Lessico critico dell'«Orlando furioso»
 8843082175, 9788843082179

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LINGUE E LETTERATURE CAROCCI

/

2.21

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Lessico critico

dell'Orlandofurioso A cura di Annalisa lzzo

Carocci editore

Volume pubblicato con il contributo del Fonds des Publications de l'Université de Lausanne e della Fondation pour l'Université de Lausanne e con il patrocinio del Comitato Nazionale per il v Centenario dell'Orlandoforioso.

1' edizione, dicembre 2.016 ©copyright 2.016 by Carocci editore S.p.A., Roma Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop Bari .•

Finito di stampare nel dicembre lO I 6 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-82.17-9

Riproduzione vietata ai sensi di legge

( art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume

anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Prefazione

7

di Annalisa lzzo Avvertenza per le citazioni

13

Nota sulle tre redazioni

IS

di Alberto Casadei Armonia

2.1

di Giuseppe Sangirardi Corte

41

di Dennis Looney Entrelacement

61

di Franco Tomasi Filoginia e misoginia

81

di Elissa Weaver Generi

99

di Francesco Ferretti Inchiesta

12.9

di Daniela De/corno Branca Intertestualità

IS3

di Maria Cristina Cabani

s

INDICE

Ironia

I77

di Stejàno fossa Lettore

I99

dijane E. Everson Lingua

2.2.S

di Tina Matarrese Meraviglioso

2.39

di Matteo Residori Morale

2.6I

di Gabriele Bucchi Oggetti

2.83

di Sergio Zatti Ottava

30I

di Veronica Copello Paesaggio

32.I

di Eleonora Stoppino Proemi

34I

di Albert Russe/l Ascoli Racconti

367

di Annalisa lzzo Storia

387

di Alberto Casadei Struttura

405

di Alberto Roncaccia Indice dei nomi e delle opere

42.7

Gli autori

44I

6

Prefazione di Annalisa Izzo

l12 5 ottobre 1515, dopo un decennio di «longe vigilie e fatiche», Ludovico Ariosto scrive al doge di Venezia per ottenere il privilegio di stampa per

l'Orlando furioso. Il

poeta afferma di voler stampare «dove meglio» gli

«parerà» l'opera che tratta di «cose piacevoli e delectabeli de arme e de amore». Sei mesi più tardi, il22 aprile 1516, dai torchi ferraresi di Giovanni Mazocco dal Bondeno esce la prima edizione di quello che diventerà ( pas­ sando per le successive redazioni, pubblicate nel

1521

e nel

1532)

uno dei

capolavori della letteratura occidentale. Celebrare oggi i cinquecento anni da quella prima stampa significa mi­ surare tutta la modernità di un testo che non ha mai smesso di interpellare i suoi lettori, da Galileo a Voltaire, da Leopardi a Manzoni a Borges, cat­ turando nella rete dell'interpretazione o della riscrittura pensatori e artisti di genio. Eppure, chi si avvicina a questo grande classico rischia sempre di trovarsi smarrito: la sua bellezza, il suo fascino imperturbabile sono legati anche alla studiata complessità del suo intreccio; allo straordinario tessuto culturale e letterario al quale rinvia; al patrimonio figurativo che evoca. Già i primi commentatori cinquecenteschi, del resto, si erano cimentati in operazioni di mediazione, volte a sostenere la lettura di un testo monumentale e per certi aspetti labirintico. Tuttavia - e certo proprio in ragione della natura spesso inafferrabile del Furioso - non si è mai tentato l'allestimento di un vero e proprio strumento didattico, capace di guidare il lettore attraverso i molteplici livelli del testo. L'idea di un Lessico critico del! 'Orlando furioso è nata dalla constatazio­ ne di questa lacuna bibliografica, nel momento in cui mi sono trovata per la prima volta di fronte alla preparazione di un corso sull'Orlando destinato a studenti non italofoni. Il confronto con altre tradizioni culturali, prima an­ cora che critico-letterarie - quella francese, naturalmente, ma anche quel­ la anglosassone -, presso le quali l'approccio tassonomico-enciclopedico

7

ANNALISA IZZO

all'oggetto di studio è da sempre espressione dei più alti valori morali e civili,in particolare dell'impegno per una democratizzazione del sapere,ha aperto la strada all'ideazione di uno strumento che provasse a raccogliere, in una sorta di tesauro,la sostanza di ciò che la critica ha acquisito (o di­ battuto) a proposito del

Furioso, a beneficio soprattutto dei nuovi lettori

dell'opera. Raccogliere,selezionare,sintetizzare,mediare... operazioni non scon­ tate di fronte a una bibliografia critica tra le più ricche della nostra storia letteraria. D'altra parte,si è detto,su alcune problematiche poste dal

rioso si discuteva già a

Fu­

metà Cinquecento,in un dibattito cruciale per la

storia della critica italiana ma anche fondatore di quella disciplina che oggi chiamiamo teoria della letteratura. Da allora il capolavoro di Ariosto è stato il " banco di prova" di moltissime "avventure critiche", nonché oggetto di letture che hanno mirato a una sua interpretazione integrale. Di tutto ciò si doveva tener conto nel pianificare l'opera. E tuttavia è vero che il Lessico, quale si presenta oggi,guarda soprattutto alla critica degli ultimi trent'anni, che ha contribuito fortemente a stabilire una nuova lettura del capolavoro. Molti degli specialisti attivi in questa operazione di

renouveau degli studi

ariosteschi hanno contribuito al volume. Tenendo conto di questo mare magnum bibliografico,il Lessico è stato pensato innanzitutto come strumento didattico-accademico. In tal senso esso si prefigge due obiettivi:

1.

fornire una mappa critica del testo,che per­

metta di percorrerlo nella sua globalità seguendo alcuni concetti-chiave; 2.

introdurre a una riflessione critica sui temi e le forme dell'opera,da una

parte offrendo una sintesi delle categorie interpretative determinanti per la sua ricezione,dall'altra introducendo nuove prospettive di lettura. Organizzato in venti lemmi (includendo nel computo la Nota

redazioni),

sulle tre

il volume, nella sua struttura essenziale, si presenta come un

dizionario le cui voci permetteranno di (ri)leggere l'opera dalla prospet­ tiva dei suoi temi principali

(morale,jìloginia e misoginia, .. .),delle forme

(generi, proemi, ...),delle categorie critiche che nei secoli l'hanno definita (armonia, ironia, ...),ma anche di più recenti prospettive di studio (oggetti, racconti, ...) e non consuete chiavi di lettura (paesaggio, ...). Questa proposta scientifica,davvero inedita rispetto alla tradizione della critica,è sembrata efficace per diverse ragioni. Intanto perché consente di fotografare lo stato dell'arte, ripercorrendo quanto è stato dibattuto in merito alle principali problematiche poste dal testo. Poi perché aggiorna il dibattito critico,ora aprendo nuove questioni,ora ripensando quelle canoniche. Infine in quan­ to propone una nuova, pluri-prospettica, modalità di lettura dell'opera 8

PREFAZIONE

attraverso l'integrazione, la complementarità e il dialogo tra i diversi lem­ mi. Il modello ermeneutico cui si è inizialmente guardato è, naturalmente, il

Lessico critico decameroniano,

curato da Bragantini e Forni e uscito per

Bollati Boringhieri nel I99S· Tuttavia, rispetto a quel paradigma il Lessico

critico dell

'

O rlando furioso sperimenta un orizzonte più ampio, anche per­

ché interroga contemporaneamente categorie proprie al testo (ad esempio

inchiesta), categorie proprie alla critica (ad esempio intertestualita ) , nonché categorie più ibride, come storia e corte che esistono sul limine tra testo e critica. Favorendo un'operazione di dose reading, mettendo il testo al cen­ tro della riflessione, fornendo al lettore puntuali riferimenti testuali, sintesi, esempi e analisi, ciascun saggio contribuisce a illuminare trasversalmente il capolavoro di Ariosto. La pertinenza di questo approccio è stata preventivamente discussa e approfonditamente valutata in occasione del convegno

tico del «Furioso»

Per un lessico cri­

che ho organizzato nel settembre 2013 all'Università di

Losanna, a conclusione di un progetto di ricerca, finanziato dal Fonds Na­ tional Suisse, sul "racconto nel racconto" nell' Orlandofurioso. L' intenzio­ ne del convegno era, fin dal titolo, di condividere con alcuni dei maggiori studiosi e interpreti del capolavoro l'esigenza di uno strumento didattico e di promuovere una riflessione comune che valutasse opportunità, forme e problemi dell'allestimento del volume. In questa occasione sono stati

(armonia, jìloginia e misoginia, generi, intertestualita, ironia, lingua, meraviglioso, mo­ rale, oggetti, paesaggio, proemi, narratori- poi diventato: racconti). L'affipresentati e discussi dodici degli attuali venti lemmi del volume

damento dei singoli lemmi ha seguito, nei mesi che hanno preceduto il convegno, diversi criteri. In un primo momento i nomi degli studiosi si affiancavano alla lista di lemmi che avevo stilato sulla base delle competen­ ze di ciascuno; a mano a mano che gli abbinamenti si facevano, però, mi è sembrato indispensabile provare ad andare oltre gli specialismi. Ho voluto perciò "scompigliare le carte': per così dire, e affidare a studiosi, noti per aver lavorato su alcuni aspetti specifici dell'opera, un ambito d'indagine non ancora esplorato in modo diretto. In alcuni casi, poi, sono stati gli studiosi contattati a suggerirmi nuovi lemmi, anche in relazione ai loro più recenti interessi. Il Lessico, in questo senso, è anche lo specchio della più recente storia della critica sul

Furioso.

Tengo a ricordare l'eziologia di una voce in particolare. Mi decisi a parlare di questo progetto a Marco Praloran, nel periodo in cui si era ammalato. In quei giorni, verso l'inizio del 2011, sembrava che ogni nuova iniziativa potesse rinviare l'irreparabile. A Marco piacque molto l'idea e

9

ANNALISA IZZO

rimandammo a un'altra occasione un approfondimento. L'occasione non si ripresentò mai più, ma quel giorno Marco mi disse che se si fosse fatto un Lessico, sarebbe stata assolutamente necessaria la voce paesaggio. L'o­ riginalità di paesaggio - non spazio, dunque, né geografia; e chissà quante altre affascinanti nuove voci e categorie critiche Marco avrebbe proposto e introdotto se avesse potuto aiutarci in questa impresa- permette tra l'altro di ribadire che se alcuni lemmi si sono imposti come storicamente irrinun­ ciabili - voci come armonia e ironia sono diventate etichette attaccate al poema, al punto da definirlo tout court - altri aprono il campo a piste di ricerca nuove o solo appena esplorate. Un pubblico altamente qualificato e competente ha contribuito in mo­ do straordinario alla riflessione e al dialogo durante tutto il convegno. Una costola importante dell'incontro, peraltro, è stato il laboratorio dei dotto­ randi, organizzato con la Scuola dottorale in studi italiani della Svizzera occidentale. Nell'impossibilità di dare conto di tutti gli stimoli, le osservazioni, i dubbi e le proposte emersi durante il convegno, mi limito a ricordare un paio di considerazioni, tra quelle che hanno maggiormente coinvolto la riflessione collettiva sul progetto generale. Tra le sfide che la realizzazione di questo tipo di strumento didattico presentava è emersa quella posta dalla natura duplice del volume, che avrebbe, per l'appunto, combinato categorie proprie al testo e categorie che invece fanno parte della storia della critica. L'altra difficoltà spesso segnalata era legata al rischio di frequenti sovrap­ posizioni tra lemmi. In realtà, su quest'ultimo aspetto, già la tavola rotonda conclusiva anticipava quanto mi pare di poter confermare a volume con­ cluso, e cioè che non si sono dati casi di vere sovrapposizioni tra voci, e che invece frequenti rimandi tra un saggio e l'altro, tra un lemma e l'altro (si pensi alla voce proemio, che rimanda praticamente a tutte le altre voci del

Lessico) stanno a testimoniare tanto dell'unità di questo volume, quanto dell'unità del poema stesso. Ma sarà il nostro lettore a giudicare in che mi­ sura questa lettura delle cose sia convincente. Il Lessico comunque dovrebbe essere percorso anche seguendo queste sovrapposizioni e i significati che esse producono, in una fruizione che si vorrebbe criticamente dinamica. Quanto alla natura duplice del volume, si tratta, come già si diceva, di una caratteristica congenita al progetto, inestirpabile anche per scelta: il Les­

sico va incontro all'esigenza di offrire uno strumento di descrizione e allo stesso tempo di approfondimento, presentando ai suoi lettori alcune delle categorie critiche fondamentali per la lettura del Furioso. L'auspicio è che la selezione dei lemmi risponda in modo equilibrato alle due esigenze.

IO

PREFAZIONE

Si poneva, infine, la questione della coerenza tra le voci, tanto sul pia­ no formale che su quello dei contenuti. Nel lavoro di curatela ho cercato soprattutto di vegliare a questo aspetto del volume, nel dialogo e nella col­ laborazione con i singoli autori. Eventuali carenze sono perciò da attribu­ irsi a mie disattenzioni. D'altra parte, non bisogna dimenticare che certe discrepanze possono leggersi non solo, prevedibilmente, come espressio­ ne di quella pluralità di prospettive di lettura di cui si è inteso dare conto - naturalmente, quando avallate dal testo - ma anche come espressione della natura più genuina del testo con cui abbiamo a che fare, mai definiti­ vo, mai chiuso. Un'ulteriore questione, a più riprese affrontata durante il convegno, riguardava l'ampliamento del numero dei lemmi. Alla costellazione iniziale di dodici lemmi, quindi, se ne sono aggiunti otto, scelti tra quelli che sono apparsi collettivamente come irrinunciabili: corte, entrelacement, lettore,

inchiesta, ottava, storia, struttura nonché la Nota sulle tre redazioni. I nuovi lemmi sono stati affidati a studiosi che erano presenti al convegno, inter­ locutori importanti durante il dibattito e la tavola rotonda, partecipi dello spirito dell'iniziativa e delle riflessioni fatte. Mancano invece, tra quelle evocate collettivamente, le voci: personaggi, spazio, ekphftasis, religione... Così come mancano voci che sono di bruciante attualità per la critica sul

Furioso, come la voce ricezione. Naturalmente, il formato stesso di un volu­ me cartaceo imponeva una selezione rigorosa, sempre frustrante quando ci si trova di fronte ad un'impresa dalla natura così aperta. Un nativo digitale forse avrebbe fin da subito optato per l'unica soluzione capace di dare piena espressione a questa impresa, quella elettronica - realizzando perciò, sul piano critico, quello che già Calvino aveva intuito relativamente all'opera, e cioè che il mondo del Furioso vive nelle infinite possibilità della dimensione virtuale. Non è da escludere perciò che si possa lanciare la sfida, in vista di un altro anniversario, di un nuovo "format" per questo progetto: bisogna pur ribadire che il Furioso con cui abbiamo maggiore familiarità è quello del 1532 e che quindi, per certi versi, le celebrazioni per il cinquecentesimo compleanno di questo straordinario capolavoro sono appena iniziate. L'ampio lavoro di coordinamento, revisione, armonizzazione interna del volume, anche in relazione all'ampliamento del corpus dei lemmi, ha richiesto tempi di lavoro più lunghi rispetto al previsto. Desidero perciò ringraziare per primo l'editore Carocci, nella persona di Alessandra Zuc­ carelli, per la competenza con cui ha seguito gli sviluppi di questo volume. Ringrazio poi le istituzioni che hanno contribuito in vario modo alla realiz­ zazione di questo progetto, sia nel suo momento convegnistico che in quel-

II

ANNALISA IZZO

lo editoriale: il Fonds National Suisse, l'Université de Lausanne, la Sezione di italiano dell'Université de Lausanne, la Fondation pour l'Université de Lausanne e il Fonds des publications della stessa università. Ringrazio inol­ tre i colleghi che, pur non apparendo nel volume, hanno dato, in occasione del convegno, un importante contributo alla riflessione collettiva nel loro ruolo di presidenti di sessione, Simone Albonico, Tatiana Crivelli Speciale e Uberto Motta, e, nel ruolo di coordinatrice della Scuola dottorale, Sara Pacaccio. Alla riuscita del convegno hanno poi contribuito Saskia Lacala­ mita, Davide Nerini, Esma Puric, Eva Suarato, nonché Stefania Micheli e Paolo Zuccari, la cui lettura di brani scelti del Furioso resta uno dei ricordi più emozionanti dei tre giorni losannesi. Ringrazio Christian Rivoletti, che si è dimostrato un interlocutore prezioso, e Cristina Zampese che ha sem­ pre incoraggiato questo progetto. Ringrazio infine mio marito, Matteo M. Pedroni, che ha condiviso con me tutte le sfide di questa lunga avventura culturale.

12

Avvertenza per le citazioni

Per le citazioni dall' Orlandofurioso ( 0/J si è fatto riferimento all'edizione del poe­ ma a cura di E. Bigi, riproposta per le cure di C. Zampese nella collana

"BuR"

dell'editore Rizzoli: L. Ariosto, Orlandofurioso, introduzione e commento di E. Bigi, Milano 2012. Dei passi citati si dà sempre il canto (numero romano), seguito da ottava e ver­ so (in cifre arabe). Secondo la consuetudine si indica con A l'edizione del 1516, con B l'edizione del 1521 e con C quella del 1532. Per A e B si fa riferimento a Orlando

furioso, secondo l'edizione del IJJ2, con le varianti delle edizioni del IJI6 e del IJ2I, a cura di S. Debenedetti e C. Segre, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1960, e a L. Ariosto, Orlandofurioso secondo la princeps del IJI6, edizione critica a

cura di M. Dorigatti con la collaborazione di G. Stimato, Olschki, Firenze 2006. Le citazioni dal poema di Boiardo rispettano il testo critico fissato in M. M. Boiardo, Inamoramento de Orlando, edizione critica a cura di A. Tissoni Benvenuti e C. Montagnani, introduzione e commento di A. Tissoni Benvenuti, Ricciardi, Milano-Napoli 1999 (abbreviato con In. seguito da numero di libro, canto, ottava, verso). Per le citazioni dalMambriano di F. Cieco si è fatto riferimento all'edizio­ ne di G. Rua, 1926 (abbreviato con Mamb. seguito da numero di canto, ottava, verso). Per le citazioni dal Morgante di L. Pulci si è fatto riferimento all'edizione curata da F. Ageno, Ricciardi, Milano-Napoli 1955 (abbreviato con Morg. seguito da numero di canto, ottava, verso). Per le citazioni dalla Commedia di Dante si è fatto riferimento a La Commedia secondo l antica vulgata, a cura di G. Petrocchi, Einaudi, Torino 1975. Infine, per le citazioni dal Rerum vulgarium Jragmenta di Petrarca si è fatto riferimento ali'edizione curata da M. Santagata (Canzoniere,

Mondadori, Milano 2004 ) .

13

Nota sulle tre redazioni* di Alberto Casadei

I.

L'Orlando furioso

fu pubblicato, sotto la sorveglianza dell'autore, in tre

diverse edizioni, uscite a Ferrara rispettivamente il

22

aprile

1516,

il

13

1521 e il 1° ottobre 1532. Abbiamo inoltre un lungo frammento Cinque canti, probabilmente destinato ad ampliare la secon­ da edizione ma poi accantonato e edito postumo (1545 e 1548); numero­ febbraio

denominato

si abbozzi autografi, riguardanti gli episodi aggiunti nella terza edizione

(un'edizione moderna ne è stata data da Santorre Debenedetti nel 1937 ) ; altri abbozzi minori, in qualche caso noti solo attraverso stampe o mano­ scritti non autografi. Per le varianti fra le stampe (di solito siglate come A, B, C ) si fa riferimento all'edizione critica pubblicata nel 1960 a cura dello

stesso Debenedetti e di Cesare Segre, ma numerose precisazioni sulle ca­ ratteristiche tipografiche della terza sono state apportate da Conor Fahy

(19 89).

L'edizione originale è stata invece riproposta nel 20 o 6 per le cure

di Marco Dorigatti, che ha ricostruito fra l'altro la storia della dozzina di copie superstiti della prima stampa. Della prima edizione è ora disponibile anche uno specifico commento curato da T ina Matarrese e Marco Pralo­ ran (Einaudi, Torino 2016).

2.

L'avvio della composizione del

Furioso

è fissato, con buona probabilità,

1505. Notizie certe sulla scrittura e la revisione ci sono date da documenti del 1507, 1509 e 1512. Nel settembre del 1515 cominciano i prepa-

intorno al

Oltre ai testi indicati nell'Avvertenza, si è fatto riferimento a L. Ariosto, Iframmenti autografi dell'«Orlandofurioso», a cura di S. Debenedetti, Chiantore, Torino 1937 (nuova ed. con premessa di C. Segre, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2.010 ) . •

IS

ALBERTO CASADEI

rativi della prima stampa. Al termine di un'elaborazione almeno decennale, il primo Furioso si presentava in 40 canti, anziché in 46 come l'ultimo: nel 1 s 32 infatti vennero inseriti nella compagine del poema gli episodi di Orlan­

do e Olimpia (fra i canti IX-X-XI ) , della Rocca di Tristano di Marganorre

( xxxvii ) ,

di Ruggiero e Leone

( xxxii-XXXIII) , (xLIV-XLV-XLVI) , per un

totale di più di settecento ottave. L'edizione del 1516 fu stampata da Gio­ vanni Mazocco dal Bondeno, già attivo da tempo a Ferrara; venne richiesta ottima carta e la tiratura ammontò a circa 1.300 esemplari. La veste grafi­ ca era semplice ma accurata; nella seconda carta, compariva una xilografia (rappresentante un nugolo di api cacciate col fuoco da un ceppo d'albero) in una cornice, ai cui angoli si leggeva il motto «Pro bono malum», cioè "li male in cambio del bene": elementi elegantemente allusivi, che sono stati ben presto oggetto di varie interpretazioni (cfr. Casadei, 2001, anche per i dati successivi). Venendo al testo, per quanto riguarda la lingua va detto che la prima edizione presenta un discreto numero di tratti dialettali padani (cfr. da

Lingua); tuttavia, queste forme sono sen­ sibilmente meno frequenti rispetto all'Innamorato. Si può sinteticamente ultimo V itale, 2012; Matarrese,

affermare che nel 1516 la fisionomia linguistico-retorica e metrica del poe­ ma è già ben definita ed è frutto di scelte che Ariosto non modificherà mai in modo radicale, anche se le correggerà da vari punti di vista. Un discorso più complesso va fatto riguardo alla strutturazione nar­ rativa, che non è ricavabile semplicemente sottraendo al terzo

Furioso

gli

episodi sopra indicati. In particolare, l'inserimento della vicenda di Ruggie­ ro e Leone allontana parti del testo prima strettamente unite fra loro, che formavano nel 1516 un finale del poema assai diverso da quello del 1532. Per esempio la lunga sequenza che vede per protagonista Rinaldo

(xxxviii, 28

ss.), in buona parte ambientata in territori padani fra Mantova e Ferrara, era collocata subito prima dell'ultimo canto del poema e si presentava come una sorta di commento a tutte le sue vicende, a cominciare da quelle legate alla pazzia d'amore. Si arrivava così direttamente al canto finale

( xL ) , nel

quale si scioglievano uno dopo l'altro i nodi narrativi lasciati ancora inso­ luti e si celebrava finalmente il matrimonio di Ruggiero e Bradamante, con una grande festa alla corte di Carlo Magno. Quest'ultima situazione ricon­ duceva l'intera storia all'inizio dell'Innamorato, che presentava appunto il re a banchetto con i suoi paladini: una sorta di "chiusura ad anello': che però costituiva solo un momentaneo happy

ending. A esso seguiva infatti il cele­

bre duello tra Ruggiero e Rodomonte, modellato soprattutto su quello tra Enea e Turno che chiude

l'Eneide. Tutte queste vicende non scomparvero 16

NOTA SULLE TRE REDAZIONI

nel IS32, ma furono dislocate in vari canti per dare spazio a un episodio che nobilitasse ulteriormente Ruggiero. Nella sequenza originaria, però, esse chiudevano il testo con maggior compattezza, e nel contempo lo avvicina­ vano con evidenza al pubblico estense e delle corti padane, al quale Ariosto si rivolgeva prioritariamente.



La seconda edizione ferrarese del

Furioso

uscì nel febbraio del IS2I dalla

tipografia di Giovanni Battista della Pigna, uno stampatore milanese noto solo per questa edizione. Essa fu preparata in gran fretta, come si deduce da una lettera dell' 8 novembre IS20 al cortigiano mantovano Mario Equicola, nella quale Ariosto afferma che la prima edizione è esaurita ma non dice di averne in previsione una nuova. Dunque l'edizione fu stampata in poche settimane, con scarse revisioni delle bozze: per questo essa si presenta più scorretta della prima, come dimostra anche un lungo

Errata-corrige

stila­

to dallo stesso Ariosto, che peraltro revisionò le bozze e introdusse anche modifiche in corso d'opera. La sua tiratura fu piuttosto limitata, forse di so o esemplari, dei quali solo quattro ci sono pervenuti. In questa redazione

Ariosto aggiunse

rr

ottave ma ne tolse altrettante, e corresse 2.9I2 versi su

32.944. In molti casi si trattò di modifiche dovute a errori locali, ma Ariosto

seguì anche alcune linee correttorie più generali, sulle quali è opportuno soffermarsi brevemente. Da un punto di vista linguistico si registra l'eliminazione di qualche forma padana e di parecchi latinismi (a volte interpretabili anche come dialettismi); inoltre, vengono soppressi alcuni vocaboli troppo triviali o comici, spesso derivati

dall'Innamorato. A livello metrico-sintattico, sono eliminati numerosi enjambements che creavano ritmi troppo prosastici (si­ mili a quelli sperimentati, dopo il ISI7, nelle Satire); sono inoltre corrette

varie frasi poco perspicue nei nessi subordinativi. Le varianti strutturali risultano, come si è detto, minime, perché Ariosto si è limitato ad aggiun­ gere una stanza o due là dove andavano spiegati meglio alcuni dettagli della narrazione. Nel complesso, rispetto al ISI6, la parte di testo non modificata è di molto superiore a quella modificata (in proporzione quasi 9 a I ) : probabil­ mente però il secondo Furioso sarebbe stato molto diverso, se il poeta avesse completato una prosecuzione della quale ci rimangono soltanto i già citati

Cinque canti.

Si tratta di un'aggiunta che, secondo le interpretazioni più

17

ALBERTO CASADEI

accreditate, era pensata per essere collocata dopo l'ultimo canto della prima redazione e che riguardava le trame di Gano e dei Maganzesi per dividere Carlo Magno dai suoi paladini, mettendo in difficoltà soprattutto Rinaldo e Ruggiero.



Nel IS2S Carlo

v

sconfisse Francesco

I

nella battaglia di Pavia e prese così

il sopravvento in Italia; dopo ulteriori scontri, culminati nel Sacco di Ro­ ma del IS27, Carlo fu incoronato imperatore a Bologna nel IS30. Sempre nel IS2S, si registra un avvenimento decisivo nel campo letterario: l'uscita delle

Prose della volgar lingua di

Pietro Bembo. Fra i tanti effetti, la loro

pubblicazione sancì l'avvento di nuove e precise regole grammaticali e stili­ stiche: Ariosto ritenne opportuno seguire queste nuove regole, benché mai pedissequamente, e dovette perciò correggere alcune migliaia di versi per rispettarle - basti pensare ai cambiamenti introdotti per evitare incontri di

s implicata (tipo "il scudo" e simili; per le correzioni lingui­ stiche, cfr. Boco, 1997-2oos; per quelle storiche, cfr. Casadei, 1988).

consonante+

A partire dalla fine degli anni Venti, Ariosto comunque volle predi­ sporre un'edizione lussuosa del suo poema ( addirittura con il suo ritratto, preparato in xilografia da Tiziano Vecellio), adatta al nuovo clima "impe­ riale", e la curò fin nei minimi particolari presso lo stampatore Francesco de' Rossi da Valenza, correggendola molte volte prima della sua uscita il

1° ottobre IS32. Negli episodi aggiunti adottò spesso uno stile elevato, sen­ za concedere quasi niente al comico. Inoltre, in questi episodi spiccano le vicende di tipo moralmente nobile, nelle quali i paladini sono impegnati contro personaggi crudeli e privi di etica, come Cimosco o Marganorre. Soprattutto, come si è già accennato, rispetto a quello della prima edizione il nuovo finale risulta molto più complesso, perché da un lato aumentano i riferimenti a V irgilio o ad altri modelli epici, dall'altro si leggono inedite e drammatiche avventure cavalleresche di Ruggiero. Il testo dell'ultimo

Furioso

presenta insomma alcune parti più disso­

nanti e tetre rispetto alle versioni precedenti. Non si può tuttavia attribu­ ire questa situazione a una crisi puramente personale, né alle conseguenze delle crisi storiche, peraltro almeno in parte superate nel IS30. Piuttosto si dovrà pensare a un'evoluzione interna al genere cavalleresco e a una nuova tendenza di tipo classicistico ma non antiquario. Di certo la redazione del IS32 risulta al passo con la storia, così come, in modi diversi, lo erano quelle 18

NOTA SULLE TRE REDAZIONI

precedenti: è per questo che, seguendo i cambiamenti del poema arioste­ sco, si ricostruisce un diagramma significativo della fase più importante del Rinascimento italiano.

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(I505-I5I5),

in G.

Venturi ( a cura di ) , L'uno e l'altro Ariosto: in corte e nelle delizie, Olschki, Fi­ renze, pp. 1-44. MATARRESE T., PRALORAN M.

(2010), Il canto I delf'«Orlandofurioso» del 1516,

in "Per leggere", 19, pp. 97-114. SEGRE c. (20o8), Le notti di Bradamante e le varianti narrative dell'«Orlando

jùrioso», in "Esperienze letterarie",

XXXIII,

19

1, pp. 3-15.

Armonia di Giuseppe Sangirardi

I.

La parola "armonià' ha solo quattro occorrenze nel testo del Furioso. La prima e l'ultima designano suoni gradevoli e festosi prodotti da strumenti musicali, e appaiono rispettivamente nell'evocazione della mensa imban­ dita da Alcina a Ruggiero

(vn 19, 1-4:

«A quella mensa citare, arpe e lire, l

e diversi altri dilettevol suoni l faceano intorno l'aria tintinire l d'armonia dolce e di concenti buoni») e in riferimento all'accoglienza trionfale riser­ vata da Parigi ai paladini «liberatori de l'Impero»

( xuv

34, 1-2: «Fra il

suon d'argute trombe e di canore l pifare e d'ogni musica armonia»). Nella seconda occorrenza il termine si riferisce alla voce umana ed è accompagna­ to da aggettivo con funzione ossimorica

( xiv 134, 1-2:

«Aspro concento,

orribile armonia l d'alte querele, d'ululi e di strida», detto in fine di canto a proposito dell'assalto di Rodomonte a Parigi), mentre nella terza in en­ diadi con «canto» indica la poesia

( xLII 81, 3-4:

«che con la bocca aperta

facean segni l che 'l canto e l'armonia lor dilettasse», perifrasi che evoca i poeti scolpiti nella fontana di marmo del palazzo dell'ospite mantovano di Rinaldo). Queste occorrenze (a cui si potrebbero aggiungere le due del sinonimo di etimo latino concento:

I

3s, 7 e

XIV

134, 1 dove «concento» è

appunto in coppia sinonimica con «armonia»), per quanto interessanti, non impongono manifestamente il tema dell' annonia alla riflessione dei lettori. Eppure, nel corso del Novecento, il concetto di armonia è diventato un punto di riferimento imprescindibile per i lettori del Furioso. L'origine di questa promozione dell' annonia a chiave di lettura del ro­ manzo ariostesco si può - come è raro che accada- individuare con esattez­ za.

È ben noto, infatti, come questa formula risalga a un saggio composto

da Benedetto Croce nel 1917, stampato l'anno dopo nel volume 16 della rivista "La criticà' e quindi (1920 ) nel trittico laterziano di grandi mano­

grafie Ariosto, Shakespeare e Cornei/le.

2.1

GIUSEPPE SANGIRARDI

Partendo dalla considerazione che l'ammirazione universale per l'Or­

landofurioso non ha mai prodotto nella critica una spiegazione altrettanto condivisa del suo incanto, in sei brevi e serrati capitoli il saggio crociano individua nel «sentimento» dell'armonia il motivo dominante della per­ sonalità e del poema di Ariosto, capace di legare e sfumare tutti gli altri con­ tenuti affettivi. Subito elogiato da uno dei suoi primi lettori, Karl Vossler (Cutinelli Rendina, 1991, p. 237 ) , più tardi designato come «capolavoro assoluto» da Contini ( r989, p. 37; giudizio poi avallato da Mengaldo, 1994, p. 3S9), considerato dal suo stesso autore come prova esemplare di metodo (Croce, 199rb, pp. rrs-2r), il saggio crociano non ha mai smesso di esercitare la sua seduzione, anche quando, a partire dal secondo dopoguerra, l'egemo­ nia di Croce sulla critica letteraria italiana è cessata, e gli studiosi di Ariosto, italiani e non, hanno trovato altrove le loro stelle polari. Così, Robert Dur­ ling, in un saggio tra i più fortunati della critica ariostesca del Novecento, pur dissociandosi esplicitamente da Croce nella sua storicizzazione del con­ cetto di armonia cosmica (Durling, r96s, pp. 2so-r ) , di fatto costeggia per più di un tratto la linea crociana; più tardi si avranno la «bitter Harmony» di Ascoli ( r987 ) o l' «armonia contraddetta» di Zatti (1990, pp. 137 e r6s, n. 30 ), formule che dialettizzano o contraddicono l'idea crociana, ma in fondo le rendono ancora omaggio. Se è legittimo parlare di invenzione, in accezione che direi tecnica, è perché non risulta che la nozione di armonia sia mai stata impiegata prima di Croce per definire la poetica del Furioso. Se ne possono recensire alcuni usi episodici e abbastanza laterali, come in pagine di Bettinelli

sopra la poesia italiana,

(Discorso

r78r, in Bettinelli, 1930, pp. 209-ro), di Gioberti

(«Tal è pure l'armonia del

Furioso:

il poeta con grand'arte vi ha raccolte

tutte le più belle varietà di natura; ma appunto come negli spettacoli della natura l'occhio non vede i termini, la fantasia del leggente l'opera di lui non è arrestata da alcune forme di convenzione», Gioberti, 1971, p. 126 ) o nelle

lezioni zurighesi di De Sanctis («Ciò che per Dante è tumulto, è per Ario­ sto un'armonia», De Sanctis, 1966, pp. 319-20; e cfr. anche la conclusione del capitolo della Storia della letteratura italiana dedicato al Furioso, in De Sanctis, 1958, vol. 2, p. 538 ) : pagine che Croce verosimilmente non ignorava (De Sanctis in particolare è il primo interlocutore del Croce ariostista), ma dalle quali non sembra poter aver ricavato suggerimenti più che vaghi. D'altronde, nessuna immediata evidenza testuale imponeva l'armonia allo sguardo dei lettori di Ariosto: nel Furioso non esiste alcuna esplicita tema­ tizzazione di questo oggetto, e la stessa parola, come si è visto, vi occorre sporadicamente. Tra le ragioni che possono spiegare il successo del saggio

22

ARMONIA

crociano, va quindi senz'altro contemplata, intrecciata con altre come l'au­ torità del critico e la brillante perentorietà del suo dettato, l'originalità della tesi, nella concezione come nell'argomentazione.

2.

Ma nonostante la sua celebrata compattezza ed «euritmia» (termine usa­ to dallo stesso Croce in una lettera a Gentile, cfr. Audisio, 2.003, p. 12.2.) il saggio scritto da Croce nelle due ultime settimane del 1917 lascia visibili anche punti di sutura e tracce di esitazione che sono il prezzo della novità. Costruito come risposta ad un «problema critico» dichiarato in apertura di libro, l'Ariosto crociano reca i segni euforici della soluzione vittoriosa ma anche, non sempre celati, quelli perplessi della difficoltà risorgente (per alcune di queste difficoltà, cfr. anche Sasso, 2.000). Così, ad esempio, dopo aver indicato il principio di «attuazione dell'armonia» nell' «opera di svalutazione e distruzione, eseguita dal tono espressivo» (Croce, 1991a, p. 69) sui contenuti affettivi, per non rischiare di avallare la tradizionale interpretazione del Furioso come «opera priva di serietà», Croce è costretto a tornare sui suoi passi e a puntualizzare: al qual proposito giova, ripigliando e svolgendo l'analisi iniziata, mettere in guar­ dia contro un facile fraintendimento della «distruzione» di cui abbiamo discorso, operata dal tono e dall'ironia ariostesca, quasi totale distruzione e annientamento, laddove si deve intendere di una distruzione nel senso filosofico della parola, e che è insieme conservazione. Se altrimenti fosse, che cosa starebbe a fare quella varia

materia o contenuto affettivo, da noi passato a rassegna, nel poema? ( Croce, 1991a, p. 84 )

Tra le ragioni del fascino esercitato dalla lettura crociana di Ariosto va senz'altro considerato il modello di ermeneutica forte che essa incarna, ri­ correndo a un unico concetto come chiave di accesso a tutte le dimensioni di senso dell'opera. Tuttavia la sicurezza con cui è proposta la soluzione dell'armonia al «problema critico» del Furioso è a volte contraddetta da una retorica prudente: non ci lasceremo prendere dalla fatua credenza, che è di parecchi critici odierni, di aver fornito nelle nostre formole estetiche un equivalente della poesia ariostesca: equivalente che sarebbe non solo arrogante ma inutile, perché la poesia dell'Ario­

sto è là, e ognuno può direttamente vederla ( Croce, 1991a, p. 49) .

GIUSEPPE SANGIRARDI

Una delle difficoltà con cui sembra fare i conti la «formola estetica» esco­ gitata da Croce è quella di definire il rapporto tra i «sentimenti» per così dire di primo grado, che costituiscono la materia del romanzo (a descrivere i quali è dedicato tutto il quarto capitolo, La materia per l'armonia), e quella sorta di meta-sentimento, il «cuore del suo cuore» (ivi, p. 34) o «som­ mo amore» per l'Armonia (ivi, p. 39), che insieme è uno di loro (stante la natura necessariamente sentimentale dell'intuizione artistica nell'estetica crociana) e opera come principio della loro organizzazione, come «armo­ nizzante sentimento dell'Armonia» (ivi, p. 52). Ma soprattutto, il «problema» che il saggio crociano è determinato a risolvere non è solo quello, in realtà qui enfatizzato, di trovare una defi­ nizione soddisfacente del «motivo poetico dominante» del Furioso nel­ la storia della critica ariostesca. Impegnandosi a individuare «il carattere dell'ispirazione che è propria dell'Ariosto» (ivi, p. 12), Croce agisce nello stesso tempo almeno su due altri versanti: saggia la tenuta delle categorie estetiche che sta rielaborando in parallelo nell'articolo Il carattere di totalita

dell'espressione artistica (composto nello stesso 1917 e pubblicato nei Nuovi saggi di estetica del 1920) e offre insieme un modello ideale di realizzazione poetica da contrapporre agli esempi morbosi del Romanticismo e del Deca­ dentismo, alla cui rassegna, stampata nel 1923 col titolo Poesia e non poesia.

Note sulla letteratura europea del secolo decimonono, stava pure lavorando nel corso dello stesso 1917. In questo anno segnato da profonde amarezze per­ sonali (la perdita del figlio Giulio il 29 aprile) e collettive (la guerra, con la disfatta di Caporetto tra fine ottobre e inizio novembre), quasi per reazione terapeutica Croce pone al centro della sua estetica la nozione di cosmicità, legandola a quella di sentimento che sembrava orientata in senso individua­ lista (per l'analisi di questa evoluzione cfr. Puppo, 1964, pp. 13-20, 59-68): Per quel che si attiene al carattere universale o cosmico, che giustamente si ricono­ sce alla rappresentazione artistica (e nessuno forse lo mise così bene in luce come Guglielmo di Humboldt nel saggio sullo Hermann und Dorothea), la dimostra­ zione di esso è in quel principio stesso [sci/. l'idea dell'arte come intuizione pura, quindi sentimentale], considerato con attenzione. Perché, che cosa è mai un sen­ timento o uno stato d'animo? è forse qualcosa che possa distaccarsi dall'universo e svolgersi per sé? forse che la parte e il tutto, l'individuo e il cosmo, il finito e l'infinito hanno realtà l'uno lungi dall'altro, l'uno fuori dell'altro?[... ] In essa [sci/. l'intuizione pura o rappresentazione artistica] il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo; e ogni schietta rappresentazione artistica è sé stes­ sa e l'universo, l'universo in quella forma individuale, e quella forma individuale come l'universo (Croce, 1991b, pp. us-6).

ARMONIA

È chiaro che lo spostamento dell'accento estetico sul nesso tra individuo e cosmo si oppone a quella «Egoarchia» che da tempo Croce denuncia­ va come responsabile della corruzione morale e letteraria contemporanea

( Audisio, 2003, pp.

111-2) e che nello stesso saggio sul Carattere di totali­

fa dell'espressione artistica è motivo di aperta condanna della «letteratura

moderna, degli ultimi centocinquant'anni», nata con Rousseau sotto le insegne della confessione e vista come «sfogo» patologico, anziché come «espressione» ( Croce, 1991b, pp. 122-4). Ma è ugualmente evidente il nes­ so tra questa articolazione teorica della critica estetica e il lavoro di interpre­ tazione condotto nello stesso tempo sul Furioso, la cui singolare armonia è in realtà specchio di una condizione universale dell'arte poetica: E l'amore per l'Armonia è in ogni poeta degno del nome, che non può non rappre­ sentare il suo dramma di affetti se non come modo particolare del dramma e della drammatica o dialettica Armonia cosmica, la quale perciò si contiene ed immane in quello come l'universale nel particolare (Croce, 1991a, p. 48).

La pienezza della poesia di Ariosto ha una dimensione esemplare nella nar­ razione crociana, e l' integralismo euforico, per così dire, della caratterizza­ zione è sicuramente un altro dei fattori del suo successo presso una parte del pubblico critico; almeno quanto della perplessità poi suscitata nei lettori più lontani dall'ottica idealistica. Tuttavia, se nella ricezione media della

critica successiva (spesso caratterizzata, specie in Italia, da preoccupazioni

sociologiche ) l'armonia crociana è stata associata a idee di ottimismo e di

disimpegno, abbiamo già ricordato come per Croce il «sommo amore» per l'Armonia non escludesse affatto una percezione complessa della realtà, e persino un "tragico" controllato, al quale allude la formula di «catarsi armonica», adoperata dal critico per respingere ogni accusa di frivolez­

za rivolta contro il Furioso ( ivi, p. 90 ) . Peraltro, come notato da Giuseppe Galasso, in un più tardo scritto alfieriano del 1948 si troverà un esplicito

riferimento al "tragico" ariostesco ( ivi, p. 122).

In effetti, il cerchio armonico nel quale Croce prova a racchiudere la totalità nel Furioso sembra troppo rigido all'interno stesso del sistema crociano, dove la sua tenuta è minacciata da un lato dallo statuto incerto dell'armonia rispetto agli altri «Sentimenti», dall'altro dalla sua duplice funzione di indice del carattere specifico della personalità ariostesca e del carattere generale dell'arte.

È così che per risolvere queste incertezze Croce

si induce a ricorrere, in chiusura del suo esperimento critico, a una formu­ lazione che ha tutta l'aria della tautologia:

GIUSEPPE SANGIRARDI

nel definire l'Ariosto poeta dell'Armonia, intendevamo solo additare dove bat­ te l'accento dell'opera sua, perché egli è poeta dell'Armonia e insieme di altro, dell'Armonia che si svolge in un mondo particolare di sentimenti, e, insomma, che l'armonia, dall'Ariosto attuata, non è l'Armonia in genere, ma un'armonia affatto ariostesca (ivi, p. 9 o).



Autorevolezza e perentorietà della parola di Croce, originalità ed esausti­ vità della formula, immagine euforica quasi senza residui che essa fornisce della poesia del Furioso ( le poche riserve sui Cinque Canti e sulle aggiunte del 1532 non modificano l'economia generale del discorso ) : questi gli in­ gredienti del successo della formula crociana che abbiamo finora evocato. Resta però da chiedersi se a questo successo storicamente verificabile corri­ sponda una capacità ermeneutica ancora integra della nozione di armonia. Abbiamo già ricordato che alcune tra le più impegnate letture del Furioso del secondo Novecento ( Durling, Ascoli, Zatti ) hanno fatto un uso aperta­ mente o discretamente polemico della tesi crociana. Si tratta semplicemen­ te del tributo formale da pagare alla lunga autorità di Croce oppure di una reale e inesaurita fecondità, malgrado tutto, della sua proposta critica? Per­ ché Croce sembra ancora oggi ineludibile a tanti lettori di Ariosto? Ci resta insomma da chiederci quanto questa nozione ci aiuti ancora a decifrare il Furioso; da saggiare non tanto una sua inverificabile "oggettività',' quanto

la sua fertilità nella prospettiva di un lettore d'oggi. Per questo, dobbiamo cominciare con l'uscire dali'estetica di Croce con i suoi problemi linguistici ed epistemologici propri, e provare ad analizzare il concetto di armonia, riportarlo a strutture ideologiche meno compromesse e in ogni caso ancora significative ai nostri occhi. In effetti, nello sviluppo della sua argomentazione Croce offre quattro diverse caratterizzazioni dell' annonia, che la collocano di volta in volta in quadri esplicativi non privi di interesse. Abbiamo così istituite delle equiva­ lenze tra - dal più al meno esplicito - annonia e cosmo, armonia e ironia, annonia e musica, annonia e amore, attraverso le quali si rivela un'altra tra­

ma semantica dell' annonia, meglio intrecciata con temi riconosciuti della critica del Furioso. a)

Annonia cosmica: nella sua prima e più diretta caratterizzazione, in

quanto oggetto del sentimento artistico in generale e del «sommo amore» ariostesco in particolare, l'armonia è per Croce l'ordine stesso che presiede al mondo, componendo le parti in contrasto nell'unità del tutto:

ARMONIA

Ora, si consideri che l'Arte nella sua idea non è altro che l'espressione o rappresen­ tazione del reale, del reale che è contrasto e lotta che in perpetuo si compongono, che è molteplicità e diversità ma insieme unità, che è dialettica e svolgimento ma insieme, e mercé questo moto, cosmo ed Armonia [ ...] quando si afferma dell'Ario­ sto o di altri artisti che essi abbiano a loro contenuto la pura Arte o la pura Forma, si vuole inconsapevolmente intendere che hanno a loro contenuto l'affetto per il puro ritmo dell'universo, per la dialettica che è unità, per lo svolgimento che è Armonia (Croce, 1991a, pp. 42-3; e cfr. anche p. 51).

L'idea antologica di «dialettica» come struttura della realtà, che Croce qui considera una verità in sé e non una concezione filosofica storicamente datata, è di evidente matrice hegeliana (cfr. Abbagnano,

1988, pp. 279-80),

ma risuona anche con le teorie cosmologiche antiche ( Pitagora, Eraclito, Platone ) delle quali lo stesso H egel è tributario. Il riferimento alla tradi­ zione neoplatonica che congiunge l'Antichità e il Romanticismo passando per il Rinascimento è esplicitato poco oltre da Croce, sia pure con fini dis­ sociativi: Ciò è confermato dal corso storico della dottrina, la cui prima cospicua forma fu il neoplatonismo, che risorse a più riprese nel medioevo, nel Rinascimento e nel romanticismo. Il De Sanctis medesimo, per effetto delle origini romantiche del suo pensiero, non ne fu mai del tutto sciolto (Croce, 1991a, p. 44; cfr. anche la lettera a Gentile dell'n febbraio 1918 cit. in Audisio, 2003, p. 122, n. 28).

Tuttavia, se il «sentimento» dell'armonia cosmica è la pietra angolare della costruzione ermeneutica crociana, questo avviene per il ruolo che esso gioca

(come ora vedremo

meglio ) in quanto principio regolatore, nel processo

di smorzamento dei contenuti affettivi o «materia» del Furioso ( amore, politica, cavalleria, religione ) , senza che mai Croce trasferisca alla rappre­ sentazione ariostesca della realtà i connotati dell'ottimismo antologico he­ geliano. Di un "mondo" felicemente governato dalla "dialetticà' non è mai questione nella descrizione crociana del «complesso di sentimenti» che costituiscono per lui la materia del romanzo. Da un lato Croce suppone che Ariosto abbia il «sentimento» dell'armonia cosmica, dall'altro, de­ scrive di fatto questo sentimento come operante non sulla rappresentazione ariostesca del mondo, ma sull'equilibrio dei suoi altri sentimenti, come per effetto di un dissidio segreto tra la filosofia del reale che Croce attribuisce ad Ariosto per spiegare la sua estetica e quella che lascia emergere evocando la sua rappresentazione della realtà.

b)

Armonia

e

ironia: se l'armonia cosmica che rinvia alla dialettica hege-

GIUSEPPE SANGIRARDI

liana è l'oggetto del «sentimento» armonico ariostesco, quando Croce passa a descrivere la posizione psicologica attraverso il suo funzionamento fa ricorso alla nozione di ironia, premurandosi però di correggere l'inter­ pretazione che ne avevano data alcuni romantici: Palpabile è quest'opera di svalutazione e distruzione, eseguita dal tono espressivo [... ] E questo tono è altresì la tante volte notata e denominata, e non mai bene de­

terminata ironia ariostesca: non bene determinata, perché è stata per solito riposta in una sorta di scherzo o di scherno, simile e coincidente con quello che l'Ariosto usava talvolta nel contemplare le figure e le avventure cavalleresche; e così è acca­ duto di restringerla e materializzarla a un tempo. Ma ciò che non bisogna perdere di vista è, che quell'ironia non colpisce già un ordine di sentimenti, per esempio i cavallereschi o i religiosi, risparmiando altri, ma li avvolge tutti, e perciò non è futile scherzo, ma qualcosa di assai più alto, qualcosa di schiettamente artistico e poetico, la vittoria del motivo fondamentale sugli altri tutti. [ ...] Si direbbe, l'ironia dell'Ariosto, simile all'occhio di Dio che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel piccolissimo, nell'uomo e nel granello di sabbia, perché tutta l'ha fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso, l'eterna dialettica, il ritmo e l'armonia. Con che, dalla comune accezione della parola «ironia» si è compiuto il passaggio al significato metafisica che essa ebbe presso i fichtiani e i romantici, con la cui te­ oria spiegheremmo volentieri la natura dell'ispirazione ariostesca, se, presso quei pensatori e letterati, l'ironia non fosse stata poi confusa col cosiddetto umorismo e con la bizzarria e stravaganza, ossia con atteggiamenti che turbano e distruggono l'arte; laddove la determinazione critica da noi proposta si tiene rigorosamente nei confini dell'arte, come vi si tenne col fatto l'Ariosto, che non trascorse mai nell'u­ moristico e nel bislacco, indizio di debolezza, e ironizzò da artista, sicuro della propria forza (Croce, 1991a, pp. 70-5; la teoria romantica dell'ironia è brevemente esposta in Croce, 1990, p. 371).

Se il sentimento ariostesco dell'armonia agisce come «svalutazione e di­ struzione» dei contenuti affettivi, è chiara la sua parentela con quel dis­ solvente critico a cui già le letture ariostesche di Hegel e soprattutto di De Sanctis avevano dato il nome di ironia, ma anche la sua minacciosa prossimità con l'ironia o umorismo come autocoscienza della finzione teorizzata, a partire dal pensiero di Fichte, da autori come F. Schlegel, L. Tieck e Jean Paul, e giudicata severamente dallo stesso Hegel (cfr. Reid, 2007 ) . Ostile alla carica negativa dell'ironia romantica (nel contempora­

neo Carattere di totalita dell'espressione artistica bolla ferocemente «l'arte buffonesco-grottesca» «della estrema scuola romantica tedesca», Croce,

199rb, pp. II?-8 ) , Croce corre ai ripari assimilando la distanza del narratore

ARMONIA

"armonico" dal suo mondo a quella, ancora di ispirazione neoplatonica, del poeta demiurgo animato da una simpatia che stringe in un nodo d'a­ more «tutta la creazione» anziché dissolverla nell'acido umoristico. Tut­ tavia, nella funzione relativizzante che la sua interpretazione attribuisce al sentimento dell'armonia resta indelebile, come eredità del Romanticismo, la traccia dell'ironia.

c) Armonia e musica: se il termine di armonia è di per sé un'allusione alla natura musicale del «sentimento» poetico ariostesco, l'allusione si preci­ sa gradualmente quando Croce prima stabilisce che la «sottomissione a un unico signore» dei diversi «sentimenti» si realizza attraverso il «tono dell'espressione», poi fa coincidere (sfiorando ancora la mera tautologia) questo tono col «cantare armonioso» di Ariosto (Croce, 1991a, p. 69) e con la sua ironia (ivi, p.

70),

e infine suggerisce l'equivalenza tra opera

dell'ironia e opera dell' «ottava ariostesca»: Tutti i sentimenti, i sublimi e gli scherzosi, i teneri e i forti, le effusioni del cuore e le escogitazioni dell'intelletto, i ragionamenti d'amore e i cataloghi encomiastici di nomi, le rappresentazioni di battaglie e i motti della comicità, tutti sono alla pari abbassati dall'ironia ed elevati in lei. Sopra l'eguale caduta di tutti, s'innalza la ma­ raviglia dell'ottava ariostesca, che è cosa che vive per sé: un'ottava che non sarebbe sufficientemente qualificata col dirla sorridente, salvo che il sorriso non s'intenda nel senso ideale, appunto come manifestazione di vita libera ed armonica, energica ed equilibrata, battente nelle vene ricche di buon sangue e pacata in questo battito incessante (ivi, p. 71).

Anche se altrove (ivi, p.

87) Croce ricorre all'immagine della velatura del

colore per fornire un equivalente dell'opera del sentimento armonico, è soprattutto l'analogia tra il «ritmo» dell'ottava e quello dell'universo "armonioso" che si impone alla lettura del saggio. Si veda ancora il rinvio a Humboldt e Vischer per convalidare la lettura "musicale" della poesia ariostesca: l'Ariosto, tra i poeti, fornirebbe, se mai, il più efficace argomento contro l'esclu­ sione della poesia dalle arti che sarebbero sole in grado di ritrarre il ritmo dell'U­ niverso o l'Armonia: l'Ariosto, il quale, se a un filologo italiano è potuto parere nientemeno che «poeta per eccellenza osservatore e ragionatore», a Guglielmo di Humboldt, fornito di orecchio più sensibile, sembrava invece per eccellenza "musicale", musikalisch, e al Vischer, più particolarmente, che egli svolgesse le sue fiabe cavalleresche «in un melodico labirinto d'immagini, che dà il medesimo godimento del cullarsi e dondolarsi sensualmente sereno della canzone italiana» (ivi, p. 47).

GIUSEPPE SANGIRARDI

Se nell'omaggio tributato all'ottava ariostesca Croce si inserisce in una con­ solidata tradizione critica, il nesso di fatto stabilito tra dimensione musi­ cale e dimensione cosmologica della poesia è un altro segno dell'influenza dell'estetica romantica e dei suoi precedenti neopitagorici e neoplatoni­ ci ( per la storia dell'idea di armonia del mondo si può rinviare al classico Spitzer, I967; cfr. anche Barbone, 2009 ) .

d)

Armonia e amore: in nessun luogo del suo saggio Croce mette in rela­

zione esplicita l'idea di armonia con la tematica erotica, ma questa relazione è di fatto suggerita da almeno tre ordini di considerazioni possibili: l'ero­

tizzazione della poesia ariostesca nel discorso crociano, il ruolo dominante attribuito da Croce all'amore tra i contenuti affettivi del Furioso, e infine la corrispondenza tra armonia e amore nella trattatistica rinascimentale a cui Croce si richiama. In primo luogo, dunque, la poesia e l'armonia ario­ stesche sono evocate da Croce attraverso immagini erotiche che portano in luce un nesso latente: così, il libro comincia con la similitudine tra il Furioso e «una donna leggiadra e sorridente» ( Croce, I99Ia, p.

)

rr ,

mentre

più tardi, in un luogo di cui abbiamo già ricordato l'importanza, le «sorri­ denti» ottave ariostesche sono paragonate a «floride giovinette» o «efebi ben formati»

( p.

?I ) . D'altra parte, tra gli «affetti» dell'uomo Ariosto,

la cui ricognizione è preliminare all'accertamento del sentimento poetico, un posto privilegiato Croce assegna appunto all'amore, o meglio al «biso­ gno della muliebrità, di aver seco una donna diletta, e goderne la bellezza, il riso, il favellare»

( Croce,

I99Ia, p. 26 ) . Primo tra gli affetti dell'uomo

Ariosto, l'eros non è la passione assoluta che Ariosto dedica esclusivamente all'armonia, e tuttavia il suo spazio tra i motivi del romanzo è talmente significativo che, tra le definizioni erronee di questo, «poema dell'amore» sarebbe quella più vicina all'esattezza: E la materia amorosa è tanta da soverchiare ogni altra per estensione forse, e cer­ tamente per rilievo e intensità; talché è maraviglia che, tra i molteplici tentativi di stabilire il vero fine del poema o il vero argomento, desumendolo dalla materia, e di determinarne nello stesso modo il disegno e l'unità, non si sia insistito in quello che lo considerava, o avrebbe potuto considerarlo, come "il poema dell'amore", della casistica dell'amore, a cui la vita cavalleresca e bellicosa farebbe da sempli­ ce sfondo decorativo: che certo sarebbe dovuta sembrare teoria meno impropria dell'altra, che gli assegnava a fine ed unità la guerra di Carlo ed Agramante ( Croce, 1991a, p.

s8).

La concezione della poesia come intuizione lirica, che sottende la lettura crociana del Furioso, era certo propizia a un riconoscimento e a un apprez-

30

ARMONIA

zamento dell'importanza del tema erotico nel romanzo di Ariosto. Ma, d'altra parte, l'accostamento tra armonia ed amore era prepotentemente suggerito a Croce da quella trattatistica rinascimentale a cui egli fa esplicito riferimento scrivendo a Gentile (lettera dell' 11 febbraio 1918: cfr. Audisio, 2003, p. 122, n. 28). Così, ad esempio, in Ficino Amore è la forza che garanti­ sce l'unità del cosmo, «nodo perpetuo e legame del mondo e delle parti sue immobile sostegno, e della universa machina fermo fondamento» (Ficino, 1987, p. 54); negli Asolani (1505) di Bembo

(n

33) l'accordo di due amanti

è paragonato, nel discorso euforico di Gismondo, ali'armonia tra due liuti: Dicono i sanatori che, quando sono due liuti bene e in una medesima voce accor­ dati, chi l'un tocca, dove l'altro gli sia vicino e a fronte, amendue rispondono ad un modo, e quel suono che fa il tocco, quello stesso fa l'altro non tocco e non percosso da persona. O Amore, e qua' liuti o qua' lire più concordemente si rispondono, che due anime che s'amino delle tue? Le quali, non pur quando vicine sono e alcuno accidente l'una muove, amendue rendono un medesimo concento, ma ancor lon­ tane e non più mosse l'una che l'altra, fanno dolcissima e conformissima armonia

( Bembo, 1989, p. 450; e cfr. anche l'inno all'Amore che innalza lo stesso Bembo come personaggio nel Cortegiano [ 1528] di Castiglione, IV 70 ) .



Fedele alla sua distinzione tra intuizione poetica e conoscenza filosofica, Croce insisteva sulla natura «ingenua» e «sensibile» della percezione ariostesca dell'armonia cosmica («li suo amore per l'Armonia non passa­ va attraverso un concetto, non era amore pel concetto e per l'intelligenza [ ... ]ma era amore per l'Armonia direttamente e ingenuamente vissuta, per l'Armonia sensibile», Croce, 1991a, p. 51), spingendosi fino a dichiarare Ariosto «estraneo del tutto, come a ogni altra filosofia, a quella del Ri­ nascimento, sia dei Ficini sia dei Pomponazzi» (ivi, p.

6s).

Tuttavia, è un

fatto che la sua descrizione dell'armonia del Furioso, come abbiamo visto, si fonda su riferimenti per quanto impliciti, vaghi o allusivi, alla cultura filosofica contemporanea di Ariosto, oltre che all'idealismo moderno e a Vico. Ed è ugualmente chiaro che questi riferimenti, quasi a dispetto di Croce, sono responsabili di una parte del credito che la sua tesi ha potuto riscuotere presso i lettori successivi, in particolare a partire dal secondo do­ poguerra. Tra i primi a storicizzare efficacemente la teoria di Croce, met­ tendo il testo del Furioso in risonanza con le teorie poetiche e cosmologiche rinascimentali, il già citato Robert Durling ha in un certo senso prolungato 31

GIUSEPPE SANGIRARDI

la vita del saggio crociano almeno quanto ne ha sottolineato alcuni limiti. Più in generale, i critici ariosteschi post-crociani si sono largamente dedica­ ti all'esplorazione della trama di relazioni storico-culturali che può nutrire l'immaginario del Furioso. A diversi interventi di quest'ultima stagione (tra

1964; Marinelli, 1987 1987 e Zatti, 1990) si deve il

i quali sarà opportuno citare almeno quelli di Garin, e Savarese,

1984,

oltre ai già ricordati Ascoli,

nuovo risalto che hanno assunto i temi della filosofia umanistica, nella cul­ tura ariostesca, risalto fondato tanto sulla formazione di Ariosto e sulle sue frequentazioni e amicizie quanto sull'evidenza testuale fornita da alcuni episodi in particolare del Furioso

(I' allegoria di Alcina e Logistilla e soprat­

tutto il viaggio di Astolfo dall'inferno alla luna). Sembra, così, che temi pitagorici e neoplatonici come l'armonia o la simpatia cosmica, o ancora l'analogia tra poema e cosmo, gli fossero noti o familiari, magari, attraverso la mediazione di Bembo o Ficino (sul cui ruolo nella trasmissione della tradizione pitagorica cfr. Casini,

1998, pp. 47-s6).

Lo stesso petrarchismo bembesco, di cui Ariosto è un infedele ammira­ tore, si può considerare come un potente vettore di un'estetica dell'armo­ nia, fondata sul temperamento dei contrari «gravità» e «piacevolezza», secondo la teorizzazione delle Prose della

volgar lingua (n 9) che si applica

alla dimensione propriamente fonica del discorso. Non meno significati­ vo di una larga penetrazione dell'estetica dell'armonia, al di fuori del pe­ trarchismo e del bembismo, è del resto il successo quattro-cinquecentesco (di cui il Furioso è la punta emblematica) dei libri d'armi e amori, fondati sull'intreccio tra due universi immaginari opposti - proprio come Armo­ nia è, nella tradizione mitologica greca di cui fa fede la

Teogonia di Esiodo,

figlia di Eros e Afrodite. Su un altro piano rispetto a questi macrofenomeni di poetica, si può argomentare la plausibilità culturale di un'interpretazione "armonicà' del­ la poesia di Ariosto ricordando il grande sviluppo delle pratiche musicali e della polifonia alla corte di Ferrara nella seconda metà del Quattrocento, e in particolare negli anni di Ercole I (cfr. Lockwood,

2009) . Tra le manifesta­

zioni musicali erano inclusi gli intermezzi degli spettacoli teatrali, familiari ad Ariosto prima come spettatore e poi come attore ed autore comico. L' im­ portanza generale della musica nella vita della corte è teorizzata da Castiglio­ ne ( Cortegiano,

I

47), che la giustifica con il suo ruolo terapeutico e con il

significato psicologico e cosmologico attribuitole dalla filosofia antica: - Signori, - disse - avete a sapere ch' io non mi contento del cortegiano s'egli non è ancor musica e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii

ARMONIA

instrumenti;perché, se ben pensiamo, niuno riposo de fatiche e medicina d'animi infermi ritrovar si po più onesta e laudevole nell'ocio, che questa;e massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio de' fastidi che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali, teneri e molli, facilmente sono dall'armonia penetrati e di dolcezza ripieni appresso gli antichi sia stata celebrata

[sciL

[ ... ];e ricordarò quanto sempre

la musica] e tenuta per cosa sacra, e

sia stato opinione di sapientissimi filosofi il mondo esser composto di musica e i cieli nel moversi far armonia, e l'anima nostra pur con la medesima ragion esser formata, e però destarsi e quasi vivificar le sue virtù per la musica (Castiglione,

1991, pp. 78-9 ). Le strutture della polifonia sono del resto, forse anche più che l'idea di accordo dei contrari, un modello estetico suggestivo per la condotta della narrazione ariostesca, con la sua organizzazione parallela di una pluralità di voci. Abbiamo quindi buone ragioni per pensare che le metafore musicali a volte adoperate dal narratore del Furioso per descrivere il proprio operato siano frammenti di un'estetica più ampia, che Ariosto condivide di fatto con la cultura del suo tempo. Così è per la nota similitudine al canto VIII: Signor, far mi convien come fa il buono sonator sopra il suo instrumento arguto, che spesso muta corda, e varia suono, ricercando ora il grave, ora l'acuto ( Ofvm

29, 1-4).

Così è per l' implicita definizione di poeta data in

XLII:

che con la bocca aperta facean segni che 'l canto e l'armonia lor dilettasse

(O/XLII 81, 3-4).

che sembra trattare canto e armonia come termini di un'endiadi; e così forse anche per la formula del «narrar cantando»

(xxix so, s), suggesti­ va malgrado il suo carattere apparentemente occasionale (cfr. in proposito Blasucci, 2014, p. 32).



Tuttavia, se le indagini pose-crociane hanno permesso di meglio compren­ dere i nessi che legano l'opera di Ariosto con la cultura rinascimentale, e quindi di fornire qualche motivazione storica all'idea di armonia, è anche vero che in buona parte di quelle indagini sono emersi elementi che por-

33

GIUSEPPE SANGIRARDI

tano a sminuire se non a contraddire l'idea di una poesia ariostesca che risolve nel «tono dell'espressione» ogni contenuto negativo. Lo studio dei rapporti con la cultura umanistica ha dato un peso considerevole a temi "saturnini" come la follia, o si è confrontato con l'idea di crisi del Rina­ scimento, sicché l'armonia crociana, per sopravvivere nel nuovo habitat ermeneutico, è diventata amara o contraddetta, come abbiamo già accen­ nato. Nell'insieme, il solvente dell'ironia, che l'armonia crociana intendeva neutralizzare trasformando il relativismo in gerarchizzazione, è tornato ad agire; piuttosto che l'armonia dei contrari è parso di poter mettere in luce la loro irriducibilità; così, ad esempio, Zatti

( I990, p. ISO ) :

Se le teorie neoplatoniche postulano la felice riconciliazione dei contrari, gli esiti di volta in volta frustranti, o tragici, o beffardi, dell'inchiesta ariostesca dichia­ rano, per via sperimentale, il fallimento di tale ipotesi, la non praticabilità del progetto.

L'opposizione non conciliata delle antitesi apre peraltro il linguaggio ario­ stesco anche a quella retorica petrarchista dell'ossimoro di cui Gigliucci ha saggiato l'ampiezza nella poesia cinquecentesca ( Gigliucci,

)

2004 .

Sembra

difficile, in ogni caso, minimizzare tutti gli aspetti del testo ariostesco che, dai livelli superficiali a quelli profondi, mettono in scena critica e disingan­ no di fronte alla realtà nelle sue diverse facce, e mostrano in atto il dèmone della scissione ironica anziché il demiurgo della composizione armonica. Il proemio del n canto, aperto dall'invocazione a un amore «ingiustissimo», è un luogo emblematico di cristallizzazione di questa protesta contro l'ar­ monia assente: Ingiustissimo Amor, perché sì raro corrispondenti fai i nostri desiri? onde, perfido, avvien che t'è sì caro il discorde voler eh'in duo cor miri? Gir non mi lasci al facil guado e chiaro, e nel più cieco e maggior fondo tiri: da chi disia il mio amor tu mi richiami, e chi m'ha in odio vuoi eh'adori et ami

( Ofn I).

Corrispondenza e concordia sono miti che strutturano le attese dei perso­ naggi nell'universo erotico ariostesco, ma che si rivelano per lo più infonda­ ti alla prova dell'esperienza ( cfr. Zatti,

I990,

pp.

rsi-3). È vero che nella ricca

casistica amorosa del Furioso non mancano episodi felici, e che la strategia

34

ARMONIA

del poeta punta a garantire una minima alternanza tra il positivo e il negati­ vo ( fissata nel commento di xxv 2., 7-8: «Dunque Amor sempre rio non si ritrova: l se spesso nuoce, anco talvolta giova» ) . Ma il tono generale è dato piuttosto dalla sofferenza, e non per nulla il caso da cui il romanzo prende il titolo è la follia amorosa di Orlando. L'amore è certo il tema cardinale del Furioso, come Croce aveva ben visto (e proprio la priorità della remati­ ca erotica potrebbe essere considerata un argomento per l'affiliazione del Furioso al romanzo, almeno in una teoria dei generi "classicà': cfr. su questo

punto Mazzoni, 2.011, p. 2.32.), ma è nello stesso tempo il cuore di ogni disar­ monia, il centro generatore di tutte le dissonanze che seminano il conflitto e, in ultima istanza, il caos e la follia nel mondo. E più che di amore, sarebbe del resto legittimo parlare di desiderio: desiderio che può avere per oggetto donne, spade o cavalli, che è anzi definito dal suo apparente polimorfismo

( «il desiderio uman non è tutto uno», XIII so, 4),

ma che, sia per la fan­

tomaticità degli oggetti che per il carattere competitivo della loro ricerca, è invariabilmente generatore di conflitti e di «discordia», la cui illustrazione virtuosistica si ha nel celebre episodio del canto

XXVII

(35-104), dove il vi­

luppo inestricabile di conflitti si costruisce non a caso come un crescendo di rumori (cfr. 53, s-6; 69,

3-4; 8o, s-6; 8s, I; 9 0, I -2.), che culmina nel «grido»

cosmico della Superbia: Di ciò si ride la Discordia pazza, che pace o triegua ornai più teme poco. Scorre di qua e di là tutta la piazza, né può trovar per allegrezza loco. La Superbia con lei salta e gavazza, e legne et esca va aggiungendo al fuoco: e grida sì, che fin ne l'alto regno manda a Miche! de la vittoria il segno. Tremò Parigi e turbidossi Senna all'alta voce, a quello orribil grido; rimbombò il suon fin alla selva Ardenna sì che lasciar tutte le fiere il nido. Udiron l'Alpi e il monte di Gehenna, di Blaia e d'Arli e di Roano il lido; Rodano e Sonna udì, Garonna e il Reno: si strinsero le madri i figli al seno

( Ofxxvn wo-wr).

Infine, la discordia insidia dall'interno lo stesso soggetto poetico, quel personaggio di narratore che, pur governando la nave della sua opera fino

35

GIUSEPPE SANGIRARDI

a condurla in porto, non esita a confessare più volte la propria infermità, la profonda scissione che lo attraversa tra desiderio e censura: «Non men son fuor di me, che fosse Orlando»

( xxx 4, r).

E gli atti costruttivi nei

quali si esplica il disegno di questo narratore recano ugualmente i segni di una mimesi dell'armonia spezzata, della corrispondenza mancata: si pensi alle proporzioni capricciosamente irregolari dei canti, o agli artifici dell'entrelacement, tra cui quello argutamente chiamato daJavitch pp.

75-88) cantus interruptus

( 2012,

meriterebbe di essere preso alla lettera per

far risaltare la disarmonia del procedimento. Si pensi, ancora, alle vistose falle che comporta la stessa azione provvidenziale di cui si fa carico il poeta alter Deus: perché se è vero che la giustizia è spesso assicurata dagli eroi, e che Ruggiero e Bradamante convolano a nozze, la follia amorosa di Orlando resta, a tacer d'altro, come una grande ferita aperta nel cuore del romanzo. Queste osservazioni non devono tuttavia comportare un'automatica liquidazione

dell'armonia crociana.

In realtà, se gli elementi di crisi che le

letture recenti del Furioso hanno sottolineato (sulla lunga scia, si potrebbe dire, di quella di Hegel) non erano oggetto diretto del discorso di Croce, in parte vi erano in un certo senso impliciti. La nozione di «catarsi armoni­ ca» suppone, come abbiamo già osservato, un contenuto potenzialmente tragico, su cui certo Croce sorvola, perché lo considera nei fatti neutraliz­ zato, cioè ridotto ad armonia, dal «tono dell'espressione».

È difficile con­

cordare con Croce sulla minimizzazione delle "dissonanze" ironiche e della "discordia" che attraversano e strutturano il mondo ariostesco; ma non con­ viene neppure occultare il gigantesco velo che la forma poetica è chiamata instancabilmente a tessere. Se c'è un suggerimento che ancora può venirci dalla lettura crociana, questo è l'invito a riflettere sulla "densità'' della for­ ma, e specialmente della forma metrica del Furioso. Nella critica ariostesca degli ultimi decenni c'è stata una sorta di scissione: da un lato una corrente dominante (specialmente fuori d'Italia), che ha rovesciato l'indifferenza per i contenuti attribuita a Croce in un'attenzione rivolta essenzialmente se non esclusivamente al «soggetto del Furioso», analizzato secondo varie angolature; dall'altro, una pattuglia numericamente più esigua di lettori che hanno auscultato la forma metrica del romanzo, fornendo descrizioni anche molto raffinate, ma lasciando impliciti i nessi che articolano il livello metrico e la semantica profonda del testo ariostesco (Contini, Limenta­ ni, Blasucci, Cabani, Praloran). Ora, il fascino persistente della lettura di Croce deriva proprio dall'articolazione, che vi si può trovare, di questi due livelli, anche se essa articolazione approda, in modo per noi deludente, alla

ARMONIA

«sottomissione» del contenuto alla forma, e delle inquietudini dell'uno all'armonia dell'altra. Resta però che la musicalità del linguaggio poetico, al cui riconosci­ mento fa spesso velo la nozione moderna di letteratura, è una dimensione profondamente inscritta nella cultura rinascimentale. La scelta dell'otta­ va come strofa della narrazione, e la particolare realizzazione che ne offre Ariosto, è una traduzione esemplare di questo principio. L'ottava, costruita in sé come struttura unitaria ad articolazione binaria (sestina di rime al­ terne, distico baciato), nell'uso ariostesco consegue un grado ulteriore di "armonizzazione" che consiste nell'accordo fra metro e sintassi. Così, se il discorso del

Furioso è

soprattutto il luogo dell'ironia, cioè della denuncia

dell'armonia negata, la sua invariabilmente accordata forma strofica è piut­ tosto il luogo dell'epifania armonica. Se ad altri livelli costruttivi esiste, co­ me abbiamo accennato, una mimesi della scissione e del caos percepiti nella realtà, al livello della forma strofica si instaura la legge eufonica del bilancia­ mento, sia pure in una versione tutt'altro che rigida: anche il grido cosmico della Superbia accede così alla lingua del romanzo attraverso un canone eufonico. Il discorso ariostesco contiene la diagnosi della follia umana, ma esso propone anche, nello stesso tempo, una «medicina d'animi infermi». Se l'oggetto del desiderio è sempre perseguito invano nel discorso, esso è continuamente posseduto nel suo fantasma musicale. Questo fantasma può sembrare troppo impalpabile ai lettori moderni di letteratura, tanto più sensibili alle costruzioni semantiche o agli effetti retorici; ma lo era sicura­ mente molto meno ai lettori del tempo di Ariosto, che se non percepivano l'armonia delle sfere, certo prestavano più di noi attenzione alla musica dei versi, e al suo effetto catartico. Possiamo prenderne a testimone eloquente la descrizione dell'ottava proposta da uno dei più influenti critici cinquecen­

Furioso, Girolamo Ruscelli (Del modo di comporre in versi nella lingua italiana, Sessa, Venezia 1559, pp. 104-s, cit. in Calitti, 2004, p. 38): teschi del

Onde con tanta leggiadria così chi legge, come chi ascolta, aspettando, alla gui­ sa che nel suono, la cadenza della stanza nella sua chiusura, si rasserena tutto quand'ella viene, prende posa con la lingua, o con l'orecchie et sopra tutto col pen­ siero, del quale è proprio il sollevarsi, et sospendersi quando fa l'operation sua, et si pruova effettualmente, che lo star così molto fa stancar non solamente se stesso, ma ancora il corpo nostro che in quell'atto viene come abbandonato da gli spiriti che s'alzano a sollevare, o a sostener la mente nell'operation sua. Et per questo, sì come i vi andanti par che non sentano noia nell'andare, quando sanno esser loro vicinissima qualche osteria, o casa da riposarsi, così il pensier nostro nell'operation sua di sospendersi nella consideratione, o attentione delle cose che udiamo, par che

37

GIUSEPPE SANGIRARDI

sempre stia fresco et lieto, sapendo che nel fin d'ogni otto Versi quella leggiadrissi­ ma chiusura, o cadenza armonica, lo farà prender posa gioiosamente.

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39

Corte di Dennis Looney

I.

L'Orlando furioso è un prodotto della cultura cavalleresca e, anzi, secondo molti esso rappresenta il massimo esempio di letteratura cortese del Rina­ scimento europeo. L'immagine della corte definisce e dà forma al poema dall'inizio alla fine. La corte costituì il più importante spazio istituzionale secolare nel quale si mossero Ariosto e i lettori per i quali scriveva. Inoltre, la corte costituì il principale luogo nel quale l'autore si relazionava con il suo pubblico. Secondo la finzione narrata nel Furioso il poeta, in veste di can­ tastorie, recita il poema al suo protettore in un contesto cortese, variando lo spettacolo quando necessario

(viii 29 ), chiedendo il permesso di inter­ (xiv 134, 7-8), o

rompere la recitazione quando si prolunga eccessivamente

promettendo di offrire maggiore intrattenimento in un secondo momento

(xxxvi 84, s-8). Se lo scenario immaginario della presentazione è la corte e se il poema è pieno di riferimenti alle corti, il suo autore, benché abbia desi­ derato ardentemente entrare a far parte di quel mondo, scelse poi, a modo suo, di sottrarsene. Per capire il Furioso è necessario, quindi, comprendere la relazione di Ariosto tanto con l'idea di corte in generale quanto con la realtà della corte estense di Ferrara in particolare. All'inizio del canto finale dell'edizione del

1516, XL 1-11,

per portare

a conclusione il suo lungo poema Ariosto immaginò la scena di una nave che approda in porto. Il narratore descrive il folto gruppo di persone che affolla la spiaggia, tutti sono venuti per salutarlo. Vi sono uomini e donne, amici e conoscenti, cortigiani di ogni tipo, legati - come accuratamente specificato- alle corti di Ferrara, di Urbino e di Mantova

(xL 6, 1-4). Mu­

sica cortigiana risuona nell'aria per celebrare il completamento del viaggio

(xL

2,

1-4).

L'arrivo in porto riconduce il poeta al punto di partenza, vale

a dire a corte. E negli anni che condussero alla pubblicazione della prima edizione del poema, questa corte era quella di lppolito d'Este, il cardinale

41

DENNIS LOONEY

che assunse Ariosto al suo servizio dal I503 al I5I7. Nelle edizioni succes­ sive del I52I e del I532, Ariosto aggiunse otto stanze al proemio del canto finale e, com'è noto, ulteriori aggiunte portarono il numero complessivo dei canti da quaranta a quarantasei. In particolare Ariosto ampliò questo brano, in cui immaginava una maestosa accoglienza da parte dei membri della corte. Tra le altre cose, nell'edizione del I532 Ariosto aggiunse l'ottava contenente il famoso riconoscimento a Pietro Bembo quale promotore del modello linguistico di italiano standardizzato (xLVI 15, I-4 ) , enfatizzan­ do le qualità cortigiane del vernacolo elaborato da Bembo definito come «puro e dolce» (xLVI I5, 2 ) , opposto a «volgare» e «tetro» (xLVI I5, 3 ) . Forse ancora più inaspettatamente, nel I532 Ariosto inserì nel gruppo delle persone pronte ad accoglierlo anche cinque medici di corte, cinque dottori i cui risultati intellettuali avevano dato lustro alla corte estense: «Veggo il Mainardo, veggo il Leoniceno, l il Pannizzato, e Celio e il Teocreno» (xLVI I4, 7-8). Durante gli ultimi anni della sua vita, dopo aver raggiunto un certo livello di indipendenza economica e dopo essersi staccato in certa misura dalla corte di Ferrara, Ariosto ricordò con nostalgia alcuni aspetti della vita di corte. E ricordò in particolare quegli aspetti che gli sembravano caratterizzarla positivamente. Non deve essere stato facile, tuttavia, per Ariosto immaginare e de­ scrivere la corte come un luogo accogliente, in cui il poeta riceve sostegno e aiuto. In tutti i suoi scritti, infatti, non ultimo il Furioso, Ariosto ritrae la corte quale luogo essenzialmente freddo e ostile. Nel proemio al canto XLIV, ad esempio, giustappone i «poveri alberghi» ( I, I ) alle «corti rega­ li» (I, 6), descrivendo i primi come luoghi ideali in cui creare una genuina «amicizia» ( I, 3), mentre nelle corti non «si vede amicizia, se non finta» ( 1, 8). La corte è luogo avverso a ogni forma di impegno autentico: che sia letterario, amoroso, o politico. Per ironia, la corte è proprio l'ultimo posto in cui cercare comportamenti davvero cortesi.

2.

Come il Furioso, lo stesso Ariosto è, per molti aspetti, un prodotto della cultura cortese. Il padre del poeta, Niccolò, ricoprì svariati incarichi mi­ nori alla corte estense. Ad esempio, prestò servizio in qualità di capitano della cittadella a Reggio Emilia, dove Ludovico nacque nel I474· Nel corso della sua vita a Ferrara, Ariosto ricoprì diverse funzioni alla corte di Ercole I, dove ebbe un incarico fisso già dal I498. Successivamente operò nella 2.I.

CORTE

corte dei figli di Ercole, Ippolito e Alfonso (Catalano,

134).

n suo lavoro di cortigiano incominciò nel

1930-31,

vol.

I,

p.

1503, quando il cardinale

lppolito d'Este lo nominò jàmiliare, vale a dire cortigiano senza una speci­ fica competenza (ivi, pp.

201-6).

Fu probabilmente il cugino di Ludovico,

Pandolfo, segretario privato di Ippolito d'Este dal 1498 fino alla morte, nel

1505, che raccomandò il poeta al signore estense (ivi, pp. 144-5). Dal 1518 fino alla morte, avvenuta nel 1533, Ariosto servì alla corte del duca Alfonso. L'incarico degno di maggior nota da lui svolto in quegli anni fu quello di governatore ducale in Garfagnana, nel triennio

1522-25.

Quali erano esattamente i compiti che Ariosto doveva ricoprire in qua­ lità difomiliare per i suoi signori? Catalano fornisce una lunga lista di attivi­ tà in cui mette in evidenza come, tra le varie mansioni, rientravano quelle di

eseguire [ ... ] le missioni; portare lettere a principi [ ...]; investigare presso amici e nemici per l'utile del signore; coadiuvarlo nelle sue [ ...] intraprese politiche; scortarlo sul campo di battaglia[ ... ]; accompagnarlo nei viaggi[ ... ]; facilitargli il soddisfacimento dei piaceri;[ ... ] fornirgli la cena[ ... ]; mettere al fresco il vino[ ... ]; acquistargli a Firenze[ ...] le ricche stoffe[ ... ]; tenergli compagnia[ ...]; sopportare con filosofia le variabilità del suo umore; attendere la notte che rincasasse per ac­ compagnarlo in camera e per aiutarlo a spogliarsi (ivi, pp. 204-5). Catalano rimanda a quei documenti che menzionano Ariosto come

«

Hip­

polyti cardinalis familiaris continuus commensalis », il cortigiano che condivide sempre la tavola con il principe (ivi, p.

206).

Gli si chiedeva in

sostanza di ricoprire un po' tutte le mansioni, da quelle più generali a quel­ le più specifiche; talvolta i suoi patroni finirono anche per avvantaggiarsi delle sue abilità retoriche e diplomatiche; tuttavia, ciò non avvenne con la frequenza che Ariosto avrebbe desiderato. In molte delle sue prime lettere, ad esempio nella

Lettera 4,

Ariosto

caldeggia chiaramente il suo eventuale incarico come ufficiale estense in Garfagnana. Scrive acutamente in merito alle questioni politiche del tempo, rivelando come fosse forte il suo desiderio di compiacere i patroni e di farsi strada all'interno della sfera del potere cortese; questo almeno all'inizio della sua carriera. Competente ed equilibrato, Ariosto dimostra­ va di possedere molte delle qualità necessarie a gestire efficacemente le situazioni di crisi. C 'è da dire che, se molte delle lettere da lui scritte in età giovanile mostrano chiaramente come negli anni di formazione egli andasse crescendo in arguzia politica, altre lettere rivelano le insicurezze di un aspirante cortigiano, desideroso di compiacere il suo esigente patrono, anche quando non ne veniva adeguatamente ricompensato

43

(Lettera 10 ).In

DENNIS LOONEY

una lettera scritta da Roma il7 aprile 15 13, subito dopo l'elezione pontificia di Giovanni de' Medici, divenuto papa Leone

x,

si sente «lo sdegnoso

disgusto per il servilismo dei cortigiani» alla corte papale (così Stella in Ariosto, 1984a, p. 657 ). Ariosto si lamenta con il segretario di lppolito, Benedetto Fantino, di non poter portare a compimento i suoi incarichi a Roma perché non ha l'abbigliamento appropriato: «lo son arrivato qui in habito de staffetta, e per non haver panni ho schivato de andare a persone de dignità: perché qui, più che in tutti li altri lochi, non sono extimati se non li ben vestiti» (ivi, p. 154). Ariosto si rende conto che, per poter essere ascoltato dalla potente élite che guida il papato, deve abbandonare gli abiti da corriere e indossare quelli da cortigiano. Allo stesso tempo sa benissimo che neanche i vestiti eleganti gli garantiranno il risultato desiderato dal «negocio vostro»

(ibid.).

Quando Ariosto iniziò a ricoprire incarichi alla corte degli Este di Ferrara era solo un giovane umanista in erba, come appare evidente nella sua prima produzione letteraria. Molto probabilmente sperava che, come accaduto in precedenza a Matteo Maria Boiardo, impiegato anni prima al servizio di Ercole d'Este, anch'egli sarebbe riuscito a fare fruttare presto la conoscenza degli

ca.

studia humanitatis a beneficio dello Stato, per la res publi­

In effetti, alla base del nuovo programma formativo della scuola aperta

da Guarino da Verona a Ferrara, vi era l'idea che la conoscenza e le capacità retoriche di uno studente maturo avrebbero potuto un giorno guidare le azioni politiche del principe (Folin, 20 04 pp. 216-7 ). Benché Ariosto non abbia mai frequentato la scuola di Guarino, tras­ se beneficio dalla sua presenza a Ferrara, tanto che finì per acquisire quei mezzi linguistici e materiali necessari per leggere i testi latini in originale e quelli greci in traduzione latina. La corte e la scuola di Guarino costituivano quegli spazi istituzionali entro i quali si poteva partecipare alla rivalutazio­ ne umanistica del passato classico in corso in quel periodo. L'esplorazione dell'umanesimo da parte di Ariosto, e il suo successivo rifiuto come percor­ so di carriera, prepararono il poeta alla scrittura del

Furioso. Tale contesto

influenzò, infatti, il suo modo di pensare alla corte in generale, condizio­ nando la rappresentazione che ne diede nel suo vasto poema narrativo. Pri­ ma di prendere in esame alcuni brani del

Furioso, però, vanno considerati

brevemente alcuni testi precedenti, nei quali Ariosto propone nozioni della corte tra loro contraddittorie. 2.2. Uno dei primi carmi in latino scritti da Ariosto è il De laudibus sophiae

ad Herculem Ferraiae Ducem II (Carmina Iv ) , una prolusione scritta a soli 44

CORTE

ventun anni, nel

149s,

per inaugurare l'anno accademico dei suoi compa­

gni di studi in giurisprudenza allo Studium ferrarese (Catalano, p.

102).

Il titolo, composto da Bolaffi (Ariosto,

1930-31,

1938, p. xu ) , si riferisce ad

Ercole d'Este, secondo duca di Ferrara, il leader a cui il poeta si rivolge nel verso

4S·

Nel componimento Ariosto sfrutta un contesto mitologico per

elogiare il proseguimento degli studi, descrivendo l'incontro degli dèi in Egitto, riuniti per festeggiare il compleanno di Atena, dea della saggezza. Come avveniva comunemente nel Neoplatonismo di fine Quattrocento, il poeta affianca nel testo tradizioni culturali differenti: quella classica (vv.

1-18), quella egizia (vv. 19-31) e quella giudaico-cristiana (v. 33), con Ermete Trismegisto, figura neoplatonica per eccellenza, che aleggia sopra ai festeg­ giamenti (v. 32). La mensa egizia (v. 16) costituisce il punto focale della corte divina e i numi che la circondano costituiscono un modello per la corte dei mortali a Ferrara. Come gli affreschi di Schifanoia (1468-70) raffigurano il mondo degli dèi in cielo e quello degli umani sulla terra, il poema di Ariosto giustappone i due regni, collocando la corte e il suo tavolo al centro, quale punto di connessione tra i due mondi. Ciò che contraddistingue questa poesia, piuttosto ordinaria, è l'enco­ mio che l'autore fa di Ercole d'Este, definito «uomo giustissimo» (v. 4S) ed elogiato per aver creato uno Stato in cui la cultura viene venerata. Il carme onora il signore ferrarese anche per il ruolo di mediatore svolto in occasione della pace di Vercelli, siglata tra i francesi e i milanesi nel 149s, un accordo che risparmiò Ferrara e altri Stati del Nord e del Centro Italia da una lunga e tormentosa occupazione francese. La pace consentì, tra le altre cose, di realizzare progetti culturali legati all'universitàe sponsorizzati dalla corte: qui il nesso con la lode della sapienza. Riconoscendo l'importanza di questo carme, Giovan Battista Pigna lo utilizzò per aprire l' editio princeps dei carmi latini di Ariosto

(1SS3, p. 270).

In un altro carme latino degli inizi, tuttavia, Ariosto si mostra critico verso la corte, affermando come essa sia ostile alla vita tranquilla necessaria allo studio e alle lettere.ln Carmina n, opera indirizzata al cugino Pandolfo, propone di astenersi dalle ansie della vita di corte in favore di un'esistenza più tranquilla, fatta di canzoni e d'amore. Il componimento fa riferimento ai sacrifici fatti da Pandolfo al fine di servire adeguatamente lppolito:

Dum tu prompte animatus, ut l se res cunque feret, principe sub tuo, l Pandulphe, omnia perpeti, l[... ] l nos grati nemoris, rauca sonantium l lympharum strepitus prope, l umbrosas vacui quaerimus ilices («Mentre tu, o Pandolfo, deciso a sop­ portare ogni sacrificio, comunque vadano le cose, al servizio del tuo principe [ ... ] 45

DENNIS LOONEY

noi, liberi da ogni affanno, cerchiamo le elci ombrose di un bosco accogliente, presso il rauco mormorio di un ruscello», Ariosto, 1989, vv. 1-3, 6-8, pp.

74-5).

Chi vive a corte deve preoccuparsi della guerra, dei pericoli e dei sacrifici. Alla fine del componimento viene evocata una situazione specifica: «tristis cura magis [ ... ]l[ ... ] insilit [ ... ]l[ ... ] si furor [ ... ]l[ ... ] quatiat Celticus Au­

( «triste affanno assale assai [ ... ] se il furore dei Celti [ ... ] si abbatte Ausoni» ) ( ivi, vv. 38-42, pp. 76-7 ): se i francesi avessero attaccato

sones» sugli

l'Italia durante la discesa di Carlo

V III

questo avrebbe provocato non solo

dolore, ma anche la sospensione totale della tranquillità tanto necessaria alla vita letteraria.

Canne IV sia stato scritto per essere recitato pubblica­ mente, mentre il Canne II, dal tono più intimo, per essere letto nella sfera Il fatto che il

privata, spiega, almeno in parte, le opposte considerazioni sull'umanesi­ mo cortese che si ritrovano nell'uno e nell'altro componimento. Il poeta sa di poter esprimere in privato idee che non sarebbe saggio esternare in pubblico. Tuttavia il fatto stesso di dar voce a quelle idee, pur indirizzan­ dole ad un pubblico diverso, costituisce un primo passo verso la risoluzione

(o meglio, il tentativo di risoluzione )

delle contraddizioni. Ai suoi esordi,

quindi, Ariosto condivise e riprodusse nelle sue opere quell'atteggiamento tradizionalmente dicotomico verso la corte, ritrovandosi, nel momento in cui scriveva

l'Orlandofurioso, a cercare di risolvere tale contraddizione ( la

fonte antica per eccellenza di questa dicotomia è Ovidio, esiliato in quanto spirito troppo libero, cfr. Epistulae ex Ponto III, 6;

IV,

3e

Tristia IV, 10 ) .

Certo, la corte poteva essere il luogo in cui veniva incoraggiato e soste­ nuto lo studio, e un generoso mecenate poteva lasciare al fedele servitore la libertà di leggere, di scrivere e di pensare; tuttavia la corte era anche un luogo di ansie, di tristezza e, addirittura, di morte (come Ariosto avrebbe scoperto nel 1508, quando fu assassinato l'amico Ercole Strozzi ) , un luogo in cui i conflitti geopolitici potevano far breccia nella quiete dell' indivi­ duo e dove la realtà quotidiana poteva sopraffare completamente la vitalità mentale. La corte non era adatta agli spiriti liberi, come aveva lucidamente mostrato Giovanni Pico, preferendo la solitudine e dichiarando di lavorare

apud se ( Folin, 2004, pp. 216-7 ) . Più tardi, con l'opera satirica in prosaErbolato (ca. 1530 ) , Ariosto riuscì a prendere in giro apertamente le corti, specialmente quelle con pretese ac­ cademiche. Nell'Erbolato ( Ariosto, 1984b) l'autore si interroga sui princìpi dell'umanesimo e difende la scelta di allontanarsi dal mondo accademico degli umanisti per perseguire un diverso progetto culturale, meglio incar-

CORTE

nato dal volgare. In effetti, l'Erbolato è una divertente critica della corte accademica estense vista dalla prospettiva di un Ariosto ormai maturo (Lo­ oney,

2013).

Già negli anni precedenti, tuttavia, il poeta aveva iniziato a prendere le distanze dal latino e da quegli studiosi di corte che scrivevano in latino. Celio Calcagnini, nell'opera Equitatio (ca.

1507), mette in scena la decisio­

ne di Ariosto di separarsi dai suoi compagni umanisti. Nel componimento sono rappresentati alcuni degli scrittori più stimati della corte ferrarese e di quella mantovana, tra cui - oltre a Calcagnini stesso e ad Ariosto - Lilio Gregorio Giraldi, Demetrio Mosco, Daniele Fini e Mario Equicola. Gli interlocutori discutono di argomenti filologici e letterari, e Ariosto descrive il suo nuovo progetto narrativo. Rispondendo ad una domanda di Giraldi, egli mette in relazione il suo poema ancora in fase di elaborazione con tre cose: le gesta incredibili dei giganti e degli eroi; la cultura letteraria francese dei poemi narrativi; la piazza, vale a dire lo spazio pubblico in cui veniva presentata la poesia franco-italiana elaborata dai cantastorie (Calcagnini,

1544,

p.

562). È evidente come il poeta intenda prendere le distanze dagli

accademici delle corti che scrivono in latino, nell'ambizione di produrre un nuovo tipo di letteratura che sappia combinare il classico con il volgare. La cultura cortese, conservatrice per natura, finì per accettare la radicale commistione proposta dall'Ariosto; tuttavia ciò avvenne solo dopo che l' istituzione letteraria iniziò il processo di canonizzazione del Furioso (Ja­ vitch,

1991).

2.3. Riconoscendone le abilità diplomatiche, i signori estensi inviarono più volte Ariosto presso la corte papale, per negoziazioni dovute al mutare del sistema di alleanze tra gli Stati nel Nord e Centro Italia. Il poeta si recò a Roma in numerose occasioni durante il papato di Leone

x

tra il

1513

e il

1521, anche se tali visite non portarono a risultati utili per i ferraresi (Cata­ lano, 1930-31, pp. 352-87 ). Godendo della fiducia dei suoi signori, Ariosto rappresentò gli Este in una missione segreta a Roma, nel dicembre del 1509, volta a ottenere il sostegno della corte papale contro Venezia. La missione era complicata proprio perché si trattava di chiedere al papato aiuto contro Venezia; al contempo, essa era anche parte di una strategia ideata per placa­ re il desiderio del papa Giulio

n

di annettere Ferrara allo Stato pontificio.

Ariosto fa riferimento a questo viaggio in vari scritti, tra cui Furioso

3, 1-4 e Lettera

XL

s. Se nel componimento poetico allude alla corte romana

metaforicamente- «io [ ... ]corso l con molta fretta e molta ai piedi santi l del gran Pastore a domandar soccorso» - nell'opera in prosa il riferimento

47

DENNIS LOONEY

è esplicito e, scrivendo al suo signore da Roma il giorno di Natale del 1509, afferma: «H oggi è arrivata la nova che V. S. insieme col Duca ha rotta l'ar­ mata veneta in Po, da che a mio iudicio tutta questa Corte se è ralegrata» (Ariosto, 1984a, pp. 138-9). I membri della corte papale sono compiaciuti, come lo stesso Ariosto per ragioni che è attento a spiegare: «Me ne sono alegrato, ché oltra l'util publico la mia Musa haverà historia da dipingere nel padaglione del mio Ruggiero a nova laude de V. S.» (ivi, p. 139 ). Ariosto allude al passaggio celebrativo del canto

XLVI,

ottava 97, del

Furioso, in cui, nella ecfrasi genealogica finale del poema, fa riferimento alla battaglia che decora il padiglione nuziale di Bradamante e Ruggiero. Nelle edizioni del 1516 e del 1521 l'ottava era la 70 del canto XL. Nell'edizione del 1516 questa stanza era seguita da un'ottava poi rimossa nelle edizioni del 1521 e del 1532 in quanto faceva riferimento ad lppolito in termini troppo positivi, insinuando così che Alfonso non stesse adempiendo doverosamen­ te ai suoi compiti (Dorigatti, 2011, pp. 8-14). La notizia della vittoria ferra­ rese era arrivata a Roma davvero velocemente e con rapidità simile l'esito della battaglia sembra farsi strada all'interno della finzione letteraria, come documentato dalla lettera. Questo breve commento in prosa mostra come Ariosto si muova tra la politica della corte e la finzione narrativa del suo po­ ema, e apre, per il lettore, uno spiraglio sul laboratorio creativo del poeta. Il brano mostra chiaramente anche quanto il mondo fantastico immaginato dal poeta fosse prossimo al mondo caotico nel quale l'uomo viveva e fino a che punto la corte fosse parte di entrambi quei mondi. La corte papale di Roma reagisce al successo militare della corte estense e questo avvenimen­ to diviene materiale per il poema cortese dell'Ariosto. L'esistenza del suo poema dipendeva, almeno prima della pubblicazione, dalla magnanimità del signore. Il motivo che ispira ad Ariosto l'ottava celebrativa è quindi quello di ribadire il ruolo di lppolito come dedicatario del poema, proprio nel momento in cui ci si avvicina alla conclusione della lunga narrazione. C'è da dire che lppolito non era sicuramente un patrono solidale e quattordici anni di adulazione alla sua corte erano già tanti. Nella Satira

I

Ariosto spiega la sua decisione di non seguire lppolito in Ungheria (Ario­ sto, 1984c, p. 13), fatto che nel 1517 causò una frattura tra i due uomini e determinò la rimozione di Ariosto dall'universo della corte: Io desidero intendere da voi, Alessandro fratel, compar mio Bagno, s'in corte è ricordanza più di noi; se più il signor me accusa; se compagno per me si lieva e dice la cagione

CORTE

per che, partendo gli altri, io qui rimagno; o, tutti dotti ne la adulazione (l'arte che più tra noi si studia e cole), l'aiutate a biasmarme altra ragione (Satira I, 1-9). Ariosto si rivolge al fratello più giovane Alessandro (oltre che all'amico Ludovico da Bagno) chiedendogli quale sia l'opinione corrente che si ha di lui «in corte» di Ippolito (v. 3) e incoraggiandolo a prendere il suo posto a corte: «ma tu [ ... ] servi per amendua» (vv. 221-225; Ariosto, 1984c, p. 22). Quindi chiarisce come sia ancora disposto a servire, ma solo alle sue condizioni di scrittore: «Il qual se vuoi di calamo et inchiostro l di me servirsi, e non mi tòr da bomba, l digli: "Signore, il mio fratello è vostro"» (vv. 226-228; ibid. ). Tuttavia, lppolito non era interessato a sostenere la car­ riera letteraria del suo sottoposto. Inoltre, se avesse letto davvero tale satira poetica- fatto alquanto improbabile dato che essa circolò privatamente e fu pubblicata solo nel 1535, due anni dopo la sua morte- lppolito sarebbe stato molto probabilmente sconcertato di fronte ad una rappresentazione ribaltata del servizio prestato a corte che, nel testo, si traduce nel verbo "servirsi" riferito non al suddito ma al patrono. "Se vuole servirsi di me" è precisamente il tipo di ironia autoriale che avrebbe potuto adulare un pa­ trono nella maniera sbagliata. Più oltre Ariosto è ancora più diretto: «dite­ gli che più tosto ch'esser servo l torrò la povertade in pazienza» (vv. 245-6; ivi, p. 23). Avendo servito lppolito nelle più difficili condizioni, mettendo a repentaglio persino la propria vita, Ariosto era ora pronto a ricoprire un tipo di incarico diverso, preferibilmente letterario, e pensava che si fosse guadagnato il diritto di vedere le sue richieste esaudite. A seguito della rottura con lppolito, Ariosto fu chiamato alla corte di Alfonso d'Este, dove godé di una maggiore indipendenza. Sebbene abbia continuato a lavorare per la famiglia d'Este fino alla morte, il poeta finì per abbandonare l'idea di una carriera all'interno della corte e, quindi, si tenne a distanza dalle sue istituzioni. La sua attenzione e i suoi interessi rimasero rivolti al mondo delle corti e della cortesia, dei cortigiani e delle loro signo­ re, ma solo in una dimensione letteraria.



3.1. « [L]a famosa corte l di Carlo Magno» ( xxxn 54, 1-2) costituisce la scena su cui si muovono i cavalieri cristiani dell'Orlandofurioso. Il tratta­ mento riservato da Ariosto alla corte carolingia e al suo eroe Orlando è 49

DENNIS LOONEY

fortemente influenzato dall'opera letteraria del suo predecessore alla corte d'Este, Matteo Maria Boiardo. Figura tradizionale della letteratura franco­ italiana medievale, Orlando è associato con la chanson de geste, la poesia epica della Francia medievale. In tale tradizione letteraria egli combatte e muore valorosamente come si addice al più eroico dei cavalieri al servizio di Carlo Magno. Ma per gli scrittori dell'Italia settentrionale tra la fine del Quattrocento e il Cinquecento, l'Orlando di Boiardo costituisce il prisma attraverso il quale le precedenti rappresentazioni letterarie del suo eroismo vengono filtrate. Come evidenziato da Pio Rajna nel suo autorevole studio sulle fonti di Ariosto (Rajna, 1975; la prima ed. è del 1876), Boiardo unisce sagacemente le storie carolinge di guerra con le leggende arturiane di amore e di magia dando vita ad un Orlando paradossale che si innamora folle­ mente, come recita il titolo del poema, lnamoramento de Orlando. Nella condizione di innamorato Orlando difficilmente può incarnare l'eroismo militare, finendo piuttosto per rappresentare il realistico ritratto psicologi­ co di un cortigiano. Per capire quale fosse la difficoltà della sfida intrapresa da Ariosto ali'at­ to di delineare il suo Orlando alla corte di Carlo Magno, si ricordi che tra le sollecitazioni culturali presenti al poeta, all'intreccio di epica carolingia e di romanzo arturiano si aggiungeva il gusto, ormai dominante anche a Fer­ rara, per l'umanesimo classico. Cosicché la sua versione di Orlando ricorda sì la figura della leggenda medievale e presenta qualche somiglianza con l'amante cortese di Boiardo, tuttavia è anche, per molti versi, una creatura plasmata dal nuovo gusto per il classicismo. E forse, come qualcuno ha sug­ gerito, l'Orlando di Ariosto somiglia più a Didone, l'amante abbandonata da Enea, che ad un nuovo, eroico Enea (Wiggins, 1986, p. 113). In altre paro­ le, in Ariosto la ricezione letteraria della tradizione classica è condizionata da altre tradizioni letterarie. L'influenza del romanzo medievale trasforma la versione che Ariosto elabora di Enea in un'imitazione di Didone, in un inaspettato compromesso del modello epico virgiliano. Le dinamiche tipi­ che dell'interazione cortese tra uomini e donne sono capovolte nella radi­ cale contaminazione delle fonti letterarie utilizzate da Ariosto. Come già mostrato in un altro intervento, la narrativa epica contro-classica dell'anti­ chità, specialmente le Metamorfosi di Ovidio- che peraltro trovano qual­ che riscontro nel romanzo medievale -, complica la ricezione degli ideali epici da parte di Ariosto (Looney, 1996). E queste varie riscritture letterarie influenzano spesso anche la rappresentazione della corte nella narrazione ariostesca. Nel Furioso, in opposizione all'unitaria corte cristiana di Carlo Magno,

so

CORTE

fuori dai confini dell'odierna Europa vi sono numerose corti pagane. E, per i non cristiani, una delle difficoltà è, appunto, la mancanza di una corte unitaria, di un regno unificato. La più aggressiva e combattiva fazione dei pagani costituisce, quasi per antonomasia, «l'africana corte»

(n 45, 8),

guidata da Agramante di Biserta. L'ottava iniziale del poema, che il perso­ naggio di Agramante domina dal v. 3 al v.

