Lettera agli Ebrei. Introduzione, traduzione e commento 9788821592652, 8821592650

Testo greco a fronte. La lettera agli Ebrei, secondo una ormai nota espressione di E. Grässer, non è una lettera, non è

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Lettera agli Ebrei. Introduzione, traduzione e commento
 9788821592652, 8821592650

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FILIPPO URSO, sacerdote dell'Arcidiocesi diTa­ ranto, Cappellano del Presidio Ospedaliero Cen­ trale "SS. Annunziata", Vicario Episcopale per la Vita Consacrata e per la Pastorale della Salute, è dottore inTeologia Biblica, insegna NuovoTesta­ mento all'Istituto Superiore di Scienze Religiose "R. Guardini" di Taranto ed è Consultore Pontifi­ cio della Congregazione delle Cause dei Santi, di­ rettore dell'Ufficio Diocesano e Regionale per la pastorale della salute in Puglia, membro della Consulta Nazionale CEI per la pastorale sanitaria.

È direttore editoriale della

Rivista Fides et Ratio e

collabora con altre riviste specializzate. Ha pub­ blicato «Imparò l'obbedienza dalle cose che patì»

(Eb 5,8). Il valore educativo della sofferenza in Gesù e nei cristiani nella Lettera agli Ebrei, Roma 20052; La sofferenza educatrice nella Lettera agli Ebrei, Bo­ logna 2007 ed è coautore con A. Scognamillo di

Bioetica. Una proposta per la scuola, San Giorgio Jonico 2008 e curatore di diversi studi di etica sanitaria.

Copertina: Progetto grafico di Angelo Zenzalari

Presentazione N"LOVA VERSIO:\E DELLA BIBBIA DM TEST! A'\TICHI

L

a Nuova versione della Bibbia dai testi antichi si pone sulla scia di una Serie inaugurata dall'editore amargine dei lavori conciliari (la Nuovissima versione della Bibbia dai testi originali), il cui primo volume fu pubblicato nel 1967. La nuova Serie ne riprende, almeno in parte, gli obiettivi, arricchendoli alla luce della ricerca e della sensibilità contemporanee. I volumi vogliono offrire anzitutto la possibilità di leggere le Scritture in una versione italiana che assicuri la fedeltà alla lingua originale, senza tuttavia rinunciare a una buona qualità letteraria. La compresenza di questi due aspetti dovrebbe da un lato rendere conto dell'andamento del testo e, dall'altro, soddisfare le esigenze del lettore contemporaneo. L'aspetto più innovativo, che balza subito agli occhi, è la scelta di pubblicare non solo la versione italiana, ma anche il testo ebraico, aramaico o greco a fronte. Tale scelta cerca di venire incontro all'interesse, sempre più diffuso e ampio, per una conoscenza approfondita delle Scritture che comporta, necessariamente, anche la possibilità di accostarsi più direttamente ad esse. Il commento al testo si svolge su due livelli. Un primo livello, dedicato alle note fìlologico-testuali-lessicografiche, offre informazioni e spiegazioni che riguardano le varianti presenti nei diversi manoscritti antichi, l'uso e il significato dei termini, i casi in cui sono possibili diverse traduzioni, le ragioni che spingono a preferirne una e altre questioni analoghe. Un secondo livello, dedicato al commento esegeticoteologico, presenta le unità letterarie nella loro articolazione, evidenziandone gli aspetti teologici e mettendo in rilievo, là dove pare opportuno, il nesso tra Antico e Nuovo Testamento, rispettandone lo statuto dialogico. Particolare cura è dedicata all'introduzione dei singoli libri, dove vengono illustrati l'importanza e la posizione dell'opera

PRESENTAZIONE

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nel canone, la struttura e gli aspetti letterari, le linee teologiche fondamentali, le questioni inerenti alla composizione e, infine, la storia della sua trasmissione. Un approfondimento, posto in appendice, affronta la presenza del libro biblico nel ciclo dell'anno liturgico e nella vita del popolo di Dio; ciò permette di comprendere il testo non solo nella sua collocazione "originaria", ma anche nella dinamica interpretativa costituita dalla prassi ecclesiale, di cui la celebrazione liturgica costituisce l'ambito privilegiato.

I direttori della Serie Massimo Grilli Giacomo Perego Filippo Serafini

Annotazioni di carattere tecnico NUWA VERSIO"iE DELL\ BIBBIA DAl TESTI ANT!Clll

Il testo in lingua antica Il testo greco stampato in questo volume è quello della ventottesima edizione del Novum Testamentum Graece curata da B. Aland - K. Aland - J. Karavidopoulos - C.M. Martini - Bruce M. Metzger (2012) sulla base del lavoro di E. Nestle (la cui prima edizione è del 1898). Le parentesi quadre indicano l'incertezza sulla presenza o meno della/e parola/e nel testo. La traduzione italiana Quando l'autore ha ritenuto di doversi discostare in modo significativo dal testo stampato a fronte, sono stati adottati i seguenti accorgimenti: i segni • • indicano che si adotta una lezione differente da quella riportata in greco, ma presente in altri manoscritti o versioni, o comunque ritenuta probabile; le parentesi tonde indicano l'aggiunta di vocaboli che appaiono necessari in italiano per esplicitare il senso della frase greca. Per i nomi propri si è cercato di avere una resa che non si allontanasse troppo dall'originale ebraico o greco, tenendo però conto dei casi in cui un certo uso italiano può considerarsi diffuso e abbastanza affermato. I testi paralleli Se presenti, vengono indicati nelle note i paralleli al passo commentato con il simbolo l l; i passi che invece hanno vicinanza di contenuto o di tema, ma non sono classificabili come veri e propri paralleli, sono indicati come testi affini, con il simbolo •!•. La traslitterazione La traslitterazione dei termini ebraici e greci è stata fatta con criteri adottati in ambito accademico e quindi non con riferimento alla pronuncia del vocabolo, ma all'equivalenza formale fra caratteri ebraici o greci e caratteri latini.

ANNOTAZIONI

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L'approfondimento liturgico Redatto da Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli, rimanda ai testi biblici come proposti nei Lezionari italiani, quindi nella versione CEI del 2008.

LETTERA AGLI EBREI Introduzione, traduzione e commento

a cura di Filippo Urso

~

SAN PAOLO

Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece, 28th Revised Edition, edited by Barbara and Kurt Aland, Johannes Karavidopoulos, Carlo M. Martini, and Bruce M. Metzger in cooperation with the lnstitute for New Testament Textual Research, Miinster!Westphalia, © 2012 Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart. Used by pennission

© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2014

Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. . Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9265-2

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TITOLO E POSIZIONE NEL CANONE

Titolo La lettera agli Ebrei, secondo una ormai nota espressione di E. Grasser, non è una lettera, non è di Paolo, né è stata inviata agli ebrei 1• È invece un magnifico e dotto «discorso di esortazione» (cf. Eb 13,22) sul sacerdozio di Cristo, messo per iscritto e poi inviato a cristiani vittime di opposizioni e persecuzioni, bisognosi di una parola di incoraggiamento e di consolazione per rimanere saldi in Gesù, «autore e perfezionatore» della loro fede (12,2), unico mediatore tra Dio e gli uomini. Il titolo «Agli Ebrei» (Pròs Hebraious) non fa parte dell'opera, ma è stato aggiunto successivamente. Infatti, non c'è alcun riscontro nel testo di questo nome o di quello di «giudei» oppure di «>: Il castigo e il perdono dei peccati, 1,27,50. 8 Questo stesso canone è attribuito anche al concilio di Cartagine del397 (canone 47) ed è stato ribadito nel Concilio di Cartagine del419 (canone 29).

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accompagnamento (cf. 13,22-25; in particolare al v. 22: epésteila hymin, «vi invio»). · Una lettura attenta rileva che Ebrei appartiene al genere del discorso e non a quello della lettera, perché l'opera è proclamata a viva voce a una comunità cristiana in un contesto liturgico eucaristico e poi redatta per iscritto e inviata ad altre comunità con un biglietto di accompagnamento. L'autore non fa mai riferimento al suo scrivere e non si rivolge a degli uditori da cui è separato. Piuttosto, si riferisce a quanto dice loro (cf. 5,11; 6,9; 8,1; 9,5; 11,32). L'alternanza delle esposizioni dottrinali e di quelle esortative ha fatto congetturare la fusione in un unico scritto di due opere, una d'Intento apologetico nei confronti del giudaismo e l'altra di natura parenetica che invita a vivere quanto ricevuto come insegnamento (cf. 2,1-4; 3,7-4,16; 5,11-6,20; 10,19-39; 12,1-13,18). Tale congettura non è sostenibile perché le sezioni dottrinali e quelle esortative hanno rapporti reciproci e la parenesi esorta ad accogliere il messaggio della fede. Alla luce dell'espressione «discorso di esortazione» (16gou t~s parakMseos) di 13,22, alcuni esegeti hanno accentuato la dimensione esortativa dell'omelia, ridimensionando quella dottrinale. Ma un discorso di esortazione può contenere in sé anche dei temi dottrinali. Nell'intervento presso la sinagoga di Antiochia di Pisidia (cf. A t 13, 15-41) l'apostolo Paol0 usa la stessa espressione (16gos parakMseos, At 13,15) e il contenuto di quel discorso è un'esposizione dottrinale sul compimento cristologico della storia della salvezza; solo negli ultimi due versetti conclude con un'esortazione. Nella lettera agli Ebrei l'esposizione dottrinale è presente fin dall'esordio e si alterna ai contenuti parenetici lungo tutto il corso dell'omelia. L'intento dell'autore di Ebrei è quindi quello di esortare a rimanere saldi negli insegnamenti ricevuti (cf. 2,4; l 0,26). Sotto il profilo letterario e stilistico la lettera agli Ebrei presenta il greco migliore tra gli scritti neotestamentari, che corrisponde all'erudizione giudaico-ellenistica del suo tempo. Ma, come gli altri scritti del Nuovo Testamento, dal punto di vista del contenuto prende le distanze dal pensiero greco e custodisce la divina rivelazione.

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Struttura letteraria L'autore, da grande maestro d'arte letteraria, facendo ricorso a procedimenti di composizione - propri della sua formazione giudaico-ellenista - scrisse la sua opera secondo un sistema articolato di relazioni e di disposizioni delle parti. I criteri di carattere stilistico e letterario che permettono di scoprire la disposizione letteraria dell'intera lettera sono: l) gli annunci dei temi (cf. 1,4; 2,17-18; 5,9-10; 10,36-39; 12,13); 2) le inclusioni, ovvero la ripetizione di una stessa parola o di una stessa espressione all'inizio e alla fine di una frase, di una pericope, di una sezione o di una parte della lettera; 3) i cambiamenti del genere letterario espositivo o esortativo; 4) il vocabolario, che caratterizza lo scritto; 5) le parole gancio, cioè la ripresa immediata di una parola o di una espressione al fine di collegare la conclusione di una unità letteraria con l'inizio di quella successiva; 6) le disposizioni simmetriche secondo le quali le pericopi, le sezioni e le parti della lettera si corrispondono tra loro. Alla luce di questi accorgimenti stilistici è possibile scoprire, tra l'esordio (1,1-4) e la conclusione (13,20-21), una divisione della lettera in cinque parti, così come è stata validamente argomentata da A. Vanhoye9 : Esordio (1,1-4) La posizione di Cristo (1,5-2,18) l ,5-14 Cristo glorificato, Figlio di Dio superiore agli angeli Esortazione: Situazione dei cristiani 2,1-4 2,5-18 Cristo glorificato, fratello degli uomini e solidale con loro Gesù sommo sacerdote degno di fede e misericordioso (3,1-5,10) A. 3,1-4,14 Gesù sommo sacerdote degno di fede nei rapporti con Dio. B. 4, 15-5, l O Gesù sommo sacerdote misericordioso nei rapporti con gli uomini

9 A. Vanhoye, La structure littéraire de l'épitre aux Hébreux, Descléè De Brouwer, Paris 19762•

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Gesù sommo sacerdote perfetto (5,11-10,39) 5,11--6,20 Esortazione preliminare A. 7,1-28 Cristo sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek B. 8,1-9,28 Cristo reso perfetto dal suo sacrificio personale C. 10,1-18 Cristo causa di salvezza eterna 10,19-39 Esortazione .fina/e a una vita cristiana generosa Fede e perseveranza (11,1-12,13) A. 11,1-39 La fede degli antichi B. 12,1-13 Esortazione alla perseveranza per i credenti nella prova Esortazione a una vita retta nella santità e nella pace (12,14-13,21) 12,14-29 Perseguire la santificazione 13,1-6 Orientamenti concreti per la vita cristiana 13,7-19 Indicazioni per un'autentica comunità cristiana fedele e obbediente 13,20-21 Augurio finale e dossologia Biglietto di accompagnamento (13,22-25) Lo schema sopra indicato evidenzia chiaramente che la lettera si dispone secondo una simmetria di tipo concentrico. La simmetria non è solo letteraria, ma anche tematica. Le cinque parti si corrispondono concentricamente intorno a una parte centrale che è la terza (7, 1-1 O, 18), quella più consistente (132 versetti sui 303 dell'intero scritto). Questa terza parte sviluppa il tema del sacerdozio di Cristo, il cui sacrificio ha un valore senza eguali perché, a differenza dei sacrifici antichi, ha eliminato il peccato e ha santificato i credenti. Tra la seconda parte, su Gesù sommo sacerdote degno di fede e misericordioso (3,1-5,10), e la quarta parte, riguardante la fede e la perseveranza dei credenti ( 11,1-12,13), è da rilevare una corrispondenza negli argomenti sviluppati: nella quarta parte, l'esortazione rivolta ai cristiani ad accogliere le prove e le tribolazioni come educazione divina si fonda sul tema - sviluppato nella seconda parte - della passione e morte di Gesù, che si è fatto solidale con gli uomini in tutto - escluso il peccato - e ha scelto di imparare

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l'obbedienza dalle cose che patì; inoltre, Cristo, sommo sacerdote degno di fede,·è il fondamento della fede dei credenti ed essi sono chiamati da lui a dare l'obbedienza della fede. Infine, vi è un rapporto anche tra la prima parte, riguardante Gesù Figlio di Dio divenuto simile ai fratelli e sommo sacerdote per cancellare i peccati del popolo (1,5-2,18), e la quinta parte, relativa all'esortazione a una vita. retta nella santità e nella pace (12,14-13,21): Gesù con la sua passione e morte si è preso cura (cf. 2, 16) dei cristiani che coine capofila ha guidato alla salvezza (cf. 2,10). I cristiani, grazie all'offerta sacrificate di Cristo, sono chiamati a camminare sulla «via nuova e vivente» (10,20) da lui percorsa, perseverando nella volontà di Dio e agendo cristianamente, secondo le due direzioni della carità: i rapporti con Dio, nella tensione verso la santità, e quelli con il prossimo, nella ricerca della pace.

