L’Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana 978-88-339-1836-5

A est del Reno, a nord delle Alpi e oltre il Danubio si estendeva il vasto territorio al quale i Romani diedero il nome

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L’Europa dei barbari. Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana
 978-88-339-1836-5

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l(AROL MODZELEWSIG L'EUROPA DEi BARBAR! Le culture trihali di frontc alla cultura romano-cristiana

Bollati Boringhieri

J\ est del Reno, a nord delle Alpi e oltre ii Danubio si estendeva il vasto territo­ rio al quale i Romani diedero il nome di harharicum. Ai popoli che lo abitavano, guardati per lo piu con disprezzo perche pagani, illetterati e lontani dalla Grecia, da Roma e dalla Chiesa cristiana, Karol Modzelewski dedica questo studio ap­ profondito in cui esamina la loro cultura, le loro strutture sociali, la loro organiz­ zazione politica, giudiziaria, religiosa. E lo fa in modo innovativo, mettendo a confronto fonti e testimonianze riguar­ danti popoli diversi e redatte in epoche diverse. Da questo approccio antropo­ logico risulta un quadro coerente del­ l'ordinamento sociale delle tribu ger­ maniche e slave che non distinguevano tra sacro e profano e presso le quali ii gruppo prevaleva sull'individuo. Le lo­ ro istituzioni, credenze e costumanze non erano tuttavia cosl primitive e fra­ gili da e�sere spazzate via senza lasciare tracce. E indubbio che la cristianizza­ zione porto con se l'espansione della cultura classica e una ristrutturazione dell'assetto socio-politico, ma questa non fu un'azione a senso unico bensl un'interazione. E se il battesimo diede inizio allo smantellamento del mondo dei barbari, quel mondo non mod com­ pletamente, ma esercito una notevole influenza sul volto dell'Europa e sulla sua differenziazione culturale. Accanto a quello romano e a quello bizantino, il retaggio barbarico e un fattore costitu­ tivo della complessa identita europea.

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Nuova Cultura r7r

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Karol Modzelewski

L'Europa dei barbari Le culture tribali di fronte alla cultura romano-cristiana

Bollati Boringhieri

Prima edizione marzo 2008 © 2008 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento tota­ le o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Litografia «II Mettifoglio» di Venaria Reale (To) ISBN 978-88-339-1836-5 Titolo originale Barbarzynska Europa, Iskry, Warszawa 2004 © 2006 Editions Flammarion, Paris Traduzione dal polacco di Danilo Facca Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri www.bollatiboringhieri.it

Indice

Introduzione

9 2I

Ringraziamenti

L'Europa dei barbari 25

1.

Dalle testimonianze scritte alle societa senza scrittura. Le narrazioni sui barbari 1. I topoi letterari e la realta, 26 2. La comunicazione interculturale come problema della critica delle fonti. Un esempio: le lodi dell'ospitalita e dei costumi barbarici, 35

54

I2I

2.

Le leggi dei barbari 1. Dalla legge recitata alla legge scritta, 54 2. La legge e il canto, 65 3. Barbari e Romani sulle rovine dell'impero: il principio della separazio­ ne etnica delle leggi, 71 4. Fra la tradizione tribale e la pressione della civilta, 92 5. Una scrittura straniera, una parlata nostrana, roo

3. L'uomo in seno alla comunita parentale 1. La vendetta e il riscatto, 122 2. Le parti dellafaida e della riconci­ liazione, 131 3. Colpa comune, onore comune, giuramento comune, 156 4. Le donne sotto il potere degli uomini, 161

r73 4. Gli uni al di sopra degli altri. Le differenze sociali nel regime tribale 1. Fuori della comunita di diritto: gli schiavi, 173 stratificazione sociale degli uomini liberi, 205

2. I leti, 187

3. La

Indice

8

256

5. La comunita di vicinato e il suo territorio r. La comunita di vicinato e lo sfruttamento delle risorse naturali, 258 2. L'estensione territoriale della comunita, 274

283

6. La dimensione politica del vicinato r. Centena, pagus ego, 289

340

2. Kapa e opole, 325

7. Le istituzioni della comunita tribale r. Le strutture segmentarie, 340 2. L'assemblea e ii culto, 350

4r8

Epilogo

455

Abbreviazioni

457

Fanti

46r

Bibliografia delle opere citate

475

Indice dei nomi

La fine del mondo dei barbari

3. II re, 394

Introduzione

Gli storici studiano le epoche passate, ma sono figli del loro tem­ po. A questa antinomia non si puo sfuggire, essa e inerente alla nostra professione: non c'e modo di esercitare quest'ultima senza immagi­ nazione e l'immaginazione dello storico e influenzata dalle vicende che egli ha vissuto e dalla sua gerarchia di valori. Il lavoro dello stori­ co, come quello di ogni altro ricercatore, comincia quando ci si pone delle domande. Questa primo passo e in un certo senso quello decisi­ vo, dal momenta che i risultati della ricerca dipendono in buona misu­ ra dalle domande a cui si cerca di rispondere. E il modo di formulare le domande sul passato dipende da come lo storico giudica e comprende la sua epoca. La correlazione tra i risultati delle ricerche storiche da un lato e l'immaginazione dello studioso e i valori da questi professati dall'altro puo essere facilmente osservata nel caso dei nostri predecessori, data che noi non condividiamo piu il loro sistema di valori. Ma molto piu arduo e rendere espliciti a se e agli altri i condizionamenti a cui la nostra stessa cultura sottopone lo sguardo che portiamo sul passato. I valori di tale cultura appaiono scontati, trasparenti e impercettibili come l'aria che si respira e cosl ci si illude che i giudizi che su essa si basano siano «obiettivi». Cerchero di non cedere a questa illusione. Oltretutto le vicende del­ la mia vita hanno fatto sl che piu spesso di altri miei colleghi mi si sia presentata la domanda sul rapporto tra il mio lavoro di storico e la mia attivita pubblica. Sia in Polonia che in Occidente mi sono trovato di fronte a manifestazioni di popolarita piuttosto imbarazzanti per uno storico. I francesi, i tedeschi, gli italiani che nel 1968 alzavano barri-

