Lettere a Lucilio. Volume II. Libri X-XX [2]
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Table of contents :
Libro decimo
Libro undicesimo
Libro quattordicesimo
Libro quindicesimo
Libro sedicesimo
Libro diciassettesimo
Libro diciannovesimo
Libro ventesimo

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Lucio Anneo Seneca

Lettere a Lucilio traduzione e note di Giuseppe monti

volume secondo (libri X - XX) testo latino a fronte

Biblioteca Universale Rizzoli

Proprietà letteraria riservata © 1966, 1974 1985 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 1994 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A., Milano

LETTERE A LUCILIO

ISBN 88-17-12013-8

EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM

Titolo originale dell’opera:

(LIBRI X - XX)

AD LUCILIUM EPISTULARUM MORALIUM LIBRI XX

prima edizione: ottobre 1974 undicesima edizione: pugno 1994

LIBER DECIMVS

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SENECA

LVCILIO

SVO S A L V T E M

Quereris incidisse te in hominem ingratum: si hoc nunc primum, age aut fortunae aut diligentiae tuae gratias. Sed nihil facere hoc loco diligentia potest nisi te malignum; nam si hoc periculum vitare volueris, non dabis beneficia; ita ne apud alium pereant, apud te peribunt. Non respondeant potius quam non dentur: et post malam segetem serendum est. Saepe quidquid perierat adsidua infelicis soli sterilitate 2 unius anni restituit ubertas. Est tanti, ut gratum invenias, experiri et ingratos. Nemo habet tam certam in beneficiis manum ut non saepe fallatur: aberrent, ut aliquando haereant. Post naufragium maria temptantur; feneratorem non fugat a foro coctor. Cito inerti otio vita torpebit, si relinquendum est quidquid offendit. T e vero benigniorem haec ipsa res faciat; nam cuius rei eventus incertus est, id ut aliquando procedat saepe temptandum est. 3 Sed de isto satis multa in iis libris locuti sumus qui de

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LIBRO DECIMO

LETTERA 8 l

Il benefattore non teme Vingratitudine Ti lagni di aver incontrato 'un ingrato. Se è la prima volta, ringrazia la fortuna, o la tua prudenza. Ma la prudenza, in questo caso, non può renderti se non avaro 0 gretto. Infatti, se vuoi evitare il pericolo dell’ingratitu­ dine, non farai più beneficenza; così, per impedire che si perda nelle mani di un altro, l’opera buona andrà perduta per te. Anche quando incontriamo l’ingratitudi­ ne, non dobbiamo stancarci di fare il bene: bisogna seminare anche dopo un cattivo raccolto. Spesso, tutto quello che era andato perduto per l’ostinata sterilità del terreno ingrato, lo restituisce l’abbondanza di una sola annata. Vale la pena sperimentare anche l’ingratitudine per trovare un uomo riconoscente. Nessuno ha la mano tanto sicura, nel fare il bene, da non sbagliare; anche se 1 benefici non sono sempre ben diretti, prima o poi colpiranno nel segno. Anche dopo un naufragiò si affron­ tano di nuovo i rischi della navigazione. L’usuraio non si ritira dagli affari per il fallimento di un suo debitore. La vita rimarrebbe paralizzata nell’inerzia, se si dovesse abbandonare ogni impresa al primo intoppo. Quanto a te, quel che t’è capitato deve renderti ancora più liberale; infatti, se l’esito di un’azione è incerto, bisogna fare molti tentativi per avere, prima o poi, un risultato favorevole. Ma su questo argomento ho già parlato diffusamente 561

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beneficile inscribuntur: illud magis quaerendum videtur, quod non satis, ut existimo, explicatum est, an is qui profuit nobis, si postea nocuit, paria fecerit et nos debito solverit. Adice, si vis, et illud: multo plus postea nocuit quam ante profuerat. Si rectam illam rigidi iudicis sententiam quaeris, alterum ab altero absolvet et dicet, ‘quamvis iniuriae praeponderent, tamen beneficiis donetur quod ex iniuria superest’. Plus nocuit, sed prius profuit; itaque habeatur et temporis ratio. Iam illa manifestiora sunt quam- ut admoneri debeas quaerendum esse quam libenter profuerit, quam invitus nocuerit, quoniam animo et beneficia et iniuriae Constant. ‘Nolui beneficium dare; victus sum aut verecundia aut instantis pertinacia aut spe.’ Eo animo quidque debetur quo datur, nec quantum sit sed a quali profectum voluntate perpenditur. Nunc coniectura tollatur: et illud beneficium fuit et hoc, quod modum beneficii prioris excessit, iniuria est. Vir bonus utrosque calculos sic ponit ut se ipse circumscribat: beneficio adicit, iniuriae demit. Alter ille remissior iudex, quem esse me malo, iniuriae oblivisci iubebit, officii meminisse. ‘Hoc certe’ inquis ‘iustitiae convenit, suum cuique reddere, beneficio gratiam, iniuriae talionem aut certe malam gratiam.’ Verum erit istud cum alius iniuriam fecerit, alius beneficium dederit; nam si idem est, beneficio vis iniuriae extinguitur. Nam cui, etiam si merita non antecessissent, oportebat ignosci, post beneficia laedenti plus quam venia debetur. Non pono utrique par pretium:

nell’opera intitolata Dei benefìci1. Esaminiamo, invece, una questione che non credo di aver ben chiarito: uno mi fa del bene, poi mi danneggia; siamo pari, e quindi 10 sono sciolto da ogni debito? Aggiungi, se vuoi: il torto arrecatomi supera di molto il precedente beneficio. Se ti riferisci alla decisione di un giudice rigoroso, egli riterrà compensato l’uno con l’altro e la formulerà in questi termini: «Per quanto prevalga il male, tuttavia questo più di male sia condonato in considerazione del bene fatto». Il male è stato maggiore, ma è stato preceduto dal bene: perciò si tenga conto anche di tale precedenza. Ci sono poi altre considerazioni troppo ovvie perché te le debba ricordare: bisogna vedere se il beneficio è stato fatto spontaneamente, o se si è recato 11 danno contro la propria volontà, poiché il valore sia dell’uno che dell’altro deriva dall’intenzione: «Non avrei voluto fare quel favore; sono stato vinto dal rispetto umano o dall’insistenza di chi pregava, o da qualche mia speranza». I sentimenti del debitore devono commisu­ rarsi con quelli del donatore: non conta tanto l’entità del beneficio quanto la buona volontà di chi l’ha fatto. Ora lasciamo da parte altri casi possibili. C’è da una parte un beneficio, dall’altra un danno successivo e maggiore del beneficio. L’uomo onesto in tal computo inganna, per così dire, se stesso; ingrandisce il bene ricevuto e sminuisce l’offesa. Un altro che giudica con clemenza anche maggiore - ed io vorrei essere uno di questi - dirà che bisogna dimenticare l’offesa e ricordarsi solo del bene ricevuto. Tu mi dirai: «In ogni caso, la giustizia esige che ciascuno abbia quello che gli è dovuto; il benefattore la gratitudine, chi ha recato ingiuria la rappresaglia o, almeno, il risentimento dell’ingiuriato.» Tutto ciò sarà giusto se il benefattore e l’offensore sono persone diverse. Ma se la persona è la stessa, il beneficio estingue gli effetti dell’ingiuria. Infatti l’uomo a cui dovremmo perdonare, anche se non ci avesse reso prece­ denti servigi, merita più che il perdono se ci ha fatto il male dopo averci fatto del bene. Io non attribuisco lo 1 Altra opera di Seneca. Cfr. Introduzione.

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pluris aestimo beneficium quam iniuriam. Non omnes esse grati sciunt: debere beneficium potest etiam inprudens et rudis et unus e turba, utique dum prope est ab accepto, ignorai autem quantum prò eo debeat. Uni sapienti notum est quanti res quaeque taxanda sit. Nam ille de quo loquebar modo stultus, etiam si bonae voluntatis est, aut minus quam debet aut (alio quam debet) tempore aut quo non debet loco reddit; id quod referendum est effundit atque abicit. Mira in quibusdam rebus verborum proprietas est, et consuetudo sermonis antiqui quaedam efficacissimis et officia docentibus notis signat. Sic certe solemus loqui: ‘ille illi gratiam rettulit’. Referre est ultro quod debeas adferre. Non dicimus ‘gratiam reddidit’; reddunt enim et qui reposcuntur et qui inviti et qui ubilibet et qui per alium. Non dicimus ‘reposuit beneficium’ aut ‘solvit’ : nullum nobis placuit quod aeri alieno convenit verbum. Referre est ad eum a quo acceperis rem ferre. Haec vox significat voluntariam relationem : qui rettulit, ipse se appellavit. Sapiens omnia examinabit secum, quantum acceperit, a quo, (quare,) quando, ubi, quemadmodum. Itaque negamus quemquam scire gratiam referre nisi sapientem, non magis quam bene­ ficium dare quisquam scit nisi sapiens—hic scilicet qui magis dato gaudet quam alius accepto. Hoc aliquis inter illa numerat quae videmur inopinata omnibus dicere (παράδοξα Graeci vocant) et ait, ‘nemo ergo scit praeter sapientem referre gratiam ? ergo nec quod debet creditori suo reponere quisquam scit alius nec, cum emit aliquam rem, pretium venditori persolvere ?’ (Ne) nobis fiat invidia, scito idem dicere Epicurum. Metrodorus certe ait solum sapientem referre gratiam scire. Deinde idem admiratur cum dicimus, ‘solus sapiens scit amare, solus sapiens amicus est’. Atqui et

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stesso valore all’uno e all’altro: per me il beneficio vale più del danno ricevuto. Non tutti sanno dimostrare la gratitudine nella misura dovuta: anche un uomo ignoran­ te e rozzo, uno dei tanti, può essere grato, specialmente subito dopo aver ricevuto un beneficio; ma non sa misurare il suo debito di riconoscenza. Solo il sapiente sa quale valore bisogna dare a ciascuna azione. Infatti l’ignorante a cui ho accennato, anche se è animato da buona volontà, o ricambia il beneficio in modo non adeguato, o a tempo e luogo inopportuni: così sciupa in modo maldestro il suo atto di riconoscenza. Certe cose sono designate con termini molto appro­ priati, e specialmente la lingua arcaica ha espressioni efficacissime per indicare certi doveri. Noi diciamo co­ munemente: «Ille illi gratiam rettulit». Referre significa dare spontaneamente ciò che si deve. Non diciamo: «Ha restituito il beneficio» (si restituisce infatti anche su richiesta, o controvoglia, o in un luogo qualsiasi, o attraverso intermediari), e neppure: «Ha pagato»: sono verbi che non ci piacciono, più adatti per un’obbligazione giuridica. Referre vuol dire riportare una cosa a colui dal quale l’hai ricevuta; è l’atto volontario del riportare; chi riporta, cioè, lo fa di sua iniziativa. Il sapiente esaminerà tutto fra sé attentamente: l’entità del benefi­ cio, da chi, perché; quando, dove, come l’ha ricevuto. Perciò diciamo che solo .il sapiente sa dimostrare la gratitudine nel modo dovuto; così come solo il sapiente sa veramente donare, poiché gode più egli nel dare che l’altro nel ricevere il beneficio. Qualche avversario giudicherà questa mia affermazione come una di quelle che contrastano con l’opinione comune, e che i Greci chiamano παράδοξα, e dirà: «Dunque, nessuno, al di fuori del saggio, sa manifestare la sua riconoscenza? Dunque, nessun altro, se si tratta di un debito, sa restituire al creditore quello che gli deve, e, se si tratta di un acquisto, sa pagare il giusto prezzo al venditore?» Chi se la prende con me, sappia che Epicuro dice la stessa cosa. Metrodoro afferma con sicurezza che solo il saggio conosce la vera gratitudine. Poi lo stesso avver­ sario si meraviglia se diciamo: «Solo il sapiente sa amare 565

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amoris et amicitiae pars est referre gratiam, immo hoc magis vulgare est et in plures cadit quam vera amicitia. Deinde idem admiratur quod dicimus fidem nisi in sapiente non esse, tamquam non ipse idem dicat. An tibi videtur fidem habere qui referre gratiam nescit ? Desinant itaque infamare nos tamquam incredibilia iactantes et sciant apud sapientem esse ipsa honesta, apud vulgum simulacra rerum honestarum et effigies. Nemo referre gratiam scit nisi sapiens. Stultus quoque, utcumque scit et quemadmodum potest, referat; scientia illi potius quam voluntas desit: velie non discitur. Sapiens omnia inter se comparabit; maius enim aut minus fit, quamvis idem sit, tempore, loco, causa. Saepe enim hoc (non) potuere divitiae in domum infusae quod opportune dati mille denarii. Multum enim interest donaveris an succurreris, servaverit illum tua liberalitas an instruxerit ; saepe quod datur exiguum est, quod sequitur ex eo magnum. Quantum autem existimas interesse utrum aliquis quod daret a se [quod praestabat] sumpserit an beneficium acceperit ut daret ? Sed ne in eadem quae satis scrutati sumus revolvamur, in hac comparatione beneficii et iniuriae vir bonus iudicabit quidem quod erit aequissimum, sed beneficio favebit; in hanc erit partem proclivior. Plurimum autem momenti persona solet adferre in rebus eiusmodi: ‘dedisti mihi beneficium in servo, iniuriam fecisti in patre; servasti mihi filium, sed patrem abstulisti’. Alia deinceps per quae procedit omnis conlatio prosequetur, et si pusillum erit quod intersit, dissimulabit; edam si multum fuerit, sed si id donari salva pietate ac fide poterti, remittet, id est si ad ipsum tota pertinebit iniuria. Summa rei haec est: facilis erit in com­ mutando; patietur plus inputari sibi; invitus beneficium per

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veramente; solo il sapiente conosce la vera amicizia». Eppure, la gratitudine è un aspetto sia dell’amore che deH’amicizia; anzi, è un sentimento più comune e diffuso dell’amicizia. Lo stesso avversario si meraviglia se dicia­ mo che solo nell’uomo saggio si può trovare la lealtà, come se egli non dicesse poi la stessa cosa. Forse ti sembra che sia leale chi non sa essere grato? Perciò la smettano di diffamarci attribuendoci massime inaccetta­ bili, e sappiano che nell’uomo saggio si trova tutto ciò che è onesto e presso il volgo ci sono solo ombre e parvenze della virtù. Nessuno conosce la vera gratitudi­ ne, se non il saggio. Lo stolto manifesti la gratitudine come sa e come può; se gli manca la scienza, non gli faccia difetto la volontà di essere grato; la buona volontà non c’è bisogno di apprenderla. Il sapiente esaminerà tutte le circostanze, poiché la stessa azione avrà un valore maggiore o minore secondo il tempo, il luogo e i motivi che l’hanno determinata. Spesso mille denari dati in circostanze opportune a una famiglia sono più apprezzati dell’elargizione di grandi ricchezze. Infatti, c’è molta differenza tra un semplice dono e un’opera caritatevole, fra l’azione generosa che salva dalla rovina e quella che rende la vita più agiata: spesso un piccolo dono produce grandi effetti. Puoi ben capire che non è la stessa cosa fare un dono con i propri beni, o riceverlo per poterlo dare ad altri. Per non dilungarmi su questioni già esaminate, dirò in breve che il saggio, nel confrontare il beneficio con l’offesa ricevuta, deciderà con senso di perfetta giustizia, ma darà maggior peso al beneficio, e perciò sarà propen­ so a valutarlo di più. In questi casi ha molta importanza la qualità della persona: «Tu hai beneficato un mio schiavo, ma hai fatto del male a mio padre. Hai salvato mio figlio, ma mi hai tolto il padre». Il saggio continuerà con lo stesso metodo in questi raffronti. Se la differenza è minima, non ne terrà conto. Sarà indulgente anche se l’offesa fosse molto maggiore, se può rimetterla senza venir meno ai suoi doveri di affetto e di onore, cioè nel caso che l’offesa riguardi solo la sua persona. Seguirà, in genere, la norma seguente: sarà generoso nel fare i raffronti, dando maggior peso al suo debito di ricono­ scenza; sarà restio a considerare il beneficio compensato 567

compensationem iniuriae solvet; in hanc partem inclinabit, huc vergei, ut cupiat debere gratiam, cupiat referre? Errat enim si quis beneficium accipit libentius quam reddit: quanto hilarior est qui solvit quam qui mutuatur, tanto debet laetior esse qui se maximo aere alieno accepti benefici 18 exonerat quam qui cum maxime obligatur. Nam in hoc quoque falluntur ingrati, quod creditori quidem praeter sortem extra ordinem numerant, beneficiorum autem usum esse gratuitum putant: et illa creseunt mora tantoque plus solvendum est quanto tardius. Ingratus est qui beneficium reddit sine usura; itaque huius quoque rei habebitur ratio, cum conferentur accepta et expensa. 19 Omnia facienda sunt ut quam gratissimi simus. Nostrum enim hoc bonum est, quemadmodum iustitia non est (ut vulgo creditur) ad alios pertinens: magna pars eius in se redit.' Nemo non, cum alteri prodest, sibi profuit, non eo nomine dico, quod volet adiuvare adiutus, protegere defensus, quod bonum exemplum circuitu ad facientem revertitur (sicut mala exempla recidunt in auctores nec ulla miseratio contingit iis qui patiuntur iniurias quas posse fieri faciendo docuerunt), sed quod virtutum omnium pretium in ipsis est. Non enim exercentur ad praemium: recte facti fecisse merces 20 est. Gratus sum non ut alius mihi libentius praestet priori inritatus exemplo, sed ut rem iucundissimam ac pulcherrimam faciam; gratus sum non quia expedit, sed quia iuvat. Hoc ut scias ita esse, si gratum esse non licebit nisi ut videar ingratus, si reddere beneficium non aliter quam per speciem iniuriae poterò, aequissimo animo ad honestum consilium per mediam infamiam tendam. Nemo mihi videtur pluris aesti­ mare virtutem, nemo illi magis esse devotus quam qui boni

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dall’offesa patita; avrà, invece, sempre la propensione e il desiderio di ritenersi debitore e di manifestare la sua riconoscenza. Infatti, è in errore chi preferisce ricevere un beneficio anziché farlo: come chi paga il suo debito è più lieto di chi lo contrae, così chi si libera del grandissi­ mo debito di un beneficio ricevuto dev’essere più conten­ to di chi se lo addossa. Gl’ingrati cadono anche in quest’errore: mentre pagano al creditore, oltre al capita­ le, gl’interessi, pensano che l’uso del beneficio sia gratui­ to. Anche il beneficio cresce col passare del tempo, e quanto maggiore è il ritardo, tanto più si deve rendere. E ingrato chi rende il beneficio senza pagarne l’uso: si tenga conto anche di questo quando si farà il calcolo di quello che s’è ricevuto e di quello che s’è dato. Bisogna far di tutto per manifestare la massima grati­ tudine possibile. Ciò è nel nostro interesse; l’azione giusta non interessa, come comunemente si crede, solo quelli che la ricevono; gran parte dei suoi effetti benefici si riversano su chi ha agito giustamente. Chiunque fa del bene al prossimo lo fa anche a se stesso. Ma io non mi baso sul motivo che il beneficato vorrà beneficare a sua volta, e chi è stato protetto vorrà difendere il suo protettore, e che, quindi, la buona azione ritorna su chi l’ha fatta (così come i cattivi esempi ricadono sui loro autori, né alcuna compassione si ha di coloro che soffro­ no quelle offese che con il loro operare hanno insegnato a fare). Io affermo che tutte le virtù hanno in se stesse la loro ricompensa. L’esercizio della virtù non mira a un premio: la mercede di una buona azione consiste nell’averla compiuta. Manifesterò la mia riconoscenza non affinché un altro, stimolato dal mio esempio, sia con me ancora più generoso, ma per fare un’azione bellissima, che mi riempie di gioia: sarò grato non per il mio tornaconto, ma per il mio piacere. Da questa verità deriva che, se runico mezzo per essere grato sarà per me il sembrare ingrato, se cioè non potrò ricambiare il beneficio altrimenti che sotto l’apparenza di una offe­ sa, tenderò a questo giusto fine, affrontando anche la disistima altrui. Non c’è nessuno, a mio avviso, che ami più la virtù e le sia più devoto dell’uomo che perde la buona reputazione per salvare la sua coscienza. Dunque, 569

21 viri famam perdidit ne conscientiam perderei. Itaque, ut dixi, maiore tuo quam alterius bono gratus es; illi enim vulgaris et cotidiana res contigit, recipere quod dederat, tibi magna et ex beatissimo animi statu profecta, gratum fuisse. Nam si malitia miseros facit, virtus beatos, gratum autem esse virtus est, rem usitatam reddidisti, inaestimabilem consecutiis es, conscientiam grati, quae nisi in animum divinum fortunatumque non pervenit. [In] Contrarium autem huic adfectum summa infelicitas urget: nemo sibi gratus est qui alteri non fuit. Hoc me putas dicere, qui ingratus est miser erit ? non differo illum : statim 22 miser est. Itaque ingrati esse -vitemus non aliena causa sed nostra. Minimum ex nequitia levissimumque ad alios redundat : quod pessimum ex illa est et, ut ita dicam, spississimum, domi remanet et premit habentem, quemadmodum Attalus noster dicere solebat, ‘malitia ipsa maximam partem venerii sui bibit’. Illud venenum quod serpentes in alienam perniciem proferunt, sine sua continent, non est huic simile: hoc 23 habentibus pessimum est. Torquet se ingratus et macerai; odit quae accepit, quia redditurus est, et extenuat, iniurias vero dilatai atque auget. Quid autem eo miserius cui beneficia excidunt, haerent iniuriae? At contra sapientia exornat omne beneficium ac sibi ipsa commendai et se adsidua eius 24 commemoratione delectat. Malis una voluptas est et haec brevis, dum accipiunt beneficia, ex quibus sapienti longum gaudium manet ac perenne. Non enim illum accipere sed accepisse delectat, quod inmortale est et adsiduum. Illa contemnit quibus laesus est, nec obliviscitur per neglegentiam 25 sed volens. Non vertit omnia in peius nec quaerit cui inputet

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come ho detto, esercitando la gratitudine farai più il tuo bene che quello del tuo benefattore. Questi, infatti, ha un vantaggio che capita tutti i giorni: ricevere, cioè, quello che aveva dato. Tu, invece, hai quel bene immen­ so che procede da un’intima felicità: l’essere stato ricono­ scente. Infatti, se è vero che la cattiveria rende l’uomo infelice, e la virtù lo rende felice, e se la riconoscenza è una virtù, tu, nel restituire una cosa comune, ne hai ottenuta una di valore inestimabile: la coscienza della gratitudine, che non può formarsi se non in un animo eccelso e perfetto. La più grande infelicità colpisce, invece, chi ha senti­ menti opposti: chi è stato ingrato col prossimo, non può essere gradito a se stesso. Pensi che io dica: chi è ingrato sarà infelice? Non gli concedo nessuna dilazione: egli è già infelice. Perciò evitiamo l’ingratitudine non per il bene altrui, ma per il nostro. La parte della malvagità che si riversa sugli altri è minima e leggerissima: la parte peggiore e più pesante rimane a tormentare il suo proprietario. Perciò Aitalo soleva dire: «Una cattiva coscienza beve essa stessa la maggior parte del suo veleno». I serpenti emettono il loro veleno per uccidere gli altri animali, ma lo conservano in se stessi senza danno; il veleno della malvagità è mortale per chi lo possiede. L’ingrato è torturato dai suoi malvagi senti­ menti: odia il beneficio perché dovrà ricambiarlo, e cerca di sminuire il valore mentre dilata e ingigantisce le offese ricevute. E chi può essere più miserabile di chi dimentica il bene, mentre conserva un tenace ricordo del male patito? L’uomo saggio, al contrario, abbellisce ogni beneficio, ne esalta dentro di sé i pregi, e si compia­ ce di ricordarlo costantemente. L’unico godimento, e per di più breve, i malvagi lo provano nel ricevere il beneficio; mentre il saggio gode una gioia perenne e costante, che gli deriva non dal ricevere, ma dall’aver ricevuto. Egli trascura le offese e le dimentica non per negligenza, ma di proposito. Non è maligno nel giudicare i fatti, né è sempre alla ricerca della persona su cui addossare la colpa di un evento fortuito, anzi preferisce 571

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casum, et peccata hominum ad fortunam potius refert. Non calumniatur verba nec vultus; quidquid accidit benigne interpretando levat. Non offensae potius quam offici meminit ; quantum potest in priore ac meliore se memoria detinet, nec mutai animum adversus bene meritos nisi multum male facta praecedunt et manifestum etiam coniventi discrimen est; tunc quoque in hoc dumtaxat, ut talis sit post maiorem iniuriam qualis ante beneficium. Nam cum beneficio par est iniuria, aliquid in animo benivolentiaa remanet. Quemadmodum reus sententiis paribus absolvitur et semper quidquid dubium est humanitas inclinat in melius, sic animus sapientis, ubi paria maleficiis merita sunt, desinit quidem debere, sed non desinit velie debere, et hoc facit quod qui post tabulas novas solvunt. Nemo autem esse gratus potest nisi contempsit ista propter quae vulgus insanir: si referre vis gratiam, et in exilium eundum est et effundendus sanguis et suscipienda egestas et ipsa innocentia saepe maculanda indignisque obicienda rumoribus. Non parvo sibi constai homo gratus. Nihil carius aestimamus quam beneficium quamdiu petimus, nihil vilius cum accepimus. Quaeris quid sit quod oblivionem nobis acceptorum faciat? cupiditas accipiendorum; cogitamus non quid inpetratum sed quid petendum sit. Abstrahunt a recto divitiae, honores, potentia et cetera quae opinione nostra cara sunt, pretio suo villa. Nescimus aestimare res, de quibus non cum fama sed cum rerum natura deliberandum est; nihil habent ista magnificum quo mentes in se nostras trahant praeter hoc, quod mirari illa consuevimus. Non enim quia concupiscenda sunt laudantur, sed concupiscuntur quia laudata

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attribuire alla sorte i mali derivanti dalle colpe umane. Non interpreta in senso cattivo né le parole né un’espres­ sione del volto, ma cerca di risolvere ogni incidente con un’interpretazione benigna dei-fatti, e non si ricorda di un’offesa, ma piuttosto di una cortesia ricevuta. Per quanto può, preferisce conservare il ricordo delle miglio­ ri impressioni precedenti, né muta la sua buona opinione verso chi gli ha fatto del bene, a meno che le offese ricevute non siano molto maggiori e non ci sia anche un evidente pericolo a voler chiudere un occhio. E pure in questi casi, cioè quando ha patito un’offesa maggiore, la sua disposizione d’animo sarà quella che aveva prima del beneficio. Quando, poi, il male ricevuto è pari al beneficio, conserverà un sentimento di benevolenza. Come un accusato viene assolto a parità di voti e sempre nei casi dubbi la comprensione umana tende a un giudi­ zio favorevole, così per il saggio, se i benefici e i torti ricevuti si equivalgono, si estingue il debito della gratitu­ dine; ma resta la volontà di mostrarsi grato, ed egli si comporta come coloro che pagano il debito dopo che è stato annullato. Per essere riconoscente il saggio affronta tutte le molestie di cui il volgo ha un pazzo terrore: deve essere disposto ad andare in esilio, a versare il proprio sangue, ad accettare la povertà e spesso a vedersi insozzare il buon nome da calunniose dicerie. La gratitudine impone un prezzo elevato. Noi, invece, diamo un alto valore al beneficio quando lo chiediamo; lo teniamo a vile quando l’abbiamo ricevuto. Vuoi sapere che cosa ci fa dimentica­ re il bene ricevuto? La cupidigia di ricevere: il nostro pensiero si volge non a quanto abbiamo ricevuto, ma a quello che desideriamo ancora chiedere. Le ricchezze, gli onori, la potenza e gli altri beni fallaci, tanto valutati da noi ma in realtà privi di un effettivo valore, ci allontanano dalla giusta via. Non sappiamo dare un esatto giudizio delle cose, che devono essere esaminate non secondo l’opinione volgare ma secondo la loro natura. Esse non hanno alcun pregio che le renda at­ traenti, se non la nostra abitudine a tenerle in gran conto; non vengono lodate perché sono desiderabili, ma si desiderano solo perché sono lodate e, una volta che 573

sunt, et cum singulorum error publicum fecerit, singulorum 30 errorem facit publicus. Sed quemadmodum illa credidimus, sic et hoc eidem populo credamus, nihil esse grato animo honestius ; omnes hoc urbes, omnes etiam ex barbarie regionibus gentes conclamabunt; in hoc bonis malisque conveniet. 31 Erunt qui voluptates laudent, erunt qui labores malint; erunt qui dolorem maximum malum dicant, erunt qui ne malum quidem appellent; divitias aliquis ad summum bonum admittet, alius illas dicet malo vitae humanae repertas, nihil esse eo locupletius cui quod donet fortuna non invenit : in tanta iudiciorum diversitate referendam bene merentibus gratiam omnes tibi uno, quod aiunt, ore adfirmabunt. In hoc tam discors turba consentiet, cum interim iniurias prò beneficiis reddimus, et prima causa est cur quis ingratus sit si satis 32 gratus esse non potuit. Eo perductus est furor ut periculosissima res sit beneficia in aliquem magna conferre; nam quia putat turpe non reddere, non vult esse cui reddat. Tibi habe quod accepisti; non repeto, non exigo: profuisse tutum sit. Nullum est odium perniciosius quam e beneficii violati pudore. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Desii iam de te esse sollicitus. ‘Quem’ inquis ‘deorum sponsorem accepisti?’ Eum scilicet qui neminem fallit, animum recti ac boni amatorem. In tuto pars tui melior est. Potest fortuna tibi iniuriam facere: quod ad rem magis pertinet, non timeo ne tu facias tibi. I qua ire coepisti et in 2 isto te vitae habitu compone placide, non molliter. Male mihi esse malo quam molliter— (‘male’) nunc sic excipe quemadmodum a populo solet dici: dure, aspere, laboriose.

l’errore di uno diventa l’opinione di tutti, ognuno vi si adegua. Ma come abbiamo creduto a questi errori trasmessici dalla voce popolare, così dobbiamo accettare la massima predicata da tutti i popoli, anche dai barbari: non vi è cosa più bella di un animo riconoscente. Su questo punto buoni e cattivi si troveranno d’accordo. C’è chi loda il piacere e chi preferisce la fatica. Troverai chi afferma che il dolore è il maggiore dei mali e chi non lo considera neppure un male. Uno ritiene che la ricchezza sia essenziale per la felicità, un altro dice che è stata inventata per la rovina dell’umanità e che non c’è persona più ricca di colui che non ha ricevuto niente dalla fortuna. In tanta diversità di giudizi, tutti a una voce grideranno che bisogna essere grati verso i benefat­ tori. In questo sarà concorde una folla tanto discorde. Eppure noi rispondiamo ai benefici con le offese, e qualcuno si rende ingrato perché non può essere grato abbastanza. Si è giunti a tale follia, che è estremamente pericoloso fare grandi benefici ad uno: costui, infatti, giudicando cosa vergognosa non ricambiarli, vorrebbe far scomparire il benefattore. Tieni pure quello che hai ricevuto: non te lo richiedo, né esigo nulla. Non voglio correre rischi per aver fatto del bene. La vergogna di essere venuto meno al dovere della riconoscenza provo­ ca un odio veramente mortale. Addio.

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I sillogismi non giovano alle azioni virtuose Ormai non ho più preoccupazioni per te. «Quale dio ti dà questa garanzia?» dirai tu. Quello che non inganna nessuno, cioè un animo che ama la giustizia e il bene. La parte migliore di te è al sicuro. La fortuna può farti ingiuria; non temo che tu faccia ingiuria a te stesso: è questo che conta. Prosegui il cammino iniziato, e formati un’abitudine di vita serena, ma senza mollezze. Anziché vivere mollemente, preferirei vivere male. Devi intende­ re l’espressione «vivere male» nel senso volgare, cioè: vivere in modo duro, aspro, faticoso. Di qualcuno la cui 575

Audire solemus sic quorundam vitam laudari quibus invidetur: ‘molli'ter vivit’; hoc dicunt, ‘mollis est’. Paulatim enim effeminatur animus atque in similitudinem otii sui et pigritiae in qua iacet solvitur. Quid ergo ? viro non vel obrigescere satius est ? * * * -deinde idem delicati timent, [morti] cui vitam suam fecere similem. Multum interest inter 3 otium et conditivum. ‘Quid ergo.?’ inquis ‘non satius est vel sic iacere quam in istis officiorum verticibus volutari?’ Utraque res detestabilis est, et contractio et torpor. Puto, aeque qui in odoribus iacet mortuus est quam qui rapitur unco; otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura. 4 Quid deinde prodest secessisse ? tamquam non trans maria nos sollicitudinum causae persequantur. Quae latebra est in quam non intret metus mortis ? quae tam emunita et in altum subducta vitae quies quam non dolor territet ? quacumque te abdideris, mala humana circumstrepent. Multa extra sunt quae circumeunt nos quo aut fallant aut urgeant, multa 5 intus quae in media solitudine exaestuant. Philosophia circumdanda est, inexpugnabilis murus, quem fortuna multis machinis lacessitum non transit. In insuperabili loco stat animus qui externa deseruit et arce se sua vindicat; infra illum omne telum cadit. Non habet, ut putamus, fortuna longas manus : neminem occupai nisi haerentem sibi. 6 Itaque quantum possumus ab illa resiliamus; quod sola praestabit sui naturaeque cognitio. Sciat quo iturus sit, unde ortus, quod illi bonum, quod malum sit, quid petat, quid evitet, quae sit illa ratio quae adpetenda ac fugienda discernat, qua cupiditatum mansuescit insania, timorum 7 saevitia conpescitur. Haec quidam putant ipsos etiam sine

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vita è invidiata si sente spesso fare questa lode: «Vive mollemente», che equivale a dire: «E un uomo molle». Infatti, a poco a poco, l’animo diventa molle e fiacco per l’influsso della vita pigra e oziosa in cui langue. Non ti sembra che un uomo, degno di questo nome, debba abituarsi alle durezze della vita?... questi effeminati, poi, temono quella morte con la quale la loro vita ha qualche analogia, anche se il loro riposo non è proprio quello del sepolcro. «E che?» dirai. «Non è meglio questa vita di riposo che essere travolti nel vortice delle occupazioni?» Bisogna detestare sia l’attività febbrile che l’inerzia. Per me, quand’uno è morto, sia che giaccia imbalsamato fra essenze odorose, sia che venga trascina­ to via con l’uncino dal boia, è la stessa cosa; e il riposo senza gli studi è la morte, è la sepoltura di un uomo vivente. E poi, a che serve isolarsi? I motivi delle preoc­ cupazioni ci seguono anche attraverso i mari. Non c’è luogo appartato dove non entri il timore della morte. Non c’è vita riposata, così ben munita e collocata in alto dove non giunga la paura del dolore. Dovunque ti nasconderai, ti sentirai circondato dallo strepito dei mali terreni. Molti di essi sono fuori di noi e ci fanno ressa intorno per ingannarci o per opprimerci; ma molti altri li sentiamo in noi, e ci ribollono dentro anche in. mezzo a un deserto. Fortifichiamoci con la filosofia, muro inespugnabile che la fortuna non riesce a sfondare, anche se lo assale con le sue macchine d’assedio. L’animo si è liberato da tutto ciò che è fuori di lui e si difende nella sua rocca. Sta in una posizione inaccessibile: nessuno strale può raggiungerlo. La fortuna non ha le lunghe braccia che gli uomini le attribuiscono: non afferra se non chi si attacca a lei. Perciò, per quanto possiamo, stiamole lontani: solo con la conoscenza di noi stessi e della natura ci porremo al sicuro da lei. L’uomo sappia dove è diretto e donde viene; che cosa è per lui bene e che cosa è male; quello che deve cercare e quello che deve evitare; qual è il criterio per distinguere le cose da desiderare da quelle da fuggire, e come può placare la follia delle passioni e il tormento delle paure. Qualcuno crede di essersi liberato da questi mali anche senza l’aiuto 577

philosophia repressisse; sed cum securos aliquis casus expertus est, exprimitur sera confessio; magna verba excidunt cum tortor poposcit manum, cum mors propius accessit. Possis illi dicere, ‘facile provocabas mala absentia: ecce dolor, quem tolerabilem esse dicebas, ecce mors, quam contra multa animose locutus es; sonant flagella, gladius micat; nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo’.

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Faciet autem illud firmum adsidua meditatio, si non verba exercueris sed animum, si contra mortem te praeparaveris, adversus quam non exhortabitur nec attollet qui cavillationibus tibi persuadere temptaverit mortem malum non esse. Libet enim, Lucili, virorum optime, ridere ineptias Graecas, 9 quas nondum, quamvis mirer, excussi. Zenon noster hac conlectione utitur: ‘nullum malum gloriosum est; mors au­ tem gloriosa est; mors ergo non est malum’. Profecisti! liberatus sum metu; post hoc non dubitabo pofrigere cervicem. Non vis severius loqui nec morituro risum movere? Non mehercules facile tibi dixerim utrum ineptior fuerit qui se hac interrogatione iudicavit mortis metum extinguere, an qui hoc, tamquam ad rem pertineret, conatus est solvere. 10 Nam et ipse interrogationem contrariam opposuit ex eo natam quod mortem inter indifferentia ponimus, quae αδιάφορα Graeci vocant. ‘Nihil’ inquit ‘indifferens gloriosum est; mors autem gloriosum est; ergo mors non est indifferens.’ Haec interrogatio vides ubi obrepat : mors non est gloriosa, sed fortiter mori gloriosum est. Et cum dicis ‘indifferens nihil gloriosum est’, concedo tibi ita ut dicam nihil gloriosum esse nisi circa indifferentia; tamquam indifferentia'esse dico

della filosofia, ma quando lo coglie qualche avversità imprevista, deve confessare, troppo tardi, il suo errore. Le frasi orgogliose perdono ogni efficacia quando il carnefice gli prende le mani e la morte si fa più vicina. E allora potresti dirgli: «Ti era facile sfidare i mali quando erano lontani: ecco il dolore che dicevi di saper tollerare; ecco la morte contro cui hai parlato con tanta fierezza; sibila il flagello, lampeggia la spada: ora ci vuole coraggio, o Enea, ora animo saldo» . Ma questa fermezza d’animo la potrai ottenere solo con una continua meditazione, se il tuo non sarà un vacuo esercizio di parole, se ti preparerai ad affrontare la morte, contro cui non bastano le esortazioni di chi, con cavilli, tenterà di convincerti che essa non è un male. Infatti, carissimo Lucilio, mi fanno ridere certe sciocchezze dei Greci che, con mia meraviglia, non ho ancora dimenticato. Il nostro Zenone adopera questo sillogismo: «Nessun male è apportatore di gloria; ora la morte porta con sé la gloria; dunque, la morte non è un male». Hai raggiunto il tuo scopo; mi hai liberato dalla paura; da questo momento non esiterò più a porgere il collo al carnefice. Non potresti parlare con più serietà, se non vuoi far ridere anche chi sta sull’orlo della tomba? Non mi è facile dirti se è più sciocco chi ha creduto di eliminare con questo sofisma la paura della morte, o chi ha tentato di confutarlo prendendolo sul serio. Lo stesso filosofo gli ha contrapposto un sofisma contrario, dedot­ to dal fatto che noi poniamo la morte fra quelle cose indifferenti che i Greci chiamano αδιάφορα. «Nessuna cosa indifferente» egli dice «porta con sé la gloria; ora, la morte porta la gloria; dunque, la morte non è una cosa indifferente.» Tu vedi la tortuosità di questa argo­ mentazione: non la morte in se stessa è apportatrice di gloria, ma il morire da forte. E quando dici: «Nessuna cosa indifferente porta la gloria», sono d’accordo, ma con la precisazione che per acquistare la gloria bisogna superare le cose indifferenti, cioè quelle che non sono 1 ora... saldo: Virgilio, Eneide, VI, 261. Sono le parole con cui la Sibilla incoraggia Enea ad entrare nell’Averno.

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(id est nec bona nec mala) morbum, dolorem, paupertatem, 11 exilium, mortem. Nihil horum per se gloriosum est, nihil tamen sine his. Laudatur enim non paupertas, sed ille quem paupertas non summittit nec incurvat; laudatur non exilium, sed ille [Rutilius] qui fortiore vultu in exilium iit quam misisset; laudatur non dolor, sed ille quem nihil coegit dolor; nemo mortem laudai, sed eum cuius mors ante abstulit 12 animum quam conturbavit. Omnia ista per se non sunt honesta nec gloriosa, sed quidquid ex illis virtus adiit tractavitque honestum et gloriosum facit : illa in medio posita sunt. Interest utrum malitia illis an virtus manum admoverit ; mors enim illa quae in Catone gloriosa est in Bruto statim turpis est et erubescenda. Hic est enim Brutus qui, cum periturus mortis moras quaereret, ad exonerandum ventrem secessit et evocatus ad mortem iussusque praebere cervicem, ‘praebebo’, inquit ‘ita vivam’. Quae dementia est fugerecum retro ire non possis ! ‘Praebebo’, inquit ‘ita vivam’. Paene adiecit ‘vel sub Antonio’. O hominem dignum qui vitae dederetur! 13 Sed, ut coeperam dicere, vides ipsam mortem nec malum esse nec bonum: Cato illa honestissime usus est, turpissime Brutus. Omnis res quod non habuit decus virtute addita sumit. Cubiculum lucidum dicimus, hoc idem obscurissimum 14 est nocte; dies illi lucem infundit, nox eripit: sic istis quae a nobis indifferentia ac media dicuntur, divitiis, viribus, formae, honoribus, regno, et contra morti, exilio, malae valetudini, doloribus quaeque alia aut minus aut magis per-

né beni né mali, come le malattie, il dolore, la povertà, l’esilio, la morte. Nessuna di queste cose, per se stessa, porta alla gloria; tuttavia non c’è gloria senza di esse. Infatti, non la povertà viene lodatat ma chi dalla povertà non è né soggiogato né piegato. E degno di lode non l’esilio ma quel grande2 che accettò l’esilio con volto più sereno che se fosse stato lui a pronunciare la condanna, e non a subirla. È degno di lode non il dolore, ma chi non si lasciò vincere dal dolore. Non si loda la morte, ma colui a cui la morte prima tolse Γanima che il coraggio. Tutte codeste cose, per se stesse, non sono né virtuose né gloriose, ma è la virtù che rende virtuose e gloriose quelle di esse a cui ci accosta e a cui pone mano. Secondo che queste cose, alla portata di tutti, cadano in mano della malvagità o della virtù, gli effetti sono diversi. Così, mentre è gloriosa la morte di Catone, è senz’altro disonorevole e vergognosa quella di Bruto3. Costui, infatti, sul punto di essere ucciso, si appartò, come se dovesse scaricare il ventre, solo per ritardare la morte. Poi, chiamato dal carnefice, disse: «Potessi vive­ re, come è vero che devo lasciarci la testa!» Che pazzia è tentare di fuggire quando è impossibile tornare indietro! «Potessi vivere» disse e mancò poco che aggiungesse: «Anche sotto la tirannia di Antonio». O uomo degno di essere lasciato in vita! Ma, come avevo cominciato a dire, comprendi bene che la morte in sé non è né male né bene. Catone ne fece una cosa bellissima. Bruto una cosa vergognosa. Ogni cosa che per se stessa non è bella, lo diventa se l’accompagna la virtù. Quella che noi chiamiamo una stanza luminosa sarà completamente buia di notte: il giorno le infonde la luce, la notte gliela toglie. Così a tutte le cose che noi chiamiamo indifferenti e medie, alla ricchezza, alla forza fisica, alla bellezza, agli onori, ai regni, e, viceversa, alla morte, all’esilio, alla malattia, ai dolori e a tutto quello che temiamo in misura maggiore 2 Rutilio Rufo (cfr. Repertorio dei nomi). 3 Decimo Giunio Bruto.

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timuimus, aut malitia aut virtus dat boni vel mali nomen. Massa per se nec calida nec frigida est: in fornacem coniecta concaluit, in aquam demissa refrixit. Mors honesta est per illud quod honestum est, id (est) virtus et animus externa contemnens. 15 Est et horum, Lucili, quae appellamus media grande discrimen. Non enim sic mors indifferens est quomodo utrum capillos pares (an inpares) habeas: mors mter illa est quae mala quidem non sunt, tamen habent mali speciem: sui amor est et permanendi conservandique se insita voluntas atque aspernatio dissolutionis, * * * quia videtur multa nobis bona eripere et nos ex hac cui adsuevimus rerum copia educere. Illa quoque res morti nos alienat, quod haec iam novimus, illa ad quae transituri sumus nescimus qualia sint, et horremus ignota. Naturalis praeterea tenebrarum metus est, 16 in quas adductura mors creditur. Itaque etiam si indifferens mors est, non tamen ea est quae facile neglegi possit : magna exercitatione durandus est animus ut conspectum eius accessumque patiatur. Mors contemni debet magis quam solet; multa enim de illa credidimus; multorum ingeniis certatum est ad augendam eius infamiam; descriptus est career infernus et perpetua nocte oppressa regio, in qua ingens ianitor Qrci ossa super recubans antro semesa cruento aeternum latrans exsangues terreat umbras. Etiam cum persuaseris istas fabulas esse nec quicquam defunctis superesse quod timeant, subit alius metus: aeque enim 17 timent ne apud inferos sint quam ne nusquam. His adversantibus quae nobis offundit longa persuasio, fortiter pati mortem quidni gloriosum sit et inter maxima opera mentis humanae ? Quae numquam ad virtutem exsurget si mortem

0 minore, è la malvagità o la virtù che dà, rispettivamen­ te, il nome di beni o di mali. Il metallo, in sé, non è né caldo né freddo: gettato in una fornace, si riscalda; nell’acqua si raffredda. La morte è onesta per l’interven­ to di ciò che è onesto; cioè, di un animo virtuoso che sa disprezzare i beni esterni a noi. Ma, o Lucilio, anche tra queste cose che chiamiamo medie ci sono grandi differenze. Infatti la morte non è indifferente nella stessa misura in cui è indifferente avere 1 capelli di numero pari o dispari. La morte è fra quelle cose che, pur non essendo mali, ne hanno l’aspetto. È amore di noi stessi, cui è connessa la volontà di vivere a lungo e l’odio verso il dissolvimento... giacché sembra ci tolga molti beni e ci strappi a tante cose a cui ci siamo affezionati. La morte ci ripugna anche perché, mentre sappiamo che cosa c’è nella vita, ignoriamo quello che ci aspetta di là, e abbiamo paura dell’ignoto. Abbiamo inoltre una naturale paura delle tenebre, in cui si crede che la morte ci spinga. Perciò, anche se la morte è una cosa indifferente, non è tuttavia tale che possa facilmen­ te essere disprezzata: occorre rendere saldo l’animo con un lungo esercizio, per poterne sostenere la vista e l’approssimarsi. Occorre disprezzare la morte più di quanto comunemente si fa. Noi abbiamo su di essa molte erronee credenze. Molti uomini d’ingegno hanno fatto a gara per accrescerne la triste fama. E stato descritto il carcere sotterraneo, regione immersa in un’eterna notte, dove «il grande guardiano dell’Orco, sdraiato nell’antro insanguinato sopra le ossa corrose, atterrisce le ombre esangui cogli eterni latrati»4. Ma anche quando avrai dimostrato che codeste sono favole e che i defunti non hanno da temere l’aldilà, subentra un’altra paura: si teme il nulla non meno dei luoghi sotterranei. Con questi spauracchi, che una lunga tradizione ci ha posto dinanzi, affrontare la morte con coraggio non sarà uno fra gli atti più gloriosi che possa concepire la mente dell’uomo? Non giungeremo mai alla vetta di una vita virtuosa, se crederemo che la morte sia un male; vi 4 Virgilio, Eneide, V ili, 296-97; VI, 401.

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malum esse crediderit : exsurget si putabit indifferens esse. Non recipit rerum natura ut aliquis magno animo accedat ad id quod malum iudicat: pigre veniet et cunctanter. Non est autem gloriosum quod ab invito et tergiversante fit; nihil 18 facit virtus quia necesse est. Adic'e nunc quod nihil honeste fit nisi cui totus animus incubuit atque adfuit, cui nulla parte sui repugnavit. Ubi autem ad malum acceditur aut peiorum metu, aut spe bonorum ad quae pervenire tanti sit devorata unius mali patièntia, dissident inter se iudicia facientis : hinc est quod iubeat proposita perficere, illinc quod retrahat et ab re suspecta ac periculosa fugiat; igitur in diversa distrahitur. Si hoc est, perit gloria; virtus enim concordi animo decreta peragit, non timet quod facit. T u ne cede malis, sed contra audentior ito quam tua te fortuna sinet.

19 Non ibis audentior si mala illa esse credideris. Eximendum hoc e pectore est; alioqui haesitabit impetum moratura suspicio; trudetur in id quod invadendum est. Nostri quidem videri volunt Zenonis interrogationem veram esse, fallacem autem alteram et falsam quae illi opponitur. Ego non redigo ista ad legem dialecticam et ad illos artificii veternosissimi nodos: totum genus istuc exturbandum iudico quo circumscribi se qui interrogatur existimat et ad confessionem perductus aliud respondet, aliud putat. Pro ventate simplicius agendum est, contra metum 20 fortius. Haec ipsa quae involvuntur ab illis solvere malim et expandere, ut persuadeam, non ut inponam. In aciem educturus exercitum prò coniugibus ac liberis mortem obiturum quomodo exhortabitur ? Do tibi -Fabios totum rei publicae bellum in unam transferentes domum. Laconas tibi ostendo in ipsis Thermopylarum angustiis positos: nec victoriam

giungeremo se la giudicheremo una cosa indifferente. È inconcepibile che un uomo di grande animo si accinga a cosa che stima un male: l’affronterà fiaccamente e con riluttanza, e nessuna azione compiuta di malavoglia è gloriosa; non c’è virtù, se c’è costrizione. Non c’è azione onesta, se ad essa non prende parte viva tutto l’animo; se esso, in qualche modo, recalcitra. Se poi ci si volge al male, o per timore del peggio o per la speranza di beni per raggiungere i quali valga la pena di tollerare un male, chi deve agire è spinto da opposte considerazio­ ni: da una parte vorrebbe realizzare il proposito, dall’al­ tra tende a ritrarsene come da cosa sospetta e pericolosa. Perciò si sente trascinato in opposte direzioni: e allora, addio gloria! Infatti, la virtù realizza le decisioni senza perplessità: non teme ciò che fa. «Tu non cedere alle avversità, ma affrontale più audace di quanto ti consenta la fortuna5.» Ma non le affronterai con audacia se le giudicherai mali reali. Occorre che ci togliamo dall’ani­ mo questa convinzione, altrimenti il sospetto, che rallen­ ta lo slancio, ci renderà esitanti e realizzeremo di malavo­ glia quelle decisioni che esigevano entusiasmo. Gli stoici vorrebbero che fosse accettato per vero il ragionamento di Zenone e fosse riprovato come falso quello che gli si oppone. Non voglio ridurre la questione a un gioco dialettico vacuo e artificioso: penso che tutta questa roba debba essere spazzata via, se si vuole evitare che l’interlocutore si senta ingannato quando è tratto a conclusioni opposte al suo pensiero. Occorre più sempli­ cità per sostenere la verità, più coraggio per combattere i timori. Vorrei sciogliere i nodi dei loro sofismi per persuadere, non per ingannare. Al momento in cui conduci i tuoi soldati ad affrontare la morte in battaglia per la moglie e per i figli, con quali esortazioni li incoraggerai? Che dirai alla famiglia dei Fabi, che si addossò il peso di una guerra che riguardava tutta la collettività? Gli Spartani, al passo delle Termopili, non sperano né 5 Virgilio, Eneide, VI, 95-96.

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sperant nec reditum; ille locus illis sepulchrum futurus est. 21 Quemadmodum exhortaris ut totius gentis ruinam obiectis corporibus excipiant et vita potius quarti loco cedant ? Dices ‘quod malum est gloriosum non est; mors gloriosa est; mors ergo non malum’ ? O efficacem contionem ! Quis post hanc dubitet se infestis ingerere mucronibus et stans mori ? At ille Leonidas quam fortiter illos adlocutus est ! ‘Sic’, inquit ‘conmilitones, prandete tamquam apud inferos cenaturi.’ Non in ore ctevit cibus, non haesit in faucibus, non elapsus est manibus: alacres et ad prandium illi promiserunt et ad cenam. 22 Quid ? dux ille Romanus, qui ad occupandum locum milites missos, cum per ingentem hostium exercitum ituri essent, sic adlocutus est : ‘ire, conmilitones, ilio necesse est unde redire non est necesse’. Vides quam simplex et imperiosa virtus sit: quem mortalium circumscriptiones vestrae fortiorem facere, quem erectiorem possunt ? frangunt animum, qui numquam minus contrahendus est et in minuta ac spinosa cogendus 23 quam cum (ad) aliquid grande conponitur. Non trecentis, sed omnibus mortalibus mortis timor detrahi debet. Quomodo illos doces malum non esse ? quomodo opiniones totius aevi, quibus protinus infantia inbuitur, evincis ? quod auxilium invenis [quid dicis] inbecillitati humanae ? quid dicis quo infiammati in media pericula inruant ? qua oratione hunc timendi consensum, quibus ingenii viribus obnixam contra te persuasionem humani generis avertis ? verba mihi captiosa componis et interrogatiunculas nectis ? Magnis telis 24 magna portenta feriuntur. Serpentem illam in Africa saevam et Romanis legionibus bello ipso terribiliorem frustra sagittis fundisque petierunt: ne Pythio quidem vulnerabilis erat. Cum ingens magnitudo prò vastitate corporis solida ferrum et quidquid humanae torserant manus reiceret, molaribus

vittoria né ritorno; quel luogo sarà il loro sepolcro. Come li incoraggerai ad opporre i loro petti all’impeto di tutto un popolo, e a morire piuttosto che a ritirarsi? Dirai loro, forse: «Quello che è male non è apportatore di gloria; la morte porta gloria; dunque, la morte non è un male»? Oh, che discorso efficace! Chi, dopo averlo ascoltato, esiterà a gettarsi fra le spade nemiche e a morire sul posto? Ascoltiamo l’eroico linguaggio di Leo­ nida: «Camerati,» disse «ora pranzate, nella certezza che stasera cenerete nell’oltretomba». Eppure mangiarono senza che il cibo facesse loro groppo in bocca, o si arrestasse in gola, o cadesse loro dalle mani. Allegri accettarono sia l’invito a pranzo, sia l’invito a cena. Un generale romano, ai soldati che dovevano occupare una posizione difesa da forze nemiche superiori, così parlò: «Camerati, è necessario andare laggiù, ma non è neces­ sario tornare». Vedi con quanta semplicità e con quanto vigore parla la virtù. Quale uomo potrà essere reso più forte e più deciso dai nostri sofismi? Essi abbattono lo spirito, cui si dovrebbero evitare le angustie di questi spinosi cavilli, specialmente quando si prepara a qualche grande impresa. Non trecento, ma tutti gli uomini devo­ no liberarsi dal timore della morte. Come insegnerai loro che essa non è un male? Come riuscirai ad estirpare le credenze tradizionali, di cui si è imbevuti fin dalla fanciullezza? Quale aiuto troverai contro la debolezza umana? Che dirai perché gli uomini, infiammati dalle tue parole, sappiano affrontare ogni rischio? Con quali discorsi dissolverai questo timore comune a tutti, e con quale forza d’eloquenza vincerai quest’ostinata convin­ zione dell’intera umanità? Formulando forse argomenta­ zioni capziose e piccoli cavilli? Per uccidere grandi mostri occorrono grandi armi. Quel feroce serpente dell’Afri­ ca6, che le legioni romane temevano più della stessa guerra, fu preso invano di mira con frecce e con frombo­ le. Non l’avrebbe ferito neppure l’arco di Apollo. La durezza del suo corpo mostruoso non era scalfita né dal ferro né da qualunque proiettile scagliato da mano 6 Serpente del fiume Bagrada, che atterrì l’armata di Regolo.

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Lettere a Lucilio

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Voi II

demum fracta saxis est. Et adversus mortem tu tam minuta iacularis ? subula leonem excipis ? Acuta sunt ista quae dicis : nihil est acutius arista; quaedam inutilia et inefficacia ipsa subtilitas reddit. Vale.

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SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

Singulos dies tibi meos et quidem totos indicari iubes: bene de me iudicas si nihil esse in illis putas quod abscondam. Sic certe vivendum est tamquam in conspectu vivamus, sic cogitandum tamquam aliquis in pectus intimum introspicere possiti et potest. Quid enim prodest ab homine aliquid esse secretum? nihil deo clusum est; interest animis nostris et cogitationibus medius intervenit— sic ‘intervenit’ dico tam2 quam aliquando discedat. Faciam ergo quod iubes, et quid agam et quo ordine libcntcr tibi scribam. Observabo me protinus et, quod est utilissimum, diem meum recognoscam. Hoc nos pessimos facit, quod nemo vitam suam respicit; quid facturi simus cogitamus, et id raro, quid fecerimus non cogitamus; atqui consilium futuri ex praeterito venit. 3 Hodiernus dies solidus est, nemo ex ilio quicquam mihi eripuit; totus inter stratum lectionemque divisus est; mini­ mum exercitationi corporis datum, et hoc nomine ago gratias senectuti: non magno mihi constai. Cum me movi, lassus sum; hic autem est exercitationis etiam fortissimis 4 finis. Progymnastas meos quaeris ? unus mihi sufficit Pharius, puer, ut scis, amabilis, sed mutabitur : iam aliquem teneriorem quaero. Hic quidem ait nos eandem crisin habere, quia utrique dentes cadunt. Sed iam vix illum adsequor currentem

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d’uomo. Alla fine fu schiacciato sotto pesanti macigni. E tu contro la morte vuoi usare armi così meschine? Vuoi uccidere un leone con una lesina? I tuoi cavilli sono sottili; ma una resta di spiga è ancor più sottile. Proprio per la loro sottigliezza certe armi non sono né pratiche né efficaci. Addio. LETTERA

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La giornata di Seneca. Considerazioni sull’ubriachezza Tu vuoi sapere che cosa faccio in ognuna delle mie giornate, ora per ora. Mi giudichi bene, se pensi che non abbia niente da nascondere. Certo, dovremmo vive­ re come se fossimo sempre in presenza di qualcuno, e pensare come se qualcuno potesse leggere nel nostro animo. E qualcuno lo può. Che giova nascondere qualco­ sa agli uomini? Niente è nascosto a dio. Egli è dentro le anime nostre e interviene nelle nostre intime delibera­ zioni; dico «interviene» come se talvolta potesse allonta­ narsene! Voglio, dunque, contentarti: farò volentieri un’ordinata relazione delle mie attività. Prima rivolgerò l’attenzione su me stesso e, ciò che è utilissimo, farò un esame della mia giornata. Quello che ci rende veramente cattivi è che nessuno esamina la propria vita. Noi pensia­ mo, anche se di rado, a quello che vogliamo fare; eppure è dal passato che ci viene l’ammaestramento per il futuro. Questa, per me, è stata una giornata piena: non mi è stato sottratto neppure un minuto. L’ho divisa intera­ mente fra il letto e la lettura. Solo una minima parte l’ho occupata negli esercizi fisici; e per questo aspetto sono grato alla vecchiaia. Essa non esige molto: appena faccio un passo, mi sento stanco. Così raggiungo imme­ diatamente quello che, anche per i più forti, è lo scopo di questi esercizi. Vuoi sapere chi in questi esercizi mi accompagna? Mi basta uno solo: Fario, schiavetto, come sai, grazioso; ma lo cambierò; ne cerco uno più piccolo. Egli dice che noi stiamo attraversando la stessa crisi d’età, perché a tutti e due cadono i denti. Ma ormai gli 589

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et intra paucissimos dies non poterò: vide quid exercitatio cotidiana profìciat. Cito magnum intervallum fit inter duos in diversum euntes: eodem tempore ille ascendit, ego de­ scendo, nec ignoras quanto ex his velocius alterum fiat. Mentitus sum; iam enim aetas nostra non desceqdit sed cadit. Quomodo tamen hodiernum certamen nobis cesserit quaeris ? quod raro cursoribus evenit, hieran fecimus. Ab hac fatigatione magis quam exercitatione in frigidam descen­ di: hoc apud me vocatur parum calda. Ille tantus psychrolutes, qui kalendis Ianuariis euripum salutabam, qui anno novo quemadmodum legere, scribere, dicere aliquid, sic auspicabar in Virginem desilire, primum ad Tiberim trans­ tuli castra, deinde ad hoc solium quod, cum fortissimus sum et omnia bona fide fiunt, sol temperai: non multum mihi ad balneum superest. Panis deinde siccus et sine mensa prandium, post quod non sunt lavandae manus. Dormio mini­ mum. Consuetudinem meam nosti: brevissimo somno utor et quasi interiungo; satis est mihi vigilare desisse; aliquando dormisse me scio, aliquando suspicor. Ecce circensium obstrepit clamor; subita aliqua et'universa voce feriuntur aures meae, nec cogitationem meam excutiunt, ne interrumpunt quidem. Fremitum patientissime fero; multae voces et in unum confusae prò fluctu mihi sunt aut vento silvam verberante et ceteris sine intellectu sonantibus. Quid ergo est nunc cui animum adiecerim ? dicam. Superest ex hesterno mihi cogitatio quid sibi voluerint prudentis­ simi viri qui rerum maximarum probationes levissimas et perplexas fecerint, quae ut sint verae, tamen mendacio similes sunt. Vult nos ab ebrietate deterrere Zenon, vir maximus, huius sectae fortissimae ac sanctissimae conditor. Audi ergo quemadmodum colligat virum bonum non futurum ebrium: ‘ebrio secretum sermonem nemo committit, viro autem bono committit; ergo vir bonus ebrius non erit’.

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tengo dietro a malapena nella corsa e fra pochissimi giorni non ci riuscirò più: vedi che vantaggio ottengo da questi esercizi giornalieri. Presto fra noi due, che andia­ mo in direzioni opposte, Fintervallo sarà grande: egli sale, mentre io scendo, né ignori come io proceda più veloce di lui. Dirò, più esattamente, che la mia età non discende, ma precipita. Vuoi sapere come si è conclusa la gara di oggi? Come capita di rado, siamo giunti insieme al traguardo. Dopo questo esercizio, per me abbastanza faticoso, mi sono immerso nell’acqua fredda: ora chiamo così l’acqua tiepida. Io, che mi gettavo tanto volentieri nell’acqua gelida e il primo gennaio andavo a dare il saluto ai canali del Circo; che iniziavo l’anno non solo leggendo, scrivendo e conversando con qualcuno, ma anche facendo un bagno nella sorgente detta Vergi­ ne, io prima ho trasferito le tende sulle rive del Tevere, poi in questa vasca. Qui mi bagno, quando mi sento in forze e tutto va bene, dopo aver lasciato intiepidire l’acqua al sole (presto, per me, non sarà più tempo per i bagni). Poi mangio un po’ di pane secco senza imbandi­ re la tavola; perciò non c’è bisogno che mi lavi poi le mani. Dormo pochissimo; conosci ormai le mie abitudi­ ni: ho sonno molto breve e discontinuo. Mi basta rilassar­ mi: talvolta so di aver dormito, talvolta sono in dubbio. Ecco, si sente il frastuono del Circo: all’improvviso le grida della folla mi feriscono le orecchie, ma non mi distraggono, né interrompono le mie meditazioni. Sop­ porto benissimo i rumori: molte voci confuse insieme le scambio col rumore dei flutti o del vento che agita il bosco, o con altri suoni confusi. Eccoti ora un problema che mi sono posto ieri, e che mi resta ancora da risolvere. Mi domando perché mai uomini saggi, su questioni molto importanti, diano dimo­ strazioni superficiali e complicate che, anche quando sono vere, hanno tutta l’apparenza della falsità. Zenone, grande filosofo, fondatore della nostra coraggiosa e be­ nemerita scuola, ci vuol tenere lontani dall’ubriachezza. Ascolta con quali argomentazioni vuol dimostrare che l’uomo virtuoso non sarà mai ubriaco: «Nessuno affida un segreto a un ubriaco; lo affida a un uomo onesto; dunque un uomo onesto non sarà mai ubriaco». Ora, 591

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Quemadmodum opposita interrogatione simili derideatur adtende (satis enim est unam ponere ex multis) : ‘dormienti nemo secretum sermonem committit, viro autem bono committit; vir bonus ergo non dormit’. Quo uno modo potest Posidonius Zenonis nostri causam agit, sed ne sic quidem, ut existimo, agi potest. Ait enim ‘ebrium’ duobus modis dici, altero cum aliquis vino gravis est et inpos sui, altero si solet ebrius fieri et huic obnoxius vitio est; hunc a Zenone dici qui soleat fieri ebrius, non qui sit; huic autem neminem commissurum arcana quae per vinum eloqui possit. Quod est falsum; prima enim illa interrogano conplectitur eum qui est ebrius, non eum qui futurus est. Plurimum enim interesse concedes et inter ebrium et ebriosum : potest et qui ebrius est tunc primum esse nec habere hoc vitium, et qui ebriosus est saepe extra ebrietatem esse; itaque id intellego quod significari verbo isto solet, praesertim cum ab homine diligentiam professo ponatur et verba examinante. Adice nunc quod, si hoc intellexit Zenon et nos intellegere noluit, ambiguitate verbi quaesiit locum fraudi, quod faciendum non est ubi veritas quaeritur. Sed sane hoc senserit : quod sequitur falsum est, ei qui soleat ebrius fieri non committi sermonem secretum. Cogita enim quam multis militibus non semper sobriis et imperator et tribunus et centuno tacenda mandaverint. D e illa C. Caesaris caede, illius dico qui superato Pompeio rem publicam tenuit, tam creditum est Tillio Cimbro quam C. Cassio. Cassius tota vita aquam bibit, Tillius Cimber et nimius erat in vino et scordalus. In hanc rem iocatus est ipse: ‘ego’ inquit ‘quemquam feram, qui vinum ferre non possum?’. Sibi quisque nunc nominet eos quibus scit et vinum male

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sta’ attento a come può essere messo in ridicolo da un sillogismo contrario ma ugualmente falso. Mi basta proporne uno fra molti: «Nessuno affida un segreto a chi dorme, ma lo affida all’uomo onesto; dunque l’uomo onesto non dorme». Posidonio prende le difese di Zeno­ ne nel solo modo possibile ma - a mio avviso - neppure questa sua difesa è valida. Egli dice che la parola «ubria­ co» si può intendere in due sensi: nel senso che uno, nel momento in cui è ripieno di vino, non ha più padronanza di sé; e nel senso che chi ha l’abitudine di ubriacarsi è soggetto a questo vizio. E afferma che Zenone si riferisce non a chi è in stato di ubriachezza, ma a chi è solito ubriacarsi; al quale nessuno affiderebbe i segreti, perché potrebbe svelarli sotto l’azione del vino. L’argomenta­ zione è falsa: la prima parte del sillogismo designa colui che è ubriaco, non chi potrà esserlo in un dato momento. Infatti, mi concederai che c’è molta differenza fra l’ubria­ co e il beone. L’ubriaco può anche esserlo per la prima volta e non averne il vizio; al contrario, il beone spesso non è in stato di ubriachezza. Perciò io prendo il vocabo­ lo «ubriaco» nel suo vero significato, specialmente quan­ do è usato da un filosofo che ha l’abitudine di pesare diligentemente le parole. Aggiungi poi che se Zenone ha inteso una parola ambigua, ha cercato d’ingannare; e questo procedimento è inaccettabile quando si ricerca la verità. Ma ammettiamo pure l’interpretazione di Posi­ donio: è ugualmente falso affermare che non si affida il segreto a chi ha l’abitudine di ubriacarsi. Pensa a quanti soldati, tutt’altro che sobri, i generali, i tribuni, e i centurioni hanno affidato ordini segreti. Il complotto per assassinare Cesare (parlo di quel Cesare che, vinto Pompeo, aveva assunto la dittatura di Roma) fu confida­ to sia a Tullio Cimbro che a Cassio. Cassio era notoria­ mente astemio, ma Tullio Cimbro era un grande beone e, per di più, un attaccabrighe. A questi suoi vizi faceva allusione lui stesso dicendo: «Come potrei sopportare qualcuno, se non sopporto neppure il vino?». E qui ognuno di noi potrebbe fare il nome di persone conosciute a cui, se non è consigliabile affidare il vino, 593

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credi et sermonem bene; unum tamen exemplum quod occurrit mihi referam, ne intercidat. Instruenda est enim vita exemplis inlustribus, nec semper confugiamus ad vetera. L. Piso, urbis custos, ebrius ex quo semel factus est fuit. Maiorem noctis partem in convivio exigebat; usque in horam sextam fere dormiebat: hoc eius erat matutinum. Officium tamen suum, quo tutela urbis continebatur, diligentissime administrayit. Huic et divus Augustus dedit secreta mandata, cum illum praeponeret Thraciae, quam perdomuit, et Tiberius proficiscens in Campaniam, cum multa in urbe et suspecta relinqueret et invisa. Puto, quia bene illi cesserai Pisonis ebrietas, postea Cossum fecit urbis praefectum, virum gravem, moderatum, sed mersum vino et madentem, adeo ut ex senatu aliquando, in quem e convivio venerai, oppressus inexcitabili somno tolleretur. Huic tamen’Tiberius multa sua manu scripsit quae corrrmittenda ne ministris quidem suis iudicabat : nullum Cosso aut privatum secretum aut publicum elapsum est. Itaque declamationes istas de medio removeamus: ‘non est animus in sua potestate ebrietate devinctus: quemadmodum musto dolia ipsa rumpuntur et omne quod in imo iacet in summam partem vis caloris eiectat, sic vino exaestuante quidquid in imo iacet abditum effertur et prodit in medium. Onerati mero quemadmodum non continent cibum vino redundante, ita ne secretum quidem ; quod suum alienumque est pariter effundunt.’ Sed quamvis hoc soleat accidere, ita et illud solet, ut cum iis quos sciamus libentius bibere de rebus necessariis deliberemus; falsum ergo est hoc quod patrocinii loco ponitur, ei qui soleat ebrius fieri non dari tacitum.

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si può ben affidare un segreto. Da parte mia te ne darò un esempio che mi viene in mente e che non vorrei passare sotto silenzio. Infatti dobbiamo dare alla nostra vita il sostegno di esempi ben noti, evitando di ricorrere sempre a quelli antichi. Pisone, prefetto di Roma, dal giorno della nomina a questa carica non cessò di ubria­ carsi. Passava la maggior parte della notte banchettando; dormiva fino a mezzogiorno: allora cominciava la sua mattina. Tuttavia compì con diligenza tutte le funzioni che riguardavano Γamministrazione della capitale. Rice­ vette incarichi di fiducia sia da Augusto, quando gli affidò il governo della Tracia, che egli ridusse all’obbe­ dienza; sia da Tiberio, quando partì per la Campania, lasciando a Roma una situazione sospetta e poco rassicu­ rante. E io penso che Tiberio, proprio perché si era trovato bene con Pisone malgrado la sua ubriachezza, nominò come suo successore nella prefettura di Roma Cosso, uomo serio, di buon senso, ma tanto dedito al vino che una volta, giunto dopo un banchetto in senato, cadde in un sonno così profondo che dovettero portarlo via di peso, senza poterlo risvegliare. Eppure Tiberio gli scrisse di suo pugno molte cose che non riteneva di poter confidare neppure ai suoi ministri. Dei segreti su questioni private o d’ordine pubblico, Cosso non ne lasciò sfuggire nessuno. Perciò facciamo piazza pulita di queste banali decla­ mazioni: «Chi è schiavo dell’ubriachezza non può essere padrone di sé. Come le botti stesse si rompono sotto l’azione del vino nuovo, la cui fermentazione spinge alla superficie la feccia che sta in fondo, così per i vapori del vino tutto ciò che giace nascosto nel fondo della coscienza viene spinto fuori e rivelato agli altri. Chi è ripieno di vino non tiene il cibo a causa del liquido ingoiato, e tanto meno sa tenere dentro di sé i segreti: sia i suoi, sia quelli degli altri vengono alla luce». Per quanto ciò possa accadere, accade anche che noi ci confidiamo su questioni importanti proprio con persone notoriamente dedite al bere. Perciò ha torto chi afferma, per difendere il sillogismo di Zenone, che non si confida un segreto a chi ha l’abitudine di ubriacarsi. 595

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Quanto satius est aperte accusare ebrietatem et vitia eius exponere, quae etiam tolerabilis homo vitaverit, nedum perfectus ac sapiens, cui satis est sitim extinguere, qui,'etiam si quando hortata est hilaritas aliena causa producta longius, tamen citra ebrietatem resistit. Nam de ilio videbimus, an sapientis animus nimio vino turbetur et faciat ebriis solita: interim, si hoc colligere vis, virum bonum non debere ebrium fieri, cur syllogismis agis ? Die quam turpe sit plus sibi ingerere quam capiat et stomachi sui non nosse mensuram, quam multa ebrii faciant quibus sobrii erubescant, nihil aliud esse ebrietatem quam voluntariam insaniam. Extende in plures dies illuni ebrii habitum : numquid de furore dubitabis ? nunc quoque non est minor sed brevior. Refer Alexandi Ma­ cedonie exemplum, qui Clitum carissimum sibi ac fidelissimum inter epulas transfodit et intellecto facinore mori voluit, certe debuit. Omne vitium ebrietas et incendit et detegit, obstantem malis conatibus verecundiam removet; plures enim pudore peccandi quam bona voluntate prohibitis abstinent. Ubi possedit animum nimia vis vini, quidquid mali latebat emergit. Non facit ebrietas vitia sed protrahit: tunc libidinosus ne cubiculum quidem expectat, sed cupiditatibus suis quantum petierunt sine dilatione permittit; tunc inpudicus morbum profitetur ac publicat; tunc petulans non linguam, non manum continet. Crescit insolenti superbia, crudelitas saevo, malignitas livido; omne vitium laxatur et prodit. Adice illam ignorationem sui, dubia et parum expla­ nata verba, incertos oculos, gradum errantem, vertiginem capitis, tecta ipsa mobilia velut aliquo turbine circumagente totam domum, stomachi tormenta cum effervescit merum ac

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Sarebbe più opportuno condannare apertamente la ubriachezza e metterne in rilievo gli aspetti viziosi, che qualunque uomo di buon senso dovrà evitare, e tanto più chi ha raggiunto la vera saggezza. Egli si contenterà di estinguere la sete e, anche se talvolta l’allegria prolun­ gata per altri motivi lo spinge a bere, non giungerà mai ad ubriacarsi. Vedremo in seguito se il troppo vino possa turbare la mente del saggio, spingendolo al comporta­ mento degli ubriachi. Per ora, se vuoi concludere che l’uomo virtuoso non deve ubriacarsi, c’è forse bisogno di ricorrere a un sillogismo? Dimostra piuttosto che è riprovevole ingerire una quantità di vino superiore alla capienza del proprio stomaco, che gli ubriachi si abban­ donano ad azioni di cui si vergogna ogni uomo temperan­ te, e che l’ubriachezza non è altro che una follia volonta­ ria. Prolunga, infatti, per più giorni il comportamento di un ubriaco e non avrai più dubbi che si tratti di una pazzia. La stessa ubriachezza passeggera è sempre una pazzia, anche se dura meno. Ricordiamo l’esempio di Alessandro il Macedone, il quale durante un banchetto uccise Clito, il più Caro e fedele dei suoi amici, e quando si rese conto del delitto compiuto voleva uccidersi, come sarebbe stato suo dovere. L’ubriachezza eccita e porta alla luce i vizi, togliendo quel senso di pudore che costituisce un freno per gli istinti cattivi. Sono più gli uomini che si astengono dalle azioni proibite per vergo­ gna che per una volontà onesta. Quando l’anima è in balia del troppo vino, i malvagi impulsi, prima nascosti, vengono a galla. L’ubriachezza non crea i vizi, ma li tira fuori; allora il lussurioso dà subito libero sfogo alla sua passione, e non aspetta neppure di andare nella stanza da letto; l’impudico manifesta pubblicamente il suo vizio; Γattaccabrighe non frena più la lingua né le mani. Si accresce la superbia dell’insolente, la ferocia dell’uomo crudele, la malignità dell’invidioso: tutte le passioni si manifestano senza ritegno. Aggiungi la coscienza offu­ scata, il linguaggio confuso, gli occhi vaganti, il passo malfermo, le vertigini che provocano la sensazione che tutta la casa giri su se stessa sotto l’azione di un turbine, e il travaglio dello stomaco, mentre l’effervescenza del 597

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viscere ipsa distendit. Tunc tamen utcumque tolerabile est, dum illi vis sua est : quid curri somno vitiatur et quae ebrietas fuit cruditas facta est ? Cogita quas clades ediderit publica ebrietas: haec acerrimasgentes bellicosasque hostibus tradidit, haec multorum annorum pertinaci bello defensa moenia patefecit, haec contumacissimos et iugum recusantes in alienum egit arbitrium, haec invictos acie mero domuit. Alexandrum, cuius modo feci mentionem, tot itinera, tot proelia, tot hiemes per quas vieta temporum locorumque difficultate transierat, tot flumina ex ignoto cadentia, tot maria tutum dimiserunt: intemperantia bibendi et ille Herculaneus ac fatalis scyphus condidit. Quae gloria est capere multum ? cum penes te palma fuerit et propinationes tuas strati somno ac vomitantes recusaverint, cum superstes toti convivio fueris, cum omnes viceris virtute magnifica et nemo vini tam capax fuerit, vinceris a dolio. M. Antonium, magnum virum et ingeni nobilis, quae alia res perdidit et in externos mores ac vitia non Romana traiecit quam ebrietas nec minor-vino Cleopatrae amor? Haec illum res hostem rei publicae, haec hostibus suis inparem reddidit; haec crudelem fecit, cum capita principum civitatis cenanti referrentur, cum inter apparatissimas epulas luxusque regales ora ac manus proscriptorum recognosceret, cum vino gravis sitiret tamen sanguinem. Intolerabile erat quod ebrius fiebat cum haec faceret : quanto intolerabilius quod haec in ipsa ebrietate faciebat! Fere vinolentiam crudelitas sequitur; vitiatur enim exasperaturque sanitas mentis. Quemadmodum (morosos) difficilesque faciunt diutini morbi et ad minimam rabidos offensionem, ita ebrietates continuae efferant animos; nam

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vino opprime le viscere. Tuttavia il vino è in qualche modo tollerabile nei suoi primi effetti. Che diremo quan­ do nel sonno s’inacidisce e l’ubriachezza diventa indige­ stione? Pensa quali funeste conseguenze ha prodotto l’ubriachezza di un popolo: ha reso schiave dei nemici nazioni prima fiere e bellicose; ha permesso l’espugna­ zione di città che da molti anni si difendevano con ostinato coraggio, ha fatto cadere in potere altrui genti tenaci e insofferenti di ogni soggezione; ha prostrato uomini invincibili in battaglia. Quell’Alessandro che ho testé menzionato era uscito indenne da tante marce, da tante battaglie, da tanti inverni superati fra le avversità climatiche dei territori attraversati, da tanti fiumi dalle ignote sorgenti, da tanti mari. Eppure l’intemperanza nel bere e quella fatale tazza di Ercole lo mandarono all’altro mondo. Quanto è meschina la gloria di chi è capace di bere molto! Quand’anche ti fosse toccata la palma e i tuoi commensali, sopraffatti dal sonno e vomitanti, rifiutassero i tuoi inviti a bere; quand’anche tu fossi l’unico superstite del banchetto, dopo aver vinto tutti in questa magnifica prova di resistenza, sarai sempre vinto da una botte. M. Antonio, quel grande uomo di nobile ingegno, per quale altra causa si rovinò, dopo essersi abbandonato a viziosi costumi stranieri, se non per l’ubriachezza e per l’amore di Cleopatra? Per questo divenne nemico dello stato romano e fu vinto dai suoi nemici; per questo si mostrò così crudele quando gli portavano le teste dei principali cittadini e, mentre ban­ chettava con sfarzo regale, si compiaceva di riconoscere il volto e le mani dei proscritti assassinati; quando, ripieno di vino, aveva ancora sete di sangue. Era cosa intollerabile che egli si ubriacasse mentre commetteva queste crudeltà; quanto più intollerabile che le commet­ tesse nella stessa ubriachezza! L’abitudine al vino reca generalmente con sé la crudeltà, poiché intacca la salute dell’animo e lo esaspera. Come le lunghe malattie rendo­ no le persone bisbetiche, intrattabili e molto suscettibili, così chi ha l’abitudine di abusare del vino si mostra spesso iracondo. Infatti, poiché egli è spesso fuori di 599

cum saepe apud se non sint, consuetudo insaniae durat et vitia vino concepta etiam sine ilio valent. Die ergo quare sapiens non debeat ebrius fieri; deformitatem rei et inportunitatem ostende rebus, non verbis. Quod facillimum est, proba istas quae voluptates vocantur, ubi transcenderunt modum, poenas esse. Nam si illud argumentaberis, sapientem multo vino non inebriari et retinere rectum tenorem etiam si temulentus sit, licei colligas nec veneno poto moriturum nec sopore sumpto dormiturum nec elleboro accepto quidquid in visceribus haerebit eiecturum deiecturumque. Sed si temptantur pedes, lingua non constai, quid est quare illum existimes in parte sobrium esse, in parte ebrium ? Vale.

senno, questa sua condizione col tempo diventa cronica e i vizi che si manifestano sotto l’azione del vino conti­ nuano a dominarlo anche dopo. Spiega, dunque, per quali ragioni il saggio non deve ubriacarsi; mostra con i fatti, più che con le parole, quanto questo vizio sia brutto e ripugnante. Dimostra, il che è facilissimo, che i cosiddetti piaceri, quando oltrepassano la giusta misura, diventano penosi. Se, invece, vorrai con cavilli affermare che il saggio non si ubriaca anche se beve molto, e pure quando è avvinazza­ to conserva un contegno corretto, potrai senz’altro con­ cludere che può bere un veleno senza morire, un sonnife­ ro senza addormentarsi e l’elleboro senza rigettare quel­ lo che aveva nello stomaco. Ma se i piedi vacillano e la lingua s’inceppa come fai a dire che egli è in parte sobrio e in parte ubriaco? Addio.

LI BER V N D EC IM V S

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LIBRO UNDICESIMO

SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM LETTERA

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Itinera ista quae segnitiam mihi excutiunt et valetudini meae prodesse iudico et studiis. Quare valetudinem adiuvent vides: cum pigrum me et neglegentem corporis litterarum amor faciat, aliena opera exerceor. Studio quare prosint indicabo : a lectionibus (non) recessi. Sunt autem, ut existimo, necessariae, primum ne sim me uno contentus, deinde ut, cum ab aliis quaesita cognovero, tum et de inventis iudicem et cogitem de inveniendis. Alit lectio ingenium et studio 2 fatigatum, non sine studio tamen, reficit. Nec scribere tantum nec tantum legere debemus: altera res contristabit vires et exhauriet (de stilo dico), altera solvet ac diluet. Invicem hoc et ilio commeandum est et alterum altero temperandum, ut 3 quidquid lectione collectum est stilus redigat in corpus. Apes, ut aiunt, debemus imitari, quae vagantur et flores ad mel faciendum idoneos carpunt, deinde quidquid attulere disponunt ac per favos digerunt et, ut Vergilius noster ait, liquentia mella stipant et dulci distendunt nectare cellas.

