rice­ vono così luce da logiche interne alla lettera stessa, e non da ipotizzate dinamiche socio-culturali che rimangono esterne al testo stesso. In linea di principio questo non nega che l'argomentazione sia in vista/in risposta a certe dinamiche; si è detto prima, un testo è, in fondo, anche espressione di esse. Altra questione è però quanto queste dinamiche siano effettivamente rinvenibili: sono esse in grado di cogliere alcune Jelle ragioni globali di uno scritto, o si devono addurre a spiegazione di ogni pagina della lettera? Chi scrive ritiene la prima ipotesi utile al­ l'interpretazione delle lettere, ma la seconda forzata e inverificabile. Spesse volte gli studi caratterizzati dall'indirizzo socio-culturale le ipo­ tizzano su altri presupposti, e le usano nell'interpretazione di ogni passo. Si veda il comunque ragguardevole studio di Ester: egli ipotizza che un conflitto culturale (e non solo) greco-ebraico, testimoniato in varie città dell'antico bacino mediterraneo, fosse presente nella comu­ nità romana cui Paolo indirizza la sua missiva, e tale presupposto guida �

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EsLER, Conflict, 29.

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tutta la sua interpretazione.20 Tuttavia su tale conflitto perlomeno gran parte della lettera tace, mentre alcuni passi che potrebbero rivelare un certo grado di tensione tra alcune fazioni della chiesa di Roma (Rm 14, 1 -15,13; 16,1 7-20) possono ricevere anche altre spiegazioni. La chiave interpretativa conflittuale è quindi indotta dall'esterno della let­ tera, e in seguito fatta valere nella spiegazione di ogni sua sezione. Non sarebbe più sicuro perlomeno accertare dapprima l'intento argomen­ tativo di ogni sezione come essa stessa lo palesa, attraverso il rilievo della consequenzialità dei suoi passaggi, per ipotizzare delle sue refe­ renze a definite situazioni socio-culturali solo in seguito? Misconoscere la necessità di un'attenta valutazione delle ragioni interne alle singole argomentazioni paoline porterebbe comunque a rilievi «di superficie» rispetto alle stesse, non chiarendone in fondo la ragionevolezza delle pretese. Si potrebbe così convenire con chi afferma che la drammatica pagina di Rm 7,7-25, enfatizzando il potere del peccato, di fronte al quale la legge è inerme, possa salvaguardare la posizione di credenti provenienti dalle genti e liberi dalla legge.21 Ma ci si potrebbe anche chiedere se il testo possa avere anche altri scopi, dal momento che la situazione dei credenti non ebrei non è qui direttamente menzionata. Più ancora, ci si chiede quale ragionevolezza abbia la pagina paolina, quali prove adduca per conseguire i suoi obiettivi. Senza un adeguato rilievo della sua strategia argomentativa interna (e quindi della sua teologia), la nostra visione del passo rimane insoddisfacente, e impe­ disce al lettore di farsi interpellare dalla sua voce. Ho iniziato chiedendomi quale rilievo hanno gli apporti delle scienze socio-culturali nella comprensione di un testo. Pur non esclu­ dendoli a priori - non c'è alcuna ragione per farlo- sono però giunto a rilevarne alcuni limiti. Riassumendo: esse non possono sostituirsi al prioritario rilievo della logica interna del testo e delle sue concatena­ zioni di pensiero. Attraverso di queste un testo sviluppa un processo comunicativo, interpellando il lettore a interagire con la propria vi­ sione del mondo. Quando il riferimento a una precisa categoria di udi­ torio non sia poi esplicito, una lettura determinata prioritariamente dai contributi delle scienze sociali lo porta a ipotizzare. Ma ciò può o comportare sovraletture del testo, determinate da variabili in fondo inverificabili, o nel migliore dei casi portare a fermarsi a un primo li­ vello di lettura, non dando ragione delle strategie adottate dal testo per ottenere il suo scopo, nonché della plausibilità dello stesso. In altre parole, i contributi delle scienze sociali devono interagire ali 'interno 20 21

EsLER, Conflict, 74-76. T.L. CARTER, Paul and the Power of Sin.

Redefining "Beyond the Pale" (SNTSMS 115), Cambridge University Press, Cambridge 2002, Xl.

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di un quadro interpretativo determinato dapprima dal rilievo della strategia argomentativa interna del testo. Non mi sembra che una me­ todologia di studio determinata dalle scienze sociali lo debba escludere a priori. Si tratterà, piuttosto, di valutare il diverso peso attribuito a questa o quella prospettiva di analisi , ma invocarne la complementa­ rità piuttosto che la reciproca esclusione mi pare un esercizio di umiltà e saggezza. Certo, l'esclusione potrebbe essere sollecitata da coloro che pretendessero di risalire a meccanismi di vita prescindendo dalle idee. Per esempio, sostenendo che «dovremmo concentrare l'atten­ zione non sulle idee che egli (Paolo) ha esternato, bensì sulle espe­ rienze molto meno accessibili che a quelle sono sottese».22 Ma tale pretesa di risalire al dato fenomenico «nudo e puro)), senza riconoscere che esso si presenta come invariabilmente modellato da un'elabora­ zione ermeneutica, rappresenta pi ut t os to un 'ingenuità di stampo neo­ positivistico che oggi mi sembra difficilmente proponi bi le.

LA TEOLOGIA DI PAOLO E IL SUO METODO. UN PO' DI STORIA E PROSPETTIVE ATTUALI Nelle righe precedenti ho accentuato, per ragioni di chiarezza, le perplessità che una prospettiva di studio determinata dalle scienze so­ ciali potrebbe indurre. Ciò non deve far ritenere che io valuti inutile tale approccio, smentendo le affermazioni previe sulla necessità di con­ siderare i testi anche come prodotto del loro ambiente socio-culturale: tutt'altro ! Alcuni preziosi risultati maturati da tale indirizzo di studi costituiscono dei presupposti della presente ricerca. Tra essi menziono il riconoscimento dell'importanza dell'identità sociale nelle culture an­ tiche, la dimensione socio-identitaria dei fattori religiosi, la percezione delle comunità paoline quali casa/famiglia e associazione. Ulteriori ap­ porti saranno di volta in volta menzionati anche nel seguito del libro. Ciò che va chiarito è che un atto di lettura non può limitarsi alla contestualizzazione storica di un testo, ma deve lasciarsi interpellare dall'orizzonte di pensiero che questo propone. A tal fine è inderogabile rilevare la coerenza intrinseca del suo pensiero. Come detto preceden­ temente, analisi che eludessero tale imprescindibile domanda condur­ rebbero necessariamente a letture estrinseche, se non del tutto estranee, al pensiero proprio del testo. Focalizzare propriamente il pensiero di Paolo significa porsi la questione della sua teologia.

22 J. ASHTON, La religione dell'apostolo Paolo (SB 136), Paideia, Brescia 2002, 50 (or. ingl. 2000) .

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Come risaputo, Paolo non è però un pensatore sistematico, nel senso che non elabora a tavolino, secondo uno schema ordinato, il pro­ prio pensiero. Al contrario, questo viene alla luce in lettere occasio­ n ate, guidate dalle varie contingenze comunicative alle diverse comunità. Si può parlare, in questo senso, di «teologia»? Come evin­ cere delle costanti nel suo pensiero? Per molto tempo la ricerca è stata guidata dalla precomprensione delle lettere antiche propugnata da Adolf Deissmann. Pubblicando tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del secolo scorso frammenti di lettere papiracee, dal tenore generalmente immediato e semplice, vi accosta le lettere paoline, nella presupposi­ zione che ogni lettera autentica, ossia indirizzata a destinatari reali, con cui s'intrattengono autentiche comu�icazioni epistolari, dovesse vet:tire redatta con un linguaggio semplice, diverso da epistole pensate per una successiva pubblicazione. Le lettere paoline venivano così a essere comprese come scritti dal pensiero non elaborato: «Nella loro naturalezza risiede il loro pregio di essere testimonianza degli aspetti vivi della missione paolina, della sua natura impulsiva e della sua reli­ giosità a-sistematica».23 Tale assunto renderebbe del tutto implausibile l'indagine sull'organicità del pensiero paolino, e la sua perdurante in­ fluenza nella ricerca può essere saggiata proprio nella lettura di alcune righe di altri autori sopra riportati. A ogni modo, anche chi non lo con­ dividesse interamente deve riconoscere il carattere occasionato delle lettere paoline come situazione generativa del suo pensiero, e dei pro­ blemi che questo fatto pone alla considerazione delle stesse come un corpus testimone di un pensiero unitario.24 Eppure tale presupposto ha viaggiato assieme a un altro di segno opposto, che vedeva l'apostolo autore di una teologia strutturata sulla dottrina della giustificazione per fede. È nota l'influenza generativa di tale tema nella teologia di Lutero, per cui non sorprende che possa es­ sere stato assunto quale paradigma degli studi neotestamentari che, come è risaputo, a partire dalla fine del Settecento si sono sviluppati soprattutto in ambito protestante e tedesco. Così Ferdinand Christian B aur, docente a Tubinga dal 1826 al 1860 e iniziatore della scuola che da detta città prese il nome, riteneva l'intero Nuovo Testamento con­ trassegnato da una contrapposizione tra il cristianesimo sviluppatosi nel mondo pagano, caratterizzato da una marcata libertà nei confronti della legge e rappresentato da Paolo, e quello rimasto ancorato al giu­ daismo e alla sua legge, impersonificato da Pietro. In questo schema, 23 A.

DEISSMANN, Licht vom Osten, Mohr (Siebeck), Tiibingen 1909, 173-175. DAHL, «The Particularity of the Pauline Epistles as a Problem in the An­ cient Church)), in Neotestamentica et Patristica, Fs. O. Cullmann . (NT.S 6), Brill, Leiden 1962, 261-271. •

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24 Cf. N. A.

di stampo hegeliano, Paolo era valutato come propugnatore di un ar­ ticolato impianto teologico, che vedeva proprio nella dottrina della giustificazione per fede, e non per la legge e le sue opere, il suo ele­ mento cardine. Questo diveniva anche criterio per identificare l 'au­ tentica ispirazione evangelica, in contrapposizione ad altri scritti (Matteo, Giacomo, Apocalisse . . . ) in cui l'annuncio di Cristo veniva n­ proposto all'interno di schemi considerati legalisti, deprezzati quali protocattolicesimo (fruhkatholizismus). Anzi, il rilievo assunto da Paolo in questa costruzione l'ha portato a essere qualificato quale «Se­ condo fondatore del cristianesimo». Tale impostazione è ben presente nell'opera di Rudolf Bultmann. Nella sua articolata trattazione del concetto di «dikaiosyne, giustizia» in Paolo,25 l'esegeta tedesco assume innanzitutto la valenza relazionale del termine, sostenendo che «essere giusti» equivale a «essere giudicati tali» da un altro soggetto, nel nostro caso ovviamente da Dio. Il punto di differenziazione tra il giudaismo e Paolo è che per il primo ciò av­ viene attraverso l'osservanza dei comandamenti legali, per mezzo dei quali spera di essere giudicato giusto nel giudizio escatologico, per il secondo avviene senza di essi. «Dio pronuncia già oggi (sul credente) il suo giudizio escatologico [ . . . ]. La giustizia che Dio accredita al cre­ . dente [ . . . ] è "incolpevolezza" nel senso che Dio non mette in conto il peccato dell'uomo».26 In questo quadro la legge ebraica diviene proto­ tipo di un cammino in sé erroneo perché automeritorio, ossia teso a far valere di fronte a Dio i meriti del proprio impegno etico o spirituale: Il suo [di Paolo] rimprovero contro giudei e giudaizzanti non è che il cammino della legge sarebbe falso perché, in seguito alle trasgressioni, non conduce alla meta, ma perché la sua direzione è sbagliata, perché è il cammino che non può che condurre alla idia dikaiosyne [la giustizia pro­ pria]. Non sono soltanto né soprattutto le cattive azioni a rendere l'uomo riprovevole dinanzi a Dio; già l'intenzione di diventare giusto dinanzi a Dio attraverso l'osservanza della legge è peccato. 27

La dottrina della giustificazione per fede diviene dunque centrale perché affranca il singolo da un percorso automeritorio che, tra l'altro, è erroneo in partenza. Tale acquisizione ha costituito il paradigma in­ terpretativo dominante sino agli ultimi decenni del secolo scorso. Non è stato per nulla messo in discussione nella polemica con un altro

25 R. BULTMANN, Teologia del Nuovo Testamento (BTC 46), Queriniana, Brescia 1985, 257-271 (or. ted. 1953-1977). 26 BULTMANN, Teologia, 262. TI BULTMANN, Teologia, 254-255.

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grande studioso del tempo, Ernst Kasemann. Sottolineando la conno­ tazione apocalittica del lessema paolino «giustizia di Dio»28 solleva certo domande sulla sua interpretazione (cf. c. 4), ma non pone mini­ mamente in questione la sua concezione gratuita e la valutazione della sua centralità in funzione antilegalista. Forse lo studio più originale, in tutto questo periodo, era stato quello di Albert Schweitzer, per il quale la categoria soteriologica dominante si era raffigurata come Christus­ mystik, ossia un'unione interpersonale tra il credente e il suo Signore, rispetto alla quale la dottrina della giustificazione risultava un «cratere secondario». 29 I molti dibattiti da esso suscitati non ebbero però la forza di ridiscutere il paradigma dominante. Date tali premesse, difficilmente si può sopn ivvalutare l'impatto ottenuto tra gli studiosi dall'opera di Ed Parish Sanders, che ha costi­ tuito un vero punto diacritico nell'esegesi, da cui il dibattito odierno in larga misura dipende. 30 L'influsso ottenuto e i nodi caldi sollevati hanno fatto passare sotto silenzio il punto di partenza da lui adottato nella disamina del pensiero paolino, che riguarda proprio la questione della sua coerenza. Esso è costituito da due convinzioni, facilmente identificabili e di importanza primaria [ . . . ): l . che Gesù è i l Signore, che in lui Dio ha provveduto alla salvezza d i tutti quelli che credono [ . . . ] e che egli tornerà presto per porre fine a tutte le cose; 2. che egli, Paolo, è stato chiamato per essere l'apostolo delle genti. 31

Come a dire (in una serie di considerazioni non ancora declinate da Sanders ), che il nucleo generativo del pensiero paolino non consiste in un insieme di dati concettuali, ma in un evento. Esso è tale da far da sé germinare un'interpretazione, concernente l'umanità (nelle parole di Sanders: in Cristo Dio provvede alla salvezza) e Paolo stesso, costi­ tuito apostolo di tale evento. Da qui, infatti, Paolo guarda la sua vita, la sua missione, le sue comunità con le loro vicende, la storia del suo popolo, l'umanità intera. Sebbene scritte a comunità distinte, le lettere paoline si presentano a ogni modo come attestazione dell'unico ke­ rygma di Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza, che funge da criterio interpretativo per le diverse problematiche presenti nelle di28 E. KASEMANN, Saggi esegetici, Piemme, Casale Monferra to 1985, 83-105 e 106-132 (or. ted. 1 960-1964). Risposta di R. BULTMANN in «1st die Apokalyptik die Mutter der Christlichen Thelologie? Eine Auseinandersetzung mit Ernst Kasemann», in Apopho­ reta, Fs. E. Haenchen (BZNW 30) , Topelmann, Berlin 1964, 64-69. 29 A. ScHWEITZER, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr (Siebeck), Tiibingen 1930, 2 16-220. 30 E. P. S AND ERS , Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Paideia, Brescia 1986 (or. ingl. 21984 ). 31 SA N DERS , Paolo e il giudaismo, 605-606.

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verse comunità e per le implicazioni pratiche che ciò richiede.J2 Le let­ tere occasionate paoline avranno così un centro che determina una struttura coerente di pensiero. Solamente che questo non sarà costi­ tuito da uno schema concettuale prefissato, ma dall'evento Cristo, in cui si manifesta l'agire escatologico di Dio.33 Evento e interpretazione sono così strettamente connessi. Riprenderemo a breve queste considerazioni. Per ora si deve ri­ tornare agli apporti più significativi, e in seguito dibattuti, dell'opera di Sanders. Il primo di essi consiste neli 'introduzione del concetto di nomismo dell'alleanza (covenantal nomism) , pertinente, secondo San­ ders, innanzitutto per comprendere la globalità del giudaismo palesti­ nese, nonostante le sue sfaccettate espressioni. 34 In esse, infatti, non è dimenticata la fondamentale nozione biblica dell'alleanza. Questa comporta due momenti fondamentali: - il primo, costitutivo, è quello dell'ingresso; esso è un evento asso­ lutamente gratuito, dovuto solamente alla benevolenza divina, alla sua elezione di Israele. Non si entra nell'alleanza per meriti propri, ma per­ ché Dio chiama il popolo a entrarvi; - il secondo è poi quello del rimanere. Tale momento dipende dal­ l'impegno umano, concretamente dall'obbedienza alle clausole dell'al­ leanza, ossia alla legge. Da qui lo studio delle clausole e delle obbligazioni legali, che riceve sicuramente attenzioni precipue ali 'in­ terno di varie correnti ebraiche, quale il rabbinismo. Ma tale studio non è comprensibile senza la prioritaria coscienza di essere membri di una comunità costituita tale dall'iniziativa gratuita di Dio: è uno studio fi­ nalizzato a enucleare le modalità per rimanere nell'alleanza, non per conquistarla! Si comprende subito come questa ricostruzione del giu­ daismo infici un presupposto estremamente diffuso nella letteratura scientifica a esso precedente. Per dirlo nuovamente con Bultmann, il considerare la legge come mezzo per «condurre l'uomo al peccato [ . . . ] offrendogli la possibilità estrema di vivere da peccatore capovolgendo l'opposizione al comandamento in aspirazione alla idia dikaiosyne at­ traverso l'osservanza del comandamento».35 Ma all'interno della strut­ tura definibile nomismo dell 'alleanza il comandamento non serve a 32 Cf. G. SEGALLA, Teologia biblica del Nuovo Testamento. Tra memoria escatologica di Gesù e promessa del futuro regno di Dio (Logos 8/2), Elledici, Leumann (TO) 2005, 569-571 . � 3 Tesi ribadita recentemente d a M. MAYORDOMO, A rgumentiert Paulus logisch? Eine Analyse vor dem Hintergrund antiker Logik (WUNT 183), Mohr Siebeck, Ttibingen 2005, 240. 34 SANDERS, Paolo e il giudaismo, 120 e 336. L'unico testo che presenta deviazioni significative da questo modello è, per Sanders, il 4Esdra, causa un pessimismo antropo­ logico alieno al restante giudaismo; cf. pp. 562-588. 35 BULTMANN, Teologia, 255.

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stabilire la propria giustizia, ma quella richiesta da Dio, primo stipulante del patto, per rimanere all'interno di quell'ambito da lui gratuitamente offerto. Così inteso, il giudaismo non può più essere raffigurato d alla de­ scrizione, in fondo caricaturale, di un movimento automeritorio, teso a conquistare Dio attraverso l'osservanza scrupolosa della legge. Cessa, di conseguenza, di essere quel contraltare rispetto a cui Paolo avrebbe elaborato la dottrina della giustificazione ·per fede. Ma come considerare, allora, la soteriologia di Paolo? Sanders non applica tout court il concetto di covenantal nomism all'apostolo, perché non in grado di rendere ragione di un linguaggio soteriologico che, a mio av­ viso giustamente, egli considera preponderante, ossia quello della «par­ tecipazione))36 (cf. c. 5). Tuttavia la comprensione della modalità di relazione tra Dio e umanità è assolutamente analoga tra Paolo e le fonti ebraiche. Anche per Paolo, infatti, questa è originata solamente in virtù di una possibilità gratuitamente offerta da Dio per mezzo di Cristo, è un dono gratuito. Tuttavia tale dono mette in atto nell'individuo l'esi­ genza di una corrisposta, ha delle implicazioni a livello di atteggia­ menti e di prassi, che Paolo declina in termini cogenti. Ovviamente il momento costitutivo di tale rapporto non è più per Paolo l'alleanza al Sinai, ma l'opera redentrice di Cristo. Per ciò che concerne tuttavia la sua dinamica, articolata in offerta gratuita/impegno conseguente, que­ sta è assolutamente analoga tra Paolo e il giudaismo. Sorgono, a questo punto, perlomeno due ordini di problematiche. Il primo, concernente il contenuto delle tesi proposte da Sanders: si può comprendere o no la soteriologia di Paolo come risposta a un giudai­ smo legalista? Se no, qual è la ragione del suo pensiero, della dottrina della giustificazione, della polemica in essa insita contro la legge? Ri­ mane la giustificazione il concetto centrale della soteriologia paolina? Giova annotare che le questioni sollevate da Sanders riguardano pre­ cisamente la questione soteriologica. Il sottotitolo del suo libro, A Comparison of Patterns of Religion, lo evidenzia definendolo proprio come investigazione sui «modelli)) (come visto, risultati assolutamente analo ghi) religiosi soggiacenti alle varie correnti giudaiche e a Paolo, vale a dire sulle modalità utilizzate per rapportarsi a Dio e per godere della sua salvezza. La presente ricerca sarà condotta avendo sempre come interlocutori ideali gli artefici di tale dibattito, e soprattutto nei capitoli 4, 5 e 6 saranno affrontati tematicamente i punti ivi sottesi. Per aiutare l'eventuale lettore non specialista a orientarsi in tale dibattito offro qui una disamina generale delle sue linee di tendenza elencan-

36 Ci SANDERS, Paolo e il giudaismo, 700-708.

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done solo alcuni autori esemplificativi, senza la pretesa di offrirne le varie sfumature che saranno trattate in seguito.37 l ) La riproposta di tesi «classiche». Se Sanders accomuna il pensiero di varie correnti giudaiche nel «nomismo dell'alleanza», altri interpreti val utano tale riduzione come semplicistica. Nella comprensione giu­ daica dell'alleanza rimane, a detta di alcuni, una tensione irrisolta tra il principio della gratuità divina dell'elezione e quello del legame del . singolo alla legge e alle sue osservanze, che può essere facilmente di­ storto in legalismo. Paolo recupererebbe la centralità della gratuità di­ vina in opposizione a tali visioni. 38 2) La «nuova prospettiva»: le «opere della legge» come «identity markers». Una prospettiva ermeneutica nuova, invece, acquisisce i contributi di Sanders, considerando sostanzialmente alieno dalla reli­ giosità giudaica e dalla sua legge il rischio della deriva legalistica au­ tomeritoria. Essa, con ciò stesso, rivaluta la figura della legge, enfatizzando al contempo tutte le qualifiche paoline positive della stessa. L'unico - ma sostanziale - deficit della legge sarebbe, per Paolo, il suo carattere «etnico>>, ossia il suo essere depositaria di norme che caratterizzavano il popolo di Israele rispetto agli altri popoli. Paolo af­ fermerebbe così la gratuità della giustificazione divina in contrappo­ sizione alle «opere della legge» intese come segni contraddistintivi dell'identità etnica israelitica, quali la circoncisione e le regole di purità alimentare. Ciò al fine di garantire il diritto dei pagani in quanto tali di accedere alla comunità credente, senza costringerli a diventare al contempo israeliti.39

37 Ripropongo di seguito lo schema di S. RoMANELLO, «Paolo al crocevia del dibat· tito ecumenico. La ricerca biblica sulla soteriologia paolina e suo ruolo nel dialogo ecu·

menico», in Credere oggi 24(2004/5), 55-67. 38 Cosl, ad es. , D.A. CARSON - P.T. O'BRIEN - M.A. SEIFRID (edd.), Justification and Variegated Nomism, 2: The Paradoxes of Pau/ (WUNT/2; 18 1 . 2 ) , Mohr Siebeck, TUbin­ gcn 2004; A.A. DAS, Pau/, the Law and the Covenant, Hendricksen, Peabody 2001 ; S.J. GATHERCOLE, Where is Boasting?: Early Jewish Soteriology and Paul's Response in Ro· mans 1-5, Eerdmans, Grand Rapids 2002; H. HOBNER, La Legge in Paolo. Contributi allo sviluppo della teologia paolina, Paideia, Brescia 1995 (or. ted. 1982); S. KIM, Pau/ ami the New Perspective. Second Thoughts on the Origin of Paul's Gospel (WUNT 140), Mohr Siebeck, TUbingen 2002; M.A. SEIFRID, Christ Our Righteousness. Paul's Theology oflustification, Apollos, Leicester 2000; P. STUHLMACHER, Revisiting Paul's Doctrine of Ju.wification. A Challenge to the New Perspective, InterVarsity, Downers Grove 2002; S. W!·:STERHOLM , Perspectives 0/d and New on Paul. The «Lutheran» Pau/ and His Critics, Eerdmans, Grand Rapids 2004. 39 J.D.J. DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999 (or. ingl. Ed­ inburgh 1998); lo., Romans (WBC 38A·B), Word, Dallas 1988; Io., The Epistle to Gala· tùms, Black, London 1993; Io., The New Perspective on Paul. Collected Essays (WUNT IX5), Mohr Siebeck, Ttibingen 2005. È l'autore oggi più noto e influente di questa diffusa linea interpretati va, che si può far risalire alla figura di K. STEN DAHL, Paolo tra ehrei e pagani e altri saggi, Claudiana, Torino 1995 (or. ingl. Philadelphia 1976).

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3) La «nuova prospettiva»: Paolo come incoerente. Lo stesso San­ ders radicalizza il suo pensiero in una seconda pubblicazione, propu­ gnando tesi che trovano consonanza soprattutto nello studioso finnico Raisanen.40 Attribuendo a Paolo un «modello» religioso del tutto ana­ logo a quello del giudaismo, tali autori sostengono che le sue polemiche nei confronti della legge sono strumentali a dispute con interlocutori giudaici o giudaizzanti, causa le quali egli afferma punti in reciproca contraddizione. Così il secondo giunge a parlare esplicitamente di «in­ coerenza» del pensiero paolino, mentre il primo si trincera dietro l'a­ sistematicità, propria in fondo dei suoi scritti occasionati. Come si vede, il dibattito ripropone la questione della teologia pao­ lina, delle costanti caratterizzanti il suo pensiero e del metodo per la loro individuazione. La domanda sul centro propulsore della teologia di Paolo è esattamente il secondo ordine di problematiche sollevato dallo studio di Sanders, dal momento in cui è minata la convinzione che esso consista nella giustificazione. Secondo una formulazione che ha avuto un certo successo, il problema consiste nel rinvenire la coe­ renza di un pensiero nella contingenza delle sue lettere.41 Rinunciare a un principio di coerenza significherebbe accettare che le lettere siano non solamente scritti occasionati, determinati cioè da specifiche occa­ sioni, ma reazioni occasionati e in fondo non logiche ai vissuti comu­ nitari che ne hanno determinato la scrittura.42 Alcune proposte, è vero, si limitano alla ricerca della funzionalità del pensiero paolino rispetto al vissuto sociale delle sue comunità. Questa è, in fondo, la visione emergente dagli studi prodotti all'interno della prospettiva di studio determinata dalle scienze sociali sopra esposta. Si potrebbe, ulterior­ mente, rinunciare alla ricerca della coerenza ritenendo la «teologia di Paolo» mera cifra espressiva della «teologia delle singole lettere)), È questa, tra gli altri, la posizione del compianto Giuseppe Barbaglio, precedente curatore di questa collana.43 Ma ciò rischierebbe indubbia40 H. RAISANEN, Pau[ and the Law (WUNT 29), Mohr Siebeck, TObingen 1983; Io., Jesus, Pau/ and Torah (JSNT.S 43), Sheffield Academic Press, Sheffield 1 992; E. P. SAN­ DERS, Paolo, la legge e il popolo giudaico, Paideia, Brescia 1989 (or. ingl. 1983). Tra i seguaci cf. soprattutto K. KUULA, The Law, the Covenant and God 's Pian. l Pau/'s Polemica/ Treatment of the Law in Galatians, The Finnish Exegetical Society, Helsinki 1999. 41 J.C. BEKER, Pau/ the Apostle. The Triumph of God in Life and Thought, Fortress, Philadelphia 1980, 23. 42 Così anche J.C. BEKER, «Paul's Theology: Consistent or lnconsistent?>>, in NTS 34(1988), 364-377; J. ZUMSTEIN, «La croix comme principe de constitution de la théologie paulinienne», in A. DEITWILER - J.-0. KA.ESTLI - 0. MARGUERAT (edd.), Pau/, une théo­ logie en construction, Labor et Fides, Genève 2004, 299. 43 G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (La Bibbia nella storia 9), EDB, Bologna 1999; ID., Il pensare dell'apostolo Paolo (La Bibbia nella storia 9bis), EDB, Bologna 2004.

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mente di limitare la comunicabilità del pensiero paolino al lettore odierno: come potrei essere interpellato da un insieme non coerente? E non solo al lettore odierno; come potrebbero, infatti, essere stati per­ suasi gli stessi lettori originari, se Paolo, a detta di alcuni, si rivela in­ coerente all'interno di una stessa missiva? Certo, la fattibilità di una ricerca di un «nucleo coerente>> nel pen­ siero paolino, per quanto possa risultare allettante in prima battuta, non può essere data per scontata, ma ne vanno giustificati la plausibi­ lità e il metodo, per poi sottoporli all'autentica verifica costituita dal campo di indagine rappresentato dalle lettere. La prima questione, tut­ tavia, è già stata, in fondo, qui chiarita. Poiché l'evento Cristo funge da centro ermeneutico degli interventi paolini. si dovrà ritenere almeno plausibile l'eventualità che le lettere presentino una coerenza di pro­ spettiva, di valori di fondo, di elementi assunti quali determinanti per l'interpretazione dei vari vissuti, e che questi dipendano esattamente dall'evento-Cristo. Il problema è quindi squisitamente metodologico. Al riguardo, mi sembra che molti contributi siano stati inficiati da un approccio concettualistico. Vale a dire, dal ritenere un determinato elemento dottrinale quale elemento di sintesi di tutto il suo pensiero. La labilità di questa pista si palesa quando si verifichino i vari dati di volta in volta proposti in tale veste. Questi, in alternativa, sono o la giu­ stificazione per fede, o l'apocalittica,44 o la riconciliazione,45 o l'evento della crocifissione,46 o la partecipazione presente alla pasqua di Cri­ sto . . .47 Tale varietà, non esaurita dai titoli solamente esemplificativi qui citati, dimostra come sia praticamente impossibile trovare un aspetto invariabilmente posto come centrale da Paolo stesso nei suoi scritti; se questi sono occasiona ti, l'occasione della seri ttura necessariamente mo­ dellerà anche la formulazione del suo pensiero. Anzi, determinerà il peso di certi aspetti in alcune lettere piuttosto che in altre (ad es. il lin­ guaggio della giustificazione non è così sviluppato nelle prime lettere come in Galati e Romani: cf. c. 4), o addirittura una certa evoluzione in altri, come nella comprensione de li! escatologia (aspetto che non posso includere nella presente trattazione). Di più, un approccio concettuali­ stico rischia di forzare alcuni dati in un quadro di valore prestabilito, senza quell'elasticità necessaria per comprendere gli interessi effetti­ vamente svolti nelle singole argomentazioni, che possono anche for-

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BEKER, Paul the Apostle.

45 R. P. MARTIN, Reconciliation: A Study on Paul's Theology, Zondervan, Grand

Rapids 1990. 46 ZUMSTEIN, «La croix)). 47 U. ScHNELLE, «Le présent du salut, centre de la pensée paulinienne)), in DETTWI­ LER - KAESTLI - MARGUERAT (edd. ), Pau/, une théologie en construction, 319-342.

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mulare ipotesi di volta in volta provvisorie, o presentare esempi parti­ colari, per poi ridefinirli in passaggi cruciali successivi. Come vedremo, è il caso di Rm 1 ,18-3,20, o 7,7-25, passi che rappresentano un vero rebus esegetico e contraddizioni insolubili, quando siano iscritti in un quadro sistematico predefinito e non siano valutati sulla base della re­ torica con cui sono modellati. Il sostantivo qui introdotto, «retorica)), permette di compiere un passo decisivo nella delineazione del metodo con cui condurre lo stu­ dio del pensiero paolino. Il rilievo di tante caratteristiche retoriche del suo epistolario, infatti, obbliga a concludere che Paolo fosse almeno introdotto a una buona conoscenza del suo livello elementare, veico­ lato nell'antichità da esercizi scolastici di composizione (progymna­ smata). Anche l'approccio al suo epistolario guidato da tale metodo è oggetto di ampie discussioni, che esulano del tutto dalla presente ri­ cerca. Basti qui confessare il debito metodologico alle teorizzazioni di Jean-Noel Aletti48 per dire che queste mi guideranno in una lettura analitica di alcuni testi rilevanti che, per quanto è stato detto, è neces­ saria. Proprio tale approccio consente infatti di comprendere la ge­ nuina natura degli scritti occasionati paolini. Essi non sono mere reazioni a stimoli provenienti dalle comunità, come, all'opposto, non riflessioni sistematiche e asettiche. Sono invece elaborazioni concet­ tuali accuratamente studiate, ma non per sistematizzare in maniera astratta un pensiero, bensì per formulare le implicazioni derivanti dall'evento Cristo per le situazioni degli uditori cui di volta in volta Paolo si rivolgeva, in maniera ragionata, coerente e persuasiva. Si trat­ terà, allora, di studiare come lo scopo comunicativo inteso da Paolo abbia modellato il suo pensiero, gli abbia conferito forma e organicità, e in seconda battuta come i perni valoriali emersi dai diversi brani in­ teragiscano tra essi. Lo scopo comunicativo, infatti, non rende super­ fluo il contenuto. Al contrario, richiede che i valori che si intendono trasmettere siano adeguatamente motivati attraverso una ragionevole argomentazione. Qualcuno dice che la coerenza del pensiero paolina passa attra­ verso il suo de-retorizzarlo.49 Al di là di affermazioni che, quando

48 Cf. le sue proposte metodologiche: J.-N. ALEITI, «La dispositio rhétorique dans les épitres pauliniennes», in NTS 38(1992), 385-401; lo., «Paul et la rhétorique. Etat de la question et propositions», in J. SCHLOSSER (ed.), Pau/ de Tarse (LO 65), Ceri, Paris 1996, 27-50, oltre a numerosi studi in cui tale metodo è applicato. 49 L. THURÉN, Derhetorizing Pau/. A Dynamic Perspective on Pauline Theology and the Law (WUNT 124), Mohr Siebeck, Ttibingen 2000. Cf. anche ID., «Fi ghting against Sraw Men: Derhetorizing Theology and Histo ry in Pau h>, in L. AEJMELAEUS - A. Mus­ TAKALLIO (edd.), The Nordic Paul. Finnish Approaches to Pauline Theology (LNTS 374}, T&T Clark, London-New York 2008, 195-208.

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espresse con neologismi, lasciano sempre aperta l a possibilità del­ l'equivoco, mi sembra che affermare l'autentica natura pragmatica del suo pensiero, che non è l 'equivalente di episodica o casuale, permetta anche di affermarne la sua portata teologica. Sì, il pensiero di Paolo è autenticamente teologico, intendendolo come elaborazione ragionata, sepp�r non sistematica, del vissuto della fede e delle sue implicazioni. E forse il suo fascino risiede non nella supposta religiosità immediata, ma nella feconda relazione operata tra prassi e pensiero. Sono così giunto a delineare il percorso dei capitoli successivi e la sua ragione. Il libro non è un'indagine sulla totalità delle questioni ine­ renti alla teologia paolina, ma ne concerne un aspetto distintivo e ri­ levante, quello soteriologico. Una ricerca su un aspetto singolo, tuttavia, non può essere condotta a prescindere da un 'impostazione metodologica che tenga in adeguata considerazione le problematiche globalmente inerenti alla questione della sua coerenza e dei suoi prin­ cipi generatori. Avendo, peraltro assiomaticamente, asserito che questi sono costituiti dall 'evento Cristo e dal suo annuncio, i capitoli 2 e 3 sa­ ranno -dedicati proprio a verificare come l'incontro con il Signore ri­ sorto e la memoria della sua morte in croce siano presentati nell'epistolario paolino. Da qui passiamo a considerare come model­ lino la comprensione del presente (cc. 4 e 5) dell'esistenza credente. Una riflessione a sé richiede la questione trattata al capitolo 6, per l'ampiezza delle problematiche lì insite. È una ricerca, come si vede, articolata, guidata anche da una certa ambizione, nel voler percepire come Paolo tratteggi i costitutivi dell'identità credente.

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Capitolo 2

L'evento sorgivo. l . L'incontro con il Risorto

INTRODUZIONE: PAOLO «APOSTOLO» E LA SUA ESPERIENZA DEL RISO RTO

Si era detto che il centro coerente del pensiero paotino consiste nel­ l'evento Cristo e nella sua comprensione da parte dell'apostolo. Questa asserzione va ora motivata, verificando proprio ciò che ha comportato l'incontro con il Risorto per colui che in precedenza era stato il perse­ cutore dei suoi seguaci. Giova ricordare che Paolo si presenta anzitutto come apostolo, che in quanto tale si rivolge, con le lettere, alle comunità da lui fondate ( l Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Rm 1,1), e che l'apostolato, per Paolo, significa anzitutto riferimento alla persona del Risorto. In realtà, il lemma «apostolos, apostolo», significa letteralmente «inviato». Paolo lo può impiegare nel senso di «inviato/delegato>> da una o più comunità, come ad esempio in 2Cor 8,23, e verosimilmente in questo senso sono appellati «apostoli>> Andronico e Giunia in Rm 16,7. È però evidentemente di pregnanza diversa la posizione di chi, come Paolo, è inviato «non da uomini [ . ] ma mediante Gesù Cristo e Dio Padre>> (Gal 1,1); sono proprio questi apostoli a essere da Dio posti «in primo luogo» nella comunità (1Cor 12,28), esercitandovi quindi una funzione di autorità unica. Ma come avviene questo invio da parte di Cristo? La risposta è inequivocabile: mediante l'esperienza di lui risorto. In l Cor 9,1-2 troviamo palesata esplicitamente tale con­ vinzione: �> ha intrapreso un'azione missiona­ ria presso gli arabi nabatei (verso l'attuale Stato di Giordania). Che lo faccia senza aver consultato gli altri apostoli non implica un miscono­ scimento della loro autorità, bensì è la coerente conseguenza della pre­ gnanza attribuita all'incontro con il Risorto, che di per sé lo abilita a essere suo testimone autorevole. Si verifica da qui come Paolo sia apo­ stolo non per volontà di uomini, ma per iniziativa divina (Gal l ,l ) . È tale iniziativa a rendere u n persecutore apostolo, e l a sua pre­ gnanza è rimarcata dalla collocazione centrale in questi v ersetti ( vv. 15-16a), che agli estremi (vv. 13- 14; vv. 16b-17) menzionano invece la condotta di Paolo, dalle modalità antitetiche prima e dopo tale rivela­ zione. Anche nell'Antico Testamento è la chiamata gratuita di Dio a rendere degli uomini suoi profeti, e le espressioni del v. 15 ricordano almeno due importanti vocazioni profetiche, ossia quella di Geremia («Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle na­ zioni»: Ger 1 ,5) e quella del Servo di YHWH («Il Signore dal seno ma­ terno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome»: Is 49, 1 ) . Pure in tali passi, si vede, l'essere profeta dipende essenzialmente dalla gratuità della chiamata divina, operante sin dal grembo materno, costitutiva, quindi, della persona e dell'identità. Paolo ha modellato il proprio racconto sulla scia di tali passi anticote­ stamentari, indubbiamente perché riconosce in sé l'agire di quello stesso Dio che ha agito nei profeti, ossia si riconosce beneficato della s Cf. B. CORSANI, Lettera ai Galati ( CSANT 9), Marietti, Genova 1990, 91-100; S. LéGASSE, L'Épitre de Pau/ aux Galates (LD 9), Cerf, Paris 2000, 83-103; J.-P. LéMONON, L'Épitre aux Galates ( CBNT P), Cerf. Paris 2008, 70-76; J.L. MARTYN, Galatians (AnchB 33a), Doubleday, New York-London 1997, 153-170; A . PITIA, Lettera ai Galati (SOC 9), EDB, Bologna 1996, 90-99; A. VANHOYE, Lettera ai Galati (LibBibNT 8), Ed. Paoline,

Milano 2000, 42-48.

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stessa gratuità costitutiva. Tale intertestualità pone in sicura continuità la sua esperienza con quella dei profeti, e con quella storia di alleanza instaurata da Dio con il proprio popolo: sarà, questa, un'acquisizione capitale, su cui ritorneremo. Al contempo, però, si deve rilevare come il v. 16 descriva l'espe­ rienza di incontro con il Risorto in termini del tutto eccedenti le voca­ zioni profetiche. Questo potrebbe già essere indicato dal verbo lì impiegato, «apokalypsai, rivelare». È vero che esso, e il sostantivo cor­ rispondente, possono denotare una qualche esperienza carismatico­ mistica, che contraddistingue un profeta, permettendo al beneficiato un certo accesso a realtà celesti di natura generica, e in tal senso sono pure utilizzati da Paolo, in questa lettera (2.2) come altrove (ad es. l Cor 14,6; 2Cor 12,1.7). Tuttavia è altresì vero che, al pari della tradi­ zione sinottica, essi possono indicare la manifestazione dell 'agire esca­ tologico di Dio nel Figlio (cf. Mt 1 1 .25-27 ). Paolo pure li utilizza con tale accezione, in riferimento alla manifestazione del Signore alla fine dei tempi (1Cor 1 ,7) come all'attuale dispiegamento della potenza sal­ vifica di Dio, che avviene nel lieto annuncio del Cristo morto e risorto (Rm 1 ,16-17). Il contesto della Lettera ai Galati indirizza fortemente in tal senso, poiché giustifica il carattere dell'apostolato e dell'evan­ gelizzazione paolini, dovuti non a tradizione di uomini ma alla «rive­ lazione di Gesù Cristo» ( 1 , 1 1-12; cf. ancora 1 , 1 ), ossia alla conoscenza per esperienza personale del Risorto. Tale evento, si è detto, comporta in sé il carattere della definitività, in quanto realizzazione prolettica proprio dell'atteso intervento escatologico di Dio, ponendo Paolo non solamente nella scia dei profeti, ma dei testimoni dell'opera escatolo­ gica di Dio, beneficiari della sua «rivelazione» ultima e risolutiva. E, ancor più decisamente, la caratteristica di evento unico è mani­ festata dal fatto che l'oggetto della rivelazione è costituito dal «Figlio suo». Paolo non scrive «Gesù», giacché sulla strada di Damasco non viene a conoscere il Gesù terreno, ma nemmeno usa i titoli cristologici di «Cristo» o «Signore». Questi ultimi sarebbero stati sicuramente per­ tinenti: dall'evento della vittoria sulla morte, infatti, si coglie come Gesù sia il messia escatologico di Dio e possa essere riconosciuto come portatore del progetto di Dio sulla storia, e come tale adorato (cf. Fil 2,10- 1 1 ) . Ma ciò è possibile perché egli gode di un rapporto unico, ori­ ginario con il Padre, e proprio tale rapporto è espresso con il titolo «Figlio)). I sinottici ricordano come questo si manifestasse nella sua preghiera, come nella sua intera vita; Paolo lo coglie nella sua stessa esperienza del Risorto. Il perché non lo dice, ma è intuitivo asserire che, se la risurrezione è lo scatenamento dell'agire escatologico di Dio, questo può avvenire non per mezzo di uno dei tanti suoi inviati, ma in colui che è . relazionato con il Padre a un titolo unico, nel suo Figlio. 39

Thtti i commentatori ricordano l'importanza che tale titolo acquista, nel seguito della lettera, per lo statuto dei credenti, descritto in termini di figliolanza adottiva (3,26-4,7). Fatto semplicemente basilare, su cui ritorneremo estesamente. Ma non si deve prendere l'abbaglio di con­ fondere la causa con l'effetto. Vale a dire, la qualifica di Cristo quale «Figlio» in 2,16 non è dovuta primariamente alla necessità di descri­ vere i credenti quali «figli», bensì è una comprensione di ciò che Cristo è originariamente in forza della risurrezione, ed è questa a permettere la successiva apposizione ai credenti del titolo di figli. Si comprende, da tutto ciò che si è fin qui argomentato, come la di­ mensione missionaria dell'annuncio sia insita nell'incontro con il Ri­ sorto. Poiché esso veicola l'agire escatologico di Dio, per natura sua è un evento che inerisce alla storia intera, che va annunciato senza limi­ tazioni di territori o popoli. Al riguardo, rileviamo la pregnanza della lo­ cuzione che lega la rivelazione con l 'invio in missione, ossia «rivelare in me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo alle genti . . . ». Essa, infatti, esprime innanzitutto la dimensione interiore della rivelazione, che go­ vernerà tutta l'esistenza dell'apostolo, la quale sarà determinata proprio da una profonda relazione di comunione reciproca con il Cristo risorto (cf. 2,20: «vive in me Cristo . . . ») . Di conseguenza, è proprio tale comu­ nione a divenire anche criterio sorgivo e dirimente della missione. Com­ menta bene Légasse: «L'apostolo e i missionari cristiani non annunciano la dottrina di Gesù, e nemmeno una dottrina su Gesù, bensì Gesù Cristo, Figlio di Dio, che ha operato e opera ancora la salvezza d eli 'umanità». 6 Thtto ciò è ovviamente possibile perché il Signore è il Risorto. L'evento della risurrezione costituisce veramente il perno innanzitutto della vita, e quindi della riflessione, di Paolo. È ciò che l'ha reso apo­ stolo, stravolgendo la sua precedente attività di persecutore, e nella sua dimensione fondante costituirà l'oggetto dell'annuncio e dell'in­ vito alla fede dei credenti: «Se con la tua bocca professerai: "Gesù è il Signore ! " , e con il tuo cuore crederai che Dio l 'ha risuscitato dai morti, sarai salvato» (Rm 9,10). UNA «CONVERSIONE»?

