L’essenza della scienza tedesca

Citation preview

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling

L’essenza della scienza tedesca A cura di Francesco Donadio

Guida editori

Titolo originale: F.W.J. Schelling, Ober das Wcscn dcr dcutschcn XVissenschaft. Fragment, 1S11 (aus dein handschriftlichen NachlaB), in Siiintliche Werke, a cura di K.F.A. Schelling. Stuttgart 1856-1861, vili Band, pp. 1-18

Traduzione italiana di Francesco Donadio Stampato con il contributo del MURST Cofìnanziamento 40% Università degli Studi di Bari

Collana di elevato valore culturale Ministero per i Beni Culturali e Ambientali L. 5 agosto 1981. n. 416

Guida 2001, Napoli via Port'Alba, 19 Internet: www.guida.it E.inai!: [email protected] ISBN 88-7188-503-1

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling L’essenza della scienza tedesca

i

Molti oggi parlano con particolare enfasi di scienza tedesca, ma essi non spiegano che cosa intendano con ciò: se scienza tedesca sia l’attuale caos di concetti e opinioni contrastanti o una qualche scienza passata o anche in un certo senso futura. È vero che si può par­ lare di scienza tedesca, perchè essa non è un qualcosa di esterno rispetto alla stessa nazione, un qualcosa che si aggiunga a qualcos’altro o venga praticato come mezzo: essa è la vera interiorità, l’essenza, il cuore della nazione, è intrecciata con la sua esistenza e non c’è alcuno che non convenga che solo nella nazione la scienza ha una vera esistenza. Testimonianze di questa affermazione sono le rivoluzioni scientifiche e reli­ giose, con le quali questo popolo è andato avanti a tutti gli altri e nelle quali ha mostrato un grande in­ teresse del cuore e dello spirito per il fondamento di ogni conoscenza, quale nessun’altra nazione ha mai fatto e mai più in seguito questo stesso popolo ha mo­ strato per nessun altro scopo. Anche la forma e il con7



tenuto interno della scienza tedesca non devono es­ sere considerati casuali. Stupefacente è apparso ad al­ cuni soprattutto che tra i tedeschi l’amore per le ri­ cerche metafìsiche non sia invecchiato, come in tutte le altre nazioni, ma anzi si sia mantenuto sempre gio­ vane. Essi sembrano ritenere che i tedeschi avrebbero fatto meglio a seguire anche in ciò l’esempio stra­ niero. A quanto pare costoro non conoscono l’essenza del proprio popolo e perciò non hanno neppure com­ preso il suo destino. Questo popolo si è costituito un suo animo spirituale troppo peculiare per tenere il passo con altre nazioni sul loro cammino. Esso deve percorrere la sua propria strada e la percorrerà senza perdersi né lasciarsi fuorviare, come sempre invano fu tentato. Il suo compito è del tutto specifico, la dire­ zione delle sue evoluzioni e progressi è una direzione necessaria. Da quando il popolo tedesco si è liberato della fede esistente, in quanto essa era o vuota di ogni sa­ pere o fondata su forme soffocanti e morte di sapere, fidando solo sulle forze della scienza e della chiara co­ noscenza, da allora esiste la scienza tedesca in tutta la peculiarità del suo significato. D’ora in poi i suoi pro­ gressi non sono più casuali né indeterminati (come quelli di altre nazioni), ma hanno un fine determinato e una direzione necessaria. È abbastanza strano come sia potuto restare del tutto inosservato che già la pubblica divisione delle confessioni religiose riserva al popolo tedesco un fine di gran lunga superiore a ogni altro. Certo, ci si la­ menta che come nazione si sia rimasti danneggiati da questo fatto, ma a quale fine quella divisione ci sia e dove infine questa contraddizione nel cuore della na­ zione debba portare, nessuno vi ha prestato atten­ zione. - Via con tutte i pensieri del ritorno! Ogni ri8

torno, eccetto quello che avviene attraverso progressi, è rovina e tramonto. Certo anche le creazioni dello spirito universale (Weltgeist) hanno la loro rotazione vivente, riportando l’identica cosa in natura e storia, ma in un senso diverso e più alto. Similmente a que­ sto progrediscono le creazioni delio spirito umano. Dall’epoca del decisivo distacco dalla fede tramandata il popolo tedesco solennemente promise e giurò a se stesso di portare l’opposizione sino alla completa dis­ soluzione, di abbandonare l’unità intesa come uno stato di pace privo di conoscenza e di ristabilirla a un grado più alto, come unità consapevole. Questo è il fine del popolo tedesco, quel voto che lo fa apparire povero rispetto alla ricchezza, umile rispetto alla bal­ danza di altre nazioni, lo stimolo del suo entusiasmo per il quale, a fronte della presunzione altrui di aver portato a conclusione le ricerche supreme e di di­ sporre dei sommi princìpi, esso è continuamente spro­ nato a rimestare le certezze fondamentali di ogni co­ noscenza e a scendere in profondità impensabili. La trasformazione spirituale del xvi secolo fu una rivoluzione prodotta attraverso la scienza, attraverso la vera metafìsica contro il meccanicismo e la fìsica della fede religiosa di quell’epoca. Il principio, l’anima di ogni fede, che cominciò a bastare a se stesso, ebbe la meglio sulla materia e sul corpo. Da qui la metafìsica del sentimento nello spirito dell’autore; da qui non l’opera, ma la magìa della fede fu l’uno e il tutto della _sua dottrina. Ciò che in seguito innanzitutto si sviluppa nella scienza tedesca, ciò che nella nostra epoca è stato stimolato, causato, fatto con nuova forza, si trova, come conseguenza mediata o diretta, nella più stretta connes­ sióne con quell’inizio della scienza tedesca. Tutto ciò che ce tra questo inizio e il tempo pre­ sente, di cui anche il più distratto comprende che 9

