Lettera agli Efesini. Introduzione, traduzione e commento 8821570908, 9788821570902

Testo greco a fronte. In questa nuova traduzione della Lettera agli Efesini annotazioni e commento sono scanditi secondo

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Lettera agli Efesini. Introduzione, traduzione e commento
 8821570908, 9788821570902

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ALDO MARTIN è presbitero della diocesi di Vi­ cenza in

(4 giugno 1994). Ha conseguito la licenza Re biblica (3 aprile 2000) e difeso la ricerca

dottorale (26 ottobre 2004) presso il Pontificio Istituto Biblico in Roma. Educatore degli studenti di Teologia del Semina­ rio Vescovile di Vicenza, è docente di Sinottici­ Atti, Letteratura paolina e Letteratura giovannea presso la Facoltà Teologica del Triveneto. Dal 2008 è responsabile della direzione dello Studio Teologico e delle Scuole di Formazione Teologica della diocesi di Vicenza.

Copertina: Progetto grafico di Angelo Zenzalari

Presentazione :';UOVA VEHSIONE llELL/1 BIBBL\ DAJ TESTI ANTICHI

L

a Nuova versione della Bibbia dai testi antichi si pone sulla scia di una Serie inaugurata dall'editore a margine dei lavori conciliari (la Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali), il cui primo volume fu pubblicato nel 1967. La nuova Serie ne riprende, almeno in parte, gli obiettivi, arricchendoli alla luce della ricerca e della sensibilità contemporanee. I volumi vogliono offrire anzitutto la possibilità di leggere le Scritture in una versione italiana che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza tuttavia rinunciare a una buona qualità letteraria. La compresenza di questi due aspetti dovrebbe da un lato rendere conto dell'andamento del testo e, dall'altro, soddisfare le esigenze del lettore contemporaneo. L'aspetto più innovativo, che balza subito agli occhi, è la scelta di pubblicare non solo la versione italiana, ma anche il testo ebraico, aramaico o greco a fronte. Tale scelta cerca di venire incontro all'interesse, sempre più diffuso e ampio, per una conoscenza approfondita delle Scritture che comporta, necessariamente, anche la possibilità di accostarsi più direttamente ad esse. Il commento al testo si svolge su due livelli. Un primo livello, dedicato alle note filologico-testuali-lessicografiche, offre informazioni e spiegazioni che riguardano le varianti presenti nei diversi manoscritti antichi, l'uso e il significato dei termini, i casi in cui sono possibili diverse traduzioni, le ragioni che spingono a preferirne una e altre questioni analoghe. Un secondo livello, dedicato al commento esegetico-teologico, presenta le unità letterarie nella loro articolazione, evidenziandone gli aspetti teologici e mettendo in rilievo, là dove pare opportuno, il nesso tra Antico e Nuovo Testamento, rispettandone lo statuto dialogico. Particolare cura è dedicata all'introduzione dei singoli libri, dove vengono illustrati l'importanza e la posizione dell'opera nel canone, la struttura e gli aspetti letterari, le linee teologiche

PRESENTAZIONE

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fondamentali, le questioni inerenti alla composizione e, infine, la storia della sua trasmissione. Un approfondimento, posto in appendice, affronta la presenza del libro biblico nel ciclo dell'anno liturgico e nella vita del popolo di Dio; ciò permette di comprendere il testo non solo nella sua collocazione "originaria", ma anche nella dinamica interpretativa costituita dalla prassi ecclesiale, di cui la celebrazione liturgica costituisce l'ambito privilegiato.

I direttori della Serie Massimo Grilli Giacomo Perego Filippo Serafini

Annotazioni di carattere tecnico M'OV\ \"EHSJO\E DELLA BIHBL\ IHI TESTI.·\:' e «l'esortazione a vivere il mistero».

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l, 1-2 PRESCRITIO 1,3-3,21 PARTE TEOLOGICA: LA RIVELAZIONE DEL MISTERO La benedizione (1,3-14) Esordio epistolare: rendimento di grazie e signoria di Cristo (1,15-23) La condizione dei credenti: salvati e riconciliati tra loro (2, 1-22) La rivelazione del mistero (3,1-13) Preghiera e dossologia (3,14-21) 4,1-6,9 PARTE ETICA: VITA NUOVA DEI CREDENTI L'unità ecclesiale nella diversità dei ministeri (4, 1-16) La vita nuova in Cristo (4,17-5,20) Il codice domestico (5,21-6,9) 6,10-20 PERORAZIONE: LA BATIAGLIA SPIRITUALE 6,21-24 CONCLUSIONE EPISTOLARE Lo stile Lo stile adottato dall'autore si discosta vistosamente da quello di Paolo. Mentre l'Apostolo scrive in modo incisivo, talora con affermazioni stringate e connesse in una sintassi più sobria, l'autore di Efesini si esprime con un fraseggio soggetto al fenomeno dell'amplificazione. Talora alle singole espressioni se ne aggiungono altre che fanno in qualche modo da eco, risultando ridondanti se non addirittura sovraccariche. Basti citare come esempio l'accumulo di sinonimi con costruzioni genitivali ampollose nella traduzione letterale di l, 19: «la traboccante grandezza della sua forza in noi, che crediamo secondo l'energia della potenza della sua forza». Anche alcuni periodi sono eccessivamente elaborati, tanto da meritarsi da parte degli studiosi la definizione di «frasi-agglomerato» (Satzkonglomerat): 1,3-14.15-23; 3,1-7.812.14-19; 4,11-16; 6,14-20. Le subordinate si susseguono e si concatenano in frasi lunghissime, accavallando diversi elementi sintattici, in cui talora si reperisce a fatica ilfi/ rouge. Il senso di saturazione che si prova fa pensare a qualche carenza nella formazione stilistica dell'autore, anche se tale stile di Efesini è stato pure spiegato associandolo alle tendenze dell'asianesimo (una corrente letteraria amante dei fraseggi maestosi e ridondanti), in

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controtendenza rispetto a quelle dell'atticismo (dalle forme più eleganti e proporzionate). Si potrebbe tentare di spiegare questo fenomeno anche in connessione all'argomento: forse, sentendosi portatore di una sovrabbondanza di significato, l'autore fatica a gestire il suo pensiero teologico con un fraseggio contenuto e sente il bisogno di limare in continuazione le espressioni, aggiungendo precisazioni e finendo per amplificarle un po' troppo. Siamo abbastanza lontani dallo stile di Paolo, anche se le forzature della sintassi potrebbero essere valutate come il tentativo di rendere la ricchezza delle intuizioni.

LINEE TEOLOGICHE FONDAMENTALI

Prima di delineare le linee teologiche più preziose della lettera, bisogna premettere un'osservazione sul «paolinismo» di Efesini. Con questo termine s'intende che l'elaborazione concettuale del testo efesino è debitrice della riflessione teologica di Paolo (anticipiamo che l'autore della lettera non è l'apostolo stesso), perché ne riprende alcuni nuclei tematici, anche se li rielabora e li amplia. Di derivazione paolina sono, p. es., i temi della Chiesa-corpo (la metafora somatica affiora e si precisa via via in 2,16; 3,6; 4,4.12.1516:25; 5,21-33: cfr. Rm 12,4-5 e 1Cor 12,12-30), della gratuità della salvezza (2,4-9: cfr., p. es., Rm 3,24.28), della centralità della croce nella redenzione (1,7; 2,13.16: cfr., p. es., l Cor 1,17-2,8), dell'uomo nuovo (4,22-24: cfr., p. es., Rm 6,1-14; 2Cor 5,17; mentre 2,15 è uno sviluppo in senso ecclesiologico ). Al tempo stesso, tuttavia, in Efesini ci sono alcuni assunti che presentano un largo margine di originalità rispetto a Paolo. Primo fra tutti il concetto di mistero (myst~rion). Se da una parte indica un segreto di Dio, inaccessibile agli uomini se non per iniziativa divina, dall'altra, grazie alla tradizione apocalittica, significa pure il progetto e l'intervento di Dio negli eventi del mondo (cfr. Dn 2,18-19.27-30.47 e altri passi della letteratura intertestamentaria: l Enok46,3;49,2;103; 4 Esdra 4,5;Apocalisse siriaca di Baruk 81,4 e alcuni testi di Qumran: Regola della Comunità [l QS] 11,3-7; 17-

