Letteratura e cultura popolare 8822231848

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Letteratura e cultura popolare
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ISBN 88 222 3184 8

A Sebastiano Timpanaro con affetto e amicizia

PREFAZIONE

Secolari interessi comuni, resi omogenei dalla remota unificazione politica, hanno consentito in altre nazioni che gli scrittori vivessero come propri i sentimenti e gli interessi della maggioranza della popolazione, li elaborassero e dalla matrice comune disegnassero le trame anche fantastiche delle loro opere. In ogni modo esisteva un substrato popolare che gli scrittori avvertivano come loro e che interpretavano in termini artistici. In Italia gli scrittori hanno attinto assai scarsamente dai temi popolari, il loro nutrimento è stato umanistico nel significato di libresco

e nel carattere di legame con una tradizione di casta. La cultura subalterna non è mai riuscita a rompere la tradizione di casta degli scrittori la quale aveva le sue radici nella struttura della società. L’egemonia direttivo-organizzativa delle classi dominanti ha impedito che si sviluppassero gruppi sociali esprimenti una autonoma attività culturale. Su una struttura culturale conservatrice o reazionaria si agitano i sogni degli artisti e i desideri del popolo. Nelle corti rinascimentali i letterati, gli scrittori, gli artisti sono stati assorbiti dalle strutture organizzative cortigiane per mezzo del mecenatismo: la loro cultura finì con l’essere aulica per necessità della politica culturale dominante o per mancanza di rinnovamento di vita. L'amore per l’antichità è stato spesso un mezzo

strumentale

della corte, dell’aristocrazia,

della bor-

ghesia cortigiana: si offrivano modelli del passato sui quali si poteva esercitare l’abilità estetica al di là dell'impegno scientifico e del presente. Con tali presupposti e tali gusti la visione di casta o di classe condizionava atteggiamenti di superiorità morale nei confronti del popolo, del dialetto, della letteratura popolare che veniva impreziosita come polline della letteratura colta e ricondotta illegittimamente a remoti antecedenti dotti presenti nel genere letterario -di appartenenza.

BET. LA

Gli scrittori popolari da noi qui trattati hanno avuto una a 9 storicamente organica della realtà, che hanno tradotto in arte letteraria, con consapevole razionalità; essi non hanno nulla in comune con gli Pu esemplari in cui il dialetto o l’aura popolare sono stati ‘enfatizzati, in anni a noi vicini, nel revival dell’estinto collegato con fili non del tutto. invisibili alla desistenza, al distacco dal presente, alla cattiva coscienza

della fuga. Cultura popolare è quella delle classi oppresse. Studiando esempi di essa (a diversi livelli, da Creazzo ad Asprea, ai saggi storicostorici) abbiamo indicato le operazioni compiute nei suoi riguardi per ridurne lo spessore storico e antropologico. La cultura popolare dalla critica è stata, generalmente, idealizzata o espunta (rimandiamo al nostro discorso, in questo volume, sulle storie letterarie crociane o crociomarxiste). Essa non è stata accettata — nei suoi prodotti letterari — in

quanto troppo realista o non trasfigurata in arte, secondo un inveterato pregiudizio estetico nei confronti della cultura subalterna. Schiumata la parte intellettualmente innocua della letteratura, a questa veniva assegnato il riconoscimento estetico. Eppure la cultura popolare in tutte le epoche rappresenta lo spessore più ampio e peculiare della società perché ha come motivi centrali le lotte per il possesso della terra, il brigantaggio come reazione all’oppressione di quella classe che da minoritaria diventa maggioritaria con l’acquisto, l’abuso, l’esproprio dei mezzi di produzione economici e culturali. Contro di essa agivano l’antinaturalismo e l’antirazionalismo della cultura letteraria pura, timorosa di con| taminazioni con altre forme e di valutazioni integrali. Se mai, della cul‘tura popolare venivano accolti come elementi subordinati o ritagliati il pittoresco, il colore locale, gli elementi non veri ma natcotizzanti,

suasori, apparentabili ad arti nobili, volgenti all’ingenuo: ma è ben lungi da ogni seria considerazione culturale, per noi, l’esaltazione del primitivismo etnico, locale, regionale, che molti critici riconducono al carattere etico-estetico dell’idillio, al « romanticismo naturale » staccato dalla

realtà storica. I vichianesimi lirici del primitivo appartengono alle nostalgie romantiche. Non esiste, infatti, una ontologia popolare staccata dalle vicende del popolo in quel luogo e in quel momento, non si possono estrapolare motivi, figure, personaggi storico-culturali e forme, emblemi rapsodici, eterni, destoricizzati. | Una storia della letteratura italiana deve tenere conto di tutte le particolari strutture inerenti anche alla sua complessa geografia, alle stratificazioni differenziate delle culture locali che spesso contrastano o contestano la cultura accademica, ufficiale, tradizionale, sono — comun-

que — agenti dell’attività culturale integrale. Le culture popolari di un

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luogo, di tutti i generi in cui esse si esprimono, hanno dignità pari alle forme della cultura egemone. Tale riconoscimento bandisce, però, ogni

tentazione di microfilia, di campanilismo, di vanto di « rutto del piovano », di associazione di una cultura chiusa con un tempo di oppres-

sione sì da creare nostalgie e mitologie dell’oscurantismo. Non è raro che si scivoli in qualche r7îttel, nord, sud assaporando macerazioni, fermenti, esalazioni che non sono mai esistiti e che vivono solo per via

di immaginazioni letterarie consolatorie o narcisistiche. La realtà è ben diversa dai vagheggiamenti di languori, di morte estenuata, dal revival di un ducato da operetta o da inferno, dalle « isole felici ». Ci rife-

riamo alle illusioni che i mondi culturali piccoli e lontani siano per se stessi più validi. La geografia storica italiana non è aderente alle regioni amministrative, come talvolta si considera, ma accanto a scomparti, angoli estremamente particolari ha collegamenti, prolungamenti extraregionali che dovrebbero essere diacronicamente descritti in modo da rendere presenze, trasformazioni, arresti, scomparse culturali. Tale studio della cultura policentrica italiana può essere compiuto senza preventive eliminazioni e subordinazioni ma, anzi, studiando le relazioni di un centro con i tentativi di unificazione provenienti da altri centri, le sue difese, i rapporti tra cultura popolare e cultura dotta, i sostegni che quest’ultima ha trovato nelle ragioni strutturali del potere cortigiano, signorile, statale e i disdegni che la prima ha incontrato presso i dotti, i potenti, i clienti. Cultura popolare è varietà di culture con identità specifiche derivanti da autonomie caratterizzate per tensioni creative — o anche contestatrici — differenti a seconda delle stratificazioni, dell’bumzus, degli strumenti espressivi. Come le materie degli oggetti della storia dell’arte sono diversi la cultura popolare si esprime in linguaggi diversi, in contaminazioni interdialettali o tra dialetti e lingua, che testimoniano rizomorficamente i rapporti culturali. Bisognerà scendere alle radici per cogliere le specificità, l'identità. Né si tratta di radici dello stesso genere perché, ad esempio, se nell’attuale società di massa rivalutiamo l’identità della cultura popolare contadina storica e presente, residua, occorre anche valutare la nuova cultura popolare diversa da quella contadina e avente origine da nuove aggregazioni e nuove emersioni.

Scendendo nel profondo della biogeografia culturale si giunge sperimentalmente a trovare la base dei sentimenti umani, spesso sorprendenti e relativi alle condizioni storiche, si possono correggere le generalizzazioni dovute a idealismi, irrazionalismi, dogmatismi: nei saggi contenuti in questo volume documentiamo, ad esempio, le mistificazioni

Bi, fel

compiute, a proposito del Pirocchio, dalla cultura pedagogico-paternalistica interessata, di classe, connessa con i ricatti della struttura socioeconomica e, a proposito di Pietro Rossi, la propaganda reazionaria,

discesa fino a un’area ristretta di cultura contadina. Altri inquinamenti dovuti al crocio-marxismo sono verificabili in ampi settori della nostra cultura. | Se la cultura popolare può essere il terreno dell’arte i valori semantici non esistono nel solo realismo (né esiste realismo di un solo tipo). Essi esistono nel fondamento della coscienza razionale (non solo, perciò,

di quella fantastica) che dà forma artistica, nell’organicità semantica del contesto poetico (che fa parte di un contesto culturale), nella polivalenza

semantica: in questo ambito l’arte che nasce dal terreno della cultura popolare e dialettale offre nuove possibilità di studio degli arricchimenti sintattici, studio che il letterato puro non ha, spesso, la capacità di compiere. La linguistica ha preferito studiare testi in lingua e di carattere letterario trascurando la grande fonte, per il linguista, dialettale (anche quando ha scarso interesse letterario). In quest’ultimo caso lo studio interdisciplinare delle tradizioni popolari può farci scoprire stratificazioni di cultura popolare profonda riemersa successivamente nel dialetto o nella letteratura in lingua. Lo studio articolato ed esperto può servire — è tale l’intento dei nostri saggi — a: promuovere l’ingresso della cultura popolare nel circolo di tuffi i fenomeni dell’arte e della cultura e a considerarla elemento vitale di fondo; a colmare il disimpegno, a contestare sperimentalmente l’esaltazione di attività pseudo culturali indifferenti alla storia e alla ragione.*

Roma, novembre

1982

AGD:

* I saggi qui compresi sono recenti e serrati intorno al problema che dà il titolo al volume. Letteratura dialettale e letteratura nazionale è stato scritto per il convegno di Palermo sullo stesso tema; La critica accademica e la società di massa pet il convegno di Trieste (1982), organizzato da Giuseppe Petronio, su società e cultura di massa; « Calabresità » e cultura popolare per un convegno a Cosenza (1981) su un progetto culturale per la Calabria; Pietro Rossi poeta contadino come premessa a una scelta, che sarà pubblicata, delle poesie di Pietro Rossi; Collodi, la libertà e il sistema per un convegno . a Pescia (1974) su Carlo Collodi; Motivi di narrativa popolare nel ciclo di Salgari dei « Pirati della Malesia » per il convegno di Torino (1980) su Emilio Salgari; Vincezzo Ammirà come premessa agli inediti Ceceide, Ngagghia e Rivigliade; Pasquale Creazzo come. premessa alle poesie dialettali di Creazzo; La cultura popolare nel «Previtocciolo » di Luca Asprea per il convegno di Lecce (1982) sulla narrativa meridionale del secondo dopoguerra; Il « ritorno a S. Mauro » per il convegno di S. Mauro Pascoli (1982) su Giovanni Pascoli; le pagine su Garibaldi scrittore sono nate per il convegno di Roma (1982) su Garibaldi e per i seminari tenuti a Rio de Janeiro, all’università di Caxias do Sul e a S. Paulo (1982); lo studio su Panzini per il convegno di Bellaria (1983).

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I LETTERATURA

DIALETTALE

E LETTERATURA

NAZIONALE

Un elemento di base per valutare i dialetti e la lingua nell'Ottocento postunitario è la situazione sociolinguistica italiana: 600.000 italofoni ° di cui 400.000 toscani e 70.000 romani. Si tratta di una minoranza alla quale si rivolgono gli scrittori e i poeti oltrepassando gli interessi popolari e regionali della massima parte della popolazione. I poeti-vati epico-lirici modulavano la loro letteratura con forti impronte classicistiche le quali rappresentavano ufficialmente la continuità della tradizione della lingua d’Italia. Di quale lingua d’Italia, occorre chiedersi oggi, se non di una compatta tradizione aulica, la quale non aveva contatti e relazioni con i dialetti, con i linguaggi delle regioni, dei borghi, del contado? Rimane l’eccezione di Verga, nella narrativa, il quale riuscì a vedere le forze economiche attive e operanti nella società e a fissare quasi lapidariamente la mistificazione degli ideali risorgimentali. Del resto se De Roberto rappresenta la vita catanese dal 1855 al 1882 e il consolidamento dei baroni attraverso la rivoluzione nazionale e Pirandello indica nei Vecchi e i giovani, attraverso le vicende siciliane degli anni 1892-94, la bancarotta del patriottismo risorgimentale e la consapevolezza che la vampata patriottica aveva coperto privilegi e soprusi, Verga è colui che offre all’oggettività la lingua dialettale. La sua eccezione è tale in quanto non ha confronti né con la narrativa di altri territori — per lo più limitata al piccolo realismo descrittivo locale — né, tanto meno, con gli intenti celebrativi della letteratura epico-lirica dei vati d’Italia. La crociana « letteratura della nuova Italia » considerò quella dialettale come piacevole folklore e ne ottuse le punte di protesta, di delusione, di malcontento, di critica contro la coscrizione militare, le tasse, la guerra, il malgoverno. Se di questa letteratura si sa poco nei suoi testi è perché la cultura giudicante fu professionale, corporativa, pater-

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nalistica, fortemente legata alle istituzioni borghesi e arroccata a difendere una tradizione ad essa congeniale o conveniente. La reazione della letteratura dialettale alla colonizzazione e la sua anabasi non vennero considerate dalla cultura ufficiale, attenta alia tipologia astorica delle passioni del cuore umano e ad una « formulazione abbastanza impersonale e insicura di criteri topografici in relazione a centri di irradiazione, a classificazioni metriche, a problemi delle origini e così via » ! nonché al rimando dello studio della letteratura originata da situazioni sociali a specialisti asettici di frammenti di lirica piuttosto che alle espressioni demopsicologiche di una letteratura che guardava soprattutto alla verità. Per un largo settore della critica alcuni motivi del Croce, parzialmente veri, diventavano princìpi assoluti senza che venissero studiate, con ri-

cerche storiche, linguistiche, antropologiche, le incidenze concrete. Derivano dal Croce: 4) il motivo che la letteratura dialettale prende a modello la letteratura nazionale; £) il motivo che l’anabasi dei dialetti dopo l’Unità costituisce elemento non di antitesi o di alternativa ma di unificazione, di perfetto accordo. Oggi a noi pare, invece — e in ciò siamo d’accordo con Gian Luigi Beccaria? —, che la storia della lingua italiana debba essere riveduta «e disegnata a rovescio, rivoltando lo schema storiografico invalso in cui tutto tende all’unità nazionale e dove il vivacissimo regionalismo ha corso il rischio di esser prospettato come un momento negativo o rallentante ». Deroburizzando, cioè, in modo idealistico il dialetto la critica ha preparato la trionfalistica cavalcata del monolinguismo, come negli anni Cinquanta aveva preparato l’altra cavalcata monolinguistica: quella del Petrarca antirealistico, sublimatore della lirica. È innegabile la vittoria del monolinguismo ma non si devono perdere di vista: 4) il quadro del policentrismo comunale, regionale, gli apporti adiutori che esso ha dato nonché le frequenti opposizioni; 4) la visione di cultura che il dialetto ha significato in modo oppositivo, antinomico alla cultura della tradizione letteraria; c) il carattere tutt’altro che rettilineo, pacifico, innocuo della vittoria della lingua. Se vogliamo sottolineare la vittoria della lingua dobbiamo sottolineare: 4) che essa è stata conseguita anche con fini e strumenti parziali (poesia e prosa d’arte) limitati alle persone colte o privilegianti la medietà di tono, di gusto, di stile o con strumenti negativi (pregiudizio del dialetto come mala erba o mezzo di comunicazione inferiore) o con 1 U. MontanaARrI, Canti del lavoro e della protesta, in Studi del Liceo-Ginnasio statale di Cento, Cento 1973, p. 82. ? G.L. BECCARIA, Letteratura e dialetto, Bologna, Zanichelli 1975, p. 3.

strumenti di relazione del potere (burocrazia, scuola, colonizzazione dell’Italia meridionale e insulare); 5) che la lingua parlata è stata quasi interamente regionale e dialettale; .e) che la visione popolare derivante da un mondo culturale ha dato spesso autonomia alla letteratura dialettale. In Sicilia le manifestazioni di una cultura popolate radicatissima nella vita sociale sono numerose: l’anonimo autore di La vita di lu viddanu coglie l'aspetto negativo della propria condizione, Andrea Pappalardo comprende che il passaggio di governo dai Borboni ai Savoia aggrava le condizioni degli sfruttati, Vito Mangano artigiano protesta contro la libertà che produce rincari e disordini, il canto anonimo O% chi m’abbinni lria vede la Sicilia lamentarsi del matrimonio unitario,

denunciare tradimenti, malversazioni, guerra e, dopo la rivolta paler-

mitana del 1866, l’obiettivo gioco di potere che è per i re il governo: Li re gòdinu a tavula, lu cori sò è cuntenti, a zicchinetta jòcanu

lu sangu di li genti. [...] Sentu friscura d’àriu, lu celu è picurinu; °nca cc'è spiranza, populi, la burrasca è vicinu!

Così la cultura popolare dialettale esprime la protesta delle classi subalterne contro le condizioni economiche, politiche, sociali: sono versi e narrazioni di contadini, artigiani, cittadini esclusi ed emarginati dal riassettato ordine politico borghese, dalla possibilità di partecipare non da subalterni alla vita civile. La città borghese ha una sua configurazione economica produttiva che emargina le campagne e i ceti urbani più deboli per farne oggetto di sfruttamento. Con il dialetto le classi subalterne si contrappongono, più o meno coscientemente, alla società e alla

cultura borghese con la denuncia del mancato inserimento delle masse dei lavoratori nell’organizzazione del nuovo Stato. Nei primi decenni postunitari diedero alimento alla protesta dialettale le condizioni di vita nelle campagne e nelle città, la propaganda dei garibaldini e dei mazziniani, il generale movimento positivistico e veristico, la nuova scienza dell’uomo che trovava ampia divulgazione. In Calabria Antonio Martino denuncia la piemontesizzazione del Sud, « li strazi che ndi fannu l’oppressuri » i quali sono nella burocrazia, nella magistratura, nella finanza

Cudiiàto

e invoca la divisione delle terre demaniali. Bruno Pelaggi ironizza sull’Italia unita che non dà lavoro ma fame, sulle ingiustizie sociali, sul tradimento degli ideali patriottici compiuto da feudatari e possidenti: « gridamu pi la fami, — miseria e povertà: — diciendu: ‘ Maistà, — pani e lavuru!’ [...] ‘ Basta... simu Taliani! — gridammu lu sissanta — e mò avogghia mu canta — la cicala!’ ». Il risveglio della cultura dialettale è un’inevitabile difesa contro la sopraffazione della cultura ufficiale ammassata per secoli negli stampi aulici e che adesso veniva offerta con tronfio paternalismo dalle nuove cotti burocratiche del centralismo agrario-borghese nazionale. Si risvegliavano le popolazioni del cuore della Sicilia, della Piana di Catania e delle grandi città, quelle dei borghi montani, dei casolari della Calabria rimasti isolati nel feudalesimo e sfasciati nella loro economia dal capitalismo violento (« È facili cangiari ogni guvernu, — ma li tiranni nun cancianu mai » scrive un poeta siciliano), della grande capitale metidionale, Napoli. Le voci di protesta sono diverse; drammatiche, ironiche, di rivolta, di palingenesi, nascono da situazioni e da culture varie, dal banditismo, dall’emigrazione ma sono consapevoli del peso del vecchio e del nuovo baronaggio, della necessità di risolvere il problema delle terre da assegnare ai lavoratori. A che serve che il nuovo re sia chiamato galantuomo, si domandano i declassati regnicoli, quando il sistema è quello della rapina? Avvertimenti al monarca si ricollegano ad altri che già erano stati fatti al monarca borbonico (« Dio te salve, Ferdinando, — padre curdiale, — avascia lu sale! [...] — Si no, puozz’esse acciso, — tu che ’nce sì arrivato, — e chi te ci ha mannato, — dinto a lu

Regnu. — Miettete ne lo ’mpegno, — leva la funniaria! — Si no, pure per l’aria — tu te ne vaie [...] — E puozze avè nu moto! — Te pozze portà

la votia! — Nun puozze vedè gloria — de Paradiso! Amen! »). Nella stessa metropoli meridionale, declassata e avvilita, la massa del popolo aveva una capacità rivoluzionaria che si era esaltata nel Seicento quando, dopo la rifeudalizzazione gravosa, aveva imposto un mutamento e aveva influenzato la cultura rendendola, nei suoi stessi esponenti borghesi, più moderna e scientifica. Dopo l’Unità quello sterminato popolo stravolto dallo sviluppo capitalistico dell’Italia savoiarda e descritto come spettacolo oleografico nelle spagare, nei maruzzari, nei carnacottari, nelle

venditrici di pollanchelle, nella camorra, dai pennivendoli e dagli esteti dello straccionismo, condiziona col dialetto gli scrittori borghesi piegandoli alla trasfigurazione sentimentale della sfacciata vita sociale schiacciata sull’immediatezza dei bisogni. Altre voci dialettali sorgono in tutte le regioni d’Italia e accompagnano la protesta contro l’involuzione delle SARE 7

classi dirigenti alla lotta per il riscatto dei lavoratori, alle loro battaglie per una società più umana. A sostenere il carattere generalmente riflesso della letteratura dialettale si suole proporre l’inconsapevolezza, da parte del dialetto, della sua funzione nei confronti della lingua. Almeno in un caso — ma tanti altri casi di dibattito si possono scoprire in varie regioni d’Italia — possiamo, tuttavia, seguire il dibattito che un canonico-calabrese, Gio-

vanni Conia, autore di un Saggio dell’energia, semplicità od espressione della lingua calabra (Napoli, De Bonis 1834) faceva svolgere tra lingua italiana e « lingua calabra ». La lingua italiana si lamenta delle varietà dialettali municipali e della strana sintassi (che nella Calabria reggina del Conia era — e oggi il Rohlfs ne fa un cavallo di battaglia — di origine nettamente greca). La « lingua calabra » riverisce la lingua italiana della quale è parte ma, offesa, a sua volta passa all’attacco: DI

Sai pecchì piaciu a tutti? Si siccanu di tia; e cui si vota a mia

pigghia rispiru. Tu scardi l’eleganzia, ti voi mettiri l’ali; eu parru naturali, e dugnu gustu. Mu dici nu penzeru, ti voti a li figuri, e fai li cosi scuri pe piaciri. Chistu pe lu Metafuru ... Chiju pe Lligorìa ...

Fa la storia linguistica della regione: Tutti chisti palori, chi avimu, non su novi; la radica la trovi a tanti lingui.

Nui simu ntra l’Italia, e fummu Greci puru: e quanti nci ndi furu

genti strani. [...]

1

pa

Nci furu nci furu chi non a chistu

li Tudischi, li Romani,

ficiaru pani Celu.

Rivendica, infine, la maggiore forza, espressività, ricchezza dialettale: Si vogghiu mu ti stonu, no nci vonnu riggìri:

dicimi: chi bò diri tabaranu? Nndagghiu? guleu di notti? Tracandali, Cubbà? Tirrinchiuni, Jughà? Cuccu di meta? A ca ca li

mia dassami stati, tu porti la peju; tutti ti li leju calendi.

Se si considera, poi, che dalla restaurazione all’Unità lo Stato pontificio non è stato, nella sua grande estensione, toccato dal rinnovamento sociale e linguistico, che in tutto quel territorio non è esistito il movimento romantico (due grandi poeti vi nascono ma Leopardi ne esula, il Belli vi è dialettale clandestino), occorre esaminare più profon-

damente il valore del dialetto anche nelle sue espressioni ideologiche e sociali. Ricordiamo due casi in cui il dialetto esprime in quel territorio, dopo l’Unità motivazioni antitetiche ma popolari. Il primo è quello di Pietro Rossi sammarinese (noto a pochissimi prima che Emilio Sereni lo ricordasse in I/ capitalismo nelle campagne) il quale continua l’ideologia reazionaria e antiunitaria dello Stato pontificio e nel Ceccone (la cui seconda edizione è del 1876) si serve della letteratura giocosa per divulgare l’ideologia antiliberale e temporalistico-papalina: U n'è e Papa ch’tosa e ch’mong me l’è e mel ch’avì tli ong.

Il Rossi è il portavoce della pedagogia dell’ubbidienza ai sistemi reazionari e dell’ideologia anticontadina che sarà un motivo padronale continuo, nella letteratura romagnola, dal Panzini al Beltramelli:

Mt PI

E’ cuntaden che sta a la campagna e bév.e a magna a spàl de’ patròn; e vénd gràn, forment e fasùl, e péga e’ garzòn, e campa i su fiùl.

Del resto, per quanto riguarda l'aspetto economico, poco importava ai contadini e ai lavoratori più miseri che vi fosse il re o il papa a comandare. I moti per il macinato nel bolognese, ad esempio, nel 1869, si levano a Castenaso, a Medicina, a Bazzano, a S. Giovanni in Persiceto

al grido di « Viva l’Austria, viva il Papa, viva la religione, morte ai

reali carabinieri, abbasso Marco Minghetti, abbasso Vittorio di Savoia,

abbasso il contatore, vogliamo abolire la leva dei giovani » e gli uccisi

dalla polizia sono contadini, stracciai, garzoni, muratori, facchini?

Il secondo caso è rappresentato da Giustiniano Villa (1842-1919) di S. Clemente di Rimini il quale si identifica, nell’uso del dialetto, con l’ascesa della cultura popolare di fine Ottocento e si reca nelle fiere, nei mercati in cui convengono contadini, mediatori, fittavoli, braccianti,

per divulgare come cantastorie i fatti politici, militari, sociali. Il Villa parla come un contadino, dall’interno di un gruppo. Nei suoi dialoghi tra contadino e padrone discute le richieste dei contadini dall’interno della loro condizione con coscienza politicamente matura, espone neoilluministicamente la visione politica e sociale più avanzata, quella, di volta in volta, repubblicana, anarchica, socialista. Il contadino del Villa ri-

chiama il padrone alle basi elementari e materiali della vita (« mi povre proletatie — i vo paen e la piadeina — prima d’ totti si no in cameina!! »), quando afferma per i produttori che lavorano per mantenere gli altri (« i borghes, le tott e cler — chi magna, i bevi, i va in carrozza — e i porta a spass ma la bamboza! ») i diritti preminenti. Quando il padrone dimostra finta comprensione per il contadino in quanto persona inferiore questi insiste sulla propria condizione (« con la pieda d’ formentoun, — un pò d’ bivanda con la pussa — ech la nostra vita spuzza! [...] — Sel sa e’ Signor es mett a ridd!!! »), lo sfruttamento di cui è oggetto, pone il proprio lavoro come base della società (« com spel fe dmench di contadein — che dalla terra i cheva i frott — e lor le quii chi guerna tott? ») e l’unione dei contadini come mezzo di riscatto (« ma quand a srem unid insein [...] — a portame al nost raseun — cosa am disle sor padroun? [...] — ma formand tott un union — ie ascolta anche ma noun 3 R. ZANGHERI, I moti del macinato nel Bolognese, in Le campagne l'epoca moderna, a cura di R. Zangheri, Milano, Feltrinelli 1957. ene

emiliane nel-

— come ma quei dla ferrovia — chiera tott d’ ma compagnia »). In altra circostanza il padrone che richiama il contadino all’austerità (« Andate meno all’osteria — cogli amici in compagnia! ») offre al contadino l’occasione di fare la storia dei diciassette poderi che il padre del padrone aveva arraffato dai beni ecclesiastici (« mea culpa ... mea culpa ... — l’era pegg ca ne la vulpa! »). Dall’età giacobina fino al Villa il mondo contadino non aveva elaborato un «corpus» didattico così organico e razionalmente articolato, collegato ormai anche nello sviluppo artistico con il rapporto tra l’industria, il capitalismo finanziario e il mondo del lavoro. Il poeta Villa aveva una buona cultura tradizionale, profonda conoscenza della realtà contemporanea che acquistava con la lettura dei giornali e la frequentazione delle persone politicamente informate (circoli, gruppi, leghe, sindacati, associazioni contadine, tipografie), una vivacissima fantasia artistica capace di rappresentare situazioni concrete con varietà di stile e di immaginazione. Villa ha coscienza della cultura dialettale, lontano com’è dal sentimentalismo descrittivo, dalla

malintesa ideologia di unità patriottico-nazionale, dall’umorismo di uno Stecchetti che pure accompagnava con la sua musa dialettale le lotte dei lavoratori dando ad esse un consenso di cultura come nei seguenti versi in cui rappresenta un dialogo tra un affamato maestro di scuola ravennate e il suo conterraneo Luigi Rava, ministro della pubblica istruzione: E un dé cun Reva che ci diei la molla ci dissi « Nò an magnè che son degli anni che un poco di piadotto e di cipolla ». E lè un dess « Passa via che sono inganni, sta come torre ferma che non crolla, e questo fia suggel che l’uomo sganni ».

I motivi del Villa concordano con il realismo della musa popolare democratica e del repubblicanesimo socialista: Quando a sò mért mè a voi la bara cun quatar sucialésta a la mi spala, repubblichen chi pòrta la bandira, an vo di prit cu la vista mira.

o con l’avversione al prete-funzionatio che è, in un canto popolare il quale traveste il Dies irae, satireggiato nel suo desiderio di avere ogni giorno un funerale:

La

— Dio sela, Dio sela

toti dè foss sempar’d quela. —- Mo no mo no

basterà un dè se e un dè no.

Abbiamo indicato il Rossi e il Villa * perché l’uno e l’altro testimo-

niano la verità culturale del mondo dialettale e sono lontani dallo spirito folkloristico, dall’ottimismo immotivato e dal retorico colore regionale. Ma il Villa rappresenta la realtà popolare-regionale nel modo meno

velleitario quando la lingua della tradizione libresca è rinnovata dalla lingua della linea plurilinguistica di Dossi-Faldella e da quella del verismo di Verga. Nell’una e nell’altra il dialetto agisce all’interno come realismo alternativo alla letterarietà della lingua tradizionale. Il Verga riuscì a vedere le forze economiche attive e operanti nella società e rappresentò lo scacco degli umili con uno «stile di cose », come definì Pirandello ascolianamente avverso alla nuova retorica derivante dalle conseguenze manzoniane: « Nazione da noi vuol dire, per Pirandello, o volgarità meccanica o stereotopatia di stile burocratico e scolastico, o astratta verbosità di lingua letteraria e retorica ». L’unità di lingua era, cioè, unità di cultura e di vita civile.

L’altra alternativa, quella puramente dialettale, oltrepassante l’allargamento del dialetto e l’osmosi tra dialetto e lingua, non fu possibile per: 4) lo sconvolgimento dell’economia arcaica operato dall’economia capitalistica; 4) l’esclusione delle classi popolari e della loro cultura dalla vita ufficiale; c) il livello di coscienza adeguato raggiunto tardi dalle classi subalterne; 4) lo svigorimento della cultura dialettale nell’utopia e nella protesta sterile; e) il rifiuto della piccola borghesia di riconoscere, identificandosi in essi, i valori popolati. La vittoria della lingua sul dialetto avviene attraverso anabasi parziali regional-dialettali pure (forme di opposizione e di autonomia) o attraverso la cooperazione del dialetto con la lingua. I momenti sono dei movimenti da individuare nelle aree regionali in modo preciso, senza sovrapporre qua e là teorie uniformemente unificatrici, senza avere esaminato in modo anche sociologico, antropologico, politico i singoli elementi policentrici della cultura italiana. Occorre, cioè, vedere concretamente, sul piano storico-linguistico, quali scrittori dialettali offrono una

rappresentazione organica interiorizzata dalla realtà. Si tratta di distin4 G. Vitta, Zirudèli,

a cura di A. Piromalli e G. Bravetti, Ravenna,

1979

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Il Girasole

guere i diversi gradi di rappresentazione. Non potrà essere, ad esempio,

il carattere lirico-musicale il criterio di giudizio intorno a Salvatore di Giacomo il quale inventa il suo mondo popolareda manierista di alta cultura e se riesce talvolta a rappresentarlo nella sua realtà orrenda fa avvertire il compiacimento degli elementi subumani. Era la visione piccolo-borghese che Ferdinando Russo in quanto oggettivista riusciva ad evitare ponendosi dal punto di vista di un popolo che si sentiva più filoborbonico che filoborghese: Ferdinando Russo, borbonizzante ed estraneo al patriottismo risorgimentale leggeva nel codice vero popolare, quello della disgregazione sociale e della psicologia lazzaronesca napoletana senza intervenire con idealizzazioni e canonizzazioni. Il regresso dei dialetti nel Novecento avviene non soltanto perché vengono catturati quali elementi meno complessi, come si presume che essi siano, né per semplice loro dispersione ma anche mediante pianificazioni antiminoritarie e antialloglotte (tra le quali rientra la lotta contro le minoranze etnolinguistiche). Anche per il Novecento si festeggia spesso la cavalcata monolinguistica come resa dei dialetti ai calchi e al preziosismo decadente. Eppure allo stato non sappiamo se ci sia da rallegrarsi, per la lingua italiana, della diminuita espressività dei dialetti che sarebbe stata un argine — se avesse potuto agire da contrafforte sociolinguistico — contro il livellamento della lingua operato dai mass media. C’è stato un pascolismo nella poesia dialettale ma non più grave che nella poesia in lingua che è stata alluvionata dal sentimentalismo, dall’idillismo, dall’ingenuità campagnola della descrizione della piada o dell’arzdora (con i termini italiani); c'è stata l’influenza della raffina-

tezza decadente ma riguarda pochissimi poeti (fra i quali Pasolini poeta e novelliere friulano), ma si tratta di casi rari, ininfluenti, letteratissimi.

Per quanto riguarda i calchi letterari — certamente dannosi perché lesivi dell’espressività e indicatori di cedimenti culturali — essi hanno riscontro nei calchi regional-dialettali in funzione espressiva compiuti da Pavese, Vittorini e dai neorealisti. Il discorso è, sempre, eziologicamente politico-sociale, politico-culturale, non solamente letterario. Il fascismo con tutta la sua pianificazione antidialettale, con tutta la sua koiné linguistica idealistico-nazionale, con tutto il suo ambiguo e reazionario strapaesanismo (che appunto perché ambiguo consentì anche sviluppi positivi: si vedano i casi di Bilenchi e Pratolini) non riuscì ad eliminare i dialetti

e vorremmo citare due esempi di poeti meridionali di diversa origine (borghese il primo, contadino il secondo) i quali documentano motivazioni culturali non solamente personali. Il primo è Vann’Antò (Giovanni RA RS

Antonio di Giacomo, 1891-1960) che scrisse nel 1926 Voluntas tua in dialetto ragusano. Il retroterra di Vann’Antò era il mondo dei con-

tadini e dei minatori, che conservava credenze e usanze pagane e paleo| cristiane, che si affacciava fievolmente all’umanitarismo socialista e, nelle

sue punte avanzate, avviava la lotta per la redenzione degli sfruttati. Vann’Antò colse i motivi interiori di quella condizione per il legame che aveva con il suo popolo e li rappresentò da artista che aveva assimilato i motivi della cultura vociana. Usando il dialetto di Ragusa, in cui è l’accentuazione di una pronunzia forte e dittongata, con suoni secchi punici (si veda la pronunzia di dd) e con risentitissimi futuri perifrastici che corrispondono al sentimento del dovere, della fatalità, della necessità (« hà ffari, hà ssiri ») Vant’Anntò riuscì a scendere nel pro-

fondo della condizione sociale di fatica dei contadini e nella loto cul- tura, servendosi dell’ironia popolare: « Travagghiamu, facimu pini tenza, — suffriemu, e allegri senza fari cianti! — Sutta cunnanna siemu

tutti quanti, — né si pò cancillari la sintenza [...] — ma lu viddanu resta sempri è scuru ». La mietitura si svolge, in altri componimenti, in un alone ditirambico, il ritmo dei canti è più svelto naturalisticamente, otgiastico:

« Ah, massaru, massaru puorcu! — È menz’ura ca nun tuoc-

cu: — è menz’ura nun tastu vinu, — lu travagghiu è cciù cuntinu [...] — Viniti all’ura, viniti bedda! — spirtusati la cannedda; — spirtusati lu vuttaccinu, — quantu piscia vinu ri cinu. — Piscia vinu, piscia russu, — n’arrufrisca a tutti lu mussu; — piscia russu, piscia vinu, — n’umidisci

lu stuppinu. — Lu stuppinu quannu è siccu, — ebbiva lu poviru, e abbassu lu riccu ». ‘Nel secondo dopoguerra il pericolo di un nuovo conflitto, la necessità di una presenza popolare vigilante e serrata intorno ai problemi fondamentali della vita umana, della lotta per la pace, i legami di forze responsabili con forze reazionarie risuscitarono anche in Sicilia nuove energie e Vann’Antò scelse la via di coloro che chiedevano la terra, che difendevano la pace. Allora egli emerse quale interprete totale della situazione, realista, interprete delle contraddizioni e portò sul piano dell’arte la sua opposizione alla società dominante. Così in L’urtimza querra: Cu ntè càmmiri ca cumànnanu (cuomu rici lu muttu anticu)

e li puòpuli ca si scànnanu! l’un all’àutru e pirchì? nnimicu, basta rìciunu la patria: basta sièmu piècuri stùpiti,

salle

tinti piècuri testa calata ca cci attocca fari li lupi, ni pigghiau la gran fuddìa ca cciù miegghiu a l’uccirìàa! , mmarditti puopuli e cu ni cuverna [....] ni sduffammu ri la campata ca finìu giustizzia e amuri e finissi testa-tagghiata lu stissu munnu lu stissu suli, fussi morti ri ntunnu nsumma quantu spara l’urtima bumma!

Il secondo esempio è quello di Pasquale Creazzo (1875-1963) di Cinquefrondi, organizzatore antifascista dei contadini nella Piana di Palmi il quale nella resistenza agli agrari e al fascismo portò il suo contributo, oltre che come politico, come poeta popolare i cui motivi nascevano dall’interno del proletariato contadino della Piana. Il contadino di Creazzo non è l’astratto villano della tradizione letteraria umanistica ma il servo della gleba sfruttato per sei secoli dai feudatari e per un altro secolo dai neoagrari che avevano usurpato le terre demaniali, è il servo della gleba che vive in un inferno di zolle e di tuguri, di malaria e di alluvioni. Padri, figli analfabeti di emigrati, zappatori, brac| cianti si ripetevano a memoria nel 1927 Lu zappaturi, un grande canto

aspro anche per le rime cupe, insistendo sul contrasto di classe fra padrone e zappatore, disperato e amaro nella constatazione delle infernali diseguaglianze; canto che in monotone cadenze ritmiche, privo di aggettivi, dominato dal sordo « pistari » dello zappone, esprime una cultura diversa, al di fuori di ogni bipolarità; canto di denunzia, di disperazione

rabbiosa, di rappresentazione del ferocemente indifferente mondo dei padroni delle terre e degli ulivi:° Zappe mbiv’acqua mbivi a la gutti ... Avi tant’anni chi curvu abbuzzuni, Standu accirchiatu sempi pistandu cu E scippa e chianta

ntra gozzi rutti ... cu mangia e agghiutti! zappu terra comu crapuni. lu pettu serra lu zappuni. no pozzu cchiuni

5 A. PiroMALLI, Pasquale Creazzo e il mondo contadino, in Società e cultura in Calabria tra Otto e Novecento, Cassino, Garigliano 1979, pp. 163-178, e, poi, in Creazzo, Antologia dialettale, a cura di A. Piromalli e D. Scafoglio, Cosenza, Pelle: grini 1981. 20

sempi cogghiendu pe lu patruni! Poi quandu veni lu vesparinu lu me patruni fumija nsanu; arrocculatu ntra nu lettinu riposulija di bon cristianu ... Lu strapazzaru li maccarruni ...

[...]

pe cchiss’è stanculu me patruni!

[....]

Lu mpernu è fattu-pe li cafuni, lu paradisu pe li riccuni. Pe penitenza staju abbuzzuni fin” a chi campu cu stu zappuni! Ma su vejanu, su tamarruni, su peji tosta, niru cafuni ...

Con questi canti autonomi dal blocco egemone il Creazzo fornisce elementi di lotta al proletariato e miti geniali interpretando in senso rivoluzionario la tradizione religiosa (tradizione profonda in cui sono considerati santi bizantini umili personaggi del popolo, pastoti, stallieri, mietitori o in cui santi guerrieri, potenze soprannaturali diventano protettori e difensori delle popolazioni afflitte da guerre, terremoti, pestilenze, carestie, incursioni di armati):

la lotta tra s. Michele Arcangelo

e il demonio diventa la lotta tra borghesia e proletariato. Non ci convince affatto, per quanto riguarda il secondo dopoguerra, la tesi che l’uso del dialetto in modo puro e in sostegno di una prosa italiana in funzione di realismo sociale sia sciatto e ambiguo e non realistico. Ovviamente bisogna giudicare secondo i risultati e non secondo i ptincìpi perché i metodi — lo indica anche il Segre — sono i più vari (dal rispecchiamento all’interpretazione, alla trascrizione, all’intervista) e le diverse tecniche devono essere esaminate nella proprietà e rispondenza culturale. Sarebbe illegittimo, del resto, negare oggi al dialetto gli intermedia di cui la letteratura si serve abbondantemente con radiogrammi, romanzi sceneggiati ecc.

Si può dire che questa è letteratura influenzata dai mass media e siamo così giunti all’attenuazione della letteratura dialettale, nel secondo dopoguerra, il che non è la sua morte ma una diversa funzione: quella di dare, come diceva Pasolini, « corpo a strati di realtà che altrimenti resterebbero inconoscibili ». Non sappiamo quali, fra le tante possibili,

saranno le funzioni dei dialetti nel futuro che si svolgerà da questo attuale conformismo linguistico. L’intenzione di questi nostri appunti è quella di contribuire a una rifondazione della letteratura italiana facendo riemergere nella storia della lingua i momenti pregnanti della iS

ST

cultura dialettale nei diversi rapporti con la lingua. Scavi e ricerche dovrebbero essere orientati in questa direzione critica e non in quella della degustazione estetica. Concludiamo con un esempio indicativo di una funzione del dialetto — che non vorremmò fosse interpretato sentimentalmente bensì su base storica — tratto da Enotrio Pugliese. Il poeta, uomo del Sud, è per lavoro in un paese del Nord dove la vita sua passa « sulagna »: sentendo un accento calabrese si avvicina al parlante che risponde artificiosamente toscaneggiando: Na duminica nesciu e nta na strata, vacantuniandu, ncuntru nu cristianu

chi parra cu n’amicu e a la calata mi pari di li parti di Surianu.

Cu lu cori chi junta, all'’ammucciuni nci spiu: — Vui no siti paisanu? Mi guarda: — Tischi-toschi? — E lu cazzuni si menti pemmu parla talianu.

È questa, ancora, una funzione — di rappresentare affetti e realtà — del dialetto contro il livellamento linguistico — e non solo linguistico — del tempo nostro.

6 EnotrIO, Fatti, figuri e cosi calabrisi, Roma, Arti Grafiche 1976.

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II

LÀ CRITICA

ACCADEMICA

E LA SOCIETÀ

DI MASSA

Per potere propotre un rapporto congruente tra società-cultura di massa e critica accademica e per potere indicare i condizionamenti e le reazioni della critica accademica assumiamo come critica accademica in quanto professata soprattutto da accademici (con le eccezioni dei liberi studiosi, non professionisticamente facenti parte dell’attività accademica) la critica che organizza la letteratura come « storia della letteratura » e che si rivolge alla formazione culturale di scolari e insegnanti e alla informazione sui fenomeni letterari a un pubblico vasto. Assumiamo come punto di partenza l’età del positivismo perché prima di allora la storia letteraria accompagnava le vicende politiche e sociali finalizzate al movimento di progresso culminante nell’Unità d’Italia e i ceti sociali che concorrevano all’Unità — pur nelle diverse posizioni, spesso ambigue, ambivalenti, ricche di riserve mentali politiche — avevano come base di riconoscimento alcuni elementi generali comuni di progresso sui quali, dopo l’Unità, le divergenze saranno profonde e caratterizzanti della effigie del nuovo Stato. Ovviamente parliamo di ceti medi, borghesi e aristocratici, colti ed egemoni, poiché i ceti subalterni erano nella loro stragrande maggioranza — di origine contadina o contadini — analfabeti. Ma dell’età del positivismo consideriamo la crisi culturale assai significativa in tutti i campi perché è crisi della società agraria e ascesa della società industriale, organizzazione delle strutture borghesi capitalistiche, trionfo dell’irrazionale, crisi della ragione. Indicare fin da principio le cause della crisi significa anche indicare la funzione politica della borghesia la quale si preoccupò di pilotare la reazione contro il mondo della realtà, di guidare in direzione non associativa gli uomini dimidiati dalla divisione del lavoro, esaltare lo slegamento sociale e le sue conseguenze (sentimento dell’inconscio, del mistero, malattie della

SCLC, I

psiche e loro morbosità, fede religiosa, irrazionalismo, attivismo sfre-

nato di carattere compensativo, fuga nel simbolo, nell’illuminazione, nella sensibilità, etc.). La grande paura ingenerata dallo sviluppo delle nuove masse operaie, dai movimenti contadini organizzati dal socialismo

causa un riflusso della cultura della borghesia verso la tradizione, l’umanesimo, la poesia. Il progresso scientifico come progresso di massa è, nei suoi diversi aspetti, un elemento che concorre, con le paure che

genera oltre che con le delusioni, un elemento del riflusso culturale. Per Pascoli la scienza non può dare fiducia perché non è riuscita a vincere la morte e la poesia si rifugia in una zona psicologica neutra, quella del fanciullino, che è lontana dal capitalismo e dal socialismo. In quella zona si afferma l’intuizione della poesia: « A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra [...] La sostanza psichica è uguale nei fanciulli di tutti i popoli. Un fanciullo è fanciullo allo stesso modo e da per tutto ». D’Annunzio nel 1895 scrisse che i poeti rappresentano la « suprema scienza e la suprema forza del mondo » e che « un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica ». Determinazioni dell’irrazionale in D'Annunzio sono gli elementi che pongono al centro di tutto la vita, cioè l’insoddisfazione verso ciò che è positivo, interpretato come inerte e meccanico. Lasciamo, però, da parte il richiamo, che sarebbe sterminato, agli elementi documentati della presenza dell’irrazionale, del simbolico, della religione estetica tra Otto e Novecento osservando soltanto che la precisione linguistica del Pascoli e l’eccitazione di D'Annunzio che ricerca incessantemente il Sommo, l’Insuperabile, l’Inarrivabile finiscono nella zona dell’irrazionale. Non ci interessano,

qui, gli esiti di poesia pura che penetrano nel Novecento quanto, invece, la riduzione di ogni attività a poesia come elemento superiore alogico e fuori delle relazioni storiche. Né ci interessano le contraddizioni dei poeti quando, come il D'Annunzio, canteranno «i gran magli e le macchine forbite » perché le contraddizioni confermano l’atteggiamento alogico-estetico. Ci interessano l’apparente disimpegno contemplativo della borghesia in fatto di poesia e l’effettivo interesse che i suoi operatori dimostrano, nella preparazione della storia letteraria, per la difesa dell’umanesimo contro la cultura scientifica: umanesimo voleva dire tradizione che doveva costituire la forza frenante del progresso e voleva dire scelta di un tipo di cultura letteraria che sceverasse, distinguesse gli elementi dirigenti secondo un concetto di superiorità di classe e di strumenti di orga-

ARI, FS

nizzazione. La realtà non veniva guardata dalle radici e in un generale moto di progresso che doveva fornire alle classi subalterne gli strumenti

dell’uguaglianza bensì veniva guardata in relazione ai vertici e al loro assestamento egemonico: la cultura letteraria e umanistica era lo strumento di selezione delle masse che rappresentavano, come nella filosofia platonica, il ventre della società; Pintellettuale borghese di formazione umanistica avrebbe saputo, a sua volta, separarsi dalla maggioranza sociale in virtù dell’egemonia culturale ed economica, come aveva fatto immediatamente dopo l'Unità. La critica accademica dell’età positivistica ha tra i suoi meriti il riordinamento dei documenti della nostra cultura letteraria. I suoi rappresentanti (vissuti durante lo sviluppo dell’industrialismo e dell’operaismo, della nuova società e scuola di massa) furono esploratori di «archivi e biblioteche, ricercatori di documenti. Nelle loro storie lette-

rarie la storia è estrinseca, è — come ha scritto Giuseppe Petronio! — narrata, la letteratura è nettamente separata dalle altre discipline, il dibattito contemporaneo più importante, quello sulla letteratura verista, è assente. Il senso storico manca perché nell’esame monografico di uno scrittore i critici si dimostrano veramente accademici in quanto non danno rilievo né svolgimento all’autore trattato: essi sono dei descrittori metodici e professorali, non vedono dimensioni e relazioni, non sostengono idee o tesi, lo stesso giudizio estetico è generico e superficiale perché non sotretto da una filosofia o da un criterio filosofico. L’erudizione documentaria è notevole nei volumi della prima storia letteraria vallardiana per secoli (i cui autori appartengono alla scuola storica o da essa derivano) ma in questa storia non mancano i moralismi borghesi, le indignazioni antipopolari, la difesa d’ufficio di tiranni e signori, le tacitazioni delle viltà morali di poeti e scrittori, il nazionalismo letterario, le descrizioni delle corti donatrici di felicità attraverso corse di barberi, feste religiose, cavalcate sfarzose, giostre d’armi, etc. Il descrittivismo approderà, con la Storia della letteratura italiana (1900-1902) di Vittorio Rossi — che si verrà avvicinando al crociane° simo — all’eclettismo indifferente e povero di sceverazioni critiche o estetiche. Quante osservazioni dovrà fare Antonio Gramsci al Rossi di

altri studi connessi con il problema del Rinascimento a proposito di mancata chiarificazione dei movimenti contraddittori, delle diverse forme

1 G. PerronIo: «Perché sia storia le manca il “ punto di vista”, il presente dal quale guardare al passato per dargli senso e unità» (Teoria e realtà della storiografia letteraria, Bari, Laterza 1981, p. L).

Ci

di feudalesimo, della romanità imperiale, delle insensate « anime con-

geniali » del mondo romano e del periodo medio-latino e del Rinascimento, delle inesistenti « signorie nazionali »! Gramsci definisce « vaghe e vuote di senso » la maggior parte delle tesi che Rossi imbastisce su metafore verbali o sulla « vecchia concezione retorica e letteraria » intorno al Rinascimento nel quale lo storico, tutto preso dall’idea della continuità, non riesce a vedere né le due correnti del Rinascimento (una progressista e una regressiva di origine aristocratica e staccata dal popolonazione) né il distacco tra medioevo latino e latino umanistico né che gli umanisti continuavano, in altre forme, l’universalismo medievale. Nella Storia del Rossi per le scuole c’è, però, una solida struttura di

impianto alla quale sono debitrici molte altre storie letterarie venute dopo. Grandi meriti ebbero Adolfo Bartoli (1878-89) Adolfo Gasparty (1884-88) ma la mancanza di prospettive critiche che sono in essi troviamo anche nelle storie letterarie di qualche periodo o genere nonché nelle storie regionali o locali che da essi derivano o ad essi si apparentano come il Canello, il Morsolin, lo Zanella, Wiese e Pèrcopo, nel

Ferrario, etc. Se dalla scuola storica, cioè, derivano le esemplari raccolte di testi e di codici di rime antiche che costituiscono il vero monumento della cultura filologica di quell’età (da Medin a L. Frati, Carducci, T. Casini, Mazzatinti, Parducci, Zaccagnini, D'Ancona, Novati, Renier, Luzio, Comparetti, Egidi, Monaci, Pelaez, Cian, Barbi, Massera, Bilancioni e molti altri bibliografi, vocabolaristi, studiosi di grammatica, me-

trica, etc.) che vengono incontro alla necessità di testi sicuri e alla richiesta di manuali di storia letteraria per generi, secoli, periodi o complessive (tra queste ricordiamo quelle di R. Fornaciari, G. Finzi, C. M.

