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Italian Pages 640 [641] Year 2020
Table of contents :
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Occhiello
Indice
Parte I Il diritto oggettivo
Cap 01 Il diritto e l’ordinamento giuridico
Cap 02 Le fonti del diritto positivo
Cap 03 La norma giuridica e la sua applicazione
Parte II I diritto soggettivi
Cap 04 Le situazioni giuridiche soggettive
Cap 05 Nascita, circolazione, estinzione dei diritti
Parte III La tutela giurisdizionale dei diritti
Cap 06. Situazioni giuridiche e principi processuali
Cap 07 Le prove
Parte IV I soggetti
Cap 08. I diritti della persona
Cap 09 La capacità
Cap 10 La vita della persona fisica
Cap 11 Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
Parte V Gli atti giuridici
Cap 12 Gli atti illeciti
Cap 13 Gli atti giuridici leciti
Cap 14 Gli elementi essenziali del contratto
Cap 15 Gli elementi accidentali
Cap 16 La patologia
Cap 17 La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
Cap 18 Gli effetti del contratto
Cap 19 Lo scioglimento del contratto
Parte VI La famiglia
Cap 20. I rapporti familiari e il matrimonio
Cap 21 Il regime patrimoniale della famiglia
Cap 21 bis Le unioni civili e la convivenza di fatto
Cap 22 L’attribuzione dello stato di figlio e le azioni di stato
Cap 23 Il rapporto di filiazione. L’adozione
Parte VII Le successioni e le donazioni
Cap 24. La successione in generale
Cap 25 I diritti degli stretti congiunti
Cap 26 La vocazione legittima
Cap 27 La vocazione testamentaria
Cap 28 Le donazioni
Parte VIII Le obbligazioni
Cap 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
Cap 30 Le diverse specie di obbligazioni
Cap 31 Le modifiche in uno degli elementi del rapporto
Cap 32 I modi di estinzione diversi dall’adempimento
Parte IX La responsabilità e le garanzie
Cap 33. La responsabilità patrimoniale e le cause di prelazione
Parte X I beni e i diritti reali
Cap 34. Le cose e i beni
Cap 35 La proprietà
Cap 36 Il possesso
Cap 37 Acquisto e difesa della proprietà
Cap 38 I diritti reali su cosa altrui
Cap 39 La trascrizione
Parte XI I principali contratti tipici
Cap 40 I contratti di alienazione
Cap 41 I contratti di utilizzazione e prestito
Cap 42 I contratti di prestazione d’opera e di servizi
Cap 43 I contratti di assicurazione e garanzia
Cap 44 I contratti per la soluzione di controversie
Indice analitico
LEZIONI DI DIRITTO PRIVATO
ALDO CHECCHINI - GIUSEPPE AMADIO
LEZIONI DI DIRITTO PRIVATO Dodicesima edizione
G. Giappichelli Editore
© Copyright 2020 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX: 011-81.25.100
http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-3683-0
Composizione: Voxel Infrormatica s.a.s. - Chieri (TO) Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino
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Indice
V
INDICE (I capitoli 1-33 sono di Aldo Checchini. I capitoli 34-44 sono di Giuseppe Amadio)
pag.
PARTE PRIMA IL DIRITTO OGGETTIVO CAPITOLO 1 IL DIRITTO E L’ORDINAMENTO GIURIDICO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Il diritto come fenomeno sociale L’interesse L’ordinamento giuridico interno e internazionale Ordinamenti giuridici e norme di altra natura Ordinamento giuridico e diritto statuale Diritto positivo e diritto naturale Lo Stato di diritto Relazione tra diritto soggettivo e oggettivo Diritto oggettivo, distinzioni Diritto privato e diritto pubblico L’oggetto del diritto privato
3 4 5 6 9 10 11 12 13 14 15
CAPITOLO 2 LE FONTI DEL DIRITTO POSITIVO 1. 2.
Le norme sulle fonti Il catalogo attuale delle fonti
17 18
CAPITOLO 3 LA NORMA GIURIDICA E LA SUA APPLICAZIONE 1. 2.
Nozioni generali Norma e fattispecie
25 27
VI
Indice
pag. 3. 4. 5. 6.
La vita delle norme giuridiche nel tempo L’interpretazione L’analogia La legge nello spazio
27 29 31 33
PARTE SECONDA I DIRITTI SOGGETTIVI CAPITOLO 4 LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Nozione Diritto soggettivo e interesse legittimo Diritti soggettivi assoluti e relativi Considerazioni sul rapporto giuridico Situazioni minori: facoltà, poteri Diritto potestativo, potestà Aspettativa Stato della persona (status) Situazioni passive: dovere, obbligo, onere Le obbligazioni “propter rem” I c.d. oneri reali
37 38 39 41 42 44 45 46 47 48 49
CAPITOLO 5 NASCITA, CIRCOLAZIONE, ESTINZIONE DEI DIRITTI 1. 2. 3. 4. 5.
I fatti giuridici La nascita e la circolazione dei diritti La prescrizione Le prescrizioni presuntive La decadenza
51 52 55 60 62
PARTE TERZA LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI CAPITOLO 6 SITUAZIONI GIURIDICHE E PRINCIPI PROCESSUALI 1.
Azione, eccezione, legittimazione
67
Indice
VII
pag. 2. 3.
Cenni ad alcuni principi del processo civile Tutela giurisdizionale ordinaria e amministrativa
69 72
CAPITOLO 7 LE PROVE 1. 2. 3. 4. 5. 6.
I mezzi di prova in generale I singoli mezzi di prova: la prova documentale La prova per testimoni La prova per presunzioni Le prove legali: la confessione Segue: il giuramento
75 77 80 81 82 83
PARTE QUARTA I SOGGETTI CAPITOLO 8 I DIRITTI DELLA PERSONA 1. 2. 3. 4.
Le fonti della tutela La vita, l’integrità fisica, la salute La libertà e la riservatezza L’integrità morale
87 88 93 95
CAPITOLO 9 LA CAPACITÀ 1. 2. 3. 4.
La capacità giuridica La capacità di agire L’incapacità naturale totale e parziale L’incapacità legale come protezione del soggetto e l’azione di annullamento 5. Le situazioni di incapacità legale: la minore età 6. Segue: l’interdizione giudiziale 7. Segue: l’inabilitazione e la emancipazione 8. La revoca dei provvedimenti di protezione 9. Un nuovo istituto: l’amministrazione di sostegno 10. L’incapacità legale come pena accessoria
96 97 99 101 103 105 106 108 109 110
VIII
Indice
pag.
CAPITOLO 10 LA VITA DELLA PERSONA FISICA 1. 2. 3.
La dimora, il domicilio, la residenza La prova della esistenza della persona La scomparsa e le dichiarazioni di assenza e di morte presunta
111 112 113
CAPITOLO 11 LE PERSONE GIURIDICHE E I GRUPPI ORGANIZZATI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
I soggetti organizzati La persona giuridica e gli enti senza personalità L’autonomia patrimoniale I principali gruppi senza personalità Le persone giuridiche Una nuova figura di patrimonio di destinazione Gli Enti del Terzo Settore
116 118 119 121 124 128 129
PARTE QUINTA GLI ATTI GIURIDICI CAPITOLO 12 GLI ATTI ILLECITI 1. 2. 3. 4. 5.
Fatto, atto illecito, imputabilità Gli elementi dell’illecito aquiliano: l’antigiuridicità La colpevolezza e il nesso di causalità Il danno patrimoniale e non patrimoniale La disciplina dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale
133 135 137 139 143
CAPITOLO 13 GLI ATTI GIURIDICI LECITI 1. 2. 3. 4. 5.
Nozioni generali e distinzioni Gli atti giuridici in senso stretto I negozi giuridici Il negozio e l’intento giuridico L’autonomia privata e i requisiti del contratto
146 148 152 154 155
Indice
IX
pag.
CAPITOLO 14 GLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONTRATTO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Il soggetto La rappresentanza L’oggetto del negozio I requisiti dell’oggetto La volontà e i vizi del consenso La simulazione La forma La causa L’astrazione processuale e sostanziale dalla causa I requisiti della causa Il negozio indiretto e il negozio fiduciario
157 159 164 167 170 175 179 183 187 189 191
CAPITOLO 15 GLI ELEMENTI ACCIDENTALI 1. 2. 3.
La condizione Il termine L’onere o modus
193 197 198
CAPITOLO 16 LA PATOLOGIA 1. 2. 3. 4.
Le nozioni di invalidità e inefficacia La nullità L’annullabilità La rescindibilità
200 201 205 208
CAPITOLO 17 LA STIPULAZIONE, L’INTEGRAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Le trattative e la culpa in contrahendo La conclusione del contratto Morte e incapacità del dichiarante L’offerta al pubblico e la promessa al pubblico L’integrazione del contratto Il contratto per adesione e la contrattazione di massa L’interpretazione del contratto
211 214 217 218 219 222 225
X
Indice
pag.
CAPITOLO 18 GLI EFFETTI DEL CONTRATTO 1. 2. 3. 4. 5.
Distinzioni Il principio consensualistico Il principio di relatività del contratto I mezzi che facilitano l’adempimento: clausola penale e caparra La propagazione degli effetti del contratto ai terzi
229 230 231 234 236
CAPITOLO 19 LO SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO 1. 2. 3. 4.
La risoluzione e i contratti sinallagmatici L’inadempimento L’impossibilità sopravvenuta L’eccessiva onerosità sopravvenuta
240 241 245 246
PARTE SESTA LA FAMIGLIA CAPITOLO 20 I RAPPORTI FAMILIARI E IL MATRIMONIO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
I vincoli di parentela, affinità, coniugio Il diritto agli alimenti La promessa di matrimonio Il matrimonio concordatario Il matrimonio civile: formalità preliminari I requisiti e le cause di invalidità La celebrazione del matrimonio Gli effetti del matrimonio: diritti e doveri La dichiarazione di nullità del matrimonio e il matrimonio putativo L’allontanamento e la separazione personale dei coniugi Lo scioglimento del matrimonio
251 254 256 256 257 259 262 265 266 269 272
CAPITOLO 21 IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA 1. 2. 3.
Le convenzioni matrimoniali Il regime patrimoniale del matrimonio: a) la separazione dei beni Segue: b) la comunione legale
276 278 278
Indice
XI
pag. 4. 5. 6. 7.
Amministrazione e responsabilità patrimoniale della comunione Lo scioglimento della comunione I regimi opzionali: fondo patrimoniale e comunione convenzionale L’impresa familiare
280 282 283 284
CAPITOLO 21 BIS LE UNIONI CIVILI E LA CONVIVENZA DI FATTO A.
L’UNIONE CIVILE
1. 2. 3. 4. 5.
La costituzione dell’unione civile Gli impedimenti Le altre cause di invalidità e l’impugnazione Gli effetti del negozio Lo scioglimento dell’unione civile
B.
LA CONVIVENZA DI FATTO
1. 2.
Come qualifica di una relazione personale Come regolamento del rapporto mediante un contratto di convivenza
286 287 287 288 289 290 291 291 292
CAPITOLO 22 L’ATTRIBUZIONE DELLO STATO DI FIGLIO E LE AZIONI DI STATO 1. 2.
La riforma della filiazione del 2012-2013 Attribuzione dello stato di figlio nato nel matrimonio. Presunzione di concepimento durante il matrimonio 3. Presunzione di paternità e disconoscimento 4. Maternità. Contestazione e reclamo. Volontà della donna di non essere nominata 5. Azioni di stato e possesso di stato 6. L’atto di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio 7. Le condizioni di efficacia e gli effetti del riconoscimento 8. La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità del figlio nato fuori del matrimonio 9. L’accertamento dello stato dei figli incestuosi e la categoria dei figli non riconoscibili 10. La procreazione assistita
295 297 299 301 302 304 306 308 310 311
CAPITOLO 23 IL RAPPORTO DI FILIAZIONE. L’ADOZIONE 1.
Diritti e doveri del figlio
313
XII
Indice
pag. 2. 3. 4. 5.
Diritti e doveri dei genitori Rappresentanza, amministrazione, usufrutto legale Decadenza dalla responsabilità genitoriale e altre sanzioni L’esercizio della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di non convivenza: i principi concernenti l’affidamento dei figli 6. Affidamento congiunto e affidamento esclusivo 7. L’assegnazione della casa familiare e i provvedimenti a tutela dei figli maggiorenni 8. Abusi domestici e provvedimenti del giudice 9. Adozione dei minori 10. Adozione internazionale 11. Adozione delle persone maggiori di età 12. Adozione in casi particolari
314 316 317 319 320 322 323 324 326 326 328
PARTE SETTIMA LE SUCCESSIONI E LE DONAZIONI CAPITOLO 24 LA SUCCESSIONE IN GENERALE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.
La vicenda successoria e la terminologia giuridica Le disposizioni mortis causa: l’istituzione di erede Le disposizioni patrimoniali divisionali Le altre disposizioni patrimoniali: il legato e l’onere o modus La capacità di succedere L’indegnità e la “sospensione della successione” L’accettazione dell’eredità La giacenza dell’eredità La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede La rinunzia all’eredità La devoluzione della chiamata La sostituzione La rappresentazione L’accrescimento Il certificato successorio
331 333 336 337 339 340 341 344 345 346 346 347 348 350 351
CAPITOLO 25 I DIRITTI DEGLI STRETTI CONGIUNTI 1.
La vocazione necessaria e il diritto dei legittimari
352
Indice
XIII
pag. 2. 3. 4.
L’azione di riduzione La collazione Il nuovo patto di famiglia e i diritti dei legittimari
355 357 359
CAPITOLO 26 LA VOCAZIONE LEGITTIMA 1. 2. 3.
La chiamata di figli, genitori, ascendenti, senza concorso fra loro Segue: coniuge, collaterali, altri parenti, Stato Il concorso fra eredi legittimi
362 363 364
CAPITOLO 27 LA VOCAZIONE TESTAMENTARIA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
Le caratteristiche del testamento Le forme ordinarie del testamento I testamenti speciali L’invalidità del testamento per quanto concerne gli elementi essenziali del negozio Segue: invalidità ed elementi accidentali La revocazione delle disposizioni testamentarie La coeredità e la divisione
365 367 370 370 374 375 376
CAPITOLO 28 LE DONAZIONI 1. 2. 3. 4. 5.
La definizione formale di donazione e le norme materiali Lo spirito di liberalità e la rilevanza del motivo Le liberalità donative e non donative I requisiti di validità del negozio di donazione La revocazione
379 380 381 382 384
PARTE OTTAVA LE OBBLIGAZIONI CAPITOLO 29 IL RAPPORTO GIURIDICO E L’ADEMPIMENTO 1. 2.
L’obbligazione e il suo oggetto: la prestazione Altri elementi dell’obbligazione: i soggetti e la causa
389 391
XIV
Indice
pag. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Le regole dell’adempimento: luogo e tempo La destinazione del pagamento: l’imputazione I soggetti: chi deve e chi può adempiere Il pagamento di chi non è debitore: l’indebito soggettivo e oggettivo Il destinatario del pagamento e il creditore apparente Il modo dell’adempimento: la diligenza La correttezza La mora del debitore e le conseguenze dell’inadempimento La mora del creditore: offerta e deposito
392 394 395 396 398 399 402 403 408
CAPITOLO 30 LE DIVERSE SPECIE DI OBBLIGAZIONI 1. 2. 3. 4.
Obbligazioni semplici, complesse, parziarie, solidali Obbligazioni divisibili e indivisibili Obbligazioni alternative e facoltative Obbligazioni pecuniarie
411 414 415 416
CAPITOLO 31 LE MODIFICHE IN UNO DEGLI ELEMENTI DEL RAPPORTO 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Nel soggetto attivo: a) la surrogazione per pagamento Segue: b) la cessione del credito Le modifiche soggettive dal lato passivo: a) delegazione Segue: b) espromissione Segue: c) accollo Le modifiche nell’oggetto del rapporto
421 422 424 426 427 428
CAPITOLO 32 I MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Distinzioni L’impossibilità sopravvenuta La dazione in pagamento e la novazione La remissione del debito La confusione La compensazione
430 431 432 434 435 435
Indice
XV
pag.
PARTE NONA LA RESPONSABILITÀ E LE GARANZIE CAPITOLO 33 LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE E LE CAUSE DI PRELAZIONE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
La garanzia generica e le limitazioni della responsabilità I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: l’azione revocatoria o pauliana Il sequestro conservativo L’azione surrogatoria Il diritto di prelazione dei creditori: i privilegi Il pegno L’ipoteca
441 442 445 445 446 449 452
PARTE DECIMA I BENI E I DIRITTI REALI CAPITOLO 34 LE COSE E I BENI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Cose, beni, diritti reali Principali distinzioni tra beni: i beni pubblici Beni mobili e immobili I beni mobili registrati Altre distinzioni tra cose I rapporti tra cose: le pertinenze e le universalità Le universalità di mobili I frutti I nuovi beni (cenni)
461 463 464 465 466 469 470 471 472
CAPITOLO 35 LA PROPRIETÀ 1. 2. 3.
I diritti reali in generale Il diritto di proprietà: nozione e fondamento Il contenuto della proprietà
473 474 475
XVI
Indice
pag. 4. 5. 6.
I limiti della proprietà nell’interesse pubblico I limiti nell’interesse privato La comunione e il condominio
477 478 480
CAPITOLO 36 IL POSSESSO 1. 2. 3. 4. 5. 6.
La nozione di possesso: l’elemento oggettivo Segue: l’elemento soggettivo L’acquisto del possesso Requisiti e vicende della situazione possessoria Gli effetti del possesso: a) nella restituzione del bene; b) la regola “possesso vale titolo”; c) l’usucapione La tutela del possesso
486 487 489 490 493 497
CAPITOLO 37 ACQUISTO E DIFESA DELLA PROPRIETÀ 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
I modi d’acquisto della proprietà Occupazione e invenzione Accessione, unione e commistione. Specificazione Usucapione (rinvio) La tutela della proprietà: le azioni petitorie Le azioni di nunciazione Il concorso tra tutela possessoria e petitoria
500 501 502 503 503 505 506
CAPITOLO 38 I DIRITTI REALI SU COSA ALTRUI 1. 2. 3. 4. 5. 6.
I diritti reali minori Superficie Enfiteusi Usufrutto Uso e abitazione Servitù prediali
508 509 510 511 513 513
CAPITOLO 39 LA TRASCRIZIONE 1.
Trascrizione e pubblicità
517
Indice
XVII
pag. 2. 3. 4. 5. 6.
Atti soggetti a trascrizione Effetti della trascrizione Titolo e procedimento La pubblicità relativa ai beni mobili Il regime tavolare
519 520 523 524 525
PARTE UNDICESIMA I PRINCIPALI CONTRATTI TIPICI CAPITOLO 40 I CONTRATTI DI ALIENAZIONE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.
La compravendita: a) la fattispecie tipica Segue: effetti del contratto ed obblighi delle parti Segue: sottotipi e discipline speciali La permuta La somministrazione Il contratto estimatorio I contratti di rendita Alcuni nuovi contratti: a) la subfornitura; b) la cessione dei crediti di impresa (factoring); c) l’affiliazione commerciale (franchising)
529 533 537 548 549 550 551 552
CAPITOLO 41 I CONTRATTI DI UTILIZZAZIONE E PRESTITO 1. 2. 3. 4. 5.
La locazione e l’affitto: a) la disciplina generale Segue: b) le leggi speciali Il comodato Il mutuo La locazione finanziaria (leasing)
556 559 561 562 564
CAPITOLO 42 I CONTRATTI DI PRESTAZIONE D’OPERA E DI SERVIZI 1. 2. 3.
Il contratto d’opera e la prestazione d’opera intellettuale Il contratto d’appalto Il mandato e i suoi sottotipi
567 570 572
XVIII
Indice
pag. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Il deposito e i suoi sottotipi Il trasporto e i suoi sottotipi Il contratto di agenzia La mediazione Il sequestro convenzionale La c.d. “vendita di pacchetti turistici”
575 578 581 582 584 585
CAPITOLO 43 I CONTRATTI DI ASSICURAZIONE E GARANZIA 1. 2. 3. 4. 5.
Il contratto di assicurazione e i suoi sottotipi La fideiussione Il mandato di credito L’anticresi Il contratto “autonomo” di garanzia
587 591 593 593 594
CAPITOLO 44 I CONTRATTI PER LA SOLUZIONE DI CONTROVERSIE 1. 2. 3.
La transazione Il compromesso in arbitri e la nuova disciplina dell’arbitrato La cessione dei beni ai creditori
Indice analitico
596 598 600 601
§ 3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale
PARTE PRIMA
IL DIRITTO OGGETTIVO
1
2
Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
§ 3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale
3
CAPITOLO 1
IL DIRITTO E L’ORDINAMENTO GIURIDICO
SOMMARIO: 1. Il diritto come fenomeno sociale. – 2. L’interesse. – 3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale. – 4. Ordinamenti giuridici e norme di altra natura. – 5. Ordinamento giuridico e diritto statuale. – 6. Diritto positivo e diritto naturale. – 7. Lo Stato di diritto. – 8. Relazione tra diritto soggettivo e oggettivo. – 9. Diritto oggettivo, distinzioni. – 10. Diritto privato e diritto pubblico. – 11. L’oggetto del diritto privato.
1. Il diritto come fenomeno sociale. Il naufrago che si trova da solo in un’isola deserta non ha bisogno del diritto. La presenza di un altro essere umano sullo stesso territorio, tuttavia, pone già il problema della relazione fra i due soggetti. All’origine tale relazione è determinata essenzialmente dai rapporti di forza, che possono variare fra una situazione di assoluta supremazia dell’uno sull’altro – fino al limite della schiavitù – e una situazione di equilibrio tra soggetti di pari forza. Il modo in cui si attua siffatto rapporto influenza direttamente la possibilità concreta di soddisfare gli interessi di ciascuno. Si crea, in sostanza, una gerarchia di interessi che trovano maggiore o minore protezione secondo quelle che sono le norme di relazione instaurate fra coloro che vengono a far parte del gruppo. In un secondo momento la consapevolezza del rapporto esistente fra i membri del gruppo, fondato sul potere conquistato da ciascuno e sulla capacità di farlo rispettare, porta, col tempo, ad un uso sistematico di regole che stabiliscono, nelle singole ipotesi di conflitto, come deve comportarsi un soggetto nei confronti di un altro. Si può dire che in questo momento nasce un primo embrione di diritto, inteso come insieme di regole conosciute e rispettate da tutti i consociati. In questa prospettiva, il diritto appare innanzitutto come un fenomeno
4
Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
sociale in quanto permette la convivenza tra più soggetti, portatori di interessi contrapposti, in un gruppo ordinato. L’uso della forza non viene eliminato del tutto, ma resta un rimedio estremo, da utilizzare allorquando le regole di convivenza non vengono osservate. Anche l’applicazione della sanzione sarà, pertanto, soggetta a regole determinate. In una società primitiva le regole di comportamento riguardano inizialmente l’uso di determinati beni o del territorio, la vita o l’integrità fisica della persona. Man mano che la società diventa più complessa si producono regole che guidano la vita dell’intera collettività oltre che i rapporti fra le singole persone. In tal modo si creano norme sulla scelta dei capi, norme che vietano determinati comportamenti per il bene della società, fino alle norme che indicano come creare ulteriori regole nuove. L’attività che consiste nella scelta delle norme più opportune per il bene della collettività si chiama politica del diritto. Compito quanto mai delicato, in quanto richiede una precisa consapevolezza della distinzione fra gli interessi dei singoli, dei gruppi e dell’intera società. Il concetto di diritto sin qui accennato sottintende dunque un complesso di norme che regolano la convivenza di un gruppo sociale tutelando determinati interessi della collettività o di singoli individui e collocandoli in un certo ordine di importanza fra loro. Ad es., si stabilisce che tra due soggetti in conflitto per l’uso di una cosa, debba prevalere quello che per primo se ne è impossessato. Oppure, nel conflitto tra l’interesse del singolo e l’interesse del gruppo sociale, in una determinata circostanza, ad es. quando è in gioco la difesa del gruppo, si stabilisce che debba prevalere quello della collettività anche a discapito della vita del singolo.
2. L’interesse. L’uomo ha bisogno di soddisfare le necessità che si manifestano durante la sua vita. Si genera in tal modo una tensione verso determinate situazioni o determinati beni in quanto essi appaiono utili o addirittura indispensabili. Questo stato psicologico in cui si trova il soggetto, il quale si raffigura una situazione utile, desiderando, al tempo stesso, di ottenerla perché soddisfa una sua esigenza, viene chiamato interesse. Come tutti sanno vi sono interessi concernenti la propria persona o la persona umana in generale, interessi propri di un singolo soggetto o di un gruppo di sog-
§ 3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale
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getti, interessi verso i beni materiali e interessi di altro genere, come quelli culturali (verso il mondo della natura o dello spirito umano), quelli religiosi (stabilire un contatto mistico con la divinità attraverso la preghiera e gli atti di culto) e così via.
Il diritto presuppone, come si è detto, l’esistenza di una società, cioè di un insieme di soggetti organizzati in un gruppo, sicché le regole di comportamento divengono necessarie perché un interesse è minacciato dall’esistenza di altri interessi in conflitto con il primo. Si potrà manifestare, in taluni casi, la tutela prevalente del singolo o del gruppo, considerato nella sua interezza, o di un sottogruppo soltanto. Presupposto essenziale, alla base del fenomeno giuridico, è dunque la possibilità di conflitto, che causa la compressione o minaccia il soddisfacimento di un interesse rispetto a quello di altri soggetti. In caso contrario il diritto non serve.
3. L’ordinamento giuridico interno e internazionale. Il concetto di diritto cui si è accennato sinora, inteso come complesso di regole di un gruppo organizzato, è ancora abbastanza generico e impreciso. Un modo più significativo per indicare un complesso di norme giuridiche è dato dall’espressione: ordinamento giuridico. Con questo termine si vuole indicare un insieme di norme giuridiche della stessa specie e cioè che trovano la loro origine nella stessa fonte di produzione e che si applicano entro un gruppo di soggetti ben delimitato. Ad es. si può parlare di ordinamento internazionale, per indicare le regole che si sono venute a creare per consuetudine tra gli Stati o che sono state pattuite mediante i trattati internazionali dai vari governi e che si applicano nei rapporti esterni dello Stato. Si può parlare, invece, di ordinamento interno con riferimento alle norme create dallo Stato nel suo territorio e valide per tutti coloro che vivono all’interno dei confini statali. Una sottospecie dell’ordinamento interno può essere considerato, ad es., l’ordinamento militare, che, come si intuisce, si rivolge soltanto ad una parte dei cittadini dello Stato ed è diretto a disciplinare una particolare categoria di situazioni senza escludere che, per tutte le altre vicende da esso non regolate, valga, invece, l’ordinamento civile. In questo esempio si assiste ad una sovrapposizione di ordinamenti diversi, provenienti da una stessa fonte, lo Stato, sicché saranno necessarie alcune regole di armonizzazione per evitare un conflitto fra i due ordinamenti e cioè un contrasto di
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
norme che, come si può intuire, appare assai probabile in tali casi. Si possono ipotizzare comandi provenienti da fonti diverse diretti ad un unico soggetto che, in quanto sottoposto a distinti ordinamenti, deve obbedire ad entrambi (ad es. l’ordinamento giuridico della Chiesa si rivolge anche ai cittadini di uno Stato determinato che aderiscono a quella Chiesa e alle sue regole).
4. Ordinamenti giuridici e norme di altra natura. Ci si può chiedere, a questo punto, se è giuridico anche l’ordinamento di un ordine cavalleresco, se sono “diritto” anche le leggi della massoneria, le regole di un club privato o, paradossalmente, anche le regole di una associazione per delinquere come la mafia o la camorra. Sarebbe sbagliato ritenere che il quesito proposto ci conduca ad una “verità naturale”, come se scoprissimo una legge fisica o le proprietà di un metallo, ma sarebbe altrettanto sbagliato pensare che la nozione di diritto che stiamo cercando non riesca ad esprimere nessuna verità. Il giurista che si interroga in merito al diritto è come un filosofo che si chiede cosa sia la filosofia. Si tratta di concetti che l’uomo stesso sta creando nel momento in cui osserva e descrive aspetti della realtà. Ebbene, la risposta che cerchiamo dipenderà dalle caratteristiche e dalla estensione che vogliamo attribuire al concetto di diritto. Siamo dunque liberi di “riempire” tale nozione con qualsiasi contenuto? Fino ad un certo punto. Il concetto di diritto dovrà esprimere la particolare connotazione di un insieme di regole, cercando di evitare confusioni con altre regole dotate di caratteristiche diverse: ad es. le regole della morale o le regole proprie di una tecnica o di un’arte. Una volta trovata una sufficiente individuazione di quell’aspetto della realtà che ci interessa, dovremo poi tenere conto interamente e costantemente del significato attribuito alla parola “diritto” e adottarla in ogni altro caso in cui si ripetono le stesse caratteristiche. Questo sarà il criterio di verità delle nostre affermazioni, che è, prima di tutto, un criterio di coerenza. Con la cautela che queste premesse consigliano, possiamo affrontare la soluzione del problema di ciò che è giuridico da ciò che è extra giuridico.
Consideriamo alcuni elementi utili per la definizione di ciò che è diritto: a) l’oggetto della prescrizione. Innanzitutto escluderemo dal campo della nostra indagine tutte quelle regole che impongono dei comportamenti non destinati a risolvere conflitti di interesse fra entità sociali (usiamo que-
§ 4. Ordinamenti giuridici e norme di altra natura
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sta espressione, come abbiamo già accennato, per alludere a singole persone fisiche, ma anche a gruppi o sottogruppi). Appare allora estranea al fenomeno che abbiamo deciso di studiare la norma che impone un certo comportamento per soddisfare l’imperativo di una morale trascendente (se vuoi salvare l’anima) o immanente (se vuoi essere un uomo giusto). È estranea al diritto anche la norma che impone di compiere determinate azioni per ottenere un risultato pratico utile (regole di mestieri, professioni, arti, scienze, grammatica). La caratteristica specifica che si vuole mettere in luce nel fenomeno esaminato sta nel fatto che la regola giuridica serve per attuare una organizzazione della società attraverso la protezione degli interessi di singoli o di gruppi (ivi compresa l’intera collettività), attribuendo loro un determinato ordine di importanza (gerarchia) che garantisce, di volta in volta, la prevalenza di un interesse rispetto agli altri. b) La conseguenza della violazione. Il diritto prevede, di solito, una conseguenza negativa a carico del soggetto che viola una regola di comportamento. Questo evento sfavorevole previsto dal diritto, che è chiamato sanzione, viene concepito secondo la concezione più tradizionale, che intende la norma giuridica come comando, quale punizione conseguente alla violazione commessa (altre concezioni più moderne adottano una diversa prospettiva). La sanzione mira a tutelare, direttamente o indirettamente, l’ordine violato. Anche nel campo dei mestieri e delle professioni l’inosservanza della regola porta a risultati negativi, ma qui la ragione sta nella necessità pratica di comportarsi in un certo modo per ottenere il risultato cercato. Nel campo del diritto invece la sanzione viene assegnata sul piano tipicamente giuridico, e cioè limitando la sfera di libertà di taluno nell’interesse del soggetto offeso (la collettività, un gruppo, un individuo). Ciò avviene non soltanto irrogando una sanzione che toglie o riduce la libertà personale, come nel diritto penale, ma anche facendo nascere un obbligo di riparare o di risarcire il danno, o statuendo l’inefficacia di un atto di volontà del privato. Ad es., si può costringere taluno ad abbattere una costruzione abusiva o a restituire il denaro dovuto; è chiaro che non sempre si è in grado di ottenere una piena riparazione (anche chiudendo in carcere chi ha commesso un omicidio non si può restituire la vita all’ucciso; chi ha distrutto in modo irreparabile una preziosa statua potrà, tutt’al più, essere obbligato a sborsare l’equivalente in denaro).
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
La sanzione irrogata dal diritto può essere di natura diversa, secondo il tipo di ordinamento e di valori da esso tutelati, ad es. la Chiesa imporrà la scomunica o la sospensione a divinis nei confronti della persona che ha trasgredito alle sue regole, la comunità internazionale potrà imporre un embargo a carico di uno Stato e così via. In ogni caso l’applicazione della sanzione, comunque sia essa intesa, presuppone sempre la possibilità di ricorrere all’uso della forza, allorquando è necessario costringere colui che ha violato una norma a subire le conseguenze imposte dalla organizzazione sociale. Teniamo presente che la forza non è solo quella della comunità internazionale, che può fare ricorso ai mezzi militari per far fronte ad una grave violazione dell’ordine fra gli Stati, o quella del singolo Stato, che può irrogare una pena detentiva nei confronti di chi ha commesso un reato, ma anche quella della Chiesa quando dispone, comunque, di mezzi idonei a far rispettare le sue leggi nell’ambito in cui esse operano (si pensi, appunto, alle sanzioni della scomunica, irrogata ad un fedele, o della sospensione a divinis di un sacerdote). Riassumendo: i presupposti necessari affinché il diritto possa svolgere la sua funzione specifica richiedono pertanto: l’esistenza di un gruppo sociale composto da più soggetti, portatori di interessi in conflitto; l’esistenza di regole di organizzazione rivolte alla generalità degli appartenenti al gruppo stesso che prescrivono comportamenti dei singoli o del gruppo; la previsione di sanzioni per le violazioni di tali norme; l’esistenza di una forza effettiva che consente di attuare tali sanzioni. Se ci si limita a richiedere soltanto questi elementi, tuttavia, si dovrà concludere che vi sono ordinamenti giuridici non solo nello Stato, nella Chiesa o nella Comunità internazionale, ma anche in gruppi sociali più ristretti e particolari, come un ordine cavalleresco o un’associazione, purché dotati di tutti gli elementi indicati, fino a comprendere perfino talune associazioni delittuose. È questo ciò che afferma, in sostanza, la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. La descrizione della realtà, tuttavia, non è ancora completa perché ci dice quali sono i connotati di una singola organizzazione sociale, e delle sue regole interne, senza dirci quali sono i rapporti dei diversi ordinamenti fra loro. c) È necessario pertanto aggiungere un nuovo elemento a quelli già citati: esso è costituito dalla sovranità dell’ordinamento. Osservando il modo
§ 5. Ordinamento giuridico e diritto statuale
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in cui un ordinamento considera le norme provenienti da altre fonti, con le quali può entrare in conflitto, si dice che esso è sovrano quando non accetta regole imposte dall’esterno. Solo l’ordinamento sovrano può porre norme giuridiche al suo interno, ed anche quando siano stati assunti impegni verso terzi, ad es. con trattati internazionali, essi non saranno immediatamente efficaci per la collettività senza una norma interna di attuazione del trattato. La nascita dello stato moderno si è avuta, secondo la teoria più rigorosa, soltanto quando una organizzazione politica territoriale (Regno, Principato) per quanto già dotata di una certa autonomia, è diventata un ente “superiorem non recognoscens”, cioè totalmente svincolato da ogni subordinazione all’Impero. La base territoriale non è, tuttavia, un requisito essenziale della sovranità. Oltre alle organizzazioni a base territoriale, come gli Stati, esistono anche organizzazioni a base personale, come la Chiesa Cattolica o il Sovrano Militare Ordine di Malta, che operano soltanto nei confronti di coloro che aderiscono a tali organizzazioni, dovunque essi si trovino. Ciò che conta, ai fini della sovranità è che la supremazia sia affermata nell’ambito specifico in cui ciascun ordinamento intende operare. Solo così si può giustificare, ad es., la soggezione, da parte delle stesse persone, in uno stesso momento, a due ordinamenti ugualmente sovrani, ciascuno nel proprio ambito, come lo Stato e la Chiesa, là dove il primo si pone come istituzione politica, nel senso che ha di mira la soddisfazione dell’interesse della collettività alla civile convivenza e allo sviluppo delle condizioni di vita materiali e morali dei cittadini, mentre la seconda pone la sua supremazia sul piano spirituale e religioso.
5. Ordinamento giuridico e diritto statuale. L’importanza dell’ordinamento dello Stato, in quanto complesso di norme prodotte da un ente sovrano, dotato di supremazia territoriale, con caratteristiche di organismo politico che copre tutti i campi della vita sociale, ha indotto taluno a qualificare come “diritto” soltanto il complesso delle norme poste dallo Stato e cioè a identificare il concetto di diritto con quella che è la nozione di diritto statuale. Come si è detto nelle considerazioni svolte poc’anzi, non si può dire se tale nozione sia, in sé, giusta o sbagliata, ma solo se rappresenta in modo appropriato la realtà. Ora, l’aspetto che questa teoria giustamente mette in luce sta nel fatto che l’uomo vive in gruppi sociali distribuiti sul territorio e
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
quindi necessariamente vi sarà, entro determinati confini, una ed una sola organizzazione sovrana di natura territoriale che detiene la forza necessaria per far rispettare le norme del proprio ordinamento. Sicché, per quanto concerne le regole della vita e della convivenza civile, tutte vanno ricondotte a siffatto ordinamento perché, nell’ambito dei fini generali che esso si propone, riesce a sovrapporsi a tutti gli altri. Le norme di altri ordinamenti che operano nello stesso ambito possono valere come norme giuridiche solo in quanto riconosciute o richiamate dalle norme dell’ordinamento statuale (un esempio importante: lo Stato riconosce il matrimonio concordatario come atto regolato dal diritto della Chiesa, ma anche produttivo di effetti civili, se trascritto). Viceversa altre norme di organizzazione di gruppi sociali minori non ammesse o contrarie al diritto dello Stato risultano illecite e prive di qualsiasi efficacia giuridica nel territorio. I comportamenti che si ispirano a quelle norme sono considerati contrari al bene della collettività e sanzionati dal diritto statuale.
6. Diritto positivo e diritto naturale. La statualità del diritto, tuttavia, non basta, di per sé, a garantire la bontà delle norme giuridiche, cioè la loro adeguatezza e l’idoneità a soddisfare tutte le esigenze dell’uomo (a meno che non si parta dal presupposto che pone lo Stato come supremo valore e, alla stregua di questo principio, si sostenga che tutto ciò che fa lo Stato è buono). La statualità del diritto è connessa solamente alla forza dello Stato e alla capacità di imporre le sue regole, curandone l’attuazione. Sicché il diritto posto dallo Stato con le sue leggi, che prende il nome di diritto positivo, può essere tanto quello imposto da una dittatura che muove da una concezione materialistica e comprime le libertà dell’individuo, quanto quello di uno Stato integralista religioso che si ispira rigidamente ai dettami di una rivelazione, fino a quello di uno Stato liberale e democratico. Il giudizio sulla bontà del diritto in vigore nello Stato dipende, pertanto, dalla concezione ideologica di colui che valuta tali regole. Ciascuno di noi, preso individualmente, ma anche ciascun gruppo sociale omogeneo, considerato in un determinato momento storico, ha un’idea di ciò che è giusto per l’uomo, tenuto conto della sua natura, e dei problemi che è opportuno risolvere per assicurare la migliore convivenza possibile. Queste regole ideali, considerate come termine di paragone, frutto di una
§ 7. Lo Stato di diritto
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elaborazione razionale che è certamente mutevole, in quanto storicamente ed ideologicamente condizionata, vengono chiamate, nel loro complesso, diritto naturale. È chiaro che il diritto dello Stato sarà tanto più giusto e adeguato alle esigenze dei cittadini quanto più il diritto positivo si avvicinerà al diritto naturale. Il fondamento e la giustificazione del diritto statuale riposeranno, in tal caso, sul consenso dei cittadini prima ancora che sulla forza. Bisogna tuttavia considerare che la concezione del diritto ideale varia tra le classi e i gruppi sociali, secondo le esigenze materiali, le considerazioni ideologiche e, forse, le mode, anche nel corso della stessa epoca. Vi sono delle correnti di pensiero largamente condivise, ora in sede nazionale, ora in sede internazionale, secondo le quali la tutela di determinati valori viene considerata imprescindibile negli ordinamenti civili giunti ad un determinato stadio di sviluppo. Si formano allora movimenti di opinione organizzati, attraverso i quali il diritto naturale esercita una influenza sul diritto positivo, perché lo Stato è spinto dalla pressione della pubblica opinione ad attuare le riforme necessarie per adattare l’ordinamento interno alle esigenze che appaiono prevalenti. Di fronte ad una dichiarazione internazionale in cui si proclamano solennemente i diritti dell’uomo, ad es., o lo statuto dell’infanzia, uno Stato che viola tali valori, mantenendo norme in contrasto con siffatti principi, va incontro certamente ad un giudizio negativo dei propri cittadini e della comunità internazionale, che saranno indotti a sollecitare le riforme necessarie. La possibilità di attuare rapidamente le modifiche dell’ordinamento di uno Stato sono condizionate da un elemento sostanziale ed uno formale: il primo è costituito dagli equilibri di forza tra le diverse classi sociali e i gruppi politici dominanti, il secondo dalla flessibilità o dalla rigidità dei singoli ordinamenti, cioè dalla maggiore o minore facilità di compiere modifiche legislative in base alle regole stesse del sistema.
7. Lo Stato di diritto. Finora si è parlato di norme giuridiche, sottolineando il fatto che esse sono destinate a regolare la vita sociale. Ciascun cittadino, ma anche ciascun gruppo organizzato o ente, deve fare i conti con il diritto e lo Stato stesso trova nelle norme giuridiche un limite alla sua possibilità di azione.
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
In ciò si manifesta uno degli aspetti più importanti del diritto, soprattutto nel momento in cui vengono introdotti i principi fondamentali che caratterizzano lo stesso modo di essere dello Stato. Si ricordi, a tale proposito, la rilevanza storica fondamentale delle Carte costituzionali concesse nel periodo illuministico dal sovrano, vincolato egli stesso, dopo tale evento, a rispettare i principi proclamati in tali atti. Nasceva in questo modo il primo embrione dello Stato di diritto, anche se poi la strada per il suo perfezionamento doveva risultare assai lunga e difficile. La conseguenza più rilevante era quella di assicurare – entro determinati limiti – la certezza del diritto, in contrapposizione all’arbitrio del principe. Lo Stato di diritto è quindi uno Stato in cui vi è la certezza – garantita dalle norme giuridiche – dei comportamenti che il cittadino può tenere liberamente e di quelli vietati, di ciò che la pubblica amministrazione può fare legittimamente senza violare i diritti di altri enti o di singoli individui; vi è la precisa determinazione dei poteri dello Stato e dei suoi organi, legislativi, amministrativi e giurisdizionali, realizzata in modo tale da evitare sconfinamenti, eccessi e contraddizioni. Non è chi non veda come l’espressione “Stato di diritto” più che rappresentare una realtà compiuta, indichi, in sostanza, un modello di perfezione giuridica al quale il legislatore deve ispirarsi.
8. Relazione tra diritto soggettivo e oggettivo. I cittadini, lo Stato e tutti gli enti intermedi, secondo quanto si è detto, trovano un complesso di norme che, una volta entrate in vigore, regolano in modo vincolante il loro agire. Questo complesso di norme, che costituisce l’organizzazione della società e forma oggetto di studio e di interpretazione da parte di chi è chiamato ad applicare la legge, prende il nome di diritto in senso oggettivo (si può dire, in questo senso, “amo il diritto” o “non capisco il diritto” o “il diritto presenta delle lacune”). Quando invece si vuole alludere alla situazione in cui si trova un soggetto (persona fisica o ente) rispetto agli altri soggetti, con riferimento a quello che egli può fare per soddisfare un proprio interesse, si usa la parola diritto in un significato diverso, cioè in senso soggettivo. Le espressioni “ho
§ 9. Diritto oggettivo, distinzioni
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diritto di essere pagato per il mio lavoro”, oppure “ho diritto di usare il bene che ho acquistato”, utilizzano, appunto, la parola diritto in questo secondo significato, ben diverso dal precedente. È chiaro, comunque, che la tutela dell’interesse di un determinato soggetto dipenderà dalle norme giuridiche in vigore e pertanto vi è una relazione ... di causa ad effetto, se così si può dire, tra diritto oggettivo, come norma regolatrice, e diritto soggettivo, come situazione regolata. La semplice esistenza di un interesse non è, di per sé, indice dell’esistenza di una tutela giuridica del soggetto. Come si vedrà fra breve, si potrà dire che un soggetto ha un diritto solo quando vi sono strumenti giuridici mediante i quali il titolare di un interesse può curarne l’attuazione con la forza della legge, prevalendo su altri soggetti.
9. Diritto oggettivo, distinzioni. Le norme giuridiche di diritto comune sono dirette a regolare le situazioni e i rapporti che riguardano genericamente tutti i soggetti senza distinzioni (ad es., la legge definisce le caratteristiche del diritto di proprietà e questo vale per tutti i proprietari, o disciplina la responsabilità del debitore, dettando norme destinate ad una generale applicazione). Altre norme, chiamate di diritto speciale, sono rivolte a disciplinare solo una particolare categoria di rapporti o situazioni facenti capo a determinati soggetti (ad es., l’insolvenza dell’imprenditore commerciale viene disciplinata dalla legge fallimentare, il diritto penale militare sanziona reati commessi dai militari in servizio e così via). Nel diritto speciale e, a maggior ragione, nel diritto comune, gli interpreti sono in grado di evidenziare talune linee-guida fondamentali che danno un carattere ben definito alla disciplina di determinati settori. Dalla interpretazione e dalla comparazione dei diversi istituti si ricavano, in sostanza, determinati principi di diritto, che rappresentano delle regole costanti (ancorché possa essere più o meno esteso l’ambito in cui il principio trova applicazione). Vi sono tuttavia alcune norme che mal si inquadrano in tali principi, perché anziché uniformarsi alle linee generali se ne discostano fino ad apparire in contrasto con la disciplina del settore ed appaiono giustificate solo in relazione ad un caso particolare, diverso dagli altri. Si parla, in tal caso, di diritto eccezionale (ad es. rispetto al principio di eguaglianza dei genito-
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
ri che esercitano la responsabilità genitoriale, appariva eccezionale la norma dell’art. 3164, dettata nella Riforma del 1975, che attribuiva al solo padre il potere di prendere i provvedimenti urgenti e indifferibili, in caso di pericolo di grave pregiudizio per il figlio minore, norma ora abrogata dalla Riforma del 2012-2013). Il diritto transitorio è quello destinato a regolare situazioni o fatti che si verificano entro un periodo di tempo limitato, in occasione di mutamenti del regime legislativo di un istituto, segnando il passaggio da un sistema ad un altro (cfr., ad es., il regime transitorio relativo ai rapporti patrimoniali fra coniugi disciplinato dall’art. 228 della legge di riforma del diritto di famiglia del 1975).
10. Diritto privato e diritto pubblico. Ciascuna persona fisica, ciascun gruppo organizzato o ciascun ente che opera nella società civile è dunque portatore di interessi concernenti la propria esistenza e la propria attività. Il diritto è chiamato a comporre i potenziali conflitti, ponendo regole e determinando, come si è detto, una gerarchia di interessi. Nel diritto privato queste regole si fondano su di una considerazione paritaria di tutti i soggetti in quanto si tratta di proteggere interessi propri e particolari di ciascuno. Il diritto privato è dunque un diritto tra uguali. Nel campo dei diritti disponibili ciascun soggetto potrà avere spazio per modificare volontariamente la propria situazione in relazione ad altri soggetti (ad es. obbligandosi, alienando beni, ecc.) secondo le sue esigenze, ma sempre su di un piano di uguaglianza con gli altri. Le norme di diritto pubblico regolano invece l’attività di taluni soggetti, svolta per raggiungere finalità di interesse generale. Dunque essi non vengono in considerazione in quanto portatori dei propri interessi individuali, ma in quanto investiti di una funzione che concerne l’intera collettività. In tale ambito predomina la tutela dell’interesse pubblico. I soggetti che agiscono per realizzare tali finalità operano in regime di supremazia, rispetto ad altre persone fisiche o giuridiche, ed esercitano un potere che arriva anche a pregiudicare le posizioni dei cittadini o degli enti privati (ad es. esiste l’istituto della espropriazione per pubblico interesse), ma non sono liberi nello svolgere tale attività dovendo rispettare in ogni caso le norme di
§ 11. L’oggetto del diritto privato
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azione (di comportamento) che garantiscono la tutela dell’interesse pubblico. Perciò lo Stato, le Regioni, i Comuni, ma anche le Università, le Ulss e così via, possano essere destinatari di due distinte categorie di norme giuridiche: quelle che li considerano come portatori del proprio interesse individuale (ad es. la Regione ordina una fornitura di computers per i suoi uffici, il Comune vende la legna ricavata dal taglio di un bosco), ed allora saranno trattati in posizione di parità con gli altri contraenti (di conseguenza il contratto di fornitura e il contratto di vendita saranno due contratti regolati dal diritto privato, il credito sarà regolato dalle norme comuni sulle obbligazioni), e quelle che li considerano come soggetti che agiscono per realizzare finalità di pubblico interesse. Saranno regolati da norme di diritto pubblico, ad es., gli atti di amministrazione (ogni delibera dovrà rispettare norme di legge, regole di competenza e ragioni di opportunità per soddisfare il pubblico interesse), il procedimento di assunzione dei dipendenti (si dovrà bandire un concorso); la scelta del miglior contraente nel caso di appalti o contratti con un privato (si dovrà bandire una gara tra più interessati scegliendo quello che offre condizioni più favorevoli). Lo stesso credito per tributi gode di un regime speciale: la riscossione mediante ruoli.
11. L’oggetto del diritto privato. Il campo del diritto privato è molto vasto. In questa sede ci limiteremo a indicare sinteticamente i settori principali, secondo una tradizionale ripartizione: – il diritto civile è costituito essenzialmente dalla disciplina contenuta nel Codice civile per quanto concerne il diritto delle persone e della famiglia (Libro I); delle successioni e donazioni (Libro II); della proprietà e degli altri diritti reali (Libro III); delle obbligazioni e dei contratti (Libro IV); della tutela dei diritti (Libro VI), ma anche dalla disciplina contenuta in molte leggi complementari al Codice (ad es. sul divorzio, sulla adozione, sulle locazioni e così via); – il diritto commerciale è costituito dalla disciplina dei titoli di credito, della impresa e della azienda, delle società commerciali contenuta nel Codice civile (Libro IV e V), ma anche da quella contenuta in molte leggi ad esso collegate (come quella sulla cambiale e sull’assegno bancario, sul fallimento, sul diritto d’autore, sulla concorrenza e così via);
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Cap. 1. Il diritto e l’ordinamento giuridico
– il diritto del lavoro è disciplinato parzialmente nel Codice (Libro V) ma sopratutto nelle molte leggi speciali (ad es. lo Statuto dei lavoratori, la legge sul licenziamento, ecc.); – il diritto della navigazione, marittima e aerea, è contenuto principalmente nel Codice della navigazione.
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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CAPITOLO 2
LE FONTI DEL DIRITTO POSITIVO
SOMMARIO: 1. Le norme sulle fonti. – 2. Il catalogo attuale delle fonti.
1. Le norme sulle fonti. Si è già detto che il diritto positivo è il diritto posto dallo Stato nell’esercizio del suo potere legislativo. Nel moderno Stato di diritto anche il fenomeno della produzione delle norme giuridiche è previsto e disciplinato da apposite regole. Nel nostro ordinamento queste regole sono dettate: – nella Costituzione, in cui si stabilisce, fra l’altro, quali soggetti sono competenti a creare norme giuridiche secondo i principi di organizzazione dello Stato, tenuto conto del principio della divisione dei poteri fra gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari, e quali atti hanno forza di legge. – nelle Disposizioni sulla legge in generale, comunemente chiamate anche disposizioni preliminari al codice civile o preleggi (che sono contenute nel codice civile, in una parte preposta al primo libro, ma si applicano in ogni campo del diritto, quindi anche in sede penale o amministrativa) dove si elencano le fonti del diritto, indicando quali atti siano fonte di norme giuridiche e quale ne sia la gerarchia. – nelle Leggi di attuazione dei Trattati Europei, che lasciano aperta una “finestra” nel nostro ordinamento attraverso la quale possono entrare con immediata efficacia le norme contenute in determinati atti comunitari. L’art. 1 delle disposizioni preliminari ha subìto, sino ad oggi, rilevanti modifiche. Come è noto, infatti, dopo la promulgazione del codice, nel 1942, si sono verificati importanti cambiamenti nel sistema giuridico italiano con la scomparsa dell’ordinamento corporativo, soppresso nel 1943, e la promulgazione della Costituzione repubblicana. Perciò è venuta meno una delle fonti del diritto indicata
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
nell’art. 1 delle Disposizioni sulla legge in generale, al punto 3, costituita dalle norme corporative, inoltre il punto 1 dello stesso articolo, che indica le leggi come prima fonte di diritto, deve essere modificato tenendo conto della Costituzione e delle leggi di attuazione dei Trattati comunitari. Le norme successive delle preleggi, sulle quali ci soffermeremo in seguito, regolano l’efficacia delle norme giuridiche (entrata in vigore, abrogazione), nonché l’interpretazione e l’applicazione della legge nel tempo e nello spazio.
2. Il catalogo attuale delle fonti. La gerarchia delle fonti di diritto va dunque ricostruita nel modo seguente: a) al primo posto stanno la Costituzione e le leggi costituzionali. Come è noto la Costituzione rappresenta la legge fondamentale dello Stato che ne riassume in modo essenziale e determinante l’assetto politico, sociale, amministrativo, segnando in modo caratterizzante quelli che sono i diritti essenziali dei singoli e dei gruppi, i rapporti dei cittadini fra loro e nei confronti dello Stato, la conformazione degli organi supremi di questo, le linee fondamentali dell’attività di politica del diritto e i principi fondamentali di amministrazione della cosa pubblica. Per il suo carattere rigido (significa che la Costituzione italiana non può essere cambiata se non attraverso uno speciale procedimento di revisione costituzionale che richiede un largo consenso nel Parlamento e un iter complesso) e soprattutto per il suo valore vincolante rispetto a tutte le altre leggi, la Costituzione va certamente posta sul più alto gradino nella gerarchia delle leggi dello Stato. Accanto ad essa, sullo stesso piano, stanno le leggi costituzionali, che si aggiungono alla Carta in tempi successivi. I principi e le norme costituzionali costituiscono il riferimento essenziale per effettuare il controllo di legittimità delle leggi. Un apposito organo dello Stato, la Corte costituzionale, è chiamato a giudicare la compatibilità fra siffatti principi e le norme di legge ordinaria e può dichiarare la illegittimità costituzionale di una disposizione vigente, con la conseguenza che tale disposizione, nella parte dichiarata illegittima, perde efficacia dalla data della pubblicazione della sentenza della Corte. Il controllo non può, ovviamente, investire l’intera produzione legislativa, ma viene provocato saltuariamente da una questione incidentale di costituzionalità, cioè una questione sollevata in un determinato processo, svolto davanti al giudice
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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ordinario o amministrativo. Durante uno di questi procedimenti può succedere che un soggetto, pregiudicato in sede civile, penale o amministrativa dalla eventuale applicazione di una norma giuridica vigente, presenti ricorso sostenendo che la disposizione è contraria in tutto o in parte ad una norma o ad un principio costituzionale. Il ricorso provoca un esame preliminare della questione da parte del giudice del processo in corso (c.d. giudice a quo). Questi, se non respinge il ricorso, dichiarando la questione manifestamente infondata, deve sospendere il processo e inviare gli atti alla Corte costituzionale.
b) Gli atti della comunità europea, nelle materie previste dai Trattati (Roma, 1957, modificato nel 1987, Maastricht, 1992, Amsterdam, 1997, importante, da ultimo, il Trattato di Lisbona, del 13 dicembre 2007, in vigore dal 1 gennaio 2009, che modifica i Trattati fondamentali dell’Unione europea). Mentre i trattati internazionali, normalmente, costituiscono solo un impegno verso altri stati senza dare luogo a norme applicabili, se non interviene di volta in volta una legge interna di attuazione, con i trattati dell’Unione europea si è voluto creare un sistema diverso, lasciando aperta la possibilità di ingresso nell’ordinamento interno di norme provenienti dall’esterno (esclusivamente nei campi regolati dai singoli trattati). Perciò sono fonte di diritto all’interno dello Stato, oltre che i Trattati anche i Regolamenti emanati dal Consiglio dell’Unione europea (che prevalgono sulle norme di legge ordinaria difformi) e le Direttive del Consiglio suscettibili di immediata applicazione (c.d. selfexecuting, cioè incondizionate e sufficientemente precise), ancorché non ancora attuate dagli Stati membri. Il Trattato di Lisbona riconosce innanzitutto i diritti, le libertà e i principi, contenuti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) attribuendole lo stesso valore giuridico dei Trattati. Ne deriva che una norma di legge interna che contrasta con una norma di tale carta potrà essere disapplicata dal giudice nazionale. Per quanto concerne invece la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) il Trattato dice che l’Unione aderirà a tale Convenzione soggiungendo che i diritti fondamentali in essa garantiti, “fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Gli interpreti discutono circa l’efficacia di tale richiamo. Grande rilievo viene attribuito dalla stessa Corte costituzionale (nelle c.d. sentenze “gemelle” n. 348 e 349 del 2007) alla recente modifica dell’art. 117 della nostra Costituzione, che riconosce sul piano legislativo i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Per mezzo di tale rinvio la Corte ritiene che debbano essere rispettati nel nostro ordinamento i diritti e i principi proclamati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto espressamente garantiti dal Trattato di Lisbona. Nella gerarchia delle fonti, tuttavia, la Corte attribuisce a tale normativa il
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
grado di legge ordinaria e non quello di norma costituzionale. La conseguenza più rilevante sul piano pratico è che il giudice ordinario deve tener conto di tale fonte per dare una “interpretazione orientata” delle norme giuridiche interne nei limiti in cui lo consente il testo stesso della norma. Se ciò non fosse possibile (e cioè si dovesse travisare completamente il testo) ovvero il giudice dubitasse della compatibilità della norma interna con i principi e i diritti tutelati dalla Convenzione, egli dovrà investire della questione di legittimità della norma interna la Corte costituzionale. Diversa è l’opinione dei giudici amministrativi (TAR del Lazio, Consiglio di Stato) secondo i quali le norme della Convenzione sarebbero state “costituzionalizzate” dall’art. 117 Cost. con la conseguenza che il giudice interno potrebbe addirittura direttamente disapplicare le norme di legge ordinaria contrarie a tali principi senza passare per il vaglio della Corte.
c) Le leggi ordinarie e gli atti con forza di legge. Le leggi ordinarie sono il frutto dell’attività quotidiana del Parlamento nello svolgimento dei suoi compiti istituzionali (art. 70 Cost.). Possiamo includere in questa categoria non soltanto le singole leggi che hanno come oggetto determinati istituti giuridici, come ad es. il divorzio e il fallimento, ma anche leggi organiche, cioè dedicate alla disciplina di un intero campo della vita sociale. In tal caso esse prendono il nome di codici. In senso proprio un codice è dunque una legge, sia pure complessa e articolata. Tali sono il Codice civile, di Procedura civile, Penale, di Procedura penale e il Codice della navigazione. Spesso il termine “codice” è usato in senso diverso, con riferimento all’opera pubblicata da una casa editrice che riunisce più leggi utili per chi opera in un determinato campo del diritto. Si parla allora, in senso non tecnico, di codice dell’ambiente, di codice amministrativo e così via.
Anche i testi unici (ad es. il T.U. di Pubblica sicurezza) appartengono alla categoria delle leggi e rappresentano un rifacimento unitario di più testi di legge preesistenti con l’introduzione di alcune norme, la soppressione di altre, il coordinamento o la fusione di vari testi. Eccezionalmente talune norme di legge possono essere emanate non dal Parlamento, ma dal Governo, il quale, come è noto, esercita ordinariamente la sua competenza nel campo della pubblica amministrazione (art. 77 Cost.). Si tratta di atti che, pur avendo forza di legge ordinaria, sono ammessi dalla Costituzione solo in casi limitati e con cautele tali da non incidere sulla esclusività della funzione legislativa che spetta al Parlamento.
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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Essi sono, in primo luogo, i decreti legislativi delegati, in cui lo stesso Parlamento delega al Governo per oggetti definiti, con l’indicazione di principi e criteri direttivi e per un tempo limitato, la stesura di un testo di legge. In tal caso si ha dunque l’attribuzione eccezionale di un potere limitato, quello di riempire, se così si può dire, il quadro fornito dalla legge di delega, rispettandone le condizioni (art. 76 Cost.). Ad es., recentemente il Parlamento ha delegato il Governo a formulare un testo legislativo che armonizza e riordina le normative concernenti i diritti dei consumatori ed i loro rapporti con i produttori e con i professionisti. Il d.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005 contiene un testo organico denominato Codice del Consumo destinato a sostituire tutta una serie di atti normativi precedenti. Vi si trova una disciplina che dovrebbe regolare in modo armonico i principali aspetti del fenomeno, dai diritti dei consumatori, in generale, all’obbligo di informazione sui prodotti, alla pubblicità, alle televendite, al credito al consumo. In particolare vi vengono trasfuse le norme sulle clausole vessatorie, già inserite nel Codice civile, e quelle di altri testi sparsi, ad es. sui contratti conclusi fuori dai locali commerciali, sui contratti a distanza, sul commercio elettronico, sui servizi turistici, sulla sicurezza e qualità dei prodotti e sul danno da prodotti difettosi, fino alla vendita dei beni di consumo e alla multiproprietà. Come si vede, non ostante la qualifica di Codice, si tratta, in sostanza, di un testo unico che mira a fare chiarezza e a dare una fonte normativa unitaria.
In secondo luogo vanno ricordati i cosiddetti decreti legge, che sono previsti dalla Costituzione solo in casi straordinari di necessità e urgenza e, pur essendo immediatamente efficaci come fonte del diritto, hanno tuttavia natura provvisoria in quanto devono essere immediatamente presentati dal Governo al Parlamento per essere convertiti in legge ordinaria entro 60 giorni, sotto pena di decadenza (art. 77 Cost.). Nella nostra storia parlamentare, come si sa, si è fatto largo uso di questi decreti, forzando, talora, i limiti di ammissibilità previsti dalla Carta costituzionale. Hanno valore di legge ordinaria in un ambito territoriale più limitato anche le leggi regionali nelle materie in cui il potere legislativo è demandato a tali enti. d) I regolamenti sono atti emanati dal Governo o dalla Pubblica Amministrazione, quindi da chi detiene il potere esecutivo (art. 3 disp. prel.). Si possono ricordare in proposito i regolamenti esecutivi, che danno applicazione ad una legge completandone le disposizioni attraverso regole più
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
specifiche (come, ad es., il regolamento annesso al c.d. Codice della strada) e i regolamenti autonomi, emessi da Enti amministrativi dotati appunto di autonomia, cioè del potere di disciplinare la propria attività interna (come i regolamenti di Ateneo, approvati dalle singole Università). Mentre una legge, ancorché affetta da illegittimità costituzionale, non cessa di produrre i suoi effetti se non interviene una pronunzia della Corte costituzionale che la dichiara illegittima o se non viene abrogata, il regolamento presenta una minore forza nel quadro delle fonti, in quanto vincola il personale dell’Amministrazione, ma può essere disapplicato dal giudice, qualora sia contrario ad una norma di legge. e) Gli usi o consuetudini sono dei comportamenti ripetuti nel tempo che esprimono l’intenzione di obbedire ad una regola giuridica. Non deve trattarsi, pertanto, di norme di galateo o di abitudini che rientrano nel mero costume sociale, come quella di dare la mancia per gratificare qualcuno, ma di comportamenti che presuppongono un conflitto d’interessi e la convinzione nei consociati che esista un dovere giuridico di attenersi ad una certa norma (opinio juris seu necessitatis). L’ambito sociale in cui si verifica tale fenomeno può essere più o meno vasto, ad es. si conoscono usi locali, usi generali, usi propri di un singolo mercato, e così la durata può variare secondo la natura dei rapporti interessati da siffatti comportamenti (ad es. gli usi commerciali si creano e si modificano più rapidamente degli usi agricoli). Gli usi costituiscono fonte di diritto quando sono espressamente richiamati dalla legge o da un regolamento (c.d. usi secundum legem). Si può dire che in questi casi l’ordinamento, mediante una disposizione scritta (fonte primaria), fa rinvio ad altre norme (fonte secondaria) che non sono scritte, ma concretamente applicate attraverso una continua esecuzione spontanea (v., ad es., gli artt. 1182 e 1187, circa il tempo e il luogo dell’adempimento, gli artt. 1326 e 1327, in tema di conclusione del contratto fra persone lontane). Gli usi possono essere fonte di norme anche là dove si svolge una attività umana che è del tutto sprovvista di regole giuridiche (c.d. usi praeter legem). Non sono invece ammessi gli usi contrari al diritto (c.d. usi contra legem); la ripetuta violazione di una norma giuridica non ne determina l’abrogazione. La prova dell’esistenza di una consuetudine può essere data con ogni mezzo (la stessa regola vale per provare l’esistenza di qualsiasi norma giuridica), ma se è stata curata la raccolta degli usi vigenti da parte di un Ente
§ 2. Il catalogo attuale delle fonti
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autorizzato (ad es. le Camere di commercio) l’uso che risulta documentato si presume esistente, salvo prova contraria (art. 9 disp. prel.). Non cambia, comunque, per tale ragione, la natura propria dell’uso, di essere sempre una norma non scritta. f) Come fonte di diritto secondaria, cioè valida soltanto se espressamente richiamata da una disposizione di legge, va ricordata, infine, l’equità. Secondo una antica definizione l’equità è la giustizia del caso concreto. Ciò va inteso non già nel senso che il giudice debba prescindere dalle norme esistenti, ma nel senso che deve adattarle alla specifica controversia cercando di contemperare gli interessi delle parti, creando la norma che appare più adatta alla situazione. Il pretore romano, cercando di risolvere le controversie in base all’equità, spesso ha sovvertito il diritto tradizionale, creando istituti che si sono poi tramandati nei secoli. Nel diritto odierno il ricorso all’equità come fonte di norme è, tuttavia, eccezionale. A volte il giudice è chiamato dalla stessa legge a decidere con una valutazione equitativa, ad es. quando il danno da risarcire non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226) o quando il danno è provocato in stato di necessità (art. 2045) o da un incapace (art. 2047). In questi casi si parla di equità integrativa della fattispecie già delineata dalla legge. L’equità è richiamata dalla legge assieme agli usi, anche per integrare gli effetti del contratto voluti dalle parti (art. 1374). Altre applicazioni di questo strumento si trovano in tema di contratti speciali (artt. 1733, 1736, 1755 2° comma, per non parlare del contratto di lavoro). Il terzo arbitratore al quale può essere affidata la determinazione dell’oggetto del contratto (art. 1349) normalmente deve procedere con equo apprezzamento (eccezionalmente la determinazione può essere rimessa al suo mero arbitrio). Si parla di equità correttiva allorquando si persegue lo scopo di ottenere un bilanciamento delle prestazioni: ad es. ove sia stata pattuita, in caso di inadempimento, una penale eccessivamente gravosa per il debitore, avuto riguardo all’interesse del creditore (art. 1384) il giudice, su richiesta di parte, può diminuire equamente la penale. In questo senso l’equità rappresenta un criterio per ristabilire l’equilibrio contrattuale attraverso la modifica del contratto, consentita da una norma che si ritiene eccezionale. La riduzione ad equità (reductio ad aequitatem) cioè un aggiustamento di tale equilibrio, può essere offerta dalla parte che vuole salvare l’efficacia del contratto di fronte alla impugnazione proposta dall’altro contraente (ad es. nella rescissione, art. 1450 o nella risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, art. 1467). Altre norme provvedono a conservare un certo equilibrio alterato da cause impreviste: ad es. l’appaltatore ha diritto ad un equo compenso per difficoltà di esecuzione
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Cap. 2. Le fonti del diritto positivo
della propria prestazione derivanti da cause geologiche, idriche e simili non previste dalle parti (art. 1664, 2° comma). Una recente legge sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (d.lgs. n. 231 del 2002, art. 7) prevede che il giudice, anche d’ufficio, possa dichiarare la nullità di un accordo “gravemente iniquo a danno del creditore” in quanto destinato a procurare al debitore una indebita liquidità o ad attribuirgli termini di pagamento troppo lunghi, senza una adeguata ragione oggettiva, e possa applicare i termini legali di pagamento o ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo. È chiaro che qui il debitore viene considerato come il contraente “forte” in un provvedimento che mira ad assicurare un rispetto sostanziale della concorrenza e la certezza dei pagamenti regole del mercato. Esiste anche una equità interpretativa: il giudice, qualora non sia possibile chiarire il significato del contratto utilizzando le norme e i criteri indicati dalla legge (artt. 1362-1370) dovrà interpretarlo “nel senso meno gravoso per l’obbligato, se è a titolo gratuito, nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi se è a titolo oneroso”. In questi casi, dunque, il bilanciamento richiede una valutazione da effettuarsi all’interno della economia propria del contratto stesso (art. 1371). Tutt’altro significato ha l’equità secondo cui il giudice di pace deve (equità necessaria) decidere la controversia di valore non superiore ad Euro millecento (art. 113, 2° comma, c.p.c.). La Cassazione la qualifica come equità formativa o sostitutiva della norma sostanziale (cfr. Cass. n. 4493 del 2009). In tal caso si ritiene che il giudice debba decidere in modo intuitivo piuttosto che con i sillogismi di stretto diritto, salvo comunque il rispetto delle norme costituzionali, di quelle comunitarie di rango superiore alle leggi ordinarie e dei principi informatori della materia (art. 339, 3° comma, c.p.c.) pena il ricorso in Cassazione per violazione di legge. Altre volte, infine, sono le parti (equità facoltativa) che possono chiedere al giudice di decidere secondo equità, in materia di diritti disponibili (art. 114 c.p.c.). Il ricorso all’equità assume poi un ruolo diverso in un’altra prospettiva: si possono distinguere le ipotesi in cui la legge formula un richiamo suppletivo, cioè ne prevede l’utilizzo solo in mancanza di volontà delle parti o di disposizioni di legge, per completare una valutazione più ampia, come, ad es., nell’art. 1374, dalle ipotesi in cui la legge formula un richiamo esclusivo e cioè in cui l’equità rappresenta il criterio di giudizio principale che deve essere formalmente utilizzato dal giudice per la soluzione di un caso concreto. In tali casi (che rappresentano, ovviamente, delle eccezioni espressamente contemplate dalla legge) l’equità viene richiamata dalla legge con riferimento a specifiche questioni: per determinare, ad es., il giusto ammontare della clausola penale manifestamente eccessiva, art. 1384, ovvero per assegnare un equo compenso a chi ha prestato la sua opera in un contratto rescisso ex art. 1447, o per liquidare il danno che non può essere valutato nel suo preciso ammontare, art. 1226, e così via.
§ 3. La vita delle norme giuridiche nel tempo
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CAPITOLO 3
LA NORMA GIURIDICA E LA SUA APPLICAZIONE
SOMMARIO: 1. Nozioni generali. – 2. Norma e fattispecie. – 3. La vita delle norme giuridiche nel tempo. – 4. L’interpretazione. – 5. L’analogia. – 6. La legge nello spazio.
1. Nozioni generali. La legge scritta, come tutte le espressioni dell’uomo che si valgono del linguaggio, si compone di parole, collegate fra loro in proposizioni. Attraverso le parole e le frasi possono essere introdotti nell’ordinamento giuridico un comando, la definizione di un istituto, la qualificazione di un fatto e così via. L’espressione “istituto giuridico” è di uso molto comune e allude ad un complesso di regole giuridiche di una vicenda o di un fatto unitariamente considerato: ad es. sono istituti privatistici il matrimonio, il contratto, il testamento, ma si usa la stessa espressione anche con riferimento a singoli meccanismi giuridici che costituiscono soltanto una parte della disciplina di tali figure, ad es. sono istituti anche la revoca del testamento, la risoluzione del contratto, la separazione dei coniugi. Sono esempi di istituti pubblicistici il referendum abrogativo, il controllo di legittimità costituzionale, l’approvazione di un organo di controllo e così via. Nella Storia del diritto si studiano gli istituti del diritto romano, del diritto medievale, nel Diritto comparato si studiano gli istituti del diritto straniero.
Una o più frasi collegate fra loro, che possono essere unitariamente considerate in quanto sono dirette a produrre un determinato effetto giuridico costituiscono una disposizione legislativa (in senso analogo sono chiamate disposizioni anche talune espressioni di volontà dei privati, pensiamo alle disposizioni testamentarie di carattere patrimoniale o non patrimoniale, art. 587 1 e 2). La disposizione contiene dunque la norma, cioè la regola, ma,
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
come si è già visto, non tutte le norme sono contenute in disposizioni di legge, basti pensare alle norme non scritte che sono espresse da una consuetudine. Inoltre, la norma non coincide con la disposizione per una ragione più sottile: essa è il risultato della interpretazione della disposizione. Ogni testo di legge si compone di articoli, i quali possono contenere una o più disposizioni. I paragrafi nei quali è suddiviso un articolo si chiamano commi. Il secondo comma di un articolo si chiama anche primo capoverso. Il titolo (detto anche rubrica) dato dalla legge ad un articolo non fa parte del contenuto precettivo della disposizione (rubrica legis non est lex), anche se può essere utilizzato ai fini interpretativi. Il contenuto della norma può essere vario: talora essa qualifica un fatto giuridicamente rilevante (ad es. l’accordo di due o più parti diretto a costituire, modificare o estinguere un rapporto patrimoniale viene definito un contratto, art. 1321), o qualifica un soggetto in relazione ad altri soggetti (ad es. due persone che discendono da uno stesso stipite sono parenti fra loro, art. 74) o in relazione ad una attività da lui svolta (chi esercita professionalmente una attività economica organizzata … è imprenditore, art. 2082). Tali qualifiche costituiscono il presupposto che consente poi di applicare altre norme giuridiche (ad es. la disciplina del contratto in generale, la vocazione a succedere mortis causa dei parenti, il c.d. statuto dell’impresa). Altre volte la previsione normativa è fonte immediata di una situazione giuridica che tutela un soggetto (ad es. chi subisce un danno ingiusto ha diritto al risarcimento del danno nei confronti del responsabile dell’illecito, art. 2043), o regola gli effetti giuridici della attività dei privati (ad es. il contratto ha forza di legge tra le parti, art. 1372; è nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione, art. 458). Nel campo dei precetti giuridici vale la distinzione tra: norme imperative (quando la regola che viene dettata dalla legge non può essere derogata dai privati, ad es. il credito alimentare non può essere ceduto, art. 447); norme dispositive (quando la regola è destinata ad una applicazione generale, ma ne è ammessa la modifica da parte degli interessati, ad es. la cessione del credito non comprende i frutti scaduti, salvo patto contrario, art. 12633); e norme suppletive (allorquando la legge prevede innanzitutto che la regola sia creata dai privati e detta un comando che supplisce alla mancanza di un atto di disposizione dell’interessato, ad es. non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria, art. 4572).
§ 3. La vita delle norme giuridiche nel tempo
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2. Norma e fattispecie. La norma è sempre costituita da una previsione generale ed astratta. Il fatto o l’insieme di fatti previsti dalla norma come fonte di effetti giuridici si chiama fattispecie. Si parla di fattispecie astratta quando si considera l’ipotesi prevista dalla legge in via generale, mentre quando si passa ad esaminare il caso singolo che si è realmente verificato e di cui si valutano le conseguenze giuridiche si parla, invece, di fattispecie concreta. Si usano le espressioni “fattispecie semplice” o “fattispecie complessa” a seconda che basti un solo fatto o che ne occorra più d’uno per produrre un determinato effetto giuridico. Ad es. la nascita di una persona è un fatto idoneo a far sorgere un nuovo soggetto di diritti e contemporaneamente sorgeranno a favore di tale soggetto i c.d. diritti personalissimi (diritto al nome, all’onore, all’integrità fisica, ecc.). Il semplice fatto della creazione intellettuale fa acquistare all’autore il diritto sull’opera letteraria o musicale e così via. Altre volte è necessaria una sequenza di fatti collegati fra loro, ad es. il ritrovamento di un oggetto smarrito ne fa acquistare la proprietà, ma solo dopo che sia stata effettuata la consegna al sindaco, che sia stato pubblicato l’avviso del ritrovamento e che sia trascorso un anno (art. 927 ss.). L’allontanamento di un coniuge dalla residenza familiare determina a suo carico la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale, ma solo se manca una giusta causa e se il coniuge che si è allontanato, sollecitato dall’altro a ritornare, rifiuta (art. 146). La fattispecie viene chiamata costitutiva quando crea una nuova situazione giuridica (ad es. il contratto con cui il proprietario di un bene immobile lo concede in ipoteca, a garanzia di un debito), estintiva quando elimina una situazione preesistente (ad es. il pagamento del debito estingue l’obbligazione) e traslativa quando trasferisce un diritto o un obbligo da un soggetto ad un altro (ad es. la donazione o la cessione del credito).
3. La vita delle norme giuridiche nel tempo. Di regola una legge diviene efficace il quindicesimo giorno dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ma il legislatore può disporre altrimenti, ad es. che la legge abbia efficacia immediata (si parla, in tal caso, di leggi-catenaccio), o che abbia efficacia in tempo successivo. Vi è quindi un periodo di vacanza della legge (vacatio legis) se questa è stata approvata e promulgata, ma non è ancora entrata in vigore.
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
La efficacia della legge, in linea di principio, è rivolta al futuro: la legge, di norma, non può essere retroattiva, ma dispone per l’avvenire (art. 11 disp. prel.). Lo stesso principio è stabilito solennemente dalla Costituzione, ma con riferimento alle sole leggi penali (art. 25 Cost.) e la spiegazione è chiara: il cittadino non può essere punito se non per una legge entrata in vigore prima del fatto da lui commesso. Lo esige il principio di certezza del diritto e ne va di mezzo la libertà stessa della persona. Per quanto concerne le leggi civili e gli atti della P.A. il principio della irretroattività della legge può sembrare spesso disatteso, perché tali atti, pur non presentandosi formalmente come retroattivi, tuttavia toccano gli effetti di situazioni pregresse o rapporti in via di svolgimento e quindi incidono sulle aspettative dei cittadini fondate su norme di diritto emanate in precedenza. In tali casi l’interessato lamenta spesso la lesione dei c.d. diritti quesiti, ma è bene ricordare che lo Stato considera veri diritti del cittadino solo quelli compiutamente maturati, cioè quelli per i quali si è interamente compiuto l’iter procedimentale che porta all’acquisto del diritto. Ad es., ciascun lavoratore dovrà rivedere i propri calcoli circa l’ammontare della futura pensione se, come è accaduto recentemente, si passa da un sistema retributivo (pensione proporzionale alla retribuzione percepita) ad un sistema contributivo (pensione proporzionale ai contributi versati). In realtà il vero diritto alla pensione matura solo alla fine della carriera di ciascun lavoratore, il quale può pretendere soltanto che per ciascun periodo di lavoro siano fatti correttamente i calcoli e sia applicata la legge che, di volta in volta, era in vigore, ma non ha invece diritto che resti immutato per il futuro lo stesso regime.
Le disposizioni di legge perdono efficacia, in primo luogo, se sono emanate ad tempus, cioè per un periodo di tempo determinato, allorquando scade il termine prefissato. Non va confuso con una legge temporanea il c.d. diritto transitorio (v. sopra) che non è costituito da norme ad tempus, ma da norme (stabilmente) destinate a regolare fatti e situazioni giuridiche sorti in un determinato periodo di tempo. Al di là della ipotesi non frequente del diritto temporaneo, le norme di legge cessano di produrre effetti, di regola, quando vengono abrogate dal legislatore.
§ 4. L’interpretazione
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L’abrogazione può essere: – espressa, mediante dichiarazione contenuta in una legge posteriore; – tacita, per incompatibilità fra una nuova disposizione e quella precedente; – tacita, per intera regolamentazione della materia da parte di nuove disposizioni. Una disposizione, poi, può essere privata di efficacia se dichiarata costituzionalmente illegittima da una sentenza della Corte costituzionale. L’efficacia cessa dalla data di pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale. Infine, una legge può essere resa totalmente o parzialmente inefficace da un referendum abrogativo, art. 75 Cost. (escluso, tuttavia, per determinate categorie di leggi: tributarie, di bilancio, amnistia, indulto e ratifica dei trattati).
4. L’interpretazione. Il primo criterio di interpretazione richiede necessariamente una comprensione delle parole nel significato loro proprio e secondo la connessione di esse (art. 12 disp. prel.), perciò prende il nome di interpretazione letterale. Il linguaggio, tuttavia, come si sa, è solo uno strumento di espressione di un’idea e questo è il vero oggetto da scoprire, dietro le frasi usate dal legislatore. L’idea di cui parliamo è tradizionalmente chiamata ratio legis e consiste nella specifica ragione per cui il legislatore ha creato una determinata disposizione. L’intenzione del legislatore rappresenta quindi la mèta della seconda fase interpretativa, che prende il nome di interpretazione logica (art. 12 disp. prel.). L’interpretazione logica non si esaurisce, peraltro, nella interpretazione storica, cioè nell’appurare quale sia stato l’intento di chi ha formulato quella legge, di chi ha presentato il disegno di legge o di chi la ha approvata (attività tanto più agevole quanto più sono documentati i lavori parlamentari), ma deve risalire alla intenzione attuale che risulta oggettivamente dall’esame di tutte le disposizioni in vigore al momento dell’applicazione della norma in questione, cioè alla volontà oggettivata nel sistema. Il valore e il significato attuale della disposizione vanno ricostruiti nel quadro complessivo delle norme in vigore, anche prescindendo dal significato iniziale o dalla interpretazione che è stata data in precedenza. È necessario, pertanto, che l’interpretazione logica
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
diventi una interpretazione sistematica, cioè che tenga conto dei principi e delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico nel momento in cui si deve dare applicazione alla disposizione in esame. Può succedere, ad es., che siano mutati dei principi fondamentali in conseguenza della introduzione di nuovi istituti – si pensi al divorzio, che ha sovvertito l’idea, precedentemente accolta dall’ordinamento, della indissolubilità del matrimonio – o può darsi che cada, perché dichiarata costituzionalmente illegittima, una norma che prima avrebbe condizionato una certa interpretazione della materia. In questo continuo aggiornamento del sistema ha grande importanza l’attività della Corte costituzionale, la quale spesso emette sentenze interpretative vincolanti, nel senso che riconoscendo come incostituzionale non la disposizione in sé considerata, ma solo una delle interpretazioni possibili di essa, induce ad interpretarla in altro senso.
Quanto alla fonte, si distingue la interpretazione autentica, cioè fornita dallo stesso legislatore con una norma successiva (e quindi vincolante per tutti), dottrinale, operata dagli studiosi (attraverso note, articoli scientifici, monografie, trattati), giurisprudenziale, quale risulta attraverso i provvedimenti emessi dai giudici. Fra questi assumono grande importanza le sentenze emesse dalla Corte di Cassazione, seguite con attenzione nel mondo della pratica, specialmente quando un orientamento interpretativo diviene costante (anche se sono sempre possibili delle inversioni di tendenza o, come si dice, revirement). In realtà, benché nel nostro ordinamento non sussista il principio anglosassone dello stare decisis, cioè del precedente giudiziario vincolante, ogni avvocato sa che l’orientamento costante della Suprema Corte determina sostanzialmente, anche se non formalmente, una coerente interpretazione di giudici e pertanto è opportuno adeguarvisi. Resta fermo, tuttavia, il principio che ciascun giudice è libero di dare la decisione che gli sembra corretta, purché questa rispetti il diritto e sia adeguatamente motivata. Quanto ai risultati della interpretazione, si parla di interpretazione estensiva quando l’esito della interpretazione logica e sistematica porta a concludere che la legge ha detto meno di quanto avrebbe dovuto (minus dixit quam voluit). In tali casi occorre ampliare il significato della norma fino ad includere altre ipotesi non letteralmente comprese, ma pur sempre riconducibili alle categorie cui fa riferimento la disposizione, per una esigenza di razionalità e di coerenza del sistema. Dal lato opposto si parla di interpretazione restrittiva quando esigenze logiche e sistematiche impongono di limitare il significato della disposizione escludendo alcune ipotesi che pur formalmente rientre-
§ 5. L’analogia
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rebbero nel dettato legislativo. Si dice che in tali casi la legge plus dixit quam voluit. Se invece il significato che si deve accogliere è esattamente quello che appare dalle parole e dalle espressioni usate, secondo il loro significato comune, si parla di interpretazione dichiarativa. Prendiamo la parola “padre”, usata dal legislatore nel testo precedente alla Riforma della filiazione. Secondo i casi poteva essere necessario intendere qualcosa di più: ad es., “colui che esercita la potestà”, quindi anche la madre, attuando una interpretazione estensiva (art. 777, rimasto immutato); ovvero qualcosa di meno: ad es., non il “vero” padre , ma solo il “presunto” padre era legittimato a disconoscere la paternità (art. 235, oggi abrogato; nel nuovo art. 244 si parla più correttamente della impugnazione del “marito”); altre volte doveva essere inteso in senso letterale: il padre, a preferenza della madre poteva adottare i provvedimenti urgenti di cui al vecchio testo dell’art. 3164 (interpretazione dichiarativa o letterale). Si deve considerare che l’interpretazione chiarisce il significato delle parole e delle frasi, attribuendo talora al legislatore un lessico tutto particolare e, a volte, addirittura improprio. Il “vero” significato della norma è pertanto quello che va d’accordo con la “logica” dell’intero sistema attualmente in vigore. Il procedimento di interpretazione non è dunque libero, ma rigidamente vincolato da esigenze semantiche, logiche e sistematiche, in modo tale che ogni decisione possa essere controllata anche sotto questo aspetto dal giudice del gravame, cioè quello davanti al quale si può ricorrere per un grado successivo di giurisdizione.
5. L’analogia. L’interpretazione estensiva arriva a colmare alcuni vuoti, facendo rientrare nella previsione legislativa delle ipotesi apparentemente non regolate e mostrando come, in realtà, anch’esse siano ricomprese nel significato della norma. Al di là di questo limite, dove l’interpretazione estensiva non può arrivare, esistono le lacune del diritto, cioè ipotesi non regolate dalla legge. La realtà ha sempre maggior fantasia del legislatore e la vita di ogni giorno presenta continuamente fatti che non sono stati previsti dalla legge, ma richiedono la soluzione di una controversia.
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
Il problema delle lacune del diritto è risolto dall’art. 122 disp. prel., con l’istituto dell’analogia. In primo luogo, si ricorre alla analogia legis: «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe». I termini entro i quali può operare l’analogia sono dunque i seguenti: – si accerta l’esistenza di una lacuna del diritto; – si individua una norma che regola casi simili; – si verifica l’esistenza della eadem ratio: infatti la regola giuridica del caso previsto può essere utilizzata anche per il caso non previsto solo se sussiste un elemento comune alle due ipotesi che giustifica proprio quella disciplina. Quest’ultimo, in effetti, è il punto più delicato del procedimento analogico che il giudice è chiamato quotidianamente a compiere, infatti è necessario inquadrare ogni figura giuridica nel suo campo specifico onde poter individuare ciò che rappresenta la specialità della regola dettata dalla legge. Un esempio: la responsabilità del vettore nel trasporto di cortesia per strada (quando si dà un passaggio ad un amico o ad un conoscente che chiede un favore) non è regolata dal codice civile, che si occupa espressamente del solo contratto di trasporto. Il codice della navigazione detta una norma che vale per il trasporto non contrattuale in nave o in aereo (con una norma che alleggerisce la responsabilità del vettore rispetto a quella derivante da contratto). Si può applicare per analogia tale norma anche al trasporto terrestre? Bisogna vedere se la riduzione della responsabilità del vettore sia riconducibile alla eadem ratio. Se si ritiene che la norma del codice della navigazione non sia stata posta dalla legge in considerazione del particolare tipo di rapporto fra vettore e passeggero (amichevole, non contrattuale), ma piuttosto in relazione al particolare rischio del mezzo di trasporto (aereo o navale), non è consentita l’applicazione analogica della norma citata al trasporto terrestre, e questa sembra l’opinione consolidata della giurisprudenza.
In secondo luogo, l’art. 12 disp. prel. prevede il ricorso alla c.d. analogia juris: «se il caso rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico». Ma dove sono scritti? Purtroppo non esistono le tavole dei principi giuridici! Essi sono nascosti tra le norme dei codici e delle leggi in vigore e non sono neppure immutabili, anche se godono di grande stabilità. Si tratta di scoprirli con un attento lavoro di comparazione e di ricostruzione, dal particolare all’universale. Ad es., trovando più volte ripetuta la regola che, in caso di invalidità del
§ 6. La legge nello spazio
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contratto (ancorché dovuta a cause diverse), fa salvi i diritti del contraente che ha contrattato senza accorgersi (o potersi accorgere) di tale invalidità, siamo in grado di affermare che esiste un principio di tutela dell’affidamento. L’ordinamento, come si è visto sinora, è un sistema di regole soggette ad un continuo aggiornamento e quindi l’esistenza di un principio va desunta dall’interprete, di volta in volta, dal complesso di norme in vigore, tenendo conto non solo delle variazioni apportate dal legislatore, ma anche del contributo interpretativo di dottrina e giurisprudenza. Non vanno invece confusi i principi generali, di cui si è detto, con le c.d. clausole generali che sono norme espresse dal legislatore caratterizzate da un contenuto di vasto respiro, che consente l’applicazione della regola ad una serie indefinita di casi, grazie ad un adattamento che il giudice deve compiere di volta in volta. Ad es., quando la legge dice che le parti della trattativa devono comportarsi secondo buona fede, cioè onestamente e lealmente, non specifica esattamente quale sia il confine del lecito. Spetterà al giudice applicare la regola ai singoli casi sottoposti al suo giudizio esaminando le circostanze concrete. Altrettanto egli dovrà fare quando la legge prevede che un potere o una facoltà possono essere esercitati solo ove sussista una “giusta causa”.
Diversamente dall’interpretazione, l’analogia serve per creare norme nuove, applicabili al caso concreto non disciplinato dalla legge: ecco perché l’analogia è vietata nell’applicazione della legge penale (il cittadino deve sapere prima ciò che è lecito o illecito) e nell’applicazione della legge eccezionale (perché destinata a regolare situazioni particolari in modo specifico e diversamente dai principi). È invece consentita l’analogia nell’ambito del diritto speciale. Nulla impedisce di applicare norme e principi propri di un settore giuridico ad altri casi non previsti dello stesso settore, entro i limiti del corretto procedimento analogico.
6. La legge nello spazio. Quando sorge una controversia che implica elementi di estraneità, cioè il riferimento a soggetti o ordinamenti stranieri, il giudice italiano ha bisogno di sapere, in primo luogo, se ha giurisdizione, cioè se ha il potere di giudicare. La nostra legislazione in questa materia, che tradizionalmente prende il nome di diritto internazionale privato, è stata ampiamente riveduta di recente con la l. n. 218 del 1995 “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato” (alla quale si riferiscono le citazioni che seguiranno
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Cap. 3. La norma giuridica e la sua applicazione
in questo paragrafo), abrogando espressamente la normativa precedente formata dagli artt. 17-31 delle Disposizioni preliminari al Codice civile. L’art. 3 definisce l’ambito della giurisdizione italiana: uno dei presupposti positivi è costituito, ad es., dal fatto che il convenuto sia domiciliato o residente in Italia. Viene esclusa, invece, rispetto ad azioni reali aventi ad oggetto beni immobili situati all’estero (art. 5). Ove sia risolta positivamente la prima questione, il nostro giudice deve sapere quale sia il diritto applicabile nei singoli casi. Ad es. quale norma si applica se un automobilista tedesco deve risarcire a un cittadino italiano i danni derivanti da un incidente causato in Francia? O se un cittadino argentino ed uno britannico hanno stipulato in Italia un contratto di fornitura da eseguire in Grecia?
I principali criteri di rinvio sono i seguenti: a) si applica la legge nazionale della persona (lex personae). Ad es. «i rapporti personali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale comune» (art. 29); «la capacità di disporre per testamento è regolata dalla legge nazionale del disponente» (art. 47); b) si applica la legge del luogo (lex loci). Ad es. «i rapporti personali tra coniugi con diversa cittadinanza sono regolati dalla legge del luogo dove è prevalentemente localizzata la vita matrimoniale» (art. 29); «il possesso, la proprietà e gli altri diritti reali sono regolati dalla legge dello stato in cui i beni si trovano» (art. 51); c) si applica la legge scelta dai privati (lex voluntatis). Ad es., «il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti» (art. 43 della Convenzione di Vienna richiamata dall’art. 57 della Riforma in tema di obbligazioni contrattuali). «La divisione ereditaria è regolata dalla legge applicabile alla successione, salvo che i condividenti, d’accordo tra loro, abbiano designato la legge del luogo d’apertura della successione o del luogo ove si trovano uno o più beni ereditari» (art. 463).
§ 3. Diritti soggettivi assoluti e relativi
PARTE SECONDA
I DIRITTI SOGGETTIVI
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
§ 3. Diritti soggettivi assoluti e relativi
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CAPITOLO 4
LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE
SOMMARIO: 1. Nozione. – 2. Diritto soggettivo e interesse legittimo. – 3. Diritti soggettivi assoluti e relativi. – 4. Considerazioni sul rapporto giuridico. – 5. Situazioni minori: facoltà, poteri. – 6. Diritto potestativo, potestà. – 7. Aspettativa. – 8. Stato della persona (status). – 9. Situazioni passive: dovere, obbligo, onere. – 10. Le obbligazioni “propter rem”. – 11. I c.d. oneri reali.
1. Nozione. La posizione in cui si trova un soggetto, nel quadro delle norme di diritto privato, può essere di vario tipo. Talora una persona riceve piena tutela di un proprio interesse (il proprietario può godere liberamente della cosa che gli appartiene escludendo gli altri), in altri casi taluno è costretto ad eseguire un determinato comportamento nell’interesse altrui (il debitore deve adempiere la prestazione dovuta nei confronti del creditore) altre volte il soggetto si trova in uno stato di soggezione ad un potere altrui, senza potersi difendere (ad es. il debitore inadempiente può vedere espropriato il proprio patrimonio con l’esecuzione forzata). Per indicare la posizione in cui una persona si trova, entro il campo dei rapporti giuridici, nella relazione con altri soggetti, si usa il termine generico di situazione giuridica soggettiva. Ciascuno di noi è titolare, contemporaneamente, di diverse situazioni giuridiche. Il numero e il genere di queste dipende dalle vicende della vita propria di ciascuno (ho diritto allo stato di cittadino, a pretendere i beni che mi sono stati lasciati in eredità, ho l’obbligo di restituire un prestito ricevuto, ecc.) ma la tipologia di siffatte situazioni non è molto varia. Esaminando le situazioni giuridiche soggettive configurate dalla legge (soprattutto nel campo del diritto privato) vediamo che si può sintetizzare il panorama offerto dalle diverse disposizioni riducendo tutto ad una decina di figure, comprensive di quelle attive, (in cui l’interesse del titolare del-
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
la situazione prevale perché viene tutelato) e di quelle passive (in cui l’interesse del titolare soccombe di fronte alla tutela di un interesse altrui).
2. Diritto soggettivo e interesse legittimo. La situazione in cui la tutela dei soggetti è più forte e più diretta prende il nome di diritto soggettivo. Alla base vi è una idea unitaria: con il diritto soggettivo la legge vuole tutelare direttamente un soggetto, attribuendo a costui uno o più strumenti giuridici di attuazione e di difesa del suo interesse. Sicché il titolare del diritto può chiedere al giudice un provvedimento a lui favorevole dimostrando la lesione di questo interesse (ad es., se il debitore non mi paga o il venditore non mi consegna la merce che ho acquistato posso chiedere che il giudice lo condanni; se Tizio offende il mio onore, stampando una pubblicazione diffamatoria, posso chiedere al giudice che gli ordini innanzitutto la cessazione del comportamento lesivo, che proceda ad un sequestro, che condanni il responsabile a pubblicare una smentita). Non sempre, tuttavia, un interesse del soggetto è tutelato. Esistono interessi che non sono tutelati in alcun modo. Ad es. l’interesse ad ereditare il patrimonio di un parente ricco (al di fuori dalla cerchia degli stretti congiunti) non è protetto neppure a favore dei parenti prossimi, chiamati per legge. Infatti, il titolare potrebbe disporre per testamento a favore di estranei o potrebbe consumare il suo patrimonio senza lasciare più nulla alla propria morte. Non sempre, del resto, appare chiara la protezione accordata dalla legge. Prima della recente legge sul trattamento dei dati personali si è molto discusso se si poteva parlare di un diritto soggettivo alla privacy, cioè alla riservatezza della persona, distinto ed autonomo rispetto al diritto all’immagine, o alla segretezza della corrispondenza che risultavano certamente tutelati da norme apposite.
Talora l’interesse del privato riceve soltanto una tutela indiretta perché alla legge sta a cuore, innanzitutto, la soddisfazione dell’interesse pubblico. Ad es., il candidato che concorre per un pubblico impiego ha certamente un interesse a vincere il concorso, come ciascuno dei partecipanti, ma questo interesse è subordinato all’interesse della collettività affinché sia scelto il miglior concorrente. Colui che, alla fine della selezione, non riesce vincitore potrà lamentarsi presso il giudice competente ma soltanto se sarà in grado di dimostrare che, prima di tutto, la Commissione giudicante ha
§ 3. Diritti soggettivi assoluti e relativi
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violato le norme di buona amministrazione, e quindi l’interesse pubblico, non rispettando la legge nello stilare la graduatoria. Come conseguenza della illegittimità del comportamento della P.A. il privato potrà lamentare la lesione del suo interesse personale, chiedendone la tutela soltanto in modo consequenziale ed eventuale, rispetto alla protezione dell’interesse pubblico violato. La possibilità di agire in giudizio concessa al cittadino dipende dal fatto che il suo interesse coincide con l’interesse pubblico di cui la legge si preoccupa principalmente. Pertanto, nel nostro esempio, il candidato potrà ottenere il riconoscimento che gli spetta, impugnando l’esito del concorso, in modo che questo venga annullato e si rifaccia la graduatoria rispettando la legge. In questi casi non si parla di diritto soggettivo ma di interesse legittimo, rispetto al quale è competente il giudice amministrativo (Tribunale Amministrativo Regionale o TAR; Consiglio di Stato), secondo una fondamentale ripartizione della nostra giurisdizione che, di regola, riserva la tutela dei diritti soggettivi al giudice ordinario (Tribunale, Corte d’Appello, Corte di Cassazione). Di recente è stata allargata, tuttavia, la giurisdizione del giudice amministrativo in tema di danno arrecato al privato dalla attività illegittima della Pubblica Amministrazione (l. n. 205 del 2000).
3. Diritti soggettivi assoluti e relativi. Gli interessi che vengono tutelati attraverso lo strumento del diritto soggettivo si possono dividere in due categorie. Da un lato vi è una situazione in cui il soggetto, per godere di un bene e per trarre da esso tutta l’utilità che gli serve, non ha bisogno della collaborazione di alcuno. Anzi, al contrario, ha interesse che gli altri soggetti se ne stiano alla larga, senza creare disturbo. Pensiamo al bene rappresentato dall’integrità fisica, dal nome, da una cosa materiale che ci appartiene. Si può dire che la soddisfazione del soggetto, in questo campo, prescinde da un comportamento attivo di collaborazione altrui. Al contrario, si ha interesse che gli altri soggetti non interferiscano in queste attività di godimento e si astengano da ogni possibile violazione. La legge tutela questo tipo di interessi concedendo al titolare la possibilità di respingere ogni offesa, proveniente da qualunque parte, e di ripristinare, per quanto è possibile, la situazione preesistente. Ciò avviene attribuendo
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
al soggetto, ad es., le azioni petitorie, cioè poste a difesa della proprietà e le altre azioni, inibitorie, risarcitorie e così via, poste a difesa dei singoli diritti. Si parla, in questo caso, di diritti assoluti, ovvero di diritti tutelati “contro tutti” (jus erga omnes). Si può trattare di diritti di natura morale, come il diritto all’onore, al nome, ecc., ma anche di diritti di natura patrimoniale, come il diritto di proprietà su di una cosa o il diritto di usufrutto, ecc. Un diverso genere di tutela si richiede, invece, quando la soddisfazione dell’interesse di un soggetto non può aversi senza l’attività di altre persone. Anche i diritti di questo tipo possono concernere interessi di natura personale come interessi di natura morale. Pensiamo al diritto del figlio in giovane età di essere educato e mantenuto dal proprio genitore, o pensiamo al diritto di fedeltà di ciascun coniuge nei confronti dell’altro, ma anche al diritto alla restituzione della cosa che si è prestata ad un amico o di ricevere il pagamento come corrispettivo della merce venduta, ecc. In tutti questi casi, poiché è necessaria la collaborazione altrui, la tutela si attua obbligando un determinato soggetto a prestare la propria opera, costringendolo, quindi (con mezzi legali, ovviamente, non con la forza fisica), a realizzare il comportamento idoneo a soddisfare il soggetto tutelato. Si parlerà, in questi casi, di diritti relativi (jus in personam) tenendo presente che il legame fra le posizioni dei due soggetti, così intimamente correlate, prende il nome di rapporto giuridico (relazione fra soggetti determinati, regolata dal diritto). La lesione del diritto (quanto meno, la più rilevante) è quella che deriva dal comportamento del soggetto obbligato, qualora egli non compia ciò che deve. La pretesa di ottenere il comportamento dovuto, che spetta al soggetto tutelato (titolare della situazione soggettiva attiva o soggetto attivo del rapporto), si rivolgerà infatti esclusivamente nei confronti dell’altro soggetto (soggetto passivo del rapporto). Conseguentemente non si potrà prospettare una violazione del diritto se non in quanto proveniente da un atto di inadempimento del soggetto obbligato. Un antico problema discusso dai giuristi concerne l’abuso del diritto, e cioè l’utilizzo di un diritto, sia pure entro i limiti formalmente concessi dalla legge, ma in modo tale da non poter essere accettato e protetto dall’ordinamento giuridico. Qui entra in gioco lo scopo della protezione accordata dalla legge ad un soggetto in rapporto al sacrificio imposto ad altri soggetti. Un esempio testuale si può ricavare dall’art. 833 che parla di “atti emulativi” (v. infra, Cap. 35, par. 5), la stessa
§ 4. Considerazioni sul rapporto giuridico
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“minaccia di far valere un diritto” esercitata per conseguire vantaggi ingiusti può essere causa di annullamento del contratto (art. 1438) e dà luogo sicuramente a un illecito. Pur senza una violazione dei segni distintivi e dei diritti di brevetto vi può essere un comportamento, descritto dall’art. 2598, che costituisce un illecito, qualificato come “atti di concorrenza sleale”. Al di là di queste ipotesi tipiche, limitate a casi particolari, si pone agli interpreti la questione se si possa parlare di un “principio generale” dell’ordinamento che vieta l’abuso del diritto. Un aiuto importante giunge dalla legislazione sovranazionale (art. 54 della Carta di Nizza, art. 102 TFUE; art. 17 CEDU). La direzione in cui cerca di muoversi l’opinione favorevole, alla quale recentemente sembra aderire la giurisprudenza (v. da ultimo Cass. S.U. n. 28314 del 2019), è quella di superare uno schema formale e di cercare una regola sostanziale di correttezza, di fair play o di onesto comportamento da parte di chi è bensì tutelato dalla legge, ma non all’infinito, e il confine oltre il quale sussiste l’abuso sarà quello di un esagerato sacrificio di altri soggetti, ove sia comparato all’interesse protetto. Ma quale può essere la risposta del giudice in tal caso? Si riscopre ancora una volta, oggi, la sapienza giuridica del Diritto romano: il soggetto che subisce un sacrificio così sproporzionato può chiedere al giudice di negare protezione al titolare del diritto riscoprendo l’antica exceptio doli generalis, che è, in sostanza, una paralisi della domanda altrui. Ad un altro esempio di abuso del diritto si accenna più avanti (in tema di nullità selettive v., infra, Cap. 17, par. 6; per la correttezza nel contratto e nelle obbligazioni v. infra, Cap. 17, Cap. 29).
4. Considerazioni sul rapporto giuridico. Taluno parla di rapporto giuridico anche a proposito di diritti assoluti, ma l’uso di tale espressione non appare corretto. In primo luogo, non lo è se si vuole alludere alla relazione tra il soggetto e il bene, perché i rapporti giuridici possono concepirsi soltanto nella relazione di soggetti fra loro (nel rapporto giuridico viene infatti regolata la subordinazione di un interesse ad un altro). In secondo luogo, non sarebbe opportuno usare tale espressione per riferirsi ai rapporti fra il titolare del diritto assoluto e gli altri soggetti, perché appare eccessivo fingere l’esistenza di innumerevoli e indeterminati rapporti fra un soggetto e tutte le altre persone, conosciute o sconosciute, che potrebbero offendere il bene tutelato. Sarebbe come dire che ciascuno di noi è gravato da una serie indeterminata di obblighi di non danneggiare e di non ledere nei confronti di chiunque sia il nostro prossimo.
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
Si consideri, ad esempio, l’azione con cui chiedo la restituzione di un bene di mia proprietà detenuto da un altro soggetto: se il bene era stato consegnato ed era stato goduto in base ad un precedente accordo (contratto di comodato, di locazione, di usufrutto, ecc.) ed è scaduto il termine entro cui era concesso il godimento, l’azione si configura come una azione personale di restituzione, dove basterà provare che il precedente rapporto contrattuale è cessato e perciò non si giustifica più il godimento altrui. Se invece, di fatto, altri gode di un bene di mia proprietà senza che tra di noi sussistesse un precedente rapporto, l’azione si configura come un’azione reale (rivendicazione) che tutela il mio diritto esclusivo sul bene, e qui sarà necessario provare l’acquisto del titolo di proprietà che vale erga omnes, la c.d. probatio diabolica, sulla quale v. infra, Cap. 37, par. 5 (Cass. n. 7305 del 2014).
Dobbiamo quindi riservare la nozione di rapporto giuridico soltanto al campo dei diritti relativi. Là dove esiste un diritto assoluto (cioè tutelato erga omnes), se interviene da parte di qualcuno una lesione dell’interesse tutelato può sorgere un rapporto giuridico, ma soltanto come conseguenza della violazione del diritto stesso, in quanto il responsabile è obbligato dalla legge a cancellare – per quanto è possibile – la lesione stessa o a risarcire il danneggiato. Dunque, in tali casi, il rapporto giuridico non sorge contemporaneamente al diritto assoluto, ma solo come conseguenza della violazione di tale diritto, procurata, in certe condizioni, da un soggetto determinato. Potremmo sintetizzare dicendo che nei diritti assoluti il rapporto giuridico nasce dopo la violazione del diritto, mentre nei diritti relativi il rapporto giuridico sussiste necessariamente prima della violazione.
5. Situazioni minori: facoltà, poteri. Se si esamina quello che potrebbe essere considerato il “contenuto” del diritto soggettivo, ad es. per quanto riguarda il diritto di proprietà di un terreno, si può osservare che il titolare del diritto può concretare il suo godimento svolgendo diverse attività di carattere materiale (ad es. costruendo una recinzione, coltivando il fondo in vari modi, scavando il terreno, ecc., ovvero modificando la propria sfera di diritti e obblighi per quanto concerne il bene in questione, cioè costituendo una servitù di passaggio a favore del vicino, concludendo un contratto di locazione, spogliandosi addirittura del bene con un atto di alienazione). Possiamo usare il termine facoltà per indicare la possibilità di tenere determinati comportamenti leciti che rappresentano atti di godimento di un
§ 5. Situazioni minori: facoltà, poteri
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bene (o, più in generale, di una situazione materiale o giuridica) e il termine potere per indicare l’attitudine ad esprimere atti di volontà che producono determinati mutamenti giuridici nella sfera del soggetto stesso o di altri. Se manca il potere, la volontà del soggetto non riesce a produrre gli effetti modificativi che interessano, e quindi l’atto sarà inefficace, se invece manca la facoltà di tenere un certo comportamento si commette un illecito nei confronti del titolare di una situazione giuridica (che dovrà essere eventualmente risarcito) o nei confronti dell’ordinamento, che pone un divieto. Vi sono tuttavia delle ipotesi in cui il soggetto, pur esercitando una facoltà concessagli dalla legge, deve comunque indennizzare la controparte per le conseguenze negative che si ripercuotono su di essa. Si potrebbe parlare perciò di indennizzo da atto lecito, cfr., ad es. gli artt. 843, 1328, 2227. Il termine “diritto soggettivo” assume allora un significato più pregnante in quanto, dietro alla figura che si presenta come unitaria, si possono intravedere e analizzare i diversi contenuti di cui abbiamo parlato. Le facoltà e i poteri, che rappresentano il contenuto di un diritto, non godono di una tutela autonoma (rispetto al diritto considerato unitariamente nel suo complesso) e neppure si perdono autonomamente fin che dura il diritto. Ad es., se Tizio ha una servitù di passaggio sul fondo del vicino, che gli consente di passare con qualunque mezzo, compresi quelli agricoli o commerciali, e poi per venti anni egli non esercita alcun passaggio, perde il diritto di servitù per prescrizione, ma se egli invece riduce il suo godimento passando solo con alcuni mezzi o a piedi, questo “minore” utilizzo è pur sempre sufficiente per non far perdere a Tizio le altre facoltà che non sono state esercitate, sicché egli conserva integro l’intero diritto in quanto le singole facoltà non si prescrivono (in facultativis non datur praescriptio).
Le facoltà e i poteri sono situazioni soggettive che meritano di essere studiate distintamente rispetto al diritto. In primo luogo perché ne rappresentano una frazione ben identificabile al suo interno, che forma oggetto, talora, di una disciplina speciale imposta dalla legge (si pensi, ad es., alla facoltà di edificare sul proprio terreno, che è sottoposta a concessioni o autorizzazioni statali) o voluta dal titolare stesso (si può rinunciare a esercitare una facoltà, ad es., Tizio si obbliga contrattualmente nei confronti del vicino di casa a tenere il proprio terreno coltivato a prato). In secondo luogo, perché possono esistere anche facoltà e poteri come situazioni giuridiche a sé stanti, svincolate da un diritto soggettivo o da un obbligo. È immaginabile una facoltà “allo stato puro”, se così si può dire. Supponiamo,
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
ad es., che il proprietario di un parco conceda al proprio vicino il permesso di entrare e passeggiare, pur senza impegnarsi a mantenere il permesso per un certo tempo, anzi riservandosi di revocare ad nutum, cioè a suo arbitrio, tale autorizzazione. Così facendo egli rimuove un limite, cioè concede una possibilità di godimento, materiale, in questo caso, e quindi una facoltà, che il vicino, prima, non aveva. Dopo tale autorizzazione, dunque, il vicino che entra nel fondo altrui compie un atto lecito, mentre con lo stesso comportamento, compiuto prima del permesso, egli avrebbe violato il diritto di proprietà altrui. Tuttavia, nell’ipotesi immaginata non esiste un obbligo del proprietario per il futuro, né un diritto dall’altra parte. Il permesso è precario e dura fin che non verrà revocato liberamente il consenso dell’avente diritto. D’altra parte, si può creare anche un potere che non sia né oggetto di un diritto né di un obbligo. Se una persona deve concludere un contratto fuori sede ed è ammalato, potrebbe, ad es., chiedere ad un amico il favore di presentarsi al posto suo per firmare il contratto. Contemporaneamente informerà la controparte dichiarando di nominare come suo rappresentante l’amico stesso. Questi, in tal modo, riceve il potere di agire in nome del rappresentato (che viene anche chiamato dominus negotii) facendogli acquistare immediatamente e automaticamente gli obblighi e i diritti che nascono dal negozio stipulato in suo nome e per suo conto. Nella situazione che abbiamo immaginato il potere è stato attribuito all’amico per mera comodità del dominus e dunque non corrisponde ad un diritto del rappresentante perché non è destinato a tutelare un suo interesse, d’altra parte se costui ha offerto la propria collaborazione a titolo amichevole, senza assumersi un vero e proprio impegno (dicendo, ad es.: “se posso ci vado volentieri”) non ha neppure assunto un vero obbligo giuridico. Il rappresentante è dunque libero – giuridicamente – di svolgere o meno l’attività rappresentativa, e di utilizzare o meno il potere che gli è stato dato (ma sa che il suo comportamento verrà giudicato, eventualmente, sotto il profilo dei rapporti personali, in termini di lealtà e di amicizia). Al di là di questo esempio, il potere di agire in nome e per conto di altri, nella maggior parte dei casi, è collegato con un contratto vero e proprio attraverso il quale un contraente si assume l’obbligo di agire come rappresentante (ad es. il commesso di un negozio, in base ad un contratto di lavoro, è obbligato a vendere merci ai clienti in nome del titolare; l’avvocato, in base ad un contratto d’opera professionale, è obbligato a rappresentare il cliente in giudizio).
6. Diritto potestativo, potestà. Talora uno speciale potere di agire viene concesso dalla legge appositamente perché il soggetto possa soddisfare un proprio interesse. Il fatto singolare, in tale situazione, sta nella possibilità di influire anche
§ 7. Aspettativa
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sulla sfera giuridica di altre persone, (facendo nascere obblighi o facendo estinguere diritti, poteri, ecc. di cui altri sono titolari) senza che costoro debbano o possano farci nulla, perché la modifica giuridica avviene per effetto della dichiarazione di volontà di una parte sola e, contrariamente a ciò che avviene di solito, per produrre tale risultato basta un atto unilaterale dell’interessato, senza bisogno di ricorrere al giudice. In questi casi, che sono, evidentemente, eccezionali, si parla di un diritto potestativo. Ad es. nella vendita con patto di riscatto il venditore ha il potere di riscattare la cosa venduta, restituendo il prezzo e rimborsando le spese, in modo da riacquistare la proprietà del bene; nella locazione l’inquilino può sciogliere il contratto di locazione inviando una disdetta al locatore con il preavviso stabilito dalla legge; il socio in una società di persone, nei casi previsti dalla legge o dall’atto costitutivo, può recedere ad una data stabilita, senza che gli altri soci abbiano mezzi per impedirlo. La situazione giuridica contrapposta, in cui si trovano coloro che devono subire tali modifiche, volute da altri, viene chiamata soggezione. In altri casi un potere viene attribuito ad un soggetto non già per soddisfare un suo proprio interesse, ma piuttosto per soddisfare un interesse altrui (ad es. ai genitori è attribuito il potere di rappresentanza da esercitare nell’interesse dei figli durante la loro minore età, quindi un potere da utilizzare con prudenza, per compiere gli atti necessari e utili in nome e per conto dei minori). In casi come questi si parla, di un potere-dovere, che viene chiamato potestà o anche ufficio di diritto privato. Tradizionalmente i poteri familiari cui erano soggetti i figli spettavano al padre e prendevano il nome di patria potestà. Con la riforma del diritto di famiglia del 1975, venivano attribuiti congiuntamente ad entrambi i genitori – almeno in linea di principio – e prendevano il nome di potestà dei genitori; oggi, con la Riforma della filiazione del 2012-2013, prendono il nome di responsabilità genitoriale. Altri esempi di poteri vincolati da esercitare nell’interesse altrui possono essere quelli del curatore dell’eredità giacente o del curatore fallimentare.
7. Aspettativa. Ad una situazione di tutela di un soggetto si può anche arrivare per gradi, nel senso che può essere necessaria una certa sequenza di fatti per produrre l’acquisto del diritto. Se la serie di eventi previsti dalla legge non è completa può darsi che non vi sia nessuna tutela, e si parla allora di
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
aspettativa di fatto, o che vi sia invece una tutela, ancorché provvisoria e più limitata, e si parla allora di aspettativa di diritto. Se lo zio d’America ha fatto un testamento in favore di un nipote, ma non è ancora defunto, la persona che viene nominata nel testamento non avrà nessun mezzo per tutelare questa sua aspettativa, perché, come si sa, il testamento può essere sempre revocato liberamente dal testatore ovvero può darsi che il proprietario dilapidi le sue sostanze finché è ancora in vita. Ma se lo zio è già defunto e nel suo testamento ha nominato erede il nipote a condizione che questo si laurei in giurisprudenza, l’erede istituito non potrà ancora accettare finché non si avvera la condizione (si dice che è sospesa la delazione, cioè l’offerta), però potrà godere di azioni a tutela della sua aspettativa affinché sia conservato integro e sia protetto il patrimonio che un giorno egli potrà acquistare. Altro esempio: se Tizio si compra la casa in una città, sottoponendo il suo acquisto alla condizione di esservi trasferito dal proprio datore di lavoro, egli può ben difendere le sue ragioni anche se non è ancora divenuto proprietario, chiedendo al giudice di emettere determinati provvedimenti (ad es. un sequestro) qualora, durante lo stato di pendenza, sia messa in pericolo la conservazione del bene o l’acquisto del diritto.
8. Stato della persona (status). Lo stato della persona o status è una qualifica del soggetto con particolare rilevanza giuridica nei confronti dell’ordinamento stesso. Dallo stato della persona trae origine tutta una serie di situazioni giuridiche attive e passive. Si pensi allo stato di cittadino, che ha rilevanza eminentemente pubblicistica (obblighi di prestare il servizio militare o civile, diritti elettorali attivi e passivi, ecc.) e, nel campo del diritto privato, allo stato di coniuge, o a quello, ormai unificato, di figlio, che generano rapporti non solo fra stretti congiunti, ma anche fra parenti più lontani (il diritto a succedere nella vocazione legittima si estende fino al sesto grado di parentela). Tali qualifiche, oltre che essere indisponibili da parte dei privati, sono così importanti che il diritto civile ha previsto la possibilità di accertare o di contestare lo stato della persona attraverso un giudizio autonomo e cioè senza altre finalità che l’accertamento stesso. Tizio, ad es., se nato fuori del matrimonio, può esercitare l’azione (imprescrittibile per lui) per farsi dichiarare figlio di Caio senza che ci sia bisogno di giustificare altrimenti questa iniziativa (e cioè senza avanzare alcuna pretesa successoria o alimentare).
§ 9. Situazioni passive: dovere, obbligo, onere
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Esiste inoltre un sistema per far conoscere ai terzi lo stato della persona attraverso pubblici registri (detti appunto di stato civile) dove si trascrivono gli atti che riguardano lo stato come gli atti di nascita, di matrimonio, l’accertamento giudiziale dello stato di figlio o il riconoscimento del figlio effettuato da ciascun genitore. Si tenga presente che non tutte le qualifiche sono degli status. La qualità di parente, ad es., può essere giuridicamente rilevante ai fini della chiamata a succedere (in mancanza di coniuge, figli, genitori, ascendenti o collaterali del defunto, se non vi è testamento, la legge chiama a succedere i parenti fino al sesto grado), ma tale qualifica non è suscettibile di accertamento autonomo. Essa diviene oggetto di accertamento da parte del giudice solo in quanto costituisca un presupposto necessario per accogliere una domanda specifica presentata dall’interessato (ad es. qualora questi pretenda di ottenere l’eredità di Tizio dovrà dimostrare che ne è il parente prossimo, in mancanza di più stretti congiunti).
9. Situazioni passive: dovere, obbligo, onere. Là dove esiste un diritto assoluto in capo ad un soggetto, gli altri cittadini devono soltanto rispettare la situazione di godimento del bene in questione, senza turbare o interrompere questa attività. Si parla allora di un generico dovere di non arrecare danno (alterum non laedere). Generico, perché è indeterminata la persona di colui che deve adempiere e anche perché non è definito precisamente il comportamento dovuto, anche se invece è ben chiaro che cosa non si può fare. Là dove, invece, esiste un diritto relativo vi sarà un soggetto che deve tenere un determinato comportamento idoneo a soddisfare la controparte. Se si vuole usare un linguaggio corretto si parlerà, in tal caso, di obbligo, se il comportamento dovuto è prevalentemente di carattere personale o morale (obbligo di educare i figli, obbligo di fedeltà fra coniugi) ovvero di obbligazione, se il comportamento dovuto (che si chiama prestazione) ha natura patrimoniale (ad es. l’obbligazione di pagare il prezzo di una merce o di risarcire il danno da inadempimento). Nel linguaggio comune, tuttavia, si usa spesso (e impropriamente) il termine obbligo al posto di obbligazione (ad es. gli obblighi dell’erede, del conduttore). Si parla invece di onere quando il soggetto deve tenere un determinato comportamento non già per soddisfare un interesse altrui, ma nel proprio
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Cap. 4. Le situazioni giuridiche soggettive
interesse, per realizzare un requisito previsto dalla legge o da un contratto al fine di ottenere un effetto vantaggioso (ad es., se il contraente intende valersi della clausola risolutiva espressa, art. 14562, ha l’onere di dichiararlo alla controparte, altrimenti il contratto non si scioglie; se vuole esprimere validamente la volontà negoziale ha l’onere di adottare una determinata forma, art. 1350). Questo concetto di onere, come situazione soggettiva contrapposta all’obbligo, non va confuso con la nozione di onere o modus quale elemento accidentale del testamento o della donazione. Si tratta di un peso imposto dal testatore all’erede o al legatario (ti lascio questa villa di famiglia, con l’onere di apporvi una lapide che ricorda gli antichi proprietari; ti istituisco erede con l’onere di destinare ogni anno una percentuale delle rendite a favore di un ente di beneficenza). Quando si accetta l’eredità o si acquista il legato si acquista anche l’onere, e cioè sorge una vera e propria obbligazione in modo tale che chiunque vi ha interesse (basta anche un interesse morale) può chiederne l’adempimento all’erede onerato.
10. Le obbligazioni “propter rem”. Ben conosciute dal nostro codice sono le obbligazioni reali o “propter rem”. Esse consistono in una prestazione di dare o di fare, che rappresenta il contenuto di una obbligazione ambulatoria, cioè di una obbligazione in cui la persona del debitore non è fissa, ma può cambiare in quanto viene individuata, di volta in volta, nel soggetto che acquista il diritto di proprietà o altro diritto reale sopra un certo bene. In tal modo il nuovo titolare della cosa assume automaticamente anche la veste di debitore in un rapporto giuridico preesistente (in quanto proprietario diventa anche debitore). Una volta individuato il nuovo debitore, questi risponde personalmente con tutto il proprio patrimonio, secondo le regole generali delle obbligazioni (art. 2740). Poiché obbligata è la persona manca una vera garanzia reale specificamente gravante sul bene. L’obbligo matura quando si verifichino certi presupposti, che, in generale, possono ascriversi a due cause: 1. L’esigenza di conservare o rendere più comodo un diritto altrui su di un bene. Ad es., il proprietario del fondo servente può essere tenuto (eccezionalmente) a compiere prestazioni accessorie in base al contratto costitutivo della servitù, per
§ 11. I c.d. oneri reali
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rendere possibile l’esercizio della stessa (art. 1030) o per conservarla (art. 10692). Se venisse alienato il fondo servente passerebbero anche tali obblighi al nuovo proprietario. 2. L’esigenza di suddividere le spese per il godimento o la conservazione di un bene (mobile o immobile) fra coloro che ne traggono vantaggio. Ciascun partecipante alla comunione deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e il godimento della cosa comune (art. 1104) e se il bene viene ceduto l’acquirente diventa debitore di tali prestazioni in solido con il cedente. Le riparazioni del muro comune sono a carico di tutti quelli che vi hanno diritto (art. 882). Le spese per la costruzione del muro di cinta gravano per metà sui due proprietari vicini (art. 886). In sostanza tali debiti competono a colui che ha il diritto reale sulla cosa.
11. I c.d. oneri reali. È una figura giuridica non prevista dal codice civile attuale, e quindi è possibile descriverla soltanto facendo riferimento ad istituti antichi quali censi, livelli e decime, spesso risalenti nel tempo, fino a ricollegarsi all’ordinamento feudale. Non si può tuttavia escludere che siano ancora in vigore (sia pure in misura quanto mai limitata e sporadica) antichi oneri anteriori al codice del 1865, per i quali una apposita disposizione di attuazione di tale testo legislativo prevedeva appunto la continuazione. Poiché col nuovo codice del 1942 nulla di nuovo è stato disposto in proposito, si ritiene che tali rapporti si siano conservati. È consentita peraltro la affrancazione da tali oneri, sulla base del principio che vede con disfavore l’esistenza di pesi perpetui sulla proprietà. Le servitù, come è noto, non hanno per oggetto un comportamento attivo, cioè un obbligo di fare, del titolare del fondo servente (servitus in faciendo consistere nequit), ma questi è semplicemente costretto a sopportare il godimento del titolare del fondo dominante. In contrapposizione con la servitù, l’onere reale consiste invece in prestazioni di dare o fare periodiche, poste a carico del proprietario di un fondo. Il comportamento è dunque quello proprio delle obbligazioni, ma si dice che è gravato il fondo, sia perché la posizione di obbligato è ambulatoria, cioè segue la titolarità del diritto reale sul bene (sarà obbligato colui che acquisterà il bene, come nelle obbligazioni propter rem) sia perché il fondo garantisce, con il suo valore, l’adempimento, in modo tale che il creditore può assoggettare all’esecuzione forzata il fondo, in caso di inadempimento, anche se nel frattempo questo è stato alienato. Di conseguenza, il perimento del fondo (si pensi ad una frana o a una alluvione) fa cessare la garanzia ed impedisce il sorgere del tributo. Uguali conseguenze produce l’abbandono del fondo (c.d. abbandono liberatorio). Anche se il diritto di seguito e la garanzia fanno pensare all’ipoteca, nell’onere reale si manifesta, tuttavia, una situazione diversa perché la garanzia è intimamen-
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te connessa con l’obbligo, nascendo con esso dalla stessa fonte, mentre nell’ipoteca vi è un debito principale (con una sua fonte) e l’eventuale garanzia non può che nascere da un diverso titolo (legge, contratto) restando comunque un rapporto accessorio. Proprio per l’aspetto della garanzia, fornita al creditore dal fondo stesso, non si può ammettere oggi la creazione di tali situazioni da parte dell’autonomia privata, mediante contratto o testamento, dato che si determinerebbe una deroga non consentita alle norme sui privilegi, inventando un diritto reale di garanzia di nuovo tipo. Si deve concludere, pertanto, che sono inammissibili oneri reali non previsti espressamente dalla legge (oneri atipici).
La giurisprudenza ha parlato recentemente di oneri reali in un senso tutt’affatto diverso da quello tradizionale, per sottolineare che certi obblighi di fare o non fare, che gravano sul proprietario di un appartamento in un condominio, in caso di vendita, si trasmettono anche al nuovo acquirente. Non ostante l’appellativo che è stato usato, questi obblighi rientrano piuttosto nella nozione descritta nel paragrafo precedente di obbligazioni propter rem. Analizzando le sentenze che hanno statuito in materia si scopre che la trasmissione si determina, per lo più, perché il nuovo proprietario accetta contrattualmente anche di subentrare in tali obblighi oppure perché vi è stata trascrizione del peso imposto al proprietario nei registri immobiliari.
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CAPITOLO 5
NASCITA, CIRCOLAZIONE, ESTINZIONE DEI DIRITTI
SOMMARIO: 1. I fatti giuridici. – 2. La nascita e la circolazione dei diritti. – 3. La prescrizione. – 4. Le prescrizioni presuntive. – 5. La decadenza.
1. I fatti giuridici. Nell’ampia categoria dei fatti che si verificano quotidianamente ve ne sono alcuni che non producono modifiche nella sfera giuridica di alcun soggetto: sono i fatti giuridicamente irrilevanti (ad es. passeggiare, dormire, viaggiare, ecc.) che rientrano nella sfera dell’agire lecito di ognuno, cioè della sua libertà. Altri fatti sono previsti, in astratto, dalla legge come fattispecie produttive di effetti giuridici. Quando si verificano, essi modificano il mondo giuridico (effetti costitutivi, modificativi o estintivi di situazioni o di qualifiche giuridiche). Si dice allora che sono fatti rilevanti per il diritto e sono chiamati fatti giuridici in senso ampio. I diritti nascono e si acquistano quando si verifica un fatto giuridico. Secondo una distinzione tradizionale vengono chiamati fatti giuridici in senso stretto, quegli eventi che producono modifiche giuridiche senza concorso dell’opera dell’uomo, cioè per cause naturali (ad es. l’alluvione, regolata dall’art. 941 c.c. fa acquistare l’incremento di terra, consolidatosi nel tempo, al proprietario del fondo rivierasco) o con il concorso dell’opera dell’uomo, ma senza che sia rilevante giuridicamente la consapevolezza del soggetto agente (ad es. la creazione artistica fa acquistare la proprietà dell’opera e il diritto d’autore su di essa anche se, paradossalmente, il pittore è completamente pazzo). Tra i fatti che producono l’acquisto o la modifica di un diritto ve ne sono alcuni che assumono rilevanza giuridica solo in quanto siano realizzati
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da un soggetto consapevole, in grado di rendersi conto di ciò che fa e del significato sociale del suo comportamento: sono chiamati atti giuridici. Ad es. il chiamato all’eredità diventa erede solo con l’accettazione; la compravendita fa acquistare la proprietà della cosa grazie all’accordo delle parti; il figlio nato fuori del matrimonio acquista lo stato di figlio con l’atto di riconoscimento compiuto dal genitore e così via. Ci occuperemo più avanti di questa categoria parlando della attività giuridica in modo più particolareggiato. In questo momento ci basta segnalare l’importanza di tali fatti attraverso i quali si acquistano e si cedono diritti e si modifica la sfera giuridica di un soggetto grazie alla sua stessa volontà.
2. La nascita e la circolazione dei diritti. Molti diritti si acquistano per la prima volta in capo ad un soggetto senza alcun atto di trasferimento. Ad es., quando nasce una persona, essa acquista immediatamente il diritto al nome, all’onore, all’integrità fisica e gli altri c.d. diritti personalissimi. L’impossessamento di cose mobili che non appartengono ad alcuno e quindi sono res nullius, come i pesci del mare o le cose abbandonate, o i frutti di bosco selvatici, determina l’acquisto della proprietà per occupazione. Si parla, in questi casi, di acquisti a titolo originario, così chiamati perché avvengono in base ad un fatto (detto anche titolo dell’acquisto) che determina la nascita del diritto senza trasferimento da alcuno. Poiché siamo al di fuori da una successione, il diritto acquistato dipende esclusivamente dalle caratteristiche del fatto acquisitivo, secondo il tipo e le modalità della vicenda. Oltre alle res nullius, già nominate, si possono acquistare attraverso la creazione intellettuale diritti su beni che prima non esistevano (ad es., scrivendo un libro o componendo un brano musicale si acquista il diritto materiale e morale d’autore), ma si possono acquistare a titolo originario anche diritti su beni preesistenti già appartenenti ad altri, in situazioni in cui il nuovo titolare sarà dunque potenzialmente in conflitto con il precedente. Ad es. se Tizio – in presenza di requisiti che presto studieremo – coltiva per vent’anni un fondo altrui come se fosse proprio, ne acquista la proprietà per usucapione e può far valere tale acquisto anche contro il vecchio proprietario o eventualmente contro altri soggetti che hanno un diritto reale sullo stesso bene.
§ 2. La nascita e la circolazione dei diritti
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Agli acquisti a titolo originario si contrappongono gli acquisti a titolo derivativo, così chiamati perché la situazione giuridica si trasferisce da un soggetto ad un altro. In tali casi si parla anche di acquisto per successione e di circolazione dei diritti. La circolazione dei diritti è un fenomeno di grande importanza nel traffico giuridico e può avvenire per trasferimento (o successione) tra vivi o mortis causa. In quest’ultima ipotesi il presupposto necessario è, appunto, la morte del precedente titolare del diritto. Si parla di situazioni (diritti, obblighi) intrasmissibili quando il trasferimento o la circolazione non è possibile. Ad es. il diritto al nome è incedibile a chiunque (incedibilità assoluta), in quanto inerisce alla persona stessa, mentre il diritto di credito sul quale è sorta contestazione in giudizio (la c.d. res litigiosa) non può essere ceduto a determinate persone (giudici, avvocati, cancellieri presso il tribunale dove la causa è pendente) perché la legge ne vieta il trasferimento (incedibilità relativa). In ogni caso è necessario che il trasferimento sia disposto dalla legge o dalla volontà privata. Colui che trasferisce si chiama dante causa o autore, mentre colui che acquista si chiama avente causa o successore. Vale l’antico principio, prima ancora logico che giuridico: nemo plus juris in alium transferre potest quam ipse habet, cioè nessuno può cedere ad altri più di ciò che ha. Il diritto acquistato non può essere più ampio del diritto ceduto. Vale anche il principio: resoluto jure dantis resolvitur et jus accipientis, cioè se cade retroattivamente il diritto del precedente titolare (dante causa), come può succedere, ad es., in seguito all’esercizio di una azione di annullamento, cade necessariamente anche il diritto acquistato per successione (dall’avente causa). Se il diritto, o il bene che ne forma oggetto, sono divisibili può avvenire una cessione parziale del diritto (ad es. il creditore cede solo metà del credito). Quando la cessione ha per oggetto solo alcune delle facoltà che il diritto “contiene”, in modo tale che in capo al cessionario viene a crearsi un diritto nuovo, diverso da quello preesistente, si parla di acquisto a titolo derivativo-costitutivo. Ad es. chi è proprietario può costituire un usufrutto a favore di un’altra persona e tenersi la nuda proprietà, oppure chi ha l’usufrutto può concedere ad un altro solo la servitù di passaggio senza spogliarsi dell’usufrutto. Poiché la creazione del diritto nuovo avviene pur sempre sulla base della situazione giuridica preesistente, anche in questo tipo di acquisti vale il principio “nemo plus juris”.
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Cap. 5. Nascita, circolazione, estinzione dei diritti
Gli acquisti a titolo derivativo tra vivi sono tutti acquisti che avvengono per successione a titolo particolare, cioè i diritti o le obbligazioni sono considerati individualmente, uno per uno, nell’ambito del trasferimento (si può vendere un bene o più beni specificamente determinati, ma non si potrebbe vendere l’intero patrimonio di una persona complessivamente considerato). A volte, la legge organizza un trasferimento plurimo, cioè prevede che più situazioni giuridiche, individualmente determinate, si trasferiscano contemporaneamente, come ad es. nella cessione di azienda. È importante distinguere concettualmente l’azienda, come complesso di beni organizzati dall’imprenditore, dai singoli componenti della stessa. Dalla nozione unitaria discende, fra l’altro, la possibilità di usucapire l’intera azienda attraverso un possesso ultraventennale esclusivo e incompatibile con il godimento in comune, anche da parte di chi originariamente fosse soltanto contitolare per metà (cfr. Cass. n. 5087 del 2014: nella specie si trattava di una farmacia). Nella successione mortis causa, invece, si può distinguere una successione a titolo particolare, cioè consistente nel trasferimento di singoli diritti (ad es., quando il testatore lascia a taluno in legato un quadro, una somma di denaro, ecc.), e una successione a titolo universale, cioè nell’intero patrimonio o in una quota dell’intero, che si attua unicamente con l’eredità (ad es. il testatore lascia a Tizio un quarto e a Caio tre quarti dei suoi beni). In tal caso i diritti o gli obblighi non vengono considerati singolarmente, ma come appartenenti ad un complesso autonomo di situazioni giuridiche attive e passive chiamato universalità di diritto (universitas juris). L’acquisto dell’erede è prima di tutto, acquisto di una parte dell’intero complesso di situazioni giuridiche trasmissibili (che può arrivare anche al 100% se vi è un unico erede universale). Di conseguenza se nell’intero sono preponderanti i debiti, rispetto all’attivo, chi accetta puramente e semplicemente l’eredità (cioè senza beneficio d’inventario) dovrà rispondere di essi con tutto il suo patrimonio. Inoltre acquistando l’universitas, cioè il complesso di cui si è parlato, l’erede si trova automaticamente ad avere acquistato anche altre situazioni di fatto facenti capo al de cuius, come il possesso di un bene. La successione nel possesso, che avviene in tale circostanza, opera senza che siano modificate le caratteristiche della situazione precedente (si dice che resta il possesso precedente cum vitiis et virtutibus: cioè il possesso di
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buona fede del de cuius continuerà ad essere tale anche se l’erede non è più in buona fede e viceversa). Il fenomeno della successione a titolo universale si comprende meglio se si pensa che, secondo l’antica concezione, erede è colui che prende il posto del defunto e quindi subentra nella titolarità di un patrimonio. Secondo l’antica formula veniva prima l’investitura nella qualità di erede (il testatore diceva: heres esto, “sii erede”) e l’acquisto dei diritti o degli obblighi che fanno parte dell’universitas era solo una conseguenza del fatto di succedere al posto della persona del defunto.
3. La prescrizione. Tra i fatti giuridici in senso stretto (o meri fatti) si è soliti ricordare la prescrizione, cioè un istituto che conduce alla perdita di un diritto per inerzia del titolare, protratta per un certo tempo (ad es., il diritto ad essere risarciti per un danno derivante dalla circolazione di veicoli di ogni specie, se non viene esercitato, si prescrive in due anni, art. 29472). Viene chiamata anche prescrizione estintiva per distinguerla dalla prescrizione presuntiva, di cui si parlerà in seguito. È chiaro che è l’inerzia dell’uomo e non il tempo, in sé considerato, il fatto giuridico importante che opera in questo istituto. Il tempo segna soltanto la sequenza dei fatti di cui si compone la storia dell’uomo. Ricordiamo che il diritto soggettivo consiste in una situazione giuridica in cui viene tutelato direttamente un interesse. L’ordinamento giuridico attribuisce facoltà e poteri al titolare e gli garantisce una protezione attraverso il giudizio. Se il titolare dimostra di non avere interesse perché (pur potendolo fare) non esercita quel diritto per un certo tempo, non c’è ragione di mantenere questa tutela. Un principio di economia degli strumenti giuridici induce a togliere al soggetto quella protezione che non appare utile o necessaria. Di conseguenza si ha un adeguamento della situazione di diritto alla situazione di fatto che si è venuta a creare, a tutto vantaggio della certezza dei rapporti giuridici e a beneficio della controparte. Non tutti i diritti si prescrivono. I diritti della persona, considerati di importanza fondamentale per la tutela dell’individuo, certamente sono imprescrittibili e così pure i diritti di natura familiare. Non si prescrive neppure l’azione per far dichiarare la nullità di un ne-
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Cap. 5. Nascita, circolazione, estinzione dei diritti
gozio, ma è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale l’azione per ottenere la restituzione di ciò che è stato pagato o consegnato in esecuzione di tale negozio (perciò se in base ad un contratto nullo ho pagato del denaro posso chiedere l’accertamento della nullità anche fra vent’anni, ma se chiedo la restituzione dopo dieci anni, mi sentirò opporre dalla controparte la prescrizione del mio diritto). I diritti di natura patrimoniale, per lo più, sono soggetti a prescrizione, con una importante eccezione: il diritto di proprietà non si prescrive. La legge non lo afferma espressamente, ma dice che non si prescrivono le azioni a tutela della proprietà, come la rivendica e la petizione di eredità, mentre prevede espressamente la prescrizione dei diritti reali limitati, come la servitù, l’usufrutto, ecc. La ragione sta nel fatto che l’estinzione dei diritti reali limitati porta maggiore certezza nel mondo del diritto perché tali diritti gravano sempre sulla proprietà altrui, e quando questa viene liberata da pesi e da vincoli si riespande automaticamente. L’estinzione del diritto di proprietà porterebbe, al contrario, ad una situazione di maggiore incertezza, creando delle res nullius e ponendo dei problemi nuovi di carattere tecnico e politico, non facilmente risolubili (chi acquisterà il diritto rimasto senza titolare?). Non si avrebbe quindi un adeguamento della situazione di diritto alla situazione di fatto, a beneficio del contro interessato, ma si produrrebbe una situazione del tutto nuova senza che vi sia vantaggio di alcuno.
Dunque affinché operi la prescrizione occorrono i seguenti presupposti: a) il diritto sia già sorto e quindi possa essere esercitato (art. 2935). Se il diritto non è ancora sorto, ma esiste soltanto una aspettativa di diritto, o la prestazione non è ancora esigibile da parte del creditore perché sottoposta a termine o a condizione sospensiva, non comincia neppure a correre il termine di prescrizione (contra non valentem agere non currit praescriptio). b) Non sussista alcuna situazione che impedisce l’esercizio normale del diritto. Nel periodo in cui un diritto è sorto, ma può essere esercitato solo con difficoltà o non può essere esercitato affatto, si ha sospensione della prescrizione; ciò significa che si apre una parentesi entro la quale il tempo trascorso non viene calcolato, mentre si possono sommare il periodo di inerzia antecedente e quello susseguente a tale periodo. I casi di sospensione indicati dalla legge sono i seguenti: – per una situazione del titolare (come il minore o l’incapace senza rappresentante, o per i militari in servizio e per tutti coloro che sono al seguito delle forze armate in tempo di guerra, art. 2942);
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– per l’esistenza di vincoli personali particolarmente stretti o particolarmente delicati fra debitore e creditore, o fra proprietario e titolare di un diritto reale limitato: resta sospesa la prescrizione fra coniugi, fra chi esercita la responsabilità genitoriale, la tutela o la curatela e chi è soggetto a tale situazione, tra l’amministratore legale o giudiziale dei beni altrui e il proprietario, fra l’erede e l’eredità beneficiata e, infine, come sanzione per un comportamento disonesto, tra il creditore e il debitore che ha dolosamente occultato l’esistenza del debito (art. 2941); – tra le parti di un processo la prescrizione dei diritti controversi rimane sospesa finché non passa in giudicato (cioè diventa definitiva) la sentenza che definisce il giudizio (art. 2945). La stessa cosa avviene nell’arbitrato (un giudizio deferito a giudici privati che decidono mediante un lodo). La sospensione della prescrizione opera anche in pendenza di un rapporto di lavoro non caratterizzato dalla stabilità (Corte cost., 1966, 1972). Finché dura il rapporto di lavoro il dipendente non perde il diritto di pretendere il pagamento di stipendi, salari o indennità non corrisposti.
c) Il diritto non venga, di fatto, esercitato. Un atto di esercizio del diritto da parte del titolare provoca la interruzione della prescrizione, cioè diviene irrilevante il tempo trascorso in precedenza e occorre ricominciare a calcolare il nuovo periodo di prescrizione partendo da zero. L’interruzione può essere di fatto, quando si riprende ad esercitare in concreto il diritto, ad es. uso le facoltà contenute in una servitù di passaggio riprendendo ad utilizzare la strada del fondo servente, o di diritto, quando si pretende formalmente il rispetto del diritto ponendo in essere un atto idoneo. Ciò avviene, di regola, ogni qual volta si propone una domanda giudiziale citando in giudizio la contro parte e questo determina una interruzione della prescrizione per ogni specie di diritti. Per i soli diritti di credito è sufficiente anche un semplice atto con cui si costituisce in mora il debitore (ad es. una raccomandata con cui gli si intima di pagare, art. 2943). Attraverso la domanda giudiziale, peraltro, si ottengono due effetti vantaggiosi: si produce nello stesso tempo la interruzione, ma, come si è appena visto, anche la sospensione della prescrizione per tutta la durata del processo (se però questo si estingue resta soltanto l’effetto interruttivo). Anche il riconoscimento proveniente dalla controparte circa l’esistenza del diritto può giovare al titolare, comportando l’effetto interruttivo (art. 2944). L’interruzione, in tal caso, non dipende da un atto di esercizio del titolare del diritto ma da un atto di disposizione effettuato da chi profitta della prescrizione: se il debitore, dopo alcuni anni, scrive al creditore riconoscendo il
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Cap. 5. Nascita, circolazione, estinzione dei diritti
proprio debito, rende irrilevante l’inerzia del creditore protrattasi fino a quel momento e ricomincia un nuovo periodo di prescrizione. È come se il debitore avesse rinunziato a calcolare gli anni già passati fino a quel momento. Diversamente dalla prescrizione che, essendo oggetto di una eccezione in senso stretto, può essere fatta valere solo dalla parte interessata, l’interruzione della prescrizione può essere rilevata d’ufficio dal giudice purché il fatto interruttivo sia stato già acquisito ritualmente al processo (Cass. S.U. 27 luglio 2005, n. 15661). Si tratta infatti di una eccezione in senso lato (per questa distinzione v. infra, Cap. 6, par. 1).
d) È necessario, infine, che trascorra un certo tempo. Il termine ordinario, cioè quello che si applica in mancanza di deroga legislativa, è di dieci anni (art. 2946). I termini di prescrizione non sono modificabili per volontà delle parti. Un termine più lungo, di venti anni, si applica per la prescrizione dei diritti reali limitati (ad es. il diritto di superficie, cioè di costruire un edificio sopra il suolo altrui, si prescrive se non è esercitato entro tale periodo, art. 9544; lo stesso vale per una servitù, ad es. la servitù di passaggio si estingue se il titolare del fondo dominante non passa per vent’anni per il fondo servente, art. 1073). La legge ha invece stabilito termini brevi quando ha voluto restringere il tempo utile per esercitare un diritto e ottenere una più rapida soluzione di situazioni incerte, ad es. cinque anni: – per l’azione di annullamento del contratto (però con diversa decorrenza, secondo la causa di annullamento, art. 1442); – per l’azione di risarcimento da fatto illecito extracontrattuale, con decorrenza dal giorno in cui il fatto si è verificato, art. 2947; – per esercitare i diritti derivanti da un rapporto di società, art. 2949; due anni: – se il danno extracontrattuale deriva dalla circolazione dei veicoli, art. 29472; un anno: – per i diritti derivanti dal contratto di trasporto o di spedizione, art. 2951, e per le rate del premio di assicurazione, art. 2952. Se sorge una controversia circa l’esistenza di un diritto (tanto se è soggetto ad un termine breve quanto ad un termine ordinario) e vi è una sentenza che condanna ad un pagamento o altra prestazione, il nuovo termine per chiedere l’adempimento del provvedimento giurisdizionale (la c.d. actio judicati cioè l’azione che si fonda sul giudicato) è quello ordinario decennale, art. 2953.
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Il modo di calcolare il passaggio del tempo è disciplinato dal codice proprio in tema di prescrizione e a queste regole poi il legislatore farà rinvio quando dovrà dettare la disciplina di altri istituti, come l’usucapione (art. 1165) o l’adempimento della obbligazione sottoposta a termine (art. 1187). In ogni caso la prescrizione si verifica col compimento dell’ultimo giorno del termine (art. 2962). Si segue il calendario comune. Il giorno iniziale (dies a quo) non si calcola, mentre si computa il giorno finale (dies ad quem), fino allo spirare dell’ultimo istante (art. 2963). Se il termine scade in giorno festivo è prorogato di diritto al giorno seguente non festivo (ma i giorni festivi intermedi si contano anch’essi ai fini della prescrizione). Nella prescrizione a mesi l’effetto estintivo si verifica nel mese di scadenza e nel giorno di questo corrispondente al giorno del mese iniziale, senza contare il numero effettivo di giorni trascorsi (ex nominatione dierum anziché ex numeratione). Sicché sei mesi dal 25 febbraio scadono il 25 agosto tanto negli anni comuni che in quelli bisestili. Se poi nel mese di scadenza manca il giorno che ha lo stesso nomen (numero) di quello iniziale, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese. Ad es. sei mesi dal 31 agosto si compiono il 28 febbraio o il 29 se l’anno è bisestile. L’inerzia protratta per il tempo stabilito produce come effetto l’estinzione del diritto ipso jure (cioè automaticamente, senza bisogno di una pronunzia del giudice, a differenza di altri istituti che producono mutamenti giuridici ope judicis, cioè solo dopo la emanazione di una apposita sentenza, come ad es., l’annullamento del contratto), ma la prescrizione non può essere rilevata d’ufficio (art. 2938). Non bisogna dimenticare, infatti, che nel nostro campo vige il principio dispositivo. Spetta alla parte interessata sollevare una eccezione di prescrizione e cioè difendersi facendo valere il fatto estintivo del diritto. Quando, ad es., il creditore chiede il pagamento del debito dopo dieci anni (o il titolare di un usufrutto o di una servitù di passaggio pretendono di esercitare il loro diritto dopo venti anni di inerzia), il debitore (o, rispettivamente, il proprietario del fondo) può opporsi deducendo l’avvenuta prescrizione. Se il soggetto a cui favore la prescrizione è maturata non si avvale di tale difesa, la legge consente ad altri di sostituirsi a lui, utilizzando la stessa eccezione. Non si tratterà, come si può immaginare, di un intervento altruistico, ma di un intervento interessato, da parte di soggetti che trovano vantaggio nel respingere la domanda dell’attore. Sono legittimati ad opporre la prescrizione al posto del debitore, ad es., gli altri creditori dello stesso debitore
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(i quali sanno che eliminando un concorrente si potranno soddisfare più agevolmente sui beni del debitore inadempiente), ma in generale è autorizzato a farlo chiunque vi abbia un proprio legittimo interesse (art. 2939). Il diritto di valersi della prescrizione è comunque, disponibile. Il soggetto a vantaggio del quale essa opera può, ad es., pagare spontaneamente il debito prescritto, in tal caso la legge considera irripetibile tale pagamento (non se ne può chiedere la restituzione, art. 2940), ma lo stesso soggetto può anche rinunciare alla prescrizione, una volta che sia compiuta, con una dichiarazione espressa, o tacitamente, compiendo fatti incompatibili con la volontà di avvalersene (art. 2937). La rinunzia non può essere compiuta da chi non può disporre validamente del diritto. Essa fa venire meno ogni effetto estintivo e pertanto il rinunziante dovrà subire l’esercizio del diritto altrui (se il creditore esige il pagamento il debitore non può rifiutare, se il titolare della servitù vuole passare per il fondo servente il proprietario non può opporsi, ecc.). In sostanza mentre la disciplina della prescrizione è sottratta alla disponibilità delle parti, art. 2936 – infatti sarebbe nullo ogni patto con cui si volesse modificare il decorso o la durata dei termini e così via – si può invece disporre dell’effetto vantaggioso man mano che si produce, riconoscendo il diritto altrui, o rinunciando alla prescrizione, una volta che sia compiuta. Ciò dimostra, in definitiva, che pur essendo tradizionalmente descritto dalla prospettiva di chi perde un diritto, l’istituto in esame mostra la sua vera essenza solo se è considerato dalla prospettiva opposta di colui che acquista l’eccezione di prescrizione facendo valere il fatto estintivo del diritto altrui.
4. Le prescrizioni presuntive. È importante non confondere i termini brevi delle prescrizioni estintive con quelli, pure brevi, delle prescrizioni presuntive. L’espressione sottintende ... “presuntive di pagamento”. L’idea che sta alla base di tale istituto è la seguente: se c’è un debito e passa un certo tempo senza che il creditore chieda il pagamento (con un atto di costituzione in mora o una citazione in giudizio), il debito si presume pagato anche se manca la quietanza. La prescrizione presuntiva, dunque, non estingue il diritto (sappiamo che questo è comunque soggetto alla prescrizione estintiva nei termini indicati in precedenza), ma corre su un binario diverso, se così si può dire, cioè opera esclusivamente sul piano della prova del pagamento. Da ciò consegue che se il debitore, in giudizio, ammette (in qualsiasi modo) che l’ob-
§ 4. Le prescrizioni presuntive
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bligazione non è stata estinta, distrugge la presunzione di pagamento e può essere condannato (art. 2959). L’esistenza di una prescrizione presuntiva a favore del debitore impedisce al creditore di invocare altri mezzi di prova a suo favore (ad es. la testimonianza) per dimostrare che il debito non è stato pagato, eccettuata la confessione e il giuramento. Al di là della speranza che l’altro si lasci sfuggire una confessione, ammettendo il proprio inadempimento (cosa alquanto improbabile), al creditore resta soltanto la possibilità di deferire il giuramento decisorio al debitore (art. 2960), cioè di farlo giurare in giudizio circa il fatto dell’avvenuto pagamento, ben sapendo, tuttavia, che se il debitore inadempiente giura il falso vincerà la causa. Il giudice, infatti, è vincolato al risultato del giuramento (si qualifica come prova legale) sino a che non ne viene dimostrata la falsità. La controversia civile, pertanto, verrà decisa secondo l’esito del giuramento (per questo si chiama decisorio) e, se il creditore soccombe, ancorché in seguito al falso giuramento del debitore, non può pretendere più nulla in tale sede. In sede penale, tuttavia, egli può denunciare il debitore per falso giuramento, e può provare con qualunque mezzo il compimento di tale fatto (qui è in gioco l’interesse pubblico di accertare e punire il reato), sicché il creditore ha ancora una strada per cercare di ottenere soddisfazione: quella di denunciare penalmente il debitore, costituendosi parte civile in tale giudizio. Ciò significa che il privato si inserisce nel processo penale chiedendo il risarcimento del danno derivante dal reato, danno che comprenderà non soltanto il debito originario che non era stato pagato (e accessori), ma anche le spese processuali e legali. I termini delle prescrizioni presuntive sono brevi: sei mesi per il diritto degli albergatori per l’alloggio e il vitto somministrato (art. 2954), un anno per il diritto degli insegnanti alla retribuzione per le lezioni impartite a mesi o giorni e dei commercianti per il prezzo delle merci vendute al consumatore (art. 2955), tre anni per il diritto dei professionisti (avvocato, ingegnere, medico, ecc.) al compenso per l’opera prestata (art. 2956). Il termine decorre dalla scadenza di ciascun periodo di retribuzione o dal compimento della prestazione e avviene anche se successivamente è iniziato un altro periodo di somministrazione di prestazioni (per gli avvocati v. l’art. 29572).
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Cap. 5. Nascita, circolazione, estinzione dei diritti
5. La decadenza. Spesso è opportuno che determinati atti siano compiuti entro un breve periodo di tempo, in modo tale da non lasciare incerta una determinata situazione. Vi può essere, ad es., un interesse pubblico alla definizione dello stato delle persone (si pensi ad un matrimonio invalido che potrebbe essere impugnato, ed è utile sapere al più presto se l’interessato intende farlo o meno) o un interesse privato ad essere informato quanto prima, al fine di potersi difendere (si pensi al venditore di una macchina che non funziona, o di una merce che presenta un vizio, il quale ha interesse a verificare quanto prima il difetto della cosa). Per ottenere tali risultati la legge fissa, talora, un termine di decadenza, assegnando ad un soggetto un limitato periodo di tempo entro il quale gli è concesso tenere un certo comportamento al fine di tutelare un proprio interesse. Solo agendo tempestivamente egli potrà, pertanto, esercitare un diritto o acquistare una determinata situazione giuridica. Nella garanzia per i vizi della cosa comprata. l’acquirente decade se non denuncia la scoperta del vizio entro otto giorni, ma poi il suo diritto di agire in giudizio si prescrive in un anno dalla consegna (art. 1495 c.c.). Talvolta la legge fissa una decadenza come conseguenza di un comportamento volontario del soggetto, quasi in omaggio ad una regola di coerenza. Ad es., se gli sposi hanno “simulato” il matrimonio (nel particolare significato indicato dall’art. 123), ma poi convivono effettivamente come coniugi, decadono dalla possibilità di impugnare l’atto. La possibilità di impugnare il matrimonio per vizi del consenso cessa per decadenza se i coniugi convivono per un anno dopo avere scoperto l’errore o dopo che è cessata la violenza, art. 1224 (resta aperta la questione della durata della prescrizione qualora i coniugi non abbiano convissuto). Spesso è l’interprete che deve scoprire se un termine fissato dalla legge è di prescrizione o di decadenza. Si sa, ad es., che i termini di decadenza sono generalmente, più brevi di quelli di prescrizione, ma questo è soltanto un aspetto marginale, che non consente di distinguere una figura dall’altra, là dove la legge non qualifica espressamente l’istituto (esistono anche termini brevi di prescrizione). Nei casi dubbi si deve pertanto approfondire quale sia la natura del termine fissato dalla legge, interpretando la esigenza che questo è diretto a soddisfare. Ricordiamo che nella prescrizione la legge guarda al comportamento del soggetto per dedurre, dalla sua inerzia, la mancanza di interesse ad una tutela giuridica. Infatti là dove l’inerzia fosse giustificata da altre circostanze (impossibilità o difficoltà di agire in situazioni particolari) vi è, appunto, la sospensione della prescrizione. Inoltre vi è sempre un contro interessato che può avvalersi della eccezione di pre-
§ 5. La decadenza
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scrizione per impedire l’esercizio di un diritto altrui che è già stato acquistato e poteva essere esercitato. Invece la decadenza è prevista quando si vuole che una determinata azione sia compiuta entro un termine fissato dalla legge per esigenze obiettive, prescindendo dalla condizione soggettiva del titolare.
La disciplina dei due istituti è diversa, infatti nella decadenza: – di norma non operano le regole della sospensione, ciò significa che non si tiene conto della situazione particolare in cui il soggetto si trova, che gli può rendere particolarmente difficile il compimento di certi atti (art. 2964 c.c.); – non opera neppure l’interruzione, perché il compimento dell’atto previsto dalla legge è già sufficiente ad evitare per sempre la decadenza (art. 2966), facendo acquistare definitivamente all’interessato la tutela prevista dalla legge (anche se, poi, il diritto eventualmente acquisito è sottoposto ad un termine di prescrizione); – se prevista in materia di diritti indisponibili (ad es. in tema di impugnazione del matrimonio) non è ammessa alcuna modifica alla disciplina della decadenza, ma il giudice la può rilevare d’ufficio (art. 2969), dichiarando improcedibile l’azione e la parte controinteressata non può neppure rinunziarvi (art. 2968). Da ciò si deduce che tale istituto non ha la funzione di far acquistare una situazione giuridica vantaggiosa alla controparte, rispetto a colui che incorre nella decadenza, ma solo quella di porre un limite temporale ai privati, nell’interesse generale. Se prevista in materia di diritti disponibili è ammessa la creazione di una decadenza convenzionale, sia modificando i termini fissati dalla legge (ad es. le parti di una compravendita potrebbero allungare il termine legale di otto giorni per denunciare la scoperta del vizio) sia introducendo una decadenza nuova non prevista dalla legge, purché, in ogni caso, sia rispettato il principio che il termine fissato dalle parti non renda eccessivamente difficile l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.).
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Cap. 5. Nascita, circolazione, estinzione dei diritti
§ 1. Azione, eccezione, legittimazione
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PARTE TERZA
LA TUTELA GIURISDIZIONALE DEI DIRITTI
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Cap. 6. Situazioni giuridiche e principi processuali
§ 1. Azione, eccezione, legittimazione
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CAPITOLO 6
SITUAZIONI GIURIDICHE E PRINCIPI PROCESSUALI
SOMMARIO: 1. Azione, eccezione, legittimazione. – 2. Cenni ad alcuni principi del processo civile. – 3. Tutela giurisdizionale ordinaria e amministrativa.
1. Azione, eccezione, legittimazione. Il cittadino, anche se sa di avere ragione, non può farsi giustizia da solo. Lo Stato, per assicurare la pace sociale, vieta ai singoli l’uso della forza, ma concede gli strumenti necessari per ottenere la protezione degli interessi privati. Chi ritiene di avere subito una offesa, o vuole cautelarsi contro la minaccia di una violazione del suo diritto, può utilizzare il più importante fra tali strumenti giuridici che si chiama diritto di azione e si configura come una pretesa verso lo Stato. Si tratta di un diritto, di natura pubblicistica, di ottenere dagli organi giurisdizionali un provvedimento sul merito della questione, attraverso un giudizio disciplinato dalla legge. Nel diritto privato, generalmente, le questioni sorgono sulla base di un conflitto fra due o più soggetti. Colui che agisce si chiama attore. Egli chiede all’organo giurisdizionale dello Stato un giudizio di merito che incide necessariamente su altri contro interessati. L’azione si promuove, perciò, con una domanda, rivolta al giudice, che deve essere notificata alla controparte, invitandola a costituirsi in giudizio. Nell’esercitare un’azione è necessario, innanzitutto, individuare la parte o le parti contro cui si agisce, e quindi il provvedimento che si chiede. L’oggetto della pretesa si chiama, tradizionalmente, petitum (ad es. la condanna di Caio al pagamento della somma tale, la ingiunzione, rivolta a Tizio, di porre fine ad un suo comportamento illecito).
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Cap. 6. Situazioni giuridiche e principi processuali
Occorre inoltre indicare quale sia il diritto violato, per fornire la giustificazione giuridica della domanda o causa petendi (ad es. si dirà che Caio ha comprato una cosa determinata e non ha pagato il prezzo, o che Tizio pubblica abusivamente l’immagine altrui e così via). Infine, è necessario dimostrare l’esistenza dei fatti sui quali la pretesa si fonda. A questo scopo la legge disciplina i mezzi di prova (ad es. si esibisce il contratto scritto di vendita, firmato anche da Caio, si dimostra che è avvenuta la consegna mediante la bolla di spedizione della merce, la ricevuta, ecc.). La legge indica quali fatti o cose sono prove, cioè possono servire per dimostrare l’esistenza di altri fatti che sono fonte di diritti, e perciò giustificano l’azione in giudizio. Colui che viene chiamato in causa prende il nome di convenuto. La difesa del convenuto consisterà nel dimostrare che non esistono i fatti sui quali si basa la domanda, ovvero che esistono altri fatti impeditivi o preclusivi. Si tratta, in sostanza, di risposte difensive – che prendono il nome tecnico di eccezioni – le quali possono riguardare sia la questione sostanziale, cioè chi abbia ragione, in base ai fatti accaduti, sia la questione processuale, concernente il modo di procedere nella controversia. Come esempio di eccezioni sostanziali possiamo pensare all’eccezione di nullità di un contratto, all’eccezione di prescrizione di un diritto e così via. Eccezioni processuali sono, ad es., quella di incompetenza del giudice, di nullità della citazione, ecc. La dottrina distingue innanzitutto due nozioni: 1. la mera difesa o eccezione impropria, consistente nella negazione dei fatti allegati dall’attore (difesa in fatto) o nella contestazione delle conseguenze giuridiche di tali fatti (d. in diritto) rivendicate dall’attore; 2. la eccezione in senso proprio che consiste nella allegazione di fatti nuovi, modificativi, estintivi o impeditivi del diritto fatto valere dall’attore sul piano sostanziale o processuale. Fanno parte di questa categoria: a) la eccezione in senso lato, che ha per oggetto fatti operanti ipso jure (si pensi alla nullità del contratto, al pagamento della obbligazione o alla incompetenza per materia del giudice); una volta acquisiti ritualmente al processo, secondo le regole dell’onere della prova, tali fatti possono poi essere rilevati d’ufficio dal giudice che terrà conto della loro efficacia ostativa all’accoglimento della domanda; b) la eccezione in senso stretto (exceptio juris), che ha per oggetto fatti opponibili soltanto su iniziativa della parte interessata, a cui spetta un potere esclusivo di valersi di tali istituti posti a sua difesa (si pensi all’annullabilità, rescindibilità, risolubilità, di un contratto, alla prescrizione di un diritto, alla compensazione di un debito, alla esistenza di una clausola compromissoria).
§ 2. Cenni ad alcuni principi del processo civile
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Talora il convenuto, oltre a difendersi con le eccezioni, può proporre a sua volta una domanda contro l’attore, fondata sullo stesso rapporto, ampliando il tema della controversia. Si parla, in tal caso, di domanda riconvenzionale (ad es. alla domanda con cui l’attore chiede la restituzione della cosa data in locazione il convenuto contrappone la domanda di risarcimento danni perché la cosa stessa era difettosa). La legge indica quale sia la persona che ha il potere di agire, nei singoli casi, per la tutela di un diritto: si dice che tale soggetto ha la legittimazione processuale attiva, o è legittimato attivo; viene indicato, altresì, quale sia il soggetto che, in quella controversia, deve essere citato in giudizio, cioè il soggetto dotato della legittimazione processuale passiva, o legittimato passivo. Ad es., se chiamo in giudizio una associazione, supponiamo il “Club Amici della Musica” non posso agire contro uno qualsiasi degli associati, ma devo citare colui che ha la rappresentanza processuale del gruppo (di norma il presidente) altrimenti la persona chiamata in causa eccepirà il difetto di legittimazione passiva.
2. Cenni ad alcuni principi del processo civile. È opportuno conoscere sin dall’inizio alcune regole fondamentali del processo, per comprendere le caratteristiche del rito processuale e il valore dei mezzi di prova. a) Il principio che domina il processo civile prende il nome di principio dispositivo o principio dell’iniziativa di parte. Esso dice che, in materia di diritti disponibili, i privati hanno l’onere di prendere ogni iniziativa, tanto se intendono agire per tutelare un loro diritto, quanto se vogliono difendersi da una azione altrui. Il principio si giustifica considerando che sono in gioco interessi privati, dei quali il giudice non può farsi portatore, essendo obbligato a rimanere arbitro imparziale. a1) Un primo corollario del principio dispositivo è il principio della domanda. Per il principio dell’iniziativa di parte, il giudice, di regola, non può dare provvedimenti diversi da quelli richiesti dall’attore nella domanda, altrimenti la sentenza può essere impugnata per ultrapetizione (si dice che va
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Cap. 6. Situazioni giuridiche e principi processuali
ultra petita: oltre ciò che è stato richiesto), né l’organo giudicante potrà far valere eccezioni non sollevate dal convenuto (art. 112 c.p.c.). a2) Un secondo corollario del principio dispositivo è il principio dell’onere della prova. Di regola, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero o le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza (art. 115 c.p.c.). Ogni diligenza ed ogni iniziativa sono rimesse all’opera dei singoli contendenti, perciò l’attore dovrà provare i fatti che costituiscono il fondamento della pretesa (onus probandi incumbit ei qui dicit). Se egli vuole che la domanda sia accolta deve dimostrare l’esistenza del diritto, altrimenti il giudice non darà il provvedimento richiesto (actore non probante reus absolvitur). Da parte sua, il convenuto dovrà provare i fatti sui quali si fonda l’eccezione (art. 2697). Le prove perciò sono richieste da ciascuna parte e sono ammesse dal giudice a due condizioni: – se sono giuridicamente ammissibili (ad es. in mancanza dell’atto di matrimonio non è possibile provare per testimoni la celebrazione dello stesso, al di fuori dei casi eccezionali di cui agli artt. 132 e 452); – se sono concludenti, cioè se i fatti che si intendono provare sono effettivamente utili per risolvere la controversia. Come presto vedremo, talora la legge inverte l’onere della prova, a favore di una delle parti e a carico dell’altra (ad es. una volta dimostrato l’inadempimento del debitore, non occorre che il creditore ne provi la colpa, ma sarà onere della parte inadempiente dimostrare la impossibilità sopravvenuta e quindi la mancanza di qualsiasi colpa, se vuole liberarsi, art. 1218). In tale ambito il giudice, pertanto, fermi restando i limiti fissati dalla domanda di parte e dalla richiesta dei mezzi di prova dell’attore e del convenuto, conserva soltanto un minimo potere di iniziativa: per accertare i fatti della causa, può interrogare liberamente le parti (art. 117 c.p.c.) e può ordinare loro (o a terzi) le ispezioni indispensabili, potendo desumere argomenti di prova dal rifiuto di queste di sottoporre la propria persona o le proprie cose a tali indagini (art. 118 c.p.c.). b) Benché siano largamente prevalenti le regole del principio dispositivo, eccezionalmente nel giudizio civile può operare un principio opposto, il principio inquisitorio, ogni qual volta vi sia da tutelare un interesse che la legge reputa preminente rispetto a quello della parte che agisce in giudizio. In tal caso, benché alcuni privati abbiano un potere di iniziativa, in
§ 2. Cenni ad alcuni principi del processo civile
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quanto possono avanzare richieste e proposte, il giudice non è vincolato dalla domanda e deve indagare per proprio conto (inquisire) per svolgere il compito imposto dall’ordinamento. L’esempio più importante in cui trova applicazione il principio inquisitorio concerne gli incapaci. Nel procedimento in cui è stata chiesta l’interdizione di un malato di mente il giudice dovrà tenere conto dello stato psicofisico della persona per dare i provvedimenti più opportuni nell’interesse dell’incapace, indipendentemente dalle richieste di chi ha promosso la causa, e potrà disporre tutte le indagini necessarie, di sua iniziativa, ancorché non richieste dall’attore. Un altro esempio concerne i figli minori nel giudizio di separazione fra i coniugi. Se ci sono adeguati motivi che giustificano l’affidamento esclusivo, il giudice può affidarli a quello dei coniugi che, a suo giudizio (ed indipendentemente dalla richiesta di parte) gli pare più idoneo a soddisfare l’interesse morale e materiale della prole, disapplicando la nuova regola dell’affidamento congiunto, che in questo caso si rivelerebbe contrario all’interesse del minore. c) Le norme di legge si presumono conosciute dal giudice (jura novit curia). Perciò non è necessario che le parti provino l’esistenza della norma che viene invocata a fondamento del proprio diritto o delle proprie eccezioni (né, come si è già visto poc’anzi, è necessario provare i fatti di comune esperienza). d) Un principio fondamentale degli ordinamenti giuridici moderni è quello del contraddittorio (art. 111 Cost.). Esso serve a garantire il diritto alla difesa. L’attore, pertanto, avrà l’onere di citare in giudizio tutti i soggetti nei confronti dei quali dovrà produrre effetto il provvedimento richiesto, anche se poi costoro saranno liberi di scegliere di partecipare al giudizio o di restarne fuori. È sufficiente chiamarli in giudizio affinché essi abbiano la possibilità di difendersi. e) Altra regola importante esprime il principio di relatività del giudicato. La sentenza del giudice può avere l’effetto di costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici (sentenza costitutiva) o di accertare situazioni giuridiche già esistenti (sentenza di accertamento), ma in ogni caso gli effetti sono limitati alle parti e ai loro eredi o aventi causa. Chi non è stato chiamato in giudizio, e non è stato parte, non può neppure sentirsi vincolato dalla sentenza perché non ha potuto difendersi (si dice che tali soggetti sono terzi e che la causa, rispetto ad essi, è res inter alios acta, cioè questione trattata tra estranei). Talvolta sorge, perciò, la ne-
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Cap. 6. Situazioni giuridiche e principi processuali
cessità di chiamare in causa determinati soggetti che l’attore si è dimenticato o ha trascurato di citare, allorquando il provvedimento richiesto tocca anche la sfera giuridica di costoro. Per non svolgere un procedimento inutile, il giudice può dunque ordinare di integrare il contraddittorio e se le parti non lo fanno, il processo si estingue. f) È essenziale il principio del giudicato, che presenta due aspetti: – quando la sentenza non è più suscettibile di gravame, cioè di impugnazione davanti a un giudice di grado superiore (perché è già passata per tale fase di giudizio o perché sono scaduti i termini per impugnare) si dice che passa in giudicato, ovvero diventa definitiva. Non potrà più sorgere una nuova controversia sul medesimo oggetto (ne bis in idem) perché questo è coperto dal giudicato formale; perciò il giudice dovrà respingere una eventuale nuova domanda diretta ad aprire un contenzioso sullo stesso argomento e fra quelle stesse parti (è decisiva l’eccezione di “cosa giudicata”); – la sentenza che giudica nel merito (e cioè non si limita alle mere questioni processuali, ma valuta l’esistenza del diritto, dicendo chi ha ragione e chi ha torto) esplica anche un altro effetto, che si chiama giudicato sostanziale: l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato tra le parti, i loro eredi o aventi causa (art. 2909). Ciò significa che la soluzione data dal giudice diventa una verità indiscutibile fra le parti, ed è fonte di situazioni giuridiche conseguenti che saranno rilevanti, fra le stesse parti, anche in eventuali nuove controversie.
3. Tutela giurisdizionale ordinaria e amministrativa. In base al principio del doppio binario di giurisdizione la cognizione generale in materia di diritti soggettivi spetta al Giudice Ordinario (G.O.), cioè al Tribunale e alla Corte d’Appello nei primi due gradi, che sono detti di merito (in cui il giudizio concerne la pretesa dell’attore e le eccezioni del convenuto in relazione alla fattispecie concreta, sulla base delle prove addotte dalle parti) quindi in terzo grado alla Corte di Cassazione per un giudizio che è detto di legittimità (nel quale non si può più esaminare il fatto, ma si può soltanto valutare se i giudici di merito hanno applicato correttamente la legge, ad es. se esiste una adeguata motivazione della sentenza). La cognizione in materia di interessi legittimi spetta invece al Giudice Amministrativo (G.A.). Quest’ultima giurisdizione è esercitata in primo grado dal Tribunale Amministrativo Regionale e quindi dal Consiglio di Stato in grado d’Appello.
§ 3. Tutela giurisdizionale ordinaria e amministrativa
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Tradizionalmente si distinguono tre tipi di giurisdizione amministrativa: 1. Giurisdizione generale di legittimità, in cui il G.A. valuta la conformità dell’atto amministrativo ai principi e alle norme dell’ordinamento giuridico sotto il profilo dell’incompetenza, dell’eccesso di potere e della violazione di legge. Tale giudizio definito anche “impugnatorio” o “demolitorio” porta all’annullamento dell’atto riconosciuto illegittimo, lesivo di una posizione di interesse legittimo del privato nei confronti della P.A. 2. Giurisdizione di merito, ammessa nei soli casi tassativamente stabiliti dalla legge e ove il G.A. è competente a valutare non solo della legittimità/illegittimità dell’atto amministrativo impugnato ma anche della sua opportunità e convenienza. Il giudizio può portare all’annullamento dell’atto ma anche alla sua sostituzione parziale o totale. 3. Giurisdizione esclusiva, in cui il G.A., in deroga al principio del riparto di giurisdizione, ha cognizione anche in materia di diritti soggettivi. La giurisdizione amministrativa ha subito profonde modificazioni che ne hanno alterato struttura e funzionamento per opera di successivi interventi legislativi; prima il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, poi la l. 21 luglio 2000, n. 205, da ultimo con la sistemazione generale attuata dal Codice del processo amministrativo con il d.lgs. n. 104 del 2010, art. 7, 1° comma, in base al quale restano devolute alla giurisdizione amministrativa, oltre alle controversie in tema di interessi legittimi, anche quelle in materie particolarmente indicate dalla legge, ove si faccia questione di diritti soggettivi concernenti l’esercizio, o il mancato esercizio del potere amministrativo riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili (anche mediatamente) all’esercizio di tale potere, e all’art. 30, 2° comma, stabilisce che al giudice amministrativo, nei casi di giurisdizione esclusiva, può essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. In sostanza, la tutela risarcitoria dei danni connessi alla lesione degli interessi legittimi ha lo scopo di rendere più completa ed effettiva la tutela del cittadino. Ma non è una devoluzione completa: il presupposto di tale competenza sta nel collegamento causale del danno con la illegittimità del provvedimento amministrativo, e quindi (anche nelle materie riservate alla giurisdizione amministrativa) ove il giudice può giudicare in materia di diritti soggettivi, occorre che i diritti siano coinvolti nella funzione pubblica di esercizio o mancato esercizio del potere della P.A. (v. anche Corte cost. n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006). Che cosa resta, al di fuori di tale devoluzione, in materia di risarcimento del danno? Per quanto ci interessa, nell’ambito del Diritto privato, come si è detto, il G.O. è competente, in generale, nel campo della lesione dei diritti soggettivi (non riservati, in singole materie, al G.A.), come, ad es. nel campo dei rapporti contrattuali, ma vale la pena di segnalare una recente pronunzia della Corte di Cassazione a S.U., ord. n. 8236 del 2020 che chiarisce come sia competenza del G.O. il giudizio in tema di risarcimento del danno per lesione dell’affidamento del privato creato da una condotta incoerente e contraddittoria della P.A. Si pensi, ad es., alla emanazio-
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Cap. 6. Situazioni giuridiche e principi processuali
ne di un provvedimento favorevole al privato (quindi non dannoso) ma illegittimo, al quale faccia seguito un comportamento della P.A. che, in presenza di una serie di circostanze, da valutarsi caso per caso, genera una affidamento del privato nella legittimità e nella stabilità della concessione, tale da giustificare spese, investimenti, perdita di chances e così via, salvo poi, da parte del privato, vedersi (legittimamente) annullato (dal giudice o dalla stessa P.A. in autotutela) detto provvedimento. La decisione della Corte sottolinea come, in questo caso, non sia in gioco una violazione delle regole di diritto pubblico, cioè di buon esercizio o di mancato esercizio del potere amministrativo, ma una lesione della regola di buona fede o correttezza che costituisce un principio fondamentale del nostro ordinamento interno e di quello comunitario (v. anche infra, Cap. 17, par. 1, e Cap. 29, par. 9).