N.B. La mancata indicazione da parte dell’editore dei confini iniziali dei libri XII, XIII e XVIII rispecchia una lacuna della tradizione delle Epistulae (cfr. la Nota al testo).

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Nel nostro metodo di studio le api ci possono essere di esempio Le escursioni fatte in questi giorni, scuotendomi dall’i­ nerzia, recano giovamento - io credo - sia alla mia salute che ai miei studi. Ti è chiaro perché ci guadagni la mia salute: poiché la passione per le occupazioni letterarie mi rende pigro e negligente nella cura del corpo, mi esercito fisicamente con l’aiuto altrui. Perché ci guadagni lo studio, te lo dirò subito: non ho sospeso le mie letture. Credo che la lettura mi sia necessaria, anzitutto perché m’impedisce di essere pago delle mie meditazioni, poi perché mi fa conoscere le indagini altrui, permettendomi di valutarne i risultati e di integrarli con l’apporto del mio pensiero. La lettura alimenta l’ingegno e lo ristora, quando è affaticato dallo studio, con un’occupazione meno gravosa. Ma non dobbiamo limitare la nostra attività né esclusivamente allo scrivere né alla sola lettu­ ra. Nel primo caso le forze si esauriscono; nell’altro possono rilassarsi troppo. Dobbiamo, invece, alternare le due occupazioni e integrarle scambievolmente, in modo che le cognizioni acquisite leggendo, messe sulla carta, formino un tutto organico. Imitiamo, come si dice, le api: esse, errando qua e là, suggono i fiori adatti al miele; e tutto quello che portano all’alveare lo dispongo­ no con ordine nei favi e, come dice il nostro Virgilio: «Accumulano il limpido miele e riempiono le cellette 603

4 De illis non satis constat utrum sucum ex floribus ducant qui protinus mel sit, an quae collegerunt in hunc saporem mixtura quadam et proprietate spiritus sui mutent. Quibusdam enim placet non faciendi mellis scientiam esse illis sed colligendi. Aiunt inveniri apud Indos mel in arundinum foliis, quod aut ros illius cadi aut ipsius arundinis umor dulcis et pinguior gignat; in nostris quoque herbis vim eandem sed minus manifestam et notabilem poni, quam persequatur et contrahat animai huic rei genitum. Quidam existimant conditura et-dispositione in hanc qualitatem verti quae ex tenerrimis virentium florentiumque decerpserint, non sine quodam, ut ita dicam, fermento, quo in unum diversa coalescunt. 5 Sed ne ad aliud quam de quo agitur abducar, nos quoque has apes debemus imitari et quaecumque ex diversa lectione congessimus separare (melius enim distincta servantur), deinde adhibita ingenii nostri cura et facultate in unum saporem varia illa libamenta confundere, ut etiam si apparuerit unde sumptum sit, aliud tamen esse quam unde sumptum est appareat. Quod in corpore nostro videmus sine ulla opera 6 nostra facere naturam (alimenta quae accepimus, quamdiu in sua qualitate perdurant et solida innatant stomacho, onera sunt; at cum ex eo quod erant mutata sunt, tunc demum in vires et in sanguinem transeunt), idem in his quibus aluntur ingenia praestemus, ut quaecumque hausimus non patiamur 7 integra esse, ne aliena sint. Concoquamus illa; alioqui in memo'riam ibunt, non in ingenium. Adsentiamur illis fideliter et nostra faciamus, ut unum quiddam fiat ex multis, sicut unus numerus fit ex singulis cum minores summas et dissidentes conputatio una conprendit. Hoc faciat animus noster: omnia quibus est adiutus abscondat, ipsum tantum ostendat

del dolce nettare»1. Non è ben chiaro se esse traggano dai fiori quel succo che è senz’altro miele, o se mescolino a quanto hanno raccolto il loro fiato, dotato di una particolare proprietà che produce il sapore del miele. Secondo alcuni, le api non hanno l’arte di fare il miele, ma di raccoglierlo: dicono che nell’India si trova il miele nelle foglie delle canne, prodotto o dalla rugiada di quel clima o dalla linfa densa e dolce della stessa canna, e che anche nelle nostre erbe si forma, ma in modo meno evidente, la stessa essenza che l’ape, col suo istinto naturale, ricerca e poi condensa. Altri pensano che le api trasformino in miele, dopo averlo acconciamente preparato, quanto suggono dalle erbe e dai fiori più teneri, non senza una specie di lievito, per cui i diversi elementi si fondono in una sola sostanza. Ma, per restare nel nostro tema, anche noi dobbiamo imitare le api: cominciando col distinguere - perché così meglio si conserva - quanto abbiamo raccolto dalle diverse letture; poi, col diligente lavoro dell’ingegno, dobbiamo fondere in un pensiero coerente il frutto delle diverse letture, in modo che, quand’anche non si possano nascondere le fonti a cui abbiamo attinto, tuttavia appaia che i nostri scritti hanno un’impronta personale. Questo stesso procedimento si compie naturalmente nel nostro corpo, come possiamo costatare noi stessi: il cibo che prendiamo, finché rimane qual è, senza essere intaccato dai succhi gastrici, ci è di peso; ma in seguito alla digestione si trasforma in sangue e in energia fisica. Facciamo lo stesso con quel cibo che alimenta il nostro spirito: quando l’abbiamo ingerito, non lasciamolo qual è, affinché non ci resti estraneo. Dobbiamo digerirlo: altrimenti non si trasformerà in energie intellettuali, ma in un peso per la memoria. Prendiamo questo cibo come si conviene, e assimiliamolo in modo che, da elementi disparati, si formi una cosa sola, proprio come numeri molto diversi fra loro si confondono in un’unica somma. Facciamo anche noi così: il contributo di altri autori scompaia, assimilato nel prodotto del nostro ingegno. E 1 Eneide, I, 432-33.

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8 quod effecit. Etiam si cuius in te comparebit similitudo quem admiratio tibi altius fixerit, similem esse te volo quomodo filmiti, non quomodo imaginem: imago res mortua est. ‘Quid ergo ? non intellegetur cuius imiteris orationem ? cuius argumentationem ? cuius sententias?’ Puto aliquando ne intellegi quidem posse, si magni vir ingenii omnibus quae ex quo voluit exemplari traxit formam suam inpressit, ut in unitatem 9 illa conpetant. Non vides quam multorum vocibus chorus constet ? unus tamen ex omnibus redditur. Aliqua illic acuta est, aliqua gravis, aliqua media ; accedunt viris feminae, interponuntur tibiae: singulorum illic latent voces, omnium 10 apparent. D e choro dico quem veteres philosophi noveranti in commissionibus nostris plus cantorum est quam in theatris olim spectatorum fuit. Cum omnes vias ordo canentium implevit et cavea aeneatoribus cincta qst’et ex pulpito omne tibiarum genus organorumque consonuit, fit concentus ex dissonis. Talem animum esse nostrum volo: miiltae in ilio artes, multa praecepta sint, multarum^ aetatum exempla, sed in unum conspirata. 11 ‘Quomodo’ inquis ‘hoc effici poterit ?’ Adsidua intentione: si nihil egerimus nisi ratione suadente, nihil vitaverimus nisi ratione suadente. Hanc si audire volueris, dicet tibi : relinque ista iamdudum ad quae discurritur; relinque divitias, aut periculum possidentium aut onus; relinque corporis atque animi voluptates, molliunt et enervant; relinque ambiium, tumida res est, vana, ventosa, nullum habet terminum, tam sollicita est ne quem ante se videat quam ne secum, laborat invidia et quidem duplici. Vides autem quam miser sit si is 12 cui invidetur et invidet. Intueris àlias potentium domos, illa tumultuosa rixa salutantium limina ? multum habent contumeliarum ut intres, plus cum intraveris. Praeteri istos gradus divitum et magno adgestu suspense vestibula: non in praerupto tantum istic stabis sed in lubrico. Huc potius te ad

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anche se nella tua opera trasparirà l’autore che ammiri e che è impresso profondamente nel tuo animo, vorrei che la somiglianza fosse quella di un figlio, non quella di un ritratto: il ritratto è una cosa morta. «Dunque non si capirà quale stile e quale modo di ragionare hai imitato, o da chi hai attinto le idee?» Penso che non si capirà, se un uomo d’ingegno avrà dato una forma originale al suo scritto, da qualunque modello l’abbia tratto, in modo da formare un tutto armonico. Non vedi da quante voci risulta un coro? Eppure tutte insieme formano un canto solo. C’è una voce acuta, una grave, una di tono medio; alle voci maschili si aggiungono quelle femminili; vi sono frammischiati dei flauti: le voci dei singoli scompaiono, fuse nel canto corale. Parlo del coro noto agli antichi filosofi. Presentemente, nelle gare musicali, il numero dei cantori è maggiore di quello che era un tempo il numero degli spettatori nei teatri: quan­ do la folla dei coristi riempie tutte le scalee e la cavea è circondata dai trombettieri e dalla scena risuonano insie­ me flauti e strumenti di ogni genere, da suoni differenti si forma un concento armonico. Così vorrei che fosse il nostro animo: pieno di molte cognizioni, di molti precet­ ti, di esempi tratti dalle varie epoche passate, ma tutti tendenti a formare un insieme unitario. «Come» mi chiederai «si potrà ottenere ciò?» Con un impegno costante; se nulla faremo, e nulla schiveremo, senza aver prima consultato la ragione. Se tu vorrai prestarle ascolto, essa ti dirà: lascia ormai questi beni fallaci che tutti rincorrono; lascia tutti questi piaceri che ti snervano e ti fiaccano; cessa di perseguire le mete vane, gonfie di vento, irraggiungibili dell’ambizioso; egli è sempre tormentato dal pensiero che qualcuno lo sopra­ vanzi o gli stia alla pari. Egli è infelice perché soffre di duplice invidia: è invidiato e invidia nel tempo stesso. Vedi quelle case signorili, quelle soglie tumultuanti per la ressa dei clienti? Si bisticciano per entrare; si bisticcia­ no ancor più dopo che sono entrati. Passa oltre le gradinate di questi ricchi e i vestiboli che poggiano su un alto terrapieno; si trovano in posizioni pericolose, da cui si può cadere o scivolare. Volgiti piuttosto alla 607

sapientiam derige, tranquillissimasque res eius et simul 13 amplissimas pete. Quaecumque videntur eminere in rebus humanis, quamvis pusilla sint et comparatione humillimorum exstent, per difficiles tamen et arduos tramites adeuntur. Confragosa in fastigium dignitatis via est; at si conscendere hunc vcrticem libet, cui se fortuna summisit, omnia quidem sub te quae prò excelsissimis habentur aspicies, sed tamen venies ad summa per planum. Vale.

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SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

Peperceram tibi et quidquid nodosi adhuc supererai praeterieram, contentus quasi gustum tibi dare eorum quae a nostris dicuntur ut probetur virtus ad explendam beatam vitam sola satis efficax. Iubes me quidquid est interrogationum aut nostrarum aut ad traductionem nostram excogitatarum conprendere: quod si facere voluero, non erit epistula sed liber. Illud totiens testor, hoc me argumentorum genere non delectari; pudet in aciem descendere prò dis hominibusque susceptam subula armatum. 2 ‘Qui prudens est et temperane est; qui temperane est, et constane; qui constane est inperturbatus est; qui inperturbatus est sine tristitia est; qui sine tristitia est beatus est; ergo prudens beatus est, et prudentia'ad beatam vitam satis est.’ 3 Huic collectioni hoc modo Peripatetici quidam respondent, ut inperturbatum et constantem et sine tristitia sic interpretentur tamquam inperturbatus dicatur qui raro perturbatur et modice, non qui numquam. Item sine tristitia eum dici aiunt qui non est obnoxius tristitiae nec frequens nimiusve in hoc vitio; illud enim humanam naturam negare, alicuius animum inmunem esse tristitia; sapientem non vinci maerore, ceterum tangi; et cetera in hunc modum sectae suae respon-

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saggezza, a queste sedi sommamente ampie e tranquille. Tutto ciò che sembra spiccare, nell’ordine delle cose umane, sta in basso e si eleva solo in confronto alle cose più basse; pure non si raggiunge che seguendo aspri e faticosi sentieri: la via che conduce ai fastigi della dignità è scoscesa. Ma se invece vuoi toccare quella vetta davanti alla quale si umilia la fortuna, vedrai sotto i tuoi piedi tutto ciò che c’è di più alto nella stima del mondo: eppure arriverai a quest’altezza per una via piana. Ad­ dio. lettera

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La sola virtù basta a rendere felice la vita Per un riguardo verso di te avevo omesso quanto ancora resta di complicato, contento solo di darti un saggio delle asserzioni stoiche, per dimostrare che la sola virtù basta a rendere felice la vita. Ora tu desideri che io ti faccia una raccolta completa delle argomentazioni nostre e di quelle che altri hanno escogitato per metterci in ridicolo; in tal caso la mia non sarebbe più una lettera, ma un libro. Ti ho più volte detto francamente che non mi piace questo modo di ragionare: mi vergogno di scendere in campo, per trattare di questioni così vitali, armato solo di una lesina. «Chi è prudente è anche temperante; chi è temperante è anche coerente; chi è coerente è imperturbabile; chi è imperturbabile è esente da tristezza; chi è esente da tristezza è felice; dunque, chi è prudente è felice e la prudenza basta per raggiungere la felicità.» A questa conclusione alcuni peripatetici rispondono che ritengono imperturbabile chi si turba raramente, non chi non si turba mai. Similmente sostengono che esente da tristezza è colui che non è soggetto alla tristez­ za, cioè non ne soffre spesso, né vi si abbandona troppo; perché la natura umana non ammette un animo comple­ tamente immune da tristezza: essa, anche se non abbatte il saggio, pure lo sfiora. Le altre loro osservazioni corri­ spondono ugualmente ai principi della loro scuola. Non 609

4 dentia. Non his tollunt adfectus sed temperant. Quantulum autem sapienti damus, si inbecillissimis fortior est et maestissimis laetior et effrenatissimis moderatior et humillimis maior! Quid si miretur velocitatem suam Ladas ad claudos debilesque respiciens ? Illa vel intactae segetis per summa volaret gramina nec cursu teneras laesisset aristas, vel mare per medium fluctu suspensa tumenti ferret iter, celeres nec tingueret aequore plantas.

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Haec est pernicitas per se aestimata, non quae tardissimorum conlatione laudatur. Quid si sanum voces leviter febricitantem ? non est bona valetudo mediocritas morbi. ‘Sic’ inquit ‘sapiens inperturbatus dicitur quomodo apyrina dicuntur non quibus nulla inest duritia granorum sed quibus minor.’ Falsum est. Non enim deminutionem malorum in bono viro intellego sed vacationem; nulla debent esse, non parva; nam si ulla sunt, crescent et interim inpedient. Quomodo oculos maior et perfecta suffusio excaecat, sic modica turbat. Si das aliquos adfectus sapienti, inpar illis erit ratio et velut torrente quodam auferetur, praesertim cum illi non unum adfectum des cum quo conluctetur sed omnis. Plus potest quamvis mediocrium turba quam posset unius magni violentia. Habet pecuniae cupiditatem, sed modicam; habet ambitionem, sed non concitatam; habet iracundiam, sed placabilem; habet inconstantiam, sed minus vagam ac mobilem ; habet libidinem, sed non insanam. Melius cum ilio ageretur qui unum vitium integrum haberet quam cum eo qui leviora quidem, sed omnia. Deinde nihil interest quam magnus sit adfectus: quantuscumque est, parere nescit, consilium non accipit. Quemadmodum rationi nullum animai optemperat, non ferum, non domesticum et mite (natura enim illorum est

dicono che il saggio è privo di passioni, ma che le smorza. E allora quale preferenza gli concediamo, se per noi è più forte solo nei confronti degli uomini più deboli; più allegro solo dei più melanconici; più moderato dei più dissoluti e più dignitoso dei più miserabili! Che diresti se Lada si vantasse della sua velocità solo nei confronti di gente zoppa? «Ella poteva, correndo, sfiorare le cime delle messi non falciate e lasciare intatte le tenere spighe; e poteva avanzare leggera sui gonfi flutti del profondo mare, senza bagnarsi i piedi veloci1.» Ecco la velocità che può essere ammirata per se stessa, e non solo in confronto a chi è più lento. Diresti forse che sta bene chi ha una leggera febbre? Una malattia, anche non grave, non è buona salute. «Il saggio» essi aggiungono «è detto imperturbabile, come sono detti senza nocciolo alcuni frutti non perché manchino totalmente di un duro seme, ma perché lo hanno più piccolo.» L’errore è evidente. Nell’uomo virtuoso - a mio avviso —ci dev’es­ sere l’assenza, non la diminuzione dei difetti: non basta che siano piccoli; bisogna che non ce ne siano; se ci sono, cresceranno, e prima o poi saranno d’impaccio. Una cataratta ormai avanzata toglie la vista; quando è al suo inizio, la diminuisce. Se ammettiamo che il saggio sia soggetto alle passioni, la ragione non potrà dominarle e sarà trascinata come da un torrente, specialmente se gli attribuiamo non una sola passione contro cui lottare, ma tutte. Molte passioni, per quanto mediocri, hanno più gravi effetti di una sola, anche se violenta. Prendiamo uno che sia avaro, ma non troppo; ambizioso, ma senza eccessi; iracondo, ma facilmente placabile; incostante, ma non capriccioso; lussurioso, ma senza frenesie. Ci si troverebbe meglio con uno che avesse un solo vizio completo piuttosto che con costui che ha tutti i vizi, anche se leggeri. D’altra parte, non ha importanza se la passione è più o meno forte: per debole che sia, non obbedisce né accetta consigli. Gli animali, siano essi selvaggi o domestici, non obbediscono alla ragione. La 1 Virgilio, Eneide, VII, 808 segg. Il brano si riferisce a Camilla, guerriera dei Volsci.

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surda suadenti), sic non sequuntur, non audiunt adfectus, quantulicumque sunt. Tigres leonesque numquam feritatem exuunt, aliquando summittunt, et cum minime expectaveris exasperatur torvitas mitigata. Numquam bona fide vitia mansuescunt. Deinde, si ratio proficit, ne incipient quidem adfectus; si invita ratione coeperint, invita perseverabunt. Facilius est enim initia illorum prohibere quam impetum regere. Falsa est itaque ista mediocritas et inutilis, eodem loco habenda quo si quis diceret modice insaniendum, modice aegrotandum. Sola virtus habet, non recipiunt animi mala temperamentum ; facilius sustuleris illa quam rexeris. Numquid dubium est quin vitia mentis humanae inveterata et dura, quae morbos vocamus, inmoderata sint, ut avaritia, ut crudelitas, ut inpotentia [impietas] ? Ergo inmoderati sunt et adfectus; ab his enim ad illa transitur. Deinde, si das aliquid iuris tristitiae, timori, cupiditati, ceteris motibus pravis, non erunt in nostra potestate. Quare ? quia extra nos sunt quibus inritantur; itaque crescent prout magnas habuerint minoresve causas quibus concitentur. Maior erit timor, si plus quo exterreatur aut propius aspexerit, acrior cupiditas quo illam amplioris rei spes evocaverit. Si in nostra potestate non est an sint adfectus, ne illud quidem est, quanti sint : si ipsis permisisti incipere, cum causis suis crescent tantique erunt quanti fient. Adice nunc quod ista, quamvis exigua sint, in maius excedunt; numquam perniciosa servant modum; quamvis levia initia morborum serpunt et aegra corpora minima interdum mergit accessio. Illud vero cuius dementiae est, credere quarum rerum extra nostrum arbitrium posita principia sunt, earum nostri esse arbitri terminos! Quomodo ad id finiendum satis valeo ad quod

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loro natura è sorda alla sua voce. Così le passioni, anche le più benigne, non seguono né ascoltano la ragione. Le tigri e i leoni non perdono mai la loro ferocia; talvolta si mostrano quieti, ma, quando meno te lo aspetti, il loro istinto, che sembrava sopito, ha terribili risvegli. Così le passioni degli uomini possono essere ammansite solo in apparenza: se riescono a nascere a dispetto della ragione, a dispetto di essa si svilupperanno, poiché è più facile estirparle sul nascere che dominarne poi l’impeto. Perciò è un errore parlare di vizi moderati, così come è inconcepibile parlare di malattia o di pazzia parziale. Solo la virtù ha il senso della misura, non già i vizi: è più facile sradicarli che tenerli a freno. È indubbio che i vizi inveterati e incalliti, che noi chiamiamo malattie dello spirito, come l’avarizia, la crudeltà, la violenza, non sentano più freno. Dunque, anche le passioni che scaturiscono da tali vizi sono indomabili. Inoltre, se cediamo, in qualche modo, alla malinconia, alla paura, alla cupidigia e a tutte le altre cattive inclinazioni, non le potremo più dominare. Perché? Perché gli eccitamenti sfuggono al nostro controllo; perciò le passioni si svilup­ peranno secondo il maggiore o minore impulso di tali eccitamenti. La paura aumenterà, se più a lungo e più da vicino si guarderà l’oggetto che la suscita; la cupidigia diventerà più pungente, quanto più bello sarà l’oggetto che la eccita. Se non siamo capaci d’impedire alle passio­ ni di nascere, non saremo neppure capaci di moderarle: una volta che abbiamo permesso loro di nascere, cresce­ ranno con le cause che le produssero e acquisteranno quella forza che riceveranno dalle cause stesse. Aggiungi che le passioni, per quanto siano deboli, tendono sempre a crescere: le cose che portano rovina non conoscono la moderazione. Per quanto leggeri all’inizio, i morbi serpeggiano nell’organismo, e talora basta un nonnulla perché il corpo malato soccomba. E poi non è una gran follia credere che dipenda dalla nostra volontà porre fine a quelle cose di cui non abbiamo avuto la forza d’impedire l’inizio? Come potrei avere tanto vigore per farla finita con ciò che non sono stato capace d’impedire, 613

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prohibendum parum valui, cum facilius sit excludere quam admissa conprimere? Quidam ita distinxerunt ut dicerent, ‘temperans ac prudens positione quidem mentis et habitu tranquillus est, eventu non est. Nam, quantum ad habitum mentis suae, non perturbatur nec contristatur nec timet, sed multae extrinsecus causae incidunt quae illi perturbationem adferant.’ Tale est quod volunt dicere: iracundum quidem illum non esse, irasci tamen aliquando; et timidum quidem non esse, timere tamen aliquando, id est vitio timoris carere, adfectu non carere. Quod si recipitur, usu frequenti timor transibit in vitium, et ira in animum admissa habitum illum ira carentis animi retexet. Praeterea si non contemnit venientes extrinsecus causas et aliquid timet, cum fortiter eundum erit adversus tela, ignes, prò patria, legibus, liberiate, cunctanter exibit et animo recedente. Non cadit autem in sapientem haec diversitas mentis. Illud praeterea iudico observandum, ne duo quae separatim probanda sunt misceamus; per se enim colligitur unum bonum esse quod honestum, per se rursus ad vitam beatam satis esse virtutem. Si unum bonum est quod honestum, omnes concedunt ad beate vivendum sufficere virtutem; e contrario non remittetur, si beatum sola virtus facit, unum bonum esse quod honestum est. Xenocrates et Speusippus putant beatum vel sola virtute fieri posse, non tamen unum bonum esse quod honestum est. Epicurus quoque iudicat, cum virtutem habeat, beatum esse, sed ipsam virtutem non satis esse ad beatam vitam, quia beatum efficiat voluptas quae ex virtute est, non ipsa vir­ tus. Inepta distinctio: idem enim riegat umquam virtutem esse sine voluptate. Ita si ei iuncta semper est atque inseparabilis, et sola satis est; habet enim secum voluptatem, sine qua non est etiam cum sola est. Illud autem absurdum est, quod dicitur beatum quidem futurum vel sola virtute, non futurum autem perfecte beatum; quod quemadmodum fieri possit non reperio. Beata enim vita bonum in se per-

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quando si sa che è più facile non fare entrare un nemico che tenerlo a freno una volta che è dentro? Alcuni hanno fatto questa distinzione: «L’uomo tem­ perante e saggio è tranquillo per abito mentale, ma può non esserlo per eventi imprevisti: non ha l’abitudine di turbarsi, né di rattristarsi né di aver paura, ma possono capitargli dall’esterno molte cause di turbamento».. E con ciò intendono dire che il saggio non è iracondo, ma talvolta può adirarsi; non è timido, ma in qualche caso può aver paura; cioè la paura in lui non è un vizio, ma un sentimento occasionale. Ma questo senso di paura, ripetendosi spesso, potrà trasformarsi in vizio; e così pure l’ira, una volta penetrata nell’animo, potrà modifi­ care il precedente stato di serenità. Inoltre, se uno non disprezza le cause esterne e ha paura di qualcosa, quando occorrerà difendere la patria, le leggi, la libertà non saprà affrontare con coraggio i dardi o il fuoco, ma sarà restio e titubante. A questi diversi stati d’animo il saggio non è soggetto. Oltre a ciò, penso che bisogna stare attenti a non mettere insieme due cose che devono essere esaminate separatamente: si conclude con un ragionamento che l’unico bene è quello che è onesto, e con un altro che per essere felici basta la virtù. Se l’unico bene è quello che è onesto, tutti ammettono che per vivere felici basta la virtù. Viceversa, se la sola virtù rende l’uomo felice, non si ammette che l’unico bene sia quello che è onesto. Senocrate e Speusippo ritengono che si può essere felici anche grazie alla sola virtù, e che tuttavia l’onestà non è l’unico bene. Anche per Epicuro l’uomo, quando possiede la virtù, è felice; ma per lui la virtù per se stessa non basta a rendere felici; perché a dare la felicità è il piacere, che deriva dalla virtù, ma non è la virtù stessa. La distinzione è inutile, poiché lo stesso Epicuro aggiunge che non ci può essere virtù senza piacere. E così, se le due cose sono sempre unite e inseparabili, anche la sola virtù basta alla felicità, poiché, anche quando è sola, ha con sé il piacere, senza il quale non esisterebbe. È poi assurdo affermare che l’uomo sarà felice con la sola virtù, ma non perfettamen­ te felice: non capisco come questo possa avvenire. Infatti 615

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fectum habet, inexsuperabile; quod si est, perfecte beata est. Si deorum vita nihil habet maius aut melius, beata autem vita divina est, nihil habet in quod amplius possit attolli. Praeterea, si beata vita nullius est indigens, omnis beata vita perfecta est eademque est et beata et beatissima. Numquid dubitas quin beata vita summum bonum sit ? ergo si summum bonum habet, summe beata est. Quemadmodum sum­ mum bonum adiectionem non recipit (quid enim supra summum erit ?), ita ne beata quidem vita, quae sine summo bono non est. Quod si aliquem ‘magis’ beatum induxeris, induces et ‘multo magis’; innumerabilia discrimina summi boni facies, cum summum bonum intellegam quod supra se gradum non habet. Si est aliquis minus beatus quam alius, sequitur ut hic alterius vitam beatioris magis concupiscat quam suam; beatus autem nihil suae praefert. Utrumlibet ex his incredibile est, aut aliquid beato restare quod esse quam quod est malit, aut id illum non malie quod ilio melius est. Utique enim quo prudentior est, hoc magis se ad id quod est optimum extendet et id omni modo consequi cupiet. Quomodo autem beatus est qui cupere etiamnunc potest, immo qui debet ? Dicam quid sit ex quo veniat hic error: nesciunt beatam vitam unam esse. In optimo illam statu ponit qualitas sua, non magnitudo; itaque in aequo est longa et brevis, diffusa et angustior, in multa loca multasque partes distributa et in unum coacta. Qui illam numero aestimat et mensura et partibus, id illi quod habet eximium eripit. Quid autem est in beata vita eximium ? quod piena est. Finis, ut puto, edendi bibendique satietas est. Hic plus edit, ille minus: quid refert ? uterque iam satur est. Hic plus bibit, ille minus: quid refert ? uterque non sitit. Hic pluribus annis vixit, hic paucioribus : nihil interest si tam illum multi anni beatum fecerunt quam

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chi è felice possiede un bene in sé perfetto e insuperabile; e se è così, anche la felicità sarà perfetta. Se è vero che non c’è nulla di più grande né di meglio che la vita degli dèi e se la vita felice s’identifica con quella degli dèi, essa non può accrescersi oltre. Inoltre, se la felicità non ha bisogno di niente, essa è sempre perfetta ed è, al tempo stesso, anche felicità somma. È indubbio che la felicità sia il sommo bene. Dunque, se contiene in sé il sommo bene, è anche somma felicità. Come il sommo bene non ammette incrementi - infatti, che vi può essere al di sopra del sommo? —, così non li ammette neppure la felicità, che s’identifica col sommo bene. Ché, se immagini uno «più» felice, dovrai immaginare anche uno «molto più» felice: farai innumerevoli distinzioni del sommo bene, mentre io considero sommo bene quello che non ha altri gradi sopra di sé. Se uno è meno felice di un altro, ne segue che il primo preferisce alla sua la vita dell’altro più felice; ma chi è felice niente preferisce alla sua vita. Ciascuno di questi due casi è assurdo: che cioè per l’uomo felice ci sia una condizione che egli possa preferire alla sua; o che egli non preferisca quella condizione che è migliore della sua. Infatti, quan­ to più uno è saggio, tanto più tenderà a ciò che c’è di meglio, e bramerà di conseguirlo ad ogni costo. Come può essere felice chi può, anzi deve, avere ancora dei desideri? Ti dirò donde derivi questo errore: si ignora che non c’è che un tipo di vita felice; ed è la sua qualità, non la sua grandezza che la pone nella migliore condizione possibile. Così la vita potrà essere ugualmente lunga o corta, passata nella serenità o nelle angustie, in molti luoghi o in un sol posto. Chi giudica in base a calcoli numerici o in relazione alle dimensioni, sottrae alla vita ciò che ha di meglio. Che cos’è veramente grande in una vita felice? La sua pienezza. Si mangia e si beve - io credo - per essere sazi: questi mangia di più; quello mangia di meno; che importa? sono sazi entrambi. Ugualmente non importa se uno beve più di un altro, quando entrambi riescono a dissetarsi. Uno ebbe una vita più lunga, un altro più breve: che importa, se la breve esistenza del secondo gli ha dato tanta felicità 617

hunc pauci. Ille quem tu minus beatum vocas non est beatus: non potest hoc nomen inminui. 24 ‘Qui fortis est sine timore est; qui sine timore est sine tristitia est; qui sine tristitia est beatus est.’ Nostrorum haec interrogatio est. Adversus hanc sic respondere conantur: falsam nos rem et controversiosam prò con­ fessa vindicare, eum qui fortis est sine timore esse. ‘Quid ergo?’ inquit ‘fortis inminentia mala non timebit ? istuc dementis alienatique, non fortis est. Ille vero’ inquit ‘mode25 ratissime timet, sed in totum extra metum non est.’ Qui hoc dicunt riirsus in idem revolvuntur, ut illis virtutum loco sint minora vitia; nam qui timet quidem, sed rarius èt minus, non caret malitia, sed leviore vexatur. ‘At enim dementem puto qui mala inminentia non extimescit.’ Verum est quod dicis, si mala sunt; sed si scit mala illa non esse et unam tantum turpitudinem malum iudicat, debebit secure pericula aspicere et aliis timenda contemnere. Aut si stulti et amentis est mala 26 non timere, quo quis prudentior est, hoc timebit magis. ‘U t vobis’ inquit ‘videtur, praebebit se periculis fortis.’ Minime : non timebit illa sed vitabit; cautio illum decet, timor non decet. ‘Quid ergo?’ inquit ‘mortem, vincula, ignes, alia tela fortunae non timebit ?’ Non; scit enim illa non esse mala sed 27 videri; omnia ista humanae vitae formidines putat. Describe captivitatem, verbera, catenas, egestatem et membrorum lacerationes vel per morbum vel per iniuriam et quidquid aliud adtuleris : inter lymphatos metus numerai. Ista timidis timenda sunt. An id existimas malum ad quod aliquando 28 nobis nostra sponte veniendum est ? Quaeris quid sit malum ? cedere iis quae mala vocantur et illis libertatem suam dedere, prò qua cuncta patienda sunt: perit libertas nisi illa con-

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quanta molti anni ne hanno data al primo? Quello che tu chiami meno felice non è affatto felice: questa parola non ammette diminuzioni. «Chi è coraggioso non teme; chi non teme non è triste; chi non è triste è felice.» Questo sillogismo è degli stoici. Si tenta di rispondere che noi accettiamo come dimostrata una proposizione che è falsa, o almeno controversa: che, cioè, l’uomo forte non teme. «Dunque» si dirà «l’uomo coraggioso non temerà i mali che lo minacciano? Ma ciò è proprio di un pazzo, non di un uomo coraggioso. Egli, invece, sa moderare la sua paura, ma non è del tutto immune da essa.» Quelli che così ragionano ricadono nel medesimo errore di giudicare come virtù i vizi minori: infatti, chi ha paura, anche se raramente e poco, non è esente dal vizio, ma ne è afflitto in modo più lieve. «Ma per me è pazzo chi non teme i mali che incombono su di lui.» Avresti ragione se si trattasse di mali reali. Ma se egli sa che quelli non sono mali e giudica male solo la disonestà, dovrà guardare tranquillo i pericoli e ridersi dalla paura altrui. Oppure, se è proprio dello stolto e del pazzo non temere i mali, quanto più uno è saggio, tanto più li temerà. «A vostro avviso, il forte deve esporsi ai pericoli.» No; egli non li teme, ma cerca di evitarli; gli si addice la precauzione, non il timore. «Dunque, non temerà la morte, il carcere, il rogo e gli altri strali della fortuna?» No, perché sa che non sono mali, ma ne hanno solo l’apparenza; egli tutte queste cose le considera spauracchi della vita umana. Descrivi pure al saggio tutti gli orrori della prigionia, della flagel­ lazione, della miseria, del carcere, di membra distorte o per malattia o per violenza, o di quanto altro vorrai aggiungere; li metterà nel numero dei timori immaginari, che devono far paura solo ai pavidi. Giudicherai forse un male quello a cui talora abbiamo il dovere di andare incontro spontaneamente? Vuoi sapere che cosa sia male? Lasciarsi abbattere da questi che sono detti mali e mettere nelle loro mani la propria libertà, per la quale tutto si deve essere disposti a soffrire. La libertà si perde se non siamo capaci di disprezzare quelle cose che ci 619

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Lettere a Lucilio · Voi. II

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temnimus quae nobis iugum inponunt. Non dubitarent quid conveniret forti viro si scirent quid esset fortitudo. Non est enim inconsulta temeritas nec periculorum amor nec formidabilium adpetitio : scientia est distinguendi quid sit malum et quid non sit. Diligentissima in tutela sui fortitudo est et eadem patientissima eorum quibus falsa species malorum est. ‘Quid ergo? si ferrum intentatur cervicibus viri fortis, si pars subinde alia atque alia suffoditur, si viscera sua in sinu suo vidit, si ex intervallo, quo magis tormenta sentiat, repetitur et per adsiccata vulnera recens demittitur sanguis, non timet? istum tu dices nec dolere?’ Iste vero dolet (sensum enim hominis nulla exuit virtus), sed non timet: invictus ex alto dolores suos spectat. Quaeris quis tunc ani­ mus illi sit ? qui aegrum amicum adhortantibus. ‘Quod malum est nocet; quod nocet deteriorem facit; dolor et paupertas deteriorem non faciunt; ergo mala non sunt.’ ‘Falsum est’ inquit ‘quod proponitis; non enim, si quid nocet, etiam deteriorem facit. Tempestas et procella nocet gubernatori, non tamen illum deteriorem facit.’ Quidam e Stoicis ita adversus hoc respondent: deteriorem fieri gubernatorem tempestate ac procella, quia non possit id quod proposuit efficere nec tenere cursum suum ; deteriorem illum in arte sua non fieri, in opere fieri. Quibus Peripateticus ‘ergo’ inquit ‘et sapientem deteriorem faciet paupertas, dolor, et quidquid aliud tale fuerit; virtutem enim illi non eripiet, sed opera eius inpediet’. Hoc recte diceretur nisi dissimilis esset gubernatoris condicio et sapientis. Huic enim propositum est in vita agenda non utique quod temptat efficere, sed omnia recte facere: gubernatori propositum est utique navem in portum perducere. Artes ministrae sunt, praestare debent quod promittunt, sapientia domina rectrixque est; artes serviunt vitae, sapientia imperat.

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mettono il giogo al collo. Non si avrebbero dubbi su ciò che conviene all’uomo coraggioso, se si sapesse che cosa è il coraggio. Non è la sventatezza, né il desiderio di cose rischiose o spaventose: è la capacità di distinguere ciò che è male da ciò che è bene. L’uomo coraggioso ha vivissimo lo spirito di conservazione e, nello stesso tem­ po, tollera con somma pazienza quelle cose che hanno una falsa apparenza di male. «Dunque, se un uomo coraggioso si vede innanzi alla gola un pugnale, se viene trafitto ora da una parte ora dall’altra del corpo, se gli squarciano il ventre e gli fanno vedere le sue stesse viscere, se per maggior tormento si ripete a intervalli il supplizio e nuovo sangue scorre dalle ferite già rimargi­ nate, dirai forse che egli non avrà paura, né sentirà il dolore?» Egli sentirà il dolore, perché nessuna virtù toglie all’uomo la sensibilità, ma non avrà paura; senza lasciarsi abbattere, guarderà dall’alto i suoi dolori. Vuoi sapere in quale stato d’animo egli allora si trova? Quello di chi consola un amico malato. «Quello che è male nuoce; quello che nuoce rende l’uomo peggiore; il dolore e la povertà non rendono l’uomo peggiore; dunque, non sono mali.» «La prima parte del sillogismo è falsa,» dicono «poi­ ché, anche se qualche cosa nuoce, non rende l’uòmo peggiore. La tempesta nuoce al pilota della nave, ma non lo rende peggiore.» Alcuni stoici rispondono a questa osservazione che il pilota, a causa della tempesta, diventa peggiore, in quanto non può raggiungere la sua meta, né mantenere la rotta: anche se la sua perizia non verrà sminuita, il risultato del suo lavoro sarà peggiore. E il peripatetico di contro: «Dunque, la povertà, il dolore e qualunque altro male simile renderanno il saggio peggiore, poiché non gli toglieranno la virtù, ma 10 ostacoleranno nella sua opera». Avrebbe ragione se la condizione del saggio fosse uguale a quella del pilota. 11 saggio ha lo scopo di operare onestamente in ogni circostanza, mentre il pilota si propone solo di condurre la nave in porto. Le arti sono esecutrici, devono dare quello che promettono; la saggezza è signora e reggitrice; le arti servono, la saggezza comanda. 621

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Ego aliter respondendum iudico: nec artem gubernatoris deteriorem ulla tempestate fieri nec ipsam administrationem artis. Gubernator tibi non felicitatem promisit sed utilem operam et navis regendae scientiam; haec eo magis apparet quo illi magis aliqua fortuita vis obstitit. Qui hoc potuit dicere, ‘Neptune, numquam hanc navem nisi rectam’, arti satis fecit: tempestas non opus gubernatoris inpedit sed successum. ‘Quid ergo?’ inquit ‘non nocet gubernatori ea res quae illum tenere portum vetat, quae conatus eius inritos efficit, quae aut refert illum aut detinet et exarmat?’ Non tamquam gubernatori, sed tamquam naviganti nocet: alioqui (gubernator ille non est.1) Gubernatoris artem adeo non inpedit ut ostendat; tranquillo enim, ut aiunt, quilibet gubernator est. Navigio ista obsunt, non rectori eius, qua rector est. Duas personas habet gubernator, alteram communem cum omnibus qui eandem conscenderunt navem : ipse quoque vector est; alteram propriam: gubernator est. Tempestas tamquam vectori nocet, non tamquam gubernatori. Deinde gubernatoris ars alienum bonum est: ad eos quos vehit pertinet, quomodo medici ad eos quos curat: (sapientis) commune bonum est: (est) et eorum cum quibus vivit et proprium ipsius. Itaque gubernatori fonasse noceatur cuius ministerium aliis promissum tempestate inpeditur: sapienti non nocetur a paupertate, non a dolore, non ab aliis tempestatibus vitae. Non enim prohibentur opera eius omnia, sed tantum ad alios pertinentia: ipse semper in actu est, in effectu tunc maximus cum illi fortuna se opposuit; tunc enim ipsius sapientiae negotium agit, quam diximus et alienum bonum esse et suum. Praeterea ne aliis quidem tunc prodesse prohibetur cum illum aliquae necessitates premunì. Propter paupertatem

Io penso, invece, che si debba rispondere che non c’è nessuna tempesta che renda peggiore la perizia del pilota o il lavoro che deriva da questa perizia. Il pilota non t’ha promesso l’esito felice, ma la sua opera utile e la conoscenza delle regole della navigazione; cose che appariranno meglio, quanto più egli sarà ostacolato da circostanze avverse. Chi potè dire: «O Nettuno non sommergerai questa nave se non sulla sua giusta rotta» fece tutto quello che poteva nell’arte sua; la tempesta non impedisce l’opera del pilota, ma il successo. «Dun­ que» si soggiunge, «non nuoce al pilota ciò che gl’impedisce di entrare in porto, che rende vani i suoi sforzi e che o lo riporta indietro, o non lo lascia andare avanti, o gli distrugge gli attrezzi?» Nuoce, sì, ma alla navigazione, non alla sua perizia di pilota: altrimenti egli non è un pilota. La sua perizia non è danneggiata, anzi messa in evidenza. (Col mare .tranquillo - dice il proverbio chiunque c buon timoniere.) La tempesta nuoce alla nave, non a chi la governa, per quanto riguarda la sua attitudine a pilotarla. Ci sono nel timoniere due persone: l’una, quella del passeggero, che egli ha in comune con tutti quelli che si trovano sulla medesima nave; l’altra sua particolare, in quanto è pilota. La tempesta gli nuoce come passeggero, non come pilota. Aggiungi che l’arte del pilota è un bene per gli altri, poiché interessa a chi è trasportato, così come l’arte del medico interessa ai malati che ricevono le cure. Quello del saggio è bene comune, che riguarda sia coloro con cui vive sia lui personalmente. Così il pilota può risentirne il danno, se la tempesta gl’impedisce di compiere il servizio promesso ad altri; al saggio, non può nuocere né la povertà, né il dolore, né altre contrarietà della vita, poiché l’opera sua non è ostacolata se non in quanto interessa agli altri. Egli esercita un’attività continua e riesce nel suo proposito specialmente quando la fortuna lo perseguita; poiché allora egli fa gli interessi della saggezza stessa, che, come abbiamo detto, è un bene altrui e un bene proprio. Aggiungiamo che, anche quando è oppresso dalle necessità, egli può sempre essere di giovamento agli altri. La povertà gli può impedire di insegnare l’arte di 623

prohibetur docere quemadmodum tractanda res publica sit, at illud docet, quemadmodum sit tractanda paupertas. Per totam vitam opus eius extenditur. Ita nulla fortuna, nulla res actus sapientis excludit; id enim ipsum agii quo alia agere prohibetur. Ad utrosque casus aptatus est: bonorum rector 39 est, malorum victorr Sic, inquam, se exercuit ut virtutem tam in secundis quam in adversis exhiberet nec materiam eius sed ipsam intueretur; itaque nec paupertas illum nec dolor nec quidquid aliud inperitos avertit et praecipites agit pro40 hibet. Tu illum premi putas malis ? utitur. Non ex ebore tantum Phidias sciebat facere simulacra; faciebat ex aere. Si marmor illi, si adhuc viliorem materiam obtulisses, fecisset quale ex illa fieri optimum posset. Sic sapiens virtu­ tem, si licebit, in divitiis explicabit, si minus, in paupertate; si poterit, in patria, si minus, in exilio; si poterit, imperator, si minus, miles; si poterit, integer, si minus, debilis. Quamcumque fortunam acceperit, aliquid ex illa memorabile efficiet. 41 Certi sunt domitores ferarum qui saevissima ammalia et ad occursum expavescenda hominem pati subigunt nec asperitatem excussisse contenti usque in contubernium mitigant: leonis faucibus magister manum insertat, osculatur tigrim suus custos, elephantum minimus Aethiops iubet subsidere in genua et ambulare per funem. Sic sapiens artifex est domandi mala: dolor, egestas, ignominia, career, exilium ubique horrenda, cum ad hunc pervenere, mansueta sunt. Vale.

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governare lo stato, ma egli può sempre insegnare l’arte di essere povero e svolgere questa sua opera durante tutta la vita. Così non c’è nessun evento di fortuna che ostacoli l’attività del saggio, poiché egli può sempre esercitarsi nella povertà che gl’impedisce di esercitare le altre occupazioni. Egli si è reso capace sia di moderare la sorte favorevole, sia di superare quella sfavorevole. Egli ha acquistato l’abitudine - lo ripeto - di esercitare la virtù così nella propizia come nell’avversa fortuna, mirando alla virtù stessa, non alla materia su cui essa si esercita. Perciò la povertà, il dolore e tutte le altre avversità che sviano e abbattono gl’ignoranti, per lui non sono di ostacolo. Pensi tu che egli sia sopraffatto dai mali? Al contrario, egli li mette a profitto. Fidia era capace di modellare non solo statue d’avorio; le faceva anche di bronzo. E anche col marmo e con una materia di valore ancora minore avrebbe fatto ciò che di meglio poteva trarre da quella materia. Così il saggio metterà a profitto la sua virtù, quando gli sarà consentito, in mezzo agli agi della ricchezza; se no, la eserciterà nella povertà; l’eserciterà, se può, in patria, se no nell’esilio; come generale o come soldato semplice; col corpo valido o invalido. Qualunque situazione la sorte gli offra, ne sa trarre sempre opere degne di ricordo. Ci sono domatori che ammansiscono le bestie più feroci, spaven­ tose solo a vedersi; e non contenti di averle domate, sono capaci anche di trattarle con familiarità: c’è il domatore che caccia la mano in gola ai leoni, e il guardiano che abbraccia la tigre; un piccolo Etiope fa inginocchiare e camminare sulla corda un elefante. Il saggio ha l’arte di domare i mali: il dolore, la povertà, l’ignominia, il carcere, l’esilio, mostri spaventosi per tutti, davanti al saggio si fanno mansueti. Addio.

In ipsa Scipionis Africani villa iacens haec tibi scribo, adoratis manibus eius et ara, quam sepulchrum esse tanti lettera

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La villa di Scipione e la semplicità degli antichi Romani Ti scrivo mentre sto riposando proprio nella villa di Scipione l’Africano, dopo aver venerato la sua ombra 624

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viri suspicor. Animum quidem eius in caelum ex quo erat redisse persuadeo mihi, non quia magnos exercitus duxit (hos enim et Cambyses furiosus ac furore feliciter usus habuit), sed ob egregiam moderationem pietatemque, quam magis in ilio admirabilem iudico cum reliquit patriam quam cum defendit. Aut Scipio Romae esse debebat aut Roma in libertate. ‘Nihil’ inquit ‘volo derogare legibus, nihil institutis ; aequum inter omnes cives ius sit. Utere sine me beneficio meo, patria. Causa tibi libertatis fui, ero et argumentum: exeo, si plus quam tibi expedit crevi.’ Quidni ego admirer hanc magnitudinem ànimi, qua in exilium voluntarium secessit et civitatem exoneravit ? Eo perducta res erat ut aut libertas Scipioni aut Scipio libertati faceret iniuriam. Neutrum fas erat; itaque locum dedit legibus et se Liternum recepit tam suum exilium rei publicae inputaturus quam Hannibalis. Vidi villam extructam lapide quadrato, murum circumdatum silvae, turres quoque in propugnaculum villae utrimque subrectas, cisternam aedificiis ac viridibus subditam quae sufficere in usum vel exercitus posset, balneolum angustum, tenebricosum ex consuetudine antiqua : non videbatur maioribus nostris caldum nisi obscurum. Magna ergo me voluptas subiit contemplantem mores Scipionis ac nostros: in hoc angulo ille ‘Carthaginis horror’, cui Roma debet quod tantum semel capta est, abluebat corpus laboribus rusticis fessum. Exercebat enim opere se terramque (ut mos fuit priscis) ipse subigebat. Sub hoc ille tecto tam sordido stetit, hoc illum

davanti all’ara che, forse, ricopre i resti di quel grande. Ma la sua anima - ne sono convinto - è tornata in cielo, sua patria; non perché egli comandò grandi eserciti (li comandò, e con successo, anche quel pazzo di Cambise), ma per il suo insigne amor di patria e per la sua modera­ zione. Ed io penso che manifestò queste sue virtù in modo più ammirevole quando abbandonò la patria che quando la difese. Di fronte all’alternativa; o Scipione a Roma, o Roma libera, egli disse: «Non voglio violare le leggi, né le istituzioni. Tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti. Godi pure, o patria, senza di me, i benefici che ti ho arrecato. Sono stato l’autore della tua libertà; ne sarò anche la prova; io parto, se il mio accresciuto prestigio può danneggiarti». E perché non dovrei am­ mettere questa grandezza d’animo, per la quale si ritirò in esilio volontario e liberò la cittadinanza da ogni preoc­ cupazione? Nella repubblica romana si era giunti al punto che o la libertà sarebbe stata fatale a Scipione, o Scipione alla libertà: soluzioni entrambe sacrileghe. Perciò cedette alle leggi e si ritirò a Literno, lasciando, come nel caso di Annibaie, che la responsabilità dell’esi­ lio ricadesse sui suoi concittadini. Ho visitato la villa, costruita di pietre quadrate, il parco recinto da un muro; le due torri che si ergono, una da una parte, una dall’altra, a difesa della villa; la cisterna nascosta fra gli edifici e le piante, che potrebbe bastare alle esigenze di un intero esercito; e una piccola stanza da bagno, oscura, secondo l’uso antico. Pareva ai nostri antenati che la stanza non potesse riscaldarsi, se non era buia. Con grande piacere mi sono messo a fare il confronto fra i costumi di Scipione e i nostri. In questo cantuccio quel grande, che fu «il terrore di Cartagine»1, e a cui Roma deve se solo una volta fu occupata dai nemici, ristorava nel bagno le membra stanche dei lavori campèstri. Infatti si esercitava, secon­ do l’uso antico, a lavorare di sua mano la terra. Egli stette in questa stanza così meschina, e calpestò questo 1 Lucrezio, De rerum natura, III, 1034.

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pavimentum tam vile sustinuit: at nunc quis est qui sic lavari 6 sustineat ? Pauper sibi videtur ac sordidus nisi parietes magnis et pretiosis orbibus refulserunt, nisi Alexandrina marmora Numidicis crustis distincta sunt, nisi illis undique operosa et in picturae modum variata circumlitio praetexitur, nisi vitro absconditur camera, nisi Thasius lapis, quondam rarum in aliquo spectaculum tempio, piscinas nostras circumdedit, in quas multa sudatione corpora exsaniata demittimus, nisi 7 aquam argentea epitonia fuderunt. Et adhuc plebeias fistulas loquor : quid cum ad balnea libertinorum pervenero ? Quan­ tum statuarum, quantum columnarum est nihil sustinentium sed in ornamentum positarum impensae causa ! quantum aquarum per gradus cum fragore labentium! Eo deliciarum pervenimus ut nisi gemmas calcare nolimus. 8 In hoc balneo Scipionis minimae sunt rimae magis quam fenestrae muro lapideo exsectae, ut sine iniuria munimenti lumen admitterent; at nunc blattaria vocant balnea, si qua non ita aptata sunt ut totius diei solem fenestris amplissimis recipiant, nisi et lavantur simul et colorantur, nisi ex solio agros ac maria prospiciunt. Itaque quae concursum et admirationem habuerant cum dedicarentur, ea in antiquorum numerum reiciuntur cum aliquid novi luxuria commenta est 9 quo ipsa se obrueret. At ohm et pauca erant balnea nec ullo cultu exornata: cur enim exornaretur res qùadrantaria et in usum, non in oblectamentum reperta ? Non suffundebatur aqua nec recens semper velut ex calido fonte currebat, nec 10 referre credebant in quam perlucida sordes deponerent. Sed, di boni, quam iuvat illa balinea intrare obscura et gregali tectorio inducta, quae scires Catonem tibi aedilem aut Fabium Maximum aut ex Corneliis aliquem manu sua temperasse! Nam hoc quoque nobilissimi aediles fungebantur

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pavimento così rozzo. Ai nostri giorni chi si adatterebbe a prendervi il bagno? Gli sembrerebbe di essere povero e senza gusto, se alle pareti non risplendessero grandi specchi circolari; se il marmo alessandrino non si combi­ nasse con incrostature di marmo numidico; se questi marmi non fossero adorni da ogni parte di artistici mosaici e vari disegni; se il soffitto non fosse di vetro, se il marmo di Taso, che un tempo si poteva ammirare, e di rado, solo nei templi, non circondasse le sue vasche, in cui abbandoniamo il corpo estenuato dall’abbondante sudore; se l’acqua non sgorgasse da rubinetti d’argento. Ma questi sono bagni plebei. Che dovrei dire passando alle stanze da bagno dei libertini? Quante statue! quante colonne che non hanno funzione di sostegno, ma son poste solo a scopo ornamentale e per ostentazione di ricchezza! Che abbondanza di acqua che scorre giù dai gradini con fragore! Siamo tanto esigenti che non sappiamo posare i piedi se non sopra pietre preziose. In questo bagno di Scipione, in luogo delle finestre, ci sono, aperte nel muro di pietra, piccole fessure; così può entrare la luce e non si danneggia la stabilità dell’edificio. Ormai, invece, chiamiamo topaie le stanze da bagno se non sono costruite in modo tale che il sole penetri dalle finestre per tutto il giorno; se, mentre ci si bagna, non ci si abbronza; se dalla vasca non si può godere il panorama della campagna e del mare. Perciò quelle costruzioni balneari che al momento dell’inaugu­ razione conobbero un gran concorso di folla entusiasta, ora che il lusso è attratto da altri miraggi, sono ricacciate fra le anticaglie. Una volta i bagni pubblici erano pochi e senza lussuosi ornamenti; e perché si sarebbe dovuto abbellire una costruzione di poco valore, destinata all’u­ so pratico, e non al piacere? L’acqua non scaturiva dal basso, né sgorgava sempre nuova come da una sorgente calda, né si riteneva importante che fosse limpidissima per liberarsi dalla sporcizia. Ma, per Giove! non ti piacerebbe entrare in questi bagni oscuri e rozzamente intonacati, se li sapessi sistemati di propria mano da un edile come Catone, o come Fabio Massimo, o come uno degli Scipioni? Era anche questa una funzione di quegli 629

officio intrandi ea loca quae populum receptabant exigendique munditias et utilem ac salubrem temperaturam, non hanc quae nuper inventa est similis incendio, adeo quidem ut convictum in aliquo scelere servum vivum lavari oporteat. Nihil mihi videtur iam interesse, ardeat balineum an càleat. 11 Quantae nunc aliqui rusticitatis damnant Scipionem quod non in caldarium suum latis specularibus diem admiserat, quod non in multa luce decoquebatur et expectabat ut in balneo concoqueret! O hominem calamitosum! nesciit vivere. Non saccata aqua lavabatur sed saepe turbida et, cum plueret vehementius, paene lutulenta. N ec multum eius intererat an sic lavaretur; veniebat enim ut sudorem illic 12 ablueret, non ut unguentum. Quas nunc quorundam voces futuras credis ? ‘Non invideo Scipioni: vere in exilio vixit qui sic lavabatur.’ Immo, si scias, non cotidie lavabatur; nam, ut aiunt qui priscos mores urbis tradiderunt, brachia et crura cotidie abluebant, quae scilicet sordes opere collegerant, ceterum toti nundinis lavabantur. Hoc loco dicet aliquis: ‘liquet mihi inmundissimos fuisse’. Quid putas illos oluisse ? militiam, laborem, virum. Postquam munda balnea inventa 13 sunt, spurciores sunt. Descripturus infamem et nimiis notabilem deliciis Horatius Flaccus quid ait ? Pastillos Buccillus olet.

Dares nunc Buccillum : proinde esset ac si hircum oleret, Gargonii loco esset, quem idem Horatius Buccillo opposuit. Parum est sumere unguentum nisi bis die terque renovatur, ne evanescat in corpore. Quid quod hoc odore tamquam suo gloriantur ? 14 Haec si tibi nimium tristia videbuntur, villae inputabis, in qua didici ab Aegialo, diligentissimo patre familiae (is enim nunc huius agri possessor est) quamvis vetus arbustum

illustri edili: essi visitavano i luoghi a cui il popolo aveva accesso per sorvegliare che tutto fosse in ordine e che la temperatura fosse regolare e sana: non questa a cui siamo abituati, un calore d’incendio, più adatto come pena per uno schiavo reo confesso di un delitto. Ormai non si fa più differenza fra l’acqua del bagno calda o bollente. C’è chi non apprezza le rustiche abitudini di Scipione: la stanza da bagno non riceveva luce da ampie vetrate, ed egli né si arrostiva al sole, né faceva la digestione nel bagno. Povero diavolo, non sapeva vivere! Si lavava con acqua non filtrata, ma spesso torbida e, se c’era stato un temporale, anche con acqua fangosa. Ma questo aveva poca importanza: egli veniva a detergersi il sudore, non gli olii profumati. Puoi immaginare quello che direbbe qualcuno dei nostri contemporanei: «Non invidio affatto Scipione; la sua era propria una vita da esiliato, se faceva il bagno in tal modo». Sappi, anzi, che c’era di peggio: non faceva il bagno tutti i giorni. Secondo la testimonianza di coloro che ci hanno traman­ dato i costumi di Roma antica, ci si lavava ogni giorno braccia e gambe, che s’insudiciavano col lavoro, ma il resto del corpo lo si lavava ogni settimana. A questo punto qualcuno dirà: «Evidentemente erano molto sudi­ ci». E che odore mandavano, secondo te? Era odore di vita militare, di fatica, ài uomo. Dopo l’invenzione di questi bagni così puliti, l’uomo è più sporco. Quando Orazio vuol delinearci la figura di un uomo malfamato per le sue raffinatezze sensuali, posa dice? «Buccillo odora di pastiglio2.» Ma ora di un Buccillo si direbbe che puzza di capra; prenderebbe il posto di quel Gargonio che Orazio gli contrappone. Non ci si cosparge di profumo una sola volta, ma due o tre volte al giorno, per paura che il profumo svanisca. E si vantano di quest’odore come se emanasse dal loro corpo. Se queste mie considerazioni ti sembrano noiose, dan­ ne la colpa alla villa di Scipione. Qui ho appreso da Egialo, padre di famiglia molto coscienzioso, che presen­ temente possiede questo podere, che si possono trapian2 Satire, I, 2, 27.

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posse transferri. Hoc nobis senibus quorum nemo non olivetum alteri arborum trimum et quadrimum 15 deponere.t T e quoque proteget illa

discere necessarium est, ponit, fquod vidi illud fastidiendi frtìctus aut quae

tarda venit seris factura nepotibus umbram,

ut ait Vergilius noster, qui non quid verissime sed quid decentissime diceretur aspexit, nec agricolas docere voluit 16 sed legentes delectare. Nam, ut alia omnia transeam, hoc quod mihi hodie necesse fuit deprehendere, adscribam : vere fabis satio est; tunc te quoque, Medica, putres accipiunt sulci, et milio venit annua cura.

An uno tempore ista ponenda sint et an utriusque verna sit satio, hinc aestimes licet: Iunius mensis est quo tibi scribo, iam proclivis in Iulium: eodem die vidi fabam metentes, milium serentes. 17 Ad olivetum revertar, quod vidi duobus modis positum: magnarum arborum truncos circumcisis ramis et ad unum redactis pedem cum rapo suo transtulit, amputatis radicibus, relieto tantum capite ipso ex quo illae pependerant. Hoc fimo tinctum in scrobem demisit, deinde terram non adgessit 18 tantum, sed calcavit et pressiti Negat quicquam esse hac, ut ait, pisatione efficacius. Videlicet frigus excludit et ventum; minus praeterea movetur et ob hoc nascentes radices prodire patitur ac solum adprendere, quas necesse est cereas adhuc et precario haerentes levis quoque revellat agitatio. Rapum autem arboris antequam obruat radit; ex omni enim materia quae nudata est, ut ait, radices exeunt novae. Non plures autem super terram eminere debet truncus quam tres aut quattuor pedes; statim enim ab imo vestietur nec magna pars eius quemadmodum in olivetis veteribus arida et retorrida 19 erit. Alter ponendi modus hic fuit: ramos forte? nec corticis

tare gli alberi anche quando sono vecchi. È bene che ce 10 ricordiamo noi vecchi, che piantiamo oliveti di cui gli altri si godranno il raccolto. Anche a te darà ricetto quell’albero che - dice Virgilio - «cresce lentamente e darà ombra ai lontani nipoti»3. Ma il nostro poeta non si propose tanto di esporre verità, utili agli agricoltori, quanto di dilettare i lettori con poetiche immagini. La­ sciando da parte altri errori da lui commessi, eccone uno che ho dovuto constatare oggi: «In primavera si semina la fava; è anche il tempo in cui gli umidi solchi ti ricevono, o erba medica, e in cui inizia la coltura del miglio»4. Se la semina di tutte queste erbe si debba fare nella stessa stagione primaverile, giudicalo tu: proprio oggi che ti scrivo, uno degli ultimi giorni di giugno, ho visto raccogliere la fava e seminare il miglio. Ma torniamo ai miei olivi che ho visto mettere a dimora in due maniere: Egialo ha trapiantato, con tutto 11 ceppo, piante già ben sviluppate, dopo aver tagliato i rami a un piede dal tronco. Egli aveva parimenti tagliato le barbe che pendevano dalla radice, lasciando solo la barba maestra. Ha sistemato nella fossa ciascuna di queste piante, ben impregnate di concime, poi ha colma­ to la fossa di terra, calcandola bene con i piedi. Questa, che Egialo chiama pestatura, secondo lui è l’operazione più efficace: essa non lascia penetrare né il freddo né il vento. Inoltre l’albero, se sta ben fermo, permette alle radici di spuntare e abbarbicarsi al suolo. Esse sono ancora così tenere e la loro presa sul terreno è tanto debole, che la minima scossa le staccherebbe. Quanto al ceppo, lo ha raschiato prima di ricoprirlo di terra, perché dice che dal legno così messo a nudo possono spuntare nuove radici. Il tronco non deve levarsi su da terra più di tre o quattro piedi; presto si rivestirà in basso di polloni e non si vedrà più, come nei vecchi ulivi, una parte dell’albero arida e secca. Ecco la seconda maniera di trapiantare, praticata da Egialo: egli prende dei rami forti, ma teneri di corteccia, come sono di solito 3 Georgiche, II, 58. 4 Georgiche, I, 215-6.

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duri, quales esse novellarum arborum solent, eodem genere deposuit. Hi paulo tardius surgunt, sed cum tamquam a pian­ ta processerint, nihil habent in se abhorridum aut triste. 20 Illud etiamnunc vidi, vitem ex arbusto suo annosam trans­ ferri; huius capillamenta quoque, si fieri potest, colligenda sunt, deinde liberalius sternenda vitis, ut etiam ex corpore radicescat. Et vidi non tantum mense Februario positas sed etiam Martio exacto; tenent et conplexae sunt non suas 21 ulmos. Omnes autem istas arboree quae, ut ita dicam, grandiscapiae sunt, ait aqua adiuvandas cisternina; quae si prodest, habemus pluviam in nostra potestate. Plura te docere non cogito, ne quemadmodum Aegialus me sibi adversarium paravit, sic ego parem te mihi. Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Naufragium antequam navem ascenderem feci: quomodo acciderit non adicio, ne et hoc putes inter Stoica paradoxa ponendum, quorum nullum esse falsum nec tam mirabile quam prima facie videtur, cum volueris, adprobabo, immo etiam si nolueris. Interim hoc me iter docuit quam multa haberemus super­ vacua et quam facile iudicio possemus deponere quae, si 2 quando necessitas abstulit, non sentimus ablata. Cum paucissimis servis, quos unum capere vehiculum potuit, sine ullis rebus nisi quae corpore nostro continebantur, ego et Maximus meus biduum iam beatissimum agimus. Culcita in terra iacet, ego in culcita; ex duabus paenulis altera stragulum,

i rami di piante giovani, poi li mette a dimora, come nel primo caso. La loro crescita è un po’ più lenta, ma si sviluppano come sulla pianta madre, e non sono né rugosi né brutti a vedersi. Ecco ancora quello che ho osservato: una vecchia vite che è stata staccata, per il trapianto, dall’albero che la sosteneva. Se è possibile, bisogna raccoglierne anche le più piccole radici, poi distenderla per bene, in modo che metta radici anche dal ceppo. Ne ho visto il trapianto non solo nel mese di febbraio, ma anche alla fine di marzo: hanno fatto subito presa e si sono allacciate ai nuovi olmi. Ho appreso inoltre che tutti questi alberi, che chiamerò di alto fusto, debbono essere irrigati con acqua di cisterna. Se questa giova, non dobbiamo attendere la pioggia per irrigare. Non ti do altri insegnamenti, perché non vorrei che tu, come ho fatto io con Egialo, ti mettessi a contraddire il tuo maestro. Addio.

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La saggezza e i pregiudizi degli uomini Ho fatto naufragio prima d’imbarcarmi1. Non aggiungo subito come questo sia successo, perché non voglio che tu metta anche questo fra i paradossi stoici. (Ti dimostrerò quando vorrai, e anche quando non vorrai, che nessuno di essi è falso, né così strano come sembra a prima vista.) In ogni caso, questo viaggio mi ha fatto comprendere quante cose superflue ci sono nella nostra vita e quanto sarebbe facile rinunciarvi per libera scelta; infatti, non ne sentiamo la mancanza, quando la necessità ce le toglie. Con quei pochissimi schiavi che una sola carrozza poteva contenere, e solo con gli abiti che abbiamo indosso, io e il mio amico Massimo stiamo passando due giorni veramente felici. A terra c’è un materasso, ed io sto sul materasso. Due mantelli sono diventati uno 1 La frase ha valore metaforico: come spiegherà poi, Seneca vuol dire che è ancora schiavo di molte debolezze umane.

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3 altera opertorium facta est. De prandio nihil detraili potuit; paratura fuit tnon magis horaf, nusquam sine caricis, numquam sine pugillaribus; illae, si panem habeo, prò pulmentario sunt, si non habeo, prò pane. Cotidie mihi annum novum faciunt, quem ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus et animi magnitudine, qui numquam maior est quam ubi aliena seposuit et fecit sibi pacem nihil timendo, 4 fecit sibi divìtias nihil concupiscendo. Vehiculum in quod inpositus sum rusticum est; mulae vivere se ambulando testantur; mulio excalceatus, non propter aestatem. Vix a me obtineo ut hoc vehiculum velim videri meum : durat adhuc perversa recti verecundia, et quotiens in aliquem comitatum lautiorem incidimus invitus erubesco, quod argumentum est ista quae probo, quae laudo, nondum habere certam sedem et immobilem. Qui sordido vehiculo erubescit pretioso 5 gloriabitur. Parum adhuc profeci: nondum audeo frugalitatem palam ferre; etiamnunc curo opiniones viatorum. Contra totius generis humani opiniones mittenda vox erat: ‘insanitis, erratis, stupetis ad supervacua, neminem aestimatis suo. Cum ad patrimonium ventum est, diligentissimi conputatores sic rationem ponitis singulorum quibus aut pecuniam credituri estis aut beneficia (nam haec quoque iam 6 expensa fertis) : late possidet, sed multum debet; habet domum formosam, sed alienis nummis paratam; familiam nemo cito speciosiorem producet, sed nominibus non respondet; si creditoribus solverit, nihil illi supererit. Idem in reliquis quoque facere debebitis et excutere quantum pro7 prii quisque habeat.’ Divitem illum putas quia aurea supellex

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lenzuolo, l’altro coperta. Quanto al pranzo, tutto è ridotto all’essenziale: è pronto... e non mancano mai i fichi secchi e le tavolette per scrivere. I fichi, se ho il pane, fanno da companatico; se no, sostituiscono il pane. Ogni giorno per me è l’inizio di un nuovo anno, ed io cerco di propiziarmelo con buoni pensieri che liberano l’animo dalle meschinità. Mai l’animo è più grande che nel momento in cui, lontano dal mondo e libero da ogni timore, si acquista la pace e diventa ricco, spogliandosi di ogni desiderio. Sono sdraiato alla meglio su un carro campestre; le mule mostrano di essere vive solo perché camminano ancora; il mulattiere va scalzo, ma non per il caldo. Mi sento proprio a disagio se gli altri pensano che questo sia il mio equipaggio. C’è ancora in me un cattivo rispetto umano e, ogni volta che c’imbattiamo in una carrozza elegante, arrossisco; e questo dimostra che non ho ancora ben ferme e radicate nell’animo tutte quelle lodevoli massime di cui mi vanto. Chi prova un sentimento di vergogna per un rozzo carro, si vanterà poi di una ricca carrozza. Ho fatto ben miseri progressi. Non ho ancora il coraggio di vivere apertamente con semplicità, ma continuo a preoccuparmi di quello che pensano i passanti. A costo di avere contro di me tutta l’opinione pubbli­ ca, avrei dovuto gridare: «O insensati, siete tutti in errore! Pieni di ammirazione davanti a cose superflue, non siete capaci di valutare i veri beni che l’uomo possiede. Quando si tratta di beni materiali, sapete valutare con esattezza il patrimonio della persona a cui volete fare un prestito sia in moneta, sia sotto forma di servizi (anche questi segnate nei vostri registri, nel capitolo delle uscite), e ragionate così: ”Ha molti beni, è vero, ma ha anche molti debiti; possiede una bella casa, ma s’è indebitato per farsela; nessuno come lui può vantare una servitù così numerosa, ma è insolvente con i suoi creditori, e, se vorrà pagarli, non gli rimarrà niente” . Lo stesso dovrete fare con gli altri beni. Rivede­ te bene i conti di ciascuno, per sapere quello che ha veramente di suo»,. Costui ti sembra ricco perché porta con sé, anche in viaggio, vasellame d’oro; perché ha 637

etiam in via sequitur, quia in omnibus provinciis arat, quia magnus kalendari liber volvitur, quia tantum suburbani agri possidet quantum invidiose in desertis Apuliae possideret : cum omnia dixeris, pauper est. Quare ? quia debet. ‘Quan­ tum?’ inquis. Omnia; nisi forte iudicas interesse utrum ali8 quis ab homine an a fortuna mutuum sumpserit. Quid ad rem pertinent mulae saginatae unius omnes coloris ? quid ista vehicula caelata ? Instratos ostro alipedes pictisque tapetis : aurea pectoribus demissa monilia pendent, tecti auro fulvum mandunt sub dentibus aurum.

Ista nec dominum meliorem possunt facere nec mulam. 9 M. Cato Censorius, quem tam e re publica fuit nasci quam Scipionem (alter enim cum hostibus nostris bellum, alter cum moribus gessit), cantherio vehebatur et hippoperis quidem inpositis, ut secum utilia portaret. O quam cupcrcm illi nunc occurrere aliquem ex his trossulis, in via divitibus, cursores et Numidas et multum ante se pulveris agentem! Hic sine dubio cultior comitatiorque quam M. Cato videretur, hic qui inter illos apparatus delicatos cum maxime 10 dubitai utrum se ad gladium locet an ad cultrum. O quantum erat saeculi decus, imperatorem, triumphalem, censorium, quod super omnia haec est, Catonem, uno caballo esse contentum et ne toto quidem; partem enim sarcinae ab utroque latere dependentes occupabant. Ita non omnibus obesis mannis et asturconibus et tolutariis praeferres unicum illum equum ab ipso Catone defrictum ? 11 Video non futurum finem in ista materia ullum nisi quem ipse mihi fecero. Hic itaque conticiscam, quantum ad ista quae sine dubio talia divinavit futura qualia nunc sunt qui primus appellavit ‘inpedimenta’. Nunc volo paucissimas adhuc interrogationes nostrorum tibi rèddere ad virtutem

possedimenti in tutte le province; perché sfoglia un grosso registro di crediti; perché possiede alla periferia di Roma una estensione di terreno che gli sarebbe invidiata anche nell’arida pianura pugliese; ma, per quanto grandi siano le sue ricchezze, egli rimarrà un pover’uomo. Perché? Perché è debitore. «E quanto deve?» Tutti i suoi averi. A meno che tu faccia differenza fra chi è debitore di altri uomini, e chi è debitore della fortuna. Che importanza hanno le mule ben pasciute e dello stesso colore, o il cocchio dorato? «I veloci cavalli hanno manti di porpora ricamati; aurei collari pendono e ondeggiano sul loro petto: coperti d’oro, mordono coi denti i freni di biondo oro»2. Non per questo il padrone o la mula avrà maggior valore. Catone il Censore, la cui vita, come quella di Scipione, tanto giovò a Roma (l’uno combattè contro i nemici esterni, l’altro all’interno, con­ tro l’immoralità), cavalcava un ronzino carico anche delle bisacce, per avere con sé il necessario. Oh, se potesse incontrarsi con lui uno dei nostri damerini, che spadroneggiano sulla via pubblica e si fanno precedere da corrieri, da battistrada numidi, e sollevano nembi di polvere! Certo, apparirebbe più elegante di Catone il giovin signore, che, in mezzo a un lusso così raffinato, si pone il grave problema se domani, al circo, dovrà azzuffarsi con un uomo o con una bestia feroce. O tempi veramente splendidi, quando un capitano che aveva riportato trionfi, uno che era stato censore, o, per essere più chiari, un Catone, si contentava di un ronzino, e neppure tutto per la sua persona; infatti, una parte era occupata dalle bisacce pendenti dai due lati. E anche tu non preferiresti a tutti questi cavalli ben pasciuti, ai palafreni, ai trottatori, quell’unico cavallo strigliato da Catone stesso? M’accorgo che l’argomento è inesauribile, se non mi decido a troncarlo. Perciò non parlo più di questi bagagli di viaggio; chi per primo li chiamò impedimenta previde quali sarebbero stati effettivamente in futuro. Ora voglio comunicarti pochissimi sillogismi stoici riguardanti la 2 Virgilio, Eneide, VII, 277 segg.

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pertinentes, quam satisfacere vitae beatae contendimus. ‘Quod bonum est bonos facit (nam et in arte musica quod bonum est facit musicum) ; fortuita bonum non faciunt ; ergo non sunt bona.’ Adversus hoc sic. respondent Peripatetici ut quod primum proponimus falsum esse dicant. ‘Ab eo’ inquiunt ‘quod est bonum non utique fiunt boni. In musica est aliquid bonum tamquam tibia aut chorda aut organum aliquod aptatum ad usus canendi; nihil tamen horum facit musicum.’ His respondebimus, ‘non intellegitis quomodo posuerimus quod bonum est in musica. Non enim id dicimus quod instruit musicum, sed quod facit: tu ad supellectilem artis, non ad artem venis. Si quid autem in ipsa arte musica bonum est, id utique musicum faciet.’ Etiamnunc facere istuc planius volo. Bonum in arte musica duobus modis dicitur, alterum quo effectus musici adiuvatur, alterum quo ars: ad effectum pertinent instrumenta, tibiae et organa et chordae, ad artem ipsam non pertinent. Est enim artifex etiam sine istis: uti forsitan non potest arte. Hoc non est aeque duplex in homine; idem enim est bonum et hominis et vitae. ‘Quod contemptissimo cuique contingere ac turpissimo Dotest bonum non est; opes autem et lenoni et lanistae contingunt; ergo non sunt bona.’ ‘Falsum est’ inquiunt ‘quod próponitis; nam et in grammatice et in arte medendi aut gubernandi videmus bona humillimis quibusque contingere.’ Sed istae artes non sunt magnitudinem animi professae, non consurgunt in altum nec fortuita fastidiunt: virtus extollit hominem et super cara mortalibus conlocat; nec ea quae bona nec ea quae mala vocantur aut cupit nimis aut expavescit. Chelidon, unus ex Cleopatrae mollibus, patrimonium grande possedit. Nuper Natalis, tam inprobae linguae quam inpurae, in cuius ore

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virtù, che, secondo noi, è l’unico mezzo per raggiungere la felicità. «Quello che è buono rende gli uomini buoni; infatti, anche nel campo musicale, quello che vi è di buono forma il musicista. I doni della fortuna non rendono gli uomini buoni; dunque non sono beni.» I peripatetici obiettano che la prima proposizione è falsa: «Quello che è buono non sempre fa che un uomo sia buono. Nella musica vi è qualcosa di buono come il flauto, la lira e qualche altro strumento per accompagna­ re il canto: tuttavia, nessuno di questi forma il musici­ sta». Rispondiamo: «Voi non avete capito che cosa intendiamo per buono nel campo musicale. Non voglia­ mo dire gli strumenti del musicista, ma quello che lo rende musicista. Tu, invece, mi vieni a parlare della suppellettile dell’arte, non dell’arte stessa. Se dunque in quest’arte vi è qualcosa di buono, esso è quello che forma il musicista». Voglio spiegarmi meglio: nella musica la parola «buono» può avere due significati, secondo che una cosa giovi all’esecuzione musicale, o giovi all’arte. I mezzi meccanici, il flauto, la lira ed altri strumenti, si riferiscono all’esecuzione, ma non riguardano l’arte in se stessa. Infatti l’artista è tale anche senza gli strumenti, sebbene non possa forse esercitare la sua arte. Questo doppio significato manca quando si parla dell’uomo: il bene è identico sia nell’uomo, sia nella sua vita. «Quello che può toccare agli uomini più spregevoli e disonesti non è un bene. Le ricchezze toccano anche al lenone e all’assassino; dunque non sono beni.» Obiettano i peripatetici: «La vostra premessa è falsa; infatti, nella grammatica, nella medicina, nell’arte nauti­ ca noi vediamo che i beni toccano a uomini della più bassa condizione». Ma codeste professioni non tendono a elevare e a rendere grande l’animo, né hanno il disprez­ zo per le cose fortuite. È la virtù che solleva l’uomo e lo colloca sopra tutto ciò che è caro ai mortali; e, come non brama quelli che gli altri chiamano beni, così non ha paura dei cosiddetti mali. Chelidone, uno degli effe­ minati cortigiani di Cleopatra, aveva un grande patrimo­ nio. Qualche tempo fa Natale, uomo di lingua turpe e 641

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feminae purgabantur, et multorum heres fuit et multos habuit heredes. Quid ergo? utrum illum pecunia inpurum effecit an ipse pecuniam inspurcavit? quae sic in quosdam homines quomodo denarius in cloacam cadit. Virtus super ista consistit; suo aere censetur; nihil ex istis quolibet incurrentibus bonum iudicat. Medicina et gubernatio non interdicit sibi ac suis admiratione talium rerum ; qui non est vir bonus potest nihilominus medicus esse, potest gubernator, potest grammaticus tam mehercules quam cocus. Cui contingit habere rem non quamlibet, hunc non quemlibet dixeris; qualia quisque habet, talis est. Fiscus tanti est quantum habet; immo in accessionem eius venit quod habet. Quis pieno sacculo ullum pretium ponit nisi quod pecuniae in eo conditae numerus effecit? Idem evenit magnorum dominis patrimoniorum : accessiones illorum et appendices sunt. Quare ergo sapiens magnus est ? quia magnum animum habet. Verum est ergo quod contemptissimo cuique contingit bonum non esse. Itaque indolentiam numquam bonum dicam : habet illam cicada, habet pulex. N e quietem quidem et mo­ lestia vacare bonum dicam : quid est otiosius verme ? Quaeris quae res sapientem faciat ? quae deum. Des oportet iUi divinum aliquid, cadeste, magnificum : non in omnes bonum cadit nec quemlibet possessorem patitur. Vide et quid quaeque ferat regio et quid quaeque recuset: hic segetes, illic veniunt felicius uvae, arborei fetus alibi atque iniussa virescunt gramina. Nonne vides, croceos ut Tmolus odores, India mittit ebur, molles sua tura Sabaei, at Chalybes nudi ferrum ?

21 Ista in regiones discripta sunt, ut necessarium mortalibus

oscena, nella cui bocca le donne versavano le loro sozzu­ re, ebbe in eredità gran quantità di beni e li trasmise a sua volta a molti eredi. Dunque, fu il denaro che lo rese turpe? Non fu invece lui a insozzare il denaro? Esso, nelle borse di certi uomini, è come una moneta caduta in una cloaca. La virtù sta ferma sopra queste miserie e deve essere valutata in se stessa: per lei non è un bene nessuno di questi vantaggi che possono capitare a chiunque. La medicina e l’arte nautica non impediscono né a se stesse né ai loro seguaci di apprezzare i cosiddetti beni. Un uomo può non essere onesto, e tuttavia essere un medico, un pilota, un letterato e - per Bacco - anche un cuoco. Ma quello a cui tocca un bene non comune non può considerarsi un uomo comune; ciascuno vale in proporzione del bene che possiede. Una sporta vale quello che contiene; anzi, essa non è che un accessorio del suo contenuto. Una borsa piena di monete può avere per noi un valore diverso da quello del denaro che contiene? Lo stesso avviene per i padroni dei grandi patrimoni: essi ne sono accessori secondari. Donde vie­ ne, dunque, la grandezza del saggio? Dalla grandezza d’animo che è in lui. Per conseguenza è vero che ciò che può toccare agli uomini più vili non è un bene. Ecco perché non dirò mai che l’insensibilità sia un bene; può averla anche la cicala, anche la pulce. La quiete e la pigrizia non sono beni per me. Che c’è di più quieto di un verme? Vuoi sapere quello che costituisce il saggio? Quella stessa cosa che costituisce dio. Bisogna che tu riconosca al saggio qualcosa di divino, di celeste, di augusto. Il vero bene non si adatta a tutti e non ammette per possessore un uomo comune. Considera «quali pro­ dotti siano adatti a un terreno, quali non siano adatti; qui viene meglio il grano, qui l’uva; altrove gli alberi da frutto o la verde erbetta che cresce spontanea. Non vedi come il Tmolo c’invii l’odoroso zafferano e l’India l’avorio, i molli Sabei i loro incensi, mentre i nudi Calibi ci mandano il ferro3?» Queste produzioni sono state ripartite secondo i climi per obbligare i mortali a un 3 Virgilio, Georgiche, I. 53 segg.