LINEE TEOLOGICHE FONDAMENTALI

Il ruolo primaziale di Cristo Gesù Re-Messia intronizzato alla destra di Dio Nella conclusione dell'esordio (cf. 1,4), con una frase sulla superiorità di Cristo sugli angeli, il predicatore annuncia l'esposizione sul «nome» che il Figlio ha ricevuto in eredità e che è «più eccellente» di quello degli angeli (da 1,5 a 2,18). Si tratta di un'esposizione di cristologia secondo la quale in Gesù di Nazareth si sono compiute le profezie messianico-davidiche del Sal 2,7 e di 2Sam 7,14 (=lCr 17,13), a proposito di un figlio di David, un Re-Messia, il cui trono sarebbe. stato stabile per sempre. Gli uditori di Ebrei riconoscono l'origine dei testi citati (Sal 2, 7 e 2Sam 7, 16= l Cr 17,13), comprendono che Dio li aveva pronunziati e che si applicano al Cristo risorto:«la promessa fatta ai padri, Dio l'ha adempiuta per noi, loro figli, facendo risorgere Gesù, come è scritto nel salmo secondo: Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (At 13,32-33). Solo alla fine (cf. Eh 2, 17) il predicatore giunge al tema della sua cristologia sacerdotale che contempla Gesù glorificato, «Figlio di

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Dio» (1,5-14) e «fratello nostro» (2,5-16), intimamente unito a Dio nella gloria celeste e, al tempo stesso, strettamente unito agli uomini: egli è il «mediatore perfetto» tra Dio e il popolo, cioè il «sommo sacerdote», «nome» questo che meglio corrisponde alla sua posizione gloriosa dopo la passione e morte. Il «nome», cioè la persona di Cristo, è quindi messa in relazione con Dio ed è compresa alla luce della sua posizione gloriosa in cielo, per cui Cristo è il Figlio superiore agli angeli (cf. l ,5), Signore e creatore dell'universo (cf. vv. 10-12), intronizzato alla destra di Dio (cf. vv. 8.13 ); al tempo stesso la persona di Cristo è compresa alla luce della sua relazione solidale con gli uomini: Gesù, fratello degli uomini, attraverso l'abbassamento della passione e morte è stato coronato «di gloria e di onore» (2,7; cf. 2,5-9) e, solidale con gli uomini, ha donato loro la salvezza (cf. 2, l 0-16), attraverso il suo sacerdozio misericordioso e degno di fede (cf. 2,17 -18). Cristo sommo sacerdote misericordioso In 2,17 per la prima volta l'autore parla di sacerdozio e applica a Gesù il titolo di «sommo sacerdote» (2, 17), qualificando lo come «misericordioso e degno di fede». Queste due qualificazioni esprimono la doppia relazione necessaria per l'esercizio della mediazione sacerdotale di Gesù, che è relazione con Dio e con gli uomini, e corrispondono a due aspetti della mediazione di alleanza. Il mediatore deve, infatti, essere da una parte «degno di fede», per mettere il popolo in relazione con Dio (cf. 2,17), e dall'altra «misericordioso», per poter venire in aiuto fraternamente agli uomini che sono nella prova. (cf. 2, 18). Cristo, Figlio di Dio (1,5-14) e fratello degli uomini (2,5-18), è colui che è credibile e misericordioso. La sua credibilità e autorità, riguardo ai rapporti con Dio, si fondano nel suo essere Figlio e nell'obbedienza al Padre, mentre la misericordia verso gli uomini si realizza in virtù del suo essere fratello e della carità misericordiosa verso di loro. Gesù glorioso non è lontano dagli uomini, perché il conseguimento della gloria è avvenuto mediante una solidarietà estrema con loro, attraverso un cammino doloroso di obbedienza al Padre fino alla morte di croce (5,5-10).

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L'autore sviluppa dapprima l'aspetto dell'autorità di Cristo (cf. 3,1-6) e presenta poi quello della compassione (cf. 4,15-5,10): in questo modo stabilisce una corrispondenza con quanto esposto prima, a proposito della sua posizione gloriosa di Figlio di Dio (1,5-14) e, poi, della sua solidarietà con gli uomini attraverso la sofferenza (2,5-18). Con questa impostazione il predicatore vuole presentare il Cristo così come Egli è attualmente, cioè sommo sacerdote glorioso che dal Cielo parla ai credenti con autorità divina; in un secondo momento rende conto di questa posizione gloriosa richiamando il cammino di sofferenza che ha attraversato. Novità e superiorità del sacerdozio di Cristo Dopo aver presentato Cristo sommo sacerdote, l'autore espone in 5,11-10,39 una sintesi dell'azione salvifica realizzata dalla mediazione sacerdotale di Gesù, che ha portato a compimento il sistema cultuale e sacerdotale dell'Antico Testamento. Il sacerdozio anticotestamentario mediava attraverso il culto il rapporto tra Israele e Dio. La mediazione avveniva in tre tappe: quella ascendente, quella centrale e, infine, quella disçendente. La tappa ascendente consisteva nella santificazione del sacerdote che, mediante una serie di separazioni rituali, era posto nella sfera del sacro (cf. Es 29; Lv 9). Poi il sacerdote era in grado di offrire le vittime sacrificali ed entrare in comunione con Dio per intercedere per sé e per il popolo. La tappa centrale avveniva una volta all'anno, quando il sommo sacerdote per mezzo del sangue di animali sacrificati entrava nel Santo dei Santi ed era ammesso nella dimora di Dio. Nella tappa discendente il sommo sacerdote trasmetteva al popolo i doni di Dio, cioè il perdono delle colpe, le istruzioni e le benedizioni divine. Queste tre tappe vengono trasformate nel mistero pasquale di passione, morte e risurrezione di Cristo: la tappa ascendente si è realizzata nella offerta esistenziale che Gesù fece di sé, attraverso un cammino doloroso di apprendimento dell'obbedienza. Nella tappa centrale Cristo è entrato non in un santuario fatto da mani d'uomo, ma realmente nell'intimità di Dio (cf. 4,10), dopo aver «attraversato i cieli» (4,14), e la sua offerta è stata gradita a Dio.

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Nella tappa discendente Cristo è venuto in soccorso degli uomini (cf. 2,18), espiando i loro peccati (2,17) e santificandoli, al fine di introdurli nel riposo di Dio (3,14). L'autore di Ebrei presenta dapprima la tappa centrale (7,1-28), che vede Gesù nello stato attuale di gloria alla destra del Padre. Cristo possiede un sacerdozio di genere diverso, non «secondo l'ordine di Aronne» (7, 11 ), ma «secondo l'ordine di Melchisedelo> (7, 11.17), cioè secondo una perfezione mai raggiunta prima. Cristo glorificato è sacerdote in modo nuovo sia perché il suo sacerdozio non discende da quello di Aronne - Gesù infatti apparteneva a una tribù notoriamente non sacerdotale come quella di Giuda-, sia perché, «a somiglianza di Melchisedek» (7, 15), è «sacerdote per l'eternità» (7, 17); e ancora: se Melchisedek, era sacerdote per sempre, in perpetuo (cf. 7,3 ), ·Gesù è sacerdote «per l'eternità» (7, 17), grazie alla «potenza di una vita indistruttibile» (7, 16), vittoriosa sulla morte e ora risorta e gloriosa. Segue la tappa ascendente (8,1-9,28), nella quale Gesù, grazie all'offerta della sua vita, è accolto da Dio e presenta le offerte e le domande del popolo. Cristo è stato reso veramente perfetto dal suo sacrificio ed è entrato nel santuario vero, cioè il «cielo stesso» (9,24), divenendo il mediatore della nuova alleanza (cf. 9, 15) profetizzata da Geremia. Infine, nella tappa discendente (10,1-18) viene considerata l'efficacia salvifica del sacrificio di Cristo a favore degli uomini, rispetto all'impotenza salvifica della Legge antica.

Situazione nuova dei credenti Grazie al sacrificio di Cristo e al suo genere nuovo di sacerdozio la situazione dei credenti è radicalmente trasformata. Essi, in virtù della mediazione salvifica di Cristo, si trovano in una situazione privilegiata di accesso al santuario vero dei cieli, cioè a Dio, attraverso una via per accedervi e un sacerdote per guidarli: Gesù è la «via nuova e vivente» (10,20) d'ingresso nel santuario celeste (cf. 9,12; 10,19) e la guida (cf. 12, 2) dei credenti fino al «cielo stesso» (9,24), dove egli è assiso (cf. 12,2). Inoltre, i credenti, in virtù del sangue di Cristo, possono accostarsi a Dio in pienezza di fede, mantenendo ferma la speranza e

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incoraggiandosi nella carità in attesa di Gesù che verrà. Tuttavia, il pericolo di defezioni dalla fede e dagli impegni della vita cristiana è reale. Per questo è necessario avere fede ed essere perseveranti nelle prove per aderire a Cristo sommo sacerdote. Il tema della perseveranza o sopportazione durante le sofferenze - «Di perseveranza, infatti, avete bisogno» (10,36)- e quello della fede- «Il mio giusto vivrà di fede» (10,38; cf. 10,39)- costituiscono i due argomenti di Eh 11,1-12,13. Il predicatore svilupperà prima il tema della fede dei personaggi antichi (11,1-40), e poi quello della perseveranza, perché i credenti siano costanti nella vita cristiana con, e nonostante, le persecuzioni (12,1-13). Iniziando da Abele e arrivando fino al tempo dei Maccabei, attraverso i patriarchi, i giudici e i profeti l'autore narra con entusiasmo - secondo il genere elogiativo non dottrinale, ma storico (cf. Sir 44, 1-50,24)- il grande valore della loro fede testimoniata tra molte prove e sofferenze. La persona di «Cristo» ( 11 ,26), - nominato al centro del discorso del capitolo 11 - costituisce il fondamento del cammino di fede dei credenti, dai patriarchi ai cristiani in crisi del suo tempo. Gesù con la sua morte e risurrezione realizza quanto era stato profetizzato in Isacco, offre la certezza di una «migliore risurrezione» ( 11 ,35) e compie l'attesa dei padri (cf. 11 ,40). L'ampia trattazione storica sulla fede dei padri prepara all'incontro con Gesù, l'autore e perfezionatore della fede dei credenti (cf. 12,1-3). Il predicatore, dopo aver presentato al capitolo 11 la testimonianza di fede perseverante dei personaggi biblici tra le loro molteplici sofferenze e persecuzioni, esorta i suoi uditori alla pazienza perseverante nelle tribolazioni. Essi sono chiamati a superare ogni tentazione di stanchezza e di scoraggiamento sull'esempio di Gesù e in virtù della sua pazienza; egli, infatti, dopo aver sofferto la morte di croce ed essersi assiso alla destra di Dio, ha inaugurato il cammino della fede dei credenti, portandolo a compimento. La sopportazione delle prove non deve essere motivo di scoraggiamento, perché essa rientra in una pedagogia divina. Infatti, Dio attraverso la sofferenza purifica i credenti perché essi siano partecipi della sua santità (cf. 12,10).