Tallarico, I. Pizzi, G. A. Venturi, A. Belloni e G. Brognologo, G. A. Cesareo nonché le antologie di F. Ambtrosoli, G. Mestica, F. Torraca, T. Casini, A. D'Ancona e O. Bacci e le opere didattiche di V. Turri, G. Giannini) — opere tutte che testimoniano la richiesta da parte dei nuovi ceti e della scuola di massa —, dalle pagine di storia letteraria

deriva l’ideologia umanistico-descrittiva favorevole unicamente al gusto delle classi dominanti, al formalismo dell’aristocrazia, all’estetizzazione

dei tiranni, alla riduzione all’unità degli elementi contrastanti di un personaggio o di un’epoca, alla falsa prospettiva — perché parziale — dei giudizi storici o estetici. In questi gusti la visuale di classe — borghese — condizionava atteggiamenti di superiorità morale nei confronti del popolo, del dialetto, della letteratura popolare che veniva impreziosita con la letteratura colta o ricondotta illegittimamente a remoti antecedenti

spe

dotti presenti nel genere letteratiodi appartenenza. Il trattato, la classificazione, la letteratura dotta inglobavano l’autenticità espressiva o la negavano con la riduzione a elemento inferiore, a materia priva di forma, a collettivo privo di individualità. Le antinomie e le contraddizioni della cultura di un’epoca venivano cancellate dall’ideologia monarchica degli studiosi. Il metodo storico era congruente alla volontà della borghesia di non usare la dialettica per non chiarire i « punti di vista », per fare apparire come superiore il punto di vista del neutralismo della scienza. I nomi già ricordati di Vittorio Rossi e di G. A. Cesareo ci portano alle prime influenze dell’estetica crociana sulle storie letterarie. La decadenza del metodo storico è l’indice di una situazione culturale che già si è consolidata in altre forme, in quelle del vagheggiamento estetico dell’opera d’arte. Dietro la mancata storicizzazione in cui si era risolto il metodo storico-erudito c’era l'indifferenza storica verso gli interessi umani della letteratura, la mancanza di una prospettiva: con il Croce siamo all’evasione dalla realtà. La « totalità dell’esperienza estetica » intende sciogliere nell’espressione estetica i motivi umani e storici e scioglierli nella serenità della forma. Ovviamente durante l’egemonia dell’estetica del Croce non tutti i critici accademici hanno origine crociana; continuano a sussistere i critici di origine erudita e al periodo di Croce appartengono i rifacimenti della vallardiana storia letteraria per secolo e chi legga i due volumi Ur cinquantennio di studi sulla letteratura italiana (1886-1936)

(Firenze, Sansoni

1937) dedicati a Vittorio

Rossi può osservare nella nota introduttiva di Umberto Bosco che l’epoca del metodo storico è terminata e che: Vittorio Rossi si è venuto accostando al crocianesimo (mentre nel suo vecchio studio su G. B. Gua-

rini il critico sfiorava « appena il problema dell’arte dello scrittore »); la grande mietitura storico-erudita dei documenti e degli inediti era ormai terminata; la scuola storica della prima generazione aveva avuto scarsa coscienza dei metodi di critica testuale (è criticato il Renier che

a proposito dell’edizione critica di Fazio degli Uberti aveva trascurato la recensio dei codici) a cui aveva sopperito la seconda generazione del metodo storico col Rossi e col Barbi e, più tardi, anche la critica ideali-

stica: la scuola storica « aveva costantemente rinunciato a giudicare » o aveva ripetuto i giudizi tradizionali « genericamente laudativi ». Tuttavia nel suo tentativo di mediazione il Bosco lamentava che la critica idealistica pronunciasse come definitive talune affermazioni superficiali, che quella critica fosse « senza alcuna base di preparazione storica ». In un manuale per la formazione degli insegnanti di lettere di Orazio Bacci (Indagini e problemi della storia letteraria italiana, Livorno, GiuRA 30 Le IPESA

sti 1910) l’arte è intuizione pura e il « carattere essenziale dell’arte letteraria [...] è la poesia ». Inoltre si afferma che «alla qualità del contenuto delle opere la storia letteraria non s’interessa, mentre, movendo alla ricerca, sempre, dell’espressione, deve esigere la presenza dell’elemento artistico pur in ogni contenuto logico ed etico ». Il Bacci, pet giunta, discutendo la « scienza letteraria » di cui parlava il Galletti (cioè la critica letteraria la quale si studia di « riprodurre in sé e di esprimere l’emozione estetica prodotta dall’opera letteraria ») afferma chiaramente che « la critica e la storia letteraria non sono scienza, ed

è molto più vero che il critico d’arte, il quale senta e abbracci l’unità della critica, è artista aggiunto all’artista » e che « ogni possibilità di leggi da riconoscere e di classificazioni schematiche da fare, quanto a’ fenomeni letterari, viene a mancare ». L’autore, richiamandosi all’este-

tica di Croce, ripudia il concetto di evoluzione dei generi letterari e quello del progresso dell’arte ma quando deve indicare le linee di una storia letteraria cade in quella genericità che ha caratterizzato i manuali e le storie letterarie dei primi decenni del nostro secolo. Il significativo, l’importanza — elementi caratteristici — navigano al di fuori di una prospettiva e di una storia; le teoriche estetiche toccano soltanto i capolavori (« cime d’un sistema orografico ») perché questi, « individuali e non ripetibili », « non pazzo tempo né luogo », sono gustati « con una specie di contemplazione, che gli esteti fan diventare quasi un dono di iniziati o una grazia » e hanno una « temperatura » necessaria perché l’opera si risolva « nella luce o nella fiamma dell’arte, ossia nell’anima del creatore ». L°« atto creativo » è un atto di « purificazione estetica » e le sue forme non hanno nulla dell’« organismo che nasca, viva, muoia,

secondo una parabola », gli elementi non purificati trascendono « i limiti della storia letteraria per rientrare in quelli della storia della cultura, della politica, del costume ». Ci siamo soffermati su quest’opera istituzionale del Bacci perché in essa sono sintetizzate le linee delle storie letterarie che rispondono ai gusti e alle idealità di superiorità espresse dalla borghesia italiana degli anni in cui il superuomo veniva volgarizzato dalla borghesia stessa. Siamo ai primi anni del Novecento e Papini scrive che « soltanto la borghesia possiede oggi virtualmente alcune delle qualità e dei requisiti di classe organizzatrice della vita nazionale ». I miti della superiorità, dell’estetismo, del misticismo, del nazionalismo imperialistico sono delle vere ideologie le quali derivano dal vario articolarsi e intrecciarsi degli interessi di una borghesia agraria, impiegatizia, industrial-capitalista avversa, in tutte le sue articolazioni e in tutte le sue rappresentanze, alla o

plebe, al popolo, alle masse. La gerarchia, l’eroico, lo spirituale, il superumano, la forza, la bellezza, la nostalgia del passato, la riduzione di tutto all’individuo e al capo sono miti è idee che si oppongono alla società e alla cultura di massa, al materialismo scientifico, alle tensioni verso la collettività, ai sentimenti materiali o comuni, alle illusioni della pace sociale. La loro base comune è l’irrazionalismo, da questo derivano l'intuizione pura, magica, orfica, musicale fino al « delirare poetico » che è per il crociano Luigi Ambrosini uno dei caratteri più costanti e positivi dell’ispirazione ariostesca. Il Croce dal punto di vista morale prese posizione — per ambizione di leader di una borghesia non guasta — contro l’irrazionalismo ma la teoria della poesia come sogno, smemora-. mento, oblio, della critica come

elevazione

« lettura di poesia », di poesia come

antipedestre, « nobile sognare » (così Momigliano

intorno

all’Ariosto), « sorriso tra il reale e l’irreale » (Giuseppe Raniolo) deriva

dal Croce. L’indignazione morale di Croce, in quanto non ricercava le cause concrete, politiche dell’irrazionalismo, dell’ambiguità morale, della « trina bugia » e si opponeva, dal punto di vista della cultura di èlife e del sistema della filosofia dello spirito, alle forze e ai valori del popolo e della società di massa, non poteva dissociarsi dalle conseguenze irtazional-libertarie a cui andavano incontro la vita sociale e quella culturale. Nella cultura borghese del fascismo erano privilegiati la scuola umanistica, il primato dell’antichità al fine di creare una « dittatura reazionaria di massa »; ma nel fascismo antipositivista, antiscientifico, anti-

sociologico l’idealismo diguazza con l’antirealismo, l’antimarxismo, il disprezzo per il « vulgo » delle masse non ripartite in legioni e manipoli. ‘Ancora la storia — resecati l’illuminismo e la scienza dalla cultura — era un flatus vocis. De Lollis vede nella letteratura i minori come documenti e, perciò, non valutabili esteticamente ma utili soltanto per inten-

dere « le grandi apparizioni della storia letteraria »; comparazioni, storia, etc. sono da valutare « in separata sede », fuori della critica estetica;

Domenico Petrini rifugge dal mondo ideologico di uno scrittore e dalla struttura per esaltare la letteratura, lo stile, il fiore della poesia, la tradizione; Giuseppe De Robertis spigola o risillaba immagini e suoni dei

contemporanei (« mimesi del sentimento », « labile con mezzi labile », « suono interno » in Ungaretti); Gaetano Trombatore, che sorride giu-

stamente sulle letture-vocalizzi di Miranda di Fogazzaro, trasceglie in. Fogazzaro soltanto « inobliabili risonanze musicali », « accorate desolazioni », « trascolorante sensibilità » « clima fantastico musicale », etc. Si trattava di « letture di poesia », rapsodiche, astoriche, nelle quali si consumava il gusto di un crocianesimo consolatorio e veleggianti sulle

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immagini liriche. Variava il gusto da lettore a lettore (finissimo e sicuro il Momigliano ma individuale e di breve respiro), moderno (ma esemplato su Ungaretti) in De Robertis. Ma le classificazioni della nostra poesia operate durante il fascismo dalla critica accademica respingevano la letteratura contemporanea perché il vivente e il reale erano elementi da esorcizzare. Se tutto è nella tradizione, il contemporaneo è un’eresia in sé in quanto il contemporaneo si può mascherare meno del passato, la grande matrice di elementi utili a creare l'egemonia fondata sulle teorie della retorica della cultura. Il contemporaneo è problematico, orienta più facilmente e più pericolosamente; lo studioso della letteratura del passato è indotto a sentirsi in armonia con modi di sentire che non esistono più e che, per la loro struttura vista come definitiva, classica, hanno il fascino delle forme ordinate e perenni; la tradizione dà sicurezza, il contemporaneo è più cronachistico e, perciò, appartenente a una misura più giornalistica. Dal presente possono derivare stimoli sociali nuovi mentre la critica letteraria accademica cerca di esorcizzare nel pubblico di massa al quale si rivolge gli interessi storico-sociali che potrebbero essere utilizzati per dirompere le convinzioni letterarie ed esprimere i problemi relativi a una nuova società e a una nuova cultura. La critica accademica, invece,

funzionale alla formazione di una cultura per classi dirigenti, ha bisogno di destoricizzare la cultura, di esaltare il carattere aristocratico e geratchico, di vedere i fenomeni dal vertice e non dalle radici. L’astrazione della critica è congruente con il sistema della borghesia (variamente articolata) la quale crea intellettuali, mezzi di informazione (radio, giornali, mostre, libri di testo, manuali, editoria, scuola, teatro, cinema, etc.) in

relazione con le sue necessità economiche di struttura. Le mediazioni sono numerose, i collegamenti col passato assai variegati, i livelli di informazione commisurati ai ruoli dei destinatari. Per quanto riguarda la critica accademica essa rappresenta un settore dell’informazione la cui impottanza deriva soprattutto dalla trasmissione della cultura letteraria ai fini della formazione di professori e alunni. Tra i condizionamenti principali degli accademici nel trattare la cultura di massa possiamo notare: la paura del socialismo, il distacco dalla storia perché la storia integrale non consente di espungere gli elementi della cultura di massa, la tradizione in funzione dell’anticontempotaneo, il disprezzo che pesava su coloro i quali mettevano in rapporto la letteratura con la sociologia o con la cultura storico-sociale, etc. L’egemonia di Croce è lunga e diverse sono le articolazioni di essa nella scuola italiana nella quale convissero, fino a un certo momento, l’indirizzo erudito e l’interpretazione estetica

RETTA

sulla base del carattere informativo che aveva l'insegnamento medio. Il crocianesimo, col passare degli. anni, acquista folte manovalanze di divulgatori; di fiancheggiatori, di ripetitori, di conservatori del verbo nonché di critici militanti e accademici i quali, sempre sul terreno del

maestro, integrano (come Luigi Russo) con elementi delle antitesi di Croce, la discussione sulla storia letteraria. Anche i più eruditi, però,

espungono dalla storia letteraria gli elementi sociologici.e dalla sfera della poesia il realismo e gli elementi storici. La riforma Gentile avvertiva che « le opere d’arte debbono essere guardate con animo sgombro da ogni preoccupazione che non sia quella del loro valore estetico, del loro valore umano » e che degli scrittori non si debbono conoscere le vicende esterne bensì ciò che « di esperienza personale abbia contribuito alla formazione del loro mondo poe-

"tico ». Nascevano così i manuali di Attilio Momigliano (1935), Mario Sansone (1938), Natalino Sapegno (1936-47), Francesco Flora (1940). Nel compatto (ma eclettico) clima idealistico della letteratura, che ha

come culmine la poesia, questi manuali hanno un piano storiografico comune: il criterio di validità estetica, il principio individualizzante, il concetto di autonomia dell’arte. Sicché (ma un discorso a parte è da farsi per il Sapegno il cui manuale è apparso in due assai diversi tempi) se in questi testi troviamo una saldezza dottrinale crociana più o meno espressa, sicura intuizione della poesia, nonché sillabazione di frammenti di bellezza perfettamente congruenti al gusto di una èlite borghese antitetica alla cultura di massa,

troviamo

anche

attenzione notevole

alla

singola opera d’arte ma scarsa al pensiero e alla personalità, alla struttura storica e, in qualcuno di questi manuali, notiamo anche la disgregazione delle individualità poetiche nell’impressionismo rabdomantico. Questi testi trasferivano nell’ambito della scuola la metodologia dello storicismo con sufficiente chiarezza sia nel seguire la poesia che nell’evitare i riferimenti extraestetici.* Le posizioni dei critici sopra indicate sono delle posizioni critiche 2 Il ricordato Manuale (1883-86) del Torraca, quelli del Casini, di D'Ancona e. Bacci (che rimandava all’antologia del Morandi) rispondevano al carattere informativo dell’insegfamento medio con le biografie degli scrittori, la figura dell’uomo e le accurate bibliografie e offrivano materiali e repertori sicuri. Di Vittorio Rossisi è già detto mentre della storia letteraria del Cesareo bisogna aggiungere che il crocianesimo è sommerso da un eclettismo desantisiano-carducciano che disorienta; i generi letterari continuano ad esistere in Galletti-Alterocca (1922) mentre nella breve storia di Donadoni (1923) prevalgono il motivo dei valori umani e della personalità degli autori. 3 Pur nata nell’età dell’idealismo la storia letteraria di Giuseppe Zonta (1928-32) collega, intorno a diversi problemi, la letteratura con le teorie scientifiche dello sviluppo sociale.

Pecdegt :1)pete

condizionate, con modelli più o meno retorici in quanto informativi delle tematiche della cultura dirigente e divaricati dalla base sociale di massa che si propone come mondo del lavoro. Nel campo accademico quelle posizioni valgono a canalizzare, abbiamo vistò, nell’informazione neutrale o nella ricerca erudita prima, nell’analisi estetica poi le ideologie culturali di èlife, ideologie mediate e destoricizzate. Quelle posizioni rappresentavano la crisi conoscitiva di un sistema che vede la letteratura aderente ai gusti di una società borghese che lotta contro la cultura di massa e contro « la letteratura come modo specifico di produzione sociale, di elaborazione di forme per la prassi », come « risposta conoscitiva alle contraddizioni reali, formalizzazione di bisogni socialmente determinati ».' Finita la seconda guerra mondiale Gaetano Trombatore in alcune pagine storico-autobiografiche ® annotava che del crocianesimo si erano sempre avvertiti il « larvato trascendentalismo », la tendenza a « sconfinare nell’astratto », la « scarsa presa nella realtà », l’« attesismo » politico della fine del fascismo, che da almeno venti anni la critica italiana

si era « pazientemente industriata a eliminare dalle opere d’arte tutti quelli che potevano sembrare elementi pratici, oratorii, intellettualistici [...] per isolare in esse un nucleo di illibata poesia » e per « rendere effabile l’ineffabile »; rimproverava, inoltre (osservando che « soffiava già una brezza anticrociana, che da allora [dal 1945] ad oggi, s'è fatta vento gagliardo e rapinoso »), la critica che aveva tralasciato di studiare proprio i motivi « che legano la poesia alla storia e ce ne possono far comprendere, se non proprio la genesi, almeno lo stimolo e l’impulso ». Lo studioso riconosceva anche che un pensiero filosofico non è mai sostituito da un altro pensiero filosofico « già bell’e fatto ». La critica marxista ha tentato fin da principio, infatti, di creare gli strumenti di un nuovo sistema coonscitivo in cui la storia della letteratura fosse quanto più possibile scientifica. Non molti furono, in principio, i contributi portati dalla critica accademica poiché proprio allora, in mancanza di ricerche di prima mano sulle ambivalenze di un’età come il Rinascimento o il Romanticismo e, soprattutto, sul campo sconosciuto della cultura popolare, sul rapporto società-cultura, fu necessario appoggiarsi agli studi degli storici e degli antropologi. I primi studiosi marxisti di storia letteraria furono, in verità, crocio-

marxisti, allievi di maestri idealisti, timorosi di contaminare la. poesia 4 A. Leone pE CASsTRIS, Estetica e marxismo, Roma, Editori Riuniti 1972. 5 G. TROMBATORE, Saggi critici, Firenze, La Nuova Italia 1950, pp. 282-285.

ee

con la sociologia, l'armonia di Ariosto con la società ferrarese; mancava ad essi la ricerca stofica intorno alla cultura popolare sì da costruire una storia letteraria integrale, in cui la letteratura avesse dalle radici il carattere di produzione sociale, fosse interpretata nella forza dinamica degli elementi subalterni, nelle contraddizioni della cultura e della società. Come non ricordare il ritegno nel trattare gli elementi sociali di un poeta, nel contaminare interdisciplinarmente la letteratura per farle acquistare la specificità storico-culturale funzionale alla prassi, il timore di dissacrare miti idcalistici, di vedere i poeti popolati interpreti di un’altra cultura rappresentativa dell’attività letteraria non meno della cultura egemone, le separazioni più o meno nette tra il pensiero e la poesia lirica, tra la poesia bucolica e la realtà, etc.? Occorreva diroccare una mitologia idealistica dalle mille forme coltivata in università, scuole medie superiori, accademie, circoli di letture poetiche, ricorrenze, anniversari, convegni, etc. e antitetica allo studio scientifico è materialistico della letteratura intesa come attività prodotta dagli uomini e per gli uomini. I miti della superiorità della poesia, dell’individualità poetica, delle forme nascenti da altre forme, della retrodatazione dell’espressione concreta e popolare a un universo colto che attraverso grammatici, scoliasti, autori di retorica si riconduce sempre al Medioevo, ai romani,

ai greci cominciarono a cedere quando la realtà politica, sociale e scolastica si venne trasformando e dialetticamente questa realtà divenne operante sui critici e sulle strutture culturali. La critica militante, la pubblicazione delle opere di Gramsci, gli studi teorici di Della Volpe, quelli scientifici di Geymonat, il concetto di classicismo illuministico di Sebastiano Timpanaro, l’interdisciplinarità, la sociologia, l'antropologia culturale furono le leve del rinnovamento della critica accademica che contribuirono a far cadere i vecchi condizionamenti. Questo lavoro fu lento, intersecato. Chi legga il Disegno storico di Sapegno vi trova, accanto

a notevoli aperture (per

quanto riguarda l’Otto e il Novecento), insidiosi compromessi: i principali elementi reazionari del romanticismo non vi sono trattati, la storia del Leopardi è ancora quella di un'anima, l’ambiente uggioso e retrivo di Recanati sembra disceso dal cielo, la poetica di Leopardi si dipana solamente dai libri, il classicismo giovanile di Carducci non è studiato nelle componenti illuministiche, i poeti in dialetto sono su una passerella e di quei dialetti non si ricercano le origini popolari o antipopolari, gli scrittori regionali sono quelli canonizzati e nessun nuovo risultato viene fuori, la cultura meridionale nelle sue più vivaci espressioni locali non appare.

ci e

Nella Storia popolare della letteratura italiana (1962) di Carlo Sali-

nari, di straordinaria ovvietà e di meravigliante conformismo, non c’è nulla di popolare, di sociale, di marxista: in essa non c’è una ricerca personale e l’autore si scusa affermando che mancava allora « un’elaborazione della ricerca sul piano scientifico » (che mancava solo per chi non era capace di attuare un metodo interdisciplinare e si richiamava soprattutto, sul piano dei giudizi estetici, alle posizioni più giovanili o attardate di Sapegno). Né il popolo né la scuola di massa hanno rilievo nella Storia della letteratura italiana di Salinari e Ricci del 1968. Salinari restava, per la sua formazione, nella parabola estrema della conoscenza idealistica, nonostante le diverse proclamazioni. Ben diversa era la Sintesi di storia

della letteratura italiana (1972) di Alberto Asor Rosa per lo sforzo di inquadrare la funzione degli intellettuali. Gli esiti di questa storia sono scontati a causa della mancanza di compattezza ideologica e politica degli intellettuali, categorie generalizzate le quali assorbono quello che era il vecchio sfondo della storia rendendo evidenti e collocando in primo piano tendenze ideologiche che sono nel quadro stesso. Questi intellettuali diventano astratti per la loro separatezza dalla cultura popolare e dalle masse di uomini che vivono in una società. La società di oggi è profondamente mutata anche per quanto riguarda la funzione e la destinazione dei manuali scolastici di letteratura. Le istituzioni elitarie che hanno trasmesso nel passato la cultura sono in crisi di fronte alle domande di una società e di una cultura di massa le quali richiedono una letteratura storico-materialistica i cui protagonisti siano veduti come portatori di specifiche (letterarie) istanze conoscitive critiche. Una storia letteraria attuale deve essere in rapporto con la nuova didattica, con la nuova scuola perché questa produce ruoli sociali, forze lavorative e perché le contraddizioni esplosive della fase avanzata della società oggi « hanno messo in crisi quell’uso antistorico della storia, quell’impiego trascendente della sua oggettività in funzione dei soggetti provvidenziali del suo fluire ».9 Ma c’è anche, nella razionalizzazione del capitalismo a cui sono spinte la società e la cultura di massa, il pericolo che la letteratura sia indotta alle nuove fenomenologie destoricizzate dello strutturalismo o di altre canalizzazioni, che la critica si riduca

a tecnicismo frantumato di forme mimetiche delle scienze esatte. Contro la rinascita dell’idealismo come « carattere e tendenza di fondo della 6 A. LEONE DE CASTRIS, in AA.Vv., Ideologia letteraria e scuola di massa, Bari, De Donato 1975, p. 19.

sc Bpna

cultura borghese » ci pare necessario, concludendo, ricordare di Giuseppe Petronio L'attività letteraria in Italia che nella nuova edizione (1979) è caratterizzata da diversi livelli di indagine (sociologica, linguistica, culturale etc.) per ricercare in quali modi rispondenti alle situazioni storico-sociali si è realizzato lo specifico letterario, in quali generi e tecniche, cioè, si canalizzasse la letteratura in relazione alle richieste del pubblico. I presupposti dell’Astività di Petronio sono: storia letteraria come storia di tutte le forme dell’attività letteraria di cui sono consumatori sia il pubblico colto sia il pubblico delle classi subalterne; equilibrio della socialità e collettività del fatto letterario con l’individualità delle singole opere; sintesi di specificità e interdisciplinarità; storia letteraria che comprenda anche la storia del concetto di letteratura e del ruolo ricoperto nel tempo dallo scrittore; presenza di un proprio « punto ‘di vista ». Tale punto di vista, espresso in diverse istanze, insiste sulla funzione sociale della letteratura (quindi non della letteratura per la letteratura) le cui tecniche sono state e sono i canali della traduzione

dell’ideologia in elemento letterario. In tal modo si vengono a contrastare le teorie idealistiche della let-. teratura periore, presenti teratura

come bella letteratura, come forma sovrareale, come valore suci si libera dai condizionamenti idealistici che sono stati sempre nella critica accademica: uno studio storico del concetto di letconsentirebbe di verificare tali implicazioni. Si viene ad affer-

mare il carattere della letteratura come attività umana, come realtà sto-

rica e sociale, rendendosi liberi definitivamente dai compromessi spesso grotteschi tra letteratura e poesia, fra tradizione e invenzione di origine crociana (dal Croce per il quale l’espressione letteraria «è una delle parti della civiltà e dell’educazione, simile alla cortesia e al galateo, e consiste nell’attuata armonia tra le espressioni non poetiche, cioè le passionali, prosastiche e oratorie o eccitanti, e quelle poetiche, in modo che le prime nel loro corso, pur senza rinnegare sé stesse, non offendano la coscienza poetica ed artistica » [Croce, La poesia, Bari, Laterza 1937,

II ed., p. 33]) e ponendo i problemi concreti dei modi in cui la letteratura è concretamente diventata tale nelle istituzioni specifiche usate dagli uomini nelle diverse epoche. La ricerca materialistica dei modi di produzione della letteratura in relazione agli strumenti culturali delle diverse epoche pone in modo diverso da quello idealistico il problema della personalità dell’artista che non è in ultima istanza il poeta (in versi o in prosa) ma la personalità che ha avuto una visione storicamente organica della realtà e l’ha tradotta in arte letteraria con gli strumenti dell’età sua o componendone nuovi. Una prospettiva di tal genere accetta

3]

i motivi del ruolo sociale ricopetto dallo scrittore, accetta l’importanza del concetto del pubblico destinatario dell’opera letteraria ma non riduce la storia letteraria a storia sociologica di elementi della sua integralità che è il centro della sua sostanza, quella per cui l’intellettuale non è visto in sé ma in quanto lavoratore, con mente organica, nel campo della letteratura e il pubblico non è un pubblico astratto ma quello che in un determinato periodo elabora idee, manifesta gusti, assorbe cultura e vive di quella cultura (unita ad altre del tempo, del passato, anticipando forme di quella futura). Perché tale letteratura sia veramente integrale occorre ancora usufruire della cultura e della letteratura popolare che è ancora poco conosciuta o sconosciuta o da riscoprire con metodi interdisciplinari e che propongono come storicamente maturo il rapporto della storia della letteratura con l’anttopologia culturale, la cultura dialettale, la linguistica storica e altre discipline.

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III « CALABRESITÀ » E CULTURA

IL

« ROMANTICISMO SUA

GENESI

NATURALE

»

CALABRESE

POPOLARE

DI

DE

SANCTIS

E

LA

LETTERARIA

Con la consueta severità dello studioso serio della cultura calabrese e con metodologia storica nel campo della ricerca — unita a un gusto crociano nell’interpretazione della poesia — Vito G. Galati così scriveva ! della cultura calabrese: «In generale, oggi stesso si mantiene vivo — specie tra gli scrittori della regione — il criterio elogistico, delle ‘ glorie’ di casa; e assai di rado si guarda con benefica crudeltà la storia della cultura calabrese, che, come in ogni luogo, è frutto di pochi uomini di genio, di un forte gruppo di buoni operai della mente e di una moltitudine di mediocri: scarsi poeti (più spesso, e quasi in linea ininterrotta, latini), e numerosissimi ciarlatani versificatori; alcuni filosofi di marca

autentica, e una sequela di sciocchi sofisti impasticciati di casistica, sterili rimasticatori di precettistica stantìa [...] i più ritornano nel campo coltivato da altri, non per spazzarlo dalle erbacce e rifecondarlo, ma per la facilità di ricucinare gli stessi argomenti, ritinti da secoli in tutte

le salse inacidite dall’uso ». Le parole di Galati ci interessano:

1) per

l'individuazione del motivo del sottobosco critico-letterario, del criterio

« elogistico » che ripete vanti e miti regionali e locali e a cui è connesso lo pseudo concetto di « calabresità » come esaltazione astorica di ciò che è veduto con gli occhi del cuore e non della mente; 2) per il concetto di cultura che si richiama al Croce il quale nella prefazione al dizionario bio-bibliograco di Galati indicava che «la poesia, la letteratura, la filosofia, l’alta scienza di un popolo soro rappresentate da un numero 1 Vrro

G. Gatati,

Introduzione

a Gli scrittori delle Calabrie, Firenze, Vallecchi

1928, p. 4.

gn

non grande di uomini, e che perciò le storie letterarie, filosofiche e scien-

tifiche, che si posseggono, devoro essere, per così dire, ‘sfollate’ per lasciare rifulgere solo quanto, nel dominio della verità e della bellezza, ha valore originale ». i Tale concetto di cultura era chiaramente elitario, obbediente alle

astratte « verità e bellezza », espungeva la cultura popolare, mirava a riprodurre la figura dello studioso tradizionale il quale era l’antitesi della nuova figura di « intellettuale » che Antonio Gramsci verrà, di lì a poco, dal 1930, elaborando, in carcere, nel programma di ricerche intitolato Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali italiani. Sul rapporto tra cultura ufficiale e cultura popolare ritorneremo mentre adesso ci importa sottolineare la persistenza di alcuni miti che hanno costituito e costituiscono le mistificazioni della cultura in Calabria. Ovviamente non intendiamo riferirci agli studi seri sulle componenti storiche, etniche, religiose, letterarie della cultura calabrese. Il primo motivo mistificatore che incontriamo nei primi anni dell’Ottocento è lo pseudo concetto di « calabresità », un’astrazione coltivata in seguito da scrittori poeti, studiosi estetizzanti, eticizzanti, i quali hanno esaltato come peculiarmente calabresi, mescolandoli e trasformandoli di volta in volta, in modo da nascondere la realtà, alcune astrazioni come: la ferocia intesa quale valore etnico, lo scompenso psicologico quale capacità o

attitudine rivoluzionaria, la fedeltà alla tradizione quale elemento dell’« anima » calabrese, etc. Questi motivi costituirono la « calabresità »

nei suoi più vari significati: ora essa rappresentava la difesa dell’identità regionale, ora l’autonomia dalla vita moderna e dalla cultura nazionale,

‘ora la rivalsa — da parte di intellettuali periferici — del classicismo formalistico nei confronti delle avanguardie nazionali e della « moderna barbarie », ora il rifugio retorico nella gloria magnogreca, nel sinolo eticoestetico dei valori della casa, della famiglia, del paese, della donna, del

soldato, della patria (immenso serbatoio della cultura reazionaria di massa della destra politica e dei gruppi liberal-borghesi). La « calabresità » fu un dato 4 priori romantico-letterario postulato idealisticamente da Francesco De Sanctis (« Ne’ poeti calabresi, non solo non trovate la grande città come Napoli; ma nemmeno il villaggio. Vi si vede un popolo quasi ancora allo stato nomade ed eslege, dotato di forza selvaggia, nella quale penetra lentamente uno spirito cristiano; la Sila, il convento della foresta, gli antri de’ banditi »); esso era per

De Sanctis un dato negativo perché nella Calabria mancava il « contenuto patriottico e civile » della letteratura settentrionale sicché la letteratura romantica calabrese era, come in Italia meridionale, « leggerezza

MSI

di contenuto », « vuoto sentimento », « vuota immaginazione ». Il « colore locale », un dato sociologico, veniva usato da De Sanctis in senso idealistico, etico-estetico; a seconda dei casi: nel Valentino di Padula il personaggio Valentino era « l’ideale dell’ideale di Byron. Quel non so che di fosco, di-truce, di terribile che è nelle creazioni del poeta inglese piglia tinte più fosche, senza un punto luminoso », era Byron esagerato, incupito, privo della moralità, che è « serietà ». Oggi noi di-

remmo che si trattava di letteratura di consumo. De Sanctis si rifaceva, nel suo schema socio-antropologico della società calabrese « eslege », « selvaggia » e « nomade » all’immagine di una Calabria ribelle ai Francesi, abitata da briganti feroci e vendicativi; egli non diceva, però, che tutta la società appenninica o montana italiana, dalla Romagna all’Abruzzo, alle Marche accoglieva gruppi di uomini, contadini, montanari, bande di briganti ed emarginati che vivevano oggettivamente nelle condizioni in cui vivevano in Calabria (dove, del resto, esistevano condizioni strutturalmente economiche e sociali

alla base del brigantaggio) e non certamente per tendenza psicologica o per amore del colore. Il mito dei briganti feroci e vendicativi per natura derivava, invece, dalla realtà di una popolazione generalmente avversa ai Francesi, dalla relazioni ufficiali francesi sullo stato della Calabria i cui abitanti analfabeti e selvaggi erano paragonati gli stralunati abitanti del Caribe e in cui la situazione di guerra civile, incendi,

saccheggi, violenze, vendette personali, assunse per alcuni poeti romantici l’immagine di un mondo abitato da uomini che nella fierezza e nella vendetta trovavano la loro identità positiva nella condizione di oppressi. Motivi letterari e psicologici uniti a quelli che De Sanctis chiamava «una sorta di offeso sentimento patrio nazionale » completavano il quadro romantico di una società calabrese precivile e vivente allo stato di natura; accettabile come « colore » ma recante con sé troppo naturalismo perché potesse avere valore sul piano dell’arte dalla quale, nei romantici calabresi, De Sanctis espungeva l’erotismo paduliano non incanalabile negli schemi etico-estetici dell’idillio, l’orrido, la sensualità,

l’impeto naturale delle passioni, le deviazioni psicologiche, tutto ciò che portava il riflesso di una società « appena in principio di trasformazione sotto le mani dell’uomo civile come le Romagne » e in cui le passioni giungono all’estremo. La «calabresità » socio-antropologica di De Sanctis non ha una genesi reale bensì letteraria e produce quel « pastiche » che è il « romanticismo naturale » riflesso inerte di Byron o dell’ambiente, riproduzione di una società primitiva, non liberal-progressista come quella setLara

tentrionale. L'immagine della regione che si ha dalle pagine di De Sanctis è quella di una Calabria stralunata e romanzesca, una categoria letteraria byroniana, vista attraverso un mito che avrà largo séguito fino ai tempi nostri: nessun accenno, nel critico alla realtà storica, alla vita dei ceti

popolari e delle plebi subalterne, nessuna dialettica tra il dato socioantropologico e la cultura. La « calabresità » naturalistica è, in effetti, un elemento negativo perché è assente lo studio della cultura popolare: da allora in poi, fino alla critica letteraria dei giorni nostri, sarà costante la ripetizione dello stereotipo psicologico del brigante eroicizzato, del vendicatore crudele, della vita « patriarcale » delle famiglie, del « santuario domestico », delle passioni « intatte », della « natura altamente poetica » che sono espressioni desanctisiane. Lo stereotipo psicologico non ha rapporto, per De Sanctis, con lo stato sociale, con le guerre, le rivolte per la proprietà della terra (che era una ragione fondamentale). Eppure esisteva in Calabria una tradizione storica del brigantaggio come lotta di popolo e protesta sociale, come elemento della cultura popolare, del brigante che diventa tale perché oggetto di violenza o ingiustizia da parte del feudatario o del galantuomo, protetto dalle popolazioni in quanto osservava la giustizia popolare contadina? Il « romanticismo naturale » era il surrogato sovrareale e inventato di quella tradizione, il relitto sopravanzato alla rimozione delle lotte di classe e delle condizioni sociali delle popolazioni. Si ha, così, la prima nascita del pittoresco, del colore locale. Con Nicola Misasi pet quanto riguarda la genesi del brigantaggio non si deve far caso alla « questione agraria, quando è forse una questione fisiologica o topografica » 0 « il prodotto di una natura forte e rigogliosa, la quale, diretta al bene, potrebbe esser capace di grandi virtù, come finora fu capace di grandi delitti ».? Sparsi qua e là, nei racconti, questi motivi in Misasi assumono, nel migliore dei casi, aspetti di populismo didascalico-sociale, di rappresentazione di un mondo di primitivi, di folklore borghese (dissonante è, infatti, l’uso del dialetto immesso nelle descrizioni di oggetti e costumi del popolo). Infatti non manca la difesa del principio di autorità per timore dell’anarchia: «...in quel piccolo mondo che par tanto lontano dal nostro [...] una virtù era altissima che derivava [...] dalla schiavitù politica e religiosa in cui si viveva: il rispetto, profondo, sconfinato per l’autorità ... Il dispotismo politico

2 Cfr. Terre e briganti. Il Brigantaggio cantato dalle classi subalterne, a cura di A. Piromalli e D. Scafoglio, Firenze, D’Anna 1977. 3 N. MIsasi, Racconti calabresi, Napoli, Morano 1881.

SS MANASE:

generava il dispotismo familiare [...] Eppure in quegli schiavi, che ‘gagliarde tempre, quante fiere e generose virtù, quanto ingegno e quanta profonda dottrina! ... In provincia». La confusione ideologica (la fierezza della natura calabrese che vige con l’illibertà e si spegne con la libertà) e logica è, qui, notevole. In L'assedio di Amantea (1893) Mi-

sasi scrive che «odio » e « cieca invidia » armano il braccio e fanno tramare i calabresi l’uno contro l’altro, che i calabresi vendono l’anima

allo straniero e che se fra i parteggianti per lo straniero non mancarono i pochi i quali « volevano che la libertà non fosse un vano nome », gli altri seguirono l’« arruffio e il baccanale ». Se è vero che in Il romanzo della rivoluzione (1904) Misasi esprime la necessità di venire a contatto con gli altri popoli e di uscire dalla regione, il suo principio fondamentale rimane quello populistico e socio.naturalistico della « natura fiera e ardita », « primitiva ed affatto vergine » del popolo « nobilissimo ». Nel condizionamento dell’ambiente che tende genericamente al reale nel secondo Ottocento, il ricorso allo stereotipo romantico idealizza il mondo paesano, rusticale, in modo affettivo-paternalistico antitetico alla realtà che determina il brigantaggio e l’emigrazione.

PASCOLISMO IN CALABRIA EQUIVALENTE A MONDO DEGLI AFFETTI DOMESTICI. ETICA DEL CLASSICISMO IN VINCENZO GERACE.

Fin dal primo decennio del Novecento, dal rinnovamento estetico, etico della cultura italiana, la « calabresità » assume ormai il significato chiaro di conservatorismo sociale e culturale:

tradizione classica, virtù

familiari, valori locali, nostalgia del passato la contrassegnano. « Calabresità » diventa l’antitesi di cultura moderna. Di ogni fenomeno culturale moderno la « calabresità » cattura gli elementi sentimentali, estetizzanti etc. cercando di assimilarli alle astrazioni-valori in modo da spegnere le esigenze concrete della società popolare. La fortuna di Giovanni Pascoli in Calabria ad esempio, appare determinata dai sentimenti etici ed affettivi (amore della famiglia, del paese natìo, della casa) che il mondo pascoliano sembra esprimere. Pascoli non è inteso in Calabria come portatore di novità tecniche, come maestro di « ars

4 A. Prromatti, Alcuni aspetti particolari della fortuna di G. Pascoli in Calabria, in Dal Quattrocento al Novecento, Firenze, Olschki 1964, pp. 123-140; poi in Società e cultura in Calabria tra Otto e Novecento, Cassino, Garigliano 1979, pp. 67-96.

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dictandi » ma di contenuti etico-sentimentali conformi al classicismo della regione. Per Giuseppe Casalinuovo il Pascoli, poeta della casa e dell’orto, è l’anello che congiunge il mondo greco-calabro e la letteratura nazionale, mentre il vero poeta — che incarna l'essenza calabrese sia per i contenuti etici che per la concezione dell'armonia del mondo — è Vincenzo Gerace. Per Luigi Siciliani, invece, tutto il classicismo italiano

diventa accademico e decade con Monti per risalire verso la comprensione del mondo greco con Pascoli dei Conviviali che riscopre e rivive la bellezza antica. Il classicismo che nel nostro secolo si dissolve rappresenta il crollo di tutti i valori per Vincenzo Gerace il quale patì drammaticamente — in senso negativo — la separazione tra cultura regionale e cultura nazionale moderna. Al concetto crociano di forzza, di cosmicità lirica — che per Gerace generano metafore vuote, non idee né strutture architettoniche — il cittanovese contrappone la poesia filosofica di Leopardi, sintesi di umanesimo-eticità. La protesta contro la « moderna barbarie » è fatta in nome della tradizione classica intesa come l’idealismo etico di Fichte con l’aggiunta dell’umanesimo di Carducci: nella tradizione era contenuta una forte tensione morale che è caduta con la miseria del mondo moderno a cui corrisponde un’arte degenerata e barbarica della quale è responsabile, in gran parte, l’estetica della forza. Gerace, ragionatore lucido e coerente, rimescola la sua problematica di tradizione, sentimento del mistero, dell’etbos, vede nella posizione eroica di Leopardi (ben prima dei critici del Novecento:

ma il pensiero anarchico e socia-

lista aveva già studiato il Leopardi titanico) la vera sintesi dell’umanesimo etico. Il classicista Gerace, amante della sublimità morale, dell’individualismo titanico, si richiama al romanticismo tedesco e alla musica

(nella quale si fondono il momento etico-intellettuale e quello misticolirico). Tuttavia il Gerace, irascibile e crucciato misoneista, fu travolto

dalla sua avversione al mondo moderno e in La tradizione e la moderna barbarie (1927) polemizzò con Croce e Tilgher contro « l’internazionalismo letterario e romantico che è la negazione del genio della nostra razza ». Dalla razza, calabrese ovviamente, deriva nella poesia di Gerace l’immagine della donna ardita e vigorosa: La mia fanciulla nacque fra ’1 grano quando la madre mieteva, nel giugno; ond’è che il cuore mi strizza nel pugno, tanto è gagliarda: e il contrasto m’è invano

LOI

ovvero classicisticamente ingessata in un’immagine da cartellone turistico: In marmo egizio sculta canefora, quando dal fonte sereno tornasi sull’attorta chioma reggendo la manicata anfora grande.

: Un altro modo di intendere la « calabresità » è quello di identificare il popolo con la sua « anima », di spiegare tautologicamente l’« anima » con le qualità del popolo. Il romanticismo socio-antropologico che si prolunga nell’estetismo sentimentale è anche in Stanislao De Chiara5 per il quale « l’anima del popolo calabrese è stata sempre » eroica e. pudica, il popolo ha sempre tenuto in onore « la semplicità dei costumi, - l’affetto alla famiglia, che poi altro non è, in fondo, che l’amor di patria »; ma del popolo amato De Chiara censura, nei canti popolati, bonestatis causa, la parte più corposa dell’anima; inoltie la « resistenza

alle fatiche e alla miseria » fa sì che il popolo cerchi «le renti dell'emigrazione che, trasportandolo in luoghi aperti affranca dalla schiavitù più disumana »: la miseria, cioè, allenamento all’emigrazione, l'emigrazione una liberazione vità della miseria.

« CALABRESITÀ

»

COME

grandi core liberi, lo diventa un dalla schia-

ESTETISMO

‘ Lo pseudo concetto della « calabresità » è anche una « microfacies » del nazionalismo sorto nei primi anni del Novecento, tendente a rivalutare le qualità di spicco dell’individuo che venivano attribuite a un popolo, a una razza e che risultavano genericamente dalla storia, dalla tradizione, da momenti che diventavano assoluti, emblematici. Ciascuna diversità regionale veniva nobilitata in quanto eticizzata, il riconoscimento era consentito su base astrattamente etica. Agli elementi astratti si aggiunse, col dannunzianesimo, col carduccianesimo, col pascolismo l’estetismo letterario, altro sigillo di nobilitazione. Ma in quanto l’operazione era diretta dai nuclei intellettuali borghesi possessori dei mezzi di produzione culturale (in Calabria, con analfabetismo fino al 90 %,

esistevano microstrutture insignificanti: nessun giornale, nessuna casa editrice) essa era tuttaltro che popolare; mirava, invece, nel suo signi5 S. pe Curara, La mia Calabria, Milano, Quintieri 1920.

PRATI ge

ficato ultimo, a oltrepassare le condizioni sociali, lo stato sociale del-

l’intera regione, i problemi concreti, con la polvere dorata narcotizzante delle virtù patrie che si andranno infittendo durante il fascismo in cui i « cafoni » calabresi sono, come gli altri del Sud, per bocca di Mussolini, « grande riserva demografica della nazione ».° La componente elogistica delle virtù patrie si rinforza in questo periodo. Nel secondo dopoguerra, dopo le grandi lotte della fine degli anni Quaranta e dopo la nuova emigrazione coatta verso il Nord — programmata e riuscita nel quadro della restaurazione neocapitalistica — la mistificazione della pseudo « calabresità » continua come folklore acritico e balordo per opera di enti, aziende di turismo, parascrittori e parapoeti del sottobosco arcadico locale, per opera di una manovalanza che non diremmo culturale ma soltanto alfabetizzata, al servizio dei nuovi padroni di clientele politiche. Sono degli anni Settanta la liricizzazione del passato, il revival banale di oggetti e costumi esaltati in quanto non esistono più, enfatizzati al di fuori di ogni realtà critica, scientifica. Ovviamente lo pseudo concetto della regionalità astratta non appartiene alla sola Calabria. Anche altrove il feticismo degli oggetti rurali o artigiani delle comunità subalterne di una regione è stato un mezzo, pet la cultura egemone, per spegnere i risentimenti delle differenze di classe; l’interpretazione del mondo contadino come mondo idillico, nel quale le deviazioni dall’idillico e dal produttivo avvengono per impulsività individuali, mira a rimuovere il peso della fatica e i problemi che ne derivano. La visione letteraria o estetizzante sublima simbolicamente gli oggetti, li trasfigura affettivamente, li rende emblemi della vita di una regione, elementi della « romagnolità » « calabresità » etc. Gli ingredienti della regionalità possono essere i più diversi, soprattutto se si affida la loro pubblicizzazione ai « mass-media »; pochi giorni fa un profluente giornalista, Giorgio Bocca, non sublimava la ricchezza della « parmigianità » con « socialismo, parmigiano e melodramma »? Durante il fascismo Antonio Beltramelli aveva assunto la propria casa di campagna lungo il Ronco come espressione della romagnolità (« emporium dell’arte regionale locale rustica o di scuola » la disse Antonio Baldini) e l’aveva riempita di motti come questo: « La pié, l’urola, e fugh ... ècco la Sisa — e un cor cu s’arschèlda in tla burnìsa » (« La piada, l’aròla, il fuoco ... ecco la Sisa — ed un cuore che si riscalda alla brace »). Lo

pseudo concetto di « calabresità » è proteiforme nella estetizzazione che DI

p.

5 SIE A. CHiurco, ;

Storia

della rivoluzione

SLIAAISO

fascista,

IV, Firenze, Vallecchi

1929,

compie sotto aspetto di realismo regionale, paganesimo carducciano, misticismo pascoliano; anche i mali-che hanno origine nelle strutture

economiche e sociali (analfabetismo, mafia) ricevono, cattolicamente, assoluzione in quanto nostre componenti calabresi, si colorano di necessità e fatalismo. Le assoluzioni sono nate da-una tradizione interessata a non storicizzare, a non cogliere il rapporto tra società e cultura e gli aspetti stori-

camente specifici — legati a una società — della cultura calabrese; al di fuori della storia non si può comprendere, nel passato, la formazione dei gruppi intellettuali di Cosenza, Aprigliano, Acri, Vibo Valentia, Oppido Mamertina, Polistena etc.: dialettali, filosofi, illuministi etc. ai quali si.

sono aggiunti altri intellettuali laici, religiosi, aristocratici che ritenevano di avere una funzione autonoma e superiore; né si possono com-

° prendere fenomeni storici come l’eccidio dei Valdesi, le rivolte contadine, le ripetute diaspore dei contadini, il brigantaggio, le emigrazioni di massa, la letteratura dialettale di protesta né, talvolta, l’integrazione forzata dei lavoratori — favorita dal carattere geofisico della regione e dalle sue subregioni — in un blocco agrario mantenuto compatto anche da intellettuali dirigenti il cui ruolo storico è stata la difesa degli interessi delle classi dominanti. Nella storia della cultura calabrese il contrasto fra tradizione e rinnovamento (tra cultura locale e cultura nazionale) si è svolto, solitamente, in relazione alle strutture di classe, con soluzioni moderate o

reazionarie: cioè con richiamo al passato, ritorno al passato, nei termini di nostalgia, ricalchi; è stato un continuo rimbalzare di echi, di ricordi,

di archetipi pseudoetici diventati feticci. Il classicismo formalistico, la tarda arcadia, il ridondante barocco della letteratura in lingua (che ha avuto poche e notevoli eccezioni) hanno sorretto per sette secoli il feudalesimo e contrastato, censurato, rimosso il naturalismo che è l’asse cen-

trale della cultura popolare, della filosofia, della letteratura dialettale. Anche Corrado Alvaro costruisce la sua tela di « calabresità » senza fornite

un’idea

concreta

della tradizione

della regione,

confessando,

anzi, che « quale sia la tradizione dei calabresi è difficile dirlo ».° Profluentissimo è, poi, quando indica genericamente i caratteri distintivi calabresi nella « cavalleria », « talento filosofico », « senso del diritto e del torto », « gerarchia della vita », « struttura familiare », esclusione

di « ogni senso edonistico », « rinunzia », « inconscia vocazione verso

le cose alte e nobili », « feroci passioni », « antica tradizione mona7 C. Arvaro, Calabria, in Itinerario italiano, Milano, Bompiani 1941.

lag

pe

cale »: non l’indicazione di un filone storico, di una dialettica di classi,

ambienti, tendenze, culture. Anche egli sublima il mito romantico-naturalistico e lo epicizza liricamente.