Appurata l'importanza decisiva dell'incontro con il Risorto nella vita di Paolo, quale terminologia è adatta a esprimerlo? È ormai con­ venzionalmente entrato in uso il termine della «conversione», ma al riguardo si devono compiere alcuni rilievi.

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LÉGASSE, L'Épftre de Pau/ aux Galates, 98.

Innanzitutto Paolo non utilizza mai, in Galati come in nessun'altra lettera, i lemmi della conversione, quali «metanoeo-oia, cambiare-cam­ biamento, conversione», o «apo-epistrepho-strophe, allontanarsi, vol­ gersi, cambiare vita, conversione». Secondariamente egli non ha abbandonato, in virtù deli 'incontro con il Risorto, la fede nel Dio di Israele. Nel suo epistolario, infatti, cita lo sema ' Isra'el, la professione di fede ebraica nell'unicità di Dio (Dt 6,4; cf. Rm 3,20; 1Cor 8,6; Gal 3,20), fa ricorso alle Scritture di Israele per suffragare le proprie argo­ mentazioni, giacché l'evento pasquale è in sintonia con il progetto di­ vino attestato nelle Scritture ( «kata tas graphas, secondo le Scritture»: l Cor 15,3-4). Tale sintonia si palesa espressamente proprio nel rac­ conto di Gal 1,15-16, attraverso l'accenno. seppur non alla citazione esplicita, della letteratura profetica. manifestando così come Paolo colga l'esperienza di Damasco sulla scia delle chiamate dei profeti di Israele, pur essendo rispetto a queste del tutto singolare. Infine va an­ notato che nemmeno in senso morale la terminologia della conver­ sione sembra pertinente. Paolo sconfessa decisamente il suo passato persecutorio, ma per il resto non ha nulla da rigettare, poiché non si attribuisce una condotta etica turpe. Anzi, in Fil 3,6 (brano su cui ri­ torneremo a breve) si qualifica «irreprensibile secondo la giustizia che è nella legge»! Rispetto all'autocoscienza che al riguardo emerge dalla penna di Paolo, il quadro di l Tm 1,13 è dissonante e inconciliabile, segno certo di un'idealizzazione pseudoepigrafica posteriore. Nel dibattito scientifico il recupero di tale insieme di dati ha oggi portato a mettere seriamente in discussione la pertinenza del vocabolo della «conversione» per descrivere l'evento di Damasco. Mi piace far qui riferimento ad almeno due. studiosi ebrei, di diverso indirizzo, che con distinti procedimenti hanno variamente affermato la persistenza della fede e della caratteristica ebraica in Paolo. Alai n SegaF giunge a riconoscere Paolo come un israelita che è rimasto tale, ma è «passato» (in questo senso utilizza il termine convert, adottando una terminolo­ gia improntata dalle scienze sociali) dalla forma farisaica di giudaismo, chiusa nei confronti dei non-ebrei, a un'altra, aperta verso gli stessi. Daniel B oyarin8 pure vede un Paolo sostanzialmente impegnato in una contest �zione delle barriere etniche che separano Israele da altri popoli, sulla scia del giudaismo ellenista, e più precisamente di Filone e del suo platonismo.

7 A. SEGAL, Paul the Convert. The Apostolate and Apostasy of Saul the Pharisee, Yale University, New Haven 1999. 11 D. BOYARIN, A Radica/ Jew. Paul and the Politics ofldentity, University of Califor� nia, Berkeley 1994.

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La «nuova prospettiva)) di studi paolini, come sviluppata da Dunn, accoglie pienamente tali assunti (soprattutto Segai). Duno riconosce giustamente che è stato l'incontro con il Risorto a costituire il cardine dell'esistenza, e quindi anche del pensiero, di Paolo, ma vede i suoi ef­ fetti limitati alla missione alle genti, superando le chiusure etniche di Israele.9 In questo egli sostiene che l'apostolo ha abbandonato lo zelo verso la legge, ma limitatamente a una legge considerata fattore di se­ parazione tra ebrei e non-ebrei (nonché tra diverse correnti all'interno dell'ebraismo), permettendo così al popolo di Dio di allargarsi ad altre entità etniche. 10 Questo genere di osservazioni pone in gioco la natura dello zelo di Paolo verso le tradizioni dei padri, che, come ben risaputo, conside­ ravano la legge quale sua espressione normativa, e il tipo di impatto che su di esso ha avuto l'incontro con il Risorto. Nella legge era certa­ mente palesata la convinzione della peculiarità di Israele rispetto ad altri popoli, in Paolo necessariamente superata quando egli, al contra­ rio, si rivolgerà proprio a tali popoli. Su ciò si può facilmente convenire con Dunn, tuttavia rimane da chiedersi da dove nascesse tale convin­ zione. È lo stesso dettato biblico a chiarirlo. In Es 16,5-6, infatti, leg­ giamo le seguenti parole messe in bocca a YHWH: « . . . Se ascolterete la mia voce e osserverete la mia alleanza, voi sarete per me una pro­ prietà particolare [ebr.: segullah, LXX: periousios] tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa>> (parole ribadite poi in Dt 7,6; 14,2). L'essere proprietà particolare di Dio è condizionato dall'osservanza dell'alleanza e delle sue codifiche legali, come si può evincere dal contesto di tutti i tre brani, che sono a commento motivazionale di comandamenti. Tale qualifica indica innanzitutto un rapporto assolutamente singolare con Dio, l'essere «spazio)) di manifestazione della sua santità. È un privi­ legio notevolissimo, che di conseguenza comporta anche una separa­ zione di Israele dagli altri popoli. Ma tale dimensione etnica è fondata prioritariamente da una motivazione religiosa, trova la sua ragione nella manifestazione e salvaguardia della santità di Dio. Ai tempi di Paolo la fede di Israele si esprimeva in varie forme, estremamente differenziate tra loro, tant'è che oggi molti parlano di «giudaismi», al plurale. Per ciò che mi riguarda, sono piuttosto pro­ penso a ritenere che si possa più adeguatamente parlare di forme, anche molto differenziate, di giudaismo, che in ogni caso si ritrovano accomunate dalla professione di fede nell'unico Dio e nel riconosci9 Cf. J.D.J. DUNN , La teologia dell'apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, 192-194 (or. ingl. Edinburgh 1998). 10 DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 348-356.

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mento della centralità della sua legge. Nessuna di tali forme, infatti, po­ neva in questione il ruolo della legge all'interno della struttura di alle­ anza, divergendo piuttosto nell'interpretazione della stessa. Ora, in tale struttura la legge trova la sua ragione per la dimensione etnico-religiosa di cui è portatrice. Scritti ebraici che riconoscono la dimensione di se­ parazione etnica insita nella legge di Israele non dimenticano la prio­ ritaria e fondativa sua ragione religiosa. Valga per tutti l'esempio della Lettera di Aristea (134-142): commentando i precetti che regolano il contatto degli israeliti con il mondo esterno, i vi compresi quelli di pu­ rità alimentare, essa li considera alla guisa di «palizzate ininterrotte e di mura ferree», dall'evidente valore separa torio, che hanno la loro ra­ gione nella salvaguardia della fede di Israele nell'unico e trascendente Dio. Proprio questo insieme di convinzioni si deve necessariamente supporre presente in Paolo prima dell'evento di Damasco, ed è preci­ samente tale insieme a essere stato modificato in tale frangente. Vale a dire, dal momento che Paolo ha superato le barriere etniche cui il suo precedente zelo imponeva di attaccarsi, e che tali barriere sono in­ site alla legge ritenuta struttura di mediazione della santità di Dio, si deve supporre che egli abbia soprattutto abbandonato quest'ultima convinzione, e che ciò gli abbia consentito il suo rivolgersi alle genti. Se, al contrario, il «popolo di Dio» (utilizzo questa espressione, pre­ sente in Dunn, tra virgolette, poiché non è genuinamente paolina) fosse definito necessariamente in base alla legge, considerata come veicolo della relazione peculiare con Dio, come avrebbe potuto Paolo superare le sue limitazioni etniche? In sintesi, ciò che mi sembra si debba sostenere è che la condotta di Paolo nel giudaismo era caratte­ rizzata da uno zelo verso la legge considerata, al pari delle varie forme del giudaismo, non solo come fattore di divisione interetnica (su ciò Duno ha indubbiamente ragione) , ma primariamente veicolo della ri­ velazione divina, e che l'incontro con il Risorto ha smontato questo insieme di convinzioni sul valore etnico-religioso della legge, e non ha riguardato esclusivamente la sua componente etnica. I capitoli 4 e 6 di questo studio riprenderanno analiticamente queste note. Qui, però, dobbiamo ulteriormente approfondire la questione ri­ cercando il motivo che aveva condotto Paolo alla persecuzione della «chiesa di Dio». Nella stessa Lettera ai Galati Paolo giunge a qualifi­ care Cristo come «katara, maledizione», perché appone a lui la quali­ fica di «maledetto» che la legge attribuisce all'appeso al legno (3,13; cf. Dt 2 1 ,23). Si ha, qui. una metonimia (sostantivo astratto al posto del concreto), volendo dire che Cristo si è trovato in una situazione (essere crocifisso) che la legge considera indegna nei confronti di Dio, quindi oggetto di maledizione. In realtà, la parola del Deuteronomio non si riferisce direttamente alla crocifissione, pena non praticata dagli 43

israeliti, ma non v'è dubbio che la valutazione dei crocifissi dovesse essere la medesima agli occhi di un ebreo osservante; lo comprova il testo di Gv 19,3 1 , ove è richiesta la rimozione dei crocifissi per la so­ lennità ebraica. Come avrebbero fatto molti ebrei del tempo, Paolo, s u lla base della legge, considerava un crocifisso come un maledetto da Dio, e quindi falso messia. Contrariamente a essi, però, mosso dal suo zelo Paolo giungeva a manifestare la sua avversione a Cristo nella per­ secuzione dei suoi seguaci. L'incontro con il Risorto ha comportato un autentico stravolgimento di prospettive: se quel crocifisso è risorto, al­ lora vuoi dire che Dio ha dato inizio al suo intervento escatologico. Ma l'ha fatto nel crocifisso, risuscitando lo, affermando la vita mediante questi, e non mediante la legge. Il crocifisso risorto, allora, si rivela come portatore di vita, e non di maledizione. Al contempo la legge, che qualificherebbe la sua situazione come «di maledizione», indegna di Dio, viene, a seguito dell'evento della risurrezione, a perdere di plau­ sibilità in tale qualifica. Ciò può essere rilevato da un ultimo partico­ lare: se il testo di Dt 21 ,23 LXX ha la frase «kekateranlenos hypo Theou, maledetto da Dio>>, in Gal 3,13 è semplicemente detto «epika­ taratos, maledetto». Al di là dell'uso dell'aggettivo al posto del parti­ cipio, è rilevante l'omissione della locuzione «da Dio». La maledizione, cosi, si dimostra tutta interna alla legge, Dio non risulta più implicato in nessun 'opera di maledizione. In tal modo, però, la voce di Dio viene disgiunta da quella della legge ! L'incontro con il Risorto è quindi stato in Paolo l'evento sorgivo di una nuova comprensione, che lo ha condotto a considerare con occhi nuovi tutta la sua esistenza, il suo passato, incluse quelle tradi­ zioni dei padri che consideravano la legge quale cardine della rivela­ zione di Dio. Solo con tale premessa, si può comprendere il suo successivo volgersi missionario alle genti; solo se la legge non ha valore centrale nella salvaguardia della santità di Dio, la sua filosofia separa­ loria può essere superata. Non a caso Paolo diviene annunciatore del Risorto, non della legge, e legherà la salvezza ·alla fede nel Risorto, e non all'adesione alla legge. A conclusione, chiarisco che in questo libro non si utilizzerà il ter­ mine «conversione» per qualificare l 'incontro di Paolo con il Risorto, in quanto la sua accezione nell 'uso comune lo rende equivoco. Va anche ricordato che, nonostante una riduzione del valore ascritto alla legge, fatto obiettivamente implicato nell'evento di Damasco, egli non giungerà mai a ritenerla abrogata o insignificante per l'esistenza dei credenti in Cristo; tale aspetto richiede un'indagine apposita, per la quale rimando nuovamente al capitolo 6. Nondimeno, ritengo che la . portata racchiusa nell'incontro con il Risorto conduca Paolo a un ri­ pensamento radicale su tutti gli aspetti della sua vita, ivi inclusa la 44

legge. Limitare tale ripensamento alla funzione separatoria della legge rispetto agli altri popoli, come vuole Dunn, mi sembra francamente ri­ duttivo.1 1 L' INCONTRO CON I L RISORTO E I SUOI EFFETII NELLA VITA DI PAOLO

Asserire che l'evento di Damasco ha comportato un ripensamento radicale dell'esistenza di Paolo, equivale a sostenere che ha plasmato in senso nuovo la sua identità. Ciò risulta chiaramente da un altro brano autobiografico, Fil 3,4- 1 1 : S e qualcuno ritiene d i poter avere fiducia nella carne, io più di lui: cir­ conciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, perse­ cutore della Chiesa; quanto alla giustizia che si trova nella Legge, irrepren­ sibile. Ma queste cose, che per me erano guadagno, io le ho considerate una perdita a causa di Cristo. Anzi, considero che tutto sia una perdita a . causa dell'eccedenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. A causa di lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo . ed essere trovato in lui, non avendo una mia giu­ stizia quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cri­ sto, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede. Questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sof­ ferenze, essendo reso conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 12

11 Conclusione simile a quella di P.T. O'BRIEN, «Was Paul Converted?», in D.A. CARSON - P.T. O'BRIEN - M.A. SEIFRID (edd.), Justification and Variegated Nomism, 2: The Paradoxes of Pau/ (WUNT/2; 181 .2), Mohr Siebeck, Tiibingen 2004, 361-391 , che però continua a utilizzare il lemma «conversione». 12 Su tale brano esistono estesi studi: cf. J.-N. ALEITI, Saint Pau/. Épftre aux Philip­ piens (EB 55), Gabalda, Paris 2005, 21 6-252; F. BIANCHINI, L'elogio di sé in Cristo. L'uti­ lizzo della periautologhia nel contesto di Filippesi 3,1-4, 1 (AnBib 164), PIB, Roma 2006; S. BITTASI, Gli esempi necessari per discernere. Il significato argomentativo della struttura della Lettera di Paolo ai Filippesi (AnBib 153), PIB, Roma 2003; R. FABRIS, Lettera ai Filippesi, Lettera a Filemone ( SOC 1 1 ), EDB, Bologna 2001 , 1 83-216; G.D. FEE, Paul's /.etter to the Philippians (NIC NT), Eerdmans, Grand Rapids 1995, 285-337; V. KOPERSKI, The Knowlédge of Christ Jesus My Lord. The High Christology of Philippians 3, 7-1 1 , Kok Pharos, Kampen 1 996; D . MARGUERAT, «Paul et la Loi: l e retournement (Philip­ piens 3,2-4,1)», in A. DETTWILER - J.-D. KAESTLI - D. MARGUERAT (e d d.), Paul, une théologie en construction, Labor et Fides, Genève 2004, 251 -275; A. PITTA, Lettera ai Fi­ lippesi (LibBibNT 1 1 ), Edizioni Paoline, Milano 2010, 2 1 1 -246. Rimando inoltre al mio S. ROMANELLO, «La "conformazione" al mistero pasquale di Cristo quale elemento fon­ dante l'identità del credente Paolo: Fil 3,7- 1 1 », in S. GRASSO - E. MANICARDI (edd.), «Generati da una parola di verità» (Gc 1, 18), Fs. R. Fabris (SupplRivBiblt 47), EDB, Bo­ logna 2006, 289-302, da cui attingo molte delle righe che seguono.

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Si tratta di un brano la cui unità interna è data proprio dal suo te­ nore autobiografico che, a onor del vero, si protende sino ai vv. 12-14, in cui però una marcata accentuazione escatologica indica una relativa autonomia rispetto a ciò che precede, ove questa era solo accennata. Esso è situato all'interno di un'unità letteraria, 3,1-4,l, incorniciato da esortazioni ai vv. 2-4 e 15-16, che da sole indicano la finalità esemplare, a motivazione dell'esortazione, e non apologetica, dei versetti in que­ stione.13 Una finalità apologetica risulta poi non plausibile se si pensa alla strategia argomentativa qui utilizzata; essa, infatti, è basata esclu­ sivamente sull'autoesempio e sulla credibilità di Paolo che si presenta come tale, e risulterebbe fallimentare di fronte ad avversari che tale credibilità non riconoscono. La menzione di questi, allora, permette un paragone antitetico (synkrisis) con Paolo. Essi risultano missionari giudeo-cristiani, cui polemicamente viene ritorto il lemma «ky nas cani» che, essendo animale impuro, poteva nell'autocomprensione giu­ daica appellare spregiativamente i pagani (cf. Mc 7,27 par. M t 15,26). Che solo il fronte giudeo-cristiano sia qui in vista è confermato dal se­ guito del v. 3, che riferisce ai credenti in Cristo proprio delle qualifiche caratterizzanti l'identità giudaica. 14 Questi soggetti risultano ben co­ nosciuti dai destinatari, e non viene fatto intendere che essi stiano in­ trattenendo un attuale confronto con la comunità. Piuttosto, essi sono raffigurati come un contro-esempio, sullo sfondo del quale si staglia quello dell'apostolo, modello positivo di co­ loro che non pongono a fondamento della propria esistenza la «carne», ossia l'autosufficienza umana (v. 4). Per giustificare ciò, Paolo enu­ mera, ai vv. 5-6, sette sue qualifiche «giudaiche» secondo i modelli degli autoelogi retorici, che menzionano la vita del soggetto a partire dalla sua nascita sino agli atti rilevanti da lui compiuti. In tal modo egli si presenta sia in ciò che è come frutto di un dato ricevuto (nascita, edu­ cazione . . . ), sia in ciò che è divenuto grazie al suo impegno personale. Il tutto concorre a delineare un'appartenenza giudaica dal tenore en-· comiabile. Ebbene, tale appartenenza, dapprima considerata un gua­ dagno, base su cui Paolo poggiava la propria identità, è stata oggetto di un cambiamento di valutazione, e considerata sotto un'altra ottica,

,

13 Cf. BIANCHINI, L'elogio, 36-37 e 176. L'imperativo blepete del v. 2 deve avere anche la connotazione di «guardarsi da», sebbene non seguito da apo, poiché le persone men­ zionate sono squalificate retoricamente, e quindi presentate come contro-modelli da cui distanziarsi. Diversa la lettura grammaticale offerta da G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (La Bibbia nella storia 9), EDB, Bologna 1 999, 367; G.F. HAWTHORNE - R.P. MARTIN, Philippians (WBC 43), Nelson, Nashville 22004. 14 BITTASI, Gli esempi necessari, 94-96, che non accetta la possibilità della ritorsione retorica di alcuni epiteti. Mi sembra, però, che tale rifiuto non sia effettivamente da lui motivato.

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divenendo «perdita» (v. 7). Il verbo «eghemai, ho considerate», al tempo perfetto, indica che un definito avvenimento passato ha com­ portato un atteggiamento continuato, in cui il cambiamento di valori iniziale è risultato sorgivo di scelte significative per tutto l'arco di vita successivo, tant'è che al verso seguente il verbo è usato al presente. Quell'avvenimento non può che essere stato l'incontro di Paolo con il Risorto sulla strada verso Damasco, in cui il persecutore è stato costi­ tuito credente.15 A seguito di esso è stato messo in moto un processo nella vita di Paolo. Egli stesso chiarisce che tale processo è avvenuto esclusiva­ mente «a causa di Cristo)), Un semplice rilievo statistico permette di osservare come nei vv. 7-1 1 «Cristo» ricorra quattro volte, più sei volte con pronomi a lui riferenti: Cristo costituisce la ragione unica del cam­ hiamento avvenuto nell'esistenza di Paolo (e non l'angoscia di non poter osservare la legge, o la percezione che la sua osservanza sia in sé erronea, perché intrinsecamente automeritoria . . . ). In Cristo c'è un «di più)) che sovrasta ciò che prima Paolo aveva, ciò su cui poggiava la sua identità, e lo spinge ad abbandonarla. I vv. 8-1 1 costituiscono un processo di intensificazione e amplifica­ zione del v. 7.16 Esso è ottenuto sia attraverso alcuni lemmi semantica­ mente più carichi rispetto al v. 7 (ad es� «tutto)) rispetto a «quelle cose», «Sterco-spazzatura)) rispetto a «perdita))), sia per mezzo del ricorso a preposizioni finali e participiali, che rendono pesante la sintassi, con­ correndo però a interpretare enfaticamente la locuzione «a causa di Cristo)). Questo diviene subito evidente dall'incipit del v. 8ab, in cui il precedente «a causa di Cristo)> diviene «a causa dell'eccedenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore». Il cambiamento avvenuto nell 'esistenza di Paolo è stato quindi indotto dalla «conoscenza» di Cristo, che ha una dimensione di valore incommensurabile, di fronte alla quale tutto il resto svilisce, fin da essere considerato alla stregua di spazzatura o sterco. Per «gnosis, conoscenza», si deve intendere, in senso biblico, la relazione di comunione che caratterizza il rapporto di fede con il Dio dell'alleanza. Essa ha qui per oggetto il Cristo, ricono­ sciuto nella fede «Kyrios», Signore universale, qualificato inoltre come «mio», in una formula in cui l'aggettivo indica la relazione interperso­ nale e vitale che intercorre tra l'apostolo e il Cristo.17 È precisamente il tipo di comunione raffigurato da Gal 1 ,16; 2,20. 15 B IANCHINI, L'elogio, 84, si oppone a tale lettura perché, a suo dire, il riferimento all'evento di Damasco avrebbe dovuto richiedere l'aoristo. Non vedo tale ragione come cogente: il perfetto indica comunque un evento passato, sottolineando il perdurare dei suoi effetti; ed è proprio ciò che Paolo intende fare qui. 16 Ben evidenziato da KOPERSKI, The Knowledge, 151 -163. 17 FABRIS, Lettera ai Filippesi, 212.

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La relazione presente di conoscenza con Cristo deve però giungere a un traguardo non ancora goduto, il cui compimento sarà escatolo­ gico. Lo indica la locuzione «essere trovato in lui», che in altri utilizzi paolini risulta esplicitamente metafora dell'incontro escatologico con Dio (cf. 2Cor 5,3). Lo indica anche, dopo una parentetica del v. 9, che affronteremo successivamente, l'ulteriore espressione della finalità del v. 10: «perché io possa conoscere lui . . . )). La conoscenza di Cristo, ossia la relazione di comunione con lui, è, allo stesso tempo, causa generativa e meta di tensione del cambiamento esistenziale avvenuto in Paolo, è un processo iniziato, attuale e finale nella sua vita. Ma in cosa · si rea­ lizza, concretamente, questa conoscenza? Lo chiarisce il seguito del brano ai vv. 10b- 1 1 , disposti in modo da alternare le menzioni di risurrezione-sofferenze-morte-risurrezione. La conoscenza di Cristo è, quindi, partecipazione persona�e al suo mi­ stero pasquale di morte e risurrezione. L'anticipazione, innaturale, della menzione della risurrezione rispetto a quella della morte, e la sua ripresa al v. 1 1 , fanno sì che questa dia il tono ai presenti versetti. Co­ noscere Cristo vuoi dire innanzitutto partecipare della potenza della sua risurrezione, e questo avverrà in modo definitivo in un futuro esca­ tologico. La prospettiva dell'argomentazione è sempre quella della profonda interrelazione tra Cristo e Paolo: nel futuro escatologico essa diviene piena partecipazione di Paolo alla condizione stessa del Cristo risorto (Fi1 3,21 ; cf. anche 1 Cor 15,49) . Ma per il momento tale meta è ancora attesa, la partecipazione alla vicenda di Cristo è, per Paolo, un processo dinamico ancora aperto. Se ciò è vero, diviene altresì rimar­ chevole l'effetto che la risurrezione ha già da ora in tale cammino. Vale a dire: già da ora la potenza della risurrezione opera in Paolo, in attesa del suo compimento escatologico. In sintesi: partecipare alle sofferenze di Cristo è possibile nella forza (sperimentata già ora) della risurre­ zione, ed è sensato nella prospettiva della completa partecipazione alla stessa. D'altro canto, la menzione delle sofferenze permette al discorso paolino di non divenire unilateralmente entusiastico e disincarnato: non vi è comunione con Cristo quando si pretenda di ignorare le sue sofferenze e la sua morte. Questo non va inteso in senso doloristico! Si tratta, piuttosto, di assumere responsabilmente la complessità e la fragilità della storia, al pari di Cristo stesso, che non «ha considerato)) una preda l'essere uguale a Dio, ma è divenuto in tutto solidale con la nostra storia, sino alla morte infamante di croce. Tutti i commentatori riconoscono, nel presente brano, il rincorrersi tanto di espressioni quanto di logica, presenti nel celebre brano cristologico di Fil 2,6-1 1.18 1 8 R . VIGNOLO, «La povertà che arricchisce. I n merito a 2Cor 8,9 e dintorni», in N. CIO LA - G. PULCINELLI ( edd. ), Nuovo Testamento: teologie in dialogo culturale, Fs.

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E poiché in tale brano la morte di Cristo era considerata frutto della sua obbedienza, anche in questo brano Paolo rimarca la sua obbe­ dienza di fede, che lo porta al morire a realtà che prima avrebbe rite­ nuto decisive nel suo rapporto con Dio. Ma questo percorso di perdita ha una meta di vita.19 Per Cristo essa consiste nel suo innalzamento glorioso (Fil 2,9- 1 1 ), per Paolo consisterà nel godere in Cristo della ri­ surrezione dei morti, nell'essere dal Cristo glorioso conformato al suo stesso «corpo di gloria» (Fil 3,21 ) . S e i n Gal 1,13-17 era enfatizzata l a gratuità dell'iniziativa divina, essa non è certo qui dimenticata, poiché le locuzioni «essere trovato in lui», «essere reso conforme» rimandano certamente all'agire di Dio in Cristo, palesato poi al v. 12. Tuttavia l'accentuazione prospettica è qui modificata: presentandosi come esempio ai filippesi, Paolo rimarca la risposta che l'agire di Dio ha richiesto e operato in lui. E questa consiste innanzitutto in un cambiamento di valutazione, in un diverso «consi­ derare», che ritenga la comunione con Cristo quale motivazione cen­ trale, perno di riferimento imprescindibile delle proprie scelte e della propria identità. L'evento di Damasco ha così comportato in Paolo uno stravolgimento nella sua previa comprensione di Cristo, ma non solo. Tale stravolgimento è avvenuto nella sua vita, nel suo insieme di valori, nella considerazione di ciò che vale ed è irrinunciabile e di ciò che, al contrario, può passare in secondo piano. Se già alla lettura di Gal 1, 1317 1'interpretazione che vede il suo effetto in Paolo limitato al solo di­ venire apostolo delle genti si è dimostrata inconsistente, ora essa è definitivamente smentita. Tale questione, infatti, è semplicemente as­ sente nel presente brano che, al contrario, è tutto imperniato sull'iden­ tità del credente Paolo, su ciò che costituisce il criterio di valore determinante la sua esistenza. E questo è dato dalla sua relazione con Cristo. Cristo risorto, incontrandolo sulla via· di Damasco, l'ha afferrato (v. 12) e l'ha di conseguenza coinvolto in una profonda relazione inter­ personale, tale da originare in Paolo gli stessi suoi atteggiamenti di ob­ bedienza e il suo stesso percorso di esposizione alla morte, in cui è possibile sperimentare già da ora la forza della vita, in attesa del suo compimento dopo la risurrezione. Paolo sceglie di far propria tale in­ terrelazione, e può allora ben dirsi «conformato» al mistero pasquale di Cristo e, per questo, alla sua stessa persona, in un processo che lo coinvolge ititeramente, così da configurare la sua intera identità.20 R. Penna ( SupplRivBiblt 50), EDB, Bologna 2008, 287-297, ha poi ben visto come altri brani con tratti autobiografici paolini siano tr�tteggiati sulla base di un . Dal punto di vista dell'antropologia culturale questo risulta un implicito sistema tassonomico di suddivisione delle culture, proprio a molte di esse. 21 Ora, tale suddivisione parte dal sé; vale a dire, il punto 43-69, mette bene in evidenza la centralità cristologica e i suoi effetti argomentativi in brani paolini che contengono dati autobiografici. 21 Mutuo queste riflessioni da A. DESTRO - M. PESCE, Antropologia delle origini cri­ stiane, Laterza, Roma-Bari 1995-2008, 142-143.

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prospetti co è costituito dali 'identità considerata propria. E in tal caso, suddividendo l'umanità tra «ebrei» e «altre genth> significa che Paolo si pone all'interno dell'identità ebraica, fatto che non può essere smen· tito dalla sporadica presenza di altre suddivisioni (ad es. Rm 1 ,14). Per comprendere questi passaggi ci viene incontro il concetto, pure elaborato dall'antropologia culturale, di molteplici livelli di identità.22 Lo spiego con un semplice esempio: io sono biblista, prete cattolico, italiano, friulano . . . Tutti questi aspetti sono elementi della mia identità, che in determinate circostanze possono risaltare in diverse forme agli occhi di una qualche persona che mi osservasse. Ognuno di noi porta in sé molteplici fattori caratterizzanti la propria identità. Convenuto su ciò, si è in grado di comprendere come Paolo possa ritenere che parte della propria identità sia la sua fede in Cristo, sia la sua apparte­ nenza a Israele, e possa anche enfatizzare quest'ultima quando alcune circostanze (leggi: esigenze argomentative) lo richiedano. Da ques�e veniamo confermati nell'idea che Paolo non si presenta come un «con­ vertito»! Ma come comprendere, allora, l'affermazione di Fil 3,7? Si deve compiere un passo ulteriore nel concetto di molteplici iden­ tità, ossia chiedersi se vi possa essere un elemento caratterizzante la per­ sona in modo radicale e continuativo, non episodico. Se vi sia un dato sorgivo della comprensione di sé, dal quale dipendano gli altri, sempre possibili, livelli identitari.23 Non v'è dubbio, da tutto ciò che si è visto sopra, che tale elemento sia determinato dali'incontro di Paolo con il Risorto, che in lui ha comportato un diverso «considerare», da cui sono sorti degli atteggiamenti esistenziali continui, in netto contrasto anche con quelli precedenti. È la fede in Cristo, rivelatore definitivo di Dio e del suo agire, a divenire elemento imprescindibile della vita di Paolo e della sua identità. È ciò che Paolo, nel brano di Filippesi sopra analizzato, indica come «conoscenza di Cristo» e sua pregnanza. Riandando al passo di Fil 3,8, si deve ravvisare come «il tutto», abbandonato e consi­ derato alla stregua di «sterco», lo è quando sia considerato alternativo alla conoscenza di Cristo. Lo è, come ho già avuto modo di sostenere, «Se nella "conoscenza" di Cristo si ravvisa quel valore fondante della propria esistenza, che chiede di rinunciare ad altre possibili ricerche di elementi definitori l'autocomprensione della propria identità».24 E al· 22 Ricordato da C.J. HooGE, «Apostle to the Gentiles: Constructions of Paul's Iden­ tity)), in Biblnt 13(2005), 270-288. 23 Mentre tale questione non traspare dal contributo della Hodge (cf. nota prece­ dente), sembra peri omeno ipotizzata, nello stesso numero della rivista, da C. SETZER, «Does Paul Need To Be Saved?», in Biblnt 13(2005), 289-297 (cf. 295), mentre sembra volutamente ignorato da P. EISENBAUM, «Paul, Polemics and the Problem of Essentia­ lism», in Biblnt 13(2005), 224-238. 24 ROMANELLO, «La "conformazione"», 293.

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lora diviene possibile cogliere la coerenza delle affermazioni paoline: anche la dimensione giudaica della sua identità è sottoposta a un pro­ cesso di revisione valutativa, non diviene elemento centrale della com­ prensione di sé e della propria relazione con Dio. Tutto questo, infatti, è garantito da Cristo e dalla «conoscenza» di lui. A tale livello, fonda­ tivo, essa va abbandonata. Non sono, come invece riteneva Paolo, le «tradizioni dei padri» a garantire il rapporto con Dio e a strutturare di conseguenza la propria identità, bensì lo è Cristo, la cui centralità dev'essere inderogabilmente affermata. Ma quando ciò sia avvenuto, non vi è alcun motivo per rinunciare alla propria ebraicità o svilirla. Essa si rivelerà con un'altra funzione, che i vari contesti argomentativi in cui è affermata chiariranno. Diciamolo subito: anche con una va­ lenza religiosa, se è proprio l'identità ebraica dell' apostolo a essere ri­ vendicata come risposta alla domanda, drammatica, se Dio abbia ripudiato il suo popolo (Rm 1 1 ,1 ) . Non possiamo qui approfondire tale aspetto, rimane a ogni modo basilare ritenere che, anche in tale fran­ gente, la dimensione ebraica dell'identità dell'apostolo non assurge a una dimensione centrale. E proprio perché le entità etniche non di­ vengono. centrali nella definizione del proprio rapporto con Dio, esse devono essere salvaguardate come tali all'interno della comunità dei credenti in Cristo, secondo il noto principio di lCor 7,18. Come a dire, l'ebreo può (e deve) essere credente in Cristo da ebreo, il non-ebreo da non-ebreo: la relazione con Dio non dipende da questi elementi F5 Diviene con questo palese che ciò che riguarda Paolo concerne anche gli altri credenti. Anche per questi la fede in Cristo diviene cen­ trale, e come tale può e dev'essere vissuta nelle varie condizioni cultu­ rali o etniche che, pertanto, continuano a configurare, seppur in modo subordinato, l'identità dei credenti. Tale affermazione è semplicemente fondamentale nel pensiero dell'apostolo. In lui, la sicura convinzione del valore escatologico della mediazione di Cristo disinnesca ogni pre­ tesa di superiorità etnica su base religiosa. Se, al contrario, la pluralità delle etnie non fosse assicurata nella comunità dei credenti in Cristo, ciò equivarrebbe ad accreditare l'idea della superiorità di una di esse, secondo un paradigma diffuso nelle culture dell'antico bacino mediter­ raneo, cui però Paolo non dà mai credito (anzi, in Rm 2,1 7-29 contesta espressamente, perlomeno riguardo all'identità ebraica) .26 Ciò chiarito, la riflessione va tuttavia completata con un'altra con­ siderazione. La caratteristica ebraica, infatti, seppur equiparata a 25 La valenza di questi passi è misconosciuta da L. L. SECHREST, A Former Jew. Pau/ and the Dialectics of Race (LNTS 410), T&T Clark, London-New York 2009, che appella di conseguenza Paolo proprio come «Former Jew». 26 Cf. C.H. CosGROVE, «Did Paul Value Ethnicity?», in CBQ 68(2006), 268-290.

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quella pagana a livello di configurazione fondamentale della propria relazione con Dio, e in questo valutata come inane, non lo è in altre dimensioni. Come già fugacemente visto, elementi della fede ebraica sono sicuramente presenti nell'universo determinato dalla fede in Cri­ sto. Di più, sono proprio le categorie ebraiche a rendere comprensibile la portata della sua risurrezione. Da ciò consegue che l'universo sim­ bolico ebraico permane nella realtà determinata dalla fede in Cristo, e che questo è significativo non solo per chi giunge a essa da giudeo, bensì anche per il credente che proviene dalle genti. Valga per tutti qui l'esempio costituito dalla figura di Abramo, da Paolo considerato «padre» di tutti i credenti in Cristo, sia quelli provenienti dall'ebraismo come quelli provenienti dalle genti (Rm 4,1 -25; Gal 3,6-18.29). Non deve sfuggire che il riferimento a una figura mitica originaria è un ele­ mento caratterizzante l'identità sociale, come visto sopra (c. 1 ) . Signi­ fica allora, cotne recentemente sostenuto da alcuni, che i credenti provenienti dalle genti sono inclusi nell'identità sociale costituita dai credenti ebrei, ossia che ricevono «un 'affiliazione con Israele. Essere in Cristo significa essere una parte di Israele» ?27 Siffatta tesi è smentita categoricamente dalla mera lettura del dettato paolino, che legge la promessa biblica ad Abramo di divenire «padre di molti popoli» come padre di due entità etniche distinte, che devono rimanere tali proprio affinché la promessa si realizzi (Rm 4,1 6- 17; cf. Gen 1 7,5) .12. Ciò chiarito, la domanda si ripropone: quale spazio la dimensione ebraica conserva concretamente nella definizione identitaria dell'in­ sieme dei credenti in Cristo? Domanda che ha due declinazioni: una teologica, ossia riguardante gli elementi del credo di Israele presenti e rielaborati nel pensiero paolina, e una storica, concernente i rapporti che l 'insieme dei credenti in Cristo hanno con gli ebrei. Presumibil­ mente, quest'ultimo aspetto può avere delle manifestazioni diverse in Paolo (e negli altri giudeo-cristiani) rispetto alle sue comunità, preva­ lentemente etnico-cristiane (ricordiamoci che egli si definisce apostolo delle genti !). La questione teo-logica, importantissima, richiede una riflessione apposita, che abbiamo già anticipato sarà svolta al capitolo 6. II pensiero, tuttavia, emerge da un vissuto. Ed è proprio tale vissuto cui diamo qui un fugace sguardo di tipo storico, senza alcuna pretesa di esaustività, ma con l'obiettivo limitato di evincere alcuni elementi utili per l'insieme della presente ricerca. 27 C.J. HooGE, lf Sons, Then Heirs. A Study of Kinship and Ethnicity in the Letters of Paul, Oxford University Press. New York 2007, 106. 28 Così W.S. CAMPBELL, Pau/ and the Creation of Christian ldentity (LNTS 322}, T&T Clark, London-New York 2006, 59. D'altronde la stessa HoDGE, lf Sons, Then Heirs, 143 e 149, riconosce che Paolo non ritiene che le genti in Cristo divengano ebree: ma questo dovrebbe portare a un ripensamento dell'asserzione sopra citata.

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Parto dal constatare che le comunità cristiane nascono in ambito ebraico, e che come comunità di ebrei si aprono al mondo pagano. Ciò avviene, secondo la narrazione lucana, ad Antiochia (At 1 1 ,20), ma è presumibile che non sia un fatto solamente colà limitato. Quando, in­ fatti, l'imperatore Claudio espelle alcuni ebrei dalla capitale dell'im­ pero, lo fa, a detta di Svetonio, per i tumulti sorti «per istigazione di Cristo» . L'interpretazione e la datazione dell'episodio riferito nel ce­ lebre passo sono oggetto di discussione, ma un allontanamento da Roma di un certo numero di ebrei è confermato anche dal racconto lucano (At 18,2). Questo significa che, al tempo, la comunità ebraica poteva comprendere al suo interno, pur con frizioni e tensioni, dei cre­ denti in Cristo.29 Le cose però cambiano nel giro di una ventina d'anni, quando Nerone attribuisce la responsabilità dell'incendio di Roma ai cristiani e ne ordina la persecuzione (64 d.C.). In tale frangente essi costituiscono ormai un gruppo identitario distinto da quello ebraico e in sé riconoscibile.30 Queste vicende indicano come anche nel vasto territorio dell'im­ pero, e non solamente nelle regioni della Siria e della Palestina, le co­ munità cristiane nascessero nell'ambito costituito dall'ebraismo, risultando come uno tra i «molti movimenti o sette giudaiche, tra esse in competizione».31 Ritengo che anche la missione paolina non fosse esente da questa regola. Ciò sarebbe inteso dal libro degli Atti, se­ condo cui Paolo inizia la sua predicazione dalla sinagoga; tuttavia tale informazione, per motivi che qui non è possibile scandagliare, è posta oggi in seria discussione, ritenuta rispondente più a una preoccupa­ zione teologica lucana che non a un'attenzione a un obiettivo dato sto­ rico. In aggiunta, è vero che Paolo, lo rammento, si qualifica «apostolo delle genti», e che in diversi passi del proprio epistolario denota il com­ plesso dei membri delle sue varie comunità come ex pagani, non-ebrei ( 1 Cor 12,2; Gal 4,8; lTs 1 ,9). Rimane tuttavia incomprensibile il mo­ tivo di un'eventuale aprioristica sua preclusione nei confronti degli ebrei, la cui presenza nelle sue comunità può essere suggerita da vari

29 Cf. M. QuESNEL, «Conflits d'identité chez les chrétiens de la Rome antique», in O. ARTUS - J. FERRY (edd.), L'identité dans l ' Écriture, Fs. J. Briend (LD 228), Cerf, Paris 2009, 339-341. SVETONIO ne parla nella sua Vita dei dodici cesari: Claudio 25, mentre DIONE CASSIO ne offre un resoconto diverso nella Storia di Roma 60,6,6. Nell'insieme c1 R. PENNA, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione

ragionata (La Bibbia nella storia 7), EDB, Bologna 52006, 277-280. 30 Quando Paolo scrive la sua lettera alla comunità di Roma (anni 57/58) essa è ve­ rosimilmente una comunità mista: cf. R. PENNA, L'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teo­ logia, Ed. Paoline. Cinisello Balsamo 1 991, 69-70. 31 W. A. MEEKS, «Judaism, Hellenism and the Birth of Christianity>>, in T. ENGBERG­ PEDERSEN (ed.), Pau[ beyond the Judaism/Hellenism Divide, Westminster John Knox, Louisville-London-Leiden 2001 , 26.