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Dopo aver trattato il tema della fede ( 11, 1-40) e della speranza provata nelle sofferenze (12,1-13), il predicatore completa il quadro delle tre virtù teologali, trattando il tema della carità verso Dio e il prossimo. In questo modo, all'ottica passiva della sezione 12,1-13 sulla pazienza nelle prove, segue una prospettiva di dinamismo operativo generoso e attivo (cf. 6,10; 10,32-34; Gc 1,4). Santificandosi nel loro culto a Dio (cf. 12,14-29), i credenti sono chiamati a un vissuto cristiano concreto di carità ospitale, visita ai carcerati, solidarietà con i sofferenti, castità, spirito di povertà e fiducia nel Signore (cf. 13, 1-6), in unione al sacrificio di Cristo (cf. 13,12-13) e in comunione con le guide nella comunità (cf. 13,7-18).

Ermeneutica biblica L'autore della lettera agli Ebrei molte volte fa ricorso all'Antico Testamento e lo raffronta con la realtà cristiana. Il presupposto di questo frequente riferimento ai testi anticotestamentari è motivato dalla consapevolezza della loro ispirazione e della loro normatività come rivelazione divina, rivolta non solo all'antico Israele, ma anche alla Chiesa. In questo confronto Ebrei rilegge la rivelazione dell'Antico Testamento alla luce del mistero di Cristo e con grande autorevolezza riesce a conciliare le due dimensioni opposte del rispetto profondo e della critica radicale dell'Antico Testamento che -come prefigurazione e profezia- ora si compie in Cristo. Il principio ermeneutico che sottende alla lettura dei testi anticostamentari è quindi quello cristologico, perché è Cristo che perfeziona e porta a compimento tutta la rivelazione dell'Antico Testamento; inoltre, la rilettura e l'attualizzazione dei testi anticotestamentari avviene in un contesto ecclesiologico: «Dio, dopo aver parlato in passato ai padri nei profeti, a più riprese e in molti modi, in questi tempi che sono gli ultimi ha parlato a noi nel Figlio» (1,1-2). Nell'interpretazione l'Antico Testamento è rispettato nel significato originale, ma al tempo stesso è compreso secondo un senso esteso più pieno. L'autore procede secondo la forma del confronto tipologico tra le realtà, i personaggi o alcuni episodi anticotestamentari e quelli neotestamentari. Questo è l'aspetto originale e

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fondamentale del pensiero dell'autore della lettera agli Ebrei che si incontra in tutta la sua opera. Egli distingue le due fasi della storia della salvezza e nella loro comparazione presenta - con grande pedagogia verso i suoi uditori - tre generi di relazioni. La prima è quella della somiglianza o continuità: il Nuovo Testamento continua, corrisponde e assomiglia all'Antico Testamento. La seconda è quella della differenza o discontinuità: il Nuovo Testamento segna una rottura e si differenzia dall'Antico Testamento. La terza è quella della superiorità o superamento: il Nuovo Testamento è incomparabilmente superiore all'Antico Testamento. A tal proposito, un esempio tra i più significativi riguarda il sacrificio di Cristo; sia nei sacrifici antichi (cf. 9,7.18.22) sia nella passione e morte di Cristo (cf. 9,12. 14; 10,19) si è compiuta un'offerta con effusione di sangue, allo scopo di ottenere il perdono dei peccati: c'è dunque una somiglianza/continuità tra i due sacrifici. Tuttavia, l'offerta sacrificale del culto antico era rituale, esterna, convenzionale, realizzata con vittime animali e il sommo sacerdote doveva offrire anche per se stesso, come per il popolo, sacrifici per i peccati (cf. 5,1); Cristo, differentemente, non ha offerto per alcun suo peccato e per espiare i peccati del popolo (cf. 2, 17) non ha donato qualcosa di esterno a sé, ma la drammatica esperienza della sua passione e morte in modo personale, spirituale, non convenzionale, in obbedienza filiale a Dio e in profonda carità fraterna con gli uomini. Infine, la superiorità del sacrificio di Cristo è consistita nel fatto che egli ha stabilito una comunione autentica con Dio e con gli uomini che il culto antico non realizzava: per mezzo del sacrificio cruento della sua morte, Cristo è entrato, attraverso la «tenda» della· sua umanità glorificata, nel «santuario» della comunione celeste con Dio Padre (cf. 9,11-12). Di conseguenza, i credenti «resi perfetti» da Cristo (cf. 10,14), ricevono in dono il diritto pieno di ingresso nel santuario celeste (cf. 10,19). L'Antico Testamento, dunque, non è visto in modo negativo, ma è semplicemente ormai compiuto in Cristo. Il suo valore permanente di rivelazione resta sempre, tanto che l'autore di Ebrei cerca in esso luce e arriva a concludere che l'Antico Testamento come Rivelazione annuncia la fine dell'Antico Testamento come istituzione.

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DESTINATARI, AUTORE E DATAZIONE

Autore L'autore della lettera agli Ebrei è anonimo e, nonostante le supposizioni proposte nel corso dei secoli, i tentativi di identificarlo sono rimasti infruttuosi. Le sottoscrizioni delle tradizioni testuali di alcuni manoscritti riportano come autore sia Paolo 10 sia Timoteo11. Ma si tratta di aggiunte per mano di copisti, successive alla composizione della lettera. La tradizione delle Chiese orientali ha sempre ritenuto Paolo come l'autore. Secondo la tesi di Clemente Alessandrino, riportata da Eusebio di Cesarea, lo scritto fu redatto dapprima in ebraico da Paolo e poi venne tradotto da Luca in greco: «Per quanto riguarda la lettera agli Ebrei, [Clemente] dice che è di Paolo, ma che fu scritta in lingua ebraica per gli ebrei e che Luca, dopo averla tradotta con cura, la diffuse tra i greci: è questo il motivo per cui si coglie una somiglianza superficiale tra la traduzione di questa lettera e gli Atti» (Storia della Chiesa 6,14,2). Origene, pur accettando la paternità paolina dello scritto, ne mise tuttavia in evidenza la diversità di stile rispetto agli altri scritti di Paolo, affermando che «i pensieri sono dell'Apostolo, mentre lo stile e la composizione sono di uno che ricordava la dottrina apostolica, per così dire di un redattore che ha trascritto quanto era detto dal maestro. Se dunque qualche Chiesa considera questa lettera veramente di Paolo, essa stessa si rallegri anche di questo: non è a caso, infatti, che gli antichi l'hanno tramandata come se fosse di Paolo. Quanto poi a chi ha scritto la lettera, Dio sa la verità. Secondo la tradizione giunta fino a noi, 10 L'attribuzione a Paolo è attestata dal manoscritto greco Additions 300 della British Library di Londra (81): «Da Roma da Paolo a quelli di Gerusalemme» (Pr6s Hebraious egraphe apò Rhimes hypò Paulou tois en lerousal~m) e dal codice in maiuscola 0285, conservato nel monastero di S. Caterina, e altri che attestano la paternità paolina e la redazione a opera di Timoteo: «Epistola di Paolo agli Ebrei scritta dall'Italia da Timoteo» (Paulou epistolè pr6s Hebraious egraphe apò Italias dià Timothéou). 11 L'attribuzione a Timoteo è riportata dal codice B' 42 della Laura del monte Athos (1739), dal manoscritto 300 di S. Caterina al Sinay (1881) e dal testo bizantino; essi indicano che fu scritta «dali 'Italia da Timoteo» (pr6s Hebraious egraphe apò /talias dià Timothéou ); il manoscritto Harley 5537 della British Library di Londra (104) aggiunge che Timoteo la scrisse in modo anonimo: «pr6s Hebraious egraphe Hebraistì apò tis Italias ani5nymi5s dià Timothéou».

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alcuni sostengono che la abbia scritta Clemente, colui che fu vescovo di Roma; secondo altri, invece, ascriverla fu Luca, l'autore del Vangelo e degli Atti» (Eusebio di Cesarea, Storia della Chiesa, 6,25,13-14). La critica letteraria del testo pone molti argomenti contro l' autenticità paolina dello scritto. Innanzitutto, nell'esordio- diversamente dalle lettere paoline -manca il nome di Paolo come mittente. Poi, l'impostazione della lettera non rispecchia affatto il temperamento di Paolo, virile e tenace e, al tempo stesso, affettuoso e sensibile. Lo stile di Paolo è impetuoso e irregolare, ricco di pàradossi e contrasti. Quello di Ebrei è, invece, metodico, ordinato secondo le regole della sintassi e procede in modo consequenziale e lineare nelle argomentazioni. Paolo parla di sé e non rifiuta di porsi in primo piano, difendendo quando è necessario la propria autorità (cf., p. es., 2Cor 11,1-2.23; Gal1,1.12). L'autore di Ebrei, invece, si pone tra gli uditori, non rivendica mai un'autorità di apostolo, ma di essi si considera un discepolo e dall'inizio alla fine della lettera esorta gli uditori a fissare unicamente lo sguardo su Gesù glorioso dopo la croce. Di Gesù parla in termini di «sacerdote» e «sommo sacerdote». Al contrario Paolo non parla mai di sacerdozio né, tanto meno, riferisce a Gesù i titoli di «sacerdote» e «sommo sacerdote». Le formule cristologiche tipicamente paoline- «in Cristo Gesù», «in Cristo» o «nel Signore» -non ricorrono nella lettera agli Ebrei che, invece, propone formule originali quali «il capo che li guida a salvezza» (2,10), «l'apostolo e sommo sacerdote della nostra professione di fede» (3,1), il «~ommo sacerdote grande» (4,14), «l'autore e perfezionatore della fede» (12,2), il «mediatore dell'alleanza nuova» (12,24) e «il grande pastore delle pecore» (13,20). Inoltre, Paolo per presentare l'Antico Testamento parla di «scrittura» o usa l'espressione «sta scritto», mentre Ebrei ricorre ai verbi gniphein («scrivere»: 10,7), légein («dire»: 1,6.7; 2,6.12; 3,15; 4,7; 5,6; 6,14; 7,21; 8,8.13; 9,20; 10,5.8; 12,26; 13,6), laléin («parlare»: 5,5; 11,18) e martyréin («testimoniare»: 7,17; 10,15), che hanno per soggetto sottinteso Dio oppure la Sacra Scrittura ispirata dallo Spirito Santo.

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. Tuttavia, accanto alle differenze con l'apostolo Paolo ci sono anche dei punti di contatto contenutistici. Si pensi, per esempio, alla forte polemica sull'inefficacia della Legge antica (cf. Gal2,1621; 3,19-25 ed Eb 7,12.16.18-19.28), al tema dell'obbedienza redentrice di Gesù (cf. Rm 5,19; Fil 2,8 ed Eb 5,8-10; 10,9-10) e del suo sacrificio (cf. Gal 2,20; Ef 5,2.25 ed Eb 9,14 10,10.12; 13,12), al modo di presentare la gloria del Cristo (cf. Col 1,15-17 con Eb 1,2-3; Ef 1,21 e Fil2,9 con Eb 1,4; Ef 1,21e Col2,15 con Eb 1,4-14; 1Cor 15,27 ed Ef 1,21 con Eb 2,8; 1Cor 15,25 con Eb 10,13). Ben sessantacinque termini si trovano, all'interno del Nuovo Testamento, soltanto nell'epistolario paolino e nella lettera agli Ebrei. Vi sono espressioni tipiche di Paolo come «il Dio della pace» (Rm 15,33; 16,20; 2Cor 13,11; Fil4,9; 1Ts 5,23 ed Eb 13,20) o similitudini come quella sulla distinzione tra cibo solido e latte (cf. lCor 3,2 ed Eb 5,12). Alla fine della lettera il biglietto di accompagnamento nomina Timoteo (cf. 1Tm 1,1 ed Eb 13,23) e riporta un saluto tipicamente paolino (cf. Eb 13,25 con Col4,18; Tt 3,15). Queste constatazioni fanno pensare che certamente Paolo ispirò l'autore dl Ebrei e, quindi, avvalorano la tradizione delle Chiese orientali circa l'origine paolina della lettera. L'attenzione, dunque, deve essere .rivolta verso un compagno di Paolo, un missionario di rilievo del gruppo itinerante di matrice paolina. Tra le varie ipotesi'2, la più accreditata, fin dal tempo di Lutero, è quella che suggerisce il nome di Apollo, un giudeo di Alessandria d'Egitto. Luca lo definisce «eloquente e ben ferrato nelle Scritture» (At 18,24). Apollo, giunto a Efeso, «cominciò a predicare con franchezza nella sinagoga» (At 18,26). Poco tempo prima nella stessa sinagoga, Paolo aveva rivolto la parola ai giudei (cf. At 18, 19-20) e a Efeso aveva lasciato due suoi collaboratori, Aquila e Priscilla. Proprio costoro, ascoltando la predicazione di Apollo su Gesù, lo presero con sé per esporgli «con maggior esattezza la via di Dio» (At 18,26). Luca riferisce anche che da Efeso Apollo si recò a Corinto dove comin12 Tra i candidati autori di Ebrei, oltre a Luca e Clemente Romano, sono stati proposti Barnaba «figlio di consolazione» (cf. At 4,36 e Tertulliano, La pudicizia, 20, 1-2), l'apostolo Pietro, Silvano (Sila) compagno di Paolo (cf. At 15,22), Giuda, fratello di Giacomo (di cui rimane una lettera), Filippo, «uno dei Sette» (At 21,8; cf. At 6,5), Priscilla (Prisca), moglie di Aquila (cf. At 18,2; Rm 16,3-5), Aristione discepolo del Signore secondo Papia di Gerapoli.