8, annuncia l'intenzione del re

moro di vendicarsi di Carlo Magno. Che Agramante sia alla guida di una corte sembra essere un fatto abba­ stanza positivo, ma il riferimento a «l'africana corte» è minato dal conte­ sto nel quale, fin da subito, proprio la corte viene menzionata: «era l'altro Ruggier, giovene forte, l pregiato assai ne l'africana corte»

(n 45, 7-8). La

prima apparizione di Ruggiero in questo contesto ricorda al lettore come egli rappresenti la speranza e il futuro del mondo pagano. Come sappiamo, però, Ruggiero è destinato a convertirsi al cristianesimo e ad unirsi in un matrimonio dinastico con Bradamante. La corte africana risulterà irrime­ diabilmente indebolita quando Ruggiero abbandonerà la fede e i compagni pagani per amore di Bradamante e per preparare il proprio futuro nel mon­ do cristiano. Quando, alla fine del Furioso, Ruggiero combatterà in duello l'eroico Rodomonte di Sarza, originario dell'Algeria, la corte pagana sarà giunta definitivamente alla sua fine. La drammatica morte di Rodomonte -il quale da solo terrorizza Parigi assediata più di quanto facciano le armate di Marsilio e di Agramante insieme (descritte come una «corte»: «e la gran corte l ch'avea seguito in Francia questi dui»,

XIV

26,

5)- pone fine a

qualsiasi speranza di riconciliazione nel gruppo dei rappresentanti pagani. Il duello mortale tra i due eroi africani sancisce la fine della corte pagana; contemporaneamente, la definitiva dissoluzione della corte africana sanci­ sce la fine del poema stesso. Il canto XXVII del Furioso anticipa la dissoluzione finale delle corti pa­ gane, mettendo in moto l'azione che culminerà nel duello tra Ruggiero e Rodomonte. Il canto si apre con il successo militare dei pagani sui cristiani nell'area intorno a Parigi. Con Orlando e Rinaldo lontani dalla corte di Carlo Magno

(xxvn 8),

i cristiani rischiano di soccombere al nemico. In

effetti, la fortuna sorride ad Agramante

(xxvn 33, 7) e la battaglia volge in

suo favore, ma l'intervento divino salva i cristiani. San Michele, il «servo fedel» di Dio (xxvn 36,

)

1 ,

invia la Discordia tra i combattenti del campo

pagano per impedire che collaborino in armonia. Il campo pagano comprende anche popoli asiatici che combattono al fianco degli africani contro i cristiani. Tra gli asiatici vi sono Gradasso di Sericana, Mandricardo della Tartaria, il figlio di Agricane, e Marfisa, regina

SI

DENNIS LOONEY

orientale e ver gine guerriera. Marfisa, come verrà rivelato successivamente (xxxvi 59), è la sorella di Ruggiero e la sua conversione al cristianesimo

preparerà la conversione del fratello stesso. Brunello, già precedentemente introdotto nel poema in veste di campione di disonestà e di simulazione

appartiene al popolo pagano e diventa il tramite attraverso il quale la Discordia ne spezza l'armonia interna. Il campo pagano costituisce

(Iv 2, 6-8),

un'allegoria della corte in generale, la quale vive sotto la costante minaccia di sgretolarsi a causa della discordia, della disonestà e delle falsità che vi

regnano. L'impiccagione finale di Brunello (xxx n 8) non basta a salvare la corte pagana dalla distruzione dovuta alla discordia interna. Si ricorderà, inoltre, il bassorilievo scolpito sopra una delle fontane re­

alizzate dal mago della corte di re Artù, Merlino. L'immagine rappresenta una bestia selvaggia, la quale affligge «la corte romana» (xxvi 32, s). La

decorazione vuole essere un'allegoria dell'avarizia che «contaminato avea la bella sede l di Pietro» (xxvi 32, 7-8). Perfino la corte papale, dunque - che, come si è visto, è per Ariosto oggetto di enorme interesse - appare al narratore come una culla di vizi. Ariosto non può rappresentarla come una corte unita e armoniosa. Qualsiasi tipo di corte è, ai suoi occhi, dominata da cortigiani avidi e ambiziosi e neppure la più alta delle corti religiose, quella romana, sembra esserne priva.

3.2. All'inizio di questo saggio è stata presa in esame la scena finale del Fu­

rioso, in cui il poeta, parlando in propria persona, immagina tutti gli amici della corte in attesa del suo ritorno dopo il lungo viaggio della narrazio­

ne; in questo passaggio il poeta riunisce i tanti personaggi che fanno parte della sua privata corte letteraria. Spostando ora l'attenzione sul proemio

del poema, nel quale si enunciano le multiple trame del componimento, si noterà (benché il testo non lo dica esplicitamente) che esse sono tutte in relazione con l'ambiente della corte. Sullo sfondo dell'ampia tela nar­ rativa, il poeta intreccia fra loro tre trame principali: il continuo scontro militare tra le forze cristiane di Carlo Magno e quelle dell' islam guidate da Agramante; la storia dell'invincibile amore di Orlando per Angelica e la sua inarrestabile ricerca della principessa, con l'impazzimento del cavaliere; la storia dell'amore tra Bradamante e Ruggiero. Nel corso del poema ogni trama si sviluppa in modi che finiscono per influenzare la percezione che il lettore ha della corte. Il poema inizia con un riferimento alla corte in generale, identificando

i membri chiave di tale società e alludendo al codice dell'amor cortese che guida i loro incontri:

CORTE

Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto (O/I I, I-2 ) . Nel verso iniziale della terza e definitiva edizione del

1532,

il riferimento

a «l'arme» bilancia il tema dell'amore cortese veicolato dalle parole «gli amori» e «le cortesie». Si noterà tuttavia che nella prima edizione del poema, quella del

1516, il ruolo delle donne e dell'amore cortese risaltava

ancor di più, proprio perché non era abbinato a «l'arme»:

Di donne e cavallier li antiqui amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto (A 1 I, I-2 ) . Forse la revisione del primo verso, in cui si dà più enfasi alla guerra, ap­ porta un maggior equilibrio. Tuttavia, la dichiarazione iniziale rivolta al­ le «donne» fornisce un diverso tipo di armonia e, al contempo, anticipa meravigliosamente l'encomio del canto finale alle donne della corte e ai loro cavalieri che aspettano il rientro in porto del poeta: «Oh di che belle e gentil donne veggio, l oh di che cavallieri il lito adorno!» ( A

XL

3, 1-2).

Dal primo all'ultimo canto del poema, la corte, popolata di donne e di cavalieri al loro inseguimento in nome dell'amore, costituisce la cornice narrativa del poema. Nella visione di Ariosto, le donne sono il cuore della corte. Dopo l'apertura del poema incentrata sulle donne, sui cavalieri e sugli atti di cortesia ( così nell'edizione del

1516 e in quella del 1532), la seconda

ottava introduce l'eroe che dà il titolo al poema, Orlando, la cui ossessio­ ne per Angelica mina l'integrità della corte cristiana. L'azione del primo canto, che deriva dall'arrivo di Orlando con Angelica alla corte di Carlo Magno, sconvolge la stabilità della corte stessa. La maggior parte delle suc­ cessive azioni del poema costituisce il tentativo di ristabilire quel senso di unità del mondo cristiano sconvolto all'inizio. La terza stanza si concentra su lppolito d'Este, la cui corte costituiva il riferimento culturale del giovane Ariosto. Nonostante la presa di distanza tra il poeta e il suo patrono avve­ nuta subito dopo la pubblicazione della prima edizione del poema, Ariosto mantiene invariata l'invocazione dal tono cortese che rivolge ad Ippolito e alla sua famiglia. La retorica celebrativa della terza ottava mostra il poeta in veste di vassallo

(

: «Così talora un bel purpureo nastro l ho veduto partir tela d'argento l da quella bianca man più ch'alabastro, l da cui partire il cor spesso mi sento»

(xxiv 66,

I-4 ) ; la donna che si è impadronita del

suo ingegno, che alloggia ora nei «bei [ ... ] occhi e nel sereno viso, l nel sen d'avorio e alabastrini poggi» di lei

(xxxv 2, s-6); e quella che poi riappare

come statua presso la fontana delle belle donne nel canto XLII, quella «gran donna [ ... ] l [ ... ] di tanto e sì sublime aspetto l [ ... ] sotto puro velo, in nera gonna, l senza oro e gemme, in un vestire schietto» il poeta offre l'elogio del suo «umil canto»

( xLII 93, 3-6), alla quale ( xLII 95, 3).

Sarà forse il suo rapporto con quella donna la realtà che si raffigura nelle oscillazioni tra misoginia e fìloginia del narratore? E «l'umil can­ to» del suo elogio sarà

l'Orlando furioso?

Se nella pazzia di Orlando e

del narratore c'è l'allusione all'amore- croce e delizia- del poeta, forse si deve anche vedere nell'epopea nuziale di Ruggiero e Bradamante una figurazione poetica dell'amore coniugale del poeta e, almeno in parte, la radice della filoginia del Furioso e della sua accentuazione nell'ultima edizione del poema.

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97

Generi di Francesco Ferretti

I.

Nell'ottobre del 1515 Ariosto scrive al doge per garantirsi i privilegi del Fu­

rioso. Il poeta riferisce di aver «cum mie longe vigilie e fatiche, per spasso e recreatione de' Signori e persone di animi gentili e madone, composta una opera in la quale si tratta di cose piacevoli e delectabeli de arme e de amo­ re»; e continua dicendo di porre in luce tale opera «per solaço e piacere di

qualunche voràe che se delecteràde legerla» (Ariosto, 1984, n. 16, p. 157 ). È

bene cominciare da qui, perché la relazione che il Furioso intrattiene con gli altri generi letterari (al plurale) non può essere affrontata se non ci si mette d'accordo prima circa il suo genere (al singolare). Oggi è facile convenire che il Furioso sia un poema epico-cavalleresco, un romanzo o un romanzo di cavalleria. Tali affermazioni, invece, per quanto inconfutabili, non sono neutre. Non a caso gli studi più recenti hanno insistito sull'opportunità di ricostruire la nozione di genere cavalleresco tra Quattrocento e Cinquecen­ to, quando l' lnamoramento de Orlando fu ammirato da un gran numero di lettori e un lettore più dotato e agonistico degli altri, Ariosto, intorno al 1505 decise di continuare non tanto il poema lasciato incompiuto da Boiar­

do, quanto la sua materia.

Sangirardi in particolare ( 2oo6, pp. 118-29; 2009 ) ha proposto di cir­

coscrivere la nozione di romanzo cavalleresco e ravvisare nelle parole citate una velata indicazione di genere. Se non proprio il genere del Furioso, alme­ no il suo «formato» si definirebbe in modo empirico per la sua materia (ar­ mi e amori) e per i suoi destinatari, ossia la corte («Signori[ ... ]e madone») più tutti coloro che saranno raggiunti dalle edizioni a stampa («qualunche vorà e[ ... ] se delecterà de legerla»). Tale proposta da una parte tiene con­ to delle ricerche sul commercio librario tra Quattrocento e Cinquecento

(Nuovo, 2007 ) , grazie alle quali sappiamo che un'etichetta non di rado

associata ai romanzi cavallereschi nel primo Cinquecento, specie a Ferrara

99

FRANCESCO FERRETTI

e a Venezia, è appunto quella di libro «in bataglia», un'indicazione che prende nome dall'argomento e che di solito definisce il genere cavalleresco di consumo e rispetto alla quale Boiardo e Ariosto (e i loro primi editori) intendono distinguere i rispettivi poemi. D'altro canto Sangirardi propone di delimitare la corretta, ma troppo ampia nozione di romanzo cavalleresco e di collocare il Furioso all'interno di una «famiglia» di testi «di cui I'Inamoramento de Orlando è il capo,

Morgante, Mambriano, gli altri Inamoramenti che precedono Baiardo e le altre continuazioni delle sua opera i parenti più o meno prossimi» (Sangi­ rardi, 2009, p. 47 ). Questi testi infatti sono la versione d'autore di un genere di radice popolare; una versione basata, come già il Teseida, sulla mistione di scontri epici e avventure romanzesche, secondo il binomio «arme» e «amori» tipico della tradizione cavalleresca italiana. Il verso incipitario di C- «le donne, i cavallier, l'arme, gli amori»-va letto appunto come la no­ bilitazione di un genere riconoscibile per i lettori del tempo, documentato dall'uso, anche se non codificato in sede teorica (ma si pensi al sottotitolo del Mambriano uscito dalla corte di Ferrara nel

1509 come

«libro d'arme

e d'amore»). Che un genere popolare come il romanzo potesse assumere una veste d'autore, addirittura umanistica (nella prospettiva di Baiardo), non era cosa pacifica. Ben noto infatti è l'imbarazzo del giovane Ariosto quando, introdotto come personaggio nell'Equitatio di Calcagnini

(1506-o7 ),

si

confessa suo malgrado irretito da «adescatrici galliche», ossia da muse romanzesche, al cospetto di una compagnia seriosa di umanisti coetanei, giustificando la propria scelta di dedicarsi a un genere squalificato quale il romanzo come una concessione ai gusti della corte (Savarese,

1984) .

Non

meno significativa è la relativa freddezza di Bembo-documentata dal pri­ vilegio di stampa steso a nome di Leone ormai prossimo a vedere la luce (]ossa,

x - di

fronte al primo Furioso,

2009, p. 32).

Certo è che il Furioso,

in quanto romanzo, andò incontro a un successo anche popolare (fuori e dentro la corte) che gli umanisti puri non vollero e non cercarono mai. Come avrebbe detto Tasso- nel momento in cui ne avrebbe censurato la refrattarietà alle regole aristoteliche-Ariosto aveva conseguito quel plauso universale che, muovendo da presupposti aristotelici, la Liberata si propone di eguagliare (Tasso,

1964, pp. 22-3).

Prima di procedere, possiamo trovarci d'accordo su quest'assunto. Non diremo nulla d'inesatto se continueremo a chiamare il Furioso un romanzo, secondo una definizione che Ariosto avrà forse usato, ma che si attesta solo a metà Cinquecento grazie ai contributi teorici di Giraldi Cinzio e Pigna

100

GENERI

(Ritrovato, 1997; Bruscagli, 2004) . Tuttavia sarà bene abituarsi a concepire il Furioso come un certo tipo di romanzo: il libro di armi e amori d'autore, e in particolare quello di tipo boiardesco, nel quale il cast epico del ciclo ca­ rolingio obbedisce alle leggi del roman bretone, dando luogo a un racconto fondato su entrelacement e finzione di oralità. Questa cautela è necessaria per evitare di istituire un legame speciale e antagonistico tra il romanzo e l'epos classico (cfr. in proposito studi che re­ stano peraltro fondamentali: Carne-Ross, 1976; Parker, 1979; Quint, 1979; Zatti, 1990), come se Ariosto, per nobilitare in senso umanistico il genere cavalleresco medievale, dovesse attingere per forza e quasi inevitabilmente non a uno, ma a due generi insieme: al romanzo ma anche a quel tipo di epica che si imporrà in Italia solo col classicismo medio-cinquecentesco, da Trissino in poi. Le armi nella coppia programmatica anni e amori invece alludono senza fare distinzioni sia all'epica (greco-latina e romanza) sia ai duelli romanzeschi: sono quelle del ciclo carolingio che oppongono cristia­ ni e pagani in grandi scontri collettivi e sono anche quelle del ciclo bretone che vedono i cavalieri duellare in singolar tenzone per i valori individuali (amore e onore). I colori retorici e stilistici che rappresentano scontri di così varia natura possono essere ora epici, ora romanzeschi, ora (come più spesso accade) a tal punto mescolati tra loro da rendere illegittima e infondata qualsiasi distinzione. Detto altrimenti, sebbene Ariosto introduca numerose e significati­ ve allusioni all'epos greco-latino, conformando i suoi eroi romanzeschi a modelli classici, non dobbiamo farci condizionare dalla lettura epicizzan­ te del Furioso che s' impone a partire dagli anni Trenta del Cinquecento (Hempfer, 1987; Javitch, 1991; Sberlati, 2001 ) . Tale ricezione tende a elu­

dere il rapporto del poema ariostesco con il genere cavalleresco; a ignorare l' ironia e il serio ludere del narratore a favore di una serietà più esplicita; e di conseguenza a enfatizzare le allusioni all'epica classica presenti nel testo, allo scopo di far rientrare in modo forzoso il Furioso dentro quelle regole aristoteliche che Ariosto o non aveva avuto modo di conoscere o consa­ pevolmente aveva eluso. I primi interpreti, seguendo questa strada, finiro­ no per proiettare sul Furioso l'ombra dell'epica antica di Virgilio, Stazio e

O mero. Per i critici odierni invece il paragone tra Ariosto e il genere epico o, se vogliamo, tra Ariosto e Tasso è utile non tanto per mettere a fuoco la continuità tra i due, quanto l' irriducibilità di Ariosto al genere epico aristotelico.

È

vero, sì, che Tasso (nei primi Discorsi, 1562 ca.) definisce il

romanzo di Boiardo e Ariosto come un tipo irregolare di epica, concependo

lnamoramento e Furioso come «favole eroiche» (Tasso, 1964, pp. s, 26-29);

101

FRANCESCO FERRETTI

e qualche anno dopo (nell'Apologia,

I

s8 s) parla del poema ariostesco come

di un «animale d'incerta natura e mezzo fra l'uno e l'altro», ossia tra epos e romanzo (Tasso, I97 7, p. 72; e poco sopra Tasso afferma che Ariosto «s'as­ somigliò a gli epici molto più degli altri che avevano scritto innanzi» nel genere del romanzo, inteso a sua volta come sottogenere dell'epos classico). Questo punto di vista tuttavia dipende dal fatto che Tasso, per non incorrere nel fallimento di Trissino (il quale si era messo in urto contro Ariosto e «il Furioso suo che piace al vulgo», come si legge in una profezia sui poeti moderni nel canto XXIV dell'Italia liberata), si era proposto di in­ globare nel genere epico quegli ingredienti romanzeschi che, dopo Ariosto, erano diventati indispensabili in vista di quel diletto che il giovane Tasso considerava il fine della poesia. L'autore della Liberata, in altre parole, pur rifiutando il romanzo in quanto genere irriducibile alle regole aristoteliche, non volle però rinunciare a farsi erede del romanzesco di Ariosto, ossia di quegli ingredienti narrativi che sintetizza con la formula «amori, cavallerie, venture e incanti» (Tasso, I964, p. 34) . È per questa ragione che Tasso legge Ariosto come un poeta epico sì, ma irregolare: per legittimare la varietà romanzesca del Furioso, fonte primaria di diletto, e riproporla in forma rin­ novata, come proiezione conturbante delle pulsioni individuali, all'interno di un epos moderno, verosimile (Javitch, 2003) . Benché la critica recente abbia spesso fatto propria la prospettiva tassiana, con risultati anche felici, sembra più conforme allo spirito ariostesco il recente invito di quei critici che hanno proposto di leggere il Furioso come un romanzo dall'inizio alla fine, anche quando ingloba quelle allusioni al genere epico sopra le quali ci soffermeremo in seguito (Sangirardi, 2009; Javitch, 20IO ). Prima di porre mano al Furioso, Ariosto aveva cercato di declinare al­ trimenti la coppia armi-amori, quasi a eludere il confronto con il roman­ zo boiardesco. Ai tempi dell' Obizzeide ( IS04 ca.) il programma poetico si offriva così: «Canterò l'arme, canterò gli affanni l d'amor ch'un cavallier sostenne gravi, l peregrinando in terra e in mar molti anni» (Capitoli

II,

in Ariosto, I982, p. I27 ). Per quanto possiamo inferire, si sarebbe trattato non di un romanzo, bensì di un poema encomiastico anomalo, ibridato con l'elegia (Sangirardi, 2006, pp. 83-8 ) , una novità anche rispetto alle Stanze polizianee. Spie della vocazione elegiaca sarebbero il metro (non l'ottava, ma la terzina, equivalente barbaro del distico elegiaco) e l'invocazione pro­ emiale rivolta, anziché alla musa, alla donna amata, sulla scorta di Properzio

( n I, 3-4) e Boccaccio, Filostrato I I -S

(Floriani, I987 ). L'elegia però andava

a combinarsi sorprendentemente con il suo genere antagonista, ossia con l'epica (T horsen, 20I3; cfr. almeno Properzio

102

I

7, 9;

n

34) :

«canterò l'ar-

GENERI

me» infatti rinvia a Aen. iactatus et alto» di Aen.

I I, I

così come il v. 3 allude al «mutum ille et terris

3· La militia amoris dell'amante elegiaco, in altre

parole, sarebbe uscita di metafora, legandosi piuttosto all'atmosfera cortese veicolata dall'allusione a Dante, Pg XIV, 109-110. Il Furioso nasce nel momento in cui il binomio armi e amori si organizza non più nelle forme dell'elegia, ma torna nell'alveo della «bella istoria» in ottave di Boiardo, il quale aveva rifondato il "libro di battaglià: facen­ done, da genere popolare, un genere eletto di intrattenimento cortigiano a sfondo encomiastico, ossia una forma d'arte degna di stare alla pari con le altre manifestazioni del potere estense (la Missa Hercules di Desprez o gli affreschi di Schifanoia). In effetti «dal punto di vista della inventio, del "trovare" la forma del romanzo, il Furioso non inventò pressoché nulla» (Bruscagli, I996a, p. 683), il che è vero non solo in relazione ai materiali narrativi, come intese Rajna, ma anche in relazione alle forme del raccon­ to. Fu Boiardo, e non Ariosto, a formalizzare gli ingredienti di quello che Bruscagli ha proposto di chiamare il «romanzo all'italiana» (ivi, p. 68s). Da una parte, sul piano della materia, la combinazione di cast carolingio e ambientazioni (perlopiù) bretoni, in grado di produrre una moltitudine di «amori, cavallerie, venture e incanti» sullo sfondo degli scontri epici tra cristiani e pagani. Dall'altra, sul piano della struttura, l'entrelacement e la finzione d'oralità: ossia la gestione simultanea di una pluralità d'azioni e l'istituzione di una voce narrante, a dominante Iudica, che produce non un racconto mimetico quale si cercherà di realizzare dopo la riscoperta degli ideali aristotelici, ma il farsi del racconto al cospetto di un pubblico di corte, immaginario o reale che fosse. Certo, le novità che Ariosto introduce sul genere boiardesco sono cla­ morose. L'entrelacement nel Furioso non è più funzionale a un organismo in perpetua espansione, come accadeva nell'lnamoramento (qui le princi­ pali fasi di accrescimento erano addirittura scandite dalla divisione in libri). Al contrario, la struttura diegetica ariostesca, non più suddivisa in libri, mira a una composizione armonica e selettiva della moltitudine d'azione: la materia prima si espande, sì, potenzialmente all'infinito, attorno ai tre filoni preannunciati nel proemio (la guerra tra Carlo e Agramante, la follia e il rinsavimento di Orlando, il matrimonio di Ruggiero e Bradamante). Ma poi, grazie a una serie di fattori tra loro complementari - l'uscita di scena delle tre belle (Angelica, Isabella e Doralice); la morte di un gran numero di personaggi di spicco (Zerbino, Isabella, Mandricardo, Atlante e poi, ormai alla fine, Brandimarte, Agramante, Gradasso e Rodomonte); la riduzione del ruolo maschile di "cercatrice-amante" di Bradamante e la sua

103

FRANCESCO FERRETTI

nuova conformazione elegiaca ecc. -nella seconda metà del poema, dalla follia di Orlando in poi, attorno a quei tre filoni il poema finisce invece per chiudersi. L'entrelacement ariostesco, in altre parole, è teleologico, in quan­ to viene messo al servizio di un'illusionistica chiusura (Praloran, 2009, p. 3), anche se tale chiusura non può annullare le molte trame lasciate irriso! te, le quali «sfuggono alla soluzione verticalizzante» (Sangirardi, 2006, pp. 176-7; cui si aggiungano le ulteriori cautele espresse da Confalonieri, 2013). D'altro canto, la finzione di oralità del Furioso è molto più ambigua di quella dell'lnamoramento (Bruscagli, 2003a): il narratore da una parte offre a lppolito un' «opera di inchiostro» chio»

( I 4,

( I 3, 6), dall'altra lo invita a dare «orec­

6) e soprattutto non lascia capire se il frequentissimo vocativo

tronco «Signor» (seguito dalla n persona plurale) sia rivolto al solo lppo­ lito oppure a un pubblico di «signori e cavalieri» dato per presupposto, ma non convocato espressamente come in Baiardo. La voce Iudica di Baiardo, inoltre, è sì ripresa da Ariosto, ma per far spazio alla maschera autobiogra­ fica del personaggio-narratore, al quale è attribuita una voce nuova, perlo­ più, anche se non esclusivamente, ironica: il narratore ariostesco, nascosto dietro a questa nuova maschera, non invita più il pubblico a identificarsi nelle avventure narrate, ma, al contrario, con un effetto di distanziamento, le propone come sintomo inquietante e inevitabile di una follia universale, tale da accomunare -in una nuova dimensione esistenziale sconosciuta a Baiardo -personaggi, autore e lettori (Forni, 2012; Sangirardi, 2014; ]ossa,

Ironia). Si tratta di innovazioni sostanziali e tuttavia esse furono possibili perché Ariosto, anziché proseguire sulla via sperimentale dell' Obizzeide, si appropriò in modo innovativo delle forme narrative messe a punto dal genio di Baiardo.

2.

Dopo aver abbozzato una definizione del genere al singolare, proviamo a volgerla al plurale, soffermandoci su un carattere del libro «de arme e de amore» che Ariosto desume da Baiardo, reinventandolo: la fusione di una moltitudine di generi all'interno del romanzo o, detto altrimenti, l'attitu­ dine del narratore ad amalgamare generi diversi dal romanzo all'interno del genere cavalleresco. Nel momento in cui abbracciamo una prospettiva di questo tipo, si de­ ve evitare di cadere nell'idea che «la codificazione e la critica dei generi siano sempre esistite, e che il tentativo italiano del Cinquecento di definire

104

GENERI

e analizzare i diversi generi non sia altro che la continuazione di una tradi­ zione e non il nuovo sviluppo che fu in realtà» (Javitch,

1998, p. 178).

La

teoria dei generi in effetti si sviluppa solo dopo la pubblicazione di C, in concomitanza con la progressiva riscoperta della Poetica. In particolare, la riflessione sull'epica di tipo classico, dalla quale nasceranno le due Liberate (di Trissino e Tasso), si origina anche in virtù di una ricezione del poema ariostesco tutta sbilanciata sulle molteplici allusioni all'epica greco-latina ivi presenti. Tuttavia, anche se la codificazione dei generi si sviluppa da­ gli anni Quaranta del Cinquecento, nei decenni in cui scrissero Boiardo e Ariosto si aveva comunque una coscienza empirica delle diverse forme poetiche. Anche in assenza di una teoria dei generi, in altre parole, i poeti e i loro lettori erano comunque in grado di apprezzare la prassi e dovevano già intuire che ogni genere istituisce una determinata prospettiva ideologica e morale sul mondo, un punto di vista sulle cose che è specifico di quella forma e di nessun'altra (Conte,

)

2012 .

«I rispettivi generi di poesia erano normalmente identificati con gli antichi autori considerati maestri in quel genere. Nominare l'autore ricono­ sciuto maestro nel genere (di solito latino) serviva come referenza metani­ mica alle norme di quel genere: Virgilio per l'epica, Terenzio per la comme­ dia o Orazio per la satira» (Javitch, 1998, p. 179) . Se ai tempi dell'ideazione e della composizione del Furioso, per Ariosto e il suo ipotetico lettore ideale, la nozione di genere poggia sull' imitatio e la contaminatio di modelli con­ siderati canonici, il problema di cui ci stiamo occupando interseca quello dell' intertestualità.ln certi casi, infatti, l'allusività del Furioso nei confronti di altre forme poetiche si può riconoscere grazie a determinate strutture narrative o anche solo in virtù di elementi tematici particolarmente pro­ nunciati: è il caso delle allusioni alla novella nei racconti di secondo grado; o delle allusioni alla commedia che passano attraverso travestimenti, scam­ bi di persona, abbondanza di discorsi diretti, enfatizzazione di elementi scenici e di punti di vista interni. In molti altri casi, però, l'allusività nei confronti di generi diversi dal romanzo può essere riconosciuta dal lettore grazie alla pura e semplice intertestualità, ossia grazie ad allusioni che non si limitano a replicare un'espressione esemplare, ma fanno anche riferimento al codice, alla forma e alla visione del mondo che sono propri del modello evocato (cfr. la distinzione tra Modello-Esemplare e Modello-Codice in Conte,

1981).

Ora, se è Boiardo l'inventore del genere rinnovato da Ariosto, per comprendere la fusione di generi interna al Furioso sarà bene cominciare dall'Inamoramento. La fusione di generi all'interno del romanzo si collega

IOS

FRANCESCO FERRETTI

strettamente all'entrelacement, che è, come abbiamo già ricordato, una ca­ ratteristica fondamentale della forma-romanzo boiardesca. È questo tipo di struttura, infatti, che rende possibile inglobare in una stessa narrazione una varietà di azioni tale da intersecare generi diversi dal romanzo e mescolarli all'interno del romanzo stesso. Anche in questo caso le parole di chi non crede a questo tipo di struttura, Tasso, spiegano bene per contrasto quanto la logica del romanzo boiardesco fatta propria da Ariosto sia irriducibile al modello epico. Parlando della moltitudine d'azione propria di

mento e Furioso,

lnamora­

Tasso argomenta in termini aristotelici le caratteristiche

dei due romanzi. Oltre a essere basato sulla moltitudine di fìni e dunque indeterminato e potenzialmente inesauribile, il racconto a intreccio si pre­ senta ai suoi occhi come una congerie di poemi eterogenei; «non un po­ ema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta»; i molti poemi in uno «e distinti di natura» addirittura renderebbero il testo simile al corpo

(Ijxxv, s8-6o ), il quale subisce le metamorfosi da uomo a serpe (Tasso, 1964, p. 24). del ladro dantesco

Quello che in una prospettiva epica è un difetto in una prospettiva ro­ manzesca è un pregio. Nella moltitudine di poemi che entrano nel perime­ tro di un racconto entrelacé, al narratore è possibile moltiplicare e alternare liberamente diversi tipi d'azione e dunque produrre e tenere insieme, se l'arte lo consente, una grandissima varietà di temi, che sono svolti alluden­ do a generi di volta in volta diversi. Non a caso Baiardo si vanta della natura del proprio racconto, usando la metafora del poema-verziere, riferendosi a un testo nel quale, come in un orto aristocratico, sono raccolte e coltivate diverse specie di fiori

(In.

III

v

1-2).

La metafora del poema-verziere si ri­

ferisce in modo esplicito alla «mistura» di temi diversi. Non a torto però Villoresi ha proposto di usare tale immagine per interpretare la capacità di Baiardo di inglobare all'interno del racconto a intreccio non solo una moltitudine di temi, ma anche di elementi narrativi e registri che sono pro­ pri di generi diversi dal romanzo e che vengono mimetizzati e riadattati all'interno del romanzo stesso (Villoresi,

2oo6).

Una delle caratteristiche

che Baiardo lascia in eredità ad Ariosto infatti è la struttura aperta, inclu­ siva e polivalente del romanzo a intreccio, tale da ospitare elementi ricavati da altri generi, il che esalta la vocazione del romanzo ad assimilare a sé tali generi, in modo da garantire una continuità romanzesca tra le diverse anime del poema. Detto altrimenti, il romanzo altera e trasforma generi diversi da sé e i generi inglobati a loro volta, nel momento in cui perdono autonomia, vengono ad assumere un nuovo volto, di tipo romanzesco. Quella di introdurre caratteristiche di generi diversi all'interno del ge-

ro6

GENERI

nere romanzo - o, in termini tassiani, di realizzare più poemi in un solo poema- è un'arte raffinata e difficile. Se Pulci non sembra affatto interes­ sato a praticarla e non si fa scrupolo di saldare brutalmente le due anime del Morgante, chi viene dopo Boiardo (escluso Ariosto) farà molta fatica a replicare l'exploit dell' Inamoramento.

È il caso di Agostini,

il quale nel­

le sue continuazioni a Boiardo «subisce più del dovuto il fascino di quei generi di maggior pregio che il conte di Scandiano aveva saputo così bene armonizzare nell'Inamoramento

de Orlando, cosicché nelle giunte la strut­

tura cavalleresca stenta a contenere i copiosi inserti pastorali e mitologici, le

quetes didascaliche a fini edificanti integrate a forza nella pratica quotidiana dei paladini» ( Villoresi, 2000, p. 174) . Ma è il caso anche del ben più dotato Cieco da Ferrara: nel Mambria­ no infatti è sensibile l'ambizione ad allestire intersezioni di genere, dando luogo però a un testo eterogeneo e poco amalgamato, ossia a un tipo di varietà che non si risolve in quel corpo omogeneamente romanzesco che è l'Inamoramento. Le sette novelle del frammesse come

Mambriano, ad esempio, sono in­ exempla incastonati nella cornice di primo grado e la loro

mimetizzazione all'interno della struttura romanzesca è alquanto tenue, per via di un salto di genere verso i fabliaux e i racconti popolari ( Sangi­ rardi, 2010, p. 120 ) . Boiardo, invece, come a livello intertestuale fa un uso oltremodo ampio della parola altrui, ma la ingloba e quasi la nasconde, in modo tale che è difficile capire se egli alluda classicisticamente oppure no

(cfr. le diverse prospettive di Bruscagli, 1983, pp. 52-4, e Zampese, 1994, pp. 263-9, tutt'uno con la persuasiva replica di Bruscagli, 2003b, pp. 23-4, nota 28 ) , così a livello diegetico fa un ampio ricorso a generi diversi dal romanzo, ma sistematicamente li assimila alla struttura romanzesca, per così dire ma­ scherandoli (e anche da questo punto di vista è arduo stabilire se egli alluda ad altri generi o semplicemente li inglobi ) . Nel momento in cui il romanzo boiardesco mimetizza i generi altri che ospita, segnala anche, come abbiamo visto, la discontinuità tra le diverse anime del romanzo e il poema si presenta davvero come un orto nel quale il lettore è chiamato ad apprezzare la varietà di fiori, ossia di generi e registri che vi sono coltivati. Se del Mambriano per ben due volte ( nel 1888, a cura di G. Rua, e nel 1917, a cura di N. Schileo ) si sono pubblicati i racconti di secondo grado come un libro di novelle, nessuno potrebbe legittimamente pubblicare come

corpus

a sé stante le novelle, le elegie o le liriche dell' 1-

namoramento e men che mai le analoghe sezioni del Furioso.

Al limite, si

possono isolare, com'è tipico della ricezione musicale del poema, le ottave di lamento o si possono segnalare nel paratesto i passi che compongono le

107

FRANCESCO FERRETTI novelle del poema, come fa Dolce nell'edizione Pasini e Bindoni del Furioso (Venezia,

IS3s), al termine della quale è collocata una

Tavola delle Historie

e Novelle contenute in tutta l'Opera per ordine di alphabeto. Per rendercene conto, prendiamo l'elegia e la lirica amorosa, due ge­ neri che possono essere facilmente assimilati nei discorsi diretti, specie nei lamenti. Quello di Orlando fulminato dalla passione per Angelica nell' lna­

moramento è eloquente: «lo non mi posso dal cor dipartire l la dolce vista de il viso sereno, l perché io mi sento sancia lei morire l e il spirto a poco a poco venir meno» (In.

I I

3I, I-4). A conferma del fatto che l' intersezione

di genere passa anche attraverso l' intertestualità, si noti che Baiardo rie­ cheggia l' incipit di Cino La dolce vista e 'l bel guardo soave già considerato esemplare da Petrarca (Rvf70, 40) e trasposto da Boccaccio in ottava rima

(Filostr . v 62-6s). La stessa funzione si può attribuire alla memoria petrar­ chesca complementare: «Così lo spirto d'or in or vèn meno» (RvfI84,

9) .

In entrambi i casi il riferimento è doppio: al modello e al genere lirico.

Il lamento nel suo complesso - il cui esordio, «"Ahi pacio Orlando!" nel suo cor dicìa»

(I I 30), fu preso alla lettera da Ariosto- quasi non contiene

riferimenti al mondo esterno al cuore del paladino e ha una sua parziale, ap­ parente autonomia. Basta osservare il contesto, tuttavia, per rendersi conto che la pausa lirica è calcolata e inframmessa nel racconto in modo tale da non creare fratture, anzi per essere subito accostata, in tonalità opposta, all' icastica descrizione delle smanie amorose dei più rudi rivali di Orlando. Ferraguto in particolare «grattasi il capo e non ritrova loco». Il narratore, drammaticamente, ci fa vedere due esiti opposti del coup defoudre: quello verboso, che sbanda verso la lirica ma è inglobato al romanzo, e quello prag­ matico, che suona invece rudemente romanzesco. Altro genere al quale Baiardo allude con una certa frequenza è la novel­ la. Si prenda, per comodità, la più nota, quella di Iroldo e Prasildo (In.

I XII

3-89; XVII 2-I6). A chiamarla «novella», denunciando lo slittamento verso un genere diverso dal romanzo, è la narratrice interna Fiordiligi, la quale la propone a Rinaldo come antidoto alla noia del cammino, come il cavaliere boccacciano alle prese con madonna Oretta (Dee.

VI

I). L'eventuale effetto

di discontinuità è neutralizzato dal fatto che la narratrice di secondo grado abbraccia l'etica cortese e neobretone del narratore di primo grado; nonché dal fatto che il racconto di Fioridiligi poco dopo è inglobato nella struttu­ ra entrelacée di primo grado, quando Rinaldo soccorre i personaggi della novella che ha ascoltato. In questo modo, al contrario di quanto accade nel

Mambriano, dove le novelle sono bruscamente trapiantate come un genere di diversa natura, Baiardo «mimetizza» la novella nel romanzo e traveste

108

GENERI

il genere in senso romanzesco, in modo tale che il genere romanzo sia mo­ dificato dal genere novella, e viceversa (Sangirardi, 2010, p. 119). Si noti inoltre che la novella romanzesca di Fiordiligi, esattamente co­ me il racconto del narratore, si apre a sua volta a memorie che alludono ad altri generi. Si veda la disperazione di Prasildo, il quale si appresta a suici­ darsi con la spada, nel timore di non poter realizzare l'amore per T isbina. Prasildo è detto «palido assai per la morte vicina», con una coloritura epi­ cizzante tolta alla Didone di Virgilio, prossima a trafìggersi con la spada: «pallida morte futura» (Aen.

IV

644). Gli esempi potrebbero continuare,

ma basti aver chiarito che le intersezioni che affiorano in forma non spo­ radica nell' Inamoramento danno luogo a un insieme omogeneo, ossia non intaccano la struttura e il tono complessivo del romanzo. L'epos classico, quando è evocato- cfr. l' aristia di Agricane ad Albracà (I XI 24-33) model­ lata su quella virgiliana di Turno al campo dei troiani (Aen.

IX

459-818) -,

funziona come nota grave aggiunta all'epos carolingio, senza fare corpo a sé. Similmente le memorie petrarchesche suonano come note acute tali da infondere un timbro moderno agli amori di Bretagna, senza compromette­ re la complessiva orditura romanzesca. Quali modelli possiamo addurre per spiegare la fusione di generi pro­ posta da Baiardo? Sappiamo che nel romanzo bretone non mancano i racconti nel racconto, mentre i lamenti in discorso diretto sono presenti nei romans e nelle chansons de geste. Tuttavia, come suggerisce Villoresi, le allusioni di Baiardo ad altri generi (non solo i generi ricordati, ma anche la commedia e la tragedia, spesso associate alla novella) si spiegano meglio alla luce degli ideali umanistici di docta varietas fondati su modelli cari a Bo­ iarda: da una parte Apuleio, nel cui romanzo è mescolato un gran numero di novelle e vengono di continuo alternati i registri, come proclama espres­ samente il narratore, strizzando l'occhio al lettore («a socco ad coturnum ascendere», Met.

x

2); dali' altra il Decameron, che, pur essendo un libro di

novelle e non un romanzo, s' imponeva come un repertorio di temi e forme narrative fusi all'interno di una struttura omogenea in stile medio (Villa­ resi, 2000, p. 87 ). Quel che è certo però è che le intersezioni del romanzo con altri generi non sarebbero possibili senza quella struttura romanzesca, e nient'affatto classica, che è l'entrelacement, vettore fondamentale non solo della moltitudine d'azione, ma anche della moltitudine di generi interni al romanzo. Ariosto, da imitatore, nonché geniale reinventore delle strutture boiar­ desche, si confronta con questo esito dell'entrelacement, introducendovi un gusto nuovo. Da una parte, anziché nasconderli, allude a generi diversi

109

FRANCESCO FERRETTI

dal romanzo, facendo in modo che il lettore si renda conto del salto da un genere all'altro: le allusioni ai generi diversi dal romanzo nel Furioso, infatti, sono sistematiche e protratte e soprattutto si allontanano dal baricentro cavalleresco in modo esplicito, molto più sensibile per il lettore rispetto a quanto aveva fatto Baiardo. D'altra parte, però, Ariosto è attentissimo a evitare che l' intersezione del romanzo con altri generi produca dissonanti effetti di discontinuità, anche se l' intersezione di genere è molto più sensi­ bile per il lettore: il romanzo, modificato dai generi che ospita, li modifica a sua volta, assimilandoli a sé ( Sangirardi, 2009, pp. 53-4). I «molti poemi in uno» di cui parla Tasso, lamentando la moltitudine d'azione, nel caso di Baiardo producono una «mistura»; nel caso di Ariosto invece hanno come esito un poema solo, multiforme e variegatissimo al suo interno. Si tratta, insomma, di una diversa concezione della varietà romanzesca: se Baiardo esibisce compiaciuto la varietà vegetale che rende eterogeneo il poema-verziere, Ariosto predilige la continuità tra elementi diversi, come si vede negli autoritratti metapoetici -quelli del poeta-tessitore ( n 30; XIII 81 ) , del poeta-musico (viii 29) e del poeta cuoco (xiii So) -nei quali Ario­ sto insiste sul fatto che la «molteplicità dei filoni narrativi è governata da una salda esigenza di "orditura'', di unità complessiva» ( Bigi, 2012, n 30, nota 3). Ariosto non si limita a inglobare generi diversi dal romanzo, assimilan­ doli al romanzo, come aveva fatto Baiardo ostentando la natura polimate­ rica del testo, ma ospita all'interno del romanzo anche il diverso punto di vista sulla realtà che è proprio dei generi diversi dal romanzo. Così facendo, Ariosto stimola ad arte la coscienza metanarrativa del lettore, alludendo di continuo a generi diversi dal romanzo. Dell'Inamoramento forse non si potrebbe dire che vuole essere anche un'antologia romanzesca dei gene­ ri. Del Furioso invece sì: sul corpo del libro «de arme e de amori» enco­ miastico si affacciano e si mescolano il nobile epos di origine classica, ma anche il cantare cavalleresco; la novella, nelle sue multiformi tonalità; il dialogo e l' exemplum, eventualmente accompagnato da allegorie e perso­ nificazioni; la lirica e l'elegia; i generi teatrali, la tragedia e la commedia; la satira; l'ekphrasis; il genere bucolico; la visione dell'aldilà di tipo dantesco; l'orazione giudiziaria; l'orazione funebre ecc. Occorre ribadire però che nessuno di questi generi si offre puro: ogni intersezione infatti arricchisce e modifica il romanzo, ma è a sua volta il genere romanzo che detta legge e modifica, assimilando a sé dentro un unico poema, tutti i generi altri che vengono ospitati. La novità di un'operazione così innovativa e sistematica fu percepita dai 110

GENERI

primi lettori? Presumibilmente sì. Ci sono almeno due testimoni, il primo dei quali dubbio, il secondo invece eloquente (Forni,

20I2,

pp.

So-I).

En­

trambi sono già sensibili alla componente epica dell' ispirazione ariostesca, ma non solo a quella. Il primo è il passo cassato di una redazione arcaica del

Cortegiano (III 52), dove

Castiglione, alludendo alla satira che Orazio de­

dica alla follia umana («Quorsum pertinuit stipare Platona Menandro»,

Sat. II III 10 ), loda messer «Lodovico Ariosto, che in un solo ci dà Omero e Menandro» (Castiglione, I947• p. 37S, nota I4; cfr. Forni, 20I2, p. S I ); ossia non il solo epos, ma epos e commedia mescolati assieme. Forse in questo caso è più economico pensare che Omero e Menandro rinviino rispettiva­ mente all'Ariosto autore del Furioso e a quello autore di commedie nuove in volgare (Sangirardi, 2006, p. stimonianza. Si tratta

S3). lnequivocabile invece è la seconda te­ dell'Apologia del Furioso, dove Dolce prima insiste

sull'epicità del poema, spingendosi a configurare la sua forma chiusa come un'imitazione dell'Eneide («alla forma

dell'Eneida

[Ariosto] ha voluto

raddrizzar il corpo del suo libro»). Ma poi aggiunge: «tutto quel che dà per sé il Comico, quello che il Tragico, quello che lo scrittore di Satyre a nostro utile et esempio può dimostrarci, egli ha raccolto e con piacevole leggiadria abbracciato nel libro» (Dolce, IS3S· pp.

IIsr-n6r).

Il gusto che sovrintende alla reinvenzione, da parte di Ariosto, della boiardesca mistura di generi può essere definito come un classicismo esi­ stenziale. Si può parlare di classicismo (il che non sembra lecito forse per Boiardo), perché quelle di Ariosto ad altri generi sono allusioni e perché tali allusioni, che creano una potenziale frattura, sono armonizzate in modo tale da produrre un corpo unico, omogeneo e compatto. Anche se lavora su un genere intrinsecamente non classico come il romanzo, Ariosto in­ somma mette a frutto le indicazioni provenienti da Orazio e Ovidio circa l'opportunità di temperare la varietà di generi all' interno di un'opera, senza mettere in crisi l'unità stilistica. Il primo, in un brano famoso dell' Ars, ave­ va postulato l'opportunità di contaminare i generi ad arte senza trasgredire il canone della convenientia: «interdum tamen et vocem comoedia tollit l iratusque Chremes tumido delitigat ore»

(Ars 93-94);

mentre il secondo

con le Metamorfosi aveva realizzato una sorta di repertorio di tutti o quasi i generi noti all'epoca augustea, nessuno dei quali tuttavia si presenta puro e discreto e ciascuno è inglobato e variato all'interno della struttura multi­ pla e metamorfica dell'epos mitologico, la quale ne altera le caratteristiche precipue. Quello di Ariosto però è un classicismo nient'affatto idealizzante, fi­ nalizzato com'è alla rappresentazione della condizione umana, con una

III

FRANCESCO FERRETTI

vocazione di tipo morale-esistenziale (e in questo senso è giusto insistere sulla sua distanza dali'umanesimo rarefatto dell'Arcadia e degli Asolani, cfr. Sangirardi, 2006, p. 89 ) . Nel momento in cui "romanzizzà' tutti o quasi i generi noti al suo tempo, Ariosto fruisce il romanzo come un genere antiau­ toritario e relativista, nel quale il narratore può esprimere una moltitudine di punti di vista sulla realtà, nessuno dei quali tuttavia è più autorevole degli altri. Un lettore odierno sarà incline a leggere l'atteggiamento di Ariosto nei confronti dei generi altri alla luce della teoria del romanzo di Bachtin, se­ condo la quale, com'è noto, il romanzo sarebbe il genere pluridiscorsivo che abolisce grazie al riso la distanza storica tra passato e presente, dando luogo a una polifonia tra diverse voci in contrasto tra loro (Bachtin, I979 ) : «il romanzo parodia gli altri generi ( proprio in quanto generi ) , smaschera la convenzionalità delle loro forme e del loro linguaggio, soppianta alcuni ge­ neri e ne introduce altri nella propria struttura, reinterpretandoli e riquali­ fìcandoli» (Bachtin, I938-4I, p. 447 ) . Ora, è vero che il Furioso si conforma alla teoria del romanzo proposta da Bachtin molto più dell'Inamoramento e che l'ironia del narratore ariostesco, fìn dall'inizio, abolisce la distanza tra il presente dell'autore e dei lettori e il passato favoloso dell'era carolingia: si veda l'assimilazione di Ludovico-narratore a Orlando-personaggio riba­ dita nei momenti salienti della vicenda del paladino XXIV

3;

XXX,

3-4;

XXXV

(I 2;

IX

2;

XXIII

112;

I-2 ) .

È vero, insomma, che Ariosto propone il romanzo come un genere in grado di togliere assolutezza agli altri generi (in primis a quelli più auto­ revoli: l'epos carolingio, l'epos classico, ma anche la lirica petrarchesca e petrarchista ) , alla luce di un'etica antiautoritaria. In questo senso parlare di parodia, in quanto desublimazione dei modelli, sembra legittimo. Tuttavia interpretare il problema di cui ci stiamo occupando facendo riferimento al modello di Bachtin rischia di farci perdere di vista la natura classicista deli' i­ spirazione ariostesca (Sangirardi, 2009, p. 49, il quale corregge la prospet­ tiva di Bigazzi, I994 ) . Fin dal proemio infatti quella allestita dal narratore del Furioso non si presenta come una polifonia di voci, ma come una mo­ nodia che controlla e tiene insieme virtuosisticamente al proprio interno una moltitudine di temi: «le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, /le cor­ tesie, l'audaci imprese io canto»

(I I, I-2 ) .

Fin dall'inizio con dissimulato

orgoglio il narratore preannuncia non tanto un racconto pluridiscorsivo e polifonico, quanto un'arte in grado di tenere sotto controllo una straordi­ naria varietà di temi (e di intersezioni di genere ) , garantendo quella conti­ nuità, quell'omogeneità e, se vogliamo, anche quell'armonia che Baiardo

II2.

GENERI

non aveva ricercato, ostentando semmai l'eterogeneità del poema-verziere. Fin dall'inizio insomma non è previsto un dialogo tra diverse voci interne al testo, tale da produrre un libro eterogeneo. Abbiamo invece una sola voce che ospita al suo interno una varietà ben temperata; e che dall'inizio alla fine amalgama, media e filtra, rimanendo sempre alla ribalta, tutto ciò che sarà narrato (compresa una varietà di opinioni in contrasto tra loro). Il romanzo di Ariosto, in altre parole, non si propone come parodia degli altri generi, bensì come imitazione agonistica, perlopiù (anche se non esclusivamente) ironica. Laddove Bachtin intende il romanzo come un genere di radice comico-carnevalesca e interpreta forzosamente il Furioso come «epos parodico»

(1979, p. 229 ), nel caso di Ariosto la parodia di ge­

neri altri e la polifonia rispondono a un'estetica rinascimentale fondata sui canoni dell' aemulatio e dell' imitatio orientati da una morale disincantata e da un'estetica Iudica (non a caso per il petrarchismo del Furioso si è parlato di una complementarità di funzioni: omaggio e parodia, Cabani,

1990 ).

Alla luce di una concezione classicista del rapporto coi modelli, infatti, lo strumento privilegiato di autolegittimazione di un testo è l'imitazione competitiva che esso intrattiene nei confronti di altri testi considerati au­ torevoli. Questa diversa prospettiva spiega altresì (come vedremo tra poco) perché le intersezioni epiche presenti ali' interno del Furioso, anche quando si accompagnano a tocchi ironici, non si possano interpretare come parodia carnevalesca, bensì come imitazioni epiche di tipo romanzesco (all'interno delle quali la parodia può anche essere presente, sebbene sia difficile circo­ scriverla; quel che è certo è che non costituisce il fine primario dell'autore). Ma è venuto il momento di suffragare quanto detto con l'analisi di alcuni esempi.



Va osservato anzitutto che, quando Ariosto ingloba nel romanzo un altro genere, difficilmente si limita ad alludere a uno solo: ci può essere un genere evocato più insistentemente di altri, ma di rado un' intersezione di genere non si carica di allusioni ad altri generi, dando luogo a una sorta di grappo­ lo intergenerico, affine a quello che si riscontra sul piano intertestuale. La nostra analisi si dovrà dunque accontentare di isolare alcuni momenti nei quali l'allusione a un genere risulta prevalente. Cominciamo da una delle prime e più evidenti intersezioni col genere lirico. Quando Sacripante intona il lamento «Pensier- dicea- che 'l cor

113

FRANCESCO FERRETTI

m'aggiacci et ardi»

( I 4I , I ) , dando voce al tema dell'infelicità amorosa, è

evidente che il saraceno consente al narratore di alludere non solo al Petrar­ ca di «e ardo, e son un ghiaccio»

(Rvji34, 2 ) , ma anche, attraverso l'imita­

zione di Petrarca, alla lirica amorosa in quanto tale. Secondo un rapporto di convenientia locale, poiché Sacripante è innamorato, Ariosto introduce nel romanzo, attraverso Petrarca, la voce dell'innamorato infelice propria del genere lirico. In apparenza il discorso diretto assume una certa autonomia e non è un caso che questo, come molti lamenti del Furioso, abbia avuto fortuna a sé nella storia della musica, estrapolato dal contesto e trasposto in madrigale. Tuttavia l'effetto di discontinuità provocato dal discorso diretto liricheggiante, che interrompe il ritmo frenetico del canto, è neutralizzato dal fatto che il lamento è costellato d'informazioni che necessitano spiega­ zione e creano attesa nel lettore circa l'identità del personaggio. Tale attesa, non appena il lamento si conclude, produce sorpresa ( il personaggio si rivela Sacripante ) e subito dopo anche suspense: al lettore infatti è rivelato qual­ cosa che Angelica non sa, ossia che il personaggio intende violare la donna che si è messa incautamente nelle sue mani. Ma, proprio come il lettore, anche Angelica ( sia detto a discolpa della sua apparente ingenuità ) era stata tratta in inganno dal genere lirico che le era parso di cogliere sulla bocca dello spasimante. Trasformando il petrarchismo di Sacripante in una delle tonalità che compongono la monodia variegata del romanzo, Ariosto ottiene effetti nuovi, impossibili da realizzare all'interno del genere lirico e mai proposti da Baiardo nel romanzo con una simile oltranza metapoetica, come si de­ sume anche dal seguito dell'episodio appena evocato. La nota lirica, dopo essere stata resa ben riconoscibile, è neutralizzata e sconvolta dal soliloquio, rivelato al lettore ma non ad Angelica, nel quale Sacripante nega lo statuto di amante cortese che il suo lirismo lasciava sperare: e così il pronunciato ed esibito motivo della rosa simbolo di verginità alla rosa»,

I

( «la verginella è

simile

42, I ) , desunto non più da Petrarca ma da Catullo e Poliziano

contaminati tra loro, trova il suo controcanto ironico in quello che potrem­ mo chiamare il peana del satiro ( «corrò la fresca e matutina rosa»,

I

s8, I ) .

Al contrario di Baiardo, insomma, Ariosto non mimetizza l'allusione, ma la esibisce in modo tale che l'intersezione di genere venga ad assumere una nuova funzione morale. Il lettore della scena appena ricordata, infatti, dopo aver apprezzato la frizione tra codice lirico e codice romanzesco, è indotto a chiedersi quanti siano, nel mondo reale e non solo nella «bella istoria » che sta ascoltando, coloro che dietro una maschera menzognera celano istinti prevaricatori; e, quando procederà nella lettura, sarà costretto

114

GENERI

a confrontare per contrasto la castità di Orlando nei riguardi di Isabella, allorché questa si troverà nelle stessa identica condizione di Angelica tra le mani di Sacripante. L'istanza morale-esistenziale correlata alla fusione di generi altri nel corpo del romanzo si esplica altresì nel ricorso a due generi evocati sia nei proemi, sia, in modo più dissimulato, nei giudizi o nei dubbi che filtrano tra le pieghe della narrazione. In primo luogo, come ci ha già avvertito Dolce, spiccano le allusioni alla satira (non quella acre di Giovenale, bensì quella autoironica di Orazio ) . La satira oraziana-in quanto genere autobiogra­ fico caratterizzato da quel «misto elegantemente ironico di empatia e di­ stanza rispetto alle passioni umane», che solo in parte le Satire ariostesche, pervase come sono da una dolente vena elegiaca, sono in grado di replicare

( Sangirardi, 2006,

p.

212) -viene emulata in molti dei momenti in cui il

narratore esibisce la propria maschera autobiografica, andando in cerca di una morale che lo protegga dalla follia universale. Il narratore boiardesco, com'è noto, non è conformato in senso autobiografico. Si pensi invece all'auspicio che il narratore ariostesco formula nel proemio, ossia che la donna amata non lo faccia impazzire come succede a Orlando per colpa di Angelica. Ariosto replica qui il topos elegiaco già proposto nell' Obizzeide, ma lo volge in forma ironica, evocando l' innominata Alessandra non come musa, ma come potenziale nemica del poema. Grazie al parallelismo autobiografico Ludovico-Orlando-poi ribadi­ to nei momenti salienti del poema sopra ricordati-il narratore configura

ex principio la materia d'arme e d'amore come uno specchio esemplare, nel quale, senza che si faccia ricorso a una concezione allegorica della poesia, si riflettono le dinamiche della vita reale: quella del poeta e quella del lettore, senza una congrua distanza epica nei confronti dei personaggi. Coerente­ mente, il lettore sarà più volte incalzato dalla conformazione satirica della voce del narratore a confrontare le relazioni tra i personaggi a quelle che lo legano, lui lettore, ai suoi simili nella vita reale, come ad esempio nel proe­ mio del canto

IV

dedicato alla necessità di «intrare nel male», come s'era

espresso Machiavelli, e usare la menzogna a fin di bene. Altro genere assimilato al romanzo e chiamato a sostenere quell'istan­ za morale così tipica di Ariosto è il dialogo. A dire il vero la satira, nella versione che Ariosto realizza tra il

1517 e il 1524, si propone come epistola,

ossia come discorso morale indirizzato a un interlocutore remoto e dunque essa stessa si può interpretare in quanto genere dialogico. L' intersezione tra romanzo e dialogo propriamente detto, tuttavia, più ancora che nelle questioni che il narratore propone ai lettori, si riscontra nella cura con cui

us

FRANCESCO FERRETTI

mette in contrasto tra loro una moltitudine di opinioni e posizioni morali in conflitto, ora esplicitate nei proemi, ora lasciate implicite, ma riconosci­ bili, perché affidate ai personaggi o alla logica che ne muove le azioni. Si pensi al canto

XXI

dove il principio morale enunciato nel proemio a lode

della lealtà di Zerbino, «la fede unqua non debbe esser corrotta»

( xxi 2,

I), subito dopo è messo in discussione, se non proprio in crisi, dalla scon­ siderata lealtà che guida Zerbino stesso, ostinatamente fedele a Gabrina, nonostante sia al corrente della letale malizia della vecchia. Ben note, del resto, sono le consonanze tra la querelle desjèmmes, pro­ grammaticamente aperta, che accomuna

Cortegiano e Furioso. Altre que­

stioni morali che producono un lungo e contraddittorio dibattito imma­ nente al racconto, fatto di posizioni in dialogo tra loro, sono quelle sulla gelosia e sui suoi fragili rimedi (Weaver, 2003 ) , sulla gratitudine e sull'in­ gratitudine (Residori 20I4; Maldina, 20I4), sulla menzogna (Ferretti,

)

2012 ,

per limitarsi alle più urgenti e sentite. Si noti però che la moltitudine

di posizioni morali che si alternano "furiosamente" nel poema ariostesco -nessuna delle quali è più autorevole delle altre e tutte invece contribuisco­ no alla creazione di una morale relativista e antiassolutista-non compone un dialogo propriamente detto, anche se fa riferimento alla forma del dialo­ go. n dialogo, infatti, nella forma di ispirazione platonica e ciceroniana che si impone nel Rinascimento, è l'imitazione di un dialogo realmente avve­ nuto, laddove Ariosto, come abbiamo ricordato, propone una monodia che a sua volta contiene una pluralità di posizioni morali in contrasto tra loro. Anche in questo caso, per interpretare l'affinità del

Furioso

col gene­

re dialogico, le proposte di Bachtin sono illuminanti, a patto però di non fraintendere la peculiare intersezione tra dialogo e romanzo proposta da Ariosto. Bachtin, com'è noto, ha interpretato il romanzo come genere in­ trinsecamente dialogico, polifonico e plurivoco e si è spinto a inserire tra i generi-antenati del romanzo moderno il dialogo socratico, nel quale il principio di autorità è messo sistematicamente in discussione (Bachtin, I934-35; I938-4I, pp. 465-6). Ora, non c'è dubbio che il poema di Ariosto si nutra di una moltitudine di voci morali in concorrenza tra loro, alla luce di una coscienza antiassolutista e antidogmatica, in virtù della quale l'unica verità che il lettore può assumere come criterio guida è che non sia possibile fissarne una, valida sempre e definitiva (del resto uno dei maggiori lettori di Ariosto, Galileo, sarebbe stato uno dei più coerenti assertori del dialogo in età moderna e non a caso Bachtin definisce il romanzo un genere fondato sulla «coscienza linguistica galileiana», Bachtin, I934-35, pp. I74, 222 ) . La «bella istoria» di Ariosto, in effetti, al contrario di quella di Baiardo,

u6

GENERI

ha da dimostrare anzitutto che non si può insegnare nulla di stabile e che al massimo si possono dare avvertimenti che proteggano il lettore dalla follia universale con l'inquieto disincanto espresso da Astolfo nel momento in cui ammonisce Ruggiero (e insieme il lettore) sulle apparenze fallaci del re­ gno di Alcina

( vi 53). Del resto, è proprio dubitando che Astolfo coglie nel

segno: Ruggiero, infatti, saprà «riparare al danno» inopinatamente, grazie a Melissa (e, se non avesse avuto l'aiuto della maga, non avrebbe comunque subito la metamorfosi, perché Alcina era stata incantata da Atlante). Detto questo, però, dobbiamo ricordare che il Furioso, anziché sublimare in senso ludico-cortese elementi canterini (come Boiardo), si offre dall'inizio alla fine come un dialogo interno alla corte tra Ludovico e Ippolito, alle spalle dei quali si profilano i lettori-ascoltatori (noi compresi) non convocati in modo esplicito; e che la moltitudine di opinioni e di punti di vista in con­ trasto tra loro che si combatte di fronte agli occhi di chi assiste al racconto è sempre interna a una voce sola, che è quella del narratore autobiografico.

È per questa ragione che Cortegiano e Furioso, pur avendo moltissimi temi 2016); ed

in comune, li svolgono in tono completamente diverso (Cabani,

è il solo narratore ariostesco che si mette nella condizione di esprimere l'in­

quietudine derivante dall'impossibilità di fissare una morale assoluta, sia quando assume i prevalenti toni ironico-satirici di tipo oraziano, dei quali si è detto, sia quando, più di rado, azzera il distacco, alla ricerca di pathos. Altro aspetto degno di nota è la tendenza di Ariosto a combinare l'al­ lusione ad altri generi con la poetica della significa:

a)

variatio (Javitch, 2005).

Questo

che gli stessi generi sono ibridati e inglobati nel romanzo in

forme di volta in volta diverse, in modo tale da rendere ogni intersezione diversa dall'altra; b) che sia i temi, sia le strutture in cui si articola il racconto offrono il destro a intersezioni di genere (singole o multiple) programma­ ticamente imprevedibili. Per il lettore, di conseguenza, diventa impossibile sia associare uno o più generi a un tema specifico o a un elemento strutturale (il lamento di un personaggio; il racconto nel racconto; il duello; la scena di battaglia; la descrizione di bellezze femminili ecc.), sia associare a un genere un solo svolgimento. Per quanto riguarda le variazioni sullo stesso genere, pensiamo all'e­ legia. Nel canto

XXXII,

in larga misura dedicato alle pene d'amore di Bra­

damante impaziente di riavere Ruggiero e gelosa di Marfisa, Ariosto gioca soprattutto sul fatto che l'elegia latina dialoga parodicamente con l'epica, istituendo una militia amoris in competizione con la militia eroica (Ferret­ ti,

2010 ). È così che al termine della sequenza che descrive il dolore di Bra­

damante gelosa, costellata di memorie da Ovidio, Properzio e Boccaccio

117

FRANCESCO FERRETTI elegiaco (l'assenza di Petrarca è ricercata), Ariosto, come già Baiardo, al­ lude ironicamente alla morte di Didone. Anche Bradamante, infatti, come la regina cartaginese, vorrebbe suicidarsi con la spada sentendosi abbando­ nata dall'amato. Sennonché l'eroina ariostesca «salta del letto, e di rabbia infiammata l si pon la spada alla sinistra costa; l ma si ravvede poi che tutta è armata»

( xxxn

44, 2-4 ) . Subito dopo, non potendo più vestire i panni

di eroina epica eneadica che le avevano affidato Melissa e Merlino (in fun­ zione di Anchise), Bradamante ascolta il proprio «miglior spirto», la voce interiore che la induce a intraprendere una quéte elegiaca alla ricerca della rivale Marfisa, fornendoci così un perfetto esempio di elegia romanzata. Il genere elegiaco tuttavia si può affacciare nel poema in forme comple­ tamente diverse, molto più lontane dalla tradizione latina, il che accade nel­ la seconda sequenza elegiaca di Bradamante (aggiunta nel I s32), ossia nell'e­ pisodio di Leone, all'interno del quale i lamenti dell'eroina e del promesso sposo si combinano con elementi lirici (basati su Petrarca e su Lorenzo de' Medici) e con strutture drammatiche sempre in bilico tra tragico e comico, che saranno in parte riprese, privilegiando gli elementi grandiosi, nel teatro

sei-settecentesco (Metastasio in particolare scriverà un Ruggiero ) . La solu­

zione dell'impasse di Ruggiero non a caso nella seconda campata elegiaca del Furioso è di tipo teatrale, con l'intervento ex machina di Melissa che pone fine a una lunga sequenza di dilemmi espressi sotto forma di lamenti a breve distanza l'uno dali'altro, di Ruggiero e Bradamante (per una distin­ zione tra le due sezioni elegiache, cfr. Ferretti, 2008; per un regesto di tutti i lamenti del poema, ciascuno dei quali andrebbe studiato nel suo peculiare

contesto, cfr. Ferretti, 2010, pp. 34-5 ) . Vero è anche però che l' intersezione del romanzo con la commedia, in altri momenti del poema, si riconosce per l' intensificazione di «scherzi» verbali, che sono ingrediente primario del comico ariostesco (Sangirardi, 2006, p. I96 ) .

Per quanto riguarda l'altro esito della variatio (lo sfruttamento in for­ me di volta in volta difformi di temi o aree strutturali) si pensi al racconto di secondo grado, elemento al quale Ariosto concede uno spazio inaudito:

IS racconti per circa 6so ottave, circa I l8 del poema (secondo i calcoli di Sangirardi, 2006, pp. 126-9 e Sangirardi, 2010, ma cfr. anche, per una diver­

sa proposta, lzzo, 20I3, p. 118 e Racconti ) . Ci sono racconti che aprono le strutture romanzesche a intersezioni di tipo drammatico, con una tonalità sospesa tra registro tragico e comico. Tale è quello di Dalinda nel

v

can­

to (ottave s-74 ) che significativamente offre al Much ado di Shakespeare non solo la materia (insieme ad altri modelli: in primis Bandella, Novelle,

)

XXII ,

I

ma anche non poche strutture drammatiche e trovate sceniche (Mel-

u8

GENERI

chiori,

1982, pp. 221-4). Si tratta infatti di una delle sezioni del Furioso più

insolitamente ricche di artificiosi discorsi diretti, lontanissimi dal botta e risposta canterino (ed è una spia significativa, che doveva risaltare ali' in­ terno di una fruizione orale del poema ) , d'incroci teatrali tra punti di vista interni, d'intrighi, di vere e false agnizioni, il tutto avente come baricentro scenico il «verrone» di Ginevra. Ci sono però anche racconti nel racconto che alludono più esplicita­

( xxv 26-70) che interseca una moltitudine di elementi comico-novellistici e non a caso è definito «dolce istoria» ( xxv 26, 6) dal narratore di primo grado e «fabula» (xxv 27, s) dal narratore interno. Si tratta di un racconto basato mente al genere comico, come quello di Ricciardetto e Fiordispina

sulla beffa e gli equivoci prodotti dallo scambio dei gemelli, ossia sull'in­ treccio dei Menaechmi plautini e sulla loro imitazione moderna, la

dria (1513) del

Bibbiena ( Ferroni,

1982).

Ca/an­

Ma altrettanto significativi sono

gli scarti rispetto al modello comico: nel momento in cui allude al teatro comico, infatti, Ariosto lo sovverte per esibire la screziata novità dei colori romanzeschi: «la gemellarità non si collega alla perdita di unità iniziale o alla ricerca di un'agnizione tra i due gemelli» e «la sostituzione dell'uno al posto dell'altro non è data dal caso, ma dalla deliberata intenzione di Ricciardetto» ( ivi, p.

144).

Rinviando a un intreccio comico, Ariosto lo scardina ad arte, aggiun­ gendovi una trama di allusioni a generi diversi dalla commedia. Si pensi alla riscrittura di materiale di provenienza tragico-mitologica, ossia a quando Fiordispina si lamenta sul sesso che manca a Bradamante, invidiando addi­ rittura ( ammiccando a exempla mitologici ) gli accoppiamenti abominevoli di Mirra e Pasifae narrati da Ovidio e riscrivendo a sua volta il lamento di Ifi

( Ov. Met. IX 726-763), per ribaltare il modello ( Ferroni, 1982, pp. 148-so ): la fanciulla Ifi, che geme per non poter possedere l'amata lame, infatti, sarà accontentata da una metamorfosi in maschio, laddove Fiordispina potrà godere dell'amore di Bradamante, soggiacendo all'inganno di Ricciardet­ to, il quale si spaccia per Bradamante trasformata in maschio (e così, si noti

en passant, anche il lamento di Fiordispina viene ad essere completamente diverso da quelli elegiaci di Bradamante o da quello lirico di Sacripante ) . Ma la tela ariostesca ospita anche colori meno vivaci, come la cupa nota finale ( «Ma Dio sa ben con che dolor ne resto», conclude Ricciardetto, xxv

70, 8) che chiude uno dei brani più salaci e in apparenza più giocondi

del poema. Confrontare la diversa fruizione del modello plautino da parte di Boiardo e Ariosto è istruttivo, dal momento che Boiardo (In.

) integra e mimetizza alla perfezione la trama dei Captivi ( Bruscagli, 2003b, II9

n XII-XIII

FRANCESCO FERRETTI

pp. 24-5), laddove Ariosto allude in modo esplicito al genere comico, vo­ lutamente senza far riferimento al solo Plauto, anzi sovvertendo abilmente anche quest'ultimo modello. Bastano i pochi esempi ricordati per rendersi conto che ciascuno dei racconti interni al poema è costruito iuxta propria principia e dunque pare un azzardo definirli tutti, indistintamente, "le novelle del Furioso': visto che esse alludono al genere novella in misura ora maggiore, ora minore, conta­ minandosi liberamente anche con generi diversi dalla novella (così come è un azzardo considerare un genere a sé i lamenti del Furioso, le descrizioni di bellezze femminili, di città, di duelli o di castelli, perché Ariosto di vol­ ta in volta attinge a generi diversi, mescolando con cura i colori sulla tela del romanzo). Laddove Baiardo tendeva a integrare i racconti di secondo grado nella cornice romanzesca, Ariosto li usa per screziare e moltiplicare a dismisura le intersezioni di genere, dando luogo ora a colori romanzeschi ora a colori comico-realistici (Bruscagli, 2003b, p. 27). Quando si considerano i racconti di secondo grado, inoltre, sarà bene porre mente a dove essi cadono. Nei racconti del Furioso, infatti, è possibile rintracciare, nel perimetro dei 46 canti, uno «sviluppo evolutivo ben rico­ noscibile: dalle prime novelle, le più aperte sul piano del romanzo, le più incomplete, quindi le più intimamente implicate con la trama romanzesca, fino alle ultime che invece, perfettamente concluse, si incastonano negli ultimi canti con un valore, ormai, soltanto di tematizzazione esemplare dei motivi dominanti del poema» (Bruscagli, 1996b, p. 842). E così, se i pri­ mi racconti di secondo grado (quelli di Ginevra, Olimpia e Isabella) solo con un certo margine di arbitrio potranno essere definiti novelle, gli ultimi -quelli relativi a Ricciardetto e Fiordispina; ad Astolfo e Jocondo; al ca­ stellano di Mantova; al giudice Anselmo -alludono apertamente al genere novella, producendo una discontinuità armonicamente calibrata, visto che contribuiscono a definire i significati del racconto di primo grado (cfr. in proposito lzzo, 2013, p. 135). Si pensi in particolare agli ultimi due ( xLIII 9-46 e 69-143), che so­ no concepiti per essere letti uno di seguito all'altro a breve distanza, quasi per confondersi e rincalzarsi a vicenda, perché hanno entrambi la funzione strutturale di fissare la saggezza provvisoria che conclude il poema, guar­ dacaso negli spazi estensi padani, tra Mantova e Ferrara; e permettono a Rinaldo (e forse anche al lettore) di non impazzire come Orlando per il male universale della gelosia (Casadei, 1993, pp. 81-2). Le due quasi-novelle finali, in altre parole, hanno la funzione di exemplum o apologo morale (e soprattutto la seconda, introdotta come tale dal nocchiero, XLIII 70, s), 120

GENERI

rispondendo a distanza a un'altra novella romanzesca (la storia di Jocondo e Astolfo), ossia a un altro exemplum del tutto extra-vagante rispetto alla materia cavalleresca di primo grado, narrato a Rodomonte dall'oste fran­ cese

( xxviii 4-74).

Significativamente però quella novella chiamata ad

arricchire i colori del romanzo -evocata sulle rive di un altro fiume: non il Po, ma la Saòne-non era bastata a fare approdare il rozzo saraceno alla saggezza, sia pur provvisoria, in materia d'amore. Prima di concludere, sarà bene tornare al problema iniziale, il rap­ porto tra epos e romanzo, per cercare di mostrare in che senso il Furioso resti un'opera monogenerica, ossia un romanzo, anche quando allude-e lo fa con consapevolezza e straordinaria intensità -al genere epico. Le allusioni epiche disseminate nel romanzo di cavalleria proposto da Ario­ sto sono clamorose e ben riconoscibili. Anche in Boiardo, come si è già ricordato, non mancavano colori epici. Ma nel Furioso ci sono elementi che "chiamano" tali colori e li rendono funzionali. Si è già detto della gestione ariostesca dell'entrelacement, che è di per sé finalizzata a una chiusura, sia pur fragile e provvisoria. Si aggiungano altri elementi. A ma­ no a mano che il racconto procede Ariosto si allontana dall'idea cortese boiardesca secondo la quale il mondo si divide in cavalieri (cristiani o pagani) e volgo scortese, dando luogo, piuttosto, a una rappresentazione ideologica del conflitto tra pagani e cristiani (Praloran,

2009, p. s). Mol­

tissimi tra i personaggi principali del Furioso, al contrario di quanto ac­ cade nell' Inamoramento (nel quale la morte di Agricane è un'eccezione), vanno incontro alla morte, come si è già ricordato, e dunque richiedono inediti colori patetici, esemplari anche agli occhi di chi, come Tasso, li trapianterà all'interno di un epos regolare. Lo stile di Ariosto, infine, pur senza ambire agli ideali aristotelici di poesia come imitazione, si scosta da quello pseudo-canterino boiardesco per approdare a una nuova rappresentazione analitica e "pittorica" degli eventi, la quale si nutre per molti aspetti (come si evince dalla straordina­ ria abbondanza di similitudini che fu subito salutata come una novità del

Furioso da parte dei suoi primi lettori) di un gusto mimetico di ascendenza epica (Ferretti, 2016). Anche nel caso dell'epos, l' intersezione di genere pas­ sa attraverso l' imitatio di Virgilio dell'Eneide, sentito come il più canonico esponente di questo tipo di poesia. Se in Boiardo le memorie epiche virgi­ liane si direbbero nascoste e non fanno sistema, in Ariosto invece danno luogo a sezioni protratte che fanno brillare di colori romanzeschi situazioni epiche riconoscibili agli occhi dei lettori colti: si pensi alla aristia di Rodo­ monte, alla sortita notturna di Cloridano e Medoro, ai funerali di Bran-

121

FRANCESCO FERRETTI

dimarte (cfr. Javitch, I999· che autocorregge, forse troppo severamente, la prospettiva diJavitch, I98s, nel quale il trattamento disincantato di Ariosto nei confronti di Virgilio era stato ricondotto al trattamento di Virgilio che propone Ovidio in Met.

XIII-XIV). Non a caso nelle sue Postille all'Ariosto

anche Galileo, sebbene ostile alla Liberata, annoterà con acume, accanto a versi che virano verso il sublime

È

(O/XIV 78, 3-4 ) , «tassesco».

evidente del resto che anche dal punto di vista strutturale Ariosto

ha fatto sì che l'inizio e la fine del suo romanzo alludano ali' inizio e alla fine

dell'Eneide.

Nel proemio il «canto» del v. 2 combinato con «l'ar­

me», allude ad «arma[ ... ] cano»

I40 ),

(Aen. I I ) ,

mentre l'ottava finale

(xLVI

dedicata alla morte di Rodomonte per mano di Ruggiero, ricalca il

racconto della morte di Turno per mano di Enea

(Aen. XII 950-953 ) . Tali Furioso sia un

allusioni al genere epico tuttavia sono la prova di quanto il

romanzo che si colora di epica e non un'opera incerta tra epos e romanzo, come voleva Tasso. Anche queste allusioni all'epica classica, in altre parole, non incidono sull'identità di genere e sembrano introdotte per sviluppare in senso classicista il libro «de arme e de amore» di tipo boiardesco, non per soppiantarlo con un poema a metà tra epos e romanzo. Per quanto riguarda l'acuto epico conclusivo, che finalmente ritrae Ruggiero come eroe dinastico fatale, studi recenti (Sangirardi, 2009; Ja­ vitch, 20IO ) hanno insistito sul fatto che esso si colloca al termine di una sezione basata su ingredienti romanzeschi e che pertanto non è esatto par­ lare, come spesso si è fatto, di "chiusura epicà'. Sebbene il

Furioso

tenda

a chiudersi teleologicamente come un poema eroico, infatti, questo non significa che i suoi ultimi canti siano di un genere diverso dai primi. Se in AB restavano in evidenza le due novelle narrate a Rinaldo in funzione del romanzo che si stava per chiudere, in C la caratterizzazione virgiliana del duello finale è stemperata dall'episodio contiguo di Leone, il quale ri­ propone un tema inequivocabilmente romanzesco: il rapporto di rivalità e amicizia eroica tra Lancillotto e Galehaut narrato nel

Lancelot du Lac

(Delcorno Branca, 2007 ). Non meno romanzesca è l'allusione alcano virgiliano nel proemio. Nel­ la prima ottava, dopo che Ariosto supera una designazione di genere ancora legata a Baiardo («di donne e cavallier li antiqui amori», AB), siamo su­ bito immersi in un'enumerazione asindetica che è spia del genere romanzo e insieme rivela, in controluce, la pluralità d'azione: l'opposto dell'unità epica. Prima il lettore si perde, e quasi annega, in una serie di ondate ro­ manzesche, per quasi due versi («le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, l le cortesie, l'audaci imprese»); poi finalmente trova un porto nell'allusione

122

GENERI

virgiliana «io canto» che suona come nota grave epicizzante in clausola a una melodia che più romanzesca non potrebbe essere.

È ben difficile però

che il lettore riconosca nel terzo elemento dell'e­

lenco («l'arme», aggiunte solo nel

1532) un'allusione ad «arma virumque

cano» tale da promettere un poema epico tout court, anche perché, come s'è detto, quelle armi alludono insieme anche ai duelli di tipo bretone. La purezza dell'allusione virgiliana del resto è annacquata dall'allusione com­ plementare a Dante, Pg XIV, 109-110 («Le donne e i cavalier, li affanni e li agi l che ne 'nvogliava amore e cortesia»), che infonde un'atmosfera di cortesia cavalleresca. Nel contempo lo scontro epico tra mori e cristiani, tra Agramante e Carlo, è menzionato, ma è collocato in secondo piano, in posizione di sfondo, in virtù della delimitazione cronologica: «che furo al tempo che passaro i mori» ecc. Si aggiunga infine che il timbro epico del «canto» risulta ulteriormente stemperato dalla già ricordata menzione ele­ giaca della donna amata

( I 2, 4-8). Il triplice corredo di allusioni agli stessi,

identici brani di Virgilio, Dante e Properzio evocati nel proemio dell' 0-

bizzeide, come si vede, stavolta non è più al servizio di un ibrido poema epico-encomiastico, ma di un romanzo che fin dall'inizio gioca con gli altri generi, alludendovi. Evocare per contrasto il proemio della Liberata è istruttivo. Nessun lettore tassiano infatti può dubitare che «Canto l'arme pietose e 'l capita­ no» non stringa una sorta di patto col lettore, preannunciando un poema costruito secondo le regole di Virgilio; e benché a fine ottava emergano, tra gli ostacoli alla liberazione del Sepolcro, i «compagni erranti» (il cui errore morale li induce a comportarsi come eroi romanzeschi), non si tratta però di un'allusione iudica a un altro genere; semmai è la spia che denuncia l'annessione autoritaria di generi diversi dall'epos nel campo dell'epos. Se Ariosto lavora sul romanzo come Ovidio sul poema mitologico, facendo confluire in un genere inclusivo una moltitudine di generi manipolati, la

Liberata mira invece a replicare le strutture iper-gerarchiche di uno e di un solo genere (l'epos classico, d'impianto virgiliano). Anche Tasso accoglie nell'epos elementi di altri generi: si pensi alla sce­ na dello specchio, nel giardino di Armida, dove Rinaldo innamorato replica una situazione lirica che Tasso stesso, sulla scorta di Petrarca aveva proposto nelle Eteree (nn.

8-9 ) .

(Rvf45-46),

Si pensi alla combinazione di agni­

zione e peripezia, che caratterizza secondo Aristotele la tragedia perfetta: un elemento, questo, che Tasso rende centrale, in particolare, nel duello di Tancredi e Clorinda. Si pensi soprattutto a quegli «amori, cavallerie, venture ed incanti» che Tasso considera tipici del romanzo e introduce a

123

FRANCESCO FERRETTI

piene mani sia come elementi diabolici, sia come elementi provvidenziali. Tuttavia, come Ariosto "romanzizzà' tutti o quasi i generi noti, portandoli all' interno di un genere inclusivo e policentrico nel quale essi esprimono una moltitudine di punti di vista sulla realtà, così Tasso "epicizza" alcuni

( non tutti ) tra i generi contigui ali'epica, subordinando i punti di vista sulla

realtà della lirica, della tragedia e del romanzo al centro epico della guerra sacra e caricandoli di nuove inquietudini. In conclusione, non c'è da stupirsi se nella biblioteca di donChisciotte

il secondo per importanza tra gli amati «libros de caballerias» ( l'equiva­

lente dei "libri di battaglià' ) sia il Furioso, subito dopo l' Amadis. I libri che rientrano nel genere epico propriamente detto, ossia i poemi omerici, l'E­

neide, la Liberata ( sebbene nata in concorrenza con Ariosto ) , non suscitano

invece l'entusiasmo emulativo dell' hidalgo. In quella biblioteca della Man­ cia verosimilmente Ariosto non stava sullo stesso scaffale di Virgilio e Tasso.

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Inchiesta di Daniela Delcorno Branca

I.

«Tra il fin d'ottobre e il capo di novembre l[ ... ] Orlando entrò ne l'amorosa

inchiesta» (Ix 7, I e

6).

L'apparizione in scena del protagonista (debita­

mente ritardata rispetto all'inizio del testo) è segnata dalla partenza per la ricerca della donna amata, provocata da un sogno angoscioso ( viii 7I-9I ) . L'itinerario di Orlando lungo il poema è un itinerario di "inchiesta", co­ nosce imprevisti e deviazioni forzate, culmina nell'esplosione della follia, che richiede la necessaria conclusione del rinsavimento (Longhi, I99 0, pp. I7-39 ) Si tratta di una vera e propria queste secondo la tradizione dei grandi romanzi arturiani in prosa, ancora largamente letti e apprezzati in una corte ferrarese che non li sentiva in contrasto con la nuova cultura umanistica, anzi si fregiava quasi in modo snobistico di questo gusto démodé come di una sorta di cifra identitaria (Bruscagli, 1983a, pp. I s-8 6; T issoni Benvenuti, I987; Praloran, Morato, 2007 ).

È a questo proposito rivelatrice l'unica variante introdotta in C nell'ot­ 6 non più «si

tava citata, non riducibile a pure esigenze linguistiche: al v.

pose Orlando in l'amorosa inchesta » (AB), ma «Orlando entrò ne l'amoro­ sa inchiesta» (Segre, 2012, pp. 838-9 ). L'espressione è infatti quella tecnica, formulare, per segnare l'inizio dell'impresa: Galvano «si entre en sa queste»

(LM, vol. VII, XXXIa, 4); «Chi dist li contes que puis que mesire Gauvain fu entrés en la queste del Chevalier qui la Doloreuse Garde ot conquis» (ivi, XXXIIIa, I ); «Hector qui est entrez en la queste por monseigneur Gauvain» ( PL, p. 425, rr. IS-9 ). Non si tratta di "fonti': quanto della familiarità con un sistema narrativo e con il suo linguaggio (Rajna, I9 7S· pp. 207-8): è uno degli elementi sui quali scatta, fra allusioni e reinterpretazioni, la struttura del nuovo romanzo (Praloran, 2009, pp. I49-73 ) . In un saggio cui gli anni non hanno tolto nulla della sua brillante pe­ netrazione, Bruscagli (1983b) ha analizzato e messo a confronto la diversa 129

DANIELA DELCORNO BRANCA

valorizzazione, da parte di Boiardo e di Ariosto, dei due principali mecca­ nismi che reggevano la sterminata narrativa arturiana: l'avventura (privile­ giata con una serie di originali sfumature da Boiardo) e l'inchiesta (decisa­ mente assunta da Ariosto). I due elementi non si possono contrapporre in senso assoluto e mantengono una serie di punti di contatto (Zumthor, 1973, pp. 358-61; Kohler, 1985, pp. 113-s; Ohly, 1985) : spesso l' aventureè l'oggetto stesso della inchiesta e i cavalieri vanno « aventures querant». Tuttavia è vero che le rispettive interpretazioni dei due grandi poeti estensi finiscono per dar luogo a una divaricazione che è una delle più evidenti diversità fra

Innamorato e Furioso.

Da un lato, in quanto prova

gentile e cortese che permette al cavaliere di manifestare e perfezionare le sue doti, ed è assolutamente casuale (tanto da sfumare nella "ventura" l fortuna), l'avventura costruisce in Boiardo una narrazione seriale, per ac­ cumulo progressivo e potenzialmente dilatantesi all'infinito. L'inchiesta, «legata alla fede nel suo senso» (Ohly, 1985, p. 104 ) , tesa a uno scopo preciso, innerva di sé il racconto di Ariosto, traversa ostacoli, imprevisti, stasi e deviazioni, mantenendo un elemento unitario di tensione narrati­ va (Bruscagli, 1983b ) . Il Furioso rimane fino alla fine (anche nell'estrema giunta dell'episodio di Ruggiero e Leone:

XLIV-XLVI;

Delcorno Branca,

2007 ) legato al romanzo medievale (Sangirardi, 2009; Javitch, 2012, pp. 117-32 ) . Il punto di riferimento è esplicito, come lasciano intendere il ter­ mine "inchiesta" e il relativo sintagma da cui siamo partiti

(entrare nella):

al romanzo arturiano occorre dunque tornare per analizzarne la fisiono­ mia e individuare le caratteristiche della riproposta ariostesca (Praloran,

2009, pp. 149-73 ) . L'inchiesta è in questa letteratura una struttura codificata e continua­ mente utilizzata, a volte multipla e sviluppata in contemporanea (più in­ chieste svolte da diversi cavalieri), copre larghe sezioni del testo, ma non lo esaurisce'. Solo la variante religiosa della Queste del St.

Graalè unitaria e

conosce una conclusione che coincide con la fine del romanzo: ma si tratta

1.

(1973, pp. 358-61); per la ricca bibliografia, Bur­ (2oo6). Con l'indicazione Lancelot e Tristan intendo esclusivamente i romanzi

Cfr., per lo schema base, Zumthor

gess, Pratt

in prosa che indico con le sigle rispettivamente di LM, PL, TC, TM. Nell'analisi che segue farò riferimento soprattutto al Lancelot, non certo per sostenere una diretta e particolare

lettura da parte di Ariosto ( nonostante la documentata circolazione a Ferrara: cfr. Delcor­ no Branca,

1998,

pp. 29-47), quanto perché si tratta di un testo modernamente edito in

due redazioni ( LM, PL) e largamente analizzato da Kennedy

(1986). Si utilizzeranno anche 1890, citato per paragrafo) e

Tristan ( TM e TM 757; Loseth, testi italiani come la Tavola Ritonda ( Polidori, 1997 ). Chrétien de Troyes

(1992), il

INCHIESTA

appunto di una variante speciale e interpretativa dello schema originario (Pauphilet, I949; Gilson, I955). Nel

Lancelot sono state individuate almeno nove inchieste principali

(cioè di lunga estensione: Fritz, I992b, p. 9I4), e analogamente si potrebbe dire del

Tristan (Loseth, I89o; Baumgartner, I975; Dufournet, I990). È evi­

dente, come ha ben sottolineato Zumthor (1973, pp. 358-61), il legame con l'archetipo della fiaba, dove la mancanza iniziale innesca il viaggio dell'eroe cercatore. Ma tutto questo diviene nei romanzi arturiani struttura portante con regole precise, che aiuta (al pari della tecnica ad entrelacement di cui largamente si serve) ad imbrigliare una materia che altrimenti apparirebbe -come il

Tristan a Gaston Paris- «une masse énorme et bizarre»

(Paris,

1886, p. 6 oo). L'inchiesta, in questi testi, è in realtà quasi sempre ricerca dell'identità di un misterioso cavaliere di straordinaria prodezza: tutta la prima parte del

Lancelot è segnata dalla ricerca di chi sia colui che ha superato gli incanti della Dolorosa Guardia, o che ha fatto meraviglie in difesa della «demoi­ selle de la Marche» (Kennedy, 1986, pp. 10-48 e LM, vol. VII, XXXIa-XLIIa:

queste di

Galvano per colui che ha vinto la Dolorosa Guardia; vol. VIII,

Lia-LIIa, ricerca del cavaliere che ha difeso la donzella). La corte vuole co­ noscere lo straordinario cavaliere (che è Lancillotto), lo rivendica a sé: una volta identificato verrà solennemente accolto (LM, vol. VIII, LXXIa, 42-43 e 46-48; PL, pp. 56 9-7I). Tuttavia la presenza dell'eroe a corte è intermittente: spesso sparisce (prigioniero, ferito, impegnato in difficili imprese, impazzito), e allora -specie per false notizie sulla sua sorte -l'inchiesta riparte. Si vedano

(queste per Lancillotto prigioniero di Morgana e false notizie su di lui); vol. II, LX-LXIV (queste per sapere se è

per esempio LM, vol. I, XXIX-XXXV

morto); vol. IV, LXX e ss. L'inchiesta può riguardare anche altri cavalieri scomparsi (Galvano rapito da Caradoc: LM, vol. I,

x;

ricerca di Hector e

È la variante dell'eroe "perduto", a volte de­ clinata come ricerca del re perduto nellaforesta (per lo più preda di un'in­ cantatrice): può essere, nel Tristan, Meliadus, padre del protagonista, o Lione!, ivi, vol.

v,

LXXXV e ss).

Artù nel Darnantes (Loseth, I89o, §§ 20 e 7Ia; Polidori, 1997, pp. IOI-8 e 249-65).

È

TC

224-249 e 8 09-828;

il suggestivo paradigma dell'eroe

scomparso di cui Avalle ha ritrovato traccia-sulla scorta di un'acuta os­ servazione di Rajna-nel «perduto» Ulisse dantesco (Avalle, 1975, pp. 33-75 e Rajna, I92o, p. 224). Altra variante (anche se in genere il tema dell'inchiesta è meno svilup­ pato) è quella della regina rapita che occorre liberare, sia Ginevra nel Lance-

DANIELA DELCORNO BRANCA

lot ( Chrétien de Troyes, I992 e LM, vol. II, XXXVI ss. ) che Isotta nel Tristan ( Loseth, I89o, §§ 43-44; Te 495-511; Polidori, I997, pp. I96-2oi): nucleo narrativo sul quale occorrerà indugiare più oltre, davvero archetipico e fia­ besco- si pensi all'archivolto di Modena o al Lanze/et- e immortalato, a monte dei romanzi in prosa, dalla Charrette di Chrétien'. Nel complesso delle tipologie dell'inchiesta nei romanzi arturiani, l'e­ lemento "corte" è fondamentale: l'inchiesta è un impegno pubblico solen­ nemente assunto in presenza del re (consenziente o perplesso:

)

LX-LXI ,

LM,

vol.

II,

per lo più non da uno solo ( spiega pragmaticamente Galvano che

è più efficace che ci si muova in molti:

s), anche se poi le 8-9 ). È un impegno che si svolge secondo regole precise in termini di durata e di modalità ( LM, vol. II, LX, I3-LXI, I), con ritorno e registrazione di quanto accaduto, così LM,

vol.

strade cavallerescamente si dividono (LM, vol.

VIII, Lia,

v, XCVII,

che questa registrazione si presenta come il nucleo stesso documentario del­ la narrazione

( LM, vol. VIII, Lia e LXXIa, 48) secondo una tradizione esau­ rientemente analizzata da Cigni (2003). Per contro l'elemento amoroso è

quasi estraneo all'inchiesta: è presente essenzialmente solo nell'episodio della Charrette, soprattutto nella versione trasmessa dal Lancelot, dove Lan­ cillotto e la regina sono già innamorati, mentre in Chrétien l'amore emerge per il lettore durante l'inchiesta e non ne costituisce, almeno esplicitamen­ te, il motore originario; si tratta essenzialmente di vendicare un sopruso e difendere l'onore della corte di Artù. Già da questa analisi sommaria appaiono le decisive scelte del Furioso nei riguardi della tradizione. Assoluta è l'esclusione dell'elemento colletti­ vo e di corte: si pensi alla partenza di Orlando, solitaria e segreta, all' insa­ puta del re, con insegne mutate, seguita da quella analoga di Brandimarte e poi di Fiordiligi

( VIII 84-9I) .

Ma soprattutto l'inchiesta ariostesca (e non

soltanto quella del protagonista ) è connotata come «amorosa», ponendo al centro di essa ciò che in genere era assegnato ad altri scenari narrativi. L'amore come ragione dell'inchiesta appartiene, come s'è detto, all'episo­ dio della Charrette, soprattutto nella versione in prosa del Lancelot, quando ormai amorosa è la cifra esemplare della coppia Lancillotto-Ginevra. Al di là di tale vicenda, né questa, né l'altra coppia impostasi all'immaginario

2. Per i rapporti del Lanze/et con la Charrette di Chrétien de Troyes, cfr. Fritz (1992a). Sull'archivolto di Modena (dove appare la regina Ginevra prigioniera), cfr. Lejeune, Stien­ non (1963); Gowans (1991); Allaire, Psaki (2014, pp. 234-5). Conclude Fritz (1992a, p. 274) a proposito della Charrette di Chrétien: «le motif de la quete que Chrétien de Troyes met ici pour la première fois à contribution constituera la trame des grands cycles romanesques du siècle suivant».

INCHIESTA

del pubblico - Tristano e Isotta -, vivono analoghi itinerari di ricerca, im­ pegnate soprattutto a garantirsi possibilità di incontri amorosi, a sfuggire accuse, agguati e maldicenze, a soffrire della reciproca lontananza (il cava­ liere coinvolto in avventure o guerre, la dama segregata a corte, in un luogo ben preciso). Restano tuttavia in Ariosto non pochi punti di contatto con la tipolo­ gia tradizionale che si è prima ricordata. L'inchiesta per Ruggiero incanta­ to da Alcina e poi prigioniero di Atlante da parte di Bradamante aiutata da Melissa

(vii 33-35; 46-49; XIII 45-74) è assimilabile- dato l'illustre destino

"pubblico" del prigioniero, futuro capostipite degli Estensi- a quella per il «re perduto»: Meliadus, cercato dalla sposa aiutata da Merlino (Loseth,

I89o, § 20; Te, 224-239) oArtùcercato dai suoi cavalieri nella foresta di Dar­ nantes (Loseth, I89o, §§ 7Ia-74a; Te, 809-828). Mandricardo, affascinato dallo straordinario valore del misterioso cavaliere nero che ha sterminato le schiere di Alzirdo e Manilardo, si mette sulle sue tracce za dir nulla al suo re

(xiv 32, 5-8),

( xiv 30-38), sen­

«mosso da strana invidia ch'egli porta l

( xiv 36, 7-8). Quando lo trova «disse: ( xxiii 72, 8), salvo poi riconoscere che

al cavallier ch'avea la gente morta» "Tu se' colui ch'i' vo cercando"»

il cavaliere nero è proprio quell'Orlando di cui si è proposto di conquista­ re la spada Durindana

( xxiii 7I-8I). Anche Galvano, nel Lancelot,

parte

alla ricerca del misterioso cavaliere che compie straordinarie imprese (il giovane Lancillotto) e si trova a constatare che altri valorosi campioni che incontra non sono che quella stessa persona (LM, vol. VII, XXXIa-XLIIa). L'episodio ariostesco sembra darne una versione in negativo (cfr. PAR.

infra,

3).

La ricerca di Orlando divenuto folle da parte di Fiordiligi e di altri

(xxxi 38-47; 60-72)

riprende una delle celebri inchieste per Lancillotto

lontano da corte e impazzito (LM, voli. I-II, XXIX, I7-XXXVI: Ferroni, I975; Segre, I990, pp. 89-119). Inchiesta è senz'altro definita la ricerca di Orlando impazzito che - secondo Fiordiligi - il suo Brandimarte intraprenderà ap­ pena ne avrà notizia, ma il vocabolo fu sostituito, forse per ritocco dovuto

46, 8: «si porra in l'inchiesta») a C ( xxxi 46, 8: «sarà per farne ogni possibil prova»). Sulla scorta di Segre (2012) si può notare che inchiesta torna come parola rima in IX 7,6; XII 67, 7 (per Orlando) e XXII 94, 3 (vana ricerca delle armi di a ragioni linguistiche, nel passaggio da AB (B

=

XXIX

Atlante), cui è da aggiungere il caso ricordato di soppressione in C. Questi parallelismi non vanno considerati fonti, o modelli puntuali, quanto assunzione di una grammatica narrativa familiare, di una tradizione liberamente riproposta.

DANIELA D ELCORNO BRANCA 2.

L'inchiesta di Orlando per Angelica copre maggior parte dell'azione del protagonista: dal sogno angoscioso che la mette in moto ricalcando ele­ menti dell'apertura del Roman de la Rose 32-6 ) , al suo degenerare nella follia

( xxiii

( viii 7I-84;

96-XXIV I4 ) , fino al suo non­

incontro con l'amata sulla spiaggia di Tarragona savimento procurato dai compagni

Longhi, I990, pp.

( xxxix

(xxix

s8-74 ) e al rin­

36-6I ) . Il nucleo narrativo è

indubbiamente avvicinabile all'episodio della Charrette, quello connota­ to dalla ricerca amorosa, noto nella versione del romanzo in prosa, come

documenta anche una sua specifica utilizzazione nel Novellino ( Delcorno Branca I998, pp. I35-42 ) .

L'incidenza del modello di base dell'inchiesta, che ho prima rapida­

( IX-XIII ) , dove la ricerca tenace vede alternarsi sommari con vuoto di notizie ( Ix 4-6; XI mente descritto, è più evidente nella prima parte del poema

8I-82; CVI,

XII

4 e 8s-86; cfr.

6; vol.

VIII, LVIa,

schiere saracene:

XII

LM

vol.

III, XXIII,

I98-I99; vol.

I ) a puntuali eroiche imprese

IV, LXX,

( la

I; vol.

VI,

strage delle due

66-8s; la liberazione di donne perseguitate, Olimpia

e Isabella, che altro non sono che controfigure dell'amata oggetto dell'in­ chiesta:

IX; XI

28-83;

XII

86-94 e XIII I-44 ) .

Numerosi sono in questa sezione i segnali che provvedono a sottoli­ neare la tensione di Orlando verso il suo scopo: anzitutto l'instancabile, puntigliosa perlustrazione, Quivi il tutto cercò, dove dimora fece tre giorni, e non per altro effetto; poi dentro alle cittadi e a' borghi fuora non spiò sol per Francia e suo distretto, ma per Uvernia e per Guascogna ancora rivide sin all'ultimo borghetto; e cercò da Provenza alla Bretagna, e dai Picardi ai termini di Spagna (O/IX, 6; cfr. XII 4).

O ancora l'intuizione che Angelica possa essere a Ebuda ( «e fu a pensare, indi a temere indutto l che quella gente Angelica abbia presa; l poi che cercata l'ha per tanta via, l né potutone ancor ritrovar spia»,

IX

I4, s-8 )

e soprattutto la fretta che caratterizza il suo agire anche all'interno delle magnanime imprese che si frappongono al suo itinerario, e sono condizione

stessa dell'inchiesta ( IX: IS, I-4; 58, 7-8; 88, 3-4; 92 e 93, I-4; XI: 28-29; 76-77

e 78, I-4: «A pena un giorno si fermò in Irlanda; l non valser preghi a far

134

INCHIESTA che più vi stesse: l Amor, che dietro alla sua donna il manda, l di fermarvisi più non gli concesse» So, 3-8). Quest'ultimo tratto-la fretta- è partico­ larmente sottolineato nella doppia liberazione di Olimpia e nella andata a Ebuda (Bruscagli I983b, pp. I23-4), che com'è noto costituiscono una delle maggiori giunte alla terza redazione del poema

(C), e forse la più elaborata

(Debenedetti, 2010). Verrebbe da pensare che l'intervento comporti una nuova riflessione sul tema e sul meccanismo dell'inchiesta. L'incontro mancato a Ebuda (dove Angelica è effettivamente stata, ma Orlando arriva dopo, liberando un'altra donna: XI 76-77 ), può essere visto come un anticipo del non-incontro sulla spiaggia di Tarragona (xxix sS74), ma è anche una fase classica delle questes cavalleresche, cio è l'arrivo in luoghi dove il personaggio cercato è già passato, e l'emergere di notizie incerte SU di lui (PL, pp. 2I8-s6; LM, vol. VII, XXXIa-XLIIa; vol. IV, LXXXII). La donna che custodisce il passaggio del fiume in piena, in apertura della giunta di Olimpia (Ix 8-I3), è figura che fonde due funzioni topiche del­ la narrativa arturiana: la donzella informatrice e il cavaliere che difende il guado (cfr. LM, vol. VIII, LXXa e vol. VII, XXIIa, 30-32), ma la condizione richiesta (si può salire sul traghetto solo se ci si impegna a combattere il mostro di Ebuda) non è priva di analogie con quella che il nano propone a Lancillotto all'inizio della sua inchiesta, salire sulla carretta infamante per seguire le tracce di Ginevra rapita (LM, vol. II, XXXVI, 22-26), anche se il col­ legamento Ebuda-Angelica scatta solo nella mente del paladino (Ix I4-IS). L'episodio di Olimpia (Ix 8-x 34 e XI 2I-8o), introdotto indubbiamen­ te in C a provvedere Orlando di un più robusto e magnanimo profilo prima della follia, riequilibrandone il ruolo rispetto al comprimario Ruggiero (Se­ gre, I966, pp. 3I-2; Bruscagli, I983a, pp. 23-4), determina decisivi mutamenti nella struttura narrativa e tematica dei canti x-XII (Delcorno Branca, 2000). L'inchiesta amorosa del protagonista non è più, come in AB, un breve seg­ mento - quasi un omaggio alla tradizione - che si inceppa nel ripetitivo meccanismo incantato del palazzo di Atlante (xii s-I6), dove approda, re­ duce da Ebuda, anche il giramondo Ruggiero (xii I7 ). Le ottave dedicate originariamente all'inchiesta in AB sono state frantumate e incorniciano in

C la doppia liberazione di Olimpia, inframmezzata dall'impresa di Ruggie­ ro contro l'Orca (che in AB seguiva invece l'arrivo di Orlando al palazzo di Atlante), così che i due principali eroi vengono accostati di fronte alla mede­ sima prova, secondo una delle caratteristiche dell'entrelacement (Delcorno Branca, 2000, pp. 379-86; Praloran 20I6, pp. 114-s). Il tema dell'inchiesta diventa il sottile e tenace tema unificante della sezione (si veda quanto det­ to sopra della fretta), e acquista maggior forza, non senza ricadute sul suo

135

DANIELA DELCORNO BRANCA

significato come appare dal proemio del canto XII (cfr. infra, PAR. 4). Per questo mi pare che la giunta comporti una nuova riflessione sulla funzione narrativa e sul valore del tradizionale elemento dell'inchiesta. Quella di Orlando non è l'unica «amorosa inchiesta» del poema: le si affianca puntualmente, specie nella prima metà del testo, quella di Bra­ damante per Ruggiero. Questa inversione di ruoli, per cui è l'amata a cer­ care l'amato, è- come ha finemente rilevato Bruscagli (I983b, p. 99)- «la connotazione originale della Bradamante ariostesca», l'interpretazione di quello che era solo uno spunto nell'Innamorato (l'eroina sola nella foresta che parte alla ricerca allorché l'eremita menziona Ruggiero: In. III VI, 28 e VIII, 59), con «l'inconsueto dilatarsi dell'inchiesta amorosa della donna». Se più inchieste contemporanee sono la norma nei romanzi arturiani, queste due (di Orlando e di Bradamante) acquistano nel Furioso un risalto e una polarità che vanno oltre l'inversione dei ruoli. La determinazione della donna (che va cercando «così sicura senza compagnia l come avesse in sua guardia mille squadre», II 33, 3-4) èben individuata dal «camin dritto» col quale, ancora in incognito, traversa la scena del canto I (64, 4-6): sintagma che torna ancora a indicare il suo itinerario ( vii 45; xxxv 33). In questo «camin dritto» e nella successiva vicenda dei due innamo­ rati, altalenante, tuttavia destinata a uno scioglimento matrimoniale e po­ sitivo, connotato da perfezionamento morale, Ceserani ha individuato un modello narrativo di ascendenza classica, alternativo ai «boscherecci labi­ rinti», agli avvolgimenti e alle ambages pulcherrime di tipo arturiano che caratterizzano l'inchiesta di Orlando ( Ceserani, I 984). Anche Bradamante è però costretta, secondo le regole della tradizione e le esigenze dell' inchie­ sta, ad affrontare l'assenza di notizie ( vii 34-35), a servirsi di informatori a volte poco raccomandabili (a parte Melissa- III, VII, XIII 46-53 e passim­ tali sono Pinabello, II 33-76 e Brunello III 70-IV I S), il che la costringe a comportamenti poco cavallereschi (dissimulazione: IV I -3; furto dell'anel­ lo e violenza a Brunello: IV I3-IS; nessun rispetto per la canizie di Atlante: IV 27-37 ), analoghi, per certi versi, al montare di Lancillotto sulla carretta infamante ( LM, vol. II, XXXVI, 22-26). La vera peculiarità nei confronti dell'inchiesta di Orlando sta nella duplice natura di Bradamante, donna-guerriera: un elemento non partico­ larmente sottolineato da Boiardo sul quale Ariosto non manca di giocare a tutto campo (Ferretti, 2oo8). Così la sua inchiesta per l'amato acquista una serie di sfumature squisitamente femminili: e il «camin dritto» èinter­ rotto non solo da inopinate avventure, ma dalle insidie della gelosia e della disperazione ( xxx 76-XXXII 34). La ricerca, nell'ultima parte del poema,

INCHIESTA

assume piuttosto la fisionomia della decisa rivendicazione e difesa del pro­ prio amore

(xxxii 46-48; xxxv 33 ss.; XLIV 35-75 e XLV 53-117) .