;

esso non passerà senza lasciare dietro di sé un nuovo mondo, una nuova creazione (di qualunque tipo sia), lo considero come pura, necessaria apparizione inter­ media, mentre considero l’intera epoca come il pe­ riodo della massima scissione. Era, infatti, necessario che, tolta l’unità, l’opposizione venisse fuori potente e in tutte le direzioni, che gli elementi di ciascuna op­ posizione, nascosti nell’armonia, emergessero, perché quella opposizione, attraverso la sua estensione e ap­ plicazione al reale, trovasse la distruzione. La scienza doveva pervenire, al di là di tutte le sue possibili forme, alla Ubera e chiara coscienza, per concludere in una divina indifferenza, che è il suo vero carattere. Indubbiamente solo d’ora in poi l’originaria idea dua­ listica, estranea al popolo tedesco, della morte della natura e dell’esclusiva vitalità nell’uomo del principio spirituale, ha potuto emergere come sistema, come idea dominante, a cui a poco a poco ogni sorta di scienza, ogni ramo di conoscenza e infine la stessa vita pubblica si sottomise. Dopo che secondo quest’idea tutto sulla terra e nel cielo era morto, eccetto la par­ venza di vita del soggetto, ogni metafisica, ritirandosi su questo, per essere ancora distinta dalla fìsica, do­ vette trapassare in empirismo, mentre la religione, con tutto ciò che le appartiene, dovette.fuggire in un al di là, oltre ogni mondo reale. Coloro che ora cercavano l’unità, ma vedevano la. scienza solo nella conoscenza chiara, poiché in tutto ciò che è chiaramente conoscibile non si poteva più incontrare alcunché di divino, dovettero conoscere come l’unica realtà appunto questo non divino, ciò che è in sé senza vita e che produce l’illusione di vita solo in una meccanica connessione operativa, e riget­ tare come superstizione, inganno ed errore ogni con­ cetto di un essere fuori di essa. Con ciò il dualismo IO

erà pervenuto all’autoannientamento. Su un altro piano, più consono al sentire tedesco, 1 annientamento si verificò attraverso l’assoluta separazione, in quanto si riconobbe che ci poteva essere scienza solo di ciò che è morto e in ciò che è morto, mentre per ciò che è vivo, libero e divino all’uomo resterebbe solo la pro­ fonda coscienza del suo non sapere, illuminata unica­ mente da presentimento, fede e sentire privo di co­ noscenza. Il finito e il cosiddetto reale, quindi, in quanto positivo, era portato tutto da una parte, l’infìnito e il cosiddetto ideale, in quanto negativo, era por­ tato tutto dall’altra parte, ma il legame, con cui ambedue erano tenuti insieme, era completamente scorn­ parso. Se per le altre nazioni il progressivo emergere de­ gli elementi dell’opposizione, il fallimento completo della loro applicazione, nonché la loro finale autodi­ struzione ha prodotto l’illusione della fine di ogni fi­ losofia (la qual cosa può ora essere considerata l’opi­ nione generale dell’Europa), in Germania, invece, dalla morte e tramonto della falsa scienza e delle astratte teorie doveva scaturire la vera scienza e me­ tafisica. Questo punto di svolta della nuova scienza che proviene dal principio positivo è indicato dalla ri­ generazione della conoscenza avvenuta con Kant. Sa­ rebbe una visione molto riduttiva scorgere nelle suc­ cessive trasformazioni scientifiche della Germania nes­ sun principio più alto che lo spirito di singoli uomini, attraverso i quali esse ebbero inizio. C’era in queste, come nelle precedenti trasformazioni religiose, l’es­ senza, lo spirito della stessa nazione, da cui esse rice­ vettero l’origine, la forza e la spinta per il loro prose­ guimento. Allo stesso modo le asserzioni di questi uo­ mini non devono essere considerate nel loro signifi­ cato come apparvero ai loro contemporanei o persino 11