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Introduzione

cate nelle vie delle citta universitarie associano il mio name alla «Let­ tera aperta al Partito», scritta da me e daJacek Kuron nel 1965. Per i contestatori occidentali di quegli anni questo manifesto della conte­ stazione proveniente da oltre la cortina di ferro era una specie di let­ tura obbligatoria, tanto piu che anche le autorita della Polonia popola­ re apprezzarono molto la nostra attivita e la onorarono con diversi anni di galera (1965-67 e 1968-71). Questa popolarita rifiorl, almeno in una certa misura, nel 1983, quandoJacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurie, Jean-Claude Schmitt e altri eminenti storici francesi fonda­ rono un comitato civico per chiedere la mia liberazione dalla prigione dove mi trovai per la terza volta in seguito all'instaurazione da parte del generaleJaruzelski della legge marziale e allo scioglimento di Soli­ darnosc. Anche in Polonia sono noto al largo pubblico piu come con­ testatore degli anni sessanta e come uno dei leader del sindacato Soli­ darnosc nel 1980-81 che come medievista. Dato percio che in questo libro mi concedo una riflessione sui con­ dizionamenti che su alcuni eccellenti storici tedeschi esercitarono la loro visione del mondo demoliberale o l'esperienza della generazione del nazionalsocialismo, e forse il caso che io interroghi anche me stesso e cerchi di rispondere alle domande sul rapporto tra la mia esperienza personale e il mio modo di comprendere il lontano passato. Ho presente il peso determinante che hanno le circostanze di tempo e di luogo: le sorti della mia generazione, le sorti storiche dell'Europa orientale e quella mia personale. Sano nato a Mosca nel momenta culmi­ nante delle grandi purghe. Mio padre naturale venne imprigionato nel dicembre del 1937, quando avevo tre settimane. Mio padre adottivo, il comunista polacco Zygmunt Modzelewski, passo due anni alla Lu­ bianka sottoposto a continui interrogatori; a salvarlo furono l'ostina­ zione con la quale rifiuto di riconoscere colpe che non aveva e la cadu­ ta di Jezov. Ho saputo tutte queste case solo dopa la morte di Stalin, dato che prima era pericoloso dire ai bambini la verita sulla storia uni­ versale e su quella della loro famiglia. Deva poi la mia sensibilita est­ europea a una permanenza di tre anni in un orfanotrofio sovietico, all'educazione comunista in una scuola polacca del periodo stalinista e, dal 1956, anche alla rivolta giovanile contra un sistema che calpe­ stava nella pratica quegli ideali che proclamava in teoria, ideali di cui io e molti miei coetanei eravamo imbevuti. Questa genere di rivolta, che i comunisti chiamavano revisionismo, divenne il filo conduttore

Introduzione

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del manifesto che assieme a Jacek Kuron elaborai nel 1965. II 1968 taglio il cordone ombelicale che teneva ancora legato il nostro movi­ mento di opposizione all'ideologia comunista, e il sindacato Solidar­ nosc, alla creazione del quale partecipai nel 1980-81, fu un movimen­ to operaio di massa che metteva in discussione le fondamenta stesse del comunismo. Al contempo pero fu un movimento a suo modo mol­ to collettivista e molto egalitario. Non a caso - e non senza malignita lo si etichetta oggi come socialista. La partecipazione a questo movi­ mento e il contatto ravvicinato con l'ambiente operaio hanno con­ tribuito in buona misura a formare la mia visione del mondo. Resto - e ovvio - un intellettuale, un universitario, ma ho abitato abba­ stanza a lungo in una piccola citta, dove la principale istituzione cul­ turale era la scuola elementare. Nel corso degli anni che ho trascorso nei penitenziari della Polonia popolare il mio ambiente era quello dei delinquenti comuni. Mettendo insieme tutto questo si arriva a una somma di esperienze che - lo ammetto - non sono del tutto convenzionali, e sono comun­ que tipiche dell'Europa orientale e non di quella occidentale. In che modo queste esperienze hanno segnato il mio modo di comprendere le culture dell'Europa medievale? Non voglio sottrarmi al tentativo di rispondere a questa domanda. Non ho mai trattato strumentalmente il mio lavoro di storico. Non ho mai provato a far passare nei miei lavori sulla societa medievale una velata critica dei rapporti sociali nel regime comunista. Del resto non ho mai sentito questo bisogno, dal momento che ho formulato aperta­ mente e senza travestimenti storiografici la mia critica del sistema nel quale abbiamo vissuto fino a non molto tempo fa, e anche la critica del­ le trasformazioni intervenute dopo la caduta del comunismo. Mi ren­ do pero conto che nel mio modo di comprendere il lontano passato, che studio come storico, e presente una sensibilita particolare, est-europea appunto, che e frutto della mia esperienza. Nel modo in cui osservo le societa e le culture dell'Europa medievale sono forse piu attento dei miei colleghi e amid occidentali a cogliere le manifestazioni di collet­ tivismo. E certamente per questo motivo che tendo a rivolgere un'at­ tenzione particolare alla pressione esercitata dalla comunita sull'indi­ viduo, la dove altri vedono piuttosto il diktat di un capo o, al contrario, i meccanismi di una democrazia arcaica. E ancora certamente la mia sensibilita est-europea a indurmi a considerare con scettica distanza