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ciò a confutare «vigorosamente i giudei in pubblico, dimostrando attraverso le Scritture che Gesù era il Cristo» (At 18,27-28; cf. lCor 1,12; 3,4-9; 3,22; 4,6; 16,12). Paolo, rivolgendosi ai Corinzi, parlerà di se stesso e di Apollo in termini di «ministri» (diakonoi) della loro fede (lCor 3,5) e un tutt'uno (cf. lCor 3,8: hén eisin) nel medesimo ministero di collaboratori di Dio (cf. lCor 3,9: esmen synergoz). Dunque, Apollo lavorò nelle stesso campo d'azione missionaria di Paolo, alla stregua di altri suoi collaboratori, come, per esempio «Aquila e Priscilla» (Rm 16,3 ), «Marco, Aristarco, Dema, Luca» (Fm 24; cf. anche Col4, l 0), «Timoteo» (l Ts 3,2), «Urbano» (Rm 16,9), «Epafrodito» (Fil 2,25). La figura di Apollo è quella che meglio corrisponde ali' autore di Ebrei, un cristiano della seconda generazione appartenente all' entourage paolino, un raffinato teologo di scuola alessandrina, esperto conoscitore della versione greca dell'Antico Testamento, abile oratore, specialista dei metodi esegetici del suo tempo, scrittore dal greco migliore del Nuovo Testamento. Purtroppo di Apollo non è pervenuto alcuno scritto che permetta di stabilire un confronto con Ebrei e la mancanza di ogni testimonianza antica in proposito non permette di uscire dal dubbio. ComQllque, da quanto finora detto; si può conclùdere con una certa sicurezza che l'autore di Ebrei, una volta divenuto cristiano, entrò nella cerchia dei collaboratori missionari di Paolo. Per questo motivo la sua omelia sarebbe stata poi scritta e inviata ad altre comunità come un'enciclica, sotto il nome autorevole di Paolo e accompagnata da un biglietto epistolare (cf. 13,22-25). Non si sa chi abbia scritto questo biglietto di accompagnamento, se l'autore dell'omelia o qualche altro. Il suo genere letterario epistolare diverso dallo scritto che lo precede non è decisivo per risolvere la questione, perché lo stesso autore potrebbe aver composto accuratamente l'opera e, poi, alla fine vi avrebbe aggiunto poche righe di accompagnamento, dal tono familiare. Per la Chiesa orientale il biglietto proviene da Paolo, il quale, accompagnando in questo modo l'opera di un suo collaboratore, l'ha voluta garantire con la sua autorità di apostolo. Solitamente Paolo, dopo aver dettato le sue lettere a un amanuense, alla fine scriveva di proprio pugno alcune

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righe per autenticare lo scritto (cf. Rm 16,22; l Cor 16,21; Col4, 18; 2Ts 3,17). La presenza, poi, dell'espressione «vi esorto fratelli», propria dell'apostolo (cf. Rm 12,1; 15,30; 16,17; lCor 1,10; 4,16; 16,15; lTs 4,10; 5,14), il riferimento a Timoteo e l'augurio finale su «la grazia» (Tt 3, 15; cf. Col4, 18; l Tm 6,21; 2Tm 4,22), contribuiscono a rafforzare l'ipotesi della paternità paolina del biglietto di accompagnamento. Alla luce di dati letterari di attribuzione del biglietto a Paolo, si spiega in modo soddisfacente il motivo per cui la tradizione della Chiesa orientale ritiene che la lettera agli Ebrei sia di origine paolina. Grazie, quindi, al contributo decisivo di questo biglietto di accompagnamento, con il quale Paolo si sarebbe fatto garante dell'opera, la «lettera agli Ebrei» è entrata nel canone. Destinatari, luogo di composizione e data I destinatari, il luogo di composizione e la data di redazione della lettera agli Ebrei sono anch'essi misteriosi. Dall'esame dello scritto emerge che i destinatari sono dei cristiani (cf. 3,14; 6,4), che non sono neofiti, perché sono pervenuti alla fede già da tempo (cf. 5,12), che non hanno conosciuto direttamente Gesù (cf. 2,~) e che conoscono bene i riti e le prescrizioni dell'Antico Testamento, nonché la liturgia della tenda del convegno nel deserto. Hanno sofferto oltraggi e vessazioni varie per la loro identità di cristiani (cf. 10,32-34) e ora devono affrontare nuove tribolazioni 13 , con il pericolo di indietreggiare nella fede (cf. 3,13-19; 12,3.12) e di essere minacciati da deviazioni dottrinali giudaizzanti (cf. 13,9-1 O; 12, 16). Pur dinanzi a tali pericoli questi cristiani non sono diventati apostati e vengono lodati per la generosità dimostrata nel passato e nel presente (cf. Eb 6, l 0). Sembrerebbe quindi che i destinatari siano dei cristiani familiari con l'ambiente giudaico - tipico delle sinagoghe nelle quali Paolo e i suoi collaboratori diedero l'annuncio del Vangelo-, ma anche estranei al giudaismo, visto che il sermone nella sua forma scritta 13 Le prime tribolazioni potrebbero riferirsi alla cacciata dei giudei e giudeo-cristiani da Roma da parte dell'imperatore Claudio (anni 49-50 d.C.), mentre quelle successive e più violente (cf. Eb 12,4), potrebbero coincidere con la persecuzione accesa nel 64 d.C. dall'imperatore Nerone o a una successiva.

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verrà inviato a comunità del I secolo che possono spaziare da Gerusalemme a Roma, passando per tutta l'Asia minore. Nelle sottoscrizioni presenti in alcuni manoscritti non c'è unanimità sul luogo di composizione 14 • Tuttavia, nel testo di Ebrei, per il luogo di composizione, c'è un'indicazione geografica presente nei saluti finali: «vi salutano quelli dall'Italia» (13,24). Le ipotesi sono varie: si tratterrebbe di cristiani che con l'autore si trovano in Italia, possibile luogo da dove viene spedita la lettera, oppure che provengono dall'Italia e che, vivendo all'estero, salutano una comunità dell'Italia o di italiani anch'essi residenti all'estero. L'espressione «dall'Italia» (apò tes Italias) si trova anche in Luca (At 18,2), che la riferisce ad Aquila, un giudeo oriundo del Ponto, e Priscilla, sua moglie, che erano arrivati «dall'Italia» in seguito all'ordine di Claudio del49-50 d.C. che allontanava da Roma tutti i giudei. I saluti di Eb 13,24 potrebbero essere quelli di Aquila e Priscilla, conosciuti sia dali' autore del biglietto di invio sia dai destinatari di Ebrei. Aquila e Priscilla erano giudei convertiti al cristianesimo ed erano conosciuti a Corinto (cf. At 18, 1-2) e a Efeso (cf. A t 18,19). Sappiamo che da Efeso Paolo mandò i saluti di questi due coniugi quando scrisse ai Corinzi: «Vi salutano le Chiese dell'Asia. Vi salutano tanto nel Signore Aquila e Prisca, con la Chiesa che si riunisce a casa loro» (1Cor 16,19). Da questi dati potremmo supporre che il luogo di composizione di Ebrei sia Efeso e i destinatari i cristiani di Corinto. Questa ipotesi avvalorerebbe anche quella di Apollo come autore di Ebrei, dato che aveva predicato sia a Efeso (cf. At 18,24-28) che a Corinto (cf. 1Cor 1,12; 3,4-6.22; 4,6; 16,12). Inoltre, le parole di Eb 13,18-19 («Pregate per noi ... 14 Il codice Alessandrino (A), con pochi altri, scrive che la «(Lettera) agli Ebrei fu scritta da Roma» (pròs Hebraious egraphe apò Rh6mes). Il manoscritto greco Additions 300 della British Library di Londra (81) specifica «da Roma ... a quelli di Gerusalemme» (apò Rh6mes ... tois en Ierousalim ), mentre il codice Porfiriano (P) ed altri precisano «dall'Italia» (ltalias). L'ipòtesi che Ebrei sia stata inviata ai giudeo-cristiani che abitavano a Roma non spiega il ritardo dell'accoglienza di questo scritto nella Chiesa di Roma. Inoltre, la brevità del biglietto di accompagnamento non rende verosimile una spedizione per una lunga distanza quale poteva essere quella dali 'Italia verso la Palestina o viceversa. Avrebbe richiesto maggiore ampiezza. Questa osservazione è confermata da un semplice confronto con le parole di Paolo ai Romani (cf. Rm 1,10-13;15,22-32) sul desiderio di incontrarli quanto prima: si tratta di parole più circostanziate e precise, adatte alla preparazione di un lungo viaggio che avrebbe voluto fare da Corinto a Roma e, infine, in Spagna (cf. 15,24).

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affinché al più presto vi sia restituito»), lette alla luce di quelle di Paolo ai Corinzi (lCor 16,12: «Riguardo al fratello Apollo, l'ho pregato vivamente di venire da voi con i fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia quando ne avrà l'occasione»), sembrano riferirsi ad Apollo e a un suo desiderio di ritornare nella comunità di Corinto. La data di composizione è difficilmente individuabile. Secondo qualche parere è da individuare nella fase conclusiva del regno di Claudio, morto nel 54 d.C. Tuttavia, l'ipotesi più attendibile per iniziare a datare la lettera sembra quella degli ultimi anni del dominio di Nerone, morto nel68 d.C. Invece, il periodo ultimo di composizione non va posto oltre il 95/96 d.C., dato che Clemente Romano, nella sua Prima lettera ai Corinzi (l Clemente 36), riporta diversi versetti di Eb l, dimostrando quindi di conoscere tale scritto 15 • D'altra parte la composizione dello scritto è molto probabilmente anteriore alla distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.), perché se è vero che l'autore quando descrive il culto giudaico (cf. 9,6-1 O; l O, 1.11) usa il presente atemporale - che non permette di stabilire una cronologia -,tuttavia Eb 10,1-3 descrive la liturgia del tempio ancora in atto, anche se ormai prossima alla sparizione (cf. 8,13 e 9,10). Quindi, una data anteriore al 70 d.C. è quella più probabile.

TESTO E TRASMISSIONE DEL TESTO Il testo della lettera agli Ebrei è ben conservato, poiché è stato trasmesso quasi esclusivamente come parte del corpus paolino. La tradizione testuale più rappresentata è quella alessandrina, di area egiziana, una delle più antiche e genuine e quindi più vicina al testo originale, perché meno rielaborata e ampliata per mano di copisti. Il testo è stato tramandato in maniera quasi integrale (1,1-9,16; 9,18-10,20.22-30; 10,32-13,25) dal papiro Chester Beatty II (1}:)46), uno dei più antichi (ca. 200 d.C.) e più importanti. 15 Clemente Romano «in essa riprende molti concetti della Lettera agli Ebrei, e ne cita testualmente alcuni passi, mostrando così molto chiaramente che essa non è stata composta in tempi recenti» (Eusebio di Cesarea, Storia della Chiesa 3,38,1).

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Tra gli onciali è trasmesso in modo integrale dai codici Sinaitico (K), Alessandrino (A), di Mosca (K) e Porfiriano (P) e- con l'assenza di alcuni versetti- dal codice di Efrem riscritto (C), dal Claromontano (D), dall'Angelico (L) e da quello della Laura del monte Athos ('1').

Elenco dei manoscritti citati nel commento Papiri Papiro di Amherst 3b (lp 12), del III secolo, di eccellente qualità, conservato a NewYork, nella Pierpont Morgan Library. Papiro di Oxyrhynchus 657 (lp 13), del III-IV secolo, di eccellente qualità, conservato a Londra, nella British Library. Papiro di Oxyrhynchus 1078 (lp 17), del IV secolo, di buona qualità, conservato a Cambridge, nella Universiy Library. Papiro di Chester Beatty II (lp46), del200 d.C. circa, di eccellente qualità, conservato in parte a Dublino, nella collezione Chester Beatty e in parte ad Ann Arbor, nell'Università di Michigan. Papiro Laurenziano IV.142 (lp 89), del IV secolo, conservato a Firenze, nella Biblioteca Medicea Laurenziana; un piccolo frammento che contiene Eh 6,7-9.15-17.

Codici Oncia/i Codice Sinaitico (K), del IV secolo, di eccellente qualità, rappresenta la tradizione testuale alessandrina, una delle più antiche e genuine e quindi più vicina al testo originale; è conservato a Londra, nella British Library. Codice Alessandrino (A), del V secolo, di eccellente qualità, rappresenta anch'esso la tradizione testuale alessandrina, meno rielaborata e ampliata; è conservato a Londra, nella British Library. Codice Vaticano (B), del IV secolo, di eccellente qualità. Rispetto ai Vangeli, che sono testimoni del testo bizantino, la lettera agli Ebrei (1,1-9,13) è in linea con la tradizione testuale alessandrina; è conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Codice di Efrem riscritto (C), del V secolo, di buona qualità, appartenente anch'esso alla tradizione testuale alessandrina; è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.