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indizi. Ad esempio, nella comunità di Corinto, di sicura prevalenza et­ nica, si registra, per un certo periodo, la presenza di Aquila e Priscilla, ebrei fuoriusciti da Roma (At 18,2; cf. l Cor 16,19). Della stessa comu­ nità fa parte un certo Crespo (lCor 1,14), che potrebbe essere addirit­ tura il capo della locale sinagoga (At 18,8). In l Cor 7,18 è paventata l'eventualità che qualcuno sia stato chiamato alla fede in Cristo da cir­ conciso, ciò che, pur costituendo una possibilità generale, può ben rap­ presentare un caso possibile in tale comunità. Più in generale, le dense argomentazioni scritturistiche paolinc. presenti in diverse sue lettere, presuppongono un uditorio almeno in parte già avvezzo alle stesse.32 Non ritengo pertanto provata la tesi secondo cui «per quanto Paolo ritenesse che la chiesa altro non fosse se non la realizzazione della speranza di Israele, quell 'affermazione comporta la separazione delle comunità cristiane da quelle giudaiche»:'·� Essa. infatti, confonde il piano teologico con quello storico. Affermare la centralità di Cristo, nei termini sopra visti, e la conseguente visione della realizzazione dell a speranza di Israele, aspetto che in seguito analizzeremo, è sem­ plicemente fondamentale a livello teologico, e comporta un'autoco­ scienza nei credenti in Cristo che li porta a distinguersi tra i vari giudaismi del tempo. Ma da ciò concludere che essa implichi un 'im­ mediata separazione de facto tra le due comunità, in sé chiaramente distinte, è una deduzione non conseguente. Inoltre, va chiarito che la distinzione concettuale non significa una necessaria contrapposizione con gli stessi. Al contrario, le comunità dei primi credenti in Cristo paiono acco­ munate da una traiettoria che le pone ai loro inizi in relazione con il mondo ebraico, e in seguito in distinzione, talvolta marcatamente po­ lemica, con lo stesso. Il primo stadio della traiettoria pare logicamente implicato dalla comune condivisione con ciò che abbiamo definito «l'universo simbolico ebraico» ,34 e si realizza in diverse forme secondo le differenti locazioni geografiche. L'evoluzione, che porta alla distin­ zione tra le comunità, avviene anche qui in modo non uniforme. È ve­ rosimile che fatto scatenante in questo sia stato l'ingresso degli appartenenti alle genti nella comunità cristiana, di cui Paolo è pala-

32 Con ciò non nego la possibilità di alcune comunità i cui membri erano quasi in­ teramente di provenienza etnica, ciò che complica ulteriormente il quadro storico; cf. R. PENNA, Paolo e la Chiesa di Roma, Paideia, Brescia 2009, 55. 33 G. JossA, Giudei o cristiani? I seguaci di Gesù in cerca di una propria identità (SB 142), Paideia, Brescia 2004, 143. Per ultimo, va ricordata la colletta che Paolo organizza nelle comunità a favore della chiesa di Gerusalemme, evidenziando così il legame con il mondo ebraico: cf. W.S. CAMPBELL, «Perception of Compatibility between Christianity and Judaism in Pauline Interpretation», in Bib/nt 13(2005), 3 1 1 . 34 Così anche CAMPBELL, Paul and the Creation o/ Christian /dentity, 66-67.

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dino, ma i cui inizi sono a lui precedenti (leggi: la comunità di Antio­ chia). E come per Paolo, così per tali inizi essi vanno ascritti alla fede nel Cristo risorto e alle sue implicazioni, e non a un'eventuale apertura culturale degli ebrei della diaspora, maggiore rispetto a quella degli ebrei della Palestina, fattore storicamente tutto da dimostrare. 35 Un inserimento di non-ebrei all'interno delle comunità caratterizzate dalla matrice ebraica potrebbe essere stato, secondo un recente studio, un fatto abbastanza tranquillo, grazie a una possibilità offerta dalla legi­ slazione ebraica agli stranieri di divenire Gher Toshav. Questi sono stranieri soggetti alle leggi noachiche, rimanendo però appartenenti ai propri popoli d'origine, in questo distinti dal Gher Sedeq, proselite in senso stretto.36 Sfortunatamente le fonti che chiariscono tale distin­ zione sono tardive: infatti, solo nel Talmud babilonese (bAZ 64b ), che contiene materiale sino al V secolo, la categoria del Gher Toshav è esplicitamente formalizzata come lo straniero che accetta di fronte a tre saggi di assoggettarsi ad alcune leggi, la cui estensione è comunque oggetto di discussione. È invece vero che vi è, nella letteratura rabbi­ Dica, un vasto riferimento alle leggi noachiche, e che l'espressione «figli di Noè» appare già nella Mishnah (mNed 3 , 1 1 ) , ma l'estensione e l'ap­ plicabilità di questa categoria sono questioni dibattute, che non mi sembrano offrire, allo stato attuale, conclusioni definitive. L'apertura dei credenti in Cristo ai pagani ha invece rappresentato un fattore sorgivo di innumerevoli e aspri dibattiti, come appare dal­ l'insieme del Nuovo Testamento, e alla definizione delle comunità cri­ stiane dall'originale identità ebraica nella forma di una lacerazione dolorosa. Essa produrrà, nella storia, due entità identitarie differen­ ziate, la chiesa delle genti e il giudaismo rabbinico, che non rappresenta la mera riproposizione del variegato mondo dei giudaismi del I secolo, ma un'evoluzione peculiare. Su questo mi sembra vi sia un ampio e motivato consenso tra gli interpreti. 37 Le lettere paoline ravvisano molti di questi dibattiti, senza tuttavia segnalare ancora la rottura. Non va certo dimenticato quanto esse rimarchino la ragione cristologica,

35 Così giustamente JossA, Giudei o cristiani?, 139. La centralità del fattore cristo­ logico e le conseguenze dello stesso sono ben delineate da D. G. HoRRELL, «''No Longer Jew or Greek". Paul's Corpora te Christology an d the Construction of Christian Com­ munity», in D.G. HoRRELL - C.M. TucKETI (edd. ), Christology, Controversy and Com­ munity, Fs. D.R. Catchpole (NT.S 99), Brill, Leiden-Boston 2000 , 32 1 -344. 36 CA MPBE LL Pau/ and the Creation of Christian ldentity, 56. 37 Cf. J. ÀDNA, «lntroduction», in lo. (ed.), The Formation of the Early Church (WUNT 183), Mohr Siebeck, Tiibingen 2005, 1-15; D. MARGUERAT, «lntroduction», in lo. (ed.), Le déchirement. Juifs et chrétiens au premier siècle (Le monde de la Bible 32), Labor et Fides, Genève 1 996, 7-22; A. RUNESSON, «lnventing Christian Identity: Paul, Ignatius, and Theodosius 1», in B. HoLMBERG (ed.), Exploring Early Christian ldentity (WUNT 226), Mohr Siebeck, Tiibingen 2008, 59-92. ,

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che permette alle genti l'inclusione nella comunità dei discepoli in un piano assolutamente paritario con gli ebrei. Ciò costituisce di fatto un motivo di autodefinizione che porterà inevitabilmente a una differen­ ziazione con l'insieme di coloro che pongono al centro della propria identità la legge con i suoi precetti etnicamente discriminatori. Molti fattori, ad esempio nella Lettera ai Romani, indicano un processo di risocializzazione dei credenti rispetto all'originaria matrice sociologica, a iniziare dallo stesso riunirsi dei credenti in ekklesiai, assemblee do­ mestiche (cf. Rm 16,5 . 1 1 . 14.15). Vanno poi menzionate le affermazioni paoline che qualificano i credenti come chiamati dai giudei e dalle genti (Rm 9,24), o che parlano dei membri di Israele alla terza persona (Rm 9,3-4), affermazioni tutte che implicano una certa distinzione tra credenti in Cristo e Israele.-'x Tuttavia. lo rihadisco. l ' i nsieme dei dati, se alla fine conduce a ritenere assurda la q u a l i fica dci credenti in Cristo quale parte dell'Israele sociologico. non autorizza altresì a dichiarare avvenuta la separazione delle vie tra le due entità. CONCLUSIONI Il percorso di questo capitolo ha permesso di appurare che l'evento determinante per l'esistenza di Paolo è stato il suo incontro con il Ri­ sorto sulla strada di Damasco. Esso ha generato una nuova compren­ sione d eli 'identità di Dio, e una conseguente nuova comprensione dell'identità di sé. Entrambe non sono veicolate dalle tradizioni dei padri, interpretative della Torah, bensì proprio dal Crocifisso risorto, che è appellato «Figlio» a titolo unico. Tale novità è ben espressa in Ga1 1,13-17, ove è enfatizzata la gratuità di Dio, che costituisce il per­ secutore apostolo, e comunque ricorda la subitanea risposta di Paolo a questo evento, e da Fil 3,4- 1 1 che, pur non dimenticando la dimen­ sione gr a tuita dell'evento, sottolinea proprio lo stravolgimento della scala di valori che esso ha causato nell'apostolo. A seguito di ciò Paolo è divenuto apostolo delle genti, ma la portata dell 'evento non è a que­ sto limitabile. Piuttosto, l'essere apostolo delle genti diviene la conse­ guenza delle nuove priorità che colà sono state scoperte. Tale novità, a ogni modo, non giunge a fare di Paolo un «convertito». Egli, infatti, non rinuncia né al suo credo, né alla sua identità ebraica. Più corretta­ mente, li riconfigura attorno a un altro dato divenuto decisivo, il Ri­ sorto che Dio ha rivelato in lui e al quale egli è continuamente conformato.

38 Cf. PENNA, Paolo e la Chiesa di Roma, 53-70.

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La valenza della risurrezione di Cristo non è limitata alla singola persona dell'apostolo, ma conforma la sua intera teologia, poiché ha lo stesso rilievo per l'insieme dei credenti. Non può essere altri­ menti, data la valenza escatologica della risurrezione. I credenti, per il fatto stesso di aderire al Cristo risorto, sono inseriti nella m anife­ stazione escatologica dell'opera di Dio verso l'umanità. Al pari dell'apostolo, ciò comporta anche per loro una ridefinizione delle proprie dimensioni iden titarie, anche etniche. L'universo simbolico di Israele non è con questo abbandonato, bensì ricategorizzato at­ torno al perno cristologico. Dalla Pasqua, momento centrale e fondante, Paolo può rivolgere uno sguardo retrospettivo all'insieme della vicenda di Cristo, ad esem­ pio anche al suo invio da parte del Padre (Rm 8,3; Gal 4,4), ma non v'è dubbio che questo riceva il suo senso ultimo dalla Pasqua. Per­ tanto l'evento-Cristo, a volte considerato globalmente, ma sempre nell'orizzonte pasquale, inaugura la «pienezza dei tempi» (Gal 4,4) o, con un'espressione equivalente, «la fine dei tempi» (l Cor 10, 1 1 ) . Ben­ ché ciò costituisca solamente una protessi del definitivo trionfo della vita, è indiscusso che questo sia irrevocabilmente sancito dalla risur­ rezione di Cristo. Credere in Cristo vuoi dire, allora, partecipare di quel dinamismo di vita dischiuso dali' evento della risurrezione. È una novità radicale, resa possibile solamente dall'iniziativa di Dio. Si com­ prende così il vocabolario della «kaine ktisis, nuova creazione)), ap­ plicata metaforicamente all'esistenza dei credenti (2Cor 5,17; Gal 6,15), che esprime in maniera plastica la novità escatologica che ormai determina la loro esistenza. La modalità di ciò dovrà essere declinata, e lo vedremo in seguito, ma non vi è dubbio sulla radicale significati­ vità della risurrezione di Cristo per la loro esistenza. Non per questo Paolo dimentica che il Dio della risurrezione di Cristo è anche il Dio creatore, che pertanto non può rinnegare la sua creazione. In 2Cor 4,6 l'identità del Dio che ha chiamato dalle tenebre la luce e del Dio che fa risplendere la fede nel cuore di Paolo è esplicitamente stabilita. Con ciò è anche detta l'importanza del «cuore)), «luogo)), per così dire, creaturale dell 'individuo, in cui la novità escatologica si manifesta. Al contempo va rimarcato che l'io dell'apostolo è radicalmente rinno­ vato da questo evento, ne è contrassegnato in modo indelebile, nei termini prima analizzati.39 Per questa serie di ragioni Paolo, pur non rinunciando a parlare di speranza, radica tale linguaggio in una di­ mensione prioritaria e costitutiva, che è ciò che Cristo ha realizzato

39 Cf. W. SCHRAGE, Studien zum Theologie im l. Korintherbrief, Neukirchener, Neu­ kirchen 2007, 130-131.

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per noi ed è accolto per fede ( Rm 5,1-2). Lo sguardo al futuro è così interamente informato da quello sul passato.40 Avevo acconsentito, già dal pri mo capitolo, con chi ritiene neces­ sario rinvenire un centro della riflessione paolina, con la precisazione che questo non consiste in un qualche elemento concettuale, bensì in un evento di rivelazione concernente la figura di Cristo Signore. Questo capitolo ha confermato come l'incontro con il Risorto, essendo pre­ se n tato in termini così decisivi, funga da c rite r io dirimente l'esistenza p a olina e la sua comprensione, e diven ga conseguentemente criterio o rganizzativo del suo pensiero. È stato da tempo sosten u to che la vo­ cazione di Paolo è stata l'evento origi nante della sua t eologia;41 il pre­ sente capitolo ha permesso di ve r i fi c a re la fon d a tezza di questo assunto, con la precisazione che con ciò non si deve i n t en dere che essa sia stata già interam ente predctcrn1 i n a t a d a tale c i rcost a nza. La rifles­ sione paolina, va ricordato, è pur scn1 pre occasionata. r isponde a esi­ genze comunicative spe.c i f iche dell'apostolo con le sue comunità. Piuttosto l'incontro con il Risorto risulta aver fornito il criterio erme­ neutico irrinunciabile attorno al quale tale riflessione si articolerà.

40 Cf. D UNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 453-457; PENNA, Vangelo e incultura­ zione, 732-734. 41 C. DIETZFELBINGER, Die Berufung des Paulus als Ursprung seiner Theologie (WMANT 58), Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 1985; cf. anche S. KIM, Paul and the New Perspective. Second Thoughts on the Origin of Paul's Gospel (WUNT 140), Tiibin­ gen 2002; R. PENNA, «L'originalità del pensiero di Paolo di Tarso», in G. GHIBERTI (ed . ), Paolo di Tarso a 2000 anni dalla nascita, Effatà, Torino 2009, 61-79.

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Capitolo 3

L'evento sorgivo. 2. La tnorte di Cristo

A LL' ORIGINE DELL�ANNUNCIO: l COR 1 5 ,3-5

Introducendosi all'argomentazione di lCor 15, Paolo esplicita­ mente richiama l'oggetto dell'ann uncio proprio sia a lui, sia agli altri appstoli (v. 1 1 ) . È ciò che leggiamo ai vv. 3-5: «A voi infatti ho tra­ smesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici». Si tratta di una formula di fede tradizionale, come indicato da Paolo stesso, che la qualifica come «ricevuta», presumibil­ mente dalla comunità di Antiochia durante il suo soggiorno in tale co­ munità negli anni 40. Non si può escludere che essa risalga ad anni ancora precedenti, e alla stessa comunità originaria di Gerusalemme: �n fondo Paolo indica che tale annuncio è comune a lui e agli altri apo­ stoli, ivi compresi quelli gerosolimitani. Ciò che è qui detto costituisce un fattore accomunante le missioni dei primi testimoni di Cristo, pur nella possibile varietà di declinazioni delle stesse, risultando quindi semplicemente come essenziale. Tale priorità di valore è indicata sia dall'«anzitutto, en protois», con cui la formula è introdotta, sia dalle righe previe di Paolo, che legano la salvezza escatologica proprio al­ l'adesione a questa formula salvaguardata nella sua integrità ( vv. 1-2). Composta in un parallelismo in stile paratattico, che ottiene un ritmo incalzante, la formula è imperniata sui due verbi di morte e ri­ surrezione, specificati con delle formule preposizionali, rispetto alle quali le menzioni della sepoltura e delle apparizioni suonano alla guisa di appendici probative.1 La morte di Gesù è espressa con un aoristo 1 Oltre ai commentari, si vedano le pregnanti osservazioni di R. PENNA, I ritratti ori­ ginali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, 1: Gli inizi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 1 97-201 . Ciò che ho definito come appendici non sono comunque inessenziali: cf. M. HENGEL, «Das Begrabnis Jesu bei Paulus und die leibliche Auferstehung aus dem Grabe» , in F. AVEMARIE - H. LICHTENBERGER (edd. ) , Auferste­ hung - Resurrection. The Fourth Durham - Tubingen Research Symposium Resurrec-

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(apethanen ) , indicando la definitività di tale evento, la risurrezione con un perfetto ( egegertai), che denota la permanente condizione di vi­ vente di Colui che è risorto, nonché con un passivo divino, a ricordo della risurrezione come opera del Padre (cf. v. 15). Importante la qua­ lifica ripetuta «kata tas graphas, secondo le Scritture», che situa l'evento pasquale di Cristo sulla linea dell'opera salvifica di Dio atte­ stata nelle Scritture di Israele, che con ciò stesso sono valutate come sintoniche con l'evento sorgivo della fede cristiana. Leggere qui che l'annuncio della risurrezione è essenziale non desta meraviglia, in forza delle considerazioni sviluppate al capitolo precedente, anzi, ne costituisce un'eccellente conferma. Da notare però che ugualmente rilevante è il ricordo della morte di Cristo: per Paolo, come per la prima generazione cristiana che sta dietro a questa formula, la gioia del mattino pasquale non annulla il dramma del Ve­ nerdì santo e non ne legittima l'oblio. Non si tratta solo di dire la morte in croce di Cristo come fatto fenomenico. Tale notizia avrebbe potuto essere detta, ad esempio, anche da quelle autorità giudaiche che ave­ vano tramato per causare la morte di Gesù e che, stando alle narra­ zioni sinottiche, erano ai piedi della croce per schernirlo nelle sue pretese messianiche. Sulla loro bocca essa non avrebbe costituito nes­ sun lieto annuncio di una salvezza in questo veicolata! Se i missionari cristiani annunciano una morte, devono motivare anche come essa possa essere parte del progetto salvifico divino, fino a costituirne, se­ condo l'espressione di Paolo, il perno essenziale della sua manifesta­ zione. Devono accompagnare la notizia del fatto con un 'interpretazione dello stesso che, tenendo conto del suo carattere di insensatezza e scan­ dalo agli occhi umani ( 1 Cor 1 , 18-31 ! ) , affermi in esso la manifesta­ zione, sicuramente paradossale, dell'agire salvifico divino.2 Certo, siffatta interpretazione è resa possibile, innanzitutto, non da una qual­ che brillante teoresi, ma dall'evento della risurrezione, che costituisce la conferma divina delle pretese messianiche di Gesù e manifesta in­ derogabilmente come Dio si riveli facendo trionfare la vita proprio nel Crocifisso, come visto sopra.3 Ma l'evento della risurrezione non rende superflua la menzione della morte, al contrario, la rende dicibile.

tion, Transfiguration and Exaltation in O/d Testament, Ancient Judaism and Early Christi­ anity (Tubingen, September 1999) (WUNT 135). Mohr Siebeck Tiibingen 2001 , 1 19-183. 2 Così anche J. FR EY «Probleme der Deutung des Todes Jesu in der neutestament­ lichen Wissenschaft. Streiflichter zur exegetischen Diskussion», in J. FREY - J. SCHROTER ( edd. ) Deutungen des Todes Jesu im Neuen Testament (WUNT 181 ) Mohr Siebeck; Til­ bingen 2005, 44-50. 3 Così anche J. ScHROTER, «Siihne, Stellvertretung und Opfer. Zur Verwendung ana.­ lytischer Kategorien zur Deutung des Tode s Jesu», in FREY - SCHRÙTER (edd.), Deu­ tungen des Todes Jesu im Neuen Testament, 51-71. ,

,

,

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.

Ciò è vero per tutto il Nuovo Testamento, che sviluppa al proprio in­ terno svariate ermeneutiche della morte di Gesù, in forme narrative o argomentative, cosicché morte e risurrezione vengono a costituire i due poli inscindibili d eli 'unico evento pasquale. Ed è vero anche per Paolo, la cui ermeneutica andiamo qui a indagare. U NA MORTE «DONO PER

(HYPER)»

Già la formula kerygmatica riportata da Paolo, asserendo che Cri­ sto morì >: come il Servo la vive a favore del popolo, così Cristo per l'intera uma­ nità. È questo a rendere il suo evento pasquale decisivo e salvifico per la stessa. Si potrebbe osservare come qui stia riammettendo di fatto un certo senso di rappresentatività nella comprensione delle formule­ hyper. Ma proprio a questo punto ritorna utile la distinzione tra piano squisitamente grammaticale e piano teologico. L'idea di rappresenta­ tività non è immediatamente espressa dal costrutto grammaticale, ma è indotta da considerazioni teologiche più ampie. A ogni conto, il senso guadagnato per questa via non è contraddetto da quello grammaticale, che resta quello fondamentale, governante tutte le possibili ulteriori specificazioni. A commento delle formule-hyper, l'esegesi e la teologia di lingua tedesca usano il termine Stellvertretung, di fatto entrato nella lettera­ tura scientifica internazionale, che di per sé indica supplenza, sosti tu­ Lione, essere al posto di qualcun altro. Molti però riconoscono la

1 4 Cf. PuLCINELLI, L a morte di Gesù, 124-140. 15 Diverso invece il TM: «intercedette per i peccatori, lapos'im yapgia')), 16 Cf. PENNA, Lettera ai Romani 1-5, I, 412-413; PIITA, Lettera ai Romani, 203; più

possibilista PuLCINELLI, La morte di Gesù, 144-145 e, in riferimento a lCor 15,3-5, 1951 98. Tuttavia proprio la mera diversità di preposizioni dovrebbe cautelare dal postulare intertestualità tra Isaia e il kerygma: cf. BREYTENBACH, «"Christus starb ftir uns")), 470.

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potenziale ambiguità insita in tale lemma, poiché essere «al posto di» può indicare sia un «mettersi al fianco di altri» come un «sostituirsi ad altri».17 Nel primo caso esprime adeguatamente il concetto di solida­ rietà rappresentativa sopra elaborato (e che qui è preferito), nel se­ condo direbbe invece una vicarietà sostitutiva che il dettato paolino non esprime. Il presente libro si distanzia decisamente da chi lo usa in tal senso. Si veda ad esempio Rohser, che asserisce la necessità di una vicarietà sostitutiva dell'umanità peccatrice a causa della logica insita nei precetti cultuali stabiliti da Dio stesso. 18 Ma che la logica cultuale anticotestamentaria sia retta da tale mentalità è una cosa tutta da veri­ ficare. In aggiunta, la sua trasposizione al pensiero paolino va fatta con cautela, poiché le fonnule-hyper non traggono origine dall'ambito cul­ tuale! Rimandando a breve alcune considerazioni al riguardo, si possono già ritenere spiegazioni come questa metodologicamente discutibili. La morte di Cristo è dono interpersonale, manifestazione culmine della sua partecipazione solidale alla vicenda dell'umanità, e riscattata dalla sua risurrezione che inaugura i tempi nuovi; in tale polarità in­ scindibile di morte/risurrezione si ritrova, per Paolo, l'evento da cui i credenti si riscoprono totalmente dipendenti, il fattore da cui la loro identità ed esistenza dipende. Raggiunti dal dono della vita di Cristo, i credenti configurano a esso la propria esistenza. Alcune plastiche for­ mulazioni paoline lo riassumono succintamente, come ad esempio 1Cor 1 ,30: «Da lui [Dio Padre] voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è divenuto sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e re­ denzione . . . >> . In realtà il versetto è la prima parte di una frase relativa, che conclude il movimento di pensiero che invita a vantarsi dinanzi a Dio, e che suffraga tale invito con un riferimento a Ger 9,22-23 al verso successivo. Questi accenti si rendono necessari in un'argomentazione tesa a smontare una considerazione eccessiva dei predicatori cristiani e un 'identità di gruppo definita esclusivamente in relazione agli stessi, causando così divisioni comunitarie (cf. l , 1 1 -12). A ciò Paolo risponde ricordando che fondamento dell'identità credente è Cristo crocifisso, paradossale manifestazione della sapienza e della potenza di Dio (1,18-31). Nel versetto in esame egli poi focalizza la condizione dei cre­ denti, che ha origine in Dio Padre («da lui, ex autou», «per opera di Dio, apo Theou») e ha la propria consistenza in Cristo. La locuzione «en Christo; Iesou, in Cristo Gesù» ha certo, come in 1 ,2, valore stru­ mentale, indicando che Cristo è il mediatore dell'opera del Padre a nostro vantaggio. Ma in virtù dell'accento sul nostro essere, e a causa

17 18

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Cf. FREY, «Probleme der Deutung», 22 e 26; PuLCINEll.l, La morte di Gesù, 42-47. RùHSER, Stellvertretung, 128-135.

della rilevanza che analoghe formulazioni hanno nel pensiero di Paolo (come sarà esaurientemente dimostrato al capitolo 5), essa mi sembra anche comportare un certo valore sociativo, indicando la condizione credente come partecipazione alla stessa persona e opera di Cristo. Si potrebbe così dire che «la proposizione presenta la·situazione soterio­ logica dei corinzi in termini di himmanenza" cristologica».19 Tutto questo è stato reso possi hile da ciò che Cristo «egenethe hemin, è divenuto per noi», frase sintetica che riassume la centralità soteriologica di Cristo e del suo evento pasquale, come nel percorso fin qui svolto è apparsa. Il dativo hen1il1 . essendo di vantaggio, esprime lo stesso concetto dell'hyper hemi)n so p ra analizzato. Come a dire che il dono di Cristo, la sua partecipazione solidale alla vicenda umana cul­ minata nella morte e riscattata d a l l a risurrezione. è fecondo per i cre­ denti. Permette a loro di essere «in ( :risto» proprio perché egli, dapprima, è divenuto «in Admno». Siffatto processo ha delle pregnanti ricadute esistenziali. incontra e modella la vita credente in termini assolutamente nuovi. E l a rgisce a questi i doni della giustizia, ossia della possibilitfl di relazione con il Dio giusto, della santificazione, che è opera dello Spirito Santo di Dio nell'individuo, e della redenzione, ossia della liberazione. del riscatto da una condizione previa raffigurata in termini negativi. Offro così sin­ teticamente delle note per la comprensione essenziale di termini im­ portanti per la nostra indagine, su cui ritornerò. Lo faccio perché, comprese le linee guida della logica del passaggio, possiamo prestare attenzione alla forza della locuzione paolina, che non afferma sola­ mente che Cristo ha donato a noi la giustizia ecc. , bensì che «è dive­ nuto per noi sapienza [ . . . ] giustizia, santificazione e redenzione . . . ». Si ha qui una ripetuta metonimia (che può trovare un antecedente in Ger 23,6), con cui Cristo stesso è qualificato come interamente modellato dalle qualità che ci dona, depositario personale delle stesse. E mentre la prima qualità, quella della sapienza, è indotta retoricamente dal con­ testo argomentativo, le tre successive raffigurano beni soteriologici che, come vedremo, sono semplicemente essenziali per gli individui. Tali doni sono compresi nel dono di Cristo, in ciò che lui è divenuto per noi, e al contempo il suo dono comporta in sé la comunicazione di 19 G. BARBAGLIO, La Prima lettera ai Corinzi (S OC 16), EDB, Bo1ogna 1995, 150. In genere, per le diverse posizioni, cf. i commenti di R.F. CO L LI NS , First Corinthians (Sacra pagina 7), Liturgica! Press, CollegeviUe 1999, 1 12; R. FABRIS, Prima lettera ai Co­ rinzi (LibBibNT 7), Ed. Paolinc, Milano 1999, 48; J.A. FITZM YER, First Corinthians (AnchB 32), Yale University Press, New Haven - London 2008, 164; E.J. ScHNABEL, Der erste Brief des Paulus an die Korinther, Brockhaus-Brunnen, Wuppertal-Giessen 2006, 144-145; W. ScHRAGE, Der Erste Brief an die Korinther (EKK 7), Neukirchener, Neukir­ chen-Vluyn 1991, I, 213-215.

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tali benefici. La comprensione sociativa della locuzione «in Cristo Gesù» sembra così confermata. Paolo sintetizza felicemente, in questo passo, due sguardi. Il primo è rivolto a Cristo, a ciò che egli ha operato per noi, la sua pro-esistenza culminata nella morte hyper e riscattata dalla risurrezione. Il secondo è rivolto a noi, a ciò che questo comporta per la nostra esistenza, che risulta così essenzialmente dipendente da ciò che il primo sguardo co­ glie. Formulazioni analoghe possono essere lette, ad esempio, in l Cor 6,1 1 o 2Cor 5,2t e dicono che queste concettualizzazioni non sono ele­ menti episodici, ma costituiscono un leitmotiv del suo pensiero. Ora, se le mie considerazioni sono sostanzialmente corrette, si è giunti a delle acquisizioni essenziali per la presente ricerca. Lo statuto e la con­ dizione dei credenti sono direttamente dipendenti dall'opera di Cristo, sono frutto del suo dono, non come prodotti estrinseci dello stesso, ma come partecipazione a ciò che lui ha operato, alla sua stessa persona. Per descrivere poi tale statuto, Paolo potrà adoperare vari codici lin­ guistici. In 1Cor 1 ,30 l'ha fatto fugacemente, in modo cumulativo, al­ trove potrà dedicare estese righe alla descrizione di alcuni di questi termini. Per la loro comprensione sarà necessario rifarsi comunque a ciò che abbiamo sin qui argomentato, proprio perché essi risultano alla guisa di frutti della radice costituita da Cristo e dalla sua opera. Di seguito offro alcune chiarificazioni, che ritengo necessarie, su al­ cune delle categorie talvolta presenti in Paolo, per passare nei capitoli successivi a un esame .analitico di quelle più estesamente adoperate. LE METAFORE COMMERCIALI

Uno dei termini adoperati in lCor 1 ,30 è apolytrosis, che letteral­ mente indica il pagamento per la liberazione di una persona, prigioniera o schiava. Paolo lo utilizza ulteriormente solo in Rm 8,23, ove denota la futura liberazione escatologica dalla morte, in un senso non perti­ nente alla nostra ricerca, e in Rm 3,24. Quest'ultima ricorrenza compare in un testo per noi molto interessante, che nei vv. 23-25a riporto: Thtti infatti peccarono, e sono privi della gloria di Dio, [ ma ] sono giu­ stificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione (apo­ lytrosis) che è in Cristo Gesù, che Dio pose pubblicamente come propizia torio, mediante la fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia . . .

I l passo, ricordando l a manifestazione della giustizia di Dio, spiega l'importante enunciato del v. 21, illustrandone le modalità. Si tratta di un dono gratuito, come rimarcato dalla ripetizione enfatica «gratuita70

mente per la sua grazia», elargito a coloro che, causa il proprio peccato, si trovano privati della gloria di Dio e immeritevoli di ottenere tale dono. Su ciò ritorneremo estesamente" basti per ora collegare questa espressione con quanto appena detto per verificare come a questo pensiero soggiaccia la concezione della pro-esistenza e della morte so­ lidale di Cristo. È il suo dono a essere qui rimarcato con categorie lin­ guistiche che declinano i suoi diversi effetti (o i molteplici aspetti di un unico, fondamentale, beneficio) per noi. Qui è importante rilevare la nuova ricorrenza di apolytrosis. E analogamente al passo di ! Co­ rinzi, si deve riconoscere chiaramente come manchino diverse infor­ mazioni per comprendere compiutamente i termini di questa evocata operazione commerciale, cioè chi l'abbia operata. quando, con quale prezzo e a chi esso sia stato versato. Sottolineo in particolar modo la mancanza della dimensione del prezzo:211 il sangue successivamente menzionato non può essere considerato tale, poiché non è al genitivo di prezzo e soprattutto perché è connesso con l'affermazione seguente, di tipo cultuale, e non con il sostantivo apolytrosis. Si ha pertanto un utilizzo metaforico del lemma, in cui non ogni aspetto della transazione commerciale è rilevante, bensì solamente quelli che il contesto eviden­ zia.21 Retroterra di tale utilizzo può ben essere rappresentato dall'An­ tico Testamento greco, in cui i lemmi della radice lytro- possono indicare un atto salvifico da parte di Dio, senza che egli paghi alcunché a chicchessia (ad es. Es 6,5-7 ove, al pari del corrispettivo ebraico gtfal, il verbo lytroomai non può voler dire altro che «liberare»). La considerazione su li 'utilizzo metaforico del termine è ugual­ mente pertinente ad altri del campo semantico delle transazioni com­ merciali, quali l'affine exagorazo (Gal 3,13; 4,5) o il verbo semplice agorazo, acquistare (lCor 6,20; 7,23). È vero che in queste ultime due ricorrenze il prezzo è menzionato, ma in realtà non viene definito, mentre è ancora taciuto il destinatario dello stesso. per cui l'utilizzo di tali termini rimane in am bito metaforico. Cìli aspetti che in tale meta­ fora sono comunicati connotano la nostra esistenza come:

20 Come già notata, in questo e al tri contesti, du S. LY( )NNF.T - L. SABOURIN, Sin, Re­ demption, and Sacrifice. A Biblical tmtl l'atri.\· tic· .\'rwly ( A n B i h 4R ) , Biblical lnstitute Press, Roma 1970, 78- 1 03. Diversamente L H i ASSF, / . ' f.'pì.\·to/a tLi Paolo ai Romani, 1 97; PITIA, Lettera ai Romani, 164- 1 65. 21 Cosl anche D.F. TOLM IE, «Salvation as Rcdcmption: the Use of "Redemption" Metaphors in Pauline Literature>>, in VAN D F H WArT (cd . ) . Salvatian, 247-269. Cf. anche LOHSE, Der Brief an die Romer, 1 62; PENNA, i.e/l('rtl ui Romani 1-5, l, 331-332; WILCKENS, Der Brief an die Romer, I. 189. Tale aspetto è misconosciuto da S. FINLAN, The Back­ ground and Content of Paul's A tonement Metaphors. Society of Biblical Literature, Atlanta 2004, 164-169, a mio avviso davvero singolarmente, date le sue belle annotazioni sulla metafora alle pp. 1 56- 1 5 7 .

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- Frutto di un evento di liberazione. Il dono di Cristo fa sì che i cre­ denti siano liberati da una condizione non-salvifica. Nel passo della Lettera ai Romani la drammaticità della stessa è espressa . dalla locu­ zione «tutti peccarono» che, come si vedrà, è a sua volta espressione di uno status di drammatica alienazione da Dio, di privazione della possibilità di accedere a una relazione con lui e la sua gloria. Nei passi della Lettera ai Galati è invece in vista la sanzione che la legge com­ mina su questo stato di cose. lCor 7,22 (con i versetti precedenti) in­ dica che il senso della metafora è proprio quello di designare il credente alla guisa dello schiavo liberato. - Inserita in una nuova relazione, con Cristo e con Dio. La libera­ zione non è fine a se stessa, ma inserisce in una nuova signoria, dal te­ nore diverso, salvifica e vivificante. l Cor 6,20; 7,23 lo affermano plasticamente, esortando i credenti a non sottometter.si a un'esistenza autocentrata o a pretese di uomini, proprio perché la loro esistenza è determinata dal nuovo status in cui sono inseriti. Ogni credente, infatti, è «doulos Christou, schiavo di Cristo» ( l Cor 7,22). Detto altrimenti, le metafore commerciali equivalgono alla termi­ nologia della libertà e all'uso che di questa fa Paolo. Egli afferma con forza che l'esistenza cristiana è, grazie alla partecipazione all'evento pasquale di Cristo, liberata da signorie e condizioni non salvifiche, e al contempo che è inserita in una nuova relazione che la determina. La libertà cristiana è così, a un tempo, libertà da e libertà per. Liberati dal peccato, i credenti possono vivere la loro esistenza come servizio, alla giustizia e a Dio (Rm 6,18.22). Ciò che non è palesato in questi passi è la comprensione della morte di Cristo come prezzo necessariamente pagato per rompere il legame non salvifico che imprigiona e schiavizza l'umanità.22 Gli interpreti che lo asseriscono misconoscono il carattere della metafora che, tra imma­ gine descrittiva e realtà denotata dall'immagine, non crea corrispon­ denze complete, bensì analogie mirate. E proprio l'omissione di tanti particolari nel linguaggio commerciale adoperato da Paolo in tali con­ testi ci orienta negli intenti a lui propri e nella direzione su cui deve muo­ versi la nostra interpretazione. Voler colmare i suoi silenzi e integrare i particolari da lui omessi equivale a voler coartare nei nostri schemi ciò che è significante nella sua voluta indeterminatezza. Senza contare che il passo per giungere ad asserire che Cristo sarebbe il sostituto di un prezzo che noi dovremmo pagare con le nostre vite è, in tal modo, peri-

22 Così, invece, G. RòHSER, «Erlosung als Kauf. Zur neutestamentlichen LOsegeld­ Metaphorik», in M. EBNER - P.D. HANSON (edd.), Gott und Geld (JBTh 21), Neukirche­ ner, Neukirchen-VIuyn 2007, 161-191.

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colosamente breve, ma decisamente arbitrario. Si tratta, come visto, di letture che non sono in alcun modo intese dal dettato paolino. LE METAFORE CULTUALI

Tornando alla lettura del passo di Rm 3,23-25a, riscontriamo che il pensiero prosegue asserendo che Cristo è stato posto da Dio quale «hi­ lasterion, propiziatorio». S'introduce così un pensiero denso e sin tattica­ mente sovraccarico, uno dei segnali che fanno intuire come Paolo stia riferendosi a una tradizione preesistente e. al contempo, nel riportarla la precisi con alcune sue annotazioni. Questa tesi è stata suffragata con buoni motivi, e condivisa dai più, per cui no n è necessario discuterla qui. Diviene invece importante capire cosa s'intenda con i l lemma hilasterion, nella convinzione che, una volta che Paolo riporta formule tradizionali, lo fa perché comunque sono espressione anche dd suo pensiero. Il lemma, nel Nuovo Testamento, ricorre solo qui e in Eh 9,5. Per le sue possibili denotazioni sono state proposte le seguenti alternative: - Una sorta di offerta votiva. D Questa è infatti l'accezione comune del termine nella grecità extrabiblica, ove indica un oggetto di varie dimensioni, da una statua a un qualcosa di molto più modesto, eretta o donata alle divinità a esaudimento di voti fatti in situazioni di biso­ gno di svariato genere. Ovviamente l 'utilizzo del tema sarebbe forte­ mente metaforico, considerando che Dio stesso rende Cristo come offerta! Tale senso sarebbe sicuramente stato compreso da ogni lettore ellenista, come quello costituito dali 'uditorio originario della Lettera ai Romani. Tuttavia non si può supporre, in detto uditorio, l'ignoranza delle istituzioni, dei personaggi e della terminologia biblica , visto il diffuso riferimento a ciò presente proprio nella lettera. Di conse­ guenza l 'interprete non deve necessariamente ricercare spiegazioni di termini e immagini al di fuori del mondo biblico. Che il nostro passo serva poi a giustificazione della manifestazione della giustizia di Dio «senza la legge» (Rm 3,2 1 ) nuovamente non prova che la legge, ossia le Scritture di Israele, non costituisca un ambito per delucidare i ter­ mini del passo: si pensi solo al capitolo 4 della lettera, che fa ampio ri­ corso alla figura scritturistica di Abramo per giustificare proprio l'enunciato di 3,2 1 . Per finire, è proprio il seguito del pensiero, con il riferimento ai peccati, al sangue . . . , che evoca l'immaginario cultuale biblico, indicando al lettore che questo è l'ambito ove trarre la spie­ gazione alla questione. 23 S. SCHREIBER, «Das Weihegeschenk Gottes. Eine Deutung des Todes Jesu in Rm 3,25» in ZNW 97(2006), 88-1 10.

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- Entrando nel mondo biblico, è stato proposto che il termine in­ dichi un 'espiazione dei peccati altrui alla guisa dei martiri maccabei. 24 Effettivamente, nel testo non canonico di 4Mac 17,20-22, la loro morte è qualificata esplicitamente come hilasterion ( . . . dia . . . tou hilasteriou [tou l thanatou autou . . . ) . Essi sono tali perché le loro vite sono date al posto dei peccati del popolo, con il risultato che esso è stato preservato. Tale concetto, di vita data al posto dei peccati (antipsychon), altrove presente nel testo (cf. 6,28-29), immette tuttavia un'esplicita valenza vicaria che anche il presente passo paolino, al pari di quelli sopra esa­ minati, ignora totalmente. Implicitamente, a monte di siffatto pensiero vi è l'idea di un Dio che debba essere placato-rabbonito, e che il dono della vita sia, in fondo. a ciò funzionale. Questa è l'idea resa esplicita nelle parole dell'ultimo dei fratelli uccisi dall 'empio re Antioco IV Epi­ fane in 2Mac 7,37-38. Anche questo è del tutto assente nel passo pao­ lina, che non ha per soggetto Cristo il quale, alla maniera del martire, offre se stesso a Dio, ma ha per autore Dio stesso che, in qualche ma­ niera, dona pubblicamente Cristo come hilasterion. Il minimo che si possa dire è che dietro non c'è un Dio che agisce per ira, ma piuttosto per amore o, con la terminologia appena adoperata, «gratuitamente per la sua grazia». Ciò non è passato inosservato anche ai fautori di questa interpretazione, che ipotizzano di conseguenza differenze, piani metaforici ecc. Ma a ben vedere, se questi martiri ebrei sono raffigurati come hilasterion, questa è già una metafora, che fa ricorso a un lemma non nella sua accezione profana, bensì cultuale biblica, e opera una trasposizione al dono della vita dei perseguitati da Antioco. Perché e in che termini la metafora possa funzionare si può cogliere solo iden­ tificando il senso originario del termine, e verificando di seguito quale dimensione dello stesso permette al lemma di funzionare in senso me­ taforico, dapprima nel contesto del libro dei Maccabei e, successiva­ mente, in quello paolina. Ora, le peculiarità del lemma specifiche n eli 'uso fatto dal libro dei Maccabei, ossia la sua valenza vicari a e l'idea del Dio placato, sono invece totalmente assenti in Paolo, tali da rendere poco significativo il riferimento a questa letteratura. O meglio, l'unica dimensione che accomuna 4Mac 14,20-22 e Rm 4,25 è l'appli­ cazione di una terminologia cultuale in un ambito che non lo è.25 Come poi funzioni questo riferimento lo chiariscono i diversi contesti lette­ rari, e qui le analogie si fermano.