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esset inter ipsos commercium, si invicem alius aliquid ab alio peteret. Summum illud bonum habet et ipsum suam sedem; non nascitur ubi ebur, nec ubi ferrum. Quis sit summi boni locus quaeris ? animus. Hic nisi purus ac sanctus est, deum non capit. ‘Bonum ex malo non fit; divitiae [autem fiunt] fiunt autem ex avaritia ; divitiae ergo non sunt bonum.’ ‘Non est’ inquit ‘verum, bonum ex malo non nasci; ex sacri­ legio enim et furto pecunia nascitur. Itaque malum quidem est sacrilegium et furtum, sed ideo quia plura mala facit quam bona; dat enim lucrum, sed cum metu, sollicitudine, tormentis et animi et corporis.’ Quisquis hoc dicit, necesse est recipiat sacrilegium, sicut malum sit quia multa mala facit, ita bonum quoque ex aliqua parte esse, quia aliquid boni facit : quo quid fieri porterituosius potest ? Quamquam sacrilegium, furtum, adulterium inter bona haberi prorsus persuasimus. Quam multi furto non erubescunt, quam multi adulterio gloriantur! nam sacrilegia minuta puniuntur, magna in triumphis feruntur. Adice nunc quod sacrilegium, si omnino ex aliqua parte bonum est, etiam honestum erit et recte factum vocabitur, tnostra enim actio estf quod nullius mortalium cogitatio recipit. Ergo bona nasci ex malo non possunt. Nam si, ut dicitis, ob hoc unum sacrilegium malum est, quia multum mali adfert, si remiseris illi supplicia, si securitatem spoponderis, ex toto bonum erit. Atqui maximum scelerum supplicium in ipsis est. Erras, inquam, si illa ad carnificem aut carcerem differs: statim puniuntur cum facta sunt, immo dum fiunt. Non nascitur itaque ex malo bonum, non magis quam ficus ex olea : ad semen nata respondent, bona degenerare non possunt. Quemadmodum ex turpi honestum non nascitur, ita ne ex malo quidem bonum ; nam idem est honestum et bonum.

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commercio basato sui loro rispettivi bisogni. Anche il sommo bene ha un suo terreno adatto; non cresce nella regione dell’avorio o in quella del ferro. Vuoi saper qual è il luogo del sommo bene? È l’anima. Se essa non è pura e santa non può ricevere la divinità. «Il bene non proviene dal male; ma la ricchezza proviene dalla cupidigia del denaro; la ricchezza, dun­ que, non è un bene.» «Non è vero» si obietta «che il bene non derivi dal male. Il danaro può derivare da un sacrilegio e da un furto. Così il sacrilegio e il furto sono un male, ma nel senso che producono più mali che beni; essi arrecano sì un guadagno, ma accompagnato da paura, preoccupazio­ ni e tormenti fisici e morali.» Chi si esprime così ammette necessariamente che, se il sacrilegio è un male in quanto produce molti mali, esso è anche un bene sotto certi aspetti, poiché procura qualche vantaggio. Ora, può esserci niente di più mostruoso? Eppure si è diffusa la convinzione che il sacrilegio, il furto, l’adulterio sono da annoverarsi fra i beni. Quante persone non si vergogna­ no di rubare, e quante altre si vantano di essere adultere! Chi commette una piccola colpa cade sotto i rigori della legge, ma i grandi colpevoli hanno l’onore del trionfo. Aggiungi poi che, se il sacrilegio sotto certi aspetti fosse un bene, si direbbe senz’altro che è onesto e rettamente compiuto... cosa che nessun mortale oserebbe pensare. Dunque, il male non può produrre il bene. Se infatti, come voi dite, il sacrilegio fosse un male solo perché apporta molti mali, basterebbe rimettere la pena e garan­ tire l’impunità perché sia integralmente un bene. Ma la pena più grande per i delitti sta nei delitti stessi. Sbagli se pensi che la pena cominci nel carcere o davanti al carnefice; essa comincia subito, appena il delitto è stato commesso, anzi mentre viene commesso. Così dal male non può nascere il bene, come un fico non nasce da un olivo; il frutto deve corrispondere al seme. Le cose buone non possono imbastardire. Come l’onestà non può nascere dal suo contrario, così neppure il bene dal male, essendo l’onestà e il bene l’identica cosa. 645

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Quidam ex nostris adversus hoc sic respondent: ‘putemus pecuniam bonum esse undecumque sumptam; non tamen ideo ex sacrilegio pecunia est, etiam si ex sacrilegio sumitur. Hoc sic intellege. In eadem urna et aurum est et vipera: si aurum ex urna sustuleris, non ideo sustuleris quia illic et vipera est; non ideo, inquam, mihi urna aurum dat quia viperam habet, sed aurum dat, cum et viperam habeat. Eodem modo ex sacrilegio lucrum fit, non quia turpe et sceleratum est sacrilegium, sed quia et lucrum habet. Quemadmodum in illa urna vipera malum est, non aurum quod cum vipera iacet, sic in sacrilegio malum est scelus, non 27 lucrum.’ A quibus (dissentio); dissimillima enim utriusque rei condicio est. Illic aurum possum sine vipera tollere, hic lucrum sine sacrilegio facere non possum ; lucrum istud non est adpositum sceleri sed inmixtum. 28 ‘Quod dum consequi volumus in multa mala incidimus, id bonum non est; dum divitias autem consequi volumus, in multa mala incidimus; ergo divitiae bonum non sunt.’ ‘Duas’ inquit ‘significationes habet propositio vestra: unam, dum divitias consequi volumus, in multa nos mala incidere. In multa autem mala incidimus et dum virtutem consequi volumus : aliquis dum navigat studii causa, naufra29 gium fecit, aliquis captus est. Altera significatio talis est: per quod in mala incidimus bonum non est. Huic propositioni non erit consequens per divitias nos aut per voluptates in mala incidere; aut si per divitias in multa mala incidimus, non tan­ tum bonum non sunt divitiae sed malum sunt; vos autem illas dicitis tantum bonum non esse. Praeterea’ inquit ‘conceditis divitias habere aliquid usus: inter commoda illas numeratis. Atqui eadem ratione (ne) commodum quidem erunt; per 30 illas enim multa nobis incommoda eveniunt.’ His quidam hoc respondent: ‘erratis, qui incommoda divitis inputatis. Illae neminem laedunt: aut sua nocet cuique stultitia aut aliena nequitia, sic quemadmodum gladius neminem occidit: oc-

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Alcuni dei nostri fanno la seguente obiezione: «Am­ mettiamo che il denaro sia un bene, da qualunque parte provenga; ne segue che, anche se proviene da un sacrilegio, il denaro non ha in sé niente di sacrilego. Ci spieghiamo con un esempio: nella stessa urna vi è l’oro e una vipera. Se prendete l’oro, non direte che l’avete preso perché lì c’è una vipera; è chiaro che l’urna mi fornisce l’oro non perché contiene una vipera, ma me lo fornisce pur contenendo una vipera. Così si trae un guadagno da un furto sacrilego non perché esso è una azione infame e disonesta, ma perché porta con sé anche un guadagno. Come nell’urna il male è la vipera, non l’oro che le sta accanto, così nel furto sacrilego il male è il delitto e non il guadagno che se ne trae». Non accetto questo ragionamento: non c’è alcun rapporto fra i due termini del paragone. Nell’esempio fatto io posso pren­ dere l’oro senza la vipera, mentre nel caso del furto sacrilego non posso trarne guadagno senza fare sacrile­ gio. Qui il guadagno non sta accanto al delitto, ma è inscindibile da esso. «Non è un bene ciò che attira molti mali su chi lo persegue; il perseguire la ricchezza ci attira molti mali; dunque la ricchezza non è un bene.» Si obietta: «Questa proposizione significa due cose: l’una, che il perseguire la ricchezza ci attira molti mali. Ma noi siamo ugualmente esposti a molti mali anche mentre cerchiamo di conseguire la virtù: uno che viaggia per istruirsi fa naufragio; un altro vien fatto prigioniero. Ecco il secondo significato: non è un bene ciò che ci procura dei mali. Non consegue da questa affermazione che le ricchezze o i piaceri ci procurano dei mali; altri­ menti, se è vero che la ricchezza procura molti mali, non solo non è un bene, ma è un male; ora, voi affermate soltanto che essa non è un bene. Inoltre voi ammettete che la ricchezza ha qualche utilità e la considerate una comodità; ma, seguendo il vostro ragionamento, non può essere una comodità, se è vero che essa è causa di molti mali». Ma rispondono altri filosofi: «V’ingannate, mettendo a carico della ricchezza i vostri mali. Essa non danneggia nessuno: il danno ci viene dalla nostra stoltezza o dall’altrui cattiveria. La spada, da sé, non 647

cidentis telum est. Non ideo divitiae tibi nocent si propter 31 divitias tibi nocetur.’ Posidonius, ut ego existimo, melius, qui ait divitias esse causam malorum, non quia ipsae faciunt aliquid, sed quia facturos inritant. Alia est enim causa efficiens, quae protinus necessest noceat, alia praecedens. Hanc praecedentem causam divitiae habent : inflant animos, superbiam pariunt, invidiam contrahunt, et usque eo mentem alienant 32 ut fama pecuniae nos etiam nocitura delectet. Bona autem omnia carere culpa decet ; pura sunt, non corrumpunt animos, non solli'citant ; extollunt quidem et dilatant, sed sine tumore. Quae bona sunt fiduciam faciunt, divitiae audaciam; quae bona sunt magnitudinem animi dant, divitiae insolentiam. Nihil autem aliud est insolentia quam species magnitudinis 33 falsa. ‘Isto modo’ inquit ‘etiam malum sunt divitiae, non tantum bonum non sunt.’ Essent malum si ipsae nocerent, si, ut dixi, haberent efficientem causam: nunc praecedentem habent et quidem non inritantem tantum animos sed adtrahentern; speciem enim boni offundunt veri similem ac pleris34 que credibilem. Habet virtus quoque praecedentem causam ad invidiam ; multis enim propter sapientiam, multis propter iustitiam invidetur. Sed nec ex se hanc causam habet nec veri similem ; contra enim veri similior illa species hominum animis obicitur a virtute, quae illos in amorem et admirationem vocet. 35 Posidonius sic interrogandum ait: ‘quae neque magni­ tudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem non sunt bona; divitiae autem et bona valetudo et similia his nihil horum faciunt; ergo non sunt bona’. Hanc interrogàtionem magis etiamnunc hoc modo intendit: ‘quae neque magni­ tudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem, contra autem insolentiam, tumorem, arrogantiam creant, mala sunt;

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uccide, ma è solo il mezzo di cui si serve l’uccisore. Così, dal fatto che la ricchezza può essere l’occasione di un danno, non segue che essa sia la causa del danno». Più giusto mi sembra il pensiero di Posidonio. Egli dice che la ricchezza è causa del male non perché fa essa stessa il male, ma perché spinge gli uomini a farlo. Infatti, la causa efficiente, che produce immediatamente e necessa­ riamente il male, è cosa ben diversa dalla causa antece­ dente. La ricchezza è questa causa antecedente: essa gonfia l’animo, genera la superbia, suscita rinvidia e ci travia a tal punto che il prestigio del danaro, anche se poi ci nuocerà, ci riempirà di soddisfazioni. Ora, tutti i veri beni debbono essere esenti da colpevoli passioni: essi sono puri, non corrompono l’animo, non lo turbano, lo elevano e lo dilatano, ma senza riempirlo di orgoglio. I veri beni danno un senso di sicurezza, mentre la ricchezza rende audaci; i veri beni rendono l’animo grande, la ricchezza lo rende insolente: e l’insolenza non è che una parvenza di grandezza. «E così» si dirà «la ricchezza non solo non è un bene, ma è un male.» Sarebbe un male se recasse danno per se stessa, se, come ho detto, fosse la causa efficiente; in realtà essa è una causa antecedente, capace non solo di eccitare l’ani­ mo, ma anche di attrarlo, facendo balenare un’apparen­ za di bene che molti scambiano per il vero bene. Anche la virtù può considerarsi una causa antecedente: essa porta con sé l’invidia. Molti sono oggetto d’invidia per­ ché sono saggi o perché sono giusti. Ma questa causa non emana dalla virtù e non corrisponde alla realtà; al contrario, la virtù, nel suo vero aspetto, richiama nell’animo umano amore e ammirazione. Posidonio dice che il sillogismo si deve formulare in questo modo: «Non sono beni quelle cose che non producono nell’animo né grandezza né fiducia né sicu­ rezza; la ricchezza, la salute e le cose simili non produco­ no nessuno di questi benefici; quindi non sono beni». Egli dà al sillogismo anche una formulazione più estesa: «Quelle cose che non producono nell’animo né grandez­ za né fiducia né sicurezza, ma, al contrario, provocano insolenza, superbia e arroganza, sono mali; a questi ci 649

a fortuitis autem in haec inpellimur; ergo non sunt bona’. 36 ‘Hac’ inquit ‘ratione ne commoda quidem ista erunt.’ Alia est commodorum condicio, alia bonorum: commodum est quod plus usus habet quam molestiae; bonum sincerum esse debet et ab omni parte innoxium. Non est id bonum quod 37 plus prodest, sed quod tantum prodest. Praeterea commodum et ad animalia pertinet et ad inperfectos homines et ad stultos. Itaque potest ei esse incommodum mixtum, sed com­ modum dicitur a malore sui parte aestimatum: bonum ad unum sapientem pertinet; inviolatum esse oportet. 38 Bonum animum habe: unus tibi nodus, sed Herculaneus restai: ‘ex malis bonum non fit; ex multis paupertatibus divitiae fiunt; ergo divitiae bonum non sunt’. Hanc interrogationem nostri non agnoscunt, Peripatetici et fingunt illam et solvunt. Ait autem Posidonius hoc sophisma, per omnes dialecticorum scholas iactatum, sic ab 39 Antipatro refelli: ‘paupertas non per possessionem dicitur, sed per detractionem’ (vel, ut antiqui dixerunt, orbationem; Graeci κ α τά aréprjaiv dicunt); ‘non quod habeat dicit, sed quod non habeat. Itaque ex multis inanibus nihil impleri potest: divitias multae res faciunt, non multae inopiae. Ali ter’ inquit ‘quam debes paupertatem intellegis. Pauper­ tas enim est non quae palica possidet, sed quae multa non possidet; ita non ab eo dicitur quod habet, sed ab eo quod ei deest.’ 40 Facilius quod volo exprimerem, si Latinum verbum esset quo ανντταρζία significaretur. Hanc paupertati Antipater adsignat : ego non video quid aliud sit paupertas quam parvi possessio. D e isto videbimus, si quando valde vacabit, quae sit divitiarum, quae paupertatis substantia; sed tunc quoque considerabimus numquid satius sit paupertatem permulcere, divitiis demere supercilium quam litigare de 41 verbis, quasi iam de rebus iudicatum sit. Putemus nos ad

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spingono i doni della fortuna; essi, dunque, non sono beni». «In virtù di questo ragionamento» si replica «non saranno neppure comodità.» Comodità e bene sono concetti diversi. La comodità dà più utile che fastidio. Il bene deve essere purissimo e, sotto ogni aspetto, innocuo. Esso è tale non in quanto dà più vantaggio, ma in quanto dà solo vantaggio. Inoltre, le comodità possono riferirsi anche agli animali, agli uomini imperfet­ ti e agli stoici; possono essere mescolate con gli svantaggi e si chiamano comodità appunto perché in esse prevalgo­ no i vantaggi. Il bene non è che del saggio e deve essere incontaminato. Fatti animo: non resta che un nodo, anche se difficile da sciogliersi. «Dai mali non nasce il bene, da molte povertà deriva la ricchezza; dunque, la ricchezza non è un bene.» La nostra scuola non riconosce questo sillogismo for­ mulato e risolto dai peripatetici. Posidonio dice che questo sofisma, discusso in tutte le scuole dei dialettici, è stato così confutato da Antipatro: «La parola povertà non implica possesso, ma detrazione o, come dissero gli antichi, privazione. I Greci dicono κατά βτέρηβι,ν. Si annunzia tale non per quello che ha, ma per quello che non ha. Con più vuoti non si riempie niente: non la somma di molte privazioni, ma il possesso di molte cose produce la ricchezza. Voi non avete un giusto concetto della povertà. Essa non consiste nel possedere poco, ma nel non possedere molte cose; essa non si definisce in rapporto a quello che ha, ma in rapporto a quello che le manca». Esprimerei meglio il mio pensiero, se ci fosse una parola latina per indicare la ανυπαρξία che per Antipatro è il carattere distintivo della povertà. Per me la povertà non è altro che il possesso del poco. Se avremo più tempo in seguito, esamineremo, su questo argomento, la natura della ricchezza e della povertà. Ma anche allora ci sarà da vedere se non sia meglio familiarizzarsi con la povertà e abbassare la boria della ricchezza che discutere sulle parole, come se tutto fosse stato risolto nella realtà 651

4.

Lettere a Lucilio · Voi. II

contionem vocatos: lex de abolendis divitìs fertur. His interrogationibus suasuri aut dissuasuri sumus ? his effecturi ut populus Romanus paupertatem, fundamentum et causam imperii sui, requirat ac laudet, divitias autem suas timeat, ut cogitet has se apud victos repperisse, hinc ambitum et largitiones et tumultus in urbem sanctissimam temperatissimam inrupisse, nimis luxuriose ostentari gentium spolia, quod unus populus eripuerit omnibus facilius ab omnibus uni eripi posse ? Haec satius est suadere, et expugnare adfectus, non circumscribere. Si possumus, fortius loquamur; si minus, apertius. Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

De liberalibus studiis quid sentiam scire desiderasi nullum suspicio, nullum in bonis numero quod ad aes exit. Meritoria artificia sunt, hactenus utilia si praeparant ingenium, non detinent. Tamdiu enim istis inmorandum est quamdiu nihil animus agere maius potest; rudimenta sunt nostra, non 2 opera. Quare liberalia studia dieta sint vides: quia homine libero digna sunt. Ceterum unum studium vere liberale est quod liberum facit, hoc est sapientiae, sublime, forte, magnanimum: cetera pusilla et puerilia sunt. An tu quicquam in istis esse credis boni quorum professores turpissimos omnium ac flagitiosissimos cernis ? Non discere debemus ista, sed didicisse.

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dei fatti. Supponiamo di trovarci in un’assemblea popo­ lare: si propone una legge per l’abolizione della ricchez­ za. Ci baseremo su questi sillogismi per sostenerla o per combatterla? Con questi argomenti potremo indurre il popolo romano a cercare e a lodare la povertà, fonda­ mento e origine del suo impero? Con questi argomenti lo indurremo a temere la ricchezza e a pensare che esso la trovò presso i popoli vinti e che per causa della stessa ricchezza si scatenarono nella città più santa e austera ambizioni, disordini, venalità? Lo convinceremo che è eccessiva l’ostentazione con cui si mette in mostra il frutto delle spoliazioni generali? Gli faremo capire che quello che fu strappato da un solo popolo a tutti i popoli più facilmente da tutti i popoli può essere strappato a un popolo solo? È più importante sostenere tutto ciò e dominare le passioni popolari che formulare astratte definizioni. Usiamo, se è possibile, un linguaggio più vigoroso; o almeno più chiaro. Addio.

lettera

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Scarsa utilità delle arti liberali per il conseguimento della saggezza Tu vuoi sapere la mia opinione sulle arti liberali. Non apprezzo né annovero fra i veri beni questi studi che fanno arricchire. Sono arti venali, utili in quanto prepa­ rano l’ingegno, purché non lo trattengano oltre il neces­ sario. Bisogna attendere ad esse solo finché l’animo non sia capace di fare qualcosa di più importante. Costitui­ scono i primi rudimenti, non l’opera compiuta. Tu sai perché si chiamano studi liberali: perché sono degni di un uomo libero. Ma un solo studio è davvero liberale e fa veramente l’uomo libero: lo studio della saggezza, che è sublime, forte, generoso; gli altri sono sciocchezze puerili. Pensi che ci possa essere qualcosa di buono in queste arti professate dagli uomini più disonesti e più malvagi? Queste cose non dobbiamo impararle, ma averle imparate. 653

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Quidam illud de liberalibus studiis quaerendum iudicaverunt, an virum bonum facerent: ne promittunt quidem nec huius rei scientiam adfectant. Grammatice circa curam sermonis versatur et, si latius evagari vult, circa historias, iam ut longissime fines suos proferat, circa carmina. Quid horum ad virtutem viam sternit ? Syllabarum enarratio et verborum diligentia et fabularum memoria et versuum lex ac modificatio— quid ex his metum demit, cupiditatem eximit, libidinem frenai ? Ad geometriam transeamus et ad musicen: nihil apud àlias invenies quod vetet timere, vetet cupere. Quae quisquis ignorat, alia frustra scit. * * * utrum doceant isti virtutem an non : si non docent, ne tradunt quidem; si docent, philosophi sunt. Vis scire quam non ad docendam virtutem consederint ? aspice quam dissimilia inter se omnium studia sint : atqui similitudo esset idem docentium. Nisi forte tibi Homerum philosophum fuisse persuadent, cum his ipsis quibus colligunt negent; nam modo Stoicum illum faciunt, virtutem solam probantem et voluptates refugientem et ab honesto ne inmortalitatis quidem pretiorecedentem, modo Epicureum, laudantem statum quietae civitatis et inter convivia cantusque vitam exigentis, modo Peripateticum, tria bonorum genera inducentem, modo Academicum, omnia incerta dicentem. Apparet nihil horum esse in ilio, quia omnia sunt; ista enim inter se dissident. Demus illis Home­ rum philosophum fuisse: nempe sapiens factus est antequam carmina ulla cognosceret; ergo illa discamus quae Homerum fecere sapientem. Hoc quidem me quaerere, uter maior aetate fuerit, Homerus an Hesiodus, non magis ad rem pertinet quam scire, cum minor Hecuba fuerit quam Helena, quare tam male tulerit aetatem. Quid, inquarti, annos

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Secondo alcuni ci si deve porre il problema se gli studi liberali siano adatti a formare il saggio; ma tali studi non hanno né la pretesa né l’aspirazione di darci questa scienza. La grammatica si occupa della lingua e, se vuol evadere in un campo più vasto, s’interessa della storia. Se poi vuol estendere la sua attività all’estremo limite, si dedica al commento dei poeti. Quale di queste discipline spiana la vita verso la virtù? La scansione delle sillabe, o la proprietà del linguaggio, o l’apprendimento a memo­ ria delle favole, o le regole sulla misura dei versi? Quale di esse scaccia la paura, libera dalla cupidigia, tiene a freno le passioni? Passiamo alla geometria e alla musica: non cè niente in queste discipline che insegni a dominare paure e desideri; e, se si ignora questo, è inutile conosce­ re il resto. ... se questi maestri insegnino la virtù o no. Se non la insegnano, non la possono neppure trasmettere agli altri. Se la insegnano, sono filosofi. Vuoi vedere come la virtù non rientri nei loro insegnamenti? Osserva come sono differenti fra loro gl’indirizzi di tutti costoro; eppure tale diversità non ci sarebbe, se insegnassero la stessa dottrina. A meno che, per caso, non ti convincano che Omero fu un filosofo, quando gli argomenti a sostegno della loro tesi affermano proprio il contrario. Ora ti fanno di Omero uno stoico che apprezza solo la virtù, rifugge dal piacere e non si scosta dall’onestà, a costo di rinunziare alla stessa immortalità; ora te ne fanno un epicureo che loda la condizione di una città tranquilla, ove la vita trascorre tra banchetti e canti; ora è peripateti­ co che divide i beni in tre categorie; ora è un accademico che nega l’esistenza di qualunque certezza. La prova che in Omero non c’è nessuna di tutte queste dottrine è appunto il fatto che ci sono tutte, essendo esse in contra­ sto fra loro. Concediamo loro che Omero fosse un filosofo: in tal caso pervenne alla saggezza prima di dedicarsi alla poesia. E allora dedichiamoci anche a noi quella scienza che rese Omero saggio. E anche il ricerca­ re se Omero visse prima o dopo Esiodo è per me altrettanto inutile che sapere perché Ecuba, pur essendo più giovane di Elena, portava così male i suoi anni. 655

Patrocli et Achillis inquirere ad rem existimas pertinere ? 7 Quaeris Ulixes ubi erraverit potius quam efficias ne nos semper erremus ? Non vacai audire utrum inter Italiani et Siciliam iactatus sit an extra notum nobis orbem (neque enim potuit in tam angusto error esse tam longus): tempestates nos animi cotidie iactant et nequitia in omnia Ulixis mala inpellit. Non deest forma quae sollicitet oculos, non hostis; hinc monstra effera et humano cruore gaudentia, hinc in­ sidiosa blandimenta aurium, hinc naufragia et tot varietates malorum. Hoc me doce, quomodo patriam amem, quomodo uxorem, quomodo patrem, quomodo ad haec tam honesta 8 vel naufragus navigem. Quid inquiris an Penelopa inpudica fuerit, an verba saeculo suo dederit ? an Ulixem illum esse quem videbat, antequam sciret, suspicata sit ? Doce me quid sit pudicitia et quantum in ea bonum, in corpore an in animo posita sit. 9 Ad musicum transeo. Doces me quomodo inter se acutae ac graves consonent, quomodo nervorum disparem reddentium sonum fiat concordia: fac potius quomodo animus secum meus consonet nec consilia mea discrepent. Monstras mihi qui sint modi flebiles: monstra potius quomodo inter adversa non emittam flebilem vocem. 10 Metiri me geometres docet latifundia potius quam doceat quomodo metiar quantum homini satis sit; numerare docet me et avaritiae commodat digitos potius quam doceat nihil ad rem pertinere istas conputationes, non esse feliciorem cuius patrimonium tabularios lassai, immo quam supervacua possideat qui infelicissimus futurus est si quantum habeat per 11 se conputare cogetur. Quid mihi prodest scire agellum in partes dividere, si nescio cum fratre dividere ? Quid prodest

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Forse ti sembra che sia tanto importante ricercare l’età di Patroclo o di Achille? T’interessa sapere in quali contrade andò errando Ulisse, anziché insegnare a noi il modo per non cadere sempre in errore? Non ho tempo di ascoltare se le tempeste lo sbatterono fra l’Italia e la Sicilia, o - poiché in uno spazio così ristretto non avrebbe potuto fare un così lungo viaggio - se egli vagò oltre i limiti del mondo conosciuto: le vere tempeste sono quelle che agitano la nostra anima ogni giorno e le vere disavventure di Ulisse sono quelle a cui ci spingono le nostre passioni perverse. Anche noi incontreremo gli allettamenti ingannevoli della bellezza e l’ostilità dei nemici: qui mostri ferocissimi assetati di sangue umano; là carezzevoli voci femminili; e, ancora oltre, naufragi e tante varietà di mali. Insegnami come devo amare la patria, mia moglie, mio padre; come devo, pur avendo fatto naufragio, tendere ancora verso queste sante mete. Perché ricerchi se Penelope fosse una donna impudica che trasse in inganno i suoi contemporanei e se ella già sospettasse, prima di averne conferma, che era Ulisse quello che le stava davanti? Insegnami che cos’è la pudicizia e il gran valore di questa virtù, risieda essa nel corpo o nell’anima. Passiamo al campo musicale: tu mi insegni come voci acute e gravi si armonizzino, e come corde che rendono un suono diverso producano un accordo perfetto; fa’ piuttosto in modo che il mio animo sia in armonia con se stesso e i miei propositi siano in perfetto accordo fra loro. Tu mi insegni quali sono i suoni lamentosi: insegnami piuttosto a non lamentarmi nelle avversità. Il geometra m’insegna a misurare i latifondi, ma fareb­ be meglio a insegnarmi qual è la giusta misura sufficiente per un uomo. Egli m’insegna a fare i conti, usando le dita al servizio dell’avarizia, ma dovrebbe insegnarmi che questi calcoli non servono a nulla e che il ricco, che ha tali redditi da stancare i contabili, non è per questo più felice; non gli giovano tutti i beni che possiede, ed egli sarebbe veramente infelice se dovesse contare da sé le sue entrate. A che mi serve saper fare la divisione di un campo, se poi mi rifiuto di dividerlo col fratello? A 657

colligere subtiliter pedes iugeri et conprendere etiam si quid decempedam effugit, si tristem me facit vicinus inpotens et aliquid ex meo abradens ? Docet quomodo nihil perdam ex finibus meis: at ego discere volo quomodo totos hilaris 12 amittam. ‘Paterno agro et avito’ inquit ‘expellor.’ Quid? ante avum tuum quis istum agrum tenuit ? cuius, non dico liominis, sed populi fuerit potes expedire ? Non dominus isto, sed colonus intrasti. Cuius colonus es ? si bene tecum agitur, heredis. Negant iurisconsulti quicquam usu capi publicum: hoc quod tenes, quod tuum dicis, publicum est et quidem 13 generis humani. O egregiam artem! scis rotunda metiri, in quadratum redigis quamcumque acceperis formam, intervalla siderum dicis, nihil est quod in mensuram tuam non cadat : si artifex es, metire hominis animum, die quam magnus sit, die quam pusillus sit. Scis quae recta sit linea: quid tibi prodest, si quid in vita rectum sit ignoras ? 14 Venio nunc ad illum qui caelestium notitia gloriatur: frigida Saturni sese quo stella receptet, quos ignis caeli Cyllenius erret in orbes. Hoc scire quid proderit ? ut sollicitus sim cum Saturnus et Mars ex contrario stabunt aut cum Mercurius vespertinum faciet occasum vidente Saturno, potius quam hoc discam, 15 ubicumque sunt ista, propitia esse nec posse mutari ? Agit illa continuus ordo fatorum et inevitabilis cursus; per statas vices remeant et effectus rerum omnium aut movent aut notant. Sed sive quidquid evenit faciunt, quid inmutabilis rei notitia proficiet ? sive significant, quid refert providere quod effugere non possis ? Scias ista, nescias : fient.

che mi serve calcolare con esattezza, a colpo d’occhio, i piedi di un iugero, senza lasciarmi sfuggire una misura anche minima, se poi sono in angustie perché il vicino prepotente sposta i confini a mio danno? Il geometra m’insegna a saper conservare ogni mio possesso legitti­ mo: ma io vorrei imparare ad accettare con gioia la perdita di tutto. «Ma io sono scacciato dal campo di mio padre e di mio nonno.» E prima di tuo nonno chi l’ha posseduto? Puoi dichiarare, non dico a quale persona, ma a quale popolo appartenne? Ci sei entrato non come padrone, ma come colono. Di chi sei colono? Se tutto va bene, dell’erede. I giuristi non ammettono che si possa acquistare per usucapione una proprietà pubblica: ora, quella che occupi, di cui ti dichiari proprietario, è pubblica, o meglio, di tutta l’umanità. Oh, che scienza profonda! Tu sai misurare un circolo; tu sai fare la quadratura di ogni figura che ti si presenti; calcoli la distanza fra due stelle; sei in grado di misurare tutto; e allora, se sei veramente abile, misura l’anima dell’uomo, mostraci la sua grandezza e le sue meschinità. Tu sai che cos’è una retta. Ma a che ti serve, se non sai che cos’è la rettitudine nella vita? Ora parlerò dell’astronomo, che si vanta di sapere «dove si ritiri la fredda stella di Saturno e quale orbita descriva nel cielo l’astro Cillenio»1. A che serve questa scienza? A crearmi preoccupazioni ogni volta che Satur­ no e Marte si troveranno in opposizione fra loro o quando Mercurio tramonterà la sera sotto il raggio di Saturno? M’insegni piuttosto che questi astri, qualunque sia la loro posizione, sono propizi e immutabili. Un ordine perpetuo e fatale li spinge nel loro immutabile corso: tornano allo stesso punto a regolari intervalli di tempo, e determinano o annunziano tutto quello che avviene nell’universo. Ma se essi determinano tutto quanto accade, che ti gioverà la conoscenza di ciò che è immutabile? Se poi essi annunziano solamente gli avvenimenti, che t’importa prevedere quello a cui non puoi sfuggire? Sia che tu preveda, sia che non preveda 1 Virgilio, Georgiche, I, 336 seg.

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Si vero solem ad rapidum stellasque sequentes ordine respicies, numquam te crastina fallet hora, nec insidiis noctis capiere serenae.

Satis abundeque provisum est ut ab insidiis tutus essem. 17 ‘Numquid me crastina non fallit hora? fallit enim quod nescienti evenit.’ Ego quid futurum sit nescio: quid fieri possit scio. Ex hoc nihil deprecabor, totum expecto: si quid remittitur, boni consulo. Fallit me hora si parcit, sed ne sic quidem fallit. Nam quemadmodum scio omnia accidere posse, sic scio et non utique casura; itaque secunda expecto, malis paratus sum. 18 In ilio feras me necesse est non per praescriptum euntem; non enim adducor ut in numerum liberalium artium pictores recipiam, non magis quam statuarios aut marmorarios aut ceteros luxuriae ministros. Aeque luctatores et totam oleo ac luto constantem scientiam cxpello ex his studiis liberalibus; aut et unguentarios recipiam et cocos et ceteros voluptatibus 19 nostris ingenia accommodantes sua. Quid enim, oro te, libe­ rale habent isti ieiuni vomitores, quorum corpora in sagina, animi in macie et veterno sunt ? An liberale studium istuc esse iuventuti nostrae credimus, quam maiores nostri rectam exercuerunt hastilia tacere, sudem torquere, equum agitare, arma tractare ? Nihil liberos suos docebant quod discendum esset iacentibus. Sed nec hae nec illae docent aluntve virtutem; quid enim prodest equum regere et cursum eius freno temperare, adfectibus effrenatissimis abstrahi? quid prodest multos vincere luctatione vel caestu, ab iracundia vinci ?

gli eventi, essi accadranno. «Se però porrai attenzione al rapido corso del sole e all’ordinato movimento delle stelle, non ti troverai ingannato sul tempo di domani, né ti lascerai attrarre dalle insidiose apparenze di una notte serena2.» Ho provveduto in modo più che sufficien­ te per essere al sicuro dalle insidie. «Ma sono sicuro che non m’ingannerà il tempo di domani? Ogni avvenimento imprevisto ci giunge ingannevole.» Io non so quello che accadrà, ma so quello che può accadere; nulla dovrò scongiurare, perché tutto mi attendo. Se qualche danno mi viene risparmiato, me ne compiaccio. M’inganna l’ora che sopraggiunge, quando mi risparmia; ma, in realtà, neppure allora m’inganna, perché, come so che tutto può accadere, so anche che non è poi certo che accada. Aspetto le prosperità, sono preparato alle avver­ sità. Devi scusarmi se non seguo le opinioni comuni: non mi sento di includere fra coloro che professano le arti liberali i pittori, gli scultori, i marmorari e gli altri che alimentano il lusso. Similmente escludo da questi studi liberali i lottatori e, in generale, quelli la cui arte si esaurisce nell’ungersi d’olio e nell’infangarsi nelle arene; in caso diverso, dovrei includervi i venditori di unguenti, i cuochi e tutti gli altri che mettono il loro ingegno al servizio della nostra sensualità. Sai dirmi, infatti, che cosa hanno di liberale coloro che vomitano a digiuno, ben pasciuti nei corpi, magri e torpidi nello spirito? Possono forse codesti ritenersi studi liberali per i nostri giovani, che in altri tempi si esercitavano, stando eretti, a scagliare giavellotti, a tirare di scherma col bastone, a correre a cavallo e a maneggiare le armi? Niente i nostri antenati insegnavano ai loro figli che questi potessero imparare stando in riposo. Ma neppure queste arti, come le precedenti, insegnano e alimentano la virtù: che giova, infatti, saper montare un cavallo e regolarne la corsa col freno, se poi uno non sa regolare le proprie sfrenate passioni? Che giova vincere molti avversari nella lotta o nel cesto, se poi ci si lascia vincere dall’ira? 2 Virgilio, Georgiche, I, 424 segg.

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‘Quid ergo? nihil nobis liberalia conferunt studia?’ Ad alia multum, ad virtutem nihil; nam et hae viles ex professo artes quae manu Constant ad instrumenta vitae plurimum conferunt, tamen ad virtutem non pertinent. ‘Quare ergo liberalibus studiis filios erudimus?’ Non quia virtutem dare possunt, sed quia animum ad accipiendam virtutem praeparant. Quemadmodum prima illa, ut antiqui vocabant, litteratura, per quam pueris dementa traduntur, non docet liberales artes sed mox percipiendis locum parat, sic liberales artes non perducunt animum ad virtutem sed expediunt. Quattuor ait esse artium Posidonius genera: sunt vulgares et sordidae, sunt ludicrae, sunt pueriles, sunt liberales. Vul­ gares opificum, quae manu Constant et ad instruendam vitam occupatae sunt, in quibus nulla decoris, nulla honesti simulatio est. Ludicrae sunt quae ad voluptatem oculorum atque aurium tendunt; his adnumeres licet machinatores qui pegmata per se surgentia excogitant et tabulata tacite in sublime crescentia et alias ex inopinato varietates, aut dehiscentibus quae cohaerebant aut his quae distabant sua sponte coeuntibus aut his quae eminebant paulatim in se residentibus. His inperitorum feriuntur oculi, omnia subita quia causas non novere mirantium. Pueriles sunt et aliquid habentes liberalibus simile hae artes quas εγκυκλίους Graeci, nostri autem liberales vocant. Solae autem liberales sunt, immo, ut dicam verius, liberae, quibus curae virtus est. ‘Quemadmodum’ inquit ‘est aliqua pars philosophiae naturalis, est aliqua moralis, est aliqua rationalis, sic et haec quoque liberalium artium turba locum sibi in philosophia

«Dunque gli studi liberali non ci sono di nessuna utilità?» Utili sotto altri aspetti, sono inutili per la virtù. Anche i mestieri manuali manifestamente vili, mentre contribuiscono a rendere comoda la vita, non hanno alcun rapporto con la virtù. «Allora, perché insegnamo ai nostri figli le arti liberali?» Non perché esse possano dare la virtù, ma perché preparano l’animo a ricevere la virtù. Come le prime nozioni dell’alfabeto (gli antichi dicevano litteratura) non insegnano le arti liberali, ma rendono più agevole il loro successivo apprendimento, così le arti liberali non portano l’animo alla virtù, ma ve 10 dispongono. Posidonio divide le arti in quattro specie: le rozze arti popolari, le arti per il divertimento, le arti educative, le arti liberali. Le prime sono proprie degli artigiani: esclusivamente manuali, servono per il miglioramento materiale dell’esistenza e non sono ispirate da nessuna considerazione morale. Le arti per il divertimento hanno per oggetto il piacere degli occhi e degli orecchi. Si possono annoverare fra queste le invenzioni dei meccani­ ci che costruiscono macchine che si sollevano da terra e salgono in aria senza rumore e fanno altri movimenti imprevisti3, o per il distaccarsi di parti connesse, o per 11 ricongiungersi di pezzi isolati, o per il loro abbassarsi dall’alto. Esse impressionano il volgo grossolano, che rimane colpito dagli effetti improvvisi, di cui non conosce le cause. Ci sono le arti che servono all’educazione dei giovani; esse hanno qualche analogia con le arti liberali propriamente dette, e sono chiamate dai Greci «encicli­ che»4 e dai nostri «arti liberali». In realtà, le sole arti liberali, anzi, per essere più precisi, le sole arti libere, sono quelle che hanno per oggetto la virtù. «Ma» si osserva «essendo lo studio della natura, la morale e la logica, parti della filosofia, anche il folto gruppo delle arti liberali può reclamare il suo posto nella filosofia. Infatti, quando si tratta dello studio della 3 Tali macchine erano spesso usate negli spettacoli del teatro e del circo. 4 Grammatica, musica, geometria, aritmetica, retorica, dialettica.

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vindicat. Cum ventum est ad naturales quaestiones, geometriae testimonio statur; ergo eius quam adiuvat pars est.’ Multa adiuvant nos nec ideo partes nostri sunt; immo si partes essent, non adiuvarent. Cibus adiutorium corporis nec tamen pars est. Aliquod nobis praestat geometria ministerium : sic philosophiae necessaria est quomodo ipsi faber, sed nec hic geometriae pars est nec illa philosophiae. Praeterea utraque fines suos habet; sapiens enim causas naturalium et quaerit et novit, quorum numeros mensurasque geometres persequitur et supputat. Qua ratione constent caelestia, quae illis sit vis quaeve natura sapiens scit: cursus et recursus et quasdam obversationes per quas descendunt et adlevantur ac speciem interdum stantium praebent, cum caelestibus stare non liceat, colligit mathematicus. Quae causa in speculo imagines exprimat sciet sapiens : illud tibi geometres potest dicere, quantum abesse debeat corpus ab imagine et qualis forma speculi quales imagines reddat. Magnum esse solem philosophus probabit, quantus sit mathematicus, qui usu quodam et exercitatione procedit. Sed ut procedat, inpetranda illi quaedam principia sunt ; non est autem ars sui iuris cui precarium fundamentum est. Philosophia nil ab alio petit, totum opus a solo excitat: mathematice, ut ita dicam, superficiaria est, in alieno aedificat; accipit prima, quorum beneficio ad ulteriora perveniat. Si per se iret ad verum, si totius mundi naturam posset conprendere, dicerem multum conlaturam mentibus nostris, quae tractatu caelestium crescunt trahuntque aliquid ex alto. Una re consummatur animus, scientia bonorum ac maiorum inmutabili; nih'il autem ulla ars alia de bonis ac malis quaerit. Singulas lubet circumire virtutes. Fortitudo con-

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natura, ci si basa sulla testimonianza della geometria: dunque, essa è di aiuto alla filosofia, è una parte di tale scienza.» Rispondiamo: molte cose ci sono di aiuto, ma non per questo fanno parte di noi stessi; anzi, se facesse­ ro parte di noi, non sarebbero più ausiliarie. Il cibo giova al corpo, ma non ne fa parte. La geometria ci reca qualche utilità: essa serve alla filosofia come il costruttore di strumenti serve al geometra. Ma essa non fa parte della filosofia, così come gli strumenti meccanici non costituiscono la geometria. D ’altra parte, ciascuna di queste due scienze ha il suo campo di attività: il filosofo ricerca e scopre le cause dei fenomeni naturali, mentre il geometra ne calcola il numero e la misura. Il filosofo studia l’equilibrio dei corpi celesti, la loro azio­ ne, la loro natura; il matematico calcola i loro corsi e ricorsi, le fasi successive per cui gli astri tramontano e sorgono e per qualche tempo sembrano fermi, mentre in realtà ai corpi celesti non è mai consentito di arrestarsi. Il filosofo saprà la causa che produce le immagini nello specchio; il geometra può dirti quale distanza dev’esserci fra l’oggetto e l’immagine riflessa e come ogni tipo di specchio renda un’immagine diversa. Il filosofo proverà che il sole è grande; il matematico ne determinerà la grandezza con l’esperienza e col calcolo, ma per compie­ re queste operazioni deve ricevere dalla filosofia certi principi. Ora, non è autonoma quella scienza che non si basa su principi propri. La filosofia non chiede niente agli altri, costruisce il suo edificio fin dalla base; la matematica è, per così dire, «superficiaria», cioè costrui­ sce sul terreno di altri; da essi riceve i principi, e col loro contributo può progredire. Se essa muovesse verso la verità solo con i suoi mezzi, se potesse abbracciare completamente la natura dell’universo, riconoscerei che giova molto al progresso dell’anima, che dalla conoscen­ za del mondo celeste trae motivo di elevazione. Ma un’unica cosa può condurre l’anima alla perfezio­ ne: la scienza immutabile del bene e del male: nessun’al­ tra arte ha per oggetto la ricerca del bene e del male. Esaminiamo le virtù ad una ad una. Il coraggio è la capacità di disprezzare tutto ciò che fa paura agli uomini: 665

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temptrix timendorum est; terribilia et sub iugum libertatem nostram mittentia despicit, provocai, frangit : numquid ergo hanc liberalia studia corroborant ? Fides sanctissimum humani pectoris bonum est, nulla necessitate ad fallendum cogitur, nullo corrumpitur praemio: ‘ure’, inquit ‘caede, occide: non prodam, sed quo magis secreta quaeret dolor, hoc illa altius condam’. Numquid liberalia studia hos animos facere possunt ? Temperantia voluptatibus imperai, alias odit atque abigit, alias dispensai et ad sanum modum redigit nec umquam ad illas propter ipsas venit ; scit optimum esse modum cupitorum non quantum velis, sed quantum debeas sumere. Humanitas vetat superbum esse adversus, socios, vetat amarum; verbis, rebus, adfectibus comem se facilemque omnibus praestat; nullum alienum malum putat, bonum autem suum ideo maxi­ me quod alicui bono futurum est amat. Numquid liberalia studia hos mores praecipiunt ? non magis quam simplicitatem, quam modestiam ac moderationem, non magis quam frugalitatem ac parsimoniam, non magis quam clementiam, quae alieno sanguini tamquam suo parcit et scit homini non esse homine prodige utendum. ‘Cum dicatis’ inquit ‘sine liberalibus studiis ad virtutem non perveniri, quemadmodum negatis illa nihil conferre virtuti?’ Quia nec sine cibo ad virtutem pervenitur, cibus tamen ad virtutem non pertinet; ligna navi nihil conferunt, quamvis non fiat navis nisi ex lignis: non est, inquam, cur aliquid putes eius adiutorio fieri sine quo non potest fieri. Potest quidem etiam illud dici, sine liberalibus studiis veniri ad sapientiam posse; quamvis enim virtus discenda sit, tamen non per haec discitur. Quid est autem quare existimem non futurum sapientem eum qui litteras nescit, cum sapientia non sit in litteris ? Res tradii, non verba, et nescio an certior memoria sit quae nullum extra se subsidium habet. Magna et

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esso non tiene in nessun conto, e affronta e infrange, i vani terrori che soggiogano la nostra libertà: c’è qualche arte liberale che dia un tale vigore? La fedeltà è il più santo bene dell’umana coscienza: nessuna necessità può costringerla a ingannare, nessun prezzo può corrom­ perla. «Brucia», ella dice «taglia, uccidi! io non tradirò, ma quanto più si cercherà con la sofferenza di carpirmi i segreti, tanto più profondamente li terrò nascosti.» Forse che gli studi liberali rendono l’animo così genero­ so? La temperanza regola i piaceri, ne esclude alcuni considerandoli spregevoli, riconduce gli altri alla giusta misura, né mai li cerca per se stessi. Ella sa che la norma migliore è prendere, di quello che è oggetto dei nostri desideri, non quanto piace, ma quanto è necessario. La virtù che chiamiamo umanità vieta la superbia nei rapporti sociali, vieta la sgradevolezza. Con tutti si mo­ stra amabile e cordiale nelle parole, nelle azioni, nei sentimenti; non c’è male che non stimi suo, e dei suoi beni ama soprattutto quello che può giovare al prossimo. Gli studi liberali non insegnano queste virtù, così come non insegnano la semplicità, la modestia e la moderazio­ ne, la frugalità e la parsimonia, la clemenza che si astiene da ogni spargimento di sangue e sa che nessun uomo può abusare di un altro uomo. Si obietta: «Se, come voi dite, non si può giungere alla virtù senza gli studi liberali, come potete poi sostene­ re che essi non danno alcun contributo alla virtù?» Neppu­ re senza cibo si può giungere alla virtù, tuttavia il cibo non ha alcun rapporto con la virtù. Il legno non contri­ buisce per se stesso a fare la nave, eppure non si fa la nave senza il legno. Non bisogna cioè credere che una cosa senza la quale non si potrebbe farne un’altra l’aiuti a farla. Ma alla saggezza si può arrivare anche senza gli studi liberali: infatti, quantunque la virtù debba essere appresa, tuttavia l’apprendimento non avviene attraver­ so questi studi. Perché dovrei pensare che non può diventare saggio chi ignora le lettere, quando la saggezza non consiste nelle lettere? Essa non insegna vuote paro­ le, ma cose concrete; e forse dà più garanzie quella memoria che non ha altro aiuto all’infuori di se stessa. 667

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spatiosa res est sapientia; vacuo illi loco opus est; de divinis humanisque discendum est, de praeteritis de futuris, de caducis de aeternis, de tempore. D e quo uno vide quam multa quaerantur: primum an per se sit aliquid; deinde an aliquid ante tempus sit sine tempore ; cum mundo coeperit an etiam ante mundum quia fuerit aliquid, fuerit et tempus. Innumerabiles quaestiones sunt de animo tantum: unde sit, qualis sit, quando esse incipiat, quamdiu sit, aliunde alio transeat et domicilia mutet in alias animalium formas aliasque coniectus, an non amplius quam semel serviat et emissus vagetur in toto; utrum corpus sit an non sit; quid sit facturus cum per nos aliquid facere desierit, quomodo liberiate sua usurus cum ex hac effugerit cavea ; an obliviscatur priorum et illinc nosse se incipiat unde corpori abductus in sublime secessit. Quamcumque partem rerum humanarum divinarumque conprenderis, ingenti copia quaerendorum ac discendorum fatigaberis. Haec tam multa, tam magna ut habere possint liberum hospitium, supervacua ex animo tollenda sunt. Non dabit se in has angustias virtus; laxum spatium res magna desiderai. Expellantur omnia, totum pectus illi vacet. ‘At enim delectat artium notitia multarum.’ Tantum itaque ex illis retineamus quantum necessarium est. An tu existimas reprendendum qui supervacua usibus comparai et pretiosairum rerum pompato in domo explicat, non putas eum qui occupatus est in supervacua litterarum supellectile ? Plus scire velie quam sit satis intemperantiae genus est. Quid quod ista liberalium artium consectatio molestos, verbosos, intempestivos, sibi placentes facit et ideo non discentes necessaria quia supervacua didicerunt ? Quattuor milia libro-

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La saggezza è cosa grande e vasta, e ha bisogno di spazio libero; essa ci ammaestra intorno agli dèi e agli uomini, intorno al passato e al futuro, intorno al caduco e all’eterno, intorno al tempo. Solo su quest’ultimo argo­ mento vedi quante sono le questioni che si pongono: ci si chiede, anzitutto, se il tempo sia qualche cosa in se stesso; poi se qualche cosa sia esistita prima del tempo e fuori del tempo; se il tempo abbia avuto principio col mondo o, dato che qualche cosa dev’essere esistita prima del mondo, se anche il tempo sia esistito prima del mondo. Ci sono poi innumerevoli questioni solo intorno all’anima: sulle sue origini, sulla sua natura, sull’inizio e sulla durata della sua esistenza; se passa da un luogo a un altro e muta domicilio, entrando di volta in volta in altri animali, o se è costretta in servitù una sola volta, per uscire poi e vagare nello spazio; se essa è materiale o no; che cosa farà quando cesserà di agire attraverso il nostro corpo, che uso farà della sua libertà quando si sarà liberata dalla prigione corporea; se dimenticherà il passato e comincerà a conoscere se stessa dal momento in cui, affrancata dal corpo, avrà raggiunto la sua sede celeste. Qualunque parte abbraccerai delle scienze uma­ ne e divine, dovrai affaticarti a studiare una grande quantità di problemi. Essi sono tanti e così importanti che, per poterli ospitare nel tuo animo, dovrai sgombrar­ lo di tutte le cose inutili. La virtù non si caccia nei cantucci: come ogni cosa grande, ha bisogno di spazio libero. Sgombriamo l’animo, perché esso resti compietamente a sua disposizione. «Ma a me piace conoscere molte scienze.» Rispondo: delle altre scienze basta ritenere quel tanto che è necessa­ rio. Non pensi che sia riprovevole acquistare cose inutili e, per farne ostentazione, ingombrare la casa di oggetti preziosi? E non consideri ugualmente riprovevole in­ gombrare la mente di un’inutile suppellettile letteraria? Voler sapere più di quanto basta è una forma di intempe­ ranza. Che dire poi della moda che ci fa seguire le scienze liberali e ci rende molesti, verbosi, importuni, vanesi, e ci fa trascurare il necessario perché abbiamo appreso quello che è superfluo? Il grammatico Didimo 669

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rum Didymus grammaticus scripsit: misererer si tam multa supervacua legisset. In his libris de patria Homeri quaeritur, in his de Aeneae matre vera, in his libidinosior Anacreon an ebriosior vixerit, in his an Sappho publica fuerit, et alia quae erant dediscenda si scires. I nunc et longam esse vitam nega ! Sed ad nostros quoque cum perveneris, ostendam multa securibus recidenda. Magno inpendio temporum, magna alienarum aurium molestia laudatio haec constati ‘o homi­ nem litteratum!’ Simus hoc titulo rusticiore contenti: ‘o virum bonum!’ Itane est ? annales evolvam omnium gentium et quis primus carmina scripserit quaeram ? quantum temporis inter Orphea intersit et Homerum, cum fastos non habeam, conputabo ? et Aristarchi notas quibus aliena carmina conpunxit recognoscam, et aetatem in syllabis conteram ? Itane in geometriae pulvere haerebo ? adeo mihi praeceptum illud salutare excidit : ‘tempori parce’ ? Haec sciam ? et quid ignorem ? Apion grammaticus, qui sub C. Caesare tota circulatus est Graecia et in nomen Homeri ab omnibus civitatibus adoptatus, aiebat Homerum utraque materia consummata, et Odyssia et Iliade, principium adiecisse operi suo quo bellum Troianum conplexus est. Huius rei argumentum adferebat quod duas litteras in primo versu posuisset ex industria librorum suorum numerum continentes. Talia sciat oportet qui multa vult scire. Non vis cogitare quantum temporis tibi auferat mala valetudo, quantum occupatio publica, quantum occupatio privata, quantum occupatio cotidiana, quantum somnus? Metire aetatem tuam: tam multa non capit. D e liberalibus studiis loquor: philosophi quantum habent supervacui, quantum ab usu recedentis! Ipsi quoque ad syllabarum distinctiones et coniunctionum ac praepositionum proprietates descenderunt et invidere grammaticis, invidere geometris; quidquid in illorum artibus supervacuum erat transtulere in

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scrisse quattromila libri: lo compiangerei anche se solo avesse letto una tale mole di cose inutili. In questi libri si discutono molte questioni: quale fu la patria di Omero, chi fu la madre di Enea, se Anacreonte fu più lascivo che beone, se Saffo fu una donna corrotta, e altre stupide questioni che, se si conoscessero, si dovrebbero disimparare. Nega ora che la vita sia lunga! Quando passeremo a parlare della filosofia storica, ti mostrerò che anche qui ci sono molti rami da recidere a colpi di scure. A prezzo di molto tempo perduto e di molto fastidio per le orecchie degli uditori, puoi sentire questa lode: «Oh, che scienziato!» Ci basti, invece, questo titolo modesto: «Oh, che brav’uomo!» Non è così? Consulterò i documenti storici dei vari popoli per cercare chi è stato il più antico poeta? In mancanza di fonti storiche, cercherò di calcolare quale intervallo di tempo ci sia fra Orfeo e Omero? Ricercherò le note con cui Aristarco segnava i versi spurii e consumerò la mia vita sulle sillabe? Starò sempre lì a tracciare segni come i geometri? Ho dunque totalmente dimenticato il precetto salutare: «Risparmia il tempo»? Dovrei sapere proprio queste cose? E allora che cosa dovrei ignorare? Il gram­ matico Apione, che sotto Caligola andò girando per tutta la Grecia e fu salutato di città in città come un secondo Omero, afferma che Omero, dopo aver compo­ sto i suoi due poemi, l’Iliade e l’Odissea, aveva scritto come proemio un’opera che abbracciava tutta la guerra di Troia. E allegava a prova di ciò che Omero aveva messo di proposito nel primo verso due lettere indicanti il numero complessivo dei suoi canti. Anche questo dovrebbe sapere chi vuol sapere molto. Non pensi quanto tempo ti sottraggono le malattie, gli affari pubblici e privati, le occupazioni di ogni giorno, il sonno? Misura la tua vita: non c’è posto per tante cose. Parlo degli studi liberali; ma anche i filosofi in quante occupazioni prive di utilità pratica perdono il loro tempo! Anch’essi si sono avviliti a studiare la misura delle sillabe e le proprietà delle congiunzioni e delle preposizioni; hanno fatto a gara con i grammatici e con i geometri: tutto ciò che c’era d’inutile in queste scienze 671

suam. Sic effectum est ut diligentius loqui scirent quam 43 vivere. Audi quantum mali faciat nimia subtilitas et quam infesta ventati sit. Protagoras ait de dmni re in utramque partem disputari posse ex aequo et de hac ipsa, an omnis res in utramque partem disputabilis sit. Nausiphanes ait ex his 44 quae videntur esse nihil magis esse quam non esse. Parmenides ait ex his quae videntur nihil esse tuniversot- Zenon Eleates omnia negotia de negotio deiecit : ait nihil esse. Circa eadem fere Pyrrhonei versantur et Megarici et Eretrici et Academici, 45 qui novam induxerunt scientiam, nihil scire. Haec omnia in illum supervacuum studiorum liberalium gregem coice; illi mihi non profuturam scientiam tradunt, hi spem omnis scientiae eripiunt. Satius est supervacua scire quam nihil. Illi non praeferunt lumen per quod acies derigatur ad verum, hi oculos mihi effodiunt. Si Protagorae credo, nihil in rerum natura est nisi dubium; si Nausiphani, hoc unum certum est, nihil esse certi; si Parmenidi, nihil est praeter unum; si 46 Zenoni, ne unum quidem. Quid ergo nos sumus ? quid ista quae nos circumstant, alunt, sustinent ? Tota rerum natura umbra est aut inanis aut fallax. Non facile dixerim utris magis irascar, illis qui nos nihil scire voluerunt, an illis qui ne hoc quidem nobis reliquerunt, nihil scire. Vale.

l’hanno trasferito nella filosofia. Così è accaduto che sanno meglio parlare che vivere. Eccoti una prova del male che l’eccessiva sottigliezza può fare, del grave danno che essa arreca alla verità. Protagora afferma che si possono sempre sostenere due tesi opposte su ogni argomento, a cominciare da questo: se, cioè, su ogni argomento si possa sostenere la tesi favorevole e quella contraria. Nausifane afferma che la non-esistenza delle cose che sembrano esistere non è meno probabile della loro esistenza. Parmenide affema che nessuna delle pro­ prietà che sembrano appartenere... Zenone di Elea eli­ minò ogni possibilità di discussione dicendo che niente esiste. Questa è all’incirca l’opinione dei pirroniani, dei megarici, degli eretrici e degli accademici, che hanno introdotto una nuova scienza: non sapere nulla. Getta pure queste dottrine nel mucchio delle cose inutili inse­ gnate dalle arti liberali: queste mi trasmettono una scien­ za che non mi gioverà, quei filosofi mi tolgono ogni speranza di arrivare a sapere qualcosa. Meglio sapere cose inutili che non sapere nulla; le arti liberali non mi offrono la lucerna che mi occorre per vedere la verità; quei filosofi mi cavano addirittura gli occhi. Se devo credere a Protagora, non c’è niente nella natura di cui non si possa dubitare; se a Nausifane, c’è questa sola certezza: che niente è certo; se a Parmenide, esiste solo l’uno; se a Zenone, non esiste neppure l’uno. Che siamo noi, dunque? Che sono queste cose che ci stanno intorno, che ci alimentano e ci sostengono? Tutta la natura è un’ombra vana e ingannevole. Non saprei dire se debbo irritarmi di più con quelli che ci negano ogni possibilità di conoscere o con quelli che non ci lasciano neppure la consolazione dell’ignoranza. Addio.

L IB E R Q VARTVS DECIM VS

PARTE SECONDA

LIBRO QUATTORDICESIMO

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Rem utilem desideras et ad sapientiam properanti necessariam, dividi philosophiam et ingens corpus eius in membra disponi; facilius enim per partes in cognitionem totius adducimur. Utinam quidem quemadmodum universa mundi facies in conspectum venit, ita philosophia tota nobis posset occurrere, simillimum mundo spectaculum! Profecto enim omnes mortales in admirationem sui raperet, relictis iis quae nunc magna magnorum ignorantia credimus. Sed quia con­ tingere hoc non potest, est sic nobis aspicienda quemadmo2 dum mundi secreta cernuntur. Sapientis quidem animus totam molem eius amplectitur nec minus illam velociter obit quam caelum acies nostra; nobis autem, quibus perrumpenda caligo est et quorum visus in proximo deficit, singula quaeque ostendi facilius possunt, universi nondum capacibus. Faciam ergo quod exigis et philosophiam in partes, non in frusta dividam. Dividi enim illam, non concidi, utile est ; nam conprehendere quemadmodum maxima ita minima difficile 3 est. Discribitur in tribus populus, in centurias exercitus;

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LETTERA 89

La filosofia: sue parti e suoi compiti Tu desideri una cosa utile, necessaria a chi è impaziente di giungere alla saggezza. Tu vuoi che io divida la filosofia, distinguendo il vasto suo corpo nelle membra che lo compongono. Infatti, attraverso lo studio delle singole parti, ci è più facile giungere alla comprensione del tutto. O, se, come la faccia dell’universo si presenta ai nostri occhi tutta intera, potesse presentarsi al nostro intelletto tutta intera la filosofia, spettacolo molto simile a quello dell’universo! Certo, essa susciterebbe un’im­ mediata ammirazione in tutti noi uomini, e noi per essa lasceremmo tutte quelle cose che ora crediamo importanti solo perché ignoriamo Ciò che è realmente importante. Ma poiché non ci è concesso di godere questa meravigliosa visione, consideriamo la filosofia come facciamo quando vogliamo osservare le diverse parti del mondo. Solo la mente del saggio può abbraccia­ re tutta intera la filosofia con la stessa rapidità con cui il nostro sguardo abbraccia la volta celeste. Noi, invece, che dobbiamo dissipare una caligine così spessa e abbia­ mo una vista tanto difettosa, se siamo ancora incapaci di percepire il tutto, potremo più facilmente scoprire, una alla volta, le singole parti. Perciò, secondo il tuo desiderio, dividerò la filosofia in parti, non però in briciole: poiché è utile dividerla, ma non sminuzzarla: come le cose troppo grandi, anche quelle troppo piccole non è facile comprenderle. Il popolo si ripartisce in 675

quidquid in maius crevit facilius agnoscitur si discessit in partes, quas, ut dixi, innumerabiles esse et parvulas non oportet. Idem enim vitii habet nimia quod nulla divisio: simile confuso est quidquid usque in pulverem sectum est. 4 Primum itaque, si [ut] videtur tibi, dicam inter sapientiam et philosophiam quid intersit. Sapientia perfectum bonum est mentis humanae; philosophia sapientiae amor est et adfectatio : haec eo tendit quo illa pervenit. Philosophia unde dieta 5 sit apparet; ipso enim nomine fatetur quid amet. Sapientiam quidam ita finierunt ut dicerent divinorum et humanorum scientiam; quidam ita: sapientia est nosse divina et humana et horum causas. Supervacua mihi haec videtur adiectio, quia causae divinorum humanorumque pars divinorum sunt. Philo­ sophiam quoque fuerunt qui aliter atque aliter finirent : alii studium illam virtutis esse dixerunt, alii studium corrigendae 6 mentis ; a quibusdam dieta est adpetitio rectae rationis. Illud quasi constitit, aliquid inter philosophiam et sapientiam interesse; neque enim fieri potest ut idem sit quod adfectatur et quod adfectat. Quomodo multum inter avaritiam et pecuniam interest, cum illa cupiat, haec concupiscatur, sic inter philosophiam et sapientiam. Haec enim illius effectus 7 ac praemium est; illa venit, ad hanc itur. Sapientia est quam Graeci σοφίαν vocant. Hoc verbo Romani quoque utebantur, sicut philosophia nunc quoque utuntur; quod et togatae tibi antiquae probabunt et inscriptus Dossenni monumento titulus : hospes resiste et sophian Dossenni lege.

8 Quidam ex nostris, quamvis philosophia studium virtutis esset et haec peteretur, illa peteret, tamen non putaverunt àlias distrahi posse; nam nec philosophia sine virtute est nec sine philosophia virtus. Philosophia studium virtutis est, sed

tribù, l’esercito in centurie. Tutto ciò che ha proporzioni considerevoli si conosce meglio se si divide in parti; ma, lo ripeto, le parti non devono essere né troppe né troppo piccole. Chi fa distinzioni eccessive è in errore come chi non fa nessuna distinzione: un oggetto troppo spezzetta­ to si riduce in polvere e non è più che un ammasso confuso. Ti dirò anzitutto, se vuoi, qual è la differenza fra la saggezza e la filosofia. La saggezza è il bene supremo della mente umana; la filosofia è l’amore ardente della saggezza, e tende là dove la saggezza è arrivata. È chiaro perché la chiamano filosofia: l’etimologia della parola indica qual è l’oggetto del suo amore1. Alcuni hanno definito la saggezza la scienza delle cose divine e umane e delle loro cause; quest’ultima aggiunta mi sembra superflua, poiché le cause delle cose divine e umane sono comprese nella categoria delle cose divine. Anche della filosofia sono state date diverse definizioni. Da alcuni è stata definita la ricerca della virtù; da altri, lo studio per il perfezionamento deH’anima; da altri ancora, l’aspirazione verso la retta ragione. Si ammette general­ mente che c’è qualche differenza fra filosofia e saggezza: infatti sarebbe assurdo che l’oggetto di questa aspirazio­ ne s’identificasse col suo soggetto. È evidente la differen­ za fra l’avarizia e il denaro: l’una desidera, l’altro è desiderato. Lo stesso rapporto c’è fra la filosofia e la saggezza: quest’ultima è l’effetto e il premio di quella. La filosofia va verso la meta. La saggezza è la meta verso cui si va. La saggezza è chiamata dai Greci σοφία. In passato usavano questo termine anche i Romani, che adoperano ancora la parola «filosofia». Te ne possono dare la prova le antiche commedie togate e riscrizione sulla tomba di Dossenno: «Férmati, straniero, e appren­ di la sofia di Dossenno». Alcuni stoici, sebbene la filoso­ fia sia la ricerca della virtù - che è perciò l’oggetto della ricerca compiuta dalla filosofia - , non hanno ritenuto che i due termini possano essere disgiunti, poiché non c’è filosofia senza virtù, né virtù senza filosofia. La 1 Φιλοσοφία significa «amore della saggezza».

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per ipsam virtutem; nec virtus autem esse sine studio sui potest nec virtutis studium sine ipsa. Non enim quemadmodum in iis qui aliquid ex distanti loco ferire conantur alibi est qui petit, alibi quod petitur; nec quemadmodum* itinera quae ad urbes perducunt (extra urbes sunt, sic viae ad virtu­ tem) extra ipsam: ad virtutem venitur per ipsam, cohaerent inter se philosophia virtusque. 9 Philosophiae tres partes esse dixerunt et maximi et plurimi auctores : moralem, naturalem, rationalem. Prima componit animum; secunda rerum naturam scrutatur; tertia proprietates verborum exigit et structuram et argumentationes, ne prò vero falsa subrepant. Ceterum inventi sunt et qui in 10 pauciora philosophiam et qui in plura diducerent. Quidam ex Peripateticis quartam partem adiecerunt civilem, quia propriam quandam exercitationem desideret et circa aliam materiam occupata sit; quidam adiecerunt his partem quam οικονομικήν vocant, administrandae familiaris rei scientiam ; quidam et de generibus vitae locum separaverunt. Nihil 11 autem horum non in illa parte morali reperietur. Epicurei duas partes philosophiae putaverunt esse, naturalem atque moralem: rationalem removerunt. Deinde cum ipsis rebus cogerentur ambigua secernere, falsa sub specie veri latentia coarguere, ipsi quoque locum quem ‘de iudicio et regula’ appellant—alio nomine rationalem—induxerunt, sed eum 12 accessionem esse naturalis partis existimant. Cirenaici naturalia cum rationalibus sustulerunt et contenti fuerunt moralibus, sed hi quoque quae removent aliter inducunt ; in quinque enim partes moralia dividunt, ut una sit de fugiendis et petendis, altera de adfectibus, tertia de actionibus, quarta de causis, quinta de argumentis. Causae rerum ex naturali

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filosofia ricerca la virtù, ma attraverso la virtù stessa: non può esistere la virtù se non è oggetto di una continua ricerca; né ci può essere ricerca della virtù senza la virtù. Qui non è come per chi vuol colpire da lontano un oggetto, che sta in un posto mentre il bersaglio sta in un altro. E non è nemmeno come nelle strade che conducono alla città, che sono stituate all’esterno della città stessa: le vie che conducono alla virtù non sono esterne ad essa, ma è attraverso essa che si arriva alla virtù: filosofia e virtù sono indissolubilmente congiunte. Secondo la ripartizione accettata dalla maggioranza dei grandi autori, tre sono le parti della filosofia: la morale, la fisica, la logica. La prima forma l’animo; la seconda rivolge la sua indagine alla natura; la terza esamina la proprietà dei vocaboli, i legami sintattici e il modo di ragionare, per impedire che l’errore s’insinui al posto della verità. Ci sono anche altri autori che dividono la filosofia in un numero minore o maggiore di parti. Alcuni peripatetici aggiungono una quarta parte, la poli­ tica, che secondo loro richiede uno studio particolare e tratta una materia estranea alle altre tre parti. Alcuni aggiungono ancora la parte che i Greci chiamano οικονο­ μική cioè la scienza che insegna ad amministrare il patrimonio. Alcuni pretendono di trattare a parte le questioni relative ai differenti generi d’esistenza; ma tutti questi casi rientrano nella parte morale. Gli epicurei, avendo eliminato la logica, ammettevano solo due parti della filosofia: la fisica e la morale. Ma poi, costretti dalla forza delle cose a chiarire gli equivoci e a rilevare l’errore celato sotto l’apparenza del vero, hanno intro­ dotto a loro volta una sezione denominata «il criterio della verità», cioè la logica sotto altro nome. Ma secondo loro si tratta solo di un’aggiunta della fisica. I cirenaici hanno soppresso, oltre alla logica, anche la fisica e si sono accontentati della morale; ma anch’essi hanno introdotto poi, sotto altro nome, le parti escluse. In realtà, dividono la morale in cinque parti: la prima tratta di ciò che bisogna evitare o ricercare; la seconda tratta delle passioni; la terza delle azioni; la quarta delle cause; la quinta degli argomenti. Ora, le cause appartengono 679

13 parte sunt, argumenta ex rationali. Ariston Chius non

tantum supervacuas esse dixit naturalem et rationalem sed etiam contrarias; moralem quoque, quam solam reliquerat, circumcidit. Nam eum locum qui monitiones continet sustulit et paedagogi esse dixit, non philosophi, tamquam quidquam aliud sit sapiens quam generis humani paedagogus. 14 Ergo cum triperti'ta sit philosophia, moralem eius partem primum incipiamus disponere. Quam in tria rursus dividi placuit, ut prima esset inspectio suum cuique distribuens et aestimans quanto quidque dignum sit, maxime utilis— quid enim est tam necessarium quam pretia rebus inponere?— secunda de impetu, de actionibus tertia. Primum enim est ut quanti quidque sit iudices, secundum ut impetum ad illa capias ordinatum temperatumque, tertium ut inter impetum tuum actionemque conveniat, ut in omnibus istis tibi ipse 15 consentias. Quidquid ex tribus defuit turbai et cetera. Quid enim prodest inter (se) aestimata habere omnia, si sis in impetu nimius? quid prodest impetus repressisse et habere cupiditates in sua potestate, si in ipsa rerum actione tempora ignores nec scias quando quidque et ubi et quemadmodum agi debeat ? Aliud est enim dignitates et pretia rerum nosse, aliud articulos, aliud impetus refrenare et ad agenda ire, non ruere. Tùnc ergo vita concors sibi est ubi actio non destituit impetum, impetus ex dignitate rei cuiusque concipitur, proinde remissus (aut) acrior prout illa digna est peti. 16 Naturalis pars philosophiae in duo scinditur, corporalia et incorporalia ; utraque dividuntur in suos, ut ita dicam, gradus. Corporum locus in hos primum, in ea quae faciunt et quae ex his gignuntur—gignuntur autem dementa. Ipse (de) elementis locus, ut quidam putant, simplex est, ut quidam, in mater-

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alla fisica, gli argomenti alla logica. Secondo Aristone di Chio, la fisica e la logica sono scienze non solo inutili, ma dannose. Egli conserva solo la morale, ma la riduce sopprimendo il capitolo sui precetti. Questi, secondo lui, interessano il precettore, non il filosofo; come se il saggio non fosse il precettore dell’umanità. Accettando, dunque, la divisione della filosofia in tre parti, cominciamo ad esaminare la morale. Si è ritenuto opportuno dividerla, a sua volta, in tre capitoli: il primo esamina ciò che dev’essere attribuito a ciascuno e ciò che determina il valore di ogni cosa; esame molto utile, poiché è indispensabile dare alle cose il loro giusto valore. Il secondo capitolo riguarda gli impulsi; il terzo l’azione. Infatti occorre, anzitutto, che uno giudichi il valore di una cosa; in secondo luogo, che sappia regolare l’impulso che lo spinge verso di essa; in terzo luogo, che ci sia accordo fra l’impulso e l’azione, in modo che in tutte queste tre fasi uno si trovi sempre coerente con se stesso. Una deficienza in una delle tre fasi provoca disordine anche nelle altre. Infatti, non giova aver saputo determinare il valore di tutte le cose, se poi ci volgiamo ad esse con un impulso eccessivo. Né giova aver represso gli impulsi e saper dominare le proprie passioni, se poi, al momento di agire, ci manca il senso dell’opportunità e non sappiamo né quando, né dove, né come dobbiamo agire. Una cosa è conoscere il giusto valore delle cose, un’altra è cogliere l’occasione opportuna, un’altra saper dominare gl’impulsi e volgersi all’azione senza precipitarvisi. C’è equilibrio e coerenza nella vita quando l’azio­ ne è proporzionata all’impulso e questo si regola in relazione al valore dell’oggetto: sarà quindi più o meno vivace nella misura in cui l’oggetto merita di essere desiderato. La fisica si divide nello studio delle sostanze corporee e di quelle incorporee. Entrambe si suddividono in diversi gradi. Le sostanze corporee si distinguono in sostanze generatrici e in sostanze generate, che compren­ dono anche gli elementi. La parte che tratta degli ele­ menti secondo alcuni è semplice; secondo altri si divide 681

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iam et causam omnia moventem et dementa dividitur. Superest ut rationalem partem philosophiae dividam. Omnis oratio aut continua est aut inter respondentem et interrogantem discissa ; hanc 8ιαλ€κτικήν, illam ρητορική ν placuit vocari. •Ρ η το ρ ικ ή verba curat et sensus et ordinem; 8ιαλ€κτικη in duas partes dividitur, in verba et significationes, id est in res quae dicuntur et vocabula quibus dicuntur. Ingens deinde sequitur utriusque divisio. Itaque hoc loco finem faciam et summa sequar fastigia rerum;

alioqui, si voluero facere partium partes, quaestionum liber fiet. 18 Haec, Lucili virorum optime, quominus legas non deterreo, dummodo quidquid legeris ad mores statim referas. Illos con­ pesce, marcentia in te excita, soluta constringe, contumacia doma, cupiditates tuas publicasque quantum potes vexa; et istis dicentibus ‘quousque eadem?’ responde: 19 ‘Ego debebam dicere “ quousque eadem peccabitis ?” Reme­ dia ante vultis quam vitia desinere ? Ego vero eo magis dicam, et quia recusatis perseverabo; tunc incipit medicina proficere ubi in corpore alienato dolorem tactus expressit. Dicam etiam invitis profutura. Aliquando aliqua ad vos non blanda vox veniat, et quia verum singuli audire non vultis, publice audite. 20 ‘Quousque fines possessionum propagabitis ? Ager uni do­ mino qui populum cepit angustus est? Quousque arationes vestras porrigetis, ne provinciarum quidem spatio contenti circumscribere praediorum modum ? Inlustrium fluminum per privatum decursus est et amnes magni magnarumque gentium termini usque ad ostium a fonte vestri sunt. Hoc quoque parum est nisi latifundiis vestris maria cinxistis, nisi trans

nella materia, nella causa motrice di tutto e negli ele­ menti. Resta la logica con le sue classificazioni. Ogni discorso 0 è continuo o è formato da un dialogo fra chi interroga e chi risponde: il primo fu chiamato dai Greci retorica; il secondo, dialettica. La retorica ha cura delle parole, sia nel loro significato, sia nell’ordine in cui sono dispo­ ste. La dialettica si divide in due parti: i pensieri e le parole; cioè le idee che vengono espresse e i vocaboli con cui vengono espresse. Seguono poi ulteriori distinzioni. Perciò, a questo punto, concluderò e «raccoglierò som­ mariamente i fatti»2; altrimenti, se volessi fare altre suddivisioni, ne verrebbe fuori un libro di quesiti. Non voglio distoglierti, carissimo Lucilio, dallo studio di quest’ultima parte, purché ti serva al perfezionamento della vita morale. Da’ ad essa precise norme; scuotiti dal torpore; raccogliti in te dopo la dissipazione; doma quanto è ribelle; poni un freno, per quanto ti è possibile, alle tue passioni e a quelle del popolo. E a chi ti dice: «Sempre la stessa predica?», rispondi: «Sono io che devo dire: "Fino a quando cadrete nelle stesse colpe?” Volete che il rimedio cessi prima del male? Ma, quanto meno voi sarete disposti ad ascoltarmi, tanto più insistente io sarò. La medicina comincia a far profitto quando, toccando la parte del corpo che era diventata insensibile, si provoca dolore. E bene che vi giunga talora qualche parola meno gradita, e poiché non volete ascoltarmi in privato, ascoltatemi in pubblico. «Fin dove estenderete i confini dei vostri possedimen­ ti? Il territorio che poteva contenere un popolo è troppo piccolo per un solo padrone. Fin dove giungeranno ad arare i vostri coloni, se per tracciare il limite dei vostri campi non vi basta lo spazio di un’intera provincia? Il corso dei fiumi famosi, che dividono grandi popoli, si svolge dalla sorgente alla foce attraverso proprietà private. E anche questo è poco, se non avete racchiuso 1 mari entro i vostri latifondi, se il vostro fattore non 2Virgilio, Eneide, I, 342.

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5.

Lettere a Lucilio - Voi. Il

Hadriam et Ionium Aegaeumque vester vilicus regnai, nisi insulae, ducum domicilia magnorum, inter vilissima rerum numerantur. Quam vultis late possidete, sit fundus quod aliquando iihperium vocabatur, facite vestrum quidquid potestis, dum plus sit alieni. 21 ‘Nunc vobiscum loquor quorum aeque spatiose luxuria quam illorum avaritia diffunditur. Vobis dico: quousque nullus erit lacus cui non villarum vestrarum fastigia inmineant ? nullum flumen cuius non ripas aedifìcia vestra praetexant? Ubicumque scatebunt aquarum calentium venae, ibi nova deversoria luxuriae excitabuntur. Ubicumque in aliquem sinum litus curvabitur, vos protinus fundamenta iacietis, nec contenti solo nisi quod manu feceritis, mare agetis introrsus. Omnibus licet locis tecta vestra resplendeant, aliubi inposita montibus in vastum terrarum marisque prospectum, aliubi ex plano in altitudinem montium educta, cum multa aedificaveritis, cum ingentia, tamen et singula corpora estis et parvola. Quid prosunt multa cubicula ? in uno iacetis. Non est vestrum ubicumque non estis. 22 ‘Ad vos deinde transeo quorum profunda et insatiabilis gula hinc maria scrutatur, hinc terras, alia hamis, alia laqueis, alia retium variis generibus cum magno labore persequitur: nullis animalibus nisi ex fastidio pax est. Quantulum [est] ex istis epulis [quae] per tot comparatis manus fesso voluptatibus ore libatis ? quantulum ex ista fera periculose capta dominus crudus ac nauseane gustat ? quantulum ex tot conchyliis tam longe advectis per istum stomachum inexplebilem labitur ? Infelices, ecquid intellegitis maiorem vos famem habere quam ventrem ?’ 23 Haec aliis die, ut dum dicis audias ipse, scribe, ut dum scribis legas, omnia ad mores et ad sedandam rabiem adfectuumreferens. Stude, non ut plus aliquid scias, sed ut melius. Vale.