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Introduzione

certi stereotipi assai popolari che fanno derivare la cultura europea esclusivamente dall'eredita mediterranea e cristiana. Mi sento in obbli­ go di sottolineare tutto questo nell'introduzione e nell'epilogo di que­ sto libro. Non credo che il punto di vista determinato dalla mia espe­ rienza e dalla mia sensibilita est-europea sia piu fertile o meno fertile di altri nello studio delle culture medievali. Ma ritengo che esso sia in una certa misura diverso dai punti di vista con i quali abbiamo in gene­ re a che fare nella medievistica europea. La risposta alla domanda se questa diversita arricchisca o meno la nostra discussione sul passato dell'Europa spetta pero ai lettori e ai critici di questo libro. I nostri dibattiti politici ruotano attorno all'Europa. Piu si vuole oltrepassare l'angusto orizzonte del carbone e dell'acciaio, dei regola­ menti monetari e delle quote latte, piu si parla dell'Europa come di un'entita spirituale. Questa e il caso in particolare dei paesi nuovi arrivati. In Polonia tutti conoscono gli slogan che sono apparsi dopa il 1989 e che proclamano il nostro ritorno in Europa. Al contempo quasi all'unisono si ripete che in Europa ci siamo sempre stati e che pertanto, a rigore, non dobbiamo affatto ritornarci. Ci siamo e basta. Nonostante le apparenze, tra questi slogan non c'e contraddizione. Per essere stati ripetuti troppo spesso essi finiscono per diventare del­ le banalita sulle quali nessuno ormai riflette piu. Ed e un peccato: gli slogan politici come le reclame pubblicitarie meritano di essere consi­ derati con attenzione non tanto per quello che propagandano esplici­ tamente, ma per quanta inconsapevolmente rivelano. E ovvio che negli slogan citati l'Europa non e una nozione pura­ mente geografica. Non si tratta nemmeno dell'Unione europea. 11 con­ testo dell'enunciazione sul «ritorno» indica piuttosto che «Europa» designa un certo canone culturale. Non ogni paese situato in Europa, non ogni movimento sociale, corrente intellettuale o regime politico si colloca in questo canone. Quando parliamo del nostro «ritorno in Europa», sottintendiamo che la Polonia sia stata esclusa dall'eredita europea a causa della dominazione sovietica e del comunismo. Cosl, dopa la caduta del comunismo, ritorniamo a occupare il posto che ci spetta nel mondo occidentale. In questo modo noi polacchi facciamo ritorno alle nostre radici europee, dalle quali il comunismo aveva pro­ vato, senza riuscirci, a sradicarci. Questa e dunque il senso degli slo­ gan che proclamano da un lato il ritorno della Polonia in Europa e dal-

Introduzione

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l'altro che essa in Europa c'e sempre stata. Dietro questa figura reto­ rica si cela una tacita premessa: il comunismo era qualcosa di sostan­ zialmente estraneo alla cultura europea. Lo stesso discorso vale pro­ babilmente anche per il nazionalsocialismo e il fascismo. Non c'e dubbio, tuttavia, che comunismo, nazismo e fascismo sono prodotti della storia europea. Trattando queste ideologie come feno­ meni esterni, estranei al canone europeo, operiamo una specie di esor­ cismo, come se cercassimo di scacciare il male da noi stessi. Il risulta­ to e che il concetto di cultura europea si rivela non tanto una categoria descrittiva, appropriata per comprendere la complessita della realta storica, quanto una norma, un modello di valutazione in base al qua­ le selezionare la tradizione che ci fa comodo. Dalla scelta della tradi­ zione, cioe di quegli elementi del passato che giudichiamo elevati, densi di valore o istruttivi, e dunque degni di essere presi in conside­ razione nel nostro autoritratto collettivo, si passa senza accorgersene sull'altra sponda del Rubicone, doe alle rappresentazioni della «vera» genealogia della civilta europea. Secondo queste rappresentazioni, a formare la nostra civilta sono stati l'eredita della cultura greca e roma­ na classica nonche il cristianesimo e l'organizzazione universalistica della Chiesa. Fu appunto la cristianizzazione che integro i popoli ger­ manici, slavi, baltici e ugro-finnici nell'ambito della cultura classica mediterranea, la cui erede e propagatrice principale fu la Chiesa. Questa visione regna incontrastata nella storiografia popolare, ma colpisce per il suo unilateralismo. Non sono tanto le singole tesi a su­ scitare la mia contrarieta, quanto tutto quello che tale visione trascu­ ra. Riducendo le radici della cultura europea al retaggio mediterraneo e al cristianesimo, oltrepassiamo la misura lecita delle semplificazioni e creiamo un'illusione di omogeneita. Si tratta di un'illusione pericolo­ sa in un'epoca nella quale la globalizzazione economica si accompa­ gna all'uniformazione intellettuale, alla tendenza a ignorare la diver­ sita culturale presente nel mondo e a buttare senza tanti scrupoli tutta la storia universale in un unico calderone. Per questo forse vale la pena ricordare che anche la cultura classi­ ca, considerata alla base dell'albero genealogico dell'Europa, non era affatto omogenea. Oltre alla componente greca e romana a costituir­ la era stata anche la civilta ellenistica, che trasferl nel tardo impero ro­ mano e specialmente a Bisanzio e alla Chiesa bizantina certi elementi delle tradizioni dispotiche dell'antico Oriente. Dalla persuasione che