24 T. SòDING, «Siihne durch Stellvertretung. Zur zentralen Deutung des Todes Jesu im Romerbrief», in FREY - ScHRùTER (edd.), Deutungen des Todes Jesu im Neuen Tes­ tament, 375-396. 25 Come riconosciuto dai più; al riguardo si vedano le articolate considerazioni di PuLCINELLI, La morte di Gesù, 158-175.

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- La maggior parte degli studiosi scorge qui innanzi tutto un riferi­ mento a quella che è la primaria denotazione del lemma nel testo bi­ blico. Nella LXX esso traduce l'ebraico kapporet, che indica propriamente la parte superiore dell'arca, aspersa dal sommo sacer­ dote, nel giorno dell'espiazione (yom hakkippurim ) , con il sangue del­ l'animale sacrificato per il perdono dei peccati (Lv 16,14-17).26 Letteralmente il lemma denota quindi il propiziatorio, ossia la parte superiore dell'arca. Ma apporre a Cristo tale qualifica sarebbe un as­ surdo non-senso se questa non giocasse a livello fortemente metaforico; è proprio il senso della metafora che finalmente andiamo a individuare. È necessario partire dalla co m p n ; n s i on c del culto, e più precisa­ mente del dinamismo sacrificate sottcso al giorno dell'espiazione, per affrontare la questione.27 Ora, la categoria sacrifica le biblica, come rias­ sunta ad esempio in Lv 7,37, include diverse tipologic di atti cultuali, tra i quali si annovera anche la minbah. ossia l'offerta di primizie, so­ prattutto vegetali, e il millufm, ossia la consacrazione sacerdotale. Men­ ziono queste due realtà perché in esse non vi è presente la macellazione di un animale, a significare chiaramente che l'essenza del sacrificio bi­ blico non è data da un atto di violenza canalizzato su un capro espia­ torio. La teoria di René Girard sul sacrificio non sembra interpretare adeguatamente la teorizzazione biblica, per cui assumerla come strut­ tura soggiacente a ogni discorso sul sacrificio, o sull'interpretazione sacrificate della morte di Cristo, è scorretto.28 Piuttosto, all'interno della relazione di alleanza, da Dio graziosamente instaurata con il po­ polo, il rituale sacrificate serve al popolo per poter entrare in comu­ nione con Dio, in modi e tempi da lui stabiliti. Alla santità di Dio, infatti, non si accede arbitrariamente o per mezzo di funzioni magiche, ma obbedendo alle condizioni da lui stesso poste, che regolano sin nel dettaglio tutti i vari tipi di culto esercitati in Israele, in circostanze ri­ correnti o straordinarie. Certo, tra queste ampio spazio hanno i sacrifici che prevedono l'uccisione di un animale, la quale è poi contemplata in tutte le forme di sacrificio per il perdono dei peccati. Questo non perché una qualche violenza pun i t i v a sia intesa da chicchessia, ma per 26 Su tale linea J.D.J. DUNN , La teo loKia ciel/'apo.\'tolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, 225-236 (or. ingl. Edinburgh 1998); FINLAN. nu· HackRrotmcl, 128 e 155-157; T. KNùP­ PLER, Sii.hne im Neuen Testament. Studien zwn urdz ri.\·t/ichen Verstiindnis der Heisbedeu­ tund des Todes Jesu (WMANT 88), Neuk irchcner. Neukirchen-Vluyn 2001 , 1 1 3- 1 17; LYONNET - S AB OU RIN , Sin, Redemption, 1 55- 1 oo. 27 Mi giovo qui degli ampi studi di I. CARDELLINI, l sacrifici dell'antica alleanza. TI­ pologie, rituali, celebrazioni, San Paolo. Cinisello Balsamo 2001 e G. DEIANA, Il giorno dell'espiazione. Il Kippur nella tradizione biblica (SupplRivBiblt 30), EDB, Bologna 1994. � Così, invece, R.G. HAMERTON-KELLY, Sacred Violence. Paul's Hermeneutic ofthe Cross, Augsburg Fortress, Minneapolis 1992, 80-82.

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la concezione ebraica che il sangue è la sede della vita, e Dio dona la sua vita, la comunione e il perdono per mezzo di esso (Lv 17,11- 14). Questo è già palese in Es 24,6.8, che può essere considerato il sacrificio idealtipico che suggella l' alleanza tra YHWH e il popolo: il sangue asperso sull'altare e sul popolo indica una comunione di vita tra Dio e il popolo. Lo stesso meccanismo soggiace poi a Lv 16, 14-17, con la ripetuta aspersione del propiziatorio. Si noti che non è un sangue qual­ siasi a espiare, ma quello che riceve il proprio significato dal luogo santo, ove Dio si rivela per elargire il suo perdono. Da ciò che si è visto, seppur fugacemente, sono emersi due capi­ saldi per comprendere il sacrificio in Israele: l) esso non serve per pla­ care una supposta ira della divinità. Esso agisce sul peccato, non su Dio ! ; 2) nemmeno ha alcun significato vicario, in cui l'uccisione del­ l'animale, al posto del peccatore, acquisti un senso decisivo. Certo, nell'insieme del racconto di Lv 16 vi è anche la menzione di un se­ condo capro, inviato nel deserto ad Azazel, che sembra assumere su di sé i peccati del popolo in modo vicario (vv. 7-10.20-22) . Ma questo non è parte del rito sacrificale del giorno dell'espiazione, ma è da molti ritenuto un'aggiunta o una conflazione di un'altra usanza a tale rito. Si può agevolmente rilevare il modo alquanto maldestro di tale aggiunta, che interrompe sequenze descrittive lasciando spazi non colmati e, so­ prattutto, suscita una domanda estremamente seria sull'efficacia del rito dell'espiazione, giacché si avverte il bisogno di un altro animale che assuma su di sé il peccato del popolo. Sta di fatto che, celebrando il sacrificio dell'espiazione, Israele non manda il capro nel deserto, e quindi ciò che viene detto di questo non si può applicare all'animale destinato veramente al sacrificioF9 Solo a questo punto possiamo porci in modo pertinente la do­ manda: come può Cristo essere qualificato come hilasterion ? Se il sa­ crificio biblico trae il proprio significato dal luogo santo ove è offerto e dalle modalità, stabilite da Dio nella sua legge, con cui è svolto, ciò è totalmente assente nella morte in croce di Cristo ! Essa, infatti, avviene perché voluta da uomini, non da Dio. e non evoca in alcun modo la santità di Dio preservata nel suo tempio. Proprio per questo Paolo, in Gal 3,13, l'ha potuta qualificare come paradossale maledizione, che è esattamente il contrario dell'immaginario sacrificate. Ciò asserito, si deve però aggiungere che proprio in tale modo, assolutamente estra­ neo alla logica sacrificale-cultuale, giungono all'umanità quella comu-

29 Curiosamente DuNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 232-233, lo riconosce, ma sostiene ugualmente che l'animale sacrificato rappresenti vicariamente l'offerente pec­ catore!

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nione e quel perdono che il sistema sacrificate ambiva a conseguire. Qualificare Cristo hilasterion, di conseguenza, equivale a operare una metafora che rapporta gli effetti realmente conseguiti con la morte di Cristo a quelli ricercati dai sacrifici sull'antico propiziatorio dell'arca. Fenomenologicamente, Cristo non è un sacrificio cultuale. Di fatto, ot­ tiene proprio ciò per il quale l'antico sistema cultuale era finalizzato, e questo spiega la ragione della metafora. L'apposizione del termine hilasterion a Cristo non può, quindi, portare a leggere nella sua morte l'interezza delle categorie sacrificali bibliche (fatto peraltro impossi­ bile), né tantomeno quelle desunte dallo studio antropologico di altri riti. La sua funzione è di dichiarare raggiunti in Cristo gli obiettivi per­ seguiti dal culto sacrificate. In tal modo Paolo opera anche una valutazione di quel rituale. Poi­ ché Cristo, con il dono della sua vita, ha ottenuto ciò che l'antico pro­ pizia torio intendeva ottenere, con ciò stesso questo è reso desueto. Precisamente, in modo positivo, il passo paolino afferma che grazie a Cristo riceviamo il dono della giustificazione, dell ' accesso alla rela­ zione con il Dio giusto, e, negativamente, che è così superato ciò che è contrario a essa, ossia la nostra situazione di peccato. Ora, tutto questo avviene «nel suo sangue» (locuzione dal valore strumentale) e non nel sangue degli animali sacrificati secondo il rituale cultico. Di più, è il concetto stesso di santità e di gloria di Dio a essere riconfigurato, dal momento che Dio si rivela non in un luogo asettico, pensato in modo tale da salvaguardare la sua santità, ma nel dramma e nello scandalo di una morte in croce. Definire Cristo crocifisso hilasterion suppone la definitiva frantumazione del velo del tempio, inteso proprio a pre­ servare la santità di Dio dalle miserie profane (Mc 15.38 parr. ). ossia la dichiarazione definitiva dell'inutilità della sua funzione. Questa valenza soggiace agli altri esigui passi in cui metafore sa­ criticali sono presenti. Essi sono Rm 8.3. in cui la locuzione peri ha­ martias pare influenzata dal l i n gu agg io della LXX. ovc regolarmente rende l'ebraico h(t nel senso. mctonirn ico. di «sacrificio per il peccato>> {ad es. Lv 5,6.7. 1 1 ecc.; 1 65.6.9. 1 1 ccc. ). O anche I Co r 5.7. ove Cristo è qua'lificato come «nostra pa s4 u a » ossia l a g n ello immolato alla festa di Pasqua. In entrambi i casi è ind icato ciò che il dono della vita d� Cri­ sto ha efficacemente ottenuto. ossia il supcramento dell'antica situa­ zione di peccato e la possibi lità conseguente di un cammino di vita orientato in senso nuovo. Altre n1 c t a fore cultuali non mi sembrano presenti nelle lettere paoline indisputate e, seppur altri passi possano essere discussi, globalmente essi sono comunque esigui. Certamente non è cultuale l 'immaginario sotteso alle locuzioni-hyper. Come sopra visto, esse qualificano la morte e l'intera esistenza di Cristo come dono-per, come donazione interpersonale, senza alcun indizio testuale .

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che le relazioni all'universo cultuale.30 Considerazioni a sé stanti me­ riterebbe la pericope sull'ultima cena, l Cor 1 1 ,23-26, ma esulano dai presenti interessi. Nell'insieme, l'esiguità di tale linguaggio si può com­ prendere per l'assoluta novità rappresentata dalla morte di Cristo ri­ spetto a esso, la sua presenza come attestazione della rilevanza delle realtà in esso significate. Ma, una volta applicato all'evento Cristo, ne consegue una sua ridefinizione radicale. In sintesi, si può convenire con chi asserisce che le categorie cultuali non sono, in Paolo, quelle centrali per l'interpretazione della morte di Cristo. Sono, piuttosto, categorie ricche di potenzialità metaforiche, che si completano reciprocamente con altre per dire che nella morte di Cri­ sto Dio ha operato in maniera definitiva per la salvezza dell'umanità.31 CONCLUSIONI Paolo, al pari di tutti i primi cristiani, si trova nella necessità di in­ terpretare il fatto, in sé scandaloso, della morte di Cristo. La sua più originale ed estesa interpretazione è veicolata dalle formule-hyper, ori­ ginali sviluppi di ciò che già esprimeva il kerygma di l Cor 15,3. Da esse la morte di Cristo è compresa come autodonazione personale, cul­ mine di una pro-esistenza solidale che, poiché tale, è benefica per l'in­ tera umanità. È la successiva risurrezione a rendere possibile tale interpretazione, e tuttavia la risurrezione non annulla il dramma della morte, ma lo rende dicibile come portatore di una valenza salvifica propria. Morte e risurrezione giungono così a costituire due poli in­ scindibili dell'unico evento pasquale. Suo frutto è l'elargizione ai cre­ denti del bene salvifico della comunione con Dio e del superamento di ciò che le si oppone, il peccato. Tutto questo può essere espresso anche con metafore commerciali o cultuali, che non applicano alla morte di Cristo tutti gli aspetti sottesi a una transazione commerciale o al culto sacrificate normato dall'Antico Testamento, ma evidenziano l'aspetto salvifico basilare costituito dalla morte di Cristo che, come detto, consiste nel perdono dei peccati e n eli' accesso alla comunione con Dio. In nessuna di queste locuzioni è espressa una comprensione vicaria della morte di Cristo, quasi che egli sia passato attraverso la morte in sostituzione di noi peccatori, né una satisfattoria, come se essa fosse servita a placare un Dio irato. AI contrario, l'evento pasquale di Cristo, con il suo effetto salvifico per noi, pare quale culmine inar­ rivabile del progetto di amore del Padre per l 'umanità. 30 Cf. C. B REYTENBACH, Versohnung. Eine Studie zur paulinischen Soteriologie (WMANT 60), Neukirchener, Neukirchen 1989. 31 Cf. PuLCINELU, La morte di Gesù, 355-370; ScHRòTER, «Silhne», 70.

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Capitolo 4

I credenti: giustificati e riconciliati

I NTRODUZIONE

Si è visto sopra come Paolo utilizzi varie categorie per descrivere la nostra esistenza raggiunta dall'evento Cristo. Alcune di queste sono particolarmente pregnanti, e fra esse vi è quella della giustificazione. Ciò non è dovuto solamente all'importanza che essa ha assunto nel pensiero degli interpreti, da Lutero all'esegesi scientifica dell'Otto­ Novecento, come ricordato nel primo capitolo, ma anzitutto per un in­ dubbio spazio teoretico che l'apostolo le riserva in alcuni passi. In questo capitolo ci addentriamo in tale rilevante linguaggio, prendendo in esame le sue ricorrenze nella Lettera ai Galati e in quella ai Romani, per concludere con un fugace accenno a un tema che risulta a esso molto affine, quello della riconciliazione. L A GIUSTIFICAZIONE NELLA LETTERA AI G ALATI

Dopo un exordium fortemente polemico, tanto da omettere l'usuale preghiera di ringraziamento, l'argomentazione della Lettera ai Galati è lanciata da una prima propositio in 1,1 1-12,1 che sostiene come il van­ gelo paolino non sia determinato da canoni umani. e spiega innanzitutto tale assunto con una narrazione della sua origine, divina e non umana, e con ciò che questo ha comportato nelle relazioni con gli apostoli di Gerusalemme. Ma quando si gi unge alla narrazione del cosiddetto in­ cidente di Antiochia (2. 1 1 - 1 4 ). in cui Paolo rimprovera Cefa per essersi ritirato dalla commensalità con i pagani. il tema dell'origine del vangelo non è più in vista, in quanto l'attenzione è ormai volta alle sue implica­ zioni nella condotta di vita concreta, alle conseguenze che il vangelo in­ genera nella comprensione del nostro rapporto con Dio. In tale contesto è introdotto, in 2,15-21, il tema della giustificazione, in una pericope con1 Cf. A. PnTA, Lettera ai Galati (SOC 9), EDB, Bologna 1996, 80-81.

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cettualmente densa, la cui indole argomentativa la distingue da quella precedente, narrativa, e da quella seguente, imperniata su apostrofi. No­ nostante essa si presenti come continuazione diretta delle parole rivolte da Paolo a Pietro ad Antiochia, il discorso si generalizza. Lo indicano la mancata chiarificazione dell'esito di quel confronto, lasciando così spazio in 3,1ss a un diretto appello ai destinatari della missiva, e il pas­ saggio dal «tU» del v. 14, con cui Paolo si rivolge a Pietro, al «noi/io/nes­ suno». L'omogeneità della pericope è infine rimarcata dall'inclusione tra i vv. 16 e 21 con i termini giustizia-Cristo-legge. . Essa recita così: Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non dalle opere della Legge; poiché dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. Ma se noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, Cristo è forse ministro del peccato? Non sia mai! Se, infatti, ciò che ho distrutto torno a costruire, mi denuncio come trasgressore. In realtà, mediante la Legge io morii alla Legge, per vivere per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi amò e consegnò se stesso per me. Dunque non rendo vana la grazia di Dio; in­ fatti, se la giustizia viene per mezzo della Legge, Cristo è morto invano?

La funzione del brano è discussa. Molti vi vedono l'enunciato te­ matico della successiva argomentazione, ma l'aggancio con la situa­ zione di Antiochia impone di considerare questi versetti in funzione ricapitolativa di ciò che è stato sin ora asserito. Qui, infatti, si declinano le implicazioni teologiche sottese all'incidente di Antiochia, e non solo. ma a tutta la narrazione precedente, come molti commentari non man­ cano di notare. 3 L'inizio di questo brano è uno di quelli �n cui Paolo si pone tra i «giudei di nascita», non rinnegando la sua appartenenza ebraica. Di più, egli adotta provvisoriamente una convinzione del giu­ daismo del tempo, che si differenziava dai pagani, ritenuti «peccatori»,

2 Cf. B . CoRSANI, Lettera a i Galati (CSANT 9), Marietti, Genova 1990, 160-1 81; J.D.J. The Epistle to the Galatians, Black, London 1993, 131 -150; S. LÉGASSE, L'Ép'itre de Pau/ aux Galates (LD 9), Cerf, Paris 2000 , 167-204; J.-P. LÉMONON, L'Épitre aux Galates ( CBNT 9), Cerf, Paris 2008, fJ7-1 06; J.L. MARTYN, Galatians ( AnchB 33a ), Doubleday, Ne w York-London 1997, 246-280;A. PnTA, Lettera ai Galati (SOC 9), EDB, Bologna 1996, 138158; A. VANHOYE, Lettera ai Galati (LibBibNT 8), Ed. Paoline, Milano 2000 , 67-74. 3 J.-N. ALETII, «Galates 1-2. Quelle fonction et quelle démonstration?», in Bib DUNN,

86 (2005 ) , 305-323, sostiene originalmente la compresenza di caratteristiche, riepilogative del percorso precedente ed enunciative di quello successivo.

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ossia in uno status di privazione del rapporto con Dio e della sua alle­ anza, normata dalla legge.4 Tuttavia, aggiunge subito Paolo, questa con­ vinzione non ha impedito a lui, a Pietro e ad altri ebrei di aderire a Cristo. Infatti l'affermazione principale del v. 16 è «eis Christon Iesoun episteusamen, abbiamo creduto in Cristo Gesù)), con un aoristo ingres­ sivo che denota un'azione iniziata nel passato con un seguito attuale. Ora, tale azione determina una riconfigurazione della previa dimen­ sione identitaria e della sua comprensione; lo afferma con forza la ri­ petuta antitesi tra fede in Cristo e opere della legge riguardo alla giustificazione, come ribadita nelle dipendenti causali e finali che at­ torniano la frase principale. 5 Qui molte discussioni si aprono. Una, che non può essere adegua­ tamente investigata, concerne il senso della locuzione pistis lesou Chri­ stou, fede di Gesù Cristo, che la traduzione ha reso in senso oggettivo, ossia fede in Cristo. In realtà un numero crescente di autori sta avan­ zando la tesi di un genitivo soggettivo. interpretandolo come fedeltà/affidabilità di Cristo.6 Ma una dimensione oggettiva è qui ri­ chiesta proprio dal verbo principale, che indica il nostro aderire di fede a Cristo. Questo è il corrispettivo personale deli' opera di Dio in Cristo per noi, indicata dal verbo «dikaioumai, sono giustificato», che nelle tre ricorrenze del versetto è regolarmente al passivo divino. Su tale verbo si concentra l'attenzione. Esso è formato dalla radice dik- e da un suffisso fattitivo, indicante quindi un'operazione che rea­ lizza condizioni di giustizia nei soggetti cui essa è rivolta. Il verbo può essere utilizzato in contesti giudiziari, ove allora equivale ad assolvere, riconoscere l 'innocenza di un imputato. Questa accezione precisa non può, tuttavia, essere data per scontata quando il contesto non la palesi, e in questo passo non c'è nulla in tal senso. Il verbo, allora, mantiene un senso generico, significando basilarmente «essere trattati in quanto giusti (da Dio)». Bisogna spendere un paio di righe sul concetto, qui

4 Cf. M. WINNINGE, Sinner and Righteous. A Comparative Study of the Psalms of Solomon an d Paul's Letters, Almqvi st & Wiksc l l . Stock holm 1 995, 244-252. 5 Proprio l'antitesi impone di considerare la locuzione ean me, nella frase «l'uomo non è gius tifi c ato dalle opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cri­ sto», con il senso avversativo di «ma soltanto». J.D.J. D uNN , The New Perspective on Paul. Collected Essays (WUNT 1 R5 ) . Mohr Siebeck, TUbinge n 2005, 102-103, di fatto giunge alla medesima conclusione. ritenendo che Paolo giochi retoricamente tra il senso di «eccetto che», condiviso da Pietro e dai suoi interlocutori ad Antiochia, e quello av­ versativo, a lui proprio e a cui intende condurli. In ogni caso è quest'ultimo a essere prioritario. 6 Ad es., su questo passo cf. MARTYN, Galatians, 270-273. In gene rale per più arti­ colate considerazioni, che valutano il genitivo come complesso, cf. R. VIGNOLO, «La fede portata da Cristo. Pistis Christou in Paolo», in G. CANOBBIO (ed.), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 , 43-68. ,

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implicato, di giustizia. Tale concetto è sicuramente rel�ionale.7 Per es­ sere giusto «COn>> un soggetto significa che sono in relazione con lui, e che tale relazione comporta diritti e obbligazioni reciproci. Secondo la conosciuta definizione di Ulpiano, giurista del III secolo, la giustizia consiste nel «dare a ciascuno il suo», prevedendo così che tra gli indi­ vidui vi sia una relazione insita, il rispetto delle cui condizioni è quali­ ficato come «giustizia». La realtà assolutamente sorprendente, nella locuzione paolina, è che Dio ci tratta/considera/rende giusti, ci inserisce in una relazione con sé, e lo fa lui (verbi al passivo divino!) senza che a noi venga richiesto alcunché. Linguisticamente, vi è probabilmente un retroterra ebraizzante, ossia il verbo all'hiphil causativo «hi�dfq, essere resi giusti dai peccati» (cf. Is 53, 1 1 ; Sir 26,29; Test. 12 patriarchi: Sim 6, l ; i n aggiunta si consideri il Sal 143,2, liberamente riportato nel nostro versetto). A ogni modo, l'accento del passo paolino non v erte imme­ diatamente sul peccato, nemmeno menzionato, ma sulla relazione per­ sonale con Dio che egli stesso instaura con gli individui. 8 Siamo di fronte a una relazione retta da ciò che Barbaglio ha definito efficace­ mente come «codice del gratuito».9 Essa si palesa in tali termini in forza dell'evento Cristo, della sua autodonazione personale che giunge sino alla morte, per aprirci in questo la possibilità della comunione con Dio. Come visto sopra, le categorie soteriologiche paoline suppongono l 'evento Cristo e la sua dimensione sorgiva, e ne declinano gli effetti per l'esistenza dei credenti; il discorso della giustificazione entra pie­ namente in tale quadro.10 La gratuità dell 'agire divino si manifesta in modo incommensurabile nell'evento pasquale di Cristo, e ci rende con­ sapevoli, proprio in tale frangente, che la nostra realtà di giustizia di fronte a lui, di possibilità di relazione con lui è dovuta a tale sua incon­ dizionata benevolenza. Il corrispettivo personale di tale agire è la fede, l'affidarsi grato a ciò che egli ha operato per noi, il porre ed esporre la nostra esistenza alla sua opera. Ciò è propriamente inteso dalla locu­ zione «fede in Cristo»: è apertura fiduciale alla persona di Cristo, al suo evento pasquale e a ciò che esso ha significato per noi.

7 Come è insito nel concetto stesso, anche greco, e non solamente ebraico, come so­ litamente detto dai commentatori. Su questo cf. S. ROMANELLO, «La giustizia di Dio in Rm 1 , 1 6-4,25: concezioni in conflitto?», in R. FABRIS (ed.), «La giustizia in conflitto», in Ricerche storico-bibliche 14(2002 ) , 280. s Cf. W. POPKES, «1\vo Interpretation of "Justification" in the New Testament. Re­ flections on Galatians 2,15-2 1 and James 2,21-25», in StTh 59(2005), 139. 9 G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare (La Bibbia nella storia 9), EDB, Bologna 1 999, 585. 1° Così anche C. BREYTENBACH, Versohnung. Eine Studie zur paulinischen Soterio­ logie (WMANT 60), Neukirchener, Neukirchen 1989, 193-204; R. PENNA, I ritratti origi­ nali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, 2: Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999 , 146.

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La giustificazione, invece, non è mediata dalle «erga nomou, opere della legge». Incontriamo qui per la prima volta un'espressione ricor­ rente nei contesti in cui Paolo parla di giustificazione, su cui ritorne­ remo in seguito. La questione è chiedersi come mai questa esclusione delle opere della legge dal processo di giustificazione, tenendo conto che essa è costantemente reiterata da Paolo, il quale mai pone il dono della giustizia, come di altri beni salvifici, «ex ergon nomou, dalle opere della legge» (Rm 3,20; 4,2; 9,32; 1 1 ,6; Gal 3,2.5. 10), anzi, positivamente afferma che essi ci giungono senza di queste (Rm 3,28; 4,6). Semplifi­ cando al massimo le risposte sin qui offert e , la prospettiva classica trova la ragione nel fatto che esse sono opere, espressione di un fare dell'individuo che, attraverso esso, cercherebbe la giustizia propria, au­ tosufficiente e automeritoria. Al contrario, la nuova prospettiva punta sul fatto che esse sono della legge, intesa come fattore di identità e di­ scriminazione etnica. Di primo acchito, si deve riconoscere come il contesto argomenta­ tivo di Gal 2,16 abbia in vista tali fattori , ossia le prescrizioni alimen­ tari, oggetto del contendere tra Paolo e Pietro ad Antiochia, e la circoncisione dei pagani giunti alla fede, oggetto del dibattito nella co­ munità galata. Il tono generale delle affermazioni, tuttavia, esclude che ci siano opere della legge anche riguardanti altri settori pensate come valide per ottenere la giustificazione: questa, infatti, non risulta essere alla portata di nessuna prestazione umana basata sull'osservanza della legge. Per suffragare la nuova prospettiva, qualcuno ha recentemente proposto di leggere un «ek partitivo» semitizzante, a indicare «quelli che vengono dalle opere della legge», che ricercano la giustificazione nell'appartenenza al popolo che si definisce sulla base della legge e delle sue opere.11 Siffatta tesi mi sembra imperniare l'interpretazione del sintagma su due elementi. Il primo vede una dipendenza costitutiva del singolo da tali realtà, una definizione identitaria, alla quale si pre­ tenderebbe di legare la possibilità della giustificazione. Questo ele­ mento è sicuramente condivisibile e riscontrabile, in fondo, in tutte le letture del sintagma, a iniziare da quelle che vi scorgono il senso più immediato di origine, di base determinante un processo conseguente. 12 In aggiunta, l'antitesi che tale locuzione ha con quella positiva, «per mezzo della fede di Cristo», e le forme grammaticali con cui questa è solitamente espressa da Paolo fanno intendere un senso allargato, nella

11 D. GARLINGTON, «Paul's .. Partisan ek" and the Question of Justification in Gala­ tians», in JBL 127(2008). 567-589. 12 Cf. J.-P. LÉMONON, «Loi et justification», in J. SCHLOSSER (ed.), Pau/ de Tarse (LD 65). Cerf, Paris 1 996, 269-292, per la motivazione di un senso grammaticale comunque riconosciuto dai più.

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direzione di una strumentalità più ampia, che d'altronde è attestato al­ trove nel Nuovo Testamento (cf. Le 8,3; 16,9).13 È in questo senso che Paolo conclude la pericope: « . . . se la giustizia viene per mezzo della legge . (dia nomou)». Ora, tale accezione, che allarga senza smentire il senso di «base fondativa)), mi sembra faccia ritenere ingiustificata­ mente limitativo il secondo degli elementi su cui la summenzionata in­ terpretazione s'impernia. ossia una valenza identitaria di tipo etnico. È precisamente la conclusione della pericope a chiarire come Paolo abbia in vista l'insieme della legge quale strumento inteso in senso globale per ottenere la giusta relazione con Dio. Limitarla nel senso di un qual­ che comandamento dalla mera valenza etnica risulta semplicemente arbitrario. Ora, la legge richiede ovviamente un operare a essa conse­ guente, ma è proprio questo operare a essere escluso in 2,16. Un certo rilievo del fare (erga), in antitesi all'accoglienza di fede di ciò che Dio ha operato in Cristo, non sembra estraneo al passo paolino. Perché esso sia escluso, se altrove Paolo non si fa scrupolo di sot­ tolineare l'importanza dell'opera del credente (cf. Rm 15,18; 1Cor 3,13-15; 2Cor 9,8; Fil 1 ,6; ecc.), è una questione da sollevare. Per ora mi basta chiarire che la risposta non può invocare una presunta carat­ teristica automeritoria insita nel fare umano: ciò non è qui lasciato in nessun modo intendere. Su questo, ricordo il decisivo studio di San­ ders, che ha criticato efficacemente l'idea di un giudaismo automeri­ torio, teso a conquistare la giustizia di Dio con le proprie opere. Ma perché sottolineare che l'accesso alla relazione con Dio è elargito gra­ tuitamente da Dio stesso, se ciò non costituisce una novità nel giudai­ smo, ma è da questi ampiamente riconosciuto? Al riguardo, Sanders individua una differenza meramente verbale tra Paolo e i vari scritti giudaici. L'apostolo, infatti, utilizzerebbe la semantica della giustizia per l'ingresso nella relazione, i secondi per la permanenza dentro la stessa. Per il primo l'ingresso, essendo dovuto alla gratuità di Dio, non prevede le opere della legge, per i secondi l'operare è la condizione del rimanere. 14 Ma a livello assiologico anche Paolo prevede un rima­ nere condizionato da un operare, che nelle sue lettere si esprime con la terminologia dell'essere irreprensibili, saldi ecc. La differenza sa­ rebbe, in questo caso, quasi nominalistica. Paolo, in altri termini, pole­ mizza contro le opere della legge nel contesto del riconoscimento dello statuto di giustizia del singolo di fronte a Dio, ma sbaglierebbe obiet­ tivo, non ravvisando che per il giudaismo tale riconoscimento riguarda . .

13 Analogamente C.H. CosGROVE, «Justification in Paul. A Linguistica) and Theo­ logical Reflection», in JBL 1 06(1987) , 653-670. 14 E.P. SANDERS, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Paideia, Brescia 1986, 744-747 (or. ingl. 21984).

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il rimanere nell'alleanza e non l'entrarvi. Il momento dell'ingresso non prevede l'operare del singolo, ma la gratuità di Dio, e questo è vero per Paolo come per il giudaismo. Al fine di dipanare tali questioni, iniziamo con il porre attenzione al participio iniziale «eidotes, sapendo», che introduce le osservazioni -.;ulla giustificazione e sul suo legame esclusivo alla fede in Cristo quale patrimonio comune di Paolo, di Pietro, suo interlocutore antiocheno, e, sembra, di tutti i giudei per nascita che hanno creduto in Cristo, ossia dei giudeo-cristiani. Ma perché dire e scrivere ciò che è già risaputo? ·\lcuni hanno ipotizzato che il consenso fosse in qualche modo limi­ t ato, non giungesse a tutto il contenuto del presente versetto, e che Paolo di conseguenza lo riporti per estendere la portata della convin­ tione condivisa, sottolineando soprattutto l'esclusività della fede in Cristo nel contesto della giustificazione e la sua indole alternativa al "istema della legge e delle sue opere. 15 Per rispondere alla domanda, si deve osservare lo svolgersi del pensiero al v. 17, notoriamente diffi­ cile, che presenta un entimema (sorta di sillogismo retorico, che nel �aso sottace una premessa) per operare una reductio ad absurdum. La premessa lasciata implicita dal versetto è la valutazione della legge su coloro che ne abbandonano alcune prescrizioni, come i giudeo-cristiani che ad Antiochia avevano ignorato le norme di purità alimentari per aderire . alla commensalità con gli altri. Tale valutazione è, ovviamente, negativa. I soggetti che così operano divengono «hamartoloi, pecca­ tori», privi dello statuto protettivo dell'alleanza garantito dalla legge. Ma è altresì vero che i soggetti hanno così operato in forza della loro fede in Cristo, nella convinzione di fede che è Cristo, non la legge, a donare la giustificazione. L'assurdo consiste allora nel fatto che la fede in Cristo condurrebbe i giudeo-cristiani in una condizione di peccato peggiore di quella di partenza (v. 15)! Ne segue che il presupposto le­ galizzante deve rimanere abrogato, pena la plausibilità stessa dell'atto di fede. Si verifica poi facilmente come questa stessa considerazione sia efficace per leggere la situazione dei galati, cui Paolo sta scrivendo. Formalmente essa è differente, poiché questi non sono di origine ebraica ma pagana, e sono giunti alla fede in Cristo senza passare at­ t raverso la circoncisione. Al momento della scrittura della lettera, però, alcuni predicatori la vorrebbero loro imporre (6,12). L'analogia tra le Jue situazioni riguarda la considerazione della legge in rapporto alla fede e consiste; nel ricercare in entrambi i casi dei «puntelli» alla fede, ·

15 Oltre a DUNN, The New Perspective (nota 5) cf. soprattutto MARTYN, Galatians, 264-275. Egli ritiene che Paolo stia riformulando un'espressione tradizionale giudeo­ cristiana sulla giustificazione. Provare l'esistenza di siffatta formula preesistente è tut­ tavia impossibile.

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volendola integrare con le opere della legge. Ma il corollario di ciò è che Cristo non basta per la giustificazione. Se ciò fosse vero, l'atto di fede non avrebbe ragione e chi, in forza di esso, ha abbandonato delle prescrizioni legali risulta null'altro che ingiustificato trasgressore della legge, che il suo stesso atteggiamento di ripristino di ciò che prima era stato abbandonato rivela come tale (v. 18). Il pensiero di Paolo parte da una premessa per esplicitarne i corollari. Ora, per la consistenza stessa del ragionamento, la premessa dev'essere condivisa con gli in­ terlocutori.16 Essa non è altro che la centralità dell'evento Cristo, che si è chiarito in Paolo a seguito della cristofania di Damasco, e che è condivisa da tutti i giudeo-cristiani che hanno aderito a Cristo. 17 In questo passo del mio studio sono quindi giunto a ritenere come sostanzialmente valide alcune tesi proprie alla prospettiva classica, che vede il linguaggio della giustificazione quale espressione della com­ prensione di fede dell'evento Cristo e della sua centralità. Ciò è ulte­ riormente confermato da quanto detto sopra: Paolo ha adoperato tale linguaggio anche in altre precedenti lettere, a fianco di altre categorie, come quelle commerciali o cultuali, per esprimere la dimensione sor­ giva e fondante della pasqua di Cristo. Il fatto poi che ciò sia avvenuto in maniera non teorizzata suggerisce che effettivamente ciò fosse pa­ trimonio comune a Paolo e ai suoi interlocutori, e presumibilmente a tutti i giudeo-cristiani. Non è, inoltre, legittimo asserire che ad Antio­ chia fossero giunti alcuni emissari inviati da Giacomo per contestare la prassi paolina, quasi che l'incidente di Antiochia fosse causato da una riluttanza da parte di Giacomo ad accogliere tale principio. La for­ mulazione concisa del v. 12 indica solo che i soggetti sopraggiunti ad Antiochia appartengono alla fazione di Giacomo, sono quindi giudeo­ cristiani, non che sono inviati da lui per «correggere» dottrine e prassi da lui non accolte. È però vero che, nonostante tale supposto consenso, ad Antiochia come in Galazia i problemi sorgono, ed è in tale contesto che Paolo situa una riflessione più estesa, dal tenore polemico, sulla giustificazione. La nuova prospettiva può aver ragione nell'indicare in tali conflitti, dal tenore etnico intraecclesiale, la causa scatenante un approfondimento teoretico sulla giustificazione, che ne focalizzi i co-

16 Aspetto non tenuto in dovuta considerazione da I.W. Scorr, «Common Ground? The Role of Galatians 2,16 in Paul's Argument», in NTS 53(2007), 425-435. 17 Cf. S. GATHERCOLE, «The Petrine and Pauline Sola fide in Galatians 2», in M. BACHMANN (ed.), Luterische und Neue Paulusperspektive. Beitriige zu einem Schliissel­ problem der gegenwiirtigen exegetischen Diskussion (WUNT 182), Mohr Siebeck, Tti­ bingen 2005 309-327; M. HENGEL, «Die Stellung des Apostels Paulus zum Gesetz in den unbekannten Jahren zwischen Damaskus und Antiochien», in J.D.J. DuNN (ed.), Pau/ and the Mosaic Law. The 3rd Durham Tubingen Symposium on Earliest Christianity and Judaism (WUNT 89), Mohr Siebeck, TUbingen 1996, 25-51 . ,

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rollari significativi per quei dibattiti.18 In fondo, asserire che la fede nella giustificazione nasce con la fede nell'evento Cristo non comporta negare che alcuni suoi corollari non possano essere meglio individuati a seguito di situazioni conflittuali, che per loro natura impongono sforzi di chiarificazione. Solamente che non è corretto limitare tale chiarificazione al valore dei comandamenti che regolano il rapporto tra israeliti e altre etnie. Se la fede in Cristo è qualificata condizione sufficiente per ricevere la giustificazione, ciò ha conseguenze per la comprensione dell'intera legge, non solo dei suoi comandamenti a va­ lenza etnica. Proseguendo l'analisi del brano, si nota come repentinamente, ai vv. 1 9-20, Paolo muti categorie linguistiche. Scompare, infatti. il lin­ guaggio della giustificazione e subentra un registro metaforico, con Paolo che parla alla prima persona. Egli afferma di essere stato croci­ fisso assieme a Cristo; fuor di metafora si presenta come in qualche modo associato alla croce di Cristo, cosicché questo evento appare non come un evento limitato al passato, bensì come un evento gravido di conseguenze (tempo perfetto ! ) , portatore di un'attualità esistenzial­ mente significativa per Paolo. Egli è unito personalmente a Cristo, più precisamente a quel Cristo che ha fatto del dono gratuito la scelta fon­ dante della sua vita, culminata nella sua autodonazione in croce (si noti la formula-hyper). L'esito di questo è che anche la vita di Paolo è una vita vissuta nel dono, orientata a Dio e alla sua volontà perché, sempre con linguaggio metaforico, Cristo stesso vive in Paolo. Questi versetti dicono che la fede è una profonda relazione interpersonale tra il credente e il suo Signore. Il loro linguaggio non è semplicemente equivalente a quello della giustificazione, 19 per cui necessiterà di uno studio apposito nel capitolo successivo. Nella presente argomenta­ zione, è vero, essi di fatto sottolineano ancora le deficienze della legge: se la fede è una relazione personale con Cristo, allora la legge è per natura sua incapace di garantire una tale relazione. La relazione con Cristo pone Paolo in un'altra dimensione fondante rispetto a quella della legge, cosicché lui può dirsi morto alla legge. Il credente che vive tale tipo di relazione non ha bisogno di riabbracciare la legge, come faceva Pietro ad Antiochia o come sono intenzionati a fare i galati, ma la portata di queste considerazioni può ben travalicare la circostanza concreta per cui sono state formulate. La conclusione del brano, reintroducendo la semantica della giu­ stizia, funge da ricapitolazione dell'importante pensiero qui sviluppato.

(or.

18 Cf. J.D.J. DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, 361-362 ingl. Edinburgh 1998). 19 Contro S. SCHAUFF, «Galatians 2,20 in Context», in NTS 52(2006), 86-101.

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Essa priva la legge, globalmente intesa - e non solo qualche suo co­ mandamento, come vorrebbe la nuova prospettiva -, della pretesa di essere mediazione strumentale della giustizia di Dio. Se lo fosse, allora Cristo sarebbe morto invano. Si noti, in questa conclusione, che la posta in gioco non è solo quella della relazione tra etnie nella prima comunità cristiana, bensì della valenza da ascrivere alla morte di Cri­ sto !20 Il linguaggio della giustificazione si conferma così come stretta­ mente legato alla comprensione dell'evento Cristo, e non elaborato allo scopo esclusivo di risolvere le tensioni interetniche della prima chiesa. Queste possono costituire delle cause scatenanti il suo appro­ fondimento, ma non la ragione determinante. Detto in altri termini, il linguaggio della giustificazione afferma per tutti i credenti quello che Paolo, a seguito dell'evento di Damasco, ha sostenuto valere per sé in termini inequivocabili, ossia la centralità della figura di Cristo per la comprensione di sé e del proprio rapporto con Dio, come abbiamo verificato nei capitoli precedenti. L'io di questi versetti si riferisce certamente a Paolo, ma non in maniera esclusiva, bensì esemplare: Paolo, in quanto unito alla morte di Cristo, muore alla legge, ossia a una considerazione della legge come veicolante la propria esistenza, e in ciò si presenta paradigma per tutti i credenti, di Antiochia, della Galazia e non solo. Resi convinti della formidabile re­ lazione dischiusa dalla morte di Cristo, dalla giustificazione così otte­ nuta, essi sono chiamati a considerare tale dono condizione necessaria e sufficiente del loro rapporto con Dio. La questione non è solo quella dell'ingresso nell 'alleanza, come Dunn ha ben visto in risposta a San­ ders: sia ad Antiochia come in Galazia si tratta di continuare una vita di fede cui i credenti sono già stati introdotti.21 Di tale vita Cristo costi­ tuisce il fondamento perenne, e il linguaggio della giustificazione serve a salvaguardare tale dimensione rispetto alla ricerca di puntelli inte­ grativi nella legge, che verrebbe, nel presupposto degli avversari di Paolo, a costituire un fattore salvifico accessorio. Ma in tal caso ciò che Dio ha operato per noi nell'evento pasquale di Cristo si rivelerebbe inadeguato, bisognoso di integrazioni: Cristo sarebbe morto invano! È quindi indubbia la valenza polemica della categoria della giu­ stificazione verso la legge, che riaffenna in tal modo la centralità fon­ dante dell'evento Cristo. Ma da ciò non si può concludere che «Paolo butta a mare la legge per salvare Cristo».22 Piuttosto, il concetto di

20 Cf. A. GIENIUSZ, «"ldentity Markers, o "Solus Christus"; quale posta in gioco nella dottrina della giustificazione per fede in Paolo?», in Euntes docete 53(2000 ) , 7-27. 21 DUNN, The New Perspective. 109. 22 G. BARBAGLIO, Il pensare dell'apostolo Paolo (La Bibbia nella storia 9bis), EDB, Bologna 2004, 145.