La polarità rispetto ai movimenti di Orlando è ulteriormente accentua­ ta dalla persona oggetto dell'inchiesta, quel Ruggiero tutt'altro che impa­ ziente di ricongiungersi a Bradamante e intenzionato a godersi lo straordi­ nario volo dell'ippogrifo

( x 69-73):

Ben che di Ruggier fosse ogni desire di ritornare a Bradamante presto; pur, gustato il piacer eh'avea di gire cercando il mondo, non restò per questo ch'alli Polacchi, agli Ungari venire non volesse anco, alli Germani, e al resto di quella boreale orrida terra; e venne al fìn ne l'ultima Inghilterra. Non crediate, Signor, che però stia per sì lungo camin sempre su l'aie: ogni sera all'albergo se ne gìa, schivando a suo poter d'alloggiar male.

E spese giorni e mesi in questa via, sì di veder la terra e il mar gli cale

( Ofx 72; 73, 1-6).

L'ampio "giro del mondo" nel quale egli «spese giorni e mesi», mentre la sua donna lo cerca sconsolata, è una sorta di "ami-inchiesta", soprattutto se messa in parallelo con la contigua fretta dell'itinerario di Orlando. Ancora una volta è la giunta di Olimpia a sottolineare l'antitesi fra lo svagato gi­ rare di Ruggiero e la determinata tensione del paladino, fino ad accostare, nelle prova contro l'Orca e di fronte a uno splendido nudo femminile, il comportamento tutt'altro che cavalleresco del primo, pronto a dimenticare Bradamante e ad approfittare di Angelica, e la magnanima e disinteressata eroicità del secondo, che propizia le nuove nozze di Olimpia (Delcorno Branca,

2000, pp. 380-6, 392-3).

Accanto a queste due principali inchieste amorose, il Furioso non man­ ca di introdurne altre, secondarie e più brevi, a volte quasi di sfondo e con funzione di contrasto, dove l'antico tema è poco più che un pretesto. Alcu­ ne sono evocate inflashback (quella di Sacripante per Angelica:

I

46-47), o

in narrazione di secondo grado (quella di Pinabello per la sua donna rapita sull' ippogrifo:

II

37-45).

La gelosia è il motore della ricerca di due donne

infedeli come Doralice da parte di Rodomonte parte di Grifone

( xv wo-XVI 6). 137

(xviii 30-37 ), e Orrigille da

DANIELA DELCORNO BRANCA

Maggiore rilievo, non solo per lo spazio testuale accordato, ma per il suo protagonista, pare assumere l'inchiesta di Rinaldo per Angelica, col­ locata nei canti

XLII-XLIII,

allorché - si noti - è ormai concluso lo svolgi­

mento di quella di Orlando. Si ha l'impressione che Ariosto abbia voluto in qualche modo chiudere i conti con un personaggio che tanta parte aveva avuto nell'Innamorato, ma che il suo poema aveva provveduto a connotare in modo ben diverso e più serio, rispetto all'allegro malandrino e seduttore della tradizione e di Boiardo (Rajna, po

1998; Villoresi, 1994). Dopo un antici­

(xxvii 8-12) che altro non è che una ripresa un po' fiacca dell'inizio del­

la ricerca di Orlando, l'itinerario di Rinaldo si presenta in complesso privo delle caratteristiche del!' inchiesta, coinvolgendo Malagigi (con manifesto calco

dell'Innamorato) e un complicato scenario allegorico assolutamente estraneo ad essa (xLII 28-67): è un'inchiesta «vuota» (Praloran, 1999, p. 54). Liberato dall'amore per Angelica, Rinaldo affronterà il ritorno verso lo scenario di Lipadusa, confortato da narrazioni esemplari che inducono a una medietas oraziana: Un'inchiesta

XLII 67-XLIII, 71 (Delcorno 1989). amorosa sui generis, ma accostabile a quella

di Brada­

mance, compie Fiordiligi, la fedele sposa che parte alla ricerca dell'amato Brandimarte

(viii 90) . Le due cercatrici non mancano significativamente di incontrarsi (xxxv 33 ss.). Tuttavia in questo caso la ricerca dell'amato si lega strettamente a quella per l'amico di lui Orlando: XXIV 53-56; XXIX 4344 e 49; Fiordiligi e Brandimarte vanno poi insieme in cerca del paladino impazzito: XXXI 60-72. Ariosto sembra però aver attribuito a Fiordiligi soprattutto la fisionomia della damigella messaggera, quella che porta no­ tizie da un capo all'altro delle foreste e degli itinerari dei cavalieri erranti, filo connettivo e a volte indispensabile delle molteplici avventure (LM, vol. IX, s.v. demoisele): è lei a vedere il furto delle armi di Orlando ad opera di Mandricardo (xxiv 53-74) e il paladino impazzito (xxix 43-49), e a por­ tarne notizia nel campo cristiano (xxxi 38-72). Sarà la prima, in quanto «pratica del conte» (xxix 44, s), a riconoscerlo nel pazzo che corre sulla spiaggia africana (xxxix 44).



Cercare Angelica non è la stessa cosa che inseguire Angelica, e non si tratta solo di una diversità dovuta alla velocità del movimento. Inchiesta e inse­ guimento si oppongono: la prima è, come si è visto, un impegno determina­ to, un chiedere, un cercare tracce (non è casuale la coppia di rimanti spia l

INCHIESTA

via)\ affrontare pericoli, avventure, incontri imprevisti per raggiungere lo scopo; il secondo è una reazione violenta, una volontà di realizzazione im­ mediata ( per il possesso di una donna, per vendicare un torto) . Così An­ gelica è inseguita da Rinaldo e Ferraù do, Sacripante e Ferraù

(xn 28-59);

(I 11-22 ) e successivamente da Orlan­

Rodomonte insegue Mandricardo per

(xviii 3I-37; XXIII 33-38 ); Bradamante Pinabello per vendicarsi ( xxn 7I-75, 96-97 ); Zerbino il «cavallier villano» che ha ferito Medoro (xix I3-I4, I6; xx 117-118 ) . Allorché Angelica appare alla corte di Carlo Magno, all'inizio dell'Innamorato ( Limentani, I984) , si determina riprendere Doralice

una diaspora di cavalieri innamorati che cercano di raggiungerla. Vista la confusione, Angelica fugge, inseguita, e l'autore commenta: «Hor son tre gran campioni a la ventura: l !asciali andar che bei fatti farano! l Rainaldo e Orlando, ch'è de tanta altura l e Feraguto, fìor de ogni Pagano»

(In.

I n

29, 1-4) , in quanto così si aprono le strade del racconto ( Longhi, 1990, pp. I7-9 ) . Nel I canto del Furioso, riprendendo la materia boiardesca, Ariosto si

riallaccia a quell'inizio, spostandone l'asse narrativo ( Bruscagli, 2003, pp. 55-73 ) , e rimette in scena Angelica, la sua fuga e i suoi pretendenti che la

inseguono: Rinaldo, Sacripante e soprattutto quel Ferraù, allora uccisore del fratello di lei Argalia. La differenza dal movimento di inchiesta non potrebbe essere più netta: la donna non è cercata, ma incontrata per caso successivamente dai tre cavalieri, e questo mette in moto l'inseguimento. In realtà due ( Rinaldo e Ferraù) sono impegnati al momento nella ricerca di un oggetto perduto (rispettivamente il cavallo Baiardo- I, I2- e l'elmo ca­ duto nel fiume, già appartenuto ad Argalia, I, 14) . Per Sacripante l'amorosa inchiesta di Angelica appartiene al passato, evocato inflashback

(I 46-47 ): il presente lo vede passare dal lamento a propositi tutt'altro che cortesi (I 39-44, s7-s8 ) . Nel mobile affresco iniziale fatto di incontri, fughe, duelli, strade che si dividono, ruscelli e cespugli, alle impazienti reazioni dei pretendenti si oppone un'unica inchiesta amorosa, in forma cifrata in quanto verrà espli­ citata solo nel canto seguente la scena per «camin dritto» così i suoi progetti erotici.

(n 31-32 ) : quella di Bradamante che traversa (I 64) , rovesciando Sacripante e disturbando

È forse un caso,

ma questo cavaliere appare in

(

)

3· La stessa radice semantica di queste è quaerere, cercare: cfr. Ohly I985, pp. I03-4 .

Il rimario Segre ( 2012 ) permette di osservare che delle dieci occorrenze di spia (sost. "in­

dizio") come parola rima cinque si trovano in contesti di inchiesta (vii 34, 8; VIII 68, 7;

IX I4, 8; XII 25, 2; XXIII Ioo, 4) ; e sempre cinque in rima con via (le stesse meno VII 34, 8, ma con XXXVII 90, I ) . I riferimenti riguardano C, cui si deve in due casi (Ix I4, 8 e XXXVII

90, I ) l'aggiunta.

139

DANIELA DELCORNO BRANCA

incognito e porta insegne bianche ( I

6o, 2-3 e 68, 6-7), proprio come il gio­

vane Lancillotto nella queste iniziale del romanzo allorché è noto solo come «chevalier aux armes blanches»

(LM, vol. VII, XXIIa-XLIIa) .

In realtà l'inchiesta è tutt'altro che assente dal I canto del Furioso: ed è quella che Ariosto - con allusivo sviluppo dell'inizio boiardesco

(In.

I III

62-67) - fa intraprendere a Ferraù per avere l'elmo di Orlando, dopo esser stato svergognato dal fantasma di Argalia per non aver restituito, come pro­ messo, l'elmo incantato di costui ( I

25-28).

Si tratta di cercare un oggetto,

non una persona: non è la momentanea, affannosa, ricerca di qualcosa di perduto ( cavallo o elmo ) , ma il solenne proposito di non indossare altro elmo se non quello di Orlando, simbolo della supremazia cristiana:

ma la vergogna il cor sì gli traffìsse, che giurò per la vita di Lanfusa [sua madre] non voler mai ch'altro elmo lo coprisse, se non quel buono che già in Aspramente trasse dal capo Orlando al fiero Almonte. servò meglio questo giuramento che non avea quell'altro fatto prima. [ ...] Sol di cercare è il paladino intento di qua di là, dove trovarlo Stima ( 0/I 30, 4-8; 31, E

I-2,

s-6).

L'inseguimento amoroso è sostituito da una vera inchiesta, con evidente valore alternativo: non più la donna, ma l'elmo, come già sottolineava il ritorno al fiume dopo aver perso le tracce di Angelica:

Pel bosco Ferraù molto s'avvolse, e ritrovassi al fine onde si tolse. Pur si ritrova ancor su la riviera, là dove l'elmo gli cascò ne l'onde. Poi che la donna ritrovar non spera, per aver l'elmo che 'l fiume gli asconde, in quella parte onde caduto gli era discende ne l'estreme umide sponde (O/I 23, 7-8; 24, 1-6). L'inchiesta di Ferraù per l'elmo si inserisce nel tema, già avviato e larga­ mente orchestrato da Boiardo, della pretesa di strappare ai cristiani ele­ menti particolarmente prestigiosi del loro equipaggiamento militare ( ca-

INCHIESTA

vallo, spada ) : così Gradasso vuole conquistare Baiardo e Durindana I I

s ) ; Mandricardo Durindana

(In.

III I-II

e

VI,

(In.

4S-ss ) . Era un sistema

particolarmente utile per sviluppare itinerari, scatenare diverbi e duelli, rilanciare il racconto.

Nell'Innamorato

queste azioni rivestono solo nel

caso di Mandricardo, e in modo relativo, la forma di inchiesta. Con l'ag­ giunta della vicenda dell'elmo di Orlando e con la ripresa dei precedenti boiardeschi di Gradasso e Mandricardo, Ariosto ha formalizzato il tema dell'inchiesta delle armi in un triplice filone che approda a tre duelli dall'i­ dentico schema, dove alla fine il pagano si impadronisce in modo frau­ dolento dell'oggetto cercato: Ferraù contro Orlando per l'elmo 62 ) ; Mandricardo contro Orlando per la spada Durindana XXIV

47-s7 ) ; Gradasso contro Rinaldo per Baiardo

(xii 28-

(xxiii 70-99 e

(xxxi 89-110 e XXXIII

78-9s ) . I tre episodi segnano il progressivo peggioramento delle sorti dei

cristiani nella guerra in corso, in quanto gli oggetti passati ai saraceni so­ no provvisti, secondo la tradizione epica, di una forte carica simbolica. Il rovesciamento delle sorti - dovuto anche al rientro del rinsavito Orlan­ do - sarà ulteriormente siglato dal ritorno delle armi in mano cristiana

( Delcorno Branca, 1973, pp. S 7-79 ) . L'inchiesta introdotta da Ariosto nel canto

I

è tuttavia quella che più

chiaramente si svolge come tale, sottolineando ( in accordo con l'evoluzio­ ne in negativo del personaggio Ferraù: Strologo, 2008; 2009; 2014, pp. 96116 ) il suo valore alternativo rispetto a quella amorosa. Valore alternativo

che potrebbe anche moltiplicarsi all'infinito negli oggetti di ricerca dei cavalieri attirati nel palazzo di Atlante dove le strade delle varie inchieste si bloccano e girano su sé stesse: E mentre or quinci or quindi invano il passo movea [Orlando], pien di travaglio e di pensieri, Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso, re Sacripante et altri cavallieri vi ritrovò, eh'andavano alto e basso, né men facean di lui vani sentieri; e si ramaricavan del malvagio invisibil signor di quel palagio. Tutti cercando il van, tutti gli danno colpa di furto alcun che lor fatt'abbia: del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno; ch'abbia perduta altri la donna, arrabbia; altri d'altro l'accusa (Ofxn

II; 12,

r-s). 141

DANIELA DELCORNO BRANCA

A quest'altezza si conclude l'inchiesta di Ferraù per l'elmo di Orlando, in un canto (xn) che specularmente ripropone personaggi, scenari, situazio­ ni e locuzioni del canto I dove essa aveva preso avvio ( Delcorno Branca, 1973, pp. 70-1). Angelica, provvista del magico anello che le permette di comprendere gli incanti di Atlante, sceglie fra i prigionieri Sacripante, che giudica come il più adatto a scortarla verso il regno paterno (come già in I 49-50 ), ma in modo improvvido si rivela anche a Orlando e Ferraù (xn 23-29). I tre la inseguono; Ferraù e Orlando vengono a duello in quanto il pagano riconosce nell'avversario quell'Orlando di cui cerca l'elmo; l'og­ getto è sottratto da Angelica; i due interrompono lo scontro per cercarlo e seguono strade diverse; la donna, sorpresa da Ferraù, fugge abbandonando l'elmo di cui il pagano si appropria (xn 29-62). Ecco l'ultima sequenza del movimentato episodio: Come il pagan d'Angelica s'accorse tosto ver lei pien di letizia corse. Gli sparve, come io dico, ella davante, come fantasma al ripartir del sonno. Cercando egli la va per quelle piante, né i miseri occhi più veder la ponna. Bestemmiando Macone e Trivigante, e di sua legge ogni maestro e danno, ritornò Ferraù verso la fonte, u' ne l'erba giacea l'elmo del conte. Lo riconobbe, tosto che mirollo, per lettere ch'avea scritte ne l'orlo; che dicean dove Orlando guadagnollo, e come e quando, et a chi fe' deporlo. Armossene il pagano il capo e il collo; che non lasciò, pel duol ch'avea, di tarlo; pel duol ch'avea di quella che gli sparve, come sparir soglion notturne larve. Poi ch'allacciato s'ha il buon elmo in testa, aviso gli è, che a contentarsi a pieno, sol ritrovare Angelica gli resta, che gli appar e dispar come baleno. Per lei tutta cercò l'alta foresta: e poi ch'ogni speranza venne meno

INCHIESTA di più paterne ritrovar vestigi, tornò al campo spagnuol verso Parigi; temperando il dolor che gli ardea il petto, di non aver sì gran disir sfogato, col refrigerio di portar l'elmetto che fu d'Orlando, come avea giurato

( Ofxn, sS, 7-8; 59-6I; 62, 1-4).

È evidente che l'inchiesta amorosa non è - come per Orlando e Brada­ mante - l'unica, ma per alcuni ammette altri obiettivi, quasi a surrogato di quella. Come è stato opportunamente osservato, il motivo tradizionale finisce per essere assunto a rappresentare la complessa dinamica del deside­ rio umano, fatta di tensioni, frustrazioni, sostituzioni e differimenti (Zatti, I990, pp. 69-89 ) . Lo scopo della ricerca arriva a riflettere, almeno in parte, la fisionomia del cercatore: anche in questo Orlando e Bradamante rap­ presentano nel poema il polo positivo, Ferraù, Mandricardo e Gradasso il polo negativo.



Nel Lancelot le inchieste possono concludersi felicemente (LM, vol. VI, c, s-I o); altre volte i cavalieri tornano a corte senza aver raggiunto lo scopo (LM, vol. VIII, LIIa; vol. VI, CVI, 2.2. ) . La ricerca del Graal narrata dalla Queste si conclude positivamente per i tre eletti (Perceval, Bohort, Galaad ) , ma il suo bilancio finale, allorché Bohort unico sopravvissuto torna a renderne conto, è per la corte disastroso, in quanto molti dei cavalieri in essa impe­ gnati sono morti, e questo segna, all'inizio della Mort Artu, il fatale declino della Tavola Rotonda (Frappier, I964, pp. I-2. ) . NelFuriosocerteinchiestenon possonocondudersi: peresempio la varian­ temaliziosadellaricercavanadapartedimoltidellearmimagichediAtlantedi cui Ruggiero si è disfatto buttandole in un pozzo ( XXII 9 o-94; corsivi sempre miei ): «Poi che di voce in voce si fe' questa/ stranaaventurain tutto il mondo nota l molti guerrier si missero all'inchiesta l e di parte vicina e di remota: l ma non sapean qual fosse la foresta l dove nel pozzo il sacro scudo nuota; l ché la donna che fe' l'atto palese l dir mai non volse il pozzo né il paese» (xxii 94). Si tratta di un'inchiesta anticavalleresca, tanto quanto «il nobil atto e di splendor» di distruggere le armi incantate divulgato dalla fama (xxii 93) segna un progresso nella formazione cavalleresca del progenitore degli Estensi (Delcorno Branca, I973, pp. 94-103). Analogamente le inchie-

143

DANIELA DELCORNO BRANCA

ste da parte dei saraceni per appropriarsi delle armi dei campioni cristiani, nate da prepotenza più che da nobile spirito di emulazione e realizzate con mezzi fraudolenti, sono destinate al fallimento finale (cfr.

supra, PAR. 3 ) .

Resta l'inchiesta amorosa, che acquista nella sua rivisitazione ariostesca una profondità nuova che va al di là della sua pur straordinaria utilizzazione come struttura narrativa. O meglio, questa utilizzazione diventa veicolo

Furioso (Praloran, I999, pp. 57-76; 2009, pp. 175-98 ) : come già era stato nella Queste il ripensamento dell'inchiesta in senso religioso-esistenziale ( Gilson, I 95 s). di significato, analogamente ad altri casi nel

L'inchiesta di Bradamante si conclude con le nozze, ma il finale (che coincide con quello del poema) non è privo di romanzesche e non pacifiche aperture, come la profetizzata, e ancora una volta dilazionata, vicenda del tradimento e uccisione di Ruggiero (Bruscagli, I983b, pp. 99-I02; Delcorno Branca, 2007; Javitch, 20I2, pp. 117-32 ) . Comunque, il con una grande scena di corte (l'unica :

XLVI,

Furioso

si chiude

52-I40), simile a quelle che

concludevano le inchieste nei romanzi arturiani (Zumthor, I973, pp. 3586I ) , e non a caso speculare rispetto a quella che apriva l'Innamorato

(I I-n ) ,

dove un elemento imprevisto (l'arrivo di Angelica) avviava un movimento centrifugo, per certi versi analogo all'assunzione di un'inchiesta. Più complesso è il caso di Orlando, in quanto l'inchiesta amorosa si intreccia strettamente col tema della follia, anche prima del suo esplodere (Longhi, I990) : O da man destra o da sinistra vada, il pensier da l'andar sempre è remoto: d'Angelica cercar, fuor ch'ove sia, teme, e di far sempre contraria via.

Il suo camin (di lei chiedendo spesso) or per li campi or per le selve tenne: e sì com'era uscito di se stesso, uscì di strada; e a piè d'un monte venne ( Ofxn 8s, s-8; 86, r-4). Qui l'immagine della strada nella foresta che è di necessità errata si lega strettamente al proemio centrale dedicato alla follia

(xxiv

I-3 ) e alle sue

ascendenze oraziane e dantesche: (Bigi, 20I2, pp. 792-3; Delcorno Branca, 2011, pp. I36-7, I44-5 ) . Bastino le spie semantiche «O da man destra o da sinistra vada» (xn 85, 5 ) , che richiama l'oraziano «llle sinistrorsum hic dextrorsum abit» del passo sotteso al proemio di XXIV ( 2, I-4 ) ; o sia pure diversamente declinato, in XII 86, 3-4 e XXIV 2, 2 e 3, 5-6.

144

l'uscire,

INCHIESTA Varii gli effetti son, ma la pazzia

è tutt'una però che li fa uscire. Gli è come una gran selva, ove la via convien a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo'dire: a chi in amor s'invecchia, altr'ogni pena, si convengono i ceppi e la catena. Ben mi si potria dir: - Frate, tu vai l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo; et ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d'uscir fuor del ballo: ma tosto far, come vorrei, nol posso; che 'l male è penetrato infìn all'osso

(Ofxxiv 2-3).

Anche Lancillotto impazziva per amore (dando luogo alla sua ricerca da parte dei compagni) e così Tristano: si trattava di un elemento rilevante sì, ma circoscritto a episodi specifici. L'inchiesta di Orlando si configura fin dal suo avvio come carica di sottesi significati: Tra il fìn d'ottobre e il capo di novembre, ne la stagion che la frondosa vesta vede levarsi e discoprir le membre trepida pianta, fìn che nuda resta, e van gli augelli a strette schiere insembre, Orlando entrò ne l'amorosa inchiesta; né tutto il verno appresso lasciò quella, né la lasciò ne la stagion novella

(O/IX 7)

.

Collocata in una stagione autunnale che evoca una discesa nel mondo dei morti, sulla scorta di puntuali riprese virgiliane

309-3I2), dante­ sche (Ijni, 112-114 e v, 40-4I), petrarchesche (Rvf, so, I-2), l'inchiesta pro­ (Aen.

VI,

segue, al di là dell'avventura di Olimpia, con un silenzio di notizie coinci­ dente con l'inverno, per riemergere prepotentemente in una primavera che non è la felice stagione degli amori (xi 82-83), ma è posta- nel proemio del canto XII, aggiunto in C- sotto il segno mitico dell'inchiesta di Cerere per la figlia Proserpina, chiamando in causa ancora una volta una discesa agli inferi (Delcorno Branca,

2000, pp. 390-9). 145

Orlando non raggiunge il suo

DANIELA DELCORNO BRANCA

scopo e neppure riconosce di non averlo raggiunto: la sua inchiesta esplode nella follia e l'oggetto di essa si vanifìca, esce di scena come Angelica esce dal poema dopo l'incontro sulla spiaggia di Tarragona

(xxix 58-67 e xxx I6). l

Non c'è inchiesta, ma inseguimento: «D'averla amata e riverita molto

ogni ricordo era in lui guasto e rotto. l Gli corre dietro, e tien quella maniera / che terria il cane a seguitar la fera»

(xxix 6 I, s-8). Tant'è vero che quando

la donna sparisce, la sua giumenta catturata ne diviene il surrogato: «Segue la bestia per la nuda sabbia l[ ... ]

l con quella festa il paladin la piglia l ch'un altro avrebbe fatto una donzella» (67, s e 68, I -2). Discretamente segnalata nelle pieghe di una formula di transizione, in realtà l'impossibile conclusione dell'inchiesta di Orlando era emersa già

prima, al canto XII, proprio in margine alla perdita dell'elmo e al divergere delle strade degli stessi personaggi del canto I: Ma non dirò d'Angelica or più inante; che molte cose ho da narrarvi prima: né sono a Ferraù né a Sacripante, sin a gran pezzo per donar più rima. Da lor mi leva il principe d'Anglame, che di sé vuol che inanzi gli altri esprima

lefatiche e gli affanni che sostenne nel gran disio, di che afin mai non venne. Alla prima città ch'egli ritruova (perché d'andare occulto avea gran cura) si pone in capo una barbuta nuova

[. ] Così coperto, seguita l'inchiesta; ..

né notte, o giorno, o pioggia, o sol l'arresta (Ofxn

66; 67, I-3, 7-8).

Gran parte degli itinerari di inchiesta del Furioso sono costruiti sull'alter­ nanza sommario/ avventura puntuale. Sulla scorta di uno spunto di Carne­ Ross (largamente ripreso e sviluppato poi da Zatti,

I990

),

che vedeva in

Ariosto l'uso del modello sintattico-semantico della queste per narrare in generale il sentimento di angoscia dei personaggi davanti alla non rispon­ denza del loro desiderio, Marco Praloran ha scritto pagine decisive sui som­ mari ariosteschi (Praloran, I999, pp. 57-76; citazione di Carne-Ross a p. 74). Questi non sono più elementi servili, di puro raccordo fra vari episodi, necessari per orientare il lettore nella labirintica narrazione del romanzo arturiano: assumono «una funzione di slancio dinamico, di dissolvenza, bruciano lo spazio lasciando una sensazione indeterminata e soggettiva di

INCHIESTA

tempo trascorso [ ... ] sono indici tesi spesso drammatici che velocizzano il racconto» (ivi, pp. 68,

74).

I sommari ritmano gli itinerari dei cavalieri e

in particolare le inchieste. Si vedano ad esempio: Pinabello in cerca della sua donna

( n 4 I ); la ricerca di Ruggiero, da parte di Melissa e Bradamante ( n I 6s, I - 4), e ancora da parte di Bradamante e Brunello (Iv, 11, I-2. ) , o della

sola Bradamante: Di costei prima che degli altri dico, che molti giorni andò cercando invano

per boschi ombrosi e per lo campo aprico, per ville, per citta, per monte e piano (Ofvn 34, I-4). Or per valle o per monte s 'avvolgea (Ofxxn 98, 3-4).

tutta quasi cercò quella contrada

E l' inchiesta di Orlando per Angelica:

Di piano in monte e di campagna in lido, pien di travaglio e di dolor ne gia (O/xi 83, r-2) . messa in parallelo con quella di Cerere per Proserpina, che sul carro che tiravan dui serpenti,

cercò le selve, i campi, il monte, il piano, le valli, i_fiumi, li stagni, i torrenti, la terra e 'l mare: e poi che tutto il mondo cercò di sopra, andò al tartareo fondo. S'in poter fosse stato Orlando pare all'Eleusina dea, come in disio,

non avria, per Angelica cercare, lasciato o selva o campo o stagno o rio o valle o monte o piano o terra o mare, il cielo, e 'lfondo de l'eterno oblio; ma poi che 'l carro e i draghi non avea, la gia cercando al meglio che potea

(Ofxn 2, 4-8; 3).

Il suo camin (di lei chiedendo spesso)

or per li campi or per le selve tenne (Ofxn 86, I-2). L'enumerazione e la correlazione danno allo stile del racconto un forte tim­ bro petrarchesco; in particolare l'enumerazione diviene figura sintattica-

147

DANIELA DELCORNO BRANCA

simbolo della dinamica spaziale. «L'astrattezza degli elementi del paesag­ gio [

=

campi, selve, monti...] diventa lirica attraverso la forma petrarchesca

e non più neutrale, ma per lo più negativa come fosse invasa dalla stessa ossessiva ricerca di un oggetto-oggetti irraggiungibili» (Praloran,

1999, p.

72). È lo stilema che riconduce la memoria del lettore a un altro "cercare': quello della tradizione lirica (ivi, p. 7s). L'incontro profondo di Ariosto «lettore assoluto» con Petrarca, non riducibile a pura scuola formale, trova espressione in questo amalgama di lirica e racconto: in particolare l'enume­ razione, così tipica dei sommari, soprattutto di inchiesta, è uno dei mezzi formali per trasferire nel poema quell'inquietudine che nasce, come nel

Canzoniere, dall'oscillazione del desiderio, dalla continua inappagata ricer­ ca (Praloran,

2009, pp. 179-80).

Le inchieste positive del Furioso (quelle di Orlando e Bradamante) percorrono spazi geografici e spazi interiori: assumono infine la fisiono­ mia dell'inchiesta della propria identità, com'era quella iniziale del gio­ vane "cavaliere bianco" Lancillotto. Il discrimine fra aventure e queste si fa a questo punto, come notarono per i romanzi cortesi Kohler

(198s,

pp. 113-5) e Le Goff (1974, p. XVI ) , molto sottile. È un itinerario di ricer­ ca realizzato attraverso l'esperienza dell'amore, nobilitante, tormentoso, sempre in bilico tra fedeltà, tradimento e gelosia. Non a caso, sul cammi­ no di Orlando, alla mobile e scaltra Angelica oggetto dell'inchiesta si af­ fiancano -quasi controfigure -le eroine della fedeltà Olimpia e Isabella.

È un'inchiesta che non può concludersi col raggiungimento dello scopo: se a Bradamante, progenitrice degli Estensi, è concessa una tappa d'arrivo provvisoria con le nozze, per Orlando non si ha, col rinsavimento, un rientro puro e semplice nell'antico ruolo di paladino della fede, bensì l'approdo al glorioso e impervio scenario dello scontro di Lipadusa (canti

)

XLI-XLII .

Grazie anche al ripensamento dell'antico tema dell'inchiesta,

la "pagina segreta" della vita di Orlando prima di Roncisvalle, che Boiar­ do aveva luminosamente aperto al Rinascimento italiano, assume nel Fu­

rioso tutt'altri colori rispetto al vitalismo amoroso del suo predecessore, un'epicità nuova e complessa di cui la Gerusalemme liberata non potrà non tener conto4•



Cfr. le osservazioni di Javitch ( 2012, pp. 126-9 ), sull' imitazione di Virgilio a propo­

sito dei funerali di Brandimarte e della morte di Fiordiligi ( xLIII r66-r8s), dove si sostiene che la materia virgiliana risulta modificata in senso romanzesco dal nuovo contesto. Lo studioso tuttavia accentua troppo-a mio avviso-l'opposizione con analoghe imitazioni tassiane.

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I.

Dopo essere stata a lungo fra le parole chiave del lessico critico, la voce

Intertestualita ha subito un violento ostracismo, forse perché screditata da un abuso che l'ha progressivamente indebolita, rendendola un contenitore buono per tutti gli usi. Servirsene ancora è possibile, purché sia chiaro in che accezione e in che ambito la si adotta. Partirei dalla considerazione che nella storia esistono autori e testi relativamente autosufficienti che non chiedono al lettore, o, quanto meno, non glielo chiedono in prima istanza, di essere letti in una prospettiva intertestuale. Altri, invece, si nutrono a tal punto di letteratura da rendere imprescindibile quella prospettiva, a rischio di perdere gran parte del loro senso. Questa seconda categoria- nella quale si inscrive in pieno il Furioso - si estende, ovviamente, a tutti i prodotti del classicismo rinascimentale, cioè a tutta quella produzione letteraria che fa dell' imitatio il suo principio costitutivo. Anche quello ariostesco è un sistema di scrittura costituzionalmente e deliberatamente riproduttivo e dunque intertestuale. Il termine imitatio non è sufficiente però a rendere conto di una varietà di fenomeni non sempre circoscrivibili entro il suo perimetro. Per aspetti quali la parodia, la riscrittura, la contaminazione, la memoria involontaria, la traduzione, è preferibile a mio avviso ricorrere a una etichetta più com­ prensiva e meno definita storicamente, purché si tenga conto che proprio il suo essere comprensiva comporta il rischio della genericità. Mentre quando si parla di imitatio si sottintende sempre un atto voluto e consapevole, nell'analisi intertestuale non interessano tanto le intenzioni dell'autore, quanto le relazioni oggettive fra i testi, da descrivere catalo­ gando i tratti comuni e prescindendo da ogni volontà di imitare e da ogni intento allusivo. La parola Intertestualita, di origine francese e di marca strutturalista (Kristeva, 1969 ) , finisce dunque per sussumere una lunga serie 153

MARIA CRISTINA CABANI di parole non sempre sinonime (fonti, tradizione, modelli, memoria poeti­ ca ecc.) e di fenomeni non identici. Ma non è solo, ovviamente, contro una parola, quanto piuttosto nei riguardi del tipo di analisi che essa presume, quasi interamente volta al te­ sto e proiettata verso il suo passato, che la critica attuale, stanca di essere sommersa da un mare di riferimenti intertestuali, si rivolge. Alle sue pur giuste obiezioni si può rispondere che il Furioso è leggibile a diversi livelli e che la sua bella storia può certamente essere apprezzata in sé stessa da ogni tipo di lettore; ma anche che Ariosto prevedeva e prediligeva un particolare tipo di lettore che fosse in grado di porsi alla sua altezza e di apprezzare la pluridimensionalità che l'ironia presuppone: un'ironia che passa anche (e non poco) nelle maglie dell' intertestualità. L'indagine intertestuale del Furioso può essere abbordata da diversi punti di vista: da quello oggettivo di un Rajna

(I976), convinto di poter ri­

costruire l'albero genealogico del poema analizzandone le fonti tematiche; a quello, più recente, che indaga anche e soprattutto le spie linguistiche e formali del contatto intertestuale (Bigi, Blasucci,

I969;

Cabani,

I990; 2005);

I9S4;

Segre,

I966;

Ossola,

I976;

a quello di chi vede l' intertestualità

come un nucleo denso di sovrapposizioni e contaminazioni fra generi e testi (Looney, I996; Javitch, I 99I); a quello, psicoanalitico, che sposta l'attenzio­ ne sull'autore stesso e sui suoi complessi rapporti con i padri (Sangirardi,

2oo6 ). Tutti, da diversi punti di vista, hanno arricchito e nello stesso tempo resa più sfuggente la nostra definizione del fenomeno. Si potrebbe aggiungere che nelle strategie di avvicinamento a un testo esiste anche una soggettività dell'osservatore, che può essere più o meno interessato a questa componente (si ricordi il disinteresse categorico di Cro­ ce,

I96I, nei riguardi del

«bilancio finale di debiti e crediti»), più o meno

sensibile alla presenza di tracce intertestuali. Spesso l'alternativa è fra il non vederne e il vederne troppe (grazie anche all'agevolazione offerta nella ri­ cerca dagli strumenti informatici). Nell'indagine intertestuale, insomma, concorrono due spinte: da un lato unaforma mentis del lettore o di un certo tipo di lettore che cerca di orientarsi e di trovare le coordinate nel già sentito (e tale doveva essere quello cinquecentesco); dall'altra l'atteggiamento del singolo autore verso la letteratura: un atteggiamento che può essere di mi­ nore o maggiore o estrema (nel caso di Ariosto) apertura verso la tradizione, un atteggiamento che dipende in parte dal soggetto scrivente, in parte dal contesto storico-culturale. Nella dinamica intertestuale il momento di incontro della nostra me­ moria con quella dell'autore crea una sintonia che produce piacere (la co154

1NTERTESTUALITÀ

siddetta agnizione di lettura). Come ho detto, il testo rinascimentale e il

Furioso in particolare puntano su questo genere di piacere non come dato accessorio, ma come parte imprescindibile del codice di lettura. Questa constatazione di partenza non solo legittima in pieno la ricerca intertestua­ le, ma la rende necessaria: il che significa, per esempio, che nelle note di un commento il riscontro intertestuale non è mai ozioso, ma, al contrario, indispensabile. Si potrà discutere, semmai, a che punto arrestarsi nella indi­ cazione dei contatti intertestuali, non sull'opportunità di inserirli. Ma il Furioso, oltre ad essere un testo rinascimentale, e dunque fondato sul principio dell' imitatio, offre un motivo in più per essere considerato en­ tro un'ottica intertestuale. Si presenta infatti come

continuazione e dunque

opera aperta, fin dall' inizio, verso un altro testo del quale intende prose­ guire la materia e verso un genere per sua natura tradizionale (Sangirardi, 1993 ) .

Nasce cioè entro una dimensione intertestuale con quanto questa

scelta comporta sul piano della lettura: quasi ogni passo invita, infatti, al confronto e alla valutazione di un rapporto con Boiardo che è al tempo stesso agonistico ed elusivo. Non solo: poiché i fili devono essere per forza ricuciti, il lettore è invitato in prima istanza a tenere sempre d'occhio non uno, ma almeno due testi e, progressivamente, ad allargare la sua ottica e a spaziare nel vasto universo della letteratura classica e volgare.

2.

Come hanno messo in luce gli studi sulla ricezione del Furioso (Weinberg, 1961;

Javitch, 1991; Hempfer, 1987; Sberlati, 2001, per ricordarne solo al­

cuni), la critica cinquecentesca è stata la prima a impegnarsi nella ricerca dei riscontri intertestuali guidata dal bisogno di "canonizzare" il poema illustrando i suoi contatti con la tradizione classica (Virgilio prima, Ovi­ dio, Stazio e Lucano poi). Questi studi hanno messo in luce che, mentre in una fase pretassiana l' individuazione di fonti autorevoli ha avuto lo scopo di legittimare (attraverso le

auctoritates)

un poema non facilmente defini­

bile come classico, dopo Tasso le stesse fonti sono state utilizzate per un confronto-scontro fra Furioso e Liberata, fra romanzo cavalleresco e poema eroico. Le edizioni cinquecentesche offrono anche i primi esempi di inda­ gine intertestuale, fornendo tavole di concordanze (per esempio nel campo delle similitudini) e discutendo nelle note, sempre più ampie, i rapporti di filiazione dei singoli episodi. Nasce a questa altezza cronologica quella deformazione ottica per la

ISS

MARIA CRISTINA CABANI quale il Furioso viene letto e giudicato sulla base di canoni che non gli ap­ partengono, cioè quelli del neoaristotelismo (unità, verosimiglianza, ogget­ tività narrativa). Nasce anche, nello stesso tempo, l'opposizione fra epica e romanzo: mentre la Liberata rappresenta il vero poema epico, il

Furioso

appartiene ad un altro genere definibile come romanzo. Questa opposizio­ ne, nata nel tentativo di sottrarre il Furioso a un confronto con la Liberata dal quale non poteva risultare che perdente, è stata accolta spesso in forma troppo drastica, ma di recente rimessa in discussione. Come osserva Fer­

Generi), nonostante l'ampia incidenza dei modelli classici e l'alto grado di allusività del poema, il Furioso resta definibile come romanzo, «se­ retti (cfr.

condo una definizione che Ariosto avrà forse usato, ma che si attesta solo a metà Cinquecento». Caratteri precipui della ricerca intertestuale cinquecentesca sono stati l'aspetto militante e il carattere dimostrativo. Proprio per questo essa si in­ teressa quasi esclusivamente della tradizione classica ignorando volutamen­ te i precedenti romanzi. L'inizio di una ricerca sistematica e a largo raggio delle fonti risale allo studio ormai classico Lefonti

dell'«Orlandofurioso»

di Pio Rajna (del I876), seguito da quello di Romizi (I896) sulle Fonti latine del poema Come dichiarava nella

Introduzione, Rajna era intenzionato a

«tracciare le linee principali» della «storia del romanzo» e a «mettere sotto gli occhi dei lettori l'albero genealogico dell'immortale poema per determinare che posto esso

occupasse

nella stirpe» (Rajna,

I975,

p.

3);

in

quest'ottica egli finiva per esprimere un giudizio sostanzialmente negativo in merito all'originalità di Ariosto, saccheggiatore delle opere altrui assai più che inventore:

per il merito d 'uno scrittore non è niente affatto indifferente, secondo me [scriveva nella Conclusione del suo lavoro] che abbia trovato egli stesso, o che abbia preso da altri la materia (ivi, p. 610). Pur consapevole che «sul finire del secolo

xv,

e pressoché in tutto il

l'imitazione fu eretta dai più a supremo principio dell'arte» (ivi, p.

XVI,

611),

Rajna non poteva fare a meno di concludere, con giudizio limitativo, che «i grandi confiscano in parte il merito di una moltitudine di piccini» e raggiungono vette che, senza questi precedenti, non avrebbero mai potuto raggiungere

(ibid. ).

Ad Ariosto egli riconosceva in sostanza il merito di

essere un «artista», non un poeta. Il pregiudizio romantico, dal quale non è esente nemmeno il positivista Rajna, ha senz'altro condizionato gli studi sull' intertestualità, come li ha condizionati, e con maggior forza, l'ostilità di Croce, il quale ha ribadito

1NTERTESTUALITÀ in più occasioni il carattere puramente accessorio dello studio dell' interte­ stualità e il suo sostanziale disinteresse per «il libro dei debiti dell'Ariosto verso i predecessori», cioè per un genere di filologia «inconcludente o mal concludente». Secondo Croce, infatti, la vera «materia» del Furioso «non sono le cose, ma i sentimenti e questi determinano quelle e non viceversa»

(1961,

pp.

s, 6).

Il maggior pregio delle

Fonti dell' «Orlando forioso»

resta

quello di aver messo a disposizione del lettore una messe sempre più ricca di dati che i commenti, e in particolare quello di Emilio Bigi, hanno sfruttato nelle note. NellaPrtfozione alla seconda edizione, infatti, Rajna manifesta la soddisfazione di poter fornire al lettore un notevole incremento della "ma­ terià', rifìutandosi nello stesso tempo di «distendersi maggiormente nelle considerazioni di ordine generale» per il timore non delle "idee': ma delle «concezioni subiettive» (Rajna,

1975, p. XIV ) . Il mito dell'oggettività, dei

fatti, caratterizza tutto il suo imponente lavoro tanto ricco di dati quanto povero, secondo i suoi desideri, di interpretazioni. Su questa strada si sono indirizzate, anche se con ben altri presupposti, ricerche più recenti come quelle di Daniela Delcorno Branca

(1998) e di Marco Praloran (2009).

Già avviati da Weinberg, gli studi sul genere (epica/romanzo) sono

(1996), di Casadei ( wrr )

proseguiti con i contributi di Looney

e di molti

altri studiosi. Sul piano dell'analisi intertestuale l'opposizione fra le due ca­ tegorie induceva i primi commentatori a trascurare o sottovalutare le fonti romanze in favore di quelle classiche. Secondo Rajna, invece, il grande me­ rito di Ariosto, prosecutore della fusione epico-romanzesca già attuata da Boiardo, era stato proprio quello di essere riuscito per primo ad accostare il poema cavalleresco ai generi e ai modelli del classicismo. L'essersi rifatto ai classici era stato per Ariosto un mezzo per innalzare il suo poema e distan­ ziarsi dal suo predecessore. Nella sua ricerca delle origini del

Furioso

Rajna abbozzava anche una

distinzione di ruoli fra fonti romanze, quasi esclusivamente tematiche, e fonti classiche costituenti anche modelli formali. La stessa distinzione si trova nello studio di Romizi, il quale, nell'apprestarsi ad indagare le fonti latine, specifica che esse consistono soprattutto in «espressioni, sentenze, pensieri, immagini» (Romizi,

1896, p. 2 ) e sopravvive negli studi di Segre.

Costruendo un'ideale biblioteca dell'Ariosto, Segre osserva infatti che: «le fonti cavalleresche[ ... ] servivano all'Ariosto solo come repertori tematici», mentre era ben diverso il suo «atteggiamento verso le opere classiche» tan­ to è vero che «quasi tutte le coincidenze testuali, cioè di forma, di stile sono con poeti latini» (1996, p. so). A smentire tale dicotomia sono sopravvenu­ ti gli studi sulle fonti volgari (dantismo e petrarchismo ariostesco) dei quali 157

MARIA CRISTINA CABANI

lo stesso Segre è stato pioniere e le indagini sul boiardismo ariostesco e sui rapporti con Pulci e con la tradizione del cantare cavalleresco.

È con gli studi di Segre, Bigi e Blasucci, oltre mezzo secolo dopo Rajna, che la separazione fra i due universi (classico/volgare) è stata, come accen­ navo, superata e che i grandi classici volgari hanno cominciato a essere con­ siderati come modelli stilistici oltre che come fonti tematiche del Furioso. In questo contesto la necessità di aprire un'indagine di ampio spettro delle forme di rapporto intertestuale ha reso inservibile e parziale il concetto stesso di fonte. Se Blasucci, per esempio, continua a usarlo nei suoi primi studi sul dantismo ariostesco, sente comunque l'esigenza di specificarlo e di precisarne il significato (Blasucci, I969). Categorie specifiche come dan­ tismo (Segre e Blasucci), petrarchismo (Bigi e Cabani), e poi boiardismo (Sangirardi) si mostrano in effetti più utili a comprendere le continue me­ tamorfosi dell' intertestualità. Nelle ricerche sul dantismo ariostesco (Segre, Blasucci, Ossola) l'analisi intertestuale si è estesa di necessità su diversi livelli più o meno interdi­ pendenti. Solo per chiarezza di analisi, infatti, si è distinto un dantismo tematico, evidente in numerosi episodi del poema (Astolfo tramutato in mirto, il viaggio oltramondano, le arpie) in genere accompagnato anche da riprese linguistico-stilistiche, da un dantismo stilistico che consiste in un frequente echeggiamento di versi, di parole e di rime spesso del tutto au­ tonomo rispetto alle riprese tematiche. Numerosissime sono poi le riprese tematico-stilistiche, rappresentate dalla adozione di topo i e moduli narrati­ vi (l'incontro, il vecchio onesto), di similitudini, di interventi metanarra­ tivi nelle quali le diverse componenti si associano. Altrettanto spesso i testi volgari si offrono come mediatori delle fonti classiche o servono addirittura a tradurle con evidenti effetti di contaminazione.



Nel vasto mare dell' intertestualità la citazione si distingue da tutte le altre forme non tanto perché il frammento di testo incorporato resta intatto, quanto perché quel frammento è avvertito comunque come corpo estraneo al testo che lo ospita: è la parola di un altro al quale si riconosce autorevo­ lezza e veridicità, che sia nominato o meno. La citazione, insomma, crea una specie di disturbo perché instaura una forma di contatto fra due voci diverse senza accordarle necessariamente. Anzi, la distonia può originare "parodia". Nelle altre forme di intertestualità, invece, una voce sola ne contiene due

INTERTESTUALITÀ

o più; appare doppia o addirittura corale, ma solo a chi sappia intenderla. Mentre la citazione è didattica e didascalica, l'allusione è agonistica perché mette alla prova la cultura e la memoria del lettore. Mentre la citazione appare evidente a una prima lettura e appartiene al testo, l'allusione tende a rivelarsi a scoppio ritardato e rilascia gradualmente i suoi significati. Della citazione in senso proprio Ariosto non fa uso. Il confronto con Pulci, che allega Dante a ogni momento definendolo «maestro e autore», e Petrarca, nominandolo «l'Ancisan», è un confronto che non vale la pena di ripetere (e per il quale rinvio a Cabani, 2005). Mi limiterò qui a ricordare che le poche volte che Ariosto finge di voler allegare una auctoritas lo fa in modo ironico. È il caso del mitico Turpino, invocato per sostenere verità in­ sostenibili o, in un'occasione, di Federico Fregoso, chiamato in causa nella discussione oziosa sulla conformazione del suolo nell'isola di Lipadusa al momento del grande duello (Zatti, 1990, pp. 173-213), di Giovan Francesco Valerio, deputato a raccontare una storia oscena che il narratore non vuole assumersi in prima persona. Potremmo osservare che una certa disinvoltura nei riguardi dei propri punti di riferimento è comune a ogni buona imitazione, fino a trasformarsi, nel barocco, in un vero e proprio gioco di depistamento del lettore: Marino insegna a rubare senza scrupoli, evitando di farsi cogliere con le mani nel sacco, e loda Ariosto in quanto più abile di Tasso nel furto. Nel caso di Ario­ sto, però, la dissimulazione delle fonti si inserisce ali'interno di un discorso più complesso che coinvolge il suo rapporto con il principio di autorità. Ariosto sembra rifiutare in partenza l'idea di una auctoritas sulle altre (qual è per esempio Dante per Pulci) e, più in generale, l'idea di auctoritas in sé

stessa. Questa constatazione aiuta a capire meglio i diversi tipi di trasfor­ mazione che egli attua sui suoi numerosi testi di riferimento. Se la parola dei classici è autorevole per definizione perché unica e immodificabile, la trasformazione può essere considerata di per sé stessa un atto parodi co (in senso neutro). Ecco un primo esempio in proposito. La manifestazione del dolore, e la stereotipa gestualità che l'accompagna, sono descritte più volte nel poema con riferimento più o meno stringente ai modelli classici. La vicinanza è massima, per esempio, nel caso di Olimpia abbandonata, in un episodio che segue prolungatamente l'Ovidio delle Eroidi facendo del personaggio ariostesco una controfigura dell'Arianna ovidiana, ma anche di quella del carme catulliano. Non è un caso, dunque, che il tragico risveglio di Olim­ pia, abbandonata da Bireno, riecheggi, rasentando la traduzione, l'analogo passo ovidiano:

159

MARIA CRISTINA CABANI

Si straccia i crini, e il petto si percuote [ ... ] Corre di nuovo in su l'estrema sabbia, e ruota il capo e sparge all'aria il crine; e sembra forsennata, e ch'addosso abbia non un demonio sol, ma le decine

( Ofx

2.2.,

3; 34,

I-4).

Aut ego diffusis erravi sola capillis, qualis ab Ogygio concitata Baccha deo

(Her. x 47-48).

Ma la stessa scena si ripete, secondo il duplice principio della variatio e della contaminatio (si noterà che, oltre alle interferenze catulliane, sono presenti

parole e movenze petrarchesche in «sparge ali'aria il crine») in numerose al­ tre occasioni; mi riferisco, per esempio, alla tragica morte di Zerbino. Anche qui, per descrivere la disperazione di Isabella, Ariosto osserva che la donna Né alle guancie né al petto si perdona, che l'uno e l'altro non percuota e fragna; e straccia a torto l'auree crespe chiome chiamando sempre invan l'amato nome

( Ofxxiv 86, s-8).

Questa volta, però, Ariosto tiene presente piuttosto la T isbe delle Meta­ morfosi che, analogamente, «percutit indignos claro plangore lacertos, l

et laniata comam» Met. IV

I38 (le petrarchesche «auree crespe chiome»),

senza perdere di vista, peraltro, la Didone virgiliana, richiamata subito dopo nell'impulso suicida di Fiordiligi. E di nuovo la scena si ripete alla morte di Brandimarte, quando Fiordiligi, «al tornar dello spirto», «alle chiome l caccia le mani; et alle belle gote, l indarno ripetendo il caro nome». In un eccesso di furore, la giovine «fa danno et onta più che far lor puote [alle gote]: l straccia i capelli e sparge, e grida, come l donna talor che 'l rio demon percuote, l o come s'ode già che a suon di corno l Menade corse ed aggirassi intorno» (xLIII

IS8).

Se l'indemoniata richiama la precedente descrizione («Non un de­ monio sol, ma le decine»), la Menade rinvia ad un altro passo ovidiano («quales audire solemus l Treicias fusi masnada ire comis» Fasti IV 457-8). Al termine del processo una notazione lievemente sorridente commenta la manifestazione parossistica del dolore: «a stracciar il bel crin di nuovo corse, l come il bel crin tutta la colpa n'abbia» (xLIII I 6 4). Dopo il feroce gesto finale, questa volta tutto dantesco («Le mani insieme si percosse e 160

INTERTESTUALITÀ

morse» ) , al narratore, ironicamente consapevole dell'eccesso patetico, non resta che cambiare bruscamente argomento ( «Ma torno a Orlando et a' compagni intanto l ch'ella si strugge e si consuma in pianto»:

XLIII

r6s)

per mantenere un necessario equilibrio fra registri discordanti, contempe­ rando il "grave" con l'"acuto". Del resto l'interruzione stessa ottiene un vo­ luto effetto di smorzamento tonale. Da un punto di vista intertestuale, è evidente che Ariosto, proprio at­ traverso la variazione (del topos ma anche degli auctores cui fa riferimento ) e la contaminazione mette continuamente alla prova il lettore mostrando di volta in volta la sua abilità nell'interpretare la stessa situazione topica pur senza mai ripetersi del tutto. Nello stesso tempo, però, confondendo le acque, non concede, se non per brevi tratti, preminenza a un autore piut­ tosto che a un altro.



Variazione, contaminazione, trasformazione (e interruzione ) sono proce­ dimenti intertestuali definibili senz'altro "parodici". Osservazioni simili possono essere fatte per la solenne perifrasi classica che descrive il riposo notturno degli esseri animati entro il quale si inserisce, dopo una penosa insonnia, il sogno profetico di Orlando: Già in ogni parte gli animanti lassi davan riposo ai travagliati spirti, chi su le piume e chi sui duri sassi, e chi su l'erbe, e chi su faggi o mirti

( Ofvm 79, 1-4).

Come è noto, essa si ispira a ben due passi virgiliani: quello che nell'Eneide descrive l'insonnia dell'infelice Didone: Nox erat et placidum carpebant fessa soporem corpora per terras

(Aen. IV 522-29),

e quello che, sempre nell'Eneide, narra il sogno profetico di Enea: Nox erat et terras animalia fessa per omnis Alituum pecudumque genus sopor altus habebat

(Aen. VIII 26 sgg.).

Ogni lettore può verificare da solo la precisione dei riferimenti, soprattutto 161

MARIA CRISTINA CABANI

nel richiamo dell'avversativa: « At non infelix animi Phoenissa» (Aen.

528)

IV

in «Intanto l'infelice ( e non sa come ) l perde la donna sua per l'aer

fosco».

(viii 82, I 2) . Dunque Orlando è accostato contemporaneamente -

a Enea e a Didone, essendo cavaliere e amante infelice; ma non si può fare a meno di ricordare anche un simile precedente dantesco, cioè la descrizione del peregrino che, all'inizio dell'Inferno, si appresta al viaggio:

Lo giorno se n'andava e l'aere bruno toglieva gli animai che sono in terra da le fatiche loro, e io sol uno (If 11 I-3) e, sul versante opposto, il notturno petrarchesco che apre la sestina 22, con­ trapponendo la condizione perennemente insonne dell'amante infelice alla quiete notturna:

qualunque animale alberga in terra, se non se alquanti c'anno in odio il sole, tempo da travagliare è quanto è 'l giorno, ma poi che 'l ciel accende le sue stelle, qual torna a casa et qual s'anida in selva per aver posa almeno infin al'alta.

A

Et io, da che comincia la beli'alba a scuoter l'ombra intorno de la terra svegliando gli animali in ogni selva, non ò mai triegua di sospir' col sole (Rvf

22

r-10

).

Memore dei precedenti, Ariosto non si limita a riaccostarsi direttamente alla fonte classica ( il testo latino è assai più presente, in questo caso, delle due riscritture volgari ) , ma accoglie anche il suggerimento di una fonte assai meno autorevole quale può essere quella dell'Agostini:

Ogni animai nel bosco aspro e selvaggio ritorna a riposarsi umile e piano, chi sotto un pin, chi sotto querce o un faggio, poi che la notte adombra il monte e il piano (In. VIII 35, 3-6). Non c'è dubbio, infatti, che il verso «chi sotto un pin, chi sotto querce o un faggio», assente nel testo classico, è echeggiato nella bizzarra serie arioste­ sca: «chi su le piume [ ... ] e chi su faggi o mirti». Il dialogo con la tradizione, la dimensione intertestuale, sovrasta in questo caso la situazione specifica e

1NTERTESTUALITÀ

la condizione di Orlando, proiettata in un gioco allusivo che ne rivela tutta la natura letteraria e ne riduce di conseguenza il pathos. La parola parodia, che ho usato per descrivere due palesi casi di interte­ stualità complessa (per altro emblematici di tutte le operazioni intertestuali ariostesche), non piace alla critica ariostesca. Non piace soprattutto perché la si collega quasi sempre all'intenzione di svilire o degradare il testo di rife­ rimento, come se si considerasse il Furioso alla stregua di un poema eroico­ mico. L'alternativa netta fra citazione autorizzante e citazione parodica nei termini di semplice fedeltà o semplice rovesciamento può essere superata proprio tenendo conto del fatto che nell' intertestualità ariostesca vigono, come si è visto, l'ibridazione e il compromesso fra più fonti e fra più generi (Confalonieri, 2013, pp. ss-67 ).

Per questo tipo di fenomeno nei suoi primi studi Javitch ( 1985 ) aveva

introdotto il concetto di «imitation of imitations» (ben esemplificato dal caso precedente in cui Ariosto si pone alla fine di un lungo processo imita­ tivo) con lo scopo di evidenziare quanto forte sia in Ariosto il senso della tradizione, rappresentata dalle diverse riscritture di una stessa fonte. In una seconda fase, però, egli ha preferito ricorrere piuttosto all'idea di un sin­ eretismo romanzesco-virgiliano (anch'esso ben rappresentato dall'esempio iniziale in cui Orlando è insieme Enea e Didone), di un compromesso, cioè,

fra le due componenti in gioco: epica e romanzo (Javitch, 1991; 2012 ) . Fer­ mo restando che, nell'insieme del poema, l'epica è inglobata dal romanzo e, per così dire, "romanzatà' (basti pensare al caso clamoroso di Cloridano e Medoro). Il concetto di compromesso è stato poi sviluppato da Looney che lo usa come guida nell'interpretazione dell'intera tradizione epico-romanzesca,

il «romance epic» (Looney, 1996 ) . Mi sembra che l'idea del compromes­ so, che coinvolge i generi assai più che gli autori, presupponga da parte dell'autore un grado e un tipo di consapevolezza che gli sono estranei. Più fruttuosa sulle macro che sulle microstrutture testuali, per gli episodi più che per i singoli frammenti, l'idea in un «romance epic» può valere piut­ tosto per autori come Giraldi, Alamanni, il Tasso del Rinaldo, i poemi dei quali sono costruiti proprio per dimostrare che è possibile creare una via di mezzo fra Ariosto e Trissino. Ma non si possono attribuire all'Ariosto preoccupazioni teoriche che sorsero più tardi e proprio nelle discussioni sulla natura del Furioso. Mentre il compromesso tende all'accordo e all'appianamento delle dis­ sonanze, la parodia le sfrutta e le acuisce. Ad analoghi procedimenti, insom­ ma, possono essere date interpretazioni di segno opposto. Noto però che

MARIA CRISTINA CABANI

quando, per esempio, Ariosto sposta il distico del IV sonetto dei Fragmenta «vegnendo in terra a 'lluminar le carte l ch'avean molt'anni già celato il ve­ ro» dalle sacre scritture all'anello magico e da Cristo ad Alcina, e lo fa con una notevole fedeltà letterale, non esiste altro termine che quello di parodia per designare la trasformazione (seppur minima), la decontestualizzazione e la ricontestualizzazione degradata che l'inserto petrarchesco subisce con effetti di violento spiazzamento semantico. Analogamente «e cada come corpo morto cade l e venga al negromante in podestate » (a descrivere gli effetti devastanti dello scudo di Atlante) è parodia (e nient'altro che paro­ dia) del dantesco «e caddi come corpo morto cade». In questi casi, infatti, la sovrapposizione della voce di Petrarca e di Dante a quella di Ariosto non produce un accordo, ma stride e comporta un notevole abbassamento stili­ stico, con un effetto quasi comico. Il rifiuto generalizzato del termine parodia è legato, come ho detto, al fatto che gli si annettono significati denigratori e degradanti. Nella mia accezione, invece, la parodia è semplicemente «una sovrapposizione di contesti letterari» alla quale possono essere legati o meno intenti satirici, ironici, comici ecc. La trasmigrazione da un genere alto ad uno "medio" (dalla lirica al romanzo, o dall'epica al romanzo) comporta di per sé stessa un abbassamento di registro che Ariosto sfrutta per indebolire l'autorevo­ lezza dei testi di riferimento. Per parodia, però, non intendo tanto l'effetto (da valutare di volta in volta) quanto il procedimento trasformativo in sé stesso. È parodia quella di Malipiero quando, in pieno Cinquecento, riscri­ ve il Canzoniere di Petrarca in chiave spirituale e con intenti del tutto seri; e quella di Tasso quando fa invocare Armida con il petrarchesco «Vergine bella». L'esame delle pratiche intertestuali coincide con la descrizione del­ le molteplici trasformazioni a cui sono sottoposte le parole degli altri nel momento in cui si rifiuta di citarle letteralmente e si opta piuttosto per una loro "esibizione dissimulata". I procedimenti che Ariosto mette in atto nell'impadronirsi della parola altrui sono stati descritti ed esemplificati da una serie di studi, a partire da quelli di Blasucci e Segre negli anni Sessanta. Basti ricordarli in breve, a partire dalla "ripresa ripetutà: cioè dalla ripetizione in occasioni diverse della medesima citazione, variata di volta in volta. Apprezzabile solo nella sintassi narrativa, il ritorno variato del medesimo prelievo con progressivo allontanamento dalla fonte primitiva è volto a mascherare sempre più il riferimento intertestuale e a trasformare la citazione dell'altro in autocita­ zione. Alla fine del processo, infatti, l'inter e l' intratestualità si fondono e il risultato è l'assimilazione totale.

INTERTESTUALITÀ

Non potendo diffondermi in esempi (ma consapevole che solo la serie giustifica l'esistenza di una categoria definibile come "ripresa ripetutà'), mi limiterò a riconsiderare da questo punto di vista il distico, già citato, che ac­ costa paradossalmente la rivelazione operata da Cristo (« Que' ch'infinita providentia et arte l mostrò nel suo mirabil magistero l [ ... ] l vegnendo in terra a 'lluminar le carte l ch'avean molt'anni già celato il vero»,

Rvf4 r-7)

a quella dell'anello magico che svela a Ruggiero le finzioni di Alcina («Gio­ vane e bella essa si fa con arte, l sì che molti ingannò come Ruggiero; l ma l'annel venne a interpretar le carte, l che già molt'anni avean celato il vero»,

VII

74). Mentre la prima volta, con effetto violento, Ariosto lo cita

quasi alla lettera, quando lo riutilizza per commentare la ventura di Ruggie­ ro («fu gran ventura quella di Ruggiero, l ch'ebbe l'annel che gli scoperse il vero»,

VIII 2,

7-8) il lettore riesce a individuare il ricordo petrarchesco

solo ritornando alla prima citazione, guidato dal fatto che si sta parlando di Ruggiero e dalla parola chiave «vero». «Scoperse il vero» appare allora, opportunamente, come contrapposto al petrarchesco e soprattutto arioste­ sco «celato il vero». Il progressivo allentamento dei rapporti con le fonti pone al lettore un altro genere di dilemma. Fino a che punto un riscontro intertestuale può essere ritenuto allusivo? Fino a che punto, in un commento, deve essere indicato al lettore? Il che significa chiedersi quanto fosse inten­ zionale l'uso di quelle parole da parte dell'autore. Nel caso esaminato, mentre appare indiscutibile l'allusività un po' blasfema della prima ci­ tazione, risulta indebolita e quasi di riflesso quella della seconda. Si ag­ giunga che in una lingua codificata come quelle del romanzo cavalleresco e del petrarchismo è difficile in certi casi distinguere la volontà dal caso. A questa difficoltà ha cercato a suo tempo di ovviare Cesare Segre di­ stinguendo l' intertestualità propriamente detta (e allusiva) dalla sempli­ ce interdiscorsività (Segre, 1966, p. 67 ) . Per Ariosto la lingua del poema cavalleresco (con i suoi retaggi canterini) e, analogamente, il linguaggio petrarchista, costituiscono codici di secondo livello, grammatiche già uti­ lizzate e riutilizzabili. Si deve sempre a Segre la definizione del concetto di vischiosità come forma di aggregazione delle riprese. Segre osservava infatti che una ripresa se ne porta sempre dietro altre che le possono essere associate, sia conte­ stualmente, sia per fattori metrici (la rima in primis). È interessante osserva­ re che nei fenomeni di vischiosità il significante finisce spesso per prevalere sui significati, le rime per portarsi dietro le parole e i loro significati. Lo vedremo fra breve, parlando dell'ottava. x6s

MARIA CRISTINA CABANI

Altrettanto importante fra le pratiche trasformative descritte (Segre,

I966; Blasucci, I969 ) è la cosiddetta "diffrazione': grazie alla quale un sin­

golo prelievo può essere smembrato e riecheggiato più volte illustrandone e sviluppandone di volta in volta aspetti diversi. La si analizza particolar­ mente bene nelle similitudini, che sono anche il luogo ideale per osservare le diverse fenomenologie intertestuali (contaminazione, ripresa ripetuta, diffrazione, vischiosità). Non di rado, infatti, la stessa similitudine tende a ripetersi variata di volta in volta, o a incrociarsi con altre similitudini affini o con diverse interpretazioni della medesima, a smembrarsi per essere ri­ chiamata frammentariamente in diversi luoghi del testo. La fenomenologia della similitudine è stata studiata di recente e con ricca serie di esempi da Veronica Copello (20I3 ) .



Accanto al termine di parodia, al quale ho fatto cenno, viene qualche volta usato, per caratterizzare l'atteggiamento di Ariosto nei riguardi delle sue fonti, quello di ironia, da molti considerata come una funzione della paro­ dia. Sull'ironia come vera e propria strategia narrativa molto si è insistito anche in tempi recenti (Forni, 20I2; Musarra, 20I3; Sangirardi, 20I4 ) . Qui

interessa solo considerarla in relazione all' intertestualità e fra le sue fun­ zioni.

È evidente che l'uso di parole altrui

(di un altro testo) per esprimere

sé stesso rappresenta uno schermo ironico, nel senso che opera una sorta di distanziamento e di depotenziamento (o deresponsabilizzazione) rispetto a quanto viene enunciato. Fra gli esempi più clamorosi si potrebbe citare la confessione del canto XXIV.

Nel punto più alto del poema (e al suo centro), di fronte a Orlando

pazzo, Ariosto confessa di essere anch'egli un debole e per questo vicino al suo eroe. L'apparente sincerità di tono («Ben mi si potria dir- frate tu vai l l'altrui mostrando e non vedi il tuo fallo») è però presto inficiata dalla considerazione che le parole che Ariosto usa per la sua confessione sono in realtà di Petrarca («Ben si può dire a me- Frate tu vai l mostrando altrui la via, dove sovente l fosti smarrito»), mescolate ad altri riferimenti orazia­ ni e ovidiani che Petrarca stesso aveva fatto suoi. In tal modo, il massimo di presunta vicinanza al lettore viene a coincidere con il momento di più densa letterarietà con un effetto di distrazione dal significato del discorso e di smorzamento del pathos. Proprio in questo apparente non immede­ simarsi troppo sta il fascino dell'ironia ariostesca che si manifesta con un 166

INTERTESTUALITÀ

programmatico smorzamento tonale al quale contribuisce, non poco, an­ che l'i perletterarietà.

6.

La forma dell'ottava e la sua struttura rimica sono fra i principali veicoli della memoria intertestuale e della parodia.

È evidente- ma non abbastan­

za ricordato- che il Furioso, in quanto poema in rima, tende a richiamare prima di tutto versi e rime appartenenti ad altri testi. Anche il dantismo e il petrarchismo ariosteschi, insomma, sono per gran parte legati a fenomeni di memoria ritmico-sintattica e verbale (di parole in rima). Basti ricorda­ re la disinvoltura con cui Ariosto riadatta, con notevole effetto parodico, un raro schema rimico e verbale del Trionfo della Fama (principio: Scipio: mancipio) per tessere il rimprovero che Melissa in forma di Atlante rivolge a Ruggiero, traviato dalla nefasta passione per Alcina: Questo è ben veramente alto principio onde si può sperar che tu sia presto a farti un Alessandro, un lulio, un Scipio! Chi potea, ohimè! di te mai creder questo, che ti facessi di Alcina mancipio? ( Ofvn

59,

r-s)

Da man destra, ove gli occhi in prima porsi, la bella donna avea Cesare e Scipio, ma, qual più presso, a gran pena m'accorsi: l'un di vertute e non d'amor mancipio, l'altro di entrambi. E poi mi fu mostrata, dopo sì glorioso e bel principio (T.F.

)

I 22 .

Il lettore inconsapevole potrebbe restare disorientato a un primo impatto dall'insolito tenore retorico del discorso di Melissa, con l'evocazione di no­ mi celebri nella storia e l'impiego di un latinismo raro come mancipio (un

hapax nel poema). Si può aggiungere che in questo caso il riconoscimento dell'allusione è fondamentale per comprendere davvero il significato del testo. Quello di Ruggiero, in effetti, è proprio un trionfo alla rovescia. La catena delle reminiscenze è innestata dal rimprovero ironico («Questo è ben veramente alto principio»), cioè il contrario del «glorioso e bel prin­ cipio» del trionfo petrarchesco. La parola principio richiama mancipio , inu­ suale, ma comunque adattabile al passionale Ruggiero che ha rinunciato

MARIA CRISTINA CABANI

alla « vertute » per diventare l'amante di Alcina. Ma non è tutto. Al ricordo petrarchesco, infatti, si sovrappone quello dantesco secondo quel princi­ pio della «imitation of imitations» più volte ricordato. L'avvio e la forma dell'invettiva di Melissa sono infatti dantesche e forse proprio da Dante, dalla rampogna di san Pietro contro la corruzione della Chiesa, potrebbe derivare, oltre che il passo petrarchesco, il primo stimolo alla complessa rammemorazione ariostesca: Del sangue nostro Caorsini e Guaschi s'apparecchian di bere: o buon principio, a che vii fine convien che tu caschi! Ma l'alta provedenza, che con Sci pio difese a Roma la gloria del mondo, soccorrà tosto, sì com'io concipio (Pdxxvn 58-63).

Gli exempla (uno in Dante, due in Petrarca, tre in Ariosto, ma sempre man­ tenendo Scipio in rima) possono essere utilizzati ironicamente per indicare quello che Ruggiero non sarà mai. Ma è chiaro - e questo ci interessa che tutto il rimprovero di Melissa è forgiato entro lo schema preordinato delle rime petrarchesche e che sono quelle, in ultima analisi, a dar forma al discorso. Come è evidente, lo spostamento dell'intera impalcatura ar­ gomentativa da un contesto alto ad uno di minor ambito stilistico ha una funzione parodica. La parodia può essere anche il risultato della semplice "transmetrizza­ zione". Già nell'esempio precedente a formare l'ottava ariostesca conflu­ ivano due terzine petrarchesche e prima dantesche. Quando giunge ad Ariosto l'ottava non è una forma neutra e senza storia, ma ha alle spalle una tradizione già connotata come medio-bassa: di conseguenza ogni trasferi­ mento di miti, temi, topoi e parole da contesti più elevati (lirici o narrativi) all'ottava comporta quasi di necessità un abbassamento. Si aggiunga che l'ottava è una forma ampia e fluente che ha bisogno di essere letteralmente "riempirà' se si intende dilatare in essa (con raddoppiamenti, diteologie, serie verbali, parafrasi) il contenuto di una strofa di misura inferiore come la terzina. Viceversa, quello stesso movimento ternario può essere contratto nella spiccia chiusura di un distico baciato, con diversi procedimenti, ma con effetti equivalenti (di rallentamento in un caso, di accelerazione nell'al­ tro, ma sempre deformanti). Non si considera mai abbastanza, io credo, come la trasformazione di un esametro in endecasillabo, la riduzione di una terzina a un distico o la sua espansione con il mezzo della perifrasi all'interno di porzioni più

!68

1NTERTESTUALITÀ

vaste in seno all'ottava, o, ancora, come la traduzione in ottava di un so­ netto o di una sua parte siano sufficienti a modificare del tutto il tono di un enunciato, ora stipato in un distico baciato, ora disteso e quasi diluito in dittologie ed enumerazioni o in dettagli accessori e perfino in zeppe che lo allungano ma che, nello stesso tempo, ne attenuano la forza. Quando si osserva che Ariosto, traducendo i classici latini o riscrivendo quelli volgari, tende a inserire figure tipiche dell' aequitas petrarchesca come le dittologie e le serie verbali, si rischia qualche volta di scambiare l'effetto con la causa, perché non si tiene conto del fatto che spesso quelle figure svolgono prima di tutto un ruolo di espansione e di riempimento; è merito di Ariosto aver saputo risemantizzarle. Blasucci e, dopo di lui, Copello hanno illustrato analiticamente come riscrivendo nell'episodio di Astolfo tramutato in mirto la similitudine im­ piegata da Dante per descrivere il faticoso uscire delle parole dallo «stizzo verde» di Pier delle Vigne («come d'un stizzo verde ch'arso sia»1) Ariosto «stemperi l'intensa icasticità espressiva» di Dante, sviluppandone anche «gli spunti brachilogici e fulminei» (Blasucci,

2014, p. 93) . La trasforma­

zione della similitudine è pressoché totale - ma non al punto da risultare irriconoscibile - e tutta mirata al ribasso. Basti qui osservare il distico ba­ ciato ariostesco («così murmura e stride e si coruccia l quel mirto offeso, e al fin apre la buccia»), con la sua serie verbale espressiva anche da un punto di vista fonico («murmura[...]stride[...]coruccia») che fa da trampolino alla geniale espressione finale «apre la buccia», coerente con il soggetto metamorfico che parla. Quella stessa immagine, nella sua inevitabile co­ micità, stempera ogni aspetto tragico della descrizione dantesca («sì della [de la in nota 6] scheggia rotta usciva insieme l parole e sangue»). Come nota Copello

(2013, p. 203), «Ariosto sembra guardare al microscopio» il

fenomeno che descrive, con l'effetto di "divertire" il lettore in tutti i sensi: si deve infatti ricordare che nelle riscritture ariostesche è sempre presente anche una notevole componente iudica. Eppure la dilatazione analitica ri­ sponde anche e prima di tutto al contenitore di cui Ariosto dispone. Non a caso, nella sua nuova forma la similitudine riempie per intero l'ottava, entro la quale ripartisce equamente (sestina +distico) i suoi due membri per completarsi nel distico iniziale della seguente. La parodia metrica è un aspetto fondamentale delle riscritture ario-

S· Jfxm 40-44: «Come d'un stizzo verde ch'arso sia l da l'un de' capi, che da l'al­ tro geme l e cigola per vento che va via, l sì de la rotta scheggia usciva insieme l parole e sangue».

MARIA CRISTINA CABANI

stesche, essendo l'ottava la forma del suo pensiero e della sua poesia, «lo strumento capitale di tutte le sue operazioni non solo narrative o liriche, ma anche ironiche e demiurgiche» ( Blasucci, 20I4, p. I34) . Nello stesso tempo l'ottava garantisce quel senso di sostanziale uniformità e omologa­ zione che il dettato ariostesco offre al lettore; una sorta di appianamento delle differenze.



Torniamo alla domanda iniziale: se e in che cosa differisce l' intertestualità del Furioso rispetto a quella di altri poemi fondati analogamente sul princi­ pio dell' imitatio? Esiste un uso diverso dell' intertestualità in correlazione con le diverse fasi storico-culturali? Per il momento posso solo riprendere alcune considerazioni che mi è capitato di fare riguardo all'uso dei classici volgari. Come ho detto, Pulci adotta un principio di ostentazione delle sue auctoritates e in particolare di quella dantesca, riferendosi a Dante come «maestro e auttore»; ma si avvale spesso anche di Petrarca, soprattutto quello dei Trionfi, collocandolo senz'altro a un gradino inferiore rispetto al grande maestro. Nel corso del poema, e soprattutto nei numerosi inserti po­ lemici, i nomi si moltiplicano, sovrapponendo personaggi veri a personaggi mitico-leggendari (Alcuino, Lattanzio, Turpino). Pulci è nell'insieme un autore ancora medievale, alla ricerca, lo dice lui stesso, di guide per il suo cammino ( Cabani, wos). Da questo punto di vista, è dunque soprattutto con Boiardo che Ariosto deve essere confrontato. Boiardo è un autore forse più colto di Ariosto in campo classico. È po­ eta e traduttore, conosce anche fonti rare e preziose. Come ha illustrato con ricchissima messe di esempi Cristina Zampese ( I994 ) , Boiardo è anche in grado di contaminare fonti diverse all'interno dello stesso episodio e di produrre abili sintesi fra classici e medievali. A differenza di Pulci, Boiardo mostra una memoria di tipo libresco, che non può non appoggiarsi a dei testi o a dei repertori che egli ha sottomano. Cristina Zampese ha oppor­ tunamente corretto un certo «scoraggiante pessimismo» che induceva a concludere che «il Boiardo si comporta con i suoi auctores in modo tale da non rendere quasi possibile parlare di fonti». Anche se «l'impronta dei classici» deve essere talvolta «pazientemente individuata» ( Zampese, I994, pp. 265-6), proprio perché Boiardo tende a cancellare le tracce, in molti casi essa è perfettamente riconoscibile. Resta vera, in ogni caso, la sensazione di fondo espressa da Bruscagli, cioè quella che «il comportaJ70

INTERTESTUALITÀ

mento narrativo e stilistico [assai più che nel

Furioso]

dell'Innamorato è l'implacabile sottomissione

di ogni memoria classica al colore romanzesco

del testo, la cui unitarietà, in questo senso, è a tutta evidenza studiosamente tutelata dall'autore» (Bruscagli,

2003, p. 22). Nonostante la difficoltà che

si incontra a stabilire, di fronte a simili processi di intertestualità composita, tipi diversi di funzione o effetti diversi, è indubbio che l' intertestualità ario­ stesca, se raffrontata a quella di Boiardo, mostra una maggiore maturità in senso classicistico e una diversa e più accentuata volontà allusiva (Ferretti,

Generi). Più che di un processo di mimetizzazione, si potrebbe allora par­ lare, per lui, di un'arte dissimulatoria verificabile del resto ad altri livelli del testo (anche grazie ali' ironia).

Furioso deve essere confrontato, come ha fatto del resto una fin troppo lunga tradizione di studi, con la Li­ berata. Quella di Tasso nei confronti di Ariosto appare per molti aspetti una sorta di rimozione (Cabani, 2005). Tasso tende insomma a minimizzare Sull'opposto versante cronologico, il

l'incidenza del retaggio ariostesco, accogliendo di preferenza i luoghi del

Furioso di derivazione classica, come se il Furioso fosse in qualche modo no­ bilitato in quanto mediatore di una tradizione autorevole. Le sue strategie di occultamento, negazione e correzione producono un genere di allusività del tutto originale, che potremmo definire reticente. Certo è che fra Ario­ sto e Tasso insorge una vera e propria rivoluzione nel settore dell' imitatio. Mentre Ariosto imita con una certa libertà, Tasso ha in mente una precisa gerarchia intertestuale, gli autori da imitare e da esibire, quelli da escludere nell'ottica del perfetto poema eroico (ne sono testimonianza i

Discorsi).

Analizzando in particolare il suo riuso dei classici volgari, ho cercato di mettere in luce una maggiore aderenza del dantismo e del petrarchismo tassiani al racconto e ai personaggi della Liberata. Mentre nel Furioso l'in­ serto petrarchesco produce non di rado effetti parodici (di distonia), nella

Liberata la metafora lirica si sviluppa consequenzialmente dando vita a per­ sonaggi psicologicamente coerenti e petrarchisti in senso pieno (Clorinda, donna-nemica, Erminia, la prigionia amorosa, Tancredi, il malato d'amore) (Scarpati, I99 s; Ferretti, 20!0 ). Poco credibili, invece, sono un Sacripante o un Rodomonte innamo­ rato, e lo stesso Orlando, come ben aveva intuito Boiardo, ha qualcosa di ridicolo nella sua debolezza amorosa. A differenza di Ariosto, Tasso mira a rendere le fonti funzionali e aderenti alla qualità e soprattutto al registro della narrazione. Il procedimento è lo stesso (trasformativo e dunque paro­ dico), gli effetti diversi. Lo stesso narratore, del resto, mantiene come punto di riferimento Virgilio, mentre quello ariostesco oscilla fra il canterino, il

171

MARIA CRISTINA CABANI cortigiano, l'Ovidio dell' ars amandi, l'Orazio satirico assumendo di volta in volta aspetti differenti, talvolta contraddittori (Cabani, 2oo8). Le ultime osservazioni potrebbero essere dedicate all' imitatio in un epi­ gono come Marino. Per Marino l' intertestualità è una fra le tante manife­ stazioni di esibizionismo. Marino, onnivoro, si diverte a smembrare, dilata­ re, ripetere, accumulare i lacerti della tradizione. Non ha alcuna gerarchia di fonti, ma va a cercare quelle più rare, per dimostrarsi un bravo ladro. Quello che viene meno, direi, è proprio il senso della tradizione non solo nel suo ruolo di auctoritas (essendo ormai la novità il primo obiettivo), ma anche nel suo spessore diacronico, come gerarchia di testi, adesso appiattita in una sorta di patchwork mirato a dare «nuova forma» alle «cose vecchie». Il mito dell'antico (la poetica del noto, dell'evocazione) è definitivamente tramontato, soppiantato da quello della novità e dello stupore. Questa prima panoramica non esaurisce certamente i molteplici aspetti e le funzioni dell' intertestualità ariostesca. Enuncio soltanto altre domande da formulare, altre linee di indagine da seguire. Potremmo, per esempio, chiederci se l'atteggiamento di Ariosto nei riguardi dei testi imitati sia sem­ pre lo stesso. In questa sede ho cercato di indicare delle costanti (l'ironia, la parodia, l'omologazione attraverso il metro ecc.). Ma è certo che, così come accoglie in sé generi e registri diversi, allo stesso modo Ariosto adegua ad essi gli autori che li hanno praticati. Osser va Stefano Jossa che, in linea di massima, mentre Virgilio «si configura come modello epico funzionale al prestigio delle sequenze narrative», Ovidio rappresenta piuttosto «il mo­ dello romanzesco funzionale al gioco delle combinazioni e delle trasfor­ mazioni», Orazio «il modello lirico» ovvero «satirico», «specialmente in certe ottave riflessive e pensose». Fra i moderni, al contrario, mentre Petrarca «si limita a definire la forma della riscrittura, Dante ne definisce, invece, il momento espressivo, lo scarto» (]ossa,

I996, pp. 7I-I24).

Queste osservazioni sono in parte vere, ma appaiono nel complesso limitate dal bisogno di incasellare i debiti di Ariosto entro categorie presta­ bilire. Se è vero, per esempio, che Ovidio è indicato già dai commentatori cinquecenteschi come modello romanzesco, o come modello epico alter­ nativo a Virgilio, è altrettanto vero che per Ariosto rappresenta anche un modello lirico (gliAmores) e, soprattutto, un modello di narratore ironico. Limitare poi Petrarca alla "forma della scritturà' significa ignorare che la ripresa di Petrarca nel Furioso interseca tutti i livelli del testo, compreso quello tematico (la pazzia di Orlando). Ma, soprattutto, Ariosto contamina disinvoltamente autori e registri diversi rendendo difficile l'identificazione dei rispettivi ruoli. Come è stato illustrato da una serie di studi, anche un

INTERTESTUALITÀ

episodio scopertamente eroico come quello di Cloridano e Medoro finisce per trasformarsi, mediante la contaminazione, in un episodio romanzesco.

8.

Prima di chiudere, pongo un interrogativo ovvio, ma al quale non ho mai trovato risposte soddisfacenti. Come lavorava Ariosto? La domanda non è una riformulazione del celebre titolo continiano, ma si riferisce a come ci figuriamo Ariosto al suo tavolo di lavoro. Teneva sul tavolo tutti i suoi classici? Usava dei repertori e dei rimari? O aveva una memoria portento sa? A quanto mi risulta, questa indagine è tutta da fare e non so certo dare una risposta. Da un lato è più che evidente che la sua assimilazione degli autori classici e volgari era tale da consentirgli di esprimersi con loro e attraverso di loro. Alla ricerca di una lingua, Ariosto si appoggiava al già detto come alla migliore forma di espressione confezionata, a un vocabolario organizzato in parole, ma anche in costrutti assai più complessi.

È quanto accade,

per

esempio, nel caso del petrarchismo, anche se nel campo della lirica il gioco è più facile, essendo ridotte le possibilità di espressione. Al pari dell'ottava, l' intertestualità appare di conseguenza-lo ricordoconsustanziale alla sua scrittura. E non stupisce che, educato all'interno di una cultura classicistica, Ariosto avesse in mente un gran numero di versi e di sentenze danteschi o petrarcheschi. Credo però che, anche in questo caso, non si possa fare d'ogni erba un fascio. Mi riesce infatti difficile im­ maginare un Ariosto che compone l'episodio di Cloridano e Medoro ri­ cordando a memoria Virgilio e a Stazio e traducendoli all'impronta per poi intarsiarli mirabilmente. Sul polo opposto, cioè dalla parte del lettore, se immaginiamo un Ario­ sto che studia le sue fonti e le mescola con una sorta di operazione alchemica, dobbiamo anche pensare ad un lettore che sa stare al gioco. Un lettore colto e dotato di buona memoria, ma non necessariamente in grado di cogliere tutti i riferimenti e tanto meno le loro trasformazioni. Mi riferisco, è ov­ vio, al lettore ideale, perché il lettore comune può accontentarsi della bella storia. Pur essendo difficile distinguere a priori la volontà allusiva esplicita dalla memoria involontaria o dal semplice modus scribendi, è evidente che il Furioso è comunque un grande costrutto allusivo entro il quale Ariosto

dirotta continuamente l'attenzione del lettore dalla parola autorevole ( la

citazione ) alla sua forma contraffatta e ai modi della trasformazione quasi ostentando-e in certi luoghi più che in altri -la letterarietà. Al pari di altre

173

MARIA CRISTINA CABANI

forme di distanziamento ironico, il filtro letterario assolve a una funzione di schermo, un modo per dire e non dire, per proteggere sé stesso e il lettore da un impatto troppo diretto con le difficoltà, le incongruenze e i dolori dell'esistenza e, di conseguenza, dalla follia. Orlando "smania': Ariosto no; Orlando impazzisce, Ariosto mantiene un «lucido intervallo» che coinci­ de con la sua visione ironica, a tratti quasi stoica dell'esistenza. Ma anche nella scelta di rimettersi alla parola altrui, Ariosto non abbandona il suo equilibrio evitando accuratamente gli estremi: quello della citazione diretta

( adesione totale all'altro) e quello del rovesciamento parodico. Una giusta

via di mezzo, dunque, che appartiene alla base ideologica del poema ancor più che alle sue scelte stilistiche e alle sue strategie compositive.

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Ironia di Stejàno fossa

I.

Nel

XIV

canto dell'Orlando furioso entra in scena un grande guerriero

dell'esercito saraceno, il «feroce Mandricardo», figlio di Agricane, re di Tartaria e detentore delle armi di Ettore: mossosi alla ricerca di un cavaliere anonimo dall'armatura nera ( in realtà Orlando, che si era vestito di nero per manifestare anche di fuori il suo stato d'animo infelice ) , s'imbatte in un gruppo di soldati di Granada che scortano la figlia del loro re per darla in moglie al re di Sarza, Rodomonte. Incuriosito dalla fama della donna e desideroso di cimentarsi in duello, Mandricardo sfida e uccide i soldati: vi­ sta la donna, che si chiama Doralice, dimentica l'inseguimento e la consola con parole tali da farle presto abbandonare la paura e accettare la situazione. Trascorrono dunque la notte insieme, ma il narratore preferisce evitare il resoconto e ammiccare al lettore: Quel che fosse dipoi fatto all'oscuro tra Doralice e il figlio d'Agricane, a punto racontar non m'assicuro; sì ch'al giudicio di ciascun rimane. Creder si può che ben d'accordo furo; che si levar più allegri la dimane, e Doralice ringraziò il pastore, che nel suo albergo le avea fatto onore (O/XIV 63).

Tutto l'episodio è un contrappunto d'ironia, dal fatto che il feroce Mandri­ cardo si riveli un provetto corteggiatore petrarchista alla rapida disponibi­ lità di Doralice a farsi consolare; ma la sospensione allusiva del racconto da parte del narratore apre lo spazio, dopo le incoerenze e le sorprese, dell' ipo­ tesi alternativa, dove c'è stavolta un più probabile eppur sempre non certo. Non citava questo episodio, ma il commento del narratore alla successiva

177

STEFANO ]OSSA

prova di disponibilità da parte di Doralice dopo l'uccisione di Mandri­ cardo per mano di Ruggiero, il più grande critico italiano dell'Ottocento, Francesco De Sanctis, nel capitolo

sull'Orlando furioso

del primo volume

della sua Storia della letteratura italiana (I87o ): Io dico forse, non eh' io ve l'accerti, ma potrebbe esser stato di leggiero:

[... ]

Per lei buono era vivo Mandrieardo: ma che ne volea far dopo la morte?

( Ofxxx 72, 1-2; 73, 1-2)

De Sanctis leggeva in questi versi una delle tante manifestazioni di un'i­ ronia che non prende nulla sul serio e toglie dignità ai valori dei suoi ca­ valieri, sintomo di un «riso scettico», che rende tutto accettabile, ma al tempo stesso esangue e slavato: l'ironia ariostesca era per lui strumento di distanziamento dal mondo rappresentato per evitare ogni forma di coinvol­ gimento ed esaltare la luce pura dell'arte (De Sanctis, I996, p. 453). Poco più di un secolo dopo un altro grande critico, l'americano Donald S. Carne­ Ross, citava invece il primo episodio come esempio di «vitale instabilità», capace di spiazzare il lettore grazie alla giustapposizione di piani diversi, dove facciamo esperienza della casualità, «del qua e là delle cose», della «brillante, intensa insensatezza dell'esistenza» (Carne-Ross, I976, pp. I728; trad. mia). La distanza tra De Sanctis e Carne-Ross si spiega in gran parte con il secolo che li separa e la differenza di ambienti culturali; ma è anche segno di due concezioni opposte dell'ironia ariostesca, la prima scettica, negativa e distruttiva, che la colloca alla fine del Medioevo, e la seconda umorale, digressiva e vitalistica, che ne fa il capostipite del romanzo moderno.

2.

Recensendo il romanzo

The Amaranthers di Jack Butler Yates, fratello mi­

nore di William Butler Yates, sul numero di luglio-settembre del I936 di "The Dublin Magazine': Samuel Beckett ne celebrava l' «ironia arioste­ sca», «altrettanto lieve e intermittente e ricavata dallo stesso impatto tra la realtà dell'immaginato e la reminiscenza dei suoi elementi», per cui «il volto rimane grave ma la mente ha sorriso» (Beckett, I99Ia, pp. I22-3): «la discontinuità è ariostesca», scriveva Beckett, individuando in Ario­ sto il precedente di una poetica della «mobilità e autonomia di ciò che è

IRONIA immaginato» (ivi, p.

I23)

che già era la sua. Qui Beckett distingueva tra

l'ironia di chi, come Ariosto, sa muoversi nello spazio tra la realtà e la sua rappresentazione e la satira di chi, come Swift, punta soprattutto allo scan­ dalo e alla distruzione. In Yates Beckett riconosceva un risolino (in italiano nell'originale) che quasi vent'anni dopo riterrà la cifra stilistica della pittura di Henri Hayden, il cubista ebreo-polacco dalle cui tele, sempre a giudizio di Beckett, si «sprigiona un umorismo appena percettibile, appena triste, come di chi si appresta un'ultima volta ai giochi di un favoloso caro e tra­ scorso, un risolino ariostesco» (Beckett, I99Ib, p. 208 ). Un sottile fìlo ariostesco si dipanava dunque nelle preferenze estetiche di Beckett, tra letteratura e pittura, all'insegna di un'ironia che gioca con la materia, scompone senza distruggere e favoleggia in libertà: strumentaliz­ zando Ariosto ai propri fini, ma anche forse capendolo più in profondità di tanti critici del suo tempo, Beckett interveniva in un dibattito sui rapporti tra ironia e umorismo che aveva caratterizzato tutta l'estetica moderna. L'ironia ariostesca era nata infatti come categoria critica nel quadro estetico dell'opposizione tra classici e romantici proposta dal gruppo diJe­ na sulla rivista "Athenaum", come ha spiegato di recente Rivoletti

(20I4):

svincolando il romanzo cavalleresco dalla poesia antica e collegandolo al romanzo moderno di matrice romantica ali' insegna del «grottesco», dell' «arabesco» e della «fantasia», nel Dialogo della poesia

(I8oo )

Frie­

drich Schlegel faceva di Ariosto, insieme con Cervantes e Shakespeare, un precursore di Swift, Sterne, Diderot e Jean Paul, i primi grandi interpreti di «un romanzo che riproducesse fantasticamente ogni tono eterno della fantasia e ricreasse nuovamente il caos del mondo cavalleresco» (Schle­ gel,

2008,

pp.

687-8).

Essendo il grottesco e l'arabesco, sinonimicamente

usati da Schlegel, la forma di «una confusione artisticamente ordinata», di un' «affascinante simmetria di contraddizioni» e di un «meraviglioso eterno alternarsi di entusiasmo e ironia» (ivi, p.

675),

Ariosto entrava a

pieno diritto nel quadro dell'ironia romantica, che è un metodo filosofico, forse il metodo fìlosofico per eccellenza, che impedisce al soggetto di an­ nullarsi nell'oggetto, ma al tempo stesso evita lo scetticismo di chi dall'og­ getto si tiene semplicemente distante e ne proclama l' inconoscibilità. Grazie all'ironia il soggetto può entrare in contatto con l'oggetto sen­ za farsene fagocitare, ma anche senza sentirsi superiore: l'ironia impone il confronto costante tra reale e ideale, finito e infinito, limiti umani e aspira­ zioni divine. Ariosto moderno, quindi, addirittura romantico, perché aveva saputo esprimere i limiti dell'umano senza rinunciare ad ambire al divino, mostrando le contraddizioni tra reale e ideale, miseria del contingente e

179

STEFANO ]OSSA

grandezza dello spirito, attraverso un principio compositivo fondato sul­ la commistione dei generi e l'alternanza dei toni, un "caos artificialmente costruito". Correggeva l'interpretazione di Schlegel Georg Wilhelm Frie­ drich Hegel, che nelle sue Lezioni di estetica berlinesi, tenute tra il il

1829,

1820 e

considerava Ariosto il primo interprete del «dissolvimento della

cavalleria», grazie a «le infinite complicazioni dei destini e degli scopi, l'intreccio leggendario di rapporti fantastici e di circostanze impensabili, con le quali il poeta gioca in modo avventuroso fino alla leggerezza» (He­ gel,

2012, p. 1497 ):

Vi sono follia e stramberia pure ed evidenti che i suoi eroi devono trattare con serietà. In modo particolare l'amore viene spesso ridimensionato dali'amor divino di Dante, dalla tenerezza fantastica di Petrarca alla stregua di storie sensualmente oscene e scontri ridicoli, mentre l'eroismo e il valore sembrano spinti sino a un punto nel quale non suscitano più un meravigliarsi religioso, bensì unicamente ilarità in riferimento all'incredibilità delle imprese (ibid.).

Pur capace di rappresentare ancora le grandi passioni dei cavalieri medie­ vali, Ariosto «consente in una maniera lievemente velata che il fantastico si disperda scherzosamente in sé stesso, con incoerenze bizzarre» (ivi, p.

2631) . Poeta dello scherzo e dello spasso, Ariosto è inesorabilmente antico e indiscutibilmente comico, senza più nulla di quella complessità, instabilità e mobilità che lo rendevano progenitore ideale dell'arte romantica. Sospeso fra Schlegel e Hegel, moderno e antico, umoristico e comico, Ariosto diventava ironico a pieno titolo solo nella critica italiana, grazie alla proposta di Vincenzo Gioberti nel Primato morale e civile degli italiani

(1843)

di valorizzare la «fusione intima» di eroico e comico nel poema,

«quella unità e armonia dei concetti, quella fluttuazione dilettevole fra la gravità ed il riso, che si risolve

[.] .

.

in una ironia dolce, arguta, socratica,

leggiadramente maliziosa, che ti lascia spesso in dubbio, se l'autore parli in sul sodo, o con garbo, motteggi» (Gioberti,

1843, p. 239).

Gioberti apriva

la strada a quell'ironia come arte pura e scherzo dell'arte che sarebbe diven­ tata il marchio indelebile delle letture del poema ariostesco di lì a poco. A partire da qui, infatti, De Sanctis faceva dell'ironia ariostesca il sintomo di un vuoto poetico, la manifestazione dell'artista senza vita, intento al puro culto della forma fine a sé stessa, senza alcun senso della religione, della politica e della morale:

L'Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto, positivo e negativo.

È un mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali, un mondo 180

IRONIA

puro dell'arte, il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell'immaginazione l'ideale della forma. L'autore vi si travaglia con la più grande serietà, non ad altro inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione, così nell'insieme come ne' più pic­ coli particolari. Il poeta non ci è più, ma ci è l'artista che continua il Petrarca, il Boccaccio, il Poliziano, e chiude il ciclo dell'arte nella poesia. Ma poiché in fine questo mondo così bello, edificato con tanta industria, non è che un giuoco d' im­ maginazione, vi penetra un'ironia superiore, che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro umore (De Sanctis, 1996, pp. 389-90).

L'ironia non è più lo strumento di una riflessione sul rapporto tra limiti e sogni, reale e ideale, finitudine della materia e infinità dello spirito, ma è solo un atteggiamento scettico e riduttivo, tipico di chi non crede a nulla, neppure alla propria stessa creazione poetica. De Sanctis oscilla continua­ mente tra l'ammirazione estetica per gli autori classici e la condanna etica del loro lavoro, ma con Ariosto l'oscillazione si fa spiegazione storica della fine di un mondo e dell'inizio di uno nuovo: Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione, è ciò che dicesi capriccio e umore. Se non che il poeta è zimbello spesso della sua imma­ ginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l'ultima finitezza. Di che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all'ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perché questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l'uno nell'altro, sono la rappresentazione artistica dell'un mondo con sopravi l' impron­ ta dell'altro. In questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell'autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano (ivi, pp. 454-5).

Umorale anziché morale, Ariosto era inesorabilmente antico di fronte a una modernità che esigeva vitalismo, impegno e azione nell'arte (cfr.

STEFANO ]OSSA

Quondam, 2001). De Sanctis lo ribadiva a chiare lettere in un saggio dello stesso 1871 su Parini, in cui contrapponeva l'ironia pensosa di quest'ultimo a quella disimpegnata di Ariosto: L'ironia dell'Ariosto è rivendicazione intellett uale. L'ironia pariniana è rivendi­ cazione morale. Nell'uno l'arte e la coltura è il tutto: manca l'uomo. Nell'altro l'uomo è il fondamento. L'ironia dell'uno è superficiale e allegra, perché scettica. L'ironia dell'altro è profonda e trista, perché credente. In quello senti rinascere l'intelligenza, in questo senti rinascere la coscienza (De Sanctis, 1871, p.

249

).

Il sistema di opposizioni delineato da De Sanctis (intelligenza/coscienza, arte/uomo, allegria/tristezza) non è neutro, ma ha un polo positivo e uno negativo, svelati, a chi non fossero chiari ideologicamente, da quell'antitesi tra superficiale e profondo, nonché tra scettico e credente, che illumina dall'interno la dialettica tra i due tipi d'ironia, l'ironia ariostesca e quella pariniana. L'ironia di Ariosto è insomma totalmente negativa sul piano etico, anche se si salva su quello artistico: dal momento che l'estetica de­ sanctisiana non prevede una separazione tra valore artistico e valore morale, tuttavia, ne risulta che l'ironia ariostesca è da condannare anche sul piano letterario. La formula "Ariosto poeta dell'ironia'' è rivolta dunque a sminu­ ire anziché celebrare Ariosto. Nel sistema desanctisiano Parini è moderno e Ariosto è antico, perché l'ironia di Ariosto non è romanticamente rivolta a scavare nelle contraddizioni dell'animo umano, ma solo classicisticamente rivolta a giocare col testo. L'ultima opposizione da aggiungere alla serie è quindi quella tra classico e romantico, antichi e moderni: senza spessore morale, Ariosto è condannato a un'ironia che è puro gioco formale, sbiadi­ to ed esangue inseguimento di effetti speciali che suscitano ammirazione, ma non commuovono e non arricchiscono. Nello schema restava imbrigliato anche un lettore del calibro di Luigi Pirandello, che intuiva il potenziale umoristico, quindi moderno, dell' iro­ nia ariostesca, ma la lasciava al di qua dell'umorismo, su una soglia che solo Cervantes riusciva a varcare, perché Ariosto «schiva il contrasto e cerca l'accordo tra le ragioni del presente e le condizioni favolose di quel mondo passato», ottenendolo «sì, ironicamente», ma con la conseguenza «che quelle condizioni non si affermano come realtà nella rappresentazione, si sciolgono, per dirla col De Sanctis, nell'ironia, la quale, distruggendo il contrasto, non può più drammatizzarsi comicamente, ma resta comica, senza dramma» (Pirandello, 2006, pp. 873-4; su cui cfr. Saccone, 2004). Bisognerà aspettare il saggio crociano del 1917 su Ariosto perché l'i­ ronia esca dalla connotazione di scherzo e denigrazione per assumere un

1

82

IRONIA significato, come dice Croce, metafisico, nel senso di uno sguardo supe­ riore che tutto contempla e tutto abbraccia: facendo coincidere ironia e armonia, Croce spossessava tuttavia l'ironia di qualsiasi potenzialità critica, perché essa non era più la romantica capacità di cogliere i limiti e puntare a oltrepassarli, ma l'esaltazione dell'amore per l'arte, col risultato che l'opera si staccava dalla sua realtà compositiva per divenire paradigma dell' intui­ zione pura. Ariosto avrebbe espresso in tal modo il «carattere di totalità dell'espressione artistica», come recitava il titolo del contemporaneo sag­ gio programmatico, datato I9I7 e pubblicato nel I918, dove si leggeva che «il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo; ed ogni schietta rappresentazione artistica è sé stessa e l'universo, l'universo in quella forma individuale, e quella forma individuale come l'universo»

( Croce, I99I, p. ns).

Facendo coincidere il particolare del poeta con l'uni­

versale della poesia, Croce faceva tornare Ariosto il primo dei romantici, sulle orme di Schlegel, ma, a differenza di Schlegel, gli consegnava una mo­ dernità che non era ironica, con Sterne e Diderot, bensì totalizzante e in sé compiuta, un continente anziché un arcipelago, per usare due metafore critiche proposte da Giancarlo Mazzacurati ( I987b) per descrivere la storia del romanzo moderno. Poeta della forma, capace di trasformare il caos in cosmos,

Ariosto non poteva più stare coi narratori della vita, digressivi e

umorali, al punto che l'ironia, formula sfuggente ( «la tante volte notata e denominata, e non mai bene determinata ironia ariostesca»), sfumava pro­ gressivamente nell'armonia, formula in grado di sottrarsi alla confusione tra ironia e umorismo: Si direbbe, l'ironia dell'Ariosto, simile all'occhio di Dio che guarda il muoversi della creazione, di tutta la creazione, amandola alla pari, nel bene e nel male, nel grandissimo e nel piccolissimo, nell'uomo e nel granello di sabbia, perché tutta l'ha fatta lui, e non cogliendo in essa che il moto stesso, l'eterna dialettica, il ritmo e l'armonia. Con che, dalla comune accezione della parola «ironia» si è compiuto il passaggio al significato metafisico che essa ebbe presso i fichtiani e i romantici, con la cui teoria spiegheremmo volentieri la natura dell'ispirazione ariostesca, se, presso quei pensatori e letterati, l'ironia non fosse stata poi confusa col cosiddetto umorismo e con la bizzarria e stravaganza, ossia con atteggiamenti che turbano e distruggono l'arte; laddove la determinazione critica da noi proposta si tiene rigorosamente nei confini dell'arte, come vi si tenne col fatto l'Ariosto, che non trascorse mai nell'umoristico e nel bislacco, indizio di debolezza, e ironizzò da artista, sicuro della propria forza. E, per avventura, questa è la ragione, o una delle ragioni, onde l'Ariosto non andò a grado agli scapigliati romantici, disposti a pre­ ferirgli il Rabelais, e, finanche, Carlo Gozzi (Croce,

1929,

p. 46).

STEFANO ]OSSA

Il punto di congiunzione tra De Sanctis e Croce è dato forse dal monumen­ tale studio diJohn Addington Symonds sul Rinascimento italiano, laddove scriveva che «neli'artistica armonia realizzata da Ariosto tra questi opposti elementi [l'osservazione della realtà e la tensione all'evasione] risiede il se­ greto della sua ironia» (Symonds, 1881, p. 9; trad. mia). L'ironia conciliava il fantastico e il realistico, l'esagerazione e la passione, il meraviglioso e il naturale; ma era ancora l'ironia, come per De Sanctis, a togliere al Furioso quella sublimità che appartiene solo a «opere di più grande serietà e più profonda convinzione» (ivi, p.

34).

La reazione della critica storicistica (di formazione crociana) alla lettu­ ra crociana di Ariosto ha determinato uno scivolamento progressivo della categoria dell'ironia verso un atteggiamento moralistico, finalizzato alla promozione dei valori moderni dell'umanesimo, con una quarta giravol­ ta nella storia dell'uso del termine: dopo l'ironia umoristica proposta da Schlegel, quella scettica desanctisiana (via Hegel) e quella armonizzata da Croce, l'ironia assumeva una funzione critica al fine di far rientrare dalla finestra Ariosto proprio nel canone estetico desanctisiano. Basti citare qui la lezione di Walter Binni, per il quale l'ironia dell'Ariosto non è «un sem­ plice capriccio, ma si mostra legata ad una sua prospettiva della vita, che lo porta continuamente a ironizzare i valori scaduti e non più vivi, ai quali egli sa ben contrapporre il suo senso profondo della libertà e della varietà della vita, in tutti i suoi più autentici e spesso nobili e generosi aspetti» (Binni,

1968, p. 274). Gli studi più recenti hanno tuttavia puntato a un Ariosto molto più filosofico e pensoso di quanto la critica otto-novecentesca sia stata disposta a riconoscergli. Cominciava il già ricordato Carne-Ross, quando scriveva polemicamente che i critici inglesi hanno spesso preso Ariosto per «uno scrittore umoristico o satirico», mentre «l"'ironia" di Ariosto non è dovu­ ta a scetticismo, sia esso canzonatorio o cinico; si tratta piuttosto di quello che De Gourmont chiama "uno spirito aperto alla comprensione multipla delle cose" [un esprit ouvert à la compréhension multiple des choses], un certo distacco emotivo dalla situazione in atto»

(1951,

p.