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comanda da sovrano al di là dell’Adriatico, dello Ionio, dell’Egeo; se le isole, già dimora di grandi condottieri, non sono considerate fra le cose di minor valore. Amplia­ te pure i vostri possessi in lungo e in largo, trasformate in fondo privato quello che una volta si chiamava impero, appropriatevi di tutto quello che potete; i possedimenti altrui supereranno sempre i vostri. «Ora parlo a voi, il cui lusso non è meno esorbitante dell’avidità di quegli altri. Fino a quando non ci sarà un lago in cui non si specchino le vostre ville? Un fiume sulle cui rive non sorgano i vostri palazzi? Dovunque scaturiranno polle di acque termali, ivi s’innalzeranno nuovi lussuosi alberghi. Dovunque il lido s’incurverà in un’insenatura, voi getterete nuove fondamenta, e, non contenti della terraferma, costruirete anche sul suolo artificiale che avrete sottratto al mare. Sebbene in tutti i luoghi sorgano i vostri splendidi palazzi, sia su monta­ gne con ampio orizzonte terrestre e marino; sia in pianu­ ra, alti quasi come monti, quand’anche abbiate costruito tanti smisurati edifici, ciascuno di voi continuerà ad essere quello che è: un ben misero corpo. A che servono tante stanze? Ne basta una per dormire. Non sono vostre quelle dove non siete. «Mi rivolgo, infine, a voi, la cui gola profonda e insaziabile da una parte fruga i mari, dall’altra le terre, in una caccia affannosa agli animali, con ami, con lacci, con varie specie di reti. Non lasciate in pace questi animali finché non ne siete sazi. Quanto poco assaggiate, con la bocca nauseata da tante delizie, di questi banchet­ ti, per imbandire i quali tanti uomini si sono affaticati! Una ben misera parte di questo animale, catturato con grave rischio, sarà gustata dal padrone che ha la digestio­ ne difficile. Ben poche, di tante ostriche fatte venire da così lontano, scorreranno giù per codesto esofago insaziabile. Disgraziati! Non capite che la vostra avidità supera la capienza del vostro ventre?» Di’ tutte queste cose agli altri, ma in modo da udire anche tu, nel dirle; scrivile, ma per leggerle mentre le scrivi; e rivolgi ogni tuo impegno a migliorare i costumi e a placare il furore delle passioni. Sia tua cura non di saper di più, ma di sapere meglio. Addio. 685

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Quis dubitare, mi Lucili, potest quin deorum inmortalium munus sit quod vivimus, philosophiae quod bene vivimus? Itaque tanto plus huic nos debere quam dis quanto maius beneficium est bona vita quam vita prò certo haberetur, nisi ipsam philosophiam di tribuissent; cuius scientiam nulli 2 dederunt, facultatem omnibus. Nam si hanc quoque bonum vulgare fecissent et prudentes nasceremur, sapientia quod in se optimum habet perdidisset, inter fortuita non esse. Nunc enim hoc in illa pretiosum atque magnificum est, quod non obvenit, quod illam sibi quisque debet, quod non ab alio petitur. Quid haberes quod in philosophia suspiceres si bene3 ficiaria res esset ? Huius opus unum est de divinis humanisque verum invenire; ab hac numquam recedit religio, pietas, iustitia et omnis alius comitatus virtutum consertarum et inter se cohaerentium. Haec docuit colere divina, humana diligere, et penes deos imperium esse, inter homines consortium. Quod aliquamdiu inviolatum mansit, antequam societatem avaritia distraxit et paupertatis causa etiam iis quos fecit locupletissimos fuit; desierunt enim omnia possidere, 4 dum volunt propria. Sed primi mortalium quique ex his geniti naturam incorrupti sequebantur eundem habebant et ducem et legem, commissi melioris arbitrio; naturaest enim potioribus deteriora summittere. Mutis quidem gregibus aut maxima corpora praesunt aut vehementissima : non praecedit armenta degener taurus, sed qui magnitudine ac toris ceteros mares vicit ; elephantorum gregem excelsissimus ducit : inter homines prò maximo est optimum. Animo itaque rector 1

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LETTERA 9 0

La filosofia e il progresso civile Non c’è dubbio, o Lucilio, che la vita sia un dono degli dèi immortali, e la vita onesta dono della filosofia. Pertanto, come il beneficio di una vita onesta è superiore al semplice dono della vita, così dovremmo essere più debitori alla filosofia che agli dèi: se non fossero stati gli dèi a darci la stessa filosofia. Essi, è vero, non concessero a nessuno la conoscenza della filosofia, ma concessero a tutti la facoltà di conoscerla. Infatti, se essa fosse un bene come tutti gli altri e noi nascessimo saggi, la saggezza avrebbe perduto ciò che ha di più bello, cioè il non essere fra i doni della fortuna. Invece, il valore e l’importanza della saggezza derivano dal fatto che essa non ci viene incontro, ma ciascuno la deve a se stesso e non la va a chiedere agli altri. Che cosa ci sarebbe da ammirare nella filosofia, se venisse concessa come un beneficio? Sua unica missione è di cercare la verità intorno alle cose divine e umane: da essa non si distacca­ no mai la religione, la pietà, la giustizia e tutto il corteo delle altre virtù, tra loro intimamente connesse. Essa c’insegna a venerare gli dèi, riconoscendone l’autorità, e ad amare gli uomini, che perciò ebbero un tempo i beni in comune. Questa situazione rimane inviolata fino al giorno in cui l’avidità di ricchezze rese impossibile la comunanza dei beni, causando la povertà anche di quelli che aveva reso ricchissimi. Essi, infatti, col volere il possesso individuale dei beni, cessarono di possedere il tutto. I primi uomini e i loro discendenti, seguendo fedelmente la natura, si affidavano alla volontà del migliore, che era per essi, al tempo stesso, guida e legge; poiché è proprio la natura a sottomettere quello che vale meno a quello che vale di più. I greggi sono guidati dagli animali più grandi e più forti; e gli armenti sono preceduti non dal toro più debole, ma da quello che, per grandezza e robustezza, supera gli altri maschi; il più grande degli elefanti guida gli altri. Fra gli uomini, la superiorità morale sta al posto della grandezza fisica. Pertanto il capo veniva scelto secondo le qualità spirituali 687

eligebatur, ideoque summa felicitas erat gentium in quibus non poterat potentior esse nisi melior; tuto enim quantum vult potest qui se nisi quod debet non putat posse. 5 Ilio ergo saeculo quod aureum perhibent penes sapientes fuisse regnum Posidonius iudicat. H i continebant manus et infìrmiorem a validioribus tuebantur, suadebant dissuadebantque et utilia atque inutilia monstrabant; horum prudentia ne quid deesset suis providebat, fortitudo pericula arcebat, beneficentia augebat ornabatque subiectos. Officium erat imperare, non regnum. Nemo quantum posset adversus eos experiebatur per quos coeperat posse, nec erat cuiquam aut animus in iniuriam aut causa, cum bene imperanti bene pareretur, nihilque rex maius minari male parentibus posset 6 quam ut abiret e regno. Sed postquam subrepentibus vitiis in tyrannidem regna conversa sunt, opus esse legibus coepit, quas et ipsas inter initia tulere sapientes. Solon, qui Athenas aequo iure fundavit, inter septem fuit sapientia notos; Lycurgum si eadem aetas tulisset, sacro illi numero accessisset octavus. Zaleuci leges Charondaeque laudantur; hi non in foro nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae tacito ilio sanctoque secessu didicerunt iura quae fiorenti tunc Siciliae et per Italiani Graeciae ponerent. 7 Hactenus Posidonio adsentior : artes quidem a philosophia inventas quibus in cotidiano vita utitur non concesserim, nec illi fabricae adseram gloriam. ‘Illa’ inquit ‘sparsos et aut casis tectos aut aliqua rupe suffossa aut exesae arboris trunco docuit tecta moliri.’ Ego vero philosophiam iudico non magis excogitasse has machinationes tectorum supra tecta surgentium et urbium urbes prementium quam'vivaria piscium in hoc clausa ut tempestatum periculum non adiret gula et quam-

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ed erano veramente felici quei popoli fra i quali non poteva comandare che il migliore: chi è convinto di poter fare solo quanto gli è lecito, può, senza pericolo, avere sugli altri un potere assoluto. Posidonio è d’avviso che nella cosiddetta età dell’oro fossero i saggi a comandare. Erano essi che impedivano la violenza, difendevano i deboli dai più forti, consiglia­ vano o sconsigliavano, e indicavano quello che era utile e quello che era dannoso. Con la loro saggezza provvede­ vano in modo che niente mancasse ai sudditi; col corag­ gio tenevano lontani da loro i pericoli, con la loro beneficenza ne accrescevano il benessere. Comandare non significava dominare, ma compiere un dovere. Nes­ suno faceva valere il suo potere contro quelli da cui l’aveva ricevuto, né alcuno aveva desiderio o motivo d’offendere, poiché s’obbediva spontaneamente a chi ben comandava e la pena più grave che il re poteva minacciare ai recalcitranti era quella di ritirarsi dal gover­ no. Ma quando, sottentrando i vizi, i regni degenerarono in tirannidi, si cominciò a sentire bisogno di leggi; e anche queste in principio furono dettate dai saggi. Solo­ ne, che fondò lo stato ateniese nella giustizia, fu uno dei sette uomini famosi per saggezza. Se Licurgo fosse stato suo contemporaneo, lo avrebbero annoverato come otta­ vo fra questi santi uomini. Sono lodate le leggi di Zaleuco e di Caronda: essi non nel foro né nelle scuole dei giureconsulti, ma nel tranquillo e sacro ritiro di Pitagora, appresero quelle norme di diritto che essi avrebbero poi dato agli abitanti della Sicilia, allora fiorente, e a quelli della Magna Grecia. Fin qui sono d’accordo con Posidonio; ma non sono d’accordo che le arti di uso giornaliero siano state trovate dalla filosofia; né saprei attribuirle la gloria delle attività manuali. «La filosofia» egli dice «insegnò a costruire case agli uomini dispersi, che trovavano il loro rifugio entro capanne, o in anfratti alla base delle rupi, o nei tronchi cavi degli alberi.» Io non credo che la filosofia abbia escogitato questa costruzione di case sopra case, di città sopra città; come non crederei a chi mi dicesse che la filosofia ha inventato i vivai dei pesci, affinché la golosità dei signori non fosse messa in pericolo dal 689

vis acerrime pelago saeviente haberet luxuria portus suos in quibus distinctos piscium greges saginaret. Quid ais ? philosophia homines docuit habere clavem et seram ? Quid aliud erat avaritiae signum dare? Philosophia haec cum tanto habitantium periculo inminentia tecta suspendit? Parum enim erat fortuitis tegi et sine arte et sine difficultate naturale 9 invenire sibi aliquod receptaculum. Mihi crede, felix illud saeculum ante architectos fuit, ante tectores. Ista nata sunt iam nascente luxuria, in quadratum tigna decidere et serra per designata currente certa manu trabem scindere; 8

nam primi cuneis scindebant fìssile lignum.

Non enim tecta cenationi epulum recepturae parabantur, nec in hunc usum pinus aut abies deferebatur longo vehiculorum ordine vicis intrementibus, ut ex illa lacunaria auro 10 gravia penderent. Furcae utrimque suspensae fulciebant casam; spissatis ramalibus ac fronde congesta et in proclive disposita decursus imbribus quamvis magnis erat. Sub his tectis habitavere [sed] securi : culmus liberos texit, sub mar­ more atque auro servitus habitat. 11 In ilio quoque dissentio a Posidonio, quod ferramenta fabrilia excogitata a sapientibus viris iudicat ; isto enim modo dicat licet sapientes fuisse per quos tunc laqueis captare feras et fallere visco inventum et magnos canibus circumdare saltus.

Omnia enim ista sagacitas hominum, non sapientia invenit. 12 In hoc quoque dissentio, sapientes fuisse qui ferri metalla

et aeris invenerint, cum incendio silvarum adusta tellus in summo venas iacentis liquefacta fudisset : ista tales inveniunt

maltempo, e questo vizio, anche col mare in tempesta, avesse i suoi rifugi, dove ingrassare le varie specie di pesci. E che? È mai possibile che la filosofia abbia insegnato agli uomini l’uso delle chiavi e delle serrature? Che altro sarebbe stato questo se non un invito all’avari­ zia? Proprio la filosofia avrebbe sospeso questi edifici che incombono con tanto pericolo su quelli che li abita­ no? Non bastava che gli uomini si proteggessero con rifugi occasionali e trovassero un ricetto naturale senza ricorrere a faticosi mestieri? Credimi, era veramente felice quell’età in cui non c’erano né architetti né stucca­ tori. L’attività di chi squadra i tronchi d’albero o taglia con mano sicura una trave, mentre la sega corre lungo il rigo segnato, è nata insieme col lusso, «poiché i primi uomini aprivano il legno spaccandolo coi cunei»1. Allora non si preparavano sale apposite per i banchetti, né tutto il quartiere era in subbuglio per il lungo ordine di carri che trasportavano quei pini e abeti che sarebbero poi diventati soffitti carichi d’oro. Forconi usati come puntel­ li sostenevano dai due lati le capanne. Lo scolo delle acque piovane era assicurato da dense ramaglie e am­ massi di fronde disposte a declivio, anche quando piove­ va a dirotto. Abitavano tranquilli in umili capanne; le canne costituivano il tetto di uomini liberi: ora, sotto il marmo e l’oro, abita un popolo di schiavi. Non sono d’accordo con Posidonio neppure quando dice che gli strumenti per il lavoro furono inventati dai saggi. In questo modo egli potrebbe dire che i saggi «per primi si provarono ad accalappiare le fiere coi lacci, a ingannarle col vischio, e a circondare la foresta coi carri2.» Tutte queste furono invenzioni non di uomini saggi, ma di uomini sagaci. E non sono neppure d’accor­ do con l’asserzione che i saggi scoprirono il ferro e il rame quando videro le vene metalliche, giacenti alla superficie del suolo, liquefarsi per l’incendio delle selve. Scoprirono questi metalli coloro che si dedicarono a tali 1 Virgilio, Georgiche, I, 144. 2 Virgilio, Georgiche, I, 139-40.

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13 quales colunt. N e illa quidem tam subtilis mihi quaestio videtur quam Posidonio, utrum malleus in usu esse prius an forcipes coeperint. Utraque invenit aliquis excitati ingenii, acuti, non magni nec elati, et quidquid aliudrcorpore incur­ vato et animo humum spectante quaerendum est. Sapiens facilis victu fuit. Quidni ? cum hoc quoque saeculo esse quam 14 expeditissimus cupiat. Quomodo, oro te, convenit ut et Diogenen mireris et Daedalum ? Uter ex his sapiens tibi videtur ? qui serram commentus est, an ille qui, cum vidisset puerum cava manu bibentem aquam, fregit protinus exemptum e perula calicem (cum) hac obiurgatione sui: ‘quamdiu homo stultus supervacuas sarcinas habui!’, qui se conplicuit 15 in dolio et in eo cubitavit? Hodie utrum tandem sàpientiorem putas qui invenit quemadmodum in immensam altitudinem crocum latentibus fistulis exprimat, qui euripos subito aquarum impetu implet aut siccat et versatilia cenationum laquearia ita coagmentat ut subinde alia facies atque alia succedat et totiens tecta quotiens fericula mutentur, an eum qui et aliis et sibi hoc monstrat, quam nihil nobis natura durum ac difficile imperaverit, posse nos habitare sine mar­ morario ac fabro, posse nos vestitos esse sine commercio sericorum, posse nos habere usibus nostris necessaria si con­ tenti fuerimus iis quae terra posuit in summo? Quem si audire humanum genus voluerit, tam supervacuum sciet sibi cocum esse quam militem. 16 l l l i sapientes fuerun t aut certe sapientibus sim iles quibus exp ed ita erat tu tela corporis. S im p lici cura Constant n eces­ saria : in delicias laboratur. N o n desiderabis artifices : sequere naturam . Illa n o lu it esse d istrictos; ad q u aecum que nos

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occupazioni. Né sembra a me, come a Posidonio, tanto sottile la questione se si cominciò a usare prima il martello o le tenaglie. Inventò l’uno e l’altro utensile qualche persona d’ingegno vivace e acuto, ma non gran­ de ed eccelso. E questo vale per tutto ciò che si debba cercare col corpo incurvato e l’attenzione volta verso terra. Il saggio è stato sempre semplice nel suo modo di vivere. E c’è motivo di meravigliarsene? Anche in questa età gli piace essere libero, per quanto è possibile, da bagagli inutili. Non ti sembra sconveniente unire nella stessa ammirazione Diogene e Dedalo? Quale di questi due è per te il saggio? L’inventore della sega o quel Diogene che, avendo visto un fanciullo bere nel cavo della mano, trasse subito dalla sua bisaccia la tazza e la ruppe, rivolgendo a se stesso questo rimprovero: «Ed io, pazzo che sono, per tanto tempo mi sono appesantito di un bagaglio inutile»?, l’uomo che dormiva rannicchia­ to in una botte? Ed oggi, chi stimi più saggio? Chi ha inventato il modo di spruzzare essenze odorose a grande altezza attraverso tubi nascosti; chi sa riempire i canali con improvvisa immissione di acqua e sa vuotarli con altrettanta rapidità; chi fabbrica soffitti delle sale da pranzo su telai girevoli, in modo che si trasformino a volontà e acquistino un aspetto nuovo col succedersi delle portate? O il filosofo che insegna a sé e agli altri che la natura niente ci ha imposto di duro e di difficile, che noi possiamo avere un’abitazione senza bisogno di marmorari e di fabbri, che possiamo vestirci anche senza dover importare stoffe di seta, che possiamo avere quan­ to occorre ai bisogni di ogni giorno contentandoci di quello che la terra ci offre sulla sua superficie? Se l’umanità vorrà ascoltarlo, essa si convincerà che si può fare a meno dei cuochi come dei soldati. Erano saggi, o almeno si avvicinavano alla saggezza, coloro che provvedevano con semplicità alla cura della propria persona. C’è bisogno di poco per assicurarsi il necessario: sono i piaceri che ci procurano tante fatiche. Non ti occorreranno artigiani: segui la natura. Essa non ha voluto che noi ci distraessimo in tante occupazioni: qualunque necessità ci abbia imposto, ci ha indicato i 693

cogebat instruxit. ‘Frigus intolerabilest corpori nudo.’ Quid ergo ? non pelles ferarum et aliorum animalium a frigore satis abundeque defendere queunt ? non corticibus arborum pleraeque gentes tegunt corpora ? non avium plumae in usum vestis conseruntur? non hodieque magna Scytharum pars tergis vulpium induitur ac murum, quae tactu molila et inpenetrabilia ventis sunt ? Quid ergo ? non quilibet virgeam cratem texuerunt manu et vili obliverunt luto, deinde [de] stipula aliisque silvestribus operuere fastigium et pluviis per devexa 17 labentibus hiemem transiere securi ? ‘Opus est tamen calorem solis aestivi umbra crassiore propellere.’ Quid ergo ? non vetustas multa abdidit loca quae vel iniuria temporis vel alio quolibet casu excavata in specum recesserunt ? Quid ergo ? non in defosso latent Syrticae gentes quibusque propter nimios solis ardores nullum tegimentum satis repellendis caloribus soli­ le dum est nisi ipsa arens humus ? Non fuit tam iniqua natura ut, cum omnibus aliis animalibus facilem actum vitae daret, homo solus non posset sine tot artibus vivere; nihil durum ab illa nobis imperatum est, nihil aegre quaerendum, ut possit vita produci. Ad parata nati sumus: nos omnia nobis diffidila facilium fastidio fecimus. Tecta tegimentaque et fomenta corporum et cibi et quae nunc ingens negotium facta sunt obvia erant et gratuita et opera levi parabilia; modus enim omnium prout necessitas erat: nos ista pretiosa, nos mira, nos magnis multisque conquirenda artibus fecimus. 19 Sufficit ad id natura quod poscit. A natura luxuria descivit, quae cotidie se ipsa incitat et tot saeculis crescit et ingenio adiuvat vitia. Primo supervacua coepit concupiscere, inde contraria, novissime animum corpori addixit et illius deser­ vire libidini iussit. Omnes istae artes quibus aut circitatur

mezzi per provvedervi. «Un uomo nudo non può tollera­ re il freddo.» E allora? Le pelli delle fiere e degli altri animali non sono più che sufficienti per garantirci dal freddo? Non è forse vero che molti popoli si coprono le membra con le cortecce degli alberi? Non si fanno vesti intrecciando piume di uccello? E ancor oggi molti Sciti non indossano pelli di volpi e di martore, che sono soffici al tatto e impenetrabili ai venti? E allora? Gli uomini non intrecciavano graticci di verghe spalmati di fango? e non coprivano poi le capanne di frasche e di erbe selvatiche? e non vi passavano tranquilli l’inverno, men­ tre le acque piovane scorrevano lungo il declivio del tetto? «Ma resta sempre all’uomo il bisogno di proteg­ gersi dal sole estivo con un’ombra più densa.» E allora? Non vi sono nascondigli scavati in profonde caverne dalla forza del tempo o da altri accidenti? Forse che gli abitanti della Sirte non si riparano sotto terra, come fanno tutte le popolazioni della zona torrida che, per difendersi dal sole, non trovano altro efficace riparo se non la stessa terra infuocata? La natura non ci è stata tanto matrigna da non permettere a noi uomini di vivere senza i nostri numerosi mestieri, mentre per tutti gli altri animali la vita è facile. Non ci ha ingiunto nulla di crudele, non c’è bisogno di faticose ricerche per prolun­ gare la vita. La natura ha tutto predisposto fin dalla nostra nascita: siamo noi che, rifuggendo dalle cose facili, le abbiamo rese tutte difficili. Le case, le vesti, le medicine, i cibi, i beni materiali che ora tanto ci preoccupano, un tempo si ottenevano facilmente, senza spesa e senza molta fatica; il loro uso era commisurato alla stretta necessità. Siamo stati noi a considerarli pre­ ziosi, e oggetto di ammirazione e conseguibili solo con molte e difficili arti. A soddisfare le esigenze della natura basta la natura stessa. Ma ci ha allontanato da essa il lusso, che giorno per giorno si pungola da sé e cresce col passare delle generazioni e si serve dell’intelligenza per fomentare i vizi. Ha cominciato a desiderare le cose superflue, poi quelle nocive e, in ultimo, ha resa l’anima schiava del corpo, mettendola al servizio dei suoi bassi istinti. Tutte queste industrie che sollevano tanto strepito 695

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civitas aut strepit corpori negotium gferunt, cui omnia olim tamquam servo praestabantur, nunc tamquam domino parantur. Itaque hinc textorum, hinc fabrorum officinae sunt, hinc odores coquentium, hinc molles.corporis motus docentium mollesque cantus et infractos. Recessit enim ille naturalis modus desideria ope necessaria finiens; iam rusticitatis et miseriae est velie quantum sat est. Incredibilest, mi Lucili, quam facile etiam magnos viros dulcedo orationis abducat a vero. Ecce Posidonius, ut mea fert opinio, ex iis qui plurimum philosophiae contulerunt, dum vult describere primum quemadmodum alia torqueantur fila, alia ex molli solutoque ducantur, deinde quemad­ modum tela suspensis ponderibus rectum stamen extendat, quemadmodum subtemen insertum, quod duritiam utrimque conprimentis tramae remolliat, spatha coire cogatur et iungi, textrini quoque artem a sapientibus dixit inventam, oblitus postea repertum hoc subtilius genus in quo tela iugo vincta est, stamen secernit harundo, inseritur medium radiis subtemen acutis, quod lato paviunt insecti pectine dentes.

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Quid si contigisset illi videre has nostri temporis telas, in quibus vestis nihil celatura conficitur, in qua non dico nullum corpori auxilium, sed nullum pudori est ? Transit deinde ad agricolas nec minus facunde describit proscissum aratro solum et iteratum quo solutior terra facilius pateat radicibus, tunc sparsa semina et coliectas manu herbas ne quid fortuitum et agreste succrescat quod necet segetem. Hoc quoque opus ait esse sapientium, tamquam non nunc quoque plurima cultores agrorum nova inveniant per quae fertilitas augeatur. Deinde non est contentus his artibus, sed in pistrinum sapientem

per la città fanno gl’interessi del corpo; quello che un tempo si concedeva al corpo come uno schiavo, ora glielo si appresenta come a un padrone. Perciò son sorte le fabbriche di tessuti, le officine dei fabbri, le scuole di danze voluttuose e di canti effeminati. Siamo ormai lontani da quel senso naturale di misura per cui i desideri non oltrepassavano lo stretto necessario; ormai, chi desi­ dera quanto basta è considerato un rustico e un mise­ rabile. E incredibile, caro Lucilio, quanto facilmente l’artifi­ cio della parola allontani dal vero anche gli uomini di valore. Posidonio, uno degli uomini che, a mio avviso, hanno dato un gran contributo alla filosofia, ci descrive prima come alcuni fili si torcano, come altri siano tratti dalla lana morbida e sciolta; poi come il telaio, per mezzo di pesi attaccati, tenga tesi e diritti gli stami; come con la spatola si costringa ad aderire e a stringersi quel ripieno inserito che ammorbidisce la rigidezza della trama in cui son compresi i due lati. Lo stesso filosofo asserisce che anche l’arte del tessitore fu invenzione dei saggi, dimenticando che in seguito fu trovato quel metodo più ingegnoso per cui «la tela fu legata al subbio, una canna distingue gli stami, con la sottile spola s’inseri­ sce nel mezzo della trama, che viene battuta dai denti intagliati nel largo pettine3.» Che avrebbe detto se avesse veduto le stoffe di oggi, con cui si fanno vestiti che nulla coprono; e non solo non servono a riparare il corpo dal freddo, ma neppure a salvare il pudore? Posidonio passa poi agli agricoltori e, sempre col suo eloquente linguag­ gio, descrive il suolo solcato più volte dall’aratro perché la terra, ben dissodata, faciliti l’espandersi delle radici; poi descrive come avviene la semina e come si estirpano le erbacce affinché non crescano sotto alla messe pianti­ celle nocive che potrebbero soffocarla. Afferma che anche questa è opera del saggio, come se non fossero gli agricoltori, sia adesso che in passato, a far sempre nuove invenzioni per aumentare la fertilità della terra. Non contento di questo, Posidonio caccia il saggio anche 3 Ovidio, Metamorfosi, VI, 55 segg. (ma con qualche variazione).

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summittit; narrai enim quemadmodum rerum naturam imitatus panem coeperit facere. ‘Receptas’ inquit ‘in os fruges concurrens inter se duritia dentium frangit, et quidquid excidit ad eosdem dentes lingua refertur; tunc umore miscetur ut facilius per fauces lubricas transeat; cum pervqnit in ventrem, aequali eius fervore concoquitur; tunc demum corpori 23 accedit. Hoc aliquis secutus exemplar lapidem asperum aspero inposuit ad similitudinem dentium, quorum pars immobilis moturil alterius expectat; deinde utriusque adtritu grana franguntur et saepius regeruntur donec ad minutiam frequenter trita redigantur; tum farinam aqua sparsit et adsidua tractatione perdomuit finxitque panem, quem primo cinis calidus et fervens testa percoxit, deinde fumi paulatim reperti et alia genera quorum fervor servirei arbitrio.’ Non multum afuit quin sutrinum quoque inventum a sapientibus diceret. 24 Omnia ista ratio quidem, sed non recta ratio commenta est. Hominis enim, non sapientis inventa sunt, tam mehercules quam navigia quibus amnes quibusque maria transimus, aptatis ad excipiendum ventorum impetum velis et additis a tergo gubernaculis quae huc atque illue cursum navigli torqueant. Exemplum a piscibus tractum est, qui cauda reguntur et levi eius in utrumque momento velocita25 tem suam flectunt. ‘Omnia’ inquit ‘haec sapiens quidem invenit, sed minora quam ut ipse tractaret sordidioribus ministris dedit.’ Immo non aliis excogitata ista sunt quam quibus hodieque curantur. Quaedam nostra demum prodisse memoria scimus, ut speculariorum usum perlucente testa clarum transmittentium lumen, ut suspensuras balneorum et inpressos parietibus tubos per quos circumfunderetur calor qui ima simul ac summa foveret aequaliter. Quid loquar marmora quibus tempia, quibus domus fulgenti quid lapideas moles in rotundum ac leve formatas quibus porticus et capacia populorum tecta suscipimus ? quid verborum notas

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nei mulini. Secondo lui, il saggio fu il primo a fare il pane, imitando la natura: «La durezza dei denti» egli dice «frange il grano introdotto nella bocca, mentre tutto quello che non capita fra i denti, per mezzo della lingua viene ad essi riportato; poi viene mescolato con la saliva per passare più facilmente attraverso l’esofago. Giunto al ventre, viene cotto dal suo calore uniforme, e alla fine è assimilato dal corpo. Qualcuno, seguendo lo stesso procedimento, sovrappose pietra dura a pietra dura, a somiglianza dei denti, di cui la parte immobile riceve l’urto dell’altra parte; poi triturò il grano con l’attrito delle due pietre, ripetendo l’operazione più volte, fino a ridurlo in farina. Poi intrise la farina di acqua e, maneggiandola con vigore, la ammassò e fece il pane, che prima cosse sotto la cenere calda o in un vaso di argilla rovente; poi, col passare degli anni, furono inventati i forni e altri mezzi di cui si potesse, a piacere, regolare il calore». Gli mancava solo di dire che il mestiere del calzolaio fu un’invenzione dei filosofi. Tutti questi ritrovati provengono, è vero, dalla ragio­ ne, ma non dalla perfetta ragione. Sono invenzioni dell’uomo, non del saggio, proprio come le navi che ci servono ad attraversare i fiumi e i mari per mezzo delle vele che ricevono la spinta dei venti e col timone sistemato a poppa per volgere la rotta in tutte le direzio­ ni. Questa manovra si effettua imitando i movimenti che i pesci fanno con la coda, la quale permette loro di volgersi a destra o a sinistra. «Tutte queste invenzioni» dice sempre Posidonio «sono del saggio; ma, essendo esse troppo vili perché egli se ne servisse direttamente, le affidò a umili esecutori». No, queste scoperte non hanno avuto altri autori che coloro che, anche oggi, attendono ad esercitarle. Ce ne sono, lo sappiamo, alcune più recenti, come l’uso di vetri alle finestre, la cui materia trasparente lascia passare la luce; come i bagni in stanze riscaldate e i tubi fatti passare attraverso i muri per diffondere, sia in basso che in alto, una temperatura sempre uguale. E che dire dei marmi di cui risplendono i nostri templi e le nostre case? E delle grandi colonne di pietra levigata, che sostengono portica­ ti e costruzioni per pubblici ritrovi? E della tachigrafia, 699

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quibus quamvis citata excipitur oratio et celeritatem linguae manus sequitur ? Vilissimorum mancipiorum ista commenta sunt: sapientia altius sedet nec manus edocet: animorum magistra est. Vis scire quid illa eruerit, quid effecerit ? Non decoros córporis motus nec varios per tubam ac tibiam cantus, quibus exceptus spiritus aut in exitu aut in transitu formatur in vocem. Non arma nec muros nec bello utilia molitur : paci favet et genus humanum ad concordiam vocat. Non est, inquam, instrumentorum ad usus necessarios opifex. Quid illi tam parvola adsignas? artificem videe vitae. Alias quidem artes sub dominio habet; nam cui vita, illi vitae quoque ornantia serviunt : ceterum ad beatum statum tendit, ilio ducit, ilio vias aperit. Quae sint mala, quae videantur ostendit; vanitatem exuit mentibus, dat magnitudinem solidam, inflatam vero et ex inani speciosam reprimit, nec ignorari sinit inter magna quid intersit et tumida; totius naturae notitiam ac sui tradit. Quid sint di qualesque declarat, quid inferi, quid lares et gemi, quid in secundam numinum formam animae perpetitae, ubi consistant, quid agant, quid possint, quid velini. Haec eius initiamenta sunt, per quae non municipale sacrum sed ingens deorum omnium templum, mundus ipse, reseratur, cuius vera simulacra verasque facies cernendas mentibus protulit; nam ad spectacula tam magna hebes visus est. Ad initia deinde rerum redit aeternamque rationem toti inditam et vim omnium seminum singula proprie figurantem. Tum de animo coepit inquirere, unde esset, ubi, quamdiu, in quot membra divisus. Deinde a corporibus se ad incorporalia transtulit veritatem-

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che permette di registrare subito i più rapidi discorsi, potendo la mano tener dietro alla celerità delle parole? Tutte queste sono invenzioni degli schiavi più vili. La sapienza ha più in alto la sya sede, maestra non delle mani, ma delle anime. Vuoi sapere ciò che ella ha scoperto, ciò che ella ha prodotto? Non i leggiadri movimenti del corpo, né le varie note della tromba e del flauto, che ricevendo il fiato lo trasformano in suoni durante il passaggio o all’uscita dello strumento. Non armi, né fortificazioni, né tutto ciò che serve alla guerra. Ella favorisce la pace e chiama il genere umano alla concordia. Non è lei - lo ripeto - che costruisce gli strumenti per le necessità della vita. Perché le assegni compiti così futili? Tu vedi in lei l’artefice della vita. Le altre arti sono alle sue dipendenze: essa, che ha la signoria della vita, regna ugualmente su tutto ciò che serve ad abbellire la vita. Del resto, essa tende al posses­ so della felicità: questa è la meta verso cui ci conduce, mostrandocene la strada. Essa ci insegna a distinguere ciò che è male da ciò che sembra male; essa sgombra dalla mente ogni vanità; essa dona una solida grandezza e ricaccia la boria, gonfia di vuote apparenze, non ammettendo che si ignori la differenza che c’è fra la vera e la falsa grandezza; essa ci fa conoscere, insieme con la natura universale, anche la sua stessa natura. Essa ci rivela l’essenza e gli attributi delle divinità celesti e sotterranee, dei lari, dei genii, delle anime rese immorta­ li sotto forma di divinità secondarie. Essa ci rivela la loro sede, il loro ufficio, il loro potere, la loro volontà. Ecco attraverso quale iniziazione essa ci scopre non il sacrario di una città, ma il gran tempio di tutti gli dèi, lo stesso universo di cui ha presentato allo sguardo dell’intelligenza l’immagine vera, il volto autentico: l’oc­ chio del corpo è troppo debole per spettacoli così grandi. Poi essa torna a considerare l’origine delle cose, la ragione eterna incorporata nel gran tutto e la forza insita in tutti i germi, per cui ogni essere acquista una propria forma. Inoltre essa iniziò lo studio dell’anima, della sua origine, della sua sede, della sua durata, delle parti in cui si divide. Dai corpi essa passò agli esseri incorporei 701

que et argumenta eius excussit; post haec quemadmodum discernerentur vitae aut vocis ambigua; in utraque enim falsa veris inmixta sunt. 30 Non abduxit, inquam, se (ut Posidonio videtur) ab istis artibus sapiens, sed ad illas omnino non venit. Nihil enim dignum inventu iudicasset quod non erat dignum perpetuo 31 usu iudicaturus; ponenda non sumeret. ‘Anacharsis’ inquit ‘invenit rotam figuli, cuius circuitu vasa formantur.’ Deinde quia apud Homerum invenitur figuli rota, maluit videri versus falsos esse quam fabulam. Ego nec Anacharsim auctorem huius rei fuisse contendo et, si fuit, sapiens quidem hoc invenit, sed non tamquam sapiens, sicut multa sapientes faciunt qua homines sunt, non qua sapientes. Puta velocissimum esse sapientem : cursu omnis anteibit qua velox est, non qua sapiens. Cuperem Posidonio aliquem vitrearium esten­ dere, qui spiritu vitrum in habitus plurimos format qui vix diligenti manu effingerentur. Haec inventa sunt postquam 32 sapientem invenire desìmus. ‘Democritus’ inquit ‘invenisse dicitur fornicem, ut lapidum curvatura paulatim inclinatorum medio saxo alligaretur.’ Hoc dicam falsum esse; necesse est enim ante Democritum et pontes et portas fuisse, 33 quarum fere summa curvantur. Excidit porro vobis eundem Democritum invenisse quemadmodum ebur molliretur, quemadmodum decoctus calculus in zmaragdum converteretur, qua hodieque coctura inventi lapides (in) hoc utiles colorantur. Ista sapiens licet invenerit, non qua sapiens erat invenit ; multa enim facit quae ab inprudentissimis aut aeque fieri videmus aut peritius atque exercitatius. 34 Quid sapiens investigaverit, quid in lucem protraxerit quaeris? Primum verum naturamque, quam non ut cetera animalia oculis secutus est, tardis ad divina; deinde vitae

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e ricercò la verità e le prove della verità; poi mostrò come si possa distinguere il vero dal falso, nelle parole come nella vita, mentre si fa spesso confusione tra i due concetti. Il saggio non si è ritratto, come sembra a Posidonio, dalle attività di cui parlammo, ma è rimasto sempre estraneo ad esse. Infatti egli non avrebbe fatto nessuna invenzione, se poi non l’avesse giudicata degna di uso continuo; non avrebbe posto mano a un’attività, se poi avesse dovuto metterla da parte. «Anacarsi» dice Posidonio «inventò la ruota del vasaio, girando la quale si modellano i vasi.» E poiché in Omero si trova menzio­ nata tale ruota, preferì ritenere non autentici i versi di Omero piuttosto che questa notizia. Io non discuto se Anacarsi inventò o non inventò questo strumento. Ma se lo inventò, diremo che fu un saggio a fare quell’inven­ zione, ma non in quanto saggio; nel senso cioè che i saggi fanno molte cose non come tali, ma come uomini. Supponi che un saggio sia velocissimo nella corsa: supe­ rerà tutti per il fatto che è veloce, non perché è saggio. Vorrei mostrare a Posidonio un vetraio che, usando solo il fiato, dà al vetro le forme più varie, che le mani, anche col lavoro più accurato, non riuscirebbero ad ottenere. Queste invenzioni furono fatte quando si cessò di ricerca­ re la saggezza. «Democrito» dice «è considerato l’inven­ tore dell’arco in cui le pietre, formando a poco a poco una curva, si collegano al sasso di mezzo.» Dirò che questo è falso. Ci dovettero essere anche prima di Demo­ crito e ponti e porte la cui sommità era ricurva. Avete poi dimenticato che il medesimo Democrito ha inventato il sistema di levigare l’avorio, il procedimento con cui una pietruzza, portata ad alta temperatura, si trasforma in uno smeraldo, e in che modo anche oggi, cuocendoli, si possano colorare dei sassi adatti a questo scopo. Anche se il saggio ha fatto queste invenzioni, le ha fatte non perché era saggio: egli fa molte cose che uomini privi di saggezza fanno altrettanto bene e con più perizia. Vuoi sapere a quali ricerche e a quali invenzioni si è dedicato il saggio? Anzitutto ha rivolto la sua indagine alla verità e alla natura, che egli guarda non come gli altri animali, con occhi tardi a scorgere il soprannaturale. 703

legem, quam ad universa derexit, nec nosse tantum sed sequi deos docuit et accidentia non aliter excipere quam imperata. Vetuit parere opinionibus falsis et quanti quidque esset vera aestimatione perpendit; damnavit mixtas paenitentia voluptates et bona semper placitura laudavit et palam fecit felicissimum esse cui felicitate non opus est, potentissimum 3 5 esse qui se habet in potestate. Non de ea philosophia loquor quae civem extra patriam posuit, extra mundum deos, quae virtutem donavit voluptati, sed (de) illa quae nullum bonum putat nisi quod honestum est, quae nec hominis nec fortunae muneribus deleniri potest, cuius hoc pretium est, non posse pretio capi. Hanc philosophiam fuisse ilio rudi saeculo quo adhuc artifìcia deerant et ipso usu discebantur utilia non credo. 36 fSicut autf fortunata tempora, cum in medio iacerent bene­ ficia naturae promiscue utenda, antequam avaritia atque luxuria dissociavere mortales et ad rapinam ex consortio (docuere) discurrere: non erant illi sapientes viri, etiam si 37 faciebant facienda sapientibus. Statum quidem generis Im­ mani non alium quisquam suspexerit magis, nec si cui permittat deus terrena formare et dare gentibus mores, aliud probaverit quam quod apud illos fuisse memoratur apud quos nulli subigebant arva coloni; ne signare quidem aut partiri limite campum fas erat : in medium quaerebant, ipsaque tellue omnia liberius nullo poscente ferebat.

38 Quid hominum ilio genere felicius? In commune rerum natura fruebantur; sufficiebat illa ut parens in tutelam omnium; haec erat publicarum opum secura possessio. Quidni ego illud locupletissimum mortalium genus dixerim in quo pauperem invenire non posses ? Inrupit in res optime positas

Poi ha ricercato la legge della vita nei rapporti con tutte le cose, insegnando non solo a conoscere gli dèi, ma anche a seguirne la volontà e ad accettare gli eventi della vita come un loro comando. Ci ha liberato dalle false opinioni e ha valutato con esattezza il valore di ogni cosa. Ha condannato i piaceri che arrecavano pentimento e ha lodato i beni che danno una gioia costante; ha mostra­ to che è felice al massimo grado colui che non sente il bisogno della felicità, ed è sommamente potente chi sa dominare se stesso. Non parlo di quella teoria filosofica che rese il cittadino estraneo alla sua patria, che collocò gli dèi fuori del mondo, che pose la virtù in balìa del piacere; ma parlo di quella filosofia che non considera bene se non ciò che è onesto e non cede agli adescamenti degli uomini e della fortuna, e il cui pregio sta nel non lasciarsi corrompere per nessun prezzo. Non credo che questa filosofia esistesse in quell’e­ poca rozza in cui ancora non erano state inventate le arti e l’utilità delle cose si apprendeva direttamente dal loro uso... quei tempi fortunati in cui i doni della natura erano accessibili a tutti, prima che l’avarizia e la lussuria disgregassero i rapporti sociali, volgendo gli uomini dalla comunanza dei beni alla reciproca rapina. Quelli non erano sapienti, anche se agivano da sapienti. Nessuno potrebbe vedere l’umanità in condizioni miglio­ ri, e anche se un dio permettesse a qualcuno di riformare le cose di questa terra dando nuove leggi ai popoli, egli non vorrebbe una situazione diversa da quella che, secondo la tradizione, ci fu nell’epoca in cui «non c’erano coloni a dissodare i campi, né era lecito porvi dei termini o dividerli; ciascuno faceva il raccolto per la comunità e la terra produceva da sé tutte le cose, libera da qualun­ que umana sollecitazione4.» Quale felicità fu più grande di questa? Godevano insieme i frutti della natura, madre e tutrice di tutti, e la comune ricchezza era posseduta in pace. E non dovrei forse chiamare veramente ricchi quegli uomini fra cui non avresti potuto trovare un povero? Ma irruppe in quest’ottimo stato di cose l’avari4 Virgilio, Georgiche, I, 125 segg.

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avaritia et, dum seducere aliquid cupit atque in suum ver­ tere, omnia fecit aliena et in angust'um se ex inmenso redegit. Avaritia paupertatem intulit et multa concupiscendo omnia 3 9 amisit. Licet itaque nunc conetur reparare quod perdidit, licet agros agris adiciat vicinum vel pretio pellens vel iniuria, licet in provinciarum spatium rura dilatet et possessionem vocet per sua longam peregrinationem : nulla nos finium propagatio eo reducet unde discessimus. Cum omnia feceri40 mus, multum habebimus: universum habebamus. Terra ipsa fertilior erat inlaborata et in usus populorum non diripientium larga. Quidquid natura protulerat, id non minus in­ venisse quam inventum monstrare alteri voluptas erat; nec ulli aut superesse poterai aut deesse: inter concordes dividebatur. Nondum valentior inposuerat infirmiori manum, nondum avarus abscondendo quod sibi iaceret alium necessariis 41 quoque excluserat : par erat alterius ac sui cura. Arma cessabant incruentaeque humano sanguine manus odium omne in feras verterant. Illi quos aliquod nemus densum a sole protexerat, qui adversus saevitiam hiemis aut imbris vili receptaculo tuti sub fronde vivebant, placidas transigebant sine suspirio noctes. Sollicitudo nos in nostra purpura versai et acerrimis excitat stimulis: at quam mollem somnum illis 42 dura tellus dabat! N on inpendebant caelata laquearia, sed in aperto iacentis sidera superlabebantur et, insigne spectaculum noctium, mundus in praeceps agebatur, silentio tantum opus ducens. Tarn interdiu illis quam nocte patebant prospectus huius pulcherrimae domus; libebat intueri signa ex media caeli parte vergentia, rursus ex occulto alia surgentia.

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zia; e, nel desiderio di sottrarre alla comunanza dei beni una parte per farla propria, l’uomo rinunciò al tutto e dal godimento illimitato dei beni si ridusse nei limiti del possesso individuale. L’avarizia portò con sé la povertà e, bramando troppe cose, perdette tutto. Per quanto ora tenti di riacquistare il perduto; per quanto l’uomo aggiunga campi a campi, spossessando il vicino col dana­ ro o con la violenza; per quanto allarghi i suoi poderi fino a occupare intere province, e per far valere il suo diritto di proprietà gli occorrano interminabili viaggi attraverso i suoi poderi, nessun ampliamento di confini ci ricondurrà alla situazione che avevamo lasciata. Quando avremo fatto tutto il possibile, avremo molti possedimen­ ti: prima possedevamo tutto. La stessa terra era più fertile senza bisogno del lavoro umano e dava generosa­ mente i suoi frutti agli uomini che si astenevano dalla rapina. Era ugualmente piacevole per ognuno sia scopri­ re che mostrare all’altro tutto ciò che la natura produce­ va. Non era concepibile che qualcuno avesse più o meno del necessario: tutto veniva diviso di comune accordo. Il più forte non aveva messo ancora le mani addosso al più debole; né l’avaro, nascondendo quello che gli avanzava, aveva privato un altro anche dell’indispensabi­ le. Si aveva cura degli altri come di se stessi. Gli uomini si astenevano dalle guerre e non si macchiavano le mani di sangue umano, ma volgevano tutto il loro odio verso le bestie feroci. Si riparavano dal calore del sole in mezzo ai boschi; contro il freddo intenso o il maltempo vivevano sicuri sotto la protezione delle fronde, e passa­ vano le notti in pace, senza sospiri. Noi, pur nei nostri letti sontuosi, siamo preda delle preoccupazioni che ci assillano atrocemente. E invece, che placidi sonni concedeva loro la dura terra! Non avevano sulle loro teste soffitti intarsiati, ma, giacendo all’aperto, vedevano sopra di sé il moto degli astri, mentre, stupendo spettaco­ lo delle notti, la volta celeste si volgeva intorno, com­ piendo in silenzio sì grande opera. Sia di giorno che di notte godevano la vista di questa bellissima dimora, e con piacere osservavano nel firmamento il tramonto di alcune costellazioni e il sorgere all’orizzonte di altre. 707

Quidni iuvaret vagari inter tam late sparsa miracula ? At vos ad omnem tectorum pavetis sonum et inter picturas vestras, si quid increpuit, fugitis attoniti. Non habebant domos instar urbium : spiritus ac liber inter aperta perflatus et levis umbra rupis aut arboris et perlucidi fontes rivique non opere nec fistula nec ullo coacto itinere obsolefacti sed sponte currentes et prata sine arte formosa, inter haec agreste domicilium rustica politum manu—haec erat secundum naturam domus, in qua libebat habitare nec ipsam nec prò ipsa timentem: nunc magna pars nostri metus tecta sunt. 44 Sed quamvis egregia illis vita fuerit et carens fraude, non fuere sapientes, quando hoc iam in opere maximo nomen est. Non tamen negaverim fuisse alti spiritus viros et, ut ita dicam, a dis recentes; neque enim dubium est quin meliora mundus nondum efietus ediderit. Quemadmodum autem omnibus indoles fortior fuit et ad labores paratior, ita non erant ingenia omnibus consummata. Non enim dat natura 4 5 virtutem: ars est bonum fieri. Illi quidem non aurum nec argentum nec perlucidos (lapidee in) ima terrarum faece quaerebant parcebantque adhuc etiam mutis animalibus: tantum aberat ut homo hominem non iratus, non timens, tantum spectaturus occideret. Nondum vestis illis erat pietà, 46 nondum texebatur aurum, adhuc nec eruebatur. Quid ergo (est)? Ignorantia rerum innocentes erant; multum autem interest utrum peccare aliquis nolit an nesciat. Deerat illis iustitia, deerat prudentia, deerat temperantia ac fortitudo. Omnibus his virtutibus habebat similia quaedam rudis vita: virtus non contingit animo nisi instituto et edocto et ad summum adsidua exercitatione perducto. Ad hoc quidem, sed sine hoc nascimur, et in optimis quoque, antequam erudias, virtutis materia, non virtus est. Vale.

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Non era forse bello vagare in mezzo a meraviglie sparse così largamente? Voi invece, rinchiusi nelle vostre case affrescate, vi allarmate e fuggite pieni di spavento al più piccolo rumore. Quelli non avevano case grandi come città. Il libero spirare dell’aria a cielo aperto, le ombre lievi delle rupi e degli alberi, le acque limpide delle sorgenti, i fiumi non ancora avviliti dall’uomo entro tubi o alvei artificiali, ma liberi nel loro corso, i prati belli naturalmente, e in mezzo a tali delizie un’abitazione campestre costruita da mano rustica: questa sì che era una dimora secondo natura, in cui si viveva in letizia, senza paura né della casa né per la casa: ora essa è una gran parte della nostra paura. Ma per quanto essi abbiano avuto una vita splendida, senza inganni, non furono sapienti, poiché questo nome spetta a coloro che attendono alla più grande delle opere. Ammetto che essi furono degli uomini di animo elevato e, per così dire, creati da poco dagli dèi, poiché non c’è dubbio che in quel tempo il mondo, non ancora stanco, abbia dato alla luce esseri migliori. Allora tutti avevano una tempra più forte ed erano più pronti alla fatica, ma il loro spirito non aveva raggiunto la piena maturità. Non è la natura a dare la virtù: per divenire buoni c’è un’arte. Quelli non cercavano l’oro o l’argento o le pietre preziose nella profondità della terra e si astenevano dall’uccidere anche le bestie: tanto erano diversi dagli uomini d’oggi che non per ira, non per paura, ma solo per godersi lo spettacolo uccidono i loro simili. Non conoscevano ancora abiti a vari colori né tessuti ricamati d’oro, che non veniva ancora estratto dal suolo. Dunque, era la loro ignoranza che li rendeva innocenti: c’è una grande differenza fra il non voler fare il male e il non conoscerlo. Mancavano loro la giustizia, la prudenza, la temperanza e la fortezza; ma la loro rozza vita aveva qualcosa di simile a queste virtù. Possiede la virtù solo un animo educato e colto, che è pervenuto con un costante impegno alla perfezione. Noi nasciamo per raggiungerla, ma senza possederla già; e anche negli uomini migliori, prima che vengano educati, c’è materia per la virtù, ma non la virtù. Addio. 709

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SENECA LVC ILIO SVO SALVTEM

Liberalis noster nunc tristis est nuntiato incendio quo Lugdunensis colonia exusta est; movere hic casus quemlibet posset, nedum hominem patriae suae amantissimuifi. Quae res effecit ut firmitatem animi sui quaerat, quam videlicet ad ea quae timeri posse putabat exercuit. Hoc vero tam inopinatum malum et paene inauditum non miror si sine metu fuit, cum esset sine exemplo; multas enim civitates incendium vexavit, nullam abstulit. Nam etiam ubi hostili manu in tecta ignis inmissus est, multis locis deficit, et quamvis subinde excitetur, raro tamefi sic cuncta depascitur ut nihil ferro relinquat. Terrarum quoque vix umquam tam gravis et perniciosus fuit motus ut tota oppida everteret. Numquam denique tam infestum ulli exarsit incendium ut 2 nihil alteri superesset incendio. T ot pulcherrima opera, quae singula inlustrare urbes singulas possent, una nox stravit, et in tanta pace quantum ne bello quidem timeri potest accidit. Quis hoc credat ? ubique armis quiescentibus, cum toto orbe terrarum diffusa securitas sit, Lugudunum, quod ostendebatur in Gallia, quaeritur. Omnibus fortuna quos publice adflixit quod passuri erant timere permisit; nulla res magna non aliquód habuit ruinae suae spatium: in hac una nox interfuit inter urbem maximam et nullam. Denique diutius illam tibi perisse quam perii narro. 3 Haec omnia Liberalis nostri adfectum inclinant, adversus sua firmum et erectum. Nec sine causa concussus est : inexpectata plus adgravant; novitas adicit calamitatibus pondus, nec quisquam mortalium non magis quod etiam miratus est

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LETTERA 91 Considerazioni dopo l’incendio di Lione Il nostro amico Liberale è triste per la notizia dell’incen­ dio che ha distrutto la colonia di Lione. È una catastrofe così grave da commuovere chiunque e, a maggior ragio­ ne, un uomo che ama molto la sua città. Così egli non riesce a trovare la fermezza d’animo, che possedeva, a dir vero, solo per fronteggiare le disgrazie prevedibili. Se egli non seppe prevedere una calamità così inaspettata e quasi inaudita, ciò non mi fa meraviglia, poiché è stato un avvenimento senza precedenti: l’incendio ha danneggiato molte città, ma nessuna ne è rimasta com­ pletamente distrutta. Anche quando sono stati i nemici ad appiccare il fuoco alle case, in molti luoghi la fiamma si spegne, e per quanto si ridesti qua e là, è raro il caso che divori tutto, così da non lasciare nulla al ferro. Lo stesso terremoto solo qualche volta è stato così grave e funesto da abbattere intere città. Insomma, in nessuna città divampò un incendio tanto rovinoso che non rima­ nesse qualcosa per un incendio successivo. Ora è bastata una sola notte perché fossero rasi al suolo tanti maestosi edifici, ciascuno dei quali avrebbe potuto abbellire una città; e in una pace così profonda è accaduto quanto neppure in guerra si potrebbe temere. Chi lo credereb­ be? Mentre ovunque tacciono le armi e su tutta la terra c’è un senso di tranquillità, si cerca invano Lione, già insigne città della Gallia. La fortuna permette general­ mente di prevedére in qualche modo le calamità a coloro che ne sono colpiti. La rovina di un grande edificio richiede sempre un certo periodo di tempo: in questo caso, fra 1’esistenza e la scomparsa di una grande città non è passata che una notte. Insomma, la città è bruciata in un tempo minore di quello che io impiego a narrartelo. Tutto questo ha prostrato l’animo del nostro Liberale, che pure è tanto coraggioso nell’affrontare il proprio destino. Egli è rimasto scosso non senza motivo. L’ina­ spettato rende più grave il peso delle sciagure; né c’è uomo che non si addolori maggiormente per una calami711

4 doluit. Ideo nihil nobis inprovisum esse debet; in omnia praemittendus animus cogitandumque non quidquid solet sed quidquid potest fieri. Quid enim est quod non fortuna, cum voluit, ex fiorentissimo detrahat ? quod non eo magis adgrediatur et quatiat quo speciosius fulget? Quid illi arduum 5 quidve difficile est ? Non una via semper, ne trita quidem incurrit: modo nostras in nos manus advocat, modo suis contenta viribus invenit pericula sine auctore. Nullum tempus exceptum est: in ipsis voluptatibus causae doloris oriuntur. Bellum in media pace consurgit et auxilia securitatis in metum transeunt : ex amico (fit) inimicus, hostis ex socio. In subitas tempestates hibernisque maiores agitur aestiva tranquillitas. Sine hoste patimur hostilia, et cladis causas, si alia deficiunt, nimia sibi felicitas invenit. Invadit temperantissimos morbus, validissimos pthisis, innocentissimos poena, secretissimos tumultus ; eligit aliquid novi casus per quod velut 6 oblitis vires suas ingerat. Quidquid longa series multis laboribus, multa deum indulgentia struxit, id unus dies spargit ac dissipat. Longam moram dedit malis properantibus qui diem dixit: hora momentumque temporis evertendis imperis sufficit. Esset aliquod inbecillitatis nostrae solacium rerumque nostrarum si tam tarde perirent cuncta quam fiunt : nunc incrementa lente exeunt, festinatur in damnum. 7 Nihil privatim, nihil publice stabile est; tam hominum quam urbium fata volvuntur. Inter placidissima terror existit nihilque extra tumultuantibus causis mala unde minime expectabantur erumpunt. Quae domesticis bellis steterant

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tà che lo stupisce. Perciò niente ci deve giungere imprevi­ sto. Dobbiamo preparare l’animo a tutto e pensare non a quello che accade normalmente, ma a quello che potrebbe accadere. Non c’è cosa che la fortuna, se lo vuole, non sia capace di togliere, anche a chi si trovi nella più felice condizione. Essa, anzi, prende di mira e abbatte con tanto maggiore impeto quanto più una cosa le dà negli occhi: niente per lei è arduo e difficile. La strada da cui essa attacca non è sempre la stessa, e non è nemmeno una strada battuta: ora usa contro di noi le nostre stesse mani; ora le bastano le sue forze per nuocerci senza ricorrere ad altri. In nessun momento si è al sicuro dai suoi colpi: in mezzo agli stessi piaceri nascono cause di dolori. Scoppia la guerra in piena pace e quello che doveva contribuire alla nostra tranquillità si trasforma in un motivo di timore; un amico si cambia in avversario; un alleato in nemico. La serenità estiva è soggetta a tempeste più improvvise e violente di quelle invernali. Non c’è bisogno di nemici per ricevere offese; quando non manchi un’altra causa, può essere motivo di rovina la soverchia felicità. Le malattie assalgono anche gli uomini più temperanti; anche i più robusti sono colpiti dalla tisi; uomini del tutto innocenti subiscono condanne, e anche le persone più tranquille sono travolte dalle sedizioni. Il caso sceglie i mezzi più insoliti, come per far sentire la sua forza a chi se ne sia dimenticato. Un sol giorno basta per mandare in rovina un’opera che è venuta su, con l’aiuto degli dèi, attraverso la lunga fatica di molti anni. Anzi, un giorno è già un periodo troppo lungo per i mali che ci incalzano. Basta un’ora, basta un attimo perché crollino grandi imperi. Sarebbe già un conforto per la nostra debolezza e per la nostra situazione se tutto perisse con la stessa lentezza con cui si è formato. Invece la crescita è lenta, la rovina è rapida. Niente è stabile nella vita privata come in quella pubblica; sia gli uomini che le città hanno un destino mutevole. In mezzo alla massima calma scoppiano even­ ti terribili; e, quando meno ce l’aspettiamo, senza motivi apparenti, erompono i mali. Senza urto alcuno, rovinano 713

regna, quae externis, inpeUente nullo ruunt : quota quaeque felicitatem civitas pertulit! Cogitanda ergo sunt omnia et 8 animus adversus ea quae possunt evenire firmandus. Exilia, tormenta [morbi], bella, naufragia meditare. Potest te patriae, potest patriam tibi casus eripere, potest te in solitudines abigere, potest hoc ipsum in quo turba suffocatur fieri solitudo. Tota ante oculos sortis humanae condicio ponatur, nec quantum frequenter. evenit sed quantum plurimum potest evenire praesumamus animo, si nolumus opprimi nec illis inusitatis velut novis obstupefieri ; in plenum cogitanda for9 tuna est. Quotiens Asiae, quotiens Achaiae urbes uno tremore ceciderunt ! Quot oppida in Syria, quot in Macedonia devorata sunt ! Cypron quotiens vastavit haec clades ! Quotiens in se Paphus corruit ! Frequenter nobis nuntiati sunt totarum urbium interitus, et nos inter quos ista frequenter nuntiantur, quota pars omnium sumus! Consurgamus itaque adversus fortuita et quidquid inciderit sciamus non esse tam magnum 10 quam rumore iactetur. Civitas arsit opulenta ornamentumque provinciarum quibus et inserta erat et excepta, uni tamen inposita et huic non latissimo monti : omnium istarum civitatium quas nunc magnificas ac nobiles audis vestigia quoque tempus eradet. Non vides quemadmodum in Achaia clarissimarum urbium iam fundamenta consumpta sint nec 11 quicquam extet ex quo appareat illas saltem fuisse? Non tantum manu facta labuntur, nec tantum humana arte atque industria posita vertit dies: iuga montium diffluunt, totae desedere regiones, operta sunt fluctibus quae procul a conspectu maris stabant; vasta vis ignium colles per quos relucebat erosit et quondam altissimos vertices, solacia navigan-

regni che erano rimasti saldi in mezzo a guerre e lotte intestine. Quanto sono poche le città che hanno conser­ vato a lungo la loro prosperità! Perciò bisogna tutto prevedere e premunire l’animo contro tutto ciò che può accadere. Esilii, sofferenze, guerre, naufragi: medita su tutto questo. Un accidente potrebbe togliere te alla patria o la patria a te; potrebbe isolarti in un deserto; o quel luogo stesso in cui si accalca la folla potrebbe diventare un deserto. Poniamoci davanti agli occhi le vicende a cui è sottoposto l’uomo, e consideriamo non quello che spesso accade, ma quello che può accadere, se non vogliamo rimanere oppressi dagli avvenimenti; se non vogliamo stupirci di fronte ad essi, mentre sono per noi strani solo perché sono insoliti e imprevisti. Consideriamo la fortuna nella complessità dei suoi effet­ ti. Quante volte in Asia e in Grecia è bastata una scossa di terremoto per mandare in rovina intere città? E quante città in Siria e in Macedonia furono inghiottite dal suolo? Quante volte questa sciagura ha devastato Cipro? Quante volte Paio è crollata su se stessa? Spesso abbiamo appreso la caduta di intere città; e noi, che riceviamo tali notizie così di frequente, quanta parte siamo dell’umanità? Resistiamo, perciò, ben saldi contro i casi della fortuna, convinti che tutti questi eventi non sono così gravi come la fama va strombazzando. Le fiamme hanno distrutto una ricca città, ornamento delle province fra le quali essa era compresa in una posizione privilegiata; eppure non occupava che una sola collina, e per giunta non molto ampia. Ma anche di tutte quelle città di cui ora senti esaltare lo splendore sparirà col tempo ogni traccia. Non vedi come in Grecia sono già scomparse le fondamenta di illustri città e non rimane il minimo segno esteriore della loro esistenza? Non cadono in rovina soltanto le opere delle nostre mani; il tempo travolge non solo quello che è stato costruito dall’ingegno operoso dell’uomo: vanno in rovina le cate­ ne dei monti; intere regioni si abbassano e luoghi da cui non si vedeva nemmeno il mare ora sono ricoperti dalle sue onde. Il fuoco, con la sua forza devastatrice, ha corroso i crateri su cui risplendeva ed ha abbassato alti

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Lettere a Lucilio - Voi.

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tium ac speculas, ad humile deduxit. Ipsius naturae opera vexantur et ideo aequo animo ferre debemus urbium excidia. 1 2 Casurae stant; omnis hic exitus manet, sive (ventorum) interna vis flatusque per elusa violenti pondus sub quo tenentur excusserint, sive torrentium (impetus) in abdito vastior obstantia effregerit, sive flammarum violentia conpaginem soli ruperit, sive vetustas, a qua nihil tutum est, expugnaverit minutatim, sive gravitas caeli egesserit populos et situs deserta corruperit. Enumerare omnes fatorum vias longum est. Hoc unum scio : omnia mortalium opera mortalitate damnata sunt, inter peritura vivimus. 13 Haec ergo atque eiusmodi solacia admoveo Liberali nostro incredibili quodam patriae suae amore flagranti, quae fortasse consumpta est ut in melius excitaretur. Saepe maiori fortunae locum fecit iniuria: multa ceciderunt ut altius surgerent. Timagenes, felicitati urbis inimicus, aiebat Romae sibi incendia ob hoc unum dolori esse, quod sciret meliora 14 surrectura quam arsissent. In hac quoque urbe veri simile est certaturos omnes ut maiora celsioraque quam amisere restituant. Sint utinam diuturna et melioribus auspiciis. in aevum longius condita! Nam huic coloniae ab origine sua centensimus annus est, aetas ne homini quidem extrema. A Planco deducta in hanc frequentiam loci opportunitate convaluit: quot tamen gravissimos cisus intra spatium hu15 manae (pertulit) senectutis! Itaque formetur animus ad intellectum patientiamque sortis suae et sciat nihil inausum esse fortunae, adversus imperia illam idem habere iuris quod adversus imperantis, adversus urbes idem posse quod adversus homines. Nihil horum indignandum est: in eum intravimus mundum in quo his legibus vivitur. Placet : pare. Non placet : quacumque vis exi. Indignare si quid in te iniqui proprie

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promontori, già punto di riferimento che rassicurava i naviganti. Se anche queste opere imponenti della natura sono soggette alla distruzione, non abbiamo il diritto di lamentarci per la caduta delle città. Stanno in piedi, ma prima o poi cadranno: questa è la loro comune fine, sia che la forza dei venti, soffiando entro luoghi chiusi con moto vorticoso, scardini tutto ciò che la comprime; sia che la formidabile spinta delle acque sotterranee spezzi ogni ostacolo; sia che la violenza delle fiamme rompa la compattezza del suolo; sia che le città siano a poco a poco distrutte dalla vecchiaia a cui niente può sottrarsi; sia che il clima malsano ne scacci gli abitanti, e, così abbandonate, siano sommerse dalla polvere. Sarebbe troppo lungo enumerare tutte le vie del destino. Questo solo io so: tutte le opere dei mortali sono condannate a perire. Con queste ed altre simili parole cerco di confortare il nostro Liberale, acceso d’incredibile affetto per la sua città, che forse è stata distrutta per rinascere più bella. Spesso ad una sciagura tien dietro una maggiore prospe­ rità: molte cose che erano cadute sono risorte più grandi ancora. Timagene, nella sua ostilità alla fortuna di Ro­ ma, diceva che si rattristava per gl’incendi della città solo perché sapeva che sarebbe risorta più bella di prima. Anche per Lione è probabile che tutti faranno a gara per ricostruirla più grande e più splendida di prima. Mi auguro vivamente che la città venga riedificata per un avvenire più durevole e prospero. Questa colonia esiste­ va da cento anni: età non eccessivamente lunga neppure per un uomo. Fu fondata da Planco, e presto, per la sua felice posizione, divenne molto popolosa. Ma quante gravissime calamità ha dovuto subire entro i termini di una vita umana! Perciò il nostro animo sappia compren­ dere e compatire la sua sorte; sappia che tutto può osare la fortuna; che essa fa valere gli stessi diritti sugli imperi come su quelli che li comandano; sulle città come sui loro abitanti. Non bisogna sdegnarsi per tutto ciò. Questa è la legge che vige nel mondo in cui siamo nati. Ti piace? Accettala. Non ti piace? Escine fuori col mezzo che 717

constitutum est; sed si haec summos imosque necessitas alligai, in gratiam cum fato revertere, a quo omnia resolvun16 tur. Non est quod nos tumulis metiaris et his monumentis quae viam disparia praetexunt : aequat omnis cinis. Inpares nascimur, pares morimur. Idem de urbibus quod de urbium incolis dico : tam Ardea capta quam Roma est. Conditor ille iuris humani non natalibus nos nec nominum claritate distinxit, nisi dum sumus : ubi vero ad finem mortalium ventum est, ‘discede’ inquit ‘ambitio : omnium quae terram premunt siremps lex esto’. Ad omnia patienda pares sumus; nemo altero fragilior est, nemo in crastinum sui certior. 17 Alexander Macedonum rex discere geometriam coeperat, infelix, sciturus quam pusilla terra esset, ex qua minimum occupaverat. Ita dico: ‘infelix’ ob hoc quod intellegere debebat falsum se gerere cognomen: quis enim esse magnus in pusillo potest? Erant illa quae tradebantur subtilia et diligenti intentione discenda, non quae perciperet vesanus homo et trans oceanum cogitationes suas mittens. ‘Facilia’ inquit ‘me doce’. Cui praeceptor ‘ista’ inquit ‘omnibus eadem 18 sunt, aeque difficilia’. Hoc puta rerum naturam dicere : ‘ista de quibus quereris omnibus eadem sunt; nulli dare faciliora possum, sed quisquis volet sibi ipse illa reddet faciliora’. Quomodo? aequanimitate. Et doleas oportet et sitias et esurias et senescas (si tibi longior contigerit inter homines 19 mora) et aegrotes et perdas aliquid et pereas. Non est tamen quod istis qui te circumstrepunt credas : nihil horum malum

preferisci. Dovresti sdegnarti se una legge iniqua fosse stabilita solo contro di te; ma se questa stessa legge obbliga sia i potenti che gli umili, riconciliati col destino che domina tutti. Non dobbiamo valutare gli uomini secondo la diversa imponenza delle tombe e dei monu­ menti che fiancheggiano certe vie; tutti ugualmente di­ ventiamo polvere: disuguali alla nascita, siamo uguagliati dalla morte. Quello che dico delle città vale anche per i loro abitanti. Ardea fu espugnata, così come fu presa Roma1. Chi diede le leggi aU’umanità ci distinse per nobiltà di stirpe o per valore personale solo per il periodo della nostra vita. Ma quando giungiamo alla fine, «cessi» egli dice «ogni vanità umana; una e uguale sia la legge di tutti gli esseri che calpestano la terra. Ci rende uguale il comune destino della sofferenza. Nessuno ha, nei confronti degli altri, maggiore probabilità di soggiacere al destino o più sicurezza nel domani. Alessandro, re di Macedonia, aveva cominciato ad apprendere la geometria. Così poteva rendersi conto, infelice!, di quanto la terra fosse piccola e di quanto più piccolo fosse il territorio che egli aveva conquistato. Lo chiamo «infelice» perché avrebbe dovuto capire che portava un soprannome usurpato. Come si può essere grandi nel piccolo? Le lezioni astratte di geometria richiedevano nel discepolo una grande diligenza; e per­ ciò non poteva intenderle un uomo folle che spingeva i suoi pensieri oltre l’oceano. Avendo egli detto al precet­ tore: «Insegnami cose facili», quello rispose: «Tutti rice­ vono questi stessi insegnamenti, ugualmente difficili». Immagina che la natura ti dica: «Queste avversità di cui ti lagni sono uguali per tutti. Non posso darne a qualcuno di più tollerabili; ma chi lo vorrà le renderà da sé più tollerabili». In che modo? Con la moderazione. Il desti­ no t’impone di sopportare il dolore, la sete, la fame, e gli acciacchi della vecchiaia, se ti toccherà di vivere a lungo; e poi le malattie, i dissesti finanziari e la morte. Tuttavia non devi lasciarti impressionare dai lamenti di quelli che ti circondano: queste cose non sono mali; non 1Si riferisce all’invasione dei Galli del 390 a.C.

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est, nihil intolerabile aut durum. Ex consensu istis metus est. Sic mortem times quomodo famam: quid autem stultiys homine verba metuente ? Eleganter Demetrius noster solet dicere eodem loco sibi esse voces inperitorùm quo ventre redditos crepitus. ‘Quid enim’ inquit ‘mea, susum isti an deosum sonent ?’ Quanta dementia est vereri ne infameris ab infamibus ! Quemadmodum famam extimuisti sine causa, sic et illa quae numquam timeres nisi fama iussisset. Num quid detrimenti faceret vir bonus iniquis rumoribus sparsus ? N e morti quidem hoc apud nos noceat: et haec malam opinionem habet. Nemo eorum qui illam accusai expertus est: interim temeritas est damnare quod nescias. At illud scis, quam multis utilis sit, quam multos liberet tormentis, egestate, querellis, supplicìs, taedio. Non sumus in ullius potestate, cum mors in nostra potestate sit. Vale.

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SENECA, L V C IL IO SVO SALVTEM

Puto, inter me teque conveniet externa corpori adquiri, corpus in honorem animi coli, in animo esse partes ministras, per quas movemur alimurque, propter ipsum principale nobis datas. In hoc principali est aliquid inrationale, est et rationale ; illud huic servii, hoc unum est quod alio non refertur sed omnia ad se refert. Nam illa quoque divina ratio omnibus praeposita est, ipsa sub nullo est; et haec autem nostra eadem est, quae ex illa est. Si de hoc inter nos convenit, sequitur ut de ilio quoque conveniat, in hoc uno positam esse beatam vitam, ut in nobis

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sono né intollerabili né dure. Fanno paura perché tutti lo dicono concordemente. Così, seguendo la voce pub­ blica, tu hai paura della morte; ma è veramente stolto l’uomo che ha paura delle semplici parole. Il nostro Demetrio paragona con arguzia le parole degli ignoranti a quei rumori che escono dagli intestini. «Che m’impor­ ta» egli dice «se risuonano in alto o in basso?» Che follia è temere di essere infamati da uomini infami! Tu ti preoccupi senza motivo di quello che dice la gente, così come di queste cose hai paura solo perché te lo impone la pubblica opinione. Forse che l’uomo saggio soffrirebbe danno a causa di ingiuste dicerie sparse contro di lui? Neppure la morte, dunque, deve soffrire danno presso di noi: anche il giudizio su di essa è una falsa diceria. Nessuno di quelli che l’accusano l’ha provata; ed è temerario chi condanna ciò che non conosce. Al contra­ rio, tu sai a quanti essa è utile, quanti libera dalle sofferenze, dalla povertà, dalle delazioni, dai supplizi, dalla noia. Nessuno ci ha più in suo potere, quando la morte è in nostro potere. Addio. lettera

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La vera felicità non ammette né accrescimento né diminuzione Tu sarai d’accordo con me, io penso, in questo: che si ricercano i beni materiali per il benessere del corpo, che si ha cura del corpo per riguardo dell’anima, che neH’anima vi sono, al servizio dell’elemento principale, parti inferiori per mezzo delle quali noi ci muoviamo e ci alimentiamo. In questo elemento principale vi è una parte irrazionale e una parte razionale. La prima è soggetta alla seconda: solo questa non dipende da alcun’altra, ma tutto dipende da lei. Infatti, come la ragione divina presiede a tutto ed essa a nessuna cosa è sottopo­ sta, così lo stesso avviene nella nostra ragione, che deriva da quella. Se siamo d’accordo su questo, dovremo anche ammet­ tere che la felicità consiste solo nella perfetta ragione. 721

ratio perfecta sit. Haec enim sola non summittit animum, stat contra fortunam; in quolibet rerum habitu fservitust servat. Id autem unum bonum est quod numquam defringitur. Is est, inquam, beatus quem nulla res minorem facit; tenet summa, et ne ulli quidem nisi sibi innixus; nam qui aliquo auxilio sustinetur potest cadere. Si aliter est, incipient multum in nobis valere non nostra. Quis autem vult constare 3 fortuna aut quis se prudens ob aliena miratur? Quid est beata vita ? securitas et perpetua tranquillitas. Hanc dabit animi magnitudo, dabit constantia bene iudicati tenax. Ad haec quomodo pervenitur ? si veritas tota perspecta est ; si servatus est in rebus agendis ordo, modus, decor, innoxia voluntas ac benigna, intenta rationi nec umquam ab illa recedens, amabilis simul mirabilisque. Denique ut breviter tibi formulam scribam, talis animus esse sapientis viri debet 4 qualis deum deceat. Quid potest desiderare is cui omnia honesta contingunt ? Nam si possunt aliquid non honesta conferre ad optimum statum, in his erit beata vita sine quibus non est. Et quid turpius stultiusve quam bonum rationalis animi ex inrationalibus nectere ? 5 Quidam tamen augeri summum bonum iudicant, quia parum plenum sit fortuitis repugnantibus. Antipater quoque inter magnos sectae huius auctores aliquid se tribuere dicit externis, sed exiguum admodum. Vides autem quale sit die non esse contentum nisi aliquis igniculus adluxerit: quod 6 potest in hac claritate solis habere scintilla momentum ? Si non es sola honestate contentus, necesse est aut quietem adici velis, quam Graeci · άοχλησ ίαν vocant, aut voluptatem. Horum alterum utcumque recipi potest; vacat enim animus molestia liber ad inspectum universi, nihilque illum avocai a contemplatione naturae. Alterum illud, voluptas, bonum

Infatti, questa sola non si abbatte, ma affronta l’avversa fortuna: in qualunque circostanza rimane... L’unico be­ ne è poi quello che non può essere intaccato. È felice colui che in nessun caso subisce diminuzione; egli sta nel punto più alto e non si appoggia che a se stesso, poiché chi cerca un sostegno negli altri può sempre cadere. Altrimenti comincerà ad acquistare gran valore in noi quello che non è nostro. Nessun saggio pretende che la fortuna sia stabile, o ammira se stesso per i beni che non gli appartengono. Che cos’è dunque la felicità? E un costante senso di sicurezza e di tranquillità e deriva da un animo grande che conserva stabilmente un retto giudizio. Come possiamo giungere a una vita felice? Quando abbiamo una completa visione della verità; quando manteniamo nelle azioni l’ordine, la misura, il decoro, il desiderio di astenerci dal male e di fare il bene, la volontà decisamente rivolta a ciò che è ragione­ vole, uno spirito che si fa amare e, insieme, ammirare. Dirò, per usare un’espressione sintetica, che l’animo del saggio deve essere degno di un dio. Quale altro desiderio può avere chi possiede ogni virtù? Se infatti la disonestà desse qualche contributo a una vita felice, questa, basan­ dosi sulla disonestà, non potrebbe esistere senza di essa. Ma niente è più disonesto e più stolto che subordinare il bene di un’anima razionale a ciò che è irrazionale. Tuttavia alcuni1 pensano che il sommo bene ammetta incrementi, in quanto non sarebbe completo quando la fortuna fosse avversa. Anche Antipatro, uno dei maggio­ ri sostenitori di questa teoria, attribuisce qualche valore, per quanto molto scarso, ai beni della fortuna. Sarebbe come se a uno non bastasse la luce del giorno e chiedesse in aggiunta una fiammella. Ma quanta luce può aggiun­ gere una scintilla allo splendore del sole? Se non sei contento della sola virtù, vorrai necessariamente aggiun­ gervi o la quiete, chiamata dai Greci άοχλησία, o il piacere. Possiamo accettare la prima: l’animo, esente da molestie, è libero di contemplare l’universo, e niente può distrarlo da questa contemplazione. Quanto al pia1 Gli epicurei.

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pecoris est: adicimus rationali inrationale, honesto inhone7 stum, magno * * * vitam facit titillatio corporis ? Quid ergo dubitatis dicere bene esse homini, si palato bene est ? Et hunc tu, non dico inter viros numeras, sed inter homines, cuius summum bonum saporibus et coloribus et sonis con­ stai ? Excedat ex hoc animalium numero pulcherrimo ac dis 8 secundo; mutis adgregetur animai pabulo laetum. Inrationalis pars animi duas habet partes, alteram animosam, ambitiosam, inpotentem, positam in adfectionibus, alteram humilem, languidam, voluptatibus deditam: illam effrenatam, meliorem tamen, certe fortiorem ac digniorem viro, reliquerunt, hanc necessariam beatae vitae putaverunt, enervem et abiectam. 9 Huic rationem servire iusserunt, et fecerunt animalis ge­ nerosissimi summum bonum demissum et ignobile, praeterea mixtum portentosumque et ex diversis ac male congruentibus membris. Nam ut ait Vergilius noster in Scylla, prima hominis facies et pulchro pectore virgo pube tenus, postrema inmani corpore pistrix delphinum caudas utero commissa luporum.

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Huic tamen Scyllae fera animalia adiuncta sunt, liorrenda, velocia : at isti sapientiam ex quibus composuere portentis ? Prima pars hominis est ipsa virtus; huic committitur inutilis caro et fluida, receptandis tantum cibis habilis, ut ait Posidonius. Virtus illa divina in lubricum desinit et superioribus eius partibus venerandis atque caelestibus animai iners ac marcidum adtexitur. Illa utcumque altera quies riihil quidem ipsa praestabat animo, sed inpedimenta removebat : voluptas ultro dissolvit et omne robur emollit. Quae invenietur tam discors inter se iunctura corporum? Fortissimae rei inertis-

cere, esso è la felicità delle bestie; si aggiunge così a ciò che è razionale un elemento irrazionale; a ciò che è onesto, il non onesto. Il soddisfacimento dei sensi ren­ de... la vita dell’uomo? E allora perché non dire che l’uomo sta bene, se il palato è soddisfatto? E tu oseresti annoverare, non dico fra gli uomini seri, ma semplice­ mente fra gli uomini, colui che pone la sua felicità nei sapori, nei colori, nei suoni? Se è così, cessi egli di appartenere a questi bellissimi animali, inferiori solo agli dèi, e si aggreghi agli animali privi di ragione, poiché gli basta la soddisfazione dei sensi. L’elemento irrazionale dell’anima si distingue in due parti: l’una coraggiosa, ambiziosa, sfrenata, mossa dalla passione; l’altra vile, languida, dedita ai piaceri. Coloro che perseguono i piaceri negano valore anche alla parte delì’anima che è sfrenata, e tuttavia migliore, e certo più forte e più degna di un uomo; e considerano necessaria alla felicità la parte fiacca e vile. A questa hanno asservito la ragione, e il sommo bene dell’animale più nobile è diventato per loro una cosa bassa e ignobile, un miscuglio mostruoso di membra diverse mal connesse fra loro. Infatti, come dice il vostro Virgilio di Scilla: «Nella parte superiore del corpo, fino al pube, ha l’aspetto di una leggiadra fanciulla; nel resto è un immane mostro dal ventre di lupo, cui aderiscono code di delfino»2. Anche a questa Scilla dei sensi sono congiunti animali feroci, spaventosi, veloci: ma costoro, da quali mostri pensano sia costituita la saggezza? L’arte più importante dell’uomo è la virtù: a questa si attacca la carne inutile e soggetta a corruzione, capace solo di ricevere i cibi, come dice Posidonio. Questa virtù avvilisce la sua veneranda natura divina al contatto con la bestialità inerte e putrida. Quanto alla quiete, essa, pur non dando alcun vantaggio positivo aH’anima, rimuove gli ostacoli sulla via del bene; il piacere, invece, fiacca l’animo, togliendogli ogni vigore. Si può trovare un collegamento di elementi più discordi fra loro? A un elemento fortissimo se ne collega uno 2 Eneide, III, 426 segg.