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queste tradizioni non hanno posto nel canone europeo ebbero origine certe idee che riducevano la filiazione della cultura europea all'ambi­ to del cristianesimo latino. In tal caso pero sarebbe meglio rinunciare completamente a richiamarsi all'eredita della cultura classica che puo essere riconosciuta nella civilta ellenistica di Bisanzio piu facilmente che negli stati di Carlo Magno o di Ottone I. Per questo mi e piu vici­ na la concezione di Jacques Le Goff, che dalle due correnti della tra­ dizione classica - latina ed ellenistica - e dalla scissione nella Chiesa che ad esse corrisponde, fa derivare la divisione piu profonda e piu duratura dell'Europa. 1 Ma sul volto dell'Europa e sulla sua differen­ ziazione culturale ha avuto un'influenza non minore l'eredita dei po­ poli non compresi nell'area mediterranea e che abitavano i territori oltre il limes dell'impero romano, cioe a est del Reno, a nord delle Alpi e oltre il Danubio. I Romani diedero a questi paesi il name comune di barbaricum. I popoli barbarici furono soggetti agli influssi della civilta mediter­ ranea fin dalla remota antichita. Inoltre non c'e dubbio che la cristia­ nizzazione, in generale associata alla trasformazione di un assetto so­ cio-politico, ebbe un ruolo essenziale nell'imposizione a questi popoli della cultura classica e nell'adozione da parte di essi dei suoi modelli. Ma questo non significa che l'acqua del santo battesimo abbia lavato dai Germani, dagli Slavi o dai Balti, oltre al peccato originale, anche il retaggio della loro cultura tradizionale. Una simile idea di un nuo­ vo inizio, attraverso il quale le tradizionali societa tribali si sarebbero dovute sbarazzare del bagaglio del proprio passato, trasformandosi cosl negli eredi civilizzati di Roma, non dovrebbe mai passare per la testa di uno storico che si rispetti. 2 I singoli popoli celtici, germanici, slavi, ugro-finnici e baltici entra­ rono nell'orbita della civilta mediterranea in momenti diversi e in cir­ costanze storiche assai differenti. Differenti furono percio anche i risultati di questo reciproco influsso tra le culture tribali tradizionali e la cultura classica. Da questo punto di vista persino le monarchie fan­ date da Visigoti, Franchi e Longobardi sulle ravine dell'impero d'Oc1 Le Goff La vieille Europe, passim. Sul ruolo di Bisanzio nella formazione de! complesso , quadro della cultura dell'Europa medievale cfr. pero ii recentissimo Evelyne Patlagean, Un Mayen Age grec. 2 A qualcuno pero passa per la mente, come per esempio a Van Engen, The Christian Middle Ages; cfr. in merito le osservazioni critiche diJ.-C. Schmitt, Religione,/olklore e societa, pp. 6-17.

Introduzione

cidente erano molto diverse tra di loro. Ancora piu profonde erano le differenze che dividevano tutta quest'area che Walter Schlesinger ha chiamato «Germania romana», 3 dalle tribu conquistate, cristianizzate e sottoposte alle regale della statalizzazione ad opera degli eredi bar­ barici dell'impero romano, Carolingi e Ottoni. Infine, fuori del cerchio della successione carolingia, in Scandinavia, Polonia, Boemia, Unghe­ ria, Russia e nei territori slavi meridionali, la costruzione degli stati e la cristianizzazione vennero realizzate su iniziativa dei sovrani locali. 11 grado di romanizzazione o di ellenizzazione delle culture barbariche era qui relativamente piu modesto, e le strutture del nuovo regime poli­ tico erano ben lontane dai modelli occidentali o bizantini. 4 Tutte queste differenze e i complicati processi di influenza reci­ proca sfuggono alla nostra visuale se ci limitiamo a ricondurre l'origi­ ne della cultura europea all'eredita mediterranea. L'Europa ha anche delle potenti radici barbariche. Se non le riconosciamo non potremo comprendere ne la complessa storia ne la varieta culturale dell'Euro­ pa quale appare oggi. L'espressione greca bdrbaros deriva dall'imitazione di un balbettio inarticolato: bar-bar-bar... In questo modo gli antichi Greci facevano il verso a quelli di cui non capivano la lingua. E cosl che chiamavano tutti i popoli che parlavano una lingua straniera. 11 termine venne ripreso dai Romani, che lo usarono in un senso derivato, fondato sul1'opposizione tra barbarie e civilta. E tuttavia, il ricordo del signifi­ cato originale del termine « barbaro» si conservo, almeno nelle elite. A tale ricordo si rifaceva Ovidio, quando in esilio a Tomi, solo tra i Geti della Tracia, scriveva: Barbarus hie ego sum, qui non intellegor ulli / et rident stolidi verba Latina Getae («Qui il barbaro sono io, che nes­ suno mi capisce / e gli stupidi Geti ridono delle parole latine»). 5 Questa paradossale scambio di ruolo significa forse che l'esperien­ za dell'esilio consentl a Ovidio di comprendere la relativita dei concetti di civilta e di barbarie? Cosl almeno pensava Allan A. Lund. 6 Quel che e sicuro e che Ovidio, trattato dai Geti esattamente come i Greci trat­ tavano tutti i popoli che parlavano un'altra lingua, ma al contempo 'Schlesinger, West und Ost. 4 Sziics, Les trois Europes; Modzelewski, Europa romana. 5 Ovidio, Tristia, 5, ro, pp. 37 sg. 6 Lund, Zum Germanenbild, p. 15.