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molteplici livelli di identità, sopra elaborato, si rivela utile anche per collocare la polemica paolina verso la legge: siamo, lo ripeto, a un li­ vello fondante. E come per Paolo, così per ogni credente tale livello è occupato esclusivamente da Cristo. Ma quando ciò sia salvaguardato, nulla toglie che vari altri elementi possano trovare adeguata colloca­ zione nel proprio uni\'erso simbolico e nella propria visione religiosa, ivi compresa la legge (e su ciò ritorneremo estesamente al capitolo 6). Paolo, infatti, afferma che la legge e le sue opere non sono mediatrici della giustizia di Dio, non che la legge sia abolita ! Siffatta afferma­ zione non si riscontra mai nelle sue lettere indisputate, anzi, sarà espressamente smentita da Rm 3,3 1 . Analogamente. anche l'operare del singolo, nel senso di una risposta responsabile al dono della giu­ stificazione, non è escluso da questo passo paolina. Lo vedremo este­ samente in seguito. Tuttavia esso risulterà come risposta a un agire che è prioritario e, nella sua dimensione di assoluta gratuità, indero­ gabilmente fondativo. Nel seguito della lettera, la categoria salvifica della giustizia è af­ fiancata da altri beni salvifici, quali lo Spirito (3,2.5. 14), la discendenza abramitica (3,7), la benedizione in Abramo (3,9.14) . . . , _il cui atteni­ mento è costantemente ascritto alla fede e non alla legge. Il tema della giustizia, pur a sua volta reiterato (3,1 1 .21), risulta uno dei molti che servono ad affermare la basilare dimensione della fede, e non della legge e delle sue opere. 23 Per la sua indole è particolarmente efficace per esprimerlo, e quindi riveste una sicura importanza. Thttavia non è il solo. e di questo si dovrà tener conto. Piuttosto, Gal 3,7-9 mette a tema l'importante categoria della discendenza abramitica, che è realtà pienamente disponibile per i pagani, poiché è di indole spirituale, ot­ tenibile attraverso la fede. Giunta a questo punto, l'argomentazione non si limita a questa affermazione positiva, ma ribadisce l'antitesi con il regime della legge già formulato nei versetti sopra esaminati. Segna­ tamente, sostiene che «quelli che sono da opere della legge» sono sotto una maledizione incombente. quella dichiarata in Dt 27,26 ( v. lO). Tale citazione presenta però un'ovvia difficoltà, dato che il Deuteronomio non vede assolutamente il ruolo della legge in tali termini solamente negativi, ma prospetta anche le benedizioni per chi la osservi (ad es. D t 28, 1-14 ). Molti interpreti completano il pensiero di Paolo con una supposta premessa inespressa, vale a dire l 'impossibilità di ogni sog­ getto a fare la legge e, conseguentemente, a ottenere per tale via la be23 Così già SANDERS, Paolo e il giudaismo, 675-676. Cf. anche G. SASS, Leben aus den Verheissungen. Traditionsgeschichtliche und biblisch-theologische Untersuchungen zur Rede von Gottes Verheissungen im Fruhjudentum und beim Apostel Paulus (FRLANT 164), Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1995, 283.

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nedizione.24 Ma Paolo non lega la minaccia della maledizione alla tra­ sgressione della legge, bensì, letteralmente, a «essere da opere della legge». Le sintetiche note di Vanhoye, a mio avviso, colgono con ec­ cellente chiarezza la prospettiva del pensiero, che non verte su «una questione di comportamento, ma di principio. È possibile praticare la legge senza "essere da opere di legge". Paolo s'interessa del punto di origine dell'esistenza religiosa [ . . . ] . La frase di Paolo in 3,10 riguarda coloro che mettono come base della loro vita le loro opere, fatte in conformità alla legge».25 Tale linea interpretativa è poi confermata dal v. 1 1 , che reintroduce il linguaggio della giustificazione legato essenzialmente alla fede e non alla legge. Siffatto legame, a detta di Paolo, risulta chiaro non da qual­ che rilievo di deficienze insite alla legge che emergano da un'indagine interna alla stessa, bensì in forza del passo scritturistico di Ab 2,4 che, nel dettato paolino, recita: «il giusto da fede vivrà». Come a dire, è la Scrittura stessa a legare il dono della giustizia, come degli altri beni sal­ vifici, alla fede del singolo e non al suo operare. Ma la prova scritturi­ stica suffraga ciò che è insito nella comprensione di fede dell'evento Cristo e della sua valenza per l'identità religiosa del singolo. Le bene­ dizioni divine e la sua giustizia sono oramai mediate da Cristo, e vanno accolte per fede. La legge, non godendo di tale efficacia mediativa, può solamente avere la possibilità di pronunciare la «maledizione». Il v. 12 stabilisce poi un'antitesi tra il regime della fede e quello della legge con il «fare» da essa richiesto. Per comprendere tale antitesi è inderogabile tenere a mente il livello su cui l'argomentazione si dipana, che è un li­ vello fondativo dell'identità religiosa, determinante la sfera di esistenza. Ne risulta che, ad altri livelli, il fare della legge non è assiomaticamente precluso. Paolo non elabora un astratto e totalizzante contrasto tra la fede fiduciale e il fare della legge.26 Piuttosto, focalizza ciò da cui di­ pende sostanzialmente il dono della vivificante relazione con Dio senza declinare tutte le sue manifestazioni, che potranno eventualmente 24 Cf. A.A. DAS, Pau/, the Law and the Covenant, Hendricksen, Peabody 2001, 145147, e, più recentemente, M. BACHMANN, «Zur Argumentation von Galater 3,10-12», in NTS 53(2007), 524-544. Per una più ampia rassegna di interpretazioni cf. PrrrA, Lettera ai Galati, 183-185. 25 VANHOYE, Lettera ai Galati, 84. T. C. GOMB IS, « The "Transgressor" and the "Curse of the Law". The Logic of Paul's Argument in Gal 2-3», in NTS 53(2007), 81 -93, di fatto si avvicina a questa lettura, jnterpretando la maledizione di Dt operativa sui credenti che abbracciano la legge e si sottomettono al suo giudizio. Come nel caso paventato in 2,15-17, si tratta di ritenere la legge e le sue opere a un livello fondativo. 26 Così, pertinentemente, G. W. HANSEN, Abraham in Galatians. Epistolary and Rhetorical Contexts (JSNT.S 29), Sheffield Academic Press, Sheffield 1989, 121 . Diver­ samente H. HOBNER, La Legge in Paolo. Contributi allo sviluppo della teologia paolina, Paideia, Brescia 1995, 42 (or. ted. 1982), e in genere la prospettiva classica, da cui evi­ dentemente qui mi distanzio.

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anche includere la dinamica dell'operare del singolo (e lo faranno, come abbiamo prima intuito). Il linguaggio della giustificazione, as­ sieme a quello delle categorie salvifiche a essa correlate, si colloca a un livello fondante. E a tale livello trova la sua plausibilità. LA GIUSTIFICAZIONE NELLA LETIERA AI ROMANI Vi è un consenso abbastanza diffuso sul fatto che l'argomentazione della Lettera ai Romani sia governata dalla propositio generalis di 1 ,16-17, che mette in scena la rivelazione della giustizia di Dio.27 Essa è una realtà salvifica, posta in parallelo alla potenza salvifica di Dio. Analogamente a Gal 3,1 1 , la sua accoglienza viene legata indissolubil­ mente alla fede, e ciò è sostenuto dalla libera citazione di Ab 2,4: «Il giusto da fede vivrà».28 Alcune letture propongono una denotazione messianica della locuzione «ho dikaios, il giusto» ,29 ma essa non è sug­ gerita da alcun segnale nel testo paolino, e in più non offre alcuna mo­ tivazione a ciò che, in realtà, la citazione effettivamente suffraga, ossia la manifestazione della giustizia «da fede verso fede», vale a dire «a ogni credente». In continuità con quanto sinora visto, la terminologia della giustizia indica quindi il dono salvifico della possibilità di rela­ zione con Dio. La novità della formulazione presente consiste nell'en­ fatizzare la «dikaiosyne theou, giustizia di Dio», ossia nel qualificare, con un genitivo soggettivo, la dinamica relazionale sottesa al concetto di «giustizia» come prerogativa propria di Dio, caratteristica a lui pe­ culiare. Ciò che viene rivelato nel vangelo, pertanto, è una relazione con l'umanità che parte da Dio perché è a lui propria, è una caratteri­ stica che gli compete essenzialmente. La prospettiva con cui si apre l'argomentazione, quindi, è eminentemente teo - logica : essa dirà qual­ cosa di Dio e del suo essere giusto.30 Non si ha, tuttavia, alcuna definizione esplicita di giustizia. Piutto­ sto, essa viene colta attraverso il suo manifestarsi, mettendo in scena 27

Cf. J.-N. ALEITI, La Lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Boria, Roma 1997, 29-32. Sulla citazione e le sue modalità cf. R. PENNA, «Il giusto e la fede. Abacuc 2,4b e le sue antiche riletture giudaiche e cristiane», in R. FABRIS (ed.), La parola di Dio cre­ sceva (At 12,24), Fs. C.M. Martini (SuppRivBiblt 33), EDB, Bologna 1998, 359-380; R.E. WATIS, «"For I Am Not Ashamed of the Gospel": Romans 1,16-17 and Habakkuk 2,4», in S.K. SODERLUND - N. T. WR I G HT (ed d.), Romans and the People ofGod, Fs. G.D. Fee, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 1999, 3-25. 29 Lettura ritenuta possibile da D. HELISO, «Pistis» and the Righteous One. A Study ofRomans l ,17 against the Background of Scripture and Second Tempie Jewish Literature (WUNT/2 235), Mohr Siebeck, Tiibingen 2007. 30 Prospettiva ben riconosciuta da T. LAATO, «"God Righteousness" - Once Again», in L. AEJMELAEUS - A. MuSTAKALLIO ( edd. ), The Nordic Pau/. Finnish Approaches to Pauline Theology (LNTS 374), T&T Clark, London-New York 2008, 40-73. 28

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varie dimensioni insite al campo semantico della giustizia, ivi compresa anche una dimensione retributiva che, sulle prime, non sembra ben collimare con quella salvifica (ad es. 1 ,18; 2,6-16; 3,4-6; ecc. ).31 Per mo­ tivi esclusivi di chiarezza espositiva, pospongo al prossimo paragrafo le considerazioni sulla difficile sezione 1 , 1 &-3,20, per iniziare dall'ana­ lisi della pericope 3,21-4,25, che nel suo avvio, segnatamente nella sub­ propositio di 3,21 -22a, richiama espressamente i termini di 1 , 16-17: 1,16-17 3,21-22

La giustizia di Dio

è

rivelata

La giustizia di Dio

è

stata manifestata

. . . ogni credente da fede verso fede verso tutti coloro che credono

Tale passo si presenta pertanto come esplicita ripresa e delucida­ zione dell'enunciato tematico primo dell 'argomentazione, mante­ nendo come centrale il concetto teo-logico di giustizia salvifica, che nel seguito è qualificato cristologicamente e soteriologicamente.32 Rispetto a 1,16-17, sono qui presenti alcune peculiarità. La prima è l'enfatico «nynì, ora», con cui la pericope è introdotta. Con tale av­ verbio di tempo Paolo spesso denota l'avvenimento della salvezza compiuto da Cristo (ad es. l Cor 15,20) o l'inserimento in esso dei cre­ denti (ad es. Rm 6,21 .22; cf. anche 3 ,26, en to; nyn kairo;, lett. «nel t�mpo di ora>>). Ciò che viene quindi qui annunciato è la svolta esca­ tologica della storia avvenuta grazie all 'evento Cristo. Si comprende così sia come egli venga qua menzionato, sia l'uso del tempo perfetto «pephanerotai, è stata manifestata», che indica un avvenimento sto­ rico il quale ha un valore definitivo per la storia che da lì trae origine (mentre in 1 ,17 si aveva un presente}.33 Ancora, la modalità di rivela31

Una rassegna articolata nel mio RoMANELLO , «La giustizia». Cf. C.E.B. CRAN FI E LD , The Epistle to the Romans ( I CC ) , 2 voll., T&T Clark, Ed� inburgh 1975, I, 199-224; J.D.J. DuNN, Romans (WBC 38A-B), Word, Dallas 1988, I, 1631 94; R. J E WEIT, Romans. A Commentary, ed. by D. KOTANSKY - E.J. EPP (Hermeneia), Fortress Press, Minneapolis 2007, 268-304; S. LÉGASSE, L'Epistola di Paolo ai Romani, Queriniana, Brescia 2004, 190-211 (or. fr. Paris 2002); E. LoHSE, Der Brief an die Romer (KEK 4 ) , Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 2003, 128-145; R. PENNA, Lettera ai Romani (SOC 6), 3 voll., EDB, Bologna 2004, I, 311-360; A. PrrrA, Lettera ai Romani (LibBibNT 6), Ed. Paoline, Milano 2001 , 156-181; U. WILCKENS, Der Brief an die Romer (EKK 6), 3 voli., Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 21987, I, 182-257. Tra i pochi che non riconoscono in 3,21 un nuovo inizio, cf. R.B. HAYS, «Psalm 143 and the Logic of Romans 3)), in JBL 99(1980), 107-1 1 5, e le osservazioni di RoMANELLO, «La giustizia», 265. 33 Sottolineando giustamente il carattere retorico del nynì dé iniziale, J. FLEBBE, Solus Deus. Untersuchungen zur Rede von Gott im Brief des Paulus an die Romer (BZNW 158), de Gruyter, Berlin-New York 2008, 64-65, sottace però quello temporale. Di conseguenza, mentre sottolinea opportunamente il carattere di continuità della giu­ stizia divina con la testimonianza scritturistica, misconosce la riconfigurazione nuova di tale concetto ad opera dell'evento Cristo (pp. 70-71 ). 32

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zione della giustizia è definita positivamente per mezzo della fede, in continuità con 1 ,16-17, e negativamente senza la legge, elemento di novità rispetto a tali versetti, ma in linea con le tesi sviluppate nella Lettera ai Galati. In realtà, tale affermazione è ben preparata, come si vedrà, dall'ar­ gomentazione previa, che equipara lo statuto delle etnie di fronte a Dio e che quindi priva il giudeo di un proprio motivo di vanto basato sulla legge (2,17-29). Nel ripetuto «tutti» di 3,22.23 si deve ritenere in­ clusa la locuzione «giudeo e anche greco>> che, in 1,17, specificava il pronome. Asserendo che «non vi è distinzione» riguardo alla manife­ stazione della giustizia di Dio (3,22). Paolo ha sicuramente in vista una distinzione etnica. La nuova prospettiva, quindi, ha indubbiamente ra­ gione nell'individuare una motivazione etnica soggiacente al discorso paolino. Non è però felice nel reputarla come unica, giungendo, in tal modo, persino a ritenere la giustificazione non quale soluzione al pro­ blema del peccato dell'umanità. ma il fattore che costituisce il pro­ blema dell'apparente perdita della peculiarità teologica di Israele.34 Lo sviluppo scelto da questo libro intende contestare tale limitazione, verificando come il discorso della giustificazione mantenga, anche in Romani, una valenza fondativa, che è sicuramente pertinente a livello interetnico ma non è a esso esclusivo. A tal proposito si deve riconoscere l'accentuazione sulla peccami­ nosità umana, presente nella Lettera ai Romani in termini non presenti quando la Lettera ai Galati parla di giustificazione, seppur non scono­ sciuti nell'insieme di tale lettera (Gal 3,22). La spiegazione della sub­ propositio (3,23) inizia con un categorico «pantes gar hemarton, tutti infatti peccarono», giustificata dall'accusa scritturistica presente in 3,920 e in seguito connessa con l'ingresso del peccato-potenza nella storia dell'umanità a seguito della trasgressione di Adamo (5,12). A questa condizione umana il v. 24 ne contrappone una nuova, dovuta all'inat­ teso intervento di Dio, che giustifica e accoglie come giusti coloro che erano trovati in una situazione alienata da lui. Tale accoglienza inau­ dita si radica esclusivamente nella sua incondizionata gratuità, enfa­ tizzata pertanto dall'accumulazione di un avverbio e di un sostantivo

34 Ad es., W. DABOURNE, Purpose and Cause in Pauline Exegesis. Romans 1,16-4,25 and a New Approach to the Letters (SNTSMS 104), University Press, Cambridge-New York 1999, 124ss, 154ss, 166-167. Simile osservazione può essere rivolta anche agli studi di T. WRIGHT, The Climax of the Covenant. Christ and La w in Pauline Theology, T&T Clark, Edinburgh 1991 e Justification. God's Pian & Pau/'s Vision, Inter-Varsity, Downers Grove 2009. Per questo autore la giustizia di Dio è il suo agire salvifico manifestato in Cristo, a compimento dell'alleanza con Israele e, contemporaneamente, a contestazione della sua chiusura nazionalistica. Il fatto che essa in Rm sia a risposta ·della situazione universale di peccato è obbiettivamente qui misconosciuto.

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( «dorean - te; autou chariti, gratuitamente - per la sua grazia» ) , in cui questo secondo può evocare anche il senso pregnante di opera salvi­ fica complessivamente considerata. La giustizia di Dio, rivelandosi nel fatto che egli giustifica, risulta così come l'ambito di possibilità di una relazione sorprendentemente nuova dell'uomo con Dio. Il successivo rimando all'evento Cristo (vv. 24-25) , per mezzo di quelle categorie commerciali e cultuali già prese in esame, dimostra nuovamente come il linguaggio della giustificazione sia espressione di tale evento e della sua valenza sorgiva. In tal modo il concetto teo-logico della giustizia di Dio viene qualificato cristologicamente e soteriologicamente e, così connotato, riassunto in una sorta di epifonema al v. 26c. La dimen­ sione teo-logica si palesa lì rammentando il carattere giusto di Dio, che manifesta «la sua giustizia nel tempo presente, per essere lui giu­ sto e giustificare quelli che sono dalla fede di Gesù». È proprio la manifestazione della giustizia divina che rivela in ultima analisi chi è Dio, permettendo di scorgere le dimensioni intrinseche del suo essere sulla base delle caratteristiche inaudite della sua rivelazione. Tale ri­ velazione è giustificazione, il kai di questo emistichio è quindi inten­ sivo, indicando che Dio è giusto precisamente nella sua opera di giustificazione. Infine il destinatario di tale opera è definito dalla fede di Gesù. La fede, è ribadito, risulta condizione esclusiva per l'acco­ glienza della giustificazione, implicando, a questo livello, l'esclusione della legge e delle sue opere. Tali concetti, per la loro diffusione e per l'attenzione teoretica di cui sono oggetto, risultano alla stregua di costanti determinanti del pensiero paolino. In aggiunta, la prospettiva teo-logica permette a Paolo di formulare ulteriori considerazioni proprio riguardo alla giu­ stizia di Dio, dall'importanza basilare, nei vv. 27-31 . Rimando a breve la loro ripresa, a seguito del paragrafo successivo, per offrire qui una veloce scorsa sul capitolo 4 della lettera, in cui il ricorso alla figura di Abramo è inteso come conferma scritturistica delle acquisizioni ora asserite. Anche qui si riscontreranno le tensioni tra i fautori della pro­ spettiva classica, che scorgono in Abramo l'esempio del giustificato se­ condo la fede, e quelli della nuova prospettiva, che scorgono in lui il padre dei popoli, di Israele come degli altri, e interpretano anche le asserzioni sulla giustificazione lì presenti come funzionali al rapporto interetnico interno alla comunità dei credenti. Si vedrà anche qui come le prospettive debbano essere integrate. L'inizio del capitolo letteralmente recita: «Che diremo dunque aver trovato Abramo, nostro antenato secondo la carne?». Vi è qui una notevole difficoltà, data dalla combinazione di un'interrogativa con un 'infiniti va. Hays propone un punto interrogativo a seguito del verbo eroumen, diremo, e di considerare soggetto del successivo infinito un

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implicito «noi».35 Questa soluzione non si raccomanda certo per la sua l inearità, poiché lascerebbe, in fondo, la frase infinitiva in sospeso e vi intenderebbe un soggetto che non è quello evidente alla prima lettura: infatti i soggetti dei versetti seguenti sono Abramo e Dio. Questa pro­ posta ha poi per effetto di considerare la presente pericope imperniata in modo esplicito, già dall'inizio, sulla relazione dei vari gruppi etnici con Abramo, ma questo è smentito proprio dalla considerazione sui soggetti che vi appaiono di seguito. Il lettore, pertanto, non può ipo­ tizzare un «noi» implicito al v. l. né può ritenere la relazione Abramo­ genti come quella su cui s'impernia l'argomentazione iniziale. Il seguito della domanda, stando a questa ipotesi, prevederebbe una ri­ sposta negativa implicita, poiché il legame tra «noi» e Abramo sarebbe secondo la fede e non secondo la carne. Ma perché Paolo impiega qui l'hapax > ( 1 ,20), bensì «tu, qualsiasi uomo che giudichi, sei inescusa­ bile» (2,1 ), perché giudicando compi quello stesso atto di indipendenza da Dio che biasimi negli altri. Sempre su base scritturistica, il capitolo 2 inizia di conseguenza a porre la propria attenzione ai principi che governano il giudizio divino. Esso avviene secondo le opere per tutti (vv. 6-10), perché Dio, secondo un basilare assioma biblico, è imparziale (v. 1 1 ; cf. Dt 10,17; 2Cr 1 9,7; Sir 35 ,1 1 -16). Di fronte al giudice imparziale ogni tipo di privilegio scompare, conta solo l'operare e l'interiorità personale, dalla quale l'operare origina. Tra i possibili privilegi sono qui rammentati quelli di natura etnica, cosicché «giudeo e greco» si trovano di fatto equipa­ rati di fronte a tale giudizio. dalla natura assolutamente imparziale. Anche i popoli, che non hanno ricevuto il dono della legge divina scritta, ne conoscono per natura le esigenze. che sono inscritte nei loro cuori (vv. l4-15). Si deve a J oue t tc M. Basslc r.�1 in una monografia so­ vente citata, ma le cui conseguenze non sempre sono state adeguata­ mente recepite, l'aver evidenziato la portata etnica del presente discorso paolina. D 'altronde, fra tutte le locuzioni della propositio principale della lettera (1,16-17), l'unica a essere ripresa espressamente è quella a tenore interetnico: «giudeo prima e anche greco» (vv. 9-10). Non inganni la priorità attribuita al giudeo, poiché essa si riduce a prio­ rità nella manifestazione dei criteri di giudizio, che sono assolutamente equivalenti per tutti. Acquisito tale guadagno, l'argomentazione prosegue nell'equipa­ razione degli statuti etnici: di fronte a quel Dio che conosce il cuore dei singoli, per il quale ciò che conta è la loro interiorità decisionale, da cui origina la prassi. non sarà importante che il giudeo sia tale in modo da contraddistinguere manifestamente la propria identità ri­ spetto a quella degli altri popoli, quanto piuttosto che il suo «cuore» sia in autentica sintonia con il volere divino (vv. 28-29). Ma questa è una possibilità aperta anche al non circonciso, che può compiere le esi­ genze della legge proprio perché esse sono inscritte nel cuore. Sempre imperniando il proprio ragionamento sull'assioma biblico dell'impar­ zialità divina, Paolo è così giunto alla radicale equiparazione degli sta­ tuti etnici dinanzi a Dio. È l 'imparzialità, quale caratteristica essenziale dell'agire divino, a costituire l'obiettivo raggiunto dall'argomentazione al capitolo 2. Gli asserti sul giudizio divino e sulle diverse tipologie di

51 J.M. BASSLER, Divine lmpartlality. Pau[ and a Theological Axiom (SBL.DS 59),

Scholars Press, Chico (CA)

1982.

·

101

atti sanzionati da tale giudizio non sono i contenuti qui esplicitamente definiti, bensì si rivelano funzionali a tale intento. Non a caso in 3,1 Paolo dà voce a un ipotetico interlocutore giudaico, che protesta la possibile perdita di un «di più» della propria identità di fronte al Dio che agisce imparzialmente rispetto alle varie categorie etniche. La ri­ sposta del v. 2, nella sua forma aspra in forza di un anacoluto (men non seguito da de), circoscrive i vantaggi del popolo di Israele a un piano storico, in cui è stato il primo destinatario della rivelazione divina, ma non accredita alcun privilegio nel rapporto attuale con Dio. Il Sal 50,6 LXX, riportato al v. 4, prova la legittimità del giudizio di Dio (dal con­ testo paolina: anche contro il giudeo ) , non del suo agire giustificante, che non è ancora menzionato. 52 La comunione con Dio, anche per Israele, dovrà allora essere resa possibile su un'altra base: L'esigenza di tale nuova possibilità è accentuata da un ulteriore passaggio che, in forza della parola scritturistica, riconosce che «giudei e greci, tutti, sono sotto il peccato» (3,9-18). Come si vedrà nel capitolo successivo del nostro studio, nel seguito della lettera «he hamartia, il peccato» risulta a guisa di realtà sovraindividuale, potenza previa agli atti singoli e comunque influente sugli stessi. Una volta affermata tale realtà, è francamente arduo riconoscere la plausibilità di soggetti che possano compiere le esigenze della legge per virtù solo propria. Ma se Paolo li ha prima menzionati, forse il suo discorso cade in contraddi­ zione? La portata della stessa sarebbe veramente grossolana ! Piutto­ sto, la loro menzione trova ragione in una tappa provvisoria del suo ragionamento, teso a quel punto a dimostrare non la peccaminosità universale ( che non è dimostrata da Paolo, il quale non può ergersi a giudice al posto di Dio, ma lasciata in seguito alla parola - scritturistica - di Dio stesso! ) , bensì l'equiparazione degli statuti etnici di fronte al Dio imparziale. Ciò acquisito, con un ulteriore aggravio tale equipa­ razione si risolve in un livellamento delle situazioni sotto la potenza del peccato. A questo punto un eventuale «di più» giudaico è definiti­ vamente smentito. La sua legge, incluse le sue procedure penitenziali, non giova al superamento di tale situazione, come confermato dal fatto che in tutta la Scrittura mai simile possibilità è ascritta alla legge. �er suo mezzo si acquisisce la conoscenza del peccato, non la possibilità di superarlo (3,20). Si ricordi qui la definizione dei pagani quali «pec­ catori», ossia in uno status di peccato, diverso da quello degli ebrei, di Gal 2,15, e come essa sia stata là smentita da un ragionamento che chiamava immediatamente in causa il dato della giustificazione per

52 Cosl, invece, A. GIGNAC, «Procès de l'humain ou procès de Dieu? Le jeu inter­ textuel entre Rm 3,1-9 et Ps 50 (LXX)», in RB 1 12(2005), 46-62.

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fede. Qui Paolo ha smentito la pretesa di diversità giudaica a partire da un assioma biblico, che è proprio al giudaismo stesso. Con ciò esso si ritrova nella stessa condizione della restante umanità ! Ma questa acquisizione è ben lungi dall'essere l'ultima o la deci­ siva. Una volta ricordata la dimensione imparziale dell'agire divino, e averne estesa l'applicazione alle categorie interetniche, Paolo può giungere al punto di svolta qualificante, ossia all'affermare che la giu­ stizia salvifica divina si è manifestata gratuitamente per l'intera uma­ nità e tutte le sue categorie etniche (3,21 -22). Dio è imparziale nella sua giustizia salvifica !53 Ciò è esplicitato in 3,29-30, eccellente esempio di un pensiero fortemente modellato da convinzioni ebraiche (oltre all'assioma dell'imparzialità abbiamo qui uno dei passi che ricorda, al V. 3Qa, la professione di fede israelita dello Sema ' Jsra'ef), interpre­ tate però alla luce dell'evento-Cristo. Abbiamo qui una serie di con­ catenazioni entimematiche il cui climax sembra essere la conclusione del v. 29. Schematicamente possiamo così rappresentarle: I premessa: Dio è unico (v. 30a); II premessa: Dio giustifica per fede (qui implicita, n1a asserita nei versetti precedenti ). Conclusione : l'unico Dio giusti­ fica unicamente per fede sia la circoncisione come il prepuzio (sined­ doche per indicare il popolo circonciso che quelli non circoncisi; v. 30b ) . Questa conclusione funge da ulteriore premessa per la tesi espressa al v. 29: il Dio degli ebrei è, alla stessa maniera, anche Dio delle genti. Il tema dell'imparzialità divina è qui esplicitato nel suo ri­ svolto salvifico: il Dio giusto, perché tale, ossia imparziale, si relaziona allo stesso modo con i vari popoli, offrendo a tutti una possibilità di rapporto con lui che si fonda unicamente sulla propria accoglienza gratuita, la quale è ricevuta per fede. Per la formulazione di questa tesi, però, è essenziale che l'argomentazione non rimanga entro pre­ supposti giudaici: in tal caso, infatti, la relazione tra Dio e l'umanità sarebbe mediata dalla legge, e Dio risulterebbe un Dio etnico. È a llora necessario affermare che tale relazione si fonda ora su basi nuove, quelle rese possibili dall'evento-Cristo, che ricomprende in termini nuovi le categorie ebraiche. Esse non sono smentite, bensì condotte a una nuova dimensione di senso! 54

53

Cf. ALETII, «Rm 1-3», 494. Così anche P.-G. KLUMBIES, « Der Eine Gott des Paulus. Rom 3,21-31 als Bren­ npunk� paulinischer Theo-logie», in ZNW 85( 1994), 192-206, qui 202-204, e S. ROMA­ NELLO, «Cristo "fine" della legge ( R m 10,4). Ragioni di una comprensione dialettica delle Scritture d'Israele in Paolo», in S. ROMANELLO - R. VIGNOLO (edd.), Rivisitare il compimento. Le Scritture d'Israele e la loro normatività secondo il Nuovo Testamento, Glossa, Milano 2006, 109-1 10; Io., «La giustizia», 272-273. Invece FLEBBE, Solus Deus, 138, riconosce acutamente la portata della tradizione biblica, ma misconosce la novità apportata dalla sua rilettura cristologica. 54

103

Si può qui ricordare una vivace polemica scientifica di molti anni fa, in cui Ernst Kasemann interpretava il sintagma dikaiosyne theou, giustizia di Dio, come denotante una qualità che appartiene essenzial­ mente a Dio, equivalente alla sua stessa sovranità sul cosmo, che si di­ spiega in modo caratteristico nel suo agire salvifico, teso a riportare il cosmo intero sotto la sua sovranità.55_Questa interpretazione è sostan­ zialmente confermata dalla prospettiva teo-logica, propria all 'argo­ mentazione di Rm 1 , 16-4,25 , che focalizza l'attenzione dei lettori proprio sul dispiegarsi di tale caratteristica divina. Si può poi rammen­ tare che, a seguito della p ropositio di 1,16-17, il lemma è espressamente menzionato per la prima volta in 3,5, in un contesto in cui si opera un virtuale parallelismo con la pistis, fedeltà (v. 3), e I'aletheia, verità (vv. 4.7) divine, determinando così una almeno parziale sovrapposizione di rispettivi significati. La comprensione del sintagma è, in tal modo. indirizzata nella linea dell'agire salvifico divino, ove le suddette carat­ teristiche divengono manifeste. Da tali premesse, la prospettiva diversa di Bultmann, che interpreta la giustizia di Dio tout court come qualità donata da Dio all'individuo, pare un'eccessiva riduzione antropolo­ gica.56 Prima di essere realtà elargita, la giustizia è e rimane realtà ca­ ratterizzante Dio e il suo operare. Si deve tuttavia anche dire che Paolo non adopera sempre in senso univoco il sintagma. Ad esempio, in Fil 3,9, ove Paolo anela ad avere una «giustizia da Dio, basata sulla fede», il senso di realtà donata è indiscutibile. E tale senso è pienamente con­ facente ali 'interno di un brano che, come già visto, è di tenore auto­ biografico-esemplare. Il tono deli 'argomentazione dei primi capitoli della Lettera ai Romani è però diverso, e ciò riguarda le connotazioni della giustizia là presenti. Ora, lo sguardo all 'agire salvifico di Dio è quello che, propria­ mente, impone a Paolo un doppio sguardo fondativo della propria ar­ gomentazione, ossia alla Scrittura e all'evento-Cristo, appaiati in maniera straordinariamente feconda e originale proprio in 3,29-30. È assiomatico che Dio sia coerente nel suo agire, veritiero e fedele alle sue promesse. La giustificazione ora manifestata in Cristo deve per­ tanto essere «testimoniata dalla Legge e dai Profeti>> (3,20). Se un'ar­ gomentazione basata su assiomi biblici, quale quello della giustizia imparziale divina, è dovuta dapprima a squisite esigenze retoriche. ossia alla necessità di scalzare, per tale mezzo, le presunzioni di supe-

55 E. KASEMANN , «La giustizia di Dio in Paolo)), in Io., Saggi esegetici, Marietti, Ca­ sale Monferrato 1985, 133-145 (or. ted. Gottingen 1960-1964). 56 R. BULTMANN, Teologia del Nuovo Testamento (BTC 46 ) Queriniana, Brescia 1985, 271 (or. ted. 1953-1977). Da ricordare anche come, per il noto esegeta tedesco, tale giustizia donata sia una possibilità relazionale, non una qualità etica (cf. i vi, 263-264) ,

.

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riorità da parte giudaica, ciò non impedisce che essa manifesti definiti interessi contenutistici; altrimenti perché ricordare la dimensione del­ l'imparzialità, congiunta poi alla basilare fede ebraica sull'unicità di Dio, in 3,29-30, quando ormai l 'effetto retorico nei confronti di un sup­ posto interlocutore giudaico è già stato ottenuto? Non si afferma in­ vece, con tali versetti, che l'agire gratuito giustificante di Dio è precisamente quello testimoniato dalla Scrittura ebraica, il cui richiamo è essenziale per affermare la connotazione fedele e coerente dell'agire di Dio, nella sua continuità con la storia di alleanza con Israele, atte­ stata dalle Scritture stesse ? I vv. 29-30 sono precisamente i primi a pro­ vare il riferimento scritturistico enunciato nella subpropositio di 3,20, e lo fanno avvalendosi dell'elaborazione del concetto biblico di im­ parzialità divina operato nei capitoli precedenti. È poi evidente che il capitolo 4, nel suo prolungato riferimento alla figura di Abramo, ri­ prende estesamente tale prova. Peraltro non si deve dimenticare come la manifestazione della giustizia divina giunga al suo culmine nel­ l' evento-Cristo, e che il linguaggio della giustificazione è uno dei mezzi per dire il significato soteriologico basilare della sua pasqua. La giu­ stizia divina, quindi, è stata manifestata in Cristo, «senza la legge» (3,21 ) Lo sguardo a Cristo è semplicemente necessario, conferma la centralità inderogabile della sua pasqua. La Scrittura di Israele, essen­ ziale memoria attestata dell'agire salvifico di Dio nella sua storia, in­ dica un suo compimento in un evento al di fuori di se stessa. .

CONCLUSIONI

Come bilancio, si può quindi asserire che la dimensione di giustizia giustificante, così sviluppata soprattutto nelle Lettere ai Galati e ai Ro­ mani, è una dimensione basilare proprio per qualificare Dio e il suo agire. Esprime il contrassegno di un'accoglienza gratuita da parte di Dio, in Cristo, dell'intera umanità, giudei e greci, superando così un'im­ possibilità di essa a un'effettiva relazione con lui, dovuta anche, come la Lettera ai Romani ha asserito, a una situazione storica di assogget­ tamento al peccato. È un annuncio salvi fico che riguarda tutti, non li­ mitato esclusivamente a una dimensione etnica, seppur essa sia determinante nelle argomentazioni qui considerate; determinante, ma non esclusiva. L'annuncio della giustificazione, quindi, non è, nella penna paolina, l'elemento che suscita il problema della peculiarità teo­ logic a di Israele, ma l'elemento che supera il problema di un accesso alla relazione con Dio altrimenti impossibile all'intera umanità. Esso è legato essenzialmente all'opera di Cristo, colta però come compi­ mento di quell'agire salvifico divino testimoniato dalle Scritture di 105

Israele. Dio si dimostra «giusto» dando pieno svolgimento alle realtà là testimoniat�. IL LESSICO PARALLELO DELLA RICONCILIAZIONE Si è verificato come il pur importante linguaggio della giustifica­ zione non sia, nelle argomentazioni qui esaminate, il linguaggio unico, ma sia affiancato anche da altre categorie salvifiche. Qui intendo spen­ dere alcune parole sulla semantica della riconciliazione, nella convin­ zione che essa sia esattamente parallela a quella della giustificazione nella sua ricaduta antropologica. Di fatto, è Paolo stesso a porre queste categorie soteriologiche in parallelo in Rm 5,8-10: Dio dimostra il suo amore per noi poiché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo morì per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo suo. Se infatti, quand'eravamo nemici, fummo riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita.

Il passato costitutivo della nostra condizione attuale è evocato in­ nanzitutto nella locuzione della morte di Cristo «a favore nostro», che funge a dimostrazione perennemente attuale dell'amore di Dio per noi. Le sue ricadute esistenziali sono espresse con la terminologia della giu­ stificazione e della riconciliazione, a sua volta espressamente legata al dono della vita di Cristo. Nel presente passo, ciò è però premessa, at­ traverso un ragionamento a fortiori, per un 'asserzione che qui si rivela qualificante, quella della nostra salvezza escatologica. Essa è propria­ mente assicurata dal volto di Dio-Amore, che si è inderogabilmente manifestato nel dono di Cristo. È questo dono a introdurci a una relazione con Dio, e ciò avviene su base assolutamente gratuita; quanto detto sopra è qui pienamente confermato. Ciò è ben espresso dal verbo «katallasso, riconciliare», che, con il sostantivo corrispondente, nel Nuovo Testamento è esclu­ sivo del corpus paulinum. 51 Nell'uso profano esso non è proprio al­ l'ambito religioso, ma a quello delle relazioni intrapersonali. All'attivo può indicare la riconciliazione di due soggetti tra essi ostili ad opera di un terzo, in senso intransitivo indica il superarnento di propri motivi di avversione verso un avversario o nemico. Ma la ricorrenza paolina è del tutto singolare: avendo per soggetto grammaticale i credenti, è

57 Rm 5,10.10. 1 1 ; 1 1 ,15; 2Cor 5,18.18.19.19.20; Col 1,20.22 ed Ef 2,16 utilizzano l'ul­ teriormente composto apokatallasso.

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utilizzato in senso passivo, a indicare che l'autore della riconciliazione è Dio. Egli chiama a sé coloro che erano in una situazione di aliena­ zione da lui. «È per così dire la parte lesa che paradossalmente compie il primo decisivo passo per riconciliare a sé coloro che erano "'deboli/empi/peccatori/nemici", e questo senza che essi abbiano preso da parte loro la benché minima iniziativa».58 Del tutto analogo il senso in 2Cor 5,18-20, lettera in cui il lessico della riconciliazione compare per la prima volta. Ciò avviene ali 'in­ terno della pericope 5,1 1-2 1 , parte di un'ampia apologia dell'apostolo verso la comunità.59 L'intento pragmatico di stabilire i reciproci rap­ porti, che si manifesta qui nella presentazione dell'apostolo come am­ basciatore della riconciliazione e nel conseguente invito ai corinzi alla riconciliazione (v. 20), può verosimilmente aver indotto questo lin­ guaggio, desunto dai rapporti umani, in un contesto teologico. Esso non è l'unico: anzi, pure la presente pericope accumula molte categorie soteriologiche. Dando una rapida scorsa a quelle già conosciute, ri­ scontriamo ai vv. 14-15 la formula-hyper, che ricorda la morte di Cristo come atto gratuito per noi, dimostrazione di un amore che diviene il criterio determinante la vita e la gerarchia di valori dei credenti. Paolo, inoltre, conclude tali versetti con il ricordo della risurrezione di Cristo, nuova conferma dell'unità dell'evento salvifico pasquale. In questo contesto è introdotto il lessico della riconciliazione, in due frasi parallele ai vv. 1 8-19: «Tutto questo però (è) da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha dato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non mettendo in conto agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione». Con queste asserzioni, il passo paolino entra in un orizzonte teo-logico, ricordando, al pari d i Rm 5,8-10, che è Dio l'artefice della riconciliazione. E come in quel passo, anche qui la riconciliazione è gesto di gratuità assoluta da parte di Dio che, pur essendo la parte offesa dal peccato dell'umanità, rinuncia a metterlo in conto a essa, non lo tiene in considerazione. Questo volto di Dio è stato reso esplicito, una volta per tutte, nell'autodonazione di Cristo e nel perdono in esso veicolato. Ma questo evento ha validità perenne, Dio si fa conoscere come colui che continuamente è stato mosso da siffatta intenzionalità, per cui, dopo aver utilizzato il participio aoristo 58 PENNA, Lettera ai Romani, I, 440.

�9 Cf. J. LAMBRECHT, Second Corinthians (Sacra pagina 8) , Liturgica] Press, Colle­ geville (MN) 1999, 90-106; G. LoRusso, La Seconda lettera ai Corinzi (S O C 8) , EDB, Bologna 2007, 161-174; F. MANZI, Seconda lettera ai Corinzi (LibBibNT 9) , Ed. Paoline, Milano 2002, 203-213; A. PI TIA , La Seconda lettera ai Corinzi, Boria, Roma 2006, 256279; M.E. THRALL, Seconda lettera ai Corinzi, 2 voli., Paideia, Brescia 2007, l, 418-465 ( or. ingl. Edinburgh 1994).

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al v. 18, utilizza una costruzione perifrastica all'imperfetto al v. 19, a dire che la riconciliazione indica un carattere iterato dell'agire di Dio: egli era colui che riconciliava, che continuamente si volgeva all'uma­ nità in un benevolo atteggiamento di perdono. Con ciò è suggerito che egli continua a essere guidato anche al presente da tale atteggiamento, e che esso continua nel ministero degli apostoli. Annunciatore del Dio rivelatosi in Cristo, l'apostolo è affidatario di una parola di riconcilia­ zione, e in questa veste si rivolge alla comunità di Corinto. Da qui anche l'appello esplicito alla comunità a lasciarsi riconciliare con Dio (v. 20): la riconciliazione è dono, ma per essere operativo nelle esi­ stenze individuali richiede l'adesione responsabile dei singoli.60 La pericope si conclude con una forte asserzione: «Colui che non conobbe peccato, [Dio] rese per noi peccato, affinché noi divenissimo giustizia di Dio in lui» (v. 21). Essa pare una ripresa teologica che espli­ cita come il non computare il peccato da parte di Dio si sia reso palese nel dono della vita di Cristo. In maniera plastica, ne evidenzia anche la sua dimensione drammatica. Cristo, infatti, in quanto mediatore della riconciliazione, non lo è quale intermediario equidistante dalle parti. Al contrario, è tutto dalla parte di Dio, ne personifica la volontà gratuita di ristabilimento di relazioni con l'umanità. Al contempo, s'im­ mette in tutto dalla parte dell'umanità peccatrice, con la sua morte drammatica si viene a trovare in una situazione che sembrerebbe aliena da Dio, espressione del peccato che signoreggia nella storia umana. Cristo, quindi, ne vive la condizione in maniera totale, pur non facendo esperienza personale di peccato. La riconciliazione è così resa possibile dalla piena condivisione di Cristo con la storia dell'umanità peccatrice. Con una metonimia ciò è detto per mezzo del sostantivo concreto «hamartia, peccato» al posto della locuzione generica «Situa­ zione di peccato». Con una metonimia analoga, in Gal 3,13 Paolo aveva definito Cristo quale «maledetto», in quanto si era trovato in una situazione che la legge considerava oggetto di maledizione. Tali fi­ gure non vanno intese nel senso di una soddisfazione vicaria, quasi che Cristo pagasse il prezzo del peccato al posto dei peccatori. Lo esclu­ dono le locuzioni soteriologi èhe paoline già esaminate, in cui tale senso è totalmente estraneo. Lo esclude il contesto presente e la semantica della riconciliazione, che indica un processo che nasce dali'amore di Dio, non dalla sua sete di vendetta.61 Lo esclude la conclusione del ver­ setto, che indirizza l'attenzione verso ciò che è possibile all'umanità raggiunta da Cristo, ossia il divenire «giustizia», palesando così che

60 Così anche BREYTENBACH, Versohnung, 137. 61 C1 O. HoFIUS, Paulusstudien (WUNT 51), Mohr Siebeck, Tiibingen 1989, 33-49.