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sima adstruitur, severissimae parum seria, sanctissimae intemperans usque ad incesta* 11 ‘Quid ergo?’ inquit ‘si virtutem nihil inpeditura sit bona valetudo et quies et dolorum vacatio, non petes illas ?’ Quidni petam ? non quia bona sunt, sed quia secundum naturam sunt, et quia bono a me iudicio sumentur. Quid erit tunc in illis bonum? hoc unum, bene eligi. Nam cum vestem qualem decet sumo, cum ambulo ut oportet, cum ceno quemadmodum debeo, non cena aut ambulatio aut vestis bona sunt, sed meum in iis propositum servantis in quaque re rationi con1 2 venientem modum. Etiamnunc adiciam: mundae vestis electio adpetenda est homini; natura enim homo mundum et elegans animai est. Itaque non est bonum per se munda vestis sed mundae vestis electio, quia non in re bonum est sed in electione quali; actiones nostrae honestae sunt, non 13 ipsa quae aguntur. Quod de veste dixi, idem me dicere de corpore existima. Nam hoc quoque natura ut quandam vestem animo circumdedit; velamentum eius est. Quis autem umquam vestimenta aestimavit arcula ? nec bonum nec malum vagina gladium facit. Ergo de corpore quoque idem tibi respondeo : sumpturum quidem me, si detur electio, et sanitatem et vires, bonum autem futurum iudicium de illis meum, non ipsa. 14 ‘Est quidem’ inquit ‘sapiens beatus; summum tamen illud bonum non consequitur nisi illi et naturalia instrumenta respondeant. Ita miser quidem esse qui virtutem habet non potest, beatissimus autem non est qui naturalibus bonis 15 destituitur, ut valetudine, ut membrorum integritate.’ Quod incredibilius videtur, id concedis, aliquem in maximis et continuis doloribus non esse miserum, esse etiam beatum: quod levius est negas, beatissimum esse. Atqui si potest virtus efficere ne miser aliquis sit, facilius efficiet ut beatissimus sit ; minus enim intervalli a beato ad beatissimum restat quam a misero ad beatum. An quae res tantum valet ut ereptum

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fiacchissimo; a uno severissimo, uno poco serio; a uno santissimo, uno intemperante fino alla dissolutezza. «Ma» si dirà «se la salute, se la quiete e la mancanza di dolori non nuocciono alla virtù, non cercherai di possederle?» E perché no? Tuttavia cercherei di averle, con sano criterio, non in quanto beni, ma in quanto sono secondo natura. Che ci sarà allora di buono in esse? Solo questo: la giusta scelta. Infatti, quando indosso un abito che si addice a me, quando cammino o pranzo come si conviene, non sono beni per se stessi l’abito, il camminare o il pranzo, ma è un bene il mio proposito di mantenere in ogni azione un atteggiamento conveniente alla ragione. Aggiungo che l’uomo deve preferire una veste pulita, poiché è un animale che ama la pulizia e il decoro. Il bene, perciò, non consiste nella veste pulita, ma nella scelta della veste pulita, poiché il bene non sta nella cosa, ma nella scelta conveniente: sono oneste le nostre azioni, non le cose che ne sono l’oggetto. Quello che ho detto della veste vale anche per il corpo. La natura lo ha avvolto intorno all’animo, di cui forma quasi un rivestimento. Chi poi valuta le vesti dall’armadio che le contiene? Alla stessa guisa il fodero non rende la spada né buona né cattiva. La stessa cosa vale per il corpo: se mi si desse facoltà di scelta, sceglierei un corpo sano e forte, ma il bene sarà sempre nel mio criterio di scelta, non nella salute o nella forza. «E vero,» si soggiunge «il sapiente è felice; tuttavia egli non consegue la pienezza della felicità, se non ha adeguati mezzi naturali. Così, chi ha la virtù non può essere infelice; ma non è completamente felice chi è privo di beni naturali come la salute e l’integrità fisica.» Quello che appare più incredibile, che cioè uno può essere felice anche se soffre continuamente i più gravi dolori, tu lo ammetti; ma neghi ciò che è più ovvio, cioè che egli possa essere completamente felice. Eppure, se la virtù può far sì che un uomo non sia infelice, a maggior ragione avrà la possibilità di renderlo molto felice, poi­ ché la distanza fra la felicità e la massima felicità è minore di quella fra l’infelicità e la felicità. Quella virtù che ha la forza di dare la felicità ad un uomo, dopo 727

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calamitatibus inter beatos locet non potest adicere quod superest, ut beatissimum faciat? in summo deficit clivo? Commoda sunt in vita et incommoda, utraque extra nos. Si non est miser vir bonus quamvis omnibus prematur incommodis, quomodo non est beatissimus si aliquibus commodis deficitur ? Nam quemadmodum incommodorum onere usque ad miserum non depnmitur, sic commodorum inopia non deducitur a beatissimo, sed tam sine commodis beatissimus est quam non est sub incommodis miser; aut potest illi eripi bonum suum, si potest minui. Paulo ante dicebam igniculum nihil cotìferre lumini solis; claritate enim eius quidquid sine ilio luceret absconditur. ‘Sed quaedam’ inquit ‘soli quoque opstant.’ A t sol integer est etiam inter opposita, et quamvis aliquid interiacet quod nos prohibeat eius aspectu, in opere est, cursu suo fertur; quotiens inter nubila eluxit, non est sereno minor, ne tardior quidem, quoniam multum interest utrum aliquid obstet tantum an inpediat. Eodem modo virtuti opposita nihil detrahunt: non est minor, sed minus fulget. Nobis forsitan non aeque apparet ac nitet, sibi eadem est et more solis obscuri in occulto vim suam exercet. Hoc itaque adversus virtutem possunt calamitates et damna et iniuriae quod adversus solem potest nebula. Invenitur qui dicat sapientem corpore parum prospero usum nec miserum esse nec beatum. Hic quoque fallitur; exaequat enim fortuita virtutibus et tantundem tribuit honestis quantum honestate carentibus. Quid autem foedius, quid indignius quam comparari veneranda contemptis ? Veneranda enim sunt iustitia, pietas, fides, fortitudo, prudentia : e contrario vilia sunt quae saepe contingunt pleniora vilissimis, crus solidum et lacertus et dentes et horum sanitas firmitasque. Deinde si sapiens cui corpus molestum est nec miser habebitur nec beatus, sed (in) medio relinquetur, vita

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averlo strappato alle calamità, non potrà aggiungere quello che avanza, rendendolo completamente felice? Verrà meno proprio in vetta? Nella vita ci sono agi e disagi, entrambi fuori di noi. Se l’uomo virtuoso non è infelice, sebbene sia oppresso da tutte le sciagure, come non sarà sommamente felice anche se privo di qualche agio? Infatti, come il peso dei disagi non lo abbatte fino a renderlo infelice, così la mancanza di agi non lo distacca dalla massima felicità; ma è felicissimo senza gli agi, come non è infelice nei disagi. Altrimenti, se la felicità per lui potesse diminuire, potrebbe anche essergli tolta. Dicevo poc’anzi che una fiammella nulla aggiunge alla luminosità del sole, poiché lo splendore di questo offuscherebbe qualunque altra luce meno intensa. «Ma» si obietta «anche il sole ha i suoi veli.» Però il sole è integro in sé anche dietro alla foschia, e per quanto possa interporsi qualcosa che ce ne ostacoli la vista, esso continua il suo movimento celeste. E ogni volta che torna a risplendere fra le nubi, non è meno luminoso che a ciel sereno, né più lento, poiché tutto ciò che gli si oppone non è d’impaccio al suo corso. Così quel che si oppone alla virtù niente le toglie: essa non ne è sminuita, anche se non risplende esteriormente. Non avrà, forse, lo stesso splendore per noi, ma sarà sempre uguale a se stessa e, come il sole oscurato, continuerà, non vista, a spiegare la sua forza. Perciò le sciagure, i danni e le offese non avranno nessun potere contro la virtù, come non lo hanno le nuvole nei confronti del sole. C’è chi dice che il saggio di salute cagionevole non è né felice né infelice. Anche costui è in errore, poiché mette i casi fortuiti alla pari con la virtù, l’onesto sullo stesso piano del non onesto. Sarebbe cosa veramente sconcia dare lo stesso valore a cose degne di rispetto e a cose trascurabili. Sono degne di rispetto la giustizia, la pietà, la fedeltà, la fortezza, la prudenza; al contrario, sono trascurabili le cose che spesso toccano in abbondan­ za alle persone di minor conto: gambe robuste, muscoli saldi e denti sani. In secondo luogo, se il saggio che ha il corpo debole non sarà giudicato né felice né infelice, 729

quoque eius nec adpetenda erit nec fugienda. Quid autem tam absurdum quam sapientis vitam adpetendam non esse? aut quid tam extra fidem quam esse aliquam vitam nec adpetendam nec fugiendam ? Deinde si damna corporis miserum non faciunt, beatum esse patiuntur; nam quibus potentia non est in peiorem transferendi statum, ne interpellandi quidem optimum. 21 ‘Frigidum’ inquit ‘aliquid et calidum novimus, inter utrumque tepidum est; sic aliquis beatus est, aliquis miser, aliquis nec beatus nec miser.’ Volo hanc contra nos positam imaginem excutere. Si tepido illi plus frigidi ingesserò, fiet frigidum; si plus calidi adfudero, fiet novissime calidum. At huic nec misero nec beato quantumcumque ad miserias adiecero, miser non erit, quemadmodum dicitis; ergo imago 2 2 ista dissimilis est. Deinde trado tibi hominem nec miserum nec beatum. Huic adicio caecitatem: non fit miser; adicio debilitatem: non fit miser; adicio dolores continuos et graves : miser non fit. Quem tam multa mala in miseram vitam 23 non transferunt ne ex beata quidem educunt. Si non potest, ut dicitis, sapiens ex beato in miserum decidere, non potest in non beatum. Quare enim qui labi coepit alicubi subsistat ? quae res illum non patitur ad imum devolvi retinet in summo. Quidni non possit beata vita rescindi ? ne remitti quidem potest, et ideo virtus ad illam per se ipsa satis est. 24 ‘Quid ergo?’ inquit ‘sapiens non est beatior qui diutius vixit, quem nullus avocavit dolor, quam file qui cum mala fortuna semper luctatus est?’ Responde mihi: numquid et melior est et honestior ? Si haec non sunt, ne beatior quidem est. Rectius vivat oportet ut beatius vivat: si rectius non potest, ne beatius quidem. Non intenditur virtus, ergo ne beata quidem vita, quae ex virtute est. Virtus enim tantum

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ma sarà lasciato in uno stato di mezzo, anche la sua vita non sarà né da desiderarsi né da fuggirsi. Ma non c’è maggiore assurdità che considerare non desiderabile la vita del saggio. E non è degna di fede l’ipotesi che una condizione di vita sia, al tempo stesso, né desiderabile né da fuggirsi. Inoltre, se le imperfezioni fisiche non rendono l’uomo infelice, non escludono che sia felice: infatti, quello che non ha neppure il potere di peggiorare una situazione, non può neppure impedire che diventi ottima. Ma si obietta ancora: «Sappiamo che ci sono cose calde e cose fredde, e, tra le une e le altre, quelle tiepide; così c’è chi è felice, chi è infelice, e chi non è né felice né infelice». Voglio dimostrare l’inconsistenza di questa similitudine che ci viene opposta. Se farò raffreddare una cosa tiepida, diventerà fredda; se, invece, la riscalde­ rò, alla fine diventerà calda. Ma per quanto riguarda l’uomo né felice né infelice, egli, come voi stessi dite, non sarà mai infelice, anche se gli si aggravano i dolori; dunque, il paragone non è valido. Eccoti un uomo né infelice né felice: se aggiungerò a lui la cecità, o la debolezza, o dolori gravi e continui, non per questo egli diventerà infelice. E se tanti mali non possono portarlo alPinfelicità, non potranno neppure strapparlo alla felici­ tà. Se il saggio, come dite, non può decadere da una situazione felice nell’infelicità, neppure può giungere a uno stato di non-felicità, poiché chi ha cominciato a scivolare non è più in grado di fermarsi a metà strada. Quella stessa causa che non lo lascia precipitare in fondo lo trattiene sulla vetta. Una vita felice non può essere spezzata e neppure incrinata, e la virtù in se stessa basta per raggiungere la felicità. «Dunque» si obietta «quel sapiente che è vissuto più a lungo e non fu distratto da nessun dolore non è più felice di quello che ha dovuto sempre lottare con le avversità?» Ma è egli migliore o più virtuoso? Se non è così, non sarà neppure più felice. Per vivere più felice­ mente deve vivere più virtuosamente; altrimenti non avrà una vita più felice. La virtù non ha gradi di intensità: quindi neppure la felicità, che deriva dalla virtù. Infatti 731

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bonum est ut istas accessiones minutas non sentiat, brevitatem aevi et dolorem et corporum varias offensiones; nam voluptas non est digna ad quam respiciat. Quid est in virtute praecipuum ? futuro non indigere nec dies suos conputare. In quantulo libet tempore bona aeterna consummat. Incredibilia nobis haec videntur et supra humanam naturam excurrentia; maiestatem enim eius ex nostra inbecillitate metimur et vitiis nostris nomen virtutis inponimus. Quid porro ? non aeque incredibile videtur aliquem in summis cruciatibus positum dicere ‘beatus sum’ ? Atqui haec vox in ipsa officina voluptatis-audita est. ‘Beatissimum’ inquit ‘hunc et ultimum diem ago’ Epicurus, cum illum hinc urinae difficultas torqueret, hinc insanabilis exulcerati dolor ventris. Quare ergo incredibilia ista sint apud eos qui virtutem colunt, cum apud eos quoque reperiantur apud quos voluptas imperavit? Hi quoque degeneres et humillimae mentis aiunt in summis doloribus, in summis calamitatibus sapientem nec miserum futurum nec beatum. Atqui hoc quoque incredibile est, immo incredibilius; non video enim quomodo non in imum agatur e fastigio suo deiecta virtus. Aut beatum praestare debet aut, si ab hoc depulsa est, non prohibebit fieri miserum. Stans non potest mitti : aut vincatur oportet aut vincat. ‘Dis’ inquit ‘inmortalibus solis et virtus et beata vita con­ tigli, nobis umbra quaedam illorum bonorum et similitudo; accedimus ad illa, non pervenimus.’ Ratio vero dis hominibusque communis est : haec in illis consummata est, in nobis consummabilis. Sed ad desperationem nos vitia nostra perducunt. Nam ille alter secundus est ut aliquis parum constane ad custodienda optima, cuius iudicium labat etiamnunc et incertum est. Desideret oculorum atque aurium sensum,

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la virtù è un bene così grande che non sente gli accidenti trascurabili, come la brevità della vita, il dolore e i vari disagi del corpo. Quanto al piacere, esso non merita di essere preso in considerazione. La principale caratteristi­ ca dell’uomo virtuoso è non aver bisogno del domani e non star sempre a contare i propri giorni: un istante gli basta per gustare i beni eterni nella loro pienezza. Ma a noi tutto questo sembra incredibile e al di sopra della natura umana, poiché giudichiamo l’eccellenza della vir­ tù secondo la nostra debolezza e diamo ai nostri vizi il nome di virtù. Può sembrare davvero incredibile che uno, in mezzo ai più strazianti dolori, gridi: «Sono felice!» Eppure si sono sentite queste parole proprio nell’officina delle dottrine del piacere. «Quest’ultimo giorno della vita è per me il più felice» disse Epicuro mentre era torturato da due mali: un’occlusione alla vescica e un’incurabile ulcera al ventre. E perché tali atteggiamenti dovrebbero essere giudicati incredibili da coloro che onorano la virtù, se li troviamo anche in quelli che vivono sotto la legge del piacere? Anche questi uomini degenerati e di bassi sentimenti affermano che nei più grandi dolori e nella più grandi disgrazie il sapiente non sarà ne infelice né felice. Ebbene, quest’af­ fermazione è anch’essa incredibile; anzi, ben più incredi­ bile; non vedo, infatti, come la virtù, rovesciata dalla sua eccelsa sede, non debba precipitare fino in fondo. Essa o deve dare all’uomo la felicità, o, se le è negata questa prerogativa, non potrà impedire che egli divenga infelice. Finché esiste la virtù, non c’è scampo; essa deve essere o vittoriosa o vinta. Si replica: «Solo gli dèi immortali hanno il pieno possesso della virtù e della felicità: noi ne abbiamo solo una parvenza; ci avviciniamo a questi beni, ma non li raggiungiamo». In realtà, la ragione è comune agli dèi e a noi uomini: essa è in loro perfetta, in noi è perfettibi­ le. Ma i nostri vizi ci spingono a disperare. Infatti non può considerarsi un vero uomo chi è poco costante nel mantenere i suoi buoni propositi ed è sempre vacillante e incerto nei suoi giudizi. Abbia pure fra i suoi desideri una buona salute, la sanità della vista e dell’udito, un 733

bonam valetudinem et non foedum aspectum corporis et 29 habitu manente suo aetatis praeterea longius spatium. Per haec potest non paenitenda agi vita, at inperfecto viro huic malitiae vis quaedam inest, quia animum habet mobilem ad prava, illa faitarens malitia et ea agitata! abest [de bono]. Non est adhuc bonus, sed in bonum fingitur; cuicumque 30 autem deest aliquid ad bonum, malus est. Sed si cui virtus animusque in corpore praesens,

hic deos aequat, ilio tendit originis suae memor. Nemo in­ probe eo conatur ascendere unde descenderat. Quid est autem cur non existimes in eo divini aliquid existere qui dei pars est? Totum hoc quo continemur et unum est et deus; et socii sumus eius et membra. Capax est noster animus, perfertur ilio si vitia non deprimant. Quemadmodum corporum nostrorum habitus erigitur et spectat in caelum, ita animus, cui in quantum vult licet porrigi, in hoc a natura rerum formatus est, ut paria dis vellet; et si utatur suis viribus ac se in spatium suum extendat, non aliena via ad summa nititur. 31 Magnus eràt labor ire in caelum: redit. Cum hoc iter nactus est, vadit audaciter contemptor omnium nec ad pecuniam respicit aurumque et argentum, illis in quibus iacuere tene­ brie dignissima, non ab hoc aestimat splendore quo inperitorum verberant oculos, sed a vetere caeno ex quo illa secrevit cupiditas nostra et effodit. Scit, inquam, aliubi positas esse divitias quam quo congeruntur; animum impleri debere, 32 non arcam. Hunc inponere dominio, rerum omnium licet, hunc in possessionem rerum naturae inducere, ut sua orientis occidentisque terminis finiat, deorumque ritu cuncta possideat, cum opibus suis divites superne despiciat, quorum nemo 3 3 tam suo laetus est quam tristis alieno. Cum se in hanc sublimitatem tulit, corporis quoque ut oneris necessarii non

aspetto gradevole e la prospettiva di conservarsi per molti anni in buone condizioni fisiche: sono qualità con cui si può condurre una vita passabile; tuttavia è un uomo imperfetto e possiede una certa dose di malizia, poiché il suo animo soggiace agli impulsi irrazionali;... Non è ancora un uomo buono, ma si sforza di esserlo. Ora, colui a cui manca qualcosa per essere buono, è cattivo. Ma «quell’uomo che alberga nel suo petto un animo generoso»3è uguale agli dèi e verso di loro tende, memore della sua origine. Non può essere biasimato chi si sforza di salire donde era disceso. Perché non dovresti pensare che ci sia qualcosa di divino in chi è parte di dio? Questo tutto che ci circonda costituisce un’unità ed è dio: e noi ne facciamo parte; siamo sue membra. L’anima nostra è grande e può giungere a dio, se i vizi non la volgono in basso. Come abbiamo un portamento eretto e lo sguardo rivolto al cielo, così l’animo, a cui è concesso di protendersi quanto vuole, è stato formato dalla natura in modo da accordare la sua volontà a quella divina. Anche se progredisce nello spazio a lui destinato facendo uso delle sue forze, esso conosce la strada lungo la quale tende verso la vetta. Immensa è la fatica per salire al cielo: ma esso vi ritorna. Quando ha trovato la sua strada, avanza audacemente, sprezzando tutto: non si cura del denaro, né dell’oro o dell’argento, metalli ben degni dell’oscurità in cui sono sepolti; non li apprezza per la loro lucentezza, che abbaglia la vista degli ignoranti, ma li giudica dal fango in cui sono immersi e da cui li trae alla luce la nostra avidità. Il saggio sa che la vera ricchezza non consiste nell’ammassare beni materiali; l’anima, e non la cassaforte, dev’essere piena. Possiamo renderla dominatrice di tutto quanto c’è in natura, in modo che i suoi possessi si estendano da oriente ad occidente e, come gli dèi, sia padrona dell’universo e disprezzi la potenza di quei ricchi che si rattristano dei beni degli altri più che godere dei propri. Una volta giunta a queste altezze, non ama più neppure il corpo, che considera solo un peso necessario; e compie la 3 Virgilio, Eneide, V, 363.

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amator sed procurator est, nec se illi cui inpositus est subicit. Nemo liber est qui corpori servii ; nam ut alios dominos quos nimia prò ilio sollicitudo invenit transeas, ipsius morosum imperium delicatumque est. Ab hoc modo aequo animo exit, modo magno prosilit, nec quis deinde relieti eius futurus sit exitus quaerit; sed ut ex barba capilloque tonsa neglegimus, ita ille divinus animus egressurus hominem, quo receptaculum suum conferatur, ignis illud fexcludatt an terra contegat an ferae distrahant, non magis ad se iudicat pertinere quam secundas ad editum infantem. Utrum proiectum aves differant an consumatur canibus data praeda marinis,

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quid ad illum qui nullus (est) ? Sed tunc quoque cum inter homines est, (non) timet ullas post mortem minas eorum quibus usque ad mortem timeri parum est. ‘Non conterrei’ inquit ‘me nec uncus nec proiecti ad contumeliam cadaveris laceratio foeda visuris. Neminem de supremo officio rogo, nulli reliquias meas commendo. N e quis insepultus esset rerum natura prospexit : quem saevitia proiecerit dies condet.’ Diserte Maecenas ait, nec tumulum curo: sepelit natura relictos.

Alte cinctum putes dixisse; habuit enim ingenium et grande et virile, nisi illud secunda discinxissent. Vale.

funzione assegnatale di guidarlo senza assoggettarsi ad esso. Chi è schiavo del corpo non può esser libero: infatti, anche a non tener conto degli altri padroni che si procura se è troppo sollecito del corpo, egli trova in lui un padrone esigente e intrattabile. L’anima del saggio abbandona il corpo serenamente, talvolta ne balza fuori con coraggio, né vuol sapere dove andranno a a finire i suoi resti mortali. Ma come nel rasarci non ci interessano più i peli tagliati, così all’anima divina, nel lasciare il corpo, non importa dove sarà portato questo suo terreno ricovero, se sarà... dal fuoco, o ricoperto dalla terra, o dilaniato dalle fiere; così come la placenta non ha alcuna importanza per il fanciullo appena nato. Oppure, abban­ donato all’aperto, sarà straziato dagli avvoltoi, o «dato in pasto ai pescecani»4? Che importa a lui, se non è più? Ma anche mentre si trova in mezzo agli uomini non teme ciò di cui lo minacciano dopo la morte quei fantasmi ai quali non basta di essere temuti fino all’ora della morte. «Non ho paura», egli dice, «né dell’uncino, né del cada­ vere sconciamente straziato e abbandonato all’oltraggio davanti a tutti. Non chiedo a nessuno gli onori funebri; a nessuno affido i miei resti. La natura provvede a che nessuno rimanga insepolto: col volger del tempo saranno ricoperti quei resti che la crudeltà avrà gettato all’aper­ to». Dice acutamente Mecenate: «Non mi curo del sepol­ cro; quelli che non l’hanno sono sepolti dalla natura». Si potrebbe credere che questa frase sia di un uomo magnanimo: il suo ingegno, infatti, avrebbe manifestato le sue qualità nobili e virili se la buona fortuna non ne avesse smorzato il vigore. Addio.

4 Virgilio, Eneide, IX, 485.

L IB E R Q VIN TVS D ECIM VS

SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

LETTERA 9 3

In epistula qua de morte Metronactis philosophi querebaris, tamquam et potuisset diutius vivere et debuisset, aequitatem tuam desideravi, quae tibi in omni persona, in omni negotio superest, in una re deest, in qua omnibus: multos inveni aequos adversus homines, adversus deos neminem. Obiurgamus cotidie fatum: ‘quare ille in medio cursu raptus est ? quare ille non rapitur ? quare senectutem et sibi et aliis gravem extendit ?’ Utrum, obsecro te, aequius iudicas, te naturae an tibi parere naturam ? quid autem inter­ est quam cito exeas unde utique exeundum est ? Non ut diu vivamus curandum est, sed ut satis; nam ut diu vivas fato opus est, ut satis, animo. Longa est vita si piena est; impletur autem cum animus sibi bonum suum reddidit et ad se potestatem sui transtulit. Quid illum octoginta anni iuvant per inertiam exacti? non vixit iste sed in vita moratus est, nec sero mortuus est, sed diu. Octoginta annis vixit.’ Interest mortem eius ex quo die numeres. ‘At ille obiit viridis.’ Sed

La vita non va giudicata in relazione alla sua durata

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LIB R O Q U IN D IC ESIM O

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Nella lettera in cui ti dolevi della morte del filosofo Metronatte, come se egli avesse potuto e dovuto vivere più a lungo, non ho trovato quel senso di equità di cui ti mostri ben provvisto in ogni tuo ufficio, ma che ti manca là dove manca a tutti gli uomini. Ho incontrato molti che sono giusti verso gli uomini, ma nessuno che sia giusto verso gli dèi. Ogni giorno noi facciamo il processo al destino: «Perché quello è stato rapito quando più la vita gli sorrideva? E perché non è capitato a quell’altro? Perché si prolunga quella vecchiaia che è di peso a se stessa e agli altri?» Ora io ti chiedo: ti sembra più giusto che tu obbedisca alla natura o che la natura obbedisca a te? Del resto, che importanza ha uscire più o meno presto da un corpo da cui si dovrà comunque venir fuori? Non dobbiamo preoccuparci che la vita sia lunga, ma che sia piena: poiché una vita lunga dipende solo dal destino, ma dipende dalla volontà se la vita è piena. E, se è piena, la vita è anche lunga. Si ha pienezza di vita quando l’anima ha ripreso possesso del bene che le spetta e non dipende più che da se stessa. Che giovano a quell’uomo ottant’anni passati senza far niente? Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita; né è morto tardi, ma ha impiegato molto tempo per morire. «È vissuto ottant’anni»; sì, ma quel che conta è vedere da quando fai decorrere la sua morte. «Quell’altro è morto nel vigore delle sue forze»: lui, almeno, ha compiuto i 739

officia boni civis, boni amici, boni filli executus est; in nulla parte cessavit; licei aetas eius inperfecta sit, vita perfecta est. ‘Octoginta annis vixit.’ Immo octoginta apnis fuit, nisi forte sic vixisse eum dicis quomodo dicuntur arboree vivere. Obsecro te, Lucili, hoc agamus ut quemadmodum pretiosa rerum sic vita nostra non multum pateat sed multum pendeat ; actu illam metiamur, non tempore. Vis scire quid inter hunc intersit vegetum contemptoremque fortunae functum omnibus vitae humanae stipendiis atque in summum bonum eius evectum et illum cui multi anni transmissi sunti alter 5 post mortem quoque est, alter ante mortem perit. Laudemus itaque et in numero felicium reponamus eum cui quantulumcumque temporis contigit bene conlocatum est. Vidit enim veram lucem; non fuit unus e multis; et vixit et viguit. Aliquando sereno usus est, aliquando, ut solet, validi sideris fulgor per nubila emicuit. Quid quaeris quamdiu vixerit? vivit : ad posteros usque transiluit et se in memoriam dedit. 6 Nec ideo mihi plures annos accedere recusaverim; nihil tamen mihi ad beatam vitam defuisse dicam si spatium eius inciditur; non enim ad eum diem me aptavi quem ultimum mihi spes avida promiserat, sed nullum non tamquam ulti­ mum aspexi. Quid me interrogas quando natus sim, an inter 7 iuniores adhuc censear ? habeo meum. Quemadmodum in minore corporis habitu potest homo esse perfectus, sic et in minore temporis modo potest vita esse perfecta. Aetas inter externa est. Quamdiu sim alienum est: quamdiu ero, (vere) ut sim, meum est. Hoc a me exige, ne velut per tenebras aevum ignobile emetiar, ut agam vitam, non ut praetervehar. 8 Quaeris quod sit amplissimum vitae spatium ? usque ad sapien-

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suoi doveri di buon cittadino, di amico e di figlio affettuo­ so: non è stato manchevole sotto nessun aspetto. Se non è giunto al termine della sua età, ha avuto una vita piena. «L’altro è vissuto ottant’anni»: no, ha vegetato per ottant’anni, a meno che tu non intenda che è vissuto come si dice che le piante vivono. Ti scongiuro, caro Lucilio, facciamo in modo che la nostra vita, come ogni oggetto prezioso, valga più per il suo peso che per il suo volume. Misuriamola non secondo la sua durata, ma secondo le opere che realizziamo. Vuoi sapere che diffe­ renza passa fra uno spirito virile che disprezza la fortuna e che, dopo aver compiuto tutti i suoi doveri di uomo, ha conosciuto la vera felicità, e l’uomo che ha lasciato passare nell’inerzia i suoi anni? L’uno esiste anche dopo la morte, l’altro ha cessato di vivere prima di morire. Onoriamo, perciò, e annoveriamo fra le persone felici colui che ha saputo fare buon uso di quel po’ di tempo che gli è toccato. Egli ha conosciuto la vera luce: non è stato uno dei tanti: ha vissuto da forte. Talvolta ha goduto il cielo sereno; talvolta, com’awiene di solito, ha visto i raggi del sole risplendere fra le nuvole. Perché ti chiedi quanto tempo è vissuto? Egli vive ancora: è passato con un balzo ai posteri e ha lasciato un ricordo di sé. Se mi fossero dati in aggiunta altri anni di vita, non li rifiuterei; ma dirò che ho conosciuto intera la felicità, anche se la mia esistenza è stata abbreviata. Io non ho adattato i miei programmi di vita a quel giorno che un’avida speranza mi aveva promesso come termine della mia esistenza; non c’è giorno che io non consideri come ultimo. Perché mi chiedi quando sono nato o se sono ancora nell’elenco dei giovani soggetti alla mobilita­ zione? Ho ricevuto la mia parte. Come in un corpo di piccola statura può trovarsi una personalità perfetta, così anche in un mediocre spazio di tempo la vita può essere perfetta. La durata della vita fa parte delle cose esteriori: non dipende da me. Dipende da me vivere con pienezza tutto il tempo che mi è stato assegnato. Quello che mi si deve richiedere è di non trascorrere i miei anni nell’ignavia e nell’oscurità e di dare un indirizzo alla mia esistenza, senza lasciarmi travolgere dagli eventi. Vuoi sapere qual è la vita più lunga? Quella che si conclude in 741

tiam vivere; qui ad illam pervenit attigit non longissimum finem, sed maximum. Ille vero glorietur audacter et dis agat gratias interque eos sibi, et rerum naturae inputet quod fuit. Merito enim inputabit: meliorem illi vitam reddidit quam accepit. Exemplar boni viri posuit, qualis quantusque esset 9 ostendit ; si quid adiecisset, fuisset simile praeterito. Et tamen quousque vivimus ? Omnium rerum cognitione fruiti sumus : scimus a quibus principiis natura se attollat, quemadmodum ordinet mundum, per quas annum vices revocet, quemad­ modum omnia quae usquam erunt cluserit et se ipsam finem sui fecerit; scimus sidera impetu suo vadere, praeter terram nihil stare, cetera continua velocitate decurrere ; scimus quem­ admodum solem luna praetereat, quare tardior velociorem post se relinquat, quomodo lumen accipiat aut perdat, quae causa inducat noctem, quae reducat diem : illue eundum est 1 0 ubi ista propius aspicias. ‘Nec hac spe’ inquit sapiens ille ‘fortius exeo, quod patere mihi ad deos meos iter iudico. Merui quidem admitti et iam inter illos fui animumque ilio meum misi et ad me illi suum miserant. Sed tolli me de medio puta et post mortem nihil ex homine restare: aeque magnum animum habeo, etiam si nusquam transiturus 11 excedo.’ Non tam multis vixit annis quam potuit. Et paucorum versuum liber est et quidem laudandus atque utilis: annales Tanusii scis quam ponderosi sint et quid vocentur. Hoc est vita quorundam longa,. et quod Tanusii sequitur 12 annales. Numquid feliciorem iudicas eum qui summo die muneris quam eum qui medio occiditur ? numquid aliquem tam stulte cupidum esse vitae putas ut iugulari in spoliario quam in harena malit ? Non malore spatio alter alterum

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saggezza. Chi la raggiunge, tocca la meta non più lonta­ na, ma più alta. Egli può essere orgoglioso e ringraziare gli dèi, fra i quali si è collocato per suo merito e per merito della natura. Ad essa egli restituisce una vita migliore di quella che aveva ricevuto; e, perciò, è ben giusto il suo orgoglio. Egli ha fornito un esempio di virtù, ha mostrato le sue qualità e la sua grandezza: se gli fosse concesso maggior tempo, continuerebbe a vivere come è sempre vissuto. Tuttavia per quale scopo viviamo ancora? Ormai abbiamo goduto della conoscenza della natura: sappiamo quali siano le origini, come essa regoli il mondo, per quali vicende rinnovi l’anno, in che modo abbia racchiuso tutte le cose future facendo di sé confine a se stessa. Sappiamo che le stelle si muovono per proprio impulso e che, esclusa la terra, nulla è fermo, ma tutto corre senza interruzione. Sappiamo come la luna oltrepassi il sole e perché se lo lasci dietro, pur essendo di lui meno veloce; come riceva la luce e come la perda; quale sia la legge che regola il succedersi del giorno e della notte. Non resta che andare là dove queste cose potranno vedersi più da vicino. «Tuttavia, aggiunge chi è saggio, io non abbandono la vita più serenamente solo perché ho la speranza che mi si apra la strada per tornare nella divina sede. Ho meritato di essere accolto là dove sono già, perché fin d’ora il mio spirito si è sollevato verso gli dèi, come il loro spirito è disceso in me. Ma anche se 1’esistenza mia, come quella di ogni essere umano, si dissolvesse nel nulla, e dovessi morire per non passare in nessun altro luogo, sento di avere un’anima ugualmente grande.» Non visse tanti anni quanti ne avrebbe potuti vivere. Possono essere pregevo­ li e utili anche i libri di poche righe; mentre tu sai quanto siano voluminosi gli annali di Tanusio e quale fama abbiano. La lunga vita di certi uomini è come questi annali e ha una fama altrettanto cattiva. Forse il gladiato­ re ucciso la sera, al termine dello spettacolo festivo è, per te, più felice di quello che è caduto a mezzodì? C’è qualcuno così stoltamente bramoso della vita da preferire di essere sgozzato nello spogliatoio che nell’are­ na? Non maggiore è l’intervallo con cui chi di noi muore 743

praecedimus. Mors per omnis it; qui occidit consequitur occisum. Minimum est de quo sollicitissime agitur. Quid autem ad rem pertinet quam diu vites quod evitare non possis ? Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Eam partem philosophiae quae dat propria cuique personae praecepta nec in universum componit hominem sed marito suadet quomodo se gerat adversus uxorem, patri quomodo educet liberos, domino quomodo servos regat, quidam solam receperunt, ceteras quasi extra utilitatem nostram vagantis reliquerunt, tamquam quis posset de parte suadere nisi qui summam prius totius vitae conplexus esset. 2 Ariston Stoicus e contrario hanc partem levem existimat et quae non descendat in pectus usque, anilia habentem prae­ cepta; plurimum ait proficere ipsa decreta philosophiae constitutionemque summi boni; ‘quam qui bene intellexit ae didicit quid in quaque re faciendum sit sibi ipse praecipit.’ 3 Quemadmodum qui iaculari discit destinatum locum captai et manum format ad derigenda quae m ittit, cum hanc vim ex disciplina et exercitatione percepii, quocumque vult illa utitur (didicit enim non hoc aut illud ferire sed quodcumque voluerit), sic qui se ad totam vitam instruxit non desiderai particulatim admoneri, doctus in totum, non enim quomodo cum uxore aut cum filio viveret sed quomodo bene viveret: 4 in hoc est et quomodo cum uxore ac liberis vivat. Cleanthes utilem quidem iudicat et hanc partem, sed inbecillam nisi ab universo fluit, nisi decreta ipsa philosophiae et capita cognovit. In duas ergo quaestiones locus iste dividitur: utrum

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precocemente precede l’altro che ha la vita più lunga. La morte viene per tutti: colui che uccide tien dietro a chi è stato ucciso. Ci si angoscia tanto per una cosa senza importanza: perché ritardare ciò che non si può evitare? Addio. lettera

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Nella filosofia sono utili sia le norme generali che i singoli precetti Alcuni pensatori hanno accolto esclusivamente quella parte della filosofia che dà consigli particolari a ciascun uomo; non tende alla formazione dell’uomo in generale, ma dà singoli precetti: al marito sul modo di comportarsi verso la moglie, al padre sulPeducazione dei figli, al padrone sul governo degli schiavi. Essi non prendono in considerazione le altre parti della filosofia, giudicandole prive di ogni utilità, come se fosse possibile dare insegna­ menti particolari senza aver bisogno di principi generali con cui abbracciare la vita nel suo complesso. Lo stoico Aristone, al contrario, giudica di scarsa importanza que­ sti singoli precetti, che non hanno la forza di imprimersi nell’animo; mentre afferma l’utilità di quelle norme generali della filosofia che spiegano l’essenza del sommo bene, «poiché chi ha ben capito e appreso ciò può stabilire da sé come deve comportarsi nei singoli casi della vita». Colui che impara a lanciare il giavellotto e si addestra a raggiungere il bersaglio ed educa la mano a dirigere i colpi, quando con la teoria e con l’esercizio ha conseguito tale facoltà, se ne serve a suo piacere, poiché ha appreso a colpire qualunque bersaglio non solo questo o quello. Così, dice Aristone, chi si è prepa­ rato per ogni caso della vita, non ha bisogno, essendo istruito in tutto, di singoli precetti sul modo di compor­ tarsi con la moglie e con i figli. Cleante stima utile anche questa parte precettistica, ma la considera poco efficace se non scaturisce da tutta la filosofia, di cui si devono conoscere i principi generali. Due sono le questioni che si presentano: se la cono745

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utilis an inutilis sit, et an solus virum bonum possit efficere, id est utrum supervacuus sit an omnis faciat supervacuos. Qui hanc partem videri volunt supervacuam hoc aiunt : si quid oculis oppositum moratur aciem, removendum est ; ilio quidem obiecto operam perdit qui praecipit ‘sic ambulabis, ilio manura porriges’. Eodem modo ubi aliqua res occaecat animum et ad officiorum dispiciendum ordinem inpedit, nihil agit qui praecipit ‘sic vives cum patre, sic cum uxore’. Nihil enim proficient praecepta quamdiu menti error offusus est : si ille discutitur, apparebit quid cuique debeatur officio. Alioqui doces illum quid sano faciendum sit, non efficis sanum. Pauperi ut agat divitem monstras: hoc quomodo manente paupertate fieri potest ? Ostendis esurienti quid tamquam satur faciat : fixam potius medullis famem detrahe. Idem tibi de omnibus vitiis dico: ipsa removenda sunt, non praecipiendum quod fieri illis manentibus non potest. Nisi opiniones falsas quibus laboramus expuleris, nec avarus quomodo pecunia utendum sit exaudiet nec timidus quomodo periculosa contemnat. Efficias oportet ut sciat pecuniam nec bonum nec malum esse; ostendas illi miserrimos divites; efficias ut quidquid publice expavimus sciat non esse tam timendum quam fama circumfert, nec (diu) dolere quemquam nec mori saepe: in morte, quam pati lex est, magnum esse solacium quod ad neminem redit; in dolore prò remedio futuram obstinationem animi, qui levius sibi facit quidquid contumaciter passus est; optimam doloris esse naturam, quod non potest nec qui extenditur magnus esse nec qui est magnus extendi; omnia fortiter excipienda quae nobis mundi necessitas imperat. His decretis cum illum in conspectum suae condicionis adduxeris et cognoverit

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scenza dei singoli precetti sia utile o inutile; e poi, se da sola possa rendere l’uomo virtuoso; se, cioè, essa sia o no superflua, o renda superflui tutti gli altri insegnamenti. Quelli che la giudicano superflua ragionano così: se qualcosa che sta davanti agli occhi impedisce la vista, bisogna toglierla via. Finché c’è quella macchia, perde tempo chi vuol dare precetti: «va’ da questa parte; stendi la mano da quest’altra parte». Ugualmente, se qualcosa acceca l’animo e impedisce di discernere con chiarezza i doveri, è inutile esortare: «così devi comportarti con tuo padre; così con tua moglie». I singoli precetti non avranno nessuna utilità finché la mente è offuscata dal­ l’errore; eliminato l’errore, apparirà chiaro come va adempiuto ciascun dovere. Altrimenti insegni a un mala­ to che cosa deve fare l’uomo che ha salute, ma non gli dài la salute; tu mostri al povero come si comporterà da ricco; ma finché quello è povero, che valore ha il tuo insegnamento? Spieghi a chi ha fame che cosa dovrebbe fare se fosse sazio: piuttosto, cerca di togliergli la fame che lo tormenta. Lo stesso ragionamento vale per tutti i vizi: devi togliere di mezzo questi impedimenti, e non insegnare ciò che non può realizzarsi finché i vizi rimangono. Se non avrai dissipato le false opinioni che ci ingannano, né l’avaro capirà qual uso deve fare della moneta, né il vile riuscirà a disprezzare i pericoli. Biso­ gna far capire all’avaro che il denaro non è né un bene né un male e mostrargli esempi di ricchi molto infelici; bisogna che il vile sappia che quanto comunemente si teme non è tanto terribile come la gente crede, e che il dolore non può durare a lungo, e non si muore che una volta sola. E motivo di conforto il fatto che la morte, inevitabile per legge di natura, non torni una seconda volta; e costituisce un rimedio al dolore la fermezza di un animo che sente meno la sofferenza quando sa sopportarla virilmente. Il dolore ha questo di veramente buono, che, se dura a lungo, non può essere forte, e, se è forte, non dura a lungo. Noi dobbiamo accettare con coraggio quello che ci viene imposto dalle necessità della vita. Affermati questi principi generali, quando uno sarà posto di fronte alla sua particolare condizione ed avrà 747

7.

Lettere a Lucilio · V oi II

beatam esse vitam non quae secundum voluptatem est sed secundum naturam, cum virtutem unicum bonum hominis adamaverit, turpitudinem solum malum fugerit, reliqua omnia— divitias, honores, bonam valetudinem, vires, im­ peria—scierit esse mediam partem nec bonis adnumerandam nec malis, monitorem non desiderabit ad singula qui dicat ‘sic incede, sic cena; hoc viro, hoc feminae, hoc marito, hoc 9 caelibi convenit’. Ista enim qui diligentissime monent ipsi facere non possunt ; haec paedagogus puero, haec avia nepoti praecipit, et irascendum non esse magister iracundissimus disputat. Si ludum litterarium intraveris, scies ista quae ingenti supercilio philosophi iactant in puerili esse praescripto. 10 Utrum deinde manifesta an dubia praecipies? Non desiderant manifesta monitorem, praecipienti dubia non creditur; supervacuum est ergo praecipere. Id adeo sic disce: si id mones quod obscurum est et ambiguum, probationibus adiuvandum erit; si probaturus es, illa per quae probas plus valent 11 satisque per se sunt. ‘Sic amico utere, sic cive, sic socio.’ ‘Quare ?’ ‘Quia iustum est.’ Omnia ista mihi de iustitia locus tradit : illic invenio aequitatem per se expetendam, nec metu nos ad illam cogi nec mercede conduci, non esse iustum cui quidquam in hac virtute placet praeter ipsam. Hoc cum per­ suasi mihi et perbibi, quid ista praecepta proficiunt quae eruditum docent ? praecepta dare scienti supervacuum est, nescienti parum; audire enim debet non tantum quid sibi praecipiatur 12 sed etiam quare. Utrum, inquam, veras opiniones habenti de bonis malisque sunt necessaria an non habenti ì Qui non habet nihil a. te adiuvabitur, aures eius contraria monitio-

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capito che la felicità non si ottiene vivendo secondo il piacere ma secondo la natura; quando amerà la virtù come unico suo bene e fuggirà il vizio come unico suo male e saprà che tutto il resto - ricchezze, onori, salute, vigore fisico, cariche militari - è privo di valore morale, non avrà bisogno di chi, in ogni caso particolare, lo consigli: «cammina così; mangia così; l’uomo deve com­ portarsi in questo modo; la donna in quest’altro; questi sono i doveri del marito; questi del celibe». Infatti, chi con tanta diligenza dà questi precetti, poi non riesce a metterli in pratica neppure lui. Sono gli insegnamenti che il pedagogo impartisce al fanciullo, la nonna al nipote, e mentre chi insegna è una persona irascibile, ammaestra l’alunno al dovere di non adirarsi. Se entri in una scuola ti accorgerai che i ragazzi devono imparare a memoria proprio questi precetti che i filosofi proclama­ no con molto sussiego. I tuoi cohsigli li darai nei casi evidenti o in quelli dubbi? Se il caso è evidente, non c’è bisogno di consigli; se è dubbio, non si presta fede a chi vuol dare ammae­ stramenti: dunque, è inutile dare precetti. Su questo punto, stammi a sentire; se il precetto che insegni è oscuro e ambiguo, dovrai fornirne le prove; ma gli argomenti addotti come prova valgono più del precetto e sono per sé sufficienti. Tu insegni che bisogna compor­ tarsi con l’amico come col compagno e col cittadino. Perché? Perché è giusto. Tutte queste cose me le insegna la filosofia morale. Essa afferma che dobbiamo ricercare la giustizia per se stessa, senza esservi spinti dalla paura o dalle speranza di ricompense; e non è giusto colui al quale in questa virtù piace qualcosa che è fuori dalla virtù stessa. Ma, quando mi sono intimamente persuaso di ciò, a che mi servono questi precetti, se sono già istruito? È inutile dare insegnamenti a chi sa; mentre è insufficiente darli a chi non sa, perché egli deve appren­ dere non solo quello che gli si insegna, ma anche perché gli si insegna. I precetti sono necessari a chi ha un’idea esatta del bene e del male, o a chi non l’ha? Quest’ultimo non ne avrà nessun giovamento, poiché si è riempito le orecchie delle errate opinioni contrarie ai tuoi precetti. 749

nibus tuis fama possedit; qui habet exactum iudicium de fugiendis petendisque scit (quid) sibi faciendum sit edam te tacente. Tota ergo pars ista philosophiae summoveri potest. 13 Duo sunt propter quae delinquimus : aut inest animo pravis opinionibus malitia contracta aut, etiam si non est falsis occupatus, ad falsa proclivis est et cito specie quo non oportet trahente corrumpitur. Itaque debemus aut percurare mentem aegram et vitiis liberare aut vacantem quidem sed ad peiora pronam praeoccupare. Utrumque decreta philosophiae 14 faciunt; ergo tale praecipiendi genus nil agit. Praeterea si praecepta singulis damus, inconprehensibile opus est; alia enim dare debemus feneranti, alia colenti agrum, alia negotianti, alia regum amicitias sequenti, alia pares, alia 15 inferiores amaturo. In matrimonio praecipies quomodo vivai cum uxore aliquis quam virginem duxit, quomodo cum ea quae alicuius ante matrimonium experta est, quemadmodum cum locuplete, quemadmodum cum indotata. An non putas aliquid esse discriminis inter sterilem et fecundam, inter provectiorem et puellam, inter matrem et novercam ? Omnis species conplecti non possumus: atqui singulae propria exigunt, leges autem philosophiae breves sunt et omnia alligant. 16 Adice nunc quod sapientiae praecepta finita debent esse et certa; si qua finiri non possunt, extra sapientiam sunt; sapientia rerum terminos novit. Ergo ista praeceptiva pars summovenda est, quia quod paucis promittit praestare omni17 bus non potest ; sapientia autem omnis tenet. Inter insaniam publicam et hanc quae medicis traditur nihil interest nisi quod haec morbo laborat, illa opionionibus falsis ; altera causas furoris traxit ex valetudine, altera animi mala valetudo est. Si quis furioso praecepta det quomodo loqui debeat, quomodo procedere, quomodo in publico se gerere, quomodo

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L’altro, che ormai possiede la capacità di distinguere il bene dal male, sa quello che deve fare senza che tu glielo insegni. Pertanto si può eliminare tutta questa parte della filosofia. Due sono le cause per cui pecchiamo: o il male si è radicato nell’animo per causa di false opinioni, o anche se l’errore non lo domina, l’animo è ad esso proclive e presto verrà corrotto da apparenze che lo traggono al male. Pertanto, o dobbiamo curare con ogni diligenza l’anima ammalata per liberarla dai vizi, o dobbiamo prevenirli se l’anima è ancora libera, ma incline al male. Questi due compiti sono assolti dai principi generali della filosofia; perciò i singoli precetti non servono a nulla. Inoltre, se volessimo dare consigli a ogni categoria di persone, faremmo un lavoro interminabile: alcuni consigli saranno validi per i capitalisti, altri per gli agri­ coltori, e così per i negozianti, per il mondo dei cortigia­ ni, per i rapporti di amicizia fra pari o fra inferiori. Nei rapporti coniugali dovremmo insegnare come si deve vivere con la donna sposata in prime nozze, e come con quella che già è stata moglie di un altro: come con una moglie ricca, come con una senza dote. Dovremmo distinguere fra una donna sterile e una feconda, fra una più anziana e una più giovane, fra una madre e una matrigna. Noi non possiamo comprendere tutte le cate­ gorie di persone; eppure ciascuna esigerebbe precetti particolari, mentre le leggi della filosofia sono brevi e abbracciano tutti i casi. Aggiungi, poi, che i precetti della sapienza devono essere ben definiti e sicuri: quelli che non si possono definire non appartengono alla sa­ pienza, che conosce solo precise definizioni. Dunque, bisogna togliere di mezzo questi precetti particolari, poiché non possono dare a tutti ciò che promettono a pochi, mentre la sapienza si rivolge a tutti. Fra la pazzia che è curata dai medici e questa forma di follia sociale c’è solo questa differenza: l’una deriva da una malattia, l’altra da principi errati; l’una è effetto di debole salute, l’altra è un’infermità dello spirito. Se un medico inse­ gnasse a un pazzo come deve parlare, come camminare, come comportarsi in pubblico, come in privato, sarebbe 751

in privato, erit ipso quem monebit insanior: [si] bilis nigra curanda est et ipsa furoris causa removenda. Idem in hoc alio animi furore faciendum est: ipse discuti debet; alioqui abibunt in vanum monentium verba. 18 Haec ab Aristone dicuntur; cui respondebimus ad singula. Primum adversus illud quod ait, si quid obstat oculo et inpedit visum, debere removeri, fateor huic non opus esse praeceptis ad videndum, sed remedio quo purgetur acies et officientem sibi moram effugiat; natura enim videmus, cui usum sui reddit qui removit obstantia; quid autem cuique 19 debeatur officio natura non docet. Deinde cuius curata suffusio est, is non protinus cum visum recepit aliis quoque potest reddere: malitia liberatus et liberat. Non opus est exhortatione, ne consilio quidem, ut colorum proprietates oculus intellegat; a nigro album etiam nullo monente distinguet. Multis contra praeceptis eget animus ut videat quid agendum sit in vita. Quamquam oculis quoque aegros 2 0 medicus non tantum curat sed etiam monet. ‘Non est’ inquit ‘quod protinus iiibecillam aciem committas inprobo lumini; a tenebrie primum ad umbrosa procede, deinde plus aude et paulatim claram lucem pati adsuesce. Non est quod post cibum studeas, non est quod plenis oculis ac tumentibus imperes; adflatum et vim frigorie in os occurrentis evita’— alia eiusmodi, quae non minus quam medicamenta proficiunt. Adicit remediis medicina consilium. 21 ‘Error’ inquit ‘est causa peccandi: hunc nobis praecepta non detrahunt nec expugnant opiniones de bonis ac malis falsas.’ Concedo per se efficacia praecepta non esse ad evertendam pravam animi persuasionem; sed non ideo (non) aliis quidem adiecta proficiunt. Primum memoriam renovant ; deinde quae in universo confusius videbantur in partes divisa

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più pazzo di lui: bisogna sì curare l’umor nero, ma anche eliminare la causa della malattia. Allo stesso modo occorre curare la malattia dello spirito: è la pazzia stessa che bisogna togliere di mezzo; altrimenti chi vorrà dare tanti precetti sprecherà il fiato. Questa è l’opinione di Aristone: noi esamineremo, uno per uno, i suoi argomenti. Anzitutto, quanto all’af­ fermazione secondo cui bisogna eliminare l’oggetto che, posto davanti agli occhi, ne impedisca la vista, io sono d’accordo che non c’è bisogno di insegnamenti per vede­ re, ma di un rimedio che liberi la pupilla da ciò che impedisce la vista. La facoltà di vedere procede dalla natura, e chi rimuove tutto ciò che la ostacola restituisce alla natura il compimento delle sue funzioni. Ma in che consista ogni particolare dovere, la natura non ce lo insegna. Inoltre, l’uomo guarito dalla cataratta non per questo può rendere agli altri la vista che egli ha recupera­ to; invece l’uomo liberato dal vizio ne libera anche gli altri. Non c’è bisogno di esortazioni né di consigli perché l’occhio apprenda le proprietà dei colori; egli distinguerà il bianco dal nero anche se nessuno glielo insegna. Invece l’animo ha bisogno di molti consigli per discernere i doveri che gl’impone la vita. Del resto, le persone che hanno la vista malata ricevono dal medico non solo delle cure, ma anche dei consigli. «Non esporre subito» egli dirà «la vista ancora debole a una luce troppo intensa; dal buio passa prima all’ombra, poi osa di più; e, poco alla volta, potrai sopportare la luce viva. Non studiare dopo i pasti: non affaticare gli occhi quando sono gonfi; proteggi il viso contro le correnti d’aria e i rigori del freddo», e altri consigli di questo genere che sono non meno utili delle cure. L’arte della medicina aggiunge ai rimedi i consigli. «La causa dei vizi» soggiunge Aristone «è l’errore; e i precetti non lo tolgono di mezzo, come non riescono ad eliminare le false opinioni sul bene e sul male.» Ammetto che i precetti, da soli, non valgono ad estirpare le errate convinzioni, ma non si può dire che non siano utili quando si accompagnino con altri espedienti. Anzi­ tutto rinfrescano la memoria; in secondo luogo, quelle verità che, prese nell’insieme, ci appaiono confusamente 753

diligentius considerantur. Aut [in] isto modo licet et consolationes dicas supervacuas et exhortationes : atqui non sunt 2 2 supervacuae; ergo ne monitiones quidem. ‘Stultum est’ inquit ‘praecipere aegro quid facere tamquam sanus debeat, cum restituenda sanitas sit, sine qua inrita sunt praecepta.’ Quid quod habent aegri quaedam sanique communia de quibus admonendi sunt ? tamquam ne avide cibos adpetant, ut lassitudinem vitent. Habent quaedam praecepta communia 23 pauper et dives. ‘Sana’ inquit ‘avaritiam, et nihil habebis quod admoneas aut pauperem aut divitem, si cupiditas utriusque consedit.’ Quid quod aliud est non concupiscere pecuniam, aliud uti pecunia scire ? cuius avari modum ignorant, etiam non avari usum. ‘Tolle’ inquit ‘errores: super­ vacua praecepta sunt.’ Falsum est. Puta enim avaritiam relaxatam, puta adstrictam esse luxuriami, temeritati frenos iniectos, ignaviae subditum calcar : etiam remotis vitiis, quid 24 et quemadmodum debeamus facere discendum est. ‘Nihil’ inquit ‘efficient monitiones admotae gravibus vitiis.’ Ne medicina quidem morbos insanabiles vincit, tamen adhibetur aliis in remedium, aliis in levamentum. N e ipsa quidem universae philosophiae vis, licet totas in hoc vires suas advocet, duram iam et veterem animis extrahet pestem; sed non ideo nihil sanat quia non omnia. 25 ‘Quid prodest’ inquit ‘aperta monstrare?’ Plurimum; interdum enim scimus nec adtendimus. Non docet admonitio sed advertit, sed excitat, sed memoriam continet nec patitur elabi. Pleraque ante oculos posita transimus : admonere genus adhortandi est. Saepe animus etiam aperta dissimulat;

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distinte in parti, possono essere considerate con maggio­ re attenzione. Secondo il tuo modo di ragionare, non dovresti giudicare inutili anche gli scritti che hanno lo scopo di consolare o di esortare? Eppure questi non sono inutili; perciò non lo sono neppure i precetti. «È una cosa stolta» prosegue Aristone «insegnare a un malato quello che deve fare, come se fosse sano, mentre occorre che egli riacquisti la salute, senza la quale i precetti sono inefficaci.» Ma ci sono dei precetti che valgono sia per i malati che per i sani, come quello di non mangiare con avidità; o quello di evitare la stanchez­ za. Così pure ci sono precetti che possono essere dati sia al povero che al ricco. «Guarisci gli uomini dall’avari­ zia,» soggiunge Aristone «e non ci sarà più bisogno di dare precetti né al povero né al ricco, quando si è placata la cupidigia di entrambi.» E che? Una cosa è non aver brama di danaro, un’altra saperne far uso; gli avari ne ignorano la misura; ma anche gli uomini non avari possono ignorarne il buon uso. «Quello che conta» dice Aristone «è togliere di mezzo i vizi: i precetti sono inutili.» Ciò è falso: anche quando sia stata fiaccata l’avarizia, sia stata repressa la lussuria, si sia posto freno all’imprudenza, sia stata spronata l’ignavia, occorre an­ cora apprendere che cosa e come dobbiamo operare. «I consigli non servono a niente» egli dice «quando i vizi sono gravi». Ma neppure l’arte della medicina può vince­ re le malattie insanabili; tuttavia ad essa si ricorre, ora per guarire, ora per alleviare il male. Così tutta la filosofia, anche se chiama a raccolta tutte le sue forze, non riuscirà ad estirpare dagli animi un male ormai incallito e inveterato; ma, se non dà la completa guarigio­ ne, ciò non significa che non serva a niente. «Che giova» dice «insegnare ciò che è ben chiaro?» Moltissimo: ci sono cose a cui non prestiamo attenzione, anche se le conosciamo. Si dà un consiglio non per insegnare, ma per risvegliare l’attenzione, per incitamen­ to, per richiamare alla memoria qualche verità in modo che non svanisca. Tanti oggetti ci stanno proprio sotto gli occhi, e noi passiamo oltre: un consiglio è una forma di esortazione. Spesso l’animo finge di non vedere anche 755

ingerenda est itaque illi notitia rerum notissimarum. Illa hoc loco in Vatinium Calvi repetenda sententia est : ‘factum 26 esse ambitum scitis, et hoc vos scire nobis mutent, an frontem adstringant, an faciem diffundant, an ruborem evocent, an fugent sanguinem. Quid ergo ? tam 6 manifestas notas corporis credis inprimi nisi a corporei Si adfectus corpora sunt, et morbi animorum, ut avaritia, crudelitas, indurata vitia et in statum inemendabilem adducta; ergo et malitia et species eius omnes, malignitas, 7 invidia, superbia; ergo et bona, primum quia contraria istis sunt, deinde quia eadem tibi indicia praestabunt. An non vides quantum oculis det vigorem fortitudo ? quantam intentionem prudentia ? quantam modestiam et quietem reverentia ? quantam serenitatem laetitia ? quantum rigorem severitas ? quantam remissionem lenitas ? Corpora ergo sunt quae colorem habitumque corporum mutant, quae in illis regnum suum exercent. Omnes autem quas rettuli virtutes 8 bona sunt, et quidquid ex illis est. Numquid est dubium an id quo quid tangi potest corpus sit ? Tangere enim et tangi nisi corpus nulla potest res, ut ait Lucretius. Omnia autem ista quae dixi non mutarent 9 corpus nisi tangerent; ergo corpora sunt. Etiam nunc cui tanta vis est ut inpellat et cogat et retineat et inhibeat corpus est. Quid ergo ? non timor retinet ? non audacia inpellit ? non fortitudo inmittit et impetum dat ? non moderatio refrenat

Il bene è attivo, perché reca vantaggio. Ora, tutto ciò che agisce è un corpo. Il bene agisce neH’animo e in qualche modo lo forma e lo guida; e questa è la proprietà di un corpo. Quelli che sono beni del corpo sono corpi; dunque, lo sono anche i beni deH’animo, che è anch’esso un corpo. Il bene dell’uomo è necessariamente un corpo, essendo l’uomo stesso un essere corporeo. Mentirei se dicessi che non è corporeo tutto ciò che alimenta l’uomo, gli conserva la salute o gliela restituisce. Dunque, anche il bene dell’uomo è un corpo. Penso che tu non abbia dubbi - per quanto tutto ciò superi i limiti del tuo quesito - che le passioni, come l’ira, l’amore, la tristezza, siano dei corpi, se è vero che ci fanno cambiare aspetto, ci corrugano la fronte, ci rasserenano il volto, ci fanno arrossire o impallidire. Immagini, forse, che così manife­ ste impressioni di natura corporale siano provocate da una cosa che non sia un corpo? E se sono corpi le passioni, lo stesso sarà delle malattie dell’anima, come l’avarizia e la crudeltà, e dei vizi inveterati e ormai incurabili. E così pure saranno corpi tutte le specie di male: malignità, invidia, orgoglio; e perciò anche i beni; anzitutto perché sono i loro contrari, poi perché presen­ tano gli stessi indizi. Non noti che vigore dia allo sguardo la fortezza; che aria di concentrazione dia la prudenza; che senso di modestia e di pace dia la verecondia; che aspetto sereno dia la letizia; che aria rigida la severità, che senso di abbandono la dolcezza? Dunque sono corpi quelle forze che mutano il colore e lo stato dei corpi e che esercitano su di essi il loro dominio. Ora, tutte le virtù che ho enumerato sono dei beni; e ugualmente tutto ciò che viene da esse. Si può dubitare che ciò che ha la proprietà di toccare sia corpo? «Niente che non sia corporeo può toccare o essere toccato», dice Lucrezio1. Tutte le cose anzidette non porterebbero cambiamenti nel corpo, se non lo toccassero: dunque sono dei corpi. Inoltre, solo i corpi hanno la forza di spingere, di costrin­ gere, di trattenere e d’impedire. Orbene, il timore non ci trattiene? L’audacia non ci dà una spinta? La fortezza 1 De rerum natura, I, 304.

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ac revocat ? non gaudium extollit ? non tristitia deducit ? 10 Denique quidquid facimus aut malitiae aut virtutis gerimus imperio: quod imperai corpori corpus est, quod vim corpori adfert, corpus. Bonum corporis corporale est, bonum hominis et corporis bonum est; itaque corporale est. 11 Quoniam, ut voluisti, morem gessi tibi, nunc ipse dicam mihi quod dicturum esse te video: latrunculis ludimus. In supervacuis subtilitas teritur: non faciunt bonos ista sed 12 doctos. Apertior res est sapere, immo simplicior: paucis (satis) est ad mentem bonam uti litteris, sed nos ut cetera in supervacuum diffundimus, ita philosophiam ipsam. Quemadmodum omnium rerum, sic litterarum quoque intemperantia laboramus: non vitae sed scholae discimus. Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

U bi illa prudentia tua ? ubi in dispiciendis rebus subtilitas ? ubi magnitudo? Tam pusilla (te res) tangit? Servi occupationes tuas occasionem fugae putaverunt. Si amici deciperent (habeant enim sane nomen quod illis noster error inposuit, et vocentur quo turpius non sint) * * * omnibus rebus tuis desunt illi qui et operam tuam conterebant et te aliis 2 molestum esse credebant. Nihil horum insolitum, nihil inexpectatum est ; offendi rebus istis tam ridiculum est quam queri quod spargaris (in balneo aut vexeris) in publico aut inquineris in luto. Eadem vitae condicio est quae balnei, turbae, itineris: quaedam in te mittentur, quaedam incident. Non est delicata res vivere. Longam viam ingressus es : et labaris oportet et arietes et cadas et lasseris et exclames ‘o morsi’,

non ci stimola e incoraggia? La moderazione non costi­ tuisce un freno e una remora? La gioia non ci solleva? La tristezza non ci abbatte? Insomma, ogni nostro atto si compie sotto il comando delle tendenze buone o cattive, e tutto ciò che comanda o esercita la sua forza sul corpo è corpo. Il bene del corpo è corporeo; il bene dell’uomo è anche bene del corpo, dunque è corporeo. Poiché ti ho soddisfatto nel tuo desiderio, voglio dare io stesso, di queste affermazioni, quel giudizio che preve­ do sarà dato da te: noi ci gingilliamo e perdiamo tempo in inutili sottigliezze, che possono farci più dotti, non migliori. La saggezza è cosa più chiara e, soprattutto, più semplice. Basta poco studio per il perfezionamento morale; a noi, invece, anche la filosofia serve per perder­ ci in inutili questioni. Come in tutto il resto, anche negli studi pecchiamo d’intemperanza: c’interessano le dispute scolastiche, non i problemi della vita. Addio.

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lettera 10 7

L e sv e n tu re rattristano m e n o q u a n d o s o n o p re v e d u te

Dove hai messo la tua nota prudenza, il tuo sottile discernimento, la tua grandezza d’animo? Ti affliggi per una sciocchezza: gli schiavi hanno profittato delle tue occupazioni per fuggire. Immagina che degli amici ti abbiano ingannato allo stesso modo —usiamo pure quel nome attribuito loro dalla nostra dabbenaggine e chia­ miamoli così per non usare termini offensivi - .. .tutte le cose ti vengono a mancare coloro che non apprezzavano il tuo operato e ti giudicavano fastidioso. Tutto ciò non devi considerarlo né strano né inaspettato. In questo caso offendersi è ridicolo, come farebbe ridere chi si rammaricasse di ricevere spruzzi in un bagno o di essere urtato tra la folla o di inzaccherarsi in mezzo al fango. Nella vita avviene proprio come al bagno, fra la folla o nei viaggi: riceverai sempre qualche torto, ora voluto, ora casuale. La vita non vuole animi fiacchi. Hai iniziato un lungo cammino: scivolerai, incontrerai ostacoli, ca­ drai, sentirai la stanchezza; invocherai —ma senza essere 899

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id est mentiaris. Alio loco comitem relinques, alio efferes, alio timebis: per eiusmodi offensas emetiendum est confra gosum hoc iter. M orivult ? praeparetur animus con tra omnia; sciat se venisse ubi tonai fulmen ; sciai se venisse ubi Luctus et ultrices posuere cubilia Curae pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus.

In hoc contubernio vita degenda est. Effugere ista non potes, comtemnere potes ; contemnes autem si saepe cogitaveris et 4 futura praesumpseris. Nemo non fortius ad id cui se diu composuerat accessit et duris quoque, si praemeditata erant, obstitit: at contra inparatus etiam levissima expavit. Id agendum est ne quid nobis inopinatum sit; et quia omnia novitate graviora sunt, hoc cogitatio adsidua praestabit, ut nulli sis malo tiro. 5 ‘Servi me reliquerunt.’ Alium compilaverunt, alium accusaverunt, alium occiderunt, alium prodiderunt, alium mulcaverunt, alium veneno, alium criminatione petierunt: quidquid dixeris multis accidit * * * deinceps quae multa et varia sunt in nos deriguntur. Quaedam in nos fixa sunt, quaedam vibrant et cum maxime veniunt, quaedam in alios 6 perventura nos stringunt. N ihil miremur eorum ad quae nati sumus, quae ideo nulli querenda quia paria sunt omnibus. Ita dico, paria sunt; nam etiam quod effugit aliquis pati potuit. Aequum autem ius est non quo omnes usi sunt sed quod omnibus latum est. Imperetur aequitas animo et sine querella 7 mortalitatis' tributa pendamus. Hiems frigora adduciti algendum est. Aestas calores refert : aestuandum est. Intemperies caeli valetudinem temptat : aegrotandum est. Et fera

sincero - la morte. Qui lascerai un compagno di viaggio, là ne perderai un altro; più oltre sarai in asia per un altro; devi andare incontro a tutte queste sventure per giungere al termine di questa via dirupata. Invece d’invo­ care la morte, dobbiamo essere pronti a tutto, convinti di essere giunti dove scoppia il fulmine, dove «il Pianto e il Rimorso vendicatore hanno i loro covi, dove abitano i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia1.» Questi sono i compagni con cui dobbiamo vivere: è impossibile evi­ tarli. Ma puoi affrontarli, e li affronterai, se avrai riflettu­ to spesso, preparandoti a quelli che dovranno capitarti. E più forte di fronte a un evento chi vi si è preparato da tempo; e resiste anche alle maggiori avversità, se le ha previste. Ma chi è impreparato si spaventa di ogni inezia. Fa’ che non ti capiti nulla aH’improvviso, e poiché ogni sventura riesce più gravosa quando non è prevista, la meditazione assidua ti aiuterà a non essere colto di sorpresa. «Gli schiavi mi hanno abbandonato.» Ma gli schiavi hanno derubato quello; hanno accusato quell’altro; han­ no ucciso, tradito, malmenato, avvelenato, calunniato. Non si può pensare una sventura che non sia capitata a molti...: tanti e tanto vari sono i dardi a cui siamo esposti. Alcuni si sono già abbattuti su di noi; altri ronzano e sono sul punto di raggiungerci; altri, diretti a diverso bersaglio, ci sfiorano. Non dobbiamo meravi­ gliarcene; siamo nati per subirli e perciò nessuno si deve lagnare, essendo tutti noi ugualmente soggetti ad essi. Dico tutti perché anche chi riuscì in parte a schivarli avrebbe potuto subirli. E una legge è uguale per tutti non in quanto tutti ne sentono l’effetto, ma in quanto è valida per tutti. Impegniamoci ad essere sereni e paghia­ mo senza lagnarci il tributo impostoci dalla nostra condi­ zione di uomini. L’inverno ci porta il freddo: sopportia­ mone i rigori; d’estate fa caldo: dobbiamo sudare; i cambiamenti climatici attentano alla nostra salute: accet­ tiamo le malattie. Ci capiterà anche d’imbatterci in una 1Virgilio, Eneide, VI, 274-75.

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nobis aliquo loco occurret et homo perniciosior feris omnibus. Aliud aqua, aliud ignis eripiet. Hanc rerum condicionem mutare non ppssumus: illud possumus, magnum sumere animum et viro bono dignum, quo fortiter fortuita pajiamur 8 et naturae consentiamus. Natura autem hoc quod vides regnum mutationibus temperai: nubilo serena succedunt; turbantur maria cum quieverunt; flant in vicem venti; noctem dies sequitur; pars caeli consurgit, pars mergitur: 9 contrarile rerum aeternitas constai. Ad hanc legem animus noster aptandus est; hanc sequatur, huic pareat; et quaecumque fiunt debuisse fieri putet nec velit obiurgare naturam. Optimum est pati quod emendare non possis, et deum quo auctore cuncta proveniunt sine murmuratione comitari : malus miles est qui imperatorem gemens sequitur. 10 Quare inpigri atque alacres'excipiamus imperia nec deseramus hunc operis pulcherrimi cursum, cui quidquid patiemur intextum est; et sic adloquamur Iovem, cuius gubernaculo moles ista derigitur, quemadmodum Cleanthes noster versibus disertissimis adloquitur, quos mihi in nostrum sermonem mutare permittitur Ciceronis, disertissimi viri, exemplo. Si placuerint, boni consules; si displicuerint, scies me in hoc secutum Ciceronis exemplum. 11

Due, o parens celsique dominator poli, quocumque placuit: nulla parendi mora est; adsum inpiger. Fac nolle, comitabor gemens malusque patiar facere quod licuit bono. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt.

12 Sic vivamus, sic loquamur; paratos nos inveniat atque inpigros fatum. Hic est magnus animus qui se ei tradidit : at contra file pusillus et degener qui obluctatur et de ordine mundi male existimat et emendare mavult deos quam se Vale.

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bestia feroce o, peggio, in qualche uomo più pericoloso di tutte le bestie. C’è chi perde qualcosa in un naufragio, chi in un incendio. Non possiamo mutare questo stato di cose, ma possiamo armarci di un animo grande e degno di un uomo virtuoso per sopportare con coraggio i casi della vita, senza ribellarci alla natura. La legge con cui la natura governa questo regno che tu vedi è il cambiamento: alle nuvole tien dietro il sereno; il mare si agita dopo la bonaccia; i venti ora spirano in un senso, ora in quello opposto; il giorno segue alla notte; una parte della volta celeste sorge, mentre l’altra tramonta: tutto deriva da questo continuo avvicendarsi. L’animo nostro si deve adattare a tale legge; la segua, le obbedi­ sca, si convinca che ogni evento doveva avvenire e non gli salti in mente di prendersela con la natura. La cosa migliore è tollerare ciò che non si può correggere, e accettare senza lamenti la volontà divina, che tutto dispone. E un cattivo soldato chi segue il capitano mormorando. Perciò, con animo alacre e pronto, acco­ gliamo questo divino comando e non abbandoniamo il meraviglioso lavoro che è intessuto anche delle nostre sofferenze. E a Giove che regge quest’immenso universo rivolgiamo la preghiera già elevata da Cleante con i versi bellissimi che io, sull’esempio di Cicerone, modello di eloquenza, mi permetto di tradurre nella nostra lingua. Se ti piacciono, tanto meglio; se non ti piacciono, pensa che ho seguito l’esempio di Cicerone. «O Padre, o Re delle sfere celesti, conducimi dove ti piaccia. Obbedisco senza esitazione: sono pronto. Potrei mai rifiutarmi? Allora dovrei seguirti gemendo e dovrei subire di malani­ mo ciò che potevo fare con gioia. Il destino guida una volontà docile, trascina chi resiste.» Questa dev’essere la nostra condotta; questo il nostro linguaggio. Il destino ci trovi pronti e alacri. Una grande anima si abbandona al destino; un’anima meschina e degenere vuol lottare con lui, disprezza l’ordine dell’universo, e pretende di correggere gli dèi, non già se stesso. Addio.

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SENECA LVCI LI O SVO S ALVTEM

Id de quo quaeris ex iis est quae scire tantum eo, ut scias, pertinet. Séd nihilominus, quia pertinet, properas nec vis expectare libros quos cum maxime ordino continentis totam moralem philosophiae partem. Statim expediam; illud tamen prius scribam, quemadmodum tibi ista cupiditas discendi, 2 qua flagrare te video, digerenda sit, ne ipsa se inpediat. Nec passim carpenda sunt nec avide invadenda universa : per partes pervenietur ad totum. Apiari onus viribus debet nec plus occupari quam cui sufficere possimus. Non quantum vis sed quantum capis hauriendum est. Bonum tantum habe animum: capies quantum voles. Quo plus recipit animus, hoc se magis laxat. 3 Haec nobis praecipere Attalum memini, cum scholam eius obsideremus et primi veniremus et novissimi exiremus, ambulantem quoque illum ad aliquas disputationes evocaremus, non tantum paratum discentibus sed obvium. ‘Idem’ inquit ‘et docenti et discenti debet esse propositum, ut ille prodesse 4 velit, hic proficere.’ Qui ad philosophum venit cotidie aliquid secum boni ferat: aut senior domum redeat aut sanabilior. Redibit autem: ea philosophiae vis est ut non studentis sed etiam conversantis iuvet. Qui in solem venit, licet non in hoc venerit, colorabitur; qui in unguentaria taberna resederunt et paullo diutius commorati sunt odorem secum loci ferunt; et qui ad philosophum fuerunt traxerint aliquid necesse est quod prodesset etiam neglegentibus. Attende quid dicam: neglegentibus, non repugnantibus. 5 ‘Quid ergo ? non novimus quosdam qui multis apud philo1

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LETTERA

Ιθ 8

L ’insegnamento di Aitalo Tu mi chiedi una di quelle cose il cui interesse risiede nel sapere solo per sapere; e, per questa tua curiosità di sapere, hai fretta e non vuoi aspettare quel trattato che sto sistemando nelle sue singole parti e che abbraccia tutta la filosofia morale. Ti darò le spiegazioni richieste, ma anzitutto voglio indicarti il modo per moderare quel­ l’ardore di sapere da cui ti vedo infiammato, affinché esso non finisca per essere di ostacolo a se stesso. Guardiamoci dall’apprendere le cose qua e là, invadendo avidamente tutto il campo della scienza: attraverso lo studio sistematico delle singole parti si perverrà alla conoscenza del tutto. Il peso dev’essere proporzionato alle forze, e non dobbiamo prenderne uno più gravoso di quello che siamo in grado di sostenere. Cerca di apprendere secondo le tue capacità, non secondo i tuoi desideri; se avrai un animo ben disposto, la tua capacità di apprendere si adeguerà ai tuoi desideri; poiché un animo siffatto, più riceve, più si estende. Ricordo quello che ci insegnava Aitalo, al tempo in cui frequentavo la scuola: ero sempre il primo ad entrare, l’ultimo ad uscire e lo invitavo, anche durante le sue passeggiate, a qualche discussione, poiché egli era a disposizione dei suoi allievi, e, anzi, preveniva le doman­ de. «Il maestro e l’allievo,» diceva «l’uno istruendo, l’altro istruendosi, debbono tendere alla stessa meta: il profitto.» Chi segue le lezioni di un filosofo ne riporti ogni giorno qualche frutto: torni a casa più sano spiritual­ mente o, almeno, più disposto a diventarlo. E sarà così: tale è la virtù della filosofia, che ne trae giovamento non solo chi studia di proposito, ma anche chiunque abbia qualche dimestichezza col filosofo. Chi sta al sole si abbronza anche se non c’è venuto per questo motivo. Chi sosta per un po’ in una profumeria rimane impregnato di quell’odore; e chi è stato a sentire un filosofo, anche uno che sia disattento, ne trae necessariamente qualche profitto. Bada però al termine che ho usato: ho detto «disattento», non «prevenuto». «Eppure noi conosciamo persone che hanno frequen905

sophum annis persederint et ne colorem quidem duxerint ?’ Quidni noverim ? pertinacissimos quidem et adsiduos, quos 6 ego non discipulos philosophorum sed inquilinos voco. Qui­ dam veniunt ut audiant, non ut discant, sicut in theatrum voluptatis causa ad delectandas aures oratione vel voce vel fabulis ducimur. Magnam hanc auditorum partem videbis cui philosophi schola deversorium otii sit. N on id agunt ut aliqua ilio vitia deponant, ut aliquam legem vitae accipiant qua mores suos exigant, sed ut oblectamento aurium perfruantur. Aliqui tamen et cum pugillaribus veniunt, non ut res excipiant, sed ut verba, quae tam sine profectu alieno 7 dicant quam sine suo audiunt. Quidam ad magnificas voces excitantur et transeunt in adfectum dicentium alacres vultu et animo, nec aliter concitantur quam solent Phrygii tibicinis sono semiviri et ex imperio furentes. Rapit illos instigatque rerum pulchritudo, non verborum inanium sonitus. Si quid acriter contra mortem dictum est, si quid contra fortunam contumaciter, iuvat protinus quae audias facere. Adfìciuntur illis et sunt quales iubentur, si illa animo forma permaneat, si non impetum insignem protinus populus, honesti dissuasor, excipiat: pauci illam quam conceperant mentem domum 8 perferre potuerunt. Facile est auditorem concitare ad cupidinem recti ; omnibus enim natura fundamenta dedit semenque virtutum. Omnes ad omnia ista nati sumus : cum inritator accessit, tunc illa animi bona veluti sopita excitantur. Non vides quemadmodum theatra consonent quotiens aliqua dieta sunt quae publice adgnoscimus et consensu vera esse testamur ? 9

Desunt inopiae multa, avaritiae omnia. In nullum avarus bonus est, in se pessimus.

tato per tanti anni le scuole dei filosofi senza prendervi nemmeno una superficiale tintura.» Certo che li conosco, questi frequentatori perseveranti ed assidui, che chiame­ rei, più che scolari, inquilini dei filosofi. Alcuni vengono per il diletto di ascoltare, non per apprendere, come si va a teatro per il piacere che si prova a sentire un bel discorso, una bella voce, una bella commedia. Ti accorgerai che sono molti, questi uditori per i quali la scuola del filosofo è un luogo di divertimento. Essi ci vanno non per disfarsi di qualche vizio o per ricevere qualche norma di condotta con cui regolarsi nella vita, ma per godere le soddisfazioni dell’orecchio. Qualcuno, per la verità, porta con sé le tavolette, non già per trascrivervi i concetti, ma le parole che ripeterà senza profitto per gli altri, così come egli le ascolta senza profitto per se stesso. Ma ci sono quelli che si entusiasma­ no a sentire le sublimi espressioni e partecipano ai sentimenti dell’oratore con l’animo e il volto eccitati, in tutto simili ai sacerdoti che si esaltano per ordine divino al suono del flautista frigio. Essi sono rapiti dalla bellezza dei pensieri, non dalla vana armonia delle parole. Se sentono un motto fiero e coraggioso di fronte alla morte o al destino, subito sono presi dal desiderio di applicare la lezione ascoltata. Commossi da questi precetti, voglio­ no realizzarli, a condizione che l’anima conservi l’im­ pronta dell’idea e che un così nobile slancio non si smorzi subito a contatto con la folla, sempre pronta a sconsigliare il bene. Solo pochi privilegiati possono conservare a lungo le buone disposizioni concepite nel­ l’animo. Incitare gli ascoltatori all’amore del bene è cosa facile: la natura ha messo in tutti i cuori il fondamento e il primo germe delle virtù. Tutti noi siamo fatti per le azioni virtuose. Se si presenta un educatore, egli risveglia questa buona disposizione ancora assopita. Non ti accor­ gi di quali applausi risuonino i nostri teatri ogni volta che si pronunciano delle massime che pubblicamente riconosciamo e di cui, all’unanimità, attestiamo la verità? «Molte cose mancano all’indigente, ma all’avaro manca tutto»; «L’avaro, duro con tutti, è intrattabile con se stesso». A tali versi quello spettatore, che è l’avarizia 907

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Lettere a Lucilio - Voi. II

Ad hos versus ille sordidissimus plaudit et vitiis suis fieri convicium gaudet: quanto magis hoc iudicas evenire cum.a philosopho ista dicuntur, cum salutaribus praeceptis versus inseruntur, efficacius eadem illa demìssuri in animum inlOperitorum? Nam ut dicebat Cleanthes, ‘quemadmodum spiritus noster clariorem sonum reddit cum illuni tuba per longi canalis angustias tractum patentiore novissime exitu effudit, sic sensus nostros clariores carminis arta necessitas efficit.’ Eadem neglegentius audiuntur minusque percutiunt quamdiu soluta oratione dicuntur: ubi accessere numeri et egregium sensum adstrinxere certi pedes, eadem illa sententia 11 velut lacerto excussiore torquetur. D e contemptu pecuniae multa dicuntur et longissimis orationibus hoc praecipitur, ut homines in animo, non in patrimonio putent esse divitias, eum esse locupletem qui paupertati suae aptatus est et parvo se divitem fecit; magis tamen feriuntur animi cum carmina eiusmodi dieta sunt: Is minimo eget mortalis qui minimum cupit. Quod vult habet qui velie quod satis est potest. 12 Cum haec atque eiusmodi audimus, ad confessionem veritatis adducimur; illi enim quibus nihil satis est admirantur, adclamant, odium pecuniae indicunt. Hunc illorum adfectum cum videris, urge, hoc preme, hoc onera, relictis ambiguitatibus et syllogismis et cavillationibus et ceteris acuminis inriti ludicris. Die in avaritiam, die in luxuriam; cum pro­ ferisse te videris et animos audientium adfeceris, insta vehementius: veri simile non est quantum proficiat talis oratio remedio intenta et tota in bonum audientium versa. Facillime enim tenera conciliantur ingenia ad honesti rectique amorem, et adhuc docilibus leviterque corruptis inirit 13 manum veritas si advocatum idoneum nacta est. Ego certe cum Attalum audirem in vitia, in errores, in mala vitae

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personificata, applaude e gode di vedere scherniti i suoi vizi. Non pensi che questo effetto sarà ancora più evidente quando tali motti siano pronunciati da un filosofo e questi salutari precetti siano intercalati da versi che li imprimeranno più efficacemente nelle anime rozze? Poiché, come diceva Cleante, «come il nostro fiato rende il suono più vivo quando circola lungamente per lo stretto canale di una tromba, da cui alfine erompe attraverso una più larga apertura, così il nostro pensiero riesce più vivace se viene costretto nella brevità di un verso». Le stesse cose sono ascoltate più distrattamente e colpiscono meno finché son dette in prosa. Quando si aggiunge un ritmo e un nobile pensiero è ristretto nella precisione di un metro poetico, quello stesso pensiero, come se fosse brandito da un più valido braccio, balza fuori sotto forma di una vivace sentenza. Si fanno molti lunghi discorsi sul disprezzo del denaro; si insegna agli uomini che devono cercare la loro ricchezza in se stessi e non nel patrimonio; che è ricco chi sa adattarsi alla sua povertà ed è contento di poco. Ma le anime sono più fortemente colpite sentendo versi come questi: «Il mortale meno bisognoso è quello che ha meno desideri. Chi può desiderare solo ciò che basta ha ciò che vuole». Queste massime ed altre simili inducono chi le ascolta ad un aperto riconoscimento delle verità in esse contenu­ te. E anche coloro a cui niente basta, ammirano, accla­ mano, dichiarano il loro odio al denaro. Quando tu noterai questa loro disposizione d’animo, incalza, insisti, pungola, mettendo da parte gli equivoci, i sillogismi, i sofismi e ogni ostentazione di vane sottigliezze. Parla contro ravarizia, parla contro il lusso. Quanto ti accorge­ rai di aver avuto successo e di aver impressionato gli animi, incalza con più forza: è incredibile l’effetto di una tale eloquenza intenta a guarire e tutta rivolta al bene degli ascoltatori. Non c’è niente di più facile che indiriz­ zare giovani spiriti all’amore dell’onestà e della giustizia. Docili e non ancora guasti, essi sono conquistati dalla verità, se essa ha trovato un degno avvocato. Io, almeno, quando ascoltavo Attalo inveire contro i vizi, i disordini, i mali della vita, ho avuto spesso un senso di commisera909

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perorantem, saepe miseritus sum generis humani et illum sublimem altioremque humano fastigio credidi. Ipse regem se esse dicebat, sed plus quam regnare mihi videbatur cui liceret censuram agere regnantium. Cum vero commendare paupertatem coeperat et ostendere quam quidquid usum excederet pondus esset supervacuum et grave ferenti, saepe exire e schola pauperi libuit. Cum coeperat voluptates nostras traducere, laudare castum corpus, sobriam mensam, puram mentem non tantum ab inlicitis voluptatibus sed etiam supervacuis, libebat drcumscribere gulam ac ventrem. Inde mihi quaedam permansere, Lucili; magno enim in omnia impetu veneram, deinde ad civitatis vitam reductus ex bene coeptis pauca servavi. Inde ostreis boletisque in omnem vitam renuntiatum est; nec enim cibi sed oblectamenta sunt ad edendum saturos cogentia (quod gratissimum est edacibus et se ultra quam capiunt farcientibus), facile descensura, facile reditura. Inde in omnem vitam unguento abstinemus, quoniam optimus odor in corpore est nullus. Inde vino carene stomachus. Inde in omnem vitam balneum fugimus; decoquere corpus atque exinanire sudoribus inutile simul delicatumque credidimus. Cetera proiecta redierunt, ita tamen ut quorum abstinentiam interrupi modum servem et quidem abstinentiae proximiorem, nescio an difficiliorem, quoniam quaedam absciduntur facilius animo quam temperantur. Quoniam coepi tibi exponere quanto maiore impetu ad philosophiam iuvenis accesserim quam senex pergam, non pudebit fateri quem mihi amorem Pythagoras iniecerit. Sotion dicebat quare ille animalibus àbstinuisset, quare postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat, sed utrique magnifica. Hic homini satis alimentorum citra sanguinem esse credebat

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zione per il genere umano e ho giudicato quel maestro un essere sublime, superiore a tutto ciò che c’è di grande sulla terra. «Io sono un re» diceva; e per me, egli era più che un re, se poteva permettersi di censurare i re. Quando si metteva a fare l’elogio della povertà, a mostrare come tutto ciò che accende i nostri bisogni è un peso inutile e faticoso a portarsi, spesso io avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a sferzare i piaceri, a lodare la continenza, la sobrietà nei cibi, la purezza di un’anima che si astiene non solo dai piaceri illeciti, ma anche da quelli superflui, ero pronto a proibirmi ogni peccato di gola e di sensualità. Di queste lezioni, o Lucilio, mi è restato qualcosa. Mi ero accinto con grande ardore a realizzare tutto il suo programma; poi, tornato alla vita di ogni giorno, ho serbato pochi dei miei buoni propositi iniziali. Di qui la mia rinunzia per tutta la vita alle ostriche e ai funghi. Non sono cibi, ma servono solo a stuzzicare la gola anche quando si è sazi; cose mólto gradite ai crapuloni che si rimpinzano oltre ogni loro capacità; cose che si mandano giù facilmente e altrettanto facilmente si rigettano. Di qui il mio rifiuto per tutta la vita di usare profumi, poiché il miglior odore di un corpo umano è di non averne alcuno. Non bevo più vino, né faccio bagni caldi: cuocere il corpo o spossarlo con sudori mi è sembrato una inutile mollezza. Le altre abitudini che avevo sacrificato sono tornate; tuttavia, riguardo alle cose di cui ho interrotto l’astinenza, conservo una mode­ razione molto vicina all’astinenza e forse più difficile, poiché in certi casi la rinunzia totale costa meno dell’uso moderato. E poiché ho cominciato ad esporti come, da giovane, mi sono indirizzato alla filosofia con maggior slancio di quello con cui persevero ora che sono vecchio, non mi vergogno di confessarti la mia passione per le dottrine di Pitagora. Sozione mi spiegò per quali motivi quel filosofo si era astenuto dalle carni degli animali, e per quali motivi se ne era astenuto Sestio. I motivi dell’uno erano differenti da quelli dell’altro, ma erano ugualmen­ te nobili. Sestio affermava che l’uomo ha una alimenta911

et crudelitatis consuetudinem fieri ubi in voluptatem esset adduct'a laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae; colligebat bonae valetudini contraria esse alimenta 19 varia et nostris aliena corporibus. A t Pythagoras omnium inter omnia cognationem esse dicebat et animorum commercium in alias atque alias formas transeuntium. Nulla, si illi credas, anima interit, ne cessai quidem nisi tempore exiguo, dum in aliud corpus transfunditur. Videbimus per quas temporum vices et quando pererratis pluribus domiciliis in hominem revertatur: interim sceleris hominibus ac parricidii metum fecit, cum possent in parentis animam inscii incurrere et ferro morsuve violare, si in quo (corpore) cognatus aliqui spiritus 20 hospitaretur. Haec cum exposuisset Sotion et implesset argumentis suis, ‘non credis’ inquit ‘animas in alia corpora atque alia discribi et migrationem esse quod dicimus mortem ? Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua mersis illum quondam hominis animum morari? Non credis nihil perire in hoc mundo, sed mutare regionem ? nec tantum caelestia per certos circuitus verti, sed animalia quoque per vices ire et 21 animos per orbem agi ? Magni ista crediderunt viri. Itaque iudicium quidem tuum sustine, cetérum omnia tibi in integro serva. Si vera sunt ista, abstinuisse animalibus innocentia est; si falsa, frugalitas est. Quod istic credulitatis tuae 22 damnum est ? alimenta tibi leonum et vulturum eripio.’ His ego instinctus abstinere animalibus coepi, et anno peracto non tantum facilis erat mihi consuetudo sed dulcis. Agitatiorem mihi animum esse credebam nec tibi hodie adfirmaverim an fuerit. Quaeris quomodo desierim ? In primum Tiberii Caesaris principatum iuventae tempus inciderat: alienigena

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zione sufficiente senza bisogno di versare il sangue e che la crudeltà diventa in lui un’abitudine quando ha preso gusto a lacerare le carni. Aggiungeva che era bene limitare i piaceri sensuali e concludeva che la nostra varietà di cibi è contraria alla salute e poco confacente al corpo umano. Secondo Pitagora, c’è una parentela di tutti gli esseri fra loro, poiché le anime trasmigrano continuamente da una forma di vita all’altra. Nessun’ani­ ma per lui muore o cessa di agire se non nel breve istante del suo passaggio in un altro corpo. Vedremo in seguito attraverso quali vicende e in quale momento, dopo aver albergato in parecchi corpi, l’anima torni a reincarnarsi in un corpo umano. Intanto possiamo dire che Pitagora ha ispirato agli uomini la paura di un delitto e di un parricidio, poiché essi potrebbero, senza saperlo, imbat­ tersi nell’anima del genitore e compiere un atto sacrilego uccidendo o mangiando un corpo che ospitava lo spirito di qualche congiunto. Dopo aver esposto queste dottri­ ne, completandole con argomentazioni sue proprie, Sozione diceva: «Non credi che ad ogni anima siano asse­ gnate come sedi successive diversi corpi e che la cosiddet­ ta morte non sia altro che una trasmigrazione? Non credi che in tutti questi animali domestici o feroci o acquatici soggiorni un’anima che un tempo appartenne a un essere umano? Non credi che in questo universo niente perisca, ma cambi semplicemente sede; e che non solo i corpi celesti si volgano per orbite fisse, ma anche gli esseri animati abbiano le loro fasi diverse e ogni anima ha la sua orbita? Eppure dei grandi uomini l’hanno creduto. Perciò sospendi, se vuoi, il tuo giudizio, lasciando il problema insoluto. Se la dottrina è vera, l’astinenza delle carni ci salva da un delitto; se è falsa, essa ci rende sobri. Che danno avresti a seguire i miei insegnamenti? Verresti a perdere solo il cibo dei leoni e degli avvoltoi». Incitato dalle sue parole, mi astenni dalle carni; e, dopo un anno, questa abitudine mi era diventata non solo facile, ma piacevole. Mi sentivo l’anima più agile e oggi non oserei affermare se fosse realtà o illusione. Vuoi sapere come vi ho rinunziato? L’epoca della mia giovi­ nezza coincideva con l’inizio del principato di Tiberio: 913

tum sacra movebantur et inter argumenta superstitionis ponebatur quorundam animalium abstinentia. Patre itaque meo rogante, qui non calumniam timebat sed philosophiam oderat, ad pristinam consuetudinem redii; nec difficulter 23 mihi ut inciperem melius cenare persuasit. Laudare solebat Attalus culcitam quae resisteret corpori: tali utor etiam senex, in qua vestigium apparere non possit. Haec rettuli ut probarem tibi quam véhementes haberent tirunculi impetus primos ad optima quaeque, si quis exhortaretur illos, si quis inpelleret. Sed aliquid praecipientium vitto peccatur, qui nos docent disputare, non vivere, aliquid discentium, qui propositum adferunt ad praeceptores suos non animum excolendi sed ingenium. Itaque quae philosophia 24 fuit facta philologia est. Multum autem ad rem pertinet quo proposito ad quamquam rem accedas. Qui grammaticus futurus Vergilium scrutatur non hoc animo legit illud egregium fugit inreparabile tempus : ‘vigilandum est; nisi properamus relinquemur; agit nos agiturque velox dies; inscii rapi'mur; omnia in futurum disponimus et inter praecipitia lenti sumus’: sed ut observet, quotiens Vergilius de celeritate temporum dicit, hoc uti verbo illum ‘fugit’. Optima quaeque dies miseris mortalibus aevi prima fugit; subeunt morbi tristisque senectus et labor, et durae rapii inclementia mortis. 25 Ille qui ad philosophiam spectat haec eadem quo debet adducit. ‘Numquam Vergilius’ inquit ‘dies dicit ire, sed fugere, quod currendi genus concitatissimum est, et optimos

allora i culti stranieri erano condannati e l’astinenza dalle carni di certi animali era considerata come segno di adesione a questi culti. Mio padre, per avversione verso la filosofia più che per paura di qualche delatore, mi pregò di tornare agli antichi usi; e, senza molta difficoltà, ottenne che io ricominciassi a mangiare un po’ meglio. Attalo lodava l’uso di un materasso duro; e anche ora che sono vecchio ne ho uno che non riceve nemmeno l’impronta del corpo. Ti ho riferito tutto questo per farti conoscere con quale slancio iniziale il novizio si volge verso tutte le forme di perfezione, se c’è qualcuno che sappia esortarlo e incitarlo. Ma noi sbagliamo, in parte per colpa dei maestri che insegnano a disputare; non a vivere; in parte per colpa degli allievi che si presentano ai loro maestri con l’intenzione di coltivare l’intelligenza, non l’anima; così la filosofia è diventata filologia1. Ora, è molto importante in ogni studio che si inizia, sapere la meta che ci si propone. Il giovane che, volgendosi alla letteratura, studia Virgilio, quando legge quel mirabile passo: «Fugge il tempo irreparabile»2 non dice a se stesso: «Veglia­ mo! se non siamo solleciti, saremo lasciati indietro; i giorni, incalzandosi a vicenda, spingono velocemente anche noi; siamo trascinati a nostra insaputa, noi rinvia­ mo ogni cosa al futuro; e mentre tutto precipita, dormia­ mo». Ma egli osserva che Virgilio, ogniqualvolta parla della celebrità del tempo, usa il verbo «fuggire». «I giorni migliori per noi, poveri mortali, sono sempre i primi a fuggire; ed ecco venire le malattie e la triste vecchiezza, la sofferenza e la crudele e spietata morte che ci porta via3.» Chi ha il pensiero rivolto alla filosofia, facendo la stessa osservazione colpisce nel segno. «Vir­ gilio - egli nota - non dice mai che i giorni passano, ma che essi fuggono, volendo così esprimere il modo più precipitoso di correre; e dice che i nostri giorni più belli 1Cioè, all’«amore per la saggezza» si è sostituito il desiderio di erudizione. 2Virgilio, Georgiche, III, 284. 3Virgilio, Georgiche, III, 66 segg.