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consapevole dell'origine del termine «barbaro», riconosceva che e da «stupidi» prendersi gioco di una lingua straniera. L'atteggiamento nei confronti dei popoli di lingua straniera condan­ nato da Ovidio non era peraltro affatto eccezionale nell'Europa ar­ caica. In tutte le lingue slave e presente la parola niemcy, che viene da niemy (muto) e che originariamente indicava quei popoli la cui lingua era per gli Slavi incomprensibile, come appunto il balbettio inartico­ lato di un muto. All'inizio del xn secolo la Cronaca di Nestor designava le tribu ugro-finniche che abitavano le terre ai confini nord-orientali della Russia in questo modo: Jugra ze jest' ljudie jazyk niem (Gli ugri sono un popolo muto). 7 Il concetto slavo di «popoli muti» corrispondeva perfettamente al significato originario dell'espressione greca bdrbaroi. Non c'e dubbio che si trattava per di piu di categorie di valore, al­ meno nella misura in cui alla divisione tra «i nostri» e «gli altri» cor­ rispondeva un giudizio di valore. Le comunita di lingua - come quel­ le ellenica, germanica o slava - in effetti andavano al di la della cornice politica delle tribu e non presentavano una struttura organizzativa comune, ma il senso di vicinanza derivante dalla facilita di comunica­ zione, il culto delle stesse divinita e l'affinita dei costumi le rendeva­ no i gruppi di identita piu ampi che ci fossero. 8 Il legame con il grup­ po di origine si manifestava nell'opposizione a tutti gli stranieri, un'opposizione non necessariamente ostile, ma che comunque aveva una connotazione emotiva. Presso i Greci pero, e ancor piu presso i Romani, al senso di estra­ neita nei confronti dei popoli che parlavano lingue incomprensibili si aggiunse presto l'incrollabile convinzione della propria superiorita cul­ turale. I Romani non annoverarono mai i Greci tra i barbari, ma si con­ sideravano assieme ai Greci il contrario dei barbari. Ovviamente, quel­ lo che nella mentalita romana univa i due popoli non era la lingua, ma la cultura. L'espressione «barbaro» acquistava in questo modo un nuo­ vo contenuto concettuale: non piu i popoli con una lingua diversa, ma tutti coloro che rimanevano esclusi dalla civilta, doe i selvaggi. Mutava cosl anche la nettezza della divisione. Il criteria etno-lin­ guistico escludeva una volta per tutte l'insieme degli stranieri, il cri­ teria culturale invece ammetteva la possibilita di un avvicinamento e 7 PVL, vol. I, p. r67. Gieysztor, WiJ'i narodowa, p. r5; Lund, Zum Germanenbild, pp. 4 sg.

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persino di un'inclusione mediante l'inculturazione. Agli occhi degli autori romani la distanza che divideva le singole tribu dalla civilta, definita con i termini humanitas o cultus, poteva cambiare. Gli Ubi secondo Cesare erano un po' piu civilizzati (paulo humaniores) degli altri Germani, dal momenta che abitavano lungo il Reno e mantene­ vano dei contatti con i mercanti romani e con i vicini Galli, ai quali avevano finito per assomigliare un poco.9 Ne consegue che i Galli era­ no meno barbari dei Germani. Del resto, anche tra i Galli in quanta a questo vi erano delle differenze: Cesare considerava i Belgi come i piu bellicosi (sottintendendo: i piu selvaggi), dal momenta che le loro sedi erano le piu lontane dalla provincia romana civilizzata (horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quad a cultu atque humanitate provinciae longissimae absunt). 10 Questa «provincia» dalla quale i Belgi erano lontani faceva anch'es­ sa parte della Gallia, ma era quella che i Romani gia da tempo aveva­ no soggiogato e «vestito con la toga» (Gallia togata). Da Cesare fino a Cassiodoro con I'espressione togatio si definiva il passaggio dei popo­ li conquistati dalla barbarie alla civilta. L'alto impero aveva vestito con la toga una dopa l'altra la Gallia, la Spagna e la Britannia. Gli abitanti liberi delle province diventavano cittadini romani e subivano un'effettiva romanizzazione. Le elite dell'impero pensavano all'espan­ sione in termini di missione civilizzatrice 11 e «barbarie» diventava cosl il name del mondo esterno, ancora non inserito nell'ambito impe­ riale e dunque privo di cultura e di un ordine statale. La Chiesa del tardo impero adotto questo atteggiamento, ma gli conferl una nuova dimensione. La missione civilizzatrice prese la for­ ma di una missione di cristianizzazione e venne considerata come un dovere del clero e dei sovrani cristiani. Per gli scrittori ecclesiastici del medioevo europeo, barbari erano dei popoli pagani che a volte dal pun­ to di vista etnico erano molto vicini a quegli stessi autori, ma che non erano ancora stati battezzati.12 Agli occhi di Beda il Venerabile bar­ bari erano i Sassoni continentali (antiqui Saxones), in quanta pagani che avevano ucciso i rappresentanti del mondo civile, i missionari anglosassoni Evald il Bianco ed Evald il Nero. Beda nell'occasione 9

Cesare, BG, IV, 4, 3.

° Cesare, BG, I, r, z. 11 1

Cfr. Dauge, Le Barbare. 12 Jones, The Image of the Barbarian.