I ;

a loro stessi, ma nel grande contesto dei tempi e della cultura successiva. Da questo punto di vista la cosa essenziale del rinnovamento kantiano ci sembra la di­ mostrazione che la morte nelle cose non sarebbe altro che una forma e parte esterna trasferite ad esse dal soggetto (la quale trasposizione era rappresentata an­ che come necessaria), che alla base di queste cose meramente fenomeniche, quindi anche alla base della natura, ci sarebbe un qualcosa di essenziale, di vivo, anche se irrangiungibile dalla pura forma dell’intel­ letto. Kant, tuttavia, aveva determinato le cose in sé solo con la negazione, cioè nella loro pura opposizione con quelle che appaiono, ma indirizzando con ciò an­ che i pensieri a una vera metafìsica e fu il primo, dopo lungo tempo, a porre di nuovo alla base della natura un qualcosa di divino, di sorgivo, un ente vero. Dopo di lui potette apparire l’uomo che di nuovo ri­ conobbe la vera essenza di ogni in sé, che trovò che l’in sé universale è la fonte dell’automovimento, dell’autorivelazione e dell’affermazione dell’io. Il futuro oossa ricercare che cosa abbia impedito a questo forte pirito, dopo questa conoscenza vera dell’in sé, scor­ gerlo nel Tutto e così, intuendo l’identità e la vitalità di tutte le cose e dell’intera natura, elevarsi fino a quella fonte originaria di ogni struttura dell’io, di cui ogni altro io, considerato nella separazione, è solo om­ bra e illusione, considerato nella unità, è parte vivente e immagine reale. Ogni scienza tedesca ha aspirato fin dall’inizio a questo traguardo, a vedere cioè la vitalità della natura e la sua interna unità con l’essenza spirituale e divina. In tale intuizione visse il grande spirito di Giovanni Keplero, il quale nell’epoca di Cartesio diede respiro e anima alla terra, riconobbe il significato fisico delle forme spirituali, l’esemplarità della mathesis in rap12

porto alla natura e al sistema del mondo. Questa fu appunto l’anima di quel geniale inventore tedesco, al quale non bastava la vita dell’unica sostanza che con­ tiene ogni vita, il quale, con l’intuizione, presagì che ogni parte della materia era simile a un giardino pieno di piante, a un mare pieno di esseri viventi. Per senso e comprensione Spinoza appartiene ai tedeschi, lui che dagli atei francesi e inglesi era ritenuto uno dei loro e la cui dottrina, salvo poche eccezioni, prima della manifestazione del suo senso attraverso i tede­ schi Lessing e Jacobi, era simile a un libro sigillato. L’irrefutabile testimonianza di questa verità e indi­ rizzo dello spirito tedesco l’ha offerta l’uomo Jacob Boehme. Dotato di grande illuminazione, per puro entusiasmo e senza essere partecipe di alcun altro in­ segnamento o ispirazione che quella che gli veniva dalla sua interiorità, fermo e come attonito nella sua intuizione beata, ha poetato la sua poesia labirintica, simile al fondo oscuro della natura, sulla natura delle cose e dell’essere divino. A lui si unì Hamann, lo spi­ rito geniale, che percepì più profondamente di ogni altro il colpo mortale inferto alla natura con l’uso delle astrazioni e tutta la vanità del suo tempo nella pretesa di elevarsi sulla natura e di dominarla e l’osti­ lità morale nei suoi confronti...1. Nessuno vuole, però, elencare dettagliatamente questo nugolo di testimoni, dal momento che tutto ciò che per vigore originario è prodotto dalla forza tedesca, è unanimente orientato contro questo fine di (ogni) conoscenza. Anche se altri si sono gettati frivolmente in un estremo dell’opposizione, la scienza tedesca, persino quando si è perduta nelle sue più lontane ramifica­ zioni, non ha abbandonato il suo carattere religioso. Anche partendo dalla religione è possibile staccarsi dalla religione. Nel romano Lucrezio c’è molta più de13

vozione della natura e vero entusiasmo religioso di chi, con l’intelletto vuole negare Dio, ma vuole con­ fessarlo col cuore. La nazione tedesca mira con tutto il suo essere alla religione, ma, secondo la sua pecu­ liarità, a una religione unita con la conoscenza e fon­ data sulla scienza. Così, in riferimento ad essa, si è dovuta dimostrare evidente la nota asserzione di Ba­ cone, cioè che la filosofìa, superficiale e assaggiata ap­ pena con le labbra, porta via da Dio, mentre quella pienamente assimilata riconduce a lui. Rinascita della religione mediante la scienza suprema, questo è pro­ priamente il compito dello spirito tedesco, il fine de­ terminato di tutti i suoi sforzi. Dopo il tempo neces­ sario del passaggio e della divisione riprendiamo l’opera iniziata dalla rivoluzione religiosa di un prece­ dente secolo proprio al punto in cui è stata abbando­ nata. Ora inizia il tempo della piena e compiuta at­ tuazione. Il tedesco mostra la sua innata fedeltà persino in ciò che è sbagliato, non abbandonandolo, ma svilup­ pandolo fino alla piena apparizione del nulla. La de­ generazione di ogni altezza e sublimità, la scomparsa, persino concettuale, di tutto ciò negli affari e nelle cose del mondo è una prova ulteriore della sua coe­ renza. Perciò qui princìpi perniciosi hanno influito in modo ancora più pernicioso e in effetti hanno corrotto l’intera massa della nazione, come un piccolo lievito fermenta un’intera massa. Checché se ne dica, tutto ciò che vi è di più ele­ vato nel mondo ha luogo in virtù di qualcosa che pos­ siamo definire metafisico nel senso più ampio. Meta­ fìsica è ciò che crea organicamente gli Stati e fa di un -aggregato di uomini un cuore e un’anima, cioè li fa essere un popolo. Metafisica è ciò che permette al­ l’artista e al poeta di riprodurre in una forma sensibile M