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19; Hodayot [IQH] 9; Libro dei Misteri [IQ 27]; Pesher Abacuc [IQpAb] 7 e altri). Il mistero, dunque, che Dio non tiene più segretamente per sé, esprime un'accezione conoscitiva dal momento che viene reso noto, ma al tempo stesso rivela una sfumatura storicosalvifica. Si può inoltre affermare che quanto Paolo esprime nelle sue lettere col termine «Vangelo» (euangélion) Efesini lo riprende e sviluppa col termine mystÙion. Da notare che non si tratta di una conoscenza occulta, riservata a degli iniziati tenuti al silenzio, ma di una realtà ampiamente divulgata, anche perché non è più oggetto di attese e di computi: è un evento accaduto; sono escluse, quindi, eventuali allusioni alle pratiche dei culti misterici (cfr. l ,9; 3,3.4.9; 5,32; 6, 19). In particolare la novità connessa col mistero è l'accesso dei pagani alla stessa eredità riservata a Israele, cioè la partecipazione al corpo ecclesiale di Cristo (cfr. c. 3). Altro tratto originale di Efesini è il fenomeno che va sotto il nome di escatologia realizzata. Mentre nelle lettere autentiche di Paolo la parusia è motivo di forte attesa, quest'aspettativa in Efesini scompare, lasciando il posto a una situazione già tutta appiattita sulla fine. Tutto è già compiuto: le forze avverse sono definitivamente sottomesse (1,20-23) e i credenti sono addirittura già con-risorti assieme a Cristo e assisi nei cieli con Lui (2,5-6). Sembra non esserci posto per nessuna forma di attesa. Ciononostante, accanto a questa palese dimensione del «già», s'affaccia pure quella del «non ancora», che fa in qualche misura da correttivo a una visione escatologica del tutto realizzata. La realtà della vita ecclesiale con il suo faticoso cammino verso la comunione (4, 1-16), con l 'impegno a vivere da uomini nuovi (4, 17-5,20), con la quotidianità dei rapporti tra le mura domestiche (5,21-6,9) e con lo scontro corpo a corpo con il diavolo (6,10-20), ricorda al cristiano che non può affatto riposare sugli allori. Se nella corsa a staffetta c;lella Chiesa il testimone è già stato portato (da Cristo) oltre la linea del traguardo, e si può quindi a ragione celebrare la festa della vittoria escatologica, rimane ancora la fatica della volata finale nel tragitto terreno. È lo scarto classico tra il «già» e il «non ancora»; solo che in Efesini l'asse della bilancia è tutto spostato sul compimento oramai realizzato dal Risorto e pienamente sperimentato dalla Chiesa a Lui congiunta.

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Il terzo polo delle novità teologiche della lettera è proprio l' ecclesiologia, la cui elaborazione è sinteticamente offerta nella metafora somatica: la Chiesa è il «corpo» di Cristo, il quale ne è il «capo». L'immagine è lattice dell'unità stretta tra Cristo e Chiesa e al contempo della loro distinzione. La Chiesa ha il suo centro vitale e propulsore in Cristo e a Lui è saldamente congiunta. Ciononostante Cristo la trascende sempre, perché Lui solo è sovrano del cosmo intero. La metafora è di chiarissima derivazione paolina, ma Efesini la fa evolvere. Paolo parla della comunità ecclesiale come «corpo» di Cristo in Rm 12 e l Cor 12. In questi due passi l' Apostolo definisce la Chiesa nel suo insieme come un'unità organica, come un corpo composto da diverse membra, per mostrare la mutua dipendenza dei cristiani fra loro e la confluenza della varietà dei membri nell'unità ecclesiale (il «capo» viene menzionato alla pari rispetto agli altri membri: cfr. l Cor 12,21 ). In Ef l ,20-22, invece, si inserisce la novità della precisazione circa i rapporti tra capo e corpo. La Chiesa è sempre descritta come «corpo» (soma) di Cristo, ma Cristo viene definito come suo «capo» ( kefaM): in questo modo si può descrivere la situazione gloriosa di Cristo senza che la Chiesa possa confondersi con Lui. In altre parole Cristo siede alla destra del Padre, esercitando così una sovranità universale, e la Chiesa pur essendone la prima beneficiaria (è il corpo che riceve energia e vita direttamente dal suo capo) è comunque distinta da Lui. Se la metafora in Rm 12 e ICor 12 svolgeva un ruolo esclusivamente ecclesiale, ora, evidenziando la distinzione- pur nella stretta unità - tra kefaM e soma, si mette in luce pure la differenza di azione di Cristo. Egli è, sì, capo della Chiesa, ma con un'autorità che raggiunge pure la totalità del cosmo. La metafora somatica in Efesini, dunque, non è circoscritta all'interno dei confini ecclesiali, ma si inserisce all'interno di un'attività di Cristo estesa alle dimensioni dell'intero creato. Rispetto all'intento prettamente ecclesiologico di Romani e prima Corinzi, l'autore di Efesini rivela un'intenzionalità sovraecclesiale e universale. Infine vanno ricordate le varie ipotesi di influenze sulla teologia di Efesini che di volta in volta gli esegeti hanno rilevato (o pensato di ritrovare): alcune affinità espressive con il qumranesimo, adden-

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tellati con lo stoicismo e il giudaismo ellenistico, circa la visione unitaria e armonica del cosmo, e influssi gnostici derivanti dalla figura dell'uomo primordiale. Circa le prime due gli studiosi valutano caso per caso (somiglianze espressive non sempre rivelano una vera e propria dipendenza concettuale diretta), mentre per l'ipotesi di un influsso gnosticizzante la questione è stata concordemente archiviata dagli studiosi, i quali rilevano come lo gnosticismo si possa definire solo a partire da elaborazioni tardive e non certo contemporanee o anteriori a Efesini2 • C'è unanimità nel ritenere che l'autore di Efesini in larga parte dipenda dal patrimonio di fede dell'Antico Testamento, che, pur citato pochissime volte in modo esplicito, tuttavia fa chiaramente da sfondo alle rielaborazioni teologiche.

DESTINATARI, AUTORE E DATAZIONE

Destinatari Comunemente è accettata l'idea ricevuta dalla tradizione, che Efesini, cioè, fosse una lettera indirizzata a comunità cristiane situate nella parte occidentale dell'Asia Minore. Tra queste spiccava l'importanza della città di Efeso, sia dal punto di vista amministrativo in quanto capitale della provincia senatoriale romana in Asia, sia perché fu indubbiamente «il primo e decisivo epicentro dell'espansione cristiana e di un approfondimento ermeneutico dell'evangelo»3. Famosa per la magnificenza del tempio di Artemide (cfr. At 19,23-40), la città di Efeso del I secolo la si potrebbe definire città «internazionale», in quanto crocevia di rotte commerciali, centro di arti magiche e punto d'incontro di diverse tendenze culturali e cultuali. Argomentazioni inoppugnabili a favore della destinazione efesina della lettera non ce ne sono, se non il fatto che il termine mesotoichon («muro divisorio»: 2,14) avesse significato architet2 Al riguardo fanno eccezione le considerazioni di P. Pokomy: p. es., ((lJI'Jp.a Kpwrou im Epheserbrief», Evange/ische Theo/ogie IO (1960) 456-464. 3 R. PENNA, La lettera agli Efesini. Introduzione, versione, commento, Dehoniane, Bologna 1988, p. 68.

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tonico solo nell'area dell'Asia Minore occidentale. Viceversa, gli argomenti contrari a questa collocazione tradizionale non sono mai riusciti a imporsi con assoluta evidenza. Circa i destinatari i dettagli che emergono dal testo sono troppo indeterminati (non va poi dimenticata la natura "circolare" della lettera): i vari tentativi fatti dagli esegeti di ricostruirne con esattezza i tratti rimangono, dunque, del tutto congetturali. Alcune affermazioni dell'autore depongono a favore di un uditorio prevalentemente composto da etnocristiani (credenti provenienti dal paganesimo, cfr. 2, 11 ). Di più non è possibile affermare.

Autore Fin qui s~è tenuta la dicitura «autore di Efesini», distinguendolo da Paolo, senza precisare ulteriormente. Sappiamo che Paolo soggiornò a Efeso circa tre anni secondo At 19, l O; 20,31 (tra il 52 e il 54 oppure tra il 55 e il 57) e nel testo di Efesini il nome dell' Apostolo compare esplicitamente due volte (l, l e 3, l). La tradizione non ha avuto alcun problema nel ritenere che fosse stato proprio Paolo a redigere la lettera, anche perché si tratta di uno scritto «paolino», ossia un testo che si colloca chiaramente sulla scia del suo pensiero, attingendone in parte il vocabolario e anche alcune intuizioni teologiche (anche se manca il tema della giustificazione, così caro a Paolo). Tuttavia alcune linee teologiche sono originali e lo stile non è suo, come s'è potuto appurare in precedenza (cfr. pp. 11-12). Il primo a sollevare dubbi sulla paternità dello scritto fu Erasmo nel 1519, proprio a partire da osservazioni stilistiche, ma furono soprattutto E. Evanson (1792) e H.J. Holtzmann (1872) a porre criticamente la questione e a pronunciarsi per la non autenticità dello scritto. Alcuni esegeti hanno cercato di aggirare il problema adducendo la consuetudine dell'Apostolo di servirsi di un segretario/scrivano. Le idee sarebbero di Paolo, mentre le particolarità espressive dipenderebbero dall'intervento di tale figura di ausilio. Ma un confronto più attento mostra che alcuni nuclei tematici si presentano più come uno sviluppo del suo pensiero, che come una semplice ripresentazione delle sue opinioni (cfr. le considerazioni precedenti sulla metafora somatica: p. 14).