§ 2. I singoli mezzi di prova: la prova documentale
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CAPITOLO 7
LE PROVE
SOMMARIO: 1. I mezzi di prova in generale. – 2. I singoli mezzi di prova: la prova documentale. – 3. La prova per testimoni. – 4. La prova per presunzioni. – 5. Le prove legali: la confessione. – 6. Segue: il giuramento.
1. I mezzi di prova in generale. Le regole sulla risoluzione dei conflitti d’interesse sono di due specie: alcune ci dicono se esiste un diritto e se può essere esercitato. Esse fanno parte del c.d. diritto sostanziale: si pensi, ad es., alle norme del codice civile o delle leggi ad esso complementari che fanno sorgere un diritto di credito, un diritto reale o un diritto potestativo, ecc. Altre norme dicono come si deve agire in giudizio per far valere il diritto o per difendersi e fanno parte del diritto processuale: si pensi alle norme che prescrivono il modo di fare una citazione, che definiscono chi può stare in giudizio per tutelare un certo interesse o chi deve essere chiamato in causa. Assieme ai fatti che sono fonte di situazioni giuridiche vanno studiati nel diritto privato anche quei fatti ulteriori che consentono di dimostrare al giudice l’esistenza della fattispecie da cui nascono effetti giuridici. Questi fatti ulteriori sono i mezzi di prova. Non basta essere convinti di aver ragione, ma bisogna anche dimostrare ad altri – e in particolare al giudice, cui spetta il compito di risolvere la controversia – che si sono verificati i fatti dai quali è sorto il diritto. Alcune norme sulla prova appartengono dunque al diritto sostanziale – in particolare quelle che dicono quale valore debba attribuirsi a certi fatti sotto il profilo probatorio – mentre altre appartengono al diritto processuale e dispongono sul modo di procedere in giudizio per assumere le prove. La prima regola sostanziale dice che nessuno può costituire una prova a favore di sé stesso, ma deve portare in giudizio fatti idonei a creare il convincimento del giudice.
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Cap. 7. Le prove
Le prove si distinguono innanzitutto per quanto concerne il modo in cui si formano. – Sono prove semplici quelle che si formano nel corso del processo, come la confessione giudiziale, il giuramento, la testimonianza, ma anche la perizia, fornita dal consulente tecnico d’ufficio, o l’ispezione ordinata dal giudice. Il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte ricevute dalle parti durante un interrogatorio libero delle stesse o dal rifiuto di acconsentire ad ispezioni o dal contegno delle parti nel processo (art. 1162 c.p.c.). È regolata come prova anche la presunzione semplice, cioè l’argomentazione del giudice, il quale, partendo da un fatto noto, ricava, attraverso un ragionamento, l’esistenza di un fatto ignoto (praesumptio hominis). – Sono prove precostituite le prove che si formano fuori del procedimento e si valgono di un supporto materiale che contiene delle informazioni. Poiché esse documentano, in vario modo, il fatto da provare vengono chiamate prove documentali. Ad es., l’espressione della volontà di uno o più soggetti, che si concreta in un atto giuridico (testamento, contratto) può essere provata attraverso il documento scritto redatto nelle forme dell’atto pubblico o della scrittura privata. Lo stato dei luoghi, esistente ad una certa data, può essere documentato da una fotografia, il testo di un precedente scritto può essere provato da una copia fotostatica, una conversazione può essere documentata mediante registrazione su supporto magnetico, lo svolgimento di un fatto può essere riprodotto in un filmato o in una videocassetta, un contratto via internet può essere codificato in un supporto informatico. Un’altra distinzione ha riguardo all’oggetto della prova. La prova storica rappresenta direttamente il fatto da dimostrare. Ad es. il documento scritto prova il contratto stipulato dalle parti, la quietanza prova il pagamento del debito. La prova critica ha invece per oggetto un fatto diverso, dal quale si può dedurre il fatto da dimostrare, ad es. si prova la formula del gruppo sanguigno o il codice genetico di una persona per dimostrare che questa non può essere figlia di un determinato soggetto, si prova la lunghezza della frenata dell’auto per dimostrare la colpa del conducente. Una distinzione meno descrittiva delle precedenti e più sostanziale, concerne l’efficacia della prova nel giudizio.
§ 2. I singoli mezzi di prova: la prova documentale
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Il principio è quello del prudente apprezzamento del giudice nella valutazione della prova, e cioè il giudice può ritenere più o meno probabile l’accadimento del fatto in questione, secondo la certezza che gli deriva dalla valutazione del singolo mezzo di prova, ad es. può ritenere sospetta la testimonianza di una determinata persona, o non sufficienti alcuni fatti per determinare una presunzione. In mancanza di una diversa disciplina, si può parlare, perciò, in generale, di prove di libero convincimento. Si parla invece di prove legali quando (eccezionalmente) la legge vincola il giudice a trarre determinate conclusioni da alcuni mezzi di prova, assumendo come realmente avvenuto il fatto che ne risulta. La confessione giudiziale e il giuramento decisorio vincolano in merito al fatto dichiarato in giudizio, l’atto pubblico fa prova dei fatti che il pubblico ufficiale dichiara essere avvenuti in sua presenza, l’autenticazione della scrittura privata prova il fatto della sottoscrizione del documento.
2. I singoli mezzi di prova: la prova documentale. a) La scrittura privata consiste in un documento, scritto a mano o con mezzi meccanici, e sottoscritto dall’autore delle dichiarazioni in esso contenute. Essa fa piena prova della paternità, ovvero della provenienza delle dichiarazioni, se la sottoscrizione è autenticata dal notaio o altro pubblico ufficiale competente (scrittura privata autenticata). Nella autentica il notaio attesta l’identità della persona che appone la firma in sua presenza e certifica la data e il luogo della sottoscrizione. La sottoscrizione che non è stata autenticata può avere lo stesso valore (fa prova della provenienza delle dichiarazioni) se viene riconosciuta in giudizio dalla parte contro la quale viene utilizzato il documento (ma se questa non disconosce la propria firma entro la prima udienza si ha per riconosciuta, art. 215 c.p.c.) o se la sottoscrizione viene accertata dal giudice su domanda della parte interessata. Esiste, a tal fine, un procedimento apposito previsto dalla legge, chiamato verifica di scrittura privata, in cui il giudice, valendosi della consulenza di un perito, che confronta la firma con gli scritti autografi del soggetto in questione, accerta con sentenza la paternità dello scritto. L’istanza di verificazione della scrittura privata (art. 216 c.p.c.) diventa utile quando la parte che ha firmato una dichiarazione poi la disconosce in giudizio, negando l’autenticità della propria firma, o quando per varie cause (morte,
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Cap. 7. Le prove
malattia, scomparsa, ecc.) non vi può essere riconoscimento da parte di colui che ha apposto la sottoscrizione. L’annotazione scritta che tende ad accertare la liberazione del debitore, se fatta dal creditore in un documento rimasto in suo possesso o in una quietanza o anche in margine o a tergo di un documento del debito posseduto dal debitore, fa prova, benché non sottoscritta dal creditore stesso (art. 2708). Le carte o registri domestici (anche se non sottoscritti) fanno prova contro chi li ha scritti quando enunciano espressamente un pagamento ricevuto o attestano l’esistenza di un debito verso taluno che non risulta da altro documento (art. 2707). Un recente provvedimento (d.p.r. n. 445 del 2000) ha attribuito al documento informatico (nel quale, come è noto, la scrittura è codificata in una serie di impulsi elettrici) la stessa efficacia probatoria della scrittura privata, qualora sia sottoscritto con firma digitale, cioè sia munito di una chiave personalizzata che corrisponde a quella attribuita specificamente ad un determinato soggetto (un codice, composto di lettere e di cifre). La data della scrittura privata non autenticata, può essere opposta ai terzi solo se è certa (art. 2704). Il problema è importante, basti pensare alla vendita di una casa già data in locazione. Il compratore deve rispettare la locazione, infatti per legge subentra nel contratto di locazione al posto del venditore (secondo la vecchia regola emptio non tollit locatum), ma il conduttore deve dimostrare al nuovo proprietario che l’appartamento gli era già stato dato in locazione. Analogamente, in caso di vendita della cosa data in pegno, il creditore pignoratizio dovrà dimostrare che il bene mobile era già stato dato in pegno prima della vendita. La data è certa, riguardo ai terzi, solo dal giorno in cui la scrittura privata è registrata (cioè se è presentata all’ufficio competente per il pagamento della tassa di registro), oppure dal giorno della morte o sopravvenuta impossibilità fisica di uno di coloro che la hanno sottoscritta, oppure dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento. Ad es., il contenuto della scrittura privata preesistente viene riportato in un atto pubblico o in una sentenza, o la scrittura viene spedita per posta e risulta sull’atto stesso (non sulla busta) il timbro postale. b) L’atto pubblico è redatto da un pubblico ufficiale, competente per
§ 2. I singoli mezzi di prova: la prova documentale
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materia e territorio, personalmente capace, il quale attesta ciò che avviene in sua presenza. Può trattarsi, ad es., dell’atto di un notaio, che fa l’inventario dei beni ereditari e ne accerta la esistenza nella residenza del defunto, o redige un contratto riportando le dichiarazioni delle parti contraenti, oppure dell’atto di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio di uno dei genitori, ricevuto dal sindaco quale ufficiale di stato civile, o del verbale dell’ufficiale giudiziario che fa una offerta solenne della prestazione dovuta al creditore. Si dice che l’atto fa pubblica fede di ciò che è narrato dal pubblico ufficiale, infatti esso fa piena prova dei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza. Con riferimento all’attività negoziale dei privati l’atto pubblico fa piena prova circa: – l’esistenza delle dichiarazioni (se poi le parti abbiano dichiarato il vero è un’altra questione); – l’identità delle parti (talora sottoscrivono anch’esse l’atto, benché non sia necessario); – il luogo e la data del negozio (con la conseguenza che quest’ultima sarà opponibile ai terzi). Se il documento è redatto in forma di atto pubblico, ma mancano requisiti di competenza del pubblico ufficiale o di forma, esso può valere come scrittura privata se è stato sottoscritto dalle parti (c.d. conversione dell’atto pubblico). Chi intende contestare la prova fornita dall’atto pubblico o dalla scrittura privata (riconosciuta o autenticata) non può semplicemente negare la verità delle dichiarazioni o dei fatti che sono oggetto di prova, ma deve impugnare l’atto con la querela di falso: uno speciale procedimento previsto dal codice di procedura civile (che può condurre, talora, all’accertamento di un reato, ad es. il “falso in atto pubblico”). c) Altri documenti possono essere utili: Il telegramma vale come scrittura privata se l’originale è sottoscritto dal mittente, ovvero se (si può provare che è stato) consegnato o fatto consegnare dal mittente anche senza sottoscriverlo (art. 2705). La copia del telegramma consegnata al destinatario si presume conforme all’originale, salvo prova contraria; se il mittente ha fatto collazionare il telegramma secondo i regolamenti postali, egli si presume esente da colpa per eventuali divergenze tra copia e originale.
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Cap. 7. Le prove
I libri e le scritture contabili delle imprese soggette a registrazione fanno prova contro l’imprenditore, ma se sono regolarmente tenuti, bollati e vidimati, fanno anche prova a favore, nei soli rapporti tra imprenditori inerenti all’esercizio dell’impresa (art. 2710). Questa norma fa eccezione al principio secondo cui nessuno può costituire prova a favore di sé stesso. Le riproduzioni di fatti o di cose mediante tecniche meccaniche, fotografiche, magnetiche, cinematografiche (ed estensivamente anche a mezzo telefax o documento informatico senza firma digitale), fanno piena prova se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime (art. 2712).
3. La prova per testimoni. Chi è stato presente al compimento di un fatto o ne ha sentito parlare, può essere chiamato davanti al giudice per dichiarare ciò che sa, quando la parte interessata chiede l’ammissione della prova per testimoni. Il testimone può essere solo un terzo, non interessato alla controversia, ed è sufficiente che abbia la capacità di intendere e di volere. La legge, tuttavia, diffida della memoria (e della onestà) degli uomini, perciò fissa dei limiti alla prova per testimoni del contratto. Il codice del 1942 deve ancora essere aggiornato: la prova non è ammessa se il valore dell’oggetto eccede le lire 5.000. La somma è del tutto irrisoria e ... testimonia la dimensione della svalutazione verificatasi in questi decenni. Diventa fondamentale, a questo punto, il capoverso dell’art. 2721, in base al quale il giudice può consentire la prova oltre tale limite tenendo conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza. Non è ammessa la prova per testimoni dei patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento se si vuole provare che sono stati stipulati prima o durante la redazione dell’atto scritto, ma se invece si afferma che sono posteriori ad esso, il giudice può ammettere la prova testimoniale se appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni, sempre tenendo conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza (art. 2722). Sono importanti le eccezioni al divieto della prova testimoniale. La prova per testimoni è sempre ammessa: 1. se vi è un principio di prova per iscritto (qualsiasi scritto proveniente
§ 4. La prova per presunzioni
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dalla persona contro la quale è diretta la domanda) che faccia apparire verosimile il fatto allegato (da provare); 2. se il contraente è stato nell’impossibilità materiale o morale (per particolari circostanze di fatto o particolari rapporti di affetto) di procurarsi un documento scritto; 3. se il contraente ha perduto senza sua colpa il documento che gli forniva la prova (art. 2724). Se però il contratto richiedeva la forma scritta ad probationem o ad substantiam la prova per testimoni è ammessa solo nell’ultimo caso (n. 3) ed avrà per oggetto non già il fatto documentato (ad es. il consenso contrattuale delle parti), ma l’esistenza del documento scritto necessario, rispettivamente, per la prova o per la validità del negozio. Le norme stabilite per la prova testimoniale del contratto si applicano anche al pagamento e alla remissione del debito (art. 2726). Perciò non è ammessa la prova per testimoni per dimostrare che una quietanza scritta rilasciata da una parte all’altra era stata oggetto di simulazione assoluta fra di loro (Cass. S.U. n. 6877 del 2002).
Sulla domanda di assumere una prova testimoniale il giudice decide circa l’ammissione e quindi provvede alla assunzione della prova. La fase più delicata è quella della valutazione critica. In tale ambito, come sappiamo, il giudice è libero di valutare la prova testimoniale secondo il suo prudente apprezzamento.
4. La prova per presunzioni. Le presunzioni sono argomentazioni che si traggono da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato (art. 2727). Quando le conseguenze sono tratte dalla legge si parla di presunzioni legali. Possono essere assolute, se non ammettono prova contraria (ad es. la restituzione volontaria del titolo originale del debito fatta dal creditore al debitore fa presumere la liberazione anche nei confronti degli altri condebitori in solido, art. 12371) o relative, se ammettono prova contraria (la consegna volontaria della copia del titolo spedita in forma esecutiva fa presumere la liberazione salvo prova contraria, art. 1237; la dichiarazione rivolta ad un destinatario determinato e a lui spedita si presume conosciuta quando giunge al suo indirizzo, salvo che questi dimostri di non averne potuto avere conoscenza per causa a lui non imputabile, art. 1335).
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Cap. 7. Le prove
Le presunzioni legali dispensano colui a favore del quale sono stabilite dall’onere di qualunque prova. Le presunzioni semplici (praesumptio hominis: da un fatto noto il giudice risale ad un fatto ignoto) sono sempre essenzialmente prove critiche e sono, per così dire, gemellate alla testimonianza, infatti non sono ammesse nei casi in cui è esclusa la prova per testimoni. Anche quando non opera tale limite, comunque, la legge detta una regola di estrema cautela: il giudice non deve ammettere la presunzione se non si fonda su fatti gravi, precisi e concordanti (art. 2729).
5. Le prove legali: la confessione. La confessione è la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (art. 2730). Dunque la confessione ha per oggetto fatti, ma poiché tali fatti sono costitutivi, modificativi o estintivi di diritti, essa è efficace come mezzo di prova soltanto se la persona del confitente è capace di disporre dei diritti ai quali i fatti confessati si riferiscono. Nei limiti in cui il rappresentante ha il potere di disporre, la sua confessione vincola il rappresentato. La confessione si distingue dalla ricognizione di debito proprio perché la prima è diretta a provare un fatto, mentre il riconoscimento ha per oggetto il debito, ma non costituendo, di per sé, prova del fatto che ne sta alla base, determina soltanto la presunzione che esista il rapporto fondamentale (art. 1988). La confessione giudiziale, cioè resa in giudizio da una parte, è prova legale, infatti forma piena prova contro colui che la ha fatta, se non verte su fatti relativi a diritti indisponibili (art. 2733). La confessione stragiudiziale, fatta cioè fuori dal giudizio, ha lo stesso valore probatorio di quella giudiziale se è fatta alla controparte o al suo rappresentante. Sorge tuttavia il problema di provare l’esistenza di una confessione stragiudiziale. Poiché valgono in proposito i limiti fissati per la prova testimoniale e per presunzioni, lo strumento principale di cui potrà servirsi l’interessato sarà un documento scritto. Non sempre la confessione è prova legale, cioè vincolante per il giudice. Ad es. la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo è prova liberamente valutabile. Parimenti libero è il convincimento del giudice se la confessione è
§ 6. Segue: il giuramento
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fatta solo da alcuni dei litisconsorti necessari, cioè da alcuni degli attori o dei convenuti in giudizio, nei confronti dei quali produrrà effetto il giudicato. Se la confessione contiene elementi contrari ma anche favorevoli al confitente ed è contestata dall’altra parte per tali circostanze aggiunte, il giudice è ancora una volta libero di apprezzarne l’efficacia probatoria (ma se invece non è contestata essa fa piena prova nella sua integrità). L’effetto probatorio della confessione, quando essa costituisce prova legale, è massimo (probatio probatissima) considerando che difficilmente una parte in causa ammette fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra. Tale effetto si produce indipendentemente dalla consapevolezza che il confitente può avere circa le conseguenze delle sue dichiarazioni. Nella confessione, perciò, la volontà non è rivolta a produrre effetti giuridici, ma solo ad ammettere l’esistenza di un fatto. In quanto diretta all’accertamento di un fatto, la confessione non può essere revocata semplicemente manifestando una volontà contraria, se il dichiarante non prova che il fatto confessato non è esistito. La revoca è ammessa, quindi, per errore di fatto. Se tuttavia il confitente prova che la volontà non era spontanea, è ammessa la revoca per violenza.
6. Segue: il giuramento. Il giuramento decisorio è quello che una parte deferisce all’altra su un fatto essenziale per la controversia, tale da farne dipendere la decisione totale o parziale della causa. Il fatto, sul quale una parte deferisce all’altra il giuramento, deve essere proprio di colui che viene invitato a giurare (ad es. se il convenuto risponde di non avere ricevuto in deposito una cosa da custodire, o di avere pagato un debito, l’attore potrà chiedergli di giurare sulla verità di tali fatti) ma può consistere anche nella conoscenza diretta di un fatto altrui. Se il fatto in questione è comune ad entrambe le parti il giuramento può essere riferito, cioè la parte invitata a giurare può rivolgere la stessa richiesta anche all’altra, in merito allo stesso fatto. Il giuramento suppletorio è deferito dal giudice d’ufficio a una delle parti, al fine di decidere la causa. È così chiamato perché supplisce ad una parziale mancanza di prova della domanda o delle eccezioni (non sono pienamente provate ma neppure del tutto sfornite di prova) o supplisce alla
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Cap. 7. Le prove
impossibilità di accertare altrimenti il valore della cosa domandata (c.d. giuramento estimatorio). La parte che deferisce il giuramento all’altra deve avere la capacità di disporre del diritto controverso e deve chiedere al giudice l’ammissione di tale prova predisponendo le domande che il giudice farà alla controparte. Il giudice potrà ammettere il giuramento solo per la decisione di cause relative a diritti disponibili delle parti e valuterà se, in concreto, il fatto su cui verte il giuramento è realmente decisivo per la soluzione della controversia. La parte che è chiamata a giurare assume piena responsabilità delle sue dichiarazioni di fronte alla società e all’ordinamento giuridico sia sul piano civile che sul piano penale. Infatti il falso giuramento è un reato e le conseguenze dannose che ne derivano vanno risarcite in base ai principi del diritto civile. La legge attribuisce grande importanza a questa prova, dichiarando che l’altra parte non è ammessa a provare il contrario (di ciò che è stato oggetto di giuramento), né essa può chiedere la revocazione della sentenza, anche se il giuramento viene poi dichiarato falso. Tale prova determina quindi la decisione della causa, vincolando il giudice (v. supra, Cap. 5, par. 4). Secondo una regola simmetrica a quella della confessione, se il giuramento è prestato da alcuni, ma non da tutti i litisconsorti, può essere liberamente apprezzato dal giudice e quindi non costituisce prova legale (art. 27383). Il giuramento non può avere per oggetto: il compimento di un fatto illecito, l’esistenza di un contratto che richiede forma scritta ad substantiam, il mancato compimento di un fatto attestato in un atto pubblico (occorre, in proposito, azionare la querela di falso).
§ 2. La vita, l’integrità fisica, la salute
PARTE QUARTA
I SOGGETTI
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Cap. 8. I diritti della persona
§ 2. La vita, l’integrità fisica, la salute
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CAPITOLO 8
I DIRITTI DELLA PERSONA
SOMMARIO: 1. Le fonti della tutela. – 2. La vita, l’integrità fisica, la salute. – 3. La libertà e la riservatezza. – 4. L’integrità morale.
1. Le fonti della tutela. Quando nasce un nuovo essere umano la legge riconosce un nuovo soggetto di diritto, purché il bambino nasca vivo (art. 1). La conseguenza di tale riconoscimento è che il nuovo nato può acquistare situazioni giuridiche soggettive e, in primo luogo, i c.d. diritti della personalità, oltre ad altri diritti personali e patrimoniali in genere. La tutela giuridica della persona è garantita da diverse fonti: la Costituzione, il codice civile, la legge sul diritto d’autore, il codice penale e altre leggi. Come abbiamo accennato nel Cap. 2, l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha introdotto una nuova fonte normativa, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) le cui norme hanno lo stesso valore dei Trattati dell’Unione. I diritti della persona (o della personalità) sono diritti assoluti, di natura non patrimoniale, indisponibili, (quindi inalienabili, irrinunciabili, intrasmissibili tra vivi e mortis causa) e sono infine imprescrittibili. La Costituzione tutela i diritti inviolabili dell’uomo, non solo se considerato come singolo, ma anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). La tutela costituzionale, ricordiamo, è garanzia anche contro lo stesso legislatore, che non potrebbe prevedere limitazioni o restrizioni lesive di tali diritti. Infatti, nel momento in cui la Costituzione “riconosce” i diritti inviolabili dell’uomo essa dà atto che tali valori preesistono ad essa, sicché, si dice, non potrebbero essere disconosciuti neppure con una riforma costituzionale e un referendum confermativo. È forse la rivincita del diritto naturale sul diritto positivo. Si aggiunga la considerazione che tali
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Cap. 8. I diritti della persona
valori sono riconosciuti e protetti anche formalmente a livello di Trattati dell’Unione europea, come presto si vedrà. Lasciando da parte i diritti pubblici della persona, ci occuperemo dei c.d. diritti civili, propri del campo privatistico. Si discute in dottrina se essi costituiscano tanti distinti diritti della persona o specificazioni di un unico diritto della personalità, ma, al di là di tale disputa, ci interessa piuttosto volgere l’attenzione sui beni protetti e sui mezzi di tutela.
2. La vita, l’integrità fisica, la salute. Si tratta di diritti distinti, che non vanno confusi fra loro. Ciò che li accomuna (ma il discorso si potrebbe estendere, a questo punto, anche all’onore, alla libertà personale, ecc.) sta nel sistema di tutela usato dalla legge. L’importanza di questi beni, nel quadro normativo, è tale che il legislatore ha provveduto ad istituire una protezione di carattere generale accordata, principalmente, vietando di offendere la persona umana. Come tutti sanno, esistono anche numerose norme del codice penale volte a punire i delitti contro la persona. La sanzione penale, di per sé, mira innanzitutto a soddisfare il pubblico interesse (ad impedire l’attuazione di comportamenti contrari al bene della comunità), ma esiste un importante collegamento tra la legge penale e la legge civile. Infatti il comportamento previsto come reato è certo contrario al diritto (contra jus). Ne consegue che se tale comportamento ha causato un danno al titolare del bene protetto, trova applicazione una norma fondamentale del Codice civile che prevede l’obbligo del risarcimento del danno a carico di colui che ha provocato, con colpa o dolo, un danno ingiusto (art. 2043). Possiamo dire, perciò, che il diritto civile, in molti casi, accorda la sua tutela prendendo atto della esistenza di beni e di interessi già protetti altrove; in primo luogo a livello costituzionale, poi in tutti quei casi in cui, anche al di fuori del diritto civile, l’ordinamento mostra di proteggere un bene della vita. Questa selezione di interessi tutelati, anche non sotto forma di diritto soggettivo, sarà fondamentale per valutare l’ingiustizia del danno eventualmente arrecato. C’è però un altro aspetto di grande importanza per il diritto civile: quando la violazione del bene protetto deriva da un fatto previsto come reato il danno da risarcire non è soltanto quello patrimoniale, ma eccezionalmente anche il danno non patrimoniale (o danno morale), che consiste nella soffe-
§ 2. La vita, l’integrità fisica, la salute
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renza conseguente all’offesa subita (art. 2059 e art. 1852 c.p.) e ciò vale anche se l’offesa non riguarda i diritti inviolabili di rango costituzionale. La protezione giuridica della vita umana incomincia dunque … da lontano. Il codice penale prevede numerosi reati (omicidio, attuato o tentato, infanticidio, istigazione al suicidio, ecc., cfr. art. 575 ss. c.p.), mentre il codice civile sembra tacere, in proposito. Solo indirettamente la vita di una persona che si trova in stato di bisogno è tutelata attraverso l’istituto civile del diritto agli alimenti (art. 433), che è personale, intrasmissibile e irrinunciabile (ne parleremo più avanti). Nella Carta di Nizza si tutela solennemente il diritto alla dignità della persona, che si riflette nel diritto alla vita (per ciò che riguarda le legislazioni degli stati membri è bandita la pena di morte, la tortura, così come altre pene inumane e degradanti, la schiavitù) imponendo il rispetto dell’integrità fisica e psichica della persona, in particolare nella medicina e nella biologia è prescritta l’informazione del soggetto interessato ed è richiesto il suo consenso libero (sono altresì vietate le pratiche eugenetiche aventi come scopo la selezione delle persone e la clonazione riproduttiva degli esseri umani). Al di là di quella che è la tutela penalistica (ad es. reato di lesioni personali, art. 582 c.p.), il bene dell’integrità fisica, gode della attenzione del legislatore civile, il quale cerca di proteggere la persona fisica … da sé stessa. Infatti l’art. 5 stabilisce che gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica (il divieto rende nullo qualsiasi patto, e inefficace qualunque impegno che produca tale menomazione). Le leggi che consentono trapianti di organi tra viventi sono dunque del tutto eccezionali e consentono, comunque, solo la donazione spontanea; non potrebbe mai sorgere un obbligo giuridicamente coercibile di effettuare il trapianto promesso. La norma citata ricorda inoltre che, al di fuori di tali ipotesi (quando non si provochi una diminuzione della integrità fisica), i negozi di disposizione del proprio corpo (ivi compresi i patti concernenti il bene della salute o della vita) possono ugualmente essere illeciti e quindi nulli se l’atto è contrario: alla legge (ad es. non ci si può obbligare a subire esperimenti scientifici che non siano autorizzati); all’ordine pubblico (ad es. non si può rinunciare alla libertà di scelta del trattamento medico); al buon costume (ad es. sono considerati immorali gli atti di disposizione che costituiscono violazione della dignità dell’uomo). Se invece l’atto non urta né l’una né l’altra previsione la disposizione può essere valida (ad es. il contratto di baliatico, tra la donna che si impegna ad allattare un bambino e i genitori di questo, o l’impegno di cedere le proprie chiome ad un acconciatore per fare ... parrucche).
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Cap. 8. I diritti della persona
L’offesa rivolta contro l’integrità fisica, secondo l’interpretazione tradizionale dei principi dell’illecito civile di qualche decennio addietro, dava diritto al risarcimento dei soli danni patrimoniali conseguenti alla lesione, salvo ammettere eccezionalmente il risarcimento di quelli non patrimoniali (morali) se tale fatto costituiva reato. La soluzione era così poco soddisfacente che si è avviato un movimento, dottrinale e giurisprudenziale, volto ad attribuire sempre maggiore rilevanza ai danni della zona intermedia, fra il danno morale e quello patrimoniale. In tal modo si è arrivati (allargando, spesso, la nozione di danno patrimoniale) ad ammettere la risarcibilità del danno alla vita di relazione (minore capacità di intrattenere rapporti sociali, e di affermarsi), del danno estetico (derivante dal mutamento di aspetto causato dalla lesione). Dopo molte incertezze la giurisprudenza ha accolto, infine, già da tempo, un orientamento favorevole alla risarcibilità del danno biologico. La lesione investe direttamente il bene della integrità psico-fisica e viene individuata nella menomazione fisica o psichica, subita dal soggetto per colpa altrui, che peggiora il suo modo di vivere, a prescindere dalle conseguenze patrimoniali negative che ne derivano (quindi dal minor reddito che potrà produrre, dalle spese per le cure, ecc.). Come vedremo più avanti, si è posto anche il problema del danno attinente non solo alla ridotta integrità psicofisica (ad es. diminuzione della mobilità di un arto o riduzione della vista, ecc.) ma anche alla riduzione della qualità della vita (perdita della possibilità di svolgere una attività sportiva o artistica non lucrativa, ecc.); ha avuto una certa fortuna, in proposito, la denominazione di “danno esistenziale”; è chiaro che, se si ammette, come talora è successo, tale figura di illecito, il risarcimento è destinato ad aggiungersi al risarcimento del danno patrimoniale subito dal soggetto (v. infra, Cap. 12, par. 4). Il diritto alla salute è tutelato dalla Costituzione (art. 32 Cost.) come fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come interesse della collettività. Sotto questo aspetto è nota l’esistenza di un apparato di norme pubblicistiche a protezione della sanità e a tutela dell’ambiente. Particolarmente interessante è il diritto alla autodeterminazione, cioè la libertà di decidere se e come affrontare una cura medica o una operazione chirurgica. Il fondamento di tale diritto viene trovato nel principio di tutela della libertà personale (art. 13 Cost.), posto in relazione con il bene della integrità fisica. La stessa Costituzione (art. 322 Cost.) stabilisce che nessu-
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no può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, nel rispetto della persona umana. Dopo molte discussioni in ambito sociale, medico, politico, ben note anche per la risonanza mediatica di alcuni casi emblematici, è stata emanata la l. 12 dicembre 2017, n. 219, che contiene le “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Nella prima parte, dopo un richiamo ai principi della nostra Costituzione (artt. 2, 13, 32) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, viene disciplinato il diritto all’informazione della persona circa le proprie condizioni di salute e le cure che vengono proposte. Il trattamento sanitario (quando non sia obbligatorio nell’interesse pubblico, al fine di non cagionare un danno ad altri, come le vaccinazioni, ecc.) può essere svolto ed è lecito solo se ha ottenuto il consenso dell’interessato. Si parla di consenso informato perché il medico deve spiegare il tipo di intervento e il rischio che ne consegue. Si noti che la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo di informazione era riconosciuta e sussisteva già prima di questa legge, indipendentemente dalla corretta esecuzione del trattamento, qualora il paziente non fosse stato messo in grado di assentire al trattamento con una volontà consapevole delle sue implicazioni. Perciò comunque rispondeva di tale condotta omissiva il sanitario ove fosse peggiorata la salute e l’integrità fisica del paziente anche in seguito ad un trattamento corretto (Cass. 14 marzo 2006, n. 5444). Una importante pronunzia della Corte di Cassazione (n. 21748 del 2007) riconosceva il diritto di scelta del malato affinché la malattia avesse il suo decorso naturale ammettendo che egli potesse rifiutare le terapie medico-chirurgiche.
La legge ribadisce espressamente il principio secondo cui una persona maggiorenne, capace di intendere e di volere, ha diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario e di regola il consenso informato già espresso può essere sempre revocato. Tuttavia, in caso di emergenza, deve essere sempre prestata l’assistenza sanitaria indispensabile dal medico, rispettando, se possibile, la volontà del paziente. Sono considerati trattamenti sanitari anche la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale. Ove il paziente rifiuti un trattamento necessario alla sua sopravvivenza il medico dovrà prospettare al paziente (e, se questi acconsente, ai suoi familiari), le conseguenze e le possibili alternative, promuovendo ogni azione a sostegno del paziente medesimo. L’accettazione, la revoca e il rifiuto, tanto di ricevere le informazioni, quanto di sottoporsi al trattamento, sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
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Cap. 8. I diritti della persona
La legge regola alcuni aspetti: a) La capacità. La scelta del malato deve essere sempre consapevole: ciò richiede, prima di tutto, la capacità di intendere e di volere e quindi l’attitudine a dare un valido consenso; la legge parla di informazioni fornite “in modo consono alle capacità del minore o dell’incapace”. Tuttavia, nei casi di incapacità legale, il consenso o il rifiuto, volti in ogni caso alla tutela della salute psicofisica e alla vita dell’incapace e nel rispetto della sua dignità, viene espresso, per quanto concerne il minore, dai genitori o dal tutore, tenendo conto della volontà del minore in rapporto alla sua età e maturità; per l’interdetto viene espresso dal tutore, mentre l’inabilitato di regola decide egli stesso ovvero l’amministratore di sostegno, qualora sia stato nominato, o entrambi, a seconda del grado di capacità d’intendere e di volere dell’inabilitato. Se il medico ritiene necessarie le cure rifiutate dal rappresentante legale o dall’amministratore di sostegno deciderà il giudice tutelare. b) La forma. Il consenso viene acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente (scrittura, videoregistrazione, dispositivi speciali che consentono di comunicare) poi documentato in ogni caso in forma scritta e inserito nella cartella clinica e nel fascicolo elettronico. Così pure avverrà per la modifica o la revoca, sempre consentita, ancorché comporti l’interruzione del trattamento. c) Gli effetti. Il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente di rifiutare o rinunciare e in conseguenza di ciò rimane esente da responsabilità civile o penale. d) Terapia del dolore. Anche in caso di rifiuto del trattamento il medico deve adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente con mezzi appropriati e cure palliative. e) Divieto di “accanimento” terapeutico. Ove la prognosi a breve termine sia infausta il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure.
Le disposizioni anticipate di trattamento (DAT): il diritto all’autodeterminazione consente di esprimere anticipatamente, dopo adeguata informazione, il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche o trattamenti sanitari in previsione di una eventuale, futura incapacità di autodeterminarsi, nominando un fiduciario destinato a rappresentare il paziente nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Normalmente le DAT sono valide se contenute in un atto pubblico, scrittura privata autenticata o scrittura privata consegnata personalmente all’Ufficio dello stato civile o alla Struttura sanitaria, ma se le condizioni del paziente non lo consentono possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi per disabili, atti a comunicare. Sono sempre revocabili o modificabili con le stesse forme. Le DAT sono vincolanti per il medico, ma se appaiono palesemente incongrue, non corrispondenti alla condizione clinica del paziente o se esistono terapie nuove, non previste e più efficaci, possono essere disattese dal medico, d’accordo con il fiduciario.
§ 3. La libertà e la riservatezza
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3. La libertà e la riservatezza. Nella prospettiva del legislatore il bene della libertà permea ogni momento della vita e ogni espressione della attività dell’uomo con riflessi pubblicistici ma anche civilistici. Oltre alla libertà personale, garantita contro detenzione, ispezioni, perquisizioni (art. 13 Cost.), va ricordato che il domicilio (art. 14) e la corrispondenza (art. 15) sono oggetto di analoghe garanzie costituzionali. La Costituzione protegge parimenti la libertà di circolazione e di espatrio (art. 16), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di fede religiosa e di culto (art. 19). Di particolare importanza è la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) strettamente collegata alla libertà di stampa. Si intuisce come sia necessario contemperare la tutela di tali beni con la protezione dell’onore, della dignità e della riservatezza della persona. L’armonizzazione tra queste due esigenze contrapposte spesso può risultare assai difficile. Libera è anche l’iniziativa economica privata, purché non si svolga in contrasto con la libertà e la dignità umana o con l’utilità sociale (art. 41 Cost.). Un aspetto della libertà è anche quello che concerne la vita privata della persona e quindi la tutela dell’immagine e della riservatezza. L’immagine non può essere pubblicata senza consenso della persona ritratta, salvo il caso di personaggio o avvenimento di pubblico interesse, ma anche in tal caso l’esposizione non deve pregiudicare l’onore, la reputazione o il decoro del soggetto stesso (art. 10 c.c. e art. 97 dir. aut.). Il bene della riservatezza è stato inteso tradizionalmente come qualcosa di diverso dai diritti già citati (e protetti espressamente dalla legge: immagine, domicilio, corrispondenza) e precisamente come il diritto ad essere lasciati soli, ovvero il diritto che gli altri non si occupino di noi e della nostra vita privata. In passato non era affatto certa l’esistenza, nel nostro ordinamento, di un diritto alla riservatezza. Oggi vi è una serie di norme di varia provenienza che risolvono solo parzialmente la questione disciplinando la raccolta dei dati e delle informazioni riguardanti la persona (ad es., non è lecito instaurare telecamere sui luoghi di lavoro per controllare l’attività individuale del lavoratore); è vietato indagare sulle opinioni dei dipendenti, è illecito, anche penalmente, svolgere intercettazioni e riprese nelle dimore private, diffondere informazioni che riguardano la vita intima della persona (aborto, mutamento di sesso).
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Cap. 8. I diritti della persona
Recentemente la legge sulla privacy (l. n. 675 del 1996, oggi trasfusa nel “Codice in materia di protezione dei dati personali”, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), ha regolato la raccolta, la elaborazione e la diffusione dei dati di carattere personale (di persone o di enti) qualificando come dati sensibili le notizie che attengono più direttamente alla intimità della persona sia sotto l’aspetto fisico (stato di salute, vita sessuale) che sotto l’aspetto culturale o ideologico (idee politiche o filosofiche, convinzioni religiose, adesione ad associazioni, partiti, sindacati). Il regime attuale consente il trattamento dei dati normali previo consenso scritto dell’interessato mentre per i dati sensibili occorre anche l’autorizzazione del Garante, cioè dell’organo collegiale che controlla la applicazione della legge. Come sanzione è previsto il risarcimento del danno derivato dal trattamento indebito dei dati. Sono previste, ovviamente, alcune eccezioni, giustificate dallo svolgimento di attività di pubblico interesse (organismi sanitari, attività giudiziaria, di polizia, di difesa) mentre non è soggetta alla legge la raccolta di dati fatta da persone fisiche ai soli fini personali, purché non destinata alla diffusione. Oltre a quanto si è detto a proposito della vita e della integrità della persona, la Carta dei diritti dell’uomo proclama il diritto alla libertà e alla sicurezza, il rispetto della vita privata e familiare, del domicilio, delle comunicazioni. Il diritto di libertà si estende al pensiero, alla coscienza, alla religione, alla espressione e alla informazione, anche attraverso il pluralismo dei media, oltre alla libertà di riunione e di associazione è tutelata la libertà professionale, di lavoro negli Stati membri, di impresa, di circolazione e soggiorno negli Stati dell’Unione. Viene sancita l’uguaglianza delle persone e la parità tra uomini e donne, vietando qualsiasi discriminazione dovuta a sesso, razza, colore, origine etnica, lingua, religione, opinioni, tendenze sessuali, cittadinanza. Importante il riconoscimento del diritto di proprietà dei beni acquistati legalmente, che si estende al diritto di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Va segnalato altresì il diritto al pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita del bene causata da un esproprio per pubblica utilità. Il tema della solidarietà si sviluppa, tra l’altro, nei diritti dei lavoratori all’informazione, alla tutela sindacale, alle azioni collettive. Quello della giustizia tocca il diritto alla tutela giurisdizionale e il diritto alla difesa. Come si vede, i diritti tutelati dalla Carta – nei limiti in cui le norme sono suscettibili di applicazione immediata e non restano sul piano della me-
§ 4. L’integrità morale
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ra enunciazione di principio – per molti aspetti coincidono con quelli tutelati dalla Costituzione, altre volte li integrano e sviluppano temi più moderni mettendo in luce specifiche tutele alle quali in via di interpretazione si sarebbe forse potuto arrivare anche movendo dalla Carta costituzionale. Sotto questo profilo l’interpretazione delle norme costituzionali aveva già dato buoni frutti sviluppando via via principi di tutela non espressamente definiti. La Carta europea ha il merito di chiarire ulteriormente il quadro creando un corpus di principi condivisi e riconosciuti dagli Stati membri.
4. L’integrità morale. Il codice penale sanziona i reati di ingiuria e diffamazione (artt. 594 e 595 c.p.) tutelando l’onore della persona. L’esistenza di siffatte disposizioni, dettate nell’interesse pubblico, è sufficiente per affermare che è illecita, anche dal punto di vista del diritto civile, la violazione dell’onore e del decoro della persona, perpetrata mediante l’uso indebito del nome altrui (o dello pseudonimo pubblicamente diffuso), dell’immagine altrui, o il travisamento della stessa identità personale (che, indipendentemente da una questione di onore o decoro della persona, non può essere rappresentata al pubblico falsando le caratteristiche personali di un altro soggetto, anche di natura morale, ideologica, culturale). In questi casi è data all’interessato innanzitutto una azione inibitoria (con cui si chiede al giudice di ordinare la cessazione dell’abuso) e poi una azione di risarcimento del danno, alla quale, secondo i casi può aggiungersi la richiesta di una pubblica rettifica o smentita per quanto concerne affermazioni ingiuriose o infamanti, con lo scopo di ripristinare, per quanto è possibile, la situazione precedente la violazione (restitutio in integrum o riparazione in forma specifica).
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Cap. 9. La capacità
CAPITOLO 9
LA CAPACITÀ
SOMMARIO: 1. La capacità giuridica. – 2. La capacità di agire. – 3. L’incapacità naturale totale e parziale. – 4. L’incapacità legale come protezione del soggetto e l’azione di annullamento. – 5. Le situazioni di incapacità legale: la minore età. – 6. Segue: l’interdizione giudiziale. – 7. Segue: l’inabilitazione e la emancipazione. – 8. La revoca dei provvedimenti di protezione. – 9. Un nuovo istituto: l’amministrazione di sostegno. – 10. L’incapacità legale come pena accessoria.
1. La capacità giuridica. La capacità giuridica o capacità di diritto è l’idoneità del soggetto a divenire titolare di diritti e di obblighi, o, più in generale, di situazioni giuridiche soggettive. Nel diritto romano gli schiavi non acquistavano la capacità di diritto, ma erano oggetto di diritti. Oggi, ogni persona umana, purché nasca viva, acquista la capacità giuridica in ordine ad una serie indeterminata di situazioni (art. 1), chiamata capacità giuridica generale (o solo capacità giuridica). Ferma restando la capacità giuridica generale del soggetto, la legge, talora, per particolari ragioni, vieta di acquistare determinate situazioni giuridiche a chi non goda di particolari requisiti. Si parla allora di incapacità giuridica speciale. Essa determina la nullità dell’acquisto. Ad es., l’età può influire sulla idoneità ad assumere pubblici uffici, si pensi all’elettorato passivo, cioè alla capacità di essere eletto negli organi legislativi. Nel diritto privato la capacità necessaria per contrarre matrimonio è stabilita al diciottesimo anno (per gravi e fondati motivi può essere autorizzato anche il matrimonio del sedicenne). Se uno si sposasse a tredici anni, quel matrimonio sarebbe improduttivo di effetti, perché il soggetto non è idoneo ad assumere lo stato di coniuge. Un altro esempio di incapacità giuridica speciale si può ricavare dalla disciplina del testamento per atto (pubblico) di notaio. La legge vuole evitare per ovvie
§ 2. La capacità di agire
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ragioni che il pubblico ufficiale il quale ha steso l’atto (ricevendo la dichiarazione del testatore), ma anche i testimoni e l’interprete che sono presenti, possano ricevere, direttamente o per interposta persona, un lascito grazie a quel testamento. Tali soggetti sono pertanto incapaci di ricevere per quanto concerne le disposizioni contenute in quell’atto, ma conservano la capacità a succedere in altre vicende successorie. Per ragioni di interesse pubblico la legge (art. 1471) esclude i pubblici amministratori (ad es., il sindaco, gli assessori comunali, ecc.) dalla possibilità di acquistare i beni da loro stessi amministrati.
La capacità di succedere mortis causa è un aspetto della capacità giuridica. Nella vocazione legittima può essere chiamato a succedere chi, al tempo della morte del de cuius, era nato, ma anche colui che era concepito, anche se nasce dopo la morte del de cuius. Ai fini della successione si presume concepito colui che nasce entro 300 giorni dalla morte del de cuius, salva prova contraria: si tratta, perciò, di una presunzione relativa di concepimento, utile per definire la capacità di succedere di una persona. Nella vocazione testamentaria può essere istituito erede o legatario anche un non concepito, purché figlio di una determinata persona vivente al tempo dell’apertura della successione (art. 462). Vale sempre la condizione che il soggetto in questione nasca vivo; per il concepito o il concepturus si conserva l’efficacia della chiamata finché non si avveri tale condizione.
2. La capacità di agire. Se vogliamo passare da una considerazione statica ad una visione dinamica delle vicende giuridiche bisogna affrontare il concetto di capacità di agire, intesa come idoneità del soggetto a determinare l’acquisto o la modifica di una situazione giuridica mediante un atto di volontà che si ripercuote sulla propria sfera giuridica. Mentre talune situazioni giuridiche vengono attribuite direttamente dalla legge alla persona, a prescindere dalla sua volontà (come si è ora visto i c.d. diritti personalissimi si acquistano con la nascita, senza bisogno di fare alcunché e non vi si può neppure rinunziare), vi sono molte altre situazioni giuridiche, attive o passive, che si possono acquistare o cedere soltanto ponendo in essere degli atti giuridici. Ad es., con l’atto di matrimonio si acquista lo stato di coniuge, se si hanno già diciotto anni, con l’accettazione si acquista l’eredità, se non si è incapaci di ricevere, col contratto si assumono obblighi e diritti, se ciò non è precluso alla persona del contraente. In
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Cap. 9. La capacità
sostanza, per produrre degli effetti giuridici occorre essenzialmente poter esprimere una volontà libera e consapevole (capacità di agire), nel presupposto, tuttavia, che alla base vi sia l’idoneità del soggetto ad acquistare (capacità giuridica). La capacità di agire non si acquista, ovviamente, alla nascita, ma soltanto quando la persona è in grado di capire il significato del suo comportamento e di porre in essere atti dettati da una volontà libera e consapevole. Occorre maturità e intelligenza per dare una ponderata valutazione dei vantaggi e dei rischi del proprio agire. Colui che nasce vivo, come abbiamo già detto, ha la capacità giuridica (ad es. è capace di succedere, se vi è una chiamata a suo favore) ma non ha la capacità di agire fino alla maggiore età. Infatti può accettare personalmente l’eredità solo chi è considerato dalla legge abbastanza maturo per valutare il significato e la convenienza di tale atto (vi potrebbe essere, infatti, anche una damnosa hereditas in cui il passivo, cioè l’insieme dei debiti, supera l’attivo). Per agire validamente, cioè per compiere un atto giuridico in grado di produrre effetti stabili e duraturi sulla sfera del soggetto agente, occorre dunque, in primo luogo, che sussista la capacità di intendere e di volere. Questa espressione si riferisce complessivamente ai requisiti psicofisici che pongono il soggetto in grado di scegliere e di decidere in modo responsabile, perciò si chiama anche capacità naturale di agire. Occorrerebbe accertare singolarmente in capo ad ognuno l’esistenza di tale capacità, ma ciò risulta chiaramente impossibile. La legge pertanto fissa una età, quella di diciotto anni, al compimento della quale si intende che il soggetto sia capace di agire in tutti gli atti per i quali non è richiesta una età diversa. Col compimento della maggiore età si acquista, pertanto, una capacità legale di agire che potremmo definire generale. Tuttavia chi ha compiuto i quindici anni può impegnarsi validamente con un contratto di lavoro subordinato. Egli acquista pertanto a tale età una capacità speciale di agire in materia di lavoro. Il compimento della maggiore età non sempre corrisponde, tuttavia, all’acquisto effettivo della maturità e della piena responsabilità del soggetto. La mancanza della capacità d’intendere e di volere in una persona adulta può essere la conseguenza di una malattia, della assenza di una educazione o di una maturazione adeguata, l’effetto di farmaci, di droghe o di un turbamento psichico, che determinano (per un periodo più o meno lungo) tale stato.
§ 3. L’incapacità naturale totale e parziale
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La valutazione in concreto della incapacità d’intendere e di volere di un soggetto avviene sempre con riferimento al momento in cui egli agisce, ma se i presupposti che inducono tale incapacità fanno presumere una lunga durata (si pensi ad una malattia di mente o ad uno stato di etilismo cronico, di tossicodipendenza acuta, ecc.) vi è anche la possibilità che, dopo attenta valutazione, il giudice pronunci una sentenza che toglie al soggetto, maggiore di età, la capacità di agire per ogni specie di atti (interdizione) o per alcuni atti soltanto (inabilitazione). Tali situazioni di incapacità dichiarata (dal giudice nell’interesse del soggetto stesso, per sua protezione), durano fino al provvedimento di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione, pronunciato in seguito al recupero delle facoltà mentali, oppure fino alla morte dell’incapace.
3. L’incapacità naturale totale e parziale. L’incapacità sancita formalmente dalla legge per il minore, l’interdetto o l’inabilitato prende il nome di incapacità legale (di agire). L’incapacità di intendere e di volere prende invece il nome di incapacità naturale. Essa va accertata in concreto, di volta in volta, quando nel compimento di un atto può essere rilevante tale situazione. È chiaro, tuttavia, che se un soggetto minore, interdetto o inabilitato compie un negozio (conclude un contratto, si sposa o fa testamento e così via), questo atto è già invalido a causa della incapacità legale e quindi la effettiva capacità di intendere o di volere di quella persona diviene irrilevante (ad es. l’interdetto per un vizio grave di mente potrebbe essere in un momento di lucidità, o il minore potrebbe avere un particolare fiuto commerciale, ma l’atto resta comunque invalido per incapacità legale, vedremo poi con quali conseguenze). L’incapacità di intendere e di volere può assumere due diversi gradi di intensità. Basta pensare, da un lato, al pazzo furioso, che non è neppure in grado di intendere il significato comune dei suoi atti, e dall’altro lato al soggetto in preda ad una crisi di depressione o di euforia, quale può essere provocata da psicofarmaci. In entrambi i casi si parla di incapacità di intendere e di volere, ma mentre nella prima ipotesi non si può neppure dire che siamo di fronte ad un agire umano, perché manca del tutto la consapevolezza, nel secondo caso dobbiamo soltanto rilevare un turbamento nel momento di prendere una decisione. La situazione anormale influisce sui
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Cap. 9. La capacità
criteri di giudizio del soggetto, sulla sua scala dei valori – come si dice – ma non gli toglie necessariamente la comprensione del significato sociale degli atti compiuti. Un discorso analogo si può ripetere quando si abbia riguardo alla maturità del soggetto: vi è una soglia, prima della quale non ci si rende conto affatto del valore impegnativo del proprio comportamento (il bambino gioca) e oltre la quale ci si rende conto di tale significato, anche se non si è in grado di considerare tutte le opportunità e i rischi di una determinata scelta (il ragazzo è ingenuo o immaturo). Se manca in modo assoluto ogni capacità di intendere e di volere non si può neppure parlare di atti umani, per un difetto totale di consapevolezza. Al di sotto di tale livello di capacità non si ha dunque né un atto lecito (negoziale o non negoziale) perché manca una reale espressione di volontà (la dichiarazione non produrrà alcun effetto giuridico: come atto giuridico è inesistente) né un atto illecito, perché non vi può essere un comportamento responsabile del soggetto che versa in tale situazione (pertanto se questi cagiona un danno non si parlerà di atto illecito, ma soltanto di fatto dannoso). Come si è visto, si parla di incapacità naturale anche nel senso di una parziale consapevolezza o libertà nel decidere, quando il soggetto non dispone di una normale scala dei valori perché la sua volontà è turbata. In tali casi esiste dunque un atto giuridico, ma tale atto nasce male a causa delle condizioni anormali in cui il soggetto si trova. Sicché se in tale situazione una persona compie un atto giuridico (lecito): ad es. si obbliga ad eseguire una prestazione o cede un diritto, e poi comprende che tale atto è contrario al suo interesse, può esercitare l’azione di annullamento per eliminare gli effetti giuridici prodotti e ritornare alla situazione preesistente (se ciò è ancora possibile). Tutto ciò si esprime dicendo che l’atto compiuto dall’incapace naturale è efficace ma invalido e, su richiesta dell’incapace, è annullabile, mediante una sentenza, alle seguenti condizioni: – per alcuni atti di natura personale, come il testamento o il matrimonio, è sufficiente dimostrare la sola incapacità naturale nel momento in cui l’atto è stato compiuto; – per gli atti patrimoniali unilaterali (ad es. remissione del debito, promessa al pubblico) occorre dimostrare, oltre all’incapacità, anche il fatto di aver subito un grave pregiudizio (art. 4281); – se invece l’incapace conclude un contratto, la legge gli consente di
§ 4. L’incapacità legale come protezione del soggetto e l’azione di annullamento
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chiedere l’annullamento soltanto se l’altro contraente si era accorto o avrebbe dovuto accorgersi del suo stato di incapacità, cioè se la contro parte era in mala fede (art. 4282). In caso contrario non è consentito l’annullamento perché la legge ravvisa nella buona fede dell’altro contraente una ragione di tutela del suo interesse (a mantenere fermo il contratto e a pretenderne l’esecuzione). Incontriamo qui l’importante principio dell’affidamento: se l’altra parte è in buona fede, cioè confida nella validità del negozio, ignorandone i vizi, la legge non consente l’annullamento. Questo perché, nella scelta se proteggere l’incapace naturale o l’altro contraente in buona fede, prevale la tutela di quest’ultimo.
4. L’incapacità legale come protezione del soggetto e l’azione di annullamento. Esaminiamo innanzitutto un primo ordine di situazioni, in cui l’incapacità legale ha il significato di proteggere il soggetto … da sé stesso, per evitare che gli atti negoziali da lui compiuti gli siano pregiudizievoli. Tale incapacità è determinata dalla minore età o da una sentenza di interdizione o di inabilitazione ovvero dalla nomina di un amministratore di sostegno. La protezione opera nel seguente modo: gli atti compiuti personalmente dall’incapace producono originariamente i loro effetti (l’incapace vende, compra, si obbliga), ma in questi casi (senza che sia necessario dimostrare di avere subito un pregiudizio) l’incapace stesso (se divenuto capace) o il suo rappresentante legale (genitore, tutore) o l’amministratore di sostegno possono ottenere una sentenza di annullamento che elimina, in modo retroattivo (ex tunc) gli atti e i loro effetti giuridici, obbligando le parti alle conseguenti restituzioni. Poiché si tratta di una protezione, potrà chiedersi l’annullamento soltanto da una parte, quella dell’incapace (non importa se da lui personalmente o per opera del suo rappresentante o dei suoi eredi) e non da parte dell’altro contraente: questo concetto si esprime dicendo che l’annullabilità è relativa. L’annullabilità è la forma meno grave di invalidità (cioè di malattia, se così si può dire) del negozio e non impedisce la produzione degli effetti giuridici tipici di
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questo. La sentenza di annullamento, pertanto, ha natura costitutiva, nel senso che è necessaria per modificare la situazione giuridica sostanziale (in seguito alla sentenza, ad es. il compratore perde la proprietà del bene acquistato e lo dovrà restituire, così farà il venditore con il prezzo ricevuto, ecc.). Nel quadro della invalidità esiste, tuttavia, anche un vizio più grave, la nullità del negozio (determinata, non dalla incapacità legale, ma da altre cause attinenti alla mancanza di requisiti essenziali del negozio, ad es., dalla illiceità o dalla impossibilità originaria della prestazione); l’atto nullo non produce effetti ipso jure, cioè senza bisogno di chiedere al giudice una sentenza che determina l’inefficacia dell’atto. La sentenza di nullità, pertanto, ha natura dichiarativa, e cioè serve soltanto a fotografare, se così si può dire, la situazione già in atto, con lo scopo importante di renderla certa fra le parti litiganti. Per ripristinare l’equilibrio economico potranno essere ordinate le restituzioni di ciò che è stato indebitamente prestato in esecuzione del contratto nullo.
L’incapacità legale assicura al soggetto una protezione maggiore di quella concessa all’incapace naturale. Il contratto concluso dall’incapace legale è annullabile per il fatto stesso della incapacità, mentre quello concluso dall’incapace naturale è annullabile se questi dimostra (in qualunque modo, anche attraverso il pregiudizio che ne può derivare) che la controparte era in mala fede. Lo stato di incapacità legale di una persona è soggetto ad un regime di pubblicità e quindi è facilmente conoscibile da chi voglia usare la normale diligenza nell’informarsi. Infatti l’incapacità legale risulta dai registri di stato civile e in particolare dall’atto di nascita nel quale risulta la minore età e vengono annotati eventuali provvedimenti di interdizione, di inabilitazione o la nomina di un amministratore di sostegno. Per dimostrare la incapacità naturale di una persona maggiore di età sorge invece un grave problema di prova, come è facile immaginare, né può esistere strumento alcuno di pubblicità da cui risulta tale stato di incapacità di intendere o di volere, perché si tratta di situazioni concrete e spesso passeggere che vanno accertate di volta in volta. Se il contratto è annullato per incapacità legale la tutela dell’incapace si estende fino a valere anche nei confronti di terzi aventi causa, cioè coloro ai quali è stato successivamente trasmesso (con un secondo contratto) il diritto ceduto con il (primo) contratto annullabile. Così se Tizio cede a Caio un diritto in base al primo negozio, che è annullabile, e Caio cede poi lo stesso diritto a Sempronio con un secondo contratto, ci si chiede quale sia la sorte di questo secondo acquisto una volta che il primo contratto sia stato annullato, tenendo presente che l’annullamento, di regola, ha efficacia retroattiva e cioè toglie di mezzo tutti gli effetti ne-
§ 5. Le situazioni di incapacità legale: la minore età
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goziali sin dall’inizio (ex tunc). Se la causa di annullamento è l’incapacità legale, la sentenza di annullamento è opponibile (cioè può essere fatta valere) anche contro Sempronio, benché questi ignorasse il vizio del titolo del suo dante causa. Ciò significa che l’annullamento (del primo contratto) porta via retroattivamente l’acquisto di Caio e di conseguenza anche l’acquisto di Sempronio. Trova piena applicazione, in sostanza, la regola degli acquisti a titolo derivativo: resoluto jure dantis resolvitur et jus accipientis. Se, invece, la causa di annullamento fosse l’incapacità naturale di Tizio, l’annullamento non potrebbe essere fatto valere contro il terzo che ha acquistato in buona fede (cioè ignorando il vizio del titolo di Caio, suo dante causa) ed a titolo oneroso (cioè affrontando un sacrificio economico in cambio dell’acquisto). In tal caso si contrappone, infatti, il principio della protezione dell’affidamento.
5. Le situazioni di incapacità legale: la minore età. Il minore di diciotto anni è protetto dalla legge non soltanto perché gode di importanti diritti nei confronti dei suoi genitori, ma anche perché è sottoposto ad un regime di incapacità legale che consente allo stesso minore, divenuto maggiorenne, o a chi lo rappresenta, di impugnare eventuali atti o contratti compiuti personalmente dall’incapace, ove essi risultino contrari al suo interesse, chiedendone l’annullamento. Vanno ricordati, tuttavia, alcuni casi di capacità speciale di agire attribuita anche prima della maggiore età: – il minore che ha compiuto quindici anni può concludere personalmente contratti di lavoro (art. 2) e può esercitare i diritti e le azioni che dipendono da tale contratto; il minore che ha compiuto sedici anni, ma anche prima se autorizzato (art. 250, 5° comma) può riconoscere un figlio nato fuori del matrimonio e chiedere l’autorizzazione a sposarsi nei casi previsti dalla legge (art. 842). Talora è prevista una sanzione che impedisce l’annullamento: il minore che fraudolentemente (con raggiri, non basta una bugia) ha occultato la sua minore età non può impugnare il contratto da lui concluso perché ha dimostrato tale malizia da non meritare protezione (malitia supplet aetatem). Il minore che compie quotidianamente piccole spese per esigenze scolastiche o familiari viene considerato rappresentante dei suoi genitori e quindi compie atti che non obbligano lui personalmente, ma coloro per i quali agisce. Proprio per questo, come vedremo tra breve, tali atti sono ritenuti validi non ostante la minore età del contraente.
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Cap. 9. La capacità
Per quanto concerne gli affari del minore, ai genitori che esercitano la responsabilità genitoriale spetta la rappresentanza e l’amministrazione da esercitare: – disgiuntamente per gli atti di ordinaria amministrazione (esclusi i contratti con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, come i contratti di locazione, di affitto); – congiuntamente per gli atti di straordinaria amministrazione (cioè per gli atti che incidono significativamente sul patrimonio amministrato: alienazioni, concessione di garanzie reali, accettazione e rinunzia di eredità, legati, donazioni, riscossione di capitali, compromessi, transazioni) purché sussista necessità o utilità evidente per il figlio e autorizzazione del giudice tutelare; – l’autorizzazione del tribunale, su parere del giudice tutelare, è necessaria per la continuazione dell’impresa commerciale da parte del minore. Gli atti compiuti senza rispettare i requisiti citati sono annullabili su istanza dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale, o del figlio o dei suoi eredi o aventi causa. Se sorge un conflitto d’interessi tra più figli o tra figlio e genitore o se i genitori non vogliono compiere un atto nell’interesse del figlio, il giudice può nominare un curatore speciale. I genitori esercenti la responsabilità genitoriale, comunque, non possono acquistare validamente beni o diritti del minore, né farsi cedere i suoi crediti. La legge, infatti, fra chi amministra e chi è amministrato, ravvisa un conflitto d’interessi che ha come conseguenza l’annullabilità del contratto.
Se i genitori sono morti o non possono esercitare la responsabilità genitoriale, la rappresentanza e l’amministrazione, oltre alla cura della persona dell’incapace, spettano al tutore, nominato dal giudice tutelare presso il tribunale del luogo dove il minore ha la sede principale dei suoi affari e interessi. Le cautele sono maggiori di quelle previste per i genitori: il tutore ha l’obbligo di fare l’inventario (con il ministero del cancelliere o del notaio), deve depositare denaro, titoli di credito e preziosi in istituti di credito, deve pianificare i criteri generali di educazione e istruzione del minore, nonché di amministrazione, e tenervi fede dopo averne avuto l’approvazione del giudice, deve investire i capitali in titoli di stato, beni immobili o altri depositi particolarmente garantiti. È necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per acquistare beni, riscuotere capitali, accettare o rinunziare a eredità, accettare donazioni o legati cum onere, promuovere giudizi. È necessaria l’autorizzazione del tribunale (su parere del giudice tutelare) per alienare beni, costituire garanzie reali, procedere a divisioni, fare compromessi o transazioni.
§ 6. Segue: l’interdizione giudiziale
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Il tutore ha il dovere di amministrare con la diligenza del buon padre di famiglia e risponde verso il minore dei danni cagionati violando i suoi doveri, inoltre ha l’obbligo di dare il rendiconto finale.
6. Segue: l’interdizione giudiziale. L’incapacità del soggetto è accertata in un giudizio, appositamente instaurato, che si conclude con una sentenza di interdizione. Presupposto è un vizio di mente duraturo che renda il soggetto incapace di provvedere ai propri interessi, ma nei casi più gravi anche una menomazione fisica congenita, come la cecità o il sordomutismo, possono portare all’interdizione quando risulta la totale incapacità di provvedere ai propri interessi e il provvedimento sia necessario per assicurare loro adeguata protezione. La domanda può essere proposta dal soggetto stesso interdicendo o inabilitando, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo, dal tutore (di un minore senza genitori), dal curatore di un inabilitato o di un emancipato o, infine, dal pubblico ministero. Se però si tratta di un minore soggetto alla responsabilità genitoriale, la domanda di interdizione spetta solo ai genitori o al pubblico ministero. Allorquando è richiesta per un minore, l’interdizione produce effetto dal giorno della maggiore età.
Il giudice deve accertarsi personalmente provvedendo all’esame dell’interdicendo e può farsi assistere da un consulente tecnico, può inoltre disporre mezzi istruttori anche d’ufficio. Come si è detto qui è in gioco la protezione di un soggetto e pertanto non vale il principio dispositivo, ma il giudice ha poteri di iniziativa e può anche dare un provvedimento diverso da quello richiesto dai parenti. Ad es. se nel corso del giudizio appare opportuno applicare l’amministrazione di sostegno (v. infra, par. 9) il giudice trasmette gli atti, anche d’ufficio, al giudice tutelare. Il provvedimento di interdizione produce effetti solo dal giorno della pubblicazione della sentenza (e non, come avviene di solito, da quello della domanda giudiziale), tuttavia il giudice può disporre nel frattempo la nomina di un tutore provvisorio, con l’effetto, fra l’altro, di rendere annullabili gli atti compiuti personalmente dall’interdicendo dopo tale nomina, se ad essa seguirà effettivamente la sentenza di interdizione. Se invece il procedimento si conclude senza la pronuncia di interdizione, gli atti compiuti dal soggetto dopo tale nomina sono validi, in linea di principio (salvo la possibilità di dimostrare, da parte sua, di averli compiuti in stato di mo-
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mentanea incapacità d’intendere e di volere, con i presupposti di cui all’art. 428). Il decreto di nomina del tutore provvisorio e la sentenza di interdizione devono essere immediatamente annotati a cura del cancelliere nel registro delle interdizioni e comunicati all’ufficiale di stato civile per l’annotazione in margine all’atto di nascita. L’annullabilità dei contratti e degli atti giuridici per interdizione giudiziale è, di regola, relativa. Solo nel testamento l’annullabilità è sempre assoluta, perciò il testamento fatto dall’interdetto può essere annullato su richiesta di qualunque interessato. Assoluta è l’annullabilità del matrimonio dell’interdetto, per la rilevanza degli effetti (si pensi alle conseguenze che comporta per quanto concerne lo stato di coniuge, e lo stato dei figli), ma si tratta di una norma eccezionale. Ritorna la regola generale della annullabilità relativa per il matrimonio di colui che è affetto da incapacità naturale al tempo della celebrazione (impugnazione su domanda del solo coniuge incapace). Qui appare protetto esclusivamente l’interesse personale del singolo coniuge ad esprimere un consenso responsabile.
L’interdetto non può compiere validamente nessun atto né di carattere personale o familiare, né di carattere patrimoniale. Per taluni atti, come il matrimonio, il testamento, il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, nessun altro soggetto può agire al suo posto, perché sono atti personalissimi, mentre per la maggior parte degli atti di natura patrimoniale la legge attribuisce la rappresentanza dell’interdetto ad un tutore, nominato dal giudice tutelare. Vengono richiamate, in proposito, le norme dettate dalla legge per la tutela dei minori (art. 424 c.c.). Nella sentenza di interdizione o successivamente il giudice può tuttavia allargare la capacità del soggetto e stabilire che questi possa compiere taluni atti di ordinaria amministrazione senza l’intervento del tutore o con l’assistenza di questo (come se fosse curatore di un inabilitato).
7. Segue: l’inabilitazione e la emancipazione. Con una sentenza di inabilitazione può essere tolta parzialmente la capacità di agire al maggiore di età se questi: – ha una infermità di mente non così grave da portare all’interdizione; – è prodigo (espone sé o la propria famiglia a gravi pregiudizi economici per l’uso sconsiderato del denaro, facendo spese eccessive, donazioni ingiustificate, ecc.); – abusa di bevande alcoliche o stupefacenti;
§ 7. Segue: l’inabilitazione e la emancipazione
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– è cieco o sordomuto dalla nascita, senza avere avuto una educazione sufficiente. Le regole per quanto concerne l’istanza, i poteri del giudice, la decorrenza degli effetti e la pubblicità dei provvedimenti sono le stesse che valgono per l’interdizione. La situazione di capacità dell’inabilitato è tuttavia molto diversa, da quella dell’interdetto: – in materia di rapporti patrimoniali l’inabilitato conserva una capacità di agire limitata agli atti di ordinaria amministrazione, cioè quelli che tendono alla conservazione del patrimonio; – può agire validamente, senza limitazioni, nel campo dei rapporti personali e familiari, quindi l’inabilitato può validamente sposarsi, riconoscere figli nati fuori del matrimonio, fare testamento; – può compiere validamente gli atti di natura patrimoniale eccedenti l’ordinaria amministrazione purché vi sia l’assistenza del curatore, salvo che il giudice lo abbia autorizzato, per taluni di essi, ad agire da solo; – per gli atti più importanti dell’inabilitato, oltre al consenso del curatore, la legge (art. 374 c.c.) richiede ora l’autorizzazione del giudice tutelare (es. acquistare beni, riscuotere capitali, accettare eredità) ora quella del tribunale (ad es. alienare beni durevoli, costituire pegni o ipoteche, fare transazioni, continuare l’esercizio di una impresa commerciale, art. 425 c.c.). Con una formula incisiva si dice che il tutore rappresenta e il curatore assiste (in realtà l’attività del tutore è più complessa, perché deve provvedere alla persona del minore o del pupillo: tutor datur personae, curator bonis). Assistenza del curatore significa che la sua volontà integra quella dell’inabilitato, fino a formare un atto complesso, cioè composto da due dichiarazioni che appaiono all’esterno come una volontà unitaria, in quanto proveniente da un unico centro d’interessi. Questa costruzione teorica si traduce, in pratica, nel requisito della doppia sottoscrizione: il contratto sarà firmato dall’inabilitato e dal curatore “per assistenza”. Gli atti compiuti senza il necessario consenso, o senza le dovute autorizzazioni sono annullabili su domanda dell’incapace, dei suoi eredi o aventi causa. Contrariamente agli istituti precedentemente trattati, che restringono la capacità del soggetto, l’emancipazione estende la capacità di agire del minore di età. L’emancipazione del minore si ottiene con il matrimonio (e resta come
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Cap. 9. La capacità
effetto stabile anche se questo si scioglie per morte dell’altro coniuge o per divorzio). Il minore acquista una capacità personale di agire analoga a quella dell’inabilitato, cioè limitatamente agli atti di ordinaria amministrazione e con l’applicazione delle stesse regole già accennate che richiedono l’assistenza del curatore, l’autorizzazione del giudice o del tribunale (art. 394) secondo la gravità degli atti. Il curatore dell’emancipato è, generalmente, il coniuge, se maggiorenne, altrimenti verrà nominato, preferibilmente tra i genitori, un unico curatore per entrambi i coniugi. Mentre il minore non emancipato può essere autorizzato solo a continuare l’esercizio di una impresa già iniziato da altri (ad es. se il padre, imprenditore, è deceduto), il minore emancipato può essere autorizzato dal tribunale ad intraprendere l’esercizio di una impresa commerciale senza l’assistenza del curatore. In tal caso egli acquista una più ampia capacità, fino a comprendere gli atti di straordinaria amministrazione anche estranei all’esercizio dell’impresa (art. 397).
8. La revoca dei provvedimenti di protezione. Tanto l’interdizione quanto l’inabilitazione possono cessare se vi è una guarigione o se il soggetto acquista la capacità di provvedere normalmente ai propri affari o se viene chiesta l’amministrazione di sostegno. Occorre, tuttavia, domandare una sentenza di revoca, che fa cessare lo stato di incapacità con il passaggio in giudicato (non dal tempo della domanda, né da quello della pubblicazione, ma soltanto dal momento in cui la sentenza stessa non è più soggetta a gravame, cioè ad appello o a ricorso per cassazione). La domanda spetta al coniuge, ai parenti entro il quarto grado, agli affini entro il secondo, al tutore, al curatore o al pubblico ministero, su segnalazione del giudice tutelare (art. 429). È anche possibile che venga revocata l’interdizione, ma venga sostituita dalla amministrazione di sostegno o dalla inabilitazione se l’infermo non ha riacquistato la piena capacità (art. 432). Dopo la revoca è possibile che la domanda di annullamento di atti compiuti in precedenza e invalidi per difetto delle autorizzazioni richieste dalla legge sia proposta dallo stesso interdetto. Va ricordato che la prescrizione dell’azione di annullamento, che è di cinque anni, non incomincia a decorrere se non dalla revoca della interdizione o della inabilitazione o dalla morte dell’incapace.
§ 9. Un nuovo istituto: l’amministrazione di sostegno
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9. Un nuovo istituto: l’amministrazione di sostegno. Coloro che potrebbero chiedere l’interdizione o l’inabilitazione (art. 417) possono invece, grazie ad una legge recente (2004), chiedere al giudice tutelare la nomina di un amministratore di sostegno a beneficio di colui che a causa di una infermità o di una menomazione fisica o psichica si trova nell’impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi. Lo scopo dell’istituto è quello di proteggere il soggetto con la minore limitazione possibile della capacità di agire. Il decreto di nomina (da pronunciarsi entro 60 giorni) è immediatamente esecutivo, ma avrà effetto dal raggiungimento della maggiore età se il soggetto è un minore, o dalla revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione se già disposte con sentenza (in tal caso la domanda di amministrazione di sostegno va presentata congiuntamente a quella di revoca). Nel decreto di apertura della amministrazione di sostegno il giudice, anche d’ufficio, può adottare provvedimenti urgenti per la cura della persona, la conservazione e l’amministrazione del suo patrimonio. Il decreto deve essere annotato in un apposito registro nonché a margine dell’atto di nascita. Può essere nominato un amministratore designato dallo stesso interessato o dal genitore, altrimenti la preferenza va al coniuge, alla persona stabilmente convivente, ai congiunti più stretti, poi ai parenti fino al quarto grado o altra persona idonea. Il beneficiario conserva la capacità di agire per gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana e per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza o l’assistenza dell’amministratore di sostegno. L’amministratore di sostegno deve tener conto delle aspirazioni e dei bisogni del beneficiario e attuarli con diligenza, deve informarlo circa gli atti da compiere, ai quali si applica, in quanto compatibile, la disciplina dettata per la tutela (salvo per quanto concerne le autorizzazioni eventualmente necessarie, che diventano tutte di competenza del giudice tutelare, anche per gli atti più importanti, anziché del tribunale). Quindi l’amministratore di sostegno agirà di regola in rappresentanza dell’amministrato, per tutti gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, salvo che il giudice abbia autorizzato l’interessato a compierne taluno da solo o con l’assistenza dell’amministratore.
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Cap. 9. La capacità
10. L’incapacità legale come pena accessoria. Un’altra specie di incapacità prevista dalla legge ha il significato di punizione del soggetto. Si tratta di una pena accessoria che scatta automaticamente, senza bisogno di una apposita condanna, allorquando un soggetto viene riconosciuto colpevole di gravi reati da parte del giudice penale e viene condannato all’ergastolo o alla reclusione (per delitto doloso) per un periodo superiore a cinque anni (art. 32 c.p.). Per tutta la durata della pena principale corre anche la pena accessoria, che prende il nome di interdizione legale (da non confondere con l’interdizione giudiziale di cui si è parlato sinora). Essa determina la annullabilità di tutti i contratti stipulati dall’interdetto, quindi opera esclusivamente nel campo degli atti patrimoniali mentre non tocca gli atti di diritto personale e familiare. Poiché si tratta di una punizione e non di una protezione del soggetto, si capovolge la regola della legittimazione ad agire, infatti l’azione di annullamento viene concessa a chiunque vi abbia interesse (annullabilità assoluta), contro l’incapace. Ulteriore esempio di pena accessoria privatistica è la decadenza dalla responsabilità genitoriale, prevista per l’ergastolano. Altre pene accessorie comportano un divieto e quindi una incapacità di diritto, ad es., la incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, la interdizione legale dai pubblici uffici (che consegue a determinate condanne penali, principalmente per reati di malversazione) e la interdizione da una professione o da un’arte (art. 28 ss. c.p.).
§ 3. La scomparsa e le dichiarazioni di assenza e di morte presunta
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CAPITOLO 10
LA VITA DELLA PERSONA FISICA
SOMMARIO: 1. La dimora, il domicilio, la residenza. – 2. La prova della esistenza della persona. – 3. La scomparsa e le dichiarazioni di assenza e di morte presunta.
1. La dimora, il domicilio, la residenza. Per quanto concerne lo spazio dove si svolge la vita della persona le nozioni giuridicamente rilevanti sono tre: dimora, residenza e domicilio. La dimora è nel luogo dove il soggetto abita, anche per poco tempo. La residenza è nel luogo dove la persona ha posto la sua dimora abituale (art. 43), perciò essa dipende dalla situazione di fatto, determinata dalla scelta di ciascun individuo circa il luogo dove egli intende svolgere prevalentemente la propria vita. Il legislatore ne tiene conto in diverse circostanze, ad es. le pubblicazioni matrimoniali vanno richieste ed eseguite nel luogo di residenza degli sposi (art. 94); in caso di scomparsa della persona si può richiedere la nomina di un curatore al tribunale là dove era l’ultima residenza dello scomparso (art. 48); la dichiarazione di nascita può essere fatta anche nel comune di residenza dei genitori (art. 30 ord. st. civ.); numerose norme di diritto internazionale privato fanno riferimento alla residenza della persona. Il domicilio della persona resta determinato in relazione ai rapporti economici e giuridici di ciascuno, e precisamente è nel luogo dove la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi (art. 43). Si parla, in tal caso, di domicilio generale della persona, cioè rilevante per tutti i suoi rapporti giuridici in genere. Da esso va tenuto distinto il domicilio speciale, che viene scelto per determinati affari e atti, attraverso una dichiarazione che deve farsi espressamente per iscritto (si chiama ele-
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Cap. 10. La vita della persona fisica
zione di domicilio, art. 47). Ad es. colui che agisce in giudizio elegge domicilio speciale presso lo studio del suo avvocato, limitatamente agli atti concernenti quella specifica controversia. Il domicilio generale è giuridicamente rilevante, ad es., in caso di morte, perché il luogo di apertura della successione è quello dell’ultimo domicilio del de cuius, indipendentemente dal luogo della sua residenza (art. 456), ma anche per quanto concerne altri istituti, ad es. la scomparsa o la dichiarazione di assenza (art. 48 ss.). Nel quadro della protezione della libertà personale, la Costituzione tutela anche il domicilio, definendolo “inviolabile”, ed esclude che vi si possano eseguire ispezioni, perquisizioni o sequestri se non nei casi stabiliti dalla legge e con le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale (art. 14 Cost.). Lo stesso Codice penale punisce la violazione di domicilio (art. 614 c.p.). È chiaro che la parola “domicilio” assume in questi casi il significato di abitazione della persona o di luogo di privata dimora, in cui si svolge la vita privata o professionale dell’individuo e si esprime la sua personalità. Il trasferimento della residenza può avvenire andando ad abitare altrove, ma potrà opporsi ai terzi di buona fede la nuova residenza solo denunciando il fatto nei modi previsti dalla legge (se non è opponibile significa che il terzo potrebbe considerare come ancora attuale la vecchia residenza e notificarvi validamente un atto). Quando coincidono domicilio e residenza e quest’ultima viene trasferita altrove, di fronte ai terzi di buona fede – in mancanza di diversa dichiarazione – si considera trasferito anche il domicilio (art. 44).
La residenza della famiglia, fissata dai coniugi di comune accordo, come prevede l’art. 144, è importante perché ivi è stabilito il domicilio legale dei figli minori (mentre ciascuno dei coniugi ha il domicilio laddove ha la sede principale dei propri affari, secondo la regola generale). Se i coniugi sono separati, o il matrimonio è annullato o sciolto, o i coniugi non hanno la stessa residenza, il minore ha lo stesso domicilio del genitore con il quale convive. L’interdetto ha il domicilio legale là dove è il domicilio del tutore.
2. La prova della esistenza della persona. Il principio generale sull’onere della prova, di cui si è parlato in precedenza, trova due importanti applicazioni in relazione al problema della esistenza della persona:
§ 3. La scomparsa e le dichiarazioni di assenza e di morte presunta
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a) In primo luogo nessuno può reclamare un diritto in nome di una persona di cui si ignora l’esistenza se non dà prova che tale persona esisteva quando il diritto è nato (art. 69). Se tale persona, di cui si ignora l’esistenza, è chiamata ad una successione, questa è devoluta a coloro ai quali sarebbe spettata in mancanza di detta persona, i quali, tuttavia, devono dare cauzione e procedere all’inventario dei beni. Se però la persona di cui si ignora l’esistenza è figlio o fratello del defunto la chiamata non cade, ma viene rivolta ai discendenti dello scomparso, i quali possono accettare al suo posto utilizzando il diritto di rappresentazione. Ovviamente la persona di cui si ignora l’esistenza o di cui è stata dichiarata la morte presunta non perde il proprio diritto a succedere e potrà quindi agire, se e quando ritorna, esercitando la petizione di eredità. Dovrà tuttavia fare i conti con i diritti maturati a favore di altri soggetti, grazie agli istituti della prescrizione o della usucapione, e non potrà recuperare i beni se non nello stato in cui si trovano, accontentandosi di ripetere il prezzo di quelli alienati se ancora dovuto. b) In secondo luogo, quando un effetto giuridico dipende dalla sopravvivenza di una persona ad un’altra e non consta (perché nessuno può darne la prova) quale di esse sia morta prima, tutte si considerano morte nello stesso momento (art. 4). La regola della commorienza si applica, ad es., quando più persone sono morte in un unico incidente, aereo o stradale o in una disgrazia naturale. Spesso dalla sopravvivenza di una persona, anche per un solo istante (si pensi ai casi in cui uno dei due soggetti è chiamato a succedere all’altro) dipende la devoluzione della successione in una certa direzione piuttosto che in un’altra; ma nessuno può far valere il diritto se manca la prova del fatto che ne costituisce il fondamento.
3. La scomparsa e le dichiarazioni di assenza e di morte presunta. Allorquando non si hanno più notizie di una persona e si può dubitare della sua esistenza, vengono in rilievo tre istituti destinati, nello stesso tempo, a proteggere la persona scomparsa, ma a tutelare anche l’interesse di altri soggetti che potrebbero acquistare diritti o essere liberati da obblighi di natura patrimoniale in seguito alla morte dello scomparso: a) La scomparsa di una persona dal luogo del suo ultimo domicilio o
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Cap. 10. La vita della persona fisica
della sua ultima residenza, accompagnata dal fatto che non se ne hanno più notizie, autorizza i presunti successori legittimi e il pubblico ministero e chiunque sia interessato, a chiedere al giudice alcuni provvedimenti per proteggere e conservare il patrimonio dello scomparso. Si può chiedere, perciò, la nomina di un curatore e la formazione di un inventario dei beni (ma se vi è un legale rappresentante non si fa luogo alla nomina del curatore, art. 48). b) Dopo due anni dal giorno cui risale l’ultima notizia della persona i presunti successori legittimi, o chi potrebbe avere diritti sui beni dello scomparso in seguito alla morte di costui, possono domandare al tribunale che sia dichiarata l’assenza (art. 49). Si possono distinguere tre momenti: innanzitutto viene emessa la sentenza, poi avviene la ricognizione della vocazione (quindi l’apertura di un eventuale testamento o il ricorso alla vocazione per legge) e infine gli interessati chiedono di avvalersi dei diritti e dei poteri previsti dalla legge, di norma previa cauzione, secondo lo schema seguente: – agli eredi testamentari o legittimi spetta l’immissione nel possesso temporaneo dei beni dell’assente (con l’obbligo di effettuare inventario); il potere di amministrazione e di rappresentanza in giudizio; il diritto a far proprie le rendite (la totalità per gli stretti congiunti, due terzi per gli altri); il diritto di disporre dei beni è concesso solo eccezionalmente, per necessità evidente riconosciuta dal tribunale; – agli altri interessati, come, ad es., i legatari, spetta l’esercizio di diritti che scaturiscono dalla morte della persona; – a coloro che sarebbero liberati da obblighi in seguito alla morte del soggetto spetta l’esonero temporaneo dall’adempimento. In caso di ritorno della persona o di notizie circa la sua esistenza cessa la situazione di assenza; gli immessi nel possesso devono restituire i beni, ma solo dopo una richiesta formale del titolare, cioè un atto di costituzione in mora. Se è provata la morte dell’assente, invece, si apre la successione a vantaggio di coloro che al momento della morte erano suoi eredi o legatari.
Con la dichiarazione di assenza non è sciolto il matrimonio, ma se il coniuge dell’assente riesce ugualmente a sposarsi il matrimonio non può essere impugnato finché dura l’assenza (art. 1173). La questione è sempre la stessa: per impugnare il matrimonio bisogna dimostrare che il coniuge assente … esiste ancora. c) Quando sono trascorsi dieci anni dal giorno cui risale l’ultima notizia
§ 3. La scomparsa e le dichiarazioni di assenza e di morte presunta
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dello scomparso gli eredi testamentari o legittimi o il pubblico ministero possono presentare istanza affinché sia dichiarata la morte presunta del soggetto nel giorno a cui risale l’ultima notizia (art. 58). Nel caso di operazioni belliche, infortunio o prigionia i termini sono molto ridotti (art. 60). La sentenza pronunciata dal giudice, una volta che sia divenuta eseguibile, consente agli eredi di disporre dei beni ereditari, al coniuge di contrarre un nuovo matrimonio e, in generale, di conseguire in modo definitivo l’esercizio dei diritti o la liberazione dagli obblighi temporaneamente concessi in caso di assenza. Se non vi era stata precedentemente l’immissione nel possesso dei beni dell’assente sarà necessario compiere l’inventario, ma non vi sarà l’obbligo di cauzione. Il ritorno del presunto morto o la notizia che questi si trova ancora in vita gli danno diritto di recuperare i beni nello stato in cui si trovano e di conseguire il prezzo di quelli alienati se tutt’ora dovuto. Se, invece, perviene notizia della sua morte tali diritti spettano a coloro che alla data della morte effettiva sarebbero stati i suoi eredi o legatari (art. 66).
Il matrimonio contratto dal coniuge del presunto morto, se questi ritorna o ne è provata l’esistenza, è nullo ma ne sono fatti salvi gli effetti civili. Comunque la nullità non può essere pronunziata nel caso in cui sia accertata la morte effettiva del soggetto, anche posteriore al matrimonio in questione (art. 68).
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
CAPITOLO 11
LE PERSONE GIURIDICHE E I GRUPPI ORGANIZZATI
SOMMARIO: 1. I soggetti organizzati. – 2. La persona giuridica e gli enti senza personalità. – 3. L’autonomia patrimoniale. – 4. I principali gruppi senza personalità. – 5. Le persone giuridiche. – 6. Una nuova figura di patrimonio di destinazione. – 7. Gli Enti del Terzo Settore.
1. I soggetti organizzati. Gli enti sociali o gruppi organizzati sono costituiti da gruppi di persone fisiche, da un patrimonio, uno scopo e una organizzazione. Questi elementi sussistono tanto negli enti pubblici, a base territoriale (Stato, Regioni, Province, Comuni) o non territoriale (Università, ecc.), che perseguono interessi della collettività e a tal fine sono dotati di poteri di supremazia caratteristici del diritto pubblico, quanto negli enti che operano nell’ambito privatistico e quindi in regime di uguaglianza con gli altri soggetti del traffico giuridico. Di questi ultimi ci occupiamo nel nostro studio, iniziando dalla fondamentale distinzione tra fondazioni e corporazioni (o associazioni, in senso lato). Le fondazioni sorgono grazie ad una volontà esterna all’ente, quella, appunto, del fondatore, il quale compie, nello stesso tempo, un atto di destinazione di un patrimonio ad uno scopo, che deve essere lecito e meritevole, ma deve anche soddisfare un interesse generale (culturale, umanitario, scientifico, ecc.), e un atto di organizzazione della istituzione, stabilendo criteri di amministrazione e di gestione del patrimonio. La costituzione avviene dunque per atto unilaterale, chiamato negozio di fondazione, che può essere un testamento o un negozio tra vivi (per la validità del quale è richiesta la forma dell’atto pubblico). In questi enti predomina, in generale, l’elemento patrimoniale su quello personale, tanto nelle fondazioni che si limitano ad erogare somme di de-
§ 1. I soggetti organizzati
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naro, quanto nelle fondazioni che devono svolgere prestazioni più complesse, ad es. di assistenza medica, di ricerca scientifica, di istruzione. L’attività organizzativa, per quanto rilevante essa sia, nella realizzazione dello scopo dell’ente, è sempre subordinata alla esistenza di un patrimonio sufficiente che consente alle persone fisiche di svolgere la loro attività. Nelle corporazioni o associazioni la volontà che determina l’attività del gruppo è interna, cioè proviene dai soggetti che fanno parte della organizzazione (lo Stato fa parte della categoria delle corporazioni, anche se l’appartenenza a tale istituzione territoriale prescinde da una scelta degli associati). Come abbiamo già visto, la possibilità di associarsi per fini leciti è prevista nella stessa Costituzione (art. 18 Cost.) e rappresenta uno dei diritti fondamentali degli ordinamenti civili. I gruppi sociali organizzati costituiscono quelle “formazioni sociali” ove si svolge la personalità dell’uomo, che fanno nascere diritti inviolabili, protetti anche dall’art. 2 Cost. L’associazione è dunque costituita da privati, i quali definiscono gli scopi essenziali della organizzazione e per realizzarli si impegnano a svolgere una determinata attività in comune, mentre, nello stesso tempo, conferiscono al gruppo i mezzi patrimoniali necessari per raggiungere gli scopi prefissati. L’atto costitutivo è formato dall’accordo di più soggetti ed è suscettibile, in linea di principio, di essere arricchito dalla adesione di nuovi membri, senza che sia richiesta una modifica di statuto (contratto aperto). Esso prende il nome di contratto associativo (la legge lo definisce contratto plurilaterale di scopo comune, art. 1420). Ogni contratto con cui un gruppo di soggetti si sia dato autonomamente una organizzazione – sia esso una società di persone, quanto di capitali, una associazione (in senso stretto), un comitato o un consorzio fra imprenditori – rientra in questo schema generale. In ciascuno di tali enti, tuttavia, poiché cambia il tipo di attività che i membri del gruppo hanno deciso di intraprendere e il modo della organizzazione, la disciplina si arricchisce divenendo più complessa, secondo le caratteristiche di ciascun organismo; di conseguenza si delineano i singoli tipi di contratto associativo, con le loro regole specifiche (ad es. contratto costitutivo di un comitato, di una società in nome collettivo, di un consorzio con attività esterna, ecc.). Da notare come in questa categoria di contratti le prestazioni e i conferimenti apportati da ciascun contraente non soddisfano una funzione di scambio (come invece avviene, ad es., nella vendita, nella locazione, ecc.), ma abbiano piuttosto una funzione strumentale, in quanto rappresentano i mezzi che consentono di svolgere l’attività in comune propria del gruppo (sia essa economica, sportiva, culturale, politica, ecc.).
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
2. La persona giuridica e gli enti senza personalità. La necessità di costituire un ente superindividuale come una fondazione o di associarsi e di formare un gruppo organizzato si giustifica in funzione di scopi e finalità che i privati non riuscirebbero ad ottenere in altro modo, data la necessità di operare con mezzi e per una durata che trascende la realtà individuale. Ad alcuni di questi enti la legge attribuisce la qualifica di persona giuridica (ad es. le fondazioni, le associazioni riconosciute, le società di capitali). La prima caratteristica che colpisce sta nel fatto che si viene a creare un soggetto di diritto nuovo e distinto dai singoli che fanno parte del gruppo. Si potrà dire, pertanto, che l’ente – e non i singoli – è titolare di diritti e di obblighi acquistati grazie allo svolgimento della sua attività e che l’ente risponde col suo patrimonio. I creditori dell’ente, infatti, troveranno soddisfacimento attraverso l’esecuzione coattiva sui beni della persona giuridica, senza poter toccare il patrimonio delle persone fisiche facenti parte del gruppo (ad es. i soci di una S.p.A. o i membri di una associazione sportiva). Mentre alcuni enti (ad es. le società di persone o i consorzi tra imprenditori) non possono ottenere la personalità giuridica perché la legge non lo prevede, determinati enti esistono nella realtà giuridica solo in quanto abbiano ottenuto la personalità (ad es. le società di capitali e le fondazioni), e altri enti, infine, sono liberi di scegliere se costituirsi come enti non riconosciuti o conseguire il riconoscimento (le associazioni e i comitati). Un grande numero di enti è dunque privo di personalità, ad es., una associazione sportiva, un circolo di lettura, un comitato di beneficenza, una società semplice o in nome collettivo, un partito politico o un sindacato. La simmetria nella distinzione tra due categorie di persone: persone fisiche e persone giuridiche, viene, perciò, disturbata – se così si può dire – dalla presenza di enti che non hanno la qualifica di persone giuridiche, ma che rappresentano pur sempre un autonomo punto di riferimento di situazioni giuridiche, diverso dalle persone fisiche che li compongono. Si è detto che la persona giuridica rappresenta qualcosa di nuovo e di distinto dai singoli soggetti che la compongono. Ebbene, questo è vero, per certi aspetti, anche per il gruppo privo di personalità (come, ad es., una associazione non riconosciuta). Infatti, è il gruppo che contrae obbli-
§ 3. L’autonomia patrimoniale
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gazioni e che acquista dei diritti, che può stare in giudizio come attore o come convenuto. Dunque, anche agli enti senza personalità spetta la qualifica di soggetto giuridico, se la legge li considera idonei all’acquisto di situazioni giuridiche distinte da quelle di cui sono titolari i singoli associati. Si può affermare, perciò, che la soggettività degli enti non coincide con la personalità giuridica. Cerchiamo di approfondire la conoscenza di questi enti, analizzando alcune regole comuni ai gruppi organizzati e altre regole proprie dei soli gruppi con personalità giuridica.
3. L’autonomia patrimoniale. La disciplina patrimoniale degli enti organizzati può essere, innanzitutto, descritta con riferimento ai beni conferiti al gruppo, da parte dei consociati, per lo svolgimento della attività in comune (ma la stessa regola, con gli opportuni adattamenti, vale anche per i beni destinati alla fondazione). Finché dura l’attività del gruppo questi beni non possono essere distratti dalla finalità che è stata impressa loro (quindi né restituiti né divisi fra gli associati). Grava sui beni del gruppo una speciale destinazione economica, tanto che si parla, con una espressione tratta dalla dottrina tedesca, di un patrimonio di destinazione. Tale caratteristica si riflette in un’altra regola importante. Immaginiamo di appartenere ad un gruppo costituito attraverso un contratto di scopo comune (ad es. una società di persone) e, facendo il calcolo dell’attivo e del passivo del gruppo, arriviamo a concretizzare l’entità patrimoniale che corrisponde alla nostra quota personale. Ebbene, durante la vita del gruppo, i beni che corrispondono a tale quota non solo non sono disponibili da parte del singolo, ma neppure possono essere aggrediti direttamente dai suoi creditori personali. Infatti, i creditori personali possono sottoporre ad esecuzione forzata soltanto i beni personali del loro debitore e non quelli del gruppo. I beni del gruppo formano dunque un patrimonio che, per effetto del contratto associativo è sottratto all’aggressione dei creditori personali. Questa regola fondamentale si esprime dicendo che il gruppo gode di autonomia patrimoniale. Poiché è un aspetto comune ai gruppi organizzati, tanto se hanno quanto se non hanno personalità giuridica, possiamo dire che l’autonomia patrimoniale
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
è un effetto importante del contratto associativo (ed è altresì effetto dell’attuazione del negozio di fondazione, per i gruppi che hanno tale origine). Cessata l’attività del gruppo e liquidate le passività, il patrimonio dell’associazione verrà suddiviso tra i soci, se lo scopo dell’ente era lucrativo, o altrimenti sarà devoluto ad enti con fini analoghi, secondo gli accordi contrattuali (atto costitutivo, delibera dell’assemblea); nelle fondazioni sarà attribuito secondo la volontà del costituente o dell’autorità governativa. Vi è poi un secondo aspetto che caratterizza specificamente i gruppi con personalità giuridica e concerne la responsabilità verso i creditori dell’ente, per i debiti contratti a causa della attività in comune. In linea generale, per quanto concerne le persone giuridiche, i creditori del gruppo hanno la possibilità di soddisfarsi solo sui beni che appartengono all’ente e ne formano il patrimonio, mentre i beni personali dei singoli associati non rispondono per i debiti del gruppo (ad es. chi diventa socio di una società per azioni non corre il pericolo di subire l’esecuzione sul suo patrimonio personale per i debiti della S.p.A.). Questa limitazione della responsabilità patrimoniale è tipica delle persone giuridiche ed è un beneficio collegato allo “statuto” della persona giuridica, cioè a quelle norme specifiche che impongono determinate regole di conservazione del patrimonio, di amministrazione, di compilazione dei bilanci e di pubblicità, a vantaggio della trasparenza e della informazione dei terzi (v., ad es., la disciplina della società per azioni). Nei gruppi senza personalità – pensiamo ad una associazione non riconosciuta, oppure ad una società di persone – la legge, al fine di garantire maggiormente i creditori del gruppo, cerca di allargare la responsabilità per i debiti sociali aggiungendo alla garanzia fornita dal patrimonio del gruppo (debitore principale), anche quella fornita dal patrimonio personale di singoli soggetti che fanno parte della organizzazione, sulla base di criteri di corresponsabilità che variano secondo le caratteristiche di ciascun gruppo. Ad es., nei comitati non riconosciuti tutti i promotori rispondono illimitatamente e personalmente (assieme al comitato) per i debiti assunti verso i terzi (art. 41), mentre nelle associazioni non riconosciute, oltre all’associazione, risponde (soltanto) chi ha agito contraendo debiti per conto del gruppo, perciò non rispondono gli associati in generale, ma, di regola, gli amministratori (art. 38). Considerando il fatto che per i debiti contratti in rappresentanza del grup-
§ 4. I principali gruppi senza personalità
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po risponde quest’ultimo, col suo patrimonio, ma rispondono anche singoli partecipanti, si dice che i gruppi senza personalità giuridica godono di autonomia patrimoniale imperfetta mentre le persone giuridiche hanno una autonomia patrimoniale perfetta, in quanto per i debiti del gruppo risponde solo questo, col suo patrimonio. La descrizione sopra accennata vale in linea di principio, ma patisce, poi, come si vedrà, delle eccezioni. Ad es. nelle società in accomandita per azioni risponde anche il socio accomandatario, in relazione alla sua posizione di particolare rilievo, non ostante si tratti di un ente con personalità giuridica, mentre nei consorzi – che sono privi di personalità, secondo la tesi prevalente – risponde soltanto il gruppo con il fondo consortile.
4. I principali gruppi senza personalità. a) Società di persone. La legge non definisce la società, ma dice che: «col contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per esercitare in comune una attività economica allo scopo di dividere gli utili» (art. 2247). La società è dunque un ente con scopo di lucro. Nel genere “società” sono comprese tutte le configurazioni presentate dal codice (quindi sia le società di persone, come la società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice, sia le società di capitali, dotate di personalità giuridica, come la società per azioni, la società a responsabilità limitata e la società in accomandita per azioni). Esistono quindi altrettanti tipi di società caratterizzati da maggiore o minore complessità, in funzione delle regole di amministrazione e di responsabilità verso i terzi, dalla esistenza di titoli rappresentativi delle partecipazioni dei soci, della attitudine delle quote a circolare, dello scopo egoistico o mutualistico, dai principi che regolano la conservazione del capitale, dal modo di redigere i bilanci, dalle norme sulla pubblicità e così via. Nell’ambito delle sole società di persone, ad es., la responsabilità verso i terzi è regolata in tre modi diversi: – nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono illimitatamente per i debiti sociali (accanto alla società); nella società semplice rispondono ancora tutti, in via di principio, ma i soci che non agiscono all’esterno possono limitare la loro responsabilità; nella società in accomandita semplice è limitata la responsabilità dei soci accomandanti, mentre è illimitata quella degli accomandatari, che hanno il potere di gestione e la rappresentanza del gruppo.
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
In base alla stessa definizione legislativa già citata, si può qualificare come società anche una situazione di fatto in cui taluni soggetti, anche senza avere stipulato espressamente un accordo e senza ottemperare ad alcuna formalità, realizzano, in concreto, la situazione prevista e cioè gestiscono in comune una attività economica per dividersi i proventi. Questa “società di fatto” è perciò disciplinata dalla legge indipendentemente dalla stessa consapevolezza dei soggetti in questione. b) Associazioni non riconosciute. La associazioni sono enti senza scopo di lucro (altrimenti si ricade nella figura della società). Gli scopi possono essere i più vari, da quelli di una associazione umanitaria, scientifica, sportiva, culturale e così via, fino a quelli di un partito politico o di un sindacato. A tale proposito ricordiamo che non è stata data applicazione alla Costituzione (artt. 39 e 40 Cost.), che prevede la formazione di sindacati con personalità giuridica e l’introduzione di una contrattazione collettiva con efficacia verso tutti gli appartenenti alla categoria (c.d. efficacia erga omnes). I sindacati attuali sono quindi enti di carattere privato, cioè associazioni non riconosciute come, appunto, i partiti politici. La libertà di associazione per concorrere a determinare la politica nazionale in un partito è tutelata dall’art. 49 Cost.
Gli associati, attraverso lo statuto e le delibere dell’assemblea, sono liberi di regolare l’ordinamento interno e l’amministrazione, e inoltre di stabilire a chi spetta la rappresentanza del gruppo. I contributi degli associati e i beni acquistati dall’associazione costituiscono il fondo comune, che non può essere diviso o restituito agli associati finché dura l’attività del gruppo (art. 37), ma risponde verso i terzi che vantano diritti per le obbligazioni assunte in rappresentanza dell’associazione (ricordiamo che verso i terzi rispondono solidalmente con l’associazione anche le persone che hanno agito in veste di rappresentanti, art. 38). c) Comitati non riconosciuti. I comitati si costituiscono per raccogliere fondi da impiegare in attività di soccorso, beneficenza, per erigere opere pubbliche, monumenti, fare mostre, esposizioni, festeggiamenti (art. 39). Qualora lo scopo non sia realizzabile o residuino comunque dei fondi, questi verranno devoluti a scopi di pubblico interesse indicati dall’atto costitutivo o dall’autorità governativa (art. 42).
§ 4. I principali gruppi senza personalità
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Il contratto associativo che dà origine al gruppo viene costituito dai promotori o fondatori del comitato, i quali rispondono personalmente e solidalmente della conservazione e destinazione dei fondi raccolti (art. 40). Tutti costoro rispondono anche delle obbligazioni assunte verso i terzi dal comitato personalmente e solidalmente con esso, mentre i sottoscrittori o oblatori, che hanno promesso di contribuire, rispondono soltanto di tali oblazioni (art. 41). d) Consorzi tra imprenditori. Ricordiamo innanzitutto che è imprenditore colui che esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (art. 2082). Come è noto, nell’ambito dell’attività economica, fermi restando i rischi e i vantaggi propri di ogni singolo settore produttivo, lo sviluppo di ciascuna azienda, e quindi la capacità di ricavare degli utili, varia secondo le caratteristiche della organizzazione creata dall’imprenditore. A tal fine concorrono diversi elementi: l’attitudine a coordinare l’attività dei collaboratori e delle maestranze, l’abilità nel procurarsi i mezzi di finanziamento, la scelta degli obiettivi e la conoscenza del mercato, la competenza tecnica nella utilizzazione dei macchinari e degli altri strumenti materiali.
Può succedere che alcuni imprenditori, pur conservando, ciascuno, la direzione della propria attività economica (ricordiamo che se fosse messa in comune l’intera attività si avrebbe una impresa collettiva e quindi una società), istituiscono una organizzazione per svolgere in comune soltanto l’attività propria di una singola fase produttiva, come potrebbe essere lo smaltimento dei rifiuti, la costruzione di un centro di elaborazione dati e così via, oppure si organizzano per disciplinare la concorrenza o per contingentare la produzione (art. 2602). Anche il contratto di consorzio (che richiede la forma scritta, art. 2603) è un contratto associativo che può prevedere solo attività interna al gruppo o anche la costituzione di un ufficio con attività esterna (in tal caso il consorzio deve essere iscritto nel registro delle imprese). Il fondo consortile non può essere diviso né aggredito dai creditori personali finché dura il consorzio, secondo la regola della autonomia patrimoniale (art. 2614). Per le obbligazioni assunte verso i terzi in nome del consorzio (diversamente da quanto accade nelle associazioni non riconosciute) risponde solo il fondo consortile (art. 2615).
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
Si direbbe dunque che vi sia autonomia patrimoniale perfetta, tanto che qualche autore attribuisce al consorzio con attività esterna la personalità giuridica. In base ad un’altra spiegazione siffatta autonomia sarebbe associata piuttosto alla trasparenza della situazione patrimoniale del gruppo, assicurata dall’obbligo del consorzio di redigere i bilanci secondo le norme della società per azioni e di depositarlo presso il registro delle imprese (art. 2615 bis).
5. Le persone giuridiche. Abbiamo accennato ad alcune regole circa la titolarità delle situazioni giuridiche e la responsabilità per i debiti assunti dal gruppo. Ciò che contraddistingue un ente dotato di personalità giuridica, rispetto ad altri enti privi di tale caratteristica, non concerne, tuttavia, soltanto tali aspetti, ma sta nella soggezione dell’ente ad una disciplina ben precisa imposta dalla legge che lo vincola rigidamente, a differenza degli enti privi di personalità, i quali possono variare il loro assetto in modo più elastico modificando le regole interne assai più liberamente. Facciamo l’ipotesi di costituire contemporaneamente due associazioni con gli stessi scopi e regole statutarie identiche fra loro. Una di esse chiede ed ottiene il riconoscimento, mentre l’altra intende operare come associazione non riconosciuta. Ora, mentre il gruppo che ha ottenuto la personalità è vincolato a conservare l’assetto dato, sotto la vigilanza della pubblica autorità, cui deve sottoporre eventuali modifiche di statuto, e a sottostare ad uno speciale regime di pubblicità nell’interesse dei terzi (cfr. gli artt. 2 e 3, l. n. 361 del 2000), l’associazione non riconosciuta resta libera di organizzarsi come desiderano gli associati, cambiando, ad es. il sistema di elezione degli amministratori, mutando le finalità del gruppo, modificando l’entità del patrimonio destinato al raggiungimento dei suoi scopi.
Le persone giuridiche private sono, da un lato, le società di capitali, regolate dal codice nel Libro V, e dall’altro le associazioni e le fondazioni riconosciute, regolate nel libro primo (artt. 14-35), che ci interessano più direttamente in questa sede. Per le associazioni e le fondazioni destinate a diventare persone giuridiche è richiesta innanzitutto la forma dell’atto pubblico per l’atto costitutivo, ma la fondazione può essere disposta anche per testamento. L’atto costitutivo o lo statuto devono contenere la denominazione dell’ente, l’indicazione dello scopo, del patrimonio e della sede, le generalità degli amministratori con potere di rappresentanza (tutte notizie che vanno
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indicate nel registro delle persone giuridiche), nonché le norme sull’ordinamento e sull’amministrazione. Nelle associazioni si devono prevedere i diritti e gli obblighi degli associati, ma anche le condizioni per l’adesione dei nuovi associati, tenuto conto della natura aperta del contratto (anche se ciò non fa nascere un diritto degli estranei ad essere accettati, ma tutela gli associati contro eventuali comportamenti abusivi degli amministratori: sono quindi norme di organizzazione interna). Nelle fondazioni devono essere previste le modalità di erogazione delle rendite (art. 16). L’atto costitutivo o lo statuto possono contenere, infine, norme relative alla estinzione dell’ente e alla devoluzione del patrimonio. Esistono anche le c.d. fondazioni familiari (art. 283) nelle quali i beneficiari non sono presi in considerazione in quanto eredi o discendenti, ma in quanto si trovino in situazioni meritevoli, secondo una considerazione sociale (erogazioni giustificate dallo stato di bisogno, sussidi per avviamento alla professione, contribuzioni per la nascita di un figlio, ecc.).
Salvo quanto si dirà tra breve per gli Enti del Terzo Settore (v. infra, par. 7) i modi di acquisto della personalità possono essere due: – per gli enti senza scopo di lucro, come le associazioni, le fondazioni e i comitati, è necessaria l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, istituito presso le prefetture o presso le regioni (per le persone giuridiche attive in ambito regionale). La nuova legge, il d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361 rende più agile e meno discrezionale il sistema del riconoscimento, prima affidato ad un decreto governativo. – per le società di capitali (società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata) la personalità si ottiene con l’iscrizione nel registro delle imprese. L’iscrizione di una fondazione o di una associazione nel registro delle persone giuridiche non è automatica, ma presuppone un controllo di merito da parte della pubblica autorità competente, circa l’esistenza dei presupposti fissati dalla legge (liceità dello scopo, idoneità del patrimonio, ecc.). Per ragioni motivate la prefettura può rifiutare l’iscrizione e chiedere di integrare la documentazione presentata, altrimenti il prefetto provvede all’iscrizione entro 120 giorni (cfr. d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361, art. 1). Quando una società di capitali chiede l’iscrizione nel registro delle imprese il controllo effettuato dall’Ufficio del registro delle imprese è meramente formale e concerne i requisiti previsti nel codice civile (cfr. gli artt. 2330 e 2436 c.c.).
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
Poiché la legge ritiene idonei tali enti ad acquistare situazioni giuridiche, diremo che attribuisce loro una vera e propria capacità giuridica, simile a quella che viene attribuita alla persona fisica, quindi una capacità generale, con l’esclusione della capacità di acquistare diritti e status o compiere atti di disposizione propri dell’uomo (ovviamente la persona giuridica non può sposarsi, fare testamento, riconoscere figli nati fuori del matrimonio, ecc.). La persona giuridica, inoltre, gode anch’essa di una protezione accordata dalla legge per quanto concerne alcuni beni di fondamentale importanza. Ciò si traduce, come sappiamo, in altrettanti diritti soggettivi come il diritto al nome, all’onore, all’inviolabilità della sede, alla segretezza della corrispondenza e così via, nei termini in cui ha senso una tutela simmetrica rispetto a quella della persona umana. Oggi, dopo recenti modifiche legislative, anche le associazioni e le fondazioni, come già avveniva per le società di capitali, possono acquistare lasciti o donazioni senza bisogno di alcuna autorizzazione governativa. Già da qualche tempo, tuttavia, la legge riconosceva anche alle associazioni non riconosciute la capacità di essere titolari di diritti reali immobiliari (art. 2659). La vecchia disciplina che imponeva limiti di tal genere era giustificata dallo sfavore verso la creazione della c.d. manomorta, cioè di patrimoni che, appartenendo ad enti non commerciali, amministrati con finalità di lungo periodo, potevano accumulare ingenti quantità di beni togliendoli dalla circolazione e dal mercato.
Ovviamente le persone giuridiche non possono agire nel traffico giuridico se non attraverso l’opera delle persone fisiche le quali, oltre a svolgere le attività materiali che la organizzazione si è obbligata a realizzare nei confronti dei terzi, hanno la funzione di rappresentare l’ente nella stipulazione dei contratti con i terzi dichiarando quella che è la volontà del gruppo. Si parla, a tale proposito, di organi della persona giuridica e l’attività svolta in tale ambito prende il nome di rappresentanza organica o istituzionale, distinta dalla comune rappresentanza in quanto non vi è duplicità di soggetti, ma l’ente “parla e agisce” solo attraverso la persona che funge da organo. Nelle associazioni (in senso ampio, e quindi anche nelle società) la volontà dell’ente viene a formarsi nell’organo che ha il potere di deliberare, cioè l’assemblea. È necessario che tale organo sia regolarmente convocato (artt. 20 e 21), con l’indicazione degli argomenti da trattare (l’ordine del giorno), in modo che tutti siano informati, che vi sia il c.d. quorum cioè il numero minimo che rende valida la seduta (se non è raggiunto in prima convocazione è ridotto nella convocazione successiva e può variare secondo l’oggetto della delibera); nella votazione opera il
§ 5. Le persone giuridiche
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principio di maggioranza e cioè la mozione approvata dalla maggioranza si considera volontà del gruppo anche se vi sono voti contrari o astenuti. Le volontà dei singoli, pur restando distinte (il voto di taluno potrebbe essere invalido per particolari ragioni senza viziare gli altri) vengono a far parte di un atto che ha rilevanza giuridica unitaria, chiamato atto collegiale (non ostante la nullità di qualche voto resta valida la votazione nel suo complesso se supera la c.d. prova di resistenza, cioè se vi è ugualmente la maggioranza anche senza i voti impugnati). Ciascun organo o associato (ma anche il pubblico ministero) può chiedere la sospensione e l’annullamento di una delibera contraria alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto (art. 23). Le delibere dell’assemblea vengono attuate da un organo esecutivo (che può assumere vari nomi, secondo il tipo di ente, ad es. direttore, amministratore unico, consiglio di amministrazione, comitato esecutivo, ecc.) nominato dagli associati.
Gli amministratori traggono il loro potere direttamente dalla legge (che prevede tali organi) e dal contratto associativo. Essi rispondono nei confronti dell’associazione, secondo le norme sul mandato (responsabilità contrattuale per inadempimento), dei danni causati all’ente (ma non risponde chi non era presente alla decisione o chi ha manifestato il proprio dissenso dall’atto che si stava per compiere, v. artt. 18, 2260, 2392). Per i debiti del gruppo verso i suoi creditori, invece, non rispondono gli amministratori né alcun altro, ma soltanto l’ente col suo patrimonio, data l’autonomia patrimoniale perfetta della persona giuridica. La rappresentanza verso i terzi o in giudizio spetta di solito ad un presidente, anch’esso nominato dall’assemblea o dal consiglio. Il potere di rappresentanza, esercitato dagli organi dell’ente nei confronti dei terzi, s’intende generale e quindi esteso anche ad atti estranei alla stretta attività del gruppo (c.d. atti ultra vires); la persona giuridica perciò dovrà rispondere di tutte le obbligazioni assunte dai suoi organi, a nome dell’ente, a meno che le limitazioni del potere di rappresentanza non risultino iscritte nel registro delle persone giuridiche o non si provi che i terzi ne erano a conoscenza (art. 19), in tal caso si dice che esse sono opponibili ai terzi. La qualità di associato non è trasmissibile se non è previsto nello statuto; l’associato può recedere, di norma, con effetto allo scadere di ciascun anno, comunicando la sua intenzione agli amministratori con preavviso di tre mesi, e può essere escluso per gravi motivi (che devono risultare espressamente dalla delibera, art. 24). In entrambi i casi perde i contributi versati ed eventuali diritti in ordine al patrimonio dell’associazione (ad es. quello di decidere circa la devoluzione di questo).
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
Nelle fondazioni il potere degli amministratori è assai più ampio che nelle associazioni in quanto essi non devono rispondere all’assemblea, ma unicamente eseguire ciò che prevede lo statuto o la legge, esclusa ogni ingerenza da parte del fondatore o dei suoi eredi. Il controllo e la vigilanza sull’amministrazione è esercitata invece dall’autorità amministrativa, che può nominare o sostituire gli amministratori e i rappresentanti in caso di violazione dei loro obblighi legali o statutari, qualora non agiscano in conformità con gli scopi della fondazione, può annullare le delibere illecite o contrarie allo statuto, sciogliere l’amministrazione e nominare un commissario, in caso di violazioni compiute dagli amministratori, ma può anche coordinare l’attività di più fondazioni, unificarne l’amministrazione, dichiararne la trasformazione per impossibilità o scarsa utilità dello scopo (art. 28), allontanandosi il meno possibile dalla volontà del fondatore. Alla estinzione dell’ente segue, in generale, il divieto per gli amministratori di compiere nuove operazioni, la liquidazione del patrimonio e la devoluzione secondo l’atto costitutivo o lo statuto. In mancanza di disposizioni in materia (se per le associazioni non decide l’assemblea) decide in ogni caso l’autorità governativa provvedendo ad assegnare i fondi ad enti con finalità analoghe. Resterebbe esclusa, comunque, la distribuzione del residuo agli associati, data la natura non lucrativa della istituzione.
6. Una nuova figura di patrimonio di destinazione. Un istituto del tutto nuovo, che non dà luogo al sorgere di una persona giuridica è ora disciplinato dall’art. 2645 ter. Per soddisfare interessi meritevoli di tutela relativi a persone fisiche, sane o disabili, a persone giuridiche, private o pubbliche, altri enti o pubbliche amministrazioni, è possibile destinare beni immobili o beni mobili registrati mediante un atto pubblico di conferimento che vale al massimo per la vita del beneficiario, se persona fisica, o per novanta anni, se si tratta di enti. L’atto può essere trascritto nei registri immobiliari al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo. Si crea, pertanto un patrimonio di destinazione con duplice rilevanza: 1. Quanto all’utilizzo, tali beni possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e qualsiasi interessato può agire anche durante la vita del conferente per ottenere l’adempimento;
§ 7. Gli Enti del Terzo Settore
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2. tali beni e i loro frutti sono soggetti ad una responsabilità patrimoniale separata, infatti non rispondono né per i debiti del conferente, né genericamente per i debiti del loro titolare, ma solo per quelli contratti con specifico riferimento allo scopo di destinazione. (Salvo, ovviamente, che si sia avviato il procedimento esecutivo e sia avvenuto un pignoramento anteriormente alla trascrizione dell’atto di destinazione, ovvero che un creditore, pregiudicato da tale atto di disposizione, eserciti vittoriosamente l’azione revocatoria).
7. Gli Enti del Terzo Settore Tutti conosciamo ed apprezziamo le Onlus, le attività di volontariato, le associazioni filantropiche, di promozione sociale e così via. Questo settore è stato recentemente regolato, riordinando tutta la normativa, con l. delega n. 106 del 2006 seguita da vari decreti di attuazione, tra i quali il d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, che prende il nome di Codice del Terzo Settore. In sintesi, la Riforma (dopo aver abrogato le leggi sul volontariato, sulle Associazioni di promozione sociale e parte di quella sulle Onlus) definisce alcune figure associative tipiche, chiamate Enti del Terzo Settore (ETS): 1) organizzazioni di volontariato; 2) associazioni di promozione sociale; 3) enti filantropici; 4) imprese sociali (incluse cooperative sociali); 5) reti associative; 6) società di mutuo soccorso; 7) associazioni riconosciute e non riconosciute, fondazioni e altri enti privati diversi dalle società. Lo scopo che accomuna questi Enti e li contraddistingue in particolare da quelli di “diritto comune” che non possono rientrare nel Terzo Settore (v. ad es. le associazioni e le fondazioni di cui al n. 7 di cui si è parlato supra, nei parr. 4 e 5) è il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento (in via esclusiva o principale) di una o più attività di interesse generale in forma di: a) azione volontaria; b) erogazione gratuita di denaro, beni o servizi; c) mutualità; d) produzione o scambio di beni o servizi. Il campo delle attività di interesse generale è delineato nell’art. 5, con un elenco aggiornabile nel tempo: ad es. sanità, assistenza, istruzione, tutela dell’ambiente, ospitalità, commercio equo, agricoltura sociale, etc. Nel rispetto di questi requisiti fondamentali può diventare un ETS ed assumere la qualifica di impresa sociale anche un ente privato, (inclusi gli enti previsti dal Libro V del Codice, ma escluse le società con unico socio), purché i loro atti costitutivi non limitino le erogazioni o le prestazioni ai
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Cap. 11. Le persone giuridiche e i gruppi organizzati
soli soci o associati (scopo egoistico), e anche gli enti religiosi, a particolari condizioni. Non entrano negli ETS gli Enti pubblici né le Fondazioni di origine bancaria; queste, tuttavia, avranno la maggioranza negli Organismi territoriali di controllo (articolazioni di un Organismo nazionale) destinati a governare i Centri di servizi per il volontariato (CSV), già molto utili in passato e rivolti in futuro a prestare servizi a tutti i volontari negli ETS. La costituzione degli ETS richiede una iscrizione formale al nuovo Registro unico nazionale del Terzo Settore (già familiarmente chiamato RUNTS: come si vede è il trionfo degli acronimi!) gestito regionalmente, ma con sede nazionale presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. L’iscrizione determina: – il riconoscimento della personalità giuridica (in modo semplificato); – l’obbligo di rispettare norme di gestione dell’Ente (bilanci, rapporti di lavoro, assicurazione dei volontari, destinazione degli utili eventuali, democrazia interna e così via); – il godimento di esenzioni, vantaggi economici, incentivi fiscali (ad es. agevolazioni nelle imposte indirette riguardanti gli immobili, credito d’imposta a vantaggio di chi effettua liberalità in denaro a favore degli ETS etc.).
§ 2. Gli elementi dell’illecito aquiliano: l’antigiuridicità
PARTE QUINTA
GLI ATTI GIURIDICI
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Cap. 12. Gli atti illeciti
§ 2. Gli elementi dell’illecito aquiliano: l’antigiuridicità
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CAPITOLO 12
GLI ATTI ILLECITI
SOMMARIO: 1. Fatto, atto illecito, imputabilità. – 2. Gli elementi dell’illecito aquiliano: l’antigiuridicità. – 3. La colpevolezza e il nesso di causalità. – 4. Il danno patrimoniale e non patrimoniale. – 5. La disciplina dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale.
1. Fatto, atto illecito, imputabilità. Gli atti giuridici possono dividersi in due grandi categorie: quella degli atti leciti e quella degli atti illeciti. Come primo spunto descrittivo si può dire che mentre gli atti leciti producono delle conseguenze coerenti con la volontà o con la dichiarazione del soggetto agente (si consideri un pagamento, un contratto, un testamento) ancorché non sempre abbiano effetti propriamente vantaggiosi (si pensi alla confessione o alla remissione del debito), gli atti illeciti, invece, generano conseguenze giuridiche negative a carico del soggetto che ne è responsabile, cioè contrarie al suo interesse. Tali conseguenze negative possono essere di vario tipo, come l’obbligo di interrompere lo svolgimento di una attività illecita, l’obbligo di risarcire il danno, o di ripristinare, se possibile, la situazione violata quale era in principio (obbligo di riparazione, restitutio in integrum). Già parlando delle conseguenze si nota l’elemento che caratterizza l’illecito civile e cioè la lesione di un bene o di una situazione giuridica che è protetta dalla legge, situazione di cui può essere titolare una persona fisica, una persona giuridica o altro ente organizzato, anche come rappresentante dell’interesse di una pluralità di persone (si parla, in tal caso di interessi diffusi, ad es. su denuncia di una associazione ecologista lo Stato chiede un risarcimento per danni all’ambiente in seguito ad un episodio di inquinamento da parte di una fabbrica).
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Cap. 12. Gli atti illeciti
– Una prima categoria di illecito non viene trattata in questo capitolo perché si studia nella parte generale del diritto delle obbligazioni (v. infra, Cap. 29, par. 10) e prende il nome di illecito contrattuale. Esso consiste nella violazione della norma che impone di adempiere una obbligazione. Tale forma di illecito presuppone, pertanto, l’esistenza di una obbligazione, cioè un rapporto giuridico patrimoniale fra due determinati soggetti, che vincola uno di essi ad eseguire una determinata prestazione per soddisfare l’altro. Vi è dunque una pretesa del soggetto attivo che può essere soddisfatta soltanto dall’adempimento del soggetto passivo. La violazione del diritto del creditore è concepibile soltanto da parte del debitore, non di altri soggetti. Talora le parole usate nel linguaggio giuridico possono ingannare: l’espressione “illecito contrattuale” ha un significato assai più ampio di quello letterale, infatti comprende ogni ipotesi di inadempimento di una obbligazione, da qualsiasi fonte essa sia nata, quindi non soltanto da contratto. Altre fonti possono essere, come si è visto, il testamento (con cui si può imporre un obbligo all’erede) ma anche il pagamento dell’indebito (che obbliga l’accipiens alla restituzione), il diritto agli alimenti (che obbliga il parente più stretto a sostenere una persona in stato di bisogno), il vincolo di filiazione (che obbliga il genitore al mantenimento) e così via.
In questo tipo di illecito, che – ripetiamo – presuppone l’esistenza di un vincolo già sorto validamente, l’adempimento è dovuto anche se il soggetto passivo (debitore) fosse incapace di intendere o di volere. Ad es. se fosse stata validamente accettata una eredità disposta a favore di un bambino che impone all’erede un legato, l’adempimento a favore del legatario non potrebbe essere evitato con l’eccezione di incapacità naturale dell’erede obbligato. Se il vincolo c’è, va adempiuto. E così se fosse stato concluso validamente un contratto che fa nascere una obbligazione a carico di un incapace d’intendere o di volere (bambino, anziano affetto da demenza, malato di mente) ad es. un appalto per restaurare un immobile dell’incapace, non vi è dubbio che il prezzo dell’opera prestata deve essere pagato (ovviamente in questi casi si porrà il problema del potere di agire nell’interesse dell’incapace, accettare l’eredità, stipulare il contratto, effettuare il pagamento, ma non confondiamo il sostituto nell’attività giuridica con il titolare della situazione di debito, credito, proprietà, ecc.).
– Una seconda, fondamentale, categoria di illecito, che trattiamo in questo capitolo, prende il nome di illecito extracontrattuale o aquiliano (dal nome dell’antica lex aquilia). Secondo quanto afferma una tradizione millenaria questo illecito consisterebbe nella violazione di una norma che
§ 2. Gli elementi dell’illecito aquiliano: l’antigiuridicità
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impone a tutti e a ciascuno di non danneggiare gli altri (neminem laedere). In realtà non si può neppure dimostrare che questo principio, concepito in termini così generali, esista davvero. Vediamo meglio come stanno le cose. La norma fondamentale è costituita dall’art. 2043: “Qualunque fatto doloso o colposo cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Esaminando il profilo letterale qualcuno potrebbe osservare che la legge non parla di atto ma di “fatto” illecito. L’esame delle norme seguenti dimostra che l’espressione è impropria: infatti l’art. 2046 c.c. stabilisce che per rispondere di questa specie di illecito civile è richiesta la imputabilità, cioè occorre la capacità di intendere e di volere che permette al soggetto di percepire la natura antisociale del proprio comportamento; quindi l’idea della sanzione richiama quella della colpa, cioè dell’agire consapevole, tipico dell’uomo. È più corretto, pertanto, parlare di atto illecito. Chi è del tutto incapace d’intendere o di volere (ad es. a causa dell’età o di una malattia) e cagiona danno a terzi non compie, secondo la terminologia del legislatore, un fatto illecito, ma tutt’al più, un fatto dannoso del quale non dovrà rispondere personalmente secondo le regole che stiamo per esaminare. Se il fatto è compiuto da un incapace di intendere e di volere, la legge ritiene responsabile colui che, al momento del fatto, aveva l’obbligo di custodirlo, ad es. il genitore o la maestra d’asilo o l’infermiere che assiste il malato di mente, salvo che costoro provino di non aver potuto impedire il fatto. Se riesce a dare tale prova, peraltro assai difficile, neppure il sorvegliante risponde. In tal caso, tenendo conto delle condizioni economiche delle parti il giudice può assegnare un’equa indennità al danneggiato a carico del patrimonio dell’incapace (art. 2047 c.c.). Questa soluzione è fondata, chiaramente, su di un principio di equità e non sulla responsabilità di stretto diritto.
2. Gli elementi dell’illecito aquiliano: l’antigiuridicità. Gli elementi che caratterizzano il fatto illecito, si possono schematizzare in tre aspetti: antigiuridicità, colpevolezza e danno. L’antigiuridicità consiste nella violazione di un diritto o di un bene protetto dalla legge. Il genere più rilevante di illecito extracontrattuale è costituito dalla offesa di un bene inerente alla persona (nome, onore, integrità fisi-
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Cap. 12. Gli atti illeciti
ca, ecc.) o attinente al patrimonio (proprietà, diritti reali, proprietà intellettuale sulle opere dell’ingegno). In linea generale si può dire che il danno è certamente ingiusto, allorquando risultano violati dei diritti assoluti. All’infuori di tali casi la dottrina e la giurisprudenza si sono sforzate di individuare altre ipotesi di ingiustizia del danno che non derivano dalla violazione di diritti assoluti, ma dalla violazione di beni comunque protetti dalla legge. Ad es., si parla di responsabilità per false informazioni (da parte di chi non è obbligato a fornire dati esatti in base ad un rapporto giuridico, ad es. un contratto di consulenza, ma comunque, dicendo colpevolmente cose non vere o inesatte, induce nei terzi un affidamento erroneo: si pensi a una banca, che descrive la situazione patrimoniale di un cliente come se fosse florida, sì che taluno è indotto a fargli credito, mentre invece la persona in questione si trova in cattive acque), oppure di responsabilità per lesione del credito da parte di terzi (quindi soggetti diversi dal debitore, che con il loro comportamento impediscono a quest’ultimo di adempiere regolarmente). È illecita anche la violazione del possesso che, pur essendo una situazione di fatto (v. infra, Cap. 36), è comunque una situazione protetta dalla legge. Un campo particolarmente interessante dell’illecito, tutto da approfondire, al confine tra il Diritto amministrativo e il Diritto civile, concerne il danno derivante da violazione di interessi legittimi del privato da parte della P.A. La legge e la giurisprudenza hanno introdotto importanti innovazioni in proposito (v. supra, Cap. 6, par. 3).
Diversamente da quanto si è visto per l’inadempimento di un obbligo, che può provenire da una parte sola, la violazione che cagiona un illecito extracontrattuale può avvenire per opera di chiunque. Pertanto per agire contro il responsabile nell’illecito contrattuale bisognerà dimostrare che era sorta una obbligazione e affermare che il debitore non ha adempiuto o ha adempiuto male (l’impianto di condizionamento, montato dall’impresa tale, non funziona, la somma che ho pagato per errore non mi è stata restituita, l’erede non ha adempiuto al legato imposto dal testatore, ecc.), dopo di che spetterà al debitore discolparsi, mentre nell’illecito extracontrattuale bisognerà dimostrare che vi era un bene protetto dalla legge e che il comportamento del responsabile ha causato una lesione (diffamazione, lesioni personali, danneggiamento di una cosa altrui, pubblicazione abusiva di un’opera letteraria, utilizzo indebito di una invenzione coperta da brevetto industriale, ecc.).
§ 3. La colpevolezza e il nesso di causalità
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3. La colpevolezza e il nesso di causalità. Come si è già visto nel par. 1, il soggetto è imputabile (cioè gli può essere addebitato l’illecito in quanto da lui compiuto con atti di cui è responsabile) quando è dotato di capacità d’intendere e di volere. Il danno, tuttavia, può essere cagionato dal soggetto agente in due modi: a) Nell’ipotesi più frequente e meno grave il danno è provocato per distrazione, negligenza, imprudenza, imperizia, violazione di regole tecniche o giuridiche, cioè, in una parola, per colpa (se ne conoscono diverse gradazioni, dalla colpa lieve a quella media fino a quella grave, che i romani definivano: non intelligere quod omnes intellegunt, cioè non capire ciò che è chiaro a tutti). Nei rapporti con gli altri è richiesta quotidianamente una diligenza media che potremmo chiamare generica, perché può essere rapportata alla prudenza o alla cautela dell’uomo medio o, come si suole dire, del buon padre di famiglia (bonus paterfamilias). In alcuni casi, tuttavia, il soggetto che cagiona un danno risponde se non può dimostrare di avere adottato una diligenza massima, ad es. di non avere potuto impedire il fatto (artt. 2047, 2048) o di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno (art. 2050) o di aver fatto tutto il possibile (art. 2054). Queste ipotesi, nelle quali viene modificato a carico del danneggiante il criterio medio della diligenza e per tale ragione diventa difficile liberarsi dalla responsabilità, vengono fatte rientrare nell’ambito della c.d. responsabilità oggettiva di cui si parlerà tra poco.
b) Nell’ipotesi meno frequente e più riprovevole il danno può essere cagionato intenzionalmente, cioè con dolo. Contrariamente a ciò che avviene nel campo dell’illecito contrattuale (v. infra, Cap. 29, par. 10) la legge non fa alcuna distinzione fra colpa e dolo nell’illecito aquiliano. Il danno risarcibile in entrambi i casi è perciò tanto quello prevedibile quanto quello imprevedibile, sempre che rientri nei limiti del nesso di causalità. Eccezionalmente la legge ritiene responsabile anche chi non ha colpa nella produzione dell’evento dannoso. Si parla in questi casi di responsabilità oggettiva. In questo caso si dice che l’illecito è oggettivamente imputabile ad una persona, in quanto la legge la chiama comunque a rispondere. Viene addossata, per esempio, ad un soggetto la conseguenza di un danno provocato da un animale di cui egli si serve o è proprietario (art. 2052 c.c.) o da cose in custodia (art. 2051 c.c.), da attività pericolose
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Cap. 12. Gli atti illeciti
(art. 2050 c.c.), da cose di proprietà (edifici, veicoli, artt. 2053, 2054 c.c.). L’idea che sta alla base di tale disciplina è questa: chi ha un potere di fatto perché ha il controllo di una determinata situazione materiale, o ha la sorveglianza di altri soggetti ovvero chi trae vantaggio da una certa attività economica deve rispondere dei rischi che tale posizione comporta. Perciò dei danni compiuti da un animale risponde il proprietario (o chi se ne serve, limitatamente al tempo in cui lo ha in uso) anche se soggettivamente (incapace d’intendere o di volere e quindi) non imputabile. Rientra in questa nozione ampia di responsabilità oggettiva anche la responsabilità dei genitori, per i figli minori, o dei tutori, per le persone soggette alla tutela che abitano con essi, e la responsabilità dei precettori o di coloro che insegnano un’arte o una professione, per il danno cagionato dagli allievi o apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Si noti che nella previsione dell’art. 2048 (diversamente da quella dell’art. 2047) l’autore del danno è un soggetto capace d’intendere o di volere, che compie un atto illecito; di conseguenza chi deve rispondere, in primo luogo, è il danneggiante con tutto il suo patrimonio (figlio minore, apprendista, allievo). Per agevolare la posizione del danneggiato la legge, accanto al responsabile, chiama a rispondere (solidalmente anche) chi ne aveva la vigilanza e il controllo (si parla infatti di culpa in vigilando). Il soggetto corresponsabile è liberato solo se prova di non aver potuto impedire il fatto, predisponendo ogni mezzo e ogni cura utile per evitarlo. Analoga responsabilità per una attività altrui ricade sui padroni e committenti, solidalmente con i domestici o commessi che, nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti, hanno provocato il danno a terzi (ad es., se il commesso di un negozio, estraendo della merce dagli scaffali, ferisce un cliente o se la cameriera, pulendo i vetri, fa cadere dal balcone un vaso da fiori sulla testa di un passante). Questa volta, tuttavia, la legge non prevede neppure una prova liberatoria a favore del datore di lavoro, il quale risponde insieme all’autore materiale del danno (art. 2049 c.c.). L’onere di una difficile prova liberatoria concessa nei vari casi accennati (non aver potuto impedire il fatto, avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno, essere l’evento dovuto a caso fortuito o forza maggiore) rispecchia l’esigenza stessa di far cadere su di una persona piuttosto che su di un altra il rischio insito in determinate situazioni. In ogni caso, qualunque sia la natura della responsabilità, occorre, comunque, dimostrare che vi è un nesso di causalità fra il comportamento del soggetto autore del fatto e la produzione della lesione.
§ 4. Il danno patrimoniale e non patrimoniale
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Il criterio più accettato è quello della c.d. causalità adeguata, in base al quale si guarda se la lesione è la conseguenza normale del comportamento colposo o doloso del soggetto agente, secondo criteri di ordinaria esperienza. La catena delle conseguenze di un determinato comportamento può essere interrotta da un evento straordinario che da sé soltanto è sufficiente a produrre il fatto dannoso. Ad es. se un incidente stradale, di cui è responsabile un automobilista, cagiona gravi lesioni ad un pedone il danneggiante dovrà rispondere tanto se il danneggiato guarisce presto, quanto se la malattia evolve negativamente fino a cagionare la morte, sempre che tale esito rientri nelle normali conseguenze della lesione. Ma se durante il trasporto all’ospedale il ferito viene investito mortalmente (quando si dice la sfortuna!) o se l’infermiera inietta per sbaglio un farmaco controindicato che provoca un arresto cardiaco, l’automobilista che ha cagionato l’incidente non può essere considerato responsabile della morte. Ove si ragionasse movendo da diverse considerazioni (ad es.: se quel pedone non fosse stato investito non sarebbe stato trasportato in ospedale e non avrebbe avuto bisogno di cure, dunque non sarebbe morto), si può anche concludere che la causa di tutti i guai successivi risale al fatto iniziale, ma di questo passo la catena delle cause non avrebbe mai fine, perché si può sempre risalire ad un fatto senza il quale non si sarebbero verificati gli eventi che sono seguiti, perciò è da scartare il criterio della c.d. “causalità sine qua non” che porterebbe a siffatte conclusioni.
4. Il danno patrimoniale e non patrimoniale. Di regola al danneggiato, in qualunque specie di illecito, spetta il diritto al risarcimento del danno. Danno significa innanzitutto lesione patrimoniale, che può consistere nel c.d. danno emergente, quantificabile considerando la diminuzione economica causata dall’illecito (ad es. le spese necessarie per le riparazioni, le cure e così via) o nel c.d. lucro cessante, cioè nella perdita di occasioni di guadagno (ad es. la diminuzione del reddito, la perdita di un affare vantaggioso, ecc.). Secondo la Cassazione (ord. n. 10750 del 2020) la prova del lucro cessante può essere data con tutti i mezzi. Vale anche la prova indiziaria, sulla base della proiezione di situazioni esistenti, che indica come probabile (non basta dire che è possibile) il conseguimento dell’utilità patrimoniale che è poi venuta a mancare come conseguenza immediata e diretta dell’illecito (contrattuale o extracontrattuale).
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Cap. 12. Gli atti illeciti
La diminuzione patrimoniale può anche derivare dalla perdita del buon nome o dell’immagine, in quanto si dimostri che hanno alterato la capacità di guadagno del soggetto offeso.
Nell’illecito aquiliano ha acquistato particolare importanza, a partire dalla sentenza della Cassazione n. 3675 del 1981, il danno biologico consistente in un danno alla persona che viene considerato, da parte della giurisprudenza più recente, come evento dannoso già autonomamente rilevante a prescindere dalla diminuzione della capacità di guadagno (e quindi indipendentemente dalla attività o dalla professione svolta dalla persona offesa). Perciò mentre il danno patrimoniale e il danno morale, di cui si dirà appresso, sono delle conseguenze della violazione di un bene protetto, il fatto lesivo della salute, in cui si concreta il danno biologico, costituisce l’evento, cioè la violazione stessa di tale bene (protetto già a livello costituzionale: art. 32 Cost.). Questo è dunque il significato della distinzione fra danno-conseguenza e danno-evento che era servita per introdurre la risarcibilità del danno biologico nel sistema (cfr. Corte cost. n. 184 del 1986). Il danno biologico colpisce l’integrità psicofisica della persona ed è dimostrabile con accertamenti medico-legali. Una legge (n. 57 del 2001) ha cercato di dare una disciplina, in tema di danno biologico, ai rapporti fra danneggiato e imprese assicuratrici. Al risarcimento del danno biologico, pertanto, secondo le circostanze, si potrebbe aggiungere il risarcimento del danno patrimoniale, che è conseguenza della lesione della persona, ed eventualmente del danno morale, se ne sussistono i presupposti. Il danno morale vero e proprio consiste nel turbamento e nel dolore provocato dall’illecito (anticamente veniva chiamato pretium doloris). Esso appartiene, pertanto, alla categoria del danno non patrimoniale il quale, in base all’art. 2059 di regola, non è risarcibile se non nei casi previsti dalla legge. La norma ha fatto molto discutere per il suo dettato restrittivo: la principale ipotesi tradizionalmente accettata era costituita dall’art. 185 c.p. che dichiara risarcibile il danno non patrimoniale se è conseguente ad un reato. La giurisprudenza, in realtà, ha sempre cercato di allargare l’ambito della protezione accordata dalla legge. Ad esempio, si è arrivati a dire che il danno morale è risarcibile anche se arrecato alle c.d. “vittime secondarie”: ad es. l’uccisione o la grave lesione di una persona (vittima primaria) può creare sofferenze e traumi ai suoi stretti congiunti o al convivente more uxorio (vittime secondarie) se essi dimostrano di aver subito un turbamento nel quadro di un concreto rapporto affettivo (c.d. danni riflessi, cfr. Cass. S.U. n. 9556 del 2002) pur sempre senza disconoscere il principio di regolarità causale: occorre dimostrare, infatti, che lo stesso
§ 4. Il danno patrimoniale e non patrimoniale
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fatto illecito (reato) produce, come conseguenze normali e ordinarie oltre alla lesione diretta della vittima principale, anche la lesione (anch’essa diretta) di un diverso interesse di natura personale di altro soggetto. Il concetto di danno riflesso non va confuso con quello di successione nel diritto al risarcimento del danno, che presuppone un acquisto in capo al titolare e quindi una trasmissione mortis causa di tale diritto. Recentemente la Suprema Corte (Cass. S.U. n. 15350 del 2015) ha negato il diritto dei congiunti a far valere il danno da perdita della vita di un loro caro, deceduto subito dopo il fatto offensivo, affermando che esso non si trasmette ad altri jure hereditatis. Si è constatato inoltre che spesso esistono reati plurioffensivi, cioè fatti illeciti che colpiscono più beni protetti dalla legge, tanto in capo allo stesso soggetto, quanto in capo a soggetti diversi. Ad es. il congiunto della vittima di un reato può subire un danno morale soggettivo per la sofferenza patita ma anche un danno alla salute concretantesi in una durevole conseguenza patologica in violazione di un diritto costituzionalmente protetto (artt. 2 e 32 Cost.). E la Corte costituzionale già nel 1994 (sentenza n. 372) aveva aperto la strada per ammettere l’applicazione dell’art. 2059 anche in questi casi. Oppure un disastro colposo che compromette l’ambiente, come l’emissione di sostanze tossiche da un impianto chimico, offende direttamente la pubblica incolumità (perciò è punito dall’art. 449 c.p.), ma può offendere anche la sfera individuale dei singoli che lavorano o abitano in tale ambiente, sia come danno biologico (va provata la lesione della salute) che come danno morale (per le sofferenze e i patemi d’animo, anche transitori che hanno toccato le persone a causa della esposizione a sostanze inquinanti (cfr. Cass. S.U. n. 2515 del 2002). Nel 2003 la giurisprudenza ha accolto un nuovo e più ampio indirizzo interpretativo dell’art. 2059, facendo rientrare nei “casi previsti dalla legge” ogni offesa alla persona in materia di diritti inviolabili tutelati dalla Costituzione anche se il fatto non sia configurabile come reato (cfr. Cass. nn. 8827 e 8828). Orientamento confermato dalla Corte costituzionale nella pronuncia dell’11 luglio 2003, n. 233. La ragione sta nel fatto che, se si tratta di diritti inviolabili inerenti alla persona, deve esistere una tutela minima che consiste nel risarcimento del danno, quantunque gli interessi offesi siano eminentemente di altra natura. Proprio per la particolare natura che lo distingue, il danno morale può essere determinato dal giudice soltanto secondo equità.
Ma c’è spazio per il risarcimento di altri danni tra il danno morale e il danno biologico? Con molta incertezza la giurisprudenza ha iniziato a riconoscere un risarcimento (in genere assai limitato), anche alla lesione di beni apprezzati in una società più raffinata, come la serenità della vita domestica, la normalità delle relazioni con i propri familiari, il piacere di svolgere attività sportiva o artistica. Si parla, in proposito, di danno esistenziale.
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Cap. 12. Gli atti illeciti
Il danno non è accertabile con perizia medico-legale come quello psicofisico, né consiste in una diminuzione patrimoniale ma consiste generalmente nella privazione di una attività gradita e piacevole, o nella alterazione della “quotidianità”, cioè della normalità dei rapporti con i più stretti familiari o con il proprio partner e diminuisce, in una espressione riassuntiva, il godimento stesso della vita ostacolando la piena espressione dell’individuo. Il fondamento della tutela starebbe nella stessa Carta costituzionale che protegge la persona umana riconoscendo i beni primari della salute, della libertà e così via. Come appare ovvio, il rischio di tale indirizzo è quello di portare ad una esagerata proliferazione del danno risarcibile, fino ad includervi non solo la privazione dell’affetto del proprio cane o del proprio gatto come conseguenza di un fatto illecito altrui – che sarebbe ancora un risultato apprezzabile – ma addirittura le “seccature” che ciascuno subisce inevitabilmente nella vita di ogni giorno. Con quattro sentenze “gemelle” dell’11 novembre 2008 (nn. 26972-3-4-5) le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno cercato di configurare in modo unitario e onnicomprensivo il danno non patrimoniale di cui parla l’art. 2059 riunendo al suo interno le tre figure che – a soli fini descrittivi, e non perché vi siano diversi tipi di illecito – possono qualificarsi come danno biologico, danno morale soggettivo e danno esistenziale. Lo scopo di questa unificazione è quello di evitare duplicazioni e sovrapposizioni di risarcimenti, inducendo i giudici a dare una valutazione globale ed unitaria che tiene conto delle diverse varietà di pregiudizi sofferti. Perciò, schematicamente, si può dire che il danno da illecito extracontrattuale (o danno aquiliano) è di due specie: quello patrimoniale – che è in generale risarcibile ove sussistano tutti i presupposti del fatto illecito di cui parla l’art. 2043, cioè antigiuridicità, colpevolezza e nesso di causalità – e quello non patrimoniale – comprensivo delle diverse sottospecie di pregiudizio alle quali si è fatto cenno – il quale diventa risarcibile, secondo l’art. 2059, non in tutti i casi in cui vi siano i presupposti dell’art. 2043, ma allorquando, oltre a tali presupposti (che pur devono sussistere) vi sia una ulteriore selezione di interessi protetti quale è sottintesa dalla espressione “solo nei casi determinati dalla legge”. Ora, questi casi si sono molto ampliati rispetto alla prospettiva del codice del 1942: viene in considerazione, ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, in primo luogo la lesione dei diritti della persona costituzionalmente inviolabili (ad es. il diritto alla salute e alla conservazione del rapporto parentale con il congiunto) in secondo luogo la lesione specifi-
§ 5. La disciplina dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale
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camente indicata da leggi speciali, che negli ultimi anni si sono moltiplicate (illegittima detenzione causata da colpa grave o dolo del magistrato; espressioni sconvenienti contenute negli scritti difensivi dell’avvocato; lesione della privacy; discriminazione per ragioni di nazionalità, razza, religione, etnia; irragionevole durata del processo; violazione della proprietà industriale); in terzo luogo lesione di interessi protetti da norme che prevedono un reato e quindi garantiscono una tutela penale; in tal caso se riguardano la persona umana possono essere meritevoli di tutela interessi anche non “coperti” da diritti costituzionali inviolabili, ma le offese possono anche non riguardare la persona, come, ad es., un danneggiamento volontario di cose, o un maltrattamento di animali previsto come reato, che può comportare la lesione di un rapporto affettivo meritevole di tutela o la perdita di un ricordo di famiglia. La soglia per ammettere al risarcimento i danni non patrimoniali alla persona, conseguenti alla lesione di diritti inviolabili, sarebbe costituita, secondo le Sezioni Unite, da due ulteriori requisiti: la gravità dell’offesa e la serietà del pregiudizio. Sono due criteri che, come è facilmente prevedibile, faranno discutere gli interpreti. La funzione è chiaramente quella di escludere dal risarcimento i pregiudizi futili o non seri e le offese di scarsa entità, secondo una valutazione sociale della quale il giudice deve farsi interprete via via nel tempo. Concettualmente si deve supporre l’esistenza di un limite alla pretesa del soggetto leso, costituito da un dovere di tolleranza da parte sua nei riguardi di un comportamento dei consociati che produce offese di scarsa rilevanza (un modo di dire efficace usato in proposito è quello di danni bagatellari).
5. La disciplina dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale. a) La norma fondamentale che sanziona l’illecito contrattuale è l’art. 1218, il quale prevede l’obbligo di risarcimento se il debitore non esegue esattamente la prestazione dovuta. Al creditore basta pertanto: 1. provare che esisteva l’obbligazione (perciò dovrà allegare il titolo che ne costituisce la fonte); 2. affermare che non è stata esattamente adempiuta; 3. provare che è stato causato un danno come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (art. 1223 c.c.). Come si può vedere, nell’illecito contrattuale non occorre che il credi-
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Cap. 12. Gli atti illeciti
tore dimostri la colpa del debitore, perché questa si presume, ed è sufficiente dedurre l’inadempimento in giudizio, non occorre provarlo, almeno in prima battuta. Il debitore, piuttosto, è gravato dall’onere di provare di avere esattamente adempiuto o di dimostrare che l’adempimento è divenuto impossibile per una causa a lui non imputabile offrendo la c.d. prova liberatoria. Se invece il creditore riuscisse a dimostrare che l’inadempimento è doloso potrebbe chiedere anche il risarcimento dei danni imprevedibili al momento del sorgere dell’obbligazione. Non è richiesta la imputabilità nel senso indicato nel paragrafo 1 di questo capitolo. Il termine di prescrizione ordinario per l’illecito contrattuale è di dieci anni. b) La norma fondamentale in tema di illecito extracontrattuale (o aquiliano) è contenuta nell’art. 2043: «qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno». Il soggetto offeso deve quindi provare: 1. che esisteva un diritto assoluto o altro bene protetto dalla legge (al di fuori di un rapporto giuridico, altrimenti si ricade nell’illecito contrattuale); 2. che è stato offeso da un comportamento altrui; 3. che il danneggiante ha agito con colpa o dolo; 4. che a tale violazione è seguito un danno, secondo il principio di causalità. Come si vede, in questo caso non vi è alcuna presunzione di colpa a carico del danneggiante (si rientra nel principio generale che pone l’onere della prova a carico dell’attore), ma il responsabile dovrà risarcire danni prevedibili e imprevedibili, senza distinzione, purché siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. Non risponde chi non è imputabile. Nell’illecito aquiliano, la prescrizione del diritto al risarcimento è di cinque anni salvo diversa disposizione di legge. Si è già visto che il danno derivante dalla circolazione dei veicoli si prescrive in due anni (art. 2947 c.c.). Se il fatto è considerato dalla legge come reato e per questo è stabilita nella legge penale una prescrizione più lunga, tale termine si applica anche all’azione civile di risarcimento. Ad es. se in conseguenza di uno scontro di veicoli uno dei
§ 5. La disciplina dell’illecito contrattuale ed extracontrattuale
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conducenti viene riconosciuto responsabile di lesioni gravi il termine di prescrizione per il diritto al risarcimento della persona offesa sarà quello previsto per tale reato (art. 157 c.p.) e non più il termine biennale di cui sopra.
Devono considerarsi eccezionali i casi, già esaminati in precedenza, di responsabilità oggettiva, nei quali l’attore (danneggiato) è esentato dalla prova della colpa del danneggiante e questi dovrà rispondere del danno arrecato se non riesce a dare la prova liberatoria richiesta dalla legge nelle singole fattispecie. In tali ipotesi, pertanto, basterà che il danneggiato provi, oltre al danno e al nesso di causalità, soltanto il presupposto della responsabilità oggettiva, ad es. che il convenuto è proprietario del veicolo danneggiante, o che si serviva dell’animale che ha causato il danno, che è datore di lavoro del domestico o commesso, autori dell’illecito, o è titolare dell’impresa che esercita attività pericolose e così via.
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Cap. 13. Gli atti giuridici leciti
CAPITOLO 13
GLI ATTI GIURIDICI LECITI
SOMMARIO: 1. Nozioni generali e distinzioni. – 2. Gli atti giuridici in senso stretto. – 3. I negozi giuridici. – 4. Il negozio e l’intento giuridico. – 5. L’autonomia privata e i requisiti del contratto.
1. Nozioni generali e distinzioni. Come si è già accennato, nel quadro generale dei fatti giuridici leciti ve ne sono alcuni che hanno rilevanza giuridica solo in quanto siano compiuti dall’uomo come soggetto consapevole di ciò che fa e del significato sociale dei suoi atti. Si tratta dunque di comportamenti o di dichiarazioni che richiedono, innanzitutto, consapevolezza e volontà. La legge richiede espressamente la capacità di intendere e di volere del soggetto per rispondere degli atti illeciti (art. 2046), ma si può argomentare che senza tale requisito non sussiste nessun atto giuridico, neppure nel campo degli atti leciti. L’atto inconsapevole non è neppure un atto proprio dell’uomo e quindi non ha alcun significato sociale, come la dichiarazione di una persona fuor di senno o il comportamento di un bambino. Di conseguenza se manca del tutto la capacità naturale (le cause possono essere diverse: infanzia, demenza senile, pazzia, shock, ipnosi, ecc.) il comportamento o la dichiarazione del soggetto non producono alcuna modifica giuridica: l’atto è nullo per mancanza di volontà.
Tra gli atti giuridici leciti assumono particolare importanza le dichiarazioni cioè quei comportamenti destinati a comunicare qualche cosa a qualcuno attraverso il linguaggio. Essi possono distinguersi in: – partecipazioni di fatti, ad es. la confessione, da cui la legge trae conseguenze giuridiche preordinate, a prescindere dalla volontà e dalle inten-
§ 1. Nozioni generali e distinzioni
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zioni del confitente; la denuncia dei vizi della cosa comprata, richiesta a pena di decadenza, qualora il compratore intenda far valere il diritto alla garanzia (art. 1485); – partecipazioni di intenzioni, ad es. la dichiarazione di revocare la proposta contrattuale (art. 1328), o di volersi valere della clausola risolutiva espressa (art. 14562). Le dichiarazioni possono provenire da una sola persona o da una pluralità di persone. Quando più persone sono chiamate a dichiarare la propria volontà e queste dichiarazioni si fondono in un solo atto, giuridicamente rilevante per la tutela di un unico interesse, si parla di atto complesso. Ad es. il curatore deve dare il suo consenso assieme a quello dell’inabilitato per concludere validamente un contratto eccedente l’ordinaria amministrazione (assistenza del curatore). All’esterno, di fronte all’altro contraente, questa duplice volontà si presenta unitariamente. Il vizio che colpisce una delle due volontà fuse assieme rende invalido l’intero atto. Come si è visto, nei gruppi organizzati esiste sempre un organo deliberativo che ha il potere di prendere le decisioni necessarie per la vita dell’ente. In tal caso più persone fisiche, quali componenti dell’organo in questione (ad es. l’assemblea di una associazione), sono chiamate a dichiarare una volontà. Questa si presenta unitariamente all’esterno in quanto diventa, per legge, l’unica volontà del soggetto superindividuale. Si parla, in tal caso di atto collegiale. La dichiarazione di ciascun partecipante è costituita dal voto espresso in assemblea. Il principio maggioritario applicato dalla legge fa sì che la volontà della maggioranza si consideri come l’unica volontà dell’ente. Non vi è, tuttavia, fusione delle volontà dei votanti, perché l’invalidità di uno o più voti non inficia la deliberazione se si accerta che vi è ugualmente una maggioranza anche senza i voti invalidi (c.d. prova di resistenza). La votazione è valida, come è noto, se tutti gli aventi diritto sono stati regolarmente convocati, se è stato reso noto in anticipo l’argomento della discussione (l’ordine del giorno), se vi è il quorum per la validità della seduta (cioè un sufficiente numero di intervenuti, che può variare in seconda o in terza convocazione) ed infine se la mozione viene approvata dalla maggioranza degli intervenuti.
Non sono rivolti a comunicare e quindi non sono dichiarazioni i c.d. atti materiali, che l’uomo compie consapevolmente per realizzare un risultato utile, ad es., l’apprensione di una cosa mobile con l’intenzione di goderla e di usarla (in altre parole l’impossessamento), o viceversa la dismissione della stessa con l’intenzione di abbandonarla (detta anche abbandono o derelictio),
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Cap. 13. Gli atti giuridici leciti
la trasformazione materiale della cosa fino a crearne una diversa (si pensi all’opera di uno scultore, di un orefice, di un falegname), chiamata dalla legge specificazione. La consapevolezza del proprio agire, cioè la volontarietà del comportamento, dimostra socialmente qual è la finalità pratica perseguita, e ciò è sufficiente affinché la legge disponga, talora, degli effetti giuridici conseguenti a tali atti, ancorché questi effetti non siano stati previsti né conosciuti dal soggetto agente. Ad es. l’impossessamento di una res nullius fa acquistare la proprietà per occupazione (art. 923), la derelictio di un bene mobile fa perdere la proprietà e crea una cosa di nessuno (art. 923), la specificazione fa acquistare la proprietà della materia lavorata, se il valore di questa non sorpassa notevolmente quello della mano d’opera (art. 940).
2. Gli atti giuridici in senso stretto. Gli studiosi hanno cercato di distinguere due categorie di atti giuridici leciti secondo l’importanza che assume la volontà nella produzione degli effetti giuridici: gli atti e i negozi giuridici. Si parla innanzitutto di atti giuridici in senso stretto, là dove è sufficiente che vi sia la consapevolezza del comportamento esteriore (c.d. volontarietà) e del suo significato sociale. La dichiarazione o il comportamento del soggetto devono essere il risultato di una scelta consapevole perché solo a questa condizione tali atti assumono un significato e un valore di fronte agli altri consociati, ma è poi la legge che determina gli effetti giuridici, ancorché questi non siano stati conosciuti o voluti dal soggetto agente. Ad es., se mi reco presso una persona che è mio creditore e inavvertitamente mi cade dalla tasca del denaro, che dimentico di recuperare al momento di andarmene, non si può dire che questo fatto costituisca pagamento: l’evento in questione è puramente materiale e non si può attribuirgli alcun significato intenzionale. Non soltanto non c’è l’intenzione di pagare, ma non c’è neppure la minima intenzione di effettuare la consegna del denaro. D’altra parte, quand’anche si pensi ad un atto in cui risulta la volontà di consegnare materialmente una cosa da parte di una persona, occorre che questa manifesti anche una ulteriore intenzione affinché la traditio assuma un qualche significato sociale, (potrebbe essere un prestito, una restituzione, una donazione e così via), altrimenti anche la consegna, da sola, è del tutto incolore.
Ecco alcuni esempi:
§ 2. Gli atti giuridici in senso stretto
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a) Secondo la dottrina, fra gli atti giuridici in senso stretto si colloca la promessa di matrimonio, la quale non obbliga a sposarsi, ma se fatta vicendevolmente in forma scritta da persone maggiori di età obbliga a risarcire il danno per le spese (ragionevoli, in rapporto alle condizioni economiche di ciascuno) fatte in vista del matrimonio qualora il promittente ricusi senza giusto motivo di celebrarlo (art. 81 c.c.). Come si vede, in tal caso non si produce l’effetto giuridico corrispondente alla promessa, e ciò in omaggio alla libertà matrimoniale, ma un altro effetto giuridico predeterminato dalla legge, ancorché esso sia ignorato dai nubendi. Lo scopo dell’istituto è quello di eliminare un danno ingiustificato (e pur tuttavia derivante da atto lecito) distribuendo il rischio della rottura degli sponsali secondo un determinato criterio di giustizia. b) Un altro esempio tradizionale di mero atto giuridico è rappresentato dal pagamento di un debito (proprio). È atto esecutivo di un rapporto obbligatorio e quindi più che lecito, è addirittura un atto dovuto, che ha l’effetto di estinguere l’obbligazione. La legge dice che il pagamento può essere compiuto validamente anche dall’incapace di agire (ad es. il minore), infatti: «Il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta non può impugnare il pagamento a causa della propria incapacità», art. 1191. La spiegazione è agevole: pagando non si crea un nuovo regolamento di interessi, ma si obbedisce ad un comando già esistente e quindi non è necessaria quella capacità di discernimento che si richiede per fare delle scelte responsabili. È sufficiente un minimo di consapevolezza necessario per dare all’atto un significato, quello, appunto, di pagamento. Diversa è la disciplina del pagamento di un debito altrui (art. 1180, Adempimento del terzo), o dell’adempimento di un dovere morale o sociale (art. 2034, Obbligazioni naturali), o del pagamento di un debito di gioco (art. 1933 c.c.), tutti atti che richiedono la capacità di agire in quanto manifestano una scelta di modificare ex novo la propria sfera giuridica senza esserne affatto vincolati giuridicamente.
c) la gestione di affari altrui. Il Codice di Napoleone per il Regno d’Italia del 1806 (e poi il Codice civile del 1865) accogliendo una tradizione antica, disciplinava sotto il Titolo dedicato alle “obbligazioni che si contraggono senza convenzione” i “quasi contratti”, intesi come “fatti puramente volontari dell’uomo” dai quali poteva nascere una obbligazione tra le parti o verso un terzo. Siffatta denominazione è scomparsa nel Codice
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del 1942, ma rimangono i due istituti ai quali essa si riferiva, la gestione di affari e il pagamento dell’indebito. Parliamo qui della gestione mentre dell’indebito si farà cenno più avanti nel Cap. 29, par. 6.
La fattispecie della gestione di affari altrui (negotiorum gestio), art. 2028 ss. c.c. consiste nell’assumere scientemente la gestione di un affare altrui. Deve trattarsi di un affare lecito e di atti di natura patrimoniale, anche se connessi, a volte, ad un rapporto personale o familiare (ad es. un genitore o un coniuge provvede da solo integralmente al mantenimento dei figli anche per la quota dell’altro obbligato, o un amico versa gli alimenti alla persona che ne ha bisogno, per conto del soggetto obbligato). Può trattarsi di atti di natura materiale e quindi un facere personale del gestore (es. aggiustare l’impianto di irrigazione del vicino, ricoverare un animale scappato dalla stalla) ovvero di atti o di negozi giuridici (chiamare un’impresa di costruzioni affinché sostenga un muro che minaccia di crollare). È chiaro che va tenuta distinta, pertanto, la decisione di immettersi consapevolmente negli affari altrui – ciò in cui propriamente la dottrina ravvisa un atto giuridico in senso stretto produttivo di obbligazioni – dall’attività (materiale o giuridica) che forma oggetto dell’interposizione gestoria. Normalmente il gestore agisce in nome proprio, ma potrebbe anche agire in nome dell’interessato con una gestione rappresentativa, senza avere avuto, ovviamente, una procura da parte del dominus (v. infra, Cap. 14, par. 2) dato che agisce spontaneamente, di propria iniziativa. Affinché si configuri la gestione occorrono i seguenti elementi: 1) La consapevolezza della altruità dell’affare (animus aliena negotia gerendi) e quindi la spontaneità dell’iniziativa, che viene assunta liberamente; spontaneità che sarebbe esclusa ove esistesse un dovere o un rapporto giuridico che include o prevede l’atto di gestione. 2) L’alienità dell’affare, intesa in senso oggettivo, ma soprattutto l’alienità dell’interesse. Infatti la c.d. gestione impropria, cioè assunta nell’interesse dello stesso gerente, non rientra in questa fattispecie e non produce gli effetti che stiamo esaminando né per il gestore né per il dominus. 3) Dalla norma si ricava un ulteriore requisito che tradizionalmente prendeva il nome di absentia domini, cioè l’assenza del titolare. Titolare dell’interesse, beninteso, quindi non soltanto il proprietario, ma anche il possessore, il detentore, il titolare di un diritto reale limitato, il titolare di un diritto derivante da un rapporto obbligatorio, come il mandatario, il comodatario, ecc. Quanto alla absentia se, originariamente, si richiedeva una impossibilità oggettiva di provvedere ai propri affari, oggi si va verso una in-
§ 2. Gli atti giuridici in senso stretto
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terpretazione assai meno rigorosa: si ritiene sufficiente una difficoltà, soggettiva o oggettiva, di occuparsi dell’affare, fino ad accettare, nei casi estremi, una mera non opposizione o tolleranza dell’interessato. Da ciò nascono, per legge, gli obblighi del gestore: – in primo luogo l’obbligo di continuare la gestione e di “condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se stesso”; – in secondo luogo sorgono le obbligazioni che deriverebbero da un contratto di mandato, e quindi, principalmente, quella di condurre l’affare con diligenza, oltre a quelle di avviso, di custodia, ecc. Affinché nascano gli obblighi dell’interessato sono necessari altri due requisiti, uno positivo e uno negativo: 1) La gestione deve essere stata utilmente iniziata (utiliter coeptum), anche se poi il risultato finale non si è verificato o l’esito non è stato vantaggioso per il gerito. 2) L’interessato non ha proibito la gestione (prohibitio domini). Non basta, in proposito, un generico divieto di gestione di più affari, o un atto rivolto in incertam personam, cioè a una generalità o pluralità di soggetti, ma il divieto è valido se è rivolto a un determinato gestore e con riferimento a specifici atti di gestione. Si tratta di un negozio giuridico unilaterale recettizio che impedisce la produzione degli effetti obbligatori a carico del gerito (e richiede i soliti requisiti generali: capacità di agire e legittimazione del dominus, inoltre deve essere lecito, quindi è nullo se contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume). In presenza di tutti i requisiti enunciati l’interessato deve: – adempiere le obbligazioni assunte a suo nome nella gestione rappresentativa; – tenere indenne il gestore per le obbligazioni assunte nella gestione non rappresentativa; – rimborsare al gestore le spese necessarie o utili con gli interessi. Come si vede l’istituto in questione sembra ispirarsi ad un principio di solidarietà sociale, autorizzando a volte l’inserimento del soggetto nella sfera giuridica altrui, non soltanto per un riguardo ai benefici che possono derivare all’interesse privato, ma riconoscendo una vera e propria utilità generale della negotiorum gestio, dimostrata dalla natura solo parzialmente disponibile degli interessi in gioco, dato che ai privati non è concessa una totale autonomia.
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Cap. 13. Gli atti giuridici leciti
3. I negozi giuridici. Nel campo degli atti giuridici leciti si parla di negozi giuridici quando la volontà del soggetto appare determinante nello scegliere una nuova regola per il futuro, tanto nella sfera personale (matrimonio, adozione, ecc.) quanto in quella patrimoniale (contratto, remissione del debito, ecc.). In tal caso è importante esaminare innanzitutto la volontarietà del comportamento, per vedere se un soggetto si rende conto di ciò che fa o addirittura quale tipo di atto egli intende compiere. Ad es., se Tizio in un atto scritto distribuisce i propri beni, assegnandoli a parenti e amici, è importante, in primo luogo, verificare se vi è una definitiva volontà di fare testamento o se si tratta soltanto di una bozza o di appunti da utilizzare in seguito. Una volta accertato che egli intende disporre, assume rilievo preminente il contenuto del nuovo assetto d’interessi scelto dal soggetto, cioè la volontà testamentaria vera e propria: chi sia istituito erede, quali siano le quote, chi sia legatario, e così via. Altrettanto dicasi per il contratto: una volta accertato che vi è l’intento di impegnarsi seriamente, è fondamentale interpretare il contenuto stesso dell’accordo, cioè determinare quali siano le prestazioni stabilite dalle parti, le clausole inserite nel contratto e così via. Vi sono negozi in cui questo potere regolamentare è più limitato, come nel campo del diritto di famiglia o nel campo successorio, altri in cui vi è maggiore libertà, come nell’ambito contrattuale, ma il punto fondamentale che distingue gli atti giuridici in senso stretto dai negozi giuridici sta nel fatto che con quest’ultimo tipo di atti il privato sceglie una nuova sistemazione dei propri interessi valevole per il futuro.
Come conseguenza principale di tale specialità, nei negozi si nota una disciplina più sensibile alla capacità di agire (l’attitudine del soggetto a compiere atti che modificano volontariamente la propria sfera giuridica) e altresì una maggiore attenzione per la volontà. Qualora essa sia nata in circostanze anormali (ad es. il soggetto è stato indotto con la minaccia o l’inganno a stipulare un contratto o è caduto in errore) la legge predispone dei rimedi contro i c.d. vizi del volere. Il negozio giuridico esprime dunque un potere concesso dalla legge alla volontà privata, quello di darsi regole nuove, secondo le esigenze che si possono manifestare nei diversi campi della vita, da quello personale e familiare a quello economico, fino al potere di disporre in ordine alla propria successione. Nel codice civile italiano, tuttavia, non si trova l’espressione “negozio giuridico”, ma si parla, più semplicemente, di atto giuridico. La figura in questione è stata elaborata dalla dottrina nel tentativo di ricostruire un sistema unitario di principi e di norme.
§ 3. I negozi giuridici
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In altre parole si è cercato di delineare una teoria generale del negozio prendendo in considerazione le singole figure giuridiche disciplinate dal codice, come il contratto, il testamento, il matrimonio e così via, allo scopo di individuare l’esistenza di principi comuni, specialmente in tema di capacità del soggetto e di vizi del consenso, al di là delle divergenze determinate dalle caratteristiche specifiche di ciascun istituto. Questa teoria, come sempre avviene nel mondo scientifico, ha avuto i suoi sostenitori e i suoi critici. Senza dare troppa importanza, in questa sede, alla questione dogmatica avvertiamo che continueremo a parlare di negozi, secondo l’uso prevalente, intendendo come tali il contratto, il testamento, il matrimonio e altri atti caratterizzati dalla rilevanza che assume la volontà nella scelta di un nuovo assetto d’interessi. Vi sono, comunque, buone ragioni che impongono di dare largo spazio ad una attività di ricostruzione del sistema secondo linee generali. L’interprete non può limitarsi a considerare ogni singola figura come una entità chiusa in sé stessa. Ad es. nell’art. 1323 si dichiara che la disciplina dettata per i contratti nel Titolo II del Libro IV vale come disciplina generale per tutti i contratti, ancorché diversi da quelli aventi una disciplina legislativa particolare e cioè vale per i contratti che le parti possono “inventare” creando figure nuove secondo le loro esigenze. Il successivo art. 1324 va oltre, estendendo l’applicazione delle norme che regolano i contratti, in quanto compatibili, anche agli atti unilaterali fra vivi, aventi contenuto patrimoniale. Di qui gli interpreti si sono sentiti autorizzati ad estendere l’applicazione delle norme generali anche agli atti tra vivi senza contenuto patrimoniale o addirittura agli atti mortis causa, sempre adottando la chiave della compatibilità fra la regola dettata dal codice e la specialità dell’istituto preso in considerazione. Nulla di nuovo e di straordinario, se si considera che tali criteri non si discostano, per l’appunto, da quelli che segnano i confini del procedimento analogico. Ne risulta, in conclusione, una esigenza di definire sin da principio le linee generali seguite dal legislatore, mettendone in luce la giustificazione nascosta, o, come si dice, la ratio legis. Si aggiunga che spesso è necessario collegare una figura all’altra per interpretare il significato delle norme di legge, ad es., per intendere le nozioni di violenza morale o di dolo nel testamento occorre muovere dalle definizioni degli stessi vizi date in tema di contratto.
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4. Il negozio e l’intento giuridico. Abbiamo detto che nel negozio la volontà del soggetto esprime la sua massima rilevanza. Bisogna tuttavia respingere l’idea che sia la stessa volontà delle parti a produrre gli effetti giuridici. Essi vanno ricondotti, invece, alla forza della legge, come afferma testualmente l’art. 1372 in tema di contratto. L’importanza della volontà privata sta nel fatto che gli effetti giuridici del negozio corrispondono quanto più è possibile all’intento pratico dei contraenti o dell’autore del negozio, in genere. L’uomo della strada, infatti, fa i suoi affari avendo ben presente uno scopo pratico e un risultato economico: non è necessario che egli sia un esperto di diritto e conosca la differenza tra i vari istituti giuridici. Non è necessario, neppure, che il testatore conosca la differenza tra eredità e legato; sarà la legge ad interpretare la volontà testamentaria e ad applicare al lascito la disciplina opportuna. La legge interpreta dunque l’intento pratico e fa scaturire dal negozio l’effetto giuridico corrispondente (o, quanto meno, il più aderente) allo scopo concreto avuto di mira dalle parti, purché siano rispettati i principi che regolano l’autonomia privata. Ma innanzitutto la legge deve scegliere quali atti prendere in considerazione e quali atti trascurare, perché non rivelano alcun intento giuridicamente interessante. Il primo problema, pertanto, è quello di identificare un negozio, distinguendolo da atti che gli possono assomigliare. Per qualificare l’accordo di due o più persone come contratto, ad es., basta che vi sia una volontà seria di impegnarsi da parte di ciascuno, assumendosi le proprie responsabilità sul piano dei rapporti patrimoniali. Tali presupposti fanno già scattare il meccanismo automatico in base al quale la legge prende in considerazione la volontà privata e valuta l’esistenza dei requisiti del negozio giudicando se esso è valido e se è efficace. Ma se le dichiarazioni fanno parte di una recita teatrale o di una lezione di diritto manca qualsiasi contenuto impegnativo, vi è solo un simulacro di volontà e la legge si disinteressa di tale fattispecie. È inutile approfondire l’esame dei requisiti: il negozio non esiste neppure. Non tutti gli impegni, peraltro, fanno nascere dei contratti. Quando due amici programmano di fare un viaggio durante le prossime vacanze, o quando una stretta parente si impegna a sostituire il cuoco ammalato nella trattoria di famiglia si intuisce che la situazione è diversa da quella ordinaria. Tutti sentono che il pas-
§ 5. L’autonomia privata e i requisiti del contratto
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saggio di cortesia offerto con la propria automobile ad un amico non genera un impegno equivalente a quello assunto dal tassista. Si è parlato, a tale proposito, di rapporti familiari e amichevoli, piuttosto che di rapporti giuridici. La stretta relazione che lega le parti dimostrerebbe che tali accordi si fondano sulla esistenza di interessi in comune, anziché su di un conflitto d’interessi. Lo stesso art. 230 bis c.c. sembra riferirsi a fattispecie di questo tipo quando attribuisce taluni diritti al familiare che lavora in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare nei (soli) casi in cui non si possa configurare un rapporto giuridico contrattuale, cioè non sussista un contratto di lavoro subordinato, d’opera, di agenzia, di società e così via. La norma, in sostanza, vuole evitare che l’imprenditore si arricchisca in modo ingiustificato a danno di chi presta gratuitamente la propria opera per solidarietà familiare, e fa sorgere a favore di quest’ultimo diritti al mantenimento, alla partecipazione degli utili e così via. Si ammette, d’altronde, che la stessa volontà delle parti possa limitare la portata di un impegno fondandolo esclusivamente sull’onore e sul rispetto della parola data e facendo nascere quello che con espressione anglosassone si chiama gentlemen’s agreement, cioè accordo fra gentiluomini. Si ammette, in sostanza, l’efficacia del c.d. intento giuridico negativo al fine di lasciare fuori dal piano contrattuale convenzioni, anche importanti economicamente. A tale proposito va ricordato che il Trattato della Comunità europea vieta gli accordi restrittivi della concorrenza anche se costituiscono soltanto dei gentlemen’s agreements.