la percezione vivente degli archetipi eterni. La meta­ fìsica interiore, che ispira ugualmente lo statista, l’uomo valoroso, gli eroi della fede e della scienza, è qualcosa che si scosta ampiamente sia dalle cosiddette teorie, fonti d’inganno per l’ingenuo, sia dalla piatta empiria, che è il loro opposto. Ogni metafìsica, che si esprima speculativamente o praticamente, poggia sul talento di cogliere un molte­ plice immediatamente nell’uno e a sua volta l’uno nel molteplice, in una parola poggia sul senso della tota­ lità. Metafìsica è l’opposto di ogni meccanicismo, è un modo organico di percezione, di pensiero o di azione. L’epoca recente ha mirato alla distruzione di ogni me­ tafisica nel singolo uomo e nella totalità e questo è in effetti il mistero di ogni intelligenza, della sua sa­ pienza nell’educare e nel governare. Noi non vogliamo prendere i nostri esempi da scienze propriamente speculative. Che ad esempio la fìsica sia stata consegnata interamente al meccanici­ smo, è una cosa nota. La fìsica deve naturalmente co­ struire fino al meccanicismo dei fenomeni, ma ciò che essa deve esporre e propriamente vedere in questo meccanicismo, non è più meccanicismo: appunto perciò il fìsico ha bisogno della metafisica interiore, dell’intuizione e profondità della contemplazione. Che principale merito e occupazione sia stato purificare la filosofìa da ogni elemento demoniaco, da ogni auten­ tica metafìsica, lo sa ognuno. Noi parliamo solo di quelle scienze che riguardano e determinano imme­ diatamente la vita dell’uomo. Per quanto innanzitutto riguarda il rapporto generale degli uomini tra loro, il punto di partenza e di appoggio di tutte le teorie era l’assoluta personalità del singolo. Diritto e legge ci fu­ rono non perché sorgesse un tutto simile all’universo, unicamente in vista di un tutto, ma perché potesse 15

I

i I

esistere il singolo per sé, conchiuso e separato. Il ca­ rattere, sotto cui il singolo fu considerato, era (simile a quanto c’è di più alto, conosciuto dalla fìsica mec­ canica) impenetrabilità morale, assoluta capacità di es­ sere per sé e di occupare la sua sfera con l’esclusione di ogni altro. Su questa insensata presunzione di egoità assoluta si è fondata una scienza, sotto questo aspetto del tutto sconosciuta agli antichi, del cosid­ detto diritto naturale, che a tutti dà uno stesso diritto a tutto e non conosce alcun dovere interiormente vin­ colante, ma solo costrizione esterna, alcuna azione po­ sitiva, ma solo omissioni e restrizioni, di cui ciascuno, in base al suo originario diritto, si compiace solo per poterne gustare il resto con tanta maggiore sicurezza in un autarchico isolamento. Da tale torbida fonte di vilissimo egoismo e ostilità di tutti contro tutti scaturì poi lo Stato, mediante una convenzione tra gli uomini e un reciproco contratto. Se nell’umanità non c’è un principio necessario d’istituzione divina, attraverso cui i molti si fondono in unità e l’unità si realizza nella molteplicità, se la cosa suprema, in vista di cui tutto il resto c’è e accade, è la personalità del singolo, è impossibile volere veramente a favore del tutto ed è impossibile comprendere e at­ tuare la legge della dottrina dei costumi, agire nel senso e nello spirito del tutto, se non in senso nega­ tivo, nel senso cioè: di non fare niente che contrad­ dica alla volontà del tutto, se esso in quanto tale po­ tesse averne una. Tutte le virtù sono allora o di ca­ rattere puramente negativo o possono parimenti appa­ rire solo da questo lato; l’intero valore dell’uomo consiste nella limitazione che egli s’impone in vista degli altri, non in ciò che egli compie per gli altri; non ci sono virtù che si sviluppano e si estrinsecano solo nella condizione di una vita pubblica e comune, ma 16