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Codice Claromontano (D), del VI secolo, di buona qualità, appartiene alla tradizione testuale occidentale (Africa settentrionale, Italia e Gallia), conosciuta grazie alle citazioni dei padri della Chiesa di lingua latina; è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi. Codice di Coislin (H), del VI secolo, appartenente alla tradizione testuale occidentale; i fogli di questo manoscritto sono conservati in diverse biblioteche: al monte Athos, a Kiev, a Leningrado, a Mosca, a Parigi e a Torino. Codice di Freer (I), del V secolo, di buona qualità, appartenente alla tradizione testuale alessandrina; è conservato presso lo Smithsonian Institute di Washington. Codice di Mosca (K), del IX secolo, con un testo appartenente alla tradizione bizantina; è conservato presso il Museo storico di Mosca. Codice Angelico (L), del IX secolo, con un testo appartenente alla tradizione bizantina; è conservato presso la Biblioteca Angelica di Roma. Codice Porfiriano (P), del IX secolo, appartenente alla tradizione testuale alessandrina; è conservato presso la Biblioteca Nazionale Russa di San Pietroburgo. Codice della Laura del monte Athos ('1'), del VIII-IX secolo, appartiene alla tradizione testuale bizantina; è conservato presso il moné megistès Lauras del Monte Athos. Manoscritto N.E. Mr 2 di Santa Caterina al Sinay (0278), conservato nella biblioteca del monastero e risalente al IX secolo; fa parte di una serie di manoscritti ritrovati nel 1975. Codice greco 50 in scrin di Amburgo (0243), conservato alla Staat und Universitatsbibliothek, del X secolo; contiene Eb l, 1--4,3 e 12,20-13,25; altri fogli dello stesso manoscritto, con brani delle lettere ai Corinzi, sono conservati alla Biblioteca Marciana di Venezia (manoscritto greco Il, 181)

Codici minuscoli Manoscritto greco 14 (33) della Bibliothèque Nationale di Parigi, risale al IX secolo.

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Codice B' 64 della Laura del monte Athos (1739), del X secolo. Manoscritto Joannu742 (2464), conservato a Patmos, risalente al X secolo. Codice Addendum 20003 (81) della British Library di Londra, datato al1044. Codice B' 26 della Laura del monte Athos ( 1505), datato al1 084. Manoscritto Harley 5537 (104) della British Library di Londra, datato al1087. Codice teologico greco 302 di Vienna, della Òsterreichische Nationalbibliothek di Vienna, risalente al XI secolo. Codice Roe 16 di Oxford (1908), conservato alla Bodleian Library, dell'XI secolo. Manoscritto greco 82 del Lincoln College (326) conservato alla Bodleian Library di Oxford, risalente al XII secolo. Manoscritto 379 di Venezia (460), conservato alla Biblioteca Marciana, del XIII secolo. Manoscritto greco 112 (6) della Bibliothèque Nationale di Parigi, risale al XIII secolo; Codice Plutei VI.36 (365) conservato alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, del XIII secolo. Manoscritto 300 di S. Caterina al Sinay (1881), conservato nella biblioteca del monastero, del XIV secolo. Manoscritto Ottoboniano greco 298, del XIV secolo, conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Codice 6 D 32/1 di Leicester (69), conservato al Town Museum e risalente al XV secolo. La dizione «testo bizantino» indica quello riportato dalla maggioranza dei manoscritti greci esistenti; essa viene usata perché si tratta del testo adottato dalla Chiesa di Bisanzio a partire dal IV secolo.

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TIPOI: EBPAIOYI:

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lloÀUpepW> che ha ereditato con il mistero pasquale, per meglio individuarne la posizione rispetto alle altre persone. Questo «nome», come si vedrà, è quello di «sommo sacerdote» e «mediatore perfetto», che racchiude i due aspetti del Cristo glorificato: Figlio di Dio e fratello nostro.

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3,2 È degno di fede (nto-ròv ov-ra.)- L'aggettivo mo-r:Oç, quando applicato a Cristo (Eb 2,17; 3,2), non va tradotto «fedele», come si fa di solito, ma «degno di fede» (cf. cosi l Tm 1,15; 3,1; 4,9; Ap 21,5; 22,6). Di fatto (alla luce anche di N m 12,7, a cui Ebrei si rifà e in cui mo-r:Oç riguarda l'autorità conferita da Dio a Mosè), l'aggettivo non si riferisce alla fedeltà di Gesù alla volontà di Dio durante la sua vita terrena. Al contrario, Ebrei contempla la capacità presente di Gesù glorioso (cf. 3,3a), in virtù della quale egli è «degno di fede» nel rapporto con Dio e, di conseguenza, anche nella relazione con gli uomini. Cristo, cioè, è «degno di fede» perché, dopo la sua passione, morte e risurrezione, è stato intronizzato per sempre alla destra di Dio (cf. 1,3.13) ed esercita in modo credibile, autorevole ed ef ficace la sua relazione di mediazione sommo

sacerdotale a favore degli uomini. Gli uomini ora possono affidarsi pienamente a lui che è Dio ed è capace di introdurli presso il Padre e ottenere per loro la salvezza definitiva. Che si tratti di disposizione presente, e non passata, lo attesta il participio presente (ov-ra.) e non passato, cosi come vorrebbe erroneamente qualche traduzione che propone il significato di «fedele»: «considerate Gesù, il quale fu fedele a colui che lo costituì». Quindi, il significato di «fedele» (Eb l 0,23; 11,11 ), come pure quello derivato di «credente» (cf. Gv 20,27; !Tm 6,2) sono da escludere per mo-r:Oç di Eb 3,2. Tutta (o.l..q>)- L'aggettivo è omesso dall'autorevole papiro di Oxyrhynchus 657 (1}:) 13 ), dal papiro di Chester Beatty II (1):)46 ; la lettura è incerta), dal codice Vaticano (B) e altri testimoni, mentre è attestato da codici au-

Con il v. 2 inizia il confronto tra Gesù e Mosè. Come Mosè fu l'uomo di fiducia di Dio in Israele, così Gesù, dopo la sua passione e morte (cf. 2, 18), è divenuto sommo sacerdote degno di fede per il Signore, che lo ha costituito «erede di tuttm> (l ,2) e per mezzo di lui ha creato (cf. i verbi epoiesen in 1,2 e poiisanti in 3,2) l'universo. Facendo riferimento a Mosè, l'autore allude a Nm 12,6-8 LXX, in cui si narra che Miryam e Aronne misero in discussione l'autorità del loro fratello Mosè come mediatore privilegiato della parola di Dio. Dio si oppose a questa contestazione, affermando che con Mosè non parlava in sogno o tramite visioni, come con qualsiasi altro profeta, ma bocca a bocca, perché in tutta la sua casa egli era il suo servo (68-76). 3,4 Colui che ha costruito tutto è Dio (o 6è 1Tiivto: Ko:to:aKeuaao:ç 9E6ç) - L'assenza

dell'articolo dinanzi al nome divino 9E6ç è indicativo del fatto che l'autore qui si sta riferendo non a Dio Padre, ma a Gesù. Di conseguenza la traduzione non è: «È Dio che ha creato tuttO>>, ma: «Colui che ha costruito tutto è Dio», con chiaro riferimento a Gesù riconosciuto come Dio. D'altra parte si era già parlato in questi termini in l, l 0: «Tu in principio, o Signore, hai fondato la terra e opera delle tue mani sono i cieli» (cf l ,3). 3,5 Come servitore (wç 9eptt1Twv)- Il titolo «servitore», dato a Mosè, è un hapax del NT, tratto da Nm 12,7 (LXX), dove rende l'ebraico 'ebed, spesso tradotto con òou>..oç («schiavo», «servo»). Per Mosè viene usato il sostantivo 8Eptt11wv perché è un titolo più alto di quello diòou>..oç; inoltre, esprime l'intimità tra Mosè e Dio e ha delle risonanze cultuali in riferimento al suo ruolo di mediatore.

quali l'autore di Ebrei sta parlando e con i quali si identifica, così come è confermato più avanti in 3,6: «la sua casa siamo noi)). Mosè, nonostante l'autorità conferitagli, faceva parte della «casa di Dio» e non se ne distingueva, mentre Gesù ha l'autorità di costruttore della casa sulla stessa linea di Dio «che ha costruito tutto» (3,4; cf. anche 1,2). ln effetti, attraverso la passione e morte, Gesù ha edificato la nuova creazione del popolo dei credenti (cf. 2Cor 5, 17; Gal6, 15; Ef 4,24) che durerà in eterno, mentre la prima creazione sparirà (cf. Eb 1,11-12; 12,26-27). Cristo- attraverso la sua opera redentrice- porta a compimento la profezia di Natan sul figlio di David, che sarebbe stato costruttore della casa di Dio e Figlio di Dio: «lo farò stare per sempre (greco, pist6sò) nella mia casa» (l Cr 17, 14). Inoltre, Mosè poteva parlare con Dio faccia a faccia e vedere «la gloria del Signore)) (t;n doxan kyriou: Nm 12,8), Gesù risorto, invece, «coronato di gloria ~.:di onore)) (2,9) e assiso alla destra di Dio, condivide la stessa gloria e dignitù di l >io (cf.

AGLI EBREI 3,6

62

Xptcrròç 8€ wç uiòç €rd t'ÒV oiKOV aùrou· où oiK6ç €cr}.1EV tl}.lEiç, €av[rrEp] TtÌV rrappYJcriav Kaì rò KaUXYJlla rfjç €Àrri8oç Kat'IXOXW}.lEV. 7 l\16, Ka8wç ÀÉyEl t'Ò JtVEU}.la t'Ò aytov· atlf.lcpoviàv r~ç cpuJV~ç avrov aKOVCJI]ré, 8 f.l~ CJKÀl]pVVl]ré ràç Kap5{aç VJ.LWV wç iv nj) rrapamKpaCJf.lcj) Karà djv ~J.LÉpav ro[J Trélp«CJJ.LOV Év r,~ ÉprJf.l([J, 9 oJ irrdpaCJav oi rraripcç vpwv iv 5oKzpaCJ{f! Kaì cl5ov rà lpya pov 10 rcCJCJcpaKovra lrrr 5zo rrpoCJc!JxBzCJa r.~ ycvc~ ravrn 6

3,6 La sua casa (ou olKoç)- La lezione oç olK6ç («la quale casa»), sostenuta dal papiro di Chester Beatty II (IP46) e dal codice Claromontano [D], è probabilmente una modificazione di ou olKoç («la cui casa») da parte del copista nel tentativo di specificare che i cristiani sono la casa di Dio e non di Cristo. La lectio facilior ou otKoç, da noi seguita, accorda il pronome relativo ou con il precedente pronome personale airmu. Solo se (Mv[7!Ep])- La forma rafforzata di questa congiunzione, attestata dal papiro di Chester Beatty II (IP46), da una correzione del codice Sinaitico (K) e dal codice Ales-

sandrino (A), è da preferire al semplice Mv sia per l'autorevolezza dei testimoni, sia perché l'autore la riprende in 3,14. La prima mano del codice Sinaitico (K) legge Kliv («perfino se») come probabile lettura errata di Mv («se»). Conserviamo ... della speranza (-rfjç ÉÀTI(Ooç Ka-raaxw~Ev)- I codici Sinaitico (K), Alessandrino (A), di Efrem riscritto (C) e Claromontano (D) aggiungono liÉ)(pL -rÉÀouç ~E~a(av («fino alla fine salda»), come interpolazione armonizzante da 3,14, dove è presente la stessa espressione; tuttavia, in 3,6 è fuori posto, perché invece dell'accusativo

1,3-5). Infatti, Gesù è degno di fede e ha un'autorità «come Figlio» sopra (cf. epi al v. 6) tutta la comunità dei credenti (cf. l Cr 17, 14), mentre Mosè è soltanto un «servitore» a/l 'interno (cf. en al v. 5) del popolo dell'antica alleanza come testimone della volontà di Dio che avrebbe avuto pienezza di rivelazione solo con Cristo. Dunque, Gesù è in una posizione migliore di Mosè per esercitare la mediazione della Parola. Il paragrafo si conclude con l'esortazione rivolta ai credenti a essere e rimanere la casa di Dio, mantenendo salda fino alla fine la sicurezza e il vanto della speranza. Viene così introdotto il tema della perseveranza nella vita cristiana con, e nonostante, le prove. Questo tema verrà ricordato lungo la lettera (l 0,36) e troverà ampio sviluppo in 12,1-13. È la speranza che anima la vita dei credenti e li spinge verso i beni promessi dalla fede. Il senso dell'esortazione è che il cristiano non deve scoraggiarsi e soprattutto non abbattersi nella prova. Chi in essa arrossisce e si nasconde non è franco e sicuro nella testimonianza di Cristo, sua speranza (cf. l T m l, l); così chi geme e si abbatte non si vanta, ma mortifica la gioia di una speranza che attende ciò che la fede gli fa già possedere (cf. Eb Il, l).