122;

trad. mia).

Venticinque anni più tardi, in un saggio destinato a un libro mai pubblica­ to, Carne-Ross

(1976) spiegava perché Cervantes è più capito e apprezzato

di Ariosto: due personaggi contrapposti come Don Chisciotte e Sancho Panza sono impossibili nell'orizzonte del Furioso, dove i personaggi si asso­ migliano tutti e aggiungono ciascuno qualcosa ali'altro. L'ironia starebbe proprio in questo costante prevalere della trama sul personaggio, perché a forza di ripetersi la situazione s'impone come più importante di chi la vive

IRONIA

e al tempo stesso la moltiplicazione non nega l'unità, istituendo più sottili nessi interni ( Carne-Ross, I976, pp. 148-9). Di qui le proposte più recenti di Albert Russell Ascoli (1987) di ricorrere all'ironia come dispositivo al­ legorico per aprire un altro piano di lettura e di Sergio Zatti (199o) di con­ siderarla uno strumento conoscitivo per indagare i meccanismi della fin­ zione poetica: liberata da pregiudizi estetici e svincolata da fini moralistici, l'ironia diventa finalmente meccanismo testuale per sviluppare una parola dialogica, allargare lo sguardo e istituire un senso altro. Ironici sarebbero, allora, ad esempio, tanto il riferimento alla capacità della frode di ingannare persino gli angeli ( «Ben che soglia la Fraude esser bugiarda, l purè tanto il suo dir simile al vero, l che l'angelo le crede», XIV 9 I, I -3) quanto i continui rimandi all'autorità di Turpino, perché Ariosto, nel depotenziare ironica­ mente i propri referenti, inviterebbe a riflettere sul valore di verità del suo stesso testo insieme ai loro: al punto che si potrebbe concludere, con Giulio Ferroni (2oo8, p. 2I5), che «l'ironia permette di riconoscere l'azione del "discorde voler': di prendere atto dell"'altra faccià' che sempre si nasconde sotto ogni asserzione, sotto ogni comportamento, sotto ogni verità». In Ariosto riconosceva un maestro d'ironia anche Italo Calvino, che in una conferenza del dicembre I959 si presentava al pubblico americano, rispetto ai «romanzieri dell'appassionata e razionale partecipazione attiva alla Storia», «nell'atteggiamento[ ... ] in cui Ariosto si trovava verso i poe­ mi cavallereschi»: «Ariosto che può vedere tutto soltanto attraverso l' iro­ nia e la deformazione fantastica», «così abile a costruire ottave su ottave con il puntuale contrappunto ironico degli ultimi due versi rimati», capace di insegnarci «come l'intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d'ironia, d'accuratezza formale» ( Calvino, I995, pp. 74-5). L'ironia diven­ tava lo strumento della consapevolezza del limite e del bisogno di umanità in un'epoca di trionfi tecnologici, ma soprattutto costruiva, in controluce, il ritratto di un «poeta che soffre di come il mondo è e di come non è e potrebbe essere, eppure lo rappresenta come uno spettacolo multicolore e multiforme da contemplare con ironica saggezza» ( Calvino, I970, p. XVI ) , che è il poeta in cui Calvino specchierà sempre sé stesso, il suo alter ego poetico e critico, utile a guardarsi da fuori per non prendersi troppo sul serio, ma anche a non smettere di credere nella propria missione di scrittore, perché «la posizione dell'ironista coinvolge necessariamente un livello di autoriflessività, una riflessione sulla propria stessa scrittura e sulla precarietà della propria ubicazione di fronte alla tradizione su cui si ironizza» (Re, 2003, p. 2I6, trad. mia ) . «Sentimento formale» anziché «esistenziale» era l'ironia ariostesca per un altro grande scrittore-lettore, Edoardo Sanguineti

STEFANO ]OSSA

(2ooo,

p.

67 ):

«risultato dello straniamento ariostesco», che «accompa­

gna inevitabilmente ogni gesto di prelievo e di spostamento».



La presenza di un atteggiamento ironico dell'autore nei confronti della sua materia non era tuttavia sfuggita ai primi lettori e commentatori del poema, in un contesto storico-culturale nel quale l'ironia era ormai piena­ mente legittimata come strumento poetico ed estetico (Knox, 1989; Forni,

2006;

2014). Era ironia di parola quella che osservava Giro­ lamo Ruscelli nel 1556, commentando la definizione di «buon Pastore» per papa Clemente v nella descrizione del dipinto profetico della Rocca di Tristano (xxxiii 20, 2), «buono per ironia, e in sentimento contrario, Sangirardi,

essend'egli quello che in vece di buone e sante operazioni, degne e debite del grado suo, mise fuoco in Italia, come l'Autor qui soggiunge» (Ruscelli in Ariosto, 1556, p. 381), mentre qualche anno dopo Ludovico Dolce, com­ mentando il brano relativo alla gelosia di Rodomonte

(xxvn 122-124),

sottolineava che «quella riprensione, che fa il giudicioso Poeta del male da Rodomonte detto alle Donne[ ... ] è leggiadramente piena d'Ironia, mo­ strando egli di avere avuto disavventura in amare» (Dolce,

1564, c. 41w),

dove si mette in rilievo proprio quell'atteggiamento di compassione e di­ stacco del soggetto verso l'oggetto che non porta né a compenetrazione né a indifferenza, ma a una sana dialogicità filosofica, che sarà proprio della critica romantica di tre secoli dopo. Ironia non dell'autore-narratore, ma del personaggio è invece quella sottolineata dallo stesso Dolce a proposito delle parole rivolte da Marfisa a Zerbino nel momento in cui gli consegna la brutta vecchia Gabrina come «e grata, e bella»

(xx 128, 3):

«Continua

Marfisa nel dileggiar Zerbino, usando quel colore, ch'è chiamato Ironia: il quale è, quando si dice una cosa, e se intende un'altra» (Dolce in Ariosto,

1568, c. 11ov). Sono solo tre ricorrenze, davvero poche rispetto al profluvio di note, osservazioni e commenti che si abbatté sul poema ariostesco nel corso del Cinquecento, ma forse sintomatiche di una potenzialità di lettura che era implicita fin dal privilegio di stampa del

1516,

a firma del segretario pon­

tificio Jacopo Sadoleto, nel momento in cui presentava

l'Orlando furioso

ai lettori come opera scritta «ludicro more, longo tamen studio et cogi­ tatione» («per spasso e ricreazione, ma con tanta fatica e dedizione»), formula originariamente concepita da Pietro Bembo con maggiore atten!86

IRONIA zione all'elaborazione formale del dettato testuale rispetto all'elemento di

pensiero ( «ludicro more, longo tamen studio et multorum annorum cura vigiliisque»; cfr. Dorigatti in Ariosto, 2006, pp.

XLVI-XLVII,

e pp. 4-5 ) .

Fin dalla comparsa del poema, d'altronde, Baldassar Castiglione de­

finiva Ariosto, nella prima redazione del Libro del Cortegiano ( I5I8-2o ) , con battuta fulminea, in seguito tuttavia espunta, come colui «che in un solo ci dà Omero e Menandro» ( Castiglione, I947, p. 378 ) , con probabile

riferimento alla sua duplice esperienza poetica di autore di poema e di commedie, anche se è suggestivo ipotizzare il riconoscimento da parte di Castiglione di una fusione dentro al poema di epico e comico attraverso

i campioni eponimi dei due stili ( Forni, 2006, p. 8o; Rivoletti, 20I4, p.

)

XVIII :

suggestione confermata dall'osservazione di Ludovico Dolce che

«tutto quello che dà per sé il Comico, quello che il Tragico, quello che lo scrittore de Satyre a nostro utile et esempio può dimostrarci, egli ha rac­

colto e con piacevole leggiadria abbracciato nel suo libro» ( Dolce, 1535,

cc. 115V-116r) .

Non d'ironia vera e propria si tratta, qui, ma l'apertura ariostesca verso una pluralità di registri e di stili, che non sfuggiva certo ai lettori coevi, può esser già letta come consapevolezza del gioco autoriale con la materia, che è proprio ciò che i moderni identificheranno con l'ironia ariostesca. In negativo, infatti, forme dell'ironia ariostesca emergono a più riprese nella critica cinquecentesca come fonte di mancanza di serietà, di ridicolo o di osceno, come osservava Alberto Lavezuola a commento del passo in cui Ariosto sottolinea la potenziale «malizia» del lettore incline al doppio senso quando si legge di Bradamante desiderosa «di provar come egli in giostra vale»

(xxxv 76,8 ) in occasione della sfida a Ruggiero:

«Ecco come

egli abondi - scrive Lavezuola - di questi non convenevoli ridicoli, i quali essorto a fuggire in tali Poemi, come lo scoglio tra l'onde del mare» ( Lave­

zuola, 1584, c. 30v ) . Né andrà dimenticato che del Furioso si poteva dire che «porta seco del comico», come scriveva Bartolomeo Cavalcanti a Giovan

Battista Giraldi Cinzio il 3 maggio 1560 ( Giraldi Cinzio, 1996, p. 360 ) .

I rimproveri di Sperone Speroni contro i proemi ad apertura di canto

( Speroni, 1740, p. 522 ) , di Antonio Minturno contro la varietà della ma­ teria ( Minturno, 1563, p. 27 ) , di Camillo Pellegrino contro la mancanza di «convenevolezza» negli episodi di Alcina e Ruggiero e Ricciardetto e Fiordispina ( Pellegrino, I972, p. 324) e di Torquato Tasso contro la disponi­

bilità «a quella bassezza,cheèpropria de' comici» ( Tasso,1964,pp. 196-7 )

certamente non aiuteranno a valorizzare i meccanismi portanti dell'ironia ariostesca, ma ciò non significa tanto un'incapacità di riconoscerla,quanto,

STEFANO ]OSSA

piuttosto, una sua condanna poetica ed estetica. La cultura letteraria del Cinquecento non era infatti certo estranea a una considerazione dell'ironia non solo sul piano retorico, ma anche su quello più propriamente estetico, visto che Francesco Giambullari definiva l'ironia, facendola risalire al greco

eironeia e al latino illusio, «uno occulto dileggiamento, che non si conosce da le parole come il "contrario", ma o da la pronunzia, o da la persona, o da la qualità e natura de la cosa» ( Giambullari, ISSI, p.

34I), e Alessandro

Piccolomini chiamava «dissimulazione o ironia» l' «eccesso nel poco, fa­ cendo le cose minori del vero» ( Piccolomini, IS60, p.

279),

che è, come

si legge nella Tavola delle cose piu degne, che in quest'opera si contengono, un «estremo della verità»: si trattava insomma di un capovolgimento di senso che non dipende da una figura di parole, ma da una situazione, un gioco prospettico, collocato sul piano della finzione, dell'inganno e della simulazione. In entrambi i casi è evidente il superamento dell'orizzonte dell'iro­ nia come parola che sminuisce o nega la realtà a favore di una prospettiva riflessiva e conoscitiva: cresciuto, come ha evidenziato Forni

(2oo6),

in

una cultura segnata dalla lezione ironica di Marsilio Ficino, Lorenzo Valla e Celio Calcagnini, Ariosto non poteva essere ignaro di una dimensione socratica, che lo porta a esplorare continuamente l'altro punto di vista e a dar voce all'ipotesi del dissenso; ma anche i suoi lettori a quella dimen­ sione erano certamente sensibili, inseguendola con voluttà o rigettandola con preoccupazione. Socrate è del resto il nume tutelare di un'ironia cor­ tigiana, tra Pontano e Castiglione, che si esprime soprattutto in una parola capace di spiazzare l'interlocutore e smascherarne le contraddizioni, che si riverbera dalla parola del narratore che commenta ( «Forse era ver, ma non però credibile»,

I

s6, I,

a proposito della verginità di Angelica ) a quella

del personaggio, come quando Bradamante ridicolizza la provocazione di Rodomonte ( «lo son di tal valor, son di tal nerbo, l ch'aver non déi d'an­ dar di sotto a sdegno»,

47, I-2) con una battuta che lo umilia a due livelli, nella sua dignità cavalleresca e nella sua vanità maschile ( « - Or puoi ( disse ) veder chi abbia perduto, l e a chi di noi tocchi star di sotto», xxxv so, I-4; cfr. Sangirardi, 20I4, pp. I93-6). Ai lettori di formazione xxxv

umanistica, infine, non sfuggiva di certo la messe di riferimenti a ironie altrui, a loro volta ironizzate nella forma della parodia, tra Orazio, Luciano e Alberti: che tutto ciò si debba classificare come ironia lo si potrà dire solo dopo aver scelto una poetica e un'estetica di riferimento, ma certo è che l'ironia non è assente dali'universo culturale ed ermeneutico di Ariosto e dei suoi lettori.

r88

IRONIA 4·

Dato storico, dipendente dai giudizi e dalle valutazioni della critica, ma anche dato assoluto, inerente alla concezione e al funzionamento del po­ ema, l'ironia andrà dunque verificata nei meccanismi di gestione del testo all'interno del testo stesso. Lo hanno fatto in tempi recentissimi, a conferma di un'esigenza attualissima di revisione e approfondimento deli'ironia ario­ stesca, Musarra ( 20I3 ) , Sangirardi ( 20I4 ) e Rivoletti ( 20I4 ) : mentre Mu­ sarra ha proceduto a un'esplorazione a campione di varie forme d'ironia nel poema ariostesco, giungendo alla conclusione che «l'ironia ariostesca ha uno dei suoi tratti più originali in una pulviscolare molteplicità, in un costante oscillare tra le più estreme modalità e direzioni» (Musarra, 2013, p. 240 ) e che «nel Furioso s'intrecciano più forme d'ironia, senza che sia chiara una disposizione gerarchica» (Musarra, 20IS, p. I22 ) , Sangirardi e Rivoletti sono andati alla ricerca dell'immaginario e delle procedure che determinano, storicamente e testualmente, l'ironia ariostesca, distinguendo rispettivamente un'ironia legata al contesto letterario e alla memoria cultu­ rale di Ariosto (socratica, oraziana, lucianea e tragica) e il funzionamento dei procedimenti ironici dentro al testo (il gioco con la finzione, l'uso della magia, la citazione della fonte, la presenza di dettagli di realtà in contesti inverosimili e l'introduzione di un «forse» dubitativo e narrativo). Se le classificazioni rischiano di racchiudere in griglie e caselle quello che è un movimento pervasivo della scrittura poetica, capire i meccanismi dell'ironia ariostesca vorrà dire svincolarla dalle impressioni soggettive e dagli schieramenti ideologici.

È ironico il narratore che si paragona conti­

nuamente a Orlando a causa della comune condizione di follia amorosa?

È ironico il gioco di sospensione e ripresa dei fili narrativi, che disorienta il lettore, lasciandolo tra curiosità e frustrazione? Sono ironici i richiami ali'autonomia del personaggio («il qual mi grida, e di lontano accenna, l e priega ch'io nol lasci ne la penna»,

xv

9,

7-8) e le professioni d'ignoranza

del narratore («Che n'avenisse, né dico né sollo», XXIX 6, s)? Dipende da cosa s'intende per ironico, ma principio dell'ironia ariostesca è sicuramente l'apertura di un doppio piano e la messa in discussione dello statuto del discorso poetico: tra finzione e realtà si apre un dialogo, che sta nella consa­ pevolezza che ciò che è raccontato, di per sé non vero, potrebbe però essere vero per qualsiasi lettore. «A voi so ben che non parrà menzogna, l che 'l lume del discorso avete chiaro»

(vn 2, I-2 ) , si legge a proposito del viaggio

di Ruggiero intorno al mondo sull'ippogrifo: credere alla narrazione signi­ fica abbandonarsi alla sua logica indipendentemente da qualsiasi verifica

STEFANO ]OSSA

di realtà, ma al tempo stesso assegnarle quella dimensione del possibile che presto sarà, con le poetiche del verisimile, il centro del dibattito letterario del tempo. Poema del caso e del dubbio,

l'Orlando furioso costruisce la sua ironia

sui meccanismi fondanti del capovolgimento e dell'ipotesi: le cose non vanno come ci si aspetta e sono diverse da quello che sembrano, perché fin dall'inizio «contrari ai voti poi furo i successi»

(I 9, s)

e «forse era vero

augel» il mostro che si azzuffa con Baiardo nel canto XXXIII

(8s, I), ma più

probabile è che fosse un diavolo dell'inferno, visto che non ne parla nessuno se non Turpino.

È il doppio, insomma, il miglior criterio-guida dell'ironia

ariostesca, che gioca sempre sul rapporto tra dentro e fuori, norma e scarto, realtà e illusione, esemplarmente metaforizzato nel duplice destino dell'ar­ matura, che una volta impedisce a Ruggiero, come avrebbe invece voluto, di saltare addosso ad Angelica «e contra il suo disir messe le sbarre»

(x II4-

IIS) e un'altra a Bradamante, come pure avrebbe voluto, di darsi la morte di suo pugno, «ma si ravvede poi che tutta è armata» (xxxii 44). L'ironia cerca allora, sempre, la cooperazione interpretativa del lettore, cui è richiesto di cambiare in continuazione punto di vista, perché è in effet­ ti l'unico strumento che ha per difendersi dali'autore, come spiegava Guido Almansi, quando «alle minacce dell'ironia autoritaria (dello scrittore)» contrapponeva «le minacce dell'ironia (sovversiva) del lettore» (Almansi,

I984, pp. 9I-92). Aprire il testo al lettore è il primo modo che l'autore ha di «usar fraude a se stesso» (xxiii 118, I), incrinando troppo consolidate convenzioni di lettura: è il paradosso di Orlando, cui nulla giova essere tan­ to colto da sapere l'arabo, perché è proprio questa conoscenza a schiudergli la notizia dell'amore di Angelica e Medoro. Qui il personaggio rivela la sua imprevedibilità, perché Orlando si denigra da sé, rendendosi ridicolo, in quanto non era predeterminato per autoingannarsi, ma per essere solo e sempre eroe: l'ironia sposta lo sguardo, dall'Orlando che avrebbe dovuto essere, e che noi legittimamente ci saremmo aspettati, all'Orlando che è, e che non corrisponde all'altro. Tocca a noi coglierlo. Entrava in crisi così una certa concezione umanistica del sapere, inca­ pace di rendere conto della contraddizione e della complessità: strumento dissacratorio e insinuante, l'ironia non starà in un preciso repertorio di pra­ tiche, ma in un atteggiamento diffuso che mette sempre in discussione ciò che è scontato e propone continuamente l'imprevedibile. È nel paradossale discorso di san Giovanni ad Astolfo sulla luna a proposito della verità della poesia che l'ironia rivela il suo carattere di stravolgimento delle aspettative e rovesciamento del noto:

IRONIA Omero Agamennon vittorioso, e fe' i Troian parer vili ed inerti; e che Penelopea fida al suo sposo dai Prochi mille oltraggi avea sofferti. E se tu vuoi che 'l ver non ti sia ascoso, tutta al contrario l'istoria converti: che i Greci rotti, e che Troia vittrice, e che Penelopea fu meretrice ( Ofxxxv

27

).

«Convertire» la storia al contrario significa aprire lo spazio dell'alterità, istituire il confronto e ammettere il dubbio. Fino al punto da poter sovver­ tire la stessa storia ariostesca, per cui l'invito a capovolgere si ritorcerebbe contro sé stesso, finendo col confermare ciò che aveva capovolto, in un gio­ co di specchi potenzialmente infinito.



L'attrazione ariostesca per una poetica del caso è probabilmente l'elemento oggi più interessante nella prospettiva di una lettura ironica dell'Orlando

furioso. Rivoletti (20I4, pp. x-xi ) ha messo in rilievo come il caso segni fin dall'inizio l'esperienza dei personaggi sulla scacchiera del poema arioste­ sco: in balia del caso si trovano Rinaldo, che rincorre Baiardo il quale gli è «per strano caso uscito

[ ... ] di mano» ( I I2, 4), Angelica, che si abbandona

alla casualità della direzione presa dal cavallo, visto che «lascia cura al de­ strier che la via faccia» SUO»

( I I3, 6), e Ferraù, che si ferma al fiume «mal grado

( I I4, 5).

Era stato già il caso tuttavia a determinare la condizione di smarrimento dei personaggi, perché in occasione della battaglia che avrebbe dovuto ve­ dere la vittoria finale dei cristiani «in fuga andò la gente battezzata»

(I

9,

6): ciò che è accaduto non è quello che ci si aspettava. L'intero movimento narrativo procede dal caso, perché l'andamento razionale del meccanismo causa-conseguenza è ormai esploso e non può essere recuperato. li caso segna il rovescio della ragione, l'impossibilità della previsione, ma apre anche lo spazio dell'avventura, dell'imprevisto e della sorpresa: il suo fascino sta nel­ l' «ironia della sorte», che implica «scacco del desiderio, vanificazione della ricerca o del valore, pena in luogo del premio» ( Sangirardi, 20I4, pp. 20I-3). Collegandola all'aristotelica nozione di peripezia, Sangirardi ha evidenziato come l'ironia della sorte sia il meccanismo stesso di gestione della trama, fondato sull'inaspettato e l'improvviso: non solo le interruzioni, ma anche

STEFANO ]OSSA

i raccordi corrispondono a questo principio di salto, che spiazza il lettore e pure il personaggio. Dagli incontri nel

I

canto di Ferraù con il fantasma di

Argalia («All'apparir che fece all'improvviso», I 29,

I) e di Angelica con Sa­

cripante («l'aventurosa sua fortuna vuole l ch'alle orecchie d'Angelica sian conte: l e così quel ne viene a un'ora, a un punto, l ch'in mille anni o mai più non è raggiunto»,

48, s-8), alla sequenza della pazzia di Orlando, dovuta allo «strano corso che tenne il cavallo» ( xxiii IOO, I) e alla incredibile sfor­ I

tuna da parte del protagonista di sapere persino l'arabo («ma non si vanti, se già n'ebbe frutto; l ch'un danno or n'ha, che può scontargli il tutto», XXIII uo,

7-8), fino al rimprovero alla spada per l'uccisione di Brandimarte («Ah

Durindana, dunque esser tu puoi l Al tuo signore Orlando sì crudele, l che la più grata compagnia e più fida l ch'egli abbia al mondo, inanzi tu gli uccida?»,

XLI 100,

s-8),

la parola del narratore dispiega la dissimulazione

del proprio gioco poetico, che invita il lettore a sorprendersi di quello di cui il narratore è perfettamente consapevole, in quanto regista della trama: Ariosto rimanda sempre all'alternativa, scompone e ricompone, nasconde e allude. Consapevole della dissoluzione dei grandi universi rassicuranti di riferimento (dentro le profonde crisi rinascimentali: politica, conoscitiva e linguistica), Ariosto mette in scena il discorso del caos, cui si contrappone sempre un'esigenza (incompiuta) di ordine. Coincidenza, caduta e curiosità governano il suo mondo: le cose accadono per caso, il mondo è pieno di macerie e tutti vanno alla ricerca di qualcosa che hanno perso. Poema dell'ironia, l'Orlandofurioso non potrà esimersi allora da essere esso stesso oggetto d'ironia, come nella grandiosa parodia burlesca di Lope de Vega nella

Gatomaquia (I643),

dove la follia amorosa del gatto Mar­

ramaquiz si specchia in quella del suo più illustre predecessore letterario (Lope de Vega,

I932, p. 82, segnalato da Bologna, 2ou, pp. XXI-XXII ) :

Asi desnudo Orlando, provocado de no menor injuria, cuando ley6 los r6tulos del moro que dedan: «Amor, que sin decoro en la buena fortuna te gobiernas, aqui goz6 de Angélica Medoro», en el papel de las cortezas tiernas de aquellos olmos de su bien testigos, para el francés Orlando cabra-higos

(silva IV, vv. 333-341).

Da «savio» decaduto, come Ariosto lo presentava ai lettori in apertura del suo poema, a «cornuto» ufficialmente certificato, Orlando non è più

IRONIA l'eroe vinto dalla passione d'amore, ma solo uno dei tanti animali inganna­ ti dalla seduzione femminile. Parodia e ironia si confondono nella lunga durata di una funzione ironica del poema ariostesco (un "effetto Ariosto", potremmo dire, con Mazzacurati), che lo porta a entrare nelle maglie della narrazione moderna in maniera più sottile e pervasiva di quanto di solito si pensi, su una linea che va dagli omaggi di Smollett e Scott fino ai riusi di David Lodge eJimJarmusch (Mazzacurati, I987a;jossa, I999; 2012). Non sarà giunto allora il momento di parlare finalmente ed esplici­ tamente di umorismo? Prendendo come guida il teorico più autorevole dell'umorismo italiano, Pirandello, che pure aveva escluso Ariosto dall'u­ morismo moderno, non potremo riconoscere nell' Orlan dofurioso una di quelle «opere umoristiche» che «sono scomposte, interrotte, intramez­ zate di continue digressioni», in inevitabile sintonia coi Promessi sposi a causa di «qualche difetto di composizione, una soverchia minuzia qua e là e il frequente interrompersi della rappresentazione o per richiami al famoso Anonimo o per l'arguta intrusione dell'autore stesso»? Tutto na­ scerebbe non già «dal bizzarro arbitrio o dal capriccio degli scrittori», ma da un intervento della riflessione che porta le immagini ad associarsi per contrari anziché «per simulazione o per contiguità», con la conseguenza che «ogni immagine, ogni gruppo d'immagini desta e richiama le contra­ rie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale, irrequieto, si ostina a trovare o a stabilir tra loro le relazioni più impensate» (Pirandello, 2006, p. 9I8). Grazie a Pirandello, e nonostante Pirandello, l'ironia ariostesca potrà apparirci «come un demonietto che smonta il congegno d'ogni immagine, d'ogni fantasma messo su dal sentimento; smontarlo per veder com'è fatto; scaricarne la molla, e tutto il congegno striderne, convulso» (ivi, p. 922). Dispositivo che smaschera sé stesso e produce dissonanza anziché armonia, dotato di una funzione riflessiva e problematica, finalizzato allo spiazza­ mento dell'orizzonte di attese del lettore: sorrideremo piuttosto che ridere quando il narratore esprime la propria invidia nei confronti della facilità con cui «i cavalieri l ch'erano a quella età» potevano incontrare «donne, che ne la lor più fresca etade l sien degne d'aver titol di beltade», cosa che ai suoi tempi non avveniva neppure a corte ( xiii I), così come Bradamante alla provocazione di Rodomonte «sorrise alquanto, ma d'un riso acerbo l che fece d'ira, più che d'altro, segno» ( xxxv 77), perché l'ironia apre la via, se non alla psicologia, almeno ai moti dell'animo, o alle passioni. Costruzione narrativa di tipo contrastivo, che invita all' interpretazio­ ne, l' Orlan dofurioso mette in scena prima di tutto la confusione dei valori, 193

STEFANO ]OSSA

lo smarrimento e il disorientamento di fronte a un mondo senza certez­ ze. «L'ironia è l'occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l'assurdo, il vano dell'esistenza», ha scritto Kierkegaard nel 1841 (per la trad. it. Kierkegaard,

199s): l'occhio di Ariosto guarda dall'alto, ma non controlla e non sistema, perché la materia sfugge e concludere è impossibile. Persino alla fìne del po­ ema, in quella scena che tanti critici hanno letto come chiusura epica, con la morte di Rodomonte e la maledizione della sua anima, l'ultima azione è

fuggire («bestemmiando fuggì l'alma sdegnosa», XLVI 140,7), come lo era stata quella di Angelica all'inizio («ma seguitiamo Angelica che fugge», I

32,

8), a riaprire tutto in nuove direzioni:

e sarà laMarfisa di Pietro Are­

tino, dove Rodomonte comparirà ormai all'inferno a capovolgere la barca di Caronte.

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197

Lettore di]ane E. Everson

I.

Signori e cavalier che ve adunati per oldir cose diletose e nove, stati atemi e quieti et ascoltati la bela historia che il mio canto move: e odereti i gesti smisurati, l'alta fatica e le mirabil prove che fece il franco Orlando per amore nel tempo de il re Carlo Imperatore (In.

Così si apre l' Inamoramento de

I I 1;

corsivi sempre miei).

Orlando di Matteo Maria Boiardo, in versi

che insistono sulla ricezione orale della narrazione ed implicano un pubbli­ co di ascoltatori e un narratore che canta, recita, parla. Nonostante il pub­ blico colto a cui si rivolge nel poema, Boiardo con questi versi sottolinea la finzione di una performance in pubblico, prendendo in prestito, si potrebbe dire, la maschera del cantastorie, per narrare la «bela historia » di Orlando e il suo innamoramento per Angelica. Se, come propone Tissoni Benvenuti (in Boiardo,

1999), il primo libro

dell' Inamoramento fu interamente composto durante la signoria di Borso

(14S0-1470f71), il primo canto del poema appartiene chiaramente all'epo­ ca del libro manoscritto, ad un periodo in cui la maggior parte del pubblico, compresa la fascia più colta, era solita accedere alla letteratura attraverso la trasmissione orale del testo. Non stupisce quindi l'enfasi messa qui sui verbi sinonimici «sentire», «ascoltare» e «udire» né l'assenza del verbo «leggere». Quando Boiardo più tardi interrompe il suo poema, al canto IX del terzo libro, nell'autunno del 1494, il libro a stampa si è già affermato e, per ciò che riguarda il genere cavalleresco, comincia a dominare il mercato editoriale (Beer,

1987, pp. 17, 227-30 ). Ciononostante, nei proemi del terzo

libro, Boiardo non smette la veste performativa, rivolgendosi ad un pub-

199

JANE E. EVERSON

blico di uditori: «Venite ad ascoltare, in cortesia, l Signori e dame, e bella baronia!»

(In.

III I

2, 7-8);

«Ciascun di voi ad ascoltare è pronto l la bella

historia che cantando conto»

( ni

VIII

2, 7-8), e commentando perfino le

espressioni sui visi degli astanti: «Poi che il mio canto tanto a voi dileta l che ben ne vedo nela faza il segno»

( ni IX 1, 1-2).

Vent'anni più tardi, quando Ariosto pubblica la prima edizione del

Furioso nel

ISI6,

il libro stampato, soprattutto nel genere popolare del­

la letteratura cavalleresca, è diventato la norma e alla portata di tutti. Le numerose stampe e ristampe, non solo del poema boiardesco ( con le con­ tinuazioni di Agostini e di altri; cfr. Harris

1988-91), ma anche dei poemi

di Cieco da Ferrrara e dei testi vecchi e nuovi della tradizione cavalleresca, testimoniano che esiste chiaramente un ampio settore di lettori di tali nar­ razioni non solo tra i cortegiani e le persone colte, ma anche tra i rappre­ sentanti dei ceti medi e inferiori ( Beer,

1987,

pp.

236, 240, 244;

Everson,

2001, pp. 127-60). Ariosto è perfettamente a conoscenza di tale cambiamento sociale e culturale: non può ignorare il fatto che il suo pubblico comprenda dei letto­ ri abituati ormai anche a leggere romanzi, un pubblico quindi non più, cer­ tamente non solo, di ascoltatori. A suffragare tale ipotesi si possono addurre non solo le numerose stampe di narrazioni cavalleresche ricordate sopra, ma anche la cura dimostrata da Ariosto stesso affinché la prima edizione del poema fosse realizzata correttamente secondo la propria volontà. La sua costante presenza in tipografia per ovviare a refusi e sviste grammatica­ li ( Dorigatti in Ariosto,

2006,

pp.

XXII-XXIII

)

si spiega solo in un autore

cosciente del fatto che il suo poema verrà letto, percepito non (o non solo ) dall'orecchio di chi ascolta, ma visibile all'occhio di un lettore capace di controllare, ripercorrere e commentare la pagina stampata. Ci si aspettereb­ be quindi che Ariosto, nei passaggi del Furioso in cui si rivolge al pubblico, e nel linguaggio usato, esemplifichi proprio questa transizione dall'epoca del libro manoscritto e della ricezione orale, in pubblico, a quella del libro a stampa e della lettura individuale, in privato.

2.

Occorre qui però aprire una parentesi per spiegare come vanno intesi i concetti di lettore e di lettura nel primo Cinquecento. Nella introduzione al suo studio la Beer, riflettendo sul passaggio «dall'età del manoscritto a quella della stampa» parla di

200

LETTORE

una diversa modalità di lettura, legata non solo alla crescita dell'alfabetizzazione, ma anche alla maggiore diffusione di letture collettive ad alta voce, come sono atte­ state per un periodo successivo (Beer, 1987, p. 19).

Ed è proprio questa pratica di lettura ad alta voce che rende ambiguo il concetto di lettore dell'opera ariostesca. Per Ariosto il concetto di lettore/ ascoltatore è più complesso che per i suoi predecessori; come osserva ancora la Beer, la crescita e diffusione dell'oggetto-libro influisce ben poco sulla normale ricezione orale del testo: Nel passaggio dalla lettura dei manoscritti a quella dei libri a stampa, la lettura ad alta voce subisce modifiche più dal punto di vista quantitativo che dal punto di vista qualitativo, nel senso che un maggior numero di testi vengono prodotti e acquistati perché resi accessibili dalla modestia dei prezzi, e vengono diffusi in maggior numero grazie alla maggiore alfabetizzazione dei consumatori; mentre il modo di ricezione dei testi muta in maniera molto meno radicale. Nella percezione del testo letto ad alta voce la mediazione del libro stampato giunge all'ascoltatore profondamente modificata, o addirittura non viene percepita. [ ...] La lettura ad alta voce è molto più simile alla radio che alla lettura silenziosa (ivi, p. 239).

E questo perdurare delle vecchie abitudini di "lettura'' vale anche per i ceti più alti: Anche per un pubblico aristocratico [ ...] la lettura ad alta voce durante le veglie, o con accompagnamento musicale in occasioni sociali, era una delle modalità di lettura più frequenti (ivi, p. 240).

A complicare ulteriormente il concetto di lettore è il fatto che, all'epoca del Furioso, esistono naturalmente anche dei lettori silenziosi, quelli che leggono in privato, da soli, per sé. Ma chi legge in privato può anche diven­ tare in altre occasioni un lettore ad alta voce, per un pubblico più o meno numeroso, oppure addirittura un ascoltatore di una perfonnance orale. Il lettore del Furioso è personaggio proteiforme, ambiguo, mutevole quanto il poeta stesso. Le affermazioni di Durling circa il fatto che tutti i versi che sembrano alludere ad una perfonnance orale sono puramente metaforici e che Ariosto sta scrivendo solo per il lettore in privato ( Durling, 1965, p. II3) devono essere perciò riviste. Per illustrare il concetto di lettore nel Furioso, occorre quindi analizzare non solo il lessico che si riferisce alla scrittura, ma anche la più ampia gamma di vocaboli che denotano il pubblico che riceve il Furioso in molti modi diversi.

201

JANE E. EVERSON

Oltre al modo di ricezione - ascolto o lettura - occorre anche tenere presente gli spazi destinati alla lettura, su cui influiscono sempre di più la disseminazione del libro a stampa e la crescente alfabetizzazione. Se il modo di ricezione del romanzo muta poco in questo periodo, come asserisce la Beer, ciò non implica che lo spazio in cui il testo viene recepito non subi­ sca modifiche che possono influire sul concetto di pubblico nella mente dell'autore. In questo periodo lo spazio tradizionale delle recitazioni orali dei cantastorie continua ovviamente ad essere la piazza, come testimonia la carriera di Cristoforo l'Altissimo (Degl'Innocenti, 2008 ) . La performance in piazza presupponeva un pubblico ampio e misto, composto di membri di quasi tutti i ceti sociali, con esperienze e cultura molto diverse, e più o meno attenti alla recitazione. Già per Boiardo tuttavia quel pubblico era cambiato. L' lnamoramento si indirizza, come notato sopra, ad un pubblico di cortegiani e al signore­ mecenate, un pubblico presumibilmente attento alla lettura ad alta voce e riunito in uno spazio più ristretto e riservato, comodo per una tale perfor­

mance.

Con l'avvento del libro a stampa e la disponibilità di più copie di

uno stesso testo, gli spazi della lettura ad alta voce, in cui possono essere variamente presenti gruppi più ristretti e omogenei del pubblico boiarde­ sco, si moltiplicano. Per Ariosto lo spazio della lettura a corte rimane quello presupposto da Boiardo, così come rimane, almeno come finzione tradizio­ nale, la performance pubblica in piazza, seppure raramente accennata nel

Furioso. Fra questi due poli, comunque, esistono ormai molteplici altri spazi di lettura - nelle stanze delle donne sia nobili che borghesi, in compagnie miste dopo una festa in famiglia, fra uomini riuniti in taverna, nonché negli incontri fra scrittori e studiosi. Sulla tipologia di ricezione di questi e altri possibili pubblici influisce il probabile tasso di alfabetizzazione. Fra gli uomini, certamente dei ceti medi e alti, si calcola un tasso di alfabetizzazione di almeno un terzo della popolazione intera ( Grendler, 199s, p. 779 ) , da cui si deduce che il pubblico maschile del Furioso era potenzialmente composto da molti singoli lettori, compratori di libri di generi diversi, capaci di leggere in privato. L'alfabetiz­ zazione delle donne in questo periodo era meno estesa, e tendenzialmente esse possedevano solo libri religiosi. Il pubblico femminile quindi sarà stato composto prevalentemente da ascoltatrici di una lettura ad alta voce. Il po­ eta del Furioso può così congetturare diverse tipologie di spazi e gruppi so­ ciali, immaginando che solo quel particolare gruppo ascolti quel particolare brano del poema; può rivolgersi ad un pubblico specifico nella finzione che tutti gli altri possibili lettori e ascoltatori ne siano esclusi, pur sapendo che il

2.02.

LETTORE

poema stampato non sarà mai confinato a nessun pubblico prefissato, anzi che l'intero poema è disponibile ad una moltitudine crescente di lettori. Ci troviamo quindi a dover rispondere ad una serie di questioni imer­ connesse sulla ricezione del testo ariostesco. Qual è l'immagine del pub­ blico trasmessa dal Furioso? Come sono percepiti questi gruppi diversi che usufruiscono del libro a stampa? Quali sono i vocaboli usati da Ariosto per descrivere il suo pubblico, e con quali verbi allude alla ricezione del poema da parte di esso? Fino a che punto viene comunicata l'idea di un poema scritto, del libro che si tiene in mano, «a literary produce designed to be read» (Durling, I96s, p.

u3), e fino a quanto permane la vecchia tradizione

di una performance orale? Qual è il rapporto fra scrittura e oralità?



Come i suoi predecessori nel genere, Ariosto si rivolge al pubblico nei proe­ mi ai canti, in minor misura nelle chiusure degli stessi, e più raramente nelle transizioni da un tema ad un altro all'interno dei singoli canti. Una prima risposta alle domande appena formulate si trova nel linguaggio di questi spazi privilegiati, metanarrativi, del Furioso. Occorre osservare in primo luogo che Ariosto parla raramente in modo diretto al suo pubblico. Nonostante Boiardo apra numerosi canti dell'1-

namoramento

indirizzandosi semplicemente a «voi» oppure ad un non

precisato «Signor», quando si rivolge, come fa più frequentemente a par­ tire dal secondo libro, ad un pubblico specifico, questo viene sempre iden­ tificato: «Signori e cavalieri»

(I XIX I, I); «Cortese damigelle e gratiose» (ibid.); «bei signor» (I XXIII I, I); «dame legiadre e cavalier pregiati» (n VIII 2, I); oppure «signor e dame» ( n XXVIII I, I ) : un pubblico omogeneo

di cortigiani, raccolti in un momento di intrattenimento. E per quanto si tratti, con ogni probabilità, di una lettura ad alta voce, e non di una perfor­

mance vera e propria,

Boiardo non ha dubbi sul carattere e sugli interessi

del suo pubblico. Nel Furioso, invece, Ariosto trasmette una percezione del suo pubblico più vaga, più generica; in molti proemi non vi allude in nessun modo; in altri casi si rivolge a un non meglio definito «voi»

(x

4, 7;

XXIV 2,

6),

(vn 2, 3),

«vi vo' dire»

ma tali frasi non contengono l'immagine di uditori

raggruppati intorno al narratore, come nel caso dell'Inamoramento. La no­ tevole assenza di un pubblico definito in gran parte dei proemi potrebbe rispecchiare il passaggio verso la lettura in privato, poiché è ovvio che un

203

JANE E. EVERSON

autore non può conoscere né identificare una moltitudine di singoli lettori, laddove un cantastorie ( vero o fittizio) oppure un poeta-lettore come Ba­ iardo individua più facilmente gli ascoltatori che gli stanno intorno. Ci sono, tuttavia, importanti eccezioni all'assenza di un pubblico de­ terminato nel Furioso che rivelano almeno due spazi e gruppi di lettura concepiti dal poeta, spazi e gruppi legati ad ambienti sociali precisi: sono le occasioni in cui il poeta si rivolge sia ai suoi mecenati, Ippolito e Alfonso d'Este, sia al pubblico femminile, alle donne (e in un caso, c. xxxv, alla sua donna) . Gli spazi di lettura privilegiati del Furioso, così come sembrano indicare queste allusioni proemiali ad un pubblico preciso, sono la corte e i raduni delle donne.



Il poeta si rivolge ad Ippolito subito nel primo canto (I 3, menti chiave del poema

4)

e poi in mo­

(xv 2; XVIII I; XIV 4; xxxvi 2, s-8; XL I) per lo più

con intento encomiastico. Ippolito, comunque, non viene presentato come lettore, ma anzi come uditore della recita della narrazione da parte del suo servitore. Così, all'inizio del poema, Ariosto a lui si rivolge: Voi sentirete fra i più degni eroi che nominar con laude m'apparecchio ricordar quel Ruggier, che fu di voi e de' vostri avi illustri il ceppo vecchio. L'alto valore e' chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio

( 0/I 4, 1-6).

Il poeta del Furioso quindi indossa sempre la veste del poeta cortigiano, come Boiardo, nell'atto di intrattenere il suo signore in compagnia dei suoi familiari, in un momento di ozio a corte. Già in questi versi del primo canto, Ariosto sembra esprimere qualche dubbio su quanta attenzione Ippolito presti alla narrazione, ed è forse per questo che negli altri proemi in cui si rivolge direttamente ad Ippolito, invece di mettere l'enfasi sulle gesta di Ruggiero, personaggio fittizio, parla delle imprese di Ippolito stesso, lo­ dando la sua vittoria a Polesella ( xv

2,

XL

e temperato: Magnanimo Signore, ogni vostro atto ho sempre con ragion laudato e laudo;

204

I-S) oppure il suo carattere giusto

LETTORE

ben che col rozzo stil duro e mal atto gran parte de la gloria vi defraudo. Ma più de l'altre, una virtù m'ha tratto, a cui col core e con la lingua applaudo; che s'ognun truova in voi ben grata udienza, non vi truova però facil credenza ( OfXVIII I). E il confronto che segue fra Ippolito e Norandino è decisamente a favore del primo. Ma i versi appena citati sono anche ambigui, ironici: che Ippolito ascolti non è dato per scontato e che creda a ciò che gli si racconti è ancor più incerto. L'immagine di lppolito lettore-uditore del poema viene maggiormente messa in luce nella prima delle Satire di Ariosto, scritta poco dopo la stesura della prima versione del poema, nell'autunno del 1517. Stando all'evidenza fornita dalla Satira, Ippolito fu certamente un lettore poco interessato; anzi avrà avuto poco tempo da dedicare alla lettura nei mesi immediatamente successivi alla stampa della prima edizione del Furioso nell'aprile del 1516. In questo periodo infatti Ippolito era spesso in viaggio fra Ferrara, Roma, Milano e altre città per affari politici ed ecclesiastici. Nella Satira Ariosto si lamenta fortemente dello scarso interesse dimostrato da Ippolito per il

Furioso: Non vuoi che laude sua da me composta per opra degna di mercé si pona; di mercé degno è l' ir correndo in posta [ ...] S'io l'ho con laude ne' miei versi messo, dice ch'io l'ho fatto a piacere e in ocio; più grato fòra essergli stato appresso

(Satira I, 97-99; w6-w8).

Questi versi (Ariosto, 1 984, pp. 353-4) sembrano suggerire che Ippolito non abbia né letto né udito leggere il Furioso, e testimoniano che l'ozio del poeta non coincide con quello del suo signore. La satira, tuttavia, fornisce l' im­ magine di uno dei molti pubblici del poema - la famiglia di Ippolito che lo segue nei suoi spostamenti nella penisola - e di uno spazio della lettura ad alta voce - quello dei viaggi e dei pernottamenti fuori casa. E la finzio­ ne, o forse la speranza che Ippolito legga il poema rimane presente, nella chiusura del canto xxv ad esempio, che lo ritrae nell'atto di ascoltare un poeta-recitatore: «Signor, non più, che giunto al fin mi veggio l di questo canto, e riposarmi chieggio» (xxv 97, 7-8). Andranno inoltre ricordate le 205

JANE E. EVERSON

spese importanti sostenute da Ippolito per far stampare la prima edizione, a riprova del fatto che il cardinale, anche se non trovava il tempo per ascol­ tare o leggere, teneva al poema più di quanto non dimostri la prima satira

( Villoresi, 2000, p. 191).



Se i fratelli d'Este, Ippolito ed Alfonso, costituiscono una audience poco soddisfacente agli occhi del poeta, l'altra categoria di pubblico identificata viene presentata come intimamente coinvolta, molto attenta alla narrazio­ ne, un pubblico la cui buona opinione conta altrettanto, se non di più per il poeta: le donne. Ariosto si indirizza a esse in modo particolare verso la metà del poema, a cominciare dal canto XXII: Cortesi donne e grate al vostro amante, voi che d'un solo amor sete contente, come che certo sia, fra tante e tante, che rarissimamente siate in questa mente; non vi dispiaccia quel ch'io dissi inante, quando contra Gabrina fui sì ardente

( Ofxxn I, I-6).

Il tono ambivalente, fra giocoso e serio, continua nei proemi dei canti

( su cui torneremo più oltre ) e xxx. Nell'ultimo proemio di ( xxxviii ) , il poeta, sempre scusandosi per la materia trattata,

XXVIII, XXIX

questo tipo

attira l'attenzione sulla ricezione orale, sull'elemento performativo: le don­ ne ascoltano, non leggono, e il poeta è in grado di cogliere le loro espressioni del viso e le reazioni istantanee: Cortesi donne, che benigna udienza date a' miei versi, io vi veggo al sembiante, che quest'altra sì subita partenza che fa Ruggier da la sua fida amante, vi dà gran noia e avete displicenza

( Ofxxxvm I, I-s).

L'ambiente figurato in queste ottave è decisamente quello della lettura ad alta voce: le donne ascoltano, ed è il poeta che legge. Lo spazio della lettura è gradito, comodo, aperto solo a gruppi femminili - forse il poeta ha in

mente la lettura di canti del poema ad Isabella d'Este circondata dalle sue donne nelle sue stanze a Mantova -, un pubblico di lettrici ideali con cui il poeta si sente più in sintonia e più a suo agio.

206

LETTORE

6.

Se passiamo ora ad esaminare le chiusure dei canti, troviamo anche qui la stessa enfasi sull'aspetto uditivo, sull'oralitàdella narrazione, oppure impli­ citi riferimenti alla lettura ad alta voce. La maggior parte di queste chiusure contiene una semplice indicazione della fine del canto, spesso unita ad un elemento di suspense: «Quel che seguì tra questi duo superbi l vo' che per l'altro canto si riserbi»

(I, 81, 7-8);

«Ma dir ne l'altro canto differisco l come Ruggier con lei si pose a risco»

(vi, 81, 7-8). La presenza dei verbi «dire» e «differire» è frequente nelle ottave fi­ nali dei canti (per «dire» cfr. ad esempio: per

77, 7; VII So, 7; XXVII 140, 7; «differire» IV 72, 8; VI 81, 7; XVII 135, 7; XXXI 110, 8). Il verbo «dire» III

in particolare non permette di distinguere fra ricezione orale e lettura, e sottolinea l'ambiguità del concetto di lettore-uditore per il Furioso. In pa­ recchi casi, comunque, il poeta sembra rilevare l'oralità della sua narrazione con insistenza: «Se grata vi sarà l' istoria

udire» (v 92, 8 );

« Piacciavi

ne l'altro canto il resto, l Signor, che tempo è ormai di finir questo» 94,

7-8), e ancora:

«Ma per esser più grato a chi

udir (xii

m'ascolta l io differisco il

canto a un'altra volta» L'idea di

(xL 82, 7-8). una performance orale da parte

di un narratore-cantastorie

viene fortemente ribadita alla fine di un canto particolarmente lungo, quando il poeta confessa di avere ormai la voce roca per la stanchezza: Non più, Signor, non più di questo canto; ch'io son già rauco, evo' posarmi alquanto (O/XIV 134,

7-8).

e quando allude allo strumento musicale con cui tradizionalmente il canta­ storie accompagnava la sua recitazione: Ma prima che le corde rallentate al canto disugual rendono il suono, fìa meglio differirlo a un'altravolta, acciò men sia noioso a chi l'ascolta (Ofxxix

74, s-8).

In tali versi Ariosto riprende la maschera di cantastorie adottata da un suo predecessore, poeta di corte a Mantova e poi a Ferrara, Francesco Cieco da Ferrara, che spesso nei suoi proemi e nelle chiusure attira l'attenzione sulla stanchezza e sulla sete che la recitazione produce:

207

JANE E. EVERSON

[...] e questo basti per oggi, che la sete m'ha percosso in modo tal che più cantar non posso. Signori e cavalier, da voi mi tolsi oppresso da la sete, afflitto e stracco

Altri versi del

Mambriano

(Mamb. VIII 100, 6-8; IX I, I-2 ) .

si riferiscono esplicitamente all'accompagna­

mento musicale tradizionale: [Rinaldo] ferì il re Mambrian sì acceso d'ira ch'io per paura abbandonai la lira

(Mamb. XIII IOI, 7-8).

Mossa quella viltà che già mi spinse a poner giù la risonante cetra

(Mamb. XIV I, I-2 ) .

Come Ariosto, il Cieco lavora sul confine fra la ricezione orale del romanzo e quella del testo stampato e prevalentemente letto, ma su entrambi la fin­ zione dell'oralità continua ad esercitare un profondo fascino.



Fin qui sembra che la nozione di lettore e di lettura nel senso moderno del termine non sia molto presente alla mente del poeta. In alcuni proemi, e poi in certe chiusure (canti VIII e XXXIII ) , il senso di un testo scritto e letto trapela tramite la presenza di vocaboli quali «carte», «foglio», «libro», «scrivere». I casi più clamorosi si trovano nei proemi ai canti XXIX,

XXVIII

e

notati sopra. Sebbene il canto XXVIII si apra con un'allusione ad una

recitazione orale («non date a questa istoria

orecchia»), già nella seconda

ottava il consiglio «lasciate questo canto» presuppone un controllo della narrazione da parte dei lettori, e nella terza ottava diventa chiaro che Ario­ sto presume che si tratti di lettori: Passi, chi vuoi, tre carte o quattro, senza

leggerne verso, e chi pur legger vuole, gli dia quella medesima credenza che si suoi dare a finzioni e a fole (O/xxviii 3, I-4 ) .

In questi versi va notata l'insistenza sul concetto di lettura e,

afortiori, sulla

libertà del singolo lettore che decide di leggere o meno pagine e canti del 208

LETTORE

poema. Nel proemio successivo, il poeta pensa sempre ad un pubblico di lettori quando parla della sua intenzione di difendere le donne contro la misoginia:

Io farò sì con penna e con inchiostro ch'ognun vedra che gli era utile e buono aver taciuto [... ] ( Ofxxix 2., s-7 ). Con penna e con inchiostro, non con la voce; e i risultati saranno visibili, ossia leggibili sulla carta. E di nuovo emerge l'idea di un lettore individuale, con la propria copia del testo in mano. Solo due canti si chiudono con una chiara allusione alla scrittura (e quindi alla lettura): «nell'altro canto è scritto» ti i lati ho pieno il foglio»

(viii 91, 8);

«poi che da tut­

(xxxiii 128, 7 ), mentre l'idea, che si trova nelle

chiusure di quasi tutti i canti, che ci sia un termine prefissato al canto, un tempo da dedicare alla narrazione ormai esaurito, vale sia per la narrazione orale che per la lettura. Sembra quindi che Ariosto per lo più continui a pensare ad una rice­ zione orale del suo poema, ad adottare la maschera del cantastorie, e che immagini intorno a sé un pubblico di ascoltatori (di una lettura ad alta voce piuttosto che di una

performance di piazza), raramente composto da veri

lettori, un pubblico variegato che si interessa or più or meno alla materia, un pubblico fatto di piccoli gruppi differenziati a cui il poeta si rivolge a turno, come il conduttore di un'orchestra alle varie sezioni che la compongono. I proemi e le chiusure contengono comunque brevi spie della consapevo­ lezza di Ariosto di scrivere non solo per uno o più pubblici identificabili e conosciuti, ma anche per un pubblico indeterminato, di futuri e sconosciuti lettori - quelli che saranno poi i lettori, i critici, gli studiosi del

Furioso

che, nei secoli, hanno prodotto la vasta bibliografia sul capolavoro. Qui ci concentreremo sul pubblico contemporaneo ad Ariosto e considereremo la varia tipologia di lettori ideati dal poeta: lettori storici, identificabili, a lui noti; lettori a cui sono indirizzati particolari temi o sezioni del poema; lettori interni, cioè personaggi-lettori; Ariosto-lettore; e in fine il lettore ideale del Furioso nell'ottica del poeta.

8.

Il principale lettore autentico a cui si rivolge Ariosto è il suo mecenate, lp­ polito d'Este, il dedicatario del poema e il signore presso cui il poeta prende

2.09

JANE E. EVERSON

servizio a partire dal 1503. Ippolito è un personaggio storico di primo piano nella vita del poeta. Ad Ippolito, sempre come lettore prescelto, va associato il fratello, il duca Alfonso, presso la cui famiglia Ariosto si trasferisce nel ISI8 rimanendovi fino alla morte. I due fratelli sarebbero anche per Ariosto i lettori più importanti, quelli a cui spera di far più piacere e da cui attende un compenso materiale. Assieme a loro si possono annoverare gli altri mem­ bri della famiglia Estense, e in primo luogo Isabella d'Este Gonzaga. Ma già il piccolo gruppo familiare si differenzia, fra uomini e donne, per l'interesse che mostrano verso il poema ariostesco, condizionato almeno in parte dal­ le diverse abitudini e dal tempo a disposizione per intrattenimenti e ozio. Abbiamo già notato la scarsa attenzione prestata da Ippolito e Alfonso alla lettura dei canti, cui si contrappone il vivo interesse di Isabella attestato nel­ la sua corrispondenza. In una lettera del3 febbraio rso7la marchesa scrive: «mi ha adduta gran satisfactione havendomi, cum la narratione de l'opera che 'l compone, facto passare questi due giorni, non salurn senza fastidio, ma cum piacere grandissimo». Nonostante tale differenza, di cui il poe­ ta doveva essere consapevole, Ariosto provvede a comprendere nel poema sezioni indirizzate enfaticamente agli Estensi, passi di cui loro sarebbero stati i lettori privilegiati, ideali, forse unici. Sono i cosiddetti brani elogiativi dei canti III, XIII, XLII e XLV I, nonché le allusioni alle imprese militari dei fratelli (canti XIV, xv, XL, XLII), al loro buon governo ( xviii) e alla promo­ zione culturale della loro corte. La famiglia intera è presupposta come gruppo di lettori ideali della sto­ ria encomiastica del canto III, quando per bocca di Melissa Ariosto riscrive la discendenza della famiglia d'Este per attribuirle antenati nobilissimi, presi dalla mitologia classica e dalla più antica e rinomata tradizione ca­ rolingia. Che questi elogi fossero indirizzati specialmente alla famiglia (e a chi le stava intorno) fu ben percepito dal primo traduttore inglese, Sir John Harington, secondo cui la materia trattata in queste ottave è di scarso interesse per qualsiasi altro lettore: rhe rest of rhe booke [c.

III

] is in a manner ali a true historie, and is a repeticion of

rhe pedegrue of Alfonso duke of Ferrara with some briefe touches aut of ancient histories of their great exploites in ltaly: the exposition of ali which I will not pur­ sue at length, as being needlesse to rhe learned rhat have read rhose stories, and not verie pleasant to the ignorant, nor familiar to our nation (Harington,

1591,

p.

)

22 .

In effetti la traduzione di Harington di questo canto elimina molte ottave e ne abbrevia altre (cfr. Everson, 2005 ). 2.10

LETTORE

Presumibilmente Ariosto sperava che Ippolito sarebbe stato anche il lettore per eccellenza della descrizione del padiglione di Cassandra traspor­ tato da Melissa per le nozze di Bradamante e Ruggiero

(xLVI 84-98). Ad

Alfonso poi dovevano piacere, nella mente del poeta, le allusioni al can­ none

(xxv 14) e alla sua vittoria a Ravenna (In 53-54; XIV 1-9), così come

ad Ippolito gli elogi della sconfitta dei veneziani alla Polesella, opera delle sue tattiche militari

(xv 2; XL 1-6). Le lodi delle donne estensi (xni 59-73)

hanno come lettrice ideale Isabella, così come, in modo più clamoroso, l'a­ poteosi del personaggio Isabella e la proclamazione divina sulle virtù di chi in futuro porterà tale nome: Per l'avvenir vo' che ciascuna eh'aggia il nome tuo, sia di sublime ingegno, e sia bella, gentil, cortese e saggia, e di vera onestade arrivi al segno: onde materia agli scrittori caggia di celebrare il nome inclito e degno; tal che Parnasso, Pindo et Elicone sempre Issabella, Issabella risuone

( OfXXIX 29 ).

I l mondo più ampio della corte costituisce il lettore ideale d i tutti quei passi in cui Ariosto allude alla cultura contemporanea: la celebrazione di Vittoria Colonna

(xxxvn 16-20 ) , delle donne estensi da parte di poeti e scrittori (xLII 78-9s) e della città di Ferrara (xun ss-63). Attraverso questi versi si intravvede un altro gruppo privilegiato di lettori a cui guarda il poe­

ta, nonché un altro spazio di lettura: le riunioni di poeti e scrittori di corte, dedicate alla lettura delle loro composizioni, si potrebbe dire, tra i primis­ simi critici del Furioso, esperti in materia poetica e cultura letteraria. Preme ali'autore riconoscere i meriti letterari di questi lettori per guadagnarsi in compenso un simile elogio. A volte il pubblico desiderato si allarga a comprendere tutta la società contemporanea, quella che soffre per le invasioni dei francesi e per le razzie dei soldati stranieri

(xvn 3-5).

Nelle decorazioni della Rocca di Tristano

Ariosto ricorda le campagne condotte dai francesi per «porre alla superba Italia il freno»

(xxxiii 8, 4), concentrandosi presto sulle guerre d'Italia iniziate nel 1494 (xxxiii 24-57) che formano similmente l'argomento dei numerosi poemi bellici avidamente consumati dallo stesso pubblico. Si trat­

ta di un lungo passo che serve sia a tessere gli elogi dei signori e potenti del momento sia a dimostrare solidarietà con il popolo:

2II

JANE E. EVERSON

Di qua la Francia, e di là il campo ingrossa la gente ispana; e la battaglia è grande. Cader si vede e far la terra rossa la gente d'arme in amendua le bande. Piena di sangue uman pare ogni fossa: Marre sta in dubbio u' la vittoria mande. Per virtù d'un Alfonso al fin si vede che resta il Franco, e che l' Ispano cede, e che Ravenna saccheggiata resta (Ofxxxm 40; 41, 1). In rare occasioni Ariosto si rivolge ad un singolo individuo, ben noto a lui e a molti dei suoi lettori-ascoltatori, come ad esempio nella famosa inter­ ruzione del canto XLII, quando se la prende con le critiche di Federigo Ful­ goso che lo accusa di avere falsificato la topografia dell'isola di Lampedusa, per far sì che ci si possa combattere a cavallo:

Qui de la istoria mia, che non sia vera Federigo Fulgoso è in dubbio alquanto; [ ...] né verisimil tien, che ne l'alpestre scoglio sei cavallieri, il fior del mondo, potesson far quella battaglia equestre. Alla quale obiezion così rispondo (O/XLII 20, 1-2; 21, 1-4). Oppure quando immagina l'intervento di un ascoltatore anonimo:

Ben mi si potria dir: - Frate, tu vai l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. Io vi rispondo che comprendo assai (O/XXIV 3, 1-3). L'idea di un pubblico conosciuto e desiderato allo stesso tempo giunge alla sua acme nel proemio all'ultimo canto

(xLVI 1-19 ).

Qui sono ricordati i

lettori più cari al poeta, i lettori fedeli che hanno seguito l'intera narrazio­ ne, che sono stati lettori attenti, interessati, entusiasti, quelli che, nella sua mente, hanno veramente apprezzato i suoi sforzi letterari. In primo luogo le donne della propria famiglia, poi le donne di corte, e le illustri mogli dei signori, duchi e marchesi al potere nella penisola, ma soprattutto delle corti di Ferrara, Mantova e Urbino

(xLVI 10, 1-4). Seguono poi i cortigiani legati

a quelle corti, e in particolare gli scrittori e gli umanisti, i lettori colti e dotti,

212

LETTORE

promotori ed esponenti della cultura contemporanea, il cui giudizio sul po­ ema preme in particolare ad Ariosto. Il proemio all'ultimo canto riassume quindi i vari gruppi di lettori e li riunisce in un solo spazio di lettura: nella metafora del proemio, il porto verso cui si indirizza la navicella dell' inge­ gno poetico, ma nella realtà il libro stampato, spazio di lettura accessibile a tutti i diversi gruppi.



Oltre ai vari lettori nominati, Ariosto immagina anche dei lettori particola­ ri ma anonimi a cui sembra indirizzare certe sezioni del poema. Tali lettori possono essere uomini o donne, colti o ingenui, attenti o distratti, veri o immaginari, e come già notato lettori o uditori. Fra i vari gruppi di lettori quello a cui si rivolge più spesso è il pubblico femminile. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, che le lodi di Olimpia nelle prime due ottave del canto x abbiano come lettrici prescelte il pubblico di donne. I consigli offerti nelle ottave successive, relativamente alla scelta di un marito, sono esplicitamente indirizzati loro: E poi che nota l' impietà vi fìa, che di tanta bontà fu a lei mercede, donne, alcuna di voi mai più non sia ch'a parole d'amante abbia a dar fede. [ ...] Siate a' prieghi et a' pianti che vi fanno, per questo esempio, a credere più scarse

( Ofx s, 1-4; 6, s-6).

Di tono diverso, ma sempre indirizzate alle donne, sono le scuse del poeta all'inizio del canto XXIX, alla conclusione del racconto misogino dell'oste a Rodomonte, e quelle più estese nelle prime ottave

(xxx 1-4)

successivo: Ben spero, donne, in vostra cortesia aver da voi perdon, poi ch'io vel chieggio. Voi scusarete, che per frenesia, vinto da l'aspra passion, vaneggio. Date la colpa alla nimica mia, che mi fa star, ch'io non potrei star peggio

2.13

( Ofxxx 3, 1-6).

del canto

JANE E. EVERSON

In questi versi il poeta sembra veramente immaginare di essere in uno spazio femminile, a confidarsi con un gruppo di donne mentre legge loro il poema. Si potrebbe anche supporre che gli episodi che rivendicano l'autodeter­ minazione della donna, la sua libertà, i suoi meriti sia personali sia culturali, nonché l'ipotesi dell'uguaglianza fra i due sessi e tutte quelle sezioni che si ricollegano alla contemporanea questione della donna ( cfr. Weaver, Filogi­ nia e misoginia), abbiano avuto come destinatario particolarmente attento il pubblico femminile. Alle donne-lettrici quindi sarebbero indirizzati i racconti di Ginevra

(Iv-vi) e di Olimpia (Ix-xi); gli episodi della Rocca di Tristano (xxxii-XXXIII) e di Marganorre (xxxvii), nonché la tragica ma virtuosa storia di Isabella (xii-XXIX). Va notato, comunque, che la maggior parte di questi episodi sono stati aggiunti solo nella terza edizione del 1532,

come se Ariosto, dopo aver sperimentato lo scarso interesse di Ippolito (or­ mai morto) e quello di Alfonso occupato negli affari di Stato, si fosse rivolto allora a quel pubblico femminile rimastogli fedele, capeggiato da Isabella d'Este Gonzaga, ma a cui venivano ad associarsi altre donne aristocratiche, dotate di ampia esperienza ma sempre oscurate dagli uomini nel mondo della politica e nella vita pubblica. Fra tutte queste sezioni che si potrebbe­ ro definire «femministe» spiccano i versi in cui Ariosto proclama le virtù e i talenti poco apprezzati delle donne nella letteratura e nelle belle arti e critica l'ostilità e l'invidia degli uomini scrittori che non ne hanno voluto riconoscere i giusti meriti: Se, come in acquistar qualch'altro dono che senza industria non può dar Natura, affaticate notte e dì si sono con somma diligenzia e lunga cura le valorose donne, e se con buono successo n'è uscit'opra non oscura; così si fosson poste a quelli studi ch'immortal fanno le mortai virtudi; e che per se medesime potuto avesson dar memoria alle sue lode, non mendicar dagli scrittori aiuto, ai quali astio et invidia il cor sì rode, che 'l ben che ne puon dir, spesso è taciuto, e 'l mal, quanto ne san, per tutto s'ode

( Ofxxxvn 1; 2, 1-6).

Le lodi degli scrittori che hanno celebrato le donne si indirizzano

214

(xxxvii

LETTORE

8) anche a lettori-scrittori,

spesso contemporanei del poeta, suoi amici e

colleghi alle corti di Ferrara e di Mantova. In modo simile la descrizione della fontana nel palazzo del signore padano nel canto

XLII

tesse gli elogi

non solo delle donne aristocratiche - Lucrezia Borgia, Isabella e Beatrice d'Este, Elisabetta Gonzaga e altre - ma forse ancor più degli scrittori e dei poeti che le lodano - un passo del poema che avrà avuto come lettori attenti questi stessi scrittori- fra cui Sadoleto, Bembo e Castiglione

( xLII 83-92). E fra il pubblico che accoglie il poeta alla fine del suo viaggio me­

taforico, nel proemio al canto

XLVI,

appare un folto gruppo di scrittori

e poeti a cui Ariosto desidera esprimere il suo riconoscimento per il loro sodalizio letterario e per la loro lettura, attenta e critica, del poema. Come testimoniano questi versi, ed in particolare quelli rivolti a Pietro Bembo, sono i lettori più cari al poeta, quelli a cui deve gran parte del successo del poema:

[... ] là veggo Pietro Bembo, che 'l puro e dolce idioma nostro, levato fuor del volgare uso tetro, quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro (O/XLVI

15, 1-4).

In contrasto con questi lettori colti ma identificabili esiste un altro gruppo di presunti lettori colti ma anonimi, che si differenziano dal pubblico po­ polare, dal volgo sciocco e credulo. Tale pubblico colto di lettori figura in particolare nel proemio al canto VII, in cui Ariosto fa appello all'esperienza del mondo che solo questi possono avere (contrariamente allo «sciocco vulgo» ), ma è presente implicitamente lungo tutto il poema come contro­ parte del poeta, allo stesso tempo suo rivale e alleato, a volte più astuto, a volte vinto dalla sua superiore astuzia nel gioco ironico della narrazione. Così quando nel primo canto Ariosto interrompe la narrazione per com­ mentare le parole di Angelica, che afferma di essere sempre stata vergine, il poeta si rivolge a questo tipo di lettore astuto: Forse era ver, ma non però credibile a chi del senso suo fosse signore, ma parve facilmente a lui possibile, ch'era perduto in via più grave errore (O/I s6,

In modo simile all'inizio del canto

XXXII,

1-4).

quando finge di avere dimenti­

cato la trama della narrazione, il poeta gioca con i lettori, e specialmente con quelli più attenti: 2.15

JANE E. EVERSON

Soviemmi che cantare io vi dovea (già lo promisi, e poi m'uscì di mente) d'una sospizion che fatto avea la bella donna di Ruggier dolente,

[. ] ..

Dovea cantarne, et altro incominciai, perché Rinaldo in mezzo sopravenne (Ofxxxn

1, 1-4; 2, 1-2).

IO.

Al concetto di narratore di secondo grado (per cui cfr. Izzo,

Racconti), va

associato quello di lettore-ascoltatore di secondo grado, cioè il pubblico interno alla narrazione, composto dai personaggi della trama. Questi per la maggior parte sono immaginati sempre come

uditori dei

vari racconti

secondari; costituiscono quindi un pubblico tradizionale, rimasto alla fase della recitazione orale di una narrazione, un po' antiquato anche se attento. Così all'interno della narrazione si trovano uditori consimili a quelli del mondo reale del poeta: Bradamante che ascolta i vari racconti di Pinabello

(n) , di Melissa

(ni e

)

XIII ,

del castellano della Rocca di Tristano

(xxxn)

e, insieme a Marfìsa e Ruggiero, quello di Ullania riguardo a Marganorre

(XXXVII) ; Rinaldo che ascolta i monaci scozzesi che raccontano di Ginevra, e poi in seguito il racconto di Dalinda (Iv-v) e più tardi le favole morali del signore padano e del nocchiero (xun) ; Orlando che ascolta le storie di Olimpia (Ix) e di Isabella (xiii) ; Marfìsa e i vari paladini che ascoltano il racconto di Guidon Selvaggio e la storia delle donne omicide (xx) ; Zerbino che ascolta, disgustato, la storia delle nefandezze di Gabrina, e molti altri ancora. Accanto a questo pubblico di personaggi-ascoltatori, sono presenti, più raramente ma in momenti chiave, dei personaggi-lettori, in episodi che trasmettono anche una visione della lettura non sempre molto positiva: Ferraù che legge l' iscrizione sull'elmo di Orlando ( xn

6o); Rodomonte e Mandricardo che leggono le lettere di Agramante (xxiv 112); Malagigi che legge nel suo libro di magia ( xLII 34) . Il caso più clamoroso di questo pubblico interno è quello di Orlando, lettore di scritti di vari tipi: nel canto

XXIII

intento a leggere lettere scolpite sugli alberi

1o2-II4 lo ritroviamo prima (ottava 102); poi entrato nel­

la grotta, dove trova altri scritti incisi dai due amanti, Angelica e Medoro (ottava 106); e infine impazzito di fronte ai versi lirici composti da Medoro (ottave

108-109).

Qui proprio al centro del poema, e nell'episodio-perno 216

LETTORE

di tutta la narrazione, Ariosto affronta il problematico rapporto fra il saper leggere, da un lato, e la comprensione del testo letto, dall'altro. La lettu­ ra, come si dimostra attraverso il personaggio di Orlando, implica sempre interpretazione, giusta o sbagliata che sia.

È perciò

un'attività perlomeno

ambivalente, se non addirittura pericolosa, capace in certi soggetti suscet­ tibili o impreparati di portare alla completa follia. L' exemplum offerto dal caso di Orlando sui pericoli della lettura comincia innocuamente con l'af­ fermazione che Orlando è abituato a leggere, almeno gli scritti di Angelica:

Volgendosi ivi intorno, videscritti molti arbuscelli in su l'ombrosa riva. Tosto che fermi v'ebbe gli occhi e fitti, fu certo esser di mandela sua diva ( Ofxxm

102., 1-4).

Tali versi indicano solo che Orlando è alfabetizzato. Presto il semplice saper leggere comincia a rivelarsi dannoso:

Quante lettere son, tanti son chiodi coi quali Amore il cor gli punge e fìede ( Ofxxm

103, 3-4).

Sebbene, come scrive Ariosto, Orlando stia «con tali opinioni dal ver re­ mote l usando fraude a sé»

(xxiii 104, s-6)-

cioè la sua interpretazione

degli scritti è imperfetta, e in parte volutamente sbagliata -, si tormenta sempre più per queste parole e per quelle poi lette nella grotta:

V 'avevano i nomi lor dentro e d'intorno, più che in altro dei luoghi circostanti, scritti, qual col carbone e qual con gesso, e qual con punte di coltelli impresso ( Ofxxm

106, s-8).

I versi sottolineano i molteplici modi di scrivere, appropriati al supporto

delle pareti rocciose della grotta. Fino a questo punto Orlando ha letto solo singole parole, i nomi degli amanti, per cui una lettura superficiale gli permette di rifiutare la corretta interpretazione del significato. Quando poi passa a leggere i versi lirici tracciati da Medoro nella grotta (ottave 108-109 ), questo approccio superficiale non è più adeguato. La poesia lirica richiede un'attenta lettura, una lettura ripetuta, per pervenire alla comprensione del contenuto e quindi al pieno significato di essa. Ogni parola conta e va valu­ tata e interpretata a fondo; perciò Ariosto insiste in questi versi sulla parola­ rima «scritto», sullo stretto rapporto, nella poesia, fra lettura e scrittura: 2.17

JANE E. EVERSON

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto quello infelice, e pur cercando invano che non vi fosse quel che v'era scritto; e sempre lo vedea più chiaro e piano (Ofxxm m, 1-4). Inoltre, Ariosto sottolinea che la conoscenza di altre lingue fa sì che Orlan­ do, suo malgrado, legga con perfetta comprensione: «Era scritto in arabico, che 'l conte l intendea così ben come latino»

È

(xxiii, IIO, 1-2).

quindi la lettura di una delle forme più sofisticate della letteratura

che porta per prima Orlando a «uscir del sentimento» (ottava

2, 1).

II

Cancellare l'evidenza concreta, come egli fa, distruggere perfino il suppor­ to materiale, non cambia nulla: non risana la sua mente, non gli riporta Angelica. Le parole una volta lette rimangono fortemente impresse nella mente. Sarebbe stato meglio se Orlando fosse stato analfabeta, se non aves­ se saputo leggere, se non avesse studiato o imparato altre lingue. Leggere può essere pericoloso, può distruggere, far impazzire; ma la parola scritta è potente, indistruttibile. L'ispirazione della poesia di Medoro è buona, la scrittura è innocente, non è responsabile degli effetti prodotti dalla lettura, dall'interpretazione apportata da una mente offuscata. Un testo letterario è sempre una collaborazione fra scrittore e lettore, scrittura e lettura, così sembra osservare Ariosto, secoli prima di Derrida. Una volta stampato il testo, l'autore non può più controllarne l'interpretazione. C'è qui forse un messaggio ambivalente, fra il serio e l'ironico, di Ariosto nei confronti dei suoi lettori storici; un messaggio da collegare con il motto finale della edizione stampata: «Pro bono malum» e i commenti amareggiati della prima satira. La natura ambivalente della lettura, fra beneficio e pericolo, torna in due altri casi di personaggi-lettori, sebbene con risultati meno catastrofici nei loro riguardi: Bradamante

(xxx 78-8o) e Astolfo (xv 79; XXII 16-17 ) .

Anche in questi casi il poeta ritorna sul rapporto, difficile ma fondamenta­ le, fra saper leggere e comprendere. La comprensione di Astolfo lettore, così sembra suggerire il poeta, fa spesso difetto. Alla conclusione del suo soggiorno nei territori orientali, Astolfo riceve da Logistilla, la buona fata sorella di Alcina, un libro e un corno. Astolfo si serve spesso del corno magico, a volte con esiti inaspettati

(xx 88-92), ma del libro, nonostante le lezioni impartitegli da Logistilla (xv 13-14), comprende ben poco. Descritto come «bello e utile», esso non solo contiene tutte le istruzioni necessarie per superare ogni incanto e ogni potere magico, ma è anche strutturato in modo molto logico: 218

LETTORE

Come l'uom riparar debba agli incanti mostra il libretto che costei gli diede: dove ne tratta o più dietro o più inanti, per rubrica o per indice si vede

(Ofxv 14, 1-4).

Che Astolfo sia capace di leggere è confermato dal fatto che ricorra al libro per cercare di capire come superare Orrilo, ma la sua lettura non gli permet­ te di capire a fondo il testo e di carpirne i dettagli che lo potrebbero aiutare a superare la prova:

Astolfo nel suo libro avea giJ letto ( quel ch'agl'incanti riparare insegna) ch'ad Orril non trarrà l'alma del petto fìn ch'un crin fatai nel capo tegna; ma, se lo svelle o tronca, fìa constretto che suo malgrado fuor l'alma ne vegna.

Qftesto ne dice il libro; ma non come conosca il crine in così folte chiome (Ofxv 79). Astolfo quindi abbandona il libro per domare Orrilo in modo poco sofisti­ cato, seppur efficace. E tenendo quel capo per lo naso, dietro e dinanzi lo dischioma tutto. Trovò fra gli altri quel fatale a caso (Ofxv

87, 1-3).

Qui ancora una volta si sente un tocco ironico da parte di Ariosto: il saper leggere è un bene, ma a volte serve l'azione pratica e svelta piuttosto che la lettura e lo studio. In altre occasioni Astolfo non sembra neanche ricordarsi di avere il li­ bro, e si serve solo del corno magico. Nell'episodio delle femmine omicide (canto xx), nel bel mezzo di una battaglia (xx 87-97) la mancata consul­ tazione del libro è comprensibile; meno nel caso del re Senapo tormentato dalle arpie (xxxiii II9-28), quando per scacciarle Astolfo, pur avendo il tempo per sfogliare il libro e trovare l'appropriata soluzione, ricorre al solo corno: Viene al duca del corno rimembranza, che suole aitarlo ai perigliosi passi

(Ofxxxm 12.3, s-6).

Perfino quando se ne ricorda, preferisce sempre il corno come strumento

2.19

JANE E. EVERSON

efficace di cui capisce facilmente gli effetti. Quando gli capita di penetrare gli incanti del palazzo di Atlante, Astolfo legge con buona comprensione e per di più un libro moderno, dotato di indice e pagine numerate: e del libretto ch'avea sempre a canto, che Logistilla in India gli avea dato, acciò che, ricadendo in nuovo incanto, potessi aitarsi, si fu ricordato: ali' indice ricorse, e vide tosto a quante carte era il rimedio posto

( Ofxxn 16, 3-8).

Ancora una volta le istruzioni date dal libro sono chiare (ottava

17) ,

ma

Astolfo, per non averle studiate e capite bene, o forse per troppa fretta e desiderio di gloria, si trova ad affrontare ulteriori incanti di cui non co­ nosce la soluzione. Alla fine, per distruggere il palazzo, il paladino inglese deve ricorrrere al corno magico

(xxn 20-21 ) . Astolfo quindi sembra rap­

presentare quei lettori contemporanei, sempre più numerosi, che sanno leggere, ma non capiscono sempre a cosa serva leggere, e sono incapaci di fare buon uso dei libri che leggono e di collegare la parola scritta all'azione appropriata.

II.

A tutti questi lettori esterni ed interni al poema occorre aggiungere il poeta stesso. In effetti Ariosto si presenta non solo come scrittore, ma anche come semplice lettore - un lettore ad alta voce che trasmette esattamente quello che legge al suo pubblico di ascoltatori. A parte la profonda cultura letteraria e umanistica che sottende tutta la narrazione del Furioso, Ariosto si presenta regolarmente come lettore di Turpino e della tradizione cavalleresca, ma è anche, implicitamente, lettore del poema di Boiardo. Queste letture sono a volte in contraddizione fra di loro, e in contraddizione con l'asserzione delle novità che il poeta si accinge a raccontare. Infatti egli comincia il Furioso con una allusione alla narrazio­ ne dell' Jnamoramento

( I 1)

per poi subito passare all'elemento innovativo

del proprio poema, la pazzia di Orlando: «cosa non detta in prosa mai né in rima» (I

)

2, 2 :

poeta lettore nella prima ottava, poeta scrittore e inventore

nella seconda. Il poeta lettore di Boiardo rimane presente implicitamente ogni qual­ volta Ariosto riprende uno degli episodi rimasti incompiuti nel poema del 2.2.0

LETTORE

conte di Scandiano: quando riassume la storia della passione di Orlando e di Rinaldo per Angelica e la soluzione invano proposta da Carlomagno

( 1 s-8) oppure il braccialetto dato ad Angelica da Orlando, che prima era stato dono di Morgana a Ziliante ( xix 38); quando fa apparire il morto Argalia a Ferraù ( 1 26-29 ); quando fa raccontare ad Astolfo il suo arrivo sull'isola di Alcina ( vi 34-43); quando riprende le fila della storia di No­ randino e Lucina ( xvii 2s-68) e quella di Orrigille ( xv 101 ss.); quando ricorda che Gradasso è venuto in Occidente per impadronirsi della spada di Orlando e del cavallo di Rinaldo

( xxxi 91), e allude al duello interrotto

fra Gradasso e Rinaldo all'inizio dell'Inamoramento ( 1 IV-V; Furioso XXXI

90-110; XXXIII 78-93); oppure quando rammenta laquétedi Mandricardo per acquistare Durindana e vendicarsi dell'uccisione del padre Agricane da parte di Orlando

(In.

)

II v ,

( xxiv S9), e il furto di Brunello delle armi di Marfisa

e il ruolo centrale di quel personaggio-ladro nella campagna

militare di Agramante

( xxvii 72

ss.;

XXXII

7

ss.). Ariosto si rivela un

attentissimo lettore del poema del suo predecessore, e come nota Brand, porta a conclusione tutti i fili narrativi dell'Inamoramento lasciati sospesi (Brand,

1976).

Ariosto si presenta, inoltre, come lettore di tutta una lunga tradizione di letteratura cavalleresca nella scelta e nella caratterizzazione dei suoi per­ sonaggi che combinano tratti secolari con sfumature moderne. L'ostilità fra la casata di Orlando e Rinaldo e quella dei Maganzesi, che emerge ne­ gli incontri fra Bradamante e Pinabello

( n 67), corrisponde ad una lettura

condivisa da poeta e pubblico. L'inimicizia di Lanfusa madre di Ferraù, e il pericolo in cui versano Viviano e Malagigi

(xxv 74-7s), sono ugualmente

frutto di tali implicite letture condivise, esempi di una cultura letteraria in volgare ampiamente messa in luce da Pio Rajna nel suo studio approfondito sulle fonti del Furioso (Rajna,

197s ) .

Fanno parte sempre della tradizione cavalleresca le allusioni al vescovo Turpino, presunto autore della cronaca di Roncisvalle. Tali allusioni, come anche in altri testi della tradizione cavalleresca di questo periodo (Cieco da Ferrara ad esempio), possono essere giocose e ironiche, ma la nota di una certa incredulità espressa da parte del poeta attira di nuovo l'attenzione sulla questione dell'interpretazione critica di ciò che si legge: Forse era vero augel, ma non so dove o quando un altro ne sia stato tale. Non ho veduto mai, né letto altrove fuor ch'in Turpin d'un sì fatto animale

221

( Ofxxxm Ss, r-4).

JANE E. EVERSON

Interessante, tuttavia, osservare che in queste allusioni a Turpino Ariosto sembra insistere proprio sulla lettura di un libro concreto, tangibile, e usa un vocabolario che sottolinea l'attività della lettura. In certi versi il poeta crea proprio l'impressione di sfogliare il volume di Turpino: Non si legge in Turpin che n'avvenisse; ma vidi già un autor che più ne scrisse.

Scrive l'autore, il cui nome mi taccio, che non furo lontani una giornata, che per torsi Odorico quello impaccio, contra ogni patto et ogni fede data, al collo di Gabrina gittò un laccio

( Ofxxiv 44, 7-8; 45, 1-5).

dove il poeta insiste sui vocaboli «leggere», «scrivere», e menziona un autore anonimo meglio informato di Turpino. Nel canto XXIX s6 Turpino si fa modello del narratore-cantastorie, di Ariosto stesso, a cavallo fra tradi­ zione orale e quella del libro a stampa; l'autore della cronaca assume molti dettagli della sua narrazione da una tradizione orale, dalla recitazione di altri, per poi trasmetterli sulla carta. Quanto è bene accaduto che non muora quel che fu a risco di fiaccarsi il collo! eh'ad altri poi questo miracol disse, sì che l'udi Turpino, e a noi lo scrisse

( Ofxxix s6, s-8).

12.

Concludiamo con l'immagine del lettore ideale. Per quanto si evince dal poema, questi deve essere capace di distinguere fra il serio e il ludico, svelto ad accogliere l'ironia del poeta, in grado di seguire senza perdersi le varie fìla della trama, e di apprezzare l'insistenza di Ariosto sul principio della

varietas di contenuto, tono e stile; un lettore dotato di una cultura letteraria ampia, che spazia dai testi degli scrittori classici alla tradizione cavalleresca più recente, e che riesce a cogliere fonti, modifiche e riscritture nelle mol­ teplici combinazioni presenti nel Furioso. li lettore ideale del Furioso nella mente del poeta deve essere come quello del Paradiso di Dante (Pdn, IO-IS), capace di seguire nella scia della navicella del poeta senza far naufragio e di districare la polisemia dell'epica moderna; un lettore sensibile a «quella

222

LETTORE

fondamentale distanza ironica assunta dal narratore [ ... ] nei confronti del mondo cavalleresco» (Rivoletti, 2014, p.

)

XXIV ,

che legge con profonda

comprensione e che infine non si perde in quel gioco infinito di possibili interpretazioni proposte da san Giovanni nel mondo della Luna: E se tu vuoi che 'l ver non ti sia ascoso, tutta al contrario l'isteria converti

(Ofxxxv 2.7, s-6).

Un lettore fatto ad immagine del poeta stesso.

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GRENDLER

224

Lingua di Tina Matarrese

I.

Ai primi del Cinquecento il racconto in ottave ha maturato una ricchezza di esperienze tale da ambire all'alta letteratura e allo statuto di poema. At­ traverso la codificazione testuale e formale dei cantari, favorita dal rilancio del volgare che si verifica nel secondo Quattrocento, e dallo sviluppo della stampa che stimola un mercato librario interessato a promuovere generi di largo consumo, si assiste a quella crescita del genere epico-cavalleresco che ha il suo fulcro da una parte nel Morgante, dall'altra nell' Inamoramento de

Orlando (cfr. la sintesi di Roggia, 2014). Particolarmente importante è il poema boiardesco per le novità strut­ turali della narrazione derivanti dalla tecnica dell'entrelacement ripresa dai grandi romanzi arturiani, che comportava una diversa configurazione delle unità narrative, cioè una distribuzione della materia non più nei tradiziona­ li cantari, ma in una nuova forma delle partizioni narrative, i canti: canti in quanto parti di un continuum in cui il narratore, all'interno di quello sdop­ piamento dei piani discorsivi in piano della storia e piano del narratore­ cantore, caratteristico del racconto giullaresco, prende uno spazio nuovo e anzi sovrano nel gestire il racconto nei suoi diversi fili (Matarrese, 2oo8). E ancora un'altra novità del poema boiardesco, il cambiamento della situa­

zione comunicativa: non più la rappresentazione di piazza, ma la recita di corte per un pubblico di dame e cavalieri attivamente partecipi allo spetta­ colo del poeta canterino e che condivide con lui la passione per i romanzi cavallereschi (Matarrese, 2010): pubblico idealizzato della corte estense, partecipe di quell'atmosfera cortigiana di rituali mondani connaturati da sempre con il discorso amoroso della poesia, che favorisce lo scambio tra lirica ed epica nella costruzione di un linguaggio cavalleresco "illustre" (Ma­ tarrese, 2004, pp. 3S-S2).

È il linguaggio della koine cortigiana nella sua particolare coloritura

TINA MATARRESE

padana, più marcata rispetto a quello degli Amorum libri, per via di quella finzione dell'oralità e performatività del testo che lo rende aperto al parlato, ma anche agli usi di un ambiente culturale,quello intorno alla corte estense, che si mostra particolarmente propositivo nell'elaborare un modello lin­ guistico letterario progressivamente sempre più sovramunicipale.

È con questa eredità che Ariosto,riprendendo «la inventione del conte Matheo Maria Boiardo»,come scrive in una lettera del 1512 (Ariosto,1984, p. 151), affronta il genere portandolo a nuovi e definitivi traguardi. Se la liri­ ca ha già un alto grado di codificazione in virtù di una tradizione modellata su Petrarca, i cui Fragmenta si offrono ora in un testo depurato da setten­ trionalismi e latinismi grazie all'edizione aldina del 1501, il genere epico-ca­ valleresco mantiene ancora i segni dei particolarismi locali. Occorreva poi difenderlo dalle triviali continuazioni e contraffazioni dell'lnamoramento

de Orlando, come le "giunte" di Nicolò degli Agostini,il cui quarto libro di prosecuzione del poema è del 1506. O da opere come ilMambriano di Fran­ cesco Cieco da Ferrara, un tipico prodotto padano di stampo cortigiano, pubblicato postumo nel

1509, ma iniziato ben prima a ridosso dell'ultimo

libro dell' Inamoramento, e la cui lingua,genericamente settentrionale, ma anche con tratti dialettali più marcati, mostra una buona penetrazione del toscano ( Scavuzzo,1983). Con l'Orlandofurioso il genere supera si può dire d'emblée la conna­ turata caratterizzazione diatopica, mirando a una relativa uniformità della lingua, dettata oltre che dalle esigenze della stampa anche dall'intento di portare l'opera nel suo carattere di poema "estense" a un pubblico più vasto e di palato più fine. Fin da subito essa è pensata per un pubblico geografi­ camente ampio e di cultura più prestigiosa, non più locale ma nazionale, come nazionale è l'insieme di dame e cavalieri che accoglieranno l'autore alla conclusione del racconto fin dalla edizione del 1516, come a rappresen­ tare l'intera società colta delle corti italiane. Che Ariosto fosse consapevole che la sua opera avrebbe goduto di una circolazione più ampia lo dimostra il fatto che anche per la prima edizione si preoccupava di chiedere il privi­ legio per l'esclusività della stampa non solo a Venezia ( il libro è stampato a Ferrara ) , ma anche a Roma e a Genova,e un privilegio è accordato pure dal re di Francia. Una destinazione dunque potenzialmente «nazionale», che fa sì che la barra della scrittura sia orientata fin dali' inizio nella direzione del fiorentino letterario, pur permanendo nella prima edizione un certo ibridismo, legato alla pratica cortigiana, aperta all'uso vivo, alle consuetu­ dini regionali, al latino e al toscano trecentesco ma anche contemporaneo. Tra i fautori di tale pratica c'era l' Equicola,operante tra Ferrara e Man226

LINGUA

tova (e amichevolmente citato già nella prima edizione del Furioso), e il cui

Libro de natura de amore comincia a essere steso tra il ISOS e il 1so8. Ma l'uso cortigiano, fosse pure quello relativamente meno localistico della corte di Roma sostenuto dall'Equicola, non rispondeva alla esigenza di superare il «volgare uso tetro», e Ariosto sa cogliere con lungimiranza la direzione che va prendendo la lingua letteraria, lungo la linea che porterà al classici­ smo fiorentino arcaizzante che si sarebbe nel frattempo concretizzato nelle

Regole

del Fortunio, uscite a stampa proprio nel 1s16, e successivamente

teorizzato da Bembo. Non ci sono dichiarazioni di Ariosto riguardo ai suoi ideali linguistici; va comunque considerato che egli comincia a lavorare al poema negli anni che vedono Bembo soggiornare spesso a Ferrara e iniziare una amicizia con il poeta che avrà occasione di svilupparsi in seguito. L'e­ co poi del Petrarca aldino arriva tempestivamente negli ambienti di corte estensi e gonzagheschi (Isabella d'Este Gonzaga ne richiede fin da subito una copia); ed è durante i soggiorni ferraresi che Bembo compone una parte degli Asolani e progetta il primo nucleo delle Prose

della volgar lingua.

2.

Il genere dunque, che già con Boiardo aveva trovato una sua nobilitazione all'interno della koine emiliano-padana "illustre", sperimenta con il Furioso il passaggio al fiorentino letterario attraverso un percorso correttorio dalla prima edizione ( 1s16 ) alle successive ( 1s21 e 1s32 ) , parallelo all'evoluzione della lingua letteraria come sarà fissata nelle

Prose

di Bembo ( 1s2s ) , e re­

cepita dall'ultima edizione del poema; e studi sulle varianti d'autore non mancano (in particolare Segre, 1994; Stella, 1999; Trovato, 1994; uno spo­ glio sistematico è in Boco, 1997-2oos ) . La finzione della recita che permea la narrazione dell'Inamoramento

de Orlando è

ormai solo un ingrediente

parodico del genere, non in grado di incidere sulla caratterizzazione diame­ sica del testo, che è a tutti gli effetti quella di un testo scritto, rivolto a un pubblico di lettori (Roggia, 2014, p. us; per una lettura più sfumata della "finzione di oralità'' cfr. Everson, Lettore). La prima edizione, iniziata intorno al 1sos, risente di una fase anco­ ra fluida, in cui l'uso cortigiano fa avvertire, come si è accennato, la sua presenza in un certo ibridismo, e una rassegna puntuale dei fenomeni è in Vitale ( 2012 ) . Qui ne consideriamo gli aspetti salienti: innanzitutto la componente emiliano-veneta, o più estesamente lombarda, riguarda soprattutto fenomeni comuni agli usi scritti di fine Quattrocento e inizi

227

TINA MATARRESE

Cinquecento anche centro-meridionali, compreso il toscano contempora­ neo (ad esclusione di Firenze), come -ar- per -er- in sede atona (camara,

camarier, carastia, boscarecci,jàntaria e nel futuro e condizionale dei verbi di I classe); oppure qualche raro hom, homini, in cui agisce anche il latino, a fronte della generalità di uomo, uomini; o i costanti sm:l, seria e il frequente

ara, aria: fenomeni che pertanto potrebbero definirsi panitaliani. E, pure comune alla koine meridionale, la palatale in giaccio ghiaccio e nelle forme del verbo agiacciare, estesa anche agiande, cingie cinghie, cingia!, e non di rado conservata in C. Fenomeni invece più specificamente emiliano-veneri sono in genere sporadici, come il caso dell' iperdittongamento che, a parte il prevalente vuo' "voglio", peraltro anche roseo-fiorentino antico e petrarche­ sco (Vitale,

1996, p. 188), si presenta nelle poche occorrenze di tuor/tuorre

"togliere" rispetto alle tante di torre; inguota alternante con gota. Quanto al monottongo di stampo dialettale registriamo l'unico toi rispetto al costante

tuoi. Inoltre voci come cavaler, destrer, guerrer sono confinate al canto

II

(ottave 35-39 ), dove troviamo anche gli unici due casi di desinenza -eti della seconda persona plur. del pres. indie. (haveti: ottave

22 e 29),

tipica della

koine padana e cortigiana e normale in Boiardo: si tratta di due varianti eccezionali, sfuggite alla correzione che interessa un'altra attestazione della desinenza nello stesso canto, credeti (ottava

6),

cambiato in credete in un

esemplare portatore di una variante di stato (come segnalato da Dorigatti, in Ariosto, 2006, p.

)

CXXXIII .

Un altro intervento d'autore è ambe le mani in luogo di ambo le mano, mentre un alle mano corretto alle mani è in Err. corr. (Ariosto,

2006, p. 1016), a testimonianza della tendenza già in A a prendere le distanze dalla

koine. Nelle consonanti la sibilante s per la palatale sci/sce, e anche viceversa (strassina, settro, semitarra, arrosci, alternanti con scettro ecc.) è sì un tratto fonetico emiliano, ma si ritrova anche nella koine letteraria meridionale. E forme come drento, drieto, con metatesi dialettale destinata a scomparire in C, si ritrovano anche nel toscano popolare e negli scrittori fiorentini del Quattrocento (Pulci, Lorenzo de' Medici, Poliziano) e rappresentano quindi un fenomeno generalizzato. Per quanto riguarda la prima pers. plur. dell'indie. pres. a fronte della prevalente desinenza fiorentina -iamo si registrano alcune occorrenze di

-emo, -imo e una di -amo (averno, semo, attendemo, tornamo, sentimo) dell'i­ taliano antico- e averno e semo anche di Petrarca-, ancora vitali nella koine settentrionale e meridionale. Analogamente la desinenza -eno della terza plur. dei verbi di II e III classe (es. correno, apreno), propria della koine anche meridionale, presenta poche occorrenze. Inoltre la desinenza -e per la 228

1•

LINGUA

sing. del congiuntivo imperfetto dialettale e dellakoine ( io volesse) è condi­ visa dagli usi meridionali, mentre il tipo frequente nel poema (egli )

amassi

si ritrova anche nel fiorentino quattrocentesco e non sempre è eliminata in C. Insomma si tratta in genere di forme diffuse negli usi scritti della peniso­

la, oppure di tratti residuali come la grafia ci per zi

(cio zio, ocio ozio, straccio

strazio) , spesso corretta già in B. Anche i microfenomeni morfologici, come gli articoli il, i, un davanti a parola iniziante per s implicata (il stagno, i scudi,

un spirto)

e di

li davanti a vocale (li occhi)

o la preposizione del tipo

in la,

rappresentano un uso generalizzato, per il quale occorrerà aspettare la guida sicura del Bembo delle Prose della volgar

lingua per essere corretti.

Senza entrare in questa sede in altri particolari, nell'alternanza di for­ me predomina in genere la variante che poi sarà di C, cioè fiorentina, e comunque si privilegiano forme tendenti a distanziarsi non solo dal dialet­ to ma anche dalla

koine.

E spesso le scelte di Ariosto «concordano gene­

ralmente con quella che sarà l'evoluzione della lingua italiana, anticipan­ do l'uso e la norma delle

Prose» ( Stella, 1999,

p.

22). Anche il lessico non

offre forme di particolare connotazione dialettale. Si tratta in genere di varianti fonetiche, per esempio

battizar, biastemiar, intrar; signiozzi,

che

è forma popolare anche toscana, ed è conservata in C. Poche sono le voci più dialettalmente caratterizzate, quali canton angoli,

giara ghiaia, mota ri­ orna bigoncia, slungata ( veneto slongar) allontanata, slisciare ( veneto slissar) strisciare, soia "beffa'', stracco, che saranno sostituite in C. Al polo opposto troviamo i marcati latinismi (proceri, inulto, nece, clade ecc. ) , oltre alle forme latineggianti nella fonetica (artifice, pontifice ecc. ) , indice

alzo, naranci,

di una dipendenza della lingua volgare dal latino che sarà superata con la successiva revisione. L'edizione del 1532 manterrà però vari latinismi, come i danteschi de­ lubri, colubri, rubri (III 26; XIII 63), e ne introdurrà di nuovi come cacume, pure dantesco; e i cultismi funzionali ai registri più elevati, come nell'elogio cortigiano a celebrazione della famiglia estense nel canto XIII:

certame, in­

diti, lice, tuba; e i termini latineggianti usati dal monaco che scorta Isabella e la difende dalle avances di Rodomonte con l' immagine del nocchiero e del cibo spirituale, a richiamare la letteratura didattico-religiosa: incauta inesperta, governo timone, nauta, lauta ( xxviii 101). Tra le correzioni di C nota è la sostituzione di presto avverbio con tosto, la correzione «più costringente» di quelle imposte da Bembo, Prose III LX ( Bembo, 2001; Stella, 1999, p. 33) e già preannunciata dal Fortunio I 238, 240 ( Fortunio, 2001). Meno nota invece la sostituzione sistemati­ ca (e a volte già in B ) di adesso con ora: correzione dettata non solo da 229

TINA MATARRESE

ragioni metriche e prosodiche ma anche dal bisogno di eliminare una parola avvertita di registro parlato o di ambito regionale (la voce è di diffusione settentrionale), se il Fortunio (Bembo tace su questo) afferma che «la elegante e volgar lingua in loco di testé o ver hora o ver mo non usa adesso»

(I 112.).

Gli interventi continui riguardano le microstrutture: in direzione pe­ trarchesca i vari gettare>gittar, liggiadro >leggiadro, vulgo >volgo; e anche bembesca le sostituzioni sera>sani, aresti>avresti, andera > andra. Mentre in devea, -eano, passato già in B a dovea, -eano, si ha invece l'abbandono della forma più eletta con tema de- del genere lirico e propriamente petrar­ chesca, per quella più prosastica do- (ad eccezione ovviamente del pres. in­ die. e cong.) usata da Boccaccio. Costante il passaggio dalla forma corrente quattrocentesca della prima persona dell'imperfetto in -o a quella poetica in -a (avevo, ero > aveva, era), come indicato da Bembo, a volte anche in funzione di una maggiore fluidità del verso (ad esempio «che sì bell'arme

desiavo assai» > desiava XIII 34, s; «più presto ero a morir...» > «più tosto era...» XIII 2.7, 2.). E ancora di ragione petrarchesca e/o bembesca il passag­ gio, come già visto, di li a gli art. davanti a vocale; e di il a lo (tipo il stizzo >

lo stizzone; il stagno>lo stagno), anche se non mancano le eccezioni (Vitale, 2.012., p. 115); e di in la> ne la. Sono correzioni che interessano solo il testo del I s32., volte ad evitare incontri consonantici bruschi e cacofonici a favore di una maggiore scorrevolezza del verso. Una costante correttoria è poi l'eliminazione della forma apocopata, avvertita forse come dialettale, a favore della piena davanti a parola ini­ ziante per vocale, il cui effetto di "legato" contribuisce alla fluidità e allo «scorrimento di un'ottava per eccellenza narrativa» (Mengaldo, 1981, p. 38); qualche esempio dal canto XIII: «il cor accese» >core 2.5, s, «per ripa­

rar alli bisogni miei» > riparare 34, 8; «uccider un che...» > uccidere 53, 2., «dove faceagrand ombra un vecchio sorbo» >grande ombra 41, 2. ecc. Un '

lavoro microscopico, «punto a punto», di strutturazione fonica del verso che va insieme con quello sulla rima nell'appropriazione di un linguaggio dal flusso verbale senza punte espressive marcate, modulato internamente guardando al sistema petrarchesco, come analizzato da Praloran (2.009b, pp. 17 5-98). Ma accade anche che le scelte di C si discostino dal modello toscano, facendo ricorso a una gamma più ampia di quella proposta da Bembo (Se­ gre, 2.000), e conservino tratti della koinè, facendo prevalere una ragione prosodica ed eufonica, come in questi esempi: « servata; e servard, s'in me non erra»

(1112. , 6) e «Quando ne sarà 'l tempo, avisarotti» ( v 42., 1), in cui

LINGUA è conservato -ar- di fonetica settentrionale in tale posizione, invece di essere

corretto in -er-, forse per omogeneità fonica e scorrevolezza prosodica. Dunque una libertà di adesione al modello toscano trecentesco che de­ nota una coscienza della lingua come organismo vivo, esposto pertanto a variazioni e alternanze in funzione delle diverse tonalità o delle esigenze ar­ moniche del discorso. Prendiamo il caso del dittongo di tipo fiorentino, su cui l'autore è a volte incerto, alternando per esempio truovo l trovo, prieghi l preghi, forse perché su questo Bembo tace; ma chiaro è il comportamento riguardo a luoco l loco: la forma con dittongo e consonante sorda è presso­ ché assoluta in A mentre in C (a volte già in B) passa ora al più prosastico luogo, ora a loco, ma il primo solo ali' interno del verso (anche per scarsità di rimanti), mentre loco, ormai avvertito come più proprio della poesia, sia nel verso sia in rima; e Alunno ( ISS7 ) infatti l'annovererà, insieme ai vari core, foco, moro ecc., tra le «Voci usate solo da' poeti ne' versi» (cit. in Serianni, 2009, p. S7 ): un comportamento di C tendente, quindi, a contemperare il lirico e il prosastico. Altro caso interessante è quello di nui, vui: forma metafonetica dialetta­ le che è frequente nei poeti settentrionali quattro-cinquecenteschi (Nicolò da Correggio, Tebaldeo) ed è prevalente nelMambriano (Scavuzzo, 1983), raro nell'Inamoramento e assente significativamente nel Morgante; ma è anche un sicilianismo entrato in poesia. Considerando nui: in Dante s'in­ contra solo in pochi casi, in rima nella Vita Nuova e nel Convivio, nessuna occorrenza nella Commedia; in Boccaccio solo due casi in rima nel Filostra­ to, mentre è assente in Petrarca (dati uz ) . Quanto ai trattatisti, Fortunio lo ammette, Bembo lo ignora: è quindi interessante che nel Furioso (in tutte le tre edizioni) ne compaiano vari esempi, di cui IS in rima e 2 all'interno del verso. li fatto ha forse influenzato Ruscelli, che prende in considerazione la forma, raccomandando però: «parchissimamente et con manifesto bi­ sogno di rima» (cit. in Serianni, 2009, p. 63). Verrebbe da concludere che è con Ariosto che si afferma la specializzazione poetica del tipo nui nella nostra tradizione letteraria (ultima comparsa in Manzoni: «nui l chiniam la fronte al Massimo Fattor », Il cinque maggio). Tornando al lessico si ritrovano in C le forme idiomatiche di tono col­ loquiale già boiardesche, come fermare o fissare il chiodo decidere ferma­ mente, cader de la padella ne la brage, sentire a naso, vedere le stelle provare un forte dolore fisico. Permangono anche i tecnicismi del genere, pure bo­ iardeschi, del tipofolta calca, afrotta a mucchio,Juriare andare con furia, jàrsijàr piazza farsi largo (del solo C),ferire di piatto o di taglio, giuocare di schiena dare sgroppate, menar de le calcagna dar di sprone, menare afracas-

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so, a dritto e a riverso,Jèrir testaper testa fronte a fronte ecc. E la terminologia marinaresca come ballador ballatoio intorno al castello a poppa, artimone tipo di vela, trinchetto albero di prua, giava stanza di deposito delle navi, poggia e orza, calumare calare a mare, porre scala fare scalo ecc. Come pure, a gara con Boiardo, la terminologia degli animali marini: vécchi marini vi­ telli di mare, muli triglie, salpe, coracini corvoli, pistrici efisiteri pesce sega e capodoglio ( VI 3 6). Vengono invece a cadere nell'ultima redazione gli aspetti eccessivamen­ te realistici o "comici': connaturati alla poetica del genere per quella con­ giunzione di dramma e di farsa che aveva trovato la massima espressione nel poema boiardesco (Praloran, 2009a, p. 310 ). Sono per esempio eliminati:

becchini «e li becchini più per sotterrarlo» AB XXII 24 per «e i preti e i frati» C XXIV 24; boccheggia «Come trota boccheggia in piccol fiume» A B IX 98 per «Quale trota o scaglion va giù pel fiume» C 110; o espressioni troppo ardite come «S'io avessi connosciuto al tuo desire l di poter sati­ sfar con mia dimora» A XXIII 57 che passa al meno esplicito «Se 'l vostro ardor, madonna, intiepidire l potuto avessi col mio far dimora» C xxv 59· Significativo il caso dell'espressione " bassa" e popolare, già nel

(xix 141,

2), piu

Morgante

cotto che crudo, riferita a Rodomonte che, in preda ai fumi

del vino, cade nell'inganno tesogli da Isabella e finisce per tagliarle la testa. Presente in AB e cancellata in C: Bagnossi come disse, e lieta porse all'incauto pagano il collo ignudo, il qual pel vin che tutta notte sorse si ritrovava più cotto che crudo ( AB XXVII

25,

1-4).

incauto, e vinto anco dal vino forse, incontra a cui non vale elmo né scudo ( C XXIX

25,

3-4).