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l'interesse è il cambiamento della situazione dell'umanità, non dell'atteggiamento di Dio; egli, al contrario, è sempre colui che riconcilia! Come inciso, annoto il lemma «giustizia», che pone anche in questo brano la riconciliazione in stretta analogia con la giustificazione. Inol­ tre, la giustizia qui risulta più nella linea di una «realtà elargita», o me­ glio, partecipata, giacché ciò avviene per mezzo di una stretta comunione con Cristo, espressa dalla locuzione «in lui» riferita a Cri­ sto, che riprende quella analoga del v. l7. Ma l'investigazione di questa semantica sarà oggetto del capitolo successivo. Al momento, si può concludere rilevando la specificità dell'uso paolino della semantica della riconciliazione. Essa non consiste solo nella collocazione di un gruppo lessicale desunto da relazioni inter­ personali in un contesto religioso, nel qual caso si danno alcuni ante­ cedenti nel giudaismo ellenistico. Si leggano, al riguardo, i passi di 2Mac 1 ,5; 5,20; 7 ,33; 8,29, ove però è Dio che si riconcilia, muta l 'atteg­ giamento di ostilità ritornando hcncvolo verso i suoi . Al contrario, il nostro essere riconci liati, secondo Paolo, non nasce da un Dio che placa la sua avversione. ma dalla sua incondizionata gratuità, che prende l'iniziativa immeritata di ristabilire in una comunione con sé chi, per così dire, si trovava su un'altra sponda. C'è quindi da dubitare che il giudaismo ellenistico possa costituire un background significa­ tivo per spiegare l'ardita terminologia paolina,62 che invece pare più consona a esprimere la dimensione di dono gratuito e interpersonale sottesa alla morte di Cristo. N el dono di Cristo si rende presente il dono del Padre stesso, che riabilita a una relazione con sé chi era in una situazione oggettiva di alienazione da lui. Di sicuro vanno decisa­ mente smentite letture che attribuiscono a Dio l'ostilità verso i pecca­ tori.63 Ne è prova il fatto che, in Rm 5,10, «echtros, nemico)) non qualifica Dio, bensì l'umanità peccatrice. La riconciliazione, lo ribadi­ sco, non nasce dall'avversione placata di Dio per noi, ma dal suo amore ( Rm 5,8) resosi storicamente manifesto nell'amore di Cristo (2Cor 5,14) che dona la sua vita a noi. In questo dono Dio trova la strada per chiamare a sé chi era da lui alienato.

62 Così, pertinentemente, C. BREYTENBACH, «Salvation of the Reconciled (with a Note on the Background of Paul's Metaphor of Reconciliation)», in J. VAN DER WAIT (ed.). Salvation in the New Testament (NT.S 121), Brill, Leiden 2005, 271 -286, special­ mente 277-278, polemizzando soprattutto con S. KIM, «2Cor 5:11-21 and the Origin of Paul's Concept of Reconciliation», in NT 39(1997), 361 -384. fl.l Così, invece, R.P. MARTIN, « Reconciliation: Romans 5 , 1 - 1 1 » , in SoDERLUND ­ WRIGHT (edd.), Romans, 36-48, qui 42. Cf. anche le osservazioni critiche mossegli da S.K. PORTER, «Paul's Concept of Reconciliation, 1\vice More», in Io. (ed.), Pau/ and His Theology, Brill, Leiden 2006, 144-145.

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·

Capitolo 5

I credenti: uniti a Cristo e perciò figli

I NTRODUZIONE

Se riprendiamo in mano il brano con cui avevamo concluso il ca­ pitolo precedente (2Cor 5,16-2 1 ). troviamo in sei versetti la duplice ri­ correnza del sintagma «en Christo; • in Cristo» (vv. 17.19), più una ricorrenza «en auto; , in lui», con il pronome a lui riferito (v. 21). Al v. 19 esso ricorre all'interno di una frase il cui soggetto è Dio Padre, con­ notato come colui che «riconciliava a sé il rnondo in Cristo». Il paral­ lelismo con il versetto precedente, in cui ricorre il sintagma «dia Christou, mediante Cristo», fa assumere al sintagma un valore stru­ mentale, in cui la preposizione en è equivalente all'ebraico be. Lo stesso però non è assodato nelle altre due ricorrenze. Iniziamo a rilevare che esse hanno per soggetto gli individui, non Dio Padre. Nella prima, il sintagma «in Cristo» è predicato del sottinteso verbo «è», così che l 'apodosi seguente risulta composta da un bilanciato chiasmo, o ve nell'antitesi «Vecchie/nuove» si può scorgere un'eco intertestuale di Is 43,18- 1 9. In tal modo un senso strumentale del nostro sintagma è sem­ plicemente improponibile. Anche al v. 21 il movimento del pensiero invita a riconoscervi altre sfumature. Poiché noi diventiamo, ossia par­ tecipiamo, della giustizia stessa di Dio, pare conseguente dedurre che ciò avviene partecipando di ciò che compete a Cristo stesso in quanto Figlio. Egli, infatti, si è reso «peccato», ossia ha partecipato in pieno della nostra condizione storica, in un dinamismo di condivisione soli­ dale, non di vicarietà sostitutiva, affinché noi potessimo a nostra volta partecipare della sua stessa realtà. È allora maggiormente congruo leg­ gere la presente locuzione come indicante una profonda unione tra noi e Cristo, e non una mera strumentalità che, in sé, farebbe di Cristo un mediatore che rimane esterno rispetto alle parti mediate. Al con­ trario, si può giungere a dire che, se noi diventiamo «giustizia di Dio», diveritiamo ciò che egli stesso è.1 È opportuno a questo punto ricolle1

Cosi anche M.D.

HOOKER,

«On Becoming the Righteousness of God: Another

Look at 2Cor 5,21», in NT 50(2008), 358-375, qui 370.

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garci a ciò che si diceva al capitolo 3 di 1 Cor 1 ,30, per esplicitare, in una traiettoria ideale, il pensiero paolina. Giacché Cristo è divenuto per noi giustizia, noi, proprio essendo «in Cristo Gesù», diventiamo giustizia di Dio. Si rafforza, così, ciò che già traspariva in tale capitolo, ossia che il sintagma «in Cristo», come quelli equivalenti, hanno un senso sociativo e non solo strumentale, e indicano una profonda co­ munione tra Cristo e il credente. Il concetto di profonda unione tra il credente - nella fattispecie l'apostolo stesso - e Cristo è da Paolo declinato anche in Gal 2,18-19, con un altro tipo di linguaggio, ossia l'essere «con-crocifisso a Cristo». Si tratta di un genere di locuzioni fugacemente saggiato nel capitolo precedente, da cui traspariva già che non può tout court essere equi­ parato alla giustificazione, giacché connota l'esistenza dei credenti con un tipo di relazione interpersonale di assoluta profondità con Cristo. Che questi linguaggi non siano tra essi alternativi, bensì complementari. è assicurato dalla loro presenza simultanea nella medesima pericope. Thttavia ciò non basta per affermarne l'identità; si tratta di linguaggi che denotano realtà differenziate, sicuramente non contraddittorie, ma non identiche. Lo stesso si può dire della relazione tra l'essere «in Cri­ sto» e la giustificazione. l Cor 1 ,30 e 2Cor 5,16-21 affiancano queste ca­ tegorie, facendo percepire come si chiariscano reciprocamente, ma proprio per questo esse non sono sinonime. 2 In prima approssimazione, tali categorie risultano fare ricorso, ov­ viamente, a un linguaggio metaforico, poiché nessun credente è mate­ rialmente crocifisso con Cristo, né può essere fisicamente in lui. Ma è bene rammentare che la metafora non è, per la sua dimensione figu­ rata, un modo di espressione inconsistente, ma è un veicolo di comu­ nicazione assolutamente pregnante, fa riferimento alla realtà con modalità figurate, senza per questo rinunciare a significarla. Parlare di metafore, quindi, non implica rinunciare a precisare ciò che da esse è propriamente veicolato, al contrario, lo esige. D a ciò che è già emerso, si può asserire che le metafore qui esaminate sono sulla linea di una reciproca comunione, dicono una profonda relazione interpersonale tra il credente e Cristo, una partecipazione di una persona alle vicende e alla realtà dell'altra. Ma come si rende possibile tale partecipazione? Cosa. comporta? La risposta a questi interrogativi introduce la discussione di ciò che andava sotto il titolo di «mistica paolina», espressione fortemente equivoca che, per tale ragione, Sanders ha proposto giustamente di de-

2 Così, invece, J.R.D. KIRK, Unlocking Romans. Resurrection and the Justijication of God, Eerdmans, Grand Rapids-Cambridge 2008, 125.

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nominare con un'altra terminologia, quale quella «partecipazionista».3 Riferimento ancora importante, al riguardo, rimane lo studio di Schweitzer, che colloca ciò che noi ora definiamo come metafore par­ tecipazioniste all'interno dell'escatologia di Paolo, a sua volta deter­ minata dalla risurrezione di Cristo. La risurrezione è, secondo il suo linguaggio, «forza del mondo soprannaturale, già all'opera nella crea­ turalità)), cosicché, in attesa della parousia del Signore, essa determina già una compresenza tra mondo naturale e mondo soprannaturale.4 Ora, a prescindere da una discutibile separazione tra la concezione escatologica di Paolo e quella gesuana, da Schweitzer ritenuta pre­ messa, invero non necessaria, alla sua tesi, tale approccio sembra pro­ mettente perché, in linea con quanto verificato nei capitoli precedenti, la comprensione dello statuto e dell 'identità dei credenti è, per Paolo, originata propriamente dall'evento della Pasqua e dalla sua compren­ sione. Una prima ipotesi di lavoro sarà. allora . quella di verificare pro­ prio se e come egli relazioni le metafore partecipazioniste a tale evento. Con la specifica essenziale, ricordata da Schweitzer e da me si­ nora non declinata, ma che apparirà nel seguito palese, che la Pasqua, pur essendo la parola decisiva di Dio sulla storia umana, non è l'ultima, ma apre all'attesa del suo compimento escatologico. Per tornare poi al merito delle categorie qui esaminate, per Schweitzer la forza della Pasqua produce nel credente una sorta di «mistica dell'essere morti e risorti con Cristo)), in modo da formare, con lui e con gli altri credenti, una nuova «personalità globale)), in cui non hanno valore gli statuti di provenienza. 5 Egli, quindi, conclude parlando di Christusmystik, ossia di una comune appartenenza dei credenti a Cristo quale loro Signore, più che di una Gottesmystik, che postulerebbe un'unione immediata con Dio.6 Non è possibile ripercorrere tutto l'articolato dibattito suscitato da queste tesi. Il mio obiettivo è ora l'analisi di due testi esemplificativi della Lettera ai Romani in cui si .fa ampio ricorso a quelle che da qui in avanti saranno denominate «categorie soteriologiche partecipazio-

3 E.P. SANDERS, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Paideia, Brescia 1986, 604 (or. ingl. 21 9H4). Il riproporre le problematiche sot­ tese alla questione sulla base dei suoi studi primigeni, come 1. DE VILLIERS, «Adolf Deis­ smann: A Reappraisal of His Work, Especially His Views on the Mysticism of Paul», in S.K. PORTER (ed. ), Paul and His Theology, Brill, Leiden 2006, 392-422, fa bensì percepire il merito di tali lavori antesignani, ma non fornisce elementi utili per il chiarimento delle questioni da questi ulteriormente sollevate. Esse sono invece puntualmente indicate nell'esaustiva rassegna della ricerca operata da R. PENNA, L'apostolo Paolo. Studi di ese­ gesi e teologia, Ed . Paoline. Cinisello Balsamo 1991 , 630-6 73. 4 A. ScHWEITZER, Die Mystik des Apostels Paulus, Mohr (Siebeck), Ttibingen 1930, 99. 5 SCHWEITZER, Die Mystik, 102-140. 6 SCHWEITZER, Die Mystik, 367-368.

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niste>>, per esplicitarne i costitutivi e abbozzare un loro profilo sinte­ tico, in relazione anche con gli altri testi dell'epistolario paolino, te­ nendo presenti le problematiche che esse aprono soprattutto in relazione alla giustificazione e all'etica. LA «MORTE CON» CRISTO: RM 6,1-147

Che i vv. 2- 1 1 costituiscano una prima unità letteraria, caratteriz­ zata da verbi all'indicativo, aventi prevalentemente come soggetto il «D Oh> credente e racchiusi da un 'inclusione apethanomen l nekrous te ; hamartia; (morimmo/morti al peccato) e zesomen/zontas (vivremo/vi­ venti), è un dato ampiamente riconosciuto dagli studiosi che, in genere, sono ugualmente concordi nel ritenere i vv. 1. 2-14 come peculiari, per il loro tenore più esortativo, ma in ogni caso connessi con i precedenti, se non altro per l' «oun, dunque>> del v. 12. Il v. l, nella forma di do­ manda diatribica, rappresenta l'inizio della sezione, analogamente al v. l3, che con una domanda speculare dà la stura a un'unità letteraria successiva. La domanda del v. l può ben riecheggiare critiche rivolte a Paolo dai suoi oppositori (cf. Rm 3,8), ma al presente nasce dal conte­ sto argomentativo. In 5,20b, infatti, Paolo aveva fatto un'affermazione constatativa: «Dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia>>. Se si opera da questa constatazione un'inferenza causale (illegittima), ipo­ tizzando una connessione del tipo: «Poiché abbondò il peccato, sovrab­ bondò la grazia>> , l'invito a rimanere nel peccato per ottenere un effetto positivo potrebbe essere effettivamente conseguente.8 La do­ manda iniziale della nuova pericope si riaggancia così letteralmente ai versetti precedenti, e questo è un indizio a prova della tesi che vede in 5 ,20-21 la propositio governante i capitoli 5-8 della lettera,9 mentre 7 Cf. C.E.B. CRANFIELD, The Epistle to the Romans (lCC) , 2 voli., T&T Oark, Edin­ burgh 1975, l, 295-320; J.D.J. DUNN, Romans (WBC 38A-B), Word, Dallas 1988, I, 303333; R. JEWETI, Romans. A Commentary, ed. by D. KOTANSKY - E.J. EPP (Hermeneia). Fortress Press, Minneapolis 2007, 390-413; S. LÉGASSE, L'Epistola di Paolo ai Romani. Queriniana. Brescia 2004, 296-318 (or. fr. Paris 2002): E. LoHSE, Der Brief an die Romer (KEK 4), Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 2003, 184-197; R. PENNA, Lettera ai Ro­ mani 6-11 (SOC 6), 3 voli ., EDB, Bologna 2006, II, 13-49; A. PITTA, Lettera ai Romani (LibBibNT 6), Ed. Paoline, Milano 2001, 243-254; U. WILCKENS, Der Briefan die Romer frll (EKK 6), 3 voli., Neukirchener, Neukirchen-Vluyn 21 987, II, 6-33. Riformulo qui il mio precedente S. ROMANELLO, «Una libertà responsabile. L'identità e l'agire dei cre­ denti nella prospettiva di Rm 6», in G. DEL MISSIER - M. QuALIZZA (edd.), Legge e li­ bertà, Fs. E. Lizzi, ISSR-STI, Udine 2009, 45-55. 8 Cf. D. HELLHOLM, «Enthymemic Argument in Paul: the Case of Romans 6», in T. ENGBERG-PEDERSEN (ed.), Pau/ in His Hellenistic Context, T&T Clark, Edinburgh 1994, 147-149. 9 Cf. J.-N. ALETII, La Lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Boria, Roma 1997, 40-41 .

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i vv. 6,1-2, in quanto rilancianti l'argomentazione sul problema già adombrato da 5,20b, risultano una sua prima subpropositio. Paolo avrebbe potuto qui limitarsi a protestare l'illegittimità di una qualche connessione di tipo causale, ma ciò non gli basta. Egli, infatti, si decide a motivare estesamente l'incompatibilità tra grazia e peccato, � lo fa a partire da considerazioni sullo statuto dei credenti, che non a caso divengono il soggetto grammaticale dell'intero capitolo. E forse ciò sottende un'esigenza più radicale: dopo aver abbondantemente chiarito ai capitoli 3-4 che i credenti, in quanto giustificati, sono intro­ dotti gratuitamente in una relazione con Dio, ora Paolo dovrà ben de­ clinarne lo statuto, argomentare su ciò che comporta tale relazione per le loro esistenze. A seguito di un 'estesa argomentazione dal tenore teo-logico, uno sguardo dal punto di vista dei credenti, della concre­ tezza esperienziale delle loro esistenze e dei loro costitutivi, pare del tutto conseguente. Ora, è proprio tale sguardo a far leva sulle categorie partecipazioniste, vale a dire sui costrutti con la preposizione syn-, tra cui alcuni tennini sono verosimilmente coniati proprio dall'apostolo, nonché su un movimento di pensiero che ne declina estesamente le implicazioni.10 D a subito, Paolo afferma che i credenti sono «morti al peccato», cosicché un vivere in esso appare opzione improponibile. Si noti come «il peccato, he hamartia», in continuità con la pericope precedente e al pari di tutte le ricorrenze successive nel capitolo, sia al singolare, ri­ sultando un'entità personificata, uno stato generale, previo alle singole azioni umane e su queste influente. La libertà da esso, conseguente­ mente, non verrà descritta come «non fare più peccato», ma come una liberazione dalla relazione c�n esso. È ciò che è denotato dall'espres­ sione «morti al peccato», che comunque, se non altro per la sua valenza fortemente metaforica, richiede di essere spiegata. A questa spiegazione sono indirizzati i vv. 3-4: O non sapete che quanti siamo stati battezzati in relazione a Cristo Gesù. in relazione alla sua morte siamo stati battezzati? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui in relazione alla morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una novità di vita. Il chiasmo del v. 3 è imperniato su un gioco tra il senso sacramen­ tale e quello letterale del verbo «baptizomai, battezzo/immergo». Si _. 1 0 V. 4 : «synetaphemen, sepolti con»; v. 5: «symphytoi, uniti con»; v. 6: «synestaurothe, crocifissi con»; v. 8: «apethanomen syn Christo Christo, morimmo con Cristo», > compiuta, è attesa in un futuro escatologico. Il fatto è ribadito ai vv. 5 e 8. In quest'ultimo caso, l'essere «già>> morti-con-Cristo è ricordato nella protasi di un'ipotetica del primo tipo, constatativa di una realtà di fatto, che assurge quale premessa motivante del ritenere traguardo del credente il vivere-con-lui. Questa unione alla sua risurrezione è, tuttavia, traguardo ancora atteso, espresso pertanto con un verbo al futuro. E al momento, come si manifesta, nel credente unito a Cristo, il dinamismo della sua risurrezione? Nel suo «camminare>>, asserisce Paolo, utilizzando un verbo che nel suo epistolario ha sempre una va­ lenza metaforica, riferendosi alla vita etica. 14 In sintesi, la partecipa­ zione del credente alla pasqua di Cristo e la com ':lnione che così

Interpretation of Baptisni in Romans 6», in ENGBERG-PEDERSEN (ed.), Pau! in His Hel­ lenistic Context, 84-1 18. 13 Cf. JEWETI, Romans, 398-399, che parla di ritual reenactement.

• ..- Rm 6,4; 8,4; 13,13; 1 4 , 1 5 ; 1 Cor 3,3; 7, 1 7 ; 2Cor 4,2; 5,7; 10,2; 12,18; Gal 5,16; Fil 3,17.18. Questa «ricaduta al presente» del dinamismo della risurrezione non è però ra­ gione sufficiente per negare il carattere squisitamente escatologico dei verbi futuri dei vv. 5 e 8, come vorrebbe T. Kuo- Yu TsUI, «Some Observations on the Use of the Future in Rom 6,5-8>>, in ZNW 100(2009), 287-294. Se Paolo non avesse avuto l'intento di ri­ marcare la riserva escatologica, perché non utilizzare il tempo presente?

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s'instaura lo affrancano dal legame con la potenza coercitiva del pec­ cato e gli permettono un'esistenza orientata non più al peccato. Come per Cristo è avvenuta una pasqua, ossia un passaggio, dalla morte alla vita, così per il credente si dà un vero passaggio da una situazione al­ l'altra. Per questo la sua vita etica è menzionata con un vocabolario che ricorda la novità di vita della risurrezione, precisando al contempo che la sua unione a Cristo risorto non è al momento definitiva� ma si realizza precisamente nella sua vita etica. I vv. 5-10 amplificano questi assunti con un parallelismo formale, che rende la pagina una commoratio retorica in cui il pensiero ritorna sui medesimi punti, sottolineandone alcune sfumature ma senza operare sviluppi decisivi, con una conclusione applicativa ai credenti al v. 11: 8Ma se morimmo con Cristo,

5Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione

crediamo che anche vivremo con lui,

6essendo consapevoli che l'uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse distrutto il corpo di peccat o, e noi non fossimo più schiavizzati al peccato".

9sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non dominerà più su di lui.

7/nfatti chi è morto, è

giustificato dal peccato.

10/nfatti riguardo alla sua morte [lett. la morte che egli morì ] , mori al peccato una volta per tutte . . .

I vv. 5 e 8 iniziano i due segmenti di pensiero, legando l'unione at­ tuale del credente alla morte di Cristo a quella futura alla sua risurre­ zione. I vv. 6 e 9 fanno appello a un sapere proprio dei credenti, che riguarda la loro conseguente liberazione dalla signoria del peccato e da quella, a essa strettamente parallela (cf. 5,12.15.17), della morte. I versetti finali ribadiscono il concetto di morte metaforica alla potenza del peccato. Dal punto di vista sintattico-grammaticale, il brano presenta aspe­ rità grammaticali che sollevano varie discussioni, le quàli comunque non intaccano il suo senso globale. Rimandando pertanto ai commen­ tari per le analisi di dettaglio, di seguito mi limito ad alcune puntualiz­ zazioni. La difficoltà più rilevante è forse offerta al v. 5, che unisce l'aggettivo «symphytoi, uniti con» al dativo «to; homoiomati tou tha­ natou autou, alla somiglianza della sua morte)). Se l'aggettivo dice da par suo la stretta comunione tra credenti e Cristo, in continuità con il tenore dell'intero brano, non è chiara la ragione della presenza di h o ­ moioma; non sarebbe stato più lineare asserire semplicemente che il credente è unito alla morte di Cristo? E come intendere il sostantivo? 118

Al riguardo, rimane decisivo lo studio di Vanni, che dimostra che in Paolo, al pari della LXX, il lemma denota una sorta di «rappresenta­ zione visibile di una realtà», senza con questo implicare necessaria­ mente una differenziazione dalla stessa.15 In altre parole, quanto l' homoù5ma sia somigliante al rappresen­ tato nel senso di una sua riproduzione o, al contrario, sia dissimile, lo può dire solo il contesto. E per Paolo la seconda ipotesi non può essere data per scontata: in Fil 2,7, ad esempio, scrivendo che il Figlio divenne «en homoù5mati anthropon, a somiglianza di uomini», non può certo intendere una differenza tra l'essere-umano del Figlio e la nostra uma­ nità ! Anche il nostro brano, allora, imperniato sull'effettiva partecipa­ zione del credente alla morte di Cristo, non può che voler dire che noi siamo concretamente uniti alla sua morte. Il sostantivo sembra qui 4uasi ridondante, a meno di non intendere sottinteso il pronome per­ sonale riferito a Cristo, e il senso risultante di un 'unione a lui, mentre il dativo to; homoiomati sarebbe non direttamente connesso al prece­ dente aggettivo, bensì strumentale, indicando ciò che rende possibile tale unione, ossia la partecipazione del credente alla morte di Cristo. A tale morte, dunque, il credente è personalmente partecipe, in modo che essa diviene un fattore congenito nel credente stesso. Thtto questo è un processo, poiché è in vista di una ancor più completa unione a Cristo nella risurrezione. Al v. 6 ritorna il verbo «synstauromai, sono con-crocifisso» di Gal 2,19, qui con soggetto «l ' uomo vecchio». Il sintagma denota il tipo di esistenza non ancora raggiunta dalla novità dell'opera di Cristo, con­ trassegnata da un legame con la potenza alienante dell hama rtia (5,1221 ) . Altro termine per indicare la stessa realtà è «corpo del peccato», che non indica la corporeità umana come intrinsecamente peccami­ nosa, ma l'intera esistenza umana a prescindere da Cristo, in quanto storicamente asservita al peccato.16 Ebbene, questa condizione è stata effettivamente messa a morte, perché il credente è ormai inserito in un altro legame di tipo salvi fico: quello con il Cristo e con la sua morte. Il passo parallelo, ai vv. 9-10, porta l'attenzione a Cristo, risorto dai morti, spronando i lettori a scorgere in filigrana la loro vicenda in '

15 U. VANNI, >, ossia, con un linguaggio metaforico, la vittoria sul peccato. Effetto ulteriore è la necessaria ricaduta di tale vittoria sull'esistenza dei credenti, che può così essere conformata allo Spirito, e non più alla carne. 22 23

124

RoMANELLO, Una legge, 216-219. VON DER 0STEN-SACKEN, Romer 8, 152.

Utilizzando il verbo «Camminare» al · v. 4, Paolo ha in vista l'agire etico dei credenti. Esso, tuttavia, nasce da disposizioni esistenziali ca­ ratterizzanti l'intero individuo, evocate dal v. 5 con il verbo froneo e il corrispettivo sostantivo fronema. Tali lemmi indicano un pensare ope­ rativo, un progetto, un proposito che orienta l'esistenza. I vv. 5-6 evo­ cano due classi di persone, i cui propositi sono orientati antiteticamente, dalla carne o dallo Spirito, e i cui esiti sono corrispettivamente opposti, di morte o di vita escatologica. I vv. 7-8 sviluppano la parte negativa di t ale descrizione, mentre i vv. 9-1 1 quella positiva, riferendola ai cre­ denti direttamente interpellati (v. 9: «Ma voi non siete nella carne, ma nello Spirito . . . >>). La locuzione del v. 9b, «se in vero lo Spirito di Dio abita in voi>>, non va intesa in senso dubitativo. ma richiama l'atten­ zione sulla condizione così espressa. I credenti sono effettivamente raggiunti dal dono dello Spirito, cosicché possono orientare le proprie esistenze in conformità al volere di Dio: il dono dello Spirito è garanzia di questo! Dio, mediante Cristo, ha vinto il peccato e ha reso partecipi i credenti di tale vittoria grazie al dono dello Spirito, forza vitale che orienta continuamente le loro esistenze a Dio. Il loro progettare e pro­ gettarsi può essere in sintonia con il progetto di Dio. Questo è nel segno di una possibilità gratuitamente offerta, concretamente efficace, ma che dev'essere ratificata con scelte libere e conseguenti da parte dei credenti. Sebbene, infatti, il peccato sia vinto, la continuata men­ zione della carne e dei suoi progetti indica che esso conserva una sfera di operatività nella storia, e che i credenti non sono automaticamente immuni da esso. Il dono dello Spirito, pertanto, è per loro una dimen­ sione-forza, sorgiva di una dinamicità che può essere fattiva grazie alla loro risposta. I successivi vv. 12-13 lo renderanno esplicito. Nel complesso, i vv. l-1 1 presentano il massimo sviluppo della ter­ minologia partecipazionista, includendo non solo la relazione tra i credenti e Cristo. ma anche quella con il suo Spirito. Si dice, infatti, che delle persone sono «in>> Cristo Gesù (v. l) e poi si afferma che è Cristo ad abitare «nei» credenti (v. 10). Ancora, si presenta chiara­ mente la possibilità per i credenti di «essere l camminare in l secondo lo Spirito» (vv. 4.5.9a), ma in seguito si afferma che è lo Spirito ad abi­ tare «nei» credenti (vv. 9b. l 1 . 1 1 ). Tali affermazioni, prese alla lettera, cadrebbero nel ridicolo; non si capisce, infatti, chi sia in chi. Siamo in presenza della difficoltà del linguaggio umano a esprimere le profon­ dità della relazione tra Cristo e l'uomo, e della necessità conseguente di esprimersi attraverso metafore che, per mezzo di immagini diffe­ renziate, comunque indicano come il credente sia inserito in un rap­ porto personale con Cristo per mezzo del suo Spirito, in una mutua compresenza che costituisce il suo statuto e la condizione prioritaria del suo agire.

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In continuità con il pensiero paolina sinora studiato, va rimarcata anche qui la sua riserva escatologica, che indica come tale comunione non sia giunta al suo compimento, e pertanto sia evitata la terminologia della con-risurrezione. Il compimento avverrà quando Dio Padre darà pieno corso al dinamismo vitale dello Spirito che abita in noi, risusci­ tando la nostra corporeità mortale, in analogia a quanto avvenuto per Cristo (v. 1 1 ). Lo Spirito può pertanto essere qualificato come «primi­ zia» di un compimento che è futuro (v. 23), ma che inerisce un processo già in atto nella condizione di vita attuale dei credenti. Tutto ciò pone in marcata analogia il destino dei credenti con quello di Cristo; tra que­ sti, infatti, intercorre un esplicito parallelismo, con l'ovvia differenza che per Cristo la risurrezione è avvenuta, per i credenti è attesa in un futuro escatologico («darà vita», tempo futuro: v. 1 1 ). Infine, come rile­ vante novità di questo sviluppo, si deve evidenziare il ruolo attivo dello Spirito nel processo di risurrezione, sia di Cristo come dei cristiani.24 IL PROBLEMA DEL «PECCATO

(HAMARTIA)»

Dal percorso sin qui condotto, si è visto come la soteriologia sia anche vista come risposta a una situazione di peccato, realtà descritta da Paolo quale potenza condizionante l'intera storia umana. Ram­ mento brevemente i dati. In Rm 6 il «peccato (hamartia )» è apparso come situazione schiavizzante gli individui, dalla quale Dio ci libera mediante l'immersione battesimale nella morte di Cristo. L'esistenza dei singoli, storicamente assoggettata a tale forza schiavizzante, è poi qualificata come «carnale» (Rm 7,14), dalla quale siamo liberati grazie alla condivisione solidale di questa stessa storia per opera del Figlio e al dono dello Spirito che da ciò origina (Rm 8,2-10). 2Cor 5,21 esprime la condivisione solidale di Cristo con la nostra storia con l'audace me­ tonimia del «rendere peccato»; da ciò sorge per l'umanità la riconci­ liazione con Dio. In Rm 3,9-23 la giustificazione accordataci in Cristo supera la nostra impossibilità relazionale con Dio causata dalla realtà di peccato, personificato in 3,9 e poi evocato come frutto delle azioni dei singoli al v. 23. In Gal 2,1 5-21 , in vero, il lessico della giustificazione non ha come referente diretta la situazione di peccato, tuttavia tale lettera ne conosce bene la realtà (cf. Gal 3 ,22). Che il peccato sia da Paolo raffigurato quale forza coercitiva nella storia umana può essere colto dal semplice rilievo delle sue ricorrenze

24 Cf. S. BRODEUR, The Holy Spirit Agency in the Resurrection of the Dead. An Ex­ egetico- Theological Study of J Corinthians 15,44b-49 and Romans 8, 9-13 (TGTeol 14), Pontificia università gregoriana, Roma 1996, 163-269.

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ai capitoli 5-7 della Lettera ai Romani, ove esso è costantemente al sin­ golare e soggetto di verbi quali del credente al peccato (6,2.10) denota pro­ priamente l'affrancamento da siffatta rcaltù coercitiva. Da ciò nascono diversi interrogativi: come interpretare 4ucsta idea di peccato come «po­ tenza» pervasiva? Da dove trae origine? E quale relazione con gli atti peccaminosi dei singoli? Di seguito tali questioni saranno trattate nella misura in cui afferiscono le questioni soteriologiche qui in esame. Da una prospettiva meramente linguistica, questo processo di «dare vita letteraria» a una realtà astratta, quale il peccato, è qualificabile come prosopopea o personificazione, da intendersi come caso partico­ lare della metafora. Ciò detto, rimane da chiarire quale effetto consegua siffatto artificio retorico, ossia quale referenza nella realtà voglia espri­ tnere la personificazione di un'entità astratta com'è il peccato. Proprio su questo aspetto l'importante studio di Rohser, pur cogliendo adegua­ tamente tale dimensione retorica dell'argomentare paolino, mi sembra infine deficitario. Per un verso, infatti, egli riconosce, ad esempio, come il soggetto di Rm 7,7-25 si trovi fortemente condizionato dal peccato nel proprio agire. 25 Ma per un altro, quando nega al peccato non solo ogni dimensione di «potenza», ma persino quella di «sfera operativa»,26 giunge di fatto a non chiarire da dove derivi il condizionamento di cui il soggetto è vittima, non dando ragione della portata delle summen­ zionate tesi paoline. A questo tipo di affermazioni negative si può obiet­ tare che l 'identificazione della dimensione metaforica e retorica delle locuzioni paoline non è ragione sufficiente per negare che esse indi­ chino una situazione oggettiva e condizionante. Il funzionamento della personificazione metaforica dev'essere individuato dall'effetto che essa consegue nello sviluppo argomentativo. Ora, se per il credente si rende necessaria una «morte» metaforica al peccato, significa che Paolo lo in­ tendt?. come potenza effettivamente operativa nella storia, da cui è pos25 Cf. G. R6HSER, Metaphorik und Personifikation der Sunde. Antike Sundenvorstel­ lungen und paulinische Hamartia (WUNT/2 25). Mohr (Siebeck), Ttibingen 1987, 1 26. 26 ROHSER, Metaphorik, 156-157.

1 27

sibile sottrarsi solo unendosi alla morte di Cristo, entrando nella sua si­ gnoria che è alternativa a quella del peccato. Anzi, va rilevato con estrema chiarezza che i singoli, lasciati esclusivamente alle proprie forze, non hanno alcuna possibilità di conseguire la propria liberazione. Ciò è espresso plasticamente nel grido angosciato dello sventurato sog­ getto di Rm 7 ,24, che invoca una liberazione che da solo non è capace di darsi, proprio perché è asservito a una realtà che si rivela tragica­ mente potente, la cui consistenza dev'essere quindi presa assolutamente sul serio. Va anche chiarito che tale grido non è confessione autobio­ grafica di Paolo, ma un'ulteriore personificazione retorica dell'umanità non redenta, la cui condizione è compresa con chiarezza proprio a par­ tire dalla novità di vita resa possibile da Cristo.27 La valenza denotati va della personificazione del peccato in Paolo non può quindi essere negata. Esso indica una situazione effettiva­ mente operativa nella storia, tragicamente influente sulla vita di ogni soggetto. Si potrebbe convenire, in linea generale, con chi sostiene che Paolo descrive una situazione di peccato coinvolgente l'intera umanità, senza interessarsi primariamente alla sua origine.28 Tuttavia si deve ri­ conoscere come ciò non sia del tutto vero per Rm 5, l 2-21, paradossale synkrisis, vale a dire articolato parallelismo, tra l'opera redentrice e vivificatrice di Cristo e quella mortifera di Adamo.29 Se con ciò si fa risaltare l'efficacia della prima, si afferma altresì che essa s'instaura su di una storia guastata dalla primigenia ribellione umana. Per giustifi­ care questo stato di cose Paolo fa ricorso alla figura di Adamo. Egli, in svariate testimonianze giudaiche, risulta quale causa della mortalità umana,30 e Paolo riprende questa tradizione in 1 Cor 15,21-22. In Rm 5,12-2 1 , poi, egli amplifica gli effetti dell'opera di Adamo, giungendo ad addebitare a lui non solo l'ingresso della morte nella storia, ma 27 Va infatti notato che l'io si definisce non semplicemente fragile, bensì «venduto come schiavo al peccato» (7,14), qualifica per Paolo incompatibile con l'identità credente. Le osservazioni del classico W. G. KOMMEL, Romer 7 und die Bekehrung des Paulus (UNT 17), Hinrichs, Leipzig 1929, conservano la loro attualità, come ho estesamente argomentato in RoMANELLO, Una legge, 190- 1 99, cui rimando per una rassegna del dibattito e di recenti tesi contrarie. Con ciò non nego che il credente possa solidarizzare con tale soggetto, giac­ chè non è reso invulnerabile alla potenza del peccato: cf. A. GIGNAC, «La mise en scène de Rom 7,7-8,4.Une approche narrative et synchonique>>, in U. ScHNELLE (ed.), The Letter to the Romans (BEThL 226), Peeters, Leuven-Paris-Walpole 2009, 133- 134. 28 H. LICHTENBERGER, Das !eh Adams und das /eh der Menschheit. Studien zum Menschenbild in Rom 7 (WUNT 164), Mohr Siebeck, Ttibingen 2004, 267. 29 Non è possibile rendere ragione degli ampi dibattiti su tale discussa pericope, che comunque esorbitano i presenti interessi: oltre ai commentari, si veda J.-N. ALETII «Ro­ mains 5 , 1 2-21. Logique, sens et function», in Bib 78(1997), 3-32. 30 Sottolineo che ciò è indiscusso anche in fonti che invece contestano il legame tra il peccato di Adamo e quello dei suoi discendenti, quali l'Apocalisse siriaca di Baruch (cf. ApcBar(syr) 17,1-4; 19,8; 23,4; 48,42-43; 54,15; 56,5-6) e la letteratura rabbinica (cf. SifreDeut 32,32 § 323; TanhumaGen 5b; DeutRabba 9; GenRabba 16). ,

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a nche l'affermarsi di una situazione di peccato. È ben conosciuto che poche fonti ebraiche riportano affermazioni analoghe. 31 Non va peral­ tro dimenticato come proprio la questione dell'origine del male sembri costituire la genesi della prima apocalittica, che specula sul peccato originario dei Vigilanti e sulla sua conseguenza. 32 È vero che Paolo non si abbandona a tali speculazioni, ma le può ben assumere come retroterra su cui sviluppare le proprie riflessioni, trasferendo alla figura di Adamo le affermazioni enochiche sul peccato angelico.33 Il carattere conosciuto di tali affermazioni può spiegare il loro carattere sbrigativo nella penna dell'apostolo, che si serve di esse solamente come sfondo del suo argomentare, per porre in adeguato risalto l'opera di Cristo. A ogni buon conto proprio tale sfondo culturale conferma la serietà che la situazione di peccato assume nella sua riflessione. Su tale sfondo si staglia l'opera di Cristo, che pone rimedio a una situazione altrimenti senza via d'uscita. Non si può quindi convenire con chi equipara la ri­ flessione paolina a quella rabbinica sull'impulso malvagio (ye$er hara ').34 Il rabbinismo, infatti, riconosce che ruomo può essere portato al male e chiama tale inclinazione impulso malvagio, ma contraria­ mente all'apocalittica il rabbinismo non ritiene mai che esso sia tal­ mente forte da non poter essere vinto dal singolo attraverso l'osservanza della legge. Al contrario, per Paolo lo stesso apparire della legge non giova a controbattere il peccato, ma ha paradossalmente reffetto di «incrementare la caduta)) (Rm 5,20a). Al riguardo, l'antro­ pologia di Paolo è più negativa di quella rabbinica, affine a quella dell'apocalittica enochica e a quella dei settari di Qumran.35 31

Inequivocabile è 4Esd 3,7; 7,48.116-126; 1 1 8. Cf. anche Sir 25,24 e ApcMos 32, che

al riguardo chiamano in causa Eva.

32 Cf. Hen(aeth) 10,8: «Tutta la terra si è corrotta per aver appreso tutte le opere di Azazel, e ascrivi a lui tutto il peccato», tesi reiterata in varie sezioni della composita Apo­ calisse di Enoch: cf. tutti i cc. 6-36 (Libro dei Vigilanti), nonché i cc. 64; 69; 86; 106; ecc. 33 Così P. SACCH I L'apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1 990. 146 e, a suo seguito, R. PENNA, «Apocalittica enochica in s. Paolo: il concetto di peccato», in lo. (ed.), «Apocalittica e origini cristiane», in Ricerche storico-bibliche 7(1995)2, 61 -84, qui 77-80. 34 Così anche S.K. PORTER, «The Pauline Concept of Originai Sin, in Light of Rab­ bìnic Background>>, in TynB 41(1990), 3-30. Di altro avviso invece G.-H. BAUDRY, «La théorie du "penchant mauvais" et la doctrine du "péché originel"», in BLE 95(1994), 271-301 . 35 Cf. l'eccellente panoramica di G. BocCACCINI, «> della soteriologia paolina? Per nulla! Asse­ rire che la giustificazione sia inclusa nella partecipazione non equivale a ritener la appendice secondaria, o anche in essenziale. Si è visto come essa affermi con forza il carattere incondizionatamente gratuito del­ l'agire divino verso di noi, superando con questo la nostra impossibilità a stabilire una relazione con Dio a partire dalla nostra realtà e dalle ri­ sorse in essa veicolate.54 A ben vedere, il linguaggio della partecipazione non smentisce in alcun modo tale dimensione. Il credente, infatti, non conquista autonomamente una libertà dal peccato o una partecipazione alla vicenda di Cristo, né s'inserisce «in lui» con le proprie forze. Ciò che i credenti sono dipende essenzialmente da ciò che Dio ha operato e opera per loro in Cristo, e questo rimane assodato anche quando Paolo parla di partecipazione. La giustificazione, enfatizzandolo, ricorda la priorità fondativa dell'agire gratuito di Dio e risulta, quindi, una sorta di «inizio permanente della salvezza». La partecipazione, nella misura in cui appare possibilità dischiusaci gratuitamente da Dio, lo ricorda a suo modo, e al contempo declina più com piutamente le ricadute del­ l'opera di Dio nella concretezza dell'esperienza dei singoli. Non si tratta, quindi, di dire ciò che è più importante o ciò che è secondario, bensì ciò che, più completo. include il rimanente. Ma lo stesso processo di inclusione di una categoria nell'altra comporta che le stesse si collo­ chino a un medesimo livello valoriale, non che una squalifichi l'altra. 54 Efficace, al riguardo, la protesta contro le tesi di Schweitzer ad opera di D. MAR­ GUERAT, L'aube du christianisme, Labor et Fides-Bayard, Genève-Paris 2008, 172, che ricorda come il linguaggio della giustificazione custodisca l'extra nos della salvezza.