LA CULTURA

POPOLARE

Abbiamo indicato fino ad ora i miti, gli stampi socio-antropologici aprioristici, le false nobilitazioni dell’« anima » del popolo usati da critici moderati o interessati i quali hanno trascurato la cultura popolare o hanno espunto da essa le parti peculiari o « diverse », cercando di ricondurre le verità popolari alle speciosità della cultura ufficiale, il non conosciuto al già noto. In questa operazione rientra anche la cattura

delle minoranze etnolinguistiche della regione. La cultura popolare è quella delle classi oppresse. Fare la storia della cultura popolare calabrese implica anche: demistificare i falsi valori ad essa riconosciuti dalla cultura ufficiale (ingenuità, pittoresco, primitività, ferinità, etc.) che costituiscono il depotenziamento del naturalismo e della concretezza storica e umana; rinvenire le censure di vario genere su di essa operate nei suoi motivi più autentici (sesso, brigan-

taggio, ironia, protesta politica, problemi sociali, etc.) per ridurne il profondo spessore storico e antropologico. L’innocua esaltazione veniva

compiuta quando la cultura popolare del brigantaggio, nella quale gli oppressi si riconoscevano, veniva criminalizzata e quando al popolo depositario di valori che venivano proclamati semplici ed eterni si preparavano il ghetto dialettale, la colonizzazione, l'emigrazione. L’idealizzazione del popolo nascondeva le responsabilità dei dominanti; d’altra parte la sua cultura veniva, crocianamente e con un criterio unicamente

letterario, espunta perché troppo realistica e non trasfigurata in arte. La cultura popolare in Calabria rappresenta lo spessore più ampio della società ed ha come motivi centrali la lotta per il possesso della terra e il brigantaggio come reazione all’oppressione dello Stato unitario, esercitata attraverso gli apparati di giustizia penale, civile, amministrativa e la forza delle armi. Il brigantaggio rappresenta diversi momenti di lotta di classe dei contadini contro i baroni e i feudatari, contro la borghesia urbana e rurale la quale si era impadronita delle terre degli ex baroni. La rivolta contadina fu espressione politica del distacco del mondo contadino dalle forze dirigenti risorgimentali. Lo Stato unitario compì la sua scelta di classe incorporando le vecchie classi dirigenti: il compromesso garantiva la repressione dei contadini, apriva la via alla

SE TOLD

militarizzazione del controllo delle città e delle campagne, isolava i contadini ai quali lasciava la libertà della grande emigrazione. Alla cultura borghese, emanazione dell'idea di Stato forte monarchico, erano connaturati l’evasione pseudo spirituale opposta al naturalismo ma disponibile ad accettare il bozzetto populista sentimentale, la retorica sociale, l’innografia patriottica dei «vati ». La cultura ufficiale controllava con la sua pedagogia e la sua letteratura la cultura del mondo contadino che era dietro e dentro il brigantaggio. Con il diritto e la pedagogia criminalizzava l'opposizione dei briganti senza tenere conto di ciò che la stessa relazione ufficiale del Massari indicava: « il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra inaffiata dai suoi sudori non sarà suo; il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro ‘antiche secolari ingiustizie ». La cultura popolare calabrese ha sempre avvertito, in quanto proponeva problemi etnoantropologici che coinvolgevano tutta la regione e il rapporto con lo Stato, la tragicità e grandiosità di quei problemi. Nella cultura che ne deriva troviamo un naturalismo di fondo che trionfa nella presa di coscienza del valore dell’esperienza, del concreto e dell’economico con Donnu Pantu, nell’eros come liberazione con Ammirà,

nell’eccitamento ditirambico religioso di Conìa che ricostruisce il mondo comunitario dei paesi rurali del tempo suo, nella protesta politica e sociale del secondo Ottocento e del Novecento che esprime la difesa dal potere colonizzatore e dal fascismo con Bruno Pelagi, Antonio Martino, Pasquale Creazzo. L’elemento popolare delle classi subalterne in Calabria ha manifestato, contro l’oppressione, i meccanismi rituali di difesa, il sigillo della identità, i modi per liberarsi dalla paura e dalla soggezione. La condizione popolare generale di vita è stata fatta propria, soprattutto per quanto riguarda il motivo della giustizia, da intellettuali e religiosi i quali, però, quando si oppongono al potere costituito, ricadono nei processi di controllo sociale o religioso che è una « facies » complementare (le « facies » appaiono una per volta, strategicamente, in relazione alle minacce al diritto di proprietà o di produzione): Gioacchino da Fiore trasferisce in un al di là eterno il terzo regno della pace e della giustizia ma quando l’idea tocca la chiesa come potere, quando l’utopia minaccia l'ordinamento gerarchico, Gioacchino corre pericolo di eresia; Campanella è incarcerato perché il suo ideale di giustizia è per passare alla fase di rivoluzione politica e sociale. Nella cultura popolare la consapevolezza della precarietà, della insi-

EIA ZE

curezza della loro condizione costringeva i contadini a intersezioni con la classe egemone e, talvolta, all’accettazione della filosofia dell’immodificabilità dello stato presente, al fatalismo, al perdono generale, al misoginismo fondato sull’inferiorità della donna, al misoneismo. Ciò avveniva quando non esisteva fiducia nei valori collettivi di classe. Ma esistono espressioni che costituiscono elementi

di sostituzione

quando i

valori di classe non possono essere manifestati. Nel sentimento religioso popolare confluiscono le condizioni di disagio economico e sociale; in quel sentimento può agitarsi una potenzialità rinnovatrice. Il senso magico dei riti religiosi era un’associazione psicologica collettiva contro la paura, una difesa esistenziale: in una società divisa in classi, dominata da baroni e notabili, i Santi appaiono i patroni liberatori dai pericoli di guerra, fame, terremoti, epidemie, ingiustizie. L'elemento autentico della

religiosità popolare era l’ansia di liberazione, di contestazione della vita oppressa.

RAPPORTO

TRA

LETTERATURA

E

CULTURA

POPOLARE

In nome della organicità e della storicità del quadro culturale abbiamo indicato letterati e critici, calabresi e non calabresi, i quali, trattando della cultura regionale, hanno ignorato la cultura popolare o la

hanno resecata da un rapporto dialettico o la hanno censurata o considerata come un elemento inferiore. Tutte queste valutazioni di metodo, discriminatrici, hanno reso più sottile lo spessore della stessa specificità dell’« attività letteraria » anche in Calabria dove la varietà letteraria è stata solitamente (con l’eccezione di Campanella, di Padula, di qualche

narratore del Novecento) quella usata nelle altre regioni. La Calabria ha, invece, numerosi canti popolari, novelle, testi nati dall’espressività orale e poi scritti o nati scritti, in verso o in prosa, testi dispersi o dimenticati e che cominciano a venire alla luce dall’emarginazione, dalla censura, dal ghetto a cui erano stati destinati dalla letteratura ufficiale del « sistema sociale gerarchizzato ».à Lo storico della letteratura dovrà emancipare « dalla loro oscura esistenza tutte le opere e operette escluse dal paradiso dell’arte, condannate alle galere dell’arte per il popolo, della paraletteratura, di tutti gli altri ghetti che una letteratura classista o castista ha inventate nei secoli »:° dagli scritti carnevaleschi ai canti di 8 G. PerronIo,

La letteratura popolare:

dubbi

agosto 1981, p. 107.

‘9 G. PetRONIO, art. cit., p. 108.

2a fg de

e problemi,

in Problemi,

maggio-

protesta, agli almanacchi, ai canti nati nelle veglie, nelle osterie nei lavori di sfogliatura, di raccolta delle vlive, dei gelsomini, etc., con una scelta congruente con le conquiste della cultura moderna e « omologa all’allargamento che l’antropologia culturale ha fatto del concetto di « cultura », rompendo gli schemi razzisti dell’etnocentrismo ».° Con queste parole di Petronio si vede, finalmente, falsato il quadro della civiltà letteraria di un momento”stotico se questo viene privato di una o più componenti della cultura e se la letteratura popolare non entra nella storia letteraria: e non come documento ma come « fatto letterario », ai livelli che le spettano, nelle relazioni con gli altri strati di attività letteraria, nella sua peculiarità di contenuti, tecniche, stili. Sarà necessario che lo studioso di letteratura calabrese, senza improvvisarsi antropologo, sappia, con lo sguardo attento che deve avere ai fenomeni .di cultura, entrare con i suoi occhi nel mondo dell’antropologia, della sociologia, dell’etnologia

(i cui studiosi hanno

altri metodi

e fini da

quelli dello studioso di storia della letteratura).

RAPPORTO

TRA

SOCIETÀ

ATTUALE

E

CULTURA

POPOLARE

Oggi in Calabria quella cultura popolare di base contadina e artigiana, che ha dato vita a momenti di resistenza e di lotta, dagli anni Cinquanta in poi è stata frantumata dalle scelte neocapitalistiche e dall'emigrazione. La società calabrese è venuta mutando ed è venuto mutando anche quello che Giacomo Mancini ha chiamato « il sentimento politico », un’arma la quale sapeva contrastare la corporazione di interessi che prospera sulla rendita urbana con la speculazione, lo sfascio ambientale; oggi, come ha scritto Michele Cozza, il 63 % del reddito regionale è di tipo parassitario in una società che riesce a produrre il 78 % di quello che consuma e che per il resto dipende dallo Stato: di nostro produciamo « stipendi e assistenza ». In una realtà che si svolge grandiosamente in tutto il mondo, sovvertendo tutti i vecchi modelli e gli antichi valori, emancipando milioni di persone in modo disordinato e incoerente, non si può restare superstiti di mentalità e metodi vecchi senza trovare la dimensione culturale che è necessaria. Fermi restando i concetti della realtà di una letteratura di massa e di una cultura popolare di massa che deve entrare nel circolo di tutta la cultura, occorre precisare i nuovi aspetti della cultura popolare, la sua 10 Ibid., p. 109.

49

tipologia che non è più, prevalentemente, riferibile al mondo contadino ma a una società più larga e più varia e composita ma meno decifrabile. I disparati e nuovi soggetti politici e culturali che irrompono sulla scena mondiale costituiscono un dato fisiologico che non deve essere esorcizzato per paura poiché esso spezza la condizione manichea creata dal capitalismo emarginatore, dalla cultura selezionatrice. Nella stessa parcellizzazione dell'impegno, in Italia, nella Calabria della soggettività e dei frammenti — a ben guardare gli aspetti di regresso corporativo e di delusione — ci sono movimenti che esprimono nuovi bisogni attraverso i mutamenti. Nel modo disordinato in cui ciò avviene occorre non consentire che si oscuri la chiarezza di fondo, non ignorare che il processo tende a fare avanzare un nuovo progetto del mondo, con nuove intese sulla via del cambiamento. La cultura popolare di massa assume nuove forme che esistono in relazione al concetto storico attuale del popolo nella società di massa; perciò essa si presenta a un pubblico di massa in una condizione di crisi economica e sociale del mondo occidentale, in una involuzione degli apparati dello Stato; si presenta, rompendo le antiche separazioni, a ceti e gruppi misti, disorientando vecchi parametri e giudizi; si presenta dopo le contestazioni che hanno generato una contaminazione delle arti, l’intellettuale polivalente, le ideologie usate come mode, il negativo come progresso, il rifiuto del codice espressivo esistente, l’esaltazione di una letteratura indifferente alla storia, la scomparsa della gerarchia fra i generi, etc. Nel panorama urbano degenerato anche il dialetto — privo di una realtà e di una storia sociale ricca — non è oggi creativo ma quasi uno slang imparaticcio, un codice esperantesco che risente della marginalità di cittadini espulsi dal cuore delle città o di nuovi urbanizzati di periferia che non si conoscono e non si parlano: parlare qui non è linguaggio perché non è desiderio ma necessità. La vita qui non ha svolgimento aggregato ma occasioni, fortuità, casualità; per il loro dialetto si trovano, quasi, questi cittadini, nella condizione degli appartenenti alla più nobile — nel significato storico — delle minoranze calabresi, la greca, che, deportata dai monti di Africo, di Roghudi divorati dalle frane, è stata allogata dalla prefettura lungo le coste reggine joniche divorate dalla speculazione. Ma il dialetto può durare — al di là degli usi mistificanti o reazionari — anche nell’attuale fase di osmosi di industrializzazione,

di urbanesimo, di crescita delle attività terziarie, di scolarizzazione ampia, di uso largo dei mezzi di comunicazione, in un quadro di vita della cultura popolare collegato a una politica democratica popolare. In questo FASE

quadro il patrimonio popolare dialettale può essere vitale elemento i di fondo. Una proposta culturale per la regione non può prescindere da consi-

derazioni, sia pure sommarie, politico-sociali. In recenti interviste, inchieste a uomini politici calabresi troviamo come risposte che: 4) « nel

mare delle promesse deluse in Calabria annega il sindacato » (rimane un sindacato ricco di disoccupati) per la disaggregazione dovuta al fallimento dei vari « pacchetti » oltre che per le nefaste scelte nazionali di politica generale nelle quali la regione ha avuto, di fatto, una funzione clientelare, assistenziale (Salvatore Tropea); 5) che la Calabria non esiste

più. Esistono tre regioni calabresi, « tutto è disgregato, tutto è sban-

dato, le nostre illusioni purtroppo sono tramontate, anche se non ci sentiamo vinti » (Pasquale Perugini); c) che la Calabria è un « ibrido

sociale », « ancora oggi terra degli emigrati, dei disoccupati », « terra senza identità e senza prospettive », « terra che importa tutto. Ma esporta annualmente oltre diecimila studenti universitari », nella quale le istituzioni sono considerate « luoghi abilitati ad assicurare il nostro tornaconto personale, la nostra sistemazione personale » (Salvatore i Santagata). Queste lamentazioni — che si allineano coi numerosi

planctus del

passato — individuano frammentariamente le conseguenze della razionalizzazione del sistema capitalistico nel secondo dopoguerra, la fuga dalla regione, la fine del mondo comunitario contadino, la coabitazione, nelle

assurde città nostre, dei singoli che formano folla ma non cittadinanza. Delusione conseguente ai miopi e miracolistici piani falliti di industrializzazione, requisizioni di terre a fini clientelari e di ricompensa politica, generatrici di arricchimenti, di violenze, di tensioni sociali, frantumazione della cultura popolare sono soito gli occhi di tutti. Sarebbe, però, colpevole non sottolineare ai politici le insufficienze soprattutto culturali di taluni dei politici stessi, la non conoscenza della cultura popolare del passato e del presente, la sola utile a rendere dignità ai « fini » dell’azione politica sulla quale hanno, quasi sempre, prevalso i « mezzi ». Le formule politiche generiche sono declamazione di una cultura piccoloborghese, volano al di sopra dei rapporti obiettivi della vita sociale. La dignità dei « fini » dei politici non può sorvolare sulla conoscenza dello spessore antropologico-culturale calabrese attuale nel quadro di una società di massa: « Intorno ad una sola idea — ha scritto recentemente Eduardo De Filippo — può nascere un’opera letteraria, un teatro, una civiltà ». Questa idea può essere l'individuazione degli elementi culturali comuni non solo del mondo contadino ma dei nuovi gruppi sociali

ig i

nati nelle trasformazioni recenti; tale cultura popolare dovrebbe aiutare lo sviluppo di una democrazia integrale contro il trasformismo, contro la tendenza a vivere nell’imbroglio nel quale sguazzano molti che detengono il potere e gli accoliti che li circondano, dovrebbe disperdere la confusione in cui si perde l’intelligibilità del reale. Ancora De Filippo, auspicando una cultura testimone di verità, ha scritto, a proposito della confusione logico-morale interessata a mantenersi tale: Pute tu te sì ’mbrugliato mmienz’o ’mbruglio e sti ’mbrugliune cu sta vita ’mbriacata cchiù ’mbriacat’e ’mbriacune.

La trasformazione della società calabrese deve avvenire anche a livello culturale. La sola cultura economico-sociale non può bastare, soprattutto quando è in crisi il meridionalismo democratico. Ci pare che nell’attuale situazione calabrese sia necessario: collegare, nella critica di base al blocco moderato che ha esercitato l’egemonia dall’Unità in poi,

la contestazione esercitata dalla cultura contadina; dare maggiore valore ‘ alla cultura locale attuale, che non è più quella arcaica del mondo contadino isolato e chiuso in se stesso; allontanare ogni compromesso culturale fondato sugli opportunismi politici e che è sempre largamente perdente. Per gli studiosi di letteratura — la cui cultura non può non essere, ormai, antropologica — è necessario:

conoscere

come

il mito

unitario ha condizionato la formazione dell’apparato concettuale delle storie letterarie, la sistemazione tradizionale di correnti e autori, l’emis-

sione di giudizi di valore, le tecniche di emarginazione e di censura; leggere la storia della letteratura dalla parte delle radici, dalla sua genesi popolare, contestando i giudizi di valore e le scelte di politica culturale che hanno confinato minori, dialettali, scrittori di paraletteratura etc.

in un livello inferiore e in condizioni di marginalità storica.

Ri

IV PIETRO ROSSI POETA

CONTADINO

Lo STATO PONTIFICIO, LA RESTAURAZIONE,

L'ETÀ POSTUNITARIA

Adolescenza e giovinezza del sammarinese Pietro Rossi si svolgono durante gli anni della Restaurazione (1815-30), del ritorno dell’autorità legittima o considerata tale. In questo periodo aristocrazia e borghesia terriera rafforzano il potere economico e politico, i controrivoluzionari si organizzano e si ricollegano intorno ai princìpi di « trono e altare » e il loro movimento assume originali connotati ideologici (ma in altri luoghi d’Italia venivano accettate le posizioni di Lamennais e di pensatori stranieri). Dopo il 1859 il movimento controrivoluzionario assume caratteristiche antiunitarie.' Le linee della politica amministrativa tracciate dal cardinale Consalvi dal 1815 al ’23 nello Stato pontificio furono:? l’accentramento burocratico, la laicizzazione dell'apparato statale, la subordinazione dei baroni delle passate giurisdizioni ai delegati al fine di eliminare i particolarismi feudali e comunali. Dopo la morte di Pio VII (1823) si ha il governo reazionario di

Leone XII il quale restaura l’autorità delle congregazioni cardinalizie, protegge le confraternite religiose e riconduce gli istituti di carità all’amministrazione del clero, riporta l’antica legislazione dei tribunali ecclesiastici. Con Pio VIII (1829) cresce la vigilanza nei confronti dei carbo-

nari ma la sua età è di accorta innovazione. Contrario alla secolarizzazione amministrativa del Consalvi è nello 1 F. Leoni, Storia della controrivoluzione

in Italia

(1799-1859),

Napoli,

Guida

1975.

2 F. MarineLLI,

Le sette

reazionarie

nello

Napoli, Guida 1978.

divisione tra nazioni impetialiste e gruppi dominati. Il fallimento della politica coloniale italiana e la tentazione autoritaria dell’ultimo decennio dell'Ottocento gli insegnano che la lotta è alla base della vita e che l’autoliberazione si attua con la lotta sicché la sua pedagogia è all’antitesi dell’ottimismo deamicisiano, della selezione moralista borghese, della retorica letteraria del colonialismo. I temi narrativi salgariani sono, in-

vece, correttivi della mentalità provinciale dell’Italia borghese e della « nevrosi di classe » (Giuseppe Petronio) che caratterizza gli intellettuali di fine Ottocento. Nato scrittore come appendicista (1883) di « Nuova arena » di Verona Salgari vede l’uomo della Malesia nel suo ambiente selvaggio e primitivo, costretto a essere truce pirata per sopravvivere, per indipen-

denza politica ed economica, perché stretto in spazi sempre più angusti dall’« affamata Inghilterra » e sempre più simili, i gruppi di pirati, a « squadre di demoni colore verde-oliva e giallo-sporco ». Nella prima stesura appendicistica (1883-84) di La Tigre della Malesia Sandokan è ancora ferino e antropofago: « un uomo che più di una volta era stato visto bere sangue umano, e, orribile a dirsi, succhiare le cervella dei moribondi. Un uomo che amava le battaglie le più tremende, che si precipitava come un pazzo nelle mischie più ostinate dove più grande era la strage e più fischiava la mitraglia; un uomo che, novello Attila, sul suo passaggio non lasciava che fumanti rovine e distese di cadaveri [...] Nel passare, il pirata mise i piedi su di un teschio umano, che s’infranse crocchiando. Maledetto! esclamò la Tigre ». La geografia psicologica dei personaggi è quella degli inferi in cui i pirati vivono, con le loro passioni vitali consonanti con l’ambiente oceanico o della giungla dove la vita prorompe dalla lotta, ogni cosa è carica di vitalità, dal grande al frammento, e la morte violenta (spesso è deformazione per stritolamento, scorporamento, sfracellamento) è assorbita dall'ambiente. Ognuno si muove con la sua passione vitale, privo di altro, astro che scompare fra astri e terre; nessuno ha tomba. In Le Tigri di Mompracem (1901) Sandokan s’innamora dell’« incantevole creatura » che è la Perla di Labuan e si presenta alla donna amata come « vendicatore » della propria famiglia e del proprio popolo. Vinto in battaglia e vinto d’amore, Sandokan-Orlando Furioso (« si mise a camminare come un pazzo, rovesciando le sedie, rompendo le bottiglie ammucchiate negli angoli, spezzando i vetri dei grandi scaffali pieni zeppi di oro e di gioie ») attraversa momenti di ubriachezza e di furore che lo rendono distruggitore di tutto. In questi episodi si dispiega l’amicizia

S4g0tre

del controllato e ironico Yanez, moderatore dell’amico imprudente e precipitoso. In Le due Tigri (1904) il sentimento di amicizia di Sandokan verso Tremal-Naik (al quale i Thugs hanno rapito la figliola Darma) si collega alla realtà storica della rivolta indiana (1857) contro gli Inglesi. Sandokan pone al servizio dell’amico anche le sue « immense ricchezze accumu-

late in quindici anni di scorrerie » e muove alla liberazione di Darma. Le ideologie antinglesi e contro-le superstizioni religiose che riducono gli uomini a « feroci assassini » sorreggono più che in altri romanzi la narrazione delle avventure nella giungla. Il ripetitivo insiste epicamente sull’insurrezione antinglese a Cawnepore? Lucknow, Merut: « Tutto il Bundelkund era in fiamme e Delhi, la città santa, era già in potere degl’insorti e pronta alla resistenza. L’antica dinastia del Gran Mogol vi era stata ricollocata sul trono, in uno dei suoi ultimi discendenti », « la

Rani di Jhransie aveva inalberato il vessillo della rivolta dopo d’aver fatto fucilare la piccola guarnigione inglese ». Sandokan entra a Delhi, uccide Suyodhana e libera la piccola Darma. Nel ciclo la sterminata inflorescenza dei fatti, la loro rutilante successione costituiscono l’attesa della libertà e della giustizia. In questa atmosfera il destino dei pirati è leggibile e tutto appare precipitoso e guizzante. Durante una pausa di undici anni, da quando il malese Sandokan ha ucciso l’indiano Suyodhana, Sandokan e Yanez hanno migliorato le condizioni di vita di Mompracem e Tremal-Naik si è dedicato nell’isola di Pangutaran, nella Malesia orientale, a coltivare la sua piantagione. In I re del mare (1904-1905) i dayachi di Tremal-Naik si ribellano, sobillati da un pellegrino della Mecca (che era in realtà un Thug) e contrastano Yanez che viene in aiuto dell’amico: fuochi galleggianti sorgenti da noci di cocco pieni di bambace inzuppato di materia resinosa, catene stese nelle acque del fiume, incendio delle foreste di caucciù, assalto di elefanti sono alcune delle difficoltà che gli uomini di Yanez devono superare. L’iniziativa dovuta al coraggio ma anche alla precisa organizzazione dei pirati, ai ritrovati scientifici è l’elemento di successo nei confronti di gruppi di uomini più numerosi: alcuni dei punti che richiamano l’attenzione del lettore sono nel romanzo l’assalto dei dayachi al kampong di Tremal-Naik, la sconfitta dei dayachi allontanati ora dal caucciù bollente riversato sulle loro teste (« la loro pelle cade a brandelli 2 Dell’episodio di guerra di Cawnepore Guido Gozzano in L'olocausto di Cawnepore dà o gna parziale, estetizzante e anglofila. Sull’ideologia di Gozzano si veda A. Prromatti, Ideologia e arte in Guido Gozzano, Firenze, La Nuova Italia 1972.

VD. DRS

e fuma », il caucciù brucia « ad un tempo i loro capelli e Ia cotenna ») ora dalla tigre Darma (che con un «40ug ferocissimo abbranca un dayaco rimasto sospeso e miracolosamente illeso e gli pianta i denti nel cranio »), ora dalla bevanda chiamata bra. Ma anche quando il manipolo di Yanez sta per essere sopraffatto definitivamente giunge la salvezza per opera dell’incrociatore americano « Re del mare » che è acquistato da Yanez stesso e diventa, con i suoi quattordici pezzi, strumento di pirateria contro gli Inglesi che avevano occupato e distrutto Mompracem. Un motivo costante è la lotta contro gli Inglesi, « il leopardo dell’Europa », l’« insaziabile leopardo » irriconoscente verso i liberatori dai Thugs strangolatori. Ma nel romanzo c’è un’atmosfera più riposata e meno feroce: i capi dei pirati hanno undici anni in più, Yanez oltrequarantenne è al suo primo amore per Surama, Sandokan è un eroe spodestato il quale ama le armi ma comprende l’amore delle due donne Darma e Surama. Nell’amore di Darma e Moreland l’elemento popolare del destino avverso (dovere sacro di Moreland figlio di Suyodhana uccidere il padre di Darma e Sandokan) ha gran parte (« il destino m’imporrà di dimenticarvi », « la nostra sorte ormai è scritta a lettere di sangue sul gran libro del destino », «i decreti della sorte »). Né mancano motivi che nella loro ingenua finalità popolare (la salvezza dell’eroe, l’umanizzazione della fiera) sboccano consapevolmente nell’umortismo: Sandokan avvolto nella sua rossa bandiera prima di sprofondare con la nave negli abissi e che non può sprofondare perché la nave si posa sul fondo, la tigre Darma con la quale Kammamuri « divide fraternamente un pollo arrostito » dopo la grande strage di dayachi. In questo contesto più umano si sviluppano due elementi tematici abilmente profilati dal punto di vista narrativo e stimolanti in modo diverso e contrapposto l’attenzione e le sensazioni del pubblico popolare che in essi riconosce motivi propri: la sconfitta tragica dell’eroe Sandokan vinto da forze superiori e perdente anche il proprio territorio; il distacco ironico, beffardo di Yanez che diventa personaggio con i suoi zic tipici (fumare l’ultima sigaretta mentre sta per essere ucciso o sta per sprofondare con la nave; fare considerazioni filosofiche sul comunismo dell’isola di Mangalum, ecc.) simboli di imperturbabilità di fronte al destino casuale o ingannatore nonché di speranza perenne finché esiste la possibilità di vivere. In Alla conquista di un impero (1907) Yanez diventa conquistatore

di un impero per rendere giustizia a Surama. Nella conquista Yanez, avventuriero coraggioso e astuto, deve affrontare con vece alterna molte prove. Finto mylord vince gli inganni del greco Theotokris con-

ETRE Ra

sigliere del rajab dell'Assam, Sindhia, salva Surama che era stata fatta rapite; egli appare come un cavaliere errante che lotta per la donna amata (« Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama » dice quando vede bruciare la dimora dell’amata), Sandokan è l’amico munifico, sprezzante del pericolo ma realista (« Se io avessi rispatmiati

tutti 1 miei nemici, non sarei diventato la Tigre della Malesia, né avrei

potuto rimanere per tanti anni nella mia Mompracem »). In questo ro-

manzo Sandokan e Yanez sono gli epici conquistatori di un impero usurpato dal r4j45 e una loro impresa, in un momento sfortunato, è paragonata da Sandokan alla grande ritirata compiuta nel 1857 da Tantia Topi, il generalissimo degli insorti indiani che tenne in scacco tre corpi armati inglesi. Nei successivi romanzi (che narrano la riconquista di Mompracem, la caduta dell'impero di Surama) l’avventura continua ad essere lo strumento per il pubblico di massa: mare, giungla, animali, guerra di riconquista sono le sue cifre. In Il brazzino dell'Assam (1911) c'è anche una

tinta di giallo nell’inchiesta che tende a scoprire chi è l’avvelenatore dei ministri del mabarajab Yanez e l’organizzatore della rivolta all’interno dell'impero. Anche qui le situazioni e la letteratura hanno precise funzioni liberatrici: « Ed è tempo che anche noi indiani facciamo un grande strappo alle nostre antiche abitudini e che sacrifichiamo un bel numero di numi assolutamente inutili. Il risveglio verrà, te lo assicuro [dice Tremal-Naik], e allora gl’indiani, coscienti delle proprie forze, cacceranno gl’inglesi e proclameranno la propria indipendenza »; « Ma il risveglio verrà; un po’ tardi ma verrà, e quel giorno non vorrei trovarmi nella pelle di uno di questi principi. Tardi, ma qualche cosa di spaventoso succederà, e farà impallidire l’insurrezione di Delhi ». Nella conclusione trionfale del ciclo (La rivincita di Yanez, 19111912) Sandokan affronta con la « colonna infernale » di cento malesi,

cinque elefanti e nuove armi, le mitragliatrici, i ventimila uomini di Sindhia. Questo finale è preceduto dalle imprese del piccolo gruppo di — Kammamuri che vince le insidie dei serpenti, dei coccodrilli; pure in tali difficoltà si dispiegano gli umoristici dialoghi (che rappresentano le pause del quotidiano nell’epico) tra il gurà, Kammamuri, il rajaputo aftamato. Nelle gole delle montagne in cui Sandokan e Yanez sono assediati e i cui ingressi avevano cercato di ostruire con i corpi degli elefanti e dei cavalli uccisi arrivano in aiuto i quindicimila uomini di Surama che vincono le forze di Sindhia decimate dal colera mentre il r4jah usurpatore si suicida. Il ciclo si chiude con una nota di pace e i due capi abbandonano le armi e si dedicano al bene dei loto popoli.

STA

Dalle prime traduzioni in francese (1899) ad oggi è venuto sempre crescendo il mito di Salgari attraverso uno sterminato numero di lettori, attraverso la grafica, la cinematografia. Non è stato proporzionato all’interesse dei lettori quello della critica accademica la quale non si è chiesta a quale pubblico si rivolgesse lo scrittore e in nome di quali motivazioni né ha considerato l’espressione letteraria in relazione al pubblico di massa. Sicché le censure più frequenti sono state quelle intorno all’elementarità delle situazioni, allo stile, alla lingua. Ci pare, invece, che oggi si possa togliere il paravento del genere letterario e dello stile, e che l’opera salgariana possa essere considerata nel suo particolare stile, nel suo sistema di letteratura di avventure destinata a un pubblico di massa; con un esame e un giudizio che non possono essere quelli con cui sono

stati giudicati i classici o i narratori borghesi di fine Ottocento e di primo Novecento.

RE 1) feMO

VII GIUSEPPE

GARIBALDI

SCRITTORE

POPOLARE

I romanzi di Garibaldi nascono in conseguenza delle grandi delu‘ sioni storiche, nel quadro morale e psicologico del contrasto tra ideale e reale, quando, fatta l’Italia, le forze conservatrici d’Europa l’attraggono nell’ambito dei vecchi interessi. La nazione giovane è governata da una borghesia conservatrice che non ha le qualità dei grandi conservatori. Tutti i romanzi insistono su ciò che si poteva conquistare con la Repubblica romana, sui compromessi piemontesi, le opposizioni papaline, i ritardi, la viltà, l’affossamento delle grandi speranze: Austria, pontefici, governi rinunciatari sono i nemici dell’eroe che propone sempre la tradizione classica e romana come modello di unità della patria, per il presente, con Roma capitale. Uomo del popolo e di cultura popolare — fondata, cioè, sui grandi sentimenti di giustizia e umanità — Garibaldi si rivolge a un pubblico popolare e di ceti medi quale era quello intorno al 1870 per comunicare immediatamente, senza orpelli stilistici, la storia di corruzione e di compromessi, per far nascere idealità eroiche muovendo da quel manipolo di volontari della legione italiana di Montevideo addestrati nell'animo e nel corpo alla vita di azione, di avventure, di imprese generose non impedite da pregiudizi religiosi. Il Vero della ragione dà impulso alla passione umana, patriottica, civile; Garibaldi scrittore trasmette la fede in una missione. Ciò fu fatto anche da altri memorialisti e attori del Risorgimento; ma Garibaldi scrisse le sue opere come massima figura etico-eroica del Risorgimento contro la quale si addensarono le polemiche dei nemici, dei moderati, dei dottrinari che

toccarono anche lo scrittore sul quale scese un velo di silenzio o contro il quale si rivolsero i critici-professori, i letterati puri. Chi legga la più nota scelta di scrittori politici e memorialisti dell’Ottocento non vi trova,

infatti, una pagina di Garibaldi. Le idealità romantiche di Garibaldi rivestono le ragioni della verità; da qui il succedere, all’analisi politica sa

precisa, le descrizioni popolari e patetiche (con concessioni all’orrido, ai colpi di scena, al viscerale anticlericalismo, al risorgere di feriti ritenuti morti o dispersi), la dorata immagine della donna come appare nei versi più concreti di Mameli: Mesta come una memoria,

cara come una speranza, ferma il passo e par che mormori fra se stessa una romanza. Sparse a palme son le treccie, che le cingono di gloria il martirio e la vittoria.

Da qui l’accensione narrativa in una scrittura che segue solitamente il parlato quotidiano esplicativo a fine didascalico e pedagogico, da qui l’offerta della propria eccezionale esperienza biografica, di un elemento avventuroso che entra nella letteratura e che avrà sviluppo in qualche memorialista e, soprattutto, nell’erede di un Risorgimento strozzato, anch’egli vigoroso tipicizzatore dei guasti della tirannide e del clericalismo presso i popoli ancora colonizzati: Emilio Salgàri. Con questi ideali di giustizia e di moralità Garibaldi si avvicina agli ambienti in cui si viene maturando il fermento sociale. In sostanza, se le ripetizioni di situazioni nei romanzi obbediscono all’intento pedagogico e didascalico, se il martellamento ideologico toglie bellezza alla narrazione Garibaldi rimane lo scrittore delle avventure eroiche, della guerra di popolo, della fraternità e dell’eguaglianza degli uomini concepite nel quadro del giacobinismo illuministico e fiorite nel Risorgimento romantico. Le sue rampogne ai governanti contro il modo in cui era avvenuta l’unificazione nazionale diventano continue tra il °60 e il ’70. Ciò è evidente nell’epistolario e nei proclami nei quali si vede veramente la latitudine politica del generale. Nella sintesi dello stile la nota continua vibrante è la dignità morale, l'affermazione del valore della « pianta uomo » alfieriana: nel 1845 scrive da Montevideo al generale Rivera rifiutando per conto della Legione italiana vasti territori con bestiame ed edifici perché dovere di ogni uomo libero è « combattere per la libertà dovunque spunti la tirannia, senza distinzione di terre né di popolo »; nel 1874 rifiuta il dono nazionale, le centomila lire assegnategli dal Parlamento come riconoscimento dei servizi prestati al paese scrivendo a Menotti: « Differendo, ne avrei perduto il sonno, avrei sentito ai polsi il freddo delle manette, le mani calde di sangue, ed ogni volta che mi fossero giunte notizie di depredazioni governative Pio

e di pubbliche miserie, mi sarei coperto il volto dalla vergogna [...] che cotesto governo però la di cui missione è d’impoverire il paese per corrompetlo, si cerchi dei complici altrove ». Caratteristica dell'eroe moderno di stampo classico è l’opposizione

al compromesso; così dopo l’armistizio Salasco Garibaldi in un proclama agli Italiani afferma che « se il Re di Sardegna ha una corona che conserva a forza di colpe e di-viltà, io e i miei compagni [...] non vogliamo [...] abbandonare la sorte della nostra sacta terra al ludibrio di chi la soggioga e la manomette ». Nel comunicare il suo proposito di continuare la lotta dopo la fine della Repubblica romana a coloro che

vorranno seguirlo offre « fame, freddo, sole; non paga, non caserma, non munizioni ma avvisaglie continue, marce forzate e fazioni alla baionetta ». Il generale appare al di sopra di tutto nella cura della sua . Legione, nei consigli di tecnica militare e di disciplina che dà ad Angelo Masina, nei consigli ai Cacciatori delle Alpi nel ’59, nel proclama ai compagni d’armi dell’Italia centrale (« in voi hanno vita gli elementi d’una grande nazione »), nei memorabili consigli ai volontari nel 1860. I suoi ordini del giorno sono solenni nella loro prosaicità, come quello da Caserta del 1 ottobre 1860: « riposate per pochi istanti le vostre deboli membra, e mangiate un pane, ma in fretta, mentre io dando mano ai piani che far dobbiamo, vi chiamerò all’appello avanti all’oscurità della notte ». Anche nelle lettere c’è l’uso di vigorose metafore contro i nemici: «i Gallo-frati del Cardinale Oudinot » sono i soldati del comandante il corpo di spedizione francese a Roma. Dopo il ’60 i temi costanti di Garibaldi sono il carattere antipopolare dei governi italiani postunitari e l’idea di fratellanza universale contro il dispotismo. Egli vede in Europa e in Italia i governi dispotici che approfittano dei pregiudizi del nazionalismo e della religione per dividere i popoli e in una lettera ad Alessandro Herzen raccomanda di dire ai polacchi di non imprimere « un carattere religioso, che non è dei nostri tempi » alla loro eroica lotta. Di fronte ai tempi nuovi ricorda al Congresso degli operai a Parma che egli in mezzo « a quei semplici cuori » si sente in famiglia; agli operai italiani a Londra indica nel ’64 che « la storia degli operai italiani è storia di virtù e di glorie nazionali ». La cultura francese dell’illuminismo diventa un faro contro «il dispotismo e la menzogna insieme coalizzati »: « Un monumento a Voltaire, in Francia, significa il ritorno di questo illustre paese al suo posto d’avanguardia del progresso umano verso la fratellanza dei popoli ». Tale consapevolezza gli fa intendere che la « mascherata tirannide » dei governi postunitari ha trascurato i problemi sociali dell’Italia meridionale e nel

1868 giunge a scrivere: « non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate da popoli che mi ritengono complice della spregevole genia che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano ». , Garibaldi è costante nell’affermare i caratteri della propria azione: « uomo del popolo », « guerra del popolo », « figlio del popolo e sacrato a servirlo per tutta la vita », « sono tra le file del popolo, ne tocco le pulsazioni e credo di non ingannarmi ». Attentissimo alla cultura popolare, agli eroi popolari della letteratura e della musica, in una lettera del ’71 a Giuseppe Petroni rievoca gli eroi popolari Robin Hood, il Pirata, Ernani, si dichiara ammiratore del metodo di divulgazione scientifica di Quirico Filopanti autore dell’Uriverso e continuatore dell’illuminismo francese nell’ambito positivista, suggerisce a Enrico Bignami direttore della Plebe i modi per diffondere la cultura nel popolo. L’Internazionale dei popoli è « il sole dell’avvenire » e Garibaldi esalta la Comune di Parigi caduta sotto i colpi della « reazione coalizzata ». Il miglioramento generale è il motivo della cultura di Garibaldi negli ultimi anni, sia che si tratti di un’opera letteraria (come lo Spartaco di Raffaello Giovagnoli rievocatore di Roma antica e dei fatti del Risor-

gimento) sia del progetto di Filopanti sul risanamento della campagna romana sia del proprio progetto di mutamento del letto del Po. Le opere letterarie di Garibaldi — fondate su una profonda cultura storica, scientifica, geografica, nautica — mirano a questo fine di miglioramento degli uomini. Tutta la narrativa dello scrittore è una produzione letteraria di massa, con caratteristiche relative alle necessità culturali e psicologiche alle quali viene incontro e alla funzione che intende svolgere: intento nazional-popolare di esaltazione delle imprese dei suoi volontari, avanzamento degli uomini nelle idee di pace, lavoro, libertà. La narrativa di Garibaldi non è una narrativa inferiore, è una forma di attività letteraria in rapporto con le altre attività letterarie di massa: con la tipologia del romanzo storico (eroi positivi e negativi e loro imprese), romanzo sociale francese (con personaggi animati da sentimenti di giustizia e di libertà, individuali e collettivi), narrativa scientifica e di viaggi. Il romanzo di Garibaldi, che nasce nel tempo in cui l’Italia diventa nazione e le altre nazioni diventano colonialiste, cerca di giungere alle masse con i caratteri di epica nazionale e di giustizia sociale. Quando Garibaldi scrive è consapevole di vivere in un’Italia di governi passatisti ma anche in un’epoca che si svolge tra il vecchio e il —

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nuovo e in cui dal nuovo si dipartono disegni che avranno il risalto delle cose forti e durature. Egli destinava i suoi romanzi a un pubblico misto di giovani, artigiani, impiegati, lavoratori, ceti medi contadini e cittadini che emergevano dallo sviluppo dell’Italia del tempo in cui

cominciavano a operare i primi meccanismi nazionali di istruzione e promozione civile e sociale mentre altri numerosi gruppi familiari, i cui componenti erano analfabeti, erano espulsi dalla vita della nazione e costretti ad emigrare. Ai lettori e ai.memortatori analfabetidi tale società di massa Garibaldi propone modelli eroici nei quali identificarsi, facendo in essi confluire le speranze frustrate, il riscatto dall’emarginazione e fornendo modelli di vita semplici e ingenui rispecchiati nella rettilinea morale di personaggi avventurosi: il patriota, l’esule, il proscritto, il brigante, il solitario, il combattente, il navigatore, il medico umanitario,

la donna che combatte. Gli strumenti della letterarietà sono dispiegati - a tale uso attraverso: costanti e narrative di situazioni, psicologia, tecnica; ripetitività dei moduli narrativi essenziali che caratterizzano ciclicamente l’epos eroico; elementi di un mondo agonisticamente proteso verso il nuovo; motivi di interesse e di intrattenimento pet un pubblico di massa, ben diversi da quelli usati dall’opera letteraria di « èlite » mi-

rante al capolavoro o all’assoluto estetico. I motivi di Garibaldi possono essere valutati nel quadro della destinazione di un’opera di carattere popolare, nello stimolo all’esaltazione patriottica, umana, avventu-

rosa che arde nell’animo dei lettori. Parlando epicamente del nucleo della Legione italiana d'America Garibaldi raccontava la verità ma i livelli espressivi hanno una loro grinta, una tensione di scene che volgono alla catastrofe e qualche volta vi precipitano: le scene anticlericali sono grandi deformazioni cariche di violenza perché lo scrittore doveva suscitare l’odio contro i nemici dell’unità d’Italia; ma l’evento salvifico è

interno all’ottimismo dello scrittore il quale sa che con la lotta per la giustizia e la libertà si vince sempre. Il fuoco interiore è, sempre, etico-eroico. La fisionomia dello scrittore quale appare nelle Mezzorie è quella

dell’uomo d’azione con una precisa ideologia classico-illuministica fondata sul concetto del progresso pacifico dell’umanità, sull'amore del semplice e del primitivo, sull’anticlericalismo in omaggio al principio di antitirannide. Dal primo manoscritto dell’opera (1849) alla revisione (1872) trascorrono più di due decenni e nell’ideologia dell’uomo con-

vergono le idealità romantiche dell’espressione degli affetti e della verità nonché i motivi umanitario-sociali e quelli della polemica contro i dottrinarismi della « mazzinerìa » e le trame clericali, cavurriane e francesi.



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« Odiatore della tirannide e della menzogna » si professa fin dall’inizio lo scrittore il quale, passato attraverso un gran numero di guerre, le vede come un prodotto della tirannide ecclesiastica e laica e, pur essendo amante della pace, sottolinea la situazione di guerra in vari stati del mondo. Le antitesi in Garibaldi sono nette e: derivano dall’idea settecentesca della corruzione dei princìpi di natura e ragione dovuta a violenza materiale o intellettuale. Fin dalla prima pagina troviamo, infatti, la deprecazione dei guasti provocati dalla pedagogia reazionaria la quale anziché avviare i giovani a diventare « buoni cittadini capaci di professioni virili ed utili ed atti a servire il loro devastato paese » li ha avviati a diventare « frati e legati ». Da tale educazione deriva « l’inferiorità fisica e morale della razza italiana » scarsamente abilitata negli esercizi corporei, poco istruita nella storia patria e nelle lingue straniere. Uno dei primi temi del classicismo di Garibaldi è Roma « metropoli del mondo » ma, soprattutto, repubblicana madre di virtù, allevatrice

di animi forti che, degenerati per colpa dell’istituzione imperiale tirannica e corruttrice, rivive nel popolo della Repubblica romana moderna che si oppone alla tirannide ecclesiastica. Nel riso dei popolani romani, siano cittadini, agricoltori, briganti traluce l’eroismo antico e i nomi dei personaggi dei romanzi di Garibaldi ripetono quelli dei personaggi dell’antichità. Di Roma lo scrittore venera non solo i « superbi propugnacoli della sua grandezza di tanti secoli » ma anche le rovine cariche di suggestione e di memorie: con Roma dovrà compiersi l’Unità d’Italia. Lo scrittore partecipa completamente del classicismo libertario che deriva dalla Rivoluzione francese e che costituisce il primo nucleo delle idealità di patria italiana, un ideale che lo porta romanticamente a lottare per le libertà dei popoli del Sudamerica. In questo continente lo scrittore, combattente per la Repubblica di Rio Grande contro l’impero del Brasile, rittova un ambiente di grandi spazi, abitato da uomini forti che vivono a contatto con la natura. Il rimpianto di quella bellezza è accompagnato ai guasti portati dalla civiltà: « Ma dove saranno — rimpiange — quei superbi stalloni, i tori, le gazzelle, gli struzzi che tanto abbellivano e vivificavano quelle amenissime colline? ». Colà verrà certamente il progresso ma «il vapore ed il ferro » accrescendo la ricchezza del secolo impoveriranno « coteste meravigliose scene della natura ». Come la natura anche gli uomini si corrompono quando appartengono « all’alta classe, che generalmente non lavora per nessuno e divora per tanti». L’ideale è il sinolo natura-ragione mentre « il lusso, i depravati appetiti, il non sapersi conformare alla propria condizione e ad una vita sobria e laboriosa » scaraventa ai piedi dei potenti « tanta —

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massa di lussuriosi e infigardi, e ne fa un semenzaio di birri, di spie, di malviventi d’ogni specie ». Le esperienze avventurose di guerra non alterano l’equilibrio umano di Garibaldi comandante di una « ciurma cosmopolita » di tutti i colori e di tutte le nazioni ché anzi egli è sempre più capace di avvertire la particolarità della persona umana della donna nei suoi elementi ideali di grazia e di armonia (« la più perfetta di tutte le creature »). Fedele alle biografie greco-romane Garibaldi indica sempre i tratti fisici, morali, le virtù, i vizi di un uomo che, osservato nella sua personalità come dignità, è cireonfuso di pietà quando è morto. Dalla sensibilità (ma anche dal sensismo) settecentesca deriva il compianto per i tanti morti rimasti senza un nome che ne distingua le ossa o per i morti i cui corpi di individui rimangano straziati dalla violenza, come quel John Grigg, coraggioso repubblicano, il cui tronco è rimasto diviso in due da una cannonata sicché il busto appariva eretto sulla tolda della nave, « colorito l’impavido volto, come vivente! ed il resto delle membra

infrante era sparso attorno ed a qualche distanza dal busto ». Il sinolo natura-ragione rare volte, però, si attua e in guerra si verificano eccessi come il saccheggio violento e nauseante di un paese con disordini e uccisioni (« anche sotto un governo repubblicano — commenta amaramente lo scrittore — è ben repugnante il dover ciecamente ubbidire») o il panico immotivato causa di rovine. A proposito del convincimento del dovere nei soldati Garibaldi distingue la disciplina forzata del soldato del dispotismo da quella del milite cittadino appartenente a nazione libera. Le Merzorie si soffermano a lungo sulle imprese sudamericane nella cui narrazione troviamo spesso un tono didascalico di origine scientifica

settecentesca

(sul modo

di combattere,

sul territorio,

sui

fimmi) e un tono di compianto sulla corruzione degli uomini (generali ladri dell’erario, disertori).

Anche sul brigantino che trasporta sessantatré uomini della Legione italiana del Plata in Italia per combattere la guerra di redenzione è esercitata l’istruzione. Il comandante democratico fa sì che gli illetterati siano istruiti dagli alfabeti, si eseguano esercizi ginnastici, si canti un inno patrio. Siamo nel ’48 e a Genova le autorità accolsero i legionari « colla freddezza di coscienza mal sicura e preludiarono a quella serie di smorfie e temporeggiamenti che ci accompagnarono nel nostro paese ovunque ritrovansi i patteggiamenti addetti alle idee di mezzo ». Dalla natura sudamericana agli uomini mediocri trasformisti, agli amici di Mazzini che a Garibaldi danno l’ostracismo. Da ora in poi l’amore della patria lontana, che in Sudamerica si colorava di rimpianto e di speranza, diventa furore di polemica e di —

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invettiva contro coloro i quali prevaricano politicamente per averne benefici particolari. Amore di verità e antitirannide sono le componenti ideologico-psicologiche che si muovono nello scrittore lungo l’asse letterario Alfieri-Foscolo: « Sia che si fosse, il genio della frode, del mercimonio, della maledizione, delle nostre sciagure, ne presiedeva il destino e ne incantenava l’azione », « L'Italia non avea bisogno di militi, ma di oratori e patteggiatori [...] Il dispotismo avea ceduto per un momento le redini della cosa pubblica ai ciarloni, per uccellare e addormentare il popolo », invettive intervallate da romantiche esclamazioni al tempo della Repubblica romana: « Che speranze, che avvenire! ». La sfiducia negli abitanti delle campagne, avversi alla rivoluzione e non rappresentati nella legione garibaldina, dipende dal « governo immorale ». L’epica della ritirata da S. Marino si colora di afflitte note per la morte di Anita, la fucilazione di Ciceruacchio e di Ugo Bassi. Ma in tutto il testo delle Merzorie è continua l’invettiva contro chi non ha coraggio e inganna. Dovunque l’invettiva è in funzione della patria italiana tradita dai mediocri pronti a comandare e a saltare sul carro del vincitore; dovunque la prosa essenziale, tutta analitica, sobria, esalta le virtù fondamentali da porre al servizio delle cause generali e umane (« Ed il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità che lo sanno ingannare! », « di nascosto si mandava ordine ai miei subordinati di non ubbidirmi »).

L’epica tocca il punto più alto con la spedizione dei Mille la cui narrazione liricizza talvolta l’impresa contenendo la bruciante ironia: « O notte del 5 maggio [...] Bella, tranquilla, solenne, di quella solen-

nità che fa palpitare le anime generose che si lanciano all’emancipazione degli schiavi! ». L’ironia è contro gli impedimenti compiuti dal governo piemontese, contro la Farina che offre mille pessimi fucili (« Liberalità pelosa delle volpi alto locate »), contro gli opportunisti («il capo dei Mille, trattato da filibustiere fino a questo punto, divenne ad un tratto eccellenza, titolo con cui egli fu noiato in tutte le transazioni seguenti e da lui sempre disprezzato. Tale è la bassezza dei potenti della terra quando son colpiti dalla sventura ») o contro gli spregiatori dei popolani garibaldini (« Il nido monarchico, ancor caldo, venne occupato dagli emancipatori popolani ed i ricchi tappeti della reggia furon calpestati dal rozzo calzare del proletariato »). In tutta la narrazione circola lo spirito vitale dell’uomo d’azione e le polemiche, oltre che contro i mediocri e i ciarlieri, sono anche contro i dottrinari mazziniani i quali gli rinfacciavano di non avere proclamato la repubblica e lo denigravano

parlando di « facili vittorie del ’60 ». La polemica antimazziniana è

Ma

perà

puntuale, sarcastica, argomentata in Ai miei concittadini due parole di

storia. Anche qui prevale il carattere analitico della prosa narrativa, tutta fatti e cose. Si è rimproverato a Garibaldi di non essere uno storico o di non avere mentalità di storico. Eppure la critica storica è nelle polemiche equilibrate, nei giudizi puntuali, nella filosofia della storia che sottendono le congiure, le trame, i tradimenti contro Garibaldi il quale non scriveva per fare letteratura ma per fare conoscere la verità. La sua prosa non è appesantita dagli orpelli classicistici ma è sobriamente illu-

ministica, con accensioni liriche o invettive anticlericali collegate con il

concetto di antitirannide. Con tali caratteri i romanzi di Garibaldi non potevano avere buona stampa presso i moderati postunitari, presso il fascismo della Conciliazione: il fascismo ne utilizzerà antistoricamente gli elementi eroici calandoli nella sua koinè idealistico-nazionalista reazionaria.

Nello scrivere i suoi romanzi storici Garibaldi si propose di: 1) ricordare all’Italia i valorosi caduti sui campi di battaglia; 2) stimolare al compimento dell'Unità indicando «le turpitudini ed i tradimenti dei reggitori e dei preti ». Egli scriveva quando il romanzo storico, diventato di consumo, cedeva il posto al romanzo sociale ma nell’ambito del sottogenere « storico » i romanzi di Garibaldi hanno un carattere particolare: la storia è quella di cui Garibaldi è stato attore (quella, scrisse, « in cui mi sento competente ») sicché il sottogenere serve per esprimere anche le ultime vicende postunitarie, la « delusione storica » di Garibaldi. La materia è ancora politica e Garibaldi continua ad usare il sottogenere per rendere popolare la sua battaglia democratica. Lo stile di Garibaldi riflette la preoccupazione di essere compreso da un largo pubblico (non di letterati), anche di donne nonché di moderati

(bor-

ghesi) e in funzione di questo pubblico espone vicende capaci di suscitare entusiasmo per la causa nazionale, sdegno contro i ministri della chiesa e della corona, di esaltare la concezione civile dell’uomo additando esempi di eroi positivi, superiori per cuore e intelletto. Questi eroi sono

popolari per la loro dignità e la loro forza e sono ben diversi dai popolani idillici di Prati, Fusinato, Nievo. Garibaldi è molto più avanti in * quanto intende la rivoluzione politica come rivoluzione nazionale: da qui lo sdegno contro gli ecclesiastici e le classi dominanti, il suo volgersi verso il socialismo. A questo punto lo scrittore di romanzi non giunge che larvatamente perché pur rendendosi conto del passaggio dalla civiltà borghese romantica a quella borghese positivistica non intende (né avrebbe avuto gli strumenti) dedicarsi all’analisi della realtà sociale. Il suo pensiero è con il socialismo e l’Internazionale ma i suoi modelli lon—

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tani sono Scott, Hugo, Sue, l’elemento romanzesco è sempre fornito dalle trame di un gesuita. DI

Anche in Cantoni il volontario (1870), un giovane forlivese in cui

— come in altri giovani — c’è la proiezione dell’ideale eroico garibaldino, i prodi della Legione italiana venuti da Montevideo costituiscono i termini di ogni paragone etico-eroico poiché essi incarnano la verità, cioè il popolo rivoluzionario in armi. Il cibo come ristoro (e non come « abitudine costante di pietanze delicate a profusione »), l’esercizio fisico come elemento che suscita l’irrequietezza madre di ogni intrapresa sono le occasioni, allo scrittore, per esprimere taluni aspetti della propria visione del mondo: nella vecchiaia si posa presentendo quella « transizione della materia che si chiama morte » la quale fa rientrare nell’infinito materiale dopo che « l’onesto figlio del lavoro » ha adempiuto « ai suoi doveri di figlio, di padre, di cittadino! ». La pianta-uomo alfieriana rivive anche nei temi più depressi e in luoghi in cui, come a Ravenna, il popolo non è plebe e i moderati non hanno il dominio, non è mai venuta meno.