L'espressione, triviale nel contesto della situazione, è sostituita da una ri­

Rvfxcv 6), con esito più sottilmente comico-parodico. In molti casi la soppressione

presa petrarchesca («quel colpo ove non valse elmo né scudo»,

di una forma idiomatica o colloquiale si lega a ragioni di correzione lingui­ stica; per esempio nel passo dove Doralice cede alle profferte amorose di Mandricardo, la frase «non vi avea le mane» al v. 4 (''non era presente"), adeguata al tono scherzoso del tutto (i corsivi sono sempre miei), Che si facesse poi la notte al scuro tra Doralice e il figlio d'Agricane,

LINGUA

io non l'ardisco a dir troppo sicuro, ch'io non li vidi e

non vi avea le mane.

Ma v'era indicio che d'accordo furo; che con ridente faccia la dimane si levò Doralice, e grazie rese al pastor che le fu tanto cortese (A

XII

63),

viene cassata nelle successive edizioni per evitare non tanto o non solo la corrività dell'espressione ma la forma

mane mani

della

koine;

la scenetta

perde così un po' del suo sapore, recuperato in parte, e anche qui con di­ vertita ironia, dall'onore fatto a Doralice dal pastore, che non può non allu­ dere all'altro "onore", quello fattole da Mandricardo; e notiamo nel distico un'altra sostituzione, intesa a eliminare la forma di perfetto forte estraneo alla grammatica petrarchesca ( Stella,

rese v. 7,

1999, p. 29):

Quel che fosse di poi fatto all'oscuro tra Doralice e il figlio d'Agricane, a punto racontar non m'assicuro; sì ch'al giudicio di ciascun rimane. Creder si può che ben d'accordo furo; che si levar più allegri la dimane, e Doralice ringraziò il pastore, che nel suo albergo l'avea fatto onore (C

XIV

63).

Una lingua dunque che nell'accogliere pienamente pur con alternanze il toscano letterario si sintonizza con le fonti volgari classiche, Dante e Pe­ trarca, che agiscono sia sul piano della intertestualità che su quello della interdiscorsività, fornendo singole parole, locuzioni, serie rimiche che ar­ ricchiscono la lingua del poema, immettendola nel sistema letterario alto. Tra le riprese allusive della

Commedia si

veda nel canto

XIII

la storia di

Isabella, il cui lamento trova appiglio nel pianto di Francesca. Accomunate le due eroine dal ricordo dei tempi felici, il «nessun maggior dolore l che ricordarsi del

tempo felice l

radice l del nostro amor»

ne la miseria [ ... ] . l

Ma se a conoscer la prima dell'una (Ifv 121-124), amplificato dall'altra:

Già mi vivea di mia sortefelice, gentil, giovane, ricca, onesta e bella: vile e povera or sono, or infelice; e s'altra è peggior sorte, io sono in quella.

Ma voglio sappi la prima radice che produsse quel mal che mi flagella (C

XIII s,

1-6).

TINA MATARRESE

Isabella presa da amore per Zerbino 7,1-3 e Francesca «mi prese del costui

(Jfv 100-101, 104). E i sospiri in rima con martiri di France­ «i tuoi martiri... al tempo de' dolci sospiri» (Ifv n6-n8),riecheggiati

piacer sì forte» sca,

da Isabella:

Così parlava la gentil donzella; e spesso con signozzi e con sospiri interrompea l'angelicafavella, da muovere a pietade aspidi e tiri. Mentre sua doglia così rinovella, o forse disacerba i suoi martiri (C XIII 32., I-6). E ancora, «sua doglia così rinovella» in rima con jàvella aggancia un altro luogo dantesco, «Tu vuo' ch'io rinovelli l disperato dolor» in rima con

jàvelli (Ifxxxiii 4-6); mentre di segno petrarchesco è il disacerba ( «perché cantando il duo! si disacerba»,Rvj33,4). Ma al di là delle riprese allusive e intertestuali, qui interessano gli appor­ ti di materiale lessicale per così dire denotativo. Ecco un elenco meramente esemplificativo di parole e locuzioni riferibili all'Inferno (tra parentesi il luogo ) : abbarbicata VII 29

(xxv s8),a brano a brano xv 82 (vii n4),acca­ sciarsi v ss (xxiv 54), aguzzar. .. le ciglia XXXIV 71 (xv 20 ) , biche mucchi xxxi 76 (xxix 66),crosciare XIV 7 (xxiv 120),cuticagna xv 8s (xxxii 97 ), dar biasmo a torto x 59 (vii 93),di balzo in balzo VIII 19 (xxix 95),dischio­ mare xv 87 (xxxii 100),jàr motto v s6 (xxxiii 48),grijàgno VIII 4 (xx 139),intoppare VIII 26 (xii 99),pagare il fio XXII 59 (xxvii 135),scuoiare xv 43 (vi 18),turbo x 40 (III 30),e così via. Se Dante agisce sul piano della figuratività, Petrarca influisce sul piano più sottile del ritmo, modellando iuncturae aggettivo sostantivo (liquido

cristallo,avara terra,estremo passo,amorose reti,dolci rai,bel viso sereno ecc. ) , coppie (morte acerba e rea,loco alpestro efiero,bagnato e molle,tema e spe­

ranza),enumerazioni (Fugge tra selve spaventose e scure, l per lochi inabitati, ermi e selvaggi, I 33) che interessano il discorso amoroso e la dimensione vaga e indeterminata del paesaggio. E l' incipit del poema nel passaggio dalla prima all'ultima edizione, da «Di donne e cavallier li antiqui amori, l le cortesie, l'audaci imprese io canto» a «Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori», coniuga nella bellissima enumerazione, evocativa di Purgatorio

XIV 109-no «le donne e ' cavallier, li affanni e li agi l che ne 'nvogliava amore e cortesia», Dante e Petrarca a dichiarare preliminarmente la fedeltà a una tradizione e l' «appartenenza a una nazionalità letteraria» ( Brusca­ gli, 2003, P·

SI).

LINGUA



La tendenza linguistica generale che il Furioso veniva a interpretare, contri­ buendo in larga misura a imporla (Roggia, 2012, p. 114), era frutto anche di una situazione, quella della Ferrara estense, pronta ad aderire al modello toscano e ad accogliere la lezione bembiana grazie alla continuità di cui go­ deva in ambito estense la letteratura volgare, che invece in altri centri aveva subìto un arresto in seguito alla crisi sopravvenuta con la discesa di Carlo VIII

e gli eventi bellici susseguiti. «È un fatto - ha scritto Dionisotti -

che nel primo Cinquecento, così a Napoli come a Milano, la crisi politica e dinastica, che naturalmente si ripercosse su tutta l'attività intellettuale e letteraria, provocò però uno specifico e quasi totale arresto della letteratura in lingua volgare» (Dionisotti, 1963, pp. 194-5). Ora Ferrara, dove il dominio degli Estensi permane, potendo vantare illustri ascendenze nella notte dei tempi e contare sulla alleanza con la Fran­ cia, non è toccata dalla ventata che spazza via altre casate, risente meno della crisi che tocca la società cortese a cui fa riferimento il pubblico della lirica volgare. Ferrara non registra soluzioni di continuità nella pratica letteraria del volgare. È vero che non mancano sussulti di produzione latina, fra tutti Ercole Strozzi, che Bembo fa paladino del latino contro il volgare nelle sue Prose. Ed è anche vero che il passaggio delle truppe francesi segna la prema­

tura fine del poema boiardesco: «Mentre che io canto, o Dio redemptore, l vedo la Italia tutta a fiamma e a foco l per questi Galli, che con gran valore l vengon per disertare non sciò che loco: l però vi lascio in questo vano amore l di Fiordespina ardente a poco a poco. l Un'altra fiata, se mi sia concesso, l raconterovi el tutto per espresso». Ma al poeta non sarà concesso ripren­ dere il racconto, non solo per la sua morte ma anche per il mutamento che quel terremoto avrebbe portato nel suo mondo, quello delle corti quattro­ centesche e della corte estense idealmente riflesso nel pubblico interno del racconto: un rivolgimento incompatibile con la poetica del suo racconto, ma che trova spazio e significato nel Furioso, nel nuovo ruolo assunto dal narratore come personaggio-autore, che gli permette di non tacere dei tanti rivolgimenti accaduti in quei primi trent'anni del Cinquecento: basta pen­ sare all'evocazione della battaglia di Ravenna del 1512 assimilata all'assedio di Parigi, che fa della guerra fantastica tra saracini e cristiani la prefigurazio­ ne allegorica delle drammatiche vicende contemporanee al poeta. Lo sviluppo linguistico e letterario del Furioso in direzione nazionale andrà messo dunque in relazione con le vicende storiche di quegli anni, l'in­ vasione straniera e le conseguenti guerre. Come ha scritto ancora Dionisot235

TINA MATARRESE

ti, se in altri paesi nella prima metà del Cinquecento è stata la questione re­ ligiosa a influire sulla unificazione linguistica, in Italia un analogo influsso è stato esercitato dagli eventi bellici del periodo: «influsso», non «rapporto di causa ed effetto», precisa Dionisotti, perché se sul piano degli atti l'avan­ guardia culturale italiana viveva quegli avvenimenti disunita, sul piano del giudizio aveva maturato una consapevolezza nazionale pur continuando ognuno nei suoi impegni d'arme e di negozi a servire la propria piccola patria, «Venezia o Firenze o Ferrara, o le stesse grandi potenze straniere, o la Chiesa Cattolica[...]. Ma per altra via, e su un altro piano[quegli uomi­ ni] furono Italiani, come mai prima collettivamente erano stati, pensando e parlando e scrivendo da Italiani» (Dionisotti, 1967, pp. 4-5). E dunque anche a questa consapevolezza che si deve il passaggio dalla dimensione più municipale della edizione del 1516 a quella nazionale del 1532. E forse l'Orlandofurioso, col suo elogio di Bembo nelle ottave dedicate ai grandi pittori e agli scrittori contemporanei, avrà contribuito al mito di Bembo e a dare impulso alla causa del fiorentino letterario. Da parte di Bembo però non ci sono rimasti giudizi sul poema ariostesco; un silenzio che si spiega forse con il genere dell'opera, proveniente da una tradizione popolare, cresciuto nel corso del Quattrocento, legato quindi allo sviluppo di quella lingua cortigiana dallo statuto ibrido e instabile contro cui move­ vano le Prose. Tornando al Furioso: la sua "conversione" è un caso emblematico nel­ la storia linguistica italiana che richiama inevitabilmente un altro caso di "conversione': quella del romanzo manzoniano: due casi uguali e contrari, che aprono e chiudono il percorso dell'italiano come lingua letteraria, e che possiamo rappresentare con questo minimo fenomeno linguistico: Ariosto, seguendo le indicazioni bembiane, sostituisce nella ultima edizione la de­ sinenza -avo, -evo, della prima pers. dell'imperfetto, desinenza della lingua corrente quattrocentesca toscana, con quella letteraria e arcaica -ava, -eva; Manzoni nei Promessi sposi del Quaranta correggerà la desinenza letteraria -ava ripristinando quella in -avo che aveva continuato ad esistere nell'italia­ no parlato, minimo indizio del nuovo percorso preso dalla lingua italiana.

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Meraviglioso di Matte o Residori

I.

La nozione di «meraviglioso» non appartiene alla poetica implicita dell'Orlando furioso ma alla storia della sua ricezione. li termine, derivato dali'aristotelico thaumaston (che designa nella Poetica ogni elemento capa­ ce di suscitare meraviglia), si afferma nel dibattito letterario cinquecentesco

in un'accezione ristretta, a indicare un ambito della poesia narrativa che appare tanto indispensabile quanto bisognoso di regole: quello del sopran­ naturale. Tale dibattito, che approda alla proposta tassiana di un «meravi­

glioso verisimile» (Tasso, 1964, pp. 6-9), è in gran parte ispirato dal Furio­ so, considerato l'esempio di una libertà anarchica ormai improponibile in età controriformistica; ma si ha l'impressione che esso finisca per isolare artificiosamente un aspetto del poema ariostesco che non si dà, in origine, come distinto e separato. Nella critica ariostesca moderna, in effetti, sono rare le trattazioni spe­ cifiche di questo tema: a partire almeno da De Sanctis, si tende piuttosto a trattare il soprannaturale come una convenzione ubiqua e inevitabile di quel mondo cavalleresco che Ariosto sceglie come oggetto del suo poema, una convenzione che ispirerebbe quella stessa miscela di adesione e distacco con cui sono trattati altri elementi dello stesso codice (l'idealismo cortese, le straordinarie prodezze dei paladini, la purezza delle donzelle erranti). Si può anzi trovare che il soprannaturale sia, di queste convenzioni, la più scontata, la più neutra, in un certo senso la più invisibile. In fondo, il pro­ emio del Furioso non cita né meraviglie né incanti; e nel primo canto del poema l'apparizione soprannaturale del fantasma di Argalia è raccontata in

modo più neutro di quella, perfettamente naturale, di Angelica che spunta

da dietro un cespuglio:

vede di mezzo il fiume un cavalliero insino al petto uscir, d'aspetto fiero (O/I 25, 7-8). 239

MATTEO RESIDORI E fuor di quel cespuglio oscuro e cieco fa di sé bella et improvisa mostra, come di selva o fuor d'ombroso speco Diana in scena o Citerea si mostra

( 0/I 52, I-4).

La palese inverosimiglianza dell'apparizione dello spettro non ispira del resto nessuna reazione al narratore, che commenta invece con ironia, in due passi celebri di questo stesso canto, la notizia della verginità di Ange­ lica ( «Forse era ver, ma non però credibile», cavallieri antiqui»

I

s6, I )

e la «gran bontà de'

(I 22, I ) . Insomma, in un mondo in cui tendenzialmente

nulla è verosimile, il meraviglioso sembra una qualità troppo diffusa perché se ne possa davvero parlare. Va anche detto che l'equivalenza tra meraviglioso e soprannaturale, che fin qui abbiamo dato per scontata, implica alcune difficoltà su cui bisogna soffermarsi. La neutralità impassibile osservata nel caso dell'apparizione di Argalia è l'atteggiamento più tipico del narratore ariostesco in questo cam­ po ( Almansi, I 9 7 6). Capita però che alcune espressioni ricorrenti segnalino il carattere straordinario dei fatti narrati: i nomi «meraviglia» e «mira­ col», gli aggettivi «mirabil», «miracoloso», «strano» ( nel senso forte di "straordinario" o addirittura di "mostruoso" ) , «inusitato», «disusato», «nuovo», «Stupendo» e appunto «meraviglioso» ( ma nel senso preva­ lente di "meravigliato", per indicare la reazione di chi è testimone di questi eventi ) . Più rara è l'indicazione della norma che risulterebbe violata da que­ sti eventi o esseri straordinari; ma, quando non si tratta di un'indicazione di generica eccezionalità (come «fuor d'ogni costume», che qualifica la sella del lupo cavalcato dalla mostruosa Erifilla,

VII 3, 8), questa norma coincide

non con la «natura» bensì con l' «umano» o il «mortale»: Ruggiero e Marfisa compiono «miracolosi e sopraumani gesti»

(xxvi I 37, 6);

quella

che esce prodigiosamente dalla tomba di Merlino è una voce «ch'ogni mor­

tale eccede»

(xxxvi s8, 8); l'eremita chiamato a guarire Oliviero ha fama di (xLIII I87, s).

saper fare «alcuno effetto soprumano»

Sostituire il «soprannaturale» con il «sopraumano» come ambito precipuo del meraviglioso ariostesco non è una sottigliezza terminologica, se non altro perché proprio nella «natura» è esplicitamente individuata la causa di certi fenomeni prodigiosi ( ad esempio la forza straordinaria di Marganorre: «ch'aggiunto al mal voler gli ha la natura l una possanzafuor

d'umana sorte»,

XXXVII 4I, 4). Si tratta piuttosto di ricordare un aspetto

importante della cultura di Ariosto e dei suoi primi lettori: e cioè il fatto che, in un'epoca che precede la cosiddetta rivoluzione scientifica, la natura è

MERAVIGLIOSO

concepita come una realtà che sfugge in gran parte all'esperienza diretta e al controllo razionale dell'uomo. Negli ultimi decenni la critica ariostesca ha illustrato molteplici tangenze tra il Furioso e una cultura prescientifica - in particolare geografica, corografica e paradossografica - che, prolungando fino al pieno Cinquecento la tradizione medievale dei mirabilia naturae, popola i margini del mondo di fenomeni prodigiosi e creature strabilianti: non molto diverse, insomma, dall'orca e dalla balena, dai draghi e dal coc­ codrillo che compaiono nelle pagine di Ariosto (Milanesi, 1984; Fortini, 1994; Doroszla'i, 1998; Refini 2oo8a; 2oo8b). D'altra parte, vari studi hanno suggerito che, nonostante l'esplicita irri­ sione per le «magiche sciocchezze» ( XXXIV 85, 4) che si legge in vari passi del poema e nella commedia Il negromante, Ariosto non sarebbe del tutto estra­ neo a una cultura primocinquecentesca che si interessa alla magia come a una tradizione culturale prestigiosa o come a una tecnica di cui vanno studiate le modalità specifiche e gli ambiti operativi - come fanno ad esempio, tra i suoi contemporanei, l'eclettico umanista ferrarese Celio Calcagnini (1479-1541, citato in XLII 90 e XLVI 14) e il filosofo Pietro Pomponazzi (1462-1525), che si interessa in particolare al potere della magia sull'immaginazione (Vallone, 1949; Savarese, 1984; Grossi, 1985; Rinaldi, 2010). Ciò che è «sopraumano» non è dunque per forza impossibile: può essere prodotto dalla prodigiosa fecondità della natura o dali'azione illusoria di forze magiche.

2.

Questi due princìpi di spiegazione - natura e magia - sono esplicitamente invocati come complementari nella presentazione della più celebre «me­ raviglia» ariostesca, l' ippogrifo, quando, dopo vari racconti sbigottiti ( n 37-39, 46, 49-54) e dopo una breve apparizione diretta (Iv 4-6), la cavalca­ tura alata del mago Atlante viene finalmente descritta in modo dettagliato (corsivi sempre miei): Non èfinto il destrier, ma naturale, ch'una giumenta generò d'un grifo: simile al padre avea la piuma e l'aie, li piedi anteriori, il capo e il grifo; in tutte l'altre membra parea quale era la madre, e chiamasi ippogrifo; che nei monti Rifei vengon, ma rari, molto di là dagli agghiacciati mari.

MATTEO RESIDORI

Quivi perforza lo

tiro d'incanto;

e poi che l'ebbe, ad altro non attese, e con studio e fatica operò tanto, eh'a sella e briglia il cavalcò in un mese: così ch'in terra e in aria e in ogni canto lo facea volteggiar senza contese.

Nonfinzion d'incanto, come il resto, ma vero e natura/ si vedea questo. Del mago ogn'altra cosa erafigmento; che comparir facea pel rosso il giallo: ma con la donna non fu di momento (O/IV 18-19;

20,

1-3).

Con minuziosa e pacata competenza il narratore distingue in questi versi ciò che nell'ippogrifo sarebbe prodotto «raro» di una «natura» remota - il suo aspetto composito, frutto dell'incrocio, attestato solo nelle zone più settentrionali d'Europa, tra due animali di specie diverse -e ciò che in­ vece sarebbe «finto», cioè dovuto a «incanti» e a «figmenti» magici -la sua cattura da parte di Atlante e l'effetto abbacinante dello scudo. Notando questo non si vuole certo negare il carattere ironico della descrizione, sul quale non ci sono dubbi, ma precisare il funzionamento di un'ironia che procede qui non per semplice =

antifrasi

[ . ] ma naturale» citazione di un discorso a suo

(«non è finto

"è finto, non naturale") ma piuttosto per

..

modo scientifico, che pretende di spiegare razionalmente, distinguendo i diversi ordini di cause, i prodigi che affollano un mondo dalla ricchezza imprevedibile. Qui come in altri casi, insomma, la poesia di Ariosto si av­ ventura su un territorio per così dire intermedio, un territorio che sta al di là dell'esperienza umana ma al di qua dei limiti della natura; il regno non dell'impossibile ma del possibile, che il poeta rivendica il diritto di popolare con i frutti meravigliosi della sua immaginazione. L'ironia, evidente in questo passo, lo è meno in un altro luogo celebre del Furioso, il prologo del canto VII: Chi va lontan da la sua patria, vede cose, da quel che già credea, lontane; che narrandole poi, non se gli crede, e stimato bugiardo ne rimane: che 'l sciocco vulgo non gli vuol dar fede, se non le vede e tocca chiare e piane. Per questo io so che l'inesperienza farà al mio canto dar poca credenza.

242

MERAVIGLIOSO

Poca o molta ch'io ci abbia, non bisogna ch'io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro. A voi so ben che non parrà menzogna, che 'l lume del discorso avete chiaro; et a voi soli ogni mio intento agogna che 'l frutto sia di mie fatiche caro

( Ofvn 1;

2.,

1-6).

Collocati al centro dell'episodio quanto mai "meraviglioso" ambientato sull'isola di Alcina, questi versi paragonano il poeta a un viaggiatore tor­ nato da terre lontane,i cui racconti straordinari rischiano di apparire men­ zogneri allo «sciocco vulgo»,abituato a credere solo a ciò di cui può fare esperienza diretta. Diverso è però il pubblico d'elezione del poema,quello da cui l'autore spera di essere capito e apprezzato: un pubblico abbastanza intelligente da sapere che non tutto ciò che sfugge all'esperienza è da con­ siderarsi falso. Questo intervento metapoetico,in cui appare curiosamente rovesciata l'antitesi tradizionale tra credulità popolare e senso critico dei lettori più raffinati, è stato spesso interpretato in chiave di antifrasi ironi­ ca: secondo Bigi,ad esempio,Ariosto intende «sottolineare ironicamente [ ... ] la precisa coscienza che egli ha e vuole comunicare ai suoi ascoltatori, o almeno ai più intelligenti e spregiudicati [ ... ],della natura tutta irreale o sovrareale dell'apparato letterario» (Bigi, 2012, p.

248). Si ha però l'im­

pressione che qui l'autore voglia non tanto ammettere l' inverosimiglianza della sua materia poetica quanto suggerire che il verosimile non sia il criterio migliore per valutaria. L'atteggiamento di chi misura il credito da dare ai racconti col metro limitato della propria esperienza è chiaramente condan­ nato in questi versi,che alludono all'episodio evangelico dell'incredulità di Tommaso: aver avuto bisogno di «vedere» e di «toccare» per «credere» è appunto ciò che Cristo rimprovera al suo discepolo (Giovanni

20, 25-

29). «Beati quelli che crederanno senza aver visto»: come Cristo, anche Ariosto chiede ai suoi lettori una forma di «fede»,la disponibilità,se non a «credere»,almeno a sospendere volontariamente l'incredulità (secondo la celebre formula di Coleridge). Si possono dunque leggere in questi versi (come suggerisce Bolzoni,2012) il rifiuto di un realismo angusto e una ri­ vendicazione di libertà,la libertà di esplorare poeticamente territori lonta­ ni dali'esperienza ordinaria,come sono quelli di cui i viaggi di esplorazione rivelano a quell'epoca l'insospettabile vastità e la prodigiosa ricchezza.

È vero tuttavia che una raccomandazione del genere non sarebbe ne­ cessaria se non fosse il poema stesso a fare dell' «esperienza» un elemento cardine della sua etica e della sua gnoseologia,la base di quel realismo mo-

2.43

MATTEO RESIDORI

rale e conoscitivo che, convivendo singolarmente con la poetica antireali­ stica del Furioso, avvicina Ariosto ad alcuni grandi fondatori del pensiero moderno, da Valla a Leonardo a Machiavelli. E il narratore che qui chiede ai suoi lettori un atto di «fede» illuminata è lo stesso che in vari altri passi del poema (per esempio

XXVI

22-23

o

XXXIII

84-85)

finge ironicamente

di credere all'autorità screditata di Turpino solo per attirare l'attenzione sull' inverosimiglianza di ciò che racconta. Queste oscillazioni esprimono la fondamentale ambivalenza di Ariosto nei confronti del meraviglioso, ambivalenza che è stata spesso commentata e di cui Francesco Orlando ha proposto una lucida definizione nel suo studio sugli «Statuti del soprannaturale»

(2ooi ) .

Se la rappresentazione lettera­

ria del soprannaturale è sempre caratterizzata, in termini freudiani, da una «formazione di compromesso» tra due istanze opposte, il «credito» e la «critica», il dosaggio tra i due ingredienti, variabile a seconda delle epoche e degli autori, sarebbe in Ariosto particolarmente equilibrato, producendo quello che il critico propone di chiamare «soprannaturale d'indulgenza»: una rappresentazione di elementi prodigiosi in cui l' «incredulità» non impedisce un «compiacimento nella credulità superata, nella regressione irrazionale», e in cui, d'altro canto, «la questione del vero e del falso è accantonata da lusinghe edonistiche» (ivi, p.

209) .

Queste formule sono particolarmente felici e trovano puntuale con­ ferma, come vedremo, in vari aspetti del trattamento ariostesco del mera­ viglioso. Alla luce di quanto osservato finora, tuttavia, si può suggerire che le «meraviglie» del Furioso evochino non solo una mentalità o un codice letterario superati, ma anche un mondo nuovo tutto da scoprire: il credito che si accorda loro sarebbe dunque non solo credulità regressiva, ma anche avventurosa disponibilità intellettuale, l'atteggiamento più idoneo a cono­ scere una realtà che trascende spesso i limiti dell'esperienza. Così si spiega, forse, l'afflato euforicamente "ulissiaco" che anima, malgrado la costante sordina ironica, i viaggi meravigliosi di Ruggiero e di Astolfo (questi ultimi del resto esplicitamente avvicinati a quelli dei grandi navigatori contempo­ ranei, xv I9-3 6 ) . E da qui deriva forse anche una tendenza strutturale, nuo­ va rispetto a Boiardo, a collocare le meraviglie più vistose in terre remote (i monti Rifei, l'isola di Alcina e Logistilla, l'isola di Ebuda, il regno etiopico del Senapo), luoghi che sfuggono sia all'esperienza diretta che alla raziona­ lità cartografica. Mentre l'inverosimiglianza del costume cavalleresco è in genere connotata di antichità (la «gran bontà dei cavalieri an tiqu i», I;

«Ben furo aventurosi i cavallieri l ch'erano a quell'eta»,

XIII I,

22, I-2), le I

meraviglie tendono a collocarsi in uno spazio remoto, in un «laggiù» che si

244

MERAVIGLIOSO

oppone al «qui» dell'enunciazione narrativa. Orrilo, affrontato daAstolfo durante il suo viaggio in Egitto, combatte accompagnato da «una fera, l la qual si truova solo in quelle

bande» ( xv 68, 3-4). E delle pietre preziose che

adornano la rocca di Logistilla il narratore afferma: Di tai gemme qua giu non si favella: et a chi vuoi notizia averne, è d'uopo che vada quivi; che non credo altrove, se non forse su in ciel, se ne ritruove

( Ofx s8, s-8).

Queste osservazioni, che vorrebbero ridimensionare un po' la linearità tele­ ologica delle celebri affermazioni desanctisiane sul «riso» ariostesco come «riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità» e anzi come «riso precursore della scienza» (De Sanctis,

1996,

448),

p.

non devono naturalmente suggerire una lettura realistica o referenziale del

Furioso, che pure si dà per certi versi come l'analogo del globo terracqueo abbracciato dalle circumnavigazioni avventurose dei suoi cavalieri («e finir tutto il cominciato tondo, l per aver, come il sol, girato il mondo»,

x

70,

7-8). Le meraviglie del possibile, né vere né false, sono esplorate da Ariosto in una dimensione che non nasconde mai, e anzi ostenta volentieri, di es­ sere quella dellafictio letteraria. L'invenzione dell'ippogrifo serve anche a smentire maliziosamente, trasformando l'impossibile in possibile, un cele­ bre adynaton virgiliano alle cavalle': Ecl.

VIII

(iungentur iam gryphes equis, "i grifoni si uniranno 27 ) ; e l'ironia della sua descrizione scaturisce natu­

ralmente anche dalla coincidenza verbale tra «figmento» magico negato («non è finto il destrier») e innegabilefictio letteraria. Tra queste duefictiones, tra l'irrealtà statutaria della letteratura e quella dei fenomeni straordinari che rappresenta, Ariosto è bravissimo a provo­ care cortocircuiti vertiginosi, con effetti che vanno dallo smascheramento scettico del meraviglioso al conferimento di poteri magici o demiurgici alla scrittura letteraria. Questo non significa però che in questo settore del po­ ema tutto si risolva in un brillante gioco autoreferenziale: l'esibita consape­ volezza della finzione non impedisce affatto il discorso sul mondo o il coin­ volgimento emotivo o etico, ma li situa a un livello diverso, più complesso e più maturo. Se, come è stato spesso suggerito, il trattamento ariostesco del meraviglioso ha qualcosa a che fare col gioco, sarà allora nel senso più esteso e più profondo che hanno dato a questa nozione Huizinga e soprattutto Winnicott

(2oo6):

(1988)

considerando cioè il gioco come forma

tipica di quello «spazio potenziale» che media tra sentimento infantile 245

MATTEO RESIDORI

di onnipotenza e principio di realtà adulto, e che sta alla base dell'imma­ ginazione creativa, della passione culturale, di ogni esercizio intellettuale disinteressato. Proprio la nozione di gioco ci servirà allora da filo conduttore per le prossime sezioni di questo studio, in cui la presenza del meraviglioso nel poema sarà analizzata secondo tre angolature diverse. Ci occuperemo in­ nanzitutto di Ariosto come homo Sangirardi

alludens,

secondo la felice formula di

(2oos), e cioè dei rapporti privilegiati tra meraviglioso e inter­

testualità. Passeremo poi alla dimensione del gioco narrativo mettendo in luce il ruolo squisitamente strumentale che il meraviglioso sembra svolgere sia negli snodi minuti del racconto sia nei grandi schemi che organizzano la struttura del poema. Ci interesseremo infine al gioco interpretativo su­ scitato dal meraviglioso, e cioè alle strategie ermeneutiche di cui il poema dà l'esempio e che la sua ricezione ha prolungato nei secoli.



Con rare ma notevoli eccezioni, il meraviglioso ariostesco è essenzial­ mente ereditato, appartiene all'ambito del

déja lu.

L'ipotesto più ampio

e più diretto è naturalmente il poema di Boiardo, il cui apparato magi­ co-prodigioso viene in realtà abbastanza sfrondato da Ariosto (Kisacky,

2000, pp. 138-9)

.

Questa selettività, che può essere letta come indizio di

una tendenza a razionalizzare il mondo cavalleresco, è però compensa­ ta almeno in parte da un ricorso più ampio ad altre fonti, sia romanze - Dante e Boccaccio, per esempio - sia, soprattutto, classiche: V irgilio, Ovidio, Stazio, Valerio Fiacco, Luciano (come documentato da Romizi,

1896 e Rajna, 1975). Il rapporto tra sopravvivenza inerziale del meraviglioso romanzesco e adozione di modelli più autorevoli può essere interpretato in chiave di promozione classicistica del genere, e non mancano esempi chiari in tal senso. Si pensi al mostro Caligorante, affrontato e catturato da Astolfo durante il suo avventuroso viaggio attraverso l'Egitto

( xv 42-62),

che ha

un nome dalle forti consonanze bretoni ma che è anche chiaramente mo­ dellato sul personaggio virgiliano di Caco e usa come arma un prestigioso cimelio classico, nientemeno che la rete d'acciaio forgiata da Vulcano per

( xv s6-s7) Si pensi, ancora, all'episodio di ( xvn, 26-68), in cui il personaggio dell'Orco, già in

imprigionare Venere e Marte Norandino e Lucina

.

Boiardo non privo di ascendenze classiche ma caratterizzato soprattutto in

MERAVIGLIOSO

senso folklorico-fiabesco, diventa un sosia del Polifemo omerico e virgilia­ no all'interno di una riscrittura dell'episodio classico in cui anche Noran­ dino, di conseguenza, veste per un po' i panni dell'astuto Ulisse (Baldan, I9

82; Vanacker, 20 I I ) . Ma la stilizzazione classicistica può riguardare anche

dettagli narrativi o singole immagini, come quella di Angelica trascinata in mare dal suo cavallo indemoniato ( viii 35-37 ), in cui si riconosce facilmente la filigrana del ratto di Europa (da Ovidio, Met.

II

870-87s,

e Poliziano,

Stanze I ws-w6).

Tali riscritture producono una forma di livellamento e di sincronizza­ zione dei più disparati materiali meravigliosi: miti ovidiani e divinità clas­ siche, soprannaturale cristiano e meraviglioso bretone si dispongono uno accanto all'altro nell'orizzontalità della diegesi, senza gerarchie esplicite, differenze di statuto o scarti stilistici. Lo stesso disinvolto eclettismo si nota nel fluido accostamento narrativo dei diversi generi e codici in cui si declina per tradizione il meraviglioso: nel canto XIV, ad esempio, l'effetto delle pre­ ghiere di Carlo e la fervida intercessione dei beati sono descritti in termini prettamente danteschi

(73-74), subito prima che, replicando una scena to­

pica dell'epos greco-latino, Dio ordini ali'arcangelo Michele di scendere a volo tra gli uomini ( 75-78 ); e se lo scopo della missione- trovare il Silenzio e la Discordia per favorire la vittoria dei cristiani- ha un carattere allegorico non incompatibile con il codice epico (sulla traccia di episodi analoghi di V irgilio e Stazio), più sorprendente è che l'allegoria trascolori poco dopo in una satira contro la corruzione dei monaci

(8I-84).

Un deliberato sincretismo presiede anche alla costruzione di certi personaggi centrali nell'ambito magico-prodigioso, come Melissa, la cui fisionomia oscilla costantemente tra profetismo classico, magia bretone, stregoneria contemporanea (con esiti a volte così discordanti che ci si può chiedere se il personaggio che porta questo nome al canto XLIII, lo stesso o un altro: lnternoscia,

I948;

Stimato,

2011).

20-46, sia

Ma l'esempio più

chiaro di questo fenomeno sono senz'altro le avventure di Astolfo, che at­ traversa il poema catalizzando attorno a sé le più diverse tradizioni e i più disparati modelli di meraviglioso. I suoi viaggi straordinari ne fanno un emulo curioso e superficiale di Ulisse, mentre nelle sue scorribande medio­ rientali diventa uno sterminatore di mostri come Ercole o Teseo. In Etiopia, cacciando uno stormo di arpie uscito dalle Argonautiche e dall'Eneide, si trova per caso all'ingresso di un inferno molto simile a quello di Dante; segue fedelmente le orme del pellegrino dantesco fino al paradiso terrestre, dove incontra l'evangelista Giovanni, il patriarca Enoch e il profeta Elia; sul carro volante di quest'ultimo vola poi fino alla luna, viaggio impossibile

24 7

MATTEO RESIDORI

alla maniera di Luciano che sfocia in un apologo satirico ispirato da Alberti. Il ritorno sulla terra non segna la fine delle attività meravigliose di Astol­ fo, anzi: nel giro di due canti (xxviii-XXIX), seguendo le istruzioni di san Giovanni, il paladino imprigiona i venti in un otre, come aveva fatto Ulisse nell' Odissea, poi trasforma dei sassi in cavalli, ispirandosi al miracolo di Deucalione e Pirra, e infine crea una flotta lanciando in mare delle fronde, metamorfosi che riecheggia la trasformazione delle navi in ninfe raccontata nell'Eneide. Questo allegro livellamento dei generi, dei modelli, delle tradizioni produce una forma di secolarizzazione del meraviglioso, a proposito della quale si può richiamare il precedente delle Metamorfosi di Ovidio ( Cabani, 2008): i miti più venerabili, i testi più sacri si riducono ajàvole, che valgo­ no non tanto per il loro eventuale rapporto con una verità trascendente quanto per le loro qualità intrinseche, di tipo estetico o morale. A ciò va aggiunto che Ariosto ricorre spesso a una particolare tecnica di imitazione allusiva, che ha anch'essa precedenti in Ovidio ma la cui radicalità non si spiegherebbe senza le conquiste recenti della filologia umanistica (]ossa, 1996); una tecnica che esibisce l' ipotesto con franchezza spesso parodica e produce volentieri quelle che sono state chiamate «imitazion[i] di imi­ tazioni» (Javitch, 1985), montaggi ipertestuali che rivelano la natura de­ rivativa anche dei modelli più autorevoli. Così, ad esempio, nelle ottave che descrivono Astolfo trasformato in mirto sull'isola di Alcina (vi 27-28), il lettore è invitato ad ammirare non tanto il prodigio della metamorfosi quanto la sorridente sagacia del dialogo che Ariosto intreccia con Virgilio (Aen. III 22 ss.), Dante (If XIII) e Boccaccio (Filocolo IV 2-5, v 6-12): la meraviglia «sopra umana» è messa in ombra dallo squisito ma umanissimo artigianato letterario dell'autore.



Questo ha che fare con un uso del meraviglioso che si potrebbe definire strumentale, e che in ogni caso insiste meno sull'origine o sulla natura dei fenomeni prodigiosi che sulla loro fruibilità a vari livelli, sia narrativo, sia, in senso lato, allegorico. Capita spesso che il narratore del Furioso esprima in­ certezza sulle cause degli eventi miracolosi che racconta: caso o fede, natura o magia, angeli o diavoli? Così accade, ad esempio, quando la luna fuoriesce dalle nubi subito dopo la preghiera che le ha rivolto Medoro, ansioso di ritrovare il corpo del suo signore Dardinello:

MERAVIGLIOSO

La Luna a quel pregar la nube aperse

(ofosse caso o pur la tantafede), bella come fu allor ch'ella s'offerse, e nuda in braccio a Endimion si diede

(Ofxvm 185, 1-4).

Incertezza complicata dal fatto che la «tanta fede» sarebbe quella di un saraceno, ma anche dalla maliziosa spiegazione alternativa che sembra in­ sinuata dal riferimento mitologico, e cioè che l'apparizione della «dea» (non poi così «santa», come l'apostrofava Medoro) sia dovuta soprattut­ to al desiderio per il bel giovanotto che l'ha implorata. Quello che conta, in ogni caso, non sono le cause ma gli effetti, e cioè che la luna illumini il campo di battaglia e permetta così al giovane di ritrovare, subito dopo, il corpo del suo signore. Altrove sono i personaggi a esprimere simili dubbi, che il narratore si guarda bene dal dissipare anche quando sono radicali come quelli formulati da Rinaldo in un episodio situato verso la fine del poema. Assalito da un terribile mostro, il paladino è salvato dall'intervento di un cavaliere che ha una natura chiaramente prodigiosa, anche se è diffi­ cile precisarla: Stimar non sa se sian magiche larve, che Malagigi un de' ministri sui gli abbia mandato a romper la catena che lungamente l'ha tenuto in pena: o pur che Dio da l'alta ierarchia gli abbia per ineffabil sua bontade mandato, come già mandò a Tobia, un angelo a levar di cecitade. Ma buono o rio demonio, o quel che sia, che gli ha renduta la sua libertade, ringrazia e loda; e da lui sol conosce che sano ha il cor da l'amorose angosce

(O/XLII 6s, s-8; 66).

Un diavolo? Un angelo? Un'altra creatura non meglio precisata? Poco im­ porta, purché l'effetto sia positivo.

È evidente insomma che questi interro­

gativi sull'origine dei fenomeni prodigiosi, che pure ricordano quelli che si incontrano nei coevi dibattiti filosofici sulla magia (Grossi, 1985, p.

124),

nel Furioso esprimono piuttosto indifferenza per la questione delle cause, e anzi sottolineano, in ultima analisi, che l'unica vera causa di questi prodigi è l'autore che li ha inventati. Questo potrebbe sembrare in contraddizione 249

MATTEO RESIDORI

con il fatto che Ariosto mostra una certa familiarità con il linguaggio tecni­ co dei rituali magici. Quando Melissa, assunto l'aspetto di Atlante, rinfac­ cia a Ruggiero il suo asservimento sensuale ad Alcina, elenca con precisione tutte le tecniche divinatorie (astrologia, aruspicina, geomanzia, osservazio­ ne del volo degli uccelli, interpretazione dei sogni... ) che facevano sperare per il giovane una vita più eroica di quella che sembra essergli toccata:

È questo, quel che l'osservate stelle,

le sacrefibre e gli accoppiati punti, responsi, auguri, sogni e tutte quelle sorti, ove ho troppo i miei studi consunti, di te promesso sin da le mammelle m'avean, come quest'anni fusser giunti: eh' in arme l'opre tue così predare esser dovean, che sarian senza pare?

( 0/vn 58)

E sempre Melissa, quando il palazzo di Alcina rimane incustodito dopo

la fuga di Ruggiero, può distruggere uno per uno gli strumenti degli in­ cantesimi amorosi della maga: «imagini abbruciar, suggelli torre, l e nodi e rombi e turbini disciorre»

( vni

14). Tuttavia, più che a una volontà

di precisione tecnica, queste evocazioni sembrano obbedire a un'esigenza ritmico-musicale, cioè al gusto tipicamente ariostesco per le fluide enu­ merazioni di termini rari (Blasucci, 2.014, pp. 45-53); non sono insomma meno evasive, nella sostanza, della sbrigativa reticenza che il narratore esi­ bisce in altri casi, per esempio quando Astolfo distrugge l'incantesimo del palazzo di Atlante: Astolfo, poi ch'ebbe cacciato il mago, levò di su la soglia il grave sasso, e vi ritrovò sotto alcuna imago,

et altre cose che di scriver lasso ( Ofxxn 2.3, 1-4). Non si esagera dunque dicendo che la competenza lessicale maschera, nel Furioso, un sostanziale disinteresse per le tecniche magiche, disinteresse che

si manifesta anche nella predilezione ariostesca per la più elementare di queste tecniche, quella che consiste nell'usare semplicemente delle «pa­ role».

È

«con semplici parole» che Alcina fa uscire i pesci dall'acqua

( vi

38), è «sol con parole» che Malagigi fa entrare un demonio nel cavallo di Doralice

( xxvi 12.8-12.9 ). E quando Ricciardetto, per raggirare Fiordispina

innamorata della sua gemella Bradamante, attribuisce il proprio sesso ma-

MERAVIGLIOSO

schile alla trasformazione magica provocata da una «ninfa», fa pronuncia­ re a quest'ultima il seguente discorso: Dal ciel la luna al mio cantar discende, s'agghiaccia il fuoco, e l'aria si fa dura; et ho talor con semplici parole mossa la terra, et ho fermato il sole

( Ofxxv 62., s-8).

Ricalcata su una formula frequente nella poesia latina ( per esempio in Vir­ gilio, Ed.

VIII

69:

«Carmina vel caelo possunt deducere lunam», "i canti

hanno anche il potere di far scendere la luna dal cielo" ) , quest'espressione è notevole per il suo carattere letterariamente stilizzato ma anche per la sua

evidente ambiguità, che impedisce di distinguere tra potenza dell' incantesi­ mo ed efficacia retorica e poetica del linguaggio. Nel racconto ingannevole di Ricciardetto, che giunge ai suoi fini rendendo credibile «con semplici pa­ role» una trasformazione magica mai avvenuta, il racconto del Furioso trova dunque una sua maliziosa mise

en abyme.

E il prodigio della «voce» che

esce dal sepolcro di Merlino per profetizzare la grandezza della stirpe estense ha un rapporto evidente con la domanda che si pone, all'inizio dello stesso canto, il narratore intimidito dall'altezza del tema encomiastico: «Chi mi darà la

voce e le parole l convenienti a sì nobil suggetto ?» (n i 1, 1-2).

La coincidenza così suggerita tra incantesimo magico e incantesimo verbale, tra magia e jìctio (che rende tra l'altro problematica la traduzione in immagini di vari episodi del poema: Pich,

2010; Urbaniak, 2010; 2014),

si manifesta anche nel carattere meramente funzionale di molti elementi magico-prodigiosi. Molto spesso il meraviglioso si risolve nella sua funzio­ ne di «macchina o forza» narrativa ( De Sanctis, 1996, p. 436), non ha altra ragion d'essere che il contributo che può dare al congegno del racconto. L'abbondanza delle invenzioni meravigliose ariostesche si spiega anche con l'esibito e giocoso opportunismo di un autore che non esita a introdurre un elemento magico quando gli torna comodo e a sbarazzarsene quando non gli serve più: «valletti»

(n 15),

«villanelli»

(xxn 12), negromanti, cavalli

alati, mostri, diavoli formano una squadra di pratiche comparse la cui esi­ stenza non si protrae in genere al di là dell'episodio in cui si sono resi utili. La prima funzione narrativa di questi elementi è fluidificare il racconto, accelerandone il ritmo, provocando felici coincidenze e concatenazioni vir­ tuose: la velocità straordinaria dell' ippogrifo, che attraversa l'oceano in due ottave

(vi 18-19), non si distingue dalla rapidità di un racconto impaziente

di bruciare le tappe. Ma gli elementi prodigiosi servono anche, al contrario,

MATTEO RESIDORI

a provocare imprevisti, intoppi, diversioni che ramificano la trama o le im­ primono torsioni inattese - come fa ad esempio il misterioso mostro alato, mandato forse da Malagigi, che spaventa Baiardo, costringendo Rinaldo e Gradasso a differire la conclusione del loro duello

(xxxiii 84-89). A livello

macrostrutturale la stessa dialettica si manifesta, con maggiore consapevo­ lezza dei personaggi, nella ben nota opposizione tra il finalismo di Melissa e le strategie dilatorie di Atlante, simbolo trasparente di quella tensione tra

epos e romanzo che struttura l'intero poema ( Zatti,

1990)- mentre il modo

maldestro in cui Malagigi tenta di influire sul corso degli eventi, ottenendo spesso effetti contrari a quelli ricercati, serve soprattutto a illuminare per contrasto l'assoluta padronanza narrativa dell'autore ( Kisacky,

2000,

pp.

120-4). Non è necessario soffermarsi più a lungo su questi aspetti, che sono tra i più commentati del poema, né passare in rassegna le interpretazioni meta­ narrative che sono state proposte di vari episodi e personaggi prodigiosi ( ne propone una lista Ascoli,

1987, p. 37 ). Varrà invece la pena di precisare che

il carattere spesso riflessivo del meraviglioso ariostesco non è il sintomo di un ripiegamento del testo su sé stesso, ma piuttosto una delle strategie con cui il poeta mantiene desta la lucidità del lettore, facendo sì che incanto e disincanto vadano sempre di pari passo - perché, come suggerisce un'altra celebre mise en abyme magica del poema ( Ferroni, 1999 ) , il Furioso aspira a essere al tempo stesso il libro di Atlante e quello di Logistilla, sia quello che suscita l' «alta maraviglia » sia quello che la distrugge: Da la sinistra sol lo scudo avea, tutto coperto di seta vermiglia; ne la man destra un libro,

ondeJacea nascer, leggendo, l'alta maraviglia (O/Iv 17, 1-4).

e di distrugger

quello incanto vago,

di ciò che vi trovò, fece fraccasso,

come gli mostra il libro chefar debbia; e si sciolse il palazzo, in fumo e in nebbia

(Ofxxn 23, s-8).



Di questa lucidità disincantata il lettore ha bisogno anche per partecipare al gioco interpretativo a cui il Furioso lo invita di continuo: a suscitarlo sono sia gli interventi del narratore, che propone interpretazioni attualiz-

MERAVIGLIOSO

zanti o universalizzanti di certe «meraviglie», sia il regime allegorico o semiallegorico che caratterizza vari episodi prodigiosi del poema. Di questi giochi interpretativi colpisce innanzitutto il carattere deliberatamente ete­ rogeneo, spurio, asistematico. Nello spazio deputato del prologo il narra­ tore interpreta gli elementi meravigliosi ora in chiave etica universale (l'in­ cantesimo che è all'origine della bellezza di Alcina evoca le «simulazion, menzogne e frodi» dei molti seduttori e seduttrici che popolano il mondo, VIII

1-2), ora riferendosi alla realtà politica del suo tempo (le devastazioni

delle arpie ricordano quelle provocate dagli invasori stranieri nell'Italia del primo Cinquecento,

XXXIV

1-3), ora in forma di galante allusione privata

(come nel celebre prologo del canto xxxv, nel bel mezzo del viaggio luna­ re di Astolfo: «Chi salirà per me, madonna, in cielo l a riportarne il mio perduto ingegno?»). Sul versante del codice, è invece notevole l'alternanza tra allegoria pura, di sapore arcaizzante, e allegoria mista o discontinua. La prima è esemplifi­ cata dal già ricordato episodio

(xLII 46 ss.) in cui Rinaldo, ancora in preda

all'amore infelice per Angelica, è assalito da un mostro che, sebbene non nominato, è facilmente riconoscibile come incarnazione della Gelosia: ha mille occhi e mille orecchi, avvinghia il cavaliere con le sue spire raggelan­ ti, gli sta addosso senza dargli tregua. Rinaldo è sul punto di soccombere quando giunge a soccorrerlo il cavaliere dello Sdegno che, affrontando il mostro in una vera e propria psychomachia, lo ricaccia all'inferno e con­ duce il paladino a bere alla fontana dell'Odio. Di allegoria «discontinua e instabile» (Kisacky, 2000, p. 105) si può parlare invece per il lungo episodio delle avventure di Ruggiero sull'isola di Alcina e Logistilla (canti

)

VI-x ,

nel quale s'intrecciano di continuo regime mimetico e regime allegorico, le personificazioni trasparenti si mescolano alle creature opache, la magia è ora simbolo morale, ora catacresi banale del codice amoroso, ora puro

strumento narrativo. Già lo statuto delle due protagoniste femminili non è del tutto omogeneo, perché Alcina è prima di tutto una maga che usa i

suoi poteri per sedurre i cavalieri mentre Logistilla tende alla pura allegoria della Ragione, come rivelano il suo nome parlante e il suo corteo di vir­ tuose damigelle (Logistilla, Andronica, Fronesia, Dicilla, Sofrosina). Ma asimmetrie del genere si notano lungo tutto l'episodio. La «strana torma» di mostri

( vi 61-66) e la gigantessa Erifilla ( vii 3-7) che Ruggiero affronta

arrivando al regno di Alcina sono chiaramente figurazioni allegoriche di vizi, anche se non è del tutto chiaro quali; mentre sarebbe difficile dire se il servo accompagnato da un falcone na

( viii 4-10) o l'esercito e la flotta di Alci­

( x so) rappresentino altro che, genericamente, le forze che intralciano il 253

MATTEO RESIDORI

cammino di Ruggiero verso la virtù. Lo stesso vale per il contrasto tra le due fanciulle che accolgono il cavaliere, presentate esplicitamente come l' incar­ nazione di Bellezza e Leggiadria di trattenerlo

( x 35-42).

( vi 69), e le tre donne che tentano invano

Quanto alla dimensione prodigiosa che pervade

la relazione tra Ruggiero e Alcina, non

è facile stabilire frontiere nette tra la vera a propria manipolazione magica (è «per incanto» della maga che Ruggiero dimentica Bradamante, VII 18; sono gli «incanti» di Atlante a far nascere l'amore di Alcina per Ruggiero, VII 44), l'estesa declinazione nar­ rativa di una metafora ormai lessicalizzata (quella, appunto, dell' innamo­ ramento come incantesimo) e, infine, un'allegoria morale in cui la magia sta per ogni forma di falsificazione seduttiva, dal trucco femminile

( vii 73)

a tutte le «frodi» in generale (come suggerisce il già ricordato prologo del canto VIII ) (Momigliano,

1952, pp. 32-3;

Rinaldi, 2010)

.

Tali caratteri del testo, a livello sia dell'enunciato sia dell'enunciazione narrativa, producono un duplice effetto: da una parte suggeriscono la vir­ tuale polisemia di quasi tutti gli episodi «meravigliosi» del poema, ben al di là delle sue sezioni esplicitamente allegoriche; dali' altra incoraggiano il lettore a interpretarli con una libertà non meno grande di quella dimostrata dal narratore, riferendoli ai più vari aspetti della propria esperienza e della propria situazione storica.

È per questo che, se lo sfruttamento del meravi­

glioso in chiave allegorica può essere considerato un punto di contatto tra Ariosto e la contemporanea cultura d'ispirazione neoplatonica ( Savarese,

1984;

Rinaldi,

2010),

sembra difficile riconoscere nel Furioso la presenza

cifrata di un disegno simbolico esteso e coerente, come proposto, peraltro con osservazioni interessanti, dagli studi recenti di Picchio

(1999; 2007).

Più che ad ardui testi di esegesi esoterica, del resto, i giochi interpretativi ariosteschi fanno pensare a opere contemporanee in cui il gusto per l' inter­ pretazione dei miti e per la visualizzazione dei concetti si esprime in forme vulgate ed eclettiche, sconfinando spesso nel gioco di società: si pensi ad esempio alle opere dei ferraresi Celio Calcagnini e Lilio Gregorio Giraldi, agli Adagia di Erasmo o ai testi della nascente letteratura emblematica, in cui il patrimonio delle favole antiche e della saggezza classica viene offerto alla libera appropriazione e alla riflessione autonoma del lettore. Di conseguenza, il fiorire di allegorie che accompagna il successo edito­ riale del Furioso lungo tutto il Cinquecento può essere interpretato non so­ lo come uno strumento di moralizzazione o una strategia di canonizzazione del poema (Javitch,

1991;

Hempfer,

2004),

ma anche come la risposta in

fondo naturale alle molteplici sollecitazioni ermeneutiche di un testo che si presenta anche come inesauribile «cornucopia» di sensi riposti (nel senso

254

MERAVIGLIOSO

che dà a quest'immagine Cave, I979) . Per esempio, leggendo le sei pagine di «espositione» allegorica che Fornari dedica ad Erifilla e alla sua mostruosa cavalcatura

(ISSO, pp. 98-103) , è difficile dire dove esattamente finisca l'in­

terpretazione corretta e dove cominci l'estrapolazione fantasiosa; e quando Giovan Battista Pigna, che nei Romanzi «finzioni degne d'allegoria»

(ISS4) parla significativamente di (Pigna, I997, p. 92), interpreta la lancia d'oro

di Astolfo come simbolo dei «danari» diventati indispensabili nella mo­ derna arte della guerra (ivi, p.

9I), non fa che praticare un'interpretazione

attualizzante e polemica del meraviglioso di cui il narratore del poema è il primo a dare l'esempio. Ma l'aspetto più qualificante di questo gioco interpretativo è forse che esso si applica volentieri alla qualità «sopraumana» dei fenomeni, e in particolare alla nozione stessa di magia, per estrarne e problematizzarne il significato etico. A dispetto della sua lussureggiante ricchezza, l'universo magico del Furioso ha un carattere fortemente stilizzato e si struttura in una serie di opposizioni limpide. Questo è evidente in particolare nel caso degli

strumenti ma g ici che, per quanto derivati da molteplici fonti classiche e ro­ manze, sono per lo più riconducibili a due tipologie. Da una parte ci sono quelli che producono o distruggono realtà fittizie e immagini ingannevoli: i «libri» già ricordati di Atlante e di Logistilla; l'anello che rende invisibili e protegge contro gli incantesimi (usato da Bradamante contro Atlante, passa poi a Ruggiero e infine ad Angelica); la coppa che smaschera magicamente l'infedeltà coniugale (la offre a Rinaldo un signore mantovano,

I03).

XLII

98-

Dall'altra ci sono gli strumenti che conferiscono a chi li porta una

superiorità assoluta su qualunque avversario e in qualunque circostanza: lo scudo abbacinante che Ruggiero recupera dal mago Atlante e grazie a cui debella i mostri dell'isola di Alcina

( vi-x ) , salva Angelica dall'orca ( x I07) , sconfigge i suoi avversarsi alla rocca di Pinabello (xxii 82-87); il corno «d'orribil suono» che Logistilla consegna ad Astolfo ( xv I4-IS) e che trae

d'impaccio il cavaliere inglese in varie sue avventure, nel duello con Caligo­ rante

(xv s3-s4) , nella città delle «femine omicide» (xx 87-88), contro le ( xxxiii I23-126); infine, la lancia d'oro che rende invincibili e che, usata da Astolfo solo al torneo di Damasco (xviii u8) , passa poi nelle mani di Bradamante che, inconsapevole del suoi poteri magici, la usa nei duelli contro Rodomonte ( xxxv 7I) e Marfisa ( XXXVI 2223) e in varie battaglie contro i saraceni ( xxxvi 39, XXXVII 102, XXXIX 12) . arpie che tormentano il Senapo

La relativa semplicità di questo sistema incoraggia una lettura etica che i commenti del narratore e dei personaggi rendono esplicita in vari punti del testo: mentre la prima serie di episodi illustra la dialettica tra illusione e rea!-

255

MATTEO RESIDORI

ta, tra incanto e disincanto, la seconda invita a una riflessione sui rapporti tra virtu efortuna. Quest'allegoresi morale,discreta ma solidale con le opposi­ zioni ideologiche che strutturano il poema,si distingue da certo ottimismo pedagogico di marca umanistica perché rifiuta ogni linearità edificante e alimenta piuttosto un dialogo a distanza tra opzioni morali inconciliabili. La prima metà del poema, che si conclude con la sconfitta definitiva di Atlante e la distruzione dell'ultima e più geniale delle sue trappole magiche - il palazzo in cui ogni cavaliere insegue senza fine l'oggetto illusorio del proprio desiderio (xxii 13-23) -,potrebbe essere letta come una favola di di­ sincanto,la storia del progressivo affrancarsi dalle immagini false che ispira­ no i movimenti confusi e irrazionali degli uomini. Questa interpretazione, che sembra confermata dal rilancio del progetto matrimoniale di Ruggiero e Bradamante

(xxii 33-34), deve però fare i conti con il dato che, già nel

canto seguente, l'infrangersi dell'immagine ideale di Angelica, di cui Or­ lando scopre l'infedeltà, provoca nel paladino non un ritorno alla saggezza ma l'esplosione di una spaventosa follia

(xxiii 96-136); e soprattutto con la

morale opposta che si ricava, alla fine del poema, dall'episodio di Rinaldo e il nappo

(xLIII 6-8), nel quale il rifiuto della chiaroveggenza offerta dallo

strumento magico esprime la saggezza superiormente disincantata di chi accetta l'illusione come necessaria e forse benefica nei rapporti umani. Sul versante della dialettica virtu-jòrtuna il poema costruisce un dialogo a distanza tra Ruggiero e Astolfo (analizzato da Kisacky,2000, pp. 59-68). Il primo maneggia con nobile parsimonia lo scudo abbagliante, ritenendolo un vantaggio indegno di un cavaliere, e infine se ne sbarazza, gettandolo in un pozzo con una solenne maledizione, quando, senza volerlo, ottiene grazie a esso una vittoria che gli pare infamante

(xxii 91-93). Astolfo in­

vece sfrutta con allegra disinvoltura, a profitto suo e di altri, la superiorità assoluta conferitagli dal corno magico,e si separa dalla lancia d'oro solo per alleggerire il carico dell'ippogrifo

(xxiii 15). L'esemplarità del comporta­

mento di Ruggiero, eroe cortese desideroso di proteggere la purezza della sua «virtÙ» da ogni sospetto di slealtà («disprezzò quel modo, l perché virtude usar vòlse, e non frodo», VI 67, v. 8), ha un che di rigido e desueto, e non è dunque esente da una sottile ironia dell'autore (Delcorno Branca,

1973, pp. 90-100 ). Ma l'affinità evidente del suo gesto con quello di Orlan­ do che getta in fondo al mare l'archibugio, ordigno colpevole di sovvertire ingiustamente la gerarchia tra il «buono» e il «rio» cavaliere

(Ix 90-91),

basta a proiettare l'episodio in una dimensione morale drammaticamente moderna,in cui la superiorità assoluta è quella, non magica ma tecnologica, delle armi da fuoco distruttrici di ogni «onore» militare

(xi 26).

MERAVIGLIOSO

Al tempo stesso, l'uso spregiudicato degli strumenti magici da parte di Astolfo, coerente con il suo profilo di homo Jortunatus ( Santoro, pp.

1989,

185-236), non ispira nessuna critica al narratore, che anzi sottolinea con

partecipe divertimento il carattere arbitrario e indiscriminato, insomma totalmente ingiusto, delle sue vittorie. Soprattutto, lo spensierato attivi­ smo magico del personaggio acquista nella seconda parte del poema un inatteso carattere provvidenziale, sia perché permette di recuperare sulla luna il senno perduto di Orlando, sia perché contribuisce in modo mol­ to materiale, producendo per incanto navi e cavalli, alla vittoria finale dei cristiani. Insomma, anziché tracciare un percorso lineare o fornire un mes­ saggio univoco, il confronto tra questi due opposti atteggiamenti verso la magia riattiva una tensione che percorre tutto il poema: quella tra idealismo morale, ammirevole ma spesso controproducente, e duttile ed efficace prag­ matismo ( Zatti,

1990, p. 99).

Ma le storie di Ruggiero e di Astolfo ci permettono anche di sottoline­ are di nuovo, in conclusione, una duplicità essenziale del meraviglioso nel poema di Ariosto. Come abbiamo visto, quest'elemento consente prima di tutto una lucida ed euforica regressione al sentimento infantile di onnipo­ tenza, di cui il personaggio di Astolfo è senz'altro la migliore incarnazione, ma che si esprime più in generale nella disinvoltura con cui l'autore molti­ plica le invenzioni magiche per allargare i confini del suo mondo immagi­ nario, popolarlo di creature prodigiose, annodare e sciogliere con destrezza i fili del racconto. Al tempo stesso il disagio di Ruggiero nei confronti di una magia che turba le regole del suo universo morale ci ricorda che il me­ raviglioso ha anche un'altra funzione: dare corpo ai prodigi di ogni genere

( naturali, tecnologici, politici ) , alle novità ora esaltanti ora minacciose che all'epoca di Ariosto hanno cominciato a trasformare irreversibilmente l'or­ dine del mondo.

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260

Morale di Gabriele Bucchi

I.

L'indagine sulla presenza di una riflessione etica nell'Orlandofurioso posta in termini problematici è sostanzialmente una conquista critica del Nove­ cento. Sebbene la ricchezza delle questioni affrontate da Ariosto in rap­ porto ai temi di quella che noi chiamiamo filosofia morale fosse evidente anche agli occhi dei primi interpreti del Furioso, essa venne affrontata prima del secolo scorso in termini prevalentemente precettistici e didascalici. Nel dare alle stampe nel

1542 un'importante edizione del capolavoro arioste­

sco che è all'origine della consacrazione cinquecentesca del poema come "classico" in volgare (Javitch,

1991), così lo stampatore veneziano Gabriele

Giolito de' Ferrari si rivolgeva ai suoi lettori:

Perciò che egli [Ariosto] nel suo Orlando con bellezza di stile incomparabile ha dimostrato quanto d'arte e di perfetto giudicio in alta et eroica compositione di­ mostrar si possa. Qui la prudenza e la giustizia d'ottimo principe, qui la temerità e la trascuraggine di non savio re accompagnato con la tirannide; qui l'ordine e la timidità, qui la fortezza e la viltà, qui la castità e la impudicizia[...] qui finalmente i buoni e i rei consigli sono in modo depinti et espressi ch'io ardisco dire, che non è libro veruno, dal quale e con più frutto e con maggior diletto imparar si possa quello che per noi fuggire e seguir si debba (Ariosto, 1542, c. 3r). Elencando vizi e virtù che trovano spazio nelle ottave ariostesche, il Giolito richiamava l'attenzione non solo sul piacere che il Furioso, definito «alta et eroica compositione», poteva offrire al lettore (il «diletto» nato dalla «bellezza di stile incomparabile») ma anche sull'insegnamento che questi avrebbe potuto ricavarne. L'opera di Ariosto, insomma, oltre che diverti­ re poteva e doveva offrire anche utili modelli di vita in chiave esemplare («quello che per noi fuggire et seguir si debba»), in termini che riecheggia­ no quelli dell'introduzione al Decameron: «parimente diletto delle sollaz-

GABRIELE BUCCHI

zevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare [le donne destinatarie dell'opera], in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare» (Boccaccio,

Decameron,

intro­

duzione). n connubio tra diletto e insegnamento era d'altronde iscritto in uno dei testi capitali dell'apprendistato letterario,

l'Ars poetica di Orazio:

«omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci, /lectorem delectando pari­ terque monendo»

(Ep.

n,

3, 343-344).

Se il precetto oraziano faceva parte del normale bagaglio di un qualsiasi poeta, nessuno prima di Ariosto ne aveva fatto tesoro per sostanziarne un genere ancora umile come il poema cavalleresco (Casadei, 2011a).

È

que­

sta una importante novità da sottolineare: la nobilitazione del racconto di «armi e amori» operata del poeta ferrarese rispetto ai suoi predecessori (Pulci, Baiardo, Cieco) non riguarda solo la veste formale e la complessità narrativa del poema, portate a un livello di controllo artistico capace di go­ vernare ogni minimo dettaglio, ma anche la varietà dei problemi morali in esso affrontati. Questo connubio tra il genere romanzesco, da cui un lettore si attendeva soprattutto divertimento e meraviglia, da un lato, e la portata riflessiva del poema fu evidente già ai primi lettori, che percepirono il

Fu­ rioso come opera scritta «ludicro more», ma anche «longo studio et cogi­ tatione» (come recita il privilegio di stampa della prima edizione: Ariosto, 2006, p. 4). Tuttavia, il progressivo affermarsi della nozione di ironia nella critica ariostesca moderna (su cui cfr. ora Rivoletti, 20I4 ) , da un lato, e il ruolo di giocondo e disimpegnato inventore di favole assegnato ad Ariosto nel palcoscenico della storia desanctisiana, dall'altro, hanno a lungo trat­ tenuto la critica dall' interrogarsi sulla consistenza e i confini della morale ariostesca, negata o ridotta a una concezione «umoristica» della vita, a «un'atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confon­ dono i loro confini» (De Sanctis, I97I, p. SI? ) . Giudicata irrilevante anche da Croce, la questione della riflessione etica è tornata a interessare gli studi ariosteschi soprattutto a partire dagli anni Settanta, senza dimenticare però alcune importanti intuizioni di studiosi come Momigliano («La materia dominante del Furioso è d'una grande serietà morale»: Momigliano, I932, p. 327 ), Durling e Caretti (Durling, I96s; Caretti, I97 7 ).

È a partire in particolare dalle iniziative promosse, in Italia e in Ameri­ ca, attorno al quinto centenario della nascita del poeta (I974) che la criti­ ca è tornata sempre più spesso a interrogarsi sulla morale nel Furioso, non più per constatarne l'oggettiva asistematicità o rimuoverne forzosamente le contraddizioni, ma per affrontarne finalmente il carattere composito, frammentario, irriducibile a un unico punto di vista. Il ritratto di un poeta-

MORALE

artista imperturbabile e indifferente ai grandi problemi etici e politici del suo tempo si è mutato a poco a poco in quello di un poeta-intellettuale che accoglie, se pur in modo intermittente, gli stessi interrogativi affrontati da altri grandi interpreti della crisi primocinquecentesca come Erasmo e Machiavelli.

2.

La storiografia filosofica ha ormai da tempo appurato che lo spazio della riflessione morale tra Quattrocento e Cinquecento si esprimeva non solo attraverso le forme canoniche e sistematiche del trattato, ma anche in quelle più ibride e compromesse con la letteratura del dialogo, della lettera, del­ la satira (Kristeller, 1990; Quondam, 2010). L'ipotetica biblioteca morale di Ariosto, quale si può ricostruire dagli studi e dai loci paralleli citati nei commenti al poema (ma l'argomento avrebbe bisogno di nuove indagini), è rappresentativa di questa ampia varietà testuale, che va da trattati come il

De ojjìciis di Cicerone alle Intercoenales di Leon Battista Alberti, dal predi­ letto Orazio delle Satire e delle Epistole ai trattati di Valla. Non va dimenti­ cato, inoltre, che negli anni in cui frequentò lo studio di Ferrara ( 1489-94 ) Ariosto poté godere di una formazione filosofica aggiornata, non limitata cioè all'aristotelismo di stampo medievale abitualmente divulgato nelle au­ le universitarie nella seconda metà del Quattrocento, ma aperta anche alle più recenti correnti del neoplatonismo ficiniano. Fu proprio quest'ultimo a suscitare l'interesse del giovane Ludovico, come ci attesta una lettera ad Aldo Manuzio del 1498 (la prima che di lui ci sia rimasta) in cui il poeta manifesta il «non mediocrem desiderium» di ricevere tutti i libri di Ficino «et aliorum, qui aliquid de hac secta a Graecis scriptum latine transtulerunt» (Ariosto, 1965, p. 3; sull'ambiente filosofico ferrarese Garin, 1994 ) . Se è vero che sarebbe ingenuo spiegare la comples­ sità della rappresentazione dei temi morali nel

Furioso come un collage di

spunti diversi assorbiti dall'autore durante la sua formazione (su cui cfr. Savarese, 1984, pp. 15-37 ), è però importante tener presente che la tradizione filosofica antica e moderna pertinente ali'etica conteneva già in sé modalità discorsive assai diverse, alternandole persino all'interno dello stesso autore: quella precettistica (Cicerone, Seneca) che proponeva modelli esemplari e ideali di saggezza e virtù da seguire, e quella diatribico-dialogica (rappre­ sentata da Orazio, dalla tradizione lucianea riportata in auge alla metà del sec.

xv

da Leon Battista Alberti) che metteva in scena, in modo spesso

GABRIELE BUCCHI

ironico e persino paradossale, il confronto tra diversi punti di vista (Con­ tarino, 1991; Marsh, 1998 ) . Né va dimenticato, parlando di varietà testuali legate alla riflessione morale, il teatro, e in particolare la commedia romana di Terenzio, di cui è noto quanto la generazione di Machiavelli e Ariosto, primo scrittore di commedie in volgare, si sia nutrita per rappresentare i meccanismi, sempre diversi e allo stesso tempo sempre gli stessi, che reggo­ no l'agire dell'uomo.



Alle prese con un genere di finzione come il romanzo cavalleresco, Ariosto crea uno spazio per la morale ricavandolo dalle situazioni in cui si vengono a trovare, spesso in modo assolutamente imprevedibile, i personaggi del poema. La vita spirituale di questi ultimi - come è stato più volte sottoli­ neato (Caretti, 1977; Bigi, 2012; Zatti, 1990 ) - non è basata su un profilo psicologico autonomo di cui sia possibile tracciare un itinerario (come nel romanzo realista moderno), ma è anzitutto, per usare una felice espressione di Caretti, una «intensa vita di relazione» (Caretti, 1977, p.

34).

Un po'

come nella commedia antica, infatti, anche i personaggi cavallereschi sono all'origine non più che "tipi" umani dai caratteri elementari e prefissati dalla tradizione (Orlando è il campione della fede cristiana, Astolfo un cavaliere impulsivo, Malagigi un mago pasticcione ecc.), ma essi diventano, nel trat­ tamento ariostesco, espressione di un complesso gioco di valori (o disva­ lori) morali solo attraverso le singole situazioni di turbamento (desiderio, angoscia, furore, dubbio, paura, follia) cui l'autore li porta a confrontarsi. Per avere un'idea della varietà dei temi morali toccati nel Furioso si può guardare in prima battuta ai proemi, uno degli spazi privilegiati ( seb­ bene, come vedremo, non il solo) per l'elaborazione di un pensiero etico­ esistenziale nel poema. È questo il luogo in cui il lettore ritrova la voce del narratore, che lo riconduce al racconto presentandogli prima un breve di­ scorso sugli aspetti più diversi della vita e della natura umana: l'amore non ricambiato

(n ) , la simulazione (Iv ) , il rapporto tra l'uomo e la donna ( v, xxvn, XXIX ) , la giustizia ( VI, XVII ) , l' ingannevolezza dell'aspetto esteriore e la fallacia del giudizio ( v iii, XVIII ) , l'instabilità della Fortuna ( xLv ) , la responsabilità di chi ha in mano la vita altrui ( xvni ) , gli effetti distruttivi delle passioni ( xi, XXIV, xxx, XXXII, XLII, XLIII ) , l'esaltazione di virtù quali l'onore ( xxxvni ) , la cortesia ( xu ) , la benevolenza verso il prossimo ( xxni ) , la fedeltà ( x, XIX, xx ) . A questa varietà tematica corrisponde una

MORALE

altrettanto grande varietà tonale e discorsiva della voce autoriale, che passa dali' invettiva ali' excusatio, dalla deprecazione ali'elogio, dali'affermazione di una verità alla negazione della stessa. Possiamo dire, semplificando per il momento, che l'originalità e la com­ plessità dell'approccio ariostesco a simili temi risiede essenzialmente nella coesistenza di un duplice punto di vista: quello che guarda ai valori morali come a un orizzonte ideale cui l'uomo dovrebbe tendere, attraverso forme di autodisciplina, per conquistare stabilmente una qualche forma di saggezza, e una dimensione reale, dominata dalla Fortuna e dunque incontrollabile, che mette costantemente alla prova, spesso sconvolgendolo tragicamente, l'armamentario della volontà e della ragione.

È attraverso l'alternanza tra

queste due prospettive, ideale e reale, produttrice di una tensione che attra­

versa tutto il poema senza davvero risolversi (Ascoli, 1987 ) , che il lettore del

Furioso viene educato a un approccio complesso e, come è stato giustamente definito, «pluriprospettico» dei problemi morali ( Zatti, 1990, p. 98 ) .



Per illustrare questa lettura possiamo partire da uno degli episodi a più al­ to significato allegorico-sapienziale del poema: le avventure di Ruggiero nell'isola di Alcina e il suo soggiorno presso la rocca di Logistilla ( vi-VII;

VIII,

1-21; x,

35-68 ) . Nonostante l'insegnamento offertogli da Astolfo, già

vittima amorosa di Alcina che l'ha trasformato in mirto, Ruggiero è spro­

fondato «nel golfo l de le delizie e de le cose belle» ( vii 27, s-6 ) , perdendo ogni memoria di sé e della sua missione di guerriero e di futuro sposo di Bradamante. Grazie all'intervento della «benigna e saggia incantatrice» Melissa ( vn, 39,

)

1 ,

apparsagli in un primo momento sotto le sembianze del

mago Atlante, il cavaliere si libera dalla «magica violenza» di Alcina, che ora si dimostra essere, per la virtù dell'anello incantato recatogli da Melissa, una donna vecchia e brutta. Ariosto riconduce il significato dell'episodio magico a una riflessione più generale sulla verità, presentata come una conquista possibile, sotto la superficie di una realtà pericolosamente ingannevole ( il «liscio» di Alci­

na ) , solo grazie all'uso della ragione; ma il lettore sa al tempo stesso che

la scoperta della verità da parte di Ruggiero (e il principio di temporanea risalita morale che ne conseguirà per lui ) è stata possibile solo grazie alla

«ventura» di un intervento accidentale esterno, proiettato peraltro nella

luce ambigua dell'inganno ( Melissa prende infatti le sembianze di Atlante ) .

GABRIELE BUCCHI

La verità enunciata dal proemio assume già i colori di un'utopia conoscitiva possibile solo nel poema ( Ascoli,

1987, pp. 122-68):

Chi l'annello d'Angelica, o più tosto chi avesse quel de la ragion, potria veder a tutti il viso, che nascosto da finzione e d'arte non saria. Tal ci par bello e buono, che, deposto il liscio, brutto e rio forse parria. Fu gran ventura quella di Ruggiero, ch'ebbe l'annel che gli scoperse il vero

( Ofvm 2).

Abbandonata, non senza ricorrere alla simulazione

(viii 3),

l'isola di Al­

cina, Ruggiero approda attraverso una strada «aspra, solinga, inospita e selvaggia»

(viii 19, 4) alla rocca di Logistilla.

Le caratteristiche di questo

regno, fatto di «bellezza eterna et infinita grazia», e il programma di for­ mazione ivi previsto per Ruggiero sono presentati attraverso la voce di un barcaiolo «saggio e di lunga esperienza dotto»

( x 44, 8) che conduce il

cavaliere in salvo. -Costei [Logistilla] - dicea- stupore e riverenza induce all'alma, ove si scuopre prima. Contempla meglio poi l'alta presenza: ogn'altro ben ti par di poca stima. Il suo amore ha dagli altri differenza: speme o timor negli altri il cor ti lima; in questo il desiderio più non chiede, e contento riman come la vede. Ella t'insegnerà studii più grati, che suoni, danze, odori, bagni e cibi; ma come i pensier tuoi meglio formati poggin più ad alto che per l'aria i nibi, e come de la gloria de' beati nel mortai corpo parte si delibi.-

( Ofx 46; 47, I-6).

Il regno di Logistilla è quello, come il nome stesso indica, del Logos/ Ragio­ ne, della stabilità infinita, dell'estinzione delle paure e dei desideri ( «speme o timor negli altri il cor ti lima; l in questo il desiderio più non chiede», i corsivi sono miei ) : quelle stesse passioni che non a caso avevano travagliato Ruggiero mentre aspettava impaziente l'arrivo di Alcina ali'appuntamento

266

MORALE

( vn 26, 7-8 «dove a Ruggiero avean timore e speme l gran pezzo intorno al cor pugnato insieme» simmetria chiastica, rispetto a x 46, 6, notturno

esplicitamente stabilita in C rispetto a «dove Ruggier con palpitante core l aspettata l'avea forse quattr'ore» di AB). Al punto estremo di questo cam­ mino di apparente perfezionamento morale situato nel regno del Logos, che le parole del barcaiolo portano anche dal punto di vista stilistico su un

nibi : delibi), Ariosto colloca l'epifania della saggezza intesa come sapienza (sophia), la conoscenza del­

registro magniloquente (cfr. le rime auliche

le realtà necessarie e immutabili, che la filosofia neoplatonica del Rinasci­ mento chiamava

contemplatio divinorum

(Rice,

1958,

pp.

sS-92).

In modo

sincretistico, il poeta però riunisce in uno stesso momento l'acquisizione da parte di Ruggiero della sapienza e quella della saggezza socratica, intesa quale virtù pratica rappresentata dalla prudenza e conoscenza di sé stessi. Nel sistema allegorico dell'intero episodio questa saggezza è rappresentata dalla materia su cui è costruita la rocca di Logistilla (il diamante), splendida ma, contrariamente alle mura scintillanti d'oro del regno di Alcina

(vi sS-

59), di una bellezza non ingannevole: Quel che più fa che lor si inchina e cede ogn'altra gemma, è che, mirando in esse, l'uom sin in mezzo all'anima si vede; vede suoi vizii e sue virtudi espresse, sì che a lusinghe poi di sé non crede, né a chi dar biasmo a torto gli volesse: fassi, mirando allo specchio lucente se stesso, conoscendosi, prudente ( Ofx 59). Il seguito delle avventure di Ruggiero è uno dei momenti più sintomatici della tensione esistente tra orizzonte ideale e orizzonte reale della vita mo­ rale dei personaggi del Furioso. Il salvataggio di Angelica dall'orca (x, 23-XI,

21) porterà infatti il cavaliere a scendere dal cielo dei «costumi santi», con­ templati, più che appresi, nel regno di Logistilla, per soccombere alla forza del desiderio sessuale, assimilato a un cavallo impazzito (su cui cfr. Giamat­ ti,

1974).

L' irruzione della «libidinosa furia» che assale Ruggiero

(xi, 1)

non viene però presentata come una caduta peccaminosa o un fallimento della sua educazione. Attraverso la voce del narratore, Ariosto coinvolge il lettore in un cambiamento di prospettiva che guarda all'episodio non da un punto di vista morale astratto, ma da quello del personaggio che la vive («pazzo è se questa ancor non prezza e stima»):

GABRIELE BUCCHI

Qual raggion fìa che 'l buon Ruggier raffrene, sì che non voglia ora pigliar diletto d'Angelica gentil che nuda tiene nel solitario e commodo boschetto? Di Bradamante più non gli soviene, che tanto aver solea fissa nel petto; e se gli ne sovien pur come prima, pazzo è se questa ancor non prezza e stima; con la qual non saria stato quel crudo Zenocrate di lui più continente

( Ofx 2; 3, 1-2).

L'ironia diventa lo strumento retorico-filosofico con cui Ariosto può far coesistere questi due orizzonti morali, ideale e reale, rendendo accettabile e conoscitivamente fecondo per il lettore il repentino mutamento di prospet­ tiva tra i due. Attraverso il filtro ironico e distanziante, infatti, la funzione dell' exemplum antico (strumento principe della morale precettiva) può es­ sere qui ridimensionata e demistificata: anche l'austero filosofo Xenocrate scende dal piedistallo (cfr. XI 3) per acquistare, accanto all'intemperante Ruggiero, una nuova misura umana. L'intera sequenza delle avventure di Ruggiero presso Alcina e Logistilla mostra al lettore la coesistenza e persino la contiguità di discorsi opposti (Ascoli, 1987): l'allegoria, peraltro enunciata come ipotesi utopistica («Chi l'annello d'Angelica, o più tosto l chi avesse quel de la ragion p otria») trova infatti il suo contrappeso e il suo limite nella realtà, che solo la prospettiva ironica («Qual raggion fia che 'l buon Ruggier raffrene ») può far irrompere nel discorso sovrasignificante ed esemplare. La possibilità di esercitare la saggezza nella realtà e allo stesso tempo al riparo delle passioni verrà riservata non a Ruggiero, bensì a Rinaldo nell'ul­ tima digressione romanzesca prima della conclusione epica nell'edizione del 1516 («prova del nappo» XLII 98-XLIIi 66 e racconto del barcaiolo mantovano XLIII 71-143). Inserito nello sfondo realistico e quotidiano del paesaggio padano, l'episodio pone il figlio di Arnone davanti a una scelta: bere al vaso magico che accerta la fedelta o infedeltà delle mogli, accedendo a una verità che può rendere infelici, o rifiutare la prova, scegliendo di non sapere. Rinaldo - che già nell'episodio di Ginevra (Iv, 63-67) si era fatto portatore di una nuova visione, pragmatica e non astratta, della giustizia (]ossa, 2.011) - decide, non senza dubbi, per la seconda possibilità: Pensò, e poi disse : - Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse.

268

MORALE

Mia donna è donna, et ogni donna è molle: lascian star mia credenza come stasse. Sin qui m'ha il creder mio giovato e giova: che poss'io megliorar per farne prova? Potria poco giovare e nuocer molto; che 'l tentar qualche volta Idio disdegna. Non so s'in questo io mi sia saggio o stolto; ma non vo' più saper, che mi convegna. Or questo vin dinanzi mi sia tolto: sete non n'ho, né vo' che me ne vegna; che tal certezza ha Dio più proibita, ch'al primo padre l'arbor de la vita (O/XLIII 6,J-8;

7

).

La saggezza umana non è in questo caso il risultato della contemplazione di verità superiori, ma è un atto deliberativo inteso alla preservazione dell'e­ quilibrio e della felicità del singolo: quella felicità che l'ospite di Rinaldo ha invece definitivamente perduta

( xLII 99) per aver

ceduto alla tentazione,

altrettanto rovinosa e diabolica di quella conosciuta da Adamo nel Paradiso terrestre, di mettere alla prova la realtà sulla base di un malinteso ideale di virtù. C'è chi ha visto nella prova del nappo l'espressione di una visione cinica, amara e disincantata della natura umana e chi l' ha letto come l'esem­ pio supremo di saggezza offerto da Ariosto al suo lettore (Santoro,

I989;

Casadei, 2.0 I Ib). Certo è che, nonostante le risposte di Rinaldo ai dubbi che lo assalgono dopo il rifiuto della prova («Gli è questo creder mio, com'io l'avessi l ben certo, e poco accrescer lo potrei: l [ ... ] l Metter saria mille contro uno a giuoco; l che perder si può molto, e acquistar poco», 66, I -2.;

XLIII

7-8), Ariosto ha condensato in quest'episodio, senza risolverli del

tutto, alcuni degli interrogativi più profondi legati alla sfera morale (sag­ gezza, virtù, ragione, felicità) già toccati lungo tutto il poema. Davanti alla formulazione della prova di Rinaldo in termini di sano buon senso («che perder si può molto, e acquistar poco»), il lettore del Furioso, non nuovo a questo tipo di ragionamento (cfr. «che poco saggio si può dir colui l che perde il suo per acquistare altrui», XXXVIII 52.,

7-8), sa infatti che la perdita

più grave per l'uomo (ma anche la più comune) è quella della ragione, il ce­ dimento alle passioni che nascono da una visione deformata della realtà: «e se ben come Orlando ognun non smania, l suo furor mostra a qualch' altro segnale. l E quale è di pazzia segno più espresso l che, per altri voler, perder se stesso?»

( xxiv I, s-8).

Orlando è l'esempio più eclatante di questo smarrimento dell' io nato

GABRIELE BUCCHI

dall'inseguimento di rappresentazioni irrazionali. La ricerca di Angelica che lo porterà poi alla follia comincia proprio con un sogno scambiato per realtà: Senza pensar che sian l' immagin false quando per tema o per disio si sogna, de la donzella per modo gli calse, che stimò giunta a danno od a vergogna, che fulminando fuor del letto salse

( Ofvm 84, 1-5).

Quasi tutti i personaggi del Furioso vengono travolti da passioni poten­ zialmente distruttive la cui origine è in queste «immagin false», frutto di paure e desideri incontrollabili («quando per tema o per disio si sogna»). Non si tratta, per Ariosto, di un fatto accidentale ma consustanziale alla realtà stessa, indipendente dall'arbitrio del singolo, tanto che la caduta in questa condizione di turbamento (di cui la follia è la versione più estrema e bestiale) viene rappresentata come naturale e quasi fatale («Gli è come una gran selva, ove la via l conviene aforza, a chi vi va, fallire», XXIV 2, 3-4, eco - per la similitudine della follia con la selva - di Orazio, Sat. II, 3, 48), mentre il ritorno a una condizione di equilibrio può avvenire nel mondo del poema solo grazie a un intervento esterno, ex machina, non senza ri­ svolti comici e inverosimili (Ruggiero salvato dagli incanti di Alcina grazie a Melissa, Orlando che recupera il senno dali'ampolla etichettata rinvenuta da Astolfo sulla Luna XXXIX 57, Rinaldo liberato dalla Gelosia grazie all'in­ tervento dello Sdegno XLII 63-64). All'origine della perdita del sé c'è il sentimento amoroso, inteso come desiderio accecante e irrazionale, alluso fin dal titolo del poema. La came­ riera di Ginevra, Dalinda, «divisa e sevra» (letteralmente "scissà', v 26) per l'amore di Polinesso, non vede il raggiro in cui è caduta ( v 26 ) , Ruggiero preferisce credere alla bellezza di Alcina che al racconto di Astolfo ( vn 1718), Fiordispina, travolta dalla disperazione, quasi non crede più alla realtà, che pure finirà per corrispondere al suo desiderio ( xxv 66), i figli di Mar­ ganorre prima «gagliardi, arditi e di reale aspetto» si danno in preda «a quel desir che nominiamo amore; l per cui dal buon sentier fur traviati l al labirinto et al camin d'errore» (xxxvn 47). «Perché ti consumi l dando credenza a quel che non è vero?», chiede Ruggiero in sogno a Bradamante (xxxiii 6o ), e sarà la stessa Bradamante a descrivere la fenomenologia di questo smarrimento nel suo lamento-delirio di gelosia per l'assenza dell'a­ mato:

MORALE

Ma di che debbo lamentarmi, ahi lassa, fuor che del mio desire irrazionale? eh'alto mi leva e sì nell'aria passa, ch'arriva in parte ove s'abbrucia l'ale; poi non potendo sostener, mi lassa dal ciel cader: né qui finisce il male; che le rimette, e di nuovo arde: ond'io non ho mai fine al precipizio mio

( Ofxxxn 21).

Se l'esercizio del raziocinio è per l'uomo continuamente ostacolato dal­ le apparenze ingannevoli, dai discorsi fallaci e fraudolenti, da una volontà spinta più a

credere ai propri phantasmata che non alla realtà, come insegna

lo stoico Damasippo ad Orazio in un testo fondamentale per la morale ariostesca ( «qui species alias veris scelerisque tumultu l permixtas capiet, commotus habebitur atque l stultitiane erret nihilum distabit an ira», «Chi concepirà rappresentazioni non corrispondenti al reale e rimescolate da turbamento, lo si considererà uno spostato e non farà la minima diffe­ renza se il suo errore derivi da scempiaggine o da collera», Orazio, Sat., II,

2.08-2.10: Orazio, 1994; su Orazio e Ariosto cfr. Petrocchi, 1972.; Alhaique Pettinelli, 2.004), la scelta di Rinaldo allora può dirsi saggia perché accetta lucidamente la dimensione autopersuasiva del credere ( «lascian star mia credenza come stasse», XLIII 6, 6) come un argine preventivo che mette 3,

l'uomo al riparo dalle passioni incontrollabili e potenzialmente distruttive. La sapienza contemplata da Ruggiero nella rocca di Logistilla è diventata qui, nella scelta prudente di Rinaldo, autentica saggezza, non solo nel sen­

(Etica Nicom., VI concreta ars vivendi ( «Sin qui m'ha

so aristotelico di un atto di scelta basato sull'esperienza

7:

Aristotele,

2.009) ma anche quale

il creder mio giovato, e giova l che poss' io megliorar per farne prova?», XLIII

6, 7-8).



Accertata l'esistenza di una tensione tra ideale e reale nel

Furioso, che qui

abbiamo esemplificata nella rappresentazione a distanza della saggezza nell'episodio di Logistilla e in quello del nappo, ci si può chiedere in che misura questa doppia prospettiva intacchi l'efficacia esemplare di un nucleo di virtù ereditato dallo stoicismo e intrecciato nel poema a quello dell'etica cortese e cavalleresca: i due grandi paradigmi etici che reggono l'agire vir­ tuoso dei personaggi ( Zatti, 1990; Carroll, 1997 ) . La virtù e la saggezza sono

GABRIELE BUCCHI

davvero attingibili nella realtà e traducibili in pratica di vita o rischiano di apparire al lettore essenze altrettanto «rare» degli esemplari di ippogrifo o delle gemme del palazzo di Logistilla che, secondo il commento ironico del narratore, «non credo altrove

l se non su forse in ciel, se ne ritruove»

(x s8,7-8)?

È questa una delle domande cruciali e più complesse poste dal Furioso e non è un caso che gli studiosi abbiano dato ad essa risposte anche molto diverse,ora valorizzando quella prospettiva esemplare della vita morale che emerge in numerosi passi del poema, celebrativa dei valori etici dell'uma­ nesimo (Moretti, 1977; Bigi, 2012; Cuccaro, 1981; Carroll, 1997; Santoro, 1989), ora rintracciando le spie di una visione amara e pessimistica, frutto di uno sguardo disincantato sulla natura umana e sui meccanismi che la governano (Zatti,1990; Ascoli,1987). Delle virtù cardinali ereditate dallo stoicismo ed illustrate in un testo fondamentale per la morale classica come il ciceroniano De ojficiis, la giusti­ zia è sicuramente quella che occupa più spesso la riflessione morale arioste­ sca ( Casadei,2011b). Essa viene celebrata attraverso la classica punizione di­ vina del malvagio,grazie alla quale vengono evacuati dalla scena del Furioso personaggi moralmente riprovevoli (generalmente fedifraghi) nessuno dei quali sfugge alla morte (Bireno XI 79-80, Pinabello XXII 71, Gabrina e poi Odorico

XXIV

44-45, Lidia

XXXIV

43), ciò che dà occasione al narratore

di sottolineare didascalicamente la funzione pedagogica dell' exemplum («Ma il cor che tace qui,su nel ciel grida,l fin che Dio e santi alla vendetta invoglia;

l la qual,se ben tarda a venir,compensa l l'indugio poi con puni­ l[ ... ] l Sia Marganorre essempio di chi regna; l che chi mal

zione immensa.

opra, male al fine aspetta»,xxxvii ws,s-8; 106,s-6). La generale latenza di Dio e dalla Provvidenza dal

Furioso

(Caretti,

1977) viene allora provvisoriamente interrotta per garantire la tenuta di un mondo che sarebbe altrimenti retto dal Caos, cioè dall'arbitrio della For­ tuna: ecco allora che la giustizia divina serve a spiegare in termini accetta­ bili la Storia e in particolare la tragica situazione politica italiana (xvii 1-s,

)

XXXIV .

Quanto alla giustizia terrena,lasciando da parte il discredito in cui

sono poste da Ariosto le categorie professionali che la esercitano (un con­ densato di ipocrisa e vizi è proprio un giudice come Anselmo XLIII 71 ss.), la sua salvaguardia resta piuttosto incerta (Residori,2014). Il ristabilimento della giustizia non può avvenire che grazie a un intervento (del tutto fortui­ to) frutto dell'eroismo individuale (Orlando s'imbatte in Olimpia e la salva dall' «empia lege antica» di Ebuda: VIII s8,4) o dell'irrompere,altrettanto fortuito e miracoloso,di un punto di vista raziocinante in un mondo gover-

272

MORALE

nato dalla Follia. Portatore vittorioso di questo punto di vista sarà (come poi nella prova del nappo) Rinaldo, alle prese con l' «aspra legge» di Scozia del canto IV (su cuiJossa, 20 1 1) . Davanti all'ingiusta condanna a morte di Ginevra, accusata a torto di infedeltà da Lurcanio, vittima a sua volta dei raggiri del malvagio Polinesso, il paladino svolge infatti un discorso in cui la legge «ingiusta e matta» deve essere riformata, garantendo eguali diritti all'uomo come alla donna, in termini di sano buon senso: Non vo' già dir ch'ella non l'abbia fatto; che nol sappiendo, il falso dir potrei: dirò ben che non de' per simil atto punizion cadere alcuna in lei; e dirò che fu ingiusto o che fu matto chi prima fece li statuti rei; e come iniqui rivocar si denno, e nuova legge far con miglior senno.

[. ] ..

Son fatti in questa legge disuguale veramente alle donne espressi torti; e spero in Dio mostrar che gli è gran male che tanto lungamente si comporti (O/Iv 6s; 67,

1-4).

L'idea di una giustizia reale, basata cioè esclusivamente su esperienza e buon senso del legislatore riaffìorerà nel poema, ma in una luce diversa e più utopica, quando Ariosto assegneràalla figura anonima di un «sincero l e giusto vecchio» (xxviii 84, 1-2) un commento alla novella misogina dell'oste del canto XXVIII sulla necessitàdi una nuova legge (su quest'epi­ sodio cfr. Savarese, 1984, pp. 43-50; Santoro, 1989, pp. 135-66; Izzo, 2012, pp. 1-24) : «Saria la legge, ch'ogni donna colta l in adulterio, fosse messa a morte, l se provar non potesse ch'una volta l avesse adulterato il suo con­ sorte» (xxviii 82, 1-4). Ci si può domandare allora se la sdegnosa reazione di Rodomonte all'intervento del vecchio non sia sintomatica di una più generale intolleranza dell'uomo «passionato» alla verità: «Ma il Saracin, che fuggia udire il vero, l lo minacciò con viso crudo et empio, l sì che lo fece per timor tacere; l ma già non lo mutò di suo parere» (xxviii 84, s-8) . Il ristabilimento dei valori in un mondo che fugge «udire il vero» non potràche essere collocato in una prospettiva ideale, la cui realizzazione comporterebbe uno sconvolgimento anche sociale immaginabile, ancora una volta, solo in termini di utopia: 2.73

GABRIELE BUCCHI

Se, come il viso, si mostrasse il core, tal ne la corte è grande e gli altri preme, e tal è in poca grazia al suo signore, che la lor sorte muteriano insieme. Questo umil diverria tosto il maggiore: staria quel grande infra le turbe estreme. Ma torniamo a Medor fedele e grato, che 'n vita e in morte ha il suo signore amato ( 0/XIX 2 ) . «Ma torniamo a Medor fedele e grato»: dall'utopia della riflessione pro­ emiale su un mondo in cui alla statura morale dell'individuo corrisponda un adeguato riconoscimento si torna bruscamente al mondo della finzione, l'unico - si direbbe - in cui i valori di fedeltà e gratitudine incarnati da Medoro (il giovane saraceno che affronta le armi nemiche per seppellire il corpo del suo signore Dardinello) possano venire valorizzati e celebrati. Con la gratitudine e il rispetto della fede siamo giunti al cuore del si­ stema etico ideale ariostesco, giacché è in queste due virtù sociali che l'uo­ mo può trovare la possibilità di restaurare, sebbene soltanto nello spazio ristretto degli affetti e dell'amicizia, una qualche forma di giustizia mo­ rale, adempiendo così a quello che per Ariosto è uno dei doveri principali dell'uomo (non solo del poeta, come testimoniano le lettere dalla Garfa­ gnana). Queste due declinazioni della giustizia morale vengono illustrate attraverso situazioni che fanno risaltare ancor più il carattere assoluto ed esemplare dei personaggi, proiettandoli a tratti in una luce eroica, soprat­ tutto nella terza edizione del poema (Moretti, I977 ). Di Olimpia (episo­ dio aggiunto in C) non sono l'impulsività e la passione (che la spingerà ali'omicidio) e in definitiva l'imprudenza ad essere ricordate, ma la fede esemplare per il fedifrago Bireno (x I-4 ) , è l'umile soldato Medoro «fedele e grato» al suo signore che ottiene colei che era sfuggita a tutti (Angelica: XIX

I ) , l'inganno di Isabella nei confronti di Rodomonte (sorta di suicidio

mascherato per rispettare l'amore di Zerbino) è visto come un «atto in­ comparabile e stupendo» che il poeta accompagna con accenti commossi

(xxix

26-30, 28, I ) , agli occhi di Bradamante l'unica virtù che manca a

Ruggiero è appunto l' «inviolabil fede l a chi ogn'altra virtù s'inchina e cede» (xxxn 38, 7-8 ) . Tutta la peripezia aggiunta in C della gara di cortesia tra Leone e Rug­ giero, infine, reintroduce e potenzia il tema del rispetto della parola data declinandolo in un modo iperbolico e sovrumano (non a caso ispirato alla decima giornata decameroniana dedicata alla magnanimitas), che risalta ancor di più agli occhi del lettore nella contiguità con la prova di Rinaldo

274

MORALE

davanti al nappo ( Bigi, 2012; Casadei, 1992 ) . E sono proprio gli esiti para­ dossali e a tratti autodistruttivi di un certo eroismo morale ( si pensi a Zer­ bino obbligato ad accompagnare Gabrina all'inizio del canto XXI o ancora alla prostrazione di Ruggiero, obbligatosi con Leone, prima dello

ending finale )

happy

che hanno indotto alcuni interpreti a vedere negli episodi

appena ricordati la conferma di un fondamentale scetticismo ariostesco ri­ spetto a una pratica della virtù che non scenda a patti con la realtà ( Savarese, 1984, p. 43; Zatti, 1990, pp. 99-100 ).

È indubbio infatti che anche su questo aspetto il poema propone punti di vista molto distanti; si capisce bene allora perché Ariosto eliminasse già nella seconda edizione del 1521 il proemio al canto xxxv (edizione del 1516 ) in cui il rispetto della parola data veniva subordinato, sulla base di esempi antichi e contemporanei, ad altri valori come l'interesse personale o i lega­ mi familiari (questi ultimi invece collocati in una luce piuttosto negativa in C ) , in aperto contrasto con quanto si legge nel proemio al canto XXI di C, ottava 2, vv. 7-8: «La fede unqua non debbe esser corrotta, l o data a un solo, o data insieme a mille l [ ...] l senza giurare o segno altro più espresso l basti una volta che s'abbia promesso»

( il

cui valore di

sententia

ideale è

però a sua volta ridimensionato dalla vicende di Gabrina narrate nello stesso canto: cfr. Ascoli, 1997 e Proemi). Né questo della fede è l'unico caso in cui la riflessione morale ariostesca abbandona per un momento l'orizzonte ideale per aprirsi a considerazioni di lucido realismo che hanno indotto alcuni interpreti ad accostarla a quella di Machiavelli ( Salinari, 197 5; K.lopp, 1976; Ascoli, 1987, pp. II8-9 ) . Anche per Ariosto l'uomo, per sopravvivere felicemente all'impatto con la realtà, deve saper assumere comportamenti in sé non irreprensibili e commettere il male per impedirne uno maggiore. È secondo tale prospettiva «effettua­ le» ( per usare un termine machiavelliano ) che viene giustificato il ricorso occasionale alla simulazione e all'inganno come modalità appropriate per rispondere alla frode e alla persecuzione dei più forti ( spesso dell'uomo nei confronti della donna, cfr. Ferretti, 2012 ) . Così l'autore commenta la dissi­ mulazione di Bradamante nei confronti del ladro Brunello, cui la donna si appresta a sottrarre l'anello magico per salvare Ruggiero Se, dopo lunga prova, a gran fatica trovar si può chi ti sia amico vero, et a chi senza alcun sospetto dica e discoperto mostri il tuo pensiero; che de' far di Ruggier la bella amica

2.75

(I v 1-14):

GABRIELE BUCCHI

con quel Brunei non puro e non sincero, ma tutto simulato e tutto finto, come la maga le l'avea dipinto? Simula anch'ella; e così far conviene con esso lui di finzioni padre (O/Iv 2; 3,

I-2 .

)

L'adozione di un punto di vista etico sulla base di una situazione concreta può talvolta comportare una necessaria rigerarchizzazione dei valori: non solo il ricorso alla simulazione, allora, verrà considerato legittimo, ma an­ che un vizio come l' intemperanza sarà giustificato dal narratore quale mez­ zo per ristabilire una forma di giustizia privata («quando persona[ ... ] l tu vegga per violenzia o per inganno l patire disonore o mortai danno»). Si veda il proemio che commenta il soccombere di Orlando (già rinsavito) al furore per la morte di Brandimarte: Qual duro freno o qual ferrigno nodo, qual, s'esser può, catena di diamante farà che l'ira servi ordine e modo, che non trascorra oltre al prescritto inante, quando persona che con saldo chiodo t'abbia già fissa Amor nel cor constante, tu vegga o per violenzia o per inganno patire o disonore o mortai danno? E s'a crudel, s'ad inumano effetto quell'impeto talor l'animo svia, merita escusa, perché allor nel petto non ha ragione impero né balia (O/XLII

1; 2, 1-4).

Abbiamo fin qui parlato spesso di "valori" (nel senso di ideali di virtù), ma è forse giusto interrogarsi sulla nozione generale di valore espressa da Ariosto nel suo poema. Sul piano etico il poeta dà a questa parola il senso di una hu­ manitas che si esprime negli atteggiamenti di lealtà, disinteressata cortesia,

clemenza e pietà verso i più deboli, di cui danno prova, in alcuni episodi chiave del poema, Orlando Ruggiero

(xxn

(Ix

89, rifiuto dell'uso sleale dell'archibugio),

90-94, abbandono dello scudo incantato), Bradamante

(XXXVI IO, sua cortesia verso i nemici). La celebrazione di tale idea di valore individuale, uno dei cardini dell'ethos cavalleresco, acquista ancor più forza (ma trova anche il suo limite) nel contrasto, destinato a diventare sempre più aspro e polemico nella terza edizione (ma estendibile a tutto l'ultimo

MORALE

Ariosto), con una visione opposta: quella che attribuisce alle cose e alle per­ sone un valore meramente materiale, funzionale, pecuniario (Zatti, 1990 ). Se la prima nozione è preannunciata dai primi versi del Furioso, allorché il poema viene presentato al dedicatario come un dono da apprezzare non secondo parametri estrinseci ed economici, ma alla luce dell'assolutezza e totalità del gesto («né che poco io vi dia da imputar sono; l che quanto io

posso dar, tutto vi dono», I

3,

7-8), la seconda percorre tutto il poema attra­

verso la rappresentazione (spesso indiretta, ma non però meno esplicita­ mente negativa) dei disvalori imperanti nella realtà storica e sociale, primo tra tutti il denaro.

È

l'avarizia, deprecata nel Furioso fin quasi all'ultima

ottava («Come talvolta, ove si cava l'oro l là tra' Pannoni o ne le mine ibere, l se improvisa ruina su coloro l che vi condusse empia avarizia, fere»,

136, 1-4 ) a impedire ad Alceste di unirsi a Lidia, in quanto «cavallier privato, l altro non tien che la virtude sola» ( xxxiv, 3-4 ) mentre Ruggiero XLVI

«il qual non ch'abbi regno, l ma non può al mondo dir: questa è mia cosa; l né sa che nobiltà poco si prezza, l e men virtù, se non v'è ancor ricchezza»

( xuv 36, 7-8)

verrà posposto a Leone dai genitori di Bradamante per ra­

gioni di status sociale. Non stupisce allora che Ariosto collochi polemicamente la pratica della liberalità al di fuori o ai margini di una società che guarda soltanto al profit­ to (cfr. i proemi dei canti XLIV-XLV ) , come quella dei pastori che ospitano Mandricardo e Doralice («che non pur per cittadi e per castella, l ma per tugurii ancora e per fenili l spesso si trovan gli uomini gentili», XIV 62., 6-8) e attribuisca la vocazione alla virtù e alla saggezza, in alcune ottave tra le più intrise di sarcastico sdegno di tutto il poema, a pochi «prudenti», capaci di innalzarsi sopra una massa socialmente varia ma accomunata dal disprezzo per quell'orizzonte ideale celebrato nel poema:

Ma il volgo, nel cui arbitrio son gli onori, che, come pare a lui, li leva e dona (né dal nome del volgo voglio fuori, eccetto l'uom prudente, trar persona; che né papi né re né imperatori non ne tra' scettro, mitra né corona; ma la prudenzia, ma il giudizio buono, grazie che dal ciel date a pochi sono); questo volgo (per dir quel ch'io vo' dire) eh'altro non riverisce che ricchezza, né vede cosa al mondo, che più ammire, 277

GABRIELE BUCCHI e senza, nulla cura e nulla apprezza, sia quanto voglia la beltà, l'ardire, la possanza del corpo, la destrezza, la virtù, il senno, la bontà; e più in questo di ch'ora vi ragiono, che nel resto

( Ofxuv so-si).