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E tra le dimensioni dell'esistenza credente più adeguatamente com­ prese dalle categorie partecipazioniste vi è quella etica. Si è visto come. nei brani in cui la giustificazione è posta in rilievo, vi fosse un'assenza vistosa della dimensione etica. La giustificazione, infatti, non dice che ne è dell'individuo giustificato, di come si rapporti al valore morale. Queste considerazioni sono piuttosto sviluppate in brani imperniati sulle cate­ gorie partecipazioniste, come visto nei capitoli 6 e 8 della Lettera ai Ro­ mani. È ancora una volta Sanders, seguendo qui da vicino Schweitzer, che ricorda come il vivere nello Spirito, qual e frutto della partecipazione in Cristo, abiliti e richieda al credente di camminare secondo lo Spirito. 55 La partecipazione risulta quindi categoria più inclusiva anche per il fatto di far contprendere le condizioni di possibilità della vita etica del credente, e la sua necessità. Si potrà obbiettare che, essendo la giustificazione in­ clusa nella partecipazione, l'etica non è estranea alla giustificazione. Vero, se ci situiamo a livello di definizioni formali. Rimane tuttavia innegabile che il concreto linguaggio paolino non opera il passaggio tra giustifica­ zione ed etica, ma radica l'etica nella partecipazione. E non potrebbe essere diversamente. Se la partecipazione dice la profonda relazione interpersonale tra il credente e Cristo, con il suo Spirito, e l'inserimento nella sua signoria, alternativa a quella del pec­ cato, ne consegue che il credente assume per tale via gli atteggiamenti che sono propri a Cristo, ed è così abilitato a esprimere nella sua con­ dotta di vita effettiva quella libertà dal peccato di cui è stato gratificato da Dio. Per tale ragione l'imperativo etico è connaturato propriamente nel linguaggio della partecipazione. Lo si è visto nel passaggio in Rm 6,12-14, che rispetto a ciò che precede è risultato come esplicitazione necessaria. Lo si verifica anche in Rm 8,12-13, che inizia definendo i credenti «debitori» nei confronti dello Spirito, impegnati esistenzial­ mente da qualcosa che li ha preceduti e interpellati pertanto a farlo trasparire nella propria prassi. L'etica non è, in tale schema, un qual­ cosa che si aggiunge secondariamente a ciò che i credenti sono, ma una dinamica connaturata nel loro stesso statuto. È espressione dello stesso Spirito/potenza di Dio, che pervade la comunità dei credenti creando, per i suoi membri, la possibilità di progetti e azioni conseguenti, se­ condo lo stesso progetto di Dio. Tutto ciò, come già chiarito, in modo non automatico, bensì affidato continuamente alla loro libertà. 56 Anzi,

55 SANDERS, Paolo e il giudaismo, 602-604. Cf. anche G. SEGALLA, Introduzione al­ l'etica biblica del NT, Queriniana, Brescia 1989, 249. 56 Cf. F. BuscH KE , «Die Entsprechung von Gottesverhaltnis und ethischer Neubes­ timmung als Begrilndung der Ethik im Romerbrief», in ScHNELLE (ed.), The Letter to the Romans, 403-423; J.L. MARTYN, «Epilogue: an Essay in Pauli ne Meta-ethics», in BAR· CLAY - GATIIERCOLE (edd.), Divine and Human Agency, 182.

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la stessa metafora del «camminare», con cui sovente Paolo esprime l obblig azione etica, connota un processo, una dinamica di movimento, un tendere verso una meta. 57 Ovviamente, ciò richiede che l'intera per­ sona si metta in gioco in modo corrispondente a ciò che lo Spirito su­ scita in essa. Si può, a mo' di esempio, seguire la terminologia della santifica­ zione, categoria soteriologica dalle indubbie radici anticotestamenta­ rie. Si sa, infatti, che nella Bibbi a l'aggettivo indica innanzitutto la trascendenza di Dio, il tre volte Santo. Ma poiché egli ha raggiunto i credenti con il proprio agire in Cristo, e poiché essi partecipano a lui, di conseguenza partecipano pure alla sua santità. È per tale ragione che Paolo può attribuire ai credenti l'aggettivo « h agio i, santi»; talvolta essi sono semplicemente appellati come tali (ad es. Rm 8,27; 1 5,25.26.3 1 ; 16,2.15), cosicché l'aggettivo viene a indicare il loro sta­ tuto. Anzi, questo è uno degli appell ati vi dei credenti più frequenti in Paolo, essendo diffuso in tutte le sue lettere indisputate. Altre volte, però, la santità è un frutto che i credenti devono conseguire, ma lo pos­ sono fare perché sono inseriti in Cristo, e pertanto liberati dalla signo­ ria del peccato (cf. Rm 6,22). Forse già il sintagma «Chiamati santi» (Rm 1 ,7; 1 Cor 1 ,2) custodisce in sé questa dinamica di dono/impegno corrispondente. In breve: la santità dei credenti è espressione della loro esistenza in Cristo, e come tale esprime la dinamica tra il già ot­ tenuto e il non ancora cons e guito '

.

Non si saprebbe essere più espliciti. La santificazione ci è già stata do­ nata (l Cor 6,11 ) poiché abbiamo ricevuto lo Spirito Santo (l Ts 4,8), ma ri­ mane ugualmente proposta alla nostra libertà (l Ts 4,8), è allo stesso tempo la meta verso cui dobbiamo tendere (Rm 6,22) e verso cui giungiamo un po' alla volta se non mettiamo ostacoli ai moti dello Spirito in noi.58 ,

Nuovamente, queste considerazioni ribadiscono la modalità pao­ lina di fondazione dell'etica e, allineando la santità alle categorie par­ tecipazioniste, rimarcano l'importanza di queste ultime. Significativa, al riguardo, è la metaforica applicazione all'esistenza dei credenti del linguaggio cultuale, quale «thysia, sacrificio» (Rm 12,1; Fil 2,17; 4,18) e «latreuo -eia, (rendo) culto» (Rm 1 ,9; 12,1; Fil 3,3). Se lo spazio «Santo)), deputato all'incontro con Dio, diviene l'esistenza dei credenti, grazie alla partecipazione di questi alla vicenda di Cristo, 57 Cf. R. BANKS, «"Walking" as a Metaphor of the Christian Life: the Origins of a Significant Pauline Usage», in E.W. CoNRAD - E.G. NEWING ( edd. ) , Perspectives on Lan­ guage and Texts, Fs. F. I. Andersen, Eisenbrauns, Winona Lake 1987, 309. 511 J.-N. ALETII, « L éth i cisa ti on de l'Esprit Saint. Foi et ethos dans les épitres pauli ­ niennes», in J. DoRÉ et al. ( edd. ) , Ethique, religion et foi, Beauchesne, Paris 1985, 130-131. '

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anche il culto non sarà una realtà confinata nell'intangibile sacralità del tempio, bensì una caratterizzazione dell'intera persona credente e della sua concreta condotta di vita. Proprio in questi termini Paolo ini­ zia i capitoli esortativi della Lettera ai Romani 12,1-2, lasciando inten­ dere che tale nuova prospettiva «cultuale» può rappresentare la cifra sintetica delle esortazioni puntuali che seguiranno: Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto logico. Non conformatevi a questo eone, ma lasciatevi trasformare nel rin­ novamento della vostra mente, per discernere in cosa consista la volontà di Dio, ciò che è buono, gradito e perfetto.

L'intero quotidiano dell'esistenza umana è interpellato per essere orientato alla volontà di Dio, e questo richiede un discernimento con­ tinuo, possibile a una mente rinnovata dalla comunione con Cristo, che non rimane però esercizio intellettualistico bensì diviene prassi ope­ rativa, come detto per mezzo del verbo «offrire», che in modo analogo a 6,1 3 . 1 9 esprime il versante positivo dell'ammonimento etico. L'ori­ ginalità del presente passo è di qualificare tale offerta come «Sacrifi­ cio», a indicare che l'atto di culto che i credenti sono chiamati a compiere non è una qualche parentesi della loro esistenza, ma la coin­ volge interamente. Anzi, questo è l'unico culto logike, da intendere come logico, sensato, ragionevole. Si potrebbe forse scorgere, in questo insolito aggettivo, un rimando alla polemica filosofica contro il culto, 511 ma il richiamo all'offerta corporale ricorda come qui non sia in causa una riflessione razionale sul tipo di religiosità più o meno conveniente alla persona umana. Piuttosto il retroterra pare profetico, nella sua co­ nosciuta denuncia di un culto sganciato dalla vita. Paolo radicalizza tale pensiero, parlando di culto come realtà vitale tout court. Ciò è possibile perché i credenti partecipano alla vicenda di Cristo e la loro esistenza è effettivamente pervasa dal suo Spirito. In Fil 3,3 egli può allora dire che il culto dei credenti, da intendersi nuovamente come l'offerta della loro intera esistenza, avviene guidato dallo Spirito di Dio. Sottolineando l'effettività della comunione dei credenti con Cristo. denotata dalle categorie partecipazioniste, non si deve però dimenti­ care la riserva escatologica di Paolo che, come detto sopra, rifiuta coe­ rentemente di dichiarare che essi sono già con-risorti. Tale comunione, di conseguenza, è in attesa di un compimento, e ciò avverrà nell'escha­ ton. La semantica del camminare esprime anche la tensione verso un 59 Cf. R. PENNA, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documenta­ zione ragionata (La Bibbia nella storia 7), EDB, Bologna �006, 150-152.

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traguardo, che appare così realizzazione di una possibilità gratuita­ mente dischiusa loro da ora, che contemporaneamente è affidata alla loro responsabilità. La dilazione escatologica crea per se stessa la ne­ cessità dell'etica. Ma non nel senso che questa sarebbe sorta in Paolo come reazione al ritardo della parousia di Cristo, spiegazione frequente in stagioni precedenti della ricerca esegetica. Si è invece visto come essa sia dinamica insita nella partecipazione dei credenti a Cristo, dinamica che può esprimersi proprio nello spazio della storia, che si apre dinanzi all'esistenza dei credenti in attesa del loro futuro escatologico. In conclusione, il linguaggio della partecipazione risulta quello maggiormente comprensivo per descrivere l'identità credente. in virtù pure dell'insieme concettuale cui esso dà origine, quale la dimensione etica, la santificazione e la possibilità di riferire le metafore cultuali all'esistenza credente. È la partecipazione a dire come l'intera perso­ nalità e vita dei credenti siano modellate dalla comunione con Cristo. Da tutto questo si possono dedurre alcune specificazioni sulla natura di tale linguaggio e sulla sua differenza con quello delle religioni mi­ steriche, che pur sempre costituisce il suo termine di paragone nell'am­ bito profano. La prima porta a rigettare l'idea di un' immediata unione del credente con Cristo o Dio. Ciò è categoricamente escluso dalla di­ mensione di libertà personale che la partecipazione mette in gioco, nei termini che sono stati abbondantemente delucidati. In tal modo la par­ tecipazione non indica un'immedesimazione o, peggio, una fusione tra Cristo e il credente. Quando, in Gal 2,19-20, Paolo parla di con-croci­ fissione a Cristo e di vita di Cristo in lui, prosegue subito chiarendo che ciò si realizza in una vita di fede, intesa proprio come relazione in­ terpersonale tra due identità personali libere. E proprio la terminolo­ gia della fede a salvaguardare il pensiero paolina da una sua possibile comprensione spersonalizzante.60 Secondariamente, si può capire come la terminologia partecipa­ zionista denoti una relazione continuativa, significativa per la ferialità d eli' esistenza di ogni credente, e non delle manifestazioni spettacolari proprie a un qualche privilegiato. In un confronto polemico con apo­ stoli antagonisti in 2Cor 10-13, qualificati ironicamente come super­ apostoli ( 1 1 ,5; 12,1 1 ) e squalificati direttamente come falsi apostoli (1 1 , 1 3 ) , Paolo menziona straordinarie esperienze estatiche di cui è stato beneficato (12,2-4). Tuttavia lo stesso accorgimento retorico di riferirle a «Un uomo», generico, serve quasi a distanziarsi da esse, a sminuirne l'importanza. Il seguito del brano fa capire che quest'uomo è proprio l'apostolo (12,7), che riferisce a sé, questa volta senza ten-

60 Cf. PENNA, L'apostolo Paolo, 642.

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tennamenti, l'esperienza della debolezza quale motivo autentico di vanto (cf. 1 1 ,30; 12,5.9b ); il distanziamento è quindi funzionale a foca­ lizzare l'esperienza della debolezza quale contrassegno dell'autentica esperienza dell'apostolo. Questo non per una sorta di masochismo, ma perché in essa sperimenta la forza che non può provenire da sé, ma è frutto della comunione con Cristo ( 12,9a). Anche se l 'esperienza mi­ stica straordinaria è resa possibile dal suo essere «uomo in Cristo» (12,2), non è certo questa a definire la qualità di tale comunione e il suo scopo, ma è la capacità di affrontare le prove del ministero (12,2333). Esse mettono a nudo la propria debolezza, facendo di. conse­ guenza percepire che l'unica sorgente della perseveranza è la potenza di Cristo, che si manifesta efficacemente nelle prove di croce del cri­ stiano. Per questo la comunione con lui si mostra e si rende vera nelle circostanze quotidiane della vita, e in modo esemplare nei suoi mo­ menti di crisi e di croce.61 Si può ben ritenere questa una delle costanti indiscusse del pensiero paolino. In forza di essa si può cogliere la portata della terminologia della croce, utilizzata talvolta, in contesti polemici, con enfasi retorica per ricordare l'autentico fondamento dell'identità della comunità cre­ dente.62 Ciò è esemplarmente testimoniato in 1Cor 1 ,1 0-4,21 ove, pro­ prio per contestare l'eccessivo peso attribuito alle singole figure di predicatori (1 ,12), si rimanda all'annuncio di Cristo crocifisso quale cri­ terio di verifica dell'identità dei credenti. I capitoli, indubbiamente af­ fascinanti, sono stati oggetto di numerosi studi, su cui non è possibile qui riferire nemmeno di sfuggita. 63 Rilevante è la centralità assunta dal Cristo crocifisso e dal suo annuncio, che serve come contestazione di un annuncio imperniato invece sulle capacità di eloquio dei missionari (2,1 -2). Ciò implicherebbe in maniera quasi necessaria il fenomeno dell'emulazione competitiva, con le conseguenti disastrose ricadute a livello comunitario, ossia della sovraesposizione degli apostoli causa le proprie qualità. Per questo Paolo si presenta come apostolo che, tra i corinzi, ha saputo solamente di «Gesù Cristo, e questi crocifisso» (2,2), ove la locuzione «e questi» ha valore epesegetico, indica lo statuto pe­ renne del Cristo che, come tale, dev'essere annunciato.64 In realtà, Paolo 61 Cf. A. ou Ton, Focusing on Paul. Persuasion and Theological Design in Romans and Galatians. ed. by C. BREITENBACH - D.S. ou ToiT (BZNW 151), De Gruyter, Berlin­ New York 2007, 129-145; MARGUERAT, L'aube, 169. 62 Cf. D.K. WILLIAMS, «The Terminology of the Cross and the Rhetoric of Paul», in SBL.SP, S cholar Press, Atlanta (GA) 1998, 677-699. 63 n a gli ultimi cf. c. PELLEGRINO, Paolo, servo di Cristo e padre dei Corinzi. Analisi retorico-letteraria di l Cor 4 (TGTeol 139), Pontificia università gregoriana, Roma 2006. 64 Cf. ScHRAGE, Der erste Brief, 228, che parla opportunamente di «Concentrazione di senso» nel Crocifisso, e G. BARBAGLIO, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma episto­ lare ( La Bibbia nella storia 9), ED B, Bologna 1999, 103-106.

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sa e annuncia anche Cristo risorto ma, come già visto, la risurrezione non annulla lo scandalo della croce. Così se qualche credente, o addi­ rittura qualche apostolo, volesse perseguire dinamiche di successo umano, ciò contravverrebbe al volto di Dio rivelato in Cristo, che sulla croce contesta radicalmente proprio tali dinamiche. Certo, questa rive­ lazione è totalmente eccedente le capacità razionali umane (1,18-25 ), è dono che può essere colto nello Spirito da chi ha la «mente di Cristo» (2,16), da chi ha il proprio pensiero rinnovato dalla comunione con Cri­ sto e ne sa discernere le implicazioni. Proprio la riserva escatologica della soteriologia paolina rimanda il credente a sue responsabilità nella storia, luogo della testimonianza al Crocifisso, da non glissare con vel­ leitarie pretese di unioni im-mediate con la divinità, o ottundere con mascherate ricerche di successo. Il linguaggio paolina della partecipa­ zione è saldamente ancorato all'evento-Cristo, e in ciò si differenzia ra­ dicalmente dalla mistica ellenistica.65 Excursus. La Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione (1 999); documento già superato?

Il 31 ottobre 1 999 i vescovi cattolici E.I. Cassidy e W. Kasper, in qualità di allora presidente e segretario del Pontificio consiglio del­ l'unità dei cristiani, e il vescovo protestante C. Krause e il dottor I. Noko, in qualità di allora presidente e segretario generale della Fede­ razione luterana mondiale, hanno firmato una Dichiarazione con­ giunta sulla dottrina della giustificazione, questione teologica che, come ben risaputo, ha costituito il fomite della separazione tra luterani e cat­ tolici. Tale auspicato evento ecumenico ratifica un documento in cui le due confessioni dapprima emettono una professione comune di fede su alcuni articoli concernenti la giustificazione (i vari pronunciamenti sono introdotti dalla locuzione «insieme confessiamo che . . . »), seguiti da precisazioni, ad opera di ciascuna delle due parti, in cui alcuni ter­ mini peculiari alla propria tradizione teologica sono formulati in modo da non minare la previa confessione comune, e non causare così il ri­ fiuto della controparte. Come risultato, le formulazioni proprie alle singole confessioni presenti nella Dichiarazione congiunta non ven­ gono colpite dalle rispettive condanne pronunciate nel XVI secolo. 65 Le differenze sono ben evidenziate anche da A.J.M. WEDDERBURN, Baptism and Res_urrection. Studies in Pauline Theology against lts Greco-Roman Background (WUNT 44), Mohr (Siebeck), Tiibingen 1987, che, in alternativa, colloca il linguaggio paolina in un retroterra ebraico. Ma da ciò sorge una questione metodologica radicale: deve una specifica terminologia necessariamente avere riscontri puntuali in tradizioni precedenti, o l'interprete può affrancarsi da una sorta di parallelomania e accreditare un ampio margine di possibilità all'elaborazione personale dei singoli autori?

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La prima professione comune riguarda, ovviamente, la dimensione gratuita della giustificazione: Insieme confessiamo che l'uomo dipende interamente per la sua sal­ vezza dalla grazia salvifica di Dio [ . . . ]. In quanto peccatore, egli è soggetto al giudizio di Dio e dunque incapace da solo di rivolgersi a Dio per la sua salvezza, o di meritare davanti a Dio la sua giustificazione o di raggiungere la salvezza con le sue proprie forze. La giustificazione avviene soltanto per opera della grazia (n. 19). ·

Siffatta affermazione non può costituire un aspetto marginale : «Condividiamo anche la convinzione che il messaggio della giustifica­ zione ci orienta in particolare verso il centro stesso della testimonianza che il Nuovo Testamento dà dell'azione salvifica di Dio in Cristo . . . » (n. 17, corsivo mio). Dunque, un consenso imperniato sulla compren­ sione gratuita della giustificazione e sulla sua centralità nella soterio­ logia del Nuovo Testamento. È indubbio che il cammino esegetico, condotto con metodologie di indagine che hanno la pretesa di essere a-confessionali, affiancato da colloqui scientifici tra biblisti di varie confessioni, abbia contribuito in maniera determinante a giungere a una comprensione comune. Ma ora, considerato che il medesimo cammino esegetico è giunto a porre in questione la centralità della giustificazione nello stesso Paolo (ri­ cordo che ciò è avvenuto per motivi assolutamente non confessionali, essendo Schweitzer o Sanders non cattolici), non potrebbe, in modo tragicamente paradossale, questa comprensione essere messa in discus­ sione dalla stessa esegesi ?66 È chiaro che la categoria della giustifica­ zione non ha lo stesso valore in Paolo e nei restanti scritti del Nuovo Testamento, questione accennata in modo obiettivamente affrettato al n. 9 della Dichiarazione. Tuttavia la plausibilità dei suoi asserti può es­ sere sostenuta se il rilievo della giustificazione è talmente rilevante in Paolo da riverberarsi sui restanti testi neotestamentari, in virtù di un principio di unità sostanziale del messaggio dei testi canonici, che può ben costituire un presupposto su cui le diverse confessioni cristiane possono convenire. Ma la centralità della giustificazione non può più darsi per scontata nemmeno in Paolo: è tuttora valido un documento che non tenga conto delle pluralità delle categorie soteriologiche pre­ senti nell'insieme del Nuovo Testamento e, in modo particolare, nello stesso Paolo? A mio avviso la questione può essere risolta con un'inequivocabile risposta affermativa, che non pregiudica in alcun modo il valore della 66

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Problema soggiacente all'intero libro di AUNE (ed.), Reading Paul Together.

Dichiarazione congiunta. A ben vedere, infatti, nei passi riportati, come in tutto il documento, non si fa riferimento a un preciso linguaggio, bensì a una concettualizzazione teologica. Questa è la priorità fonda­ tiva della grazia di Dio, da cui gli individui dipendono per la propria salvezza. Ora ciò non è smentito per nulla dall'insieme delle categorie soteriologiche paoline, e men che meno da quelle partecipazioniste. Lo ripeto: il credente partecipa in Cristo non per virtù proprie, ma per­ ché Cristo lo raggiunge per grazia, ed è esattamente su questo aspetto che si fonda il consenso comune tra cattolici e luterani. Ritengo quindi si debba operare una distinzione tra messaggio della giustificazione e terminologia della giustificazione, sulla scia del seguente passo che me­ rita una citazione estesa:

Si dovrebbe perciò distinguere tra un messaggio della giustificazione in senso stretto, che descrive la sal vezza preparata e comunicata da Dio in Cristo all'umanità con i conce tti di «giust izia-gi ustificazione-giustifi­ care», e un messaggio della giust ificazione in senso più ampio, che pro­ clama questa salvezza anche con altri concetti [ . . . ]. «Messaggio della giustificazione» nella dichiarazione congiunta è inteso per lo più in questo significato più ampio.67 Di conseguenza, la Dichiarazione congiunta mantiene tutta la sua pregnanza nel ricordare nell'agire gratuito di Dio la dimensione fon­ dativa della nostra condizione di credenti, senza ritenersi dpcumento superato dai recenti dibattiti sulla soteriologia di Paolo. IN CRISTO: LA FIGLIOLANZA ADOTTIVA

Una delle manchevolezze ricorrenti negli studi sulla soteriologia paolina era la considerazione della stessa, nelle sue varie categorie, esclusivamente in risposta alla situazione di peccato. Tipica è la veste in cui tale tesi appare negli autori che considerano Rm 1,18-3,20 la messa a nudo della condizione disperata d eli 'umanità, soggetta alla condanna di Dio se non intervenisse da parte divina la giustificazione, che l'umanità può accogliere per fede.68 La negativizzazione della con­ dizione antropologica diviene così premessa necessaria della soterio­ logia, costituendone l 'unica ragione. Si è visto che tale lettura risulta -.67 ISTITUTO PER LA RICERCA ECUMENICA DI STRASBURGO, «Commento alla dichia­ razione congiunta sulla giustificazione», in A. MAFFEIS (ed.), Dossier sulla giustificazione. La dichiarazione congiunta cattolico-Iuterana, commento e dibattito teologico (gdt 276), Queriniana, Brescia 2000, 1 17. 68 Cf. BULTMANN, Teologia, 239. Cf. anche T. LAATO, Paulus und das Judentum: An­ thropologische Erwiigungen, Akademis Forlag, Abo 1991.

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però impossibile, e che il linguaggio della giustificazione è introdotto in Gal 2,15-21 senza una diretta menzione del peccato. Anche in Rm 5 ,12-21 l'opera redentrice di Cristo, seppur rapportata alla condizione di peccato causata dalla primigenia trasgressione di Adamo, non lo è in termini causali. La grazia non è, pertanto, causata dal peccato, ma è un evento eccedente lo stesso peccato. In modo mirabile, ciò viene manifesto nel passaggio di R m 8,1217. I versetti rappresentano ta peroratio dell'argomentazione di 8,1 - 1 1 che, nella sua propria funzione ricapitolativa, inizia rammentando le implicazioni etiche sottese a ciò che prima era affermato. I credenti, raggiunti dal dono dello Spirito, possono «mettere a morte» le opere di un'esistenza autosufficiente nei confronti di Dio (v. 1 3 ) . Come detto sopra, il dono dello Spirito, frutto della nostra partecipazione in Cristo, fa sì che possiamo vincere il peccato nella concretezza della nostra esi­ stenza, cosicché la soteriologia può essere effettivamente, sino a quel punto, considerata come risposta al peccato. Il v. 14 inizia, poi, così: « Coloro, infatti, che sono guidati dallo Spirito di Dio . . . >> ; dalle pre­ messe, ossia dall'orientamento alla prassi che il discorso ha ormai in­ trapreso, il lettore si attenderebbe una prosecuzione su tale registro, magari una ripresa del verbo dell' agire etico , realizzata attraverso il confronto tra Lv 18,5 e Dt 8,17: 9,4; 30,12-14, in un procedimento analogo a quello di Gal 3, pur non utilizzando formalmente la ghezerah sawah. La prospettiva di una giu­ stizia «dalla legge>> pare epitome dell'esperienza dell'Israele, il quale è rimasto vincolato alla legge, intesa come sistema veicolante l'offerta della giustizia. L'antitesi, quindi, si delinea tra tale legge, che preclude e non include la fede (causa il suo utilizzo erroneo da parte di Israele), e la fede stessa. Riformulo qui i termini letterari di tale antitesi, come efficacemente schematizzati da Aletti:29 Rm 10,5 (Lv 18,5)

giustizia dalla legge scrive «fare» i comandamenti vivere per essi

+ 30,12-14) giustizia dalla fede dice [non fare, perché] ha fatto Cristo credere in Gesù Signore essere salvato

Rm 10,6-9 (Dt 8,17 [9,4]

L'argomentazione paolina pone in relazione oppositiva vari !es­ semi, per cui è impossibile ritenere il de introduttivo del v. 6 nel senso congiuntivo di «e)) e non avversativo di «ma».30 In virtù di tale antitesi, è difficile sfuggire all'idea di un'intesa rappresentazione di logiche dal tenore diverso, di promesse analoghe, aventi per oggetto i beni paralleli di vita/salvezza, conseguiti però su base ben diversa. Non è quindi pos­ sibile ritenere la citazione del Deuteronomio esplicativa di quella del Levitico: in tal caso il credere in Gesù Cristo diverrebbe esplicativo del fare le cose della legge, ma ciò è un assurdo per il pensiero paolino. A questo punto, però, l'opposizione tra vari passi della Scrittura potrebbe far sorgere l'obiezione, molto seria, dell'incoerenza della Scrittura stessa, nel suo insieme, aggravata dal fatto che l'opposizione è creata ad arte da Paolo, giacché nel loro contesto originario i due brani non veicolano idee diverse. Questa problematica impone una ri­ cerca accurata dell'insieme delle sfumature presenti nella retorica pao­ lina, che qui può essere compresa all'interno dello statum legum contrarium.31 Questo tipo di argomentazione deve rinvenire un criterio

Le Scritture d'Israele e la loro normatività secondo il Nuovo Testamento, Glossa, Milano 2006, l OOss. 29 Cf. J.-N. ALEITI, La Lettera ai Romani e la giustizia di Dio, Boria, Roma 1997, 117. 30 Così, invece, BADENAS, Christ the End of the Law, 123-125. 31 Secondo il bello studio di J.S. Vos, Die Kunst der Argumentation bei Paulus (WUNT 149), Mohr Siebeck, Tiibingen 2002, 1 1 5-134.

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unico da due principi o leggi oggettivamente divergenti. Paolo, quindi, contrapponendo i brani, provoca il lettore a un'ermeneutica più ac­ corta, per rinvenire in essi l'autentica voluntas della legge di Dio. A mio avviso, ciò è finalizzato a far cogliere un limite insito nella rivela­ zione dell'Antico Testamento come testimoniato dall'Antico Testa­ mento stesso . Se la legge stessa, infatti, contrappone una logica di «fare la legge» a quella di «Credere a Gesù Signore», è proprio la legge a di­ chiararsi come orientata alla fede in Cristo e a denunciare l'errore di chi si attesta solo sulla sua esecuzione, senza lasciare spazio alla novità dell'evento Cristo. Si scorge, quindi, un elemento di sicura continuità con Gal 3,1 1-12, perché la citazione di Lv 18,5, anche in questo contesto, non serve a denunciare la logica del «fare» come insanabilmente con­ trapposta alla logica del «credere», bensì si situa all'interno di argo­ mentazioni che esplicitano alcune condizioni, poste le quali la contrapposizione si dà. Come sottolineatura della presente argomen­ tazione, veicolata dalle citazioni del Deuteronomio, vi è invece il chia­ rimento di una di queste condizioni, ossia il ritenere il «fare» della legge quale realtà definitiva, tale da precludere l'apertura di fede a Cristo. L'antitesi, in tal modo, non attenta alla coerenza della Scrittura. Al con­ trario, ravvisa nel suo orientamento a Cristo la coerenza con ciò che la Scrittura attesta di se stessa. Tale interpretazione è rafforzata quando si leggono i presenti versetti nel contesto introdotto dali' exordium di 9,30--1 0,4.32 È l'opzione più sensata, data la natura propria dell'esordio, ed è confermata dalla ripresa dei nuclei tematici là declinati. Certo, ritenere definitiva una realtà, quale la legge, che da sé non si presenta tale, significa, nella logica paolina, travisame l'autentica na­ tura. Comporta un'assolutizzazione indebita della legge che, per uti­ lizzare un termine ricorrente nel dibattito scientifico, può essere qualificata come «legalismo». Ma in cosa si manifesta il legalismo? In atteggiamento automeritorio? In chiusura etnica? Già il percorso sin qui condotto suggerisce che queste interpretazioni siano o false o li­ mitate, ma ora la questione dev'essere estesamente affrontata. LEGGE E LEGALISMO Nonostante gli autori siano oggi restii a qualificare l'insieme del­ resperienza religiosa giudaica come legalistica o automeritoria, non manca chi ritiene che, in ogni caso, Paolo sia impegnato a contestare un '-operare umano attuato in obbedienza alla legge e inteso a guada-

32 Diversamente PIITA, Lettera ai Romani, 363.

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gnare il favore divino.33 Sovente, l'atteggiamento dell'apostolo sarebbe dovuto alla necessità di controbattere non l'indole autentica della legge, che non è automeritoria, bensì un suo fraintendimento in questo senso. Questa, ad esempio, è la tesi di Htibner: Chi concepisce la legge di Dio come «legge delle opere» la perverte. Le · esigenze della legge non possono essere soddisfatte come «opere». Chi adempie la legge con l'intenzione di rendere giusto se stesso, agisce ego­ centricamente e, per conseguire la propria vita, perde proprio questa sua vita.34 Le contrapposizioni di Paolo avrebbero quindi di mira il frainten­ dimento in legalismo automeritorio della legge, e sarebbero formulate menzionando direttamente la legge poiché Paolo non aveva un les­ sema greco per distinguere «legalismo» da «legge)), e pertanto doveva utilizzare lo stesso termine nomos. 35 A mio parere, questa tesi non è per nulla convincente, per molte ragioni. Una prima si desume dalla lettura di alcuni passi in cui Paolo opera una polemica verso il nomos che sarebbe, secondo la lettura qui presentata, diretta verso il fraintendimento legalista dello stesso. I n questi passi, tuttavia, il termine appare in locuzioni in cui non può che denotare sic et simpliciter la legge, senza permettere così ai suoi lettori di scorgere un cambiamento di referenti del lessema.36 Ad esempio, in Gal 3,18 il nomos, che non può essere considerato alternativo alla pro­ messa per il conseguimento dell'eredità, deve essere lo stesso soprag­ giunto dopo 430 anni dalla promessa (v. 17) e promulgato in vista delle trasgressioni (v. 19), e non una sua perversione legalista. In Gal 4,5 il nomos da cui Cristo ci riscatta non può essere altro che il nomos «sotto)) il quale egli è nato (v. 4), ossia la legge . ebraica che ha contras­ segnato l'esistenza dell'ebreo Gesù. In lCor 9,20 Paolo dichiara di non considerarsi libero dalla signoria della legge («non essendo io sotto la legge») e non dal suo fraintendimento legalista, perché a volte, da li­ bero, può scegliere di vivere «hypo nomon, sotto la legge», che non può voler dire «in modo legalista» . Ma la ragione decisiva è che mai la questione del legalismo auto­ meritorio è espressamente indicata come tale da Paolo. Non lo è in Rm 1 , 1 8-3,20 ove, anzi, il problema sussiste quando la legge sia tra-

33 Ad es. S. KIM, Pau/ and the New Perspective. Second Thoughts on the Origin of Paul's Gospel ( WUNT 140), Tiibingen 2002, 59-60. 34 H. HùBNER, La Legge in Paolo. Contributi allo sviluppo della teologia paolina, Paideia, Brescia 1995, 21 1 -212 (or. ted. 1982 ) (corsivo originale). 35 Così già C.E.B. CRANAELD, «St. Paul and the Law», in SJT 17 ( 1964) , 43-68. 36 Seguo qui da vicino WESTERHOLM, Perspectives, 331.

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sgredita (cf. 2,27). Di conseguenza, quando il pensiero è riassunto in 3,20 con l'affermazione che dalle opere della legge non vi è possibilità di giustificazione, il lettore non può certo dedurre che ciò avvenga per­ ché esse inducono un compimento legalista.:n Nemmeno in Rm 10,2 la locuzione «propria giustizia» è qualificata come sforzi compiuti con lo scopo di conquistare il favore di Dio. Certo, evidente in quel passo non è la trasgressione della legge, ma la non accoglienza di Cristo in forza della legge, e su ciò si dovrà ritornare. Resta in ogni caso il fatto che il legalismo automeritorio non è lì in vista. E sia detto chiaramente, nemmeno nella locuzione affine «mia giustizia, quella da legge» di Fil 3,9. Essa ricorre all'interno del brano autobiografico Fil 3,4-1 1 che, come già visto (cf. c. 2), enfatizza la figura di Cristo come elemento de­ terminante l'identità di Paolo, presentato quale esempio per gli altri credenti. La prospettiva di una propria giustizia è rifiutata da Paolo per aderire a quella da Dio, mediata dalla fede in Cristo. Il contesto induce a intendere tale locuzione non come pretesa di fondare il rap­ porto con Dio sulla base delle proprie acquisizioni, bensì come sforzo autonomo rispetto all'agire di Dio rivelato in Cristo. La «mia giustizia» sarebbe tale perché pretenderebbe di rinvenire nella legge gli standard di relazione con Dio, prescindendo così da ciò che egli ha definitiva­ mente comunicato in Cristo. Siamo anche qui di fronte all'idea di un attaccamento alla legge tale da precludere l'adesione di fede a Cristo, non alla denuncia del legalismo automeritorio.38 Nemmeno la terminologia del «vanto», sovente intesa in senso au­ tomeritorio, indica in realtà tale problematica. Nella Lettera ai Ro­ mani, la pericope che prende avvio dalla menzione di un vanto giudaico fondato sulla legge è costituita da 2,1 7-29. Al v. l7 la sequenza dei lemmi ·«ioudaios, giudeo-nomos, legge- Theos, Dio» mi pare signi­ ficativamente rivelativa di un'autocomprensione fondata su di un am­ bito etnico ( «giudeo»), entro il quale vi è una normativa («legge») che abilita a una relazione con Dio. Si va a Dio ali 'interno di un popolo e

37 Lo sottolinea bene DUNN, The New Perspective, 214-215, che però, come soluzione alternativa, propone solamente la dimensione etnico-identitaria della legge. 38 Cosl anche J.-N. ALEITr, Saint PauL Épitre aux Philippiens (EB 55), Gabalda, Paris 2005, 240-245; F. BIANCHINI, L'elogio di sé in Cristo. L'utilizzo della periautologhia nel contesto di Filippesi 3,1-4, 1 (AnBib 164), PIB, Roma 2006, 127; S. BnTASI, Gli esempi necessari per discernere. 11 significato argomentativo della struttura della Lettera di Paolo ai Filippesi (AnBib 153), PIB, Roma 2003, 1 09-1 10; V. KOPERSKI. The Knowledge of Christ Jesus My Lord. The High Christology of Ph ilippians 3, 7-11 , Kok Pharos, Kampen 1996, 235-238; S. RoM ANELLO, «La "conformazione" al mistero pasquale di Cristo quale elemento fondante l'identità del credente Paolo: Fil 3,7- 1 1 » , in S. GR ASSO E. MANI­ CARDI (edd.), «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18) , Fs. R. Fabris (SupplRivBiblt 47), EDB, Bologna 2006, 298; E. P. SANDERS Paolo e il giudaismo palestinese. Studio com­ parativo su modelli di religione, Paideia, Brescia 1986, 660 (or. ingl. 21984). -

,

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per mezzo della sua legge. I vv. 17-18 esprimono allora la relazione del giudeo con Dio: per mezzo della legge egli ne conosce la volontà. Di conseguenza egli si trova in una relazione privilegiata con gli altri po­ poli, poiché può riverberare su loro tale sua conoscenza, come i vv. 1920 asseriscono. In tale ambito la terminologia del vanto è ben comprensibile come coscienza di un rapporto privilegiato con Dio, non sembra che qui si abbia in vista per nulla l'orgoglio del proprio auto­ compimento della legge.39 Molto vicina risulta la locuzione «confidare nella carne» di Fil 3,4, che Paolo attribuisce a sé prima dell'incontro con il Risorto, e che è seguita e specificata dall'enumerazione delle sue qualifiche «giudaiche» (vv. 5-6). Il verbo peitho, nel senso intransitivo di «confido, mi fido», indica una base fondativa di un'identità, quella che Paolo può legittimamente rivendicare per sé, ma che ha ritenuto perdita a seguito della sua esperienza di Cristo. Ritorna, significativa­ mente, in Rm 2,19, a costituire uno dei contrassegni del vanto giudaico; il vanto è un'esteriorizzazione della convinzione di un valore posse­ duto. Quando questo è introdotto dal verbo «confidare», allora esso risulta qualcosa non di marginale ma di decisivo, bene su cui fondare la propria esistenza. La legge, per il giudeo in generale (Rm 2), e per l'ebreo Paolo in particolare (Fil 3), rappresenta proprio questo, la ga­ ranzia di una relazione con Dio che diviene base di un 'identità. Ciò che costituisce motivo di vanto è il suo possesso e la «conoscenza» che essa permette (Rm 2,18), non la sua perfetta esecuzione. Ovviamente la legge è data per essere eseguita e la sua trasgressione solleva delle problematiche (Rm 2,21ss), ma queste osservazioni non cambiano di una virgola la prospettiva fondamentale del brano, che mette in campo l'autocoscienza di uno statuto etnico fortunato perché in esso è resa possibile la relazione con Dio. Ma questo genere di vanto risulta alla fine improponibile, poiché il (vero) giudeo non è tale nella manifesta­ zione esteriore (del proprio statuto), ma nell'interiorità, vale a dire nella capacità di orientare la propria interiorità decisionale a Dio e alla sua volontà (Rm 2,28-29). Questo però non è garantito da una ma­ nifesta appartenenza etnica e dalla legge così riscontrata, e su questa conclusione si attesta il capitolo 2 di Romani. Detto altrimenti: in Rm 2,17-29 il vanto basato sulla legge si con­ figura quale esplicitazione di una dimensione identitaria, di una realtà fondante su cui confidare, e non come asserzione del compimento esaustivo dei suoi precetti. Tuttavia la possibilità di siffatto vanto è esclusa a partire dalla legge stessa. In Rm 3 ,27 la terminologia del vanto riappare, affermando categoricamente la sua esclusione, con un

39 Così anche ALETTI, Israel, 287-289.

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passivo verosimilmente divino. Ciò suscita un'ulteriore questione, su quale sia il mezzo di tale esclusione. Un primo mezzo evocato è costi­ tuito dalla «legge (sottintesa) delle opere», evocando così il percorso di Rm 2,l7-29, ove già appariva che la legge escludeva da sé la possi­ bilità di costituire motivo di vanto per il giudeo. Ma questa ragione viene ora oscurata da un'altra, decisiva, che considera come la giusti­ ficazione sia dono gratuito di Dio in Cristo, accolto per fede, grazie a ciò che è stato detto a partire da 3,21 .40 Di fronte a questa, il possibile vanto derivante dal possedere la legge divina viene a perdere definitivamente ogni plausibilità. . La tematica del vanto ritorna nel capitolo incentrato sulla figura di Abramo, che al v. 2 letteralmente recita: «Se infatti Abramo venne giustificato da opere [protasi dell 'irrealtà, ei + indicativo aoristo], ha un vanto [apodosi della realtà, indicativo presente senza an])). Il carat­ tere misto dell'ipotetica sollecita la fantasia degli interpreti, alcuni dei quali dibattono a lungo sulla possibilità di un effettivo vanto di Abramo. Da parte mia, ritengo che tali dibattiti siano fuori luogo, per due ragioni squisitamente grammaticali. La prima, perché talvolta l'ipotetica della realtà non afferma la corrispondenza delle sue asser­ zioni alla fattualità, bensì rileva il legame necessario tra condizione e conseguenza, della serie «Se si dà X ne consegue necessariamente Y)). In l Cor 15,16-17, ad esempio, si hanno due ipotetiche della realtà, ma ciò che viene lì dichiarato (i morti non risorgono - Cristo non è risorto - vana la vostra fede} è evidentemente un qualcosa che non ha alcuna attinenza alla realtà, costituendo delle mere ipotesi logiche di un ra­ gionamento che nel suo complesso è una refutatio per mezzo di reduc­ tio ad absurdum. La seconda nasce dalla conclusione del nostro versetto, «ma non presso Dio», che ne costituisce una chiave interpre­ tativa decisiva. Si è visto, infatti, che il capitolo è introdotto dalla te­ matica del «trovare>) di Abramo, che echeggia la formula scritturistica del trovare grazia presso Dio. Decisivo è quindi ciò che Abramo ha «presso Dio)>, ciò che conta nella relazione con lui dal suo punto di vista. La forte avversativa con cui è introdotta questa affermazione fi­ nale nega che tutto ciò che è detto prima abbia un qualche valore presso Dio: è l'insieme costituito dalla protasi e dall'apodosi a rivelarsi inconsistente nella relazione con Dio.41 L'argomentazione sviluppata nel capitolo 4 conferma in pieno tale prospettiva, dimostrando come la parola scritturistica escluda categoricamente la possibilità di una 4° Così R.W. THoMPSON, «Paul's Double Critique of Jewish Boasting: A Study of Rom 3,27 in lts Context», in Bib 67(1986), 520-531. 4 1 Così anche P. BASTA, Abramo in Romani 4. L'analogia dell'agire divino nella ri­ cerca esegetica di Paolo (AnBib 168), PIB, Roma 2007, 196.