Ma anche a Ravenna

le

« tempeste popolari » abottiscono per opera di « moderati », « pervertitori dementi » i quali corrompono il popolo. Il solo che vuole la libertà è lo schiavo, il solo che vuole eguaglianza è il povero: per il resto della nazione quasi tutti gli individui cercano un impiego, sia esso il mestiere del birro o dell’usciere. La corruzione alberga nella « razza » e solo un cataclisma che scuota « l’umanità sino alle fondamenta » può cambiare la situazione perché gli educatori, di solito, letterati e dottori, non sono

| migliori delle plebi. La concezione eroica sovrasta su tutta la narrazione e lo stile sferzante, carico di invettive e impropeti, è il linguaggio pedagogico per destare i dormienti, il linguaggio incalzante, che circoscrive e precisa le viltà mentre un piano espressivo romantico esalta il sacrificio dei volontari, dei Montaldi, Masina, Mameli, Ramorino, Daverio, Franchi, Risso, Zambianchi, Morosini. Un elemento dell’esaltazione eroica è l’amore che nei giovani si presenta avvolto « dall’involucro divino della speranza e dell’ideale, scevri dalle brutture d’una realtà che sfuma, si dilegua, s’annienta [...] Oh!

l’uomo sotto la potenza del primo amore, decrepito come sono, mi risospinge verso tiva moltiplicato, impavido a qualunque terribile realtà!, le avventure, le speranze, degli anni e dei disinganni ... ». Il romanzo esalta la vicenda di Ida, 1848 si innamora di Cantoni e lo segue —

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vale dieci. E quel sentimento, un’età, in cui anch’io mi senevento, ed ora davanti a me, le glorie crollate sotto il peso adolescente bolognese che nel nel volontariato militare: è il

clichè simbolico di uomo e donna uniti nel patriottismo, della donna insidiata e rinchiusa dal gesuita Gaudenzio nella rocca di S. Leo. L’elemento romanzesco, inventivo, setve sempre a fine didascalico ed educativo. La reclusione di Ida a S. Leo consente di descrivere il carattere vulcanico del territorio, a deprecate sia la condizione degli eserciti moderni destinati a «servire di birri ai capricci di mascherato dispo-

tismo, opprimendo quello stesso popolo ch’essi dovrebbero proteggere e difendere! » sia i cedimenti degli uomini alle circostanze: l’eroe di un giorno non lo sarà più domani e i settanta di Cairoli, i Mille di Marsala « oggi fanno l’amore; si affollano nei caffè, nei teatri e molti credendo di servire la patria, hanno vestito una livrea, servono un governo perverso e legano il padre e la madre se sono comandati dai loro superiori ». L’elemento popolare della narrazione è circonfuso di meraviglioso, intrighi, colpi di scena; quando la vicenda sembra precipitare verso ° l'epilogo che condanna l’eroe c’è sempre un intervento miracoloso, quando il gesuita sta per morire c’è un avvenimento che lo disloca altrove perché possano essere descritte ancora le sue nefandezze. Tecnica da feuilleton, da lettore di Sue ma a fine pedagogico perché se il delitto procede sulla sua via scellerata « trascinando l’innocenza », la virtù segue « il suo sentiero seminato di spine », per, alla fine, trionfare. Nella narrazione le immagini, spesso, sono coaguli delle ideologie dello scrittore:

miseria e corruzione, birro e spia, libertà e lavoro, prete e

insetto, religione e bottega, ragione e verità, infinito e Intelligenza universale, marinaio italiano ed etoismo sono alcune delle opposizioni ideologiche da cui deriva lo stile esortatorio-deprecativo. Così si rivela compiutamente la personalità dell’uomo e dello scrittore che nel 1866-67 partecipa al primo Congresso per la pace a Ginevra, lotta in Parlamento per il suffragio universale e la riforma dell’esercito, guarda con simpatia agli albori del socialismo e, più tardi,

alla Comune di Parigi. L'uomo d’azione ha ideologie ben precise fondate sul realismo (« Fatti e non ciarle ci vogliono, per rimediare le miserie umane » è un suo motto), sulla complessità dei rapporti tra le esigenze politiche internazionali, sulla necessità dell’unità d’Italia per salvare la pace in Europa. Queste concezioni documentano quanto siano erronee le accuse mosse a Garibaldi di avere scarsa capacità di teorizzare e di articolare le teorizzazioni. È ben vero il contrario: che l’uomo di azione (l’unico capace di essere un generale in guerra terrestre, di comandare una nave o una flotta e di fare guerra sui mari) — conoscitore di tre lingue, dotato di cultura scientifica vastissima — vedeva chiari i pericoli dell’intellettualismo, del dottrinarismo che non riesce a concre—

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ESA LIRE

tizzare il pensiero e poneva in primo piano il legame tra ragione, sentimento e azione, il « bello messo in azione » come cantava il Mameli: ei saluta una memoria, ma prepara una vittoria.

L’azione rivoluzionaria è il mezzo per ottenere la libertà: « Come volete libertà, se una metà di voi vuol vivere alle spalle dell’altra? »,

« La guerra è vergognosa cosa per una società che si chiama civile [....] Ma quando disagi, pericoli, morte devono affrontarsi per la libertà del proprio paese o dell’altrui, allora la guerra diventa santa ». La « scuola pratica » toccata alla gioventù italiana dal 48 al ’68 è stata molto utile e la parte migliore spetta ai volontari avversati dai preti, dal governo e dai dottrinati mazziniani (i « puri — questi ultimi — che dottrinano, ma non si muovono, mandano alla pugna e se ne tengon lontani », per i quali « Marsala fu una sconfitta

e Mentana un trionfo »).

In Clelia (cominciato a scrivere nel 1868, pubblicato nel 1870 e che racconta i fatti del 1867) l’antitesi è tra ragioni del popolo e ragioni del pretismo. A tipicizzare il contrasto valgono le ripetizioni delle immagini deprecative del servilismo, della tirannide, dell’ignoranza, ricondotti alle loro cause, il ricorso continuo allo stile e ai modi del romanzo popolare di appendice. La metafora dello scrittore è sempre iperbolica

e distintiva, segno dell’opposizione al compromesso: la popolana è la « perla del Trastevere », i cardinali « serpi della città santa », i preti « schiuma d’inferno », il governo « agenzia di corruzione ». Quando Garibaldi parla di eroi la metafora è classica e romano-antichi sono i nomi di tutti i personaggi popolani (Dentato, Scipio, Manlio, Attilio, Muzio, Marcello, Regolo, Vezio, etc.). Roma antica repubblicana, quella di Sertorio, Mario, Silla, Pompeo, gli Scipioni costituisce lo sfondo su cui si accampano le virtù italiane: la decadenza delle virtù si ha con gli

imperatori, veduti come mostri di lussuria e affamati di sostanze altrui. I « topoi » del romanzo popolare laico vi sono tutti: la bella straniera che si innamora del mendico cencioso di origine patrizia derubato del suo da una Compagnia religiosa, il delatore che tradisce i trecento congiurati romani e viene ucciso, i briganti che odiano il governo temporale sottraendosi alla lotta « contro l’unità nazionale », i moderati che sono « mignatte in maschera liberale », il liberatore dai pericoli che è un eroe di « aspetto veramente straordinario », il principe che comanda i papalini e che, fatto prigioniero dai liberali, diventa patriota, il prete parricida, etc. Presenti sono pure i « topoi » delle caratteristiche nazionali: la « razza britannica » è la più vicina ai romani antichi per « di—

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gnità individuale »; inoltre gli inglesi sono stati favorevoli all’Italia con il non intervento proclamato nel 1860 nello stretto di Messina; con la

pratica marinara gli inglesi irrobustiscono il corpo e sono capaci di sfidare qualsiasi tentativo di invasione straniera mentre in Italia anche il popolo è stato snaturato dalla corruzione e trova perfino nella morte motivo di riso né è capace di annientare gli strumenti del suo servaggio. La Francia è benemerita per l’affermazione dei diritti dell’uomo e per l’annientamento della schiavitù barbaresca nel Mediterraneo ma ormai è «gendarme al Sacerdote dell’oscurantismo ». Un’eco del neoclassicismo è nell’ammirazione per la bellezza fisica, una traccia foscoliana è nella concezione della bellezza femminile come « principale motore dell’incivilimento umano » (« L’amore vero, sublime, eroico [...] non è

egli la vita dell'anima, il fomite di quanto s’opera di grande, l’incivilitore «della razza umana? »). Lo squilibrio delle classi è un elemento della corruzione della civiltà: « L'Europa! dove chi fatica muore dalla fame e gli oziosi nuotano nell’abbondanza e nella lussuria, ove poche famiglie signoreggiano le nazioni e le mantengono in un perpetuo stato di guerra alle altisonanti parole di patriottismo, lealtà, onore della bandiera, gloria militare, ove una metà del popolo è schiava e l’altra metà fa giustizia, bastonando gli schiavi gando hanno l’ardire di lamentarsi! ». Una delle idee più frequentemente espressa da Garibaldi è la fiducia nel miglioramento umano sotto tutte le forme: i governi per mantenersi ritardano il miglioramento ingrassando la « sterminata caterva dei parassiti che sono pel popolo quel che gl’insetti per il corpo, i vermi pel cadavere ». Lo scrittore rifrange la sua personalità sia nei fatti storici che in quelli romanzeschi ma più direttamente quando ricorda la sua isola. Qui egli ha passato la sua vita « colla speranza di vedere nobilitata la plebe e ne ha propugnato dovunque i diritti » pur confessando di essere rimasto deluso dal plebeo che, innalzato « dalla fortuna a più alto stato, ha patteggiato col dispotismo ed è diventato peggiore forse del patrizio ». Il vecchio, « avanzo di molte patrie battaglie », il Solitario, * ha come «peggiori nemici della libertà dei popoli » i dottrinari democratici o repubblicani che predicano le rivoluzioni per mestiere » e per avanzamento proprio », distruggitori delle repubbliche come le repubbliche francesi. Il Solitario giudica i governi europei come dispotismi mascherati o aperti, difesi da truppe di impiegati e birri e propone un’unione europea delle nazioni con un congresso che dirima le liti, dichiari « impossibile » la guerra e liquidi gli eserciti permanenti. Alla

mancanza di cura del miglioramento delle condizioni dei poveri è ripor—

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tata la diffusione del brigantaggio: con l’istruzione e il lavoro quegli « uomini di grande coraggio » che sono i briganti dell’Italia meridionale sarebbero nell’ordine dello Stato. L’antitesi tra civiltà borghese e vita secondo natura è frequente ed è una componente principale della personalità dello scrittore e dell’uomo. Si veda il capitolo sulla cena campestre in cui lo scrittore dubita che la « classe povera » abbia derivato molto profitto dalla civiltà presente e ricorda il tempo in cui non c’erano dispotismo, autorità: « anche adesso una cena frugale nella foresta sulla magnifica verdura, non ancora calpestata dal piede profano e desolatore dell’uomo, seduti sui tronchi delle vecchie piante che, più del sedile, vi danno un fuoco stupendo e vivificatore [...] Oh! per Dio! io sono per una cena nella foresta s’anco non mi si presentasse altro che frutta e caccia come qualche volta ho veduto ». Era questo un segno della sensibilità settecentesca che troviamo anche civilmente atteggiata: nel paesaggio del Lazio le bande dei patrioti vivono avventurosamente, in esso Clelia e Attilio celebrano il loro matrimonio laico davanti a un altare improvvisato a piè di una quercia maestosa e a un tempietto « coperto dalla gran cupola dell’albero ed illuminato dal maggiore degli astri, figlio primogenito di Dio ». Anche in Cantoni è esaltata la « parca vita del campo » vissuta come legge interiore di moralità e di onore, vita in cui le contese siano regolate « senza spese e cartastraccia » e i matrimoni

siano di amore;

in

Manlio l'ideale è vivere nei limiti della natura. Il romanzo I Mille (scritto dal 1870 al ’72) si ricollega tanto strettamente alle Mezzorie da essere considerato da qualcuno una « nuova edizione » delle Mezzorie. Ancora una volta a Garibaldi interessa che l’opera, pubblicata nel 1874, esprima il suo pensiero intorno ad alcuni problemi che avevano scavato dei solchi fra gli Italiani. La dialettica continua fra tirannide e servitù è riportata sul terreno concreto perché la libertà, come dicevano i democratici spagnoli, « si no es para todos, no es tal libertad ». Perciò Garibaldi vede che la libertà può avere due tagli: l’autocrate — di per sé libero — può nuocere alla libertà, il proletario può trasformarla in licenza. L'unione di dispotismo e clero, fondata sul « godimento delle sostanze altrui », non si sostenta che con la menzogna e la corruzione. Allora i servi, mantenuti poveri, millantano la libertà. Nella vicenda dei Mille si inquadra quella di Marzia che si imbarca coi volontari garibaldini ed è ricercata da un gesuita, monsignor Corvo, il quale l’aveva corrotta senza sapere che era sua figlia. Retrospettivamente lo scrittore vede nelle forze che avversarono l’impresa dei Mille —

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e tutte le imprese successive di liberazione una congiura di uomini interessati a stare aggrappati all’erario pubblico e a favorire ingiustizia, tirannide e impostura. Ripetiamo che la degradazione della civiltà in corruzione si ha quando si tradisce il Vero: allora tirannide e falsa democrazia fanno desiderare «la vita primitiva delle foreste » nella quale si mangiava « frutta di selva » e non c’era la presenza « del dottrinario, del birto, di quella caterva d’arpie, che col nome.di moderati,

cointeressati, ministri, pubbliche sicurezze, ecc. », spogliano i cittadini e li asserviscono agli stranieri. È fin troppo facile, su queste basi, accusare Garibaldi di qualunquismo e di approssimativa capacità politica se non si considera che le invettive apparentemente moralistiche nascono da ragioni di amore di patria e da desiderio di purezza morale. In relazione ai tempi privi di idealità, invece, Garibaldi accusa il governo della cosa pubblica di esaltare i meno degni dato che i despoti preferiscono fare avanzare i « disonesti come

loro, striscianti e corruttori parassiti,

coll’abilità della volpe o del coccodrillo ». I tempi nuovi sono rappresentati dalla rivoluzione dei Mille e mentre i «regi settentrionali » usano ogni specie di « fallace ingerenza, corrompendo l’esercito borbonico, la marina, la corte » per rovesciare subdolamente

Francesco

II,

« il 7 settembre — così lo scrittore — un proletario accompagnato da pochi suoi amici, che si chiamavano ajutanti, col solo distintivo della rossa camicia, entrava nella superba capitale ». Come prova del doppio gioco monarchico Garibaldi cita la seguente nota di Farini a Napoleone III: « Noi marciamo coll’esercito per combattere la rivoluzione personificata in Garibaldi ». L’ideale garibaldino di patria è alimentato dalla lunga tradizione letteraria che giunge all’Alferi (« il colosso Astigiano ») e che dal repubblicanesimo classico si collega con i princìpi della rivoluzione francese: Roma « dominatrice dell’Orbe, istitutrice delle generazioni presenti » (in quanto repubblicana) è il sogno dello scrittore che nella città eterna fa operare i trecento giovani romani i quali dovranno liberare la città | e che sono i protagonisti del romanzo Clelia. Questi trecento eroi del popolo rappresentano uno dei centri epico-lirici della narrazione di Garibaldi, sintesi delle virtù di un popolo grande e reso schiavo che vuole riconquistare la libertà: « Eppure benché io m’abbia l’aria di scriver romanzi, io scrivo storia qui e storia che non mi fu contata.

Storia,

sì! ...! del mio popolo, della mia terra! da cui gli stolti vollero cacciarmi e che mi caccerebbero a brani, se a caso ».

Garibaldi nelle sue opere letterarie smaschera i legami dei governi reazionari con gli interessi delle classi privilegiate anche attraverso le —

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varie forme intermedie di appoggio. Il capitolo intitolato La carzorra è un esempio di acuta analisi socio-economica: i primi signori sono i re, i secondi signori, « dal marciapiedi del trono in giù » e « cariatidi allo stesso », sono coloro che ingrassano alle spalle degli altri. I finanzieri preposti, « camorre di fannulloni », che non hanno mai scoperto un contrabbando, fanno parte di una « associazione di malfattori » che ha « come membri i più scellerati del regno »: l’associazione dalle bettole si estese all’esercito, a tutta Napoli e a tutto il regno. La camorra diventò « una vera e temibile guardia pretoriana », una « potenza » e il governo di Napoli, come il governo dei preti patteggiò con i briganti, venne a patti con essa. Alla vicenda avventurosa di Marzia Garibaldi aggiunge quella di Giovanna, sorella di camorristi ma innamorata di un garibaldino e così commenta: « Ed a me, plebeo sino alle midolla delle ossa, solletica cotale semplice ma

fervido

innamoramento,

ove

l’amore presiede generalmente più sincero che nelle regioni principesche ». È una nota di quell’umanità sana e popolare, generosa e romantica che, rievocando la battaglia del Volturno, gli fa liricamente esaltare i compagni caduti alle falde del Tifate. Dopo il Volturno convenne « lasciar fare a chi tocca », alla « magagna sabauda-napoleonica » e in contrapposizione alla realtà degradante Garibaldi ha un sogno in cui vede un governo italiano con a capo «un savio ed energico uomo » eletto « dalla maggioranza del popolo con votazione diretta ». Sono stati liquidati i legislatori sfruttatori del popolo (gli « archimandriti Bizantini, che assordate il mondo di ciarle » mandati a « bonificar le paludi Pontine »), i preti (guidati da un capo, lavorano dopo aver « passato la loro vita tra il fiasco e la perpetua »), i finanzieri di ogni classe, gli impiegati del lotto » e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima » sono stati mandati a lavorare come macchinisti, fuochisti alle strade ferrate, la società è retta dal culto del Vero e della tolleranza. Garibaldi con questo sogno reagisce contro il dottrinarismo intollerante e propone (« accenno, ma non insegno ») come fonti morali della realtà il Vero e l’Infinito (una Intelligenza infi-

nita, lo spazio, l’universo di cui « può far parte infinitesimale » l’intel-

ligenza individuale). Dell’infinito materiale Garibaldi dice di non potere intendere in quale modo si identifica con la mente che ne indica le leggi e lo scrittore pone i suoi interrogativi lasciandoli rispettosamente in sospeso senza salire in cattedra come coloro che spesso insegnano cose che non conoscono o che non possono dimostrare. Con questa umiltà lo scrittore si ritrae e, svegliatosi, si accorge che il suo è stato un sogno e che si ritrova ancora nella « nauseante realtà della società moderna » —

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sicché, così conclude, « cercai, quindi, addolorato, di ripigliare la strada dell’isolata e deserta mia dimora ». AI di là dell’esito romanzesco della vicenda di Marzia e del Corvo (il quale si uccide quando apprende di essere il seduttore della propria figlia) il romanzo è un documento delle ideologie popolari più consapevoli, nazionali e moderne che troviamo in quegli anni e, pet precisarle, oltre quanto abbiamo già fatto, indichiamo qualche capoverso di capitolo, in versi o in prosa, in cui Garibaldi ha significato espressivamente le proprie concezioni con parole sue (citate sempre come di « autore conosciuto ») o altrui: « La donna bella, buona e coraggiosa — è un vero portento della natura », « La vittoria è sul brando del forte — insofferente di ceppi e d’oltraggio », « Birri un dì noi vedemmo e genti serve — in quest’afflitta terra, e fatalmente — di servi e birri noi vediam caterve », « Robbers all! » (tutti ladri!).

Anche di Manlio, il romanzo inedito apparso a cura di Maria Grazia Miotto (1982), non è facile riassumere la trama per il fitto intrecciarsi di vicende, per la proliferazione dei fatti che hanno come scopo — attra-

verso le numerosissime avventure — l’unità nazionale. Anche in questo romanzo storico il nucleo ideologico è classicistico-illuministico, la narrazione è romantica (avventure, vita degli affetti, culto dei morti, concezione della materia che vive nell’Infinito, concezione della donna, senti-

menti popolari), il fine è didascalico-patriottico sicché le digressioni scientifiche (qui soprattutto nautico-marinaresche) fanno parte della necessità storica dell’opera. Più che altrove in questo romanzo il riscatto di un popolo è fondato sul consenso delle popolazioni, sulla loro capacità di crearsi un animo eroico: il valore militare sorge da questa volontà, la viltà deriva sempre da corruzione di governi che antepongono il particolare all’universale e che, reprimendo, degradano la natura umana. Manlio, figlio del generale della libertà, era infante quando il padre, scrivendo, immaginava per lui una vita avventurosa che, fantasticamente, proiettava nel futuro, fino al 1900 (che è anche l’anno della morte del figlio) quando il giovane ritorna in Italia, trova ancora un governo che ‘lo incarcera ma, continuatore delle imprese del padre, cattura le corazzate della marina italiana, conquista la flotta austriaca a Pola, l’Adriatico, libera Creta e consente all'Italia « forte e prospera », madre di due milioni di soldati, di avere il posto tra le maggiori nazioni del mondo e di attuare la « vera civiltà umanitaria ». Manlio è, secondo i canoni del classicismo etico-eroico, « il bello ideale dell’uomo », un Apollo di Fidia con le caratteristiche eroiche di Masina, di Giovanni Cairoli, di Cavallotti, con l’etica di chi sa « con-



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tentarsi della propria condizione » che è virtù del classicismo illuministico di stampo pariniano. Grande didatta di geografia e nautica, esperto dei costumi dei paesi più diversi Garibaldi ci trasporta con Manlio tra gli abitanti del Riff, a Gibilterra (che gli dà l’occasione per rimproverare all’Italia lo sperpero di danaro per comprare ville alla corona e per pagare impiegati inutili), a Montevideo, « seconda patria dell’Italiano ».

Avventure di terra fra gli « indios » del Matto Grosso o avventure di fiume si sostituiscono a quelle sul mare mentre il narratore recupera in larghe pagine le proprie esperienze giovanili di combattente compiute con una « coorte di giganti ». Il romanzo prosegue, come si è detto, oltre il tempo in cui Garibaldi scriveva e Manlio fuggito dal carcere giunge nella Corsica fra i proscritti, poi a Caprera che costituisce l’occasione per un inno all’isola: Sulle tue cime di granito io sento di libertade l’aura, e non nel fondo

corruttor delle regge [...] II sol concento s’ode della bufera in quest’asilo ove nè schiavo nè tiranno alberga, orrido è il tuo sentier, ma sulla via dell’insolente cortigiano il cocchio non mi calpesta [....] To l’infinito qui contemplo, scevro dalla menzogna ...

Nel recupero del passato Garibaldi immette caricature di malvagi (anche qui il corruttore e spia è un gesuita), schernisce le leggi che nascono dall’ingiustizia, esalta il gruppo di uomini che vincono il destino, rievoca la povertà dei mezzi dei garibaldini già scanzonatamente ricordata, a proposito dei « cacciatori » del ’59, da Nievo: Teri avanzavasi

in Valtellina un’accozzaglia garibaldina pezzente ed ilare come Gesù.

Il quadro ideologico delle vicende e dei comportamenti è sempre

l’illuministico « eterno culto del Vero e della scienza », della « verità infinita e santa come il tempo, lo spazio, la materia; nello spazio infinito

FARE

« comparisce il grande spettacolo del Vero, forse per sempre inaccessibile al concepimento umano, ma in cui la ragione e la scienza trovano argomenti infallibili per distruggere il putrido catafalco dell’impostuta ». Queste idee sono

ricordate nel romanzo

di continuo

e, soprattutto,

quando Manlio visiterà a Caprera la tomba del padre. Ci pare, concludendo, che lo scrittore è proiezione dell’uomo che

formatosi nel nucleo delle idee e della cultura del classicismo illuministico riveste di idealità romantiche i concetti di vero e scienza adoperando la sensibilità settecentesca e che, massimo rappresentante dell’epica nazional-popolare del Risorgimento italiano, volge le sue conoscenze e la sua arte verso gli ideali dell’unità d’Italia. Il romanzo storico fu un mezzo espressivo del quale sono ancora da studiare la tecnica, lo stile, il linguaggio in relazione alle ideologie. Il linguaggio veemente o parlato, carico di metafore di sdegno (dello sdegno di Garibaldi si potrebbe approntare una fabula animalistica ricchissima) corrisponde alla demistificazione della realtà postunitaria. Infine è un debito della critica italiana liberare lo scrittore dall’accusa di approssimazione letteraria sorta in tempo di analisi estetica ed è debito maggiore studiare l’arte in relazione alla mente nutrita di cultura scientifica, di letture di Alferi, Berchet, Foscolo, Guerrazzi, Scott, Hugo, Sue nonché dei testi del socialismo utopistico e del protosocialismo.

ca



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VIII

VINCENZO

LA

« CECEIDE

» E

LA

SOCIETÀ

DEL

AMMIRA

SUO

TEMPO

Personaggio popolare fu nella Monteleone della prima e della seconda metà dell’Ottocento Vincenzo Ammirà (1821-1898), appartenente a quella generazione di patrioti (ecclesiastici come Vincenzo Padula, Antonio Martino o popolani, artigiani come Bruno Pelagi, detto Mastru Brunu) che sperarono e lottarono per una patria unita e più giusta e patirono scacchi e delusioni. A Monteleone fu alla scuola di Raffaele Buccarelli, liberale, alla quale furono anche Francesco Fiorentino, Ottavio Ortona, Diomede Marvasi,

Francesco Protettì. Fu anche una scuola di patriottismo. La cultura monteleonese era, però, sotto la cappa di un classicismo che, se trasfondeva qualche motivo illuministico e plutarchiano, soggiaceva al principio della pretta imitazione delle forme e della loro perpetuazione in modo statico. Quel classicismo servile aduggiò i versi in lingua italiana di Ammirà il quale si espresse originalmente quando scrisse in dialetto sia per l’attitudine a cogliere il grottesco e l’iperbole sia per la capacità di rappresentazione sciolta e organica che supera il semplice raccontare o esporre di altri mediocri dialettali. La Ceceide sarebbe nata per l’invito rivolto ad Ammirà dal suo ‘antico amico Saverio Costanzo a celebrare l’anniversario della morte di Cecia e la prima parte del poemetto polimetro venne scritta nel corpo di guardia dei « nazionali » la notte del 4 marzo 1848. Il poemetto ebbe immediatamente vasta popolarità ma i benpensanti monteleonesi si adoperarono per gettare sull’autore una cattiva luce morale. Nel 1854 l’Ammirà fu incarcerato perché durante una perquisizione domestica venne trovato in possesso di una copia del Decamzerone di Boccaccio e di un manoscritto della Ceceide (« scritto di canzone contraria



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al buon costume »): fu condannato a due mesi di esilio correzionale,

alla perdita del libro e del manoscritto, alla multa di venti ducati « a pro’ del Real Tesoro » e alle spese di giudizio. In appello, a Catanzaro, la pena gli fu ridotta alla multa e alla condanna alle nuove spese di giudizio. Dopo essere stato arrestato per la Ceceide Ammirà fu arrestato ancora nel 1858 per sospetti politici. Dopo l’unità fu scartato nel concorso per una cattedra nel ginnasio-liceo di Monteleone a causa del processo subìto dai Borboni. Così il rivoluzionario del 1848, colui che nel 1860

aveva seguìto Garibaldi a Soveria Mannelli, veniva dipinto dagli stessi liberali come uomo corrotto e corruttore: rimase fuori di ogni sorta di professione e di attività viva e militante, insegnò privatamente e dal 1866 al 1868 lavorò quale commesso nel Dazio. Nei versi Un commesso del dazio consumo egli rappresentò la propria triste condizione di uomo deluso: « ed il caduto giorno ripenso, / qual la fatica, quale il compenso; / ed esclamando la pipa allumo: / oh maledetto dazio consumo! ». Ammirà era nato l’anno in cui venne giustiziato il suo conterraneo Michele Morelli, la sua giovinezza si era svolta tra studi umanistici (centro di classicismo era Monteleone), speranze di libertà e di giustizia sociale. Gli ideali garibaldini avevano rianimato anche socialmente e politicamente l’Italia meridionale: D’allura, ogni populu dicìa: — Nui semu tutti cu l’armu suspisu. — Doppu si vitti ca ’st’omu di ’ncegnu a quattru corpa trasìu ’nta lu Regnu. ’Aribaldi ha statu lu sustegnu contra la tirannia di li Barbona... Vidiavu ad ogni cruci di vaneddi li poviri chi ghìanu gridannu: — ’Sti cafuna si fannu ricchi e beddi, e nui lu pani jamu addisiannu! —.

Le istituzioni dello Stato unitario sono rifiutate pur con motivi anche qualunquistici: Non capìsciu cosa è ’stu Parramentu, siddu è ’ndiavulatu o puru santu ... Tra pisi, carta e bullu, tra rigistru, non c’è viddanu, galantomu e mastru ca non si vidi misu lu capistru ... lu cchiù ca su borbonici e papista,



113—

s'hannu manciatu la bannera e l’asta,

è bella e duci assai la masticogna, ma no sfacciatamenti, ca è virgogna ... Senza commerciu, di fami si ’ngagghia; ognunu è latru quannu nun travagghia ...

lu mottu di l’anticu l’hati ’ntisu? — Lu latru boja e lu rubatu ’mpisu! — ... un mancitàriu nesci e l’autru trasi;

doppu sintiti diri:"— Si sdimisi —; fratantu nesci Brasi e trasi Masi... ca p’arrubbari su’ misi di ’mpegnu, pi sdisulari ’stu poviru regnu ...

In Calabria la politica « masticogna » delle classi dirigenti è funzionale al loro dominio di classe, al loto baronaggio che si distende nelle ‘ strutture egemoni nazionali, approfittando anche della coatta estraneità della maggior parte della popolazione alla vita pubblica. L'atteggiamento degli intellettuali fu spesso di protesta e di difesa ma, dovendo tenere conto storicamente delle condizioni di vita e di cultura degli intellettuali, non ci parrebbe giusto, come si fa da qualche parte, considerare come ripiegamento reazionario il limite dell’impegno politico e civile di alcuni di essi. In quasi tutti gli scrittori dialettali l’antiletterarietà espressiva, la scelta delle forme popolari, l’interesse per la satira e l’ironia, per il linguaggio immediato e corpulento si deve collegare con la letteratura orale, non sempre necessariamente ingenua, non sempre subordinata ai modelli borghesi. Fondarsi genericamente sulla non esplicita ideologia antidemocratica degli scrittori e fare assorbire la letteratura orale e tradizionale nell’alveo del genere letterario significa — per la seconda parte dell’enunciato — restare ancora nel territorio metodologico di riservato dominio crociano. Nella cultura di difesa, quale è spesso quella delle classi subalterne, l'avvicinamento al vero si verifica in modo vario: dal

ribaltamento delle situazioni e dei contenuti tradizionali al commento satirico, dalla ricerca del linguaggio concreto all’uso degli schemi liturgici e popolari innescati per raggiungere fini del tutto opposti. In una regione periferica in cui le strutture politiche e sociali avevano incomparabili dislivelli anche le forme letterarie sono uno strano miscuglio di vecchiumi e di ardimenti. Importante è l’atteggiamento — anche ideologico — dell’artista di fronte alla realtà, la capacità di unificare le diverse tendenze e la contraddittorietà

di aspetti, di estrarre le verità

storiche mature che sono quelle veramente attive. Vincenzo Ammirà fu visto soprattutto come « l’anima dei crocchi —

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e delle brigate riderecce monteleonesi » e come autore di versi lubrichi ed Eugenio Scalfari lo descrisse quasi come una macchietta. In realtà egli si servì del verso per satireggiare diversi concittadini e questa sua tendenza gli procurò inimicizie e lotte personali. Giuseppe Falcone ricorda una farsa di Ammirà rimasta inedita perché colpiva dei concittadini « con fine satira » e li sferzava a sangue « per talune loro debolezze niente lodevoli ». Del resto il poeta consumò la sua vita in strettezze perché era di carattere indipendente e incapace di adulare. Quando pubblicò in lingua le Poesie giovanili (Monteleone

1861)

(dedicate

a Francesco

Pasquale

Cordopatri

« che

in tempi durissimi sotto principe abbominato a fronte alta propugnò la sublime causa del risorgimento e indipendenza della Patria ») annotò per il lettore che aveva scritto quei versi (in cui si nota lo sforzo e la convenzionalità) « per dimostrare che gli anni della nova età mia non volsero unicamente fra il laido vernacolo, per come osò tante volte profferire qualch’essere maligno e invidioso, il quale su d’un passato nero ed infamato si riposa, e d’un presente senza pudore, e senza colore tuttavolta si pasce ». Ammirà scrisse anche dei versi licenziosi che sono artisticamente trascurabili ma la sua personalità è quella di un uomo e di un artista civilmente impegnato, pronto a contrapporsi alle storture sociali e morali, ad esprimersi liberamente: La Ceceide è una creazione originale che rappresenta una sua scelta di contenuto, di ideazione e di espressione, antitetica alla celebrazione della « donna di virtù » di letteraria memoria.

La fama e la fortuna di Ammirà hanno avuto basi soprattutto sulla divulgazione della Ceceide (che pare anche De Sanctis conoscesse), da

pochissimi letta nella sua interezza, da molti citata e ricordata per due o tre punti grotteschi o espressionistici, da molti altri che non la conoscevano travisata e travestita. Nicola Misasi scrisse (1895) che se l’operetta « è il capolavoro che dovrà dar fama immortale all’autore defunto, era destinato a far morire di fame l’autore vivente » e ricordava che per la Ceceide Ammirà non ebbe la cattedra a Monteleone, che l’opera era stata scomunicata dal vescovo. Per il Misasi l’opera « nella sua oscenissima genialità risente troppo della classica e insieme della romantica letteratura » in quanto poesia letteraria (addirittura aristocratica, nella sua plebea oscenità, « nei metri, nelle reminiscenze, nel gusto, nell’otganismo, insomma nella fattura ») e non popolare. Nella seconda parte del Vocabolario del dialetto calabrese (1897) Luigi Accattatis, che deplora le poesie lubriche di Ammirà, vede la Ceceide come un capolavoro. Du—

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rante il periodo del fascismo venne formato un comitato a Vibo Valentia per tributare onoranze ad Ammirà e per apporre una lapide sulla

casa dove era nato il poeta; la proposta di una pubblica commemorazione, però, cadde per l’opposizione di coloro che ancora riprovavano lo scrittore « pornografico ». Bruno Giordano in quell’occasione scrisse (« Il Mattino », 18 maggio 1929) che l’Ammirà aveva valore per le sue liriche e non per le occasionali poesie pornografiche. Anche il Galati (che considerò « lubrico poema »; « lavoro osceno » la Ceceide) nella

sua monografia su Ammirà (Firenze 1930) intese rivalutare il poeta dialettale, al di fuori dell’oscenità, anteponendolo, di gran lunga, al verseggiatore in lingua. La Ceceide è un proemetto

in tre parti, in dialetto monteleonese,

che Ammirà scrisse quando aveva ventisette anni, nel 1848. Il poemetto è stato abbastanza divulgato tra i popolani e tra le persone colte: il Settembrini lo apprezzò come lavoro artistico, il Galati che scriveva intorno al 1926 (ma si era occupato di Ammirà fin dal 1912) ricorda di

-

averlo ascoltato recitare da un contadino al quale il poeta aveva promesso di dargli il suo mantello se lo avesse recitato senza sbagli di memoria. La divulgazione avveniva per copie manoscritte e l’opera è rimasta fino ad oggi inedita forse per la fama di lubrica che l’ha sempre accompagnata, fin da quando Ammirà fu accusato di avere scritto « cose contro il buon costume ». Se nella poesia in lingua Ammirà ha la mutria della serietà letteraria in quanto cerca di innalzarsi al livello aulico della tradizione letteraria classicheggiante, nel personaggio di Cecia il poeta versa il tono espressionistico che è una nota della sua maniera dialettale. Il contenuto del poemetto è così sintetizzato, molto sommariamente da Eugenio Scalfari: « Cecia era un’etera venuta di Tropea in Monteleone. Quivi le donne, appartengano al popolo o alla signoria, sono assai belle, e di là era venuta lei che era bellissima ed era vissuta amando e facendosi amare pei suoi vezzi finché le veneri del corpo si son mantenute vive; da vecchia fu paraninfa d’amore, e moribonda fece, come dice il poeta, il suo testamento, nel quale lasciò, presente un notaio, a questo e a quello, compreso lo stesso notaio e il gran filosofo Galluppi, suo concittadino ed amatore, secondo lei, le varie parti del suo corpo, producendo, con le sue equivoche largizioni, il più schietto sorriso, misto di voluttà e di oscenità ». In realtà nel poemetto non si dice che Cecia lasci al notaio o a Galluppi parti del suo corpo. Pasquale Galluppi, anch’egli di Tropea, era morto nel 1846, due anni prima che Ammirà scrivesse il suo componimento nel quale è raffigurato come un innamorato e frequentatore —

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assiduo (insieme con «la sua filosofia ») di Cecia. Il territorio delle

imprese di Cecia è quello compreso fra Tropea e Monteleone ma la cortigiana è conosciuta in tutta la Calabria e anche in Sicilia, come si dice nei versi per l'anniversario della morte. Cecia è una superba Venere pandemia di campagne, villaggi, paesi, cittadine, una istituzione libertaria antitetica alla donna «di virtù » (« loda di Dio vera », donna-angelo, beatrice nel nome della Vergine),

alla donna platonica, a quella dell’isottismo cortigiano dell’umanesimo e della tradizione aulica e poi borghese dell’angelo della famiglia e del focolare. Ma Cecia, con la sua esuberanza e generosità sensuale, con la sua fantasia coitale e la sua massima testamentaria (« lu futtari perdeu

no n’è peccatu ») rappresenta l’antitesi del misoginismo anatema dei Padri medievali (« Si Christum queris, vultum fuge mulieris », « Qui sapiens

vult fieri, non credat mulieri », « Dum femina plorat decipere laborat ») e dei loro continuatori contro la donna vista come sentina di vizio, « imago diabuli » (ancora Enea Silvio Piccolomini la descriveva « juventutis epilatrix, virorum, senum mots, pattimoniorum devoratrix, honoris pernicies, pabulum diaboli, janua mortis, inferni supplementum »). Al l’estetismo della tomba maestosa nel Tempio malatestiano in funzione celebrativa dell’isottismo e della donna del signore, al trionfo della fama di virtù castellana o cortigiana o della verginità il poeta dialettale calabrese contrappone il trionfo della fama della « buttana guerra » miriadica di Cecia, ineguagliabile, perfino agonistico nella ricerca di impareggiabilità, di primato: il trionfo della fama di Cecia è parodisticamente istituzionalizzato con i premi assegnati a Cecia viva (medaglie, patenti di valore) e che fanno della donna una specie di idolo e quelli collocati sulla sua tomba dai maestri scalpellini (« labbra di fissi, capocchi tagghiati » etc.). L’arte di Cecia e gli strumenti dell’arte entrano nella originale concezione di testamento-morte di Cecia-anniversario, la stessa effigie della donna diventa strumento di esaltazione erotica: non più peccato, non più condannato, il coito è una funzione naturale, ludicofisiologico-fantastica. Nella sua parenesi coitale generale Cecia perdona e assolve anche coloro che la frodarono o non poterono ricompensarla; dopo la donazione delle parti del corpo eroticamente desiderabili il perdono segna il passaggio — come nei canoni di un’operetta di edificazione — alla morte, ai funerali solenni, alla celebrazione, ai festeggiamenti con inviti di molte persone. La seconda parte è come un lungo coro che, inglobando i motivi locali liturgico-popolari, commenta il dolore generale. In questa parte c’è anche l’appello alla immaginazione come modo di intervento sugli elementi —

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oggettivi, smascherando le contraddizioni e proiettandole in una luce di ironia contestativa. C’è l’assorbimento della tradizione: donne che si strappano i vestiti e si graffiano le guance, trecento prefiche di Pizzo chiamate per il concerto rituale del dolore, allestimento di un tusellu come quello che si usa per i santi, la meretrice coronata di fiori e di foglie, rivestita di oro, con le guance dipinte, il corpo di lei che viene apparecchiato come per l’imbalsamazione, pur durare incorrotto nel tempo, il baldacchino coperto di damaschi e sul quale scendono veli, circondato da luci di candele, l’esaltazione della morta e delle sue imprese erotiche, la sua ineguagliabilità. L'elemento tradizionale a un certo punto (dopo che è stata cantata la fama della meretrice amata anche dal

barone e filosofo Pasquale Galluppi e la gloria meretricia è assimilata a quella verginale) è oltrepassato dall’immaginazione che serve a con. traddire provocatoriamente i canoni del buon senso comune e piccolo borghese: ormai Cecia scompare dagli occhi di tutti, si leva verso l’alto, con la vulva fumigante, su una nuvola di membri virili, con un’ascensione che non troviamo in alcuna letteratura europea e che è la parodia delle edificanti ascensioni dello stilnovismo e delle iconografie popolati. Alla sparizione-ascensione di Cecia succede il miracoloso apparecchiamento di una tavolata con centinaia di persone intorno e un grande rumore festoso come in una fiera e che improvvisamente si acqueta. Cecia

ritorna, tutti piangono di gioia, la baciano, l’abbracciano, cantano e suonano fino alla scomparsa finale della meretrice la quale post morterz parla per canzonare, con una ineguagliabile metafora ludico-oscena che non ha riscontro in altri esempi di letteratura giocosa o patodistica. .Come per un richiamo ancestrale Cecia è esaltata ancora, nell’anniversario, come simbolo di liberazione singola e collettiva nella terza parte. Eros naturale è antitabù, liberazione dal soffocamento di credenze restrittive. Con l’esaltazione si rimuovono divieti stratificati, l’archetipo mistico e idealistico della donna intangibile è rimosso da Cecia morta che motteggia e canzona. Qui tutti piangono la « buttana » e la « arroffiana », paesani, forestieri, laici, religiosi. Uniti nel dolore rendono pubblica confessione erotica ringraziando la meretrice-iniziatrice, maestra,

salvatrice, la quale ha consentito a ciascuno modi particolari di espressioni erotiche e di rimozioni, tecniche erotiche spregiudicate. L’ambiente in cui visse Ammirà è così caratterizzato dal Galati nella sua monografia sul poeta (pp. 52-53): « La vita del poeta si svolge in un ambiente montelionese, dove la cornice cittadina ha più spiccato rilievo dall’afflusso dei prossimi villici, e specialmente, nelle domeniche di mercato, dalle fiorenti giovani contadine; ma già nella cittadina stessa —

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il popolo vive la sua vita, che tende a imitar quella borghese, e tuttavia, per buona fortuna, conserva la sua spontaneità rumorosa, goffa e insieme gentile, a cui, se ben guardiamo, sente d’appartenere anche l’Ammirà ». Concordiamo con questa ultima affermazione ma spogliandola di quel tanto di folklorico (la spontaneità rumorosa, goffa e gentile) e precisandola nel senso che Ammirà interpreta il mondo della campagna (non in quanto dalla campagna si reca in città), mondo popolare, collocandosi dentro di esso, non sentendosi diverso e perciò non avvertendo come osceno il linguaggio che è naturale. È la persona borghese che parla di oscenità. Pur con tale precisazione (per la quale si intendono i diversi livelli di condanna, più o meno violenta, dell’opera: magistratura e polizia borbonica, vescovo, persone borghesi, scuola, burocrazia della scuola e persone pseudoliberali) le ambiguità e le contraddizioni del poemetto rimangono: Cecia, tanto esaltata, non è contro i gruppi sociali che hanno prodotto la sua degradazione; l’esaltazione del poeta rischia di confondersi con la matrice borghese dello sfruttamento della donna. Ma anche per questo, converrà richiamarsi alla reputazione che una meretrice poteva aveva in un mondo arcaico-contadino, ai riflessi di tale considera-

zione-accettazione che passavano nella sfera borghese: alla luce di questa considerazione si smorza in Cecia ogni avversione contro le persone no-

bili e i magnati, le radici sociali dell’emarginazione di Cecia. Ma lo stesso sistema patriarcale negava — col posto che assegnava alla donna — la natura stessa della sensibilità femminile. Cecia con la sua personalità sensuale e con il suo modo di agire acquista un ruolo e può dettare legge; iperbolizzate sono le qualità della donna dopo la morte (beja, cara, amata, cosazza, ammirabili, celabri, mastra, gra Signora, bandera, virgini, etc.: una vera e propria litania) da folle di donne e di uomini che costituiscono una caratteristica dell’opera: la fedeltà delle aree sociali rurali al rituale. La seconda parte dell’operetta è la più vivace per quel muoversi di persone (viju fimmani, ob spaventu! / chi si sciuppanu li pinni; cu ti... cu ti; vì tricentu Pizzitani; nc'è ... nc’èsti; Rosa poi...

veni poi; Sugnu tanti chi no sacciu / jeu né nuju mu li cuntu / [...] cchiù ndi veni, cchiù ndi spunta?; Previti no restaru a Piscopìu; finca

l’abbati; l’aggenti tutta quanta vaci a lava; cchiù di setticentu / fimmani; Cui dicia ... e cui ... etc.) che si graffiano il viso, che accendono candele, che cantano le lodi e celebrano le arti della meretrice, che suonano il

tamburo, che la baciano, l’abbracciano, che gettano incenso nel fuoco, che seguono le altre persone pulendosi il naso o la bava, una folla di miseri, esaltata, meravigliata, adirata, in questa sagra popolana in cui

riconosce Cecia come sua espressione, come facente parte del suo spes-

Lp

sore umano, come un valore — una campionessa — di libertà che Cecia ha saputo adoperare come ha voluto, pur nella sua degradazione. Ammirà intese la posizione centrale, il valore della posizione che la popolana Cecia ha conquistato col suo mestiere, il solo sbocco possibile in un mondo chiuso, ottuso, che con misure grottesco-iperboliche si esalta nella

meretrice. Per noi il poemetto non può restare relegato nell’ambito del genere letterario dialettale dell’osceno, in un wmiliex deterministico,

neanche

nella coscienza di un gusto giocoso comune e tradizionale, neanche nella semplice parodia letteraria intesa come divertente esercitazione. Respingiamo inoltre l’ipotesi di ritenere generico ciò che nel poemetto è individuale, di considerare lezione scolastica quella che è tecnica originale nonché, respingiamo, l’accusa di grossolanità, di oscenità, rivolta alla tecnica e alle immagini realistiche e il sequestro del lavoro di Ammirà in una zona di non poesia in cui la dicotomia dell’estetica dei crociani (ma il sequestro potrebbe essere compiuto anche da una pseudo-metodologia di una pseudo sinistra puramente ideologizzante) potrebbe isolarlo e desolarlo. Il poemetto è, nelle sue strutture espressive, manifestazione di un tipo di cultura popolare che, per la via dell’eros, consapevolmente si pone al di là della cultura aulica, ne stritola i presupposti ideologicoculturali, ne deride le finte dolciure idealistiche e convenzionali, afferma i propri valori umani e naturali. La ribellione erotica è il parallelo dell'impossibile rivolta sociale, diventa mezzo di liberazione dalle sovrastrutture letterarie del sistema tradizionale. Perciò non parleremmo di genere letterario realistico-borghese, borghese popolare, di collegamenti di Cecia con Becchina di Angiolieri, con le cortigiane del Cinquecento, con la Santazza di Belli etc., di riflessi letterari, di semipopolarità, quanto di espressione autentica di un mondo popolano e contadino della Calabria centrale, di un mondo rurale piccolo-paesano e pagano-cristiano che, rimuovendo stratificazioni di carattere sociale e culturale sovraimposto, si libera e si riconosce in un panismo sessuale tertagno e carnale, forza vitale della natura, elemento essenziale di una esistenza non dotata * di alcun privilegio ma anzi costretta e compressa: Cecia è anche grande metafora naturistica pansessuale, pangineceale, desiderio e rimpianto, richiamo potente — e non osceno, perciò — della natura umana. Cecia che sale al cielo e ne discende è anche metafora di Gea e Urania, naturalisticamente intese, senza alcun velo di intellettualismo neoclassico. Con la Ceceide Vincenzo Ammirà si collegava al naturalismo magnogreco, a quella gbors che il mondo contadino coglieva con istinto e con immediatezza nel compatto solco della propria sostanza, al di là delle sovra—

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È

strutture mistiche salvifiche e beatificanti. Ammirà non si poteva rendere conto della scoperta né i lettori delle « beate rive » riuscivano a leggere senza falso pudore il poemetto che rimase relegato negli anfratti della memoria di qualche intellettuale borghese per qualche espressione icastica (e ricco ne è il lavoro) o falsamente ardita (perché interpretata solo allusivamente o in significato parziale): nessuno, infatti, ha osato

pubblicare questo gioiello d’arte così magmaticamente fuso con il chiuso mondo rurale della Calabria della metà del secolo scorso. La reimmersione nel mondo della natura pagana non avviene con recuperi neoellenistici, barocchi o arcadici. La grazia è assente in questo mondo rurale: il solo riso esistente è il feroce cugghiuniari di Cecia post mortem a cui segue la sorda affermazione di strafottenza. La metafora pangineceale quanto più assoluta — quale è — tanto più rende ragione di un mondo elementare di necessità e di impulsi, immobile, privo di conforti e speranze. Il poemetto esprime anche la desolata mancanza di comunicazione del mondo paesano e rurale, la riduzione all’isolamento a cui era stato costretto dal potere. Pure in questa condizione — della quale partecipava il poeta — l’opera è un grido di coraggio che sale da una profonda pietraia, da una parrera. In una regione governata dai Borboni in modo autoritario e con un dirigismo culturale repressivo e sessuofobico (la regione da cui, quasi cinquant’anni prima, la reazione aveva spinto verso la capitale l’armata sanfedista al canto di « A lu suonu de li violini, / sempre morte a’ Gia-

cobini! ») la Ceceide scoppia nella fantasia di Ammirà nel 1848, l’anno delle rivoluzioni e delle speranze. Il desiderio di liberazione dai metodi repressivi della tirannide e dagli interdetti religiosi o di altra natura si esprime anche con l’eros ludico come lotta contro i tabù per riconquistare un equilibrio tra istinto e ragione. L’esaltazione di Cecia avviene attraverso un meccanismo di compensazione: sublimata, Cecia diventa un simbolo e la stessa scenografia — che rovescia il significato del rituale religioso della beatificazione della virtù e della santità — è un mezzo di identificazione con il simbolo liberatorio. Il sistema borbonico, con la censura morale che permetteva anche interventi di ordine politico, impediva la libertà di creazione e volgeva gli istinti, come diversi, dagli elementi che costituivano la piramide gerarchica, in direzione dei propri fini e dei propri programmi. In ultima analisi i valori della violenza borbonica erano la salvaguardia del potere, dei privilegi, dei profitti; i mezzi di mantenimento del potere erano, nel campo della morale e dell’arte, la censura e gli arbitrari interventi con l’illusione di risolvere i problemi. La suggestione —

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i

b

LR

È

degli esempi rivoluzionari esercitata su un largo numero di persone giunge nel 1848 ad Ammirà il quale con la Ceceide si confronta contro la regressione nel campo erotico, richiede - ed è un fatto culturale — la sconfitta dei tabù e delle ipocrisie dei rapporti sessuali, mette in opera uno strumento critico e polemico. La sua opera era un atto di crescita culturale del poeta contro la violenza politica, sociale e culturale, contro la capacità di corruzione e di ipocrisia del sistema borbonico e dei gruppi egemoni periferici di quel sistema. Con maggiore consapevolezza nel 1861 Ammirà, nella citata dedica delle poesie in lingua, coglierà il legame tra indipendenza politica e libertà morale, tra servitù e ipocrisia. La Ceceide rappresentava, anche se forse inconsapevolmente, nel 1848, un’esortazione alla libertà e alla crescita umana; più consapevolmente nella sua chiarezza espressiva, ricca di sottintesi, tuttavia, e di sfumature, era un’opera democratica

e che rappresentava

una novità come

avviamento al realismo: un frutto storicamente maturo del realismo romantico e insieme una eccezionale primizia dell'avviamento al concreto del secondo Ottocento.