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Ad oggi gli studiosi sono d'accordo nel ritenere che il dibattito relativo all'identità dell'autore di Efesini debba essere chiarito all'interno del fenomeno della pseudonimia o della pseudoepigrafia, similmente a quelli legati ad altre opere dell'antichità e anche ad alcuni scritti biblici {cfr., p. es., la questione del Deutero e del Trito isaia, distinti rispetto a Isaia stesso). Al contrario del fenomeno tutto moderno dei diritti d'autore, con il conseguente diritto/desiderio da parte dello scrittore di vedere esplicitato il proprio nome sulla sua pubblicazione, in antico per dare lustro e autorevolezza al proprio scritto talora lo si attribuiva a qualche autore famoso. In questo modo mediante un nome celebre autori sconosciuti potevano far conoscere le loro opere; senza, tuttavia, che tutto questo fosse percepito come un'attività fraudolenta (vale la pena ribadire: non esisteva il copyright). Nel caso della nostra lettera gli esegeti si rifanno al concetto di «scuola»: attorno alla figura autorevolissima dell'Apostolo si sono raccolti alcuni suoi estimatori, che, dopo la sua morte, ne hanno mantenuto vivo il pensiero appunto dando vita a un sodalizio di discepoli, la cosiddetta «scuola paolina». Questa ha raccolto gli insegnamenti di Paolo, li ha attualizzati in situazioni ecclesiali differenti rispetto a quelle incontrate dal maestro e li ha riletti in contesti culturali nuovi. In questo modo si attribuiva alla figura ormai assente ma vivamente venerata dell'Apostolo uno scritto fedele alle sue idee ma redatto da altri. L'autore di Efesini, pertanto, non aveva l'intenzione di ingannare ma di istruire i credenti circa situazioni inedite, così come avrebbe fatto lo stesso Paolo se fosse stato ancora in vita. Nulla vieta di ipotizzare che questa «scuola» fosse composta proprio dai collaboratori stretti dell'Apostolo, che lo hanno aiutato nell'opera di evangelizzazione dell'Asia Minore: Epafra, Onesimo, Tichico, ecc. In questo modo si possono spiegare sia le somiglianze, sia le differenze di pensiero e di stile di Efesini rispetto alle lettere di Paolo. Queste osservazioni permettono di avanzare una precisazione circa la classificazione utilizzata per l'epistolario paolino: le lettere autentiche di Paolo vengono oggi definite dagli esegeti homologoumena («riconosciute»; sono dette anche «protopaoline»: la prima ai Tessalonicesi, le due ai Corinzi, quella ai Romani, ai Galati, ai Filippesi e a Filemone)

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mentre quelle di cui la paternità è messa in discussione, sono dette antilegomena («discusse»; denominate pure «deuteropaoline»: la seconda ai Tessalonicesi, quella ai Colossesi, agli Efesini, le due a Timoteo e quella a Tito). Il giudizio sulla pseudoepigrafia, comunque, non invalida il carattere di canonicità della lettera, perché le valutazioni che si possono legittimamente formulare a livello storico e critico-letterario non pregiudicano la valutazione espressa dalla Chiesa fin dai primi secoli, la quale ha potuto vedere riflessa nello scritto la propria fede autentica, riconoscendo, quindi, a Efesini la qualifica di testo ispirato, anche se l'autore non è Paolo (questo vale anche per altri scritti neotestamentari: due vangeli sono riconosciuti canonici, anche se gli autori, pur provenendo dalla «cerchia» apostolica, apostoli non sono: Marco e Luca). Dell'autore si può dire che era un discepolo di Paolo, rimasto volutamente nell'ombra dell'anonimato forse per non frapporre se stesso tra l'Apostolo e lo scritto. Probabilmente è di origine giudeo-ellenistica (cfr., p. es., il «voi» di 2,11 che individua inon circoncisi dai quali l'autore si differenzia), non sente il bisogno di citare spesso l'Antico Testamento, e si mostra attento alla vivacità culturale del suo tempo (attraversata da intuizioni dell'apocalittica essena, da temi della filosofia stoica e da quei fermenti legati al tema della «conoscenza» dai quali solo successivamente avranno origine le correnti gnostiche). Epoca di composizione Circa la datazione mancano elementi precisi e quindi si procede per ipotesi. Poiché Efesini è un testo già citato dai Padri tra la fine del I secolo e la prima metà del II, ovviamente si deve collocarne la stesura alla fine del I secolo. Essendo l'autore di scuola paolinacome s'è visto -la redazione va posta dopo la morte dell'Apostolo (quindi tra il60170). La stesura, di conseguenza, andrebbe collocata tra il 60 e il 90 d.C. Bisogna aggiungere poi che nell'elenco dei ministeri (4,11) sono del tutto assenti le figure menzionate nelle Pastorali (episcopi, presbiteri e diaconi), quindi Efesini riflette un'organizzazione ecclesiale anteriore. Altro dato importante per

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la cronologia è, inoltre, il delicato rapporto con la lettera ai Colossesi, con la quale la lettera intrattiene stretti rapporti di parentela: se si riconosce un rapporto di dipendenza, la datazione di Efesini allora verrebbe spostata un po' più avanti rispetto al 60. Queste considerazioni, dunque, conducono a riconoscere la collocazione cronologica più probabile quella databile attorno agli anni 80 d.C. Rapporto tra Colossesi ed Efesini Una questione assai curiosa - e, per certi versi, inestricabile - nasce dalla stretta somiglianza che intercorre tra la lettera agli Efesini e quella ai Colossesi4 • Leggendole di seguito sorprende la forte aderenza non solo di vocabolario e di linee tematiche, ma anche di alcune espressioni o di intere frasi, che si presentano identiche in entrambe le lettere (cfr., p. es., Ef5,22//Col3,18; Ef5,25// Col 3, 19; Ef 6,21//Col 4, 7). Assieme ai vangeli sinottici, sono gli unici testi del Nuovo Testamento che possono essere letti in sinossi (parallelamente). Come spiegare questa omogeneità lessicale e, in parte, anche concettuale? Le ipotesi avanzate finora dagli esegeti sono raggruppabili nelle seguenti soluzioni: a) l'autore di Efesini ha "utilizzato" il testo di Colossesi; b) l'autore di Colossesi ha "utilizzato" il testo di Efesini (ma in entrambi i casi: che tipo di ''utilizzo"? L'autore scriveva tenendo sott'occhio il testo dell'altra lettera? Oppure l 'ha letta e in seguito ha scritto ripescando a memoria alcuni passaggi dell'altra?); c) nessuno dei due ha fatto uso del testo dell'altro; d) sia l'uno che l'altro, appartenenti a una «scuola paolina», hanno attinto alla medesima tradizione; e) si tratta di un unico soggetto, autore di ambedue le lettere. Attorno a queste possibili soluzioni poi si raggruppano anche altre varianti, ma come si vede ci si muove su un terreno indiziano, per cui le soluzioni proposte da ogni esegeta vanno vagliate attentamente. Si può affermare che ad oggi il consenso maggiore si ha attorno alla prima soluzione: l'autore di Efesini avrebbe avuto una buona conoscenza del testo di Colossesi, tanto da poterlo riprendere e ampliare, sviluppandone così alcune idee. Si potrebbe parlare di 4 Cfr. E. BEST, "Who Used Whom? The Relationship ofEphesians and Colossians", New Testament Studies 43 (1997) 72-96.

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«dipendenza creativa» di Efesini da Colossesi (p. es., il tema del mistero, che in Colossesi è prettamente cristologico, in Efesini riceve uno sviluppo prevalentemente ecclesiologico). Non va dimenticato poi che Efesini intrattiene una somiglianza lessicale e tematica pure con altri scritti del Nuovo Testamento, in particolare con la prima lettera di Pietro e quella agli Ebrei.

TESTO E TRASMISSIONE DEL TESTO

Circa la storia della trasmissione testuale lo scritto è ben attestato fin dalle primissime testimonianze, eccetto che per la destinazione efesina (1,1; cfr. p. 9) Le questioni più importanti di critica testuale verranno discusse di volta in volta nelle osservazioni filologiche.

Elenco dei manoscritti citati nel commento Papiro Chester Beatty II (IJ)46), scritto intorno al 200, conservato in parte alla University of Michigan di Ann Arbor (qui si trovano i fogli che contengono Efesini), in parte a Dublino, nella collezione Chester Beatty. Codice Sinaitico (N), scoperto nel monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai; risale al IV secolo; la maggior parte dei suoi fogli è conservata alla British Library di Londra. Codice Vaticano (B), del IV secolo; è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Codice Alessandrino (A), del V secolo; conservato alla British Library di Londra. Codice di Efrem riscritto (C), scritto in maiuscolo e risalente al V secolo. Il nome deriva dal fatto che la pergamena, che in origine conteneva tutto l'Antico e il Nuovo Testamento, fu riutilizzata nel XII secolo per scriverei alcune opere di Efrem siro; il codice è conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Codice Claromontano (D), scritto in maiuscolo e risalente al V secolo, contiene le lettere paoline; è conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Codice di Augia (F), del IX secolo; il nome è quello della località

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in cui fu copiato, il monastero dell'isola di Reichenau sul lago di Costanza, chiamata Augia in latino; attualmente è conservato al Trinity College di Cambridge. Codice di Bomer (G), del IX secolo; conservato a Dresda nella Sachsische Landesbibliothek.