solo virtù della vita privata. Anche lo Stato pensa di potersi sottrarre a tali virtù, così come a ogni forza interiormente vincolante. Le opinioni non lo riguar­ dano affatto, mentre pensa di poter impedire con la forza le azioni contrarie alla sua esistenza e di poter estorcere quelle di cui ha bisogno. Meccanicizzazione completa di ogni talento, di ogni storia e delle istitu­ zioni è qui il fme supremo. Nello Stato tutto deve es­ sere necessariamente, non come tutto è necessario in un’opera divina, ma come tutto è necessario in una jnacchina attraverso coazione e impulso esterno. Certo in concreto si deve trovare il modo che lo Stato, attraverso tutti questi mezzi, non si trasformi mai in un tutto, anzi che non si raggiunga neanche quella cieca necessità, ma la causa viene sempre cer­ cata solo nell’imperfezione del meccanismo; si inseri­ scono nuove ruote che, per la loro regolazione, hanno a loro volta bisogno di altre, e così via all’infinito. In­ finitamente distante, però, resta anche il Perpetuum mobile meccanico, la cui escogitazione è riservata so­ lamente all’arte organica della natura e degli uomini. In un tale Stato, tutto ha valore solo nella misura in cui può essere atteso e calcolato con sicurezza: tutto ciò che, invece, è demoniaco, ciò che viene dal cielo e non può essere calcolato, non ha alcun significato. Ogni meccanismo, nel quale non entra ciò che è vivente e per il quale esso è niente, annienta la per­ sonalità. Tutto quanto è grande e divino, però, accade sempre per miracolo, cioè non secondo le leggi uni­ versali della natura, ma solo secondo la legge e la na­ tura dell’individuo. Cancellazione dell’individualità è appunto l’orientamento di uno Stato non metafìsico, fonnato in modo puramente meccanico. Ne consegue che in esso pervengono al dominio e alla direzione degli affari coloro che sono fomiti al minimo di indi17

!

!

i! i

!

vidualità, i talenti più comuni e le anime allevate mec­ canicisticamente al massimo. Sì, nella misura in cui un uomo è estraneo alla vera scienza e alle idee, viene trovato idoneo per gli affari. Infine anche nei capi di Stato vengono stimate solo le virtù private, non quelle pubbliche, e, non esistendo in effetti niente di co­ mune o di veramente pubblico, l’insulsa morale della vita privata viene infine elevata persino al trono e an­ che ai prìncipi viene insegnato che cosa essi devono tralasciare, non che cosa di positivo e di salutare essi devono autonomamente fare per il loro popolo. Resta, però, problematico come un tale Stato possa essere all’altezza della guerra, dal momento che fonda tutto sull’egoismo della vita privata e non si è dato altro rapporto col cittadino se non quello di dedurne l’utile possibile, di truffarlo e, laddove è possibile, di rica­ varne denaro e beni; dal momento, inoltre, che nella guerra solo una grande individualità può apparire de­ cisiva e utile, quella stessa personalità che in tempo di pace è oppressa e cancellata. Non c’è alcuna guerra giusta se non quella condotta per amore dell’idea, cioè la guerra religiosa. Colui che combatte deve vin­ cere o cadere non come una macchina, che è mossa dall’arbitrio, ma obbedendo alla legge di Dio e alla natura, che hanno impiegato la guerra. Non c’è, però, una guerra sacra, dove in sé lo Stato non ha niente di sacro e ciò che in esso era ancora unicamente sacro, la religione, lo ha espulso da sé come un qualcosa di estraneo, mentre ha costituito se stesso come un isti­ tuto di scopi puramente mondani. La nazione tedesca nella sua essenza più intima è religiosa, ma ogni popolo ha forza e potenza solo at­ traverso la sua peculiare natura. Altre nazioni possono anche essere spinte e purificate da un qualcosa di di­ verso, l’illusione del prestigio può tenere insieme in18

teri Stati e condurre popoli a trionfi: l’animo tedesco ha bisogno di un vincolo più interno. Nessun popolo come quello tedesco ha combattuto con questo senso e con questa tenacia la sacra battaglia. Quella grande rivoluzione religiosa divise in prò e contro gli animi e gli spiriti dei prìncipi e dei potenti. Come adesso tutto è potuto cambiare? La risposta a questa domanda si trova certamente e per gran parte anche nella storia della scienza. Si potrebbe dire dell’uomo in generale che egli è destinato per la sua personalità a cadere vittima dell’intera natura. Ogni altra creatura vive, en­ tro determinati confini, una vita pretracciata; il suo carattere limitato è per essa virtù e diritto e, indipen­ dentemente dalla sua condizione, è in se stessa pura e senza difetto. L’uomo è aperto a ogni contraddizione e attraversa in se stesso quasi l’intera scala delle es­ senze, capace al tempo stesso di ciò che è più alto e di ciò che è più basso. Si è spesso osservato che tutte le altre nazioni d’Europa nel loro carattere sono molto più determinate della nazione tedesca che, quindi, per la sua predisposizione, potrebbe essere considerata in generale come la radice delle altre nazioni e, per l’in­ nata forza di unificare gli opposti, come la loro pos­ sibilità (Potenz). Il destino del tedesco non sarebbe il destino universale dell’uomo, nella misura in cui egli è il solo a percorrere tutti i momenti che gli altri popoli rappresentano in uno stato separato, per presentare infine l’unità più alta e più ricca di cui sia capace la natura umana? Quando questo popolo, la cui cultura ha determi­ nato totalmente quella di un altro, per avergli comu­ nicato i suoi costumi e la sua lingua da più di un se­ colo e per avere influito con privilegi e oneri, attra­ verso i suoi spiriti eccelsi e attraverso i suoi strati so­ ciali più bassi, quando, infine, quel popolo giunge a 19

I

!

!