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non manca di sottolineare che i Sassoni continentali non hanno re e nem­ meno un ordinamento statale paragonabile a quello dei popoli civili. Ana­ logamente Adamo di Brema chiamava barbari gli Svedesi pagani, men­ tre considerava un uomo civilizzato e illuminato il re di Danimarca Sven Estridsen, qui omnes barbarorum gestas res in memoria tenuit. 13 La connotazione del termine barbari, benche arricchita di una di­ mensione religiosa, nel medioevo si iscriveva nella continuita delle no­ zioni elaborate ancora al tempo dell'impero romano. Anche sotto que­ sto aspetto gli scrittori ecclesiastici furono gli eredi della cultura classica e dei suoi stereotipi. A prescindere dall'influsso che tali stereotipi eser­ citarono sul modo di percepire i popoli barbarici, l'Europa pagana del medioevo, non diversamente dal barbaricum europeo ai tempi del tar­ do impero, era effettivamente il dominio di societa tradizionali, di rego­ la illetterate, organizzate politicamente in tribu e in federazioni di tri­ bu, e non in stati. La nozione di «barbari» si fondava pero su un criteria negativo, in quanta designava i popoli non civilizzati, quelli cioe rimasti al di fuo­ ri dell'ambito della cultura classica e della sua eredita. Ma questo sche­ ma negativo non celava forse una diversita? Da tempo questa doman­ da travaglia gli studiosi. Sotto !'influenza delle idee nazionaliste del XIX secolo gli studiosi hanno smesso di trattare il barbaricum come un tutto indistinto, per concentrare i loro sforzi nell'individuazione del­ le singole comunita etno-linguistiche. Sul modello dei linguisti che intrapresero la ricostruzione dell'antico slavo, gli storici panslavisti cer­ carono di ricostruire l'antico sistema slavo di istituzioni politiche e norme giuridiche. Quest'ultimo sarebbe dovuto essere il regime che esprimeva i valori spirituali comuni a tutti i popoli slavi. In modo simi­ le venne supposta l'esistenza nel lontano passato di un altro sistema politico, diverso ma altrettanto omogeneo, fondato su basi culturali germaniche generali e un tempo comune a tutti i Germani. Tutte que­ ste idee sono state giustamente messe in soffitta, 14 ma le ricerche sul­ la storia sociale dei barbari germanici e slavi, e anche su quella dei Cel­ ti e dei Balti, percorrono ancora strade diverse. Una forza di inerzia continua a tenerci nel solco tracciato dall'opera di molte generazioni 1l

Beda, BEGA, V, ro; Adamo di Brema, II, 43 e 62. Cfr. Bardach, Historia praw; Pohl, Die Germanen, pp. 65 sg. e in particolare Graus, Ver­ Jassunf!.Sf!.eschichte, p. 572 e nota 146. 14

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di storici, rendendo difficile il superamento della segregazione etnica dei campi di ricerca. Nel 1974 il grande storico dei popoli barbarici Reinhard Wenskus si ribello contra questa segregazione. Nel suo saggio-manifesto sugli sti­ moli che l'antropologia puo fornire agli storici, Wenskus sottolineava che le aree caratterizzate da strutture socio-politiche analoghe non coin­ cidevano con le aree coperte dalle comunita linguistiche. Per lui il bar­ baricum europeo non era una totalita omogenea. Wenskus metteva in evidenza la particolarita culturale dei popoli nomadi delle steppe o quel­ la delle tribu che abitavano i territori selvosi a nord-est del subconti­ nente, e tuttavia trattava le tribu celtiche, germaniche, slave e baltiche come un'unica area culturale, nell'ambito della quale quelle societa tra­ dizionali erano organizzate secondo princlpi simili. 15 Questa conce­ zione ebbe come conseguenza il postulato di ampliare radicalmente gli orizzonti della ricerca. Wenskus avanzava qualcosa di piu di una nuo­ va tipologia, egli formulava un nuovo programma di ricerca. 11 libro che affido al lettore si iscrive nella proposta programmatica di Reinhard Wenskus. Non ho l'aspirazione di riprendere questa pro­ pasta in tutti i suoi aspetti. La mancanza di competenze specifiche non mi consente di occuparmi dell'antropologia storica dei popoli baltici o dei Celti insulari, e nemmeno dei popoli slavi balcanici. Cerchero sol­ tanto di trattare unitariamente la problematica socio-istituzionale del­ le tribu germaniche e slave occidentali, utilizzando a volte delle fonti relative agli Slavi orientali. Non e un progetto modesto e mi aspetto critiche severe. Anch'io del resto non ho risparmiato le stesse critiche ad alcuni miei predecessori. Sono consapevole del pericolo, ma ho deci­ so di affrontarlo nella convinzione che sia ormai venuto il momenta di superare la segregazione etnica che grava sulle ricerche che riguardano le tribu germaniche e slave dell'Europa barbarica. Cio comporta che si debba essere pronti a comprendere in un orizzonte comparativo co­ mune fonti a volte molto lontane tra loro nel tempo e nello spazio. Undici secoli dividono la Germania di Tacito dalla Chronica Slavorum di Helmold. Trascorsero sei secoli tra la trascrizione della legge salica e la redazione «ampia» della Pravda Russkaja. E lecito o no procedere a un'interpretazione comparativa di questi documenti? 15 Wenskus, Probleme, pp. 19 sg.