5. L’autonomia privata e i requisiti del contratto. La possibilità di darsi delle regole che sono riconosciute dal diritto e, se necessario, attuate con la forza della legge, deriva da una sorta di autorizzazione o, se si vuole, da un potere giuridico concesso al privato dall’ordinamento. Questo potere viene chiamato autonomia privata. Come si è già accennato, l’autonomia privata non ha la stessa estensione in ogni campo. Nel diritto di famiglia, ad es., l’autonomia è più limitata, e il soggetto può solo scegliere se compiere uno dei negozi già predisposti e disciplinati dalla legge, come il matrimonio, il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, l’adozione e così via, senza tuttavia poter dare un contenuto originale a tali istituti. La scelta, spesso è solo ristretta alla decisione se sposarsi, o se riconoscere, ecc. (c.d. negozi sull’“an”) con qualche limitata possibilità, nel matrimonio, di optare per un regime patrimoniale o per l’altro. Vi sono, evidentemente, in tale campo, esigenze di uniformità nel-
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l’interesse generale che impediscono di ammettere una varietà di figure creata dalle parti. Anche là dove la libertà negoziale è più ampia, come in tema di rapporti patrimoniali, la legge fissa delle regole generali da rispettare per dare ordine all’attività privata e consentire un controllo degli interessi e delle modalità secondo cui si realizza l’autonomia. Fondamentali sono, in proposito, le norme sui requisiti del contratto che ci consentono di intendere quali siano gli elementi essenziali del negozio giuridico. Diciamo subito che la stipulazione di un contratto in violazione di tali norme non costituisce un atto illecito; in altre parole la prescrizione della legge non costituisce un divieto, ma un onere. Pertanto il negozio che manca dei requisiti essenziali è nullo e non produce alcun effetto, lasciando insoddisfatte le parti che non ottengono alcun risultato utile, non riuscendo a regolare in modo nuovo i loro interessi (il negozio è invalido nella forma più grave, cioè nullo e quindi anche inefficace sin dall’inizio). Il negozio che, invece, pur essendo fornito dei requisiti essenziali è viziato in uno dei suoi elementi, può produrre effetti, ma il vizio si ripercuote sulla stabilità di tali effetti, che possono cessare per provvedimento del giudice in seguito alla impugnazione dell’atto (il negozio è invalido nella forma meno grave, cioè annullabile, perciò è efficace finché non ci sia una sentenza di annullamento).
§ 2. La rappresentanza
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CAPITOLO 14
GLI ELEMENTI ESSENZIALI DEL CONTRATTO
SOMMARIO: 1. Il soggetto. – 2. La rappresentanza. – 3. L’oggetto del negozio. – 4. I requisiti dell’oggetto. – 5. La volontà e i vizi del consenso. – 6. La simulazione. – 7. La forma. – 8. La causa. – 9. L’astrazione processuale e sostanziale dalla causa. – 10. I requisiti della causa. – 11. Il negozio indiretto e il negozio fiduciario.
1. Il soggetto. Il più importante negozio giuridico di contenuto patrimoniale è il contratto, definito dall’art. 1321 come «l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale». Nell’art. 1325 la legge indica, come requisiti del contratto, l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto e la forma, se prescritta a pena di nullità. Prima di esaminare tali elementi appare necessario analizzare innanzitutto il ruolo del soggetto che decide di darsi queste nuove regole. È d’obbligo il rinvio alle nozioni che abbiamo già imparato in tema di persone e capacità. Se il negozio è destinato a procurare l’acquisto di determinate situazioni giuridiche sarà necessaria, in primo luogo, la capacità di diritto del soggetto acquirente. L’esistenza di qualche incapacità giuridica speciale determina la nullità del negozio e la conseguente inefficacia dell’acquisto. Si consideri, ad es., il divieto speciale di comprare stabilito nell’art. 1471, n. 1 per gli amministratori di beni dello Stato o degli altri enti pubblici; il divieto di farsi cedere un credito litigioso stabilito dall’art. 1261 per i magistrati, cancellieri, avvocati, ecc.; altrettanto dicasi nel campo delle successioni, dove è sancito, ad es., il divieto di acquistare per testamento segreto da parte della persona che ha scritto
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
le disposizioni, art. 598, o di acquistare per testamento pubblico da parte del notaio che ha ricevuto l’atto, dei testimoni, ecc., art. 597.
In secondo luogo il soggetto che intende modificare la propria sfera giuridica attraverso il negozio deve avere la capacità di agire. Tanto l’incapacità legale di agire (per minore età, interdizione, inabilitazione) quanto l’incapacità naturale di agire (incapacità di intendere o di volere), come abbiamo già visto, determinano annullabilità relativa del negozio, cioè una invalidità azionabile solo su domanda dell’incapace o di chi lo rappresenta e se non viene esercitata tale azione il negozio, pur essendo invalido, resta efficace. In terzo luogo chi intende cedere un diritto, donare qualche cosa o rinunciare deve avere il potere di disporre. Tale requisito non può essere valutato in generale, ma deve essere accertato specificamente in relazione a ciascuna situazione rispetto alla quale si vuole produrre una modifica giuridica. Il soggetto non può disporre di un diritto innanzitutto quando non ne è titolare (ad es. chi vende una cosa altrui) e non è autorizzato dall’avente diritto, in tal caso si dice che non è legittimato al negozio. Il difetto di legittimazione sostanziale produce l’inefficacia del negozio per quanto concerne il diritto in questione, ad es., la vendita di un bene altrui non autorizzata non trasmette alcun diritto su quella cosa. Se il negozio non è idoneo a trasferire un determinato diritto, non è detto, tuttavia, che non possa produrre altri effetti. Ad es., la vendita di cosa altrui, pur essendo inefficace rispetto alla cessione del diritto altrui (la sfera giuridica del titolare del bene non viene intaccata dall’atto compiuto da un soggetto non legittimato) non è, di per sé, del tutto inefficace tra le parti, infatti la legge ne fa scaturire un obbligo, per il venditore, di far acquistare la proprietà al compratore (art. 1478). Ciò avverrà automaticamente solo se il venditore riuscirà ad acquistare la cosa dal proprietario. In tal caso, infatti, la legge dispone che la proprietà passi direttamente al compratore di cosa altrui senza bisogno di un atto ulteriore di trasferimento (art. 1478). C’è una inversione nella sequenza degli atti: di solito prima si compra una cosa e poi la si vende, mentre in questo caso prima si vende la cosa (altrui) e poi la si compra dal titolare.
In senso improprio si dice che il soggetto non è legittimato anche quando, pur essendo titolare, trova ostacolo in un divieto posto dalla legge (ad es. è vietato cedere il proprio nome, obbligarsi a dare un organo per un trapianto, ecc.). In realtà è più corretto parlare, in tali ipotesi, di indispo-
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nibilità del diritto. La conseguenza, in questo caso, è la nullità del negozio, per contrasto con una norma imperativa. Di regola ciascuno è legittimato a disporre delle proprie situazioni giuridiche (purché, ovviamente, ciò non sia escluso dalla legge, come in materia di diritti indisponibili), ma a volte la legittimazione al negozio può essere attribuita eccezionalmente ad un diverso soggetto che viene autorizzato a disporre di situazioni giuridiche altrui e quindi a modificare l’altrui sfera giuridica. Si parla, in tali casi, di sostituzione nell’attività giuridica, se il sostituto agisce in nome proprio, allorquando tale potere gli è stato attribuito dalla legge (ad es. il curatore del fallimento può agire in ordine al patrimonio del fallito nell’interesse dei creditori). Si parla invece di rappresentanza se il sostituto agisce in nome e per conto di altra persona e precisamente in nome del soggetto che viene sostituito (ad es. i genitori agiscono in nome e per conto dei figli, soggetti alla responsabilità genitoriale, per curare i loro interessi).
2. La rappresentanza. Farsi sostituire nell’attività giuridica può essere utile o addirittura necessario, ad es., l’imprenditore potrà valersi di un direttore generale, messo a capo di uno stabilimento (tecnicamente chiamato institore), di vari procuratori, che si recano in altre città o all’estero, di commessi, che servono i clienti in negozio (art. 2203 ss.). Gli incapaci di agire, come il minore o l’interdetto giudiziale, devono necessariamente essere sostituiti nei negozi che riguardano il loro patrimonio dai genitori o dal tutore. In tutti questi casi vi sarà una persona fisica che, ad es., stipula un contratto di locazione o che invia una disdetta, agendo al posto del diretto interessato, in modo tale che gli effetti di tali atti non ricadano sulla sfera giuridica di chi li ha compiuti materialmente, come rappresentante, ma direttamente su quella del rappresentato (art. 1388), il quale, proprio perché è titolare di tali situazioni giuridiche, viene chiamato comunemente dominus (da dominus negotii, cioè titolare dell’affare in questione). Il potere di concludere un negozio facendo immediatamente acquistare obblighi e diritti ad un altro soggetto è eccezionale rispetto al principio
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
generale della intangibilità della sfera giuridica altrui e rappresenta un ampliamento della legittimazione sostanziale al negozio. Si parla, in questi casi, di rappresentanza diretta se il rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato. Non è vera rappresentanza, invece, la c.d. rappresentanza indiretta, in cui una persona agisce per conto (cioè nell’interesse) di altra persona, ma in nome proprio. In tal caso gli effetti ricadranno sulla sua sfera giuridica e dovrà compiere un successivo negozio per trasferirli in capo all’interessato. Ad es. il potere di rappresentanza potrebbe essere collegato ad un contratto di mandato con cui il mandatario si obbliga a compiere uno o più atti giuridici in nome e per conto del mandante (art. 1703). Nel mandato ad acquistare, con rappresentanza, il bene diviene subito di proprietà del mandante non appena il mandatario lo acquista dal terzo in nome del dominus. Ma il mandato può anche vincolare il mandatario a svolgere una gestione non rappresentativa, cioè senza agire in nome, ma solo per conto altrui. Nel mandato ad acquistare senza rappresentanza il mandatario acquista in nome proprio, ma è vincolato a trasferire in capo al mandante il diritto acquistato per suo conto (art. 1705).
Nella rappresentanza la volontà negoziale proviene dal rappresentante. Non è rappresentanza la trasmissione della volontà di un soggetto affidata ad un messaggero, o nuncius, il quale non emette un proprio atto di volontà, ma riferisce una volontà altrui già compiuta. Il potere di rappresentanza può trovare la sua fonte innanzitutto nella legge. Si è già detto come sia prevista nel quadro della protezione degli incapaci, la rappresentanza legale dei minori o degli interdetti. Nella legge trova la sua fonte anche la rappresentanza organica o istituzionale, che è una forma necessaria di rappresentanza senza la quale gli enti superindividuali non potrebbero agire, ed è vera rappresentanza. In secondo luogo il potere in questione può essere attribuito dal rappresentato stesso, e si parla allora di rappresentanza volontaria. L’atto con cui un soggetto, capace di agire, attribuisce ad un’altra persona il potere di rappresentanza per la stipulazione di un contratto o il compimento di altro atto giuridico, si chiama procura. Essa è costituita da una dichiarazione unilaterale dell’interessato che è rivolta essenzialmente a terzi, perché sono proprio questi ultimi che devono essere informati circa il fatto della sostituzione: il rappresentato dichia-
§ 2. La rappresentanza
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ra che accetta le modifiche della sua sfera giuridica decise da un altro, entro i limiti fissati nella procura. Parimenti dovrà essere fatta conoscere ai terzi con mezzi idonei anche la revoca o la modifica della procura, altrimenti il rappresentato continuerà a rispondere degli impegni assunti a suo nome dal rappresentante, nei confronti dei terzi che sono in buona fede (art. 1396). In quanto atto complementare, rispetto al negozio che sarà concluso dal rappresentante, la procura, per essere valida, dovrà avere la stessa forma eventualmente richiesta per il negozio principale (art. 1392). Non ammettono rappresentanza i negozi personalissimi, come il testamento o il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio o il matrimonio. Nel c.d. matrimonio per procura (art. 111 c.c.) la volontà del nubendo, in realtà è già formata (la procura deve indicare la persona dell’altro sposo) e pertanto il “procuratore” è soltanto un nuncius, non un rappresentante.
Come si è detto, il potere di rappresentanza viene attribuito con la procura, e questo è un atto unilaterale indirizzato ai terzi. Ne consegue che il rappresentante potrebbe anche esserne all’oscuro, in quanto il potere esiste anche senza che vi sia stato un accordo fra il dominus e il soggetto da lui nominato. Da tale considerazione discendono due corollari: a) la procura, di per sé, attribuisce al rappresentante solo un potere, non un obbligo o un diritto. Il rappresentante può stipulare per il dominus, ma non è obbligato, se non si è assunto egli stesso un impegno, e, di regola, non ha neppure il diritto di sostituirsi al dominus (perciò normalmente il rappresentante non può impedire che il dominus, nonostante la emissione di una procura, si occupi direttamente dell’affare e agisca in prima persona); b) affinché si realizzi un negozio tramite rappresentanza occorre che il procuratore agisca effettivamente come rappresentante, e cioè concluda un negozio dichiarando al terzo di voler operare in nome e per conto del soggetto rappresentato. Questo comportamento viene chiamato: contemplatio domini o spendita del nome del dominus, e costituisce la caratteristica dell’agire in veste di rappresentante. Poiché la contemplatio dipende dal modo di comportarsi del rappresentante e la legittimazione dipende dal potere attribuito dal rappresentato, si possono verificare situazioni di questo tipo:
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
– il rappresentante ha la procura, ma agisce senza spendere il nome altrui. In questa ipotesi egli non agisce come rappresentante, ma in nome proprio, cioè agisce per sé ed acquista personalmente i diritti e gli obblighi conseguenti; – il rappresentante non ha la procura, ma ciò non ostante dichiara di agire in nome del dominus. In tal caso egli agisce in veste di rappresentante, ma senza averne il potere e viene tradizionalmente chiamato falsus procurator. La conseguenza del difetto di legittimazione del falso rappresentante è che il negozio non può produrre effetti sulla sfera del dominus (che non ha autorizzato l’operazione), ma neppure sulla sfera del falso rappresentante, perché questi ha dichiarato di agire in nome e per conto di un altro, non per sé. L’altro contraente (chiamato dalla legge “terzo contraente” perché è terzo personaggio della vicenda, dopo il rappresentante e il rappresentato) potrebbe quindi aver concluso inutilmente il negozio col falsus procurator (dato che l’atto rimane inefficace) perdendo tempo, denaro e altre occasioni contrattuali. Chi sopporta questo rischio? Se il terzo non si è informato né ha verificato l’esistenza dei poteri del (sedicente) rappresentante, peggio per lui. Aveva l’onere di controllare la legittimazione della controparte e poteva esigere una giustificazione del potere di rappresentanza, ottenendo copia di un’eventuale procura scritta. Se invece il terzo ha ignorato senza sua colpa il difetto di potere negoziale altrui, egli può chiedere al falso rappresentante un indennizzo (art. 1398). Si parla, in proposito, di una lesione dell’interesse negativo, intendendo alludere con tale espressione al danno che il terzo ha subito per le spese fatte e le occasioni perdute inutilmente, confidando nella conclusione di un contratto che si è poi rivelato inefficace. In definitiva sarebbe stato meglio, per lui, non avere neppure contrattato. L’espressione “interesse negativo” è utile, più che altro, perché segna la contrapposizione con l’interesse positivo, che serve a definire tutti i danni conseguenti al mancato o inesatto adempimento di un rapporto giuridico efficacemente sorto (mancanza della prestazione promessa, danni che derivano dall’illecito contrattuale, minor guadagno sperato, ecc.) e quindi viene in rilievo in tema di obbligazioni (art. 1218).
Può darsi, peraltro, che il dominus, in nome del quale è stato stipulato il contratto, decida a posteriori di accettare ugualmente l’opera del falso rappresentante, considerando conveniente il negozio ormai concluso, anche se
§ 2. La rappresentanza
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non lo aveva in precedenza autorizzato. La volontà di far propri gli effetti dell’agire del falsus procurator viene espressa in un atto che prende il nome di ratifica. Anche questa è diretta essenzialmente al terzo contraente ed è soggetta allo stesso requisito di forma della procura. La ratifica consente al contratto stipulato dal falsus procurator di modificare la sfera giuridica del dominus come se fosse stato autorizzato fin dall’inizio, purché, nel frattempo, il falso rappresentante e il terzo non abbiano sciolto il contratto e non vi siano altri terzi che hanno acquistato diritti incompatibili. Il negozio concluso dal rappresentante è deciso direttamente da lui stesso. Ne consegue che, di regola, occorrerà guardare in capo al rappresentante per accertare se sussistono vizi del volere o se vi è buona o mala fede al momento dell’acquisto (si parla, in generale, di stati soggettivi rilevanti). Vale invece la situazione soggettiva del dominus se il negozio è stato concluso in base ad elementi predeterminati dal rappresentato o se questi, in mala fede, abbia inteso approfittare della buona fede del rappresentante (art. 1390). Se l’atto è vietato al dominus non può essere compiuto validamente neppure dal rappresentante. Quanto alla capacità occorre distinguere: nella rappresentanza legale, essendo incapace il dominus, deve essere capace di agire il rappresentante. Al contrario, nella rappresentanza volontaria, poiché è il dominus che si assume tutti i rischi, rilasciando una procura, la capacità richiesta nel rappresentante è soltanto quella di intendere e di volere, avuto riguardo alla natura del negozio che egli ha il potere di concludere (art. 1389). Poiché compiendo l’atto autorizzato dal dominus il rappresentante non modifica la propria sfera giuridica e quindi non corre alcun rischio, può svolgere tale attività anche un incapace legale, ad es. un ragazzo di quindici anni, scelto dal rappresentato, purché sufficientemente maturo da rendersi conto del significato pratico del suo agire. In base a questo principio gli atti (i contratti) compiuti quotidianamente dal minore per soddisfare le sue normali esigenze si considerano validi, in quanto, in tale ambito, s’intende che egli agisca come rappresentante dei suoi genitori in base ad una procura tacita.
Se il rappresentante non eccede l’ambito della procura (e quindi non è falsus procurator) ma esercita male i suoi poteri, non vi è un problema di legittimazione al negozio, ma può esservi un conflitto d’interessi. Il rappresentante è in conflitto con il rappresentato quando nella stipu-
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
lazione del contratto è portatore di interessi propri o altrui in contrasto con quelli del dominus. Il contratto è annullabile per conflitto d’interessi (su domanda del rappresentato) in due casi: 1) se il rappresentante ha stipulato con un terzo e il conflitto era riconoscibile a quest’ultimo (art. 1394). In tal caso il terzo sapeva o doveva sapere della esistenza del conflitto e pertanto non merita protezione; diversamente, se il terzo è in buona fede il contratto resterà valido in virtù dell’affidamento posto dal terzo in quell’atto; 2) se il rappresentante ha stipulato il contratto con se stesso, agendo contemporaneamente come rappresentante del dominus, da una parte, e in nome proprio o altrui, dall’altra (non essendovi affidamento di alcun terzo da proteggere) il contratto sarà sempre annullabile (art. 1395) a meno che la stipula “con se stesso” fosse autorizzata dal dominus o fossero oggettivamente esclusi elementi di conflitto (ad es. la merce è stata comprata a prezzi di listino, di borsa, ecc.). Come si è visto, la procura è un atto unilaterale che può essere emanato autonomamente, senza ricollegarsi ad altro diverso rapporto. L’esercizio del potere di rappresentanza, tuttavia, nella maggior parte dei casi, è regolato da un contratto stipulato fra le parti. Questo accordo, che vincola l’attività del rappresentante e fa nascere diritti ed obblighi fra le parti, viene chiamato negozio di gestione. Ad es. il commesso di un negozio non è libero di scegliere se vendere la merce, né l’avvocato è libero di decidere se deve compiere in nome e per conto del cliente determinati atti processuali. L’attività del rappresentante è regolata nel primo esempio dal contratto di lavoro subordinato e nell’altro da un contratto d’opera professionale.
3. L’oggetto del negozio. In una prima ampia accezione si può dire che l’oggetto del negozio è costituito dalle regole poste dalla volontà privata e dal loro contenuto. In questo senso, benché la legge non ne parli, possiamo dire che anche il testamento ha un oggetto, cioè le disposizioni date dal testatore. La legge, in realtà, attribuisce assai maggiore rilievo all’oggetto del contratto (annoverato fra i requisiti essenziali) inteso in un altro significato più specifico, cioè come prestazione.
§ 3. L’oggetto del negozio
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La prestazione consiste in una determinata utilità che ciascuna delle parti intende procurarsi attraverso la conclusione del contratto. Può trattarsi di un comportamento promesso dall’altra parte o in un effetto derivante ipso jure dalla stipulazione del contratto stesso, che appare idoneo a soddisfare l’interesse negoziale. Vi sono contratti che hanno per oggetto un’unica prestazione, come il contratto di comodato (prestito gratuito di una cosa infungibile) o il mandato gratuito (obbligo di compiere uno o più atti giuridici nell’interesse altrui), altri che hanno per oggetto lo scambio di due prestazioni, come la locazione (concessione del godimento di un bene per un certo tempo, in cambio di una somma periodica) o la compravendita, altri che hanno per oggetto più prestazioni, ad es. il contratto (associativo) costitutivo di un partito obbliga tutti gli iscritti a versare il contributo annuale e a svolgere una attività politica coerente con le idee propugnate dal gruppo. Nella definizione di contratto, tuttavia, sono inclusi anche i contratti c.d. normativi, che dettano regole destinate a disciplinare i futuri rapporti tra le parti, senza prevedere una prestazione in senso proprio. In questo caso se si vuole trovare anche qui un oggetto del contratto si deve ritornare all’idea che identifica l’oggetto con la regola posta dai contraenti.
Il contratto può contenere il riferimento ad una cosa materiale, ma questa non diventa mai oggetto del contratto, bensì oggetto di una prestazione (infatti, con riferimento alla stessa cosa, si possono immaginare diverse prestazioni, quali l’attribuzione del diritto di proprietà, del diritto di godimento, del diritto di garanzia, ecc.). Del resto in un contratto può anche mancare qualsiasi riferimento ad una cosa materiale, si pensi, ad es., all’impegno di non fare concorrenza, all’obbligo di impartire una lezione e così via, e tuttavia anche in questi casi esiste una prestazione idonea a soddisfare l’interesse negoziale. Può formare oggetto di contratto anche la prestazione di cose future (art. 1348), salvo i casi di particolare divieto (ad es. la legge vieta di donare cose future). Si distingue la vendita di cose future aleatoria (in cui le parti vogliono essenzialmente correre un rischio), chiamata anche emptio spei, dalla vendita di cosa futura non aleatoria, chiamata anche emptio rei speratae. Esempio del primo negozio: compro tutto il tuo raccolto del prossimo anno per il prezzo x; in tal caso la stessa somma va pagata tanto se il raccolto è distrutto dalla grandine quanto se è sovrabbondante. Esempio del secondo negozio: compro tutto il tuo raccolto al prezzo x per quintale. Se la cosa non viene ad esistenza il contratto è nullo (art. 1472).
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
È importante distinguere il modo in cui si prevede di realizzare la prestazione che forma oggetto del contratto. Vi sono, da un lato, delle prestazioni che sono promesse da una parte all’altra, cioè formano oggetto di una obbligazione, secondo la terminologia del codice (art 1174). In questi casi l’effetto del contratto consiste nel far nascere un rapporto giuridico e l’esecuzione della prestazione è affidata all’adempimento dell’altro contraente, perciò si dice che il contratto ha efficacia obbligatoria. Ad es. la locazione, l’assicurazione, il contratto di lavoro, ecc., fanno nascere obbligazioni per ambedue le parti. Vi sono altri casi in cui una prestazione non forma oggetto di una promessa, ma si realizza automaticamente, nel momento stesso in cui è decisa e accettata dalle parti, cioè nel momento della conclusione del contratto. Si parla allora di contratti con efficacia reale o con effetti reali. Anche in tali casi il trasferimento del diritto è un effetto del negozio, ma è un effetto immediato e istantaneo. Ad es., nella compravendita di cosa certa e determinata l’acquisto della proprietà avviene ipso jure, alla stipulazione del contratto. Esempi di contratti con effetti reali sono inoltre la permuta, il mutuo, il contratto costitutivo di usufrutto, di servitù, ecc., la cessione del credito. È sufficiente che almeno una prestazione consista nel trasferimento o nella costituzione di un diritto affinché si possa parlare di contratti con efficacia reale (o con effetti reali). In tale ambito l’effetto traslativo o costitutivo si produce, di regola, ipso jure, all’atto della conclusione del contratto. Quanto alla controprestazione, bisogna distinguere secondo il tipo di contratto: potrebbe prodursi anch’essa ipso jure, come effetto reale (ad es. nella permuta viene scambiata istantaneamente, alla stipulazione del contratto, la proprietà di due cose) o potrebbe essere promessa e quindi costituire oggetto di una obbligazione (come avviene più frequentemente in tutti quei contratti in cui il corrispettivo del trasferimento del diritto è rappresentato dal pagamento di un prezzo). Nel diritto romano la vendita faceva nascere l’obbligazione di trasferire la proprietà, alla quale si adempiva con la traditio formale, cioè con un rito composto di atti e di formule. Di conseguenza si distingueva tra il titulus ed il modus adquirendi. Nel tempo successivo il rito del trasferimento è divenuto sempre più una finzione, finché è stato assorbito nel negozio, almeno in quegli ordinamenti, come il nostro, ispirati dal codice di Napoleone. Ciò non è accaduto, invece, nel codice germanico dove resta la distinzione fra negozio di base e atto traslativo.
§ 4. I requisiti dell’oggetto
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4. I requisiti dell’oggetto. Innanzitutto l’oggetto del contratto deve essere possibile (art. 1346). Si distingue la possibilità materiale, che dipende dalle stesse leggi fisiche e dalle conoscenze tecniche acquisite in una data epoca, dalla possibilità giuridica, che dipende dalla esistenza di istituti che consentono di ottenere i risultati voluti dalle parti. La nozione di impossibilità giuridica non coincide con quella di illiceità, che presuppone invece la violazione di un divieto. Sono state considerate prestazioni giuridicamente impossibili, ad es., la cessione dell’avviamento di uno studio professionale (perché l’avviamento è un modo di essere dell’azienda e quindi un bene dell’imprenditore, non del professionista intellettuale) e la prestazione di opera professionale da parte di soggetto non iscritto nell’apposito albo. Conseguenza della impossibilità della prestazione è la nullità del contratto. (Perciò, negli esempi citati il prezzo pattuito per la cessione dell’avviamento va restituito all’acquirente; chi ha prestato la propria opera senza essere iscritto all’albo non ha diritto di essere pagato).
L’impossibilità originaria dell’oggetto non rende ipso jure nullo il negozio: esso è valido purché la prestazione divenga possibile nel momento in cui il contratto deve produrre effetto, ad es. quando si avvera la condizione o scade il termine iniziale (art. 1347). La regola ora esposta vale solo per l’impossibilità e non per la illiceità (ecco una buona ragione per tenere distinte le due nozioni). L’oggetto del contratto deve altresì essere lecito fin dall’origine. L’illiceità si può avere per tre cause: – la contrarietà a norme imperative, che vietano di pattuire una determinata prestazione, ad es. l’impegno di fare testamento a favore di una persona o l’impegno di rinunziare alla successione violano il divieto dei patti successori (si veda, tuttavia, l’eccezione introdotta dalla recentissima legge sul patto di famiglia, che consente in qualche misura, ai legittimari di disporre, inter vivos, del loro diritto alla quota di riserva (v. infra, Cap. 25, par. 4); – la contrarietà all’ordine pubblico (non vi è una norma precisa che contiene un divieto, ma questo può ricavarsi quale principio che emerge da una serie di norme dell’ordinamento, ad es. è contrario ai principi del diritto fallimentare obbligarsi a favorire un creditore del fallito a danno di altri); – la contrarietà al buon costume, inteso non solo come morale sessuale,
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
secondo la nozione penalistica (ad es. la prestazione di una prostituta), ma in senso più ampio come regola di etica sociale. Non si esclude, peraltro, che una prestazione possa violare, nello stesso tempo, la legge ed anche la morale sociale (ad es. l’impegno di un commissario di alterare lo svolgimento di un concorso a danno di un concorrente verso un corrispettivo in denaro). In tutti i casi in cui la prestazione è illecita il contratto è nullo e ciò che è stato dato in esecuzione di tale accordo va restituito secondo le regole della ripetizione dell’indebito. Fa eccezione alla regola della restituzione dell’indebito il contratto con prestazione contraria al buon costume: il contraente che ha pagato una somma di denaro o ha consegnato altri beni allo scopo di procurarsi una prestazione immorale non può agire per ottenere la restituzione di ciò che ha dato (art. 2035) perché, secondo un antico principio, gli viene negato ascolto dal giudice quando la sua pretesa trova fondamento in una causa turpe (nemo auditur suam turpidudinem allegans). Infatti egli dovrebbe chiedere la restituzione dimostrando la nullità del contratto determinata dalla sua stessa condotta immorale. Infine la prestazione deve essere determinata o determinabile. È determinata se vi sono le indicazioni sufficienti per individuare la prestazione e la cosa che ne forma oggetto, anche se talora è necessario aggiungere una operazione di calcolo. Ad es., nella vendita di una massa di cose “ti vendo tutti i libri della mia biblioteca, per dieci Euro ciascuno” il passaggio della proprietà avviene col consenso delle parti, come se si trattasse di cosa certa e determinata (art. 1377). Basta solo effettuare una moltiplicazione per ricavare il prezzo totale. Nella vendita di cosa generica, la prestazione è determinata purché ne sia definita la quantità e la qualità (dieci quintali di grano) anche se poi è necessaria la individuazione affinché passi la proprietà (ad es. il grano viene caricato sul mezzo di trasporto, art. 1378). Il venditore conserva il rischio del perimento sino alla individuazione (e quindi anche se brucia il suo magazzino dovrà ugualmente fornire il grano al compratore).
La prestazione è determinabile se sono fissati i criteri per una successiva determinazione semplicemente applicando le regole già stabilite dalle parti. Se invece fosse necessaria una ulteriore decisione dei contraenti, il contratto non si potrebbe dire ancora definitivamente concluso.
§ 4. I requisiti dell’oggetto
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La legge ammette anche il rinvio alla determinazione di un terzo il quale talora può essere espressamente autorizzato a decidere secondo il suo mero arbitrio (art. 1349). In tal caso la determinazione da lui effettuata non si può impugnare se non dimostrando la mala fede del terzo e, se questi non prende una decisione, il contratto è nullo, a meno che le parti non si accordino per determinare altrimenti l’oggetto. Il rinvio alla determinazione del terzo, senza ulteriore specificazione, di regola significa che questi deve decidere secondo un equo apprezzamento. Se la decisione manca, o è manifestamente iniqua o erronea, può essere assunta dal giudice. Questa attività del terzo chiamato a riempire una lacuna determinando l’oggetto del contratto prende il nome di arbitraggio (da non confondersi con l’arbitrato, che serve per risolvere una controversia affidando il giudizio ad un giudice privato, generalmente a composizione collegiale). Quando l’oggetto non è determinato o determinabile il contratto è nullo se non vi sono criteri di integrazione del negozio fissati dalla legge. Lo strumento più diffuso, a questo proposito, è costituito dalle tariffe professionali, stabilite per legge dalle organizzazioni o dagli ordini professionali, che permettono di stabilire il prezzo della prestazione contrattuale ove questo non sia stato specificamente concordato (compenso del tassista, del meccanico, onorario dell’avvocato, ecc.). Nel contratto di somministrazione la legge prevede la possibilità di determinare l’entità della stessa prestazione del somministrante, ove le parti non l’abbiano fatto. Si intende pattuita la prestazione (periodica o continuativa di cose) corrispondente al normale fabbisogno del contraente che vi ha diritto, avuto riguardo al tempo della conclusione del contratto (art. 1560). A volte l’oggetto è illecito perché le parti fissano un prezzo che viola determinati limiti posti dalla legge, secondo criteri di politica economica (si pensi ad es. all’equo canone delle locazioni, come era previsto dalla l. 27 luglio 1978, n. 392 nella sua versione originaria). Le finalità perseguite dalla legge, in tali casi (consentire la locazione ad un prezzo calmierato) non potrebbero realizzarsi se la clausola invalida non fosse anche sostituita di diritto da un prezzo imposto. Altrimenti, se il contratto stipulato dal locatore fosse nullo, perché ha chiesto un prezzo troppo alto, il conduttore se ne dovrebbe andare lasciandogli la casa libera, e questo è esattamente il contrario di quanto voleva il legislatore.
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
5. La volontà e i vizi del consenso. La volontà è certo l’elemento più importante del negozio, perché ne determina lo scopo pratico e le modalità, di guisa che l’effetto giuridico tende a conformarsi alla regola dettata dalle parti. Una mancanza assoluta di volontà determina nullità del negozio e si può riscontrare nella dichiarazione della persona totalmente insana di mente, nei casi di soppressione della volontà per effetto di violenza fisica e ipnosi. Nella dichiarazione teatrale o in quella esemplificativa fatta docendi causa, manca, palesemente, qualunque intento di impegnarsi, cioè di immettersi nel traffico giuridico, e quindi non esiste neppure un negozio. Si parla invece di vizi del volere quando esiste una volontà negoziale, ma questa nasce in una situazione anormale, dovuta ad un comportamento illecito altrui o ad una falsa rappresentazione della realtà del soggetto agente. Cominciamo dai casi più gravi, la violenza e il dolo. La violenza morale consiste in una minaccia esercitata contro un soggetto per indurlo a concludere un negozio (ad es.: “o mi vendi questo terreno o ti brucio il magazzino”). Di fronte alla prospettiva del male minacciato il soggetto è indotto a volere, ma la volontà non è libera. La legge considera rilevante la minaccia se è di tale natura da fare impressione sopra una persona sensata e da farle temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole (art. 1435). La valutazione della impressione soggettiva viene, di volta in volta, adattata al singolo caso, tenendo conto dell’età, del sesso e della condizione delle persone, cioè di situazioni che possono amplificare l’effetto della minaccia. Il male minacciato deve essere, oltre che notevole, ingiusto, cioè contrario al diritto. Ma anche la minaccia di esercitare un diritto può essere causa di annullamento quando è diretta ad ottenere vantaggi ingiusti, cioè vantaggi estranei rispetto all’interesse tutelato da quel diritto. Se minaccio il debitore di chiedere il fallimento nei suoi confronti, per indurlo a darmi una garanzia del suo debito, come un pegno o una ipoteca, non ottengo un vantaggio ingiusto, ma solo una migliore tutela del mio diritto di credito, quello stesso che faccio valere ricorrendo al fallimento; se invece esercito la stessa minaccia per farmi cedere, ad es., un brevetto industriale, cerco di ottenere un vantaggio che non ha alcuna relazione con il diritto di credito e quindi è ingiusto.
La minaccia è un comportamento illecito sia dal punto di vista penale (il
§ 5. La volontà e i vizi del consenso
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Codice penale punisce i reati di violenza privata, art. 610 c.p. e di minaccia, art. 612 c.p.) sia dal punto di vista del diritto civile. Il codice civile, che normalmente sanziona l’illecito con il solo obbligo di risarcire il danno, in questo caso qualifica la violenza come un vizio del consenso, il più grave, considerandola come un attentato alla libertà del volere. La maggiore gravità della violenza rispetto agli altri vizi è dimostrata da alcune caratteristiche dell’istituto: a) la legge attribuisce al soggetto minacciato l’azione di annullamento purché egli dimostri la gravità della minaccia. Non occorre provare che la minaccia ha determinato, in concreto, una modifica della volontà del soggetto, rispetto a quella che sarebbe stata espressa in condizioni normali. Se il soggetto conclude il negozio indotto dal timore di un male da lui stesso immaginato come probabile, ma non minacciato da alcuno, non gli è concesso di chiedere l’annullamento del contratto. Dunque una alterazione della volontà non determinata da minaccia, bensì da timore (la legge lo chiama timore reverenziale), non è rilevante nell’ambito di questo istituto (solo nel matrimonio è rilevante come vizio il timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi). b) L’azione di annullamento è concessa anche se la minaccia proviene da un terzo estraneo e l’altro contraente non ne è a conoscenza. La tutela del contraente minacciato è quindi prevalente rispetto a quella dell’altro contraente in buona fede (art. 1434). c) Qualunque atto, senza eccezione, è viziato da violenza, mentre gli altri vizi del consenso non sono ugualmente rilevanti in tutti i negozi, ad es. il dolo non è rilevante nel matrimonio, l’errore non è rilevante nella accettazione o nella rinunzia all’eredità. Il dolo consiste in un inganno o raggiro che induce in errore un soggetto e gli fa concludere un negozio. Questa nozione di dolo, che si studia tra i vizi del consenso, non va confusa con quella che si studia a proposito del fatto illecito, dove il dolo rappresenta la situazione psicologica del responsabile che intenzionalmente cagiona il danno e si contrappone alla colpa, intesa come negligenza o imprudenza. Per potersi parlare di raggiro non basta una semplice menzogna, né è sufficiente quella esaltazione della merce che è abituale nei mercati (dolus bonus), ma la legge richiede una deformazione artificiosa della realtà, ido-
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
nea ad ingannare (ad es. si creano documenti falsi che attestano particolari qualità della merce). La reticenza, cioè il silenzio di una parte, pur quando si accorge che l’altro si sta sbagliando, può essere una scorrettezza nella fase delle trattative o della stipulazione del contratto (art. 1337), ma normalmente non è dolo; però il silenzio colpevole di chi avrebbe un obbligo giuridico di parlare, per la sua qualità professionale o per il rapporto con una delle parti (ad es. un esperto, cui è stata chiesta una consulenza), può determinare quel travisamento oggettivo della realtà che determina il dolo.
L’attività ingannatoria che determina il raggiro costituisce sempre un illecito civile, ma, a certe condizioni, è sanzionata anche dal codice penale (reato di truffa, art. 640 c.p.). Non sempre, tuttavia, il raggiro si traduce anche in un vizio della volontà. L’azione di annullamento per dolo è concessa (art. 1439) solo se l’inganno è stato determinante del consenso, cioè quando il contraente non avrebbe accettato di stipulare se non fosse stato ingannato; si parla, in tal caso, di dolus causam dans. Soltanto questo è il dolo che vizia il consenso (c.d. dolo/vizio). Si chiama invece dolo incidente (dolus incidens) quel raggiro che ha ingannato il contraente inducendolo a concludere il contratto a condizioni più sfavorevoli, ma non ne ha determinato il consenso perché egli avrebbe comunque stipulato ugualmente il negozio. In tal caso resta l’illecito, e quindi vi è la possibilità di chiedere il risarcimento del danno subìto per aver contrattato a condizioni peggiori, ma non c’è vizio del volere, perciò il contratto non è annullabile (art. 1440). È utile sottolineare che il dolo determinante (dolus causam dans) rende annullabile il contratto qualunque sia il tipo di errore indotto attraverso il raggiro. Può trattarsi indifferentemente di un errore sugli elementi del negozio, ad es. sull’oggetto, come pure di un errore sui motivi che hanno spinto a contrarre. Se il raggiro (che concreta un dolo determinante) proviene da un terzo (cioè da chi è estraneo al contratto) il vizio di volontà esiste, ma non sempre il contratto è annullabile. Infatti la legge deve scegliere se proteggere il soggetto ingannato o l’altro contraente, che potrebbe ignorare l’esistenza del raggiro procurato dal terzo. La regola, perciò, è questa: se il contraente che trae vantaggio dal dolo altrui è in mala fede (cioè conosce il raggiro), non merita protezione, quindi il contratto è annullabile su domanda del soggetto ingannato, altrimenti quest’ultimo può soltanto far valere l’illecito, ma non il vizio, perciò potrà chiedere i danni al terzo, autore del raggiro, ma il contratto resta valido.
§ 5. La volontà e i vizi del consenso
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Si tratta di un’altra applicazione del principio di protezione dell’affidamento, che fa prevalere la tutela del contraente in buona fede rispetto alla tutela di chi ha interesse a chiedere l’annullamento (art. 1439, capoverso). I danni si possono domandare in ogni caso, perché sono conseguenza di un illecito, tanto se il contratto viene annullato quanto se resta valido, ma saranno diversi nei due casi. Se il contratto viene annullato, infatti, parte del danno viene eliminato togliendo di mezzo il negozio e quindi sarà risarcibile solo il danno ulteriore; se non viene annullato, il danno è tutto quello derivante dall’avere stipulato il negozio non voluto.
L’errore è una falsa rappresentazione della realtà che induce a concludere un negozio. Qui non c’è inganno, ma il soggetto si sbaglia nella valutazione di alcuni elementi che possono essere determinanti del consenso o meno. Il principio che trova applicazione in questo caso è quello che potremmo chiamare della autoresponsabilità, e cioè ciascuno è tenuto ad informarsi delle condizioni di diritto e degli elementi di fatto che lo inducono a stipulare un negozio. Perciò, se si sbaglia, ne risponde egli stesso senza poter scaricare su altri tale rischio. Vedremo dunque che non sempre l’errore consente di chiedere l’annullamento: dovrà trattarsi di un errore di particolare rilevanza e dovrà essere adeguatamente tutelato anche l’altro contraente, quello che non è caduto in errore. Impariamo innanzitutto la terminologia: se l’errore cade sulla formazione della volontà viene chiamato errore motivo (infatti muove il soggetto, inducendolo a prendere una decisione), se invece cade sulla dichiarazione della volontà (o sulla trasmissione della dichiarazione da un luogo all’altro) viene chiamato errore ostativo (perché ostacola una corretta espressione della volontà interna). Nell’errore ostativo non vi è un vizio della volontà, perché questa nasce correttamente, ma un vizio nella dichiarazione, dovuto ad un errore nell’uso della lingua o causato da una indebita modifica, avvenuta durante la trasmissione della dichiarazione. La legge assoggetta l’errore ostativo alla stessa disciplina dell’errore motivo (art. 1433) perché fa ricadere sull’interessato anche la responsabilità del modo in cui ciascuno dichiara la propria volontà e del modo in cui se ne effettua la trasmissione. Dicevamo che non basta un qualunque errore per rendere annullabile il contratto, la legge infatti richiede che l’errore sia essenziale e riconoscibile:
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
a) il primo requisito garantisce che l’errore rivesta particolare importanza, perciò l’errore è essenziale quando cade: – sulla natura (credo che sia locazione, invece è leasing) o sull’oggetto del contratto (cioè sul tipo di prestazione dovuta: credo di dover curare le pubbliche relazioni di un imprenditore e invece devo occuparmi anche della pubblicità dell’azienda); – sull’identità (credo di comprare un quadro autentico e invece è una copia) o su una qualità determinante dell’oggetto della prestazione (il servizio di posate è di Silver, come si usa dire, cioè di una lega argentata, anziché d’argento massiccio); – sull’identità o una qualità dell’altro contraente, purché determinanti del consenso. Perciò tale errore è rilevante solo nei contratti caratterizzati da una specifica qualità o attitudine della persona, in relazione all’attività da svolgere, chiamati contratti intuitu personae (ad es. credo che il mandatario sia esperto in un certo ambito commerciale in cui deve operare, mentre ho frainteso la sua qualifica professionale; al contrario non sarebbe rilevante l’errore sulle qualità dell’altro contraente in un contratto di vendita). Nei tre casi sopra accennati si tratta di errore di fatto, perché il contraente si inganna su elementi oggettivi concernenti il negozio. Si parla di errore di diritto quando l’errore cade sulla esistenza o sulla interpretazione di una norma giuridica. Ovviamente la falsa conoscenza di norme o situazioni giuridiche non esime dal dovere di obbedire alla legge, ma può giustificare l’annullamento del negozio per errore. L’errore di diritto è essenziale se è stato la ragione unica o principale del contratto e quindi se ha determinato il contraente al negozio, ad es., compro un fondo credendolo edificabile mentre esiste invece un vincolo militare o civile che impedisce la costruzione. b) Il secondo requisito garantisce che sia tutelato non solo chi si sbaglia, ma anche la controparte: il contratto (viziato da errore essenziale) è annullabile se l’errore di una parte era riconoscibile dall’altro contraente. Si considera riconoscibile l’errore quando potrebbe essere rilevato da una persona di normale diligenza, tenuto conto del contenuto del contratto, delle circostanze e della qualità dei contraenti (art. 1431; ad es. un professionista o un esperto del mestiere deve accorgersi quando il cliente si sbaglia). Se l’errore non fosse riconosciuto e neppure riconoscibile dall’altro contraente vorrebbe dire che questi è in buona fede. In tal caso, come or-
§ 6. La simulazione
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mai sappiamo, il principio di protezione dell’affidamento prevale sulla tutela della parte caduta in errore e il contratto resta valido. Come si può notare non è considerato essenziale dalla legge: – l’errore di calcolo, che dà luogo solo a rettifica, a meno che, trattandosi di errore sulla quantità (e quindi sull’oggetto della prestazione), sia determinante del consenso (ho fatto male i calcoli della superficie da rimboschire e invece di 1.000 piante ne ho ordinate 10.000, in tal caso, se l’altro doveva accorgersi del mio errore, posso chiedere l’annullamento); – l’errore sui motivi (o sul motivo) che hanno spinto il contraente a decidere, cioè sulle giustificazioni della sua scelta, come le ragioni personali, la convenienza economica, ecc., anche se fossero stati determinanti del consenso (ho comprato la casa in una zona che ritenevo tranquilla, mentre poi si rivela rumorosa per il traffico). Se vi è stato un raggiro la colpa dell’errore ricade su altri, perciò il contraente che è stato ingannato ha diritto ad una migliore tutela: nel dolus incidens può chiedere al responsabile il risarcimento del danno, nel dolus causam dans può chiedere l’annullamento per ogni tipo di errore, anche sul motivo, oltre al risarcimento del danno. Se non vi è stato dolo, ciascuno deve assumersi la responsabilità delle proprie motivazioni e delle proprie scelte, perciò il contratto non è annullabile per errore sul motivo, anche se l’errore fosse stato riconosciuto dalla controparte. Tutt’al più, se questa ha dato false informazioni o ha taciuto agendo scorrettamente si potrà chiedere il risarcimento del danno per illecito precontrattuale (art. 1337).
In tutti e tre i vizi del consenso sopra esaminati l’azione di annullamento spetta solo ad un contraente, cioè il soggetto che subisce la violenza, o l’inganno, o quello che cade in errore. Dunque si tratta di annullabilità relativa. L’azione di annullamento si prescrive in cinque anni, ma con termini di decorrenza diversi: dal momento della scoperta, nell’errore o nel dolo, e dal momento della cessazione dell’effetto della minaccia, per quanto concerne la violenza morale.
6. La simulazione. Non sempre la volontà contrattuale dichiarata dalle parti corrisponde alle loro effettive intenzioni.
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
Talora vi è un contrasto tra ciò che un contraente pensa e ciò che dichiara. Se il contrasto non appare all’esterno, perché la vera intenzione non viene comunicata all’altra parte, vi è una riserva mentale (semplice, se di uno solo, o duplice, se di entrambi i contraenti); in ogni caso essa è giuridicamente irrilevante, perché la legge tiene conto soltanto della volontà manifestata all’esterno attraverso un atto, l’unica volontà che può costituire un significativo punto di riferimento per chi agisce nel traffico giuridico. Altre volte i contraenti, di comune accordo, decidono di dichiarare una volontà negoziale destinata ad apparire ai terzi, che non corrisponde alla loro reale volontà, destinata a rimanere nascosta. Supponiamo che Tizio voglia sottrarre un immobile di sua proprietà all’aggressione dei suoi creditori, che altrimenti potrebbero espropriarlo, e trovi un amico compiacente che finge di comprare lui stesso il bene. In tal caso le parti dichiareranno la volontà di stipulare la compravendita in un atto destinato ad apparire pubblicamente, ma converranno, riservatamente, di non voler produrre alcun effetto giuridico, in modo tale che Tizio resti proprietario e l’amico non sia obbligato a pagare il prezzo. Abbiamo dunque di fronte un accordo complesso formato di due parti collegate fra loro. La dichiarazione contrattuale apparente, destinata ad essere conosciuta dai terzi, prende il nome di contratto simulato. Simulare, come è noto, significa fingere e il contratto simulato è quello fatto ad arte per far risultare una realtà giuridica diversa da quella voluta dalle parti. La vera intenzione dei contraenti, che costituisce la chiave dell’operazione, è espressa in un accordo destinato a rimanere nascosto ai terzi, che prende il nome di controdichiarazione. Secondo il contenuto proprio della controdichiarazione si distinguono due specie di simulazione. a) Vi è la simulazione assoluta quando nella controdichiarazione le parti escludono la produzione di qualunque effetto giuridico (si diceva anticamente che il negozio “colorem habet, substantiam vero nullam”). In tale ipotesi, dunque, la contro dichiarazione contiene solo una volontà negativa e prende il nome di accordo simulatorio. Ad es. “Tizio e Caio stabiliscono di comune accordo che quanto dichiarato nel contratto di vendita del giorno x deve ritenersi tra loro del tutto privo di effetto”. b) Vi è la simulazione relativa quando i contraenti nella contro dichia-
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razione, pur togliendo effetto al contratto simulato, dichiarano, nello stesso tempo, di volere altri effetti giuridici, perciò stipulano tra di loro un contratto nascosto, diverso da quello apparente. In tal caso la comune volontà dichiarata dalle parti contiene, oltre a una volontà negativa (accordo simulatorio) anche una volontà positiva che dà luogo a un contratto dissimulato (colorem habet, substantiam vero alteram). Dissimulare significa nascondere: ad es., le parti fingono di fare (simulano) una locazione (contratto simulato) perché questo deve apparire ai terzi, mentre il contratto dissimulato, cioè quello realmente voluto dalle parti e destinato a rimanere nascosto è un comodato, cioè un prestito gratuito. Gli effetti di un negozio simulato si debbono valutare su due piani distinti: – tra le parti, vale ciò che esse hanno voluto veramente, purché lo possano dimostrare nel modo richiesto dalla legge. Perciò il contratto simulato è inefficace, mentre quello dissimulato ha effetto, purché sussistano i requisiti di sostanza e di forma che valgono per tutti i contratti. Se sorge controversia, perché il simulato acquirente pretende di esercitare i diritti acquistati in base al contratto simulato, l’altro contraente potrà difendersi provando la simulazione. Nei rapporti fra le parti non potrà utilizzarsi la prova testimoniale (a meno che non si voglia provare l’illiceità del contratto dissimulato) né la prova per presunzioni. La prova principale fra le parti resterà pertanto quella documentale e, di conseguenza, occorrerà portare in giudizio lo scritto dal quale risulta la contro dichiarazione o, eventualmente, il contratto dissimulato. Il requisito di forma del negozio dissimulato può far sorgere qualche problema. Se, ad es., sotto una apparente compravendita si vuole nascondere una donazione bisognerà che essa abbia la forma richiesta ad substantiam dalla legge, cioè l’atto pubblico. Ma se la donazione fosse fatta direttamente in tale forma non sarebbe più nascosta, come vogliono le parti. La giurisprudenza, considerando che si tratta di un’unica volontà negoziale complessa, ammette che sia valida la donazione dissimulata, purché sia fatto per atto pubblico il negozio simulato, cioè la compravendita, e vi sia una contro dichiarazione scritta in cui le parti danno atto che si tratta di donazione e dichiarano che nessun prezzo è dovuto per l’acquisto.
– Nei confronti dei terzi, possiamo distinguere: i terzi che sono pregiudicati dal negozio simulato hanno interesse a dimostrare che non è voluto: ad es., i terzi aventi causa dal simulato alienante (colui che ha finto di vendere), vorranno dimostrare che il bene è sempre
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del titolare originario, da cui essi hanno acquistato diritti. I terzi possono provare la simulazione nei confronti delle parti (o di altri terzi) con qualsiasi mezzo. Lo stesso dicasi dei creditori del simulato alienante, che hanno interesse a soddisfarsi sul suo patrimonio e quindi potranno dimostrare che un certo bene, in realtà, non è mai stato venduto. Quindi i terzi possono usare anche la prova per testimoni o per presunzioni. Ad es. possono dimostrare l’esistenza di fatti dai quali si deduce la simulazione: il prezzo non è mai stato pagato, il venditore continua a godere del bene come prima, rimane intestatario dei contratti di somministrazione di acqua, luce, ecc., dunque si può dedurre che è ancora proprietario, non ostante la (finta) vendita. I terzi che sono avvantaggiati dal negozio simulato, ad es., gli aventi causa dal simulato acquirente (hanno comprato il bene da chi ha finto di acquistare) oppure i creditori del simulato acquirente (i quali confidano nel fatto che il patrimonio del loro debitore si è arricchito di un nuovo bene con cui egli risponderà in caso di inadempimento dei suoi debiti) hanno interesse che il contratto produca i suoi effetti. Di fronte a tali terzi risulta oggettivamente una nuova titolarità di diritti e tale situazione giuridica, si noti, è stata artificiosamente creata e voluta proprio dalle parti del contratto simulato. È giusto, pertanto, che la legge protegga tali terzi, in base ad un principio giuridico che prende il nome di tutela della apparenza. I terzi che hanno acquistato diritti dal simulato acquirente confidando nella titolarità apparente di questo, cioè gli aventi causa che sono in buona fede, fanno salvo il loro acquisto e in modo analogo sono tutelati i creditori del titolare apparente che hanno compiuto (sempre in buona fede) atti di esecuzione sul bene (ad es. un pignoramento che prelude all’esecuzione forzata). La legge esprime questa regola dicendo che a tali categorie di terzi la simulazione non può essere opposta né dalle parti né dai creditori o dagli aventi causa del simulato alienante (art. 1415). In tema di diritti reali immobiliari sono salvi gli effetti della trascrizione della domanda di simulazione. Se la domanda giudiziale diretta ad accertare che si tratta di un negozio simulato è trascritta prima della trascrizione degli atti di acquisto (di diritti reali su beni immobili) dei terzi di buona fede, la sentenza che dichiara la simulazione può essere opposta (fatta valere) nei loro confronti (art. 2652, n. 4).
Se i creditori (dell’uno e dell’altro contraente) non hanno ancora com-
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piuto atti esecutivi sui beni che formano oggetto del negozio simulato, nel conflitto fra i creditori chirografari (cioè creditori comuni, non privilegiati e quindi senza diritti di prelazione sui beni) del simulato acquirente e del simulato alienante, sono preferiti i creditori del simulato alienante se il loro credito è anteriore al negozio simulato (art. 1416, capoverso). Qui la legge non richiede la buona fede dei creditori preferiti, in quanto essi non compiono alcun atto di acquisto né alcun atto esecutivo, ma una apparenza esiste in re ipsa, dato che al momento in cui è sorto il credito non si poteva dubitare che il bene in questione appartenesse a quel determinato debitore e quindi coloro che sono divenuti creditori dell’alienante prima dell’atto simulato potevano confidare nella garanzia data oggettivamente dal suo patrimonio.
7. La forma. La volontà può innanzitutto essere manifestata attraverso una dichiarazione, cioè un apposito comportamento rivolto a comunicare, mediante il linguaggio, la propria volontà. Talora può mancare una dichiarazione della volontà negoziale perché essa viene manifestata con altri mezzi. Spesso si usano, in alternativa alla dichiarazione, dei comportamenti significativi o concludenti che non sono in sé diretti a comunicare, ma dimostrano ugualmente quale sia la volontà del soggetto. Ad es. se il creditore straccia deliberatamente il titolo dell’obbligazione e lo consegna al debitore si può capire che rinunzia al suo credito. Talvolta è la legge stessa che interpretando una dichiarazione di volontà del privato, vi legge, fra le righe, una ulteriore volontà non esplicitata. In questi casi si parla di volontà tacita. Ad esempio se il chiamato a succedere che non ha ancora accettato esprime la volontà di alienare il bene in un contratto, la legge considera compresa e presupposta la volontà di accettare (Accettazione tacita, art. 476). Una volontà negoziale può dimostrare implicitamente il consenso ad un altro negozio che doveva essere, logicamente, precedente. Ad es. se il chiamato all’eredità vende alcuni beni ereditari si intende presupposto il negozio di accettazione, senza il quale non vi sarebbe la titolarità di tali beni e quindi neppure il potere di disporre di essi. La legge parla di accettazione tacita dell’eredità (art. 476). Altre volte si può osservare un comportamento che realizza l’effetto stesso del negozio, senza che vi sia una dichiarazione che manifesta la volontà del soggetto. Si fa l’esempio del passante che prende una copia del giornale all’edicola e lascia il prezzo. In questi casi si parla di negozi di attuazione.
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Nel mondo del commercio vengono utilizzate sempre più spesso delle macchine, attraverso le quali si conclude un negozio mediante automatico, introducendo denaro o gettoni, o carte di credito nel meccanismo per ottenere sigarette, biglietti ferroviari, generi alimentari, ecc.
Si può parlare di forma del negozio solo quando c’è una dichiarazione, perché la forma è, appunto, il modo di dichiarare la volontà. Di regola, la forma del negozio è libera. Talvolta la legge richiede una determinata forma sotto pena di nullità: si dice, in tal caso, che la forma è richiesta ad substantiam e che il negozio è solenne. La richiesta di una forma determinata trova sempre una giustificazione nella importanza dell’atto, nella esigenza di costituire una documentazione precisa della volontà, di far riflettere il soggetto sulle conseguenze economiche o personali che scaturiscono dal negozio. La forma richiesta dalla legge nei negozi solenni può essere di vario tipo: – Atto scritto (necessario, ad es., nella compravendita immobiliare e negli altri contratti indicati nell’art. 1350). È sufficiente la documentazione delle dichiarazioni negoziali, scritta a mano o a macchina, seguita dalla sottoscrizione. La scrittura privata fa piena prova della provenienza delle dichiarazioni se la sottoscrizione è autenticata dal notaio o altro pubblico ufficiale competente (scrittura privata autenticata). Nella autentica il notaio attesta l’identità della persona che appone la firma in sua presenza e certifica la data e il luogo della sottoscrizione. La sottoscrizione che non è stata autenticata può avere lo stesso valore (fa prova della provenienza) se viene riconosciuta in giudizio dalla parte contro la quale viene utilizzato il documento o è accertata dal giudice su domanda della parte interessata (vi sarà un procedimento apposito, chiamato verifica di scrittura privata, in cui il giudice si avvale di un perito calligrafo, che confronta la firma con gli scritti autografi del soggetto in questione).
– Atto pubblico (necessario, ad es., per la donazione, la costituzione della società per azioni, l’atto di fondazione). È un atto redatto da un pubblico ufficiale competente (per materia e per territorio) e personalmente capace, il quale attesta ciò che è avvenuto in sua presenza, in particolare riceve le dichiarazioni di volontà della parte o delle parti e la trascrive nell’atto (l. n. 89 del 1913, come modif., da ult., dalla l. n. 246 del 2005). Mentre il notaio ha
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competenza generale, altri pubblici ufficiali hanno competenza limitata: ad es. il sindaco o il giudice tutelare possono ricevere la dichiarazione di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, ma non potrebbero autenticare le firme in calce ad un contratto. L’atto pubblico fa piena prova dei fatti che il pubblico ufficiale dichiara essere avvenuti in sua presenza, cioè l’esistenza delle dichiarazioni (se poi sia stato dichiarato il vero è un’altra questione), la identità delle parti, che talora sottoscrivono anch’esse l’atto, il luogo e la data del negozio, con la conseguenza che quest’ultima sarà opponibile anche ai terzi. Determinate forme solenni speciali possono essere richieste per singoli negozi, ad es. il testamento ordinario, secondo la tradizione, può essere confezionato in tre forme equivalenti, oltre a quello pubblico vi è il testamento olografo (atto scritto interamente di pugno dal testatore, datato e sottoscritto) e il testamento misto (che si compone di due atti: una scheda testamentaria, sottoscritta dal testatore, e un atto di ricevimento, redatto dal notaio) solo da poco tempo si è aggiunta la ulteriore forma del c.d. “testamento internazionale”; il vaglia cambiario richiede la promessa incondizionata di pagare una somma di denaro all’ordine del creditore, deve contenere la parola cambiale, la data e la firma dell’obbligato.
Spesso la legge non indica specificamente una determinata forma solenne del negozio, ma la prescrive con riferimento ad un altro atto. Si parla, in tali casi, di forma determinata per relationem. Ad es. la procura deve essere fatta nella stessa forma eventualmente richiesta per il negozio che il rappresentante ha il potere di concludere (art. 1392). Il contratto preliminare (proprio, v. infra, in questo paragrafo) va fatto nella stessa forma richiesta per il contratto definitivo (art. 1351). La dichiarazione di nomina (electio amici) nel contratto per persona da nominare va fatta nella stessa forma usata per la stipulazione del contratto, anche se non era richiesta dalla legge (art. 1403). Anche le parti possono dettare prescrizioni di forma per la futura conclusione di un contratto. Il codice parla, in proposito, di forme convenzionali. La convenzione che stabilisce tali forme volontarie è un contratto normativo (o regolamentare), perché non fa nascere diritti o obblighi, ma solo regole vigenti tra le parti e richiede ad substantiam la forma scritta (art. 1352). Il requisito di forma dei futuri contratti, richiesto dalle parti attraverso tale convenzione, nel dubbio, si presume voluto ad substantiam, cioè sotto pena di nullità.
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In ognuno dei casi sopra elencati, in cui una determinata forma scritta è richiesta ad substantiam, non si deve confondere il requisito della forma col documento (cioè il supporto, di solito cartaceo, che contiene la scrittura) che è solo il risultato della attività materiale. Il requisito della forma scritta consiste essenzialmente proprio in tale attività di documentazione della volontà negoziale per opera delle parti o del pubblico ufficiale. Questa attività o esiste nel momento iniziale o non esisterà mai più, perché è una caratteristica dell’atto negoziale. Se è avvenuta la documentazione, il requisito formale è soddisfatto, anche se poi il documento viene distrutto o smarrito. Mentre la legge consente, infatti, la ricostruzione del documento, non si può provvedere a posteriori a rifare lo stesso atto, perché esso è nullo se non è stato documentato inizialmente nel modo richiesto dalla legge. Si potrà fare, eventualmente, un nuovo atto formalmente valido, uguale al primo, ma solo se tutti i contraenti sono d’accordo. Quando il documento è stato perduto senza colpa del contraente la legge ammette anche la prova per testimoni, non già per provare l’esistenza del contratto, ma per provare l’esistenza del documento, richiesto ad substantiam, che rende valido tale negozio (art. 2725).
La forma scritta, richiesta ad substantiam, si differenzia nettamente dalla forma richiesta ad probationem, cioè per la prova del contratto. Spesso la legge richiede che un contratto venga provato per iscritto (ad es. l’assicurazione (art. 1888), la transazione (art. 1967) o, con una espressione equivalente, risulti da atto scritto (il pegno, ai fini della prelazione, art. 2800). In queste ipotesi il contratto è valido anche se stipulato oralmente, ma non può essere provato in giudizio se non con un documento scritto. È sufficiente, tuttavia, un qualunque scritto proveniente dal soggetto contro cui deve essere data la prova, quindi anche uno scritto successivo al negozio, come una lettera in cui la controparte fa riferimento al precedente contratto stipulato oralmente, ecc. In mancanza di documento scritto non è ammessa la prova per testimoni né per presunzioni, ma restano utilizzabili soltanto la confessione o il giuramento. La legge prescrive anche una forma determinata per effettuare la pubblicità di taluni atti, cioè per richiederne l’iscrizione o la trascrizione in pubblici registri. Non si può chiedere la trascrizione di un contratto nei registri immobiliari se tale titolo non è in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente (art. 2657); la stessa regola vale per l’iscrizione di ipoteca volontaria (art. 2835).
§ 8. La causa
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Perciò una vendita immobiliare è valida anche se stipulata per atto scritto non autenticato, ma tale atto non è trascrivibile. Spesso le parti si accordano, in tal caso, per riprodurre davanti al notaio il negozio già stipulato in privato, in modo da creare un atto che si possa trascrivere. Questa reciproca promessa, di ripetere il consenso negoziale in forma idonea alla pubblicità immobiliare, viene chiamata contratto preliminare improprio. Improprio perché non c’è un nuovo contratto da stipulare ma solo da riprodurre il consenso precedente, che era già sufficiente per concludere un negozio valido e definitivo. Tanto è vero che se l’altra parte rifiuta di ripetere il contratto o ciò diviene impossibile (per morte, incapacità, ecc.) la parte interessata alla trascrizione potrà chiedere l’accertamento giudiziale di scrittura privata del contratto già stipulato, al fine di accertare l’autenticità della sottoscrizione e quindi potrà effettuare la pubblicità ugualmente. Nel contratto preliminare proprio la situazione è radicalmente diversa: le parti promettono di stipulare un secondo contratto, chiamato contratto definitivo. Perciò un preliminare di vendita ha soltanto efficacia obbligatoria in quanto vincola le parti a prestare un futuro consenso e sarà solo il successivo contratto, cioè la vendita effettiva, a determinare il passaggio della proprietà. Se poi il promittente venditore non adempie, la controparte che ha interessa ad acquistare il diritto può avvalersi di uno strumento assai efficace: l’esecuzione forzata in forma specifica dell’obbligo di contrarre (art. 2932) chiedendo al giudice una sentenza (costitutiva)che produce essa stessa il passaggio di proprietà del bene promesso. Se invece non ha più interesse all’acquisto, il contraente deluso chiederà la risoluzione per inadempimento, salvo comunque il diritto al risarcimento del danno. Se esiste un interesse meritevole delle parti ad una formazione progressiva del contratto si può anche ammettere un “preliminare di preliminare”, cioè un impegno con una più ristretta area obbligatoria che lo distingue dal più ampio contenuto obbligatorio (ad es. di stipulare una vendita) del successivo preliminare “maggiore” (Cass., S.U., n. 4628 del 2015).
8. La causa. Nel diritto civile la parola causa desta spesso confusione, perché viene usata con diversi significati. Si parla di causa dell’obbligazione quando ci si riferisce alla fonte del rapporto giuridico, cioè al fatto da cui nascono, nello stesso tempo, il diritto del creditore e l’obbligo del debitore (una di queste cause può essere il contratto); si parla invece di causa dell’attribuzione patrimoniale quando si cerca la giustificazione di uno spostamento di ricchezza. Un principio fondamentale risalente al diritto romano dice
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che se un soggetto si è arricchito senza una giusta causa a spese di un altro che si è impoverito, quest’ultimo può chiedere l’indennizzo (o la restituzione di una cosa determinata); il principio, che in altri ordinamenti è ampiamente operante, forse proprio perché suscettibile di una vasta applicazione è stato visto con diffidenza dal legislatore italiano del 1942, infatti l’azione generale di arricchimento è sussidiaria (art. 2041), ciò significa che può essere esercitata solo quando non sia possibile utilizzare altre azioni, ad es. la ripetizione dell’indebito o la negotiorum gestio, ecc.
La causa del contratto non deve confondersi con le nozioni sopra accennate: si tratta di un requisito essenziale del negozio di cui, però, la legge non dà la definizione, rinviando tacitamente alla nozione tradizionale. Un tempo la causa veniva intesa in senso soggettivo, come lo scopo perseguito dalle parti. Oggi la causa del contratto si intende piuttosto in senso oggettivo, come funzione svolta dal negozio nel suo complesso, analizzando qual è il suo risultato pratico e quale utilità esso reca alle parti. Il controllo della causa di un contratto non è rivolto, pertanto, ad approfondire le intenzioni dei contraenti, ma concerne le clausole e le prestazioni che sono pattuite in concreto. Solo con una considerazione realistica, da effettuare volta per volta, si potrà giudicare innanzitutto se una determinata operazione economicogiuridica programmata dalle parti è idonea a svolgere una funzione apprezzabile in quanto soddisfa interessi meritevoli di tutela. Ad es. il giudice dirà che è privo di causa un contratto in cui si prevede il semplice trasferimento della proprietà di un bene senza fissare alcun corrispettivo e senza indicare alcuna ragione economica (ad es. l’adempimento di un obbligo o la volontà di fare una donazione), perché il trasferimento in sé considerato è solo un effetto giuridico che non rivela quali interessi le parti vogliono soddisfare e quindi non si può individuare l’operazione economica sottostante. Oppure, per fare un altro esempio, il giudice dirà che non appare meritevole di tutela, secondo l’ordinamento giuridico attuale, il contratto con cui si cede un titolo nobiliare (oggi non più riconosciuto in base alla XIV disposizione di attuazione della Costituzione). Il controllo della causa va fatto tenendo conto delle singole circostanze in cui il contratto viene stipulato: ad es. l’impegno di togliersi il cappello davanti ad una statua, in cambio di una somma di denaro, può sembrare ridicolo, in astratto, ma è degno di tutela giuridica se stipulato da chi ha intenzione di recitare, come comparsa, sul set di una produzione cinematografica.
La causa non va confusa innanzitutto con il motivo, che equivale alla ragione soggettiva del contratto (ho comprato un bene perché mi serve, perché spero di rivenderlo traendo un guadagno, ecc.).
§ 8. La causa
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In secondo luogo non va confusa con il tipo contrattuale. Se la causa è propria di ogni singola operazione, il tipo è una generalizzazione che esprime i caratteri di un determinato schema causale che si può ripetere una serie indefinita di volte. Perciò diremo che lo scambio della proprietà del bene x con il prezzo y (che definisce la funzione dell’operazione compiuta in concreto dalle parti e quindi la causa) rientra nel tipo della compravendita. La legge ha previsto alcuni tipi contrattuali più frequenti (tipi legali), dettando una disciplina per ciascuna di tali figure, chiamate per questa ragione contratti nominati (compravendita, locazione, assicurazione, opera, ecc.), ma vi sono anche figure contrattuali non descritte dalla legge che possiamo qualificare come tipi sociali perché sono schemi negoziali ormai ricorrenti nel traffico giuridico, in quanto entrati nella pratica commerciale. Molte di tali figure provengono dall’esperienza straniera, spesso nordamericana, come il contratto di leasing, di franchising, di factoring, ecc. Quando una figura contrattuale non è disciplinata dalla legge, tanto se corrisponde ad un tipo affermatosi nella pratica, quanto se invece è un contratto sui generis, cioè del tutto particolare, si parla genericamente di contratto innominato. La previsione legale di un tipo contrattuale garantisce la liceità e la meritevolezza degli interessi così come si configurano in astratto, secondo ciascuno schema negoziale: ad es. un contratto formulato secondo lo schema della locazione (promessa di garantire il godimento di un bene in cambio di un canone periodico) o del mandato (obbligo di compiere uno o più atti giuridici per conto di un altro soggetto) svolge di certo una funzione socialmente apprezzabile e lecita, in via di principio. Tuttavia la mancanza di causa può esservi, in concreto, anche in un contratto che riproduce uno schema disciplinato dalla legge. Ad es., in una determinata compravendita si può scoprire che la cosa venduta da A a B apparteneva già al compratore (e quindi quello specifico contratto era inutile) o si scopre che in un determinato contratto di assicurazione il rischio, contro il quale il cliente voleva proteggersi, in realtà non esisteva (rendendo, anche in questo caso, inutile il contratto). In tali ipotesi si parla di causa putativa. D’altra parte, in un contratto che riproduce uno schema legale, e quindi che soddisfa, in astratto, ad una funzione lecita (come, ad es., il contratto d’opera), vi può essere, in concreto, la previsione di una prestazione illecita (ad es., il prestatore d’opera si è impegnato a sabotare una impresa concorrente guastandone i macchinari). È chiaro che, in tal caso, l’illiceità dell’oggetto del contratto (la prestazione) si ripercuote anche sulla sua funzione rendendo, di riflesso, illecita anche la causa. La tipicità dello schema
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
cui fanno riferimento le parti non esclude, pertanto, una mancanza o una illiceità della causa. Ecco perché questa deve essere valutata in concreto, volta per volta.
Come si è già detto, parlando della autonomia privata, la legge ammette anche la stipulazione di contratti non appartenenti ai tipi disciplinati dalla legge, purché diretti a soddisfare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico e purché siano soddisfatti i requisiti essenziali del contratto. In questi contratti innominati risulta ancora più importante il controllo circa la causa del negozio. Infatti non potendosi riferire tali negozi ad una figura tipica approvata dalla legge, sarà necessario verificare, volta per volta, la bontà degli interessi da soddisfare e l’idoneità del regolamento voluto dalle parti al fine di giudicare se la convenzione svolge una funzione apprezzabile e merita di essere tutelata dal diritto. Nei contratti non nominati, oltre al problema della liceità e della esistenza di interessi meritevoli, sorge anche il problema della disciplina applicabile; problema da risolvere, secondo i casi, ora applicando la disciplina della figura contrattuale tipica che presenta la maggiore analogia, in quanto compatibile, ora con una combinazione di norme tratte per analogia da diversi contratti nominati. Il requisito della causa del contratto segna una caratteristica importante della autonomia privata, bilanciando, in un certo senso, l’importanza della volontà. Il principio causale dice che non è sufficiente la sola volontà dell’effetto giuridico, cioè la volontà di obbligarsi o la volontà di trasferire o di costituire un diritto per giustificare il riconoscimento dell’atto del privato, da parte dell’ordinamento, ma è necessario che l’effetto in questione realizzi una operazione economico-giuridica approvata dalla legge. Nel campo contrattuale, parlando in termini generali, trova apprezzamento la funzione dello scambio, in cui il beneficio ricevuto da una parte corrisponde al sacrificio economico da essa affrontato nell’interesse dell’altra (ancorché l’equilibrio sia lasciato ad una larga discrezionalità), che trova molteplici espressioni nei contratti a prestazioni corrispettive, come la compravendita, la somministrazione, la locazione, l’assicurazione e così via, oppure viene apprezzata dalla legge la collaborazione fra più persone in vista di uno scopo comune, attuabile attraverso contratti associativi, come il contratto di società nei suoi vari tipi, o il contratto di associazione, di consorzio e così via, infine sono ammessi con una certa cautela negozi gratuiti, rispondenti ad
§ 9. L’astrazione processuale e sostanziale dalla causa
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una riconosciuta utilità sociale, come i contratti di garanzia (ad es. la fideiussione), di prestito (ad es. il mutuo, il comodato), di custodia (ad es. il deposito), di collaborazione nell’attività giuridica (ad es. il mandato). In linea di principio, al di fuori di questi casi, la volontà di trasferire un diritto o di obbligarsi senza corrispettivo riceve una tutela giuridica solo se sostenuta da un manifesto spirito di liberalità, attraverso il contratto di donazione, che richiede la forma solenne dell’atto pubblico.
9. L’astrazione processuale e sostanziale dalla causa. Il negozio totalmente astratto, cioè quello che produce effetti a prescindere dalla giustificazione economico-giuridica (ad es. “mi obbligo a pagarti cento perché voglio così”) non è ammesso dal nostro codice, in armonia con la tradizione culturale del diritto intermedio, sviluppata dai canonisti, che ripudiava il nudum pactum (cioè la mera volontà degli effetti giuridici, in sé considerata). Esistono, tuttavia, delle ipotesi eccezionali in cui la mancanza della causa del negozio manifesta la sua rilevanza solo in un secondo tempo, dopo che la volontà di obbligarsi, espressa nelle forme di legge, è riuscita, comunque, a produrre alcuni effetti giuridici. Va ricordata, innanzitutto, una figura in cui l’effetto della volontà si produce solo provvisoriamente, nella prima fase del giudizio. Si parla, in tal caso, di astrazione processuale dalla causa e l’effetto caratteristico consiste in questo: se Tizio promette il pagamento di una somma di denaro o riconosce il proprio debito nei confronti di un’altra persona in un atto scritto, la dichiarazione contenuta nel documento è utile al creditore per provare l’esistenza del credito e pretenderne il pagamento in giudizio, senza bisogno di dimostrare in altro modo l’esistenza del rapporto giuridico sottostante (chiamato anche rapporto sostanziale) da cui nasce effettivamente l’obbligazione (vendita, locazione, mutuo, ecc.). Questo esonero dall’onere della prova costituisce pertanto un vantaggio per il creditore nel quadro dei noti principi del processo civile, ma se il debitore convenuto in giudizio contesta efficacemente l’esistenza del debito, soddisfacendo l’onere di fornire la prova contraria posta a suo carico, ecco che il creditore sarà costretto a dimostrare l’esistenza del rapporto sostanziale secondo il principio generale. Poiché la promessa di pagamento ha ormai esaurita la sua efficacia, determinando l’inversione dell’onere della prova, una volta che tale prova sia stata efficacemente contrastata dal convenuto si ritorna al principio: tocca all’attore provare il fondamento del suo diritto.
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
Una astrazione più marcata, chiamata astrazione materiale (o sostanziale) dalla causa, si ha qualora la promessa di pagamento sia contenuta in una cambiale, che è titolo di credito destinato a circolare. Il creditore (chiamato anche promissario, in quanto riceve la promessa) può cedere tale documento mediante la girata (apposizione della firma sul verso del titolo) e la trasmissione del possesso. Così facendo cede non solo il documento, che è una cosa, ma anche il diritto di credito in esso “incorporato”. Ad es. il debitore potrebbe offrire, in pagamento, una cambiale in suo possesso di importo equivalente al debito, apponendo la girata sul titolo (con la girata il creditore che cede il credito dà ordine al debitore di pagare al cessionario, cioè al nuovo creditore; questi, a sua volta, può cedere ad altri credito e documento nello stesso modo e così via). Non si tratta, ovviamente, dell’adempimento normale di un debito pecuniario, ma della esecuzione di una diversa prestazione in luogo dell’adempimento (datio in solutum), che presenta rischi ben maggiori del pagamento con moneta corrente. Perciò è necessario che il creditore accetti questo modo di estinguere il debito, altrimenti il debitore non è liberato.
Colui che sarà il legittimo possessore del titolo alla scadenza segnata sul documento si presenterà al debitore, che ha emesso il titolo originariamente, chiedendo il pagamento della somma promessa. A questo punto si manifesta il fenomeno della astrazione: il debitore che ha emesso la cambiale, promettendo il pagamento, non è legato da alcun rapporto con il terzo che sarà portatore del titolo alla scadenza e quindi non gli potrà neppure opporre le eccezioni fondate sul rapporto sostanziale originario. In altre parole il debitore cambiario non potrà eccepire al nuovo creditore l’eventuale mancanza o invalidità del rapporto sottostante, cioè dell’operazione economica che giustificava il rilascio della cambiale (ad es. dimostrando la nullità del contratto di vendita e quindi la mancanza dell’obbligo di pagare il prezzo), ma dovrà necessariamente adempiere. Solo in un successivo momento egli potrà far valere la mancanza di causa nei confronti della sua controparte originaria (cioè di colui che era il venditore, per restare al nostro esempio), dimostrando che il rilascio della cambiale era avvenuto per sbaglio o non corrispondeva ad una effettiva obbligazione, e chiedendogli la restituzione di ciò che ha dovuto pagare. L’astrazione, pertanto, deriva dalla speciale natura del titolo di credito e dal fatto che tale titolo abbia circolato, secondo quelle che sono le sue proprie regole.
§ 10. I requisiti della causa
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Se invece il titolo non avesse circolato e fosse ancora nelle mani del creditore originario alla data della scadenza, ecco che il debitore gli potrebbe opporre tutte le eccezioni fondate sul rapporto sottostante, analogamente a quanto avviene nel caso della promessa di pagamento ordinaria o non cartolare (cioè non contenuta in una cambiale, ma in uno scritto qualsiasi) di cui si è parlato poco fa in tema di astrazione processuale.
10. I requisiti della causa. La causa del contratto deve essere, innanzitutto, lecita. È illecita la causa contraria a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. Le tre nozioni sono già state chiarite in relazione all’oggetto del contratto, perciò si fa rinvio a tale trattazione. L’illiceità per contrarietà al buon costume pone ancora il problema della causa turpe e della soluti retentio. Colui che ha pagato per uno scopo immorale anche da parte sua non può chiedere la restituzione del prezzo. Un esempio di causa illecita per contrarietà all’ordine pubblico potrebbe darsi nell’impegno di sposare una persona in cambio di un prezzo. Se si ritiene che il solvens non abbia perseguito uno scopo immorale gli si concederà la ripetizione dell’indebito. Va detto, peraltro, che quando si esaminano i requisiti del contratto si parte da quelli più semplici per arrivare a quelli più complessi. Perciò è chiaro che se una prestazione è illecita, il contratto è già nullo per illiceità dell’oggetto. La illiceità della causa (della sola causa) si può avere quando l’illiceità sta nella relazione fra le prestazioni, per la funzione illecita complessiva che ne risulta. Ad es., prendiamo due comportamenti leciti, il pagamento di una somma di denaro e lo svolgimento delle proprie mansioni da parte di un dipendente pubblico; ebbene, sarebbe illecito promettere denaro ad un impiegato della P.A. affinché porti a regolare compimento una pratica che interessa il privato. L’illiceità sta dunque nello scambio fra queste prestazioni, di cui una costituisce un dovere d’ufficio.
Il contratto concluso in diretta violazione di una norma imperativa ha causa illecita e si dice contra legem. Il legislatore, tuttavia, consapevole della malizia dell’uomo, prevede anche il contratto in frode alla legge. Si tratta molto spesso di una operazione complessa in cui le parti non utilizzano un solo contratto, ma più atti o negozi leciti collegati fra loro, per ottenere un risultato illecito aggirando un divieto legislativo. Perciò se il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa la legge ne reputa illecita la causa
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
(art. 1344), non ostante manchi una violazione diretta e gli strumenti usati dal privato siano apparentemente leciti. Esempio: è vietato il patto secondo cui la cosa data in garanzia (pegno o ipoteca) passa in proprietà del creditore qualora il debitore sia inadempiente (divieto del patto commissorio, art. 2744). Perciò se le parti stipulassero un mutuo di 100 milioni, garantito da pegno di un brillante, aggiungendovi un patto commissorio, andrebbero direttamente contra legem, esponendosi alla nullità del patto. Se tuttavia alle parti interessa concludere un prestito, assistito dal meccanismo di garanzia di cui si è detto, esse potrebbero ottenere un risultato molto simile valendosi di altri strumenti negoziali. Ad es., con la vendita del brillante una parte potrebbe ottenere dall’altra il denaro che le serve (come prezzo anziché come prestito), l’altra parte otterrebbe sin dall’inizio la proprietà del bene acquistato e, aggiungendo alla vendita un patto di riscatto (che è una delle clausole tipiche della vendita, art. 1500), sarebbe consentito al venditore di riacquistare automaticamente la proprietà del bene venduto, esercitando tale opzione e restituendo la somma di denaro entro una certa data. È ovvio che se costui non potrà disporre del denaro da restituire, il riscatto non verrà esercitato e il bene resterà di proprietà del compratore. Come si vede il risultato è del tutto analogo a quello che la legge voleva impedire di realizzare attraverso la diversa combinazione del contratto di mutuo, garantito da pegno, e patto commissorio. Intendiamoci: se il contratto di vendita sopra descritto fosse stipulato perché si vuole realmente il trasferimento della proprietà, esso sarebbe lecito con o senza il patto di riscatto, ma se invece si può dimostrare che le parti volevano essenzialmente un mutuo e hanno concluso il negozio in questione solo per eludere il divieto del patto commissorio, ecco che ne risulta una frode alla legge. Chi ha interesse a far dichiarare la nullità dovrà, tuttavia, dare prova, oltre che dell’effetto finale complessivo, anche dell’intento fraudolento. Perciò nella frode alla legge è rilevante anche l’elemento soggettivo, oltre che quello oggettivo.
La frode alla legge presuppone l’elusione di una norma imperativa che regola la validità del negozio. Non va quindi confusa con la frode al fisco, che può determinare un illecito amministrativo o penale, nei casi più gravi, ma non determina la invalidità del contratto, né con la frode ai creditori, che mira a sottrarre loro una parte del patrimonio del debitore e non determina alcuna invalidità, ma soggiace, eventualmente, ai mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale, in particolare all’azione revocatoria (v. l’art. 2901). I motivi, cioè le ragioni soggettive e variabili che spingono le parti a contrarre sono, di norma, irrilevanti. Eccezionalmente la legge prevede come causa di illiceità del contratto il motivo illecito, qualora sia comune alle parti e sia l’unico determinante per
§ 11. Il negozio indiretto e il negozio fiduciario
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entrambi i contraenti (art. 1345). L’eccezione si spiega considerando che, in presenza di tali elementi, il contratto viene utilizzato esclusivamente per uno scopo illecito e pertanto l’interesse che viene soddisfatto in concreto vizia l’intero contratto. Non basta, tuttavia, che il motivo illecito, proprio di una sola parte, sia conosciuto dall’altra, ma occorre che vi sia una ragione determinante anche per il secondo contraente, collegata alla illiceità dello scopo perseguito dal primo contraente (ad es., conoscendo lo scopo illecito altrui cerco di approfittare chiedendo in cambio della mia prestazione un prezzo particolarmente elevato che altrimenti non sarebbe giustificato: se do in locazione una casa a Tizio, pur sapendo che questi ne farà una bisca clandestina, il motivo illecito non è comune; ma se approfitto del suo intento per ottenere un prezzo straordinario condivido le ragioni che spingono a stipulare quel negozio). Il motivo illecito nel contratto di donazione è regolato diversamente. La disciplina è ispirata da quella del testamento, tenuto conto del fatto che la attribuzione liberale è decisa essenzialmente da una parte sola e l’altra si limita ad una accettazione. Perciò il motivo illecito del solo donante, purché sia l’unico che ne ha determinato la volontà e risulti dall’atto, è sufficiente a rendere nullo il negozio. Se il contratto ha una causa o un oggetto illecito si parla di negozio illecito. Ripetiamo che il negozio illecito non va confuso con l’atto illecito. Diversa è la nozione e diversa è la sanzione. L’atto illecito provoca un danno ingiusto e quindi obbliga al risarcimento o alla riparazione, il negozio illecito non produce alcun effetto essendo radicalmente nullo.
11. Il negozio indiretto e il negozio fiduciario. In una norma dettata in tema di successioni (art. 737) la legge fa intendere che si può ricevere per donazione direttamente o indirettamente. Da ciò gli interpreti hanno ricavato la nozione di donazione indiretta: si tratta di un negozio diverso dalla donazione vera e propria, e quindi sostenuto da una sua propria causa, attraverso il quale si vuole produrre come risultato, quell’effetto economico che è tipico della donazione, cioè l’arricchimento di una parte senza corrispettivo, per spirito di liberalità. Ad es. Tizio, allo scopo di arricchire Caio, gli vende a prezzo ridotto un bene di valore assai maggiore. La causa di scambio, tipica della compravendita, è sufficiente a giustificare gli effetti giuridici dell’operazione, ma potremmo dire che il negozio di compravendita è lo strumento utilizzato per procurare l’arricchimento.
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Cap. 14. Gli elementi essenziali del contratto
In modo analogo si può utilizzare il contratto di società, ad es. facendo entrare un nuovo socio con un conferimento largamente sottostimato rispetto al valore della quota che gli viene attribuita.
La dottrina ne ha ricavato una nozione ulteriore, ancora più generale, quella di negozio indiretto. Viene chiamato così un negozio dotato di una causa propria, tipica o atipica, che viene utilizzato per ottenere gli effetti propri di un’altra figura causale (di tipo diverso) o comunque effetti diversi da quelli tipici. La denominazione è certamente imprecisa e ha più che altro un valore descrittivo. Va comunque sottolineato che il negozio indiretto è effettivamente voluto nella sua sostanza e quindi non è un negozio simulato. Anche il negozio fiduciario è figura ricavata dalla dottrina sulla base di uno spunto testuale del Codice. Nel diritto delle successioni si parla di disposizione fiduciaria allorquando il testatore fa un lascito a vantaggio di taluno, affidandogli il compito di trasmettere i beni ad un’altra persona, che rappresenta il vero beneficiario (art. 627). In base ai principi della successione testamentaria non nasce alcun obbligo giuridico di adempiere a carico di colui che risulta formalmente investito del diritto, salvo riconoscere, eventualmente, l’esistenza di un obbligo morale che costui, spontaneamente, potrà soddisfare. Gli interpreti chiamano negozio fiduciario una figura sostanzialmente diversa dalla disposizione fiduciaria, che presenta, tuttavia, un elemento comune: la titolarità di un diritto, attribuita al fiduciario, appare strumentale rispetto alla realizzazione dell’interesse del fiduciante. Nel contratto fiduciario una parte, pur acquistando formalmente la titolarità di un diritto reale, si obbliga ad esercitarlo solo in modo limitato, nell’interesse di un’altra persona. Ad es. per ottenere che Tizio amministri alcuni beni immobili, Caio, anziché concludere un contratto di mandato, gli cede la titolarità dei beni stessi, con una vendita, stipulando tuttavia un contratto complesso che fa nascere a carico del nuovo titolare (fiduciario) tutta una serie di obblighi: amministrare i beni con diligenza, non alienarli e non utilizzarli personalmente, accantonare le rendite, adibirli all’uso indicato dal venditore (fiduciante), retrocedere la proprietà quando quest’ultimo lo richieda, ecc. Il negozio si dice fiduciario perché i poteri di cui è investito il fiduciario (divenuto proprietario del bene) gli consentirebbero di compiere anche atti che violano gli accordi interni fra le parti. Ad es., se il fiduciario vende a terzi, l’atto è pienamente efficace, anche se rappresenta inadempimento degli obblighi contrattuali che valgono esclusivamente fra le parti. Poiché i mezzi attribuiti al fiduciario sono eccedenti rispetto al fine, assume la massima rilevanza proprio la fiducia circa il fatto che i poteri attribuiti vengano utilizzati entro i limiti convenzionalmente pattuiti, rispettando le obbligazioni sorte inter partes. Pertanto, diversamente dalla disposizione fiduciaria, che non obbliga, il contratto fiduciario fa nascere veri obblighi giuridici a carico del fiduciario.
§ 1. La condizione
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CAPITOLO 15
GLI ELEMENTI ACCIDENTALI
SOMMARIO: 1. La condizione. – 2. Il termine. – 3. L’onere o modus.
1. La condizione. La condizione è un evento futuro ed incerto dal quale si fanno dipendere gli effetti del contratto. Può trattarsi di una condizione sospensiva, quando dall’evento dedotto in condizione si fanno iniziare gli effetti negoziali (ad es. si stabilisce che la locazione di un appartamento nella località x avrà effetto solo se il conduttore verrà assunto dalla ditta y che ha sede in quella zona) o di una condizione risolutiva se all’avverarsi dell’evento si fanno cessare gli effetti del contratto (ad es. si stabilisce che il contratto di mandato si scioglie se il mandatario cambia residenza). Quanto alla fonte si distingue la condizione volontaria, che viene posta dalla volontà privata, dalla condizione legale, o condicio juris, posta dalla legge (ad es. si considera una condicio juris l’approvazione dei contratti di enti pubblici da parte dell’organo di controllo alla quale è subordinata l’efficacia di tali contratti). Si ritengono applicabili alla condicio juris, in quanto compatibili, le regole della condizione volontaria (comportamento di buona fede da tenere nello stato di pendenza, retroattività, azioni conservative della aspettativa). La condizione crea un periodo di incertezza nella vita del negozio, chiamato anche stato di pendenza, in cui il diritto non è ancora acquistato o non è ancora perduto. Ciò dipende dal fatto che l’evento dedotto in condizione, oltre che incerto, è anche futuro e perciò vi è necessariamente un lasso di tempo fra la stipulazione e l’avverarsi della condizione (o la certezza che questa non si verificherà). Si conosce anche una condizione riferita al presente, cioè al momento della
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Cap. 15. Gli elementi accidentali
stipulazione del contratto o addirittura al tempo che precede la conclusione del negozio (in praeteritum collata). Non si tratta di vera condizione, infatti non essendovi un lasso di tempo che separa la stipulazione dell’atto dall’avverarsi dell’evento non si crea quello stato di pendenza tipico dell’istituto in questione. Può ben succedere, tuttavia, che le parti ignorano se un determinato fatto è o non è accaduto e fanno dipendere gli effetti del negozio da tale circostanza. Ciò è perfettamente lecito e quando si conoscerà la risposta si saprà anche se il negozio produce oppure non produce effetti fin dall’inizio.
Se l’evento dedotto in condizione è futuro, ma certo, non si tratta di una condizione, ma di un termine. Con la condizione ed il termine le parti introducono nel regolamento negoziale nuovi interessi che integrano quelli tipici. Si tratta di motivi individuali che, come si è già visto, resterebbero normalmente irrilevanti rispetto al contenuto negoziale. L’interesse ad acquistare la proprietà di un bene sta alla base di ogni contratto di compravendita, ma spesso tale interesse sussiste solo se accade un evento determinato. Ad es., compero la casa nella città X perché penso che sarò trasferito in quella città dal mio datore di lavoro. Se tale giustificazione resta un motivo che spinge il compratore a stipulare, ma non si traduce in una clausola del contratto, tale motivo non avrà alcuna rilevanza nel meccanismo negoziale, il quale funziona ugualmente anche se poi l’evento non si verifica. Viceversa se l’acquirente deduce l’evento che gli interessa come oggetto di contrattazione e la controparte consente di inserire nel contratto una condizione appositamente formulata in relazione a tale evento, ecco che il contratto di compravendita verrà adattato in modo più vantaggioso all’interesse del compratore, in quanto l’effetto si produrrà soltanto se si avvera l’evento previsto.
Una volta inserite tali ulteriori specificazioni del programma contrattuale esse diventano parte integrante del contratto, assumendo una rilevanza centrale. Si dice pertanto che la condizione è elemento accidentale (giacché, non costituendo un requisito essenziale, potrebbe mancare, senza che per questo venga meno la validità del negozio), ma non è elemento accessorio, perché, una volta apposta al contratto, essa ne caratterizza intrinsecamente la struttura. Proprio per l’importanza che tale elemento assume nella configurazione del negozio, la condizione deve essere innanzitutto lecita. La condizione è illecita quando è illecito il comportamento dedotto in condizione, ad es., “se ucciderai Tizio”, o è vietato dalla legge dedurre in condizione un determinato evento (di per sé lecito), ad es., “se resterai celibe sarai mio erede” (l’art. 636 dichiara illecita la condizione che impedisce le prime nozze o le ulteriori).
§ 1. La condizione
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L’illiceità della condizione determina illiceità e quindi nullità del contratto. La stessa regola vale anche per il contratto di donazione. Oltre che lecita, la condizione deve essere possibile. La impossibilità, di fatto o di diritto, della condizione sospensiva rende nullo il contratto (infatti non potrà mai verificarsi l’evento dalle quali le parti fanno dipendere gli effetti del negozio). La condizione risolutiva impossibile, invece, non è causa di nullità, ma è come se non fosse stata apposta (infatti non potrà mai verificarsi l’evento che pone fine all’efficacia del contratto). Nel testamento, invece, allo scopo di salvare per quanto è possibile una volontà irripetibile, qual è quella del de cuius, la condizione illecita o impossibile è assoggettata alla c.d. regola sabiniana, cioè cade la condizione, ma non fa cadere l’intero negozio (vitiatur sed non vitiat). La condizione si considera come non apposta, a meno che non risulti dall’atto che essa è stata l’unico motivo che ha determinato il testatore a disporre. Tale regola permette di dare esecuzione alla disposizione come se non fosse condizionata, supponendo che nel testatore fosse prevalente l’interesse a disporre puramente e semplicemente (art. 634).
Per quanto concerne la provenienza del fatto dedotto in condizione si distingue la condizione casuale, in cui l’evento si produce indipendentemente dalla volontà delle parti, dalla condizione potestativa, in cui l’avverarsi dell’evento dipende da uno dei contraenti, o dalla condizione mista, in cui l’evento è determinato insieme da fatti estranei e dalla volontà di un contraente. L’avverarsi della condizione potestativa dipende dalla scelta di una delle parti di compiere un certo atto in considerazione di una serie di valutazioni, collegate ad interessi di vario genere (ti darò in locazione questo ufficio se aprirai una sede in questa città, ti venderò questi quadri se deciderò di sciogliere la mia collezione). In sostanza, una parte si riserva la libertà di tenere un determinato comportamento che poi, indirettamente, si riflette anche sul negozio. Se invece una parte si riserva un potere decisionale sulla stessa efficacia o inefficacia del contratto (la scelta arbitraria “se vorrò”) la condizione si definisce meramente potestativa. Quando la scelta è rimessa alla volontà dell’obbligato o dell’alienante (ti darò la casa in locazione, ti venderò il terreno se vorrò) si perde la stessa consistenza dell’impegno giuridico – che per sua essenza deve essere vincolante – e la legge considera nullo il negozio. È consentito, invece, lasciare la scelta alla volontà del creditore o dell’acquirente (ti vendo questa casa per 100 se vorrai) dato che, in tal caso un contraente è certamente vincolato.
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Cap. 15. Gli elementi accidentali
La condizione non è utilizzabile in tutti i negozi. Alcuni di essi, come l’accettazione o la rinunzia all’eredità, il matrimonio, il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, non tollerano l’apposizione di una condizione, trattandosi di negozi puri. È da notare, tuttavia, come vi possano essere due diverse sanzioni. Se una condizione viene apposta al momento della celebrazione del matrimonio il pubblico ufficiale deve sospendere la cerimonia, ma se il matrimonio viene celebrato ugualmente, la condizione sia ha per non apposta (vitiatur sed non vitiat, art. 108); parimenti è nulla ogni clausola che riduce gli effetti del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (art. 257); se invece una condizione viene apposta ad una accettazione di eredità vitiatur et vitiat: l’accettazione è nulla (art. 475).
Come si è visto in tema di situazioni giuridiche soggettive, nella fase di pendenza della condizione si configura una aspettativa di diritto. La legge attribuisce a colui che non è ancora divenuto titolare di un diritto delle azioni per proteggere e conservare le sue possibilità di acquisto assicurando l’integrità dei beni e dei diritti. Nella fase di pendenza la legge impone alle parti un comportamento leale ed onesto (secondo buona fede, art. 1358). La sanzione è, di regola, il risarcimento del danno. Eccezionalmente è prevista una finzione giuridica quale sanzione contro il comportamento scorretto. Si finge che la condizione si sia avverata quando essa è mancata per colpa di chi aveva un interesse contrario. Ciò non vale, ovviamente, se si tratta di una condizione potestativa, dato che la parte cui spetta di far avverare la condizione è libera di effettuare la scelta che si era riservata. Il modo di operare della condizione, in linea di principio, è caratterizzato dalla retroattività. Ciò significa che una volta avverata la condizione sospensiva si fanno decorrere gli effetti del negozio sin dall’inizio (ex tunc) o si considerano come non mai prodotti, se la condizione era risolutiva. La retroattività della condizione serve principalmente per giustificare la disciplina degli atti di disposizione compiuti nello stato di pendenza. Ad es. è possibile che l’acquirente sotto condizione sospensiva trasferisca il diritto in capo ad un terzo, prima ancora di averlo effettivamente acquistato? La risposta è positiva: la retroattività della condizione consente di ritenere efficace la cessione ex tunc, come se il cedente fosse stato titolare sin dall’inizio, quando poi l’evento dedotto si avvera. Simmetricamente, se il trasfe-
§ 2. Il termine
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rimento del diritto è operato da chi era già titolare durante lo stato di pendenza, e poi si avvera la condizione risolutiva, la cessione risulta del tutto inefficace, in quanto il cedente si considera privo della titolarità fin dall’inizio (art. 1357). Diversamente da altre vicende contrattuali come, ad es. la risoluzione del contratto per inadempimento, in cui gli effetti retroagiscono solo nei confronti delle parti, nella condizione la retroattività opera con efficacia reale, cioè anche nei confronti dei terzi. L’effetto retroattivo non si estende, tuttavia, ad ogni atto compiuto in pendenza della condizione: l’avverarsi della condizione risolutiva non modifica gli effetti di un contratto di durata per quanto concerne le prestazioni eseguite nello stato di pendenza (art. 13602). Restano altresì efficaci gli atti di amministrazione compiuti medio tempore da chi aveva il godimento del diritto; a costui spettano anche i frutti maturati in tale periodo (art. 1361). Le parti possono stabilire espressamente una regola contraria alla retroattività. Il principio della retroattività consente di ammettere una istituzione di erede sotto condizione, in modo tale che se si avvera la condizione sospensiva il chiamato sarà considerato erede sin dall’inizio, se viceversa essa non si avvera, la delazione si riferisce ex tunc al chiamato successivo, con la conseguenza che non si verrà mai a creare una soluzione di continuità fra la titolarità del de cuius e quella dell’erede.
2. Il termine. Con la parola termine si possono indicare due diverse nozioni: una che attiene all’obbligazione (o al rapporto giuridico) e definisce il termine di adempimento, cioè il momento in cui deve essere adempiuta una obbligazione, l’altra che si riferisce al contratto (o al negozio, in generale) e definisce il termine di efficacia, rispettivamente iniziale o finale, cioè il momento stabilito dalle parti in cui iniziano o cessano di prodursi gli effetti del contratto. Il termine di efficacia si studia fra gli elementi accidentali del negozio unitamente alla condizione e al modus. Possiamo immaginare un esempio in cui appare un termine di efficacia del contratto di locazione: “Ti do in affitto questo magazzino fino al 31 luglio del 2005 (e quindi ne potrai godere secondo l’uso previsto sino a tale data)” e insieme un termine di adempimento della obbligazione restitutoria: “mi restituirai l’immo-
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Cap. 15. Gli elementi accidentali
bile completamente sgombro entro un mese dalla scadenza del contratto (hai tempo per portare via le tue cose, ma non ti è più consentito il godimento)”.
Il termine, di solito, è indicato attraverso una data determinata, ma le parti possono anche fare riferimento ad un evento particolare (il ritorno di Tizio, la maturazione delle messi). Si tratterà comunque di un evento che è futuro ma, diversamente dalla condizione, viene considerato certo dai contraenti. Questo è il criterio interpretativo che deve essere utilizzato quando non è chiaro, nella previsione contrattuale, se si tratta di termine o di condizione. Ad es. l’espressione “dal giorno in cui ti laurei in giurisprudenza” può essere utilizzata nei due sensi, secondo che lo si consideri incertus an: “se” ti laureerai (cosa di cui si dubita); oppure futuro ma certo: “a partire dal giorno” della tua laurea (che appare ormai prossima). L’inserimento di un termine nel negozio non è sempre consentito dalla legge. Nell’istituzione di erede un eventuale termine si considera non apposto, mentre si può fare un legato a termine (iniziale o finale). Nella accettazione e nella rinunzia all’eredità l’apposizione di un termine o di una condizione rende radicalmente nullo il negozio. Mentre la legge disciplina ampiamente la condizione, sembra dimenticare il termine. Le norme necessarie si dovranno ricavare per analogia, in parte dalle regole sul termine di adempimento e in parte dalle regole sulla stessa condizione, escludendo quelle che sono specificamente giustificate dalla incertezza dell’evento. Una norma che richiama espressamente il termine di efficacia è prevista nell’art. 14652: se la cosa comprata perisce prima della scadenza di un termine iniziale (di adempimento o di efficacia del contratto) il rischio del perimento è posto a carico dell’acquirente, che dovrà ugualmente pagare il prezzo pattuito anche se non è ancora divenuto proprietario del bene (è certo che, comunque, lo sarebbe diventato), se invece la cosa perisce prima che si avveri la condizione sospensiva il rischio grava sull’alienante, e il compratore è liberato (vi è lo stato di incertezza: condicio pendet).
3. L’onere o modus. L’autore di un atto di liberalità, cioè il testatore o il donante, può imporre al beneficiario un peso, che limita l’entità dell’arricchimento attribuito e che consiste in una prestazione a carico dell’erede, del legatario o del donatario (ad es. ti nomino erede universale, ma dovrai dare un contributo
§ 3. L’onere o modus
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in beneficenza, erigere una edicola commemorativa, ecc.) e può essere anche una prestazione a favore del donante stesso: “ti dono tutta la mia biblioteca, ma dovrai curare la pubblicazione dei miei scritti”. Coloro che acquistano il beneficio (eredità, legato, donazione) assumono anche l’obbligo giuridico di eseguire la prestazione. Questa forma oggetto di una vera e propria obbligazione, caratterizzata dal fatto che ne può chiedere l’adempimento qualunque interessato, anche se titolare soltanto di un interesse morale, ad es. al rispetto della volontà del de cuius (benché la prestazione vada a vantaggio effettivo di altri soggetti). Mentre il donatario e il legatario sono obbligati nei limiti del valore della cosa donata o legata, l’erede che ha accettato puramente e semplicemente risponde illimitatamente, anche ultra vires. Con un gioco di parole si dice che la condizione sospende, ma non obbliga, mentre l’onere obbliga, ma non sospende, perché la disposizione principale, di regola, è efficace a prescindere dall’adempimento dell’onerato. In ciò si manifesta la caratteristica dell’onere, che è elemento accidentale del negozio, ma, diversamente dalla condizione, può dirsi anche accessorio, proprio perché rappresenta una volontà ulteriore del disponente rispetto a quella principale. In applicazione di tale criterio l’onere illecito o impossibile nella donazione è regolato nello stesso modo delle disposizioni testamentarie, perciò si considera non apposto e quindi cade, lasciando valido il negozio (vitiatur sed non vitiat), salvo che abbia costituito il solo motivo determinante del donante; in tal caso rende nullo il contratto (mentre per la condizione, illecita o sospensiva impossibile, nella donazione vale la regola vitiatur et vitiat, cioè rende sempre nullo il negozio). Di regola, la disposizione liberale ha effetto anche in caso di inadempimento dell’onere: non si tratta, infatti, di due prestazioni corrispettive, neppure quando l’onere sia previsto come una prestazione a vantaggio dello stesso donante. Solo eccezionalmente l’inadempimento dell’onere porta alla risoluzione della disposizione. Questo accade nel testamento se la risoluzione è espressamente prevista dal de cuius o se risulta che l’adempimento dell’onere era l’unico motivo che ha determinato il testatore a disporre. Nella donazione si ha la risoluzione per inadempimento dell’onere solo se ciò è stato espressamente previsto dal donante.
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Cap. 16. La patologia
CAPITOLO 16
LA PATOLOGIA
SOMMARIO: 1. Le nozioni di invalidità e inefficacia. – 2. La nullità. – 3. L’annullabilità. – 4. La rescindibilità.
1. Le nozioni di invalidità e inefficacia. È necessario, innanzitutto, distinguere fra loro l’invalidità del negozio dalla inefficacia. Invalidità significa malattia e può essere più grave o meno grave, distinguendosi in sottospecie come la nullità, l’annullabilità e la rescindibilità. L’invalidità dipende, di regola, dalla mancanza di un elemento essenziale o dal vizio di uno degli elementi essenziali o accidentali del contratto. Si tratta perciò di un difetto riferibile all’atto stesso, che si ripercuote sulla sua idoneità a produrre modifiche giuridiche o a produrle in modo stabile. Inefficacia significa semplicemente mancanza di effetti. Può essere assoluta o relativa, a seconda che l’atto sia improduttivo di effetti verso chiunque o soltanto verso alcuni soggetti; la inefficacia relativa si chiama anche inopponibilità. L’inefficacia dell’atto può dipendere da molte cause, quali una forma grave di invalidità, come la nullità, o da altri fenomeni di diversa natura, come la presenza di una condicio juris sospensiva, che rappresenta un elemento del tutto estraneo al negozio (ad es. se manca una approvazione amministrativa il contratto stipulato da un Ente pubblico non ha effetto) o l’esercizio di una azione posta a tutela di determinati soggetti (ad es. l’azione revocatoria, art. 2901) o un difetto di legittimazione, cioè la mancanza del potere di disporre di un diritto da parte dell’autore del negozio (ad es. se colui che vende non è proprietario della cosa il compratore non acquista il diritto di proprietà). In alcuni casi, pertanto, come in quello da ultimo indicato, il negozio può essere valido, per quanto concerne gli elementi essenziali, ma inefficace. La legge prevede perciò, in alcune ipotesi, che il negozio possa produrre tutti o alcuni dei suoi effetti grazie ad un atto successivo che lo integra, (ad
§ 2. La nullità
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es., la ratifica di un negozio concluso dal rappresentante senza potere, art. 1399, l’acquisto successivo della cosa dal proprietario da parte di chi in precedenza aveva venduto la cosa altrui, art. 1478 2). Nelle forme meno gravi di invalidità, come l’annullabilità e la rescindibilità, il negozio, pur essendo invalido, è efficace. L’invalidità, in tali casi, determina una instabilità negli effetti, dato che questi possono essere tolti di mezzo attraverso una impugnazione dell’atto davanti al giudice (rispettivamente, con l’azione di annullamento o di rescissione del contratto).
2. La nullità. La malattia più grave del negozio è la nullità, che comporta anche l’inefficacia dell’atto. Di conseguenza possiamo dire che una pronuncia in cui il giudice accerta la nullità ha natura dichiarativa, cioè si limita a “fotografare” una situazione già in atto, mentre la sentenza che pronuncia l’annullamento di un negozio ha natura costitutiva, cioè produce essa stessa la nuova situazione giuridica. La differenza tra nullità e annullabilità si giustifica risalendo alle esigenze che la legge ha voluto soddisfare. Possiamo dire che la nullità è posta per la tutela di interessi superiori dell’ordinamento, il quale regola l’esercizio della autonomia negoziale in modo non disponibile dai privati fissando i requisiti che devono possedere gli elementi essenziali e accidentali del negozio. Perciò recentemente è stato precisato che il giudice può rilevare la nullità negoziale ancorché la qualifichi di natura diversa da quella ritenuta dalla parte nella domanda, fermo restando che non può dare un provvedimento non richiesto se non vi è una istanza dell’interessato (Cass. S.U. n. 26242 del 2014). Le cause di nullità sono state esaminate trattando i singoli argomenti, ai quali si fa rinvio (v. in proposito: incapacità giuridica speciale, oggetto impossibile, illecito, indeterminato o indeterminabile, violenza assoluta, motivo illecito, causa mancante o illecita, frode alla legge, mancanza di forma ad substantiam, condizione illecita, impossibile, meramente potestativa rimessa alla volontà del debitore o dell’alienante). In questa sede ci limitiamo a riassumere le caratteristiche della nullità: 1. La legittimazione a far valere la nullità spetta a chiunque vi abbia interesse (la nullità è assoluta). 2. La nullità può essere rilevata d’ufficio dal giudice (ad es. quando una parte chiede di dare esecuzione ad un negozio nullo).
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Cap. 16. La patologia
3. Il negozio nullo non produce effetti fin dal primo momento. 4. La sentenza di nullità è dichiarativa. 5. L’azione per far dichiarare la nullità è imprescrittibile. 6. La nullità può essere anche virtuale, cioè si può ricavare interpretando le norme giuridiche e i principi in esse contenuti, anche se manca una espressa disposizione che la prevede (ad es. la violenza fisica è causa di nullità del negozio anche se non vi è nessuna norma che lo dice, ma lo si desume dalle regole generali sulla volontà e sulla dichiarazione). 7. La eccezione di nullità spetta a tutti i contraenti, infatti la parte che non ha ancora dato esecuzione al negozio nullo, qualunque essa sia, può opporsi alla richiesta di adempimento. 8. La nullità di un contratto può essere sempre opposta ai terzi aventi causa, (salvi gli effetti di una eventuale trascrizione sanante art. 2652, n. 6). 9. La nullità, di regola, non ammette una convalida, cioè la possibilità da parte del privato di sanare il vizio e ciò si spiega facilmente se si tiene conto della natura degli interessi in gioco. Non rappresenta una sanatoria la conferma della disposizione testamentaria o della donazione nulla (artt. 590, 799) in base alla quale un soggetto che potrebbe invocare la nullità della disposizione dichiara, invece, di volerla confermare o la esegue spontaneamente (conferma espressa o tacita); infatti la conferma non proviene dall’autore del negozio né propriamente sana la disposizione (gli altri soggetti legittimati possono ancora far valere la nullità), ma, per un principio di coerenza, impedisce al soggetto che ha confermato la disposizione di agire impugnando l’atto. Ultimamente il legislatore ha introdotto una forma di invalidità del contratto (o di una sua clausola) che dal punto di vista teorico fa molto discutere. Si tratta di una nullità che ha lo scopo di proteggere uno dei due contraenti perché considerato più debole dell’altro, perciò tale nullità-protezione può essere fatta valere unicamente dal contraente tutelato dando luogo ad una eccezionale figura di nullità relativa. Ad esempio nell’acquisto di immobili da costruire si è opportunamente previsto (d.lgs. n. 122 del 2005, art. 2) che il costruttore deve rilasciare all’acquirente una garanzia fideiussoria di importo pari alle somme riscosse e da riscuotere prima del trasferimento della proprietà, pena la nullità del contratto, rilevabile unicamente dall’acquirente. Una analoga forma di nullità era prevista in caso di mancata allegazione del c.d. certificato energetico (che attesta la regolarità degli impianti) da parte di chi vende una casa, ma l’esempio più noto è quello della nullità di clausole abusive nei contratti del consumatore, di cui si parlerà nel prossimo capitolo.
Anche in tema di nullità del contratto opera il principio di conservazione del negozio. Ne studieremo particolari applicazioni a proposito della volontà testamentaria.
§ 2. La nullità
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Il meccanismo seguito dalla legge è, in generale, quello di lasciar cadere una parte della volontà e quindi una parte del negozio, per salvarne un’altra. Questo risultato viene sempre raggiunto, necessariamente, riducendo gli effetti voluti dal privato, ma ciò può avvenire in due modi: togliendo semplicemente la parte viziata o trasformando l’operazione in un’altra, diversa da quella originaria. Il primo metodo è usato nella disciplina della nullità parziale (art. 1419). La nullità di una parte del contratto o di singole clausole determina la nullità dell’intero contratto solo se la parte colpita da nullità aveva importanza essenziale (le parti non avrebbero concluso il contratto senza la clausola nulla). È necessario, pertanto, verificare con un giudizio ipotetico l’importanza della clausola nulla per vedere se può cadere autonomamente senza viziare l’intero negozio. Quando, tuttavia, la clausola nulla sia sostituita di diritto da norme imperative, il negozio resta valido comunque (anche se tale clausola fosse essenziale). La regola della sostituzione ex lege trova larga applicazione; ad es., se viene stipulato un contratto di locazione ad uso abitativo con una durata inferiore a quella prevista dal legislatore, la clausola nulla viene automaticamente sostituita dalla durata minima legale. Non sempre, tuttavia, la norma imperativa determina una sostituzione: spesso il modo migliore per tutelare l’interesse protetto dalla legge è quello di far cadere la clausola nulla e lasciare in vita il contratto per tutto il resto. Ad es. la clausola di esonero dalla responsabilità del debitore per dolo o colpa grave (art. 1229) è nulla, ma se cadesse l’intero negozio, il contraente obbligato ad eseguire la prestazione sarebbe libero; perciò se lo scopo della legge è quello di tutelare il creditore, in quanto contraente debole, il contratto deve restare valido, come se non vi fosse alcuna limitazione di responsabilità del debitore, il quale risponderà dell’adempimento secondo la regola generale. Una forma di nullità parziale è la nullità che colpisce il vincolo di una sola parte in un contratto associativo plurilaterale (art. 1420). Poiché le prestazioni sono dirette a conseguire uno scopo comune, si tratta di vedere se la partecipazione colpita da nullità era essenziale per il raggiungimento dello scopo. Ad es. se in una società di persone fosse determinante l’attività individuale del socio d’opera, la nullità del vincolo che colpisce tale socio porterebbe alla nullità dell’intero contratto. La protezione accordata recentemente a determinati interessi, interpretata generalmente come protezione del contraente debole – ma spesso giustificata dall’intento di regolare il mercato, assicurandone uno sviluppo migliore attraverso il
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Cap. 16. La patologia
rispetto sostanziale della concorrenza – ha creato nuove ipotesi di nullità parziale in cui non è previsto alcun giudizio ipotetico in merito alla volontà delle parti. Oltre all’art. 36 c. cons. già citato, che sancisce la nullità della sola clausola abusiva, da identificarsi secondo la specificazione dettata dalla legge (v. infra, Cap. 17, par. 6) va ricordato in particolare l’art. 9, 2° comma, l. n. 192 del 1998 sulla subfornitura, che consente al giudice di individuare liberamente (e quindi far cadere per nullità) senza una tipizzazione preventiva singole clausole ingiustificatamente gravose là dove vi sia stato un approfittamento della situazione di dipendenza economica dell’altro contraente. Si discute se la norma sia applicabile generalmente a tutti i rapporti di collaborazione commerciale tra imprese ovvero, considerata la collocazione della stessa e l’incisività del potere correttivo dell’autonomia privata attribuito al giudice (certamente eccezionale rispetto ai principi) sia applicabile solo nel contesto limitato della c.d. “integrazione verticale”, cioè là dove un soggetto che si è impegnato per contratto a svolgere una attività produttiva, incarichi a sua volta un altro soggetto (si potrebbe dire “a cascata”) a svolgere nel suo interesse la stessa attività. Va ricordato, altresì, il d.lgs. n. 231 del 2002 sui ritardi nei pagamenti, che si ritiene applicabile non solo alle piccole e medie imprese, ma anche alle grandi imprese e ai liberi professionisti, ove si faccia questione di rapporti fra imprese o di rapporti fra imprese e pubblica Amministrazione. Qui il giudice può intervenire non solo con la sanzione della nullità per le singole clausole temporali che prevedono termini di pagamento “gravemente iniqui”, ma anche con lo strumento della integrazione-correzione mediante determinazione di termini di pagamento equi ovvero mediante applicazione di termini legali (v. anche supra, Cap. 2, par. 2, e infra, p. 414).
Il metodo della riduzione mediante trasformazione è usato invece dalla legge nella conversione del negozio nullo. Si parla di conversione sostanziale del contratto nullo quando il negozio viene salvato riducendone gli effetti e qualificandolo in modo diverso. In realtà tutto questo avviene automaticamente, senza bisogno di alcuna dichiarazione delle parti e neppure di una sentenza costitutiva del giudice. Perciò si potrebbe dire che la conversione opera attraverso una trasformazione virtuale attuata per volontà di legge. L’art. 1424 dispone infatti che: «il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso, del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma, qualora, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se ne avessero conosciuto la nullità». La conversione funziona dunque attraverso la riduzione della fattispecie, come si suole dire, previo un giudizio ipotetico oggettivo, in base al quale si valuta se lo scopo perseguito dai contraenti può essere almeno in parte soddisfatto attribuendo al negozio effetti minori di quelli previsti. In realtà può attuarsi non solo la conversione di un contratto (ad es. il
§ 3. L’annullabilità
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vincolo perpetuo e perciò nullo, di locare un magazzino, viene inteso come vincolo a tempo indeterminato), ma anche di un atto unilaterale, ad es. il vaglia o pagherò cambiario, se è nullo perché nel documento manca la parola cambiale, può avere effetto come promessa di pagamento (con gli effetti minori di cui all’art. 1988). La conversione formale presuppone invece che la fattispecie costitutiva dell’atto, nella veste configurata dalle parti, sia affetta da nullità per un difetto di forma, ma sussistano sufficienti elementi che consentono di salvare ugualmente la volontà privata, in un’altra veste, senza neppure modificare la qualifica del tipo negoziale. Un esempio testuale di conversione formale è dato dall’art. 607 in tema di testamento segreto. Se questo è nullo come testamento segreto, per un vizio di forma, può tuttavia essere valido come testamento olografo, se ne possiede i requisiti (autografia, data e sottoscrizione). Un contratto redatto per atto pubblico può essere nullo, per qualche ragione formale, ma se le parti hanno apposto la loro firma vale come scrittura privata.
3. L’annullabilità. L’annullabilità costituisce un rimedio posto dalla legge per tutelare l’interesse di un determinato soggetto, lasciandolo, tuttavia, libero di esercitare o meno tale azione. Annullare significa cancellare gli effetti giuridici prodotti dal negozio, mediante una sentenza. Le cause di annullamento sono state esaminate in relazione ai requisiti del contratto, pertanto si fa rinvio alla trattazione precedente (v. in proposito: incapacità naturale e legale, vizi del volere, conflitto d’interessi nella rappresentanza, e più avanti, in tema di matrimonio, atti di disposizione di un solo coniuge, senza il consenso dell’altro). Qui è opportuno riassumere soltanto le caratteristiche principali, per un utile confronto con la nullità: 1. L’annullabilità, di regola, è relativa cioè la legittimazione ad impugnare spetta soltanto ad un soggetto determinato (ad es. l’incapace di agire, il contraente caduto in errore, il dominus se il rappresentante era in conflitto d’interessi; fa eccezione l’annullabilità del testamento che è assoluta). 2. L’annullabilità non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, ma deve essere fatta valere dalla parte a cui spetta.
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Cap. 16. La patologia
3. Il negozio annullabile è efficace. 4. La sentenza di annullamento è costitutiva. 5. L’azione di annullamento si prescrive, di regola, in cinque anni, con vari termini di decorrenza. 6. Le cause di annullabilità sono tassative, cioè sono solo quelle espressamente stabilite dalla legge, proprio perché prevedono una eccezionale facoltà di una parte di impugnare per la tutela di un proprio interesse. 7. L’eccezione di annullamento, che serve di difesa contro colui che chiede l’adempimento del contratto annullabile, spetta solo al contraente tutelato e cioè a colui che potrebbe esercitare l’azione di annullamento, non alla controparte (anche l’eccezione è relativa, come l’azione). 8. L’annullamento che non dipende da incapacità legale non può essere opposto ai terzi che hanno acquistato in buona fede e a titolo oneroso (art. 1445). 9. L’annullabilità ammette convalida (art. 1444). Poiché si tratta di interessi disponibili da parte del privato, lo stesso soggetto che potrebbe invocare l’annullamento può sanare l’atto invalido e ciò gli impedirà successivamente non solo di esercitare l’azione di annullamento, ma anche di sollevare l’eccezione. Pertanto è inesatto affermare che la prescrizione dell’azione di annullamento sana il contratto, infatti se questo non è stato ancora eseguito da parte del soggetto che poteva chiedere l’annullamento questi potrà sempre eccepire l’annullabilità del negozio. Quindi se il contraente protetto (ad es. l’incapace o chi è caduto in un vizio del consenso) non ha ancora eseguito la sua prestazione potrà per sempre rifiutarsi di adempiere opponendo tale eccezione fondata sulla invalidità dell’atto. Ciò significa che il contratto è ancora invalido. Va sottolineato peraltro che l’eccezione di annullamento è imprescrittibile solo in tema di contratto, ma non di testamento o altro negozio. Ricordiamo che nel testamento l’azione si prescrive in cinque anni dalla notizia della esistenza dei vizi del consenso, ma per altre cause di annullamento il dies a quo decorre dalla esecuzione della disposizione testamentaria. Per l’annullamento del contratto vale sempre la prescrizione di cinque anni, ma diversi termini di decorrenza sono stabiliti, nei vari casi, dall’art. 1442. Gli atti di straordinaria amministrazione di beni immobili compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro sono annullabili, ma con prescrizione di un anno.
La convalida si compie da parte del soggetto legittimato mediante un negozio giuridico unilaterale posto in essere con la piena capacita di agire e con la conoscenza del vizio che colpisce il negozio; può consistere nella esecuzione spontanea della prestazione dovuta (convalida tacita) oppure nella
§ 3. L’annullabilità
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dichiarazione che si vuole sanare il negozio invalido (convalida espressa). La convalida presuppone il ritorno alla situazione normale, ad es. deve essere cessato l’effetto della violenza morale, deve essere stato scoperto l’errore o il dolo, perché solo in tal caso si può parlare di una volontà libera e consapevole. Le conseguenze dell’annullamento del contratto sono ormai ben note: – cadono retroattivamente gli effetti del negozio; – nasce l’obbligo di restituire di ciò che è stato prestato, se ciò è ancora possibile, o di rimborsare il valore della prestazione ricevuta. Vanno, tuttavia, ricordate le seguenti eccezioni all’obbligo di restituzione: a) l’incapace che ha ricevuto una prestazione è obbligato a restituire solo ciò che effettivamente si è rivolto a suo vantaggio, perché solo di questo si ritiene che si sia potuto arricchire (secondo un principio generale che si applica anche per valutare la efficacia del pagamento fatto all’incapace) non ciò che è andato perso o sperperato. b) Se una prestazione non può essere restituita (pensiamo ad es. all’opera di un pittore che ha dipinto la facciata di una casa in forza di un contratto annullabile) sarebbe ingiusto obbligare una sola delle parti a restituire l’intero prezzo ricevuto, perché si verrebbe a creare un arricchimento ingiustificato dell’altra. Perciò il giudice valuterà un equo compenso per l’opera prestata da colui che non può ottenere la restituzione. c) Nelle ipotesi in cui il diritto, acquistato da Tizio attraverso un primo contratto annullabile, è stato poi ceduto ad una terza persona (con un secondo contratto), l’annullamento del primo contratto dovrebbe portare via retroattivamente tutti gli effetti del negozio, ivi compresa la titolarità di Tizio, e quindi rendere inefficace anche la cessione del diritto ai terzi. La legge, tuttavia, per dare sicurezza al traffico giuridico, adotta in questi casi un principio di protezione dei terzi aventi causa secondo la regola seguente: – in tutti i casi in cui l’annullabilità non dipende da incapacità legale, i terzi che (col secondo negozio) hanno acquistato il diritto in buona fede, e cioè senza conoscere la invalidità del primo negozio, fanno salvo il loro acquisto se è a titolo oneroso; – se invece l’annullamento dipende da incapacità legale, tutti gli aventi causa perdono il loro acquisto.
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Cap. 16. La patologia
Ciò può spiegarsi considerando la maggiore conoscibilità della situazione di incapacità legale (che risulta sempre pubblicamente all’ufficio di stato civile) tale da togliere, virtualmente, la buona fede dei terzi (in realtà un terzo potrebbe anche ignorare, in concreto, che il suo dante causa ha acquistato in base ad un titolo invalido, ma se avesse voluto diligentemente informarsi ne avrebbe avuto i mezzi legali).
4. La rescindibilità. La legge non si occupa, in generale, dei termini economici dello scambio operato dai contraenti e, di conseguenza, le parti sono libere di configurare le reciproche prestazioni nel modo che più soddisfa i loro interessi. Ad es. il contraente può vendere un bene al prezzo che preferisce, secondo le leggi del mercato, ma può anche fissare un prezzo volutamente inferiore per arricchire il compratore (in tal caso non si discute della validità del contratto, ma si tratterà di vedere se, oltre alle norme sulla vendita, si applicano anche talune norme dettate in tema di liberalità). Solo quando l’equilibrio economico dello scambio è intaccato in modo grave, in conseguenza di una circostanza di fatto che rende particolarmente ingiusta la disparità di valori delle due prestazioni, si può dire che il contratto è iniquo, benché sia stato voluto da entrambe le parti. La legge prevede due sole situazioni di questo tipo che rendono il contratto rescindibile, per rispetto di un principio di equità. Vediamole distintamente. a) Rescissione del contratto concluso in stato di pericolo (art. 1447). Si richiede innanzitutto un elemento oggettivo, cioè la necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla persona; un elemento soggettivo, cioè la mala fede dell’altro contraente al quale è nota questa necessità, e una sproporzione non ragionevole tra le due prestazioni, che determina condizioni inique del contratto. b) Rescissione del contratto concluso in stato di bisogno (art. 1448). Anche qui la legge richiede un elemento oggettivo, cioè lo stato di bisogno inteso, questa volta, in senso ampio, come una situazione economica di disagio che costringe a fare delle scelte svantaggiose per sfuggire ad un male maggiore; un elemento soggettivo, se l’altra parte approfitta dello stato di bisogno in cui versa il primo contraente, ed una sproporzione, che viene quantificata dalla legge richiedendo che una prestazione valga più del doppio
§ 4. La rescindibilità
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dell’altra (e quindi chi esegue una prestazione che costa 100, ma ne riceve una che vale 40 subisce una lesione che va oltre la metà del valore della propria prestazione: c.d. lesione ultra dimidium). Tale squilibrio deve esistere al tempo del contratto e deve sussistere anche al tempo della proposizione della domanda di rescissione. La rescissione costituisce una specie di invalidità del contratto che presenta qualche aspetto di analogia tanto con la nullità quanto con l’annullabilità, pur avendo fondamento e funzione diversi. Lo stato di necessità o lo stato di bisogno indubbiamente influiscono sulla libertà di scelta di un contraente, ma non essendovi minaccia o raggiro la fattispecie non rientra nei vizi del volere. Si tratta piuttosto di una normativa dettata in ossequio ad un principio superiore di equità che protegge un contraente in determinate situazioni, ma non appare disponibile dai privati. Ne consegue che il negozio rescindibile non può essere convalidato. Esso può essere sanato solo se interviene una modifica del contenuto del contratto idonea a ricondurlo ad equità (reductio ad aequitatem). Modifica che può essere offerta e attuata dal soggetto che ha tratto vantaggio o ha approfittato dello squilibrio contrattuale, qualora voglia evitare la rescissione chiesta dalla controparte. Nel caso di lesione ultra dimidium non basterebbe, tuttavia, offrire la frazione mancante per rendere la lesione inferiore alla metà: occorre rendere complessivamente equo il contratto. Il contratto rescindibile è efficace: pur essendo viziato produce effetti finché non viene impugnato. L’azione di rescissione è concessa per la tutela del contraente a carico del quale pesa lo squilibrio, pertanto la rescindibilità è relativa ed è soggetta al principio dispositivo, ciò significa che l’onere di esercitarla spetta all’interessato e non può essere rilevata d’ufficio. Una esigenza di certezza dei rapporti giuridici induce il legislatore a fissare un termine breve di prescrizione: un anno dalla conclusione del contratto (salvo che il fatto costituisca reato e allora si applica il termine più ampio di cui all’art. 2947); prescritta l’azione non è neppure più utilizzabile l’eccezione di rescissione, sicché se il contraente protetto dalla legge non ha impugnato potrà essere costretto ad adempiere (diversamente da quanto accade nel negozio annullabile dove l’eccezione è perpetua).
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Cap. 16. La patologia
La sentenza che pronuncia la rescissione cancella gli effetti del contratto fra le parti ma, diversamente dall’annullamento, non pregiudica i diritti comunque acquistati dai terzi (salvo le regole della trascrizione). Di conseguenza, pronunciando la rescissione, il giudice ordina ai contraenti la restituzione di ciò che hanno ricevuto in base al contratto, salvo assegnare un equo compenso alla parte che ha prestato utilmente la sua opera irripetibile (ad es. ha eseguito una prestazione di fare che, ovviamente, non si può restituire) allo scopo di evitare un ingiustificato arricchimento dell’altra.
§ 1. Le trattative e la culpa in contrahendo
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CAPITOLO 17
LA STIPULAZIONE, L’INTEGRAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO
SOMMARIO: 1. Le trattative e la culpa in contrahendo. – 2. La conclusione del contratto. – 3. Morte e incapacità del dichiarante. – 4. L’offerta al pubblico e la promessa al pubblico. – 5. L’integrazione del contratto. – 6. Il contratto per adesione e la contrattazione di massa. – 7. L’interpretazione del contratto.
1. Le trattative e la culpa in contrahendo. La fase delle trattative precede immediatamente la conclusione del contratto e, di solito, viene utilizzata per discutere le condizioni contrattuali e per informarsi in merito alla prestazione offerta dalla controparte e alle qualità della cosa venduta. La legge (considerando che normalmente si viene a creare un più stretto contatto sociale tra due soggetti che prima erano estranei fra loro) impone alle parti della trattativa, come regola generale, di comportarsi secondo buona fede o secondo correttezza (art. 1337). Tali espressioni indicano, in sostanza, il dovere di comportarsi in modo onesto e leale. Si tratta di un modello di comportamento, valutato secondo un’etica sociale (di cui il giudice dovrà farsi interprete di volta in volta) e proprio questo carattere impersonale induce gli interpreti a parlare di buona fede oggettiva in quanto la stessa regola di comportamento vale per chiunque si trovi nella stessa situazione. La dottrina ha interpretato tale nozione cercando di immaginare i potenziali punti di conflitto. Si è detto, per esempio, che la norma di correttezza può generare doveri di avviso (dare informazioni corrette sul contratto, avvertire la controparte circa eventuali pericoli o difetti della merce, ecc.), doveri di mantenere il segreto (circa notizie riservate dell’altro contraente, procedure produttive, ecc.) e doveri di custodia (di documenti, campionari, merce, ecc.), ma non si possono tracciare confini predeterminati all’ap-
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
plicazione di tale norma, che opera senza limitazioni, secondo le concrete esigenze che si verificano. La sanzione prevista, in generale, per un comportamento scorretto è l’obbligo di risarcire il danno. Si genera, dunque, una responsabilità che, per la giurisprudenza tradizionale, ha natura extracontrattuale. Ciò significa che alla base di tale illecito non sta l’inadempimento di un obbligo, ma il fatto di avere arrecato un danno ingiusto. In questa speciale ipotesi l’ingiustizia non si trova, peraltro, nella violazione di un diritto assoluto, o, come sostiene taluno, del diritto alla libertà negoziale o del patrimonio, ma piuttosto nella violazione di un dovere di comportamento imposto, in generale, a tutti coloro che partecipano alle trattative. Secondo una diversa interpretazione, la legge farebbe sorgere, di volta in volta, a causa del contatto venutosi a creare con l’inizio delle trattative, degli obblighi interpartes che sono fonte di responsabilità per inadempimento e quindi hanno natura contrattuale. Qual è la ricostruzione più corretta? Da un lato il comportamento scorretto può essere attuato da un soggetto senza neppure conoscere la persona della controparte e cioè in incertam personam; ad es. taluno potrebbe ingannare i potenziali clienti (sconosciuti) pubblicando stampati menzogneri che descrivono falsamente la qualità della merce o delle prestazioni offerte, inducendoli, ad es., a stipulare un contratto a condizioni peggiori. Le norme sul dolo incidente, che sanzionano col risarcimento del danno il comportamento ora descritto (art. 1440) possono farsi rientrare nel quadro della responsabilità derivante da un comportamento precontrattuale scorretto, anche là dove manchi una vera e propria trattativa o un qualsiasi contatto sociale; in tali casi sembra difficile sostenere la natura contrattuale della responsabilità. Da un’altra parte conosciamo bene anche un obbligo di correttezza la cui violazione genera certamente un illecito da inadempimento: sia nell’ambito del rapporto giuridico (imposto al debitore, ma anche al creditore, art. 1175) sia nella esecuzione del contratto (art. 1375). L’idea che un contatto sociale possa generare veri e propri rapporti giuridici e quindi il comportamento scorretto di una parte possa qualificarsi come inadempimento, sembra acquistare sempre più seguito negli ultimi tempi, perché consente di tutelare meglio il danneggiato. Ricordiamo che la distinzione rileva soprattutto per la distribuzione dell’onere della prova: nell’illecito extracontrattuale sarà il danneggiato che dovrà dimostrare gli elementi dell’illecito (v. supra, Cap. 12) mentre nell’illecito contrattuale sarà l’obbligato che dovrà discolparsi (art. 1218).
È interessante sottolineare come gli interpreti, movendo dalla responsabilità precontrattuale, siano arrivati a disciplinare sotto il segno della “culpa in contrahendo” tutt’altre fattispecie che hanno in comune con le trattative solo l’aspetto del “contatto sociale”. L’orientamento ormai diffu-
§ 1. Le trattative e la culpa in contrahendo
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so anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, sviluppatosi soprattutto in tema di responsabilità medica, porta a ritenere che da un contatto sociale qualificato possa nascere in particolari circostanze un rapporto giuridico di protezione. Ciò avverrebbe, ovviamente, non ad ogni incontro sociale, con l’uomo della strada, ma ogniqualvolta il momento relazionale assuma un rilevante grado di intensità. A questo punto lo status di chi agisce, le funzioni istituzionali svolte o la stessa professionalità del soggetto agente (ad es. chi svolge una funzione amministrativa o un’attività professionale “protetta”, tanto più quando essa costituisce anche un servizio pubblico, v. Cons. Stato n. 5 del 2018) possono indurre nel cittadino un affidamento nella correttezza del comportamento, nel rispetto della persona o della sfera giuridica altrui o, addirittura, nella protezione che ci si può aspettare dalla controparte (l’iter logico è ben descritto, da ultimo, in Cass. S.U. ord. n. 8236 del 2020). In definitiva, sintetizzando l’orientamento accennato, si tratta di una responsabilità che si avvicina a quella contrattuale sotto il profilo della disciplina dell’onere della prova a carico dell’obbligato (art. 1218, v. infra, Cap. 29, par. 8), anche se non deriva da contratto, ma da contatto sociale. La denominazione originaria, nata per qualificare la responsabilità nelle trattative, è rimasta come nome emblematico tutt’ora utilizzato dalla giurisprudenza, ma con la precisazione che l’elemento qualificante di “questa” culpa in contrahendo sta nella violazione della buona fede che, sulla base dell’affidamento, fa sorgere obblighi di protezione reciproca tra le parti. Un ulteriore esempio di comportamento scorretto nelle trattative è previsto testualmente nell’art. 1338: il contraente che conoscendo o dovendo conoscere una causa di invalidità del contratto non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuto a rispondere dei danni che l’altro contraente subisce per avere confidato nella validità del contratto. Si tratta dei c.d. interessi negativi, cioè del danno derivante dall’aver effettuato investimenti, spese, per avere perso tempo e occasioni contrattuali vantaggiose credendo di avere concluso un contratto valido, mentre poi questo perde efficacia perché viene impugnato (sulla distinzione rispetto all’interesse positivo v. supra, Cap. 14, par. 2). Altri obblighi legali di avviso e di informazione nelle fasi della conclusione del contratto sono previsti, ad es., negli artt. 1326, 3° comma, 1327, 2° comma, 1328, 1° comma.
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
2. La conclusione del contratto. Concludere non significa porre fine o dare esecuzione, ma è sinonimo di stipulare o perfezionare il contratto. Le parti concludono il contratto quando prestano, nel modo prescritto, il consenso necessario per formare la comune volontà di cui parla la legge. Il modo non è sempre uguale. Occorre innanzitutto distinguere fra contratti consensuali e contratti reali. I contratti reali, per la loro specifica natura, richiedono anche la traditio, cioè la consegna materiale della cosa, affinché il negozio si concluda. Ad es. nel comodato è richiesta la consegna del bene infungibile (presto la bicicletta ad un amico), nel mutuo la consegna del denaro o delle altre cose fungibili (presto mille euro a Tizio), nel deposito la consegna della cosa da custodire (lascio l’automobile nell’autorimessa dell’albergo, consegnando le chiavi all’addetto). I contratti consensuali si perfezionano quando c’è l’accordo delle parti, senza bisogno della consegna. Le dichiarazioni di volontà sono costituite dalla proposta e dalla accettazione, attraverso le quali i contraenti esprimono l’intenzione di accettare un unico insieme di regole. Occorre fare una precisazione ulteriore: – fra persone vicine, poiché le dichiarazioni sono percepite immediatamente, il contratto è concluso nel momento e nel luogo in cui il consenso viene manifestato, qualunque sia il modo scelto dal contraente (espressamente o tacitamente, mediante comportamenti concludenti) salvo che la legge non richieda una forma particolare; in tal caso il contratto si perfeziona quando le dichiarazioni vengono documentate nella forma specificamente richiesta, ad es. viene redatta e firmata una scrittura privata; – fra persone lontane il contratto è concluso nel luogo e nel momento in cui il proponente ha conoscenza della accettazione, tanto nel caso che ciò avvenga per telefono (se è sufficiente la forma orale) o via internet, quanto se lo scambio delle dichiarazioni avviene per iscritto attraverso lettere o telegrammi. Il primo passo verso la stipulazione è costituito dunque dalla proposta, effettuata da una parte, che deve contenere tutti gli elementi del contratto. La proposta mira ad ottenere una accettazione conforme e quindi su questa concordanza si forma il consenso delle parti. Se non è conforme in tutto alla proposta, l’accettazione non vale ai fini della conclusione del contratto, ma vale come nuova proposta effettuata in senso inverso e, in quanto tale, richiederà a sua volta l’accettazione del proponente.
§ 2. La conclusione del contratto
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L’accettazione deve avere la forma eventualmente richiesta dal proponente, altrimenti è inefficace, e deve giungere nel termine indicato dal proponente o, in assenza di tale indicazione, in quello stabilito dalla legge, cioè nel termine ordinariamente richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. Oltre questa scadenza, la proposta non è più efficace e l’accettazione si considera tardiva (se ti propongo l’acquisto della mia casa per duecento milioni non ha senso una accettazione che giunge, ad es. dopo sei mesi, cioè oltre un tempo ragionevole per decidere, tenuto conto della natura del contratto). L’accettazione tardiva è dunque inefficace, perché non riesce a fondersi con una proposta ancora in vigore, ma il proponente può accoglierla ugualmente, dandone immediato avviso all’altra parte. Le dichiarazioni di volontà di cui stiamo parlando (tanto se sono destinate a persone lontane, quanto a persone vicine) appartengono alla categoria degli atti giuridici e, più precisamente, alla categoria delle partecipazioni di intenzioni. Se destinate a persone lontane possono essere contenute in lettere o altri documenti scritti di vario genere, prendendo il nome di proposte, offerte, ordinativi, accettazioni, conferme, revoche e così via, secondo il loro oggetto.
Nell’ampia nozione di atti unilaterali rientrano dichiarazioni idonee a produrre effetti giuridici per volontà di una parte sola (che prendono il nome di negozi unilaterali, ad es. una disdetta, una remissione del debito) ma anche dichiarazioni che sono strutturalmente destinate a fondersi in un atto bilaterale o plurilaterale e che producono effetti solo in quanto vi sia la coincidenza di due o più volontà conformi (ad es. la proposta e l’accettazione diventano un contratto, cioè un negozio bilaterale). Le dichiarazioni unilaterali destinate ad un determinato soggetto, come la proposta, l’accettazione, la revoca e così via, prendono il nome di dichiarazioni recettizie. La loro disciplina si fonda su due regole basilari: – le dichiarazioni dirette ad una determinata persona producono effetto nel momento in cui pervengono a conoscenza della persona cui sono destinate (art. 1334). Come si vede, non è facile verificare se e quando ciò accade effettivamente: è utile, perciò, una seconda regola; – le dichiarazioni recettizie si presumono conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia (art. 1335).
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
Si tratta dunque di una presunzione di conoscenza (legale e relativa, perché ammette prova contraria). Da questa regola si può dedurre che ciascuno ha l’onere di conoscere le dichiarazioni pervenute al suo indirizzo, cioè nella sua sfera di controllo (casa, ufficio, casella postale). Ne scaturisce anche un interessante problema di applicazione della legge alla realtà che cambia: laddove si parla di indirizzo della persona, può intendersi anche la casella di posta elettronica? È una interpretazione estensiva dell’art. 1335 o una applicazione analogica?
La proposta contrattuale, come si è visto, ha una vita temporale limitata, ma la sua efficacia può cessare anche prima della scadenza se il proponente revoca la proposta con un atto unilaterale diretto in senso contrario. La revoca è possibile, ovviamente, finché il contratto non è concluso, quindi finché l’accettazione non giunge all’indirizzo del proponente. In tre ipotesi, tuttavia, si ha una proposta irrevocabile: a) per atto unilaterale del proponente, quando questi si impegna espressamente a mantenere ferma la proposta per un certo periodo di tempo; in tal caso si parla di proposta ferma e la revoca anzitempo è senza effetto; b) per patto di opzione, cioè per una convenzione stipulata tra le parti con cui si stabilisce che una certa proposta resta vincolante per una parte, mentre l’altra parte ha facoltà di accettarla o meno (art. 1331). Il patto di opzione costituisce esso stesso un contratto, ancorché strumentale rispetto alla stipulazione del contratto principale; c) per disposizione di legge è irrevocabile la proposta di contratto con obbligazioni del solo proponente (art. 1333), cioè la proposta con cui un contraente si obbliga ad effettuare una prestazione senza pretendere nulla in cambio e quindi senza far sorgere obblighi a carico dell’altra parte. Secondo la regola delle dichiarazioni recettizie tale proposta diviene irrevocabile quando giunge a conoscenza della controparte. La legge detta una ulteriore regola che può apparire strana: se il destinatario di siffatta proposta non rifiuta, nel tempo richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi, il contratto è concluso. Dunque, il contratto si costituisce e si perfeziona per volontà unilaterale di un contraente, in mancanza di rifiuto dell’altro. (Si consideri, ad es., la proposta di fideiussione: Tizio scrive alla banca x promettendo personalmente la restituzione di una determinata somma di denaro che l’istituto ha prestato o si accinge a prestare a Caio. Se la banca non rifiuta entro un tempo ragionevole, il contratto è concluso senza bisogno di accettazione e quindi colui che ha offerto la garanzia sarà obbligato come fideiussore, anche senza una risposta dell’accettante). La revoca della proposta non è possibile in una ulteriore ipotesi: qualo-
§ 3. Morte e incapacità del dichiarante
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ra il proponente abbia richiesto espressamente l’esecuzione immediata, ancor prima della accettazione dell’altro contraente e questi abbia iniziato l’esecuzione. La revoca, in tal caso, non è consentita per una ragione diversa dai casi precedenti: infatti con l’inizio dell’esecuzione la legge considera concluso il contratto e quindi è troppo tardi per qualsiasi contrordine (art. 1327). L’accettante deve dare comunque pronto avviso di iniziata l’esecuzione, pena il risarcimento del danno (tali obblighi di avviso rientrano nella correttezza dovuta reciprocamente fra le parti nella fase che precede e durante la stipulazione e la esecuzione del contratto). Poiché, nel caso in questione, non si tratta di proposta irrevocabile, la revoca è ammessa finché non è ancora iniziata l’esecuzione e non giunge alcuna accettazione al proponente. Finché il contratto non è concluso, secondo la regola generale, il proponente è libero di revocare la proposta (con l’obbligo di agire secondo correttezza). Particolari esigenze della produzione e del commercio possono indurre il destinatario della proposta ad attivarsi per preparare la prestazione richiesta anche senza aspettare la definitiva conclusione del contratto. Perciò se l’accettante ha intrapreso in buona fede la esecuzione prima di essere certo che il contratto sia perfezionato e la proposta viene poi revocata in tempo utile, egli ha diritto ad un indennizzo per le spese e delle perdite subite (art. 1328). L’accettante si comporta secondo buona fede quando tiene un comportamento onesto, rispettando le regole della normale prudenza (può essere ragionevole, da parte sua, dare subito esecuzione al contratto se la prestazione richiede una lunga preparazione ed è prudente non indugiare, oppure può essere ragionevole dare attuazione alla proposta se per consuetudine questo è già avvenuto molte volte, precedentemente, fra le parti).
Come la proposta, anche l’accettazione può essere revocata, prima che il contratto sia concluso, purché la notizia della revoca giunga al proponente prima della stessa accettazione. Ad es., se il contraente ha accettato a mezzo lettera, può revocare l’accettazione mediante telegramma o un telefax purché questo arrivi al proponente prima della lettera già spedita.
3. Morte e incapacità del dichiarante. Gli atti unilaterali come la proposta e l’accettazione, che sono strutturalmente destinati a fondersi con l’atto di volontà della controparte, presuppongono la capacità e l’esistenza del soggetto da cui provengono, in quanto costituiscono partecipazioni di volontà di tale persona. Di regola, pertanto, la proposta o l’accettazione perdono efficacia con la
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
morte o la sopravvenuta incapacità del soggetto che ha fatto tali dichiarazioni, quando questi eventi accadono prima della conclusione del contratto. Vi sono tuttavia alcune eccezioni alla regola della caducazione: – la proposta ferma o irrevocabile, tanto se fissata per atto unilaterale del proponente quanto per patto di opzione, non cade per morte o incapacità del soggetto, salvo che la natura dell’affare o altre circostanze escludano tale efficacia, ad es., perché la prestazione richiesta presupponeva l’esistenza della persona e diventa inutile senza di questa; – la proposta e l’accettazione fatte dall’imprenditore, se il contratto concerne l’esercizio dell’impresa, non cadono per morte o incapacità dello stesso (salvo che altre circostanze lo escludano o che si tratti di piccolo imprenditore). La regola si spiega considerando che se il contratto riguarda l’impresa questa è in grado di proseguire la sua attività anche senza la persona dell’imprenditore, dato che si tratta di una attività produttiva organizzata.
4. L’offerta al pubblico e la promessa al pubblico. L’offerta al pubblico (art. 1336) è una forma di proposta non recettizia, in quanto non è rivolta a un destinatario determinato, ma a una generalità di persone (in incertam personam). Il fenomeno è molto frequente nel traffico giuridico: può trattarsi di una dichiarazione espressa, pubblicata come annuncio sul giornale (vendesi bicicletta da uomo di marca x al prezzo y), o tacita, come l’esposizione della merce in vetrina con l’indicazione del prezzo. L’offerta è atto unilaterale, ma destinato ad incontrarsi con una accettazione; perciò deve essere completa, infatti se manca l’indicazione di uno degli estremi del contratto (ad es. non risulta il prezzo), la dichiarazione non vale come proposta, ma come un invito ad offrire (invitatio ad offerendum) cioè come segnalazione della disponibilità a contrarre, invitando chi ha interesse a fare una successiva proposta rivolta all’offerente. L’offerta al pubblico si revoca molto semplicemente nelle stesse forme con cui è stata fatta o in forme equivalenti. L’offerta non va confusa con la promessa al pubblico, che è atto unilaterale già vincolante e produttivo di obbligazioni per effetto della sola volontà del promittente, con il quale si promette una prestazione o una ricompensa a chi realizzerà un determinato risultato (ad es., ritrovare un oggetto o un animale smarrito, laurearsi con la tesi migliore scritta in un de-
§ 5. L’integrazione del contratto
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terminato argomento, compiere un atto altrimenti meritevole dal punto di vista scientifico, artistico, umanitario, ecc.). Anche la promessa al pubblico non è recettizia, ma vincola il promittente come una proposta ferma dalla data della pubblicazione e per tutta la durata stabilita nell’annuncio stesso o altrimenti per un anno. Se nel frattempo si compie l’azione prevista o richiesta, il promittente è definitivamente obbligato a fornire la prestazione promessa (art. 1989). La revoca prima della scadenza può avvenire solo per giusta causa, attraverso la stessa forma della promessa o forma equivalente, a condizione che non si sia ancora realizzato il risultato previsto.
5. L’integrazione del contratto. Il contenuto del contratto, in linea di principio, è liberamente determinato dalle parti attraverso la formulazione di proposte, l’inserimento di clausole, il richiamo di norme di legge. Spesso la legge integra il contenuto volontario in vari modi: – con norme dispositive (quindi derogabili) che arricchiscono il negozio di ulteriori regole, utili o necessarie per completarne la disciplina (v., ad es., l’art. 1546 nella vendita di eredità); – con norme suppletive (v., ad es. l’art. 1560, 1° comma, nel contratto di somministrazione); – con norme imperative, che possono svolgere innanzitutto una funzione negativa (o proibitiva) in relazione ad una volontà difforme delle parti, decretando la nullità di talune parti del contratto o di talune clausole contrarie alla legge (si pensi, ad es., ad un contratto di locazione ad uso abitativo che viola il limite legale di durata quadriennale o supera l’ammontare dell’“equo canone”) oppure una funzione positiva, determinando la sostituzione o l’inserimento di un contenuto nuovo, imperativamente stabilito, al posto di quello invalido o mancante. Nel caso in questione, poiché opera la sostituzione di diritto della clausola nulla, ricordiamo che si applica il 2° comma dell’art. 1419 sulla nullità parziale del contratto, perciò anche se la clausola nulla ha rilevanza essenziale la sua invalidità non fa cadere l’intero contratto (cfr. Cap. 16, par. 2). In ogni caso tali norme fissano un limite all’autonomia privata. È stabilito, ad es., all’art. 1339, che al posto di clausole difformi siano di diritto inseriti nel contratto: “le clausole, i prezzi di beni o servizi imposti dalla legge”
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
(si pensi ai c.d. prezzi amministrati di talune prestazioni largamente diffuse, come la somministrazione di gas, energia elettrica, acqua, ecc. decisi periodicamente dai CIP, Comitati interministeriali prezzi);
– con usi negoziali o contrattuali in vigore in una certa zona e relativi a determinati settori della pratica commerciale, talora anche limitatamente a determinate aziende (usi aziendali). In proposito l’art. 1340 stabilisce che “le clausole d’uso si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti”. Si ritiene che tali usi contrattuali integrino il contenuto attraverso una sorta di interpretazione della volontà delle parti. In altre parole, ad una dichiarazione di volontà come la proposta, l’accettazione, la richiesta di una certa prestazione, ecc., viene dato il significato che si suole attribuire ad essa secondo una prassi divenuta abituale in un determinato contesto e pertanto alla volontà dichiarata si può aggiungere, secondo le circostanze, anche un contenuto ulteriore non dichiarato o addirittura non conosciuto dal dichiarante. È chiaro che in base a tale teoria gli usi negoziali avrebbero pertanto la natura di usi interpretativi, ma tale soluzione non è da tutti condivisa. Grazie al richiamo della norma citata, comunque, gli usi contrattuali possano derogare alle norme dispositive previste dalla legge in generale e prevalgano su quelle suppletive. La loro esistenza, però, deve essere provata dalla parte interessata in caso di controversia. Si suole distinguere la integrazione del contenuto del contratto dalla integrazione degli effetti del contratto. Si tratta di un confine incerto e piuttosto discusso dal punto di vista teorico, perché tanto la disciplina sin qui accennata, quanto quella dettata in tema di effetti del contratto contribuisce pur sempre a integrare il regolamento negoziale complessivamente considerato. Ci limiteremo, in questa sede, a ricordare la disciplina positiva: l’art. 1374, scritto in tema di effetti del contratto, dice che “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi o l’equità”. Della integrazione per legge si è già accennato sopra e la distinzione fra le varie specie di norme può essere ripetuta anche in tema di effetti del negozio. Un esempio del tutto particolare di integrazione per legge è rappresentato dalla c.d. buona fede integrativa del contratto. La norma dell’art. 1375 dettata, appunto, in tema di effetti del contratto, impone che il contratto
§ 5. L’integrazione del contratto
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sia eseguito secondo buona fede. Ciò significa che ciascun contraente deve attuare un comportamento onesto e leale, diretto a proteggere l’altro contraente affinché questi possa ottenere l’utilità effettiva prevista nel contratto, fino al limite in cui il comportamento dovuto a vantaggio dell’atra parte non rappresenti un sensibile sacrificio del proprio interesse. Perciò si può immaginare che, secondo le varie circostanze, nascano obblighi accessori non espressamente previsti, come quello di avviso o informazione per evitare un danno alla controparte, obblighi di segreto circa notizie concernenti la sfera altrui conosciute a causa del contratto, obblighi di custodia di documenti, merci, campioni, beni mobili o immobili per il tempo necessario alla riconsegna all’altro contraente, obblighi di collaborazione che non comportano un sacrificio eccessivo e così via. Come si vede il contenuto non è specificamente determinato, ma si adatta, di volta in volta alle circostanze ispirandosi ad un principio (se puoi farlo, senza un tuo sensibile sacrificio, devi proteggere l’altro contraente perché questo è un comportamento onesto). Ecco perché si parla, in questi casi, di una clausola generale di buona fede.
Gli usi di cui parla l’art. 1374, secondo l’opinione comune, sono gli usi normativi (di cui agli artt. 8 e 9 delle preleggi, v. supra, Cap. 2, par. 2, lett. e) pertanto in proposito sono richiesti tutti gli elementi della consuetudine (generale obbedienza, vetustà, opinio juris). Tali usi, come si ricorderà, rappresentano una fonte secondaria di norme giuridiche, operanti solo in due casi: praeter legem (se manca qualsiasi disciplina di legge) o secundum legem (se la legge li richiama). Il richiamo generale formulato nella norma in esame rappresenta quindi la chiave affinché il contenuto degli usi possa diventare direttamente una disciplina (degli effetti) del contratto. Dell’equità integrativa del contratto, cui accenna l’art. 1374, si è già parlato (v. supra, Cap. 2, par. 2). Qui basti sottolineare, da un lato, la natura residuale attribuita dalla legge a tale criterio, che opera solo in via suppletiva, in mancanza, cioè, di una determinazione di volontà delle parti o di una disposizione di legge, dall’altro, il tipo di valutazione “interna” all’economia contrattuale richiesto, che impone di tener conto dei sacrifici reciprocamente affrontati in vista dello scopo perseguito col contratto, onde attuare un ragionevole equilibrio tra gli interessi delle parti. Per queste ragioni viene sottolineata la affinità di questo criterio con quello della c.d. equità interpretativa.
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
6. Il contratto per adesione e la contrattazione di massa. Non sempre, tuttavia, le regole contrattuali sono discusse singolarmente e formano oggetto di una specifica trattativa svolta tra le parti. La contrattazione di massa rispecchia l’esigenza dell’imprenditore di fornire le proprie prestazioni ad una pluralità di soggetti e determina la necessità di predisporre il contenuto del contratto unilateralmente, in modo che esso sia valido per ogni eventuale cliente. Si parla, in proposito, di contratti per adesione perché la stessa prestazione viene offerta a condizioni prestabilite, in modo tale che se il cliente decide di accettare può soltanto aderire allo schema predisposto, ma non trattare le singole clausole. Le clausole predisposte da un contraente e destinate a tutti i potenziali clienti si chiamano condizioni generali di contratto e sono efficaci nei confronti dell’altro contraente (cioè lo vincolano contrattualmente) solo se questi, al momento della stipulazione, le conosceva o avrebbe dovuto conoscerle usando la normale diligenza (art. 1341). Colui che predispone tali condizioni ha dunque l’onere di renderle effettivamente conoscibili a tutti i potenziali clienti, tanto se il contratto viene stipulato mediante moduli o formulari (si pensi, ad es., al contratto di assicurazione, che richiede la forma scritta ad probationem), quanto se viene stipulato oralmente o addirittura senza dichiarazioni, con un comportamento concludente (si pensi ad un contratto di albergo o ad un contratto di trasporto su autobus o mezzi pubblici). Sarà necessario, in sostanza, esporre in un luogo adatto le condizioni generali di contratto (ad es. affiggendo un avviso nella stanza d’albergo), affinché il cliente possa conoscerle con la normale diligenza, o fornire il testo delle condizioni a tutti coloro che iniziano una trattativa (come si suole fare per i contratti di assicurazione). Alcune di queste clausole, chiamate clausole vessatorie, sono particolarmente gravose per il cliente. Sono quelle, indicate dall’art. 13412, attraverso le quali vengono previsti particolari vantaggi per chi le ha predisposte (limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere o di sospendere l’esecuzione) o sensibili aggravi per la controparte (decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà di contrarre con i terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza del giudice). La legge stabilisce che tali clausole non hanno effetto se non sono specificamente approvate per iscritto. È necessario, in sostanza, che esse siano ri-
§ 6. Il contratto per adesione e la contrattazione di massa
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chiamate singolarmente in calce al contratto (anche in modo abbreviato) in modo che il cliente le approvi con una seconda sottoscrizione (regola della doppia approvazione). Qualora il contratto sia concluso mediante moduli o formulari vale la regola che le clausole aggiunte al modulo e approvate dalle parti prevalgono su quelle stampate, qualora siano con esse incompatibili, anche se non sono state cancellate le clausole originarie (art. 1342). La disciplina sin qui esposta per le condizioni generali di contratto ha carattere generale, non essendo rivolta a specifiche categorie di contraenti, ma essa subisce importanti deroghe da parte di norme di diritto speciale destinate a disciplinare il fenomeno delle clausole predisposte ora nel campo specifico di determinate attività (assicurazioni del ramo vita, banche, fondi comuni d’investimento, pacchetti turistici, ecc.), ora tenendo conto della qualità delle parti. Hanno assunto particolare rilievo, in proposito, le disposizioni dapprima introdotte nel Codice con riferimento ai contratti del consumatore ed ora trasfuse nel Codice del Consumo, v. supra, Cap. 2, par. 2) chiamate comunemente norme sulle clausole abusive. Tali norme valgono nei contratti stipulati fra un professionista, cioè persona fisica o giuridica che utilizza il contratto nella sua attività imprenditoriale o professionale e un consumatore, cioè una persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale. Le disposizioni di carattere generale di cui si è già parlato (art. 1341) valgono pertanto nei rapporti fra professionisti, ma anche nei contratti del consumatore, ove non siano derogate dal Codice del Consumo o da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore (art. 1469 bis). Le disposizioni a tutela del consumatore contengono un nuovo tipo di sanzione, chiamata nullità di protezione (art. 36, Codice del Consumo) che ha le seguenti caratteristiche: 1) vengono dichiarate nulle le clausole vessatorie predisposte dal professionista; 2) il contratto rimane valido per tutto il resto; 3) la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore; 4) può essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le clausole vengono qualificate vessatorie secondo una previsione articolata: a) sono senz’altro vessatorie e quindi sempre inefficaci le clausole che escludono o limitano la responsabilità del professionista per un suo fatto commissivo od omissivo che provochi danno o morte del consumatore; escludono o limitano le
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
azioni del consumatore verso il professionista o un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o inesatto del professionista; considerano come accettate dal consumatore clausole che di fatto egli non ha avuto la possibilità di conoscere prima di concludere il contratto; b) si presumono vessatorie (con possibilità di prova contraria) molte clausole svantaggiose per il consumatore, come quelle che: – impediscono la compensazione di un suo credito con un debito del professionista; – prevedono una caparra “a senso unico” solo a suo carico; – gli impongono una penale manifestamente eccessiva; – attribuiscono al professionista diritti e facoltà “a senso unico” cioè senza equivalente a favore del consumatore (ad es. dir. di recesso senza preavviso, mentre il consumatore che recede deve pagare); – attribuiscono al professionista potestà discrezionali (di modifica, accertamento e interpretazione del contratto); – limitano la responsabilità del professionista per inadempimento; – limitano i diritti e le facoltà del consumatore (clausola solve et repete, deroghe alla competenza del giudice, modifiche all’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale con i terzi). Le clausole di questo gruppo non sono vessatorie soltanto se sono state oggetto di trattativa individuale, ma questa è, appunto, la prova contraria che deve dare il professionista. Se le clausole sono contenute in moduli o formulari sottoscritti si presume che la trattativa non ci sia stata, ed il professionista ha l’onere di provare il contrario; c) sono clausole vessatorie atipiche tutte quelle che determinano un significativo squilibrio a carico del consumatore, tenuto conto della prestazione, delle circostanze, delle clausole del contratto stesso o di contratti collegati.
Importante osservare come la natura vessatoria sia considerata dalla legge non come squilibrio di prestazioni, cioè inadeguatezza del corrispettivo, ma come squilibrio di regole contrattuali, purché le prestazioni siano chiare e comprensibili (art. 342 cod. consumo). Anche le norme sulle clausole abusive dimostrano come il legislatore intervenga talora incisivamente sulla autonomia privata modificando d’autorità le regole pattuite. Ciò avviene, si badi, non solo perché risultano nulle, e quindi inefficaci, alcune clausole, ma anche perché resta in vita il regolamento residuo anche se, probabilmente, questo non sarebbe stato voluto dalle parti senza le clausole colpite da inefficacia. La deroga alla regola della nullità parziale (art. 1419) si giustifica in funzione della tutela della parte debole.
§ 7. L’interpretazione del contratto
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Una questione importante sorge in merito a queste nullità di protezione: è legittima la c.d. nullità selettiva? Cioè il soggetto debole può scegliere di far valere la nullità soltanto nei casi in cui “gli fa comodo”, cioè nelle operazioni per lui pregiudizievoli e lasciare validi gli altri atti, pur nulli, ma dai quali trae giovamento? Un esempio ci viene dai contratti di intermediazione finanziaria: l’investitore può eccepire la nullità (ad substantiam per mancanza di forma scritta, diritto riconosciuto al solo investitore) degli ordini dati all’intermediario solo quando li sente come pregiudizievoli, lasciandone pertanto gli effetti dannosi a carico della controparte, e tenere ferme le operazioni vantaggiose? Di fronte a due orientamenti giurisprudenziali in contrasto fra loro sul punto si è espressa la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 28314 del 2019) chiarendo che la condotta dell’investitore deve essere valutata in concreto, comparando la mala fede del cliente con il pregiudizio che verrebbe a subire l’intermediario nel quadro degli investimenti considerati nel loro complesso. Perciò la nullità selettiva può costituire una scelta lecita, ma anche un comportamento contrario a buona fede, quando il pregiudizio doloso arrecato dall’investitore con la sua specifica condotta sia sproporzionato, tenendo conto del bilanciamento degli interessi tra obblighi informativi dell’intermediario e obblighi di lealtà dell’investitore. Come si vede siamo ancora una volta di fronte al tema dell’”abuso del diritto” (v. supra, Cap. 4, par. 3). Ove la pretesa dell’investitore (pur formalmente legittima) si presenti come iniqua, in quanto contraria a buona fede oggettiva, il rimedio a favore dell’intermediario per paralizzare tale pretesa (e costringerlo a rispondere anche delle operazioni che questi vorrebbe “scaricare” sulle spalle altrui) sarà costituito ancora una volta da una exceptio doli generalis con cui si chiede al giudice di respingere la pretesa altrui perché sostanzialmente disonesta.
7. L’interpretazione del contratto. La volontà manifestata dalle parti costituisce l’oggetto di una necessaria attività di interpretazione (di cui al par. successivo), premessa necessaria per poter procedere alla qualificazione giuridica della fattispecie negoziale. A tale proposito sarà necessario innanzitutto analizzare la natura delle prestazioni previste e la funzione o lo scopo complessivo perseguito dai contraenti, poi confrontare il contratto che risulta da tale esame con le figure tipiche previste dalla legge o affermatesi nella pratica per individuare le analogie o le difformità e quindi trovare la disciplina più adatta.
L’interpretazione del contratto passa necessariamente attraverso l’esame delle parole e delle proposizioni contenute nella dichiarazione delle parti, quindi è innanzitutto una interpretazione letterale.
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
Le regole di interpretazione mirano, in primo luogo, ad una ricostruzione soggettiva della comune intenzione. Occorre perciò superare la lettera per indagare quale sia stata o la comune intenzione delle parti valutando non soltanto le parole espresse, ma il comportamento complessivo dei contraenti, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362). In realtà la volontà delle persone non è mai comune, ma sempre e solo individuale. Si tratta perciò di vedere quali elementi nella volontà di ciascuna delle parti possano ritenersi coincidenti fra loro, in modo da formare quel regolamento negoziale accettato concordemente da tutti. Solo questa può essere la “comune intenzione” di cui parla la legge. È facile notare la profonda diversità della regola di interpretazione del contratto rispetto a quella concernente la interpretazione della legge; mentre nel primo caso si cerca di ricostruire una precisa volontà storica, manifestata dalle parti, nel secondo caso, dopo l’esame letterale del testo, si passa alla interpretazione logica e sistematica per intendere la ratio legis, cioè l’intenzione del legislatore quale risulta oggettivamente espressa nel quadro dell’intero sistema normativo, non al momento in cui la legge fu fatta, ma nel momento in cui deve essere applicata.
È necessario inoltre considerare il contratto nel suo insieme, cioè interpretando le clausole come parti di un tutto unitario, le une per mezzo delle altre e non in modo frammentario (art. 1363). L’attenzione dell’interprete deve rivolgersi, più che al dato formale, costituito dalla lettera del testo negoziale, allo scopo concreto perseguito. Ciò determina due corollari: – le espressioni generali vanno ristrette agli oggetti effettivi sui quali le parti si sono proposte di contrattare (art. 1364); – i casi espressi dalle parti, al fine di spiegare un patto, si intendono esemplificativi e non esclusivi, perciò possono essere estesi fino a comprendere anche casi non espressi, ma che rientrano nello stesso oggetto e nelle stesse finalità del patto (art. 1365). Una regola fondamentale segna il passaggio fra le regole di ricostruzione soggettiva dell’intento comune (artt. 1362-1365) e quelle di interpretazione oggettiva delle clausole contrattuali (artt. 1367-1371): è quella che impone di interpretare il contratto secondo buona fede (art. 1366). Ciò significa che l’interprete deve attribuire a ciascuna dichiarazione contrattuale, sia dal punto di vista di chi la fa, sia dal punto di vista di chi la riceve, solo quel significato che poteva assegnarle una persona onesta, esclu-
§ 7. L’interpretazione del contratto
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dendo ogni significato nascosto o particolare che potrebbe derivare dall’intento malizioso di una persona scorretta. L’interprete si deve chiedere che cosa poteva esprimere, nelle specifiche circostanze, la persona che pronunciava quelle parole e che cosa poteva intendere, nelle stesse circostanze, il destinatario della dichiarazione, escludendo ogni malizia e supponendo l’onestà del comportamento dei contraenti. Le regole che seguono non mirano a ricostruire la volontà effettiva delle parti, ma a fissare un criterio interpretativo nell’interesse generale, delineando una sorta di interpretazione oggettiva del contratto. Va ricordato in tale ambito il principio di conservazione del contratto (art. 1367): nel dubbio occorre interpretare il contratto e le singole clausole nel senso in cui possano avere un effetto anziché in quello in cui non avrebbero alcuno (magis ut valeat quam ut pereat). Le clausole ambigue vanno interpretate secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo di conclusione del contratto (per i contratti dell’imprenditore, vale il luogo dove ha sede l’impresa) applicando gli usi interpretativi locali che servono a determinare il contenuto del contratto (art. 1368). Essi chiariscono il significato comunemente attribuito alle espressioni e alle clausole in un certo luogo (la categoria degli usi interpretativi appartiene al gruppo più ampio degli usi contrattuali). Le espressioni con più sensi, nel dubbio devono intendersi nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto (art. 1369). Le clausole inserite in moduli o formulari o in condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro contraente (art. 1370). Questa regola viene anche chiamata “interpretatio contra stipulatorem” ed è stata ripresa oggi dalle norme sulle clausole abusive a favore del consumatore (art. 35 del Codice del consumo, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206). Una regola finale è chiamata ad operare quando l’applicazione delle regole precedenti non abbia chiarito il contenuto del contratto, che rimane oscuro. Il contratto gratuito va inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato, mentre quello a titolo oneroso va inteso nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti (art. 1371). Ricordiamo che l’onerosità non coincide con la corrispettività (prestazioni scambiate fra loro con un legame tale che l’una non ha senso senza l’altra) e nemmeno con la bilateralità del contratto (sorgono obbligazioni per entrambe le parti). Onerosità significa invece che ciascuna delle parti affronta un sacrificio patrimoniale in
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Cap. 17. La stipulazione, l’integrazione e l’interpretazione del contratto
vista del risultato negoziale che mira ad ottenere (ad es. il contratto plurilaterale di scopo comune, detto anche associativo, non è a prestazioni corrispettive, perché non avviene uno scambio tra le prestazioni, ma è un contratto a titolo oneroso in quanto ciascun contraente è obbligato a contribuire con una prestazione (la quota associativa, il conferimento dei soci, il contributo consortile, ecc.) alla formazione del patrimonio del gruppo.
§ 3. Il principio di relatività del contratto
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CAPITOLO 18
GLI EFFETTI DEL CONTRATTO
SOMMARIO: 1. Distinzioni. – 2. Il principio consensualistico. – 3. Il principio di relatività del contratto. – 4. I mezzi che facilitano l’adempimento: clausola penale e caparra. – 5. La propagazione degli effetti del contratto ai terzi.
1. Distinzioni. È necessario, in via preliminare, accennare ad alcune nozioni fondamentali, tenendo conto dell’effetto che il contratto produce. Incontriamo in primo luogo la distinzione fra contratti con effetti reali e contratti con effetti obbligatori. La legge (art. 1376) chiama contratti con effetti reali i contratti che hanno come oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata (ad es. vendita, permuta), il trasferimento o la costituzione di altro diritto reale (ad es. cessione di usufrutto, costituzione di servitù), ovvero il trasferimento di altro diritto (ad es. cessione del credito). È sufficiente che almeno una prestazione dedotta nel contratto produca uno di questi effetti affinché si possa parlare di contratto con efficacia reale. Una sottospecie dei contratti con effetti reali è costituita dai contratti traslativi o costitutivi, cioè quelli che trasferiscono o costituiscono diritti reali (art. 1465). Non sono compresi in tale categoria i contratti che trasferiscono altri diritti. Perciò la cessione del credito è contratto con effetti reali, ma non è un contratto traslativo nel senso indicato dall’art. 1465. Il trasferimento o la costituzione di un diritto reale possono avere per oggetto una o più cose determinate (due quadri di Picasso), una universalità di cose mobili (la mia collezione di francobolli), una massa di cose (tutti i libri della mia biblioteca), una cosa generica (dieci quintali di riso “Arborio”).
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Cap. 18. Gli effetti del contratto
Il contratto con effetti obbligatori fa sorgere delle obbligazioni da adempiere, dunque non trasferisce diritti, ma ha per oggetto prestazioni che formano il contenuto di obbligazioni. Può trattarsi di un contratto unilaterale se nasce una obbligazione da una parte sola (ad es. nel comodato il comodatario deve restituire la cosa che gli è stata prestata), bilaterale se nascono obbligazioni in capo ad entrambi i contraenti (ad es. nel mandato oneroso o nella locazione). Mentre gli aggettivi unilaterale e bilaterale hanno riguardo alla quantità di obbligazioni sorte dal contratto, l’aggettivo plurilaterale definisce il contratto formato dalla volontà di più soggetti, ad es. tre contraenti si danno mandato reciproco per compiere determinati atti giuridici, dieci contraenti sottoscrivono la costituzione di un comitato.