BEFFA, NATURALITÀ DELLA

E COMPENSAZIONE

« FARAGULA

EROTICA.

LA TRADIZIONE

ORALE

»

Ngagghia e Rivigliade, che costituiscono con la Ceceide una parte rilevante e un nuovo acquisto del corpus dialettale di Vincenzo Ammirà, rappresentano due significativi e diversi momenti della narrativa poetica del vibonese. Ambedue hanno dietro di sé tradizioni letterarie assai vicine al mondo popolare e qui popolarmente rielaborate: Ngagghia riassume la tradizione comica della beffa con i suoi antecedenti boccacceschi e ariosteschi, Rivigliade riassume la tradizione drammatica con intento parodico e, soprattutto, segue l’itinerario di trasformazione per liberare la naturalità dell’uomo. Le due novelle in versi sono giustificate ed esaltate dal poeta — che ci richiama implicitamente ad una società rurale povera di fonti scritte — nella loro verità storica, nella necessità di tramandare i documenti orali. « In paese, — scrive Corrado Alvaro — a cercarla, non c’era una sola parola scritta né sui muri né sulle botteghe. C’era un banditore che gridava da tre punti diversi i decreti del Comune e gli avvisi dei bottegai [...]. Quando qualcuno veniva in casa, e vedeva me che leggevo il sillabario, contento di rivedere le parole staccate: Ruota, Arancio, Fiore, che per me erano fatti veri come le cose stesse, mi guardavano —

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come si guarda chi sogna e vede qualche cosa di là ». Nella Calabria si conservavano atcaicamente modi di vita quasi ritualmente perpetuati e nell’immobilità psicologica conseguente alla natura del mondo arcaico i favolatori inquadravano i loro racconti derivanti dalla Bibbia, dai romanzi cavallereschi, dai romanzi popolari dell’Ottocento. L’appropriazione della cultura orale costituisce per le classi subalterne una difesa dalla discriminazione sociale compiuta per opera della cultura scritta e Ammirà insiste sia sulla verità della cultura orale che sulla necessità di incorporarla nella storia. Fardgula, frappa, cuntu, parmidìa (da rapauudia) rumanza, paràbula indicano in calabrese fiaba, racconto il cui affidamento a una particolare variegata strutturazione (esplicitata dal narratore-far4gularu) ha un grandioso significato di contatto con la cultura alta, una finalità di confronto nell’evidenza artistica e nel richiamo allo specifico dell’esperienza culturale narrativa. Passano i tempi, scrive Ammirà (« vinni l’oji e jiu l’ajeri »), ma il ricordo degli antichi rimane (« A li futuri — l’apprisenta mamma storia — cu li propriji culuri ») per la virtù del raccontare: « Cui dici: No nsu beri li faràguli, — li fatti chi cuntavanu l’antichi ... »; « Lu pronannu di nannuma cuntava — quanto lu soi pronannu nci dicia »; « E a mia cent'anni doppu

lu pronannu — meu mi cuntau na vota quantu dicu, — ed era quantu lu soi catanannu — cuntava, ca sapìa tuttu lu ntricu ». Questa misura popolare ancorata al senso comune, alla consapevolezza atavica dell’esperienza umana depositata attraverso i secoli, richiama la « classicità » della oralità attraverso il ricordo delle generazioni di contadini narranti, ascoltanti « quandu di mbernu a lu focuni » stavanu « d’amici e di parenti ncumpagnia » e faragulava « ogni vecchiu a li cotrari — ntra li queti foculari ». Alcuni accenni di Ammirà spiegano certi schemi e strutture interne della faràgula ma anche il rapporto di quelle strutture con la società e la cultura in seno alla quale si sviluppavano: il motivo dello svolgersi dei fatti, delle metamorfosi approdanti alla naturalità dopo l’espandersi delle situazioni, della discesa nell’ordine creato dalle prove che la vita offre hanno un riferimento, un mondo (« Oh chija aggenti di la pasta antica! », un verso-spia della frequentazione che Ammirà aveva con l’Ariosto) non ancora frastornato dalle ambizioni e dagli scandali della « gente nova » (« e no nc’era di scandalu mujica »).

Mancano gli studi di ambientazione socio-culturale della novella e della novella in versi calabrese, delle costanti e varianti in rapporto alle funzioni della narrativa nella società ma qualche indicazione si può trarre da questi componimenti del poeta vibonese. Il narratore è un « pronannu » (o « catanannu ») perché saggezza e autorità sono proprie —

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delle persone anziane nella società patriarcale. La ebrietà del novelliere è simbolica dell’ispirazione (la musa-è ricordata nella premessa al secondo poemetto) e il prologo narrativo richiede solennità e serietà. La fardgula — che è proprietà del novelliere e serve per tramandare valori, comportamenti accettati dal gruppo — deve essere ascoltata in silenzio dopo che il narratore (che alternerà prese di.tabacco e sorsi di vino) si è fatto pregare da tutti: « Si stati citti — e mu quetati ssa fraguneria, — ca li raccunti no nsu pitti fritti ». Da quel momento il narratore ha potere sugli altri che tiene legati nel ruolo di ascoltatori: la narrazione è un lavoro di creazione, è fatica della personalità che si esprime aggiungendo qualcosa di se stessa a ciò che rivela e comunica. Inoltre essa continua nei commenti degli ascoltatori, nelle interpretazioni degli ascoltanti come l’Ammirà, fedele lettore del Decazzeron, ben sapeva e ricordava: « essendo già stato da tutte commentato il valore et il leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia »} « un morso

dato da uno valente

uomo secolare ad uno avaro religioso »; « et avendo già ciascun commendata la donna che ella bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva »; « ottimamente la donna aver fatto, e quel che si conveniva .

al bestiale uomo »; « pareva a tutti madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito » etc.

BEFFA

E NATURALITÀ

IN « NGAGGHIA »

Nella Ngagghia le forze operanti nelle diverse situazioni si dispiegano' nella loro naturalità in una dimensione comica sottolineata dal narratore. Il motivo centrale, la beffa fatta dalla moglie al marito, deriva dalla novellistica di Boccaccio, Aretino, Fortini, dalle commedie di Ales-

sandro Piccolomini. È di quest’ultimo (ma la fonte è di Boccaccio) l’osservazione, per bocca della mezzana Raffaella, che: « abbia una donna

la casa piena di quanti parenti si voglia e sien tutti gelosi come il diavolo, in ogni modo a qualche tempo ella potrà pigliar la commodità [..] s’ella stesse rinchiusa in una camera di continuo, in ogni modo, o con scale di funi o con altri instrumenti, a qualche tempo riesce la cosa ». Ma ben più aderente al motivo della donna che tradisce per il primo amore è la Fiammetta dell’Ariosto che inganna Giocondo e il re Astolfo per giacere col Greco sicché « se più che crini avesse occhi il marito, — non potrìa far che non fosse tradito ». In questa novella del Furioso (XXVIII)

è, come in quella di Ammirà, una connotazione negativa (ma messa in bocca a Rodomonte) delle fedeltà femminile (« Io credo ben che de



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l’ascose — feminil frode sia copia infinita »; e Ammirà:

« Tutti a nu

modu — siti, fimmani ngrati e tradituri ») ma bilanciata dalla dichiarazione ariostesca di stima verso le donne e dalla giustificazione di Ammirà per quelle che non dimenticano mai il primo amore.

La novellistica colta di origine boccaccesca offre ad Ammirà i supporti letterari dell’« esser convenevolissimo » che una donna « con gran destrezza si ellegga uno amante unico in questo mondo, ed insieme con esso goda segretissimamente il fin dell’amor suo » (A. Piccolomini). La

vicenda di Ngagghia ha come suo elemento di base la beffa al marito sciocco (in Boccaccio l’amante è nascosto

sotto una cesta, in un vaso

— nel quale entrerà, per pulirlo, il marito, mentre l’amante si gode la donna che guarda il marito lavorare —, è fatto passare per fantasma, incantatore etc.) narrata come fardgula, con elementi fiabeschi e comici. Questi ultimi hanno, come in altre poesie di Ammirà, un carattere fortemente espressionistico. Il tono popolaresco è diffuso in tutto il racconto, nei paragoni (« parianu agranci e comu li conigghi — li ricchi avianu e

l’occhi »), nel senso di stupore (« eranu nta li setti meravigghi — chi ancora si ndi parra e si ndi dici »), nelle riprese in forma di ripetizione (« lu patri loru si ndi jiu — [...] Morìu lu patri e l’orfani restaru »), nel significato ambiguo (« nobili e ricca e mu sapi abballari, — pemmu si trova lesta a ncavarcari »), nelle brachilogie che sottintendono l’itera-

zione delle vicende (« E dassa e pigghia, e cerca ed addimanda, — consigghia, vota e gira ») e sono accompagnate dal tono della voce del narratore, etc. Questo modo espressivo riflette il senso comune popolaresco in modo critico: l’aspirante marito è visto nella sua mammoneria e nella

sua balordaggine (figlio « carijatu » dalla madre, madre che l’accompagna « e di lu preju l’anchi si pisciava »), il padre della sposa nella volponeria farsesca. Il secondo canto è quello della beffa. Il narratore fa derivare da antichissime fonti (« chiju chi lu sapìa no torna mbìta, — dormi mbijatu cu l’aggenti boni ») la vicenda di Pulisena che si dà al bel vivere col suo corteggio di gaudenti e parassiti mentre «lu ciotu maritu si curcava ». La piccola società paesana è calamitata intorno a sé da Pulisena per i passatempi invernali; nell’estate la donna, ritornata alla casa paterna incontra Petrucola, il primo amore che le riaccende il sentimento e i sensi: la « spartenza amara », però, divide ancora gli innamorati. La beffa ordita dagli innamorati ai danni di Ngagghia è sorretta da una altisonanza stilistica: la carrozza con sei cavalli per il « medicuni », l’apprestamento magico per il guaritore, il dialogo (che ricorda quello boccaccesco tra frate Puccio e la moglie sul « dimenamento di palco della casa » e sul « chi la sera non cena, tutta notte si dimena ») tra —

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Micu e Ngagghia, il grido di trionfo del medico che fa intonare il « tantumergu ndinocchiuni » (come frate Cipolla « una laude di San Lorenzo »).

« O Amore, chenti e quali sono le tue forze! chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi seguita le tue orine? » fa dire Boccaccio a Lauretta (Decameron, VII, 4) dopo la novella di frate Rinaldo finto incantatore

di « vermini al figlioccio » di madonna Agnesa. Ammirà naturalizza l’eros e illumina in questa novella in versi — in cui la comicità paternalistica della fardgula smorza le punte ideologiche — le ambizioni di ceti decadenti e di ceti emergenti e l’appoggio di mezzanetie e stregonerie di cui questi hanno bisogno, la diversa posizione della donna nubile e della donna sposata, la beffa come conseguenza del matrimonio senza amore, la libertà che il potere medico-stregonesco concede a Petrucola di accedere alle grazie di Pulisena. L’inganno di Pulisena induce il novelliere a colpevolizzare genericamente le donne forse perché troppo altisonante è la beffa ai danni del marito « ciotu ». Ma ben diversa è la morale dell’ultima ottava, di liberazione erotica, di reazione all’angustia sociale, culturale, psicologica. La

struttura della faràgula, del resto, consentiva una moderata liberazione della naturalità, il modello letterario stesso imponeva i limiti moderati. Si consideri che alla fine della decima novella della quinta giornata del Decameron Dioneo, comandato di cantare una canzone, vorrebbe intonare Monna Aldruda, levate la coda o Alzatevi i panni, monna Lapa o

Sotto l’ulivello è l'erba o Questo mio nicchio s'io nol picchio o Deb fa pian, marito mio — canzoni con doppio senso — ma è impedito dalla regina sicché finisce con l’intonar Azzor, la vaga luce, più rispondente al mondo cortese della brigata. La lingua della novella si muove tra le sponde paternalistiche della narrazione fiabesca liberando termini grotteschi ed espressionistici per deridere le dolciure idealistiche o per assecondare l’oltranza della beffa.

Il poeta esemplifica, spiega minuziosamente come si fa nei racconti orali, crea doppi sensi per dare un giudizio sui personaggi e sulle loro qualità (« si mentia li rosi — si la porca facia »), usa l’onomatopea (« e facianu

a l’adduri nghij nghiji », « chi di lu preju #4 faci lu mbustu ») o per entrare criticamente nelle situazioni. Sicché attraverso il linguaggio si nota l’ironia intorno alla beffa e ai suoi connessi elementi (i portatori

dell’unghia e del cordone di un santo per guarire l’ammalata, il servo babbeo come Ngagghia. l’apparato cristiano-superstizioso per esorcizzare —

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sa

ds

il malocchio).! Anche l’italianizzazione del vocabolo corrisponde qualche volta alla nobilitazione ironica di un personaggio (« duvi esti la 7% gliori — figghiola »).

EROS

COME

GRAZIA

E COMPENSAZIONE

NELLA

« RIVIGLIADE

»

Anche i testi qui editi muovono da una classicità di generi antichi. Nella Rivigliade si notano motivi vicini alla scena con elementi drammatici come i planctus, le lamentazioni funebri (fabulae funeraticiae) in onore di personaggi, monologhi, monodie. In questo poemetto sono conservate, dai generi antichi, la scenografia della « visione », la centralità

della protagonista ma c’è il ribaltamento profano delle rappresentazioni pasquali (ludus paschalis), delle visitationes sepulchri, della pietà delle donne, dell’officium pastorum che presentava i pastori adoranti, dei drammi medievali dell’Anticristo, dei « miracoli di S. Nicola » etc. Agli elementi drammatici si uniscono quelli del mimo gesticolato rievocante episodi, recitato alle nozze come fescennina iocatio.

1 Ma anche la tradizione popolare detiene il motivo dell’amante confessore o guaritore. Il Pergoli (Saggi di canti popolari, Forlì 1894) ha pubblicato L’azzante confessore (che, del resto, si trova anche nei canti raccolti da Giannini, Nigra, Menghini):

U m'è stè dett ch’e’ mi ’mor sta mél: com’a faregna pr’andél’a truvè? Si vestirem da padri capuzzini, in totti li chési j’a farem l’inchini. — Fasì la carité a ’sti capuzzini. — O capuzzini, javem un gran da fé, javem la figlia a lett che la sta mél. — Si la sta mél, fasila confissé, che mè sarò su pédre cunfissor. Serate quella porta e que’ purton, che no si senta la su cunfission; serate quela porta e che curtie, che no si senta quel che la vo dir. La mama l’è si l’oss che la pianzeva e la figlia cu e’ frè che la rideva; la mama l’è si l’oss a fèr e’ piant, la figlia a lett cun e’ frè d’accant. (« Mi è stato detto che il mio amore sta male: — come farò per andare a trovarlo? — Mi vestirò da padre cappuccino — e andrò facendo l’inchino in tutte le case. — Fate la carità a questo povero cappuccino! — O cappuccino, abbiamo un gran da fare, — abbiamo la figlia a letto che sta male. — Se sta male fatela confessare — ed io sarò il suo padre confessore. — Chiudete quella porta e quel portone — che non senta la sua confessione; — chiudete quella porta e quel cortile — che non si senta quello che vuol dire. — La mamma rimane piangente vicino all’uscio, — la figlia dentro se la ride col frate; — la mamma rimane in pianto sull’uscio, — la figlia sta a letto con il frate accanto »).



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La Rivigliade è una felice fusione popolare di tutti questi elementi della tradizione, rinforzati intorno alla maschera rural-paesana che è la protagonista. Rivigghia è mitizzata, ingrandita dal colore leggendario che hanno i simboli protettori della vita della natura, siano essi divinità, animali o vegetali antropomorfizzati: in questa teatralità popolaresca Rivigghia, assurta come regina nell’Olimpo trinitario (con Rosazza e Cecia) delle benefattrici-beate, potta nella sua ritualizzazione numerose

implicazioni socio-culturali che affermano la realtà del sesso trionfante. La repressione ambientale capovolge, come nella Ceceide, le angosce e le inibizioni per celebrare il trionfo sessuale. La ritualizzazione adopera genialmente, ribaltandoli, gli elementi della tradizione letteraria e religiosa della donna angelicata e della santa in un crescendo compositivo privo di ambiguità. In questo polittico trionfalistico ogni elemento della litania parodistica è funzionale alla celebrazione. La morte, come nella tradizione delle beate che salgono al cielo, è

accompagnata da fenomeni della natura (oscuramento del cielo, lampi, tuoni, nebbia). Il pianto è invocato immenso

(« a hjumara », « cortara

pe cortara » che sono espressioni popolari) per la grande perdita subìta dagli uomini e una nuvola terribile e mirifica per le metamorfosi appare racchiudendo un infinito numero di persone. Le fantastiche iconografie della nuvola vogliono esprimere con la mutabilità il sovrannaturale della « mirabile visione », un immane flusso eterno materializzato. Le prostitute beatificate giganteggiano nelle persone e negli attributi del sesso nel vano celeste in cui danzano follemente tra canti e suoni. Esse vengono a schiere numerose come le onde del mare, la musica che le accompagna è quella di strumenti popolari (« nzunghi, tuppiti, pù pù »), il linguaggio e i saluti sono quelli del meretricio. Le imprese di Rosazza e Cecia sono celebrate dal coro nell’esemplarità e solennità, nei meriti riconosciuti da « smeragghi, cruci e chiavi » appese al petto come status symbols, per rendere più altisonanti le opere e i giorni di Rivigghia. Questa, regina delle prostitute, è « mamma » e « cummari » (dimensione universale e locale), simbolo di iniziazione e di liberazione, somma delle più elevate

° qualità meretricie che non potrebbero essere descritte da lingua o penna. Nell’agiografia e nella litania che vengono cantate, le grandi imprese di Rivigghia sono degne di una gigantessa e la meretrice diventa un elemento del ciclo vitale della natura, è essa stessa natura come la terra

che genera, raccoglie e seppellisce. Rivigghia istruisce e vitalizza la natura umana allevando meretrici, miracolando i vecchi nella loro impotenza, trovando il rimedio per le derelitte dal sesso, consigliando monache e abati, provvedendo pet chi nascostamente soffre. Come una provvidenza —

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Rivigghia giunge dovunque e scende su tutte le età e tutti i ceti: il tono lirico-epico di Ammirà in questa parte del poemetto è una contraffazione, una parafrasi degli inni sacri manzoniani. Ciò non è causale ma costituisce una scelta di campo contro il bigottismo, le ipocrisie ufficiali, una rivolta dell’eros che ripaga dalla subalternità e che è affermato come valore centrale della vita e della natura. In questo poemetto non c’è bisogno della beffa di Ngagghia: l’affermazione potente della naturalità indica che la beffa è dall’altra parte. La morte della donna fa tremare la terra e la morte è rappresentata come la fine di una potenza materiale di cui rimane la maschera fisica afflosciata e deformata: janca e fridda li dinocchi a na botta ti curvaru;

e la lingua ’ntra li denti grossa cchiù di nu serpenti.

L’apoteosi e l’assunzione al cielo di Rivigghia avvengono con l’ascesa della orribile nuvola oscena carica di organi sessuali e già abbassatasi per rendere visibile la scenografia delle schiere meretricie: la parodia di ogni rappresentazione metafisica o platonica (con tutta la letteratura connessa) è evidentissima. Questo originalissimo e organico (anche in connessione con la Ceceide) poemetto erotico popolare è radicato nell’ideologia naturalistica di un universo contadino che trova compenso nel vitalismo sessuale omologo alle forme dell’Essere che consiste o diviene, alle stagioni, alla fatica, alla terra. Le radici remotissime sono nel naturalismo greco assorbito dal mondo contadino con una rappresentazione compatta, coerente, critica nella sua iperbolicità pansessuale riscattatrice. Di questa organicità vediamo talvolta elementi che appaiono ormai soltanto simbolici o misteriosi; Ammirà poté ancora ai suoi giorni

cogliere un elemento vitale e tradurlo in forma di arte. Privo di sbavature e incertezze, sorretto da un metaforeggiare corposo e solenne in cui sormontano le espressioni popolari, infatti, questo piccolo capolavoro inedito di Ammirà concorre a ricostituire, con Ngagghia, la personalità di un geniale poeta dialettale male conosciuto, studiato e compreso.

2 SRI

IX

IL «RITORNO A SAN MAURO » DI GIOVANNI PASCOLI

Tra coloro che ci hanno preceduto nella lettura del Ritorno 4 Sar Mauro ricordiamo tre studiosi della generazione idealistica (o che nell’idealismo affondano la loro formazione):

Raffaello Viola, Siro A. Chi-

menz e Gaetano Trombatore, tre studiosi i quali sono stati molto attenti alla poesia lirica anche se con motivazioni e finalità alquanto diverse. Il Viola? vede il Pascoli comporre e scomporre, nel suo itinerario poetico, le sue potenze caratteristiche, la sensitiva e la morale affettiva, muovendo

il poeta, data la sua costituzione interiore, dagli elementi

sensibili per giungere alla rappresentazione fantastica. Per Viola la poetica di Pascoli ha le basi nella concezione positivistica la quale non consente di elevarsi sui dati dei sensi che sono esaltati in quanto tali e non filtrati attraverso l’intelletto. I dati dei sensi sono inquadrati nell’istinto sentimentale che non è moralità e l’arte nasce estetisticamente alle radici,

come mezzo sostitutivo della conoscenza intellettuale che non può aver luogo. Il Viola rimprovera al Pascoli di concepire in termini di rapporto di immagini e di raffinamento del rapporto, sotto il segno dell’ambiguità psicologica. Ma al di là dell’individuazione delle radici positivistiche del Pascoli e dei processi poetici originariamente estetizzati o moralizzati (ma il desiderio di obiettività del Viola non era limitato dal timore ° idealistico del positivismo e del decadentismo?) il Viola avvertiva che

il Pascoli gli apriva un nuovo mondo vivo e cangiante, lo portava verso 1 Non critico è l’opuscolo di A. ScArPELLINI, I canti di S. Mauro di G. Pascoli, Savignano, Pascucci 1924. 2 R. VioLa, La poesia di G. Pascoli, Salamanca 1946; II ed., Padova, Liviana 1950; III ed., Roma, Babuino 1967. Sul Viola cfr. A. PrromaLti, Un critico vigilante e romantico: R.V., in Nuova Antologia, gennaio 1952 (poi in Dal ’400 al 900, Firenze, Olschki 1964, pp. 149-159).



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una modernità in cui il critico si appagava ritrovandovi i tratti di un assoluto. Il trittico Casa mia, Mia madre, Commiato appare al Viola « la più alta espressione dell’arte pascoliana » per il modo in cui gli elementi sono dissolti nel sogno. Per il Chimenz* — seguace di Vittorio Rossi maturo nell’interpretare l’opera d’arte in relazione all’« atteggiamento dell’anima » — il temperamento del Pascoli non è capace di approfondimenti sentimentali o drammatici bensì di esprimere ciò che è labile come il sogno. Lo studioso enuncia la sua nota tesi del Pascoli che entra, dopo decenni dagli avvenimenti accaduti, nella sua tragedia familiare proclamandosi vittima dell’odio e della malvagità degli uomini, per concludere che il Pascoli poeta non poteva reggere le imponenti sovrastrutture che si era auto-

create. La' tesi del Chimenz è psicologicamente aprioristica e dalla sua macchinosità il critico fa derivare — sulla base del rapporto tra momento spirituale ed espressione estetica — le stravaganze del drammaturgismo pascoliano. Nel ciclo del Riforzo il Chimenz vede il difetto di costruzione di Tra San Mauro e Savignano ma non lo vede sul piano delle ragioni del poeta. Questi nel 1903 è celebre, ha un pubblico di fedeli, toccati e interessati alle vicende tragiche e romanzesche della biografia del poeta: La voce, L’ora di Barga, La cavalla storna, i componimenti di anniversario funebre, quelli per la sorella, per i morti sono momenti di una biografia per il pubblico più largo, già formatosi in tutte le regioni d’Italia, per il quale il Pascoli insiste — differenziandosi dal D’Annunzio cosmopolita — sull’amore della famiglia, del paese natìo, della casa. Prima di essere il maestro della nuova ars dictandi del Novecento Pascoli è, per il largo pubblico, il poeta della bontà, delle piccole cose, della semplicità, della solidarietà umana, del bozzetto paesano o sociale ma anche della teatralità romanzesca della Cavalla storna, delle leggende popolari dei morti che tornano la notte « col loro anelito lieve », riposando intorno alla mensa, « cercando fatti lontani — col capo tra le due mani » (La tovaglia). Il Chimenz

non

tiene conto di questi elementi

concreti: egli sta attento se gli elementi di un componimento « nel mistero del processo creativo » si fondono col « fuoco della visione poetica » che è certamente importante ma che può avvenire per diverse vie: e ognuna di queste vie, anche la melodrammatica, può dare un contributo alla spiegazione della poesia. Per Chimenz in Casa mia e Mia madre « la melodia è tutto », « pura musicalità ». Il critico ha il merito di avere 3 S. A. Chimenz, Nuovi studi su G. Pascoli. L’amore, il dramma della sua famiglia, Roma 1942.



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spiegato ciò che nel testo è criptico, di avere indicato nel primo com-

ponimento, nel colloquio tra madre e figlio, un momento « con una slavatura romantico-borghese alla De Amicis » e, soprattutto, di avere definito la purezza di espressione di Mia madre come « un sogno velato di lagrime ». In Comrziato gli incantati commenti musicali (« Si chiudevano i casolari. —# Cresceva l’ombra delle cose. — Ancor tra i lontani filari — traspativa color di rose ») hanno una funzione esteriore e la struttura della poesia è in contrasto-con le grandi domande; In definitiva nel Chimenz la tesi della discronia psicologica e artistica dell’ingiustizia subita dal poeta e della sua rivalsa morale ci pare sovrapposta e ci pare che troppo vago sia il coordinamento del Riforzo sub specie genericamente musicale. L’esame critico più ampio del Riforzo a San Mauro è quello di Gaetano Trombatore che lo lesse nel 1958 al Convegno pascoliano di * Bologna e lo pubblicò nel 1960. La situazione poetica del Ritorno comprende i primi sei canti, compreso il Comzziato. Se per Viola il simbolismo nel Pascoli era un elemento dell’ambiguità psicologica conseguente all’agnosticismo positivistico, per Trombatore il simbolismo, che deriva dalla poetica dell’oggetto al quale è dato un sovtrasenso, si dispone in «una vaghissima trama di analogie e di corrispondenze ». Simbolo è, per Trombatore, anche vita memoriale e il « ritorno » è un « rifugio della memoria », « pura parvenza anch’essa e come sospesa su un’invisibile soglia che divide e anche unisce, che distingue e insieme confonde, la realtà e la fantasia, il di qua e il di là, l'essere e il niente ». I motivi

d’accordo col critico possono essere: la sua interpretazione di La fessitrice; il « sentore di melodramma » con una « sua interna misura ele-

giaca »; il ritorno al villaggio inteso come ricerca della presenza della madre e dell’illusione di una vita in comune col superstite nucleo familiare. Per quanto riguarda l’interpretazione delle situazioni il critico risente del Chimenz ma restando su un piano psicologico ed estetico più generico, più soggettivo, sicché la conclusione che nel « ritorno » intuisce il simbolo « squallido e spettrale di quell’unico essere che è il niente » ci sembra parziale oltre che, nella sua suggestione, alquanto romanzesca. Le dichiarazioni stesse del poeta sono dichiarazioni sulla genesi dei versi. Nella Prefazione ai Canti di Castelvecchio (1903) è detto chiara-

mente che: i nuovi versi sono nati in campagna per la tomba della gio-

4 G. TromBatore, Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia, Palermo, Manfredi 1960, pp. 145-172. Su Trombatore cfr. A. PIROMALLI, Gaetano Trombatore, in Studi sul Novecento, Firenze, Olschki 1969, pp. 191-208.



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vane madre; che alla madre « umile, e pur così forte » egli deve la sua « abitudine contemplativa » (« Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un giorno lungo di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppo: io appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte. Io non so più a che cosa pensassi allora: essa piangeva. Pianse poco più di un anno, e poi morì »); che egli deve ricordare l’uccisione del padre e la morte della madre perché ne derivi un « più acuto ribrezzo del male ». Due volte il poeta si rivolge al lettore per inquadrare le motivazioni etiche della sua poetica, per ricordare il delitto rimasto impunito e che i fatti contenuti in alcune poesie sono non solo veri ma esatti. Poi nelle poesie del volume c'è un richiamo continuo, essenziale, prezioso alla tragedia del 1867 ma anche ai sentimenti dell’infanzia sammaurese. Tutta la trama della disgrazia e delle sue conseguenze (la morte del padre in Ur ricordo, Il ritratto, Il nido dei « farlotti » anche con fitti particolari di cronaca e — con alta teatralità — in La cavalla storna, il carcere, la fame di Giovanni in La voce, Maria lontana — « con di mezzo il mare! » — accanto al fratello ammalato) è narrata minuziosamente, sono ricordati gli stati d’ani-

mo di sofferenza e, soprattutto, la presenza dei motti: Morti che amate, morti che piangete morti che udivo camminar pian piano nella mia, nella sua stanza a parete ... (La mia malattia);

c'è la cronaca della tragedia in Ur ricordo: Andavano e tornavano le rondini intorno alle grondaie della Torre, ai rondinotti nuovi. Era d’agosto. Avanti la rimessa era già pronto il calessino. La cavalla storna calava giù ...; ma c’è anche il ricordo musicale della madre in La mia sera: Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com'era ... sentivo mia madre ... poi nulla ... sul far della sera.

La trama delle disgrazie nel suo cronachismo pratico costituisce il piano sensibile dei Canzi di Castelvecchio e dell’ideologia morale di Pa—

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scoli poeta; è il piano della narrazione fino ai minimi particolari i quali sono utili per l’impalcatura morale; ciò che il poeta ha narrato è vero ed esatto, le circostanze apparentemente romanzesche sono reali e quelle reali per la loro drammaticità sembrano romanzesche: il poeta ha ormai un grande pubblico e si viene prefigurando negli episodi più commoventi (se stesso in carcere, malato a Messina con la sorella accanto, il nido

di « farlotti »: « Noi si tornava pet una sagra — senza padre, senza più pane ») i problemi della veridicità-dei termini della tragedia («i miei

cati martiri » scrive nella prefazione ai Canti), della giustizia che non gli è stata resa, della sua opposizione alla morte dei genitori (« Non voglio che sian morti »). In questo primo piano sono, dunque, i termini della tragedia e delle sue conseguenze, con l’inevitabile scenografia romanzesca e melodrammatica anche del gusto artistico romagnolo di quel tempo (che andrebbe ricercato nel racconto e nel teatro). C'è un altro

° piano, quello dei morti della religione popolare rurale di S. Mauro (i morti demiurghi che aiutano i vivi, parlano loro come in un soffio, danno consigli, si affliggono con essi) o anche della tradizione popolare di S. Mauro: lo stesso Pascoli nelle note alla seconda edizione dei Canti informa che «il brivido che qualche volta ci scuote all’improvviso, è interpretato (in Romagna, che io sappia) come il passaggio della morte » e che « in Romagna si raccomanda veramente di sparecchiare dopo cena, perché se si lascia la tovaglia sul tavolo, vergoro i morti ». Anche in queste note il Pascoli insiste, più volte, con le lettrici, sulla verità delle tradizioni e leggende. Nei due piani indicati (la cronaca della disgrazia, la presenza dei morti) per i Canti sono prefigurati motivi del Ritorno a San Mauro. Ma anche i dislivelli da componimento a componimento (dal realismo melodrammatico o funerario a quello che a noi pare ineffabile sprofondamento nel cuore dell’infanzia del poeta: la madre, la casa, il paese) sono da vedere nella struttura insistente alla composizione prima che nelle misure estetiche come fanno il Trombatore e il Chimenz i quali giungono all’analisi estetica prima che all’analisi compositiva e pretermettono, quindi, Giovannino, Il bolide, Tra San Mauro e Savignano. Ci avvicineremo al Ritorno, cioè, da un punto di vista stilistico,

osservando che il ciclo è una testata plurilinguistica che riproduce, senza le iperboli del sistema, il sistema dei Canti. Dalla discussione coi critici precedenti ci pare di potere giungere ad alcuni punti fermi generali: il positivismo di Pascoli come agnosticismo che finisce nella sfiducia nella scienza, nella ragione e che chiede ciò che la scienza non può dare: la vittoria sulla morte; positivismo ambivalente che percorre la storia della tragedia familiare in quanto l’esito —

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è l'abbandono di esso in favore di una speranza che ha il corrispettivo artistico nella lievitazione verso l’ineffabile e le vaghezze ideative supreme di visioni e incontri ultraterreni, in un paesaggio crepuscolaresubliminare in cui le cose sono in quanto limbo (farfalle che sussurrano,

essenze che esalano, peso funerario che decade ‘in realtà simboliche funzionali all’incertezza della speranza); il motivo del ricordo come felicità perduta ma intensamente vissuta e caricata di emozioni sentimentali, di forza visionaria sì da creare nei lettori una complice partecipazione,

elemento comune del pascolismo affettivo sentimentale, strumento di base per trasmettere i temi tragici del mondo privato a una cerchia più larga di fedeli e di lettori ma anche mezzo, attraverso la comunicazione, per ricompotre la scissione tra la vita privata e la società che aveva offeso il poeta; la tecnica di comunicazione della propria carica emotiva attraverso le scenografiche visioni dei morti, l’intensità visionaria che giunge alla vaghezza ideativa, elemento formale da individuare stilisticamente, linguisticamente, fonosemanticamente nei suoi elementi musical-lessicali « artisticamente

quanto mai precisi » (cioè non

mistici),

come indicava il Contini fin dal 1955. Abbiamo visto convergere, così, nei diversi livelli e nel plurilinguismo alcune operazioni del poeta: rendere oggetti e visioni vibranti di emotività perché chi legge li veda e ne colga la purezza; ritrovarsi dalle ambiguità delle convenzioni e ritrovarsi fanciullo. Il ritorno a San Mauro vuole essere abbandono alla purezza delle cose dell’infanzia, sentito, però, dopo perdite e ingiustizie subìte. Il ritorno è congruente a questo stato d’animo che non è più quello delle prime Myricae bensì quello della necessità sentimentale di trovare il mondo di un tempo felice: da qui le composizioni a modo di visione, con quel tanto di popolar-melodrammatico che è nel dialogo tra vivo e morta che si svolge in un limbo di appagamento-sofferenza rappresentato con perfetta fusione di strumenti musicali sicché non sussistono più né il popolaresco inquadrato nel prezioso di certi versi umanistici né il peso del familiarprovinciale né la luce idillica del bozzetto sentimentale. Il ritorno a San Mauro è anche una rimmetsione nelle inesauribili tradizioni popolati, il primum originario dell’infanzia, un assoluto psicologico e ontologico che entra a far parte della purezza del fanciullino. Avvicinandosi a quelle tradizioni il poeta si avvicinava alla verità come quando componeva le poesie sui fatti veramente accaduti: « certe cose 5 G. Contini, Il linguaggio 1958, pp. 27-52.

di Pascoli, in AA.Vv., Studi pascoliani, Faenza, Lega

MAO

non s’inventano

[...]. In quelle e altre tutto è vero. Quindi quelle

poesie non le ho fatte io: io ho fatto (e non sempre bene) i versi ».

Le tradizioni di San Mauro fanno parte della realtà del fanciullino e il poeta le accoglie (oltre che come coincidenze con la propria biografia) come zona psicologica del sentimento che è immune dai mali della società e rende liberi dal mondo degli affanni, delle invidie. Nella raccolta di Luciano De Nardis (Livio Carloni) presentata prima col titolo «i brisul d’la piè », poi con l’altro « a la garboja » £ troviamo alcune tradizioni connesse intimamente con i motivi pascoliani del Ritorno: 1) La voce dei morti che chiama per « premunirci contro l’insidia della mala sorte [...] L’amoroso cuore si tormenta, come ancora nella vita, di ogni

danno che possa travagliarci: e l’aiuto che allora ci dona, trema nella voce invocante, a null’altro percettibile che al silenzio della nostra anima spaurita » (si veda La voce); 2) Quando la campana suona l'ora di notte

i morti « guardano nel mondo. Ognuno di noi può cercar ridischiusi allora gli occhi dei suoi morti nel mondo dell’anima sua [...] Ognuno rivive quando la campana di quella che fu la sua chiesa parrocchiale si scioglie; la stessa per cui, lui in vita, cercava gli occhi dei morti suoi pregando il requierz nella tenerezza spasimata della divina comunione » (si veda La messa); 3) Quando un brivido trascorre il corpo si dice u m’è passé la mòrta ad sovra e si aggiunge s’la m’passa a d’sotta la

m’porta vì « perché allora la Morte ci insidia il cammino e nella terra cieca scava, per la nostra spoglia, la fossa accogliente »; 4) Per ogni creatura che muore una stella nuova si accende; si crede che «i morti vedano

i vivi ogni sera, dal fuoco illuminante delle stelle; che la stessa che cade, sia un morto che ritorna a soccorrere di grazia una persona che l’invoca in affanno » (si vedano X Agosto e Commiato); 5) Le briciole

di pane sparse sulla tovaglia e non raccolte si dovrà tornare dopo morti a cercarle a una a una « camminando a ginocchi sulla terra, per raccoglierle col mignolo acceso come una candeletta e per riporle dentro un cestello privo di fondo ». Il mondo dei morti è prediletto perché consente di restare tia il reale e l’irreale, di esprimere gli affetti ma velandoli di ineffabile. La visione, il quadro dei morti che appaiono o si fanno avvertire (con segni di presenza che derivano dalla tradizione popolare) corrisponde ai bisogni del cuore, all’indistinto affettivo che è il dato di partenza ma il mondo dei morti è, anche nelle tradizioni popolari, il mondo del larvale, dell’apparenza che sembra consistere ma rimane ombra, simile alle appa6 In P. Toscui, Romagna tradizionale, Bologna, Cappelli 1952.

SSR

renze albari, crepuscolari, notturna. C'è, nella predilezione per il mondo dei morti, un profondo motivo, quindi, ma occorre, forse, andare più oltre, a radici psicologiche che facciano intendere la pena del vivere, la pena di essere morti (una ingiustizia cosmica, un inconoscibile positi-

vistico), la consolazione di ricercare il sovrasensibile come mondo misterioso ma demiurgico, nel quale i morti si prendono cura dei vivi tenendoli nel loro cuore, apparendo talvolta ai vivi ma da essi eternamente separati.

Alla luce delle tradizioni popolari locali — che costituiscono un primum sensoriale del fanciullino — il ciclo del Ritorno a San Mauro costituisce antropologicamente un’esorcizzazione della precarietà esistenziale del poeta e del suo nucleo familiare, un elemento del ciclo dell’uomo che ritorna alle origini della casa, della culla, della protezione

affettiva ma con un significato che vorrebbe essere universale, un archetipo psicologico e poetico. Già presente in Colloquio di Myricae e in altri componimenti la madre morta (« lieve come sospiro », dal « sor-

riso blando ») appartiene allo schema simbolico, dotato di un suo realismo, della cultura popolare. La preghiera che chiede protezione, elemento del simbolismo supplice e orante, è connessa anche qui con l’apparizione dei morti (in La messa, nella promessa del figlio in Corzmiato: « Ricorderò quella preghiera — con questi gesti e segni soavi [...] — s’abbraccerà tutto all’altare »). Alla preghiera concotre ritualmente l’affetto dei familiari, motivo che spiega l’insistenza del poeta sulla sua cura verso le sorelle. La visione sembra avere una sua teatralità che è connaturata, però, con la struttura psicologica e gnoseologica del mondo dei morti secondo la tradizione popolare dei morti nella quale parole, gesti, atteggiamenti, avvicinamenti, distanze, lacrime hanno un

preciso significato ricorrente e rituale. Nessun tono è forzato, la visione si svolge come nei racconti di generazioni e generazioni di contadini, nel racconto della visione sono il rispetto, il pudore del rapporto con l’ultraterreno ma anche più profonde relazioni espresse nella particolarità delle emozioni. Il poeta, nella forza che la visione esprime, salta i « gradini del pensiero » e il fanciullino scopre la doppia pena della madre, di non potere accogliere il figlio con sé e di non potere restare tra i vivi. Il ritorno è preparato dal paesaggio della campagna di San Mauro vagheggiato da lontano e disciolto in Le rane in cui le ripetizioni musicali dei versi, le riprese creano l’unità attraverso un sistema di colori (il rosso trifoglio, il penero verde dei pioppi, il giallo fiengreco, i gomitoli d’oro, il piano che albeggia, la via bianca, il cielo di rosa) e suoni (il tremulo d’ali, i gemiti delle canapine, lo squillo del fringuello,

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il gracchiare delle rane, lo sttepere nero del treno, il suono del sufolo,

il ronzìo di campane) che sono da cogliere semanticamente come sostituzione del contenuto ‘e al di là di ogni esplicitazione logico-sintattica. Le graduate orchestrazioni di colori e suoni su cui si levano le iterazioni

foniche che entrano nelle parole sfaldano qualsiasi itinerario o disloca-

zione logica o geografica, San Mauro è quella connotazione ritmica assunta dalla campagna, lo stato interiore è in quel ritmo di percezioni, in quei significanti ritmici che costituiscono la prima visione del poeta. La valutazione estetica non può nascere prima dell’esame materico delle parole, delle loro orchestrazioni, dei valori consonantici, dei vocaboli di

evidenza espressiva, compiuto oggi dal Beccaria” In La messa (« C'è un rito con fiori, con ceri, — con fiocchi d’incenso leggieri ») le riprese di c’è, udrai, vedrai trascinano i contenuti e li dissolvono nell’aereifor-

_mità della visione in cui le cose ferme hanno un suono fermo perché circoncluse nella scansione più vaga del prevalente significante ritmico e in cui la parola ferma è, più che vocabolo, scenario: la panca, la mamma, inevitabili, ma la mamma è soprattutto essenza di lagrime, piangere che si sciolgono in rintocchi leggeri e in bimbi non visti più. È questa l’introduzione, rallentata da soste e incisi, al paese dei morti,

al nido perduto che ha nella poesia pascoliana un’ossessività limitatrice in quanto regressione * verso lo stato prenatale il cui ciclo di evoluzione è stato interrotto dalla tragedia della morte del padre e della madre. Ma qui l’introduzione è alla Tessitrice dove la vicenda si disintegra nelle metafore del sorriso tutto pietà, del cenno muto, del sospiro (emblemi trasfigurati degli affetti della tradizione popolare), in una esalazione di apparenza che sembra un’eco e si manifesta in escursioni vocaliche che non hanno nulla del linguaggio-comunicazione ma, con l’inclusione monosillabica nell’ultima quartina, rallentano la musicalità meccanica e rendono evidente la condizione di ignoto e di non relazione in cui vivono i motti. Un esame ritmico del significante consente di cogliere in Casa mi, nella regressione alla pena dell’aldilà, la forma interiore della visione, le soste sui suoi elementi e, soprattutto, l’architettura aerea in cui le cose sfumano in un’atmosfera astorica, precedente il tempo. Per l’evi-

denza dell’ideologia della morte come realtà in cui l’esistere ha toni più lenti, risucchiati perché più veri che nella vita mortale e per la fedelis-

7 G. L. Beccaria, L'autonomia del significante, Torino, Einaudi 1975. 8 G. BArBERI SQuAROTTI, Simboli e strutture della poesia di G. Pascoli, Messina, D'Anna 1966, p. 23.

trae

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sima interpretazione ritmica questo componimento è tra i più celebrati dalla critica che vi vede la sublimazione della sovrarealtà priva di contrasti e di impulsi e sfioccata in richiami alleggerenti. Infatti qui domina il ritmo quasi parlato, con locuzioni divise, spezzate, i richiami, le allitterazioni, le assonanze, le affinità foniche che creano le risonanze di va-

ghezze ignote indicate dai linguisti: S’udivano sussurri cupi di macroglosse sulle peonie rosse e sui giaggioli azzurri.

Gli effetti d’insieme delle strofe ripetute, conseguenti ai momenti di pathos, fanno trasvolare i contenuti e rafforzano la realtà della condizione dei morti che sopravvivono e partecipano di un’esistenza che ha continuazione ma conservano il rimpianto del ciclo vitale spezzato con la violenza che da esso li ha esclusi. Così in Mia madre l’ombra materna è sospiro e immagine bella e bionda che si rammatrica della preghiera uscita di mente al figlio ritornato fanciullo il quale riascolta la propria voce e rivede la Madonna dell’Acqua. Il ritorno dell’immagine materna avviene anche in Comzziato in un crepuscolo stanco il cui ritmo è simbolico della morte come liberazione e ritorno a un mondo primordiale di vita, superiore alla violenza, ai distacchi, ritorno a uno stato prenatale, riflesso di credenze della cultura contadina ma anche richiamo verso

un limbo eterno, di ombra, privo di sangue. Le iterazioni ritmiche dislocano in altro campo i contenuti e il problema di giustizia ontologica proposto dal figlio è eluso nella metafora sonora, nella musica della parola: Sfioriva il crepuscolo stanco. Cadeva dal cielo rugiada. Non c’era avanti me, che il bianco della silenziosa strada.

Questa riduzione dei contenuti ai ritmi irradianti non ha nulla di

magico né di mimetico, è — nel caso di questo Pascoli — una tensione verso il suggestivo fondato su una particolarissima, individua tecnica di parole tematiche e suoni che mira a modificare la sostanza e l’espressione per rendere l’inconscio. Questa è grande novità nel Pascoli. Se, infatti, leggiamo Giovannino vediamo che il linguaggio è comunicazione sentimentale, meccanismo per cui il dolore dell’adulto è trasferito nel fanciullo sventurato che diventa, con la sua pena, mezzo di compas-

Lausa

sione, di liberazione dall’angoscia. In Tra San Marco e Savignano il poeta — rivolto in questi canti al recupero del nido-casa, del pese-nido, della madre-infanzia — indica, contro la rottura del ciclo vitale (« Non

voglio che sian morti »), un recupero di gloria epifanica per tutto il gruppo familiare unito in virtù di un forte, lui, il poeta, già « orfano digiuno » e ora diventato imzzortale che ritorna nel nido per opera del popolo « ch’egli amò tanto ». In sostanza la linea lungo la quale si compie il ritorno a San Mauro è quella del nido (che altre volte è la Romagna o l’Italia povera e lavorante), centro degli affetti familiari chiusi, gelosi, ossessivi, è quella dei

morti, nido e morti tra i quali si compie l’ideologia della condizione solitaria dell’uomo. In questa congiunzione il poeta partecipa alla continuazione dell’esistenza con una delle sue caratteristiche anfibologie che include sia la fisica sopravvivenza sia la negazione definitiva delle figure « della vita che prosegue e si ripete » ma anche delle « manifestazioni estreme di angoscia, di orrore, di impotenza, di disfacimento ».

Nel Ritorno il discorso poetico si svolge su diversi piani interni tra i quali si possono notare: il superamento del linguaggio contemporaneo con la tensione e l’espansione verso il suggestivo, contribuendo a fissare gli elementi della lirica nuova del Novecento attraverso la metrica e la sintassi poetica; la precisazione degli oggetti su uno sfondo indeterminato; la perdita di conoscibilità del reale, dei rapporti dell’uomo con le

cose e i sentimenti e conseguente « turbamento dell’ordine metrico e sintattico »; !° corrosione della musicalità definita dei versi, della strofe,

della rima in strutture verbali funzionali sia all’elusione della realtà che della tendenza al prosaico e al quotidiano.

9 G. BARBERI SQUAROTTI, op. cit., p. 167. 10 G. L. BECCARIA, op. cit., p. 284.

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X CULTURA

CLASSICA, RURALE E POPOLARE DI ALFREDO PANZINI

I. Alfredo Panzini classicista manifesta il suo sgomento di fronte alla società di massa fin dalla giovinezza, quando nel 1894 in L’evoluzione di Giosuè Carducci vede ormai disgregate e disperse le « forze morali della nazione [...], la virtù e la bontà degli animi, la gentilezza, la coscienza del concetto della patria ». « Gente nuova », « nuova letteratura », scienza, socialismo tendono a distruggere l’autorità dei princìpi, delle tradizioni storiche, etniche e la stessa « borghesia ricca, capitalista o industriale » non ha « idealità religiosa » ma « si vale però della religione, della morale, della patria, dell’arte come strumenti di difesa; ma senza volerlo o saperlo li scredita e li deforma ». Nella società di massa e nella futura partecipazione dei benefici sociali a tutti gli uomini Panzini vede la la formazione di un tipo medio di uomo, rimpicciolito,

privo di quella sorgente di dolore che proviene dalla meditazione, dall’ingegno e dalla filosofia. La conseguenza era per Panzini la fuga nel passato, nel buon tempo antico della favola o dell’eroismo; gli antichi rappresentano il paradiso perduto, la serenità; l’aurea mediocrità del passato è preferibile all’irrequietezza del presente. Fin dai primi passi l’opera di Panzini è anche un documento ideologico, di costume, delle ‘ reazioni dei moderati alla crisi della società borghese ottocentesca che veniva interpretata come crisi della società in assoluto. Nella crisi era lo stesso Panzini con il suo classicismo scolastico,

professorale, formalistico: nel tentativo di esserne fuori lo scrittore divulgava, invece, un tono polemico di pubbliche opinioni moderate e conservatrici le quali accoglievano dicotomie, anfibologie, dati materiali delle contraddizioni senza avere la capacità di sottoporli a vaglio storico o filosofico. Debolissima è la mente filosofica di Panzini come ebbero

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a notare i critici. Per lui la bontà empirica e psicologica è un bene superiore a tutti gli altri e include virtù conservatrici: la vita patriarcale, la società semplice e rurale esemplata su quella romana del mito e fondata sulle idealità di Omero e di Virgilio. I filosofi sono per Panzini personaggi bizzarri e inconcludenti. Nella poetica classicistico-antilluministica di Panzini ha largo posto la derisione dei moderni, l’ironia intorno alla scienza (macchine, scoperte, invenzioni), alla trasmissione della scienza (scuola, sapere storico-filosofico), ai costumi (donna, emancipazione del

popolo e della donna), al progresso: per Panzini cambiano soltanto i nomi ma le cose rimangono quelle che erano. Se oggi ci soffermiamo lungamente a parlare dei limiti di Panzini è perché lo scrittore si presenta come scrittore di costume, ideologico, come interprete di motivi storici del suo tempo. Di solito Panzini è uno scrittore di trattenimento, di divertimento il quale assume (così il Croce)

le arie che ai lettori sembrano argute e intelligenti; da qui il suo dare spettacolo con le antitesi logiche e sentimentali, con le confessioni che assumono aspetto (ma solo aspetto) esistenziale. Eppure il sostegno carducciano, la fede nell’umanesimo contribuirono a mantenere nel primo Panzini una misura di stile e di lingua, la parola precisa, il periodo limpido e fermo, a non fare travalicare l’ironia di formazione professorale nella discorsività incontrollata, nel moralismo. Ma più tardi la letteratura è per Panzini una simulazione della verità a livello piccoloborghese: la cultura classica scolastica, monca e unilaterale, è il documento dello scetticismo e della sfiducia. Fin dalla Cagna nera (1893) Panzini scriveva: « Noi potremo volare per l’aria; illuminare la notte come il giorno; scoprire tutti i segreti dell'anima e della natura; prolungare la vita per dei secoli; non lavorare più nessuno; far lavorare il x

sole, le maree; domare al servizio le tempeste, i terremoti; tutto è possibile. Ma l’animo dell’uomo non si muterà di una linea nella sua sostanza,

come non l’abbiamo migliorato sino adesso [...] Già io l’aveva questa fede sublime; adesso ne rido ».