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giustificazione per opere, e quindi anche il vanto che sarebbe conse­ guente. Da queste considerazioni alla connot àzione di un vanto automeri­ torio il passo, però, potrebbe essere breve, magari indotto dai vv. 4-5 che, come visto (c. 4), chiariscono la natura dell' «accreditare» di Dio: per salario o per fede, la giustizia.42 Sicuramente tale affermazione en­ fatizza il carattere paradossale e gratuito dell'agire di Dio che, a livello fondativo (l'ho già abbondantemente asserito, ma è bene rammen­ tarlo ), è previo e indipendente da qualsiasi operare umano. Ciò esclude con assoluta forza il mettere al centro della relazione con lui il fare qua­ lificato dalla Torah, evidenziato proprio dal ripetersi dei lemmi «erga. opere» (v. 2) ed «ergazomai, operare» (vv. 4.5). Ma proprio questa con­ siderazione rende non necessario il deprezzamento automeritorio dell'operare umano, quasi fosse teso a stabilire le proprie condizioni nel rapporto con Dio. Dio, semplicemente, previene l'opera dell 'indi­ viduo con un'azione di grazia (e con ciò stesso la rende possibile, ma questo è un, seppur imprescindibile, tuttavia successivo e dipendente passaggio), senza che questa sia espressione di presunzione perfezio­ nista ! A un'attenta lettura, è proprio ciò che dice il v. 4: «A chi lavora il salario (misthos) non viene accreditato secondo grazia, ma secondo un dovere». È qui messo in scena un ovvio paragone lavorativo, sola­ mente per enfatizzare, al versetto successivo, che la logica di Dio segue altri percorsi, proprio quelli della grazia. In questo contesto il lemma misthos mantiene il suo significato primario di «salario». Certo, in un contesto religioso esso può giungere a designare la ricompensa che Dio dà all'uomo (ad es. Mt 5,6; 6,1 e anche l Cor 3,14), ma questo non è il contesto del v. 4: il primo termine di paragone non veicola immediata­ mente in sé tutte le accezioni della sua applicazione. Ne consegue che non si può fondare su tale lemma la tematica dell'agire automeritorio.43 Diciamolo subito, tali versetti escludono pure la dimensione etnica del vanto ! Duno qui riconosce che l'enfasi paolina verte sulla dimen­ sione gratuita dell'agire di Dio, ma ritiene questo un assioma, condi­ viso dai suoi ideali interlocutori giudeo-cristiani, che poi Paolo utilizza per volgerlo in chiave di relazioni interetniche.44 Il vanto preso di mira

42 Così, ad ·es., HOBNER, La legge in Paolo, 206-209. 43 Cf. le belle pagine di ALETTI, Israe/, 84-90, e PENNA, Lettera ai Romani, I, 369-378,

·che offrono considerazioni da prospettive diverse sulla ragione dell'accentuazione sulla gratuità divina senza per questo dover supporre una polemica contro il legalismo auto­ meritorio, come invece ancora T.R ScHREINER, «"Works of Law" in Paul», in NT 33(1991 ), 234-235; E. GR ASSER, «Der ruhmlose Abraham (Rom 4,2). Nachdenkliches zu Gesetz und Silnde bei Paulus», in M. TROWITZSCH (ed.), Pau/us, Apostel Jesu Christi, Fs. G. Klein, Mohr Siebeck, Tiibingen 1 998, 3-22. 44 DUNN, La teologia dell'apostolo Paolo, 369. .

1 72

da Paolo sarebbe quindi quello derivante dalla supposizione giudaica della specialità del proprio statuto etnico di fronte a Dio, e il legalismo in questione sarebbe di tipo etnico.45 Ma questa lettura, pur ricordando dimensioni sicuramente presenti nel pensiero di Paolo (come in Rm 2,1 7-29, ove la prospettiva però si può più propriamente qualificare non come m:eramente etnica, bensì come etnico-religiosa), misconosce la portata della prova scritturistica paolina in Rm 4, che giustifica il carattere paradossalmente radicale della gratuità di Dio; se ciò fosse assioma assodato, non occorrerebbe darsi la pena di giustificarlo! In realtà, la riduzione dell'argomentazione di Rm 4 a una prospettiva et­ nica si è già rivelata insostenibile, e con ciò anche la limitazione in tal senso del vanto.46 Se il legalismo preso di mira da Paolo non sembra assolutamente quello automeritorio, nondimeno la mera prospettiva etnica sembra una chiave interpretativa insufficiente. Abbandonando la comprensione automeritoria, recenti alfieri della prospettiva classica ripropongono sotto altre forme l'idea di una polemica paolina contro l'operare umano soggiacente all'antitesi tra giustificazione per fede e non per opere della legge. La consapevolezza sempre crescente del differenziato tenore delle varie correnti giudai­ che del periodo intertestamentario gioca un ruolo importante in que­ sto senso, giacché s'ingenerano seri dubbi sulla plausibilità di una raffigurazione unitaria del modello religioso giudaico, come proposto da Sanders. Nei vari testi giudaici, di fatto, a fianco del riconoscimento della dimensione gratuita dell'elezione divina è pure sottolineata la necessità di un'osservanza integrale della legge da parte dei membri del popolo dell'alleanza. La prima dimensione non esime dall'osser­ vanza della legge, che diviene base meritoria del giudizio finale degli individui. Secondo questa linea interpretativa le varie espressioni re­ ligiose giudaiche testimonierebbero, magari in forme diverse, la com­ presenza di questi principi in una dialettica irrisolta.47 Si potrebbe, su tale base, ritenere che Paolo prenda posizione in questo dibattito ac­ centuando la dimensione della gratuità divina. Non v'è dubbio sulla correttezza di molte delle osservazioni così prodotte. Nessuno tra gli studiosi del rabbinismo, ad esempio, si so45 J.D.J. OUNN, Romans (WBC 38 A -B ), Word, Dallas 1 988, l, 227. 46 a. A.A. DAS, «Paul and Works of Obedience in Second Tempie Judaism: Romans

4,4-5 as a "New Perspective" Case Study», in CBQ 71 (2009), 795-812. 47 a. l a linea interpretativa generale di D.A. CA RSON - P.T. O'BRIEN - M.A. SEIFRID (edd.), Justification and Variegated Nomism, 2: The Paradoxes of Pau/ (WUNT/2; 181.2), Mohr Siebeck, Tiibingen 2004, nonché A.A. DAS, Pau/, the Law and the Covenant, Hen­ dricksen, Peabody 2001 , 12-69; S.J. GATHERCOLE, Where is Boasting?: Early Jewish So­ teriology and Paul's Response in Romans 1-5, Eerdmans, Grand Rapids 2002, 37-195; M.A. SEIFRID, Christ Our Righteousness. Paul's Theology ofJustification, Apollos, Leices­ ter 2000, 13-17.

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gnerebbe di sostenere che l'osservanza dei comandamenti non sia ri­ tenuta importante in tale letteratura! La rivelazione gratuita di Dio non è certamente in questo dimenticata, ma abilita propriamente a tale osservanza.48 Il problema è dimostrare che l'osservanza in quanto osservanza sia ricusata da Paolo, che l'accentuazione della grazia di­ vina, nel suo schema di pensiero, renda inessenziale l'agire umano. Ciò è categoricamente escluso, come si è esaurientemente visto nel capi­ tolo precedente.49 Per ciò che riguarda la disamina delle forme di giu­ daismo - o giudaismi - coeve a Paolo, si possono forse riproporre alcune delle note avanzate già dall'influente studioso giudaico Jacob Neusner, in una recensione globalmente sfavorevole del libro di San­ ders.50 Per Neusner, Sanders non analizza il «sistema» religioso rabbi­ nico a partire dai propri interessi generativi, bensì proietta sul rabbinismo i problemi degli studi paolini, leggendolo a partire da inte­ ressi sorti dallo studio di Paolo. Impostazione che permane, mi sembra. nell'indirizzo qui analizzato, che rinviene sicuramente detti sulla gra­ tuità divina accostati ad altri dal tenore diverso, ma che non è in grado di offrire una ragione dell 'accostamento e una gerarchia di importanza in essi, proprio perché non si è previamente impegnato nel rilievo del­ l'ossatura portante il «sistema» religioso testimoniato dai singoli scritti analizzati. Non basta, allora, rinvenire esortazioni all'osservanza della legge per ritenere il giudaismo passibile di tendenze legaliste. Infine, la questione più radicale. Anche ammettendo la tensione all'interno degli scritti giudaici tra principio della grazia e principio le­ galista, quale contributo specifico sarebbe apportato da Paolo rispetto a quella linea che gli è più congeniale? Se cioè Paolo enfatizza una delle dimensioni presenti nel giudaismo (quella della gratuità divina). �irebbe egli qualcosa di differente rispetto a quelle affermazioni che comunque la riconoscono espressamente? Paolo, in questa linea, risul­ terebbe di fatto null'altro che un riformatore del giudaismo. Il lettore potrebbe a questo punto rimanere perplesso dall'accosta­ mento di varie tesi e da una discussione che ne presenta quelli che a parer mio sono i loro limiti, con l'impressione di non giungere ad alcun­ ché di propositivo. In realtà le teorie qui presentate. seppur disparate e talvolta in polemica tra loro, sono accomunate da una prospettiva, con­ sapevole o meno, comune, che però reputo punto di partenza fallace 48 Cf. F. AVEMARIE, «The Tension between God's Command and Israel's Obedience as Reflected in the Early Literature)), in BARCLAY - GATHERCOLE (edd.), Divine and Human Agency, 50-70. 49 Così anche la pertinente critica a Gathercole (cf. nota 47) ad opera di B. W. LoN­ GENECKER, «On Critiquing ·the "New Perspective" on Paul: A Case Study», in ZNW 96(2005), 263-271 . 50 NEUSNER, Il giudaismo, 111-191 .

1 74

dell'analisi della questione della legge e del legalismo, tale da inficiarne gli sviluppi successivi, pur se molti dei loro passi possono poi indivi­ duare elementi in sé assolutamente veritieri e condivisibili. Tale pro­ spettiva consiste nel voler rinvenire nell'insieme .della legge e al suo interno una caratteristica singola radicalmente deficitaria, che giustifica l'insieme delle qualifiche negative paoline. In altre parole, le prospet­ tive summenzionate sono accomunate dalla ricerca di un supposto de­ ficit insito nella legge che Paolo, una volta individuato, addurrebbe come motivo dell'abbandono della legge quale principio soteriologico. Che tale deficit sia poi variamente identificato in legalismo automeri­ torio, o in accentuazione del principio dell'operatività umana senza tale connotazione, o in legalismo identitario-etnico, provoca sviluppi differenziati nei contenuti e nel loro valore, ma non cambia la forma deli' approccio alla questione. Ma è proprio tale approccio che si rivela infine inconsistente� de­ v'essere sicuramente abbandonato per non lasciare gli interpreti pri­ gionieri di elementi singoli più o meno attendihili. ma comunque non atti a riferirsi al complesso delle valutazioni paoline sulla legge. Ad esem­ pio, il deficit della legge quale elemento identitaria-etnico e la sua fun­ zione preclusiva nei confronti delle genti è un elemento sicuramente avversato da Paolo. ma non può essere, da ciò che si è qui visto, l'ele­ mento determinante tutte le sue asserzioni. Molti autori, poi, ricordano oggi che in molti passi a Paolo fa problema il fatto che la legge sia tra­ sgredita. 51 Anche tale osservazione è per un verso inoppugnabile, ren­ dendo così impossibile la tesi del legalismo automeritorio. Per un altro, però, non può costituire la ragione determinante della critica paolina alla legge. In Rm 10,5-9 o Fil 3,4- 1 1 , ad esempio, il problema della tra­ sgressione della legge è totalmente assente, anzi, in Fil 3,6 Paolo si de­ finisce irreprensibile riguardo alla giustizia determinata dalla legge ! Ma proprio in tali brani si è palesato con estrema chiarezza ciò che costituisce il problema della legge: l'aver precluso, per l'attaccamento alla stessa, l'adesione a Cristo, manifestazione della giustizia di Dio (Rm 10,3), per cui la legge è abbandonata da Paolo (a livello di defi­ nizione di identità fondativa) causa la sovreccedenza della comunione con Cristo (Fil 3,8). La posta in gioco nella descrizione di Israele in Rm 10 è la stessa del brano autobiografico di Fil 3.52 Ma da ciò conse-

, 51 Ad es., P. CouTSOMPOS, «Paul's Attitude towards the Law», in S.K. PoRTER (ed.), Pau/: Jew, Greek, and Roman, Brill, Leiden-Boston 2008, 49; OWEN, «The "Work of the Law''», 559-561. 52 Così anche S. GRINDHEIM, «Apostate Thmed Prophet: Paul's Prophetic Self-Un­ derstanding and Prophetic Hermeneutic with Special Reference to Galatians 3,10-12», in NTS 53(2007), 551.

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�ue che il deficit della legge non è da ricercare in se stessa, ma nel con­ fronto che s'instaura con l'unica, autentica «entità» salvifica, la persona di Cristo. Di fatto, Paolo non adduce altre ragioni per il suo personale abbandono della legge che non sia l'incontro con Cristo. Dal brano autobiografico di Filippesi si vede con chiarezza che egli non era in­ soddisfatto della legge per un qualche motivo printa del suo incontro con Cristo. Le cose sono cambiate radicalmente a seguito di questo, e solo a causa di questo. Il nucleo generativo della riflessione paolina non è stato l'individuazione di un problema nella condizione umana. che avrebbe portato a esigere la sua soluzione da parte di Dio nell'in­ vio di Cristo.53 Al contrario, è l'incontro con Cristo a determinare una nuova comprensione della vita anteriore dell'apostolo e uno stravol­ gimento dei suoi valori, in primis la sua adesione alla legge. Si possono qui ripercorrere gli asserti paolini analizzati, per vedervi confermata pienamente tale prospettiva. Mi limito a Gal 2,21, il cui testo ricorda proprio che la morte di Cristo rende impossibile che la legge costituisca una struttura salvifica perché, altrimenti, la sua morte sarebbe vana. O a Rm 3,21 -22, che lega la rivelazione della giustizia divina a Cristo e alla fede in lui, e solamente per questa esplicita mo­ tivazione dichiara anche che essa avviene «senza la legge>>. «L'auten­ tica causa che porta a escludere il fare della legge quale paradigma salvifico consiste nella singolarità soteriologica di Cristo» .54 Se, infatti. alla legge fosse attribuita una qualche valenza soteriologica, allora il significato escatologico dell'evento-Cristo ne risulterebbe inevitabil­ mente compromesso. Gettando lo sguardo sulla Legge a partire dall'ec­ cedenza dell 'evento-Cristo, Paolo può rinvenire di volta in volta delle carenze insite nella stessa quando dovesse venir considerata quale gran­ dezza soteriologica, eventualità che pertanto è categoricamente esclusa. M a la ragione determinante di ciò è eminentemente cristologica. E gli elementi di carenza non sono, di conseguenza, i fattori generativi del pensiero paolino, tali da risultare coerentemente determinanti tutte le singole argomentazioni. Possono essere diversi, fatti valere singolar­ mente in determinati contesti e non in altri. O essere evocati di seguito. Nella Lettera ai Galati, ad esempio, sono ricordati l'incapacità della

53 Fondamentale qui la nota di SANDERS, Paolo e il giudaismo, 608, ripresa da molti. tra i quali mi limito qui a citare alcuni esperti italiani: G. BARBAGLIO, Il pensare dell'apo­ stolo Paolo (La Bibbia nella storia 9bis), EDB, Bologna 2004, 145; R. PENNA, L'apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1 99 1 . 509-5 12;A. PITTA, 4>, in BArR 20(1994), 52-55. ÀDN A J. (ed.), The Formation ofthe Early Church (WUNT 183), Mohr Siebeck, Tiibingen 2005. AAGESON

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217

Indice biblico e della letteratura intertestamentaria

ANTICO TEsTAMENTO GENESI gen.

1 ,27 2,7 3 12,1-2 15,2-3 15,6 17 17,5 17,9-27 22,1-19

178 138 123 181 95 96 95-97 154 53 96 96

14,1 14,2 21 ,23 21,23 LXX 25',4 27,26 28,1-14 28,49 30,12-14 32,5.19 2 SAMlJELE 7,14

148 42 43 44

156 89 89 156 166 148 148

ESODO

4,22-23 6,5-7 16,5-6 24,6.8

148 71 42 76

2 CRONACHE 1 9,7

101

l MACCABEI

2,52

96

2 M A< 'CABEI gen.

74

LEVITICO

gen.

166 5,6.7.1 1 LXX 77 7,37 75 76 16 16,5.6.9.11 LXX 77 16,7-10.20-22 76 16,14-17 LXX 75 76 17,11-14 76 18,5 163-167 19,18 186

DEliTERONOMIO 43 gen.

6,4 7,6 8,17 9,4 10,17

89 90 166 167 41 42 166 166 101

1 ,5 5,20 7,33 7,37-38 8,29

109 109 109

74 1 09

GIOBBE

32,8 33,4 SALMI gen.

2 31 LXX 31,1-2 LXX 50,6 LXX

123 123 178 148 97 96 102

219

89 143,2 QOELET gen.

12,12

148 82

5 5

52,13--53,12 53,5-6 LXX 53,1 1 53,12 LXX 63,8

67 67 82 67 1 48

GEREMIA SIRACIDE

23,1.4 25,24 26,29 35,1 1-16 51,10

148 129 82

101 148

1 ,5 3,14.1 9 9,22-23 23,6

38 148 68 69

EZECHIELE

37,5.6.8.9

123

ISAIA

gen.

1 ,2.4 28, 1 1 -12 43,6 43,18-19 49,1

67 1 48 156 148 111 38

OSEA

11,1

148

ABACUC

2,4

90 91 164

NUOVO TESTAMENTO

ATII

MA'ITEO

gen.

5,6 6,1 1 1 ,25-27 15,26 28,19

25 172 172 39 46

116

MARCO

2,27 7,27 15,38 parr.

64 46

2,33 7,53 8,16 1 1 ,20 1 1 ,26 18,2 18,8 19,5 26,28 ROMANI gen.

84 84

GIOVANNI

19,31

220

36 54 123 183 116 54 16 54 55 55 116 16

77

LUCA

8,3 16,9

gen.

44

1 ,1 1,7

7 17 1 8 21 31 54 57 72 73 79 91 93 1 04 105 1 1 3 134 139 1 49 155 157 163 169 184 190 192 35 141

141 1 ,9 1,14 51 1,16-17 39 91 -93 101 1 04 158 1,16-4,25 104 185 1,17 92 93 98 164 92 98 100 1,18 1,18-32 100 32 92 98 1 30 147 168 1,18--3,20 1 , 1 9-32 100 1 ,20 101 1 ,26-27 138 101 1 1 7 170 2 100 101 2,1 99 100 2,1-16 2,1-16.17-29 100 2,2 102 101 2,6-10 2,6-16 92 157 2,7 98 2,7.10.13b-14.26-27a 2,9-10 101 101 2,1 1 2,13b 98 99 155 2,14 2,14- 15 101 2,16 100 155 2,17 170 2,17-18 52 93 1 69- 171 173 2,17-29 2,18 170 170 2,19 1 70 2,19-20 2,21ss 170 2,27 99 169 2,28-29 101 170 115 3--4 102 3,1 3,1-20 100 130 3,4 92 3,4-6 104 3,5 1 14 3,8 126 3,9 :3,9-18 102 3,9-20 93 98 133 3,9-23 126 183 3,19 3,19-20 179 .

3,20 3,21 3,21ss 3,21 -22 3,21-22a 3,21-26 3,21--4,25 3,22 3,22.23 3,22.25 3,23 3,23-25a 3,24 3,25 3,26 3,27 3,28 3,29 3,29-30 3,31 4 4,1 -25 4,2 4,4-8 4.6 4,1 1b-12" 4,15 4, 1 6- 1 7 4,25 5 5-7 5--8 5,1-2 5,1-1 1 5,6-8 5,6.8 5,8 5,8-10 5,9 5,10 5,10. 1 1 5,12 5,12-13 5,12-21 5,12.21 5,12.15.17

41 83 102 104 1 05 158 161 169 179 70 73 98 105 163 171 185 133 176 92 96 103 65 178 92 134 185 93 93 165 93 126 131 163 70 73 70 178 92 155 159 170 83 158 103-105 153 89 178 185 190 18 105 173 53 83 177 189 83 18 158 159 179 53 63 65-67 74 165 134

127 114 59 134 134 64 63 109 106 107 65 109 106 93 127 131 133 181 66 119 128 148 127 118

221

S,13 5,14 5,15-17 5,16 5,16.18 5,17.21 5,18-19 5,19 5,20 5,20a 5,20b 5,20-21 5,21 6 (r8

6,1 6,1ss 6,1-2 6,1-14 6,1 -23 6,1-7,6 6,2 6,2-1 1 6,2.10 6,3-4 6,4 6,5 6,5.6.8. 1 1 6,5.8 6,5-10 6,6 6,6.9 6,6.16.17.20 6,9-10 6,10 6,1 1 6,12 6,12-14 6,13 6, 1 3 . 1 9 6,14 6,16 6,17-19 6,18.22 6,19 6,21 .22 6,22 7,4

222

179 151 133 132 122 165 133 151 127 179 129 1 34 1 14 1 15 114 124 1 34 124 127 123 126 134 140 134 1 14 117 115 114 116 121 134 1 1 6 120 1 14 127 115 116 117 1 1 8 1 24 115 117 1 1 8 118 119 118 127 119 120 1 1 8 120 121 1 14 120 127 1 14 120 140 150 114 142 127 179 185 132 1 50 72 127 180 132 92 191 141 177 179 1 85

7,4-6 7,5 7,5-1 3 7,5.7.8. 1 1 .13 7,5.8 7,6 7,7 7,7b 7,7.14 7,7-25

7,8b-9 7,10b 7,1 1 . 13 7,12. 16 7,13.18.19 7,14 . 7,14-25 7,14.25 7,15-25 7,17.20 7,18.21 -22.25 7,22.25 7,23 7,23.25 7;24 7,25a 8 8,1 8,1-2 8,1-11 8,1-14 8,1-17 8,1-39 8,2 8,2-10 8,3 8,3-4 8,4 8,4.5.9a. 8,5 8,5-6 8,7 8,7-8 8,9 8,9- 1 1 8,10

180 1 92 179 1 82 181 181 127 185 134 1 80 156 180 22 32 1 2 1 1 22 124 127 131 133 1 34 180183 187 189 190 181 190 127 180 180 123 124 1 26 128 180 133 127 127 1 27 182 180 155 155 122 123 1 27 1 28 183 121 134 140 183 121 122 125 124 121 125 148 187 121 133 189 134 122 123 127 155 126 58 63 77 1 48 1 83 1 24 1 48 186 125 125 125 122 124 125 1 23 125 149 125 125

8,10-11 123 8,1 1 126 125 140 8,12-13 148 8,13 8,14 148 149 133 148 150 8,15 148 8,16 121 8,17 8,19 122 8,23 70 126 8,23.25 122 8,27 141 150 8,29 8,32 63 9,3 50 57 9,3-4 148 9,4 40 9,10 9,24 57 167 9,30--10,4 9,30--10,21 165 9,31 165 9,32 83 175 10 10,2 169 10,3 165 1 75 166 1 9 1 1 96 1 0,4 10,5 166 175 1 90 10,5-9 10,6-9 166 50 52 11,1 1 1 ,1 5 1 06 1 1 ,26-32 165 12,1 . 141 142 12,1-2 157 13,3 191 13,7 186 13,8-10 1 17 13,13 22 14,1-15,13 63 64 117 14,15 15,2-3 96 15,8 157 84 15,18 141 15,25.26.31 . 141 16,2. 15 16 16,5 16,5.1 1.14.15 57

16,7 16,1 1 16,17-20 l CORINZI gen.

1,1 1 ,2 1 ,7 1 ,8 1,10-4,21 1,11-12 1,12 1,13 1 ,13.15 1 ,14 1,16 1,18-25 1 ,18-31 1 ,30 2,1-2 2,2 2,16 3,3 3,9 3,13-15 3.14 4.1 5.7 6.1 1 6.20 7. 1 7 7, 1 8 7,19 7,22 7,23 8,6 8,11 9,1-2 9,8 9,9 9,9b-10 9,20 9,21 10,1 1 1 1 ,17-34 1 1,23-26

35 17 22

7 71 130 155 156 157 163 179 183 35 68 141 39 191 144 68 144 63 116 55 17 145 62 68 68 70 112 136 144 144 145 117 17

84 157 172 17

77 70 1 4 1 71 72 117 156 156 72 71 72 41 63 64 35 156 156 157 156 168 185 155 58 191 16 78

. 223

1 1 ,24 1 2,2 1 2,3 12,13 1 2,28 14,6 14,21 14,34 14,34-35 15 15,1-2 15,3 15,3-4 15,3-5 15,5 15,5-8 15,1 1 15,12 15,15 15,16-17 15,17 15,20 15,21 -22 15,24 15,49 15,51 15,54-55 15,56 15,58 16,15 16,19 2 CORINZI gen. 1,1 1,13 1 ,20 3,13 4,2 4,6 5,3 5,7 5,8 5,1 1 -21 5,14 5,14.15 . 5,16-21 5,17

224

63 54 116 137 35 39 156 157 156 138 61 61 78 41 61 63 66 67 35 36 61 37 62 171 131 92 131 128 191 48 196 131 131 156 179 157 17 16 55 7 35 191 154 191 117 58 48

117 196 107 109 63 107 1 1 1 112 136 58 109

5,17.19 5,17.21 5,18 5,18-19 5,18-20 5,19 5,20 5,21 8,23 9,8 1 0--13 10,2 1 1 ,5 1 1 ,13 11,15 1 1 ,22 1 1 ,24 1 1 ,30 12,1.7 12,2 12,2-4 12,5.9b 12,7 12,9a 12,11 12,18 12,23-33 GALATI gen.

1,1 1 ,4 1,11 1 , 1 1 -12 1,13 1,13-14 1 ,13-17 1,14 1,15 1,15-16 1,15-16a 1,16 1 ,21 2

11 1 121 108 107 106 107 108 107 108 63 70 108 1 1 1 126 184 35 84 143 117 143 143 191 50

50 144 39 144 143 144 143 144 143 117 144 7

31 39 40 43 72 79 85 93 105 137 1 48 149 155 157 162 163 176 183 184 35 38 39 63 65 3.8 39 79 50

38 37 49 57 80

38 41 38 39 47 80 80

162

2,2 2,1 1-14 2,12 2,13.15 2,15 2,15-16 2,15-17 2,15-21 2,16 2,17 2,18 2,18-19 2,19 2,19-20 2,20 2,21 3 3,1ss 3,2.5.10 3,2.5.14 3,6-18.29 3,6.14 3,7 3,7-9 3,9 . 14 3,9-20 3,10 3,11 3,11-12 3,11 .21 3,12 3,13 3,17 3,18 3,19 3,19-20 3,19b-20 3,20 3,21 3,22 3,22.23 3,22-26 3,23 3,25 3,26 3,26-28

39 79 86 50 85 102 137 90

65 79 126 136 148 177 40 83 84 158 161 85 86 112 119 1 85 87 1 1 6 136 143 40 47 63 65 189 161 163 176 1 90 98 166 80 83 89 53 " 177 89 89 89 93 90 90 91 164 167 89 90

43 44 63 71 76 183-185 154 168 177 168 168 179 187 183 41 184 190 93 126 184 117 93 184 185 148 137-139

108

3,28 3,26-4,7 3,27 3,28 4,4 4,4-5 4,4.5.23 4,5 4,6 4,8 4,21 5,6 5,12 5,14 5,16 5,17 5,18 5,24 5,24-25 5,26c 5,27-31 6,2 6,12 6,15

137 197 40 116 116 58 168 148 1 84 71 168 185 149 54 183 97 93 186 117 187 133 189 184 93 94 94 94 155 85 58

EFESINI 1 ,4-5 2,16

150 106

FILIPPESI gen. 1 ,6 1 ,6 . 22

1 ,22 2,6-11 2,7 2,8 2,9-11 2,10-11 2,17 3 3,1-4,1 3,2-4 3,3 3,4 3,4-11 3,5-6

7 51 155 176 84 1 57 1 96 48 119 151 49 39 141 170 175 46 46 46 141 142 46 170 45 57 136 169 175 195 46 170 225

3,6 3,6.9 3,7 3,7- 1 1 3,8 3,8-11 3,9 3,10 3,10b-11 3,11 3,12 3,12-14 3,15-16 3,17. 18 3,19 3,21 4,18

41 175 178 192 47 51 47 51 175 47 48 104 169 48 48 48 49 46 46

130 191 141 130 63 130 1 96

l TIMOTEO

1 ,13

41

FILEMONE gen.

2 13 16

117 191 48 49 141

9,5

106

gen.

7 137 16 64

137

EBREI

73

GIACOMO

COLOSSESI

1,20.22

2,16 4,8 5,9 5,10 5,15

2,21-24

25 96 96

l TESSALONICESI gen.

1,9 1,10

7 130 54 130

APOCALISSE gen.

25

LETTERATURA INTERTESTAMENTARIA Lettera di Aristea

43 155 4Mac

74

Apocalisse di Mosè

129 Libro etiopico di Enoch

129 Testamento dei 12 patriarchi

82

LETTERATURA QUMRANICA

130; 160 Apocalisse siriaca di Baruc

128

LETIERATURA RABBINICA

128 4Esdra

226

27 129

Indice dei non1i

Aageson J.W. 191 Abramo 18-20 50 53 65 73 89 94-98 105 154 171 177 185 Abegg M. 160 Achille 36 Adamo 66 69 93 122 128 129 132 133 148 Àdna J. 56 Aejmelaeus L. 32 91 Agrippa, re 16 Aletti J.-N. 19 32 45 80 91 95 100 103 114 128 132 141 1 65 166 169 170 172 1 78 181 182 186 191 Antioco IV Epifane, re 74 Aquila 16 55 Aretino di Mileto 36 Aristea di Proconneso 36 Artus O. 54 Asclepio 36 Ascough R.S. 16 17 Ashton J. 23 Augusto, imperatore 197 Aune D.E. 135 146 Avemarie F. 61 174 Bachmann M. 86 90 160 161 Badenas R. 165 166 Banks R. 141 Barbaglio G. 30 46 69 82 88 144 176 Barclay J.M.G. 100 1 29 1 33 140 161 174 Barnaba 50 Barr J. 149 Bassler J.M. l 01 Basta P. 95 97 98 171 Baudry G.-H. 129 Baur F. C. 24 Bautch R.J. 154 Beker J.C. 30 31

BeH R.H . 99 132 Beniamino 45 Bergmeier R. 190 Betz H.-D. 116 Bianchini F. 45-47 49 169 Bieringer E. 66 Bittasi S. 45 46 49 169 Blasi A.J. 15 Blischke F. 140 Boccaccini G. 129 Boyarin D. 41 Brambilla F.G. 36 Br.eytenbach C. 63 64 67 78 82 108 109 144 Brodeur S. 126 Bultmann R. 25-27 104 1 20 147 Burke T.J. 150 Byme B. 134 150 Campbell D.A. 99 Campbell W.S. 53 55 56 Canobbio G. 81 Cardellini I . 75 Carson D. A . 29 45 99 173 177 Cartcr T. L. 22 129 Cassidy E.I. 145 Castellucci E. 36 Cefa 50 6 1 79 Chihici-Revneanu N. 164 165 Christiansen E.J. 153 Christophersen A. 132 Ciola N. 48 64 134 138 191 Claudio, imperatore 54 Claussen C. 132 Collins R.F. 69 Conrad E. W. 141 Corsani B. 38 80 Cosgrove C.H. 52 84 Coutsompos P. 175

227

Cranfield C.E.B. 65 92 114 121 168 Cranford M. 95 Crespo 55 Dabourne W. 93 95 Dahl N.A. 24 Das A.A. 29 90 173 176 Davies W.D. 192 de Boer M. C. 129 De Roo J.C.R. 160 de Villiers J. 113 Deiana G. 75 Deissmann A. 24 1 1 3 Del Missier G. 114 Destro A. 50 Dettwiler A. 30 31 45 161 Dfaz-Rodelas J.M 181 Dietzfelbinger C. 59 Dione Cassio 54 Dochhorn J. 181 Donfried K.P. 192 Doré J. 141 du Toit A. 144 Duhaime J. 15 Dunn J.D.J. 29 42 43 45 59 75 76 80 81 85-88 92 97 114 120 123 159162 164 165 169 172 173 181 184 191 Ebner M. 72 Eisenbaum P. 51 Endsj� D. 0 . 36 Engberg-Pedersen T. 54 1 1 4 117 Epp E.J. 92 114 Esler P.F. 15 16 18 20-22 Fabris R. 45 47 69 82 91 Fee G.D. 45 Ferry J. 54 Filone Alessandrino 41 Finlan S. 71 75 Finsterbusch K. 186 Fitzmyer J.A. 69 135 Flebbe J. 92 103 Frey J. 62 68 74 132 Gamaliele 193 Garlington D. 83 228

Gaston L. 158 Gathercole S.J. 29 86 100 129 133 140 161 173 174 Ghiberti G. 59 Giacomo 86 Gie n iusz A. 88 180 Gignac A. 102 128 Girard R. 13 75 Given M.D. 176 Gombis T. C. 90 Grasser E. 172 Grasso S. 45 136 169 Grelot P. 160 Grindheim S. 175 Hamerton-Kelly R. G. 75 Hansen G.W. 90 Hanson P.D. 72 Hawthome G.F. 46 Hays R.B. 92 94 95 Heil J.P. 191 Heliso D. 91 Hellholm D. 114 Hengel M. 61 86 Hillel R. 96 Hodge C.J. 51 53 · Hofius O. 108 Holmberg B. 56 138 Hooker M. 6.6 1 1 1 154 192 Horrell D. G. 15 56 Hiibner H. 29 90 168 172 181 184 Istituto per la ricerca ecumenica di Strasburgo 147 Jewett R. 92 114 117 121 Jossa G. 55 56 Kaestli l-D. 30 31 45 161 Kasemann E. 26 104 Kasper W. 145 Kim S. 29 59 109 168 Kirk J.R.D. 112 Klumbies P.-G. 103 Knoppler T. 75 Koperski V. 45 47 66 169 Kotansky D. 92 114 Krause C. 145

Kummel W.G. 128 Kuo-Yu Tsui T. 117 Kuula K. 30 Laato T. 91 147 Lambrecht J. 107 Lataire B. 66 Légasse S. 38 40 65 71 80 92 1 14 121 191 Lémonon J.-P. 38 80 83 Lichtenberger H. 61 128 LOhr H. 133 Lohse E. 66 71 92 1 14 121 123 191 Longenecker B.W. 97 132 174 Lo russo G. l 07 Lutero M. 24 79 Lyonnet S. 71 75 99 181 ·

Maffeis A. 147 Malina B.J. 16 Manicardi E. 45 136 169 Manzi F. 107 Marguerat D. 30 31 45 56 139 144 161 Martin B.L. 191 Martin R.P. 31 46 109 Martyn J._L. 38 80 81 85 140 Mayordomo M. 27 Mazzinghi L. 130 Meeks W.A. 54 Memnone 36 Merklein H. 137 176 Mohrmann D.C. 165 Mustakallio A. 32 91 Nerone, imperatore 54 Neubrand M. 95 Neusner J. 155 174 Newing E.G. 141 Noè 56 Noko l. 145 O'Brien P.T. 29 45 99 173 177 Onesimo 137 Oropeza B.J. 165 Owen P.L. 158 175 Pate C.M.

184

Pedersen S. 177 Pellegrino C. 144 Penna R. 37 49 54 55 57 59 61 63 64 66 67 71 82 91 92 99 1 07 113 114 1 1 6 121 129 134 142 143 161 162 172 176 186 191 Perani M. 155 Pereira Delgado A. 156 Perroni M. 138 Pesce M. 50 Pietro, apostolo 24 80 81 83 85 87 Pitta A. 38 45 66 67 71 79 80 90 92 107 1 14 121 133 162 167 176 179 182 191 194 Popkes W. 82 Porcelli G. 14 Porter S.K. 109 113 129 150 175 Priscilla 16 55 Pulcinelli G. 48 63 64 67 68 74 78 134 138 191 Qualizza M. 114 Quesnel M. 54 Raisanen H. 30 99 177 179 181 188 Rapa R.K. 163 Rastoin M. 138 Robertson C.K. 165 Rohser G. 63 65 68 72 127 Roitto R. 138 Romanello S. 7 29 45 51 64 82 92 100 103 114 122 124 128 130 133 134 136 158 165 1 69 181 182 186 190 1 91 1 94 Runesson A. 56 Sahourin L. 71 75 Sacchi A. 99 Sacchi P. 129 Sanders E.P. 5 26-30 84 88 89 99 112 1 1 3 1 35 140 146 158 169 173 174 176 188 Siinger D. 98 Sass G. 89 Schauff S. 87 Schliesser B. 96 97 Schlosser J. 32 83 Schnabel E.J. 69

229

Schnelle U. 31 128 136 140 Schrage W. 58 69 120 131 144 Schreiber S. 73 Schreiner T. R. 172 Schroter J. 62 74 78 Schweitzer A. 26 1 1 3 139 140 146 Scippa V. 186 Scott l. W. 86 Sechrest L.L. 52 Segal A. 41 42 Segalla G. 27 140 Seifrid M.A. 29 45 99 173 177 Setzer C. 51 Silva M. 177 Ska J.-L. 100 Smith B.D. 133 Soderlund S.K. 91 l 09 Soding T. 74 154 156 Sprinkle P.M. 164 Stegemann E. W. 17 18 Stegemann W. 17 18 Stendahl K. 29 Stowers S.K. 17 19 Stuhlmacher P. 29 Svetonio 54 Talbert C. 189 Tannehill R.C. 116 120 Thompson R.W. 171 Thrall M.E. 107 Thurén L. 32 Tolmie D.F. 71

230

Torres Queiruga A. 36 Trowitzsch M. 172 Thckett C.M. 56 Thrcotte P.A. 15 Ulpiano 82 Van der Watt J. 63 71 l 09 Vanhoye A. 38 80 90 Vanni U. 119 Vattimo G. 13 14 Vignolo R. 48 81 103 1 65 von der Osten-Sacken P. 121 123 124

Vos J.S.

.

166

Walker W.O. jr. 100 Wasserrnan E. 1 1 9 Watson F. 18 161 Watts R.E. 91 Wedderburn A.J.M. 145 Westerholm S. 29 1 30 133 162 168 177 191

Wilckens U.

65 71 92 1 1 4 121 123

191

Williams D.K. 144 Wilson S. G. 154 192 Winger M. 155 Winninge M. 81 138 Wright N.T. 91 93 109 Zumstein J.

30 31

Indice generale

PREFAZIONE

. . . . • • • • • • • . • • . . • • • • • • • • • • • • • • • • • • • . • • . . . . • . . • . . . •. . . . . . . . . . • . • . . . • • . . • . . •

SIGLE E ABBREVIAZIONI : .

• . . . • • • • . •• • • • • • • • • • • • • • • • • . . • • • . • . • • • • • • • • • • • • • • • • . .

p.

5

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9

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13

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13

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15 17

))

23

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35

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35 40

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45 50 57

Capitolo l DEHNIAMO L'AMBITO: COME E PERCHÉ PARLARE DELL'IDENTITÀ CREDENTE? ...................................

.

SUL CONCETIO DI IDENTITÀ ..... .......................................... . L'IDENTITÀ DEI CREDENTI SECONDO PAOLO. L'APPORTO DELLE SCIENZE SOCIALI LA QUESTIONE DELL'IDENTITÀ NEL PENSIERO DI PAOLO ... LA TEOLOGIA DI PAOLO E IL SUO METODO. UN PO' DI STORIA E PROSPETIIVE ATIUALI .

.

• . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............•

.•••.••• ••.••.••••••••..

Capitolo 2 L'EVENTO SORGIVO. l. L'INCONTRO CON IL RISORTO . . . . . . .......................

.

INTRODUZIONE: PAOLO «APOSTOLO» E LA SUA ESPERIENZA DEL RISORTO UNA «CONVERSIONE»? L'INCONTRO CON IL RISORTO E I SUOI EFFEITI NELLA VITA DI PAOLO · · · · · · · · · · · · · · · · · · ····· · · · · · · · · · · · · · · · ····················· ANCORA SULLA QUESTIONE DELL'IDENTITÀ CONCLUSIONI • ...•....••.•.•.•.•..................

.•.•...••....••.....•.•.......•.•.....•.•.••...........••

. . . .••.•...........•..•

...••••..

.•••••••••••........•....•....•.......•.•. . . . . . . . . . . . . . . ...•..•

231

Capitolo 3 L'EVENTO SORGIVO. 2. LA MORTE DI CRISTO . . . . ................................ ..........

61

.

..............•.•.....

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.

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...........

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....................................... ..................................

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61 63 70 73 78

.

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79

INfRODUZIONE ...................................................... ............... LA GIUSTIFICAZIONE NELLA LETTERA AI GALATI ............ LA GIUSTIFICAZIONE NELLA LETTERA AI ROMANI .......... . UNA GIUSTIZIA IMPARZIALE E LA SUA RILEVANZA TEOLOGICA ....................................... CONCLUSIONI ........................................................................ IL LESSICO PARALLELO DELLA RICONCILIAZIONE ............. .

»

79 79 91

ALL'ORIGINE DELL'ANNUNCIO: 1COR 15,3-5 UNA MORTE «DONO PER ( HYPER ) » ..................................... LE METAFORE COMMERCIALI ............................................. LE METAFORE CULTUALI . . . CONCLUSIONI . . • . . . . . . . . . • . . . . . . • . . • . • . . • . . . . • . . •,

..

..

Capitolo 4

I CREDENTI: GIUSTIFICATI E RICONCILIATI ..............................

.

.

.

.

. .

Capitolo 5 I CREDENTI: UNITI A CRISTO

E PERCI Ò FIGLI ....... .....................

.

INTRODUZIONE ....... .................................. : .. LA «MORTE CON» CRISTO: RM 6,1-14 ................................ «IN CRISTO - NELLO SPIRITO»: RM 8,1-11 ......................... . IL PROBLEMA DEL «PECCATO ( HAMARTIA ) » ..... .................. GIUSTIFICAZIONE, PARTECIPAZIONE ED ETICA ................... Excursus. La Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione ( 1999 ) ; documento già superato? ............................................. IN CRISTO: LA FIGLIOLANZA ADOTIIVA .............................. . ...........

...............

..

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98 105 106

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111

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111 1 14 121 126 134

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145 147

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153

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1 53 155 157

Capitolo 6 I CREDENTI E LA LEGGE MOSAICA ......................

.

IN1'RODUZIONE ..................................................................... . L'APPARIRE DELLE CONSIDERAZIONI SULLA LEGGE .......... .LE