2. Il principio consensualistico. Il principio consensualistico consiste in questo: i contratti con effetti reali producono la costituzione o il trasferimento del diritto (ad es. il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la cessione di un usufrutto o di un diritto di credito, la costituzione di una servitù) con il consenso delle parti legittimamente manifestato (cioè espresso nelle forme richieste dalla legge). Basta che ci sia il consenso delle parti, e cioè che sia stipulato il negozio, perché il diritto passi automaticamente al momento stesso della stipulazione, senza bisogno che avvenga la consegna della cosa (sarà questo un obbligo del venditore, che comprende anche l’obbligo di custodire fino alla consegna, art. 1177), e altresì senza bisogno che avvenga il pagamento della merce (sarà questo l’obbligo principale del compratore). La stessa regola vale per la vendita di una massa di cose o di una universalità di beni mobili. Per la vendita di cosa generica occorre invece una ulteriore atto, la individuazione, che va compiuto d’accordo fra le parti (la merce viene pesata e consegnata al cliente, come avviene al mercato o viene insaccata e marcata con segni distintivi e messa da parte) o con la consegna al vettore o allo spedizioniere se le cose devono essere trasportate (art. 1378). Ricordiamo che il venditore di cosa generica deve dare cose di qualità non inferiore alla media (art. 1178). Il principio consensualistico è comune agli ordinamenti derivati dal Co-
§ 3. Il principio di relatività del contratto
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dice di Napoleone, ma non vale nei Codici germanici che hanno ereditato dal diritto romano il sistema del doppio titolo. In altre parole l’atto traslativo si sdoppia, in questi regimi, in due atti: uno, il negozio fondamentale (ad es. la vendita) che obbliga a trasferire, e l’altro il negozio di esecuzione, che opera il trasferimento. Si sente quasi riecheggiare la distinzione romanistica fra titulus e modus adquirendi. Là dove vige il sistema del Libro Fondiario, che prosegue la tradizione ereditata dall’ordinamento austriaco (Alto Adige, Venezia Giulia), per l’acquisto del diritto reale è necessaria l’intavolazione, cioè l’iscrizione nel Libro Fondiario. Il contratto di vendita (o il testamento, ecc.) danno titolo e quindi diritto di ottenere l’intavolazione, ma ciò non attribuisce ancora la proprietà, finché non si realizza la formalità dell’iscrizione. Si dice che in tal caso la pubblicità immobiliare ha natura costitutiva (cfr. 39.5).
3. Il principio di relatività del contratto. Come si è detto più volte il contratto è un regolamento di interessi voluto dai privati e scelto con ampia autonomia, rispettando taluni requisiti essenziali posti dalla legge. Entro questi limiti il contratto è autorizzato dall’ordinamento, che gli attribuisce forza di legge (art. 1372). Ciò significa, innanzitutto, che ciascuno dei contraenti può farlo rispettare chiedendone l’esecuzione coattiva in caso di inadempimento, in secondo luogo significa che il contratto non può essere sciolto unilateralmente, ma solo per mutuo consenso, cioè con un nuovo contratto di contenuto risolutorio intervenuto fra le stesse parti o nei casi previsti dalla legge. Anche se ha forza di legge, tuttavia, il contratto non vincola tutti i cittadini. Il principio di relatività dice che il contratto vincola solo le parti (ha effetti inter partes) ma, di regola, non produce effetti rispetto ai terzi se non nei casi (eccezionali) previsti dalla legge. Ciò significa, ad es., che se Tizio, nella prospettiva di una eventuale vendita del proprio fondo, si è impegnato a concedere la prelazione, cioè a preferire, a parità di prezzo, il proprio vicino Caio, con questa prelazione volontaria o contrattuale ha vincolato solo se stesso e non un eventuale acquirente. Il terzo, perciò, sarà libero di acquistare il fondo di Tizio, anche se questi non rispetta il patto con Caio. La conseguenza della violazione
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Cap. 18. Gli effetti del contratto
sarà limitata inter partes: Tizio dovrà risarcire il danno a Caio per inadempimento contrattuale, ma quest’ultimo non potrà ottenere la restituzione del bene dal terzo acquirente. Diverso è il discorso se il diritto di prelazione è previsto dalla legge (prelazione legale), come avviene, ad es., a favore del coerede (art. 732) per quanto concerne l’acquisto delle altre quote di eredità, o a favore del conduttore (l. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39) per quanto concerne l’acquisto dell’immobile locato. Il diritto di prelazione gode, in tali casi, di tutela reale, cioè può essere difeso anche contro terzi, esercitando un diritto di riscatto che consente di riacquistare il bene anche nei confronti del terzo acquirente (oltre al diritto al risarcimento del danno verso il soggetto obbligato a concedere la prelazione). Il principio di relatività del contratto determina altre conseguenze interessanti. a) Il divieto di alienare un bene, stabilito per contratto, vincola soltanto le parti e non i terzi, che possono validamente ed efficacemente rendersi acquirenti del bene. Ancora una volta il contratto obbliga solo la parte inadempiente a risarcire l’altra per la violazione del divieto (art. 1379). Pur avendo mera efficacia obbligatoria, tuttavia, (inter partes), non sempre il divieto pattizio o convenzionale è considerato valido dalla legge perché sembra contrario al principio della libera contrattazione e della libera circolazione dei beni. Perciò la legge ne restringe la validità solo ai casi in cui sia stabilito entro convenienti limiti di tempo e risponda ad un apprezzabile interesse di una delle parti, risulti perciò meritevole secondo una valutazione sociale (art. 1379). b) In forza del principio di relatività le parti contraenti non possono creare alcun vincolo a carico dei terzi, e dunque la promessa del fatto di un terzo (ad es. prometto che Tizio ti venderà la sua quota sociale) o la promessa dell’obbligazione di un terzo (ad es. prometto che Tizio si obbligherà nei tuoi confronti a non farti concorrenza), lasciano completamente libero il terzo, senza conseguenze a suo carico (art. 1381). L’efficacia si ha solo inter partes: il promittente sarà obbligato ad indennizzare il promissario se questi ha affrontato un sacrificio patrimoniale confidando nella promessa del fatto altrui. Ad es.: “Ti vendo la mia parte del fondo Corneliano al prezzo X, ma ti prometto che gli altri comproprietari ti cederanno anche la loro quota”. I terzi non
§ 3. Il principio di relatività del contratto
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sono vincolati dalla promessa, e quindi restano liberi di non vendere, ma in tal caso il promittente dovrà corrispondere un indennizzo pari al minor valore che avrebbe la quota venduta singolarmente rispetto a quello che avrebbe se fosse ceduto l’intero bene.
c) Dal principio di relatività discende la possibilità di conflitto fra più aventi causa dallo stesso autore. Supponiamo che con successivi contratti il proprietario conceda la stessa casa in locazione a due o più conduttori diversi. Si parla in tal caso di conflitto fra più aventi causa di diritti personali di godimento. Il diritto di godimento del conduttore è personale in quanto viene concepito come un diritto di credito, infatti egli ha un diritto verso il locatore ad ottenere e a conservare per tutta la durata del contratto il pacifico godimento del bene. Perciò se il locatore ha disposto dello stesso bene con successivi contratti può darsi che coesistano più diritti di credito incompatibili fra loro e dunque in conflitto. Sotto il profilo degli effetti contrattuali inter partes il locatore sarà responsabile per inadempimento verso coloro che non potranno conseguire il godimento promesso, non potendo soddisfare contemporaneamente tutti gli aventi diritto, ma soltanto uno di essi. Per il principio di relatività del contratto, i conduttori aventi causa sono terzi (cioè del tutto estranei) fra loro, in quanto ciascuno è legato da un rapporto col solo dante causa e, in base a ciascun contratto, tutti hanno diritto di ottenere il godimento. La legge risolve il conflitto attribuendo il diritto a colui che per primo ha conseguito effettivamente il godimento (art. 1380). Se nessuno lo ha conseguito prevale colui che ha il titolo di data certa anteriore (ad es. un contratto registrato). Il fatto di avere conseguito il godimento (grazie alla consegna della cosa effettuata dal locatore) risolve il conflitto fra gli aventi causa, perché l’uno può difendere il suo diritto anche nei confronti degli altri (che per lui sono terzi) e qui si vede la portata eccezionale della norma. Anche il contratto che trasferisce o costituisce diritti reali è soggetto al principio di relatività, infatti si può avere un conflitto fra più aventi causa del diritto di proprietà o di diritti reali limitati. Supponiamo che il proprietario, Tizio, venda un bene mobile o immobile con due atti successivi, prima a Caio e poi a Sempronio senza dire nulla del precedente contratto. Ciascuno dei due può vantare di essere il proprietario perché è convinto di avere acquistato dall’avente diritto. Anche in questo caso si manifesta un conflitto fra più aventi causa dallo stesso autore
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Cap. 18. Gli effetti del contratto
e trova la sua ragione proprio nella relatività degli effetti dei due contratti, dato che ciascuno dei due produce effetti inter partes e non erga omnes. È necessario, pertanto, che la legge risolva il conflitto fra gli acquirenti trovando il modo per assicurare la preferenza a uno di tali soggetti (ricordiamo che gli acquirenti sono terzi fra loro in quanto non legati da alcun rapporto giuridico). Il conflitto si risolve nel modo seguente: tra più acquirenti di un bene mobile prevale chi, per primo, ha acquistato il possesso in buona fede, ancorché con contratto di data posteriore (art. 1155). Tra più acquirenti di un diritto reale su un bene immobile prevale colui che per primo ha trascritto il suo atto di acquisto. L’effetto principale della pubblicità immobiliare consiste proprio in questo: la trascrizione rende l’atto opponibile ai terzi e quindi anche agli aventi causa in conflitto (art. 2644).
4. I mezzi che facilitano l’adempimento: clausola penale e caparra. Il contratto con efficacia obbligatoria può contenere una clausola penale, con cui si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, la parte inadempiente esegua una determinata prestazione. La clausola può prevedere, ad es., il pagamento di una somma di denaro. In tal caso ha la funzione di liquidare preventivamente il danno, cioè di determinare l’ammontare del risarcimento. Il danno per inadempimento, come sappiamo, deve comunque essere risarcito, e quindi la clausola non aggiunge un diritto nuovo e ulteriore, ma il suo inserimento nel contratto può comportare dei vantaggi per entrambe le parti. Infatti, se è fissata una penale, il creditore sa che potrà chiederne il pagamento senza bisogno di dimostrare l’entità del danno, anche se questo fosse inferiore, ed è quindi sollevato dall’onere della prova del danno, mentre il debitore, a sua volta, sa che non dovrà sborsare più della penale pattuita, anche se il danno fosse superiore ad essa (le parti, tuttavia, possono pattuire la risarcibilità del danno ulteriore). È vietato il cumulo, perciò se il creditore chiede la penale, di regola non può chiedere anche la prestazione principale, eccettuato il caso in cui la penale sia stata pattuita per il solo ritardo (art. 1383). La penale, di solito, è determinata in modo particolarmente gravoso, rispetto al valore della prestazione, proprio per indurre la parte obbligata ad adempiere puntualmente. La stessa parola “penale” richiama l’idea della sanzione, ma le parti hanno un margine di libertà solo nel quantificare il ri-
§ 4. I mezzi che facilitano l’adempimento: clausola penale e caparra
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sarcimento del danno attraverso la penale (o di prevedere una prestazione sostitutiva dell’adempimento, cosa che avviene assai di rado), non quella di introdurre una pena privata. Esiste perciò un limite all’entità della penale che riconduce l’istituto entro i termini consentiti all’autonomia privata: se l’ammontare è manifestamente eccessivo, avuto riguardo all’interesse del creditore all’adempimento, o se la prestazione principale è già stata parzialmente eseguita (vi è, comunque, inadempimento fin tanto che l’esecuzione non sia completa), il giudice, su domanda del debitore, può ridurre la penale (art. 1384). La caparra consiste in una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili che una parte consegna all’altra per confermare la propria intenzione di adempiere; perciò essa prende il nome di caparra confirmatoria. Se poi la parte che ha dato la caparra non adempie, l’altra può recedere dal contratto tenendosi la caparra; se invece non adempie colui che ha ricevuto la caparra, l’altro può recedere esigendo la restituzione del doppio di ciò che è stato prestato. La caparra confirmatoria si distingue dalla clausola penale, in primo luogo, perché ha per oggetto una prestazione che viene effettivamente eseguita e quindi colui che la riceve ha già ottenuto una concreta garanzia (con la caparra si dà, con la penale si promette), in secondo luogo perché la caparra soddisfa solo accidentalmente la funzione di liquidare il danno, se colui che ha ricevuto la caparra si accontenta e recede dal contratto. Altrimenti il contraente che non ha ricevuto l’adempimento può chiedere la risoluzione o l’esecuzione del contratto. In tal caso, si applicheranno le regole generali per quanto concerne il risarcimento del danno, indipendentemente dalla consegna della caparra. Da notare che il recesso, con ritenzione della caparra e la risoluzione, con la richiesta di risarcimento sono ritenuti disomogenei e strutturalmente incompatibili fra loro dalla giurisprudenza (Cass., S.U., n. 553 del 2009), perciò, una volta chiesta la risoluzione non si può più cambiare scelta.
Se il contratto viene adempiuto, la caparra ricevuta da un contraente viene imputata alla prestazione a lui dovuta, come se fosse un anticipo di adempimento (ciò presuppone che l’oggetto della caparra abbia la stessa natura della prestazione dovuta) ovvero viene restituita al contraente adempiente (art. 1385). La caparra confirmatoria si distingue, a sua volta, dalla caparra penitenziale. Si tratta di una somma di denaro che viene data da una parte all’altra, al momento della conclusione del contratto, come corrispettivo per la
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Cap. 18. Gli effetti del contratto
concessione di un diritto di recesso (diritto potestativo di sciogliere il contratto con dichiarazione unilaterale). Chi ha dato la caparra può (lecitamente) recedere, nei tempi e nei modi convenuti, perdendo la caparra. Se è prevista la facoltà di recesso a favore di entrambe le parti (recesso bilaterale), può recedere anche colui che ha ricevuto la caparra, pagando il doppio di quanto ha percepito (art. 1386). Si parla invece di multa penitenziale quando è pattuito un diritto di recesso, ma il prezzo per garantirsi tale facoltà dovrà essere pagato solo quando il diritto in questione verrà esercitato.
5. La propagazione degli effetti del contratto ai terzi. Supponiamo che un soggetto, cogliendo un’occasione favorevole, decida di stipulare un contratto sapendo che gli effetti di questo possono interessare direttamente una terza persona. Quali scelte gli si presentano? a) può stipulare il contratto in nome e per conto del terzo, spendendone il nome, cioè agire in rappresentanza del terzo. Se in precedenza il terzo ha rilasciato la procura gli effetti del contratto ricadono direttamente sul dominus, come sappiamo, altrimenti il contratto può essere ratificato dall’interessato o resta inefficace in quanto concluso da un falsus procurator; b) può stipulare il contratto per sé o per persona da nominare, riservandosi espressamente di nominare un terzo come parte del contratto. In tal caso, divenuta efficace la nomina, il terzo si considera come se fosse stato (l’unica) parte del contratto fin dall’inizio, acquistando diritti e obblighi che ne derivano fin dal momento della stipulazione (art. 1404); c) può stipulare il contratto per sé, divenendone parte, e poi eventualmente (prima ancora che esso abbia esecuzione), fare una cessione del contratto, trasferendo a terzo la sua intera posizione contrattuale, cioè il rapporto complesso di diritti e obblighi originato dal contratto; d) può stipulare un contratto a favore di terzo, acquistando (e mantenendo anche in seguito) il ruolo di parte contrattuale, ma dopo aver pattuito che l’altro contraente eseguirà la sua prestazione a favore del terzo (il quale acquista un diritto di credito, ma non diviene mai parte del contratto); e) dopo avere stipulato il contratto e avere eseguito la sua prestazione, il nostro contraente ha diritto a ricevere la controprestazione (se il contratto è a prestazioni corrispettive). Può fare, perciò, una cessione del credito al terzo (a titolo gratuito o oneroso).
§ 5. La propagazione degli effetti del contratto ai terzi
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La prima (a) e l’ultima ipotesi (e) non ci interessano in questa sede. La rappresentanza viene trattata, infatti, come un fenomeno di sostituzione nell’attività giuridica, concernente la legittimazione del soggetto, nella parte dedicata ai requisiti essenziali del contratto (cfr. 14.2). La cessione del credito, d’altro canto, non concerne gli effetti del contratto, ma il credito – che può sorgere da un contratto come da altra fonte – e perciò si studia nella parte delle obbligazioni. Esaminiamo quindi le tre figure rimanenti.
La figura del contratto per persona da nominare è molto frequente nella pratica, soprattutto nella compravendita di beni immobili, perché il venditore resta vincolato, mentre l’acquirente rimane libero di intestare il contratto – se così si può dire – secondo il suo interesse; ad es. ad un figlio o al coniuge, se ha intenzione di far pervenire loro il bene con una donazione indiretta, o ad un terzo, se tale operazione gli consente di ottenere un guadagno, evitando per di più, un doppio passaggio di proprietà e dunque il pagamento di una doppia imposta indiretta (ma il fisco rinuncia alla ulteriore tassazione solo se la nomina del terzo avviene entro il termine di tre giorni indicato dalla legge). Nel momento della stipulazione una parte si riserva la facoltà di nominare la persona che deve acquistare i diritti e assumere gli obblighi derivanti dal contratto stesso (art. 1401). È necessario pertanto che (nel termine di tre giorni, se non è stato stabilito diversamente) segua una dichiarazione di nomina, tradizionalmente chiamata electio amici (scelta dell’amico), che deve essere comunicata alla controparte, accompagnata dalla accettazione della persona nominata (in realtà potrebbe anche sussistere una precedente procura che il terzo aveva conferito al contraente, ma che questi non aveva speso e che viene rivelata al momento della electio amici, dimostrando l’accettazione preventiva dell’interessato). Questi atti complementari al negozio (nomina, accettazione, procura) richiedono, sotto pena di nullità, la stessa forma che le parti hanno usato per il contratto, anche se non era prescritta dalla legge (ed eventualmente, la stessa forma di pubblicità del contratto, per conseguire l’opponibilità ai terzi, art. 1403). Se la dichiarazione di nomina viene regolarmente effettuata, la persona nominata diventa parte a tutti gli effetti dal momento della stipulazione. Perciò non vi è successione e colui che ha effettuato la nomina resta estraneo al contratto. Se invece la electio non è fatta validamente nel termine stabilito dalla legge o dalle parti, il contratto produce i suoi effetti fra i contraenti originari (art. 1405).
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Cap. 18. Gli effetti del contratto
La cessione del contratto è possibile nei contratti a prestazioni corrispettive, a condizione che queste non siano ancora state eseguite (art. 1406). Poiché non si tratta di trasferire soltanto un diritto di credito verso l’altra parte, ma una complessa situazione giuridica derivante dal contratto, costituita da diritti, obblighi, poteri, ecc., la cessione a un terzo di tale posizione non può essere decisa unilateralmente dal solo cedente, ma presuppone innanzitutto un contratto col terzo (che accetta di subentrare a titolo oneroso o gratuito) il quale prende il nome di cessionario e, in secondo luogo, richiede il consenso dell’altro contraente, che prende il nome di contraente ceduto. Nei confronti del contraente ceduto la cessione diviene efficace solo quando viene da lui stesso accettata. Se invece egli ha espresso preventivamente il consenso, la cessione diventa efficace nei suoi confronti nel momento in cui gli viene notificata. Nel traffico giuridico, spesso, si crea un documento che contiene tutti gli elementi del contratto, allo scopo di realizzare una circolazione più facile della posizione contrattuale di una parte, in quanto tale titolo attribuisce a chi ne risulta portatore la legittimazione a esercitare i diritti che derivano dal contratto. L’inserimento della clausola “all’ordine” o altra equivalente nel documento in questione, consente di sostituire con una semplice girata (basta una firma) il nuovo (giratario) al vecchio contraente (girante), con effetto verso il contraente ceduto. Con la cessione si determina una successione a titolo particolare del nuovo contraente (cessionario) al posto di quello originario (cedente), quindi il contraente ceduto conserva verso il cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto (art. 1409). Il cedente, di regola, quando la cessione è divenuta efficace, è liberato dalle sue obbligazioni verso il contraente ceduto. Se però quest’ultimo, accettando la cessione, ha dichiarato espressamente di non liberarlo, il cedente dovrà rispondere (in via sussidiaria), qualora il cessionario non adempia le obbligazioni assunte. Verso il cessionario il cedente è tenuto a garantire solo la validità del contratto e non l’adempimento del contraente ceduto, salvo che ne abbia assunto la garanzia (e allora risponderà come fideiussore). La stipulazione di un contratto a favore di terzo è valida a condizione che lo stipulante vi abbia interesse (art. 1411). Anche questa è una figura molto usata, ad es. il genitore prende in locazione una abitazione nella città dove il figlio andrà a studiare, stipulando la
§ 5. La propagazione degli effetti del contratto ai terzi
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locazione a favore del figlio; il marito stipula un contratto di assicurazione sulla vita a beneficio della moglie, ecc. Impariamo innanzitutto i termini usati dalla legge. Stipulante è colui che concludendo il contratto acquista il diritto ad una prestazione, destinandola ad un terzo beneficiario. Il contraente che si impegna nei confronti dello stipulante ad eseguire la prestazione a vantaggio del terzo, prende il nome di promittente. Di regola il terzo acquista il diritto contro il promittente già per effetto della stipulazione, senza bisogno di accettare (è ammessa una diversa volontà delle parti), ma la sua dichiarazione di voler profittare, comunicata ai contraenti, rende irrevocabile la stipulazione a suo favore. Prima di tale dichiarazione lo stipulante può revocare (non il contratto, dal quale egli ormai è vincolato, ma la stipulazione a favore del terzo, cioè il beneficio pattuito). Quando la prestazione deve essere fatta al terzo dopo la morte dello stipulante, la revoca è sempre ammessa, anche per mezzo di una disposizione testamentaria, non ostante sia intervenuta l’accettazione del terzo. Il beneficiario, ancorché divenga creditore del promittente, non diviene mai parte del contratto. Se lo stipulante revoca il beneficio, o il terzo rifiuta, la prestazione è dovuta allo stipulante, salvo diversa volontà delle parti. Il promittente può opporre al terzo soltanto le eccezioni fondate sul contratto, non quelle relative ad altri rapporti con lo stipulante (art. 1413).
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Cap. 19. Lo scioglimento del contratto
CAPITOLO 19
LO SCIOGLIMENTO DEL CONTRATTO
SOMMARIO: 1. La risoluzione e i contratti sinallagmatici. – 2. L’inadempimento. – 3. L’impossibilità sopravvenuta. – 4. L’eccessiva onerosità sopravvenuta.
1. La risoluzione e i contratti sinallagmatici. La parola risoluzione significa scioglimento. La risoluzione, diversamente dall’annullamento e dalla rescissione, non tocca l’atto negoziale ma il rapporto, cioè quella situazione giuridica complessa che si viene a creare come conseguenza della stipulazione, quel fascio di diritti, obblighi, poteri e facoltà che spettano alle parti e che prendono il nome di rapporto contrattuale. La risoluzione volontaria, di regola, dipende da un nuovo accordo delle parti, chiamato anche mutuo dissenso. Talora il potere di sciogliere il contratto spetta, eccezionalmente, ad un solo contraente, perché la legge o il contratto stesso gli attribuisce il diritto di recesso unilaterale. Si tratta di un diritto potestativo il cui esercizio richiede una dichiarazione rivolta alla controparte (come in tutti gli atti recettizi l’effetto si produce quando la dichiarazione viene a conoscenza del destinatario). Ad es., la disdetta dell’inquilino, spedita nei termini di legge, l. n. 392 del 1978, art. 4; il recesso del socio, nella società a tempo indeterminato, art. 2285; non è recesso, invece, la disdetta del locatore nei casi previsti dalla l. n. 431 del 1998, art. 3, perché questa non ha l’effetto di risolvere il contratto ma quello di evitare il rinnovo automatico.
La giurisprudenza ammette una causa di risoluzione quando viene a mancare una situazione di fatto considerata implicitamente presupposta dai contraenti e quindi desumibile dal contratto nel suo complesso (deve però essere comune ad entrambi e avere carattere obiettivo, cioè il suo ve-
§ 2. L’inadempimento
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rificarsi non deve essere dipendente dalla volontà degli stessi) senza la quale viene meno qualunque utilità e significato del contratto. L’istituto è noto con il nome di presupposizione. Ad es. prendo in locazione una terrazza sul Canal Grande per il giorno X al fine di assistere alla Regata storica, ma la sfilata viene rimandata di una settimana. La locazione per il giorno fissato non ha più alcuna giustificazione, il contratto si risolve e non sono tenuto a pagare il prezzo.
La risoluzione legale è prevista dalla legge per i contratti a prestazioni corrispettive. Si tratta di una importante categoria di contratti, molto comuni, come la vendita, la somministrazione, l’assicurazione, la locazione, ecc. nei quali si opera uno scambio fra le prestazioni, in modo tale che ciascuna parte è soddisfatta dalla esecuzione della prestazione altrui e nello stesso tempo deve fornire all’altra la propria prestazione. Il legame fra le due prestazioni prende anche il nome di sinallagma (che in greco vuol dire, appunto, legame o vincolo reciproco) ed è così essenziale che se una delle due prestazioni viene a mancare o diviene sproporzionata rispetto all’altra l’operazione di scambio programmata dalle parti non ha più senso e il contratto si risolve per legge. Diverso è il discorso nei contratti plurilaterali di scopo comune (che non appartengono alla categoria dei contratti sinallagmatici, ma a quella dei contratti associativi) nei quali le prestazioni delle parti convergono in vista dello scopo comune (art. 1420). L’inadempimento di una delle parti o l’impossibilità sopravvenuta di una delle prestazioni non importa risoluzione del contratto associativo, salvo che la prestazione in questione debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale (art. 1459).
2. L’inadempimento. In ogni tipo di contratto l’inadempimento di una parte fa nascere, innanzitutto, il diritto dell’altra di chiedere l’esecuzione, cioè l’adempimento del contratto, se il contraente ha interesse alla prestazione che gli è stata promessa. In tal caso il contratto non si scioglie e ciascuna parte resta vincolata ad eseguire la sua prestazione. Ricordiamo che l’inadempimento è comunque un illecito (contrattuale) a prescindere dalla scelta che farà il creditore, perciò costui, tanto se chiede la risoluzione, quanto se chiede l’esecuzione del contratto, avrà diritto al risarcimento del danno.
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Cap. 19. Lo scioglimento del contratto
Nei contratti a prestazioni corrispettive o sinallagmatici, quando si profila il rischio di un probabile inadempimento di un contraente, la legge predispone innanzitutto dei rimedi preventivi che possono essere utilizzati dall’altra parte per tutelarsi ancor prima di giungere alla risoluzione del contratto: a) se mutano le condizioni patrimoniali della controparte, in modo tale da porre in evidente pericolo il conseguimento della prestazione, è consentito al contraente di sospendere l’esecuzione della propria prestazione. In tal modo una parte non corre il rischio di subire una diminuzione patrimoniale certa senza ottenere nulla in cambio (art. 1461); b) se un contraente chiede all’altro la prestazione dovuta, ma dimostra di non essere a sua volta pronto ad adempiere, colui che ha ricevuto l’intimazione può valersi della eccezione di inadempimento. L’eccezione consiste appunto nella difesa che il contraente può opporre rifiutando l’adempimento di fronte alla pretesa avanzata dalla controparte che non manifesta una concreta disponibilità all’esecuzione del contratto (art. 1460). L’eccezione di inadempimento non è opponibile in tre casi: – se vi sono termini diversi per le due prestazioni stabiliti dalle parti o risultanti dalla natura del contratto; – se il rifiuto di adempiere alla propria prestazione è contrario a buona fede (perché, ad es. l’inadempimento dell’altra è solo parziale e di scarsa importanza, tenuto conto del contratto nel suo complesso); – se nel contratto era stata inserita la clausola “solve et repete”, cioè una clausola di inopponibilità delle eccezioni. Tale clausola costringe ad eseguire la propria prestazione, se l’altra parte lo chiede, senza poter sospenderne l’adempimento (è come se si dicesse: prima devi adempiere, poi potrai protestare). Tuttavia, sono sempre opponibili, non ostante la clausola “solve et repete”, le eccezioni di invalidità del contratto, cioè di nullità, annullabilità e rescindibilità. La clausola solve et repete, proprio in quanto diminuisce le difese di un contraente deve ritenersi una clausola vessatoria, se è contenuta nelle condizioni generali di contratto (art. 13412), ed è una clausola che si presume vessatoria, se concerne i rapporti tra professionista e consumatore (art. 33 Cod. del consumo).
Nel contratto a prestazioni corrispettive può succedere che, di fronte all’inadempimento dell’altra parte, un contraente non abbia più interesse a ricevere la prestazione che gli spetta e voglia sciogliersi anche dal suo impegno. In tal caso non resta che la strada della risoluzione per inadempimento. La risoluzione può essere chiesta anche dopo avere domandato l’esecuzione del contratto, se l’adempimento ritarda o non avviene affatto o nel frattempo il contraente ha cambiato idea. In tal caso si ammette anche la
§ 2. L’inadempimento
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domanda di risarcimento del danno unitamente a quella di risoluzione (Cass. n. 8510 del 2014). La scelta di chiedere la risoluzione è irretrattabile e definitiva: dalla data della domanda (giudiziale) di risoluzione il contraente non può più cambiare idea e chiedere l’adempimento e neppure è consentito all’altro contraente di adempiere alla propria obbligazione (art. 14532 e 3). Il presupposto fondamentale per poter chiedere la risoluzione è che vi sia un inadempimento grave, infatti il contratto non si può risolvere se l’inadempimento ha scarsa importanza avuto riguardo all’interesse del creditore (art. 1455). I modi per ottenere la risoluzione per inadempimento sono i seguenti: – Domanda giudiziale. È il procedimento più lungo e più costoso, perché richiede l’instaurazione di un processo che si conclude con una sentenza. L’effetto risolutivo si produce per opera della pronuncia del giudice (la quale, pertanto, ha natura costitutiva). La domanda determina una scelta irrevocabile: successivamente ad essa il creditore non può cambiare idea e chiedere l’adempimento, né il debitore può adempiere (art. 1453). – Procedimento monitorio. Consiste in una diffida scritta, in cui si intima al debitore di adempiere entro un congruo termine, dichiarando che, decorso inutilmente detto termine, il contratto si intenderà risoluto di diritto. Vanno considerati due punti importanti: 1. se nella diffida ad adempiere manca questa dichiarazione allora non vi è l’espressione della volontà risolutiva richiesta dalla legge e pertanto non ci sarà risoluzione, ma, tutt’al più, atto di costituzione in mora, ove ne ricorrano gli elementi; 2. la legge specifica che il termine non deve essere inferiore a 15 giorni, salvo che per volontà delle parti, per la natura stessa del contratto o per gli usi non risulti congruo un termine minore. A tale proposito, secondo quanto ha deciso recentemente la Corte di Cassazione (n. 8943 del 2020), non ha rilevanza il fatto che vi siano state altre diffide precedenti, rimaste inevase, né che il diffidato ometta di contestare l’immediatezza del termine: dunque la congruità si valuta con riferimento alla singola, ultima diffida e, in mancanza di un patto specifico ad hoc, non può essere valutata in sé e per sé dal giudice, ma solo con motivazione adeguata in rapporto alla natura del contratto o agli usi. In mancanza di una di queste tre condizioni, la deroga al termine legale rende la diffida inefficace, privandola dell’effetto risolutivo. Ricordiamo che i 15 giorni decorrono dal ricevimento della diffida, trattandosi di un atto recettizio (v. supra, Cap. 17, par. 2).
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Cap. 19. Lo scioglimento del contratto
La risoluzione determinata dal procedimento monitorio opera ipso jure (automaticamente, senza bisogno di altri atti o procedure) se entro il termine assegnato non si verifica l’adempimento. È questo il modo più rapido e meno costoso per ottenere, in generale, la risoluzione, infatti è sufficiente una semplice raccomandata o un telegramma. Se la controparte muove qualche contestazione, sostenendo, ad es., che non c’è stato inadempimento o esso aveva scarsa importanza, e così via, è inevitabile che sorga la lite, ma se il giudice accerta che l’inadempimento sussisteva effettivamente, emetterà una sentenza nella quale riconosce che la risoluzione è già avvenuta per effetto della diffida di cui sopra (quindi una sentenza con natura dichiarativa).
– Clausola risolutiva espressa. Può essere inserita dalle parti nel contratto una clausola in cui si prevede espressamente la risoluzione qualora uno dei contraenti non esegua la sua prestazione. L’inadempimento non determina, tuttavia, necessariamente, la risoluzione, perché resta anche in questo caso al creditore la scelta se chiedere l’esecuzione del contratto o far valere la clausola suddetta. Perciò la parte che vuole sciogliere il contratto ha l’onere di dichiarare all’altra che intende valersi della clausola (art. 1456). – Termine essenziale. Il termine fissato nel contratto per l’adempimento di una prestazione può qualificarsi “essenziale” solo quando la prestazione ha tale natura che dopo la scadenza l’altra parte non ha più interesse all’adempimento (ad es. l’abito da sposa risulta totalmente inutile se la sartoria cui è stato commissionato non lo confeziona in tempo per le nozze). Se il termine è essenziale il contratto si risolve di diritto alla scadenza, anche se non era pattuita la risoluzione, salvo che il creditore dichiari entro tre giorni che ha ugualmente interesse a ricevere la prestazione. La risoluzione per inadempimento, di regola, ha effetto retroattivo tra le parti. Ciò significa che viene eliminato ogni effetto che il contratto può avere prodotto sin dall’inizio. Restano però esclusi da tale regola i contratti a esecuzione continuata o periodica, nei quali l’effetto risolutivo non si estende alle prestazioni già eseguite. Poiché la risoluzione concerne vicende contrattuali che riguardano essenzialmente le parti del contratto, anche tale istituto obbedisce al principio di relatività che già conosciamo. Di conseguenza non si produce una retroattività “reale”, cioè opponibile ai terzi (come è quella prodotta dalla condizione). Si tratta soltanto di una retroattività “inter partes” e dunque la risoluzione obbliga alle restituzioni solo i contraenti e i loro eredi, ma non pregiudica i diritti acquistati dai terzi.
§ 3. L’impossibilità sopravvenuta
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3. L’impossibilità sopravvenuta. Nei contratti a prestazioni corrispettive la funzione di scambio viene meno se una delle due prestazioni diviene impossibile. La legge perciò, in tal caso, impedisce ad un contraente di profittare della prestazione altrui se egli non può più eseguire la propria obbligazione. Vediamo in dettaglio il fenomeno. Innanzitutto, se una delle prestazioni fosse originariamente impossibile mancherebbe un requisito del contratto e questo sarebbe nullo per impossibilità dell’oggetto (art. 1346). Se invece le prestazioni sono possibili al momento della stipulazione, può darsi che una delle obbligazioni divenga impossibile successivamente. In base ad un fondamentale principio, proprio del diritto delle obbligazioni, l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al debitore estingue l’obbligazione e il debitore è liberato (art. 1256). Nel contratto a prestazioni corrispettive, pertanto, si produrrebbe una grave anomalia per quanto concerne il sinallagma, perché un contraente non sarebbe più tenuto a fornire la sua prestazione, mentre l’altro sarebbe tenuto ad adempiere. Perciò la legge prevede la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta di una delle due prestazioni, con la conseguenza che il contraente liberato dalla impossibilità sopravvenuta non può chiedere all’altra parte la controprestazione, se questa è ancora dovuta, né può tenere ciò che abbia eventualmente già conseguito, ma è obbligato a restituire la prestazione ricevuta. Fa eccezione l’ipotesi in cui al creditore sia stata contestata una mora accipiendi: in tal caso egli dovrà eseguire ugualmente la propria prestazione in quanto sopporta il rischio della impossibilità della prestazione altrui (v. infra, Cap. 29, par. 11). La impossibilità parziale non risolve il contratto, ma determina una riduzione della controprestazione, tuttavia se il creditore non ha interesse a ricevere un adempimento parziale può chiedere la risoluzione. L’impossibilità temporanea determina invece una sospensione dell’obbligazione (art. 1256, capoverso) in quanto il debitore non è responsabile del ritardo nell’inadempimento. Se però il perdurare dell’impossibilità toglie interesse al creditore o vincola eccessivamente il debitore, allora l’obbligazione si estingue per impossibilità sopravvenuta.
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Cap. 19. Lo scioglimento del contratto
Un discorso a parte meritano i contratti traslativi (o meglio con effetti traslativi-costitutivi), cioè quei contratti che trasferiscono la proprietà di una cosa determinata ovvero costituiscono o trasferiscono diritti reali (art. 1465). In tali contratti la impossibilità sopravvenuta di effettuare la consegna della cosa che forma oggetto del diritto reale non determina la risoluzione del contratto. La regola si spiega facilmente: l’acquisto del diritto sulla cosa, secondo il principio consensualistico di cui abbiamo già parlato, avviene ipso jure al momento della stipulazione del contratto, perciò l’acquirente ha già ottenuto in questo istante la prestazione principale e cioè la titolarità del diritto. Ne consegue che la controprestazione (il pagamento del prezzo) è sempre dovuta, da parte sua, anche se la cosa perisce prima della consegna. La consegna, in altre parole, viene intesa dalla legge soltanto come una obbligazione accessoria dell’alienante, che non si pone in termini di corrispettività con l’obbligo di pagare il prezzo. Il rischio del perimento della cosa passa quindi all’avente causa nel momento dell’acquisto del diritto, secondo l’antico broccardo: “res perit domino” (il perimento della cosa è a carico del proprietario). La stessa regola vale anche quando vi sia un acquisto sottoposto a termine (che essendo un fatto futuro, ma certo, non modifica la regola sul rischio) mentre non vale se l’acquisto è sottoposto a condizione, che è un fatto futuro, ma incerto. Perciò l’acquirente a termine iniziale sopporta il rischio come se il termine non ci fosse e deve comunque pagare il prezzo, mentre l’acquirente sotto condizione sospensiva non sopporta il rischio e non deve eseguire la sua prestazione se la cosa perisce nel periodo di pendenza della condizione. Nella vendita di una massa di cose si applica la regola della vendita di cosa certa e determinata, perciò il passaggio del rischio è immediato, mentre nella vendita di cosa generica il rischio passa al compratore solo con la individuazione. Se la cosa perisce dopo tale momento l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la sua prestazione perché egli è già divenuto proprietario.
4. L’eccessiva onerosità sopravvenuta. La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta protegge i contraenti da squilibri anormali, in modo tale che al momento della stipulazione del contratto si può quasi immaginare inserita una clausola tacita in base alla quale ciascuno accetta di impegnarsi per il futuro solo a condizione che l’equilibrio contrattuale rimanga costante per tutta la durata del rapporto (c.d. clausola “rebus sic stantibus”, che letteralmente significa: stando così le cose).
§ 4. L’eccessiva onerosità sopravvenuta
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La risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta non riguarda soltanto i contratti a prestazioni corrispettive, ma anche i contratti con obbligazioni da una sola parte. Se il contratto è a prestazioni corrispettive l’eccessiva onerosità viene valutata come squilibrio tra le due opposte prestazioni, mentre se il contratto è con obbligazioni da una sola parte (art. 1468) lo squilibrio verrà apprezzato considerando la diversa onerosità che assume la stessa prestazione per il contraente obbligato, prima e dopo gli eventi in questione. Questa forma di risoluzione opera soltanto per i contratti la cui esecuzione si svolge necessariamente durante un certo periodo di tempo, chiamati contratti di durata. Si può trattare di contratti a esecuzione continuata o periodica o ad esecuzione differita, in cui il tempo gioca un ruolo essenziale perché la prestazione dovuta non si esaurisce in un solo istante (si pensi ad un contratto di somministrazione, o ad una vendita a consegne ripartite). Nei contratti ad esecuzione istantanea, dove non c’è spazio per la durata, il contratto non è neppure sensibile ai mutamenti che possono verificarsi nel tempo successivo (o, come si usa dire, non è sensibile alle sopravvenienze). Se la prestazione deve essere adempiuta dopo un certo tempo, o è di carattere continuativo o periodico, può accadere che essa diventi più onerosa per il contraente obbligato. Ciò rientra nel rischio proprio di tutte le operazioni economiche, perciò, normalmente, tale onerosità è sopportata dal debitore. Se tuttavia si verificano avvenimenti straordinari ed imprevedibili che determinano un aggravio eccessivo nell’economia del contratto, la legge consente alla parte che deve eseguire la prestazione eccessivamente onerosa di domandare (in via giudiziale) la risoluzione del contratto. Deve trattarsi di eventi del tutto imprevisti e fuori dalla normalità (ad es. la guerra del Kippur tra Egitto e Israele aveva determinato la eccessiva onerosità di forniture petrolifere). Una svalutazione monetaria, anche importante, non rientra nella previsione di cui stiamo parlando se costituisce un trend prevedibile di una certa economia, ma se ha carattere eccezionale, in quanto deriva da una crisi economica manifestatasi improvvisamente in un determinato paese, può giustificare la risoluzione per eccessiva onerosità di un contratto di durata, se ve ne sono i presupposti.
La risoluzione sarà pronunciata dal giudice, ma anche in questo caso produce sempre e soltanto effetti inter partes. Sono salvi, quindi, i diritti dei terzi.
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Cap. 19. Lo scioglimento del contratto
Non sono soggetti a risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta i contratti aleatori per loro natura o per volontà delle parti, ad es., una vendita di cosa futura aleatoria (c.d. emptio spei). Si deve considerare che in tale categoria di contratti il rischio assume un ruolo essenziale per le parti, in modo tale da investire la causa stessa del contratto. Senza il rischio che le parti vogliono correre il negozio non avrebbe senso. Perciò non può essere ammessa una risoluzione, che serve appunto, a “scaricare” il rischio, perché sarebbe in contrasto con la natura stessa del contratto aleatorio.
§ 1. I vincoli di parentela, affinità, coniugio
PARTE SESTA
LA FAMIGLIA
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Cap. 20. I rapporti familiari e il matrimonio
§ 1. I vincoli di parentela, affinità, coniugio
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CAPITOLO 20
I RAPPORTI FAMILIARI E IL MATRIMONIO
SOMMARIO: 1. I vincoli di parentela, affinità, coniugio. – 2. Il diritto agli alimenti. – 3. La promessa di matrimonio. – 4. Il matrimonio concordatario. – 5. Il matrimonio civile: formalità preliminari. – 6. I requisiti e le cause di invalidità. – 7. La celebrazione del matrimonio. – 8. Gli effetti del matrimonio: diritti e doveri. – 9. La dichiarazione di nullità del matrimonio e il matrimonio putativo. – 10. L’allontanamento e la separazione personale dei coniugi. – 11. Lo scioglimento del matrimonio.
1. I vincoli di parentela, affinità, coniugio. L’art. 74 definisce la parentela come il vincolo tra persone che discendono da uno stesso stipite. Sono quindi parenti in linea retta le persone di cui l’una discende dall’altra (figlio, nipote, bisnonno, ecc.) e in linea collaterale quelle che possono risalire ad uno stipite comune (fratello, cugino, zio, ecc.). I gradi di parentela, tanto in linea retta quanto in linea collaterale, corrispondono alle generazioni, cioè al rapporto fra generante e generato, quindi nella parentela in linea retta si calcolano le generazioni risalendo da una persona all’altra fino allo stipite (in pratica basta contare le persone generate senza lo stipite ossia tutte le persone meno una, ad es. nonno e nipote sono parenti di secondo grado). In linea collaterale si risale dalla persona che interessa fino allo stipite comune quindi si scende per altra linea calcolando ancora una volta il numero delle persone meno uno (quot personae, dempto stipite; ad es. i c.d. primi cugini, cioè figli di fratelli, sono parenti di quarto grado).
Il diritto civile attribuisce rilevanza ai gradi di parentela fino al sesto (ad es., in mancanza di testamento e di stretti congiunti, cioè figli, coniuge, genitori, la legge chiama a succedere i parenti fino al sesto grado, ma il prossimo esclude i remoti). La parentela è una qualifica giuridica che ha come normale presupposto
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Cap. 20. I rapporti familiari e il matrimonio
un vincolo di sangue. Ma non tutti i vincoli di sangue si traducono automaticamente in un vincolo di parentela: bisogna che il fatto della procreazione risulti pubblicamente accertato. Con la Riforma della filiazione, la legge consente, ormai, che il vincolo di sangue sia sempre accertato, perciò non si dovrebbe più parlare di filiazione non riconoscibile, ma, eventualmente, di filiazione, in concreto, non riconosciuta. Anche nelle ipotesi di filiazione incestuosa è ammesso il riconoscimento, previa autorizzazione del giudice al fine di evitare al figlio qualsiasi pregiudizio. Anche quando fosse negata tale autorizzazione, tuttavia, il vincolo di sangue resterebbe rilevante come impedimento al matrimonio. Quando la procreazione avviene fuori del matrimonio, il vincolo di sangue può essere accertato solo attraverso un atto spontaneo di riconoscimento di ciascun genitore (che può avvenire contemporaneamente alla dichiarazione di nascita o successivamente, ma anche prima della nascita purché dopo il concepimento) o attraverso una sentenza del giudice, su domanda del figlio stesso. Si parla in questi casi di filiazione riconosciuta, nel primo caso, e dichiarata, nel secondo. Il figlio che viene generato nel matrimonio da una coppia sposata acquista la qualifica di figlio in modo ancora più semplice e cioè è sufficiente che ne venga dichiarata all’ufficiale di Stato civile la nascita, indicando il nome della madre che risulta coniugata. Di conseguenza egli acquista direttamente il cognome del marito, anche se non è questi ad effettuare la denuncia. Con l’accertamento – dato che, dopo la Riforma del 2012-2013, esiste un unico stato di figlio – il vincolo di parentela si propaga in tutte le direzioni, tanto verso i discendenti quanto verso la famiglia di origine del padre e della madre, compresi i collaterali, a tutti gli effetti. Questo effetto è automatico nei confronti del figlio nato nel matrimonio, mentre dipende dai singoli atti di riconoscimento di ciascun genitore, per quanto concerne il figlio nato fuori del matrimonio. Come si vede, si tratta essenzialmente di meccanismi giuridici che disciplinano l’istituto della parentela distinguendo i modi di acquisizione del vincolo. Tali distinzioni non sono infrequenti: nella stessa categoria dei fratelli, ad esempio, la legge distingue i fratelli germani o bilaterali, che hanno entrambi i genitori in comune, dai fratelli unilaterali, che sono nati da successivi rapporti di un loro genitore con altra persona (si dicono fratelli consanguinei se hanno in comune soltanto il padre, o uterini, se hanno in comune fra loro soltanto la madre). La differenza diventa rilevante in tema di alimenti, dove i germani sono obbligati prima degli unilaterali
§ 1. I vincoli di parentela, affinità, coniugio
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(art. 433, n. 6) e in tema di successioni, dove gli unilaterali ereditano la metà dei germani (art. 570). Non vi è da stupirsi se la legge, per dare una famiglia a chi è abbandonato, può creare un vincolo “artificiale” di parentela attraverso l’istituto dell’adozione dei minori (un tempo chiamata adozione legittimante), o se, per dare discendenti a chi ne è privo, può creare vincoli personali di parentela adottiva, anche senza il fatto naturale della procreazione, attraverso l’adozione delle persone maggiori di età. Se ne parlerà più avanti. Le conseguenze della parentela sono di carattere negativo (ad es. impedimenti matrimoniali, necessità di autorizzazione per il riconoscimento dei figli incestuosi, estensione della incapacità giuridica di ricevere per testamento agli stretti congiunti, art. 599) o positivo (diritto agli alimenti, art. 433 ss.; diritti derivanti dall’impresa familiare, art. 230 bis; diritto a succedere, art. 572; potere di proporre istanza di interdizione o di inabilitazione di un soggetto infermo di mente; potere di opporsi al matrimonio se vi osta qualche impedimento, diritto al sepolcro). L’affinità è il vincolo che lega un coniuge con i parenti dell’altro coniuge (quali possono essere i suoceri, il genero e la nuora, i cognati, ma anche i figli di un precedente matrimonio dell’altro coniuge). Gli affini di ciascun coniuge non sono affini tra loro (adfines inter se non sunt adfines). L’affinità non comporta mai diritti successori, ma consente di promuovere istanze di interdizione o inabilitazione (affini entro il secondo grado) o produce impedimenti matrimoniali. In base all’art. 87, n. 4: suocero e nuora o genero e suocera non possono sposarsi, anche se il matrimonio da cui deriva l’affinità si è sciolto per morte o per divorzio; se invece è stato annullato è ammessa dispensa. Anche l’affinità fra cognati è dispensabile. Infine l’affinità può costituire il presupposto affinché sorgano determinati diritti patrimoniali (mantenimento e partecipazione agli utili per gli affini entro il secondo grado che lavorano nell’impresa familiare, art. 230 bis). Un terzo tipo di vincolo civile fra persone è il coniugio, ma ne parleremo a proposito del matrimonio.
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Cap. 20. I rapporti familiari e il matrimonio
2. Il diritto agli alimenti. Il diritto agli alimenti può avere innanzitutto fonte volontaria, se viene fatto nascere per contratto o per disposizione testamentaria (un legato di alimenti). In tal caso ha per oggetto quanto è necessario all’alimentando per vivere, anche a prescindere, secondo taluno, da una situazione di bisogno. Se invece una persona si trova in stato di bisogno e non ha mezzi per provvedere al proprio sostentamento, né ha capacità di procurarseli col proprio lavoro (per anzianità, malattia, ecc.) nasce un diritto agli alimenti di fonte legale (art. 433 ss.). I soggetti obbligati, secondo l’ordine stabilito dalla legge, sono essenzialmente il coniuge, i parenti e gli affini, in base ad un vincolo di solidarietà familiare, ma prima di tutti viene il donatario, il quale è obbligato quasi ad una restituzione della donazione ricevuta, però soltanto fino al limite di ciò che ancora rimane nel suo patrimonio (art. 438). Non è obbligato chi ha ricevuto donazioni remuneratorie e obnuziali (art. 437). Il coniuge, per la verità, è tenuto agli alimenti solo quando sono cessati altri obblighi patrimoniali assai più importanti nei confronti dell’altro coniuge. Perciò, durante il matrimonio, non vi è obbligo di alimenti fra coniugi, ma obbligo di contribuzione, ed eventualmente, verso il coniuge separato senza addebito, vi è l’obbligo di mantenimento. L’obbligo di prestare gli alimenti sussiste, invece, verso il coniuge cui è stata addebitata la separazione qualora versi in stato di bisogno. Seguono i figli, senza distinzione o, in loro mancanza, i discendenti prossimi, quindi i genitori e in loro mancanza gli ascendenti prossimi (ma i genitori hanno un più vasto obbligo al mantenimento dei figli finché questi non sono in grado di provvedere a loro stessi, anche dopo la maggiore età e quindi l’obbligo alimentare potrà nascere solo a favore dei figli ormai adulti che sono in stato di bisogno). Il genero e la nuora, poi il suocero e la suocera, quindi gli affini di primo grado, sono obbligati ancor prima dei fratelli (germani e poi unilaterali) che chiudono la graduatoria (ma l’obbligo tra affini può cessare se l’alimentando passa a nuove nozze o muore il coniuge che lega gli affini tra loro, art. 434). Il coniuge viene dopo gli altri obbligati se il matrimonio è stato dichiarato nullo, gli sia imputabile la nullità e l’altro coniuge, che si trova in stato di bisogno, fosse in buona fede all’atto della celebrazione del matrimonio (art. 129 bis). Se l’obbligato non è in condizioni di prestare gli alimenti da solo, il giu-
§ 2. Il diritto agli alimenti
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dice può provvedere attuando un concorso fra più obbligati, anche se appartenenti ad una categoria successiva. L’oggetto dell’obbligo alimentare comprende ciò che è necessario per vivere dignitosamente, secondo l’età della persona, quindi oltre all’alimentazione, il vestiario e l’alloggio, può comprendere anche le cure necessarie per un anziano o l’istruzione necessaria per un minore. La misura è determinata in proporzione al bisogno dell’alimentando – tenuto conto della sua posizione sociale – e alle condizioni economiche dell’obbligato (art. 438) ed è modificabile nel tempo se variano le condizioni iniziali (ma può essere ridotta anche per la condotta disordinata o riprovevole dell’alimentato, art. 440). Il diritto presuppone lo stato di bisogno, ma sorge solo dal momento della costituzione in mora dell’obbligato (intimazione scritta) se questa è seguita entro sei mesi dalla domanda giudiziale (art. 445). Nulla è dovuto per il periodo precedente (in praeteritum non vivitur: si può chiedere quanto serve oggi per vivere, non quanto poteva servire in passato). Diversamente, l’obbligo di mantenimento (di un coniuge verso l’altro o dei genitori verso i figli), nasce senza bisogno di alcuna domanda o intimazione, non appena ne sussistono i presupposti (basta l’esistenza del rapporto di coniugio o filiazione) e non presuppone lo stato di bisogno; inoltre ha un diverso oggetto, perché comprende tutto ciò che consente di vivere in modo adeguato al reddito, alle sostanze e alle possibilità economiche dell’obbligato e non solo quanto è necessario per una vita dignitosa dell’avente diritto.
Il diritto agli alimenti è di natura personale, perciò cessa alla morte dell’alimentando, ed è indisponibile, inalienabile, irrinunciabile e imprescrittibile, ma una volta scaduto il diritto alla singola annualità si prescrive in cinque anni (art. 2948, n. 2). Se l’obbligo è adempiuto mediante assegno alimentare, il contributo non può essere nuovamente richiesto, qualunque uso l’alimentando ne abbia fatto, anche se lo ha dilapidato al gioco (art. 444). Anche il debito di alimenti è personale, perciò non si trasmette agli eredi, ma cessa alla morte dell’obbligato (art. 448). Si tratterà poi di vedere, in base ai rapporti di parentela e di affinità, quale sarà il nuovo debitore, se persiste lo stato di bisogno. Però il debito alimentare del defunto, sorto nei confronti del coniuge separato con addebito, all’apertura della successione si trasforma in un assegno vitalizio a carico dell’eredità (artt. 5482 e 5852).
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Cap. 20. I rapporti familiari e il matrimonio
Il modo di somministrazione, a scelta dall’obbligato, può consistere in un assegno alimentare periodico anticipato o nella prestazione degli alimenti in natura, accogliendo nella propria casa colui che vi ha diritto (art. 443).
3. La promessa di matrimonio. La volontà matrimoniale deve essere assolutamente libera fino al momento della celebrazione, perciò una eventuale promessa di matrimonio non obbliga a sposarsi né ad eseguire ciò che si fosse convenuto in caso di successivo rifiuto (art. 79). La promessa di matrimonio, anche informale, è presa in considerazione dalla legge quale atto lecito, ma non vincolante, che fornisce una giustificazione relativamente alle donazioni effettuate tra fidanzati, in modo tale che se poi il matrimonio non viene celebrato, ognuno dei due può domandare la restituzione dei doni fatti all’altro, indipendentemente dalla responsabilità di tale rottura. Vi è un anno di decadenza per proporre tale domanda dal giorno della morte di uno dei promittenti o dal giorno in cui si è avuto il rifiuto di celebrare il matrimonio. Si tratta di una risoluzione, che può essere richiesta dal donante, con mera efficacia obbligatoria e quindi non opponibile ai terzi.
La promessa formale di matrimonio (cioè risultante da richiesta di pubblicazioni o fatta vicendevole in un atto scritto redatto da persone maggiori di età o da minore autorizzato a celebrare il matrimonio o contenuta in un atto pubblico) obbliga il promittente che senza giusto motivo ricusi di eseguirla o colui che ha dato causa alla rottura a risarcire il danno cagionato all’altra parte per le spese fatte e per le obbligazioni contratte a causa di quella promessa, entro i limiti in cui esse corrispondono alle condizioni economiche delle parti. È uno dei casi di indennizzo da atto lecito. Anche qui vi è un anno di decadenza dal giorno del rifiuto di celebrare il matrimonio.
4. Il matrimonio concordatario. Il Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede, risalente al 1929 (trattato internazionale, poi applicato con legge “interna” dello Stato del 27 maggio 1929, n. 847) modificato con protocollo addizionale del 18
§ 5. Il matrimonio civile: formalità preliminari
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febbraio 1984 (cui fu data applicazione con l. 25 marzo 1985, n. 121) prevede la facoltà dei cittadini di scegliere se celebrare il matrimonio religioso cattolico o il matrimonio civile, fermo restando che la scelta si limita all’atto di matrimonio, ma non tocca il rapporto che sorge fra i coniugi. Infatti anche il matrimonio canonico, se trascritto, produce effetti civili, perciò crea lo stato di coniuge e fa nascere un rapporto matrimoniale regolato dal diritto civile. Ulteriori convenzioni, le “intese” di cui parla l’art. 83 Cost., consentono la celebrazione del matrimonio da parte di un ministro di culto di confessioni religiose acattoliche (attualmente vi sono intese con otto diverse confessioni religiose) che produce effetto se trascritto, come il matrimonio concordatario; inoltre vi è la possibilità di far celebrare il matrimonio da parte di un ministro di una confessione che non ha stipulato intese con lo Stato, ma in tal caso si tratta di un matrimonio civile, nel quale l’ufficiale di stato civile viene sostituito da altro soggetto autorizzato. La trascrizione nel registro dei matrimoni presso l’Ufficio di stato civile competente è ammessa, di regola, purché siano rispettate le regole sui limiti di età e non sussistano impedimenti civili inderogabili. Essa costituisce il presupposto fondamentale affinché il matrimonio concordatario e i matrimoni acattolici producano effetti civili. Il matrimonio cattolico, come atto, è regolato dal diritto canonico e sottoposto alla giurisdizione del giudice ecclesiastico per quanto concerne la validità e l’esistenza. Lo Stato si riserva di riconoscere le sentenze canoniche di nullità entro i limiti costituiti dai principi di ordine pubblico, e si attribuisce il potere di far cessare gli effetti civili del matrimonio religioso attraverso il divorzio.
5. Il matrimonio civile: formalità preliminari. La celebrazione del matrimonio presuppone le pubblicazioni per rendere noto l’intento dei nubendi, in modo tale che vi possa essere opposizione da parte di chi conosce l’esistenza di qualche impedimento (art. 102). La materia è stata regolata recentemente dal d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, sull’Ordinamento di stato civile, art. 50 ss., che ha modificato alcune norme del codice (artt. 93, 94, 95, 97, 1004, 1032, 104). Le pubblicazioni vanno richieste dagli sposi (o da persona da essi incaricata) all’ufficiale di stato civile del luogo di residenza di uno di essi dietro presentazione degli atti di nascita e degli altri documenti che provano la
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libertà di stato (ad es. sentenza di divorzio) e le altre condizioni previste dalla legge (ad es. la autorizzazione del tribunale nel caso di impedimento dispensabile, cfr. art. 874 e 5). L’ufficiale a cui viene presentata la domanda ha il dovere di fare le pubblicazioni, richiedendole direttamente anche presso il luogo di residenza dell’altro sposo. Se non vi sono le condizioni di legge dovrà rilasciare un certificato motivando il rifiuto, contro il quale è consentito il ricorso al tribunale che decide sentito il pubblico ministero. L’avviso delle future nozze, contenente i dati dei nubendi e il luogo della celebrazione, deve essere esposto all’albo della casa comunale nel comune di attuale residenza di ciascuno degli sposi (ma se vi risiede da meno di un anno anche in quello precedente) per la durata di otto giorni. Viene poi rilasciato in ciascun comune un certificato di avvenute pubblicazioni. Il matrimonio potrà essere celebrato dal quarto giorno successivo fino al 180°, poi l’effetto di quella pubblicazione decade. Per gravi motivi il Tribunale può autorizzare la riduzione della durata e, per cause gravissime, anche la omissione delle pubblicazioni. Il pubblico ufficiale, nel caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi può celebrare anche senza pubblicazione, previo giuramento degli sposi che non esistono impedimenti gravi (quelli che non ammettono dispensa).
È ammessa la opposizione alla celebrazione del matrimonio tanto per un impedimento, quanto per mancanza di requisiti o per una causa di invalidità, come l’incapacità naturale, o per una irregolarità (ad es. il mancato rispetto del c.d. lutto vedovile, art. 89). I soggetti legittimati ad opporsi sono principalmente i genitori e in loro mancanza gli altri ascendenti e i collaterali entro il 3° grado, ma secondo le varie cause possono opporsi anche altri soggetti: ad es. per mancanza di stato libero, se uno è già sposato e vuole risposarsi, può opporsi, ovviamente, il coniuge legittimo; per il mancato rispetto del divieto temporaneo di nuove nozze possono agire i parenti del precedente marito (se il matrimonio si è sciolto per morte), oppure il coniuge precedente o i suoi parenti se il matrimonio è stato dichiarato nullo. Il pubblico ministero deve sempre opporsi se sa che vi è un impedimento o una grave infermità di mente di uno degli sposi (salvo chiederne l’interdizione d’ufficio).
L’atto di opposizione deve essere proposto con ricorso al Presidente del tribunale del luogo dove è stata eseguita la pubblicazione (il quale può sospendere la celebrazione, art. 59 ord. st. civ.), quindi sarà comunicato al
§ 6. I requisiti e le cause di invalidità
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Procuratore della Repubblica e notificato agli sposi e all’ufficiale di stato civile del comune dove deve essere celebrato il matrimonio. Il tribunale decide entro dieci giorni con decreto che rigetta o accoglie l’opposizione.
6. I requisiti e le cause di invalidità. – L’età. A 18 anni si acquista l’età per contrarre validamente matrimonio. La legge, tuttavia, consente di contrarre matrimonio anche al sedicenne purché autorizzato dal giudice (se sussiste sufficiente maturità psicofisica e sussistono gravi motivi effettivamente fondati). Al di sotto dei 16 anni, pertanto, oltre all’incapacità di agire, sussisterebbe anche una incapacità giuridica di sposarsi. Se è violato il requisito dell’età nel senso che il sedicenne si sposa senza autorizzazione, il matrimonio è impugnabile da parte di ciascuno dei coniugi, da parte dei genitori degli sposi e del pubblico ministero. La domanda presentata dai genitori e dal pubblico ministero, tuttavia, deve essere respinta quando lo sposo minorenne vuole mantenere il vincolo e nel frattempo vi sia stato concepimento, procreazione di un figlio, ovvero lo sposo abbia compiuto la maggiore età (art. 1172). – La capacità naturale. È necessaria la capacità di intendere e di volere al momento della celebrazione. Altrimenti il matrimonio può essere impugnato, ma solo dal coniuge che provi di essere stato privo di tale capacità al momento delle nozze (art. 120). È fissata la decadenza di un anno di coabitazione dopo che la capacità naturale è stata riacquistata. – La capacità legale di agire. L’inabilitato o il condannato che subisce l’interdizione legale possono contrarre valido matrimonio, ma non lo può fare l’interdetto giudiziale per vizio di mente. Il matrimonio dell’interdetto giudiziale è annullabile su richiesta di chiunque vi abbia interesse (anche da parte del soggetto interdetto, dopo la revoca del provvedimento, art. 119). La regola ora esposta vale non soltanto se vi era già sentenza di interdizione al tempo delle nozze, ma anche se l’interdizione è stata pronunciata successivamente alle nozze, ma per una infermità già esistente al momento della celebrazione.
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L’azione non è proponibile (decadenza) se vi è stato un anno di coabitazione dopo la revoca dell’interdizione. – La libertà di stato. Chi è vincolato da un matrimonio precedente non può sposarsi. La violazione di questo requisito provoca annullabilità assoluta del matrimonio. L’azione è imprescrittibile per il coniuge del binubo (art. 124). Anche il coniuge dell’assente non può sposarsi, tuttavia il matrimonio eventualmente celebrato non ostante tale divieto non può essere impugnato finché dura l’assenza (art. 1173) perché manca la prova della esistenza in vita dell’assente. – I vincoli di parentela, affinità, adozione. Costituisce impedimento non dispensabile il vincolo di parentela in linea retta e in linea collaterale di secondo grado. La parentela di terzo grado collaterale (zio o zia e nipote) è impedimento dispensabile (art. 87, n. 3). Anche la affinità in linea retta è impedimento non dispensabile neppure se il matrimonio da cui deriva l’affinità è stato sciolto (morte o divorzio). Qualora invece l’affinità sia in linea collaterale (fra cognati) o, pur essendo in linea retta, derivi da un matrimonio dichiarato nullo, essa costituisce impedimento dispensabile (art. 87, nn. 4 e 5). L’adozione di persone maggiori di età crea vincoli che rappresentano impedimenti al matrimonio: tra adottante e adottato, tra figli adottivi della stessa persona, tra adottato e figli o coniuge dell’adottante (art. 87, n. 9). – L’impedimento da delitto. Non può sposarsi chi è colpevole di omicidio o tentato omicidio contro il coniuge dell’altro sposo. Tale vizio è causa di annullabilità assoluta del matrimonio (art. 88). – Il divieto temporaneo di nuove nozze, vale solo per la moglie in caso di vedovanza, divorzio o annullamento del matrimonio precedente (art. 89). Affinché non sorgano dubbi in merito alla paternità di un’eventuale figlio che nasce dopo la fine del precedente matrimonio la legge vieta di contrarre immediatamente un successivo matrimonio alla donna (per un periodo di dieci mesi) dopo la morte del marito ovvero dopo il divorzio o l’annullamento del matrimonio. Non si tratta tuttavia di una causa di invalidità, ma solo di una irregola-
§ 6. I requisiti e le cause di invalidità
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rità del matrimonio (art. 140) che ne impedisce la celebrazione, (divieto al celebrante, opposizione degli interessati), ma non dà luogo ad una impugnazione se le nozze sono ugualmente celebrate. Il divieto non sussiste se, dopo la fine del matrimonio precedente, vi è stata la nascita di un figlio o il matrimonio è stato dichiarato nullo per impotenza del marito. Se è escluso ogni dubbio circa lo stato di gravidanza della moglie (ad es. se il divorzio è stato preceduto da tre anni di separazione o è stato pronunciato per matrimonio non consumato) o risulta da sentenza definitiva che i coniugi non hanno convissuto negli ultimi 300 giorni, il tribunale può autorizzare la celebrazione (art. 89). – I vizi del volere (art. 122). È causa di invalidità del matrimonio la violenza morale esercitata contro un coniuge. Essa consiste nella minaccia da chiunque effettuata al fine di indurlo a sposarsi, ad es. la minaccia di percosse, di querela per violenza carnale e così via. È altresì causa di invalidità il timore di eccezionale gravità. A differenza della violenza morale, che deriva sempre da una minaccia altrui, il timore è sentito spontaneamente dal coniuge. Per la legge è rilevante solo quello derivante da cause esterne agli sposi (e quindi non dal temperamento, dalle idee personali, o dalle fissazioni di uno degli sposi, ma da ragioni obiettive che suscitano tale timore, ad es., la minaccia di suicidio della donna può indurre l’uomo a sposarla, oppure questi può essere spinto alle nozze considerando il carattere particolarmente sanguigno e … vendicativo del futuro suocero). In entrambi i casi può impugnare il matrimonio solo il coniuge che ha subito la minaccia o ha patito il timore. Si ha decadenza se la coabitazione si protrae per un anno dopo la cessazione di tali fatti. L’errore sulla identità della persona dell’altro coniuge rende invalido il matrimonio. Lo scambio di persona è, ovviamente, assai raro, (potrebbe accadere più facilmente nel c.d. matrimonio per procura) e non va confuso con il matrimonio sotto falso nome, quando la persona sposata è effettivamente quella voluta (in tale ipotesi il matrimonio è valido e tutt’al più sarà oggetto di rettifica l’atto di matrimonio). L’errore sulle qualità personali dell’altro coniuge è rilevante ai fini della invalidità del matrimonio solo se è essenziale, cioè se è determinante del
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consenso (il coniuge non si sarebbe sposato se avesse conosciuto la verità) e in particolare riguarda uno dei seguenti fatti: a) l’esistenza di una malattia fisica o psichica, anomalia o deviazione sessuale che impediscono la normale vita matrimoniale; b) l’esistenza di condanna penale per delitto (ad almeno cinque anni di reclusione), la dichiarazione di delinquenza abituale, la condanna per delitti concernenti la prostituzione (ad almeno due anni di reclusione); c) l’esistenza al momento delle nozze di uno stato di gravidanza in seguito ai rapporti con altro uomo diverso dal marito, purché, in caso di nascita di un figlio, vi sia anche il disconoscimento di paternità (da parte del marito). L’azione spetta solo al coniuge caduto in errore il quale decade dopo un anno di coabitazione dalla scoperta dell’errore. – La simulazione del matrimonio (art. 123). La legge configura tale vizio allorquando i coniugi, pur volendosi effettivamente sposare, abbiano convenuto di non esercitare i diritti o di non adempiere gli obblighi derivanti dal matrimonio. L’impugnazione spetta a ciascuno di loro, ma è fissata, questa volta, una duplice decadenza: il matrimonio non è più annullabile se è trascorso un anno dalla celebrazione delle nozze ovvero se gli sposi hanno convissuto come coniugi, anche per un breve periodo.
7. La celebrazione del matrimonio. Benché sia in uso l’espressione “contrarre matrimonio” il matrimonio non è un contratto anche se ha effetti patrimoniali oltre a quelli personali. È piuttosto un atto di natura complessa che implica una volontà privata, ma anche l’intervento di un pubblico ufficiale quasi a rappresentare l’interesse della comunità. Affinché vi sia un matrimonio è fondamentale la celebrazione nella quale interviene l’ufficiale di stato civile, cioè il sindaco o persona da lui delegata. Se manca la celebrazione si ha un caso di inesistenza del matrimonio. L’atto che il celebrante, come pubblico ufficiale, redige immediatamente dopo la cerimonia ha valore di prova della celebrazione. L’importanza data dalla legge alla celebrazione delle nozze si giustifica per la rilevanza sociale del matrimonio dal quale scaturiscono numerosi effetti giuridici non solo nei rapporti fra gli sposi ma anche nei confronti dei figli e dell’intera società.
§ 7. La celebrazione del matrimonio
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La presenza di un interesse della collettività è dimostrato dal fatto che l’ufficiale celebrante e i coniugi sono puniti dalla legge (sia pure lievemente) se infrangono talune regole: ad es. se il matrimonio viene celebrato senza pubblicazioni o se la pubblicazione avviene senza i documenti necessari, se il matrimonio viene celebrato conoscendo taluni impedimenti, se il pubblico ufficiale è incompetente o se celebra senza testimoni (la loro assenza, tuttavia, non determina nullità) oppure qualora sia violato il divieto temporaneo di nuove nozze (art. 134 ss.).
Il luogo della celebrazione del matrimonio civile è, di norma, la casa comunale nel luogo dove fu fatta la richiesta di pubblicazioni (in tal caso l’ufficiale compila l’atto di matrimonio immediatamente dopo la celebrazione e lo iscrive nel registro dei matrimoni che è uno dei registri di stato civile). In caso di necessità o convenienza di celebrare in un comune diverso l’ufficiale di cui sopra dovrà richiedere all’ufficiale competente che effettui la celebrazione. Questi, dopo la celebrazione compila l’atto di matrimonio, ma nel giorno successivo dovrà inviare all’ufficiale richiedente copia autentica di tale atto affinché questa venga trascritta nel registro del luogo della pubblicazione. In caso di impedimento giustificato di uno degli sposi, impossibilitato a recarsi in municipio, si sposterà l’ufficiale di stato civile, accompagnato dal segretario (ma si richiedono quattro testimoni anziché due, art. 110).
È ammesso il matrimonio per procura per i militari e i civili al seguito delle forze armate in tempo di guerra ovvero qualora uno sposo risieda all’estero e, concorrendovi gravi motivi, sussista l’autorizzazione del tribunale (art. 111). La procura richiede la forma dell’atto pubblico ed è valida solo per 180 giorni; essa deve contenere fin dall’inizio l’indicazione della persona dell’altro sposo. Poiché non resta altro spazio al rappresentante se non quello di riportare, al momento della celebrazione, una volontà altrui già completa, egli deve essere qualificato come un mero nuncius o messaggero e non come un rappresentante in senso proprio. L’atto di celebrazione è essenzialmente orale. L’ufficiale di stato civile, in presenza di due testimoni, dà lettura agli sposi degli artt. 143 (diritti e doveri dei coniugi), 144 (indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia) e 147 c.c. (doveri verso i figli) e riceve da ciascuno personalmente, uno dopo l’altro, la dichiarazione di volersi prendere, rispettivamente, per marito e moglie, infine dichiara che i due sono uniti in matrimonio.
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La volontà degli sposi non può essere sottoposta a termine o a condizione. In tal caso mancherebbe quel consenso “puro” che la legge richiede e il celebrante dovrebbe sospendere la cerimonia (ma se il matrimonio fosse ugualmente celebrato il termine e la condizione si avrebbero per non apposti). In questo atto complesso in cui concorrono gli sposi e il pubblico ufficiale sta l’essenza della celebrazione, che è requisito per l’esistenza del matrimonio. Pertanto se vi è uguaglianza di sesso (e quindi non vi è luogo alla distinzione fra marito e moglie), oppure se è mancata la dichiarazione del consenso da parte di uno degli sposi, o non vi è stata affatto la celebrazione, o non era presente un pubblico ufficiale si ha la inesistenza del matrimonio. Per venire incontro alla buona fede dei cittadini, tuttavia, la legge considera valido anche il matrimonio celebrato davanti a chi esercitava apparentemente in pubblico funzioni di ufficiale di stato civile senza averne le qualità (c.d. pubblico ufficiale apparente), purché nessuno degli sposi conoscesse tale difetto al momento delle nozze e quindi fossero entrambi in buona fede (art. 113).
L’atto di matrimonio è un documento scritto, compilato immediatamente dopo la celebrazione dall’ufficiale di stato civile (è atto pubblico) e fatto sottoscrivere dagli sposi e dai testimoni. Esso non va confuso, pertanto, con l’atto di celebrazione. L’atto di matrimonio viene iscritto nel registro dei matrimoni ed è fondamentale ai fini della prova (della celebrazione) del matrimonio. Infatti, per reclamare il titolo di coniuge è necessario, in via generale, l’atto di matrimonio estratto dai registri di stato civile (art. 130). Il possesso di stato di coniuge, cioè il fatto di avere vissuto come coniuge (non soltanto di avere convissuto) per un certo tempo non dispensa dalla necessità di portare l’atto di matrimonio come prova. Tuttavia, se tale possesso è conforme all’atto di matrimonio sana ogni difetto di forma (art. 131). Di regola l’atto di matrimonio costituisce prova esclusiva dello stato di coniuge ma non è l’unica prova ammessa dalla legge qualora ricorrano casi particolari: – in caso di smarrimento o distruzione dei registri di stato civile è consentita la prova con ogni mezzo della celebrazione e quindi della esistenza del matrimonio (art. 1321); – qualora vi siano indizi che l’ufficiale di stato civile, per causa di forza maggiore ovvero con colpa o dolo non ha registrato l’atto, chi ha il possesso di stato di coniuge può dare con ogni mezzo la prova della celebrazione (art. 1322); – una prova del matrimonio, infine, potrebbe derivare indirettamente da una
§ 8. Gli effetti del matrimonio: diritti e doveri
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sentenza penale che accerta il fatto in relazione ad un reato; la legge consente che tale sentenza venga iscritta nel registro di stato civile e ciò consentirà al matrimonio di produrre tutti i suoi effetti sin dal momento della celebrazione (art. 133).
8. Gli effetti del matrimonio: diritti e doveri. Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. L’art. 143 ribadisce il principio di parità, già sancito dall’art. 29 Cost., relativamente agli obblighi personali e patrimoniali che nascono dal matrimonio. Possiamo articolare tali doveri in cinque punti distinti: 1. doveri di fedeltà; 2. di assistenza morale e materiale e di collaborazione nell’interesse della famiglia; 3. di coabitazione; 4. di contribuzione ai bisogni della famiglia, cui ciascuno dei coniugi è tenuto in proporzione alle proprie sostanze e alla capacità di lavoro professionale e casalingo; 5. doveri verso i figli, di mantenimento, istruzione, educazione ed assistenza morale, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni. Come l’obbligo di contribuzione anche quello di mantenimento è commisurato alle sostanze e alla capacità di lavoro professionale e casalingo di ciascuno ed è un dovere reciproco dei coniugi tra loro, oltre che verso la prole. La moglie aggiunge al proprio il cognome del marito, che conserva anche nello stato vedovile. Va segnalata la nuova norma che regola il cognome del figlio, in vigore da gennaio 2014, ispirata al principio di parità e adottata in attuazione di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, secondo cui il figlio assume il cognome del padre, ovvero, in caso di accordo tra i genitori risultante dalla dichiarazione di nascita, quello della madre o quello di entrambi i genitori. Il governo della famiglia spetta ad entrambi secondo il principio di parità: l’indirizzo della vita familiare è concordato fra i coniugi e la residenza della famiglia è fissata di comune accordo, secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia (art. 144).
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In caso di disaccordo dei coniugi l’art. 145 prevede la possibilità di invocare in modo informale l’intervento del giudice il quale, sentiti anche i figli maggiori di sedici anni, tenta di raggiungere un accordo. Altro il giudice non può fare, sovrapponendosi alla volontà dei coniugi. Perciò, se il contrasto permane, si potrà arrivare alla separazione personale, se uno dei coniugi la richiede. Se la controversia riguarda la fissazione della residenza o altri affari essenziali è prevista una sorta di arbitrato familiare, ma solo se il giudice è richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi: in tal caso egli può dare la soluzione più adeguata per l’unità e la vita della famiglia attraverso un provvedimento non impugnabile (art. 1452). Diversa è la regola in vigore quando il disaccordo concerne l’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli, con il rischio che essi ne subiscano pregiudizio; il modo seguito dalla legge conduce a risolvere necessariamente il contrasto, nell’interesse della prole, pur senza che il giudice si intrometta nella decisione (v. infra, Cap. 23, par. 2).
9. La dichiarazione di nullità del matrimonio e il matrimonio putativo. Se vi è stata la celebrazione delle nozze fra persone di sesso diverso il matrimonio esiste e produce i suoi effetti anche se vi è una grave causa di invalidità come quella che deriva, ad es., da un vincolo di parentela non dispensabile. Perciò, qualunque sia il vizio del matrimonio esso rende il matrimonio invalido e quindi impugnabile, ma non inefficace. La distinzione molto netta che segna le due forme di invalidità del contratto, la nullità e l’annullabilità, perde di rilevanza in tema di matrimonio, dove le due espressioni assumono lo stesso significato. La stessa legge parla indifferentemente di “nullità” (ad es. nella sez. VI, art. 117 ss.) e di “dichiarazione di nullità” del matrimonio (ad es. nell’art. 102), ma anche di “annullamento” (ad es. nell’art. 89) senza sostanziale differenza e cioè facendo sempre riferimento alla esigenza che vi sia una impugnazione, cioè una domanda e, di conseguenza, una sentenza che, accertando l’esistenza del vizio di origine, toglie efficacia all’atto. Al di là di tale meccanismo è chiaro che restano sensibili differenze fra i vari vizi, a seconda che siano sanabili o insanabili, soggetti a decadenza o meno, soggetti ad impugnazione assoluta o relativa, ecc. A tale proposito vanno ricordate due regole generali: la legittimazione ad impugnare del pubblico ministero cessa quando uno dei due coniugi muore (art. 125); l’azione per impugnare non si trasmette agli eredi se non quando il giudizio è già pendente alla morte dell’attore (art. 127).
§ 9. La dichiarazione di nullità del matrimonio e il matrimonio putativo
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La dichiarazione di nullità del matrimonio opera in modo retroattivo cancellandone gli effetti sin dall’inizio. La retroattività dell’annullamento porterebbe gravi conseguenze sia nei confronti dei coniugi sia nei confronti dei figli, perciò la legge, con norme di favore per tali categorie di soggetti, ha cercato di salvare gli effetti prodotti dal matrimonio fino alla sentenza di nullità nei seguenti casi: a) matrimonio putativo (art. 128). Si dice putativo il matrimonio dichiarato nullo (per qualsiasi vizio) se è stato contratto, da uno o da entrambi i coniugi, in buona fede e cioè ignorando l’esistenza del vizio che fu causa di nullità. Ad esso viene equiparato il matrimonio quasi putativo, cioè quello che un coniuge è stato indotto a celebrare mediante violenza o a causa di un timore di eccezionale gravità (in questo caso il coniuge non può avere ignorato il vizio, ma la sua condizione viene parificata alla buona fede). Effetti per i coniugi. Se il matrimonio è putativo (o quasi putativo) sono fatti salvi tutti gli effetti a favore del coniuge in buona fede. Ciò significa che il coniuge putativo (possono essere entrambi putativi) succede come coniuge alla morte dell’altro, anche se dopo l’apertura della successione il matrimonio è stato dichiarato nullo (viene meno la retroattività dell’annullamento). Se però muore un bigamo e successivamente il suo matrimonio viene dichiarato nullo, il coniuge, superstite del secondo matrimonio (ancorché al tempo delle nozze fosse in buona fede e quindi sia coniuge putativo), non ha diritto di succedere come coniuge se alla morte del bigamo è ancora in vita il coniuge del primo matrimonio. Infatti la moglie o il marito del primo matrimonio, quello valido, prevalgono sul secondo coniuge nella successione del bigamo (art. 584).
In caso di annullamento del matrimonio, qualora un coniuge di buona fede non goda di adeguati redditi propri (tali da consentirgli di mantenere il tenore di vita di cui godeva prima), il giudice può disporre a carico dell’altro coniuge (pure in buona fede, se il matrimonio è putativo per entrambi) il pagamento di somme periodiche, cioè un assegno di mantenimento, al massimo triennale, proporzionato alle sostanze dell’obbligato. Qualora al coniuge di mala fede sia imputabile la nullità del matrimonio, cioè la causa sia riconducibile ad un suo comportamento consapevole e volontario (ad es. minacce per costringere l’altro a sposarsi, compimento di reati concernenti la prosti-
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tuzione da parte di un coniuge che poi si sposa senza render noti all’altro coniuge tali fatti) l’altro coniuge di buona fede ha diritto ad una indennità, anche se ha redditi propri e se non dà prova di avere sofferto un danno in conseguenza dell’annullamento. L’indennità deve essere congrua rispetto al tenore di vita matrimoniale e deve comunque comprendere, al minimo, il mantenimento per tre anni. Se la nullità è imputabile ad una terza persona questa è tenuta a corrispondere al coniuge in buona fede la stessa indennità di mantenimento di cui sopra. Ricordiamo che il coniuge in mala fede, dopo la dichiarazione di nullità, è obbligato in via sussidiaria anche agli alimenti, dopo gli altri obbligati, se il coniuge in buona fede si viene a trovare in stato di bisogno (art. 129 bis).
Effetti per i figli. Il matrimonio (putativo) dichiarato nullo ha gli stessi effetti del matrimonio valido rispetto ai figli. b) matrimonio invalido non putativo. Ciò significa che i coniugi erano entrambi in mala fede al tempo del matrimonio. Perciò con la dichiarazione di nullità essi perdono retroattivamente gli effetti vantaggiosi del matrimonio prodotti nei loro confronti: ad es. il coniuge superstite, se il matrimonio viene dichiarato nullo dopo l’apertura della successione, perde retroattivamente l’eredità dell’altro coniuge. Quanto ai figli (sempre nel caso di matrimonio invalido non putativo) si producono gli effetti del matrimonio valido, eccettuata l’ipotesi in cui sia stata dichiarata la nullità per incesto. In tal caso essi non acquistano lo stato di figli se non dopo l’autorizzazione del giudice volta ad evitare al figlio qualsiasi pregiudizio. La legge della Riforma rinvia all’art. 251 in tema di riconoscimento dei figli incestuosi, ma nel caso di specie non sembra necessario un ulteriore riconoscimento del figlio, dato che questi era iscritto come figlio di due persone sposate. Il fatto della procreazione risulta acquisito agli atti dello stato civile, perciò lo stato di figlio si dovrebbe acquistare automaticamente nei confronti del padre e della madre, una volta che sia stata data l’autorizzazione dal giudice (alla produzione degli effetti giuridici dell’accertamento precedente).
In definitiva, per l’acquisto dello stato di figlio nato dal matrimonio, basta che vi sia stato un matrimonio, anche se invalido e non putativo, ancorché questo, poi, sia stato impugnato.
§ 10. L’allontanamento e la separazione personale dei coniugi
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10. L’allontanamento e la separazione personale dei coniugi. Prima di giungere alla separazione dei coniugi la legge regola l’allontanamento dalla residenza familiare, con un istituto che mira, sostanzialmente, a far riprendere la coabitazione interrotta. Qualora un coniuge si allontani senza giusta causa dalla residenza familiare e rifiuti di tornarvi è sospeso il diritto alla assistenza morale e materiale previsto dall’art. 143. Vi può essere giusta causa quando un coniuge subisce un torto rispetto al quale l’allontanamento costituisce una risposta proporzionata. La legge considera inoltre giusta causa “tipica” di allontanamento anche la proposizione di alcune domande giudiziali, come quella di separazione, annullamento, divorzio, perché testimoniano il venir meno di quella comunione spirituale su cui si fonda la convivenza coniugale (art. 146). La separazione di fatto può essere decisa d’accordo tra i coniugi o può derivare da un allontanamento per giusta causa consolidato nel tempo. Essa tuttavia non ha rilevanza giuridica, nel senso che non mutano i diritti e i doveri dei coniugi se non per ciò che concerne la coabitazione. Tuttavia può avere influenza indiretta su altri istituti: se vi è separazione di fatto viene meno un requisito per la adozione dei minori di età (art. 6, l. n. 184 del 1983). La separazione legale è l’unica idonea a produrre effetti giuridici diretti, che modificano i rapporti fra i coniugi. Un provvedimento antecedente alla separazione consiste nella autorizzazione a vivere separati nelle more del giudizio: può esser concessa dal Presidente del tribunale fin dal giorno della comparizione dei coniugi, dopo la domanda di separazione e da tale provvedimento decorrono i termini ai fini di una eventuale domanda di divorzio. La separazione legale si può ottenere nei due modi tradizionali: a) La separazione giudiziale. È pronunciata dal giudice con sentenza su domanda di uno od entrambi i coniugi, a causa di fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio alla educazione della prole. Può essere chiesta senza addebito (se non vi è colpa dell’altro coniuge) ovvero con addebito, se la causa della separazione si fonda sul comportamento dell’altro coniuge contrario ai doveri che derivano dal matrimonio (ad es. una infedeltà grave). Affinché il giudice accerti tale aspetto occorre che, nella domanda di separazione, uno dei coniugi chieda espressamente l’addebito (salvo l’onere di provare l’effettiva violazione dei doveri matrimoniali).
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L’addebito pronunziato a carico di un coniuge ha effetti gravi, perché lo priva del diritto al mantenimento (art. 156) e dei diritti successori nei confronti dell’altro coniuge, eccetto il diritto ad un assegno vitalizio se all’apertura della successione godeva degli alimenti (art. 548). La disciplina dei provvedimenti connessi alla separazione giudiziale per quanto concerne i figli, non è stata sostanzialmente modificata dalla Riforma, nelle sue linee essenziali, ma è stata unificata sotto il Capo II del Titolo IX, dedicato all’esercizio della responsabilità genitoriale, applicabile quindi a tutti i casi di cessazione della convivenza, matrimoniale (anche per annullamento del matrimonio o divorzio) o non matrimoniale (v. infra, Cap. 23, par. 5). I provvedimenti connessi alla separazione giudiziale per quanto concerne i coniugi, sono significativi (art. 156): – in seguito alla separazione giudiziale il giudice può assegnare il diritto al mantenimento al coniuge che non abbia adeguati redditi propri (che gli consentano di mantenere lo stesso tenore di vita della convivenza precedente) purché la separazione non sia stata addebitata a suo carico. La misura del mantenimento può variare secondo le circostanze della separazione ed i redditi dell’obbligato. La sentenza di separazione può imporre una garanzia all’obbligato ed è titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui suoi beni; nel caso di inadempienza è possibile chiedere un sequestro e una ingiunzione a terzi, debitori di stipendi o altre somme periodiche verso il coniuge inadempiente, affinché corrispondano (al suo posto) le somme dovute. – Il giudice può vietare alla moglie l’uso del cognome del marito o autorizzarla a non usarlo in caso di pregiudizio, rispettivamente, per l’uno o per l’altra (art. 156 bis). Lo stato di separazione giudiziale può cessare con la riconciliazione, che consiste in una dichiarazione espressa o in un comportamento non equivoco dei coniugi, incompatibile con lo stato di separazione. A tale proposito la Cassazione ha deciso (n. 19497 del 2005) che non basta il ripristino della convivenza per un “tentativo” di conciliazione, ma è necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali caratteristici della vita coniugale. Se interviene una riconciliazione durante la causa di separazione, essa importa abbandono della domanda (art. 154); se invece avviene dopo la sentenza di separazione, essa pone fine al regime di separazione ed ha un effetto sanante rispetto al passato, in quanto solo fatti nuovi possono giustificare una nuova domanda di separazione (art. 157).
b) La separazione consensuale, che si fonda su un accordo dei coniugi. Diversamente da ciò che avviene nella separazione di fatto, questo accordo viene presentato al tribunale con la richiesta di omologazione. I coniugi vengono convocati e sentiti dal giudice. Questi controlla i termini dell’accordo relativi all’affidamento dei figli e al mantenimento. Se ritiene tali accordi pregiudizievoli ai figli può riconvocare i coniugi per le modifiche ne-
§ 10. L’allontanamento e la separazione personale dei coniugi
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cessarie ed anche rifiutare l’omologazione (art. 158). La concessione della omologazione equivale perciò ad una approvazione ufficiale degli accordi dei coniugi e dà valore legale alla separazione. Una recente riforma del 2014, destinata a sollevare il carico di lavoro dei tribunali e a sveltire il procedimento, ha introdotto altre due modalità; c) La negoziazione assistita, condotta da almeno un avvocato per parte, che porta alla sottoscrizione di un accordo dei coniugi. Esso diventa efficace con il nulla osta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale competente, ma se vi sono figli minori, maggiorenni non autosufficienti, o affetti da un grave handicap, l’accordo deve essere autorizzato dallo stesso Procuratore della Repubblica in quanto non pregiudichi l’interesse dei figli. d) La dichiarazione di separazione personale fatta congiuntamente dai coniugi davanti al Sindaco, quale Ufficiale di Stato civile, se non vi sono figli minori, maggiorenni non autosufficienti o affetti da grave handicap, e con l’esclusione di ogni patto contenente trasferimenti patrimoniali. In ogni caso va svolto un tentativo preliminare di conciliazione sia da parte del giudice nei procedimenti tradizionali, sia degli avvocati, nella negoziazione assistita. Quanto al Sindaco deve riconvocare i coniugi dopo un mese perché confermino la volontà dell’accordo e solo successivamente lo trascrive nei registri di Stato Civile. Gli effetti principali della separazione legale sono i seguenti: – cessano gli obblighi di coabitazione, di assistenza morale e materiale e di fedeltà, pur restando il dovere di comportarsi in modo da non offendere gravemente l’altro coniuge; – dopo 300 giorni dalla pronuncia della separazione giudiziale o dalla omologazione della separazione consensuale o dall’autorizzazione a vivere separati non opera la presunzione di concepimento durante il matrimonio (art. 2322). Se il figlio nasce dopo 300 giorni da tali fatti, pertanto, non opera la presunzione di concepimento durante il matrimonio e quindi il figlio non acquista automaticamente lo stato di figlio di entrambi i coniugi. Ciascuno dei coniugi, tuttavia, può provare che il concepimento è avvenuto durante il matrimonio (e quindi che
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la gravidanza è stata eccezionalmente lunga, più di 300 giorni). Se si può provare, altresì, che il concepimento è avvenuto durante la convivenza successiva alla separazione (ancorché breve ed occasionale, non sufficiente a produrre una riconciliazione) ciascun genitore può esercitare una azione di accertamento positivo della filiazione nei confronti dell’altro (facendo nominare al figlio, che è litisconsorte necessario, un curatore speciale che lo rappresenti). E il figlio, da parte sua, può proporre azione per reclamare lo stato di figlio nei confronti di entrambi i genitori.
11. Lo scioglimento del matrimonio. Il matrimonio si scioglie soltanto con la morte di un coniuge o con il divorzio. Quest’ultima espressione, più diffusa, ma meno tecnica, comprende in realtà due ipotesi: la dichiarazione di scioglimento del matrimonio civile e la dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. La legge sul divorzio (n. 898 del 1970), alla quale si riferiscono gli articoli citati di seguito, è una delle leggi complementari collegate al codice civile. Come si è già accennato, il matrimonio canonico è atto regolato dal diritto della Chiesa e, in quanto tale, non può essere sciolto dal giudice civile. Questi si limita a pronunciare la cessazione degli effetti civili che si erano prodotti in seguito alla trascrizione.
La legge afferma solennemente che il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione, accerta che è venuta meno la comunione spirituale e materiale tra il i coniugi (art. 1). In realtà il divorzio può essere chiesto da un coniuge in giudizio solo se sussistono determinati fatti che sono considerati presupposti esclusivi (art. 3) e cioè: 1. condanne penali dell’altro coniuge di particolare gravità (ergastolo o pena superiore a 15 anni); o per particolari reati (incesto, violenza sessuale, induzione o sfruttamento della prostituzione; omicidio o tentato omicidio o lesioni aggravate a carico del coniuge o di un figlio, anche se vi è stata assoluzione per vizio di mente totale o se il reato è estinto, ma ne sussistono gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità); 2. separazione legale, da almeno un anno dal giorno della comparizione davanti al presidente del tribunale se si è trattato di separazione giudiziale,
§ 11. Lo scioglimento del matrimonio
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oppure da almeno sei mesi negli altri casi (s. consensuale, s. assistita o s. dichiarata al Sindaco); i termini accorciati dalla legge del 2014, rispetto ai tre anni richiesti in precedenza, come è noto, hanno fatto parlare di “divorzio breve”; 3. se l’altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all’estero l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all’estero nuovo matrimonio; 4. se il matrimonio non è stato consumato; 5. se è passata in giudicato sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso (c.d. mutamento di sesso). Le procedure per ottenere il divorzio sono tre. Rimane quello tradizionale, cioè la domanda giudiziale di divorzio, che si propone al tribunale del luogo dell’ultima residenza in comune dei coniugi, ovvero, in mancanza, nel luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio (art. 4). Il presidente del tribunale convoca i coniugi per il tentativo di conciliazione e, se questa non riesce, previa adozione dei provvedimenti temporanei e urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole, il procedimento contenzioso prosegue davanti al giudice istruttore e si conclude con una sentenza del tribunale. Tutto è più facile e più rapido se non vi è conflitto ed esiste un ricorso congiunto dei coniugi (proposto avanti il Tribunale in camera di consiglio), che chiedono insieme il divorzio e hanno già regolato fra loro le condizioni patrimoniali e quelle relative alla prole (art. 416). Tuttavia se il Tribunale ravvisa che le condizioni pattuite relative ai figli sono contrarie ai loro interessi può prendere i provvedimenti temporanei e urgenti che ritiene opportuni e si apre la procedura davanti al Giudice Istruttore.
Anche per il divorzio come per la separazione personale la legge del 2014 ha introdotto due strumenti più agevoli che hanno indotto i media a parlare di divorzio facile, e cioè: la negoziazione assistita, condotta da almeno un avvocato per parte, con un procedimento simmetrico a quello già descritto per la separazione (a seconda della assenza o presenza di figli minori, non autosufficienti o con handicap, basta un nulla osta o si richiede l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica) e l’accordo di divorzio dichiarato davanti al Sindaco (il quale, ricevuta la richiesta, deve riconvocare i coniugi dopo un mese), anche qui se non vi sono figli minori o incapaci e non sono ammessi patti di trasferimenti patrimoniali. Per effetto del divorzio il matrimonio è sciolto, cessano i doveri e diritti reciproci che nascevano dal matrimonio e ciascuno dei coniugi può con-
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trarre nuove nozze. La moglie perde il cognome del marito, ma può essere autorizzata ad usarlo ancora se vi è un interesse meritevole suo o dei figli (art. 52). Il tribunale può disporre l’obbligo a carico di un coniuge di corrispondere un assegno di divorzio al fine di assicurare il mantenimento a favore dell’altro se questi non ha mezzi adeguati o non può procurarseli per ragioni oggettive (art. 56). La misura di tale assegno dipende da diversi parametri: le condizioni del coniuge, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi, la durata del matrimonio. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell’assegno agli indici di svalutazione monetaria. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in una unica soluzione se ritenuta equa dal tribunale, in tal caso non si può porre alcuna successiva domanda di contenuto economico. Con una recente sentenza (n. 11504 del 2017) la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che, essendo estinto il rapporto tra i coniugi divorziati (sia sul piano personale che su quello economico-patrimoniale) si debba guardare all’indipendenza economica di chi richiede l’assegno divorzile, data dal possesso di redditi e di patrimonio mobiliare ed immobiliare, nonché alla capacità e possibilità effettiva di lavoro personale e alla disponibilità stabile di una abitazione, superando il vecchio orientamento che moveva principalmente dalla considerazione del tenore di vita goduto durante al matrimonio. Particolarmente efficaci gli strumenti a disposizione del coniuge che ha diritto all’assegno: può chiedere al tribunale di imporre idonea garanzia, reale o personale, all’obbligato, se questi è inadempiente può notificare l’invito a corrispondere l’assegno a terzi debitori di stipendi o di altre somme periodiche nei confronti del coniuge obbligato ed ha addirittura azione esecutiva anche nei confronti di tali terzi se questi sono inadempienti all’invito (art. 8). Se muore il coniuge obbligato a prestare l’assegno di divorzio, anche in presenza di un nuovo coniuge superstite, il coniuge divorziato può avere diritto ad una quota della pensione di reversibilità (per il trattamento pensionistico anteriore al divorzio) tenuto conto della durata del rapporto coniugale (art. 9). Ne ha diritto, a maggior ragione, se manca un secondo coniuge superstite. Dopo il decesso del coniuge obbligato, al coniuge titolare di assegno di divorzio, qualora si trovi in stato di bisogno, spetta un assegno alimentare a carico dell’eredità (art. 9 bis, eccetto il caso che vi sia stato adempimento degli obblighi patrimoniali in un’unica soluzione). Spetta infine al titolare dell’assegno di divorzio una percentuale dell’indennità di fine rapporto (c.d. liquidazione) percepita dall’altro coniuge (anche se viene a maturare dopo la sentenza di divorzio) pari al 40% della indennità riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio (art. 12 bis).
§ 11. Lo scioglimento del matrimonio
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Il coniuge che ha diritto all’assegno di divorzio perde tutti questi diritti se passa a nuove nozze. Secondo una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 6855 del 2015) li perde in modo irreversibile anche se egli si crea una nuova famiglia di fatto, dovendosi assumere, coerentemente, ogni rischio derivante dalla nuova comunione di vita.
Verso i figli restano fermi, ovviamente, i doveri di genitore, anche in presenza di nuove nozze (mantenimento, istruzione, educazione, assistenza morale). L’affidamento dei figli minori viene deciso dal giudice secondo le regole del Capo II, Titolo IX a cui si fa rinvio (Cap. 23, par. 5).
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Cap. 21. Il regime patrimoniale della famiglia
CAPITOLO 21
IL REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA
Sommario: 1. Le convenzioni matrimoniali. – 2. Il regime patrimoniale del matrimonio: a) la separazione dei beni. – 3. Segue: b) la comunione legale. – 4. Amministrazione e responsabilità patrimoniale della comunione. – 5. Lo scioglimento della comunione. – 6. I regimi opzionali: fondo patrimoniale e comunione convenzionale. – 7. L’impresa familiare.
1. Le convenzioni matrimoniali. La norma fondamentale che disciplina i rapporti patrimoniali tra i coniugi è dettata dall’art. 1433: entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia. È questo il cosiddetto regime primario perché prescinde da ogni scelta dei coniugi e stabilisce la misura dei diritti e degli obblighi reciproci. A questi diritti e obblighi i coniugi non possono derogare (art. 160) decidendo, ad es., che la famiglia sarà sostenuta solo ad opera del marito, senza gravare sulla moglie. Tale convenzione non sarebbe valida. Nel rispetto del principio ora accennato, i coniugi possono concludere dei patti che regolano in concreto i loro rapporti patrimoniali, enunciandone specificamente il contenuto. Tali convenzioni matrimoniali, che richiedono la forma dell’atto pubblico sotto pena di nullità (art. 162), possono essere opposte ai terzi solo se risultano annotate a margine dell’atto di matrimonio (in realtà si annota la data dell’atto, il nome del notaio rogante e le generalità dei contraenti, ma dall’annotazione non risulta il contenuto, che dovrà essere accertato dal terzo richiedendo al notaio copia dell’atto pubblico in questione). Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, prima o dopo le nozze, e vi possono partecipare anche dei terzi che conferiscono la pro-
§ 1. Le convenzioni matrimoniali
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prietà o il godimento di propri beni. Se si tratta di beni immobili la convenzione va anche trascritta nei registri immobiliari (art. 2643 ss.). L’unica scelta che le parti possono compiere durante la celebrazione è quella del regime di separazione dei beni, per la estrema semplicità di tale dichiarazione. Tale volontà verrà riportata nell’atto stesso di matrimonio, che viene redatto dopo la cerimonia e quindi viene iscritto nel registro dei matrimoni (dopo di che il regime scelto è già opponibile ai terzi senza bisogno di ulteriori annotazioni). Le modifiche delle convenzioni matrimoniali stipulate prima o dopo le nozze sono consentite purché tali ulteriori convenzioni abbiano la forma dell’atto pubblico e vi partecipino tutti coloro che furono parti dell’atto da modificare (art. 163); potrebbero esserci, ad es., dei terzi che hanno destinato dei beni a favore della famiglia nel fondo patrimoniale. Anche gli estremi di tali atti modificativi devono essere annotati a margine dell’atto di matrimonio se si vuole renderli opponibili ai terzi, ed eventualmente trascritti nei registri immobiliari. Ciò è detto chiaramente negli artt. 162 e 163. La legge non è altrettanto chiara circa gli effetti della annotazione (disposta dall’art. 69 ord. st. civ.) di altri fatti che sarebbero pure modificativi del regime patrimoniale, come, ad es. la separazione personale dei coniugi e la eventuale riconciliazione, il fallimento di uno di essi o la dichiarazione di assenza. La capacità necessaria per stipulare validamente le convenzioni matrimoniali si acquista con la maggiore età o con l’autorizzazione a contrarre matrimonio prima dei 18 anni (habilis ad nuptias habilis ad pacta nuptialia), purché il minore sia assistito dai suoi legali rappresentanti (genitori o tutore) o da un curatore nominato appositamente dal giudice (art. 165). Tale intervento è affatto singolare (si parla di “assistenza” e non di “rappresentanza”) perché, come si sa, la funzione dei genitori e del tutore normalmente è quella di rappresentare cioè di sostituire l’incapace. Qui, invece, essi assistono cioè devono dare un ulteriore consenso, oltre a quello del minore, integrando la volontà del soggetto parzialmente capace. L’inabilitato può sposarsi, ma può stipulare convenzioni matrimoniali e può inserire in queste una donazione, o, in genere, atti di disposizione, solo con l’assistenza del curatore (art. 166). Divieto di dote (art. 166 bis). Per dote deve intendersi un bene conferito da un coniuge (o da altri per suo conto, ad es. i genitori o uno zio) all’altro coniuge ad sustinenda onera matrimonii, cioè per sostenere il peso del matrimonio. Ciò comporterebbe l’acquisto della proprietà esclusiva da parte dell’altro coniuge, facendo sorgere l’obbligo di restituzione al momento dello scioglimento del vincolo ma-
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Cap. 21. Il regime patrimoniale della famiglia
trimoniale. La legge ora vieta tale istituto, peraltro di origini assai antiche, perché esso attribuirebbe un privilegio che va contro il principio di parità dei coniugi.
2. Il regime patrimoniale del matrimonio: a) la separazione dei beni. Con il matrimonio, se non vi sono specifici atti di conferimento o di donazione risultanti da una convenzione matrimoniale, ciascuno dei coniugi conserva la titolarità e l’amministrazione esclusiva dei beni di cui era già proprietario in precedenza. Il problema del regime patrimoniale riguarda pertanto i beni e i diritti acquistati dopo le nozze. Anche per questi beni può darsi che i coniugi scelgano il regime della separazione, ma è necessario, in tal caso, il consenso di entrambi i coniugi, che si manifesta in una dichiarazione formale. Se i coniugi – prima, dopo, o durante le nozze – scelgono di comune accordo il regime di separazione dei beni, spetta a ciascuno la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio, nonché l’amministrazione e il godimento degli stessi a titolo personale (art. 215). Il regime patrimoniale primario, come sappiamo, fa nascere comunque gli obblighi di contribuzione ai bisogni della famiglia, ai quali ciascuno può adempiere fornendo, ad es., il denaro necessario per prendere in locazione una casa o direttamente facendo godere alla famiglia una abitazione di cui egli è proprietario e così via. Ciascuno conserva personalmente la titolarità esclusiva del bene, titolarità di cui può dare la prova con ogni mezzo. Il coniuge che gode dei beni dell’altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell’usufruttuario, ad es. anche a quella di non mutare la destinazione economica del bene (art. 218).
3. Segue: b) la comunione legale. Se manca una diversa scelta, nel silenzio delle parti, entra in vigore automaticamente il regime di comunione legale. Ciò significa che diventano di proprietà comune dei coniugi taluni beni o diritti acquistati dopo le nozze (art. 159). Vi potranno essere, pertanto, contemporaneamente, acquisti di beni personali e acquisti di beni comuni (o acquisti alla comunione). Possiamo descrivere il regime della comunione legale, quale risulta dagli artt. 177, 178 e 179, distinguendo tre regole fondamentali: a) nel regime ordinario diventano comuni per legge:
§ 3. Segue: b) la comunione legale
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– gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, esclusi i beni personali; – le aziende gestite da entrambi i coniugi, costituite dopo il matrimonio; – qualora si tratti di aziende costituite prima e appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio, ma gestite da entrambi successivamente alle nozze, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi e non l’intera azienda. In tutti questi casi l’acquisto alla comunione avviene automaticamente, anche se il fatto acquisitivo (ad es. il contratto di compravendita di un bene, mobile o immobile) viene compiuto da un solo coniuge e questi compra soltanto per sé. b) Nel regime di comunione de residuo rimangono beni personali di ciascun coniuge per tutta la durata della comunione: – i frutti dei beni propri di ciascuno, percepiti dai coniugi (frutti naturali, come i prodotti della campagna, o frutti civili, come il reddito di un bene dato in locazione); – i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi (ad es. lo stipendio, o il reddito professionale); – i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente; ma se rimane qualcosa dei beni appartenenti a queste categorie (cioè non sono stati spesi, consumati o ceduti) al momento dello scioglimento della comunione, il residuo cade in comunione. Dunque la comunione di tali beni dura un solo istante, in quanto si costituisce proprio nel momento in cui la comunione tra i coniugi si scioglie. In pratica ciò significa che i redditi personali di un coniuge, ad es., se sono stati risparmiati e accantonati sino al momento dello scioglimento della comunione (che non coincide con lo scioglimento del matrimonio) verranno divisi in due, e così i frutti dei beni personali e così via.
c) Non cadono mai in comunione e quindi restano soggetti al regime dei beni personali: – i beni di cui prima del matrimonio il coniuge era proprietario o titolare di un diritto reale di godimento; – i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione (se non specificamente attribuiti alla comunione dal donante o dal testatore);
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– i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge; – i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge; – i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione di invalidità; – i beni acquistati con i il prezzo della vendita di altri beni personali o con il loro scambio purché ciò sia espressamente dichiarato nell’atto di acquisto e, se si tratta di beni immobili o beni mobili registrati, partecipi all’atto anche l’altro coniuge.
4. Amministrazione e responsabilità patrimoniale della comunione. Con il susseguirsi degli acquisti a favore della comunione viene quindi a formarsi un patrimonio comune, che deve essere distinto dai singoli patrimoni personali, oltre che per la titolarità, anche per le regole di amministrazione (mentre l’amministrazione dei beni personali che sussistono accanto ai beni della comunione si svolge secondo le regole della separazione dei beni). L’amministrazione dei beni comuni spetta disgiuntamente ad entrambi i coniugi per gli atti di ordinaria amministrazione (art. 180). Anche la rappresentanza in giudizio è disgiunta. Spetta invece congiuntamente ai coniugi il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (ad es. vendere o ipotecare un bene) e di quelli con cui si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (ad es. dare in locazione un appartamento della comunione). Gli atti compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro e da questo non convalidati successivamente (art. 184): – sono annullabili, se riguardano beni immobili o mobili registrati (ad es. il marito vende un terreno della comunione); legittimato a proporre domanda è solo l’altro coniuge, entro un anno dal momento in cui ne ha conoscenza o comunque entro un anno dalla trascrizione; se questa non vi è stata l’anno decorre dallo scioglimento della comunione (si noti che è invalido l’intero atto cioè, nel nostro esempio, la vendita del terreno, e non solo quella parte che concerne la quota del coniuge non interpellato); – sono validi, se riguardano gli altri beni mobili (ad es. la moglie vende un quadro d’autore); ma il coniuge che li ha compiuti è obbligato, su richiesta dell’altro, a ricostituire la comunione (restituendo il bene) o se ciò è impossibile a reintegrarla pagando il valore corrente dello stesso.
§ 4. Amministrazione e responsabilità patrimoniale della comunione
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Se tali atti di amministrazione congiunta sono necessari per la famiglia (o per l’azienda comune), ma l’altro coniuge nega il consenso, si può chiedere al giudice l’autorizzazione a compierli ugualmente (art. 181). Così pure se un coniuge è lontano o impedito e l’altro non ha la procura (che gli consente di agire anche a nome del primo) può chiedere ugualmente l’autorizzazione a compiere gli atti in questione da solo (art. 182). Se un coniuge ha male amministrato può essere escluso dall’amministrazione dal giudice su richiesta dell’altro coniuge, ed è escluso di diritto dall’amministrazione se viene interdetto (art. 183). In tali casi prosegue il regime di comunione legale, ma con poteri concentrati su di un coniuge soltanto. Diversa ipotesi è prevista dalla legge quando l’interdizione, l’inabilitazione, la cattiva amministrazione e il disordine amministrativo di uno dei coniugi mettono in pericolo gli interessi della famiglia o quando da parte di un coniuge è violato l’obbligo di contribuzione. In tali casi l’altro coniuge può chiedere la separazione giudiziale dei beni, che viene instaurata con sentenza del giudice ed ha l’effetto di sciogliere la comunione (art. 193). Sotto il profilo della responsabilità patrimoniale verso i terzi si può dire che, in generale, non sussiste una vera e propria separazione dei patrimoni, o autonomia patrimoniale della comunione, ma soltanto una sussidiarietà, cioè una scansione temporale per far valere il proprio diritto da parte dei creditori. Sono creditori della comunione (o creditori coniugali) quelli che vantano i loro diritti per: – pesi ed oneri gravanti sui beni della comunione al momento dell’acquisto; – spese di amministrazione; – spese di mantenimento della famiglia; – ogni obbligazione contratta anche separatamente nell’interesse della famiglia; – ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi, benché estranea all’interesse della famiglia (ciò dimostra che non è un “patrimonio di destinazione”, cioè con una funzione specifica, ma è considerato solo come patrimonio comune dei coniugi). Questi creditori possono aggredire direttamente i beni comuni, se però il patrimonio della comunione non è sufficiente a soddisfare tali creditori
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vi è la responsabilità sussidiaria dei beni personali (art. 190), cioè gli stessi creditori potranno agire sui beni personali di ciascuno dei coniugi per la metà del credito che essi hanno verso la comunione. Sono invece creditori personali o creditori particolari dei singoli coniugi quelli che vantano diritti per: – debiti contratti dai singoli coniugi che non ricadono nell’elenco precedente; – debiti contratti dai singoli coniugi per esigenze della famiglia, ma con atti di straordinaria amministrazione compiuti senza il consenso dell’altro coniuge (e quindi impegnativi per uno solo, ad es., prendere in locazione una casa per la famiglia). I creditori personali (o particolari) possono aggredire direttamente solo i beni personali di ciascuno di essi, se però tali beni fossero insufficienti, essi potrebbero aggredire in via sussidiaria i beni della comunione: infatti i creditori particolari, anche se il credito è anteriore al matrimonio, possono aggredire i beni della comunione cercando di espropriarli nei limiti della quota di cui il coniuge loro debitore è proprietario (di regola, i beni comuni, sono per metà di ciascuno).
5. Lo scioglimento della comunione. È previsto lo scioglimento della comunione (art. 191) nel caso di: – dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi; – annullamento del matrimonio e divorzio; – separazione personale dei coniugi e separazione giudiziale dei beni; – mutamento convenzionale del regime patrimoniale; – fallimento di uno dei coniugi. Nel momento in cui si scioglie la comunione si deve valutare la consistenza dei beni destinati alla comunione de residuo (ad es. i proventi e i frutti personali risparmiati di ciascuno, le aziende individuali costituite dopo il matrimonio), si calcolano altresì i rimborsi dovuti da ciascuno alla comunione (somme prelevate per spese personali, beni comuni espropriati per debiti particolari del singolo coniuge) e le restituzioni dovute dalla comunione a ciascuno dei coniugi, cioè le spese fatte per la comunione con denaro personale (art. 192).
§ 6. I regimi opzionali: fondo patrimoniale e comunione convenzionale
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Si procede alla divisione dei beni della comunione, ma si possono prelevare i beni mobili personali posseduti in precedenza e quelli donati o ereditati durante il matrimonio (art. 195). In mancanza di prova tutti i beni mobili si considerano comuni; la proprietà individuale degli stessi può essere opposta ai terzi, ad es. creditori della comunione, solo se risulta da atto scritto con data certa (art. 197).
6. I regimi opzionali: fondo patrimoniale e comunione convenzionale. Il regime patrimoniale del matrimonio può essere arricchito con due varianti, consentite dalla legge per venire incontro a più specifiche esigenze dei privati: a) Il fondo patrimoniale. Costituito per atto pubblico dai coniugi o da uno di essi o da un terzo per atto tra vivi (e accettato dai coniugi) o anche per testamento Consiste nella destinazione di beni immobili, beni mobili registrati o titoli di credito (nominativi e vincolati) a far fronte ai bisogni della famiglia (art. 167). La proprietà dei beni spetta di regola ai coniugi (ma il costituente potrebbe stabilire diversamente, ad es. lasciare ai coniugi solo il diritto di usufrutto e conservare la nuda proprietà). I frutti sono impiegati per i bisogni della famiglia. Per la amministrazione valgono le regole della comunione legale (art. 168). Vi è tuttavia una disponibilità limitata, infatti è possibile alienare, ipotecare o vincolare i beni solo col consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione del giudice, qualora vi sia necessità o utilità evidente (art. 169). L’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti di per scopi estranei ai bisogni della famiglia. La destinazione del fondo termina a seguito dell’annullamento o dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; se vi sono figli minori il fondo dura sino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio (art. 171). b) La comunione convenzionale. Il regime di comunione legale può subire limitate modifiche tramite
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Cap. 21. Il regime patrimoniale della famiglia
convenzioni matrimoniali disponendo, ad es., che cadano in comunione anche taluni beni personali già appartenenti al singolo coniuge (art. 210). Non possono diventare beni comuni neppure per convenzione ma sono necessariamente personali: i beni di uso strettamente personale, i beni destinati all’esercizio di una professione, i beni ottenuti quale risarcimento del danno e la pensione per invalidità. Sono altresì inderogabili le regole sull’amministrazione della comunione e sulla parità delle quote tra coniugi (art. 210). Nei limiti del conferimento di beni personali alla comunione, questa risponderà verso i “vecchi” creditori particolari del singolo coniuge immediatamente senza applicare la regola della sussidiarietà e cioè senza costringerli ad espropriare dapprima i beni personali del singolo (art. 211). Infatti il conferimento voluto dal coniuge, che “aggiunge” beni alla comunione, non deve pregiudicare i creditori antecedenti il matrimonio sottraendo loro una garanzia patrimoniale.
7. L’impresa familiare. Non è un regime patrimoniale che concerne esclusivamente il matrimonio in quanto non riguarda soltanto i coniugi, ma anche i familiari, comprendendo in tale nozione il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado (art. 230 bis). L’istituto presuppone l’esistenza di una impresa familiare, cioè una impresa in cui collaborano con l’imprenditore altre persone incluse nelle suddette categorie di familiari e richiede che tali soggetti prestino in modo continuativo l’attività di lavoro nella famiglia dell’imprenditore o nell’impresa familiare. La disposizione protegge l’attività lavorativa del familiare nel caso in cui, come spesso succede, essa sia prestata al di fuori di qualsiasi altro rapporto giuridico tipico, cioè non sia configurabile né come rapporto di lavoro subordinato né di lavoro autonomo né di società e così via. Si tratta di quei casi di collaborazione prestata gratuitamente sulla base del sentimento di appartenenza al gruppo familiare e proprio per evitare che ciò determini ingiustificati arricchimenti a vantaggio dell’imprenditore la legge attribuisce al lavoratore alcuni diritti: – al mantenimento secondo le condizioni patrimoniali della famiglia; – alla partecipazione agli utili dell’impresa e agli incrementi nonché al valore di avviamento in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato;
§ 7. L’impresa familiare
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– alla decisione in ordine all’impiego degli utili e degli incrementi, e alla cessazione dell’impresa familiare; – alla liquidazione dei diritti maturati in caso di cessazione del lavoro o di cessione dell’azienda; – alla prelazione in caso di divisione ereditaria o di trasferimento di azienda. I familiari che acquistano tali diritti (i quali, normalmente, prestano solo una collaborazione limitata e senza il conferimento di capitali) non acquistano, tuttavia, la qualità di imprenditore.
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Cap. 21 bis. Le unioni civili e la convivenza di fatto
CAPITOLO 21 BIS
LE UNIONI CIVILI E LA CONVIVENZA DI FATTO
SOMMARIO: A. L’unione civile. – 1. La costituzione dell’unione civile. – 2. Gli impedimenti. – 3. Le altre cause di invalidità e l’impugnazione. – 4. Gli effetti del negozio. – 5. Lo scioglimento dell’unione civile. – B. La Convivenza di fatto. – 1. Come qualifica di una relazione personale. – 2. Come regolamento del rapporto mediante un contratto di convivenza.
A. L’UNIONE CIVILE. L’unione civile tra persone dello stesso sesso, introdotta con la l. del 20 maggio 2016, n. 76 viene considerata dal legislatore come un istituto in cui trovano applicazione l’art. 2 Cost., che tutela le specifiche formazioni sociali in cui si sviluppa la persona umana, e l’art. 3 Cost., che sancisce la pari dignità sociale. La necessità di porre una disciplina particolare destinata a regolare questo rapporto era stata avvertita da tempo e sul punto si possono ricordare importanti interventi sia della nostra Corte costituzionale nel 2010 (sent. n. 138) e nel 2014 (sent. n. 170), sia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2010 (Schalk and Kopf v. Austria) e nel 2015 (Oliari v. Italia). Il dibattito in sede parlamentare, come è noto, è stato quanto mai acceso, riflettendo le diverse concezioni presenti nella società civile. Il risultato, come accade in questi casi, si è potuto ottenere solo attraverso un compromesso che non sempre garantisce la coerenza e una facile interpretazione dei nuovi istituti. Discutibile appare altresì la soluzione di formulare la legge con un solo articolo e 67 commi, dei quali i primi 35 dedicati alle Unioni e gli altri dedicati alle Convivenze di fatto.
§ 2. Gli impedimenti
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1. La costituzione dell’unione civile. È richiesta una dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni da parte di due persone dello stesso sesso. L’ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile nell’archivio dello stato civile. A differenza dalla celebrazione del matrimonio, che si presenta come un atto complesso dove anche il celebrante ha un ruolo formale, questo istituto è concepito come un negozio giuridico posto in essere da due sole parti, con una dichiarazione di volontà che viene soltanto “ricevuta” dall’Ufficiale di stato civile, il quale redige l’atto senza dover fare, a sua volta, alcuna dichiarazione solenne. L’unione civile tra persone dello stesso sesso è certificata dal relativo documento attestante la costituzione dell’unione, che deve contenere i dati anagrafici delle parti, l’indicazione del loro regime patrimoniale e della loro residenza, oltre ai dati anagrafici e alla residenza dei testimoni. Non sono richieste pubblicazioni.
2. Gli impedimenti. Il primo requisito per la validità dell’atto è costituito dalla capacità legale di agire. Quindi la minore età dei dichiaranti impedisce il ricevimento della dichiarazione, così come l’interdizione di una delle parti per infermità di mente. Se l’istanza d’interdizione è soltanto promossa, il pubblico ministero può chiedere che si sospenda la costituzione dell’unione civile; in tal caso il procedimento non può aver luogo finché la sentenza che ha pronunziato sull’istanza non sia passata in giudicato.
È richiesta inoltre la libertà da vincoli personali derivanti da matrimonio o altra unione civile. La parte può in qualunque tempo impugnare il matrimonio o l’unione civile dell’altra parte. Se si oppone la nullità della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata.
Non devono sussistere rapporti di parentela o di affinità. Viene fatto e-
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spresso richiamo all’art. 87, 1° comma, c.c., con estensione del divieto all’unione tra lo zio e il nipote e la zia e la nipote. Si configura altresì l’impedimento da delitto allorquando vi sia la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte.
3. Le altre cause di invalidità e l’impugnazione. All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le stesse regole dettate per il matrimonio in caso di morte presunta (artt. 65 e 68) o per la invalidità derivante da incapacità naturale (art.120) o da simulazione (art. 123). L’unione civile può essere impugnata dalla parte il cui consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità, determinato da cause esterne alla parte stessa. La violenza è causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni dell’altra parte dell’unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui. Pressoché uguale a quella del matrimonio la disciplina dell’errore (non è previsto l’errore concernente una anomalia o deviazione sessuale del partner né quello che riguarda lo stato di gravidanza della donna). È prevista una decadenza: l’azione non può essere proposta se vi è stata coabitazione per un anno dopo che è cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l’errore. Come per il matrimonio anche per la unione civile è prevista una efficacia che discende direttamente dalla dichiarazione ricevuta dall’Ufficiale di stato civile, e pertanto, non ostante la legge parli di nullità, sarà necessaria una impugnazione per far cadere gli effetti del negozio. Si applicano anche qui le norme previste per il matrimonio come conseguenze della dichiarazione di nullità (matrimonio putativo, diritto al mantenimento, responsabilità del soggetto in mala fede, artt. 128, 129 e 129 bis). La legittimazione ad impugnare è regolata rinviando alle norme dettate in tema di matrimonio (ad es. per incapacità naturale spetta soltanto all’interessato, e così per errore e violenza) ma se esiste uno degli impedimenti di cui si è parlato nel punto precedente (previsti nel comma 4, cioè vincoli di matrimonio o di unione civile, interdizione per vizio di mente, vincoli di parentela o affinità, condanna per delitto o violazione dell’art. 68 c.c.) si prevede una annullabilità assoluta (l’unione può essere impugnata da ciascuna delle parti, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e
§ 4. Gli effetti del negozio
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da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale). Resta la regola secondo cui l’unione civile costituita da una parte durante l’assenza dell’altra non può essere impugnata finché dura l’assenza.
4. Gli effetti del negozio. Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile (comma 10). Dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. Come è stato ampiamente rilevato fin dai primi commenti, non si è voluto, invece, richiamare il dovere di fedeltà (anche se è presente in molti progetti di riforma). Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile. Esse concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato. Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni, con l’integrale applicazione della disciplina dettata per il matrimonio, richiamata anche per quanto concerne il fondo patrimoniale, la comunione convenzionale, la separazione dei beni e l’impresa familiare. Anche in materia di convenzioni patrimoniali (forma, modifica, simulazione, capacità) si applicano le disposizioni del matrimonio (artt. 162, 163, 164 e 166 c.c.). L’unione civile attribuisce a ciascuna parte il diritto di successione nella vocazione legittima e nella vocazione dei legittimari con la stessa posizione del coniuge, con l’applicazione delle norme sulla indegnità, la collazione e il patto di famiglia. Si producono, altresì, effetti rilevanti sotto altri profili personali e patrimoniali, infatti l’unione: fa nascere il diritto agli alimenti; determina la preferenza nella scelta dell’amministratore di sostegno; attribuisce il potere di promuovere istanza di interdizione e inabilitazione o di revoca delle stesse; dà diritto all’indennità di preavviso e al trattamento di fine rapporto in caso
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Cap. 21 bis. Le unioni civili e la convivenza di fatto
di morte del prestatore di lavoro; causa la sospensione della prescrizione tra le parti; rende applicabile la protezione contro gli abusi familiari. Una norma estende al contraente dell’unione civile i benefici riservati, in generale, al coniuge dalle altre leggi diverse dal Codice civile. Il partner avrà diritto di visita in ospedale e in carcere, potrà essere designato per prendere delicate decisioni in caso di malattia, morte, donazione di organi.
Non è applicabile l’istituto dell’adozione e l’affidamento dei minori, ma la legge non vieta di ricorrere alle attuali aperture normative e giurisprudenziali che consentono di chiedere al Tribunale, caso per caso, nell’interesse preminente del figlio di un partner, se vi siano i presupposti per l’adozione da parte dell’altro.
5. Lo scioglimento dell’unione civile. Lo scioglimento può avvenire per morte o dichiarazione di morte presunta di una delle parti, e per divorzio negli stessi casi previsti per il matrimonio (fatta eccezione per i due casi della protratta separazione e della inconsumazione del matrimonio) con l’applicazione delle norme sostanziali e processuali, in quanto compatibili. Non è prevista la separazione personale. Esiste anche una sorta di ripudio per volontà unilaterale. L’unione si scioglie, infatti, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi all’ufficiale dello stato civile. Decorsi tre mesi dalla data di tale dichiarazione è necessario far luogo ad un procedimento giudiziale proponendo la domanda di scioglimento dell’unione civile. Se invece la dichiarazione di scioglimento è stata fatta da entrambi, dopo tre mesi si farà luogo ad un ricorso congiunto. Sono ammessi anche i due nuovi procedimenti della negoziazione assistita (con due avvocati) e della dichiarazione al Sindaco (nei limiti in cui è ammessa per i coniugi). La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, così come è già stato previsto che determini lo scioglimento del matrimonio. Da notare che, in tal caso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, allo scioglimento del matrimonio per mutamento di sesso consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
§ 1. Come qualifica di una relazione personale
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B. LA CONVIVENZA DI FATTO.
1. Come qualifica di una relazione personale. La seconda parte della legge n. 76 del 2016 disciplina due istituti diversi, ancorché connessi: la convivenza di fatto e il contratto di convivenza. Per «conviventi di fatto» si intendono due persone maggiorenni (di sesso uguale o differente) unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. L’accertamento della stabile convivenza si fa sulla base di una dichiarazione anagrafica, già regolata dalla legge, ma la suddetta dichiarazione formale non è sufficiente in mancanza del presupposto sostanziale della convivenza e del legame personale. Si tratta dunque di una qualifica giuridica che comporta tutta una serie di diritti e poteri sia nei rapporti tra i conviventi, sia nei confronti di terzi e della Pubblica Amministrazione. In alcuni casi tali effetti erano già attuati nel “diritto vivente”, in altri si tratta di novità. Quanto alla rilevanza giuridica della qualifica di conviventi, possiamo distinguere: – diritti di accesso: i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, in caso di malattia o di ricovero, hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole previste per i coniugi e i familiari. – poteri di decisione nella sfera personale: ciascun convivente può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie (designazione in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone). – diritto di abitazione. In caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa almeno per due anni (o per un periodo pari alla convivenza, ma non oltre i cinque anni).
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Cap. 21 bis. Le unioni civili e la convivenza di fatto
Ma se questo convivente ha figli minori o figli disabili ha diritto di abitare almeno per tre anni. Il diritto viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto. È fatto salvo quanto prescritto in caso di assegnazione della casa familiare in presenza di figli minori nati da un matrimonio o da una coppia di conviventi.
– diritto di successione nel contratto di locazione nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione. – diritto a partecipare agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento. – il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l’altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all’art. 404 c.c. – diritto al risarcimento del danno (pari a quello che spetta al coniuge superstite) in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo. – diritti di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare.
2. Come regolamento del rapporto mediante un contratto di convivenza. I conviventi di fatto possono accontentarsi della qualifica del loro rapporto e degli effetti che essa produce secondo quanto si è accennato sin qui, o accedere ad una fase successiva per disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. Il contratto, le sue modifiche e la sua risoluzione richiedono, a pena di nullità, la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato “che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico”. Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione deve provvedere entro dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe. Oggetto del contratto può essere: – l’indicazione della residenza; – la disciplina della contribuzione per le necessità della vita in comune (ade-
§ 2. Come regolamento del rapporto mediante un contratto di convivenza
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guata ai criteri fissati a suo tempo per i coniugi); – la scelta del regime della comunione dei beni, come regolato in tema di matrimonio. Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità di cui sopra (atto pubblico o scrittura autenticata e comunicazione all’Anagrafe).
Impedimenti che determinano nullità assoluta insanabile sono: – l’incapacità legale del minore o dell’interdetto; – l’esistenza di un vincolo civile preesistente derivante da matrimonio, unione civile o di da altro contratto di convivenza; – la condanna per delitto (art. 88 c.c.); – la mancanza del presupposto sostanziale della convivenza e del legame personale richiesto per la convivenza di fatto. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all’articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento.
La risoluzione del contratto si può avere, oltre che per accordo delle parti (valgono le forme di cui sopra), anche per recesso unilaterale; Il professionista che riceve o che autentica l’atto di recesso è tenuto a comunicarlo all’Ufficio Anagrafe e a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto. Da notare che ove la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione.
e inoltre il contratto si risolve per matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona oppure per morte di uno dei conviventi. Nel primo caso il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all’altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile. Nel secondo caso il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché
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Cap. 21 bis. Le unioni civili e la convivenza di fatto
provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza. Effetti della risoluzione: la risoluzione determina lo scioglimento della eventuale comunione legale in atto tra i conviventi (con l’applicazione delle norme dettate in tema di matrimonio, in quanto compatibili). Per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari discendenti dal contratto di convivenza è competente il notaio. Diritto agli alimenti: in caso di cessazione della convivenza il convivente ha diritto agli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura ordinaria (art. 438, 2° comma, c.c.). L’obbligo alimentare del convivente viene prima di quello dei fratelli e delle sorelle.
§ 2. Attribuzione dello stato di figlio nato nel matrimonio
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CAPITOLO 22
L’ATTRIBUZIONE DELLO STATO DI FIGLIO E LE AZIONI DI STATO
SOMMARIO: 1. La riforma della filiazione del 2012-2013. – 2. Attribuzione dello stato di figlio nato nel matrimonio. Presunzione di concepimento durante il matrimonio. – 3. Presunzione di paternità e disconoscimento. – 4. Maternità. Contestazione e reclamo. Volontà della donna di non essere nominata. – 5. Azioni di stato e possesso di stato. – 6. L’atto di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio. – 7. Le condizioni di efficacia e gli effetti del riconoscimento. – 8. La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità del figlio nato fuori del matrimonio. – 9. L’accertamento dello stato dei figli incestuosi e la categoria dei figli non riconoscibili. – 10. La procreazione assistita.
1. La riforma della filiazione del 2012-2013. Le “Disposizioni in materia di riconoscimento del figlio naturale”, approvate nel 2012 e già in vigore dall’inizio del 2013, e il recente decreto 28 dicembre 2013, n. 154, entrato in vigore nel febbraio 2014, hanno portato incisive novità nel quadro dei rapporti familiari e nella disciplina della filiazione. L’intento che ha guidato tale iniziativa è quello, certamente lodevole, di parificare lo stato di figlio legittimo e di figlio naturale attribuendo un unico status di figlio, tout-court, esteso anche ai figli adottivi minori di età (ma non ancora ai figli adottivi maggiori di 18 anni). In realtà dopo la Riforma del diritto di famiglia del 1975 l’adozione dei minori comportava già la qualifica di figli legittimi, ed i figli naturali godevano già degli stessi diritti dei figli legittimi nei confronti dei loro genitori. Quale sarebbe allora la novità della Riforma? Essa riguarda principalmente la creazione di rapporti di parentela del figlio nato fuori del matrimonio con la famiglia del genitore che effettua il riconoscimento o nei confronti del quale viene giudizialmente dichiarato figlio. Viene dunque cancellata quella “barriera giuridica” secondo cui con il ricono-
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Cap. 22. L’attribuzione dello stato di figlio e le azioni di stato
scimento, in linea di principio, si creavano rapporti di parentela solo tra figlio e genitore, ma non verso altri parenti di questo. Fino ad arrivare alla conseguenza paradossale di negare la qualifica di fratelli ai figli naturali della stessa persona (escludendoli, ad esempio, dalla successione legittima di un altro “fratello naturale”). Esistevano solo pochi casi espressamente indicati dalla legge in cui la parentela “anche naturale” poteva avere rilievo: ad esempio, in materia di impedimenti al matrimonio o di alimenti.
In secondo luogo, le novità riguardano lo stato di genitore. Parificandosi lo stato di figlio viene adeguata anche la disciplina che riguarda, ad esempio, le successioni, eliminando ogni diverso trattamento dei genitori. Il genitore naturale nel concorso con il genitore legittimo, prima della riforma, era escluso dalla successione del figlio e gli ascendenti naturali, nella successione al figlio o al nipote naturale, non erano considerati legittimari, mentre lo erano gli ascendenti legittimi, in concorso con il coniuge.
La Riforma, come è noto, è avvenuta in due fasi, in quanto il legislatore del 2012 si è limitato ad introdurre solo poche norme con efficacia immediata, rinviando ad una successiva attività del Governo il completamento e l’adeguamento del quadro normativo mediante apposita delega legislativa. Spiccano, tra le norme già operative nella prima fase, la riduzione a 14 anni dell’età del figlio richiesta per dare il consenso al riconoscimento e addirittura la possibilità di effettuarlo prima dei 16 anni se autorizzato, l’ammissibilità, in linea generale, pur con qualche cautela, del riconoscimento del figlio incestuoso, l’estensione degli effetti del riconoscimento a tutti i parenti del genitore che lo riconosce, la già citata parificazione dello stato di figlio legittimo e di figlio naturale, fino al ripudio dei termini “figli legittimi” e “figli naturali” per assumere come valida una sola denominazione, quella di “figli” (salvo poi dover fare i conti con un dato non eliminabile che richiederà la distinzione tra figli “nati nel matrimonio” e figli “nati fuori del matrimonio”). Viene espressamente riconosciuto al figlio il diritto di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio, anche adottivo, non è tenuto a prestare gli alimenti al genitore che è decaduto dalla responsabilità genitoriale e può escluderlo dalla propria successione. Sono stati poi lasciati al governo compiti ulteriori di adeguamento al fine di eliminare ogni discriminazione tra i figli, anche adottivi, con il sistema del Decreto delegato, qual è, appunto, quello emanato il 28 dicembre 2013, che prevede, fra l’altro, l’abrogazione dell’istituto della legittimazione dei figli naturali, una normativa che facilita l’introduzione dei figli nati fuori del matrimonio nella famiglia dell’uno e dell’altro genitore,
§ 2. Attribuzione dello stato di figlio nato nel matrimonio
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l’unificazione della disciplina dei diritti e dei doveri dei genitori nei confronti dei figli nati fuori o dentro il matrimonio, regole unitarie sull’esercizio della responsabilità genitoriale (nuova espressione da sostituire a: potestà dei genitori), nuova disciplina sulla prova dello stato di figlio, sul diritto di ascolto del figlio nelle procedure che lo riguardano, e ancora, prevede a favore degli ascendenti il diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minori, adegua ai nuovi principi la normativa successoria e il complesso dell’ordinamento in generale, comprese le norme dell’ordinamento di stato civile, e del diritto internazionale privato. Una distinzione non eliminabile sta nel presupposto di fatto, ovviamente, per cui sarà pur sempre necessario distinguere, al fine di applicare o meno una certa disciplina giuridica, principalmente quella sul modo dell’accertamento della procreazione, se il figlio è nato nel matrimonio (fino al 2012 si chiamava figlio legittimo) o è nato fuori del matrimonio (si chiamava figlio naturale). Questo accertamento della filiazione rimane necessario ancor oggi per ottenere la pienezza degli effetti giuridici. A tale proposito il legislatore ha allargato le possibilità di accertamento ammettendo il riconoscimento (prima vietato) da parte del genitore che aveva procreato il figlio in mala fede, cioè conoscendo l’esistenza del vincolo di parentela o affinità che rendevano incestuoso il rapporto con l’altro genitore. Il modo dell’accertamento non può prescindere, come si vedrà presto, dal fatto che il figlio di due coniugi è procreato nell’ambito di una convivenza formalmente riconosciuta dall’ordinamento e organizzata in un ben preciso quadro di rapporti giuridici, mentre il figlio nato fuori del matrimonio nasce nel quadro di una convivenza temporanea e libera, che non dà luogo, in sé, ad una situazione giuridicamente qualificata. Questa differenza, come si vedrà in seguito, dà luogo a due modi di effettuare l’accertamento della filiazione, che restano diversi per quanto il legislatore si sforzi di ricondurre il più possibile ad unità tale istituto.
2. Attribuzione dello stato di figlio nato nel matrimonio. Presunzione di concepimento durante il matrimonio. La qualifica giuridica di figlio è di fondamentale importanza non solo per la persona e per i suoi genitori o per i suoi parenti, ma anche per la società. Da essa discende tutta una serie di diritti e di obblighi fra genitori e figli – che prendono complessivamente il nome di rapporti di filiazione – e derivano numerosi riflessi sociali e giuridici che si possono considerare di generale interesse.
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Cap. 22. L’attribuzione dello stato di figlio e le azioni di stato
Al figlio spetta un vero e proprio diritto affinché risulti pubblicamente tale qualifica. Vengono pertanto riconosciute azioni che consentono di reclamare lo stato di figlio, ed esistono, altresì, azioni rivolte invece a contestare tale stato quando sia falsamente attribuito ad una persona alla quale non spetta siffatta qualifica. La filiazione si fonda sulla procreazione nel matrimonio o fuori del matrimonio. Tutta la materia è stata rivista da parte del legislatore per adattare le norme preesistenti alla unificazione dello stato di figlio legittimo e naturale attuata dalla Riforma. Quando il vincolo matrimoniale risulta agli atti, come avviene di regola, l’ufficiale di stato civile che riceve la dichiarazione di nascita del figlio di una donna sposata, redige un atto di nascita attribuendo automaticamente lo stato di figlio nei confronti di entrambi i coniugi, senza che sia necessario il consenso di ciascuno di essi anche se la dichiarazione di nascita viene fatta dal medico, dall’ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto (art. 30 ord. st. civ.). Poiché il legislatore ha oggi reso unico lo stato di figlio, l’esistenza del matrimonio non è più condizione per l’acquisto di uno stato (di figlio legittimo) piuttosto che di un altro (di figlio naturale) ma è la condizione necessaria affinché il modo dell’accertamento funzioni senza bisogno di un atto di riconoscimento da parte del singolo coniuge e sia attiva la presunzione di paternità. Riassumiamo i requisiti affinché operi questo meccanismo nell’attribuzione dello stato di figlio di entrambi i genitori: a) deve esistere un matrimonio (anche invalido, come abbiamo già visto nel Cap. 20); b) il figlio deve essere concepito durante il matrimonio. La legge provvede a definire quando sussiste tale requisito dettando una nozione ampia di concepimento durante il matrimonio: si presume concepito durante il matrimonio il figlio che nasce non oltre 300 giorni dalla data dell’annullamento o dello scioglimento dello stesso, avvenuto, ad es., per morte del padre o per divorzio (art. 2321). La presunzione non opera se il figlio nasce dopo 300 giorni dalla separazione dei coniugi (sentenza di separazione giudiziale, omologazione della separazione consensuale, autorizzazione del giudice a vivere separati, art. 232, 2° comma). Evidentemente, se il figlio nasce prima che sia trascorso dalla celebrazione delle nozze il tempo minimo per una gestazione, il figlio è stato certamente concepito prima delle nozze, ma la legge gli attribuisce ugualmente lo stato di figlio. Tale so-
§ 3. Presunzione di paternità e disconoscimento
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luzione si giustifica in base al dato di esperienza comune, secondo cui spesso il matrimonio tra i genitori segue il concepimento di un figlio (non si giustifica, invece, il ricorso ad una presunzione che, in questo caso, rappresenta chiaramente una finzione giuridica). Se il figlio nasce dopo trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio, non opera la presunzione citata, ma i coniugi o i loro eredi possono cercare di provare che si è trattato di una gravidanza eccezionalmente lunga.
3. Presunzione di paternità e disconoscimento. c) il concepimento deve essere avvenuto ad opera del marito. Il fatto in questione può difficilmente essere provato (mater sempre certa, pater autem ... nunquam), anche se gli ultimi progressi della genetica e della immunologia hanno reso disponibili analisi molto precise. La legge, comunque, semplifica le cose dettando in proposito una presunzione di paternità e lascia l’uso delle prove genetiche a chi, piuttosto, vuole contrastare tale presunzione. Se il figlio è concepito o nato durante il matrimonio la legge presume che il padre del bambino sia il marito della madre («il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio», art. 231). La presunzione di paternità è presunzione legale, ma relativa. La prova contraria può essere data con l’azione di disconoscimento della paternità. Tale azione mira a dimostrare che il figlio nato o concepito durante il matrimonio non è figlio del marito della madre e serve perciò ad eliminare lo stato di figlio nei (soli) confronti del marito, così come gli era stato attribuito con la dichiarazione di nascita; ne consegue, pertanto, che essa può esercitarsi solo se un figlio ha già acquistato tale qualifica attraverso la redazione dell’atto di nascita. Ciascuno dei coniugi o il figlio possono esercitare tale azione dando la prova delle caratteristiche genetiche che escludono la paternità del marito in modo quanto mai affidabile (c.d. prova del DNA). Come effetto del disconoscimento di paternità il figlio perde retroattivamente lo stato di figlio del marito, acquistando quello di figlio della sola madre e potrà essere riconosciuto dal vero padre biologico. La sola dichiarazione della madre che nega la paternità del marito non è considerata dalla legge prova sufficiente per il disconoscimento. Il padre biologico non è ammesso ad esercitare tale azione, ma sono legittimati ad agire con tale azione soltanto i coniugi e il figlio, con diversi termini di decadenza (art. 244) e cioè:
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– da parte della madre deve essere proposta la domanda nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento; – il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno dal giorno della nascita se era presente quando è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. La Riforma ha decisamente innovato stabilendo che l’azione non può essere, comunque, proposta dai due coniugi oltre cinque anni dal giorno della nascita. – da parte del figlio, riguardo al quale l’azione è imprescrittibile. La domanda può essere presentata dal figlio che ha raggiunto la maggiore età o da un curatore speciale nominato dal giudice, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore, quando si tratti di figlio di età inferiore). L’azione è sospesa se il soggetto legittimato a proporla è interdetto (o si trova in stato di abituale infermità di mente) ma può essere esercitata anche dal tutore o da un curatore speciale, ed è trasmissibile se il soggetto legittimato muore senza averla esercitata entro i termini consentiti. Dalla data della morte si riaprono i termini che valevano per il titolare originario. Se muoiono i coniugi spetta ai loro discendenti o ascendenti; se muore il figlio spetta al coniuge o ai suoi discendenti (gli eredi non c’entrano: la legge tiene conto di interessi non patrimoniali attinenti alla famiglia e alla parentela) entro un anno dalla morte o dalla maggiore età del discendente. Legittimazione passiva: l’azione va esercitata citando in giudizio tutti coloro sui quali sia ripercuote direttamente l’accertamento (i coniugi e il figlio sono litisconsorti necessari e, se uno di essi è morto, devono partecipare coloro ai quali sarebbe trasmissibile l’azione) in mancanza sarà nominato un curatore speciale. Come si vede nella disciplina dei termini che riguardano la madre e il presunto padre assume rilevanza il “tempo del concepimento”. Che cosa significa? Se è nota la data di nascita del figlio, quando si presume che egli sia stato concepito? Per rispondere si applicherà la stima legale circa la durata della gravidanza: il periodo di concepimento è quello che sta fra i 180 giorni e i 300 giorni prima della nascita (presunzione di concepimento); in questo periodo bisogna provare che sono accaduti i fatti sopra elencati. Attenzione a non confondere questo problema con quello della presunzione di concepimento durante il matrimonio, dove si cerca di rispondere ad una domanda diversa: “il figlio è stato concepito durante il matrimonio”? In questo momento stiamo parlando del disconoscimento di paternità, che presuppone acquisito (ancorché indebitamente) lo stato di figlio del marito del-
§ 4. Maternità. Contestazione e reclamo
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la madre, è ovvio, pertanto, che si tratta di figlio concepito durante il matrimonio. Ai fini della azione di disconoscimento, tuttavia, è necessario conoscere esattamente quando è avvenuto il concepimento di quella persona. Qui interviene, appunto la presunzione di concepimento, che non tiene conto della data delle nozze, ma della data di nascita del figlio.
4. Maternità. Contestazione e reclamo. Volontà della donna di non essere nominata. d) Quarto presupposto affinché al momento della dichiarazione di nascita venga attribuito lo stato di figlio nei confronti di entrambi i coniugi: il figlio sia stato partorito dalla donna sposata. Qui la prova dei fatti è certamente più facile e risulta dalle dichiarazioni o certificazioni del personale sanitario che assiste la partoriente. Il nuovo ord. st. civ., art. 30, richiede, ai fini della formazione dell’atto di nascita, che la dichiarazione di nascita sia corredata da una attestazione di avvenuta nascita, fatta dal personale sanitario e contenente le generalità della puerpera, l’indicazione del luogo e del tempo della nascita e del sesso del bambino, o da una dichiarazione sostitutiva (autocertificazione). Non si può escludere che in circostanze particolari si formi un atto di nascita in cui si dichiara falsamente che il figlio è stato partorito da una determinata donna sposata. In tal caso la legge prevede una azione di reclamo di uno stato diverso da parte del figlio (art. 239) e una azione di contestazione dello stato per supposizione di parto o per sostituzione di neonato che può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse, senza limiti di tempo. Sarà necessario dimostrare che alla donna è stato attribuito un figlio non suo, tanto nel caso che il parto in questione non sia mai avvenuto, quanto nel caso in cui vi sia stato uno scambio di neonati. Qui l’effetto dell’azione sarà più incisivo, facendo cadere lo stato di figlio nei confronti di entrambi i genitori-coniugi. Una norma che fa molto discutere, contenuta nell’art. 30 ord. st. civ., consente alla donna – sposata o non sposata – di esprimere la volontà di non essere nominata nella dichiarazione di nascita. L’origine della norma è antica e la sua giustificazione iniziale era quella di garantire in ogni caso la riservatezza della donna al fine di evitare, in determinati casi “critici” di gravidanza, il ricorso all’aborto. Oggi ci si chiede se esiste ancora una qualche giustificazione, tanto più ove si tenga conto che, in tal caso, i dati in possesso delle istituzioni sanitarie non potranno mai essere comunicati al figlio che, divenuto adulto, cerca di scoprire la realtà delle
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proprie origini (c.d. legge dei 100 anni), con violazione – secondo qualcuno – del suo diritto alla identità biologica. Se la donna stessa dichiara la nascita senza essere nominata, il figlio, anche se nato nel matrimonio, non acquista automaticamente lo stato di figlio e potrebbe, ad es., essere riconosciuto dal marito della madre o dal vero padre biologico. Oppure, seguendo altra procedura, essere dichiarato in stato di adottabilità. Un’altra critica sottolinea la violazione del principio di parità, perché la donna ha il potere di “governare” l’attribuzione dello stato. Non solo negando la volontà di apparire come madre, ma anche dichiarando la nascita del figlio, pur nato nel matrimonio, come proprio figlio nato fuori del matrimonio, quindi non del marito, eventualmente effettuando tale riconoscimento nell’atto di nascita insieme al padre biologico. In questi casi, se il figlio nasce nel matrimonio (secondo la presunzione dell’art. 232, 1° comma) il marito (convinto della propria paternità) potrebbe esercitare un’azione di accertamento positivo contro la madre e il figlio potrebbe reclamare lo stato di figlio (escluso il caso che sia stato denunciato come figlio di ignoti e nel frattempo sia stato adottato, art. 239, 2° comma). La soluzione, come si vede, sarà affidata alle risultanze delle prove genetiche (DNA). Oppure il marito (che non vuole portare in giudizio la moglie) potrebbe riconoscere il figlio come se fosse nato fuori del matrimonio (se non è ancora stato riconosciuto da altro “padre”).
5. Azioni di stato e possesso di stato. La filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile. In mancanza di questo titolo, basta il possesso continuo dello stato di figlio. I fatti costitutivi del possesso di stato nel loro complesso valgono a dimostrare le relazioni di filiazioni e di parentela fra una persona e la famiglia a cui essa pretende di appartenere. Devono concorrere i seguenti fatti: che il genitore abbia trattato la persona come figlio e abbia provveduto in questa qualità al mantenimento, alla educazione e al collocamento di essa; che la persona sia stata costantemente considerata come tale nei rapporti sociali; che sia stata riconosciuta in detta qualità dalla famiglia.
In una materia così delicata e fondamentale nelle relazioni sociali e giuridiche è necessario dare certezza al diritto. Perciò se uno stato di figlio risulta dall’atto di nascita e da un possesso di stato conforme all’atto stesso, nessuno può reclamare uno stato contrario eccettuati i casi tassativi in cui sono ammesse le azioni di stato che si vedranno di seguito. Riassuntivamente, le azioni di stato possono essere di accertamento positivo o negativo.
§ 5. Azioni di stato e possesso di stato
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Il reclamo dello stato di figlio è, appunto, un’azione positiva di stato prevista nel Capo I (che regola l’assunzione dello stato di figlio nato nel matrimonio mediante la presunzione di paternità). È una azione che spetta soltanto al figlio ed è imprescrittibile nei suoi confronti. Legittimati passivi sono entrambi i genitori. I casi in cui è ammesso il reclamo di uno stato di figlio diverso da quello dell’atto di nascita, confermato dal possesso di stato sono i seguenti: – disconoscimento di paternità (art. 244); – nascita dopo 300 giorni dallo scioglimento, annullamento, separazione, ecc. (art. 234); – sostituzione di neonato o supposizione di parto (art. 239, 1° comma); – figlio nato nel matrimonio, ma iscritto come figlio di ignoti (se non ancora adottato) (art. 239, 2° comma). Il figlio che è stato iscritto come figlio di ignoti dovrà provare, pertanto, che esiste il matrimonio, che egli è nato dopo le nozze (e non oltre 300 giorni dallo scioglimento, ecc.), e che è figlio della donna sposata, poi con l’aiuto delle presunzioni di concepimento e di paternità si dimostra la sussistenza di tutti e quattro i presupposti di cui si è parlato. Il reclamo dello stato di figlio nato fuori del matrimonio è disciplinato sotto un nome diverso e cioè come azione di accertamento giudiziale della paternità o della maternità e ne parleremo tra breve, ma è importante osservare che, in questo caso, legittimato passivo, contro il quale va promossa l’azione, è il singolo (presunto) genitore (o i suoi eredi o un curatore speciale).
Come si è già detto, se il figlio risulta già figlio di altri genitori, egli dovrà prima agire in giudizio mediante una azione negativa di stato per eliminare il titolo dello stato attuale, che contrasta con la sua pretesa e non corrisponde al vero, poi, solo dopo la rimozione dello stato precedente (dimostrando ad es. riconoscimenti non veridici o sostituzione di neonato) potrà reclamare uno stato diverso. Altra azione positiva di accertamento di stato compete al marito, come si è visto poc’anzi, per attribuire lo stato al figlio, nato nel matrimonio, ove la madre (sposata) abbia espresso la volontà di non essere nominata e il figlio sia stato denunciato come figlio di ignoti. Tra le azioni negative di stato, ricordiamo in primo luogo il disconoscimento di paternità, di cui si è già parlato, che spetta solo alla moglie, al marito e al figlio, ove sia operante la presunzione di concepimento nel matrimonio e quindi di paternità.
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In secondo luogo, va citata l’azione di contestazione dello stato di figlio. Essa spetta a chi dall’atto di nascita del figlio risulti suo genitore e a chiunque vi abbia interesse (art. 248). L’azione è imprescrittibile. Entrambi i coniugi oltre al figlio sono litisconsorti necessari. La legge ammette espressamente la contestazione dello stato di figlio in tre casi: quando vi è stata sostituzione di neonato o supposizione di parto o il figlio nato nel matrimonio è stato iscritto come figlio di ignoti (se non è intervenuta sentenza di adozione, art. 240). Ma potrebbe essere esercitata anche in altri casi: ad es. se al figlio fosse stato attribuito indebitamente lo stato di figlio (nato dal matrimonio), con dichiarazione di nascita del medico o dell’ostetrica, ma poi si scopre che non risulta celebrato il matrimonio. In tal caso non può funzionare il sistema di attribuzione automatico dello stato basato sulle presunzioni (e nello stesso tempo, in questo esempio, manca una volontà dei singoli coniugi di riconoscere il figlio). Può anche essere esercitata dal padre biologico ove non operi la presunzione di concepimento durante il matrimonio (mancanza della celebrazione, nascita dopo i 300 giorni).
6. L’atto di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio. Lo stato di figlio, allorquando la nascita avviene fuori del matrimonio, riveste, ovviamente, la medesima importanza rispetto alla nascita nel matrimonio, ma può essere accertato in modo affatto diverso. Sono ammesse due strade: – ciascun genitore può compiere un atto di riconoscimento personale e spontaneo; – in mancanza di questo il figlio, se maggiorenne, o il genitore che esercita la responsabilità genitoriale o il tutore, nell’interesse del minore, possono agire per ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità. Il riconoscimento è un atto personale puro (è nulla ogni clausola diretta a limitarne gli effetti, art. 257) e irrevocabile. Può essere compiuto da ciascun genitore, come atto tra vivi, in forma di atto pubblico. In tal caso la volontà di riconoscere il figlio può essere dichiarata all’ufficiale di stato civile nell’atto di nascita o in un atto separato, posteriore al concepimento o alla nascita, oppure al notaio o al giudice tutelare e produce effetto immediato. L’atto di riconoscimento di uno solo dei genitori non può contenere indicazioni relative all’altro genitore, esse sarebbero comunque senza effetto.
§ 6. L’atto di riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio
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Considerando quanto si è già detto circa il valore del titolo dello stato di figlio, non è ammesso neppure un riconoscimento in contrasto con lo stato di figlio, cioè il riconoscimento da parte di persona dello stesso sesso di altro genitore che abbia già riconosciuto il figlio (diventerebbe un secondo padre o una seconda madre). Né si può riconoscere, ovviamente, il figlio che ha già acquistato lo stato in base alle presunzioni matrimoniali. Come atto mortis causa il riconoscimento potrà essere contenuto in un testamento, qualunque ne sia la forma (ma contrariamente al testamento, che è essenzialmente revocabile, il riconoscimento in esso contenuto non può essere revocato, art. 256), tuttavia avrà effetto solo dalla morte del testatore, secondo la disciplina della volontà testamentaria. Per un valido riconoscimento è necessaria, in primo luogo, la capacità giuridica relativa al compimento di tale negozio, che si acquista a sedici anni. Il giudice, tuttavia, può autorizzare il riconoscimento da parte del genitore infrasedicenne, valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio. È necessaria anche la capacità di agire: l’atto di riconoscimento effettuato dall’interdetto giudiziale è annullabile per incapacità legale di agire e può essere impugnato dallo stesso interdetto dopo la revoca dell’interdizione (entro un anno) o dal suo rappresentante legale (art. 266). Benché la legge non lo dica espressamente si ritiene che sia rilevante anche la capacità naturale di agire, perciò è invalido anche il riconoscimento compiuto da un soggetto incapace di intendere o di volere, al quale spetta l’azione di annullamento dell’atto. La volontà del singolo genitore è necessaria e sufficiente a compiere l’atto di riconoscimento, che è atto unilaterale e personale. Un eventuale procuratore speciale è ammesso dalla legge di Stato civile (d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396, art. 30) per la denuncia di nascita, ma si tratta di un mero nuncius che trasmette la volontà del genitore. Deve esistere una volontà libera: la legge garantisce la spontaneità del riconoscimento. Il riconoscimento ottenuto attraverso minacce rivolte al genitore può essere impugnato da questo per violenza, entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata, anche se si tratta di un riconoscimento veridico. L’art. 30 ord. st. civ. vale anche per la denuncia del figlio nato fuori del matrimonio: dunque la madre potrebbe denunciare la nascita del figlio
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senza voler essere nominata, quindi senza che vi sia un riconoscimento contestuale da parte sua. Si tratta di un accertamento: perciò deve essere vero il fatto della procreazione affermato dal genitore. La legge cerca di garantire la veridicità del riconoscimento: se la dichiarazione non corrisponde alla realtà, il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dal figlio, dall’autore del riconoscimento e da chiunque vi abbia interesse. Può anche essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice su istanza del figlio minore che ha compiuto quattordici anni, ovvero del pubblico ministero o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio, quando si tratti di figlio di età inferiore.
L’azione è imprescrittibile per il figlio (art. 263). Per l’autore del riconoscimento è fissato un termine di decadenza di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. Se l’autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza. Per tutti, eccetto il figlio, è fissato un termine (c.d. tombale) di cinque anni dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita, oltre il quale l’azione non può essere comunque proposta. Tale causa di impugnazione comprende non solo il caso in cui l’autore del riconoscimento si sia sbagliato (errore sulla persona o sul fatto della procreazione) ma anche il caso in cui egli abbia volutamente riconosciuto chi non era suo figlio. In tal modo la legge vuole evitare che il riconoscimento sia compiuto per fini diversi da quelli suoi propri, ad es. per procurarsi un figlio adottivo senza affrontare l’iter dell’adozione. A tale proposito la legge sull’adozione (n. 184 del 1983, art. 74) dispone che il tribunale per i minorenni accerti con opportune indagini la veridicità del riconoscimento di un minore se effettuato da persona coniugata.
7. Le condizioni di efficacia e gli effetti del riconoscimento. Non sempre, pur in presenza di tutti i requisiti dell’atto, nel quale si manifesta la volontà del singolo genitore, si producono gli effetti propri del riconoscimento. Talora, infatti, è necessario che sussistano altri elementi,
§ 7. Le condizioni di efficacia e gli effetti del riconoscimento
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estranei rispetto a tale volontà, che potremmo chiamare condizioni di efficacia del riconoscimento. – In primo luogo, se il figlio ha compiuto i 14 anni al momento del riconoscimento è necessario che dia il suo assenso, infatti non sempre l’atto di riconoscimento del genitore è vantaggioso per il figlio. Questi potrebbe rifiutare il consenso se il riconoscimento non corrisponde al suo interesse (ad es., se il rapporto di filiazione dovesse essere fonte di un attrito insostenibile con un genitore che in precedenza ha tenuto un comportamento pregiudizievole al figlio). – Se il figlio è minore di 14 anni ed è già stato riconosciuto è necessario il consenso dell’altro genitore che (avendolo già riconosciuto) esercita la responsabilità genitoriale. Questi può rifiutare il consenso ove il nuovo riconoscimento non corrisponda all’interesse del figlio. Se vi è il rifiuto, l’altro può ricorrere al giudice e notificare il ricorso al genitore che nega il consenso. Se questi non fa opposizione, il giudice decide con sentenza che tiene luogo del consenso mancante. Se invece viene sollevata opposizione, il giudice dovrà assumere ogni opportuna informazione, sentire il figlio (anche infra dodicenne se capace di discernimento) e se l’opposizione appare palesemente fondata deciderà di respingere il ricorso, altrimenti assumerà provvedimenti temporanei per creare una relazione col figlio e poi, se deciderà con sentenza in senso affermativo (che tiene luogo del consenso mancante) darà i provvedimenti relativi all’affidamento, al mantenimento del minore e al suo cognome. L’ufficiale di stato civile non può neppure ricevere l’atto di riconoscimento in mancanza del consenso del genitore che lo ha riconosciuto per primo (o della sentenza che tiene luogo di tale consenso), mentre se manca il consenso del figlio ultraquattordicenne può ricevere l’atto, ma questo non produce effetto (art. 45 ord. st. civ.). La Cassazione, (n. 21088 del 2004) ha affermato tuttavia che il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio costituisce oggetto di un diritto soggettivo del genitore, tutelato dall’art. 30 Cost., perciò solo motivi gravi e irreversibili di una probabile compromissione dello sviluppo del minore giustificano il sacrificio di tale diritto mediante il diniego del consenso del primo genitore.
Quanto agli effetti, il riconoscimento attribuisce lo stato di figlio e all’autore lo stato di genitore. Fondamentale risulta, già nella parte della Riforma approvata nel 2012, il nuovo testo dell’art. 258 dove si afferma che “il riconoscimento produce effetti riguardo al genitore da cui fu fatto e riguardo ai parenti di esso”, garantendo la piena parificazione in quanto i vincoli di parentela e gli effetti giuridici conseguenti si producono anche tra il figlio nato fuori del matrimonio e la famiglia del genitore che ha fatto il riconoscimento. Il figlio nato fuori del matrimonio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del pa-
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dre, ma vale anche qui la nuova norma del 2014 per cui, in caso di accordo dei genitori, risultante dalla dichiarazione di nascita, il figlio può acquistare il cognome di entrambi o quello della madre. Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. Nel caso di minore età del figlio decide il giudice, sentito il minore capace di discernimento. In mancanza di riconoscimento al momento della nascita il cognome potrebbe essere stato attribuito dall’ufficiale dello stato civile, in tal caso il figlio può mantenere il cognome precedentemente attribuitogli, ove tale cognome sia divenuto autonomo segno della sua identità personale, aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo al cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto o al cognome dei genitori in caso di riconoscimento da parte di entrambi.
Un altro problema può sorgere quando il figlio nato fuori del matrimonio sia riconosciuto da un genitore già sposato e con altri figli nati nel matrimonio. In tal caso il giudice decide in ordine all’affidamento del minore e adotta ogni altro provvedimento a tutela del suo interesse morale e materiale. L’eventuale inserimento del figlio nella famiglia del genitore sposato può essere autorizzato dal giudice a condizione che non sia contrario all’interesse del minore. Deve esserci però il consenso: – del coniuge convivente; – dei figli conviventi che abbiano compiuto 16 anni; – dell’altro genitore che abbia effettuato il riconoscimento. Nel caso manchi il consenso del coniuge e dei figli la decisione è rimessa al giudice tenendo conto dell’interesse dei minori, previo ascolto degli stessi ove capaci di discernimento. Se il figlio era già stato riconosciuto prima del matrimonio, per il suo inserimento è sufficiente il consenso dell’altro coniuge, salvo che questi ne conoscesse già l’esistenza, essendo il figlio convivente con il genitore all’atto del matrimonio. Serve comunque il consenso dell’altro genitore.
8. La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità del figlio nato fuori del matrimonio. La paternità o la maternità possono essere accertati dal giudice, nei casi in cui è ammesso il riconoscimento, con la dichiarazione giudiziale di paternità (art. 269).
§ 8. La dichiarazione giudiziale di paternità o maternità
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Legittimazione attiva: l’azione può essere promossa esclusivamente dal figlio (ed è imprescrittibile nei suoi confronti). Se questi è minore può essere esercitata nel suo interesse, dal genitore che esercita la responsabilità genitoriale o dal tutore, se autorizzato dal giudice. L’azione promossa dal figlio, se questi muore dopo la domanda, può essere proseguita dai suoi discendenti. Se invece il figlio muore prima di avere iniziato la azione, questa può essere promossa, sempre dai suoi discendenti, entro due anni dalla morte (art. 270). Legittimazione passiva: la domanda deve essere proposta nei confronti del presunto genitore o, in mancanza di lui, nei confronti dei suoi eredi. Alla domanda può contraddire chiunque vi abbia interesse. Gli effetti della sentenza che dichiara la filiazione fuori del matrimonio sono gli stessi del riconoscimento e cioè si viene creare lo stato di figlio fondato sul titolo costituito dalla sentenza del giudice. Inizialmente, con la riforma del 1975, il procedimento si componeva di due fasi, la prima delle quali era destinata a verificare la fondatezza della pretesa, per evitare di coinvolgere in un processo delicato una persona del tutto estranea. Una successiva sentenza della Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittimo l’art. 274, perciò non esiste più il c.d. controllo di ammissibilità, ma si fa luogo direttamente alla seconda fase in cui bisogna dimostrare che sussiste effettivamente il fatto della procreazione preteso dall’attore.
La prova può essere data con ogni mezzo. La sola dichiarazione della madre o la sola esistenza di rapporti tra la madre ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità. Si possono pertanto richiedere prove ematologiche e genetiche. Anche il rifiuto ingiustificato di sottoporsi a tali esami da parte del presunto genitore può servire al giudice come elemento di convincimento in aggiunta ad altre prove (se, ad es. fosse già provata una relazione tra la madre e il presunto padre al tempo del concepimento). Come si è già detto, non è più vietato il riconoscimento della filiazione incestuosa da parte del genitore in mala fede (previa autorizzazione), così come, accogliendo una recente pronuncia della Corte costituzionale, la Riforma ammette la domanda di accertamento giudiziale di tale filiazione (sempre previa autorizzazione del giudice).
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9. L’accertamento dello stato dei figli incestuosi e la categoria dei figli non riconoscibili. La Riforma del diritto di famiglia del ’75 aveva cancellato il divieto di riconoscere i figli adulterini (cioè quelli che un coniuge, legato da matrimonio, aveva generato con una persona diversa dall’altro coniuge) lasciando però il divieto, per il genitore in mala fede, di riconoscere i figli incestuosi, cioè figli nati da persone tra le quali esiste un vincolo di parentela in linea retta all’infinito o in linea collaterale di secondo grado (fratelli), ovvero un vincolo di affinità in linea retta (suocero e nuora, genero e suocera). La legge consentiva il riconoscimento del figlio incestuoso per il genitore che ignorava il vincolo di parentela o affinità al tempo del concepimento o nel caso in cui fosse stato dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva l’affinità.
Oggi la Riforma del 2012-2013 ha tolto anche questo divieto. I figli incestuosi possono essere riconosciuti dai loro genitori (anche se questi erano in mala fede al tempo del concepimento, conoscendo il vincolo di parentela o di affinità) così come il figlio può domandare l’accertamento giudiziale di paternità o maternità, ma in entrambi i casi è necessaria una previa autorizzazione del giudice, avuto riguardo all’interesse del figlio e alla necessità di evitare allo stesso qualsiasi pregiudizio. Possiamo dire, con questo, che scompare la categoria dei figli non riconoscibili? Sono, ancor oggi, non riconoscibili i figli per i quali il riconoscimento è stato rifiutato, o dal giudice, che non lo ha autorizzato, o dal genitore che per primo aveva fatto il riconoscimento, il quale ha negato fondatamente il proprio consenso, anche se in tali casi potremmo piuttosto parlare di figli ai quali non conviene il riconoscimento perché è loro pregiudizievole. Ancora non riconoscibile né dichiarabile è il figlio allorquando vi sia contrasto con altri status (art. 253) pur potendosi accertare, oggettivamente, il fatto biologico della procreazione (a fini diversi dall’attribuzione dello stato). Tradizionalmente i diritti dei figli non riconoscibili vengono attribuiti anche ai figli non riconosciuti (ancorché in astratto riconoscibili) o perché, in concreto, non sono stati riconosciuti e non hanno neppure chiesto l’accertamento giudiziale, o perché hanno rifiutato loro stessi il riconoscimento di un genitore. Benché tali figli non abbiano acquistato lo status di figlio attraverso un accertamento formale, la legge attribuisce loro determinati diritti: durante la minore età essi hanno diritto al mantenimento, all’istru-
§ 10. La procreazione assistita
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zione ed all’educazione (art. 279, ma v. già art. 30 Cost.). Se maggiorenni hanno diritto agli alimenti, ove si trovino in stato di bisogno, qualora sia cessato il diritto al mantenimento (art. 279). In morte del genitore hanno diritto ad una rendita vitalizia di cui agli artt. 580 e 594. L’azione è ammessa previa autorizzazione del giudice ex art. 251 e la sentenza che accerta il fatto della filiazione, in questi casi, non costituisce titolo dello stato di figlio, ma pronunzia solo sul diritto di succedere, ovvero sul diritto al mantenimento o agli alimenti. Si dice che l’accertamento della filiazione è solo incidentale, cioè la verifica del fatto biologico della procreazione costituisce soltanto un presupposto logico per decidere sul merito della domanda.
10. La procreazione assistita. Molto discussa, prima e dopo la sua entrata in vigore, la l. 19 febbraio 2004, n. 40, ha regolato la procreazione medicalmente assistita (PMA). Le norme poste inizialmente erano particolarmente rigide, seguendo l’idea di una pratica residuale, di modo che il ricorso a tale tecnica veniva limitato al caso di accertata impossibilità di rimuovere altrimenti le cause di sterilità; cause che devono essere accertate e certificate ovvero cause inspiegate, ma documentate da atto medico. Con una decisione del 2015, n. 96, la Corte costituzionale ha allargato l’ambito della P.M.A. alle “coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili” gravi e accertate, rispetto alle quali già la Corte EDU nel 2012 aveva ammesso il diritto di ottenere la diagnosi preventiva sull’embrione già formato, ove ci fosse il rischio di malattie genetiche. Il limite previsto originariamente alla formazione e alla crioconservazione degli embrioni e la stessa limitazione numerica a tre embrioni era stata giudicata incostituzionale già dalla Corte nel 2009, n. 151, in rispetto alla salute della donna e del feto, rimettendo la decisione ad una valutazione medica del singolo caso.
Alla base della nuova disciplina vi era la concezione che l’istituto dovesse, per così dire, imitare la natura, infatti il ricorso a tale metodologia era consentito solo a coppie viventi, maggiorenni, di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, con l’utilizzo di gameti propri. Era dunque vietato il ricorso alla procreazione assistita eterologa (tuttavia era punito severamente, solo il medico responsabile).
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Cap. 22. L’attribuzione dello stato di figlio e le azioni di stato
Considerato lo scopo della legge – di soddisfare il diritto fondamentale di formare una famiglia con figli – la Corte costituzionale (n. 162 del 2014) dichiarò illegittimo tale divieto, del tutto incoerente con la ratio legis, e attribuì rilevanza giuridica anche alla filiazione eterologa, rendendo lecita la donazione di gameti da soggetti esterni alla coppia cui sia stata diagnosticata una infertilità o sterilità assoluta. Resta vietata, anche penalmente, la pratica dell’impianto dell’embrione in un’altra donna, il c.d. utero in affitto o maternità surrogata, ancorché l’embrione provenga dalla coppia richiedente o sia concepito con i gameti del partner maschile. Anzi recentemente la Corte di Cassazione, S.U., n. 12193 del 2019, ha qualificato tale divieto come principio di ordine pubblico, posto a tutela della dignità della donna e del valore dell’istituto dell’Adozione. Conseguentemente tale principio impedisce di riconoscere nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che accerta il rapporto di filiazione tra il minore nato all’estero, concepito “in via surrogata” e il genitore italiano, in assenza di un legame biologico tra i due, mentre resterebbe ammissibile il ricorso ad altro istituto quale l’Adozione in casi particolari.
Al coniuge o al convivente che ha dato il suo consenso alla fecondazione eterologa la legge vieta di esercitare il disconoscimento di paternità o l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità in base ad un giusto principio di coerenza, né la madre potrebbe pretendere di non essere nominata nell’atto di nascita. Resta il quesito se il figlio possa esercitare un’azione negativa di stato per far valere la sua discendenza naturale, ove lo si ritenga un diritto della personalità. Ci si è chiesto, altresì, chi debba considerarsi genitore nell’ipotesi di un errore tecnico (sostituzione accidentale di embrioni). Nel caso che ha portato la questione sui media, nel 2014, il Tribunale di Roma ha deciso che va considerata “madre” la donna che ha partorito e, conseguentemente, “padre” il marito della madre. Il donatore (estraneo alla coppia) non acquista alcuna relazione di parentela, né alcun obbligo o diritto verso il nuovo nato. Il principio del consenso informato (cfr. supra, Cap. 8, par. 2) impone al medico una dettagliata informazione della coppia su ogni aspetto medico, giuridico, economico e bioetico e prima della decisione definitiva deve essere prospettata agli interessati la possibilità di una scelta alternativa, cioè quella di ricorrere all’adozione o all’affidamento. La volontà della coppia è espressa congiuntamente al medico per iscritto. I figli nati in seguito all’applicazione di tali tecniche hanno lo stato di figli (se può avere qualche rilievo giuridico, eventualmente, si parlerà di figli nati fuori del matrimonio, se i genitori sono conviventi, o nati nel matrimonio se generati da coppia coniugata).
§ 2. Diritti e doveri dei genitori
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CAPITOLO 23
IL RAPPORTO DI FILIAZIONE. L’ADOZIONE
SOMMARIO: 1. Diritti e doveri del figlio. – 2. Diritti e doveri dei genitori. – 3. Rappresentanza, amministrazione, usufrutto legale. – 4. Decadenza dalla responsabilità genitoriale e altre sanzioni. – 5. L’esercizio della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di non convivenza: i principi concernenti l’affidamento dei figli. – 6. Affidamento congiunto e affidamento esclusivo. – 7. L’assegnazione della casa familiare e i provvedimenti a tutela dei figli maggiorenni. – 8. Abusi domestici e provvedimenti del giudice. – 9. Adozione dei minori. – 10. Adozione internazionale. – 11. Adozione delle persone maggiori di età. – 12. Adozione in casi particolari.