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Agli Efesini

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EFESINI 1,1

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IIauÀoç à:rr6_?ToÀoç Xptcrrou 'I11crou òtà 8EÀ~Jlamç 8Eou m'ìç àyi01ç TO'ìç oùmv [ÈV 'EcpÉcry.>] K>. È un aggettivo sostantivato, il quale più che indicare un 'imprecisata collocazione spaziale, rende piuttosto l'idea di una nuova situazione esistenziale dei credenti; analogamente al sintagma «in Cristo» (e alle seguenti locuzioni «in lui», «n eli' Amato», «nel quale»), espressivo non tanto di un luogo quanto dell'inclusione dei cristiani nella vita stessa di Cristo. Un richiamo esemplificativo potrebbe essere Gen 12,3 LXX: «In te (Abra-

"itinerari" concettuali e teologici. Il primo, rapidissimo "itinerario" è di carattere storico: collega l'attuale originalità cristiana al passato fondante. La denominazione «benedetto)), infatti, apre immediatamente a reminiscenze anticotestamentarie (p. es., Gen 24,27: «Benedetto il Signore, Dio del mio padrone Abramo)); Es 18,10: «Benedetto il Signore, che vi ha salvato dalla mano dell'Egitto)); cfr. anche Nm 6,24; Dt 14,29; 1Sam 25,32; Sal 145,1-2.10.21 e moltissimi altri passi), ma spalanca pure la finestra sulla novità di Cristo: questo Dio, che in antico era la fonte delle benedizioni su Israele, ora si rivela come il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo>>. Accanto a quello storico vi è pure un itinerario verticale, lungo il quale mentre una benedizione sale a Dio, un'altra ne discende su di noi: «Benedetto Dio che ci ha benedetti)). Infine, contemporaneamente ai primi due, si affaccia discretamente pure un itinerario dall'andamento trinitario: esplicitamente sono menzionati il Padre e il Figlio suo Gesù e si fa pure allusione allo Spirito (che ricomparirà più esplicitamente in 1,13), in forza del quale la benedizione è definita «spirituale >> (pneumatichi). Dio, quindi, dona le sue benedizioni con la mediazione pretemporale e storica di Cristo e con il concorso dello Spirito Santo. Questa azione benedicente ci raggiunge «nei cieli>>, la sfera celeste in cui Cristo è giunto con la sua risurrezione e che diviene l'ambito (ovviamente illimitato: cfr. 1,20-23 e 4,10) nel quale Egli dispiega la sua signoria: non quindi un luogo lontano rispetto alla terra, quanto piuttosto la realtà salvifica cui i cristiani sono già incoativamente introdotti grazie alla benedizione divina. Infatti, dopo aver detto «nei cieli)), l'autore aggiunge subito «in Cristo>>, per esplicitare l'associazione dei credenti alla sua stessa vita. Elezione e predestinazione pretempora/i (l ,4-6). La prima iniziativa con cui Dio dimostra la sua benevolenza per gli uomini è stata una decisione presa in anticipo rispetto alla storia e addirittura alla creazione: «ci ha scelti)) (v. 4a). Più precisamente Dio ha cominciato a renderei oggetto della sua benedizione nel

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EFESINI 1,4

che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo, 4poiché in lui ci ha scelti prima della fondazione del mondo per essere santi e immacolati davanti a lui nell'amore, mo) saranno benedette (ÈVt=uÀ.OyT]B{joovtaL Èv

oo() tutte le genti della terra». 1,4 Poiché (Ka9wç) - Questa congiunzione indica che quanto segue è specificazione della benedizione iniziale di Dio, indicata nel versetto precedente. Ha scelti (È~EÀÉ~ato)- È il medesimo verbo dell'elezione di Israele: cfr., p.es., Dt 7,7; 14,2 LXX; At 13,17. In lui (~v au-cQ) - È riferito a Cristo, che

è l'unico soggetto cui questo pronome può collegarsi.

Prima della fondazione del mondo (rrpò Kataj3o,l..f}; KOO!.wu) -Tale formulazione è molto rara nella lingua greca ed è assente nella Settanta Davanti a lui (K«'tEVWTTLOV amou)- Il pronome potrebbe grammaticalmente richiamare sia Cristo sia Dio, ma dal contesto seguente è preferibile intendere «davanti a Dio>>, come si evince nel v. 5.

tempo «poichb> (kath6s, v. 4) ci ha scelti/eletti prima dell'inizio del tempo. Il tema dell'elezione, assieme a quello della benedizione, richiama evidentemente la predilezione di Dio verso Israele, ma non allude affatto a una imprecisata sostituzione dell'antico popolo eletto da parte dei cristiani. Inoltre la puntualizzazione circa un'elezione pretemporale non sembra sottintendere il tema della preesistenza delle anime, dal momento che l'unica persona che assiste a questo «momento» è Cristo, nel quale i credenti sono stati anticipatamente scelti (ancora non sono presenti, dunque). All'autore, invece, sta a cuore condurre i lettori all'intenzione originaria di Dio e, parlando di una idea accarezzata da Dio «prima della fondazione del mondo», non sembra coltivare indagini speculativometafisiche circa un «prima» fatto di pura assenza di creature; desidera piuttosto descrivere un'intenzione sovrana e liberissima di Dio. Così, collocando il proposito divino in un indeterminato "momento" previo alla creazione, l 'autore afferma che Dio non è stato provocato (o, peggio, costretto) da null' altro se non dal suo insondabile progetto, e avendo quale unico riferimento Cristo stesso, nel quale noi siamo stati eletti. Lo scopo dell'elezione è presto detto: santità e innocenza nell'amore (1,4). «Santo e immacolato» erano le qualifiche necessarie per l'esercizio del culto -riferite all'idoneità di oggetti, animali e persone per l'ambito liturgico-, che lentamente sono passate a designare qualità di tipo morale; il punto d'arrivo è giungere «davanti a lui», l'approdo, cioè, a un rapporto immediato con Dio. Con una particolarità: tali qualità sembrano profilarsi più come un dono divino che come il traguardo di sforzi umani, dal momento che in 5,27 è Cristo stesso che rende la Chiesa «santa e immacolata» con il suo amore e il dono della propria vita. Su questa linea va interpretata pure la predestinazione, comprensibile solo come volontà buona, salvifica: lo scopo di Dio è farci diventare tutti suoi figli. Non emergono per nulla le sfumature di una predestinazione individuale o, peggio, negativa. La finalità di questa decisione è la figliolanza adottiva (hyiothesia), cioè

EFESINI 1,5

30

aù-rou f.v àyann, 5 npoopioaç ~}l KUpt

>) e gli altri («voi») mediante le seguenti tappe: ascolto del Vangelo, adesione di fede e sigillo dello Spirito (v. 13). Caparra (1,14). Ora lo Spirito Santo riceve l'appellativo di «caparra» (arrab6n), perché la sua presenza nel credente è un inizio sicuro, un anticipo cui certamente farà seguito una pienezza. È questo il punto finale dell'euloghia: i credenti possono sperimentare gli effetti in loro stessi dell'azione benedicente di Dio, costatando di aver già in sé una sorta di acconto, che verrà sicuramente saldato in un compimento futuro. Quando, cioè, la «proprietà» di Dio (peripoìesis: cfr. MI 3,17 e lPt 2,9; cfr. anche Es 19,5), sarà definitivamente riscattata. Come si può notare, le considerazioni relative alla cosiddetta escatologia realizzata di Efesini in questo passaggio debbono essere almeno attenuate: non tutto quanto è già compiuto, e l' éschaton non è appiattito alla sola dimensione presente. Ciononostante,

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EFESINI l, 17

e avendo creduto in esso, avete ricevuto il sigillo dallo Spirito Santo della promessa, 14il quale è caparra della nostra eredità, in vista del riscatto della sua proprietà, a lode della sua gloria. Perciò anch'io, avendo sentito della vostra fede nel Signore Gesù e dell'amore per tutti i santi, 16non smetto di rendere grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere, 17perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, 15

(M), Alessandrino (A) e Vaticano (B) e altri testimoni omettono aytX1TTJV, probabilmente per una svista nella copiatura dovuta alla ripetizione dell'articolo(~ aya1TT]V ~-· .). 1,17 Il Padre della gloria (ò 1T!ltfJp tftç

OO~TJç)-

Si tratta di un'espressione senza paralleli. Alcune possibili allusioni potrebbero essere, p. es.: «Dio di gloria» (Sal28,3 LXX [TM 29,3]); «Re di gloria» (Sal 23,7 LXX [TM 24,7]).

anche se un margine di attesa futura è mantenuto, le conseguenze dell'azione benedicente di Dio lasciano una traccia riconoscibile nel presente ecclesiale.