63

AGLI EBREI 3,10

Cristo, dall'altra, lo è come Figlio che sovraintende la sua casa; e la sua casa siamo noi, [solo] se conserviamo la franchezza e la fierezza della speranza. 7Perciò, come dice lo Spirito Santo: Oggi, se udite la sua voce, 8non indurite i vostri cuori come al (tempo del)/a ribellione, il giorno della tentazione nel deserto, 9dove i vostri padri (mi) tentarono con una prova, benché avessero visto lemie opere 10per quarant'anni. Perciò mi sono sdegnato di quella generazione 6

femminile j3Ef3a(av, si dovrebbe avere il neutro ~f3aLov per concordare contò KaUX111-UX· 3,9 Mi(~)- Il pronome personale è assente nei migliori testimoni (come papiro di Oxyrhynchus 657 [SJ) 13], papiro di Chester Beatty II [SJ)46], codici Sinaitico [~]. Alessandrino [A], Vaticano [B], di Efrem riscritto [C], Claromontano [D]), tuttavia, poiché è sottinteso, lo esplicitiamo seguendo le correzioni di seconda mano del codice Sinaitico (~) e del Claromontano (D), il testo bizantino e diverse versioni antiche. 3,1 OPer quarant'anni (naaepaKovta h11)L'espressione nella Settanta e nel Testo Ma-

soretico è associata allo sdegno di Dio, mentre qui è unita alla frase precedente: «benché avessero visto le mie opere». Tuttavia, in Eb 3,17, dove si riprende la citazione, si segue l'ordine della Settanta. Questa (taut'IJ)- La lezione con il pronome dimostrativo ÉKELIJ11 («quella»; cf. Sal 94,9 [1M 95,4]) è meno attestata (cf. il codice di Efrem riscritto [C]) rispetto a quella qui seguita, che riporta il pronome tallt"IJ e che permette all'autore di fare riferimento alla generazione attuale: cf. i papiri di Oxyrhynchus 657 (SJ) 13 ) e di Chester Beatty II (SJ)46), i codici Sinaitico (~),Alessandrino (A) e Vaticano (B).

3,7-4,14 Affidarsi e credere in Cristo Ammonimento contro la mancanza difede (3,7-11 ). Il predicatore continua l'esortazione a rimanere saldi nell'attesa dei beni promessi, mettendo in guardia contro l' assenza di fede (cf. 3, 12). Per questa ragione invita ad ascoltare lo Spirito Santo citando il Sal 94,7-11 LXX (1M 95,7-Il) e attualizzandolo per l'oggi. Nel Salmo la voce alla quale si faceva riferimento era quella di Dio, ma ora la voce che si chiede di ascoltare è quella di Gesù glorioso. Nell' «oggi» del tempo della decisione per la salvezza realizzata dal sacrificio di Cristo, i cristiani devono fare attenzione a non indurire il cuore come avvenne per gli Israeliti, i quali arrivarono ai confini della terra di Canaan, ma si rifiutarono di entrarvi (cf. Nm 14; Dt l, 19-46). Nella versione greca, a differenza del testo ebraico, i versetti del salmo citati non si riferiscono all'intera traversata del popolo d'Israele nel deserto, ma al suo rifiuto di entrare nella terra di Canaan. Infatti, i sostantivi ebraici che faccia abbandonare (v. 12) il Dio vivente. Il rischio della comunità dei credenti della lettera agli Ebrei non è tanto il ritorno al giudaismo o al paganesimo, quanto quello di allontanarsi dalla scelta cristiana del proprio battesimo per mancanza di fede, che è il peccato radicale. Abbandonare Dio, che è il vivente e la fonte di vita, significa fare esperienza di morte, come avvenne per la generazione che si rifiutò di entrare nella terra promessa (cf. Nm 14,37), a esclusione di Giosuè e Kaleb e di coloro che nacquero dopo la partenza dall'Egitto. Per evitare una possibile apostasia è necessario che i cristiani si esortino reciprocamente ogni giorno, fino a quando ci sarà la proclamazione dell'«oggi» (v. 13) del tempo definitivo della salvezza, per non essere ingannati dal peccato e quindi cedere all'indurimento del cuore per l'ostinazione nel male. Infatti, sono «partecipi» di Cristo, e quindi inseriti nel suo corpo mistico in virtù del battesimo, a condizione che mantengano salda fino alla fine la realtà di Dio (v. 14), incominciata nel tempo e della quale sono partecipi attraverso la persona storica del Figlio, l'apostolo della loro professione di fede. È in Cristo che hanno preso parte alle «realtà celesti» {8,5; cf. anche 9,23), al regno di Dio.

66

AGLI EBREI 3,15

15

f;v nf) À.Éyecr8at·

O'IJflEpov éàv rryç cpwvljç avroiJ tXKOV07JTE,

flll CJKÀT]pVVTJTE ràç Kap5{aç VflWV wç tv rtjj IrapamKpaC!p{jj. 16

·rivEç yàp à:Km)cravt'eç JtapmiKpavav; à:M' où mxvTEç oi

è:~eÀ.86vTEç è:~ AìyuJtmu òtà MwUcrÉwç; 17 dcrtv ÒÈ

7tpocrwx8tcrEv TEcrcrepaKovm €Tf1; oùxì mtç Ò:}lapT~cracrtv, aùr4> nç Ù1toòe:iyllan 1téon rijç à1te:t6daç. 6

4,6 Disobbedienza (li1TEL9€uxv)- Il sostantivo è sostituito con limat(av («incredulità») dal papiro di Chester Beatty II (IP46), dal codice Vaticano (l't) e dalla Vulgata, intendendo, alla luce di 3, 19, la disubbidienza dei padri come un atto di incredulità. 4,8 Giosuè - Il nome in greco di Giosuè ('I11aoUc;) coincide con quello di Gesù e realizza un raffronto tipo logico tra l'AT e il NT, ossia tra Giosuè che introduce nella terra

promessa e Gesù nel riposo voluto da Dio. 4,9 Riposo sabbatico - Fino a qui il vocabolo greco usato per parlare di «riposo» è stato Kata'!Taua~ç, ma Ebrei ora fa ricorso al sostantivo aaf313anaj.1oç (hapax) che si connette al sabato ebraico ed è metafora del riposo divino. 4,10 Colui che è entrato (EÌ.adewv)- L'interpretazione cristologica vede Gesù, nuovo vero Giosuè, che apre ai credenti la via al cielo

n-

Il nuovo «oggi» della salvezza in Cristo, vero Giosuè (4,6-11 ). Dinanzi alla «disobbedienza» (v. 6) dei primi chiamati al tempo di Mosè, Dio fissa un nuovo «giorno» per introdurre i credenti nel riposo di Dio, che coincide con l' «oggi» della Chiesa che annuncia la salvezza definitiva in Cristo. È Cristo il vero Giosuè, il condottiero che introduce nella terra promessa della comunione con Dio (cf. 2, l O); l'unica condizione per entrarvi è l'ascolto docile e obbediente alla sua parola, così come dice Dio per bocca di David (cf. v. 7 che riporta il Sal94,7 [TM 95,7]). La disobbedienza alla parola di Dio da parte degli Israeliti al tempo di Mosè aveva comportato la loro esclusione dali' ingresso nella terra promessa (cf. Nm 14,29-30). Invece, per i figli di quella generazione, che non fu responsabile dell'incredulità dei loro padri, quarant'anni più tardi, la promessa di entrare in Canaan si sarebbe compiuta (cf. Nm 14,31). Tuttavia, l'antica promessa non si attuò neppure per loro dopo l'ingresso in Canaan, perché quell'ingresso non fu realmente l'ingresso nel riposo di Dio, ma solo una prefigurazione. Che la promessa non si adempì è dimostrato dal fatto che Dio - per bocca del re David nel Sal94, 7-8 LXX (TM 95,7 -8) e dopo molti anni dalla traversata del deserto- parla ancora di un «oggi», durante il quale i credenti sono chiamati a prestare attenzio-

7l

AGLI EBREI 4,11

6Poiché

dunque rimane che alcuni entrano in esso e coloro che ricevettero per primi il lieto annuncio non vi sono entrati a causa della disobbedienza, 7(Dio) stabilisce di nuovo un giorno, un «oggi», dicendo per mezzo di David, dopo tanto tempo, come è stato detto sopra: Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori. 8Difatti, se Giosuè avesse assicurato loro il riposo, (Dio), dopo quegli eventi, non avrebbe parlato di un altro (giorno). 'Dunque, è riservato un riposo sabbatico al popolo di Dio. 10Infatti, colui che è entrato nel riposo di lui, egli pure si è riposato dalle sue opere, come Dio dalle proprie. '11 Perciò, sforziamoci di entrare in quel riposo, affinché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza. (cf. Eb 6,20; 10,20) e li introduce nel riposo di Dio. Questa interpretazione è sostenuta dall'uso del tempo aoristo di l'laépxo~L, a proposito dell'entrata di Cristo in cielo. Che in 4, l O non si parli dell'entrata individuale di ciascun membro del popolo di Dio, è dimostrato dali 'uso del singolare, mentre Ebrei usa sempre il plurale per parlare dell'accesso dei cristiani presso Dio (cf. 4,3.lla.16; 6,19; 10,19.22; 12,1; 13,12) e il singolare solo per

metterli in guardia ed evocare eventuali pericoli (cf. 3,12; 4,lb.llb; 10,29; 12,15-16). 4,11 Disobbedienza (!ilrn&(aç)- Per la sostituzione del sostantivo con ti.mm:(aç («incredulità») da parte del papiro di Chester Beatty II (IP 46), del manoscritto Harley 5537 della British Library di Londra (l 04 ), cf. nota a 4,6. Il codice Claromontano (D) legge ti.ÀT)&(aç («verità») in luogo di ti.1!n9l'(aç per un errore di trascrizione.

ne alla sua voce per poter entrare nel suo riposo. Dio, dunque, parla di un altro giorno, quello appunto della Chiesa, e di un altro riposo (cf. katépausen: v. 8), quello trascendente, che è il cielo stesso. Il predicatore non ne parla in termini di analogia, ma come proclamazione profetica di lieto annuncio, di promessa di Dio rivolta a tutti i credenti, inclusi quelli del passato. Dunque, la categoria di riposo si carica di un nuovo significato: non è più il possesso della terra promessa- con la pace e la libertà che essa comportava - ma quello stesso di Dio creatore che si riposò il settimo giorno dopo l'opera della creazione. È il «riposo. sabbatico» (v. 9), modello, per il popolo di Dio, del riposo che è la salvezza definitiva (cf. 2, l 0). In questo riposo entreranno i credenti con le loro opere di giustizia e santità (cf. 10,24), così come è avvenuto per Cristo, che è entrato nel suo riposo e ora siede alla destra di Dio, «dopo aver compiuto la purificazione dei peccati» (1,3) e aver aperto la via al cielo per tutti i credenti (cf. 6,20 e l 0,20). La conclusione dell'esortazione è un invito rivolto agli uditori a sforzarsi di entrare nel riposo sabbatico e a tendervi continuamente per evitare di cadere nello stesso tipo di indocilità e disobbedienza (v. 11) degli Israeliti (cf. 3, 7-19). È lo sguardo verso il futuro che fonda nel presente un cammino di sicurezza nella speranza (cf. 3,6).

AGLI EBREI 4,12

72

12 Zwv yàp Ò Àoyoç tou 8eou KaÌ €vepy~ç KaÌ t'O}lWt'epoç ùrr€p micrav }laxatpav ÒtO'tO}lOV KaÌ ÒttKVOU}l€VOç axpt }l€ptO'}lOU 'iJuxtjç KaÌ ltV€U}latoç, àp}lWV t€ KaÌ }lUEÀWV, KaÌ KptnKÒç €v8u}l~O'EWV Kaì €vvotwv Kapò{aç· 13 Kaì oÙK Ecrnv Krtcrtç àcpav~ç €vwmov aùrou, rravra ò€ YU}lVà KaÌ t'€tpaxf1Àt0'}.1Éva toi'ç òcpBaÀ}loi'ç aùrou, rrpòç ov ~11tv ò Àoyoç.