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quosque primos rapi: quid ergo cessamus nos ipsi concitare, ut velocitatem rapidissimae rei possimus aequare? Meliora 26 praetervolant, deteriora succedunt.’ Quemadmodum ex amphora primum quod est sincerissimum effluii, gravissimum quodque turbidumque subsidit, sic in aetate nostra quod est optimum in primo est. Id exhauriri [in] aliis potius patimur, ut nobis faecem reservemus ? Inhaereat istud animo et tamquam missum oraculo placeat : optima quaeque dies miseris mortalibus aevi prima fugit. 27 Quare optima ? quia quod restat incertum est. Quare optima ? quia iuvenes possumus discere, possumus facilem animum et adhuc tractabilem ad meliora convertere; quia hoc tempus idoneum est laboribus, idoneum agitandis per studia ingeniis [est] et exercendis per opera corporibus: quod superest segnius et languidius est et propius a fine. Itaque loto hoc agamus animo et omissis ad quae devertimur in rem unam laboremus, ne hanc temporis pernicissimi celeritatem, quam retinere non possumus, relieti demum intellegamus. Primus quisque tamquam optimus dies placeat et redigatur in 28 nostrum. Quod fugit occupandum est. Haec non cogitat ille qui grammatici oculis carmen istud legit, ideo optimum quemque primum esse diem quia subeunt morbi, quia senectus premit et adhuc adulescentiam cogitantibus supra caput est, sed ait Vergilium semper una ponere morbos et senectutem—non mehercules inmerito; senectus enim insanabilis 29 morbus est. ‘Praeterea’ inquit ‘hoc senectuti cognomen inposuit, “ tristem” illam vocat : subeunt morbi tristisque senectus. Alio loco dicit pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus.’ Non est quod mireris ex eadem materia suis quemque studiis

sono i primi ad esserci rapiti. Che aspettiamo, dunque, ad affrettare la nostra andatura, per uguagliare in veloci­ tà una cosa così rapida nello sfuggirci? Il meglio ci vola via e il peggio prende il suo posto.» Come dall’anfora vien fuori prima il vino più puro, e la parte più torbida e pesante rimane in fondo, così nella nostra vita la parte migliore è all’inizio. E noi la lasciamo consumare dagli altri, non riservandoci che la feccia? Imprimiamoci nel­ l’anima e conserviamo come un oracolo celeste questo passo: «I giorni migliori per noi, poveri mortali, sono sempre i primi a fuggire». Perché i migliori? Perché ciò che resta non è che incertezza. Perché i migliori? Perché da giovani ci si può istruire; si può volgere al bene l’anima ancora flessibile e malleabile; perché quest’epo­ ca è adatta alle fatiche, è adatta a sviluppare l’intelligen­ za negli studi, è adatta ad esercitare il corpo nell’attività fisica; mentre il tempo che rimane ci avvicina lentamente e languidamente alla fine. Perciò ogni nostro pensiero e ogni nostro sforzo, trascurando tutto ciò che può sviarci, abbiano per oggetto un solo scopo: di evitare che noi ci accorgiamo troppo tardi, quando siamo già stati lasciati indietro, della vertiginosa e incoercibile velo­ cità del tempo. Amiamo ogni nuovo giorno che ci si presenta come il più bello e volgiamolo a nostro vantag­ gio. Dobbiamo impadronirci di ciò che passa rapidamen­ te. Non sono tali i pensieri di chi legge questi versi con gli occhi del pedante letterato; egli non vede che i giorni migliori sono i primi, perché poi sopravvengono le malattie, perché c’incalza la vecchiaia e, quando noi pensiamo ancora alla giovinezza, essa ci pende già sul capo. Ma egli, notando che Virgilio mette sempre insie­ me le malattie e la vecchiaia, dirà che la giustapposizione è opportuna, essendo la vecchiaia stessa una incurabile malattia. Noterà inoltre che l’autore dà alla vecchiaia l’attributo di triste: «Ecco giungere le malattie e la triste vecchiezza». Leggiamo in un altro passo: «Qui abitano le pallide malattie e la triste vecchiezza»4. Non bisogna meravigliarsi se ciascuno spiega lo stesso punto secondo 4 Virgilio, Eneide, VI, 275.

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apta colligere: in eodem prato bos herbam quaerit, canis leporem, ciconia lacertam. Cum Ciceronis libruni de re publica prendit hinc philologus aliquis, hinc grammaticus, hinc philosophiae deditus, alius alio curam suam mittit. Philosophus admiratur’ contra iustitiam dici tam multa potuisse. Cum ad hanc eandem lectionem philologus accessit, hoc subnotat: duos Romanos reges esse quorum alter patrem non habet, alter matrem. Nam de Servi maire dubitatur; Anci pater nullus, Numae nepos dicitur. Praeterea notat eum .quem nos dictatorem dicimus et in historiis ita nominari legimus apud antiquos ‘magistrum populi’ vocatum. Hodieque id extat in auguralibus libris, et testimonium est quod qui ab ilio nominatur ‘magister equitum’ est. Aeque notat Romulum perisse solis defectione; provocationem ad populum etiam a regibus fuisse; id ita in pontificalibus libris fe t aliqui q u ii putant et Fenestella. Eosdem libros cum grammaticus explicuit, primum [verba expresse] ‘reapse’ dici a Cicerone, id est ‘re ipsa’, in commentarium refert, nec minus ‘sepse’, id est ‘se ipse’. Deinde transit ad ea quae consuetudo saeculi mutavit, tamquam ait Cicero ‘quoniam sumus ab ipsa calce eius interpellatione revocati.’ Hanc quam nunc in circo ‘cretam’ vocamus ‘calcem’ antiqui dicebant. Deinde Ennianos colligit versus et in primis illos de Africano scriptos : cui nemo civis neque hostis quibit prò factis reddere opis pretium.

Ex eo se ait intellegere (opem) apud antiquos non tantum auxilium significasse sed operam. Ait [opera] enim Ennius neminem potuisse Scipioni neque civem neque hostem red34 dere operae pretium. Felicem deinde se putat quod invenerit unde visum sit Vergilio dicere quem super ingens porta tonat caeli.

le sue attitudini: nello stesso prato il bue cerca l’erba, il cane la lepre, la cicogna le lucertole. Se un erudito, un letterato e un filosofo prendono, ciascuno per suo conto, la Repubblica di Cicerone, cia­ scuno ferma la sua attenzione su un aspetto diverso. Il filosofo si meraviglia che si siano potute dire tante cose contro la giustizia; l’erudito mette in rilievo, nel leggere la stessa opera, che ci sono due re di Roma, l’uno di padre ignoto, l’altro di madre ignota, poiché non si sa niente di sicuro sulla madre di Servio e non si parla del padre di Anco, ma lo si chiama nipote di Numa. Inoltre noterà che il magistrato che noi chiamiamo «dittatore» perché lo vediamo così designato nei libri storici, aveva anticamente l’appellativo di «maestro del popolo». Tale titolo s’è conservato ai nostri giorni nei libri degli àuguri. Altra testimonianza: il magistrato scelto come suo sosti­ tuto dal dittatore si chiama «maestro della cavalleria». Similmente noterà che Romolo morì durante un’eclisse di sole; che si poteva far ricorso al popolo anche contro le decisioni dei re: procedura che si troverebbe citata nei libri pontificali, secondo l’opinione di... e Fenestella. Il letterato, commentando a sua volta la stessa opera, noterà anzitutto l’espressione reapse, usata da Cicerone invece di re ipsa; e così pure sepse invece di se ipse. Quindi passerà a quei termini che noi moderni usiamo con diverso significato, come in questo brano di Cicero­ ne: «Poiché il suo intervento nella discussione ci riporta indietro dalla meta \calce\». La parola calx designava in antico la meta del circo, chiamata ora creta. Egli annote­ rà poi i versi di Ennio, specialmente quelli dedicati a Scipione l’Africano, «di cui nessuno, concittadino o nemico, potè compensare l’opera»; e ne trarrà la prova che nell’uso antico ops significava non solamente «aiu­ to», ma anche «opera»; poiché Ennio voleva dire che «nessun cittadino o nemico fu in grado di compensare l’opera di uno Scipione». Infine si riterrà felicissimo di aver scoperto il modello imitato da Virgilio nel passo: «Sopra la tua testa tuona la vasta porta del cielo» . Dirà 5Georgiche, II, 260 seg.

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Ennium hoc ait Homero [se] subripuisse, Ennio Vergilium; esse enim apud Ciceronem in his ipsis de re publica hoc epigramma Enni: si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli caeli maxima porta patet. 35 Sed ne et ipse, dum aliud ago, in philologum aut grammaticum delabar, illud admoneo, auditionem philosophorum lectionemque ad propósitum beatae vitae trahendam, non ut Verba prisca aut ficta captemus et translationes inprobas figurasque dicendi, sed ut profutura praecepta et magnificas voces et animosas quae mox in rem transferantur. Sic ista 36 ediscamus ut quae fuerint verba sint opera. Nullos autem peius mereri de omnibus mortalibus iudico quam qui philosophiam velut aliquod artificium venale didicerunt, qui aliter vivunt quam vivendum esse praecipiunt. Exempla enim se ipsos inutilis disciplinae circumferunt, nulli non vitio 37 quod insequuntur obnoxii. Non magis mihi potest quisquam talis prodesse praeceptor quam gubernator in tempestate nauseabundus. Tenendum rapiente fluctu gubernaculum, luctandum cum ipso mari, eripienda sunt vento vela: quid me potest adiuvare rector navigli attonitus et vomitans ? Quanto maiore putas vitam tempestate iactari quam ullam 38 ratem ? Non est loquendum sed gubernandum. Omnia quae dicunt, quae turba audiente iactant, aliena sunt: dixit illa Platon, dixit Zenon, dixit Chrysippus et Posidonius et ingens agmen nominum tot ac talium. Quomodo probare possint sua esse monstrabo: faciant quae dixerint. 39 Quoniam quae volueram ad te perferre iam dixi, nunc desiderio-tuo satis faciam et in alteram epistulam integrum quod exegeras transferam, ne ad rem spinosam et auribus erectis curiosisque audiendam lassus accedas. Vale.

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che Ennio aveva ripreso questo passo da Omero; poi Virgilio da Ennio. Infatti, nella stessa Repubblica di Cicerone si trova questo distico di Ennio: «Si è permesso a un mortale di salire fino alle regioni celesti, la porta immensa del cielo non s’aprirà che a me». Ma non vorrei, per distrazione, scivolare nel campo erudito o grammaticale. Ricordo, perciò, che bisogna ascoltare o leggere i filosofi in rapporto allo scopo che ci proponia­ mo: la felicità; non per cercarvi espressione arcaiche o neologismi, o brutte metafore o altre figure stilistiche, ma precetti salutari, sentenze nobili e coraggiose, da tradurre subito in atto. Facciamo nostri questi insegna­ menti, in modo che le parole ascoltate diventino opere. Del resto non ci sono, che io sappia, peggiori nemici dell’umanità di coloro che vivono ben diversamente dalle regole di vita che prescrivono agli altri. La loro stessa persona si presenta come un esempio vivente dell’inutili­ tà dei loro insegnamenti, poiché essi sono schiavi di tutti i vizi che dicono di condannare. No, un maestro di questo genere non potrebbe essermi più utile di un pilota che soffra di stomaco in piena tempesta. Bisogna tenere stretto il timone che i flutti ci vogliono strappare, lottare col mare, impedire al vento di lacerarci le vele. Che aiuto posso aspettarmi da chi sta al timone in preda alla paura e al vomito? Ora, dimmi tu, le tempeste della vita non sono molto più violente di quelle da cui è sbattuta la nave? Non c’è bisogno di belle parole, ma di una saggia guida. Tutto quello che tali maestri dicono, tutto quello che proclamano alla folla attenta, è roba d’altri; l’hanno detto Platone, Zenone, Crisippo, Posidonio e la grande schiera di tanti illustri filosofi. Ecco qua un mezzo con cui tali maestri possono provare che questa morale è la loro: quello che dicono lo mettano in pratica. Ora che ho terminato questa spiegazione che volevo darti, soddisferò il tuo desiderio rinviando la questione che mi avevi chiesto di trattare ad una prossima lettera, perché tu non ti accinga ad ascoltare, ormai affaticato, un tema spinoso e che esige viva attenzione. Addio.

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SENECA L V C IL IO SVO SALV TEM

An sapiens sapienti prosit scire desideras. Dicimus plenum omni bono esse sapientem et summa adeptum: quomodo prodesse aliqui possit summum habenti bonum quaeritur. Prosunt inter se boni. Exercent enim virtutes et sapientiam in suo statu continent; desiderat uterque aliquem cum quo conferai, cum quo quaerat. Peritos luctandi usus exercet; musicum qui paria didicit movet. Opus est et sapienti agitatione virtutum; ita quemadmodum ipse se movet, sic movetur ab alio sapiente. Quid sapiens sapienti proderit? Impetum illi dabit, occasiones actionum honestarum commonstrabit. Praeter haec aliquas cogitationes suas exprimet ; docebit quae invenerit. Semper enim etiam sapienti restabit quod inveniat et quo animus eius excurrat. Malus malo nocet facitque peiorem, iram eius incitando, tristitiae adsentiendo, voluptates laudando; et tunc maxime laborant mali ubi plurimum vitia miscuere et in unum coniata nequitia est. Ergo ex contrario bonus bono proderit. ‘Quomodo?’ inquis. Gaudium illi adferet, fiduciam confirmabit; ex conspectu mutuae tranquillitatis crescet utriusque laetitia. Praeterea quarumdam illi rerum scientiam tradet; non enim omnia sapiens scit ; etiam si sciret, breviores vias rerum aliqui excogitare posset et has indicare per quas facilius totum opus circumfertur. Proderit sapienti sapiens, non scilicet tantum suis viribus sed ipsius quem adiuvabit. Potest quidem ille etiam relictus sibi explicare partes suas: utetur propria velocitate, sed nihilominus adiuvat etiam currentem hortator.

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LETTERA

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Il saggio può essere utile a un altro saggio Tu vuoi sapere se il saggio può essere utile al saggio. Non diciamo che il saggio è pieno di tutti i beni e li possiede in sommo grado: e, allora, come può qualcuno essere utile a chi possiede il sommo bene? I buoni possono rendersi utili reciprocamente. La loro funzione è di praticare la virtù e di manifestarsi nel loro stato di saggezza; e perciò ognuno di essi ha bisogno di avere un altro con cui conferire, con cui discutere. L’esercizio della lotta sviluppa l’abilità dei lottatori. Il musico rende più viva l’esecuzione musicale con l’accompagnamento di un collega. Il saggio, anche lui, ha bisogno di ravvivare le sue virtù e riceve uno stimolo, in questa attività, sia da se stesso, sia da un altro saggio. Come il saggio gioverà al saggio? Gli darà slancio; gli indicherà le occasioni per fare del bene; inoltre gli esporrà qualche sua riflessione; gli svelerà le sue scoperte; poiché resta sempre, anche al saggio qualche scoperta da fare al saggio, per sviluppare il suo spirito. Il malvagio nuoce al malvagio; egli lo rende peggiore, eccitando in lui l’ira, favorendo le sue crudeltà, approvando i suoi piaceri; e i cattivi si danneggiano soprattutto mettendo insieme i loro vizi, facendo una cosa sola delle loro perversità. Dunque, per la ragione opposta, il buono sarà utile al buono. «Come?» mi domandi. Gli darà gioia, rafforzerà la sua fede; e in ciascuno dei due, alla vista della serenità dell’altro, crescerà la letizia. Aggiungi che ci sono cose di cui il saggio può trasmettere all’altro la conoscenza; il saggio non conosce tutto; e, quando conoscesse tutto, qualche altro potrebbe immaginare mezzi più adeguati per conoscere la verità e indicargli in particolare quelli che lo mettano meglio in condizione di realizzare com­ pletamente la sua opera. Il saggio sarà d’aiuto al saggio, valendosi non solo delle forze proprie, ma di quelle stesse di chi riceve l’aiuto. Senza dubbio quest’altro può, lasciato solo, assolvere il suo compito seguendo la sua propria andatura; tuttavia, anche il corridore trova pro­ fitto da una voce che lo sprona. 923

‘Non prodest sapienti sapiens sed sibi ipse. Hoc (ut) scias, 7 detrahe illi vini propriam et ille nihil aget.’ Isto modo dicas licet non esse in melle dulcedinem; nam ipse ille qui esse debeat (nisi) ita .aptatus lingua palatoque est ad eiusmodi gustum ut illum talis sapor capiat, offendetur ; sunt enim quidam quibus morbi vitio mel amarum videatur. Oportet utrumque valere ut et ille prodesse possit et hic profuturo idonea materia sit. 8 ‘(U t) in summum’ inquit ‘perducto calorem calefieri supervacuum est, et in summum perducto bonum supervacuum est (si) qui prosit. Numquid instructus omnibus rebus agricola ab alio instrui quaerit? numquid armatus miles quantum in aciem exituro satis est ulla amplius arma desiderai ? Ergo nec sapiens ; satis enim vitae instructus, satis 9 armatus est.’ Ad haec respondeo: et qui in summum (perductus est calorem) opus est calore adiecto ut summum teneat. ‘Sed ipse se’ inquit ‘calor continet.’ Primum multum interest inter ista quae comparas. Calor enim unus est, prod­ esse varium est. Deinde calor non adiuvatur adiectione caloris ut caleat: sapiens non potest in habitu mentis suae stare nisi amicos aliquos similes sui admisit cum quibus 10 virtutes suas communicet. Adice nunc quod omnibus inter se virtutibus amicitia est; itaque prodest qui virtutes alicuius paris sui amat amandasque invicem praestat. Similia delectant, utique ubi honesta sunt et probare ac probari sciunt. 11 Etiamnunc sapientis animum perite movere nemo alius potest quam sapiens, sicut hominem movere rationaliter non potest nisi homo. Quomodo ergo ad ràtionem movendam ratione opus est, sic ut moveatur ratio perfecta opus est 12 ratione perfecta. Prodesse dicuntur et qui media nobis largiuntur, pecuniam, gratiam, incolumitatem, alia in usus

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«Il saggio non reca alcuna utilità al saggio, ma a se stesso. Per convincertene, togli all’altro la sua energia naturale, e cesserà l’azione utile del saggio.» Ma, ragio­ nando così, si potrebbe dire che la dolcezza non è proprietà specifica del miele, poiché colui che deve mangiarlo, se non ha il palato predisposto a un gusto tale che il sapore del miele possa dargli piacere, ne proverà ripugnanza. Infatti c’è chi, per qualche malattia, sente il miele amaro. Occorre che i nostri due saggi stiano bene in salute, in modo che l’uno possa veramente èssere utile e l’altro gli offra un terreno propizio. Mi si obietta: «come è inutile riscaldare una cosa il cui calore è stato portato al massimo grado, è ugualmen­ te inutile fare del bene a chi ha raggiunto il sommo bene. Forse che il contadino fornito di tutti i suoi arnesi cerca gli arnesi di un altro? E il soldato che ha tutte le armi necessarie per andare al combattimento chiede altre armi? Dunque, neppure il saggio: egli ha gli arnesi e le armi sufficienti per le lotte della vita». Rispondo: anche chi si trova al sommo grado di calore ha bisogno di altro calore per mantenersi a quel grado. «Ma il calore si mantiene da se stesso». Anzitutto i termini di comparazione differiscono molto fra loro: il calore è uno, l’utilità è multiforme. Poi il calore, per essere tale, non ha bisogno di un’aggiunta di calore: ma il saggio non può conservare la sua posizione spirituale se non, accoglie come amico qualcuno che gli somigli, per mette­ re in comune con lui le sue virtù. Aggiungi che tutte le virtù sono amiche fra loro: e perciò c’è scambio di utilità nel fatto che il saggio ama la virtù di un suo pari che, a sua volta, ha la possibilità di amare le virtù del primo. Le somiglianze piacciono, specialmente fra anime oneste e che sanno ugualmente apprezzare e farsi apprezzare. Diciamo di più: nessun altro che il saggio ha l’arte di agire sull’anima del saggio, così come solo l’uomo può agire razionalmente sull’uomo. Se, dunque, per agire sulla ragione, c’è bisogno della ragione, per agire su una ragione perfetta occorre una ragione perfetta. Si dice comunemente che sono utili le persone che ci forniscono i beni moralmente indifferenti: denaro, favori, incolumi925

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vitae cara aut necessaria; in his dicetur etiam stultus prod­ esse sapienti. Prodesse autem est animimi secundum naturam movere virtute sua. U t eius qui movebitur, hoc non sine ipsius quoque qui proderit bono fiet; necessest enim alienam virtutem exercendo exerceat et suam. Sed ut removeas ista quae aut summa bona sunt aut summorum efficientia, nihilominus prodesse inter se sapientes possunt. Invenire enim sapientem sapienti per se res expetenda est, quia natura bonum omne carum est bono et sic quisque conciliatur bono quemadmodum sibi. Necesse est ex hac quaestione argumenti causa in alteram transeam. Quaeritur enim an deliberaturus sit sapiens, an in consilium aliquem advocaturus. Quod facere illi necessarium est cum ad haec civilia et domestica venitur et, ut ita dicam, mortalia; in his sic illi opus est alieno consilio quomodo medico, quomodo gubernatori, quomodo advocato et litis ordinatori. Proderit ergo sapiens aliquando sapienti; suadebit enim. Sed in illis quoque magnis ac divinis, ut diximus, communiter honesta tractando et animos cogitationesque miscendo utilis erit. Praeterea secundum naturam est et amicos conplecti ét amicorum auctu ut suo proprioque laetari ; nam nisi hoc fecerimus, ne virtus quidem nobis permanebit, quae exercendo sensu valet. Virtus autem suadet praesentia bene conlocare, in futurum consulere, deliberare et intendere animum: facilius intendet explicabitque qui aliquem sibi adsumpserit. Quaeret itaque aut perfectum virum aut proficientem vicinumque perfecto. Proderit autem ille perfectus, si consilium communi prudentia iuverit. Aiunt homines plus in alieno negotio videre tin itiof. Hoc illis evenit quos amor sui excaecat quibusque dispectum utilitatis timor in peri-

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tà e tutto ciò che ci è gradito e necessario per i bisogni della vita. Così si dirà che anche lo stolto sarà utile al saggio. Ma utile nel suo vero senso è l’attività di chi, con la sua virtù e col contributo di quella del soggetto, muove un’anima secondo la sua natura. E ciò non avver­ rà senza vantaggio per colui che è stato utile, poiché egli, nel fare agire la virtù di un altro, farà necessaria­ mente agire anche la propria. Ma, pur astraendo dai beni supremi o dalle loro cause efficienti, non è men vero che i saggi possano sempre giovarsi reciprocamente. E cosa in sé desiderabile, infatti, per il saggio rincontro con un saggio, poiché è naturale che all’uomo buono sia caro tutto ciò che è bene: e così ciascun saggio si affezio­ na al suo simile come a se stesso. Per seguire il mio ragionamento debbo passare da questa questione a un’altra. Si domanda se il saggio prenderà le decisioni da solo o col consiglio di qualcuno. Questo consiglio gli è necessario quando si tratta di affari civili e domestici che riguardano, per così dire, la nostra vita mortale: ne ha bisogno come ha bisogno del medico, del pilota, dell’avvocato o del giudice. Il saggio, dunque, sarà utile al saggio in certe circostanze, dandogli consigli. Ma anche nei grandi problemi divini, in questa pratica del bene in comune in cui, come abbiamo visto, le anime e i pensieri si uniscono fra loro, l’aiuto del saggio sarà efficace. D ’altra parte, è conforme a natura vivere uniti ai propri amici e rallegrarsi dei loro progressi come di un vantaggio personale. Se trascuriamo questo dovere, noi perdiamo la virtù, che non conserva la sua forza senza questo scambio di sentimenti e di pensieri. La virtù ci consiglia a ben ordinare il presente, a riflettere prima di prendere le opportune decisioni per l’avvenire, a tendere tutte le nostre energie spirituali. Questa tensio­ ne e questo sviluppo dello spirito saranno resi più facili se ammetteremo qualcuno a collaborarvi. Si cercherà, dunque, un uomo perfetto o che sia molto avanti sulla via della perfezione. Egli sarà utile, se apporterà alle decisioni il contributo della sua saggezza. Si dice che gli uomini negli affari degli altri abbiano una più chiara visione...; ciò è frequente in chi è accecato dall’amore di sé, in chi è nel pericolo e, preso dalla paura, perde il 927

culis excutit : incipiet sapere securior et extra metum positus. Sed nihilominus quaedam sunt quae etiam sapientes in alio quam in se diligentius vident. Praeterea illud dulcissimum et honestissimum ‘idem velie atque idem nolle’ sapiens sapienti praestabit; egregium opus pari iugo ducei. 17 Persolvi quod exegeras, quamquam in ordine rerum erat quas moralis philosophiae voluminibus conplectimur. Cogita quod soleo frequenter tibi dicere, in istis nos nihil aliud quam acumen exercere. Totiens enim ilio revertor : quid ista me res iuvat ? fortiorem fac me, iustiorem, temperantiorem. 18 Nondum exerceri vacat: adirne medico mihi opus est. Quid me poscis scientiam inutilem ? Magna promisisti : exhibe fidem. Dicebas intrepidum fore etiam si circa me gladii micarent, etiam si mucro tangeret iugulum ; dicebas securum fore etiam si circa me flagrarent incendia, etiam si subitus turbo toto navem meam mari raperei : hanc mihi praesta curam, ut voluptatem, ut gloriarci contemnam. Postea docebis inplicta solvere, ambigua distinguere, obscura perspicere: nunc doce quod necesse est. Vale.

discernimento di ciò che giova fare. Si comincia a ragio­ nare saggiamente quando si è liberati da preoccupazioni e da timori. Tuttavia ci sono dei casi in cui anche un saggio nelle questioni di un altro vede più chiaramente che nelle proprie. E, soprattutto, il saggio procurerà al saggio quella soddisfazione tanto dolce e virtuosa di «volere o di non volere le stesse cose»: appaiati allo stesso giogo, porteranno a termine la loro nobile opera. Ho compiuto il lavoro da te richiesto, benché esso avesse già il suo posto fra gli argomenti raccolti nei libri della mia Filosofia morale. Ma pensa che in queste discussioni, come ti ripeto spesso, noi non facciamo altro che esercitare l’acume della nostra mente. Sì, torno sempre a ripetermi: a che mi servono queste esercitazioni dialettiche? Mi si renda, piuttosto, più coraggioso, più giusto, più temperante. Non ho tempo per dedicarmi alla ginnastica mentale, ho ancora bisogno del medico. Perché mi si chiede di apprendere tante sterili cognizio­ ni? Erano grandi le promesse che mi furono fatte: che siano adempiute. Mi si diceva che non avrei tremato neppure fra il balenare delle spade, neppure col pugnale alla gola. Mi si diceva che sarei rimasto impassibile anche se mi avessero circondato le fiamme di un incendio, anche se un uragano avesse trascinato la mia nave attra­ verso tutti i mari. Piuttosto, mi si aiuti a disprezzare i piaceri e le vanità. Poi potrò imparare a sciogliere i nodi, a chiarire i significati ambigui, a dissipare le oscurità. Per ora desidero apprendere l’indispensabile. Addio.

L IB E R V N D EV ICEN SIM V S

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Ex Nomentano meo te saluto et iubeo habere mentem bonam, hoc est propitios deos omnis, quos habet placatos et faventes quisquis sibi se propitiavit. Sepone in praesentia quae quibusdam placent, unicuique no.strum paedagogum dari deum, non quidem ordinarium, sed hunc inferioris notae ex eorum numero quos Ovidius ait ‘de plebe deos’. Ita tamen hoc seponas volo ut memineris maiores nostros qui crediderunt Stoicos fuisse; singulis enim et Genium et 2 Iunonem dederunt. Postea videbimus an tantum dis vacet ut privatorum negotia procurent: interim illud scito, sive adsignati sumus sive neglecti et fortunae dati, nulli te posse inprecari quicquam gravius quam si inprecatus fueris ut se habeat iratum. Sed non est quare cuiquam quem poena putaveris dignum optes ut infestos deos habeat: habet, 3 inquam, etiam si videtur eorum favore produci. Adhibe diligentiam tuam et intuere quid sint res nostrae, non quid vocentur, et scies plura mala contingere nobis quam accidere. Quotiens enim felicitatis et causa et initium fuit quod calamitas vocabatur! quotiens magna gratulatione 1

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LIBRO DICIANNOVESIMO

LETTERA H O

Errati giudizi sulla felicità umana Ti saluto dalla mia villa nomentana, e ti auguro di conservare la sanità dell’anima; in altre parole, il favore di tutti gli dèi. Ed essi sono benigni e favorevoli verso chiunque è in pace con se stesso. Dimentica per ora la credenza, accettata da alcuni, secondo la quale a ciascu­ no di noi è dato per custode un dio; non una delle divinità maggiori, ma di più umile genere, cioè una fra quelle che Ovidio chiama «divinità plebee». Tuttavia, pur lasciando da parte questa credenza, dovresti ricorda­ re che i nostri padri, che l’hanno professata, erano, in sostanza, stoici: essi infatti attribuivano ad ogni essere umano un Genio o una Giunone. Vedremo più tardi se gli dèi hanno tempo per occuparsi dei nostri affari priva­ ti; intanto, sappi bene questo; sia che noi siamo sotto la divina custodia, sia che siamo abbandonati a noi stessi e alla fortuna, tu non puoi scagliare contro un uomo un’imprecazione più grave dell’augurio di non essere in pace con se stesso. Del resto, se giudichi uno meritevole di pena, non c’è motivo di augurargli l’inimicizia degli dèi: egli l’ha già, ne sono sicuro, anche se sembra accompagnato dal loro favore. Poni bene attenzione e considera le cose umane come realmente sono, non come sono chiamate; dovrai riconoscere che la maggior parte dei mali ci giungono al momento opportuno, e non già per caso. Quante volte quella che sembrava una disgrazia è stata la causa e l’inizio di una brillante 931

excepta res graduiti sibi struxit in praeceps et aliquem iam eminentem adlevavit etiamnunc, tamquam adhuc ibi staret 4 unde tuto cadunt! Sed ipsum illud cadere non habet in se mali quicquam si exitum spectes, ultra quem natura neminem deiecit. Prope est rerum omnium terminus, prope est, inquam, et illud unde felix eicitur et illud unde infelix emittitur: nos utraque extendimus et longa spe ac metu facimus. Sed, si sapis, omnia humana cpndicione metire ; simul et quod gaudes et quod times contraile. Est autem tanti nihil diu gaudere ne quid diu timeas. 5 Sed quare istuc malum adstringo? Non est quod quic­ quam timendum putes: vana sunt ista quae nos movent, quae attonitos habent. Nemo nostrum quid veri esset excussit, sed metum alter alteri tradidit; nemo ausus est ad id quo perturbabatur accedere et naturam ac bonum timoris sui nosse. Itaque res falsa et inanis habet adhuc fidem quia non 6 coarguitur. Tanti putemus oculos intendere: iam apparebit quam brevia, quam incerta, quam tuta timeantur. Talis est animorum nostrorum confusio qualis Lucretio visa est : nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis in tenebrie metuunt, ita nos in luce timemus. Quid ergo ? non omni puero stultiores sumus qui in luce 7 timemus? Sed falsum est, Lucreti, non timemus in luce: omnia nobis fecimus tenebras. Nihil videmus, nec quid noceat nec quid expediat ; tota vita incursitamus nec ob hoc resistimus aut circumspectius pedem ponimus. Vides autem quam sit furiosa res in tenebrie impetus. At mehercules id

fortuna! Quante volte una situazione accolta con grande letizia è stata il primo passo verso il precipizio, ha innalzato ancora più un personaggio che stava già in alto, come se tale altezza non fosse sufficiente per con­ sentire una caduta disastrosa! Ma questa stessa caduta non è poi un gran male se si considera il punto estremo oltre il quale la natura non precipita mai nessuno. È vicino, per tutto ciò che esiste, il punto estremo; ripeto, è vicino sia quello da cui viene cacciato l’uomo felice, sia quello che l’infelice abbandona volentieri: siamo noi a dilaniarli entrambi e ad allontanarli con le nostre speranze e le nostre paure. Se sei saggio, misura tutto secondo la tua condizione di uomo: riduci il tempo del godimento come quello del timore. Val la pena di abbreviare il godimento, perché sia abbreviato il timore. Ma perché voglio limitare, questo timore? Non hai motivo.di credere che ci sia alcuna cosa degna di. ispirar­ telo. Sono inconsistenti fantasmi tutte le cose che ci lasciano attoniti e spaventati. Nessuno di noi ha accerta­ to che cosa ci fosse di vero, ma la paura si è trasmessa dall’uno all’altro. Nessuno ha avuto il coraggio di esami­ nare da vicino il suo turbamento, di conoscere la natura e il valore morale della sua paura. Così un’immagine falsa e inconsistente trova ancora credito, perché nessu­ no l’ha vista in piena luce. Prendiamoci la pena di guardare bene: subito ci apparirà quanto passeggero, incerto e privo di pericoli sia l’oggetto della nostra paura. La confusione del nostro spirito è proprio quale è apparsa a Lucrezio: «Come i fanciulli tremano ed hanno paura di tutto nelle tenebre profonde, così noi temiamo in pieno giorno»1. E che? Non siamo più insensati di qualunque fanciullo noi che abbiamo paura in pieno giorno? Ma t’inganni, o Lucrezio: non è che noi abbiamo paura in piena luce; è che noi abbiamo fatto la tenebra intorno a noi. Non vediamo niente, né quello che può nuocerci, né quello che ci è utile. Corriamo tutta la vita urtando qua e là, senza per questo fermarci né fare attenzione a dove mettiamo i piedi. Vedi com’è folle una corsa nelle tenebre: così facendo, dovremo poi 1 De rerum natura, II, 55-56.

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agimus ut longius revocandi simus, et cum ignoremus quo feramur, velociter tamen ilio quo intendimus perseveramus. 8 Sed lucescere, si velimus, potest. U no autem modo potest, si quis hanc humanorum divinorumque notitiam [scientia] acceperit, si illa se non perfuderit-sed infecerit, si eadem, quamvis sciat, retractaverit et ad se saepe rettulerit, si quaesierit quae sint bona, quae mala, quibus hoc falso sit nomen adscriptum, si quaesierit de honestis et turpibus, de providentia. 9 Nec intra haec humani ingenii sagacitas sistitur: prospicere et ultra mundum libet, quo feratur, unde surrexerit, in quem exitum tanta rerum velocitas properet. Ab hac divina contemplatione abductum animum in sordida et humilia pertraximus, ut avaritiae servirei, ut relicto mundo terminisque eius et dominis cuncta versantibus terram rimaretur et quaereret quid ex illa mali effoderet, non contentus oblatis. 10 Quidquid nobis bono futurum erat deus et parens noster in proximo posuit; non expectavit inquisitionem nostram et ultro dedit: nocitura altissime pressit. Nihil nisi de nobis queri possumus: ea quibus periremus nolente rerum natura et abscondente protulimus. Addiximus animum voluptati, cui indulgere initium omnium malorum est, tradidimus ambitioni et famae, ceteris aeque vanis et inanibus. 11 Quid ergo nunc te hortor ut facias? nihil novi— nec enim novis malis remedia quaeruntur—sed hoc primum, ut tecum ipse dispicias quid sit necessarium, quid supervacuum. Necessaria tibi ubique occurrent :■supervacua et semper et 12 toto animo quaerenda sunt. N on est autem quod te nimis

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tornare indietro da più lontano. Pur non sapendo dove ci porta la strada, continuiamo a correre per quella strada. Tuttavia, se lo volessimo, potrebbe risplendere la luce. Risplenderà, a condizione che si acquisti la conoscenza delle cose umane e divine, in modo da esserne penetrati e non spruzzati superficialmente; a condizione che si ricominci a meditare su queste nozioni, per quanto conosciute, per applicarle alla propria situa­ zione; e che ci si domandi che cosa è bene, che cosa è male, che cosa porta falsamente l’uno o l’altro nome, che cos’è l’onestà e il suo contrario, che cos’è la provvi­ denza. La perspicacia dello spirito umano non si arresta a questi limiti: le piace spingersi a guardare al di là dell’universo stesso, considerare dove lo porta il suo movimento, donde è sorto, verso qual fine corre questo flusso vertiginoso delle cose. Ma noi, dopo aver distolto la nostra mente da queste contemplazioni divine, l’abbia­ mo portata in un basso mondo di sozzure e meschinità per asservirla all’avarizia, per fare sì che essa, senza pensare più all’universo, ai suoi confini, ai sovrani mode­ ratori di tutte le cose, si volga a scavare la terra e si domandi quali altri mali può estrarne, non contenta di quelli che la terra già le offre. Tutto quello che doveva servire al nostro bene, dio, nostro padre, ce l’ha messo accanto senza aspettare che noi lo cercassimo, ce l’ha dato spontaneamente; le cose nocive le ha ricacciate nella profondità della terra. Non possiamo lagnarci che di noi stessi: mentre la natura ci ha nascosto gli strumenti della nostra rovina per impedircene l’uso, noi li abbiamo portati alla luce. Abbiamo assoggettato l’anima al piace­ re, asservimento che è all’origine di tutti i mali; l’abbia­ mo abbandonata al desiderio di popolarità e di successo ed a tutti gli altri idoli ugualmente vani e inconsistenti. Che cosa ti consiglierò, dunque, in questo stato di cose? Niente di nuovo, poiché non si tratta di trovare i rimedi per nuove malattie: anzitutto devi distinguere da te il necessario dal superfluo. Il necessario ti si presenta dappertutto a portata di mano; mentre il superfluo ri­ chiede una ricerca incessante e faticosa. Non c’è motivo 935

laudes si contempseris aureos lectos et gemmeam supellectilem ; quae est enim virtus supervacua contemnere ? Tunc te admirare cum contempseris necessaria. Non magnani rem facis quod vivere sine regio apparatu potes, quod non desideras milliarios apros nec linguas phoenicopterorum et alia portenta luxuriae iam tota animalia fastidientis et certa membra ex singulis eligentis : tunc te admirabor si contem­ pseris etiam sordidum panem, si tibi persuasene herbam, ubi necesse est, non pecori tantum sed homini nasci, si scieris cacumina arborum explementum esse ventris in quem sic pretiosa congerimus tamquam recepta servantem. Sine fastidio implendus est; quid enim ad rem pertinet quid 13 accipiat, perditurus quidquid acceperit? Delectant te dis­ posta quae terra marique capiuntur, alia eo gratiora si recentia perferuntur ad mensam, alia si diu pasta et coacta pinguescere fluunt ac vix saginam continent suam; delectat te nitor horum arte quaesitus. A t mehercules ista sollicite scrutata varieque condita, cum subierint ventrem, una atque eadem foeditas occupabit. Vis ciborum voluptatem con­ temnere ? exitum specta. 14 Attalum memini cum magna admiratione omnium haec dicere: ‘diu’ inquit ‘mihi inposuere divitiae. Stupebam ubi aliquid ex illis alio atque alio loco fulserat; existimabam similia esse quae laterent his quae ostenderentur. Sed in quodam apparatu vidi totas opes urbis, caelata et auro et argento et iis quae pretium auri argentique vicerunt, exquisitos colores et vestes ultra non tantum nostrum sed ultra finem hostium advectas; hinc puerorum perspicuos cultu atque forma greges, hinc feminarum, et alia quae res suas 15 recognoscens summi imperii fortuna protulerat. “Quid hoc

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che tu ti vanti troppo di essere arrivato al disprezzo di letti dorati o di oggetti in pietra preziosa: che virtù c’è a disprezzare il superfluo? Potrai essere soddisfatto di te quando riuscirai a disprezzare il necessario. Non ti costa molto se riesci a vivere senza un fasto reale, se non desideri giganteschi cinghiali, lingue di fenicotteri e altre raffinatezze del lusso che, disgustato degli animali interi, sceglie di ciascuno una parte determinata. Potrò ammirarti se riuscirai a disprezzare il pane nero, se giungerai a convincerti che, ove occorra, l’erba può alimentare gli uomini come le bestie; se ti renderai conto che anche le tenere foglie possono saziare questo ventre in cui noi ammassiamo cibi pregiati, come se potesse conservarli sempre. Riempiamolo senza fare gli schizzi­ nosi: che importanza ha il cibo che riceve, se dovrà poi perderlo tutto? Ti piace vedere imbanditi animali terrestri e marini; questi ultimi, tanto più gustosi quanto più ti giungono freschi; gli altri, alimentati a lungo e ingrassati artificialmente, quasi si sciolgono per il grasso che non possono più contenere (ti piace la loro lucentez­ za ottenuta con arte raffinata). Ma, per Bacco, queste vivande procurate con tanta fatica e servite con tanta varietà di condimenti, una volta entrate nello stomaco, si confonderanno tutte in un amalgama immondo. Vuoi disprezzare ogni cibo ricercato? Guarda dove va a finire. Ricordo queste parole di Aitalo che colpivano di ammirazione tutto il suo uditorio: «Per lungo tempo ho tenuto in gran considerazione le ricchezze. Ero affascina­ to quando ne vedevo qua e là lo splendore. Pensavo che quello che mi rimaneva nascosto non smentisse quello che mi appariva all’esterno. Ma nell’occasione di una festa vidi esposti tutti i tesori di Roma, oggetti cesellati d’oro e d’argento, con gemme di valore superiore a quello dell’oro e dell’argento; varietà e raffinatezza di colori; tessuti importati da oltre i nostri confini e al di là dei territori stranieri; due schiere di giovani schiavi, una di maschi, una di femmine, che si distinguevano per la loro eleganza e per la loro bellezza; e tutto ciò che poteva mettere in mostra, in una esposizione generale delle sue ricchezze, la fortuna del più potente popolo 937

est” inquam “aliud inritare cupiditates hominum per se incitatas ? quid sibi vult ista pecuniae pompa ? ad discendam avaritiam convenimus?” At mehercules minus cupiditatis istinc effero quam adtuleram. Contempsi divitias, non quia 16 supervacuae sed quia pusillae sunt. Vidistine quam intra paucas horas ille ordo quamvis lentus dispositusque transierit ? Hoc totam vitam nostrani occupabit quod totum diem occupare non potuit ? Accessit illud quoque : tam super­ vacuae mihi visae sunt habentibus quam fuerunt spectantibus. 17 Hoc itaque ipse mihi dico quotiens tale aliquid praestrinxerit oculos meos, quotiens occurrit domus splendida, cohors culta servorum, lectica formonsis inposita calonibus: “quid miraris ? quid stupes ? pompa est. Ostenduntur istae res, non 18 possidentur, et dum placent transeunt” . Ad veras potius te conyerte divitias; disce parvo esse contentus et illam vocem magnus atque animosus exclama: habemus aquam, habemus polentam; Iovi ipsi controversiam de felicitate faciamus. Faciamus, oro te, etiam si ista defuerint; turpe est beatam vitam in auro et argento reponere, aeque turpe in aqua et 19 polenta. “ Quid ergo faciam si ista non fuerint ?” Quaeris quod sit remedium inopiae? Famem fames finit: alioquin quid interest magna sint an exigua quae servire te cogant ? quid refert quantulum sit quod tibi possit negare fortuna ? 20 Haec ipsa aqua et polenta in alienum arbitrium cadit ; liber est autem non in quem parum licet fortunae, sed in quem nihil. Ita est : nihil desideres oportet si vis Iovem provocare nihil desiderantem.’ Haec nobis Attalus dixit, natura omnibus dixit; quae si

del mondo. Tutto questo, mi dicevo, a che serve se non a stimolare di più le passioni dell’uomo, già per sé vive? Che significa questo sfoggio di ricchezze? Siamo qui venuti da ogni parte per eccitare la nostra avidità? Ma, vivaddio, uscendo di qua, sono meno avido di quando sono entrato. Disprezzo le ricchezze non solo per la loro inutilità, ma per la loro meschinità. Hai visto come sono bastate poche ore perché quella sfilata, per quanto lenta e ben ordinata, passasse oltre? E noi riempiremo tutta la nostra vita di ciò che non ha potuto riempire una giornata? Inoltre queste ricchezze mi apparvero ugual­ mente superflue sia per i possessori che per gli spettatori. Ecco, dunque, quello che mi dico ogni volta che cose di tal genere attraggono la mia attenzione, sia un sontuoso palazzo, sia una folta schiera di schiavi in vesti eleganti, sia una lettiga sorretta da bei garzoni: perché guardi con tanto stupore e ammirazione? Sono tutte esteriorità! Sono cose da mettere in mostra, non beni realmente posseduti; cose che piacciono e passano via al tempo stesso. Volgiti piuttosto verso la vera ricchezza; impara a contentarti del poco e grida con tutta la fierezza di una grande anima: "Abbiamo acqua e polenta, possiamo gareggiare in felicità con Giove stesso. Orsù, gareggiamo con lui anche se codesti cibi ci mancano. E disonesto riporre la felicità nell’oro e nell’argento; ma è ugualmen­ te disonesto riporla nell’acqua e nella polenta” . "Che farò, dunque, se non ho neppure queste due cose?” Vuoi conoscere un rimedio contro la miseria? ”La fame pone fine alla fame. Altrimenti, si tratti del poco o del molto che ti rende schiavo, che differenza c’è? Che importa, se c’è sempre qualcosa, anche minima, che la fortuna ti può negare? Anche quest’acqua e questa polenta dipendono dall’arbitrio altrui; è davvero libero non l’uomo su cui la fortuna ha un piccolo potere, ma quello su cui non ha potere alcuno. E così: non devi aver bisogno di nulla, se vuoi sfidare Giove che non ha bisogno di nulla.» Questo ci diceva Aitalo, questo dice la natura a tutti gli uomini. Se tu vorrai meditare spesso questa lezione, 939

938 13 . Lettere a Lucilio - Voi. II

voles frequenter cogitare, id ages ut sis felix, non ut videaris, et ut tibi videaris, non aliis. Vale.

I li

ti metterai in condizione di essere felice e non di sem­ brarlo: ossia di sembrare felice a te stesso, e non agli altri. Addio.

S E N E C A L V C I L I O SVO S A L V T E M LETTERA I I I

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Quid vocentur Latine sophismata quaesisti a me. M ulti temptaverunt illis nomen inponere, nullum haesit; videlicet, quia res ipsa non recipiebatur a nobis nec in usu erat, nomini quoque repugnatum est. Aptissimum tamen videtur mihi quo Cicero usus est : ‘cavillationes’ vocat. Quibus quisquis se tradidit quaestiunculas quidem vafras nectit, ceterum ad vitam nihil' proficit: neque fortior fit neque temperantior neque elatior. A t ille qui philosophiam in remedium suum exercuit ingens fit animo, plenus fiduciae, inexsuperabilis et maior adeunti. Quod in magnis evenit montibus, quorum proceritas minus apparet longe intuentibus: cum accesseris, tunc manifestum fit quam in arduo summa sint. Talis est, mi Lucili, verus et rebus, non artificiis philosophus. In edito stat, admirabilis, celsus, magnitudinis verae; non exsurgit in plantas nec summis ambulai digitis eorum more qui men­ dacio staturam adiuvant longioresque quam sunt videri volunt; contentus est magnitudine sua. Quidni contentus sit eo usque crevisse quo manus fortuna non porrigit ? Ergo et supra humana est et par sibi in omni statu rerum, sive secundo cursu vita procedit, sive fluctuatur et (it) per adversa ac difficilia: hanc constantiam cavillationes istae de quibus paulo ante loquebar praestare non possunt. Ludit istis animus, non proficit, et philosophiam a fastigio suo deducit in planum. N ec te prohibuerim acquando ista agere, sed tunc

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Differenza tra il sofista e il filosofo Mi chiedi come chiamiamo in latino i sophismata. Più volte si è tentato di trovare una parola equivalente, ma nessuna di esse s’è imposta. Evidentemente, dal momento che la cosa non era ben accolta né era in uso da noi, anche il termine che la designa ha trovato resistenza. Tuttavia il vocabolo più giusto, a mio avviso, è quello che usa Cicerone: li chiama cavilli. Chiunque si attacchi a questi cavilli intreccia questioncelle invero sottili, ma di nessun vantaggio per la condotta della vita: non diviene né più forte, né più temperante, né più nobile. Al contrario, chi ha cercato nella pratica della filosofia un rimedio al suo stato, diventa pieno di corag­ gio e di fede; quanto più uno gli è vicino, tanto più nota la sua superiorità spirituale. Avviene come per le alte montagne: a guardarle da lontano la loro altezza appare minore; ma quando ci si avvicina, l’occhio scopre la superba altezza delle loro vette. Tale è, caro Lucilio, il vero filosofo, la cui saggezza è realtà, non artificio. Egli sta in alto, ammirevole, maestoso nella sua non finta grandezza. Non cerca di sollevarsi e di camminare sulla punta dei piedi, come fanno coloro che vogliono aumen­ tare la statura con l’inganno per apparire più alti di quello che sono in realtà: si contenta della sua effettiva grandezza. E perché non dovrebbe accontentarsi di esse­ re salito al punto in cui non può più ghermirlo la fortuna? Eccolo, dunque, superiore agli eventi umani, sempre pari a sé in ogni situazione, sia che la vita scorra placida, sia che, sballottata dai flutti, essa non incontri che perico­ li e difficoltà. Una tale coerenza di vita non possono darcela codesti cavilli di cui parlavo poco fa. Essi sono un gioco per l’anima, non un mezzo per progredire, e traggono la filosofia dalla sua alta sede giù in basso loco. Non dico che tu non possa, talvolta, distrarti facendo 941

cum voles nihil agere. Hoc tamen habent in se pessimum: dulcedinem quandam sui faciunt et animum specie subtilitatis inductum tenent ac morantur, cum tanta rerum moles vocet, cum vix tota vita sufficiat ut hoc unum discas, vitam contemnere. ‘Quid regere ?’ inquis. Secundum opus est ; nam nemo illam bene rexit nisi qui contempserat. Vale.

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SENECA L V CI LI O SVO SALVTEM

Cupio mehercules amicum tuum formari ut desideras et institui, sed valde durus capitur; immo, quod est molestius, valde mollis capitur et consuetudine mala ac diutina fractus. 2 Volo tibi ex nostro artificio exemplum referre. Non quaelibet insitionem vitis patitur : si vetus et exesa est, si infirma gracilisque, aut non recipiet surculum aut non alet nec adplicabit sibi nec in qualitatem eius naturamque transibit. Itaque solemus supra terram praecidere ut, si non respondit, temptari possit secunda fortuna et iterum repetita infra 3 terram inseratur. Hic de quo scribis et mandas non habet vires : indulsit vitiis. Simul et emarcuit et induruit; non potest recipere rationem, non potest nutrire. ‘A t cupit ipse.’ Noli credere. Non dico illum mentiri tibi: putat se cupere. Stomachum illi fecit luxuria : cito cum illa redibit in gratiam. 4 ‘Sed dicit se offendi vita sua.’ Non negaverim; quis enim non offenditur? Homines vitia sua et amant simul et oderunt. Tunc itaque de ilio feremus sententiam cum fidem nobis

questi esercizi, ma li farai solo quando non avrai niente da fare. Essi hanno, tuttavia, questo aspetto molto nega­ tivo: procurano un certo piacere, ci attraggono l’anima e la fanno indugiare con le loro apparenti sottigliezze, mentre ci attende un così vasto lavoro, mentre tutta quanta una vita è appena sufficiente per imparare il disprezzo della vita. «E per imparare a governarla?» chiederai. A questo si giunge dopo, poiché non può ben governarla chi non ha cominciato col disprezzarla. Addio.

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LETTERA 1 1 2

E difficile correggere un vizioso Vorrei sinceramente che il tuo amico si lasciasse correg­ gere ed educare secondo il tuo desiderio; ma l’hai trovato già troppo indurito; anzi, ciò che è peggio, troppo rammollito, essendo stato per tanto tempo schiavo di cattive abitudini. Voglio farti un paragone tratto dalla mia esperienza agricola. Non ogni vite sopporta l’inne­ sto: se è vecchia e corrosa, se è gracile e malaticcia, non potrà ricevere la marza o non potrà nutrirla; non ci sarà quell’assimilazione che le permetta di identificarsi con la qualità e la natura della marza. Perciò si suol praticare l’incisione nella vite sopra il livello della terra, in modo che, se l’innesto non riesce, si possa tentare una seconda volta, ripetendo l’operazione sotto terra. L’uomo di cui mi parli nella tua lettera è senza vigore; ha troppo concesso ai vizi. Diventato al tempo stesso marcio e incallito nei vizi, è incapace di ricevere in sé la ragione e di darle alimento. «Ma è lui che ha espresso questo desiderio.» Non credergli. Non dico che voglia ingannar­ ti: egli crede alla sincerità del suo desiderio. La sua vita viziosa lo ha stomacato: ma presto si riconcilierà con essa. «Ma dichiara di sentire avversione per tale vita.» Non lo nego: chi non proverebbe tale sentimento? Gli uomini amano e odiano ad un tempo i loro vizi. Potremo, dunque, giudicarlo quando avremo ottenuto da lui la 943

fecerit invisam iam sibi esse luxuriam : nunc illis male convenit. Vale.

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SENECA L VCI LI O SVO SALVTEM

Desideras tibi scribi a me quid sentiam de hac quaestione iactata apud nostros, an iustitia, fortitudo, prudentia ceteraeque virtutes animalia sint. Hac subtilitate effecimus, Lucili carissime, ut exercere ingenium inter inrita videremur et disputationibus nihil profuturis otium terere. Faciam quod desideras et quid nostris videatur exponam; sed me in alia esse sententia pròfìteor: puto quaedam esse quae deceant phaecasiatum palliatumque. Quae sint ergo quae antiquos moverint vel quae sint quae antiqui moverint dicam. 2 Animum constai animai esse, cum ipse efficiat ut simus animalia, cum ab ilio animalia nomen hoc traxerint; virtus autem nihil aliud est quam animus quodam modo se habens; ergo animai est. Deinde virtus agit aliquid; agi autem nihil sine impetu potest; si impetum habet, qui nulli est nisi 3 animali, animai est. ‘Si animai est’ inquit ‘virtus, habet ipsa virtutem.’ Quidni habeat se ipsam ? quomodo sapiens omnia per virtutem gerit, sic virtus per se. ‘Ergo’ inquit ‘et omnes artes animalia sunt et omnia quae cogitamus quaeque mente conplectimur. Sequitur ut multa millia animalium habitent in his angustiis pectoris, et singuli multa simus animalia aut multa habeamus animalia.’ Quaeris quid adversus istud respondeatur ? Unaquaeque ex istis res animai erit: multa animalia non erunt. Quare ? dicam, si mihi accommodaveris

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garanzia che la sua rottura con le dissipazioni è definiti­ va: per ora c’è solo una temporanea discordia. Addio. lettera

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Considerazioni sulla virtù Tu desideri che ti esprima il mio parere su questo problema discusso nella nostra scuola filosofica: se la giustizia, il coraggio, la prudenza e le altre virtù siano animali. Con queste sottigliezze, mio carissimo Lucilio, noi diamo l’impressione di persone che esercitano a vuoto il loro ingegno e perdano tempo in dispute che non lasciano sperare alcun vantaggio. Farò ciò che tu desideri ed esporrò l’opinione dei nostri filosofi: ma debbo confessarti che io la penso diversamente: a mio avviso, certi ragionamenti sono più adatti a qualche sofista greco. Ti esporrò dunque i problemi che hanno agitato le menti dei nostri vecchi maestri; o, piuttosto, i problemi che i nostri maestri hanno agitato nei loro dibattiti. E noto, essi dicono, che l’anima è un animale, poiché è proprio essa che fa sì che noi siamo animali, ed ogni essere animato ha preso da lei il nome di animale. Ora, la virtù non è altro che una certa disposizione dell’anima: ella è dunque animale. Inoltre, la virtù agisce; ma non si può agire in nessun caso senza uno slancio; e, se essa ha lo slancio, che è proprio dell’animale, è un animale. «Ma» si osserva «essendo animale, la virtù possiede in sé la virtù.» E perché non potrebbe possedere se stessa? Come il saggio fa tutto per mezzo della virtù, così la virtù fa tutto per mezzo di se stessa. «Dunque tutte le arti sono degli animali, tutti i nostri pensieri, tutto ciò che è abbracciato dalla nostra intelligenza. Ne segue che migliaia di animali abitano neH’intimo di una persona, che ciascuno di noi è un composto di molti animali o racchiude in sé molti animali.» Vuoi sapere che cosa si risponde a questa obiezione? Ciascuna di queste cose è un animale, ma non c’è molteplicità di animali. Per quale ragione? Te lo dirò, se tu mi seguirai con tutta la tua 945

4 subtilitatem et intentionem tuam. Singula animalia singulas habere debent substantias; ista omnia unum animum habent; itaque singula esse possunt, multa esse non possunt. Ego et animai sum et homo, non tamen duos esse nos dices. Quare ? quia separati debent esse. Ita dico alter ab altero debet esse diductus ut duo sint. Quidquid in uno multiplex est sub 5 unam naturam cadit ; itaque unum est. Et animus meus animai est et ego animai sum, duo tamen non sumus. Quare ? quia animus mei pars est. Tunc aliquid per se numerabitur cum per se stabit; ubi vero alterius membrum erit, non poterit videri aliud. Quare ? dicam : quia quod aliud est suum oportet esse et proprium et totum et intra se absolutum. 6 Ego in alia esse me sententia professus sum; non enim tantum virtutes animalia erunt, si hoc recipitur, sed opposita quoque illis vitia et adfectus, tamquam ira, timor, luctus, suspicio. Ultra res ista procedet: omiies sententiae, omnes cogitationes animalia erunt. Quod nullo modo recipiendum 7 est; non enim quidquid ab homine fìt homo est. ‘Iustitia quid est?’ inquit. Animus quodam modo se habens. ‘Itaque si animus animai est, et iustitia.’ Minime; haec enim habitus animi est et quaedam vis. Idem animus in varias figuras convertitur et non totiens animai aliud est quotiens aliud facit; 8 nec illud quod fit ab animo animai est. (Si) iustitia animai est, (si) fortitudo, si ceterae virtutes, utrum desinunt esse animalia subinde aut rursus incipiunt, an semper sunt ? desinere virtutes non possunt. Ergo multa animalia, immo 9 innumerabilia, in hoc animo versantur. ‘Non sunt’ inquit ‘multa, quia ex uno religata sunt et partes unius ac membra sunt.’ Talem ergo faciem animi nobis proponimus qualis est hydrae multa habentis capita, quorum unumquodque per se

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attenzione e con tutto l’acume della tua intelligenza. Ogni animale deve avere la sua particolare sostanza. Tutti questi non hanno che un’anima, perciò possono contare ciascuno per uno, non per una molteplicità di esseri. Io sono animale ed uomo, e non per questo dirai che siamo due. Perché? Perché occorrerebbe che ci fosse separazione; cioè, per 1’esistenza di due esseri, l’uno dovrebbe essere distinto dall’altro. Tutto ciò che è multi­ plo in un unico oggetto rientra in un’unica natura e perciò è uno. La mia anima è un animale; io sono animale; tuttavia non siamo due. Perché? Perché la mia anima è una parte di me stesso. Solo ciò che sussiste per sé può contare come unità a sé; ciò che è parte integrante di una cosa non può essere considerato come un’altra cosa, perché, per essere un’altra cosa, occorre costituire un’individualità, un tutto, un essere completo in se stesso. Come t’ho già detto, la mia opinione è diversa. Se si accetta, infatti, il principio, non solo le virtù saranno animali, ma anche i vizi e le passioni opposte, come l’ira, la paura, l’afflizione, il sospetto. E, procedendo oltre, saranno animali tutte le opinioni, tutti i pensieri. Ma ciò è inammissibile, poiché non tutto quello che è fatto dall’uomo è uomo. «Che cosa è la giustizia?» si domanda. È una disposizione dell’anima. «E allora, se l’anima è un animale, lo è anche la giustizia.» Niente affatto: essa è solo una delle disposizioni dell’anima, una delle sue attività. Una stessa anima si rivolge a diverse attività, ma non è affatto un altro animale ogni volta che compie un’altra azione; né tutto quello che è opera dell’anima è animale. Se la giustizia, il coraggio e le altre virtù sono animali, cessano esse di essere tali per poi divenirlo di nuovo, o sono sempre animali? Le virtù non possono cessare di essere virtù. Dunque si trova in quest’anima un gran numero, anzi un’infinità di animali. «Non formano una pluralità», mi si replica «poiché essi appartangono ad un’unica sostanza di cui sono le membra.» Così noi ci raffiguriamo l’anima ad immagine dell’idra dalle cento teste, ciascuna delle quali combatte 947

pugnai, per se nocet. Atqui nullum e r illis capitibus animai est, sed animalis caput : ceterum ipsa unum animai est. Nemo in Chimaera leonem animai esse dixit aut draconem: hae 10 partes erant eius; partes autem non sunt· ammalia. Quid est quo colligas iustitiam animai esse? ‘Agit’ inquit ‘aliquid et prodest; quod autem agit et prodest impetum habet; (quod autem impetum habet) animai est.’ Verum est si suum 11 impetum habet; (suum autem non habet) sed animi. Omne animai donec moriatur id est quod coepit: homo donec moriatur homo est, equus equus, canis canis; transire in aliud non potest. Iustitia, id est animus quodam modo se habens, animai est. Credamus: deinde animai est fortitudo, id est animus quodam modo se habens. Quis animus? ille qui modo iustitia erat? Tenetur in priore animali, in aliud animai transire ei non licei; in eo illi in quo primum esse 12 coepit perseverandum est. Praeterea unus animus duorum esse animalium non potest, multo minus plurium. Si iustitia, fortitudo, temperantia ceteraeque virtutes animalia sunt, quomodo unum animum habebunt ? singulos habeant oportet, 1 3 aut non sunt animalia. Non potest unum corpus plurium animalium esse. Hoc et ipsi fatentur. Iustitiae quod est corpus ? ‘Animus’. Quid ? fortitudinis quod est corpus ? ‘Idem animus’. Atqui unum corpus esse duorum animalium non 14 potest. ‘Sed idem animus’ inquit ‘iustitiae habitum induit et fortitudinis et temperantiae.’ Hoc fieri posset si quo tempore iustitia esset fortitudo non esset, quo tempore fortitudo esset temperantia non esset ; nunc vero omnes virtutes simul sunt. Ita quomodo singulae erunt animalia, cum unus animus sit, 15 qui plus quam unum animai non potest facere ? Denique nul­ lum animai pars est alterius animalis; iustitia autem pars est animi; non est ergo animai.

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e nuoce per suo conto. Eppure, nessuna di queste teste è un animale, ma è una testa di animale, l’idra, che essa sola è un animale. Nessuno ha mai detto che nella chimera ci fossero due animali: il leone e il drago; essi ne erano le parti, ma le parti non sono affatto animali. Come puoi dunque concludere che la giustizia è un animale? «Essa agisce», mi si risponde «essa è utile; ciò che agisce ed è utile ha anche movimento; e ciò che ha movimento è animale.» Avresti ragione se questo movimento fosse proprio della giustizia, ma esso è movi­ mento proprio dell’anima. Ogni animale rimane fino alla morte quello che era al suo inizio: l’uomo, finché non muore, rimane uomo, il cavallo rimane cavallo, il cane rimane cane, né essi potrebbero trasformarsi in altra cosa. Ammettiamo per un momento che la giustizia, cioè quella certa disposizione dell’anima, sia un animale. E allora un animale anche il coraggio, che è un’altra disposizione dell’anima. Ma che cos’è quest’anima? Quella che poco prima era la giustizia? Questa è racchiu­ sa nell’animale di prima e non è concepibile che passi in un altro animale: è in quello in cui ha cominciato ad essere che deve continuare la sua esistenza. Inoltre una sola anima non può appartenere a due animali, e tanto meno a molti animali. Se la giustizia, il coraggio, la temperanza e le altre virtù sono animali, come potranno avere un’unica anima? O ciascuno deve avere la sua anima o non sono animali. Un solo corpo non può appartenere a più animali, come essi stessi affermano. Qual è il corpo della giustizia? «L’anima.» E il corpo del. coraggio? «La stessa anima.» Ma un unico corpo non può appartenere a due animali. «La stessa anima» si replica «assume le forme della giustizia, del coraggio e della temperanza.» Questo sarebbe possibile se, quando l’anima è giustizia, essa non fosse coraggio; quando essa è coraggio, non fosse temperanza. Ma in realtà tutte le virtù esistono simultaneamente. Come sarà, dunque, ciascuna di esse un animale, se l’anima, essendo una sola, non può costituire più di un animale? Infine, non c’è anima che sia parte di un altro animale. Ora, la giustizia è parte dell’anima; dunque non è un animale. 949

Videor mihi in re confessa perdere operam; magis enim indignandum de isto quam disputandum est. Nullum animai alteri par est. Circumspice omnium corpora: nulli non et 16 color proprius est et figura sua et magnitudo. Inter cetera propter quae mirabile divini artificis ingenium est hoc quoque existimo esse, quod in tanta copia rerum numquam in idem incidit ; etiam quae similia videntur, cum contuleris, diversa sunt. T ot fecit genera foliorum: nullum non sua proprietate signatum; fot animalia: nullius magnitudo cum altero convenit, utique aliquid interest. Exegit a se ut quae alia erant et dissimilia essent et inparia. Virtutes omnes, ut 17 dicitis, pares sunt; ergo non sunt animalia. Nullum non animai per se agit; virtus autem per se nihil agit, sed cum homine. Omnia animalia aut rationalia sunt, ut homines, ut dii, (aut inrationalia, ut ferae, ut pecora); virtutes utique rationales sunt; atqui nec homines sunt nec dii; ergo non 18 sunt animalia. Omne rationale animai nihil agit nisi primum specie alicuius rei inritatum est, deinde impetum cepit, deinde adsensio confirmavit hunc impetum. Quid sit adsensio dicam. Oportet me ambulare : tunc demum ambulo cum hoc mihi dixi et adprobavi hanc opinionem meam; oportet me sedere : tunc demum sedeo. Haec adsensio in virtute non est. 19 Puta enim prudentiam esse : quomodo adsentietur ‘oportet me ambulare’ ? Hoc natura non recipit. Prudentia enim ei cuius est prospicit, non sibi; nam nec ambulare potest nec sedere. Ergo adsensionem non habet; quod adsensionem non habet rationale animai non est. Virtus si animai est, rationale est; 20 rationale autem non est; ergo nec animai. Si virtus animai est, virtus autem bonum omnest, omne bonum animai est. Hoc

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Ho l’impressione che sia fatica sprecata dimostrare una verità così chiara. Simili argomenti provocano lo sdegno, più che la discussione. Non c’è animale che sia uguale a un altro. Osservane l’aspetto fisico: ognuno ha il suo proprio colore, la sua figura, le sue proporzioni. Penso che fra le ragioni per cui dobbiamo ammirare il genio del Divino Artefice ci sia anche questa: pur in una così prodigiosa quantità di creature, egli non s’è mai ripetuto. Anche le cose che appaiono simili, quando si mettono a confronto presentano evidenti contrasti. Egli ha creato tante specie di foglie, ma non ce n’è una che non porti il suo segno caratteristico; ha creato tanti animali: nessuno ha le stesse proporzioni dell’altro; c’è sempre qualche differenza. Si è imposto di dare ad ogni essere un diverso contrassegno che distinguesse nettamente la sua individualità. Tutte le virtù - voi dite sono uguali. Dunque esse non sono animali. Non c’è animale che non agisca da sé; ora, la virtù non fa niente da sola, ma con la collaborazione dell’intera persona umana. Tutti gli animali sono o ragionevoli come gli uomini e gli dèi, o irragionevoli come le bestie feroci e domestiche. Le virtù sono, senza dubbio, ragionevoli; ora, non sono né uomini né dèi; quindi, non sono animali. L’animale fornito di ragione non fa niente se non è inizialmente eccitato da qualche immagine; poi si muove; poi l’assenso conferma il movimento. Ecco che cos’è l’assenso. Si determina in me l’esigenza di passeg­ giare: prima mi viene l’idea, poi l’approvo; e solo allora vado a passeggio. Devo sedermi: lo farò dopo aver seguito lo stesso procedimento. Questo assenso non esiste nella virtù. Facciamo il caso della prudenza: come darà essa il suo assenso al bisogno di passeggiare? La sua natura non glielo consente. La prudenza, infatti, provvede alle persone a cui appartiene, non a sé: non può né andare a passeggio, né sedersi. Dunque essa non ha l’assenso, e poiché non ha tale facoltà, non è animale ragionevole. La virtù, se è animale, è ragionevole; ora, essa non è un essere ragionevole; dunque non è nemme­ no animale. Se la virtù è animale, essendo ogni bene virtù, ogni bene sarebbe animale. Questa è la conclusio951

nostri fatentur. Patrem servare bonum est, et sententiam prudenter in senatu dicere bonum est, et iuste decernere bonum est; ergo et patrem servare animai est et prudenter sententiam dicere animai est. Eo usque res fexeg itf ut risum tenere non possis: prudenter tacere bonum est, (* * * cenare bonum est); ita et tacere et cenare animai est. 21 Ego mehercules titillare non desinam et ludos mihi ex istis subtilibus ineptiis facere. Iustitia et fortitudo, si animalia sunt, certe terrestria sunt; omne animai terrestre alget, esurit, sitit; ergo iustitia alget, fortitudo esurit, clementia 22 sitit. Quid porro ? non interrogabo illos quam figuram habeant ista animalia ? hominis an equi an ferae ? Si rotundam illis qualem deo dederint, quaeram an et avaritia et luxuria et dementia aeque rotundae sint; sunt enim et ipsae animalia. Si has quoque conrotundaverint, etiamnunc interrogabo an prudens ambulatio animai sit. Necesse est confiteantur, deinde dicant ambulationem animai esse et quidem rotundum. 23 N e putes autem primum (me) ex nostris non ex praescripto loqui sed meae sententiae esse, inter Cleanthen et discipulum eius Chrysippum non convenit quid sit ambulatio. Cleanth.es ait spiritum esse a principali usque in pedes permissum, Chrysippus ipsum principale. Quid est ergo cur non ipsius Chrysippi exemplo sibi quisque se vindicet et ista tot animalia quot mundus ipse non potest capere derideat ? 24 ‘Non sunt’ inquit ‘virtutes multa animalia, et tamen animalia sunt. Nam quemadmodum aliquis et poeta est et orator, et tamen unus, sic virtutes istae animalia sunt sed multa non sunt. Idem est animus et animus et iustus et prudens et fortis, ad singulas virtutes quodam modo se 25 habens.’ Sublata * * * convenit nobis. Nam et ego interim fateor animum animai esse, postea visurus quam de ista re

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ne dei nostri filosofi! Salvare il proprio padre è un bene; esprimere un saggio parere al senato è un bene; emettere una giusta sentenza è un bene; dunque l’azione di chi salva il padre è un animale, l’azione di ehi esprime un saggio parere è un animale. Per questa via...al punto in cui non si può trattenere una risata. Un prudente silenzio è un bene;...un buon pranzo è anch’esso un bene; così il silenzio e il pranzo sono animali. Per Giove, voglio ancora gingillarmi in questo gioco di sottili sciocchezze. Se la giustizia e il coraggio sono animali, sono, senz’altro, animali terrestri. Ogni animale terrestre ha freddo, ha fame, ha sete: dunque la giustizia ha freddo, il coraggio ha fame, la clemenza ha sete. E che ancora? Domanderemo ai filosofi che figura hanno questi animali? Quella d’uomo, di cavallo o di bestia feroce? Se daranno ad essi, come a dio, la forma roton­ da, vorrò sapere se l’avarizia, la lussuria e la demenza sono ugualmente rotonde, poiché sono anch’esse anima­ li. Se arrotonderanno anche questi vizi, domanderò se una bella passeggiata è un animale. Essi dovranno ri­ spondere di sì, e perciò dichiarare che la passeggiata è un animale e per di più rotondo. Non credere del resto che fra gli stoici io sia il primo che non ripeta le vecchie formule e che abbia un’opinio­ ne personal^. Cleante ed il suo discepolo Crisippo non sono d’accordo su che cosa sia il passeggiare. Cleante dice che è la forza vitale che passa dalPanima ai piedi. Per Crisippo è l’anima stessa. Perché dunque uno, seguendo l’esempio del maestro Crisippo, non dovrebbe rendersi indipendente e ridersi di quest’infinità di animali che neppure l’intero universo potrebbe contenere? «Le virtù» si afferma «non costituiscono una pluralità di animali, tuttavia sono animali. Infatti, come lo stesso uomo può essere poeta ed oratore, e non costituisce perciò una pluralità di persone, così queste virtù sono animali, ma non sono una pluralità di animali. È la stessa cosa l’anima e l’anima giusta, saggia e forte, secondo la disposizione che ha verso ciascuna virtù». Ecco elimina­ ta... ora siamo d’accordo. Anch’io affermo intanto che l’anima è animale, con l’intenzione di precisare in seguito 953

sententiam feram: actiones eius animalia esse nego. Alioqui et omnia verba erunt animalia et omnes versus. Nam si prudens sermo bonum est, bonum autem omne animai est, (sermo animai est). Prudens versus bonum est, bonum autem omne animai est; versus ergo animai est. Ita arma virumque cano animai est, quod non possunt rotundum dicere cum sex pedes 26 habeat. ‘Textorium’ inquis ‘totum mehercules istud quod cum maxime agitur.’ Dissilio risu cum mihi propono soloecismum animai esse et barbarismum et syllogismum et aptas illis facies tamquam pictor adsigno. Haec disputamus attractis superciliis, fronte rugosa ? Non possum hoc loco dicere illud Caelianum: ‘o tristes ineptias!’ Ridiculae sunt. Quin itaque potius aliquid utile nobis ac salutare tractamus et quaerimus quomodo ad virtutes pervenire possimus, 27 quae nos ad illas via adducati Doce me non an fortitudo animai sit, sed nullum animai felix esse sine fortitudine, nisi contra fortuita convaluit et omnis casus antequam exciperet meditando praedomuit. Quid est fortitudo? Munimentum humanae imbecillitatis inexpugnabile, quod qui circumdedit sibi securus in hac vitae obsidione perdurai ; utitur enim suis 28 viribus, suis telis. Hoc loco tibi Posidonii nostri referre senten­ tiam volo: ‘non est quod umquam fortunae armis putes esse te tutum: tuis pugna. Contra ipsam fortuna non armat; itaque contra hostes instructi, contra ipsam inermes sunt.’ 29 Alexander Persas quidem et Hyrcanos et Indos et quidquid gentium usque in oceanum extendit oriens vastabat fugabatque, sed ipse modo occiso amico, modo amisso, iacebat in

il mio parere su questo argomento; ma nego che le sue attività siano animali. Altrimenti sarebbero animali tutte le nostre parole, tutti i versi dei poeti. Se un saggio discorso è un bene, se d’altra parte ogni bene è un animale, un discorso è un animale. Un bel verso è un bene; ora ogni bene è un animale; dunque il verso è un animale. Così «io canto le armi e l’eroe»1è un animale; e non lo si può dire di forma rotonda, perché ha sei piedi2. «Al diavolo» dirai «tutto questo complicato im­ broglio!» Scoppio dal ridere quando mi raffiguro come animali solecismi, barbarismi, sillogismi e assegno a ciascuno, come fa il pittore, un aspetto appropriato. Sono, forse, questioni da discutere con le sopracciglia aggrottate e con la fronte corrugata? Non posso qui dire con Celio: «Tristi sciocchezze!»: esse sono comiche. E allora perché non trattiamo piuttosto argomenti che siano a noi utili e salutari? Perché non cerchiamo come si può giungere alla virtù, c qual è la via che ad essa ci conduce? Insegnatemi non a dimostrare se il coraggio è un animale, ma che nessun animale è felice senza il coraggio, se cioè non si è fortificato contro i casi fortuiti, se con la meditazione non ha acquistato un tale dominio su sé e sulle cose da prevenire ogni assalto delle avversi­ tà. Che cos’è il coraggio? È il baluardo inespugnabile a difesa della debolezza umana, e chi ne è circondato può, senza pericolo, respingere fino all’ultimo l’assedio della vita; egli ha infatti al suo servizio forze ed armi sue proprie. Voglio qui riferirti una massima del nostro Posidonio: «Non pensare che le armi della fortuna possa­ no mai proteggerti: è con le tue armi che devi combatte­ re. La fortuna non fornisce armi contro se stessa; perciò, anche se premuniti contro gli altri nemici, si è senza difesa contro di essa». Alessandro attraversava, deva­ stando ed uccidendo, i territori dei Persiani, degli Ircani, degli Indiani - e di tutti quei popoli orientali che si estendono fino all’Oceano indiano - , ma lui stesso, dopo l’uccisione di un amico, dopo la perdita di un altro amico, 1 Virgilio, Eneide, I, 1. 2 II verso usato nell’Eneide, l’esametro, ha sei piedi.