1,15-23 Esordio epistolare: rendimento di grazie e signoria di Cristo Compaiono ora alcuni elementi classici di un esordio epistolare, in conformità al protocollo quasi sempre seguito nel Corpus paulinum: la tonalità del discorso diretto (iniziato già in 1,13), l'accenno alle notizie relative alla vita dei credenti e la menzione di un rendimento di grazie (cfr., p. es., lTs 1,2 e Rm 1,8-9). L'esordio si riaggancia all'euloghia mediante il dià touto («perciò»: v. 15), ma se ne differenzia: invece di mantenere il tono ampio della lode a Dio per la sua iniziativa salvifica, diviene un ringraziamento circoscritto alla situazione concreta dei credenti (vv. 15-19). Inoltre viene ripreso e sviluppato il tema della signoria universale di Cristo (vv. 20-23). 1,15-19 Il ricordo nella preghiera Le notizie e la preghiera (l, 15-16). La presenza degli stereotipi di un esordio non deve far pensare a un mero accorgimento stilistico. Venuto a conoscenza dell'effettivo tenore della fede e carità dei suoi destinatari, l'autore assicura la sua riconoscenza e la sua preghiera, dimostrando come il vincolo che lo lega a loro è certamente di natura relazionale ma si fonda pure sulla comune fede in Dio. Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo (1,17). L'autore assicura i destinatari che prega per loro (prayer report) e rivela pure il tenore delle sue richieste a Dio. Innanzitutto il Dio cui si rivolge è quello oramai indissociabile da Gesù: non più solo «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6), ma «il Dio del Signore nostro Gesù Cristo». Il quale, poi, riceve un appellativo grandioso, forse di derivazione liturgica: «il Padre della gloria>>, che ne ricorda la maestà e lo splendore. Forse quest'ultimo appellativo serve proprio a introdurre il contenuto

EFESINI l, 18

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ò6~11ç, òwn Ù}.liv rrveO}.la oocpiaç Kaì à:rroKaÀutiJeWT10}.1ÉVOUfJ}.lÉV ltOTf ÈV raiç Èm9u}.ltatç rfjç oapKÒç ~}.lWV notouvreç rà 9eÀ~}.lara rfjç oapKÒç KaÌ TWV ÒtaVOlWV, KaÌ ~}.lf9a TÉKVa q>UOfl Òpyfjç 3 ÈV

wç KaÌ OÌ Àomo{· 4 Ò Òf: 9eòç ltÀOUotOç WV ÈV ÈÀÉEl, ÒlcX T~ V

ltOÀÀ~V à:yanfJV aÙTOU ~V ~yanfJOEV ~}.léiç, 5 KaÌ ovraç ~}.léiç VfKpoÙç roiç napaltTW}.laOlV OUVE~WOltOlfJOfV nj:> XplOTO}.lÉVOl- 6 KaÌ OUV~YElpEV KaÌ OUVEKa9tOEV 2,3 Meritavamo l'ira- Si tratta di un altro semitismo. Alla lettera: «figli dell'ira» (t~Kva Òpyiìç). Il tema dell'6pyii di Dio (l'ira divina) è ben attestato nella Bibbia. Nell' AT è la reazione di Dio quando vede tradito il suo amore per Israele. Per il NT cfr., p. es.: Col3,6; Rm 1,18; 2,5.8; 3,5; 4,15; 9,22; lTs 1,10; 2,16; Mt 3,7; Gv 3,26; Ap 6,16; 11,18; 14,10; 19,15.

2,5-6 Ci ha fatti vivere assieme a Cristo ... e ci ha fatti risorgere e sedere assieme (a lui) (ouv~(WOT!OLT]OEV tQ Xp~otQ ... Kal ouv~yHpEv Kal ouvE'Ka9~oEv l:v XptotQ 'IT]Ooiì) - La traduzione letterale permette di cogliere come queste forme verbali, assai rare in greco, presentino ripetutamente il prefisso «con» (ouv-): «ci ha fatti con-vivificare, con-risuscitare, con-far-sedere con Cristo».

tentativo di sintetizzare la complessità di questa figura. Che il diavolo sia già assoggettato alla sovranità di Cristo il credente lo sa (cfr. l ,21 ), tuttavia ne percepisce ancora gli influssi malvagi sulla propria vita. Dunque, pur consapevole della vittoria già avvenuta sul maligno, il credente è conscio della necessità di doverlo combattere ancora (cfr. l'armatura di 6, l 0-17). Il tema della disobbedienza, poi, che riecheggia alcuni passi dell' AT (p. es., N m 11,20; 14,43; Dt 1,26; 9,7), qui non è ristretto al solo Israele, ma abbraccia tutti: è l'atteggiamento di chiunque rifiuti l'annuncio evangelico. Meritavamo l 'ira (2,3). Tutti, infatti, sono accomunati da una situazione peccaminosa di partenza, in cui si manifesta la disobbedienza a Dio: una condotta morale riprovevole, riconducibile ai desideri della carne e delle intenzioni cattive (cfr. 5,3; ma anche Gal 5,16.24; Rm 7,5; 13,14). Non viene presa in considerazione la fragilità umana, ma l'opposizione a Dio, che suscita in lui la collera. Ora l'espressione letterale «per natura figli dell'ira)) rende l'idea della reazione divina davanti al male: egli non lo può tollerare e per questo s'adira. Il tema della collera divina trova particolare sviluppo nei primi tre capitoli della lettera ai Romani, nei quali l'ira è il risvolto della giustizia retributiva divina, anche se non si realizza con una punizione diretta da parte di Dio, ma si manifesta all'interno del peccato stesso dell'uomo, compreso quale sanzione che in qualche modo l'uomo commina a se stesso nel bel mentre lo compie; a questa giustizia retributiva (Dio premia i buoni e punisce i cattivi) farà seguito la giustizia evangelica annunciata in Cristo (tutti sono peccatori ma tutti ricevono l'offerta gratuita del perdono: Rm 3,23-24). Sorge, poi, un problema nella comprensione dell'espressione «per natura» (physei). Si allude, forse, a una connaturalità dell'uomo con il peccato? Non

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EFESINI2,6

fra i quali anche noi tutti un tempo vivevamo tra le passioni della nostra carne, acconsentendo ai desideri della carne e delle intenzioni (cattive), e per natura meritavamo l'ira come gli altri; 4ma Dio, che è ricco di misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati, 5nonostante fossimo morti per le (nostre) colpe, ci ha fatti vivere assieme a Cristo,- per grazia siete salvati!6e ci ha fatti risorgere e sedere assieme (a lui) nei cieli in

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Questa enfasi concentra tutta l'attenzione sull'esito di queste azioni: l'associazione del cristiano «con» Cristo. 2,5 Assieme a Cristo (t4ì X pLOt4ì) - La variante «nel Cristo» (Ev t4ì XpLot4ì) rispetto a «con Cristo>> (t4ì XpLot4ì) è ben attestata: papiro Chester Beatty II (~46), codice Vaticano (B), Vulgata (nell'edizione Clementina: vg" 1) e altri. È spiegabile o per dittografia (ri-

petizione della sillaba Ev: ouVE(W01TOLTJOEV Èv t4ì Xpwt4ì), oppure per la frequenza della formula Èv Xp wtQ che tra l'altro segue pure gli altri due verbi del v. 6. Per grazia siete salvati 6:1ipL d ÉotE oE04JOfl~VoL)- La perifrastica è resa con il participio perfetto passivo OEOU)Ofl~VOL («salvati>>), che evidenzia l'iniziativa divina. L'espressione ricorre pure al v. 8.

sembra che l'autore desideri spingersi in una speculazione circa l'origine del male nell'uomo. Né si può pensare di reperire qui una prova della dottrina del peccato originale, così com'è stata elaborata successivamente. Piuttosto si può ammettere che con il tema del peccato originale tale espressione condivide uno dei dati di fondo: l 'umanità si trova sommersa in una storia di peccato e non può venirne a capo se non per pura grazia. Con le sue sole forze l'uomo non ce la può fare. Ancora una volta, allora, l'autore sottolinea le tinte negative delle premesse per far risaltare la bellezza dell'esito finale: «per natura meritavamo l'ira>>, ma «per grazia siete salvati>> (v. 5; tale contrasto ricorda da vicino le parole già accennate di Rm 3,23-24: «Tutti, infatti, peccarono e sono privi della gloria di Dio, e vengono giustificati gratuitamente per suo favore, mediante la redenzione che si trova per mezzo di Gesù Cristo»). La congiunzione avversativa «ma» (dé: 2,4) crea uno stacco. Serve a mettere in risalto il capovolgimento motivato esclusivamente dall'eccesso di amore e di misericordia da parte di Dio. Egli colloca i credenti a un livello inimmaginabile: dall'ira ora sono passati alla gloria, giungendo a condividere la condizione del Risorto. Si viene a creare così un vincolo tale da rendere il cristiano pienamente partecipe della vita di Cristo, della sua risurrezione e addirittura della sua intronizzazione nei cieli (cfr. in 2,5-6 la scansione dei verbi «con-vivificare>>, «con-risorgere», «con-far-sedere»). Ci si trova davanti a un eccesso di ottimismo soteriologico, che va sotto il nome di «escatologia realizzata»: i cristiani, pur ancora inseriti nelle traversie di questo mondo, sono associati al Risorto, e in questo modo assaporano e godono anticipatamente il traguardo finale cui il loro capo è già approdato (cfr. la questione dell'escatologia nell'Introduzione). Da notare come il sintagma

EFESINI2,7

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€v miç f.noupaviotç €v Xptcrr~ 'Ir)crou, 7 tva è:vòdçr)rat €v roiç aiwcrtv roiç €nepxo~Évotç rò ùnep~aÀÀov nÀouroç rfjç x, privi cioè delle aspettative messianiche. L'autore sa che il Cristo di Israele è ormai identificato con Gesù; solamente si pone nella prospettiva delle attese del giudaismo, che i pagani non potevano certo coltivare. La seconda: esclusi dalla «cittadinanza>> di Israele, cioè da quel sistema religioso e culturale, che, in particolare durante l'ellenismo, permetteva di riconoscersi appartenenti al popolo eletto, pur senza risiedere entro i confini territoriali di Israele. Ovviamente questo esclude i pagani pure dai «patti della promessa», cioè dagli impegni di Dio a favore del suo popolo. La terza: «senza speranza». Privi, quindi, della possibilità di ottenere quella salvezza, che era oggetto delle attese di Israele.