4,12 Efficace (È~~~:p'Yll> corrisponde a quella di 5,4: «E non (ouch) per se stesso qualcuno prende questo onore (heautoi tis lambéznei t~n timin), ma (alta) (solo) chi è nominato da Dio ... ».Insieme alle negazioni «non» e alle congiunzioni avversative «miD>, sono in corrispondenza tra loro il termine «> si erano convertiti e poi «di nuovo» sono caduti nel peccato. Sono stati ... illuminati (cJ>wno~vmç)- Va riferito ali 'iniziazione cristiana, come illuminazione de li' anima mediante la fede, a cui seguiva il battesimo. Solo successivamente nel linguaggio teologico il termine «illumi-

Il cammino verso la maturità dipende dalla volontà di Dio (6,3) e, con il suo aiuto, sarà certamente coronato di successo. Convinto di ciò il predicatore coinvolge in questa sua certezza la comunità, bisognosa di incoraggiamento. 6,4-12 Parole di ammonimento ed esortazione alla speranza Il rischio di coloro che rifiutano il cammino verso la maturità è quello di perdere la speranza e di allontanarsi da Dio. Per questa ragione il predicatore intensifica e rafforza l'ammonimento verso i suoi uditori, affinché prendano consapevolezza delle conseguenze gravi di un loro ritorno a una condotta di vita incredula e indurita dal peccato (cf. 3, 13-19). È impossibile recuperare coloro che hanno conosciuto la bontà di Dio e la vita cristiana e poi sono decaduti. Non c'è altra purificazione dai peccati (cf. l ,3) e salvezza eterna per gli uomini se non quella ottenuta da Cristo per tutti quelli che gli obbediscono (cf. 5,9), mediante la sua morte di croce, avvenuta una volta per sempre (cf. 10,26-31 ). Secondo alcuni interpreti, l' «illuminazione», l'esperienza del «dono celeste» e la partecipazione allo «Spirito Santo» (v. 4) sono allusioni ai tre sacramenti dell'iniziazione cristiana: il battesimo, l'eucaristia e la confermazione. L'espressione: «e poi sono caduti» (v. 6) è posta letterariamente alla fine del periodo

95

AGLI EBREI 6,6

dell'istruzione sui battesimi e dell'imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno. 3Questo faremo, se Dio lo permette. 4lnfatti, è impossibile riportare di nuovo al pentimento coloro che sono stati (già) una volta illuminati, hanno gustato il dono celeste, sono divenuti partecipi dello Spirito Santo, 5hanno assaporato la bella parola di Dio e le potenze del mondo a venire 6e poi sono caduti, perché per conto loro crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'ignominia.

2

nazione» divenne sinonimo di battesimo. Secondo altri interpreti l' «illuminazione» è il dono della fede o dello Spirito Santo. Dono celeste ("tfr, liwpEfu; "tfr, rnoupo:vlou)- Può essere inteso come il dono della vocazione cristiana (cf. 3, l) e della salvezza in virtù del sacrificio pasquale di Cristo. Tuttavia, il significato preciso di questa espressione resta misterioso e indeterminato: secondo un'esegesi più antica si tratta della remissione dei peccati; un'interpretazione più tardiva vi vede l'eucaristia, con riferimento al pane vivo disceso dal cielo di Gv 6,31-58; infine, alcuni interpreti lo riferiscono al dono dello Spirito Santo, del quale poi viene detto che i cristiani diventano partecipi (cf. f.ll't6xouç ye\IT}9Évta.ç: 6,4; At 2,38; 8,20; 10,45; 11,17). 6,5 La bella parola (Ka.ÀÒv ... pi'J~a.)- È l'equivalente di eua.yyHwv, cioè del «lie-

to annuncio» di Gesù e degli apostoli. Le potenze del mondo a venire (ou. . ~ç n ~vtoç a.'L.Gwç )-Sono i miracoli compiuti da Cristo e dai discepoli a conferma del messaggio evangelico; vengono specificati come «del mondo a venire» perché anticipano emanifestano una salvezza che sarà definitiva nella pienezza di Dio. 6,6 E - La congiunzione Ka.L è qui più che una semplice copulativa e acquista il significato più forte di «e tuttavia». E poi sono caduti (Ka.l rra.pa.rreoovta.ç) - Si usa il verbo rra.pa.rr( trtHv con il significato che si trova nella Settanta, dove indica l'intenzionale e deliberato rifiuto di Dio (cf. Ez 20,27; 22,4; Sap 6,9; 12,2). Crocifiggono ... espongono - I participi àva.ota.upoiìvta.ç e rra.pa.ùe~y~t((ovta.ç sono entrambi hapax nel NT.

iniziato al v. 4, in contrasto con quanto è stato detto prima a proposito del carattere positivo dell'esperienza della vita cristiana Il verbo «cadere» esprime bene la situazione spirituale disastrosa di chi ha già rifiutato la luce della fede, ha rinnegato la propria vocazione di cristiano e la salvezza ottenuta da Cristo, ha mortificato lo Spirito Santo e disprezzato la parola di Dio (cf. l Ts 5,19-20) con i miracoli che l'accompagnavano (cf. Mc 16,20). Quindi, il «cadere fuori» dalla via di Dio è per l'autore di Ebrei lo stato di chi ba abbandonato il Dio vivente (cf. 3,12), non ha conservato «salda fino alla fine la fede iniziale» (3,14; cf. 4,14) e, indurito , che fanno riferimento a un'azione continuata e ostinata (cf. uso del tempo presente) chiariscono la natura e gravità della caduta di costoro: si tratta del peccato di apostasia, un rischio nel quale qualcuno della comunità di Ebrei potrebbe trovarsi o già si trova. E, anche se il predicatore non dovesse riferirsi all'abbandono volontario della fede, ma a peccati gravi dopo il battesimo, tuttavia, ciò che vuole sottolineare è l'impossibilità (v. 4) di riportare di nuovo al pentimento (v. 6)

96

AGLI EBREI 6,7

yfj yàp ~ moucra ròv Èrr' aùrfjç ÈpXO}lEvov rroÀÀaKtç ÙETÒV KaÌ TlKTOUcra ~O'taVf1V ElJ8ETOV ÈKElVOtç Ot' ouç Kaì yEwpyEiTat, }lETaÀa}l~avEt EÙÀoyiaç èmò mu 8Eou· 8 ÈK>, «immutabile>>, «che non passa>>, «senza fine». 7,25 Perfettamente - Il sintagma Elç tò rravtEÀ.Éç può essere inteso sia temporalmente, alla luce di àrrap&paroç («che non passa», v. 24), assumendo così il significato di «per sempre» (cf. Vulgata), «definitivamente»; sia qualitativamente, con il significato di «completamente», «perfettamente». I due significati non si escludono, ma si implicano a vicenda, perché la salvezza è definitiva quando è completa ed è perfetta quando è per sempre.

quantitativa- Gesù è wùco, mentre i leviti erano molti - ma anche qualitativa- Gesù ha un sacerdozio eterno, mentre i leviti uno temporaneo. Proprio perché il sacerdozio di Cristo non finisce mai e non viene interrotto dalla morte, esso può salvare perfettamente e in modo definitivo e completo quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio. Cristo, infatti, non esce dal santuario per portare le grazie ottenute ai credenti (fase discendente del sommo sacerdote), ma, una volta assiso «alla destra della Maestà nelle altezze» (1,3; fase centrale), apre l'accesso dei credenti a Dio (cf. Gv 10,9; Ap 4,1), affinché ricevano misericordia, trovino aiuto (cf. Eb 4,16; Ef2,13) e siano salvati. Inoltre, poiché è il Risorto che vive per sempre, può intercedere a loro favore (cf. anche Rm 8,34). Egli non deve più offrire preghiere e suppliche come «nei giorni della sua carne» (Eb 5,7), ma dalla sua posizione elevata alla destra di Dio e, grazie al suo ministero di mediazione, interviene a favore dei credenti che così ora possono avvicinarsi a Dio ed essere realmente salvati. Nella tradizione anticotestamentaria e in quella giudaica, l'espiazione compiuta dal sommo sacerdote durante il rito dello Yom Kippur era considerata come attività di intercessione. Ora l 'intercessione di Gesù, entrato nel santuario celeste e garante autorevole per tutti i credenti, è la definitiva e perfetta mediazione, finalizzata non solo al perdono dei peccati e alla salvezza, ma anche a un'assistenza più generale di aiuto nei momenti di prova (cf. 2,18; 4,16).

AGLI EBREI 7,26

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T010UTOç yà:p ~}!iV Ka:Ì É1tp€1tEV àpxtepeuç, OO'toç aKa:Koç à}lia:vroç, Kexwptcr}!Évoç ànò -rwv à}la:p-rwÀwv Ka:Ì Ù"ljJTJÀo-repoç TWV oùpa:vwv YEVO}l€VOç, 27 oç OÙK ÉX€1 Ka:S' ~}!Épa:v àvayKT]V' W0'1tEp oi àpxtepeiç, np6-repov \mè:p TWV iòiwv cl}la:pnwv eucria:ç à:va:cpipetv énet-ra: -rwv -rou Àa:ou· -rou-ro yà:p è:noiTJcrev è:cpana:~ é:a:u-ròv àveviyKa:ç. 28 ò v6}loç yà:p àvepwnouç Ka:SicrTTJcrtv àpxtepeiç éxov-ra:ç àcreiveta:v, ò Àoyoç òè: rijç òpKw}locria:ç rijç }lE-rà: -ròv VO}lOV uiòv eiç -ròv a:iwva: 'tE'tEÀEtW}lÉvov. 26

7,26 Santo (ooLOç)- Si noti come Ebrei per parlare della santità morale di Gesù non usi l'aggettiVO ayLOç («santo», , «accetto a Dio»), che lo qualifica come corrispondente in tutto alla volontà di Dio. Elevato al di sopra dei cieli (ÌIIjJT)À.6tE'poç twv o\Jpavlilv yH~voç)- Questa espressione, insieme ad altre incontrate sinora (cf. «seduto alla destra della Maestà nelle altezze»: 1,3; «che ha attraversato i cieli»: 4,14) è una metafora per esprimere la trascendenza divina.

7,27 Una volta per tutte (€«lltt.;)- L'avverbio indica la piena e perpetua validità del sacrificio di Cristo. Offrendo (&vm\yKa.ç) - Rispetto a questo participio aoristo, più attestato (cf. papiro di Chester Beatty II [!p46], codice Vaticano [B), codice Claromontano [D] e testo bizantino), il codice Sinaitico (N), quello Alessandrino (A) e di Freer (l) hanno il più comune llpooEOviyKa.ç, forse alla luce di 5,7. Tuttavia, il verbo &va.cjl€pw («portare in alto»), rispetto a li~ («portare presso»), risulta più adatto

Nell'approfondimento finale, il predicatore celebra Cristo sommo ~erdote e fornisce alcune importanti infonnazioni sulla sua santità e perfetta integrità morale. Contemplandolo nella gloria eterna e come colui che salva perfettamente i credenti, constata con stupore e solennità che è lui davvero il sommo sacerdote di cui i credenti avevano bisogno. E ne offi:e una descrizione ammirata: egli è «santo» perché ha compiuto perfettamente e con profonda pietà la volontà di Dio (cf. 5,7.8), è «innocente» (cf. 4,15) ed è al'11an Ò}loiwç Èppavncr€v. 22 Kaì avtcr9fjvat r'f> 1tpocrwmf) mu 9€ou ÙJtÈp ~11wv· 25 oùò' l'va JtOÀÀaKtç 1tpocrq>Épn Éaur6v' W0'1t€p ò apxt€p€Ùç €ÌcrÉpXHat €Ìç Tà ayta Kar' ÈVtaUTÒV ÈV at}lan CrÀÀOTpt(f>, 18

9,19 Dei vitelli (rwv j.locrxwv) - Questa lezione (papiro di Chester Beatty II [~46], codice di Mosca [K], codice Angelico (L), codice della Laura del monte Athos ('l') è la più semplice e quindi considerata preferì-

bile. L'aggiunta di Kal twv tpaywv («e dei capri»)èuncompletamentodell'espressione in armonia a 9,12.13. Con acqua, lana scarlatta e issopo {Jl€tà i'futoç KaL €plou KOKKLVOU Kal oocrc.Yrrou)- Nell'alle-

testatore (vv. 16-17), dando effettiva validità al testamento per mezzo della sua morte e inaugurando con il proprio sangue la nuova alleanza (cf. v. 18). Il predicatore, per attestare la necessità (v. 23) della morte sacrificale di Cristo, sottolinea'l'importanza del sangue fin dai riti al Sinay. L'espressione usata da Mosè durante il rito di aspersione: ) del v. 6, rimanda alla teologia del dolore, sviluppatasi ampiamente nel tardo giudaismo. Accoglie (mxpacSÉxE'taL) - Questo verbo, alla luce del corrispondente ebraico di cui è la traduzione, cioè rii$a, «compiacersh>, acquista il significato di «accogliere amorevolmente>>; tale significato è confermato dal parallelismo con l'espressione: «infatti, co-

Continuando nella citazione del libro dei Proverbi, il predicatore fa prendere coscienza che, mediante la sofferenza e la prova, Dio persegue l'opera positiva della correzione, che manifesta il suo amore e rafforza la comunione filiale con lui. Il rapporto tra amore e correzione è qui di causa ed effetto, l'amore diventa il motivo per l'agire pedagogico di Dio, che corregge il proprio figlio come un padre (cf. Dt 8,5; 2Sam 7,14; IRe 12,11.14; Pr 13,24; Gdt 8,25-27; Sap 11,9-10; Sir 30,1; 42,5). Tale disciplina di Dio è una correzione d'amore come quella di un padre verso il proprio figlio che è amato (cf. Salmi di Salomone 13,9; 18,3-4; Apocalisse siriaca di Baruk 13,1-12; Talmud babilonese, Berakhot 5a; Filone, Il connubio con gli studi preliminari, 177; Seneca, La provvidenza, 2,6; 4,7). La relazione apparentemente paradossale tra l'amore di Dio e l'educazione attraverso i castighi- secondo la severità delle affermazioni di Pr 3,12 (cf. nota al v. 6)- è superata per mezzo del riferimento all'esperienza umana dell'educazione impartita da un padre al proprio figlio: la fermezza di un genitore che aiuta a crescere è espressione di amore autentico e garanzia di una maturazione effettiva. Dunque, la correzione dolorosa di Dio è un atto paterno verso «ogni figlio che accoglie come tale>>; quindi, non chiunque è castigato è figlio, ma ogni figlio- proprio perché è accolto e amato- è castigato. Non c'è disciplina di Dio che non abbia origine dal suo amore e che non sia finalizzata al bene. Dopo aver citato Pr 3,11-12, il predicatore spiega innanzitutto il significato della «correzione» divina quando dice che è per la loro correzione che sopportano le prove (cf. v. 7a); in secondo luogo spiega la ragione dell'educazione dolorosa che consiste nel fatto che Dio li tratta come figli (cf. v. 7b); in terzo luogo con un 'interrogativa retorica espressa in negativo afferma la necessaria connessione tra figliolanza e correzione e che la ragione stessa della correzione è conveniente, cioè conforme ali' educazione

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AGLI EBREI 12,7

infatti, colui che ama il Signore corregge, e castiga ogni.figlio che accoglie (come tale). 7È per la vostra correzione che sopportate (le prove)! Dio vi tratta come figli. Qual è infatti il figlio che il padre non corregge?