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Introduzione

Non intendo in questa introduzione considerare la questione, ma lo faro nel corso del libro. II verdetto sull'utilita delle fonti non puo pre­ cedere l'analisi dettagliata del loro contenuto. A differenza del tem­ po astronomico quello storico non scorre uguale per tutte le societa e per tutte le culture. La distanza cronologica tra le fonti storiche non esenta lo studioso dal dovere di riflettere sulle analogie tra le infor­ mazioni che esse contengono. In questa materia lo storico puo impa­ rare qualcosa dall'antropologo. Del resto la problematica di questo libro ha molto in comune con l'etnologia. La Germania tacitiana che ho appena ricordato e infatti un'opera etnografica. Dalla prospettiva della civilta antica e medieva­ le le tribu barbariche si presentavano in una certa misura in modo simile ai cosiddetti popoli esotici studiati dagli etnologi del xix e del xx secolo. Le organizzazioni territoriali e politiche dei barbari, che la scienza chiama tribu, non disponevano di strumenti di coercizione amministrativa e l'integrazione sociale si basava in esse sulla forza ir­ resistibile della tradizione e sulla pressione esercitata sull'individuo dal gruppo di appartenenza. Si trattava di societa che funzionavano senza la scrittura, dove non solo la mitologia, ma anche la memoria storica collettiva e le norme giuridiche venivano trasmesse oralmente di generazione in generazione. Quest'ultima circostanza pone lo sto­ rico di fronte a difficolta tecniche tutte particolari. Bisognera comin­ ciare proprio da queste difficolta.

Ringraziamenti

Negli anni 1994-2002 presso l'Istituto storico dell'Universita di Varsavia ho tenuto un corso monografico intitolato L'Europa barba­ rica: dalle tribu agli stati e alle nazioni. Questo libro non e la trascri­ zione di quelle lezioni. Non ho mai messo per iscritto quello che avevo da dire agli studenti, contando piuttosto sulla spontaneita del contatto reciproco. Ho sempre invitato i miei ascoltatori a interrompermi appe­ na veniva loro in mente qualche domanda, senza aspettare la fine del­ la lezione. Tali domande, numerose e a volte anche sorprendenti, sono state per me una fonte di soddisfazione e di ispirazione intellettuale: questi giovani mi hanno aiutato a vedere dei problemi aperti la dove la routine faceva sl che non se ne vedessero piu. Cio e stato per me un impulso decisivo. Questo libro non ci sarebbe stato senza le do­ mande degli studenti. I miei ringraziamenti vanno dunque prima di tutto a loro, perche da loro ho imparato molto. Faccio parte di quella generazione di storici che ha incontrato nu­ merosi ostacoli nei suoi contatti professionali con l'estero. Per ragio­ ni politiche, che io stesso del resto ho contribuito a determinare, sul mio cammino se ne sono accumulati parecchi. Fintantoche mi sono occupato della Polonia dei Piasti, mi potevo illudere che la cortina di ferro non danneggiasse molto il mio lavoro. Da quando pero mi sono messo in testa di superare le barriere che da parecchie generazioni ten­ gono separate le ricerche sull'antica storia dei barbari germanici e sla­ vi, l'annosa insufficienza di contatti con l'estero e di letture straniere ha finito per essere un pesante fardello per il mio lavoro. Non sempre si riescono a colmare tutte le lacune, ma non ne avrei colmata nessu­ na senza l'attivo sostegno dei miei colleghi occidentali. E all'amicizia

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Ringraziamenti

dell'indefettibile Fiorella Simoni dell'Universita La Sapienza di Roma che va la mia maggiore gratitudine. Per gli inestimabili scambi di idee, l'ospitalita e la possibilita di consultare le loro biblioteche mi sono sta­ ti di grande aiuto alcuni eccellenti medievisti, miei colleghi e amid, francesi, italiani e tedeschi: Jacques Le Goff, Jean-Claude Schmitt, Girolamo Arnaldi, Giorgio Cracco, Otto Gerhard Oexle e Peter Kriedte. A tutti loro la mia profonda riconoscenza. Ringrazio anche mia moglie, lei sa bene perche.

L 'Europa dei barbari

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I.

Dalle testimonianze scritte alle societa senza scrittura. Le narrazioni sui barbari

In un certo senso lo storico delle epoche remote assomiglia all'et­ nologo: per entrambi la barriera di una cultura diversa separa lo stu­ dioso dall'oggetto dei suoi studi. La necessita di penetrare questa bar­ riera e di comprendere una cultura diversa dalla nostra e la difficolta maggiore della nostra professione, ma e anche il suo aspetto piu affa­ scinante. E tuttavia, nello studio delle societa dell'Europa barbarica incontriamo un'ulteriore difficolta. Oltre alla distanza culturale che ci separa dalle comunita tribali dei Germani o degli Slavi antichi, in gio­ co c'e anche la differenza tra queste tribu barbariche e gli autori anti­ chi e medievali dai quali ricaviamo le nostre informazioni sui barba­ ri. Abbiamo percio a che fare con una doppia barriera. Le tradizionali culture del barbaricum si basavano sulla comunica­ zione orale e di regola facevano a meno della scrittura. Le pietre runi­ che sono un'eccezione che non mette in discussione la regola. Le iscri­ zioni incise su queste pietre svolgevano una funzione magico-cultuale e non servivano a trasmettere il sapere relativo alle norme giuridiche o alle istituzioni politiche. 1 Il mondo barbarico non ha reso su di se una testimonianza scritta fino al momenta in cui gli stati cristiani e la Chiesa non lo trasformarono. Le testimonianze scritte su questo mon­ do senza scrittura possono essere divise all'incirca in due categorie. La prima e composta dalle relazioni provenienti direttamente o indiret­ tamente dai testimoni oculari che ebbero dei contatti personali con le societa tribali. Si tratta di testimonianze contemporanee agli eventi, ma redatte da stranieri che guardavano ai barbari con gli occhi degli 1

Krogmann, Die Kultur, pp. 77 sg.; cfr. Duwe!, Runeninschri/ten.