Il mondo della cultura popolare soggiace sempre, per Panzini, agli archetipi concettuali e ideologici della cultura classica borghese. La visione che egli ha della cultura popolare è paternalistica, ironica; Panzini non crede a una cultura contadina, di fronte al problema egli si ricollega al filone romagnolo di Giovanni Battarra (1714-1789) autore della Pratica agraria (1778) (nella quale, però, sono pregevoli gli intenti tecnici

e illuministici) in cui i contadini sono votati al timore del parroco e del padrone, al « corpus » culturale agrario dell’età della restaurazione, al Testamento di un contadino della Romagna ricordato dal Placucci (che

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deriva da un testamento di un villano di Garfagnana al figlio, del quale è autore il frate Francesco Moneti):!

Nato alla vanga sei, non farla da signore; chi dal suo stato eccede, non può acquistar onore. Ama la terra, ed amala qual madre sviscerata, per lei tua sussistenza non ti vedrai mancata.

Se lasci il cibo rustico, avrai l’indigestione, non è per il villano lo cibo del padrone ... AI grano ed alla paglia del credulo padrone non abbian le-tue donne di molta divozione ...

Il filone prosegue con i motivi qualunquistici del faentino Lunéri di Smembar, un foglio contenente calendario, vignette, filastrocche quietiste, previsioni climatiche, indicazioni di fenomeni celesti, feste reli> giose e civili, tavola del suono della prima messa, di mattutino, avemaria,

ritirata, etc. (che non fu solo qualunquista ma mise in evidenza anche le sofferenze della povera gente), con le zirudele del contadino reazionario sammarinese Pietro Rossi (1804-1879) autore dei Dialoghetti berneschi (1851), del Ceccone (1859), di Il vero agricoltore o siano dialoghi

tra Ceccone contadino e Gigetto figlio di un signore decaduto che si mette a fare il contadino con Ceccone (1873), difensore dell’ideologia

sanfedista e padronale. I temi di questo filone sono gli avvenimenti politici e religiosi avvenuti a Rimini e in Romagna, trattati in modo da mantenere le popolazioni rurali nell’obbedienza del clero e delle autorità, nell’immobilismo. Il contadino Pietro Rossi assume l’ideologia padronale e destina gli altri contadini ad assorbire dalla religione la propria idéa del mondo e il proprio posto nel mondo, l’autodisciplina e la limitazione della libertà personale in funzione del massimo rendimento produttivo. Il contadino Ceccone è una facies del conte agrario, odia ciò che è laico, moderno, cultura dell’egualitarismo, conquista storica delle rivoluzioni borghesi e liberali. Il Ceccore ha una notevole consonanza ideologica con la « provvida ineguaglianza » del Tommaseo voluta « dalla legge universale di tutto il creato », è l’espressione di una società contadina romagnola arretrata. La concezione padronale del contadino ladro dal Battarra giunge a Beltramelli, Panzini:” E’ cuntadèn che sta a la campagna e bèv e a magna a spàl del patròn; 1 A. PrroMALLI, Mondo contadino riminese e punto di vista padronale, in G. VILLA, Zirudèli, a cura di A. Piromalli e G. Bravetti, Ravenna, Girasole 1979, p. 11. 2 G. Narpi, Canti popolari romagnoli, Faenza, Lega 1975, pp. 120-121.

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e vènd gràn, furment e fasùl, e pega e’ garzòn, e campa i su fiùl.

Il Rossi assolutizzava metafisicamente il Male, precedendo il Pascoli deluso dalla scienza positiva: Un’è e Papa ch’tosa e ch’mong mo l’è e mel ch’avì tli ong.

Panzini assorbì anche la cultura reazionaria romagnola contadina che veniva dai preti della diocesi riminesi, puristi ritardati antimanzoniani (Manzoni era per essi solamente illuminista), anticarducciani

(Carducci

era pagano e giacobino) come Federico Balsimelli (1823-1899) classicista intollerante e xenofobo al pari dei suoi confratelli di buon cuore e di scarso intelletto. Questi preti tardopuristi appartengono alla generazione che vide cadere lo Stato della Chiesa, la devoluzione dei beni ecclesiastici, la fine del potere temporale. Essi si oppongono all’evoluzione del mondo contadino per mantenere la loro egemonia sulle campagne, con gusti e strumenti preistorici: Alessandro Mariotti (1822-1903) dantista

descrittivo-elogiativo privo di capacità critica, Leonardo Leonardi (18231912) per il quale i libri dei positivisti « danno immenso arrecano al mondo, infamia temporale ed eterna ai loro autori ». Il Leonardi propone di limitare il numero dei giornali perché « ognuno è poco più che la copia dell’altro » e combatte contro la « corruzione del popolo campagnolo »: « Dov'è più quel timore nel campagnuolo, che gl’ingiungeva di levarsi il cappello, rizzarsi in piedi dinnanzi al superiore e di sospendere le sue faccende; che l’induceva di compotre a gravità e modestia la persona, che ne spegneva l’ira, ne attutiva l’arroganza e per poco non gli faceva morire la parola sul labbro? ». Se Giovanni Trebbi (18241888) di Savignano teorizza l’elogio della vanga (grande privazione è per il contadino in decrepita età non poter vangare perché nobile è « l’ufficio del vangare con che si ottiene ciò che non può ottenersi con qualunque altro campestre istrumento ») il Leonardi teorizza il contadino

rispet-

toso e muto. Panzini conobbe in gioventù questi preti e la loto cultura anticontadina al servizio di classe, da questa cultura derivò il suo paternalistico didascalismo georgico dal quale è eliminato ogni accenno alla durezza del lavoro contadino. Il paternalismo irride la lotta di classe, la filosofia 3 Su questa retroguardia tardopurista e misoneista cfr. il VI capitolo di A. PIROMALLI, Storia di Rimini. La storia della cultura, V, Rimini, Ghigi 1981.



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dei cambiamenti, presenta come vera ogni anfibologia per eludere la verità; il padrone appare assorto în gravi problemi esistenziali, sentimentali che aspira alla serena vita di campagna (« 0 rus! »); il mondo della campagna è, nella sua piccolezza e ignoranza, una difficile alternativa per chi pensa e soffre pensando. La letteratura è usata come pretesto per dissolvere la realtà contadina e farla rispecchiare per omologia o per antitesi in miti, favole, sentimentalismi, atcadie. I’antropologia rurale non vede i contadini nel loro-lavoro ma si fonda suimiti letterari dell’umanesimo borghese e misoneista, sul folklorismo idillico della Romagna dell’albana e della-piada, sulla nostalgia del piccolo mondo antico, sulla contrapposizione della campagna serena alla città corrotta e alle sue donne tentatrici. La miseria di mezzadri, braccianti, casanti, le lotte

sociali non esistono per lo scrittore che vede la vita rurale attraverso il modello culturale del blocco dominante e attraverso il colore retorico. ° Si pensi a Ildefonso Nieri (1853-1920) purista che nelle novelline e nel vocabolario lucchese coglieva dai discorsi dei villani il fiore della lingua e, però, soleva allontanare con disdegno da sé un profanum genus di letteratura: « Esiste bensì anche una letteratura, ditò così, proletaria più che popolate; ma questa suole essere tanto lontana dal vero, e quasi sempre tanto falsa nella forma, perché muove da animo troppo spesso non sereno, ma bellicoso, appassionato e parziale, che a me non pare opera d’arte, o almeno non la tengo in conto di tale ». Di sé soleva dire (ce lo riferisce Manara Valgimigli): « Io sono un purista in lingua e in politica un tiranno ». « Che avesse animo retrivo, — aggiunge Muscetta * — come

quasi tutti i nostri studiosi e amatori di letteratura popolare, ci sotprende poco ». II. Panzini visse dall’interno, da testimone-erede della crisi ottocentesca, i motivi fascisti dei ceti medi, della rivolta contro il mondo moderno, della ruralizzazione.

Le suggestioni esercitate dal fascismo sui ceti medi urbani e rurali derivavano dalla paura del socialismo e della rivoluzione, dal desiderio di arrestare l'economia capitalistica la quale — se avesse avuto sviluppo moderno — avrebbe rinvigorito il movimento operaio e contadino, dalla volontà di ricacciare in schiavitù il proletariato agricolo. Si aggiungevano altri innumeri stimoli psicologici quali: il desiderio di novità, di avventura, la « preoccupazione di salvare la terra ed i raccolti dai contadini

4 C. Muscetta, I racconti del Nieri, in Letteratura militante, Firenze, Parenti 1953, p. 230.



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ingordi », l’estetica delle parate, dei simboli, delle parole d’ordine, la « nostalgia di comando e di guerra », di ordine, lavoro, gerarchia. Nel 1921 Emilio Bodrero nel Marifesto della borghesia si rivolgeva alla borghesia intellettuale depositaria dell’ideale patriottico (professionisti, insegnanti, militari ,naviganti, artisti, sacerdoti, *scienziati, commercianti,

fattori, studenti) per invitarli — contro l’alto capitalismo di banca e industria e contro il bolscevismo — all’organizzazione politica esaltando il valore della proprietà come « funzione sociale ». Il manifesto si dichiarava nettamente antiegualitario. Fin dal ’21 Mussolini offriva alla piccola e media borghesia organizzazione, miti, ideali, fornendo una risposta politica e sociale alle richieste

dei ceti medi: educazione nazionale delle masse, rispetto dei valori dell’intelletto, del merito, della gerarchia. Per Mussolini la società aveva assorbito tutto il possibile dal socialismo, adesso il fascismo si afferma come movimento borghese: una borghesia-ceto dello Stato, desiderosa di idealità nazionali, di ordinamenti economici e mobilitata a promuoverli. Il fascismo, in una sua componente principale, si ritenne movimento di azione ed espresse, nella sua rozza energia, il disprezzo non solo per la cultura accademica ma, soprattutto, per la cultura moderna del liberalismo e del socialismo quali prodotti di realtà straniere che avevano corroso la tradizione italiana. Spiritualismo, cattolicesimo, spirito roman-

tico, razza latina costituiscono pet Malaparte? la « verginità e libertà dei nostri antichissimi istinti » che si contrapponevano all’economicismo, all’utilitarismo, al luteranesimo della società moderna. La « provincia » dei « selvaggi » era l’idealizzazione del mondo tradizionale con rapporti di classe armonici, sano, originale, popolare, antimodernista.

La pole-

mica pseudorivoluzionaria e « selvaggia » nascondeva, in sostanza, la classicizzazione del conservatorismo e del reazionarismo. Ancora prima della conquista del potere Mussolini su Gerarchia del 20 maggio 1922 si era proposto il rapporto tra i rurali e il fascismo calcolando, sulla base del censimento del 1921, in 18 milioni di persone

(tre milioni e mezzo di famiglie) i rurali d’Italia. Rurali erano mezzadri, fittabili, piccoli proprietari, giornalieri i quali si erano liberati dal pericolo di socializzazione della terra e avevano aderito in parte al fascismo. Per Mussolini i contadini ex combattenti erano in potenza fascisti (il 7 3 MALAPARTE, L’Europa vivente e altri saggi politici (1921-1931), Firenze 1961, 4 6 Per le citazioni mussoliniane si cfr. B. MussoLini, L'agricoltura e i rurali. Discorsi e scritti con introduzione di A. Serpieri, Roma, Libreria del Littorio 1931.

p.



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fascismo rurale « trae molte belle sue forze morali dalla guerra e dalla

vittoria »). Nel discorso al primo congresso di agricoltura coloniale a

Tripoli nel 1926 Mussolini addita alla nazione quei coloni pionieri « che sono evidentemente dissimili da quelli che ballano stupidamente negli atrii dei grandi alberghi alla moda » e dichiara di prediligere i rurali che «alla vita forse troppo comoda e confortabili delle nostre città preferiscono la vita sana e dura dei pionieri »: il fascismo; aggiunge, è sorto in una città ma si è sviluppato nella sanità della campagna. Da ora in poi Mussolini tenderà a collegare il ruralismo con la tradizione romana e a vedere nella continuità storica «la mano infallibile della Divinità ».

La nobilitazione dell’Italia rurale è funzionale alla Nazione Italia e alla soluzione dei problemi alimentari e di importazione: il ricordo di _ Cerere (« amare ed onorare questo tempio moderno di Cerere ») nel discorso all’ottava assemblea dell’Istituto internazionale di agricoltura nel 1926 obbedisce a-questa esigenza (come si può vedere nei successivi discorsi sulla lira e la bilancia commerciale):

aumentare la produzione,

eliminare l’emigrazione, far produrre mediamente di più ogni ettaro coltivato a grano senza superare i 5 milioni di ettari coltivati, limitare l’urbanesimo, far avanzare la battaglia del grano erano i presupposti della ruralizzazione dell’Italia. Nel discorso dell’Ascensione tenuto alla Camera dei Deputati nel 1927 ruralità e fecondità della razza venivano collegati e Mussolini dichiarava il proposito di impotre una tassa sui matrimoni infecondi; dichiarava inoltre che l’urbanesimo industriale portava le popolazioni alla sterilità. Il capo del governo si poneva come « il clinico che non trascura i sintomi », disprezzava la concausa della « infinita vigliaccheria morale delle classi cosidette superiori della società » e concludeva: « Se si diminuisce, signori, non si fa l'Impero, si diventa una colonia!

[...] Vi

spiegherete quindi che io aiuti l’agricoltura, che mi proclami rurale [...] vi spiegherete quindi come io non ammetta in Italia che le industrie sane, le quali industrie sane sono quelle che trovano da lavorare nell’agricoltura e nel mare ». Nel 1927 Mussolini riaffermava la volontà politica di operare per i villaggi: «Fra stracittà e stravillaggio, io sono per lo stravillaggio ». Due anni dopo dichiarava che solo col fascismo i contadini erano entrati di pieno diritto nella storia della Patria. Di lì a non molto esponeva il piano della bonifica integrale, affermava le grandi capacità della tecnica agricola moderna, esaltava le scuole agrarie e il passaggio, verificatosi nella società, dall’avvocatura all’agricoltura. Intanto, dal 1925 in poi, —

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aveva seguìto le vicende alterne della battaglia del grano con consigli tecnici derivati dall'esperienza (« Ho trascorso gran parte della vita in una plaga rurale, a contatto dei contadini della mia Romagna. Così posso dire che io vi conosco più di ogni altro »). La battaglia del grano consisteva nel fare produrre di più ogni ettaro. Il quadro politico era quello della collaborazione di classe che camuffava il fenomeno reazionario di massa. Lo strapaesanismo rurale, tinto di eticità tradizionale romana, divenne preda dei letterati del regime i quali nello strapaesanismo colsero i motivi per fingersi rivoluzionari nei confronti della civiltà moderna finendo nell’esaltazione del campanile. Gli elementi ideologici che collegano Panzini al fascismo sono quelli della storia interna di Panzini precedenti al fascismo: la. nazionalizzazione delle masse fu un elemento di sicurezza per il « povero letterato » classicista sfiduciato e disgregato dalla crisi degli ideali della società borghese di fine Ottocento, i materiali di costruzione dell’« uomo nuovo » (Stato etico, ruralismo, antimodernità, idealismo nazionalista etc.) consentirono allo scrittore di rafforzare la sua posizione ideologica rurale antindustriale. Dal lieve « apparato letterario » (Serra) della sua esausta officina Panzini poté esprimere la sua crisi continua con l’illusione che la società fosse in via di risanamento e poté manifestare gli umori antiscientifici, antimoderni, le brevi ironiche riflessioni, le dialettiche anfibo-

logiche proposte come problemi, poté — finalmente — ammirare, consentire, adulare.

AI consenso nazionale, in gran parte coatto o interessato, Panzini poté aggiungere il suo rivolgendosi a un pubblico più largo di quello di studenti, insegnanti, letterati per riprendere le lezioni sul classicismo,

la vita rurale, l’antisocialismo, con qualche tormentato e incerto ragionamento sulle donne e sul costume moderno. Il suo capitale culturale non era, ormai, solitario: darwinismo, scienza, materialismo, ragione, socialismo avevano come solido avversario il fascismo nazionale, idealista, spititualista; le poche credenze sicure di Panzini (classicismo romano,

Risorgimento, ruralismo romagnolo) convergevano nella prospettiva unificante del fascismo, di un pubblico nuovo borghese di ceti medi accomunati nelle opinioni e nel linguaggio. La letteratura panziniana de re rustica si svolge su piani unificati: piano didattico-moraleggiante « per » il pubblico contadino recuperato dal fascismo (in questa letteratura seleziona e interpreta anche la cultura prodotta dal popolo) e da preservare dalle influenze nefaste del mondo cittadino, industriale, fomite di socialismo (questa letteratura destinata alle classi inferiori tramanda le ideologie conservatrici della proprietà privata, della disuguaglianza sociale

ASIA

insita nell’ordine naturale, dell’esorcizzazione della lotta di classe come

elemento agitato dai sovversivi); piano artistico o classicistico per i ceti

medi borghesi organizzato sulla base della polemica contro il socialismo inteso come utilitarismo e contro il mondo moderno come insidia del ruolo della donna per salvaguardare il sistema di valori improntati all’educazione cattolica. I generi letterari sono, nel Panzini degli anni Trenta (in relazione alla reminiscenza letteraria e al didascalismo e in funzione

del pubblico largo nazionalizzato), il dissolto romanzo di polemica o confessione, l’apologo morale, le novelline, la favola, l’articolo-divagazione di intrattenimento o di persuasione o di propaganda sul Corriere della sera, espressione di un macheronismo ideologico e linguistico che interpreta la realtà secondo umori di insofferenza o di conservazione. Nell’età giolittiana Panzini, sopravanzato dalle èlifes, non aveva po.tuto realizzare l’unificazione culturale su base di conservazione ma aveva trovato nella Lanterna di Diogene un rarissimo equilibrio tra sentimento lirico e ironico che sarà infranto nel Viaggio di un povero letterato dall’inquietudine e dal malessere, generatori di moralismo; di scontentezza piccolo-borghese. L'immagine corrosa del mondo moderno penetra nello spirito senza che a medicarla intervenga la sicurezza interiore dell’umanista. Gli anni 1919-1922 sono sconsacrati, per Panzini, li « riconsacra »

la discesa o « marcia su Roma ». Intanto una folla di donne (impiegate, dattilografe, segretarie) moderne, sicure di sé, lettrici di romanzi, affascinate dal cinematografo era entrata nella vita sociale. Panzini vede il pericolo: « D'altronde queste creaturine cresciute sull’asfalto delle grandi città hanno il loro destino segnato; esso è tutto fuorché l’arduo compito

di accostarsi ai fornelli e procreare figliuoli ». Lo scrittore avverte il fascino femminile, teme l’emancipazione

(« La teoria russa della donna

proprietà-comune »). Il timore del socialismo diventa il motivo polemico di Il padrone sono me! (1921) in cui è rappresentata la piccola borghesia del dopoguerra, dissestata e timorosa di perdere il piccolo predio e il piccolo impiego. Lenin e la rivoluzione sono gli spettri di Panzini: i socialisti sono ladri di cancelli, di maiali, si preparano a fare ° la marcia su Milano. Ma dopo il « biennio rosso » il motivo della guerra mondiale è un elemento di coesione nazionale, in essa sono gli archetipi della nazione: disciplina, virtù militari, sacrificio di razza; mai l’intera popolazione italiana, gregarizzata, si era potuta educare come durante

il fascismo. Il ruralismo per Panzini è un archetipo dell’eugenetica del classicismo antico, delle « gentes » romane, di Carducci, della Romagna romanizzata come avamposto anticeltico. Gli stereotipi fascisti calavano nella —

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sofa

storia e nella geografia della Romagna con gli strumenti moderni (giornali, radio, cinema, teatro, scuola artigiana e rurale che immobilizzava

i figli dei poveri, cultura militare, storia della rivoluzione fascista) miti antichi: la storia veniva stravolta modificando le funzioni dei personaggi a fini nazionali, docenti di estrazione umanistica e piccolo-borghese insegnavano la cultura dei primati. La cultura rural-fascista degli anni Trenta è sintonizzata con i temi corporativi, sindacali per legittimare la colonizzazione interna ed esterna. L’agronomia non è solo scienza delle coltivazioni ma « si rivela come apparato ideologico. Gli scrittori de re rustica conferiscono peso ad una egemonia definendo, e non solo registrando, un preciso rapporto fra le classi ». Recentemente, in un convegno tenuto a Ravenna (1980) su I/ pensiero reazionario. La politica e la cultura del fascismo} si è cercato, sulla scia di una indicazione di Delio Cantimori, di andare, nell’indagine

storica sul fascismo, oltre gli schemi generali, di discernere la varietà di correnti, movimenti, tendenze, persone, interessi economici e finanziari. La revisione compiuta del concetto di fascismo come « parentesi », « anticultura » ha messo in luce la continuità tra cultura prefascista e fascista, la modificazione del ruolo dell’intellettuale all’interno della società civile e dello Stato, il processo di nazionalizzazione delle masse, il tentativo di superare il materialismo marxista e il capitalismo della finanza, di ridare agli intellettuali (come ‘individui, categorie, gruppi, tendenze) la suggestione di partecipare attivamente alla vita della nazione, | alla strategia culturale prefigurante primati e conquiste. In questa revisione acquista valore probante, ai fini della conoscenza storica, ben più che la letteratura strapaesana, ormai consunta negli anni Trenta, la preminenza scientifica dell’agronomia come scienza e come apparato ideologico avente un organico rapporto con lo Stato fascista. Arrigo Serpieri, Nello Mazzocchi-Alemanni, Eliseo Jandolo, Giuseppe Tassinari, Manlio Pompei, Luigi Razza e altri tecnocrati agrari (molti docenti universitari)

diressero lo sviluppo economico e favorirono il ruralismo fascista come difesa contro l’assedio industriale, con il culto della specificità del mondo rurale rovesciarono il tradizionale rapporto città-campagna ed esaltarono i valori del mondo contadino per gestire da posizione moderata l’egemonia sociale sulle masse contadine con un processo di modernizzazione « condotto sempre con i minimi costi possibili di trasformazione so7 R. ZANGHERI, Agricoltura e contadini nella storia d’Italia, Tortino, Eiunaudi 1977, p. XI / Dì Si vedano gli atti, col titolo sopra segnato, a cura di B. BanpINI (Ravenna, Longo 982).



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ciale ».’ La cultura dei tecnici agrari del fascismo insiste sulla centralità del ruolo della tecnica. Nel filone di pensiero ruralista reazionario Giulio Del Pelo Pardi

— inventore e realizzatore di macchine agricole — crea una « filosofia

storica dell’agricoltura », organica sul piano ideologico: agricoltura come civiltà nel significato romano di popolo agricoltore, religiosità come rito agrario dell’etbos rurale, schiavitù femminile come eticità. Tale filosofia dell’agricoltura considera il contadino, ma solo in quanto immutabilmente tale, una riserva di freschezza spirituale generata dal contatto con la natura; nella visione otganicistica della storia e della politica le similitudini fisiologiche assegnano al contadino l’accettazione della disciplina della disuguaglianza. Quasi sempre la prosa di questa filosofia procede per aforismi e paradossi, pet sentenziosità acritiche. III. L’incubazione conservatrice di Panzini data almeno dal 1893, l’anno del Libro dei morti in cui Gian Giacomo, un proprietario di campagna sgomento di fronte al progresso, allo sviluppo della scienza, lamenta il passaggio dalla vita patriarcale a quella moderna: « Le vecchie mura di cinta [...] erano state in vari punti abbattute e per quella breccia irrompeva la macchina a vapore stridendo e fischiando [...] Per quella breccia, come da una diga frenata, invase e dilagò il torrente de le idee le quali tutte sembravano vere, perché erano nuove. Era per le vie un affollarsi di giovani che discorrevano di politica, di elezioni, di filosofia,

di mirabili conquiste ne l’avvenire ». Molti motivi che troveremo negli anni Trenta del secolo seguente sono in questo libro come in una sorta di breviario macheronico: libro umoristico-moralistico, una sorta di saggio che risente di letture di Sterne, di bucolici, georgici greci e romani, delle prose di Carducci, degli scrittori cristiani. Fin d’ora ci sono il misoneismo e l’antisocialismo. Il « corpus » ideologico della tecnocrazia agraria fascista attrarrà, più tardi, Panzini per la possibilità di: restaurare i valori classici intesi nella loro medianità borghese e nel recuperato idealismo nazionale richiamantesi ai miti romani; collegarsi alla cultura popolare reazionaria della Romagna. La cultura classica di Panzini non è storica e filologica ma ideologicoborghese, funzionale al gusto medio dei ceti bempensanti antisocialisti; essa è identificata con la saggezza, l’equilibrio quali virtù assolute. Tale modesta cultura, ricca di stereotipi antimoderni, fu per lui il metro di tutti 9 C. Fumian, Appunti sulla cultura agraria della destra, in Il pensiero reazionario cito "po215:.

CASTA

i giudizi e di tutte le valutazioni: per mezzo di essa estetizzò il passato classico, Dante in Romagna, Sigismondo Malatesta, le signorie feroci e crudeli, etc. La paura del socialismo, del comunismo, delle rivoluzioni

sociali lo fa rifluire nell’oraziano « o rus! ». Si veda qualche voce di quel Dizionario moderno! che è un documento di sciovinismo culturale: con il Bolscevismo lo Stato è « mandatario dei lavoratori della forza fisica [...] con rinnegamento intransigente di tutti i diritti fin qui riconosciuti all’ingegno e al risparmio »; Derzos (per Democrazia) è « quella specie di inimicizia e di avversione che nelle moltitudini si genera contro i valori umani »; Lezin: « se quest'uomo si fosse chiamato col suo nome Vladimiro Iljic Ulianof, forse non così facilmente avrebbe ottenuto tanta internazionalità »; Marx:

« anima teutonica

e semita »; Proletariato:

«i lavoratori manuali che aspitano alla ricchezza e al potere »; Rus: « oggi coi boicottaggi dei leghisti e coi contadini padroni, e assalti, e svaligiamenti alle ville, e ammazzamenti, addio rus! ». Nel 1928 Panzini rivedeva e pubblicava una traduzione di Le opere e i giorni di Esiodo e l’anno seguente pubblicava I giorni del sole e del grano cominciati a scrivere nel 1927 a Bellaria. È una divagazione sulla vita di campagna

ricca di citazioni dialettali, auliche, latine, francesi,

tedesche, inglesi. Dal punto di vista estetico è il trionfo del macheronico. Il contadino di Panzini è un « diverso » bertoldesco: nei cibi che egli mangia deve esserci « qualcosa di misterioso » perché « altrimenti come farebbe questa mia gente con sì partsimonioso mangiare a crescere in così

validi corpi? ». Lo scrittore insiste nel descriverlo diverso dal cittadino sicché a lui non si addicono, come a Bertoldo, le « raffinatezze della civiltà cittadina ». Abituato « a parlare con familiarità con i buoi, con l’asino, con i maiali » il contadino ha voce « fragorosa ed esclamativa come quella di questi animali »; il contadino si distingue per la camminata e per « l’odore » poiché « mangia aglio e cipolla cruda »; inoltre « ha uno speciale modo di considerare la proprietà, ciò che talvolta si traduce nella parola “ rubare ” ». Le connotazioni di Panzini sono antropologiche e derivano dalla cultura dell’umanesimo scolastico; ideologicamente hanno, si è detto prima, come fonti locali il Battarra e Pietro Rossi. Il contadino deve restare fatalmente tale e servile; solo « dove la terra è vergine e sconfinata » — non in Italia — macchine e operai potranno sostituire il contadino i cui lavori sono opere d’arte: quando si vedono i campi ben lavorati « non le viene in mente, Signora (è la Sar10 A. PANZINI, Dizionario moderno, IV ed., Milano, Hoepli 1923.



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fatti), una ballatetta, un sirventese, una strofe di canzone antica com-

pleta tra la fronte e il sirima? Il poeta è stato il contadino, e il suo stilo si chiama la vanga. Questi artisti della terra sono figli dell’arte, cioè figli di contadini, e devono essere perfettamente sani. Essi sono i veri uomini dello sport, prima ancora della mania per lo sport ». L’umanesimo sco-

lastico serve quale condimento estetico: i soprannomi dei contadini (Pancia di ferro, Tiralo indietro, Scappavia, Minestra, Berrettaccia) « sembrano cavallereschi », il contadino che aggioga il bue per la mietitura « pare un guerriero omerico », il canto del gallo fa venire in mente

« Orlando e Olivieri »;-nell’ora panica lo scrittore è colto da « folle ebrezza » e gli pare « di essere una creatura animata qualsiasi in fondo all’abisso dell'oceano atmosferico », le querce stormiscono ancora « come quando Giove Olimpio parlava a Dodona per il sibilar delle foglie ». _ I contadini che preparano i covoni sembrano « legionari romani che formavano il vallo », sono pratici, discendono « degli antichi coloni di Roma » e non sentono ciò che è « gentile », « floreale ». Ciò è prerogativa dello scrittore educato al classicismo: « Non vid’io andare pei campi Demetra, Flora, Pomona? Com’eran belle! Tutte le Muse le accom-

pagnavano. Con che decoro! ». L’« ebrezza panica » è un espediente per introdurre il rimbombo delle « trombe dell’inno Giovirezza [...] E per le vie passò una visione di fanti in formazione quadrata solenne [...] Poi dietro i carri, un’onda furibonda punteggiata di nero: le camicie nere ». Ormai il fascismo e l’ordine nelle campagne sono la stessa cosa: « Davanti all’aja, dove si batte il grano, è piantata la bandiera tricolore: un fascista in camicia nera sta di guardia e vi saluta col saluto romano. Prima era la bandiera rossa, e nessuno salutava. Prima erano i famosi conflitti fra trebbiatrici rosse e trebbiatrici gialle. Lasciavano anche andare a male tutto il grano. Era la guerra dei poveri cretini, ubriachi di parole rosse e anche di vino, contro altri poveri scemi, ubriachi di parole gialle e anche di vino ». Nel ruralismo panziniano l’elemento predominante è, dunque, lo stato immodificabile del contadino, diverso da quello degli altri lavoratori, prezioso in quanto fatalmente immobile mentre tutte le altre condizioni, mutandosi, corrono verso la rovina. Religione come obbedienza,

cultura come ossequio sono le vere virtù del contadino. Quando Panzini

porta, di venerdì, un chilo di carne da brodo ai contadini (« che per

loro è un bel regalo ») la vecchia arzdora vuol preparare la carne per il padrone che, invece, si adatta a mangiare la minestra di fagioli con pomodori appena freschi e quadretti di grano esaltando la frugalità e le sane abitudini. In altro capitolo del libro il muratore che lavora nella cam—

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CR

pagna di Panzini, richiesto intorno alla sua salute, risponde: « Quando si è poveri, e c’è la salute e da mangiare, va sempre bene. Se sapessi cantare, canterei sempre ». « Che risposta degna di saviezza di un antico libro orientale! » commenta lo scrittore il quale scopre che padronepatrono derivano da pater, « colui che pasce é protegge », « signore e protettore »: « Certamente, certamente il contadino sente il desiderio di avere il protettore e quando ha confidenza col padrone, si rivolge a lui come

a patrono ».

Il padrone è per Panzini quello che Giustiniano Villa soprannominava Strozza o Pela, pontificante, furbo, sospettoso, invitante a « la-

vorare e tacere »: Andate meno all’osteria cogli amici in compagnia [...] Ma chi tribula di qua in Paradiso poi godrà [...] I buoni andranno in una stella i tristi dentro una padella [....] fratelli sì saremo per pregare non per bere e per mangiare! Ognuno di noi, per Dio quattrino tira l’acqua al suo mulino!

Erano i vecchi consigli dei lunari come lo Syzemzbar; che fa professione di neutralità politica Né a sen Smembar universel ch’a sén sempar sté neutrel; la pulética par nò l’è la mzéta de ven bon; e discurend da indipendént is vò ben da tott i chén ma non esita a dichiarare nel 1935:

Fortuné ’i ’è Italièn ch’i ’è alla testa Mussulèn;

O! ... s’us fèss cum ‘e dis lò guérr, sgumbei un s’in vdreb piò; un i srèb sperpar d’ quattren e us starebb tott quent piò ben... —

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L'ultimo Panzini cade nell’indulgenza verso gli ideali edonistici ed estetizanti, il didascalismo si rivela pedantesco e professorale. Tale è quello di Legione decima (1934) in cui il gusto della storia di Cesare

raccontata da un vecchio professore a un giovane avanguardista è gusto

di figurine, di citazioni classiche. In Il ritorno di Bertoldo

(1936) lo

stesso Panzini avverte di avere indossato la « vecchia parrucca di moralista e di laudator temporis acti» ma sul piano artistico tale atteggiamento diventa amore di parole, di'nomenclatura, di vocabolatio. Il precettismo erudito e folto di reminiscenze letterarie, in un libro di natra-

tiva, è estremamente lontano dal gusto nuovo di quegli anni ed è scolasticamente funzionale al conformismo del ruralismo ufficiale, dell'amore

del grano e della terra da cui nascono i libri panziniani degli ultimi anni. Il romanzo panziniano è ormai la dissoluzione del romanzo tradizionale, il tessuto narrativo esiste solamente in funzione degli umori e delle divagazioni dello scrittore. Il Panzini cerca di sollevare sul piano dell’arte le sue osservazioni di costume e di vita, i suoi ricordi di lettore

dei classici che si trova di fronte un mondo moderno assai diverso per la crisi dei valori tradizionali. Ma ciò avviene con insofferenza perché dall’elegia Panzini passa alle anfibologie che indicano il suo continuo scetticismo senza dramma. Per questa sua sostanza accidiosa e amletica

Panzini è assai lontano dal mondo e dalle forme del Novecento europeo, dalle tensioni interiori, dalle disperazioni costruttive degli scrittori senza pregiudizi i quali creano tecniche adeguate al rinnovamento incentivo: Panzini è, invece, saputo, prigioniero della sua morale e dei suoi pregiudizi. L’umanista poeta non appare tanto sradicato e isolato quanto, invece, commentatore della realtà secondo schemi di tradizione e di conservazione, secondo ideologie. Quando volle privarsi della maschera « di spregio e d’irrisione » (Croce) Panzini fu confessore lirico di un umanesimo di forme e di memorazioni che costituì l’involucro culturale — ma spesso anche qualcosa di più — della nostra borghesia provinciale di fine Ottocento e primi del Novecento." Abbiamo esaminato il Panzini da una angolazione — ma fondamen-

tale —, quella del ruralismo, del situarsi dello scrittore in uno degli spazi

organizzativi del fascismo che annetteva gli intellettuali rendendoli inoffensivi, nel suo disprezzo per il mondo contadino. Questa angolazione antiegualitaria non è nuova nel letterato italiano e, nel caso di Panzini, è stata messa in rilievo dalla critica sociologica e letteraria più attenta 11 A. PrromattI, Costume Olschki 1969, pp. 95-129.

e arte di A. Panzini, in Studi sul Novecento, Firenze,

— 11

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(da Gramsci a Muscetta, a Varese). L’autarchismo culturale resecò, fin

dalle prime formulazioni di fine Ottocento, lo scrittore dalle punte culturali avanzate che oltrepassavano i residui naturalistici e venivano in contatto con i movimenti europei. Panzini non conobbe le nuove tecniche narrative, estranea gli rimase la letteratura europea ma anche la Voce, il novecentismo, Solaria, gli ermetici. Il moralismo autarchico de re rustica e la retorica del mediatore di consenso lo sigillarono nella crisi negativa. Avesse avuto coscienza artistica e culturale moderne avrebbe potuto corroborare la fresca vena paesaggistica, melanconica, elegiaca, umoristica in una struttura narrativa non consumistica.

Volle, invece,

far coincidere idillio con moralismo vetusto e rimase invischiato in un classicismo sterile, aproblematico, di facilissimo consumo;

i panziniani

della Romagna o di altre regioni hanno derivato da lui il breve respiro della novella o dell’articolo scapigliato, qualche ariosità artistica elegiaca, qualche sereno respiro di fronte alla natura ma anche i chiusi

ideologismi di una crisi ormai datata e lontana, in un tempo in cui si avvertivano più vasti e profondi travagli e si preparava una partecipa-

zione alla civiltà e alla vita contemporanee come prima non era accaduto nella storia.



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XI PASQUALE

NATURALISMO

CREAZZO

E SOCIETÀ

Il livello autobiografico delle poesie dialettali di Pasquale Creazzo (1875-1963)

è caratterizzato da una personalità risentita moralmente,

ricca di reazioni e profondamente radicata in un ambiente di villaggio pedemontano calabrese isolato, arretrato, greve ancora (i primi versi da-

tati di Creazzo sono degli anni intorno al 1900) dei residui di servità feudale (il villaggio era stato feudo dei Caracciolo, Pignatelli, Giffone, Cicala e Pescara). Non certamente per fatalismo romantico ma per oggettive considerazioni (« orfanu, straniatu, senza mita ») il Creazzo — che

seppe contrastare le avversità ed essere creatore di situazioni e fatti nuovi — lamenta gli « sdarrupi » incontrati sulla sua vita ed esprime un desiderio di pace, sentimento personale (avrà anche punte di naturalismo bucolico) che si intreccerà, su un altro piano, con il tema del lavoro e

dell’umanità. Già fin dai primi componimenti è accentuata la potenza ritrattistica animata da sdegno contro la spia anonima, una invettiva con forti tratti popolari derivanti dall’animalistica e contornata dalla verità dei proverbi; contro un persecutore (Lu gattu giallu) il quale vorrebbe mandarlo al confino e che è espressionisticamente deformato (come il precedente « Lu nasu a croccu e l’occhiu latru e fundu, — cu l’anchi curti e supa nu corpazzu ») nella sua natura umana

(«stu gattu stortu cu l’anchi di

stinca »), contro un usurpatore (« Viti chi nasu — Kjavréju havi a lu beccu, lu spaususu »), un funzionario-lupo ingordo e corrotto (« st’agrancu », « stu rospu di pantanu », « nettu di ntrogna, pisa du cantata », « stu rapistuni crudu senza sali », « pari nu cani corzu presentusu »), un assessore ladro e spia (« suriciazzu zzocculuni », « scorcia ciucci, sara-

cuni »), un ipocrita che a fine di lucro fa sudare S. Espedito ungendolo —

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dl *i Le

di olio (« Titta fici la pensata — pemmu pigghia e nommu jetta — mu nci gugghi la pignata »), i preti che si fanno concorrenza con le guerre dei santi per arricchirsi. Le invettive e le iperboli nelle caratterizzazioni ritrattistiche hanno un’ascendenza morale che scatta contro « tirannide, sofisma e ipocrisia » in nome di un sano naturalismo che si esprime in antitesi potenti contro autorità prepotenti, preti ipocriti, saccenti furbi. Su tutto pesano l’aria pettegola del paese, la saccenteria che presume e deforma e da cui Creazzo vorrebbe evadere verso la natura « undi no ci su’ sbirri, — no previti, no gnuri e no spiuni, — [...] undi sulu si senti — lu cantu di lu merlu

o nu scropiu ». La pienezza di una natura primaverile tripudiante di voci di animali è in Rimembranze, uno dei componimenti più sciolti, delicato nella nota idillica: « Avia na trizza d’oru ncannolata [...] — cu ddu ganguzzi russi, cu la schiacca ». Questo amore della natura verace ha una connotazione fisica, topografica, ambientale, fenomenica (sia Mararosa che « movia li kjanchi comu na varchera » sia la kjumzara Jerapotamo:

« La sua crigna è rizza rizza — e spumìja com’attruzza —

cu li petri di grossizza ») che soprattutto si manifesta come forza. Si veda la densità nemorosa e piena di vigore degli alberi, la quercia che « dint’a li ntrogni grossi e li cavigghji — stendia a migghiara vrazza di frascagghji — [...] ma li frascagghji, virdi cuttunini, — sbocciavanu li fogghji primerani »; le rare persone dei boschi e delle campagne si confondono con i luoghi. Si sente nei versi non il mondo contadino della pianura ma quello dei lavoratori di una montagna selvosa percorsa da traini, carri, di pascoli, di terreni « anenghisti » con la scabra « Kama-

ròpa » presso cui « rigùma » qualche capra. Questo paesaggio selvatico ma libero è l’antitesi del paese in cui i padroni creano un’atmosfera biliosa e velenosa, i loro accoliti vanno compunti dietro le statue dei santi e altri servi legulei truffano le povere donne credule: « Povara Cirla, povara Cirla — lu trovasti a cu’ mu ti ciurla ...», un canto di pietà per la donna ingannata ma carico di amarezza contro i mali avvocaticchi commessi del padronato. « Mastri gurpuni » che non temono tagliola, impiegati-spie, preti-truffatori, assessori-ladri, sputasentenzeignoranti, marescialli-segugi, usurpatori protetti sono i personaggi del potere, dalla doppia natura umana e ferina, i quali comandano in Cinquefrondi prima e durante il fascismo. Questi personaggi (e altri, fra cui il « despota » Delle Scale che ebbe fino al 1912 come protettore l’on. Giovanni Alessio e al suo servizio il giudice Istriani) rappresentavano negli anni della giovinezza e della maturità di Creazzo la « verità ufficiale » nel paese in cui la santa alleanza

2A BAOE

tardofeudale !e postunitaria aveva lasciato vecchie strutture sociali di miseria e degradazione, di servilismo e viltà? Qui, e in tutto il territorio della Piana, tra difficoltà immense (non-ultime il riformismo e il demo-

craticismo degli intellettuali massonici), Creazzo si mosse nello sterminato numero di braccianti, contadini poverissimi (in molti villaggi l’artigianato più produttivo era quello dei forgiari, dei fabbri che creavano, riparavano zappe) come socialista rivoluzionario, populista, con forti venature anarchiche. Agitatore politico, percorre tutta la Piana per organizzare la resistenza contro il blocco agrario e il fascismo, collaborando ai fogli socialisti, divulgando con manifesti, volantini, le linee di azione per diffondere il socialismo, guidando scioperi, proteste, raduni, celebrando le feste del lavoro e i caduti nella lotta. A Palmi, che era il centro direttivo del movimento, fra il 1930 e il 1932, insieme con l’anarchico Bruno Misefari incontrò Giancarlo Paietta. Costantemente sorvegliato

dai governi prima e durante il fascismo, quale alfiere del socialismo, cominciò dagli anni giovanili a conoscere il carcere politico. La concezione che la verità è nella natura dell’uomo e che le antitesi, dialettiche, devono portare al trionfo della giustizia, la storicizzazione di tale dialettica in termini di classe avevano guidato Creazzo nella. lotta contro il liberalismo conservatore, il clericalismo sopraffattore, il

fascismo in tutti i suoi aspetti. Dietro le ideologie mistificatrici era la borghesia capitalistica e violenta e Creazzo divenne la voce e la guida, nella Piana, della cultura contadina analfabeta, arcaica, dei poveri sog-

getti agli strumenti della superstizione, dell’ignoranza, della paura fisica, dello sfruttamento. Quella cultura contadina era aperta verso la chiarificazione della propria natura ed era estremamente dotata della consapevolezza delle proprie ragioni e della propria forza. Creazzo fu quasi un capo carismatico per la sua fede nella rivoluzione proletaria e nella Rivoluzione d’ottobre ma fu anche un educatore socialista il quale spiegava — come interpretava e sentiva — le relazioni della realtà, delle classi,

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1 Patria del principe Luigi Aiossa (di origine spagnola), ultimo ministro degli Jp terni borbonico, Cinquefrondi vide il 21 ottobre 1860, giorno del plebiscito per l’annessione, un movimento reazionario (che ebbe seguito anche a Maròpati e Giffone) filoborbonico; quel giorno, mentre le guardie paesane stavano per essere disarmate dai soldati nazionali, partì un colpo di fucile e in seguito ad esso i nazionali colpirono a morte diciotto abitanti del paese e due loro commilitoni. 2 Fortunato Seminara così descrive i paesi della Piana nei primi anni del Novecento, dopo il terremoto del 1908: «Come l’economia sempre uguale e immobile, così è la vita degli uomini; e il villaggio nelle case e nelle strade, nelle pietre, nei colori riflette questa immobilità secolare (...). La maledizione del villaggio è quel peso di vita, che i figli ereditano dai padri, inchiodata alla sua immobilità, (...) vita senza luce d’intelletto, avvilita dal bisogno e dalla superstizione, giro di anni lento, monotono, ossessionante, che può sconvolgere la mente ».



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le leggi dell’essere sociale servendosi didatticamente di antitesi che traeva dalla sua cultura contadina, profondamente radicata in quella degli sfruttati zappatori e braccianti della Piana: lu lampu spara, rruppi e dassa scheggia ma la sputazza cadi di li fusa (1906) ... Non dijunari mai ca t’assottigghji, e nno’ pregari Santi ca su mbrogghiji, si senti di lu Previti consigghji simini ncenzu, fumu mu ricogghii ... Cundiscindenza furba e adulazioni su’ li cchiù vili e sporchi di l’azioni ...

La base didattica è l’etica dell’agire secondo l’umanità: Cu ca La lu

mali faci, mali ha pemm’aspetta; la visala ch’unchia ha pemmu schiatta. Gurpi ha mu si scanza la scupetta; Surici mu fuji di la Gatta...

Resa più evidente dalla antitesi e dal richiamo alla natura: Crudo egoismo e grande furberia chisti su’ scenzi serii e di valuri m’arricchi e mu ti fai cummendaturi! ... Lu vili chi ti nchiana mparadisu a lu mpernu ti cala si nc'è casu! ... L’arti di tempi e così è testimoni; di fatti nazionali e paisani; di custumi e di groglia di cristiani; di omvimenti e gran rivoluzioni.

La polemica contro l’ipocrisia nella corrotta vita amministrativa e politica paesana e nazionale (« La stuppa ha mu si fil’a mò di sita — m’ammuccia lu stamagghju e la ntramata ») diventa denuncia « ad hominem »: « sciancu mascari a tutti » (1912), proposito di lotta civile. Corregge l’opinione che la morte eguagli tutto: non certamente le disuguaglianze della vita (« la cipuja e lu sozzizzu! », « lu maccaruni cu lu lupinazzu »): Lu vermu, rrudi mbita la me testa e percia la meduja, e mi la guasta! Lu riccu, mbeci, godi e faci festa;



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lu povaru mindicu è mpisu a l’asta! ... Lu riccu, si lu fà ’ncarru trumpali,

lu povaru a la scaza ntra li spini! Guardasti in Campusantu? ... o si spirdatu? Lu lo Se lu

riccu, è ntra li marmi custodutu, povaru, janterra ... è mpaticatu! ’mbita la partita non s’appara, povaru non mpetcica a ficara! (1931).

Il discorso sulla disuguaglianza è sempre svolto per antinomie: Il mare che è di tutti — se pure ancora lo era!, — la terra che è dei pescicani, ma se l’acqua vota pe’ lu so’ caminu, si cassa lu vocabulu: Vejanu!, e pure chiju di lu: Signurinu, Cu pettina; ... li gruppa vennu nchianu (1947). I condizionamenti storici si fanno sentire certamente nel sentimenta-

lismo umanitario con cui il Creazzo canta i derelitti, gli sfrattati, il bambino mendicante che viene schiacciato da un carro, i vecchi, gli indigenti, gli orfani, le lavoratrici alle ante delle ulive, il contadino novantenne morto e trasportato col carro delle immondizie, i bambini minorati etc. Ma si trattava di fatti veri, di documenti umani; i versi erano di denuncia e venivano accompagnati da articoli di giornali, da testimonianze, nomi e cognomi dei miseri che Creazzo vedeva venduti allo sfruttamento, abbandonati dagli sfruttatori, per le strade di quell’inferno che era il villaggio, per i viottoli di campagna, in mezzo ai boschi. Importa, invece, sottolineare che Creazzo col suo dialetto in funzione sociale dà

rilievo alle divisioni di classe e, dal punto di vista artistico, con maggiore capacità di quanto non facessero nella regione gli scrittori umanitari in lingua, Casalinuovo, Soffré, melicamente pascoleggianti. La poesia Contrasti del 1927 è una denuncia non solo poetica degli agrari polistinesi. Nel 1924 Creazzo in un sonetto di lingua (pubblicato su Fiamzze rosse) aveva stigmatizzato la viltà dei partiti « nullisti » dopo il delitto Matteotti; nel 1926 aveva satireggiato un ex compagno

pronto a mutare

bandiera: Cu l’anchi a furca comu lepricchiolu sattariasti a destra e a lu mancinu. Lu Signuri mu v’una ajutu e forza mu fati l’arti di l’equilibrista ...



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Me

Gira lu mundu e poi gira la rota e nui tornamu a mporgiari zappuni.

In altri versi del 1927 esorta alla lotta (ed egli stesso lavora nella resistenza):

' E avanti, avanti, pe’ la terra santa undi non ci su cchiù li servituri.

In quegli anni (1929) il poeta dettava un epitaffio per la sua tomba: Non vogghiu no candili e mancu preci. E mancu crisantemi e kiuri boni, non su’ pe mmia, gnurnò, li cosi fini! Chiantàtimi agrejari cu cardoni, e ruvettari di pungenti spini!

Nei confronti della « verità ufficiale » Creazzo a Cinquefrondi era il sovversivo, l’anarchico, il socialista rivoluzionario, il carcerato, il vigi-

lato, lo sfaccendato. A quella verità fatta di finzioni Creazzo strappava la maschera in quest'altro ritratto: Ognunu ti ricorda giuvanottu facendu ntra lu Càrminu novini ... chiusa la chiesa e armatu di cappottu sturdendu cu li ligna le gajini.

Militantismo politico e naturalismo ispirano le rappresentazioni d’arte a cui Creazzo giunge dalle antitesi proposte al popolo, dalla vita vissuta con gravi amarezze e inevitabili nostalgie (« Oh! quotraranza mia! ... vinni lu mali; — lu meli si cangiau cu acitu e feli », 1928). Fino ad ora Creazzo aveva denunziato vizi e corruzione di classe ponendosi dalla parte del popolo e osservando i contrasti generati dalle disuglianze. Adesso osserva dall’interno le mostruosità, il livello di prospettiva e di tecnica è anche diverso nei componimenti sugli insetti nocivi e sui nuovi ritratti. Grandi allegorie politiche della maturità questi componimenti rappresentano vizi e situazioni: incrostazioni di mali, abitudine a non reagire e a trovarsi sopraffatti dagli « scalambruni » fascisti, esortazione a trovare i rimedi adatti a estirparli, a vendicare gli uccisi innocenti (Qui gladio ferit, gladio perit). L'atmosfera appestata dagli insetti schifosi, insolenti, parassiti, mimetizzati può essere purificata solo dal DDT della libertà e dell’istituzione repubblicana. —

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\

Ma gli insetti sono rappresentati attraverso incisioni che ne mettono

in rilievo filiforme la mostruosità degli organi funzionale all’animalesca

nocività infettiva, omicida, divoratrice, avvelenatrice, allo stato aggres-

sivo o vulnerativo, con un procedimento nuovo, inedito, nella poesia

dialettale calabrese. Non pericoli genetici ma effettivi, ormai penetrati in tutte le strutture della vita della nazione e della natura (nell’atmosfera, nella vegetazione nell’alimentazione, nelle case, nei letti, nelle persone), inquinatori, persecutori, mortiferi,-gli insetti di Creazzo” non trovano

riscontro nella letteratura ma soltanto in qualche raffigurazione grafica satirica del ventennio fascista o del nazismo. Creazzo caratterizza espressionisticamente sia gli insetti che la lotta contro di essi: il poeta che sale sull’albero dai bei frutti assalito dagli scalambroni e che scuotendo l’albero « cu atraggia e cumbenenza » ma anche « cu nna forza di Leuni » o che schiaccia le pulci (« Se dassarrìa suffriti st’arroganza, — ... Addio,

‘don Pascalinu di Criazzu! ») o che propone le offese per annientare le cimici o che abbatte col bastoncino lo scalambrone volante e lo schiaccia sotto il piede, indica espressionisticamente al popolo, in questi grandi cartoni, i metodi di lotta individuale ma anche collettiva e totale — che

ripulisce l’aria — contro i fascisti e la loro nocività. In questi componimenti la precisione e l’oltranza energica della lingua (« Zond’è mbuttu li mani e li scafazzu », « io fracchiandu cu lu bastuncinu: — Ttuppiti: — l’acconsài pe lu festinu ») sono quasi psicometriche dell’azione, della ribellione, dello schifo (« Jih! ... malanova mu li tagghia! », « se schiatta, di nosìa veni lu scasu! », « la pidocchia è: jécchi! ... fetenzusa »). Agli insetti sono strettamente uniti (nferzati) gli uomini strumenti dei poteri, che vivono sugli altri (anche sui defunti: i tambutari che si disputano i cadaveri), i falsi, i ciarlatani, gli opportunisti mediocri e

quelli saputi. I personaggi di questi ritratti partecipano della natura bestiale. Nella rappresentazione del vizio il Creazzo — che dopo la seconda guerra sperava nell’avvento di una nuova società — esprime anche una motivata sfiducia vedendo i frati e i preti diffondere odio antisociale nella campagna elettorale del 1948. La sconfitta politica di quell’anno pesò gravemente anche sulle popolazioni contadine calabresi che si videro costrette all'emigrazione da una regione in cui un centinaio di agrari possedeva 136 mila ettari di terra e 87 mila contadini vivevano su 15 mila ettari.