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lui che ama» dello stesso v. 6, che stabilisce che la relazione filiale è relazione di amore. 12,7 Per (elç) - Il codice della Laura del monte Athos di prima mano ('P), il manoscritto Harley 5537 della British Library di Londra (104) e diversi altri minuscoli sostituiscono questa preposizione con la congiunzione et («se»), dando un altro significato al v. 7: «Se sopportate la correzione, come figli Dio vi tratta». Questa lettura condizionale della frase potrebbe andare bene, soprattutto in considerazione dell'altra supposizione di 12,8, congruente alla precedente. Tuttavia, la

lezione etç è da preferire, perché molto più attestata. Inoltre, la preposizione E lç è da intendere in senso non causale («a causa della correzione ... »), ma intenzionale («per», «in vista di») e conferma l'interpretazione di una positiva educazione del credente attraverso le prove. Sopportate (ÒTTO~Éven)- Sebbene questa forma verbale possa essere un imperativo presente attivo, tuttavia ci si trova piuttosto dinanzi a un indicativo presente, perché l' autore sta proponendo non un'esortazione, ma una spiegazione.

dei genitori verso i figli: «Qual è infatti il figlio che il padre non corregge?» (v. 7c). Signifìcato della correzione. Stabilendo una relazione tra il tema della correzione e quello della sopportazione delle prove già precedentemente incontrato (vv. 1-3), il predicatore spiega che le prove che essi stanno sostenendo sono ordinate alla loro formazione morale e spirituale secondo il progetto educativo di Dio. La , perché il predicatore rivolgendosi agli sposati, dapprima li invita alla fedeltà, contro il rischio dell'adulterio, e poi alla castità, contro il pericolo dell'impudicizia. Ciò è confermato dalla relazione a chiasmo tra le componenti del v. 4: a: «Ii matrimonio sia rispettato da tutti»; b: «l'atto coniugale sia casto»; b 1 «perché Dio giudicherà gli im-

pudichi»; a 1 «e gli adulteri». L'ambito del monito è quindi quello strettamente matrimoniale e gli inviti riguardano la fedeltà e la castità coniugale. Si comprende allora come non si possa attribuire a 1T6pvouç il significato di «fornicatori», perché tale termine riguarda coloro che peccano fuori del matrimonio. Casto (li11ta.v1:oç) - Alla lettera: «senza macchia»; la specificazione significa che il rapporto sessuale deve essere puro, senza peccati.

comunità, ma l'invito all' «ospitalità» (v. 2) e la condivisione delle sofferenze di quelli che sono nel carcere o che sono maltrattati (cf. v. 3) smentisce questa impressione. I credenti sono chiamati ad amare anche ad extra, ad accogliere chi viene da fuori, sviluppando sempre più la potenza dell'amore e la comunione della fratellanza (cf. Rm 12,13). L'invito è rafforzato con gli esempi biblici di coloro che, senza saperlo, accolsero degli angeli; il ricordo degli uditori va adAbraam (cf. Gen 18, 1-15), Lot (cf. Gen 19,1-4), Gedeone (cf. Gdc 6,11-21), Manoal:t e sua moglie (cf. Gdc 13,3-23) e Tobia (cf. Tb 5,4; 12, 1-22). Riguardo alla cura dei carcerati e dei cristiani perseguitati per la loro fede, l'indicazione è di partecipare alle loro sofferenze come se fossero le proprie. In questo dovranno imitare Cristo che, per venire in soccorso degli uomini, si rese in tutto simile a loro (cf. Eb 2,15-18), sottoponendosi alla croce (cf. 12,2). Considerando l'esempio di Cristo, i cristiani si faranno solidali con i carcerati, «come» se condividessero la loro stessa condizione, e si ricorderanno di coloro che sono maltrattati per esercitare la compassione e immaginare nel proprio corpo quello che essi soffrono, così da essere con loro in empatia. La seconda indicazione del predicatore riguarda la fedeltà matrimoniale e la castità. Il matrimonio deve essere rispettato da tutti (en pdsin: v. 4, al maschile): Dio infatti «giudicherà» i trasgressori che con l'adulterio hanno profanato la vita coniugale. Inoltre, il matrimonio deve essere onorato in tutto, l'atto coniugale deve essere casto, nel senso che l'onore, il rispetto saranno il criterio che regolerà ogni espressione di amore. Gli «impudichi» che non vivranno in maniera casta la loro relazione coniugale (cf. Tb 8,7) dovranno affrontare anch'essi il severo giudizio di Dio.

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AGLI EBREI 13,5

'AcptÀapyupoç ò rp6rroç, à:pKOUJléVot roiç rrapouow. aùròç yàp dpfiKév· où 11Jf uE dvw oùo' où 11Jf uE iyKaraAbrw, 6 woTé 8appouvraç ~}ltlç ÀéyélV' 5

Kvpzoç É!lOÌ f3o1J86ç, [Kai] où cpof31J8l]uollaz, d rrou]uEl/lOl éivBpwrroç;

MVfl}.lOVéUHé rwv ~youp€vwv ùpwv, otnvéç ÈÀaÀrtoav ùpiv ròv Àoyov rou 8éou, v à:va8éwpouvréç r~v ifK~aow rt;ç à:vaorpocpt;ç }.ll}lét0'8é T~v rrionv. 8 'Irtoouç Xptoròç è:x8Èç Kaì o~pépov ò aùròç Kaì dç roùç aiwvaç. 9 f1toaxaiç rrotKiÀatç Kaì çttvatç 1.1~ rrapacp€péo8é· KaÀÒv yàp xaptn ~é~atouo8at T~V KapO{av, OÙ ~pW}laow ÈV oiç OÙK WcpéÀ.~8rtoav OÌ TrépmaTOUVTéç. 7

13,5 Non ti lascerò e non ti abbandonerò mai (oÙ j.l~ OE ài!W oùO' oÙ j.l~ OE ÉYKtnaÀLTTw) - Questa frase riportata dall'autore di Ebrei non corrisponde alla versione greca della Settanta (cf. Gen 28,15; Dt 4,31; 31,6.8; Gs l ,5), né concorda con gli originali ebraici. La differenza è a opera dell'autore stesso, oppure anch'egli dipende, insieme a Filone (La confosione delle lingue, 166) che cita la medesima frase, da una versione alternativa di Dt 31 ,6.8. Abbandonerò - Il papiro di Chester Beatty II (IJ)46), il codice Sinaitico (N), il codice Alessandrino (A), il codice di Eftem riscritto (C) e il testo bizantino riportano il presente ÉyKa"t"a.l..E(TTw («abbandono»), anziché l'ao-

risto congiuntivo ÈyKa"t"aHTTw. La variante è ben attestata, tuttavia scegliamo l'aoristo congiuntivo perché concorda con il precedente àvw anch'esso ali' aoristo congiuntivo. 13,7 Dei vostri capi (1:wv ~yo\Jj.LÉvwv 4twv) - Il sostantivo ~yolJj.LEvoL («capi», «dirigenti», «guide», «responsabili»), presente spesso nella Settanta, solo qui, rispetto al resto del NT, è riferito a uomini che nella comunità rivestivano (cf. 13,7) e rivestono (cf 13,17.24) compiti direttivi di autorità e governo (cf., però, Le 22,26 al singolare), le cui caratteristiche e attribuzioni non sono specificate. In Ebrei, infatti, non viene detto esplicitamente se il loro ministero consisteva anche nella presidenza

Le successive due raccomandazioni fanno riferimento alla «condotta>> dei cristiani. Il predicatore mette in guardia dalla bramosia di denaro dapprima in negativo, invitando a non essere avidi di denaro, e poi in positivo, esortando ad accontentarsi di ciò che si ha. Le raccomandazioni sono fondate sulla promessa- più volte ricorrente nell'AnticoTestamento(cf. Gen28,15; Dt4,31; 31,6.8; Gs 1,5)-cheDiononabbandonerà mai l'uomo che spera in lui. Certi della protezione divina, autore e destinatari (cf. «noi», v. 6) potranno guardare al futuro senza preoccupazione e vivere fiduciosi: Dio, infatti, li assisterà qualunque cosa potrà loro fare l 'uomo (cf. v. 6 e Sal118,6).

Indicazioni per un'autentica comunità cristiana fedele e obbediente (13,7-19) Il predicatore, preoccupandosi di tenere uniti i suoi uditori nella fede e nella disciplina, li invita (v. 7) a ricordarsi di coloro che, mediante l'annuncio della parola di Dio, fondarono le loro comunità e le guidarono con l'autorevolezza della

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AGLI EBREI 13,9

La vostra condotta non sia avida di denaro, accontentandovi di ciò che avete. Egli, infatti, ha detto: Non ti lascerò e non ti abbandonerò, mai, 6 così che, fiduciosi, noi diciamo: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura; che cosa potrà farmi un uomo? 5

r

Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi annunciarono la parola di Dio; considerando l'esito della loro condotta (di vita), imitatene la fede. 8Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e nei secoli! 9Non lasciatevi portare fuori strada da dottrine varie ed estranee. È bene, infatti, che il cuore venga fortificato dalla grazia e non da regole alimentari, dalle quali non hanno trovato giovamento coloro che le osservano.

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della celebrazione eucaristica. Tuttavia, si può non escluderlo alla luce di l 0,25 e del contesto immediato di 13,7-18 che allude ali' eucaristia in virtù del riferimento al pasto sacrificale cristiano (cf. v. IO), al sacrificio di lode per la mediazione di Cristo (cf. v. 15) e alla raccolta di beni per i più bisognosi (cf. v. 16). L 'esito della loro condotta di vita (t:~ v E.q3aaLV tf)c; &vacrtpocjlf}l;)- Questa espressione, alla luce di Sap 2,17, dove ricorreEKj3aaLç che ha il significato di «fine» (cf. anche Sap 8,8; 11,14), può fare riferimento al martirio (cf. ~ÉXP Lç tt'L~J~Xtoç, «fino al sangue» in Eb 12,4) da parte di alcuni responsabili di comunità. Tuttavia, la frase rimane indetermi-

nata e, probabilmente di proposito, perché non tutti i dirigenti morirono martiri. 13,8 Alla fine del versetto il codice Claramontano (D) aggiunge una conclusione liturgica: a~~v («amen»). 13,9 Non lasciatevi portare fuori strada ~~ i!ttprojiÉpeae.o)- Il codice di Mosca (K) e il codice Angelico (L), probabilmente influenzati da Ef 5,4, leggono i!EpL$Épeaae («portare da una parte ali' altra»), in luogo di i!apa$épeaae. Coloro che le osservano - Il participio presente i!Ep LiTtttoflvteç (alla lettera: «quelli che camminano») è riferito a «coloro che osservano» le regole alimentari,

loro vita di fede. Guardando alloro esempio, i cristiani sono chiamati a imitarli, considerando soprattutto l'esito finale della loro vita di fedeltà. I cristiani di Ebrei, sull'esempio dei loro capi e degli antichi padri (cf. Eb 11 ), vengono quindi esortati a mantenere ferma la loro confessione di fede in Dio (cf. 4,14), saldi in Cristo, il quale rimane immutabile per sempre (v. 8). Avendo quindi in lui il fondamento sicuro e definitivo della loro fede, non devono farsi portare fuori strada da dottrine varie e stravaganti basate su prescrizioni alimentari (v. 9) di cibi e bevande varie appartenenti al vecchio regime della Legge (cf. 9,10). I cristiani non hanno bisogno di quelle dottrine per essere salvati, perché, grazie al sacrificio pasquale di Cristo, essi hanno ormai ottenuto una redenzione eterna (cf. 9,12) e sono stati abilitati a rendere un culto autentico al Dio vivente (cf. 9,14). L'autore, stabilendo un'antitesi tra i sostantivi «grazia)) e «cibh), fa comprendere che le osservanze alimentari del culto antico non giovano alla vita spirituale, per la

AGLI EBREI 13,10

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€xo}l€V 9ucrta:crr~ptov f~ oò cpa:yEi'v oÙK €xoucrlV f~oucria:v oi

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