EFESINI 2,12

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oi Àe)'Ol!EVOt àKpo~ucrria ùrrò rfjç ÀE)'Ol!ÉVflç rrEpttollfiç Èv crapKÌ XEtporrOt~tOU, 12 on ~tE t4> Katp4> ÈKElV(f> xwpìç Xptcrrou, à1tf1ÀÀorptWllÉVOl rfjç rroÀtrdaç rou 'Icrpa~À Kaì ~évot rwv 8ta8f1KWV rfjç ÈrrayyEÀ{aç, ÈÀrr18a ll~ eyovrEç KaÌ a8EOl Èv t4> KOO"ll(f>· 13 vuvì 8è: Èv Xptcrt4> 'lf1crou Ùl!Eiç o! notE ovrEç llaKpà:v ÈyEV~8fltE èyyùç èv r4> al'llan rou Xptcrrou. 14 Aùròç yap Ècrnv tì Eip~v11 JÌllwv, ò rrm~craç rà: àl!> (o L ÀE'YD!!EVOL liKpo~uot(a) - Alla lettera: «soprannominati "prepuzio"». Sono i non appartenenti al popolo eletto, privi appunto della circoncisione. La definizione è resa con una metonimia, cioè viene no-

minata la parte fisica per indicare il tutto; o più precisamente la causa (l'incisione) per definire l'effetto (appartenenza a Israele). Quelli che si dicono «circoncisi» {tfìç ÀEYOI!ÉVTJç 1TEpL to~-tfìç)- Alla lettera: >, o, se si preferisce, finiscano quasi per essere sinomini (questo fenomeno si profila in maniera nitida negli scritti antileg6mena, quelli cioè la cui paternità è discussa): entrambi hanno come oggetto l'inclusione dei pagani in quell'identica salvezza che si pensava fosse esclusiva dei giudei. Per esprimere il contenuto del «mistero» l'autore -ancora una volta- seleziona alcuni termini a effetto e li inanella in una espressione curiosa: la novità sta nel fatto che i pagani sono «con-eredi», «con-corporei>> e «com-partecipi» (3,6; cfr. nota filologica per la traduzione italiana). L'imprevedibile partecipazione dei pagani impone anche un nuovo modo di esprimersi. Evidente la triplice ripetizione del prefisso syn- («con-»), similmente a 2,5-6. Ma mentre là si insisteva sul concetto di partecipazione alla vita risorta di Cristo da parte di tutti i credenti, ora l'insistenza verte sulla piena partecipazione alla salvezza in Cristo da parte dei pagani (come espresso in 2,11-22), senza differenza alcuna rispetto ai giudeocristiani. Grazie al disvelamento/attuazione del mistero ogni divisione etnica e religiosa è superata, e le componenti prima distanti o in conflitto ora confluiscono in una perfetta comunione vicendevole e con Dio.

EFESINI 3,8

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'EllOÌ T~ ÈÀUXlCITOTÉpy> mivTWV ayiwv ÈÒ0811 ~ xci:ptç UUTll, TOt) (3,9). Il richiamo alla creazione sottolinea certamente il fatto che nemmeno il creato, in tutta la sua grandiosità, è in grado di lasciar trapelare qualcosa del «mistero», però serve anche a ricordare come il mystiirion non sia una trovata dell'ultimo momento, una sorta di escamotage improvvisato, perché in realtà Dio coltivava l'intenzione segreta di attuarlo da sempre, fin dall'iniziale atto creativo. Altra novità sta nel fatto che, oltre a Paolo e agli apostoli e profeti, il «mistero» è

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EFESINI 3,11

8A

me, che sono l'infimo di tutti i santi, fu concessa questa grazia: annunciare ai pagani l'impenetrabile ricchezza di Cristo 9e illuminare [tutti] su quale sia la gestione del mistero nascosto da secoli in Dio, creatore di tutte le cose, 10 a:ffinché sia ora svelata ai Principati e alle Autorità nei cieli, mediante la Chiesa, la multiforme sapienza di Dio, 11 secondo il progetto eterno che ha realizzato in Cristo Gesù, il Signore nostro, CEI del 2008 sceglie, infatti, «attuazione>>, discostandosi dalla scelta fatta in 3,2. Cfr. le osservazioni a 1,10 e 3,2.

Del mistero nascosto da secoli (f.LUUtllPLOU "CWV atwvwv)- È

"COU al!OK~KPUf.Lf.LÉVOU anÒ

un'espressione identica a Col 1,26 e molto aderente a Rm 16,25: «il mistero avvolto nel silenzio per secoli eterni» (f.LUUtllP (ou XPOVO~ç aLWVLO~ç U~ULYllf.LÉVOU).

3,10 Multiforme sapienza(~ noì..uno(K~Àoç u(a)- L'aggettivo noì..unoLK~Àoç compare solo qui (è hapax dell'intera Bibbia). L'idea

di varietà è già contenuta nell'aggettivo (cfr. la tunica «variopinta» di Giuseppe in Gen 37,3) e l'aggiunta di noì..uç la rafforza. inserendo pure la sfumatura di inaccessibilità. L'origine divina della sapienza e la sua impenetrabilità sono un tema caro alla Bibbia; cfr., p. es., Gb 28,12-13.20-21; Pr 30,1-4; Sap 8,21; 9,13-17; Sir 1,1-8; Bar 3,14--4,4; lCor 2,6-16. 3,11 Il progetto eterno (npoe~u~v twv atwvwv)- Alla lettera: «progetto degli eoni». Cfr. nota a 2,7; 3,21.

no~KLÀoç

svelato pure alle Potenze del cielo, le realtà invisibili di natura trascendente («Principati e Autorità>>: 3,10), di cui in 1,21 s'è proclamato l'assoggettamento. La realtà tutta rientra nell'opera di armonizzazione e unificazione che Dio sta attuando (in 1,9-10, infatti, si dice che il mystÙion della volontà di Dio è comporre in unità la totalità del creato sotto l 'unica signoria di Cristo). Ma anche alle Potenze soggiogate vien data notizia del luogo in cui il mistero brilla: la Chiesa. Qui l'unità non è solo un proposito di Dio, perché grazie a Cristo è già divenuta realtà. Sono confluiti nell'unità ecclesiale anche popoli provenienti dal paganesimo (3,6). Per questo la Chiesa diventa strumento d'annuncio (3,10). Infatti, il dirlo pure alle Potestà, fra le quali alcune sono chiaramente ostili alla Chiesa, significa dimostrare la portata universale dell'evento ecclesiale, nel quale il cosmo intero in qualche modo è coinvolto. Anche le forze avverse, che tramano per la divisione e la conflittualità, vengono a sapere che i loro sforzi sono vani e che Cristo ha realizzato una realtà dove ormai regna l 'unità: la comunità ecclesiale, appunto (il linguaggio e probabilmente anche le intenzioni sono molto diverse, ma la portata cosmica di questo brano non può non far ricordare Rm 8,19-22, in cui anche il creato anela alla stessa libertà dei figli di Dio). Tali Potenze celesti sottomesse, destinatarie di questo annuncio, saranno pure oggetto di redenzione? Vien forse fatto loro quest'annuncio per "ingelosirle" e quindi riconciliarle (in l , l Osi dice che Dio sta agendo verso tutte le cose, sia quelle terrene che quelle celesti)? Bisogna limitarsi a porre la domanda senza spingersi oltre, tenendo presente però quanto verrà detto in 6,12: la battaglia spirituale contro i Principati e le Potenze è ancora aperta.

EFESIN13,12

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-r Kupi

fxO}!EV nìv napprtcriav KaÌ npocrayw)'IÌv Èv nenot8~cret òtà: ti]ç mcrTewç aù-rou. 13 òtò aìmu}.lat l!~ ÈyKaKEiv Èv -raiç 8ÀiljJecriv }!OU ùnèp Ù}!WV, ~nç Ècr-rìv ò6~a Ù}!WV.