!i

’l

dominare l’altro anche esteriormente, cosa c’è di così grande da destare meraviglia, dal momento che sareb­ be piuttosto il contrario ad essere il più degno di me­ raviglia? Se, però, questo popolo avesse trovato mezzi per infondere alla maggior parte o almeno alla parte dominante dell’altro popolo norme il cui veleno esso, per la sua stessa natura rivolta più all’esterno, ha supe­ rato attraverso una crisi rapida, anche se terribile, men­ tre a quello distrugge lentamente la vita interiore, quali conseguenze si dovrebbero attendere da questo fatto? Tenendo presente questo rapporto della nazione tedesca con le altre, per raggiungere la vera essenza del suo spirito, la direzione originaria del suo senso, dobbiamo selezionare tutto ciò che fu prodotto attra­ verso i corteggiamenti degli avi con popoli stranieri o ciò che, in quanto aggiunta estranea, ha trasformato il puro metallo tedesco anche nella sua natura interna. Non è filosofìa tedesca quanto per lungo tempo è stato ritenuto come tale: non sono indigene quelle astratte teorie e quei superficiali princìpi, che a poco a poco hanno fatto irruzione e continuano a incidere in tutti i rami della vita e della condotta comune, in quanto l’esperienza li ha da tempo contraddetti e quo­ tidianamente rivelati nel loro niente. Se intanto nella nazione tedesca si è mostrata un’interiore rovina, contraddizione, impotenza, non possiamo attribuirlo puramente e semplicemente al­ l’incidenza di elementi estranei. Nell’essenza e nella destinazione dello spirito tedesco, in tutte le forme del cimentarsi, c’è il fondamento di una divisione in­ finita. Ogni vita richiede totalità, ma questa si disin­ tegra senza l’unità. Così singole parti del nostro corpo costituiscono insieme la forma e solo dove questa forma sta bene unita, irrompe l’essenza, l’autentico fulmine della vita. Si scomponga la forma ed esso non 20

ha più dove colpire e accendere. Abbiamo visto allo stesso tempo e sullo stesso terreno uomini di ogni sorta. Molti erano sprofondati interamente nella melma dei sensi e alle loro limitate forze dello spirito appunto la cosa suprema sembrava quella di non ve­ dere e non pensare ad altro che alla sfera dei sensi. Puri uomini dell’intelletto - quanto pochi in realtà, anche se molti stando alle loro chiacchiere! — che cer­ cavano il loro intelletto nell’eliminare e tagliare, ma del tutto incapaci di creare un qualcosa di positivo. Uomini dell’intelletto, tali cioè che con la pura ra­ gione pensavano di potersi ritirare da ogni realtà e da ogni azione. Persino uomini sovrarazionali! Ma uomini ricchi di armonia, l’unica a poter conferire a ogni cosa da un lato nobiltà, dall’altro forza operativa e attualità, in una parola uomini veramente divini, non si sono mai segnalati. Loro tutti si mostrarono incapaci della salvezza della collettività o anche soltanto dell’inven­ zione di un bene che avesse il carattere dell’intero e dell’universale. Appunto quel lampo interiore, spiri­ tuale di vita è mancato all’epoca e in nessun luogo, almeno in Germania, dove quella selezione di forze fu spinta al massimo in tutte le direzioni, si è mostrata una sua apparizione attiva, efficace per la vita. Se quel lampo fosse apparso, in quanto splendore di luce e messaggero del cielo, avrebbe riempito di adorazione ogni popolo, avrebbe improvvisamente, miracolosa­ mente, divinamente unificato i separati. Così ora essi stanno l’uno staccato dall’altro, separati, ognuno nel suo punto estremo, ma la forza, la scintilla che poteva fondere tutti in un unico volere e agire, non si è mo­ strata in nessun luogo. Avete ingiuriato la natura per aver impiegato i sensi e per non aver creato l’uomo secondo le vostre astrazioni; avete oltraggiato e represso la natura 21

umana per farla corrispondere alla vostra misura e avete infierito su di essa con maggiore insolenza e fol­ lia di quanti un tempo si eviravano per ottenere la beatitudine. Non avete considerato che nelle cose della scienza, della religione e dell’arte, come in quel­ le degli affari mondani, non è stato mai compiuto un qualcosa di grande senza una predominante forza di natura e che le più alte espressioni dell’anima senza una robusta sensibilità sono morte e senza efficacia per il mondo. Non avete considerato che, distruggen­ do le passioni, togliete alla virtù il contenuto su cui applicarsi, la materia senza la quale la virtù non ha espressione alcuna. Ogni forza della natura è, infatti,in sé buona e, nella misura in cui è positiva, è divina; essa diventa negativa e cattiva solo quando, uscendo dall’originaria misura delle forze e operando separatemente, mira a trasformarsi in punto centrale. Se, pe­ rò, la virtù non è che quella misura divina delle forze originarie, queste sono necessarie all’espressione della virtù, come nella serenità dell’aria il sole appare come immagine di unità solo perché è la stessa atmosfera in cui sonnecchiano le forze dei temporali e degli ura­ gani, la potenza del lampo e del tuono. Chi potrebbe misconoscere la radice divina della collera, dell’odio, dell’ambizione e di altre qualità? L’effetto di una mo­ rale che si fa beffa dell’uomo deve necessariamente, però, agire in modo ancora più svantaggioso su popoli che, già per le loro condizioni climatiche, sono più poveri di forza naturale e meno dotati di sensibilità. Inoltre avete dichiarato guerra all’intelletto, per­ ché lo conoscete solo dal suo Iato negativo, non da quello positivo. Anche a considerarlo secondo l’opi­ nione comune come lo strumento della ragione e della sensibilità esso apparirebbe come potenza di realizza­ zione o come l’unica forza di attuazione nell’uomo. Ci 22