L'affermazione di princìpi morali considerati irrinunciabili per garanti­ re all'uomo quei caratteri di dignità, bontà e humanitas deve fare i conti, ancora una volta, con una realtà morale che va in tutt'altra direzione. Se la virtù e l'amicizia finiranno infatti per trionfare sulle meschine strate­ gie matrimoniali dei genitori di Bradamante e il poema potrà concludersi felicemente, dopo l'ultima peripezia, con le nozze di Ruggiero, Ariosto ci ricorda che nella realtà le cose vanno diversamente, come sembra suggerire (secondo l'interpretazione più convincente datane fino ad oggi dagli stu­ diosi) il motto che accompagna fin dalla prima edizione l'impresa delle api scacciate dal fuoco («Pro bono malum» ): probabile monito a non dimen­ ticare quella realtà fatta di ingiutizia e ingratitudine che incombe su tutto il poema (cfr. almeno Santoro, I989, pp. 3I7-20; Casadei, I996; Masi, 2002 ) .

6.

Resta da chiedersi allora quale sia, finalmente, per il lettore l'insegnamento del Furioso, l'utile misto al dilettevole additato da Orazio e riconosciuto ad Ariosto scrittore e conversatore addirittura prima del Furioso (cfr. la testi­ monianza del suo contemporaneo Celio Calcagnini in Savarese, I984, pp. IS-37= «Solus Ariostus est qui misceat utile dulci» ). Nell'impossibilità di

ridurre la complessa, asistematica e anche - come abbiamo visto - contrad­ dittoria riflessione morale ariostesca a una formula riassuntiva, sembra più opportuno interrogarsi sull'idea d'insegnamento morale che emerge dal poema e sul modello di destinatario ideale immaginato da Ariosto. Non va dimenticato a questo proposito che il poeta stesso si fa personaggio mo­ rale del Furioso, offrendo al lettore un'immagine di sé in preda alle stesse passioni che agitano i suoi personaggi

( xxix I-2,

xxx

I,

xxxv

I-2 ) . Tale

autorappresentazione dell'io - uno degli aspetti più innovativi del nar­ ratore ariostesco (Durling, I96s, pp. II2-6I ) - rifiuta però ogni forma di teleologismo etico, da cui sono infatti esclusi anche i più saggi del poema (cfr. l'annuncio della follia di Astolfo,

XXXIV

86 ) . Ariosto non assume la

pastura di un precettore, ma preferisce condividere fraternamente col letto­ re, attraverso la teatralizzazione di un dibattito che richiama alla memoria

MORALE

i modelli prediletti di Orazio satiro e delle lntercoenales di Alberti (Segre,

I966),

speranze, dubbi e incertezze di un cammino morale rappresentato

in divenire:

Ben mi si potria dir:

-

Frate, tu vai

l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo.

-

Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo; et ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d'uscir fuor di ballo:

ma tostofor, come vorrei, noi posso; che 'l male è penetrato infin all'osso (O/XXIV 3; cfr. anche XXVII

I24).

Così come non c'è spazio per la celebrazione di un perfezionamento etico definitivamente acquisito (nemmeno per Ruggiero, vista l'impasse mora­ le dei canti XLIV-XLV, che rischia di vanificare il progetto di unione con Bradamante per soddisfare un'idea sovrumana della fede), così anche lo strumento principe della formazione morale, l' exemplum, pur presente nel Furioso, sembra largamente depotenziato della sua funzione pedago­ gica (Ascoli,

I997 ).

Se è vero che Ariosto non rinuncia, con toni quasi

canterini, a esaltare il beneficio che si può trarre dagli errori altrui («Bene è felice quel, donne mie care, l ch'essere accorto all'altrui spese impare», x

6, 7-8),

è altrettanto vero che la rappresentazione di una scelta morale

felice non è mai messa in rapporto con l'efficacia di un insegnamento ricevuto («Io te n'ho dato volentieri aviso; l non ch'io mi creda che deb­ bia giovarte»,

VI

s 3,

I -2,

dice Astolfo trasformato in mirto a Ruggiero,

che puntualmente se ne dimenticherà), ma, ancora una volta, solo con una saggezza acquisita attraverso l'esperienza diretta (e spesso dolorosa) del mondo e dell'animo umano (Rinaldo decide di non bere, prima di ascoltare il racconto deli'oste). Se si dovesse dunque circoscrivere la formazione etica del lettore del

Furioso potremmo individuarla nell'acquisizione della capacità a riunire le tessere sparse di quella che è stata chiamata una «filosofia minima» (Ca­ sadei, 2onb) declinata in tipi di discorso assai diversi tra loro: normativo­ esemplare, ironico, parodico, ossimorico-paradossale (il titolo stesso del poema ne è un esempio); allenandosi insomma a quella strategia del serio

ludere («parlare di cose serie scherzando») adottata anche da Erasmo (Sa­ varese,

I984, p. 25). Ed è proprio per questo che a noi, lettori del XXI secolo

alle prese col riaffacciarsi di vecchi dogmatismi etici (laici o religiosi che siano) o, all'estremo opposto, con un cinismo edonista indifferente a qual-

279

GABRIELE BUCCHI

siasi problema morale, la lettura del Furioso può offrirsi come un esercizio di intelligenza conoscitiva, di misura e di humanitas.

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Oggetti di Sergio Zatti

I.

Oltre che di personaggi, situazioni, storie, il Furioso è affollato di oggetti. Da questo punto di vista non c'è poeta più "oggettuale" di Ariosto per la sua tendenza a trasformare in corporeità materiale anche gli statuti del mondo affettivo ed intellettuale (esemplari in questo senso le allegorie lunari ) .

Abbiamo dunque a che fare, anzitutto, con un esteso catalogo di og­ getti, e questi oggetti hanno spesso un effetto determinante sulla trama del poema. Alcuni ne sono addirittura protagonisti, e ciò avviene perché moto­ re centrale dell'azione è il desiderio di possesso nelle sue varie declinazioni: predatorio, erotico, cognitivo. L'azione del Furioso è programmaticamente mirata al conseguimento di un oggetto individuale di desiderio da parte di una pluralità di personaggi spesso in concorrenza fra di loro e le cui finalità sono quasi esclusivamente private e personali. L'azione elementare n volte ripetuta nel Furioso è sempre la medesima: un Soggetto insegue un Oggetto di desiderio che è conteso da altri Soggetti.

È

il meccanismo costitutivo

dell'Inchiesta, un meccanismo triangolare sulla cui natura e funzione do­ vremo interrogarci. L'oggetto è da intendere sia in senso fisico-materiale che grammaticale­ relazionale: e questa coincidenza di statuti gli deriva dall'essere una forma plurima e cangiante del desiderio umano. Siccome tutto può cadere sotto la sfera d'influenza del desiderio, tutto può rientrare nella categoria come meta o come preda in una giostra continua dalla quale non è esclusa nep­ pure la reversibilità dei ruoli. Se gli oggetti nel Furioso hanno una valenza fondamentale per la trama, è perché in generale tutti i maggiori protago­ nisti del poema fanno il loro ingresso in scena contraddistinti ab origine da

una mancanza (spesso se la portano dietro dall'Innamorato di Baiardo ) .

L'oggetto assente è il presupposto genetico dell'inchiesta: una ricerca di identità che coincide pressoché sempre con la titolarità di beni materiali.

SERGIO ZATTI

Nel luogo da questo punto di vista più emblematico del poema i personaggi che si aggirano fuori e dentro il palazzo di Atlante inseguendo i fantasmi dei loro desideri hanno la percezione che sia loro sottratta quella cosa «che più ciascun per sé brama e desia»

(xn 20, 8).

Naturalmente «quella co­

sa», soggettiva per definizione, si distingue in diverse forme, sembianze, fenomenologie perché, come Ariosto commenta, «il desiderio uman non è tutt'uno»

(xiii, so, 4).

Che si tratti di predazioni occasionati, consola­

torie, sostitutive, il meccanismo che presiede alla trama del Furioso è uno soltanto: il desiderio frustrato, il piacere interdetto ( Sangirardi,

2oo6). Di

qui il funzionamento metonimico del desiderio che circola da un oggetto all'altro, scivolando lungo la catena della contiguità dove ogni oggetto so­ stitutivo è il surrogato di un godimento primario. Gli oggetti sono trattati di norma da Ariosto come individui e, come tali, spesso hanno un nome che li distingue. Hanno anche una loro biogra­ fia: e questa biografia è la storia dei loro passaggi di proprietà, il loro passare di mano in mano nello snodarsi della trama, così come la loro trasmigra­ zione dai testi precedenti della letteratura cavalleresca. Possiamo dire che la biografia coincide con la catena di trasmissione del possesso e con una esistenza letteraria largamente intertestuale. Se ne manca una descrizione è perché si presuppone che siano già familiari al lettore: Ariosto riserva

una descrizione ai soli due oggetti che vantano uno statuto speciale: uno di sua invenzione, l' ippogrifo, il cavallo alato cui viene dedicata una biografia immaginaria da borgesiano manuale di zoologia fantastica: Non è finto il destrier, ma naturale, ch'una giumenta generò d'un grifo: simile al padre avea la piuma e l'ale, li piedi anteriori, il capo e il grifo, in tutte l'altre membra parea quale era la madre, e chiamasi ippogrifo; che nei monti Rifei vengon, ma rari, molto di là dagli aghiacciati mari (O/Iv 18);

l'altro attribuito a una invenzione del Demonio e introdotto con conse­ guenze nefaste nella storia contemporanea, l'archibugio: La machina infernal, di più di cento passi d'acqua ove ste' ascosa molt'anni, al sommo tratta per incantamento, prima portata fu tra gli Alamanni;

OGGETTI li quali uno et un altro esperimento facendone, e il demonio a' nostri danni assuttigliando lor via più la mente, ne ritrovaro l'uso finalmente (O/xi 23). Si potrebbe dunque redigere per ciascun oggetto una scheda biografica - non fosse che Ariosto stesso se ne incarica a più riprese, e, quando non lo fa lui, ci pensa Rajna

(1975).

Talvolta infatti è il narratore stesso che

si compiace di rifarne la storia a beneficio del lettore smemorato o per ricapitolare letteratura precedente, ribadendo così la natura di summa di una intera tradizione con cui si propone il poema. Vediamo qualcuna di queste storie: la storia dell'anello magico, per esempio, quell'anello che preserva dagli incanti chi lo tiene al dito e rende invisibile chi lo mette in bocca. Esso è ben noto ai lettori di Boiardo: fra gli altri suoi usi servì a trarre Ruggiero dal giardino sul monte Carena in Africa dove Atlante lo custodiva

(In.

II III

28-30 ); quello stesso anello che Bradamante deve sot­ II XVI 21 ). Nel

trarre a Brunello fu da lui medesimo rubato ad Angelica (In.

Furioso l'anello serve ad Angelica per rendersi invisibile, ma serve anche a Ruggiero per conoscere la reale natura di Alcina. Ariosto ne ricapitola scrupolosamente genealogia e passaggi in

I, s-6, 7-8) e XI s, I: In. I I 39-40 ); «Con Malagigi» (cfr. In. I I 4I-52 );

XI

4

(ai vv.

«Questo è l'annel ch'ella portò già in Francia» (cfr. questo fe' gl'incanti uscire in ciancia l di

«con questo Orlando et altri una matina l tolse di servitù di Dragontina» (cfr. In.

I XIV

37-48 );

«con questo uscì invisibil de la torre» (cfr. In.

I XIV

32-37). È un promemoria steso a beneficio del lettore che non esclude il gesto di simulata impazienza: «A che voglio io tutte sue prove accorre l se

le sapete voi cosi come io?»

( xi s, 3-4; corsivi sempre miei):

Ariosto presu­

me che le storie del Boiardo siano «ben impresse» e «istabilite» (Pigna,

ISS4 ) nella mente del lettore. O, ancora, si veda la storia della spada Balisarda, proprietà di Orlando: «Conobbe quella il paladin, che detta l fu Balisarda, e che già sua fu un tempo. l So che tutta l'istoria avete letta, l come la tolse a Falerina, al tempo l che le distrusse anco il giardin sì bello, l e come a lui poi la rubò Brunello; l e come sotto il monte di Carena l Brunei ne fe' a Ruggier libero dono»

( xu 26, 3-8; 27, I-2):

di nuovo un allusivo riferimento a Boiardo e alla ge­

nealogia cavalleresca dell'oggetto. La rete d'acciaio di Caligorante

( xv s6)

pesca addirittura nel repertorio mitologico: è quella famosa fabbricata da Vulcano per catturare Venere adultera insieme a Marte, rete che, dopo esse­ re stata custodita nel tempio di Anubi a Canopo, ora è in mano del gigante

SERGIO ZATTI

che se ne serve per catturare i viandanti e divorarli. Il nappo ha pure lui un pedigree prestigioso (viene dal

Tristan),

fabbricato da Morgana «per fare

accorto il suo fratello l del fallo di Genevra»

(xLIII 28, 3-4). È soprattutto

in questi casi che Ariosto consolida il suo gioco elusivo nei confronti di Boiardo e il suo patto di complicità con il lettore, come si vede ancora per il libro e il corno donati da Logistilla a Ruggiero:

«Ma non bisogna in cio eh'io mi diffonda, l ch'a tutto il mondo e l'istoria palese» ( xv 73, 3-4). Reticenza

e allusione appartengono a quella figura della preterizione che il narratore ariostesco infligge costantemente al suo predecessore.

2.

Proviamo a stilare un inventario di questi oggetti distinguendoli per tipo­ logie:

a) b)

oggetti cavallereschi: spade, lance, scudi, corazze ecc.; oggetti materiali: il bracciale di Angelica donato per riconoscenza al

pastore, il monile regalato da Jocondo alla moglie prima di partire ecc.;

c)

oggetti magici: scudo, lancia, nappo, corno fatato, anello di Melissa,

libro di Atlante, rete di Caligorante ecc. (in questa categoria va incluso l'ar­ chibugio, in quanto invenzione diabolica); d) oggetti allegorici: sono soprattutto quegli oggetti perduti che si sono ammassati nel vallone lunare, travestiti dal processo di allegoresi così da non potersi più riconoscere (cicale scoppiate, bocce rotte, minestre versate, fiori putrefatti ecc.). Tra questi spicca l'ampolla in cui, come un liquido «atto a esalar»

e)

(xxxiv 83, 2), è contenuto il senno di Orlando;

oggetti animati (cavalli, donne): si tratta di una categoria speciale e pro­

blematica perché vi sono incluse, appunto, le donne, principale oggetto di inchiesta e di contesa cavalleresca. Distinguiamo poi gli oggetti per funzione narrativa: 1.

un oggetto disputato tra due o più personaggi (come l'elmo di Orlando

ambito da Ferraù);

2.

un oggetto smarrito (il cavallo di Rinaldo, come pure il senno di Orlan­

do);



un oggetto evocatore di cui si è sentito parlare in lontane contrade co­

me prestigioso e tale da far sorgere il desiderio di possederlo (per il tartaro Mandricardo Durindana è una sorta di

amor de lonh

oggettuale analogo

dell'innamoramento per fama);



un oggetto che è strumento necessario da procurarsi per portare a com286

OGGETTI

pimento una determinata impresa (come l'anello che Bradamante deve sot­ trarre a Brunello per sconfiggere Atlante e liberare l'amato Ruggiero); S·

un oggetto produttore di catastrofe nel destino del personaggio (il mo­

nile, il bracciale già menzionati). Ricordiamo che intorno a uno scudo, quello della regina Elisa, destina­ to a suscitare nuove drammatiche contese nel campo cristiano, Ariosto ave­ va concepito uno dei tanti disegni di ampliamento della sua tela narrativa, esclusi poi dal testo e rimasti allo stadio di frammento. Questa attenzione agli oggetti lega il Furioso ai presupposti storici del genere cavalleresco surclassandoli per numero e molteplicità di impiego. Le ambages degli antichi erranti erano legate alla concretezza di una ricerca

nello spazio fisico e di una acquisizione di oggetti materiali e/ o spirituali (la coppa del sacro Graal è il più rappresentativo di questi). Nel romanzo

medievale francese una situazione iniziale di equilibrio viene rotta dalla rivelazione dell'assenza dalla corte arturiana di un oggetto o di una persona che genera il meccanismo della quéte per restituire quel bene perduto alla comunità cui appartiene (Auerbach,

1956).

L'assenza è dunque una pre­

messa indispensabile perché si sviluppi una trama, un vulnus costitutivo necessario che chiede un risarcimento nella forma dell' aventure. L'onore e la fama del cavaliere cercatore trovano il loro premio nel servigio reso al bene pubblico attraverso una gloriosa azione individuale che dà prestigio a chi la compie e beneficio alla collettività. L'universo ariostesco è popolato di oggetti fungibili, contingenti, sur­ rogabili: come mostra la variegata tipologia della perdita già nel primo can­ to - da considerarsi in questo senso pro grammatico di tutto il poema - do­ ve tutti sono costretti a fare i conti con la elusività di Angelica che appare e scompare repentinamente. I cavalieri che la inseguono accetteranno via via di rivolgersi a un oggetto surrogato (come Ferraù che torna a cercare l'elmo perduto nel fiume); o di lasciarsi dirottare verso altre mete (come Rinaldo che torna a cercare il cavallo Baiardo); o di differire a miglior occasione il possesso della preda (come Sacripante). E in ragione di questi avvicenda­ menti rapidi e imprevedibili si capisce come il regime degli oggetti venga regolato spesso da meccanismi psicologici di compensazione. Per Ferraù l'elmo è un valido surrogato della donna: «poi che la donna ritrovar non spera l per aver l'elmo che 'l fiume gli asconde»

( I 24, 3-4); per Mandricar­

do la donna, Doralice, occasionalmente incontrata, è preferibile alla spada di Orlando per la quale si è mosso dalla Tartaria: «De la gran preda il tar­ taro contento, l che fortuna e valor gli ha posto inanzi, l di trovar quel dal negro vestimento l non par ch'abbia la fretta ch'avea dianzi»

( xiv s6, 1-4);

SERGIO ZATTI

ancora Mandricardo, il più spregiudicato nella scelta oggettuale, così pre­ tende di regolare i suoi conti con Rodomonte cui ha strappato la fidanzata: «Tosto che vede il tartaro Marfisa l per la credenza c'ha di guadagnarla l in ricompensa e in cambio ugual s'avisa l di Doralice a Rodomonte darla»

(xxvi 70, 1-4). Questo paradossale sistema di equilibri strappa al narratore un commento ironico: «sì come Amor si regga a questa guisa, l che vender la sua donna o permutarla l possa l'amante, né a ragion s'attrista, l se quan­ do una ne perde, una n'acquista»

(xxvi 70, s-8). La dinamica del perdere l

acquistare regola i destini di molti personaggi: nella permutabilità dell' Og­ getto si misura il suo valore relativo di bene fungibile e intercambiabile. Che gli oggetti si concepiscano come negoziabili in un regime di scam­ bio, a seconda del loro valore affettivo o utilitaristico, lo vediamo nella pa­ tetica implorazione a Bradamante del vecchio Atlante sconfitto in duello che propone alla donna un inaccettabile baratto: «Piglia lo scudo (ch'io tel dono) e quello l destrier che va per l'aria così presto; l e non t'impacciar oltra nel castello, l o tranne uno o duo amici, e lascia il resto; l o tranne tutti gli altri, e più non chero, l se non che tu mi lasci il mio Ruggiero»

33, 3-8).

(Iv

Ma appunto in questo rifiuto di Bradamante si vede che la regola

non vale sempre, perché si può viceversa attribuire all'oggetto un valore di bene assoluto, unico e insostituibile. I due personaggi che sono titolari delle inchieste principali, Orlando e Bradamante, resteranno per tutto il poema fedeli alla loro scelta primaria: Orlando rimarrà fedele fino alla fol­ lia al medesimo oggetto perduto, rifiutando esplicitamente le due possibili alternative di Angelica, Olimpia e Isabella, che la sorte getta sul cammino della sua inchiesta. Si possono registrare due esiti interessanti del variegato rapporto fra Soggetto e Oggetto in ordine alla gestione del desiderio. Sappiamo quanto siano casuali e precarie le acquisizioni del bene ambito: ebbene, fra queste sono contemplati anche gli esiti beffardi o paradossali. Può capitare infatti a questi cercatori perennemente delusi un successo che è meno augurabile di qualsiasi fallimento, e cioè un possesso infausto: capita cioè di trovare il contrario di un oggetto di piacere, un oggetto d'odio o di paura, come l' «odioso acquisto»

(xx 134, 3) di Zerbino che cerca la fidanzata Isabella

e gli tocca di proteggere Gabrina, la sua perfida aguzzina, perché così gli impone la sua rigida lealtà alle regole del costume cavalleresco. Esito bef­ fardo e paradossale della legge ariostesca del desiderio: ottenere ciò che non si vuole. Perché l'oggetto che si vuoi possedere in realtà non è quasi mai quello che si trova o si ha a portata di mano: sta Altrove, è alienato nelle mani di un Altro.

288

OGGETTI

L'episodio di Leone e Ruggiero vede la competizione di due rivali in­ torno a un medesimo oggetto, Bradamante, trasformarsi a un certo punto in competizione intorno alla rinuncia ad esso. Alla fine, dopo l'intervento mediatore della maga Melissa, non si dà più duello o scontro, come era nelle drammatiche premesse della vicenda; anzi, la cortesia sublime di entrambi vi sostituisce un ironico minuetto di gusto tutto ariostesco: e tuttavia quel­ lo fra i due cavalieri rimane un vero confronto, un testa a testa occultato sotto le squisite forme della comune educazione cortese. La gara persiste anche quando il codice cavalleresco impone ai contendenti di rinunciarvi, ma persiste dissimulata semplicemente col sostituire la posta in gioco, per­ ché Leone, ritirandosi dalla contesa in favore dell'amico «non vuol, se ben nel resto a Ruggier cede, l ch'in cortesia gli metta inanzi il piede» 39,

( XLVI

7-8). Nella paradossale soluzione dell'impasse cambia semplicemente la

natura della contesa con lo spostamento della meta dal possesso della donna alla affermazione di un ethos fondato proprio sulla rinuncia a tale possesso.



Nel suo recente libro La vita delle cose

( 2009),

Remo Bodei ha parlato di

mutazione antropologica indotta dalla modernità nel nostro rapporto con le cose. Con la produzione in serie affermatasi nell'età della riproducibilità tecnica gli oggetti sono progettati per non durare, ovvero prodotti in vista del consumo e del ricambio ( e questa disponibilità promuove l'esistenza di un mercato ) . Ma non era così nelle società preindustriali, quando la uni­ cità e la durata delle cose erano un requisito fondamentale del loro valore d'uso. Gli oggetti che i cavalieri ariosteschi si disputano gli uni con gli al­ tri sono oggetti unici ed esclusivi. Possederli vale a distinguere l'individuo dalla comunità, così come oggi la condivisione di modelli serve di norma a integrarlo; nell'epoca della cultura di massa, il consumatore può desiderare un oggetto in possesso di qualcun altro e contemporaneamente averlo per sé. Anzi, con l'avvicendarsi delle mode il consumatore desidera un oggetto

solo finché lo vede in possesso anche di altri, perché la comune proprietà lo porta a identificarsi con un gruppo dal quale la esclusività di un possesso solitario lo estranierebbe. Nel Furioso l'unico caso di rudimentale produzione in serie è associata a una novità tecnologica, un oggetto magico in versione diabolica come l'ar­ chibugio: nella celebre invettiva aggiunta nel testo del IS32l'artiglieria vie­ ne denunciata da Ariosto come responsabile della mutazione dell'arte della

SERGIO ZATTI

guerra che mette traumaticamente fine al mondo cavalleresco. La «machi­ na infernal», come abbiamo visto in precedenza, è oggetto fabbricato che si può riprodurre, grazie a una tecnica messa a punto in Germania dopo ripetuti esperimenti e passata di mano in mano fino a pervertire l'intero mondo. Il progresso tecnologico non può esistere nel mondo cavalleresco, che è ancorato a un'arte della guerra immobile da secoli. Ed è sintomatico l'imbarazzo nominalistico del poeta di fronte a un nuovo modo di produr­ re, oltre che di distruggere: anche qui Ariosto ne tenta una storia, ma poi si smarrisce al momento di dare un nome all'oggetto: «qual sagra, qual falcon, qual colubrina l sento nomar»

( xi 2S, 1-2).

La pluralità delle mete è in stretta relazione con la natura varia e mu­ tevole del desiderio ariostesco, e in particolare con la sua natura mimetica. Se un oggetto è in grado di suscitare desiderio, non lo suscita di norma in un cavaliere solo, ma in più d'uno; e questo non solo per la desiderabilità intrinseca dell'oggetto stesso: un oggetto diventa infatti prestigioso e meri­ tevole di essere desiderato per il solo fatto di essere ambito dalla comunità dei cavalieri. Questa situazione di contesa generalizzata è analizzabile in chiave teorica secondo la prospettiva di René Girard

(1961)

sulla natura

mimetica del desiderio umano e riconducibile in chiave storica alle dina­ miche sociali della corte rinascimentale, se è vero che la selva dentro cui va in scena la quéte cavalleresca altro non è che la radice primitiva e selvaggia della corte e delle sue raffinate sublimazioni. L'azione del Furioso, con i suoi conflitti mimetici, si svolge molto più fra le stanze insidiose e labirintiche di una corte padana che fra le piante delle nordiche foreste.



Nella letteratura cavalleresca l'identità del cavaliere si concepisce come una somma di attributi. Il personaggio è costruito come un insieme di parti sog­ gette a costituire una identità complessa, così come a disgregarsi in un accu­ mulo di frammenti, e gli oggetti di cui è detentore sono prolungamenti del suo Io. Nella mancanza di descrizioni fisiche individualizzanti, il cavaliere è definito in senso diacronico dalle imprese che ha compiuto (ognuno esi­

bisce il proprio "catalogo") e in senso sincronico dagli oggetti che possiede (che ne sono spesso l'effetto tangibile). Prime fra tutti ovviamente vengono le insegne cavalleresche, che hanno specifica funzione di identificazione in un universo dove i volti sono coperti dagli elmi, i corpi dalle corazze. Manca sempre una tessera alla piena realizzazione del Sé, che si dà soltanto

OGGETTI

nel possesso di un bene sempre sfuggente o, il più delle volte, alienato nelle mani di un Altro, e che pertanto rappresenta l'unico davvero appetibile. Il rapporto Soggetto/Oggetto appare in realtà, dunque, molto sottile e complesso. Se il Soggetto è letteralmente costruito come assemblaggio di oggetti che lo definiscono è perché in essi consiste, alla lettera, la sua identità di cavaliere: ciò che perde e di cui va in cerca è sempre una parte del Sé. Orrilo, il mostro che si riattacca i pezzi amputati e dispersi nel corso di un duello, potrebbe essere assunto come un'allegoria di questa condizione. In verità esiste una correlazione intrinseca fra Soggetto e Oggetto, e non già una distinzione così netta come si potrebbe pensare. Nel mondo ariostesco il Soggetto si costituisce come identità proprio in quanto risulta dalla somma degli oggetti di cui è detentore. Orlando è tale anche in quanto possiede la spada Durindana, il cavallo Brigliadoro, l'elmo di Mambrino (oggetti degli appetiti altrui perché sono i più prestigiosi nella loro categoria relativa). La mancanza di qualcuno di questi attributi è conseguentemente avvertita come una sottrazione di identità: Orlando sa di aver perduto An­ gelica (ad opera di Medoro) subito dopo aver perduto la spada (a causa di Mandricardo), e la catena delle perdite materiali prelude simbolicamente all'alienazione del senno, follia che si manifesta, secondo tradizione, come spogliazione delle armi e delle insegne cavalleresche, ovvero del suo status civile. La sua riduzione a bruto è l'ultimo stadio di un processo di regres­ sione che lo ha ricondotto a quel «fantasma del corpo frammentato» che, secondo Jacques Lacan

(1949, p. 452), è antecedente nel bambino alla co­

stituzione dell'immagine unitaria dell'Io (e smentisce così la presunta fun­ zione "angelicante" della donna che porta ironicamente quel nome). Parte costitutiva e ora smarrita della personalità di Orlando, come un qualsiasi altro oggetto materiale suscettibile di quéte, il senno dovrà essere recuperato per ripristinare l'identità originaria del paladino e restituirlo integro alla causa cristiana. Una volta rinsavito, Orlando è felice di accettare la sfida di Lipadusa perché Gradasso è in possesso della sua spada Durindana e Agra­ mante del suo cavallo Brigliadoro; non vede l'ora- adesso che ha riavuto il senno- di recuperare anche tutti gli altri pezzi di sé stesso che sono andati dispersi nella sua erranza di folle. Il legame tanto fisico quanto simbolico del cavaliere con i suoi "attri­ buti" si rivela in un passaggio sintomatico del testo, quando Mandricardo interpreta maliziosamente la menomazione che Orlando ha subito acciden­ talmente di Durindana, con lui contesa in duello, come un atto di volonta­ ria autocastrazione: «E dicea ch'imitato avea il castore, l il qual si strappa

SERGIO ZATTI

i genitali sui, l vedendosi alle spalle il cacciatore, l che sa che non ricerca altro da lui»

(xxvii 57, I -4) .



L'identità del Soggetto è dunque una sorta di corpo mobile costituito da una somma di Oggetti, che sono altrettante parti del Sé. Di qui lo statuto ambiguo e oscillante dei ruoli: non solo perché alcuni oggetti assurgono talora al rango di soggetto ( secondo una modalità progressiva: anche gli animali talora agiscono guidati da volontà proprie, come vediamo fare a Baiardo e all' ippogrifo) , ma anche per il processo inverso (cioè secondo una modalità regressiva ) . Capita infatti che i personaggi si trovino a loro volta relegati in un ruolo passivo, quando per esempio li vediamo sballottati da un luogo all'altro, agiti contro la loro volontà da forze superiori, come succede sempre a Ruggiero quando sale sull' ippogrifo, o a Rinaldo quando si mette per mare ed è investito da una tempesta che lo sottomette ai capric­ ci di Fortuna. E si tenga conto che per Ariosto poeta "oggettuale" anche l'innamoramento - così come il disamore - può scaturire non dalle scelte sentimentali dell'Io, ma da due fontane dispensatrici, tramite le loro acque cristalline, di affetti discordanti ( cfr. Angelica e Rinaldo:

II

78).

Per non parlare di quando i personaggi sono posseduti dai loro demoni interni, quelle passioni, come la Gelosia di Rinaldo, che prendono le for­ me allegoriche di mostri. Del resto, la Follia che esplode con tutta la sua violenza al centro del poema è concepita come la più devastante forma di decentramento e di dispersione dell'Io, che percepisce l'esperienza amorosa come una incessante perdita di identità: «E quale è di pazzia segno più espresso l che per altri voler, perder se stesso?»

(xxiv I, I -2). L'amore è una

resa all'oggetto, una forma letterale di alienazione. Gli oggetti hanno dei loro specifici spazi di aggregazione: vale la pena mettere in parallelo due luoghi, il Palazzo e il mondo della Luna, sulla base di alcune simmetrie strutturali. La più evidente è che nel primo ci sono sol­ tanto Soggetti cercatori, nel secondo solo Oggetti perduti: quel rapporto intrinseco di cui parlavamo è qui radicalmente divaricato. La natura fantasmatica dell'oggetto trionfa in tutta la sua evidenza nel palazzo di Atlante, dove «armi, cavalli, donne sono varianti simboliche di un'unica figura, l'oggetto di desiderio conteso da molti rivali» ( Sangirardi, 2006, p.

(canti

I43). Se il palazzo del vecchio mago è, alla metà della prima parte XII-XIII ) del Furioso - segnata dal turning point della follia (canti

OGGETTI

XXIII-XIV

)

- il luogo di affermazione per eccellenza della quete materiale

(tutto gira intorno a un corpo volatile, evanescente), il mondo della Luna diventa specularmente, nella metà della seconda (canti

)

xxxiv-xxxv ,

la

concretizzazione della quéte conoscitiva. Nel primo caso persone in carne ed ossa (Angelica e Ruggiero) si riducono a parvenze illusorie, nel secondo, con processo inverso, prendono corpo delle astrazioni. Davanti agli occhi curiosi di Astolfo si dispiega un inventario di strani materiali (vesciche, ami,

lacci, cicale, panie ecc.) in cui si è depositata la sostanza di una corposa inten­ zione allegorica. Il mondo lunare è quello che esprime fisicamente il dépla­

cement del Soggetto materializzando la radicale alterità delle mete rispetto

ai loro cercatori: se sulla terra esistono solo soggetti delusi, la luna è il luogo dove esistono solo oggetti perduti. Quello spazio metafisico si presenta agli occhi dello stralunato (è il caso di dirlo) visitatore come un immane deposi­

to di oggetti, ma più che a un magazzino assomiglia a una discarica perché, oltre che perduti, essi sono guasti, privi di funzionalità - orlandiani oggetti desueti (Orlando, 1993). Siamo di fronte a quello che Segre (1966, p. 93) ha definito un «laico vanitas vanitatum». Nell'esplorazione del mondo lunare culmina un movimento di trasfor­ mazione dell'oggetto che ha gradualmente attribuito alla ricerca un carat­

tere di investigazione intellettuale e di acquisizione conoscitiva. Il vallone è una sorta di summa o microcosmo dell'inchiesta perché ciò che costituisce l'oggetto della riflessione ariostesca altro non

è che una rassegna delle di­

verse intraprese umane catalogate sotto l'insegna dell'universale follia. La

ricerca condotta dal poeta attraverso Astolfo è tutta interna all'oggetto che

analizza, una quéte delle umane quétes. Nell'atto di concludersi felicemente con la riacquisizione del senno di Orlando, l'inchiesta si ripiega e si inter­ roga su sé stessa. Sulla Luna appare dunque in tutta evidenza come la vicenda dell'Og­ getto nel Furioso sia legata alla tendenziale trasformazione del meccanismo narrativo dell'inchiesta col passaggio, dalla prima alla seconda parte del poema, da ricerca materiale a ricerca conoscitiva (Zatti, 1990 ). L'obbiettivo della ricerca non

è tanto un oggetto sfuggente,

quanto una verità proble­

matica di tipo intellettuale o morale da acquisire. Si trasforma conseguen­ temente l'erranza cavalleresca e con essa lo statuto dell'oggetto: l'inchiesta materiale (movimento fisico alla ricerca di un oggetto fisico) lascia sempre più spazio all'inchiesta conoscitiva (movimento intellettuale all'esplora­ zione di una realtà problematica). L'antico modello cavalleresco della quéte non è affatto scomparso nell'inchiesta ariostesca ma, nel dipanarsi del rac­

conto, ha prestato le sue forme a qualcosa di diverso. Il tema della follia sal-

SERGIO ZATTI

da mirabilmente il principio dell'erranza che governa la quéte materiale dei cavalieri con gli esiti drammatici dell'errore nell'ordine intellettuale, in un intreccio che fin dal primo canto accoppia le vane ambages nella selva agli inganni di valutazione intellettuale («ecco il giudicio uman come spesso erra»,

I

7, 2) .

La stessa conclusione dell' inchiesta di Orlando, legata ali' inseguimen­ to fisico di un oggetto d'amore, è piuttosto una dolorosa certezza (il tradi­ mento dell'amata) che un materiale ritrovamento, una verità tragicamente posseduta invece che un oggetto felicemente acquistato.

È da considerarsi

il vero turning point del poema (e non solo per la sua geometrica centrali­ tà), perché qui il percorso che conduce all'alienazione mentale è punteg­ giato, nel suo drammatico crescendo, dal ritrovamento in serie di oggetti materiali: graffiti, versi scolpiti, bracciali. L'oggetto-Angelica è assente, ciò che Orlando vede sono solo i vestigi del suo passaggio. Del resto, lungo tutto il poema il corpo di Angelica è come evaporato sull'onda di metafore topiche della tradizione della lirica amorosa: rosa, gemma, agnella adibi­ te sempre ad esprimere una figuralità dell'Assenza. Esemplare la parabola che ne incornicia la presenza nel poema, che si apre con Ferraù (che la sostituisce con un elmo,

I

24 ) e si chiude con Orlando che la scambia con

la giumenta che la trasporta e di cui il pazzo si appropria per metonimica sostituzione («Con quella festa il paladin la piglia, l ch'un altro avrebbe fatto una donzella»,

XXIX

68, 1-2 ) . L'oggetto sostitutivo si è condensato

nella sua metafora. A ridosso dell'episodio troviamo un'ironica conferma del gioco di in­ tellettualizzazione cui il linguaggio ariostesco sottopone i propri oggetti in quella che è probabilmente la più maliziosa quéte erotica del poema, la storia di Fiordispina (canto xxv ) . Siamo al centro di una "inchiesta" fra le più perturbanti del Furioso: l'oggetto assente è qui un sesso maschile. Una sola cosa manca alla felicità della fanciulla, innamoratasi di Bradamante che in principio ha creduto un uomo, e la sostituzione del maschio Ricciardetto alla gemella consente di sopperire a questo "difetto di naturà'. A cercar con­ ferma della favola di metamorfosi raccontatale dall' ingegnoso Ricciardetto per giustificare il miracoloso mutamento di sesso, la fanciulla spinge la ma­ no sotto gli abiti del travestimento femminile del maschio finché «trovò con man la veritade espressa»

( xxv 6 s). Anche qui l'oggetto (mancante) è

indispensabile alla realizzazione di un desiderio che appare altrimenti ini­ bito alla meta: un oggetto anatomico che differenzia due identità per altri versi indistinguibili; ma è questa differenza che decide appunto fra il tor­ mento e l'estasi del personaggio. L'oggetto perduto e ritrovato: la dialettica

OGGETTI

consueta del poema è messa qui in sorridente caricatura. E dal punto di vista della gestione del racconto è l'oggetto narrativo indispensabile a colmare un vuoto, cioè a portare a termine la storia che Boiardo aveva lasciato in una impasse senza via d'uscita.

6.

Ci tocca ora di entrare nel merito di un discorso delicato che abbiamo più volte sfiorato parlando genericamente di oggetti, puntando decisamente l'attenzione su Angelica. Se ammettiamo che gli animali (e, specificamente, le cavalcature) possono essere considerati oggetti, in quanto partecipano al vertiginoso gioco dello scambio, come non ammettere che lo stesso avvie­ ne sostanzialmente delle donne, oggetto privilegiato di una quete tutta, o quasi, orientata al maschile? Se giudichiamo esclusivamente sulla base della loro più comune funzione nel poema non vi possono essere dubbi. Anche loro vengono prese, scambiate e usate nella stessa misura in cui lo sono gli oggetti; anche di loro c'è chi si reclama proprietario e chi gli contende que­ sto titolo. E del resto siamo perfettamente in linea con la cultura del tempo: nel regime patriarcale che governa il mondo cavalleresco le donne sono per lo più l'abituale corredo del patrimonio maschile e anzi rappresentano il pezzo più pregiato del bottino di conquista. Le premesse di questa condizione oggettuale sono poste fin dalla si­ tuazione liminare perché Angelica eredita la funzione boiardesca di pre­ mio messo in palio da Carlomagno per il più valoroso dei due pretendenti Orlando e Rinaldo («del vincitor mercede»,

I 10,

2 ) . Tutto il primo can­

to, dove Angelica viene contesa da Ferraù, Rinaldo e Sacripante in rapida sequenza, definisce programmaticamente questa condizione, dando luogo a uno schema triangolare che sarà più volte reiterato nel poema: Angelica disputata (fra Orlando e Rinaldo) si rinnoverà, fra le altre, in Doralice (di­ sputata fra Rodomonte e Mandricardo) e ancora in Bradamante (disputata fra Ruggiero e Leone). Proprio come le armi sospese a un ramo in atte­ sa dell'esito di un duello (cfr. Orlando con Ferraù, Mandricardo,

XXIII

XII

46, e Orlando con

8I): elmo, spada o donna, fa lo stesso.

Fin dal primo canto nella celebre lode della rosa non colta che sprigio­ na tutto il fascino della sua "verginità'', il poeta, per bocca di Sacripante, esalta le virtù della seduzione («La verginella è simile alla rosa»,

I

42, I ) ,

sottolinea cioè che il valore detenuto da un oggetto consiste soprattutto nella capacità di tener vivo un desiderio, ovvero una distanza, negandosi

SERGIO ZATTI

al possesso di alcuno e alimentando quindi la competizione di tutti. Salvo smentirsi maliziosamente un attimo dopo tessendo, all'opposto, l'elogio del carpe diem (« Corrò la fresca e matutina rosa l che, tardando, stagion perder potria»,

I

s8,

I-2

)

quando Angelica, che ha ascoltato nascosta il

lamento del cavaliere circasso, gli appare inopinatamente e chiede il suo aiuto. In effetti, soltanto finché la rosa-Angelica rimane inaccessibile può con­ sentire e tenere vivo il desiderio collettivo, sostenere la giostra delle rivalità. Osserviamo in questo la distanza ironica che Ariosto prende rispetto alla tradizione lirica cortese nel cui linguaggio entrambe le versioni della "rosà' si inseriscono: secondo Erich Kohler

(I976) lafin 'amor prescrive l'obbligo

di mantenere una distanza purificatrice tra il desiderio e il fine. Ariosto as­ sume questo precetto sostituendovi una laica inappagabilità del desiderio, e, sulla inibizione alla meta agognata, costruisce i meccanismi della seduzio­ ne. La privazione del bene cercato è avvertita dal Soggetto come esclusione da una comunità (immaginaria) di fortunati detentori (Sacripante: «trion­ fan gli altri, e ne moro io d' inopia»,

I 44, 4),

poiché il vantaggio di uno è

la perdita di tutti gli altri, là dove i desideri sono tutti concorrenti («sia vile agli altri e da quel solo amata», conclude amareggiato sempre Sacripante,

)

I 44, I .

Quando Angelica, oggetto dell' inchiesta comune, si innamora di

Medoro, è perduta davvero per tutti i suoi corteggiatori: l'oggetto scema di fascino con il possesso di uno e di fatto scompare di scena per la sua oggettiva perdita di funzionalità narrativa, e cioè per la simultanea caduta dei desideri altrui. A dispetto della sua centralità simbolica, la preda più ambita dai cava­ lieri ariosteschi sembra fino a un certo punto contare meno per sé stessa che per la polarizzazione delle brame altrui. Proprio per la sua evanescenza di fantasma, la donna appare come un puro strumento di mediazione destina­ to a rivelare la relazione mimetica dei Soggetti, attraverso il quale si instaura una relazione antagonistica fra due o più individui nei quali la sua bellezza elusiva ha suscitato un desiderio concorrente e ugualmente inappagabile. Certo ci sono le eccezioni rilevanti di Bradamante e di Marfisa, ma spiccano proprio in quanto eccezioni: cfr. la orgogliosa rivendicazione di Marfisa («Io sua non son, né d'altri son che mia: l dunque me tolga a me chi mi de­ sia», XXVI 79, 7-8). Se alla nostra sensibilità contemporanea questa dichia­ razione solenne può apparire come una sorta di manifesto protofemminista sbattuto in faccia all'arrogante Mandricardo- che pretende la donna, se­ condo consuetudine, come bottino di guerra dopo aver abbattuto i cavalieri che la accompagnano-non dobbiamo dimenticare la natura androgina del

OGGETTI

personaggio (quindi fieramente autonoma e indipendente ) e soprattutto che nell'universo ariostesco questa risposta corrisponde piuttosto al tema diffuso dello spiazzamento delle attese ( Carne-Ross,

1966).

Di fronte a queste oscillazioni quale è allora il vero punto discrimi­ nante fra l'essere Soggetto e l'essere Oggetto, prima ancora della questione digen der ? Si direbbe: l'avere la responsabilità della gestione di un deside­ rio, ciò che nel mondo ariostesco significa essenzialmente essere titolari di un'inchiesta (e questo è il privilegio della mascolinità, con Bradamante, che cerca Ruggiero, a costituire l'unica eccezione ) .

È su questo piano che si

giocano le questioni culturalmente più rilevanti poste dal Furioso, perché qui si intravede qualcosa che sta avvenendo sullo scacchiere della storia, e cioè un incipiente conflitto dei sessi, in cui si profilano le potenzialità che ha un Oggetto di emanciparsi da una subalternità secolare per promuoversi a Soggetto.

È quanto accade ad Angelica:

il personaggio è l'unico che compie una

vera trasformazione di statuto grazie alla sua identità mobile sapientemente giostrata dal narratore sul confine dei due ruoli. li solo momento in cui la sua fuga si interrompe è quando, incontrando Medoro ferito e innamoran­ dosene a prima vista, cessa di essere una preda braccata dalla muta dei cac­ ciatori e assume la responsabilità di un desiderio finalmente gestito in prima persona, smettendo di essere il mero specchio delle altrui brame. Sposare Medoro, fuggire con lui in Oriente e farlo sovrano del suo regno diventerà da quel momento l'inchiesta che muove il suo cammino. Con questa scelta per l'umile soldato saraceno contro tanti valorosi campioni che aspirano ai suoi favori, la preda divenuta predatrice sconvolge l'assetto dell'ordine ca­ valleresco: Angelica spiazza il sistema patriarcale sia, prima, come Oggetto inaccessibile che, dopo, come Soggetto desiderante. Ed è davvero sintoma­ tica la reazione del narratore, che prima infligge ad Angelica fuggente dal pazzo Orlando una ben poco dignitosa caduta da cavallo

(xxix 61-66) e poi entra direttamente in campo per congedarla sbrigativamente ( «lo so­ no a dir tante altre cose intento l che di seguire questa non mi cale», xxx 17, 1-2 ) e dedicarle, quasi a risarcimento dell'ordine patriarcale violato, una invettiva piena di rancore degna di quel Rodomonte di cui ha appena de­ nunciato il rozzo pregiudizio maschilista: D eh, maledetto sia l'annello et anco il cavallier che dato le l'avea! che se non era, avrebbe Orlando fatto di sé vendetta e di mill'altri a un tratto.

2.97

SERGIO ZATTI

Né questa sola, ma fosser pur state in man d'Orlando quante oggi ne sono; ch'ad ogni modo tutte sono ingrate, né si trova tra loro oncia di buono (O/XXIX 73, s-8; 74, 1-4).



Questa ambivalenza di statuto dell'oggetto femminile ben si rispecchia nelle oscillazioni di giudizio sulle donne, ora benevolo ora critico, che caratterizza il narratore e tanto sconcerta il lettore per le sue incoerenze. Come ricordia­ mo, sono numerosi gli esordi di canto dedicati al tema (cfr. Ascoli,

Proemi,

e Weaver, Filoginia e misoginia). In queste sedi proemiali si osserva in modo manifesto come anche il narratore, non diversamente dai suoi personaggi, sia titolare di una inchiesta. Mentre i cavalieri inseguono i corpi fisici di donne fedeli o traditrici, il narratore dà per meta alla sua inchiesta un problema in­ tellettuale, un oggetto cognitivo: e questo oggetto è proprio la natura mobile ed elusiva del femminino, ora approvata ora vituperata all' interno di quel dibattito storicamente fondamentale e tipicamente controverso che va sotto il nome di querelle deJèmmes. Se per i personaggi la donna è l'obbiettivo di ricerca più ambito, la sua natura misteriosa e inafferrabile costituisce un non meno costante oggetto di interrogazione per il poeta. In ciò si manifesta un singolare intreccio fra modello trattatistico contemporaneo (espresso dalla vasta produzione cortigiana sul tema, come mostrano le sillogi di Zonta, I9I3 ) e modello diegetico dell' inchiesta fondato sull' "errore" e rispecchia­

to in quella modalità tipicamente ariostesca dell'analizzare come "cercare" ; dell'oscillare nel giudizio definitorio come "errare qua e là'', trascorrendo dal­ la lode al biasimo; del pervenire alla verità come "trovare". Abbiamo visto come quello stesso narratore che, da un lato, promuove il riscatto femminile dalla sua condizione subalterna, dall'altro, dà voce allo scandalo maschile e allo spirito vendicativo di fronte alla scelta anticon­ formista compiuta dalla bellissima principessa del Catai: non solo questa sconvolge l'ordine patriarcale con l'arrogarsi la titolarità del desiderio, ma dimostra per sovrapprezzo come l' imprevedibilità di tale desiderio tocchi le sue punte più estreme quando abbatte, oltre che l'ordine del maschio, le gerarchie di classe attuando lo sfregio supremo, e cioè orientando le scelte sentimentali verso il basso sociale: oltre a Medoro, pensiamo a tutti quanti gli attori della novella del canto

XXVIII:

al servo di Jocondo, al garzone

di Fiammetta, al nano della regina, preferiti a uomini bellissimi, ricchi e

OGGETTI

potenti. Questi personaggi minori stanno a rappresentare, nella prospet­ tiva maschile, gli esiti di un desiderio deviato, in cui si cela l'enigma del piacere femminile, e la volubilità capricciosa delle sue scelte (Izzo,

)

2012 .

Per quanto confinata al suo ruolo di oggetto dentro il sistema cavalleresco, la donna resta sempre potenzialmente eversiva rispetto all'ordine istituzio­ nale vigente per la sua capacità di spiazzare le attese in un orizzonte storico che si va colorando di futuro.

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300

Ottava di Veronica Copello

I.

Salvo sporadiche - ma tutt'altro che ingenue - osservazioni precedenti (De Sanctis, 1958, p. 519; Croce, 1920, p. 46; Baldini, 1941 ) , l'indagine

Furioso è relativamente recente. Con la pubblicazione dei Frammenti autografi dell' «Orlando furioso» (Debenedetti, 1937 ) si riac­ sull'ottava del

cese l'interesse per lo studio delle varianti, autografe o meno, che inter­ corrono fra la prima e l'ultima edizione del poema: l'analisi variantistica ha permesso di mettere in ulteriore evidenza - per limitarsi agli aspetti puramente formali -le modalità di accentazione del verso (Contini, 1974, p. 236; poi Dal Bianco, 2007 ), l'importanza di enjambements e dittologie (Turolla, 1958; Carini, 1963 ) , l'incidenza delle enumerazioni e le prefe­ renze sintattiche (Blasucci, 2014 ) , le scelte linguistiche (Boco 1997-2005 ) , l'uso delle similitudini (Capello, 2013 ) . Tutti questi elementi hanno con­ tribuito a una descrizione delle peculiarità dell'ottava del Furioso, con una particolare attenzione alla tradizione precedente (specie Baiardo e Poli­ ziano), alla definizione della sua struttura e dei conseguenti effetti stilistici (oltre ai citati: De Robertis, 1950; Fubini, 2016, ma si tratta di un corso universitario del 1956-57; Saccone, 1959; Limentani, 1961; Cabani, 1990; Praloran, 2009 ). In queste pagine si farà costante riferimento ai contributi dell'ultimo secolo, consapevoli che la ricchezza ivi contenuta non è qui riproducibile.

2.

L'ottava (o ottava rima) è una stanza costituita da otto endecasillabi rimati ABABABCC. Può avere vita indipendente, e allora prende il nome di ri­ spetto (o strambotto), o può costituire una sequenza che si definisce ora can301

VERONICA COPELLO

tare, ora stanze, ora poema. La sua origine risale al

XIV

secolo e non si può

ancora stabilire con certezza se debba attribuirsi all'ingegno di Boccaccio (che se ne servì per il Filostrato, la Teseida e il Ninfole Fiesolano) o piutto­ sto alla tradizione canterina. Fatto è che l'ottava, pur essendo più simile alla struttura chiusa del sonetto che a quella aperta della terzina dantesca, diviene presto la forma metrica privilegiata per i lunghi racconti, inizial­ mente soprattutto di ambito popolare: i numerosi poemi del Quattrocento che ci sono giunti anonimi testimoniano un impiego assai diffuso di tale metro, semplice da memorizzare e da recitare, tanto da consentirne una fortuna anche in ambito teatrale (per esempio nelle sacre rappresentazioni dei fiorentini Feo Belcari e Castellano Castellani).

È nell'alveo dei poemi

quattrocenteschi che si inseriscono il Morgante di Pulci e l' Inamoramento

de Orlando di Boiardo, opere colte ormai concepite sostanzialmente per la lettura. La parabola del successo dell'ottava vede l'apice con l'Orlando

furioso di Ariosto e la Gerusalemme liberata di Tasso, per terminare poi nel XVII

secolo, dopo l'Adone di Giovan Battista Marino e la Secchia rapita di

Alessandro Tassoni (Pozzi, 1974, p. 128 ) .

In questa breve rassegna si sono volutamente tralasciate le Stanze per

la giostra di Angelo Poliziano, che gli studi ariosteschi hanno spesso in­ dividuato come l'altro polo - rispetto a quello dei cantari e dei poemi ca­ vallereschi - della tradizione dell'ottava. Prendendo spunto dalla Giostra di Pulci, Poliziano si era servito di questo metro per comporre un testo elogiativo e aveva mutato in lirico-descrittive le doti narrative dell'ottava. Secondo Gianfranco Contini, per Ariosto si è trattato «di vincere questa scommessa: mantenere la conquista lirica del Poliziano e non rinunciare al carattere narrativo» del poema cavalleresco e di Boiardo in particolare (Contini, 1974, p. 237 ) . Con questa affermazione numerosi studiosi hanno dovuto confrontarsi, per giungere poi sostanzialmente a confermarla (De Robertis, 1950, p. 14; Saccone, 1959, p. 215; Limentani, 1961, p. 22; Pozzi,

1974, p. 129; Blasucci, 2014, pp. 4-6 ) .



Sostanziali novità che contraddistinguono Ariosto dai suoi predecessori so­ no l'uso consapevole di una sintassi elaborata e la sua relazione con la forma metrica in cui si inserisce. La sintassi del Furioso, modellata sui classici latini mediati da Boccaccio, presenta un grado di complessità e di subordinazione raro se non ignoto ai cantari o ai poemi cavallereschi, nei quali dominano

302

OTTAVA

le frasi giustapposte paratatticamente. Alle strutture sintattiche di chi lo ha preceduto, Ariosto ama associare periodi che si estendono lungo l' intera arcata dell'ottava e che talvolta coinvolgono persino la stanza successiva . Tale propensione per la «poetica della dilatazione» sintattica ( Praloran,

2009, p. 212) si esprime tramite la prolessi della subordinazione, ma anche con semplici relative e coordinate. Vediamo qualche esempio ( qui e altrove i corsivi sono miei ) . Alcina, poi ch'a' preziosi odori dopo gran spazio pose alcuna meta, venuto il tempo che più non dimori, ormai eh' in casa era ogni cosa cheta, de la camera sua sola usci fuori; e tacita n'andò per via secreta dove a Ruggiero avean timore e speme gran pezzo intorno al cor pugnato insieme

( Ofvn 26).

(A/cina) è immediatamente presentato al lettore in apertura del primo verso; per trovare però il verbo reggente (usci) è necessario attendere il v. S· Nel mezzo si trovano una temporale (poi eh: .. pose, vv 2-3), una cau­ sale (venuto, v. 3), una relativa (che... dimori, v. 3), un'altra temporale (ormai eh: .. era, v. 4); alla principale fanno poi seguito una coordinata (n 'ando, v. 6) e una relativa (dove... avean... pugnato, vv 7-8). L'ottava, quindi, è inte­ Il soggetto

.

.

ramente occupata da un singolo periodo sintattico, nel quale le subordinate che separano il soggetto dal verbo

( vv 1-4) hanno una .

«funzione allargan­

te» ( Cabani, 1990, p. 13). Si veda ora, per contrasto, un'ottava dell' Inamo­

ramento de Orlando di Boiardo, scelta casualmente: Il suo destrier è copertato a pardi, Che sopraposti son tutti d'or fino. Soletto ne ussì fuor sancia riguardi, Nulla temendo se pose in camino. Era già poco giorno e molto tardi Quando egli gionse al Petron de Merlino; E ne la gionta pose a boca il corno, Forte sonando, il cavaliera adorno

(In.

I I

62).

(e, v. 1); ad essa segue una proposizione rela­ (che... son, v. 2) e il periodo è già concluso. Il nuovo periodo vede imme­ diatamente il verbo reggente (usci, v. 3) ed è ampliato da una coordinata per asindeto (se pose, v. 4) solo preceduta da una brevissima relativa (temendo, La principale è subito evidente

tiva

VERONICA COPELLO

4), per giungere presto a conclusione. Al v. s comincia un terzo periodo, di cui era è la principale e gionse ( v. 6) la temporale; qui una coordinata (pose, v. 7) e una modale (suonando, v. 8) dilatano appena l'arco sintattico. v.

Mentre Boiardo si serve raramente di strutture estese e articolate, prefe­ rendo la paratassi, Ariosto aumenta considerevolmente l'incidenza di tali forme sintattiche complesse, spingendosi anche a unire in un solo periodo due ottave intere: Cerere, poi che da la madre Idea

tornando in fretta alla solinga valle, là dove calca la montagna Etnea

TEMPORALE IMPLICI TA REL ATIVA

al fulminato Encelado le spalle, la figlia non

TEMPORALE IMPLICI TA

trovo dove l' avea

TEMPORALE+ REL ATIVA

lasciata fuor d'ogni segnato calle; fatto eh 'ebbe alle guancie, al petto, ai crini e agli occhi danno, al fin svelse duo pini;

TEMPORALE PRINCIPALE

e nel fuoco gli accese di Vulcano,

COORDINATA

e die lor non potere esser mai spenti:

COORDINATA+ COMPLETIVA

e portandosi questi uno per mano

TEMPORALE

tiravan dui serpenti, cerco le selve, i campi, il monte, il piano,

sul carro che

REL ATIVA COORDINATA

le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti, la terra e ' l mare: e poi che tutto il mondo

cerco di sopra, ando al tartareo fondo ( Ofxn 1-2).

TEMPORALE+ COORDINATA

La maggiore complessità sintattica è evidente: senza entrare nei dettagli,

( Cerere, XII 1, 1 ) e (svelse, XII 1, 8), dalla quale dipendono poi tutte le

basti osser vare la distanza che intercorre fra il soggetto il verbo della principale

coordinate dell'ottava seguente.



È

evidente l'abilità con cui Ariosto sa gestire un'arcata sintattica di una

tale estensione. Occorre poi prendere coscienza di quanto la distribuzione della sintassi condizioni la struttura dell'ottava: rispetto alla disposizione dei periodi all'interno dei versi, si possono avere ottave scandite in modo assai differente. Nell'esempio che segue sono presenti due periodi sintattici, ciascuno disteso su una quartina:

OTTAVA

Alquanto malagevole et aspretta per mezzo un bosco presero la via, che oltre che sassosa fosse e stretta, quasi su dritta alla collina gia. Ma poi che furo ascesi in su la vetta, usciro in spaziosa prateria, dove il più bel palazzo e 'l più giocondo vider, che mai fosse veduto al mondo

Il modello

( Ofvn 8).

4 + 4 è il più frequente nel Furioso e assume così il valore di "for­

ma base". In questo Ariosto segue una consuetudine dei poemi cavallereschi, nei quali si rinviene una preferenza spiccata per questo schema. Tuttavia, egli utilizza ogni mezzo a sua disposizione per combattere la monotonia che caratterizzava spesso il dettato dei suoi predecessori in ottave. Si legga l'esempio seguente: La bella Alcina venne un pezzo inante, verso Ruggier fuor de le prime porte, e lo raccolse in signori! sembiante, in mezzo bella et onorata corte. Da tutti gli altri tanto onore e tante riverenzie fur fatte al guerrier forte, che non ne potrian far più, se tra loro fosse Dio sceso dal superno coro

( Ofvn 9 ).

In questa ottava uno degli strumenti di cui Ariosto si ser ve è il forte enjam­

bement tra i vv. s-6 (tante l riverenzie), con cui muta improvvisamente l'an­ damento piano di un discorso che si stava adagiando comodamente sulla lunghezza d'onda del singolo verso ( vv.

1-4).

La rottura del ritmo -con il

senso di sospensione che ne deriva -viene solo momentaneamente risolta nel verso successivo ( v.

6)

perché il v. 7 è doppiamente spezzato: la con­

secutiva occupa solamente la prima parte dell'endecasillabo e lascia così spazio all'aprirsi di una proposizione ipotetica, di cui però si intravedono unicamente le premesse

(se).

Sarà compito del v. 8- come si vedrà meglio

in seguito -tirare le fìla di quelle dissonanze. Alle strategie retoriche messe a punto di volta in volta si aggiungono le variazioni sulla struttura stessa dell'ottava, dato che la sintassi può esse­ re teoricamente distribuita in qualsiasi modo. Tuttavia, nel Furioso si nota una netta preferenza per l'andamento in distici, e «che le ottave arioste­ sche siano costruite nella grande maggioranza su misure metriche pari, è comprovato dai frequenti paragoni, incisi, discorsi diretti, che occupano il

VERONICA COPELLO distico, la quartina, la sestina o anche l' intera ottava» (Blasucci,

20I4, p. I8). Si avranno così- in ordine di frequenza- gli schemi 4+4 (32,9%), 8 (I3,6I%), 6+2 (n,n%), 4+2+2 (10,11%), 2+2+4 (9,4%), 2+2+2+2 (8,47%), 2+4+2 (5,98%), 2+6 (3,84%), mentre solo l'I% delle ottave risponde a sche­ mi dispari ( i dati in Praloran 2009, p. 234). Occorre tuttavia precisare che lo schema 8 rappresenta un andamento del periodo ma resta, dal punto di vista metrico, un'astrazione: al suo interno si trovano partizioni sintattiche segnate da pause più brevi che ribadiscono gli altri schemi metrici. La struttura dell'ottava, per effetto dello schema rimico ABABABCC, prevede una successione di quattro distici. La rima alternata, però, lega i pri­ mi sei versi, mentre quella baciata salda fermamente tra loro gli ultimi due . La forma sintattica intrinseca dell'ottava è dunque il

6+2, e viene adottata

nel Furioso con una inconsueta frequenza: l'abilità tecnica, infatti, permet­ te ad Ariosto di costruire e gestire periodi sintattici molto più ampi di quelli che si trovano nei cantari o nei poemi cavallereschi precedenti. Si veda la descrizione di Alcina: Sotto due negri e sottilissimi archi son duo negri occhi, anzi duo chiari soli, pietosi a riguardare, a mover parchi; intorno cui par ch'Amor scherzi e voli, e eh'indi tutta la faretra searchi, e che visibilmente i cori involi: quindi il naso per mezzo il viso scende, che non truova l'invidia ove l'emende

( Ofv n 12).

L'ottava è abilmente orchestrata: il primo verso è subito arricchito dal gioco fonico sotto-sottilissimi, mentre il v. 2 vede la ripetizione esatta del sintagma

duo negri ( vv. I e 2 ) , poi replicato nuovamente in forma antitetica (duo chia­ ri, v. 2). Il v. 3 è scandito da un chiasmo ( aggettivo-verbo:verbo-aggettivo ) che fa perno esattamente tra i due emistichi dell'endecasillabo. Il v. 4 pre­ senta una dittologia in clausola, tipica marca ritmica e melodica del Furioso. Al v. 4 si riagganciano il v. s e il v. 6, nei quali due coordinate ampliano ed enfatizzano l'azione di Amore: il risultato è una sorta di enumerazione

(che... e che... e che), una figura «rappresentativa dello stesso spi­ rito del poema ariostesco» (Blasucci, 20I4, p. 45). A tale eleganza retorica

sintattica

legata all'evocativa contemplazione degli occhi di Alcina e dei loro effetti

(vv I-6) segue improvvisamente una sbrigativa chiusura sul naso della maga, banalmente perfetto ( vv 7-8). La pausa sintattica alla fi­ ne del v. 6, prevista dallo schema 6+2, accentua la differenza sia semantica

sull'osservatore

.

.

OTTAVA

( prima la bocca, poi il naso) che stilistica ( una descrizione prima lirica, poi più prosaica) presente nelle due scansioni di questa ottava. Proseguendo poco oltre nella lettura del canto

VII,

si rinviene un'altra

stanza che afferisce alla tipologia 6+2: Qual mensa trionfante e suntuosa di qualsivoglia successor di Nino, o qual mai tanto celebre e famosa di Cleopatra al vincitor latino, patria a questa esser par, che l'amorosa fata avea posta inanzi al paladino? Tal non cred'io che s'apparecchi dove ministra Ganimede al sommo Giove

(Ofvn 20).

(qual mensa, v. I) è distanziato dal verbo (potria... esser, v. s) per l'intromissione di un secondo soggetto (o qual, v. 3). Dopo il distico

Il primo soggetto

iniziale, il lettore si aspetterebbe che la tensione sintattica si risolva con il sopraggiungere del verbo reggente; invece Ariosto dilata il periodo ancora per due versi, inserendo un nuovo soggetto, un nuovo paragone, insomma una nuova domanda retorica, mantenendosi all'interno della medesima struttura. Non ha bisogno di ripetere il soggetto né di anticipare il verbo: è sufficiente ripetere il qual del primo verso mutandone la funzione gram­

qual ( v. 3) si rivela essenziale per la riuscita dell'ottava. Posto quasi in incipitdel secondo distico, esso ripete anaforicamente il qual in apertura del v. I e marca così la suddivisione sintattica che intercorre fra il v. 2 e il v. 3· Allo stesso tempo,

maticale, da aggettivo a pronome. E proprio questo secondo

però, rinforza anche l'attesa del secondo termine di paragone, che dovrebbe essere introdotto dal

tal del v.

7

(qual... qual... tal...).

Ma Ariosto disillu­

de ancora le aspettative del lettore, inserendo a questo punto una nuova

Tal, infatti, introduce un paragone iperbolico che si colloca all'apice del climax di comparazioni sul quale si costruisce questa ottava, similitudine.

dalle prime due di matrice storica a quella finale di argomento mitologico. Per sostenere la lunga linea sintattica della sestina, Ariosto si serve di diversi elementi. Innanzitutto, «deve sorreggersi per forza su un numero indefinito di cesure, per sostenere l'arco; cesure di diverso tipo e grado, che punteggiano il grande respiro, concedendogli riposo e slancio» ( Saccone,

I9S9· p. 2I 6). È questo il ruolo svolto dalla breve pausa tra i vv

.

2e

3, a cui

segue la ripresa immediata del discorso. In secondo luogo, l'anafora di qual

(vv I e 3), richiamata nel tal del v. 7, garantisce coesione alla struttura logica .

del discorso, cadenzandone i passi e gli svolgimenti.

VERONICA COPELLO

La forma 2+2+2+2, grazie al suo andamento regolare e pausato, è par­ ticolarmente idonea ad accogliere contenuti lirici o descrittivi, propri di chi si sofferma a contemplare i particolari uno a uno. Non a caso è stato il modello prediletto nelle Stanze di Poliziano: qui le coppie di versi sono so­ stanzialmente giustapposte e spesso non si rinviene un disegno complessivo dell'ottava. Nel Furioso, per esempio, è il caso del corpo di Alcina, ammirato e gustato da Ruggiero in ogni suo dettaglio. L'ottava VII 1 3 descrive minu­ ziosamente la seducente bocca della maga: Sotto quel sta, quasi fra due vallette, la bocca sparsa di natio cinabro; quivi due filze son di perle elette, che chiude ed apre un bello e dolce labro: quindi escon le cortesi parolette da render molle ogni cor rozzo e scabro; quivi si forma quel suave riso, ch'apre a sua posta in terra il paradiso

(Ofvn 13).

Ariosto dedica due versi a ogni particolare. Tuttavia, nel

Furioso

l'anda­

mento per distici prevede raramente una mera giustapposizione di coppie di versi, poiché l'ottava è concepita come unitaria e in sé compiuta. Qui, per esempio, i tre avverbi quivi (v. 3), quindi (v.

s) e quivi (v. 7) posti in apertura

dei tre distici rinforzano il legame fra le scansioni metriche dell'ottava e la partizione sintattica; nello stesso momento, essi legano insieme logicamen­ te (e anaforicamente) le diverse parti (Cabani, 1990, pp. 9-10 ). Inoltre, i tre avverbi riallacciano logicamente quanto segue a quanto precede, così che una descrizione naturalmente statica acquisisce una nota dinamica. Nel Furioso, lo schema 2+2+2+2 compare, in realtà, anche in occasio­ ne di azioni concitate, per renderne la rapidità e la sequenzialità. A ben guardare si tratta sempre di descrizioni, che si fanno narrative anziché con­ templative: Di vari marmi con suttil lavoro edificato era il palazzo altiero. Corse dentro alla porta messa d'oro con la donzella in braccio il cavalliero. Dopo non molto giunse Brigliadoro, che porta Orlando disdegnoso e fiero. Orlando, come è dentro, gli occhi gira; né più il guerrier, né la donzella mira

(Ofxn 8).

OTTAVA

Ogni distico propone un soggetto differente, in un affrettato susseguirsi di eventi in cui Ariosto trova anche il tempo di descrivere per sommi capi il palazzo incantato di Atlante ( vv.

I-2); in questo entra il malvagio cavaliere ( vv. 3-4) , poi vi giunge il destriero Brigliadoro ( vv. s-6) e infine entra anche Orlando (vv. 7- 8) . La tenuta logica e stilistica dell'ottava è affidata al distico finale, in cui le riprese lessicali (Orlando del v. 6; dentro del v. 3; la donzella del v. 4; il guerrier è sinonimo del cavalliero del v. s) riallacciano le fila con i versi precedenti.



5.1.

Come per la struttura metrica dell'ottava, l'esigenza di variazione e di

continuo movimento emerge dall'analisi di qualsiasi aspetto del poema, piccolo o grande che sia, così che un discorso analogo si potrebbe fare per gli endecasillabi, la cui accentazione muta perennemente in vista di una mag­ giore dinamicità. Dal Bianco (2007) ha provato a individuare delle costanti nell'uso dell'accentazione del verso all' interno dell'ottava ariostesca . Fra queste, per esempio, si segnala la frequenza dell'accento sulla prima sillaba del v.

I,

che «si incarica di segnalare l'avvio della nuova strofa e imprime al

verso un piglio robusto» ( p.

246) ; tra le prime ottave del poema si trova: «Piacciavi, generosa Erculea prole» ( I I, 3); «Voi sentirete fra i più degni eroi» ( I I, 4); «Nata pochi dì inanzi era una gara» ( I I, 8). Oppure, «uno dei segreti della soavità dell'ottava» ( Dal Bianco, 2007, p. 203) è la scarsa incidenza- nei primi tre versi dell'ottava- degli accenti contigui (quali per esempio in I 70, 6 fra lascio e poco: «il Saracin lasciò poco giocondo» ) ; fatto che garantisce un «alleggerimento», mentre le «impuntature dovute agli scontri accentuali» invece sono «adibite a conferire una maggior varietà e vitalità ritmica alla seconda parte dell'ottava»

(ibid.). In ogni caso, il per­

petuo mutamento degli accenti rimane sottomesso al principio ordinatore dell'ottava come unità compiuta in sé.

5.2. In una forma metrica dallo schema rimico prefissato le parole collocate in clausola assumono necessariamente un ruolo particolare. Dante o Pulci si erano serviti dell'energia sprigionata dalle parole-rima, spesso valorizzate ed enfatizzate: in clausola avevano posto lemmi inusuali, o dal suono aspro, o in lingua straniera, o altisonanti, o volgari, così che l' isolamento loro con­ ferito dalla posizione metrica ne facesse risaltare le potenzialità linguistiche. Tuttavia, nel Furioso si nota un'attenzione particolare a non accentuare ul-

VERONICA COPELLO

teriormente la forza intrinseca dei vocaboli in rima: «nella poesia dell'Ario­ sto, come il singolo verso non deve isolarsi, così la parola in rima non deve mettersi in evidenza» (Fubini,

2016) .

Il procedimento è particolarmente

evidente quando Ariosto cita- appunto- Dante o Pulci (Blasucci,

2014,

pp. 55- 97, 99-119). Per esempio, dove «il Pulci tende a esibire in punta di verso il termine esotico o comunque raro (''trombe e trombette e nacchere e busoni" [Morg., XVI 25, 3], "e non ci gridan poi talacimanni" [Morg., XIX 104, 7 ]), Ariosto lo ritrae per lo più all' interno, con un tipico procedimento di occultamento o mimetizzazione, che potremmo senz' altro definire antie­ spressionistico (''Corni, bussoni, timpani moreschi" [0/XXVII 29, 1], "e di talacimanni un gridar d'alto"[O/XVIII 7, 6])» (Blasucci,

2014, p. 104). Le

parole di Ariosto scivolano senza incidersi nell'orecchio del lettore, come usano fare quelle di Dante, perché nel Furioso ogni elemento sembra abdi­ care alla propria individualità a favore di un'armonia complessiva: della rima nel verso, del verso nell'ottava, dell'ottava nel canto, del canto nel poema. Alla stregua delle rime sono trattati anche citazioni e prelievi da testi precedenti, dissimulati nel fluire dei versi e raramente ostentati (quando accade, vi sono precisi intenti autoriali). Su di essi si constata «il trionfo del ritmo[...]:

l'Orlandofurioso è una invenzione continua di ottave, che poi è

una cosa sola con la varietà infinita del mondo. Nel ritmo l'osceno depone la sua impurità, la tragedia il suo strazio, il riso l'esser pungente, e tutto acquista una singolare armonia» (Fubini,

2016).

5·3· All'interno del sistema dell'ottava ariostesca, gli enjambements non mi­

rano a enfatizzare le parole su cui si imperniano. Non hanno per lo più una funzione lirico-emotiva né prosastico-discorsiva, bensì «essenzialmente ritmico-melodica» (Blasucci, due enjambements

2014, p. 33 ) . Si veda l'ottava VII 19, con i suoi

(vv. 3-4 e 5- 6):

A quella mensa citare, arpe e lire, e diversi altri dilettevol suoni faceano intorno l'aria tintinire d'armonia dolce e di concenti buoni. Non vi mancava chi, cantando, dire d'amor sapesse gaudii e passioni, o con invenzioni e poesie rappresentasse grate fantasie

( OfVII I 9).

I primi due versi fluiscono assai pacati e pausati, complici l'elenco «citare,

arpe e lire l e [...] suoni» e la densità di accenti del v.

310

1.

Il terzo verso porta

OTTAVA

a conclusione il periodo sintattico solo illusoriamente, perché l'inarcatura dopo l'evocativo tintinire (vv 3-4 ) costringe a proseguire fino al termine della .

quartina, dove aspetta un meritato riposo. La necessità di variare il ritmo si traduce in una inattesa divergenza tra metro e sintassi. Gli

enjambements,

infatti, «frangendo la linea regolare del movimento ritmico, lo mettono mo­ mentaneamente in pericolo, creano uno scompenso nel suo svolgimento: e si direbbe che l'Ariosto goda di quella sospensione, di quello scompenso, perché poi più atteso, più desiderato giunga il rientro finale nell'alveo, il vit­ torioso coincidere del periodo logico col periodo strofico» (Blasucci, 2014, p. 33 ) . Un discorso in parte analogo concerne il v. 5: con l'inciso cantando il verso ha già avuto la sua pausa, e la corrente melodica può ripartire subito, senza necessità della sosta versale. Qui l'inarcatura

(vv 5- 6 ) genera un'attesa .

di senso decisamente più spiccata. Il discorso si fa subito più intricato, perché all'inarcatura si aggiungono due iperbati intrecciati fra loro

(dire... sapesse;

d'amor... gaudii e passioni); ma la dietologia in clausola al v. 6 ristabilisce l'or­ dine, poi confermato dal distico finale, che con i suoi plurisillabi monoaccen­ tati procede pacifico al termine della stanza. In questo senso, «la funzione espressiva

dell'enjambement [ ... ]

non andrà riguardata solo localmente, ma

anche in relazione a tutto l'organismo strofico, e considerata in ultima istan­ za nella sua natura di episodio ritmico dell'ottava» (Blasucci, 2014, p. 36 ) . In particolare, l'inarcatura dopo il v. 7 contribuisce ad accelerare ulte­ riormente la chiusa, resa già secca dalla rima baciata: Da tutti gli altri tanto onore e tante riverenzie fur fatte al guerrier forte, che non ne potrian far più, se tra loro fosse Dio sceso dal superno coro

( Ofvu 9, s-8).

5·4· Le figure retoriche strutturalmente bipartite (come dittologie, paral­

lelismi, chiasmi, similitudini) hanno un'incidenza notevole nel tessuto del

Furioso. Esse sono lo strumento privilegiato per ottenere «l'esatta simmetria delle parti» (Carini, 19 63 ) e hanno dunque una funzione ritmico-melodica, più che semantica. Mirano, cioè, a determinare il tempo di un verso, specie la clausola (Turolla, 1958, p. 5 ) , più che a precisare il senso di un vocabolo o a circostanziare un'azione. Ariosto ama aggiungere vocaboli per sfumare un'immagine o una parola diluendole in un contesto più ampio, dove le priorità mutano radicalmente e rispondono a un principio soprattutto for­ male (Saccone, 1959, p. 221; Blasucci, 2014, p. 76; Copello, 2013, pp. 47-52 ) . Ali' apice di tale propensione sta l'enumerazione, che potrebbe essere la

3II

VERONICA COPELLO

figura-simbolo dello stile del Furioso: ora pacata e descrittiva, ora concitata e narrativa ma sempre ordinata, essa racconta il mondo nelle sue molteplici sfaccettature rinunciando a una visione monolitica. Allo stesso modo in cui non vi è più una singola trama, così non si contempla più un solo oggetto, ma due, o quattro, o sei. Si vedano queste due ottave sintatticamente con­ nesse, a proposito dei piaceri di Ruggiero e Alcina: Non è diletto alcun che di fuor reste; che tutti son ne l'amorosa stanza. E due e tre volte il dì mutano veste, fatte or

ad una, ora ad un 'altra usanza. e sempre stanno infeste, in giostre, in lotte, in scene, in bagno, in danza. Or presso aifonti, all'ombre de' poggetti, Spesso in conviti,

leggon d'antiqui gli amorosi detti;

or per l'ombrose valli e lieti colli vanno cacciando le paurose lepri;

or con sagaci cani i fagian folli con strepito uscir fan di stoppie e vepri; or a' tordi lacciuoli, or veschi molli tendon tra gli odoriferi ginepri;

or con ami inescati et or con reti turban a' pesci i grati lor secreti

( Ofvn 31-32).

Qui l'enumerazione sembra essere l'equivalente retorico dei molteplici pia­ ceri dei due amanti

(31, 1-2),

tutti contemplati ed elencati dal poeta. Il nu­

mero investe la frequenza di tali diletti

(31, 3), gli spazi (31, 4), le attività (31, s-6), gli scenari (31, 7). Ma a questo punto l'enumerazione ha già contagiato

anche la sintassi, al culmine di un crescendo che l' ha vista occupare un'e­ stensione sempre maggiore (un emistichio: 31, 1-2; quasi un intero verso: 31, 3; due versi: 31, s-6): l'avverbio or che apre i versi 31, 7; 32, 1; 32, 3; 32, se 32, 7 (replicato anche all'interno del verso) con cadenza puntuale marca l' av­

vio di cinque distici consecutivi, introducendo altrettante attività ludiche.

È qui

particolarmente evidente come Ariosto si serva dell'enumerazione

per consolidare la struttura dell'ottava, per scandirne le sottounità e per garantirne la coesione ultima. S·S· Un altro dispositivo retorico assai frequente nel Furioso è la ripresa in­

trastrofìca, vale a dire la ripetizione di uno o più termini collocata in zone chiave dell'ottava. Così si legge di Ariodante e Ginevra:

312

OTTAVA

Intese prima, che per gran dolore ella era stata a rischio di morire (la fama andò di questo in modo fuore, che ne fu in tutta l'isola che dire): contrario effetto a quel che per errore credea aver visto con suo gran martire. Intese poi, come Lurcanio avea fatta Ginevra appresso il padre rea (OJVI 7 ) . La reiterazione del verbo intese del v. I al v. 7 rafforza la scansione temporale degli avvenimenti, resa esplicita negli avverbi che lo seguono

poi al v.

(prima al v. I;

7 ): Ariodante viene inizialmente a conoscenza delle sofferenze di

Ginevra e in seguito della ingiusta umiliazione che l'amata aveva dovuto subire. Tale movimento narrativo è enfatizzato dalla ripresa intrastrofica, che contribuisce allo stesso tempo a marcare e a rinsaldare la suddivisione interna dell'ottava (sestina-distico), svolgendo una «funzione di stacco/ legame tra le singole unità o sottounità metriche» (Cabani, I990, pp. 9-10 ). Poco oltre, nel medesimo canto, Astolfo giunge all'isola di Alcina in groppa all' ippogrifo:

Quivi stando, il destrier eh'avea lasciato tra le più dense frasche alla fresca ombra, per fuggir si rivolta, spaventato di non so che, che dentro al bosco adombra: efa crollar sì il mirto ove è legato, che de le frondi intorno il piè gli ingombra: crollarfa il mirto e fa cader la foglia; né succede però che se ne scioglia (O/VI 26). Anche in questo caso la ripresa lessicale si colloca in principio di due suddi­ visioni metriche, vale a dire a inizio del terzo e del quarto distico (jà crollar. ..

il mirto, v.

s;

crollarfa il mirto, v.

7 ), a sostegno della struttura dell'ottava.

La prima occorrenza si inserisce nel periodo sintattico iniziato al v. I come una delle molte azioni dell' ippogrifo; fra queste la seconda occorrenza ne evidenzia una in particolare, che si rivelerà centrale per la narrazione (sa­ rà proprio quella scossa data al mirto a innescare il racconto di Astolfo) e ne rappresenta il corrispettivo retorico: il ripetersi verbale deli'azione dice del reiterato tentativo dell'ippogrifo di liberarsi, senza però riuscirvi (v.

8).

Inoltre, a ben guardare, vi è un'altra forma di ripresa intrastrofica, di tipo sinonimico: il contenuto semantico del v. 6 (le foglie del mirto cadute in

VERONICA COPELLO

terra) è infatti ripreso dal secondo emistichio del v. 7 («fa cader la foglia»). Dunque è l' intero distico dei

vv

.

s-6

a essere ribadito, prima con una ri­

presa lessicale precisa, poi con una sinonimica. In questo modo si rinsalda il legame fra il periodo sintattico che investe tutta la sestina e le tre brevi frasi coordinate che occupano il distico finale, dando all'ottava un senso di compiutezza. Infatti, «il frequente ricordo di elementi connettivi in punti nevralgici della partizione metrica [ ... ] risponde esattamente, traducendola sul piano formale, all'esigenza di conservare un carattere di chiusura e au­ tonomia alla singola unità compositiva» (Cabani, 1990, p. 9 ).

6.

Vi è un ultimo aspetto che riguarda "l' interno" dell'ottava ariostesca e che può determinarne anche "l'esterno": esistono zone dell'ottava che tendono a specializzare la loro funzione nel sistema stilistico e narrativo del poema (Praloran, 2009, p. 2oo).

li distico finale, per esempio, si caratterizza spesso

per il suo andamento fluido e rapido, che risolve la tensione accumulata­ si nelle volute ipotattiche della sestina. Giuseppe De Robertis ha parlato della sestina come di un «tempo scorrente», di «una tesi prolungata», e del distico conclusivo come di un «tempo raccorciato», di «un'arsi scat­ tante» (De Robertis, 1950, p. 14) . La differenza è dovuta innanzitutto al sistema rimico: alternato (e quindi corrente e narrativo) il primo, baciato (e quindi chiuso e rapido) il secondo. La rima baciata ha un effetto «di bru­ sco mutamento non solo ritmico ma di clima psicologico e intellettuale» (Calvino, 1974, p. 73 ) , così che gli ultimi due versi della stanza diventano la sede privilegiata per ospitare proverbi, motti, iperboli, espressioni comiche o ironiche (Blasucci, 2014, p. 22 ) . Per esempio, l'ottava che narra gli amori di Ruggiero e Alcina è costruita su una netta divisione 6+2: Non così strettamente edera preme pianta ove intorno abbarbicata s'abbia, come si stringon li dui amanti insieme, cogliendo de lo spirto in su le labbia suave fior, qual non produce seme indo o sabeo ne l'odorata sabbia. Del gran piacer ch'avean, lor dicer tocca; che spesso avean più d'una lingua in bocca

La sestina scorre leggera grazie ai tre

( Ofvn 29 ) .

enjambements ( vv

.

1-2, 4-5,

s-6).

La

OTTAVA

descrizione è lirica, e ogni riferimento agli aspetti carnali è sfumato nel rife­ rimento classico della similitudine

(vv

.

I-2:

cfr. Orazio, Ep., xv s-6; Ovidio,

Met., IV 3 6s, Dante, Jfxxv s8-s9) e nell'esotismo della metafora (vv

.

s-6).

Ma il v. 7 assume da subito un carattere assai più esplicito, nominando senza ritegno il piacer degli amanti; il culmine della parabola è raggiunto con il verso conclusivo, che chiude bruscamente le volute sinuose della sestina con un realismo ostentato. Un altro esempio: S'in poter fosse stato Orlando pare ali'Eleusina dea, come in disio, non avria, per Angelica cercare, lasciato o selva o campo o stagno o rio o valle o monte o piano o terra o mare, il cielo, e 'l fondo de l'eterno oblio; ma poi che 'l carro e i draghi non avea, la gia cercando al meglio che potea

( Ofxu 3).

L'ottava 3 del canto XII è strettamente connessa alle due precedenti (che qui non si riportano per brevità), nelle quali si narrava della disperata ricerca della figlia Proserpina da parte di Cerere su un carro guidato da draghi. Ma quello che importa rilevare è il commento comico dei vv 7-8, i quali, ripren­ .

dendo dall'ottava

draghi,

che là era

2

i vocaboli-chiave della quéte di Cerere

serpenti),

(carro; cercando;

ridimensionano lo sforzo mitologico della di­

vinità e lo collocano su un piano terreno e prosaico

(al meglio che potea).

Il distico iniziale, invece, assume talvolta un ruolo connettivo, per illu­ strare il quale occorre uscire dai confini dell'ottava concepita come unità indipendente e autosufficiente per entrare nella logica narrativa del poema, allargando il campo di osservazione a ciò che circonda la singola stanza. «Il tratto caratteristico dell'ottava [ ... ] consiste nel fatto che un'unità

ritmica ferreamente chiusa è collegata ad una materia che invece richiede un flusso lungo e continuo» (Pozzi, 1974, p. 129). Come si è visto, Ario­ sto lavora di fino per limare i confini della sua ottava, per renderla coesa e organica; in questo processo, la coincidenza di metro e sintassi è parte es­ senziale, tanto che il lettore del Furioso può ragionevolmente attendersi un punto fermo al termine di ogni stanza. In questo caso, fra un'ottava e l'altra si viene a creare un oggettivo stacco. Tuttavia, accade talvolta che Ariosto metta in campo elementi che collegano le ottave tra loro: Per aventura si trovò un scudiero ignoto in quel paese, e menato hallo;

VERONICA COPELLO

e sconosciuto

(come ho già narrato)

s'appresentò contra il fratello armato.

Narrato v'ho come il fatto successe, come fu conosciuto Ariodante ( Ojv1 13, s-8; 14, 1-2). Si tratta in questo caso di una ripresa interstrofica, della quale si è occupa­ ta in particolare Maria Cristina Cabani ( 1990). Tale tecnica, che ricorda l'antico artificio delle coblas capfinidas, non era ignota ai cantari. Il distico iniziale si riaggancia a un elemento dell'ottava precedente, istituendo un legame sia lessicale che logico. In questo modo, le ottave non risultano più meramente giustapposte, ma incatenate in un ritmo di danza: la nuova stan­ za fa un passo indietro per farne due in avanti, recupera un tassello già noto per proporne di nuovi. Nel canto XII, Orlando leva gli occhi; e quel parlar divino

gli pare udire, e par che miri il viso, che l'ha, da quel che fu, tanto diviso.

Pargli Angelica udir, che supplicando e piangendo gli dica:- Aita, aita! ( Ofxn 14, 6-8; 15, 1-2) L' incipit dell'ottava 15 riprende i termini di 14 7, ai quali aggiunge poi il contenuto delle parole percepite da Orlando

( «Aita,

aita! ecc.»). La ri­

presa interstrofica sembra il respiro che si prende prima di partire per una corsa. Si veda un altro caso: Al fin si trasse l'elmo, e 'l viso amato scoperse, che più volte veduto hanno: e dimostrò come era Ariodante, per tutta Scozia lacrimato inante;

Ariodante, che Ginevra pianto avea per morto, e 'l frate! pianto avea, il re, la corte, il popul tutto quanto

( Ojv1 3, s-8; 4, 1-3).

Qui la ripresa interstrofica - secondo una modalità comune nel

Furioso

(Cabani, 1990, p. 81; Praloran, 2009, p. 182 ) - consiste in un nome proprio

(Ariodante), che viene poi dilatato con una proposizione relativa (che Gi­ nevra... ).

OTTAVA

Una conferma di questo accorgimento e della consapevolezza con cui è attuato giunge dall'analisi dei frammenti autografi del poema (editi da

1937 ), che tramandano una versione antecedente alla stampa di alcuni episodi aggiunti nell'edizione del 1532.. Dagli autografi del canto Debenedetti,

XXXVII

si capisce che Ariosto, dopo aver narrato le nuove vicende di Mar­

ganorre, rilegge quanto composto per correggerlo. In alcune delle aggiunte che compaiono nel margine della pagina - e che sono quindi aggiunte "a freddo" - si nota il processo di collegamento della nuova ottava nel tessuto delle precedenti ( Copello, 2.013, pp. frammessa la stanza

95, l'ottava

137-59 ) . Per esempio, prima che vi fosse 94 era legata alla 96 da una ripresa inter­

strofica assai marcata: Ma prima liberar la donna è onesto, che sia condotta da quei birri a morte. Lentar di briglia col calcagno presto fece a' presti destrier far le vie corte. Non ebbon gli assaliti mai di questo uno incontro più acerbo né più forte; sì che han di grazia di lasciar gli scudi e la donna e l'arnese, e fuggir nudi: sì come il lupo che di preda vada carco alla tana, e quando più si crede d'esser sicur, dal cacciator la strada e da' suoi cani attraversar si vede, getta la soma, e dove appar men rada la scura macchia inanzi, affretta il piede. Già men presti non fur quelli a fuggire, che li fusson quest'altri ad assalire. Non pur la donna e l'arme vi lasciaro, ma de' cavalli ancor lasciaron molti ( Ofxxxvn 94-95; 96,

Inserendo fra le due la stanza

1-2).

95 Ariosto spezza la catena solo apparente­

mente, perché il distico finale riprende dall'ottava precedente i termini

presti ( v. 7, da presto e presti di 94, 3 e 4),juggire ( v. 7, dafuggir di 94, 8) e assalire ( v. 8, da assaliti di 94, 5), compensando in parte la mancata aderenza lessicale fra le ottave 94 e 96. L'esempio da poco ricordato ( la ripresa del termine Ariodante seguita da relativa, a VI 3-4) contiene un ulteriore modo di legare insieme le ot­ tave, cioè il nesso sintattico. Tale procedimento si rende particolarmente

VERONICA COPELLO

evidente quando Ariosto pone un

enjambement alla fine del v. 8

(si parla

anche di «sovrainarcatura», cioè inarcatura fra ottave). Non si tratta di un

enjambement "forte': Ottave

ma solo di un legame sintattico, come avviene fra le

VI s-6:

Ariodante, poi ch'in mar fu messo, si pentì di morire; e come forte e come destro e più d'ogn'altro ardito, si messe a nuoto e ritornassi al lito; e dispregiando e nominando folle il desir ch'ebbe di lasciar la vita, si messe a caminar bagnato e molle, e capitò all'oste! d'un eremita (O/vi s. s-8; 6,

1-4).

La transizione fra le due ottave si serve di una «sovrainarcatura inattesa» (Praloran,

2009, p. 207):

una volta che giunge al v.

il lettore si accorge che l'ottava I

v

è "aperta" solo

della seguente, che si apre con una coordinata.

O ltre a rispondere a un'esigenza di varietà nella gestione delle stanze e a una di svolgimento narrativo, la sovrainarcatura è un riflesso dell' inclinazione alla dilatazione peculiare di Ariosto. La sovrainarcatura può però anche essere «attesa» (Praloran, 2009, p. 215), perché richiesta dalla struttura sintattica dei versi terminali di un'ot­ tava: Chi vide mai dal ciel cadere il foco che con sì orrendo suon Giove disserra, e penetrare ove un richiuso loco carbon con zolfo e con salnitro serra; ch'a pena arriva, a pena tocca un poco, che par eh'avampi il ciel, non che la terra; spezza le mura, e i gravi marmi svelle, e fa i sassi volar sin alle stelle; s'imagini che tal, poi che cadendo toccò la terra, il paladino fosse (O/IX 78; 7 9 ,

I -2

).

Il periodo sarebbe di per sé abbastanza semplice: «Chi vide mai dal ciel

cadere il foco

cadendo l toccò la terra, il pa­ nel mezzo (78, 2-8) è ascrivibile, ancora

[ ... ] s' imagini che tal, poi che

ladino fosse». Tutto ciò che vi è

una volta, alla propensione ariostesca per l'ampliamento sintattico e per la

OTTAVA

contemplazione dei quadretti da lui dipinti. Il lettore qui è obbligato dalla grammatica a proseguire oltre i confini dell'ottava, perché la proposizione principale - dopo la lunga prolessi della subordinazione - giunge solo nella stanza

79· La ripetizione del verbo cadere (78,

I;

79, I ) , infine, funge sia da

ripresa interstrofica che da legame fra primo e secondo termine della simi­ litudine, contribuendo a infittire la trama che unisce le due stanze. Come si è potuto osservare, neli'ottava ariostesca a una varietà di sche­ mi si associa una varietà

negli schemi, di volta in volta applicati con sottili

differenze funzionali alla singola situazione narrativa. Tale perenne dina­ micità del dettato e dei suoi strumenti retorici consente infatti al poeta, abile nel gestire con consapevole perizia le tessere del suo ampio mosaico, di rappresentare le molteplici sfumature del mondo stesso.

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320

Paesaggio di Eleonora Stoppino

I.

Quali funzioni ha il paesaggio nell'Orlando furioso? Quali sono il ruolo e l'importanza di selve, giardini, boschi e labirinti, palazzi e monti, spiagge, isole e mari nel poema ariostesco? Questo contributo si propone di rispon­ dere a queste domande analizzando alcune strategie narrative paesaggisti­ che di Ariosto e, più approfonditamente, cercando di esplorare come il pa­ esaggio, nel Furioso, possa assolvere, coadiuvare o, in alcuni casi, ostacolare funzioni specifiche del tempo narrativo e del sistema dei personaggi. L'interesse per il paesaggio nei testi letterari ha assunto, a partire da­ gli ultimi due decenni del Novecento, dimensioni critiche. In particolare, lo studio del paesaggio può essere inquadrato all'interno del cosiddetto «spatial turn», cio è di un interesse critico per fenomeni spaziali e rappre­ sentazioni dello spazio all'interno degli studi umanistici (cfr. soprattutto Cosgrove, 1984; Camporesi, 1992; Jakob, 2oos; Moretti, 2010; Sorrentino, 2010).

Per quanto riguarda gli studi letterari, c'è stato un grande interesse

critico che ha spesso, però, escluso i testi cosiddetti premoderni. Sembra particolarmente utile, invece, studiare testi come il Furioso, in cui ci si tro­ va chiaramente in una situazione di confine tra rappresentazioni stilizzate dello spazio e introduzione di paesaggi funzionali alla narrazione. Rimane necessaria, d'altra parte, una concentrazione sull'elemento specificamente letterario del paesaggio. In questo senso, appare interessante seguire sia la linea indicata da uno dei più importanti teorici contemporanei del pae­ saggio, Jakob, che nelle parole di Flavio Sorrentino invita a «non legare il paesaggio all'identità» (Sorrentino, 2010, p. 17) e «richiama soprattutto la rilevanza che ha avuto la consapevolezza, tanto negli scrittori quanto nei pittori, del fatto che il linguaggio in generale è destinato sia a fallire nella rappresentazione del paesaggio, sia ad essere l'unica forma appropriata che ne permette una traduzione e una trasmissione» (ibid.) (per uno studio dei 32.1

ELEONORA STOPPINO

paesaggi in letteratura, cfr. soprattutto Bagnoli, Sangirardi,

2003;

Pezzarossa,

2004;

2006; Scanu, 2004).

La definizione di paesaggio qui utilizzata è una definizione operativa di spazio narrato, in cui viene descritta più di una caratteristica spaziale. Questa specificazione permette di distinguere il paesaggio dall'oggetto di descrizione meno precisamente definito. Si tratta di una definizione colle­ gata a varie teorizzazioni del paesaggio letterario, e in particolare a quelle date da Fontanille: «Un paysage se présente d'abord comme un segment du monde nature!, un espace figuratif, dont la valeur émane des sensations et perceptions qui' il procure, eu égard à une position d'observation» (Fon­ tanille,

2013,

p.

231),

nonché alla necessità di restituire al paesaggio la sua

«dimensione semiotica» (Guyot, li

(2003,

1998), come illustrato anche da Bagno­

p. 7 ). Anche Sangirardi indica questa direzione quando, citando

proprio Ariosto, si domanda se, anche in assenza di prospettiva e struttura di orizzonte, non sia il caso di considerare nell'ambito del paesaggio anche l' «agencement», in senso deleuziano, degli oggetti naturali del desiderio. Per paesaggio si intende dunque un'entità distinta dallo spazio e dalla geografia, benché ad essi naturalmente connessa. Si intende uno spazio cir­ coscritto che nel testo viene descritto come tale, con caratteristiche defini­ bili e analizzabili. Perché si possa parlare di paesaggio è necessario dunque il riferimento esplicito nel testo a uno spazio, in forma omologa a quello che avviene, in campo pittorico, con l'introduzione di paesaggi chiaramente descritti (pensiamo, per fare un esempio particolarmente vicino ad Ario­ sto, ai paesaggi che fanno da sfondo a molte delle opere di Dosso Dossi). Il termine "paesaggio" entra nel vocabolario italiano fra Quattrocento e Cin­ quecento, come calco del francese paysage, derivato a sua volta dali'olandese

lantschap. L'introduzione del termine avviene in parallelo con la comparsa massiccia dei paesaggi in pittura (l'opera generalmente citata è l'Adora­

zione del mistico agnello dei fratelli van Eyck, c.

1430 ). In italiano, prima di

paesaggio è attestato l'uso di «paese» nel medesimo contesto pittorico, come dimostrato dalla lettera prefatoria del Principe di Machiavelli e an­ che dall'uso leonardesco. Agli studiosi di paesaggi letterari è sembrato utile immaginare il paesaggio circoscritto dalle parole di Leon Battista Alberti nel De pictura: «Una aperta finestra dalla quale si abbia a veder l' istoria».

2.

Per quanto riguarda la storia critica del Furioso, notiamo una certa sovrap­ posizione fra paesaggio, spazio e geografia, con una ulteriore complicazione

322

PAESAGGIO

dovuta all'elemento «viaggio». L'elemento storico e biografico ha pesato sul giudizio critico. Non solo i grandi spazi del poema hanno attratto l' at­ tenzione dei critici, infatti, ma anche il collegamento di essi con il conte­ sto storico e le grandi esplorazioni della fine del Quattrocento e dei primi decenni del Cinquecento; tradizionalmente, inoltre, i luoghi ariosteschi e i fantastici viaggi del poema sono stati messi in relazione con il tempera­ mento dichiaratamente sedentario del poeta. Il paesaggio ariostesco è, a giusto titolo, protagonista della storia critica del Furioso, secondo uno schema perfezionato da Massimo Bontempelli nel 1933. Tale interpretazione trova suo punto costante di partenza nella citazione della Satira

III

(Ariosto, 1954), vera e propria dichiarazione di

poetica spaziale: E più mi piace di posar le poltre membra, che di vantarle che alli Sciti sien state, agli Indi, a li Etiopi et oltre. Degli uomini son vari li appetiti: a chi piace la chierca, a chi la spada, a chi la patria, a chi li strani liti. Chi vuole andare a torno, a torno vada: vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; a me piace abitar la mia contrada. Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna, quel monte che divide e quel che serra Italia, e un mare e l'altro che la bagna. Questo mi basta; il resto de la terra, senza mai pagar l'oste, andrò cercando con Ptolomeo, sia il mondo in pace o in guerra; e tutto il mar, senza far voti quando lampeggi il ciel, sicuro in su le carte verrò, più che sui legni, volteggiando

(Satira III, 49-66).

Con una forma poetica tipica delle Satire, Ariosto rivendica la propria di­ versità e costruisce un personaggio molto caro ai critici di tutti i tempi, amante della pace e nemico del trambusto e delle peregrinazioni (cfr. la Satira I ) : «più mi piace posar le poltre membra», «a me piace abitar la mia

contrada», «questo mi basta»; l'unico viaggio ormai possibile, per il poeta della Satira

III,

è quello che fa «sicuro in su le carte [ ... ] volteggiando».

Questo autoritratto del poeta come viaggiatore sedentario, che percorre il mondo su mappe e libri, è, dagli albori della critica ariostesca, al centro della rappresentazione del poeta come creatore di mondi fantastici. L' immagine

ELEONORA STOPPINO

permane, da Bontempelli

(1933) a Binni (1996), fino agli ultimi contribu­

ti di Betti e Farnetti, senza dimenticare la straordinaria visione di Borges, che illumina e cristallizza la doppia natura del poeta ferrarese: inventore di mondi e abitatore del proprio. A questa immagine ben si accompagna lo sguardo affettuoso che spesso si posa sulla città di Ferrara, umile e grande come quando si mostra agli occhi di Astolfo che la ammira sotto la guida di san Giovanni: - Del re de' fiumi tra l'altiere corna or siede umil - diceagli - e piccol borgo: dinanzi il Po, di dietro gli soggiorna d'alta palude un nebuloso gorgo; che, volgendosi gli anni, la più adorna di tutte le città d'Italia scorgo, non pur di mura e d'ampli tetti regi, ma di bei studi e di costumi egregi

Il

Furioso

( Ofxxxv 6).

è un poema di paesaggio, e la poesia di Ariosto è sempre stata

riconosciuta come poesia visiva. Gli spazi reali e immaginari del poema, dalla selva alla luna, dal Po a Lampedusa, dal

focus amoenus alla

spiaggia

di Alessandria ( Alessandretta ) non solo creano ambientazione, ma sono elementi costitutivi della fabbrica del poema. Come osservava già Orazio Toscanella, «nei suoi poemi non si legge ma si vede» ( cit. in Preti, p.

20).

Francesco De Sanctis definisce Ariosto «pittore compito che non

ti lascia l'oggetto finché non ne abbia fatto un quadro» ( De Sanctis, p.

26);

2012, 1893,

Momigliano, a sua volta, ne vede i paesaggi come più musicali che

pittoreschi ( «Il paesaggio è un elemento sinfonico dell' imaginazione ario­

1933, pp. 2923), mentre Getto codifica nel poema «la poesia dello spazio» ( Getto, 1983, pp. 77-120). stesca, ha più del musicale che del pittoresco»: Momigliano,

Altra questione si apre quando si esaminino le relazioni del poema con le arti figurative, come ha fatto recentemente un ricco filone di ricerca

( Ceserani,

Preti, Bolzoni ) . Ritrovare il Furioso nei paesaggi di Dosso Dos­

si, infatti, non significa solo stabilire relazioni, ma anche identificare nel poema aspetti precipuamente paesaggistici, pienamente riconosciuti dai suoi contemporanei e attivamente presentati e ripresentati negli apparati iconografici e paratestuali delle varie edizioni cinquecentesche del poema. E ancora altro cammino si potrà percorrere studiando la geografia del Fu­

rioso, seguendo il pionieristico testo di Michele Vernero del 1913, il già citato articolo di Bontempelli, L'Ariosto geografo, alcuni luoghi citati da Fumagalli

PAESAGGIO

(1933, p. 487 ), nonché i più recenti studi di Massimo Rossi; oppure lavoran­ do sui giardini reali costruìti almeno in parte per rendere omaggio al poema e ricrearlo, come il famoso sacro bosco di Vicino Orsini a Bomarzo.



Questo grande interesse per il paesaggio del

Furioso ci indirizza verso al­

cuni spazi privilegiati del poema: non è un caso che siano elementi pae­ sistici a fornire la struttura che ci aiuta a interpretare temi chiave come il labirinto, su cui tanto lavorò Calvino, o la selva, definita da molti luogo principe del poema. Non conosco poema in cui i costantemente,

topoi,

topoi siano anche, così

luoghi veri e propri. I luoghi letterari, in altre pa­

role, trovano collocazione spaziale in luoghi fisici. Come osserva giusta­ mente Riccardo Bruscagli

(2oo8),

questa è una caratteristica tipica del

poema cavalleresco. Il paesaggio del Furioso in quanto poema di entrelacement è la selva, è il labirinto, è il paesaggio in cui ha spazio il movimento del molteplice: «di qua di là di su di giù», come ha mostrato Sergio Zatti, diventa quasi cifra delle inchieste del poema, «favorite e vorrei dire indotte dalla configura­

1990, p. 15). Il primo canto, in questo senso, è un vero e proprio tour deforce paesistico che prepara precisamente

zione labirintica della selva» (Zatti,

il collegamento poema-paesaggio-selva (i corsivi sono sempre miei): La donna il palafreno a dietro volta, e per la selva a tutta briglia il caccia; né per la rara più che per lafolta, la

piu sicura e miglior via procaccia:

ma pallida, tremando, e di sé tolta, lascia cura al destrier che la via faccia.

Di su di giu, ne l'alta selvafiera tanto girò, che venne a una riviera ( 0/I 13). La fuga di Angelica corrisponde, nel suo procedere allucinato e labirintico, allo spazio circolare della selva, come si vede anche, per esempio, dali'ottava che segue poco oltre: Fugge tra selve spaventose e scure, per lochi inabitati,

ermi e selvaggi.

Il mover de le frondi e di verzure, che di cerri sentia, d'olmi e di faggi

ELEONORA STOPPINO

fatto le avea con subite paure trovar di qua di là strani viaggi; ch'ad ogni ombra veduta o in monte o in valle, temea Rinaldo aver sempre alle spalle ( 0/I

33).

Se la fuga di Angelica trova paesaggio topico nella selva, illocus amoenus di ascendenza classica che segue è teatro dell'episodio della «verginella simile alla rosa», topos classico che discende da Baiardo e arriva a Tasso e molto ol­ tre. E, sempre nel primo canto, specchio della quéte di Ferraù è prima ancora la selva in cui egli «s'avvolge» e poi l'acqua che nasconde e rivela. E come pensare allo scorno di Sacripante dopo la sconfitta da parte di Bradamante senza ricordare l'accelerazione sensoriale che il bosco (qui diventato verti­ cale) trasmette? Addirittura è paesistica la similitudine che accompagna lo sbalordimento del saraceno: Qual istordito e stupido aratore, poi ch'è passato il fulmine, si leva di là dove l'altissimo fragore appresso ai morti buoi steso l'aveva; che mira senza fronde e senza onore il pin che di lontan veder soleva: tal si levò il pagano a piè rimaso, Angelica presente al duro caso (O/I 6s).