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CreEAZZO E ANTONIO

MARTINO

L’abate Antonio Martino (1818-1884) di Gàlatro è ancor oggi poco noto come poeta dialettale perché i suoi componimenti sono in gran parte inediti. Qualcuno di essi è stato vulgato oralmente come esempio di opposizione al sistema politico savoiardo — di stampo cavourriano — immediatamente postunitario, soprattutto quelli in cui il Martino si rivolge a Vittorio Emanuele II denunziando l’insostenibile pressione tributaria nel 1866 e al Padreterno contro i Piemontesi che si erano impadroniti delle strutture burocratiche del nuovo Stato: Ministri, senaturi e deputati fannu camurra e sugnu ntisi uniti, prefetti, cummessari e magistrati sucandu a nui lu sangu su’ arricchiti ... Sindaci, segretari e salariati e consigghieri tutti e assessuri,

su latri cittadini patentati ... A Vesatturi, poi, lupi affamati, uh, lampu mu li mina e mu li cogghi... Vittoriu fida troppu, e duna onuri a finti e tradituri liberali, fa làzzari e maurizi li sarturi, collara di Nunziata li cozzali ... Diciassett’anni sugnu chi ciangimu, lu pani cu li gràlimi ammogghiamu e tra sigghiuzzu e chiantu l’agghiuttimu ...

Il Martino era stato liberale e patriota durante il governo borbonico ed era stato incarcerato per le sue idee. Nel 1860 aveva deprecato gli episodi di reazione che si erano manifestati, in occasione delle votazioni per l’annessione, a Caridà in favore di Francesco II; nel componimento

Risposta dell’Italia alla Calabria la Nazione si lamenta di tali episodi: Però di Cincufrundi eu su dolusa, di Melitu, Pedàvuli e Serrata, Maropati e Gallina la schifusa,

Giffuni e Caridà la sbrigognata.

Temperamento vivace e attento osservatore degli avvenimenti politici nazionali e paesani, il Martino fu anche in dissenso con preti corrotti, temporalisti (« E duvi mai lu dici la Scrittura — ca Petru ebbi can—

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nuna € bajanetti? — Pasci “ nci dissi Cristu ” a la friscura, — pasci nell'umiltà sti mel crapetti »), della Cutia e della diocesi che satireggiò anche In versi estempotanei (inediti sono, ad esempio, i seguenti versi da lui lasciati su un biglietto al Vescovo il quale lo aveva fatto attendere a lungo per ricevere l’arciprete di Capizzi: « L’arcipreviti di Capizzi, —

caccia ca e resta pizzi, — caccia pi e resta cazzi: — arcipreviti i pizzi e cazzi »). Qui ricordiamo una sua pasquinata (così lui la chiamò) Sul concorso

del canonicato di Cinquefrondi avvenuto in gennaio 1851 che circolò manoscritta nei paesi della Piana. Il Martino chiede permesso ai poeti in lingua di potere scrivere in calabrese ancorché « vili cantaturi » perché « lu scordu ’tra la musica esti bonu — pemmu risarta cchid lu durci sonu ». Il primo oggetto della sua satira è mons. Mincione, ve-

scovo di Mileto, protettore « di li previti ciucci » e che rivestiva di lunghe penne i corvi neri e resecava le ali alle bianche colombe perché non prendessero il volo in alto. Sede di malaffare si rivela la Curia in occasione del concorso per il canonicato di Cinquefrondi al quale parte-

cipano nove preti: otto di essi, però, non seppero coniugare « lu verbu do, chi l’orbi fa cantari ». Il primo dei preti riprovati, Albanese, commenta « ogghiu, casu, vinu voli e no morali »; il prete Palermo si accorge che il concorso era stato fatto pro forza; il prete Manfroce espone al vescovo il suo dispiacere di non essere diventato canonico, pur essendo fratello di canonico defunto: il vescovo gli risponde che questo non è un buon motivo e che, invece, « di n’assioma logicu apparisci » che doveva vincere Bruno Ascone (Ascuri) il cui cognome finisce come quello

del vescovo: « si poi tu ti chiamavi Manfrociuni — stati sicuru ca la dava (la muzzetta) a ttia »; degli altri preti qualcuno (Iudica) grida contro « la Curia prostituta » e la simonia, gli altri (Ieraci, Cuntartisi, Sigillò) se ne ritornano sconsolati ai loro paesi (« tutti ncrinati, vagnati tutti,

e comu runzuni »). Il poeta (il quale prima aveva detto: «Non vitti nudhu mare senza scogghi, — né Curia viscuvili senza *mbrogghi ») conclude deprecando la Curia che esalta i pravi e deprime i buoni: Oh porcaria spacciata di Melitu, oh disgraziati nui chi nci ncappammu; cu studia libbra cchiù non è graditu, lu tempu perdi si nui la sgarramu. Cu va secundu Ddeu resta avvilitu, cu manda l’ogghiu poi nchiana lu scannu. Giustizia di lu Celu s’affacciau, detti n’occhiata e poi scappau, perìu;

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la soi vilanza ’nterra s’allordau, °ncelu era schjetta e ccà si mputtanìu ...

La pasquinata dovette avere diffusione se Pasquale Creazzo la tenne presente in una sua « satira », L’Arciprevitura “di Cincufrundi e lu Cuncursu di Militu (che riteniamo inedita: sul manoscritto si legge « satira pubblicabile ») in occasione di un altro concorso a Mileto per l’arciprevitura di Cinquefrondi. Non sappiamo a quale anno si riferisca il Creazzo il quale in una nota ricorda la « satita » di Martino del 1851 per il concorso melitese in cui i preti cinquefrondesi « furono tutti riprovati meno del più ignorante » il quale seppe « a via di regali e di otri di olio » corrompere il vescovo del tempo, Mincione. Creazzo comincia col dichiarare che dei quattro concorrenti alla stola (Filareto, Scarfò, Pugliese; Fàzzari), tre — meno il Filareto — erano donnaioli (« guappi a la pistola — e a duppia palla »). Durante il concorso i quattro si sorvegliavano e ciascuno attendeva il momento opportuno per estrarre dalle tasche gli svolgimenti già preparati, per copiare. Mentre Scarfò scriveva « frasi, frisi e frosi » inutili, Filareto estraeva il manuale di Gury per copiare ma gli saltava addosso Pugliese (« comu na gatta latra ») per sequestrarglielo, gridando « Scrivi si sai di testa, — tirrinchiuni! ». Il vescovo Mora-

bito che assisteva cercava di rabbonire gli animi e di ammonire Filareto. Ma prima Fàzzari e poi Filareto, accusando malessere, si ritiravano dal concorso e si ritrovavano nella locanda. Filareto cominciò a inveire contro il Pugliese che era inaspettato concorrente in quanto già parroco di Paravati, parrocchia ricca e vicina a Calimera, suo luogo natio: « Cu si cridia stu ntòppu, — ca nc’era lu stadhuni — chi parinchîu Giffuni — di bastardi? ». Rassegnati i due ritornarono di nascosto a Cinquefondi. Il concorso fu vinto dal Pugliese il quale, però, non lasciò Paravati (« ove indisturbato fa il gallo e signoreggia ») e la parrocchia di Cinquefrondi fu assegnata, dopo un periodo di vacanza, al teologo prof. Carlo Sorrenti. Ci pare interessante rilevare la tradizione culturale contro la chiesa temporalista e burocratica che si venne formando nella Piana per opera di poeti popolari e dialettali religiosi o laici, credenti in un rinnovamento che portasse giustizia alle popolazioni in mezzo alle quali vivevano: prete liberale il Martino e desideroso di una pace universale che somiglia a quella dei miti dell’età dell’oro, laico rivoluzionario socialista il Creazzo, interprete dell’animo e dei bisogni dei contadini sfruttati della Piana, certamente il maggiore poeta dialettale del secolo nostro in Calabria.



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IL POETA

DEL

COMUNISMO

RIVOLUZIONARIO

Nella resistenza agli agrari e al fascismo Creazzo portò il suo contributo, oltre che come politico, come poeta popolate i cui motivi nascevano dall’interno del proletariato contadino della Piana. Sfruttati per sei secoli dai feudatari e per un altro secolo dai neoagrari che avevano usurpato le terre demaniali, i contadini della Piana — non un mondo

astratto quello della Piana ma un inferno di zolle e tuguri, di malaria e di alluvioni, in cui «-accitchiati » dallo star curvi sulla tetra i conta-

dini sono consumati da stenti, reumatismi, pellagra — durante l’epoca prefascista e fascista videro con rancore perpetuarsi lo sfruttamento. Ai padroni, i neomarchesi degli ulivi, fornivano appoggio podestà e loro .aguzzini, esattori, marescialli diventati famosi (ne ricordiamo ancora i

nomi) per gli abusi, per le nerbate assestate ai detenuti che facevano poi dormire sul pavimento ricoperto di granturco. Il Creazzo, che fin dai primi anni del secolo aveva organizzato le sezioni socialiste (insieme con Nicola Mancuso, Carlo Mileto, Michelangelo Mercuri e altri) e che nel 1921 aveva aderito al Partito comunista, esaltò nei suoi versi la resi-

stenza e la contestazione di migliaia di contadini senza terra, ne diventò il portavoce. Padri, figli analfabeti di emigrati, zappatori, braccianti si ripetevano

a memoria

nel 1927 Lu zappaturi, un grande canto aspro

anche per le molte rime cupe, insistente sul contrasto di classe fra padrone e zappatore, disperato e amaro nella constatazione delle infernali disuguaglianze; canto che in monotone cadenze ritmiche, privo di aggettivi, dominato dal sordo « pistari » dello « zappuni », esprime una cultura diversa, al di fuori di ogni bipolarità, e contrappone criticamente alla violenza padronale e all’esclusione dei contadini da ogni rapporto umano la richiesta di una vita riscattata nell’uguaglianza del lavoro; canto di denunzia, di disperazione rabbiosa, di rappresentazione del ferocemente indifferente mondo dei padroni delle terre e degli ulivi. Successivamente alla caduta del fascismo e alle lotte agrarie del 1945-46 al canto furono aggiunti dei versi pieni di speranza: lo zappatore si risolleva e muove contro « li gnuri » per ottenere una società di liberi e di uguali nel lavoro e nella quale non nascono più « mangiafranchi — chi ndi siccaru panza e gangali! ». Nella prima parte risulta il misero tugurio, « lu pagghiaru » con un angolo per focolare, un tronco di legno come sedia (« nnu rimbulu »), un orcio rotto e un letto di paglia (« jàcina »); una tana in cui lo zap-

i

patore si ricovera per mangiare « stroffi e scòtramu duru » e per dor-

mire, senza alcuna possibilità di mutamento di stato perché: Lu mpernu è fattu pe li cafuni, lu paradisu pe li riccuni. Pe’ penitenza staju abbuzzuni fin’a chi campu cu stu zappuni! Ma su vejanu, su tamarruni,

su peji tosta, niru cafuni.

Dall’interno della lotta per il rinnovamento dell’amministrazione comunale corrotta e discriminatrice la quale era stata in carica a Cinquefrondi durante la prima guerra mondiale nascono le strofe animose di Zappandu! in cui le donne rievocano a fratelli e mariti le camorre annonarie subite, la fame, ed esortano energicamente gli uomini ad aderire al circolo operaio per rinnovare la gestione amministrativa: E se sti cosi mo vi li scordati siti veri cornuti patentati! ... E se mannaja Brio se vi scordati, la facci vi pigghiamu a grancinati... Lu pani brundu a nnui ndi dispensaru ca lu jancu servìa pe li malati. Ma lu jancu li gnuri si mangiaru e li vejani furu discacciati! E nui povari fimmani zappammu cu pani e senza pani e ncutugnammu! ... Ma mò se chisti cosi vi scordati, vi néscinu li corna, e li ntrizzati.

Il dirigente rivoluzionario fornisce con questi canti elementi di lotta al proletariato; fornisce anche miti geniali interpretando — per la prima volta nella poesia calabrese — in senso rivoluzionario la tradizione religiosa (tradizione profonda in cui sono considerati santi bizantini umili personaggi del popolo, pastori, stallieri, mietitori o in cui santi guerrieri, potenze soprannaturali diventano protettori e difensori delle misere popolazioni afflitte da guerra, pestilenze, terremoti, carestie, incursioni di

armati) la lotta tra S. Michele Arcangelo, protettore di Cinquefrondi, e il demonio, diventa la lotta tra borghesia e proletariato. L’energica rappresentazione del demonio-borghesia ha tratti che derivano dall’iconografia popolare ma anche dalla religiosità della Piana descritta da Conia (Insulto al Demonio, Compiacenza del detto insulto). L’Arcangelo è tra-

SAVIO

sformato in simbolo perfetto della rivolta dei poveri contro gli oppressori ricchi: Si ribejaru li servi seculari e spezzanu catini, Mitra, Curuni e Artari!

Arcangialu di paci! Sdarrupa a Satanassu! ... Tu sì lu Socialismu;

Iju lu-riccu grassu! ...

-

Il linguaggio interpretava le attese contadine di una « minditta di la storia », di un rivolgimento totale. Di vendetta storica si parla nelle in terzine di Unità proletaria (1924) che diventò un’arma di lotta politica: Ietta la zappa; pigghia lu giornali: Avanti! avanti! dici, Oh! zappaturi ... La minditta arrivau [...] ribiglioni ... Nenti cchiù servi! nenti cchiù patruni, Avanti!

LS

è santa la rivoluzioni.

Né allora né dopo la fine della seconda guerra mondiale Creazzo era l’unico a credere in una rivoluzione che vendicasse « cu la violenza e lu pugnali » gli oppressi; Creazzo era espressione di generazioni di una società contadina che nella rivoluzione e nelle bandiere rosse vedevano i simboli e le speranze di una nuova storia, specialmente dopo avere subito il peso dell’oppressione fascista. Degli anni del fascismo trionfatore il poeta ha lasciato un documento allegorico-politico geniale che è La cicala, canto popolare sulla frastornante e roboante propaganda del regime mentre « nc'è miseria cu la pala! ». Creazzo era cresciuto in una società contadina che l’oppressione di classe aveva ridotto allo stremo di miseria e all’emigrazione. Egli organizzò i contadini della Piana, li aiutò a ritrovare nella lotta contro i

padroni la propria identità scissa e alienata, in tale organizzazione si venne legando organicamente con la realtà di quel mondo ed è significativo che abbia studiato un poeta popolare della Piana, Giovanni Conia, e abbia scritto sul dialetto dei lavoratori di Cinquefrondi. Studiò il dialetto come strumento di conoscenza della vita contadina (vita che volle conoscere attraverso la storia, i reperti archeologici, le monete, —

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operando scavi) per trovare la capacità di dare forma artistica alla volontà di tutto un popolo. Attraverso le antitesi rivelatrici della divisione della società in classi e attraverso l’uso di una lingua espressionistica, canzonatoria e agitatoria riuscì a creare una ,sua arte dialettale come arma culturale perché il popolo si potesse liberare dalle catene. Nella vita calabrese Pasquale Creazzo è stato un creatore di cultura rivoluzionaria di massa, un poeta dialettale nuovo in quasi tutti i suoi livelli espressivi.

Anche attraverso questa limitata antologia dialettale Creazzo entra degnamente nella storia della cultura dialettale calabrese (che è — con la filosofia — la nostra principale espressione etnica), sulla linea di Conia, Ammirà, Martino, Pelaggi, Butera, Pane, Milone: vi entra con una fisionomia artistica spiccata di poeta di opposizione e di rivoluzione, di portavoce delle lotte della popolazione della Piana.



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XII

DISCRONIE

CULTURALI IN FRANCESCO E FORTUNATO SEMINARA

PERRI

Uno dei motivi per i quali la narrativa di Francesco Perri è stata ipervalutata in Calabria — come lo sono tutte le produzioni della tradizione regionale considerata frutto di una attività da privilegiare sul piano etico ed estetico — è il mancato rapporto con la realtà del romanzo italiano del primo dopoguerra. Perri continua ad essere ricordato ed. esaltato come il cantore di una epopea calabrese, anzi reggino-jonica, con Emzigranti. Questa valutazione è nettamente provinciale e antistorica

in quanto salta la frammentazione del romanzo compiuta dai vociani e si richiama a una restaurazione del romanzo dell’età giolittiana quando il romanziere si identifica (tranne qualche soprassalto, interno al sistema,

contro la borghesia rinunciataria o sfruttatrice) con l’ordine borghese. Ma dopo il rifiuto del romanzo da parte dei vociani e il bagno palingenetico nella guerra, richiamante

2

una nuova

prospettiva esistenziale,

il ritorno al romanzo dell’età giolittiana non può postulare che un ritorno all’ordine del passato richiesto dalla Ronda. I recenti studiosi del fermento narrativo degli anni tra il 1918 e il ’25! sottolineano il pericolo del borgesiano richiamo al « tempo di edificare » come richiamo a una restaurazione letteraria. Non era ormai possibile mantenere in piedi un genere che nasceva dal seno di una borghesia che proiettava il romanzo come strumento di trionfo, rispecchiamento di successi, orgogliosa autocontemplazione, intrattenimento a diversi livelli; altri livelli narrativi erano quelli romanzesco-popolari, di avventura, di appendice, collegati con gli interessi di altri ceti sociali. Dalla guerra in poi la restaurazione borghese-naturalistica è ripetitiva, l’operazione raccoglie frantumi mentre 1 R. Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher 1981, I, p. 284 sgg.; C. BENUSSI, Il romanzo italiano dalla guerra al fascismo, « Problemi », ‘gennaio-aprile 1982, pp. 38-49.

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è necessario creare nuovi strumenti narrativi per una realtà diversa costituita da: disgregazione sociale già avvertita dai vociani ed esplosa dopo il 1918 con l’emersione di una piccola o infima borghesia sbandata e carica di fermenti; nuove esigenze esistenziali, gnoseologiche e artistiche da interpretare con strumenti analitici, conoscitivi, come cercano

di fare — per il romanzo — Svevo, Tozzi e Gadda. I tardo naturalisti non possono rifondare nulla né la corteccia naturalistica risece a contenere sintesi moderne perché rimane corteccia vuota e bruta, non nasce col nuovo. La struttura sociale nuova non è percepita da interpreti capaci di rappresentarla per mezzo di personaggi chiarificatori e ordinatori, di tecniche adeguate: nei romanzi degli anni indicati i protagonisti piccolo o medio borghesi sono disadattati che guardano con l’ottica del passato, vinti che non hanno capacità di resistere, sbandati che non riescono a fare luce sulle cause dello sbandamento generale e si ripiegano su se stessi. Finita l'egemonia della borghesia trainante alla quale gli altri ceti si aggrappavano con l’illusione di compartecipare a una presunta armonia delle classi, infrante le mediazioni interclassiste dell’epoca giolittiana, la lotta di classe che chiarisce la realtà sociale dei rapporti di potere è vista, da coloro che non riescono a interpretare la crisi nella sua essenza sociale e politica, come l’origine del caos. Francesco Perri, già volontario nella guerra mondiale, fu spettatore, tra il 1921 e il ’22, della lotta sociale in Lomellina e nel 1924 pubblicò sulla Voce repubblicana il romanzo I conquistatori che, apparso in volume nel 1925 col nome di Paolo Albatrelli, fu sequestrato per il suo carattere di opera politica antifascista. A Perri si addice ciò che abbiamo detto sia a proposito della scarsa coscienza artistica e dell’impossibilità | di restaurare un genere letterario rappresentativo delle sfere della borghesia egemone sia a proposito dei limiti ideologici che impediscono di vedere nell’immediato dopoguerra i caratteri di una lotta di classe nello scontro tra fascismo e proletariato. Lo scrittore vede che le classi dirigenti hanno « considerato lo Stato come un comitato di assicurazione per i loro interessi e privilegi » (così nella prefazione alla seconda edizione del romanzo), che lo Stato liberale ha consentito « che si costituisse

una specie di colossale camorra organizzata e semilegalizzata » ma il suo giudizio è morale quando, richiamandosi alle lotte del 1919-20, scrive che « il proletariato si abbandonò in quel biennio ad una serie ininterrotta di manifestazioni, che rendevano impossibile ogni svolgimento di una normale attività politica ed economica. Non aveva programma e ostacolava la realizzazione di qualsivoglia programma, parlava di rivoluzione ed era incapace di attuarla ». —

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Addirittura nel 1943 Perri scrive, come se il mondo si fosse fermato, che i problemi sono « allo stesso punto » del 1919, « con l’aggravante

di una ricostruzione morale e finanziaria quasi disperata ». Ciò che lo

spaventa nel ’43 sono i « caotici esperimenti estremisti ». L’ideologia del buon ordine e dell’onestà — quella del vecchio Stato liberale — si riflette anche nelle scelte artistiche del suo romanzo che si svolge secondo schemi ottocenteschi. Perri ha saltato le avanguardie del Novecento e nel 1924 si affida al dato storico-intormativo e all’elemento romanzesco. Il primo dato è, nell’equilibrio della struttura narrativa, incerto tra la

testimonianza di vicende-e il distacco. Il romanzo vuol essere, secondo Perri, « un libro di battaglia », antifascista, nel quadro di una visione interclassista e di una ricostruzione dello Stato. Lo scrittore, che si pone in un’ottica di giustizia, condanna gli eccessi socialisti e la violenza fascista aiutata e finanziata dall’agraria padana. È merito di Perri, dal ‘punto di vista storico, la descrizione della violenza fascista ma la visione storica è parziale, ideologica quando lo scrittore vede i lavoratori come « brulicame umano di carne rigogliosa e sottomessa », « visi e spiriti curvi nella ricerca del pane cotidiano, senza fierezza, senza altra ambi-

zione che quella cupida delle cose materiali e servili ». Per Perri le masse di uomini — qui si tratta di mondariso — sono « folle anonime, ottuse e buie », che « non hanno storia, che sono la materia bruta dell’avvenire e non hanno avvenire », sono folle naturali-

stiche. Lo scrittore esprime in forma pseudo culturale la sua completa sfiducia nel popolo: « Non è nuova la constatazione che ogni società si basa sopra una servitù, sopra una posizione più o meno servile della massa, e quando si dice massa si dice lavoro. Dunque la redenzione del lavoro umano è una chimera! ». Può mutare l’aspetto della servitù ma il gigante-massa « è condannato [...] a servire eternamente per quello che noi consideriamo e che tutti i popoli considerarono sempre come elevazione umana, come miglioramento della vita e dello spirito! ». La posizione storico-culturale di Perri qui espressa è rozza e brescianesca più che terzoforzista. L’ideologia di classe — la classe qui è lo « spirito » quale è considerato dalle persone colte — si rivela nella domanda: « che cosa sarebbe la vita sociale se ognuna di queste creature avesse una personalità come

noi la concepiamo

[sott. nostra], avesse una ambi-

zione, un sogno, la coscienza della sua eguaglianza e l’aspirazione alla sua libertà? ». La debolezza della concezione reazionaria di Perti si rivela nella successiva domanda: se la massa avesse coscienza e si ribellasse « la civiltà attuale non sarebbe dannata inesorabilmente? ». Per lo scrittore la « sola nobiltà » che « elevi e sublimi » la massa è il ‘« canto —

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d’amore », sono « le rapsodie amorose stupende » delle mondariso del cremonese e del piacentino. Il brescianesimo, la concezione naturalisticofolklorica che Perri ha del suo popolo, l’informità concettuale condizionano

la realtà storica stessa di un elemento

narrativo

quello che abbiamo chiamato storico-informativo:

fondamentale,

lavoratori antifascisti

bruti, deputato socialista « tronfio e fatticcio », come sono « quasi incon-

sapevolmente coloro che fanno di professione gli agitatori di folle », segretario della Camera del Lavoro « figuro bruno [...] con un lungo collo da giraffa », compagni che guardano « con un ebete sorriso di beatitudine e di trionfo », uno di essi è « una specie di gesuita vestito in borghese », un altro è un « ometto con due occhi da cinese ». Il punto di vista dello scrittore è quello del prefetto di fronte al deputato socialista (« Questa povera Italia andrà in pezzi se non finisce questo stillicidio di scioperi e di contese ») o dell’agrario Guido Gorio per il quale la folla è un « essere mostruoso dalle mille teste, pieno di bisogni e di sentimenti elementari, davanti a cui alcuni sedicenti rivoluzionari agitavano brandelli d’idee, come pezzi di panno rosso davanti a un toro ». I socialisti hanno « idee vaghe » di « rinnovamento apocalittico, che fuma impreciso nel loro cervello », la loro tipologia appartiene al mostruoso e uno di essi, il vice segretario della Camera del Lavoro, è « l’uomo dal collo lungo che sbraitava, rosso col suo scialle slegato intorno al baverto ed ondeggiante sul petto come un budello sudicio ». L’unico socialismo è per essi « aumento di salario », il contadino « è bestia e bestia rimane ». Anche la guerra è un elemento della naturalità e « la materia bruta, eroica ed inerte nello stesso tempo, era la massa

dei soldati » che al fronte sono « animalità selvaggia ». Più aderente al vero è la descrizione dei fermenti psicologici del dopoguerra, il sentimento di provvisorietà della vita degli ex combattenti, la delusione del ritorno alla vita mediocre di tutti i giorni (ma ineffabile è l’annotazione: « Bacone da Verulamio disse una delle più profonde verità psicologiche quando affermò che l’uomo ama più il pericolo che il lavoro »). In questo clima psicologico di istinti sfrenati, di opinioni che passano per verità è fatto nascere lo squadrismo fascista che Perri vede come effetto di sbandamento morale sfruttato da agrari e industriali. Lo scrittore coglie l’istrionismo, l’incultura dei fascisti, li

rappresenta nelle orge, nei salotti-postriboli, nelle violenze, sotto l’influenza della droga, nella « psicologia di guerra », nella retorica « a base di Patria, di eroismo, di civiltà italica, di libertà, di bellezza, di giovinezza e simili chincaglierie ». Ma il fascismo non è visto nei suoi connotati di classe, come fenomeno reazionario di massa. Perri coglie i carat—

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teri esteriori del fascismo fin dal suo manifestarsi, a cominciare dall’ora-

toria di Mussolini « debolissima nelle argomentazioni, cinica nelle affermazioni recise e categorica, condita qua e là di qualche fiore retorico, ma soprattutto infantilmente e brutalmente sicura in mezzo ad un subisso d’incoerenze ». Se il dato informativo è brutalmente falsificato nella mancanza di verità storica per quanto riguarda-il socialismo e la lotta di classe, il dato romanzesco (l’amore di Tommaso e Giacinta nonché altri episodi)

è grondante di daveronismo e melodramma. Amore e morte, sesso, sangue, danaro e violenza esistono come pesanti dati naturalistici che non hanno dialettica. La realtà sociale ha come strumento di analisi e interpretazione la descrizione narrativa di ritmo lento, postmanzoniano, minuziosa. Questo tono lento, pedantesco, compositivo scende uguale e senza variazioni di stile su tutti gli episodi. La lezione stilistica di Verga, dei vociani non tocca Perri. Lo scrittore rappresenta una piccola borghesia sbandata che desidera la ricostituzione dell’ordine senza tenere conto di ciò che è avvenuto. La Benussi ha sottolineato (art. cit., p. 42)

che Perri prende posizione di fronte alle violenze fasciste « ma più per i modi in cui viene conquistato il potere che per le ragioni ideologiche di fondo », che « anche i contadini diventano nemici quando, provocati dai fascisti, entrano in sciopero e si rivoltano », che nello scrittore esiste il rimpianto per il mondo perduto ormai sopraffatto dalle nuove leggi economiche e politiche. L’idea che Perri ha della crisi è arretrata, moralistica, è la difesa di un mondo finito che ci presenta i suoi vinti per scelte sbagliate, per sfiducia nella realtà, le vittime impotenti e legate a un mondo crollato. Un modo di verifica dell'apparato ideologico di Perri può essere anche un breve esame della concezione che lo scrittore ha della donna. L’autore è esplicito: La donna è fondamentalmente un essere crudele: essa è con lo stesso ‘ardore madre, amante e assassina. Tutte le sue virtù come i suoi difetti partono da una unica fonte: la forza dei suoi istinti sopra la ragione.

È esplicito anche nel brescianesimo erotico allorché scrive che i conquistatori fascisti finiscono nei campi « in compagnia di qualche fiorente operaia, che tra un cioccolatino e una promessa, dimentica tutte le pregiudiziali della lotta di classe ». Questo scrittore che aspira allo « spirito » non vede la donna che come natura bruta: colei che tradisce il marito giustifica l'inganno con l’acquisto della vera gioia; solitamente —

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VE ROIO

1:

SAN TOR Dea: RR pig 2 Ya

VS

la donna ha « splendida carne », « odore caldo di carne », « sangue

giovane e vigoroso », la sua bellezza ha « un sapore di animalità provocante ».

É

La frustrazione dell’individuo (che sembra far parte di un destino generale: L'amante di zia Amalietta termina con la parola « destino »), il desiderio di riscatto inceppato dalla nostalgia del mondo paesano, l’assoluta mancanza di un sistema formale moderno caratterizzano anche Emigranti (1928). Il romanziere cade nel genere popolare-provinciale di scrittura approssimativa e casuale, priva di qualsiasi tensione. Perri è lontano dalla montaliana volontà di chiaroveggenza razionale, dalla conoscenza di Kafka, Proust, Joyce, Gide che, quando si stampa il romanzo,

sono modelli di europeismo ai giovani narratori come Vittorini; è lontano dall’invenzione fantastica e dall’analisi interiore. Perri ripete il moralismo naturalistico e paesano (addirittura regional-folklorico), grezzo, cerca di renderlo romanzesco con qualche ingrediente lirico-realistico di pietà verso gli umili. Più che di romanzo si tratta di un lungo racconto: i Pandurioti cercano di occupare le terre comunali loro assegnate dalle leggi eversive del feudalesimo; fallita l’occupazione i Pandurioti emigrano in Nordamerica; la famiglia di Rocco Blèfari è abbattuta dalle disgrazie. Perri accomuna particolari impressionistici di carattere folklorico nel descrivere i contadini rassegnati « dalle facce scabre e bieche » che intendono la rivendicazione delle terre demaniali come « una razzìa di pomodori e di pannocchie » e fuggono spaventati alla vista dei carabinieri. Anche in questo racconto i contadini sono visti come primordiali: Porzia Papandrea ha una bellezza « quasi barbarica, fatta di carne, di ardori insaziabili e di elementi essenziali, che caratterizza gli amori e i gusti della gente popolana ». Lo scrittore mette in evidenza gli errori di espressioni orali (leggi « diversive » invece di « eversive », « bollitive »

invece

di «abolitive ») e scritte

(« siazzo

lasciata la nostra

patria » con sottolineatura dello scrittore, nonché l’americanizzazione delle parole italiane) dei contadini e descrive con mediocre approssimazione culturale il Natale, il rito contro il malocchio, quello della divinazione del futuro, le superstizioni, il pellegrinaggio a Polsi con le danze dionisiache, la rassegnazione alle sventure. Il primitivismo contadino, dannunzianamente

estetizzato nelle sue arretratezze e nei suoi miti, è

un deteriore elemento strapaesano che viene opposto al mito stracittadino del moderno, del tentacolare. Perri offre un enorme contributo alla calabresità come folklore estetizzato ed eticizzato del quale abbiamo parlato in altro capitolo di questo volume. Su Emzigranti grava un se—

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SRO

vero giudizio di Antonio Gramsci? che vanamente si cerca di obliterare. Gramsci nel 1934 metteva in rilievo l’astoricità del romanziere che narra

miticamente dei tentativi « pandurioti » (soltanto gli onomastici e i toponomastici ci fanno intendere che siamo in un territorio di quasi estinta grecità: Cùfari, Blèfari, Varvaro, Marando, Cuscunà, Farnia, Scaparrone, Grappidà) di occupazione di terre che non sono certamente quelli del movimento 1919-20 dovuti all’organizzazione del combattentismo meridionale. L'invasione descritta da Perri nasce da intellettuali di paese e lascia intatte le abitudini di vita paesane. In sostanza Gramsci denuncia il vetusto schema regionale del racconto, il distacco di Perri dal popolo e il suo ripiegamento, invece, su motivi folklorici di tradizioni popolari, su affreschi e stereotipi. Con Emzigranti abbiamo una

mancata adesione alla cultura moderna e ai sistemi formali moderni, la

«concezione dello scrittore appartiene alla tradizione secolare dell’intellettuale italiano che esprime indifferenza per la realtà ritenendosi superiore o estraneo al cotso della storia. Tra i critici di Perri, oltre Gramsci, soltanto Rocco Mario Morano ha sottolineato * l’estetismo del dannunzianesimo barbarico e primitivo,

l’esaltazione strapaesana e moralistica del mictomondo paesano in contrapposizione alla corruzione della città dalla quale rimane escluso il sinolo etico delle tradizioni locali, la presenza dei modelli erotici degli anni Venti come stampi grossolani dell’eros cittadino, il disprezzo della realtà contadina e il timore di mutamenti sociali. A questo punto il discorso su Perri può dirsi concluso. La nuova narrativa italiana degli anni Trenta — che si volge verso le tecniche formali europee — non interessa lo scrittore. Del resto non può esservi arte sociale se non si possiedono gli strumenti ideologici e formali storicizzanti: i contadini di Ezzigranti sono degli imbambolati, per quanto riguarda il rifiuto della prosa d’arte da parte di Perri non si tratta di un rifiuto ma di assoluta estraneità ai modi di avvicinamento alla scrittura moderna. Perri raccatta il genere letterario decaduto e lo popolarizza con ingredienti piccolo-borghesi che costituiscono il condensato della sua visione esistenziale di estremo epigono — lui, uomo della sua generazione, in quel determinato momento — del ritorno all’ordine. Il manzonismo, il manicheismo cattolico, la descrizione della folla cenciosa di 2 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, III, Torino, Einaudi 1975, pp. 2201-2202. Grarrsci, la letteratura regionale e due scrittori calabresi primo Novecento, « La procellaria », nn. TE2 977 pp.e29-55: 3 R. M. Morano,



183—

del

Il discepolo ignoto (1940) sono riesumati nel consunto quadro culturale di un umanesimo generico tramato di valori eterni. Il brescianesimo di questo scrittore ideologicamente totalitario e avvocatesco consiste nella pretesa di combattere i totalitarismi con le armi di una fede e non con quelle di una cultura moderna, nel non ammettere altra morale che il perdente moralismo ottocentesco e nel non sapere discutere gli strumenti conoscitivi della crisi della società e del romanzo. Ancora nel 1958 in L’amante di zia Amalietta i modelli di rappresentazione di un mondo borghese immobile sono naturalistici: la bella donna « di ossatura gagliarda, con anche poderose, un petto formidabile e, su un magnifico collo, portava la testa, trionfalmente, come la splendida corolla di un

fiore pomposo » e dotata di « un potente fascino carnale » che « ostenta come il pavone ostenta la sua coda ». Come nel 1924 Perri continua a non rendersi conto dei mutamenti avvenuti e depreca i distruttori che hanno « isolato lo spirito » e « ogni rapporto dialettico con l’invisibile ». La società da lui rappresentata nell’ultimo romanzo (che si svolge nel 1939-40) è quella altoborghese in disfacimento che continua a sostenere i puntelli marci delle strutture politiche ed economiche e ha come punto di riferimento il mondo del passato ormai mutato « anche nel folclore », nell’« ambiente patriarcale »: « anche i rapporti tra i padroni e i lavoratori si erano inaspriti e acutizzati. Non si poteva più comandate come

una volta ». Le ultime parole di Perri, quelle di questo romanzo, derivano dall’opacità naturalistica di una ideologia che vorrebbe apparire idealistico-spiritualistica ed è, invece, fondata su una antropologia di inerzia e di disfacimento: « Noi non sopporteremmo la vita — conclude lo scrittore — se fossimo noi a edificarla. È il destino dell’uomo! ... ».

Negli anni Trenta la psicologia dei personaggi nei romanzi che attuano un « ritorno a Verga » o si volgono ai modelli americani non è più quella del naturalismo o verismo ottocentesco ma è quella decadente in cui si riflette l’intellettuale borghese. La frantumazione del discorso poetico tradizionale, di impianto oratorio, è più uniforme nella lirica ma la diversità di romanzieri come Moravia, Vittorini, Bernari non può

trarre in inganno né fare assegnare ad essi il denominatore comune di neorealisti quando tutti gli elementi dei romanzi documentano gli intrichi labirintici della coscienza, i suoi andirivieni psicologici. L’apparizione di un romanzo come Le baracche (scritto nel 1934 e apparso nel 1942) di Fortunato Seminara suscita alcuni problemi rela-

Ei

tivi alla persistenza, dalla fine degli anni Venti, di una narrativa che richiama l’intreccio, la stotia, i caratteri, la tecnica dello svolgimento con conclusione. Ma occorre dire che questa narrativa non può essere retrodatata a Verga; l’interpretazione di Tozzi in chiave verghiana non consente di vederne le novità; * né neorealisti sono Moravia, Pavese, Vittorini; falsamente, per nobilitatsi, i neorealisti del 1945-55 li videro come maestri. Il neorealismo del secondo dopoguerra è ben altra cosa, le sue ragioni sono diverse: antifascismo, Resistenza, coscienza della storia, dei rapporti dell’individuo con la verità, la comunità, con il lavoro, con la classe, etc. Certamente nel primo dopoguerra esistono voci che esprimono l’Italia periferica ed esistono in tali voci motivi di realismo ma quanti di questi motivi sono diversi dal vecchio naturalismo, dal vecchio provincialismo? La ricerca degli ascendenti del neorealismo 1945-55 negli anni Trenta è una pesca casuale nel decadentismo, è una ricerca disutile di tematiche generiche. La via giusta è quella, per gli anni Trenta, dell’anabasi dalla regione all'Europa attraverso i modelli di Proust, Joyce, Gide, Svevo.

Il caso delle Baracche di Seminara — di uno scrittore che nei romanzi. successivi giungerà al realismo psicologico con Il vento nell’oliveto, La masseria, Disgrazia in casa Amato, La fidanzata impiccata — è molto particolare. La formazione di Seminara è avvenuta nel primo e secondo decennio del Novecento in una Calabria così descritta da. Pietro Mancini:° « La borghesia calabrese era la classe più arretrata di tutto il Mezzogiorno. La Calabria, senza strade, senza ferrovie, senza approdi, che facilitassero l’allargamento dei traffici e dei mercati e l'incremento della ricchezza mobiliare, era immobilizzata

economicamente,

politicamente,

socialmente ... Non esisteva l’ombra di una borghesia capitalistica, industriale e commerciale ... Il palazzo e la parrocchia erano i baluardi dell’immobilità sociale. Una santa alleanza che si infiltrava dovunque, financo nelle mura domestiche, protetta dalla superstizione e dall’ignoranza. Una santa alleanza, alla quale dava forza e prestigio l’autorità dello stato mediante la caserma, la prefettura, il deputato, ascaro sempre al governo e servo del signore e del prete. A tale cristallizzazione strutturale faceva riscontro una identica struttura psicologica, fatta di vecchie usanze familiari e sociali, basate soltanto sul rispetto sulla obbe- L.MARTINELLI, Novecento letterario in Italia. Tra 4 G. PerronIo, in G. Petronio le due guerre, Palermo, Palumbo 1974, p. 99. 5 P. MANCINI, Il movimento socialista in Calabria, « Il ponte », 1950, pp. 1205-1213.



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dienza e spesso sul servilismo. In altri termini una società a perfetto tipo agrario, patriarcale, alla quale, purtroppo, si tenevano legati economicamente e psicologicamente artigiani, operai e contadini, cui era ignota

una qualsiasi spinta rivoluzionaria ». Queste immobilità e cristallizzazioni della società e dell’economia avevano la loro omologia culturale in: 1) verismo e naturalismo ritardati, classicismo formalistico perpetuato nei seminari e dai poeti in latino, rialimentato dal pascolismo sentimentale di Francesco Sofia Alessio; 2) polemica culturale di estrema retro-

guardia che sarà combattuta da Vincenzo Gerace (La tradizione e la moderna barbarie, 1927) contro « l’internazionalismo letterario e romantico

che è la negazione del genio della nostra razza »; 3) istituti culturali e accademici chiusi nella retorica della gloria e della coltivazione umanistica o arcadica; 4) riporto didascalico del toscanesimo manzoniano goffamente esemplato su testi arcaici o odoranti di dizionario. Punti di riferimento della cultura borghese nazionale in Calabria sono gli intellettuali emigrati Francesco Acri, Antonino Anile, Nicola Misasi, Luigi Siciliani, Vincenzo Morello. La cultura popolare in una Calabria massimamente analfabeta era quella della letteratura dialettale che rappresentava la punta ideologica più avanzata con i versi di protesta di Vincenzo Ammirà, Antonio Martino, Bruno Pelagi e, il più rivo-

luzionario, Pasquale Creazzo. Seminara dal 1915 al ’18 studia nel seminario di Mileto, poi a Pisa,

Reggio Calabria, nel 1937 si laurea in giurisprudenza a Napoli, nel 1930 soggiorna in Svizzera e comincia a leggere (da sue dichiarazioni) Hugo, Balzac, Zola, Tolstoi, Turgheniev, Cechov, Dostoiewski, Gide, Claudel. Degli scrittori italiani non ha letto Verga bensì Misasi, Deledda, Serao, De Amicis, Fucini, Tozzi, Pratesi. Si tratta di diversi livelli di cultura borghese con qualche apertura europea. Estranei gli rimangono D’Annunzio (dopo avere bruciato delle novelle scritte ad imitazione di Terra vergine), l’europeismo novecentista, lo strapaesanismo populistico, l’ermetismo, il cattolicesimo reazionario di Papini e Giuliotti, la politica culturale di massa del fascismo, gli scrittori americani. Il romanzo del quale si discute negli anni Trenta è il nuovo organismo postnaturalistico,

ricco di succhi decadenti inteso come strumento di una cultura borghese esistenziale e problematica, romanzo che possa giungere a un pubblico composito e vario, romanzo con vari gradi di artisticità, mirante a costi6 Pasquale Creazzo (1875-1963) di Cinquefrondi è il maggiore poeta dialettale calabrese di questo secolo. Fu per decenni la guida politica delle masse bracciantili e contadine della Piana di Gioia; il suo principale componimento (Lu zappaturi) ebbe circolazione clandestina su fogli manoscritti fin dal 1927.



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tuire una nuova classicità per i problemi i quali hanno dissolto la narrativa puramente documentaria. Il giornalismo è l’altro mezzo per giungere al pubblico composito comprendente i diversi ceti medi di piccola e inferiore borghesia, le categorie della burocrazia borghese del fascismo. Seminara collabora a Omnibus, Oggi, Meridiano di Roma, L'orto, Ansedonia, prepara le Baracche e-le novelle (1934-38) che appariranno in Il mio paese del Sud (1957) molto più tardi. Il paese del Sud di Seminara non ha la vaghezza idillica, la serenità, la ricchezza del paese

di Alvaro” in cui le civiltà antiche sono come belle favole, da quella greca a quella cristiana, a quella monacale o a quella cavalleresca di Orlando. Tutti i personaggi di Seminara appartengono al mondo degli umili e dei derelitti. Il villaggio è come un sinolo di storture e di errori, come lo specchio microscopico di un più vasto mondo che è il Sud. Gli ‘ abitanti sono contadini, pacifici ma puntigliosi i quali inaspriscono le liti sì da farle sboccare in risse feroci. Siamo al preludio delle Baracche: La maggior parte (delle case) sono tuguri affumicati e decrepiti, ammucchiati in poco spazio, nei quali vive una folla di poveri: là piacere, dolore, amore, vizio e delitto formano una catena che avvince gli uomini senza scampo, li domina e li piega col suo potere.

Nelle Baracche Seminara si serve di due elementi fondamentali: 1) il naturalismo regionale per collegarsi con il passato e ritrovare le proprie radici; 2) l’esistenzialismo dostojewskiano (e deleddiano) per collegarsi psicologicamente con il presente. L’esito è quello cupamente tragico di una narrazione che mette in luce: il fatalismo della condizione umana e sociale dei personaggi, umiliati e offesi; il sistema arcaico di società e il pessimismo senza speranza; il respiro lirico di una umanità condannata; la forma mitica che i miseri assumono. Seminara, cioè, rac-

coglie gli elementi che possiede: scelta radicale del naturalismo e del realismo psicologico; ma raccoglie anche elementi manzoniani e compie una scelta linguistica che non è esagerato definire abnorme, discronica e incongruente. Con questo carico piuttosto pesante egli è immune da

edonismo stilistico, dal rondismo dei « capitoli », il suo primo romanzo è come un’amba in una pianura. Inoltre lo scrittore non tiene conto del pubblico che non è più quello del tempo del romanzo naturalistico; egli mira al pubblico della letteratura « alta » che eta un pubblico ristretto e non considera che i propri

7 C. Arvaro, Memoria

e vita, in Il viaggio, Brescia, Morcelliana



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1942.

argomenti sono stati già consumati dal pubblico di elevata cultura e il nuovo pubblico, formato da piccolissimi e vasti ceti medi emergenti, da donne alfabetizzate e istruite dai nuovi mezzi di comunicazione di massa (cinema, radio, settimanali, teatro itinerante del regime, etc.) ha altri

interessi. Più tardi Seminara scriverà che il suo primo romanzo fu « un punto fermo e segnò una svolta nella narrativa italiana, che fin allora si era gingillata con la memoria, il capitolo, la prosa d’arte, l’ermetismo etc. »; nel 1963 dichiarerà alla Fiera letteraria: Sono nato in una regione e in una condizione sociale, la cui realtà dura e drammatica colpì per tempo fortemente la mia fantasia, preservandomi dalle evasioni romantiche ed i vagheggiamenti decadentistici.

Ma proprio queste parole indicano che lo scrittore era rimasto nell’ambito del naturalismo quando il naturalismo era scomparso, che egli continuava ad obbedire ai vecchi canoni restando impersonale e obiettivo di fronte alla materia, chiuso con rancura

storica nel blocco del

pessimismo dei suoi miserabili vinti. Nelle Baracche c'è un tono corale carico di fatalità e di ineluttabilità, l'atmosfera lirica dei vinti, dello scacco delle illusioni e della bontà nei confronti della realtà fatta di miseria, ignoranza, invidia, arretratezza

materiale. Gli abitanti delle baracche di un paese della Piana di Gioia * in Calabria, derelitti e diseredati, poveri, laceri, affamati, specchio di

un ambiente sordido, sono dei personaggi certamente insoliti nella nostra letteratura. Anche le donne partecipano del carattere picaresco -e malandrinesco di alcuni personaggi maschili e sono le vittime di una condizione di vita brutale e disumana. Tutte le vicende sono serrate intorno alle baracche del paese basso in cui prostitute, figli illegittimi abbandonati di benestanti e costretti a diventare relitti o mostri, donne ancora

oneste vivono a diretto contatto in un ambiente che sarà prima decimato dalla spagnola e poi distrutto da un incendio che si leva improvvisamente. La vicenda di Cata che cade nelle mani di Micuccio precipita in modo inesorabile (« Era destinato che finisse così », « Non s’è fatto di tutto

per evitarlo? Era destino a puro livello biologico: epilettico Gianni di Saia e sbilenco » Cannellina,

») nel bestiale risucchio della vita pullulante il Gobbo maligno e beffardo, il paraliticoche viene a duello rusticano con lo « sparuto la mezzana Betta e la signora Caporale che

.8 Il paese è Maropati. Su esso si veda A. PrromALLI, Maropati. Storia di un feudo e di una usurpazione, Cosenza, Brenner 1978. Su Seminara cfr. A. PrroMALLI, Fortunato Seminara, Cosenza, Pellegrini 1966.



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: n demonizzano l’innocent e Cata per trarne diverso profitto personale, "aa di Saia che uccide in chiesa il promesso sposo di Cata e, intorno, e prostitute che mirano a rovinare Cata, Micuccio mafioso possidente

che adopera il mondo del « brulicame » per avere in potere Cata. La vita è primordiale: A quell’ora le baracche facevano l’impressione di un enorme brulicame: attraverso gli usci socchiusi si vedevano persone muoversi in una luce incerta; voci di donne, pianti di bimbi, voci rauche e avvinazzate d’uomini; e a ogni

passo tanfate nauseanti. Quelle voci e quei rumori così vicini d’una vita che

non aveva segreti, tutto quel formicolio umano aveva un non so che di eccitante.

In questa primordialità uniforme, priva di articolazioni, Seminara svolge la narrazione in una densità tra picaresca e mandragolesca, con

ferrea tecnica di diplomatica psicologia allorché il Gobbo insegna a Gianni come dovrà agire (« Non ti fidare », « Conviene agire in segreto », « Non

fare conoscere

a nessuno

le tue intenzioni », « Vacci

da te, dimostra d’essere un uomo », « Ma spicciati », « Ce n’è tanti che la vogliono », « Entra e abbracciala »). | In questo romanzo di crudo realismo regionale tutti, miseri e potenti, con le loro chiusure danno l’idea di un mondo senza sbocco. Gli stessi simboli catastrofici, la spagnola, le fiamme, non portano l’idea di

una purificazione. I limiti sono nell’arretratezza del naturalismo a confronto della produzione contemporanea, nel parossismo di morti e distruzioni che ha qualcosa di opaco e invalicabile. Lo scrittore è solitario, dà l'impressione di non potersi appoggiare, sostenere ad alcun tema della sua opera. Il distacco artistico è una cosa, la solitudine è un’altra;

a un certo punto il caso, il destino, ia fatalità non hanno significato se non c’è un punto di vista e a Seminara in questo primo romanzo manca

la razionalizzazione critica di quella che è la nuova cultura in Europa, mancano gli strumenti moderni di analisi dei problemi. Peso naturalistico e peso esistenziale sono ambedue di sostanza retrodatata, l’esito è una eccezionale cupezza che isola l’opera come un ectoplasma ottocentesco. L’anabasi europea qui è mancata. È vero che gli istinti brutali sono nel romanzo l’antitesi del perbenismo privo di problemi della narrativa di Gotta, D’Ambra, Milanesi ma Seminara non ha la forza di creare con materiali nuovi e in relazione alla cultura del tempo. Le pagine di più intensa psicologia, quelle di Stilla pentita, « assetata di sacrificio », desiderosa di scontare il peccato sono retrodatabili al populismo cattolico di ascendenza romantica. —

189—

RS aSTRA dr: Pret

Concludiamo notando un’altra non casuale discronia, quella linguistica. Nel romanzo (nel quale esistono pagine bellissime per limpidezza e tonalità) non sono fusi i due piani linguistici locale e letterario. Seminara crede all’autorità del toscano come lingua letteraria e quale egli lo vedeva esercitato dagli epigoni del regionalismo toscano, di un fenomeno, cioè, ritardato. Le ragazze che incontriamo all’inizio del romanzo nella bottega della Storpia parlano in punta di lingua o come ragazze toscane. I termini cascaggine, macine, capaccina, biacco, atticciato, chic-

che, spulezzare, berci, spregioso, biasciare, imbertonire, ciambolare, rin-

fichita, imbecherare, basire, ghigna, beloni, posola, etc. sono, del resto, del dizionario più che dell’uso parlato e così pure le espressioni avere il baco, dar la berta, fare i fichi, noi si mena, salmisia (= salvo mi sia, Iddio ci guardi!), di abnorme ricercatezza, sono tentativi di nobilitare

letterariamente il realismo paesano: con tutte le conseguenze estetiche che si possono osservare (recitazione mimetica invece di naturalezza espressiva, distacco dalla realtà e fuga nella cruscanteria). Se si giudica questo romanzo acriticamente, cioè fuori della storia, esso esalta il residuo picaresco di un villaggio meridionale; se lo si giudica, invece, sul piano della storia letteraria la resistenza dello scrittore

all’idealismo ottimistico è senz’altro considerevole ma è costituito con i materiali del naturalismo e dell’esistenzialismo ottocenteschi e con detriti linguistici della tradizione toscana. Ma non esiste resistenza, tragica quanto si voglia, che possa usare le precedenti barricate; Seminara si attesta sul naturalismo e avanzerà (con non poche remore) quando il

suo neorealismo, nel secondo dopoguerra, si maturerà confrontandosi con i problemi meridionali del secondo dopoguerra e con nuove tecniche espressive.