1. Diritti e doveri del figlio. La nuova impostazione del Diritto di famiglia, solennemente proclamata dall’art. 315, in base alla quale tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, impone al legislatore della Riforma una trattazione unitaria del rapporto fra genitori e figli con l’intento di indicare chiaramente, prima di tutto (Titolo IX, Capo I), i diritti e gli obblighi di ciascuno e poi di specificare e sviluppare nel dettaglio le regole concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriale (Capo II), istituto che, al di là del mutamento lessicale, che potrebbe apparire meramente nominalistico, contiene realmente delle novità rispetto al quadro normativo segnato dalla “potestà” dei genitori. Nella norma che stabilisce i diritti e i doveri del figlio (art. 315 bis) accanto ai tradizionali diritti di rilevanza costituzionale di essere mantenuto, educato, istruito, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni si introduce il diritto di essere assistito anche moralmente dai genitori. Un particolare rilievo viene dato poi al diritto di ascolto del figlio che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
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Cap. 23. Il rapporto di filiazione. L’adozione
Il minore è ascoltato dal presidente del tribunale o dal giudice delegato (anche avvalendosi di esperti o altri ausiliari) nell’ambito dei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano (ma è escluso l’ascolto, con provvedimento motivato, se esso appare in contrasto con l’interesse del minore, o appare manifestamente superfluo). Sono ammessi a partecipare all’ascolto se autorizzati dal giudice (al quale possono proporre argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio) i genitori, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, ed il pubblico ministero. L’ascolto deve essere documentato mediante processo verbale nel quale è descritto il contegno del minore, ovvero è effettuata registrazione audio video.
Ancora viene sottolineato il diritto del figlio di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. A tale diritto fa riscontro il diritto degli ascendenti di mantenere tali rapporti con i nipoti minorenni. Anzi la Riforma innova, consentendo agli ascendenti, eventualmente, di ricorrere al giudice affinché siano adottati i provvedimenti più idonei a garantire la soddisfazione di questo interesse del minore (art. 317 bis). I doveri del figlio sono di: rispettare i genitori; contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa. Il figlio non può abbandonare la casa dei genitori o del genitore che esercita su di lui la responsabilità genitoriale né la dimora da essi assegnatagli. Qualora se ne allontani senza il permesso, i genitori possono richiamarlo ricorrendo, se necessario, al Giudice tutelare.
2. Diritti e doveri dei genitori. I genitori sono titolari della responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto, come si è detto, delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio e che si concreta anche nella scelta della residenza abituale del minore. Si tratta di un ufficio di diritto privato dotato di diritti e di doveri, che spetta in pari titolarità ad entrambi i genitori purché vi sia stato un accertamento della filiazione valido per entrambi e non vi siano stati provvedimenti del giudice in senso contrario. Perciò se un solo genitore ha riconosciuto il figlio nato fuori del matrimonio o se per particolari ragioni il figlio è stato affidato a un solo genitore a questo soltanto spetta la responsabilità genitoriale. Tuttavia, il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio ed eventualmente può chiedere al giudice opportuni prov-
§ 2. Diritti e doveri dei genitori
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vedimenti. Sull’osservanza delle condizioni che il tribunale abbia stabilito per l’esercizio della responsabilità genitoriale e per l’amministrazione dei beni è prevista, comunque, la vigilanza d’ufficio del giudice tutelare.
La parità implica, d’altra parte, un diritto di veto di ciascuno, e ciò fa nascere inevitabilmente delle controversie tra i genitori, ma nei conflitti che possono sorgere in tema di esercizio della responsabilità genitoriale (ad es. sul tipo di scuola più adatta o su atti di amministrazione dei beni del figlio) si deve comunque arrivare ad una soluzione rapida, nell’interesse del figlio, applicando una regola già introdotta dalla Riforma del 1975 e cioè: in caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l’ascolto del figlio (se ritenuto capace di discernimento) dapprima suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare, poi, se il contrasto permane, non decide lui sul merito, ma attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio. Quanto all’obbligo di mantenimento i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi – siano essi sposati o no – i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli. In caso di inadempimento si può chiedere al presidente del tribunale che ordini ad es. al datore di lavoro del padre o della madre, di versare direttamente una quota dei redditi dell’obbligato all’altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione della prole. In caso di lontananza, di incapacità o di altro impedimento che renda impossibile ad uno dei genitori l’esercizio della responsabilità genitoriale, questa è esercitata in modo esclusivo dall’altro.
La responsabilità genitoriale di entrambi i genitori non cessa a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio. Il suo esercizio, in tali casi, è regolato da una disciplina unitaria, che verrà trattata nei prossimi paragrafi (v. infra, par. 5), e che vale anche per i figli nati fuori del matrimonio, quindi per i casi di cessazione della mera convivenza tra i genitori.
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Cap. 23. Il rapporto di filiazione. L’adozione
3. Rappresentanza, amministrazione, usufrutto legale. Nella responsabilità genitoriale (come già nella potestà) si ritrova un potere di rappresentanza degli incapaci e di amministrazione dei loro beni. Chi esercita la responsabilità genitoriale rappresenta i figli nati e nascituri fino alla maggiore età (o alla emancipazione) in tutti gli atti civili (non in quelli personalissimi, ovviamente) e ne amministra i beni. Ciascuno dei genitori può compiere disgiuntamente gli atti di ordinaria amministrazione, esclusi i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento. Per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è richiesto che vi sia: a) il consenso di entrambi; b) la necessità o utilità evidente del figlio; c) l’autorizzazione del giudice tutelare. Ricordiamo che sono considerati atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, ad es., alienare, ipotecare o dare in pegno i beni pervenuti al figlio, accettare o rinunziare ad eredità o legati, accettare donazioni, contrarre mutui, transigere o compromettere in arbitri per le controversie relative a tali atti. I capitali non possono essere riscossi senza autorizzazione del giudice tutelare, il quale ne determina l’impiego. L’esercizio di una impresa commerciale non può essere continuato se non con l’autorizzazione del tribunale su parere del giudice tutelare. Nel caso che i genitori non vogliano compiere un atto di interesse del figlio o nel caso di conflitto di interessi patrimoniali tra i figli o tra essi e i genitori il giudice tutelare nomina per i figli un curatore speciale.
La violazione delle regole sulla amministrazione dei beni dei figli minori comporta invalidità dell’atto. È una protezione dell’incapace e perciò il rimedio sarà una azione di annullamento del negozio che spetta unicamente al figlio (o ai suoi eredi o aventi causa) o ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale e non, ovviamente, all’altro contraente, il quale non potrà neppure opporre la sua eventuale buona fede. I genitori esercenti la responsabilità genitoriale hanno in comune l’usufrutto legale dei beni del figlio fino alla maggiore età o alla emancipazione. Non sono tuttavia soggetti ad usufrutto legale: i beni acquistati dal figlio con i proventi del proprio lavoro; quelli lasciati o donati al figlio per intraprendere una carriera, un’arte o una professione; i beni lasciati o donati con la condizione che i genitori esercenti la responsabilità genitoriale o uno di essi non ne abbiano l’usufrutto; i beni pervenuti al figlio per eredità, legato o donazione e accettati nell’interesse del figlio contro la volontà dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale.
§ 4. Decadenza dalla responsabilità genitoriale e altre sanzioni
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La disciplina per molti aspetti è diversa da quella dell’usufrutto ordinario (a parte la fonte legale del diritto). Vediamo perché: a) I frutti percepiti dal genitore non possono essere goduti a sua discrezione, ma sono destinati al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione dei figli (di tutti i figli, anche di quelli non proprietari di beni che danno reddito: vale in proposito un principio di solidarietà familiare); b) L’usufrutto legale è un diritto indisponibile ed impignorabile. Non può essere oggetto di alienazione, di pegno o di ipoteca né di esecuzione da parte dei creditori; c) Soltanto i frutti dei beni del figlio possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dei genitori (o di quello di essi che ne è titolare esclusivo) ma su tali beni grava una sorta di destinazione: e cioè essi rispondono solo per le obbligazioni contratte per i bisogni della famiglia mentre l’esecuzione non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei a tali necessità familiari. Per altri aspetti valgono le norme dell’usufrutto ordinario, ad es. gravano sull’usufrutto legale gli stessi obblighi propri dell’usufruttuario. Se un genitore esercita in modo esclusivo la responsabilità genitoriale (ad es. è l’unico che ha riconosciuto il figlio) l’usufrutto legale spetta a lui soltanto; in tal caso se contrae nuove nozze conserva l’usufrutto legale, con l’obbligo tuttavia di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo.
4. Decadenza dalla responsabilità genitoriale e altre sanzioni. La legge prevede tre ipotesi in ordine decrescente di gravità. Si tratta dei c.d. provvedimenti de potestate che possono essere adottati dal Tribunale dei minori su ricorso dell’altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di pronunciare un provvedimento contro un genitore o di revocare deliberazioni anteriori, anche il genitore interessato deve essere sentito. Trattandosi di provvedimenti concernenti il minore, il giudice può assumere informazioni anche d’ufficio e deve sentire il pubblico ministero; secondo quanto si è detto sul principio dell’ascolto la Riforma prevede che sia sentito il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
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Cap. 23. Il rapporto di filiazione. L’adozione
a) Il giudice può pronunziare la decadenza della responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio (art. 330). È il provvedimento più grave che la legge prevede, in sede di diritto civile. In tale caso, se sussistono gravi motivi, il giudice può anche ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare. Ove, peraltro, siano cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, e sia escluso ogni pericolo di pregiudizio per il figlio, il genitore può essere reintegrato nella responsabilità genitoriale. b) Un provvedimento meno grave è previsto dall’art. 333 allorquando la condotta di uno o di entrambi i genitori non è tale da dare luogo alla pronuncia di decadenza prevista dall’art. 330, ma appare comunque pregiudizievole al figlio; in tal caso il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre l’allontanamento del genitore dalla residenza familiare. Anche questi provvedimenti sono revocabili in qualsiasi momento ed è ancora competente il T.M. (ma se è in corso un procedimento di separazione o divorzio il provvedimento è “attratto” nella competenza del giudice ordinario). c) Infine, quando il patrimonio del minore è male amministrato, il tribunale può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale (art. 334). Se è disposta la rimozione di entrambi i genitori l’amministrazione verrà affidata ad un curatore. Quando saranno cessati i motivi che hanno provocato il provvedimento il genitore potrà essere riammesso dal tribunale nell’esercizio dell’una o nel godimento dell’altro. Diritto penale e interesse del minore. La Corte costituzionale è più volte intervenuta dichiarando la illegittimità di alcune norme del Codice penale che stabiliscono la sospensione o la decadenza dalla potestà come sanzione accessoria per un comportamento illecito del genitore, in quanto determinano una compressione di un diritto fondamentale del minore, che si pone in primo piano nel Diritto interno ed europeo: il diritto alla genitorialità, cioè alla presenza del genitore e alla pienezza del rapporto parentale. L’illegittimità costituzionale non sta nella sanzione in sé, che resta in vigore, ma nell’automatismo che non consentirebbe al giudice di valutare in ogni singola circostanza se è proprio l’interesse del minore a richiedere l’interruzione del rapporto parentale; di conseguenza, dopo le pronunzie della Consulta, il giudice dovrà applicare, anche in questi casi, la regola del best inte-
§ 5. L’esercizio della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di non convivenza
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rest, il preminente interesse del minore, evitando il pregiudizio ingiustificato di un rapporto così delicato e fondamentale per lo sviluppo della persona. Così, ad es., sono stati giudicati illegittimi, per quanto concerne l’applicazione “automatica”, l’art. 574 bis, 3° comma, che, come pena accessoria, prevedeva la sospensione della responsabilità genitoriale per il reato di sottrazione e mantenimento del minore all’estero (Corte cost. n. 102 del 2020) e l’art. 569 c.p., che, alla condanna del genitore per il reato di alterazione dello stato civile nella formazione dell’atto di nascita (di cui all’art. 567, 2° comma) faceva seguire automaticamente la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale (Corte cost. n. 31 del 2012).
5. L’esercizio della responsabilità genitoriale nell’ipotesi di non convivenza: i principi concernenti l’affidamento dei figli. Le norme del Capo II del Titolo IX sono destinate a disciplinare, in sostanza, al di là della prolissa intitolazione, l’affidamento dei figli minori, nati nel matrimonio e nati fuori del matrimonio. Il problema può sorgere in seguito a diverse vicende, che hanno comunque tutte sullo sfondo la non convivenza dei genitori, tanto se questa è la conseguenza di uno sfortunato esito del matrimonio – non solo in caso di separazione, ma anche di annullamento o di divorzio – quanto se è conseguenza della cessazione di una convivenza libera o se consegue ad un riconoscimento effettuato da parte di entrambi i genitori, i quali, tuttavia, non convivono. Il principio al quale si ispira la legge non è del tutto nuovo, anche se abbastanza recente, e dice che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Perciò nella soluzione dei problemi di non convivenza della famiglia il giudice dovrà cercare di attuare il principio suddetto con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della prole. Ricordiamo come il giudice, in questa materia, sia investito di poteri propri del processo inquisitorio che gli consentono di assumere, anche d’ufficio, mezzi di prova che ritiene utili, prima dell’emanazione dei provvedimenti che gli competono e di discostarsi dalle domande di parte per cercare la miglior tutela dei minori (v. supra, Cap. 6, par. 2). Minori, dei quali il giudice dovrà disporre l’ascolto secondo le modalità descritte poc’anzi (eccettuati i casi in cui si omologa un accordo dei genitori sulle condizioni di affidamento dei figli o se ne prende atto, se l’ascolto appare in contrasto con l’interesse del minore o manifestamente superfluo). Il giudice, con il consenso delle parti, può anche rinviare l’adozione dei
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Cap. 23. Il rapporto di filiazione. L’adozione
provvedimenti di cui all’articolo 337 ter per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, nell’interesse morale e materiale dei figli. Da notare una falla nel quadro della parificazione! In materia di procedimenti relativi ai minori, la Riforma ha attribuito la competenza, di regola, al Tribunale Ordinario, il quale (specie in tema di affidamento e mantenimento) decide collegialmente in Camera di consiglio (art. 737 c.p.c.). Ma ciò vale per i figli nati fuori dal matrimonio, perché se è in atto una causa di separazione o divorzio, la decisione su figli nati nel matrimonio viene riservata al Giudice davanti al quale è radicata tale controversia, il quale segue il rito ordinario (art. 706 c.p.c.).
6. Affidamento congiunto e affidamento esclusivo. Vediamo dunque quali sono le scelte possibili per risolvere i conflitti sull’esercizio della responsabilità genitoriale, tenendo presente, tuttavia, che i provvedimenti assunti dal giudice sono validi finché non sia modificata la situazione di partenza (c.d. provvedimenti rebus sic stantibus). Infatti, qualora intervengano rilevanti mutamenti nei presupposti che sono stati valutati dal giudice, i genitori potranno chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale e le modalità del mantenimento. a) In primo luogo, il giudice dovrà tentare la strada dell’affidamento congiunto, valutando la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori, anche giovandosi degli accordi intervenuti tra i genitori, se non appaiono contrari all’interesse dei figli. Altrimenti il giudice dovrà determinare i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore. Provvedimenti ulteriori, per completare tale quadro, saranno la determinazione del mantenimento fissando la misura e il modo con cui ciascuno deve contribuire, nonché altre direttive in merito alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Il principio è che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito e alle proprie sostanze. Se non vi sono patti liberamente sottoscritti tra i genitori e vi è conflitto fra di essi, il giudice può stabilire la corresponsione di un assegno periodico da parte dell’obbligato, ispirato al criterio della proporzionalità, che, in mancanza di altra determinazione (anche convenzionale tra le parti) resterà ancorato all’indice statistico dei prezzi.
§ 6. Affidamento congiunto e affidamento esclusivo
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In particolare, il giudice dovrà considerare diversi parametri, quali: le attuali esigenze del figlio; il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; i tempi di permanenza presso ciascun genitore; le risorse economiche di entrambi i genitori; la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Da notare il richiamo alla leva fiscale, che può costituire una efficace spinta a rivelare la propria situazione finanziaria: ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice può disporre un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati ad altri soggetti.
In caso di affidamento congiunto la responsabilità genitoriale verrà esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli (relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore) devono essere assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli (in caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice). Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. b) Il secondo tipo di soluzione è quello dell’affidamento esclusivo, cioè a un solo genitore. Il giudice può disporre l’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga con provvedimento motivato che l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore. Ciascuno dei genitori può dimostrare, in qualsiasi momento, che sussiste siffatto pregiudizio e chiedere l’affidamento esclusivo. Il giudice, ove accolga tale domanda, deve cercare di far salvi, per quanto è possibile, i diritti del minore di cui si è parlato dianzi e principalmente quello di mantenere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori. Se la domanda risultasse manifestamente infondata, il giudice potrebbe valutarla (non solo come processualmente scorretto, ma anche) come comportamento del genitore pregiudizievole al figlio e prendere provvedimenti adeguati alla tutela dell’interesse del figlio (in tal caso la richiesta si ritorcerebbe contro chi l’ha presentata). Il genitore cui sono affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi, ma deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Le decisioni di maggiore interesse per i figli, tuttavia, sono adottate, in linea di massima, da entrambi i genitori. Resta, per il genitore cui non sono affidati
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i figli, il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione, con la facoltà di ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse. c) Infine, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, il giudice può eventualmente ricorrere all’istituto dell’affidamento familiare (vedi infra, par. 9).
7. L’assegnazione della casa familiare e i provvedimenti a tutela dei figli maggiorenni. L’esperienza insegna che un elemento di grande importanza nelle controversie circa l’affidamento dei figli è costituito dalla questione della assegnazione della casa familiare. Il giudice formula il provvedimento tenendo conto, prima di tutto, dell’interesse dei figli. Poi, considerato che uno dei due genitori potrebbe essere proprietario della casa, e quindi potrebbe subire la perdita del libero godimento in conseguenza della assegnazione dell’abitazione all’altro genitore e ai figli, il giudice dovrà tener conto del valore della assegnazione nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Secondo gli interpreti non si tratterebbe del diritto reale di abitazione previsto nel Libro III del Codice, tuttavia va sottolineato come i provvedimenti di assegnazione e di revoca del godimento siano opponibili a terzi ai sensi dell’art. 2643, in quanto ne è prevista la trascrizione nei registri immobiliari. Un ulteriore provvedimento concerne i figli maggiorenni. Da molto tempo gli interpreti sostengono che gli obblighi di mantenimento non cessano con la maggiore età del figlio e si prolungano anche oltre tale termine, in quella fase incerta della vita in cui il figlio cerca di trovare la propria strada e la propria indipendenza. Si tratta della tutela di quei figli che, pur avendo superato la maggiore età, si trovano ancora lontani dalla indipendenza economica o addirittura sono impossibilitati a raggiungerla a causa di un grave handicap. Per questi ultimi la legge prevede l’applicazione integrale delle disposizioni previste in favore dei figli minori. Per i figli maggiorenni non indipendenti economicamente la legge prevede che il giudice, valutate le circostanze, possa disporre il pagamento di un assegno periodico che, in linea di massima, dovrà essere versato dal genitore direttamente all’avente diritto.
§ 8. Abusi domestici e provvedimenti del giudice
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8. Abusi domestici e provvedimenti del giudice. Il Titolo IX bis, inserito dalla l. 4 aprile 2001, n. 154, ha introdotto nell’Ordinamento un istituto del quale, purtroppo – a seguito di molte tristi esperienze, spesso emerse sotto forma di clamorosi fatti di cronaca – si sentiva sempre più l’esigenza, non solo nella famiglia ma anche nella libera convivenza di una coppia, o nella convivenza domestica in generale, tanto in presenza quanto in assenza di figli. Si tratta degli Ordini di protezione contro gli abusi familiari (art 242 bis). Il presupposto è che la condotta del coniuge o di altro convivente sia causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente. In tali casi, il giudice, su istanza di parte, può adottare uno o più dei provvedimenti seguenti: – ordina al coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della stessa condotta; – dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole; – gli prescrive, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati da colui che ha subito gli abusi (ad es. al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia; – può disporre, ove occorra, l’intervento dei servizi sociali del territorio o di altri centri, o istituti, associazioni che abbiano come fine il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattamenti; – può ordinare il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, prescrivendo, eventualmente, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato. – stabilisce la durata dell’ordine di protezione, che non può essere superiore a un anno e può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario. – ove sorgano difficoltà o contestazioni in ordine all’esecuzione, lo stesso giudice può richiedere l’ausilio della forza pubblica.
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Cap. 23. Il rapporto di filiazione. L’adozione
9. Adozione dei minori. L’adozione dei minori di età è chiamata semplicemente adozione, dal legislatore, che con la l. 4 maggio 1983, n. 184, ha riformato la materia (aggiungendo lievi modifiche nel 2000). L’istituto serve a dare ai minori che si trovano in situazioni di abbandono una famiglia legittima, troncando i rapporti con la famiglia di origine. Adottanti possono essere solo i coniugi, sposati da almeno tre anni e non separati, neppure di fatto, idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere gli adottati. Sono consentite anche più adozioni con uno o più atti distinti. L’età degli adottanti deve superare di almeno diciotto e non più di quarantacinque quella degli adottati (ma la Corte costituzionale ha deciso che se i limiti di età dovessero impedire una adozione con danno grave e non altrimenti evitabile per il minore, il giudice può concederla ugualmente, nell’interesse esclusivo dell’adottando). Adottati possono essere solo i minori dichiarati in stato di adottabilità dal tribunale per i minorenni. Se hanno compiuto i quattordici anni è necessario il loro consenso; sopra i dodici devono essere sentiti e, se può essere utile, saranno sentiti anche se di età inferiore. La dichiarazione presuppone uno stato di abbandono per mancanza di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, non dovuta a forza maggiore (non sussiste forza maggiore se i genitori o i parenti rifiutano ingiustificatamente le misure di sostegno offerte dai servizi sociali). La situazione di abbandono sussiste anche se i minori sono ricoverati in istituti di assistenza pubblici o privati. Chiunque può segnalare all’autorità una situazione di abbandono; ne hanno l’obbligo i pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio o coloro che lo esercitano. Gli istituti di assistenza devono periodicamente trasmettere una relazione sui minori ricoverati; chi accoglie stabilmente in casa propria un minore per più di sei mesi, o il genitore che lo affida devono darne segnalazione al giudice tutelare, che informa a sua volta, il tribunale per i minorenni. Il tribunale per i minori effettua indagini d’ufficio per accertare lo stato di abbandono e può disporre provvedimenti temporanei nell’interesse del minore, ivi compresa la decadenza dei genitori dalla responsabilità genitoriale. Ove sussista lo stato di abbandono e i genitori siano deceduti, manchino pa-
§ 9. Adozione dei minori
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renti entro il quarto grado o non risultino genitori che abbiano riconosciuto il figlio, il tribunale dichiara direttamente lo stato di adottabilità. Altrimenti i genitori o i parenti verranno convocati, e il presidente del tribunale dei minori potrà impartire idonee prescrizioni, stabilendo periodici accertamenti e disponendo provvedimenti temporanei. A questo punto, solo se genitori o parenti sono irreperibili, o non si presentano senza giustificato motivo, o non adempiono colpevolmente le prescrizioni del giudice o se è provata la irrecuperabilità delle capacità genitoriali dei genitori in un tempo ragionevole, il tribunale dichiara lo stato di adottabilità se ne sussistono le condizioni. Il provvedimento è impugnabile da parte dei genitori o dei parenti e del pubblico ministero.
Durante lo stato di adottabilità è sospesa la responsabilità dei genitori e viene nominato un tutore, se già non esiste. La domanda di adozione, di un figlio o di più fratelli, può essere presentata dai coniugi anche a più tribunali per i minorenni (e decade dopo tre anni, ma è rinnovabile). Il tribunale disporrà adeguate indagini circa l’attitudine ad educare, la situazione personale ed economica, la salute e l’ambiente familiare, i motivi degli adottanti. Se l’esito è positivo, il tribunale può disporre l’affidamento preadottivo del minore, che costituisce un periodo di prova. Solo dopo un anno dall’affidamento, se questo non è stato revocato per gravi difficoltà di convivenza (vigila il tribunale, anche avvalendosi del giudice tutelare e dei servizi locali), si può dar luogo al decreto di adozione, dopo avere, ancora una volta, sentito tutti gli interessati. Per effetto dell’adozione l’adottato acquista, secondo la legge n. 184 del 1983, lo stato di figlio degli adottanti dei quali assume e trasmette il cognome. L’adozione determina anche un effetto particolarmente grave: cessano i rapporti dell’adottato verso la sua famiglia di origine (salvi i divieti matrimoniali). L’affidamento preadottivo non deve essere confuso con l’affidamento del minore, detto comunemente affido, destinato a sopperire a difficoltà temporanee della famiglia di origine (artt. 2 ss., l. n. 184 del 1983). In tal caso il minore può essere affidato ad altra famiglia, persona singola o comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’istruzione e l’educazione. Se vi è il consenso dei genitori è disposto dal servizio locale e reso esecutivo dal giudice tutelare, altrimenti è deciso dal tribunale dei minori e cessa quando sia venuta meno la difficoltà temporanea della famiglia. L’affidatario deve accogliere il minore e provvedere al suo mantenimento, alla istruzione e alla educazione, secondo le indicazioni dei genitori e dell’autorità af-
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fidante, cercando di agevolare i rapporti del minore con i suoi genitori e di favorirne il reinserimento nella famiglia di origine. Come hanno dimostrato casi di cronaca recente c’è il rischio che il vero significato dell’istituto venga dimenticato e lo si intenda quasi come una sorta di adozione, senza tener conto che l’affido è destinato a terminare quando la famiglia è in grado di accogliere nuovamente il minore, purché sussista, in concreto, l’interesse di quest’ultimo.
10. Adozione internazionale. Produce lo stesso effetto legittimante della adozione dei minori, ma prevede una procedura speciale (regolata nella stessa l. n. 184 e nella l. 31 dicembre 1998, n. 476, che ha ratificato la Convenzione dell’Aja in questa materia). Prima fase: la coppia che intende adottare un minore straniero residente all’estero segnala la propria disponibilità al tribunale per i minorenni chiedendo che lo stesso dichiari la loro idoneità all’adozione. I requisiti sono gli stessi dell’adozione. L’indagine viene curata dai Servizi sociali degli enti locali, i quali hanno anche il compito di preparare gli aspiranti genitori. In base alla relazione trasmessa al tribunale dei minori questo decide pronunciando un decreto di idoneità (o di inidoneità) ad adottare. Seconda fase: entro un anno gli interessati devono conferire l’incarico di curare la procedura di adozione ad un ente autorizzato, il quale svolge tutte le pratiche con le autorità straniere e trasmette gli atti alla Commissione costituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Terza fase: la Commissione per le adozioni internazionali, valutati gli atti e le conclusioni dell’ente incaricato, dichiara l’adozione in quanto risponde al superiore interesse del minore e autorizza l’ingresso e la residenza di questo in Italia, purché risulti lo stato di abbandono (e l’impossibilità di affidamento e di adozione nel paese di origine) e vi sia il consenso dei genitori alla produzione degli effetti legittimanti (acquisizione dello stato di figlio e cessazione dei rapporti con la famiglia di origine) o la legge del paese preveda tali effetti dell’adozione.
11. Adozione delle persone maggiori di età. La disciplina è dettata nel codice civile (art. 291 ss.). Questa forma di adozione serve per dare dei figli a chi non ha discen-
§ 11. Adozione delle persone maggiori di età
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denti minori (ma la Corte costituzionale ne ha esteso l’applicazione anche a chi ha discendenti maggiorenni purché siano consenzienti). È vietato adottare i propri figli. Deve sussistere una differenza di età fra adottante e adottato di almeno diciotto anni e un’età minima dell’adottante di trentacinque anni (adoptio natura imitatur). Si possono adottare più persone, anche successivamente, ma non si può essere adottati da più persone, se non da due coniugi (art. 294). È necessario il consenso di adottante e adottato, ma anche l’assenso del coniuge di entrambi, se sono sposati, e dei genitori dell’adottato. Il tribunale accerta, inoltre, la convenienza dell’adottando. L’adozione produce i suoi effetti dalla data del decreto che la pronunzia, in particolare: l’adottato assume il cognome dell’adottante e lo antepone al proprio, anche se si tratta di un figlio nato fuori del matrimonio, riconosciuto o non riconosciuto dai suoi genitori (se adottanti sono due coniugi assume il cognome del marito). Una fondamentale differenza rispetto all’adozione (dei minori) sta nel fatto che l’adottato maggiorenne conserva tutti i diritti e i doveri verso la sua famiglia di origine, con la quale restano in vigore tutti i vincoli civili. Questa forma di adozione non fa nascere, invece, vincoli di parentela o altri rapporti civili tra adottante e famiglia di origine dell’adottato (ma i vincoli si propagano “verso il basso”: l’adottante è parente dell’adottato e dei suoi discendenti ed è affine del coniuge dell’adottato), né fra adottato e parenti dell’adottante, salve le eccezioni stabilite dalla legge (art. 3002). Onde evitare adozioni interessate, la legge non fa nascere dall’adozione dei maggiori di età alcun diritto dell’adottante di succedere all’adottato; quest’ultimo, invece, ha gli stessi diritti successori dei figli (art. 304). L’adozione può essere revocata per indegnità dell’adottante o dell’adottato (attentato alla vita o altri delitti gravi contro l’adottato o, rispettivamente, l’adottante o contro i loro stretti congiunti, artt. 306, 307). L’effetto si produce quando la sentenza di revoca diviene definitiva, ma se i fatti sono imputabili all’adottato questi, per effetto della revoca, perde retroattivamente anche l’eredità dell’adottante già morto prima della sentenza.
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Cap. 23. Il rapporto di filiazione. L’adozione
12. Adozione in casi particolari. La legge sull’adozione dei minori contempla una figura ibrida di adozione in casi particolari, destinata ai minori, e quindi attributiva della responsabilità genitoriale, ma con effetti analoghi a quelli della adozione dei maggiori di età per quanto concerne i vincoli familiari. Quanto ai requisiti vi sono differenze rilevanti rispetto all’adozione: non è richiesto lo stato di adottabilità né l’affidamento preadottivo, non sono posti limiti di età, se non quello dei diciotto anni di differenza, infine l’adozione è consentita anche in presenza di figli. I casi previsti sono tre: – l’adottato è orfano di entrambi i genitori e l’adottante è un parente fino al sesto grado o persona legata all’adottando da un rapporto personale e affettivo stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; – il figlio (anche adottivo) di un coniuge viene adottato dall’altro coniuge; – vi è la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. Quanto agli effetti, la differenza fondamentale rispetto all’adozione dei minori è che questa adozione in casi particolari non interrompe i legami dell’adottato con la famiglia di origine. A differenza dell’adozione dei maggiori, tuttavia, attribuisce all’adottante la responsabilità genitoriale sull’adottato, ma anche tutti gli obblighi dei genitori, cioè mantenimento, istruzione ed educazione, nonché i poteri di amministrazione dei beni dei minori, escluso l’usufrutto legale.
§ 2. Le disposizioni mortis causa: l’istituzione di erede
PARTE SETTIMA
LE SUCCESSIONI E LE DONAZIONI
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Cap. 24. La successione in generale
§ 2. Le disposizioni mortis causa: l’istituzione di erede
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CAPITOLO 24
LA SUCCESSIONE IN GENERALE
SOMMARIO: 1. La vicenda successoria e la terminologia giuridica. – 2. Le disposizioni mortis causa: l’istituzione di erede. – 3. Le disposizioni patrimoniali divisionali. – 4. Le altre disposizioni patrimoniali: il legato e l’onere o modus. – 5. La capacità di succedere. – 6. L’indegnità e la “sospensione della successione”. – 7. L’accettazione dell’eredità. – 8. La giacenza dell’eredità. – 9. La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede. – 10. La rinunzia all’eredità. – 11. La devoluzione della chiamata. – 12. La sostituzione. – 13. La rappresentazione. – 14. L’accrescimento. – 15. Il certificato successorio.
1. La vicenda successoria e la terminologia giuridica. La morte dell’uomo rappresenta un fatto giuridico di grande importanza. Cessa di esistere un soggetto e si estinguono tutti i diritti e gli obblighi di natura personale, ad es. il diritto e l’obbligo degli alimenti, il diritto di usufrutto, di uso e di abitazione, si estinguono i diritti della personalità e si risolvono i contratti intuitu personae (mandato, opera intellettuale, società di persone, ecc.). Sotto il profilo patrimoniale sorge il problema della trasmissione delle situazioni giuridiche attive e passive. Succedere, come è noto, significa subentrare nella titolarità di una situazione giuridica (diritti, obblighi, ecc.). La morte del soggetto fa venir meno la titolarità dei diritti e ciò determina l’esigenza della successione, per quanto concerne i diritti trasmissibili, azionando un meccanismo che conduce necessariamente ad una successione. Il principio che ammette la trasmissione del patrimonio nell’ambito familiare, attraverso la vocazione legittima, o al di fuori della famiglia, attraverso la vocazione testamentaria, è collegato strettamente ad altri principi del nostro ordinamento, che ricevono riconoscimento nella stessa Costituzione: quello che tutela la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), che ammette la proprietà privata (art. 42 Cost.) non solo dei beni di consumo e di uso personale, ma anche dei capitali e dei mezzi di produzione, tutelando e incoraggiando il risparmio (art. 47 Cost.).
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Cap. 24. La successione in generale
La successione mortis causa è un fenomeno complesso che si può scomporre in diversi elementi: a) L’apertura della successione è il momento giuridico iniziale. Avviene al tempo della morte del soggetto (il “de cuius”) e nel luogo del suo ultimo domicilio. Il tempo dell’apertura della successione è rilevante sotto diversi aspetti. Innanzitutto per quanto concerne le persone dei successibili: sono capaci di succedere tutti coloro che sono nati, ma anche coloro che sono concepiti fino a quel momento. Il tempo per la presunzione di concepimento comincia a decorrere proprio dalla morte del de cuius, chi nasce entro trecento giorni è ammesso alla successione al pari di chi è già nato. Per quanto concerne il patrimonio: i beni lasciati alla morte (il relictum) e i beni donati in vita dal defunto (il donatum) verranno valutati in base al loro valore, calcolato al momento dell’apertura della successione (questa stima è alla base di numerosi istituti, ad es., la collazione, la divisione, la vocazione dei legittimari, ecc.). I debiti contratti dal defunto fino al momento della morte costituiscono il passivo ereditario. b) Il secondo elemento che si deve prendere in considerazione è la chiamata (o vocazione). La legge dice che non si fa luogo alla chiamata per legge (vocazione legittima) se non dopo la chiamata per testamento (vocazione testamentaria); pertanto la vocazione legittima (che istituisce, in vario ordine, i parenti fino al sesto grado e infine lo Stato) diventa operante solo se la vocazione testamentaria manca del tutto o se, pur essendoci un testamento, questo non esaurisce l’intero asse e restano ulteriori beni dei quali il testatore non ha disposto (c.d. beni intestati). La vocazione legittima è dunque suppletiva rispetto a quella testamentaria, ed entrambe hanno per oggetto il relictum. Il testamento rappresenta, per il privato, uno strumento di autonomia che gli attribuisce la possibilità di regolare la sua successione in modo diverso dalla disciplina legale. c) Deve operare la delazione, cioè l’offerta concreta della possibilità di accettare rivolta all’istituito (defero = offro). In altre parole bisogna vedere se la chiamata è attuale o ne è sospesa l’efficacia. Se la delazione è sospesa il chiamato non può accettare (nella vocazione testamentaria, ad es., potrebbe essere pendente una condizione posta dal testatore; nella vocazione legittima non vi è delazione nei confronti di un successibile finché il chiamato di grado anteriore non abbia deciso di rifiutare). Quando il primo istituito rifiuta, e quindi “non vuole”, o vi sono altre
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ragioni per cui “non può” accettare (premorienza, indegnità, assenza, morte presunta), si fa luogo ad una devoluzione della chiamata e quindi ad una delazione successiva. d) La vicenda successoria si conclude con l’acquisto da parte di colui che è istituito erede o al quale è stato attribuito un legato. Il chiamato all’eredità acquista solo mediante accettazione. Il suo diritto è, innanzitutto, quello di scegliere se accettare o rinunziare. Tuttavia la delazione è già fonte di alcuni poteri del chiamato esercitabili prima della accettazione (art. 460) per proteggere il suo eventuale acquisto: infatti egli può valersi delle azioni possessorie, compiere atti conservativi (ad es. chiedere un sequestro) e di vigilanza, farsi autorizzare a vendere beni deperibili. Se il chiamato muore, dopo l’apertura della successione del de cuius, senza avere esercitato la scelta, il diritto di decidere resta nel suo patrimonio e potrà essere esercitato dai suoi eredi. Si ha dunque la trasmissione del diritto di accettare l’eredità. Gli eredi del chiamato potranno accettare o rinunziare l’eredità del de cuius come avrebbe potuto fare il loro autore.
Se l’istituito non effettua alcuna scelta, il suo diritto si prescrive nel termine ordinario di dieci anni, ma altri successibili di grado ulteriore potrebbero avere interesse a conoscere al più presto le intenzioni del chiamato. È prevista a tal fine una actio interrogatoria, con cui qualunque interessato può chiedere al giudice di fissare un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o meno; la mancata risposta vale come rinunzia (art. 481). Il legatario acquista subito il diritto senza bisogno di accettazione (art. 649). È salvo, tuttavia, il diritto del legatario di rinunziare al legato, in base al principio per cui nessuno può subire una modifica della propria sfera giuridica, sia pure in senso favorevole, contro la sua volontà (anche l’erede può esercitare una actio interrogatoria per conoscere le intenzioni del legatario; se questi non risponde perde la facoltà di rinunziare). Dopo il quadro che abbiamo tracciato è opportuno esaminare più approfonditamente alcuni aspetti.
2. Le disposizioni mortis causa: l’istituzione di erede. La chiamata è effettuata tramite disposizioni mortis causa. Le disposizioni tipiche hanno contenuto patrimoniale e sono l’istituzione di erede e il legato. Si dicono tipiche perché sono le uniche disposizioni previste dalla legge che, avendo contenuto patrimoniale, sono in gra-
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Cap. 24. La successione in generale
do di determinare la successione. Esse trovano la loro fonte tanto nella vocazione legittima quanto in quella testamentaria. Una ulteriore disposizione mortis causa è costituita dal modus o onere, che è proprio del solo testamento. Trattandosi di un obbligo imposto dal defunto, che deve essere adempiuto dall’erede o dal legatario, esso non determina mai una successione in senso proprio. Nel testamento – che costituisce un contenitore della volontà del defunto, se così si può dire – possono coesistere sia disposizioni tipiche, destinate a distribuire le sostanze del de cuius o comunque ad attribuire diritti patrimoniali mortis causa (art. 588), sia disposizioni atipiche le quali, non avendo contenuto patrimoniale, non determinano una chiamata a succedere (art. 5872) come, ad es., il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio, le disposizioni per la sepoltura, la designazione di un tutore per i propri figli e così via. L’istituzione di erede è la chiamata a succedere in universum jus, cioè in un complesso di situazioni giuridiche. Si parla di chiamata (e di acquisto) a titolo universale, perché si ha una sorta di investitura del chiamato a succedere nella stessa posizione del de cuius, indipendentemente dalla quantità e qualità dei singoli rapporti giuridici esistenti in concreto, tanto attivi, quanto passivi (se il passivo supera l’attivo si parla di una damnosa hereditas). Nel linguaggio comune, quando una persona sola è chiamata a succedere per l’intero si parla di “erede universale”, ma dal punto di vista giuridico sono eredi “a titolo universale” anche più soggetti chiamati contemporaneamente all’eredità per quote, uguali o diseguali fra loro, qualunque ne sia l’entità. L’acquisto dei diritti e delle obbligazioni avviene, anche in queste ipotesi, per universitatem, cioè come conseguenza dell’acquisto di una totalità, l’universitas, appunto (perciò quando più eredi accettano una eredità indivisa si crea una comunione ereditaria, cioè una contitolarità di diritti e obbligazioni). L’erede succede nella titolarità di diritti e obblighi che già furono del de cuius, e questa è la conseguenza del suo subentrare al posto del defunto. Per la stessa ragione egli acquista anche le situazioni di fatto già facenti capo al defunto: in particolare il possesso di un bene si trasmette cum vitiis et virtutibus, cioè con le stesse caratteristiche soggettive (di buona fede o di mala fede) e con la stessa estensione oggettiva del godimento (cioè con lo stesso titolo del possesso: proprietà, usufrutto, servitù, ecc.) con cui era stato iniziato dal de cuius, indipendentemente dal comportamento effettivo dell’erede. Si parla, in questo caso, di successione nel possesso (successio in possessionem). La chiamata dell’erede nella vocazione legittima avviene pro quota, cioè
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con l’indicazione della parte (ad es., art. 570: i fratelli succedono in parti uguali) o della frazione dell’intero (ad es. art. 569: per una metà gli ascendenti della linea paterna e per l’altra metà quelli della linea materna). Nella vocazione testamentaria la istituzione di erede può essere fatta ancora pro quota: lascio la metà a Tizio, un terzo a Caio (in tal caso è ovvio che parlando di una frazione, il testatore ha in mente l’intero), ma molto spesso il de cuius lascia determinati beni, indicati specificamente, o un complesso di beni, con l’intenzione di distribuire la totalità del suo patrimonio (ad es., “lascio a Tizio tutti i miei beni mobili e a Caio gli immobili”, oppure, “voglio che il mio patrimonio sia così attribuito: la casa di città a Tizio, la campagna a Caio, i titoli e il denaro a Sempronio”. Questo tipo di disposizione viene chiamata istituzione ex re certa (o ex rebus certis), e vale anch’essa come istituzione di erede se risulta dall’atto che il testatore aveva l’intenzione di trasmettere una porzione dell’intero (ancorché tale quota sia determinata qualitativamente, indicando i singoli beni, piuttosto che quantitativamente, indicando la frazione matematica). Il valore di ciascuna attribuzione si potrà quantificare a posteriori, in proporzione al valore dell’intero asse ereditario, determinando quale frazione è rappresentata da ogni singolo lascito. Se non risulta l’intenzione di esaurire l’intero asse con questa distribuzione, non si avranno istituzioni di erede ex re certa, ma soltanto legati. Considerata la differenza di disciplina e di effetti tra eredità e legato, che stiamo descrivendo in queste pagine, si capisce come sia delicato il compito di chi deve interpretare il testamento. La giurisprudenza della Cassazione per lungo tempo ha sostenuto l’invalidità della diseredazione in quanto non avrebbe rappresentato un atto “di disposizione”, secondo la lettera dell’art. 587, ma solo l’espressione di una volontà negativa di escludere uno o più dei possibili chiamati per legge (non parliamo, quindi, dei legittimari, c.d. “eredi necessari”). Negli ultimi tempi l’orientamento della Corte si è del tutto capovolto, interpretando l’atto, che pur contiene una mera volontà negativa, come esercizio del potere dispositivo, volto quindi a produrre conseguenze favorevoli nei confronti degli altri successibili che non sono stati esclusi. L’erede può chiedere il riconoscimento della sua qualità ereditaria contro coloro che possiedono i beni ereditari senza titolo alcuno (possessor pro possessore) o a titolo di erede (possessor pro herede) e anche contro gli aventi causa di costoro (art. 533). Contro queste categorie di avversari il titolo di erede vero è vincente – se così si può dire – perché gli altri non dispongono di alcuna difesa utile (né colui che accampa un falso titolo di erede, né, a fortiori, colui che possiede senza titolo, né i loro aventi causa).
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Se invece un terzo possedesse ad altro titolo, ad es. sostenendo che il de cuius gli aveva concesso un diritto di usufrutto, non sarebbe utile contrastarlo dimostrando la qualità di erede vero (infatti l’erede succede esattamente al posto del defunto) ma sarà necessario impugnare il titolo del possesso, ad es. esercitando l’azione di nullità del contratto, o dimostrando che è scaduto il termine di efficacia del negozio e così via.
L’azione diretta a far riconoscere la qualità di erede si chiama petizione di eredità (hereditatis petitio). Il nome rivela che è una azione petitoria, esattamente come l’azione di rivendicazione prevista a difesa della proprietà (art. 948), in quanto si fondano entrambe sulla titolarità del diritto. Mentre la rivendica, tuttavia, difende il diritto su di un singolo bene e richiede la prova di aver acquistato il diritto a titolo originario (la c.d. probatio diabolica), la petizione si esercita nei confronti della totalità dei beni ereditari ed è sufficiente dimostrare il titolo di erede. Come la rivendica, anche la petizione è imprescrittibile, ma bisogna fare attenzione ad eventuali acquisti a titolo originario di beni ereditari da parte di terzi, cioè mediante usucapione. L’erede può chiedere il riconoscimento del proprio titolo anche dopo trent’anni, ma se un terzo ha posseduto un bene per venti anni uti dominus, cioè come se fosse proprietario, o ha compiuto una usucapione abbreviata, il suo acquisto non potrà essere più toccato.
Gli acquisti a titolo oneroso dei terzi di buona fede dall’erede apparente sono fatti salvi dalla legge, in applicazione del principio della (tutela della) apparenza. Erede apparente è colui che risulta erede sulla base di circostanze oggettive, grazie ad un testamento che è stato poi revocato (l’erede vero è stato istituito con altra disposizione testamentaria o dalla legge), oppure è stato chiamato a succedere per legge, ignorando che esisteva un testamento valido che nominava erede un’altra persona, scoperto soltanto in tempo successivo.
3. Le disposizioni patrimoniali divisionali. Il testatore può dare altre disposizioni mortis causa di natura accessoria. Alla istituzione di erede pro quota egli può aggiungere due specie di provvedimenti: a) la divisione del testatore (art. 734). Consiste nella attribuzione di beni determinati ai singoli eredi, in modo da soddisfare le quote ideali che
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spettano a ciascuno, scegliendo i beni che vanno a formare le porzioni. Questa divisione impedisce il sorgere di una comunione ereditaria e produce un effetto reale: l’erede che accetta acquista la titolarità immediata dei beni assegnati nella quota, fin dal momento dell’apertura della successione. Ad es., dopo avere istituito Tizio per un terzo, Caio per un quarto, ecc., il testatore assegna alla quota di Tizio la casa di Vicenza, la collezione di francobolli, ecc., alla quota di Caio il terreno di Monselice, la propria collezione di quadri e così via. Se nella divisione il testatore dimentica qualcuno dei legittimari o degli eredi già istituiti (per legge o per testamento) la divisione è nulla. Se invece dimentica di distribuire alcuni beni, essi saranno attribuiti per vocazione legittima, se questa è operante, o per vocazione testamentaria, se risulta una volontà in tal senso. La divisione del testatore è simile alla istituzione ex re certa, perciò è utile aggiungere qualche precisazione. Nella divisione il testatore presuppone le quote (attribuite da lui stesso per testamento o dalla legge) e le vuole riempire – se così si può dire – in modo da dividere i suoi beni rispettando le proporzioni già assegnate. Nella istituzione ex re certa, invece, il testatore assegna beni determinati senza indicare e, talvolta, senza neppure avere in mente le quote. Risulta soltanto che egli intende distribuire l’intero suo patrimonio. Sarà poi compito di chi deve interpretare il testamento quello di ricostruire a posteriori le quote, stimando il valore dei beni lasciati a ciascun erede. Perciò si dice che nella istituzione ex re certa i beni sono lasciati come quota, mentre nella divisione del testatore i beni sono assegnati nella quota. b) Gli assegni divisionali. Anche se non fa una divisione vera e propria, il testatore può tuttavia dare disposizioni agli eredi circa il modo di formare le porzioni. Queste norme date dal testatore per la divisione non evitano la comunione ereditaria, ma hanno efficacia obbligatoria per gli eredi, salvo che il valore effettivo dei beni non corrisponda alle quote stabilite dal testatore (art. 733).
4. Le altre disposizioni patrimoniali: il legato e l’onere o modus. Il legato consiste nella attribuzione di un singolo diritto o anche di più diritti patrimoniali considerati individualmente e non come frazioni dell’intero patrimonio. Si parla dunque di acquisto a titolo particolare perché la successione non passa attraverso l’universitas, né attraverso l’identifica-
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zione della posizione del de cuius con quella del legatario, ma l’acquisto avviene mediante il trasferimento di un diritto da un soggetto ad un altro. In realtà il legato determina, essenzialmente, l’attribuzione di un diritto patrimoniale mortis causa, e la successione è solo una conseguenza normale, ma non necessaria, infatti la legge non richiede che l’oggetto del legato debba sempre far parte del patrimonio del de cuius. Si conosce anche il legato di cosa altrui (art. 651), o di cosa genericamente determinata non esistente nel patrimonio del testatore (art. 653). In tali casi, se ricorrono le condizioni di validità stabilite dalla legge, l’erede (detto anche onerato, perché sopporta il peso dell’adempimento) dovrà procurarsi il bene, ad es. acquistarlo dal terzo, e quindi trasferirlo al legatario (detto anche onorato, perché gode del beneficio). È ammesso anche il legato sottoposto a termine iniziale o finale. Il legato è attribuito, di solito, per testamento ma si conoscono anche dei legati ex lege (ad es., il diritto del coniuge superstite all’abitazione e all’uso dei mobili, art. 540). Il legato a favore di un erede si chiama prelegato. Il legato può essere di specie, cioè di cosa certa e determinata (ad es., lascio a Tizio il quadro appeso sopra la mia scrivania, o lascio a Caio l’appartamento che ho comprato a Bologna) e in tal caso la disposizione ha efficacia reale, cioè nel momento in cui diviene efficace il testamento il diritto di proprietà passa immediatamente al legatario con effetto dall’apertura della successione, ma il legatario deve chiedere il possesso, cioè la consegna della cosa, all’erede. Se il legato è di genere, cioè ha per oggetto denaro o cose fungibili (“lascio a Caio dieci milioni, a Sempronio una botte di vin santo”), anche di genere limitato (“lascio a Tizio 100 bottiglie della mia cantina”), non passa subito la proprietà, quindi il legato ha solo efficacia obbligatoria. Gli obblighi generati dal legato si considerano obblighi dell’eredità e il compito di adempiere spetta, perciò, all’erede, il quale, se ha accettato puramente e semplicemente, risponde con tutto il suo patrimonio (con quello ricevuto in eredità, ma anche con quello suo personale). Se invece ha accettato con beneficio di inventario, risponde solo entro i limiti dell’attivo ereditario. Nella liquidazione dei debiti hanno la preferenza i creditori del de cuius rispetto ai legatari (anche se questi sono legatari di specie; potrebbe essere addirittura necessario vendere beni ereditari lasciati in legato per poter soddisfare i creditori; ritorna l’antico principio nemo liberalis nisi liberatus, cioè prima si paghino i debiti, poi si attribuiscano le liberalità). Il legatario, diversamente dall’erede, non acquista il bene lasciato dal de cuius per mezzo della universitas, ma a titolo particolare. Ciò si ripercuote
§ 5. La capacità di succedere
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anche sul modo di acquisto del possesso: non si trasmette la stessa situazione del de cuius, ma le caratteristiche dipendono dall’atteggiamento del nuovo possessore nel momento iniziale, perciò si deve guardare se il legatario era in buona o mala fede e quale estensione hanno i suoi poteri di fatto (si parla, in questo caso, di accessione del possesso o accessio possessionis). Il modus o onere è costituito da una prestazione imposta dal de cuius al beneficiario di una liberalità. Può essere apposto per testamento tanto all’istituzione di erede quanto al legato (ad es. “ti lascio la metà dei miei beni, ma dovrai costruire un capitello votivo in memoria di mio padre”; “ti lascio la villa di Vicenza, ma dovrai aprirla al pubblico ad ogni anniversario della mia morte”). Il legatario è tenuto ad adempiere nei limiti del beneficio ricevuto, mentre per l’erede vale la regola della piena responsabilità (salvo gli effetti del beneficio di inventario).
5. La capacità di succedere. La regola della capacità di succedere, come si è già visto, ammette alla successione legittima tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo della morte del de cuius. In quella testamentaria è capace anche il non concepito, figlio di una determinata persona vivente al tempo dell’apertura della successione (art. 462). In ogni caso è necessario che vi sia la nascita di una persona viva, anche se poi la vita dura solo per pochi istanti. Anche le persone giuridiche hanno la capacità di succedere mortis causa, capacità estesa di recente dalla legge anche alle associazioni non riconosciute. Nei confronti delle persone fisiche è stabilita, in casi particolari, una speciale incapacità giuridica di ricevere per testamento. Ad es. il tutore non può ricevere dal pupillo per testamento se questo è redatto prima del rendimento del conto (ma se è stretto congiunto del testatore, cioè ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge non vale il divieto, art. 596). Sono incapaci il notaio che ha ricevuto il testamento pubblico, nonché i testimoni e l’interprete (art. 597). Altrettanto vale per la persona che ha scritto il testamento segreto (salva approvazione autografa del testatore) o per il notaio che ha ricevuto in deposito un testamento segreto in plico non sigillato (art. 598). In tutti questi casi le disposizioni in questione sono nulle, anche se fatte sotto nome di persona interposta (ma dirette, in realtà, all’incapace). La
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Cap. 24. La successione in generale
legge presume che siano persone interposte i genitori, il coniuge e i discendenti dell’incapace, senza possibilità di dimostrare il contrario, ma non si può escludere che l’interposizione avvenga utilizzando terzi estranei.
6. L’indegnità e la “sospensione della successione”. A differenza dell’incapacità, di cui si è appena parlato, la indegnità si riferisce ad ogni specie di successione (legittima, testamentaria, necessaria) e determina una situazione che richiama più l’annullabilità del negozio che la nullità. Infatti le disposizioni a favore dell’indegno non sono del tutto inefficaci e l’acquisto, pertanto, è possibile, ma chi ha interesse a far valere l’indegnità può impugnare in giudizio l’acquisto, con la conseguenza che l’indegno dovrà restituire quanto ha ricevuto, nonché i frutti percepiti dal momento dell’apertura della successione (art. 464), come se fosse un possessore di mala fede. L’indegnità rappresenta una sanzione per il comportamento illecito tenuto contro il de cuius, i suoi stretti congiunti, contro la libertà testamentaria o contro lo stesso testamento. È indegno: a) chi è colpevole di omicidio volontario, eseguito o tentato, o di istigazione al suicidio, del de cuius (o del coniuge, di un discendente o un ascendente del medesimo); b) chi è colpevole di calunnia per avere denunciato senza fondamento tali persone di avere commesso gravi reati o a tal fine ha testimoniato il falso; c) chi è decaduto dalla responsabilità di genitore nei confronti del figlio (v. supra, Cap. 9, par. 5) se non è stato reintegrato al tempo della morte di questo; d) chi ha indotto il testatore con violenza o inganno a fare, mutare o revocare il testamento o ne ha impedito la redazione; e) chi ha formato o usato un testamento falso o ha soppresso, nascosto, alterato un testamento autentico. L’indegno può essere riabilitato espressamente dal de cuius con atto pubblico o testamento (in cui dice, ad es., che gli perdona, ecc.), con la conseguenza che potrà poi succedere in qualunque specie di vocazione. In mancanza di riabilitazione espressa, tuttavia, se il de cuius ha disposto per testamento a favore dell’indegno, conoscendo la causa di indegnità, si ha una sorta di riabilitazione tacita con effetto limitato alla sola disposizione in questione (ad es. se il testatore lasciasse consapevolmente un legato
§ 7. L’accettazione dell’eredità
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ad un successore legittimo indegno, questi potrebbe trattenere il legato, ma sarebbe escluso dal diritto alla quota che gli spetterebbe per legge). La sospensione della successione per delitto familiare. L’art. 463 bis, inserito nel Codice civile dalla l. 11 gennaio 2018, n. 4, prevede a carico di chi risulti indagato per omicidio volontario o tentato omicidio del coniuge, dell’unito civilmente, di un genitore, di un fratello o di una sorella, un istituto che richiama in parte l’incapacità a succedere e in parte l’indegnità: la sospensione della successione della vittima (operante solo per i fatti accaduti dopo il 16 febbraio 2018). La ratio è quella di evitare che nelle more del processo penale il colpevole possa acquistare l’eredità, disporre del patrimonio e, specialmente, dissipare i beni, ciò che renderebbe inutile una successiva sentenza di indegnità, ancorché retroattiva. Il meccanismo è il seguente: se viene constatata la colpevolezza dell’indagato, perché segue una sua condanna o un patteggiamento, questi viene automaticamente dichiarato indegno dal giudice penale (nuovo art. 537 bis c.p.p.) senza bisogno di aprire un processo civile. Se invece il procedimento si chiude con una archiviazione o una sentenza definitiva di proscioglimento, diventa inefficace il provvedimento di sospensione. La sospensione, in sostanza, opera bloccando la delazione, subordinatamente alla condicio juris della non colpevolezza dell’indagato. Il tribunale, nel frattempo, nomina un curatore all’eredità giacente, che avrà la funzione di amministrare non l’intera eredità, ma la sola quota che sarebbe destinata all’indagato, senza che si richiedano i presupposti dell’eredità giacente (v. infra, par. 8) e quindi ancora una volta in via automatica, anche se l’indagato fosse già nel possesso dei beni e avesse già accettato l’eredità. In tal caso, la “sospensione” ha anche l’effetto di privare il titolare del potere di disposizione e del godimento dei beni finché non si esaurisce l’accertamento.
7. L’accettazione dell’eredità. L’eredità si acquista solo con l’accettazione; questa non può essere parziale né può essere sottoposta a condizione o a termine, pena la nullità del negozio (art. 475). L’accettazione richiede la capacità di agire ed è un atto irrevocabile. Chi è divenuto erede rimane tale per sempre (semel heres
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Cap. 24. La successione in generale
semper heres). Con l’accettazione pura e semplice egli assume la piena responsabilità per i debiti del defunto, con l’accettazione beneficiata acquista una responsabilità limitata al valore dell’attivo ereditario (perciò se si sospetta che vi siano debiti rilevanti nell’eredità è bene pensarci prima: una accettazione con il beneficio di inventario evita all’erede di compromettere il proprio patrimonio personale). Quanto ai vizi del consenso, l’accettazione può essere impugnata se è effetto di violenza o di dolo (l’azione di annullamento dura cinque anni dalla cessazione della violenza o dalla scoperta del dolo), ma non per errore. Il rischio di una damnosa hereditas è lasciato infatti al chiamato e alla sua diligenza nell’informarsi circa l’attivo e il passivo ereditario. Tuttavia se dopo l’accettazione si scopre un nuovo testamento, di cui non si aveva notizia, che impone di soddisfare legati imprevisti, l’erede risponde solo intra vires, cioè entro il valore dell’eredità (art. 483). L’accettazione pura e semplice può essere determinata: a) dalla volontà del chiamato. Si ha una accettazione espressa quando il chiamato in uno scritto dichiara di accettare, ma la legge ritiene sufficiente anche meno: basta che il chiamato assuma per iscritto la qualifica di erede (“quale erede di Tizio ti comunico che ho provveduto …”). Si ha accettazione tacita quando il chiamato compie degli atti patrimoniali che presuppongono la volontà di accettare, ad es. quando vende dei beni ereditari o li dà in locazione, e comunque quando compie atti che non avrebbe diritto di fare se non in qualità di erede. La donazione, la vendita o la cessione di diritti successori, a estranei o ad altri chiamati, importa accettazione pura e semplice dell’eredità (art. 477). Parimenti la rinunzia a favore di alcuni soltanto dei chiamati o verso corrispettivo importa accettazione perché il chiamato, in realtà, ha disposto dei suoi diritti (art. 478). Anche chi nasconde o sottrae beni ereditari è considerato erede puro e semplice, non ostante dichiari di rinunziare (art. 527). b) dalla legge. Se il chiamato è nel possesso dei beni ereditari (anche solo di alcuni di essi) e rimane in tale situazione senza fare nulla per tre mesi, la legge lo considera erede puro e semplice. In questo caso manca una accettazione vera e propria, ma vi è piuttosto la valutazione legale di un comportamento con la determinazione del suo significato tipico (il possesso e il silenzio valgono come accettazione anche se il chiamato non voleva accettare).
§ 7. L’accettazione dell’eredità
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Il chiamato che è nel possesso dei beni, perciò, se non vuole essere considerato erede puro e semplice, ha l’onere di: – dichiarare entro tre mesi che rinunzia all’eredità, oppure – fare l’inventario entro tre mesi (salvo proroga), dopo di che ha 40 giorni per dichiarare se accetta col beneficio d’inventario o se rinunzia. L’accettazione con beneficio d’inventario si fa mediante dichiarazione espressa, ricevuta dal notaio o dal cancelliere del tribunale (del circondario dove si è aperta la successione, art. 484), annotata nel registro delle successioni e trascritta nell’ufficio dei registri immobiliari. Deve essere preceduta o seguita entro tre mesi dall’inventario, altrimenti il chiamato diventa erede puro e semplice (art. 487). Possono accettare l’eredità solo con beneficio d’inventario gli incapaci legali, le persone giuridiche o le associazioni, le fondazioni e gli enti non riconosciuti. Le società, invece, possono accettare puramente e semplicemente. Il beneficio d’inventario spetta quindi soltanto al chiamato e produce i seguenti effetti: – limitazione di responsabilità dell’erede “intra vires”; questi non risponde dei debiti e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti; – separazione dei patrimoni; l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e gli obblighi che aveva verso il defunto (eccettuati, ovviamente, quelli estinti con la morte); ciò significa che pur riunendosi in una sola persona le situazioni giuridiche del defunto e quelle dell’erede, non vengono estinte per confusione; – prelazione dei creditori ereditari; essi sono preferiti ai creditori dell’erede nell’esecuzione forzata sul patrimonio del defunto. Questo effetto riflesso deriva dalla separazione dei patrimoni determinata dal beneficio d’inventario, ma l’erede può decadere dal beneficio se compie negozi di disposizione dei beni senza autorizzazione del giudice o se in mala fede omette di denunziare beni ereditari nell’inventario, ovvero simula debiti inesistenti. La decadenza fa perdere ogni effetto vantaggioso all’erede, e cade, di riflesso, anche la prelazione dei creditori del defunto. Costoro, perciò, se vogliono garantirsi tale diritto senza rischi, hanno l’onere di chiedere la separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede utilizzando appunto tale istituto, che è specificamente destinato a questo scopo. Una volta che l’accettazione e la redazione dell’inventario siano state
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Cap. 24. La successione in generale
annotate e trascritte l’erede può scegliere circa il modo di procedere nella liquidazione: – entro un mese dall’ultima annotazione o iscrizione può rilasciare i beni ereditari ai creditori, notificando loro tale intenzione e curandone la pubblicità mediante le annotazioni e le iscrizioni di cui sopra. Così facendo si disinteressa della liquidazione che verrà condotta da un curatore nominato dal tribunale; – passato il mese, se non vi sono opposizioni notificate dai creditori o dai legatari, può liquidare i creditori nell’ordine in cui si presentano (tenendo conto, ovviamente, dei diritti di prelazione); – se vi sono state opposizioni o se egli stesso preferisce agire in tal modo, può eseguire una liquidazione concorsuale dei creditori e dei legatari, con l’assistenza di un notaio (la procedura ricorda quella del fallimento, dove il curatore, per mezzo di una analoga liquidazione concorsuale, controllata dal giudice, cerca di soddisfare per quanto è possibile i creditori, conducendo una unica operazione complessiva, nel rispetto della par condicio creditorum). L’erede invita gli aventi diritto a dichiarare i propri crediti, forma uno stato di graduazione (in cui vengono prima i creditori privilegiati, poi quelli chirografari, cioè senza privilegio, poi i legatari), liquida le attività ereditarie facendosi autorizzare dal giudice a vendere i beni, infine, divenuto definitivo lo stato di graduazione e passata in giudicato la sentenza che decide sui reclami, paga, nell’ordine stabilito, i creditori e i legatari.
8. La giacenza dell’eredità. Se il chiamato all’eredità non è nel possesso dei beni e non ha accettato, l’eredità si può determinare una situazione di inerzia che nuoce a diversi soggetti, ad es. i creditori ereditari e i legatari desiderano ottenere il pagamento o la consegna della cosa legata, altri possono avere interesse che vengano compiuti atti di gestione e di amministrazione del patrimonio ereditario. Perciò, su istanza delle persone interessate o anche d’ufficio, il giudice può nominare un curatore all’eredità giacente. Della nomina è data pubblicità sul foglio degli annunci legali della provincia e viene fatta iscrizione nel registro delle successioni presso il tribunale. Il curatore è tenuto a fare l’inventario, ad amministrare e a rappresentare, anche in giudizio, l’eredità e dovrà rendere conto della propria amministrazione.
§ 9. La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede
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Con l’autorizzazione del tribunale il curatore può pagare i debiti o legati, ma se taluno dei creditori o legatari fa opposizione dovrà procedere alla liquidazione concorsuale, applicando le stesse regole dettate per il beneficio d’inventario.
9. La separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede. Lo strumento che tutela i creditori del defunto e i legatari non è dunque il beneficio di inventario, ma la separazione dei beni del defunto da quelli dell’erede. Con questo istituto si evita la confusione ereditaria e i creditori e i legatari separatisti hanno la preferenza rispetto ai creditori dell’erede. La separazione deve essere chiesta entro tre mesi dalla apertura della successione. Il modo di chiedere la separazione varia secondo la natura dei beni. Per quanto concerne i beni mobili la separazione si chiede con domanda giudiziale, nelle forme del sequestro (anche sui beni che sono oggetto dei legati di specie, se è necessario venderli per soddisfare i creditori). La separazione sui beni immobili si chiede con l’iscrizione nei registri immobiliari, secondo le stesse formalità dell’ipoteca. Resta però una differenza significativa: tutte le iscrizioni a titolo di separazione acquistano lo stesso grado fra loro (infatti tutti creditori hanno uguale diritto) e prevalgono sulle iscrizioni o trascrizioni effettuate ad altro titolo contro l’erede (infatti il diritto dei creditori o dei legatari è un diritto contro l’eredità, ed è giusto che abbia la precedenza sui diritti acquistati dai terzi contro l’erede).
Possono chiedere la separazione anche i creditori che hanno altre garanzie. Non è detto che tutti i creditori del defunto o i legatari chiedano la separazione: vi saranno dunque separatisti e non separatisti. L’effetto della separazione dei beni non è quello di dare la preferenza ai creditori separatisti sui non separatisti. Infatti tutti i creditori ereditari hanno lo stesso diritto di soddisfarsi sui beni del defunto, salve, ovviamente, le cause di prelazione (art. 514 ultimo comma). Perciò se il valore dei beni dell’attivo ereditario è inferiore a quello dei debiti, la quota in ragione della quale i creditori ereditari possono essere soddisfatti è facilmente valutabile sulla carta a priori, indipendentemente dalle domande di separazione: infatti se i debiti ammontano a 100 e l’attivo ammonta a 50, ciascun creditore non potrà ottenere soddisfazione per più
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Cap. 24. La successione in generale
della metà del proprio credito (50 : 100 = ½) se invece i beni sono sufficienti a coprire i debiti, ciascun creditore sa che se agisce accortamente può ottenere piena soddisfazione. Il vantaggio dei separatisti sarà dunque quello di evitare il concorso dei creditori dell’erede sulla quota di beni ereditari separati, mentre i non separatisti potrebbero trovare sui beni non separati anche il concorso di tali creditori.
10. La rinunzia all’eredità. La rinunzia all’eredità deve farsi con dichiarazione espressa (dice un antico broccardo che le rinunzie non si presumono) in forma di atto pubblico, ricevuto da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e inserita nel registro delle successioni (art. 519). Anche la rinunzia, come l’accettazione, è un atto puro e non tollera condizione o termine, sotto pena di nullità. La rinunzia ha effetto retroattivo: chi rinunzia è come se non fosse mai stato chiamato (art. 521). Ma la rinunzia all’eredità non comprende donazioni e legati fatti dal de cuius al chiamato, che conservano la loro efficacia e possono essere trattenuti dal rinunziante, nei limiti della porzione disponibile (art. 5212). La rinunzia priva il chiamato del diritto di succedere e quindi può nuocere ai suoi creditori. Perciò la legge consente loro di impugnare la rinunzia facendosi autorizzare dal giudice ad accettare in nome e luogo del rinunziante al solo scopo di soddisfare il proprio credito. L’eventuale residuo non spetta al rinunziante (il quale, perciò, non diventa erede), ma al successivo chiamato (art. 524). Ricordiamo che la sottrazione dei beni ereditari impedisce la rinunzia. La rinunzia è un negozio revocabile finché non sia prescritto il diritto di accettare e finché non sia avvenuta l’accettazione dei successivi chiamati. La revoca della rinunzia si compie mediante dichiarazione espressa di accettazione dell’eredità (ma si ammette anche l’accettazione tacita).
11. La devoluzione della chiamata. Con la rinunzia, così come per effetto di altre vicende – quali la scomparsa, l’assenza, la morte presunta, la premorienza dell’istituito e la indegnità – la chiamata non va a buon fine e perciò è necessario indirizzarla ad
§ 12. La sostituzione
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altri soggetti. Si parla, in proposito, di devoluzione della chiamata. Le regole della devoluzione sono le seguenti: Nella vocazione legittima: a) se il primo istituito (cioè il chiamato che non può o non vuole succedere) è figlio o fratello del de cuius, la sua quota viene devoluta ai suoi discendenti per rappresentazione; b) se il primo istituito è chiamato in concorso con altri parenti di pari grado, la sua quota va a beneficio degli altri perciò si accresce a costoro; c) se il rinunziante è chiamato da solo, prima di altri parenti, la sua quota va ai chiamati di ordine successivo. Nella vocazione testamentaria la quota del primo istituito si devolve: a) per sostituzione, se il testatore ha previsto un secondo chiamato nel caso che il primo non voglia o non possa accettare; b) per rappresentazione, a favore dei discendenti del primo chiamato, se questi è figlio o fratello del de cuius; c) per accrescimento, aggiungendosi alla quota degli altri istituiti, se sussiste una chiamata congiuntiva o solidale; d) per vocazione legittima, a vantaggio di coloro che sono chiamati in grado successivo. Nell’ordine sopra indicato, ogni regola esclude le successive. Esaminiamo distintamente gli istituti in questione.
12. La sostituzione. Si guarda innanzitutto la volontà del de cuius, il quale potrebbe avere espressamente previsto, in un testamento, la nomina di un secondo istituito qualora il primo non possa o non voglia accettare (art. 688). Possono anche sostituirsi più persone ad una ed una a più (sostituzione plurima). La sostituzione è possibile tanto nell’eredità quanto nel legato. Questa forma di sostituzione, è detta ordinaria o volgare, ed è permessa perché non modifica il diritto del successore (chi accetta diviene infatti titolare pieno e può disporre come vuole del diritto) ma concerne soltanto la chiamata. È vietata invece la sostituzione fedecommissaria, con la quale anticamente si imponeva all’erede di conservare i beni per trasmetterli ad altri al momento della morte.
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Cap. 24. La successione in generale
Attualmente la legge vieta di porre un siffatto vincolo all’erede (ma la stessa regola vale anche per il legatario), perché sarebbe privato, sostanzialmente, del potere di disporre. Tuttavia, in base ad un principio di conservazione della volontà del testatore (giustificato dal fatto che essa è irripetibile), la sostituzione fedecommissaria si può convertire in una sostituzione ordinaria, perciò al secondo chiamato spetta il diritto di accettare se il primo non può o non vuole succedere. Per la stessa ragione indicata poc’anzi, il testatore non può lasciare un usufrutto successivo, imponendo al beneficiario di trasmettere (mortis causa) il godimento ad un’altra persona, ma anche in questo caso la disposizione si salva parzialmente, poiché la legge la considera valida a favore di tutti coloro che alla morte del testatore si trovano primi chiamati a goderne (art. 698).
Con una disposizione introdotta dalla Riforma del 1975 è stato previsto, invece, il fedecommesso familiare, di natura assistenziale. Il de cuius, nell’istituire erede il proprio figlio, discendente o coniuge, interdetto o interdicendo per vizio di mente, può obbligarlo a conservare i beni per restituirli alla sua morte all’ente o alla persona fisica che si sia presa cura di lui, sotto la vigilanza del tutore. Se l’ente o la persona (secondi istituiti) non esistono al tempo della morte dell’interdetto (primo istituito), i beni si devolvono ai successori legittimi dell’incapace. La sostituzione è priva di effetto se l’interdizione viene revocata, o non viene richiesta entro due anni dalla maggiore età del minore, infermo di mente, o non viene concessa dal giudice, o le persone e gli enti hanno violato gli obblighi di assistenza.
13. La rappresentazione. La rappresentazione è una devoluzione della chiamata rivolta ai figli e ai discendenti del primo istituito che non può (scomparsa, assenza, morte presunta, premorienza, indegnità) o non vuole (rinunzia) succedere. L’istituto opera solo se il primo chiamato è figlio o fratello del de cuius. Di conseguenza si può dire che la rappresentazione favorisce sempre e soltanto i nipoti o pronipoti del de cuius, infatti i secondi chiamati o sono discendenti del figlio (nipoti ex filio o pronipoti in linea retta) o sono discendenti del fratello (nipoti ex fratre). I discendenti del primo istituito non sono chiamati in quanto successori del loro ascendente, ma direttamente come successori del de cuius, al posto del loro ascendente. Non contano, perciò, nella rappresentazione, le vicende intercorse tra de cuius e primo istituito, né quelle fra primo e secondo istituito, ma solo la
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§ 13. La rappresentazione
relazione fra quest’ultimo e il de cuius. Perciò la chiamata per rappresentazione opera a favore dei discendenti anche se essi hanno rinunciato o sono indegni rispetto a loro genitore o ascendente e vale anche se quest’ultimo era indegno rispetto al de cuius. La rappresentazione avviene per stirpi. Ciò significa che la quota del chiamato che non può o non vuole accettare non si accresce ai chiamati di pari grado, ma viene devoluta ai suoi discendenti e la frazione di tale quota che spetta a ciascuno di loro segue la stessa sorte se questi rinunzia o non può accettare. Esempio: + A de cuius istituiti i figli o i fratelli (chiamati di I grado) 1/3 _________________ B (premorto ad A)
1/3 _________________ C (accetta)
1/3 _________________ D (rinunzia)
istituiti per rappresentazione (chiamati di II grado) i discendenti legittimi e naturali di B e D 1/9 _______ B1 (accetta)
1/9 _______ B2 (rinunzia)
1/9 _______ B3 (accetta)
1/6 _______ D1 (rinunzia)
1/6 _______ D2 (accetta)
la chiamata di II grado di B2 e D1 viene devoluta ai loro discendenti legittimi e naturali 1/18 ____ B2.1
1/18 ____ B2.2
1/12 ____ D1.1
1/12 ____ D1.2
e così via. Anche la rappresentazione, come la trasmissione del diritto di accettare, può essere determinata dalla morte del primo chiamato, ma attenzione a non confondere le due figure: – la trasmissione è dovuta al fatto che il chiamato muore dopo il de cuius, senza avere accettato la sua eredità, mentre nella rappresentazione (per premorienza) il chiamato muore prima del de cuius; – nella trasmissione il diritto di accettare si devolve agli eredi (anche estranei) del I chiamato (chiunque egli sia) mentre nella rappresentazione si devolve ai discendenti del I chiamato (che può essere soltanto) figlio o fratello del de cuius; – nella trasmissione il I chiamato è dante causa del II chiamato, perciò
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Cap. 24. La successione in generale
se il II chiamato rinunzia all’eredità del I chiamato, o è indegno di succedergli, non può neppure accettare l’eredità del de cuius (perché il diritto di scegliere se accettare o rinunziare è compreso nel patrimonio del I chiamato) mentre nella rappresentazione il primo istituito non è dante causa ma i discendenti sono aventi causa direttamente dal de cuius, infatti possono rifiutare l’eredità del loro genitore, o essere indegni rispetto alla sua successione, ma accettare ugualmente l’eredità del de cuius (nonno, bisnonno, zio, o prozio) devoluta loro per rappresentazione.
14. L’accrescimento. Nella vocazione legittima si ha una sorta di accrescimento quando il chiamato rinunzia e non vi sono i presupposti per la rappresentazione: allora se il chiamato concorreva con altri successibili dello stesso grado, la sua quota si accresce agli altri (art. 522). Ma se, in mancanza dei genitori, sono chiamati gli ascendenti metà va a quelli della linea paterna e metà a quelli della linea materna. Il vero accrescimento opera, tuttavia, nella vocazione testamentaria, supponendo che la volontà del testatore sia quella di attribuire l’eredità o il legato solo entro una cerchia ristretta di persone, in modo tale che se una di esse non può o non vuole accettare la sua quota si accresce a quella degli altri. Sono richiesti alcuni requisiti negativi e positivi: – non vi sia una diversa volontà del testatore, ad es. una sostituzione o la dichiarazione che non deve attuarsi l’accrescimento; – non vi siano i presupposti della rappresentazione, che prevale sull’accrescimento; – deve esserci una chiamata congiuntiva o solidale che dimostra la volontà di fare l’attribuzione solo ai soggetti nominati. La chiamata di più eredi è congiuntiva se questi sono chiamati nello stesso testamento (coniunctio verbis) ma senza distinzione di quote o in quote uguali (coniunctio re). L’attribuzione a più legatari è congiuntiva quando la stessa cosa è lasciata a più persone, anche in diversi testamenti (coniunctio re).
§ 15. Il certificato successorio
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15. Il certificato successorio. La petizione di eredità, di cui si è detto in precedenza (supra, par. 2) presuppone la necessità di far valere il titolo di erede in situazioni di conflitto, ed è solo la sentenza del giudice che può risolvere una controversia in modo definitivo. Ma se non c’è conflitto e l’acquisto della qualità di erede è pacifico (chiamata per legge o per testamento più accettazione espressa, tacita o presunta) vi è oggi uno strumento nuovo (l. n. 161 del 2014) introdotto in attuazione del Regolamento europeo (U.E. n. 650 del 2012) che fa fede erga omnes circa la qualità di erede, consentendo di reclamare un diritto o tutelare posizioni soggettive già spettanti al de cuius, di riscuotere denaro presso istituti di credito, ecc. Il certificato non è richiesto obbligatoriamente, ma è un utile strumento probatorio, efficace in tutta Europa, che può attestare, oltre alla qualità di erede, anche quella di legatario, esecutore testamentario o amministratore della eredità. In Italia è competente a rilasciarlo il Notaio, dopo avere effettuato gli accertamenti necessari.
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Cap. 25. I diritti degli stretti congiunti
CAPITOLO 25
I DIRITTI DEGLI STRETTI CONGIUNTI
SOMMARIO: 1. La vocazione necessaria e il diritto dei legittimari. – 2. L’azione di riduzione. – 3. La collazione. – 4. Il nuovo patto di famiglia e i diritti dei legittimari.
1. La vocazione necessaria e il diritto dei legittimari. L’importanza della famiglia, intesa nel suo nucleo più ristretto, si fa sentire anche in materia successoria. La legge, infatti, riconosce ad alcuni stretti congiunti il diritto di succedere in una quota del patrimonio del defunto. Essi prendono il nome di legittimari e sono (art. 536): – il coniuge; – i figli o, al posto di questi, i loro discendenti che eventualmente succedano per rappresentazione; – i figli adottivi; – se mancano figli o discendenti, gli ascendenti. Abbiamo detto che il diritto concerne il patrimonio, e non l’asse ereditario. Si tratta di un patrimonio ricostruito nel modo seguente. Per determinare le quote si fa la c.d. riunione fittizia, chiamata in tal modo perché non corrisponde alla creazione di una massa reale di beni, ma ad una operazione di pura aritmetica, compiuta sommando e detraendo alcuni valori. In particolare si calcola il valore dei beni che appartenevano al defunto al tempo della morte (relictum), si detraggono i debiti e si aggiunge il valore dei beni donati in vita (donatum). Il risultato di tale operazione (relictum meno i debiti più donatum) fornisce l’entità del patrimonio sul quale si può calcolare la quota cui hanno
§ 1. La vocazione necessaria e il diritto dei legittimari
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diritto i legittimari, chiamata (quota di legittima o) legittima, e la quota di cui poteva disporre il de cuius senza violare il diritto dei legittimari, chiamata (quota) disponibile. Quest’ultima varia, ovviamente, secondo la quantità e la qualità dei legittimari, perché man mano che cresce la quota di riserva, proporzionalmente diminuisce la quota disponibile (che va dal massimo di due terzi, se il defunto lascia solo ascendenti, fino al minimo di un quarto se il defunto lascia coniuge e figli o discendenti). Le espressioni vocazione legittima e vocazione nella legittima (o vocazione necessaria) non devono essere confuse tra loro. Anche la vocazione necessaria trova la sua fonte nella legge, ma non è una chiamata a succedere nell’asse ereditario, in alternativa con le altre due specie di vocazione (legittima e testamentaria); piuttosto fa nascere un diritto dei legittimari ad ottenere una parte di beni del defunto, contro le altre vocazioni mortis causa e contro le donazioni. La vocazione dei legittimari costituisce, perciò, una disciplina fondamentale che ha per oggetto le attribuzioni liberali del de cuius nel loro complesso (mortis causa e inter vivos) e governa la trasmissione ai più stretti familiari del patrimonio così ricostruito. Il diritto dei legittimari, tuttavia, può essere esercitato solo ricorrendo al giudice, perché solo una sentenza ha l’autorità di andare contra testamentum o contro i negozi di liberalità inter vivos. Con una formula efficace si potrebbe dire che la vocazione legittima (dei parenti fino al sesto grado) vale meno del testamento, perché funziona solo se questo manca in tutto o in parte (art. 4572), mentre la vocazione nella legittima vale più del testamento perché «le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari», art. 4573, ma vale anche più delle donazioni effettuate dal de cuius.
La quota di legittima viene indicata dal codice (art. 536 ss.) dicendo che “è riservata” ad un determinato legittimario (perciò viene chiamata riserva o quota necessaria). Il testatore non può gravare tale quota con pesi o condizioni. I figli concorrono innanzitutto tra loro. Se il defunto lascia un solo figlio, questi ha diritto a metà del patrimonio, se lascia più figli, a costoro sono riservati due terzi, da dividersi in parti uguali. Al coniuge è riservata la metà del patrimonio dell’altro coniuge, tanto se
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Cap. 25. I diritti degli stretti congiunti
succede da solo (art. 540), quanto se concorre con gli ascendenti del defunto (art. 544). Se il coniuge concorre con un figlio spetta un terzo a ciascuno, se concorre con più figli spetta un quarto al coniuge ed è riservata la metà del patrimonio ai figli (art. 542). Al coniuge spetta inoltre, anche in caso di concorso con altri legittimari, un diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e un diritto di uso dei mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni. Si tratta di un legato ex lege che gli spetta oltre la riserva, se c’è capienza nella disponibile (art. 5402). Gli ascendenti da soli hanno diritto ad un terzo, ma in concorso con il coniuge hanno diritto ad un quarto e non hanno diritto alla riserva quando vi sono figli del de cuius. Confrontando le quote della vocazione legittima e della vocazione necessaria si scopre che alla stessa persona spetta una quota minore se succede in veste di legittimario di quanto non gli spetti nella vocazione ab intestato (v., ad es., le quote fissate nel concorso dei figli col coniuge, rispettivamente nell’art. 542 e nell’art. 581); non si tratta di una svista del legislatore: le due quote si calcolano su diversi cespiti, infatti nella vocazione legittima spetta una quota dell’eredità, quindi del solo relictum, mentre nella vocazione necessaria spetta una quota del patrimonio, quindi del relictum più il donatum. Infine i figli non riconoscibili o non riconosciuti di cui all’art. 279 (v. supra, Cap. 22, par. 9) non sono legittimari, perché non hanno un diritto a una parte di beni, ma hanno un diritto di credito. Spetta loro un assegno vitalizio, pari alla rendita della quota che sarebbe toccata loro se fossero stati riconosciuti. È da notare che se fossero stati riconosciuti sarebbero legittimari, quindi la quota su cui si calcola la rendita, è pur sempre quota del patrimonio (relictum più donatum) e non quota dell’asse ereditario. Inoltre tale assegno grava contemporaneamente su eredi legatari e donatari, in proporzione a ciò che hanno avuto (art. 594). Se però il de cuius ha disposto a favore di questi figli per donazione o testamento essi possono rinunziare alla disposizione e chiedere l’assegno, altrimenti trattengono la disposizione, ma non possono chiedere alcun supplemento.
§ 2. L’azione di riduzione
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2. L’azione di riduzione. Il diritto alla legittima è tutelato con l’azione di riduzione, che viene concessa a ciascuno dei legittimari, separatamente dagli altri (e non vi è nemmeno litisconsorzio obbligatorio, cioè obbligo di chiamare in causa gli altri). Con tale azione (concessa peraltro anche agli eredi dei legittimari, se questi sono morti senza esercitarla) essi possono far dichiarare inefficaci le disposizioni liberali lesive, nei limiti in cui ciò può servire a ricostituire la quota di riserva. È bene chiarire due punti: – il testamento che viola il diritto dei legittimari non è nullo; – anche se manca un testamento, il diritto alla legittima può essere leso ugualmente, dalle (valide) donazioni fatte in vita dal testatore o dalle norme della vocazione legittima che chiamano i legittimari in concorso con altri successibili. Poiché tuttavia queste ultime non sono disposizioni del testatore la riduzione avviene automaticamente senza bisogno di esperire l’azione contro gli eredi legittimi (v. un esempio in proposito alla pagina seguente).
Vale il termine ordinario di prescrizione della azione di dieci anni, decorrenti dall’apertura della successione (ma, secondo una recente pronuncia, Cass. n. 20644 del 2004, se la lesione deriva da istituzioni di erede contenute in un testamento, il termine decorre da quando è avvenuta l’accettazione del chiamato). Il diritto alla legittima, una volta apertasi la successione, è rinunciabile in modo espresso o anche tacito, purché il comportamento sia univoco. La sentenza che pronuncia la riduzione cancella gli effetti prodotti da tali disposizioni in modo tale che i legittimari (ma solo quelli che hanno agito in riduzione) potranno chiedere la restituzione dei beni donati e la divisione dei beni relitti ottenendo la porzione loro riservata. Si dice che la riduzione ha anche un effetto reale perché ripulisce i beni restituiti, infatti gli immobili (o i beni mobili registrati) verranno restituiti dal donatario liberi da ogni peso (ad es. un diritto di usufrutto) o ipoteca di cui questi possa averli gravati (art. 561) con pregiudizio dei terzi. Ma attenzione! Ciò avviene purché la riduzione sia esperita entro 20 anni dalla (trascrizione della) donazione. Altrimenti il legittimario che agisce dopo tale termine (e comunque non oltre 10 anni dall’apertura della successione) avrà in restituzione il bene ancora gravato dai pesi già costituiti, conservando contro il donatario solo un di-
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Cap. 25. I diritti degli stretti congiunti
ritto di credito avente per oggetto l’indennizzo per il minor valore degli stessi. Se poi il bene fosse stato alienato dal donatario a terzi, costoro (dopo la vana escussione del donatario da parte dei legittimari) sarebbero soggetti alla riduzione, (salva la scelta se restituire il bene in natura o pagarne il valore) ma, in base ad una norma recentissima, dopo 20 anni dalla trascrizione della donazione fanno salvo il loro acquisto. Come si vede questo termine ventennale decorrente dalla donazione affievolisce o cancella addirittura il diritto dei legittimari (e, ovviamente, non è detto che entro venti anni sia morto il donante e quindi sia già possibile agire da parte loro); è stato perciò introdotto a loro favore un istituto nuovo, la opposizione alla donazione che consiste in una dichiarazione stragiudiziale dei legittimari, notificata al donatario e trascritta, la quale ha l’effetto di sospendere il decorso del termine ventennale nei confronti del donatario e dei suoi aventi causa, in modo tale da conservare l’effetto reale dell’azione di riduzione. Tale opposizione vale per 20 anni ma poi va rinnovata per conservare l’effetto sospensivo.
L’azione di riduzione presuppone dunque il calcolo della quota, svolto attraverso la riunione fittizia, al fine di controllare se ciò che riceve in concreto il singolo legittimario, per successione mortis causa, soddisfa il suo diritto, ma richiede che al momento di agire ciascuno faccia la c.d. imputazione ex se, cioè imputi alla sua quota anche quanto ha ricevuto dal defunto per donazione (direttamente o indirettamente), come se avesse ricevuto in vita un anticipo di successione. Sono escluse dalla imputazione le donazioni d’uso o per servizi resi (art. 7702), nonché le spese ordinarie per nozze e per l’istruzione artistica o professionale (art. 742). La donazione o il testamento possono contenere una dispensa dalla imputazione, se il de cuius intende fare tale attribuzione oltre la legittima e non entro la stessa. Dovendo rispettare i diritti degli altri legittimari, la dispensa fatta a favore di uno o alcuni di essi vale solo nei limiti della disponibile. La riduzione opera in ordine inverso rispetto alla sequenza temporale delle disposizioni lesive. Prima si riducono le disposizioni testamentarie (che sono le ultime a causare la lesione della quota) cioè istituzioni di erede e legati, poi le donazioni, risalendo dalle più recenti alle più remote. Il legittimario che sia erede, per vocazione legittima o testamentaria, può agire dunque innanzitutto contro altri coeredi, ma (ferma restando la condizione della imputazione ex se) se vuole agire contro persone che non sono coeredi, quali legatari e donatari, ha l’onere di accettare con beneficio d’inventario, per tenere separata la propria posizione e far risultare l’esatta consistenza dell’asse, a garanzia di tutti (art. 564). Se invece il testatore ha dimenticato un legittimario, distribuendo tutto
§ 3. La collazione
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il relictum a favore di altri eredi o legatari, il legittimario pretermesso può agire anche senza accettazione beneficiata. Prima ancora delle disposizioni mortis causa si riducono automaticamente le porzioni attribuite dalla legge ad altri parenti, se vi è concorso fra eredi legittimi e legittimari. L’art. 553 suscita sempre una certa curiosità. Come è possibile che due attribuzioni successorie volute entrambe dalla legge siano in contrasto fra di loro? Facciamo un esempio: Tizio muore, senza aver fatto donazioni, lasciando coniuge, ascendenti e fratelli. Il suo relictum è di 120. Poiché col testamento egli ha disposto di 30, attribuendo legati ad estranei, il residuo 90 resta intestato (come si suol dire) cioè deve essere distribuito secondo la vocazione legittima, applicando la regola dell’art. 582, e cioè al coniuge 2/3 (8/12 = 60) agli ascendenti 1/4 (3/12 = 22,5), ai fratelli il rimanente, cioè 1/12 (= 7,5). Ma mentre i fratelli non sono legittimari, il coniuge e gli ascendenti hanno diritto alla riserva prevista dall’art. 544 e ciò significa, per il coniuge, 1/2 del relictum più donatum (120 + 0 = 120 : 2 = 60), per gli ascendenti 1/4 di 120 (= 30). In questa ipotesi, pertanto, gli ascendenti hanno diritto alla riduzione della quota legittima prevista per i fratelli e con ciò sono soddisfatti senza bisogno di toccare i legati (che equivalgono alla disponibile). Perciò con la riduzione, nel nostro esempio, ai fratelli non spetta nulla.
Spesso il testatore lascia un bene, o un diritto determinato, ad un legittimario, per soddisfare il suo diritto alla quota di riserva e per separare la sua posizione da quella di altri eredi. Si parla, in tal caso, di legato in sostituzione di legittima. Il testatore, tuttavia, anche disponendo un legato sostitutivo della legittima, non può mai impedire al legittimario di chiedere la quota a lui riservata, ma se questi chiede la legittima deve rinunciare al legato; se invece preferisce conseguire il legato perde il diritto di chiedere un supplemento, qualora il valore del legato sia inferiore a quello della legittima (eccezionalmente il de cuius può ammettere la domanda di integrazione del legato). La volontà di attribuire al legato natura sostitutiva della legittima deve essere espressa, altrimenti il lascito deve intendersi come legato in conto di legittima e pertanto, come tutte le liberalità fatte al legittimario, il suo valore si imputa alla quota di riserva.
3. La collazione. La collazione interessa un gruppo di persone ancora più ristretto di quello dei legittimari, infatti riguarda i soli figli (o i loro discendenti) in
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Cap. 25. I diritti degli stretti congiunti
concorso tra loro o in concorso con il coniuge del defunto. La collazione richiede, come presupposto, che sussista una comunione ereditaria, quindi vi siano degli eredi che hanno accettato e sussista un cespite comune, cioè una coeredità, costituita da una massa da dividere fra i chiamati. A differenza della vocazione necessaria, che assegna ai legittimari una azione verso chiunque abbia avuto, a titolo di liberalità, una attribuzione del defunto (tanto familiari, quanto estranei), la collazione opera solo nei rapporti interni fra figli e coniuge e soltanto se sono coeredi. Ecco perché la legge disciplina questo istituto nell’ambito della divisione ereditaria (art. 737 ss.). I coeredi devono conferire alla massa da dividere tutto ciò che hanno ricevuto dal de cuius in vita come donazione diretta o indiretta, cioè col negozio formale di donazione, ma anche con qualunque altro mezzo scelto dal defunto per arricchire volutamente il beneficiario attraverso una attribuzione patrimoniale. Ad es. il padre ha acquistato un appartamento intestandolo direttamente ad un figlio, oppure il coniuge ha pagato un grosso debito personale dell’altro coniuge senza voler essere rimborsato. Ciò significa che se un figlio o il coniuge hanno ricevuto una donazione diretta o indiretta dal defunto devono conferirla alla massa da dividere con gli altri coobbligati, considerandola come un anticipo di successione. Il conferimento consente di rifare le porzioni che spettano a ciascuno, senza peraltro modificare la quota, assegnata dalla legge o dal testamento. Ad es., se il de cuius muore senza testamento lasciando tre figli, la legge li chiama a succedere ciascuno per un terzo. Quindi se il defunto ha lasciato un asse di 300 e in vita non ha fatto donazioni ai figli, questi nella divisione otterranno 100 a testa. Ma se in vita il defunto aveva donato 300 a ciascuno dei primi due figli e nulla al terzo, quest’ultimo in sede di divisione ereditaria, applicando la regola della collazione, prenderà tutto l’asse. Il conferimento può esser fatto per imputazione, cioè senza restituire il bene donato (come nell’esempio precedente) ma calcolandone il valore che aveva al momento dell’apertura della successione (artt. 747, 750) al fine di riempire la quota del coerede, oppure – per i soli beni immobili che non siano già stati alienati o ipotecati – in natura, cioè restituendo effettivamente alla massa il bene, in modo tale che questo, nella successiva divisione, possa essere assegnato ad un altro erede. La scelta spetta al singolo coerede obbligato. Il conferimento in collazione, pertanto, non ha il carattere puramente aritmetico della riunione fittizia, ma modifica realmente la massa da dividere o quanto meno modifica il criterio di apporzionamento, cioè il modo di soddisfare le quote dei coeredi.
§ 4. Il nuovo patto di famiglia e i diritti dei legittimari
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Il de cuius può dispensare dalla collazione nei limiti della disponibile (nell’atto di donazione o nel testamento), dimostrando che intende fare una attribuzione (al figlio o al coniuge) oltre la quota di eredità. Non sono soggette a collazione le donazioni di modico valore fatte al coniuge, le spese di mantenimento e istruzione per i figli, né quelle ordinarie per le nozze e l’istruzione artistica o professionale. Non sono soggette le donazioni d’uso. Sono invece soggette le donazioni obnuziali, le spese per l’avviamento di una attività produttiva o di una professione, il pagamento di debiti del figlio o di premi di assicurazione sulla vita a suo favore. Il discendente che succede per rappresentazione deve conferire ciò che è stato donato al suo ascendente (infatti egli succede al posto dell’altro). È possibile che il meccanismo della collazione sia, di per sé, sufficiente ad evitare il ricorso all’azione di riduzione, quando la lesione di legittima dipende da donazioni fatte a soggetti che sono, nello stesso tempo, legittimari e coeredi obbligati alla collazione. In tal caso il conferimento dei beni donati alla massa da dividere è sufficiente a cancellare la lesione. Ma se il de cuius ha violato il diritto dei legittimari con lasciti testamentari o con donazioni fatte a terzi, estranei al gruppo dei coobbligati, oppure se il legittimario leso è un ascendente, estraneo all’istituto della collazione o, infine, se non si crea una coeredità fra i discendenti o fra discendenti e coniuge perché, ad es., il testatore ha diviso tutti i suoi beni, l’unico rimedio che resta per ottenere la legittima è l’azione di riduzione.
4. Il nuovo patto di famiglia e i diritti dei legittimari. Con la legge 11 febbraio 2006, n. 55 è stato introdotto nel libro II, Titolo IV, dedicato alla Divisione, un nuovo istituto, il Patto di famiglia, disciplinato nel nuovo Capo V bis, artt. 768 bis-octies. Lo scopo è quello di consentire all’imprenditore, finché è ancora in vita, di trasferire ad uno o più discendenti la titolarità, e quindi la gestione dell’impresa, evitando il pregiudizio dell’apertura di una successione mortis causa (spesso portatrice di incertezza, di controversie tra gli eredi e causa di arresto dell’attività produttiva), contemperando questa esigenza con quella di salvaguardare i diritti degli altri legittimari che vengono tacitati, nel quadro di una operazione unitaria (consistente in un unico contratto o in due contratti collegati tra loro da stipularsi, comunque, per atto pubblico). Il contratto, al quale devono partecipare tutti coloro che sarebbero legittimari nel momento della assegnazione, ove si aprisse la successione dell’imprenditore (coniuge, figli o loro discendenti per rappresentazione, ma an-
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Cap. 25. I diritti degli stretti congiunti
che ascendenti, nell’eventualità che in futuro vengano a mancare i discendenti), è consensuale ed ha sostanzialmente la natura di una liberalità, con effetto reale essenziale, in quanto immancabilmente avviene il trasferimento dell’azienda (se l’impresa è individuale) o delle partecipazioni societarie (quote o azioni, se l’impresa è collettiva, in quanto gestita da una società di persone o di capitali). Normalmente ha anche una efficacia obbligatoria, come effetto naturale, in quanto gli assegnatari prescelti per continuare la gestione dell’impresa, di regola, devono liquidare gli altri legittimari in denaro (o, per accordo delle parti, in natura). Si tratta, pertanto, di una sorta di donazione modale a beneficio degli assegnatari. Non sembra escluso, tuttavia, – e si può immaginare che spesso avverrà così nella pratica – che con l’accordo degli interessati le assegnazioni a tacitazione dei legittimari siano effettuate (con effetto reale) nello stesso contratto dall’imprenditore, distribuendo, in tal modo, una parte dei suoi beni mentre è ancora in vita, rispettando – almeno quantitativamente – il diritto dei legittimari.
Il nuovo istituto va, ovviamente, studiato con una profonda riflessione della dottrina, in attesa che la giurisprudenza riveli la preferenza per un profilo interpretativo determinato. Allo stato attuale le caratteristiche più salienti sembrano queste: 1. la parziarietà della operazione; infatti le attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell’azienda (nel rispetto della proporzione tra le quote di riserva), non si commisurano ai diritti che i legittimari avrebbero sull’intero patrimonio dell’imprenditore, ma si calcolano proporzionalmente al valore della sola azienda o delle partecipazioni sociali trasferite ai discendenti. Quindi il calcolo si riferisce soltanto al valore di questo limitato cespite donato a coloro che sono stati scelti per continuare la gestione. Potremmo dire che i legittimari assegnatari dell’azienda e i legittimari liquidati a tacitazione del loro diritto ottengono un patrimonio segregato dal resto in quanto (se non sopravvengono nuovi aventi diritto non vincolati dal contratto) ciò che essi hanno ricevuto non sarà più soggetto a riduzione e a collazione in sede di successione. Alla morte dell’imprenditore resta pertanto impregiudicato il diritto dei legittimari (assegnatari e non) sul restante patrimonio del de cuius. 2. la cristallizzazione dei valori; il valore dell’azienda, o delle partecipazioni, o il valore dei beni assegnati ai legittimari sono fissati nel contratto con riferimento al momento in cui viene stipulato il patto di famiglia, ed è tale stima (non quella effettuata alla morte dell’imprenditore) che vale per tutti coloro tra i quali è efficace il patto.
§ 4. Il nuovo patto di famiglia e i diritti dei legittimari
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Anzi la legge prevede che gli stessi legittimari che non abbiano partecipato al contratto (perché sopravvenuti o, secondo la tesi più “liberale”, perché non hanno voluto partecipare) e che non hanno rinegoziato il patto in sede di modifica successiva, al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore possono chiedere a coloro che vi hanno partecipato la liquidazione della loro quota (parziaria, nel senso indicato sopra) al valore stabilito al tempo del contratto, aumentata degli interessi legali (art. 787 sexies). In realtà il problema che riguarda i legittimari sopravvenuti che non hanno partecipato al contratto (come nel caso di un figlio nato successivamente al patto o del nuovo coniuge dell’imprenditore, risposatosi successivamente) tocca un tema assai più profondo dal punto di vista sistematico: infatti si discute se possano esserci dei soggetti che vengono pregiudicati da un contratto al quale essi non hanno partecipato e quindi la questione di fondo è se – dopo l’introduzione del patto – rimangano salvi i principi di relatività del contratto e restino integri i diritti dei legittimari. La legge non è chiara sul punto: se si attribuisce al patto una forza dirompente, come molti ritengono, a tali legittimari sopravvenuti non resterebbe nient’altro che un diritto di credito alla liquidazione della somma corrispondente al valore della loro quota, calcolata a posteriori, ma riferita al tempo del patto, come prevede l’art. 768 sexies; se invece si ritiene che il nuovo istituto si inserisca, nei limiti in cui risulta compatibile, nel quadro tradizionale dei principi privatistici, senza sovvertirli, questi legittimari potrebbero chiedere di essere liquidati in base all’art. 768 sexies, se ciò fosse corrispondente al loro interesse, altrimenti essi conserverebbero tutti i diritti alla quota di riserva previsti dalla legge, e la valutazione dei beni già effettuata al tempo del patto non sarebbe vincolante nei loro confronti. Perciò resterebbero salvi l’azione di riduzione per ottenere la loro quota di legittima e il diritto di chiedere la collazione nei confronti degli altri discendenti o del coniuge.
Il patto di famiglia consiste in un atto tra vivi che, per gli effetti successori previsti dalla legge, contempla un potere dispositivo dell’imprenditore certamente in contrasto col tradizionale divieto dei patti successori istitutivi. E, d’altro canto, l’adesione al patto da parte dei discendenti e degli altri legittimari porta con se anch’essa un contenuto rinunciativo nei confronti di diritti di una successione non ancora aperta che appare contrario allo stesso divieto. Per questa ragione è stata modificata anche la norma dell’art. 458 che, pur continuando a prevedere la nullità dei patti successori in genere, fa salva l’eccezione apportata dalla nuova disciplina.
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Cap. 26. La vocazione legittima
CAPITOLO 26
LA VOCAZIONE LEGITTIMA
SOMMARIO: 1. La chiamata di figli, genitori, ascendenti, senza concorso fra loro. – 2. Segue: coniuge, collaterali, altri parenti, Stato. – 3. Il concorso fra eredi legittimi.
1. La chiamata di figli, genitori, ascendenti, senza concorso fra loro. Come è noto, la vocazione legittima opera quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria. Le categorie di chiamati sono: il coniuge, i discendenti, gli ascendenti, i collaterali, gli altri parenti e infine lo Stato, secondo l’ordine fissato dalla legge (art. 565). Ricordiamo che anche nella vocazione legittima opera la rappresentazione. Le condizioni sono sempre le stesse (alle quali opera nella vocazione testamentaria e necessaria), cioè il primo chiamato, che non può o non vuole succedere, deve essere figlio o fratello del de cuius, mentre i chiamati per rappresentazione sono i discendenti del primo istituito. Perciò quando la legge, enunciando gli ordini di successibili, cita i discendenti o i collaterali dobbiamo pensare, rispettivamente, ai figli e loro discendenti o ai fratelli e loro discendenti (in quanto costoro succedano per rappresentazione al posto dei loro genitori). La legge prevede alcune ipotesi di successione senza concorso: Al defunto succedono innanzitutto i figli in parti uguali. I figli adottivi maggiori di età sono equiparati ai figli nati nel matrimonio, i figli minori adottati hanno lo stato di figli. I figli nati fuori del matrimonio sono chiamati alla successione quando la filiazione è stata riconosciuta o dichiarata. Ai figli non riconoscibili, cui spetta in vita del genitore il diritto al mantenimento, all’istruzione e all’educazione, in morte dello stesso spetta un
§ 2. Segue: coniuge, collaterali, altri parenti, Stato
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assegno vitalizio pari alla rendita della quota di eredità cui avrebbero diritto se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta. In sede di vocazione legittima la quota di eredità su cui calcolare il reddito va misurata sul relictum. Essi possono chiedere la capitalizzazione dell’assegno in denaro ovvero, a scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari (art. 580). A colui che muore senza figli né fratelli o sorelle o loro discendenti, succedano i genitori. Il padre e la madre hanno diritto ad eguali porzioni, altrimenti succede per l’intero il genitore che sopravvive. Se mancano i genitori, succedono per una metà gli ascendenti o della linea paterna e per l’altra metà gli ascendenti della linea materna, ma se gli ascendenti non sono di eguale grado, l’eredità è devoluta interamente al più vicino, secondo la regola “il prossimo esclude i remoti” (art. 569). Se il figlio nato fuori del matrimonio muore senza lasciare prole né coniuge la sua eredità si devolve al genitore che lo ha riconosciuto o nei confronti del quale è stata dichiarata la filiazione.
2. Segue: coniuge, collaterali, altri parenti, Stato. Se il figlio muore senza figli o ascendenti, o senza fratelli o sorelle, al coniuge spetta l’intera eredità (art. 583). Il coniuge separato senza addebito ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato, ma se gli è stata addebitata la separazione ha solo diritto ad un assegno vitalizio, se al momento della morte dell’altro coniuge godeva di un assegno alimentare (artt. 585 e 548). Quando il matrimonio è stato dichiarato nullo dopo la morte di uno dei coniugi il coniuge superstite putativo ha diritto di succedere come coniuge, ma è escluso dalla successione se il de cuius è legato da valido matrimonio al momento della morte (art. 584). Nel caso di morte del figlio nato fuori del matrimonio prima della Riforma succedeva il solo coniuge, se il defunto non aveva prole né genitori (art. 579, abrogato). Oggi, con la Riforma della filiazione, come si è visto, possono essere chiamati a succedere i fratelli, anche se nati fuori del matrimonio, in quanto il riconoscimento fa nascere una parentela collaterale a tutti gli effetti, tra tutti i figli della stessa persona.
In base alla nuova regola della propagazione del vincolo di parentela
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Cap. 26. La vocazione legittima
senza distinguere il modo dell’accertamento (che non vale, tuttavia, per l’adozione di maggiori di età, art. 74) opera dunque la vocazione dei collaterali. In mancanza di prole, di genitori o di altri ascendenti, hanno diritto di succedere i fratelli, in parti uguali fra loro; i fratelli unilaterali (che hanno in comune col de cuius solo uno dei genitori) conseguono la metà della quota che spetta ai germani (figli dello stesso padre e della stessa madre). Se il defunto non lascia figli o discendenti, genitori o ascendenti, fratelli o sorelle o loro discendenti, la successione si apre a favore degli altri parenti, cioè dei parenti prossimi, senza distinzione di linea, ma la successione non ha luogo tra parenti oltre il sesto grado (art. 572). Se mancano i parenti di sesto grado l’eredità è devoluta allo Stato. È dubbio, peraltro, che esso acquisti a titolo di erede, dato che non c’è bisogno di accettazione né è ammessa una rinunzia, e inoltre lo Stato non risponde dei legati o dei debiti ereditari oltre il valore dei beni acquistati.
3. Il concorso fra eredi legittimi. La legge regola anche il concorso fra i successibili di diverso ordine. Il coniuge concorre con i figli. Se concorre con un solo figlio, entrambi gli eredi hanno diritto alla metà, mentre se i figli sono più di uno, a loro complessivamente spettano due terzi e solo un terzo al coniuge. Il coniuge concorre altresì con ascendenti e con fratelli e sorelle anche unilaterali, ovvero con gli uni e con gli altri. In tal caso il coniuge ha diritto a due terzi dell’eredità mentre gli ascendenti hanno diritto a un quarto e ai fratelli resta un dodicesimo. Con i fratelli e le sorelle del defunto possono concorrere i genitori, dividendo per capi, purché ai genitori non spetti una quota inferiore alla metà. Se nessuno dei genitori può o vuole venire alla successione, si ha concorso fra i collaterali e gli ascendenti. La quota che sarebbe spettata al genitore si devolve per una metà agli ascendenti della linea paterna e per l’altra metà a quelli della linea materna.
§ 2. Le forme ordinarie del testamento
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CAPITOLO 27
LA VOCAZIONE TESTAMENTARIA
SOMMARIO: 1. Le caratteristiche del testamento. – 2. Le forme ordinarie del testamento. – 3. I testamenti speciali. – 4. L’invalidità del testamento per quanto concerne gli elementi essenziali del negozio. – 5. Segue: invalidità ed elementi accidentali. – 6. La revocazione delle disposizioni testamentarie. – 7. La coeredità e la divisione.
1. Le caratteristiche del testamento. Il testamento è l’atto revocabile con cui la persona fisica dispone delle sue sostanze o di parte di esse per quando avrà cessato di vivere (art. 587). La prima caratteristica del testamento è dunque la revocabilità. Fino all’ultimo istante di vita il testatore è libero di modificare o revocare le proprie disposizioni di volontà mortis causa. Non si può pattuire alcun vincolo né rinunziare a questa libertà (art. 679), né sono validi accordi che impegnano il de cuius, come i patti successori istitutivi o confermativi (con i quali ci si assume l’obbligo di istituire erede qualcuno, art. 4581) o i contratti successori, perché la bilateralità di tali vincoli impedirebbe la revoca unilaterale del testatore. Sono altresì esclusi vincoli di reciprocità: è vietata la istituzione di erede sotto condizione di essere nominato reciprocamente dall’istituito (art. 589). Pur lasciando immutate queste regole nel loro complesso, oggi il legislatore ha introdotto un istituto quale il Patto di famiglia che va sicuramente contro alcuni dei principi ora ricordati. In quanto contratto tra vivi, produttivo di effetti immediati, non si può considerare un atto mortis causa, ma le conseguenze che esso esplica nel diritto successorio sono così significative che si è dovuto riformulare l’art. 458 (v. supra, Cap. 25, par. 4).
La seconda caratteristica è la patrimonialità del testamento.
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Cap. 27. La vocazione testamentaria
Il contenuto tipico del testamento, che identifica tale atto, è costituito da disposizioni patrimoniali (istituzioni di erede o legati, eventualmente arricchiti dalla imposizione di un onere o modus a carico del beneficiario). Basta che vi sia anche una sola disposizione di questo genere, per il tempo successivo alla morte, affinché si possa qualificare l’atto come testamento. La legge consente, tuttavia, di utilizzare il testamento (in una delle forme previste per la sua validità) come un contenitore di atti non patrimoniali, quali il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, la designazione di un tutore, ecc. Si parla in questo caso di contenuto atipico del testamento. Le disposizioni non patrimoniali sono valide se l’atto ha la forma del testamento anche se mancano disposizioni patrimoniali (ma l’atto non può qualificarsi sostanzialmente come testamento). Il testamento è negozio unilaterale, in quanto richiede la volontà del solo testatore e produce il suo effetto indipendentemente da una accettazione. Non è atto recettizio, cioè diretto o a un destinatario determinato, neppure se contenuto in una lettera-testamento. Il fatto che sia portato a conoscenza di determinate persone non è giuridicamente rilevante ai fini della sua efficacia. Si dice che il testamento è atto unipersonale. Ciò significa che nella confezione dell’atto non può intervenire la volontà di altri soggetti, né come rappresentanti del de cuius, né come coautori delle disposizioni, pena la nullità radicale. La volontà testamentaria deve provenire direttamente dal testatore. È nullo il testamento congiuntivo, cioè fatto da due persone che dispongono contemporaneamente delle proprie sostanze nello stesso atto (art. 589), ma sono validi due testamenti simultanei, cioè fatti contemporaneamente con due atti separati, ancorché scritti sul medesimo supporto cartaceo. Lo stesso principio della personalità determina la nullità della disposizione rimessa alla volontà di un terzo, sia per quanto concerne la individuazione della persona dell’erede o del legatario, sia per quanto concerne la determinazione della quota di eredità (art. 631), l’oggetto o la qualità del legato (art. 632). Però se il testatore ha indicato alcune persone o categorie di persone a cui lasciare un legato, è ammesso che la scelta si faccia dipendere dalla volontà dell’erede o di un terzo ed è valido il legato di remunerazione per servizi prestati al testatore anche se generico (art. 6322). Il testamento è un atto di ultima volontà, cioè idoneo a produrre effetti solo con la morte del de cuius e non prima. Anzi è l’unico atto di ultima vo-
§ 2. Le forme ordinarie del testamento
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lontà ammesso dalla legge: sarebbe nulla una donazione mortis causa (in cui l’effetto deve prodursi solo alla morte del donante). È atto formale. In proposito vanno sottolineati due aspetti: innanzitutto l’atto deve essere redatto in una delle forme previste dalla legge, per dare alla volontà testamentaria definitiva un rilievo diverso (anche ai fini probatori) da quello di altri eventuali progetti o appunti che raccolgono le intenzioni del de cuius, e per attirare la sua attenzione sulla importanza della dichiarazione. In secondo luogo il formalismo determina la c.d. completezza della volontà testamentaria. Ciò significa che solo le disposizioni espresse nel testamento sono rilevanti e quindi hanno effetto. Si è già detto che il testamento non può rinviare ad una volontà altrui, ma neppure è valido il rinvio ad una volontà dello stesso testatore se espressa all’esterno di tale atto, in forma non testamentaria. Questo principio spiega la regola della inefficacia della disposizione fiduciaria. L’indicazione di un erede o di un legatario non può essere impugnata per dimostrare che si tratta di persona interposta e che il reale beneficiario è un terzo, anche se espressioni del testamento possono indicarlo o farlo presumere (art. 627). Perciò non si può dimostrare che la disposizione è fiduciaria e la persona istituita è soltanto un destinatario apparente. Anche se costui si fosse impegnato verso il de cuius a trasferire il lascito al terzo (indicato dal testatore in un atto separato), non sarebbe giuridicamente obbligato (ma la legge riconosce valido l’adempimento di siffatta obbligazione naturale, art. 627). Fanno eccezione al principio del formalismo talune ipotesi previste dalla legge in cui la disposizione è contenuta nel testamento, ma va integrata con elementi esterni, ad es., il legato di cosa altrui è valido se risulta dal testamento o da altra dichiarazione scritta del testatore che egli sapeva che la cosa apparteneva a un terzo (art. 651). Si tratta però di eccezioni apparenti, relative ad una volontà accessoria alla disposizione e subordinata ad essa.
2. Le forme ordinarie del testamento. Le forme dei testamenti ordinari sono quattro. Pur avendo differenti caratteristiche – da cui discendono pregi e difetti – hanno tutti la stessa importanza e pari efficacia.
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Cap. 27. La vocazione testamentaria
a) Testamento olografo. Significa scritto interamente a mano dal testatore. L’autografia è essenziale: l’intervento di mezzi meccanici o di altra mano renderebbe nullo l’intero atto. Il testamento olografo deve essere datato e sottoscritto. Per quanto concerne la firma non è necessario apporre nome e cognome, purché sia certo l’autore (basta, ad es., che in fondo alla lettera sia scritto “tuo padre”). La mancanza di autografia o di sottoscrizione determinano la nullità del testamento olografo. La data deve indicare giorno mese anno della redazione (anche mediante riferimento ad eventi esterni o ricorrenze, ad es. “San Valentino 2002”, oppure, “oggi, giorno della nascita del mio primo figlio”) altrimenti il testamento è annullabile per mancanza o incompletezza della data. Il testamento è valido anche se la data non è quella vera. La non veridicità della data può essere dimostrata solo se si controverte in tema di incapacità del testatore (e conseguente invalidità del testamento) o in tema di revoca (e conseguente inefficacia della disposizione testamentaria precedente, in quanto revocata da quella successiva) o in relazione ad altra questione da decidersi in base alla data del testamento. Il testamento olografo è il più semplice da redigere o da modificare, inoltre ha il vantaggio di essere riservato, però può essere scorretto nell’uso dei termini, impreciso nella definizione della volontà, difficile da interpretare o può essere occultato o distrutto da terzi, a meno che non sia depositato (ad es., consegnandolo in una busta chiusa) presso un notaio. Una recente pronuncia della Cassazione (S.U., n. 12307 del 2015) ha precisato che per far valere la falsità di un testamento olografo non si può ricorrere né al disconoscimento di scrittura privata né alla querela di falso (cfr. supra, Cap. 7, par. 2), ma solo ad un’azione di accertamento negativo. b) Il testamento pubblico è redatto da un notaio, il quale riporta nell’atto la volontà dichiarata dal testatore. È richiesta fin dall’inizio la presenza di due testimoni, i quali devono assistere anche alla lettura dell’atto e alla fine devono sottoscriverlo, assieme al testatore e al notaio. Se al testatore risulta difficile sottoscrivere o non può farlo, il notaio deve dichiararne la causa nell’atto e menzionarla prima della lettura. Se manca la sottoscrizione del testatore o del notaio, o manca la scrittura da parte di questo delle dichiarazioni del testatore, il testamento è nullo (art. 606). Per altre cause è annullabile (ad es. se manca la firma dei testimoni). L’intervento del notaio, che redige l’atto e consiglia il cliente, garantiscono una espressione più chiara della volontà testamentaria, con formule tecnicamente corrette. La natura pubblica del testamento se, da un lato, è
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garanzia di attuazione della volontà del de cuius, dall’altro nuoce alla sua segretezza perché il contenuto è subito conosciuto dalle persone presenti. c) Il testamento segreto (o misto) può essere scritto a mano e sottoscritto dal testatore o scritto da un terzo o con mezzi meccanici, ma in tal caso deve essere sottoscritto dal testatore in ogni mezzo foglio. Ha la garanzia di segretezza del testamento olografo, perché la scheda testamentaria è chiusa dal testatore in un involucro e ha la garanzia di essere conservato e di essere eseguito perché, in presenza di due testimoni, viene consegnato al notaio, il quale sigilla l’involucro e sopra vi scrive l’atto di ricevimento che poi viene firmato dal testatore, dai testimoni e dal notaio stesso. Il testamento segreto che manca di qualche formalità può valere come testamento olografo se ne ha i requisiti (art. 607). Questo caso rientra nella figura della conversione formale del negozio nullo. Il testatore può ritirare in ogni momento il testamento olografo, se lo ha depositato presso il notaio, senza che ciò pregiudichi la sua validità ed efficacia, ma il ritiro del testamento segreto (quale risulta dal verbale di restituzione, sottoscritto dal testatore, dai testimoni e dal notaio) ne determina la revoca, a meno che esso non abbia i requisiti del testamento olografo e sia trovato integro alla morte del de cuius. d) Il testamento internazionale (in vigore dal 1991, in esecuzione della convenzione di Washington del 1973) consiste in un atto scritto, presentato a un notaio o ad altra persona abilitata (ad es., presso uffici consolari all’estero) in presenza di due testimoni, personalmente dallo stesso testatore, il quale dichiara che è il suo testamento e dichiara di essere a conoscenza del contenuto, quindi sottoscrive l’atto (o dichiara di riconoscere la propria firma se questa era già stata apposta). La persona abilitata dalla legge redige un verbale in cui attesta ciò che è avvenuto, nel rispetto dei requisiti formali. Il testamento olografo e quello segreto hanno bisogno della pubblicazione da parte di un notaio per divenire eseguibili (art. 620). Il notaio redige in forma di atto pubblico un verbale di apertura del testamento, in cui descrive lo stato del documento e trascrive le disposizioni di volontà. Copia dell’atto di pubblicazione è inviata alla cancelleria del tribunale nella cui giurisdizione si è aperta la successione, per l’inserimento nel registro delle successioni, e vengono avvertiti gli eredi e i legatari dei quali il notaio conosce il domicilio o la residenza (artt. 622 e 623).
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Cap. 27. La vocazione testamentaria
3. I testamenti speciali. I testamenti speciali sono previsti per quei casi in cui il testatore non può valersi delle forme ordinarie a causa di una situazione anomala, come uno stato di calamità, operazioni belliche, navigazione marittima o aerea. Se a causa di una epidemia locale, di un infortunio o di una calamità pubblica, il testatore non può ricorrere alle forme ordinarie (art. 609), può dichiarare la propria volontà a un notaio, al sindaco (o chi ne fa le veci) o, infine, ad un ministro di culto, purché siano presenti due testimoni di almeno 16 anni. La persona che riceve la volontà testamentaria redige un atto che poi sottoscrive insieme al testatore e ai testimoni. A bordo di una nave, in viaggio per mare, o di aeromobile, durante il volo, il comandante può ricevere la volontà del testatore in presenza di due testimoni con le stesse formalità sopra indicate e con l’obbligo di annotare il testamento sui libri di bordo. Il testamento dei militari o civili a seguito delle forze armate può essere ricevuto da un ufficiale (o un cappellano militare o un ufficiale della Croce Rossa) ma solo se il testatore è impegnato in guerra, oppure è prigioniero o di presidio fuori dello Stato (ad es., in Kosovo). Il codice regola il modo per far pervenire gli atti dei testamenti speciali a chi di dovere, cioè, secondo le varie ipotesi, all’archivio notarile, al ministero della difesa, a quello della marina o alle autorità aeronautiche. I testamenti speciali hanno una caratteristica comune, che è la provvisorietà: infatti essi perdono efficacia tre mesi dopo il ritorno del testatore in un luogo o in una situazione in cui è possibile fare testamento nelle forme ordinarie. Si ha nullità se manca la redazione scritta delle dichiarazioni del testatore o la sottoscrizione dello stesso o delle persone autorizzate a ricevere la dichiarazione, mentre altri difetti di forma comportano l’annullabilità.
4. L’invalidità del testamento per quanto concerne gli elementi essenziali del negozio. I requisiti di validità del testamento sono disciplinati dalla legge rispettando la tradizionale distinzione tra elementi essenziali e accidentali del negozio, ma con alcune varianti, rispetto alla disciplina del contratto, dovute alla speciale natura dell’atto di ultima volontà. Segnaliamo in particolare tre aspetti:
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a) l’atto del de cuius non è diretto ad un destinatario determinato né a un controinteressato, quindi non ha alcun rilievo l’affidamento di altri soggetti; b) merita grande considerazione la ricerca della volontà effettiva del de cuius, ancorché espressa in forme o modi del tutto particolari, propri del solo testatore; c) opera il principio di conservazione della volontà testamentaria: l’atto di disposizione mortis causa è irripetibile, perciò la legge cerca di salvare quanto è possibile della volontà del defunto, anche a scapito della sua interezza, facendo cadere, quando è necessario, alcune parti della disposizione pur di conservarne altre che rimangono efficaci. La invalidità del testamento comprende casi di nullità, che determina, come nel contratto, una inefficacia della disposizione ab origine, e casi di annullabilità in cui è richiesta l’azione di annullamento per rendere inefficaci le disposizioni. Tuttavia, diversamente dal contratto, nel testamento la annullabilità è assoluta e l’eccezione di annullamento non è imprescrittibile. Consideriamo la disciplina del testamento seguendo lo schema generale degli elementi del negozio giuridico, iniziando da quelli essenziali (della forma si è già parlato). a) Soggetti. Tutte le persone fisiche hanno la capacità giuridica per fare testamento (una volta veniva tolta all’ergastolano, ma la norma è stata abrogata); sono previste invece alcune ipotesi di incapacità giuridica speciale di ricevere per testamento: – non può ricevere il tutore se e la persona sottoposta a tutela ha fatto testamento prima della approvazione del conto finale; – non possono ricevere il notaio che ha redatto il testamento pubblico né i testimoni e l’interprete che sono intervenuti; – non può ricevere chi ha scritto il testamento segreto (salvo approvazione autografa del testatore) o il notaio che lo ha ricevuto se il plico non era sigillato. In tutti questi casi la sanzione è la nullità della disposizione a favore dell’incapace. Per quanto concerne la capacità di agire, sono incapaci di fare testamento il minore, l’interdetto giudiziale per vizio di mente e l’incapace naturale, cioè chi era incapace di intendere o di volere al momento dell’atto. L’inabilitato è pienamente capace di testare. Particolarmente delicata è la questione dell’incapacità naturale quando il testamento è fatto da una persona anziana o malata se, dopo la sua morte, si scontrano
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Cap. 27. La vocazione testamentaria
interessi contrapposti di parenti o estranei che aspirano all’eredità. Vale sempre il principio dell’onere della prova e quindi sarà necessario dimostrare con rigore lo stato di incapacità del testatore nel momento della confezione del testamento.
Le disposizioni viziate da incapacità di agire sono annullabili su domanda di chiunque vi abbia interesse, entro cinque anni da quando è stata data loro esecuzione. b) Volontà. Si è detto che nel testamento la volontà personale del testatore viene ad assumere una maggiore importanza. Lo si vede innanzitutto nella rilevanza del motivo illecito, che determina la nullità della disposizione se è l’unico che ha determinato il testatore a disporre e ciò risulta dall’atto in modo certo; ad es., risulta che il legato, destinato a un pubblico funzionario, ha lo scopo di compensarlo per un favore illecito richiesto dal testatore. Il motivo illecito può anche risultare da una condizione inserita nel testamento, come vedremo più avanti. In secondo luogo va sottolineata la rilevanza dell’errore in cui è caduto il testatore. Esso determina l’annullabilità del testamento senza bisogno che sia riconoscibile e neppure essenziale, come è prescritto nel contratto, purché sia in concreto determinante del consenso. È rilevante anche l’errore sul motivo che spinge il testatore a disporre. Quindi il motivo erroneo rende annullabile la disposizione purché ricorrano le condizioni di rilevanza del motivo e cioè esso risulti dal testamento (anche se non è espresso, deve essere chiaramente deducibile) e sia l’unico determinante, cioè il solo che ha indotto il testatore ha a disporre; ad es., Tizio dichiara che lascia un sostanzioso legato a Caio per riconoscenza verso “colui che lo ha salvato dalla prigionia durante l’ultima guerra”. Se poi gli eredi di Tizio scoprono che il testatore ha sbagliato persona possono chiedere l’annullamento della disposizione. Per altro verso, il motivo può determinare la risoluzione del lascito. Se l’unico motivo determinante di una disposizione modale risulta essere l’adempimento dell’onere da parte del soggetto istituito, l’inadempimento del modus può esser causa di risoluzione della disposizione principale (art. 648).
Il principio di conservazione della volontà testamentaria, d’altro canto, opera cercando di salvare l’atto dalla invalidità determinata da un errore del testatore e costituisce il fondamento della antica regola: “falsa demonstratio non nocet” (cioè la errata indicazione non pregiudica la validità della disposizione). Se il de cuius ha sbagliato ad indicare la persona dell’erede o del le-
§ 4. L’invalidità del testamento per quanto concerne gli elementi essenziali del negozio 373
gatario o l’oggetto della disposizione, ciò non determina invalidità dell’atto quando dal contesto del testamento si può ricavare in modo certo quale persona il testatore intendeva nominare o a quale cosa voleva riferirsi. La violenza o il dolo costituiscono altre cause di annullabilità del testamento, ma vengono intese in modo diverso rispetto al contratto, in particolare la giurisprudenza presta maggiore attenzione all’effetto soggettivo esercitato dalla minaccia o dal raggiro, valutando se tali comportamenti hanno concretamente determinato la volontà del de cuius. c) Oggetto. L’oggetto della disposizione deve essere possibile (ad es., non sarebbe valida per impossibilità giuridica una disposizione che crea una nuova figura di diritto reale, non previsto dalla legge), lecito (ad es., il testatore non può imporre all’erede un onere che offende la dignità della persona), determinato o determinabile. L’indeterminatezza della persona del beneficiario rende nulla la disposizione (art. 628) e così l’indeterminatezza dei beni o delle somme disposte dal testatore a favore dell’anima o dei poveri (tuttavia se è determinata l’entità del lascito, la genericità delle indicazioni, in questi casi, non è causa di invalidità, artt. 629 e 630). Sono nulle le disposizioni nelle quali è rimessa all’arbitrio del terzo la indicazione dell’erede o del legatario (art. 631) o l’indicazione dell’oggetto o della quantità del legato (art. 632). Tuttavia se le persone, o le categorie di persone, sono già state determinate dal testatore, la scelta del beneficiario può essere lasciata all’erede o a un terzo. Regole particolari valgono per l’oggetto del legato. Il legato è nullo se la cosa è interamente perita durante la vita del testatore (art. 673) o se al momento dell’apertura della successione la cosa o il genere di cose indicate dal testatore non si trovano nell’asse (art. 654) o non si trovano nel luogo dove devono prendersi (art. 655) o ancora se erano di proprietà del legatario sia al tempo del testamento che al tempo della morte del de cuius (art. 656). Anche il legato di cosa altrui è nullo (se all’apertura della successione la cosa non è del testatore, ma dell’onerato o di un terzo) salvo non risulti dal testamento o da altro atto scritto che il testatore era a conoscenza dell’altruità della cosa. In tal caso la disposizione sarà valida, ma avrà efficacia obbligatoria: l’erede dovrà dare la cosa al legatario acquistandola, se occorre, dal terzo (art. 651).
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5. Segue: invalidità ed elementi accidentali. L’istituzione di erede può farsi sotto condizione, sospensiva o risolutiva, ma non può essere sottoposta a termine. Ciò dipende dal fatto che l’avverarsi della condizione opera con effetto retroattivo e quindi vi è sempre continuità fra il de cuius e l’erede, sia questo il primo istituito (a favore del quale opera l’avveramento della condizione sospensiva) o un successivo istituito, a favore del quale opera la delazione, se la chiamata del primo non ha effetto (ma l’erede o il legatario sotto condizione possono tenersi i frutti percepiti nello stato di pendenza, art. 646). Il problema della continuità non esiste invece per il legato, che può essere sottoposto a condizione, ed anche a termine iniziale o (per diritti temporanei, prestazioni periodiche o diritti di usufrutto) finale, perché il legatario non è colui che continua la personalità del defunto, ma solo colui che riceve un diritto reale o un diritto di credito. La condizione impossibile o illecita (art. 634) apposta ad una disposizione testamentaria, per il principio di conservazione, è soggetta alla regola sabiniana, cioè si considera come se non ci fosse (vitiatur sed non vitiat). Se però risulta che il fatto dedotto in condizione era il solo che ha determinato il testatore a disporre (applicando la regola del motivo illecito nel testamento), si ha la nullità della disposizione. La condizione è illecita non solo quando il fatto dedotto in condizione è illecito, ma anche quando la condizione tocca la sfera della libertà di un soggetto, ad es., “se divorzierai da Tizio”, “se non ti (ri)sposerai” (art. 636), “se ti convertirai alla religione buddista”. È valido però il legato di una prestazione periodica o di un diritto di usufrutto, uso o abitazione, subordinato alla durata della vedovanza o del celibato. Durante la pendenza di una condizione sospensiva è dato un amministratore all’eredità, per il quale valgono le regole dell’eredità giacente. Di norma l’amministrazione spetta a colui che avrebbe diritto di succedere se la condizione non si verifica (art. 642) e quindi a colui a favore del quale opera la sostituzione o l’accrescimento o a favore del presunto erede legittimo. In modo analogo si risolve il problema dell’eredità o del legato devoluti a nascituri. Se il chiamato è un non concepito l’amministrazione spetta a chi avrebbe diritto di succedere in sua mancanza, ma la rappresentanza spetta alla persona vivente di cui il chiamato è (sarà) figlio. Se il chiamato è un concepito, l’amministrazione spetta al padre e alla madre, art. 643.
§ 6. La revocazione delle disposizioni testamentarie
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L’onere consiste in una prestazione imposta dal testatore a colui al quale viene elargita una liberalità, sia essa una istituzione di erede o un legato. Il beneficiario, se accetta l’eredità o non rinunzia al legato, è obbligato a compiere quanto previsto dal de cuius. All’onere impossibile o illecito si applica la regola sabiniana, come alla condizione. Quindi cade solo l’onere, a meno che non abbia costituito il solo motivo determinante, rendendo, in tal caso, nulla l’intera disposizione. Per l’adempimento dell’onere può agire qualsiasi interessato, anche se ha soltanto un interesse morale. L’inadempimento dell’onere, di regola, non fa cadere la disposizione, ma il giudice può pronunziare la risoluzione, su richiesta degli interessati (art. 648), se: a) l’adempimento dell’onere costituisce il solo motivo determinante della disposizione principale; b) il testatore aveva espressamente previsto la risoluzione della disposizione principale per inadempimento dell’onere.
6. La revocazione delle disposizioni testamentarie. Le disposizioni testamentarie possono essere revocate, innanzitutto, con una revoca espressa, effettuata dal testatore. La revoca espressa è atto solenne: la dichiarazione può essere contenuta in un atto pubblico, ricevuto dal notaio in presenza di due testimoni, oppure in un testamento. La differenza sta nel fatto che il primo ha come contenuto la sola revoca, mentre il secondo, per essere qualificato come testamento, deve contenere altre disposizioni patrimoniali mortis causa (almeno una) oltre alla dichiarazione di revoca. Con le stesse forme è ammessa la revocazione della revoca. La revoca tacita presuppone che intervenga un nuovo testamento posteriore, il quale contiene nuove disposizioni. In tal caso cadono le sole disposizioni del testamento precedente, incompatibili con quelle nuove (art. 682). Il testamento successivo, incompatibile con il precedente, dimostra che la volontà su cui si fondavano le vecchie disposizioni non è più l’ultima volontà del de cuius, perciò l’effetto della revoca rimane anche se le nuove disposizioni restano senza effetto, per premorienza, indegnità o rinunzia del chiamato (art. 683). Una revoca presunta si ha quando si trova un testamento olografo di-
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Cap. 27. La vocazione testamentaria
strutto, lacerato o cancellato (la revoca si presume parziale se è cancellato solo in parte). Chi ha interesse è ammesso a provare che l’atto fu distrutto o cancellato dal testatore senza l’intenzione di revocarlo (quindi per errore) o che non fu distrutto o cancellato dal testatore, ma da altra persona. Si ha ancora un caso di revoca presunta quando la cosa legata è stata poi alienata o trasformata dal testatore in altra cosa di forma o denominazione diversa (art. 686), ma è ammessa la prova di una diversa volontà. Una revocazione legale si ha nei casi di sopravvenienza di figli (art. 687). In tal caso le disposizioni (a titolo universale o particolare) fatte da chi non aveva o ignorava di avere figli o discendenti, sono revocate di diritto per la sopravvenienza di un figlio o di un discendente, benché postumo, ovvero adottivo o di un figlio nato fuori del matrimonio riconosciuto dopo il testamento. Se però la successione dei figli non ha effetto (perché, ad es., essi rinunziano e non si fa luogo a rappresentazione a favore dei loro discendenti) la revoca non opera e la disposizione testamentaria ha effetto. Non si ha revoca qualora il testatore abbia espressamente provveduto alla sua successione nel caso che esistessero o sopravvenissero figli o loro discendenti.
7. La coeredità e la divisione. L’istituzione di erede pro quota, come abbiamo visto, determina la chiamata in una frazione dell’intero e quindi si realizza una contitolarità dell’asse in capo ai coeredi, proporzionalmente alla quota di ciascuno. Si crea perciò una coeredità. Se uno dei coeredi intende vendere la sua quota a un estraneo, gli altri coeredi hanno un diritto di prelazione, cioè il diritto di essere preferiti nell’acquisto, a parità di condizioni. La giustificazione dell’istituto sta nell’interesse ad evitare l’ingresso di estranei nella comunione ereditaria. Perciò chi è in procinto di alienare a terzi la sua quota ha l’obbligo di fare la denunzia (denuntiatio), cioè di notificare agli altri coeredi la proposta di alienazione, indicando il prezzo offerto. Il diritto di prelazione deve essere esercitato entro due mesi dall’ultima notifica. Se la quota è stata ceduta a terzi senza adempiere l’obbligo di notifica, i coeredi hanno il retratto successorio, cioè il diritto di riscattare la quota dall’acquirente e da ogni suo successivo avente causa, finché dura lo stato di comunione ereditaria. Questo diritto di prelazione previsto dalla legge ha dunque efficacia reale,
§ 7. La coeredità e la divisione
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cioè può essere esercitato anche contro i terzi (e i loro successivi aventi causa) garantendo la restituzione delle quote cedute. Nessuna prelazione convenzionale potrebbe avere un effetto così esteso, per il principio di relatività del contratto. Alla comunione ereditaria si può porre fine (principalmente) con la divisione. Questa può essere contrattuale, se tutti si mettono d’accordo sul modo di assegnare i singoli beni oppure giudiziale, se non vi è accordo tra le parti. La divisione ha effetto dichiarativo: ogni coerede è reputato solo ed immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari (art. 757). Perciò l’effetto retroattivo della divisione fa sì che la titolarità dei beni passi direttamente dal de cuius al coerede. Tutti coeredi possono domandare la divisione giudiziale senza limiti di tempo; si tratta di agire esercitando un diritto di (com)proprietà e quindi imprescrittibile. Vi possono essere, tuttavia, impedimenti ad effettuare la divisione derivanti da un stato di pendenza: ad es. l’esistenza di un concepito non ancora nato o la pendenza di un giudizio in corso sullo stato di figlio di un possibile chiamato. Il giudice, anche in caso di impedimento, può autorizzare ugualmente la divisione con le opportune cautele, in altri casi, viceversa, può sospendere (al massimo per cinque anni) la divisione per evitare un grave pregiudizio al patrimonio ereditario (art. 717). Nella divisione ciascuno ha pari diritto, proporzionalmente alla sua quota, di ottenere beni mobili o immobili in natura. Se vi sono immobili non comodamente divisibili essi saranno attribuiti alla porzione del coerede avente la quota maggiore, salvo pareggiare i conti con i dovuti conguagli in denaro a favore degli altri coeredi, o anche attribuendo l’immobile a più coeredi, se questi lo richiedono, ma se nessuno è disposto ad accettare tale soluzione i beni in questione saranno venduti all’incanto. Dopo la vendita dei beni non divisibili si rendono i conti fra coeredi, facendo eventuali prelievi e conguagli per le somme dovute, quindi si stimano i beni, si formano le porzioni (nel linguaggio comune si usa dire che si formano i lotti) e si estraggono a sorte. Le porzioni si formano (apporzionamento) comprendendo beni mobili,
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Cap. 27. La vocazione testamentaria
immobili e crediti in eguale misura, ma evitando, se possibile, il frazionamento di biblioteche, gallerie o collezioni di importanza storica, artistica o scientifica. Le operazioni descritte, col consenso di tutti i coeredi, possono essere deferite a un notaio. Se sorgono contestazioni nel corso delle operazioni deciderà l’autorità giudiziaria competente, con un’unica sentenza (art. 730). La divisione per accordo delle parti, tanto se si tratta di divisione contrattuale quanto se l’accordo interviene durante il giudizio, essendo un negozio giuridico di diritto privato, è annullabile per vizi del volere. La legge ammette solo l’annullamento per violenza e per dolo (si applicheranno le regole dettate per i contratti), ma la giurisprudenza e la dottrina ritengono rilevante anche l’errore. La prescrizione è quinquennale, secondo la regola. La divisione, tuttavia, presuppone un titolo di comproprietà, che in questo caso è il diritto ad una quota ereditaria. Ne consegue che se i condividenti si sono sbagliati su questo presupposto, ed hanno diviso, ad es., con un soggetto che non ha nessun diritto, si verificherebbe una ipotesi di causa putativa, e la divisione mancante di causa è nulla. Un’altra azione specificamente concessa dalla legge per tutelare i condividenti è la azione di rescissione della divisione per lesione, che si prescrive in due anni dalla divisione. La rescissione non presuppone, in tal caso, alcuna situazione di pericolo o di bisogno, e quindi ha fondamento del tutto diverso dalla rescissione del contratto, ma presuppone soltanto una lesione oltre il quarto, subita dal singolo condividente; ciò significa che questi si accorge di avere percepito, complessivamente, beni che corrispondono a meno del 75% del valore della sua quota. Da parte degli altri coeredi convenuti in giudizio è possibile evitare la rescissione offrendo il supplemento della porzione ereditaria. In realtà questa azione può essere esercitata non soltanto contro la divisione contrattuale, ma anche contro qualunque atto che ha l’effetto di far cessare la comunione dei beni ereditari tra coeredi (art. 764). Perciò vale anche per la divisione disposta dal testatore e i c.d. assegni divisionali e per altri contratti che, con varie attribuzioni, determinano l’effetto in questione. È invece esclusa la rescissione per la transazione che pone fine alle questioni divisorie, sorte da una divisione contrattuale o da atti equivalenti. In tal caso la legge addossa alle parti transigenti anche il rischio delle valutazioni e delle stime delle rispettive porzioni. Le norme che guardano al risultato economico-giuridico, qualunque sia la figura utilizzata per realizzarlo, prendono il nome di norme materiali. Un altro esempio, oltre a quello dell’art. 764, è fornito dall’art. 809. Ne parleremo nel paragrafo successivo.
§ 3. Le liberalità donative e non donative
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CAPITOLO 28
LE DONAZIONI
SOMMARIO: 1. La definizione formale di donazione e le norme materiali. – 2. Lo spirito di liberalità e la rilevanza del motivo. – 3. Le liberalità donative e non donative. – 4. I requisiti di validità del negozio di donazione. – 5. La revocazione.
1. La definizione formale di donazione e le norme materiali. La donazione è definita dalla legge come un contratto, con il quale una parte (il donante) arricchisce l’altra (il donatario) disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione, per spirito di liberalità (art. 769). La donazione può avere, pertanto, efficacia reale, attraverso l’attribuzione di un diritto di proprietà, la costituzione di un usufrutto, la cessione di un diritto di credito (cessione del credito donandi causa), ecc., ed è l’ipotesi certamente più frequente e più conosciuta di donazione, ma può avere anche efficacia obbligatoria, facendo nascere una obbligazione verso il donatario (per l’adempimento della quale il donante risponde, tuttavia, solo per dolo o colpa grave, art. 789). Il trasferimento o la costituzione di un diritto e l’assunzione di un obbligo sono i modi tipici previsti dalla legge per produrre l’effetto normale della donazione, che è l’arricchimento. La distinzione tra contratto (donazione) ed effetto (o risultato, cioè l’arricchimento) è importante, perché una parte della disciplina delle donazioni (costituita da quelle che potremmo definire: “norme formali”) è dettata dalla legge in funzione del tipo di negozio e un’altra parte (per la quale è stata usata l’espressione: “norme materiali”) è dettata in relazione all’effetto, se ed in quanto esso si produca realmente a carico di colui che attua la disposizione e a vantaggio di colui che riceve il beneficio, qualunque sia il mezzo usato. È noto, infatti, come si possa produrre intenzionalmente l’arricchimento di un determinato soggetto anche in altri modi, ad es. con un
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Cap. 28. Le donazioni
contratto diverso dalla donazione, con un atto unilaterale come la rinunzia, con l’intestazione di un bene a nome altrui e così via. Si usa in proposito l’espressione generica: “donazioni indirette”. Parlando di norme materiali, abbiamo visto, ad es., come l’istituto della collazione si riferisca a tutti gli atti che direttamente o indirettamente producano l’effetto della donazione (art. 737) ma esiste un’altra norma di fondamentale importanza che sottopone tutte le liberalità, anche quelle che risultano da atti diversi dalla donazione (formale), prevista dall’art. 769, ad un regime unitario che comprende anche la revocazione per ingratitudine o per sopravvenienza di figli e la riduzione, per integrare la quota dovuta ai legittimari (art. 809).
2. Lo spirito di liberalità e la rilevanza del motivo. Occupiamoci ora del contratto di donazione. La sua funzione sta tutta in quell’elemento che la legge definisce spirito di liberalità. Dare per spirito di liberalità significa, anche nel linguaggio comune, voler fare cosa grata al donatario, volerlo arricchire, attribuirgli una cosa o un diritto senza avere nulla in cambio e così via. Il comune denominatore che sta alla base di tutte queste definizioni è dato dunque dall’esistenza di una volontà del donante di fare una attribuzione patrimoniale a vantaggio del donatario per soddisfare uno scopo non economico, qualunque sia poi il motivo che colora ciascuna attribuzione. I premi pubblicitari che una impresa elargisce ai clienti non sono donazione, perché alla base sta un interesse economico a far conoscere il prodotto, a diffondere il marchio e così via. D’altra parte vi sono alcuni contratti, diversi dalla donazione e dotati di una loro particolare disciplina, che sono previsti dalla legge come essenzialmente gratuiti (si pensi al comodato) o come contratti che possono essere indifferentemente gratuiti o onerosi (si pensi al trasporto, al deposito, alla fideiussione, al mutuo, ecc.). In questi casi l’interesse di una parte spesso è simile a quello del donante, ma non abbiamo donazione perché la legge configura un distinto tipo contrattuale in funzione della particolare natura della prestazione. Lo spirito di liberalità non coincide neppure con … il vuoto o la mancata espressione di qualunque interesse: non basta che l’attribuzione dedotta nel contratto sia senza contropartita perché sia donazione. Il contratto in cui si prevede l’esecuzione di una prestazione da una parte all’altra senza che ne risulti la ragione è stato qualificato dal giudice come privo di causa e quindi nullo.
§ 3. Le liberalità donative e non donative
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La caratteristica che distingue la donazione da tutti gli altri negozi è appunto questa: la legge ammette che un contratto determini uno spostamento di ricchezza e una circolazione di diritti patrimoniali per soddisfare un interesse di natura non patrimoniale del donante. Tale interesse è rilevante, in concreto, sino al punto che può essere sindacato dal giudice; infatti la donazione può essere impugnata per motivo illecito del donante, che la rende nulla, e per motivo erroneo del donante, che la rende annullabile (in ambedue i casi alle solite condizioni di rilevanza del motivo, quelle stesse che abbiamo incontrato nel testamento, cioè se risulta dall’atto ed è l’unico che ha determinato il disponente a compiere l’attribuzione). Intendiamoci: al di là della disciplina ora accennata, lo spirito di liberalità non è soltanto un motivo individuale del donante, ma è un elemento del negozio conosciuto e concordato con lo stesso donatario. La donazione è un contratto, quindi si perfeziona con l’accettazione del donatario; con tale atto egli esprime il consenso a ricevere gratuitamente l’attribuzione, consapevole del fatto che essa soddisfa lo spirito di liberalità del donante.
3. Le liberalità donative e non donative. Fermo restando il genere di interessi adombrato dalla formula legislativa, la disciplina dell’atto, o dei suoi effetti, può variare secondo la specifica natura dell’intento del donante, perciò il Codice, oltre alla donazione tout court, annovera altre specie di liberalità (art. 770): – la liberalità fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale remunerazione, che prende il nome di donazione remuneratoria. La legge dice che, non ostante sussista l’intento di ricompensare il donatario, anche questa è donazione, di conseguenza si applicano gli stessi requisiti sostanziali e formali richiesti per l’atto di donazione in generale; tuttavia, considerato il beneficio che il donatario ha già attribuito al donante, risulta più stabile l’effetto di tale donazione: non è soggetta a revocazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli (art. 805) e il donatario è garantito contro l’evizione, nei limiti del valore della prestazione già fornita al donante (art. 797, n. 3), e non è obbligato a prestare gli alimenti al donante (art. 437). – La liberalità che si suole fare in occasione di servizi resi (liberalità per
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servizi resi) o in conformità agli usi (liberalità d’uso). In questi atti resta lo spirito di liberalità, ma vi è un elemento oggettivo, costituito della consuetudine sociale, alla quale si uniforma il comportamento del donante, sicché proprio l’uso toglie ogni eccezionalità all’atto di attribuzione. La legge dice che questa non è donazione, di conseguenza (se la liberalità resta entro questi limiti) non sono richieste né le formalità della donazione né la liberalità è soggetta agli istituti della revocazione, della riduzione per soddisfare i diritti dei legittimari, della imputazione ex se o della collazione.
4. I requisiti di validità del negozio di donazione. Per quanto concerne i requisiti dell’atto di donazione e in particolare: la capacità di donare. La donazione richiede la piena capacità di disporre dei propri beni, quindi la capacità legale di agire e quella naturale di intendere e di volere. La donazione dell’incapace naturale è annullabile entro cinque anni dalla data dell’atto. Si tratta di annullabilità di un contratto, quindi relativa. Il minore autorizzato a contrarre matrimonio (con l’assistenza dei genitori) o l’inabilitato (con l’assistenza del curatore) possono fare donazioni al proprio coniuge, nell’atto di stipulare una convenzione matrimoniale (artt. 774, 165, 166). L’interdetto (tramite tutore) o l’inabilitato (assistito dal curatore) possono (eccezionalmente) attribuire una liberalità ai propri discendenti, per le nozze, con le autorizzazioni richieste per gli atti di straordinaria amministrazione (art. 375). La donazione dell’inabilitato è annullabile se fatta dopo che è stato promosso il giudizio (anche se fatta prima della nomina del curatore provvisorio), ma se il soggetto è stato inabilitato per prodigalità il curatore può impugnare anche le donazioni fatte nei sei mesi precedenti tale data (art. 776). È atto che richiede una volontà personale del donante, quindi è nullo il mandato a donare, con cui si incarica un’altra persona di designare il donatario o l’oggetto della donazione (ma è ammessa la scelta del terzo fra più persone o beni già indicati dal donante). Di regola non è ammessa neppure donazione per rappresentanza, da parte del rappresentante legale (genitore o tutore) per l’incapace. La capacità di ricevere per donazione è regolata come la capacità a succedere mortis causa: si può donare anche a un concepito o a un concepturus,
§ 4. I requisiti di validità del negozio di donazione
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figlio di una determinata persona vivente al tempo della donazione. In tal caso sarà necessaria una accettazione congiunta dei genitori, in rappresentanza del figlio, con l’autorizzazione del giudice tutelare (art. 320). È nulla (per incapacità giuridica di ricevere) la donazione fatta al tutore o al protutore prima dell’approvazione del rendimento del conto (art. 779). L’oggetto. La donazione non può comprendere beni futuri, questo per limitare liberalità avventate, in quanto il donante non sente la privazione attuale del bene, né può avere ad oggetto beni altrui. La donazione di cose altrui sarebbe inefficace (non si può applicare per analogia la norma della vendita di cose altrui, facendone derivare un obbligo per il donante di acquistare la proprietà dal titolare, né tale contratto costituirebbe un “titolo astrattamente idoneo” a determinare un acquisto ai sensi dell’art. 1153). È invece ammessa la donazione di prestazioni periodiche (ad es. di un assegno di mantenimento o un assegno alimentare) che si presume sia concessa dal donante sino alla propria morte e poi debba finire. La forma. La donazione, di regola, richiede la forma dell’atto pubblico, nel quale devono essere indicati i beni donati, specificando i singoli beni mobili e il loro valore. L’accettazione può esser fatta nell’atto stesso o in atto pubblico posteriore, ma in tal caso la donazione si perfeziona solo con la notifica di tale atto al donante. Nel frattempo le parti possono revocare la loro dichiarazione. La donazione obnuziale, cioè quella fatta in riguardo di un determinato futuro matrimonio dagli sposi tra loro o da terzi a favore di uno o entrambi degli sposi o a favore di figli nascituri non richiede accettazione, ma non ha effetto se non viene celebrato il matrimonio e diventa nulla se questo poi viene annullato. Viene però fatto salvo l’acquisto dei terzi aventi causa in buona fede fino al passaggio in giudicato della sentenza (art. 785, 2° comma). La donazione formale è sempre richiesta qualora abbia per oggetto un bene immobile, anche se si tratta di pochi metri quadri di terreno di scarso valore. Invece la donazione di beni mobili di modico valore, tenuto conto delle condizioni economiche del donante, è valida anche se non vi è stato l’atto pubblico, purché vi sia stata la consegna della cosa al donatario (art. 783). È dunque un contratto reale, perché si perfeziona con la traditio. Per quanto concerne gli elementi accidentali, la donazione può essere sottoposta a condizione, a termine, o gravata da un onere.
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La condizione illecita e quella sospensiva impossibile rendono nulla la donazione, applicandosi, in questo caso la regola dei contratti, piuttosto che quella delle liberalità mortis causa. La condizione risolutiva impossibile si ha per non apposta. Colui che dona può inserire nell’atto la condizione di reversibilità, e cioè la clausola che il bene ritorni di sua proprietà qualora il donatario e i suoi discendenti muoiano prima di lui. Si tratta di una clausola che determina la risoluzione della donazione, ma anche di tutte le alienazioni compiute dal donatario, facendo tornare al donante tutti i beni, liberi da pesi e ipoteche (art. 792). Il modus o onere vincola il donatario ad adempiere entro i limiti del valore della cosa donata. L’adempimento della obbligazione, secondo la regola propria del modus, può essere chiesto da chiunque abbia interesse, anche durante la vita del donante. L’inadempimento dell’onere, di regola, non determina la risoluzione della donazione, eccetto che sia stato espressamente previsto nell’atto di donazione. In tal caso la risoluzione può essere domandata soltanto dal donante o dai suoi eredi. All’onere illecito o impossibile si applica la regola sabiniana (vitiatur sed non vitiat), come nel testamento (art. 794). La legge prevede la conferma della donazione nulla, che non rappresenta una convalida o una sanatoria vera e propria, come si è già detto in tema di testamento (art. 590). Si tratta solo di un principio di coerenza: gli eredi o aventi causa del donante che dopo la sua morte hanno dichiarato di confermare la donazione nulla o vi hanno dato esecuzione volontariamente, conoscendo la causa di nullità, non possono poi far valere il vizio di tale atto (art. 799).
5. La revocazione. La donazione (eccettuata la donazione remuneratoria e obnuziale) può essere revocata per due cause previste dalla legge. Si ha la revocazione per ingratitudine quando il donatario: – ha commesso un omicidio o tentato omicidio verso il donante o i suoi stretti congiunti, o li ha calunniati denunziandoli senza fondamento per un grave reato o testimoniando il falso;
§ 5. La revocazione
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– si è reso colpevole di ingiuria grave verso il donante; – gli ha rifiutato indebitamente gli alimenti dovuti; – ha causato dolosamente grave pregiudizio al patrimonio di lui. Il donante o i suoi eredi hanno un termine breve per agire: un anno dalla conoscenza dei fatti che consentono la revocazione. La revoca per sopravvenienza di figli (parzialmente diversa da quella del testamento) può essere chiesta da chi non aveva o non sapeva di avere figli o discendenti nati nel matrimonio al tempo della donazione o da chi riconosce un figlio nato fuori del matrimonio entro due anni, salvo che il donante già ne conoscesse l’esistenza (art. 803). L’azione deve essere proposta entro cinque anni dalla notizia dell’esistenza o dalla nascita del figlio o del discendente o dal riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio, ma non può essere esercitata o proseguita se il figlio muore. Effetto: la revocazione importa l’obbligo di restituzione dei beni in natura, se esistono ancora, e i frutti relativi fin dal tempo della domanda, altrimenti l’obbligo del donatario ha per oggetto il valore dei beni e dei frutti, mentre i terzi che hanno acquistato i diritti prima della domanda non sono pregiudicati.
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Cap. 28. Le donazioni
§ 2. Altri elementi dell’obbligazione: i soggetti e la causa
PARTE OTTAVA
LE OBBLIGAZIONI
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
§ 2. Altri elementi dell’obbligazione: i soggetti e la causa
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CAPITOLO 29
IL RAPPORTO GIURIDICO E L’ADEMPIMENTO
SOMMARIO: 1. L’obbligazione e il suo oggetto: la prestazione. – 2. Altri elementi dell’obbligazione: i soggetti e la causa. – 3. Le regole dell’adempimento: luogo e tempo. – 4. La destinazione del pagamento: l’imputazione. – 5. I soggetti: chi deve e chi può adempiere. – 6. Il pagamento di chi non è debitore: l’indebito soggettivo e oggettivo. – 7. Il destinatario del pagamento e il creditore apparente. – 8. Il modo dell’adempimento: la diligenza. – 9. La correttezza. – 10. La mora del debitore e le conseguenze dell’inadempimento. – 11. La mora del creditore: offerta e deposito.
1. L’obbligazione e il suo oggetto: la prestazione. L’obbligazione è un vincolo giuridico che impone al debitore di tenere un determinato comportamento, chiamato prestazione, per soddisfare l’interesse del creditore. La prestazione si distingue dall’interesse del creditore: mentre la prima deve essere suscettibile di valutazione economica (art. 1174), cioè deve essere stimabile in termini patrimoniali (affinché, in caso di inadempimento, si possa quantificare la responsabilità del debitore), l’interesse del creditore potrà avere natura non soltanto economica, ma morale, culturale, scientifica e così via, giacché l’ordinamento considera giustificata la creazione di un vincolo giuridico per soddisfare qualunque tipo di interesse, purché sia meritevole di tutela secondo i principi dell’ordinamento. Secondo le varie specie di prestazione, nella tradizione romanistica si distinguevano le obbligazioni di dare, di facere, e di praestare (star garante). Le obbligazioni di dare possono essere intese in due significati. Negli ordinamenti civilistici che derivano dal Codice di Napoleone, come quello italiano, francese e spagnolo, prevale l’idea che la obbligazione di dare significhi “consegnare” la cosa, attribuendone la disponibilità materiale. La consegna, in sé, non modifica la titolarità del diritto reale sulla cosa, ma di solito è la conseguenza del mutamento di titolarità (se la cosa venduta è adesso di
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
proprietà del compratore, il venditore gliela deve consegnare), oppure è la conseguenza dell’attribuzione di un diritto di godimento (se ho dato in locazione la casa al conduttore gli devo consegnare le chiavi affinché la possa abitare).
Nel diritto romano e in taluni ordinamenti di più diretta derivazione romanistica, come quello tedesco, l’obbligazione di dare assume un significato, che comprende spesso l’obbligo di trasferire la proprietà o altro diritto. La distinzione si basa sul fatto che nel diritto romano la vendita dava diritto di acquistare la proprietà, ma questa passava soltanto con un successivo negozio, la traditio, composto di gesti e formule rituali. Quindi il trasferimento stesso della titolarità costituiva l’oggetto di una obbligazione da adempiere successivamente con la traditio. Con il Code Napoléon si è codificato l’assorbimento dell’atto traslativo (che col tempo era divenuto una mera finzione) nel negozio di compravendita; pertanto il passaggio della proprietà di cosa certa e determinata avviene istantaneamente ed automaticamente al momento stesso della stipulazione del contratto di vendita, grazie al mero consenso delle parti (principio consensualistico). Al venditore, di conseguenza, non resta che adempiere alla obbligazione materiale di consegnare la cosa, dato che essa è già divenuta di proprietà del venditore. Alcune obbligazioni di dare in senso romanistico (trasferire il diritto) restano tuttavia anche nel nostro ordinamento: ad es. il mandato ad acquistare un bene immobile senza rappresentanza obbliga il mandatario a trasferire al mandante il (diritto sul) bene comprato, l’erede che adempie ad un legato di cosa altrui deve acquistare la cosa dal terzo e trasferirla al legatario. In generale si può dire pertanto che l’obbligazione di dare, nel senso di “trasferire il diritto” su di un bene è meno frequente della obbligazione di “consegnare” ma resta uno degli oggetti possibili della obbligazione. La consegna di una somma di denaro ne fa acquistare la proprietà al creditore, e questo avviene anche se la somma non è dovuta, infatti è la conseguenza del fatto che il denaro, per sua natura, non ha identità e si confonde con quello esistente nel patrimonio del creditore.
Oggetto di una obbligazione di fare può essere una attività di varia natura: il lavoratore subordinato si impegna a prestare le proprie energie alle dipendenze del datore di lavoro, il prestatore di lavoro autonomo si obbliga a svolgere la sua opera secondo le regole del mestiere, dell’arte o di una professione intellettuale, senza subordinazione alcuna; speciali prestazioni di fare con contenuto tipicamente giuridico sono quelle che nascono dal contratto di mandato, in cui il mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici
§ 2. Altri elementi dell’obbligazione: i soggetti e la causa
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per conto del mandante, e quella originata dal contratto preliminare proprio, in cui le parti si obbligano a prestare il consenso nella stipulazione di un futuro contratto, chiamato contratto “definitivo” (v. supra, Cap. 14, par. 7). Nella categoria delle prestazioni di fare rientra anche l’obbligo di non fare, cioè di astenersi da una attività che si sarebbe liberi di svolgere; fra i più noti vanno ricordati l’obbligo di non fare concorrenza, di non sopraelevare, di non alienare. La caratteristica delle obbligazioni negative è di rivelare immediatamente l’inadempimento del debitore senza bisogno di verificarlo con intimazioni o diffide, perciò ogni fatto compiuto in violazione di queste obbligazioni costituisce di per sé inadempimento (art. 1222). Le obbligazioni di garantire sono considerate, talora, una sottospecie delle obbligazioni di dare, sottoposte a condizione sospensiva (se il debitore non adempie, risponde il garante). Tuttavia conviene mantenere distinta questa categoria tradizionale per le sue caratteristiche peculiari. La prestazione di garanzia non si limita, infatti, a svolgere la sua funzione al momento del pagamento, ma fin dall’inizio realizza un risultato utile ed apprezzabile economicamente, che consiste nel dare sicurezza al creditore. L’adempimento del garante viene tuttavia concepito dalla legge non come uno spostamento di ricchezza definitivo, ma come un pagamento anticipato, effettuato per conto del debitore principale, che dovrà essere restituito in sede di regresso. L’obbligazione di dare una garanzia può adempiersi (art. 1179) fornendo una garanzia personale, ad es. presentando un fideiussore che risponde con tutto il suo patrimonio per l’adempimento del debito principale, o fornendo una garanzia reale come il pegno e l’ipoteca, e cioè vincolando un bene, rispettivamente, mobile o immobile, alla soddisfazione del debito principale con preferenza accordata al creditore garantito in sede di esecuzione forzata.
2. Altri elementi dell’obbligazione: i soggetti e la causa. Soggetto attivo del rapporto è il creditore. Egli ha diritto all’adempimento e può valersi degli strumenti offerti dall’ordinamento per ottenere l’esatta esecuzione della prestazione o, in caso di inadempimento, un suo equivalente economico attraverso il risarcimento del danno. Soggetto passivo del rapporto è il debitore: egli ha l’obbligo di adempiere, altrimenti risponde con tutto il suo patrimonio. Di questo aspetto parleremo nel Capitolo 33.
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
La causa (detta anche titolo) dell’obbligazione, è il fatto giuridico che fa nascere il debito (art. 1173). Si tratta di una situazione prevista dalla legge quale fonte del rapporto. L’obbligazione può sorgere per effetto di un atto di autonomia privata, come il contratto o il testamento, ma anche come conseguenza di un fatto di altra natura (la procreazione di un figlio è fonte dell’obbligo di mantenimento, lo stato di bisogno in cui si trova un soggetto obbliga i più stretti congiunti a prestare gli alimenti, il pagamento dell’indebito fa nascere l’obbligo di restituzione a carico dell’accipiens). La disciplina applicabile può variare a seconda della fonte dell’obbligazione, ad es. per quanto concerne il termine di prescrizione del diritto del creditore, la misura della responsabilità del debitore, l’onere della prova circa la colpa del debitore (v., ad es., la distinzione fra illecito contrattuale ed extracontrattuale). La causa dell’obbligazione risponde alla domanda: “cur debetur?”. La stessa prestazione, ad es. pagare 100 a Tizio, può avere diverso titolo: restituzione di un prestito, risarcimento del danno, pagamento di una merce, adempimento di una disposizione testamentaria, ecc. Altra nozione è quella di causa del contratto che esprime in sintesi la funzione di quella operazione economica e quindi spiega a che serve quel contratto (“cur contractum est”), ad es. Tizio cede a Caio la proprietà del fondo Corneliano verso il corrispettivo di lire cento milioni: lo scambio tra il bene indicato e il prezzo rappresenta la causa di questa compravendita.
3. Le regole dell’adempimento: luogo e tempo. L’adempimento rappresenta l’esatta esecuzione del comando giuridico rivolto al debitore. La legge consente al creditore di rifiutare un adempimento parziale o un adempimento inesatto, che è equiparato all’inadempimento (art. 1181). Per giudicare la bontà dell’adempimento si dovranno guardare le regole che valgono per ciascuna obbligazione. In particolare, il luogo, il tempo, e le modalità del comportamento dovuto. Il luogo può essere indicato dal titolo dell’obbligazione (ad es. in un contratto si stabilisce dove sarà consegnata la merce) o può risultare dalla natura della prestazione, ma anche desumersi da altre circostanze o dagli usi (art. 1182). In mancanza di tali specificazioni la legge detta alcune norme suppletive:
§ 3. Le regole dell’adempimento: luogo e tempo
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– la consegna di una cosa certa e determinata va eseguita là dove essa si trovava al tempo del sorgere dell’obbligazione; – la consegna di una somma di denaro va eseguita al domicilio del creditore al tempo della scadenza; – tutte le altre obbligazioni vanno eseguite al domicilio del debitore al tempo della scadenza. Le obbligazioni che devono essere adempiute al domicilio del creditore prendono il nome di debiti portabili, mentre si dicono debiti chiedibili quelli che il debitore deve eseguire al proprio domicilio. La distinzione fra queste due categorie è importante (art. 1219) perché se entro il giorno della scadenza non viene eseguita regolarmente l’obbligazione e si tratta di un debito portabile il debitore può essere considerato inadempiente e quindi cade in mora automaticamente (mora ex re), mentre nelle obbligazioni chiedibili il debitore cade in mora soltanto dopo una intimazione scritta del creditore, che prende il nome di atto di costituzione in mora (mora ex persona). Il tempo. Se non è fissato un termine l’obbligazione deve essere adempiuta immediatamente (quod sine die debetur statim debetur), a meno che la natura stessa della prestazione o gli usi o le modalità della esecuzione non richiedano necessariamente l’esistenza di un termine di adempimento, che potrà essere fissato dal giudice su richiesta di una delle parti, se queste non si accordano fra loro (art. 1183). Il termine fissato per l’adempimento, se non è precisato, si presume a favore del debitore (art. 1184). Ciò significa che questi, se vorrà, potrà adempiere anche prima, ma il creditore non gli può chiedere l’adempimento sino al giorno della scadenza. Se, tuttavia, il debitore paga prima del termine dovuto (anche se ciò avviene per un errore incolpevole) non può chiedere la restituzione di ciò che ha pagato (perché è certo, comunque, che la somma è dovuta); egli potrà chiedere solo la restituzione di ciò di cui si è impoverito, nei limiti dell’arricchimento ingiusto percepito dal creditore; in pratica chiederà gli interessi sulla somma pagata anzitempo, fino alla data della scadenza (art. 1185).
Il debitore perde il beneficio del termine (perciò il creditore gli può chiedere subito l’adempimento, anziché attendere la scadenza) quando diviene insolvente, cioè non riesce ad adempiere regolarmente ai propri debi-
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
ti per una situazione di dissesto patrimoniale, o quando non ha dato le garanzie promesse o ha diminuito per fatto proprio le garanzie date (art. 1186). Se il termine è fissato a esclusivo vantaggio del creditore questi può chiedere l’adempimento anche subito, ma il debitore non può adempiere prima della scadenza (perché, ad es., i magazzini del creditore non sono ancora in grado di ricevere la merce). Le parti possono anche fissare un termine a vantaggio di entrambi. In tal caso l’adempimento dovrà essere effettuato esattamente alla data fissata e nessuno dei due potrà pretendere di anticipare l’esecuzione dell’obbligazione. Le norme che valgono per il computo del termine sono quelle fissate dalla legge per calcolare il passaggio del tempo nella prescrizione (art. 2963), compresa la proroga del termine che scade in giorno festivo.
4. La destinazione del pagamento: l’imputazione. Quando il debitore effettua un pagamento, ma ha più debiti verso la stessa persona, può fare l’imputazione del pagamento, cioè dichiarare quale debito intende estinguere (art. 11931). Ma non può pretendere di imputare il pagamento al capitale piuttosto che agli interessi e alle spese senza consenso del creditore. La legge vuole, infatti, che il pagamento vada ad estinguere il debito principale soltanto dopo che sono stati estinti i debiti accessori già maturati.
In mancanza della imputazione da parte del debitore, può farla il creditore dichiarando egli stesso, all’atto di rilasciare la quietanza, quale debito è stato estinto; in tal caso il debitore, accettando la quietanza accetta anche tale imputazione e non può pretendere una imputazione diversa se non vi è stato dolo o sorpresa (cioè una scorrettezza) da parte del creditore (art. 1195). Se nessuna delle due parti compie la imputazione volontaria supplisce la legge con la imputazione legale (art. 11932). Il pagamento verrà imputato secondo la regola seguente: – innanzitutto, ai debiti scaduti; – se tutti sono scaduti a quello meno garantito; – tra più debiti ugualmente garantiti al più oneroso per il debitore (ad es. quello che lo costringe a pagare interessi maggiori);
§ 5. I soggetti: chi deve e chi può adempiere
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– tra più debiti ugualmente onerosi il pagamento dovrà essere imputato al debito più antico. Se tali criteri non soccorrono, l’imputazione sarà fatta proporzionalmente ai vari debiti. Pertanto, mentre, di regola, il creditore può rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione è divisibile, con la imputazione legale vi potrà essere un parziale adempimento di più obbligazioni distinte (art. 1181).
5. I soggetti: chi deve e chi può adempiere. Colui che deve adempiere è essenzialmente il debitore, cioè il soggetto passivo del rapporto. Può darsi che si tratti del soggetto originariamente obbligato, o di un terzo che si è assunto direttamente l’obbligo del debitore originario (ad es., attraverso una espromissione o un accollo), o ancora di un terzo garante, cioè di uno che si è impegnato verso il creditore a rispondere di un debito altrui mediante un contratto di fideiussione (art. 1936). L’adempimento non è un negozio giuridico perché non rappresenta una scelta innovativa per il debitore: la sua sfera giuridica è già stata modificata inizialmente, quando è sorto tale rapporto ma, dopo di ciò, l’adempimento è un atto dovuto e non costituisce un atto di disposizione. Perciò la legge stabilisce che, se il debitore ha eseguito la prestazione dovuta, non può impugnare il pagamento adducendo come causa la propria incapacità (art. 1191). Ne consegue che la capacità richiesta per l’adempimento è quella consapevolezza sufficiente a dare al comportamento in questione un significato socialmente comprensibile (quello, appunto, di atto dovuto in adempimento dell’obbligazione). Quindi può validamente adempiere anche un incapace legale, ad es., un ragazzo di quindici anni o un interdetto per vizio di mente, in un momento di lucidità, se è dotato della consapevolezza sufficiente (si richiede, pertanto, una pur minima capacità di intendere e di volere). Il debitore ha l’obbligo ma non ha il diritto di adempiere. Lo si ricava dalla disciplina dell’adempimento del terzo dove si stabilisce che se un terzo offre di adempiere, al posto del debitore, il creditore non può rifiutare (si deve trattare, evidentemente, dell’adempimento esatto e quindi non di una diversa prestazione o di una parziale o inesatta esecuzione) e può accettare anche contro la volontà del debitore (art. 1180).
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
In due soli casi il creditore può rifiutare l’adempimento del terzo: – se la prestazione è infungibile (cioè ha caratteristiche diverse a seconda della specifica identità del debitore) ed il creditore ha interesse all’adempimento personale del debitore (ad es. se un ente teatrale scrittura un musicista famoso perché dia un concerto, potrebbe rifiutare la stessa prestazione offerta da un terzo, anche se altrettanto famoso); – se il debitore ha fatto opposizione; tuttavia la volontà del debitore non è vincolante per il creditore, il quale, se vuole, può accettare ugualmente la prestazione del terzo. Poiché l’adempimento del terzo, diversamente dall’adempimento del debitore, non è un atto dovuto, la decisione di adempiere da parte del terzo rappresenta un atto di disposizione e ha natura di negozio giuridico. Ne consegue che, per la validità dell’atto, sarà richiesta la capacità legale, oltre che quella naturale. La Corte di Cassazione (S.U. n. 9946/2009) giustamente chiarisce che il pagamento del terzo, di per sé, non ha come conseguenza un fenomeno di surrogazione nel rapporto obbligatorio (v. infra, Cap. 31, par.1).
6. Il pagamento di chi non è debitore: l’indebito soggettivo e oggettivo. In entrambi questi casi si parla di un indebito, perché chi paga non è debitore. Nell’indebito soggettivo chi adempie non è debitore, e quindi è un terzo, ma pagando dichiara al creditore di estinguere un debito che esiste effettivamente nei suoi confronti. Paga quindi al vero creditore di tale prestazione, ancorché il vero debitore sia un soggetto diverso. L’errore di colui che paga (solvens) riguarda, perciò, la sua qualità di debitore e se tale errore è scusabile la legge gli consente di ripetere quanto ha pagato (dal latino repetere, cioè chiedere la restituzione, art. 2036). Pertanto, quando un soggetto paga un debito altrui, occorre distinguere la figura dell’adempimento del terzo, in cui il terzo adempie volutamente (e consapevolmente) un debito altrui (ad es. il genitore paga un debito del figlio, il socio paga un debito della società), dall’indebito soggettivo, in cui il pagamento del debito altrui non è voluto come tale, ma viene compiuto per errore dal terzo che si crede debitore.
§ 6. Il pagamento di chi non è debitore: l’indebito soggettivo e oggettivo
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Se il creditore, ricevendo il pagamento, si è privato in buona fede delle garanzie o del titolo dell’obbligazione il solvens potrà esercitare il suo diritto di ripetizione non più nei confronti del creditore, ma verso il vero debitore che ha tratto vantaggio dal pagamento ed è stato liberato.
Si ha indebito oggettivo quando un soggetto paga un debito inesistente (art. 2033). L’errore riguarda i presupposti oggettivi del credito (ad es. è nullo il contratto da cui doveva sorgere l’obbligazione oppure il debito è già stato pagato, ecc.). Poiché l’accipiens (chi riceve) non è creditore, di regola egli dovrà restituire la prestazione ricevuta al solvens. Si dice, pertanto, che colui che paga ha diritto alla ripetizione dell’indebito. Eccezionalmente, pur essendovi un indebito oggettivo, l’accipiens ha ugualmente il diritto di trattenere il pagamento ricevuto (si dice che gli spetta la soluti retentio, cioè la ritenzione di ciò che è stato pagato) in alcune ipotesi: a) adempimento spontaneo di un dovere morale o sociale (art. 2034) da parte di persona capace di agire. Si tratta di un dovere non giuridico, ma sentito ed apprezzato secondo la morale sociale, ad es., una attribuzione patrimoniale a favore di un ex dipendente, che si trova in stato di bisogno, o a favore di chi ha convissuto more uxorio, dopo la cessazione della relazione; b) adempimento spontaneo di una disposizione fiduciaria (art. 627) del testatore; c) adempimento di un debito prescritto (art. 2940), purché spontaneamente effettuato; In questi primi tre casi vi sono delle buone ragioni per giustificare lo spostamento patrimoniale e quindi per concedere la soluti retentio all’accipiens, anche se non esisteva una vera e propria obbligazione, o, come si suole dire, non vi era alcun diritto azionabile. Nei due casi che seguono, non solo non vi è azione a favore dell’accipiens, ma non vi è neppure una valida ragione per concedere la restituzione a chi ha pagato un indebito, perché lo stesso solvens si trova in una posizione immorale o comunque non degna di tutela. Ciò avviene qualora:
d) il pagamento sia diretto ad ottenere, come corrispettivo, una prestazione contraria al buon costume (art. 2035). Si richiede, perciò, che sia stato immorale, secondo la valutazione sociale, anche l’intento del solvens. Ad
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es., se affido l’incarico ad un malandrino di sabotare l’azienda di un mio concorrente il contratto è nullo, ma se gli pago il compenso che ho promesso, non posso chiedere la restituzione dell’indebito perché dovrei agire dimostrando la mia condotta disonesta ed il giudice non mi ascolterà (nemo auditur suam turpitudinem allegans); e) il pagamento sia diretto a soddisfare un debito di gioco o scommessa non vietati (art. 1933). Anche qui non vi è azione per il vincitore della scommessa, cioè questi non può agire in giudizio, ma se il perdente adempie spontaneamente non può più ripetere quanto ha pagato (tanto l’azione di adempimento quanto la ripetizione sono escluse dalla legge per la scarsa meritevolezza degli interessi).