? si potrebbe persino chiedere, per usare un’espressione umana, se esso, in quanto è il legame comune di quegli opposti e, quindi, dell’uomo stesso, non debba essere posto più in alto di entrambi. Che al tempo stesso esso sia vuoto, improduttivo, inefficace, che possa allonta­ narsi dalla ragione e dalle idee, di cui è strumento, o dall’intuizione sensibile e dalla forza, che è il contenuto in cui quelle devono essere impresse, è fin troppo evi­ dente per se stesso e per l’esperienza in generale, ma appunto questa esperienza gli assegna il suo specifico, organico rapporto nella globalità della natura umana. Batte forse non libero e vivo il cuore nel corpo perché c’è un legame dei due sistemi, perché esso è subordi­ nato all’unità, la quale non è più una parte? Solo dalfintelletto proviene a tutti i prodotti dello spirito forza interiore e stabilità; persino alle azioni del coraggio, della virtù e dell’entusiasmo è esso per primo ad ap­ porre il sigillo della divinità. Come, però, è diventato di moda nella scienza limitarsi a fantasticare, a intuire e a sentire e per i deficienti è genialità disprezzare la scienza, allo stesso modo nelle cose della vita ci si è fi­ dati dell’entusiasmo cieco più che dell’intelletto chiaro, dell’opinione illusoria più che della conoscenza chiara di ciò che è necessario. Si è più volte rinfacciato ai filosofi tedeschi la loro indifferenza per la comunità (Gemeinwesen), il loro dissociarsi dal lamento generale sul tramonto dell’an­ tichità e della condizione ereditata, anzi in generale sono stati persino biasimati per essersi occupati di cose sovrasensibili e trascendenti la comune capacità di comprensione, mentre le vicende del mondo sem­ brano richiamare alla terra tutte le forze umane. Se l’orientamento della filosofia moderna fosse ancora così sovraterrestre, sarebbe tanto biasimevole rivolgersi dalla terra, che non offre se non un orrendo spetta23

!

colo di dissoluzione organica, al cielo? Ma come po­ trebbe lamentarsi del tramonto di quelle condizioni, di cui essa con tanta profondità ha percepito la nullità e l’ha proclamata da tanto tempo? Non dovrebbe piut­ tosto rallegrarsi del fatto che l’annichilante destino ha rovesciato con duri colpi l’edifìcio di bugia e di errore, che non volle cedere al dolce suono? Dovrebbe ancora coltivare speranze per un tempo o per una genera­ zione, di cui è profondamente convinta che persino il vero, il giusto e il bene, in essa seminato, può produrre solo malerba e frutto cattivo? In verità essa potrebbe essere tanto certa del sonno spirituale e della morte in­ teriore di una generazione da poter predire che, seb­ bene, a quanto si dice, l’esperienza sia l’ammaestratrice degli stolti, anche questa non cambierà né migliorerà. A chi essa dovrebbe rivolgersi con i suoi discorsi? A co­ loro che, riempiti da un lato degli scialbi concetti di astratte teorie e dall’altro di un’impura, anzi sporca esperienza, si attribuiscono il vero intelletto universale (Weltverstand), ma disprezzano la vera filosofìa che non è altro se non la suprema conoscenza dell’ente? Dovrebbe essa condividere la folle superstizione, che il nuovo potrebbe essere vinto dal vecchio, mentre è fer­ mamente convinta che solo il completo rinnovamento, impedire il quale è stato il compito principale degli spenti e degli stupidi di tutto il recente passato, può ri­ portare onore e salvezza e deve passare tutta questa ge­ nerazione di effeminati libertini e di molli superficiali, ugualmente incapace della serietà della vita come della serietà della scienza e dell’arte, prima che si possa nuo­ vamente operare con azione e forza...

1 Cfr. il Discorso sul rapporto (Ielle arti figurative con la natura. 24

Postfazione Francesco Donadio

Si deve senz’altro riconoscere che a partire dalla cosiddetta rivoluzione copernicana di Kant l’intera fi­ losofìa tedesca si sia assunta come compito program­ matico quello di portare a compiuta attuazione siste­ matica la filosofìa critica. In particolare i rappresen­ tanti dell’idealismo classico tedesco si sono distinti nel promuovere con rigore e passione lo sviluppo della fi­ losofìa kantiana, certo ciascuno conferendo ad essa una curvatura corrispondente alla propria specifica strategia speculativa, ma, in ogni caso, rapportandosi ad essa come a un punto di svolta senza ritorno nel quale si riconosceva un radicale cambiamento del corso della filosofìa. «Fu come se una corrente, scrive Schelling, a lungo trattenuta e arginata, avesse trovato un’apertura che essa ora subito s’affatica instancabil­ mente ad allargare, finché si apre completamente la via e può di qua scorrere libera e senza ostacoli [...]. Ognuno sentiva che si trattava di raggiungere qualcosa di definitivo, e appunto questo sentimento, questa 27

I

spinta, che con Kant era penetrata nella filosofia, di­ I stinse quest’epoca da tutte le epoche precedenti [...].