Capitola primo

uomini civilizzati dell'antichita o del medioevo. Nella seconda catego­ ria possiamo inserire le codificazioni delle tradizioni giuridiche dei sin­ goli popoli barbarici e a volte anche la trascrizione dei loro miti e del­ le tradizioni mitologico-storiche. Queste non erano opera di eruditi stranieri, ma perlopiu fonti di provenienza indigena. La codificazione scritta del diritto tribale veniva effettuata per ordine dei sovrani bar­ bari, ma cio avveniva una volta che era stata superata la soglia dell'or­ ganizzazione statale e della cristianizzazione. Le fonti sulla societa bar­ barica sono dunque o testimonianze esterne o testimonianze ex post. 1. J topoi letterari e la realta Dalla guerra gallica di Cesare fino alla presa di Arkona da parte dei Dani nel 1168 e alla sottomissione di Pruteni eJatvingi da parte dei ca­ valieri teutonici il mondo civilizzato assorbl uno dopo l'altro tutti gli spazi dell'Europa barbarica. Nell'arco di questi tredici secoli i con­ fronti politico-militari e le azioni missionarie furono accompagnati dallo sforzo degli autori latini e greci di rappresentare le tribu bar­ bariche. Su questo tema scrissero i comandanti militari, come Cesare o l'autore del bizantino Strategikon, gli storici antichi, come Tacito o Procopio di Cesarea, i cronisti e gli agiografi medievali. Nonostante le ovvie differenze tra i singoli autori, le loro osservazioni sulle tribu ger­ maniche, slave e baltiche sono sorprendentemente concordi. Queste corrispondenze hanno destato la vigilanza critica degli stu­ diosi. Sfortunatamente pero questo impegno critico si e dedicato piu che altro alla ricerca dei topoi, con il risultato che la somiglianza dei contenuti che si ripetevano nelle diverse descrizioni dei popoli barba­ rici e stata spiegata perlopiu con la diffusione di prestiti letterari e non con l'analogia delle realta descritte. 2 Di prestiti tuttavia si puo parla­ re solo nel caso in cui l'autore abbia avuto la possibilita di conoscere il suo presunto modello. L'unico testo universalmente conosciuto e utilizzato in tutta la let­ teratura medievale era la Bibbia. I cronisti e gli agiografi tedeschi rica­ varono i modelli della fraseologia latina perlopiu dalla Vulgata e dalla 2 Cfr. Norden, Die germanische Urgeschichte, pp. 56-58 e 139; Bringmann, Topoi; cfr. anche infra, p. 27, nota 3.

Daile testimonianze scritte alle societa senza scrittura

letteratura patristica. Queste circostanze vanno tenute in considera­ zione, specialmente se abbiamo a che fare con le descrizioni medieva­ li delle credenze, delle cerimonie e delle istituzioni cultuali pagane. In tutti questi casi, espressioni e formule prese tali e quali dai Salmi o dagli scritti dei Padri della Chiesa erano in effetti degli ornamenti retorici o un omaggio reso a una convenzione letteraria, ma assieme a epiteti come superstitio o idolatria definivano anche il canone di valo­ ri vigente. Questa non significa affatto che le descrizioni dei luoghi di culto e dei riti praticati dai pagani Lutici, Svedesi, Pomerani, Vagri e Rugiani, riportate nei testi di Thietmar, Adamo di Brema, Herbord, Helmold o di Sassone Grammatica, si limitassero a ripetere lo stereo­ tipo biblico e non meritassero credito. 3 I particolari riportati da que­ sti autori non hanno corrispettivi nella Sacra Scrittura e, dunque, non furono certo tratti da ll; di solito derivano invece da informatori con­ temporanei o dall'esperienza diretta. E nemmeno e possibile far derivare dal modello biblico le relazioni medievali sull'organizzazione politica delle tribu barbariche: la descri­ zione della giurisdizione assembleare, le informazioni sull'assenza del potere regio o sulla sua debolezza, quelle sulla struttura delle unioni di tribu. La Sacra Scrittura a tutto questo non fa cenno. Ne scrisse inve­ ce in dettaglio Tacito nella Germania ede proprio a quest'opera pre­ cristiana che assomigliano maggiormente i racconti medievali sulle isti­ tuzioni politiche e cultuali delle tribu barbariche. Di regola pero si tratta di una somiglianza di contenuto e non di forma letteraria. L'as­ senza di relazioni formali none casuale. Nel medioevo la Germania fu quasi del tutto dimenticata. 11 testo si conservo solo perche la buona sorte assecondo il risveglio degli interessi umanistici del xv secolo. Nel 1425 un monaco di Hersfeld giunse a Roma per alcune que­ stioni legate al suo convento. Ll incontro un dignitario della curia che 3 Inclini ad accettare un giudizio scettico co�e questo furono Boudriot, Die altgermanische Religion; Achterberg, Interpretatio Christiana; Clemen, Altgermanische Religionsgeschichte; Wie­ necke, Untersuchungen e Harmening, Superstitio. L'orientamento ipercritico di questi studiosi non condiviso da J .-C. Schmitt, Les superstitions; cfr. anche Kunzel, Paganisme e Modzelewski, Cul­ le et iustice. Le affermazioni categoriche di Wienecke, che contesto le testimonianze di cronisti

e

c agiografi sull'esistenza di templi pagani presso gli Slavi, non hanno resistito di fronte alle piu recenti ricerche archeologiche (cfr. S!upecki, Problem slowiafzskich swi{l,tyn). L'unico genere lette­ rario medievale nel quale la ripetizione degli stereotipi biblici era effettivamente dominante sui riferimenti al presente sembrerebbero essere le opere catechetiche e omiletiche (cfr. Simoni, I testi catechistico-omiletici). In considerazione della funzione formativa di questi testi nella cultura me