3,12 Abbiamo la libertà di accedere con fiducia tEXOf.lE'V t~v 11appT]OtaV Kal 11pooaywy1lv Év 1TE'1TOL91loH)- La formulazione è ridondante, infatti, la traduzione letterale suonerebbe: «abbiamo franchezza e accesso con fiducia». I termini 11appT)Ota («franchezza») e 11pooaywY1l («accesso») costituiscono un'endiadi.

3,14 Pcub-e (tòv 11atÉpa)- Alcuni codici antichi dopo «Padre)) vedono l'aggiunta «del Signore nostro Gesù Cristm), ma l'omissione è maggiormente attestata: Chester Beatty II (IP46), Sinaitico (M), Alessandrino (A), Vaticano (B), Efrem riscritto (C) e altri. Dunque è da intendersi non come Padre di Gesù, ma del creato.

Il linguaggio, ora, acquista in precisione (anche se, come in altre occasioni, corre il rischio della ridondanza). Se il piano di Dio si realizza nell'attuazionerivelazione del «mistero» in precedenza nascosto, ora il suo disvelamento chiama in causa «l'impenetrabile ricchezza di Cristo» (3,8) e «la multiforme sapienza di Dio» (3,10). Ogni angolo del cosmo e della storia è illuminato dalla bellezza del «mistero», ogni piega della realtà ne è coinvolta (pure le Potenze celesti ne hanno notizia, come s'è visto), e questo chiama in causa l' incommensurabile grandezza di Dio. Anche se non secondo un rapporto di parità, all'immensità del cosmo corrisponde una manifestazione dell'immensità divina. Tuttavia se gli orizzonti dell'universo sono vastissimi, l'eccedenza trascendente di Dio e di Cristo (altrettanto e ancor più sconfinata) rimane imperscrutabile e inesauribile. Ma- ecco la sorpresa- non inaccessibile! Innanzitutto perché Paolo ne ha ricevuto la rivelazione e poi perché i credenti nei confronti di Dio hanno libero «accesso» (3,12; cfr. 2,18). Forse proprio per questo l'autore sente il bisogno di formulare una preghiera che sfocia nella dossologia (3,20-21), nonostante la situazione penosa della prigionia di Paolo. Lungo l'argomentazione dedicata al mystùion l'autore ha offerto anche molti dettagli sulla figura dell'Apostolo, che ci permettono di cogliere in quale considerazione fosse già tenuto al momento della stesura della lettera. Innanzitutto Paolo è per antonomasia il prigioniero del Signore (v. 1), gli appartiene totalmente. Poi è il recettore del «mistero», non solo nel senso che lo ha potuto capire, ma in quanto destinatario di una rivelazione (apokalypsis) diretta da parte di Dio; quindi, pur non rientrando nella categoria dei visionari dell'apocalittica, ne gode i privilegi (3,3). Paolo poi viene definito «servitore» del Vangelo (dùikonos: 3,7), in quanto annunciatore ai pagani della ricchezza insondabile di Cristo. Per introdurre questo tesoro inaccessibile, sulle labbra dell'Apostolo viene posta una dichiarazione di umiltà massima: il più infimo di tutti i credenti (3,8); tuttavia è lui che illumina tutti sull'attuazione del «mistero>> (3,9). Il paradosso implicito va evidenziato: si trova all'ultimissimo posto, ma è in grado di illuminare tutti. Infine, a mo' d'inclusione

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EFESINI 3,15

nel quale abbiamo la libertà di accedere con fiducia mediante la fede in lui. 13 Perciò vi invito a non scoraggiarvi per le mie tribolazioni a vostro vantaggio: sono la vostra gloria. 12

Per questo piego le ginocchia davanti al Padre, 15dal quale

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Piego le ginocchia (Kciwrrtw tà y6vo:tci f!OU) -Anche se il pio ebreo solitamente pregava in piedi, talora lo faceva con la prosternazione o la genuflessione, che indicava il riconoscimento di sottomissione e l'attestazione di uìniltà (cfr. Rm Il ,4 e Fil2, l 0). In 3,14 ha inizio un lungo periodo fino al

v. 19, che non è ben strutturato a livello sintattico a causa delle subordinate che si accavallano l'una sull'altra. 3,15 Stirpe- In traduzione non si può evidenziare la figura etimologica creata con la ripetizione, nei vv. 13-14, del tema no:tp- nei vocaboli no:tÉpo: ... no:tpui («Padre ... stirpe») e resa

della pericope, si ricordano le durezze a cui è sottoposto a causa della prigionia (3,13), anche queste però comprese in una luce trasfigurata: le sue tribolazioni sono la gloria dei credenti. Si tratta, dunque, solo di alcune pennellate rapide ma sufficienti per offrire un accurato ritratto di Paolo, presentato in tutta la sua statura di apostolo autorevole e venerato: privato della libertà, Paolo ha ricevuto una ricchezza incalcolabile e a tutti l'annuncia, ed è in grado infine di pregare lui, prigioniero, a vantaggio dei credenti e a lode di Dio (vv. 14-21). 3,14-21 Preghiera e dossologia

Paolo invoca Dio come fonte della vita, da cui sgorgano tutti i viventi nei cieli e sulla terra, ma lo fa non con l'appellativo di «creatore)), bensì con quello di «Padre» (cfr. 4,6). Si tratta probabilmente della sua paternità cosmica e non di quella esclusiva nei confronti di Cristo. Da lui, infatti, proviene ogni «stirpe» (patria): sia le famiglie, i clan e le nazioni sulla terra, sia le Potestà, le Potenze e i Principati in cielo (3,15). Menzionando l'estensione grandiosa della sua paternità, l'intercessione può spingersi a formulare le richieste più ardite per l'interiorità dell'uomo. Dalla sconfinata esuberanza creatrice di Dio l'autore passa a considerare la profondità del cuore umano («l'uomo interiore»), perché lì possa dimorare un'altra infinita grandezza: la forza dello Spirito e il Cristo stesso. La relazione del credente con Dio non poteva essere formulata in modo più incisivo di questo: lo Spirito che fortifica interiormente e l'inabitazione del Cristo dentro al cuore (viene in mente Gal2,20: «vivo, però non più io, ma vive in me Cristo»). L'autore auspica che l' incontenibile immensità di Dio abiti nel limite angusto del cuore umano; un'immensità di esplicito sapore trinitario: il Padre di ogni stirpe (v. 15), lo Spirito che dà forza (v. 16), il Cristo che abita nell'intimo (v. 17). I contorni di questa inabitazione, poi, sono difficilmente circoscrivibili in una definizione, e per questo il linguaggio è costretto a ricorrere a espressioni debordanti, che forzano le consuetudini linguistiche e concettuali. Innanzitutto le coordinate spaziali non sono più solo tre («larghezza, lunghezza, altezza))), perché ne viene aggiunta una quarta

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oÒ mxcra: na:-rptÒ: EV oÙpa:voiç KO:Ì ÉnÌ yfjç ÒVO}.l>- possa essere riversata nei credenti non viene precisato (si tratta chiaramente di una ripresa di quanto detto prima: il raffmzamento interiore per opera dello Spirito e l'inabitazione di Cristo nei cuori). Ancora, di Dio si dice che è colui che può realizzare molto più («ben al di là») di quanto la preghiera possa Invocare e l'immaginazione riesca a concepire. Tuttavia davanti alla spropon:ione della generosità divina non compare alcun timore o smarrimento: nessuna distanza si frappone tra Dio e gli uomini, perché tutta questa sovrabbondanza è donata ai credenti ed è già operativa: «secondo la fon:a che agisce in noi» (3,20). Da tali considerazioni scaturisce spontaneamente la dossologia finale, che assieme a Cristo,

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8EOU. 20 T4J ÒÈ: ÒUVa}lfV(f> Ù1tÈ:p 1tCXVra 1t0tficrat Ù1tEpEK1tEpl à#wç 1tEpmaTficrat Tfiç KÀ~) -L'inizio del quarto capitolo è simile a quello del capitolo terzo. Con una differenza: qui Paolo è prigioniero «nel» Signore, mentre là era il prigioniero «di» Cristo (o OÉo~J.LOç

dimensioni, sia per il legame con la parte teologica. Nel presente scritto la sezione etica è così ampia da coprire la metà della lettera (come in quella ai Colossesi; nella lettera ai Romani, p. es, occupa i capitoli da 12,1 a 15,13). Il collegamento logico con la sezione precedente è offerto dall'avverbio «dunque» (4, l), che mostra come il seguito sia in qualche modo da intendersi come la conseguenza delle considerazioni fatte a livello teologico. L'utilizzo, poi, del verbo «esortare» (parakaléo) mette in luce come si tratti non semplicemente di una esortazione formale e distaccata, ma di una richiesta carica di sollecitudine e di partecipazione (cfr. nota filologica). Le indicazioni concrete, poi, non si discostano dali' ethos condiviso ali' epoca; infatti, si possono rinvenire molteplici somiglianze con i comportamenti raccomandati dagli autori pagani; ciononostante il terreno in cui fioriscono è diverso: la condotta del cristiano nasce da un rapporto e da una conoscenza di Cristo (cfr. 4,20) e ha come fine ultimo l'edificazione della comunità cristiana. Anche il c. 4, come i precedenti, è consacrato al tema dell'unità, declinato tuttavia non più dal punto di vista della partecipazione degli etnocristiani alla stessa eredità dei giudeocristiani, bensì a partire da una visione squisitamente ad intra (interna, cioè, alla comunità): la molteplicità dei doni e dei servizi proviene da un 'unica fonte divina e concorre alla crescita unitaria e armoniosa dell'organismo ecclesiale (vv. 1-16). Da questa concezione unitaria della Chiesa derivano, poi, alcuni comportamenti concreti, che descrivono la vita nuova in Cristo (4, 17-5,20).