Come il contadino osserva stordito il pino spogliato dal fulmine, così Sacri­ pance, sbalordito, constata la propria perdita di onore. Elemento da consi­ derare per un'analisi più approfondita delle funzioni paesistiche del Furioso diventeranno quindi anche i paesaggi di primo e secondo grado - paesaggi, per così dire, in presa diretta, e paesaggi introdotti con funzione altra (co­ me, in questo caso, la similitudine). Un altro aspetto particolarmente interessante è la natura sinestetica del paesaggio ariostesco, che merita una campionatura a sè. Mi limito qui a osservare che, dopo la comparsa di Bradamante in incognito, che costella il paesaggio di suoni, il fenomeno si ripete con Baiardo poche ottave oltre: Non furo iti duo miglia, che sonare odon la selva che li cinge intorno, con tal rumore e strepito, che pare che triemi la foresta d'ogn' intorno; e poco dopo un gran destrier n'appare, d'oro guernito, e riccamente adorno,

PAESAGGIO

che salta macchie e rivi, et a fracasso arbori mena e ciò che vieta il passo

(O/I 72).

E molti altri esempi si potrebbero fare. Si può aggiungere, come conside­

razione generale, che la stragrande maggioranza di forme di paesaggio si­ nestetico è collegata a due elementi: il tempo e la necessità di modulare il paesaggio stesso come personaggio, di farlo agire e quasi "parlare". Sembra altrettanto interessante seguire la suggestione di personaggi «fatti paesaggio», come Astolfo nel noto episodio del mirto, ma come, soprattutto, la proiezione sul viso e sul corpo dell'amata della quéte lunare che apre il canto xxxv: Per riaver l'ingegno mio m'è aviso che non bisogna che per l'aria io poggi nel cerchio de la luna o in paradiso; che 'l mio non credo che tanto alto alloggi. Ne' bei vostri occhi e nel sereno viso, nel sen d'avorio e alabastrini poggi se ne va errando; et io con queste !abbia lo corrò, se vi par ch'io lo riabbia

(Ofxxxv 2).

Come nel caso della Satira, si passa da un viaggio ( qui immaginario ) ad un percorso sedentario e in questo caso erotico. Non si può fare a meno di osservare, in questo caso, la pervasiva presenza del modello petrarchesco; se ne ha un altro esempio con Olimpia: Era il bel viso suo qual esser suole da primavera alcuna volta il cielo, quando la pioggia cade, e a un tempo il sole si sgombra intorno il nubiloso velo

(O/xi 6s, 1-4).

Ci sarebbero interessanti questioni paesistiche da osservare, specialmente se teniamo presente il palazzo decorato da statue del canto

XLII.

La selva labirintica non è, naturalmente, il solo paesaggio che viene abi­ tualmente usato per interpretare il Furioso, anche se è senza dubbio il prin­ cipale: ci sono poi la luna, i fiumi, i palazzi, i luoghi ibridi della profezia, come la tomba di Merlino, e molto altro. In uno studio monografico del paesaggio nel poema si potranno tentare delle tassonomie e collegamenti di tipo funzionale, come per esempio spazi chiusi e spazi aperti; paesaggi umanizzati o antropomorfi; paesaggi liquidi; spazi collegati al modo della

ELEONORA STOPPINO

rappresentazione, come il volo d'uccello e la navigazione; paesaggi liminali

(come la spiaggia);

paesaggi che sono al tempo stesso confini e paesaggi a

pieno diritto, come il monte «di metallo». Studi importanti sono già stati condotti, per esempio, sul mare ( Bertù, 1933; Rochon, 1991) e sullo «spazio di prova» ( Bruscagli,

2oo8), e altri paesaggi di chiara ascendenza letteraria come l'inferno e il paradiso terrestre hanno ricevuto ampia attenzione ( sul paradiso terrestre cfr. soprattutto Giamatti, 1966 e Venturi, 1979 ) . L'episo­ dio lunare va ancora considerato interamente alla luce del modello albertia­ no, illuminato con precisione da Cesare Segre

(1966). Mi limito qui a con­

siderare casi che possano servire a illustrare alcune funzioni del paesaggio. Bosco e giardino, in particolare, sono stati usati per misurare la distanza di Ariosto dai suoi modelli e predecessori, e possono offrire spunti interes­ santi di riflessione. Se Ernst Robert Curtius, nella sua analisi del focus amou­

enus,

ritiene la rappresentazione della natura nell'epica medievale, incluso

Ariosto, la mera ripetizione di figure retoriche provenienti dalla classicità

( Curtius, 1992), molti studiosi hanno ritrovato proprio negli spazi collegati al focus amoenus la cifra dell'innovazione ariostesca. Secondo Fumagalli, per esempio, autrice di uno degli studi pionieristici sul paesaggio del poema, Ariosto rispetto ai predecessori fa uso di «tutta una tastiera d'aggettivi di suoni malinconici o cupi» ( Fumagalli,

1933, p. 486), e crea

«paesaggi im­

mortali giovandosi di elementi generici, già tradizionali nel poema cavallere­ sco o nella poesia classica, e con una scelta di vocaboli assai ristretta» (ibid.). I giardini di Alcina nel Furioso e Falerina nell'Inamoramento de

Orlan­

do offrono un caso interessante per lo studio delle strategie paesaggistiche del Furioso rispetto al suo più diretto predecessore. Si può notare imme­ diatamente che l'introduzione del giardino di Alcina non avviene in modo diretto, con una descrizione dei vari elementi del paesaggio. Si tratta invece di un paesaggio percepito «in movimento», cioè attraverso la visione di Ruggiero che scende verso l'isola in groppa all' ippogrifo. li movimento del­ la cavalcatura imprime il suo ritmo caratteristico agli elementi della natura che appaiono davanti agli occhi di Ruggiero e, di conseguenza, ai nostri: Poi che l'auge! trascorso ebbe gran spazio per linea dritta e senza mai piegarsi, con larghe ruote, ornai de l'aria sazio, cominciò sopra una isola a calarsi, pari a quella ove, dopo lungo strazio far del suo amante e lungo a lui celarsi, la vergine Aretusa passò invano di sotto il mar per camin cieco e strano.

PAESAGGIO

Non vide né 'l più bel né 'l più giocondo da tutta l'aria ove le penne stese; né se tutto cercato avesse il mondo, vedria di questo il più gentil paese, ove, dopo un girarsi di gran tondo, con Ruggier seco il grande augel discese: culte pianure e delicati colli, chiare acque, ombrose ripe e prati molli. Vaghi boschetti di soavi allori, di palme e d'amenissime monelle, cedri et aranci ch'avean frutti e fiori contesti in varie forme e tutte belle, facen riparo ai fervidi calori de' giorni estivi con lor spesse ombrelle; e tra quei rami con sicuri voli cantando se ne giano i rosignuoli. Tra le purpuree rose e i bianchi gigli, che tiepida aura freschi ognora serba, sicuri si vedean lepri e conigli, e cervi con la fronte alta e superba, senza temer ch'alcun gli uccida o pigli, pascano o stiansi rominando l'erba; saltano i daini e i capri isnelli e destri, che sono in copia in quei luoghi campestri

(O/vi 19-2.2).

Nel corso delle quattro ottave, gli elementi del paesaggio vengono rivelati in modo via via più ravvicinato, dagli elementi visibili alla distanza ( «culte pianure e delicati colli, chiare acque, ombrose ripe e prati molli») fìno ai più minuscoli dettagli delle attività animali del giardino («pascano o stiansi rominando l'erba»). Sembra quasi che la tecnica descrittiva, che parte dalla distanza e focalizza sul dettaglio, sia preparata e inquadrata poeticamen­ te dalla vicenda mitica della ninfa Aretusa, tutta descritta con riferimento alla fuga, al «celarsi» e al cammino nascosto, «cieco e strano». Questo paesaggio che si rivela periscopicamente, dopo un iniziale momento in cui tutto appare lontano e indistinto, gioca sugli effetti ottici di lontananza e vicinanza. Questa tecnica di focalizzazione progressiva sul dettaglio a partire da una fase di lontananza è ben diversa dalla tecnica cumulativa ed elencante del giardino di Falerina nell' Inamoramento de Orlando:

ELEONORA STOPPINO

Quel era un sasso d'una pietra viva Che tuta intégra atomo l'agirava: Da mile braza verso il ciel saliva E trenta miglia quel cerchio voltava. Ecco una porta a Levante s'apriva: Il drago smisurato zuffelava Batendo l'ale e menando la coda; Altro che lui non par ch'al mondo s'oda (In.

II IV

16).

Avìa da ciascun lato un arborscelo Quel fonte ch'era in megio ala verdura, E facea da sé stéso un fiumicello D'una aqua troppo cristalina e pura; Tra' fiori andava il fiume: proprio è quello Di cui contava aponto la scriptura Che la imafine al capo avìa d'intorno: Tuta la lesse il cavalier adorno (In.

II IV

2.1).

Dolce pianure e lieti monticelli Con bei boscheti de pin e d'abbeti, E sopra a' verdi rami erano occeli Cantando in voce viva e versi queti; Conigli e caprioli e cervi isnelli, Piacevole a guardar e mansueti, Lepore e daini correndo d'intorno Pien avian tuto quel giardin adorno (In.

II IV

2.3).

Da un lato troviamo componenti molto simili (il rivo, le pianure, i monti­ celli, i boschetti, gli animali «isnelli»), tutto l'armamentario che descrive il paesaggio ridente del poema cavalleresco, e di cui si trovano esempi nei vari libri de bataia, i cantari e poemi che circolavano per tutta la penisola tra Quattrocento e Cinquecento. D'altra parte, però, il paesa ggio di Baiar­ do rimane statico, e i suoi elementi pittorici si susseguono l'uno accanto all'altro senza un principio che ne regoli l'organizzazione. Se la presenza di esseri viventi (come il drago smisurato che soffia) aggiungono movimento alla scena, è assente una presa in carico del paesa ggio come «agito», deter­ minato essenzialmente dalla percezione, quale risulta essere nell'esempio tratto dal Furioso. Rivediamo questo stesso collegamento con la percezione in un altro giardino, quello di Logistilla, dove tutto sembra immobile: 330

PAESAGGIO

Sopra gli altissimi archi, che puntelli parean che del ciel fossino a vederli, eran giardin sì spaziosi e belli, che saria al piano anco fatica averli. Verdeggiar gli odoriferi arbuscelli si puon veder fra i luminosi merli, ch'adorni son l'estate e il verno tutti di vaghi fiori e di maturi frutti. Di così nobili arbori non suole prodursi fuor di questi bei giardini, né di tai rose o di simil viole, di gigli, di amaranti o di gesmini. Altrove appar come a un medesmo sole e nasca, e viva, e morto il capo inchini, e come lasci vedovo il suo stelo il fior suggetto al variar del cielo: ma quivi era perpetua la verdura, perpetua la beltà de' fiori eterni; non che benignità de la Natura sì temperatamente li governi; ma Logistilla con suo studio e cura, senza bisogno de' moti superni

(quel che agli altri impossibile parea), sua primavera ognor ferma tenea ( Ofx 61-63). Proprio là, dove l'immobilità nel tempo dovrebbe essere la cifra della de­ scrizione, Ariosto introduce da un lato una serie di verbi di percezione («a vederli», «Si puon veder»), dall'altro evoca il cambiamento incessante delle stagioni, qui assente, e descrive l'incessante lavorio di Logistilla, che «con suo studio e cura» tiene ferma la primavera «ognor». Ne risulta un'immagine di grande movimento, che possiamo ritrovare anche in altri giardini, come per esempio quelli delle Esperidi Cipro

(xLIII 57-59) e dell'isola di

(xviii 138-139).

Il paesaggio topico del genere cavalleresco mantiene la sua centralità, ma acquista movimento, e in particolare movimento dovuto alla percezio­ ne dell'osservatore, che sia esso interno o esterno alla narrazione. Si può aggiungere, in questo senso, che paesaggi classici e cavallereschi non sono distinguibili nel testo ariostesco.

331

ELEONORA STOPPINO



Elemento centrale del paesaggio ariostesco sembra essere dunque la sua qualità "agita'', la sua essenza in costante movimento, dato dalla percezione di chi osserva o dalla descrizione di chi scrive, o dalla compresenza dei due processi. Nel paesaggio la componente più stilizzata di descrizione lascia ampio spazio ad una componente di movimento. Abbiamo visto questo fattore in gioco nel confronto con alcuni luoghi dell' lnamoramento, in cui il paesaggio boiardesco sembra statico, mentre quello ariostesco sembra sempre "agito", con presenza di forme verbali che movimentano oggetti e nomi. Possiamo addurre ad ulteriore esempio di questo procedimento la descrizione della Casa del Sonno: Il sole indarno il chiaro dì vi mena; ché non vi può mai penetrar coi raggi, sì gli è la via da folti rami tronca: e quivi entra sotterra una spelonca. Sotto la negra selva una capace e spaziosa grotta entra nel sasso, di cui la fronte l'edera seguace tutta aggirando va con storto passo (O/XIV

92, s-8; 93, 1-4).

I verbi di movimento ( «mena», «aggirando», «va» ) utilizzati per quali­ ficare il paesaggio e l'azione della luce su di esso introducono verbi di mo­ vimento con penetrazione

( «penetrar», «entra», «entra» ) . Anch'essi qualificano l'azione ( impedita ) della luce e, addirittura, quella della grot­ ta. L'uso pervasivo di questi verbi imprime un movimento ( qualificato senz'altro come «storto» ) al paesaggio decisamente statico di questa spe­ lonca. Il rivoluzionario uso del punto di vista nelle descrizioni paesistiche ariostesche può permetterei di uscire da uno dei due principali limiti pre­ senti nella storia critica. Un elemento di cui il paesaggio può aver sofferto nell'interpretazione del Furioso è la presupposizione di quello che potrem­ mo definire «paesaggio coerente,» come ben esprime Walter Binni: Dunque il valore del paesaggio nel Furioso può essere compreso solo inserendolo all' interno della linea funzionale dell'opera: l'Ariosto non insiste mai a usarlo in una sua esteriore autonomia. E anche i paesaggi più precisi e definiti non ci ven­ gono mai imposti come fine ultimo di una descrizione, ma sono sempre pronti a

PAESAGGIO

dissolversi in quella specie di carta geografica fantastica e non grottesca che rende favolosi gli spazi, le proporzioni della terra, pur nutrendosi di un senso caldissimo di spazio vissuto, di aria impastata di luci, di ombre, di oggetti (Binni, 1996, p. 332). Vediamo qui un'idea di paesaggio che collima, quasi coincide con il poe­ ma nel creare uno spazio-tempo (forse un cronotopo) cavalleresco che è al tempo stesso fantastico, immaginario e reale. Si possono vedere, a questo proposito, le interferenze fra paesaggi reali e immaginari nelle avventure pa­ dane di Rinaldo, le frequenti incursioni di Ferrara, Mantova, e dei paesaggi lombardi all'interno del poema. I paesaggi del Furioso così concepiti si ritro­ vano nella pittura dei contemporanei, forse più di ogni altro in Dosso Dossi. La natura al tempo stesso reale e immaginaria del paesaggio ariostesco, in osmosi quasi perfetta con il poema, può aver oscurato la centralità del pae­ saggio stesso nell'economia narrativa del testo. La consonanza con tecniche pittoriche contemporanee, come la pittura a volo d'uccello, può aver indot­ to a non approfondire la portata rivoluzionaria del paesaggio ariostesco. L'altro elemento costante nella storia critica del paesaggio è una certa resistenza a considerarlo non elemento interpretativo ma solo tema, non strumento critico ma materia. Sembra invece di poter sostenere che l'ime­ razione dell'elemento paesistico con il sistema dei personaggi (come visto nelle descrizioni dei giardini) e con l'elemento temporale, come tra poco ve­ dremo, indichi per il paesaggio ariostesco uno status critico diverso. Come ha già osservato Monica Farnetti, le tecniche rappresentative del paesaggio di Ariosto si avvicinano a tecniche cinematografiche, come panoramiche e carrellate (si pensi ali'appena ricordata discesa dell' ippogrifo verso l'isola di Alcina, o ad Olimpia che vede allontanarsi la nave). Torniamo all'elemento centrale del paesaggio come strumento critico per l'analisi del testo. Sembra chiaro che la relazione fra personaggio e pae­ saggio sia al centro della ricerca ariostesca. Se, come osserva Farnetti, la cor­ rispondenza di filosofie del paesaggio con classificazioni estetiche è feno­ meno deli' Ottocento, l'innovazione ariostesca consiste nel discernimento, «at least intuitively, [of] a different symbolic scheme for the various kinds of space in which his heroes move. As such, his system was destined to influence, if not change profoundly, the relationship of a character to its surroundings» (Farnetti, 2003, p. 99). Marco Praloran

(1999) ci ha fornito

in questo ambito alcune indicazioni molto utili. Nello studiare le occor­ renze di sommario ed enumerazione nel

Furioso,

egli ha osservato molto

acutamente come «l'astrattezza degli elementi del paesaggio [dei cantari e dell' Inamoramento] diventa lirica attraverso la forma petrarchesca, e non

333

ELEONORA STOPPINO

più neutrale ma per lo più negativa come fosse invasa dalla stessa ricerca di un oggetto-oggetti irraggiungibili» (Praloran, 1999, p. 72). In queste pagine, che analizzano ottave come quella della fuga di An­ gelica sopra ricordata, c'è un'apertura, finora inesplorata, a un discorso sul paesaggio che si infrange nel tempo della narrazione ariostesca. Se­ condo Praloran, il paesaggio ariostesco non funziona in modo osmotico con i personaggi, anzi, fornisce costantemente uno sfondo di ostile colla­ borazione: «Il mondo naturale è inteso come altro indeterminato e non fissa i vincoli dei personaggi con la società entro la quale si muovono. [ ... ] La narrazione slitta su una superficie ghiacciata per non avere le calzature adatte e di questo ne fa una virtù, scivola dunque senza lasciare tracce riconoscibili ma solo un alone, una scia luminosa» (ivi, p. 73). Nel cerca­ re di spiegare questo "slittamento" potremmo trovare una buona chiave per leggere i paesaggi ariosteschi. E credo che l'indicazione sia qui di os­ servare la conflagrazione di spazio e tempo: il paesaggio come funzione narrativa in disarmonia con il tempo. In questo senso paesaggio, come altre voci di questo Lessico critico, viene ad essere sia tema sia elemento critico-analitico. Consideriamo l'episodio più ovvio ma non per questo rinunciabile: la pazzia di Orlando. La sfasatura temporale si presenta, naturalmente, in pri­ mo luogo nell'incontro di Angelica e Medoro con il pazzo che si scoprirà essere Orlando su uno dei paesaggi piu alienanti del poema: «l'estreme arene» ( xix 42, 2) che, a distanza di dieci canti, sono «sabbion [ ... ] arido e trito» (xxix s8, 2). Questo anacronismo ariostesco, o per meglio dire que­ sta totale discronia, incornicia il canto della follia e incide sulla percezione paesistica. L'analisi della follia di Orlando, infatti, dimostra a mio parere che il paesaggio ha spazio d'azione, diventa struttura narrativa in virtù della sua non coerenza temporale o della sua suscettibilità alle modulazioni tem­ porali. Come è noto, l'elemento che scatena la pazzia è il paesaggio scritto, inscritto da Angelica e Medoro, quasi paradossale inveramento del paesag­ gio scritto del poema (e, al tempo stesso, del modello petrarchesco). Dopo alcuni vani tentativi di non credere a ciò che vede, Orlando è sopraffatto dal paesaggio parlante: come l'incauto augel che si ritrova in ragna o in visco aver dato di petto, quanto più batte l'ale e più si prova di disbrigar, più vi si lega stretto. Orlando viene ove s'incurva il monte a guisa d'arco in su la chiara fonte.

334

PAESAGGIO

Aveano in su l'entrata il luogo adorno coi piedi storti edere e viti erranti

( Ofxxm ros, 3-8; ro6, 1-2).

Questo luogo è il frutto di una congiura fra letteratura e natura: il monte, l'edera, la fonte creano uno scenario perfetto in cui la poesia amorosa lascia una traccia per il destinatario sbagliato. La critica ha riflettuto ampiamen­ te sul fatto che Orlando capisca la lingua, ma ciò che forse è passato in secondo piano è che ci troviamo qui di fronte a un corto circuito spazio­ temporale della poesia di paesaggio petrarchesca.

È come se il tempo fra la prima e la seconda parte della canzone 12.6 dei Rerum vulgariumfragmenta

si fosse compresso e annullato nel cambiamento di soggetto. In altre pa­ role, nella canzone petrarchesca lo spazio della memoria del soggetto, le «chiare, fresche et dolci acque» del passato perduto, coincide con lo spazio dell'immaginato ritorno dell'amata sul luogo dove il soggetto non sarà più, perché morto. Nell'episodio della follia di Orlando, il paesaggio comunica una memoria piacevole al destinatario sbagliato; il paesaggio di questa follia è, si potrebbe dire, l'implosione temporale di un testo petrarchesco, dove il

ringraziamento di Medoro alla natura e il dramma del distacco di Orlando sono sigillati nello stesso spazio. -Liete piante, verdi erbe, limpide acque, spelunca opaca e di fredde ombre grata, dove la bella Angelica che nacque di Galafron, da molti invano amata, spesso ne le mie braccia nuda giacque; de la commodità che qui m'è data, io povero Medor ricompensarvi d'altro non posso, che d'ognior lodarvi: e di pregare ogni signore amante, e cavallieri e damigelle, e ognuna persona, o paesana o viandante, che qui sua volontà meni o Fortuna; ch'all'erbe, all'ombre, all'antro, al rio, alle piante dica: benigno abbiate e sole e luna, e de le ninfe il coro, che proveggia

che non conduca a voi pastor mai greggia

( OJXXIII ro8-109 ).

Naturalmente si aggiunge anche un paesaggio umano ad aggravare le cose. L'instabile corrispondenza fra l'io petrarchesco e il paesaggio cede, e la pazzia di Orlando, in modo simmetrico, si riversa proprio su quello stesso paesaggio:

335

ELEONORA STOPPINO

Tagliò lo scritto e 'l sasso, e sin al cielo a volo alzar fe' le minute schegge. Infelice quell'antro, et ogni stelo in cui Medoro e Angelica si legge! Così restar quel dì, eh 'ombra né gielo

a pastor mai non daran piu, né a gregge: e quella fonte, già sì chiara e pura, da cotanta ira fu poco sicura; che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell'onde, fin che da sommo ad imo sì turbolle, che non furo mai più chiare né monde. E stanco al fin, e al fin di sudor molle, poi che la lena vinta non risponde allo sdegno, al grave odio, ali'ardente ira, cade sul prato, e verso il ciel sospira

( Ofxxm 130-131).

«Lo scritto e 'l sasso», pericolosamente uniti, subiscono la stessa sorte: l' inveramento tragico del desiderio di Medoro e la distruzione del paesag­ gio sigillano la perniciosa convivenza di natura e scrittura. Medoro aveva pregato che i pastori non conducessero mai un gregge sul luogo del suo amore; e così è, perché, sotto i colpi di Orlando, il paesaggio devastato perderà qualsiasi funzione, in particolare «ombra né gielo l a pastor mai non daran più, né a gregge». Il paesaggio distrutto è qui, al tempo stesso, un paesaggio scritto e la scrittura di un paesaggio; esso porta con sé il peso letterario del luogo topico petrarchesco e, al tempo stesso, la riflessione metaletteraria sulla funzione del paesaggio ali' interno della vicenda amo­ rosa. Come considerazione conclusiva potremmo esaminare brevemente un paesaggio radicalmente diverso, lo spazio alieno; esempio di quelle interes­ santi istanze in cui Ariosto, pur descrivendo uno spazio, si rifiuta di creare un paesaggio (come possiamo vedere, ad esempio, nel corso d'acqua del canto XLVI). Se ne ha un esempio molto chiaro nel famoso episodio lunare, in cui Astolfo si trova ad ammirare uno spazio antitetico a quello terrestre: Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono là su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c'han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le più magne

PAESAGGIO

non vide il paladin prima né poi: e vi sono ample e solitarie selve, ove le ninfe ognor cacciano belve ( Ofxxxiv 72).

n paesaggio lunare apre interessanti dubbi sulla fenomenologia del paesag­ gio ariostesco, offrendoci uno di quei casi in cui l'autore si rifiuta di deli­ neare uno spazio. Nella migliore delle ipotesi affastella oggetti e, in questo caso, recisamente addita una alterità radicale: «altri fiumi, altri laghi, altre campagne». Questo vuoto di paesaggio sembra creare un effetto di sospen­ sione, della realtà o della narrazione, o di entrambi. Momenti come questo rimangono a indicare, in absentia, la centralità costitutiva del paesaggio nel sistema del Furioso.

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339

Proemi di Albert Russe/l Ascoli

I.

Per capire il Furioso, bisogna partire dai proemi. Tale affermazione è vera in due sensi. Intanto perché sia il Furioso del

1516 sia quello del 1532 si aprono

con un'allocuzione proemiale indirizzata dall'autore-narratore ai lettori, e al lettore-mecenate, cardinale Ippolito d'Este, in particolare. Inoltre, nell'edi­

1516 la presenza del proemio si attesta in ogni canto successivo al primo; nell'edizione del 1532 il procedimento si ritrova in tutti i canti, tranne zione del

che nel XXXIX. Che sia necessario partire dai proemi è poi vero in senso mol­ to più ampio, come si vedrà tra poco, ai fini della comprensione del poema sul piano strutturale, semantico, e/ o storico. Detto ciò, è davvero strano quanto poco sia stato scritto in passato riguardo all'uso ariostesco del meccanismo dei proemi, eccezione fatta, tuttavia, per i saggi di Durling

(196s) e Santoro

(1989 ) , i quali forniscono una base solida per alcune delle osservazioni che si avanzeranno in questo saggio (cfr. Ascoli, 1987, p. 98, nota 109) . '

Certamente i proemi sono oggetto di attenzione, quasi continua, nel­ le discussioni critiche relative a molte delle voci centrali per lo studio del

Furioso, comprese quelle trattate nel presente volume. E questo perché, ad esempio, i proemi sono una sede privilegiata per presentare l'etica, la mo­ rale ariostesca, in forma di lezioni o sententiae provvisorie che il narratore evince dalle storie che racconta. I proemi, inoltre, offrono una scena per lo sviluppo di specifiche forme dell' intertestualita, come il riuso consape­ vole dell' io oraziano delle Satire, o di alcuni degli esordi danteschi della

Commedia ( per esempio,

Jfxix, 1-6; xxn, 1-15), o delle parole rivolte dal

narratore boiardesco al suo pubblico. Non va dimenticato poi che i proemi verranno messi in relazione con la nascita del genere romanzo da Giraldi

1. Non mi sono potuto giovare dell'importante contributo di Daniela Delcorno Bran­ ca (2.016) uscito successivamente alla redazione e alla consegna di questo saggio.

341

ALBERT RUSSELL ASCOLI

Cinzio

(rsS4), da Pigna (rsS4) e da tanti altri (]ossa, 2002, pp. 217-26)

-e

questo nonostante il fatto che l'epopea america e quella virgiliana facessero già uso di proemi (essenzialmente nella forma dell' invocazione alla Musa). E ancora: quello del proemio è, senza dubbio, uno dei principali luoghi te­

stuali in cui osservare la famosa ironia ariostesca e, insieme a quella, l' a rm o ­

nia,

tradizionalmente legata al controllo assoluto esercitato dalla «figura

del poeta» sulla materia narrativa.

È poi qui che il lettore del poema viene

più esplicitamente interpellato. Infine, sarebbe impossibile parlare dei temi ricorrenti della

corte e dellajìloginia e misoginia senza fare continuamente

riferimento ai proemi. Ciononostante, e forse proprio perché costituisce un aspetto cruciale della riflessione intorno alle strutture, ai temi, ai prin­ cipali problemi del poema, il meccanismo del proemio in sé, con le poche ma importanti eccezioni già segnalate, non ha attirato la dovuta attenzione critica. Prendiamo come esempio il proemio del canto XXI: Né fune intorto crederò che stringa soma così, né così legno chiodo, come la fé ch'una bella alma cinga del suo tenace indissolubil nodo. Né dagli antiqui par che si dipinga la santa Fé vestita in altro modo, che d'un bel bianco che la cuopra tutta: ch'un sol punto, un sol neo la può far brutta. La fede unqua non debbe esser corrotta, o data a un solo, o data insieme a mille; e così in una selva, in una grotta, lontan da le cittadi e da le ville, come dinanzi a tribunali, in frotta di testimon, di scritti e di postille, senza giurare o segno altro più espresso, basti una volta che s'abbia promesso. Quella servò, come servar si debbe in ogni impresa, il cavallier Zerbino: e quivi dimostrò che conto n'ebbe, quando si tolse dal proprio camino per andar con costei, la qual gl'increbbe, come s'avesse il morbo sì vicino, o pur la morte istessa; ma potea, più che 'l disio, quel che promesso avea

(C XXI 1-3).

PROEMI

Le prime due stanze, che tessono un elogio alla «santa Fé » - il valore caval­ leresco per eccellenza (ma pure dello Stoicismo), che insiste sulla necessità di fare sempre corrispondere le proprie azioni alla parola data in promessa o per voto-, si presentano quale espressione delle convinzioni del narratore (che però prende in prestito ad Orazio la personificazione della Fede abbi­ gliata di un velo immacolato: Cannina I,

35, 21-22).

Come avviene in molti altri casi, l'osservazione o il commento del nar­ ratore sono seguiti da un'ulteriore stanza che rende esplicito il nesso tra questo intervento e il segmento narrativo immediatamente precedente. Im­ portanti studiosi del poema hanno visto nel proemio del canto XIX A C) il tema principale del poema (Durling,

(xxi

1965, p. r67; Saccone, 1974). Tut­

tavia, nessuno ha letto questo proemio nel suo contesto immediato, né si è voluto pensare che il tema potesse essere soggetto a quell'ironia tagliente che il narratore mette in atto proprio attraverso la giustapposizione di seg­ menti diversi del poema (in questo caso, solo per fare un esempio, la storia di Zerbino, come viene articolata prima e dopo il proemio, insieme con il racconto di secondo grado da parte di Ermonide della storia di Filandro, che occupa la maggior parte del canto XXI C), non risparmiando né i valori più alti della sua società, né la propria credibilità. Questa disattenzione da parte di fini studiosi ha dato spazio a una lettura erronea del proemio e delle sue molteplici funzioni testuali, come ho mostrato altrove (Ascoli,

1999b).

Ecco quindi, presentati in modo schematico, alcuni degli elementi che il lettore dovrà considerare:

r.

la fede qui celebrata non coincide soltanto con il comportamento di

Zerbino nei confronti dell'odiosa vecchia Gabrina (che ha promesso di di­ fendere in

XVIII

A

[xx C], ottava n8), ma con quella stessa insistenza da

parte del cavaliere scozzese circa la necessità di mantenere fede alla promes­ sa, anche a costo di uccidere un cavaliere virtuoso come Ermonide. E questo benché Zerbino sia a conoscenza delle nefandezze commesse dalla vecchia, personificazione stessa dell'infedeltà, responsabile della morte di almeno tre uomini, nonché della seduzione e della totale degradazione morale di uno di questi;

2.

la storia raccontata da Ermonide è un exemplum di fede che sovverte

sé stessa, facendosi strumento inconsapevole del suo opposto: il protago­ nista del racconto di secondo grado, Filandro, ciecamente rispettoso della fede cavalleresca, finirà per uccidere Argeo, la sola persona cui desiderava ad ogni costo restare fedele, ritrovandosi così preda di Gabrina; 3·

l'episodio apparentemente marginale di Filandro e Gabrina e quello

della fede male osservata di Zerbino sono vicende che, lette attraverso il fil-

343

ALBERT RUSSELL ASCOLI

tro del proemio ironico, fanno da preludio alla follia di Orlando, due canti più avanti (Masciandaro, 1980) . Quella follia, infatti, sarà da attribuire alla fede cieca che il paladino ha riposto in Angelica e alla presunta infedeltà della principessa del Catai, nel momento in cui mette da parte i tanti ca­ valieri pretendenti per concedere il suo amore all'umile Medoro - a sua volta esempio insigne di fede nei confronti del proprio signore, Dardinello (Saccone, 1974); 4·

il proemio e il racconto nel racconto che viene subito dopo costituisco­

no la base intratestuale, nonché una chiave esegetica, per la narrazione delle vicende di Bradamante, Ruggiero e Leone inserita da Ariosto nell'edizione finale del Furioso (Ascoli, 2003); s.

il narratore, inserendosi nel proemio, per mezzo di un verbo solo ( «cre­

derÒ»), coinvolge tanto sé stesso che il proprio testo in una riflessione sulla fede intesa come credulità in senso lato: sollecita la fede del lettore nelle sue parole, salvo poi mostrare chiaramente perché a quelle parole non si può e non si deve credere (un esempio chiaro si ha pure nel proemio del canto VII;

cfr. Ascoli, 1987, pp. 156, 238, passim) . In precedenti studi dedicati a questo canto mi sono occupato della pro­

blematica della fede, sviluppando l'interpretazione di episodi specifici e pro­ ponendo una revisione radicale del modo in cui si dovrebbe intendere la fede quale tema privilegiato del poema. Mi sono soffermato, inoltre, sul ruolo che detto tema ha nel passaggio dal primo all'ultimo Furioso. Qui invece vorrei suggerire che il proemio al canto

XXI

C può servire a esemplificare alcune

delle molteplici funzioni che i proemi del Furioso svolgono. Tra queste: I.

commentare la materia narrativa presentata nel canto precedente, gui­

dando, anche se in modo fuorviante, l'interpretazione che il lettore ne fa; 2.

anticipare la materia narrativa del canto che introduce, guidando, an­

che se in modo fuorviante, l'interpretazione che il lettore ne fa; 3·

creare un legame tra le materie presentate e quelle da presentare, gio­

cando così un ruolo essenziale nella tematizzazione e problematizzazione dell'entrelacement ariostesco; 4·

costruire un ponte tra il passato storico, nel quale le narrazioni caval­

leresche si ambientano, e il presente nel quale si collocano la scrittura del poema e la sua lettura da parte del pubblico estense e cortigiano; s.

stabilire, sempre per mezzo di questa doppia temporalità, una prospet­

tiva duplice, che evoca e complica il rapporto tra verità e finzione, che in­ sieme rivela lo statuto fittizio del mondo cavalleresco narrato e identifica un ordine di verità alternativa, e cioè la verità della letteratura quale regno delle finzioni (Ascoli, 1987, pp. 151-7, passim; Zatti, 1990, cap. 7 );

344

PROEMI

6.

infine, e in rapporto strettissimo con il punto precedente, rivelare il

controllo esercitato dal narratore, e implicitamente dall'autore empirico, sul mondo del Furioso. Rivelare cioè il fenomeno testuale che di solito viene descritto con le parole «ironia» e «armonia». Le funzioni appena elencate, tranne le prime due, non sono svolte esclu­ sivamente dai proemi (si pensi, per esempio, alle intrusioni del narratore nel passaggio da un filone narrativo ad un altro in seno a uno stesso canto, op­ pure alle profezie ecfrastiche del "futuro" della famiglia estense). Però non si può negare che i proemi siano il luogo in cui riscontrare, in modo più costante ed evidente, tali funzioni; né si può negare che essi siano il luogo in cui il rapporto strettissimo tra le varie funzioni è più visibile. Va detto che una rilettura dei proemi che prenda anche in considerazione l'evoluzione dal primo all'ultimo Furioso - con particolare attenzione a quei proemi che vertono su argomenti di apparente attualità politica e sociale, molti dei quali hanno perso la loro rilevanza tra il rsr6 e il 1532 - richiederebbe un'amplificazione significativa del presente discorso (cfr. Ascoli, 1999a).

2.

Prima di offrire ulteriori esempi a illustrare questa funzionalità molteplice del proemio ariostesco, intendo suggerire che i proemi non servono unica­ mente a far capire meglio la forma del Furioso e la produzione dei significati in seno ad esso, ma che nella storia della letteratura italiana essi costituisco­ no un'innovazione radicale. Innovazione diventata estremamente influen­ te e che mi pare possa leggersi addirittura come una premessa essenziale alla nascita del genere letterario moderno per eccellenza, vale a dire il romanzo in prosa. Si è appena parlato di un'innovazione radicale, ma forse sarebbe meglio riprendere l'affermazione di Rajna secondo la quale la materia narrativa di Ariosto non fu per niente originale sul piano dell' inventio- nel reperimen­ to delle materie prime del racconto - ma che notevole era la dispositio - vale a dire l'imposizione di una forma su materiali narrativi presi in prestito da autori precedenti (Rajna, 1975, pp. 37-8). Come vedremo, non c'è alcun elemento dei proemi ariosteschi che non abbia il suo precedente. È però la fusione di molteplici precedenti, in un modo che non ha precedente, che distingue i proemi ariosteschi dai predecessori. Gli esordi nel Furioso assumono così una centralità e una sistematicità strutturali, oltre a dotarsi di una polisemia sapientemente gestita, che non si trova in alcun altro testo

345

ALBERT RUSSELL ASCOLI

della tradizione romanzesco-cavalleresca, almeno fino a questo momento storico. Il precursore più evidente di Ariosto e il più influente per il suo poema è, ovviamente, Baiardo -pure già innovativo rispetto a quanto trovava nella

tradizione dei cantari fino a Pulci (per osservazioni sulle differenze tra Ba­ iardo e Ariosto nell'uso dei proemi cfr. Sangirardi, 1993, pp. 319-28). Eppure la tecnica formale dell' lnamoramento è ben diversa da quella del

Furioso,

anche se, con riferimento ai proemi, le maggiori differenze si riscontrano tra il Furioso e il primo libro di Baiardo. Nel primo libro dell' lnamoramen­

to, dopo l'esordio che introduce l'argomento del poema e definisce il suo pubblico signorile e cortigiano, l'inizio di ogni nuovo canto sta in rapporto simmetrico con la conclusione di quello precedente (fatte salve poche ec­ cezioni). Il canto primo chiude nel bel mezzo di uno scontro tra Argalia e Feraguto (scontro che verrà riscritto, con differenze importanti, nel primo canto del Furioso): Cussì cruciati con le spade in mano Ambi col petto de' corsieri urtaro: Non è nel mondo Baron sì soprano, Che non possan costar star seco al paro. Se fosse Orlando e 'l sir de Montealbano, Non vi saria vantaggio né devaro: Però un bel fatto potriti sentire, Se l'altro canto tornareti a odire (In.

I I

91).

Il canto secondo inizia con un semplice ponte narrativo, un'evocazione della situazione fittizia dell'enunciazione (l'io poetico che canta davanti al suo signore): Io vi cantai, signor, comme a baraglia Eran condurti con molta arogancia Argalìa, il forte cavalier di vaglia, E Feraguto, cima di posancia (In.

I n I,

1-4).

Nel poema ariostesco, le conclusioni dei canti hanno questa stessa struttura (per un'analisi delle conclusioni di canto cfr. Praloran,

1999;

Izzo,

2oos ),

ma la transizione narrativa all'inizio dei canti viene sempre preceduta da un proemio più ampio che fa emergere questioni tematiche e insiste sul rapporto complesso tra il poema e i suoi lettori. Inoltre, come si vedrà, la caratterizzazione del rapporto poeta/mecenate è molto più complessa.

PROEMI

Nel primo libro di Baiardo le uniche eccezioni a questa regola sono tre riprese dell'esordio al poema intero ( con l'invocazione ai lettori e la definizione del soggetto del poema ) , nei canti

XIX, XXVI

e

XXVII.

Vanno

segnalati però due canti ( su un totale di ventinove ) che nell'esordio han­ no una qualche somiglianza con quello che sarà il proemio ariostesco: la definizione della Fortuna nel canto

XVI

( ma

cfr. anche

II IX ,

)

che fa da

commento sulle sfortune di Agricane raccontate nel canto precedente, e, soprattutto, la meditazione sull'amore nel canto XXVIII: Chi provato non ha che cosa è Amore Biasmar potrebbe e dui Baron pregiati, Che insieme a guera con tanto furore, E con tanta ira s'eran afrontati, [ ...] Ma chi cognosce Amore e sua possanza, Farà la scusa di quel cavaliero, Ch'Amor il senno e l'intelletto avanza, Né giova al proveder arte o pensiero; Gioveni e vechi vano ala sua danza, La bassa plebe col signor altiero. Non ha remedio Amore e non l'ha Morte: Ciascun prende, ogni gente e d'ogni sorte. E ciò se vidde alhor manifesto: Ché Orlando, qual di senno era compito, Di sua natura si cangiò sì presto E venne impac'iente al'appetito, Et a Renaldo se fece molesto, Col qual fo d'amistà già tanto unito. Hor nel campo a morto lo desfida Sonando il corno ad alta voce crida (In. I XXVIII

r,

1-4; 2-3).

Nel secondo e nel terzo libro dell'Inamoramento le cose cambiano, paral­ lelamente all'aggiunta della trama delle origini genealogiche degli Estensi, che inserisce i personaggi di Ruggiero e Bradamante accanto ai nomi tradi­ zionali della materia carolingia ( Orlando, Rinaldo, Carlo, Astolfo e altri ) , trama presente sin dall'inizio nel Furioso. Nel secondo libro le transizioni narrative tendono ad essere più elaborate e, su trentuno canti, si può dire che venti vengono introdotti da un qualche tipo di estesa riflessione pro­ emiale, che va oltre la semplice segnalazione di una ripresa del racconto.

347

ALBERT RUSSELL ASCOLI

Mentre nel terzo libro, sette su otto canti si avviano con un proemio. Molti proemi rilevano somiglianze e differenze tra i cortigiani del passato nar­ rato e quelli del presente della narrazione

)

XXIV, XXVI, XXIX, xxx .

il rapporto tra i due

)

xxx; III: v, VI .

(n:

I, x, XII, XIII, XVIII, XXII,

Gli argomenti principali sono Amore, Guerra e

(n: IV, VIII, XII, XIX, XX, XXI, XXII, XXV, XXVI, XXIX,

Pochi proemi anticipano un fenomeno che sarà molto più

comune nel Furioso, paragonando la vita amorosa del narratore con quella dei suoi personaggi, o, in qualche altro modo, inscenando il rapporto del poeta con la sua materia ( in particolare nel libro secondo, ai canti IV,

)

XXII, XXIII, xxvn .

XIX,

Pure pochi (circa un terzo) quelli che offrono una vera

riflessione morale-filosofica o in altro modo interpretativa

)

XII, XIII, XVIII, XXII, XXIII, XXIV, XXVI; III: IV, VII ,

( n:

IV, IX, x,

come invece si trova

molto spesso nel Furioso. Non sorprende che molti di questi esordi siano "metapoetici" nel soffermarsi sul ruolo del poeta, sulle caratteristiche del suo pubblico,

O SU

entrambe le cose ( 11:

VIII, X, XI, XIII, XVII, XIX, XX, XXI,

)

XXII, XXIII, XXIV, XXVII, XXX, XXXI; III: III, V, VI, VIII .

In altre parole, attraverso il suo poema, Baiardo modella la figura del poeta che narra- figura che avrà ancora più risalto nella sua incarnazio­ ne ariostesca - e, strada facendo, comincia pure a sviluppare il proemio metaletterario, autoriflessivo e, di tanto in tanto, moralizzante-esegetico, come si troverà poi nel Furioso . Tuttavia, due sono le differenze essenziali tra l' lnamoramento e il Furioso. La prima fondamentale differenza sta nel fatto che là dove l'uso del proemio è caratteristica uniforme del poema ariostesco, in quello boiardesco è soltanto negli ultimi due libri - e ne­ anche in modo del tutto sistematico - che diventa un fatto strutturale ricorrente del poema. La seconda differenza è che- con l'unica eccezione dell'esordio al terzo libro- nessun proemio boiardesco fa riferimento ad eventi contemporanei, cosa che invece i proemi del Furioso fanno decisa­

mente spesso ( un numero di proemi che si colloca tra un quarto e un terzo

del totale accenna all'attualità storica ) . Inoltre, nel caso specifico menzio­

nato, Baiardo fa riferimento alle guerre italiane soltanto per affermare che la loro cessazione è la condizione sine qua non per la ripresa della scrittura da parte dell'autore: Come più dolcie a' naviganti pare, Poi che fortuna li ha batuti intorno, Veder l'onda tranquilla e queto el mare, L'aria serena e il cel di stelle adorno; E come el peregrin nel caminare Se alegra al vago piano al nova giorno,

PROEMI Essendo fuori uscito alla sicura Del'aspro monte per la notte oscura; Così, dapoi che la infernal tempesta Dela guerra spietata è dipartita, Poi che tornato è il mondo in zoia e in festa E questa corte è più che mai fiorita, Farò con più diletto manifesta La bella istoria che ho gran tempo ordita: Venite ad ascoltare, in cortesia, Signori e dame, e bella baronia! Le gran bataglie e il tr'iumphal honore V i conterò di Carlo Re di Franza, E le prodecie fatte per Amore De el conte Orlando e sua strema possanza; Come Rugier, che fu nel mondo un fiore, Fosse tradito: e Gano di Maganza, Pien de ogni fellonia, pien de ogni fiele, Lo occise a torto, il perfido crudiele. E seguirovi, sì come io soliva, Strane aventure e battaglie amorose, Quando virtute al bon tempo fioriva Tra cavalieri e dame grat'iose, Facendo prove in boschi et ogni riva, Come Turpino al suo libro se expose. Ciò vo' seguire, e sol chiedo di gratia Che con diletto lo ascoltar vi piacia

(In. m I 1-4).

In altre parole, la storia, nel suo aspetto più violento, è antitetica alla scrit­ tura poetica; nel Furioso invece l'una può integrare l'altra. Più facilmente paragonabili al

Furioso

potrebbero sembrare due altri

romanzi cavallereschi che sfruttano l'esordio proemiale a ogni canto, anti­ cipando di fatto la pratica ariostesca: si tratta del Morgante di Luigi Pulci, pubblicato nel I48I ( precedente di poco i primi due libri dell' Inamoramen­

to, I482-83 ) e del Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara, che esce nel IS09 ( Ariosto aveva da poco iniziato a lavorare al Furioso), con molti debiti nei confronti di Boiardo ( cfr. Santoro, I989, pp. ss-6). Il caso di Pulci ha poco in comune col Furioso, in effetti, in quanto ogni proemio del Mor­ gante è un'invocazione o un'evocazione di una fonte sacra all'ispirazione poetica - pratica che fra l'altro sviluppa un uso già largamente presente

349

ALBERT RUSSELL ASCOLI

nella tradizione precedente dei cantari (cfr. Cabani, 1988, pp. 23-46), come nel seguente brano: O giusto, o santo, o etterno Monarca, o sommo Giove per noi crucifisso, che chiudesti la porta onde si varca per ire al fondo dello oscuro abisso; tu, ch'al principio movesti mia barca, tu sia il nocchiere intento sempre e fisso alla tua stella e la tua calamita: che questa istoria sia per te finita

(Morg.

II

I).

Questo meccanismo è del tutto assente tanto in Baiardo che in Ariosto. Inoltre, agli esordi pulciani manca quella funzione di commento e di esegesi che si riscontra nei proemi dei libri II e III dell' Inamoramento e poi in tutto il Furioso. Il caso delMambriano, invece, è molto più interessante. Anche qui ogni canto comincia con un intervento del narratore in prima persona. Un nu­ mero assai grande - tra un terzo e la metà, su un totale di quarantacinque è focalizzato sulle Muse o sulle divinità del mondo classico, a modo di in­

vocazione: O sacro Apollo, tempra la mia cetra, Che possa raccontar le magne prove Di quel Rinaldo, il qual mai non s'arretra, S'alcun sopra di lui battaglia move

(Mamb. II I, I-4)•.

Presso Ariosto, un solo canto, il terzo, invoca una divinità classica, Apollo, e in rapporto specifico con la genealogia epica degli Estensi: Chi mi darà la voce e le parole convenienti a sì nobil suggetto? chi l'aie al verso presterà che vole tanto ch'arrivi all'alto mio concetto? Molto maggior di quel furor che suole,

2.

Altri esempi nei canti I, V, VIII, X, XI, XV, XVIII, XIX, XXI, XXII, XXV, XXVIII, XXX,

XXXI, XXXIII, XLI, XLIII, XLV. Una volta sola il narratore si rivolge all' «incomprensibile

Dio [. ..] l trino in persone e unico in essenza» (xx, 1). Nel canto VII si indirizza alla «som­ ma virtù» che potrebbe essere il Dio cristiano - ma non lo nomina esplicitamente. Qualche volta gli dèi classici sono menzionati pure come personifìcazioni dei temi principali del poema, Marte in particolare (I, V, XI, XIII, XVIII, XXIV, XXXVI, XXXVIII ) .

350

PROEMI

ben or convien che mi riscaldi il petto; che questa parte al mio signor si debbe, che canta gli avi onde l'origin ebbe: di cui fra tutti li signori illustri, dal ciel sortiti a governar la terra, non vedi, o Febo, che 'l gran mondo lustri, più gloriosa stirpe o in pace o in guerra; né che sua nobiltade abbia più lustri servata, e servarà (s'in me non erra quel profetico lume che m'inspiri) fin che d'intorno al polo il ciel s'aggiri. E volendone a pien dicer gli onori,

bisogna non la mia, ma quella cetra con che tu dopo i gigantei furori rendesti grazia al regnator dell'etra. S' instrumenti avrò mai da te migliori,

atti a sculpire in così degna pietra, in queste belle immagini disegno porre ogni mia fatica, ogni mio ingegno ( Ofm

1-3).

Altrove ho sostenuto che il proemio del canto terzo evoca in modo parodi­ co il topos epico e dantesco - già ripreso in vena diversa da Pulci e da Cieco dell'invocazione alla divinità classica o al Dio cristiano ai fini dell'ispirazio­ ne poetica ( Ascoli,

1987, pp. 339-41)3•

Tra i proemi del Cieco tuttavia ce ne sono molti che mettono in scena il narratore che parla del mestiere poetico e delle difficoltà che deve affron­ tare nella scrittura del poema: Ogni stanco nocchier di perir teme Quanto ei si trova sopra un debil legno In alto mare e che fortuna il preme Da tutti i canti senza alcun ritegno; Oltra il timor, la brigata che geme Gli affligge tanto l'animo e l'ingegno, Che trasportar si vede al vento e a l'onde Fuor del proprio v'iaggio e non sa donde. 3· Cfr. Inamoramento di Orlando, I XXVII 1: «Chi mi darà la voce e le parole, l E un proferir magnanimo e profondo?». Non c'è, comunque, in Boiardo l'invocazione di un dio o di una musa in modo specifico, e qui il narratore non sta raccontando delle glorie estensi bensì della battaglia tra Orlando e Rinaldo.

3SI

ALBERT RUSSELL ASCOLI

Così anch'io sbandito da le Muse, E combattuto da diversi impacci, Mi veggio trasportar per vie non use Nulla stringendo ben che molto abbracci; E se già il Ciel qualche grazia m'infuse, Or mi trabocca in cento mila lacci, E non mi lascia maggior mia doglia Espedir né ottener cosa eh' io voglia. Da un canto ho povertà ch'ognor mi sprona E che mi col l'ardir, l'ingegno e l'arte; Da l'altro poscia a l'orecchie mi sona Continuamente il gran furor di Marte, Che non mi lascia stampir cosa bona, Anzi da me medesmo mi diparte, In modo che talor campano e scrivo, E non discerno s'io san morto o vivo

(Mamb. XXXVIII 1-3)4•

Il tema svolto qui si trova negli esordi ariosteschi soltanto nel primo, nel terzo e nell'ultimo canto - inoltre il proemio del Cieco si differenzia nettamente dalle affermazioni ariostesche di un controllo quasi divino sui personaggi e sulla trama frequenti già in Baiardo e pervasive presso Ariosto. La differenza principale che corre tra i proemi del Mambriano e quelli del Furioso sta soprattutto nella scarsa presenza, all'interno del poema del Cieco, di esordi d'argomento etico, psicologico e storico. Su quarantacin­ que, soltanto quattro possono essere caratterizzati in questo senso (ai canti

)

VI, XXII, xxv, XL ,

fatto che distingue in modo nettissimo la pratica del

Cieco da quanto fanno Baiardo, negli ultimi canti dell' Inamoramento, e Ariosto, in tutto il Furioso. Particolarmente significativi sono i canti - rela­ tivamente pochi e concentrati verso la fine del poema XXXIII, XXXV, XXXVI, XXXVIII

)

( xxiv, XXVI, XXXII,

- in cui il Cieco allude in modo più

O

meno esplicito - spesso attraverso l'uso di metafore tratte dal campo se­ mantico del paesaggio e delle stagioni - a eventi violenti del mondo esterno. Come pure in Baiardo, tali eventi sono di solito presentati quali minacce alla scrittura del poema (e alla salute del poeta) e non sono mai rappre­ sentati nelle loro specificità (un'eccezione va fatta per il canto

XXXI,

con

4· Cfr. pure i canti I, III, IV, VI, XII, XIV, XVII, XIX, XXIII, XXVII, XXVIII, XXIX, XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII, XXXIX, XLII, XLIII, XLIV, XLV.

352

PROEMI

la sua promessa di celebrare le opere di Carlo

)

VIII :

in tal senso è evidente

che esiste un contrasto fortissimo tra Ariosto e i suoi due predecessori. Sin­ tomatico, ma pure eccezionale nella sua esplicitezza, è il proemio appena citato del canto XXXVIII.



Dopo aver osservato da una parte il modo in cui i proemi di Ariosto ri­ prendono e sviluppano alcune delle funzioni già presenti nei poemi di Boiardo e del Cieco, dall'altra il modo in cui essi tendono a differenziarsi sempre più spiccatamente rispetto ai precedenti, è il momento di illustrare più dettagliatamente come si articolano le funzioni svolte dal proemio in seno all'economia del Furioso. Come già osservato, nel Furioso del 1532 ci sono quarantacinque proemi su quarantasei canti. Di questi, quaranta sono identici o solo leggermente revisionati rispetto a quelli del primo Furioso5• Cinque proemi invece- quelli dei canti x, XII, XXXIII, XXXVII e XLV- so­ no nuovi, tutti determinati dalle aggiunte narrative e ecfrastiche al poema, e tutti, tranne il proemio al canto XII, commentano specificamente la nuova materia. Un canto solo, il

XXXIX,

rimane privo del proemio del quale era

fornito, per motivi che sono troppo complessi da affrontare in questa sede, ma che riguardano il noto spostamento da un'ideologia regionale e italiana del primo Furioso a una europea nel terzo. Come già detto, i proemi dell'ultimo Furioso, come già nel rsr6, hanno molteplici funzioni, alcune delle quali sono anticipate nei poemi di Boiar­ do e del Cieco. Ovviamente, la stragrande maggioranza dei proemi arioste­ schi comincia col segnalare la ripresa della materia narrativa interrotta alla fine del canto precedente, svolgendo però tale compito in modo molto più variato rispetto alle transizioni formulaiche adoperate dai predecessori (si pensi in particolare alla frase ricorrente «lo vi lasciai» del Mambriano ) .

E, come vedremo, le transizioni tendono ad essere collegate con interventi

sempre più complessi da parte del narratore, che tematizza, commenta e giudica gli eventi raccontati.

S· Si noti il caso eccezionale del proemio al canto XLIV: nell'edizione del 1516 queste

tre stanze stavano in posizione interna all'ultimo canto, subito dopo la lunga metafora dell'arrivo della nave in porto, e avevano funzione proemiale in quanto collegavano la ma­ teria del canto precedente con quella dell'ultimo canto - laddove la metafora della nave riguardava il poema intero. Con questa struttura "doppia" Ariosto complica notevolmente la fisionomia del proemio rispetto ai suoi predecessori.

353

ALBERT RUSSELL ASCOLI

In un solo caso, al canto

XXXII

( xxx A), il proemio si occupa esclusi­

vamente del problema della transizione tra un punto nel racconto e quello seguente, ma lo fa in modo da parodiare e complicare notevolmente il con­ cetto di continuità narrativa, richiamando l'attenzione del lettore sull' intri­ cato lavoro di entrelacement nel quale si è impegnato l'autore-narrratoré: Soviemmi che cantare io vi dovea

( già lo promisi, e poi m'uscì di mente) d'una sospizion che fatto avea la bella donna di Ruggier dolente, de l'altra più spiacevole e più rea, e di più acuto e venenoso dente, che, per quel ch'ella udì da Ricciardetto, a devorare il cor l'entrò nel petto. Dovea cantarne, ed altro incominciai, perché Rinaldo in mezzo sopravenne; e poi Guidon mi diè che fare assai, che tra camino a bada un pezzo il tenne. D'una cosa in un'altra in modo entrai, che mal di Bradamante mi sovenne: sovienmene ora, e vo' narrarne inanti che di Rinaldo e di Gradasso io canti. Ma bisogna anco, prima ch'io ne parli, che d'Agramante io vi ragioni un poco, ch'avea ridutte le reliquie in Arli, che gli restar del gran notturno fuoco, quando a raccor lo sparso campo e a darli soccorso e vettovaglie era atto il loco: l'Africa incontra, e la Spagna ha vicina, ed è in sul fiume assiso alla marina

( Ofxxxn 1-3).

Il proemio menziona almeno cinque filoni diversi della trama, tre dei quali

(quello di

Rinaldo, di Guidone, e poi ancora di Rinaldo nel suo scontro

con Gradasso) avevano, l'uno dopo l'altro, interrotto la trama di Brada­ mance nel canto

XXXI,

Bradamante che ora, a sua volta, interrompe l'ulti-

6. Da vedere pure il proemio del canto XXVIII (dove il narratore consiglia al lettore

di saltare il canto intero perché il suo taglio misogino potrebbe offendere e comunque non contribuisce in alcun modo alla storia principale). Ma si tenga presente anche l'immagine finale del poema quale nave che approda in porto dopo un lungo errare narrativo (XLVI 1-2 ) .

354

PROEMI

mo di questi ( Rinaldo ) , per poi essere interrotta dalle vicende di un altro personaggio, Agramante, seppure per sole sette stanze. Il racconto ritorna a Bradamante nella decima stanza e resta su di lei fino alla fine del canto, passando comunque attraverso una serie di narrazioni di secondo grado alle quali la guerriera dà ascolto: il racconto del Guascone, quello di Ullania e quello dell'oste della Rocca di Tristano7• In questo proemio Ariosto supera di molto i suoi predecessori nell'enfatizzare la tela intricatissima tessuta dal poeta, facendo emergere il ruolo centrale del narratore che esercita un con­

trollo fortissimo su tutti gli elementi della sua opera ( pure quando finge di

aver dimenticato momentaneamente qualcuno o qualcosa ) .

Passiamo ora a un secondo aspetto che distingue il proemio arioste­ sco, sempre osservandolo in contrasto rispetto all'uso che fa dell'esordio la tradizione precedente. Come già segnalato, i proemi del Furioso constano principalmente di una sorta di commento che interpreta retrospettivamen­ te i contenuti del canto appena letto, oppure che anticipa la materia del canto appena cominciato, o, ancora, che fa entrambe le cose. Nella misu­ ra in cui Boiardo e Cieco ci offrono questo tipo di commento proemiale

(comunque

in modo saltuario rispetto alla sistematicità di Ariosto ) , essi

restano focalizzati sui due temi che definiscono il soggetto di tutti questi poemi -nonché del romanzo cavalleresco in quanto genere -vale a dire armi e amori, Marte e Venere. Ovviamente questa è la tradizione che viene echeggiata e distillata anche nel primo verso dell'ultimo Furioso, «Le don­

ne, i cavallier, l'arme, gli amori l [ ... ] io canto» -con una amplificazione

del rapporto con la letteratura dotta attraverso allusioni sia a V irgilio che a Dante. E non c'è dubbio che, in senso lato, amore e armi vengono tema­ rizzati spesso nei proemi di Ariosto. L'amore, o almeno il desiderio, appare quattordici volte, la guerra almeno nove, dopo l'esordio del poema. E alme­

no in tre casi (canti IX,

xxv

e XXXVIII ) i due temi sono di nuovo associati,

facendo emergere il conflitto tra il dovere del cavaliere nei confronti del suo signore feudale e l'amore per la sua donna.

Al contempo, rispetto ai predecessori Ariosto ci presenta una varietà



I contenuti del canto erano molto diversi nell'edizione del rsr6 (canto xxx A) in

quanto si seguiva Bradamante solo fino all'ottava so, mentre la seconda parte includeva due diversi filoni narrativi (la continuazione dello scontro tra Rinaldo e Gradasso e l'episodio di Astolfo dal Senapo), filoni che però, nel 1532, slitteranno nel canto successivo ( xxxiii

C), dopo l' inserimento (nel nuovo canto XXXII C) delle vicende di Ullania e dell'episodio della Rocca di Tristano. Nel rsr6, non solo le narrazioni precedenti al proemio ma pure quelle che lo seguono esemplificano la bravura ariostesca nella tecnica dell'entrelacement messa in rilievo all'inizio del canto.

355

ALBERT RUSSELL ASCOLI

tematica straordinaria nei proemi. E questo sia nel modo in cui vengono trattati i due temi principali, sia nell'immettere altri temi che, pur essendo spesso riconducibili in qualche modo ad "armi e amori': aggiungono no­ tevole spessore morale, psicologico, sociale e addirittura epistemologico al poema. I temi più rappresentati sono la fede, cioè la promessa data e mante­ nuta secondo il codice cavalleresco (si vedano in particolare

)

XXXVIII ,

e la cosiddetta

IX, x, XIX, XXI,

querelles desjémmes, o meglio la questione delgen­

der in senso lato, che appare per ben sedici volte, con un numero straordina­ rio di varianti rappresentate (per esempio,

)

XXIX, xxx, xxxvn .

v, XIII, xx, XXII, XXVII, XXVIII,

Altri temi comprendono: la vera amicizia contro la

(xix, XLIV) ; il giudizio (la deliberazione razionale) contro l'errore (Iv, ) l'avarizia ( xxvi, XLIII ) ; la gelosia (xxxi ) ; la vita cortigiana (ancora XLIV ) ; la Fortuna ( xLv ) ; la giustizia divina nei confronti dei colpevoli ( vi, XVII, XXIII, XXIX ) ; l'arte visiva contro l'arte della parola (xxxiii ) . La varietà negli argomenti si può vedere subito passando in rasse­ falsa

vn, VIII, XVIII, xxvn ;

gna i proemi dei canti da n a VII: l' «ingiustissimo Amor», cioè il fallimen­ to di qualunque tentativo di stabilire un rapporto di reciprocità in tutte le relazioni amorose

( n ) ; la celebrazione da parte del narratore della gloriosa

(ni ) ; le apparenze ingannevoli del nostro mondo e la necessità ( Iv) ; l' innaturale violenza degli uomini sulle donne ( v ) ; i peccati nascosti, inevitabilmente rivelati dalla giustizia divina ( vi ) ; l'incredulità del lettore medio di fronte ai fatti narrati e la rivendicazione della loro autenticità da parte del narratore ( vn ) . stirpe estense

di farvi fronte con la simulazione e la menzogna

Questa combinazione di continuità e varietà nei proemi è un'innova­ zione di Ariosto e ha scopi precisi nell'economia del poema. In primo luo­ go, essa costituisce una specie di filo di Arianna che serve ad orientare e a guidare il lettore nel suo "viaggio testuale" attraverso le labirintiche struttu­ re narrative del Furioso. Non importa quanto siano tortuosi e frammentati i vari filoni narrativi dei quali il lettore deve tenere conto: ogni proemio offre la possibilità di estrarre un significato chiaro e definitivo da ciò che si è appena letto o si sta per leggere. Che quel significato alla fine si riveli in­ completo o addirittura erroneo- come succede in effetti quasi sempre- ciò non lo rende meno utile come mezzo provvisorio per orientarsi nella selva oscura, nel tempestoso mare, nella tela intricata del poema. Inoltre, il fatto che ogni proemio abbia un suo carattere distinto conferisce al canto un'i­ dentità semantica specifica che permette che il lettore lo sperimenti, sempre provvisoriamente, come unità autonoma e, per così dire, digeribile, proprio nel momento in cui gli vengono offerte delle chiavi per cogliere il rapporto tra un dato canto e altri canti, grazie a una "segnaleticà' proemiale fatta di

PROEMI

parallelismi o contrasti. In altre parole, i proemi, che da un certo punto

di vista ( cfr. Ascoli, 1999a; 1999b ) complicano e rendono problematico il

significato della narrativa ariostesca, sono pure uno dei mezzi principali che la rendono leggibile al lettore non esperto, che si trova davanti al poema più lungo, e per certi versi più complesso, della tradizione letteraria italiana. Volgiamo ora la nostra attenzione a un'altra caratteristica chiave del proemio ariostesco, anche questa all'origine di importanti sviluppi nella tradizione letteraria. Si tratta del ruolo che hanno i proemi nella costruzio­ ne della «figura del poeta», cioè l'autore dichiarato della «bella istoria» raccontata, ma anche il suo commentatore invadente. Non a caso, nei tan­ tissimi discorsi critici attorno a questa figura, almeno a partire da Durling

( r965 ) , i proemi sono citatissimi, anche se di solito non considerati in sé e

per sé. Come in Boiardo e nel Cieco tale costruzione avviene su due piani ben distinti. Il primo è quello del riferimento "metapoetico" all'arte del poeta nel raccontare, nel plasmare il suo rapporto con i lettori, nello sce­ gliere i temi trattati dalla storia. Approssimativamente, la metà dei proemi è di questo genere ( spiccano di nuovo, in tal senso, i proemi ai canti

)

XLV I .

I, III

e

In questo registro, Ariosto è ancora, evidentemente, continuatore,

seppure in modo più coerente ed elaborato, della voce narrativa creata da Boiardo, mentre, come già visto, si distingue nettamente dalla posizione adottata dal Cieco. L'altro piano su cui si costruisce la figura del poeta sta nell'assimilarsi del narratore alle vicende dei propri personaggi, in particolare quelle amo­ rose, postura comune ai due predecessori ferraresi, ma in particolare tipica di Boiardo. Ariosto offre tuttavia una visione molto più complessa e ten­ denzialmente negativa della sua esperienza erotica. Inoltre Ariosto, diversa­ mente da Boiardo e dal Cieco, a volte mette a confronto vistosamente i due registri- quello del poeta-Dio e quello dell'amante disperato. Un esempio notevole di questa tattica, per altro già presente nell'esordio al primo canto, si ha nel famoso proemio del canto

XXIV,

subito dopo l'impazzimento di

Orlando: Chi mette il piè su l'amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v'inveschi l'aie; che non è in somma amor, se non insania, a giudizio de' savi universale: e se ben come Orlando ognun non smania, suo furor mostra a qualch'altro segnale. E quale è di pazzia segno più espresso

che, per altri voler, perder se stesso?

3S7

ALBERT RUSSELL ASCOLI

Varii gli effetti son, ma la pazzia è tutt'una però, che li fa uscire.

Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giù, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vo' dire: a chi in amor s'invecchia, oltr'ogni pena, si convengono i ceppi e la catena. Ben mi si potria dir: - Frate, tu vai l'altrui mostrando, e non vedi il tuo fallo. Io vi rispondo che comprendo assai, or che di mente ho lucido intervallo; et ho gran cura (e spero farlo ormai) di riposarmi e d'uscir fuor di ballo: ma tosto far, come vorrei, nol posso; che 'l male è penetrato infìn all'osso ( OJXXIV

1-3).

Com'è stato più volte osservato, quel «lucido intervallo» nel quale il poe­ ta-amante riesce a comprendere la propria pazzia è pure lo spazio nel quale si deve supporre che venga scritto il Furioso: nel verso si riprende l'autorap­ presentazione del poeta nell'esordio al primo canto e si riecheggia la descri­ zione, ad opera di san Girolamo, del poeta Lucrezio nell'atto di scrivere il

De rerum natura.



La struttura appena menzionata- cioè il doppio ruolo di Ariosto-narratore, quale autore del poema nel presente della scrittura e quale uomo moderno le cui esperienze sono analoghe a quelle dei personaggi nel passato narratoè esempio significativo di un altro fenomeno che abbiamo visto già in Ba­ iardo e nel Cieco, benché in chiave minore, vale a dire il modo in cui i proemi stabiliscono un rapporto tra passato e presente, tra il mondo del testo e quello cortigiano cinquecentesco dei suoi primi lettori. In Baiardo riferimenti di questo genere prendono solitamente la forma della laudatio

temporis acti, che mette in luce negativa i propri tempi (cfr., per esempio, nel secondo libro i canti XII e XXII ) e la materia poetica "bassà' rispetto ai temi epici-mitologici dell'antichità ( ancora II XXII ) . Nel Furioso, i parallelismi con il passato cavalleresco del poema (e in parte con il passato classico) sono numerosi ed espliciti - presenti all'in-

PROEMI

circa in più di un quarto dei proemi. E se permane il motivo della laudatio

temporis acti (cfr. i canti XIII,

xx, XXVI, xxxvi ,

)

questo è di solito ambiguo

e ironico, e viene giustapposto alla rivendicazione, di ascendenza epica vir­ giliana, che "l'età dell'oro" è tornata sotto il governo degli Estensi e nelle corti a questi legate ( cfr. i canti III e

xu .

)

Tale rivendicazione è formulata,

tuttavia, in modo da risultare non del tutto credibile. I proemi, così come altre strutture tipiche e ricorrenti del poema ( le ecfrasi, per esempio) , insce­ nano il rapporto tra passato e presente in modi diversi e a volte contraddit­ tori tra di loro. Limitiamoci per ora al tipo di riferimento che distingue più nettamente Ariosto dai suoi predecessori, e cioè i frequenti riferimenti pro­ emiali a eventi storici del mondo contemporaneo- relativamente ali' Euro­ pa, all'Italia, a Ferrara-, in particolare i riferimenti alle "guerre italiane" e al ruolo chiave giocato dagli Estensi. Si è già accennato al fatto che, mentre per Boiardo e Cieco, che fanno riferimento a tali eventi solo di rado e in modo altamente allusivo, la storia contemporanea, nelle sue espressioni più violente, è sentita come una mi­ naccia, un ostacolo insuperabile alla scrittura dei loro fantasiosi romanzi cavallereschi, per Ariosto tali eventi diventano un mezzo per stabilire una dialettica elaborata, in primis tra passato e presente, e poi, per estensione, tra finzione letteraria e verità storica- fino al punto di far riferimento, ogni tanto, al proprio ruolo nella diplomazia estense (cfr., per esempio, XL

2-3).

I riferimenti alle guerre dei suoi tempi vengono introdotti sempre con paragoni che mettono a raffronto le finzioni del poema col mondo nel qua­ le Ariosto vive e scrive. Un esempio è il proemio al canto quarantaduesimo, che passa dall'ira di Orlando, che vede ucciso l'amico Brandimarte, al fu­ rore incontenibile delle truppe ferraresi che vedono il loro duca atterrato da un sasso nemico: Qual duro freno o qual ferrigno nodo, qual, s'esser può, catena di diamante farà che l'ira servi ordine e modo, che non trascorra oltre al prescritto inante, quando persona che con saldo chiodo t'abbia già fissa Amor nel cor costante, tu vegga o per violenza o per inganno patire o disonore o mortai danno? E s'a crude!, s'ad inumano effetto

quell'impeto talor l'animo svia, merita escusa, perché allor del petto

359

ALBERT RUSSELL ASCOLI

non ha ragione imperio né balia. [... ] Invitto Alfonso, simile ira accese la vostra gente il dì che vi percosse la fronte il grave sasso, e sì v'offese, ch'ognun pensò che l'alma gita fosse: l'accese in tal furor, che non difese vostri inimici argini o mura o fosse, che non fossino insieme tutti morti, senza lasciar chi la novella porti. Il vedervi cader causò il dolore che i vostri a furor mosse e a crudeltade (O/XLII I; 2, I-4; 3; 4, I-2).

Si notino le differenze con l'incipit del terzo libro dell'Inamoramento I I -4 ),

(ni

già citato in precedenza, e con questo brano tratto dal Mambriano:

Il continuo rimbombo che mi sona A l'orecchio del crudo e fiero Marte, M'ha così allontanato da Elicona, Ch'io non ardisco di vergar più carte Né di invocar il figliuol di Latona In mio favore; anzi solo in disparte Tristo, pensoso a un'ombra oscura e tetra, Quasi ho disposto di por giù la cetra. Ma perché l'opra si appropinqua al fine, Io non voglio desister da l'impresa, Ancor ch'io senta il scorno e le ruine Di questa nostra Ausonia mal difesa (Mamb. XXXVI I; 2, I-4).

Nel Furioso i paragoni tra passato poetico fittizio e presente storico rea­ le hanno molteplici effetti. Tanto per cominciare, come abbiamo appena anticipato, in molti casi, anche se non sempre, essi sono esplicitamente en­ comiastici nei confronti dei fratelli d'Este, il cardinale lp polito e il duca Alfonso, presentati quali eredi degli eroici Orlando, Ruggiero e compagni. Visti più da vicino, però, i paragoni mettono in rilievo la discrepanza note­ vole tra le gesta dei paladini e la realtà poco esaltante delle guerre italiane. In questo modo (anticipando alla lontana il Don Chisciotte di Cervantes) il pa­ ragone proemiale sembra mostrare come la fantasia cavalleresca faccia parte

PROEMI

dell'ideologia e dell'immaginario della società cortigiana rinascimentale, ma indica anche la distanza immensa che separa quella fantasia da una "veri­ tà effettuale" che si potrebbe definire "machiavellica." I proemi quindi non soltanto mostrano che le fantasie e le finzioni del poema possono leggersi come commenti sulla realtà presente di Ferrara, dell'Italia, e dell'Europa, ma pure che le stesse fantasie e le finzioni - con le quali inganniamo non

soltanto gli altri ma pure noi stessi ( «ecco il giudicio uman come spesso erra»,

I

7,

2

)

- sono una parte costitutiva della nostra esperienza "reale:'



Finora la nostra attenzione si è soffermata prevalentemente sulla forma, sul contenuto e sulle funzioni dei singoli proemi. Anche sulla base di quanto detto fin qui, vorrei adesso proporre un nuovo modo di osservare il fun­ zionamento dei proemi nell'economia del poema intero, in particolare in rapporto con quella tecnica alla quale si suole attribuire la coerenza e l'unità

profonda del Furioso nella sua straordinaria molteplicità (cfr. Carne-Ross,

1966; 197 6; Durling, r96s ) , vale a dire l'entrelacement. L'attenzione critica

sulla struttura del Furioso si è concentrata, non senza ragione, sulla straor­ dinaria perizia con la quale Ariosto utilizza questa tecnica, definita come l'intrecciarsi dei vari filoni narrativi, comprese le storie dei personaggi, sia principali che secondari, nonché le novelle interpolate ( i racconti di secon­

do grado) . Come si sa bene l'entrelacement narrativo è preso in prestito dalla tradizione del romanzo epico-cavalleresco - e in particolare dal solito Boiardo. Il suo sfruttamento però viene portato da Ariosto a un livello di

altissima sofisticazione ( si noti, per esempio, che sarebbe difficile trovare due canti consecutivi nei quali l'entrelacement funzioni, strutturalmente, nello stesso modo) . Detto questo, dovrebbe essere ben chiaro ormai che l'entrelacement ariostesco coinvolge anche le strutture non narrative, e pri­ ma di tutto i proemi. In sostanza, insieme con altri elementi strutturali quali l'emergere della voce narrante all'interno dei canti, le ecfrasi, gli encomi genealogici, gli episodi allegorici, e così via, i proemi sono accuratamente intrecciati agli elementi prettamente narrativi, li completano e li commen­ tano, offrendo al lettore elementi fondamentali per cogliere più facilmente i rapporti tematici che collegano i diversi filoni della storia (Ascoli, 1999a) .

Visto alla luce di quest'accezione allargata del concetto di entrelace­ ment, il proemio mostra di svolgere specifiche funzioni al livello dell'im­ mediato contesto narrativo. Per esempio, mette in evidenza un tema

ALBERT RUSSELL ASCOLI

condiviso tra due o più personaggi, come quell' «ingiustissimo amore» proemiale del canto II, evocato da una riflessione sulle vicende amorose di Angelica e Rinaldo, che può applicarsi altrettanto bene a Orlando, a Ferraù, a Sacripante, e pure a Bradamante che insegue Ruggiero. Oppure fa risaltare un'immagine che ricorre ripetutamente in diversi racconti, come, ad esem­ pio, le creature alate nel canto XXXIII (Ascoli, 1987, p. 298), e la "colonnà' nel canto XXXVII (Ascoli, 1998). Ma non è solo rispetto al contesto immediato che i proemi servono a guidare l'interpretazione del lettore. Come abbiamo già constatato passan­ do in rassegna i motivi trattati nei proemi, questi servono a riproporre temi fondamentali per il poema intero (la fede, la dissimulazione, la follia...). In questo senso, si può dire che i proemi si intrecciano non soltanto con le narrazioni, ma pure l'uno con l'altro. Una delle forme in cui si realizza questo ordine di relazione è la sequenza di proemi affini per tema in una zona specifica del poema. Un esempio si ha con la serie di proemi sull'amore e sui rapporti tra uomini e donne collocata tra i canti XXIV e xxx. Un'altra lunga sequenza di proemi che vanno letti insieme si trova verso la fine del poema, laddove si tratta dei problemi militari, politici e sociali della Ferrara estense, nonché del sistema degli Stati italiani nel primo Cinquecento e del­ le interazioni tra questi, sullo scenario della complessa e instabile situazione europea (in particolare i proemi ai canti XL ,

)

XLI , XLII, XLIV, XLV, XLVI .

Naturalmente, quindi, ci sono argomenti proemiali che ricorrono in tutto il poema, accumulando significati, rafforzando una posizione già pre­ sa o creando uno scontro dialettico attorno a posizioni evidentemente con­ traddittorie. Si noti, per esempio, che la sequenza politico-militare finale in verità comincia con una sequenza più breve di proemi ai canti XIV, XVII

xv,

-i primi due trattano di battaglie nelle quali gli Estensi hanno avuto

un ruolo cruciale; nell'ultimo si prospetta un contesto molto più vasto per le guerre italiane, tema che verrà ripreso all'inizio del canto XXXIV, e poi, di nuovo, verso la fine del poema. Ancora più evidente è il caso, al quale si è accennato in apertura, dei proemi che oscillano tra filoginia e misoginia.

Per fare il punto, allora, diremo che i proemi giocano un ruolo crucia­ le e coerente in quell'entrelacement che è la caratteristica strutturale più notevole del Furioso, e lo fanno sia accentuando quelle omologie e quelle opposizioni che determinano i rapporti tra i vari filoni narrativi -incluse le novelle intercalate -sia creando una sorta di ulteriore entrelacement, che intreccia i proemi stessi con le narrazioni e con le strutture non narrative del poema. Si potrebbe addirittura espandere questa nozione di "entrelace­ ment proemiale" per includervi la dimensione intertestuale (le varie evoca-

PROEMI

zioni di Orazio, Dante, Petrarca, Boccaccio ecc. che risuonano negli esordi di canto) e per mostrare fino a che punto i proemi costituiscano il punto liminare tra storia e finzione, quel punto in cui i confini tra questi due spazi sono definitivamente crollati.

6.

In conclusione, allora, prendiamo un ultimo esempio di proemio arioste­ sco, un brano che offre una spia particolarmente suggestiva dell'epistemo­ logia poetica di Ariosto alla quale si è appena accennato: Chi va lontan da la sua patria, vede cose, da quel che già credea, lontane; che narrandole poi, non se gli crede, e stimato bugiardo ne rimane: che 'l sciocco vulgo non gli vuol dar fede, se non le vede e tocca chiare e piane. Per questo io so che l'inesperienza farà al mio canto dar poca credenza. Poca o molta ch'io ci abbia, non bisogna eh'io ponga mente al vulgo sciocco e ignaro. A voi so ben che non parrà menzogna, che 'l lume del discorso avete chiaro; et a voi soli ogni mio intento agogna che 'l frutto sia di mie fatiche caro ( Ofvn

1; 2.,

r-6).

Si tratta di un consapevole rovesciamento del topos diffusissimo di un'éli­ te intellettuale - in questo caso quella cortigiana, alla quale appartiene lo stesso poeta - che riesce a capire ed apprezzare delle verità difficili e segrete, ignote al

«

vulgo sciocco» detestato da Petrarca - tra tanti altri - ma che

qui dispone di uno scetticismo saggio. Tuttavia, l' ironia che viene indiriz­ zata in un primo momento verso i creduli, che sono capaci di scambiare le apparenze per la verità (come lo stesso Ruggiero sedotto dagli incanti di Alcina nelle ottave seguenti), è in effetti doppia, in quanto allude al con­ tempo a un "mondo altrove" (che potrebbe essere il nuovo mondo, appena "scoperto" da Colombo, ma non solo), agli antipodi letteralmente e figura­ tivamente da quel che pensiamo di conoscere nella nostra vita quotidiana. Come spero di aver mostrato in queste pagine, per capire nella sua profon­ dità questo gioco ariostesco, che rivela insieme le illusioni che sottendono la

ALBERT RUSSELL ASCOLI

realtà della nostra vita e la realtà che si nasconde dietro le fantasie incredibili delle rappresentazioni letterarie, bisogna partire dai proemi.

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HIRDT w. VI SANI

o.

Racconti di Annalisa Izzo

I.

La definizione di entrelacement (cfr. Tomasi, Entrelacement) come com­ presenza di fili narrativi diversi e tra loro indipendenti, che vengono alter­ nativamente presentati dal narratore con una raffinata tecnica di passaggio da un episodio ali' altro, viene elaborata con riferimento al modo di raccon­ tare dei romanzi francesi in prosa del Duecento (Lot, 1954; Baumgartner,

1987) ma esprime in modo solo parziale la complessa organizzazione delle narrazioni che si intersecano e si sovrappongono nel Furioso. Tra le molte e varie strategie praticate da Ariosto per moltiplicare e strutturare la materia (tra cui, ad esempio, l' innovativa gestione del proemio: cfr. Ascoli, Proe­

mi), una delle più classiche e delle più frequentemente sfruttate è quella dell' inserzione di racconti nel racconto (solitamente per voce di uno dei personaggi). Se la maggior parte di questi segmenti narrativi non è sfuggita alla critica quanto ai temi e ai contenuti, è da notare però che né la loro struttura formale, né tanto meno la loro (complessiva) funzione ali' interno del sistema è stata oggetto di approfondite analisi. In queste pagine, dun­ que, ci si interesserà ai racconti di secondo grado, osservando ne soprattutto la morfologia - livello narrativo, punto di vista, tempo narrativo, spazio ecc. - nella convinzione che si tratti di un'operazione fondamentale per capire meglio non solo l'organizzazione globale del Furioso, ma forse anche il modo in cui lavorava Ariosto. Due elementi distinguono il Furioso dai suoi più diretti antecedenti letterari - l' lnamoramento e il Mambriano - relativamente alla narrazione di secondo grado (o metadiegetica, per dirla con Genette, 1972): la frequen­ za, cioè la presenza di episodi in narrazione metadiegetica più significativa numericamente parlando, e la coerenza, vale a dire un certo tipo di costanti formali che accomunano i segmenti in metadiegesi. Queste caratteristiche verranno tra poco illustrate attraverso esempi scelti nell'obiettivo di riflet-

ANNALISA IZZO

tere sullo statuto che l'opera attribuisce alla narrazione di secondo grado. Preliminarmente però bisogna intendersi su cosa si considera qui narrazio­ ne di secondo grado. La critica, s'è detto, ha rivolto poca attenzione alla strategia della nar­ razione di secondo grado nel Furioso. Di fatto ci si è interessati solo ad al­ cuni segmenti diegetici identificati fin da subito come inserti novellistici. Franceschetti (I9 8 9) ricorda che già le edizioni cinquecentesche dell' Ina­ moramento e del Furioso fornivano tavole con l'elenco delle «novelle» in­ tercalate nella narrazione principale. Pur nella instabilità del canone degli episodi identificati appunto come novelle, gli studiosi che si sono occupati di racconto nel racconto nel Furioso hanno dunque privilegiato la questione del genere letterario ( cfr. Ferretti,

Generi): così Franceschetti ( I 9 8 9 ) , Bigaz­ zi (I996), fino a Sangirardi (2009). L' ipotesi che viene proposta in queste pagine è che, guardando oltre le interferenze tra generi letterari e osservando più da vicino il piano dell'e­ nunciazione di questi racconti ( analizzando in particolare le voci narranti, i contenuti delle narrazioni, le relazioni tra la narrazione di primo grado e quella di secondo grado ecc. ) si potrà capire meglio la funzione che tali segmenti, presi nel loro insieme, svolgono al livello della macrostruttura narrativa. Il

corpus su

cui si basano le ipotesi e le riflessioni proposte in questo

intervento raccoglie segmenti che sono:

a) discorsi pronunciati da un per­

sonaggio;

b) a dominante narrativa; c) espressi in forma di discorso diretto o indiretto; d) della lunghezza di almeno un'ottava. A queste caratteristiche formali se ne aggiunge un'altra che tocca il piano del contenuto: i brani presi in esame non contengono racconti menzogneri né ridondanti rispetto

ad un altro segmento narrato in primo grado•. A partire da questi criteri si ritaglia un insieme di quarantadue segmen­ ti narrativi. Intanto, quindi, si può già osservare che emerge un

corpus di

brani notevolmente più ampio rispetto ai soliti tredici/ quindici racconti selezionati sulla base del genere letterario: in realtà i segmenti definibili come racconto di secondo grado per voce di un personaggio sono molto più numerosi delle così dette novelle intercalate, indizio che la strategia viene praticata da Ariosto per scopi e con esiti che travalicano la poetica della commistione dei generi e che semmai ricade nell'alveo di un più va-

1. Con l'eccezione di un solo caso di cui si dirà piu avanti. Il numero dei racconti di secondo grado a contenuto menzognero è di otto; a contenuto ridondante- rispetto a brani in diegesi principale - è di quindici.

RACCONTI

sto sperimentalismo formale in parte ancora da descrivere. Si noti a questo punto che i criteri indicati portano all'inclusione nel corpus, tra gli altri, di segmenti come il racconto in cui Pinabello rivela a Bradamante come l' ippogrifo abbia rapito la sua donna ( n 37-57 ) ; il racconto di un eremita che mette in guardia Astolfo da Caligorante ( xv 42., 4-46, 2. ) ';le parole con

cui il capitano della nave racconta ad Astolfo, Marfisa e compagni l'usanza

delle «femine omicide» ( xix 57-58 ) ; il racconto di Almonio a Zerbino, che

contiene la conclusione delle vicende legate al rapimento di Isabella (xxiv

2.0, I-2.8, 4 ) ; la storia della regina d'Islanda raccontata da un viandante a

Bradamante (xxxn SI, s-s9. 4 ) ; l'usanza della Rocca di Tristano spiegata

da un pastore a Bradamante (xxxn 6s , I-68, 4 ) ; le rivelazioni di Atlan­ te a Marfisa e Ruggiero che apprendono così di essere fratelli ( xxxvi 59,

I-66, 6) e il discorso complementare, sullo stesso argomento, di Ruggiero a

Marfisa (xxxvi 70, I-76, 4 , con alternanza di discorso diretto e indiretto ) ;

i racconti profetici come quello di Andronica, che anticipa ad Astolfo le

future scoperte geografiche (xv I9, I-35 , 8) ; quello di Malagigi a Viviano e

compagni in cui si interpretano i bassorilievi della fonte di Merlino, anti­

cipando il futuro di settecento anni ( xxvi 38, 7-47, 8) ; quello del Signore

della Rocca a Bradamante e Ullania in cui, descrivendo i dipinti di Merlino,

è profetizzata la storia d'Italia (xxxiii 6, I-57, 8, anche qui per via di discor­ so diretto e indiretto ) .

Già un catalogo parziale come questo dà una misura dell'uso esten­ sivo del racconto metadiegetico nel Furioso e della necessità di superare l'usuale approccio che valorizza solo la riconoscibilità del segmento come novella intercalata- del resto, come si vede, il corpus così definito include altri generi quali ecfrasi e profezie per esempio. Pertanto, sulla base dei criteri indicati, emerge che nel Furioso gli inserti metadiegetici coprono 7.0I7 versi; nell' Inamoramento i versi in metadiegesi sono 3 . 4013• Nel Fu­

rioso cioè la metadiegesi corrisponde a circa il I8,n% del totale del poema,

composto da 38.736 versi; nell' Inamoramento rileva del 9,59% del totale di 35 . 432. versi.

2.

Si noti che questo racconto è presente nelle tavole delle cinquecentine che elencano

le novelle interpolate, mentre sparisce nelle compilazioni moderne. 3·

Nel Furioso i versi in metadiegesi salgono a 7·495 se vi si includono i racconti men­

zogneri e quelli ridondanti, nell' lnamoramento includendo le ridondanze si arriva a un totale di 4.156 versi in metadiegesi.

ANNALISA IZZO

2.

Assodato l'uso estensivo della metadiegesi nel Furioso, è importante adesso metterne in luce le funzioni svolte. I piani su cui l'analisi si soffermerà sono: 1.

rapporto tra narrazione principale e narrazione di secondo grado (cfr.

infra,

2. 3· 4· S·

PAR.

2.1);

tempo (cfr. infra,

PAR.

2.2);

voce e punto di vista (cfr. infra, ruolo del narratore (cfr. infra,

messa in scena (cfr. infra,

PAR.

2.3 ); 2.4);

PAR.

PAR.

2.5).

2.1. Una prima osservazione riguarda il rapporto che sul piano sintagmatico sussiste tra racconto di primo (R1) e racconto di secondo grado (R2). Rela­ tivamente al Furioso gli interventi narrativi dei personaggi sono prevalen­ temente analessi esplicative, vale a dire che il narrante spiega le ragioni e gli antefatti della situazione descritta in diegesi principale. Dunque, dal nostro punto di vista, l'articolazione tra i due livelli narrativi R1 e R2 è presieduta non tanto, come voleva Dalla Palma (1984), da una relazione avversativa del «narrato versus l'agito», ma piuttosto da un rapporto consecutivo, di causa-effetto. Questo implica che R2 non costituisce un segmento isolato o autonomo, ma rappresenta uno snodo determinante nella costruzione della trama e delle avventure dei singoli personaggi in R1. A titolo d'esempio (tra i moltissimi possibili) si può ricordare l'episodio della donna mesta che racconta a Ruggiero e Bradamante l'usanza imposta tre giorni prima da Pinabello presso il castello di Pontiero

(xxn

47-56). Dopo aver spiegato

in cosa consista l'usanza, la donna dice: «Come l'usanza (che non è più antiqua l di tre dì) cominciò, vi vo' narrare»

( xxn 49, 1-2). L'esempio è

interessante proprio perché esplicita la consapevolezza della dimensione narrativa («vi vo' narrare») dell'inserto eziologico (che infatti non serve solo a trasmettere l'informazione circa l'usanza stabilita, ma a raccontarne le origini) mettendo così in luce la duplice finalità della strategia metadie­ getica, da una parte accrescere la materia narrativa, dall'altra strutturare la trama globale sulla base di nessi consecutivi-causali tra ciò che avviene in primo piano (R1) e ciò che avviene in secondo piano (R2): sentito il rac­ conto della donna, Ruggiero e Bradamante non esitano a mobilitarsi contro Pinabello, affrontando così una nuova avventura. Le cose stanno un po' diversamente per il racconto prolettico - pro­ fezie, anticipazioni -, la cui funzione pare diversa. Solo in alcuni casi, in­ fatti, la prolessi comporta un vero e proprio sviluppo narrativo rispetto alla

370

RACCONTI

situazione diegetica contingente; in questo caso c'è un rapporto diretto tra

dieta e acta,

causa ed effetto: è così per le istruzioni date da Melissa a

Bradamante su come affrontare Agramante e Brunello e liberare Ruggiero

(111 66,

s-74,

8).

In altri casi, però, la prolessi più che narrativa è di natura

meramente descrittiva (si pensi a quelli che potremmo definire i "ritratti" di personaggi futuri). Se è pur vero che i medaglioni profetici di Merlino e di Melissa nel terzo canto (ottave I6-I9 e

23-59) hanno la forza di alimentare

l'azione di Bradamante perché ne sollecitano l'orgoglio e la motivazione, è però sul piano della struttura temporale del

Furioso in quanto récit che

si manifesta il loro effetto più rilevante. Queste descrizioni infatti vanno a coprire un segmento cronologico in tutto esterno ai limiti della diegesi principale, con l'effetto di espandere la portata temporale complessiva del racconto, allontanando l'orizzonte entro il quale si colloca il

récit. Si pensi

ancora all'enorme salto in avanti inferto alla materia inclusa nella narrazio­ ne dalle (già ricordate) profezie di Andronica, di Malagigi, del Signore della Rocca, fino alle rivelazioni fatte da Dio ad un eremita a proposito del futuro di Ruggiero e della sua prole

( xu 6I -67 ).

Nell' Inamoramento i racconti prolettici sono meno frequenti e soprat­ tutto non hanno una portata temporale definita (il solo caso rilevante è la profezia di Atlante, che spinge l'orizzonte del racconto fino alla storia contemporanea,

II XXII

53).

2.2. La funzione svolta dai racconti secondi sul piano del tempo è un fatto Furioso differenziandolo chiara­

su cui soffermarsi, perché caratterizza il

mente dai suoi diretti antecedenti letterari. Dobbiamo agli studi di Marco Praloran se oggi siamo molto più con­ sapevoli della grande innovazione compiuta da Boiardo e da Ariosto sulla forma dell'entrelacement. In particolare Praloran ci ha mostrato la nuova problematicità che l'entrelacement praticato da Ariosto determina sul pia­ no temporale. Ariosto infatti, sulla scorta di Boiardo, ha rotto «quel patto di referenzialità secondo il quale la relazione temporale tra le vicende della storia viene riflessa dal racconto in modo veridico. Proprio affidandosi a questo principio il lettore dei grandi romanzi francesi del ' 200 [ . . . ]poteva seguire l'intricatissimo sviluppo delle vicende» (Praloran,

Tempo e azione nell' «Orlando furioso»

I999,

p.

)

n .

In

Praloran mostra invece l' impossi­

bilità «di una misura temporale che possa valere indiscriminatamente per tutte le storie dei personaggi»

(ibid.)

a vantaggio di una rappresentazio­

ne di tipo illusionistico dei valori spazio-temporali frutto, scrive, di «una interpretazione modernissima della tecnica dell' entrelacement» (ivi, p. 371

)

I .

ANNALISA IZZO

La nuova complessità dell'entrelacement nel Furioso dipende dalla nuo­ va rappresentazione del tempo, e questa deve molto, io credo, ad una nuova valorizzazione del racconto di secondo grado. Infatti proprio la moltiplica­ zione dei racconti di secondo grado e la loro diretta concatenazione, in un rapporto causa-effetto, con la trama principale determinano un effetto di frammentazione del piano temporale in una serie di piani paralleli e discon­ tinui. Il fatto che il discorso del personaggio nel Furioso si presenti quasi sempre non in forma di dialogo, di riflessione, di lamento, bensì di raccon­ to, con una sua portata, durata, velocità interna (per queste categorie cfr. sempre Genette, I972 ) , crea un grande movimento sul piano cronologico con un marcato effetto di rifrazione della temporalità. Soffermiamoci su un primo elemento: la portata temporale. Analiz­ zando i racconti al secondo grado enunciativo nell'Inamoramento si osser­ va l'assenza di indicazioni che permettano di collocare cronologicamente gli avvenimenti raccontati in metadiegesi rispetto a quelli raccontati dal narratore principale. Manca, cioè, l'indicazione della portata temporale (quanto avanti o quanto indietro nel tempo i fatti narrati sono avvenuti). Le poche indicazioni rintracciabili sono assai vaghe (i corsivi sono sempre miei): «Narcisofo in quel tempo un damigella»

( n XVII so, I ) ;

«Rugiero

incomenciò dal primo sdegno l che ebero e' Greci, e la prima cagione l che adusse in guerra l'uno e l'altro regno» (III v I 8, I-3 ) . Nel Furioso invece tale portata viene spesso esplicitata; ecco alcuni esempi: nel racconto dei frati a Rinaldo «fra un mese, oggimai presso a finire» (Iv s 8, 7 ); nel racconto di Isabella a Orlando «Mio patre fe' in Ba­ iona alcune giostre, l esser denno oggimai dodici mesi»

(xiii 6, I-2 ) e

«Fi­

nito è il mese ottavo e viene il nono, l che fu il mio vivo corpo qui sepolto»

( xiii 3I, 3-4 ) ;

nel racconto di Guidon Selvaggio «E l'anno è ormai ch'io

la lasciai dolente»

( xx

6, 7 ) e «Son dieci mesi e piu che stanza v'aggio l

che tutti i giorni e tutte l'ore noto»

( xx 7, 3-4 ) ; nel racconto della vittima

di Marganorre a Ruggiero, Bradamante e Marfisa «Già due volte l'onor de

le !or chiome l s'hanno spogliato gli alberi e rimesso, l da indi in qua che 'l rio signor vaneggia»

(xxxvii 40,

s-7 ). Anche nell'ambito delle prolessi si

conferma una tendenza a precisare le coordinate cronologiche: Andronica rivela ad Astolfo le navigazioni e le scoperte geografiche di Colombo e Ve­ spucci, le imprese di Cortéz e Pizarro, e puntualizza che queste avverranno trascorsi sei o sette secoli: «Dio vuoi ch'ascosa antiquamente questa l stra­ da sia stata, e ancor gran tempo stia; l né che prima si sappia, che la sesta l

e la settima eta passata sia»

( xv 24, I-4 ) ; nella lettura che Malagigi fa dei

bassorilievi sulla fonte di Merlino: «Sappiate che costor che qui scritto

372

RACCONTI

hanno l nel marmo i nomi, al mondo mai non furo; l mafra settecento anni vi saranno»

(xxvi 39,

)

I-3 ;

nelle rivelazioni fatte da Dio al santo eremita

che converte Ruggiero «Avea il Signor, che 'l tutto intende e vede, l rive­

da quel di eh 'ebbe lafide, l dovea sette anni, e non più stare in vita; l che per la morte che sua donna diede l a Pinabel [ ... ]l saria [ ... ]l morto dai Maganzesi empi e malvagi» ( xLI 6 I ). lato al santissimo eremita, l che Ruggier

Precisare la portata temporale ha effetti importanti, intanto perché nel momento in cui l'incontro tra personaggi dà luogo ad un racconto, l'asse temporale del récit

(vs. histoire) sembra diventare elastico, sottoposto com'è

a continui andirivieni, indietro e avanti nel tempo. Proprio come per un obiettivo fotografico che modifichi continuamente la profondità di cam­ po dell'inquadratura, il

récit ora mette a fuoco le avventure raccontate in

primo grado (dal narratore principale) ora, aumentando la profondità di campo nitido all'indietro o in avanti (attraverso la metadiegesi per l'appun­ to), mette a fuoco un soggetto più lontano nel passato, oppure addirittura lontano nel futuro. In sostanza, l'insieme dei racconti di secondo grado del Furioso crea un effetto di profondità di campo. La lunghezza di questa profondità di campo dipende dalle coordinate interne di R2: spesso queste sono molto precise (nei casi già ricordati sopra, ad esempio); talvolta invece sono incongruenti (Ermonide racconta-XXI

I3, 7 -di

suo fratello, fattosi

cavaliere d'Eraclio, imperatore bizantino vissuto circa un secolo prima dei tempi di Carlo Magno); talvolta iperboliche (facendo risalire i fatti narrati fino ai tempi della guerra di Troia, come nel racconto di Guidone: «Al tempo che tornar dopo anni venti l da Troia i Greci»

xx IO, I-2).

In qualche

caso tali coordinate restano vaghe (così nel racconto di Olimpia, IX 22-56, e in quello di Lidia, XXXIV 11-43 ) , ma nel complesso esse permettono di apri­ re uno strappo nel "fondale scenico': andando indietro o proiettando avanti il tempo: fino alla guerra di Troia, fino alla nascita del cardinale lppolito d'Este e ancora oltre. Questi racconti, dunque, consentono di espandere vertiginosamente la portata complessiva della narrazione e, soprattutto, di creare un effetto molto marcato di prospettiva. Grazie ai racconti secondi è possibile il riemergere -sulla narrazione "in presa direttà' di primo gra­ do -del tempo anteriore, o, viceversa, l'emergere del tempo che sarà. La temporalità cresce dall'interno e complica straordinariamente le potenzia­ lità della struttura

entrelacée.

Un secondo elemento d'interesse determinato, sul piano temporale, dalla metadiegesi è la doppia velocità. Infatti i racconti secondi creano un effetto illusionistico dovuto al fatto che nel momento in cui il personaggio narra, la velocità di RI è quella della scena, mentre la velocità di R2 è l'e-

373

ANNALISA IZZO

stremo sommario (si pensi ancora al mirabolante flashback nel racconto di Guidone). Ne risulta una grande vivacità di ritmo e di velocità (il racconto si sposta in un passato o in un futuro lontanissimo, scarto tanto più vertiginoso per il fatto di essere determinato cronologicamente da indicazioni puntuali). D'altra parte R2 garantisce una sorta di pausa (la velocità della scena, ap­ punto) dal precipitoso succedersi degli eventi in primo grado. Quest'ultimo effetto è accentuato dalla considerevole lunghezza di molti racconti secondi che, in generale, sono più estesi nel Furioso rispetto all'Inamoramento. Nel romanzo di Boiardo il racconto che risale più indietro nel tempo è la ricostruzione genealogica fatta da Ruggiero a Bradamante, che comincia dalla guerra di Troia: complessiva del

III

v 18. Se si può dire, perciò, che la portata temporale

récit Orlando forioso è la stessa rispetto all' Inamoramento

(dalla guerra di Troia alla contemporaneità), tuttavia le incursioni crono­ logiche all'indietro e in avanti,flashback ejlashjòrward, sono sensibilmente più frequenti nel Furioso. Un terzo elemento d'interesse è ciò che si potrebbe chiamare l'ancorag­ gio temporale. Differenziandosi dalla situazione di fondo, in cui la crono­ logia è per lo più illusoria, le metadiegesi impongono, si è detto, una brusca variazione di ritmo narrativo: sono scene in cui il tempo della storia (prin­ cipale) è uguale al tempo del racconto. Nulla accade sul filo di trama che il lettore sta seguendo, nulla se non l'enunciazione del racconto. Ebbene, questa sorta di tregua dallo scorrere degli eventi in primo piano, insieme a quel contrasto tra temporalità vaga e illusionistica della diegesi e più pun­ tuale della metadiegesi, produce un effetto di ancoraggio temporale, ossia fa del segmento in R2 una sorta di pietra miliare, un punto di riferimento rispetto al quale pare possibile collocare le avventure precedenti e successive del personaggio in ascolto. Questi episodi si pongono come momenti in cui sembra possibile "regolare le lancette" del

récit.

Intorno a questi snodi, si

crea l'impressione (ma solo l'impressione) di poter organizzare l'itinerario dei diversi paladini. Ma allora, se il momento del racconto offre una sorta di tregua alla me­ moria del lettore -spesso frustrata nel tentativo di stabilire rapporti crono­ logici o spaziali tra le diverse avventure -è forse possibile riconoscere a questi segmenti narrativi una funzione particolare nella dispositio della materia ge­ nerale: i luoghi in cui parlano i narratori interni sono "isole" dove si verifica una temporanea sospensione dello scorrere del tempo sul piano principale. Nella partitura complessiva del Furioso, cioè, sono (anche) pause di respiro, che letteralmente puntellano il movimentato procedere dell'azione, la sta­ bilizzano intorno a luoghi di sosta, con l'effetto di dare sollievo alla lettura.

374

RACCONTI

Questa constatazione permette di sfumare un po', forse, quella con­ trapposizione normalmente accettata tra romanzi arturiani da una parte e Inamoramento e Furioso dall'altra, contrapposizione tra la temporalità oggettiva degli uni e l'illusionismo cronologico degli altri. In certo modo, infatti, i punti di riferimento cronologico grazie ai quali è possibile situare, sull'asse temporale, un racconto di secondo grado rispetto alla diegesi in primo grado avvicinano Ariosto, più di Boiardo, al modello antico-fran­ cese. Nel Lancelot, ad esempio, le narrazioni in metadiegesi si avvalgono spessissimo di indicazioni temporali interne. Si osserva quindi nel Furioso una sorta di compensazione, proprio attraverso la metadiegesi, di quell' illu­ sionismo cronologico che rende difficilissimo datare le avventure in diegesi principale. Quarto elemento di interesse, perciò, è la temporalità in certo modo più oggettiva dei racconti secondi. 2.3. Un terzo ambito nel quale la metadiegesi è strumento indispensabile è quello dell'orchestrazione dei punti di vista nel racconto complessivo,

ambito strettamente collegato ad una sperimentazione condotta sulla voce narrante. Nel Furioso ci si imbatte in uno stuolo affollato di narra­ tori. Molti i personaggi che raccontano storie e molte le voci diverse che narrano segmenti diversi di uno stesso episodio (o gruppo di episodi). Un primo effetto di questa moltiplicazione delle voci è quello di creare una fioritura esuberante della materia e l'impressione di una narrazione corale. Un altro effetto è quello di operare nel senso del differimento, per cui una vicenda narrata solo in parte da un personaggio verrà continuata da un altro. Iterazioni, narrazioni ridondanti, sequels: uno stesso nucleo narrativo viene segmentato e sviluppato in momenti diversi da voci nar­ ranti diverse. A partire da alcuni dei casi principali si possono distinguere situazioni ricorrenti: 1.

una vicenda è narrata da due punti di vista diversi (focalizzazione mul­

tipla, Genette, 1972) : i frati incontrati da Rinaldo nella selva Calidonia narrano da una focalizzazione interna le vicende di Ginevra di Scozia («La figlia del re nostro, or se ritrova l bisognosa d'aiuto e di difesa»,

IV

57, s-6 ) ,

raccontano dunque solo ciò che sanno e che hanno sentito dire; la stes­ sa vicenda è poi raccontata, in focalizzazione interna, e questa volta con estrema ricchezza di dettagli, da una delle protagoniste, Dalinda

( v s-74 ) 4•

4· Non deve sfuggire, però, che il discorso diretto di Dalinda ospita lunghi brani in focalizzazione-zero (tipica di un narratore onnisciente): dall'ottava 27 alla 48 e poi dalla 52

375

ANNALISA IZZO

Ciascuna focalizzazione, ciascun punto di vista è connesso a un bagaglio di conoscenze e di informazioni sui fatti; il racconto meno ricco e articolato viene presentato prima e funziona da antefatto, prepara l'ascoltatore inter­ no nonché il lettore a una narrazione più dettagliata. La stessa successione si osserva nella vicenda che riguarda le donne di Alessandretta, le cui usanze sono dapprima presentate dal capitano della nave ad Astolfo e compagni («Il padron narrò lui che quella riva l tutta tenean le femine omicide l di quai l'antiqua legge ognun c'arriva l in perpetuo tien servo, o che l'uccide l

[ ... ] »XIX S7· 1-4; s8) e poi raccontate nel dettaglio da Guidone (xx s-64). Un caso particolare di alternanza di punti di vista è quello che riguarda gli amori di Angelica e Medoro, narrati con focalizzazione esterna e ab­ bondanza di informazioni dal narratore principale

(xix 23-40, per quanto

succede dopo l'incontro tra Angelica e il pastore) e poi con focalizzazione interna (e riportati in forma estremamente ellittica) dal pastore a Orlando

(xxiii n8, 3-120 ) s; 2. una vicenda è narrata e poi continuata da due punti di vista diversi:

in

focalizzazione interna, Isabella racconta a Orlando la storia del suo rapi­ mento da parte di Odorico, di come quest'ultimo si sia liberato di Almonio e Oberto e di come ella sia finita segregata in una spelonca

(xiii 3-31 ) ; Al­

monio poi, incontrandosi con Zerbino e con la stessa Isabella ormai libera, racconta, in focalizzazione interna, ciò che è accaduto dopo la sparizione di Isabella (XXIV 20-28). Si noti in particolare l'ottava 21, felicemente esplicita circa questa alternanza di punti di vista, l'uno a completamento dell'altro nello strutturare le narrazioni cucendo assieme i fili della trama: «Come dal traditore io fui schernito l quando da sé levommi, saper dei; l e come poi Corebo fu ferito, l ch'a difender s'avea tolto costei. l Ma quanto al mio ritorno sia seguito, l né veduto né intesofu da lei, l che te l'abbiapotuto riféri­

re l di questa parte dunque io ti vo' dire». Una situazione affine è quella che riguarda la fanciulla mesta che anticipa a Ruggiero e Bradamante le vicende

(xxii 38-41) e il successivo racconto di Ricciardetto a Ruggiero (xxv 26-70);

di un giovane che sta per essere messo al rogo 3·

una vicenda è narrata da uno stesso personaggio ora in focalizzazione

interna ora in focalizzazione zero: tra gli esempi, le peripezie di Noran­ dino e Lucina, narrate dal cavaliere-testimone («Questo ch'io v'ho naralla s6. Per sua stessa ammissione la narratrice non dovrebbe essere a conoscenza di ciò che ha appena raccontato: «Non sappiendo io di questo cosa alcuna»

(v

49

1).