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tenebris, alias scelus, alias desiderium suum maerens, victor tot regum atque populorum irae tristitiaeque succumbens; id enim egerat ut omnia potius haberet in potestate quam 30 adfectus. 0 quam magnis homines tenentur erroribus qui ius dominandi trans maria cupiunt permittere felicissimosque se iudicant si multas [prò] milite provincias obtinent et novas veteribus adiungunt, ignari quod sit illud ingens parque dis 31 regnum: imperare sibi maximum imperium est. Doceat me quam sacra res sit iustitia alienum bonum spectans, nihil ex se petens nisi usum sui. Nihil sit illi cum ambitione famaque: sibi placeat. ,Hoc ante omnia sibi quisque persuadeat: me iustum esse gratis oportet. Parum est. Adhuc illud persuadeat sibi : me in hanc pulcherrimam virtutem ultro etiam inpendere iuvet; tota cogitatio a privatis commodis quam longissime aversa sit. Non est quod spectes quod sit iustae rei praemium: 32 maius in iusto est. Illud adhuc tibi adfige quod paulo ante dicebam, nihil ad rem pertinere quam multi aequitatem tuam noverint. Qui virtutem suam publicari vult non virtuti laborat sed gloriae. Non vis esse iustus sine gloria ? at mehercules saepe iustus esse debebis cum infamia, et tunc, si sapis, mala opinio bene parta delectet. Vale.

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SENECA LVCI LI O SVO SALVTEM

Quare quibusdam temporibus provenerit corrupti generis oratio quaeris et quomodo in quaedam vitia inclinatio in-

era immerso nelle tenebre, tutto preso dal rimorso e dal rimpianto; e il vincitore di tanti re e di tanti popoli era, a sua volta, schiavo dell’ira e della tristezza. Egli si era adoperato per rendersi padrone dell’universo, ma non delle sue passioni. Oh, che grande illusione è quella degli uomini che vogliono portare il loro dominio al di là dei mari e si credono al colmo della felicità se occupa­ no con le soldatesche molte province, e ne aumentano ancora il numero, e ignorano quell’eccelso dominio che ci uguaglia agli dèi! L’impero su se stesso è il più grande di tutti gli imperi. Possa io apprendere la sanità della giustizia, che mira solo al bene altrui e non esige da sé altro che lo svolgimento della sua attività. Non abbia la giustizia niente a che vedere con l’ambizione e l’opinione degli altri: basta che ella piaccia a se stessa. Anzitutto ciascuno si dica con convinzione: «Devo essere giusto senza speranza d’interesse». Ma non basta. Deve dirsi ancora: «Possa io trovare la mia gioia nel sacrificare tutto per questa virtù così bella. Qualunque interesse particolare sia ben lontano da ogni mio pensiero. Non si deve guardare quale sia il premio di un’azione giusta: il maggior premio sta nella stessa azione giusta». Imprimiti bene nell’animo quel principio che ho enunciato poco fa: non ha importanza il numero di coloro che conoscono la tua rettitudine. Chi vuole che la sua virtù sia conosciu­ ta dal pubblico non lavora per la virtù, ma per gloria. Rifiuteresti forse di essere giusto se mancasse la gloria? Ma, per Ercole, più di una volta tu dovrai esserlo, a prezzo di un cattivo nome: e allora, se sei saggio, questo discredito acquistato con nobili azioni dovrà rallegrarti. Addio. LETTERA I I 4

Lo stile corrotto è in rapporto con la corruzione dei costumi Mi chiedi per quali motivi un genere corrotto di eloquen­ za si è prodotto in certe epoche, e come una viziosa inclinazione degli spiriti ha messo in voga talora una 956

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geniorum facta sit, ut aliquando inflata explicatio vigeret, aliquando infracta et in morem cantici ducta; quare alias sensus audaces et fidem egressi placuerint, alias àbruptae sententiae et suspiciosae, in quibus plus intellegendum esset quam audiendum; quare aliqua aetas fùerit quae translationis iure uteretur inverecunde. Hoc quod audire vulgo soles, quod apud Graecos in proverbium cessiti talis hominibus 2 fuit oratio qualis vita. Quemadmodum autem uniuscuiusque actio fdicendit similis est, sic genus dicendi aliquando imitatur publicos mores, si disciplina civitatis laboravit et se in delicias dedit. Argumentum est luxuriae publicae orationis lascivia, si modo non in uno aut in altero fuit, sed adprobata est et 3 recepta. Non potest alius esse ingenio, alius animo color. Si ille sanus est, si compositus, gravis, temperane, ingenium quoque siccum ac sobrium est: ilio vitiato hoc quoque adflatur. Non vides, si animus elanguit, trahi membra et pigre moveri pedes ? si ille efieminatus est, in ipso incessu apparere mollitiam ? si ille acer est et ferox, concitari gradum ? si furit aut, quod furori simile est, irascitur, turbatum esse corporis motum nec ire sed ferri ? Quanto hoc magis accidere ingenio putas, quod totum animo permixtum est, ab ilio fingitur, illi paret, inde legem petit ? * Quomodo Maecenas vixerit notius est quam ut narrari nunc debeat quomodo ambulaverit, quam delicatus fuerit, quam cupierit videri, quam vitia sua latere noluerit. Quid ergo ? non oratio eius aeque soluta est quam ipse discinctus ? non tam insignita illius verba sunt quam cultus, quam comitatus, quam domus, quam uxor ? Magni vir ingenii fuerat si illud egisset via rectiore, si non vitasset intellegi, si non etiam in oratione difflueret. Videbis itaque eloquentiam ebrii

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certa ampollosità del linguaggio, talora un linguaggio spezzato e ritmato come una cantilena; e perché in un certo momento hanno trovato favore pensieri arditi fino aH’inverosimile e in altri sono stati apprezzati motti brevi e oscuri che suggeriscono più che non esprimano; e ancora perché c’è stato un tempo in cui si usava la metafora senza ritegno. La ragione è quella stessa che senti proclamare da tutte le parti; essa è nel motto passato in proverbio presso i Greci: «Tale il parlare degli uomini quale la loro vita». Ora, come c’è una somiglianza fra gli atti... di un individuo, così capita che il linguaggio di un’epoca sia lo specchio dei costumi, quando un popolo ha perso ogni ritegno e si è abbando­ nato ai piaceri. È un indice di corruzione il linguaggio affettato quando lo si riscontra non in una o due persone, ma è generalmente accettato e gradito. Non è possibile che nell’intelletto non si riflettano le caratteristiche del­ l’anima. Se questa è sana, educata, austera, temperante, anche l’intelletto è vigoroso e sobrio. Se l’anima è vizia­ ta, trasmette il suo contagio anche all’intelletto. Non vedi che, se l’anima langue, le membra si trascinano faticosamente e le gambe si muovono a stento? Se l’anima è effeminata, anche nell’andatura si manifesta una certa mollezza. Se l’anima è vivace e fiera, il passo è più veloce. Se essa è in preda al furore, o, ciò che gli assomiglia, se è in collera, i movimenti del corpo sono disordinati; non cammina, ma è trasportato. Come puoi ben capire, questi effetti sono più evidenti nell’intelletto, che è inscindibile dall’anima: plasmato da essa, ad essa ubbidisce e da essa prende la sua legge. E troppo noto, perché ora si debba narrare in tutti i suoi aspetti, il modo di vivere di Mecenate, il suo portamento a passeggio, la sua raffinatezza, il suo desi­ derio di mettersi in mostra, la sua ripugnanza a tener nascosti i suoi vizi. Ebbene, il suo linguaggio era molle e rilassato come la sua persona. Le sue espressioni erano ricercate ed eleganti come il suo vestire, il suo seguito, la sua casa, sua moglie. Avrebbe dato prove migliori del suo notevole ingegno se lo avesse rettamente indirizzato, se avesse evitato il gusto di non farsi capire, se nei suoi 959

hominis involutam et errantem et licentiae plenam. [Mae5 cenas de cultu suo.] Quid turpius ‘aitine silvisque ripa comantibus’ ? Vide ut ‘alveum lyntribus arent versoque vado remittant hortos’. Quid? si quis ‘feminae cinno ctispat et labris columbatur incipitque suspirans, ut cervice lassa fanantur nemoris tyranni’. ‘Inremediabilis factio rimantur epulis lagonaque temptant domos et spe mortem exigunt.’ ‘Genium festo vix suo testem.’ ‘Tenuisve cerei fila et cre6 pacem molam.’ ‘Focum mater aut uxor investiunt.’ Non statini cum haec legeris hoc tibi occurret, hunc esse qui solutis tunicis in urbe semper incesserit (nam etiam. cum absentis Caesaris partibus fungeretur, signum a discincto petebatur); hunc esse qui (in) tribunali, in rostris, in omni publico coetu sic apparuerit ut pallio velaretur caput exclusis utrimque auribus, non aliter quam in mimo fugitivi divitis solent; hunc esse cui tunc maxime civihbus bellis strepentibus et sollicita urbe et armata comitatus hic fuerit in publico, spadones duo, magis tamen viri quam ipse; hunc esse qui 7 uxorem milliens duxit, cum unam habuerit ? Haec verba tam inprobe structa, tam neglegenter abiecta, tam contra consuetudinem omnium posita ostendunt mores quoque non minus novos et pravos et singulares fuisse. Maxima laus illi tribuitur mansuetudinis : pepercit gladio, sanguine abstinuit, nec ulla alia re quid posset quam licentia ostendit. Hanc ipsam laudem suam corrupit istis orationis portentosissimae 8 delicis; apparet enim mollem fuisse, non mitem. Hoc istae ambages compositionis, hoc verba transversa, hoc sensus miri, magni quidem saepe sed enervati dum exeunt, cuivis manifestum facient : motum illi felicitate nimia caput. Quod 9 vitium hominis esse interdum, interdum temporis solet. U bi

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scritti non si fosse abbandonato alla rilassatezza. Così potrai constatare che il suo stile era involuto, divagante, pieno di licenze. «Il fiume la cui riva è chiomata di selve». Ci può essere un’espressione più brutta? Vedi come «arino il suo alveo con le barche, ne rivoltino le onde e si lascino dietro i giardini». Ma che dire di uno che «scherza con i riccioli della sua donna, colombeggia con le labbra e comincia con dei sospiri, così che i tiranni della foresta infuriano sulla stanca cervice». «L’incorreg­ gibile fazione è alla ricerca di festini e di bottiglie, tenta le famiglie, e passa la morte a sperare». «Un genio, testimone fantastico della sua festa». «I fili dell’esile cero e una crepitante focaccia». «La madre o la moglie adornano il focolare». Leggendo simili frasi, penserai subito a colui che girava per Roma sempre con la tunica sciolta (sì, anche quando faceva le veci di Ottaviano assente si faceva notare per la veste discinta); a colui che in tribunale, ai Rostri, in tutte le riunioni ufficiali, appariva tutto avvolto in un mantello da cui spuntavano solo le orecchie, proprio come sogliono presentarsi nei mimi gli schiavi fuggitivi di un ricco; a colui che, mentre infieriva più aspra la guerra.civile, e tutta la cittadinanza armata era in ansia, si faceva scortare in pubblico da due eunuchi, certo più virili di lui; a colui che si sposò un numero infinito di volte, pur avendo sempre la stessa moglie. Queste espressioni così mal costruite, gettate giù con tanta negligenza e in maniera assolutamente contraria all’uso comune, ci dimostrano che in lui i costumi erano altrettanto strani, depravati e bizzarri. Gli si attribuisce un grandissimo merito: la clemenza. Non usò la spada, si astenne dal versare sangue e la sola manifestazione della sua potenza fu la licenziosità; ma questo merito fu guastato dai preziosismi del suo stile mostruoso. Rivelano non un carattere mite, ma molle. Tutto ciò apparirà manifesto ad ognuno da quelle sue frasi contorte, dalle metafore, da quei pensieri singolari, che spesso posso trovare grandi, ma che perdono ogni vigore nella espressione. L’eccesso di prosperità gli ave­ va dato le vertigini: cosa che può capitare sia a un uomo, sia a una generazione. Quando la prosperità ha diffuso 961

luxuriam late felicitas fudit, cultus primum corporum esse diligentior incipit; deinde supellectili laboratur; deinde in ipsas domos inpenditur cura ut in laxitatem ruris excurrant, ut parietes advectis trans maria marmoribus fulgeant, ut tecta varientur auro, ut lacunaribus pavimentorum respondeat nitor; deinde ad cenas lautitia transfertur et illic com­ mendano ex novitate et soliti ordinis commutatione captatur, ut ea quae includere solent cenam prima ponantur, ut quae 10 advenientibus dabantur exeuntibus dentur. Cum adsuevit animus fastidire quae ex more sunt et illi prò sordidis solita sunt, etiam in oratione quod novum est quaerit et modo antiqua verba atque exoleta revocat ac proferì, modo fingit te t ignota act deflectit, modo, id quod nuper increbruit, prò 11 cultu habetur audax translatio ac frequens. Sunt qui sensus praecidant et hoc gratiam sperent, si sententia pependerit et audienti suspicionem sui fecerit; sunt qui illos detineant et porrigant; sunt qui non usque ad vitium accedant (necesse est enim hoc facere aliquid grande temptanti) sed qui ipsum vitium ament. Itaque ubicumque videris orationem corruptam piacere, ibi mores quoque a recto descivisse non erit dubium. Quomodo conviviorum luxuria, quomodo vestium aegrae civitatis indicia sunt, sic orationis licentia, si modo frequens est, ostendit animos quoque a quibus verba exeunt procidisse. 12 Mirari quidem non debes corrupta excipi non tantum a corona sordidiore sed ab hac quoque turba cultiore; togis enim inter se isti, non iudicis distant. Hoc magis mirari potes, quod non tantum vitiosa sed vitia laudentur. Nam illud semper factum est : nullum sine venia placuit ingenium. Da

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ovunque abitudini licenziose, si comincia col dedicare maggiori cure alla persona; poi ci si affanna per i mobili, poi ogni preoccupazione è rivolta alla casa: si desidera che essa si estenda alle dimensioni di una campagna, che le pareti risplendano di marmi importati d’oltremare, che i soffitti siano intarsiati d’oro, che ad essi corrispon­ dano nitidi pavimenti. Poi il lusso si estende alle mense; si cerca di renderle più attraenti servendo le vivande più strane, mutando l’ordine abituale, così che si presentano per primi i piatti con cui ordinariamente si chiude il banchetto e quelli che si offrivano agli invitati all’entrata si offrono alla partenza. Quando l’anima comincia a provare nausea per le abitudini tradizionali e a disprez­ zarle come se fossero meschinità, essa cerca, anche nel linguaggio, ogni forma di stranezza. Ora fa rivivere e rimettere in onore termini antiquati e caduti in disuso; ora crea... e modifica; ora - moda diffusasi da poco considera come un’eleganza l’uso frequente di ardite metafore. Ci sono di quelli che troncano le frasi e sperano di conquistare l’uditorio lasciando che esso intravveda appena il senso del loro pensiero rimasto in sospeso. Altri, al contrario, estendono e sviluppano eccessivamente la frase. Altri ancora non giungono fino a questi vizi di stile - inevitabili in chi ha grandi ambizioni letterarie - , ma tendono anch’essi al cattivo gusto. E così, dovunque vedrai che piace un linguaggio cor­ rotto, non avrai dubbio che ivi c’è anche una deviazione dei costumi. Come la sontuosità dei banchetti e delle vesti è l’indice di una società malata, così la licenza del linguaggio, quando è generale, attesta che nelle anime, da cui escono le parole, s’è prodotta un’analoga corruzio­ ne. Non devi meravigliarti che la corruzione del linguag­ gio sia ben accolta non solo da un uditorio ignorante, ma anche dalla classe colta; poiché tutti costoro si diffe­ renziano solo per la qualità degli abiti, non per i gusti. Meravigliati piuttosto che si facciano le lodi non solo di qualche concessione di cattivo gusto, ma dello stesso cattivo gusto. E sempre avvenuto: non c’è stato uomo d’ingegno che per piacere alla moltitudine non abbia avuto bisogno d’indulgenza. Citami qualunque autore 963

mihi quemcumque vis magni nominis viruin r dicam quid illi aetas sua ignoverit, quid in ilio sciens dissimulaverit. Multos tibi dabo quibus vitia non nocuerint, quosdam quibus profuerint. Dabo, inquam, maximae fama e et inter admiranda propositos, quos si quis corrigit, delet ; sic enim vitia virtutibus inmixta sunt ut àlias secum tractura sint. 13 Adice nunc quod oratio certam regulam non habet : consuetudò illam civitatis, quae numquam in eodem diu stetit, versat. M ulti ex alieno saeculo petunt verba, duodecim tabulas loquuntur; Gracchus illis et Crassus et Curio nimis culti et recentes sunt, ad Appium usque et Coruncanium redeunt. Quidam contra, dum nihil nisi tritum et usitatum 14 volunt, in sordes incidunt. Utrumque diverso genere corruptum est, tam mehercules quam nolle nisi splendidis uti ac sonantibus et poeticis, necessaria atque in usu posita vitare. Tam hunc dicam peccare quam illum: alter se plus iusto colit, alter plus iusto neglegit ; ille et crura, hic ne alas quidem vellit. 15 Ad compositionem transeamus. Quot genera tibi in hac dabo quibus peccetur? Quidam praefractam et asperam probant; disturbant de industria si quid placidius effluxit; nolunt sine salebra esse iuncturam ; virilem putant et fortem quae aurem inaequalitate percutiat. Quorundam non est compositio, modulatio est; adeo blanditur et molliter labitur. 16 Quid de illa loquar in qua verba differuntur et diu expectata vix ad clausulas redeunt? Quid illa in exitu lenta, qualis Ciceronis est, devexa et molliter detinens nec aliter quam solet ad morem suum pedemque respondens ? Non tantum * * * in genere sententiarum vitium est, si aut pusillae sunt et pueriles aut inprobae et plus ausae quam pu­ dore salvo licei, si floridae sunt et nimis dulces, si in vanum

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famoso: ti dirò quello che la sua generazione gli ha perdonato, e quello che essa, scientemente, ha finto di non vedere in lui. Te ne citerò molti a cui i loro difetti non hanno nociuto, e alcuni a cui hanno giovato. Ti citerò scrittori di grande rinomanza, proposti come mo­ delli ammirevoli, che tu distruggeresti se ti mettessi a correggerli: i difetti vi sono mescolati così intimamente con le qualità che, se fossero tratti via, porterebbero con sé anche le qualità. Aggiungi che non esistono rigide leggi stilistiche: esse seguono la moda che cambia continuamente. Molti cer­ cano in prestito i vocaboli a un’altra epoca; parlano la lingua delle Dodici Tavole. Per essi Gracco, Crasso e Curione sono scrittori troppo colti e moderni; tornano indietro fino ad Appio e a Coruncanio. Altri, al contra­ rio, non volendo che parole di uso comune, cadono nella trivialità. Sono aspetti diversi del cattivo gusto; come pure la mania di non usare che termini splendidi, riso­ nanti e poetici, evitando le parole indispensabili, stabilite dall’uso. Dirò che si è in errore da entrambe le parti: qui troppa ricercatezza; là troppa negligenza; gli uni si depilano anche le gambe, gli altri non si depilano neppu­ re le ascelle. Passiamo alla composizione della frase. Quante te ne posso mostrare in vario modo difettose! Talora si vuole la frase spezzata e dura; di proposito la si storpia, se scorre placidamente; non vogliono collegamenti senza intoppi: giudicano questi virili e forti perché colpiscono l’orecchio con le loro dissonanze. Talora non è più una frase; è un canto, tanta è la dolcezza e la fluidità con cui scorre. Che dire di quella frase in cui le parole sono distanziate e si fanno attendere e possiamo recuperarle solo alla fine del periodo? E che dire di quell’altra che si svolge lenta come quella di Cicerone, tenendo mollemente sospeso chi ascolta e riproducendo sempre il suo ritmo abituale? Non soltanto... il vizio sta nei pensieri meschini e puerili, oppure sconvenienti e di una oltraggiosa spudo­ ratezza; ma anche in quelli troppo fioriti e dolciastri, 965

exeunt et sine effectu nihil amplius quarti sonant. Haec vitia unus aliquis inducit, sub quo tunc eloquentia est, ceteri imitantur et alter alteri tradunt. Sic Sallustio vigente anputatae sententiae et verba ante expectatum cadentia et obscura brevitas fuere prò cultu. L. Arrurttius, vir rarae frugalitatis, qui historias belli Punici scripsit, fuit Sallustianus et in illud genus nitens. Est apud Sallustium ‘exercitum argento fecit’, id est, pecunia paravit. Hoc Arruntius amare coepit; posuit illud omnibus paginis. D icit quodam loco ‘fugam nostris fecere’, alio loco ‘Hiero rex Syracusanorum bellum fecit’, et alio loco ‘quae audita Pan­ ie hormitanos dedere Romanis fecere’. Gustum tibi dare volui: totus his contexitur liber. Quae apud Sallustium rara fuerunt apud hunc crebra sunt et paene continua, nec sine causa ; ille enim in haec incidebat, at hic illa quaerebat. Vides autem 19 quid sequatur ubi alicui vitium prò exemplo est. D ixit Sallustius ‘aquis hiemantibus’. Arruntius in primo libro belli Punici ait ‘repente hiemavit tempestas’, et alio loco cum dicere vellet frigidum annum fuisse ait ‘totus hiemavit annus’, et alio loco ‘inde sexaginta onerarias leves praeter militem et necessarios nautarum hiemante aquilone misit’. Non desinit omnibus locis hoc verbum infulcire. Quodam loco dicit Sallustius ‘dum inter arma civilia aequi bonique famas petit’. Arruntius non temperavit quominus primo 20 statim libro poneret ingentes esse ‘famas’ de Regulo. Haec ergo et eiusmodi vitia, quae alicui inpressit imitatio, non sunt indicia luxuriae nec animi corrupti; propria enim esse debent et ex ipso nata ex quibus tu aestimes alicuius adfectus : iracundi hominis iracunda oratio est, commoti nimis incitata, 17

quando sono vuoti e restano senza alcun effetto apprez­ zabile, oltre a quello della loro sonorità. Basta una persona autorevole nel campo dell’eloquen­ za per introdurre questi difetti: gli altri autori se li trasmettono l’un l’altro per imitazione. Così, quand’era di moda Sallustio, erano considerati eleganti i pensieri tronchi, le parole abbreviate, l’oscura concisione del linguaggio. Arrunzio, uomo di rara austerità, che scrisse una storia della guerra punica, fu seguace di Sallustio e si distinse neH’imitarne lo stile. C’è in Sallustio: «Col denaro fece l’esercito»; cioè finanziò le spese militari. Arrunzio fu colpito da questa locuzione e la ripetè in ogni pagina. Egli dice in un passo: «Fecero la fuga ai nostri»1; in un altro: «Gerone, re di Siracusa, fece sorge­ re guerra»; in un altro ancora: «Queste notizie fecero arrendere gli abitanti di Palermo ai Romani». Te n’ho voluto dare un saggio: tutta l’opera è intessuta di questi modi di dire. In Sallustio sono rari, mentre in Arrunzio sono frequenti e quasi continui. E ciò si spiega: Sallustio si imbatte occasionalmente in tali espressioni, Arrunzio le va a cercare. Vedi cosa capita quando un difetto si prende per modello. Sallustio parla di «acque invernali». Arrunzio, nel primo libro della guerra punica, dice: «Improvvisamente il tempo fu invernale». Altrove, vo­ lendo dire che l’annata era stata fredda, si esprime così: «Tutto l’anno fu invernale». E più oltre: «Di lì fece salpare sessanta navi leggere col carico, oltre le truppe e l’equipaggio indispensabile, sotto un aquilone inverna­ le». Vuol ficcare dappertutto la parola «invernale». Sal­ lustio dice in un passo: «Nelle guerre civili mirò alla reputazione di uomo giusto e onesto». Arrunzio non potè astenersi dal mettere subito, nel primo libro: «Grande era la reputazione di Regolo». Ordunque, que­ sti vizi stilistici ed altri simili, che taluni ripetono per imitazione, non sono per sé sintomo di animo molle e corrotto: occorre che siano personali, nati dalla medesi­ ma persona, perché tu possa da essi conoscere le passioni di uno. Il modo di esprimersi dell’uomo violento è violento; un uomo molto emotivo parla concitatamente; 1 Ossia «misero in fuga».

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21 delicati tenera et fluxa. Quod vides istos sequi qui aut vellunt barbarci aut intervellunt, qui labra pressius tondent et adradunt servata et summissa cetera parte, qui lacernas coloris inprobi sumunt, qui perlucentem togam, qui nolunt facere quicquam quod hominum oculis transire liceat: inritant illos et in se avertunt, volunt vel reprehendi dum conspici. Talis est oratio Màecenatis omniumque aliorum 22 qui non casu errant sed scientes volentesque. Hoc a magno animi malo oritur : quomodo in vino non ante lingua titubai quam mens cessit oneri et inclinata vel prodita est, ita ista orationis quid aliud quam ebrietas nulli molesta est nisi animus labat. Ideo ille curetur: ab ilio sensus, ab ilio verba exeunt, ab ilio nobis est habitus, vultus, incessus. Ilio sano ac valente oratio quoque robusta, fortis, virilis est: si ille procubuit, et cetera ruinam sequuntur. 23

Rege incolumi mens omnibus una est : amisso rupere fidem.

Rex noster est animus; hoc incolumi cetera manent in officio, parent, obtemperant: cum ille paulum vacillavit, simul dubitant. Cum vero cessit voluptati, artes quoque eius actusque marcent et omnis ex languido fluidoque conatus est. 24 Quoniam hac similitudine usus sum, perseverabo. Animus noster modo rex est, modo tyrannus : rex cum honesta intuetur, salutem commissi sibi corporis curai et illi nihil imperai turpe, nihil sordidum; ubi vero inpotens, cupidus, delicatus est, transit in nomen detestabile ac dirum et fit tyrannus. Tunc illum excipiunt adfectus inpotentes et instant; qui initio quidem gaudet, ut solet populus largitione nocitura 25 frustra plenus et quae non potest haurire contrectans; cum

il linguaggio di un effeminato sarà tenero e senza nerbo. Seguono questa tendenza - puoi constatarlo - coloro a cui piace essere in tutto o in parte sbarbati, che si radono con cura o si accorciano i baffi, mentre conservano e fanno crescere i peli negli altri punti; che indossano mantelli di colori eccentrici, o toghe trasparenti; che si preoccupano di far sempre qualcosa che permetta loro di farsi notare dagli altri; essi cercano sempre di richiamare l’attenzione su di sé, e purché li si guardi, accettano anche di essere biasimati. Tale è lo stile di Mecenate e di tutti quelli che cadono in vizi stilistici non per caso, con piena consapevolezza. Un tale atteggiamento deriva da una profonda decadenza morale. Nell’ubriachezza la lingua non balbetta finché la ragione non vacilla e non si smarrisce sotto l’effetto del vino. Così questa, che potremo chiamare ubriacatura del linguaggio, non è molesta, se l’anima non è già vacillante. Perciò si abbia cura dell’anima: da essa vengono fuori i pensieri e le parole; da essa ci vengono le abitudini, l’aspetto, il portamento. Se essa è sana e valida, anche il linguaggo è robusto, forte e virile; se essa cade, trascina tutto nella sua rovina. «Finché il re rimane incolume, tutti hanno la stessa volontà. Caduto il re, ogni patto è infranto2.» Il nostro re è l’anima: finché essa è sana, ogni cosa sta al suo posto, obbediente e sottomessa. Se essa vacilla appena, tutto diventa incerto. Se essa ha ceduto al piacere, anche le sue doti e le sue azioni si paralizzano e ogni sforzo è languido e fiacco. Poiché ho introdotto questo paragone, lo continuerò: la nostra anima ora regna, ora tiranneggia: regna quando tende al bene, ha cura della salute del corpo affidatole e non gli comanda niente che sia turpe e volgare. Ma se ella è violenta, cupida, sensuale, acquista un nome abominevole e crudele: si fa tiranna. Allora cade in balìa delle passioni sfrenate che, in principio, gioiscono, come suole fare il volgo che, al tempo della elargizione, si rimpinza dannosamente, cercando di mettere le mani su tutto quello che non può ingoiare. Poi, quando il male 2 Virgilio, Georgiche, IV, 212-13.

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vero magis ac magis vires morbus exedit et in meduUas nervosque descendere deliciae, conspectu eorum quibus se nimia aviditate inutilem reddidit laetus, prò suis voluptatibus habet alienarum spectaculum, sumministrator libidinum testisque, quarum usum sibi ingerendo abstulit. Nec illi tana gratum est abundare iucundis quam acerbum quod non omnem illum apparatum per gulam ventremque transmittit, quod non cum omni exoletorum feminarumque turba convolutatur, maeretque quod magna pars suae felicitatis exclusa 26 corporis angustile cessat. Numquid enim, mi Lucili, (non) in hoc furor est, quod nemo nostrum mortalem se cogitai, quod nemo inbecillum ? immo quod nemo nostrum unum esse se cogitati Aspice culinas nostras et concursantis inter tot ignes cocos : unum videri putas ventrem cui tanto tumultu comparatur cibus? Aspice veterana nostra et piena multorum saeculorum vindemiis horrea: unum putas videri ven­ trem cui tot consulum regionumque vina cluduntur ? Aspice quot locis terra vertatur, quot millia colonorum arent, fodiant: unum videri putas ventrem cui et in Sicilia et in Africa seritur ? 27 Sani erimus et modica concupiscemus si unusquisque se numeret, metiatur simul corpus, sciat quam nec multum capere nec diu possit. Nihil tamen aeque tibi profuerit ad temperantiam omnium rerum quam frequens cogitatio brevis aevi et huius incerti : quidquid facies, respice ad mortem. Vale.

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SENECA L V CI LI O SVO SALVTEM

Nimis anxium esse te circa verba et compositionem, mi Lucili, nolo: habeo maiora quae cures. Quaere quid scribas,

ha sempre più corroso le forze e la sensualità è penetrata nelle midolla e nei nervi, l’anima, compiacendosi alla vista di tutto ciò a cui l’intemperanza dei suoi appetiti l’ha resa inabile, ha per suo godimento lo spettacolo dell’altrui godimento, somministratrice e testimone di quelle libidini di cui non può più godere per averne abusato. E il piacere che prova alla vista di tante delizie non compensa l’insoddisfazione per non poter far passa­ re per il palato e per il ventre tutto quello che è stato imbandito; per non poter voltolarsi con tutta quella turba di amasii e di femmine, e si affligge perché gran parte della felicità è resa nulla dall’esaurirsi delle sue facoltà fisiche. In verità, mio caro Lucilio, quest’aberra­ zione deriva dal fatto che nessuno di noi pensa di essere debole e mortale; nessuno di noi pensa che non è che uno. Guarda le nostre cucine, i nostri cuochi che corrono qua e là fra tanti fornelli. Si dirà, a tuo avviso, che è per un sol ventre che si apprestano i cibi in tutto quel trambusto? Guarda le provviste di vino vecchio e le cantine piene delle vendemmie di molte generazioni: si dirà che è per un solo ventre che si tengono chiusi vini di tanti anni e di tanti paesi? Guarda in quanti luoghi si lavora la terra, quante migliaia di contadini la arano e la zappano; pensi che sia per un solo ventre che si semina in Sicilia e in Africa? Saremo uomini spiritualmente sani e avremo desideri moderati se ciascuno si renderà conto di avere un solo corpo, e per di più con capacità limitate, che può contenere poco e transitoriamente. Niente ti aiuterà tanto ad essere temperante in tutto, quanto il pensare spesso che la vita ti riserva pochi giorni, e neppure sicuri. Qualunque sia la cosa che fai, volgi il pensiero alla morte. Addio. lettera

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Lo spettacolo della virtù è il più bello che si possa immaginare Non ti angosciare troppo, caro Lucilio, delle parole e delle frasi: ho argomenti più importanti di cui tu possa 971

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14.

Lettere a Lucilio

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Voi. Il

non quemadmodum ; et hoc ipsum non ut scribas sed ut sentias, ut illa quae senserie magis adplices tibi et velut 2 signes. Cuiuscumque orationem videris sollicitam et politam, scito animum quoque non minus esse pusillìs occupatum. Magnus ille remissius loquitur et securius; quaecumque dicit plus habent fiduciae quam curae. Nosti comptulos iuvenes, barba et coma nitidos, de capsula totos : nihil ab illis speraveris forte, nihil solidum. Oratio cultus animi est : si circumtonsa est et fucata et manu facta, ostendit illum quoque non esse sincerum et habere aliquid fracti. Non est ornamentum 3 virile concinnitas. Si nobis animum boni viri liceret inspicere, o quam pulchram faciem, quam sanctam, quam ex magnifico placidoque fulgentem videremus, hinc iustitia, filine fortitu­ dine, hinc temperantia prudentiaque lucentibus! Praeter has frugalitas et continentia et tolerantia et liberalitas comitasque et (quis credat ?) in homine rarum humanitas bonum splendorem illi suum adfunderent: Tunc providentia cum elegantia et ex istis magnanimitas eminentissima quantum, di boni, decoris fili, quantum ponderis gravitatisque adderent! quanta esset cum grada auctoritas! Nemo 4 illam amabilem qui non simul venerabilem diceret. Si quis viderit hanc faciem altiorem fulgentioremque quam cerni inter humana consuevit, nonne velut numinis occursu obstupefactus resistat et ut fas sit vidisse tacitus precetur, tum evocante ipsa vultus benignitate productus adoret ac supplicet, et diu contemplatus multum extantem superque mensuram solitorum inter nos aspici elatam, oculis mite quiddam sed nihilominus vivido igne flagrantibus, tunc deinde illam Vergili nostri vocem verens atque attonitus emittat ?

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occuparti. Volgi la tua attenzione alla sostanza del tuo pensiero, non alla forma; questi pensieri cerca di sentirli intimamente - e non preoccuparti di come devi espri­ merli - , in modo da applicarli e quasi lasciarne il segno in te stesso. Ogni volta che vedi uno stile laboriosamente raffinato, sappi che l’anima dell’autore è anch’essa tutta occupata in queste meschinerie. Il linguaggio di chi è veramente grande è più pacato e sereno: quello che egli dice esprime un senso di sicurezza, senza preoccuparsi della forma. Tu conosci certi giovincelli con la barba e i capelli lucenti, tutti attillati. Non sperare da essi niente di forte, niente di solido. Lo stile è espressione dell’ani­ ma: se ben acconciato, imbellettato, artificiosamente curato, rivela che anche nell’anima c’è qualcosa di malsa­ no e di corrotto. L’eleganza esteriore non si addice alla veste di un uomo. Se ci fosse possibile penetrare con lo sguardo nell’anima di un uomo virtuoso, che aspetto di bellezza e di santità, che splendore di serena maestà ci si presenterebbe! Vedremmo la giustizia, il coraggio, la temperanza, la prudenza illuminare l’anima da tutti i lati. E, oltre a queste virtù, diffonderebbero su di lei il loro splendore la frugalità, il dominio di sé, la pazienza, la generosità, la cortesia e l’umanità; dote, quest’ultimalo si crederebbe? - , rara negli uomini. Poi, quanto decoro, santi numi! e quanta austera dignità le aggiunge­ rebbero la previdenza unita alla discrezione, e la magna­ nimità, la sovrana fra le virtù! Quanta autorità e insieme quanta grazia! Ognuno giudicherebbe una tal donna degna non solo di amore, anche di venerazione. Se uno ne vedesse l’aspetto, che è più nobile e splendente di quanto è consentito vedere tra le cose umane, non si arresterebbe estasiato, come all’apparizione di una divinità? Non la supplicherebbe in cuor suo di «lasciarsi vedere impunemente?» Poi, reso ardito dall’espressione di benignità del suo volto, non si metterebbe forse ad adorarla e a pregarla? E, dopo aver contemplato la sua statura, che supera di molto tutto quanto siamo soliti vedere, il suo sguardo di una singolare dolcezza, che brilla tuttavia di una fiamma vivissima, preso da religioso entusiasmo, non esclamerebbe, alla fine, col nostro Vir973

O quam te memorem, virgo ? namque haut tibi vultus mortalis nec vox hominem sonat. . sis felix nostrumque leves quaecumque laborem.

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Aderit levabitque, si colere eam voluerimus. Colitur autem non taurorum opimis corporibus contrucidatis nec auro argentoque suspenso nec in thensauros stipe infusa, sed pia et recta voluntate. Nemo, inquam, non amore eius arderei si nobis illam videre contingeret ; nunc enim multa obstrigillant et aciem nostram aut splendore nimio repercutiunt aut obscuritate retinent. Sed si, quemadmodum visus oculorum quibusdam medicamentis acuì solet et repurgari, sic nos aciem animi liberare inpedimentis voluerimus, poterimus perspicere virtutem etiam obrutam corpore, etiam paupertate opposita, etiam humilitate et infamia obiacentibus ; cernemus, inquam, pulchritudinem illam quamvis sordido obtectam. Rursus aeque malitiam et aerumnosi animi veternum perspiciemus, quamvis multus circa divitiarum radiantium splendor inpediat et intuentem hinc honorum, illinc magnarum potestatium falsa lux verberet. Tunc intellegere nobis licebit quam contemnenda miremur, simillimi pueris, quibus omne ludicrum in pretio est; parentibus quippe nec minus fratribus praeferunt parvo aere empta monilia. Quid ergo inter nos et illos interest, ut Ariston ait, nisi quod nos circa tabulas et statuas insanimus, carius inepti ? Illos reperti in litore calculi leves et aliquid habentes varietatis delectant, nos ingentium maculae columnarum, sive ex Aegyptiis harenis sive ex Africae solitudinibus advectae porticum aliquam vel capacem populi cenationem ferunt. Miramur parietes tenui marmore inductos, curii sciamus quale sit quod

gilio: «Come posso io chiamarti, o vergine? Il tuo volto non è quello di una mortale e non suona umana la tua voce. Mostrati propizia e, chiunque tu sia, porgi sollievo ai nostri travagli?»1. Ella ci darà aiuto e sollievo, se noi siamo risoluti ad onorarla. Ella non vuole essere onorata con sacrifici di grassi giovenchi, né con ex-voto d’oro o d’argento, né con tributi versati al tesoro del santuario, ma con una più intima religiosità e con la rettitudine delle intenzioni. Non c’è nessuno che non si infiammerebbe d’amore per lei, se avesse la fortuna di vederla. Ora molte cose ce lo impediscono, abbagliandoci la vista col soverchio splendore o paralizzandola con l’oscurità. Ma, come le facoltà visive ritrovano la loro acutezza e la loro chiarezza per mezzo di certe cure, così, se abbiamo il fermo proposito di liberare lo sguardo della nostra anima da ogni ostacolo, potremo vedere distintamente la virtù, anche nascosta in un corpo deforme, anche sotto il manto della povertà, anche attraverso l’abiezione e l’in­ famia. Sì, vedremo la sua bellezza, anche se fosse coperta di cenci. Al contrario, con la stessa chiarezza vedremo il male e i languori di un’anima tormentata, per quanto la ricchezza possa fuorviarci con la sua intensa luminosi­ tà, o lo spettacolo degli onori e della potenza proietti su di noi i suoi falsi splendori. Allora potremo comprendere com’è spregevole tutto quello che ammiriamo, simili a fanciulli per i quali ogni giocattolo è un tesoro, e un gingillo di nessun valore lo preferiscono ai genitori e ai fratelli. La sola differenza fra loro e noi è, come dice Aristone, che noi siamo stolti a più caro prezzo, perché rivolgiamo la nostra follia verso quadri e statue. Quelli si divertono se trovano sulla spiaggia sassolini lisci di vario colore; il nostro diletto è costituito da grandi colonne variegate, importate dalle sabbie dell’Egitto e dai deserti africani, per sostenere sia un portico, sia il soffitto di una sala da pranzo che possa contenere nella sua ampiezza una folla di convitati. Noi ammiriamo muri ricoperti da sottili lastre di marmo, pur sapendo qual vile materiale esse nascondano. Vogliamo ingannare i 1 Virgilio, Eneide, I, 327 segg.

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absconditur. Oculis nostris inponimus, et cum auro tecta perfudimus, quid aliud quam mendacio gaudemus ? Scimus enim sub ilio auro foeda ligna latitare. Nec tantum parietibus aut lacunaribus ornamentum tenue praetenditur : omnium istorum quos incedere altos vides bratteata felicitas est. Inspice, et scies sub ista tenui membrana dignitatis quantum 10 mali iaceat. Haec ipsa res quae tot magistratus, tot iudices detinet, quae et magistratus et iudices facit, pecunia, ex quo in honore esse coepit, verus rerum honor cecidit, mercatoresque et venales in vicem facti quaerimus non quale sit quidque sed quanti; ad mercedem pii sumus, ad mercedem impii, et honesta quamdiu aliqua illis spes inest sequimur, in con11 trarium transituri si .plus sedera promittent. Admirationem nobis parentes auri argentique fecerunt, et teneris infusa cupiditas altius sedit crevitque. nobiscum. Deinde totus populus in alia discors in hoc convenit: hoc suspiciunt, hoc suis optant, hoc dis velut rerum humanarum maximum, cum grati videri volunt, consecrant. Denique eo mores redacti sunt ut paupertas maledicto probroque sit, contempta diviti12 bus, invisa pauperibus. Accedunt deinde carmina poetarum, quae adfectibus nostris facem subdant, quibus divitiae velut unicum vitae decus ornamentumque laudantur. Nihil illis melius nec dare videntur di inmortales posse nec habere. 13

Regia Solis erat sublimibus alta columnis, clara micante auro. Eiusdem currum aspice : Aureus axis erat, temo aureus, aurea summae curvatura rotae, radiorum argenteus ordo.

Denique quod optimum videri volunt saeculum aureum 14 appellant. Nec apud Graecos tragicos desunt qui lucro

nostri occhi e, quando abbiamo indorato i soffitti, non facciamo altro che compiacerci di una menzogna, poiché sappiamo che, sotto quell’oro, si nascondono brutte travi. D’altra parte, non solo i nostri muri e i nostri soffitti mostrano un ornamento tutto esteriore: anche la felicità di tutti costoro, che vedi avanzare a testa alta, è solamente alla superficie. Guardali meglio e ti accorgerai quante miserie si accumulano sotto quel tenue velo di dignità. Da quando è venuto in onore il denaro, che forma l’occupazione di tanti magistrati, quel denaro con cui si ottengono tutte quante le magistrature, sono cadute in discredito le cose veramente degne di onore, e noi, divenuti di volta in volta mercanti e merci, cerchia­ mo nelle cose non la qualità, ma il prezzo. Siamo buoni 0 cattivi secondo il prezzo; seguiamo l’onestà finché ci fa sperare qualche cosa, pronti a passare dall’altra parte se ci ripromettiamo maggiore vantaggio dal delitto. Sono 1nostri genitori i colpevoli, se noi apprezziamo smodera­ tamente l’oro e l’argento; e quest’avidità di denaro, infusaci fin dalla tenera età, si è ben radicata in noi ed è cresciuta con noi. Così tutto il popolo, discorde in tutto il resto, è unanime in questo: tutti tengono in gran pregio l’oro, lo desiderano per i loro figli, lo offrono, come la più grande delle cose umane, agli dèi, quando vogliono mostrare ad essi la loro gratitudine. Insomma, il malcostume è giunto a tal punto che la povertà è condannata come disonorevole; oggetto di disprezzo per i ricchi e di odio per i poveri. Aggiungi le opere poetiche che attizzano il fuoco delle nostre passioni e lodano le ricchezze come unico ornamento che renda bella la vita. Secondo questi poeti, niente di meglio gli dèi immortali possono concedere agli uomini, o possedere essi stessi. «Su eccelse colonne si ergeva la reggia del sole, splenden­ te d’oro.» Ecco la descrizione del suo carro: «L’asse era d’oro, il timone d’oro; d’oro il cerchio delle ruote e d’argento l’ordine dei raggi»2. E, infine, chiamano età dell’oro quella che considerano la migliore. Anche pres­ so i tragici greci ci sono personaggi che, per denaro, 2 Ovidio, Metamorfosi, II, 1-2; 107-8.

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innocentiam, salutem, opinionem bonam mutent. Sine me vocari pessimum, [simul] ut dives vocer. An dives omnes quaerimus, nemo an bonus. Non quare et unde, quid habeas tantum rogant. Ubique tanti quisque, quantum habuit, fuit. Quid habere nobis turpe sit quaeris ? nihil. Aut dives opto vivere aut pauper mori. Bene moritur quisquis moritur dum lucrum facit. Pecunia, ingens generis humani bonum, cui non voluptas matris aut blandae potest par esse prolis, non sacer meritis parens; tam dulce si quid Veneris in vultu micat, merito illa amores caelitum atque hominum movet. 15 Cum hi novissimi versus in tragoedia Euripidis pronuntiati essent, totus populus ad eiciendum et actorem et carmen consurrexit uno impetu, donec Euripides in medium ipse prosilivit petens ut expectarent viderentque quem admirator auri exitum faceret. Dabat in illa fabula poenas Bellero16 phontes quas in sua quisque dat. Nulla enim avaritia sine poena est, quamvis satis sit ipsa poenarum. O quantum lacrimarum, quantum laborum exigit ! quam misera desidera­ to, quam misera parto est! Adice cotidianas sollicitudines quae prò modo habendi quemque discruciant. Maiore tor­ mento pecunia possidetur quam quaeritur. Quantum damnis ingemescunt, quae et magna incidunt et videntur maiora. Denique ut illis fortuna nihil detrahat, quidquid non 17 adquiritur damnum est. ‘At felicem illum homines et divitem vocant et consequi optant quantum ille possidet.’ Fateor. Quid ergo ? tu ullos esse condicionis peioris existimas quam qui habent et miseriam et invidiam ? Utinam qui divitias optaturi essent cum divitibus deliberarent ; utinam honores petituri cum ambitiosis et summum adeptis dignitatis

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barattano l’innocenza, la vita, il buon nome. «Mi giudi­ chino pure il peggiore degli uomini, purché mi giudichino ricco.» «Tutti vogliamo sapere se uno è ricco, nessuno se è onesto. Si chiede solo quali siano i tuoi possessi, e non già perché e come li hai ottenuti. Da per tutto l’uomo vale quanto possiede. Vuoi sapere quale possesso per noi è vergognoso? Non averne nessuno. Se ricco, desidero vivere; se povero morire. Muore bene chi muore guadagnando.» «Il denaro è il più gran bene dell’umanità, e non può uguagliarlo l’amore della madre, né della cara prole, né del padre, per quanto venerato per le sue virtù; se lo splendore del volto di Venere ha lo stesso incanto, ben a ragione ella desta l’amore degli dèi e degli uomini.» Quando furono recitati questi ultimi versi nella tragedia di Euripide, tutti gli spettatori insor­ sero come un sol uomo per cacciare via l’attore e porre fine alla rappresentazione, finché Euripide, salito sulla scena, chiese che aspettassero come sarebbe andato a finire quell’ammiratore dell’oro. In quella tragedia Bellerofonte sconta il fio che ciascuno sconta nella pro­ pria vita, poiché l’avidità di danaro non è mai senza pena, per quanto quest’avidità sia in se stessa una pena sufficiente. Quante lacrime e quante fatiche richiede! Com’è misera per quello che non ha, e come è misera per ciò che si è procurata! Aggiungi le preoccupazioni di ogni giorno, da cui ognuno è crucciato in proporzione alle proprie ricchezze. C’è maggior tormento nel posses­ so delle ricchezze che nella fatica di procurarsele. Quanti lamenti ci procurano le perdite, che, per quanto grandi, ci appaiono sempre maggiori della realtà! Infine, anche se la fortuna non ci toglie nulla, si giudica perdita tutto quello che non si può guadagnare. «Ma gli uomini chiamano felice chi è ricco, e vorrebbero ottenere quanto egli possiede.» Lo ammetto. E che perciò? Pensi tu che ci sia una condizione peggiore di quella di un uomo che soffre ad un tempo la miseria e l’invidia? Oh, se chi rivolge le sue brame alle ricchezze prendesse consiglio dai ricchi! Oh, se chi aspira alla carriera politica si consultasse con gli ambiziosi che hanno raggiunto i più alti gradi del potere! Senza dubbio i suoi desideri 979

statum! Profecto vota mutassent, cum interim illi nova suscipiunt cum priora damnaverint. Nemo enim est cui felicitas sua, edam si cursu venit, satis faciat ; queruntur et de consiliis et de processibus suis maluntque semper quae 18 reliquerunt. Itaque hoc tibi philosophia praestabit, quo equidem nihil maius existimo: numquam te paenitebit tui. Ad hanc tam solidam felicitatem, quam tempestas nulla concutiat, non perducent te apte verba contexta et oratio fluens leniter: eant ut volent, dum animo compositio sua constet, dum sit magnus et opinionum securus et ob ipsa quae aliis displicent sibi placens, qui profectum suum vita aestimet et tantum scire se iudicet quantum non cupit, quantum non timet. Vale.

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Utrum satius sit modicos habere adfectus an nullos saepe quaesitum est. Nostri illos expellunt, Peripatetici temperant. Ego non video quomodo salubris esse aut utilis possit ulla mediocritas morbi. Noli timere: nihil eorum quae tibi non vis negari eripio. Facilem me indulgentemque praebebo rebus ad quas tendis et quas aut necessarias vitae aut utiles aut iucundas putas : detraham vidum. Nam cum tibi cupere interdixero, velie permittam, ut eadem illa intrepidus facias, ut certiore Consilio, ut voluptates ipsas magis sentias : quidni ad te magis perventurae sint si illis imperabis quam si servies ? 2 ‘Sed naturale est’ inquis ‘ut desiderio amici torquear: da ius lacrimis tam iuste cadentibus. Naturale est opinionibus hominum tangi et adversis contristari: quare mihi non per-

cambierebbero, perché si accorgerebbe che quelli che hanno avuto successo si rivolgono ora ad altre aspirazio­ ni, perché non c’è nessuno che sia soddisfatto della sua felicità, anche se è giunta velocemente. Ci si lamenta delle decisioni prese e dei buoni effetti ottenuti, e si preferisce sempre la situazione lasciata. Ecco dunque il vantaggio - il massimo che, secondo me, ci possa essere che ti assicura la filosofia: non sarai mai malcontento di te. A questa felicità tanto solida, che resiste ad ogni tempesta, non ti condurrà l’elegante connessione di una frase o la scorrevolezza di un’espressione. Si dia alle parole l’ordine che si vuole, purché sia l’anima ad essere ben ordinata, purché essa sia grande, indifferente ai pregiudizi, e si compiaccia giustamente di ciò che provo­ ca il biasimo altrui; poiché essa valuterà i suoi progressi dai suoi atti e si stimerà saggia solo nella misura in cui sarà libera dal desiderio e dal timore. Addio.

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Bisogna cacciar via le passioni Si è discussa spesso la questione se sia meglio avere passioni moderate o essere senza passioni: i nostri stoici le vogliono sopprimere: i peripatetici vogliono solo mo­ derarle. Per conto mio, non vedo come una malattia, per quanto attenuata, possa essere utile e salutare. Non aver paura: non ti tolgo niente di ciò che non vuoi ti sia negato. Mi mostrerò benevolo e compiacente a certe soddisfazioni a cui sei portato e che consideri o necessa­ rie alla vita, o utili, o gradite: non ti sottrarrò che il vizio. Ecco: io non ti vieterò di volere, ma di avere desideri smodati; così tu farai le stesse cose, ma senza timore e con fermo proposito; e gli stessi piaceri li gusterai meglio. Tu li sentirai certo più pienamente, se sarai il loro padrone, non il servo. «Ma» dici tu «è naturale che io mi affligga per la perdita di un amico: concedimi di versare lacrime così legittime. È naturale essere sensibile all’opinione degli uomini e rattristarsi quando essa ci è contraria. Perché non dovresti permet981

mittas hunc tam honestum malae opinionis metum ?’ Nullum est vitium sine patrocinio; nulli non initium vereciindum est et exorabile, sed ab hoc latius funditur. Non obtinebis ut 3 desinat si incipere permiseris. Inbecillus est primo omnis adfectus; deinde ipse se concitai et vires dum procedk parat: excluditur facilius quam expellitur. Quis negat omnis adfectus a quodam quasi naturali fluere principio ? Curam nobis nostri natura mandavit, sed huic ubi nimium indulsene, vitium est. Voluptatem natura necessariis rebus admiscuit, non ut illam peteremus, sed ut ea sine quibus non possumus vivere gratiora nobis illius faceret accessio : suo veniat iure, luxuria est. Ergo intrantibus resistamus, quia facilius, ut dixi, non reci4 piuntur quam exeunt. ‘Aliquatenus’ inquis ‘dolere, aliquatenus timere permitte.’ Sed illud ‘aliquatenus’ longe producitur nec ubi vis accipit finem. Sapienti non sollicite custodire se tutum est, et lacrimas suas et voluptates ubi volet sistet: nobis, quia non est regredì facile, optimum est omnino non 5 progredì. Eleganter mihi videtur Panaetius respondisse adulescentulo cuidam quaerenti an sapiens amaturus esset. ‘D e sapiente’ inquit ‘videbimus: mihi et tibi, qui adhuc a sapiente longe absumus, non est committendum ut incidamus in rem com'motam, inpotentem, alteri emancupatam, vilem sibi. Sive enim nos respicit, humanitate eius inritamur, sive contempsit, superbia accendimur. Aeque facilitas amoris quam difficultas nocet: facilitate capimur, cum difficultate certamus. Itaque conscii nobis inbecillitatis nostrae quiesca-

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termi questo onesto timore di una cattiva fama?» Non c’è vizio per il quale non si cerchi una giustificazione; non ce n’è uno che all’mizio non sia modesto ed emenda­ bile; ma poi acquista vigore ed estensione. Tu non riuscirai più a domarlo, se lo lascerai entrare in azione. Ogni passione è debole al suo nascere; poi essa, col suo progredire, acquista ardire e forza. Impedirle l’ingresso costa meno che buttarla fuori. Le passioni - è un fatto innegabile - derivano, in un certo senso, da un’origine naturale. La natura ci ha affidato la cura di noi stessi; ma se si è troppo compiacenti in questa cura, si cade nel vizio. La natura ha mescolato ai nostri bisogni il piacere, non come un fine da perseguire, ma come un’aggiunta destinata a rendere più gradite le funzioni necessarie della vita: se si ricerca il piacere come fine a se stesso, si ha la dissolutezza. Perciò resistiamo alle passioni quando vogliono entrare, perché, ripeto, si fa meno fatica ad impedirne l’ingresso che a scacciarle via. Tu mi dici: «Permetti, fino ad un certo punto, l’afflizione e il timore». Ma quel «fino a un certo punto» si estende sempre più e non accetta i limiti voluti da te. Il saggio può star sicuro senza un’affannosa sorveglianza di sé; egli, quando vorrà, è in grado di porre fine alle sue lacrime e ai suoi piaceri. Per noi, poiché non ci è facile tornare indietro, la cosa migliore è non avanzare affatto. Panezio, a mio avviso, rispose con molta finezza a quel giovinetto che gli chiedeva se il saggio poteva amare. «Parleremo un’altra volta del saggio» egli disse. «Io e tu, che siamo ben lungi dalla saggezza, dobbiamo guar­ darci dal cadere in una passione agitata e violenta che ci rende vili a noi stessi e schiavi della persona amata: se essa ricambia il nostro affetto, questa benevolenza eccita i nostri desideri: se ci disprezza, ci sdegniamo della sua alterigia. Nell’amore ci nuoce ugualmente il successo come l’insuccesso: perdiamo il controllo di noi stessi, o in balìa del successo o in conflitto con l’insuccesso. Perciò, coscienti della nostra debolezza, stiamocene quieti. Non dobbiamo abbandonare la nostra 983

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mus; nec vino infirmimi animimi committamus nec formae nec adulationi nec ullis rebus blande trahentibus.’ Quod Panaetius de amore quaerenti respondit, hoc ego de omnibus adfectibus dico : quantum possumus nos a lubrico recedamus ; in sicco quoque parum fortiter stamus. Occurres hoc loco mihi illa publica contra Stoicos voce: ‘nimis magna promittitis, nimis dura praecipitis. Nos homunciones sumus; omnia nobis-negare non possumus. Dolebimus, sed parum; concupiscemus, sed temperate; irascemur, sed placabimur.’ Scis quare non possimus ista? quia nos posse non credimus. Immo mehércules aliud est in re : vitia nostra quia amamus defendimus et malumus excusare illa quam excutere. Satis natura homini dedit roboris si ilio utamur, si vires nostras colligamus ac totas prò nobis, certe non contra nos concitemus. Nolle in causa est, non posse praetenditur. Vale.

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Multum mihi negotii concinnabis et, dum nescis, in magnam me litem ac molestiam inpinges, qui mihi tales quaestiunculas ponis, in quibus ego nec dissentire a nostris salva gratia nec consentire salva conscientia possum. Quaeris an verum sit quod Stoicis placet, sapientiam bonum esse, sapere bonum non esse. Primum exponam quid Stoicis videatur; deinde tunc dicere sententiam audebo. 2 Placet nostris quod bonum est corpus esse, quia quod bonum est facit, quidquid facit corpus est. Quod bonum est prodest ; faciat autem aliquid oportet ut prosit ; si facit, corpus

debole anima né al vino, né alla bellezza, né agli adulato-· ri, né ad alcuna altra lusinghevole attrattiva.» La risposta di Panezio a chi gli aveva posto il quesito sull’amore è per me valida riguardo a tutte le passioni: per quanto è possibile, dobbiamo ritrarci dai luoghi sdrucciolevoli; ci è già difficile restar ritti nei luoghi asciutti. A questo punto potresti rivolgermi quell’obiezione che si ripete comunemente contro gli stoici: «Troppo grandi sono le vostre promesse; troppo duri i vostri precetti; siamo poveri uomini e non possiamo negarci tutto. Avremo affilizioni e desideri, ma sapremo mode­ rarli; ci adireremo, ma cercheremo di placare le nostre ire». Sai perché non siamo capaci di fare quello che dicono gli stoici? Perché non abbiamo fiducia di esserne capaci. Anzi, la ragione vera è un’altra: noi amiamo i nostri vizi, li difendiamo e preferiamo scusarli che scacciarli. La natura ha dato all’uomo sufficiente vigore, perché egli ne faccia uso e raccolga tutte le sue forze per volgerle a sua difesa, non contro di sé. Si tratta di cattiva volontà, non di una presunta nostra impossibilità. Addio.

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Apprendiamo la virtù, anziché dilungarci in vacue questioncelle Col propormi le tue questioncelle, mi caccerai, senza volerlo, in un beH’impiccio e in una grossa e noiosa polemica: se dissento dagli stoici, ne perdo il favore; se consento con loro, tradisco la mia coscienza. Tu vuoi sapere se sia vera quest’asserzione degli stoici: la saggez­ za è un bene, Tesser saggi non è un bene. Esporrò, anzitutto, il pensiero degli stoici; poi oserò dire il mio parere. Gli stoici insegnano che quello che è bene è corpo; infatti, ciò che è bene agisce, e ogni azione è propria di un corpo. Quello che è bene giova; ma, per giovare, deve fare qualcosa, e, facendo qualcosa, è corpo. Affer985

est. Sapientiam bonum esse dicunt; sequitur ut necesse sit 3 illam corporalem quoque dicere. A t sapere non putant eiusdem condicionis esse. Incorporale est et accidens alteri, id est sapientiae; itaque nec facit quicquam nec prodest. ‘Quid ergo?’ inquit ‘non dicimus: bonum est sapere?’ Dicimus referentes ad id ex quo pendet, id est ad ipsam sapientiam. 4 Adversus hos quid ab aliis respondeatur audi, antequam ego incipio secedere et in alia parte considere. ‘Isto modo’ inquiunt ‘nec beate vivere bonum est. Velini nolint, respondendum est beatam vitam bonum esse, beate vivere bonum 5 non esse.’ Etiamnunc nostris illud quoque opponitur: ‘vultis sapere; ergo expetenda res est sapere; si expetenda res est, bona est’. Coguntur nostri verba torquere et unam syllabam expetendo interponete quam sermo noster inserì non sinit. Ego illam, si pateris, adiungam. ‘Expetendum est’ inquiunt ‘quod bonum est, expetibile quod nobis contingit cum bonum consecuti sumus. Non petitur tamquam bonum, sed petito bono accedit.’ 6 Ego non idem sentio et nostros iudico in hoc descendere quia iam primo vinculo tenentur et mutare illis formulam non licei. Multum dare solemus praesumptioni omnium hominum et apud nos veritatis argumentum est aliquid omnibus videri ; tamquam deos esse inter alia hoc colligimus, quod omnibus insita de dis opinio est nec ulla gens usquam est adeo extra leges moresque proiecta ut non àliquos deos credat. Cum de animarum aeternitate disserimus, non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos aut colentium. Utor hac publica persuasione: neminem invenies qui non putet et sapientiam bonum et sapere. 7 Non faciam quod vieti solent, ut provocem ad populum: nostris incipiamus armis confligere. Quod accidit alicui, utrum extra id cui accidit est an in eo cui accidit ? Si in eo est cui

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mano che la saggezza è un bene; ne segue necessariamen­ te che per loro è un bene corporeo. Ma, a loro avviso, è ben altro Tesser saggi: è una cosa incorporea e acciden­ tale, rispetto alla saggezza; perciò né agisce, né giova. «E che?» si domanda «non diciamo che esser saggi è un bene?» Certo, ma con quest’asserzione ci riferiamo alla saggezza, da cui dipende Tesser saggi. Sta’ ora a sentire quello che si obietta da altri, prima che io lasci questo argomento per passare ad altro. «In questo modo,» si obietta «neppure Tesser felice è un bene. Volere o no, c’è da concludere che la felicità è un bene, ma non è un bene Tessere felici.» E si fa anche quest’altra obiezione: «Voi desiderate essere saggi; dun­ que, se Tessere saggi è cosa desiderabile, è anche un bene». Gli stoici sono costretti ad alterare i termini, inserendo una sillaba nella parola expetere. Anche se la nostra lingua non lo consentirebbe, se me lo permetti, l’aggiungerò. «Expetendum è - dicono - ciò che è bene; expetibile è ciò che ci tocca quando abbiamo conseguito un bene. Non si mira ad esso come a un bene, ma si aggiunge al bene a cui si mira». Non condivido quest’opinione e penso che gli stoici giungano a tali coseguenze perché sono vincolati dalla formula iniziale, che non possono cambiare. Noi voglia­ mo tenere in gran conto le opinioni universalmente accettate; il fatto che tutti siano d’accordo su un punto è per noi argomento di verità. Così, per affermare l’esistenza degli dèi, fra gli altri motivi accettiamo anche questo: che tale fede è insita in ogni animo e non c’è popolo tanto ostile ad ogni norma civile e morale che non crede in qualche divinità. Quando parliamo dell’immortalità dell’anima, non è per noi senza importanza il comune sentimento degli uomini che temono o venerano quelli che sono sottoterra. Ora, seguendo l’opinione generale, non si troverà alcuno che non stimi un bene sia la saggezza, sia Tesser saggi. Non mi appellerò al popolo come il gladiatore caduto; comincerò a combattere con le mie armi. Quello che accade a un individuo sta fuori o dentro di colui al quale accade? Se sta dentro, è corpo, come l’individuo a cui 987

accidit, tam corpus est quarti illud cui accidit. Nihil enim accidere sine tactu potest; quod tangit corpus est: nihil accidere sine àctu potest ; quod agit corpus est. Si extra est, postea quam acciderat recessit; quod recessit motum habet; 8 quod motum habet corpus est. Speras me dicturum non esse aliud cursum, aliud currere, nec aliud calorem, aliud calere, nec aliud lucem, aliud lucere : concedo ista alia esse, sed non sortis alterius. Si valetudo indifferens est, (et) bene valere in­ differens est; si forma indifferens est, et formonsum esse.. Si iustitia bonum est, et iustum esse; si turpitudo malum est, et turpem esse malum est, tam mehercules quam si lippitudo malum est, lippire quoque malum est. Hoc ut scias, neutrum esse sine altero potest: qui sapit sapiens est; qui sapiens est sapit. Adeo non potest dubitari an quale illud sit, tale hoc sit, 9 ut quibusdam utrumque unum videatur atque idem. Sed illud libenter quaesierim, cum omnia aut mala sint aut bona aut indifferentia, sapere in quo numero sit ? Bonum negant esse; malum utique non est; sequitur ut medium sit. Id autem medium atque indifferens vocamus quod tam malo contingere quam bono possit, tamquam pecunia, forma, nobilitas. Hoc, ut sapiat, contingere nisi bono non potest; ergo indifferens non est. Atqui ne malum quidem est, quod contingere malo non potest; ergo bonum est. Quod nisi bonus non habet bonum est; sapere non nisi bonus habet; ergo 10 bonum est. ‘Accidens fest’ inquit ‘sapientiae.’ Hoc ergo quod vocas sapere, utrum facit sapientiam an patitur ? Sive facit illud sive patitur, utroque modo corpus est ; nam et quod fit et quod facit corpus est. Si corpus est, bonum est; unum enim illi deerat quominus bonum esset, quod incorporale erat. 11 Peripateticis placet nihil interesse inter sapientiam et sapere, cum in utrolibet eorum et alterum sit. Numquid pnim quemquam existimas sapere nisi qui sapientiam habet ? numquid quemquam qui sapit non putas habere sapientiam f 12 Dialectici veteres ista distinguunt; ab illis divisio usque ad Stoicos venit. Qualis sit haec dicam. Aliud est ager, aliud

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accade. Infatti, niente può accadere senza contatto, e ciò che ha contatto è corpo. Niente può accadere, senza una spinta; quello che spinge è corpo. Se è fuori, se ne è distaccato dopo che si era prodotto; ma quello che si è distaccato ha movimento, e quello che ha movimento è corpo. Tu ti aspetti che io dica che la corsa si identifica con il correre, il calore con l’essere caldo, la luce con il far luce: io ammetto che siano cose diverse, ma non di diversa natura. Se la salute è una cosa indifferente, lo è anche il goderla: se la bellezza è indifferenza, lo è anche l’essere belli. Se la giustizia è un bene, lo è anche l’essere giusti, se la bruttezza è un male, lo è anche l’essere brutti; e così pure, se è un male la cisposità, lo è anche l’essere cisposi. Beninteso, l’una cosa non può esistere senza l’altra: chi ha la saggezza è saggio; chi è saggio ha la saggezza. È così chiaro che l’una cosa è uguale all’al­ tra, che, per alcuni, le due cose si identificano. Ma io vorrei domandarmi: poiché tutte le cose sono o cattive o buone o indifferenti, in quale categoria si trova l’essere saggi? Si nega che sia un bene. Non è di certo un male. Ne segue che è una cosa di mezzo. Ma noi consideriamo una cosa di mezzo o indifferente quella che può capitare sia al malvagio sia al buono, come il denaro, la bellezza, la nobiltà. L’essere saggio non può capitare che all’uomo buono; quindi non è indifferente. Ora, non può essere neppure un male ciò che non può capitare al malvagio; dunque è un bene. Quello che non possiede che l’uomo dabbene è un bene. «E un accidente della saggezza» si soggiunge. Ebbene, questo stato che tu chiami «essere saggio», crea la saggezza o ne subisce l’azione? Sia che la crei, sia che ne riceva resistenza, è sempre un corpo, poiché ciò che agisce o che subisce l’azione è un corpo. Se esso è un corpo, è un bene, poiché non gli mancava per essere un bene che una cosa: la corporeità. I peripatetici sono del parere che fra la saggezza e l’essere saggi non ci sia nessuna differenza, dato che in ognuna delle due cose c’è anche l’altra. Credi, forse, che si possa essere saggi senza possedere la saggezza? E, viceversa, se si è saggi, si può non avere la saggezza? Gli antichi dialettici fanno una distinzione che è stata poi accettata dagli stoici. Voglio esportela. Una cosa è 989

agrum habere, quidni f cum habere agrum ad habentem, non ad agrum pertineat. Sic aliud est sapientia, aliud sapere. Puto, concedes duo esse haec, id quod habetur et eum qui habet : habetur sapientia, habet qui sapit. Sapientia est mens perfecta vel ad summum optimumque perducta; ars enim vitae est. Sapere quid est ? non possum dicere ‘mens perfecta’, sed id quod contingit perfectam mentem habenti; ita alterum est mens bona, alterum quasi habere mentem bonam. 13 ‘Sunt’ inquit ‘naturae corporum, tamquam hic homo est, hicequus; has deinde sequuntur motus animorum enuntiativi corporum. Hi habent proprium quiddam et a corporibus seductum, tamquam video Catonem ambulantem : hoc sensus ostendit, animus credidit. Corpus est quod video, cui et oculos intendi et animum. Dico deinde: Cato ambulai. Non corpus’ inquit ‘est quod nunc loquor, sed enuntiativum quiddam de corpore, quod alii effatum vocant, alii enuntiatum, alii dictum. Sic cum dicimus “sapientiam”, corporale quiddam intellegimus; cum dicimus “sapit”, de corpore loquimur. Plurimum autem interest utrum illud dicas an de ilio.’ 14 Putemus in praesentia ista duo esse (nondum enim quid mihi videatur pronuntio): quid prohibet quominus aliud quidem (sit) sed nihilominus bonum? Dicebam paulo ante aliud esse agrum, aliud habere agrum. Quidni ? in alia enim natura est qui habet, in alia quod habetur : illa terra est, hic homo est. A t in hoc de quo agitur eiusdem naturae sunt 15 utraque, et qui habet sapientiam et ipsa. Praeterea illic aliud est quod habetur, alius qui habet: hic in eodem est et quod habetur et qui habet. Ager iure possidetur, sapientia natura; ille abalienari potest et alteri tradi, haec non discedit a domino. Non est itaque quod compares inter se dissimilia.