7. Il destinatario del pagamento e il creditore apparente. Il pagamento deve essere fatto al creditore o al suo rappresentante o ad un terzo (adiectus solutionis causa) autorizzato dal creditore stesso, dalla legge o dal giudice (art. 1188). Nel momento di pagare, il debitore deve prestare attenzione allo stato di capacità del creditore perché se paga personalmente ad un incapace (legale o naturale) potrebbe essere costretto ad eseguire una seconda volta la sua prestazione. Infatti, il debitore è liberato solo se prova che il pagamento effettuato all’incapace è andato a buon fine, cioè se è stato effettivamente rivolto a suo vantaggio, cioè non è andato perduto o sperperato (art. 1190). Il pagamento effettuato ad un terzo non libera il debitore, a meno che il creditore non ne abbia approfittato (art. 11882), ad es., se in un negozio il cliente paga per sbaglio ad un altro cliente o ad un commesso non addetto alla riscossione, ma questi versa regolarmente il prezzo della merce alla cassa, il debito è estinto. Eccezionalmente il debitore è liberato anche se paga ad un terzo, quando questo può qualificarsi come creditore apparente. È tale chi risulta creditore in base a circostanze di fatto univoche, cioè interpretabili in modo sicuro, quindi idonee ad ingannare chiunque (si parla dell’uomo medio). Occorre che il debitore paghi in buona fede, cioè ignorando che non si tratta del vero creditore (art. 1189). Trova qui applicazione il principio di tutela della apparenza, impiegato
§ 8. Il modo dell’adempimento: la diligenza
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per dare sicurezza al traffico giuridico. L’apparenza è data da circostanze di fatto che indicano come titolare di una situazione giuridica un determinato soggetto. Si tratta quindi di una legittimazione apparente. L’apparenza può compensare il difetto di legittimazione, quando vi sia un atto compiuto in buona fede, e sussistano altri elementi richiesti dalla legge. Sono applicazione di tale principio: – il pagamento al creditore apparente, di cui sopra, art. 1189; – l’acquisto di un bene ereditario dall’erede apparente, (cioè da colui che risulta oggettivamente come erede; ad es., in base ad un testamento al quale viene data esecuzione, credendo che sia quello valido, mentre poi si scopre l’esistenza di un testamento successivo che revoca il precedente). Se il terzo acquista in buona fede e a titolo oneroso il suo acquisto è fatto salvo. La buona fede va provata dall’acquirente, art. 534; – l’acquisto dal simulato acquirente, cioè dal titolare apparente, il quale risulta avere acquistato il diritto in base al contratto, ma questo è soltanto simulato. Il terzo avente causa dal titolare apparente è maggiormente tutelato nel suo acquisto, rispetto all’ipotesi precedente, infatti non deve neppure provare la sua buona fede (che si presume, secondo la regola generale) e non occorre che abbia acquistato a titolo oneroso, art. 1415. Considerando che la simulazione è stata voluta dalle parti del contratto simulato, è giusto che il rischio a loro carico sia maggiore: basta la buona fede per fare salvo l’acquisto del terzo.
8. Il modo dell’adempimento: la diligenza. La diligenza è un modo di comportarsi nell’adempiere che richiede cura, prudenza, perizia ed eventualmente, secondo i casi, il rispetto di regole tecniche al fine di realizzare esattamente la prestazione dovuta (ivi comprese le regole giuridiche prescritte per lo svolgimento di una certa attività, come, ad es., il rispetto del Codice della strada per il conducente che trasporta persone o cose sul suo veicolo, o il rispetto delle norme di sicurezza per l’elettricista, il tecnico dell’impianto a gas e così via). Per una prestazione generica la legge richiede la diligenza media, del “buon padre di famiglia” ma per le prestazioni caratteristiche di una attività professionale è necessario usare la perizia e la cura proprie di tali attività, cioè viene in rilievo la diligenza professionale (art. 1176). Talora la responsabilità professionale è alleggerita. Nel contratto di lavoro autonomo spesso chi svolge una professione intellettuale è chiamato a risolvere questioni tecniche particolarmente complicate. Le soluzioni adottate potrebbero apparire discutibili per un altro professionista e non sem-
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pre riescono ad ottenere i risultati auspicati (non si può pretendere che l’avvocato vinca tutte le cause o che il medico guarisca sempre il malato). Per venire incontro al debitore di siffatte prestazioni, la legge (art. 2236) chiama il professionista a rispondere soltanto per colpa grave o dolo ma solo se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà (e non, ad esempio, se il medico svolge una cura o una operazione considerata “di routine” per la quale risponde secondo la norma generale). Colpa grave significa non intelligere quod omnes intellegunt, come dicevano i romani, cioè commettere una grave negligenza, mentre dolo significa non adempiere intenzionalmente. La legge, talora, adotta una disciplina più rigorosa per sanzionare questa forma più grave di illecito, così (nella sola responsabilità contrattuale di cui ci stiamo occupando) il debitore che non adempie per colpa risponde solo dei danni prevedibili al sorgere dell’obbligazione (art. 1225 c.c.), ma se non adempie dolosamente risponde anche per i danni imprevedibili. Le parti, d’accordo fra loro, possono anche derogare alla regola della diligenza tramite clausole di esonero dalla responsabilità. Queste pattuizioni, tuttavia, non sono valide se prevedono l’esenzione del debitore dalla responsabilità per dolo o colpa grave (art. 1229). Se fosse consentito un inadempimento intenzionale (al quale la legge equipara quello gravemente colposo), senza alcuna responsabilità per il debitore, il valore vincolante della obbligazione perderebbe ogni significato. Si è appena visto, a proposito della responsabilità del professionista intellettuale, che il beneficio dell’esonero da responsabilità non si estende mai alla colpa grave e al dolo neppure là dove sia previsto dalla legge: sembra ancora valido l’antico detto “culpa lata dolo aequiparatur”.
Altre volte, invece, la responsabilità del debitore è aggravata. Il vettore, cioè colui che si obbliga in un contratto di trasporto di persone, oltre a rispondere per il ritardo o per l’inadempimento nell’esecuzione del trasporto, risponde anche dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio e della perdita o dell’avaria delle cose che il viaggiatore porta con sé, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (art. 1681). Ciò significa che al debitore è richiesta anche una particolare protezione del viaggiatore contro danni esterni. Il problema dell’esatto adempimento sembra dunque risolto dalla norma dell’art. 1176 che guida il comportamento del debitore attraverso il criterio della diligenza, ma la disposizione citata appare in contrasto con un’altra regola fondamentale, indicata dall’art. 1218, che rappresenta il cardine della responsabilità contrattuale.
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Essa prevede che in caso di inadempimento, o di inesatto adempimento, il debitore debba comunque rispondere se non prova che la prestazione è divenuta impossibile per causa a lui non imputabile. Questa dunque è l’unica prova liberatoria consentita dalla legge. Il rischio che grava sul debitore è quello di dover risarcire i danni per inadempimento ove non si sia realizzata esattamente la prestazione dovuta, non ostante l’impiego della diligenza richiesta per quella specifica prestazione. Certe prestazioni diventano, talora, difficili da realizzare per il mutamento delle circostanze di fatto, pur restando possibili. In tali ipotesi il debitore non sarà liberato, ma dovrà impiegare uno sforzo spropositato per realizzarle. Se dunque il debitore non prova la impossibilità della prestazione, dovrà ugualmente rispondere degli eventi che non si realizzano a causa di circostanze non dipendenti dal suo comportamento.
L’antinomia fra le due norme sopra citate è risolta dagli interpreti con spirito pratico applicando ad alcune prestazioni di fare il criterio della diligenza. Tradizionalmente, in tali ipotesi si parla di obbligazioni di mezzi: il debitore è tenuto semplicemente a prestare l’attività richiesta purché sia svolta con diligenza. Ad es., può darsi che l’operaio, al quale si è ordinato di seminare il prato del giardino, o il medico, chiamato per curare una persona di famiglia, non ottengano un risultato positivo, ma saranno chiamati a rispondere solo se ciò è dovuto alla loro colpa. Ad altre prestazioni di fare (ma anche miste, di dare e di fare), come quella di custodire o di consegnare, viene invece applicato il criterio indicato dall’art. 1218. In tali ipotesi si parla di obbligazioni di risultato: il debitore deve realizzare puntualmente il risultato finale destinato a soddisfare il creditore (ad esempio la consegna della cosa trasportata, il pagamento di una somma di denaro, la costruzione di un’opera appaltata), altrimenti, se tale esito manca, il debitore risponde indipendentemente dallo sforzo impiegato (art. 1218), se non prova l’impossibilità sopravvenuta. Perciò, in caso di inadempimento o di inesatto adempimento, nelle prestazioni c.d. di mezzi basta che il debitore dimostri di essersi comportato secondo la diligenza richiesta, mentre nelle obbligazioni c.d. di risultato il debitore non viene liberato se non dimostra l’impossibilità sopravvenuta per caso fortuito o forza maggiore. Considerato che tale distinzione va accolta con cautela, perché, in realtà, ogni comportamento del debitore deve portare ad un risultato che soddisfa il creditore, la dicotomia serve a sottolineare in modo efficace come possa variare la prova liberatoria posta a carico del debitore.
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9. La correttezza. La regola della diligenza non coincide con quella della correttezza. Mentre la diligenza è imposta al solo debitore, la correttezza viene imposta dalla legge ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio (art. 1175). Indipendentemente dall’esatto adempimento, durante la vita del rapporto giuridico ciascuna delle parti deve cercare di evitare all’altra ogni possibile danno occasionato da tale relazione. Perciò debitore e creditore sono obbligati a tenere un comportamento onesto, secondo buona fede o secondo correttezza. Ad es., sarebbe scorretto non avvisare la controparte in merito a circostanze che possono pregiudicare la soddisfazione del creditore o rendere più gravoso l’adempimento del debitore; sarebbe altresì scorretto rivelare segreti o informazioni riservate concernenti la controparte, di cui si è venuti a conoscenza durante il rapporto, e così via. Si tratta, in sostanza, di un modello di comportamento che non viene definito in relazione ad una specifica prestazione da adempiere, ma in relazione alle precauzioni che sono necessarie per evitare conseguenze negative alla controparte. Poiché ci si riferisce ad una regola di comportamento secondo una valutazione sociale di cui il giudice dovrà farsi interprete si parla di buona fede oggettiva o buona fede in senso oggettivo. L’altra nozione di buona fede utilizzata dal legislatore viene denominata buona fede soggettiva poiché consiste nello stato di conoscenza o di ignoranza di qualche elemento rilevante in una vicenda giuridica: ad es. è possessore di buona fede quello che ignora di ledere il diritto altrui (art. 1147), è acquirente di buona fede colui che ignora il difetto di legittimazione del dante causa (art. 1153), è cessionario (del credito) di buona fede chi acquista ignorando il divieto di cessione del credito, stipulato fra le parti (art. 12602).
Ovviamente la norma di correttezza investe le parti anche per quanto concerne il contenuto del rapporto, perciò il debitore dovrà eseguire la prestazione non solo diligentemente, ma anche secondo buona fede (un comportamento sleale potrebbe consistere nel rispettare formalmente l’obbligazione, ma contemporaneamente adoprarsi affinché il creditore non riceva alcun vantaggio concreto; viceversa il creditore, da parte sua, non può tenere un comportamento tale da rendere più oneroso l’adempimento in modo da nuocere al debitore).
§ 10. La mora del debitore e le conseguenze dell’inadempimento
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La conseguenza della violazione dell’obbligo di correttezza è, di regola, il risarcimento del danno.
10. La mora del debitore e le conseguenze dell’inadempimento. È importante stabilire quando l’inadempimento del debitore risulta certo. In tal caso la legge dice che il debitore cade in mora. Due sono le regole in proposito (art. 1219). Si ha mora ex re, cioè il debitore cade in mora automaticamente, senza bisogno di alcun atto del creditore, quando: – il debito è portabile e il debitore non adempie entro il termine fissato; – il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere; – il debito deriva da illecito extracontrattuale; in tal caso la mora produce i suoi effetti negativi a carico del debitore anche se il debito non è ancora liquido, cioè determinato. Si tratta di una eccezione all’antico principio “in illiquidis non fit mora” (cioè non vi può essere mora se il debito non è determinato nel suo ammontare) ma si tratta di una sanzione a carico del debitore giustificata dalla illiceità del suo comportamento dannoso. La giurisprudenza ammette un ulteriore caso di mora ex re: quando la prestazione diventa impossibile per colpa del debitore (e quindi è certo che questi non potrà più adempiere). Anche in questa ipotesi non sarebbe richiesta, pertanto, la costituzione in mora. Ricordiamo che la legge espressamente non la ritiene necessaria per le obbligazioni negative (art. 1222).
Si ha mora ex persona in tutti gli altri casi. Ex persona significa che è necessaria una attività del creditore per far cadere in mora il debitore. Più precisamente occorre una intimazione di adempiere entro un certo termine, fissato dal creditore, spedita in forma scritta. Il debitore cade in mora se non adempie nel termine. L’atto di costituzione in mora non è un negozio giuridico, ma un atto giuridico in senso stretto, infatti il creditore si limita a ripetere un comando giuridico già esistente. Gli effetti sono già preordinati dalla legge e non sarebbe neppure rilevante una falsa rappresentazione o la mancata conoscenza di essi da parte del creditore.
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Inadempimento e ritardo costituiscono un illecito contrattuale, sanzionato con il risarcimento del danno (art. 1218); l’ammontare di questo potrà, tuttavia, variare tenendo conto della parziale esecuzione della prestazione o della entità del ritardo. Dal momento della mora decorrono importanti effetti giuridici, che modificano, sostanzialmente, il contenuto del rapporto originario. a) Una conseguenza importante della mora è il passaggio del rischio a carico del debitore. Di regola l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore, quando si verifica prima della mora, provoca l’estinzione dell’obbligazione e la liberazione del debitore (art. 1256). Se invece l’impossibilità si verifica quando il debitore è già caduto in mora, questi dovrà subire le conseguenze negative dell’inadempimento, essendo obbligato al risarcimento del danno anche in caso di una impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1221). In sostanza il rischio dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, che di regola è a carico del creditore (perché questi perde il diritto alla prestazione a causa della stessa impossibilità), dopo la mora passa a carico del debitore, perché questi non sarà più liberato (si parla, tradizionalmente di una perpetuatio obligationis). L’unica prova liberatoria che gli è concessa consiste nel dimostrare che se avesse puntualmente consegnato la cosa dovuta questa sarebbe perita ugualmente anche presso il creditore. b) L’inadempimento definitivo fa nascere l’obbligo di risarcire il danno. Si tratta di una nuova obbligazione (chiamata obbligazione risarcitoria, o anche obbligazione secondaria), che prende il posto della obbligazione originaria (o primaria). L’oggetto della nuova obbligazione non consiste più nella prestazione dovuta inizialmente, ma in una prestazione diretta a compensare le conseguenze negative dell’illecito eliminando, per quanto è possibile, la lesione dell’interesse del creditore (a ricevere l’esatta prestazione) cioè il c.d. interesse positivo. Che si tratti di una nuova obbligazione lo si vede chiaramente anche prendendo ad es. l’inadempimento di un debito pecuniario, infatti pur restando sempre dovuta una somma di denaro, la misura del nuovo debito ha una base totalmente diversa: il debito capitale, che era un debito di valuta, soggetto al principio nominalistico, diventa un debito di valore, e quindi si terrà conto della svalutazione della moneta, salvo aggiungere ulteriori danni conseguenti alla indisponibilità del dena-
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ro nella specifica situazione del creditore al tempo della scadenza (ad es. l’imprenditore è dovuto ricorrere ad un gravoso prestito in banca) inoltre verrà accresciuto degli interessi legali (c.d. corrispettivi) e degli interessi moratori nonché delle spese legali e giudiziali necessarie per la riscossione. Spesso, quando la legge chiama un soggetto a rispondere per una obbligazione altrui (ad es. i soci di una società in nome collettivo rispondono solidalmente e illimitatamente per i debiti della società, art. 2291) non vuole riferirsi all’obbligo primario (si tratta per lo più di obblighi che solo la società può svolgere con i mezzi di cui è dotata) ma all’obbligo secondario di risarcimento del danno, che è sempre un obbligo fungibile.
Deve esistere un nesso di causalità: non tutti i danni, infatti, sono risarcibili, ma soltanto quelli che sono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (art. 1223). Come abbiamo già visto in tema di causalità del danno, per evitare una concatenazione senza fine di cause ed effetti, si circoscrive l’area del danno risarcibile in base al principio della c.d. causalità adeguata, cioè si prendono in considerazione soltanto le conseguenze dannose che sono normalmente prodotte dal fatto che costituisce inadempimento, secondo l’esperienza del caso concreto. Ad es. se perdo l’aereo a causa di un guasto della mia auto e sfuma un affare importante posso addebitare tutto questo danno all’officina meccanica cui avevo affidato il veicolo, dimostrando che la revisione richiesta non è stata compiuta diligentemente? Il peso sarebbe eccessivo. La responsabilità sarà limitata al danno che normalmente consegue ad un siffatto inadempimento, cioè alle spese per una nuova riparazione, al traino del veicolo, all’auto sostitutiva. Ad altro risultato si giungerebbe se si applicasse il criterio della conditio sine qua non in base al quale il danno si considera conseguenza dell’inadempimento quando non si sarebbe verificato senza di esso.
Quanto alla entità del danno, la legge consente di tener conto sia del danno emergente, cioè della perdita subita a causa dell’inadempimento, reintegrando il valore della prestazione mancata ed i costi che ne sono derivati, sia del lucro cessante, cioè del mancato guadagno che il creditore avrebbe potuto ottenere se fosse avvenuto l’esatto adempimento (v. anche supra, Cap. 12, par. 4). Proseguendo l’esempio precedente, se il guasto fosse riferito ad un’auto pubblica, si potrebbe aggiungere al danno sopra indicato anche quello rappresentato dal mancato guadagno che il tassista avrebbe potuto ottenere nel periodo di tempo richiesto per le ulteriori riparazioni, che certamente rientra nelle conseguenze normali di tale inadempimento.
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
Nell’illecito contrattuale il danno risarcibile da inadempimento colposo è soltanto quello prevedibile al tempo in cui è sorta l’obbligazione, mentre il danno imprevedibile diviene rilevante solo se si dimostra che l’inadempimento è doloso. Si tratta di una limitazione del risarcimento che non vale nell’illecito extracontrattuale dove, pertanto, si risponde allo stesso modo dei danni prevedibili e imprevedibili (infatti l’art. 1225, al quale è dovuta tale distinzione, non è richiamato in tema di responsabilità aquiliana dall’art. 2056). Si può avere un concorso di colpa se il fatto colposo del creditore ha concorso con il comportamento del debitore a cagionare il danno. In tal caso il risarcimento, dovuto dal debitore inadempiente, è limitato secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che sono derivate dal suo comportamento (art. 1227). La legge prevede che l’evento dannoso sia causato da entrambe le parti secondo una proporzione da stabilire, che consente di addossare anche al creditore una certa responsabilità. In proposito la Cassazione ha precisato (n. 27010 del 2005) che il concorso di colpa del danneggiato di cui all’art. 1227 sussiste solo in caso di cooperazione attiva nel fatto colposo del danneggiante. Diverso è il significato del 2° comma dell’art. 1227 nel quale la legge prevede i c.d. danni ulteriori, cioè conseguenze dannose secondarie che costituiscono la propagazione, se così si può dire, del danno principale. Se questi danni ulteriori potevano essere evitati da parte del creditore usando l’ordinaria diligenza, cioè con un comportamento di collaborazione e con le precauzioni che rientrano nella normalità, non si fa luogo al risarcimento. In ogni caso in cui il danno provocato dall’inadempimento non sia facilmente quantificabile in termini economici la legge prevede che se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa (art. 1226). L’equità richiede una considerazione ragionevole di tutti gli elementi della vicenda, sia pure movendo dalle norme di stretto diritto, ma per arrivare ad una valutazione di giustizia sostanziale applicabile al caso concreto. Ma è risarcibile un danno non patrimoniale derivante dall’inadempimento contrattuale o inadempimento di un’altra obbligazione altrimenti sorta? L’art. 1218 sul quale si fonda la responsabilità contrattuale non contiene limitazioni, né sembra che possa applicarsi per analogia l’art. 2059, data la struttura diversa del-
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l’illecito contrattuale che nasce dalla mancata realizzazione di un programma giuridicamente vincolante volto a soddisfare un determinato interesse del creditore. Se è vero che la regola dettata nell’art. 1223 sembra riferirsi soltanto ad un danno patrimoniale, dovendo il risarcimento “comprendere la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno”, si deve osservare nel contempo che l’art. 1174 dice espressamente che l’obbligazione “suscettibile di valutazione economica” deve corrispondere ad un interesse “anche non patrimoniale del creditore”. È possibile che nasca una obbligazione volta a soddisfare siffatti interessi ma che sia, in definitiva, priva di sanzione? È chiaro che non vengono in considerazione i parametri di ingiustizia del danno propri dell’illecito extracontrattuale. Si tratterà, piuttosto, di vedere se la stessa fonte dell’obbligazione – tanto se si tratta della legge, quanto dell’autonomia privata – attribuisce una singolare rilevanza giuridica proprio sul piano del programma obbligatorio a interessi e valori che non esprimono un contenuto patrimoniale. Vengono in speciale considerazione quegli elementi della fattispecie che consentono di verificare se questi interessi non patrimoniali assumono una specifica rilevanza sul piano oggettivo o, come si dice, “sono contrattualizzati” in modo tale che la delusione dell’aspettativa del creditore giustifica la responsabilità del debitore anche per il patimento derivante dal mancato o inesatto adempimento. In estrema sintesi questa speciale rilevanza può dipendere: a) dalla natura stessa della prestazione dovuta o dalla causa concreta del contratto; si pensi all’obbligo di confezionare il vestito da sposa per le nozze o a quello di effettuare le riprese fotografiche o i filmati della cerimonia, dove l’inadempimento guasterebbe una aspettativa del tutto ragionevole che investe anche l’aspetto “morale”, dato che si tratta di un evento irripetibile che coinvolge affetti, ricordi, immagini, attinenti alla vita intima della persona e della sua famiglia; si pensi anche agli obblighi derivanti da un contratto di assistenza alla persona (ad es. nel c.d. contratto assistenziale viene ceduto un bene al vitaliziante, il quale in cambio si impegna a fornire cure e assistenza morali e materiali). Anche qui l’inadempimento genera una lesione di interessi non (solo) economici del creditore dei quali non si può non tener conto data la causa concreta del contratto; b) per un valore particolare convenzionalmente attribuito dalle parti alla prestazione, tenendo conto anche dell’interesse non patrimoniale, pattuendo ad es. una clausola penale (il padre che ha ingaggiato una orchestrina per festeggiare i 18 anni della figlia quale danno economico potrà dimostrare? Ma se i suonatori non si presentano la festa è rovinata e con la penale si può quantificare questo pregiudizio); c) per una integrazione secondo buona fede degli obblighi nascenti da un contratto, che ne arricchisce il contenuto attraverso obblighi accessori (qualificati come “obblighi di protezione”) in quanto indispensabili ad ottenere la piena soddisfazione del creditore in quanto la prestazione si proietta essenzialmente sulla sfera della persona. Si pensi al contratto di assistenza medica, al contratto di lavoro, al contratto di trasporto di persone;
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d) nei casi in cui la legge prevede espressamente il risarcimento del danno non patrimoniale da inadempimento: ad es. nella prestazione che forma oggetto del pacchetto turistico (art. 94 c. cons.); e) nei casi di obbligazioni sorte per legge che hanno per finalità principale la protezione della persona; pensiamo alla prestazione alimentare o alla prestazione di mantenimento dei figli minori, la cui violazione può certamente offendere i valori della persona, al di là dell’aspetto meramente economico (come ha mostrato di ritenere recentemente la giurisprudenza, sulla scorta di orientamenti dottrinali, condannando il genitore che aveva reiteratamente trascurato i suoi doveri familiari a risarcire anche il danno non patrimoniale).
11. La mora del creditore: offerta e deposito. Il creditore non ha un obbligo, ma un diritto di ricevere la prestazione. Non è giusto, tuttavia, che col suo comportamento egli cagioni un danno al debitore ritardando l’esecuzione della prestazione o addirittura impedendo tale esecuzione. Questo comportamento è scorretto e viola certamente la regola dettata dall’art. 1175. Se il debitore è pronto ad adempiere può fare, innanzitutto, una offerta alla buona (la legge la chiama offerta non formale, art. 1220). Tale offerta non ha altro effetto che quello di evitare al debitore di cadere in mora. Il creditore la può rifiutare soltanto per un motivo legittimo, ad es. perché la prestazione è parziale, inesatta, o non sono rispettate le modalità dell’adempimento. Se il debitore vuole ottenere un effetto più incisivo, può provocare la mora del creditore (mora credendi) attraverso una offerta solenne (art. 1208). Poiché questa, tuttavia, è atto del debitore, dunque un atto privato che potrebbe non corrispondere esattamente alla prestazione dovuta, è necessario che l’offerta stessa, successivamente, sia dichiarata valida dal giudice o accettata dal creditore (art. 12073). L’offerta si dice solenne perché va fatta a mezzo di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, il quale, su richiesta del debitore, offre la prestazione al creditore personalmente (dovunque egli si trovi) o si reca appositamente al domicilio del creditore per effettuare l’offerta, redigendo un verbale (che è atto pubblico e fa prova delle dichiarazioni in esso riportate). L’offerta solenne può essere di due specie (art. 1209). Se l’obbligazione ha per oggetto denaro, titoli di credito o cose mobili
§ 11. La mora del creditore: offerta e deposito
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da consegnare al domicilio del creditore, il pubblico ufficiale fa una offerta reale, cioè porta con sé tali oggetti per consegnarli materialmente alla persona del creditore o altra da lui autorizzata, facendo constare, eventualmente, il rifiuto di ricevere. Se si tratta, invece, di cose immobili, o di cose mobili da ricevere in altro luogo, occorre fare una offerta per intimazione (notificata dall’ufficiale giudiziario al creditore nelle forme della citazione in giudizio) invitando il creditore a prenderne possesso nel tempo e nel luogo stabiliti. Il rifiuto di ricevere senza motivo legittimo provoca la mora del creditore dal giorno dell’offerta solenne, se questa è stata poi convalidata dal giudice o accettata dal creditore. Se le cose sono deperibili o di dispendiosa custodia il debitore, dopo l’offerta solenne, può farsi autorizzare dal giudice a venderle e a depositarne il prezzo. Il debitore potrebbe anche fare un terzo tipo di offerta, secondo gli usi (art. 1214). In tal caso la mora del creditore scatta solo dal momento in cui successivamente viene fatto il deposito della cosa dovuta secondo quanto si dirà fra breve.
Gli effetti della mora del creditore (art. 1207) sono i seguenti: – il creditore è obbligato a risarcire il danno derivato dalla mora e a pagare le spese di custodia e conservazione della cosa dovuta; – non sono più dovuti interessi, neppure corrispettivi, né i frutti non percepiti dal debitore; – il rischio dell’impossibilità della prestazione è a carico del creditore. Ciò significa che se questi è parte in un contratto a prestazioni corrispettive non potrà invocare la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della controprestazione, ma sarà costretto ad eseguire ugualmente la propria prestazione anche se quella dell’ altra parte (debitore che ha fatto l’offerta solenne) è divenuta impossibile dopo la mora accipiendi.
Provocando la mora del creditore, il debitore non viene liberato. Per ottenere la liberazione egli dovrà effettuare il deposito (solenne, quindi attestato dal verbale del pubblico ufficiale) delle cose dovute, comprensivo dei frutti e degli interessi maturati fino al giorno dell’offerta, preceduto da una intimazione, notificata al creditore, in cui lo si invita a presentarsi a ricevere la cosa nel luogo (indicato dalla legge o dal giudice) dove avverrà il deposito, al giorno e all’ora specificati (art. 1211). Il pubblico ufficiale che effettua il deposito redige un verbale, descrivendo le cose depositate, dando atto del rifiuto del creditore o della sua assenza. In quest’ultima ipotesi il
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Cap. 29. Il rapporto giuridico e l’adempimento
processo verbale del deposito dovrà essere notificato al creditore nel suo domicilio con l’invito a ritirare la cosa depositata. La liberazione del debitore vi sarà solo quando il deposito sarà convalidato dal giudice con sentenza passata in giudicato (per la stessa esigenza che rende necessaria la convalida dell’offerta) o sarà accettato dal creditore (art. 1210). Fino a quel momento il debitore potrebbe cambiare idea e ritirare il deposito, cancellandone ogni effetto.
§ 1. Obbligazioni semplici, complesse, parziarie, solidali
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CAPITOLO 30
LE DIVERSE SPECIE DI OBBLIGAZIONI
SOMMARIO: 1. Obbligazioni semplici, complesse, parziarie, solidali. – 2. Obbligazioni divisibili e indivisibili. – 3. Obbligazioni alternative e facoltative. – 4. Obbligazioni pecuniarie.
1. Obbligazioni semplici, complesse, parziarie, solidali. La prima distinzione concerne il profilo soggettivo del rapporto. Quando esiste un solo debitore ed un solo creditore l’obbligazione viene definita semplice. Si parla, invece, di obbligazione soggettivamente complessa, quando vi sono più soggetti, tanto dal lato passivo (più debitori: si pensi, ad es., agli eredi che succedono nel debito del loro dante causa o ai responsabili di uno scontro fra veicoli che hanno causato danno ad un passante), quanto dal lato attivo (più creditori: ad es. gli eredi del creditore o i cointestatari di un conto corrente bancario dal quale tutti possono prelevare denaro). a) Consideriamo, innanzitutto, le obbligazioni soggettivamente complesse dal lato passivo. Ci sono dunque più debitori, ma il modo in cui essi sono tenuti ad adempiere può essere di due specie. Quando il creditore può chiedere a ciascuno dei debitori solo una parte del debito l’obbligazione si dice parziaria, ad es., il creditore potrà chiedere agli eredi del debitore soltanto un adempimento proporzionale alla quota di eredità di ciascuno, se la prestazione è divisibile (art. 1295). Si chiama obbligazione solidale passiva quella in cui il creditore può chiedere a ciascuno degli obbligati l’intero adempimento ed il pagamento effettuato da uno dei coobbligati estingue il credito anche nei confronti degli altri, ad es., il danneggiato può chiedere l’intero risarcimento del danno ad uno qualsiasi tra più responsabili del fatto illecito, a sua scelta (art. 1292).
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Cap. 30. Le diverse specie di obbligazioni
Con la solidarietà passiva il creditore è maggiormente tutelato perché ha la possibilità di scegliere il debitore al quale chiedere il pagamento e comunque ha maggiori garanzie di ottenere quanto gli spetta giacché può soddisfarsi sul patrimonio personale di più soggetti, fino ad ottenere l’intero adempimento. Ma quando una obbligazione è solidale? Oltre ai casi previsti dalla legge o dal titolo, la regola generale dice che ogni qual volta sussiste una obbligazione con più debitori (originata da un’unica fonte) la solidarietà nel debito si presume (art. 1294). Pertanto, l’obbligazione parziaria dal lato passivo (più debitori tenuti ciascuno pro parte) rappresenta una eccezione e deve essere stabilita espressamente dalla legge o dal titolo negoziale. b) Anche per quanto riguarda il credito, e quindi il lato attivo del rapporto, ove sussistano più creditori della stessa prestazione si può tracciare una distinzione. Se ciascun creditore può chiedere al debitore solo la propria quota si parla di obbligazione parziaria dal lato attivo. Vi è invece solidarietà attiva nel rapporto giuridico quando ciascun creditore può chiedere l’intera prestazione al debitore, e l’adempimento verso uno solo dei creditori è sufficiente ad estinguere l’obbligazione anche nei confronti degli altri (art. 1292). Diversamente da quanto avviene per la solidarietà passiva, la solidarietà attiva non si presume. Pertanto, se vi sono più creditori, la regola è quella della parziarietà del credito. Solo il titolo o la legge possono introdurre espressamente la solidarietà attiva, ad es., nel contratto con la banca si può stabilire che ciascuno dei contitolari di un deposito in conto corrente può prelevare l’intera somma accreditata; è ovvio che la somma può essere prelevata una sola volta, poi il credito si estingue. Come si ripercuotono, sugli altri soggetti del gruppo, determinate vicende che riguardano soltanto uno dei consorti? Ad es., che cosa succede se interviene una sentenza di condanna di uno dei condebitori solidali o se esistono due debiti reciproci fra uno dei creditori solidali e il debitore? La regola è facile da ricordare: – i fatti favorevoli ai consorti solidali (condebitori, se solidarietà passiva, concreditori, se solidarietà attiva) si comunicano a vantaggio degli altri; – i fatti sfavorevoli non si comunicano, restando limitati al solo soggetto nei cui confronti si sono verificati.
§ 1. Obbligazioni semplici, complesse, parziarie, solidali
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Ad es., la diffida ad adempiere a carico di un debitore provoca la costituzione in mora di questo soltanto, ma non degli altri condebitori (art. 1308), la confessione o il riconoscimento del debito (art. 1309) producono effetti limitati al debitore che ha fatto tali dichiarazioni. Fa eccezione l’effetto della interruzione della prescrizione (che consegue normalmente ad un atto di costituzione in mora o ad una citazione in giudizio del debitore) che si comunica agli altri debitori (e quindi impedisce la prescrizione per tutti, facendo ripartire il termine dall’inizio) e avvantaggia gli altri creditori nel caso di solidarietà attiva (art. 13101). Non si comunicano invece le conseguenze (negative) della rinunzia alla prescrizione fatta dal condebitore in solido né la sospensione della prescrizione, perché quest’ultima riguarda soltanto la posizione personale di un debitore (art. 13102 e 3).
La solidarietà fra più debitori può nascere anche come conseguenza di una garanzia personale. Ad es., con il contratto di fideiussione un terzo si impegna verso il creditore ad adempiere l’obbligazione del debitore principale; per effetto di tale contratto il garante è obbligato solidalmente con il debitore garantito. Si parla, in tal caso, di solidarietà disuguale, intendendo alludere al fatto che, pur essendovi una facoltà di scelta del creditore circa il soggetto cui chiedere l’adempimento (la libera scelta o libera electio, caratteristica della solidarietà passiva), in realtà il debitore principale è uno solo e il debito del fideiussore è accessorio, cioè esiste solo in quanto sia validamente sorto e sia tutt’ora in vita il rapporto principale. Si deve sottolineare che, nel caso in esame, il debito solidale non è originato da un unico fatto giuridico (come avviene, ad es., nella solidarietà derivante da illecito commesso da più persone) ma da due fatti distinti e in due momenti successivi: prima nasce il debito principale, quale ne sia la fonte, e poi la garanzia, originata dal contratto di fideiussione. Un altro aspetto interessante della solidarietà concerne i cosiddetti rapporti interni al gruppo dei condebitori o dei concreditori. Se un debitore paga l’intero ci si può chiedere come si ripartisce il peso della prestazione sui condebitori solidali. Per effetto del pagamento dell’intero si crea, di regola, un diritto di credito all’interno del gruppo, a favore del solvens, che si chiama diritto di regresso, volto a riequilibrare i rapporti fra debitori assicurando il rimborso a vantaggio di chi ha pagato (art. 1299) e a carico degli altri condebitori.
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Cap. 30. Le diverse specie di obbligazioni
Quanto al modo di ripartire le quote interne occorre distinguere in base al titolo dell’obbligazione. Fra coloro che sono responsabili di un fatto illecito, l’art. 2055 distribuisce tale carico secondo due parametri: la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che sono derivate dal comportamento di ciascuno. Sicché il debitore che ha pagato l’intero potrà pretendere dagli altri la restituzione della quota di debito di loro competenza nella misura sopra indicata. Nel dubbio le singole colpe si presumono uguali. In generale, comunque, anche al di fuori della responsabilità aquiliana, le quote di debito interno si presumono uguali, ma è ammessa prova contraria. Diversa è, ovviamente, la regola del regresso nella solidarietà disuguale. Ad es., se il fideiussore estingue l’obbligazione egli ha diritto al rimborso dell’intero debito, spese e interessi inclusi, perché ha pagato un debito che era interamente altrui. Una regola caratteristica delle obbligazioni solidali dice che in caso di insolvenza di un condebitore la sua quota si divide tra gli altri. Il regresso, che fa nascere un diritto nuovo in capo a colui che ha pagato l’intero debito, non va confuso con la surrogazione per pagamento che trasferisce un diritto vecchio, attribuendo al solvens la stessa posizione del creditore soddisfatto, sì che questi può valersi delle stesse garanzie già esistenti per lo stesso credito (art. 1203). In sede di regresso il debitore che ha pagato non può giovarsi di tali garanzie, ma può chiedere ai condebitori anche qualcosa che non era compreso nel debito originario, come, ad es., le spese affrontate per il pagamento (art. 1950).
2. Obbligazioni divisibili e indivisibili. Come si è visto, la solidarietà passiva riguarda i soggetti; questi, sostanzialmente, garantiscono l’uno per l’altro e perciò sono tenuti all’adempimento dell’intero debito in quanto ne hanno in comune la titolarità. In altri casi il debito va adempiuto unitariamente perché lo esige la natura stessa della prestazione. Ciò avviene perché l’oggetto di questa è costituito da una cosa o da un fatto non suscettibile di divisione per sua natura o per il modo in cui è stato considerato dalle parti (art. 1316). La qualifica di obbligazione indivisibile non sottintende una nozione materiale, ma giuridica di indivisibilità. Ad es., un brillante di valore può essere diviso, tecnicamente, ma perderebbe la sua consistenza economica e la sua rarità, infatti, le parti non conservano un valore proporzionale a quello dell’originale; una macchina, se divisa nelle sue componenti, non è più in grado di funzionare; un mazzo di carte, se non è intero, non serve più per giocare e così via. Per legge è considerato bene indivisibile, ad es., il maso chiuso, istituto di antica tradizione, caratteristico dell’Alto Adige, costituito da un podere agricolo con
§ 3. Obbligazioni alternative e facoltative
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fabbricati, che può essere trasmesso ad uno soltanto dei familiari. Ha lo scopo di conservare l’unità dell’azienda e quindi di garantire l’esistenza di un soggetto interessato a rimanere sul fondo e a coltivarlo. Per convenzione sono considerate indivisibili contrattualmente le cosiddette multiproprietà, cioè fabbricati adibiti normalmente ad abitazioni di villeggiatura, assegnati ai comproprietari o ai soci della società proprietaria in godimento turnario a settimane prestabilite. È chiaro che senza l’indivisibilità verrebbe meno la funzione svolta da tale bene.
L’indivisibilità è più forte della solidarietà passiva, infatti un’obbligazione indivisibile si trasmette, come tale, anche agli eredi (art. 1318). La cosa indivisibile attribuita in legato può essere richiesta dal legatario all’erede che la possiede, anche se questi risponde dei debiti ereditari per una quota inferiore al valore del bene stesso. In linea di principio si applicano alla indivisibilità le regole della solidarietà, in quanto compatibili.
3. Obbligazioni alternative e facoltative. Nelle obbligazioni alternative una sola è la prestazione dovuta, ma questa può essere scelta fra più prestazioni che sono contemplate nello stesso rapporto (ad es. l’usufruttuario di cose consumabili, se non sono state stimate al tempo della consegna, ha la scelta se restituirne altrettante di eguale qualità e quantità o pagarne il valore che hanno al tempo in cui finisce l’usufrutto: art. 995). La scelta, di regola, spetta al debitore, ma le parti possono attribuirla al creditore o ad un terzo (art. 1286). Se tuttavia il debitore viene condannato ad eseguire, alternativamente, una delle due prestazioni e non adempie ad alcuna di esse nel termine assegnatogli, la scelta spetta al creditore. Dopo la dichiarazione di scelta avviene la concentrazione e quindi l’obbligazione da quel momento diviene semplice, con un unico oggetto. Se una delle prestazioni è originariamente impossibile o lo diviene prima della scelta, per cause non imputabili ad alcuna delle parti, l’obbligazione si considera come se fosse semplice fin dall’inizio (art. 1288). L’impossibilità verificatasi dopo la concentrazione determina invece l’estinzione della obbligazione.
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Cap. 30. Le diverse specie di obbligazioni
Che cosa succede se una delle prestazioni diviene impossibile per colpa del debitore o del creditore prima della concentrazione? La soluzione dipende da due elementi: chi aveva la scelta e chi ha la colpa del perimento. Chi aveva la possibilità di scelta la conserva, ma il responsabile può essere costretto a risarcire il danno per il perimento della prestazione. Ad es. se la scelta fra due cose da consegnare spettava al debitore e una delle prestazioni è divenuta impossibile per colpa del creditore, il debitore può scegliere se considerarsi liberato o se consegnare la cosa che non è perita e chiedere il risarcimento del danno per la distruzione dell’altra (art. 12891).
Vengono chiamate invece facoltative quelle obbligazioni in cui vi è essenzialmente una sola prestazione che il debitore deve eseguire, ma per sua comodità e nel suo esclusivo interesse è previsto che egli possa liberarsi anche eseguendo una prestazione diversa. In tal caso, se la prestazione dovuta diviene impossibile per causa non imputabile al debitore, questi è liberato.
4. Obbligazioni pecuniarie. Si chiamano obbligazioni pecuniarie quelle che hanno per oggetto il pagamento di una somma di denaro. La moneta ha una duplice funzione: è cosa materiale che serve per il pagamento, ma è anche unità di misura del valore. Le due entità coincidono inizialmente. Ad es. la moneta di uno zecchino d’oro, appena coniata, corrispondeva originariamente sia al debito nominale di uno zecchino sia ad una certa quantità di merci o servizi acquistabili con quella quantità di metallo pregiato. Qualcuno, tuttavia, aveva scoperto che limando i bordi della moneta si poteva ricavare polvere d’oro, lasciando immutato il valore nominale, ma riducendo il valore metallico. Per molto tempo la moneta cartacea si è considerata equivalente a quella metallica perché era convertibile, in quanto lo Stato si era impegnato a cambiare le banconote in metallo pregiato, secondo il valore nominale. Oggi la moneta circolante, ad es. un biglietto da cento Euro, non ha alcun valore intrinseco, ma può essere utilizzato come mezzo di pagamento solo perché la legge ordina di accettarlo come tale, anche se non è più convertibile in moneta metallica pregiata. La distinzione fra moneta come cosa, cioè come mezzo di pagamento, e come unità di misura del valore, cioè come unità di conto, si nota bene se si considera, ad es. la situazione europea prima dell’entrata in circolazione dell’euro. Fino a tale momento il prezzo in euro indicava il valore della prestazione, ma il debito si pagava nella moneta nazionale propria di ciascuno Stato della Comunità, la sola che poteva servire come mezzo di pagamento fino all’inizio dell’anno 2002.
§ 4. Obbligazioni pecuniarie
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La duplice funzione della moneta è nascosta in ogni definizione del debito: quando si dice: “mi devi cento euro” è come se si dicesse: “mi devi il valore di cento euro da pagarsi in euro”. Quando il mezzo di pagamento è diverso dall’unità di conto lo si dice espressamente: “mi devi (il valore di) cento euro (da pagarsi) in franchi svizzeri” (la stima del debito è in euro, cioè nel numero di tante unità di conto euro, ma il debitore dovrà prestare effettivamente franchi svizzeri come mezzo di pagamento). L’ammontare del debito, al momento della scadenza, sarà pertanto soggetto ai rischi di una svalutazione o rivalutazione dell’euro rispetto all’altra moneta, d’altra parte il debitore dovrà affrontare la difficoltà di trovare i pezzi monetari (fr. sv.) necessari per effettuare l’adempimento e sopportarne il costo. La disciplina dell’adempimento di una obbligazione pecuniaria obbedisce a due principi distinti, entrambi fissati dall’art. 1277. a) Il primo prende il nome di principio nominalistico e sottintende una nozione di moneta intesa come unità di conto. La regola dice che: il debito si estingue per il suo valore nominale. Per determinare a quanto ammonta il debito, in sostanza, si deve fare riferimento al numero di unità monetarie indicate al momento del sorgere del debito, senza tener conto del mutamento di valore che la moneta può aver subito nel tempo (salvo le conversioni ufficiali, ad es. lira/euro): ad es. un debito in conto capitale di diecimila euro, sorto nel 2002, resta fissato in questa misura e dovrà essere pagato con diecimila euro del 2012, anche se il valore delle merci acquistabili con tale cifra sarà mutato. Questa regola vale anche là dove i debiti sono quantificati in moneta straniera (ad es. diecimila sterline). Con riferimento al principio nominalistico si parla di debito di valuta (il quale resta nominalmente determinato in base al numero di unità). Ciò presuppone, tuttavia, che la scadenza di cui si parla sia quella stabilita per il regolare adempimento. Se invece il debitore paga in ritardo e quindi è inadempiente, dal giorno della mora il debito si considera di valore e pertanto il risarcimento dovuto dovrà corrispondere al valore di scambio che la somma di denaro esprimeva in termini di beni e di merci equivalenti al tempo della scadenza, salvo ulteriori danni. A tale proposito la Corte di Cassazione (S.U., n. 19499/2008) ha chiarito che il “maggior danno” di cui all’art. 1224, 2° comma, si può ritenere esistente in via presuntiva già confrontando il rendimento medio dei titoli di stato ad un anno con il tasso di interesse legale. Le parti sono comunque libere di dimostrare che il danno in questione è stato effettivamente superiore o inferiore a quanto presunto.
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Cap. 30. Le diverse specie di obbligazioni
b) La seconda regola concerne la moneta come mezzo di pagamento e dice che il debito pecuniario si estingue con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento. Questa norma attribuisce valore liberatorio alla moneta corrente, cioè quella che lo Stato considera valida in un determinato momento, senza distinzione di pezzatura (tagli grossi o piccoli vanno bene ugualmente) o di materia (posso pagare in banconote o in moneta metallica, purché di taglio unitario, quindi non con moneta frazionaria, ad es. con centesimi di euro). Entrambe le regole valgono anche se la somma dovuta (in Italia) è denominata in moneta estera (come unità di conto) e quindi non avente corso legale nello Stato (ad es. mille sterline). Infatti, da un lato, l’ammontare resta determinato in modo nominale, quanto al mezzo di pagamento, se non viene specificata espressamente la moneta dell’adempimento, il debito si paga in moneta corrente, al corso del cambio in vigore al tempo del pagamento (art. 1278). In taluni casi le parti possono avere interesse che il pagamento avvenga materialmente con moneta estera (ad es. ti presto mille dollari, ma li restituirai nella stessa moneta); bisognerà allora indicarlo espressamente nel titolo del debito (che, nel nostro esempio, è il contratto di mutuo) con la clausola “effettivo” o altra equivalente (art. 1279). In tal caso anche il mezzo di pagamento sarà costituito da moneta non avente corso legale in Italia (ma se non è possibile procurarsi tale moneta alla scadenza il debitore si libera con moneta avente corso legale). Per evitare che il creditore senta le conseguenze negative di una crescente inflazione si ricorre spesso alle clausole di salvaguardia monetaria, ancorando l’ammontare del debito a monete che conservano il loro valore con maggiore stabilità o ad un metallo prezioso o a indici statistici, a volte ricavati da un “paniere” di merci o monete. L’ammontare del debito, che al momento iniziale esprime una determinata relazione con il parametro prescelto, dovrà essere adeguato al tempo del pagamento, in modo tale da rispettare lo stesso rapporto, ad es., se con la somma x si poteva comprare un determinato peso d’oro in lingotti al momento del sorgere del debito, questo dovrà essere estinto con il denaro necessario per acquistare lo stesso peso d’oro al tempo della scadenza (c.d. clausola oro/valore).
c) Una terza regola fondamentale dice che il credito di somma di denaro, liquido ed esigibile, produce interessi di pieno diritto, se non è disposto altrimenti dalla legge o dal titolo (art. 1282).
§ 4. Obbligazioni pecuniarie
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Ciò dipende dal fatto che il denaro è considerato un bene fruttifero e quindi chi gode del denaro altrui deve dare qualcosa in cambio. Il saggio è quello degli interessi legali, fissato con Decreto dal Ministro dell’Economia e delle Finanze e modificabile annualmente entro il 15 dicembre dell’anno precedente in base al tasso di inflazione e al rendimento di alcuni titoli di Stato (con Decreto 12 dicembre 2019 è stato portato allo 0,05 % a decorrere dal 1° gennaio 2020). Le parti possono fissare un tasso di interessi convenzionali superiore a quello legale, ma per la validità del patto è richiesto l’atto scritto, altrimenti sono dovuti in misura legale (art. 1284). Se il tasso supera determinati limiti, indicati dalle tabelle del Ministero del Tesoro sulla base di una rilevazione periodica, o risulta comunque gravemente sproporzionato a carico del debitore, che ha chiesto denaro a prestito in condizione di gravi difficoltà economiche, si può configurare il reato di usura (art. 644 c.p.). I crediti per fitti o pigioni non producono interessi se non dalla costituzione in mora e i crediti aventi ad oggetto il rimborso di spese fatte per cose altrui non producono interessi se colui che ha fatto tali spese ha il godimento gratuito della cosa.
Il fenomeno degli interessi sugli interessi prende il nome di anatocismo. Come si è visto, sul debito di capitale decorrono naturalmente gli interessi, ma sul debito di interessi (rappresentato dagli interessi che via via sono maturati) corrono altri interessi? Il problema, ovviamente, esprime la sua massima importanza nei rapporti con le Banche. La l. n. 147 del 2013 ha vietato l’anatocismo, sia per gli interessi attivi che per quelli passivi, perciò anche quelli “capitalizzati”, cioè relativi a periodi ormai conclusi, restano improduttivi, mentre continua a produrre interessi il capitale iniziale “di base” o originario. Tenendo conto di quanto prevede la legge, si distinguono tre specie di interessi. a) Gli interessi maturati naturalmente dai crediti liquidi ed esigibili prendono il nome di interessi corrispettivi. Poiché il debitore utilizza il denaro, che dovrebbe invece pagare, è giusto che il creditore ne abbia qualcosa in cambio (essendo un corrispettivo del godimento di un bene concesso ad altri, gli interessi legali sono qualificabili giuridicamente come frutti civili, art. 820). b) Nella compravendita, se il prezzo non è stato ancora pagato, ma la cosa venduta è stata consegnata al compratore e produce frutti o altri proventi, di regola sono dovuti al venditore gli interessi sul prezzo, anche se questo non è esigibile perché vi è un termine non ancora scaduto. La legge chiama interessi compensativi (art. 1499). c) Quando il debitore cade in mora per ritardato pagamento di un debito pe-
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cuniario sorge il problema del danno di cui il creditore può pretendere il risarcimento (art. 1224). Può darsi che il creditore si accontenti degli interessi legali, che decorrono dal giorno della mora anche se non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di avere sofferto alcun danno (se però prima della mora erano dovuti interessi superiori a quelli legali, essi restano determinati nella stessa misura) ma può darsi che le parti abbiano pattuito la misura degli interessi moratori, liquidando in tal modo, sin da principio, il danno da ritardo (cioè determinandone l’ammontare) con una disposizione che ha natura di clausola penale. Resta esclusa, pertanto, la possibilità di dimostrare un danno superiore o inferiore (art. 12242). In mancanza di tale espressa pattuizione il creditore che, a causa della mora, ha subito danni maggiori di quelli coperti dagli interessi legali o convenzionali ha diritto di chiedere l’ulteriore risarcimento (ad es. potrà dimostrare che il denaro gli era necessario per la sua impresa e che ha dovuto chiedere un prestito oneroso in banca, o che ha subito una svalutazione assai maggiore del tasso di interesse legale). Nelle transazioni commerciali, con il Decreto sui ritardi nei pagamenti, oltre all’intervento equitativo del giudice di cui si è parlato (v. supra, p. 200), il nostro legislatore ha introdotto una nuova disciplina degli interessi moratori nei pagamenti tra imprenditori commerciali (compresi quelli tra committente e subfornitore) o tra imprese e pubbliche Amministrazioni là dove il contratto abbia per oggetto esclusivamente o prevalentemente la consegna di merci o la prestazione di servizi. Il presupposto è, comunque, l’inadempimento del debito e la ratio sta nella protezione del creditore, inteso quale soggetto debole che ha diritto ad un pagamento puntuale. Gli interessi moratori legali decorrono automaticamente senza bisogno di alcun atto di costituzione in mora dal giorno successivo alla scadenza del termine stabilito. In mancanza di questo, viene fissato dalla legge un termine di 30 gg. con varia decorrenza, secondo i casi. La possibilità di pattuire termini più ampi è variamente articolata e limitata, rispettivamente, nei rapporti fra imprese e con la Pubblica Amministrazione. L’ammontare di tali interessi legali di mora viene quantificato in relazione all’interesse di riferimento applicato dalla Banca Centrale Europea a determinate operazioni, opportunamente maggiorato (attualmente di 8 punti).
§ 2. Segue: b) la cessione del credito
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CAPITOLO 31
LE MODIFICHE IN UNO DEGLI ELEMENTI DEL RAPPORTO
SOMMARIO: 1. Nel soggetto attivo: a) la surrogazione per pagamento. – 2. Segue: b) la cessione del credito. – 3. Le modifiche soggettive dal lato passivo: a) delegazione. – 4. Segue: b) espromissione. – 5. Segue: c) accollo. – 6. Le modifiche nell’oggetto del rapporto.
1. Nel soggetto attivo: a) la surrogazione per pagamento. Se il creditore riceve il pagamento dovuto, di solito l’obbligazione si estingue ed il debitore è liberato. Questo avviene, di regola, anche quando il debito è pagato da un terzo (ad es. il padre estingue il debito del figlio). Vi sono, peraltro, delle situazioni in cui vi è interesse a conservare in vita il rapporto giuridico, mantenendo immutato l’obbligo del debitore, mentre viene sostituita la persona del creditore. Perciò il creditore originario viene soddisfatto ed esce dal rapporto, ma al suo posto diventa creditore colui che ha fornito i mezzi per il pagamento. Si parla, in tal caso, di surrogazione personale per pagamento (che significa sostituzione di un soggetto ad un altro, nella posizione di creditore, in conseguenza del pagamento). Diciamo subito quali sono le conseguenze più interessanti della surrogazione. Il debitore può opporre anche al nuovo creditore le eccezioni che poteva opporre al vecchio creditore, ma permangono anche le garanzie prestate da terzi, che già rafforzavano il credito (art. 1204). La surrogazione per pagamento può avvenire in tre casi: a) la surrogazione per quietanza o per volontà del creditore. Quest’ultimo, ricevendo l’adempimento da un terzo, può dichiarare espressamente di surrogarlo nel momento in cui rilascia la quietanza, contemporaneamente al pagamento (art. 1201);
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Cap. 31. Le modifiche in uno degli elementi del rapporto
b) la surrogazione per imprestito o per volontà del debitore, il quale prende a prestito una somma appositamente per pagare il creditore. Se ciò risulta espressamente dal contratto di mutuo e poi nella quietanza il creditore menziona la dichiarazione del debitore, che attesta la specifica provenienza di tale somma dal mutuante, e questi atti risultano entrambi con data certa (in modo che i terzi non possano dubitare della sequenza temporale di tali fatti), il mutuante è surrogato al creditore (art. 1202); c) la surrogazione legale è prevista dal codice (art. 1203) in alcuni casi: – quando fra più creditori dello stesso debitore uno di essi paga altro creditore a lui preferito in graduatoria, perché privilegiato o garantito da pegno o ipoteca (in tal caso il pagamento serve per “guadagnare posizioni” nel grado dei creditori); – quando il condebitore solidale estingue il debito comune (la surrogazione sarà utile per potersi giovare delle garanzie preesistenti); – quando l’erede beneficiato paga i debiti ereditari con denaro proprio, e quindi diventa a sua volta creditore del patrimonio ereditario separato.
2. Segue: b) la cessione del credito. La cessione del credito è l’effetto di un contratto fra il vecchio creditore (cedente) e il nuovo creditore (cessionario) che si perfeziona senza bisogno del consenso del debitore ed anche contro la sua volontà. Il contratto può avere causa onerosa (ad es. il credito può essere venduto) o gratuita (può essere dato a titolo di garanzia: cessio in securitatem) ma può essere anche donato. Non possono essere ceduti crediti strettamente personali, come il credito alimentare (art. 447). Per evitare gli abusi, la cessione del credito è vietata dalla legge quando ha per oggetto una res litigiosa cioè diritti sui quali è sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria (art. 1261). Il divieto opera qualora il cessionario sia un giudice, un cancelliere, un ufficiale giudiziario, un avvocato, un procuratore o un notaio che esercita la sua attività nella giurisdizione dove è in contestazione il credito. Si tratta di una incapacità giuridica speciale che colpisce anche le eventuali persone interposte. La legge ammette anche un divieto convenzionale di cessione del credito (cioè pattuito fra le parti), ma esso è opponibile solo al terzo cessionario di mala fede (a conoscenza del divieto), altrimenti ha solo efficacia inter partes e nulla può essere eccepito all’acquirente di buona fede (art. 12602), che diventa il nuovo creditore a tutti gli effetti.
§ 2. Segue: b) la cessione del credito
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Il contratto di cessione è consensuale (basta l’accordo delle parti), e con effetti reali (il diritto passa automaticamente al momento della conclusione del contratto, secondo il principio consensualistico). Da quel momento il nuovo creditore è intestatario del credito, egli può farlo, a sua volta, circolare e ne sopporta il rischio. Tuttavia, se il debitore non è conoscenza dell’avvenuta cessione, potrebbe pagare in buona fede al vecchio creditore (art. 1264); in tal caso egli sarebbe liberato per il principio dell’adempimento al creditore apparente (cfr. art. 1189). In questo caso, tuttavia, la buona fede del solvens non deve essere provata, (contrariamente a quanto è previsto nell’art 1189 per il pagamento al creditore apparente) ma si presume. La diversità della regola si spiega facilmente: non si può pretendere che il debitore, al quale non è stata ancora notificata l’avvenuta cessione, ne sia a conoscenza e quindi è giusto che l’onere della prova ricada su chi nega la buona fede del solvens. Per lo stesso motivo anche la buona fede del terzo avente causa nella simulazione si presume; infatti, egli non ha colpa se crede a ciò che risulta dal negozio simulato, dato che l’apparenza è stata creata volutamente dalle parti. È giusto quindi che l’onere della prova della mala fede del terzo acquirente sia sopportato da altri, in particolare da chi ha interesse a contrastare il suo acquisto.
Se il debitore, per qualunque causa, viene a conoscenza della avvenuta cessione del credito, non è più in buona fede e quindi deve adempiere al nuovo creditore. È dunque interesse del cessionario notificare l’avvenuta cessione al debitore, non solo per impedire che il debitore si liberi pagando al vecchio creditore, ma anche per prenotarsi rispetto ad altri eventuali aventi causa dello stesso cedente. Infatti, se questi ha ceduto lo stesso credito a più persone prevale il primo che ha notificato la cessione al debitore o che ne ha ricevuto l’accettazione anche se la cessione a lui effettuata è successiva alle altre (art. 1265). La cessione onerosa è pro soluto e cioè il cedente è tenuto a garantire solo l’esistenza del credito al tempo della cessione, non l’adempimento del debitore o la sua solvenza (art. 1266). Qualora invece il cedente abbia assunto specificamente la garanzia della solvenza, nella cessione pro solvendo, egli dovrà rispondere nei limiti di ciò che ha ricevuto in cambio della cessione, più gli interessi e le spese della cessione stessa nonché le spese per l’azione esecutiva esercitata contro il debitore, oltre al risarcimento del danno (art. 1267). Ma se vi è stata negligenza del cessionario nell’agire contro il debitore, la garanzia cessa.
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Cap. 31. Le modifiche in uno degli elementi del rapporto
Il debitore, invece di pagare, può estinguere l’obbligazione se il creditore è d’accordo, cedendogli un credito. La cessione in luogo di adempimento si presume pro solvendo; ciò significa che l’obbligazione si estinguerà solo con la riscossione del credito ceduto (art. 1198). Perciò, se c’è insolvenza del debitore ceduto, il cessionario rimane ancora creditore e potrà passare ad escutere il cedente (debitore originario) con l’onere di dimostrare di avere previamente escusso, senza successo, il debitore ceduto (art. 1267, 2° comma). La Corte di Cassazione ha chiarito (ord. 28 maggio 2020, n. 10092) che se la cessione avviene in securitatem, allo scopo di garantire un secondo e diverso debito del cedente verso il cessionario, questi non è gravato dall’onere di cui sopra e potrà scegliere liberamente se escutere il cedente o il debitore ceduto. Norme speciali regolano la cessione del credito di impresa (l. 21 febbraio 1991, n. 52), in particolare è consentita anche la cessione in massa dei crediti futuri maturati entro due anni (l’oggetto del contratto viene considerato determinato, per legge, non ostante vi sia una incertezza, circa l’ammontare dei crediti).
3. Le modifiche soggettive dal lato passivo: a) delegazione. La successione nel debito si compie nel modo più semplice a titolo ereditario, con l’avvertenza che gli eredi del debitore rispondono pro quota anche se il de cuius era obbligato in via solidale (art. 1295). Assai più difficile è una successione nel debito tra vivi. Infatti non è permesso al debitore cedere la sua posizione passiva con la stessa facilità con cui il creditore può cedere la sua posizione attiva. In ogni caso la successione nel debito, che presuppone la liberazione del debitore originario, non potrà mai ottenersi se non vi è una espressa dichiarazione liberatoria del creditore. Anche se la prestazione è fungibile, infatti, non tutti i debitori si equivalgono: l’aspettativa di un puntuale adempimento varia, secondo le caratteristiche di ciascuno e varia pure la garanzia patrimoniale, secondo le sostanze, il numero e la qualità dei creditori di ciascun debitore. Gli istituti attraverso i quali si può sostituire un debitore con un altro sono la delegazione, l’espromissione e l’accollo. La delegazione consiste essenzialmente in un ordine dato dal delegante (A) al delegato (B) di pagare al delegatario (C); la ragione che giustifica ta-
§ 3. Le modifiche soggettive dal lato passivo: a) delegazione
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le ordine sta, da un lato, nel rapporto fra A e B, che si chiama rapporto di provvista, in base al quale il delegante si trova in una situazione di credito verso il delegato (B deve 100 ad A) e quindi in una posizione di forza, dall’altro lato lo stesso ordine di adempiere a favore del terzo delegatario (C) si giustifica grazie al rapporto fra delegante e delegatario, chiamato rapporto di valuta, in base al quale il delegante ha un debito da soddisfare nei confronti del delegatario (A deve 100 a C). A (provvista)
B
(valuta)
C
Si distinguono due figure: innanzitutto la delegazione di pagamento (o delegatio solvendi), che è un ordine di pagare al delegatario (art. 1269). Ovviamente un ordine non basta per obbligare il delegato senza la sua volontà, perciò la delegazione di pagamento non obbliga il delegato, ma se questi vorrà eseguire l’ordine pagando direttamente al delegatario otterrà in un momento solo, un duplice effetto: estinguerà il debito del delegante verso il terzo (A-C, rapporto di valuta) ed estinguerà il proprio debito verso il delegante (B-A, rapporto di provvista). La seconda figura si chiama delegazione di debito (o delegatio promittendi), ed è un ordine al delegato di obbligarsi nei confronti del delegatario, promettendogli l’adempimento del debito già esistente fra delegante e delegatario (art. 1268). Se il delegato accetta l’ordine (è libero anche di non farlo) dichiarerà al terzo delegatario questo suo impegno. In tal caso, per effetto della sua stessa volontà, sarà obbligato. La delegazione si dice pura quando il delegato non fa riferimento espresso al rapporto di valuta o di provvista, altrimenti si dice titolata (per la valuta o per la provvista, a seconda del rapporto richiamato nella dichiarazione del delegato). Effetti: a) Se il creditore tace, la delegazione si dice cumulativa, perché il delegante non è liberato dal suo debito verso il terzo, ma a lui si aggiunge il nuovo debitore in un vincolo solidale. b) Se il creditore accetta l’impegno del delegato, l’obbligazione del delegante sarà sussidiaria a quella del delegato, in altre parole il creditore do-
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Cap. 31. Le modifiche in uno degli elementi del rapporto
vrà prima chiedere l’adempimento al delegato e soltanto se questi non adempie potrà rivolgersi al delegante. c) Se, infine, il delegatario/creditore libera espressamente il delegante, tenendo come nuovo debitore il solo delegato, avremo finalmente una successione nel debito. È importante individuare quali eccezioni potrà opporre il delegato, una volta che si sia obbligato nei confronti del delegatario: – può opporre sempre le eccezioni relative ai suoi rapporti personali con questo (ad es. la compensazione di due debiti reciproci fra delegato e delegatario); – se la delegazione non è titolata per la valuta (v. sopra) il debitore non può opporre le eccezioni relative a tale rapporto; per quanto concerne le eccezioni relative al rapporto di provvista esse sono opponibili solo se vi è stato un patto espresso tra le parti (non basta che il creditore sia a conoscenza del rapporto di provvista (art. 1271, 2° comma); – se invece sono nulli sia il rapporto di provvista che quello di valuta il delegato può rifiutarsi di adempiere opponendo la c.d. nullità della doppia causa. Questa regola si spiega facilmente: basta che uno dei due rapporti sia valido perché il pagamento del delegato svolga una funzione utile, estinguendo validamente il rapporto di valuta (in quanto paga per conto del delegante) o estinguendo validamente il rapporto di provvista (in quanto adempie ad un ordine del delegante col proprio denaro). Solo se nessuno dei due rapporti è valido il pagamento del delegato è totalmente inutile.
4. Segue: b) espromissione. Riprendiamo lo schema già utilizzato per la delegazione, con i tre personaggi della vicenda, A, B e C e i loro rapporti. Possiamo immaginare che B si impegni nei confronti di C a pagare il debito di A, derivante dal rapporto di valuta (al quale B è estraneo), senza tuttavia averne avuto alcun ordine da A, debitore. A (valuta)
B
C
§ 5. Segue: c) accollo
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Avremo, in tal caso una espromissione che consiste nella assunzione da parte di un terzo (B) del debito altrui (di A) nei confronti del creditore (C). L’effetto della dichiarazione di B, che chiameremo in questo caso espromittente può essere di due specie: a) di regola B sarà obbligato in solido con A; b) se il creditore C dichiara espressamente di liberare il debitore originario l’espromittente resta l’unico obbligato. Si consideri che mentre la delegazione poteva essere pura, perché nell’assumere il debito altrui il delegato poteva limitarsi a citare l’ordine ricevuto, senza fare riferimento espresso ai rapporti di valuta o di provvista, la espromissione è necessariamente titolata per la valuta, in quanto l’espromittente deve necessariamente fare riferimento al rapporto di valuta per identificare il debito (altrui) che intende assumere. Ne consegue che di regola il terzo espromittente potrà opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di valuta (escluse quelle personali del debitore originario, come la compensazione e quelle, pur concernenti il rapporto, ma derivanti da fatti successivi all’espromissione); non può invece opporre eccezioni relative al rapporto di provvista (che rimane del tutto nascosto a meno che la convenzione di espromissione non faccia riferimento ad esso). Si può distinguere l’adempimento del debito altrui dalla espromissione perché in essa il terzo si obbliga e quindi al momento di adempiere pagherà un debito proprio. D’altra parte, l’espromissione si distingue anche dalla fideiussione, perché l’espromittente si obbliga in prima persona, mentre il fideiussore promette di adempiere il debito altrui (cioè del debitore principale). È chiaro che la espromissione cumulativa, facendo nascere una obbligazione solidale fra nuovo e vecchio debitore ha anche, indirettamente, funzione di garanzia per il creditore. Tuttavia, mentre il fideiussore può opporre al creditore tutte le stesse eccezioni del debitore principale (eccetto l’eccezione di incapacità), l’espromittente, come si è visto, non può opporre le eccezioni personali del debitore originario (ad es. di compensazione) e quindi è tenuto con maggiore autonomia ad adempiere.
5. Segue: c) accollo. Fermo ancora lo schema di riferimento in cui C risulta creditore di A in base al rapporto di valuta, possiamo immaginare che B, terzo rispetto a tale
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Cap. 31. Le modifiche in uno degli elementi del rapporto
rapporto, si obblighi questa volta nei confronti di A, debitore, ad adempiere il debito di questo verso C. A (valuta)
B
C
Avremo in tal caso una convenzione fra A e B, chiamata accollo, che può produrre i seguenti effetti: a) se al creditore viene notificato l’accollo, il vecchio e il nuovo debitore saranno solidalmente obbligati nei suoi confronti; b) se il creditore aderisce alla convenzione fra A e B questa diviene irrevocabile; c) se il creditore dichiara espressamente di liberare il vecchio debitore (accollo liberatorio) avremo una successione nel debito. Si consideri che l’accollo è necessariamente titolato per la provvista, in quanto proprio tale rapporto forma oggetto della convenzione fra (debitore) A e (terzo) B. Ciò spiega perché il debitore potrà opporre al creditore che ha aderito alla convenzione le eccezioni fondate sul contratto di assunzione del debito. Si noti che la figura dell’accollo è considerata dalla legge alla stregua di un contratto a favore di terzo, in cui il terzo è rappresentato dal creditore. Identico, nei due casi, è l’effetto provocato dalla accettazione del terzo (rende irrevocabile la stipulazione a suo favore) e identico è il regime delle eccezioni opponibili al creditore (sono opponibili quelle fondate sul contratto di accollo).
6. Le modifiche nell’oggetto del rapporto. L’oggetto della obbligazione può subire delle modifiche per volontà delle parti o per disposizioni di legge. Le parti, innanzitutto, col contratto di novazione oggettiva, possono modificare l’oggetto o il titolo dell’obbligazione, provocando l’estinzione del rapporto giuridico originario e facendone nascere uno nuovo. L’istituto si inserisce nella categoria dei fenomeni estintivi dell’obbligazione se ne parlerà nel prossimo capitolo.
§ 6. Le modifiche nell’oggetto del rapporto
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La legge sostituisce la prestazione che forma oggetto del rapporto in due circostanze e precisamente: – in seguito all’inadempimento, allorché al posto della prestazione originaria nasce un obbligo di risarcimento del danno (art. 1218). In proposito è necessario rinviare alla precedente trattazione (cfr. 29.10). – in seguito alla impossibilità della prestazione. Quando è stabilita una modifica legale dell’oggetto l’impossibilità non determina l’estinzione del rapporto, ma al posto della prestazione impossibile il debitore deve eseguirne una diversa. Rientrano in questo ambito i vari casi previsti in tema di obbligazioni pecuniarie, quando la moneta di pagamento non ha più corso legale nello stato (art. 1277) o quando il debitore non può procurarsi la moneta straniera effettiva (art. 1279). Sia rinvia perciò supra (cfr. 30.4). Una ipotesi particolare di sostituzione dell’oggetto, che viene chiamata surrogazione reale, è prevista dall’art. 1259 (ma v. anche gli artt. 17802, 2742). Se la prestazione di una cosa determinata è divenuta impossibile in tutto o in parte per un fatto che dà diritto al debitore di ottenere un risarcimento (ad es., la cosa perisce in un sinistro ma era stata assicurata, oppure un terzo, colpevole della distruzione, deve al debitore il risarcimento del danno) il creditore può esigere dal debitore la prestazione di quanto questi abbia conseguito a titolo di risarcimento (pretium succedit in locum rei).
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Cap. 32. I modi di estinzione diversi dall’adempimento
CAPITOLO 32
I MODI DI ESTINZIONE DIVERSI DALL’ADEMPIMENTO
SOMMARIO: 1. Distinzioni. – 2. L’impossibilità sopravvenuta. – 3. La dazione in pagamento e la novazione. – 4. La remissione del debito. – 5. La confusione. – 6. La compensazione.
1. Distinzioni. Nella vita del rapporto giuridico il modo naturale, se così si può dire, per estinguere l’obbligazione è costituito dall’adempimento. La legge prevede, tuttavia, altri modi di estinzione diversi dall’adempimento che realizzano, in qualche misura, l’interesse del creditore, ma a volte non lo realizzano affatto. Da questa caratteristica, che appare meramente descrittiva, nasce la distinzione tra mezzi di estinzione satisfattori e non satisfattori. Un’altra distinzione che si può tracciare concerne la causa della estinzione. Infatti alcune cause di estinzione sono negoziali, fondandosi su un contratto, come la novazione, la dazione in pagamento e la compensazione volontaria, o su un atto unilaterale del creditore, come la remissione del debito, altre sono legali, in quanto derivano da un fatto previsto dalla legge senza che abbia alcuna rilevanza la volontà delle parti, come l’impossibilità sopravvenuta, la confusione, la compensazione legale e la prescrizione. Poiché la prescrizione è un modo generale di estinzione di diritti, (anche dei diritti reali limitati) è disciplinata nel libro sesto del codice anziché nel libro delle obbligazioni. Ne parliamo a proposito dei fatti giuridici in senso stretto, nella Parte I di questo volume.
§ 2. L’impossibilità sopravvenuta
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2. L’impossibilità sopravvenuta. L’impossibilità della prestazione, sopravvenuta dopo il sorgere della obbligazione, estingue il debito, secondo un principio antico: ad impossibilia nemo tenetur. Deve trattarsi, tuttavia, di una impossibilità di cui non sia responsabile l’obbligato, perciò la legge parla di impossibilità per causa non imputabile al debitore (art. 1256). Essa può dipendere da eventi imprevedibili e accidentali che costituiscono il caso fortuito, o da eventi ai quali non ci si può sottrarre che costituiscono la forza maggiore, (nella quale si può anche comprendere un provvedimento dell’autorità). Non può trattarsi di una difficoltà soggettiva di adempiere, propria di un determinato debitore piuttosto che di un altro, infatti verrebbe meno il significato stesso del vincolo o dell’impegno se l’obbligato potesse liberarsi solo perché ... è senza denaro o perché non è in grado di realizzare il risultato promesso (solo in taluni casi di difficoltà o di impossibilità viene modificato ex lege il contenuto dell’obbligazione, ad es. nelle obbligazioni pecuniarie, artt. 1279, 1280, o nel mutuo, art. 1818). Tuttavia la giurisprudenza ha riconosciuto che la difficoltà potrebbe essere di tale natura da far ritenere moralmente ingiusto o comunque esagerato dal punto di vista economico pretendere l’esecuzione dal debitore di una prestazione pur sempre possibile. Il fondamento di tale inesigibilità della obbligazione sta nel principio di correttezza: sarebbe contrario a buona fede pretendere, ad es. che un cantante tenga il concerto promesso subito dopo che ha subito un grave lutto familiare, o richiedere a chi doveva consegnare un oggetto di andarlo a ripescare in fondo al lago dove è accidentalmente caduto durante il trasporto. In tali casi, pertanto, la difficoltà equivale eccezionalmente ad impossibilità.
L’impossibilità deve essere pertanto assoluta, perché non vi è alcun modo per adempiere, e oggettiva, perché non vi è alcuna persona che sarebbe in grado di eseguire la stessa prestazione. Quest’ultima regola va, tuttavia, adattata alla natura dell’obbligazione, infatti se essa ha per oggetto una prestazione personale, come, ad es., l’obbligo di assistenza di un medico o l’obbligo di un violinista di dare un concerto, si può dire che anche l’impossibilità soggettiva dovuta ad una malattia o ad un incidente è rilevante. La prestazione fungibile, che può indifferentemente essere eseguita dall’uno o dall’altro debitore, deve considerarsi oggettivamente impossibile solo se nessuno, in quelle circostanze, può realizzarla. La impossibilità estingue l’obbligazione solo se è definitiva. Perciò l’impossibilità temporanea non fa cessare il rapporto, ma rende
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Cap. 32. I modi di estinzione diversi dall’adempimento
giustificato il ritardo nell’adempimento da parte del debitore, che non sarà responsabile per la mora. Tuttavia se il ritardo si prolunga eccessivamente vi può essere un limite oltre il quale, tenuto conto della natura della prestazione o del titolo dell’obbligazione, il debitore non si può ritenere obbligato o il creditore non ha più interesse a conseguire la prestazione. In tali ipotesi, anche la impossibilità temporanea può portare alla estinzione dell’obbligazione (art. 12562). L’impossibilità parziale non libera il debitore, che è tenuto ad eseguire la prestazione per la parte rimasta possibile. Infatti dopo il perimento di una cosa determinata egli è tenuto a consegnare il bene deteriorato o la parte residua di esso (art. 1258). L’impossibilità di restituire una cosa perita per caso fortuito non libera il debitore dalla responsabilità: – se la cosa era stata illecitamente sottratta (art. 12212); – se la cosa era stata prestata al comodatario e questi la ha usata per un tempo più lungo o un uso diverso da quello consentito, o poteva salvarla sostituendo la cosa propria (art. 1805). Non è concepibile una impossibilità per le cose generiche prima della individuazione (genus numquam perit) né per il denaro. Se, ad es. brucia accidentalmente il magazzino del venditore contenente la merce che questi deve spedire ai clienti, il debitore dovrà reperire altrove la merce necessaria per effettuare le consegne. Solo il c.d. genere limitato (genus limitatum) può perire totalmente: se un produttore di vino ha venduto cento bottiglie della partita di ottocento bottiglie d’annata da lui confezionate e crolla la volta della sua cantina per una scossa tellurica, distruggendo tutta la sua produzione prima che egli possa consegnare la merce, egli è liberato.
3. La dazione in pagamento e la novazione. Il debitore non può liberarsi eseguendo una prestazione diversa da quella originaria, anche se di maggior valore. Vi può essere, tuttavia, un accordo con il creditore con il quale questi accetta anche una diversa prestazione in luogo dell’adempimento. In tal caso l’obbligazione si estingue nel momento in cui avviene effettivamente l’esecuzione di tale prestazione (art. 1197). La figura in esame, chiamata dazione in pagamento (datio in solutum), è pertanto costituita da due fatti logicamente distinti: il consenso del debito-
§ 3. La dazione in pagamento e la novazione
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re e del creditore, che normalmente dà luogo ad un contratto avente per oggetto il diverso modo di adempiere, e la esecuzione della nuova prestazione. In definitiva non viene modificata la vita dell’obbligazione originaria (non viene promessa una nuova prestazione al posto di quella vecchia), ma l’accordo tra le parti concerne solo la estinzione. Possiamo anche immaginare che la volontà del creditore sia manifestata posteriormente alla esecuzione di una diversa prestazione da parte del debitore: in tal caso il comportamento di quest’ultimo viene interpretato come una proposta di dazione in pagamento, successivamente accettata dalla controparte. Se però il creditore rifiuta, il debitore è considerato inadempiente.
Altre volte le parti hanno interesse ad estinguere un rapporto obbligatorio non già mediante l’esecuzione di una prestazione, ma attraverso la creazione di un nuovo rapporto, destinato a sostituire il primo (non si estingue perché si dà, ma perché si promette di dare). Per ottenere questo risultato è necessario, ancora una volta, un contratto che prende il nome di novazione oggettiva (art. 1230). Il contratto di novazione stipulato fra il creditore e il debitore presuppone dunque tre elementi: a) è necessaria una valida obbligazione originaria (obligatio novanda) affinché l’assunzione della nuova obbligazione trovi il suo compenso nella liberazione da quella precedente: l’inesistenza di questa ultima renderebbe senza effetto la novazione (art. 12341); b) è necessario un elemento di novità (aliquid novi): non basta una modifica qualsiasi, come l’introduzione o la eliminazione di un termine di adempimento o il rilascio di un documento o altre modifiche accessorie per aversi nuova obbligazione (art. 1231), ma è necessario mutare l’oggetto dell’obbligazione: invece di restituirmi il denaro che ti ho prestato mi darai un quadro della tua collezione; o, se resta dovuto lo stesso oggetto, è necessario modificare la causa e quindi il significato pratico del rapporto: invece di darmi quel denaro come prezzo della merce che ti ho venduto, lo terrai ancora per un anno come prestito, e me lo restituirai con gli interessi; c) occorre, infine, una non equivoca volontà di estinguere l’obbligazione originaria (animus novandi), ad evitare che la nuova obbligazione sia introdotta accanto (effetto cumulativo) anziché al posto della vecchia (effetto novativo). La dipendenza della nuova dalla vecchia obbligazione è tale che se il negozio da cui deriva l’obbligazione originaria è annullabile l’invalidità si
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Cap. 32. I modi di estinzione diversi dall’adempimento
trasmette anche alla novazione, a meno che il debitore non abbia effettuato implicitamente una convalida assumendo la nuova obbligazione con la piena consapevolezza dei vizi del titolo originario (art. 12342, art. 1444). Effetto naturale della novazione è quello di estinguere privilegi e garanzie (pegno o ipoteca) dell’obbligazione originaria, qualora le parti non stabiliscano espressamente di mantenerli anche per il nuovo debito (art. 1232).
4. La remissione del debito. La remissione del debito è configurata dalla legge come un negozio unilaterale. La dichiarazione del creditore è pertanto necessaria e sufficiente per produrre l’estinzione del debito, ma è sottoposta alla condizione che il debitore non rifiuti, dichiarando, in un congruo termine, di non volerne profittare (art. 1236). La norma esprime un principio generale del nostro ordinamento, secondo cui l’attribuzione di un beneficio può sempre essere rifiutata dal destinatario (invito beneficium non datur). Così nessuno può essere obbligato, senza la sua volontà (se non nei casi previsti dalla legge), simmetricamente nessuno può essere arricchito, contro la sua volontà. Vi sono alcuni comportamenti del creditore dai quali si può dedurre la remissione del debito. Innanzitutto la restituzione volontaria del titolo originale del credito fatta al debitore è prova (non più contestabile) della liberazione totale anche se si tratta di debito solidale (art. 12371). In secondo luogo la consegna volontaria della copia del titolo originale spedita in forma esecutiva, cioè idonea ad attuare il pignoramento e l’esecuzione forzata, fa presumere la liberazione, salvo prova contraria (art. 12372). È importante distinguere fra rapporto principale e rapporti accessori. La remissione accordata al debitore principale libera anche i fideiussori (art. 1239), mentre la rinunzia alle garanzie non fa neppure presumere la liberazione del debitore (art. 1238). La remissione accordata ad uno dei fideiussori non libera gli altri che per la parte di questo, ma se essi hanno acconsentito a tale liberazione, sono tenuti per l’intero (art. 12392).
§ 6. La compensazione
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5. La confusione. La confusione si verifica allorquando le qualità di creditore e di debitore, nello stesso rapporto, si riuniscono nella medesima persona. Ciò può verificarsi per effetto di una successione mortis causa (ma l’accettazione col beneficio d’inventario evita la confusione) o inter vivos (ad es. in seguito all’acquisto di una azienda, e quindi alla cessione dell’intero complesso di beni e diritti dell’imprenditore, il debitore si trova ad avere acquistato, fra le altre cose, anche un credito ... verso sé stesso). Per effetto della confusione si estingue l’obbligazione e di conseguenza si estinguono anche le garanzie, tanto se prestate dal debitore quanto se prestate da terzi (art. 1253). Tuttavia i diritti dei terzi non sono pregiudicati (ad es. se un terzo ha acquistato un diritto di pegno o di usufrutto sul credito in questione, tale diritto può essere esercitato non ostante la confusione). La confusione è anche un modo di estinzione dei diritti reali su cosa altrui, infatti se si riuniscono nella stessa persona le qualità di proprietario e di usufruttuario o di titolare del fondo dominante e del fondo servente, l’usufrutto o la servitù si estinguono.
6. La compensazione. La compensazione presuppone debiti e crediti reciproci fra le stesse parti (art. 1241). Si distinguono in proposito tre figure: la compensazione legale richiede due debiti reciproci omogenei, cioè aventi per oggetto cose fungibili della stessa specie (due quadri di Picasso dello stesso valore non sono, ovviamente fungibili, perché ciascuno ha la sua identità e la sua qualità artistica) essi devono inoltre essere liquidi, cioè determinati nel loro ammontare (l’espressione “liquidare un danno” significa appunto determinare l’ammontare del danno: il valore si misura in denaro, ma non se ne deve trarre la convinzione che solo un debito di denaro sia liquido; lo è anche il debito di trenta chili di gesso o di un quintale di ghiaia) e infine devono essere esigibili, cioè non sottoposti a termine o condizione. Se i due debiti hanno tali caratteristiche, si estinguono reciprocamente per la quantità corrispondente al minore dei due fin dal giorno della loro coesistenza e resta in vita solo l’obbligazione di prestare la differenza (art.
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Cap. 32. I modi di estinzione diversi dall’adempimento
1243). Se vi sono più debiti si estinguerà per primo quello che viene indicato dalla legge seguendo la stessa regola della imputazione dei pagamenti (art. 11932). L’estinzione è automatica (ipso jure) e si produce indipendentemente dalla anzianità dell’obbligazione, purché per nessuno dei due debiti sia già scaduto il termine di prescrizione (art. 12422). L’istituto opera, di regola, indipendentemente dal titolo del debito, ma la compensazione è esclusa dalla legge (art. 1246) per i crediti: – aventi per oggetto la restituzione di cose di cui il proprietario sia stato ingiustamente spogliato (spoliatus ante omnia restituendus: chi è stato privato del possesso prima di tutto va reintegrato, non si può consentire che il privato si faccia giustizia da sé con la forza, anche se prende ciò che gli è giuridicamente dovuto); – aventi per oggetto la restituzione di cose depositate o date in comodato (la possibilità di opporre la compensazione e di tenersi la cosa contrasterebbe con la fiducia, che sta alla base di tali contratti); – dichiarati impignorabili (come, ad es., quello di alimenti, perché il credito ha la funzione particolare di assicurare la sopravvivenza); – rispetto ai quali il debitore ha preventivamente rinunziato alla compensazione; – di cui è vietata la compensazione da altre norme di legge. La compensazione è un fatto giuridico estintivo che non può essere rilevato d’ufficio dal giudice (art. 12421); pertanto sarà fatta valere come eccezione (cioè come difesa contro il creditore che esige l’adempimento) dalla parte interessata, la quale può essere, innanzitutto, il debitore principale, ma anche un terzo che ha dato garanzia personale (fideiussore) o reale (terzo datore di pegno o di ipoteca). Colui che sceglie di pagare un proprio debito senza dedurre in compensazione un proprio credito reciproco nuoce sicuramente ai terzi, che hanno dato una garanzia a favore di tale credito (non utilizzato in compensazione), i quali, diversamente, sarebbero stati liberati. Per questo la legge stabilisce che se il debitore ha pagato conoscendo l’esistenza del proprio credito, quando poi si accinge a riscuoterlo perde il diritto di valersi delle garanzie prestate da terzi (art. 1251). In caso di cessione del credito il debitore ceduto può opporre anche al cessionario la compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente (non è giusto, infatti, che il debitore sia pregiudicato dal contratto di cessione di cui non è parte)
§ 6. La compensazione
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ma, dal momento in cui il nuovo creditore gli ha notificato la cessione, il debitore potrà opporgli in compensazione soltanto i suoi crediti “vecchi” cioè quelli che erano già sorti a suo favore, verso il cedente, prima di tale data (art. 12482). Se invece il debitore ceduto ha accettato la cessione non potrà opporre al cessionario la compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente (art. 12481). L’accettazione, infatti, viene interpretata dalla legge come una rinunzia alla compensazione, che è una eccezione personale del debitore.
Come si è visto, la compensazione legale presuppone, fra l’altro, la liquidità dei crediti. La legge prevede, tuttavia, anche una compensazione giudiziale: se il credito opposto in compensazione non è determinato nel suo ammontare, il giudice può ugualmente dichiarare la compensazione, quando il debito è di facile e pronta liquidazione, per la parte che riconosce esistente (art. 12432). Le parti, se sono d’accordo fra loro, possono altresì pattuire una compensazione volontaria, anche là dove i due crediti non sono omogenei o mancano altri requisiti di cui si è parlato, stabilendo, a volte, anche in via preventiva, le condizioni di tale compensazione (art. 1252).
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Cap. 32. I modi di estinzione diversi dall’adempimento
§ 2. I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: l’azione revocatoria o pauliana 439
PARTE NONA
LA RESPONSABILITÀ E LE GARANZIE
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Cap. 33. La responsabilità patrimoniale e le cause di prelazione
§ 2. I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: l’azione revocatoria o pauliana 441
CAPITOLO 33
LA RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE E LE CAUSE DI PRELAZIONE
SOMMARIO: 1. La garanzia generica e le limitazioni della responsabilità. – 2. I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: l’azione revocatoria o pauliana. – 3. Il sequestro conservativo. – 4. L’azione surrogatoria. – 5. Il diritto di prelazione dei creditori: i privilegi. – 6. Il pegno. – 7. L’ipoteca.
1. La garanzia generica e le limitazioni della responsabilità. La responsabilità personale per debiti, anticamente, poteva portare a punizioni corporali o addirittura alla schiavitù. Oggi non esiste più una responsabilità della persona, ma soltanto una responsabilità del patrimonio: si parla di responsabilità patrimoniale in quanto il debitore risponde dell’adempimento dei propri debiti con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740). I beni del debitore rappresentano, dunque, la garanzia patrimoniale del creditore (chiamata anche “garanzia generica” in quanto fornita indistintamente da tutti i beni e per tutti i crediti) sulla quale il creditore può esercitare l’esecuzione forzata. Fra i poteri del creditore è compreso, infatti, anche quello di espropriare il patrimonio del debitore mediante l’azione esecutiva (procedimento di esecuzione forzata, art. 2910 ss.) per procurarsi comunque, anche in caso di inadempimento, ciò che gli spetta. La sua posizione è arricchita da poteri accessori grazie ai quali, durante la pendenza del rapporto, egli può cercare di conservare la garanzia offerta dai beni del debitore contro atti di disposizione che ne riducono la consistenza patrimoniale. I rischi maggiori per il creditore, in caso di inadempimento, stanno nella esiguità del patrimonio del debitore e nella necessità di concorrere con altri creditori di pari grado o di grado superiore. Come si è visto la regola è quella della piena responsabilità del debitore con tutti i suoi beni.
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Cap. 33. La responsabilità patrimoniale e le cause di prelazione
La limitazione della responsabilità è del tutto eccezionale e deve essere stabilita dalla legge (art. 27402). Un esempio importante di limitazione della responsabilità è costituito dal beneficio di inventario. L’accettazione beneficiata consente all’erede di rispondere dei debiti ereditari solo intra vires, cioè entro i limiti di valore dell’asse ereditario, senza intaccare il suo patrimonio personale (art. 490). Perciò l’erede non risponde di alcuni dei suoi debiti (avendo accettato occupa ormai il posto del defunto) con tutti i suoi beni e quindi, esaurito il valore dei beni ereditari, nessun altro può essere chiamato a rispondere per i debiti del de cuius che eccedono l’attivo ereditario. Spesso si può parlare piuttosto di una separazione dei patrimoni anziché di una vera limitazione di responsabilità, quando su alcuni beni grava una determinata destinazione e perciò tali beni non rispondono verso alcune categorie di creditori. Ciò non impedisce, tuttavia, che tali creditori possono aggredire altri cespiti del debitore con i quali egli risponde illimitatamente secondo la regola generale. Ad esempio il fondo patrimoniale non risponde per debiti dei coniugi quando il creditore sapeva che erano stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 170), ma verso tale creditore resta pur sempre la piena responsabilità dei coniugi con tutto il loro patrimonio personale. Analoga norma è dettata in tema di esecuzione sui frutti provenienti dall’usufrutto legale dei genitori (art. 3262). I creditori dell’imprenditore non possono aggredire i fondi speciali che l’imprenditore ha costituito per previdenza ed assistenza, ma verso costoro egli risponde con il restante patrimonio (art. 2117). Come si è visto in tema di persone giuridiche, la limitazione di responsabilità che si accompagna alla loro autonomia patrimoniale fa sì che per i debiti del gruppo risponda soltanto questo col suo patrimonio e non rispondano, di regola, né gli amministratori né i soci o gli associati; ma, a ben vedere, questo meccanismo non costituisce una eccezione al principio della responsabilità patrimoniale. È piuttosto una conseguenza logica della distinzione tra soggettività dell’ente e soggettività individuale degli appartenenti al gruppo.
2. I mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale: l’azione revocatoria o pauliana. Se il creditore non è garantito con un diritto reale come il pegno o ipoteca, che consente di seguire il bene e di espropriarlo anche se è stato alienato dal debitore (si parla, infatti, di un diritto di séguito), l’aspettativa di
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essere soddisfatto attraverso l’esecuzione forzata per espropriazione dipende dalla capienza del patrimonio del debitore e quindi dal rapporto fra l’attivo e il passivo. Perciò il creditore ha interesse che vi sia il minor numero possibile di creditori concorrenti e che si conservi il patrimonio del debitore nella sua maggiore consistenza. Contro la moltiplicazione dei debiti non vi sono strumenti giuridici (soltanto per l’imprenditore commerciale è prevista la dichiarazione di fallimento, che determina l’inefficacia dei negozi patrimoniali compiuti personalmente dall’imprenditore, dopo l’apertura del fallimento, nei confronti dei creditori procedenti) ma contro gli atti del debitore che pregiudicano la consistenza del suo patrimonio vi sono alcuni rimedi. Innanzitutto, se il debitore, per salvare qualche bene dalla espropriazione forzata, finge di cederlo ad altri (ad esempio, un amico), creditore può esercitare l’azione di simulazione assoluta per fare accertare che il bene in questione non è mai uscito dal patrimonio del debitore. La simulazione, infatti, determina l’inefficacia dell’atto. Vi sono altri istituti che mirano a tutelare i creditori contro atti del debitore validi ed efficaci. Essi prendono il nome di mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. Se il debitore cede effettivamente i suoi beni, riscuotendo il prezzo corrispondente al loro valore, non vi è una vera diminuzione del suo patrimonio, ma il creditore rischia ugualmente di non trovare sostanze su cui soddisfarsi perché, come noto, il denaro è facilmente occultabile. Il rimedio, in tal caso, esiste ed è costituito dalla azione revocatoria ordinaria (o pauliana). Il creditore può agire contro gli atti di disposizione dei beni compiuti dal debitore, ad es., vendite, conferimenti in società, costituzione di diritti reali, donazioni (ma non vi rientra l’adempimento di un debito scaduto) qualora sussistano i seguenti presupposti: a) sia arrecato un pregiudizio alle ragioni del creditore; vi sarà pregiudizio (chiamato tradizionalmente eventus damni) se il bene alienato ha notevole rilevanza nel patrimonio del debitore sì che l’atto di disposizione mette realmente in pericolo la possibilità di soddisfarsi del creditore; b) la mala fede del debitore (chiamata tradizionalmente consilium fraudis), dovuta al fatto che questi conosceva il pregiudizio arrecato ai creditori o avrebbe dovuto rendersene conto, valutando l’effetto prodotto dalla alienazione sulle sue sostanze, in relazione all’ammontare dei propri debiti; se l’atto di disposizione è avvenuto prima del sorgere di un debito esso non è
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soggetto a revocatoria, a meno che non sia stato dolosamente preordinato al fine di sottrarre un bene alla responsabilità verso il futuro creditore; c) l’acquisto del diritto da parte del terzo sia stato compiuto a titolo gratuito o in alternativa, se compiuto a titolo oneroso, il terzo acquirente fosse in mala fede come il debitore, cioè a conoscenza del pregiudizio o partecipe della dolosa preordinazione a danno del creditore. L’azione si prescrive in cinque anni dalla data dell’atto. L’effetto della sentenza non è quello di far rientrare i beni nel patrimonio del debitore (non è, infatti, una azione di nullità dell’atto), ma quello di dichiarare l’inefficacia dell’atto di disposizione nei confronti del creditore o dei creditori che hanno esercitato l’azione stessa. Ciò consente a costoro di promuovere l’esecuzione forzata o un sequestro conservativo anche presso il terzo acquirente del bene (art. 29022). Questa inefficacia relativa, come sappiamo, prende anche il nome di inopponibilità. Se il bene viene espropriato, il terzo perde la titolarità e acquista il diritto alla restituzione del prezzo pagato dal debitore, ma non potrà essere soddisfatto se non dopo i creditori che hanno esperito l’azione revocatoria (art. 29022). Il decreto 27 giugno 2015, n. 83 (c.d. “Giustizia per la crescita”, convertito nella l. 6 agosto 2015, n. 132) ha introdotto una importante novità consentendo al creditore di procedere ad esecuzione forzata sui beni del debitore anche senza avere ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia qualora sia pregiudicato da un atto di alienazione o dalla costituzione di un vincolo di indisponibilità compiuto dal debitore ed avente per oggetto beni immobili o mobili registrati quando l’atto sia stato compiuto a titolo gratuito dopo il sorgere del credito a condizione che il creditore sia munito di un titolo esecutivo e che poi trascriva il pignoramento entro un anno dalla trascrizione dell’atto di disposizione. Il debitore e il terzo contro cui agisce il creditore, per difendersi, dovranno proporre opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. Ricordiamo che un’azione revocatoria assai più incisiva di quella ordinaria è prevista a carico dell’imprenditore commerciale e prende il nome di revocatoria fallimentare. Viene esercitata dal curatore, dopo la dichiarazione di fallimento, nell’interesse della massa dei creditori dell’imprenditore ed esplica effetti di maggiore ampiezza della revocatoria ordinaria ponendo requisiti diversi e potendo travolgere atti compiuti dall’imprenditore anche molto tempo prima del fallimento.
§ 4. L’azione surrogatoria
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3. Il sequestro conservativo. Il sequestro conservativo (art. 2905) è invece utilizzabile quando il creditore si accorge che il debitore è in procinto di compiere atti di disposizione in pregiudizio delle sue ragioni. Può essere anche rivolto contro il terzo acquirente per integrare gli effetti della revocatoria quando questa azione sia già stata promossa nei confronti del debitore (in tal modo si rendono inefficaci nei confronti del sequestrante, eventuali atti di cessione del terzo che renderebbero inutile l’effetto della revocatoria). Il sequestro del bene non impedisce che il debitore o il terzo possano alienare la cosa, ma ogni atto di disposizione compiuto dopo la domanda di sequestro è inopponibile al creditore che ha ottenuto il sequestro, consentendo ancora una volta l’espropriazione presso il terzo acquirente. I presupposti sono stabiliti dalle regole del codice di procedura civile: in primo luogo è necessario il fumus boni iuris, cioè l’occorre dimostrare il buon fondamento del diritto del creditore, in secondo luogo va provato il periculum in mora, cioè il pregiudizio che realmente può derivare al creditore dal ritardo nel prendere provvedimenti, in quanto gli atti di disposizione del debitore risultano probabili e imminenti.
4. L’azione surrogatoria. L’azione surrogatoria può essere utile, invece, quando il debitore pregiudica i suoi creditori non già per gli atti con cui dispone o si accinge a disporre, ma per gli atti che egli non compie affatto. Si pensi ad un debitore che resta del tutto inerte perché trascura di riscuotere i propri crediti o di esercitare i propri diritti patrimoniali, causando un impoverimento delle sue sostanze e quindi un pregiudizio ai suoi creditori. Perciò la legge prevede che i creditori, per assicurare che siano soddisfatte o conservate le proprie ragioni, possono farsi autorizzare ad esercitare i diritti e le azioni che spettano al debitore nei confronti dei terzi. Deve trattarsi di diritti patrimoniali che non hanno natura strettamente personale e quindi possono essere esercitati anche da soggetti diversi dal titolare (art. 2900). Se il debitore rinunzia all’eredità non è necessario che i suoi creditori esercitino l’azione revocatoria né l’azione surrogatoria per evitare un pregiudizio
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patrimoniale, perché la legge consente loro di chiedere al giudice l’autorizzazione ad accettare in nome del loro debitore, al solo fine di soddisfarsi sull’eredità. Il chiamato che ha rinunziato non diventa erede, ed il residuo eventuale spetta agli ulteriori chiamati (art. 524). La legge dà alla disposizione una rubrica che ne tradisce la sostanza, infatti non si tratta di una vera impugnazione della rinunzia. Non è necessaria una autorizzazione del giudice per far valere al posto del debitore la prescrizione maturata a suo favore nei confronti di un suo creditore, infatti tale eccezione può essere fatta valere da chi vi ha interesse anche se il debitore ha rinunziato (art. 2939).
5. Il diritto di prelazione dei creditori: i privilegi. I creditori hanno, in linea di principio, tutti un uguale diritto di soddisfarsi sul patrimonio del debitore (art. 2741), ma per legge taluni creditori hanno la preferenza rispetto ad altri quando è il momento di soddisfarsi sul ricavato dell’esecuzione forzata, nel procedimento che porta ad espropriare i beni del debitore per trasformarli in denaro. Tale situazione prende il nome di diritto di prelazione dei creditori: cause legittime di prelazione sono i privilegi, il pegno e l’ipoteca. Il pegno e l’ipoteca sono diritti reali di garanzia che costituiscono un vincolo reale su di un bene per la soddisfazione di un determinato debito, in modo tale che il creditore non rischia di vedersi sfuggire la garanzia, e nello stesso tempo attribuiscono al creditore garantito un diritto di prelazione sul valore di quel bene rispetto ad altri creditori. Il privilegio è collegato alla causa del credito (art. 2745) in quanto la legge, considerando il complesso dei debiti di un soggetto, attribuisce la preferenza a determinati creditori piuttosto che ad altri tenendo conto della natura del rapporto e quindi delle ragioni del credito (ad es., il credito del lavoratore subordinato è preferito a quello del fornitore di merci o materie prime). Si distinguono i privilegi generali, che si esercitano su tutti i beni mobili del debitore, da quelli speciali, che si esercitano su determinati beni mobili e immobili. Di regola i creditori con privilegio speciale sugli immobili sono preferiti ai creditori ipotecari, mentre quelli con privilegio speciale sui beni mobili vengono dopo i creditori garantiti da pegno.
§ 5. Il diritto di prelazione dei creditori: i privilegi
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Nell’ordine dei privilegi mobiliari il credito per le spese di giustizia (fatte, ad es., per atti conservativi, come un sequestro, o le spese dello stesso procedimento di espropriazione forzata) è preferito ad ogni altro credito (art. 2777). Il privilegio è speciale, infatti si esercita sui beni mobili che formano oggetto di tali atti. Al secondo posto vengono i crediti con privilegio generale mobiliare che sono collegati allo svolgimento di attività lavorative e professionali, nella seguente graduatoria: a) crediti per retribuzioni di lavoro subordinato (comprese le indennità per mancato versamento di contributi previdenziali e per licenziamento invalido); b) crediti per retribuzione a professionisti e prestatori d’opera professionale (per gli ultimi due anni di prestazione); c) crediti per provvigioni ad agenti di commercio (per l’ultimo anno); d) crediti del coltivatore diretto, affittuario o mezzadro per la vendita dei prodotti agricoli; e) crediti dell’impresa artigiana o della cooperativa per i prodotti venduti o i servizi prestati. Il privilegio generale non comporta un diritto di seguito sui singoli beni, perciò non può essere esercitato in pregiudizio di terzi che hanno acquistato diritti se non è intervenuto un atto di pignoramento (il primo atto del procedimento esecutivo) che rende inefficaci, nei confronti dei creditori pignoranti, eventuali atti di disposizione dei beni compiuti successivamente (tuttavia poiché per i beni mobili non esiste altro sistema di pubblicità che il possesso, non si può escludere che restino comunque salvi atti di acquisto di terzi ex art. 1153). Il privilegio speciale si giustifica in base ad una relazione specifica tra il singolo bene e il credito privilegiato (ad es. i beni portati dal cliente in albergo sono sottoposti a privilegio a favore dell’albergatore per il vitto e l’alloggio prestato). Di regola il privilegio speciale è opponibile ai terzi che hanno acquistato diritti successivamente al fatto o alla situazione alla quale è subordinato il sorgere del privilegio stesso, perciò si può dire che esso gode di una sorta di diritto di séguito, in quanto il diritto di preferenza del creditore segue il bene. Spesso tale privilegio speciale può essere esercitato a condizione che il creditore conservi la detenzione della cosa (ciò consente infatti di rendere nota ai terzi la situazione particolare connessa al credito privilegiato, ad es. se viene venduta un’automobile mentre è in carrozzeria per riparazioni l’acquirente è informato del fatto che prima di tutto dovrà essere adempiuto il debito verso l’officina). Proprio per consentire al creditore di conservare tale situazione di fatto (che garantisce, di riflesso, anche la prelazione)
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la legge gli attribuisce, talvolta, anche un diritto di ritenzione sul bene, cioè di trattenere presso di sé la cosa finché il debito non sia estinto. A queste condizioni ha il privilegio e anche la ritenzione: – colui che è creditore per spese di conservazione e miglioramento della cosa (pertanto se il cliente ha portato un quadro dal restauratore o un’auto dal meccanico deve sapere che costoro possono rifiutarsi di restituire il bene finché il debito non sia stato interamente pagato, altrimenti, nel caso di inadempimento, possono anche farlo vendere secondo le norme sulla vendita del pegno, art. 2756); – il vettore sulle cose trasportate, per il credito del trasporto; – il mandatario, sulle cose del mandante da lui detenute, per i crediti derivanti dall’esecuzione del mandato; – il depositario, sulle cose depositate, per i crediti del contratto di deposito (art. 2761). In altri casi la prelazione del creditore sussiste a condizione che le cose si trovino in un determinato luogo, ma senza il diritto di ritenzione del creditore (in tal caso se il creditore ha fondato motivo per ritenere che le cose saranno asportate ha il solo rimedio di chiedere il sequestro conservativo, visto che non può opporsi alla rimozione, per salvare il suo credito privilegiato, art. 2769). Si trovano in tale situazione, ad es.: – colui che ha somministrato sementi, fertilizzanti o antiparassitari, il quale ha privilegio sui frutti del fondo finché vi si trovano (art. 2757); – l’albergatore, il quale ha privilegio sulle cose portate dal cliente (art. 2760); – il locatore, il quale ha privilegio su tutto ciò che serve a fornire l’immobile locato per il credito delle pigioni e dei fitti (ed anche sui frutti del fondo coltivato dato in affitto); anche in questo caso non c’è un diritto di ritenzione, ma il privilegio rimane se il locatore chiede il sequestro delle cose asportate entro un breve termine dalla rimozione (art. 2764). Un privilegio speciale sugli immobili spetta al credito dello Stato (e degli Enti locali) per tributi relativi ai redditi immobiliari. Una recente estensione dell’ambito del privilegio immobiliare garantisce il mancato acquirente per i crediti derivanti dal contratto preliminare di vendita, trascritto ex art. 2645 bis, allorquando esso sia stato risolto per inadempimento del promesso venditore, purché l’effetto della trascrizione non sia cessato (art. 2775 bis).
§ 6. Il pegno
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Il creditore ipotecario, di regola, viene dopo gli altri creditori privilegiati sugli immobili.
6. Il pegno. Con la parola pegno, nel linguaggio comune, si indica tanto il diritto, quanto il contratto che ne può essere la fonte, quanto, infine, la cosa che forma oggetto della garanzia. Spetta quindi al giurista avvertire il significato che la parola assume di volta in volta. Il pegno è un diritto reale, quindi attribuisce, come si suole dire, una signoria, cioè un potere immediato sulla cosa che consente di far valere la garanzia e di attuarne una difesa erga omnes. Il creditore ha il possesso della cosa e se ne venisse privato potrebbe esercitare (nomine proprio, perché è titolare dello jus possidendi) le azioni a difesa del possesso, ma può esercitare anche (nomine alieno, cioè in via surrogatoria, al posto del proprietario) l’azione di rivendicazione se questa spetta al costituente (art. 2789). È però un diritto di garanzia, non di godimento, perciò il creditore pignoratizio (garantito da pegno) è tenuto a custodire la cosa ma, di regola, non la può usare senza il consenso del costituente (colui che ha dato la cosa in pegno) né può disporne dandola in subpegno né in godimento (art. 2792). Se il creditore abusa della cosa il costituente può chiederne il sequestro (art. 2793) in modo tale che la custodia sia affidata a persona nominata dal giudice. Il bene soggetto a pegno può essere una cosa mobile, di regola infungibile, che potrà essere espropriata in caso di inadempimento o dovrà essere restituita nella sua identità e integrità se il debito viene estinto; può essere data in pegno anche una universalità di mobili o un credito. Si parla invece di un pegno irregolare, quando viene consegnata una cosa fungibile (come può essere una somma di denaro) per dare certezza circa l’adempimento di una obbligazione (si pensi alla cauzione richiesta dal brooker al cliente che noleggia una barca per l’estate a garanzia del risarcimento di eventuali danni). Il nome rispecchia una analoga funzione di garanzia, ma l’istituto sembra assai diverso, infatti il creditore acquista la proprietà della cosa fungibile e ne dovrà restituire il tantundem in caso di regolare adempimento del debitore, può usare e disporre della cosa stessa, può invocare la compensazione in caso di inadempimento se i due debiti (ciò che egli deve restituire e ciò che il debitore deve prestare) sono omogenei.
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Il diritto di pegno attribuisce al creditore il potere di far vendere la cosa al pubblico incanto (o al prezzo corrente, se ha un valore di mercato, ad es. se vi sono listini di borsa, ecc.) secondo la regola dell’art. 2797 (previa intimazione solenne al debitore e avviso della vendita) o di farsi assegnare dal giudice la cosa stessa in pagamento, secondo la stima fatta da un perito, fino a concorrenza del debito e accessori. Il diritto di pegno è indivisibile (art. 2799) perché il potere del creditore sussiste integralmente sulla cosa anche se è stata estinta una parte del debito e anche se la cosa è suscettibile di divisione. Il creditore pignoratizio ha inoltre il diritto di prelazione sulla somma ricavata dalla vendita a due condizioni (che rendono opponibile il diritto ai terzi): 1) che la cosa sia rimasta in suo possesso (o in possesso del terzo designato dalle parti); 2) che il pegno risulti da scrittura con data certa indicante il credito e la cosa data in garanzia (art. 2787). Regole diverse valgono per Enti autorizzati a compiere operazioni di credito su pegno (c.d. monte di pietà). Il diritto di pegno si può acquistare (a titolo derivativo-costitutivo) mediante un contratto col proprietario della cosa mobile o della universalità, che può essere lo stesso debitore o un terzo datore di pegno (costituente). Il contratto di pegno è reale, perché si perfeziona con la consegna della cosa al creditore pignoratizio (o a un terzo designato dalle parti) ed è anche un contratto con efficacia reale, perché fa sorgere il diritto reale di pegno. Se il costituente non è legittimato (pegno di cosa altrui) il creditore potrebbe ugualmente acquistare un diritto di pegno (a titolo originario) in base ai requisiti dell’art. 1153 (ma ricordiamo che la regola non vale per le universalità, né per i crediti). Il credito può essere dato in pegno a garanzia dell’adempimento di una obbligazione. Si dovrà distinguere, pertanto, il rapporto principale, cioè il credito garantito, dal credito che forma oggetto della garanzia. Secondo la regola generale il creditore pignoratizio non diventa titolare del credito dato in garanzia (come se questo gli fosse stato ceduto), ma acquista solo il potere – e l’onere – di conservare e di esercitare tale credito nei limiti in cui ciò serve alla tutela della sua posizione di creditore garantito. Perciò egli dovrà, ad es., compiere atti di interruzione della prescrizione per tenere in vita il rapporto di garanzia e se questo scade è tenuto a riscuotere diligentemente il credito. Quanto alla prestazione così ottenuta si deve distinguere: se il credito
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dato in pegno scade prima del credito principale il creditore pignoratizio, su richiesta del debitore, dovrà depositare il denaro riscosso o le altre cose fungibili nel luogo concordato fra le parti o indicato dal giudice (infatti oggetto della garanzia non è più il credito, a questo punto, ma sono le cose prestate dal debitore); se invece il credito principale è già scaduto il creditore che riscuote il credito “pignorato” può trattenere il denaro nella misura sufficiente a soddisfare il proprio credito, restituendo il resto al debitore, e se si tratta di cose diverse dal denaro può farle vendere pubblicamente (con diritto di prelazione) secondo la regola delle cose soggette a pegno (artt. 2797-98) o chiederne l’assegnazione (art. 2804). Se il credito principale scade prima di quello dato in pegno e il debito principale non viene adempiuto il creditore pignoratizio può far vendere pubblicamente (art. 2797) il credito stesso o farselo assegnare. Il pegno di un credito (ordinario o extracartolare, cioè non incorporato in un documento) si costituisce con un accordo delle parti (costituente è colui che dà il credito in garanzia, creditore pignoratizio è il titolare del credito principale garantito) e con la notifica al debitore “pignorato” o la sua accettazione. Ciò è sufficiente a rendere avvertito il debitore e quindi ad impedire che questi si liberi adempiendo in buona fede al suo creditore originario o ad altri cessionari del credito anziché al creditore pignoratizio. Bisognerà, tuttavia, che sia opponibile a questi terzi la data della notifica o della accettazione (altrimenti essi potrebbero sostenere che hanno ricevuto la titolarità del credito prima della costituzione del pegno sullo stesso). Il creditore pignoratizio ha la prelazione rispetto ad altri creditori del costituente a condizione che la notifica o l’accettazione del debitore abbiano forma scritta e data certa anteriore agli atti di pignoramento compiuti da tali creditori (art. 2800). Il nuovo pegno mobiliare non possessorio. Il decreto 3 maggio 2016, n. 59 (c.d. “Salva banche”, convertito nella l. 3 giugno 2016, n. 119) ha introdotto una nuova figura di pegno a favore dei soli imprenditori iscritti al Registro delle imprese, per garantire crediti inerenti all’esercizio dell’impresa. La costituzione del pegno non richiede il trasferimento del possesso. Oggetto del pegno possono essere beni relativi all’impresa, come beni mobili non registrati, beni immateriali e crediti. Questi beni potrebbero anche essere trasformati o alienati dal concedente, con trasferimento della garanzia sul prezzo o sul nuovo prodotto così ottenuto (c.d. pegno a rotazione).
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7. L’ipoteca. L’ipoteca è un diritto reale di garanzia che non impedisce al titolare del bene di disporne (ad es., di alienarlo), ma consente sempre al creditore garantito (creditore ipotecario) di espropriare tale bene anche nei confronti del terzo acquirente e gli attribuisce una preferenza sul prezzo ricavato dall’espropriazione (art. 2808). Il c.d. “diritto di seguito” è quindi ancora più evidente di quanto non lo sia nel pegno, grazie alla natura stessa dei beni soggetti ad ipoteca e al sistema di pubblicità ad essi pertinente. Oggetto di ipoteca sono i beni immobili (per quanto concerne la piena proprietà o la nuda proprietà) e alcuni diritti reali limitati su tali beni: usufrutto, superficie, enfiteusi, nonché i beni mobili registrati: navi aeromobili, autoveicoli (si possono aggiungere anche le rendite dello Stato, con riferimento ai titoli del debito pubblico, ma è considerata ipoteca anche il c.d. privilegio automobilistico). L’ipoteca sugli immobili si costituisce con la iscrizione nel registro immobiliare: si tratta pertanto di una pubblicità di natura costitutiva, che produce inoltre l’effetto di rendere opponibile il diritto di ipoteca ai terzi che abbiano trascritto eventuali diritti di servitù, usufrutto, uso e abitazione dopo l’iscrizione dell’ipoteca stessa (di conseguenza la cosa verrà messa all’asta come se fosse libera da tali pesi). Per ottenere l’iscrizione occorre un titolo; questo può essere: 1. La legge, quando essa prevede che automaticamente un creditore possa iscrivere ipoteca su di un determinato bene. I casi di ipoteca legale sono tre: – l’alienante, a garanzia del prezzo, può iscrivere ipoteca sul bene venduto; – il condividente, sia esso socio, coerede, ecc., a garanzia del pagamento dei conguagli dovuti dagli altri condividenti, può iscrivere ipoteca sui beni loro assegnati; – lo Stato, a garanzia del pagamento delle sanzioni penali, delle spese di giustizia e dei danni, può iscrivere ipoteca sui beni dell’imputato o del responsabile civile (art. 2817, n. 3). L’ipoteca a favore dell’alienante o del condividente sono iscritte d’ufficio dal conservatore del Registro quando trascrive una alienazione o una divisione immobiliare, se non gli viene presentato un atto (pubblico o una scrittura privata autenticata) in cui risulta che il creditore rinuncia all’ipoteca legale o che il debito è stato estinto. 2. Una sentenza di condanna al pagamento di una somma di danaro, al risarcimento dei danni, anche da liquidare successivamente, o all’adempimento di altra prestazione. Si parla, in tal caso, di ipoteca giudiziale, perché il titolo per iscrivere ipoteca è la sentenza. Da notare come in tale atto
§ 7. L’ipoteca
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il giudice, in realtà, non dia alcuna disposizione in merito all’ipoteca, limitandosi alla condanna di cui si è detto. Sono titolo anche le sentenze straniere dichiarate efficaci in Italia e le sentenze arbitrali (il lodo) rese esecutive a norma del c.p.c. L’ipoteca giudiziale si può costituire su uno qualunque dei beni immobili del debitore, ancorché acquisito dopo la condanna. 3. Un contratto o un atto unilaterale di concessione (non un testamento, perché non è consentito modificare la posizione dei creditori con un atto mortis causa) che costituiscono titolo per accendere una ipoteca volontaria. È richiesta, a tal fine, la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata (o accertata giudizialmente). L’ipoteca va iscritta su beni specificamente indicati e per una somma determinata in denaro. Il diritto di ipoteca è indivisibile, perciò grava per intero su tutti i beni vincolati, su ciascuno di essi e sopra ogni loro parte (art. 2809). Non può essere iscritta su beni futuri, se non dopo che questi sono venuti ad esistenza, né su beni altrui, se non dopo che sono stati acquistati dal concedente. L’iscrizione avviene nell’Ufficio dei registri immobiliari del luogo dove si trova l’immobile. È necessario presentare il titolo (ad es., il contratto costitutivo redatto nelle forme richieste, in originale, oppure copia della sentenza di condanna, ecc.) e una nota in doppio originale, sottoscritta dal richiedente, contenente tutti i dati necessari concernenti le persone (debitore, creditore, terzo datore d’ipoteca), le cose (descrizione dell’immobile, dati catastali, ecc.), il credito (indicazione della scadenza e soprattutto determinazione dell’ammontare della somma per la quale viene iscritta ipoteca). Eseguita l’iscrizione, una delle due note viene restituita al richiedente con una certificazione in calce che riporta la data e il numero d’ordine dell’iscrizione. Fatti ulteriori, relativi al credito (cessione, surrogazione, pignoramento, ecc.) dovranno essere annotati a margine dell’iscrizione (art. 2843). L’iscrizione conserva il suo effetto per venti anni, ma il diritto permane immutato nel grado se avviene la rinnovazione dell’ipoteca prima di tale scadenza (presentando una nuova nota in doppio originale e la nota precedente al posto del titolo, che rimane lo stesso). Se invece si omette la rinnovazione si potrà iscrivere ipoteca nuovamente grazie allo stesso titolo, ma con nuovo grado a far data dalla nuova iscrizione (perciò se, nel frattempo, un terzo ha acquistato l’immobile, trascrivendo il suo acquisto, non può più essere presa nei suoi confronti una iscrizione di ipoteca successiva). L’ipoteca si estingue con un procedimento simmetrico, la cancellazione,
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attuata in margine all’iscrizione su richiesta della persona interessata. È necessario un titolo, che può derivare dall’accordo delle parti (in tal caso occorre un atto pubblico o una scrittura privata autenticata in cui risulta il consenso del creditore, art. 2882), o da una sentenza passata in giudicato (occorrerà copia autentica della sentenza (art. 2884)). Contro il rifiuto della cancellazione il richiedente può presentare reclamo all’autorità giudiziaria (art. 2888). Il grado di ipoteca è dunque di fondamentale importanza in quanto assicura la preferenza nei confronti degli altri creditori in sede di esecuzione forzata. Ricordiamo innanzitutto che se un creditore di grado successivo paga un creditore di grado precedente viene surrogato per legge nel diritto di questo e quindi anche nel suo grado di ipoteca (art. 1203, n. 1), determinando la surrogazione ipotecaria per pagamento. Un altro caso di surrogazione, chiamato surroga ipotecaria per evizione o surroga del creditore perdente, dimostra come l’effetto vantaggioso del grado di iscrizione faccia ottenere, a volte, anche la preferenza sopra un immobile diverso da quello direttamente ipotecato. Supponiamo che il debitore abbia due immobili, X e Y, e tre creditori, A, B, C. A
X
B
X
C
Y Y
Il creditore A, primo in ordine di tempo, ha ipotecato tanto il bene X quanto il bene Y. Successivamente il creditore B ha ipotecato solo il bene X. Terzo, in ordine di tempo il creditore C ha ipotecato il bene Y. Se è sufficiente la espropriazione del bene X per soddisfare il creditore A, il creditore B resta evitto o perdente, nel linguaggio del Codice, in quanto viene a mancare la sua garanzia, mentre C conserva la propria. Perciò la legge dispone, in tal caso, che B possa esercitare i suoi diritti ipotecari sostituendosi ad A sul bene Y con preferenza rispetto ai creditori posteriori alla propria iscrizione (art. 2856). Ricordiamo infine che una analoga iscrizione può essere presa sugli immobili ereditari a titolo di separazione dei beni da parte dei creditori del de cuius. In tal
§ 7. L’ipoteca
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caso, però, tutte le iscrizioni prendono lo stesso grado e prevalgono sulle iscrizioni ipotecarie dei creditori dell’erede.
Il concedente può essere lo stesso debitore, titolare del diritto sulla cosa, ma anche un’altra persona, chiamata terzo datore di ipoteca. Il terzo datore di ipoteca, di regola, o paga i creditori iscritti, per evitare l’esproprio, o subisce l’espropriazione forzata alla scadenza dell’obbligazione senza poter pretendere che sia escusso per primo il debitore principale (tranne quando viene espressamente pattuito il beneficio di escussione). Con l’espropriazione si attua pertanto uno spostamento di ricchezza dal terzo al creditore procedente a tutto vantaggio del debitore garantito. La legge considera tuttavia tale evento come fonte di uno squilibrio patrimoniale provvisorio che deve essere ripianato attraverso un meccanismo di restituzione. Infatti: a) il terzo che ha subito l’espropriazione viene innanzitutto surrogato per legge nei diritti (privilegi, pegno, ipoteche) che il creditore aveva verso il debitore, in modo tale che si potrà giovare della posizione di vantaggio del creditore soddisfatto. Lo strumento giuridico della surrogazione è considerato importante dalla legge: se un fatto del creditore, compiuto in pendenza della garanzia, impedisce a questo istituto di funzionare l’ipoteca si estingue (art. 2869); b) il terzo datore che ha pagato i creditori iscritti o ha subito l’esproprio ha regresso contro il debitore (o i debitori solidali) e contro i fideiussori del debitore o altri terzi datori d’ipoteca per le loro rispettive porzioni (art. 2871). Diversamente dal pegno, nell’ipoteca il creditore ipotecario non ha il possesso del bene vincolato, ma può esercitare azioni inibitorie e conservative se il debitore o un terzo minacciano l’integrità della cosa e conserva il diritto di seguito e il diritto di prelazione in ogni caso, chiunque sia divenuto proprietario o possessore del bene al tempo della scadenza dell’obbligazione. Perciò se un terzo acquista il bene è soggetto a subire l’espropriazione. Il terzo acquirente del bene ipotecato si trova però in una posizione diversa dal concedente o dal terzo datore di ipoteca, infatti, se non è personalmente obbligato a pagare e ha trascritto il suo titolo di acquisto può scegliere fra diverse vicende: 1. subire la espropriazione; 2. pagare i creditori ipotecari per evitare l’espropriazione;
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3. rilasciare il bene ipotecato prima che sia espropriato (serve una dichiarazione di rilascio alla cancelleria del tribunale, da notificarsi al creditore procedente, entro dieci giorni dal pignoramento). In tal caso il procedimento prosegue contro un amministratore nominato dal giudice. In tutti e tre i casi sin qui indicati al terzo acquirente spetta una indennità verso il suo dante causa (anche se è un acquisto gratuito, art. 2866) e inoltre egli ha subingresso nei diritti del creditore soddisfatto (ivi comprese le ipoteche eventualmente costituite a suo favore su altri beni del debitore); 4. può liberare il bene ipotecato con la c.d. purgazione della ipoteca (da compiersi prima del pignoramento o entro trenta giorni dallo stesso). Si tratta di una specie di gara: il terzo acquirente offre un prezzo che viene ufficialmente notificato ai creditori iscritti (e al dante causa, unitamente ad altri dati e notizie). Se nessuno dei creditori chiede l’incanto, cioè l’espropriazione a mezzo di asta pubblica, il prezzo rimane stabilito nella somma messa a disposizione dal terzo. Dopo il deposito della somma e le altre formalità procedurali il bene è liberato. Se invece l’offerta non appare soddisfacente, ciascuno dei creditori iscritti può chiedere entro quaranta giorni che avvenga l’espropriazione per un prezzo superiore di un decimo (depositando già la cauzione di un quinto del totale) e quindi si impegna a concorrere alla gara pagando un prezzo superiore a quello offerto dal terzo (al successivo incanto, beninteso, può partecipare chiunque, anche lo stesso terzo acquirente del bene ipotecato). Quando la cautela costituita dalla iscrizione ipotecaria risulta eccessiva è prevista la riduzione delle ipoteche (art. 2872 ss.) che si opera: 1) riducendo la somma per la quale è stata presa l’iscrizione, fermi i beni ipotecati (riduzione in senso proprio); 2) restringendo l’iscrizione ad una parte soltanto dei beni o ad una parte di un singolo bene comodamente distinguibile (restrizione della ipoteca). Le ipoteche legali o giudiziali si riducono su domanda degli interessati, i quali dovranno anche sostenere le spese necessarie, a meno che non vi sia stato eccesso nella determinazione del credito fatta dal creditore (la somma risulta superiore di oltre un quinto a ciò che è dovuto secondo il giudice) nel qual caso sono a carico di quest’ultimo. L’eccesso nel valore dei beni si ha invece quando questo supera di un terzo l’importo dei crediti iscritti più gli accessori. Entro i limiti indicati, rispettivamente un quinto e un terzo, l’eccedenza si giustifica come una prudente valutazione dei rischi possibili e viene comunque conservata anche in sede di riduzione. Se la quantità dei beni o la somma è stata determinata per convenzione o per senten-
§ 7. L’ipoteca
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za non si può chiedere la riduzione se non quando ci sia stato pagamento parziale di almeno un quinto del debito originario. Spetta, in tal caso, una riduzione proporzionale della somma iscritta. Con le modifiche legislative del 2016 a favore del credito (v. supra a proposito del pegno non possessorio) il legislatore ha ammesso anche la possibilità di concludere un contratto di finanziamento fra un imprenditore e una banca o altro operatore autorizzato, concepito in modo tale che il soggetto finanziatore acquista un immobile o un diritto reale immobiliare dell’imprenditore (non l’abitazione principale) sotto condizione sospensiva di inadempimento. Ciò significa che se il debitore non restituisce il finanziamento e la sua mora si protrae per più di nove mesi scatta la condizione e quindi il creditore diventa proprietario del bene, ma con la clausola tipica del patto marciano, secondo cui spetta al debitore la differenza di valore fra il bene ceduto e l’ammontare del debito.
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§ 2. Principali distinzioni tra beni: i beni pubblici
PARTE DECIMA
I BENI E I DIRITTI REALI
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Cap. 34. Le cose e i beni
§ 2. Principali distinzioni tra beni: i beni pubblici
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CAPITOLO 34
LE COSE E I BENI
SOMMARIO: 1. Cose, beni, diritti reali. – 2. Principali distinzioni tra beni: i beni pubblici. – 3. Beni mobili e immobili. – 4. I beni mobili registrati. – 5. Altre distinzioni tra cose. – 6. I rapporti tra cose: le pertinenze e le universalità. – 7. Le universalità di mobili. – 8. I frutti. – 9. I nuovi beni (cenni).
1. Cose, beni, diritti reali. La scarsità delle risorse, necessarie alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo, rappresenta potenzialmente una fonte di conflitti sociali, in vista della loro appropriazione. Ad evitare tali conflitti, e a disciplinare le forme di appartenenza dei beni, provvedono le norme del libro terzo del codice civile, tradizionalmente intitolato alla proprietà, ma relativo alla più ampia materia dei beni e dei diritti su di essi (diritti reali, da res, cosa). Nel linguaggio dell’economia, è “bene” qualunque utilità idonea a soddisfare, direttamente o indirettamente, un bisogno dell’uomo (interesse, in senso economico); in termini giuridici, sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti (art. 810). L’idea di interesse (inteso come tensione del soggetto verso un bene) sembra accomunare le due nozioni: poiché i diritti vengono riconosciuti al soggetto per la tutela e la realizzazione di propri interessi (cfr. 1.2), il bene in tanto costituisce oggetto del diritto in quanto è idoneo a soddisfare l’interesse, per la cui realizzazione il diritto stesso è riconosciuto. Quella appena proposta, tuttavia, rispetto alla nozione fornita dal codice, è una definizione troppo ampia. S’è appena visto che l’art. 810 considera beni le cose oggetto di diritti: la formula contiene dunque un duplice riferimento, ad (a) un substrato oggettivo (la cosa) e a (b) una qualificazione giuridica (il diritto, di cui la cosa può essere oggetto). a) Il primo elemento, a prima vista, specifica e restringe la portata del secondo: se è vero, infatti, che oggetto di diritti possono essere anche enti-
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tà diverse dalle cose, come le attività o i comportamenti umani (così, tradizionalmente, si considera oggetto del diritto del creditore la prestazione, ad es., di facere dovuta dal debitore) o addirittura taluni attributi o modi d’essere della persona (la libertà, l’integrità fisica, l’onore sono, ad es., riconosciuti come oggetto di diritti fondamentali dell’individuo, i cc.dd. diritti della personalità), per la norma in esame sembra esservi bene in senso giuridico solo quando il diritto abbia a oggetto una cosa in senso naturalistico, intesa come parte della realtà materiale, percepibile con i sensi. In realtà, anche se la maggior parte dei beni presi in considerazione dal diritto sono cose dotate del requisito della corporeità (alle quali dunque si addice la qualifica di beni materiali), vedremo che una tutela analoga viene riconosciuta dall’ordinamento non solo rispetto alle energie naturali (che testualmente l’art. 814 qualifica come beni, quando abbiano valore economico, e che comunque presentano un nesso di derivazione dalla materia), ma anche in ordine a entità non corporali (i beni immateriali) come la creazione artistica, o l’invenzione tecnico-scientifica dell’uomo. Pur nella notevole diversità che ne contraddistingue l’oggetto, i diritti sui beni immateriali possono accostarsi (e vengono infatti studiati insieme) ai diritti sulle cose, in quanto il tipo di tutela riconosciuta dall’ordinamento presenta, nelle due categorie, quanto meno una nota comune: tanto la proprietà di un bene materiale, quanto il diritto d’autore o d’inventore vengono infatti riconosciuti e protetti dalla legge, attribuendo al loro titolare un diritto assoluto, tale da garantirgli (attraverso un rapporto diretto e immediato col bene) la possibilità di goderne direttamente e di trarre da esso ogni utilità, nel contempo assicurandogli strumenti idonei a respingere le eventuali ingerenze di qualsiasi terzo, rispetto a tali attività di godimento e utilizzazione esclusiva.
b) D’altro canto, e simmetricamente, il secondo elemento della definizione del codice concorre a specificare il primo: non ogni cosa, in senso naturalistico (o meno), è idonea a divenire bene giuridico, ma solo quella che essendo, oltre che utile (idonea a soddisfare bisogni), anche suscettibile di appropriazione da parte del singolo, giustifica il sorgere dell’interesse e la conseguente tutela di esso da parte dell’ordinamento. In condizioni normali, non sono dunque beni giuridici, pur essendo utili, le cose considerate comuni a tutti (res communes omnium), proprio in ragione del fatto che non sono suscettibili di appropriazione (l’aria, la luce e il calore del sole, l’acqua piovana, ecc.): in relazione ad esse, non sorgeranno di regola conflitti, né di conseguenza sarà necessario riconoscere posizioni di diritto soggettivo.
§ 2. Principali distinzioni tra beni: i beni pubblici
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Accanto alla categoria delle res communes omnium, che in quanto non suscettibili di appropriazione non possono diventare oggetto di diritti, e sono pertanto da considerarsi sottratte al commercio giuridico (extra commercium), va ricordata quella delle cose di nessuno (res nullius), che sono i beni i quali, pur non essendo attualmente oggetto del diritto di alcuno, possono però diventarlo, in quanto suscettibili di speciali forme di appropriazione (e dunque non sono extra commercium). Come esempi di res nullius possono indicarsi talune categorie di beni esistenti in natura (come i pesci nelle acque pubbliche), nonché le sole cose mobili che siano state abbandonate dall’ultimo proprietario con l’intenzione di rinunziare al diritto su di esse.
I diritti, di cui i beni possono essere oggetto, sono di diverse specie: la distinzione più importante, in tal senso, è quella tra diritti reali e diritti personali, sulla quale si dovrà tornare. Essa riproduce, anche con riguardo alle forme di utilizzazione dei beni, la contrapposizione tra diritti assoluti e diritti relativi; resta da precisare che sono diritti reali di godimento tutti (e solo) i diritti previsti e disciplinati dal libro terzo del codice civile (proprietà, superficie, enfiteusi, usufrutto, uso, abitazione e servitù), cui vanno aggiunti i due diritti reali di garanzia rappresentati dal pegno e dall’ipoteca.
2. Principali distinzioni tra beni: i beni pubblici. Le caratteristiche intrinseche (relative al modo d’essere) delle cose, se e in quanto si traducano in diversità di regime giuridico (e dunque di forme di tutela, modi di circolazione, ecc.), giustificano tutta una serie di classificazioni per categorie e di distinzioni, il più delle volte tracciate dallo stesso legislatore, che è bene passare in rapida rassegna. Dallo studio del diritto privato, ma non dalle norme del codice civile (che ad essi dedica un intero capo, agli artt. 822-831) restano esclusi i beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici (denominati con formula breve beni pubblici). Ne facciamo sintetica menzione, per indicarne le specie e il regime giuridico. Prima categoria di beni pubblici è quella costituita dal demanio dello Stato (art. 822) e degli enti territoriali minori (regioni, province e comuni) (art. 824) che ricomprende: a) beni del demanio naturale, che per la loro funzione o destinazione possono appartenere necessariamente e solo a tali enti (demanio detto anche necessario), tra cui si annoverano il lido del mare, le spiagge, le rade e i porti (d. marittimo), tutti i corsi d’acqua e i laghi
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Cap. 34. Le cose e i beni
(d. idrico), nonché le opere destinate alla difesa nazionale (d. militare); b) beni del demanio artificiale, che possono appartenere anche a soggetti privati, ma sono demaniali se e in quanto appartengano agli enti pubblici summenzionati (demanio detto perciò anche accidentale), in cui rientrano la rete stradale e autostradale, la rete ferroviaria, gli aeroporti civili e le loro pertinenze (cfr. 34.5), gli acquedotti, e il c.d. demanio culturale, costituito dai beni immobili (cfr. 34.3) di interesse storico, archeologico, artistico, nonché dalle raccolte di musei, pinacoteche, archivi, biblioteche. I beni demaniali sono inalienabili: essi non possono essere oggetto né di proprietà, né di altri diritti reali, né di possesso (cfr. infra, il Cap. 36) da parte di soggetti privati. In favore di questi, è possibile solo concedere, attraverso provvedimenti amministrativi, diritti di utilizzazione esclusiva verso corrispettivo (ad es., concessione in uso di porzioni di spiaggia da adibire a stabilimento balneare) (art. 823). La demanialità del bene che non sia più idoneo a soddisfare il pubblico interesse può venir meno, ma solo a seguito di apposito provvedimento di sdemanializzazione (art. 829).
Seconda categoria di beni pubblici è quella rappresentata dal patrimonio degli enti pubblici, formato da tutti i beni che appartengono agli stessi e che non rientrano tra quelli demaniali, e a sua volta distinto nelle due categorie: a) del patrimonio indisponibile, che comprende le foreste, le miniere, le cave e torbiere, le cose d’interesse storico, archeologico, artistico ritrovate nel sottosuolo, la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra, gli edifici destinati a sede di uffici pubblici e gli altri beni destinati a pubblico servizio (art. 826); b) del patrimonio disponibile, che comprende tutti gli altri beni degli enti pubblici (tra cui i beni immobili che non risultino essere di proprietà di alcuno) (art. 827). I beni sub a) sono soggetti a un vincolo di destinazione, alla quale non possono essere sottratti, se non nei casi e modi previsti dalla legge, il che ne consente (a differenza dei beni demaniali) una limitata alienabilità in favore dei privati (si può fare l’esempio della vendita di alloggi economico-popolari). I beni sub b) sono soggetti all’ordinario regime privatistico (art. 828).
3. Beni mobili e immobili. Sono immobili per natura il suolo e tutto ciò (sorgenti, corsi d’acqua, costruzioni e piantagioni) che è anche artificialmente incorporato ad esso;
§ 4. I beni mobili registrati
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sono invece considerati dalla legge immobili i mulini, i bagni e gli edifici galleggianti saldamente e permanentemente assicurati alla riva. Sono mobili tutti gli altri beni (art. 812), vi comprese le energie naturali aventi valore economico (art. 814). La distinzione, fondata su una diversità fisica, e inderogabile da parte dei privati, ha rivestito grande importanza sino a che, in presenza di un’economia prevalentemente agricola, la proprietà immobiliare (e in particolar modo quella fondiaria) ha costituito la vera ricchezza economica; vede ridotto il proprio significato in un’epoca, come l’attuale, in cui le risorse produttive sono il più delle volte rappresentate da beni mobili, o incorporate in titoli di credito (in primo luogo nelle partecipazioni societarie) o addirittura “dematerializzate” (si pensi, oltre al caso già ricordato dei beni immateriali, alle c.d. nuove tecnologie). Ciò nonostante, alla qualifica di bene immobile si ricollega tuttora un regime giuridico differenziato, sintetizzabile nei seguenti aspetti: accertamento dell’esistenza: per i soli immobili (sia rustici e che urbani) si provvede a documentare esistenza e consistenza, attraverso mappe conservate presso l’ufficio pubblico del Catasto (rispettivamente dei terreni e dei fabbricati); circolazione giuridica (forma e pubblicità): i negozi giuridici attraverso cui si realizzano il trasferimento della proprietà, o la costituzione, il trasferimento e l’estinzione di diritti reali minori, se relativi ad immobili, richiedono la forma scritta a pena di nullità (art. 1350), e sono soggetti alla pubblicità della trascrizione (art. 2643 ss.), la forma invece è libera, e la pubblicità si realizza mediante il trasferimento del possesso, se hanno ad oggetto beni mobili; diritti di cui possono essere oggetto: tra i diritti reali di godimento, la superficie, l’enfiteusi, l’abitazione e le servitù prediali possono avere ad oggetto solo beni immobili; tra i diritti reali di garanzia, l’ipoteca ha per oggetto gli immobili, il pegno invece i mobili; s’è visto, inoltre, che solo un bene mobile può essere o diventare vacante, cioè non risultare di proprietà di alcun soggetto, potendo così essere acquistato a titolo originario mediante occupazione, mentre gli immobili, che non risultino essere di proprietà di alcuno, appartengono al patrimonio disponibile dello Stato.
4. I beni mobili registrati. Ad un regime giuridico, per così dire, “intermedio” è assoggettata la categoria dei beni mobili iscritti in pubblici registri (art. 815): in essa rientrano, principalmente, gli autoveicoli, le navi e gli aeromobili. La discipli-
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Cap. 34. Le cose e i beni
na che li riguarda è, in parte, comune per tutte le specie suddette, in parte differenziata: fermo restando che essi sono in linea di principio soggetti alla disciplina prevista per i beni mobili, laddove non siano dettate specifiche norme diverse. Tra tali regole speciali (analoghe a quelle valide per gli immobili) previste per tutti i tipi di beni mobili registrati, vanno ricordate le seguenti: – gli atti che producono il trasferimento della proprietà, o la costituzione di un diritto reale minore su tali beni sono assoggettati a trascrizione (art. 2683 ss.; cfr. 39.5); – è possibile costituire su di essi il diritto di ipoteca (art. 2810); Altre regole speciali non uniformi sono dettate, viceversa, in tema di forma degli atti traslativi, richiedendosi, ad esempio, la forma scritta per navi e aeromobili, non per gli autoveicoli.
5. Altre distinzioni tra cose. Pur non essendo definite direttamente dal codice, sono tuttavia rilevanti, per taluni aspetti del regime giuridico che le riguarda, altre classificazioni delle cose, che solitamente vengono individuate attraverso coppie di categorie contrapposte. a) Cose specifiche e generiche Sono specifiche le cose determinate nella loro individualità (un certo appezzamento di terreno racchiuso tra confini specificati, un determinato quadro di un certo autore); sono generiche le cose identificate non individualmente, ma solo in base alla loro appartenenza ad un determinato genere ed alla loro quantità (cento quintali di una certa varietà di grano; cinque copie di un determinato romanzo). La distinzione rileva: – in tema di adempimento dell’obbligazione che, quando la prestazione abbia a oggetto cose generiche, non libera il debitore se vengano prestate cose di qualità inferiori alla media di quel genere (art. 1178); – nei contratti aventi a oggetto il trasferimento della proprietà in cui, quando si tratti di cosa specifica, il diritto si trasferisce all’acquirente per effetto del consenso (art. 1376), mentre, nel caso di cosa generica, la proprietà non passa sino all’individuazione (atto consistente nella scelta, e nel distacco dalla massa, della quantità prevista di cose) effettuata nei modi
§ 5. Altre distinzioni tra cose
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stabiliti dall’accordo delle parti (art. 1378), e ugualmente prima dell’individuazione non passa il rischio del perimento fortuito (che viene sopportato dall’alienante, in base al principio genus numquam perit). Non tutte le regole previste per le cose generiche si applicano al c.d. genus limitatum, quando cioè l’oggetto della prestazione, sebbene sia cosa generica, deve prendersi entro un gruppo determinato di cose (di quel genere): si pensi all’esempio della vendita di dieci ettolitri di un determinato vino, di una annata precisa, proveniente dalle botti di una determinata cantina. È ovvio che, in tal caso, la regola genus numquam perit non troverà applicazione, per cui, se la cantina viene distrutta da un terremoto, l’alienante sarà liberato, anche se non sia ancora stata fatta l’individuazione.
b) Cose fungibili e infungibili Fungibile è la cosa che può essere sostituita da altra, considerata equivalente; infungibile è la cosa che non ammette tale giudizio di equivalenza, e non consente perciò sostituzioni. La distinzione coincide solo in parte con la precedente: presupposto normale della fungibilità è l’appartenenza delle cose a un (medesimo) genere, il che ne comporta l’equivalenza, ma anche la cosa già determinata (ad es., i cento quintali di quella certa varietà grano, dopo l’individuazione) può restare oggettivamente fungibile; e, reciprocamente, la cosa specifica sarà di regola infungibile, salvo che le parti non l’abbiano considerata espressamente sostituibile con altra (fungibilità “soggettiva”). Fungibile per definizione, in quanto creato come mezzo di scambio, è il denaro. La fungibilità rileva principalmente in taluni rapporti (comodato, deposito, mutuo) che implicano l’obbligazione di restituire: se e quando relativi a cose infungibili, la restituzione avrà necessariamente a oggetto la stessa cosa originariamente ricevuta, in natura, come nel caso del comodato (art. 1803) o del deposito regolare (art. 1766); se relativi a cose fungibili, la restituzione non avrà a oggetto necessariamente la cosa ricevuta, ma altrettante cose della stessa specie e qualità (il tantundem), come nel caso del mutuo (art. 1813), o del deposito irregolare (art. 1782). c) Cose consumabili e inconsumabili Consumabile è la cosa il cui godimento può avvenire unicamente attraverso la distruzione fisica (i combustibili, gli alimenti) o economica (il denaro), ovvero la trasformazione irreversibile (le materie prime destinate alla produzione); inconsumabile, viceversa, quella suscettibile di utilizzazioni ripetute e protratte nel tempo (un macchinario, un quadro, un
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Cap. 34. Le cose e i beni
abito), anche se soggetta, per effetto di queste, a deterioramento. La rilevanza della qualificazione si ha essenzialmente in tema di usufrutto, che, qualora abbia a oggetto cose consumabili, conferisce all’usufruttuario il diritto di servirsene con l’obbligo di restituirne, a seconda dei casi, il semplice valore, ovvero il tantundem (c.d. quasi-usufrutto: art. 995). d) Cose divisibili e indivisibili Pur potendosi considerare, in astratto, qualsiasi cosa scomponibile in più parti, divisibili in senso giuridico sono solo le cose che possono ridursi in frazioni, ciascuna delle quali mantenga la propria destinazione economica (cioè, pur differenziandosi quantitativamente dall’intero, ne conservi proporzionalmente il valore e non cessi di servire all’uso cui il bene è destinato: art. 1112). Divisibili saranno, pertanto, una somma di denaro, un determinato appezzamento di terreno, un animale già macellato; indivisibili saranno un autoveicolo, un quadro d’autore, un animale ancora vivo. Anche cose divisibili per loro natura possono essere considerate indivisibili dalla legge (v. gli artt. 722 e 7272), ovvero dalla volontà delle parti (indivisibilità convenzionale, ad es., della prestazione, ex art. 1316). L’indivisibilità rileva in tema d’adempimento dell’obbligazione che abbia ad oggetto una prestazione indivisibile (art. 1314 ss.) e, ovviamente, in tema di divisione, non potendosi sciogliere la comunione avente a oggetto il bene indivisibile attraverso una sua ripartizione in natura, ma dovendosi procedere alla vendita dell’intero e alla successiva ripartizione del ricavato, ovvero alla sua assegnazione per intero ad uno dei condividenti con attribuzione di conguagli in denaro a favore degli altri (art. 720). e) Cose presenti e future Un diverso criterio ispira la distinzione tra cose presenti e future, riguardando essa non tanto caratteristiche intrinseche del bene, quanto il rapporto tra la sua esistenza e gli effetti degli atti che lo assumono ad oggetto. Principio fondamentale è quello della generale validità (salvo esplicito divieto: v., ad es., l’art. 2823, che vieta la costituzione di ipoteca su cosa futura) dei negozi con cui si dispongono effetti (assunzione di obbligazioni, costituzione o trasferimento di diritti reali, ecc.) relativi a cose non attualmente esistenti in natura (art. 1348): è possibile, di conseguenza, acquistare un appartamento in un edificio ancora da costruire, o vendere il raccolto di un determinato fondo agricolo subito dopo la semina. Ciò in ossequio alla regola in base alla quale, affinché il requisito dell’oggetto contrattuale possa considerarsi soddisfatto, è sufficiente la possibilità dell’esistenza della cosa (art. 1346).
§ 6. I rapporti tra cose: le pertinenze e le universalità
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È ovvio, peraltro, che affinché il diritto sorga il suo oggetto (la cosa) deve venire ad esistenza: di qui la regola generale che subordina il pieno prodursi degli effetti negoziali alla venuta ad esistenza della cosa (di essa v. le applicazioni, ad es., agli artt. 10292, o 1472). A dire il vero, si è già visto che la vendita di una cosa inesistente può assumere due caratteri diversi, a seconda che venga conclusa sul presupposto (ragionevolmente certo) della venuta ad esistenza della cosa (emptio rei speratae, o vendita di cosa sperata, contratto di scambio commutativo, di cui il venire in essere del bene è requisito di validità: cfr. art. 14722), ovvero come una sorta di scommessa, nella quale il compratore espressamente si assume il rischio della inesistenza della cosa (restando comunque obbligato al pagamento del prezzo: emptio spei, o vendita di speranza), ed alla quale si applica la diversa disciplina del contratto aleatorio (cfr. 14.3).
6. I rapporti tra cose: le pertinenze e le universalità. Oltre che per le loro caratteristiche individuali, le cose vengono prese in considerazione dal diritto per particolari rapporti di connessione che talvolta tra esse si instaurano: le più significative varianti di tali rapporti sono quella che dà luogo alle pertinenze, e quella rappresentata dalle universalità di mobili. Si definisce pertinenza la cosa destinata in modo durevole a servizio o ad ornamento di un’altra cosa (art. 817): il legame pertinenziale indica dunque una relazione di accessorietà (o più ampiamente di subordinazione), di natura economico-giuridica, finalizzato alla maggior produttività o funzionalità della cosa principale, o al miglioramento estetico di essa. Vi può essere pertinenza di un immobile ad altro immobile (come nel caso della cantina, o del posto auto destinati a servizio dell’appartamento), di un mobile ad un immobile (attrezzi e macchine necessari alla coltivazione di un fondo agricolo, lo scaldabagno o la caldaia rispetto alla casa d’abitazione) o di un mobile ad un altro mobile (la cornice rispetto al quadro). La rilevanza del vincolo pertinenziale si coglie in sede di circolazione giuridica: gli atti e i rapporti giuridici che hanno per oggetto la cosa principale comprendono infatti, se non è diversamente disposto, anche le pertinenze (chi vende il quadro, senza nulla specificare, vende anche la cornice – art. 818), pur potendo la pertinenza formare oggetto di separati atti o rapporti (è possibile, cioè, vendere solo la cornice, facendo venir meno così il legame pertinenziale – art. 8182).
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Cap. 34. Le cose e i beni
La qualità di pertinenza nasce dall’atto con cui la cosa accessoria viene destinata, in modo durevole (cioè non transitorio, anche se non necessariamente permanente), al servizio o all’ornamento della principale. Tale atto può essere compiuto dal proprietario della cosa principale, o da chi su di essa sia titolare di un diverso diritto reale (art. 8172), anche se la pertinenza sia, invece, oggetto di diritti altrui: in tal caso, la prevalente giurisprudenza ritiene necessario che il proprietario della cosa principale, autore dell’atto di destinazione, abbia (se non la proprietà) la disponibilità giuridica di quella destinata a pertinenza. L’atto di destinazione non può comunque, almeno di regola, pregiudicare i diritti che i terzi vantino sulla pertinenza (art. 819); se, tuttavia, il proprietario di un immobile o di un mobile registrato, cui accede la pertinenza altrui, vende il bene principale ad un soggetto che ignora tale circostanza, il proprietario della pertinenza può far valere il proprio diritto nei confronti dell’acquirente solo attraverso un atto avente data certa anteriore all’acquisto.
7. Le universalità di mobili. La pluralità di cose mobili, che appartengano ad un unico proprietario ed abbiano una destinazione unitaria (la collezione di quadri, la biblioteca, il gregge) viene definita dalla legge universalità di mobili (art. 816). Anche qui, come nelle pertinenze, il legame tra le cose è puramente economico-funzionale: i due elementi su cui si fonda l’unificazione sono dati dall’unicità di proprietario e dalla unitaria destinazione. Quanto al regime giuridico, è possibile con un unico atto disporre dell’intero complesso (ad es., costituire in pegno l’universalità nel suo insieme – art. 27842), pur potendo le singole cose componenti l’universitas formare oggetto di atti e rapporti giuridici separati (art. 8162). La considerazione unitaria che la legge riserva alle universalità fa sì che, a certi effetti, al complesso si applichino norme diverse da quelle relative ai beni mobili che lo compongono, e analoghe piuttosto a quelle tipiche degli immobili: così, ad es., alle universalità non si applica la regola possesso vale titolo (art. 1153, cfr. 36.3.b), il regime dell’usucapione è analogo a quello dei beni immobili (art. 1160, cfr. 36.3.c), a difesa del possesso di esse è esperibile l’azione di manutenzione, esclusa invece per i beni mobili (art. 1170, cfr. 36.4). Le universalità di mobili disciplinate dal codice si dicono anche, in dottrina,
§ 8. I frutti
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universalità “di fatto” (universitas facti), per contrapporle alla nozione tradizionale di universalità “di diritto” (universitas iuris), con la quale si vorrebbero indicare particolari ipotesi in cui un certo complesso, non di beni, ma di rapporti giuridici (sia attivi che passivi) verrebbe, a certi effetti, considerato unitariamente dalla legge: esempi tipici ne sarebbero l’azienda (complesso di beni e rapporti organizzato dall’imprenditore per l’esercizio della sua attività di impresa – art. 2555) e l’eredità (insieme dei rapporti attivi e passivi che facevano capo, in vita, al de cuius) (cfr. 5.2). Ma, a dire il vero, il grado di unificazione in questi casi non è costante (quanto alla circolazione giuridica, ad es., esso si ritrova, in qualche misura, nell’eredità – cfr. art. 1520 – non altrettanto nell’azienda), e comunque sembra assai difficile considerare le c.d. universalità di diritto come “beni” autonomi, nel senso reso palese dalle norme del libro terzo del codice civile.
8. I frutti. Si dicono frutti i beni prodotti da altri beni (detti, perciò, a loro volta, beni fruttiferi): essi si dividono nelle due specie dei frutti civili e dei frutti naturali. Sono frutti naturali i beni che provengono direttamente dal bene fruttifero, come i prodotti agricoli (dalla terra), i parti (dagli animali), il minerale estratto (dalle miniere): in altri termini, tutti quei beni legati alla cosa madre da un rapporto di derivazione naturale, sia esso del tutto spontaneo, ovvero (come di regola) vi concorra l’opera dell’uomo (art. 8201). Sono frutti civili i beni che si ricavano indirettamente dal bene fruttifero, a titolo di corrispettivo del godimento che di tale bene abbiano altri soggetti, come nel caso degli interessi (sulla somma data a mutuo, o depositata in banca), o dei canoni di locazione (art. 8203). I frutti naturali spettano al proprietario del bene che li produce, ovvero al terzo che sia titolare, su quest’ultimo bene, di un diritto che gli consente di appropriarsene (come ad es. il diritto di usufrutto, o di uso – cfr. infra, il Cap. 38). Essi, tuttavia, diventano beni autonomi e si acquistano, a titolo originario, con la loro separazione dalla cosa madre; anteriormente a tale momento, i frutti (che in tal caso si dicono “pendenti”) formano parte integrante della cosa, pur potendo essere oggetto di atti dispositivi, da parte dell’avente diritto, come cose future (cfr. 40.3.b). I frutti civili si acquistano, invece, di giorno in giorno, in ragione della durata del rapporto che consente al terzo di godere del bene fruttifero: il diritto al corrispettivo di tale godimento viene ad esistenza, cioè, e si accresce di giorno in giorno, anche se per la sua corresponsione in concreto sia-
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Cap. 34. Le cose e i beni
no stabilite scadenze periodiche più lunghe (es.: se l’affittuario del fondo è tenuto al pagamento del canone ogni sei mesi, ma il rapporto si interrompe a metà del primo semestre, l’ammontare dei frutti dovuti sarà calcolato in base ai giorni effettivi di durata del rapporto). Norme particolari sono dettate (agli artt. 1148-1149) per il caso in cui i frutti di un bene siano stati percepiti da un soggetto che, essendo solo possessore della cosa madre, non aveva il diritto di farli propri (cfr. 36.5.a). Disciplina specifica ricevono, inoltre, i frutti del denaro (gli interessi – cfr. 30.4).
9. I nuovi beni (cenni). Il progresso scientifico-tecnologico, lo sviluppo dell’economia e l’evoluzione della stessa vita sociale e della sensibilità collettiva hanno condotto nell’epoca attuale, da un lato, alla creazione di nuove utilità astrattamente suscettibili di appartenenza, dall’altro, alla necessità di disciplinare l’appropriazione di risorse un tempo irrilevanti per il diritto (in ragione della ritenuta loro sovrabbondanza, rispetto alle necessità e allo sfruttamento dell’uomo). Per fare solo degli esempi, che usualmente vengono proposti, potremmo pensare, sul primo fronte, al software, alle banche dati, alle biotecnologie e ai loro prodotti, all’etere come spazio di diffusione delle onde radio, agli stessi organi del corpo umano suscettibili di trapianto; sul secondo fronte, basti citare la salubrità dell’aria o dell’acqua, che, in quanto sfruttate nell’ambito di processi industriali inquinanti, fanno sorgere il problema della loro protezione, ovvero il patrimonio ambientale e paesaggistico, esposto al rischio di un incontrollato sfruttamento edilizio. Nel segnalare tali fenomeni, è invalso, in dottrina, l’uso dell’espressione “nuovi beni”; ma da più parti, s’è esattamente segnalato che l’espressione indica, in realtà, soltanto nuovi interessi protetti, o nuove forme di tutela degli stessi. Si vedrà, nelle sedi specifiche, come gran parte dei problemi connessi a tali forme di tutela non siano descrivibili in termini di appropriazione, e dunque tali interessi non possano dirsi “beni” nel significato ricavabile dalle norme del libro terzo del codice, che qui stiamo analizzando.
§ 3. Il contenuto della proprietà
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CAPITOLO 35
LA PROPRIETÀ
SOMMARIO: 1. I diritti reali in generale. – 2. Il diritto di proprietà: nozione e fondamento. – 3. Il contenuto della proprietà. – 4. I limiti della proprietà nell’interesse pubblico. – 5. I limiti nell’interesse privato. – 6. La comunione e il condominio.
1. I diritti reali in generale. Si è detto (al n. 34.1) che tra i diritti sulle cose è possibile distinguere quelli di natura reale e quelli di natura personale. I diritti reali assicurano al titolare l’appropriazione e l’utilizzazione esclusiva del bene, secondo il modello tipico del diritto assoluto: garantendo cioè al soggetto la possibilità di realizzare il proprio interesse direttamente e immediatamente, attraverso comportamenti propri, e di respingere qualsiasi forma di ingerenza da parte dei terzi che quei comportamenti possano ostacolare (si pensi all’es. più tipico, rappresentato dal godimento del proprietario, che utilizza direttamente il bene e può escluderne qualsiasi altro soggetto). I diritti personali attribuiscono la possibilità di godere del bene, in conformità al diverso schema del diritto relativo: il titolare sarà dunque soggetto attivo di un rapporto giuridico, in base al quale potrà pretendere un comportamento altrui, e in particolare del soggetto passivo, idoneo ad assicurargli l’utilizzazione della cosa, come avviene, ad esempio, in forza di un contratto di locazione, a seguito del quale il conduttore potrà pretendere che il locatore gli assicuri la disponibilità e il godimento dell’abitazione (cfr. 41.1). La categoria dei diritti reali, alla cui disciplina sono dedicate le norme del Libro terzo del codice civile, comprende accanto alla proprietà (alla quale l’intero Libro risulta intitolato) una serie di altre figure. Esse si distinguono dalla proprietà, sia per il più ristretto contenuto di poteri di godimento e utilizzazione della cosa, assicurati al loro titolare (e vengono perciò denominate diritti reali minori, o limitati), sia per il fatto di avere a
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Cap. 35. La proprietà
oggetto beni di proprietà di un diverso soggetto (e per questo vengono dette anche diritti reali su cosa altrui). Concettualmente, la coesistenza, su di uno stesso bene, della proprietà di un soggetto e di un diritto reale limitato spettante ad altri, si giustifica in base alla elasticità del diritto di proprietà, fenomeno in base al quale esso non viene meno a seguito della temporanea compressione del contenuto di facoltà e poteri che normalmente lo caratterizzano (per la contemporanea presenza di un diritto di usufrutto o di una servitù altrui), ma è in grado anzi di riespandersi non appena la limitazione cessi di esistere.
Caratteristiche comuni a tutti i diritti reali, accanto alla immediatezza e assolutezza, appena ricordate, sono: l’inerenza rispetto al bene che ne costituisce oggetto, e che nei diritti reali minori trova la sua manifestazione più evidente nel cosiddetto “diritto di seguito”, ossia nella persistenza del diritto anche se muta la persona del proprietario (se viene venduto il bene gravato da usufrutto o da servitù, tali diritti non vengono meno e sono opponibili all’acquirente); la tipicità, per cui non sarebbe possibile all’autonomia privata creare figure nuove di diritti reali, diverse da quelle previste e disciplinate dal legislatore (le quali costituiscono, perciò, un “numero chiuso”). Differenza fondamentale tra proprietà e diritti reali limitati, oltre alla diversa ampiezza che ne caratterizza il contenuto, sta nella circostanza che mentre i diritti reali su cosa altrui, se il titolare non li esercita per vent’anni, si estinguono per prescrizione, in conformità al principio di cui all’art. 2934, il diritto di proprietà (come l’azione di rivendicazione, diretta a farlo valere) non si perde per l’inerzia del titolare (ma, semmai, solo a seguito dell’usucapione da parte di un altro soggetto).
2. Il diritto di proprietà: nozione e fondamento. La proprietà rappresenta tuttora (pur se da più parti se ne denuncia il progressivo ridimensionamento, o addirittura la crisi) il modello fondamentale di diritto sulle cose; anzi, storicamente, può dirsi che essa ha fornito lo schema, attorno al quale si è costruita tutta la teoria classica del diritto soggettivo. Nella definizione che ne dà l’art. 832 c.c., la proprietà viene descritta come il «diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo», pur se entro i limiti e con gli obblighi previsti dall’ordinamento. Tale
§ 3. Il contenuto della proprietà
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definizione va integrata con la disciplina contenuta nella Costituzione, in base alla quale la proprietà privata è «riconosciuta e garantita dalla legge», che peraltro deve «renderla accessibile a tutti» e «assicurarne la funzione sociale» (art. 422 Cost.). Si sancisce, in tal modo, la garanzia costituzionale della proprietà privata (che non potrebbe di conseguenza essere abolita da una legge ordinaria), ma al tempo stesso si fissa un principio ispiratore della relativa disciplina, che dovrà contemperare l’interesse del singolo con quello della collettività. La nozione del codice presenta un’ampiezza che ne rivela l’origine ideale, conforme alle concezioni liberali e individualiste, consacrate nelle legislazioni ottocentesche: basti pensare che il codice civile del 1865 (derivato dal codice francese) proclamava il diritto del proprietario di godere e disporre del bene “nella maniera più assoluta”. Tale ampiezza trova un temperamento nella norma costituzionale, e nel richiamo in essa contenuto alla funzione sociale: va detto, per altro, che tale funzione riguarda essenzialmente talune categorie di beni, che rivestono un particolare significato per l’interesse pubblico (si fanno gli esempi dei beni produttivi, dei beni ambientali, dei beni culturali, del suolo edificabile, o degli immobili urbani adibiti ad abitazione), il che giustifica differenze di regime giuridico e limiti al contenuto di facoltà e poteri spettanti al proprietario. Tali diversità danno luogo a tante discipline quante sono le categorie di beni: si parla, così, di una pluralità di “statuti” della proprietà, ovvero di tante proprietà diverse, ad indicare il superamento di un regime unico per tutti i beni di proprietà dei privati. Resta ancora da ricordare che, a fini di utilità pubblica, può essere disposta l’espropriazione di beni di proprietà privata, nei casi previsti dalla legge e salva la corresponsione di un indennizzo.
3. Il contenuto della proprietà. Nell’analizzare il contenuto del diritto di proprietà è possibile distinguere le facoltà e i poteri che esso comprende. La facoltà di godimento consiste nella possibilità di trarre dal bene tutte le utilità possibili, senza con ciò incidere sulla titolarità piena del diritto di proprietà: ciò può avvenire, sia in forma diretta (usando personalmente il bene, o percependone i frutti naturali), sia indirettamente (costituendo – ad es. attraverso un contratto di locazione – diritti personali di godimento a favore di terzi sul bene, e percependone così i frutti civili).
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Cap. 35. La proprietà
Il potere di disposizione si manifesta attraverso comportamenti (di regola, atti giuridici) che incidono sulla titolarità, o sulla pienezza del diritto: come quando, rispettivamente, il titolare trasferisce ad altri il proprio diritto (attraverso una compravendita, una donazione, o un lascito testamentario), ovvero costituisce sul bene diritti reali limitati (di godimento, come l’usufrutto o le servitù, o di garanzia, come l’ipoteca o il pegno). Quanto alle caratteristiche di esercizio di tali facoltà e poteri, la proprietà si distingue innanzitutto per la tendenziale pienezza del suo contenuto, che non risulta determinato a priori, ma comprende ogni forma di godimento che non risulti esclusa o limitata dalla legge (anche se, come si vedrà, la quantità e qualità delle restrizioni impone di intendere la pienezza in senso relativo). Il carattere di esclusività sembra alludere a un modo d’essere tipico di tutti i diritti reali (in quanto diritti assoluti), cioè al potere di respingere qualsiasi ingerenza, materiale o giuridica, da parte dei terzi (ius excludendi omnes alios): materialmente, con specifico riguardo alla proprietà, ciò assume evidenza visiva nella possibilità di “chiudere in qualunque tempo il fondo”, vietandone così l’accesso ai terzi (art. 841, pur con le eccezioni previste alle norme successive); giuridicamente, l’esclusività si manifesta sul piano della tutela contro i terzi che affermino di avere diritti sulla cosa, attraverso l’azione diretta ad accertarne l’inesistenza (az. negatoria: cfr. 37.5). Più discussa è la configurabilità di limiti temporali del diritto di proprietà, la cui disciplina sembrerebbe piuttosto deporre per il carattere tendenzialmente perpetuo del dominio. Si osserva, in dottrina, che la previsione di una proprietà temporanea non ne farebbe comunque venir meno la pienezza e l’esclusività; e va ricordato che esistono casi, in cui è la stessa legge a consentire la fissazione di un termine finale alla titolarità del diritto, anche se si tratta di fattispecie del tutto peculiari, come il fedecommesso assistenziale (art. 692, su cui cfr. 24.12), o la proprietà superficiaria a tempo determinato (art. 953, su cui v. 38.2). Ci si può chiedere, infine, quale sia l’estensione spaziale del diritto di proprietà, con particolare riguardo alla proprietà del suolo. Se in orizzontale il limite è dato, per ciascun fondo, dai suoi confini (al cui accertamento vedremo essere destinata apposita azione), il problema si pone per la delimitazione della proprietà in verticale: all’antica massima, secondo cui il diritto si sarebbe esteso illimitatamente nel sottosuolo e nello spazio sovrastante (usque ad inferos et usque ad sidera), si sostituisce l’attuale criterio fondato sull’interesse, in forza del quale il proprietario non può opporsi ad attività che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo, o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle (art. 8402).
§ 4. I limiti della proprietà nell’interesse pubblico
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4. I limiti della proprietà nell’interesse pubblico. Tra i molti vincoli imposti dall’ordinamento al contenuto e all’esercizio del diritto, è possibile distinguere i limiti stabiliti in vista del conseguimento di un interesse pubblico, da quelli disposti nell’interesse dei privati. Accanto al limite generico, imposto allo stesso legislatore dalla Costituzione, relativo alla funzione sociale della proprietà privata, ed alla eccezionale possibilità, già ricordata, di incidere radicalmente sul diritto, mediante un provvedimento ablatorio quale l’espropriazione per pubblica utilità, il limite che attualmente incide in modo più rilevante sui poteri del singolo, a tutela di un interesse pubblico, è senza dubbio quello relativo alla facoltà di edificare, ovvero di fare costruzioni, spettante al proprietario del suolo: ciò in vista dell’interesse generale ad un razionale sfruttamento del suolo stesso a scopo edificatorio, nel rispetto delle esigenze dell’estetica, dell’igiene, del rispetto per l’ambiente, e via dicendo. La materia è disciplinata marginalmente dal codice, che dedica alla c.d. “proprietà edilizia” solo quattro articoli (869-872), e assai più dettagliatamente da un insieme di altre fonti, cui lo stesso codice espressamente rinvia. Accanto a leggi speciali dello Stato e delle Regioni (competenti, ex art. 117 Cost., sulla materia), importanza decisiva assumono i vari strumenti urbanistici adottati, oltre che dalle Regioni, dai singoli Comuni: il piano regolatore generale, attraverso il quale si individuano le zone destinate ai diversi tipi di edificazione (residenziale, industriale, relativa a pubblici servizi, ecc.), fissando il rapporto tra superficie e volume delle costruzioni realizzabili (indice di edificabilità), nonché i criteri tecnici ed estetici delle stesse; i piani regolatori particolareggiati, attuativi del primo; il regolamento edilizio comunale, subordinato ai precedenti; infine i c.d. piani di lottizzazione, convenzioni tra Comune e privati, per l’attuazione degli interventi edificatori e l’assunzione, da parte dei secondi, degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria (strade, parcheggi, fognature, rete idrica, illuminazione, ecc.).
A partire dalla l. 28 gennaio 1977, n. 10 l’esercizio della facoltà di edificare era stato subordinato al rilascio da parte del Comune di un provvedimento di concessione edilizia; la disciplina attuale è contenuta nel d.p.r. n. 380 del 2001 (T.U. dell’edilizia) e successive modificazioni, in forza del quale l’attività edilizia è subordinata al rilascio di un permesso di costruire, ottenibile a seguito di una verifica di conformità agli strumenti urbanistici del progetto costruttivo e del pagamento di un contributo di costruzione, relativo alle spese di urbanizzazione e ai costi di costruzione. La costruzione eretta in mancanza di concessione, in difformità da essa, o in violazione delle norme urbanistiche, oltre all’applicazione di sanzioni penali e am-
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Cap. 35. La proprietà
ministrative (sino alla rimessione in pristino, mediante demolizione) può condurre all’invalidità degli atti di trasferimento dell’immobile abusivo (l. 28 febbraio 1985, n. 47). Tra i limiti di natura pubblica incidenti sulla proprietà agraria, norme specifiche sono dettate dal codice in tema di minima unità colturale (846 ss.), di bonifica (857 ss.) e di vincoli idrogeologici (866 ss.).
5. I limiti nell’interesse privato. I limiti nell’interesse privato sono, di regola, imposti al proprietario a tutela della posizione di altri privati, proprietari di fondi vicini: da ciò la denominazione usuale, assegnata alla relativa disciplina, facente riferimento ai rapporti di vicinato. La vicinanza tra fondi opera come fonte di obblighi e limitazioni che si caratterizzano per la loro reciprocità (gravando ciascuno dei proprietari a vantaggio dell’altro), per la nascita automatica (sorgendo per la semplice coesistenza di due proprietà vicine) e per la gratuità (non essendo prevista alcuna forma di corrispettivo): caratteristiche, queste, che li distinguono, come vedremo, dalle figure (anch’esse attinenti ai rapporti tra fondi contigui) delle servitù legali. Alla materia dei rapporti di vicinato si riconducono, tradizionalmente, le norme in tema di immissioni, di distanze nelle costruzioni, di luci e vedute. Preliminarmente, va ricordato tuttavia un limite di carattere generale imposto all’esercizio del diritto di proprietà dall’art. 833, che vieta al titolare il compimento degli atti emulativi, «i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». La pienezza che caratterizza, come si è visto, il contenuto del diritto non può comunque consentire di abusarne: scopo della norma (che si applica a tutti i diritti reali di godimento) è appunto prevenirne un esercizio che, senza arrecare utilità alcuna al titolare, miri unicamente a danneggiare, recare molestia o creare pericolo ad altri (l’esempio classico è quello del proprietario che, nel rispetto delle distanze legali, eriga sul proprio fondo un muro al solo scopo di togliere aria e luce al vicino). C’è da dire, peraltro, che la regola viene interpretata dai giudici in modo strettamente letterale, così che la presenza di un vantaggio anche minimo derivante al proprietario, anche se si tratti di un vantaggio solo futuro, e persino quando sia di natura non economica, è ritenuta sufficiente ad escludere il carattere emulativo dell’atto compiuto.
§ 5. I limiti nell’interesse privato
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L’art. 844 definisce immissioni le propagazioni di fumo, calore, le esalazioni, gli scuotimenti, e simili, provenienti dal fondo del vicino, stabilendo che esse possono essere impedite solo quando superano il limite della normale tollerabilità. Si tratta di criterio di valutazione elastico (che dovrà conformarsi alle circostanze del caso concreto) e relativo (in quanto destinato ad evolversi nel tempo), che, pur dovendo aver riguardo a taluni elementi e valori segnalati dalla norma stessa, risulta in larga misura affidato alla discrezionalità del giudice. Nel determinarlo, questi dovrà tener conto della condizione dei luoghi, contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, e tener conto di un eventuale uso preesistente. Anche sul piano delle sanzioni, l’autorità giudiziaria ha un ampio potere di intervento, potendo ordinare la cessazione dell’attività che dà luogo alle immissioni intollerabili, disporre l’adozione di accorgimenti tecnici che le riconducano entro il limite consentito, ovvero imporre un indennizzo a fronte della prosecuzione delle immissioni. Quest’ultima soluzione, frequente in giurisprudenza di fronte ad immissioni connesse allo svolgimento di attività produttive, è stata oggetto di critiche, in quanto anziché operare il contemperamento tra esigenze della produzione e ragioni della proprietà (richiesto dal comma secondo della norma), finisce per imporre al proprietario, sia pur a fronte di un ristoro economico, le immissioni intollerabili, traducendosi in una sorta di servitù coattiva. Anche qui la normativa codicistica ha subito l’impatto della copiosa legislazione speciale, la cui entrata in vigore ha parzialmente ridefinito i termini del problema delle immissioni nocive, accentuandone i profili connessi alla tutela dell’ambiente contro l’inquinamento (dalla prima legge in materia di inquinamento atmosferico, la c.d. legge Merli, del 13 luglio 1966, n. 615, alla l. 8 agosto 1985, n. 431, sulla tutela delle zone di interesse ambientale, alla l. 26 ottobre 1995, n. 447, sull’inquinamento acustico, sino ai più recenti d.lgs. 4 agosto 1999, n. 372, sulla prevenzione dell’inquinamento e l. 22 febbraio 2001, n. 36, sui campi elettromagnetici). Ciò segna il passaggio da una forma di tutela incentrata sull’interesse del singolo, a una disciplina orientata alla protezione di valori sociali e collettivi: ma è interessante notare (come ha sottolineato la Cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 8300 del 1995) che il rispetto dei parametri fissati dalla legislazione anti-inquinamento di per sé non esclude il superamento del limite della normale tollerabilità, fissato dal codice.