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P:

init.

XITI

LA CULTURA

BIOLOGIA

E

CULTURA

POPOLARE NEL « PREVITOCCIOLO » DI LUCA ASPREA

DELL'AMBIENTE

Il Previtocciolo fu scritto nel 1960, quando già la tendenza verso il reale è entrata in crisi. Il trentennio dalla fine della guerra, con gli innumerevoli intrecci di conseguenze in tutti i campi, ha trasformato completamente la società italiana: ceti contadini e artigiani perdevano la loro identità, migrazioni interne e all’estero di milioni di lavoratori modificavano abitudini e comportamenti, i mezzi di comunicazione di massa guidavano consumi, gusti, mode, cultura, linguaggi in funzione del controllo della società di massa che nei suoi diversissimi gruppi accoglieva i termini comuni e medi, già elaborati e preparati, di ciò che doveva essere conosciuto e usato. Per gli usi medi generalizzati si contaminano arti diverse, generi letterari, le tradizioni e i contenuti si rimpastano secondo le destinazioni a cui li designa il neocapitalismo nazionale e delle multinazionali. Nel neorealismo erano confluite diverse tendenze sperimentali (naturalismo, dialetto, lirismo, etc.). Queste esperienze man-

cavano della specificità dei termini della lotta di classe e della poetica realistica. Non bastavano l’antifascismo, il meridionalismo, l’operaismo e la Resistenza, i documenti psicologici e linguistici per creare opere d’arte. Tuttavia il neorealismo fu un largo movimento storicamente motivato e unitario il quale rappresentò nella pittura, nel cinema, nella narrativa, nel dibattito culturale, nel dialetto il fervore di un rinnovamento democratico al quale vennero meno, soprattutto, il consenso di una parte della società borghese (avviata, invece, verso il moderatismo

del riassestamento come base per una egemonia), di una politica di classe (che evitasse lo sgretolamento e la diaspora dei lavoratori meridionali, strumento di superprofitto economico che consentì all’alta borghesia in—

191—

Ser,

R

dustriale di competere con l’industria straniera), di una struttura culturale meno frondosa di formalismi e di diverticoli decadenti. Il Previtocciolo nasce sulla scia del tardo neorealismo come natrazione di denuncia, in lingua fortemente dialettale. La cultura laica dell’Asprea era quella scolastica del seminario di Oppido Mamertina e di Reggio Calabria; nel 1960 egli vuole scrivere un’opera di denuncia del sistema di vita e di rapporti in un seminario che, situato nello spaccato economico e morale di una società arcaica agricolo-paesana degradata della Piana di Palmi, presenta, a sua volta, le contraddizioni di una comunità ecclesiastica arretrata e formalistica. Occorre, perciò, sottoli-

neare la realtà autobiografica dell’esperienza compiuta dall’autore e la realtà squallida del problema del seminario di anteguerra di un’area tra le più depresse della Calabria, la limitata cultura laica dello scrittore completamente estraneo al dibattito neorealistico, sperimentalistico © neoavanguatrdistico (il solo realismo da lui conosciuto fu, in quegli anni, quello cinematografico). La narrazione (di cui la parte pubblicata può essere la decima parte di quella effettivamente scritta) fu definita da Francesco Cordero prefatore, aspra, alluvionale come « una fiumana di dialetto imprecatorio spesso sgradevole, talvolta ingenuo eppure pietoso sotto la ferocia delle immagini speculari »; il libro fu detto « moral mente ispirato, sottile nell’esplorazione dei fatti e degli interni d’anima,

poetico [...], più edificante di mille sermoni dolciastri ». « Edificante » non ci sembra l’aggettivo più adatto perché la narrazione è critica — che è l’opposto di « edificante » — ma il Cordero voleva indicare con quel termine il sentimento di giustizia e di vera religione che ispira l’opera la quale coglie organicamente la realtà del paese e quella del seminario in modi stilistici antitetici a quelli del formalismo, con sferzante ironia e con veemenza dialettale. Già in Calabria Vincenzo Padula — diventato prete per imposizione paterna, per « imperioso duro precetto » — aveva descritto il seminario del territorio di una comunità di contadini come un inferno del sesso e tutta la sua vita si era sviluppata come una conseguenza della collocazione nel seminario. La ribellione in seminario era per Padula conquista della propria individualità, modo di essere libero anche in catene (motivo di Campanella che il giovane Padula fa suo dicendo di sé ribelle: « oh il grande — spirto feroce, ch’ei chiudea nel seno! ») e negli sciolti Alla generosa camerata dei massimi! esalta i compagni che, guidati da 1 In V. PADULA, Poesie inedite, a cura di A. Piromalli e D. Scafoglio, Napoli, Guida 19757



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lui che aveva scritto anche una satira, si erano ribellati contro i superiori. Il Padula rigetta la pedagogia della viltà e della calunnia e inveisce contro le ingiustizie e le prepotenze: Quivi tra ponti a stringerlo di funi e rovinarlo di un castello al fondo feroci sgherri, intrepido ei si offrìa [...] l’oltraggio rozzo rimirar sapea che feasi dei suoi libri, e de’ suoi scritti, ove ei dettava del pensier le leggi ...

Ma è stato zione » sistema capitale

se Padula divenne prete senza vocazione il dramma di Asprea quello di essere diventato « prete sbagliato per eccesso di vocae di avere avvertito come obbligo morale la denuncia di un non ispirato alla santità interiore e che condanna come peccato quello della carne. Precisiamo che l'infanzia di Asprea è tutta

dialettale, di un dialetto conservativo vigoroso e imprecatorio e che me-

diocre, approssimativa e generica fu la sua cultura letteraria classica e moderna, tradizionale e decrepita quella ecclesiastica acquisita in seminario. La cultura, invece, nella quale Asprea nuota come un pesce nell’acqua è quella popolare contadina, particolarmente adatta all’imprecazione, allo sdegno, alla denuncia. La società di Asprea è quella di un paese addossato all’Aspromonte, che rappresenta una via diretta per l’impervio santuario di Polsi costituito, negli anni Trenta, da artigiani,

da una grande massa di contadini e braccianti e da un sottoproletariato di pecorai, captai, porcari, asinai, mulattieri, camorristi, prostitute, etc.

Le strutture dominanti sono costituite dalla chiesa col vescovo e seminario, frequentato soprattutto dai figli di poveri e di ceti medi, dalla camorra organizzata come resistenza flessibile al potere dello Stato fascista del tempo, in realtà come altro potere di gruppi emergenti. Il paese, risorto dopo numerosi terremoti (tra i quali quello del 1783 che lo aveva distrutto e quello del 1908), avverte la storia della propria etnìa nella ° continuità

di incendi, carestie, alluvioni, geli, arsure, tasse, malattie,

2 Polsi è sorto come santuario sul luogo di antiche religioni legate alla natura del suolo (montagne, boschi, fiumi, burroni), ai culti naturalistici del sole, delle pietre e delle grotte, di divinità pluviali, di una divinità mediterranea femminile dalle diverse epifanie. Quei culti naturalistici furono assorbiti, nel territorio, dal cristianesimo e mantenuti soprattutto dalla spirtualità bizantina. Onomastica e toponomastica documentano l’impottanza della grecità bizantina che riaprendo i contatti con il mondo mediorientale « ha fatto riemergere elementi culturali mediterranei comuni ancestrali in seno alla popolazione calabrese » (S. GEMELLI, Storia, tradizioni e leggende a Polsi d'Aspromonte, Reggio Calabria, « Parallelo », 38, 1974, p. 107).

— 13

193 —

violenze, etc. Ognuno di questi elementi è generatore di fratture, perdita di aggregazione, di identità. Il villaggio calabrese di quegli anni contiene una carica di volenza accumulatasi nell’immobilismo, nel bisogno, nella

superstizione sicché per sopravvivere occorre ‘avere diffidenza verso gli altri: « Cu ti sapi, ti rapi » dice la madre del protagonista. Il paese è diviso in « luridi e piccoli quartieri », gli artigiani vivono « tutti indistintamente disoccupati e famelici, privi di tutto, dall’acqua al sale », i braccianti, nullatenenti, « cornuti contenti » vivono nelle luride ba-

racche costruite dopo il terremoto del 1908: il cibo è bestiale (i fagioli sono la « carne dei poveri », gli altri cibi sono zuhe (verdure spontanee), trifaluni (siepi che coprono forre e nidi di serpi), lupini salati, lattughe rubate. La descrizione del modo in cui vivono gli abitanti delle baracche ha un bumus socio-biologico e socio-antropologico. Dei personaggi sono indicate le funzioni che hanno nella società: la madre, « lupa di lavoro », ha la funzione di trasmettere nella casa la cultura popolare, l’etbos di tipo tradizionale (« Il lavoro, per lei, non era vendetta di Dio; ma una

legge bella, giusta, necessaria: esso s’identificava col ritmo del suo sangue e lo desiderava e lo attuava proporzionatamente al ritmo del desiderio (prepotente in lei) di migliorare e di progredire »; il padre, piccolo proprietario, capomafia a New York e in paese, protegge la famiglia e ne custodisce (e vendica, se necessario) l'onore. La natura dell’uomo

deve essere forte perché tutti i paesi sono covi di malavita: « Per vivere in quei luoghi, prima di essere contadini e lavoratori, bisognava essere belve [...]; pronti ad azzannare colui o coloro che davano incentivo alla lotta. Forti e coraggiosi bisognava essere ... ». Dei « piccoli casali feroci » che circondano Oppido l’autore presenta un quadro essenziale parlando dei propri antenati e della squallida vita — dura, patriarcale, parsimoniosa — della fine del secolo scorso e riferendosi particolarmente alle forme di produzione e di economia domestica. I termini che si riferiscono alla casa e all’attività della casa sono presi in prestito dal dialetto. Le strutture culturali sono quelle di un paese pagano e povero. È questa la cultura arcaica e agraria che Asprea genialmente interpreta in tutte le manifestazioni: dal vitalistico appetito sessuale di uomini, animali, vegetali (appetito che domina tutti, laici e preti, uomini e donne, bambini e vecchi) al riso legato alla fecondità e che si esprime in manifestazioni fescennine, alla religione delle processioni solenni, dei santuari, del masochismo che attende il miracolo, ai riti della magia nera e delle « anime decollate », ai riti funebri durante i quali si lamenta la fine delle potenze fisiche e morali dell’estinto. I possibili « excursus »



Modi

antropologici nell’area indicata sono numerosi. La scena in cui la madre, vigorosa e di « spirito aggressivo .e combattivo quanto una legione di Mamertini », taglia la testa con la scure e una cagna vorace che, durante

il pranzo della prima visita di fidanzamento, si era avventata a rubare qualcosa dalla tavola, indica il potere della donna in quella società: ma, da sposata, sopporta le relazioni del marito con altre donne perché il proverbio (ma creato dagli uomini) dice: «I magari su” pedi pedi, — e i mariti su’ d’i mugghieri! ». « Da noi la donna è regina; — commenta il narratore — ma fino a-che lo permette il suo imperatore », il quale è soggetto a diversi condizionamenti: un tale, infatti, nel paese, « dava botte a moglie e figlie, per il solo motivo ch’erano femmine, e gli avrebbero potuto fare le corna ». Soprattutto la donna mantiene la cultura tradizionale. Quando muore nonno Giuseppe e la madre, diventata nera ‘di lutto come il corvo, è distolta (dopo avere esercitato il pianto funebre coi capelli sciolti sulle spalle) dal chiudersi esclusivamente nel dolore, così risponde: « e che abbiamo perduto, nessuno? È morto un sorcio? Abbiamo perduto una colonna, una quercia, un gigante, un padre delle care feste! ».

MAFIA,

SESSO

La cultura popolare si svolge in situazioni e in modi complessi. Essa cerca sia di realizzare le persone secondo forme rispondenti alla loro realtà generale e naturale sia di contestare le imposizioni, le espropriazioni che vengono dall’alto o da fuori e che costituiscono minacce all’individualità soggettiva e collettiva. « Roba del governo, — chi non fotte — va all’inferno! », « Roba della corte, — chi fotte, ben fotte! » dice la gente commentando il danaro rubato dal deputato locale Rocco De Zerbi alla Banca Romana e l’abbattimento del vecchio campanile che i preti avevano compiuto al fine di ottenere ingenti somme di danato per ricostruirlo. L’interesse principale del popolo è l’unione per conservare i propri valori. La mafia, che ha come fine il potere ed è, perciò, contraria allo sviluppo della lotta di classe, tuttavia è presentata da Asprea come una struttura utile a regolamentare gli eccessi e le anormalità di violenza (in una società in cui la violenza scende su tutti dalle ingiustizie operate dalle classi dominanti) oltre che come scuola di libertà e di indipendenza (« Ero convinto che tutti mi dovevano rispetto come ad un uomo. Da parte mia rispettavo i degni e i meritevoli ») nei confronti sia dei sin-

goli che del potere costituito. L’« onorata società » rende gli associati —

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degni e meritevoli, dà loro forza e astuzia nei confronti degli « sbirri » e « zaffi » che « erano i meno adatti a fare giustizia e mettevano le mani sempre sugli innocenti e non li liberavano se non dopo averli rovinati o fatti morire. Maledetti, carne venduta, infami e traditori! ». Un massaro soleva ripetere: Coi carabinieri

mangia e bevi; ma con lor dormir non devi!

« perché nel sonno t’incatenano e ti buttano nella Puliciara, anche se sei innocente. Che si sderegnassero dalla faccia della terra! ». La considerazione che la mafia operi in un contesto popolare sfruttato e che costituisca una risposta allo sfruttamento non impedisce che, quando la cultura mafiosa induce a un comportamento individualistico o di potere, la mancanza di finalità etica la confonda con il potere contro il quale essa dice di volere lottare e che esistano, perciò, sul piano storico, strati

sociali con atteggiamento ambiguo: rivolto al popolo ma anche alle classi dominanti. Il sesso ha parte dominante della vita e della cultura del paese. Il Barillaro, dopo aver sentito che Nuzzo di cinque anni era stato trovato accoppiato con Sarinella, esclama: « Ancora non è nato, e acchiappa femmine ...! [...] Del resto, fa bene [...] Meglio presto che tardi [...] Alla fin fine questo ci resta! ». Più antropologicamente importante è la ‘ madre di Sarinella: « Che abbia mala nova la natura puttana! Phùh! » e sputò violenta. Il sesso straripa, come natura, da tutte le parti; il protagonista vede dovunque « cosce bianche come la ricotta », « palombello tutto rosa », quando le « giovani italiane [...] si abbassavano con le cosce aperte [...] si vedeva tutto », Meluzza è ammirata perché ha le « mammelle quanto due zucche »; anche quando il protagonista è in seminario e studia il latino, il genitivo femzinis = coscia gli fa « galoppare il cuore come un cavallo pazzo ». Dal sesso deriva il linguaggio mimico di un bambino preso in giro da un vecchio (« E, allargando le cosce, fece un cuore coi due pollici, e i due indici sulla fiora »). Ai fini

della liberazione individuale per mezzo del sesso, dove manca la realtà supplisce l’immaginazione sessuale: per i bambini il maestro che parla con la maestra appaga quella e tutte le maestre ma anche il Signore in cielo « si sciala con tutte le sue mogli! » (« Noi ascoltavamo ammirati con la bocca aperta e, carezzati da quei pensieri sensuali, “ Si scialano! ” —

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concludevamo innocenti, invidiando il Signore nel cielo e il maestro

di scuola »). Il pansessualismo della natura è, per l’infante protagonista, a mano a mano che conosce persone, animali e piante, una delle idee fondamentali: « mi accorsi come tutto e tutti, in un modo o nell’altro, fanno all'amore ». Il bambino si sente parte della natura e « le devozioni, le preghiere [ ...] non riuscivano ad addormentare in me il gusto dell’amore, il rapimento della carne ». La legge della natura, ben lungi dal placarlo, lo eccita: « Fra gli animali domestici non c’era giorno che non vedessi realizzare l’amore: i conigli impregnavano le loro femmine e pestavano le zampe anteriori con autorità da mariti [....] Il gallo, quanto invidiavo

il gallo! Le galline nata, dalla mattina gliardo e spavaldo tante femmine, non

a sua disposizione [...] E il gallo *le amava a gioralla sera, ora l’una, ora l’altra. Ed era sempre ga[...] desideravo di essere un gallo! Oltre ad avere ci sarebbe stata paura d’inferno. Avevamo un gallo bello come un carabiniere a cavallo vestito in grande uniforme [...] Si passava tutte le sue galline; poi correva con le ali semiaperte e abbassate, truce e col becco in resta, e raggiungeva le galline di comare Nina e gliele montava tutte. In fine, scrollava le ali come per liberarsi di quei peccati e tornava indietro a ricominciare con le proprie [...] Che spettacolo gentile ed eccitante veder fare all'amore le farfalle multicolori, le coccinelle iridescenti [...] Disgusto e rabbia mi facevano le mosche, quando, facendo all'amore, mi cascavano addosso, sul viso, sulle mani

e, molte volte, dentro il piatto, mentre si mangiava [...] Degli asini, dei cani e dei gatti in amore, oltre che schifo, sentivo paura, perché erano pericolosi. I gatti [...] si dirupavano per le scale e in cucina, come mandre di diavoli ». Dei preti l'adolescente sente dire che « sono preti solo sull’altare! » e che, invece, il prete Trimboli aveva sverginato la sorella del medico perché questi aveva sverginato la sorella del prete, che i canonici Vorluni « impregnavano come due gatti », che il canonico Germanò « acchiappava le femmine a volo, le incantava leggendo il libro del Rotilio e ne faceva quello che voleva ». L’arciprete Montone ha un figlio collocato nello stesso seminario e manda all’amante lontana, per mezzo di una vecchia analfabeta, lettere che vengono lette e divulgate dai ragazzi del paese. Il canonico Guda aveva avuto parecchi figli, vissuti tutti in miseria o al margine della società e, per l’intera loro vita, zimbello di tutti. Nonostante queste proliferazioni dei suoi colleghi, in 3 Del gallo si dice anche che è « bello e gonfio come l’arcidiacono Tripodi quando è vestito in cappa magna ed ermellino ».

RE pe

seminario il prefetto Trippina raccomandava di tenere lontano il volgo perché i suoi appartenenti « zor sapiunt [...] Il popolo bruto, carnale, non può gustare le cose dello spirito, le cose di Dio ». Dominatrice, gran madre pansessuale delle civiltà arcaiche mediterranee è la donna (finché le norme patriarcali non la fanno entrare in potere del marito, della famiglia): Lella va cercando il « maschio pet possederlo », « Ntonarella al bagno alla cascata, nuda, provoca il protagonista (« Ero di fuoco, tremavo come una foglia, mi lacrimavano gli occhi, non vedevo più, vedevo appannato. Le tempie infuocate mi scoppiavano »), Tota incontrata in un vallone mentre raccoglie olive, provocatrice con le sue battute, conduce e schiva opportunamente la vicenda di amore, Ntonarella e Titinella quando vedono Nuzzo vestito da seminarista intonano canzoni popolari di sdegno e di amore, molte ragazze amate dall’adolescente lo deridono quando lo vedono, il giovedì santo, vestito da seminarista, nelle vacanze estive a Bagnara Concettella dice al previtocciolo: « anno scorso, eri ndiavolicchio [...] ora, di colpo, sei diventato nseculoru ammenni! », Paolina seduce il seminarista e lo con-

siglia: « Non tornare in seminario! Manda tutto a far fottere! Sarai un professionista come tanti altri e ti sposerai ». Anche i soprannomi femminili (Pansallaria, Paraminchia) si richiamano al sesso.

MAGIA,

RELIGIONE

Altri elementi liberatori dalle persecuzioni ossessive da parte delle potenze maligne — caratteristiche dei paesi ad economia chiusa — sono il rito del malocchio che allontana malattie e cattivi eventi, la predizione del futuro mediante l’osservazione di fenomeni contingenti e l’uso di formule salvifiche che danno fiducia in un equilibrio naturale da ricostituire o da mantenere, la magia nera mediante la quale si può sopprimere una persona o liberarla dall’incanto. Un esempio classico di quest’ultimo rito è nel romanzo la scoperta, da parte di una maga, sotto le tegole di un tetto, di un limone pieno di chiodi il cui imputridimento sarebbe stato contemporaneo all’estinzione della persona ai cui danni era stato fatto l’incanto. Ognuno dei fenomeni magici è rivelatore di ansie, pericoli, disagi, speranze individuali e sociali in relazione alla realtà socio-economica. Quando le classi popolari sono protagoniste rompono il cerchio magico e si riappropriano della capacità di agire che, invece, in condizione di oppressione, è legata alle forme tradizionali di resistenza contro le —

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aggressioni di qualsiasi genere. Anche la religione è vissuta come un

elemento scenico e, come tale, criticata dall’Asprea. L’autore, pur esprimendo il suo dramma di uomo che avverte l’eros

secondo la cultura popolare della sua etnìa e aspira alla vita religiosa come perfezione e santità (motivi che derivano da temi ideali di palin-

genesi religiosa presenti dal medioevo nella sua regione), distingue la religione come alienazione da quella come speranza dei poveri. È questa, infatti, la radice dell’opera. La religiosità popolare a Oppido, agli inizi di questo secolo, si esprimeva, nella festa dell'Annunziata, con canti di pastori che intonavano « Marzu, ogni stroffa è jazzu! »* e suoni di tamburi, pifferi, tamburelli e per il giorno della festa cadevano le leggi di clausura del monastero oppidese. Le feste di cui parla Asprea sono diverse da quelle del cattolicesimo ufficiale, derivano dall’incontro della .creatività festiva con l’inizio o con momenti delle attività lavorative nelle campagne o con esigenze di carattere economico (fiere, mercati) ma l’Asprea contesta la gestione non autentica, nelle feste, della religione e la mescolanza del momento religioso con quello ludico sotto aspetto visivo, scenico, teatrale. Certamente le feste religiose sono un momento

di solidarietà interna della popolazione, di speranza di giustizia e di salvezza individuale e collettiva, il culto dei santi — intesi come demiur-

ghi — conserva elementi di espressionismo e di esteriorità (come nelle iconografie i santi sono rappresentati nei caratteri connotativi delle loro imprese, dei miracoli usati pet proteggere i fedeli). Tuttavia la gestione delle feste (devozioni, pellegrinaggi, processioni, etc.), anche desumendo dalla cultura popolare un certo numero di temi e di rappresentazioni, mantiene arcaiche visioni del mondo che sopravvivono ai profondi mutamenti della società meridionale. L’ambiente domestico trasmette la religione tradizionale e il protagonista vive l’infanzia in una dialettica continua di memorie di santuari, devozioni, grazie, miracoli, voti, pene e fuoco del Purgatorio, congrega-

zioni, statue di santi, si taglia i capelli « a cucuruni » per rappresentare più veristicamente il giovedì santo il Cristo con la corona di spine che fa sanguinare la testa. La vocazione religiosa prorompe da questa incubazione ma come desiderio di possedere la verità mentre la vita del seminario gli scopre la mediocrità umana; privata, culturale dei preti (« Si-

gnore: perché hai fatto così anche i sacerdoti? » grida il giovinetto che

si attendeva esempi viventi di santità), gli fa avvertire la teatralità delle

4 G. Picnataro, nova, Formica 1975.

Il culto di Maria SS. Annunziata



199—

in Oppido di Calabria, Tauria-

processioni, le finzioni delle beghine (« affettate, finte, stupide, pregavano preghiere ad alta voce, non sentite, tra forzati gemiti e una volontà cocciuta di lacrimare per essere viste, ammirate »); la notizia che i preti

di rito greco possono sposarsi gli fa concepite la convinzione che in quello stato egli avrebbe potuto essere perfetto sacerdote (« Perché in Grecia si può andare in paradiso abbracciati con una donna, ch’è propria moglie ...? ») e gli fa criticare aspramente l’ideologia che considera peccato fondamentale quello della carne. L’Asprea nella sua polemica grida contro le autorità religiose che guardano ai cattolici come a una specie di terreno di conquista invece

che come a valori da far confluire in un progetto umano. Perciò lo scrittore insiste sull’impostazione arcaica della cultura del seminario, sulla proibizione di leggere un libro di filosofia che non fosse quello della scolastica: « avere un altro testo di storia della filosofia significava non avere vocazione ».

LETTERATURA,

DIALETTO

E

LINGUA

La narrazione di Asprea è quella di un isolato e il libro rappresenta, come altre opere della letteratura calabrese (le poesie di Campanella, di Padula, di Calogero, di Costabile, il romanzo di Giovanna Gulli) anche

un documento umano della solitudine o di un dramma vissuto in prima persona. Il dramma di Asprea è vissuto all’interno della chiesa (problema del matrimonio dei preti, dell’organizzazione dei seminari, della preparazione alla vita religiosa) ma al di fuori dell’idea che l’istituzione religiosa coltiva la rassegnazione per rimandare le attese di giustizia sociale. Non che il sociale e il politico manchino in Asprea; il fascismo, il clericofascismo, la guerra, la miseria sono condannati e i fatti politici costellano la narrazione fin da quando « Mussolini stava restando povero e pazzo per costruire chiese in tutta Italia, volendo farsi amici preti e papa » ma mentre lo scrittore tocca le radici antropologiche della religione e della vita popolare, non giunge ad affermare organicamente — sia sul piano ideologico che su quello artistico — una società egualitaria e un legame unitario di tutte le forze intellettuali meridionali, anche religiose, operanti nella società meridionale. I temi della narcotizzazione della coscienza popolare esercitata dalle gerarchie religiose avrebbero dovuto essere collegati con la realtà sociale per non restare soltanto un elemento indicativo, ma inerte, della remissività degli oppressi e per fare ascendere sul piano nazional-popolare la —

200—

creatività della religione popolare fatta di attese e di speranze ma anche di capacità realizzative che non si esauriscono sul piano consolatorio. Questo elemento deve essere sottolineato soprattutto oggi, quando assistiamo — in conseguenza della crisi culturale, economica, sociale, politica del mondo occidentale industrializzato — a un riflusso eterogeneo di mitologie ‘carismatiche, parareligiose, che sono, quanto meno,

da cor-

reggere, se non da rigettare, qualora non conducano a una. presa di coscienza sul significato che oggi l’esperienza religiosa deve avere in una realtà di problemi sociali e di lavoro concreto. Pur con questo limite l’opera di Asprea è una lettura antropologica e critica — non archetipica né simbolica — della cultura arcaica di un paese della sua infanzia, del mondo contadino meridionale. Dal punto di vista antropologico l’opera è incentrata sulla contrapposizione fra eodice sessuale contadino e morale cristiana, riti magici e religione ufficiale, tribunale della mafia e giustizia repressiva dello Stato, con diverse

posizioni intermedie a mano a mano che il protagonista viene evolvendo la sua mentalità e viene esercitando la sua critica: l’opera rimane preziosa, e unica, in quanto esprime la concezione della vita popolare vista, e vissuta, da un infante il quale registra anche le posizioni degli adulti. La narrazione, con i suoi volumi pieni, con la sua barbarica vitalità e

con la concentrata rappresentazione ossessiva dell’eros ha una forza eversiva fondata sulla concretezza della lingua e sul sapore terragno del dialetto. La specificità letteraria dell’opera è nell’uso di un dialetto che nasce dalle cose, adatto a denunciare le condizioni innaturali di vita, il

sistema educativo arretrato e ambiguo del seminario, privo di sbocchi democratici e partecipativo, ma anche adatto a esaltare l’integrazione sociale del sottoproletariato

(braccianti,

prostitute,

sceccari,

camotri-

sti, etc.) nella società contadina. Le metafore dialettali fioriscono a ogni pagina, come: avere le « fannacche alle giunture » per dire florido; « non gli sfuggiranno i cetrioli nella cetriolata » per dire che ha gli occhi svelti e la vista penetrante; « cresce un giorno per due » per dire il vigoreggiare crescente delle forme fisiche; « fare la zuppa e la ninna nanna » agli ulivi per dire la cura agricola alimentare che si ha per gli ulivi; « siamo come vermi nel cacio » per dire che non ci manca niente; « bollire la barda » per dire di donna che ha desiderio di uomini; mangiare « pane e coltello » per dire mangiare senza companatico; « mi potrei pigliare il Signore » per dire che si è digiuni, etc. Il dialetto usato nel contesto da Asprea è un dialetto conservativo, quello della sua infanzia e adolescenza (Asprea è nato nel 1923), non ancora

toccato dal decadimento —

della funzione comunicativa 201—

(del dia-

r ca

letto) ma ancorato, anzi, al tipo di consumo di un mercato tradizionale precapitalistico, autarchico. Le attività economiche di base, oltre quelle agricole dell’olio e del vino, sono ancora la bachicoltura, la coltivazione e la lavorazione del lino, della canapa, la filatura, la tessitura; gli attrezzi di lavoro agricolo sono quelli patriarcali, oggi scomparsi; questo dialetto, studiato da alcuni specialisti su base geolinguistica, per essere compreso nel suo profondo significato ha bisogno di essere studiato su base sociolinguistica. Il dialetto di Asprea è quello rimasto compatto in seguito al pertubarsi della società agricola arcaica; in appendice all’opera c’è un glossarietto che traduce i termini dialettali ma in questo glossarietto non sono compresi che pochi termini usati nella narrazione. Esaminando l’elenco generale dei termini e, per ciascun termine, considerando gli elementi lessicali difformi più tardi compresenti al significato (o allora patzialmente compresenti) si deduce che il termine usato dall’Asprea costituisce la fase conservativa, l’altro (o gli altri) quella innovativa la quale indica l’influenza del superstrato. La conclusione è che il dialetto di Asprea, che scrive nel 1960, è

quello degli anni Trenta, parlato dal mondo contadino contemporaneo, dai pastori, dai sottoproletari; in esso prevalgono le forme comunicative affettive — dall’improperio alla bestemmia, all’amore, al piacere, etc. — di una società chiusa assai tradizionale, gli elementi sintattici e linguistici di fondo sono di origine greca (il rito greco è stato mantenuto a Oppido fino al 1301). Centinaia di termini dialettali sono trasportati in lingua italiana o sono mantenuti tali e quali, di essi non pochi oggi sono scomparsi. Ne indichiamo taluni tra i più peculiari dell'economia contadina: trifaluni = grovigli di arbusti spinosi; scitazzello = cesto basso quadrato o rotondo; carzzzaruni = pianta velenosa; spàlis (più corretto: spdlassi) = ginestre spinose; còfrazu = terreno duro e granuloso; r4c4 = culla;

guta = pane pasquale con uova sode; pappà = nonno; grasta = vaso da fiori; dcara = forza, che sono di origine greca; fazzacca = collana;

gazzana = stipo a muro; cassàra = sciupìo; limzba = scodella di creta; gambitto = gora scavata, riempita di felci, per piantatvi pomodori, che sono di origine araba; frisa = pane biscotto tagliato in parti; frastinaca = ravanello; racàtula = dolce casalingo; rovàci = bigoncia per il trasporto dell’uva; zizzbone = ripostiglio per le olive; ferlazz4 = cesta con orlo basso; frandìna = tela fina (da tela di Fiandra); faddàle = grem-

biule; fragulèu = malaugurio (da fràgulu-= flauto), etc. La lingua adoperata è la traduzione da un dialetto aspro, gridato, iperbolizzato dalla primitiva psicologia dei personaggi in senso drammatico, caricaturale, derisorio. Le metafore sono in funzione della cor—

202—

posità della materia — che ha anche un secondo piano di sentimenti delicati e di espressioni omologhe = e dell’energia che si deve sprigionare dai fatti narrati. Tutto ciò che si riferisce al corpo fisico vitale e al corpo della società rurale è esaltato come benefico e salutare ma la società rurale soffre di violenza e di scompensi sicché alle continue rotture cotrispondono stilisticamente implicazioni potenti, anche nell’esaspetato esibizionismo, con cui si augura il danno e la distruzione della persona fisica (« La noce del collo, coppola santissima! », « Che vi bruciassero vivo con l’ogliopetroglio! », « Male che vi esca nelle mani », « Che gli caschino le braccia come pere cotte dallo scirocco », « Che gli togliessero i budelli dalla pancia! », « Botta d’àcitu », « Che vi spacchi a due pezzi, santo ceravolo! », etc.). Devastazione, dolore improvviso, deformazione

del corpo umano — massimo bene e massima risorsa in una società in cui la validità fisica è la base della resistenza ai mali e alle avversità — sono augurati come mali in sé o come preludio di morte. Integrità fisica e salute derivano dal mangiare: molte imprecazioni augurano che si rompa il circolo fisiologico, demoiattico, invocano indigestione, male di stomaco. Il dialetto non è inserito ma sfuso, sciolto con la sintassi, con gli

aneddoti fescennini, con il potente grottesco, in simbioso mimetica con la realtà dei personaggi. Tale dialetto, impastato con la lingua — e ben diverso da quello delle raffinate composizioni di Gadda — rappresenta il massimo grado di inventività e creatività del regionalismo dialettale novecentesco calabrese; ad esso si può aggiungere soltanto il dialetto usato da Pasquale Creazzo nelle sue poesie. Ma al di là dei semplici termini e delle semplici espressioni del dialetto bisogna notare che il dialetto corrisponde funzionalmente, in modo integrale, alla comunicazione dello sdegno contro l’inganno subìto dallo scrittore, delle sue delusioni e del suo ammirato stupore delle bellezze della vita, del sesso,

-

dell’amore, della natura, escluse e condannate dal corporativismo e dall’esclusivismo dell’istituzione religiosa. Il fenomeno linguistico-artistico della narrazione di Asprea è unico nella letteratura di quegli anni in quanto rappresenta l'immersione dello scrittore nella cultura popolare, la sua identificazione con essa (che diventa l’antitesi di quella razionaltomista o di quella discriminatrice del seminario) ma rappresenta anche una forma di espressione realistica del massimo interesse in quanto coincide con la richiesta di realismo che veniva nel dopoguerra da tutte le regioni italiane intese a salvaguardare le loro caratteristiche etnolinguistiche fondamentali e offre la soluzione democratica del problema della lingua quale si poteva avere dopo la guerra e la Resistenza. —

203—

Queste coincidenze non sono state prese in considerazione dalla critica letteraria perché questa era scarsamente attenta ai problemi linguistici della cultura regionale e ai suoi rapporti con la letteratura nazionale ma anche perché nel 1971, quando il libro apparve, la linea politica moderata aveva avuto il sopravvento. Oggi possiamo dire che la soluzione linguistica proposta dall’Asprea — il rinsanguamento della lingua italiana con il dialetto della cultura popolare —, la partecipazione del popolo con i suoi strumenti culturali alla cultura nazionale, veniva ancora una volta (come dopo importanti eventi modificativi, storici o istituzionali quali l’Unità d’Italia, la nuova società uscita dalla prima guerra mondiale, la Resistenza e la lotta di popolo) elusa e accantonata. L’opera da noi esaminata e storicizzata come documento di un momento di bassa vita civile e culturale di un paese del Sud non ebbe fortuna anche — aggiungiamo un altro motivo — perché apparve quando si ricristallizzava il sistema di potere con la deformazione statale di tipo corporativo e assistenziale e quando lo sperimentalismo più variegato serviva anche a evitare scelte culturali. Oggi, in una situazione socio-culturale tanto diversa, l’opera esaminata può servirci come stimolo per creare condizioni innovatrici nella crisi e nella cultura, per sollecitare gli aspetti non retoricamente progressivi contro gli appiattimenti, i

compromessi, i conformismi a cui anche molte forze culturali avanzate soggiacciono.

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Boccaccio G., 129, 130, 131. Bodrero E., 152. Bosco U., Da) Bravetti G., 17 n., 64 n., 149n. Brognoligo pel 26, Brooke J., 91 Buccarelli R., 117. Butera V., 6. Byron G., 39.

L., 165 n.

-Alfieri V., "104, 111, LIS,

Alterocca "Ae Alvaro C., 45 Ambrosini Da Ambrosoli F.,

31 n. e n., 127, 187 e n. 29) 26.

Ammirà V,, dI 117-134, 176, 186.

Cairoli G., 113. Calogero L., 200. Campanella T., 47, 48, 192, 200. Canello U. A., 26. Cantimori D., 156. Cantù C., 62. Carducci $ 26,33; 42, SIRIO Carloni L., v. De Nardis L, - Casalinuovo G., 42, 167. Casinialit264 31 n. Cavallotti F., 113. Cechov A., 186.

Sem Tea Angiolieri

125.

AnileA ic I sa Ariosto ind 29:33, — Asor Rosa A,, 34.

Asprea, 6, 191-204.

Bacci C., 26, 27, 28, 31 n.

Cesareo G. A., 26, 27, 31n.

È

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Luni

Chimenz S.A., 135, 136 n., 13750595 Chiurco G. À, 44 n. Cian V., 26. Cicetuacchio, 104. Claudel P., 186.

Balsimelli È 150. | Balzac O., 186. Barberi Squarotti G., 143n., 145n. Barbi M., sd 2 Bartoli À. Bassi U., hi

Collodi C., 71-81.

© Battarra G., 63, 64 e n., .65, 66, 67, 69, 70, 148, da 158.

Beltramelli re 14, 44, 63, 67, 149. Benussi C.,;177n, 181.

Comparetti D., 26. Conia G., 47, 174, 175. Contini G., 140 e n. Consalvi E., 53. Coppino M., 86. Cordero F., 192. Cordopatri F.P., 120. Costabile F., 200. Costanzo G; 174 Cozza M., 49, Creazzo P., 6, 20 e n., 21, 47, 163-176, 18 eum 203.

Croce # 10027, 28829830055) 72 e n., 73, 148, 161. Crocioni Gi 16 e n.



205—

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3, 42, sa i

Da Fiore G., 47. D’Ambra L., 189. D'Ancona A., 31 n. D'Annunzio G., 24, 136, 186. Daverio F., 106. Da Verona G., 86. De Amicis E., 137, 186.

Giordano B., 121. Giovagnoli S., 100. Giuliotti D., 186. Giusti G., 58, 71. Gotta S., 189. Gozzano G., 86, 88, 93 n. Gramsci A., 25, 26, 33, 38, 162, 183 e n.

De Chiara S., 43 e n.

Guadagnoli A., 57, 58.

Degli Uberti F., 27.

Guerrazzi F.D., 115.

De Filippo E., 51, 52.

Guarini G.B., 27.

Deledda G., 186. Della Volpe G., 33.

Gulli G., 200. Gury, 172.

De Lollis C., 29. Del Pelo Pardi G., 157. De Nardis L., 141. De Robertis G., 29, 30. De Roberto F., 9. De Sanctis F., 37, 38, 39, 40, 120. De Zerbi R., 195. Di Giacomo G. A., v. Vann’Antò. Di Giacomo S., 18, 19.

Herzen A., 99. Hugo V., 106, 115, 186. Kafka F., 182. Jandolo E., 156. Joyce J., 182, 185.

Donadoni E., 31 n.

La Farina G., 104.

Duprè G., 71.

Leone XII, 53. Leoni F., 53 n., 54 n. Leonardi L., 70, 150.

Dostoiewski F., 186. Donnu Pantu, v. Piro D.

Lenin V., 155, 158. Leone De Castris A., 32 n., 34 n.

Egidi P., 26.

Esiodo, 158.

Leopardi G., Leopardi M., Lorenzini P., Luperini R., Luzio A., 26.

Falcone G., 120. Farini L.C., 111. Fichte G., 42. Filopanti Q., 100. Finzi G., 26. Fiorentino F., 115. Flora F., 31.

14, 33, 42. 54. 71 e n. 177 n.

Magri S., 72. Malaparte C., 15 e n. Malatesta S., 158.

Fogazzaro A., 29.

Mameli G., 98, 106.

Fornaciari R., 26.

Mancini

Fortini F., 129. Foscolo U., 104.

Mancini P., 185 e n. Mancuso N., 173.

G., 49.

Francesco II, 111, 170. Frati L., 26. Fucini R., 186.

Mangano V., 11. Marchetti G., 54. Marinelli F., 53 n.

Fumian C., 157.

Mariotti A., 150.

Fusinato A., 105.

Martinelli L., 185 n.

Martino A., 11, 47, 117, 170, 171, 172, 176, Gadda E., 178, 203.

186.

Galati V.G., 37, 121, 123. Galletti A., 28, 31n. Galluppi P., 121, 123. Garibaldi A., 104, Garibaldi G., 54, 56, 59, 97-115. Garibaldi M., 98. Gaspary A., 26. Gemelli S., 193 n. Gerace V., 41, 42, 186. Geymonat L., 33. Giannini G., 26, 132. Gide A., 182, 185. Gioberti V., 59.

Marvasi D., 117. Masina A., 99, 106, 113. Massari G., 47. Massera A. F., 26. Matteotti G., 167. Mazzatinti G., 26. Mazzini G., 59, 103. Mazzocchi Alemanni N., 156. Medin A., 26. Menghini M., 32. Mercuri M., 173. Mestica G., 26. Milanesi G., 189.



206—

Mileto C., 173. Milone P., 176.

Bio. (VID 53) PIORVIEIN95: Pio IX, 63. Pirandello L., 9. Rifo Dagr47. Piromalli A., 17 n., 20n., 40n., 64n.,9n,, 1530, 1377, An 0a 188 n., 192 n.

Minghetti M., 55. Miotto M.G., 113. Misasi N., 40 e n., 41, 120, 186. Misefari B., 165. Momigliano A., 29, 30, 31. Monaci E., 26. Moneti F., 149, Montanari U., 10 n. Monti V., 42. Morandi L., 31 n. Morano R.M., 183 e n. Moravia A., 184, 185. Morelli M., 118. Morello V., 186. Morosini E., 106. Morsolin B., 26. Muscetta C., 151 e n., 162. Mussolini B., 152 e n., 153, 200.

‘Piazi 1” 26.

Pompei M., 156. Pratesi M., 186.

Prati G., 62, 105. Pratolini V., 18. ErotettilRMAl17i Proust M., 182, 185. Pugliese E., 22 e n, Ramorino G., 106. Raniolo G., 29, Rava L., 16. Razza L., 156. Renier R., 26, 27.

Napoleone III, 111. Nardi G., 63 n., 149 n. Nieri I., 151 e n. Nievo I., 105, 114. Nigra C., 132. Novati F., 26.

Renzi P., 63. Ricci C., 34.

Ridolfi C., 62. Rigutini G., 75 e n. Risso G., 106. Rossi P., 7, 14, 17, 53, 55-70, 149} 1500158? RossisVat25 820827283 l'nBl561

Omero, 148. Ortona O., 117.

Ruffini G., 71. Russo F., 18. Russo L., 31.

Oudinot N.C., 99.

Padula V., 48, 117, 192 e n., 193, 200. Paietta G., 165. Pananti F., 57. Pancrazi P., 72 e n. Pane M., 176.

Panzini A., 14, 63, 67, 147-162. Papini G., 28, 186. Pappalardo A., 11. Parducci A., 26. Parenti M., 72. Parravicini L. A., 75. Parzanese P.P., 62.

Pascoli G., 24, 41 e n., 42, 135-145. Pasolini P.P., 18, 21. Pavese C., 185. Pelaez M., 26. Pelaggi B., 12, 117, 176, 186. Percopo E., 26. Pergoli B., 132 n. Perri F., 177-184. Perugini P., 51. Petrarca F., 10. Petrini D., 29. Petroni G., 100. Petronio G., 25 e n., 35, 86 n., 92, 185 n. Piccolomini A., 129, 130. Piccolomini E.S., 122. Pignataro G., 199 n.



Salgari E., 83-96, 98. Salinari C., 34. Sansone M., 31. Santagata S., 51. Sapegno N., 31, 33, 34. Scafoglio D., 20 n., 40n., 192 n. Scalfari E., 120, 121. Scarpellini A., 135 n. Schmid C., 72. Scott W., 106, 115. Segre C., 21. Seminara F., 165 n., 184-190. Serao M., 186. Sereni E., 14, 54 n. Serpieri A., 156. Serra R., 67, 154. Siciliani L., 42, 186. Smiles S., 73. Sofia Alessio F., 186.

Soffrè F., 167. Sue E., 106, 115. Svevo I., 178, 185. Tallarico C.M., 26. Tassinari G., 156. iWhouargNPst,.le Tilgher A., 42.

207—

Timpanato S., 33. Tolstoi L., 186. Tommaseo N., 62, 149. Torraca F., 26, 31 n. Toschi P., 141 n. Tozzi F., 178, 185, 186.

Venturi G. A., 26. Verga G., 9, 184, 186. Vieusseux G. P., 62. Villa G., 15, 16, 17 e n., 60, 61, 64n.,, 6770, 149 n., 160. Viola R., 135 e n., 136, 137.

Trebbi G., 70, 150.

Virgilio, 148.

Trombatore G., 29, 32 e n., 135, 137 e n.,,

Vittorini E., 18, 184, 185. Vittorio Emanuele II, 55, 167. Voltaire F.M., 99.

159:

Tropea S., 51. Turgheniev I., 186. d'urti.Vi,.26:

Wiese B., 26.

Zaccagnini G., 26. Zambianchi C., 106. Zanella G., 26. Zangheri R., 15 n., 55 n., 156 n.

Umberto I, 72. Ungaretti G., 29, 30.

Vann’Antò, 18. Varese C., 162. Ventura G., 54.

Zola E., 186.

Zonta G., 31 n.



208—

INDICE Prefazione I. LETTERATURA II. LA CRITICA

DIALETTALE ACCADEMICA

E LETTERATURA E LA SOCIETÀ

III. « CALABRESITÀ » E CULTURA

POPOLARE

NAZIONALE

»

DI MASSA

»

.

Il « romanticismo naturale » calabrese di De Sanctis e la sua

genesi letteraria 3 Pascolismo in Calabria lea

»

a ona delli affetti domestici. Etica del classicismo in Vincenzo Gerace . « Calabresità » come

estetismo

.

.

D

La cultura popolare . . . Rapporto tra letteratura e Calata nopolare : IV. Pietro

ROSSI

POETA

CONTADINO

Lo Stato pontificio, la Restaurazione, l’età postunitaria . Le rime sacre

.

:

Pietro Rossi e la udine Salo Il Ceccone ERE fenettoantadino = a MOMIOLLODI.

i,

LA LIBERTÀ, ÎIL- SISTEMA...

VI. MOTIVI DI NARRATIVA DELLA MALESIA» .

VII. GirusEPPE GARIBALDI

WIELISSUINCENZO AMMIBÀ-.

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POPOLARE NEL CICLO DEI « PIRATI ; ; £ . : ; Pala :

»

.

»

POPOLARE

SCRITTORE

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.

.

.

a

. La Ceceide e la società del suo tempo . Beffa, naturalità e compensazione erotica. La tadizione delIR A SIR SPORE

— 14

209 —

»

117

»

LEI

»

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Beffa je nataralità in \Ngage ha MORO, Eros come

grazia e compensazione

129 152

a

nella Rivigliade

.

IX. IL « RITORNO A S. MaAuRO » DI GIOVANNI PASCOLI

.

»

195

»

147

»

163

. CULTURA CLASSICA, RURALE E POPOLARE DI ALFREDO PANZINI

XI. PASQUALE

CREAZZO

Naturalismo e società Creazzo e Antonio Martino

Il poeta del comunismo

; .

pan

oolizidhz4o

:

.

»

163 170 173

»

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»

191

»

e

VI

COR I]

»

XII. DISCRONIE CULTURALI IN FRANCESCO PERRI E FORTUNATO SEMINARA

.

XIIE LA CULTURA ISPREAIT

e

POPOLARE aL.

NEL

« PREVITOCCIOLO » DI LUCA

Biologia e cultura dell'ambiente. . Mala sesso n, Mt one Masia, religione ; A atta Letteratura, dialetto e ia dp Indice dei nomi

.



210—

. . +. a A E OA RI

»

191 195 198 200

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205

» » »

Lo stesso autore ha pubblicato:

Antonio Fogazzaro e la critica, Firenze, La Nuova Italia 1951; La cultura a Ferrara al tempo di L. Ariosto, Firenze, La Nuova Italia 1952: II ed. Roma 1975; Motivi e forme della poesia di L. Ariosto, Firenze-Messina, D'Anna 1953; La poesia di G. Pascoli, Pisa, Nistri-Lischi 1957;

Fogazzaro, Palermo, Palumbo

1959;

Aurelio Bertola, Firenze, Olschki 1959; L’Arcadia, Palermo, Palumbo

1963; II ed. 1976;

Dal Quattrocento al Novecento, Firenze, Olschki 1965; La letteratura calabrese, Cosenza, Pellegrini 1965; II ed. Napoli, Guida 1977;

Giuseppe Parini, Firenze, La Nuova Italia 1966; Fortunato Seminara, Cosenza, Pellegrini 1966;

Saggi critici di storia letteraria, Firenze, Olschki 1967; Carlo Michelstaedter, Firenze, La Nuova Italia 1968; Grazia Deledda, Firenze, La Nuova Italia 1968; Ariosto, Padova, Radar 1969;

‘ Studi sul Novecento, Firenze, Olschki 1969; Indagini e letture, Ravenna, Longo 1970; Disegni storici e aggiornamenti critici, Cassino, Garigliano 1971; Ideologia e arte in G. Gozzano, Firenze, La Nuova Italia 1973;

Miti e arte in A. Fogazzaro, Firenze, La Nuova Italia 1973;

Guido da Verona, Napoli, Guida 1976; Società e cultura in Calabria tra Otto e Novecento, Cassino, Garigliano 1979;

Albino Piero, Cassino, Garigliano 1979; Società, cultura e letteratura in Emilia

e Romagna, Firenze, Olschki

1980;

Cosenza, Inchiesta attuale sulle minoranze etniche Brenner 1981; La storia della cultura a Rimini nell'Ottocento, Rimini, Ghigi 1981; e linguistiche in Calabria,

Nino Pino, Palermo, Edikronos



1982.

211—

ha curato i seguenti testi: F. De SancTIs, Storia della letteratura italiana, Bologna, Capitol 1961; C. GoLponI, La Locandiera, Torino, Pettini 1961; VII ed. 1975;

V. ALrierI, Saul, Padova, Radar 1968; F. DE SANCTIS, Scritti critici e letterari, Cassino, Garigliano 1971;

V. PApuULA, Cronache del brigantaggio, Napoli, Athena 1974; V. PapuLa, Poesie inedite, Napoli, Guida 1975; V. AMMIRÀ, La Ceceide, Napoli, Athena 1976; N. GIUNTA, Poesie dialettali, Reggio Calabria, Casa del Libro 1977;

Terre e briganti, Firenze, D'Anna 1978; L’identità minacciata, Firenze, D'Anna

1978;

P. P. PasoLINI, Volgar’ eloquio, Napoli, Athena 1976; V. AMMIRÀ, Ngagghia e Riviglieide, Cosenza, Brenner 1979.

dirige: la collana « Il Portico », Ravenna, Longo;

la collana « Altracultura », Firenze, D'Anna;

la collana di« Testi calabresi », Cosenza, Brenner.

ha diretto:

la collana « Studi di letteratura calabrese », Cosenza, Pellegrini.



212—

stampare nel settembre 1983 Tiferno Grafica

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