4,1-16 L'unità ecclesiale nella diversità dei ministeri L 'unità ecclesiale fondata sul/ 'unità di Dio (4, 1-7). Il tono esortativo s'impone con evidenza a partire dal v. l: «Vi esorto ... a comportarvi», in cui compare un

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-rarretvocppooovrtç KaÌ rrpaihrt-roç, J.I.E-rà paKpo8upiaç, à:vex6pevot àÀÀ~Àwv év àyarrn, 3 orrouòa~ovn:ç -rrtpEiv -r~v f:v6-rrt-ra -rou ltVEUJ.I. lTVEUIJ.ator;) -Di quale lTVEÙIJ.a si parla? Essendo evidente l'impossibilità di intenderlo come spirito del singolo cristiano, si fa riferimento allo spirito di Dio (quindi allo Spirito Santo) o allo spirito ecclesiale? Alcuni esegeti propendono per l'interpretazione pneumatologica, altri per quella ecclesiale; tuttavia, essendo

elenco di virtù necessarie alla vocazione cristiana. Ma (come era capitato anche in 2,1 e in 3,1) l'argomento cede improvvisamente il passo a un'altra tematica più urgente, per tornare a riaffiorare solo in seguito al v. 17. Le virtù ricordate, infatti, non sono un codice comportamentale per il buon cittadino, ma hanno come scopo esclusivo una convivenza ecclesiale fraterna. Non viene consegnata, quindi, una lista per la condotta virtuosa, sulla scorta delle raccomandazioni, presenti nella cultura greca, rivolte, p. es., al sovrano, al filosofo o al condottiero- in cui, eccetto l' .

ecclesiale. La struttura della comunità, infatti, articolata secondo una diversità di ruoli e di compiti, non è - ancora una volta- conseguenza di una strategia organizzativa, ma è frutto di un'iniziativa dall'alto, secondo un dono di grazia. Con una sola differenza: se prima l'attenzione si focalizzava in ultima battuta su Dio (v. 6), ora l'argomentazione è tutta centrata su Cristo, latore di ogni dono (v. 8). Salendo in alto ha distribuito doni (4,8-1 0). La posizione del Risorto riceve una coloritura tutta particolare per la solennità con cui viene introdotta; si cita, infatti, Sal 68,19 ( 67,19 LXX), con qualche adattamento: «Salendo in alto ha catturato prigionieri, ha distribuito doni agli uomini». Questa citazione ha diversi pregi perché sintetizza messaggi differenti con un'unica frase: l'ascensione di Gesù al cielo, il suo trionfo sui nemici, l'elargizione dei doni. Ovviamente si trascende il senso letterale del salmo, perché non si descrive più l'ingresso trionfale in Sion dell'esercito vittorioso, con il seguito dei prigionieri e del bottino da distribuire al popolo. Infatti, il testo salmico è ripreso ora per cele-

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EFESINI 4,9

"tÒ ÒÈ cXVÉ~f1 -r{ È:onv, El l!~ on KaÌ Ka"tÉ~f1 El), sia perché si impone per il prosieguo al v. 11 («è lui che ha donato alcuni come apostoli, altri come profeti...»). Questa rilettura di Sal 68, 19 deriva da una comprensione attualizzata dell' AT, che alla luce della novità cristologica può sprigionare nuovi e più ampi significati; in altre parole di tratta di un esempio di mìdrash cristiano sul testo salmico. Questa rilettura del salmo apre a una digressione cristologica su quella che potremmo definire la "carriera" di Cristo, ossia la traiettoria completa della sua esistenza e missione (4,9-1 0). La storia dell'interpretazione di questi versetti si mostra assai vivace e complessa, poiché, mentre per l'ascensione non si sono mai incontrate difficoltà interpretative, per la discesa sono state formulate diverse congetture: a) discesa agli inferi, b) discesa nell'incarnazione, c) discesa a Pentecoste. a) La prima ha incontrato sostenitori fin dall'antichità, ma la difficoltà a riconoscere la dottrina del descensus ad ìnferos sta proprio nella visione cosmologica di Efesini, che non è mai distinta in tre livelli (cielo, terra, inferi; cfr. Fil 2,10), ma sempre in due (cielo e terra). Se poi la «prigionia>> riguarda le potenze diaboliche sconfitte, queste dimorano in cielo e non sotto terra (cfr. 1,21; 3,10; 6,12). Inoltre, non si comprende come la discesa agli inferi si integri nel contesto dell'edificazione ecclesiale. Vale, infine, il valore epesegetico dell'espressione

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Ma dire che «è salito» non implica forse che è anche sceso sulla terra? 10Colui che è disceso è lo stesso che è quaggiù anche salito al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose.

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r

,

papiro Chester Beatty II (1})46) e nei codici Sinaitico (N) e Alessandrino (A). Anche la precisazione f!ÉPTJ («parti») va intesa come una glossa aggiunta per chiarire la localizzazione; infatti, non è presente nel papiro Chester Beatty II (1})46) e nel codice Claromontano (D).

Quaggiù sulla terra (Eiç "t"à K (nE pL1TIX'tEt n Èv àyann: 5,2), «Cristo ci ha amati» (o Xpta'tÒç ~y&n,oEv lÌiJ&ç: 5,2). Circa il verbo «camminare» (1TEpL1TIX'tEtv), cfr. 2,2.10; 4,1. 5,2 Come anche (KaSWç Ka() - Kaewç può essere comparativo (amare «come» Cristo ci

diavolo (il tennine didbolos spunta qui e in 6,11 ), connessa con l'ira degli uomini, quasi ne fosse l'ispiratore (in 2,2 il demonio è associato alla ribellione). Ora, se c'è ancora spazio per un tempo di prova e di lotta, questo attenua la percezione di una vittoria definitiva; la battaglia contro le forze del male, infatti, è ancora aperta e il campo dove avviene lo scontro è l'uomo e la sua condotta: anche se la vittoria è già stata decretata, di fatto il conflitto tra uomo vecchio e uomo nuovo non è ancora cessato. 5,1-14 Dalla tenebra alla luce Il tenore esortativo del c. 4 fluisce senza alcuna soluzione di continuità anche nel c. 5, tanto che 5,1 è fortemente connesso con quanto precede: in 4,32 si chiede di essere pronti a perdonare agli altri proprio come Dio stesso perdona a noi, e in 5,1, coerentemente, si domanda di diventare, appunto, «imitatori di Dio». Il tema dell'«imitazione», diffuso nella cultura greca soprattutto per il rapporto archetipo-copia di stampo platonico (nell'arte, soprattutto, ma anche nell'etica: bisognava imitare gli eroi e gli dei), non ha corrispondenti diretti nella Scrittura; che si possa imitare il Dio Altissimo è un'idea del tutto estranea al linguaggio biblico (in Is 46,5 si dice che lui non è paragonabile a nulla e a nessuno), anche se si farà strada nel giudaismo ellenistico e rabbinico. Nei vangeli emerge l'insistenza di essere misericordiosi (cfr. Le 6,36) e perfetti come lo è il Padre (Mt 5,48). Paolo, poi, chiede che i cristiani imitino lui (1Cor4,16; Fil3,17; 2Ts 3,7), il quale a sua volta è imitatore di Cristo (lCor 11,1): infatti, i cristiani sono divenuti imitatori (mimetat) sia di Paolo che del Signore (lTs 1,6). Ma l'imitazione diretta di Dio non compare mai esplicitamente nel NT, eccetto qui. Ovviamente il comando «diventate imitatori di Dio>> (5,1) è un'espressione iperbolica, dal momento che Dio rimane l'ineguagliabile per eccellenza; ciononostante una piccola breccia viene aperta dal tema dell'amore: imitare Dio significa riprodurne nella propria vita l'amore misericordioso. L'esortazione. a «camminare nell'amore» (5,2) è incastonata tra due constatazioni di quanto amore si riversi su di noi: siamo «figli amati» da Dio (5,1) e amati da Cristo in forza della sua offerta sacrificate: «ci ha amati e ha

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EFESINI 5,3

KaÌ napÉÒWKEV È:aUTÒV ÙnÈ:p ~lJWV npoo