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un campo, e un’altra è possedere un campo: e ciò è evidente, poiché possedere un campo si riferisce al possessore, non al campo. Così, una cosa è la saggezza, un’altra Tesser saggio. Ammetterai - io penso - che la cosa posseduta si distingue dal possessore. La saggezza è la coscienza perfetta arrivata al vertice di ogni virtù; è l’arte della vita. L’essere saggio che cosa è? Non posso dire «la coscienza perfetta», ma ciò che capita a chi ha la coscienza perfetta. Una cosa è la coscienza buona; un’altra è possedere la coscienza buona. «I corpi» si dice «hanno le loro nature; come, ad esempio, questo è un uomo, e questo è un cavallo. A tali nature si adeguano i moti dell’animo, che sono espressioni dei corpi e hanno qualcosa di pronto e distin­ to dai corpi. Se vedo Catone passeggiare, il senso me lo mostra e il mio pensiero lo crede. E corpo quello che vedo e a cui rivolgo gli occhi e l’attenzione. Poi dico: Catone passeggia. Non del corpo» si soggiunge «ora parlo, ma di un’espressione che dichiara uno stato del corpo, e che è chiamata da alcuni "proposizione” , da altri "enunciato” , da altri ancora "affermazione” . Così, quando diciamo saggezza, intendiamo qualcosa che si riferisce al corpo; quando diciamo ”è saggio” , parliamo di un corpo: e c’è molta differenza fra il dire esso e il parlare di ”esso” .» Supponiamo, per ora, che queste siano due cose di­ stinte - poiché non esprimo ancora la mia opinione -, e domandiamoci: che cosa impedisce che, pur essendo diverse, siano entrambe beni? Dicevo dianzi che una cosa è un campo e un’altra possedere un campo. Perché no? Infatti il possessore è di natura diversa dalla cosa posseduta: questa è terra; quello è un uomo. Ma nel nostro caso le due cose sono della stessa natura, sia chi possiede la saggezza, sia la saggezza stessa. Inoltre, nel primo caso la cosa posseduta è ben distinta dal possessore; qui, invece, si trovano insieme. Il campo è posseduto per legge, la saggezza per natura; quello può essere venduto e trasmesso ad altri; questa è inscindibile dal suo possessore. Non si possono, perciò, mettere a confronto cose fra loro differenti. 991

Coeperam dicere posse ista duo esse et tamen utraque bona esse, tamquam sapientia et sapiens duo sunt et utrumque bonum esse concedis. Quomodo nihil obstat quominus et sapientia bonum sit et habens sapientiam, sic nihil obstat quominus et sapientia bonum sit et habere sapientiam, id est 16 sapere. Ego in hoc volo sapiens esse, ut sapiam. Quid ergo? non est id bonum sine quo nec illud bonum est ? Vos certe dicitis sapientiam, si sine usu detur, accipiendam non esse. Quid est usus sapientiae? sapere: hoc est in illa pretiosissimum, quo detracto supervacua fit. Si tormenta mala sunt, torqueri malum est, adeo quidem ut illa non sint mala si quod sequitur detraxeris. Sapientia habitus perfectae mentis est, sapere usus perfectae mentis: quomodo potest usus eius 17 bonum non esse quae sine usu bonum non est ? Interrogo te an sapientia expetenda sit : fateris. Interrogo an usus sapien­ tiae expetendus sit: fateris. Negas enim te illam recepturum si uti ea prohibearis. Quod expetendum est bonum est. Sapere sapientiae usus est, quomodo eloquentiae eloqui, quomodo oculorum videre. Ergo sapere sapientiae usus est, usus autem sapientiae expetendus est; sapere ergo expeten­ dum est; si expetendum est, bonum est. 18 Olim ipse me damno qui illos imitor dum accuso et verba apertae rei inpendo. Cui enim dubium potest esse quin, si aestus malum est, et aestuare malum sit ? si algor malum est, malum sit algere? si vita bonum est, et vivere bonum sit? Omnia ista circa sapientiam, non in ipsa sunt; at nobis in 19 ipsa commorandum est. Etiam si quid evagari libet, amplos habet illa spatiososque secessus: de deorum natura quaeramus, de siderum alimento, de his ,tam variis stellarum discursibus, an ad illarum motus nostra moveantur, an corporibus omnium animisque illinc impetus veniat, an et haec

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Avevo cominciato col dire che queste possono essere due cose distinte, ma entrambe beni, come ammetterai che siano la saggezza e il saggio. Nulla impedisce che siano beni sia la saggezza sia chi la possiede; così saranno ugualmente beni tanto la saggezza quanto avere la sag­ gezza, cioè esser saggi. Io voglio la saggezza, per esser saggio. Non è essa un bene senza il quale neppure l’altra cosa è un bene? Voi affermate che non meriterebbe acquistare la saggezza se non fosse consentito farne uso. Ma qual è l’uso della saggezza? l’esser saggi. Questo è il suo massimo pregio; altrimenti essa sarebbe inutile. Se la tortura è un male, è un male Tesser torturati tanto che essa non sarebbe più un male se si potessero eliminarne le conseguenze. La saggezza è lo stato dure­ vole delTanima perfetta; Tesser saggi è l’uso di questa perfezione. Come potrebbe non essere un bene l’uso di tale perfezione, se essa non è più un bene senza l’uso? Ti chiedo se è desiderabile la saggezza: rispondi di sì. Ti chiedo se è desiderabile anche l’uso: rispondi ancora di sì. E, infatti, non acquisteresti la saggezza, se non te ne fosse consentito l’uso. Ciò che è desiderabile è un bene. L’essere saggi è l’uso della saggezza; come il parlare è l’uso della parola e il vedere è l’uso degli occhi. Concludendo: Tessere saggi è l’uso della saggezza; l’uso della saggezza è desiderabile; dunque, Tessere saggi è desiderabile; e, se è desiderabile, è un bene. Ma con queste argomentazioni mi condanno da me, poiché imito quelli che accuso e spreco parole per chiari­ re ciò che è già chiaro. Nessuno dubita che, se il caldo è un male, è un male anche il sentir caldo; se il freddo è un male, lo è anche il sentir freddo; se la vita è un bene, lo è anche il vivere. Quanto si è già detto si aggira intorno alla saggezza, ma non ne penetra l’intima essenza, mentre è nostro compito fermarci in essa. Se proprio ci piace ampliare i nostri orizzonti spirituali, la saggezza può offrire immensi spazi alle nostre evasioni. Rivolgiamo la nostra indagine sulla natura degli dèi, su ciò che alimenta gli astri, sulTinfinita varietà delle orbite delle stelle; ricerchiamo se le cose di quaggiù si conformi­ no ai movimenti di quelle; se di là ricevano influsso i corpi e le anime di noi tutti, se anche i cosiddetti fatti 993

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quae fortuita dicuntur certa lege constricta sint nihilque in hoc mundo repentinum aut expers ordinis volutetur. Ista iam a formatione morum recesserunt, sed levant animum et ad ipsarum quas tractat rerum magnitudinem attollunt; haec vero de quibus paulo ante dicebam minuunt et deprimunt nec, ut putatis, exacuunt, sed extenuant. Obsecro vos, tam necessariam curam maioribus melioribusque debitam in re nescio an falsa, certe inutili terimus? Quid mihi profuturum est scire an aliud sit sapientia, aliud sapere? Quid mihi pro­ futurum est scire illud bonum esse, (hoc non esse)? Temere me geram, subibo huius voti aleam: tibi sapientia, mihi sapere contingat. Pares erimus. Potius id age ut mihi viam monstres qua ad ista perveniam. Die quid vitare debeam, quid adpetere, quibus animum labantem studiis firmem, quemadmodum quae me ex transverso feriunt aguntque procul a me repellam, quomodò par esse tot malis possim, quomodo istas calamitates r'emoveam quae ad me inruperunt, quomodo àlias ad quas ego inrupi. Doce quomodo feram aerumnam sine gemitu meo, felicitatem sine alieno, quo­ modo ultimum ac necessarium non expectem sed ipsemet, cum visum erit, profugiam. Nihil mihi videtur turpius quam optare mortem. Nam si vis vivere, quid optas mori ? sive non vis, quid deos rogas quod tibi nascenti dederunt? Nam ut quandoque moriaris etiam invito positum est, ut cum voles in tua manu est; alterum tibi necesse est, alterum licet. Turpissimum his diebus principium diserti mehercules viri legi : £ita[que]’ inquit ‘quam primum moriar’. Homo demens, optas rem tuam. ‘Ita quam primum moriar.’ Fortasse inter has voces senex factus es; alioqui quid in mora est ? Nemo te tenet: evade qua visum est; elige quamlibet rerum naturae

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accidentali siano vincolati a norme prefissate e perciò nessun evento di questo mondo sia occasionale e indi­ pendente dall’ordine che regola l’universo. Questi argo­ menti sono estranei ai problemi morali, ma sollevano lo spirito e lo rendono partecipe dei grandi soggetti trattati; mentre le questioncelle già esposte lo sminuiscono e lo deprimono e, anziché svilupparne l’acume, come si cre­ de, lo infiacchiscono. Suvvia, non sciupiamo in discussio­ ni capziose, e in ogni caso inutili, le nostre energie intellettuali, così necessarie per ricerche ben più impor­ tanti e fruttuose! Che vantaggio avrò dal sapere che la saggezza e l’essere saggi sono cose distinte? Che l’una è un bene e l’altro non lo è? Voglio essere temerario ed affrontare il rischio di questo desiderio: tocchi a te la saggezza e a me Tesser saggio: saremo pari. Piuttosto, procura di indicarmi la via verso questa saggezza. Dimmi quello che debbo evitare; quello che debbo cercare; con quali sforzi restituirò vigore all’anima vacillante; in che modo respingerò ogni tentativo di essere colpito o sviato; come riuscirò a fronteggiare tanti mali e a liberarmi dalle sventure che si sono scatenate su di me o che io stesso mi sono procurato. Insegnami come possa sopportare il dolore senza che io mi lamenti, e la prosperità senza far lamentare gli altri; come senza attendere l’estremo e ineluttabile momento, sappia abbandonare la vita spon­ taneamente quando mi sembrerà opportuno. Nulla, per me, è più sciocco che desiderare la morte. Infatti, se vuoi vivere, perché desideri morire? E se non vuoi, perché chiedi agli dèi quella morte a cui sei destinato dalla nascita? Morire, quando che sia, è legge di natura, anche se non lo desideri; se poi lo desideri, morire è in tuo potere. Il primo caso è una necessità ineluttabile; il secondo è una possibilità che dipende da te. Ho letto in questi giorni il seguente preambolo, veramente sciocco, di un autore peraltro eloquente; «Possa io morire al più presto!» Povero stolto, tu desideri ciò che ti appartiene. «Possa io morire al più presto!» Forse sei diventato vecchio a forza di ripeterti questa frase; altrimenti, quale ostacolo ti arresta? Nessuno ti trattiene. Evadi dove ti 995

partem, quam tibi praebere exitum iubeas. Haec nempe sunt et dementa quibus hic mundus administratur; aqua, terra, spiritus, omnia ista tam causae vivendi sunt quam viae 24 mortis. ‘Ita quam primum moriar’ : ‘quam prìmum’ istud quid esse vis f quem illi diem ponis ? dtius fieri quam optas potest. Inbecillae mentis ista sunt verba et hac detestatione misericordiam captantis: non vult mori qui optai. Deos vitam et salutem roga : si mori placuit, hic mortis est fructus, optare desinere. 25 Haec, mi Lucili, tractemus, his formemus animum. Hoc est sapientia, hoc est sapere, non disputatiunculis inanibus subtilitatem vanissimam agitare. T ot quaestiones fortuna tibi posuit, npndum illas solvisti : iam cavillane ? Quam stultum est, cum signum pugnae acceperis, ventilare. Remove ista lusoria arma : decretoriis opus est. D ie qua ratione nulla animum tristitia, nulla formido perturbet, qua ratione hoc secretarum cupiditatium pondus effundam. Agatur aliquid. 26 ‘Sapientia bonum est, sapere non est bonum’: sic fit (ut) negemur sapere, ut hoc totum studium derideatur tamquam operatum supervacuis. Quid si scires etiam illud quaeri, an bonum sit futura sapientia ? Quid enim dubi est, oro te, an nec messem futuram iam sentiant horrea nec futuram adulescentiam pueritia viribus aut ullo robore intellegat f Aegro interim nil ventura sanitas prodest, non magis quam currentem luctan27 temque post multos secuturum menses otium reficit. Quis nescit hoc ipso non esse bonum id quod futurum est, quia futurum est? Nam quod bonum est utique prodest; nisi

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piace; scegli nella natura quel mezzo che preferisci, per aprirti una via d’uscita. Sono questi gli elementi che costituiscono la realtà; l’acqua, la terra, l’aria: tutte fonti di vita e, al tempo stesso, strumenti di morte. «Possa io morire al più presto!» Che cosa intendi con questo «al più presto»? Hai posto un termine di scadenza alla morte? Può arrivare ancora più presto di quanto tu desideri. È una frase di un animo vile che con questo grido disperato fa appello all’altrui compassione. L’uo­ mo che si augura la morte, in realtà non la desidera. Chiedi agli dèi di vivere in buona salute. Se hai deciso di morire, il primo vantaggio della morte è il venir meno di ogni tuo desiderio. Ecco, caro Lucilio, i temi su cui dobbiamo meditare per la formazione della nostra anima. La saggezza consi­ ste in questo; l’essere saggi consiste in questo; non già nell’esercitare la vanità di un ingegno sottile in questioncelle inconsistenti. La fortuna ti ha messo di fronte a tanti problemi; tu non hai potuto ancora risol­ verli e ti metti a gingillarti con cavilli? Che sciocchezza, quando è stato dato il segnale della battaglia, mettersi a giostrare a vuoto! Butta via queste armi spuntate; ci vogliono spade taglienti. Dimmi come liberare l’anima da tutti i turbamenti della tristezza e della paura; come sollevarla dal peso delle segrete passioni. Insomma, è tempo di agire! «La saggezza è un bene, essere saggi non è un bene.» Così si viene a negare che noi siamo saggi, e diviene oggetto di riso tutta questa attività intellettuale, perché la si giudica impiegata in inutili fatiche. E che dire di quest’altra questione, se sia un bene la saggezza futura? E forse concepibile che i granai sentano il peso della messe futura, o che il fanciullo, qualunque sia la sua forza, possa farsi un’idea chiara di quella che sarà la sua giovinezza? Il malato, finché è malato, non ha alcun beneficio della salute che deve venire; come il corridore e il lottatore, mentre gareggiano, non recupe­ rano le forze per un riposo che potranno ottenere dopo molti mesi. Nessuno ignora che ciò che è di là da venire non è un bene, proprio perché è di là da venire. Infatti, ciò che è bene giova senz’altro, e giova in quanto è 997

praesentia prodesse non possunt. Si non prodest, bonum non est; si prodest, iam est. Futurus sum sapiens; hoc bonum erit cum fuero : interim non est. Prius aliquid esse debet, deinde 28 quale esse. Quomodo, oro te, quod adhuc nihil est iam bonum est ? Quomodo autem tibi magis vis probari non esse aliquid quam si dixero ‘futurum est’ ? nondum enim venisse apparet quod veniet. Ver secuturum est: scio nunc hiemem esse. Aestas secutura est: scio aestatem non esse. Maximum argumentum habeo nondum praesentis futurum esse. 29 Sapiam, spero, sed interim non sapio ; si illud bonum haberem, iam hoc carerem malo. Futurum est ut sapiam: ex hoc licet nondum sapere me intellegas. Non possum simul et in ilio bono et in hoc malo esse; duo ista non coeunt nec apud eundem sunt una malum et bonum. 30 Transcurramus sollertissimas nugas et ad illa quae nobis aliquam opem sunt latura properemus. Nem o qui obstetricem parturienti filiae sollicitus accersit edictum et ludorum ordinem perlegit; nemo qui ad incendium domus suae currit tabulam latrunculariam prospicit ut sciai quomodo alligatus 31 exeat calculus. At mehercule omnia tibi undique nuntiantur, et incendium domus et periculum liberorum et obsidio patriae et bonorum direptio; adice isto naufragia motusque terrarum et quidquid aliud timeri potest: inter ista districtus rebus nihil aliud quam animum oblectantibus vacasi quid inter sapientiam et sapere intersit inquiris? nodos nectis ac 32 solvis tanta mole inpendente capiti tuo ? Non tam benignum ac liberale tempus natura nobis dedit ut aliquid ex ilio vacet perdere. Et vide quam multa etiam diligentissimis pereant: aliud valetudo* sua cuique abstulit,' aliud suorum; aliud necessaria negotia, aliud publica occupaverunt ; vitam nobiscum dividit somnus. Ex hoc tempore tam angusto et rapido

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presente. Se non giova, non è un bene; se giova, è già presentemente un bene. Io sarò domani un saggio; sarà un bene quando lo sarò diventato. Per ora, questo bene non esiste. Occorre anzitutto che una cosa abbia esistenza, poi che abbia delle qualità. Come, di grazia, ciò che non è ancora niente può già essere un bene? E quale migliore prova posso darti che una cosa non è, che dicendoti: essa sarà? Ciò che verrà, evidentemente non è venuto. Se la primavera sta per venire, so che ora è inverno. Se dico che verrà l’estate, so che non siamo in estate. Il fatto che una cosa ha da venire è per me il segno più chiaro che essa non è ancora. Sarò saggio, spero, ma ancora non sono saggio. Se possedessi quel bene, già da ora sarei libero da questo male. Che io sia saggio è cosa futura; da ciò tu puoi capire che io ancora non sono saggio. Non posso trovarmi ad un tempo in quel bene ed in questo male. Sono due condizioni inconciliabili; non possono stare insieme nella stessa persone il male e il bene. Lasciamo da parte queste sciocche sottigliezze e preoc­ cupiamoci di quello che può veramente esserci utile. Chi si affretta verso la levatrice per la figlia partoriente non si ferma a leggere l’avviso dei giuochi; né chi corre verso la sua casa in fiamme si mette ad esaminare su una scacchiera il modo per liberare un pezzo assediato. Ma, per Bacco, queste tristi notizie ti giungono da ogni parte: l’incendio della casa, il pericolo dei figli, l’assedio della patria, il saccheggio dei tuoi beni; inoltre, naufragi, terremoti, e ogni altro temibile vento. Fra tante preoccu­ pazioni troverai il tempo da perdere in queste divagazio­ ni? Ti chiederai che differenza c’è fra la saggezza e Tesser saggi? Ti gingillerai a intrecciare e a sciogliere nodi, mentre ti pende sul capo un macigno? La natura non ci ha concesso il tempo con tanta generosità che ce ne rimanga da perderne anche un poco. Vedi quanto ne vada perduto anche per i più diligenti: un po’ ci è sottratto dalle malattie nostre e dei nostri cari; un po’ dagli impegni privati e dalle pubbliche occupazioni; metà della vita ce la porta via il sonno. E che gusto c’è a 999

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et nos auferente quid iuvat maiorem partem mittere in vanum ? Adice nuùc quod adsuescit animus delectare se potius quam sanare et philosophiam oblectamentum facere cum remedium sit. Inter sapientiam et sapere quid intersit nescio: scio mea non interesse sciam ista an nesciam. Die mihi : cum quid inter sapientiam et sapere intersit didicero, sapiam? Cur ergo potius inter vocabula me sapientiae detines quam in ter opera ? Fac me fortiorem, fac securiorem, fac fortunae parem, fac superiorem. Possum autem superior esse si derexero (eo) omne quod disco. Vale.

gettar via la maggior parte di questo tempo così limitato e veloce, di questo tempo che dovrà portar vià anche noi? Aggiungi che l’animo contrae l’abitudine di cercare il divertimento più che la guarigione ed a considerare la filosofia uno svago, non un rimedio. Io non so che differenza ci sia fra la saggezza e Tesser saggi; ma so che per me non ha importanza se so o se non so queste cose. Dimmi: quando avrò appreso la differenza fra la saggezza e l’esser saggi, sarò forse saggio? Perché vuoi trattenermi nelle parole della saggezza, anziché nelle sue opere? Rendimi più coraggioso, più sereno; fa’ che sappia far fronte alla fortuna, anzi sappia superarla. E mi sarà possibile, se solo a questo scopo rivolgerò ogni nozione appresa. Addio.

L IB E R V IC EN SIM V S

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LIB R O V EN TESIM O

SENECA L VC I L I O SVO S ALVTEM

Exigis a me frequentiores epistulas. Rationes conferamus: solvendo non eris. Convenerat quidem ut tua priora essenti tu scriberes, ego rescriberem. Sed non ero difficilis: bene credi tibi scio. Itaque in anticessum dabo nec faciam quod Cicero, vir disertissimus, facere Atticum iubet, ut etiam ‘si rem nullam habebit, quod in buccam venerit scribat’. 2 Numquam potest deesse quod scribam, ut omnia illa quae Ciceronis implent epistulas transeam : quis candidatus laboret ; quis alienis, quis suis viribus pugnet ; quis consulatum fiducia Caesaris, quis Pompei, quis arcae petat; quam durus sit fenerator Caecilius, a quo minoris centesimis propinqui nummum movere non possint. Sua satius est mala quam aliena tractare, se excutere et videre quam multarum rerum 3 candidatus sit, et non suffragari. Hoc est, mi Lucili, egregium, hoc securum ac liberum, nihil petere et tota fortunae comitia transire. Quam putas esse iucundum tribubus vocatis, cum candidati in templis suis pendeant et alius nummos pronuntiet, alius per sequestrem agat, alius eorum manus osculis conterat quibus designatus contingendam manum negaturus est, omnes attoniti vocem praeconis expectent,

LETTERA I l 8

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In che consiste il vero bene Tu mi chiedi lettere più frequenti, ma, se facciamo i conti, sei tu in debito. Si era d’accordo che fossi tu a cominciare: tu dovevi scrivere ed io rispondere. Ma non sarò esigente; so che ti si può far credito; perciò sarò il primo a pagare e non farò come quel valente oratore che fu Cicerone, che comandava ad Attico «di scrivergli quello che gli passava per la testa, anche se non aveva niente da dirgli». Io non ho mai scarsezza di argomenti, anche a mettere da parte tutti quelli che riempiono le lettere di Cicerone: quale candidato si trovi in difficoltà, chi si cimenti con le forze altrui, chi con le proprie, chi aspiri al consolato con l’aiuto di Cesare, chi con quello di Pompeo, chi con i propri denari; che razza di strozzino sia Cecilio, a cui i congiunti non riescono a cavare un quattrino per un interesse inferiore al dodici per cento. E più opportuno pensare ai propri guai che a quelli altrui; esaminare noi stessi e vedere a quante cose aspi­ riamo senza sforzarci di realizzarle. Chi, caro Lucilio, nulla chiede e passa oltre, senza degnare di uno sguardo i comizi della fortuna, può godere una vita dignitosa, tranquilla e libera. Nel periodo elettorale, mentre i candidati si affannano nei loro templi e uno promette denaro, un altro sguinzaglia i suoi galoppini, un altro ancora consuma di baci le mani di coloro da cui una volta eletto, non si lascerà neppure toccare, mentre tutti sono in ansiosa attesa della voce del banditore, non è 1003

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15.

Lettere a Lucilio

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Voi II

stare otiosum et spedare illas nundinas nec ementem quic4 quam nec vendentem ? Quanto hic maiore gaudio fruitur qui non praetoria aut consularia comitia securus intuetur, sed magna illa in quibus alii honores anniversarios petunt, alii perpetuas potestates, alii bellorum eventus prosperos triumphosque, alii divitias, alii matrimonia ac liberos, alii salutem suam suorumque! Quanti animi res est solum nihil petere, nulli supplicare, et dicere, ‘nihil mihi tecum, for­ tuna ; non facio mei tibi copiam. Scio apud te Catones repelli, Vatinios fieri. Nihil rogo.’ Hoc est privatam facere fortunam. 5 Licet ergo haec in vicem scribere et hanc semper integram egerere mateKam circumspicientibus tot milia hominum inquieta, qui ut aliquid pestiferi consequantur per mala nituntur in malum petuntque mox fugienda aut etiam 6 fastidienda. Cui enim adsecuto satis fuit quod optanti nimium videbatur f Non est, ut existimant homines, avida felicitas sed pusilla; itaque neminem satiat. T u ista credis excelsa quia longe ab illis iaces; ei vero qui ad illa pervenit humilia sunt. Mentior nisi adhuc quaerit escendere: istud quod tu sum7 mum putas gradus est. Omnes autem male habet ignorantia veri. Tamquam ad bona feruntur decepti rumoribus, deinde mala esse aut inania aut minora quam speraverint adepti ac multa passi vident; maiorque pars miratur ex intervallo falleiitia, et vulgo bona prò magnis sunt. 8 Hoc ne nobis quoque eveniat, quaeramus quid sit bonum. Varia eius interpretatio fuit, alius illud aliter expressit. Quidam ita finiunt: ‘bonum est quod invitai animos, quod ad se vocat’. Huic statim opponitur: quid si invitai quidem sed in perniciem? scis quam multa mala blanda sint. Verum

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forse la cosa migliore starsene tranquilli a guardare quel mercato, senza né comprare né vendere? E quanto maggiormente gioirà chi guarda indifferente non i comizi per l’elezione dei pretori o dei consoli, ma quelli più importanti in cui si cercano le cariche annuali o i poteri a vita, i successi militari e i trionfi, le ricchezze o i matrimoni e i figli, o anche la salute propria o dei propri cari! Che animo grande ha chi, solo fra tutti, nulla chiede, a nessuno rivolge suppliche e può dire: «Non ho niente in comune con te, o fortuna; non mi prostituisco a te. So che respingi i Catoni e hai i Vatinii nelle tue grazie; nulla ti chiedo». Questo significa togliere ogni autorità alla fortuna. Ci è, dunque, possibile scriverci a vicenda queste cose, senza mai esaurire gli argomenti da trattare, mentre ci vediamo circondati da migliaia di uomini inquieti che, per qualche loro miserabile interesse, passano da un delitto all’altro, e dopo aver bramato una cosa, subito l’abbandonano nauseati. Chi, infatti, si sente contento quando ha realizzato un suo desiderio, che pure, prima di conseguirlo, gli sembrava eccessivo? La prosperità, contrariamente alla comune credenza, non dà alcuna soddisfazione; è una cosa di nessun valore che non sazia nessuno. Ci sembrano eccelse le cose che ci sono molto lontane; chi si avvicina ad esse, le vedrà in basso, e, senza dubbio, cercherà ancora di salire; quella che sembrava la vetta era solo un gradino. L’ignoranza della verità è per tutti un male. Gli uomini, ingannati dall’opinione generale, corrono dietro ai cosiddetti beni; poi, quando li hanno conseguiti dopo tante fatiche, si accorgono che si trattava di mali, o di vanità, o di cose inferiori alle loro aspettative. La maggior parte degli uomini ammirano le cose da lontano; ne restano ingannati e danno un gran valore a questi cosiddetti beni. Perché non capiti anche a noi lo stesso, cerchiamo di conoscere la vera essenza del bene. Non si è concordi nella sua definizione: chi la esprime in un modo, chi in un altro. Secondo alcuni: «Il bene è ciò che attrae l’animo e lo invita a sé». Ma subito si obietta: e se attrae per rovinare? È noto che molti sono i mali che 1005

et veri simile inter se differunt. Ita quod bonum est vero iungitur; non est enim bonum nisi verum est. At quod invitat ad se et adlicefacit veri simile est: subrepit, sollicitat, ad9 trahit. Quidam ita finierunt: ‘bonum est quod adpetitionem sui movet, vel quod impetum animi tendentis ad se movet.’ Et huic idem opponitur; multa enim impetum animi movent quae petantur petentium malo. Melius illi qui ita finierunt: ‘bonum est quod ad se impetum animi secundum naturam movet et ita demum petendum est cum coepit esse expetendum’. Iam et honestum est; hoc enim est perfecte petendum. 10 Locus ipse me admonet ut quid intersit inter bonum honestumque dicam. Aliquid inter se mixtum habent et insepara­ bile: nec potest bonum esse nisi cui aliquid honesti inest, et honestum utique bonum est. Quid ergo inter duo interest ? Honestum est perfectum bonum, quo beata vita completur, 11 cuius contactu alia quoque bona fiunt. Quod dico talest: sunt quaedam neque bona neque mala, tamquam militia, legatio, iurisdictio. Haec cum honeste administrata sunt, bona esse incipiunt et ex dubio in bonum transeunt. Bonum societate honesti fit, honestum per se bonum est; bonum ex honesto fluit, honestum ex se est. Quod bonum est malum esse potuit; quod honestum est nisi bonum esse non potuit. 12 Hanc quidam finitionem reddiderunt: ‘bonum est quod secundum naturam est’. Adtende quid dicam: quod bonum, est secundum naturam : non protinus quod secundum naturam est etiam bonum est. Multa naturae quidem consentiunt, sed tam pusilla sunt ut non conveniat illis boni nomen; levia enim sunt, contemnenda. Nullum est minimum contemnendum bonum ; nam quamdiu exiguum est bonum non est : cum bonum esse coepit, non est exiguum. Unde adcognoscitur 13 bonum? si perfecte secundum naturam est. ‘Fateris’ inquis

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attraggono con blandizie. C’è differenza fra il vero e il verosimile. Ciò che è bene è strettamente congiunto al vero, poiché non c’è bene che non sia anche vero. Ma ciò che attrae a sé e alletta è solo verosimile: è insinuan­ te, stimola e attira. Altri hanno dato la seguente defini­ zione: «Il bene è ciò che suscita il desiderio di sé, cioè provoca lo slancio dell’anima, che tende verso di esso». Ma anche qui si può ugualmente obiettare: questo slan­ cio dell’anima è provocato da molti oggetti che recano danno a chi li persegue. Una migliore definizione è questa: «Il bene è ciò che provoca verso di sé uno slancio dell’anima conforme alla natura, e che deve ricercarsi solo quando diventa degno di essere desiderato». Allora esso implica l’onestà, perché questa è la cosa veramente desiderabile. A questo punto sento l’esigenza di dirti in che differisca il bene dall’onestà. Essi hanno un’essenza mista e inseparabile: non ci può essere un bene che non contenga qualcosa di onesto; e, d’altra parte, l’onestà è sempre un bene. In che, dunque, differiscono? L’onestà è la perfezione del bene, da cui scaturisce la completa felicità e al cui contatto anche le altre cose diventano beni. Mi spiego: certe cose non sono né beni né mali, come la carriera militare o un’attività politica o giurisdi­ zionale. Quando esse sono svolte onestamente, diventa­ no beni e passano, quindi, dalla loro condizione indiffe­ rente alla categoria del bene. Il bene esige l’unione con l’onestà; l’onestà è già di per se stessa un bene. Il bene scaturisce dall’onestà; l’onestà ha in sé la sua origine. Quello che è un bene avrebbe potuto essere un male; ciò che è onesto non potrebbe essere che bene. Altri hanno dato questa definizione: «Il bene è ciò che è secondo natura». Seguimi nel mio ragionamento: ciò che è bene è secondo natura; ma non necessariamen­ te ciò che è secondo natura è anche un bene. Molte cose sono conformi a natura, ma la loro importanza è tanto scarsa che non si addice loro il nome di bene: sono cose da nulla, trascurabili. Il bene non è mai una cosa trascurabile. Infatti, finché è una cosa da nulla, non è un bene; quando comincia a essere un bene, non è più una cosa da nulla. Il bene ha come sicuro segno di riconoscimento la perfetta conformità alla natura. «Tu 1007

‘quod bonum est secundum naturarli esse; haec eius proprietas est. Fateris et alia secundum naturam quidem esse sed bona non esse. Quomodo ergo illud bonum est cura haec non sint? quomodo ad aliam proprietatem pervenit cum utrique praecipuum illud commune sit, secundum 14 naturam esse ?’ Ipsa scilicet magnitudine. Nec hoc novum est, quaedam crescendo mutari. Infans fuit; factus est pubes: alia eius proprietas fit; ille enim inrationalis est, hic rationalis. Quaedam incremento non tantum in maius exeunt 1 5 sed in aliud. ‘Non fit’ inquit ‘aliud quod maius fit. Utrum lagonam an dolium impleas vino, nihil referti in utroque proprietas vini est. Et exiguum mellis pondus et magnum sapore non differì.’ Diversa ponis exempla; in istis enim 16 eadem qualitas est; quamvis augeantur, manet. Quaedam amplificata in suo genere et in sua proprietà te perdurant; quaedam post multa incrementa ultima demum vertit adiectio et novam illis aliamque quam in qua fuerunt condicionem inprimit. Unus lapis facit fornicem, ille qui latera inclinata cuneavit et interventu suo vinxit. Summa adiectio quare plurimum facit vel exigua ? quia non auget sed implet. 17 Quaedam processu priorem exuunt formam et in novam transeunt. Ubi aliquid animus diu protulit et magnitudinem eius sequendo lassatus est, infinitum coepit vocari; quod longe aliud factum est quam fuit cum magnum videretur sed finitum. Eodem modo aliquid difficultèr secari cogitavimus: novissime crescente hac difficultate insecabile inventum est. Sic ab eo quod vix et aegre movebatur processimus ad in-

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dichiari» mi si obietta «che ciò che è bene è secondo natura. È questa la sua proprietà. Dichiari anche che ci sono altre cose secondo natura, ma che non sono beni. Come, dunque, quello è un bene, mentre queste altre non lo sono? Come mai si giunge ad una differenza di proprietà pur avendo entrambi in comune la caratteristi­ ca principale, di essere secondo natura?» Evidentemente per la diversa grandezza di questa qualità. Né è straordi­ nario il fatto che alcuni esseri cambiano col crescere. Quello che era un neonato è diventato un uomo; in quest’ultimo c’è una differente caratteristica: quello che era privo di ragione è diventato un essere ragionevole. Ci sono cose che, crescendo, non solo si sviluppano in grandezza, ma acquistano un altro stato. Ma si replica: «Una cosa non si trasforma in un’altra solo perché diventa più grande. Che si riempia di vino una bottiglia o una botte, non ha importanza; in entrambe permane la caratteristica del vino. E non c’è differenza di sapore fra una piccola e una grande quantità di miele». Gli esempi proposti non hanno rapporto con la questione: in essi la qualità è sempre la stessa, e rimane tale anche aumentando la quantità. Alcune cose, amplificandosi, conservano la loro natura e le loro caratteristiche; altre, invece, dopo molti accrescimenti, si trasformano per un’ultima aggiunta, che imprime loro una nuova natura, diversa da quella che avevano. È una sola pietra che regge la volta; quella che, incuneandosi fra i due fianchi inclinati, li unisce. Perché un’aggiunta finale, tanto esi­ gua, può produrre effetti così grandi? Perché tale aggiun­ ta non amplifica, ma completa. Altre cose perdono progressivamente la loro forma primitiva per rivestirne una nuova. Quando col pensiero continuiamo ad amplia­ re un oggetto, lo seguiamo a fatica nella sua estensione, finché esso prende un nome nuovo: l’infinito; oggetto ben diverso da quello che era, quando appariva grande ma finito. Nello stesso modo noi pensiamo a una sostan­ za difficile a dividersi; alla fine, crescendo la difficoltà di questa divisione, giungiamo a concepire l’indivisibile. Così, da un corpo che si muove appena, passiamo per gradi al concetto di immobilità. Con lo stesso ragiona1009

mobile. Eadem ratione aliquid secundum naturam fuit : hoc in aliam proprietatem magnitudo sua transtulit et bonum fecit. Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Quotiens aliquid inveni, non expecto donec dicas ‘in commune’ : ipse mihi dico. Quid sit quod invenerim quaeris? Sinum laxa, merum lucrum est. Docebo quomodo fieri dives celerrime possis. Quam valde cupis audire ! nec inmerito : ad maximas te divitias conpendiaria ducam. Opus erit tamen tibi creditore : ut negotiari possis, aes alienum facias oportet, sed nolo per intercessorem mutueris, nolo proxenetae nomen 2 tuum iactent. Paratum tibi creditorem dabo Catonianum illum, a te mutuum sumes. Quantulumcumque est, satis erit si, quidquid deerit, id a nobis petierimus. Nihil enim, mi Lucili, interest utrum non desideres an habeas. Summa rei in utroque eadem est: non torqueberis. Nec illud praecipio, ut aliquid naturae neges— contumax est, non potest vinci, suum poscit—sed ut quidquid naturam excedit scias pre3 carium esse, non necessarium. Esurio: edendum est. Utrum hic panis sit plebeius an siligineus ad naturam nihil pertinet : illa ventrem non delectari vult sed impleri. Sitio : utrum haec aqua sit quam ex lacu proximo excepero an ea quam multa nive elusero, ut rigore refrigeretur alieno, ad naturam nihil pertinet. Illa hoc unum iubet, sitim extingui; utrum sit aureum poculum an crustallinum an murreum an Tiburtinus 4 calix an manus concava, nihil refert. Finem omnium rerum specta, et supervacua dimittes. Fames me appellai : ad proxima quaeque porrigatur manus; ipsa mihi commendabit

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mento, una cosa era secondo natura; l’ampliarsi di que­ sta sua conformità con la natura l’ha fatta passare in una nuova condizione e ne ha fatto un bene. Addio.

lettera

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Chi sa limitare i propri desideri è veramente ricco A ogni bella trovata che mi càpita di fare, non aspetto, per comunicartela, che tu me lo dica. Sono io stesso a dirmelo. Vuoi sapere che ho trovato? Apri la borsa: c’è tutto da guadagnare. T’insegnerò come puoi diventare immediatamente ricco. Vedo che bruci dal desiderio di saperlo, ed hai ragione. Ti condurrò per una scorciatoia alla massima ricchezza. Tuttavia avrai bisogno di uno che ti faccia credito: per entrare negli affari occorre disporre di capitali, ma io non voglio che tu ti giovi della garanzia di un terzo; non voglio che questi mediatori vadano facendo qua e là il tuo nome. Ho per te, già pronto, uno che ti farà credito, quello indicato da Cato­ ne: non prendere a mutuo se non da te stesso. Per poco che sia, basterà, se quello che ci manca non lo chiediamo che a noi. Tra il non desiderare e il possedere, caro Lucilio, non c’è alcuna differenza. In entrambi i casi hai l’essenziale: non soffri. Né io ti consiglio di negare qualcosa alla natura - essa è ostinata, non si lascia vincere; ha le sue esigenze inderogabili -; ma sappi che tutto quanto esce dai limiti della natura è futile, non è necessario. Ho fame: debbo mangiare. Ma alla natura non importa se il pane è grossolano o di segala; non chiede cibi raffinati, purché lo stomaco si riempia. Ho sete: che l’acqua sia attinta dal lago vicino o sia stata messa sotto la neve per renderla più fresca, alla natura non importa. Essa questo solo esige: che sia estinta la sete. Non importa se bevo in una tazza d’oro o di cristallo o di spatofluore o in un calice di Tivoli o nel cavo della mano. In ogni cosa, pensa allo scopo da conseguire, e lascerai andare il superfluo. Sento gli stimoli della fame? Stenderò la mano a quanto mi è più vicino. Basterà la 1011

quodcumque comprenderò. Nihil contemnit esuriens. Quid sit ergo quod me delectaverit quaeris ? Videtur mihi egregie dictum, ‘sapiens divitiarum naturalium est quaesitor acerrimus’. ‘Inani me’ inquis ‘lance muneras. Quid est istud ? Ego iam paraveram fiscos ; circumspiciebam in quod me mare negotiaturus inmitterem, quod publicum agitarem, quas arcesserem merces. Decipere est istud, docere paupertatem cum divitias promiseris.’ Ita tu pauperem iudicas cui nihil deest ? ‘Suo’ inquis ‘et patientiae suae beneficio, non fortunae.’ Ideo ergo illum non iudicas divitem quia divitiae eius 6 desinere non possunt ? Utrum mavis habere multum an satis ? Qui multum habet plus cupit, quod est argumentum nondum illum satis habere; qui satis habet consecutus est quod numquam diviti contigit, finem. An has ideo non putas esse divitias quia propter illas nemo proscriptus est ? quia propter illas nulli venenum filius, nulli uxor inpegit ? quia in bello tutae sunt ? quia in pace otiosae ? quia nec habere illas periculosum est nec operosum disponere ? 7 ‘At parum habet qui tantum non alget, non esurit, non sitit.’ Plus Iuppiter non habet. Numquam parum est quod satis est, et numquam multum est quod satis non est. Post Dareum et Indos pauper est Alexander. Mentior? Quaerit quod suum faciat, scrutatur maria ignota, in oceanum classes novas m ittit et ipsa, ut ita dicam, mundi claustra perrumpit. 8 Quod naturae satis est homini non est. Inventus est qui concupisceret aliquid post omnia : tanta est caecitas mentium et tanta initiorum suorum unicuique, cum processit, oblivio. Ille modo ignobilis anguli non sine controversia dominus tacto fine terrarum per suum rediturus orbem tristis est.

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fame a rendermi più gustoso qualunque cibo prenda. Tutto è buono per l’affamato. Vuoi sapere la massima che preferisco? Per me questa è veramente notevole: «Il saggio è un ricercatore finissi­ mo delle ricchezze naturali». «Se è così», dirai «mi doni un piatto vuoto. E io avevo cominciato col preparare i sacchi e mi domandavo per qual mare mi sarei messo a commerciare, quali imposte avrei riscosso, quali merci avrei importato. È un inganno dar consigli di povertà dopo aver promesso la ricchezza». E tu giudichi povero colui a cui non manca niente? «Se non gli manca niente», rispondi tu «egli dev’esserne grato a sé e alla sua pazien­ za, non alla fortuna». Dunque, per te non è ricco chi non può perdere la sua ricchezza? Preferisci possedere molto o quanto basta? Chi possiede molto, brama avere di più, e questa è la prova che egli non ha ancora abbastanza; chi ha quanto gli basta ha toccato la meta che il ricco non raggiungerà mai. Forse per te questa non è ricchezza, perché a nessuno è stata mai confiscata? o perché, per sua causa, nessuno è stato avvelenato dal figlio o dalla moglie? o perché uno la può godere tranquillamente sia in tempo di pace che in tempo di guerra? o perché non ne è pericoloso il possesso, né faticosa l’amministrazione? «Ma ben misero è il possesso di chi ha solo tanto da non soffrire il freddo, la fame, la sete». Giove non possiede di più. Non è mai poco quello che basta, e non è mai molto quello che non basta. Alessandro, dopo aver vinto Dario e aver raggiunto l’India, è ancora povero. Non è così? Egli cerca altri territori da assogget­ tare, scruta mari ignoti, manda nuove flotte nell’oceano, quasi volesse abbattere le stesse barriere che rinserrano il mondo. Ciò che basta alla natura non basta all’uomo. C’è sempre stato qualcuno che, dopo aver avuto tutto, bramò ancora qualcosa: tanta è la cecità umana e tanto facilmente si dimentica il punto di partenza una volta che si è andati avanti sulla via del successo. Quegli che poco prima, non senza contrasto, era signore di un piccolo regno, raggiunti gli estremi confini della terra, si rammarica di dover tornare indietro attraverso il 1013

9 Neminem pecunia divitem fecit, immo con tra nulli -non maiorem sui cupidinem incussit. Quaeris quae sit huius rei causa ? plus incipit habere posse qui plus habet. Ad summam quem voles mihi ex his quorum nomina cum Crasso Licinoque numerantur in medium licet protrahas; adferat censum et quidquid habet et quidquid sperat simul conputet: iste, si 10 mihi credis, pauper est, si tibi, potest esse. A t hic qui se ad quod exigit natura composuit non tantum extra sensum est paupertatis sed extra metum. Sed ut scias quam difficile sit res suas ad naturalem' modum coartare, hic ipse quem circumcidimus, quem tu vocas pauperem, habet aliquid et super11 vacui. At excaecant populum et in se convertunt opes, si numerati multum ex aliqua dotno effertur, si multum auri tecto quoque eius inlinitur, si familia aut corporibus electa aut spectabilis cultu est. Omnium istorum felicitas in publicum spectat: ille quem nos et populo et fortunae subduxi12 mus beatus introsum est. Nam quod ad illos pertinet apud quos falso divitiarum nomen invasit occupata paupertas, sic divitias habent quomodo habere dicimur febrem, cum illa nos habeat. E contrario dicere solemus ‘febris illum tenet’ : eodem modo dicendum est ‘divitiae illum tenent’. Nihil ergo monuisse te malim quam hoc, quod nemo monetur satis, ut omnia naturalibus desideriis metiaris, quibus aut gratis satis fiat aut parvo: tantum miscere vitia 13 desideriis noli. Quaeris quali mensa, quali argento, quam paribus ministeriis et levibus adferatur cibus ? nihil praeter cibum natura desiderai. Num, tibi cum fauces urit sitis, aurea quaeris pocula ? num esuriens fastidis omnia praeter pavonem rhombumque ? 14 Ambitiosa non est fames, contenta desinere est; quo desinai

mondo ormai suo. Il danaro non ha mai reso ricco nessuno, anzi ha sempre suscitato una maggior brama di sé. Vuoi saperne il motivo? Quanto più uno possiede, tanto più aumenta la sua possibilità di possedere. Insom­ ma, scegli uno qualunque di coloro che sono paragonati, per ricchezza, a Crasso e a Licino; porti i suoi registri; faccia il conto di tutto quello che ha e di tutto quello che spera di avere; costui per me è un pover’uomo; per te può diventarlo. Chi invece sa adeguarsi alle semplici esigenze naturali, non solo non sente la povertà, ma non la teme neppure. Ma sappi che è molto difficile limitarsi a possedere solo quanto richiede la natura; quello stesso che tu chiami povero possiede anche lui qualcosa di superfluo. Il mondo è abbagliato e affascinato dallo spettacolo della ricchezza, quando si vede venir fuori da una casa una gran quantità di denaro, quando si vedono i soffitti ricoperti di oro, quando la stessa servitù si fa notare per la sua prestanza fisica e per le splendide vesti. La felicità esteriore di costoro impressiona il pubblico. L’uomo che noi abbiamo sottratto all’influenza del mon­ do e della fortuna ha in se stesso la sua felicità. Chi vive in quella indaffarata povertà che usurpa il nome di ricchezza, ha la ricchezza come si dice che noi abbiamo la febbre, mentre, in realtà, è la febbre che ha noi. Questa espressione rovesciata si usa spesso: «Lo tiene la febbre». Così dovremmo dire: «Lo tengono le ricchez­ ze». Ecco, dunque, la cosa che vorrei raccomandarti sopra ogni altra, la cosa che non si raccomanda mai abbastan­ za: in ogni circostanza ti servano di misura i desideri naturali, che costano poco o niente; ma guàrdati dal confonderli con le degenerazioni viziose. Mi chiedi su quale tavola, con quale argenteria, da quali servi ben azzimati ti sarà portato il cibo? La natura esige solo il cibo e nient’altro. «Quando ti senti bruciare dalla sete, chiedi forse coppe d’oro? Quando sei affamato, ti disgu­ sta ogni cibo fuorché il pavone e il rombo1?» La fame non ha pretese: basta sedarla, poco importa con quale 1Orazio, Satire, I, 2, 114 segg.

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non nimis curat. Infelicis luxuriae ista tormenta sunt : quaerit quemadmodum post saturitatem quoque esuriat, quemadmodum non impleat ventrem sed farciat, quemadmodum sitim prima potione sedatam revocet. Egregie itaque Horatius negai ad sitim pertinere quo poculo [aquae] aut quam elegan­ ti manu ministretur. Nam si pertinere ad te iùdicas quam crinitus pùer et quam perlucidum tibi poculum porrigat, non 15 sitis. Inter reliqua hoc nobis praestitit natura praecipuum, quod necessitati fastidium excussit. Recipiunt supervacua dilectum: ‘hoc parum decens, illud parum lautum, oculos hoc meos laedit’. Id actum est ab ilio mundi conditore, qui nobis vivendi iura discripsit, ut salvi essemus, non ut delicati: ad salutem omnia parata sunt et in promptu, delicis omnia 16 misere ac sollicite comparantur. Utamur ergo hoc naturae beneficio inter magna numerando et cogitemus nullo nomine melius illam meruis.se de nobis quam quia quidquid ex neces­ sitate desideratur sine fastidio sumitur. Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Epistula tua per plures quaestiunculas vagata est sed in una constitit et hanc expediri desiderat, quomodo ad nos boni honestique notitia pervenerit. Haec duo apud alios diversa sunt, apud nos tantum divisa. Quid sit hoc dicam. Bonum putant esse aliqui id quod utile est. Itaque hoc et divitiis et equo et vino et calceo nomen inponunt; tanta fit apud illos boni vilitas et adeo in sordida usque descendit. Honestum putant cui ratio recti officii constai, tamquam pie curatam patrie senectutem, adiutam amici paupertatem, fortem ex-

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cibo. I tormenti vengono dalla miserevole ingordigia: si cerca il modo per aver fame anche quando si è sazi; o come si possa riempire il ventre, anzi rimpinzarlo; come ridestare la sete calmata dal primo bicchiere. Orazio ha, perciò, ragione quando dice che per la sete non importa in quale coppa o da quale mano elegante uno venga servito. Infatti, se per te ha qualche importanza l’accon­ ciatura della chioma del servo o la lucentezza della tazza che egli ti porge, vuol dire che non hai sete. Fra tutti gli altri benefici della natura è veramente prezioso quello di aver liberato i bisogno essenziali da ogni senso di fastidio. Solo il superfluo ammette la scelta: «questo è poco decoroso; quello è poco pregiato; quell’altro offen­ de la mia vista». L’autore dell’universo, tracciando le leggi dell’esistenza, ha avuto cura della nostra conserva­ zione, non delle nostre raffinatezze. Tutto è pronto e a portata di mano per la nostra conservazione; per procu­ rarci le raffinatezze, invece, tutto ci affanna e ci angoscia. Godiamoci, dunque, questo beneficio della natura, an­ noverandolo fra i più grandi e pensando che essa merita la nostra riconoscenza anzitutto per questo: ogni cibo il cui desiderio è richiesto dalla necessità si prende senza disgusto. Addio. LETTERA 1 2 0

Il bene e l’onesto. Definizione dei due termini La tua lettera, dopo aver divagato tra vari problemi minori, si è arrestata su uno di essi e ne chiede la soluzione: come abbiamo noi acquistato la conoscenza del bene e dell’onesto? Questi due concetti per altre scuole sono opposti, per noi sono soltanto distinti. Perciò sarebbero beni la ricchezza, un cavallo, il vino, le scarpe. Tanto svalutata è per essi l’idea del bene; tanto in basso è scesa nella loro considerazione! Per onesto essi intendono un modo di agire rispondente a una giusta nozione del dovere; ad esempio: le cure amorevoli rivol­ te al vecchio padre; l’assistenza prestata a un amico povero; un comportamento valoroso in una spedizione; 1017

3 peditionem, prudentem moderatamque sententiam. (Nos) ista duo quidem facimus, sed ex uno. Nihil est bonum nisi quod honestum est; quod honestum, est utique bonum. Supervacuum iudico adicere quid inter ista discriminis sit, cum saepe dixerim. Hoc unum dicam, nihil nobis videri (bonum) quo quis et male uti potest; vides autem divitiis, nobilitate, viribus quam multi male utantur. Nunc ergo ad id revertor de quo desideras dici, quomodo 4 ad nos prima boni honestique notitia pervenerit. Hoc nos natura docere non potuit: semina nobis scientiae dedit, scientiam non dedit. Quidam aiunt nos in notitiam incidisse, quod est incredibile, virtutis alicui speciem casu occucurrisse. Nobis videtur observatio collegisse et rerum saepe factarum inter se conlatio; per analogian nostri intellectum et hone­ stum et bonum iudicant. Hoc verbum cum Latini grammatici civitate donaverint, ego damnandum non puto, (immo) in civitatem suam redigendum. Utar ergo ilio non tantum tamquam recepto sed tamquam usitato. Quae sit haec ana5 logia dicam. Noveramus corporis sanitatem: ex hac cogitavimus esse aliquam et animi. Noveramus vires corporis: ex his collegimus esse et animi robur. Aliqua benigna facta, aliqua humana, aliqua fortia nos obstupefecerant : haec coepimus tamquam perfecta mirari. Suberant illis multa vitia quae species conspicui alicuius facti fulgorque celabat: haec dissimulavimus. Natura iubet augere laudanda, nemò non gloriam ultra verum tulit : ex his ergo speciem ingentis boni 6 traximus. Fabricius Pyrrhi regis aurum reppulit maiusque regno iudicavit regias opes posse contemnere. Idem medico

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un parere espresso con prudenza e moderazione. Noi distinguiamo questi due concetti, ma partendo da un unico principio. Non è un bene se non ciò che è onesto; ciò che è onesto è in ogni caso un bene. Mi sembra superfluo aggiungere quale sia la differenza fra i due termini, avendola detta più volte. Dirò solo che noi non giudichiamo un bene ciò di cui si può fare un uso cattivo. Come sai, sono molti quelli che fanno cattivo uso della ricchezza, della nobiltà, della forza. Ed ora torno alla questione su cui tu desideri che ci soffermiamo a discutere: come abbiamo acquistato la prima nozione del bene e dell’onesto? La natura non ce ì’ha potuta insegnare: essa non ci ha dato la scienza, ma i germi della scienza. Secondo alcuni, la prima nozione l’abbiamo avuta fortuitamente; ma è un’ipotesi poco verosimile che l’idea della virtù ci sia venuta per caso. Secondo noi, essa risulta dall’osservazione e dal confron­ to di certi atti frequenti nella vita; la nostra scuola stoica sostiene, cioè, che si è giunti a comprendere l’onesto e il bene per analogia. Poiché questo termine ha ottenuto dai grammatici latini il diritto di cittadinanza, non penso che si debba condannarlo, ma anzi ricondurlo al suo significato originale. L’userò, dunque, come una parola non solo adottata, ma ormai' entrata nell’uso. Ora ti spiego che cosa sia quest’analogia: si conosceva cosa fosse la sanità del corpo; questa ci ha fatto pensare anche all’esistenza di una sanità dell’anima. Si conosceva la forza fisica; da questa abbiamo dedotto che c’è anche una forza morale. Certi atti di generosità, di umanità, di coraggio, ci avevano colpito di stupore; e noi abbiamo cominciato ad ammirarli come forme di perfezione. C’e­ rano insieme anche molti difetti, che però restavano celati dalla bellezza splendente di un atto insigne, e noi li abbiamo lasciati nell’ombra. È nella natura umana magnificare ciò che merita lode. Non c’è nessuno che, rievocando un fatto glorioso, non abbia oltrepassato la verità. Così, da questi esempi, abbiamo tratto l’idea del bene in tutta la sua bellezza. Fabrizio rifiutò l’oro del re Pirro e ritenne che fosse un valore più grande di un regno la forza con cui disprezzo le ricchezze di un re. Lo stesso Fabrizio, quando il medico di Pirro promise 1019

Pyrrhi promittente venenum se regi daturum monuit Pyrrhum caverei insidias. Eiusdem animi fuit auro non vinci, veneno non vincere. Admirati sumus ingentem virum quem non régis, non contra regem promissa flexissent, boni exempli tenacem, quod difficillimum est, in bello innocentem, qui aliquod esse crederet etiam in hostes nefas, qui in summa paupertate quam sibi decus fecerat non aliter refugit divitias quam venenum. ‘Vive’ inquit ‘beneficio meo, Pyrrhe, et gaude quod adhuc dolebas, Fabricium non posse corrumpi.’ 7 Horatius Cocles solus implevit pontis angustias adimique a tergo sibi reditum, dummodo iter hosti auferretur, iussit et tam diu prèmentibus restitit donec revulsa ingenti ruina tigna sonuerunt. Postquam respexit et extra periculum esse patriam periculo suo sensit, ‘veniat, si quis vult’ inquit ‘sic euntem sequi’ iecitque se in praeceps et non minus sollicitus in ilio rapido alveo fluminis ut arniatus quam ut salvus exiret, retento armorum victricium decore tam tutus redìt quam si 8 ponte venisset. Haec et eiusmodi facta imaginem nobis ostendere virtutis. Adiciam quod mirum fortasse videatur: mala interdum speciem honesti obtulere et optimum ex contrario enituit. Sunt enim, ut scis, virtutibus vitia confinia, et perditis quoque ac turpibus recti similitudo est : sic mentitur prodigus liberalem, cum plurimum intersit utrum quis dare sciai an servare nesciat. Multi, inquam, sunt, Lucili, qui non donant sed proiciunt : noi! voco ego liberalem pecuniae suae iratum. Imitatur neglegentia facilitatem, temeritas fortitudinem. 9 Haec nos similitudo coegit adtendere et distinguere specie

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di avvelenare il suo re, avvertì Pirro di stare in guardia. Il suo animo, come non si lasciò vincere dall’oro così non volle vincere col veleno. Noi abbiamo ammirato quest’uomo insigne, inflessibile sia di fronte alle proffer­ te fatte da un re, sia a quelle fatte contro un re, tenace­ mente fedele alla sua esemplare virtù; quest’uomo che conservò - cosa assai difficile - la lealtà anche verso un nemico, convinto che anche in guerra ci sia una legge morale da rispettare; quest’uomo che, nella sua condizio­ ne di estrema povertà, di cui era fiero, rifuggì sia dalla ricchezza che dal veleno. «Vivi» egli disse «per mio beneficio, o Pirro, e rallegrati per il motivo che già ti ha rattristato: l’incorruttibilità di Fabrizio». Orazio Coelite bloccò da solo lo stretto passaggio sul ponte Sublicio. Comandò che gli tagliassero la via della ritirata, purché fosse impedito il passaggio al nemico; e ne sostenne gli assalti finché le travi spezzate non caddero nel fiume con grande fracasso. Quando, volgendosi indietro, si accorse che il pericolo della patria era stato scongiurato a prezzo del suo pericolo, «Venga avanti» gridò «chi vuole seguirmi per questa strada», e si gettò nel fiume. Poi preoccupandosi di scampare ai vortici della corrente con tutte le armi, tornò a riva rivestito della vittoriosa armatura, con la stessa sicurezza con cui avrebbe attra­ versato il ponte. Simili atti ci dettero un’idea concreta della virtù. Aggiungerò una considerazione che potrebbe stupirti: talora il vizio si presenta sotto l’aspetto della virtù; e lo splendore della perfezione morale risulta dal suo contrario. Ci sono, infatti, come sai, dei vizi che confina­ no con le virtù; e anche atti scellerati e immorali hanno un’esteriore somiglianza col bene. L’uomo prodigo non è che una contraffazione del generoso, essendoci una gran differenza fra chi largisce generosamente e chi non è capace di conservare. A molti, o Lucilio, piace dilapidare le proprie sostanze, più che donarle; ed io non chiamerei generoso chi ha in odio il suo denaro. L’uomo indifferente può sembrare uno spirito compren­ sivo, così come il temerario può sembrare coraggioso. Queste somiglianze ci obbligano a stare attenti e a 1021

quidem vicina^ re autem plurimum inter se dissidentia. Dum observamus eos quos insignes egregium opus fecerat, coepimus adnotare quis rem aliquam generoso animo fecisset et magno impetu, sed semel. Hunc vidimus in bello fortem, in foro timidum, animose, paupertatem ferentem, humiliter 10 infamiam: factum laudavimus, contempsimus virum. Alium vidimus adversus amicos benignum, adversus inimicos tem ­ peratura, et publica et privata sancte ac religiose administrantem; non deesse ei in iis quae toleranda erant patientiam, in iis quae agenda prudentiam. Vidimus ubi tribuendum esset piena manu dantem, ubi laborandum, pertinacem et obnixum et lassitudinem corporis animo sublevantem. Praeterea idem erat Semper et in omni actu par sibi, iam non consilio bonus, sed more eo perductus ut non tantum recte facere 11 posset, sed nisi recte facere non posset. Intelleximus in ilio perfectam esse virtutem. Hanc in partes divisimus : oportebat cupiditates refrenari, metus conprimi, facienda provideri, reddenda distribuì: conprehendimus temperantiam, fortitudinem, prudentiam, iustitiam et suum cuique dedimus officium. Ex quo ergo virtutem intelleximus ? ostendit illam nobis ordo eius et decor et constantia et omnium inter se actionum concordia et magnitudo super omnia efferens sese. Hinc intellecta est illa beata vita secundo defluens cursu, 12 arbitrii sui tota. Quomodo ergo hoc ipsum nobis apparuit? dicam. Numquam vir ille perfectus adeptusque virtutem fortunae maledixit, numquam accidentia tristis excepit, civem esse se universi et militem credens labores velut imperatos subit. Quidquid inciderat non tamquam malum

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distinguere azioni apparentemente analoghe ma in realtà del tutto opposte. Osservando coloro che si sono segna­ lati per qualche notevole impresa, si nota chi agisce con grande generosità e coraggio, ma solo in certe circostanze; è coraggioso in guerra, ma codardo nella vita civile; è capace di sopportare la povertà, ma si avvilisce di fronte al discredito. Si può lodare un’azione, disprezzando l’uomo. Ma c’è anche chi è buono con gli amici, è mite verso i nemici, cura con scrupolosa coscien­ za gli affari pubblici e privati, sa essere paziente quando le circostanze lo esigono, è saggio nell’azione. Lo si vede donare a piene mani quando occorre essere generosi; resistere ostinato quando c’è da lavorare; alleviare la stanchezza del corpo con la forza dello spirito. Oltre a ciò, egli si mostra sempre coerente con se stesso in tutti i suoi atti, è buono spontaneamente e l’abitudine alla virtù lo ha portato al punto di poter non solo agire rettamente, ma di non poter agire se non rettamente. Ne abbiamo concluso che in quest’uomo risiede la virtù nella sua perfezione. Abbiamo diviso la virtù nei suoi diversi aspetti; occorreva frenare la cupidigia, dominare la paura, prendere con saggezza le decisioni, dare a ciascuno ciò che gli spetta. Abbiamo così appreso le nozioni delle quattro virtù: temperanza, fortezza, pru­ denza, giustizia; e abbiamo dato a ciascuna il suo compi­ to. Da quali segni, dunque, il nostro intelletto ha ricono­ sciuto la virtù? L’ha riconosciuta dall’ordine e dalla bellezza che sono insiti in lei; dalla costanza dei suoi principi; dall’armonia che regna in tutte le sue azioni; dalla sua superiorità che la solleva sopra tutti gli eventi. Di qui è sorta la nozione della vita felice che segue il suo corso senza ostacoli, nel pieno dominio di se stessa. E come, a sua volta, ci si è presentata questa nozione? Ecco: l’uomo perfetto, una volta in possesso della virtù, non ebbe mai una parola di rivolta contro la fortuna; né si rattristò di fronte alle avversità della vita: convinto di essere un cittadino dell’universo e un soldato al suo posto di combattimento, si sottopose ad ogni prova come se gli fosse stata comandata. Qualunque disgrazia gli capitò, non la respinse come se fosse stato colpito dalla 1023

aspernatus est et in se casu delatum, sed quasi delegatum sibi. ‘Hoc qualecumque est’ inquit ‘meum est; asperum est, 13 durum est, in hoc ipso navemus operam.’ Necessario itaque magnus apparuit qui numquam malis ingemuit, numquam de fato suo questus est; fecit multis intellectum sui et non aliter quarti in tenebris lumen effulsit advertitque in se omnium animos, cum esset placidus et lenis, humanis divinisque rebus 14 pariter aequus. Habebat perfectum animum et ad summam sui adductum, supra quam nihil est nisi mens dei, ex quo pars et in hoc pectus mortale defluxit; quod numquam magis divinum est quam ubi mortalitatem suam cogitai et scit in hoc natum hominem, ut vita defungeretur, nec domum esse hoc corpus sed hospitium, et quidem breve hospitium, quod relinquendum est ubi te gravem esse hospiti videas. 15 Maximum, inquam, mi Lucili, argumentum est animi ab altiore sede venientis, si haec in quibus versatur humilia iudicat et angusta, si exire non metuit ; scit enim quo exiturus sit qui unde venerit meminit. Non videmus quam multa nos incommoda exagitent, quam male nobis conveniat hoc cor16 pus ? Nunc de capite, nunc de ventre, nunc de pectore ac faucibus querimur; alias nervi nos, alias pedes vexant, nunc deiectio, nunc destillatio; aliquando superest sanguis, aliquando deest: hinc atque illinc temptamur et expellimur. 17 Hoc evenire solet in alieno habitantibus.. At nos corpus tam putre sortiti nihilominus aeterna proponimus et in quantum potest aetas humana protendi, tantum spe occupamus, nulla contenti pecunia, nulla potentia. Quid hac re fieri inpudentius, quid stultius potest? Nihil satis est morituris, immo morientibus; cotidie enim propius ab ultimo stamus, et ilio 18 unde nobis cadendum est hora nos omnis inpellit. Vide in quanta caecitate mens nostra sit: hoc quod futurum dico cum maxime fit, et pars eius magna iam facta est ; nam quod

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sfortuna, ma la accettò come un impegno assegnatogli. «Qualunque cosa mi accada» si disse «è affar mio. È dura e faticosa? Appunto per questo ci metterò tutto il mio impegno». Doveva, dunque, apparir grande chi mai si dolse dei suoi mali, né si lagnò del suo destino. Molti compresero la sua grandezza ed egli rifulse come fiaccola fra le tenebre e attrasse a sé la simpatia di tutti col suo spirito sereno ed equilibrato, e col suo comportamento ugualmente giusto cogli uomini e con dio. La sua anima era giunta a quella vetta di perfezione al di sopra della quale non c’è che lo Spirito divino, di cui una scintilla illuminò anche il suo petto mortale. Lo spirito umano non è mai così vicino a dio come quando, ricordando che per sua natura l’uomo è nato per morire, considera il corpo non come la sua casa, ma come un albergo dove sarà breve il soggiorno, poiché dovrà andarsene appena si accorgerà di essere di peso all’ospite. La prova più sicura, caro Lucilio, dell’origine celeste dell’anima, sta nel fatto che essa sente di aggirarsi in un luogo basso ed angusto e non ha timore di abbandonarlo. Essa, che ricorda donde è venuta, sa verso quale meta è destinata. Non vediamo quanti guai ci affliggono e come ci sentiamo mal sistemati in questo corpo? Ora abbiamo dolori alla testa, ora allo stomaco, ora al petto e alla gola; talvolta abbiamo i nervi malati, talaltra i piedi; ora ci tormenta la dissenteria, ora il catarro; ora soffriamo di sovrabbondanza di sangue, ora di anemia. Come suole avvenire a chi non abita in casa propria, siamo sbattuti e cacciati ora da una parte ora dall’altra. Eppure noi, che abbiamo avuto in sorte un corpo così fragile, vogliamo valicare, con i nostri progetti e le nostre speranze, i limiti estremi della vita umana, né mai ci bastano ricchezze e potenza. Si può essere più sciocchi e spudorati? Nulla ci basta: eppure dobbiamo morire, anzi, siamo in punto di morte: ogni giorno, infatti ci avviciniamo sempre più a quell’ultimo giorno verso cui ci spinge ogni ora che passa, e da cui dovremo cadere nella morte. Vedi quanto siamo ciechi! Ti ripeto: questo tempo presto passerà, sta passando; anzi, gran parte di esso è già passato: quel tempo, infatti, che abbiamo 1025

viximus tempus eo loco est quo erat antequam viximus. Erramus autem qui ultimum timemus diem, cum tantumdem in mortem singuli conferant. Non ille gradus lassitudinem facit in quo deficimus, sed ille profitetur; ad mortem dies extremus pervenit, accedit omnis; carpii nos illa, non corripit. Ideo magnus animus conscius sibi melioris naturae dat quidem operam ut in hac statione qua positus est honeste se atque industrie gerat, ceterum nihil horum quae circa sunt suum iudicat, sed ut commodatis utitur, peregrinus et properans. 19 Cum aliquem huius videremus constantiae, quidni subiret nos species non usitatae indolis ? utique si hanc, ut dixi, magnitudinem veram esse ostendebat aequalitas. Vero tenor permanet, falsa non durant. Quidam àlternis Vatinii, alternis Catones sunt ; et modo parum illis severus est Curius, parum pauper Fabricius, parum frugi et contentu's vilibus Tubero, modo Licinum divitis, Apicium cenis, Maecenatem delicis 20 provocant. Maximum indicium est malae mentis fluctuatio et inter simulationem virtutum amoremque vitiorum adsidua iactatio. [is] Habebat saepe ducentos, saepe decem servos; modo reges atque tetrarchas; omnia magna loquens, modo ‘sit mihi mensa tripes et concha salis puri, toga quae defendere frigus quamvis crassa queat’. Decies centena dedisses huic parco, paucis contento : quinque diebus nil erat. 21 Homines multi tales sunt qualem hunc describit Horatius Flaccus, numquam eundem, ne similem quidem sibi; adeo in diversum aberrat. Multos dixi? prope est ut omnes sint. Nemo non cotidie et consilium mutat et votum: modo uxorem vult habere, modo amicam, modo regnare vult, modo id agii ne quis sit officiosior servus, modo diktat se usque ad invidiam, modo subsidit et contrahitur infra

vissuto è ora nel luogo dov’era prima della nostra vita. E un errore temere solo l’ultimo giorno, quando ogni giorno ugualmente contribuisce alla morte. L’estremo gradino della vita, in cui veniamo meno, non è quello che produce la nostra fine, ma quello che la rende manifesta. La morte arriva l’ultimo giorno, ma si avvici­ na ogni giorno; essa non ci stronca, ma ci stacca dalla vita a poco a poco. Perciò un’anima grande, conscia della sua natura celeste, s’impegna, nel posto che le è stato assegnato, a una condotta onesta e operosa; senza peraltro credere che nessuna delle cose che ha accanto le appartenga; essa è una pellegrina che ha fretta, e le cose che usa le ha avute solo in prestito. Vedendo un uomo così coerente, senza dubbio ci colpirebbe la bellezza del suo carattere eccezionale, specie se questa sua coerenza rendesse ben manifesto che si tratta di vera grandezza. Il vero è sempre uguale, il falso è mutevole. Alcuni sono ora Vatinii, ora Catoni; e per essi ora è poco austero Curio, poco povero Fabri­ zio, poco frugale e sobrio Tuberone; ora sfidano Licino nella ricchezza, Apicio nelle gozzoviglie, Mecenate nelle mollezze. Un indizio sicuro di un animo viziato è quell’ondeggiare ed agitarsi continuamente fra la simulazione della virtù e l’amore dei vizi. «Portava con sé ora duecento schiavi, ora appena dieci; ora parlava di cose grandi, di re, di tetrarchi; ora diceva: mi basta un tavolino a tre piedi, una conchiglia di sale schietto, e un mantello anche rozzo, purché mi ripari dal freddo. Ma se uno gli avesse dato un milione di sesterzi, quest’uomo sobrio e contento del poco in cinque giorni avrebbe scialacquato tutto1.» Molti sono proprio come l’uomo descritto da Orazio Fiacco: un uomo non mai uguale e neppure simile a se stesso, sempre pieno di contraddizio­ ni. Ho parlato di molti? Gli uomini sono quasi tutti così. Non ce n’è uno che non muti ogni giorno propositi e desideri: ora vuol prendere moglie, ora un’amante; ora si sente un re, ora è più servile di uno schiavo; ora diventa insopportabilmente borioso, ora si abbassa e si 1 Orazio, Satire, I, 3, 11 segg.

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humilitatem vere iacentium, nunc pecuniam spargit, nunc 22 rapii. Sic maxime coarguitur animus inprudens : alius prodit atque alius et, quo turpius nihil iudico, inpar sibi est. Magnam rem puta unum hominem agere. Praeter sapientem autem nemo unum agit, ceteri multiformes sumus. Modo frugi tibi videbimur et graves, modo prodigi et vani; mutamus subinde personam et contrariam ei sumimus quam exuimus. Hoc ergo a te exige, ut qualem institueris p r e ­ stare te, talem usque ad exitum serves; effice ut possis laudari, si minus, ut adgnosci. D e aliquo quem here vidisti merito dici potest ‘hic qui est?’ : tanta mutatio est. Vale.

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SENECA L V C IL IO SVO SALVTEM

Litigabis, ego video, cum tibi hodiernam quaestiunculam, in qua satis diu haesimus, exposuero; iterum enim exclamabis ‘hoc quid ad mores ?’ Sed exclama, dum tibi primum alios opponam cum quibus litiges, Posidonium et Archidemum (hi iudicium accipient), deinde dicam : non quidquid morale 2 est mores bonos facit. Aliud ad hominem alendum pertinet. aliud ad exercendum, aliud ad vestiendum, aliud ad doccndum, aliud ad delectandum ; omnia· tamen ad hominem pertinent, etiam si non omnia meliorem eum faciunt. Mores alia aliter attingunt: quaedam illos corrigunt et ordinant, 3 quaedam naturam eorum et originem scrutantur. Cum (quaero) quare hominem natura produxerit, quare praetulerit animalibus ceteris, longe me iudicas mores reliquisse ? falsum est. Quomodo enim scies qui habendi sint nisi quid

umilia fino a terra, ora getta via il denaro, ora rapina la gente. Così si manifesta anzitutto uno sciocco: sempre diverso nei suoi atteggiamenti e, quel che è peggio, sempre incoerente. Credimi: è una gran cosa rappresen­ tare sempre la stessa parte; ma è solo il sapiente a rimanere sempre se stesso; tutti gli altri, quanti siamo, cambiamo continuamente parte: ora ti appariremo fru­ gali e severi, ora prodighi e vacui; da un momento all’altro mutiamo maschera e ce ne mettiamo una oppo­ sta a quella che ci siamo tolta. Prendi, dunque, l’impegno di mantenerti fino all’ultimo quale ti sei presentato da principio. Fa’ che gli altri ti possano lodare o, almeno, riconoscere. Di qualcuno che hai visto appena ieri, avresti ragione di chiederti: «Ma chi è costui?», tale è stato il suo mutamento. Addio.

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LETTERA 1 2 1

Gli animali hanno il senso della loro costituzione naturale Tu attaccherai lite con me, ne sono convinto, nel leggere quest’esposizione di un sottile problema su cui mi sono soffermato a lungo. Dirai ripetutamènte: «Che rapporto ha questo con la morale?» Fa’ pure le tue rimostranze, ma permettimi anzitutto di opporti altri contendenti, come Posidonio e Archidemo, che non rifiuteranno di essere tratti in giudizio. Io poi ti dico che non ogni argomento che abbia qualche relazione con la vita mora­ le ha diretto effetto su di essa. Ci sono argomenti che riguardano l’alimentazione dell’uomo, le sue attività, l’abbigliamento, l’istruzione, i divertimenti. Tutti hanno lo stesso oggetto, l’uomo; anche se non tutti servono a renderlo migliore. Altri argomenti toccano più o meno direttamente la moralità: uno corregge e regola i costu­ mi; un altro ne scruta la natura e l’origine. Quando ricerco perché la natura ha prodotto l’uomo e perché gli ha dato una posizione preminente su tutti gli altri anima­ li, pensi proprio che io sia tanto lontano dal problema morale? T’inganni. Infatti, come potresti sapere quali 1029

homini sit optimum inveneris, nisi naturarti eius inspexeris ? Tunc demum intelleges quid faciendum tibi, quid vitandum 4 sit, cum didiceris quid naturae tuae debeas. ‘Ego’ inquis ‘volo discere quomodo minus cupiam, minus timeam. Superstitionem mihi excute; doce leve esse vanumque hoc quod felicitas dicitur, unam illi syllabam faciliime accedere.’ Desiderio tuo satis faciam: et virtutes exhortabor et vitia converberabo. Licet aliquis nimium inmoderatumque in hac parte me iudicet, non desistam persequi nequitiam et adfectus eiferatissimos inhibere et voluptates ituras in dolordm conpescere et votis obstrepere. Quidni? cum maxima malorum optaverimus, et ex gratulatione natum sit quidquid adloquimur. 5 Interim permitte mihi ea quae paulo remotiora videntur excutere. Quaerebamus an esset omnibus animalibus constitutionis suae sensus. Esse autem ex eo maxime apparet quod membra apte et expedite movent non aliter quam in hoc erudita; nulli non partium suarum agilitas est. Artifex instrumenta sua tractat ex facili, rector navis scite gubernaculum flectit, pictor colores· quos ad reddendam similitudinem multos variosque ante se posuit celerrime denotat et inter ceram opusque facili vultu ac manu commeat: sic 6 animai in omnem usum sui mobilest. Mirari solemus saltandi peritos quod in omnem significationem rerum et adfectuum parata illorum est manus et verborum velocitatem gestus adsequitur: quod illis ars praestat, his natura. Nemo aegre molitur artus suos, nemo in usu sui haesitat. Hoc edita protinus faciunt; cum hac scientia prodeunt; instituta nascuntur.

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siano i costumi da seguire, se non sai qual è il sommo bene per l’uomo e se non hai intimamente studiato la sua natura? Potrai comprendere quello che devi fare e quello che devi evitare solo quando avrai appreso i doveri che ti impone la natura. «Io voglio imparare» tu dici «a dominare i desideri e i timori irragionevoli. Liberami dalla superstizione; insegnami che la cosiddetta felicità è cosa vana e illusoria, che si trasforma nel suo contrario con la semplice aggiunta di una sillaba». Appagherò il tuo desiderio: stimolerò la virtù e sferzerò il vizio. Anche se mi si taccerà di eccessiva intransigenza a questo riguardo, non mi stancherò di condannare il male, di porre un freno alle passioni più violente, di reprimere i piaceri che vanno sempre a finire nel dolore, di far sentire la mia voce di disapprovazione per i vani desideri umani. Sì; questi desideri ci procurano i mali peggiori; e, per compiacere ad essi, sono scaturite tutte le umane miserie di cui parliamo. Intanto, permettimi di esaminare questo problema, anche se appare poco attinente alla morale. Mi doman­ davo, dunque, se tutti gli animali abbiano il senso delle loro facoltà naturali. Che lo abbiano appare soprattutto dalla destrezza e dalla facilità dei loro movimenti, pro­ prio come se avessero avuto un particolare addestramen­ to all’uso delle singole membra. Non ce n’è uno che non le muova con la massima agilità. L’artigiano maneggia con destrezza i suoi utensili; il pilota manovra facilmente il timone della nave; il pittore sa trovare subito, fra i numerosi colori che ha davanti a sé, quelli adatti per ritrarre un’immagine, e passa facilmente con l’occhio e con la mano dalla cera al quadro. L’animale ha la stessa destrezza nell’uso di tutte le sue facoltà naturali. Noi guardiamo con ammirazione i pantomimi perché sanno esprimere qualunque situazione e qualunque passione con una prontezza di gesti che uguaglia la rapidità delle parole. Tutto ciò che è offerto ad essi dall’arte, l’animale ì’ha ottenuto dalla natura. Nessuno di essi ha difficoltà a muovere le sue membra e ad usare le sue facoltà naturali. Cominciano ad usarle appena nati. Entrano nella vita con queste cognizioni; nascono addestrati. 1031

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‘Ideo’ inquit ‘partes suas animalia apte movent quia, si aliter moverint, dolorem sensura sunt. Ita, ut vos dicitis, coguntur, metusque illa in rectum, non voluntas movet.’ Quod est falsum; tarda enim sunt quae necessitate inpelluntur, agilitas sponte'motis est. Adeo autem non adigit illa ad hoc doloris timor ut in naturalem motum etiam dolore 8 prohibente nitantur. Sic infans qui stare meditatur et ferre se adsuescit, simul temptare vires suas coepit, cadit et cum fletu totiens resUrgit donec se per dolorem ad id quod natura poscit exercuit. Animalia quaedam tergi durioris inversa tam diu se torquent ac pedes exerunt et obliquant donec ad locum reponantur. Nullum tormentum sentit supina testudo, in­ quieta est tamen desiderio naturalis status nec ante desinit 9 niti, quatere se, quam in pedes cónstitit. Ergo omnibus constitutionis suae sensus est et inde membrorum tam expedita tractatio, nec ullum maius indicium habemus cum hac illa ad vivendum venire notitia quam quod nullum animai ad usum sui rude est. 10 ‘Constitutio’ inquit ‘est, ut vos dicitis, principale animi quodam modo se habens erga corpus. Hoc tam perplexum et subtile et vobis quoque vix énarrabile quomodo infans intellegit ? Omnia animalia dialectica nasci oportet ut istam finitionem magnae parti hominum togatorum obscuram 11 intellegant.’ Verum erat quod opponis si ego ab animalibus constitutionis finitionem intellegi dicerem, non ipsam constitutionem. Facilius natura intellegitur quam enarratur. Itaque infans ille quid sit constitutio non novit, constitutionem suam 12 novit; et quid sit animai nescit, animai esse se sentit. Praeterea ipsam constitutionem suam crasse intellegit et summatim et obscure. Nos quoque animum habere nos scimus: quid sit animus, ubi sit, qualis sit aut unde nescimus. Qualis ad nos

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Si può obiettare: «Gli animali muovono le varie parti del corpo con tale destrezza perché, se le muovessero diversamente, sentirebbero dolore. Come dite voi stessi, vi sono costretti; è la paura e non la loro volontà che regola i loro movimenti». Non è vero: i movimenti determinati dalla necessità sono sempre lenti; l’agilità è propria dei movimenti spontanei. Non è per paura del dolore che gli animali agiscono; ne è prova il fatto che essi tendono ai loro movimenti naturali nonostante l’impedimento del dolore. Così il bimbo, che vuole stare in piedi e abituarsi a camminare, appena comincia a provare le sue forze cade e, sia pure piangendo, si rialza sempre finché, nonostante il dolore, riesce ad usare naturalmente le sue gambe. Alcuni animali di schiena molto dura, se si rovesciano, si torcono e annaspano finché non tornano nella loro posizione naturale. La testuggine, stando supina, non sente alcun dolore; eppu­ re è inquieta per desiderio della sua posizione naturale, né cessa di agitarsi finché non si rimette in piedi. Tutti gli animali, dunque, hanno il senso della propria costitu­ zione, e, in conseguenza, si servono con tanta destrezza delle membra; e la prova migliore che essi vengono alla vita con tale conoscenza sta nel fatto che nessun animale ignora l’uso delle sue facoltà naturali. Si obietta: «La costituzione in un organismo è, come voi dite, l’insieme delle funzioni vitali. Come può il neonato comprendere questo processo complicato e sot­ tile, se voi appena appena riuscite a spiegarvelo? Tutti gli animali dovrebbero nascere filosofi per capire queste definizioni oscure anche a molti uomini colti». La tua obiezione sarebbe valida se io dicessi che gli animali hanno una comprensione razionale, e non istintiva, della loro costituzione. È più facile sentire la propria natura, che darne una spiegazione razionale. Perciò, quel neona­ to ha la sensazione della sua natura, anche se non può definirla; non sa dare la definizione di animale, ma sente di essere un animale. Inoltre, questa sua sensazione è ancora incerta, sommaria e oscura. Anche noi sappiamo di avere un’anima; ma che cosa sia l’anima, dove sia, di che natura sia e donde provenga, non lo sappiamo. 1033

[pervenerit] animi nostri sensus, quamvis naturam eius ignoremus ac sedem, talis ad omnia animalia constitutionis suae sensus est. Necesse est enim id sentiant per quod alia quoque sentiunt; necesse est eius sensum habeant cui parent, a quo 13 reguntur. Nemo non ex nobis intellegit esse aliquid quod impetus suos moveat : quid sit illud ignorai. Et conatum sibi esse scit : quis sit aut unde sit nescit. Sic infantibus quoque animalibusque principalis partis suae sensus est non satis dilucidus nec expressus. 14 ‘Dicitis’ inquit ‘omne animai primum constitutioni suae conciliari, hominis autem constitutionem rationalem esse et ideo conciliari hominem sibi non tamquam animali sed tamquam rationali; ea enim parte sibi carus est homo qua homo est. Quomodo ergo infans conciliari constitutioni rationali 15 potest, cum rationalis nondum sit?’ Unicuique aetati sua constitutio est, alia infanti, alia puero, (alia adulescenti), alia seni : omnes ei constitutioni conciliantur in qua sunt. Infans sine dentibus est: huic constitutioni suae conciliatur. Enati sunt dentes: huic constitutioni conciliatur. Nam et illa herba quae in segetem frugemque ventura est aliam constitutionem habet tenera et vix eminens sulco, aliam cum convaluit et molli quidem culmo, sed quo ferat onus suum, constitit, aliam cum flavescit et ad aream spectat et spica eius induruit: in quamcumque constitutionem venit, eam tuetur, in eam 16 componitur. Alia est aetas infantis, pueri, adulescentis, senis; ego tamen idem sum qui et infans fui et puer et adulescens. Sic, quamvis alia atque alia cuique constitutio sit, conciliatio constitutionis suae eadem est. Non enim puerum mihi aut iuvenem aut senem, sed me natura commendat. Ergo infans ei constitutioni suae conciliatur quae tunc infanti est, non quae futura iuveni est; neque enim si aliquid illi maius in quod transeat restai, non hoc quoque in quo nascitur secun-

Come noi abbiamo il senso dell’anima, pur ignorandone la natura e la sede, così tutti gli animali hanno il senso della loro costituzione. Bisogna, infatti, che essi abbiano il senso di quelle facoltà per mezzo delle quali sentono anche le altre cose; bisogna che abbiano il senso di quegli istinti a cui ubbidiscono e da cui sono governati. Non c’è fra noi chi non comprenda che vi è in esso qualcosa da cui riceve la spinta; che cosa sia, lo ignora. Sente di avere in sé la sorgente dei suoi impulsi; ma quale sia e donde provenga, lo ignora. Così, anche i neonati, come gli animali, hanno il senso delle loro funzioni vitali, ma né chiaro né preciso. Si obietta: «Voi dite che ogni animale si adatta subito alla sua natura; la natura dell’uomo è ragionevole e perciò l’uomo si adatta a sé non come ad animale, ma come ad essere ragionevole: infatti l’uomo ama se stesso per quest’ultimo elemento che lo distingue dagli altri animali. Come, dunque, il neonato può adattarsi alla sua natura ragionevole, se ancora non ragiona?» Ogni età ha la sua natura: ce l’ha il neonato, come il fanciullo, come il giovane, come il vecchio; e ciascuno si adatta alla natura in cui si trova. Il neonato è senza denti: si adatta a questa condizione. Mette i denti: si adatta alla nuova condizione. Così anche l’erba, che si svilupperà nella spiga di frumento, ha una costituzione quando è tenera ed è appena spuntata dal solco; ne ha un’altra quando è cresciuta e si erge sullo stelo ancora pieghevole ma capace di sopportare il suo peso; ne ha un’altra ancora, quando la spiga, già bionda e matura, aspetta di essere mietuta. In qualunque condizione si trovi, ad essa si adatta. L’infanzia, la fanciullezza, la gioventù, la. vecchiaia sono età diverse; tuttavia io sono quello stesso che fui infante, fanciullo, giovane. Per quanto la costitu­ zione di ciascuno muti di volta in volta, l’adattamento ad essa è sempre uguale, poiché la natura fa sì che io ami in me non il fanciullo, il giovane, il vecchio, ma me stesso. Perciò il neonato si adatta alla sua presente costituzione di neonato, non a quella che avrà da giova­ ne; e, se egli deve passare ad una costituzione più complessa, non per questo la costituzione in cui è nato 1035

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16.

Lettere a Lucilio

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Voi. II

17 dum naturarti est. Primum sibi ipsum conciliatur animai; debet enim aliquid esse ad quod alia referantur. Voluptatem peto. Cui? mihi; ergo mei curam ago. Dolorem refugio. Pro quo? prò me; ergo mei curam 4 go. Si omnia propter curam mei facio, ante omnia est mei cura. Haec animalibus 18 inest cunctis, nec inseritur sed innascitur. Producit fetus suos natura, non abicit ; et quia tutela certissima ex proximo est, sibi quisque commissus est. Itaque, ut in prioribus epistulis dixi, tenera quoque animalia et materno utero vel ovo modo effusa quid sit infestum ipsa protinus norunt et mortifera devitant; umbram quoque transvolantium reformidant obnoxia avibus rapto viventibus. Nullum animai ad vitam prodit sine metu mortis. 19 ‘Quemadmodum’ inquit ‘editum animai intellectum habere aut salutaris aut mortiferae rei potest ?’ Primum quaeritur an intellegat, non quaemadmodum intellegat. Esse autem illis intellectum ex eo apparet quod nihil amplius, si intellexerint, facient. Quid est quare pavonem, quare anserem gallina non fugiat, at tanto minorem et ne notum quidem sibi accipitrem ? quare pulii faelem timeant, canem non timeant ? Apparet illis inesse nocituri scientiam non experimento 20 collectam ; nam antequam possint experisci, cavent. Deinde ne hoc casu existimes fieri, nec metuunt alia quam debent nec umquam obliviscuntur huius tutelae et diligentiae: aequalis est illis a pernicioso fuga. Praeterea non fiunt timidiora vivendo; ex quo quidem apparet non usu illa in hoc pervenire sed naturali amore salutis suae. Et tardum est et varium quod usus docet: quidquid natura tradii et aequale

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non è secondo natura. Anzitutto l’animale si adatta a se stesso come individuo, perché bisogna che ci sia un oggetto a cui riferire le altre attività. Cerco il piacere: per chi? Per me. Dunque prendo cura di me stesso. Fuggo il dolore: per amore di chi? Per amore di me. Dunque, prendo cura di me stesso. Se faccio tutto per la cura che ho di me, è segno che antepongo a tutto la cura del mio essere. Questo istinto è in tutti gli animali non derivato, ma innato. La natura mette al mondo i suoi nati, ma non li getta allo sbaraglio; e poiché il guardiano più sicuro è quello che sta più vicino, ognuno è affidato alla tutela di se stesso. Ecco perché, come ho detto nelle mie precedenti lettere, gli animali, anche nella più tenera età e appena usciti dall’utero materno o dall’uovo, sanno subito da sé ciò che è nocivo e fuggono i pericoli mortali. Gli animali che normalmente sono vittime degli uccelli rapaci si spaventano anche della loro ombra. Nessun animale viene in vita senza la paura della morte. «Ma» dirai «come può l’animale, fin dalla nascita, avere la cognizione di ciò che lo conserva in vita o lo danneggia?» Anzitutto, si tratta di sapere non come l’animale possa avere questa cognizione, ma se ce l’ha. Che ce l’abbia appare manifesto dal fatto che, supposto il possesso di tale cognizione, l’animale non farebbe niente di più. Per quale motivo la gallina non fugge il pavone o l’oca, ma lo sparviero, che pure è tanto più piccolo, e senza averlo mai visto? Per quale motivo i pulcini hanno paura del gatto e non del cane? E evidente che essi hanno, delle cose nocive, una cognizione che non è frutto di esperienza, poiché le fuggono prima che abbiano la possibilità di provarle. E poi, perché non si creda che ciò avvenga casualmente, gli animali, come non temono se non le cose che debbono temere, così non si dimenticano mai del loro metodo di difesa; e davanti al pericolo conservano sempre lo stesso istinto della fuga. Inoltre la vita non li rende più timidi. È quindi chiaro che sono spinti a ciò non dall’esperienza, ma dall’amore istintivo della propria conservazione. L’insegnamento dell’esperienza arriva tardi e varia nei 1037

21 omnibus est et statim. Si tamen exigis, dicam quomodo omne animai perniciosa intellegere cogatur. Sentit se carne con­ stare; itaque sentit quid sit quo secari caro, quo uri, quo obteri possit, quae sint ammalia armata ad nocendum: horum speciem trahit inimicam et hostilem. Inter s