Anche la disciplina dettata dal codice per le distanze tra le costruzioni viene in larga parte integrata da leggi speciali e soprattutto da regolamenti comunali: limite generale è quello fissato dall’art. 873, che impone una distanza minima di tre metri tra le costruzioni (fatta eccezione per il muro di
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Cap. 35. La proprietà
cinta) erette su fondi confinanti. Se il proprietario che costruisce per primo lo fa a distanza inferiore a quella legale, o addirittura spingendosi sino al confine, l’altro potrà a sua volta costruire in appoggio o in aderenza all’edificio preesistente, ottenendo nella prima ipotesi la comunione del muro, e pagando in ogni caso il valore del suolo altrui eventualmente occupato (artt. 874-877); in quest’ultimo caso, il primo proprietario potrà evitare l’occupazione del proprio terreno o arretrando la costruzione a distanza legale, o estendendola sino al confine. Le due specie di finestre che possono aprirsi verso il fondo di proprietà altrui sono: a) «luci, quando danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino» (art. 900) e in tal caso, pur dovendo presentare determinati requisiti strutturali (cfr. art. 901), non richiedono il rispetto di distanze, potendosi aprire nello stesso muro posto sul confine (previo consenso del vicino, se comproprietario del muro); b) «vedute o prospetti, quando permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente» (art. 900), dovendosi allora tenere a determinate distanze (un metro e mezzo per le vedute dirette, la metà per le oblique o laterali). Quando, a qualsiasi titolo (o in applicazione delle norme appena esaminate, o attraverso la costituzione di una apposita servitù), si sia acquistato il diritto di veduta sul fondo del vicino, le costruzioni su questo dovranno essere tenute alla distanza minima di tre metri. Norme particolari sono dettate (agli art. 909 ss.) per lo sfruttamento delle acque private (quelle pubbliche, abbiamo visto, sono beni demaniali, ex art. 822), sia sotterranee che superficiali. Quanto ai prodotti del sottosuolo, si deve distinguere il regime relativo alle miniere, che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato, e sulle quali un diritto di ricerca e sfruttamento può essere acquistato dal privato a mezzo di concessione (il cui rilascio è competenza delle Regioni), da quello delle cave e torbiere, che possono essere oggetto di proprietà privata, ma il cui sfruttamento resta comunque disciplinato rigorosamente dalla legislazione regionale.
6. La comunione e il condominio. Nonostante il carattere esclusivo che lo contraddistingue, il diritto di proprietà, come gli altri diritti reali, può spettare «in comune a più persone» (art. 1100): in questo caso, il diritto di ciascuno dei partecipanti alla comunione (che si dirà comproprietà, cousufrutto, coenfiteusi, ecc. a se-
§ 6. La comunione e il condominio
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conda del tipo di diritto spettante in comune) sarà idealmente rappresentato, in termini frazionari, da una quota indivisa (cioè non materialmente individuata e separata dal resto) dell’intero, e tale quota segnerà, da un lato, il limite dei poteri e delle facoltà spettanti al singolo contitolare, dall’altro, e per converso, il suo concorso agli oneri (art. 1101). Il concetto di quota si contrappone a quello di parte: la prima indica una misura astratta di partecipazione alla titolarità dell’intero bene, la seconda una porzione materiale e concretamente individuata del bene stesso. Di fronte ad un appezzamento di terreno dell’estensione di dieci ettari, un conto è che Tizio e Caio siano comproprietari dei dieci ettari per la quota di una metà ciascuno, altro conto è che ciascuno di essi sia proprietario esclusivo di una porzione di cinque ettari (parte) dello stesso: in termini figurati, potrebbe dirsi che, nel primo caso, sia Tizio che Caio sono proprietari dell’intero terreno, salvo precisare che la (com)proprietà di ciascuno di essi ha ad oggetto la “metà di ogni atomo” di tutti e dieci gli ettari; mentre nel secondo, la proprietà di ciascuno ha ad oggetto “ogni (intero) atomo” dei cinque ettari costituenti la propria porzione. Il passaggio dalla contitolarità pro quota del tutto, alla titolarità esclusiva della parte materiale avviene attraverso la divisione (cfr. infra in questo paragrafo, nonché 27.7, sulla disciplina della divisione ereditaria, che risulta applicabile, in quanto compatibile, ad ogni tipo di divisione).
Ciò si traduce, quanto alla facoltà di godimento, nella possibilità di ciascun compartecipe di servirsi della cosa comune, a patto di non alterarne la destinazione economica e di non impedirne un pari uso agli altri (art. 1102); quanto al potere di disposizione, esso spetterà a ciascun comproprietario limitatamente alla propria quota (che dunque potrà essere venduta, donata, ipotecata dal singolo) (art. 1103), mentre dovrà essere esercitato congiuntamente da tutti, se e in quanto il relativo atto abbia a oggetto il diritto sull’intero (richiedendo, pertanto, l’unanimità dei consensi dei compartecipi) (art. 11083). Considerandone la fonte, la comunione si dice volontaria, quando sorge dall’accordo dei partecipanti (che, ad es., acquistano congiuntamente un bene), legale o forzosa, quando trova titolo nella legge (tale è la comunione che può ottenersi sul muro costruito a confine), ovvero incidentale, allorché si instaura indipendentemente da una decisione dei partecipi (come tipicamente avviene, sul patrimonio relitto, a seguito dell’accettazione ereditaria di più chiamati). Caso a sé, date le regole peculiari che la governano, è costituito dalla comunione legale che si instaura, per effetto del matrimonio, e in mancanza di diverso accordo, come regime patrimoniale ordinario tra i coniugi (cfr. 21.3).
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Cap. 35. La proprietà
L’amministrazione della cosa comune è retta dal principio maggioritario, bastando la maggioranza semplice (calcolata in base al valore delle quote) per le decisioni ordinarie (art. 1105), richiedendosi il consenso dei due terzi per disporre innovazioni e compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (art. 1108). Sempre a maggioranza semplice, i partecipi possono predisporre un regolamento per l’amministrazione e l’uso della cosa comune, e nominare (uno di essi od un estraneo) amministratore, determinandone poteri e obblighi (art. 1106). La contitolarità indivisa può venir meno in qualunque momento, essendo previsto il diritto essenziale di ciascun partecipe (avente natura di diritto potestativo) di chiedere lo scioglimento della comunione (art. 1111): tale risultato si consegue attraverso la divisione, procedimento mediante il quale le quote frazionarie spettanti a ciascuno vengono trasformate in altrettante porzioni (materialmente individuate), ed assegnate in proprietà esclusiva ai singoli condividenti. La divisione può essere consensuale (o amichevole), quando si fonda sull’accordo tra tutti gli aventi diritto (traducendosi, allora, in un contratto), oppure giudiziale, quando viene promossa dal singolo condividente nei confronti di tutti gli altri partecipi, con domanda proposta al giudice, il quale ne dirigerà le operazioni (o delegherà a tal fine un notaio) (cfr. gli artt. 784 ss. c.p.c.). Fenomeno in parte diverso è il condominio negli edifici (regolato dal codice agli art. 1117 ss., novellati dalla l. 11 dicembre 2012, n. 220), che si ha quando, in un edificio, i singoli piani, o, come più spesso avviene, porzioni di piano (i singoli appartamenti, negozi, ecc.) siano di proprietà esclusiva di soggetti distinti: in tal caso, accanto a tutte queste proprietà individuali (ciascuna delle quali seguirà le regole ordinarie dettate in tema di proprietà), e di regola in proporzione ad esse, si instaura tra i soggetti una comproprietà avente a oggetto le parti comuni (il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri, il tetto, le scale, le aree destinate a parcheggio, gli impianti idrico, elettrico, di ascensore che servono all’uso comune, ecc.), disciplinata in parte dalle norme sulla comunione (art. 1139), in parte da regole sue proprie. Se non è diversamente stabilito dal titolo (ad es. dal contratto o dal testamento che ha dato vita al condominio), la quota di partecipazione alla comproprietà è proporzionale al valore dell’unità immobiliare che appartiene al singolo condomino rispetto al valore dell’intero edificio e viene solitamente espressa in millesimi (art. 68 disp. att.). Le disposizioni di cui agli art. 1117 ss. si applicano anche per la gestione delle parti comuni nel c.d.
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«supercondominio» (o «condominio orizzontale») che si verifica quando una pluralità di edifici o di condominii siano legati tra loro dall’esistenza di taluni beni, impianti o servizi comuni (ad es. il viale d’accesso, il servizio di portierato, il giardino, ecc.). Dato il suo carattere funzionale, la comproprietà forzosa sulle parti comuni è indivisibile, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l’uso della cosa a ciascun condomino e con il consenso di tutti i partecipanti (art. 1119); non consente la rinuncia alla quota da parte del singolo, allo scopo di sottrarsi alle spese, salva la possibilità di rinunciare all’utilizzo dell’impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini (art. 1118); né ammette la cessione della quota stessa (anche solo in godimento) se non trasferendo nel contempo anche la proprietà esclusiva (o il godimento) della propria porzione. Quanto ai diritti e obblighi, il singolo condomino può far uso delle parti comuni e anche apportare alle stesse modificazioni funzionali ad un miglior godimento della propria unità immobiliare, purché rispetti i limiti imposti dall’art. 1102¹ e non esegua attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d’uso delle parti comuni (art. 1117-quater). È fatto in ogni caso divieto di eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio (art. 1122¹). Ciascun condomino deve contribuire, in misura proporzionale alla propria quota, alle spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune (ad es. riscaldamento) e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza (art. 1123¹). Regole particolari valgono per la ripartizione delle spese relative alla manutenzione delle scale e degli ascensori (art. 1124), alla manutenzione e ricostruzione dei soffitti (art. 1125) e alle riparazioni o ricostruzioni dei lastrici solari (art. 1126). In caso di inadempimento dell’obbligo di contribuzione, l’amministratore, senza bisogno di autorizzazione dell’assemblea, può ottenere un decreto di ingiunzione immediatamente esecutivo contro il condomino inadempiente e, in caso di mora nel pagamento dei contributi che si sia protratta per un semestre, può sospenderlo dalla fruizione dei servizi comuni suscettibili di godimento separato (ad es. uso dell’ascensore); inoltre, dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio del condomino moroso, i creditori del condominio possono agire anche nei confronti degli altri partecipanti alla comunione, benché in regola con i pagamenti, che rispondono così in via solidale.
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Cap. 35. La proprietà
La disciplina più dettagliata si riscontra in tema di amministrazione: profilo tanto rilevante, da giustificare l’idea (di matrice giurisprudenziale) del condominio come ente di gestione (anche se ciò non può intendersi come riconoscimento di alcuna soggettività autonoma). Si spiega così la maggior complessità organizzativa, che prevede: la presenza di una assemblea dei condomini, retta dal principio maggioritario (artt. 1135-1137); la nomina (obbligatoria, se i condomini siano più di otto) di un amministratore, che dura in carica un anno, dotato di poteri di rappresentanza, anche in giudizio, dei partecipanti (art. 1129 ss.); la predisposizione (anch’essa obbligatoria, se i condomini siano più di dieci) di un regolamento di condominio, che contenga le norme sull’uso della cosa comune, sulla ripartizione delle spese secondo diritti e obblighi individuali e sull’amministrazione (art. 1138). In particolare, il regolamento non può intaccare i diritti individuali dei condomini, quali risultano dagli atti di acquisto, né può menomare i loro diritti considerati indisponibili (ad es. quello di tenere animali domestici in casa), né può derogare alle disposizioni sull’organizzazione e il funzionamento del condominio. Per le decisioni dell’assemblea sono previsti quorum (costitutivi e deliberativi) diversi, a seconda abbiano a oggetto atti di ordinaria, ovvero di straordinaria amministrazione, oppure innovazioni (art. 1136); le deliberazioni assembleari regolarmente adottate (salvo, in caso contrario, il potere di ciascun condomino assente o dissenziente di impugnarle, ex art. 1137) vincolano tutti i condomini. La riforma del 2012, che ha inciso in modo profondo sulla materia condominiale, oltre ad aver regolato per la prima volta l’installazione di impianti non centralizzati di ricezione radiotelevisiva e di produzione di energia da fonti rinnovabili (art. 1122-bis), ha anche ampliato notevolmente gli obblighi gravanti sull’amministratore che ora deve: eseguire le deliberazioni dell’assemblea e convocarla annualmente per l’approvazione del rendiconto condominiale; curare l’osservanza del regolamento di condominio; disciplinare l’uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a ciascuno dei condomini; riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni; compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni; eseguire gli adempimenti fiscali; curare la tenuta del registro di anagrafe condominiale contenente le generalità dei condomini; curare la tenuta del registro dei verbali delle assemblee, del registro di nomina e revoca dell’amministratore e del registro di contabilità; redigere il rendiconto condominiale annuale della gestione e convocare l’assemblea per la relativa approvazione (art. 1130).
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Con il termine multiproprietà la prassi ha da tempo individuato una forma atipica di godimento turnario di beni immobili (per lo più ubicati in località turistiche), consistente nella possibilità di utilizzare il bene in via esclusiva, ma limitatamente a un certo periodo di tempo (usualmente quantificato in settimane) predeterminato per ogni anno. Anche a concepire il fenomeno come una variante di comproprietà, resterebbero i problemi posti dalla limitazione temporale del godimento (che non può considerarsi equivalente ad un uso comune) e dalla impossibilità di una divisione del bene oggetto di multiproprietà. Sulla materia, o meglio sui contratti di acquisto del diritto al godimento turnario, è intervenuto il d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427, che per tutelare l’acquirente-consumatore, oltre ad imporre al venditore una serie di obblighi informativi, gli consente di utilizzare il termine “multiproprietà”, sia nel contratto che nella pubblicità commerciale, «soltanto quando il diritto oggetto del contratto è un diritto reale» (art. 4): non, dunque, se il diritto trasferito sia da intendersi come diritto personale di godimento. L’originaria normativa è stata poi trasfusa, con lievi modifiche, nel codice del consumo e ha trovato nuova regolamentazione con il d.lgs. 23 maggio 2011 n. 79 che, dando attuazione alla Direttiva CE n. 122/2008, ha definito il contratto di multiproprietà come un accordo di durata superiore ad un anno tramite il quale un consumatore acquisisce a titolo oneroso il diritto di godimento per il pernottamento su uno o più alloggi per più di un periodo di occupazione (art. 69). Le nuove norme disciplinano dunque i contratti con cui si acquistano multiproprietà a prescindere dalla natura reale od obbligatoria del diritto acquistato e prevedono stringenti obblighi informativi nella fase precontrattuale; attribuiscono al consumatore un diritto di recesso entro quattordici giorni dalla stipula del contratto preliminare o definitivo; vietano in questo periodo il versamento in denaro di acconti, la prestazione di garanzie, il riconoscimento di debito o comunque l’imposizione di qualsiasi onere a carico del consumatore; impongono la forma scritta al negozio. Accanto al contratto di multiproprietà, sono stati poi definiti e regolati tre nuovi contratti ad esso funzionali (contratto di rivendita, di scambio e relativo a un prodotto per le vacanze di lungo termine).
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Cap. 36. Il possesso
CAPITOLO 36
IL POSSESSO
SOMMARIO: 1. La nozione di possesso: l’elemento oggettivo. – 2. Segue: l’elemento soggettivo. – 3. L’acquisto del possesso. – 4. Requisiti e vicende della situazione possessoria. – 5. Gli effetti del possesso: a) nella restituzione del bene; b) la regola “possesso vale titolo”; c) l’usucapione. – 6. La tutela del possesso.
1. La nozione di possesso: l’elemento oggettivo. L’art. 1140 definisce il possesso come il potere di fatto, che un soggetto ha su di una cosa, e che si estrinseca mediante un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di un altro diritto reale. In prima approssimazione, potremo dire che esso consiste nella disponibilità materiale di un bene, da parte del soggetto, il quale ne fa uso, ne trae i frutti, costituisce su di esso diritti in favore di terzi: in una parola, si comporta, rispetto al bene, in modo corrispondente all’esercizio della proprietà. Tale comportamento è sufficiente di per sé (salvo il limite di cui diremo nel paragrafo successivo) a riconoscere al soggetto la qualifica di possessore, indipendentemente dalla circostanza che egli possa o meno vantare, sul bene stesso, un diritto. Si pensi, ad esempio, al proprietario di un terreno agricolo, il quale, constatato che il fondo confinante con il proprio è da tempo abbandonato, inizi a coltivarlo, ne tragga i raccolti, provveda a recintarlo, ne conceda in affitto una porzione ad un terzo, riscuotendone i canoni, e via dicendo: di fronte a un’attività che, oggettivamente, corrisponde all’esercizio del diritto di proprietà sul fondo, si dirà che il soggetto possiede il bene, anche se (nell’esempio concreto) non ne ha la proprietà.
Come si vede, la nozione oggettiva di possesso si riferisce, in primo luogo, alla situazione di fatto. L’affermazione, tuttavia, va precisata. È ben possibile, infatti (ed anzi, costituisce la regola), che il comportamento appena descritto sia tenuto proprio da chi può vantare il diritto di proprietà
§ 2. Segue: l’elemento soggettivo
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sul bene (riunendosi, in tal caso, in capo ad uno stesso soggetto, sia il possesso che la proprietà del bene stesso); ma per riconoscere l’esistenza di un possesso giuridicamente rilevante, è sufficiente l’esercizio in concreto delle facoltà e dei poteri che costituiscono il contenuto tipico della proprietà (o di un altro diritto reale), senza che sia necessaria anche la titolarità del diritto. Pertanto, poiché la legge riconosce tutela al possesso in sé (cfr. 36.6), e vi ricollega tutta una serie di effetti (cfr. 36.5), esso (pur non potendosi assimilare a un diritto) può definirsi come situazione di fatto giuridicamente rilevante. Se è vero che il possesso non è, in sé, un diritto, è vero anche che chi ha sul bene un diritto reale (di proprietà, usufrutto, superficie, servitù, ecc.) ha diritto di conseguirne anche il corrispondente possesso (c.d. ius possidendi): così, ad es., chi ha acquistato, attraverso un contratto di compravendita, la proprietà di un determinato bene, può pretenderne la consegna, ossia il trasferimento del possesso. Il possesso esercitato dal titolare del diritto si dirà possesso legittimo; quando invece il possessore non è anche titolare del diritto corrispondente, il suo possesso sarà illegittimo (o sine titulo): ma si vedrà che, anche quando manchi un titolo legittimo, la legge assicura al possesso una protezione che in certi casi, in via transitoria, prevale persino su quella accordata al diritto del proprietario (cfr. 36.6). È interessante notare che la dottrina, muovendo dalla considerazione dell’elemento oggettivo che caratterizza il possesso, tende ad escludere che i beni immateriali siano suscettibili di una vera e propria situazione possessoria. Per quanto concerne le universalità di diritto (cfr. 34.7), mentre si ammette il possesso dell’azienda, si esclude che ne sia suscettibile l’eredità in quanto tale (pur potendosi possedere i singoli beni ereditari che la compongono).
2. Segue: l’elemento soggettivo. All’elemento oggettivo, rappresentato dal potere di fatto sul bene (del quale s’è appena parlato), la legge richiede si accompagni altresì un atteggiamento soggettivo (tradizionalmente denominato animus possidendi), consistente nell’intenzione di tenere la cosa come proprietario, o come titolare di altro diritto reale. Secondo la teoria tradizionale, la presenza o meno di tale animus varrebbe a distinguere il possesso dalla detenzione, situazione in cui all’esercizio in concreto di un potere sul bene non si accompagna l’intenzione di tenere la cosa come proprietari. In tali casi, la mancanza di animus possidendi
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Cap. 36. Il possesso
potrebbe rilevarsi dal riconoscimento, da parte del soggetto che ha la disponibilità materiale del bene, di un preminente diritto (e possesso) altrui sullo stesso: il conduttore abita e usa l’appartamento locato, ma ne paga mensilmente il canone al proprietario; l’impresario, incaricato di ristrutturare l’immobile, lo occupa al solo fine di eseguire i lavori affidatigli dal committente; il lavoratore dipendente usa utensili e macchinari di proprietà del datore di lavoro, ma entro il tempo e al solo scopo di svolgere le proprie mansioni. In tutte queste ipotesi, il soggetto che ha la disponibilità di fatto della cosa non assume la qualifica di possessore, ma quella di semplice detentore del bene; ed il possessore legittimo (negli esempi appena proposti, rispettivamente, il locatore, il proprietario committente, il datore di lavoro) esercita il proprio possesso in via mediata, per mezzo dell’attività del detentore (art. 11402). Realisticamente, per distinguere le due figure (e determinare così i diversi effetti che la legge riconnette all’una o all’altra), più che alle (insondabili) intenzioni del soggetto, si dovrà guardare al titolo su cui si fonda la disponibilità materiale del bene: detentore sarà, allora, chi deriva i propri poteri, ad esempio, da un contratto (nei casi proposti, rispettivamente, di locazione, di appalto, di lavoro), contratto che ne rende legittimo l’esercizio in base ad un rapporto con il titolare del diritto; possessore, viceversa, sarà chi esercita il potere di fatto con modalità tali da escludere oggettivamente il riconoscimento di diritti altrui. Nell’ambito della detenzione, si distinguono i casi in cui il soggetto detiene la cosa non nell’interesse esclusivo del possessore, ma anche per un interesse proprio (detenzione qualificata), come avviene per il conduttore dell’immobile locato, dalle ipotesi di detenzione nell’esclusivo interesse del possessore (detenzione non qualificata), in forza di un rapporto di semplice ospitalità o servizio: la distinzione, come si vedrà, rileva in ordine alla possibilità di esperire le azioni possessorie (cfr. infra, il n. 6). Di fronte all’esercizio del potere di fatto sulla cosa, la legge presume che esso integri un possesso, e sarà onere di chi sostiene il contrario provare che colui che esercita il potere ha cominciato a farlo come semplice detenzione (art. 11411): più precisamente, il potere di fatto dovrà comunque essere provato da chi si pretende possessore, mentre il controinteressato avrà l’onere di dimostrare la mancanza dell’animus corrispondente, ovvero, come si diceva, l’esistenza di un titolo che qualifichi il rapporto col bene come detenzione. Quando il potere di fatto sia iniziato come detenzione, un mutamento della detenzione in possesso richiede che intervenga un corrispondente mu-
§ 3. L’acquisto del possesso
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tamento nel titolo: o per causa proveniente da un terzo (il locatore trasferisce la proprietà del bene al conduttore, il quale, di conseguenza, da detentore si trasforma in possessore), o in seguito ad opposizione da parte del detentore (il conduttore rifiuta di restituire l’immobile alla scadenza del contratto, manifestando così l’intento di tenerlo come proprio, per l’avvenire). Si parla, in tali casi, di interversione del possesso. Il termine, in realtà, può essere inteso in due sensi: nel significato appena visto, di mutamento della detenzione in possesso (di cui si occupa l’art. 11412), può parlarsi di interversione in senso ampio; ad essa si contrappone l’interversione in senso stretto, prevista dall’art. 1164, che si ha quando da un possesso (potere di fatto) corrispondente all’esercizio di un diritto reale limitato, si passa ad un possesso corrispondente all’esercizio della proprietà (di tale vicenda parleremo nel n. 4, sotto la lettera b.1).
3. L’acquisto del possesso. L’acquisto del possesso si realizza dal momento in cui si riuniscono, in capo al medesimo soggetto, i due elementi costitutivi della situazione possessoria: il potere di fatto sulla cosa (corpus), accompagnato dall’intento di tenere la cosa come proprietario, o titolare di un diritto reale minore (animus). Per quanto riguarda il comportamento oggettivo, non sono sufficienti a fondare l’acquisto del possesso quegli atti che, pur se corrispondenti all’esercizio della proprietà (o del diritto reale minore), vengono compiuti dal soggetto per semplice tolleranza dell’avente diritto (art. 1144). La tolleranza consiste in un atteggiamento del possessore legittimo che, con l’intento di fare una semplice concessione, non si oppone al potere di fatto che l’altro soggetto eserciti sul bene: ciò impedisce che tale potere integri un vero e proprio possesso, a meno che non si realizzi (ad opera di quest’ultimo soggetto) una interversione. La giurisprudenza richiede che, della tolleranza del legittimo possessore, sia consapevole colui che esercita il potere sulla cosa. L’acquisto del possesso può avvenire a titolo originario, o a titolo derivativo. È a titolo originario, quando il possesso non viene trasmesso dal vecchio al nuovo possessore, consistendo piuttosto nell’apprensione fisica della cosa, realizzata con modalità che rendano palese l’animus corrispondente (si ricordi l’esempio del soggetto, che inizia a coltivare il fondo abbandonato, confinante con il proprio). L’acquisto del possesso è invece derivativo,
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Cap. 36. Il possesso
quando presuppone la trasmissione del possesso dal precedente al nuovo possessore, e dunque la consegna della cosa (come accade, di regola, per l’acquirente nella compravendita). La consegna, a sua volta, può assumere modalità differenti, distinguendosi in proposito una consegna effettiva, una simbolica ed una consensuale. La consegna è effettiva, quando implica la materiale sostituzione del nuovo possessore al precedente nella relazione fisica con la cosa: salvo verificare che alla disponibilità materiale si accompagni, in colui che riceve la cosa, l’animus possidendi (ben potendo la consegna essere diretta ad attribuire all’accipiens la mera detenzione). È simbolica, la consegna realizzata in forma ideale, attraverso la consegna delle chiavi di un bene immobile o di un autoveicolo, o dei documenti relativi al bene (come previsto, ad es., dall’art. 27861 in tema di costituzione del diritto di pegno). La consegna si dice consensuale, quando il possesso viene acquistato (da un soggetto, che precedentemente non lo aveva) per effetto di un accordo, e senza mutare la relazione fisica con il bene. Ciò avviene in due casi, opposti e speculari: quando si qualifica come possesso la preesistente situazione di detenzione di cui il soggetto godeva (è la c.d. traditio brevi manu, che si ha quando al conduttore, o al depositario, venga trasferita la proprietà della cosa locata o depositata); e quando, viceversa, si qualifica come detenzione il preesistente possesso, che passa ad altri (si parla in tal caso di costituto possessorio, come quando il venditore conserva la detenzione del bene venduto, ad es., in forza di un contestuale contratto di locazione concluso con l’acquirente, il quale diventerà, a sua volta, possessore mediato).
4. Requisiti e vicende della situazione possessoria. a) A seconda degli specifici requisiti che la situazione possessoria presenta, possono distinguersi veri e propri tipi di possesso, a ciascuno dei quali si riconnettono effetti giuridici differenziati. I principali tra questi caratteri del possesso sono, da un lato, la buona fede (soggettiva) del possessore, dall’altro, i requisiti che qualificano il possesso come idoneo a realizzare l’usucapione. a.1) Possesso di buona fede – È quello di chi inizia a possedere ignorando di ledere l’altrui diritto, purché l’ignoranza non dipenda da colpa
§ 4. Requisiti e vicende della situazione possessoria
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grave (art. 1147); possessore di mala fede è, viceversa, colui che, nel momento dell’acquisto del possesso, è consapevole di ledere il diritto altrui. La buona fede cui fa riferimento la norma è da intendersi, ovviamente, in senso soggettivo (per la distinzione dalla b.f. in senso oggettivo, cfr. 29.9), e consiste nell’ignoranza del possessore di ledere un diritto altrui sul bene. Essa è esclusa se tale ignoranza derivi da colpa grave, quando cioè il soggetto avrebbe potuto, impiegando una diligenza minima, accertare il carattere lesivo del possesso, e non l’ha fatto: nel solito esempio del soggetto che si impossessa del terreno incolto, costituisce colpa grave, a detta della giurisprudenza, non averne accertato, mediante una visura immobiliare (cfr. 39.1, in fine) la situazione relativa alla proprietà del bene. Quanto al momento del tempo, nel quale la buona fede deve sussistere, la norma fa riferimento al tempo in cui il possesso viene acquistato (l’eventuale malafede sopravvenuta non rileva).
Al possesso di buona fede (la quale è in ogni caso presunta dalla legge) si connettono, come vedremo meglio in seguito, varie conseguenze: il possessore di buona fede fa suoi i frutti della cosa (quelli naturali separati e quelli civili maturati), sino al momento in cui l’avente diritto proponga domanda giudiziale di restituzione del bene (cfr. 36.5.a); la buona fede, unitamente ad altri requisiti, consente poi l’applicazione della regola “possesso vale titolo” nell’acquisto dei beni mobili (cfr. 36.5.b), ed abbrevia il tempo necessario all’usucapione (cfr. 36.5.c). a.2) Possesso ad usucapionem – Per condurre all’acquisto del diritto per usucapione, il possesso deve essere pacifico, pubblico, continuo e non interrotto. Di questi quattro requisiti, i primi due si riferiscono all’acquisto del possesso: sarà, pertanto, pacifico il possesso acquistato in modo non violento (cioè senza che vi sia stata una manifestazione di volontà contraria da parte dell’avente diritto); si dirà invece pubblico, il possesso acquistato in modo non clandestino (il che non significa all’insaputa del possessore legittimo, quanto piuttosto con modalità tali che non rendano impossibile a quest’ultimo averne conoscenza). Gli altri due requisiti si riferiscono piuttosto all’esercizio del possesso: si dirà continuo, il possesso che non sia mai stato dismesso dal possessore (il quale ha esercitato cioè, in modo permanente nel tempo, il potere di fatto sulla cosa); potrà infine considerarsi non interrotto il possesso che non sia venuto meno a seguito di comportamenti di terzi, che in via di fatto abbiano privato il possessore del godimento per oltre un anno (interruzione c.d.
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Cap. 36. Il possesso
naturale), o in via di diritto abbiano fatto valere le proprie ragioni sul bene, proponendo domanda giudiziale. Agli stessi requisiti la legge subordina l’esperibilità dell’azione di manutenzione (cfr. 36.6). b) Tra le vicende, alle quali la situazione possessoria può andare incontro, accanto alle due ipotesi di mutamento rispetto alla detenzione, già ricordate in chiusura del paragrafo precedente (traditio brevi manu e costituto possessorio), la legge disciplina: la figura della interversione del possesso e due forme di congiunzione tra possessi successivi (la successione nel possesso e l’accessione del possesso). b.1) Per comprendere l’istituto della interversione (art. 1164), si deve ricordare come, già in sede di definizione del possesso, il codice distingua tra il potere di fatto “corrispondente all’esercizio della proprietà” e un possesso corrispondente all’esercizio “di altro diritto reale” (art. 1140). Accanto al possesso corrispondente a un diritto di proprietà (il quale si avrà nel caso in cui il possessore eserciti le facoltà e i poteri che rappresentano il contenuto tipico della proprietà stessa), vi può dunque essere un possesso corrispondente a un diverso diritto reale: ciò si verifica quando il comportamento del possessore corrisponda al più ristretto contenuto di facoltà e poteri tipico dell’uno o dell’altro diritto reale su cosa altrui. L’esempio classico è quello del soggetto che attraversa abitualmente, pur senza averne il diritto, il fondo del vicino (che non abbia manifestato in proposito tolleranza), esercitando così, in via di fatto, una servitù di passaggio su di esso (possesso a titolo di servitù). Per interversione (in senso stretto) si intende il passaggio da un possesso corrispondente a un diritto reale limitato, a quello (più ampio) corrispondente alla proprietà: ciò può avvenire solo se il titolo del possesso venga mutato per causa proveniente da un terzo, o in forza di opposizione fatta dal possessore nei confronti del proprietario (cioè per lo stesso genere di cause idonee a trasformare la detenzione in possesso, e viceversa: interversione in senso ampio, sulla quale cfr. 36.2, in fine). L’effetto più rilevante connesso all’interversione si avrà in ordine all’acquisto del diritto per usucapione (36.5, lettera c): dato che l’usucapione conduce ad acquistare quel diritto, al cui contenuto corrisponde il possesso esercitato in concreto, colui che ha iniziato a possedere (ad es.) a titolo di servitù non potrà usucapire la proprietà, se non a seguito (e a decorrere dal momento) di una interversione dell’originario possesso.
§ 5. Gli effetti del possesso
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Nell’esempio (appena proposto) del soggetto che esercita di fatto la servitù di passaggio sul fondo del vicino (limitandosi ad attraversarlo), l’usucapione della proprietà sarà possibile solo se quello stesso soggetto modifichi il contenuto del proprio possesso, trasformandolo da possesso a titolo di servitù, in possesso a titolo di proprietà (ad es., provvedendo a recintare il fondo del vicino su cui anteriormente passava, o iniziando a coltivarlo).
b.2) La legge disciplina la sorte del possesso, nei casi in cui un soggetto subentri (sia per atto tra vivi, che per causa di morte) nella titolarità del diritto sul bene, distinguendo a seconda che tale successione avvenga a titolo universale, ovvero a particolare. La prima ipotesi è quella della eredità (successione mortis causa a titolo universale), in cui il possesso continua automaticamente nell’erede con effetto dall’apertura della successione (successione nel possesso) (art. 11461). La seconda ipotesi è quella di successione nel diritto a titolo particolare, che può avvenire sia tra vivi (come accade per il compratore, il donatario, ecc.), sia a causa di morte (tale è l’acquisto del legatario): in tali casi, il successore a titolo particolare ha la facoltà di unire al proprio il possesso del precedente titolare “per goderne gli effetti” (accessione del possesso) (art. 11462). Si noti: successione ed accessione sono due forme di congiunzione del possesso, che però hanno come presupposto il trasferimento (non del possesso, ma) del diritto sul bene: ciò spiega perché il possesso continui nell’erede (cioè in chi, accettando ha acquistato i diritti del de cuius), anche se l’erede stesso non abbia il possesso materiale dei beni ereditari. La circostanza che la successione nel possesso operi a partire dall’apertura della successione si spiega, poi, con la retroattività dell’accettazione, in forza della quale l’acquisto dell’eredità si considera avvenuto al momento dell’apertura stessa.
La congiunzione tra i possessi dei successivi titolari del diritto sul bene può rivelarsi utile a diversi fini, primo fra tutti il raggiungimento del termine prescritto per l’usucapione (cfr. il paragrafo successivo, sub lettera c).
5. Gli effetti del possesso: a) nella restituzione del bene; b) la regola “possesso vale titolo”; c) l’usucapione. Tra gli effetti che la legge ricollega alla situazione possessoria, vanno qui ricordati: a) i diritti e gli obblighi del possessore nella restituzione della cosa; b) la regola “possesso vale titolo”; c) l’acquisto del diritto per usucapione.
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Cap. 36. Il possesso
Nell’analizzare sinteticamente tali effetti, va sottolineato che taluni di essi [ad esempio quelli sub a) e l’usucapione, almeno limitatamente a quella ordinaria] si ricollegano al possesso in sé, sia pur qualificato da particolari requisiti, mentre in altri casi l’effetto previsto dalla legge discende da una fattispecie più ampia che comprende, accanto al possesso, altri elementi (così è per la regola “possesso vale titolo”, e per le ipotesi di usucapione abbreviata). a) In tutti i casi di possesso sine titulo, al momento della restituzione del bene all’avente diritto (di regola il proprietario, o anche un altro possessore legittimo, come ad es. l’usufruttuario), si pone il problema di quali siano i diritti e gli obblighi del possessore tenuto alla restituzione. Si è visto che la legge attribuisce rilievo alla circostanza che questi possieda ignorando di ledere il diritto altrui (possesso di buona fede): in tal caso, oltre a far propri i frutti percepiti anteriormente alla domanda di restituzione, il possessore di buona fede avrà diritto sia al rimborso delle spese fatte per le riparazioni del bene (art. 1150), sia ad una indennità per i miglioramenti ad essa arrecati, potendo a tal fine esercitare un diritto di ritenzione sulla cosa da restituire, sino a che non gli venga corrisposto quanto dovutogli (art. 1152). La legge non specifica gli obblighi di restituzione gravanti sul possessore di mala fede (al quale va equiparato, ex art. 11472, il possessore la cui ignoranza, circa il diritto altrui, dipenda da colpa grave): l’opinione prevalente è nel senso che egli debba restituire all’avente diritto tutti i frutti, non solo quelli effettivamente percepiti, ma anche quelli percipiendi (i quali, cioè, avrebbe potuto trarre dal bene, usando l’ordinaria diligenza). b) L’art. 1153 stabilisce che colui, al quale sia venduta una cosa mobile da chi non ne è proprietario (e dunque risulta privo della legittimazione a disporre), può ugualmente acquistare la proprietà del bene (si parla, in tal caso, di acquisto a non domino), purché ne riceva il possesso in buona fede e sussista un titolo astrattamente idoneo al trasferimento del diritto. La regola (tradizionalmente designata con la formula “possesso vale titolo”) rappresenta una deviazione logica dal principio del nemo plus iuris, che dovrebbe governare ogni ipotesi di acquisto a titolo derivativo: in base ad esso, poiché il venditore non è legittimato a trasferire il diritto, il compratore non dovrebbe acquistare la proprietà del bene. Tuttavia, la norma trova giustificazione nelle esigenze di sicurezza e rapidità della circolazione
§ 5. Gli effetti del possesso
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dei beni mobili (non si applica né ai mobili registrati, né alle universalità di mobili, ex art. 1156). La norma ricollega l’acquisto del diritto alla contemporanea ricorrenza di tre elementi: – un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, cioè un atto (che sarà, di regola, un contratto) il quale, se si eccettua il difetto di legittimazione dell’alienante, risulta immune da altri vizi (di sostanza o di forma) che ne impedirebbero l’efficacia: in altri termini, un atto con caratteristiche tali che, se fosse compiuto dal proprietario, trasferirebbe il diritto (ad es., non sarebbe neppure astrattamente idonea, una donazione effettuata attraverso una scrittura privata, e quindi radicalmente nulla, che non produrrebbe mai l’effetto traslativo, neppure se compiuta dal proprietario); – l’acquisto del possesso, da parte dell’acquirente, mediante la consegna del bene; – la buona fede dell’acquirente stesso, al quale devono essere ignoti, nel momento della consegna, tanto il difetto di legittimazione dell’alienante, quanto l’eventuale provenienza illegittima (ad es., furto) della cosa. In presenza di tali requisiti, l’acquisto della proprietà si produce immediatamente, non per effetto del titolo (il quale, essendo solo astrattamente idoneo, a causa del difetto di legittimazione dell’alienante, non ha in sé la forza di trasferire il diritto), ma in forza di legge: lo si considera, infatti, come acquisto a titolo originario. Vengono meno, di conseguenza, tutti i diritti spettanti a terzi sul bene, che non risultino dal titolo, e rispetto ai quali l’acquirente sia in buona fede (art. 11532). Si noti che l’acquisto del possesso in buona fede viene assunto dalla legge, in materia di circolazione di beni mobili, come criterio per risolvere i conflitti tra più aventi causa da un medesimo dante causa: quando quest’ultimo abbia alienato il bene, con successivi atti, a più persone, prevale infatti, tra queste, quella che ne abbia ricevuto il possesso in buona fede, anche se il suo titolo risulta posteriore per data (art. 1155).
c) Il possesso acquistato pacificamente e pubblicamente, ed esercitato in modo continuo e ininterrotto (cfr. 36.4, sub lettera a.2) può condurre, con il decorso dei termini previsti dalla legge (art. 1158 ss.), all’acquisto per usucapione del diritto corrispondente (che può essere la proprietà o altro diritto reale di godimento, a seconda del diverso contenuto di poteri e facoltà esercitati in concreto dal possessore: cfr. il paragrafo precedente, sub lettera b.1). Si distinguono: una usucapione ordinaria, che si fonda unicamente sul
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Cap. 36. Il possesso
possesso (dotato dei quattro requisiti necessari) e sul decorso del tempo; una usucapione abbreviata, che discende da una fattispecie complessa, al cui perfezionarsi concorrono di volta in volta, variamente combinati tra loro, ulteriori elementi, quali la buona fede nel possesso, un titolo astrattamente idoneo al trasferimento, e la trascrizione. Usucapione ordinaria – Essa si compie (anche se il possesso sia di mala fede) nel termine di vent’anni per i beni immobili (art. 1158), le universalità di mobili (art. 11601) e i mobili non registrati (art. 11612); in dieci anni per i beni mobili registrati (art. 11622). Usucapione abbreviata – Il termine ordinario si riduce da venti a dieci anni se concorrono: per gli immobili, la buona fede, un titolo astrattamente idoneo e la trascrizione (art. 1159); per le universalità di mobili, la buona fede e il titolo (art. 11602); per i mobili non registrati, la sola buona fede (art. 11611: infatti, se vi fosse anche il titolo idoneo, si avrebbe acquisto immediato del diritto, secondo la regola appena vista dell’art. 1153). Si riduce, invece, da dieci a tre anni il termine per usucapire i beni mobili registrati, in presenza di buona fede, titolo idoneo e trascrizione (art. 11621). In tutti i casi in cui è richiesta la trascrizione, il termine richiesto per usucapire decorrerà dal momento in cui essa è stata effettuata. Nel computo del termine necessario per l’usucapione, rivelano la loro utilità le due forme di congiunzione tra i possessi dei successivi titolari del diritto sul bene, di cui s’è parlato in chiusura del paragrafo precedente: tanto l’erede (grazie alla successione nel possesso), quanto l’acquirente a titolo particolare, come il compratore o il legatario (grazie alla accessione del possesso) potranno unire al proprio possesso quello del loro dante causa (il de cuius, per l’erede e per il legatario, il venditore per il compratore) sommando così i successivi periodi di possesso sino a raggiungere il termine prescritto.
L’usucapione si considera un modo d’acquisto della proprietà a titolo originario, che si realizza ipso iure, in forza della legge, non appena si completi (con il decorso del termine richiesto) la fattispecie prevista: perfezionatasi tale fattispecie, il soggetto che abbia usucapito potrà richiedere al giudice una sentenza che accerti l’intervenuto acquisto, e tale sentenza (nel caso di usucapione avente ad oggetto diritti reali immobiliari) potrà essere trascritta. C’è da dire, tuttavia, che l’opponibilità ai terzi dell’intervenuta usucapione non dipende dalla trascrizione di tali sentenze di accertamento:
§ 6. La tutela del possesso
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poiché, infatti, esse hanno solo efficacia dichiarativa di un acquisto già avvenuto, la loro trascrizione (prevista dagli artt. 2651 e 2689) ha efficacia di mera pubblicità notizia (cfr. 39.1). Così che, nel conflitto tra un acquirente a titolo derivativo che abbia trascritto (ad es., un contratto di compravendita), e l’acquirente per usucapione che non abbia trascritto, prevale quest’ultimo. L’acquisto per usucapione conduce, di riflesso, all’estinzione del diritto di proprietà spettante sul bene al precedente titolare (e infatti, l’usucapione integra un modo d’acquisto della proprietà a titolo originario). Ciò non contraddice, tuttavia, l’imprescrittibilità tipica del diritto di proprietà: ai fini dell’usucapione, infatti, rileva non tanto l’inerzia del vecchio proprietario, quanto il possesso (accompagnato dai necessari requisiti) di colui che usucapisce. Si applicano, peraltro, all’usucapione le stesse cause di sospensione e di interruzione già illustrate in tema di prescrizione; ed anche la disciplina dell’usucapione, analogamente a quella della prescrizione (art. 2936), si considera inderogabile convenzionalmente.
6. La tutela del possesso. Si è detto che la legge non solo attribuisce al possesso rilevanza giuridica (ricollegandovi tutta la serie di effetti sin qui illustrata), ma predispone strumenti di tutela della situazione possessoria, in sé considerata: il possessore, in altri termini, può difendere il proprio possesso, anche se a questo non corrisponda un diritto sul bene (cioè anche se sia un possesso sine titulo), e persino nei confronti del titolare legittimo del diritto sul bene (che avrebbe quindi anche il diritto a conseguirne il possesso), che tenti di privarlo del possesso o di molestarne l’esercizio. Ci si può chiedere quale sia il fondamento di tale tutela, che giunge ad imporsi anche nei confronti di un proprietario che, ad es., tenti di recuperare da sé il possesso del bene di sua proprietà dalle mani di un possessore illegittimo o abusivo (ivi compreso il ladro). Delle molte giustificazioni proposte, la più convincente fa leva sull’esigenza di evitare che i privati procedano a forme di autotutela, che potrebbero compromettere la pace sociale (restano salvi i casi eccezionali, in cui una reazione immediata si può giustificare, ex art. 2044, a titolo di legittima difesa: come quando chi ha subito uno scippo, rincorre subito il ladro e gli strappa di mano la refurtiva, anche con una certa violenza).
I mezzi di difesa del possesso sono rappresentati da due azioni (dette appunto azioni possessorie), ciascuna delle quali può esperirsi in una situazio-
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Cap. 36. Il possesso
ne, e con una finalità distinta: per recuperare il possesso del bene, di cui il possessore sia stato privato in modo violento o clandestino (azione di reintegrazione), ovvero per respingere gli atti che vengano a turbare l’esercizio del possesso medesimo (azione di manutenzione). Si tratta di una tutela d’urgenza, e di carattere provvisorio, la quale dovrebbe consentire il rapido ripristino della situazione possessoria violata, indipendentemente dall’accertamento del diritto: per questa ragione, stabilisce il codice di procedura civile, al possessore che agisce in reintegrazione o manutenzione, non potranno opporsi eccezioni e difese fondate sul diritto di proprietà sul bene (non si potrà, cioè, dimostrare di essere proprietari, per giustificare lo spoglio o la turbativa arrecata al possessore). Le ragioni fondate sul diritto di proprietà dovranno semmai farsi valere, una volta che si sia esaurita la fase possessoria, in un apposito e successivo giudizio (detto petitorio) (art. 705 c.p.c.). Questa disciplina, tuttavia, deve intendersi modificata dalla decisione della Corte Costituzionale (n. 25 del 1992), la quale ha ridefinito le regole del concorso tra tutela petitoria e tutela possessoria: di essa si dirà in seguito, dopo aver trattato delle azioni a difesa della proprietà (cfr. 37.7). Azione di reintegrazione (detta anche az. di spoglio) – L’azione spetta al possessore, indipendentemente dalla natura del bene e dai requisiti del possesso, ed anche al semplice detentore, purché si tratti di detenzione qualificata (non fondata, cioè, solo su ragioni di ospitalità o servizio), che siano stati privati della materiale disponibilità del bene violentemente, od occultamente (art. 1168). Si noti che la giurisprudenza considera “violento” lo spoglio, anche se non è stata esplicata alcuna energia fisica contro il possessore, essendo sufficiente che il comportamento finalizzato a privarlo del possesso, o ad impedirgliene l’esercizio, sia avvenuto contro la sua volontà: e a tale proposito, la Cassazione ha affermato che la volontà del possessore contraria allo spoglio si presume, a meno che non sia data la prova di un consenso univoco da parte del possessore stesso (non essendo sufficiente, in proposito, il mero silenzio da parte sua).
L’azione può esperirsi entro il termine di decadenza di un anno, che decorre dal momento in cui è avvenuto lo spoglio violento, o in cui è stato scoperto lo spoglio clandestino (11683). Legittimato passivo sarà l’autore dello spoglio, che resta tale anche quando abbia ceduto il possesso: in tal caso, l’azione potrà comunque essere esperita nei suoi confronti, allo scopo di accertare la sua responsabilità, conseguente alla lesione del possesso, ed ottenere una successiva condanna
§ 6. La tutela del possesso
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al risarcimento del danno. Quando, tuttavia, l’autore dello spoglio abbia alienato il bene, l’azione di reintegrazione potrà proporsi anche contro il terzo, che gli sia subentrato nel possesso in virtù dell’acquisto a titolo particolare, fatto con la consapevolezza dell’avvenuto spoglio (art. 1169). L’azione mira ad ottenere dal giudice un ordine di restituzione, intesa in senso ampio come rimessione in pristino della situazione possessoria (così, ad es., nel caso in cui lo spoglio sia consistito in una costruzione abusiva, la sentenza di reintegrazione potrà ordinarne la distruzione). La reintegrazione deve essere pronunciata sulla semplice notorietà del fatto e senza dilazione (11684). Azione di manutenzione (art. 1170) – Legittimato ad agire è solo il possessore di beni immobili, o di universalità di mobili, la cui situazione possessoria presenti i requisiti richiesti per il possesso ad usucapionem (acquisto pacifico e pubblico, esercizio continuo e ininterrotto), e duri da oltre un anno. L’azione è concessa contro atti di turbativa o molestia, che possono essere di fatto (quando incidono materialmente sull’esercizio del possesso) o di diritto (affermazioni di diritti o pretese che limitano il possesso). Anche l’azione di manutenzione va proposta entro il termine di decadenza di un anno dalla turbativa, e mira ad ottenere dal giudice l’ordine di cessazione dell’attività lesiva, di ripristino della situazione possessoria precedente (laddove essa sia stata materialmente alterata); ad essa potrà accompagnarsi la condanna al risarcimento degli eventuali danni. L’azione di manutenzione è infine concessa al possessore, sempre che risponda ai requisiti posti dalla norma in esame, anche contro atti di spoglio semplice, compiuto cioè in modo non violento, né clandestino (art. 11703). Oltre alle azioni di reintegrazione e manutenzione, il possessore può, in quanto tale, esercitare anche le due azioni di nunciazione (denunzia di nuova opera, ex art. 1171, e denunzia di danno temuto, ex art. 1172); poiché, tuttavia, esse spettano sia al possessore, sia al titolare del diritto (proprietà, o altro diritto reale di godimento) sul bene, se ne parlerà trattando dei mezzi di tutela della proprietà.
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Cap. 37. Acquisto e difesa della proprietà
CAPITOLO 37
ACQUISTO E DIFESA DELLA PROPRIETÀ
SOMMARIO: 1. I modi d’acquisto della proprietà. – 2. Occupazione e invenzione. – 3. Accessione, unione e commistione. Specificazione. – 4. Usucapione (rinvio). – 5. La tutela della proprietà: le azioni petitorie. – 6. Le azioni di nunciazione. – 7. Il concorso tra tutela possessoria e petitoria.
1. I modi d’acquisto della proprietà. Nell’elencare (in forma non tassativa) i possibili modi d’acquisto del diritto di proprietà, l’art. 922, accanto alle fattispecie che conducono a un acquisto a titolo originario (occupazione, invenzione, specificazione, accessione, unione e commistione, e usucapione), menziona le due forme principali di acquisto a titolo derivativo (l’acquisto per effetto di contratto, o per successione mortis causa): poiché queste due ultime ipotesi trovano disciplina in altri libri del codice, in questa sede analizzeremo i soli modi d’acquisto a titolo originario. La loro importanza risiede nel fatto che, ogni qual volta si intenda far valere il diritto di proprietà, si rende necessario dimostrare il titolo in base al quale lo si è acquistato: ebbene, solo dando la prova di un acquisto a titolo originario (che prescinde, cioè, dalla titolarità e dai limiti del diritto di un dante causa), si eviterà di dover provare anche la titolarità di tutti i proprietari anteriori, e dunque la regolarità di tutti i passaggi di proprietà che hanno preceduto l’ultimo. Vale la pena di sottolineare che, ai fini della prova del diritto, anche le ipotesi in cui la legge riconosce efficacia all’acquisto a non domino (si pensi all’acquisto in buona fede delle cose mobili, ex art. 1153, o all’acquisto oneroso del terzo di buona fede dall’erede apparente, ex art. 534) vengono equiparati ai casi di acquisto a titolo originario, divenendo irrilevante anche in essi il difetto di legittimazione del dante causa.
§ 2. Occupazione e invenzione
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2. Occupazione e invenzione. I beni mobili che non sono oggetto della proprietà di alcuno (res nullius) si possono acquistare mediante l’occupazione, che consiste nell’impossessamento (materiale apprensione della cosa), accompagnato dall’intenzione di appropriarsene. Possono essere res nullius solo le cose mobili (ricordiamo, infatti, che gli immobili vacanti fanno parte del patrimonio dello Stato): o perché non sono mai state in proprietà di alcun soggetto (la fauna ittica, le perle naturali, ecc.), o perché, pur essendo appartenute a taluno, siano state volontariamente abbandonate dal proprietario, con l’intenzione oggettivamente percepibile di disfarsene (res derelictae: si pensi alla cosa lasciata in un luogo di raccolta dei rifiuti) (art. 923). Quanto alla selvaggina, sebbene la norma in discorso qualifichi come res nullius «gli animali che formano oggetto di caccia» (art. 9232), la legislazione speciale (cfr. le l. 27 dicembre 1977, n. 968 e l. 11 febbraio 1992, n. 157) considera oggi la fauna selvatica patrimonio indisponibile dello Stato: nei limiti in cui ne consente la cattura e l’appropriazione, tale disciplina configura un’ipotesi eccezionale di occupazione di cose altrui (res alicuius), la cui legittimità presuppone la licenza di caccia. Restano dunque res nullius solo gli animali che formano oggetto di pesca. L’opinione prevalente qualifica l’occupazione come atto giuridico in senso stretto, per il quale è sufficiente, oltre al comportamento materiale dell’impossessamento, l’intenzione di tenere la cosa per sé (animus occupandi), la quale si presume sino a prova contraria.
Non sono res nullius le cose mobili smarrite, delle quali cioè il proprietario abbia perso la materiale disponibilità, ma senza l’intento di abbandonarle: non venendo meno, con ciò, la proprietà, (come nella derelictio), ma solo il possesso, esse non potranno acquistarsi per occupazione, ma dovranno essere consegnate da chi le ritrova, o al proprietario, o, se il ritrovatore non lo conosca, al sindaco del luogo del ritrovamento (art. 927). Questi ne renderà nota la consegna, mediante pubblicazione nell’albo pretorio comunale (art. 928); trascorso un anno senza che il proprietario si presenti, esse verranno acquistate per invenzione (da invenire, trovare) dal ritrovatore; il quale, in caso contrario, avrà diritto comunque ad ottenere, su richiesta, un premio dal proprietario. Ipotesi di rara verificazione è quella del ritrovamento del tesoro, definito dalla legge come «qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessu-
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Cap. 37. Acquisto e difesa della proprietà
no può provare di essere proprietario» (art. 932): esso appartiene per intero al soggetto che lo abbia ritrovato nel proprio fondo, ovvero, se ritrovato nel fondo altrui, o all’interno di un bene altrui (ad es., dal restauratore nel cassetto segreto di un mobile antico, affidatogli dal proprietario per il restauro), spetterà per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore. La scarsa applicazione della norma deriva anche dalla circostanza che, di regola, il tesoro sarà costituito da «oggetti di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico» (art. 9323), sottratti come tali all’acquisto in proprietà privata e soggetti alla legislazione speciale che ne attribuisce la proprietà allo Stato, salvo il diritto a un premio per il ritrovamento (v. art. 43 ss., l. 1° giugno 1939, n. 1089).
3. Accessione, unione e commistione. Specificazione. Come modo d’acquisto fondato su un fenomeno di attrazione reale, il codice disciplina l’accessione, che si ha in tutti i casi in cui un bene viene “attirato” nella sfera della preesistente proprietà di un altro bene, al quale venga congiunto (a seguito di eventi naturali, o dell’opera dell’uomo): vi può essere accessione di un bene mobile ad un immobile (come nelle costruzioni e nelle piantagioni), tra due beni mobili (denominandosi, allora, unione o commistione) ovvero tra due immobili (sono i rari casi delle c.d. accessioni fluviali, regolate agli artt. 941, 943 e 944). Il caso più rilevante di accessione di mobile a immobile, dovuto all’opera dell’uomo, è dato dalle costruzioni, piantagioni, od opere realizzate sopra (o sotto) il suolo, che vengono acquistate per accessione dal proprietario del suolo (omne quod inaedificatur solo cedit: art. 934). Fa eccezione il caso dello sconfinamento sul suolo altrui, compiuto in buona fede durante la costruzione di un edificio: se il proprietario del suolo occupato non si oppone, entro tre mesi dall’inizio della costruzione, l’autorità giudiziaria può attribuire la proprietà dell’edificio ed anche quella del suolo occupato al costruttore, che peraltro sarà tenuto a pagare il doppio del valore del terreno ed a risarcire l’eventuale danno (c.d. accessione invertita, art. 938). Quando due cose mobili, appartenenti a diversi proprietari, vengano unite o mescolate e non siano separabili senza notevole deterioramento, la proprietà ne diventa comune, a meno che una di esse possa considerarsi principale, o sia molto superiore per valore: in tal caso, il proprietario di essa acquisterà a titolo originario la proprietà del tutto, per unione o commistione (art. 939). Si ha unione, quando il congiungimento non fa perdere alle due cose la
§ 5. La tutela della proprietà: le azioni petitorie
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propria individualità (la pietra preziosa incastonata nella montatura); commistione quando le cose divengono indistinguibili (come nella mescolanza di più liquidi). Chi utilizza una materia prima appartenente ad altri per formare una cosa nuova, ne acquista la proprietà per specificazione, pagando il valore della materia al proprietario di essa; se però tale valore sorpassa notevolmente quello della manodopera, sarà il proprietario della materia prima ad acquistare il bene, con l’obbligo di pagare allo specificatore il prezzo della manodopera (art. 940).
4. Usucapione (rinvio). Dell’usucapione e della sua disciplina si è trattato analizzando gli effetti del possesso (cfr. 36.3). Resta da aggiungere che l’acquisto del diritto avviene ope legis, senza che siano richieste pronunce giudiziali: si è visto che l’eventuale sentenza che ne accerti il verificarsi sarà semmai necessaria, nel caso in cui l’acquisto abbia a oggetto beni immobili, come titolo per ottenere la trascrizione.
5. La tutela della proprietà: le azioni petitorie. Attraverso le quattro azioni a tutela della proprietà (azione di rivendica, az. negatoria, az. di regolamento di confini e az. di apposizione di termini), dette anche azioni petitorie, il proprietario, di fronte ad atti che impediscano, limitino, o contestino l’esercizio pieno del diritto, mira (anche indipendentemente dall’aver subito un danno) al ripristino della situazione anteriore alla lesione. Si tratta sempre (tranne che per l’apposizione di termini) di azioni in rem, che cioè non si dirigono tanto verso un soggetto predeterminato, ma “seguono” il bene, rivolgendosi contro chiunque interferisca con il diritto su di essa; sono imprescrittibili, potendosi esperire senza limiti di tempo (salvi gli effetti, già visti, di un’eventuale usucapione compiutasi, medio tempore, in favore d’altri: cfr. art. 9483); a differenza delle azioni possessorie, presuppongono (e fanno valere) il diritto di proprietà, la cui titolarità dovrà essere provata dall’attore. Azione di rivendicazione – È la principale azione petitoria, proponibile
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Cap. 37. Acquisto e difesa della proprietà
da chi si pretenda proprietario (e non abbia il possesso), contro chiunque possieda o detenga il bene senza titolo, al fine di recuperare la disponibilità materiale della cosa (art. 948). Essa, si è detto, ha come fondamento il diritto di proprietà. Per ottenere la riconsegna del bene, l’attore dovrà provare il proprio diritto, risalendo, come già osservato, sino ad un acquisto a titolo originario: solo così, infatti, la titolarità del diritto di proprietà in capo all’attore non dipenderà (come invece avviene in tutti i casi di acquisto a titolo derivativo) dalla titolarità dei precedenti proprietari. Si tratta di prova difficile (si parlava tradizionalmente di probatio diabolica), che verrà raggiunta, per lo più, facendo ricorso alla regola “possesso vale titolo”, ovvero provando il compiersi del tempo necessario all’usucapione (e a tal fine utilizzando i congegni di congiunzione di più possessi successivi: successione nel possesso e accessione del possesso – cfr. 36.4. alla lettera b.2). Legittimato passivo è il soggetto che, in quanto possessore o detentore del bene, sia in grado di restituirlo, e che non possa vantare un titolo che rende legittimi il possesso o la detenzione. Ad esso è equiparato colui che abbia cessato, per fatto proprio, di detenere o possedere la cosa successivamente alla proposizione della domanda di rivendica: nel qual caso, il convenuto è obbligato a recuperarla a proprie spese, nell’interesse del proprietario-attore, ovvero a corrispondergliene il valore, oltre a risarcirgli il danno. L’azione di rivendica trova titolo nel diritto reale di proprietà sul bene, e in ciò si distingue dall’azione, volta ad ottenere la restituzione del bene, che il proprietario possa esperire in base a un titolo di carattere obbligatorio (si pensi ai contratti di locazione, comodato, o deposito): quest’ultima sarà personale (esperibile nei confronti del solo soggetto obbligato alla restituzione) e prescrittibile. E ugualmente distinta dalla rivendica è l’azione con cui il proprietario richieda la restituzione della cosa consegnata erroneamente a chi non ne aveva diritto (ripetizione dell’indebito: cfr. 29.6).
Azione negatoria – Si rivolge contro chiunque si affermi titolare di un diritto reale sul bene, quando da tali pretese il proprietario abbia motivo di temere un pregiudizio, allo scopo primario di far dichiarare l’inesistenza dei diritti vantati dai terzi. L’azione, che ha carattere reale ed è anch’essa imprescrittibile, non può invece proporsi, secondo la giurisprudenza, contro chi vanti diritti di natura esclusivamente personale (ad es., nei confronti di chi si pretenda conduttore). Presupposto di tale accertamento negativo sarà, anche qui, la dimostra-
§ 6. Le azioni di nunciazione
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zione della titolarità del diritto di proprietà in capo all’attore, che però non andrà incontro all’onere probatorio tipico dell’azione di rivendica, essendo sufficiente dare la prova (con ogni mezzo) di un valido titolo d’acquisto. Se poi il terzo arrechi anche turbative o molestie di fatto, l’azione (accanto alla sua funzione primaria di accertamento negativo) svolgerà un’ulteriore funzione inibitoria, mirando ad ottenere dal giudice una pronuncia che le faccia cessare. Resta salvo, in ogni caso il diritto al risarcimento del danno (art. 949). Le due azioni di confine – Quando il confine tra due fondi sia del tutto incerto (cioè ne sia sconosciuta la posizione ad entrambi i titolari), ovvero quando sia contestato (controvertendosi su di una zona ben delimitata), ciascuno dei due proprietari può chiedere al giudice che lo determini (az. di regolamento di confini, rispettivamente semplice e qualificata): la prova dell’ubicazione del confine potrà darsi con ogni mezzo, e solo in mancanza di ogni altro elemento il giudice dovrà attenersi alle risultanze delle mappe catastali (art. 950). Quando, viceversa, la posizione del confine sia certa e non contestata, ma manchino, o non siano più riconoscibili i termini, cioè quei segni (pietre, reticolati, ecc.) che la individuano, ciascuno dei due proprietari confinanti può chiedere che essi siano apposti o ristabiliti a spese comuni (art. 951): la chiamata in giudizio del vicino, con l’azione (di natura personale) di apposizione di termini, avrà il duplice fine di ripartire la spesa necessaria e di evitare future discussioni.
6. Le azioni di nunciazione. Trattiamo in questa sede delle due azioni di nunciazione, ricordando per altro (cfr. 36.4) che esse spettano non al solo proprietario (o al titolare di altro diritto reale di godimento) in quanto tale, ma anche al possessore: ciò si spiega in quanto loro obiettivo non è (a differenza che nelle azioni petitorie o possessorie) la tutela repressiva di comportamenti lesivi del diritto o del possesso, volta a ristabilire la situazione violata, ma piuttosto una tutela di carattere preventivo, che mira ad evitare le possibili conseguenze dannose di una situazione di pericolo, cui si trova esposto il bene (oggetto del diritto o del possesso). Analogamente a quelle possessorie, le azioni di nunciazione costituiscono una prima fase cautelare di giudizio (v. anche gli art. 689 ss.
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Cap. 37. Acquisto e difesa della proprietà
c.p.c.), che si conclude con l’emanazione di un provvedimento provvisorio e urgente, alla quale farà seguito un giudizio di merito, a cognizione ordinaria, che deciderà in via definitiva sulla fondatezza della cautela concessa. Denunzia di nuova opera (art. 1171) – Quando il pericolo derivi da una nuova opera (cioè da una attività di costruzione, demolizione, scavo, ecc.) posta in essere da un terzo sopra o sotto il fondo, sia proprio che altrui, iniziata da meno di un anno e non ancora terminata, il titolare del diritto (o il possessore) potrà denunciare l’opera all’autorità giudiziaria che, presa sommaria cognizione del fatto, potrà alternativamente ordinare la sospensione, o autorizzare la continuazione dell’opera, disponendo in entrambi i casi le opportune cautele (in pratica, il versamento di una cauzione), per il caso in cui la successiva decisione nel merito contrasti col provvedimento cautelare. Denunzia di danno temuto (art. 1172) – Se il pericolo nasce non da una nuova attività, ma da un’opera (già ultimata), un albero, o qualsiasi altra cosa già esistente, da cui possa derivare un danno grave e prossimo (cioè imminente, anche se non necessariamente attuale) al bene, il proprietario (o possessore) di esso può denunciare il fatto al giudice, ottenendo provvedimenti idonei ad ovviare al pericolo. Anche in questo caso, l’autorità giudiziaria potrà disporre idonea garanzia per i danni eventualmente provocati dall’adozione del provvedimento cautelare poi rivelatosi infondato nel merito. Si noti che le due azioni di nunciazione potrebbero essere proposte anche cumulativamente, quando, ad es., l’opera in corso presentasse anche pericolo di rovina (al fine di ottenere non la sola sospensione, ma anche i provvedimenti idonei ad ovviare al pericolo di crollo).
7. Il concorso tra tutela possessoria e petitoria. Si è detto, trattando delle azioni a tutela del possesso, che esse dovrebbero realizzare (con le formalità semplificate, tipiche del procedimento cautelare) una tutela immediata e provvisoria, consentendo il ripristino della situazione possessoria violata indipendentemente dall’accertamento del diritto. Si è ricordato che, per questa ragione, il codice di rito esclude che nel giudizio possessorio possano proporsi eccezioni e difese fondate sul diritto di proprietà sul bene (art. 7051 c.p.c.).
§ 7. Il concorso tra tutela possessoria e petitoria
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Il rapporto tra tutela possessoria e tutela petitoria può porsi in termini di coesistenza tra separati giudizi, proposti avanti a giudici diversi, ovvero in termini di concorso tra domande (o eccezioni) proposte nel medesimo giudizio. Fermo restando il principio, in forza del quale colui che è, nel contempo, sia proprietario che possessore può utilizzare entrambe le tutele (e così, ad es., dopo aver agito in possessorio, potrà agire separatamente con l’azione di rivendica, e viceversa), la disciplina originaria del concorso tra tutela petitoria e possessoria si articolava su due regole fondamentali: – nel corso del giudizio petitorio, è consentito proporre domanda di reintegrazione del possesso al giudice competente, il quale dà i provvedimenti temporanei indispensabili e rimette le parti davanti al giudice del petitorio (art. 7042 c.p.c.); – nel corso del giudizio possessorio, il convenuto non può proporre giudizio petitorio, né opporre al possessore, che agisce in reintegrazione o manutenzione, eccezioni e difese fondate sul diritto di proprietà, sino a che il giudizio possessorio non sia definito e la relativa decisione non sia stata eseguita (art. 7051 c.p.c.). Questa disciplina, contenuta nel codice di rito, è stata sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale: essa, con una celebre e discussa sentenza (3 febbraio 1992, n. 25), ha giudicato illegittima la preclusione sancita dall’art. 7051 c.p.c., in tutti quei casi in cui, dall’esecuzione della decisione possessoria, potrebbe derivare un irreparabile pregiudizio per il convenuto. Si pensi all’esempio limite (citato dalla stessa Corte), in cui lo spoglio, subìto dal possessore (che magari possiede sine titulo), sia consistito nella costruzione di un manufatto, da parte del proprietario, sul proprio terreno: se, una volta che il possessore abbia ottenuto la sentenza di reintegrazione, si dovesse in ogni caso eseguirla, prima di poter proporre il giudizio petitorio, ciò costringerebbe il proprietario-convenuto a distruggere un’opera che, come potrebbe poi risultare da quel giudizio, aveva il diritto di costruire. Per evitare tali pericoli, le eccezioni petitorie potranno quindi proporsi anche nel giudizio possessorio: ciò tuttavia, come ha più volte precisato in seguito la Corte di Cassazione, al solo fine di provare l’infondatezza dell’azione possessoria (e ottenerne il rigetto), ma non per ottenere un accertamento definitivo del diritto di proprietà, che resta impregiudicato.
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Cap. 38. I diritti reali su cosa altrui
CAPITOLO 38
I DIRITTI REALI SU COSA ALTRUI
SOMMARIO: 1. I diritti reali minori. – 2. Superficie. – 3. Enfiteusi. – 4. Usufrutto. – 5. Uso e abitazione. – 6. Servitù prediali.
1. I diritti reali minori. Le formule “diritti reali minori” e “diritti reali su cosa altrui” (iura in re aliena) indicano, intuitivamente, quelle situazioni giuridiche soggettive di carattere reale, caratterizzate da un contenuto di facoltà e poteri più ristretto, rispetto a quello tipico del diritto di proprietà (di qui l’aggettivo minori, o “parziari”); e aventi ad oggetto beni che appartengono a soggetti diversi dal titolare di esse (cioè, cose “altrui”). Ciò può avvenire, s’è detto, in virtù della elasticità che caratterizza il diritto di proprietà, il quale tollera, sul bene che ne costituisce oggetto, la temporanea coesistenza del diritto reale del terzo e la conseguente compressione delle facoltà e dei poteri dominicali, i quali sono destinati a riespandersi, al venir meno del diritto reale minore. In termini figurati, si può descrivere tale coesistenza come una specie di ripartizione del contenuto di poteri e facoltà (che normalmente caratterizza la proprietà piena), tra il proprietario e il titolare del diritto reale minore: non a caso, una causa generale di estinzione tipica degli iura in re aliena è rappresentata dalla consolidazione, cioè dalla riunione di ambedue le posizioni (e delle facoltà ad esse inerenti) in capo ad un unico soggetto (si pensi ai casi dell’usufruttuario che acquista la nuda proprietà, o del proprietario del fondo servente, gravato da servitù, che acquista la proprietà del fondo dominante).
Con riguardo al contenuto di tali situazioni (e al tipo di interesse che mirano a proteggere), si distinguono tradizionalmente due categorie: i diritti reali di godimento, che attribuiscono al titolare facoltà e poteri relativi all’utilizzazione economica del bene altrui (superficie, enfiteusi, usufrutto, uso e abitazione, servitù, di cui si tratterà in questo capitolo); i diritti reali
§ 2. Superficie
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di garanzia, che assicurano al loro titolare, che è sempre anche titolare di un diritto di credito (rispetto al quale il diritto reale di garanzia funge da accessorio), una maggior probabilità di realizzare il credito stesso, grazie al potere di far vendere coattivamente il bene e di soddisfarsi sul ricavato con precedenza rispetto agli altri creditori (sono le figure tipiche del pegno e dell’ipoteca, la cui trattazione si colloca nella parte dedicata al rapporto obbligatorio). Si deve qui rammentare che l’utilizzazione economica dei beni può costituire oggetto, non solo di diritti reali di godimento, ma anche di situazioni giuridiche soggettive di natura personale, ascrivibili cioè alla categoria dei diritti (relativi) di credito: l’esempio più importante, nella prassi attuale, è dato dal diritto attribuito al conduttore, in forza di un contratto di locazione (cfr. 41.1). Rispetto a tali schemi, il cui contenuto sembra riprodurre l’immediatezza tipica di un diritto assoluto (anche il conduttore, infatti, realizza il proprio interesse attraverso comportamenti propri, consistenti nell’utilizzazione diretta del bene), e che in qualche misura risultano persino opponibili a determinati terzi (come accade per il diritto del conduttore, nei confronti del terzo acquirente del bene oggetto di locazione – cfr. art. 1599), la distanza dai diritti reali sembra ridursi. Restano peraltro talune differenze significative che vanno sottolineate: così, ad esempio, confrontando il diritto (personale) del conduttore con quello (reale) dell’usufruttuario, si vedrà che il diritto reale attribuisce al titolare il possesso della cosa, quello personale la semplice detenzione; che solo l’usufrutto può (se ha ad oggetto un’immobile), costituire oggetto di ipoteca; che il diritto reale dell’usufruttuario si prescrive in vent’anni, quello personale del conduttore in dieci.
2. Superficie. Trattando dei modi d’acquisto della proprietà, e in particolare dell’acquisto delle costruzioni, si è ricordata la massima omne quod inaedificatur solo cedit: ogni piantagione, costruzione o altra opera che venga incorporata al suolo (sia sopra che sotto di esso), apparterrà al proprietario del suolo (art. 934). Il principio generale dell’accessione può tuttavia essere reso inoperante, con riguardo esclusivo alle costruzioni (per le piantagioni, viceversa, tale deroga è espressamente esclusa dall’art. 956) mediante la costituzione di un diritto di superficie, che avrà come effetto la “separazione” tra la proprietà del suolo e la proprietà di quanto su di esso edificato. In realtà il fenomeno denominato genericamente “superficie” ricomprende due figure nettamente distinte, per contenuto e natura giuridica.
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Cap. 38. I diritti reali su cosa altrui
Diritto di costruire – Il proprietario del suolo può costituire, in favore di un terzo, il diritto di fare al di sopra (e/o al di sotto, ex art. 955) del suolo una costruzione (art. 9521). Il terzo, in tal caso acquista un diritto sulla cosa altrui (il suolo), che ha per contenuto la possibilità di realizzare la costruzione: e l’edificio, una volta costruito, non verrà acquistato per accessione dal proprietario del suolo. La natura giuridica del diritto di costruire (prima variante del diritto di superficie) risulta confermata dalla norma che ne prevede (analogamente ad ogni altro diritto reale minore) la prescrizione, per mancato esercizio protratto per un ventennio (art. 9544). Proprietà superficiaria – Di proprietà superficiaria (seconda variante della superficie) si può invece parlare: a) nel caso in cui, in forza della predetta concessione ad aedificandum, venga ultimata la nuova costruzione ad opera del terzo, al quale spetta il diritto di mantenerla come propria (art. 9521); b) nel caso in cui, il proprietario di una costruzione già esistente decida di alienare a un terzo la proprietà dell’edificio, separatamente dalla proprietà del suolo, di cui mantiene la titolarità. In entrambi i casi si viene a creare una separazione tra la proprietà del suolo, che rimane al suo titolare originario, e il diritto sull’edificio che spetterà al terzo (che, rispettivamente, lo abbia costruito, o ne abbia acquistato la proprietà separata). Tale diritto, a differenza del diritto di costruire, non è altro che un tipo di proprietà, e dunque imprescrittibile e avente il contenuto di facoltà e poteri tipico del diritto dominicale. La proprietà superficiaria può essere soggetta ad un termine di scadenza (integrando così, in deroga alla naturale perpetuità del dominio, un’ipotesi di proprietà temporanea: cfr. 35.3) (art. 953); viceversa, il perimento dell’edificio non implica, salvo patto contrario, l’estinzione del diritto di superficie, in forza del quale sarà quindi possibile ricostruire. Tra le applicazioni dell’istituto, vanno ricordate le numerose ipotesi di superficie concessa ai privati su suoli di proprietà pubblica, e in particolare quelle previste dalla legislazione in tema di edilizia economicopopolare (v. la l. 22 ottobre 1971, n. 865).
3. Enfiteusi. L’enfiteusi è il diritto di godere del bene immobile altrui, a tempo (per un periodo non inferiore ai vent’anni), o in perpetuo (art. 958), con l’obbligo di pagare al proprietario-concedente un canone periodico e di migliorare il fondo (art. 960), e con la possibilità per l’enfiteuta di divenire pieno proprietario
§ 4. Usufrutto
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mediante l’affrancazione (pagando al concedente una somma fissata, dalla l. n. 1138 del 1970, in quindici volte il canone annuo). Il concedente ha diritto di ottenere, un anno prima del compiersi del ventennio di enfiteusi, una ricognizione del proprio diritto (al fine di evitare l’usucapione della piena proprietà), e può ottenere altresì la devoluzione del fondo (con estinzione del diritto di enfiteusi), in caso di grave inadempimento degli obblighi primari (miglioramento del fondo e pagamento del canone) gravanti sull’enfiteuta (art. 972). Tra i diritti reali su cosa altrui, disciplinati dal codice, l’enfiteusi (istituto che, pur potendo avere ad oggetto anche immobili urbani risulta legato ad esigenze di miglioramento fondiario tipiche di un’economia del passato) ha subito ad opera della successiva legislazione speciale (con le leggi 22 luglio 1966, n. 607, 18 dicembre 1970, n. 1138 e 14 giugno 1974, n. 270), le modifiche più rilevanti: la linea evolutiva da essa tracciata è nel senso di assicurare prevalenza alla posizione dell’enfiteuta, in particolare favorendo la possibilità di affrancazione, che viene costruita come un diritto potestativo, il cui esercizio prevarrà sempre sulla domanda di devoluzione del concedente, anche se anteriormente proposta.
4. Usufrutto. L’usufrutto è il diritto di godere della cosa altrui, traendo ogni utilità che essa possa dare (in particolare percependone i frutti, naturali e civili), salvo l’obbligo di usare nel godimento del bene la diligenza del buon padre di famiglia, di rispettarne, oltre che l’integrità materiale, la destinazione economica (art. 981) e di restituirlo al termine dell’usufrutto. Si tratta del più ampio tra gli iura in re aliena, al quale corrisponde, per tutta la sua durata, una compressione del diritto dominicale così rilevante, da farlo denominare nuda proprietà. Ulteriori obblighi, imposti preventivamente all’usufruttuario, hanno ad oggetto la compilazione di un inventario e la prestazione di un’idonea garanzia (art. 1002); sono a suo carico le imposte e i pesi che gravano sul reddito, le spese di amministrazione, manutenzione e per riparazioni ordinarie. Ha, per converso, diritto a un’indennità per i miglioramenti e le addizioni inseparabili.
L’usufruttuario acquista il possesso del bene (si tratterà, ovviamente di un possesso “a titolo di usufrutto” e conseguentemente limitato); egli può goderne direttamente (abitando l’appartamento che ne costituisce oggetto), o indirettamente (ad es., concedendolo in locazione a terzi), e trarne i frutti (che nel caso da ultimo prospettato saranno i frutti civili rappresenta-
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Cap. 38. I diritti reali su cosa altrui
ti dal canone di locazione). Egli può cedere a terzi il proprio diritto, per un certo tempo o per tutta la sua durata, se ciò non è escluso dal titolo costitutivo (nel qual caso la cessione è nulla): la cessione va notificata al proprietario, e sino a che non è notificata il cedente rimane obbligato in solido con il cessionario nei confronti del nudo proprietario (art. 980). L’usufrutto può acquistarsi a titolo costitutivo-derivativo, per atto volontario (tra vivi o a causa di morte) del proprietario, oppure a titolo originario (per usucapione o ex art. 1153); un peculiare tipo di usufrutto (che non da tutti si ritiene riconducibile alla figura qui in esame) è attribuito per legge ai genitori esercenti la responsabilità genitoriale sui beni di proprietà dei figli minori ad essa soggetti (art. 324). Oggetto di usufrutto possono essere beni mobili, immobili, universalità di mobili, ed anche universalità di diritto (come l’eredità) o beni immateriali (come il diritto patrimoniale d’autore); se si tratti però di cose consumabili (cfr. 34.5), il cui godimento non può avvenire se non attraverso la consunzione fisica o economica, l’usufruttuario ne acquisterà la proprietà, salvo l’obbligo di pagarne il valore, ovvero di restituire altrettante della medesima specie e qualità (è il c.d. quasi usufrutto, di cui all’art. 995). La durata dell’usufrutto è limitata dalla legge, al fine di evitare una troppo lunga compressione delle facoltà inerenti al diritto di proprietà. Per tale ragione, l’usufrutto costituito in favore delle persone fisiche non può eccedere la vita del primo usufruttuario (art. 979): così, se viene ceduto a terzi, il diritto si estinguerà comunque alla morte del primo titolare. Lo stesso avviene nel caso di usufrutto successivo, in cui il diritto venga costituito in favore di più persone successivamente, cioè in modo tale che alla morte dell’una passi automaticamente ad un’altra: se costituito per testamento, l’usufrutto successivo è vietato dall’art. 698, e quindi si estinguerà (secondo la regola generale) alla morte del primo usufruttuario; si ritiene ammissibile, invece, un usufrutto successivo costituito con atto tra vivi, purché gli usufruttuari siano tutti viventi (e dotati di capacità giuridica) al tempo della costituzione e questa avvenga a titolo oneroso. Diverso è il caso dell’usufrutto congiuntivo, costituito in favore di più persone congiuntamente, e quindi con la clausola di accrescimento, in caso di morte di ciascuna di esse in favore delle altre superstiti: esso è ammesso, sia se costituito per atto tra vivi, che con disposizione a causa di morte (si tratterà di un legato, ex art. 678), e si estinguerà alla morte del più longevo tra gli usufruttuari. L’usufrutto attribuito a una persona giuridica non può eccedere i trent’anni.
§ 6. Servitù prediali
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Oltre alla scadenza del termine di durata (e alle altre cause generali di estinzione dei diritti, come la rinuncia o la prescrizione per non uso ventennale), tipica causa di estinzione dell’usufrutto è l’abuso da parte dell’usufruttuario, che alieni, deteriori, o lasci deperire il bene (art. 1015).
5. Uso e abitazione. Il diritto d’uso non è altro che un usufrutto limitato, che attribuisce al titolare oltre al godimento della cosa, il diritto di percepirne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia (art. 1021). L’abitazione attribuisce, a sua volta, il diritto di godere di una casa abitandola direttamente (non traendone i frutti), anche qui nei limiti dei bisogni del titolare e della sua famiglia (art. 1022). È singolare che, per determinare l’entità di tali bisogni, il codice faccia riferimento a un concetto di famiglia comprendente, oltre al coniuge e ai figli (anche adottivi, o in affidamento familiare), anche il personale di servizio convivente. Entrambi i diritti, a differenza dell’usufrutto (alla cui disciplina sono comunque soggetti, nei limiti della compatibilità), sono incedibili (art. 1024).
6. Servitù prediali. «La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a un diverso proprietario» (art. 1027). Sin dalla definizione codicistica (che pure coglie più l’aspetto economico, che quello tecnico-giuridico del fenomeno), la servitù rivela il suo tratto più caratteristico (la predialità), che la distingue da tutti gli altri diritti reali parziari: l’essere cioè riconosciuta, non tanto per la realizzazione di un interesse soggettivo del titolare, quanto per l’utilità (che può consistere anche nella maggior comodità o amenità) di un bene, e solo in ragione di (e attraverso) tale oggettivo vantaggio, a beneficio del proprietario di esso. Il rapporto sembra quasi instaurarsi tra i due fondi: quello servente, che subisce il peso, e quello dominante, a cui vantaggio esso viene imposto (tant’è che il diritto romano la considerava una qualitas fundi). In realtà, la titolarità del diritto di servitù spetta pur sempre ad un soggetto, ma gli viene attribuita in quanto proprietario di quel particolare bene (c.d. inerenza attiva della servitù alla proprietà del fondo dominante), e
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Cap. 38. I diritti reali su cosa altrui
per l’utilità che al bene (in ragione della sua natura o della sua destinazione) può derivare. Il requisito della predialità consente di risolvere il problema delle servitù costituite per un’utilità «inerente alla destinazione industriale del fondo» (art. 1028, cc.dd. servitù industriali): perché si possa parlare di servitù, l’utilità dovrà riguardare l’attività industriale non in quanto tale, ma in quanto strettamente e necessariamente connessa al fondo dominante. In questa prospettiva, dovrebbero valutarsi negativamente le frequenti ipotesi di cosiddette servitù di non concorrenza, che (a dispetto dell’opinione favorevole, manifestata dalla giurisprudenza) mirano il più delle volte a favorire o proteggere un’attività d’impresa, solo occasionalmente svolta nell’immobile che dovrebbe costituire fondo dominante.
Così come il vantaggio per il fondo dominante, anche il peso imposto al fondo servente risponde al carattere della predialità: è, in altri termini, una limitazione del godimento del bene, ma non può mai consistere in una prestazione imposta al proprietario. Anche qui, figurativamente, potremmo dire che “è lo stesso bene” (e non il suo proprietario) a fornire l’utilità corrispondente al contenuto della servitù. Il principio trova espressione nell’antica regola servitus in faciendo consistere nequit: il contenuto del peso imposto al fondo servente consisterà, per il proprietario di esso, in un non fare (come nella servitù di non sopraelevare), o in un sopportare (ad es. il passaggio da parte del proprietario del fondo dominante). Né ciò risulta smentito dalla possibilità che la legge o il titolo prevedano talune prestazioni accessorie a carico del proprietario del fondo servente, che non costituiranno l’essenza della servitù, ma saranno strumentalmente dirette a renderne possibile l’esercizio da parte del titolare (art. 1030).
Si è soliti tracciare, in base a criteri di volta in volta diversi, una serie di distinzioni tra servitù, cui si ricollegano (come si vedrà in seguito) diversità di disciplina. Si distinguono allora servitù: positive e negative, a seconda che il peso consista in un sopportare (s. di passaggio, di acquedotto, di presa d’acqua), ovvero in un non fare (s. di non costruire, o di non sopraelevare); continue e discontinue, a seconda che il loro esercizio avvenga ininterrottamente e senza necessità del fatto dell’uomo (s. d’acquedotto, di elettrodotto, ecc.) ovvero si esercitino mediante singoli comportamenti dell’uomo (s. di passaggio, di pascolo, ecc.); apparenti e non apparenti, a seconda che al loro esercizio siano destinate
§ 6. Servitù prediali
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(s. di acquedotto, di elettrodotto) o no (s. di non sopraelevare, s. di pascolo) opere visibili e permanenti; volontarie e coattive (o legali), a seconda che la loro costituzione sia liberamente decisa dalle parti, o imposta dalla legge al fondo servente (che a tal fine attribuisce al proprietario del fondo dominante il diritto di ottenerla). La costituzione delle servitù volontarie può avvenire su titolo, per contratto o per testamento (art. 1058). Le sole servitù apparenti possono costituirsi altresì per usucapione, o per destinazione del padre di famiglia (art. 1061). L’acquisto per usucapione sarà soggetto alle regole ordinarie stabilite per l’usucapione dei beni immobili (cfr. 37.4). L’acquisto per destinazione del padre di famiglia si realizza ipso iure nell’ipotesi in cui il proprietario di due fondi abbia posto in essere, tra gli stessi, opere costituenti il mezzo tipico e necessario per l’esercizio di una servitù , e successivamente i due fondi cessino di appartenere ad un unico proprietario (Tizio, proprietario del fondo A e del fondo B, ha costruito un acquedotto per portare acqua dal primo al secondo, e in seguito aliena il fondo B a Caio) (art. 1062). Per quanto riguarda la costituzione delle servitù coattive, si devono tener distinti due momenti: a) il diritto ad ottenere la costituzione della servitù coattiva sorge, in favore del proprietario del fondo dominante, nel momento in cui si realizza la fattispecie prevista dalla legge (così, ad es., per la servitù di passaggio coattivo, nel momento in cui il fondo A, di proprietà di Tizio, risulti intercluso da fondi altrui, Tizio acquisterà il diritto ad ottenere la costituzione della servitù, ex art. 1051); b) la servitù, tuttavia, potrà ritenersi concretamente costituita, solo a seguito dell’accordo contrattuale tra il proprietario del fondo dominante e il proprietario del fondo servente, o, in mancanza, per effetto della sentenza del giudice, che ne fisserà le modalità di esercizio, e l’indennità dovuta dal proprietario del fondo dominante (prima del pagamento dell’indennità, il proprietario del fondo servente potrà opporsi all’esercizio della servitù – art. 1032). L’esercizio delle servitù dovrà avvenire in conformità a quanto stabilito dal titolo, ma comunque in modo da soddisfare il bisogno del fondo dominante con il minor aggravio per il fondo servente (art. 1065). L’estinzione delle servitù, oltre che per le cause generali (scadenza del termine, avverarsi della condizione risolutiva, rinunzia del titolare, consolidazione e prescrizione) avviene a seguito dell’abbandono del fondo servente
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Cap. 38. I diritti reali su cosa altrui
(art. 1070), o per impossibilità d’uso o mancanza di utilità protratte per vent’anni (art. 1074). Quanto al termine di prescrizione, il cui decorso di regola coincide col giorno in cui è cessato l’esercizio del diritto, per le servitù negative e per quelle continue (il cui esercizio non richiede comportamenti umani) esso decorrerà dal giorno in cui si è verificato un fatto che ne ha impedito l’esercizio (art. 1073). La legge riconosce al titolare, a tutela della servitù, una azione (reale) diretta a farne riconoscere l’esistenza contro chiunque ne contesti l’esercizio (azione confessoria, art. 1079): accanto a tale funzione primaria, di accertamento, essa mira altresì a far cessare gli eventuali impedimenti e molestie di fatto, nonché alla rimessione delle cose in pristino e al risarcimento dei danni.
§ 2. Atti soggetti a trascrizione
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CAPITOLO 39
LA TRASCRIZIONE
SOMMARIO: 1. Trascrizione e pubblicità. – 2. Atti soggetti a trascrizione. – 3. Effetti della trascrizione. – 4. Titolo e procedimento. – 5. La pubblicità relativa ai beni mobili. – 6. Il regime tavolare.
1. Trascrizione e pubblicità. Più volte, e in relazione a diversi istituti, si è avuto modo di richiamare il fenomeno della pubblicità, cioè di quell’insieme di mezzi e procedimenti attraverso i quali si rendono legalmente conoscibili alla generalità dei soggetti l’esistenza di determinati fatti o situazioni giuridicamente rilevanti, o il compimento (e il contenuto) di atti giuridici (per lo più atti negoziali, o provvedimenti giudiziali). In base agli effetti che discendono dal compimento delle relative formalità, si possono distinguere le tre forme principali (che individuano altrettante funzioni) della pubblicità: – pubblicità-notizia, il cui effetto è solo quello di consentire una più agevole conoscenza del fatto pubblicizzato, il quale peraltro (anche in mancanza di pubblicità) produce i suoi effetti integralmente e nei confronti di tutti (es.: anche senza la formalità preliminare delle pubblicazioni, il matrimonio produce i suoi effetti, cfr. 20.5; la sentenza di interdizione, anche se non annotata a margine dell’atto di nascita, è ugualmente efficace, cfr. 9.4); – pubblicità dichiarativa, nella quale, a quella di informazione appena esposta si accompagna una funzione ulteriore, di tutela, che consiste nel rendere l’atto pubblicizzato (di per sé valido ed efficace tra le parti anche senza pubblicità) opponibile a tutti i terzi (l’es. più importante è rappresentato dalla trascrizione nei registri immobiliari, di cui si tratterà in questo capitolo); – pubblicità costitutiva, in cui il compimento delle formalità è condizione necessaria per il prodursi degli effetti dell’atto pubblicizzato (come avviene per la iscrizione dell’ipoteca nei registri immobiliari, senza la quale il corrispondente diritto reale di garanzia non sorge, cfr. 33.7).
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Cap. 39. La trascrizione
Tra le forme di pubblicità dichiarativa, la più rilevante è senza dubbio quella prevista (agli art. 2643 ss.) per gli atti con cui si realizza la circolazione dei diritti (cfr. 5.2), per lo più reali, aventi a oggetto i beni immobili: essa si attua mediante la trascrizione dell’atto in registri appositi (i registri immobiliari) conservati presso pubblici uffici (le Conservatorie dei registri immobiliari). Accanto all’ipotesi normale di efficacia dichiarativa, connessa alla trascrizione, vanno ricordati i casi eccezionali di formalità inserite negli stessi registri immobiliari (la iscrizione e la annotazione, cfr. infra, 39.4) che realizzano tipi di pubblicità diversi: efficacia costitutiva ha, ad es., l’iscrizione dell’atto costitutivo di ipoteca, mentre mera pubblicità-notizia è quella realizzata dalla trascrizione di talune convenzioni matrimoniali (ex art. 2647) nonché, talvolta, dall’annotazione (cfr. ad es., l’art. 2654).
Il sistema della trascrizione interviene, in nome di un’esigenza di certezza nella circolazione giuridica, limitando l’operatività del principio consensualistico (cfr. 18.2): se è vero infatti, in base a tale principio, che il trasferimento della proprietà discende dal semplice consenso delle parti (art. 1376), nei confronti di particolari terzi (controinteressati) il diritto acquistato potrà farsi valere pienamente solo in forza della trascrizione dell’atto di acquisto. Si può pensare che tale limitazione all’efficacia traslativa del consenso sia disposta al fine di ridurre i rischi connessi ad ogni acquisto del diritto a titolo derivativo: ancorando a un dato formale (come la trascrizione) l’opponibilità erga omnes della proprietà sul bene, si evita al soggetto che intenda acquistarlo il pericolo di trovarsi di fronte ad alienazioni “occulte” (e dunque a conflitti con terzi che vantino sul bene diritti incompatibili). Tutto il sistema è retto dal fondamentale principio di continuità delle trascrizioni (art. 2650) che riproduce in termini di formalità pubblicitarie la logica tipica dell’acquisto derivativo: in base ad esso, la trascrizione di un atto di trasferimento a favore dell’acquirente e contro l’alienante, non può produrre effetto se non preceduta da una corrispondente trascrizione dell’acquisto precedente a favore dello stesso alienante e contro un precedente titolare, e così via. Se la serie viene interrotta, l’ultimo avente causa potrà richiedere ed ottenere egli stesso la trascrizione dell’acquisto in favore del suo dante causa (che prenderà effetto, comunque, dal momento in cui eseguita). Quale che sia la giustificazione razionale del sistema della trascrizione, messo a confronto con il principio consensualistico, è fuor di dubbio che la pubblicità immobiliare soddisfa altresì una fondamentale esigenza di certezza nella circolazione
§ 2. Atti soggetti a trascrizione
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giuridica dei beni immobili e, in certa misura, anche in ordine alla titolarità degli stessi: la consultazione dei pubblici registri immobiliari (visura) consente infatti di conoscere quale sia l’ultimo soggetto, in favore del quale è stato trascritto un atto d’acquisto della proprietà di quel determinato bene, e che quindi risulta esserne proprietario nei confronti dei terzi.
2. Atti soggetti a trascrizione. Si devono assoggettare a trascrizione, per gli effetti che si specificheranno in seguito (cfr. infra, 39.3): a) i contratti, gli atti unilaterali tra vivi, le sentenze ed ogni altro atto (o provvedimento dell’autorità giudiziaria) che abbiano l’effetto di trasferire la proprietà di beni immobili, ovvero di costituire, trasferire, modificare o estinguere altri diritti reali immobiliari; b) i contratti preliminari aventi ad oggetto la stipulazione dei contratti sub a) (art. 2645 bis); c) i contratti di locazione (e quelli associativi, o costitutivi di consorzi, in cui vi sia conferimento in godimento) di beni immobili per una durata ultranovennale; d) gli atti di acquisto per causa di morte (a titolo di eredità o legato) di diritti reali immobiliari; e) le domande giudiziali che si riferiscano ai diritti summenzionati (elencate agli artt. 2652 e 2653). Accanto a tali atti, la legge assoggetta altresì a trascrizione, quando abbiano per oggetto immobili, le transazioni, le divisioni, le convenzioni matrimoniali costitutive del fondo patrimoniale, o della separazione dei beni, e la cessione dei beni ai creditori. Si noti che, in tale sistema, gli atti che si devono assoggettare a trascrizione sono anche gli unici che si possono trascrivere (in altre parole, non è consentito trascrivere un atto, la cui trascrizione non sia imposta dalla legge). In tempi recenti, l’elenco degli atti trascrivibili si è arricchito di nuove figure. Dapprima, è stata introdotta un’ulteriore disposizione (che per più aspetti si distacca dall’impostazione tradizionale), in cui si prevede la possibilità di trascrivere, per i particolari fini di cui si dirà (in conclusione del paragrafo successivo), gli atti pubblici con cui beni immobili (o mobili registrati) vengono destinati alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, riferibili a persone con disabilità, pubbliche amministrazioni, o altri enti, o
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Cap. 39. La trascrizione
persone fisiche (art. 2645 ter, introdotto dal d.l. n. 273 del 2005, convertito nella l. n. 51 del 2006). In seguito, è stato aggiunto un n. 2 bis all’elencazione dell’art. 2643, in cui si prevede la trascrizione dei contratti che costituiscano, trasferiscano o modifichino diritti edificatori previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale (i cc.dd. strumenti urbanistici, su cui v. supra, 35.4). Ancora, si è inserito, nel medesimo elenco dell’art. 2643, un n. 12 bis, sulla trascrizione degli accordi di mediazione (che risultano da processo verbale con sottoscrizione autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato) che accertano l’usucapione. Infine, si è introdotto l’art. 2645 quater che prevede la trascrizione, se hanno per oggetto beni immobili, dei contratti e degli atti, anche unilaterali, di diritto privato, nonché delle convenzioni e dei contratti che costituiscono a favore dello Stato, della Regione, degli altri enti pubblici territoriali o di enti che svolgono un servizio di interesse pubblico, vincoli di uso pubblico e ogni altro vincolo richiesto (a qualsiasi fine) da norme statali e regionali, da strumenti urbanistici comunali nonché dai conseguenti strumenti di pianificazione territoriale e dalle convenzioni urbanistiche a essi relative.
3. Effetti della trascrizione. L’effetto primario e normale della trascrizione consiste, come si è detto, nell’assicurare l’opponibilità ai terzi gli atti trascritti. Tale è l’efficacia connessa alla trascrizione degli atti elencati sub a), b) e c), al paragrafo precedente. A norma dell’art. 2644, tale opponibilità implica: – in termini negativi, che gli atti non trascritti non hanno effetto nei confronti di quei terzi che abbiano anteriormente trascritto un atto di acquisto (anche se di data posteriore) di diritti incompatibili sullo stesso bene (1° comma); – in termini positivi, che la trascrizione dell’atto rende inopponibili all’acquirente tutti gli acquisti incompatibili compiuti dai terzi (anche anteriormente, ma) non trascritti (2° comma). Il conflitto tra più acquirenti di diritti incompatibili sullo stesso immobile viene risolto, in altri termini, non attraverso il criterio della anteriorità dell’atto (come dovrebbe essere, secondo la logica dell’acquisto a titolo de-
§ 3. Effetti della trascrizione
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rivativo), ma in base alla priorità della trascrizione di esso nei registri immobiliari. Così, nel caso di doppia alienazione immobiliare, il primo atto, pur valido ed efficace tra le parti, non potrà essere fatto valere nei confronti del secondo acquirente che abbia trascritto per primo; il primo acquirente si vedrà, pertanto, privato della proprietà del bene, che non potrà più recuperare, salvo il diritto al risarcimento del danno, a carico dell’alienante (ed eventualmente del secondo acquirente in mala fede). La soluzione adottata dal legislatore, nel caso della doppia alienazione immobiliare, si pone in antitesi con il principio del consenso traslativo: in base all’art. 1376, il primo acquirente diviene proprietario dell’immobile, e dunque titolare di un diritto che dovrebbe valere erga omnes, in virtù del consenso legittimamente manifestato, anche se l’atto non sia stato trascritto; ma l’art. 2644 ci rivela che tale diritto dovrà cedere, di fronte alla trascrizione di un acquisto posteriore. Il conflitto ha indotto la dottrina ad elaborare molteplici tentativi di conciliazione. Taluno costruisce quello del secondo avente causa come acquisto a titolo originario (collegato ad una fattispecie complessa, costituita dall’atto stipulato con un dante causa che non è più proprietario, e dalla trascrizione); ma si osserva, in contrario, che il caso ricade sotto il principio di continuità delle trascrizioni (art. 2650), che invece non avrebbe senso applicare se realmente si trattasse di un acquisto a titolo originario. L’opinione prevalente qualifica l’acquisto del secondo acquirente come a titolo derivativo, il che tuttavia presuppone che il dante causa sia proprietario: a tal fine, o si sostiene che il primo trasferimento è efficace erga omnes, tranne che nei confronti del secondo acquirente che trascriva per primo (ma così ipotizzando, irrealisticamente, che il diritto reale possa essere, al tempo stesso, opponibile contro alcuni e non contro altri); oppure si costruisce la trascrizione (preventiva) del secondo acquisto, come evento che risolve ex tunc l’efficacia del primo, ricostituendo così in capo all’alienante la proprietà, e permettendo di considerare il secondo trasferimento, come un caso di acquisto a domino.
In altri casi, (così è per gli acquisti mortis causa, di cui alla lett. d) del paragrafo precedente, e per gli atti di divisione) la formalità è disposta non ai fini dell’opponibilità, ma solo per garantire la continuità delle trascrizioni: serve, cioè, ad evitare che la catena di passaggi successivi (e dunque di trascrizioni contro il dante causa e a favore dell’avente causa) abbia ad interrompersi. Quanto alla trascrizione delle domande giudiziali (di cui alla lett. e) dell’elenco suddetto), essa assicura una sorta di effetto prenotativo: la trascrizione della successiva sentenza, che accolga una domanda trascritta, prevarrà infatti su tutte le trascrizioni successive a quella della domanda stessa (come se gli effetti della sentenza si producessero, nei confronti dei terzi in
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Cap. 39. La trascrizione
conflitto, retroattivamente dal momento della trascrizione della domanda). Così se A vende a B un immobile, e successivamente lo stesso A trascrive una domanda di annullamento (per causa diversa dall’incapacità legale), o di risoluzione, o di rescissione, la sentenza che l’accolga sarà opponibile a tutti i terzi, che abbiano acquistato diritti da B, con atti trascritti successivamente alla trascrizione (non della sentenza, ma già) della domanda. In tempi recenti, sono stati introdotti nel codice i due nuovi artt. 2668 bis, e 2668 ter, in forza dei quali l’effetto prenotativo della trascrizione della domanda giudiziale (come del pignoramento e del sequestro conservativo, aventi a oggetto immobili) cessa dopo il termine di vent’anni dalla data della trascrizione stessa. La perdita di efficacia (che ovviamente non tocca gli effetti della sentenza tra le parti del giudizio) può evitarsi, provvedendo alla rinnovazione della trascrizione prima della scadenza del ventennio: a tal fine si presenta al conservatore (anche in luogo del titolo) una nota conforme a quella precedente, in cui si dichiara che si intende rinnovare la trascrizione originaria. È evidente che il conseguimento degli effetti favorevoli della trascrizione, sin qui illustrati, corrisponderà a un interesse del soggetto che possa avvalersene (in linea di principio, la parte acquirente del diritto): e ciò spiega perché la sua effettuazione possa configurarsi come un onere (cfr. Cap. 4, par. 9) a carico della parte avvantaggiata. Peraltro, l’esigenza di certezza dei traffici (connessa alla pubblicità degli atti con cui si realizza la circolazione giuridica) giustifica che la trascrizione sia imposta invece come obbligo a carico del notaio, o altro pubblico ufficiale, che abbia ricevuto o autenticato l’atto soggetto a trascrizione, e che questi sia tenuto a risarcire il danno in caso di ritardo nel provvedervi (art. 2671). Tra le modificazioni introdotte, in tempi successivi, nel sistema originario del codice, attenzione particolare va riservata alla trascrizione del contratto preliminare (prevista, come già ricordato, dal nuovo art. 2645 bis). Riferendosi al contratto preliminare proprio (v. supra, Cap. 14, par. 7), e dunque a un contratto destinato a produrre (almeno secondo l’impostazione tradizionale) efficacia meramente obbligatoria, la norma introduce un’apparente anomalia nel sistema tipico della trascrizione: il quale si riferisce principalmente ad atti aventi efficacia reale (con l’unica eccezione rappresentata dalla locazione, che per altro va trascritta solo se ultranovennale). Secondo l’opinione preferibile, la trascrizione del preliminare (che risponde ad esigenze di tutela del promittente acquirente, assai sentite nella prassi della contrattazione immobiliare) produce un effetto prenotativo, analogo a quello che caratterizza la trascrizione delle domande giudiziali (di cui si è appena detto):
§ 4. Titolo e procedimento
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una volta trascritto il contratto definitivo, o la sentenza costitutiva (ex art. 2932) che lo sostituisce (cfr. anche qui p. 174), l’acquirente prevarrà rispetto ai terzi che abbiano trascritto o iscritto un atto di acquisto, contro il promittente alienante, dopo la trascrizione del preliminare stesso. Menzione a parte meritano gli effetti connessi alla trascrizione degli atti di destinazione a interessi meritevoli di tutela (di cui al nuovo art. 2645 ter). La norma prevede che, attraverso la trascrizione, diventi opponibile ai terzi il vincolo di destinazione, impresso sui beni da tali atti, per la realizzazione dei suddetti interessi (in ordine ai quali, per altro, è assai discusso il senso del riferimento alla “meritevolezza di tutela”, ed all’art. 1322). Con la conseguenza che i beni, oltre a poter essere impiegati solo per raggiungere il fine di destinazione su di essi impresso, non possono essere oggetto di esecuzione, se non per debiti che siano stati contratti per realizzarlo.
4. Titolo e procedimento. La trascrizione deve essere domandata alla Conservatoria competente per territorio, allegando alla domanda il titolo e due note. Il titolo per ottenere la trascrizione potrà essere una sentenza, un atto pubblico, o una scrittura privata autenticata (o giudizialmente accertata). Si è visto a suo tempo (cfr. 14.7) che la parte, che intenda rendere opponibile ai terzi il contratto di acquisto immobiliare redatto per scrittura privata semplice (forma idonea per la validità dell’atto, ma non sufficiente per la sua trascrizione) ha la possibilità di promuovere l’accertamento giudiziale delle sottoscrizioni del contratto, provvedendo a trascrivere immediatamente la relativa domanda (ex art. 2652, n. 3).
Le note devono contenere gli estremi sufficienti a identificare l’atto, le parti, i beni, nonché l’essenza e la natura del mutamento giuridico (costituzione, trasferimento, modificazione, estinzione) che l’atto produce in relazione al bene. L’esattezza di tali indicazioni influisce sull’esito della trascrizione, dato che è il contenuto della nota a venir copiato nel registro delle trascrizioni e, dunque, ad essere opponibile ai terzi (che non sono tenuti, in linea di principio, a consultare il titolo). I registri immobiliari sono tenuti su base personale: cioè non sono organizzati assumendo a criterio l’elencazione dei diversi beni immobili, ma dei diversi soggetti che acquistino diritti su di essi. La trascrizione dell’atto verrà dunque eseguita contro il soggetto che trasferisce (e dunque perde) il diritto e a favore del soggetto che lo acquista.
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I principali registri conservati nell’ufficio sono: un registro generale d’ordine, in cui si devono annotare giornalmente, secondo l’ordine di presentazione, tutti i titoli presentati per la trascrizione, o per l’esecuzione delle altre formalità pubblicitarie (iscrizione o annotazione), con assegnazione del numero d’ordine di presentazione, decisivo per stabilire la priorità temporale dell’una formalità rispetto all’altra; accanto a quello generale vi sono poi alcuni registri particolari per i singoli tipi di formalità, e dunque per le trascrizioni, per le iscrizioni (formalità aventi efficacia costitutiva, ad es., del diritto di ipoteca) e per le annotazioni (formalità accessorie, o di secondo grado, in quanto dirette a pubblicizzare altre formalità: ad es., eseguita la trascrizione di una domanda giudiziale relativa ad un atto trascritto, ne viene data notizia mediante annotazione in margine alla trascrizione dell’atto stesso).
5. La pubblicità relativa ai beni mobili. Si è visto a suo tempo che la legge assoggetta ad un regime analogo a quello previsto per gli immobili (e per i diritti reali sugli stessi), alcune categorie di beni mobili iscritti in pubblici registri: principalmente, gli autoveicoli, le navi e gli aeromobili. La disciplina della pubblicità mobiliare risulta per molti aspetti identica a quella prevista per gli immobili: sia per quanto attiene agli atti assoggettati a trascrizione (art. 2684 ss.), sia in materia di effetti (come si desume dai richiami alla trascrizione immobiliare, contenuti nelle norme ad essi dedicate). La differenza più vistosa riguarda l’impostazione dei registri per la pubblicità mobiliare (Pubblico registro automobilistico, Registro navale italiano e Registro aeronautico italiano), che a differenza di quanto appena visto per quelli relativi agli immobili (cfr. il paragrafo precedente), sono organizzati su base reale, assumendo cioè a riferimento il bene cui si riferiscono le formalità pubblicitarie. Le vicende oggetto di pubblicità sono poi annotate su documenti, destinati a seguire il bene nella sua circolazione. L’efficacia tipica della trascrizione mobiliare è quella dichiarativa: essa renderà opponibile ai terzi l’acquisto (già avvenuto), in particolare risolvendo il conflitto tra più aventi causa dallo stesso alienante, in base al principio della priorità della trascrizione. Va ricordato, tuttavia, che la giurisprudenza ha affermato l’opponibilità degli atti traslativi della proprietà degli autoveicoli, se risultanti da attestazione notarile o equipollente, ed ancorché non trascritti, agli organi preposti all’accertamento delle infrazioni in tema di circolazione stradale (ad es., mancata copertura assicurativa obbligatoria).
§ 6. Il regime tavolare
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6. Il regime tavolare. Se quello della trascrizione, sin qui illustrato, è il sistema di pubblicità immobiliare generalmente vigente sul territorio nazionale, in talune zone d’Italia, e precisamente nelle province di Trento, Bolzano, Trieste e Gorizia, nonché in alcuni comuni delle province di Udine (Cervignano e Pontebba), di Belluno (Cortina d’Ampezzo, Pieve di Livinallongo e Colle S. Lucia) e di Brescia (Valvestino), si applica tuttora un regime diverso, di origine austriaca, fondato non sui registri immobiliari ma sui libri fondiari, tenuti presso un Ufficio tavolare, al cui vertice è posto un giudice tavolare. Le differenze principali riguardano: il criterio di tenuta dei libri, che risultano ordinati su base reale; i tipi di formalità attraverso le quali si realizza la pubblicità nei libri stessi, la principale delle quali prende il nome di intavolazione (e alla quale si affiancano la prenotazione e l’annotazione); il procedimento esecutivo che muove (come la trascrizione) da una domanda di intavolazione, la quale tuttavia potrà essere eseguita solo a seguito di un decreto del giudice tavolare (e in conformità al contenuto di esso); infine, e soprattutto, l’efficacia connessa all’iscrizione nel libro fondiario, che anziché limitarsi a rendere opponibile l’atto di acquisto (pubblicità dichiarativa), ha valore costitutivo dell’acquisto stesso (il diritto si acquista, cioè, al momento e per effetto dell’intavolazione).
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Cap. 39. La trascrizione
§ 1. La compravendita: a) la fattispecie tipica
PARTE UNDICESIMA
I PRINCIPALI CONTRATTI TIPICI
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Cap. 40. I contratti di alienazione
§ 1. La compravendita: a) la fattispecie tipica
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CAPITOLO 40
I CONTRATTI DI ALIENAZIONE
SOMMARIO: 1. La compravendita: a) la fattispecie tipica. – 2. Segue: effetti del contratto ed obblighi delle parti. – 3. Segue: sottotipi e discipline speciali. – 4. La permuta. – 5. La somministrazione. – 6. Il contratto estimatorio. – 7. I contratti di rendita. – 8. Alcuni nuovi contratti: a) la subfornitura; b) la cessione dei crediti di impresa (factoring); c) l’affiliazione commerciale (franchising).
1. La compravendita: a) la fattispecie tipica. La compravendita (o più semplicemente, secondo la denominazione utilizzata dal codice, vendita) è il contratto con cui una parte (venditore, o alienante) trasferisce all’altra (compratore, o acquirente) la proprietà di una cosa o un altro diritto, verso il corrispettivo di un prezzo (art. 1470). La vendita, che nella prassi commerciale rappresenta il principale e più frequente strumento di scambio, è contratto tipicamente consensuale, e ad efficacia reale. Il trasferimento del diritto si produce di regola immediatamente, per effetto del semplice consenso (in conformità al principio sancito dall’art. 1376), anche se non manca una serie di ipotesi (costituenti altrettanti sotto-tipi legali), in cui esso è differito, e si realizza solo al concretarsi di determinati eventi ulteriori: come l’acquisto del bene da parte del venditore (nella vendita di cosa altrui), la venuta ad esistenza di esso (nella vendita di cosa futura), l’individuazione (vendita di cose generiche), il pagamento dell’ultima rata di prezzo (vendita con riserva della proprietà), la scelta del bene (nella vendita alternativa), e via dicendo (v. infra, 40.3). La disciplina della vendita si articola, di conseguenza, in un gruppo di norme generali, che valgono per qualsiasi ipotesi di compravendita, e in una serie di disposizioni speciali, applicabili a ciascuna di queste figure sub-tipiche, caratterizzate dal particolare oggetto, da singoli patti aggiunti, o dalla peculiare efficacia. Nella sua parte generale, la disciplina della vendita costituisce il modello per tutte le fattispecie contrattuali riconducibili allo schema base del trasferimento oneroso:
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Cap. 40. I contratti di alienazione
dalla permuta (art. 1555) alla somministrazione (art. 1570), dal contratto di riporto (artt. 1550 e 1551), al conferimento di beni in società (cfr. artt. 22541 e 23423).
Gli elementi essenziali che caratterizzano lo scambio sono, da un lato, il trasferimento di un diritto, dal venditore al compratore, dall’altro, l’obbligazione corrispettiva del compratore di pagare al venditore un prezzo. La costruzione teorica tradizionale include il diritto trasferito (ovvero, secondo una variante, il bene, al quale il diritto si riferisce) ed il prezzo nell’oggetto del contratto di compravendita. Secondo un’idea più moderna, oggetto del contratto di vendita sarebbero le due reciproche attribuzioni, l’una traslativa, in favore del compratore, avente a oggetto il diritto trasferito, l’altra pecuniaria, posta a carico di questi e in favore del venditore, avente a oggetto il prezzo. Il diritto, oggetto dell’attribuzione traslativa, può essere, di volta in volta: la proprietà (come previsto nella definizione del contratto, all’art. 1470), che può essere trasferita nella sua pienezza, o anche solo come nuda proprietà (nell’ipotesi di vendita con riserva di usufrutto), o come comproprietà (nel caso della c.d. vendita di quota di un bene comune); qualsiasi altro diritto reale di godimento (come avviene nella cessione onerosa del diritto di usufrutto, di cui all’art. 980), purché non si tratti di un diritto inalienabile, (tali sono, ad es., l’usufrutto legale dei genitori, ex art. 326, e l’uso, ex art. 1024); un diritto di credito (è il caso della cessione onerosa del credito, di cui all’art. 1260); il diritto sui c.d. beni immateriali (il dir. d’autore o il dir. di invenzione industriale, dei quali potrà cedersi, a titolo oneroso, il diritto allo sfruttamento economico); una posizione contrattuale complessa (come avviene, secondo l’opinione prevalente, nella cessione del contratto, ex art. 1406 ss.); una partecipazione sociale, sia in una società di persone (caso che viene assimilato alla cessione del contratto), sia in una società di capitali; sino al complesso di posizioni giuridiche ricomprese nella titolarità di una universitas, come accade nel trasferimento di un’azienda (2556 ss.) o nella vendita di un’eredità (1542 ss.). Più discussa è la possibilità di una attribuzione traslativa che abbia ad oggetto: un diritto reale di garanzia, come il pegno o l’ipoteca, in quanto il trasferimento potrebbe comunque ammettersi solo in favore di chi sia creditore dello stesso soggetto il cui debito è garantito; un diritto potestativo, come il diritto di riscattare il bene venduto (cfr. infra, il n. 3, alla lett. h), poiché nella maggior parte dei casi si tratta di diritti che non possono essere trasferiti, se non trasferendo la situazione giuridica complessa alla quale
§ 1. La compravendita: a) la fattispecie tipica
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accedono (com’è per il diritto di riscatto, che si ammette possa essere ceduto, ma solo trasferendo la complessiva posizione di venditore di cui fa parte, e cioè attraverso una cessione del contratto: cfr. 18.5). Anche l’attribuzione traslativa deve presentare i requisiti previsti in generale, a pena di nullità, per l’oggetto del contratto: essa quindi dovrà essere possibile, lecita, determinata o determinabile. L’impossibilità del risultato traslativo potrà essere tanto materiale (ad es., viene venduta una cosa specifica, che risulti già perita al momento del contratto), quanto giuridica: sotto quest’ultimo profilo, possono venire in rilievo l’inalienabilità del diritto (come negli es. già proposti del diritto d’uso, o dell’usufrutto legale), o l’incommerciabilità del bene, prevista, ad es., dall’art. 823, per i beni demaniali, o dalla legislazione urbanistica, per le costruzioni abusive (anche se non sempre è agevole, in tal senso, distinguere l’impossibilità giuridica dalla illiceità). Quanto alla determinatezza, regole particolari sono dettate per l’individuazione dell’oggetto dell’alienazione nelle vendite immobiliari (cfr. 40.3.d). Non costituisce, invece, requisito essenziale dell’oggetto, l’esistenza attuale del bene al tempo del contratto, quando sia comunque possibile che esso venga ad esistere in un momento successivo, come dimostra la validità della vendita di cosa futura (su cui cfr. 40.3.b).
Si definisce “prezzo” il corrispettivo pecuniario del trasferimento: ogni altra forma di corrispettivo, diverso dal denaro, farebbe venir meno il tipo legale “compravendita”, per dar luogo a un diverso contratto (permuta, o altro contratto di scambio, tipico o atipico). Non viene meno, invece, lo schema della vendita, se per un prezzo, che sia già stato determinato in una somma precisa, siano previsti mezzi di pagamento diversi dalla dazione di denaro (come tipicamente avviene per i titoli rappresentativi di esso: assegni bancari, o assegni circolari). Neppure è necessario che il contratto preveda, in ogni caso, il sorgere di un’obbligazione avente a oggetto il pagamento del prezzo: è sufficiente, infatti, che le parti dichiarino nell’atto che il prezzo è già stato integralmente versato (secondo la giurisprudenza, senza neppure indicarne l’ammontare). La legge detta una disciplina dettagliata, in ordine alla determinazione del prezzo: l’ammontare di esso può, come di regola, essere determinato al momento dell’accordo, o anche solo determinabile, in base a criteri che, a loro volta, possono essere convenzionali (fissati, cioè, dalle stesse parti) o legali (operanti in difetto di indicazioni pattizie). Tra i più comuni criteri convenzionali di determinazione del prezzo, va ricordato che il contratto può fissare preventivamente dei parametri oggettivi di quantificazione, oppure affidare la determinazione del prezzo ad un
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Cap. 40. I contratti di alienazione
terzo, designato nello stesso contratto o da eleggersi successivamente (art. 1473). L’ipotesi costituisce applicazione della figura generale dell’arbitraggio (cfr. 14.4), per cui il terzo dovrà decidere secondo un equo apprezzamento, a meno che le parti non abbiano specificato di volersi rimettere al suo mero arbitrio; a differenza, però, di quanto previsto per la figura generale (art. 1349), nel caso in cui manchi la determinazione da parte dell’arbitratore, non si sostituisce ad essa la determinazione del giudice, ma quella di un altro arbitratore, nominato in sostituzione dalle parti stesse, o dal presidente del tribunale del luogo in cui il contratto è concluso. Si ritiene, infine, che il contratto possa affidare il compito di fissare il prezzo anche ad una delle parti, purché in tal caso la determinazione venga ancorata a dati oggettivi, tali da escludere una decisione arbitraria (nel qual caso la vendita sarebbe nulla). Qualora le parti non abbiano provveduto a fissare il prezzo, né abbiano convenuto il modo di determinarlo, diventano applicabili i tre criteri legali suppletivi previsti all’art. 1474: quando si tratti di beni che il venditore vende abitualmente, o che abbiano un prezzo di borsa o di mercato, si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore (prezzo del venditore); quando si tratti di beni aventi un prezzo di borsa o di mercato, il prezzo verrà desunto dai relativi listini (prezzo di mercato); quando, infine, dall’interpretazione del contratto, risulti che le parti hanno inteso riferirsi al giusto prezzo, si applicheranno i primi due criteri (nei casi da essi previsti), ovvero, in mancanza di accordo successivo, si farà ricorso alla nomina di un arbitratore, secondo quanto stabilito dall’art. 1473 (criterio c.d. del giusto prezzo). Fatta eccezione per le ipotesi di rescindibilità del contratto (sulle quali, cfr. 16.4), è possibile che tra prezzo di vendita e valore effettivo del bene sussista un divario, anche consistente, senza che venga meno la causa di scambio, e dunque la validità della vendita: in giurisprudenza si è ritenuto che il contratto sarà nullo, per difetto di un suo elemento essenziale, solo quando il prezzo sia puramente simbolico, ovvero sprovvisto di una sostanziale consistenza economica (c.d. vendita nummo uno); mentre, laddove esso sia intenzionalmente esiguo, il contratto sarà valido, ma dovrà essere riqualificato secondo la sua causa effettiva, come donazione indiretta, o come vendita mista a donazione.
Quanto ai presupposti soggettivi, trovano applicazione alla vendita le discipline generali in ordine alla titolarità, alla legittimazione ed alla capacità, salvo il limite specifico, introdotto dall’art. 1471, che prevede due coppie di divieti speciali di comprare.
§ 2. Segue: effetti del contratto ed obblighi delle parti
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I primi due casi riguardano, rispettivamente: gli amministratori dei beni dello Stato, degli enti locali e degli altri enti pubblici (sindaci, consiglieri comunali, provinciali e regionali), in relazione ai beni affidati alla loro cura (n. 1); i pubblici ufficiali (ad es., il giudice dell’esecuzione, il custode dei beni pignorati o sequestrati, il notaio e, secondo una tesi, anche il curatore fallimentare), relativamente ai beni venduti per loro ministero (n. 2). Le due ipotesi ulteriori riguardano: coloro che, per legge o per provvedimento amministrativo, amministrano beni privati altrui (genitori esercenti la potestà, tutore e protutore, curatore dei soggetti parzialmente incapaci, curatore dello scomparso e amministratore dei beni dell’assente, esecutore testamentario e curatore dell’eredità giacente), rispetto ai beni medesimi (n. 3); i mandatari, rispetto ai beni che sono stati incaricati di vendere (n. 4). Nei primi due casi la violazione del divieto è sanzionata con la nullità dell’atto di acquisto, negli altri due con l’annullabilità. Ciò ha fatto ritenere che la norma configuri, rispettivamente, due ipotesi di incapacità giuridica speciale, e due casi di incapacità speciale d’agire (anche se non mancano, al riguardo, diverse ricostruzioni).
2. Segue: effetti del contratto ed obblighi delle parti. Si è detto che nella compravendita, contratto consensuale ad effetti reali, l’efficacia traslativa è normalmente contemporanea alla conclusione del contratto e si produce per effetto del consenso (cfr. l’art. 1376): si comprende quindi perché, di regola, il trasferimento del diritto non possa configurarsi come oggetto di una obbligazione in senso tecnico (intesa come dovere di comportamento) dell’alienante (cfr. 14.3). Di conseguenza, tra le obbligazioni del venditore elencate dall’art. 1476, quella di far acquistare al compratore il diritto è prevista nei soli casi in cui l’acquisto non è effetto immediato della stipulazione: si tratta, essenzialmente, delle ipotesi già ricordate di vendita di cosa altrui, di cosa futura e di cosa generica (v. infra, 40.3, rispettivamente sub lett. a), b) e c). Proprio la previsione dell’obbligo di far acquistare la proprietà al compratore (art. 1476, n. 2) ha condotto, tradizionalmente, a definire tali figure come ipotesi di vendita obbligatoria. La dottrina più recente ha peraltro osservato che, anche in questi casi, il trasferimento del diritto va ricollegato comunque all’accordo originario, per cui si è preferito utilizzare la formula “vendita ad effetti traslativi differiti”; ciò anche per distinguerla dal diverso schema, che caratterizza la compravendita in altri ordinamenti (come quello tedesco), che da essa fanno discendere sempre
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Cap. 40. I contratti di alienazione
(e solo) l’obbligo di trasferire il diritto (la c.d. obbligazione di dare), il quale dovrà essere adempiuto con un successivo atto di trasferimento (cfr. 29.1).
In tutti i casi di compravendita (sia ad effetti reali immediati, che ad effetti reali differiti), a carico del venditore sono comunque previsti: a) l’obbligo di consegnare la cosa al compratore; b) l’obbligo di garantire il compratore dall’evizione; c) l’obbligo di garantirlo dai vizi della cosa (art. 1476). a) In ordine all’obbligazione di consegna, avente ad oggetto il trasferimento del possesso della cosa venduta, alle osservazioni già svolte a suo tempo in ordine alle possibili modalità che la consegna stessa può assumere (cfr. 36.3), deve aggiungersi che il venditore è obbligato a consegnare il bene al compratore, nello stato in cui esso si trovava al momento della stipulazione, unitamente ad accessori, pertinenze e frutti dal giorno della vendita, e insieme ai titoli ed ai documenti relativi al diritto trasferito ed all’uso del bene (art. 1477). A tale obbligazione corrisponde, in capo al compratore, un diritto di credito, che può essere fatto valere con un’azione contrattuale volta ad ottenere l’immissione nel possesso, esperibile nei confronti del (solo) venditore ed entro l’ordinario termine di prescrizione; azione che resta distinta da quella di rivendica, non soggetta a prescrizione e proponibile dal compratore stesso (ma nella sua qualità di proprietario) erga omnes. Se la consegna non è contestuale alla conclusione del contratto, sul venditore grava altresì l’obbligo (accessorio e strumentale) di custodia del bene (art. 1177), che impegna il venditore nei limiti della diligenza ordinaria: se, a causa di una negligente custodia, il bene subisce deterioramenti, il compratore potrà agire con i normali rimedi contrattuali contro l’inadempimento, i quali non sono soggetti ai termini di decadenza e prescrizione, previsti invece, per le azioni di garanzia contro i vizi che la cosa presentava al momento del trasferimento, dall’art. 1495 (v. infra, in questo paragrafo, la lettera c); per la diversa disciplina della vendita di beni di consumo, cfr. 40.3.f). b) Evizione si ha quando il compratore perde, in tutto o in parte, il diritto acquistato per effetto dell’accertata prevalenza del diritto di un terzo (di regola conseguente a un provvedimento giudiziario, ad es. in accoglimento di un’azione di rivendicazione, confessoria o di riduzione, o anche a fattispecie stragiudiziali, come l’esercizio del riscatto nelle ipotesi di prelazione legale): si tratta, in sostanza, di casi in cui l’alienante viene chiamato a rispondere di una mancata o inesatta attuazione del risultato traslativo (art. 1483 ss.). Poiché, tuttavia, una prima ipotesi generale di mancata at-
§ 2. Segue: effetti del contratto ed obblighi delle parti
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tuazione dell’effetto traslativo è già prevista e disciplinata dall’art. 1479, il quale, in tema di vendita di cosa altrui, tutela il compratore in buona fede (cfr. 40.3.a), dottrina e giurisprudenza individuano la specificità delle norme sull’evizione nel fatto che esse tutelano anche l’acquirente di mala fede (che cioè conosceva l’esistenza di diritti di terzi sulla cosa), e che attribuiscono rimedi assoggettati a termini di prescrizione diversi (in quanto decorrenti dal verificarsi dell’evizione) da quelli azionabili in caso di vendita di cosa altrui (che decorrono, invece, dalla scoperta dell’altruità del bene). Presupposto per l’attivazione della garanzia è che il venir meno dell’acquisto sia conseguenza di un evento (il c.d. fatto evizionale) che si manifesta dopo la conclusione del contratto, ma la cui causa (almeno secondo la tesi prevalente) deve preesistere a tale momento. Tipici fatti evizionali sono: la sentenza passata in giudicato che, accogliendo la domanda di rivendicazione del terzo, condanna il compratore al rilascio del bene (c.d. evizione rivendicativa); il trasferimento coattivo del bene in favore di un terzo creditore che, in sede di esecuzione forzata (cfr. 33.1), abbia potuto opporre il vincolo al compratore, o anche il decreto di espropriazione per pubblica utilità del bene, che fosse stato assoggettato alla relativa procedura anteriormente alla vendita (casi di c.d. evizione espropriativa); tutte le ipotesi in cui venga meno il titolo in forza del quale il venditore aveva acquistato il diritto trasferito (a seguito, ad es., di annullamento, risoluzione, riduzione per lesione di legittima), e le relative sentenze siano opponibili all’acquirente (c.d. evizione risolutoria).
La legge distingue tre fasi della vicenda evizionale: il pericolo di evizione, l’evizione minacciata e l’evizione compiuta. Si ha pericolo di evizione quando il compratore ha ragione di temere che la cosa o una parte di essa possa essere rivendicata da un terzo (art. 1481), ovvero quando la cosa stessa risulti gravata da vincoli di indisponibilità (ad es., sequestro o pignoramento) o garanzie reali (come il pegno o l’ipoteca) non dichiarati in contratto e ignorati dal compratore stesso (art. 1482). In entrambi i casi, l’acquirente potrà sospendere il pagamento del prezzo, salvo che il venditore non offra idonee garanzie; nel secondo, potrà altresì far fissare dal giudice un termine, scaduto il quale, se la cosa non è liberata, il contratto si risolve. L’evizione minacciata si ha quando il compratore venga convenuto in giudizio dal terzo, che pretenda di avere diritti sulla cosa venduta: in tal caso, egli ha l’onere di chiamare in causa il suo dante causa (c.d. chiamata in garanzia), pena la perdita della garanzia se il venditore, ad evizione compiuta, riesca a dimostrare che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la domanda (art. 1485).
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L’evizione compiuta, che coincide con la perdita del diritto da parte dell’acquirente, obbliga il venditore a tenere indenne il compratore, restituendogli il prezzo pagato, rimborsandogli le spese e i pagamenti effettuati per il contratto, o per la lite, e risarcendogli ogni danno (artt. 1479 e 1483). La garanzia può essere esclusa, o modificata nei suoi effetti, convenzionalmente, ma il venditore resta comunque tenuto per l’evizione che derivi da fatto proprio: questo si ha quando il titolo, che il terzo evincente fa valere contro il compratore, deriva da un atto dispositivo compiuto, in suo favore, dallo stesso alienante prima della vendita (art. 1487). Anche nei casi di esclusione della garanzia, il venditore resta comunque tenuto alla restituzione del prezzo e al rimborso delle spese, a meno che la vendita non sia stipulata “a rischio e pericolo del compratore”: in tal caso, essa diventa contratto aleatorio, e nulla è dovuto dal venditore (a meno che, anche qui, l’evizione non derivi da un fatto proprio dello stesso venditore) (art. 1488).
c) Nel caso in cui il bene venduto presenti imperfezioni materiali, che lo rendano inidoneo all’uso cui è destinato, o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore, e che non fossero stati preventivamente conosciuti dal compratore (né risultassero facilmente riconoscibili), trova applicazione la garanzia per vizi (art. 1490 ss.). L’acquirente può, a sua scelta (che diviene irrevocabile, quando fatta con la domanda giudiziale), esercitare una delle due azioni in cui si concreta la garanzia (tradizionalmente denominate “azioni edilizie”): l’azione redibitoria, con cui si domanda la risoluzione del contratto, o l’azione estimatoria, con la quale si chiede una riduzione del prezzo, proporzionale all’incidenza del vizio rispetto al valore del bene integro. In entrambi i casi, il venditore, oltre a restituire (in tutto o in parte) il prezzo, e a rimborsare al compratore le spese e i pagamenti effettuati per la vendita, dovrà anche risarcire il danno, se non prova di aver ignorato senza colpa i vizi (art. 1495). Entrambe le azioni sono soggette a un breve termine di decadenza: il compratore ha infatti l’onere di denunciare al venditore i vizi entro otto giorni dalla loro scoperta (salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge). La denunzia non è necessaria, se il venditore abbia riconosciuto l’esistenza dei vizi, o li abbia occultati. In ogni caso, le azioni edilizie sono soggette al termine di prescrizione di un anno, decorrente dalla consegna (art. 1495; sulla nuova disciplina delle garanzie nella vendita di beni mobili di consumo, v. infra, 40.3, lett. f). Alla presenza di vizi la legge assimila la mancanza delle qualità promesse, o di quelle essenziali all’uso cui il bene è destinato: in tal caso, tuttavia, il compratore
§ 3. Segue: sottotipi e discipline speciali
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potrà chiedere la risoluzione secondo le norme generali, pur restando l’azione assoggettata agli stessi termini di decadenza e prescrizione previsti per la redibitoria (art. 1497). Diversa è l’ipotesi, non prevista dal codice, ma elaborata dalla giurisprudenza, in cui, anziché un bene difettoso o carente di qualità, il venditore consegni al compratore una cosa diversa da quella dovuta (c.d. aliud pro alio): in tal caso, l’acquirente potrà agire per la risoluzione del contratto, la quale rimarrà regolata integralmente secondo le norme generali di cui agli artt. 1453 ss. (sottraendosi, così, ai termini rigorosi di decadenza e prescrizione). Va detto, peraltro, che la distinzione tra vizi, mancanza di qualità e aliud pro alio non sempre risulta condotta in base a criteri univoci, tanto che spesso la medesima fattispecie concreta viene ricondotta, dalle decisioni giudiziali, a categorie diverse.
Quanto alle obbligazioni del compratore, la principale consiste, ovviamente, nel pagare il prezzo, nel termine e nel luogo previsti contrattualmente (o, in difetto di previsione, al tempo e nel luogo della consegna) (art. 1498). Il compratore dovrà sostenere, salvo patto contrario, le spese della vendita e quelle accessorie (art. 1475). Infine, egli ha l’obbligo di corrispondere al venditore gli interessi sul prezzo (c.d. interessi compensativi, sui quali cfr. 30.4), nel caso in cui il pagamento di esso sia dilazionato, ed il bene venduto (e consegnato all’acquirente) sia fruttifero, anche se il pagamento del prezzo non sia ancora esigibile (art. 1499).
3. Segue: sottotipi e discipline speciali. La disciplina generale, sin qui illustrata, subisce modifiche o integrazioni, ad opera del codice o di altri testi normativi, in una serie di casi, che potremmo considerare altrettanti sottotipi di vendita. Essi sono individuati, di volta in volta, in base alla natura e alle caratteristiche del bene venduto (vendita di cosa altrui, di cosa futura, di cosa generica, di beni immobili, di beni mobili, di beni di consumo, di eredità), o per effetto di patti e clausole speciali, inseriti nel singolo regolamento contrattuale (v. con patto di riscatto, con patto di retrovendita, con riserva della proprietà). Di tali figure si individueranno, rispetto allo schema generale di compravendita, le più importanti differenze di effetti e di disciplina applicabile. a) Vendita di cosa altrui – Il bene venduto può anche non appartenere all’alienante: se è vero che, di regola, ciò dovrebbe tradursi in un difetto di legittimazione (e nella conseguente inefficacia totale del contratto), il codi-
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ce ricollega alla vendita della cosa altrui effetti diversi da quelli tipici della vendita di cosa propria, distinguendo due fattispecie. a.1) Se la cosa sia venduta dichiarandone l’altruità, in modo che l’acquirente sia consapevole che essa non appartiene al venditore, l’art. 1478 stabilisce che la vendita, anziché produrre l’immediato trasferimento del diritto, fa nascere in capo al venditore l’obbligo di procurarne l’acquisto al compratore (v. comunque quanto osservato in apertura del paragrafo precedente); e l’effetto traslativo si produrrà nel momento in cui il venditore acquisti il diritto di proprietà dal titolare di esso. Se il venditore, entro un certo termine (convenuto dalle parti, o fissato dal giudice, ex art. 1183), non abbia procurato l’acquisto al compratore (nel modo previsto dalla norma, o anche ottenendo direttamente dal proprietario un trasferimento in favore dell’acquirente), questi potrà agire con gli ordinari rimedi contro l’inadempimento del contratto (e richiederne la risoluzione). a.2) Nel caso in cui, viceversa, nel momento della conclusione della compravendita, il compratore sia in buona fede (cioè ignori l’altruità del bene), l’art. 1479 gli consente di chiedere immediatamente la risoluzione del contratto, con la conseguente restituzione del prezzo e il rimborso delle spese, non appena scoperta la mancanza di titolarità, a meno che, nel frattempo, il venditore non gliene abbia fatto acquistare la proprietà. La norma, facendo salvo il disposto dell’art. 1223, riconosce all’acquirente di buona fede anche il diritto al risarcimento del danno (il quale, essendo soggetto alle regole generali, presupporrà la colpa del venditore). Se la cosa alienata, che l’acquirente credeva di proprietà del venditore (siamo dunque in presenza della fattispecie sub a.2), era solo parzialmente altrui, risoluzione e risarcimento del danno potranno essere richiesti solo quando, alla stregua di una valutazione oggettiva, che tenga conto di tutte le circostanze, deve ritenersi che il compratore non l’avrebbe acquistata senza la parte di cui non è divenuto proprietario; in caso contrario, egli potrà ottenere solo una riduzione del prezzo ed il risarcimento del danno (art. 1480). Si discute se la norma si riferisca solo all’ipotesi in cui la proprietà del venditore sia limitata ad una porzione materiale del bene, o anche all’ipotesi della vendita di un bene comune, sul quale egli abbia la comproprietà di una quota indivisa (come sembrano ritenere, in contrasto con l’opinione tradizionale, la dottrina e la giurisprudenza più recenti).
b) Vendita di cosa futura – In continuità con la previsione generale, che considera deducibile in contratto la prestazione di cose future (art. 1348), è valida la vendita di un bene che ancora non esiste, in natura, o come oggetto autonomo di diritti, al momento della conclusione del contratto.
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La figura ricorre tipicamente nella vendita di edifici ancora da costruire, o di frutti non separati. In tal caso, l’acquisto della proprietà si verifica automaticamente, non appena la cosa venga materialmente ad esistenza (ad es. sia ultimata la costruzione), o diventi suscettibile di considerazione come bene autonomo (art. 1472), come avviene per i frutti, dal momento della separazione (cfr. 34.8). Analogamente a quanto visto per la vendita di cosa altrui, occorrerà anche qui che il bene sia dedotto in contratto come futuro: qualora, viceversa, il venditore lo alieni come attuale, ad un compratore che ne ignori l’inesistenza, diverranno applicabili i rimedi (risoluzione e risarcimento) appena esaminati. Se però sia dedotta in contratto una cosa specifica, che sia già perita, o la cui possibile venuta ad esistenza risulti esclusa, il contratto dovrebbe dirsi nullo, per impossibilità originaria dell’oggetto.
Nella sua prima (e più diffusa) variante, la vendita di cosa futura è contratto commutativo: il contratto ha ad oggetto la cosa sperata (emptio rei speratae), nel senso che, da un lato, il compratore non assume il rischio del mancato venire ad esistenza del bene e, dall’altro, il venditore deve ritenersi obbligato a porre in essere l’attività strumentale al realizzarsi dell’effetto traslativo (a costruire il bene, a produrre i frutti, ecc.). I termini dello scambio sono certi, almeno nel senso che esso è determinato in base ad un certo rapporto di valore tra le prestazioni (ad es.: la vendita del futuro raccolto, per un prezzo unitario al quintale). Ne discende che, nel caso in cui la cosa futura non venga ad esistenza, “la vendita è nulla” (questa è la formula testuale dell’art. 14722, per altro impropria, dovendosi semmai la fattispecie inquadrare nella categoria dell’inefficacia). Diversa è l’ipotesi della c.d. vendita di speranza (emptio spei), o vendita a sorte, contratto aleatorio in cui, viceversa, l’acquirente assume il rischio della mancata venuta ad esistenza, o delle carenze quantitative e qualitative della cosa futura (es.: la vendita del raccolto, quale che ne risulti la consistenza effettiva, per un prezzo globale predeterminato). In tal caso, la mancata venuta ad esistenza del bene non tocca gli effetti del contratto, e la prestazione di prezzo resta comunque dovuta. c) Vendita di cosa generica – È tale la vendita di cose identificate non nella loro individualità, ma unicamente in base all’appartenenza ad un determinato genere, ed alla loro quantità. Si è già visto (cfr. 34.5, sub lett. a) che, in tal caso, il trasferimento della proprietà non si attua per effetto del consenso, ma richiede l’individua-
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zione (art. 1378). Ugualmente, è solo con l’individuazione che passa all’acquirente il rischio del perimento del bene, per causa non imputabile al venditore (14653), in ossequio al principio res perit domino. L’individuazione consiste, materialmente, nella scelta e nel distacco dalla massa (rappresentativa del genus) della quantità di cose dedotta in contratto. Secondo l’opinione prevalente essa ha natura di atto negoziale; per il venditore, essa rappresenta comunque atto dovuto, che dovrà effettuarsi d’accordo tra le parti, o nei diversi modi da esse stabiliti, o previsti dalla legge. Il mezzo usuale di individuazione consiste nella consegna del bene al compratore (in quanto da questi accettata); altra modalità, normativamente prevista per i casi di beni che debbono essere trasportati da un luogo all’altro (art. 1378, ult. parte), è la consegna del bene al vettore o allo spedizioniere (nel qual caso l’individuazione diviene atto unilaterale del venditore-mittente). È sempre possibile che l’individuazione avvenga consensualmente, prima della consegna, e in tal caso proprietà e rischio del perimento dei beni venduti si trasferiranno all’acquirente indipendentemente dalla consegna stessa. Diversa dalla vendita di cosa generica è la vendita avente a oggetto una massa di cose: nella prima, le cose vendute sono individuate in contratto solo in relazione al loro peso, numero, o misura, ed il prezzo di conseguenza è stabilito in relazione alla quantità (“ti vendo duecento dei libri custoditi nella mia biblioteca per il prezzo di cinque euro l’uno”); nella vendita di massa le cose sono considerate come oggetto unico, già individuato nel suo complesso, anche se per talune conseguenze (prima fra tutte, la determinazione del prezzo totale) esse devono essere contate, pesate, o misurate (“ti vendo tutti i libri custoditi nella mia biblioteca al prezzo di cinque euro l’uno”) (art. 1377). La differenza è rilevante: nella v. di genere la proprietà (e il rischio) non passano prima dell’individuazione (la scelta dei duecento libri); nella v. di massa, proprietà e rischio passano al momento del consenso (anche se sarà necessario contare i volumi per stabilire il prezzo complessivo). Così che, se il giorno successivo alla conclusione del contratto la biblioteca perisce in un incendio, nel primo caso (non essendo ancora stata effettuata l’individuazione), il compratore è liberato, nel secondo caso, sarà tenuto a versare il prezzo di tutti i volumi dei quali possa provarsi l’esistenza al momento del contratto.
d) Vendita di beni immobili – Oltre alle prescrizioni generali, che assoggettano la vendita immobiliare alla forma scritta ad substantiam (art. 1350, n. 1) ed alla trascrizione (art. 2643, n. 1), vanno qui ricordate le regole particolari relative all’identificazione del bene immobile compravenduto, alla determinazione della sua consistenza quantitativa, nonché le speciali invalidità comminate dalla legislazione urbanistica.
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L’identificazione dell’immobile avviene normalmente attraverso l’indicazione del Comune, nel cui territorio l’immobile è situato, e dei suoi confini (ma usuali sono anche altri riferimenti, come all’ubicazione in una specifica località, alla via e al numero civico, a planimetrie e mappe, o ai dati catastali). In caso di discordanza tra più elementi di identificazione, prevale, di regola, l’indicazione dei confini. Data la rilevanza decisiva assunta, nelle vendite immobiliari, dalla collocazione del bene, si ritiene inammissibile una vendita di immobili del tutto generica (es.: “ti vendo due appartamenti di cento metri quadri l’uno, per il prezzo di cinquecento euro al metro quadro”); diverso è il caso del genus limitatum (cfr. 34.5.a), quando i beni risultino sufficientemente localizzati (es.: ti vendo due degli appartamenti da cento metri quadri, facenti parte dello stabile di mia proprietà, sito in Roma, in Via Verdi 15, per il prezzo di cinquecento euro al metro quadro”).
Per quanto attiene alle determinazioni relative alla quantità, si distinguono una vendita a misura, contenente l’indicazione dell’estensione del bene e la previsione di un prezzo fissato in ragione di un tanto per ogni unità di misura (“ti vendo il fondo Tuscolano, dell’estensione di ventimila metri quadri, per il prezzo di duecento euro al metro quadro”), e una vendita a corpo, in cui, anche se viene indicata una misura, il prezzo è determinato globalmente (“ti vendo il fondo Tuscolano, dell’estensione di ventimila metri quadri, per il prezzo di quattrocentomila euro”). Nel caso in cui l’estensione effettiva risulti inferiore a quella dichiarata, nella vendita a misura, il compratore ha sempre diritto a una riduzione proporzionale del prezzo, in quella a corpo, solo se la differenza oltrepassa la ventesima parte del dichiarato. Qualora invece l’estensione effettiva risulti superiore a quella dichiarata, nella vendita a misura, il compratore dovrà pagare il supplemento proporzionale di prezzo, ma se l’eccedenza supera il 5% potrà scegliere di recedere dal contratto; in quella a corpo, tale scelta gli spetta solo se l’eccedenza superi la ventesima parte del dichiarato, sennò, nulla è dovuto. Quando il recesso viene esercitato, il venditore è tenuto a restituire il prezzo ed a rimborsare le spese del contratto. Le regole appena illustrate non si applicano, quando il venditore abbia garantito l’estensione del bene: in tal caso, secondo le norme generali in tema di contratti a prestazioni corrispettive, potrà farsi luogo alla risoluzione del contratto, qualora la divergenza rispetto all’estensione garantita possa configurarsi come inadempimento di non scarsa importanza (cfr. 19.2).
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Grande rilievo pratico assumono, infine, le prescrizioni in materia urbanistica: in particolare, l’art. 46, T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380) commina la nullità delle vendite aventi a oggetto edifici abusivi (costruiti in assenza di concessione edilizia), o in relazione ai quali le parti non indichino, in atto, gli estremi della concessione stessa (artt. 17 e 40, l. cit.); analoga sanzione di nullità è prevista per le vendite di terreni, alle quali non venga allegato un apposito certificato di destinazione urbanistica (rilasciato dal Comune e indicante la destinazione dell’area e le sue capacità edificatorie in base agli strumenti urbanistici vigenti) (art. 18, l. cit.). e) Vendita di cose mobili – Quando la vendita ha ad oggetto beni mobili, norme speciali sono dedicate principalmente alle modalità della consegna ed alle conseguenze dell’inadempimento. La consegna della cosa mobile deve avvenire, in mancanza di usi o pattuizioni contrarie, nel luogo ove essa si trovava al tempo della vendita (se conosciuto dalle parti), ovvero nel luogo in cui il venditore aveva il domicilio, o la sede dell’impresa (art. 15101). Se il compratore non si presenta a ricevere in consegna la cosa, il venditore può effettuarne il deposito (per conto e a spese dell’acquirente) in un locale di pubblico deposito, o in altro locale idoneo determinato dal tribunale del luogo della consegna, dandone pronto avviso al compratore (art. 1514). Se la vendita ha per oggetto cose che devono essere trasportate da un luogo ad un altro (vendita con trasporto), il venditore si libera dell’obbligo della consegna rimettendo la cosa al vettore (cfr. 42.4), o allo spedizioniere (cfr. 42.2.b) (art. 15102). Poiché il venditore non risponde dell’operato di tali soggetti, la regola finisce per accollare all’acquirente tutti i rischi del trasporto (sia quelli legati al caso fortuito, che dovrebbe già sopportare ex artt. 1378 e 1465, sia quelli derivanti da colpa o dolo del vettore o dello spedizioniere); essa può essere derogata dalle parti, con una clausola pattizia (“consegna all’arrivo” o “consegna al domicilio del compratore”), che fa sopportare al venditore il rischio sino al momento dell’effettiva ricezione del bene da parte dell’acquirente. Fermo restando che in caso di inadempimento di una delle parti, la controparte non inadempiente può scegliere tra la risoluzione del contratto e la sua esecuzione coattiva, norme specifiche sono dedicate a tali conseguenze dell’inadempimento nella vendita mobiliare.
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Nel caso di inadempimento del compratore, il venditore può far vendere senza ritardo la cosa, per conto e a spese dell’acquirente (che è proprietario del bene), senza le formalità ordinarie del processo esecutivo, a mezzo di ufficiale giudiziario o di commissionario (la norma erroneamente parla di “commissario”) nominato dal Tribunale, o di altra persona autorizzata (agenti di cambio, mediatori professionali), all’incanto, o anche senza incanto (se la cosa abbia un prezzo corrente) (art. 1515). Analogamente, nel caso di inadempimento del venditore (se la vendita abbia a oggetto cose fungibili, aventi un prezzo corrente) il compratore può farle acquistare senza ritardo, con le stesse modalità, a spese del venditore (art. 1516). In entrambi questi casi di esecuzione coattiva speciale (c.d. compravendita in danno), è fatto salvo il diritto della parte non inadempiente alla differenza tra quanto rispettivamente ricavato o speso ed il prezzo originariamente convenuto, oltre al risarcimento del maggior danno. È inoltre prevista una forma di risoluzione di diritto, a favore del contraente che prima della scadenza del termine abbia fatto l’offerta della propria prestazione, qualora la controparte lasci scadere il termine stesso senza adempiere: la risoluzione avviene allora ipso iure, purché il non inadempiente dichiari entro otto giorni dalla scadenza di volersene avvalere (art. 1517). f) Vendita di beni di consumo – Con d.lgs. 2 febbraio 2002, n. 24 (attuativo della Direttiva comunitaria n. 44 del 1999) erano stati introdotti nel codice civile otto nuovi articoli (da 1519 bis a 1519 nonies), disciplinanti i contratti di vendita di beni mobili conclusi tra un venditore nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale (c.d. professionista) e un acquirente-consumatore (persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività professionale o d’impresa eventualmente esercitata). Tali disposizioni sono state abrogate dalla data di entrata in vigore del Codice del Consumo (d.l. 6 settembre 2005, n. 206, su cui v. supra, 2.2), il cui scopo è il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di tutela dei consumatori, e che nel suo testo riproduce (agli artt. da 128 a 135) la disciplina di quelle medesime disposizioni. La disciplina della vendita di beni di consumo, che muta radicalmente il tradizionale regime della garanzia per vizi, prevede innanzitutto l’obbligo del venditore di consegnare al compratore beni conformi al contratto. Tali si considerano i beni: che corrispondano alla descrizione fattane; che risultino idonei all’uso abituale del tipo a cui appartengono (o all’uso particolare pattuito); che rispondano alle caratteristiche che il consumatore può ra-
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gionevolmente attendersi, non solo in base alle dichiarazioni del venditore, ma anche alle dichiarazioni rese dal produttore nella pubblicità commerciale o nell’etichettatura (art. 129 cod. cons.). In caso di difformità del bene consegnato, il compratore ha diritto di chiederne la riparazione o sostituzione, ovvero (se tali rimedi risultino impossibili o eccessivamente onerosi) la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo (art. 130, cod. cons.). Il venditore è responsabile quando il difetto si manifesti entro due anni dalla consegna del bene, salvo l’onere del compratore di denunciare il difetto stesso entro due mesi dalla scoperta, e salva la prescrizione delle azioni spettanti al consumatore nel termine di ventisei mesi dalla consegna (art. 132, cod. cons.). In tutti i casi in cui il venditore finale risulti responsabile nei confronti de consumatore, per un difetto di conformità imputabile al produttore, o ad un intermediario, o ad un precedente venditore della stessa catena distributiva, è fatto salvo il suo diritto di regresso nei confronti del soggetto responsabile, da esercitarsi entro un anno dal momento in cui il venditore finale ha ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore. (art. 131, cod. cons.). g) Vendita di eredità – Con la vendita di eredità, colui che ha accettato una vocazione mortis causa nell’intero (o in una quota del) patrimonio del de cuius, assumendo pertanto la qualifica di erede (o di coerede), trasferisce il complesso delle posizioni giuridiche oggetto di successione, considerate come universalità di diritto (cfr. 5.2 e 34.7). Oggetto della vendita è quindi il patrimonio ereditario (o la sua quota), comprensivo di tutti i rapporti entrati a farne parte dal momento dell’apertura della successione (il che spiega perché il venditore, che medio tempore abbia percepito frutti, riscosso crediti, o venduto beni, sia tenuto a rimborsare il compratore, ex art. 1544). Ne restano esclusi, ovviamente, tutti i diritti di natura personale, o aventi a oggetto beni non valutabili economicamente (come la corrispondenza di famiglia). Se nel contratto, per il quale è sempre richiesta la forma scritta sotto pena di nullità, il venditore non specifica gli oggetti che compongono il patrimonio trasferito, egli è tenuto a garantire solo la propria qualità di erede (art. 1542): cioè l’esistenza e la validità della delazione (testamentaria, o legittima) e dell’accettazione, nonché la titolarità attuale dell’eredità o della quota, oggetto del trasferimento. Se, viceversa, il contratto contenesse l’indicazione dei singoli beni componenti l’eredità, la garanzia del venditore riguarderebbe anche i singoli beni, secondo le norme ordinarie in tema di evizione.
§ 3. Segue: sottotipi e discipline speciali
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Salvo patto contrario, il venditore rimane obbligato in solido con il compratore per il pagamento dei debiti ereditari (art. 1546); peraltro, nel caso di accettazione con beneficio di inventario, si ritiene che quest’ultimo giovi anche al compratore. h) Vendita con patto di riscatto – Con il patto di riscatto, il venditore si riserva il diritto di riavere la proprietà della cosa venduta, entro un termine determinato, mediante la restituzione del prezzo ricevuto, e il rimborso delle spese e di ogni altro pagamento effettuati dal compratore per la vendita, o per riparazioni del bene necessarie o utili (artt. 1500 e 1502). Il patto, che richiede la stessa forma richiesta per il contratto, ed è soggetto alle medesime formalità pubblicitarie (es., trascrizione), se imponesse al riscattante di restituire un prezzo superiore a quello stipulato per la vendita, sarebbe nullo per l’eccedenza. Il riscatto ha natura di diritto potestativo (cfr. 4.6), il cui esercizio risolve retroattivamente gli effetti della vendita, ricostituendo la proprietà in capo all’originario alienante, indipendentemente dalla volontà del compratore (che, dunque, si trova in una situazione giuridica di mera soggezione). Il riscatto viene esercitato mediante una dichiarazione unilaterale recettizia del venditore (da effettuarsi per iscritto, a pena di nullità, nelle vendite immobiliari), che per essere efficace dev’essere accompagnata dalle restituzioni e dai rimborsi previsti dall’art 15031; nel caso in cui il compratore rifiuti di riceverli, è onere dal riscattante farne offerta reale (cfr. 29.11). Il termine per l’esercizio del riscatto (che è termine di decadenza) non può essere maggiore di due anni per i beni mobili e di cinque anni per gli immobili: l’eventuale più lungo termine pattuito dalle parti si riduce a quello legale (è un’ipotesi di nullità parziale con sostituzione automatica della clausola). Il riscatto (che si è visto talora utilizzato, in frode alla legge, per eludere il divieto del patto commissorio: cfr. 14.10) ha efficacia anche nei confronti dei successivi aventi causa, purché risulti ad essi opponibile nelle forme ordinarie (ad es., con la trascrizione del patto e della dichiarazione di riscatto nelle vendite immobiliari); e il venditore riscattante riprende la cosa esente dai pesi e dalle ipoteche, dei quali sia stata gravata dal compratore. i) Vendita con patto di retrovendita – A differenza del riscatto, che è diritto potestativo (capace di incidere immediatamente sull’efficacia del contratto), con il patto di retrovendita (pactum de retrovendendo) il venditore
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Cap. 40. I contratti di alienazione
acquista, nei confronti dell’acquirente, un semplice diritto di credito: in forza del patto, infatti, il compratore è obbligato a stipulare con la controparte un nuovo contratto di compravendita in senso inverso, a determinate condizioni. Si tratta, in sostanza, di un contratto preliminare proprio (cfr. 14.7, in fine) di rivendita, e più precisamente di un preliminare unilaterale, in quanto impegna una sola delle parti a concludere il futuro contratto su richiesta dell’altra. A differenza del riscatto, per il riacquisto del diritto trasferito sarà dunque necessario un nuovo accordo tra le parti, in difetto del quale l’avente diritto potrà peraltro esercitare il rimedio (generalmente previsto per l’obbligo di concludere un contratto, dall’art. 2932) dell’esecuzione in forma specifica; inoltre il patto di retrovendita produce efficacia meramente obbligatoria, e come tale è inopponibile ai terzi acquirenti (per cui, nel caso in cui il compratore rivenda a un terzo il bene in violazione dell’obbligo assunto, il venditore avrà solo diritto al risarcimento del danno). La prassi conosce altresì il patto di ricompera (pactum de retroemendo), che si configura specularmente come preliminare unilaterale di riacquisto, il quale instaura tra le parti il medesimo tipo di rapporto a posizioni invertite, in cui obbligato a stipulare il contratto in senso inverso è il venditore). l) Vendita con riserva della proprietà – Nella vendita con riserva della proprietà, l’effetto traslativo non si produce in favore dell’acquirente sino all’integrale pagamento, da parte sua, del prezzo (che di regola è rateizzato, o comunque dilazionato), ma il passaggio del rischio avviene con la consegna del bene, che di solito è contestuale alla stipulazione (art. 1523). La natura del contratto è controversa: secondo una tesi, il pagamento dell’ultima rata del prezzo opera come una condizione sospensiva dell’acquisto del diritto; da altri si parla di vendita obbligatoria; altri ancora attribuisce alla riserva di proprietà una funzione di garanzia, in quanto la proprietà dovrebbe considerarsi trasferita con la conclusione del contratto, mentre il venditore conserverebbe un diritto reale tipico di garanzia (il “riservato dominio”) sino all’integrale pagamento del prezzo. Le norme sulla vendita con riserva di proprietà sono collocate all’interno della disciplina della vendita mobiliare; secondo l’opinione prevalente, tuttavia, essa può avere ad oggetto anche gli immobili, i beni mobili registrati e l’azienda.
L’inadempimento dell’obbligo di pagare una sola rata (non superiore all’ottava parte del prezzo) non dà luogo alla risoluzione del contratto; qualora invece, per inadempimento del compratore, il contratto si risolva,
§ 3. Segue: sottotipi e discipline speciali
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il venditore dovrà restituire le rate riscosse, ma avrà diritto a un equo compenso per l’uso del bene, oltre al risarcimento del danno (artt. 1525-1526). La riserva della proprietà in favore del venditore è opponibile ai creditori del compratore, solo se risulta da atto scritto, avente data certa anteriore al pignoramento (art. 1524). m) Altre vendite di beni mobili – Vanno, infine, brevemente ricordate alcune delle ulteriori specifiche pattuizioni, previste dal codice nell’ambito della disciplina della vendita di cose mobili, ricordando che talune di esse (come già visto per la vendita con riserva della proprietà) sono ritenute applicabili dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti anche alla compravendita di immobili (così è per la riserva di gradimento e per la clausola “a prova”). Vendita con riserva di gradimento. Per effetto della riserva di gradimento, la vendita non si perfeziona sino a che il gradimento non sia comunicato, dal compratore al venditore, nel termine stabilito dal contratto o dagli usi, o, in mancanza, in quello (congruo) fissato dal venditore (art. 1520). Il gradimento, in quanto atto assolutamente discrezionale che perfeziona il contratto, equivale ad accettazione: perciò, anteriormente alla sua comunicazione, la fattispecie può essere ricondotta alla figura della proposta irrevocabile, e più esattamente dell’opzione (cfr. 17.2). Nel silenzio del compratore, se la cosa si trova presso il compratore stesso, il gradimento si presume, se l’esame deve invece farsi presso il venditore, questi è liberato. La comunicazione del gradimento lascia impregiudicata la possibilità dell’acquirente di far valere la presenza di vizi o la mancanza di qualità del bene. Vendita a prova. Il contratto (diversamente dalla figura precedente) è già perfezionato, ma si presume concluso sotto la condizione sospensiva che la cosa abbia le qualità pattuite o sia idonea all’uso al quale è destinata (art. 1521). La prova deve eseguirsi nel termine pattuito, o stabilito dagli usi. L’esito della prova non è lasciato alla discrezionalità del compratore, per cui, in caso di contestazione, si dovrà ricorrere al prudente apprezzamento di un terzo (un perito che constaterà la presenza o meno delle qualità). Dal carattere condizionato del contratto discende che: il rischio, nelle more della prova, resta a carico del venditore (art. 14654); si applica la c.d. finzione di avveramento (art. 1359), nel caso in cui la prova sia stata impedita da una delle parti.
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Cap. 40. I contratti di alienazione
Vendita su campione e su tipo campione. Nella prima, le parti determinano la qualità delle merci vendute con esclusivo riferimento a una cosa concreta (che funge da campione): qualsiasi difformità, anche minima, rispetto ad essa, attribuisce al compratore il diritto di risolvere il contratto (art. 15221). Nella seconda, in cui il campione fornisce un riferimento approssimativo della qualità, la risoluzione può domandarsi solo se la difformità è notevole (art. 15222). L’azione di risoluzione è assoggettata ai termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 per le garanzie edilizie (cfr. 40.2.c). Vendita su documenti. In questa figura, tipica delle vendite con trasporto, le merci vendute sono “rappresentate” da documenti, assimilabili ai titoli di credito (cfr. 14.9): ne deriva che la consegna dei titoli rappresentativi equivale alla consegna delle merci (art. 1527) ed il pagamento del prezzo deve eseguirsi nel momento e nel luogo in cui avviene la consegna dei documenti (art. 1528).
4. La permuta. La permuta (denominazione giuridica del fenomeno economico del baratto) è il contratto con cui le parti si trasferiscono reciprocamente la proprietà di beni o altri diritti, i quali possono essere anche crediti(art. 1552). Oggetto del contratto sono due beni, o più esattamente due diritti (due attribuzioni traslative) che vengono scambiati. Il tratto differenziale, rispetto alla compravendita, consiste nella mancanza del prezzo, cioè del corrispettivo in denaro (inteso come misura di valore): pertanto non è permuta, ma vendita, il contratto in cui sia prevista l’obbligazione di pagare un prezzo, con facoltà, per il compratore, di adempiere prestando beni diversi dal denaro; neppure è permuta la vendita, cui faccia seguito una dazione in pagamento (32.3), avente a oggetto una prestazione diversa da quella pecuniaria. Viceversa, è permuta lo scambio tra due quantità di monete o banconote (oppure tra un diverso bene e monete o banconote), se considerate non come misura di valore, ma per il loro valore intrinseco (ad esempio, storico o collezionistico); e ancora, è permuta il cambio di tagli grossi con tagli piccoli. Nell’ipotesi in cui lo scambio intercorra tra un bene (diverso dal denaro), da una parte, ed un altro bene del genere, con in aggiunta denaro, dall’altra, dovrà valutarsi se nell’intento delle parti tale denaro rappresenti o meno una prestazione secondaria (a titolo di conguaglio).
§ 5. La somministrazione
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La permuta è contratto consensuale, ad efficacia traslativa, che, come nella vendita, sarà di regola immediata, salvo dipendere da fattori ulteriori, come la venuta ad esistenza della cosa: ciò avviene, ad esempio, quando il proprietario di un’area edificabile ne trasferisce la proprietà ad un costruttore, per ottenere in cambio la proprietà di una porzione dell’edificio che su di essa dovrà essere costruito (permuta di cosa presente con cosa futura, che costituisce la più importante applicazione attuale del contratto, nel campo dell’edilizia). Si applicano alla permuta le norme della vendita, in quanto compatibili (art. 1555). In caso di evizione, colui che la subisce potrà decidere se riavere il bene trasferito, ovvero ottenere il valore del bene ricevuto, salvo il risarcimento del danno (art. 1553).
5. La somministrazione. La somministrazione è il contratto in cui una parte (somministrante) si obbliga a compiere prestazioni periodiche o continuative di cose in favore dell’altra (somministrato), verso il corrispettivo di un prezzo. La somministrazione è contratto di durata, in cui la presenza di più prestazioni tra loro connesse si giustifica in ragione dell’interesse (continuativo o periodico) che sono destinate a soddisfare. Per questo, essa si distingue dalla vendita a consegne ripartite, in cui la prestazione traslativa è considerata sin dall’inizio come unitaria, e la pluralità di consegne attiene esclusivamente al momento attuativo del rapporto (al quale, pertanto, non si applicano le regole tipiche dei contratti di durata, come, ad es., l’irripetibilità, in caso di risoluzione, delle prestazioni già eseguite: cfr. 19.2). La somministrazione va distinta altresì dalla c.d. concessione di vendita (alla quale, pure, si ritengono applicabili alcune delle regole della somministrazione, come l’art. 1564 sui presupposti della risoluzione per inadempimento): si tratta di un contratto atipico di scambio, ma anche di collaborazione, in quanto il concessionario (ad es.: il concessionario di vendita di autovetture di una determinata casa automobilistica) si impegna a ricevere continuativamente o periodicamente i prodotti del concedente, ma ha anche l’obbligo di promuoverne la vendita. Non sempre facile, infine, è distinguere la somministrazione dall’appalto, specie se esso abbia ad oggetto beni prodotti dall’alienante (salvo dare rilievo all’importanza prevalente del lavoro rispetto alla materia).
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Cap. 40. I contratti di alienazione
La somministrazione è contratto consensuale e ad efficacia obbligatoria. Tipici esempi ne costituiscono i contratti aventi ad oggetto la fornitura di energia elettrica, di gas o di acqua, ovvero la prestazione periodica di materie prime necessarie al ciclo produttivo di un’impresa. Secondo un’opinione, la disciplina della somministrazione dovrebbe applicarsi anche al contratto con cui un provider assicura al cliente l’accesso ad Internet. La circostanza che il contratto sia destinato a soddisfare un bisogno continuativo o ripetuto, ma comunque costante nel tempo, spiega taluni aspetti di disciplina del rapporto: così, l’entità della somministrazione, qualora non determinata in contratto, s’intende commisurata al normale fabbisogno del somministrato (art. 1560), il quale potrà riservarsi anche di stabilire, tra un minimo e un massimo prefissati, l’entità delle singole prestazioni, o di fissarne la scadenza con congruo preavviso (art. 1563); inoltre, a garantire la stabilità del rapporto, l’inadempimento che legittima il ricorso alla risoluzione (la quale non consente la ripetizione delle prestazioni già eseguite) dovrà essere di notevole importanza e tale da menomare la fiducia della controparte nell’esattezza dei successivi adempimenti (art. 1564).
6. Il contratto estimatorio. Nel contratto estimatorio, una parte (il c.d. tradens) consegna una o più cose mobili all’altra (il c.d. accipiens), la quale si impegna a pagarne il prezzo, salva la facoltà di restituire le cose nel termine stabilito (art. 1556). Del contratto estimatorio è tuttora controversa la natura giuridica. Di volta in volta, esso è stato accostato al deposito (rispetto al quale manca, però, un obbligo principale dell’accipiens di custodire le cose ricevute), alla commissione (di cui manca l’obbligo di attivarsi, per conto del tradens, al fine di concludere le vendite), al negozio autorizzativo (figura non prevista dal codice), o costruito come una figura speciale di opzione di acquisto.
Contratto reale (che si perfeziona con la consegna delle cose all’accipiens), ritenuto dai più ad efficacia immediatamente solo obbligatoria (v. infra), il contratto estimatorio ricorre tipicamente nel commercio di beni a rapida obsolescenza, come giornali e libri (in cui è interesse dell’edicolante, o del libraio, pagare solo le copie vendute al pubblico e restituire le altre all’editore). L’elemento distintivo del contratto estimatorio (che insieme ne rappresenta la maggiore difficoltà ricostruttiva) è dato dal fatto che l’accipiens
§ 7. I contratti di rendita
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non acquista la proprietà delle cose consegnategli, tant’è vero che i suoi creditori non possono sottoporle a pignoramento o sequestro, sino al pagamento del prezzo (art. 1558), ma ha, tuttavia, il potere di disporne nell’interesse proprio (e ciò spiega, in parte, perché egli sopporti il rischio del perimento o deterioramento, anche per cause a lui non imputabili, ex art. 1557). Viceversa, il tradens, pur conservando la proprietà dei beni, non può disporne sino a che non gli vengano restituiti (art. 1558). Il tradens perderà la proprietà delle cose (acquistando correlativamente il diritto al prezzo), nel momento in cui esse vengano vendute dall’accipiens al terzo; analogo diritto al prezzo spetta al tradens relativamente alle cose invendute e non restituitegli dall’accipiens entro il termine (e la proprietà di queste, secondo l’opinione prevalente, passerà all’accipiens stesso solo con il pagamento del prezzo).
7. I contratti di rendita. Il codice prevede due tipi di contratto di rendita: la rendita perpetua (art. 1861 ss.) e la rendita vitalizia (art. 1872 ss.). Con la rendita perpetua (contratto ad applicazione pratica ormai recessiva) una parte trasferisce, a titolo oneroso o gratuito, la proprietà di un immobile (r. perpetua fondiaria), o un determinato capitale (r. perpetua semplice) alla controparte, la quale si obbliga (a titolo di corrispettivo del trasferimento oneroso, o a titolo di modus, in quello gratuito) alla prestazione periodica di una somma di denaro o di una certa quantità di altre cose fungibili. Pur essendo prevista come perpetua, la rendita è redimibile a volontà del debitore, nonostante qualsiasi patto contrario (art. 1865): è previsto cioè, in ossequio al principio di ordine pubblico che non ammette la costituzione di obbligazioni senza limiti di tempo, un diritto di riscatto del debitore, che può recedere dal rapporto (e liberarsi così dall’obbligo) pagando la somma risultante dalla capitalizzazione della rendita annua, sulla base dell’interesse legale. Di maggiore diffusione è il contratto di rendita vitalizia, con il quale una parte (il c.d. vitaliziante) si obbliga a corrispondere periodicamente al beneficiario (il c.d. vitaliziato) una somma di denaro o una certa quantità di altre cose fungibili, per tutta la durata della vita del beneficiario stesso o di un terzo.
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Cap. 40. I contratti di alienazione
La rendita può costituirsi sia a titolo oneroso che a titolo gratuito. Quando è a titolo oneroso, la prestazione del vitaliziante costituisce il corrispettivo del trasferimento di un immobile o della cessione di un capitale, da parte del vitaliziato; quando invece è a titolo gratuito, essa si realizza mediante una donazione o una disposizione testamentaria in favore del vitaliziato (applicandosi, in tal caso, la disciplina di tali atti). Elemento essenziale del contratto oneroso di rendita è l’alea: essa deve valutarsi, sia con riguardo all’entità della rendita, che dev’essere superiore all’importo di frutti e interessi ricavabili normalmente dal bene trasferito (primo fattore di rischio per il vitaliziante), sia con riguardo all’attendibile sopravvivenza del vitaliziato. Si è, così, giudicato nullo il contratto, per difetto di alea, quando il beneficiario al momento della conclusione si trovi in condizioni tali da farne ritenere imminente la morte. Per questa natura del contratto, il vitaliziante non può (salvo patto contrario) sottrarsi al pagamento della rendita offrendo il rimborso del capitale, neppure rinunziando a ripetere le annualità pagate; ed è tenuto a pagare la rendita al vitaliziato, per quanto gravosa sia divenuta la sua prestazione (art. 1879).
8. Alcuni nuovi contratti: a) la subfornitura; b) la cessione dei crediti di impresa (factoring); c) l’affiliazione commerciale (franchising). Diamo brevemente conto di alcune nuove figure (anche se talora solo in parte riconducibili al gruppo dei contratti di alienazione e rispondenti in realtà a funzioni più complesse), fatte oggetto in tempi recenti di specifici interventi normativi. a) La subfornitura – La l. 18 giugno 1998, n. 192 ha disciplinato (in vista essenzialmente della protezione del subfornitore, considerato contraente debole) un rapporto contrattuale venutosi affermando, nella cooperazione tra imprenditori, a partire dagli anni Settanta, in seguito alla tendenza delle grandi imprese a trasferire all’esterno e delegare a terzi tutta una serie di attività e fasi del proprio ciclo di produzione (c.d. decentramento produttivo), e riconducibile, di volta in volta e per singoli profili, alla vendita, alla somministrazione e all’appalto. Con il nome di subfornitura, l’art. 1, l. cit., individua due modelli di contratto: il primo, con cui un imprenditore (subfornitore) si impegna, per conto dell’impresa committente ad effettuare lavorazioni su materie prime
§ 8. Alcuni nuovi contratti
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o semilavorati da questa forniti (c.d. subfornitura di lavorazione), il secondo con cui il subfornitore si impegna a fornire prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o utilizzati nell’attività economica del committente (c.d. subfornitura di prodotto), in entrambi i casi in conformità a progetti, conoscenze, modelli o prototipi forniti dal committente stesso. Parti del contratto possono essere solo imprenditori; è stabilita, a pena di nullità la forma scritta (per tale intendendosi anche la volontà manifestata a mezzo telefax, o in via telematica), salva la validità del contratto di cui, a fronte della proposta formale del committente, il subfornitore, anche in difetto di accettazione scritta, abbia iniziato l’esecuzione; si considerano contenuto essenziale del contratto, da specificare in modo chiaro, i requisiti del bene o servizio richiesto, il prezzo pattuito, le modalità e i termini di pagamento e collaudo (stabilendo interessi e penali in caso di mancato pagamento nei termini, e consentendo in tal caso al subfornitore di ottenere decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo). Decisivo è, infine, il divieto di abuso di dipendenza economica, sancito dall’art. 9, l. cit., consistente nell’eccessivo squilibrio dei diritti e degli obblighi, nel rifiuto di vendere o di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali gravose o discriminatorie, e nell’ingiustificata interruzione delle relazioni commerciali in atto: con norma che si considera principio generale, applicabile a qualsiasi contratto tra imprese, è comminata la nullità del patto con cui l’abuso si realizza. b) La cessione dei crediti di impresa (factoring) – Accanto alla disciplina generale della cessione del credito (cfr. 31.2), la l. 21 febbraio 1991, n. 52 detta una disciplina speciale, applicabile in presenza di determinati presupposti, alle cessioni verso corrispettivo dei crediti pecuniari d’impresa, tipizzando così una figura già affermatasi nella prassi, sul modello anglosassone del factoring. Cedente dev’essere un imprenditore; l’oggetto della cessione è rappresentato da crediti pecuniari già esistenti (nati da contratti stipulati dal cedente nell’esercizio dell’impresa), ovvero futuri (che sorgeranno da contratti stipulati entro i ventiquattro mesi successivi alla cessione), che possono essere ceduti anche in massa, con riferimento cioè a tutti i crediti che sorgeranno nei confronti di un determinato debitore ceduto; cessionario può essere solo una banca o un intermediario finanziario, con una determinata dotazione minima di capitale sociale, soggetto all’iscrizione in un apposito albo e alla vigilanza della Banca d’Italia. In deroga alla disciplina generale, il cedente garantisce, salva espressa
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Cap. 40. I contratti di alienazione
rinuncia da parte del cessionario, non solo l’esistenza del credito, ma, nei limiti del corrispettivo pattuito, anche la solvenza del debitore ceduto; inoltre, la cessione, per effetto del pagamento del corrispettivo con atto avente data certa diventa opponibile ai terzi (sia agli aventi causa dal cedente, sia ai suoi creditori che procedano al pignoramento successivamente, sia al fallimento del cedente dichiarato in data successiva). c) L’affiliazione commerciale (franchising) – La l. 6 maggio 2004, n. 129 ha dettato la disciplina del contratto di affiliazione commerciale (o franchising), definito come il contratto con cui una parte (affiliante) concede all’altra (affiliato), verso corrispettivo, la disponibilità di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale (relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, brevetti, know-how, assistenza o consulenza tecnica e commerciale) inserendo l’affiliato in una rete di affiliati, distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi. Ci si potrebbe chiedere se sia corretto ricondurre la figura dell’affiliazione commerciale (dalla quale, come si dirà subito, discende una serie articolata di diritti ed obblighi delle parti) alla categoria dei contratti di alienazione. L’accostamento si giustifica, in parte, data la valenza tipica del contratto, come strumento organizzativo della distribuzione dei beni sul mercato.