5· Si noti che quello del pastore

è uno dei rari casi nel Furioso di racconto ridondante rispetto a vicende già narrate in primo grado d'enunciazione, il solo incluso nel corpus qui considerato proprio perché consente riflessioni importanti sul gioco tra le voci narranti.

376

RACCONTI

rato, in parte vidi, l in parte udi' da chi trovossi al tutto»,

XVII

68,

1-2);

l"'etnostorià' del regno delle donne omicide, ripercorsa dalla voce di Gui­ done, vittima e storiografo («Disse Guidon: - Più volte la cagione l udita n'ho da poi che qui dimoro; l e vi sarà, secondo ch'io l'ho udita, l da me, poi che v'aggrada, riferita», xx 9,

s-8).

Su questo terreno, vale a dire quello della moltiplicazione delle voci narranti e dei punti di vista, Boiardo resta piuttosto affezionato al tipo 2, la narrazione continuata da punto di vista diverso (come per lroldo che con­ tinua in I XVII la storia incominciata da Fiordelisa in I XII; cfr. Izzo, 2013a). Ariosto invece si muove irrefrenabilmente su molteplici soluzioni, prati­ cando una grande complessità e varietà nella scelta dei tipi di focalizzazio­ ne, del rapporto tra narratore e fatti narrati, del rapporto tra voce e punto di vista (inserendo talvolta anche voci terze nel racconto di un personaggio). Si tratta di una strategia raffinata, che non è possibile descrivere in termini generali né schematizzare, perché Ariosto la declina in numerose varianti. Per verificarne le implicazioni basti illustrare un solo esempio: nel momen­ to in cui Dalinda inizia il suo discorso al canto

v,

il lettore è già in parte a

conoscenza della disgrazia che si è abbattuta su Ginevra (grazie al raccon­ to dei frati, al canto

IV

)

ed è perciò avido dei dettagli della storia, pende

letteralmente dalle labbra della narratrice; la sua partecipazione emotiva è altissima, perché le parole rivolte dai frati a Rinaldo l'hanno già orien­

tato a simpatizzare con la vittima, a prendere una posizione ideologica, ad identificarsi. Ariosto riesce così a costruire una tensione altissima intorno al racconto di Dalinda: lo ha preparato con estrema raffinatezza tecnica, distillando e anticipando le informazioni più importanti, per svilupparlo compiutamente solo quando l'attenzione del lettore è garantita, quando il desiderio di ascoltare la storia è diventato maturo. Solo a quel punto il narratore interno inizierà a parlare, trovandosi ormai al centro di una vir­ tuale scena. Quest'effetto riposa, oltre che sul sapiente dosaggio dell'infor­ mazione reiterata (prima i frati, poi Dalinda), anche sulla variazione dei punti di vista e sul diverso coinvolgimento psicologico-emotivo che ciascun narratore interno (relativamente alla stessa vicenda) esprime e produce. La fanciulla mesta che racconta a Ruggiero e Bradamante la tragica fine che sta per toccare a un giovinetto, condannato al rogo per essere diventato amante di una principessa, imprime alla vicenda un tono drammatico e angoscioso che cattura l'emotività del lettore. Anche grazie a questa anticipazione, così cupa e affliggente, la storia raccontata in seguito dalla viva voce del prota­ gonista, Ricciardetto, produrrà nel lettore un effetto di estremo sollievo e di grande distensione.

377

ANNALISA IZZO

Questa organizzazione - si potrebbe veramente dire concertazione delle voci- è tipicamente ariostesca e coinvolge tanto i narratori intradie­ getici che il narratore principale, extradiegetico, con effetti di gioco anche notevoli: basti pensare a quella sorta di straordinaria palinodia che è il (già ricordato) racconto degli amori diAngelica e Medoro, dapprima per bocca del narratore principale, poi rievocato (con buone intenzioni ma assai im­ provvidamente) dal pastore, per la sfortuna di Orlando. Nel

Furioso la manipolazione della voce narrante, attraverso il passag­

gio di livelli narrativi sul piano sintagmatico, contribuisce senz'altro a quel­ la che Praloran definiva una caratteristica precipua del capolavoro diArio­ sto (ma in buona parte già dell'Inamoramento) rispetto al modello degli antichi testi francesi: «La riflessione sul rapporto tra realtà e illusione, sui valori soggettivi della percezione e dunque sulle condizioni che modificano l'immagine in rapporto al mutamento del punto di vista dell'osservatore» (Praloran,

2.4.

1999, p. 3).

Mi sembra che una tale pratica comporti, o meglio implichi una vo­

lontà di sperimentare la funzione-narratore in ogni possibile declinazione. Se non conoscessimo il testo, in effetti, la moltiplicazione del numero di narratori interni potrebbe insinuare l'idea di una narrazione polifonica, in senso bachtiniano. In realtà sappiamo benissimo che non solo Ariosto persegue e raggiunge quell'armonia linguistica che fa del Furioso il capola­ voro che è, ma anche che a livello stilistico, di tono e di registro, il

Furioso

non è certo un romanzo polifonico nel senso che alla parola «polifonia» dava Bachtin ( 1979). In realtà nella voce dei personaggi narratori risuona decisamente quella del narratore extradiegetico, e l'analisi conferma a più livelli la natura monodica del canto ariostesco: narratologico, stilistico, intertestuale. Dalinda racconta come se fosse un narratore onnisciente, benché le informazioni di cui il personaggio può essere in possesso non lo consentirebbero

(v 45);

la voce in discorso diretto di Malagigi si alterna

a quella del narratore principale nell'elenco dei personaggi storici scolpiti sulla fonte di Merlino

(xxvi 49 ss.);

Ermonide d'Olanda, ferito a morte

da Zerbino, narra le tragiche vicende di suo fratello Filandro, manipolato da Gabrina, inzeppando il racconto di figure e similitudini poetiche tanto più incongrue perché chi parla è in fin di vita

(xxi 53, 63);

l'oste di Arles,

il cui racconto salace e misogino è attraversato tutto da un discorso petrar­ chista (Cabani,

1990), mostra di giocare con le stesse auctoritates culturali

e letterarie care al narratore principale... Davvero esplicito però risulta un inciso del narratore principale che, dopo aver lasciato la parola alla vittima

RACCONTI

di Marganorre - la quale ha lungamente raccontato a Ruggiero, Bradaman­ te e Marfisa le angherie del perfido tiranno

(xxxvn 38-85)

-, riprende il

racconto e nel farlo assume come proprio anche il racconto del personag­ gio: finita la narrazione, le due guerriere e Ruggiero stanno per rimettersi in strada quando si vede arrivare una schiera di armati che conduce una donna prigioniera. La prigioniera è subito riconosciuta dalle altre vittime di Marganorre che abitano il villaggio: La riconobber queste de la villa esser la cameriera di Drusilla: la cameriera che con lei fu presa dal rapace Tanacro, come ho detto

( Ofxxxvn 88, 7-8; 89, 1-2).

Qui è il narratore principale che parla e che rinvia («come ho detto») a quella parte del racconto di secondo grado in cui era la vittima di Mar­ ganorre a presentare in discorso diretto la cameriera di Drusilla: «Avea seco Drusilla una sua vecchia, l che seco presa, seco era rimasa» 66,

)

1-2 .

(xxxvn

Insomma, l'osmosi tra la voce del narratore principale e quella dei

narratori secondi non potrebbe essere più chiaramente esibita. I narratori di secondo grado, perciò, pur costituendo una folla di per­ sonaggi ben distinti (Dalinda, Olimpia, Isabella, il narratore di Damasco, Lidia, Ricciardetto...), sono anche e soprattutto controfigure del narrato­ re principale che si esibisce in una straordinaria performance in cui declina la propria funzione in tutte le possibili varianti. Da un lato egli dà prova di essere capace di ri-scrivere ogni tipo di narrazione - l'autobiografia, o meglio la confessione di modello dantesco (la vicenda di Lidia sì, ma anche quella di Dalinda, di Astolfo, dell'ospite padano); la novella di stile boccacciano (la storia di Astolfo, Jocondo e Fiammetta narrata dall'o­ ste); l' exemplum morale (le vicissitudini del giudice Anselmo e di sua moglie Argia riportate dal barcaiolo);

iljàbliau (gli amori di Ricciardetto

e Fiordispina); e poi il racconto genealogico, storiografico, profetico... -, dall'altro sperimenta gli effetti (sulla struttura narrativa e sulla percezione delle vicende da parte del lettore) di moltiplicazione e rifrazione della vo­ ce narrante. Una prassi che testimonia, mi pare, di una vera ricerca estetica intorno al ruolo del narratore, al suo potere di plasmare tanto la forma racconto quanto la partecipazione del destinatario. L'insieme dei raccon­ ti secondi è in realtà un archivio dei narratori possibili e, di conseguenza, dei possibili narrativi. 379

ANNALISA IZZO

2.s. Confrontando l'Inamoramento e il Furioso colpiscono i contesti spa­

ziali in cui le narrazioni metadiegetiche hanno luogo (Izzo, 2013b). Emer­ ge cioè un significativo punto di scarto relativamente alla mise en scene: in Boiardo i racconti-secondi avvengono quasi sempre in spazi all'aperto, sul cammino dei personaggi, semmai nei pressi di luoghi topici - un ponte, un lago, un verziere, una fontana. Solo in rari casi si può parlare di racconto "performato" in uno spazio chiuso. Nel Furioso non mancano certo racconti inscenati nei luoghi topi­ ci della selva: la riviera presso cui Argalia ricorda a Ferraù della promessa mancata (I 26-28); la fonte presso la quale Pinabello racconta, a Bradaman­ te, il rapimento della sua amata

(n

37-s7 ); le soglie della foresta dove una

fanciulla mesta riferisce a Ruggiero e Bradamante della condanna a morte di Ricciardetto, poi dell'usanza instaurata da Pinabello (xxn 38-41 e XXII 49-ss); il boschetto di cipressi dove la voce di Atlante informa delle comuni

origini di Ruggiero e Marfisa (xxxvi s9-66). Né certamente mancano veri e propri "racconti della strada", che hanno luogo cioè proprio «in mezzo del camin», senza altra specificazione spaziale: il racconto di Dalinda a Rinaldo ne è già un esempio (v s-74); il racconto di Ermonide d'Olanda a Zerbino (xxi u-66); quello di Almonio a Zerbino e Isabella (xxiv 20-28);

quello di Ricciardetto a Ruggiero che l'ha appena salvato (xxv 2s-7o ); il racconto del viandante a Bradamante, con le vicende della regina d'Islanda (xxxn SI-S9); quello del pastore che anticipa a Bradamante la storia della

Rocca di Tristano (xxxii 6s-68). Nel Furioso si riconosce però una propensione agli spazi isolati. L' ac­ qua, in particolare, è un elemento importante per circoscrivere e delimitare l'alterità spaziale del racconto; soluzione presente già in Boiardo ma molto amata da Ariosto come setting di R2, sia in caso di brevi comunicazioni che di racconti lunghi: così è da un battello sul fiume Cuesnon che una fanciulla riferisce a Orlando gli orrori di Ebuda (Ix 12-13); da una nave sul «fiume Traiano» un eremita mette in guardia Astolfo contro Caligorante (xv 42-46); sull'isola di Alcina Astolfo-mirto racconta a Ruggiero le pro­

prie traversie (vi 33-s3); entrando nel porto di Alessandretta il capitano della nave riferisce ai paladini i barbari costumi delle donne omicide (xix s?-s8); viaggiando lungo il Po un barcaiolo racconta a Rinaldo la storia del

giudice Anselmo (xLIII 69-143). Una classe anche più vasta di racconti mostra che, molto più di Boiardo, Ariosto accorda una preferenza ai luoghi chiusi come setting del racconto metadiegetico: la badia scozzese (Iv s6-62); il palazzo di Olimpia (Ix 22-

s6); la grotta di Isabella (xiii 3-31 ); il palazzo del cavaliere di Damasco (xvii

RACCONTI 25-68); gli «adorni alloggiamenti» di Guidon Selvaggio (xx s-64); l'oste­ ria di Arles (xxviii 4-74); l'interno della Rocca di Tristano (xxxii 83-94); la grotta infernale in cui è punita Lidia (xxxiv 11-43); la stanza in cui Astol­ fo è alloggiato in paradiso (xxxiv 62-67 ); l'albergo delle donne esiliate da Marganorre (xxxvii 38-85); il padiglione di re Carlo (xxxviii I2-I8) ; il palazzo del cavaliere padano (xLIII 2-46); la casa del pastore che racconta a Orlando gli amori di Angelica e Medoro (xxiii 119-120 )... Nel Furioso un'ambientazione raccolta, intima, sembra essere la condizione preferibile affinché l'atto narrativo possa compiersi. Ecco che lo spazio chiuso o isola­ to diventa quasi la cornice fisica che circoscrive il racconto metadiegetico (come cornice, del resto, è l'elemento acquatico negli esempi già citati), lo separa dal resto e nel far ciò lo mette in evidenza. Ne abbiamo un esempio interessante con l'ingresso di Orlando nel palazzo di Olimpia:

Fu ne la terra il paladin condutto dentro un palazzo, ove al salir le scale, una donna trovò piena di lutto, per quanto il viso ne facea segnale, e i negri panni che coprian per tutto e le loggie e le camere e le sale; la qual, dopo accoglienza grata e onesta fatto! seder, gli disse in voce mesta (O/IX 21 ) . Si noterà il rilievo dato ali'avanzare di Orlando fino al cuore della fortezza­ prigione di Olimpia: la terra, il palazzo, le scale, le logge, le camere, le sale. Questo brano permette di osservare un altro elemento formale ricorrente nella mise en scene di R2, ossia il fatto che la narrazione avviene dopo che il futuro ascoltatore è stato accolto e messo a suo agio («dopo accoglienza grata e onesta l fatto! seder, gli disse in voce mesta», vv.

7-8):

non di ra­

do infatti il racconto nel racconto è propiziato da un'occasione conviviale, intorno a un pasto o davanti al fuoco. Il testo insomma mette in scena un contesto di raccoglimento e di intimità grazie al quale, tra chi sta per rac­ contare e chi per ascoltare, si crea una complice attesa, dando così rappre­ sentazione allo stato d'animo in cui si trovano narratore e narratario, autore e lettore. Alcuni racconti, inoltre, si svolgono in una dimensione che non è scorretto definire pubblica. Non solo è frequente la "casuale" presenza

di più narratari nello spazio chiuso in cui è rappresentata la narrazione­ seconda, ma talvolta è proprio ad un piccolo pubblico di ascoltatori che si rivolge il narratore: così, se la vecchia Gabrina è costretta ad ascoltare il racconto di Isabella a Orlando, è a Grifone, Orrigille e Martano che parla

ANNALISA IZZO

il cavaliere di Damasco; una delle vittime di Marganorre si sfoga con Bra­ damante, Ruggiero e Marfisa; per non dire del pubblico di avventori cui si rivolge l'oste di Arles. Insomma: Ariosto mette letteralmente in scena la parola, l'atto del raccontare. Tale operazione evoca la scaena narrandi delle raccolte novellistiche con cornice, in cui un gruppo di personaggi si intrat­ tiene raccontandosi piacevoli storie, spesso in un bel giardino, talvolta sotto una loggia, nelle sale di un palazzo. La scena di narrazione di ascendenza novellistica subisce però nel

Furioso

una riconfigurazione radicale che la

rende funzionale a realizzare un diverso progetto discorsivo. Tale riconfi­ gurazione è resa esplicita proprio dal nuovo investimento simbolico dello spazio. Si capirà in che senso guardando a Boccaccio. Alla fine della prima giornata, la brigata di novellatori del Decameron decide di rinunciare a darsi appuntamento sull'erba di un prato per ritro­ varsi in un luogo più sicuro: il giardino. Come scrive Michel Plaisance: «Questo giardino, geometricamente ordinato, offre la protezione delle sue mura e dei suoi viali [ ... ] . li carattere edenico del luogo, che non sfugge alla brigata, scaturisce dalla sua chiusura» (Plaisance,

1989, pp. 109-10 ). In anti­

tesi allo spazio esterno, fatto di morte e desolazione, lo spazio della cornice nella novella decameroniana è spazio di armonia e di comunione con una natura razionalizzata la cui organizzazione risponde a un progetto narra­ tivo preciso: la ricostruzione di un mondo (Barberi Squarotti,

Furioso

invece la

scaena narrandi,

1983).

Nel

collocata in uno spazio concretamente

chiuso, è spesso pesantemente connotata in senso negativo: la grotta in cui Isabella è prigioniera da più mesi, il palazzo in cui sono stati massacrati i fa­ miliari di Olimpia, la prigione dorata di Guidon Selvaggio, sono altrettanti luoghi in cui si è consumato l'evento drammatico o tragico.

È

su questa

stessa scena che giunge il narratario ed è qui che ha luogo il racconto. La scena in cui avviene l'enunciazione di secondo grado, dunque, fa da cornice al racconto di fatti tragici, orrorosi. Lo spazio che accoglie la parola non può più essere simbolo di ordine e dominio della natura

(illocus amoenus)

perché la parola non rinvia più ad un progetto di ricostruzione razionale e virtuosa del mondo, ma anzi mette in scena precisamente lo smarrimento della ragione e della virtù.

È questo, mi pare, un importante indizio che ci invita a misurare tutta la distanza dei racconti metadiegetici del Furioso dal modello novellistico, pure presupposto. Allo stesso tempo, tuttavia, si noterà che nel modello boccacciano lo spazio della cornice e quello della novella raccontata al secondo grado sono decisamente distinti, alternativi: da un lato illocus amoenus in cui avvengo­ no le narrazioni, spazio chiuso e protetto, dall'altro lo spazio delle novelle,

RACCONTI

del racconto metadiegetico che è quasi sempre spazio aperto dell'avventura. Tra le due dimensioni non c'è alcun canale di comunicazione. Nel Furioso i due spazi si sovrappongono: Orlando arriva precisamente nella prigione in cui le disavventure di Isabella sono giunte alla loro acme; Ruggiero atterra sull'isola di Alcina nel punto esatto in cui Astolfo si è trasformato in mirto... Il risultato di questa continuità spaziale è la continuità narrativa: la so­ vrapposizione degli spazi sarà un elemento indispensabile a determinare l' interazione tra i due mondi narrati, quello sul piano dell'enunciazione di primo grado e quello al secondo grado. Infatti, nel

Furioso

è proprio la

performance narrativa nello spazio condiviso che crea relazioni tra narrato­ re e audience. AI racconto del personaggio solo l'intervento del paladino potrà- nella maggior parte dei casi- dare compimento (o giustificazione ) . L'azione del paladino nellajà bula principale sancisce (o giustifica ) l'atto di comunicazione che ha avuto luogo a livello di enunciazione di secondo grado. Il racconto metadiegetico nel romanzo cavalleresco di Ariosto non è quindi autosufficiente ( come pretende di essere, talvolta, nell' Inamora­

mento

e come è, quasi sempre, nel

Mambriano:

cfr. Izzo, 2012; 2013a; in

corso di stampa ) , ma si completa solo in relazione a ciò che avviene nella trama di primo grado. Visti i precedenti, appunto, la cosa non era scontata. Ariosto, in sostanza, fa subire alla scena di narrazione di provenienza novel­ listica una radicale metamorfosi: egli si appropria del modello per snaturar­ lo, per utilizzarlo ai fini di un diverso progetto discorsivo.



Dovrebbe essere ormai chiaro che rinviare al modello novellistico non con­ sente di comprendere appieno le complesse funzioni svolte dal racconto di secondo grado nel

Furioso.

E se anche Ariosto guarda al genere della

novella per comporre alcuni degli episodi cui si è fatto riferimento in queste pagine, egli finisce per snaturarne la fisionomia, privando ciascun episodio di una conclusione immediata, rendendolo strettamente dipendente dalla reazione del narratario ( il paladino che ascolta e che agisce ) . Così facendo la metadiegesi si trasforma in uno straordinario attivatore di trama, in quanto diventa motore delle azioni sul piano dell'enunciazione di primo grado. Come si è visto, inoltre, lo spazio più ristretto e libero della metadiegesi permette di dotare il racconto di coordinate temporali più precise rispetto agli eventi della trama principale creando un "effetto di prospettiva crono-

ANNALISA IZZO

logica". L'analisi qui condotta sulla metadiegesi fa emerge il vasto lavoro di sperimentazione che Ariosto conduce sulle potenzialità della voce narrante e sulla moltiplicazione dei punti di vista. Il racconto nel racconto si afferma quale strumento sovrano di questa ricerca. Infine, la raffinata e coerente strategia di mise en scene dei racconti secondi rivela la necessità per l'autore di attirare l'attenzione sull'atto narrativo in sé e, forse, sulla sua funzione sociale.

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Storia di Alberto Casadei

I.

Sin dalla sua prima redazione, il Furioso presenta riferimenti a fatti storici molto più frequentemente di quanto non facessero poemi cavallereschi co­ me ilMorgante, l'Innamorato o ilMambriano ( Casadei, 1988, pp. 7-17 ) . Tali riferimenti riguardano innanzitutto eventi di cronaca ferrarese per lo più legati agli Este, e in special modo ai signori con cui Ariosto aveva rapporti diretti, ossia il dedicatario del poema cardinale Ippolito, il duca Alfonso e la loro sorella e marchesa di Mantova Isabella. Nella terza redazione ( C ) , pur non venendo meno questo versante encomiastico, aumentano le men­ zioni di avvenimenti che interessavano l'intero territorio italiano, oggetto di guerre di conquista, come quella tra il re di Francia Francesco I e l'impe­ ratore Carlo

v

(1525-29 )

:

il testo del poema viene interamente aggiornato

senza però che siano eliminate, se non in casi eccezionali, allusioni a perso­ naggi scomparsi o a situazioni politiche ormai mutate. Aumentano anche le ottave su argomenti di tipo storico-culturale, per esempio la cosiddetta "questione delle donne': la qualità della pittura antica e di quella moderna, gli scrittori e gli intellettuali più autorevoli ecc. I riferimenti a fatti storici vengono inseriti in sezioni dallo statuto nar­ rativo ben definito. Molti sono introdotti dal narratore negli esordi ( cfr. ad esempio canti

)

XIV, XV, XXXIII, XXXVII, XL, XLII, XLV I ,

a volte per sot­

tolineare la somiglianza o meno tra le situazioni proposte nel racconto e quelle realmente accadute, altre volte per omaggiare gli Este oppure per ricordare amici personali dell'autore. Ma i riferimenti più ampi compaiono invece all'interno dei vari canti, in forma di digressioni o di descrizioni. Appartengono al primo tipo quegli episodi che, ricalcando modelli classici

( a cominciare dall'Eneide ) o recenti ( l'Innamorato o altri poemi cavallere­ schi ) , permettono di esporre pseudoprofezie riguardo agli Este ( ad esempio nei canti III e XIII) , oppure riguardo a eventi come le scoperte geografiche

ALBERTO CASADEI

(canto xv) ; non manca una canonica invettiva contro la guerra e le armi da fuoco (canto

XI) ,

peraltro riferibile proprio alla seconda metà degli anni

Venti. Le descrizioni, invece, si presentano come la resa in parole di scene scolpite in fontane (canto

xxvi ) ,

o dipinte in affreschi (canto

XXXIII) ,

o

istoriate in padiglioni (canto XLVI) . I modi per ridurre lo stacco rispetto alla linea principale del racconto

sono numerosi: molto spesso, per esempio, queste parti vengono narrate da un personaggio dotato di virtù magiche (Melissa, Andronica, Malagigi...), in grado di esporre gli eventi futuri ai cavalieri (e ovviamente ai lettori), che altrimenti rimarrebbero ignari o stupiti. Altre volte i personaggi storici menzionati sono riconoscibili grazie a iscrizioni o scritte esplicative, co­ me nel caso delle nobildonne e dei poeti rappresentati come statue di una splendida fontana in XLII

78-96.

Prima di tentare un'interpretazione complessiva delle funzioni dei rife­ rimenti storici all'interno del poema ariostesco, bisogna esaminare in det­ taglio le loro caratteristiche, evitando di assegnare un valore determinante all'uno o all'altro, e senza sovrapporre categorie storicistiche incompatibili con la cultura primocinquecentesca. Ma anche i confronti con pensatori coevi, come Machiavelli e Castiglione, pur essendo localmente plausibili, non possono spingersi a ipotizzare, per Ariosto, una visione storico-politica sistematica e innovativa, mentre sono chiari i contatti con i paradigmi in­ terpretativi umanistici e cristiani (Fortuna o Provvidenza, comportamento buono o riprovevole ecc.), peraltro di frequente sottoposti a torsioni ironi­ che, sino al singolare e dirompente precetto del rovesciamento delle verità storiche ufficiali («tutta al contrario l' istoria converti»,

xxxv

27, 6).

2.

2.1. Non per caso, il primo episodio a sfondo storico che si legge nel Furio­ so consiste in una genealogia degli Este. Preannunciato da quattro solenni

ottave proemiali, nel canto

III

troviamo un lungo discorso (ottave

23-62)

della maga Melissa, la quale segnala a Bradamante alcuni degli spiriti più eccelsi che discenderanno dal suo matrimonio con Ruggiero. L'eroina, precipitata in una grotta per un inganno del maganzese Pinabello, scopre di essere caduta vicino al sepolcro del mago Merlino, che aveva da tempo predetto l'arrivo della progenitrice degli Este: il destino vuole dunque che sia manifestato quanto la «gloriosa stirpe» compirà sino ai primi decenni del

XVI

secolo. Il modello dell'evocazione è chiaramente virgiliano

(Aen.

STORIA

VI

la

752 ss.), intersecato con elementi romanzeschi (ad esempio ricavati dal­

Historia di Merlino; cfr.

Dorigatti, 2009). Già Boiardo aveva abbozzato

un'esaltazione degli Estensi

(In.

II XXI,

55-59 ) , e del resto la finzione stessa

di un capostipite addirittura nato da un discendente dei Troiani e da una sorella di uno fra i più forti paladini di Carlo Magno, pur inventata proba­ bilmente da T ito Vespasiano Strozzi per la sua e sviluppata

nell'Innamorato.

Borsias, era stata acquisita

Dal canto suo Ariosto non solo riserva uno

spazio testuale molto ampio a questa sezione (quaranta ottave), ma fornisce molti dettagli che corrispondono a quanto sostenuto, nei medesimi anni, dagli storici di corte, per esempio Pellegrino Prisciani (cfr. Montagnani, 2005 ) . È interessante che, dopo poche notizie su personaggi inventati (Rug­ gierino: ottave 24 s.) o dai contorni molto imprecisi (Uberto: ott. 25, 5-8), Ariosto fornisca quasi sempre informazioni ben attestate, sebbene talora erronee, giungendo in un territorio piuttosto sicuro sin dall'ottava 35· Ma soprattutto, notevole è l'acribia nel descrivere alcune imprese dei maggio­ ri fra gli Estensi tra Quattrocento e primo Cinquecento, come Ercole

I,

ingiustamente attaccato dai veneziani (ott. 46-49), e i suoi figli Alfonso e Ippolito (ott. 50-57; in C vengono aggiunti elogi dei figli di Alfonso: ott. 58 s .). Coraggiosa poi la richiesta di clemenza (ott. 6o-62) per i due fratelli, Giulio e Ferrante, coinvolti in una congiura contro il duca nel 1506 e da allora tenuti in carcere (cfr. Farinella, 2014, pp. 767-82). Siccome Ariosto aveva all'epoca composto un'egloga per condannare fortemente i traditori, si deve pensare a una sua volontà di interpretare un desiderio diffuso (e senz'altro di Isabella d'Este), affinché si arrivasse al perdono essendo tra­ scorsi dieci e poi, nel 1532, ventisei anni dai fatti: ciò dimostra la valenza non solo letteraria attribuita dal poeta alle sue ottave sulla politica ferrarese (cfr. infra,

PAR.

4).

Questa genealogia trova un completamento nel canto XIII, dove Melis­ sa risponde di nuovo a una richiesta di Bradamante e le indica alcune delle più prestigiose fra le sue discendenti estensi (ott. 5 6-73) . In questo caso la selezione è molto forte e non segue un ordine cronologico, dato che per prima viene esaltata Isabella (ott. 59-61 ) , non solo marchesa di Mantova ma anche protettrice di artisti e scrittori, e in particolare dello stesso Ariosto, che più volte le recitò parti del poema a cominciare almeno dal 1507 (cfr. Catalano, 1930-31,

II,

pp. 78 s.). Un discreto spazio (ott. 62 s.) viene con­

cesso alla sorella più sfortunata, Beatrice, moglie di Ludovico il Moro ma morta nel 1497 a soli ventidue anni. Anche delle donne di altri casati viene fatta menzione (ott. 67 ss.), per esempio di Eleonora d'Aragona, moglie di Ercole

I;

Lucrezia Borgia, sposata ad Alfonso e ancora in vita nel 1516;

ALBERTO CASADEI

Renata di Francia, andata in sposa a Ercole II nel1528 ( e infatti le ott. 71 s.

furono aggiunte in C ) .

Ma la più puntuale esaltazione di un Estense non poteva che essere riservata al dedicatario del Furioso, il cardinale lppolito. Il racconto delle sue imprese era stato addirittura concordato con il poeta durante l'elabora­ zione, come dimostra una lettera del25 dicembre1509 nella quale Ariosto si rallegra con il suo signore per la vittoria della Polesella contro i veneziani, che gli consentirà di avere «historia da dipingere nel padaglione del mio de de V.S. » (Ariosto, 1984, p. 139 ) . Il brano in que­

stione si trova nell'ultimo canto

( xL AB, XLVI C, ott.

7 6-100 ) , e riguarda

la grande tenda in cui si deve finalmente consumare il matrimonio fra Rug­

giero e Bradamante ( il più specifico antecedente è costituito dal padiglione creato dalla Sibilla Cumana in In.

II XXVII ,

50 - 61 ) .

È

un prezioso manu­

fatto, posseduto da un Costantino imperatore di Grecia e padre di Leone, che ancora Melissa aveva magicamente trasportato vicino a Parigi. lstoriato

addirittura da Cassandra, sorella di Ettore ( si noti il consueto riferimento alle leggende troiane ) , il padiglione presenta scene della vita di Ippolito,

dali' infanzia sino alla piena maturità, secondo uno schema topico nell'e­ saltazione di personaggi celebri. Al di là degli obblighi legati al proprio ruolo, Ariosto sottolinea alcuni tratti del suo signore confermati anche in

altre opere ( ad esempio il Cortegiano ) . Pur mantenendo questo elogio sino al1532, ne elimina due ottave e riduce già in B e ancor più in C l'esaltazione anche della forza corporea e della perspicacia politica di Ippolito, defunto

nel1520 : le modifiche non sono comunque tali da stravolgere l'assetto del 1516, benché il poeta fosse passato al servizio di Alfonso già nel 1517 per i noti contrasti con il cardinale palesati nella prima Satira. 2.2. Se con i lunghi brani encomiastici ci si muove soprattutto tra storia, leggenda e glorificazione letteraria, molti brevi passi dedicati a imprese di Alfonso e Ippolito lasciano spazio a commenti in qualche caso sottilmente ambigui. Nell'esordio del canto

XIV,

la sanguinosa lotta fra cristiani e sa­

raceni, il cui racconto riprende dall'assedio di Parigi, viene paragonata alla battaglia di Ravenna dell'11 aprile1512: la vittoria dei francesi sulle truppe pontificie e spagnole fu favorita da Alfonso d'Este, che viene qui esaltato per la sua azione e magnanimità (ott. 2- 5 ) . Non viene però taciuto che la cit­

tà romagnola fu poi sottoposta a un terribile saccheggio (ott. 8-9 ) e che an­

che i vincitori ebbero perdite cospicue, a cominciare da quella del «capitan

di Francia e de l' impresa», Gastone di Foix (ott. 6 ) . Ariosto probabilmente

scrive queste stanze a poca distanza dali'evento, tanto da esortare lo stesso re 390

STORIA

Luigi XII a mandare nuovi capitani e soprattutto l'anziano ma saggio Gian­ giacomo Trivulzio (ott. 9, 5-8): l'esortazione non sarebbe stata necessaria già alcuni mesi dopo la battaglia, e tuttavia rimane immutata persino dopo che, nel gennaio I 5 I 5, Luigi era morto e a lui era succeduto Francesco I, quasi a voler lasciare una traccia di un momento molto drammatico, ricordato nel poema anche nel I532 (cfr. XXXIII 4I). Il confronto fra le «antique [e] le moderne cose», che sostanzialmente equipara la storia leggendaria dei paladini e quella contemporanea, pro­ segue nel canto xv quando, sempre in rapporto all'assedio di Parigi e in particolare della spericolata azione di Rodomonte, viene sottolineato che le vittorie sanguinose possono diminuire la gloria del comandante (ott. I ) . V iceversa, il cardinale Ippolito trionfò sui veneziani nella già menzionata battaglia della Polesella ( 22 dicembre I509: cfr. qui ott. 2) senza perdite e soprattutto con l'astuzia (spostò di notte le artiglierie per poter colpire la flotta nemica dagli argini del Po). Questo breve esordio, non a caso subito successivo a quello in cui era esaltato Alfonso, va integrato con quello del canto XL (ott. I-5), dove viene di nuovo rievocata in dettaglio e sulla base di resoconti precisi, la battaglia così importante per le sorti di Ferrara. Il narratore qui coincide perfettamente con l'autore, e ricorda infatti la sua assenza perché inviato a chiedere aiuti a Giulio II (ott. 3); segnala poi il gran bottino di bandiere e galee da lui personalmente visto (ott. 4). Ma conclude con una nota meno positiva, citando gli incendi, i naufragi, le tante ucci­ sioni fatte per vendetta: una situazione terribile, paragonata a quella in cui si sono trovati, nel racconto, Agramante e la sua flotta a opera di Dudone e dei cristiani (ott. 5). Che la sopravvivenza di Ferrara sia legata a lotte condotte con abilità dagli Este, ma non per questo meno dure, risulta evidente: il Furioso non nasconde gli aspetti più spietati delle battaglie, in qualche misura inevitabili e però stigmatizzati. È il caso di un altro episodio della guerra con Vene­ zia, rievocato nell'esordio del canto XXXVI (ott. I-9), cui Ariosto dovette assistere di persona (cfr. ott. 6, 3: «un Ercol vidi»). Durante un'azione ferrarese contro due bastioni veneziani alla Polesella, il 30 novembre I509 venne catturato Ercole Cantelmo, figlio del duca di Sora, il quale fu poi decapitato dai mercenari schiavoni (cfr. ott. 7 ). Questo atto inumano viene imputato non direttamente ai veneziani (alcune correzioni, anzi, cercano di lodare il loro senso di giustizia: cfr. ott. 3, 3-4), bensì alle popolazioni bar­ bare da loro assoldate: come in altri casi, ad esempio riguardo agli svizzeri o ai lanzichenecchi (cfr. XXXIII 43, 55 ) , si distingue fra la guerra condotta da comandanti e truppe educati ai princìpi della cavalleria e quella brutale, 391

ALBERTO CASADEI

che sembra prevalere a causa dell'impiego dei mercenari. In questo caso la cortesia degli antichi guerrieri, e in particolare di Ruggiero sfidato a duello (cfr. xxxv

So), viene messa a confronto con gli «empii costumi» di quasi tutti i moderni (cfr. ott. 2): secondo un procedimento umanistico, pure gli esempi e contrario sono frequenti nel poema. Del resto anche i ferraresi possono compiere atti crudeli, come si ricor­ da nell'esordio del canto XLII (ott.

1-6). Alla fine del precedente, Orlando

ha visto il suo fedelissimo Brandimarte agonizzante a terra, colpito da Gra­ dasso: ci si deve aspettare, in base al codice epico, un'ira incontenibile che porterà alla vendetta. Per questo, l'atto crudele merita una scusa, così come vanno scusati i sudditi di Alfonso che, vistolo colpito da un proiettile men­ tre dava l'assalto alla fortezza della Bastia presso Ferrara

(13 gennaio 1512) ,

travolsero le difese e sterminarono i mercenari al soldo degli spagnoli: ven­ dicarono così pure il comandante Vestidello Pagano, ucciso pochi giorni prima quando appunto la fortezza era stata conquistata dai nemici (cfr. ott.

4-s). Anche questo triste episodio rientra fra quelli che, sin dal primo Fu­ rioso, collegavano strettamente le vicende narrate con la cronaca ferrarese, e

viene ovviamente interpretato secondo criteri etici, peraltro molto elastici riguardo alle violenze perpetrate dai soldati estensi.

2.3. Valenze etiche si colgono quasi sempre nella narrazione di episodi sto­ rici e in particolare nelle esortazioni ai potenti del primo Cinquecento. Sin dall'edizione del

1516, dopo aver condotto il racconto addirittura in

Siria,

il narratore interviene con un suo personale commento sullo scandalo del Santo Sepolcro lasciato ai mussulmani (cfr. XVII 73-79 ).

In questa digressio­

ne abbondano le apostrofi a tutti i popoli cristiani, dagli spagnoli ai francesi agli svizzeri ai tedeschi, perché si alleino per la riconquista di Gerusalemme invece di entrare in guerra tra loro (ott.

74-77 ):

non manca una rampogna

contro l'Italia nel suo insieme, rea di non ribellarsi agli stranieri invasori

(76, s-8). V iene poi chiamato in causa, in conclusione, papa Leone x, che dovrebbe agire per risvegliare l'Italia stessa e difendere il gregge cristiano dai lupi degli infedeli (ott.

79). Quest'ultima apostrofe permette di collo­

care l'intera esortazione a un periodo compreso fra l'elezione di Giovanni de' Medici

(9 marzo 1513) e la sconfitta degli svizzeri a Marignano (13-1 4 settembre 1515: qui invece si parla ancora della loro presenza in Lombardia, cfr. 77, 1-2). Si ipotizza che l'ott. 79 ne abbia sostituite due rivolte a Giulio II,

pervenuteci attraverso testimoni indiretti: ma il congetturare la soprav­

vivenza di brevissimi lacerti del manoscritto antecedente alla prima stampa va incontro a non poche obiezioni. Sta di fatto che l'esortazione riprende 392

STORIA

moduli topici abbastanza diffusi nella poesia primocinquecentesca, contro la presenza in Italia di stranieri intenzionati a conquistarla e a favore di una nuova crociata (cfr. da ultimo Rospocher, 2015, pp. 113 ss.). Ancora più utopistico, nel 1532, appare un passo del canto

XXVI

(ott.

30-53) nel quale, come si è accennato, Ruggiero, Marfisa e altri paladini si ritrovano a una delle fonti create dal mago Merlino, che l'aveva adornata di perfette immagini marmoree: esse rappresentavano una bestia mostruosa, l'avarizia, diffusa in tutti i territori europei, poi in quelli asiatici, poi addirit­ tura in «tutta la terra» ma soprattutto nella curia romana (ott. 31-33). Per fortuna, contro di essa hanno iniziato a combattere vari sovrani, a comin­ ciare da Francesco I, seguito da Massimiliano d'Austria, Carlo di Borgogna (poi «Carlo quinto imperator»: 35> 5), Enrico

VIII

d'Inghilterra; a parte

viene collocato papa Leone x (ott. 35 s.). Già questa singolare commistione mostra in atto un principio valido per tutte le modifiche introdotte in B e in C, quello detto di "sincronizzazione" (cfr. Casadei, 1988, specie pp.

151-8). Quando questo passo è stato scritto o almeno aggiornato, nel 1515, addirittura dopo la vittoria di Marignano (cfr. ott. 44 s.) e quindi a ridos­ so dell'avvio della stampa, si poteva auspicare che il re in quel momento più forte, Francesco

I,

riuscisse a coalizzare altri sovrani europei e il papa,

per un combattimento che, da allegorico, poteva diventare concreto, per esempio con un'equa divisione dei poteri locali e nazionali e magari con l'avvio di una nuova crociata (cfr. supra, p. 392). Ma nel 1532, dopo la morte di Massimiliano, l'elezione di Carlo a imperatore, e le successive lotte fra quest'ultimo e il re di Francia, ovviamente il quadro non risulta nemmeno utopistico bensì antistorico, fissato nella compagine testuale così come in una sorta di bassorilievo o affresco (basti pensare a quelli raffaelleschi in Vaticano). La dimensione storica, quindi, viene rispettata nel Furioso, ma senza giungere a cancellare quanto già scritto per dare credito solo ai nuovi poteri: anche se, nel 1532, è la simbologia imperiale a diventare dominante, il ruolo e l'importanza di Francesco

I

non vengono stravolti, sebbene la

parabola di questo re e raffinato cavaliere venga modificata (soprattutto nel canto XXXIII: cfr. infra, p. 395). La scena allegorica del canto

XXVI

viene spiegata da Malagigi (ott. 39

ss.), dapprima con dotte allusioni letterarie (a V irgilio, Ovidio e natural­ mente alla lupa dantesca), poi con specifici riferimenti all'opera di Fran­ cesco I (ott. 43-47 ), solennemente esaltato, forse anche pronosticando una sua prossima elezione a imperatore. Vengono poi menzionati molti per­ sonaggi autorevoli della curia romana, a cominciare da Bernardo Dovizi da Bibbiena (ott. 48), peraltro morto nel 1520, seguito da cardinali degli

393

ALBERTO CASADEI

Este (Ippolito e il suo nipote omonimo), dei Gonzaga, dei Salviati, e poi da numerosi altri signori delle più importanti casate quattro-cinquecentesche: notevole l'ampliamento in C, con l'aggiunta di ben tre ottave (so-52), che spostano decisamente il baricentro politico verso gli alleati di Carlo

v,

ivi

compresi personaggi cari ad Ariosto come gli Avalos (ott. 52). Nel comples­ so, si comprende di qui che le personali convinzioni politiche ariostesche erano subordinate alle logiche degli accordi di potere, e ciononostante il

Furioso mantiene una sua autonomia nella presentazione dei personaggi e nell'organizzazione narrativa. Da questo punto di vista sono assai significative tre aggiunte di C. La prima, nell'xi canto (ott. 21-28), è costituita da un'invettiva contro le armi da guerra, che segue alla distruzione da parte di Orlando dell'archibugio di Cimosco. La riscoperta di questo terribile strumento, e di tutti quelli che venivano effettivamente usati nelle guerre all'inizio del

XVI

secolo (nomi­

nati in un lungo elenco alle ott. 24 s.), ha portato alla perdita dell'onore militare e alla morte di soldati, signori e cavalieri specie durante «questa guerra», ossia la lotta ancora in corso tra Francesco

I

e Carlo

v

(ott. 27:

siamo probabilmente intorno al 1528). Ovviamente si tratta di un lamento forte e sostenuto, e tuttavia la componente retorica è molto elevata, essendo riconoscibili tratti che derivano ad esempio da Tibullo (Elegie I, 10) e Ca­ tullo ( Carm. 66), ma che sono anche analoghi a quelli dei tanti "lamenti" sulle guerre diffusi in Italia (e un passo simile si trova persino in un modesto poema cavalleresco quale il Belisardo di Marco Guazzo, edito nel 1525 e poi nel 1528: cfr. Casadei, 1997, pp. 29-35). Non si può insomma ricavare solo da un passo come questo un criterio rigido per interpretare la posizione ariostesca sulle vicende storiche degli anni Venti. A riscontro va esaminata la digressione del canto xv (ott. 18-36) che coinvolge Astolfo e la fata Andronica (allegoria della fortezza), che lo sta riportando dall'isola di Alcina verso l'Asia Minore e l'Europa. Mentre so­ no vicini all'India, il duca inglese domanda di eventuali scoperte future, e la maga profetizza le scoperte geografiche di fine Quattrocento-inizi Cin­ quecento (ott. 19-22), peraltro con formule che sembrano dimostrare una conoscenza ancora imperfetta dell'America e dei nuovi continenti (cfr. in generale Doroszla'i, 1998). Ma l'esaltazione delle nuove imprese dei moder­ ni confluisce in quella specifica di Carlo v, che viene rappresentato appunto come imperatore in grado di riunire, per volontà divina, l'intero mondo sotto il suo potere (ott. 26). Seguono poi singoli elogi di suoi capitani, da Hernan Cortéz a Prospero Colonna, da Alfonso d'Avalos ad Andrea Doria (ott. 27-32). Il quadro, sin troppo encomiastico, si colora comunque dell'en-

394

STORIA tusiasmo per la momentanea pace raggiunta intorno al I530-3I, e natural­ mente non può toccare l'ancora occulta opera di distruzione compiuta dai

conquistadores. Ma il più notevole tentativo di comprensione della storia prodotto nel terzo Furioso è di sicuro quello della lunga descrizione degli affreschi nella Rocca di Tristano, nel canto XXXIII (I-s 8). Tralasciando per ora gli aspetti storico-culturali relativi agli elenchi di pittori (cfr. infra,

PAR.

2.4), va su­

bito notato il notevole sforzo ariostesco per rendere narrativa questa lunga descrizione, che in effetti è condotta da un narratore interno, il Signore della Rocca, a favore soprattutto di un personaggio, Bradamante, che ri­ ceve notizie sulle future guerre dei francesi in Italia. È evidente che questo episodio fu scritto dopo il I528-29, quando Alfonso decise di rompere l'al­ leanza storica con la Francia per passare a quella con Carlo

v:

un cambio

di politica che in un certo senso questa ampia rassegna di azioni compiu­ te dai re francesi giustificava, in particolare invocando una sorta di regola storico-moralistica, e cioè che la loro difesa dell'Italia aveva sempre avuto successo, mentre gli assalti contro di lei erano andati incontro a disastri (cfr. ott. 12). Si noti poi che, per far posto a questo ciclo di affreschi, creati an­ cora una volta dal mago Merlino, Ariosto rinunciò a numerose ottave sulla storia d'Italia già pronte, ma troppo generiche ed erudite (cfr. infra,

PAR.

3). Invece, in queste stanze i riferimenti al passato lontano vengono ridotti al minimo (ott. I3-22), mentre dall'ott. 23 si menzionano guerre avvenute a partire dal Quattrocento, con largo spazio dedicato ovviamente a Carlo VIII

e Luigi

XII

(ott. 24-42). Bisogna però osservare che Ariosto menzio­

na onorevolmente numerosi avversari dei francesi, fra cui i già menzionati Avalos, Consalvo Ferrante di Cordoba, Prospero Colonna, Andrea Doria, mentre Alfonso d'Este riceve solo una rapida menzione (ott. 40, 7), a di­ mostrazione che la dimensione storica non è più prevalentemente ferrarese. Complesso risulta poi l'atteggiamento nei confronti di Francesco I, cui viene riservato un ruolo preminente a partire dalla chiusa dell'ott. 42. Da una parte, si riconosce sempre il suo valore, confermato persino durante la battaglia di Pavia del IS2S, quando il re di Francia venne fatto prigioniero; dall'altro, si segnala la sua eccessiva fiducia nei «ministri avari» (si, I), che gli fanno credere di avere molte più forze e truppe rispetto alla realtà. Le ultime azioni descritte sembrano all'insegna del caos e della Fortuna, che ha ormai ripreso il sopravvento, di fatto smentendo la regola enunciata all'ott.

12: il sacco di Roma del IS27 e le ulteriori sconfitte francesi del IS28 (ott. ss -s 7) chiudono questa ampia rassegna. Al di là dei singoli dettagli, dovuti magari a contingenze politiche, è notevole che Ariosto non miri qui a una

395

ALBERTO CASADEI

rassegna monumentale e anodina, puntando invece ad attraversare la storia italiana recente secondo un'angolatura che in qualche misura supera gli interessi specifici ferraresi e riesce a dar conto degli interi equilibri italiani, molto problematici sino al

1530

ma, dopo il trionfo di Carlo

v,

momenta­

neamente stabilizzati.

2.4. Come si accennava, l'esordio del canto XXXIII C contiene alcune stan­ (1-5) molto interessanti da un punto di vista storico-culturale. Infatti,

ze

il ciclo di affreschi sulle future guerre dei francesi in Italia, pur straordi­ nario, viene confrontato con le opere realizzate dai migliori artisti antichi da Apelle a Zeusi, e dai moderni di maggior rilievo, con sottile distinzione fra quelli che hanno già ottenuto ottima fama (Leonardo, Andrea Man­ tegna, Giovanni Bellini) e quelli maggiormente quotati intorno al

1532:

oltre ai ferraresi Dosso e Battista Dossi, vengono nominati Sebastiano Del Piombo, Raffaello, Tiziano e soprattutto «quel ch'a par sculpe e colora, l Miche!, più che mortale, Angel divino» (ott.

2, 3-4). L'esaltazione

della

pittura moderna certifica il ruolo cui essa stava assurgendo proprio in quegli anni: in questo, il Furioso sembra ancora più lungimirante rispetto a quanto viene concesso a un'arte "meccanicà' e non umanistica per esempio nelle

Prose bembiane (più disponibile il Cortegiano). Non a caso queste ottave sono aggiunte dopo la realizzazione di grandi cicli di affreschi visibili so­ prattutto a Roma (un dettaglio della Cappella Sistina viene menzionato anche in Sat.

III,

191).

Pure la cosiddetta "questione delle donne", incentrata sulle prerogative femminili in una società dominata dal potere maschile, ebbe molti sviluppi e aggiornamenti tra il canto

XXXVII

C

1516 e il 1532, ben sottolineati nel lungo esordio del (ott. 1-23). Dopo molte osservazioni che il narratore ave­

va disseminato lungo il poema, non lesinando critiche ai comportamenti delle donne soprattutto nelle relazioni amorose, in questo proemio viene sottolineato che, in molti casi, le buone opere femminili sono state oscurate proprio dalla malevolenza degli scrittori (ott.

1-3).

Molte eroine antiche

furono comunque in grado di ottenere un'ottima fama ma ora, finalmente, ben maggiore sarà il numero di quelle elogiate dagli scrittori moderni (ott.

4-7 ). Si elencano quindi (ott. 8-13) parecchi autori che, in vari modi, hanno potuto esaltare le donne: oltre a numerosi amici personali di Ariosto, non potevano mancare Pietro Bembo e soprattutto Baldassar Castiglione, che nel Cortegiano in effetti diede ampio spazio alla discussione sulla perfetta "donna di palazzo". La novità più interessante è però la precisa constata­ zione riguardo al ruolo ormai ricoperto dalle nuove scrittrici nella sode-

STORIA

tà letteraria primocinquecentesca (ott. 14-15): in effetti le preclusioni nei confronti, in particolare, delle poetesse stavano rapidamente dissolvendo­ si, grazie anche all'impegno di gentildonne come Vittoria Colonna, presa qui quale esempio unico e indiscutibile (ott. 16-20). È vero che le qualità strettamente poetiche si intrecciano con quelle morali, additate a esempio soprattutto riguardo alla fedeltà al defunto marito Francesco d'Avalos; tut­ tavia il dato rilevante resta quello della sottolineatura del cambiamento in corso nel campo di forze letterario (peraltro molto rallentato nei decenni successivi). Di quel cambiamento è specchio anche l'ampia serie di varianti appor­ tate all'esordio dell'ultimo canto (xLVI 1-19 C), basato sul topos dell'arrivo in porto per indicare la conclusione di un'opera. In questo caso però il topos viene attualizzato, perché in effetti il narratore-autore rappresenta molti personaggi storici ad accoglierlo, soprattutto gentildonne estensi o di altre famiglie nobili e scrittori di tutta Italia. Bisogna notare che questo esordio era di sole 11 stanze in AB, quando era abbastanza contiguo a un altro elenco già menzionato, quello del canto XLII (ott. 83-9 5; ma era il trentottesimo di quaranta nel 1516-21). Quasi tutti gli scrittori menzionati potevano essere considerati amici personali di Ariosto, tranne Iacopo Sannazaro, che rap­ presentava il personaggio in assoluto più celebre, tanto da essere collocato al centro della scena. Ma nel 1532 questo centro (ott. 15) viene invece occu­ pato da Pietro Bembo e da molti autori a lui fedelissimi: implicitamente si riconosce l'importanza fondamentale dell'aver fornito regole (con le Prose del 1525) e un esempio concreto (con l'edizione delle Rime nel 1530) per il miglior uso linguistico in ambito poetico, risolvendo di fatto la sempre più intricata "questione della linguà'. Al di là della posizione personale ario­ stesca, non si può sottovalutare la tempestività di questo aggiornamento, che si accompagna a una sottile ma precisa opera di riorganizzazione dei vari equilibri fra gli ambienti rappresentati, non solo, ovviamente, quello ferrarese, ma anche quello romano a quello veneto (per un esame specifico, cfr. Casadei, 1988, pp. 105-49, e per aggiornamenti Casadei, 2016). Natural­ mente vige sempre il principio di sincronizzazione, che permette di unire fasi storiche diversificate, ma la selezione di Ariosto risulta comunque più attenta e motivata rispetto a quelle che si possono evincere da cataloghi di poeti o elenchi contenuti in poemi cavallereschi coevi. Persino le esclusioni, come quella di Machiavelli (stigmatizzata dall'interessato nella lettera del

17 dicembre 1517 a Lodovico Alamanni), rispondono a scelte quanto me­ no comprensibili, tanto da poter riconoscere una strategia nel delineare un preciso quadro storico-letterario.

397

ALBERTO CASADEI 3·

L'opera di aggiornamento storico del Furioso comportò quasi sempre ag­ giunte o correzioni, mentre furono pochi i casi di complete esclusioni. Il più significativo riguardò l'esordio del canto

xxxv

A (ott.

I- I O ),

che trattava

delle difficoltà derivanti da quella sorta di «rispetto o debito» (ott.

2, I )

ovvero da quel misto di pudore e di vincolo familiare o istituzionale che produce comportamenti sbagliati nei confronti di altri. L'esemplificazione trattava in particolare (ott. 7-8) quanto, tra il I5IO e il I5I2, avevano dovuto compiere contro gli Este l'allora cardinale Giovanni de' Medici e il duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere, per rispettare la volontà di papa Giulio

IL

La formulazione del discorso fa capire che esso fu scritto prima

della morte di quest'ultimo

(2I

febbraio

I5I3),

quando ancora Alfonso e

Ippolito stavano lottando per difendere Ferrara: si doveva trattare insomma di un esordio concepito quasi come un commento sulla situazione politica in corso, parzialmente anacronistico già nel

I5I6,

ma del tutto nel I52I (a

non considerare che altre stanze contenevano riferimenti licenziosi). Per questi motivi esso fu eliminato senza essere sostituito, cosicché ancora in C il canto XXXIX s'inizia senza un proemio. Vanno ancora presi in esame alcuni abbozzi collegati al poema. I rife­ rimenti storici espliciti sono molto scarsi nei cosiddetti Cinque canti, che introducono semmai un minuzioso trattamento di guerre favolose, come quelle di Carlo contro i Longobardi e i Boemi, tutte dovute alle trame e alle ipocrisie di Gano di Maganza, a sua volta strumento di maghe mal­ vagie e demoni: più che a Machiavelli, si può pensare a una personale e impietosa disamina dei comportamenti nelle corti. Nell'insieme il quadro sembra compatibile con l'ipotesi di una stesura in data alta (entro il

I52I)

di questi canti, che dovevano costituire una prosecuzione del poema (per un'analisi aggiornata, cfr. Campeggiani, in corso di stampa, che peraltro segnala la possibilità di revisioni non solo linguistiche entro la fine degli anni Venti). Semmai, nei continui riferimenti alla stoltezza o all'impotenza di un sovrano come Carlo Magno si coglie una critica alle forme di potere tout court, che riflette certamente un personale incupimento paragonabile

a quello riscontrabile nelle prime Satire. V iceversa, due gruppi di venti e di sessantaquattro ottave riguardano direttamente la storia d'Italia (cfr., anche per l'edizione critica dei testi, Ca­ sadei, I997, pp. 87-112 e I55-83) . Il gruppo più antico è il secondo, costituito dalla descrizione di uno scudo in cui sono raffigurati eventi accaduti all'in­ circa fra il

400 e il I300 d.C., elencati senza un criterio ordinatore. Forse

STORIA

queste ottave, chiaramente debitrici verso il modello virgiliano di Aen

626

.

VIII,

ss., erano già state scritte all'epoca dei Cinque canti, cui si ricollega­

va un episodio detto "dello scudo della regina Elisà: pervenutoci del tutto frammentario. In ogni caso Ariosto dovette pensare di riutilizzare almeno in parte questo materiale, dato che il primo gruppo di venti ottave è inve­ ce strettamente unito all'episodio della Rocca di Tristano e in particolare al personaggio della messaggera della regina Ullania: vi si accenna a uno scudo sopravvissuto fra dodici preparati dalla Sibilla Cumana per l' impe­ ratore Costantino, e riguardanti appunto episodi della storia italiana dopo l'abbandono di Roma come sede imperiale. Al di là dei molti problemi di difficile soluzione, data la frammentarietà di questo materiale, resta il fatto che Ariosto pensò a più riprese a come inserire nel poema un'ampia rasse­ gna storica, prima di optare per quella del canto XXXIII ( cfr. supra, PAR. 2.3).



L'esame pressoché esaustivo dei riferimenti e delle allusioni di tipo storico nel Furioso e in alcuni suoi abbozzi ha posto in evidenza vari elementi utili per impostare un'interpretazione complessiva. In primo luogo, è chiaro che le stanze di argomento politico o culturale erano, nella prima redazione, quasi sempre connesse a esigenze degli Estensi: che si trattasse di encomi personali oppure dinastici, o di fatti di cronaca recente, o di appelli ai po­ tenti, risulta spesso individuabile una motivazione, a volte contingente. In effetti in alcuni periodi il fervore compositivo fa includere riferimenti sto­ rici molto stringenti ( in altri casi potrebbe essere trascorso più tempo ): ciò avviene almeno nel

I5I2, anno della vittoria di Ravenna ma pure dei rischi maggiori per l'autonomia di Ferrara dalla Chiesa, e nel I 5 I 5, quando trionfa Francesco I e finalmente sembra prospettarsi un periodo di pace autentica. Si noti che di queste vicende, come di tante altre menzionate nel primo

Furioso, si parlava abbondantemente nella pubblicistica in versi che circo­

lava in città e nella corte estense (cfr. Rospocher, Ferroni,

2008 ) ,

20I5, pp. 205-26 e anche

alla quale gli interventi specifici del narratore ariostesco

possono essere paragonati almeno per i contenuti. Nel

I532, Ariosto non si accontenta più di raffigurarsi come interlocu­

tore di lppolito e di Alfonso, ma si presenta come interprete di nuovi movi­ menti politici e culturali, in contemporanea con altre summae della cultura rinascimentale, come il Cortegiano, o autonomamente: assai emblematiche le aggiunte sulle scoperte geografiche e sulla questione delle donne, non-

399

ALBERTO CASADEI

ché le modifiche al panorama conclusivo di scrittori. I nuovi riferimenti però non comportano quasi mai l'eliminazione del pregresso, bensì il suo riadattamento, persino a costo di creare quadri sincretici in cui personaggi vivi e altri morti, amici e nemici ecc., convivono in una sorta di affresco o di diorama storico e insieme extratemporale. Assodati questi aspetti, almeno in parte di difficile compatibilità, si comprende meglio perché le sezioni di argomento storico sono state giu­ dicate molto variamente nel corso dei secoli (per un esame sintetico, cfr. Casadei,

1988,

pp.

8

ss.; Ascoli,

1987; 2001;

Sangirardi,

2001; 2012).

Già

i lettori cinquecenteschi, infatti, cominciarono a considerare le sezioni encomiastiche come «sconvenevoli» (così Ludovico Castelvetro nella sua Poetica,

1570).

Nell'Ottocento si arrivò poi a bollare Ariosto di scar­

so patriottismo, e in sostanza venne avallata, sulla scorta di Francesco De Sanctis, l'immagine che egli stesso si ritagliò nel poema e poi nelle Satire. Nel primo Novecento, Benedetto Croce faceva coincidere l'idea politica ariostesca con la «privata morale», mentre secondo Attilio Momigliano la rappresentazione della contemporaneità non aveva particolare importanza nel poema. Ma dagli anni Trenta del

xx

secolo, grazie anche alle tante scoperte

d'archivio sull'attività di Ariosto come diplomatico e come governatore (cfr. Catalano,

1930-31),

si affermò una lettura "machiavellianà' delle sue

opere, a cominciare da quella presentata da Riccardo Bacchelli nel saggio romanzato La congiura di don Giulio d'Este

(1931),

incentrata sulla prima

Egloga e però applicabile a molte parti del poema. Su questa strada, soprat­

tutto Carlo Dionisotti, ma anche Walter Binni, Cesare Segre, Lanfranco Caretti e molti altri, diedero sempre più credito al ritratto di un poeta abile cortigiano e attento all'evoluzione storica. Proseguendo in questa direzione sono state proposte analisi delle varianti di argomento politico e culturale, nuovi confronti con la storiografia estense e italiana coeva, disamine delle stratificazioni del primo Furioso ecc. (cfr. almeno Casadei,

2002;

Scianatico,

1988;

Bolzoni,

2005; Dorigatti, 2011).

Contro questa linea interpretativa, ancora di recente è stata individua­ ta, nel Furioso, una visione della storia intesa come alterità pericolosa rispet­ to alla scrittura poetica, che riesce a incarnare i desideri profondi dell'au­ tore ed esorcizza, con il gioco favoloso delle lotte fittizie, il timore delle guerre reali (cfr. Scarano,

1996; Sangirardi, 2001; 2oo6). Molti altri segnali

di ambiguità nella rappresentazione degli eventi storici sono stati indicati seguendo differenti metodologie critiche (cfr. almeno Quint,

1996;

Floris,

2003; Looney, Shemek, 2005; Stoppino, 2012; Cavallo, 2013). L'insieme dei 400

STORIA

dati testuali non consente tuttavia di prendere posizioni nette riguardo al pessimismo, al sentimento della crisi dei valori umanistici, e in generale agli aspetti psicologici sottesi alle sezioni storiche del poema. Di certo, il

Furioso

manifesta una lettura etica di ascendenza classica

e umanistica riguardo alle vicende storiche nel loro insieme: significativo l'esordio del canto

1-4), che riprende e approfondisce il topos della Ruota di fortuna, ampiamente impiegato nel poema (e nelle Satire), XLV

C (ott.

sottolineando sia l'imprevedibilità delle cadute, sia la costante possibilità di risollevarsi, dato «che 'l ben va dietro al male, e 'l male al bene» (ott.

4, 3).

Davanti a questa inevitabile instabilità, più che imbastire riflessioni

di tipo machiavelliano, il

Furioso

rende pertinente la sua pervasiva ironia,

che consente di evitare il senso tragico degli eventi, e nello stesso tempo li relativizza persino quando sembrano del tutto positivi (nelle stanze in lode degli Estensi). Può allora risultare opportuno l'impiego della nozione di "mondo possibile" (cfr. Casadei,

2016),

che consente di inserire i precisi

riferimenti storici nella compagine complessiva del poema senza espunge­ re gli elementi contraddittori, d'altronde inevitabili quando si pongono a confronto, nello spazio testuale, i begli ideali umanistico-rinascimentali e i concreti comportamenti nelle pratiche umane.

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Clorinda, I23, I7I Coleridge S. T.,243

278-8o, 385, 387, 393-4, 397-8,

Caletti V., 238

400-I,423-4

Colombo C.,363,372

Casini P., 32,38

Colonna P.,394-5

Cassandra, 211, 390 Castelvetro L., 400

Colonna V., 86,2II,397 Confalonieri C.,I04,125,I63,I74 Contarino R.,264, 280

Poetica, 400

Conte G. B.,105,125,I76

Castiglione B.,3I-3,38,8I,III,125,I878,I9S,215,388,396

Contini G.,I9,22,36,38,238,30I-2,3I9

Libro del Cortegiano, 3I-2, 8I, m, 116-7,I87,390,396,399

Cordié C., 38

Capello V., I66,I69,I74,30I,311,3I7-9

Corinna, 86,9I

Catalano M., 43, 45, 47, 59, 389, 400, 402

Correggio N. da,23I

Catullo G. V., II4,394

Cortéz H., 372,394 430

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Cosgrove D.,32I,337

Dente V., 39

Costa S., I24

Derentiis D., I97

Cox V., 93,96

De Robertis D.,30I-2,3I4,3I9

Craig C. C.,260

DerridaJ., 2I8

Crivelli Speciale T., I2

De Sanctis F., 22, 27-8, 38, I78, I8o-2, I84, I95> 239· 245> 2SI, 258, 262, 280,30I,3I9,324,338,400,406-7

Croce B.,2I,23-3I,35-6,38-9,I54,I56-7, I74>I83-4>I95>262,30I,400,4067>424 Cuccaro V., 272,280

Deucalione, 248 Diamanti D., I24

Cutinelli Rèndina E., 22,38

Diana, 240

Curtis R. L., ISI

Dicilla, 253

Curtius E. R.,328,337

Diderot D.,I79,I83 Di Dio A.,384,425

Cusatelli G., I96

Didone, so,I09,118,I60-3

da Bagno L., 48-9

Di Girolamo C.,125,237

Dal Bianco S.,30I,309,3I9

Dionisotti C.,I9,38,235-7,400

Dalinda, 9I, n8,216,270,375,37 7-80

Discordia, 35, SI-2,247,4I6

Dalla Palma G., 37 0, 384, 407, 410,

Doglio M. L., 96

424

Dolce L., 108, III, ns, 125, I86-7, I95>

Damasippo,27 I

406

Dante Alighieri, I3, 103, I23, I59, I64,

Dolfi A.,I96

I68-7o, I72, I8o, 222, 23I, 233-4,

Domenichelli M., I97

246-8, 309-10, 3IS, 355>363

Dondero M., I24

Commedia, I3,23I,233,34I

donne diAlessandretta, 85,90,2I6,2I9,

Convivio, 23I Inftrno, I62, I69n, 233-4, 248, 3IS,

255>324,369,376-7, 380,4IS,4I8 Dora/ice, 87,9I,103,I37,I39,I7 7-8,2323,250,27 7> 287-8, 295>4I6

34I

Paradiso, I68, 222

Doria A.,394-5

Purgatorio, I03, I23,234

Dorigatti M., I3,IS,I9,48,59, I87, I94,

Vita nuova, 23I

200, 223, 228, 236, 280, 389, 400,

Dardinello, 248,274,344

402

Dauvois N., 39

Doroszlal A.,24I,258,338,394,402

Debenedetti S.,I3,IS,I35,I49,30I,3I7,

Dossi B.,396 Dossi D.,322, 324,333,396

3I9 De Capitani P., I27,385

Dragontina, 285

Degl'Innocenti L., 202, 223 Delcorno C., I38,I49,282

Drusi R., ISI Drusilla, 90-I, 379

Delcorno Branca D., 6s, 79, I22, 125,

Dudone, 39I,422

I3o, I34-s, I37-8, I4I-s, I49, I57,

DufournetJ.,I3I,ISO

I74,2s6,2s8,26o,299,34In,364

Durindana, I33,I4I, I92,22I,286,29I Durling R.,22,26,3I,38,20I, 203, 223, 262, 278, 28I, 34I, 343> 357> 36I,

Della Rovere F. M., duca di Urbino, 398

364,385

Del Piombo S.,396

43I

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Este Isabella Gonzaga d', marchesa di

Eleonora d'Aragona, duchessa di Fer-

Mantova, 86,94,206,210-1,214-5,

389 Elia (profeta),247 Endimione,249 Enea,I6,so,I22,161-3 Enoch (patriarca},247 rara,

227,387,389 Este Lucrezia Bentivoglio d', 86

Ettore,II7,390 EversonJ. E., 200,210,223-4,227 Eyck van (fratelli), 322

Enrico VIII, re d'Inghilterra, 393 Equicola M., I7,47,226-7 Eraclito, 27 Erasmo da Rotterdam, 254,263,279

Adagia,254 Ercole,247 Erifilla,240,253,255 Ermete Trismegisto, 45 Erminia, 171 Ermonide,343,373,378,38o Erodoto di Alicarnasso, 55 Storie,55 Esiodo, 32 Teogonia,32 Este d' (famiglia), 44, 53, 86, 94, 133, 210, 345> 347> 350, 356, 362, 387, 389,391,398,401,420 Este Alfonso d', duca di Ferrara, Reg­ gio e Modena, 48-9,54,204,206, 210-2, 214, 360, 387, 389-92, 395, 398-9,420 Este Beatrice d', duchessa di Milano,

86,215,389 Este Borso d', duca di Modena, Reggio

199 Este Diana d', 86 e Ferrara,

Este Ercole I d', marchese, duca di Fer­ rara,

32,42-5,54-5,389

Este Ercole II d', marchese, duca di Ferrara,

rs,19,8I,92 Falerina,285,328-9 Farinella V., 389,402-3 Farnetti M., 324,333,338 Fede,343 Fedi R., 128,338 Ferrante di Cordoba C., 395 Ferrau, ss, 70, 139-43, 146, 191-2, 216, 221,286-7,294-s,326,362,380,412 Ferretti F., n6, n8, 121, 125, 136, rso, 156, 171, 174, 275, 281, 368, 410-1, 417,424 Ferroni G., II9, 125, 133, rso, r8s, 195> 252,258,282,399>402 Fiammetta,87-8,91,298,379 Ficara G., 195,258 FichteJ. G., 28 Ficino M., 31-2,38, r88,263 Filandro,343,378,415 Fini D., 47 Finucci V., 96,126,258 Fiordiligi, 91, 108-9, 132-3, 138, 148n, r6o Fiordispina, 91, II9-2o, 187, 250, 270, 294>379 Floriani P., 102,124-5,149,257,28o Floris G., 400,402 Foix G. de, duca di Nemours, 390 Folin M., 44,46,59 Follia,27 3,292 FontanilleJ., 322,338 Fontes Baratto A., 260 Formentin V., 238 Formichetti G., 258 Fornari S., 255,258 Fahy C.,

Eraclio F. (imperatore), 373

390

Este Ferrante d', 389 Este Giulio d', 389

41, 43s, 48-9, 53-4, 67, 104, II7, 204-6, 209-II,214,341,360,37 3,387,38991,394>398-9

Este Ippolito d' (cardinale),

432

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Giamatti A. B., 267,28I,328,338

Forni G., 104, III, 126, I66, I7 S, I86-8,

Giambullari P. F., I88,I9S

I9S> I97 Forni P. M., 9

Gigliucci R., 34,39

Fortini L.,24I, 2s8

Gilson E.,I3I,I44,ISO

Fortuna, 264-s, 292, 33s, 347, 3s6, 388,

Ginevra, I3I-2, I3S Ginevra di Scozia, 82, 84, 9I, n9-20,

39S

2I4, 2I6, 268, 270, 27 3> 3I2-3, 3I6,

Fortunio G.,227,229-31,237

37 S> 377> 4I2 Gioberti V.,22,39,I8o, I9S

Foscolo U., 7 2,40S

Notizia intorno a Didimo Chierico,

Primato morale e civile degli italia­

72,40S

ni, I8o

Fowler A., 128

Francesca da Rimini, 233-4

Giolito de' Ferrari G.,26I

Franceschetti A., 368,384

Giovanni (santo), I90, 223,243,247-8,

Francesco

I,

324,409

re di Francia, I8, 387, 39I,

Giovenale D. G., ns Giraldi L. G.,47,2S4

393-s,399 Frappier J.,I43,ISO

Giraldi Cinzio G. B., 100,I63,I87,I9S,

Fregoso F., IS9,2I2

34I-2,364,406

Fronesia, 2S3

Girard R.,290,299

Fubini M., 30I,3IO,3I9

Girardi R., 38s

Fulgoso F., cfr. Fregoso F.

Girolamo (santo), 3S8

Fumagalli G.,324,328, 338 Fusillo M., 128

Gismondo, 3I Giudicetti G. P., ISI,38s

Gabrina, 9I,n6,I86,206,2I6,222,272, 27 S> 288,343> 378,38I,4IS

Giulio n (Giuliano Della Rovere) (pa-

Galaad, I43

Godard A., 339

pa),47, 39I-2, 398

Galasso G.,2S,38

Gonzaga (famiglia),86,94,394

Galehaut, I22

Gonzaga Elisabetta,duchessa di Urbi-

Galilei G., 7, n6,I22

no,86,2IS

Gallo N., 38,I9S,2s8,280,319

Gonzaga Leonora, duchessa di Urbi­

Galvano, I29,I3I-3

no,86

Gano, I8,349,398

Gowans L.,I32n,ISO

Gardini N., I76 Gardner E.,6o,224

Gradasso, SI,103,I4I,I43,22I,2s2,29I, 3S4-s,392

Garin E.,32,38,263,28I

Grendler P., 202,223-4

Gasparini P., 6o

Gauvain, cfr. Galvano

Gr ifo ne, 69, 7 I, I37, 38I, 4I3-4 Grossi P., 24I, 249,2s8

Gelosia, 2s3,270,292

Guarino da Verona,44

Gendrat-Claudel A., I27

Guazzo M., 394

Genette G.,367,372,37s,384 Gentile G.,23,27,3I

Belisardo, 394 Guidone, 3S4,373-4,376-7

Gesù Cristo,I64-s,243

Guiron le Courtois, 62

Getto G.,324,338

Gundersheimer W., 6o,8I,96

433

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Giintert G., 4Io,42.4 Guyot A., 32.2.,338 Harington J., 2.IO,2.2.3 Harris N., 2.00, 2.2.3 Hasenohr G., rso Hector, I2.9,I3I

Hegel G. W.

F., 2.7-8, 36, I8o, I84, I95,

406-7

Heijkant M.]., ISI Hempfer K. W., Ioi, 12.6, ISS, I7 5, 2.s4, 2.58

Kelly D., 79,384 KellyJ., 8I,96 Kennedy E., I3on,I3I,ISO-I Kennedy W.]., I97 Kierkegaard S., I94-S Kisacky]. M., 2.46,2.52.-3,2.56,2.59 Klopp C. D., 2.7 5,2.8I Knox D., I86,I9S Kohler E., I3o,I48,Iso,2.96,2.99 Kristeller P., 2.63,2.8I KristevaJ., I53,I7S Lacalamita S., I2. LacanJ., 2.9I,2.99 Lacy N., 79,384

Hirdt W., 365 Historia di Merlino, 389

Honnacker H., 2.82. HuizingaJ., 2.4s,2.58

Lancelot, 62.,I2.2.,I3on, I3I-3, I43,375 Lanci/lotto, I2.2.,I3I-3,I3s-6, I4o-s, I48

Iglesias C., 12.8 lnternoscia D., 2.47,2.s8

Lanfusa, I4o,2.2.I

ippogrifo, s6, 68, I37> I89, 2.41-2., 2.45>

Lattanzio F., I70 Lavezuola A., I87,I9S Lazzaro Ferri N., 2.60

Lanze/et, I32. e n

2.SI, 2.56, 2.72., 2.84, 2.92., 3I3, 32.8, 333· 369,4I2.

lroldo, 108, 377

Leggiadria, 2.54

Isabella, 82.,87,89,9I,103,115,I2.0,I34,

Le Goff]., I48,ISO Lejeune R., I32.n,ISO Leonardo da Vinci, 2.44,396

I48,I60,2.I4,2.I6,2.2.9,2.32.-4,2.74> 2.88,369,372.,376,379-83,4I2.,4I6

Leone, I6, 82., 118, I2.2., I30, 2.74-5, 2.77,

Isotta, 132.-3

Izzo A.,

79, 90, 96, 118, I2.0, 12.5-6, I9 5,

2.I6, 2.73> 2.8I, 2.99· 346, 364, 377> 380, 383-s,410,42.4-s

Jakob M., 32.I,338 JarmuschJ., I93 Javitch D., 36,39,47,59, 79,101-2.,105,

2.89,2.9 5> 344· 390, 42.2.

Leone x (Giovanni de' Medici) (pa­ pa), 44,47,Ioo,392.-3,398 Leoniceno N., 42. Leopardi G., 7,4os-6 Zibaldone, 40 5-6

Lepschy A. L., 96

117, I2.2., 12.6, I30, I44, I48n, ISO,

Lidia, 9I,2.72.,2.77,373,379,38I,409

IS4-S• I63, I7S, 2.48, 2.S4, 2.58, 2.6I,

Limentani A., 36,I39,ISO,30I-2.,32.0 Lio E., I96

2.81,406,411,42.4,42.6

Jean Paul, cfr. RichterJ

P. F.

Lione/, I3I

]ocondo, 88, I2.0-I, 2.86,2.98,379,4I6

Jordan C., 94,96 ]ossa S., 100,104,106,I72.,I75,I93,I9 5, 2.2.4, 2.48, 2.59· 2.68, 2.73· 2.8I, 342.,

Lockwood L., 32.,39 Lodge D., I93 Loseth E., I3on,I3I-3,ISI Logistilla, 32., 2.I8, 2.2.0, 2.44-5, 2.53, 2.55, 2.6s-8,2.7I-2.,2.86,330-I

364,384,406,42.4-5

434

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

2I6, 240, 27 0, 27 2, 3I7, 37 2, 379·

Longhi S.,I29,I34,I44,ISO Looney D., 47,so,6o,I54,IS7· I63,I75,

38I-2,4I8-9 Marinelli P. V.,32,39

26o,38s,400,402

Marino G. B.,IS9. I 7 2,302

Lope de Vega F., I92,I9S

Adone, 302

Gatomaquia, I92

Marsh D., 264,28I

Lot F., 367,385

Marsilio,SI,4II

Lucano M. A.,ISS

Martano, 38I Marte, 2I2,246,285,3son,352,355,360

Luciano, I88, 246,248

Lucina, 22I,246,376,4I4 Lucrezio T. C.,358

Martignoni C.,ISI

De rerum natura, 358 Ludovico Sforza,detto il Moro,duca di

Masi G.,278,28I

Masciandaro F., 344,364 Massimiliano

Milano,389 Lugnani L.,403

Matucci A.,403 Mazocco dal Bondeno G.,7,I6 Mazza D., I96

Machiavelli N., ns, 244, 263-4, 27 5, 322,388,397-8

Mazzacurati G.,I83,I93,I9S

Macphail E., 403

Mazzarelli C.,280

Mainardi G.,42

Mazzoni F., 6o, 96, ISI, 1 75, 224, 259,

138, 216, 22I, 249-so, 252,

299

264,285,369,37 I-2,378,388,393

Mazzoni G.,35,39

Malato E., I24,238

Medici Giovanni de', cfr. Leone x

Maldina N., n6,126

Medici Lorenzo de', n8,228

Malipiero G.,I64

70, 7 7, I2I, I39, I63, I7 3, I90, I92, 216-8, 248-9, 274· 29I, 296-8,

Medoro,

Mambrino, 29I Mancini A. N., 337

334-6,344,376,378,38I,4I4-S

Mancini M.,39

Mandricardo,

d'Asburgo ( imperato-

Matarrese T., IS-6,I9,225,237,402-3

Mac Carthy 1., 92,96

Malagigi,

I

re ) ,s8,393

Melchiori G., n8,126

SI, 78, 87, 92, 103, I33,

Meliadus, I3I, I33 Melissa, 57,9I, n7-8, I33· I36, I47• I67-

138-9, I4I, I 77-8, 216, 22I, 232-3, 277,286-8,29I,295-6,4I7,42I

8, 2Io-I, 2I6, 247, 250, 252, 265,

Manilardo, I33

27 0,286,289,37I,388-90

Mantegna A.,396

Mel M. da,cfr. Rossi

Manuzio A.,263

da Mel M de'

Menandro,III,I87

Manzoni A., 7,23I,236

Ménard P h.,IS2

I promessi sposi, 236 Il cinque maggio, 23I Marfisa, SI-2, 8I-2, 84, 86, 90-3, n7-8,

Menegatti M.,403

Mengaldo P. V.,22,39,230,237 52, 57, 93, n8, I33, 240, 25I,

Merlino,

I86, 2I6, 22I, 240, 255, 288, 296,

303, 327, 369, 37I-2, 378, 388, 393·

369, 37 2, 379-80, 382, 393· 409,

395. 4I8

4I4,4I8-9

Metastasio P., n8 Micha A.,ISO

Marganorre, I6,I8,82,84-6,90-I, 2I4, 435

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Michele (arcangelo), SI,247 Micheli S., I2

Orazio, 6I, IOS, III, IIS, I72, I88, 262-3, 270-I, 278-9, 28I,3IS,343,363

Mirra, II9

Ars poetica, III, 262 Carmina, 343 Epistole, 263,3IS Satire, IOS, III,263,270-I Orco, 246

Molinaro J. A., 282

Ordine N., 88,96

Momigliano A., 2s4,2s9,262,28I,324,

Orlando, I6,3s-6,49-s4,62,6s, 70, 73-

Migliorini B., 238 Milanesi M., 24I,2S9 Millet 0., 39 Minturno A., I8 7,I96

338, 400, 407-8, 42S

4, 76-8, 87-8, 9S, 103-4> 108, II2,

Montagnani C., I3,223,389, 402-3

IIS,I20,I29,I32-48,I6I-3, I66,I7I-

Morato N., I29,ISI

2,I74> I77> I89-90,I92,I99> 216-8,

Moretti F., 128,2s9,32I, 338

220-I, 2s6-7, 264, 269-70, 272,

Moretti W., 272,274,28I

276,28s-8,29I,293-s,297-8,3o8-9,

Morgana, I3I, 22I,286

3IS-6,334-6,344,346-7,349,3Sin,

Morgana S., 237 Morini A., ISI, 402

Mort le Roi Artu, 62,I43 MoscoD., 47 Motolese M., 237,320 Motta U., I2 Murrin M., 403 Musarra F., I66,I7S,I89,I96

3S7,3S9-60,362,372,376,378,380I, 383,392, 394, 408-9,4II-23

Orlando F., 244

Orrigille, 69, 7I, 77,9I,I37,22I,38I,4I3 Orrilo, 2I9,24s,4I3 Orsini P., detto V icino, 32s Ossola C., IS4, IS8,I7S

oste, 74,88,2I3,378,382, 4I6 Ovidio, 46, so, III, II7, II9, I22-3, ISS,

Nardone J. L., 2S9

IS9,I72,246-8,3IS,393

Nembrotte, 94

Amores, I72 Epistole, 46 Eroidi, IS9-60 Metamorfosi, so, III, II9, I22, I6o,

Nerini D., I2 Nerone, 9I Niccoli S., 38 Noferi A., 339

Norandino, 2os,22I,246,376, 4I3-4 Novellino, I34

247-8,3IS

Tristia, 46

Nuovo A., 99, I27

Pacaccio S., I2

Oberto, 376 Odorico, 222,272,376

Padoan G., 282

Ohly F., I30,I39n,ISI

Pampaloni L., 6s, 79, 423, 42s

Olimpia,

I6, 73-4, 9I, I2o, I34-s, I37,

Paccagnella 1., 12S, 237 Pagano V., 392 Pannizzato N. M., 42

I4S> I48, IS9, 2I3-4> 2I6, 272, 274>

Paoli M., 338

288,327,333.373.379-82,4I2

Papagno G., 339

Oliviero, 240

Paris G., I3I,ISI

Omero, IOI,III,I8 7,I9I

Parker P., IOI,I27,IS2

Odissea, 248

Pasifae, II9

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Stanze, 102,247,308

Pasini M., 108

Patroclo, 420 Pauphilet A., I3I,IS1 Pedroni M. M., 12 Pellegrino C., 187,196

Perceval, I43 Perella N.]., 337 Petrarca F., I3, Io8, n4, n8, I23, I48, IS9, I64, I66, I68, I70, I7 2, I8o-I, 226-8,231,233-4>363

Rerum vulgarium Jragmenta,

13,

108, II4, 123, 145, I48, 162, 164-

104, 121, I27, 129-30, 135> 138, I44> 146, 148-9, 151-2, IS7, 17s-6, 230, 232,237>30I,303,306,3I4,3I6,3I8, 320,333-4,338,346,364-5,37 I,37 8,

5,226,232,234>335

384-5,4IO,4I4,423,425

Trionfi, I67,I? O Petrocchi G., I3,27I, 28I Pezzarossa F., 322,338 Pezzini S., 259-60,337 Picchio F., 254,259 Piccolomini A., 188,196 Pich F., 251,259 Pichard L., ISO Pico della Mirandola G., 46 Piéjus M. F., 339 Pier delle Vigne, 169 Pigna G. B., 45, 59, 100, 255, 259, 285,

Prasildo, Io8-9 Pratt K., 130n Preti M., 324,338 Prisciani P., 389 Properzio S., 102,II?,123 Proserpina, I45,I47,3IS

Provvidenza, 27 2,388 Psaki F. R ., I32n,I49 Pulci L., I3, 107, I58-9, I7o, I74, 228, 262,302,309-10,346,349-51

Morgante,

I3, Ioo, IO?, 225, 23I-2,

302,310,349-so,387

299>342,364,406

Pigna G. B. della, I7

Pinabello,

Poma L., I27,I96,260 Pomponazzi P., 3I,24I Pontano G., 188 Pot 0., 39 Pozzi G., 302,3IS,320 Prada M., 237 Praloran M., 9, IS, I9, 36, 64, 68, 7 9,

84, 93, I36-7, I39, I47, 2I6,

22I,255,27 2,369-70,380,388,4IS

Puppo M., 24,39 Puric E., I2

Queste del St. Graal, I30,I43

Piotti M., 237 Pirandello L., I82,193

Quint D., 101,127,400,402 Quondam A., 182,I96,263,28I,339

Pirra, 248 Pitagora, 27 Pizarro F., 37 2 Plaisance M., 97,I95,382,385 Platone, 27 Plauto T. M., I20

Raffaello Sanzio, 396 Rajna P., so, 6o, 90-I, 96, 103, I29, I3I, 138, 151, IS4> 1S6-8, 17 5> 221, 223, 246,2S9,28S,299,34S,36s

Raynaud de Lage G., ISO Re L., I8S Refìni E., 24I,259

Captivi, II9 Polacco M., 176 Polidori F. L., 130n,I31-2,1SI

Polifèmo, 247 Poliziano A., n4, I8I, 228, 247, 30I-2,

regina d'Islanda, 369,380 regina Elisa, 287,399 ReidJ., 28,39

308

437

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Renata di Francia, duchessa di Ferrara, 86, 390

Residori M.,

Rua G., I3,107,223,364 Ruggierino, 389

rr6, 127, 259, 272, 28I,

Ruggiero, I6-8, 21, 36, 48, SI-4, s6-7,

337-9

59, 62, 66, 68, 7 3-s. 82, 84, 93-s.

Rhodes D., 96

103, II7-8, 122, I30, I33, 135-7, 143-

Ricciardetto, rr9-20, I87, 250-I, 294,

4, I65, 167-8, 176, 178, 187, 189-

354· 376-7, 379-80, 42I-2

Rice E. F., 267 Richardson B., 237 RichterJ. P. F., dettoJ ean P aul, 28,I79 Rinaldi R., 24I,254,259 Rinaldo, I6, I8, 2I, SI, 54-5, 66, 68, 7 5, 82-4, 86, 89, 108, I20, I22-3, I389· I4I, I63, I9I, 208, 2I6, 22I, 249· 252-3, 255-6, 268-7 I, 27 3-4, 279, 286-7,292,295,326,333,347,350-I, 354-s. 362, 372, 37 5, 37 7, 38o, 409, 4II-3, 4I8-22

Risso E., I96 Ritrovato S., 101,127,259,299,365 Rivoletti C., I2, I7 S· I79, I87, I89, I9I, I96,223-4,262,282

Rizzarelli G., 259-60,337 Rizzo G., I96 Rocca P., 337 Rocca di Tristano (signore della), 216, 355,369,37 1,395

90, 204, 2II, 216, 240, 244, 250, 253-7, 265-8, 27o-I, 274-9, 285-9, 292-3, 295. 297· 303, 308, 312, 314, 328, 344· 347· 360, 362-3, 369-74· 376-7,379-80,382-3,388-90,392-3, 403,408-9,412,416-22,424

Ruggiero R., 176 Ruscelli G., 37,186,231 Russel P., I94 Sacripante, 70,II3-s. II9,I37,I39,I4I-2, I46,I7I, I92, 287,295-6,326,362

Sadoleto 1., I86,2IS Saffo, 86,9I

Salinari G. B., 27 5,282 Salviati (famiglia), 394 Salviati L., 406,425 Sancho Panza, I84

Sangirardi G., 7 2, 79,99-Ioo, 102,I04, I07,I09-I2,IIS,II8,I22,I27-8,I30, ISI-2,IS4-S· IS8, I66, I7S· I86, I88-

Rochon A., 328,338

9· I9I,I96,246,259· 284,292,299·

Rodomonte, I6, 2I, SI, 70-I, 74, 7 8, 86-

322, 338, 346, 36s, 368, 38s, 400,

8, 94· I03, I2I-2, I37· I39· I7 I, I77· 186, I88, 193-4, 213, 216, 229, 232, 255, 27 3-4, 288, 295, 297, 391, 409, 4I3, 416-7, 422,424

Roggia

C. E., 225,227, 235, 237,320

Roman de la Rose, I34

Romizi A., IS6-7,I7S· 246,259 Roncaccia A., 338, 402, 4I2,4I4, 425 Roncaglia A., 300 Rospocher M., 393, 399,402 Rossi da Mel M. de', s6 Rossi da Valenza F. de', 18 Rossi M., 325,338,403 RousseauJ.-J., 25

402

Sanguineti E., I8s,I96 Sannazzaro J., 39 7 Arcadia, II2 Sansonetto, 4I4

Santagata M., I3, 403 Santoro M., 59, 84, 86, 257, 259, 269, 272-3, 278, 282, 34I,349· 36s

Sanzio R., cfr. Raffaello Sanzio Sasso G., 23,39 Savarese G., 32, 39, Ioo, I27, 24I, 254, 2S9,263,27 3,27S,278-9,282,339

Sberlati F., 10I,I27· ISS· I76 Scaglione A., 28I

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Scalia G., 38

Stoppino E., 90, 96, 300, 400, 403

Scanu A. M., 322, 339

StradaJanovic C., 124, 384

Scarano E., 124, 400, 402

Strologo F., 125, 141, 151

Scarpati C., 17 1, 176

Stroppa S., 74, 79

Scavuzzo C., 226, 231, 237

Strozzi E., 46, 235

SchaefferJ. M., 128

Strozzi T. V., 389

Schelling F., 406

Borsias, 389

Schileo N., 107

Stussi A., 403

Schlegel F., 28, 179-80, 183-4, 196, 406

Suarato E., 12

Scianatico G., 400, 403

SwiftJ., 179

Scorrano L., 6o

Sysmonds]. Addington, 184

Scotti M., 38, 195

Tacaille A., 39

Sdegno (cavaliere dello), 253,270 Segre C., 13, rs, 19, 59, 79, 91, 96, 124,

Tagliaferri A., 194

Tancredi, 123, 17 1

129,133· 135· I39n,149· rsr,IS4 · IS7-

Tasso T., I00-2, ro s-6, IlO, 121-4, 127,

8,r64-6,r7 s-6,223,227,230,236-7, 257· 279· 282,293· 299· 319,328,337·

rss. 159· 163-4 · 17 1, 187, 196, 239· 260, 302, 326

339, 400-1, 405, 422-3, 425

Apologia, 102

Senapo, 57-8, 94, 219, 244, 255, 355 Seneca L. A.,263 Serianni L., 231, 237-8

Discorsi dell'arte poetica, ror, 171 Gerusalemme liberata, 148, 17 1, 302

Serra L., 339

Rime eteree, 123

Shakespeare W., II8, 126, 17 9

Rinaldo, 163

Sheers A., 402

T assoni A., 302

Shemek D., 82-3, 96-7, 300, 400, 402

La secchia rapita, 302

Sibilla Cumana, 390, 399

Taviani F., 196

Silenzio, 247 Sismondi J. C. L. Simonde de, 406,

Tebaldeo A., 231

425

Tenoudji P., 39

Socrate, r88 Sofrosina, 253

Teocreno B., 42 Terenzio P. A.,105, 264

Soletti E., 238

Teseo, 247

Sorrentino F., 321, 338-9

T horsen T. A., 102, 127

Speroni S., 187, 196

T ibullo A., 394

Elegie, 394

Spitzer L., 30,39 Spongano R., 197

T ieck L., 28

Stazio P. P., IOI, rss. 17 3· 246-7 Stella A., 44, 59,124,227,229,233,236-

Tisbe, r6o Tisbina, 109 T issoni Benvenuti A., 13, 129, 152, 199,

7,280,401

223

Sterne L., 17 9, 183

T izi M., 320

StiennonJ., 132n, rso Stimato G., 13, 194, 223, 236, 247, 259,

T iziano Vecellio, r8, 396 Tobia, 249

280 439

INDICE DEI NOMI E DELLE OPERE

Tomasi F., 79-80, I49, ISI-2., 2.37, 32.0,

Vinaver E., 62.,79,IS2. Virgilio P. M., I8, IOI, 105, I09, I2.I-4,

364,367,42.5 Tomasin L., 2.37,32.0

I48n,ISS,I7I-3,2.46-8,2.SI,355,393

Tomas sini G. B., 385

Ecloghe,2.45,2.SI

Tommas o d'Aquino (s anto), 2.43

Eneide,I6, 103, 109,III, l2.I-2., 12.4,

TookJ., 96

I4S> I6I-2.,2.47-8,357> 388,399

Toscanella 0., 32.4,339

Vis ani 0., 365

Tournoy G., ISO

VitaleM., 2.2.7-8,2.30,2.38

Tr avi E., 39

Viviano,2.2.I,369

Trifone P., 2.38

Voltair e, F.-M. Ar ouet detto,7

Trissino G. G., IOI-2., 105,I63

Vos sler K., 2.2.

Tristan,62., I30n, I3I-3, I45,2.86

Vulcano,2.46,2.84,304

Trivulzio G., 39I

Weaver E., 74, 79, 94, 97, II6,I2.7,2.I4,

Tr ovato P., 2.2.7,2.38,338,403

2.98,4IS,42.4

Turno,I6,I09,I2.2.

Weinberg B., ISS,I57,176,I96

Turolla E., 30I,3n,32.0

Turpino,I59, 17 0, I8s, I90,2.2.0-2.,2.2.4, 349

Wiggins P. D., so,6o,83,97 WinkJ., I97 Winnicot D. W., 2.45,2.6o

Uberto,389

Yates J. B., I78-9

Ulisse,I3I,2.47-8 Ullania,82.,93,2.I6,355 e n, 369,399

Yates W. B., I78

Ur baniakM., 2.5I,2.60

Zampes e C., 12.-3, 107, I2.4, 12.8, I49,

I70,I76,2.57> 2.80

Valag uss a F., I9S

Zatti S., n, 2.6,32.,34,39,7 3,79,97,IoI,

Valerio G. F., 88-9,IS9

12.8,I43> I46,IS2.,IS9> I76,I8s,I96,

Valerio Fiacco, 2.46

2.52., 2.57, 2.6o, 2.64-s, 2.7I-2., 2.7 5,

Valla L., I88,2.44,2.63 Vanacker J.,2.47,2.60

2.7 7> 2.82.-4, 2.86, 2.88, 2.90, 2.92.-4, 2.96,2.98-300,32.5,339,344,364-s,

Van Hoecke W., ISO

410,42.I-3,42.5

Vallone A., 2.4I,2.60

Zerbino, 7 7,I03,n6,I39,I6o,I86,2.I6,

Vecchi Galli P., 12.5, 12.7,I49,I7 5, 2.2.4

2.34, 2.74-s, 2.88, 342.-3, 369, 376,

Vecellio T., cfr. Tiziano Vecellio

378,380,4I6

Vela C., 2.37

Venere,2.46,2.85,355

Zete, 57-8

Venturi G., I9, 59, I74, 2.59, 2.80, 32.8,

Zeusi,396 Ziliante,2.2.I

339> 402. Verbeke W., ISO

ZinkM., ISO

Ver neroM., 32.4,339

Zonta G., 2.98-9

Vespucci A., 372.

Zottoli A., 59

Vico G. B., 3I

Zuccar elli A., II

Villor esi M., 106-7, I09, I2.7, I38, IS2.,

Zuccari P., I2. Zumthor P., I30 e n, I3I,I44,IS2.

2.06,2.2.4 440

Gli autori

ALBERT RUSSELL ASCOLI è Terrill

Distinguished Professor alla University ofCali­

fornia, Berkeley. Membro straniero dell'IstitutoLombardo Accademia di Scienze eLettere, è l'attuale presidente della Dante Society of America. È autore, inter alia,

diAriosto's Bitter Harmony: Crisis and Evasion in the Italian Renaissance

(1987) e

di Dante and the Making oJa Modern Author (2008) . GABRIELE BUCCHI

è maitre d'enseignement et de recherche presso la Section

d' ltalien dell' Université deLausanne. Si occupa di letteratura italiana dalCinque al Settecento con particolare attenzione al poema epico, alla parodia letteraria e alla ricezione dei classici. È tra i curatori delle Letture dell'«Orlando furioso»

(2016-17). MARIA CRIST INA CABANI

è ordinaria di Letteratura italiana all'Università di Pi­

sa. Fra i suoi numerosi studi: Leforme del cantare epico-cavalleresco (1987); Costanti

ariostesche. Tecniche di ripresa e memoria interna nell'«Orlando furioso»

(1990);

Fra omaggio e parodia. Petrarca e petrarchismo nel Furioso (1990) . ALBERTO CASADEI

è ordinario di Letteratura italiana all'Università di Pisa. Si è

occupato soprattutto di letteratura italiana del Tre-Cinquecento e contempora­ nea, anche in una prospettiva comparatistica. Il suo ultimo libro è Ariosto. I metodi

e i mondi possibili

(2016).

VERONICA COPELLO

è dottore di ricerca all'Università di Pisa in cotutela con

l'Université de Genève. Si occupa prevalentemente di poesia del Rinascimento, in particolare di Ariosto (a cui ha dedicato il volume Valori efunzioni delle similitu­

dini nell'«Orlandofurioso», 2013) e di Vittoria Colonna. DANIELA DELCORNO BRANCA

ha insegnatoLetteratura italiana, Filologia dante­

sca e Letteratura del Rinascimento all'Università di Bologna. Ha pubblicato vari studi sulla letteratura cavalleresca (tradizione arturiana in Italia, Boiardo, Ariosto, cantari), su Poliziano (edizione critica delle Rime) e sulla cultura fra Umanesimo e Rinascimento. JANE E. EVERSON

è professoressa emerita alla Roy al Holloway University ofLon­

don e Associate Fellow dell'Institute for Modern Languages Research alla School

441

GLI AUTORI

of Advanced Study, University of London. Si occupa in particolare del poema cavalleresco del Quattro e Cinquecento e delle Accademie del primo periodo mo­ derno. Fra i suoi numerosi studi The Italian Romance Epic in the Age ofHumanism

( 2.00I ) ; con Lisa Sampson e Denis Reidy ha curato il volume The Italian Academies ( 2.0I6 ) .

IJ2J-I700

FR ANCESCO FERRETTI è ricercatore all'Università di Bologna, dove insegna Let­

teratura del Rinascimento. Si è specializzato sul genere cavalleresco, dedicandosi, in particolare, ad Ariosto e Tasso (cui ha dedicato il volume «Narratore notturno».

Aspetti del racconto nella «Gerusalemme liberata», 2.010). Un altro versante delle sue ricerche è la poesia spirituale della prima Età moderna. ANNALIS A IZZO è stata ricercatrice del Fonds National Suisse e ha insegnato Let­

teratura italiana nelle università di Harvard, Durham e Losanna. Alla tradizione cavalleresca ha dedicato varie pubblicazioni («D'un parlar ne l'altro». Aspet­

ti dell'enunciazione dal romanzo arturiano alla «Gerusalemme liberata», 2.012.; L' «Orlando furioso» e la tradizione cavalleresca, 2.012.; con Ilaria Molteni, Narra­ zioni e strategie dell'illustrazione. Codici e romanzi cavallereschi, secc. XIV-XVI, 2.0I s).

È tra i curatori delle L etture dell' «Orlando furioso» (2.0I6-I7). STEFANO ]OSSA insegna Letteratura e cultura italiane alla Royal Holloway Uni­

versity ofLondon. È autore diL'Italia letteraria ( 2.0o6),Ariosto ( 2.009 ) e Un paese

senza eroi. L'Italia dajacopo Ortis a Montalbano (2.0I3). DENNIS LOONEY è Director of Programs e Director of che Association of De­

partments ofForeign Languages della ModernLanguage Association. È stato pro­ fessore di Letteratura italiana alla University ofPittsburgh ( I986-2.0I5 ) . Tra i suoi interessi, la ricezione della tradizione classica nel Rinascimento europeo e la ricezio­ ne di Dante. È autore, tra l'altro, di Compromising the Classics: Romance Epic Nar­

rative in the Italian Renaissance ( I996 ) ; «My Muse will have a story to paint»: Se­ lected Prose ofLudovicoAriosto ( 2.0Io); con Mark Possanza, Carmina:Ariosto'sLyric Poems (2.0I7). TINA MATARRESE ha insegnatoLinguistica italiana all'Università diFerrara. Stu­

diosa di Boiardo e Ariosto, ha pubblicato, tra l'altro, Parole eforme dei cavalieri bo­

iardeschi. Dall' «Inamoramento de Orlando» all' «Orlando innamorato» ( 2.004 ) . Con Marco Praloran è l'autrice del Commento all'edizione del ISI6 dell'Orlando

furioso (2.0I6). MATTEO RESIDORI insegna Letteratura italiana all'Université deParis 3 Sorbon­

ne Nouvelle. Si occupa in particolare di letteratura del Rinascimento e ha pub­ blicato vari lavori sulla poesia lirica e sul poema cavalleresco, tra i quali l'edizione delle Rime di Michelangelo (I998 ) e i volumi Espaces chevaleresques et héroiques de

Boiardo au Tasse ( 2.0o8) e Tasso ( 2.009 ) .

442.

GLI AUTORI

insegna Letteratura italiana presso la Section d'Italien

ALBERTO RONCACCIA

dell'Université de Lausanne. In ambito cinquecentesco ha pubblicato il volume

Il metodo critico di Ludovico Castelvetro (20o6). Ha inoltre pubblicato un volume di studi su autori contemporanei, italiani e svizzeri, intitolato Il luogo delle Muse (2010). In diversi recenti articoli si è dedicato ad Ariosto e a Bassani. GIUSEPPE SANGIRARDI

è ordinario di Italiano all'Université de Bourgogne. Si è

interessato principalmente ad autori come Ariosto e Leopardi e a questioni legate alle forme letterarie e alla loro genesi. Attualmente si occupa della ricezione di Dante. Tra i suoi principali lavori, la monografiaLudovicoAriosto ELEONORA STOPPINO

(20o6).

è Associate Professor di Italiano, Studi medievali e Lette­

ratura comparata alla University oflllinois. Ha pubblicato sulla tradizione epica, sui manuali di condotta medievali, su Dante, Boccaccio, Ariosto e Tasso. Tra i suoi lavori, Genealogies o/Fiction:

Women T#zrriors and the Dynastic Imagination in the

«Orlandofurioso» (20n). FRANCO TOMASI

insegna Letteratura italiana all'Università degli Studi di Pado­

va. La sua attività di ricerca è dedicata principalmente alla stagione del Rinasci­ mento italiano, con particolare attenzione alla lirica e alla riflessione teorica sul genere, al poema epico-cavalleresco, alle figure di poeti italiani esuli in Francia alla corte dei Valois. È tra i curatori delle Letture dell'«Orlandofurioso» ELISSA WEAVER

(2016-17).

è professoressa emerita di Italiano alla University of Chicago; si

interessa del poema epico cavalleresco, della novellistica e della letteratura fem­ minile, specialmente della scrittura delle monache tra Cinque e Seicento. Tra i

Convent Theatre in Early Modern Italy: Spiritual Fun and Learningfor Women (2002). È autrice, tra l'altro, di uno studio con edizione bilingue delle sacre rappresentazioni di Antonia Pulci (trad. ingl. James Cook), Saints 'Lives and Bible Storiesfor the Stage (20 IO ) . suoi lavori

SERGIO ZATTI

insegna Storia della critica letteraria all'Università di Pisa. Si è

occupato prevalentemente di epica rinascimentale. Tra le sue pubblicazioni: L'u­

niforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla «Gerusalemme liberata» (1983); Il «Furioso» .fra epos e romanzo (1990); The Q!Jest for Epic (20o6).

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