Si tratta di schema già noto alla prassi dei rapporti tra imprese, mediante il quale un produttore, o produttore-distributore (affiliante, o franchisor) anziché ricorrere a una rete di vendita costituita da proprie filiali dipendenti (gestite a proprio rischio e a proprie spese), organizza la propria rete commerciale stipulando tanti contratti con singoli imprenditori locali indipendenti (affiliati o franchisees). Questi ultimi, a loro volta, provvederanno autonomamente ad organizzare i punti vendita, contraddistinti peraltro dall’utilizzazione dei marchi, simboli ed insegne dell’affiliante, ed assumeranno il più delle volte l’impegno a vendere in esclusiva i beni prodotti o i servizi offerti dall’affiliante stesso. A fronte del vantaggio consistente nell’usufruire (oltre che della fornitura dei beni) dell’assistenza tecnica e commerciale da parte dell’affiliante, nonché del potere di richiamo esercitato dal marchio, il corrispettivo a carico dell’affiliato consisterà in un (eventuale) diritto di ingresso, nonché nel pagamento di una percentuale (royalties), commisurata al giro d’affari o in quota fissa. In base alla nuova disciplina, il contratto, che dev’essere stipulato per iscritto, a pena di nullità, ed avere durata minima non inferiore a tre anni,
§ 8. Alcuni nuovi contratti
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deve tra l’altro specificamente indicare: l’ammontare degli investimenti e delle spese di ingresso che l’affiliato dovrà sostenere per dare avvio all’attività, le modalità di calcolo e pagamento delle royalties, anche con l’eventuale previsione di un incasso minimo da realizzare da parte dell’affiliato, le caratteristiche dei servizi di assistenza tecnica commerciale, progettazione e allestimento del punto vendita e formazione prestati dall’affiliante, le condizioni di rinnovo, risoluzione ed eventuale cessione del contratto stesso (art. 3). All’affiliante è imposta una serie articolata di obblighi di informazione (art. 4), mentre all’affiliato è fatto divieto di trasferire la sede senza il consenso dell’affiliante ed è imposta, anche dopo lo scioglimento del contratto, la massima riservatezza in ordine al contenuto dell’attività oggetto dell’affiliazione commerciale (art. 5). Su entrambe le parti, già dalla fase delle trattative, gravano doveri di lealtà, correttezza e buona fede, nonché l’obbligo di fornire alla controparte tutti i dati e le informazioni necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto (art. 6), salvo il diritto di chiederne l’annullamento per dolo (e l’eventuale risarcimento del danno), qualora l’altra parte abbia fornito informazioni false (art. 8).
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Cap. 41. I contratti di utilizzazione e prestito
CAPITOLO 41
I CONTRATTI DI UTILIZZAZIONE E PRESTITO
SOMMARIO: 1. La locazione e l’affitto: a) la disciplina generale. – 2. Segue: b) le leggi speciali. – 3. Il comodato. – 4. Il mutuo. – 5. La locazione finanziaria (leasing).
1. La locazione e l’affitto: a) la disciplina generale. Il codice civile definisce la locazione come il contratto con il quale una parte (locatore) si obbliga a far godere all’altra (conduttore) una cosa mobile (in tal caso prendendo il nome di noleggio), o immobile, per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo (art. 1571); si denomina affitto la locazione ha per oggetto il godimento di un bene, mobile o immobile, che abbia una destinazione produttiva (art. 1615). Si è visto a suo tempo come la locazione (analogamente all’affitto) costituisca, in favore del conduttore (e dell’affittuario) un diritto personale di godimento avente a oggetto un bene del locatore: simile, quanto al contenuto di facoltà e poteri, rispetto ai diritti reali su cosa altrui (primo fra tutti l’usufrutto), ma diverso comunque da essi per natura giuridica (cfr. 38.1). Quello del conduttore (e dell’affittuario) è un diritto che il soggetto vanta nei confronti di un altro soggetto (il locatore), in forza dello specifico rapporto obbligatorio esistente tra essi; l’usufruttuario vanta viceversa un diritto (sulla cosa) nei confronti di tutti gli altri consociati (erga omnes). Il conduttore può pretendere dal locatore il godimento del bene; l’usufruttuario può goderne direttamente. Le azioni per far valere il diritto del locatore sono di natura personale, quelle dell’usufruttuario hanno natura reale. Al di là di tali distinzioni, assai chiare sul piano concettuale, la distanza tra le due figure si riduce, invece, in ordine ad altri profili: così, ad es., il diritto del conduttore (pur se spettantegli nei confronti del locatore) è opponibile al terzo acquirente del bene locato, purché il contratto di locazione abbia data certa anteriore (art. 1599).
La locazione e l’affitto sono contratti consensuali, ad efficacia obbligatoria,
§ 1. La locazione e l’affitto: a) la disciplina generale
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ed instaurano tra le parti un tipico rapporto di durata. Va detto che essi trovano nelle norme del codice una disciplina generale, la quale peraltro ha subìto, nel corso degli anni, l’impatto di una copiosa legislazione speciale: si sono così venuti delineando veri e propri sottotipi contrattuali, come la locazione di immobili urbani, sia ad uso abitativo (attualmente disciplinata dalla l. 9 dicembre 1998, n. 431, modificativa della l. 27 luglio 1978, n. 392, la c.d. legge sull’equo canone), sia ad uso diverso dall’abitazione (per i quali resta in vigore la citata l. n. 392 del 1978), o come l’affitto di fondi rustici e in particolare a coltivatore diretto (disciplinati, essenzialmente, dalla l. 3 maggio 1982, n. 203), oggetto ciascuno di una disciplina speciale (di cui daremo conto infra, al n. 2), in larga misura derogatoria rispetto a quella prevista dal codice civile. Quest’ultima assolve, dunque, a una funzione residuale (applicandosi ai contratti di locazione non disciplinati dalle leggi speciali, come la locazione di beni mobili, di immobili extraurbani a uso abitativo, di alloggi di edilizia residenziale pubblica, o come l’affitto d’azienda), e di chiusura del sistema (per tutti quegli aspetti, anche relativi ai contratti regolati dalle leggi speciali, che non siano espressamente da esse disciplinati). Qui di seguito diamo conto, in estrema sintesi, dei principali aspetti della disciplina base, dettata dal codice civile, per ciascuno dei due contratti, ricordando che le norme sull’affitto sono considerate comunque norme speciali, rispetto a quelle dettate in tema di locazione, per cui, di fronte a fattispecie non regolate dalle prime, dovrà farsi ricorso a queste ultime, in quanto compatibili. A) Locazione Le principali obbligazioni del locatore sono: a) quella di consegnare il bene in uno stato che non ne diminuisca l’idoneità all’uso (se tale idoneità è diminuita da vizi non conosciuti, né facilmente conoscibili dal conduttore, questi potrà domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo); b) l’obbligazione di mantenere il bene stesso in buono stato locativo, eseguendo a tal fine tutte le riparazioni necessarie (dirette a eliminare guasti che non consentirebbero il normale godimento del bene), salvo quelle che possono definirsi di piccola manutenzione (in base all’entità della spesa, alla destinazione della cosa da riparare, e al suo utilizzo da parte del conduttore), le quali restano a carico del conduttore; c) l’obbligo, infine, di garantire il pacifico godimento della cosa locata contro le molestie di terzi che pretendano di avere diritti su di essa (artt. 1575 ss.).
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Cap. 41. I contratti di utilizzazione e prestito
Le obbligazioni del conduttore consistono nel: a) prendere in consegna il bene, provvedendo di conseguenza a custodirlo e a conservarlo, nonché a servirsene per l’uso determinato in contratto, o per quello che può altrimenti presumersi date le circostanze, con la diligenza del buon padre di famiglia; b) pagare il corrispettivo (canone), nei termini stabiliti (art. 1587); c) restituire la cosa al locatore, al termine della locazione, nello stesso stato in cui l’ha ricevuta, salvo il normale deterioramento o consumo risultante dall’uso (art. 1590). La durata della locazione non può eccedere i trent’anni, riducendosi a tale misura, se stipulata per un periodo maggiore o in perpetuo, e applicandosi i criteri suppletivi di cui all’art. 1574, in caso di mancata determinazione pattizia (si ricordi, peraltro, che la locazione ultranovennale, è atto eccedente l’ordinaria amministrazione e richiede, se avente a oggetto immobili, la forma scritta ad substantiam). Al conduttore è consentita, salvo patto contrario, la sublocazione, cioè la stipulazione di un contratto con cui, verso corrispettivo, egli attribuisce ad un terzo, in tutto o in parte, il godimento della cosa; non gli è invece consentito cedere il contratto senza il consenso del locatore (art. 1594). Ciò si spiega perché, mentre la sublocazione è fonte di un autonomo rapporto tra il conduttore ed il terzo-subconduttore (distinto da quello originario tra locatore e conduttore), la cessione del contratto fa invece subentrare il terzo-cessionario proprio nel rapporto nato, in origine, dal contratto di locazione ceduto (cfr. 18.5). Si è già visto che, in caso di alienazione del bene locato, la locazione è opponibile al terzo acquirente, se avente data certa anteriore all’alienazione; ricordiamo ora che tale regola non è assoluta, in quanto la locazione di mobili non registrati non è opponibile all’acquirente che abbia acquistato il possesso in buona fede, e quella avente a oggetto immobili, se non trascritta, sarà opponibile al terzo acquirente del bene solo entro il limite di un novennio dalla data di inizio della locazione stessa. B) Affitto Avendo a oggetto il godimento di un bene produttivo, da un lato l’affittuario (che sarà di regola un imprenditore) deve curarne la gestione in conformità alla destinazione economica e all’interesse della produzione (art. 1615), anche assumendo le iniziative atte a incrementarne la produttività, che non comportino spese, né pregiudichino il proprietario (art. 1620). Dal canto suo, il locatore ha il potere di controllare in ogni tempo, anche con accesso in luogo, l’osservanza degli obblighi da parte dell’affittuario
§ 2. Segue: b) le leggi speciali
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(art. 1619) e può chiedere la risoluzione del contratto se questi non destina le risorse necessarie alla gestione produttiva della cosa, se non osserva le regole della buona tecnica gestionale, o se muta la destinazione economica del bene (art. 1618). L’art. 1624 sancisce il divieto di subaffitto, salvo il consenso del locatore. Se il locatore ha consentito la cessione del contratto, in tale consenso si ritiene implicito anche quello di subaffittare; se, viceversa, ha consentito il subaffitto, tale facoltà non comprende quella di cedere il contratto. La violazione del divieto di subaffittare è causa di risoluzione del contratto, per uso del bene non conforme a quello pattuito.
2. Segue: b) le leggi speciali. Tra le figure specificamente disciplinate dalla legislazione speciale, vanno particolarmente ricordate la locazione avente a oggetto immobili urbani ad uso di abitazione e l’affitto di fondi rustici (specie se affittuario sia un coltivatore diretto). Locazione di immobili urbani ad uso abitativo – La disciplina è dettata essenzialmente dalla l. n. 431 del 1998, largamente modificativa della precedente l. n. 392 del 1978 (della quale continuano ad applicarsi alcuni articoli). Una prima novità è stata introdotta in tema di forma, richiedendosi per la stipulazione del contratto l’atto scritto a pena di nullità. In ordine alla determinazione del contenuto (e in primo luogo del canone), è prevista la scelta tra due distinte modalità di contrattazione, ciascuna delle quali dà luogo all’applicazione di una diversa disciplina: a) una modalità libera, nella quale l’entità del canone è fissata liberamente dalle parti, ma in cui la durata minima per legge è di quattro anni, con rinnovazione automatica in difetto di disdetta (che il locatore può dare, peraltro, solo in presenza di determinati presupposti, restando viceversa libero il conduttore di negare il rinnovo alla scadenza, e di recedere in qualsiasi momento dal contratto per gravi motivi); b) una modalità agevolata, il cui contenuto (compreso il canone) riproduce accordi-tipo raggiunti in sede provinciale dalle organizzazioni rappresentative delle categorie (dei proprietari e degli inquilini), stabilendosi allora una durata minima legale di tre anni, con proroga di diritto di ulteriori due, e un trattamento fiscale di favore.
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Cap. 41. I contratti di utilizzazione e prestito
La sublocazione è vietata se totale; è possibile, invece, la sublocazione parziale, quando non sia stata esclusa contrattualmente, salvo l’obbligo per il conduttore di darne avviso al locatore, indicandone il contenuto essenziale. In caso di morte del conduttore, è prevista la successione nel contratto in favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e affini conviventi (nonché, in base alla sentenza della Corte cost. n. 404 del 1988, in favore del convivente more uxorio). Per le locazioni di immobili urbani ad uso non abitativo, cui continua ad applicarsi la l. n. 392 del 1978 (con successive parziali modifiche), e il cui canone non è soggetto a criteri predeterminati di quantificazione, vanno ricordati: il diritto di prelazione spettante al conduttore nell’ipotesi in cui il locatore intenda alienare il bene locato (e il correlativo potere di riscatto, in caso di vendita in violazione della prelazione); il diritto, spettante al conduttore di immobili in cui si svolga un’attività a contatto diretto con il pubblico dei consumatori, a ricevere un’indennità per la perdita dell’avviamento.
Affitto di fondi rustici – La materia dei rapporti agrari (oggetto di continue, talora radicali, riforme) risulta innanzi tutto regolata dalla l. 3 maggio 1982, n. 203, che ha elevato l’affitto a strumento contrattuale esclusivo per la concessione in godimento a terzi dei fondi rustici. Il contratto presenta due fondamentali varianti, a seconda che l’affittuario rivesta o meno la qualifica di coltivatore diretto (cioè di piccolo imprenditore che coltiva il fondo con il lavoro prevalentemente proprio e della propria famiglia: artt. 1647 e 2083).
Affitto a coltivatore diretto – A differenza del sistema previsto dal codice (in cui rappresentava l’ipotesi speciale) nella legislazione agraria la disciplina dell’affitto a coltivatore diretto costituisce la normativa base, di cui sono elementi caratteristici: la durata minima del rapporto, prevista in quindici anni (rinnovata tacitamente di altri quindici, in difetto di disdetta almeno di un anno anteriore alla scadenza); l’equo canone che viene determinato da una commissione tecnica provinciale in base a criteri legali; il subaffitto è vietato; qualora il proprietario manifesti l’intenzione di alienare il fondo a terzi, all’affittuario che ne goda da almeno due anni spetta il diritto di prelazione (e il connesso diritto di riscatto dal terzo acquirente in violazione). L’affitto a conduttore non coltivatore è regolato in gran parte mediante rinvio alla disciplina appena esposta, salva la diversa quantificazione del canone, e la diversa decorrenza del termine di durata del rapporto.
§ 3. Il comodato
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3. Il comodato. Il comodato (o prestito d’uso) è il contratto a titolo gratuito, con il quale una parte (comodante) consegna all’altra (comodatario) una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la medesima cosa ricevuta (art. 1803). Il comodato è contratto essenzialmente gratuito, nel senso che la previsione di un corrispettivo farebbe venir meno lo schema tipico, portando a qualificare diversamente il rapporto (il c.d. “comodato oneroso” sarà, nella maggioranza dei casi, una locazione). Esso tuttavia non rientra nella categoria delle liberalità, in quanto la legge lo configura come tipo autonomo, distinto da esse. Oltre tutto, è possibile che un comodato venga stipulato per soddisfare un interesse economico del comodante (si pensi al caso del comodato gratuito dei contatori del gas, o quello, oggi sempre più frequente, avente a oggetto i telefoni cellulari, concluso rispettivamente dal somministrante l’energia, o dal gestore della rete telefonica, in funzione accessoria e strumentale alla sottoscrizione dell’utenza); mentre si è visto che caratteristica distintiva delle liberalità è il fatto che esse mirano sempre a soddisfare un interesse non economico del disponente (cfr. 28.2). È possibile, tuttavia, come ammettono dottrina e giurisprudenza, che al comodato venga apposto un modus (che non sia tale da snaturare la gratuità del contratto): come nel caso del comodato immobiliare, in cui il comodatario assuma (come obbligazione modale) l’impegno al versamento periodico di una somma a titolo di rimborso spese. Un caso discusso è quello del comodato immobiliare di lunga durata (ad es., avente a oggetto l’uso gratuito di una casa d’abitazione per lungo tempo o, a dirittura, per tutta la vita del comodatario): ci si chiede in particolare se esso possa integrare una donazione indiretta, ma si tende ad escluderlo, come già detto, per la tipicità del rapporto, ed anche perché il vantaggio derivante dall’uso del bene non corrisponde all’ arricchimento che caratterizza la donazione.
Il comodato si perfeziona mediante la consegna, e dunque è un contratto reale. Secondo una teoria, sarebbe ammissibile un accordo, avente a oggetto la concessione in uso gratuito della cosa (c.d. comodato consensuale), rispetto al quale la consegna sarebbe semplice atto esecutivo. Si osserva, in contrario, che un simile accordo (oltre a non essere conforme allo schema legale) configurerebbe la consegna come atto dovuto, eliminandone il carattere di spontaneità: laddove, viceversa, proprio la dazione spontanea della cosa funge da indice della volontà effettiva del comodante, di confi-
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Cap. 41. I contratti di utilizzazione e prestito
gurare il prestito gratuito come rapporto giuridicamente rilevante. La forma dell’accordo (che accompagna la consegna) è libera; secondo dottrina e giurisprudenza, ciò è vero anche nel caso di comodato avente a oggetto immobili, e pur se di durata ultranovennale, non potendosi applicare la regola dettata dall’art. 1350, n. 8, in materia di locazione. Oggetto del comodato è, di regola, un bene inconsumabile e infungibile, e da esso sorge l’obbligo di restituzione del bene nella sua individualità (contratto ad efficacia obbligatoria). Si ammette un comodato avente a oggetto cose consumabili, purché il comodatario si obblighi a non consumarle e a utilizzarle solo per far bella mostra di sé (c.d. comodato ad pompam, avente a oggetto, ad es., bottiglie di vino pregiato da esporre in una sala ristorante). Il comodatario può servirsi della cosa per un tempo determinato, anche se è sufficiente che il termine sia certus an (come tipicamente avviene per il termine coincidente con la morte del comodatario): se nessun termine fosse stabilito (né risultasse dall’uso cui la cosa stessa è destinata), si avrebbe un comodato precario, che obbliga il comodatario a restituirla non appena il comodante lo richieda (ad nutum) (art. 1810). Anche quando un termine sia stabilito, il comodante può tuttavia esigere la restituzione immediata del bene: quando il comodatario ceda ad altri il godimento del bene, o non adempia agli obblighi di custodia e conservazione di esso (art. 18043); quando sorga un bisogno urgente e impreveduto del comodante (art. 1809); in caso di morte (e, si ritiene, anche di fallimento) del comodatario (art. 1811). Nel caso in cui la cosa venga alienata a terzi, il rapporto cessa, non essendo il diritto del comodatario (che è di natura personale) opponibile al terzo acquirente, e non valendo, neppure in questo caso, la regola dettata dall’art. 1599 per la locazione.
4. Il mutuo. Il mutuo (o prestito di consumazione) è il contratto con cui una parte (mutuante) consegna all’altra (mutuatario) una determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili (che passano in proprietà del mutuatario), e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità (art. 1813). Espressamente qualificato dalla norma come contratto ad efficacia traslativa, il mutuo, secondo l’opinione tradizionale (fedele alla definizione
§ 4. Il mutuo
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del codice), è altresì contratto reale; tuttavia, sulla base dell’art. 1822, che prevede la promessa di dare a mutuo come fonte di un’obbligazione, una parte della dottrina ammette una diversa figura di mutuo come contratto consensuale. Si ritiene tuttavia che l’obbligazione di dare a mutuo sia insuscettibile di un’esecuzione coattiva in forma specifica, così che, in caso di inadempimento, al promissario-mutuatario sarà possibile agire solo per il risarcimento del danno. In tutti i casi, in mancanza di una diversa previsione delle parti, il contratto di mutuo è naturalmente oneroso, nel senso che a carico del mutuatario, oltre all’obbligazione fondamentale di restituire il tantundem alla scadenza del termine, è posto anche l’obbligo di corrispondere gli interessi sulla somma mutuata, nella misura del tasso legale o in quella diversa stabilita nel contratto. Formalmente, dunque, gravando entrambe le obbligazioni sul mutuatario, il mutuo si configura come contratto unilaterale; ma, in termini economici, esso appare contratto di scambio, a prestazioni corrispettive, nel quale l’obbligazione degli interessi si contrappone (a titolo di compenso) al godimento della somma concesso dal mutuante: tant’è che, se il mutuatario non adempie l’obbligo del pagamento degli interessi, il mutuante può chiedere la risoluzione del contratto (art. 1820). La determinazione convenzionale del tasso degli interessi incontra il limite dell’usura: si considerano usurari gli interessi che superano la misura, aumentata della metà, del tasso medio praticato dalle banche e dagli intermediari finanziari (rilevato trimestralmente dal Ministero del tesoro e pubblicato in Gazzetta Ufficiale). L’art. 18152, nel suo originario tenore, sostituiva alla previsione contrattuale di interessi usurari (considerata nulla), l’obbligo di corrisponderli solo nella misura legale; ora, dopo la modifica introdotta dalla legge 7 marzo 1996, n. 108, la stessa disposizione stabilisce che la clausola in cui sono previsti interessi usurari è nulla, e che in tal caso non sono più dovuti interessi: si tratta di una norma a carattere sanzionatorio. L’obbligo di restituzione posto a carico del mutuatario ha per oggetto altrettante cose della stessa specie e qualità di quelle ricevute, e dev’essere adempiuta entro un termine, la cui previsione costituisce elemento essenziale del contratto. Qualora le parti non abbiano provveduto a pattuire il termine, ed anche nel caso in cui abbiano stabilito che il mutuatario paghi “quando potrà”, il termine per la restituzione sarà fissato dal giudice, ex art. 1817. Sarà comunque dovuta la restituzione immediata dell’intero, nel caso in cui, pattuita una restituzione rateale, il mutuatario non adempie
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Cap. 41. I contratti di utilizzazione e prestito
l’obbligo del pagamento anche di una sola rata, avuto riguardo alle circostanze (art. 1819). Fattispecie distinta, di origine convenzionale, ma talora anche prevista da leggi speciali (volte al finanziamento pubblico di determinate attività produttive, o di determinati acquisti), è il c.d. mutuo di scopo, nel quale il denaro viene prestato in vista del perseguimento di una data attività o di un risultato (spesso corrispondente, oltre che agli interessi del mutuatario, anche a un interesse – privato o pubblico – del mutuante): il mutuatario assume, in tal caso, l’ulteriore obbligazione di destinare quanto ricevuto alla realizzazione dell’attività o del risultato convenuti o previsti dalla legge, obbligazione il cui inadempimento condurrà alla risoluzione del contratto.
5. La locazione finanziaria (leasing). Figura nata dalla prassi (ma che trova oggi menzione in talune leggi speciali), e nella quale confluiscono elementi di tipi contrattuali diversi, con funzione sia di utilizzazione sia di finanziamento, la locazione finanziaria (o, secondo una denominazione più diffusa, leasing) mira genericamente ad assicurare ad una parte (utilizzatore) lo sfruttamento di determinati beni, per un determinato periodo di tempo e verso il corrispettivo di un canone, con possibilità, alla scadenza, o di restituirli alla controparte (concedente), o di rinnovare il contratto a canone ridotto, o di acquistarne la proprietà, corrispondendo una somma (c.d. prezzo di opzione). Si devono, tuttavia, distinguere: a) il leasing operativo (o di godimento), che intercorre tra concedente e utilizzatore e ha ad oggetto beni a rapida obsolescenza (computers, fotoriproduttori, ecc.), in cui il periodo di godimento corrisponde alla vita tecnico-economica del bene, e il canone al corrispettivo di tale godimento (prevalendo dunque lo scopo di utilizzazione temporanea); b) il leasing finanziario (o traslativo), il cui oggetto consiste in beni durevoli (sia mobili, come autovetture o macchinari industriali, sia immobili, come capannoni o altre costruzioni), che alla scadenza conservano un valore economico ben superiore al prezzo di opzione, e che si configura come rapporto contrattuale trilatero, tra il produttore del bene, il concedentefinanziatore (di regola una società di leasing che, anticipandone il prezzo, ne acquista la proprietà dal produttore e lo concede in godimento all’utilizzatore finale) e l’utilizzatore-finanziato (che mira, di solito, all’acquisto
§ 5. La locazione finanziaria (leasing)
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del bene alla scadenza, ma in tal modo non deve anticiparne integralmente il prezzo): in tal caso, funzione prevalente è quella di finanziamento all’acquisto dei beni strumentali. L’utilizzatore assume il rischio del perimento o deterioramento del bene, e ne sopporta gli oneri di manutenzione. In caso di risoluzione per inadempimento dell’obbligazione di corrispondere i canoni, ci si è chiesti se l’utilizzatore, che deve restituire il bene, abbia diritto alla restituzione dei canoni già versati: la giurisprudenza (anche se criticata da parte della dottrina) distingue il leasing operativo, al quale applica la regola della irripetibilità delle prestazioni eseguite, dettata per la risoluzione dei contratti ad esecuzione continuata o periodica (art. 14581), dal leasing finanziario (traslativo), al quale ritiene applicabile analogicamente la norma dettata per la vendita a rate con riserva della proprietà (cfr. 40.2, sub lett. i) che impone la restituzione delle rate già riscosse, salvo il diritto del concedente a un equo compenso per l’uso della cosa e al risarcimento del danno (art. 1526). L’art. 23 del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con l. 11 novembre 2014, n. 164 ha introdotto nel nostro ordinamento la figura contrattuale del c.d. rent to buy. Si tratta di un contratto, diverso dalla locazione finanziaria, che prevede l’immediata concessione del godimento di un immobile, con diritto per il conduttore di acquistarlo entro un termine determinato, imputando al corrispettivo del trasferimento una parte del canone definita dai contraenti. Le parti determinano altresì la quota dei canoni imputata al corrispettivo che il concedente deve restituire in caso di mancato esercizio del diritto di acquistare la proprietà dell’immobile entro il termine prestabilito. Questo contratto viene trascritto ai sensi dell’art. 2645 bis e la trascrizione produce anche i medesimi effetti di quella di cui all’art. 2643, 1° comma, n. 8. Si applicano le norme, dettate con riferimento al contratto preliminare, di cui agli artt. 2668, 4° comma; 2775 bis e 2825 bis. Il termine triennale di efficacia della trascrizione del contratto preliminare, previsto dal 3°comma dell’art. 2645 bis, è elevato all’intera durata del contratto di rent to buy e non può, in alcun caso, superare i dieci anni. In quanto compatibili, trovano applicazione anche le disposizioni, in materia di usufrutto, degli artt. da 1002 a 1007, nonché degli artt. 1012 e 1013. Il mancato pagamento, anche se non consecutivo, di un numero minimo di canoni, individuato dalle parti e non inferiore ad un ventesimo del loro numero complessivo, determina la risoluzione del contratto. In caso di risoluzione per inadempimento del concedente, quest’ultimo deve restitui-
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Cap. 41. I contratti di utilizzazione e prestito
re la parte dei canoni imputata al corrispettivo, maggiorata degli interessi legali. In caso di risoluzione per inadempimento del conduttore, il concedente ha diritto alla restituzione dell’immobile ed acquisisce interamente i canoni a titolo di indennità, se non è stato diversamente convenuto nel contratto. Il contratto può costituire oggetto di esecuzione in forma specifica, ai sensi dell’art. 2932. Con la legge di stabilità 2016 (l. 28 dicembre 2015, n. 208), è stato introdotto il c.d. leasing abitativo. Si tratta di un contratto di locazione finanziaria che presenta le seguenti peculiarità: utilizzatori possono essere solo persone fisiche; concedenti possono essere solo banche o intermediari finanziari iscritti nell’albo di cui all’art. 106 del T.U.B.; può avere ad oggetto solo immobili da adibire ad abitazione principale. Il concedente si obbliga ad acquistare o a far costruire l’immobile su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che se ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo mette a disposizione per un dato tempo verso un determinato corrispettivo che tenga conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto, l’utilizzatore ha la facoltà di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo stabilito. In caso di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene avvenute a valori di mercato, dedotta la somma dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere attualizzati e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto. L’eventuale differenza negativa è corrisposta dall’utilizzatore al concedente. Previa presentazione di apposita richiesta al concedente, l’utilizzatore può chiedere la sospensione del pagamento dei corrispettivi periodici per non più di una volta e per un periodo massimo complessivo non superiore a dodici mesi nel corso dell’esecuzione del contratto. Il beneficio della sospensione può essere concesso esclusivamente nel caso in cui, dopo la conclusione del contratto, sia intervenuta la cessazione del rapporto di lavoro dell’utilizzatore. Concessa la sospensione, la durata del contratto è prorogata di un periodo uguale alla durata della medesima.
§ 1. Il contratto d’opera e la prestazione d’opera intellettuale
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CAPITOLO 42
I CONTRATTI DI PRESTAZIONE D’OPERA E DI SERVIZI
SOMMARIO: 1. Il contratto d’opera e la prestazione d’opera intellettuale. – 2. Il contratto d’appalto. – 3. Il mandato e i suoi sottotipi. – 4. Il deposito e i suoi sottotipi. – 5. Il trasporto e i suoi sottotipi. – 6. Il contratto di agenzia. – 7. La mediazione. – 8. Il sequestro convenzionale. – 9. La c.d. “vendita di pacchetti turistici”.
1. Il contratto d’opera e la prestazione d’opera intellettuale. Con il contratto d’opera, una parte (prestatore d’opera) si obbliga a compiere, verso corrispettivo, un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio, e senza vincolo di subordinazione nei confronti dell’altra (committente) (art. 2222). È il contratto che disciplina la prestazione di lavoro autonomo, svolto cioè, a differenza di quanto avviene per il lavoratore dipendente, senza vincolo di subordinazione nei confronti di un datore di lavoro. Salvo precisare che talune prestazioni di lavoro autonomo, individuate per il loro particolare contenuto, costituiscono oggetto di altri tipi contrattuali (ad es., la prestazione di custodia nel contratto di deposito, quella di trasporto nel contratto omonimo), per cui la disciplina del contratto d’opera si applicherà alle prestazioni di facere autonomo, che non siano già regolate da tali disposizioni più specifiche. I criteri per distinguere il lavoro subordinato dal lavoro autonomo sono molteplici, anche perché quasi tutte le attività umane, che abbiano rilievo economico, possono costituire oggetto, tanto di un rapporto di lavoro dipendente, quanto di un rapporto di lavoro autonomo. Ciò che caratterizza il lavoro dipendente è, in primo luogo, la subordinazione, intesa come soggezione del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro: potere il quale si estrinseca, non esclusivamente con riguardo al risultato finale da ottenere (come invece avviene nel caso di lavoro autonomo), ma anche in ordine alle modalità di svolgimento della prestazione lavo-
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Cap. 42. I contratti di prestazione d’opera e di servizi
rativa, nonché ai profili organizzativi e a quelli disciplinari. Inoltre, il lavoratore dipendente non si avvale di una propria organizzazione, ma risulta inserito in un’organizzazione produttiva altrui (quella del datore di lavoro). E ancora, oggetto della prestazione del lavoratore subordinato sono le energie lavorative (l’attività di lavoro in sé considerata), mentre nel rapporto di lavoro autonomo l’oggetto è rappresentato dal risultato finale di quell’attività, e quindi dall’opera finita (il vestito su misura, confezionato dal sarto), o dal servizio prestato (l’attività di traduzione dell’interprete durante un incontro di lavoro).
Nel contratto d’opera, la prestazione dell’opera o del servizio avviene con l’impiego del lavoro proprio del prestatore d’opera (ed eventualmente di suoi collaboratori o dipendenti, ma) senza l’intervento di un’organizzazione di impresa: il prestatore d’opera è di regola un artigiano o, tutt’al più, un piccolo imprenditore (come nell’es., già proposto, del sarto che confeziona l’abito, o in quelli dell’imbianchino che ritinteggia una parete, o dell’idraulico che installa una caldaia, ecc.). Ciò vale a distinguere il contratto d’opera dall’appalto (v. infra, il paragrafo successivo), nel quale la prestazione può anche avere il medesimo oggetto, ma viene eseguita dall’appaltatore, avvalendosi della propria organizzazione di impresa (non piccola): si pensi, in confronto ai casi appena proposti, alla realizzazione dell’impianto termico, o alla tinteggiatura di un grande complesso immobiliare, realizzate da una grande impresa idraulica o di pitture edili. La prestazione d’opera è prestazione di facere: anche quando la materia è fornita dal prestatore d’opera (il tessuto è procurato dal sarto), il contratto non diviene vendita, se le parti hanno tenuto prevalentemente in considerazione l’apporto del lavoro e non la materia stessa (art. 2223). Il prestatore d’opera assume un’obbligazione di risultato (cfr. 29.9), della cui difficoltà (anche sopravvenuta) assume il rischio: ciò significa che egli è liberato dalla propria obbligazione, e consegue, così, il diritto al corrispettivo, solo eseguendo l’opera o il servizio a regola d’arte. Solo nel caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile ad alcuna delle parti, egli ha diritto ad un compenso per il lavoro prestato, proporzionale all’utilità della parte di opera eventualmente compiuta (art. 2228). Il committente, accettando l’opera, libera il prestatore dalla responsabilità per vizi e difformità dell’opera, noti al committente o facilmente riconoscibili, purché in questo caso non siano stati dolosamente occultati. Il committente conserva la garanzia per difformità e vizi occulti, soggetta a termini di decadenza (otto giorni dalla scoperta) e prescrizione (un anno dalla consegna) analoghi a quelli previsti per la vendita (art. 2226). In tal
§ 1. Il contratto d’opera e la prestazione d’opera intellettuale
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caso, egli ha diritto alla eliminazione dei vizi e delle difformità, ovvero alla risoluzione del contratto e, in caso di colpa del prestatore d’opera, anche al risarcimento del danno. Al committente è sempre consentito recedere dal contratto, anche ad opera iniziata, tenendo indenne il prestatore d’opera delle spese, del lavoro svolto e del mancato guadagno (art. 2227). Menzione a parte merita il contratto d’opera intellettuale (art. 2229 ss.), che ha per oggetto la prestazione del libero professionista, cioè del soggetto esercente professioni (le c.d. professioni protette) che richiedono l’iscrizione ad appositi albi o elenchi (avvocati, medici, ingegneri, dottori commercialisti, ecc.). La disciplina delle professioni intellettuali ha subito, di recente, importanti modificazioni, ad opera della l. 4 agosto 2006, n. 248. Al rapporto trova applicazione la disciplina del contratto d’opera, salve alcune decisive differenze, derivanti dalla natura della prestazione, che si caratterizza appunto per il suo contenuto intellettuale, e quindi per l’impiego di cultura tecnica ed intelligenza in misura prevalente rispetto al lavoro manuale. Il professionista deve eseguire personalmente l’incarico, valendosi (sotto la propria responsabilità) di sostituti e ausiliari solo se sia consentito dal contratto, o dagli usi, e non sia incompatibile con l’oggetto della prestazione (art. 2232). Il compenso dev’essere adeguato all’importanza dell’opera e al decoro della professione; esso viene determinato in base a una serie di criteri, collocati tra loro in ordine gerarchico, e precisamente: l’accordo delle parti, le tariffe professionali (i cui minimi sono stati aboliti dalla recente legge n. 248 del 2006), gli usi, o in mancanza, un provvedimento del giudice, previo parere delle associazioni professionali (art. 2233). Nella disciplina originaria del codice, era espressamente vietato il c.d. patto di quota lite, cioè l’accordo, in forza del quale il compenso viene correlato direttamente a una quota dei beni oggetto della controversia affidata al patrocinio del professionista, o del risultato conseguito dal cliente (art. 22333); la legge n. 248 del 2006 ha abrogato il divieto, per cui il patto di quota lite è oggi ammissibile, e lo ha sostituito (nel nuovo terzo comma dell’art. 2233) con la prescrizione della forma scritta ad substantiam per i patti, conclusi tra avvocati e clienti, che stabiliscono la misura del compenso. Quella del prestatore d’opera intellettuale si considera obbligazione di mezzi (l’avvocato ha diritto al compenso, anche se il cliente perde la causa: cfr. 29.9); salvo ricordare che la diligenza richiesta al professionista nell’esecuzione dell’incarico ricevuto non sarà, come di regola, quella dell’uo-
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Cap. 42. I contratti di prestazione d’opera e di servizi
mo medio, ma dovrà corrispondere al livello di perizia tecnica e di cura proprio di quell’attività professionale. Per altro verso, il professionista, se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, risponde per inadempimento solo in caso di dolo o colpa grave (art. 2236: cfr. 29.8). La giurisprudenza, in casi particolari, ha ritenuto che l’obbligazione del professionista possa avere ad oggetto un risultato, e condurre alla creazione di un opus: gli esempi principali sono forniti dalla redazione di un progetto, da parte di un ingegnere, o dalla formulazione di un parere in ordine all’esperibilità di una azione giudiziale, da parte di un avvocato.
2. Il contratto d’appalto L’appalto è il contratto con cui una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio in favore dell’altra (appaltante o committente), verso un corrispettivo in danaro (art. 1655). L’appalto si distingue dal contratto d’opera (pur potendo essere identica, nei due contratti, la natura della prestazione), per il rilievo assunto, nello svolgimento dell’attività, dall’organizzazione dell’appaltatore, il quale è sempre imprenditore (medio o grande). Oggetto della prestazione dell’appaltatore (che, come nel contratto d’opera, si considera oggetto di un’obbligazione di risultato) può essere, sia il compimento di un’opera che lo svolgimento di un servizio: appalto d’opera è quello che ha ad oggetto un’attività di trasformazione della materia diretta a produrre un bene nuovo (la costruzione di un edificio) o a modificare in modo sostanziale un bene esistente (la ristrutturazione integrale di un immobile); l’appalto di servizi ha ad oggetto un’attività, volta a procurare un’utilitas al committente, che non implica una trasformazione della materia (l’attività di imbarco e sbarco delle merci, svolta dalle compagnie portuali, la distribuzione di materiale pubblicitario porta a porta, il servizio di ristorazione in treno svolto da un’impresa di catering, ecc.). L’appalto presenta punti di contatto con altri contratti, ed in particolare con la vendita, il confronto con la quale costituisce oggetto di un’ampia giurisprudenza: come già detto per il contratto d’opera, il criterio tradizionale di distinzione si basa sulla prevalente considerazione (nell’appalto) del lavoro sulla materia; salvo sempre il necessario riferimento alla volontà delle parti manifestata in contratto. Più in particolare, di fronte al contratto con cui un imprenditore si obbliga a fornire beni che egli stesso produce, il cri-
§ 2. Il contratto d’appalto
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terio di qualificazione sarà quello basato sulla ordinaria produzione: si tratterà, quindi, di vendita (di cosa futura), quando i beni in discorso siano conformi a tipi o modelli rientranti nella produzione ordinaria del fornitore (anche qualora vi si debbano apportare modifiche, purché marginali); sarà viceversa appalto, quando i beni da fornire presentino diversità tali da quelli ordinariamente prodotti dall’imprenditore, da rappresentare un opus perfectum voluto come risultato specifico della prestazione. La disciplina dell’appalto è, in parte, comune a quella del contratto d’opera: come in tema di determinazione del corrispettivo, il quale, se non sia stato stabilito dalle parti, né sia determinabile in base a criteri dalle stesse fissati (caso che, secondo la regola generale dell’art. 1346, potrebbe dar luogo a nullità del contratto), verrà stabilito dal giudice (art. 1657). Analoga è anche la disciplina della garanzia per vizi e difformità dell’opera (ritenuta applicabile anche all’appalto di servizi): mutano per altro il termine di decadenza, previsto per la denuncia, il quale da otto passa a sessanta giorni, e quello di prescrizione, che da un anno passa a due anni dalla consegna (artt. 1667 e 1668). E analoga è, ancora, la regola sul diritto di recesso, che il committente può esercitare anche ad esecuzione iniziata, a patto di tenere indenne l’appaltatore dalle spese sostenute, del valore dei lavori eseguiti e del mancato guadagno (art. 1671). Diversa è invece (rispetto al contratto d’opera, che di regola si considera concluso intuitu personae), la norma dedicata al caso di morte dell’appaltatore: tale circostanza non scioglie il contratto, data la rilevanza prevalente assunta nell’appalto dal fattore “organizzazione d’impresa”, a meno che il committente non provi che la considerazione della persona dell’appaltatore era stata motivo determinante della stipulazione (art. 1674). L’opera dev’essere eseguita dall’appaltatore (cui è vietato, salvo autorizzazione del committente, il subappalto: art. 1656), in conformità alle direttive (e spesso al progetto) del committente, il quale ha diritto di verificare (di solito per il tramite di persona di propria fiducia incaricata della direzione lavori) lo svolgimento e lo stato dei lavori in corso di esecuzione. Qualora si riscontrino difformità, il committente potrà diffidare l’appaltatore a eliminarle entro un congruo termine, scaduto il quale il contratto si risolve (art. 1662). Sono previste e disciplinate le eventuali variazioni in corso d’opera, distinguendo quelle concordate (art. 1659), da quelle necessarie per la corretta esecuzione (art. 1660) e da quelle ordinate dal committente (art. 1661). Il prezzo, stabilito globalmente o a misura, è suscettibile di revisione in favore di entrambe le parti, quando in corso d’opera si siano verificate im-
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prevedibili variazioni dei costi che eccedano il decimo del prezzo convenuto; se invece l’esecuzione diviene notevolmente più onerosa per impreviste cause naturali (geologiche, idriche, ecc.) all’appaltatore è riconosciuto il diritto a un equo compenso (art. 1664). Ad esecuzione ultimata, il diritto dell’appaltatore al prezzo è subordinato all’accettazione dell’opera da parte del committente, che ha diritto peraltro di procedere prima della consegna al collaudo (verifica finale dell’opera e comunicazione dei relativi risultati), onde evitare che, la presa in consegna di un bene difforme (valendo come accettazione) gli precluda di azionare la garanzia (art. 1665).
3. Il mandato e i suoi sottotipi. Con il contratto di mandato, una parte (mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra (mandante) (art. 1703). La particolare natura dell’attività oggetto della prestazione del mandatario, la quale consiste nel compimento di atti giuridici nell’interesse del mandante, distingue il mandato dal contratto d’opera (che ha ad oggetto, invece, il compimento di attività materiali o intellettuali). Il mandato è contratto consensuale, ad efficacia obbligatoria. Esso “si presume” oneroso (art. 1709): ciò significa che l’onerosità è elemento solo naturale, ma non essenziale, del mandato, per cui la qualificazione del contratto non cambia, anche se esso venga stipulato senza la previsione di un compenso. Se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa del mandatario, nell’inadempimento delle proprie obbligazioni, viene valutata con minor rigore (art. 1710). Secondo l’opinione tradizionale, anche se oneroso, il mandato (analogamente al deposito) non potrebbe considerarsi come contratto a prestazioni corrispettive (cfr. 19.1), in base al rilievo che, in esso, la prestazione del mandatario (come quella del depositario) non troverebbe la propria causa nel compenso (cioè in una controprestazione), ma solo nella fiducia che costituisce la base del contratto: di qui la qualificazione come contratto “bilaterale imperfetto”, con la conseguenza assai rilevante che ad esso non si applicherebbe il rimedio della risoluzione per inadempimento, almeno per il caso di mancato pagamento del compenso. Secondo l’opinione oggi prevalente, viceversa, quando il mandato è oneroso, esso è anche contratto a prestazioni corrispettive, che come tale legittima il mandatario ad agire in risoluzione nel caso di inadempimento dell’obbligazione del mandante avente a oggetto il compenso.
§ 3. Il mandato e i suoi sottotipi
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L’effetto minimo e costante del contratto di mandato consiste nell’obbligare il mandatario ad agire nell’interesse (per conto) del mandante, anche se non è esclusa la possibilità di un mandato conferito anche nell’interesse del mandatario (c.d. mandato in rem propriam), o di un terzo: in termini economici, il mandato affida al mandatario la gestione di un affare del mandante (ed instaura, tra i due soggetti, un rapporto gestorio). Si è visto, per altro (cfr. 14.2), che alla stipulazione del contratto di mandato può accompagnarsi il rilascio, da parte del mandante, di una procura, atto unilaterale con cui il mandatario viene investito del potere di agire anche in nome del mandante stesso, cioè del potere di rappresentarlo nei confronti dei terzi. Questa, tuttavia, è una circostanza solo eventuale, in quanto il mandato, come s’è detto, non conferisce il potere, ma fa nascere solo l’obbligo di compiere gli atti giuridici per conto del mandante. La disciplina del codice distingue, pertanto, due varianti di mandato, o, se si vuole, due diversi tipi di rapporto gestorio, a seconda che esso comprenda o meno il potere rappresentativo del mandatario. Nel mandato con rappresentanza, in cui al contratto di mandato si accompagna il rilascio della procura, il mandatario agirà spendendo il nome del mandante nei confronti dei terzi, così che gli effetti degli atti compiuti dal mandatario ricadranno direttamente nella sfera giuridica del mandante (art. 1704). Nel mandato senza rappresentanza, in cui il mandatario agisce in nome proprio, gli effetti degli atti compiuti con i terzi (anche nel caso in cui questi siano a conoscenza del rapporto di mandato) ricadono nella sfera giuridica del mandatario stesso: egli diventerà dunque titolare dei diritti e assumerà gli obblighi derivanti dagli atti compiuti, e sarà tenuto a ritrasferire al mandante quelle medesime situazioni giuridiche (art. 1705). Il mandante, dal canto suo, è tenuto a somministrare al mandante i mezzi necessari all’esecuzione, rimborsargli le anticipazioni e risarcirgli i danni (artt. 1719 e 1720). Nel mandato senza rappresentanza, quindi, il mandante non entra mai in rapporto con i terzi, e dunque non subisce direttamente gli effetti degli atti compiuti dal mandatario. A tale regola la legge deroga, tuttavia, quando dall’esecuzione del mandato siano nati diritti di credito nei confronti dei terzi, o siano stati acquistati dal mandatario beni mobili: in tal caso, il mandante, sostituendosi al mandatario, può esercitare direttamente i crediti verso i terzi (art. 17052), e rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto (art. 17061). Se invece i beni acquistati dal mandatario sono immobili o mobili registrati, torna in vigore la regola normale, per cui il mandatario è
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obbligato a ritrasferirne la proprietà al mandante, il quale, in caso di inadempimento di tale obbligo, potrà ricorrere al rimedio di cui all’art. 2932 (esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre), e ottenere dal giudice una sentenza costitutiva che produca il trasferimento in suo favore (art. 17062). Il contratto di mandato, di regola, è concluso intuitu personae: tuttavia il mandatario può sostituire un terzo a sé (salvo darne tempestiva comunicazione), quando a ciò sia stato autorizzato dal mandante, o se la sostituzione si renda necessaria per la natura dell’incarico. Al di fuori di tali casi il mandante può disconoscere l’operato del sostituto ed il mandatario ne risponde. Nel caso di mandato conferito a una pluralità di mandatari, ciascuno può agire disgiuntamente (si parla, pertanto, di mandato disgiuntivo). Il mandato congiuntivo (che obbliga, viceversa, i mandatari ad agire congiuntamente) deve essere, invece, espressamente previsto e non ha effetto se non viene accettato da tutti (art. 1716): in quest’ultima ipotesi, se uno dei mandatari ai quali era stata indirizzata la proposta di mandato congiuntivo compie degli atti, questi non vincolano il mandante. Nel caso in cui il mandato sia conferito da una pluralità di mandanti, con un unico atto e per un affare di interesse comune (mandato collettivo), i mandanti sono responsabili in solido e l’eventuale revoca del mandato non ha effetto se non fatta da tutti (art. 1726). Ferme restando le cause generali di estinzione, il rapporto di mandato si estingue, per le specifiche cause elencate dall’art. 1722. Tra esse, oltre al compimento dell’affare per cu il mandato era stato conferito, ed alla scadenza del termine, vanno ricordate: a) la revoca da parte del mandante (che in realtà è una forma di recesso unilaterale), la quale estingue il rapporto, a meno che non si tratti di mandato in rem propriam, o di mandato conferito nell’interesse di terzi (nel qual caso la revoca stessa è senza effetto); e salvo anche il caso in cui fosse stata pattuita l’irrevocabilità, nel quale la revoca estinguerà il mandato, ma darà luogo a responsabilità del mandante per i danni derivanti al mandatario dall’estinzione (art. 1723); b) la rinunzia del mandatario, il quale peraltro incorre in responsabilità, se manchi una giusta causa (art. 1727); c) la morte, o l’incapacità sopravvenuta di una delle parti, salvo che si tratti di mandato per l’esercizio di un’impresa, e l’esercizio dell’impresa continui (art. 1722, n. 4).
§ 4. Il deposito e i suoi sottotipi
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Tra i sottotipi del mandato, vanno ricordati i contratti di commissione e di spedizione. La commissione è il mandato senza rappresentanza, che ha per oggetto la conclusione di contratti di compravendita, per conto del mandante (committente) e in nome del mandatario (commissionario): ne costituisce un tipico esempio il rapporto che lega le case automobilistiche alle c.d. “concessionarie”. Il commissionario ha diritto a una provvigione, la cui misura, se non pattuita contrattualmente, è determinata in base agli usi del luogo in cui è compiuto l’affare, o, in mancanza di usi, è fissata dal giudice secondo equità (art. 1733): essa di solito corrisponde a una percentuale del valore degli affari conclusi. Il commissionario non risponde della regolare esecuzione (da parte dei terzi) dei contratti stipulati per conto del committente, salvo che in virtù di patto o uso sia tenuto allo “star del credere” (cioè a garantire il buon fine dell’affare), nel qual caso assume (sostanzialmente) la veste di un fideiussore, ed ha diritto a una maggior provvigione (art. 1736). Se si tratta di commissione di compera o vendita di titoli, divise o merci aventi un prezzo corrente, il commissionario può diventare contraente in proprio (concludendo il contratto con se stesso: c.d. entrata del commissionario nel contratto), salva diversa disposizione del committente (art. 1735). La spedizione è il mandato senza rappresentanza, che ha per oggetto la conclusione di contratti di trasporto (cfr. 42.5) ed il compimento delle operazioni accessorie, per conto del mandante (mittente) e in nome del mandatario (spedizioniere) (art. 1737). La prestazione dello spedizioniere si esaurisce nella conclusione del contratto di trasporto con il vettore, e fino a quel momento il mittente può revocare l’ordine di spedizione (rimborsando le spese sostenute dallo spedizioniere e compensandolo per l’attività prestata). Lo spedizioniere ha diritto ad una retribuzione (determinata in base alle tariffe professionali o agli usi); nel caso in cui assuma in tutto o in parte l’esecuzione del trasporto (ipotesi di entrata nel contratto), assume gli obblighi e i diritti tipici del vettore (art. 1741).
4. Il deposito e i suoi sottotipi. Il deposito è il contratto con il quale una parte (depositante) consegna una cosa mobile all’altra (depositario), che assume l’obbligo di custodirla e restituirla in natura (art. 1766).
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Il deposito è contratto reale, ad efficacia obbligatoria; esso “si presume” gratuito, salvo che l’onerosità sia prevista espressamente, o possa desumersi dalla qualità professionale del depositario, o da altre circostanze (art. 1767; per il problema della corrispettività tra le prestazioni nel caso di deposito oneroso, cfr. quanto già osservato in tema di mandato, nel paragrafo precedente). Il contratto di deposito riceve nel codice una disciplina generale, salve alcune norme speciali previste per particolari sottotipi (il deposito alberghiero e il deposito nei magazzini generali). Oggetto del deposito possono essere solo cose mobili; la prestazione di custodia di un immobile sarebbe oggetto di altro tipo contrattuale (come il contratto d’opera); si ammette che esso possa avere ad oggetto le universalità di mobili (ma si dubita che ciò valga per il gregge, argomentando dalla norma dell’art. 1785 quinquies). Il depositario, che con la traditio acquista la semplice detenzione della cosa depositata (della quale resta possessore il depositante), è obbligato a custodire le cose ricevute con la diligenza del buon padre di famiglia: l’obbligazione di custodia comprende (oltre al mantenimento della detenzione) anche la conservazione della cosa, mentre non si estende all’obbligo di amministrarla. Il depositario è altresì obbligato a restituire la cosa al depositante (o alla persona da questi indicata, ex art. 17771) in qualsiasi momento, su semplice richiesta del depositante stesso (ad nutum), salvo che sia stato previsto un termine nell’interesse del depositario (art. 1771). Il depositario, pur non essendo tenuto a procurare la fruttificazione della cosa, è però obbligato a restituire i frutti che essa abbia prodotto, e che egli è tenuto perciò a percepire e custodire (art. 1775). Egli risponde della perdita o del deterioramento solo per colpa (valutata con minor rigore se il deposito è gratuito), mentre nel caso di impossibilità di restituzione dovuta a un fatto a lui non imputabile, si libera dell’obbligazione denunziando immediatamente il fatto al depositante (art. 1780). Dal canto suo, il depositante è obbligato a rimborsare al depositario le spese di conservazione, a tenerlo indenne delle perdite cagionategli dal deposito, e (in caso di deposito oneroso) a pagargli il compenso (art. 1781). Ci si discosta, invece, dallo schema tipico del deposito, quando vengano consegnati denaro o altre cose fungibili, attribuendo al depositario la facoltà di servirsene: in tal caso (parte della dottrina propone l’es. del deposito di denaro in banca), il depositario acquista la proprietà dei beni, e assume l’obbligo di restituirne altrettanti della stessa specie e qualità (deposito irregolare) (art. 17821). La natura giuridica del deposito irregolare è discussa,
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da alcuni sostenendo trattarsi in realtà di un contratto di mutuo: certamente, il passaggio della proprietà al c.d. depositario appare difficilmente conciliabile con un obbligo di custodia (inteso in senso tecnico), ed avvicina piuttosto la fattispecie alla categoria dei contratti di prestito. Muta, di conseguenza, la disciplina applicabile, che, non a caso, la legge prevede sia quella del mutuo (art. 17822). Permane, tuttavia, la diversa funzione dei due contratti: nel mutuo la consegna del denaro avviene nell’interesse del mutuatario (che conseguentemente ha diritto di servirsene per un certo periodo di tempo), nel deposito irregolare, al quale non è del tutto estranea una funzione di custodia (ampiamente intesa) l’interesse perseguito è quello del depositante (che potrà chiedere anche ad nutum la restituzione del tantundem). Come sottotipi del deposito, il codice disciplina il deposito in albergo ed il deposito nei magazzini generali.
Il deposito in albergo – Gli albergatori rispondono di ogni sottrazione, distruzione, deterioramento delle cose che il cliente ha “portate in albergo” (la cui nozione è fornita dall’art. 1783): tale responsabilità (che, si noti, non si fonda su di uno specifico contratto di deposito, ma discende dalla violazione di una obbligazione accessoria a quella assunta con il contratto alberghiero) è limitata al valore di quanto risulti deteriorato, distrutto o sottratto, entro il limite massimo di cento volte il prezzo di locazione dell’alloggio per una giornata. La responsabilità dell’albergatore diviene, viceversa illimitata, quando le cose gli siano state specificamente consegnate in custodia (configurandosi qui un vero e proprio contratto di deposito autonomo), o quando si tratti di cose che egli ha rifiutato di accettare pur essendone obbligato (è il caso del denaro contante, delle carte-valori, degli oggetti preziosi) (art. 1784). L’albergatore si libera, provando che l’evento dannoso è dovuto al cliente (o a chi lo accompagna, o gli fa visita), alla natura della cosa, o a forza maggiore (art. 1785). È prevista la nullità dei patti e delle dichiarazioni tendenti a escludere o limitare preventivamente la responsabilità dell’albergatore (art. 1785 quater). L’ambito di applicazione della disciplina del deposito alberghiero è molto vasto, dato che agli alberghi vengono equiparati, oltre alle pensioni, gli stabilimenti balneari e quelli di pubblico spettacolo, le case di cura, le trattorie, i vagoni letto, e simili (art. 1786). Il deposito nei magazzini generali – I magazzini generali (la cui attività è regolata, altresì, dalla legislazione speciale e sottoposta, al pari delle relati-
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ve tariffe e dei regolamenti, all’approvazione dell’autorità amministrativa) svolgono un servizio di interesse pubblico, consistente nella custodia delle merci depositate. Il contratto con i magazzini generali è un contratto di deposito, sempre oneroso, data la qualità professionale del depositario. I magazzini generali rispondono della conservazione delle merci depositate, salvo provare che il calo o l’avaria verificatisi dipendono da caso fortuito, dalla natura delle merci stesse, o da vizi di esse o dell’imballaggio (art. 1787). Il depositante ha diritto di ispezionare le merci depositate e di ottenere dai magazzini generali il rilascio di titoli rappresentativi delle merci stesse: si tratta della fede di deposito, alla quale è unita la nota di pegno (artt. 1790 e 1791), titoli di credito causali (in quanto, diversamente dal titolo cambiario, vi è indicato il rapporto sottostante, cfr. 14.10), trasferibili mediante girata, per effetto della quale si trasferirà il diritto alla riconsegna delle merci in essi rappresentate.
5. Il trasporto e i suoi sottotipi. Con il contratto di trasporto una parte (vettore) si obbliga verso corrispettivo a trasferire persone o cose da un luogo a un altro (art. 1678). I due diversi oggetti del trasporto ne individuano i fondamentali sottotipi (trasporto di persone e trasporto di cose); restano esclusi dall’applicazione diretta delle norme del codice civile (che assumono perciò un ruolo residuale, rispetto alle regolamentazioni specifiche: art. 1680) il trasporto marittimo e il trasporto aereo, la cui disciplina è dettata dal codice della navigazione, nonché i trasporti ferroviari e postali svolti in base a concessione amministrativa, disciplinati da leggi speciali. Al rilascio di una concessione è inoltre soggetto il trasporto (di persone o cose) esercitato come servizio pubblico di linea, per tale intendendosi il trasporto svolto regolarmente, secondo itinerari ed orari prestabiliti, in base ad una concessione amministrativa, ed offerto indistintamente a tutto il pubblico. In tal caso, il vettore concessionario ha l’obbligo legale di contrarre, con chiunque glielo richieda (compatibilmente con i mezzi ordinari dell’impresa), e di osservare la parità di trattamento (il che presuppone la predeterminazione di tariffe e di condizioni generali di contratto: cfr. 17.5) (art. 1679). La prestazione del vettore viene ricondotta al concetto di prestazione d’opera, e analogamente a questa si considera oggetto di un’obbligazione di risultato. Il contratto è consensuale (eccezion fatta per il trasporto ferro-
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viario di cose, che invece si considera concluso solo con la consegna delle cose alla ferrovia), e ad efficacia obbligatoria. Esso è considerato dalla prevalente dottrina come essenzialmente oneroso, non ostante l’espressa previsione di un trasporto gratuito di persone, contenuta nell’art. 16813, che viene perciò qualificato come contratto sui generis, soggetto alla disciplina generale delle obbligazioni e solo in via analogica all’applicazione delle norme sul trasporto. Con il trasporto gratuito, che comunque trova titolo in un vero e proprio contratto, e che può configurarsi solo quando è presente un interesse, anche se mediato o indiretto, di chi effettua il trasporto, non deve poi confondersi il c.d. trasporto amichevole o di cortesia (es.: quello offerto al collega, o all’autostoppista), che non genera obbligazioni contrattuali (per cui l’eventuale danno subito dal trasportato darà luogo eventualmente a una responsabilità extracontrattuale, con il conseguente diverso onere probatorio a carico del danneggiato: cfr. 12.5).
Nel trasporto di persone, il vettore si obbliga nei confronti del viaggiatore a trasportarlo da un luogo ad un altro, con ciò assumendo (oltre alla normale responsabilità per inadempimento o ritardo) la responsabilità per i sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio, e per la perdita o avaria del bagaglio, anche nel caso di trasporto gratuito, e salvo che non provi l’adozione di tutte le misure idonee ad evitare il danno (art. 1681). Sono nulli i patti che limitano la responsabilità del vettore per i sinistri che colpiscono il viaggiatore. Accanto a questa, che è una forma di responsabilità contrattuale (e che, dunque, non richiede che il viaggiatore provi la colpa del vettore), resta ferma la possibilità per il danneggiato di una concorrente azione di responsabilità extracontrattuale. La conclusione del contratto si ha, secondo l’opinione prevalente, con il rilascio del biglietto (secondo altri, con la convalida dello stesso); nei trasporti cumulativi, che si hanno quando un’unica prestazione di trasporto, considerata come indivisibile, viene realizzata da più vettori successivi (si pensi ad un viaggio ferroviario da Roma a Madrid, in cui siano coinvolte ferrovie italiane, francesi e spagnole), la fattispecie si perfeziona in base alla proposta unitaria del viaggiatore e alle successive accettazioni manifestate, da ciascuno dei vettori, mediante inizio dell’ esecuzione (cfr. art. 1327). Nei trasporti cumulativi, la responsabilità di ciascuno dei vettori è limitata al proprio tratto di percorso, ma il danno per il ritardo o l’interruzione del viaggio si determinano in ragione del percorso intero (art. 1682).
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Nel trasporto di cose, il vettore si obbliga nei confronti del mittente a trasportare le cose da un luogo all’altro ed a riconsegnarle, nel luogo, entro il termine e con le modalità stabiliti, ad un destinatario, che può essere il mittente stesso, o anche un terzo (caso, quest’ultimo, che parte della dottrina riconduce allo schema del contratto a favore di terzo: cfr. 18.5). Il vettore anche qui assume, accanto a quella ordinaria per inadempimento, la responsabilità per la perdita o avaria delle cose consegnategli dal momento in cui le riceve a quello in cui le riconsegna (salvo il caso fortuito, i vizi delle cose e dell’imballaggio, o il fatto del mittente o del destinatario) (art. 1693): il ricevimento senza riserve delle cose da parte del destinatario, con il pagamento di quanto dovuto al vettore, estingue le azioni nei confronti del vettore, salvi i casi di dolo o colpa grave del vettore stesso, e di danno non riconoscibile al momento della riconsegna (purché denunziato alla scoperta e non oltre gli otto giorni dalla riconsegna) (art. 1698). Nei trasporti cumulativi di cose, la regola (sopra ricordata per quelli di persone) della responsabilità proporzionale al singolo tratto di percorso si trasforma in responsabilità solidale di ciascuno (salvo il regresso o le altre forme di ripartizione interna di cui all’art. 1700). Il mittente è tenuto a indicare esattamente, al vettore, nome del destinatario e luogo di destinazione, natura, peso, quantità e numero delle cose da trasportare e gli altri estremi necessari all’esecuzione del trasporto. Egli deve, altresì, su richiesta del vettore, rilasciare una lettera di vettura sottoscritta, contenente tali indicazioni e le ulteriori condizioni convenute per il trasporto. A sua volta, il vettore dovrà rilasciare un duplicato della lettera di vettura, oppure (nel caso in cui questa non gli sia stata rilasciata) una ricevuta di carico, dal medesimo contenuto, che provano il ricevimento delle cose da trasportare (art. 1684): quando tali documenti siano stati rilasciati, il mittente, che di regola può sospendere il trasporto o chiedere una diversa destinazione (c.d. diritto di contrordine), a patto di rimborsare le spese e risarcire i danni derivanti dal contrordine, non può disporre delle cose consegnate al vettore, se non esibendo duplicato o ricevuta per farvi annotare le nuove indicazioni. Qualora i documenti di trasporto vengano rilasciati con la clausola “all’ordine”, assumono la natura di titoli rappresentativi delle merci, nel qual caso i diritti nascenti dal contratto verso il vettore si trasferiscono mediante girata (art. 1691).
§ 6. Il contratto di agenzia
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6. Il contratto di agenzia. Col contratto di agenzia una parte (agente) assume stabilmente l’incarico di promuovere, per conto dell’altra (preponente) e verso retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata (art. 1742). La disciplina del contratto di agenzia (e, più in generale, della figura dell’agente di commercio) è stata profondamente ridisegnata da una serie di provvedimenti legislativi speciali (tra i quali vanno ricordati i dd.lgs. 10 settembre 1991, n. 303 e 15 febbraio 1999, n. 65, nonché le leggi 21 dicembre 1999, n. 526 e 29 dicembre 2000, n. 422) e di accordi economici collettivi, stipulati dalle associazioni sindacali di agenti e preponenti. L’attività e l’organizzazione professionale degli agenti di commercio sono disciplinate dalla l. 3 maggio 1985, n. 204 e successive modifiche, che ha tra l’altro istituito un apposito ruolo, l’iscrizione al quale era considerata necessaria per lo svolgimento dell’attività e integrava, secondo l’opinione prevalente, un requisito per la stessa validità del contratto; tale normativa è però stata dichiarata contraria ai principi di diritto comunitario, dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (con la sent. n. 215 del 1998), e dunque va disapplicata dai giudici degli Stati membri.
Il contratto di agenzia è consensuale, ad efficacia obbligatoria, e instaura tra le parti un tipico rapporto di durata: se stipulato a tempo indeterminato, ad entrambe le parti spetta il diritto di recesso, previo preavviso; se il contratto è a termine, esso diviene comunque a tempo indeterminato se le parti continuino a darvi esecuzione dopo la scadenza (art. 1750). Esso richiede la forma scritta per la prova, e ciascuna delle parti ha il diritto (che la legge qualifica come irrinunciabile) di ottenere un documento riproduttivo del contenuto contrattuale sottoscritto dall’altra (art. 17422). L’agente, che può avere o meno poteri di rappresentanza (artt. 1745 e 1752), per la natura (non giuridica, ma di semplice promozione di affari) dell’attività svolta non può considerarsi un mandatario; nel caso in cui il preponente gli conferisca il potere di rappresentarlo, nella conclusione dei contratti, gli si applicheranno tanto le norme i tema di rappresentanza che (secondo l’opinione prevalente) quelle sul mandato. Caratteristiche del rapporto d’agenzia sono l’autonomia e la stabilità. Quanto all’autonomia, va detto che l’agente comunque conserva la propria posizione di professionista autonomo, in ciò distinguendosi dal lavoratore subordinato (com’è il c.d. commesso viaggiatore), anche se tale autonomia non è assoluta: egli ha l’obbligo di svolgere la propria attività con lealtà e buona fede, secondo le istruzioni del preponente, cui deve fornire ogni in-
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formazione utile a valutare le condizioni di mercato e la convenienza degli affari (art. 1746), avvertendolo immediatamente di eventuali impedimenti ad eseguire l’incarico (art. 1747). È previsto, inoltre, a suo carico e a favore del preponente (ma anche a suo favore, e a carico di questi) un diritto di esclusiva, che preclude all’agente di assumere l’incarico di trattare, nella stessa zona e nello stesso ramo di attività, gli affari di altre imprese concorrenti (e, per converso, vieta al preponente di avvalersi di più agenti in quella zona e in quel ramo) (art. 1743). Il diritto fondamentale dell’agente, che sopporta le spese di agenzia e assume il rischio economico della propria attività (tanto che, qualora si avvalga di una propria organizzazione può considerarsi imprenditore), consiste nella provvigione: tale diritto di credito, che sino a poco tempo addietro gli spettava solo per i contratti “andati a buon fine” (le cui prestazioni, cioè, avessero avuto regolare esecuzione), gli è stato ora riconosciuto (dal d.lgs. n. 65 del 1999) sin dal momento della stipulazione dei contratti conclusi per effetto del suo intervento (anche se diviene esigibile, al più tardi, dal momento in cui il terzo ha eseguito o avrebbe dovuto eseguire la propria prestazione) (art. 1748). Risulta ora vietato, a differenza che nella disciplina originaria del codice, il patto che pone a carico dell’agente una responsabilità anche solo parziale per l’inadempimento del terzo (c.d. star del credere) (art. 17463). Il preponente deve fornire all’agente la documentazione relativa ai beni e servizi trattati, e le informazioni necessarie all’esecuzione del contratto, in particolare avvertendolo prontamente qualora preveda un volume di affari notevolmente inferiore alle normali aspettative (art. 1749). Dicevamo che il rapporto di agenzia, pur potendo essere a tempo determinato, è comunque caratterizzato dalla stabilità: se a ciò si aggiunga il vincolo di esclusiva, si comprende come l’agente, che formalmente è lavoratore autonomo, si trova in realtà in una posizione di sostanziale dipendenza economica dall’impresa preponente (e ciò giustifica sia il ricorso agli accordi economici collettivi, sia particolari diritti riconosciuti dalla legge all’agente, come quello all’indennità in caso di cessazione del rapporto, di cui all’art. 1751).
7. La mediazione. È mediatore colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza (art. 1754).
§ 7. La mediazione
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L’attività del mediatore è regolata dalla l. 3 febbraio 1989, n. 39, che ne consente l’esercizio ai soli iscritti ad apposito ruolo speciale (istituito presso le Camere di commercio): l’esercizio da parte di non iscritti, oltre che poter dar luogo a responsabilità penale, esclude il diritto al compenso.
Il mediatore iscritto al ruolo ha diritto alla provvigione da ciascuna delle parti, nella misura stabilita convenzionalmente, o fissata dalle tariffe o dagli usi, se l’affare è stato concluso per effetto del suo intervento (art. 1755): tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare deve sussistere un nesso di causalità, non richiedendosi che l’intervento ne sia stato la causa unica ed esclusiva, ma piuttosto che senza di esso (anche se in concorso con altri fattori) l’affare non si sarebbe concluso. Il mediatore conserva il diritto alla provvigione, anche se il contratto che conclude l’affare risulti poi annullabile o rescindibile (non, invece, nel caso in cui fosse nullo ab origine), purché egli ignorasse la causa di annullamento o rescissione (art. 1756); ugualmente, il diritto alla provvigione non viene meno, se il contratto perde efficacia per una causa sopravvenuta (come la risoluzione, la revocatoria, o l’esercizio del riscatto). Il diritto al rimborso delle spese spetta, invece, solo al mediatore che abbia preventivamente ricevuto da una delle parti l’incarico, per il quale quelle spese sono state sostenute; ma in tale ipotesi, il rimborso gli spetta anche se l’affare non venga concluso. Il mediatore deve (a pena del risarcimento dei danni) comunicare alle parti le circostanze relative a sicurezza e convenienza dell’affare, rilevanti per la sua conclusione, e risponde dell’autenticità della sottoscrizione delle scritture e dell’ultima girata dei titoli di credito trasmessi per suo tramite (art. 1759). Infine, il mediatore risponde dell’esecuzione dell’affare (oltre che per effetto della prestazione, da parte sua, di apposita garanzia in tal senso) se non manifesta ad uno dei contraenti il nome dell’altro: in tal caso, una volta eseguito il contratto, subentra nei diritti verso il non nominato; se, invece, la nomina avviene dopo la conclusione, ciascuna delle parti può agire direttamente contro l’altra, ferma restando la responsabilità del mediatore (art. 1762). Dalla circostanza che la legge, anziché il contratto di mediazione, definisce il mediatore, parte della dottrina ha dedotto che il rapporto di mediazione può avere fonte non contrattuale, cioè sorgere anche solo dall’atto (giuridico in senso stretto: cfr. 13.2), con cui il mediatore mette in contatto le parti. In ordine alla mediazione contrattuale, si discute se il contratto si perfezioni nel momento in cui il mediatore viene in contatto con la prima delle parti (configurandosi allora due distinti rapporti contrattuali, tra l’intermediario e ciascuna delle parti, o anche rapporto con una sola di esse, la c.d. mediazione unilaterale), o viceversa nel momento in cui il mediatore
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abbia preso contatto con entrambe le parti e queste gli abbiano conferito l’incarico. Secondo la giurisprudenza prevalente, il contratto di mediazione potrebbe concludersi, anche tra il mediatore ed una sola delle parti, e sia per mezzo di dichiarazione espresse, che mediante fatti concludenti. Il contratto, che si ritiene a forma libera, fa sorgere obblighi solo a carico di chi si giova dell’intervento del mediatore, restando questi libero di occuparsi o meno dell’affare. Con l. 28 novembre 1984, n. 792 è stato istituito l’albo dei mediatori di assicurazione (o brokers): l’attività del broker consiste nel mettere in rapporto imprese di assicurazione o riassicurazione (cfr. 43.1) alle quali non è vincolato da impegni di sorta, soggetti che intendano provvedere, con la sua collaborazione, alla copertura di rischi, assistendoli nella determinazione del contenuto contrattuale e collaborando alla loro gestione ed esecuzione. Si tratta di figura vicina a quella del mediatore professionale, rispetto alla cui attività il c.d. brokeraggio sembra presentare profili di maggior complessità (includendo attività di consulenza assimilabili alla prestazione d’opera intellettuale), e svolgersi prevalentemente nell’interesse di una sola delle parti (il cliente che intende assicurarsi).
8. Il sequestro convenzionale. Il sequestro convenzionale è il contratto con cui due o più persone (sequestranti) affidano a un terzo (sequestratario) una o più cose, rispetto alle quali è insorta tra esse controversia, affinché il sequestratario le custodisca e le restituisca a quella tra esse, cui spetteranno a controversia definita (art. 1798). Il sequestro convenzionale è contratto reale, ad efficacia obbligatoria e solo naturalmente oneroso: esso realizza una forma di autotutela cautelare e preventiva, in favore di colui che, al termine della controversia, risulterà essere l’avente diritto, al fine di assicurargli la disponibilità materiale e l’integrità economica del bene sul quale essa verte. Oggetto del sequestro convenzionale possono essere tanto i beni mobili (che secondo un’opinione potrebbero consistere anche in denaro), quanto gli immobili. La “controversia” tra le parti non presuppone necessariamente l’instaurazione di un rapporto processuale (non equivale cioè ad una “lite” in atto), essendo sufficiente un conflitto fra pretese relative al medesimo bene. Qualora la controversia sia sfociata in una lite, essa potrà essere “definita” tanto da un provvedimento del giudice (nel qual caso l’obbligo di restituzione all’avente diritto si ritiene eseguibile anche se il provvedimento stesso sia solo provvisoriamente esecutivo), quanto da una conciliazione giudiziale, o da una transazione. Quest’ultima sarà viceversa la forma ordinaria di definizione, nel caso in cui non sia stato instaurato un rapporto processuale.
§ 9. La c.d. “vendita di pacchetti turistici”
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Il sequestratario, che in difetto di diversa disciplina pattizia è soggetto, per la custodia delle cose, alle norme sul deposito e, nel caso in cui sia anche necessario amministrarle, a quelle sul mandato (art. 1800), ha diritto al compenso, se non sia stata espressamente pattuita la gratuità, e in ogni caso al rimborso di tutte le spese ed erogazioni effettuate per la conservazione e amministrazione della cosa (art. 1802). Il sequestro convenzionale è ormai largamente desueto, nella prassi: la ragione principale (più che nella difficoltà, per due parti che controvertono, di trovare un accordo in tal senso) risiede nel fatto che l’ordinamento mette a disposizione uno strumento analogo, di natura processuale, rappresentato dal sequestro giudiziale, disposto dal giudice su richiesta anche di una sola delle parti, con provvedimento che non richiede neppure l’accordo sull’identità del sequestratario.
9. La c.d. “vendita di pacchetti turistici”. In attuazione della Direttiva n. 314/1990, il d.lgs. 17 marzo 1995, n. 111, ora trasfuso nel Codice del consumo, Parte III, Tit. IV, Capo II, art. 82 ss., ha introdotto nel nostro ordinamento, a tutela del contraente-consumatore, un nuovo tipo contrattuale denominato, con formula atecnica, “vendita di pacchetti turistici”, avente a oggetto i viaggi, le vacanze e i circuiti “tutto compreso”. Per pacchetto turistico si intende un insieme di prestazioni, caratterizzate appunto da tale oggetto, che viene venduto al consumatore a prezzo forfetario (“tutto compreso”), e che risulta dalla combinazione di almeno due tra i seguenti elementi: a) trasporto, b) alloggio, c) servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio. Il consumatore che intenda acquistare il diritto a ricevere la combinazione di prestazioni, può stipulare il contratto o direttamente con l’organizzatore di viaggio (che realizza e vende la combinazione suddetta), o con un venditore (intermediario che vende, o si obbliga a procurare il pacchetto, realizzato dall’organizzatore). Il contratto dev’essere concluso in forma scritta, secondo alcuni richiesta ad substantiam, secondo altri prevista a solo fine di documentazione (quindi né a pena di invalidità, né per la prova). Il contenuto del contratto è dettagliatamente specificato dalla legge (art. 7, d.lgs. cit.). Il consumatore ha diritto, in fase di trattative, a ricevere un opuscolo informativo, può cedere a terzi la propria posizione contrattuale, e nel caso di modifiche significative che lo inducano a recedere (tra cui una revisione del prezzo superiore al 10% dell’importo originario), o di cancellazione del
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programma, ha diritto di usufruire di un pacchetto alternativo, o di essere rimborsato delle somme versate e risarcito di ogni danno. Egli è tenuto, per converso, a contestare senza ritardo ogni difetto di esecuzione, e può sporgere reclamo entro dieci giorni lavorativi dalla data del rientro nel luogo di partenza (ma la decadenza dal diritto al risarcimento, per mancata contestazione, dev’essere espressamente prevista dal contratto). In caso di danni alla persona, il risarcimento è dovuto nei limiti stabiliti dalle convenzioni internazionali in materia (ed è nullo ogni patto volto a ridurlo); tale diritto si prescrive in tre anni dalla data del rientro. Per il risarcimento dei danni diversi da questi, ed in particolare per il c.d. danno “da vacanza rovinata” (che si registra tutte le volte in cui il consumatore non riceva i servizi attesi, per scarsa qualità o inadeguatezza degli alberghi, dei mezzi di trasporto e dei servizi complementari), l’azione si prescrive entro un anno, in applicazione degli artt. 1783 ss., e incontra i limiti quantitativi previsti dalla Convenzione di Bruxelles del 23 aprile 1970, resa esecutiva dalla legge n. 1084 del 1977.
§ 1. Il contratto di assicurazione e i suoi sottotipi
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CAPITOLO 43
I CONTRATTI DI ASSICURAZIONE E GARANZIA
SOMMARIO: 1. Il contratto di assicurazione e i suoi sottotipi. – 2. La fideiussione. – 3. Il mandato di credito. – 4. L’anticresi. – 5. Il contratto “autonomo” di garanzia.
1. Il contratto di assicurazione e i suoi sottotipi. L’assicurazione è il contratto con cui una parte (assicuratore), verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’altra parte (assicurato), entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita, al verificarsi di un evento attinente alla vita umana (art. 1882). Già dalla definizione del codice, emergono i due sottotipi fondamentali di contratto: l’assicurazione contro i danni, e l’assicurazione sulla vita; più difficile è ricondurre ad una delle due categorie il contratto (assai ricorrente) di assicurazione infortuni (che, in quanto estesa al caso morte, parrebbe accostarsi all’assicurazione sulla vita, mentre, nei casi restanti, costituirebbe un tertium genus di contratto). La funzione comune a tutte le varianti di assicurazione, è la copertura del rischio connesso ad un evento sfavorevole per l’assicurato, tant’è che l’esistenza del rischio al momento della conclusione del contratto è presupposto essenziale per la sua validità (art. 1895). Il settore delle assicurazioni, per la sua importanza economica e per la complessità del sistema di norme che lo disciplina, costituisce quasi un ramo a sé stante dell’ordinamento privatistico. Tra i testi normativi in materia, oltre alle disposizioni del codice civile, ricordiamo: gli artt. 514-547 e 996-1021 cod. nav., che regolano le assicurazioni marittime ed aeronautiche; le l. 24 dicembre 1969, n. 990 e 26 febbraio 1976, n. 39, sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile da circolazione di autoveicoli; la l. 11 dicembre 1962, n. 1860, sull’analoga assicurazione obbligatoria per i danni connessi all’impiego dell’energia nucleare. Da ultimo, su tutta la materia, sono intervenuti, in attuazione di due Direttive comunitarie, i d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174 e n. 175, che hanno innovato la disciplina, sia
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dell’attività assicurativa (specie in ordine agli obblighi di trasparenza nei confronti degli assicurati), sia dei soggetti che la esercitano (che possono essere solo società di determinati tipi, con oggetto esclusivo e minimi di capitale fissati ex lege), sia infine delle forme di controllo e vigilanza sull’una e sugli altri (che sono demandati all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo – ISVAP).
L’assicurazione è contratto consensuale, ad efficacia obbligatoria, e a prestazioni corrispettive. Essa esige ad probationem la forma scritta, la quale tipicamente, ma non necessariamente, consiste nella “polizza”, documento probatorio che l’assicuratore è obbligato a rilasciare al contraente (ex art. 1888). L’opinione tradizionale qualifica l’assicurazione come contratto aleatorio, in quanto, a fronte della prestazione certa dell’assicurato (consistente nel pagamento del premio) starebbe la prestazione incerta dell’assicuratore, in quanto dovuta solo al prodursi dell’evento assicurato. Tale impostazione, se si giustifica in ordine al singolo contratto, e nella prospettiva dell’assicurato, perde invece significato con riguardo all’attività complessiva dell’assicuratore. In tale prospettiva, lo scambio si attua tra la massa dei premi riscossi e l’insieme omogeneo di rischi assunti (valutati su basi statistiche): il che consente all’impresa di assicurazione l’approntamento dei mezzi tecnico-finanziari idonei alla copertura assicurativa, rendendo così lo scambio, per la stessa impresa, sostanzialmente commutativo. In ordine al rischio (la cui inesistenza al momento della conclusione, costituisce, come s’è detto, causa di nullità), c’è da dire piuttosto che la sua cessazione successiva risolve il contratto (e libera l’assicurato dall’obbligo del pagamento del premio) solo dal momento in cui sia conosciuta dall’assicuratore (art. 1896); analogamente, l’aggravamento o la diminuzione del rischio comunicati all’assicuratore gli consentono il recesso dal contratto (artt. 1897 e 1898). Le inesattezze o reticenze dell’assicurato, su circostanze la cui esatta conoscenza avrebbe influito sulla conclusione o sulle condizioni dell’accordo, sono causa di annullamento quando l’assicurato ha agito con dolo o colpa grave (art. 1892); se questi ha agito senza dolo o colpa grave, inesattezze e reticenze consentono il recesso dell’assicuratore (art. 1893). L’efficacia del contratto (intesa come copertura effettiva del rischio assicurato) presuppone avvenuto il pagamento del premio e decorre dalla mezzanotte successiva (art. 1901); in attesa del pagamento (e talora anche in fase di trattativa) l’assicuratore può comunque rilasciare all’assicurato una nota di copertura, che copre provvisoriamente il rischio subordinatamente al successivo pagamento (o perfezionarsi del vincolo).
§ 1. Il contratto di assicurazione e i suoi sottotipi
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Ricordiamo, infine, che i diritti derivanti dal contratto di assicurazione sono assoggettati alla prescrizione breve di un anno, dall’art. 2952. Accanto a queste disposizioni generali, il codice contiene norme specifiche dedicate a ciascuno dei due sottotipi di assicurazione, quella contro i danni e quella sulla vita. L’assicurazione contro i danni obbliga l’assicuratore a indennizzare l’assicurato della perdita economica (limitata, salvo patto espresso, al solo danno emergente: art. 19052) conseguente a un evento per lui dannoso, in quanto distruttivo di un’entità economica presente nel suo patrimonio (es.: assicurazione contro il furto, l’incendio, le calamità atmosferiche, i rischi connessi al trasporto, ecc.), generatore di una responsabilità a suo carico (es.: l’assicurazione contro la responsabilità civile, talora obbligatoria per legge, derivante da più cause), o causa di un lucro cessante (come s’è detto, solo in virtù di espressa previsione, ad es., nell’assicurazione contro le malattie, l’invalidità, gli eventi atmosferici che causino la perdita del raccolto, ecc.). Vale il principio indennitario, in forza del quale l’indennizzo non può eccedere il danno effettivamente patito (art. 1905), l’assicurazione per una somma eccedente il valore della cosa (c.d. soprassicurazione) è invalida (se vi è stato dolo dell’assicurato), o comunque ha effetto fino a concorrenza del valore reale (art. 1909), e, per converso, se l’assicurazione copre solo una parte del valore (assicurazione parziale) l’indennità è dovuta in proporzione a quella parte (art. 1907). L’assicurato deve dare avviso del sinistro entro tre giorni dal suo verificarsi (o dalla conoscenza di esso) ed ha l’obbligo di fare quanto possibile per evitarne o ridurne le conseguenze dannose (obbligo di salvataggio): l’inadempimento di tali oneri, se dolosa, produce la perdita del diritto all’indennità, se colposa, la riduzione di essa (art. 1915). In favore dell’assicuratore che ha pagato l’indennità è prevista la surrogazione nei diritti dell’assicurato verso terzi responsabili (art. 1916). Come sottospecie di assicurazione contro i danni la legge disciplina l’assicurazione contro la responsabilità civile (art. 1917), nella quale l’assicuratore deve tenere indenne l’assicurato di quanto questi debba pagare a un terzo, come risarcimento del danno derivante da un illecito (sia contrattuale che extracontrattuale). L’assicuratore, pur essendo obbligato solo nei confronti dell’assicurato, può (e deve, nel caso in cui l’assicurato lo richieda) pagare l’indennità direttamente al terzo danneggiato. Va ricordata, per la sua diffusione ed importanza, ed in quanto
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oggetto di disciplina speciale, l’assicurazione contro la responsabilità civile automobilistica (R.C.A.), assicurazione obbligatoria per legge per tutti i veicoli targati e le imbarcazioni a motore: norma speciale è quella che riconosce al danneggiato un’azione diretta verso l’assicuratore, che perciò (diversamente da quanto appena visto) è obbligato nei confronti del terzo. Questi, però, potrà agire solo dopo decorsi sessanta giorni dalla richiesta scritta di risarcimento che egli ha l’onere di rivolgere all’assicuratore.
L’assicurazione sulla vita obbliga l’assicuratore a pagare un capitale o una rendita: a) al verificarsi della morte dell’assicurato o di un terzo (il cui consenso va provato per iscritto) (c.d. assicurazione per il caso morte); b) per l’ipotesi in cui ad una certa data l’assicurato (o il terzo) sia ancora in vita (c.d. assicurazione per il caso vita). La prassi conosce inoltre forme miste risultanti dalla combinazione dei due tipi (es.: assicurazione di sopravvivenza). L’assicurazione può essere stipulata a favore proprio, e/o di un terzo: in quest’ultimo caso la designazione del beneficiario può essere fatta nel contratto, con dichiarazione scritta comunicata in seguito all’assicuratore, o con testamento (art. 1920) ed è revocabile con le stesse forme (art. 1920); se fatta irrevocabilmente e a titolo di liberalità, si applicheranno alla designazione le ipotesi di revocazione per ingratitudine e per sopravvenienza di figli (art. 19222). Nel caso di suicidio dell’assicurato avvenuto nel primo biennio dalla stipulazione, l’assicuratore non è tenuto a pagare le somme assicurate, salvo patto contrario (art. 1927). Il contratto con cui un assicuratore si assicura, a sua volta, per il rischio assunto con un contratto di assicurazione si definisce riassicurazione (art. 1928 ss.): l’impresa di assicurazioni Alfa, che ha sottoscritto con Tizio un contratto di assicurazione contro determinati danni, sottoscrive con l’impresa di assicurazioni Beta, un contratto di riassicurazione per lo stesso rischio. Il contratto di riassicurazione, che va provato per iscritto, obbliga il riassicuratore (l’impresa Beta) a tenere indenne il riassicurato (Alfa) di quanto questi dovrà corrispondere all’assicurato (Tizio) in adempimento al contratto di assicurazione, ma non crea rapporti tra assicurato e riassicuratore (cioè tra Tizio e Beta). Sulla figura del c.d. brokeraggio assicurativo, cfr. 42.6, in fine.
§ 2. La fideiussione
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2. La fideiussione. Con il contratto di fideiussione un soggetto, terzo rispetto ad un rapporto obbligatorio (il fideiussore), si impegna personalmente verso il creditore, garantendo l’adempimento dell’obbligazione del debitore principale; la fideiussione è efficace, anche se il debitore non ne ha conoscenza (art. 1936). La fideiussione è contratto consensuale, ad efficacia obbligatoria e naturalmente gratuito: in quest’ultimo caso, fa nascere obbligazioni a carico del solo fideiussore, e si perfeziona mediante il procedimento previsto dall’art. 1333 (cfr. 17.2 sub c). La fideiussione non è soggetta a oneri di forma, né per la validità, né per la prova, ma richiede che la volontà di prestarla sia manifestata in modo espresso (art. 1937). Oggetto dell’obbligazione del fideiussore è la medesima prestazione dovuta dal debitore principale: da ciò deriva che essa consisterà, normalmente, in denaro o in un dare fungibile. Quando, anziché l’adempimento del debito principale, la fideiussione abbia ad oggetto la prestazione del risarcimento del danno per il caso di inadempimento del debitore, si realizza la figura nota come fideiussio indemnitatis. Può essere prestata fideiussione anche per obbligazioni condizionali o future, purché in tal caso sia previsto l’importo massimo garantito (art. 1938, modificato dalla l. n. 154 del 1992): in tal modo, si è limitata la validità di una fideiussione prestata per tutti i debiti futuri di un certo debitore (c.d. fideiussione omnibus). In quanto destinata a creare, in capo al fideiussore, un’obbligazione accessoria, la fideiussione presuppone la validità dell’obbligazione principale, o, più esattamente, la validità del negozio che costituisce titolo dell’obbligazione principale (art. 1939): la norma, che vale senza dubbio nei casi di nullità del titolo, fa eccezione per la fideiussione prestata per un’obbligazione assunta da un incapace (e quindi derivante da un contratto annullabile); più in generale, si ritiene che, in caso di annullabilità e rescindibilità del negozio fonte del debito garantito, la fideiussione sia valida, ma il fideiussore possa rifiutarsi di adempiere, opponendo un’eccezione al creditore, nei limiti e fino a quando il debitore principale possa impugnare il titolo che lo obbliga (cfr. tuttavia infra il paragrafo 5). Si è già incontrata, in più occasioni, la figura del fideiussore, e si è accennato al rapporto che lo lega al creditore e al debitore principale (cfr., ad es. 29.1 e 30.1). Nei confronti del creditore, per effetto del contratto il garante è obbligato personalmente e solidalmente con il debitore garantito, a meno che sia
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previsto in contratto il beneficium excussionis: patto con cui si conviene che il creditore non possa rivolgersi al fideiussore se non dopo aver inutilmente escusso il debitore principale (salvo l’onere del fideiussore, che intenda valersi del beneficio, di indicare i beni del debitore principale da sottoporre ad esecuzione) (art. 1944). Anche nel caso di fideiussione prestata da più persone per il medesimo debito, i fideiussori rispondono solidalmente, salvo sia pattuito il beneficium divisionis, in forza del quale il singolo fideiussore convenuto per il pagamento può esigere che il creditore riduca la propria pretesa alla quota da lui dovuta (artt. 1946 e 1947). Il fideiussore, infine, può opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, salvo quella fondata sull’incapacità di questi (art. 1945). Quanto ai rapporti con il debitore principale, al fideiussore che ha pagato sono riconosciuti due rimedi alternativi: la surrogazione legale nei diritti del creditore (cfr. 31.1) e il diritto di regresso contro il debitore (anche quando questi fosse inconsapevole della prestata fideiussione) (artt. 1949 e 1950). Il fideiussore che intenda agire in regresso è soggetto a due oneri: a) deve avvisare preventivamente il debitore della propria intenzione di pagare (pena l’opponibilità di tutte le eccezioni che il debitore avrebbe potuto opporre al creditore all’atto del pagamento); b) deve denunciare al debitore l’avvenuto pagamento, pena la perdita dell’azione di regresso contro il debitore che abbia a sua volta pagato. È fatta salva al fideiussore, in entrambi i casi, l’azione per la ripetizione contro il creditore (art. 1952). Infine il fideiussore, prima del pagamento (e quando ricorra uno dei casi previsti dall’art. 1953), può agire in giudizio contro il debitore perché questi gli procuri la liberazione (c.d. az. di rilievo per liberazione), o perché gli presti le garanzie necessarie ad assicurargli il soddisfacimento delle ragioni di regresso (c.d. az. di rilievo per cauzione). L’obbligazione fideiussoria si estingue (oltre che per le cause generali, e per l’estinzione del debito principale): se, per fatto del creditore non può avere effetto la surrogazione del fideiussore nei diritti, nelle garanzie e nei privilegi del creditore (art. 1955); se, nella fideiussione per obbligazione futura, il creditore (non autorizzato dal fideiussore) abbia fatto credito al debitore pur conoscendone il peggioramento delle condizioni economiche (art. 1956); se, entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale, il creditore non abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia poi continuate con diligenza (art. 1957).
§ 4. L’anticresi
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3. Il mandato di credito. Il mandato di credito è il contratto con cui una parte si obbliga verso l’altra, che le ha conferito l’incarico, di fare credito a un terzo in nome e per conto proprio, nel qual caso colui che ha conferito l’incarico risponde come un fideiussore di un debito futuro (art. 1958). Si tratta di una figura mista che presenta elementi della fideiussione e del mandato (ma taluno fa notare, in contrario, come il mandatario di credito agisca per conto proprio e non per conto del mandante), ed assolve sia ad una funzione (ritenuta prevalente) di credito, sia ad una funzione di garanzia. Il mandatario che abbia accettato l’incarico non può rinunciarvi, mentre il mandante può revocarlo (in realtà si tratta di un diritto di recesso, esercitabile sino a che l’incarico non sia ancora stato eseguito), salvo l’obbligo di risarcire il danno al mandatario. Il peggioramento delle condizioni patrimoniali del mandante o del terzo, successivo all’accettazione dell’incarico, sospende l’obbligo del mandatario, che non può essere costretto a far credito al terzo; se però il mandatario, pur conoscendo il peggioramento delle condizioni del terzo, gli abbia ugualmente fatto credito, il mandato di credito si estingue e il mandante è liberato della sua obbligazione di garanzia, in applicazione dell’art. 1956 (art. 1959).
4. L’anticresi. L’anticresi è il contratto (attualmente di scarsa applicazione pratica) con cui il debitore o un terzo si obbliga a consegnare un bene immobile al creditore a garanzia del credito, affinché ne percepisca i frutti imputandoli agli interessi (se dovuti) e quindi al capitale (art. 1960). L’anticresi, in forza della quale il creditore anticretico acquista un diritto di godimento che la dottrina prevalente qualifica come personale, dura sino a che sia stato interamente soddisfatto il credito, ma non può comunque eccedere la durata massima di dieci anni (art. 1962). Si applica al rapporto di anticresi il divieto del patto commissorio (art. 1963: cfr. 14.10). In deroga al suddetto divieto, gli artt. 48 bis e 120 quinquiesdecies del T.U.B., in sede di conclusione di contratti di finanziamento, rispettivamente a favore di consumatori o imprenditori, consentono di pattuire il trasferimento al creditore
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Cap. 43. I contratti di assicurazione e garanzia
della proprietà di un bene immobile, sotto la condizione sospensiva che vi sia un inadempimento rilevante del debitore (inadempimento la cui ricorrenza dipende dal verificarsi dei requisiti specificatamente previsti dalle disposizioni di legge speciale). Tuttavia, la validità di tale stipulazione è condizionata al fatto che, in caso di eccedenza del valore del bene immobile rispetto all’ammontare del debito residuo (da determinarsi in base ad una perizia di stima), il creditore sia obbligato a restituire al debitore la somma corrispondente alla predetta differenza. In queste specifiche fattispecie, dunque, la legge espressamente riconosce la legittimità dell’alienazione in funzione di garanzia del credito (di principio vietata dal divieto di patto commissorio) purché assistita dalla previsione del c.d. patto marciano, e, dunque, dall’obbligo del creditore, che diviene proprietario del bene, di rendere al debitore l’eccedenza tra il valore del bene di cui è diventato proprietario e il valore del debito residuo rimasto inadempiuto.
5. Il contratto “autonomo” di garanzia. Si è visto (supra, al n. 2) che il carattere di accessorietà costituisce, tradizionalmente, un connotato tipico del rapporto fideiussorio. In forza di tale carattere, non solo il contenuto dell’obbligazione fideiussoria si determina in base a quello dell’obbligazione principale (artt. 1941 e 1942), ma anche le vicende di quest’ultima si ripercuotono, di regola, sull’obbligo del fideiussore (art. 1945): così che il fideiussore potrà opporre al creditore garantito tutta una serie di eccezioni attinenti al rapporto debitorecreditore. Nella prassi, si è da tempo tentato di superare il carattere accessorio dell’obbligazione di garanzia: sia in nome delle generali esigenze di sicurezza e celerità, tipiche dei rapporti commerciali (specie se internazionali) tra imprese, sia in determinati settori, come ad esempio quello degli appalti pubblici, per evitare le ingenti immobilizzazioni pecuniarie derivanti dagli obblighi di cauzione. Si sono così create nuove figure atipiche di garanzia personale: tra esse merita menzione il c.d. contratto autonomo di garanzia (o a prima richiesta), assai diffuso e ormai riconosciuto, sia pure come modello atipico, dalla giurisprudenza. Con esso, il garante si obbliga ad eseguire la prestazione dovuta (spesso non identica, ma solo equivalente a quella principale), su semplice richiesta del creditore garantito, e indipendentemente dall’esistenza validità ed efficacia del rapporto principale. Il che non solo esclude la possibilità di sollevare preventivamente le eccezioni relative al rapporto principale (effetto che si potrebbe conseguire, anche
§ 5. Il contratto “autonomo” di garanzia
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in un rapporto di fideiussione, pattuendo a carico del fideiussore la clausola solve et repete); ma impedisce al garante di fondare, su quelle stesse eccezioni, una successiva azione di ripetizione di quanto prestato (che sarebbe invece ancora possibile, anche in presenza di quella clausola). Il rapporto di garante-creditore diviene così autonomo rispetto a quello creditore-debitore, ed il garante, secondo la giurisprudenza formatasi in materia, potrà opporre al creditore garantito (oltre, ovviamente, alle eccezioni attinenti alla validità ed efficacia dello stesso contratto autonomo di garanzia), la sola exceptio doli generalis: facendo valere, cioè, il comportamento del creditore contrario alla buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375), come quando questi escuta la garanzia pur avendo già ricevuto (e non contestato) l’adempimento dal debitore, o in base a contestazioni false o meramente formali.
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Cap. 44. I contratti per la soluzione di controversie
CAPITOLO 44
I CONTRATTI PER LA SOLUZIONE DI CONTROVERSIE
SOMMARIO: 1. La transazione. – 2. Il compromesso in arbitri e la nuova disciplina dell’arbitrato. – 3. La cessione dei beni ai creditori.
1. La transazione. La transazione è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata, o prevengono una lite che può sorgere tra loro (art. 1965). Presupposto della transazione è dunque l’esistenza di una lite, per tale intendendosi il conflitto tra la pretesa di una parte (che afferma un proprio diritto) e la contestazione dell’altra (che invece lo nega); e ciò, tanto nel caso che sia già stata assunta una iniziativa giudiziale (lite attuale, cui la transazione pone fine), quanto nel caso contrario (lite potenziale che la transazione può prevenire). Deve comunque trattarsi di diritti che non siano sottratti, per loro natura o per legge, alla disponibilità delle parti (art. 19662), o in ordine ai quali la legge non escluda espressamente la validità di una transazione (come nel caso, di cui all’art. 2113, dei diritti attribuiti al lavoratore subordinato da norme inderogabili). Contenuto essenziale del contratto sono le reciproche concessioni: ciascuna delle due parti deve concedere all’altra qualcosa, rispetto all’iniziale pretesa e contestazione (es.: se il creditore afferma di avere diritto a 100, e il debitore oppone invece di dovere 60, è transazione il contratto con cui si stabilisce che il debito ammonta a 80); se mancasse questo aliquid dare, aliquid retinere non si realizzerebbe la fattispecie tipica della transazione, ma al più potrebbe darsi un riconoscimento della pretesa altrui (come se, nell’es. proposto, si stabilisse che il debito ammonta effettivamente a 100, oppure a 60). Con le reciproche concessioni si possono peraltro creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello contestato (c.d. tran-
§ 1. La transazione
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sazione mista: nell’es. proposto, si stabilisce che il debito ammonta a 60, ma contemporaneamente il debitore costituisce una servitù di passaggio sul proprio fondo, a vantaggio di un fondo del creditore). La forma scritta è prevista solo per la prova del contratto; ma se il contratto è destinato a produrre effetti propri di atti per i quali la scrittura è prevista ad substantiam (quelli elencati all’art. 1350: cfr. 14.7) come nel caso del nostro ultimo esempio, in cui la transazione costituisce un diritto reale immobiliare, ovvero se la transazione pone fine a una controversia concernente diritti reali immobiliari, la forma scritta sarà richiesta anche per la validità del contratto (art. 1967). Regole speciali riguardano le possibili cause di impugnazione della transazione, ed in particolare i vizi che possono condurre al suo annullamento; salvo precisare che, in difetto di specifica deroga, continuano ad applicarsi le norme generali in materia (e così, ad es., in tema di dolo o violenza morale). L’art. 1969 esclude, in primo luogo, l’annullabilità della transazione per errore di diritto, relativo alle questioni che sono state oggetto della controversia (il c.d. caput controversum): ciò per l’evidente ragione che, mediante la transazione, le parti prescindono da una valutazione obiettiva della ragione e del torto in ordine alla questione controversa. Per una ragione del tutto analoga, è esclusa altresì la rescissione per lesione (art. 1970). Viceversa è prevista l’annullabilità della transazione, quando la controparte fosse consapevole della temerarietà della propria pretesa (art. 1971). Nel caso di transazione relativa ad un titolo nullo, si dovrà distinguere in base alla causa di nullità: se si tratti di negozio illecito, anche la transazione è nulla; al di fuori dei casi di illiceità, la transazione su titolo nullo è annullabile solo da parte del contraente che ignorava la causa di nullità (art. 1972). Ancora sono annullabili la transazione fatta, in tutto o in parte, sulla base di documenti in seguito risultati falsi (art. 1973), e quella avente a oggetto una lite già decisa con sentenza passata in giudicato, di cui una o tutte le parti non avevano notizia (art. 1974). Quanto infine alla risoluzione per inadempimento, essa resta esclusa (salva espressa riserva), solo se il rapporto preesistente sia stato estinto per novazione (transazione novativa) (art. 1976). Si noti che, secondo la giurisprudenza, si avrebbe transazione novativa ogni qual volta il complesso delle modificazioni, introdotte dal regolamento transattivo, sia incompatibile con la sopravvivenza dell’originario rapporto; e ciò, a prescindere da una qualsiasi manifestazione di volontà in tal senso delle parti. Ciò
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Cap. 44. I contratti per la soluzione di controversie
rende difficile ricondurre la transazione novativa al fenomeno generale della novazione del rapporto obbligatorio (sulla quale cfr. 32.3), al quale è essenziale la presenza dell’animus novandi; oltre a ciò, si ricordi come la novazione presupponga sempre l’esistenza dell’obbligazione originaria, mentre ciò può non avvenire nella transazione (come si deduce dall’art. 19722).
2. Il compromesso in arbitri e la nuova disciplina dell’arbitrato. Le parti di una controversia, anziché rivolgersi all’autorità giudiziaria, possono affidarne la soluzione a giudici privati (gli arbitri), nominati dalle stesse parti, con varie modalità. L’esigenza prima, che giustifica il ricorso al giudizio arbitrale, è la celerità del procedimento (gli arbitri, di regola, sono tenuti a decidere entro un termine breve dall’accettazione dell’incarico), in una con la specializzazione, che talora risulta assicurata da arbitri dotati di competenza specifica nella materia del giudizio. La disciplina dell’arbitrato, che trova la sua collocazione nel codice di procedura civile (agli artt. 806 ss.), è stata largamente riformata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40: ne trattiamo qui (oltre che per la sempre maggiore importanza pratica) per l’affinità funzionale rispetto alla transazione, in quanto mezzo di composizione di controversie, e per il fatto che il ricorso agli arbitri trova la sua base in un accordo contrattuale tra le parti della controversia. Nella nuova disciplina, tale accordo si denomina, a seconda dei casi, “compromesso”, “clausola compromissoria”, o “convenzione arbitrale” (anche se, poi, quest’ultima formula viene utilizzata dalla legge per designare genericamente ogni forma di accordo arbitrale). Il compromesso in arbitri è il contratto (autonomo) con cui le parti convengono di far decidere dagli arbitri le controversie tra esse insorte. Tale accordo, oltre che come contratto autonomo, può essere contenuto anche in una clausola accessoria, apposta ad altro contratto (clausola compromissoria), al fine di devolvere al giudizio arbitrale le controversie future, relative al rapporto nascente dal contratto a cui la clausola accede. Infine (novità introdotta dalla riforma) le parti possono stabilire, con apposita convenzione arbitrale, che siano decise da arbitri controversie future, relative ad uno o più rapporti non contrattuali determinati (così, ad es., attraverso una convenzione arbitrale potrebbe essere devoluta alla cognizione degli arbitri una controversia relativa al risarcimento del danno derivante da atto illecito extracontrattuale). La riforma ha quindi ampliato l’ambito delle controversie arbitrabili, stabilendo che l’unico e sufficiente presupposto, per deferirne agli arbitri
§ 2. Il compromesso in arbitri e la nuova disciplina dell’arbitrato
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la decisione (la quale si denomina lodo), è che esse abbiano ad oggetto diritti disponibili. Quanto ai tipi di arbitrato, si distinguono un arbitrato rituale ed un arbitrato irrituale. L’arbitrato irrituale (che prima della riforma non trovava disciplina specifica nella legge, mentre ora viene espressamente contemplato dall’art. 808-ter) si ha quando le parti, con disposizione espressa per iscritto, stabiliscono che la controversia sia definita dagli arbitri mediante determinazione contrattuale. In tal caso, il lodo irrituale è destinato ad assumere, tra le parti, il valore di un contratto che risolve la controversia: quindi, essenzialmente, di una transazione, o (per chi ne ammetta la configurabilità) di un negozio di accertamento. La peculiare natura contrattuale del lodo irrituale fa sì che esso non possa assumere l’efficacia di una sentenza, né di titolo esecutivo, e che sia soggetto ad impugnazioni tipiche del contratto: così, ad es., con l’azione di annullamento per incapacità degli arbitri. Il nuovo art. 808 ter enumera una serie di cause di impugnazione, tra cui particolare rilievo assumono il rispetto dei limiti fissati dalla convenzione arbitrale alla competenza degli arbitri (art. 808 ter, 2° comma, n. 1) e la violazione del principio del contraddittorio (art. 808 ter, 2° comma, n. 5). L’attività degli arbitri irrituali, infatti, pur essendo svincolata dal rigore procedurale, resta assoggettata al rispetto di taluni principi fondamentali, tra cui appunto quello del contraddittorio. L’arbitrato rituale, pur avendo anch’esso natura privatistica, assume la struttura di un vero e proprio processo, destinato a concludersi con una pronuncia di valore analogo a quello della sentenza. Il contratto di compromesso, che richiede la forma scritta ad substantiam, deve determinare, l’oggetto della controversia, e contenere la nomina degli arbitri, oppure stabilire il numero e le modalità di nomina di essi. Il rapporto tra parti e arbitri nominati (da non confondere con quello nascente dal compromesso) si costituirà in seguito all’accettazione di questi ultimi. Il procedimento arbitrale rituale è soggetto all’osservanza delle regole stabilite, in materia, dal codice di procedura civile (agli artt. 816 ss. c.p.c.). Anche qui, a seconda dei criteri di decisione utilizzabili dagli arbitri, si distingueranno un arbitrato di diritto (che costituisce la regola) ed uno di equità (che deve essere oggetto di una previsione delle parti). Il lodo reso dagli arbitri rituali assume, dalla data della sua ultima sotto-
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Cap. 44. I contratti per la soluzione di controversie
scrizione da parte degli arbitri, l’efficacia della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria. Esso, una volta comunicato alle parti, può venire depositato, da ciascuna di esse, nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato, per essere reso esecutivo attraverso un decreto del giudice: il lodo rituale, reso esecutivo, è soggetto a trascrizione o annotazione ed acquista efficacia di titolo esecutivo. Il lodo rituale è soggetto a mezzi di impugnazione diversi dai tipici rimedi contrattuali: in particolare sarà impugnabile, oltre che per le cause di nullità previste dall’art. 829 c.p.c., per revocazione e per opposizione di terzo.
3. La cessione dei beni ai creditori. La cessione dei beni ai creditori (cessio bonorum) è il contratto con cui il debitore incarica i suoi creditori o alcuni di essi di liquidare in tutto o in parte le sue attività e ripartirne il ricavato a soddisfacimento dei loro crediti (art. 1977). Funzione del contratto, che la dottrina prevalente avvicina al mandato in rem propriam, è evitare i tempi (e la pubblicità negativa per il debitore) connessi al procedimento esecutivo.
La cessione, che è soggetta a forma scritta a pena di nullità (e ad oneri di pubblicità corrispondenti al tipo di beni e diritti che ne costituiscono oggetto), non priva il debitore della titolarità dei diritti ceduti, ma solo del potere di disporne (art. 1980); i poteri di amministrazione e disposizione spettano ai creditori che hanno contrattato la cessione (o che vi hanno aderito), che peraltro (se la cessione sia stata parziale) non possono agire esecutivamente sugli altri beni, sino alla liquidazione di quelli ceduti. Il debitore conserva poteri di controllo e di rendiconto, nonché il diritto su quanto residui dal riparto; egli può recedere dal contratto offrendo il pagamento del capitale e degli interessi dovuti ai creditori con i quali ha contrattato o che hanno aderito alla cessione. La cessione può essere annullata, se il debitore, dichiarando di cedere tutti i suoi beni, ne abbia dissimulato parte notevole, oppure se abbia occultato passività, o simulato attività fittizie.
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Abitazione – diritto di, 291, 331, 353, 373, 465, 508, 513 – nella casa familiare, 314, 353 Abrogazione, 28 Abusi familiari, 290, 318 s., 323 Abuso – del diritto, 40 s., 225 – dell’usufruttuario, 513 – di dipendenza economica, 553, v. anche subfornitura Accessione, 502 ss. – del possesso, 338, 493, 504 – invertita, 502 Accettazione – caducazione della, 219 – del contratto, 215 ss. – di eredità, 171, 179, 196 s., 333, 341 ss. v. anche beneficio d’inventario Accollo, 427 ss. Accordo – contrattuale, 157 – di divorzio, 267 – di separazione, 271 – simulatorio, 176 Accrescimento, 346, 349 s. Acque – private, 480 – pubbliche, 463 Acquisti – a non domino, 494, 500 – a titolo derivativo, 53, 102, 494, 500, 504 – a titolo originario, 52, 336, 450, 500 – a titolo universale, 54 Acquisto, del possesso, 489 Actio interrogatoria, 333
Actio judicati, v., prescrizione, termini Addebito, v. separazione personale dei coniugi Adempimento, 134 s., 392 ss. – del terzo, 149, 396, 427 – di un debito di gioco, 149, 398 – di un dovere morale, 149, 392 – e incapacità, 149, 395 s. – termine di, 197 s., 393, 433 Adozione – dei maggiori di età, 326 ss. – dei minori, 324 ss. – in casi particolari, 328 – in generale, 252, 259 – internazionale, 326 s. Adulterio, 290 Affidamento – dei figli, 271 s., 268, 319 ss. – – congiunto, 320 ss. – – esclusivo: 321 – familiare, v. affido temporaneo – preadottivo, 317 s. – tutela dell’, 32, 101, 164, 172 s., 207 s., 213, 369 Affido temporaneo, 321, 325 Affiliazione commerciale, 554 s. Affinità, 253, 260 Affitto, 554 ss. – a coltivatore diretto, 559 s. – di fondi rustici, 560 Affrancazione, 511 Agenzia, contratto di, 580 ss. Albergo, 223, 448 – deposito in, v. deposito Alimenti, 89, 253 ss., 268, 294, 311, 381, 392, 408, 436 Aliud pro alio, 537
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Allontanamento dalla residenza familiare, 27, 268 s., 318, 323 Alterazione dello stato civile, 319 Ambiente, tutela dell’, 478 s. Amministratori, di enti, 97, 121 s., 126 s., 442 Amministrazione – dei beni degli incapaci: 316 – del condominio, 486 – della comunione legale, 280 – dell’eredità, 350, 373 – di sostegno, 92, 105, 109 s., 292 Anagrafe, 292 Analogia, 31 s., 185, 198 Anatocismo, 419 Animali, v. danno Animus novandi, 433 Annotazione – dell’accettazione beneficiata, 343 – della interdizione, 106 – delle convenzioni matrimoniali, 276 s. – delle modifiche al regime patrimoniale coniugale, 277 – nei registri immobiliari, 517 ss. Annullabilità, 100 s., 106 s., 175, 200 s., 205 s., 242, 369 s., 377 – della transazione, 597 – dell’unione civile, 288 – del matrimonio, 106, 259 s., 266 – del testamento, 369 s. Anticresi, contratto di, 593 Antigiuridicità, 135 Apertura, d. successione, 112, 332 Appalto, contratto di, 570 ss. – e vendita, 570 s. Apparenza, principio, 180, 336, 398, 423 Apporzionamento, 376 Apposizione di termini, v. azione di confine Arbitraggio, 169 – nella compravendita, 532 Arbitrato, 57, 168, 266, 598 ss. Arricchimento – e donazione, 191, 379 – senza causa, 183, 207, 393 Ascolto del minore, 304 s., 312 Aspettativa di diritto, 46, 56, 193, 196 Assegnazione – della casa familiare, 322 s. – del pegno, 450
Assegno – alimentare, 255, 268, 383 – bancario, 15 – di divorzio, 267 s. – di mantenimento, 267, 383 – divisionale, 337 – vitalizio, 255, 270, 353, 362 Assemblea – nei gruppi organizzati, 120, 126 s., 147 – nel condominio degli edifici, 483 Assenza, 114, 260, 277, 282, 333, 346 s. Assicurazione, contratto di, 222, 587 ss. – contro i danni, 587, 589 – contro la responsabilità civile, 589 s. – e riassicurazione, 590 – infortuni, 587 – obbligatoria, 587 s., 590 – sulla vita, 590 Assistenza, v. curatore Associazione, 8, 68, 94, 117 s., 122 s. – non riconosciuta, 122 s. Astrazione – materiale, 187 – processuale, 187 Atti emulativi, 40, 478, v. anche proprietà Attività pericolose, v. danno Atto – collegiale, 127, 147 – complesso, 107, 147 – costitutivo di un ente, 124 – di amministrazione, 197 – di celebrazione del matrimonio, 263 s. – di costituzione in mora, v. costituzione in mora – di destinazione, v. trascrizione, di atti di destinazione – di disposizione e condizione, 196 – di nascita, 102, 292 s. – giuridico e capacità, 97 – giuridico, in generale, 52, 135, 146 s. – giuridico in senso stretto, 148, 395, 403 – illecito, 41, 100, 133 s., 155, 191, 414 – materiale, 147 – pubblico, 73, 78, 180, 276, 304 – scritto, 180 – ultra vires, 127 – unilaterale, 43, 153, 161, 164, 215 s., 305, 379, 4818, 455
Indice analitico Attore, 53, 67 Attribuzione patrimoniale, 183 Autenticazione, della sottoscrizione, 74, 180 Autodeterminazione, v. consenso informato Autonomia – patrimoniale, 119 s., 123, 281, 442 – privata, 155, 219 Autorizzazione, 43 Autoveicoli, v. beni mobili registrati Avente causa, 53, 71, 102 s., 177 s., 202, 207, 233 s., 245, 335, 349, 375, 384, 399 Avviso, dovere di, 211 Azienda, 15, 54, 123, 167, 173, 279, 285, 415, 471, 530 Azione, in giudizio, 67 s. – confessoria, 516 – di confine, 505 – di danno temuto, v. denunzia di danno temuto – di manutenzione, 499 – di nunciazione, 499, 505 s. – di nuova opera, v. denunzia di nuova opera – di regolamento di confini, 505 – di reintegrazione, 498 s. – di rivendicazione, 503 s. – di spoglio, v. azione di reintegrazione – di stato, 302 s. – edilizia, 536 – estimatoria, 536 – inibitoria, 94 – petitoria, 503 s. – possessoria, 333, 341, 497 s. – redibitoria, 536 – revocatoria, 200, 442 s. – risarcitoria, 88,, 95 – surrogatoria, 445 s. v. anche: annullabilità, arricchimento, dichiarazione di paternità, disconoscimento, esecuzione forzata, nullità, reclamo, rescissione, riduzione Beneficio, del termine, 393 – di inventario, 342, 356 Beneficium divisionis, 592 Beneficium excussionis, 592 Beni, 461 ss. – ambientali, 475, v. anche ambiente – demaniali, v. demanio
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di consumo, v. vendita e cose, 461 s. futuri, v. cose future immateriali, 462 immobili, 231, 234, 451 s., 464 s., 540 ss. indivisibili, 414, 468 s. mobili, 22, 52, 78, 230 s., 279 s., 337, 340, 346, 355, 378, 385, 448, 465 s., 545 – – registrati, 280 s., 451, 465 s., 495 s. – nuovi, 472 – personali del coniuge, 279, 282 – pubblici e privati, 473 s., v. anche demanio, patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici Bigamia, 267 Brokeraggio, 584 s., 590 Buona fede, 33, 67, 101 s., 112, 160, 164 s., 172 s., 174, 196, 207, 211, 218, 226, 234, 242, 336, 396 s., 398 s., 402, 423, 431, 450 – del coniuge, 264, 267 – del genitore, 310 – e interpretazione del contratto, 226 – integrativa del contratto, 221 – nel possesso, 54, 334 – soggettiva e oggettiva, 402 Buon costume, 89, 167, 188, 397 Caccia, 499 Cambiale, 15, 181, 187 s., 205 Cancellazione di ipoteca, 453 Capacità – di agire, 97 s., 103, 107 s., 152 s., 157 s., 259, 305, 341, 370 s. – di diritto, v. capacità giuridica – di intendere e di volere, v. c. naturale – di succedere, 97, 339 – giuridica, 96, 126, 157, 305, 341, 370 s. – legale, 98 s., 102 s., 106, 108, 157, 205 s., 260, 305, 382, 396 – naturale, 92, 98 s., 102 s., 135 s., 157, 205, 259 s., 305, 370, 395 – speciale di agire, 103 Caparra, confirmatoria, 225, 235 s. – penitenziale, 234 s. Carte e registri domestici, 78 Casa familiare, 314 s. Catasto, 465
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Indice analitico
Causa – del contratto, 157, 183 s., 188 s., 201, 392 – – illecita, 185 s., 189 s. – – putativa, 185, 377 – – requisiti, 188 – dell’attribuzione patrimoniale, 183 – della obbligazione, 391 s., 426, 433, 446 – e astrazione, 186 – petendi, 67 – turpe, 168 Causalità, nesso di, 138, 405 Cauzione, 115, 449, 455, 506, 592, 594 Cave e torbiere, 464, 480 Celebrazione, del matrimonio, 69, 106, 193, 256 ss., 262 s., 277 – prova della, 262 s. Certificato energetico, 202 – successorio, 350 Cessazione degli effetti civili, 257, 272 v. anche divorzio Cessione – d’azienda, 54, 283 – dei crediti d’impresa, v. factoring – del contratto, 236 s. – del credito, 53, 236, 422 s. – d’impresa, 424, 553 Cessione dei beni ai creditori, 600 Chiamata, ereditaria, v. vocazione – in garanzia, 535 s. Chiamato, poteri del, 317 Chirografario, v. creditore C.I.P., 221 Circolazione – dei diritti, 51 s., 238, 252 – dei veicoli, 58, 144, 587, 590 s. Citazione in giudizio, 68 Clausola – all’ordine, 238, 580 – compromissoria, 598 – nulla, 167, 195, 202 s. – penale, 234 s., 407, 420 – rebus sic stantibus, 246 – risolutiva espressa, 47, 147, 244 – solve et repete, 225, 242 – vessatoria, 223 s., 242 Clausole – abusive, 204, 224 – di esonero da responsabilità, 203, 400
– d’uso, 220 s., 225 – generali, 33, 222 – monetarie, 418 Codice, 15 s., 19, 32, 49, 85 s., 152, 257 – del consumo, 20 – del processo amministrativo, 73 – del terzo settore, 129 s. – di Napoleone, 166, 230, 389 s. – penale, 88, 93, 110, 140 s., 170 s. Coeredità, 347 s., 375 Cognome – del coniuge, 265, 270, 267 – del figlio, 265 – – v. anche adozione e possesso di stato Collazione, 316, 346 s., 370 Colpa, 70, 137 s., 143 s., 171, 196, 203, 269, 379, 390 s., 399 s., 403 s., 413 – grave, 137, 203, 379, 399 s. Colpevolezza, 137, 143 s. Comitato, 116 s., 122 Comma, 26 Commessi, 138, 144, 160, 165, 398 Commissione, contratto di, 575 Commorienza, 113 Comodato, 165, 432, 561 s. – consensuale, 561 s. – e liberalità, 561 – modale, 561 Compensazione, 225, 426 s., 430, 435 s., 449 – divieto di, 435 s. Comportamento concludente, 179, 223 Compravendita, v. vendita Compromesso, 598 s. Comunione, 48, 480 ss. – amministrazione, 482 – – scioglimento, 482 – convenzionale, 283 s. – de residuo, 279 – ereditaria, 334 s., 373 s., 377 – legale tra coniugi, 278 s., 282 – – scioglimento della, 282 s. – v. anche divisione e unioni civili Comunità Europea, 19, 155 Concentrazione, d. obbligazione, 415 Concepito, 97, 373 – diritti del, 376, 382 Concessione edilizia, 477
Indice analitico Conclusione del contratto, 214, 217 Concordato, 256 s. Concorrenza sleale, 41 Concorso di colpa, 406 Condicio juris, 193, 200 Condizione, 46, 193 s., 372 s., 381, 384 – di reversibilità, 384 – potestativa, 195 – sospensiva o risolutiva, 193 Condizioni generali di contratto, 223 Condominio negli edifici, 50, 482 s. Conferimento – in collazione, 346 s. – in società, 119, 191, 228 Conferma, d. disposizione nulla, 202, 384 Confessione, 60 s., 73, 82 – revoca della, 83 Conflitto di interessi – in generale, 5 – nella rappresentanza, 163 s., 205 – tra aventi causa, 233 s., 520 s. – tra creditori, 178 – tra figli e genitori, 104 Conformità, al contratto, v. vendita di beni di consumo Confusione, 332 s., 430, 435 Conguagli, 376 Coniuge – diritti e doveri del, 264 ss., 276 – diritti successori del, 362 – in mala fede, 268 Consegna, 65, 81, 148, 167, 179, 215, 230 s., 235, 245, 338, 343, 383, 389 s., 401, 404, 416, 432, 450, 490 Consenso informato, v. trattamento sanitario e procreazione assistita Conservazione, del negozio, 202, 227, 347, 369 s., 373 – della garanzia patrimoniale, 442 Consilium fraudis, 443 Consolidazione, 518 Consorzio, 116 s., 123 s., 186 Consuetudine, 22 Consumatore, v. clausole abusive, Codice del consumo, professionista Contatto sociale, 212 s., 407, Contemplatio domini, 161
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Contenuto – del contratto, 174, 209, 220 s., 227 s. – dell’obbligazione, v. prestazione – del testamento, 364 s. Contestazione – della maternità, 292 – dello stato di figlio, 295 Contraddittorio, principio del, 70 Contrattazione di massa, 223 s. Contratti – nuovi, 552 ss. – tipici, (v. le singole denominazioni) Contratto, 153, 157 s. – a favore di terzo, 238 s. – aleatorio, 165, 247 – all’ordine, 238 – a prestazioni corrispettive, 241 – associativo, 117, 186, 203, 228, 241 – autonomo di garanzia, 594 s. – bilaterale, 230 – causa del, 157, 183 s. – con effetti obbligatori, 166, 229 – con effetti reali, 166, 229, 450 – con obbligazioni del solo proponente, 217 – consensuale, 215 – con se stesso, 164 – dell’incapace, 100, 102 – di convivenza, 292 – di durata, 197, 246 – di intermediazione finanziaria, 225 – di scopo comune, 117, 203 – dissimulato, 176 – forma del, 157, 179 – gratuito e oneroso, 227 – nominato e innominato, 186 s. – oggetto del, 157, 164 s., 173, 185 s., 226, 424 – – determinazione dell’, 168 – per adesione, 223 s. – per persona da nominare, 236 s. – plurilaterale, 203, 230 s. – preliminare, 182 s., 391, 448, 520 – reale, 215, 450 – requisiti del, 157 – simulato, 173 s., 191, 399 – traslativo, 229, 245 – turistico, 585 – unilaterale, 217, 230 Controdichiarazione, 176 s.
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Controllo di legittimità, della legge, 18 Controversie, tra genitori, 168, 266, 306 Convalida, del contratto, 202, 206 s., 280, 384, 433 – dell’offerta e del deposito, 408, 410 Convenuto, 68 Convenzioni matrimoniali, 276 s. Conversione del negozio, 79, 204, 358 Convivenza di fatto, 291 Corpo, atti di disposizione del, 89 s. Corporazione, 117 Correttezza, 41, 73, 171, 211, 217, 394, 402 s., 431, v. anche buona fede Corrispettività, di prestazioni, 186, 199, 228, 236, 240 s. Corte Costituzionale, 18, 20, 29 s., 310, 317, 320, 363 Corte d’Appello, 72 Corte di Cassazione, 30, 39, 72 Cose abbandonate (res derelictae), 501 – accessorie, 469 – altrui, v. vendita – comuni a tutti, 462 – consumabili e inconsumabili, 467 s., 512, 562 – di nessuno (res nullius), 463, 501 – divisibili e indivisibili, 468 – fungibili e infungibili, 467, 562, 576 s. – fuori commercio (extra commercium), 463 – future, 165, 383, 424, 453, 468 s., 531, 538 s., 549, v. anche vendita – generiche e specifiche, 168, 229 s., 245, 348, 432, 466 s., 533, 538 ss., v. anche vendita – – genus limitatum, 467, 541 – incorporali, 462 – smarrite, 501 Costituto possessorio, 490 Costituzione, 17, 28, 90, 141, 331 Costituzione in mora, 57 s., 114, 255, 403 s., 412 Credito, 47, 134, 183, 186, 229, 233, 236 s., 389 – d’impresa, v. factoring – futuro, 424, 553 – impignorabile, 436 – incedibile, 53, 157, 422 – lesione del, 137 – pegno di, 451
Creditore – apparente, 398 – chirografario e privilegiato, 178 – pignoratizio, 78, 450 Culpa in contrahendo, 211 – in vigilando, 135, 138 Curatore, 105, 107 s., 147 Custodia, dovere di, 135, 211 Danno, 133, 139 s. – ambientale, 133, 141 – biologico, 90, 140 – da animali, 137 – da attività pericolose, 137 – da cose, 137 – da inadempimento, 404 – da perdita della vita, 141 – danno ulteriore e concorso di colpa, 406 – da vacanza rovinata, 586 – dell’incapace, 22, 100, 135 – e causalità, 138 s., 405 – e clausola penale, 236 – ed equità, 22, 141, 406 – e interesse positivo o negativo, 162, 404 – emergente, 139, 405 – esistenziale, 90, 141 – estetico, 90 – extracontrattuale, 58, 134 s., 143 s. – ingiusto, 26, 88 s., 90, 135 s., 190 – morale, d. non patrimoniale, 88 s., 140 s., 406 s. – nella mora debendi, 404 – patrimoniale, 90 s., 139 – precontrattuale, 211 – prevedibile, 144, 405 s. – riflesso, 140 v. anche obbligazioni pecuniarie, promessa di matrimonio e responsabilità Dante causa, 53, 102 s., 207, 233, 349, 399, 456 Data – certa, 78, 233, 283, 422, 450 s. – non veridica n. testamento, 367 Dazione in pagamento, 187, 420, 432 s. Debito – di valore e di valuta, 417 – futuro, 593 – pecuniario, 404, 416 s.
Indice analitico v. anche credito Decadenza, 62 s., 147, 256, 259, 261 s., 354 s. – convenzionale, 63 – dal beneficio d’inventario, 342 – dalla responsabilità genitoriale, 104, 110, 317 ss., 318, 340 – e prescrizione, 63, 536 Decreto – di adozione, 319 – legge, 21 – legislativo delegato, 21 Delazione, 46, 197, 332 s. – sospensione della, 373 Delegazione, 424 s. Delitto – e interdizione legale, 110 – e vizi del matrimonio, 260 – e sospensione della successione, 341 Demanio, 462 s. Denaro, v. debito pecuniario Denunzia di danno temuto, 506 Denunzia di nuova opera, 506 Deposito – contratto di, 567 ss. – e offerta solenne, 410 – in albergo, 577 – irregolare, 577 s. – nei magazzini generali, 576 s. Derelictio, 147, 501 Destinazione del padre di famiglia, 515 – dei beni, 128, 519, 522 Detenzione, 447, 487 ss., 508 – e privilegio mobiliare, 447 – qualificata e non qualificata, 488 Determinazione del terzo – nel contratto, 168 – nell’eredità o nel legato, 365 Devoluzione – della successione, 333, 336 – del patrimonio, 128 – nell’enfiteusi, 509 Dichiarazione, di volontà, 43, 60, 74, 100, 133, 146 s., 154, 202 – caducazione per morte o incapacità, 218 – di nascita, 111, 252, 301, 304 – di paternità o maternità del figlio nato fuori del matrimonio, 308 s.
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– negoziale, 154 s., 169, 173, 179 – recettizia, 81, 216, 240 v. anche: assenza, atto unilaterale, celebrazione del matrimonio, contratto a favore di terzo, c. per persona da nominare, convalida, eredità, fallimento, interpretazione del contratto, nullità, revoca, riconciliazione, simulazione, stato di adottabilità, testamento Difetto, di legittimazione, 69, 158, 161 s., 398, 402 – di veridicità, 306, 311 Diligenza, 105, 137, 174, 192, 223, 399 s. Dimora, 111 Diritti, civili, 84 – della personalità, 27, 52, 87 – imprescrittibili, 55 – indisponibili, 64, 82, 87, 157 s. – quesiti, 28 – reali, 461, 463, 475 s. – – di garanzia, 508 s., v. anche pegno, ipoteca – – di godimento, 508 – – e diritti personali di godimento, 473, 509, 557 – – minori, 473, 508 Diritto, in generale, 3 s. – alla difesa, 70 – assoluto, 39 s., 47, 136 s., 211 – comune, 13 – d’autore, 15, 51, 462 – di associazione, 117 – di garanzia, 165, 449 s. – di godimento, 165, 233, 390 – di séguito, 443 – disponibile, 14, 22, 67, 84, 352 – eccezionale, 13, 33 – internazionale privato, 33 – naturale e d. positivo, 10, 87 – oggettivo, 12 – penale, 33, 62 – potestativo, 43 – privato e pubblico, 14, 116 – relativo, 40 s., 48 – soggettivo, 12, 38 s., 42 s., 55, 73 – speciale e d. eccezionale, 13, 33 – temporaneo, 28 – transitorio, 14, 28 Disconoscimento di paternità, 261, 299 s., 303
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Diseredazione, 335 Dispensa, da collazione, 358 – da imputazione ex se, 355 Disposizione, atti di, v. comunione legale, condizione, conservazione della garanzia patrimoniale, donazione, modus, testamento – fiduciaria, 191 s., 366, 397 – legislativa, 18 s., 21 s., 25 s., 28 s., 31 – testamentaria atipica, 334 Disposizioni anticipate di trattamento, 92 Disposizioni, sulla legge in generale, 17, 33 Distanze nelle costruzioni, 478 s. Divieto – di accesso al fondo, 476 – di acquistare per testamento, 157, 339 – di alienazione, 232 – di cessione del credito, 157, 402, 422 – di comprare, 157, 532 s. – di riconoscimento, 310 – temporaneo di nuove nozze, 258, 260 v. anche dote, estinzione d. persona giuridica, frode, patto, pena accessoria, prova testimoniale Divisione, 34, 283, 357 s., 376 s., 481 s. – del testatore, 336 s. – di beni indivisibili, 468 – e ipoteca legale, 453 Divorzio, 19, 30, 108, 254, 257, 272 ss., 290, 298, 312 s. – breve, 272 – facile, 267 Documento – e contratto all’ordine, 238 – e documentazione, 73 s., 80 s., 181 s. – e titolo di credito, 187 – informatico, 78 v. anche atto di matrimonio Dolo, 137, 171 s., 372, 399, 444 – determinante e incidente, 171 s. Domanda – giudiziale, 67, 520 – riconvenzionale, 68 Domestici, 138, 144 Domicilio, 89, 110 s. – legale, 112 Dominus, 43, 159 s., 163 s., 235 Donazione, 190, 199, 355 s., 379 s.
– di organi, 89, 290 s. – e obbligo di alimenti, 253 – indiretta, 191, 237, 357, 379 s. – manuale, 358, 383 – obnuziale, 358, 383 – remuneratoria, 381 Doni, v. restituzione Dote, 277 Dovere e obbligo, 47 Eccezione, 58, 68 s. – di annullamento, 206 s. – di compensazione, 436 – di cosa giudicata, 182 – di inadempimento, 242 s. – di nullità, 202 – di prescrizione, 59 s., 63, 445 – di rescissione, 210 – petitoria nel giudizio possessorio, 498, 506 s. v. anche Exceptio doli generalis Effetti – del contratto, 221 s. – del divorzio, 267 – della interdizione, giudiziale, 105 s. – della mora credendi, 408 – della mora debendi, 403 – della separazione personale, 268 ss. – della trascrizione, 517, 520 ss. – del matrimonio, 264 s. – del possesso, 493 ss. – del riconoscimento, 306 s. Emancipazione, 108 Energie naturali, 462 Enfiteusi, 465, 510 s. Enti del Terzo Settore, 129 s. Enti pubblici, 116, 157, 193, 200 Equità, 22 s., 134, 141, 204, 208, 406 Equo canone, 169, 557, v. locazione Erede apparente, 45, 336, 399, 500 Eredità, 49, 51, 54, 57, 98, 104, 107, 255, 333, 323, 356 s., 363 s., 445, 462 s., 530, 544 – amministrazione della, 373 – giacente, 341, 344 s. – vendita di, 544 v. accettazione, petizione, rinunzia Errore, 173, 205 s. – di calcolo, 174
Indice analitico – di diritto, 174 – – nella transazione, 182 – di fatto, 83, 173 s. – e difetto di veridicità, 306 – e dolo, 171 s., 175 – essenziale e riconoscibile, 173 s. – motivo, 173 – nel matrimonio, 63, 261 – nel testamento, 371 – ostativo, 173 – sul motivo, 172, 175 v. anche accettazione dell’eredità, indebito Esclusione dell’associato, 127 Esclusiva, diritto di, 581 S. Esecutore testamentario, 350 Esecuzione, del contratto, 217, 241 – differita e continuata, 246 – forzata, 444, 542 s. Esigibile, debito, 418 s., 436 Esonero da responsabilità, v. clausole di e. da r. Espromissione, 426 s. Espropriazione, v. esecuzione forzata Estimatorio, contratto, 550 s. Estinzione – della obbligazione, 408, 415, 428, 430 s., 435 – della persona g., 128 – della proprietà e usucapione, 497 – dell’enfiteusi, 511 – delle servitù, 515 s. – dell’usufrutto, 513 Età, e capacità, 96 s, 98 s., 103 s., 158, v. anche adozione, matrimonio Eventus damni, 443 Evizione, v. garanzia Exceptio doli generalis, 41, 225 Facoltà, in generale, 42, 53
Factoring, 553 Fallimento, 19, 159, 170, 277, 282, 343, 444 Falsa demonstratio del testatore, 371 False informazioni, 136 Falsus procurator, 162 Fattispecie, 27, 51, 72, 204 s. Fatto giuridico, in gen., 51, 392, 413 – illecito, 84, 134 s., 170, 414 Fecondazione omologa ed eterologa, v. procreazione assistita
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Fedecommesso, 347 Fede di deposito, 578 Fideiussione, contratto di, 217, 413, 427, 591 ss. – e contratto autonomo di garanzia, 594 s. Filiazione – adulterina, 310 – fuori del matrimonio, 295 s., 304 s., 361 – incestuosa, 252, 268, 296, 310 – – e doveri del figlio, 104 – nel matrimonio, 251 s., 297 s. – non riconoscibile, 252, 310 s., 353 – v. anche riforma della filiazione Firma digitale, 78 Fondazione, 116, 120, 124 s., 128, 180 Fondo – comune, 122 – consortile, 123 – patrimoniale, 277, 283, 442, 519 – servente, 48 s., 57, 63, 513 Fonti del diritto, 16 s. Forma, del negozio, 177, 179 s. – ad probationem, 81, 182, 223 – ad substantiam, 81, 84, 177, 180, 201, 345, 383, 453 – convenzionale, 181 – determinata per relationem, 160, 181, 237 – e documentazione, 81, 181, 215 – e pubblicità, 182, 237 – esecutiva del titolo, 434 v. anche atto pubblico, convenzioni matrimoniali, scrittura privata, testamento Fotografia, come prova, 80 Franchising, v. affiliazione commerciale Fratelli, 251 s., 254, 296, 310, 317 s., 355, 363 s. – unilaterali e germani, 252, 363 Frode, ai creditori, 190 – al fisco, 190 – alla legge, 189, 201 Frutti, 418, 469 s. – civili, 419, 469 – naturali, 469 Garanzia, diritto di, 48 s., 170, 217, 270, 268, 449 s., 463, 465, 509 – e patto commissorio, 189 – obbligazione di, 391
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– patrimoniale, 118, 190, 424, 441 s. – per evizione, 532 ss., v. anche vendita – per i vizi della cosa, 62, 536 s., v. anche vendita – personale e reale, 413, 442 s., 446, 452 s., 508 s. v. anche cessione del credito, ipoteca, pegno Genitori, responsabilità per fatto illecito dei figli, 138, v. anche responsabilità genitoriale Gentlemen’s agreement, 155 Gestione di affari altrui, 149 s. Girata, 187, 238 Giudicato, formale e sostanziale, 72 – passaggio in g., 108 Giudice – ordinario e amministrativo, 72 – tutelare, 104 s., 106, 109, 304 s., 316, 383 Giuramento, 61, 73, 83 s., 258 Giurisdizione, 33, 40, 72 s., 257 Grado, dell’ipoteca, 455 s. – di parentela, 47 s., 218, 249 s., 258 s., 284 Gruppi organizzati, 5, 14, 116 s., 147 Illecito aquiliano, v. ill. extracontrattuale – contrattuale, 134 s., 143 s., 392, 403 s. – e incapacità, 134 – extracontrattuale, 134 s., 144 s., 392 Illegittimità, costituzionale, 18, 20, 29 – degli atti amministrativi, 39, 72 Illiceità – della causa, 188 s., 201 – della condizione, 194 s., 199 s., 373, 384 – dell’oggetto, 167, 185 – dell’onere, 199 – del motivo, 190 Immagine, diritto alla, 38, 67, 89 s. Immissioni, 466 Impossessamento, 147, 501 Impossibilità – della condizione, 194 – della prestazione, 143, 167 – – parziale, 245, 431 s. – – sopravvenuta, 241, 245, 400 s., 428 s., 431 s. – – temporanea, 245, 431 Imprenditore, 13, 26, 74, 123, 154, 159, 166, 219, 223, 227, 420, 444
– proposta dell’, 219 Impresa, v. imprenditore – familiare, 155, 253, 284 – successione degli incapaci nella, 316 Impugnazione, d. rinunzia all’eredità, 345, 445 Imputabilità, 135, 137 Imputazione, del pagamento, 394 – ex se, 354 s., 382 Inabilitazione, 99, 101 s., 106 s., 253, 382 Inadempimento, 60, 72, 134, 143, 178, 197, 199, 214, 231, 234, 241 s., 403 s., 428 v. anche eccezione, risoluzione Incapacità – e adempimento, 398 – e donazione, 383 – e invalidità degli atti, 100 s., 106, 205 s. – e matrimonio, 106, 259 – e processo inquisitorio, 70 – e riconoscimento, 305 – e testamento, 339, 367, 370 – giuridica, 96, 110, 157, 253 – giuridica speciale, 96, 157, 201, 339, 533 – legale (protezione), 101 s., 151, 205 s. – legale (punizione), 110 – naturale, 98 s., 135, 151, 157, 205 – sopravvenuta del proponente, 218 Indebito, 134, 167, 392, 397 s. Indegnità, a succedere, 333, 340, 349, 374 – dell’adottato, 320 Individuazione, 466 s. – di cosa generica, 168, 230, 245, 432, 466 s., 539 s. Indivisibilità – del bene, 414, 468 – dell’ipoteca, 453 – dell’obbligazione, 410 s. – del pegno, 449 – e comunione forzosa, 481 Inefficacia, 102, 157 s., 195, 200 s., 225, 444 – relativa, v. inopponibilità Inesigibilità, 431 Inesistenza del negozio, 154, 169, 264 Infermità, di mente, 106 s. Informazione, obbligo di, 90 s., 175, 211 s. – falsa e illecito aquiliano, 135 s. – onere di, nella rappresentanza, 160 s.
Indice analitico Ingratitudine, v. revocazione legale Inopponibilità, 200, 443 s. – di eccezioni, v. clausola solve et repete – e trascrizione, 520 s. Institore, 160 Intavolazione, 231, 525 Integrazione del contratto, 22, 169, 220 s. Integrità – fisica e psicofisica, 90 s., 140 – morale, 94 Intento – comune, 226 – del donante, 379 – fraudolento, 190 – illecito, 190, 397 – negoziale, 154 s., 169 Interdizione, 101, 105 s. – dai p. uffici, da una professione, 110 – giudiziale, 72, 101 s., 105 s., 157, 253, 259, 281, 305, 347 – legale, 110 – revoca della, 99, 108, 347 Interesse, 4 s. – compensativo e corrispettivo, 419 – convenzionale, 419 – del creditore, 389 – legale, 404, 418 s. – legittimo, 38 s., 72 s., 136 – moratorio, 419 – negativo e positivo, 162, 214, 405, – nel debito pecuniario, 404, 418 s. Interessi diffusi, 133 Interposizione di persona, 339, 422 Interpretazione, del contratto, 226 s. – della legge, 29 s., 226 Interruzione, della prescrizione, 57 – nell’usucapione, 487 Interversione del possesso, 489, 492 s. Intimazione, v. mora debendi Invalidità – del contratto, 99 s., 154 s., 188, 200 s., 208, 242, 280 – del matrimonio, 259, 266, 268, 298 – del riconoscimento, 305 – del testamento, 365 s., 369 s. – del voto, 147 Invenzione, 27, 501
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Ipoteca, 49, 170, 182, 189, 270, 318, 344, 391, 452 s. Irregolare – deposito, 467, 576 ss. – pegno, 449 – usufrutto, v. quasi usufrutto Irregolarità del matrimonio, 260 Irretroattività – della condizione, 197 – della legge, 27 Iscrizione – degli atti, forma, 182 – della eredità giacente, 344 – della separazione dei beni, 344 – delle persone giuridiche, 125 – delle società, 125 – ipotecaria, 182, 451 s., 517 s. Ispezione, 73 Istituto giuridico, 25 Istituzione, v. enti pubblici – di erede, v. eredità – – ex re certa, 335 ISVAP, 588 Lacune del diritto, 31 Lavoro, contratto di, 43, 57, 98, 103, 154, 164, 268, 284, 390 s., 446 – autonomo, 564 Leasing, v. locazione finanziaria Legato, 333, 337 s., 353, 372 – di cosa altrui, 372 – in sostituzione e in conto di legittima, 356 Legge, 27 – abrogazione della, 28 – applicabile, 33 – costituzionale, 18 – illegittimità costituzionale di una, 29 – ordinaria, 19 s., 27 – regionale, 21 Legittimari, 337, 352, 354 s., 358 s., 382 – e patto di famiglia, 360 Legittimazione – al negozio, 158 s., 162 – apparente, 398 s. – del figlio naturale (abrogazione), 296 – difetto di, 158 s., 200 – processuale, 69, 105, 109, 201, 205, 309 Lesione, del credito, 136
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– oltre il quarto, 377 – ultra dimidium, 209 Liberalità, 191, 198, 339, 352, 356, 379 ss. – diverse dalla donazione, 381 s. Libertà, diritto alla, 28, 51, 93 s., 373 – di iniziativa economica, 331 – di stato, 257, 259 – testamentaria, 340, 366 Libri e scritture contabili, 80 Libro Fondiario, 232, 525 Limitazione di responsabilità, 118, 120 s., 203, 342, 441 s. Liquidazione, concorsuale, 343 s. – del danno, 234 s., 405, 419, 442 – del patrimonio, 128 Liquido, debito, 353, 417 s., 445 s. Locazione, contratto di, 165, 184, 220, 233, 240, 448, 556 ss. – successione nel, 292 – di immobili urbani ad uso abitativo, 559 s. – di immobili urbani ad uso non abitativo, 560 Locazione finanziaria (leasing), 564 s. Lodo arbitrale, 599 s. Luci, 480, v. anche vedute Lucro cessante, 139, 406 Maggioranza, principio di, 126 s., 147, 482 Mala fede – del cessionario del credito, 422 s. – del coniuge, 267 s., 309 – del debitore, 443 – del dominus, 163 – del genitore incestuoso, 310 – dell’altro contraente, 101 s., 172, 208 – del possessore, 334, 338, 340, 83 – del terzo arbitratore, 168 Malattie genetiche, v. procreazione assistita Mancanza di qualità, nella cosa venduta, 537 Mandato, contratto di, 160, 165, 184, 382, 390, 448, 572 ss. – congiuntivo, 574 – con rappresentanza, 573 – e corrispettività, 576 – in rem propriam, 574 s. – senza rappresentanza, 575 v. anche commissione, spedizione
Mandato di credito, 593 s. Mantenimento, 104 s., 154, 253 ss., 265, 270 s., 267 s., 302, 307, 310 s., 315, 317, 320, 322, 325, 361 s., 407 – assegno di, 267 s., 267 s., 383 Manutenzione, v. azione di manutenzione Maso chiuso, 413 Massa di cose, 230, 245 Maternità surrogata, v. procreazione
assistita Matrimonio, 196, 256 s. – dell’interdetto giudiziale, 259 – per procura, 263 – putativo, 267 – religioso, 256 s. v. anche: coniuge, regime patrimoniale, divorzio Mediazione, 582 ss. – assicurativa, v. brokeraggio – contrattuale e non contrattuale, 583 Mezzi – di conservazione della garanzia patrimoniale, 443 s. – di prova, 60, 68, 72 s., 290 Miglioramenti – nel possesso, 494 – nell’usufrutto, 513 Minaccia, 170, 175, 209, 261, 372 Miniere, 464, 480 Minore, 96 s., 98 s., 100, – interesse del, 318 v. anche adozione Mobili, v. beni mobili – domestici, uso dei, 352 Modifica, del contratto, v. reductio ad aequitatem Moduli o formulari, 224, 227 Modus, 48, 334, 371 s., 384 – nel comodato, 561 Moneta, v. obbligazioni pecuniarie Mora, debendi, 57, 60, 393, 403 s. – accipiendi, 244, 398, 404, 409 v. anche costituzione in mora Morte, del proponente, 218 – presunta, 114 s., 282, 333, 346 s. Motivo, 184, 190, 199, 373 – erroneo, 174, 371, 381 – illecito, 190, 371, 381
Indice analitico Multa penitenziale, 236 Multiproprietà, 415, 486 Mutamento di sesso, 272, 290 Mutuo, contratto di, 166, 186, 189, 214, 380, 421, 424, 431, 562 ss. – di scopo, 562 Mutuo dissenso, 240 Negatoria, azione di, 504 s. Negotiorum gestio, 151 s.
Negoziazione assistita, v. separazione personale dei coniugi, divorzio Negozio giuridico, 152 s. – astratto, 186 – di attuazione, 179 – di gestione, 164 – fiduciario, 192 – giuridico, 151 – illecito, 188 s. – – e atto illecito, 190 – indiretto, 191 – personalissimo, 161 – puro, 196 – solenne, 180 Norma giuridica, 25 s. – dispositiva, 26, 220 – imperativa, 26, 167, 220 – materiale, 368 s. – suppletiva, 26 Nota, di pegno, 578 – di copertura, 588 v. anche assicurazione Note di trascrizione, v. trascrizione Notifica – dell’accollo, 428 – della cessione del credito, 423, 436 – del pegno su credito, 451 Novazione, oggettiva, 428, 42 s. Nuda proprietà, 511 Nullità, 55 s., 156, 158, 167, 188, 195, 201, 237, 349, 370, 377, 383 s., 426 – del matrimonio, 266 s. – parziale, 203, 220 – protezione, 202 – selettiva, 225 Nuncius, 160 Obbligazione, 389 s., 410 s. – alternativa e facoltativa, 415 s.
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– di garanzia, 391 – di mezzi e di risultato, 401 s. – divisibile e indivisibile, 414 – e obbligo, 47 – negativa, 391 – parziaria e solidale, 411 s. – pecuniaria, 416 s. – propter rem, 48 s. – reale, 48 – semplice e complessa, 411 Obblighi di protezione, 407 Occupazione, 52, 148, 465, 501 Offerta, al pubblico, 219 – non formale o alla buona, 408 – reale, 408 – secondo gli usi, 408 – solenne, 79, 408 s. v. anche commutazione, delazione, reductio ad aequitatem, convalida dell’offerta Omogeneo, debito, 436 s. Omologazione, d. separazione, 271 Onerato e onorato, 338 Onere, 47 s., 198, 374 (v. anche modus) – della prova, esonero, 187 – – inversione, 70, 143, 400 s. v. anche prova liberatoria, responsabilità oggettiva – reale, 49 s. Onerosità, 103, 207 s., 228, 336, 380, 394, 399, 444 – sopravvenuta, 245 s. Opera, contratto d’, 167, 184, 331, 446 s., 566 ss. Opera intellettuale, contratto d’, 569 s. Opposizione, – alla donazione, 355 – al matrimonio, 258 – del detentore, 489 Opzione, 217 s. – prezzo di (nel leasing), 564 Ordinamento giuridico, 5 s. – rigidità dell’, 11 Ordine, delle formalità pubblicitarie, 524 s. Ordine pubblico, 89, 167, 188, 257 Ordini di protezione, v. abusi familiari Pacchetto turistico, 407 Pagamento, 149, 396, 407, 416 – al creditore apparente, 398
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– con surrogazione, 421 – dell’indebito, 396 – prova del, 60, 81 v. anche adempimento Parentela, 47, 251 s., 260, 266, 286 ss., 310 s., 362 s. Parte civile, 62 Partecipazione – di fatti, 146 – di intenzioni, 147 v. anche dichiarazione Partito politico, 122 Patrimonio, – dello Stato e degli altri enti pubblici, disponibile, 464 – di destinazione, 119, 128, 281 – indisponibile, 464 Patrimonio separato, 119, 281, 342 s., 442 Patto – commissorio, 189, 545, 593 – di famiglia, 358 s., 360 – di quota lite, 566 – di retrovendita, 545 s. – di riscatto, 545 – di riserva della proprietà, 546 – marciano, 457 – successorio, 167, 360, 364 Pegno, 189, 449 s. – di crediti, 450 s. – irregolare, 449 – mobiliare non possessorio, 451 Pena, accessoria, 110 – privata, 234 Penale, v. clausola penale Pensione di reversibilità, 267 Periculum in mora, 445 Perizia, 73 Permuta, contratto di, 548 s. – di cosa presente con cosa futura, 540 s. Persona, 84 – diritti d., v. diritti della personalità – esistenza, 112 s. – giuridica, 116 s., 118, 129 Personalità, modi di acquisto, 125 Pertinenza, 469 s. Petitum, 67 Petizione dell’eredità, 113, 335 s. Piano regolatore, v. strumenti urbanistici
Piantagioni, 464 Pignoramento, trascrizione, 522 Politica del diritto, 4 Possesso, 136, 234, 333, 449 s., 486 ss. – accessione del, 339, 493, 504 – acquisto del, 489 s. – ad usucapionem, 491 s. – di buona fede, 490 s. – e detenzione, 487 ss. – effetti del, 493 ss. – immissione nel, 114 – interversione, 492 s. – successione nel, 54, 335, 493 – trasmissione del, 334 s. – tutela possessoria, 497 ss., v. anche azione possessoria – – concorso con tutela petitoria, 506 s. – vale titolo, 494 s. Possesso di stato, 264, 302 Potere, 42 – di disposizione, 158 Poteri del chiamato, 333 Potestà, 44 – dei genitori, 297, v. responsabilità genitoriale Precedente giurisprudenziale, 29 Prelazione – cause di, 441 s., 446 s., 449, 455 – dei coeredi, 232, 375 – dei creditori, 178, 182, 342, 446, 449 s. – nell’affitto, 560 – nella locazione, 560 – nell’impresa familiare, 285 – volontaria e legale, 231 s., 375 s. Prelegato, 338 Preleggi, 17, 33 Preliminare, contratto, 181 s., 391, 448 Prescrizione, 42, 55 s., 143 s., 354, 397, 445, 476, 589 – dei diritti reali minori, 474, 510, 513, 515 – della proprietà e usucapione, 497 – eccezione di, 59 – interruzione, 57 s., 413 – presuntiva, 60 s. – rinunzia alla, 60 – sospensione, 56 – termini, 58 Presidente – dell’associazione, 68, 126
Indice analitico – del tribunale, 258, 269, 267 Prestazione, 47, 143, 164 s., 173, 241 s., 246, 389 s., 395, v. anche adempimento, corrispettività, interesse positivo, legato, modus, obbligazione, risoluzione – accessoria, nelle servitù, 514 – determinazione della, 167 s. – illecita, 183, 188 – immorale, 190, 397 – impossibile, 400, 404 s., 428, 430 s. – inesigibile, 56, 431 – in luogo dell’adempimento, v. dazione in pagamento Presunzione, 182 – di colpa, v. responsabilità oggettiva – di concepimento, 97, 271 s., 297, 300 s., 303 s., 332 – di conoscenza, 216 – di pagamento, 60 – di paternità, 299 s. – prova per, 73, 81 s. – semplice, 73, 82 Presupposizione, 241 Prezzi amministrati, 220 Principi giuridici generali, 31 Principio – consensualistico, 230 s. – dispositivo, 69 – inquisitorio, 70 – nominalistico, 417 Privacy, diritto alla, 38, 94 s. Privilegio, del creditore, 343, 422, 433, 446 s., 455 Procedimento, giudiziario, in gen., 71 v. anche dichiarazione giudiziale di paternità, divorzio, esecuzione forzata, querela di falso, verifica di scrittura privata – monitorio, 243 Processo civile, in gen., 67 s. Procreazione assistita, 311 s. Procura, 161 s., 236 s. – forma della, 181, 263 – matrimonio per, 164, 263 – revoca o modifica della, 160 Prodigalità, 109, 382 Professionista, 166, 174, 399, 446 – e consumatore, 224 s., 242, 543 Promessa
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– al pubblico, 100, 219 s. – cambiaria, v. cambiale – del fatto altrui (o di un terzo), 232 – di matrimonio, 148, 255 – di mutuo, 563 – di pagamento, 186 s., 205 – di vendita, v. preliminare Promittente, 238 Promotori del comitato, 120, 123 Proposta – caducazione della, 218 – contrattuale, 147, 215 s. – ferma, 217 – irrevocabile, 217 – revoca della, 217 Proprietà, diritto di, 473 ss. – contenuto, 474 s. – edilizia, 477 – elasticità, 474 – estensione, 476 – limiti nell’interesse privato, 478 ss. – limiti nell’interesse pubblico, 477 s. – modi d’acquisto, 500 s. – nuda, v. nuda proprietà – superficiaria, v. superficie – temporanea, 476, 510 – tutela petitoria, 503 ss., v. anche azione petitoria – – concorso con tutela possessoria, 506 s. Prova, mezzi di, 72 s. – della proprietà e az. di rivendicazione, 506 – dello stato di figlio, 297 – del matrimonio, 264 – documentale, 73, 180 – legale, 74 – liberatoria e responsabilità oggettiva, 139 s., 401 s. – precostituita, 73 – semplice, 73 – storica e prova critica, 73 – testimoniale, 182 – – limiti alla, 80 s. v. anche onere Provvista, 424 s. Pubblicazione – della legge, 27 – della promessa al pubblico, 219
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– della sentenza, 18, 29, 105 – del testamento, 354, 368 s. Pubblicazioni matrimoniali, 257 s. Pubblicità, 182, 517 ss. – costitutiva, 517 – dichiarativa, 517 – immobiliare, 230 s., 234, 517 ss. – notizia, 517 Pubblico ufficiale, 74 s., 97, 180 s., 195, 258, 262 s., 408 – apparente, 264 Purgazione dell’ipoteca, 456 Quasi-usufrutto, 415, 468, 512 Querela di falso, 79, 82, 367 Quietanza, 60, 73, 78, 394, 422 Quorum, 126, 147, 483 Quota – nella comunione di diritti, 481 s. – nell’eredità, 334 Rapporti di vicinato, 478 ss. Rapporto – extragiuridico, 155 – giuridico, 41 s. Rapporto di filiazione – diritti e doveri dei genitori: 314 s. – diritti e doveri del figlio: 313 s. Rappresentanza, 42 s., 160, 236 – degli incapaci: 316 s. – e capacità, 163 – e gestione, 150 – indiretta, 160 – legale, 160, 163 – organica, 126, 160 – volontaria, 160, 163 Rappresentazione, 113, 347 s., 358 s., 375 Ratifica, del negozio, 162, 201, 236 – di trattati internazionali, 9, 29, 318 Reato, 62, 79, 140 s., 171 s., 209, 264, 267, 384, 419 – danno da, 62, 88, 140 – plurioffensivo, 141 Recesso, diritto di, 235 s., 541, 571, 581, 588 – ad nutum, 562, v. anche comodato – dell’associato, 127 – del convivente, 293 – e clausole abusive, 225
– nel contratto d’agenzia, 580 – nel contratto d’assicurazione, 587 – nel contratto d’opera e nell’appalto, 568, 570 – nel mandato di credito, 593 – nella cessione dei beni ai creditori, 600 – nella locazione, 559 – nella rendita perpetua, 551 – unilaterale, 240 Reclamo dello stato di figlio, 303 Reductio ad aequitatem, 22, 209 Referendum, 28 Regime patrimoniale tra coniugi, 278 s., 284 s. – tavolare, 525 Registrazione – di un atto e data certa, 78, 234 – di un documento, valore probatorio, 78 Registri – dell’imprenditore, 79 – di stato civile, 47, 102 s., 256, 262 s., 264, 279 – domestici, 78 – immobiliari, 50, 183, 276 s., 342 s., 450 s., 518, 523 v. anche beni mobili registrati, trascrizione Registro – delle imprese, 125 – delle interdizioni, 106 – delle persone giuridiche, 125 – delle successioni, 342 s., 369 – del Terzo Settore, 130 – tassa di, v. registrazione di un atto Regola sabiniana, 195, 373 s., 384 Regolamento, 20 – comunitario, 18 – nel condominio, 487 – nella comunione, 486 Regolamento di confini, v. azione di Regresso, 391, 413 s., 455 s. – e vendita di beni di consumo, 544 – nella fideiussione, 592 Reintegrazione, v. azione di reintegrazione Relatività – del contratto, 231 s., 244, 376 – del giudicato, 71 Remissione, del debito, 81, 434 – prova della, 81 Rendita, contratto di, 551 s. – rendita perpetua, 551
Indice analitico – rendita vitalizia, 551 Rescissione, 22, 201, 208 s. – della divisione, 377 – eccezione di, 209 Residenza, 111 s., 256 – della famiglia, 26, 103, 112, 263 s., 268 s. – – allontanamento dalla, 269 – – e diritto di abitazione, 353 – trasferimento della, 112 Res nullius, 52, 465 – e occupazione, 501 Responsabilità – contrattuale, 135 s., 144, 214, 400 s. – extracontrattuale, 58, 135 s., 145, 211, 392, 400, 406 – genitoriale: 269, 297, 313 s., 319 ss., 324 – – decadenza dalla: 110, 317 s. – limitata, 120 s., 203, 342, 442 – medica, 213, 407 – oggettiva, 137 s., 400 – patrimoniale, 281, 391, 441 s. – precontrattuale, v. trattative – ultra vires, 199 v. anche clausole abusive, clausole di esonero da responsabilità, comunione legale, false informazioni, illecito, lesione del credito, professionista Restitutio in integrum, 95, 133 Restituzione – dei doni tra fidanzati, 254 s. – dei frutti da parte del possessore, 494 – dell’indebito, 167, 392, 396 s. – del titolo del credito, 81, 434 – eccezioni all’obbligo di, 188, 207, 210, 397 – di cose, 42, 55, 68, 230, 448 – – di cose consumabili e inconsumabili, 468 – – di cose fungibili e infungibili, 467 v. anche arricchimento senza causa, caparra, regresso, revocazione legale, riduzione Retratto successorio, 375 Retroattività – della condizione, 193, 196 s. – della divisione, 376 – dell’annullamento, 53, 102 s., 207 s. – – del matrimonio, 266 s. – della rinunzia e della accettazione di eredità, 345 – della risoluzione, 244 ss.
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Revoca – della accettazione, 218 – della confessione, 83 – della interdizione, 99, 108 s., 259, 305 – della procura, 160 – della promessa al pubblico, 220 – della proposta, 219 s. – della rinunzia all’eredità, 346 – del mandato, 572 – del testamento, 24, 367, 374 Revocatoria, azione, 190, 442 s. Revocazione legale, – della donazione, 384 s. – del testamento, 375 Riabilitazione dell’indegno, 340 Riassicurazione, contratto di, 590 Ricognizione, di debito, v. riconoscimento – nell’enfiteusi, 511 Riconciliazione dei coniugi, 270 s. Riconoscimento – del diritto altrui, 57 – del figlio nato fuori del matrimonio, 79, 107, 179, 195 s., 252, 304 ss., 334, 363 – – condizioni di efficacia: 306 s. – – effetti: 307 s. – di debito, 57, 82, 186, 413 v. anche persona giuridica Riduzione, azione di, 354 s., 380 – dell’ipoteca, 456 Rifiuto, della remissione d. debito, 434 – del legato, v. rinunzia – della terapia, 89 Rinnovazione, d. ipoteca, 454 Rinunzia – alla compensazione, 436 – alla prescrizione, 60, 413 – al legato, 333, 374 – all’eredità, 167, 171, 195 s., 333, 345 s., 445 – – traslativa, 342 Ripetizione dell’indebito, 167, 188, 396 s. Riproduzioni tecniche, 73, 80 Riscatto, patto di, 44, 189, 232, 545, v. anche vendita, patto di riscatto – e prelazione legale, nella locazione, 560 – – nell’affitto, 560 – nella rendita, v. recesso Rischio – nei contratti aleatori, 247
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– nel contratto di assicurazione, 589 – nel contratto d’opera e nell’appalto, 567, 570 – nel contratto estimatorio, 550 – nella vendita, 165, 168, 198, 245 – – con riserva di proprietà, 546 – – di cosa futura, 539 – – di cosa generica, 540 – nel leasing, 565 – nelle obbligazioni, 244 s., 401, 404 s. v. anche sopravvenienze Riserva – di nomina, v. contratto per persona da nominare – di proprietà, v. vendita con riserva della proprietà – quota di, v. legittimari Riservatezza, diritto alla, 38, 93 s. . Risoluzione – del contratto, 22, 235, 240 – – per eccessiva onerosità, 22, 246 – – per impossibilità sopravvenuta, 245 – – per inadempimento, 197, 242 s. – del contratto di convivenza, 293 – della disposizione liberale, 199, 371, 374, 384 – volontaria e legale, 240 Ritardo, nell’adempimento, 245, 393 s., 403, 418 s., 431 – nei pagamenti, 204, 420 – penale per il, 234 Ritenzione, diritto di, 447 s., v. anche soluti retentio – del possessore, 494 Riunione fittizia, 351 s., 355 Rivendicazione, azione di, 42, 336, 449, 503 s. Rubrica legis, 26 Salute, diritto alla, 88 ss. Sanzione, in gen., 7 s. Scioglimento – del contratto, v. risoluzione – della comunione legale, 279 s., 282 – del matrimonio, 272 ss., 298 s., 303 – dell’unione civile, 290 Scomparsa, 114 s., 346 s. Scrittura privata, 73 s., 79, 180 s., 205, 215, 453 s.
Segreto – obbligo di, 211 – testamento, 157, 205, 339, 369 s. Separazione – dei beni del coniuge, 268, 519 – dei beni del defunto, 344, 455 – dei frutti naturali, 471 – del patrimonio, v patrimonio separato – giudiziale d. beni coniugali, 281 – personale, dei coniugi, 268 s. – – consensuale, 271 – – giudiziale, 270 s. – – mediante dichiarazione al sindaco, 271 – – mediante negoziazione assistita, 270 Sequestro – conservativo, 445, 522 – convenzionale, 584 s. – – e giudiziale, 585 Servitù prediali, 48, 513 ss. – apparenti e non apparenti, 514 s. – coattive e volontarie, 515 – continue e discontinue, 514 – costituzione, 514 – esercizio, 515 – estinzione, 515 s. – industriali, 514 – tutela, 516 Simulazione – del contratto, 175 s., 399, 423, 443 – – assoluta e relativa, 176 – – e diritti dei terzi, 177, 399 – – effetti, 177 – del matrimonio, 62,, 262 Sinallagma, v. corrispettività Sindacato, 122 Situazione giuridica, in gen., 26, 28, 37, 52, 63, 96 s., 238 s., 331 Società, 121, 203 – di fatto, 122 Soggettività, 119, 442, 486 Soggezione, 44 Solidarietà, 401 s., 425 s. – disuguale, 413 s. Soluti retentio, 188, 397 Somministrazione, contratto di, 169, 448, 549 s. Sopravvenienza di figli, v. revocazione legale Sopravvenienze, rimedi contro le, 246
Indice analitico Sospensione, della prescrizione, 56 s. – nell’usucapione, 58 Sostituzione, – di neonato, 303 s. – fedecommissaria, 347 – nell’attività giuridica, 160, 236 – ordinaria, 346 Sottrazione, di cose, 432, 436, v. anche azione di reintegrazione Sovranità, 8 Specificazione, 503 Spedizione, contratto di, 575 Star del credere, 575, 582 Stare decisis, 30 Stato – della persona, 46 – di adottabilità, 324 – di bisogno, 89, 208, 254 – di diritto, 12 – di pericolo, 208 – successione dello, 363 Stato civile, registri di, 45, 102 Statualità del diritto, 9 Status, v. stato della persona Stipulante, 238 s. Strumenti urbanistici, 477 Subfornitura, contratto di, 204, 550 s. Successione, in gen., 53 s., 331 s. – a titolo particolare e universale, 55, 334, 337 – mortis causa, 54, 97, 305, 331 s., 340, v. anche coniuge, vocazione, unioni civili, contratto di convivenza – – apertura della, 113, 333, 338 s., 345, 354, 372 – sospensione della, 341 – nel credito, 421 s. – nel debito, 425 s. – nel possesso, 54, 335, 493 – tra vivi, 53, 237 Successore, 53 Supercondominio, 482 Superficie, diritto di, 509 s. – come diritto di costruire, 510 – come proprietà superficiaria, 510 Supposizione di parto, 292, 303 s. Surrogazione, per pagamento, 421 s., 421 s. – del fideiussore, 592 – dell’assicuratore, 589
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– ipotecaria, 454 – reale, 429 Sussidiarietà, dell’obbligazione, 238, 268, 281 s., 284, 425, v. anche beneficium excussionis Telegramma, 79, 218 Termine – di adempimento, 393 s., 419, 433 s. – di efficacia, 56, 167, 194, 197, 245, 340, 345, 373, 383 – di prescrizione e decadenza, 58, 63 s., 144 s., 209, 314, 354, 392, 435, 536 – essenziale, 244 Terzi, diritti dei, e annullamento del negozio, 208 – e rescissione del negozio, 210 Terzo – acquirente di ipoteca, 455 – adempimento del, 151, 395 s. – beneficiario d. contratto, 238 – datore di ipoteca, 455 – e determinazione, d. prestazione, 168 – – d. disposizione testamentaria, 365 Tesoro, ritrovamento del, 499 Testamento, 181, 195, 199, 205, 339, 364 s., 369 s. – olografo falso, 367 – speciale, 369 Testimonianza, 62, 73, 80 Testo unico, 20 Timore – nel matrimonio, 261, 267 – reverenziale nel contratto, 171 Tipo contrattuale, 166, 184, 191, 380 Titolo – dell’acquisto, v. acquisto – dell’obbligazione, 81, 179, 392 s., 396, 433 s., 446 – dello stato, v. stato della persona – di credito, 187 s. – rappresentativo delle merci, 578, 580 Traditio brevi manu, 490 Transazione, contratto di, 596 ss. – forma, 597 – novativa, 597 s. Transazioni commerciali, 204, 420 Trascrizione – della accettazione di eredità, 343
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– – – – –
delle domande giudiziali, 519, 521 s. del matrimonio, 257 di atti di destinazione, 519, 523 e intavolazione, 525 immobiliare, 178, 182 s., 202, 234, 280, 448, 517 ss. – – atti soggetti a, 519 – – e doppia alienazione, 520 – – effetti, 520 – – note, 523 – – principio di continuità, 518, 521 – – titolo, 521, 523 s. – mobiliare, 524 – rinnovazione, 522 Trasmissione d. dir. di accettare l’eredità, 333, 349 Trasporto, amichevole o di cortesia, 32, 579 – contratto di, 58, 223, 380, 400, 447, 578 ss. – – di cose, 578 s. – – di persone, 578 – documenti, 580 v. anche spedizione Trattamento, di fine rapporto, 268 – sanitario, 91 s. Trattati della Comunità Europea, 17, 19, 155 Trattativa, 33, 171, 211, 220 s. Tribunale, 39, 72, 104 s., 107 s., 257 s., 263, 269, 271, 267 s., 306, 314 ss., 342 s., 369 Tributi statali, 15, 73, 237, 448 Tutore, 104 s., 106, 159, 300, 304, 309, 324, 339, 347, 370, 383 – provvisorio, 105 s. Ufficio, dei registri immobiliari, 342, 452, 518 – di stato civile, 208, 257 – tavolare, 525 Ufficio, di diritto privato, 44 Unioni civili, 286 Universalità – di diritto, 54, 470 s., 544 – di fatto o di b. mobili, 229 s., 459 s., 470, 495 s., 499, 512 Uso, contrattuale, 221, 227, 392 – diritto d’, 513, v. anche diritto di abitazione – liberalità d’, 381 – normativo o consuetudine, 21, 222 Usucapione, 52, 58, 336, 495 ss. – abbreviata, 496
– di azienda, 54 – e prescrizione del dir. di proprietà, 434, 497 – interruzione, 497 – ordinaria, 495 s. – sentenza di, 484 s., 503 – sospensione, 497 v. anche possesso ad usucapionem Usufrutto – congiuntivo, 512 – diritto di, 411, 511 ss. – – di cose consumabili, v. quasi usufrutto – – durata, 512 – – oggetto, 512 – legale, 316, 328, 442, 512 – successivo, 347, 512 Usura, 419, 563
Vacatio legis, 27 Vaglia cambiario, v. cambiale Valore nominale, del debito, 404, 417 s. Valuta, 424, 426 s. Vedute, 480, v. anche luci Veicoli, danno da, 55, 60 Vendita, contratto di, 51, 66, 165 s., 176 s., 180, 184 s., 191, 194, 230, 237, 279, 390, 419, 529 ss. – a corpo, 541 – a misura, 35 – a prova, 547 – con patto di retrovendita, 545 s. – con patto di riscatto, 44, 545 – con riserva della proprietà, 546 – con riserva di gradimento, 547 – di beni di consumo, 543 s. – – e conformità al contratto, 543 s. – di beni immobili, 540 ss. – – prescrizioni urbanistiche, 541 s. – di beni mobili, 542 s. – di cosa altrui, 158, 537 s. – di cosa futura, 538 s. – – commutativa (di cosa sperata) e aleatoria (di speranza), 165, 479, 539 – di cosa generica, 539 s. – di cosa parzialmente altrui, 538 – di eredità, 544 – di massa di cose, 540 – di pacchetti turistici, 584 s. – divieti speciali di comprare, 532 s.
Indice analitico – e ipoteca legale, 453 – garanzie nella, 63, 534 ss., v. anche garanzia per evizione, garanzia per vizi – mista a donazione, 532 – nummo uno, 532 – obbligatoria, 533 s. – obbligazioni del compratore, 537 – obbligazioni del venditore, 533 ss. – su campione e su tipo campione, 548 – su documenti, 548 Verifica, di scrittura privata, 74, 180, 182 s. Violenza morale, 153, 170, 175, 207, 261, 372 Vita, diritto alla, 88 s. – privata, v. privacy Vizi, della cosa venduta, v. garanzia per vizi, mancanza di qualità, vendita di beni di consumo
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Vizi del volere, 37, 63, 152, 169 s., 175, 205, 261, 288, 341, 371 Vizio di mente, 99 s., 105 s., 259, 272, 347, 370, 395 Vocazione, 331 s., 335, 346 – legittima, 45, 97, 335, 361 s. – necessaria, 351 s., 380 – testamentaria, 97, 336, 364 s. Volontà, v. animus, atto giuridico, capacità di agire, capacità naturale, contratto, dichiarazione, disposizione, donazione, interpretazione, matrimonio, motivo, negozio, rappresentanza, riconoscimento, simulazione, testamento, vizi del volere – tacita, 60, 179, 341 Volontariato, v. Codice del Terzo Settore Volontarietà dell’atto, 152 s.
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Finito di stampare nel mese di ottobre 2020 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220