Era stato toccato il punto vitale della filosofia, il quale, come il germe già fecondato di un essere, o come l’idea fondamentale di una grande tragedia, non permette più alcun riposo sino allo svolgimento completo; un pro­ cesso necessario e per così dire involontario si era im­ padronito della filosofìa; ciò che a quelli sembrava una rapida successione di sistemi, non era altro propria­ mente che la rapida successione di momenti di svijiiein j issiti ìuppo e di formazione di un unico sistema»1. Con Kant, come punto di massima condensazione dello sviluppo della filosofìa tedesca, si suole asso­ ciare, però, anche la coscienza di una specifica via na­ zionale alla filosofìa con la quale la Germania, carat­ terizzata da «un grande interesse del cuore e dello spirito per il fondamento di ogni conoscenza»2, cioè per la speculazione, è spinta a registrare la sua diffe­ renza dal resto dell’Europa, una differenza che per Schelling non deve certo produrre chiusura, ma sem­ mai apertura verso le altre forme nazionali di filosofìa, perché «la filosofìa veramente universale non può es­ sere la proprietà di una singola nazione; e fino a quando una filosofìa non oltrepassa i confini di un sin­ golo popolo, si può ammettere fiduciosamente che essa non è ancora la vera filosofia, anche se è forse sulla via che conduce ad essa»3. Schelling ricorre anche a un tentativo di spiega­ zione storica per capire il costante interesse dei tede­ schi per la filosofìa, osservando che se da un lato le divisioni confessionali hanno lacerato l’esistenza sto­ rica di questo popolo, dall’altro ne hanno rappresen­ tato, paradossalmente, anche un insospettato vantag­ gio: «chi vuol dare soltanto uno sguardo allo svolgi­ mento della filosofìa in Germania scorgerà forse nella 28

serietà realmente religiosa e nella stessa maniera en­ tusiastica con la quale la filosofia è stata in parte col­ tivata in Germania, un bisogno di espiare, per dir così, quell’atto di emancipazione al quale, com’è noto, pre­ sero parte, più o meno, tutti i popoli tedeschi senza eccezione, e di ristabilire interiormente e nel campo della scienza l’unità esteriormente perduta»4. Lo zelo tedesco per la filosofia è da interpretare, dunque, come tentativo di compensazione della sua fragilità politica? In effetti la nazione tedesca, in ritardo ri­ spetto a quelle europee sul piano dell’attuazione di un forte Stato unitario, aveva mantenuto il privilegio di continuare a sussistere come impero; il suo carattere di incompiutezza e indeterminatezza politica le aveva garantito di restare una forza plastica, di non configu­ rarsi come un popolo «nel senso stretto ed esclusivo dei francesi»5, ma come un «popolo di popoli», di proiettarsi su un futuro carico di un’attesa creativa. In tale senso, Schelling arriva a chiedersi: «il destino del tedesco non sarebbe il destino universale dell’uomo, nella misura in cui egli è il solo a percorrere tutti i momenti che gli altri popoli rappresentano in uno Stato separato, per presentare infine l’unità più alta e più ricca di cui sia capace la natura umana?»6. Questa interferenza tra ricerca filosofica e spirito della nazione tedesca è assunta a tema specifico di ri­ flessione nel breve scritto schellinghiano, L’essenza della scienza tedesca, rimasto frammento e qui pre­ sentato per la prima volta in traduzione italiana. Si tratta di uno scritto destinato alla nuova rivista dal ti­ tolo Allgemeine Zeitschrìft con Deulschen fiir Deut­ sche (1813), che, come le altre tre precedenti fondate da Schelling, ebbe breve durata, ma alla quale ora egli intendeva attribuire la funzione di promuovere per la nazione tedesca un grande progetto politico-culturale, 29

£

1

I '

Il

con la coscienza di una causa alta da difendere e di una missione urgente da compiere. Nel titolo stesso della rivista si annunciava una precisa volontà di par­ tecipare alla vita civile e culturale del proprio tempo, operando come strumento di sensibilizzazione e di collegamento tra i tedeschi, per poter agire sulle condizioni di umiliazione morale e civile dei propri concittadini fino alla conquista del loro pieno e generale riscatto, la qual cosa, secondo Schelling, non poteva essere meglio costruita e orientata che da una filosofìa la quale, richiamandosi alle proprie radici «nazionali», riuscisse a coniugare l’amore dello spirito tedesco per la verità con la necessità di contribuire a una trasfor­ mazione del proprio mondo. Si trattava, dunque, di uno scritto con un forte ca­ rattere di militanza culturale e finalizzato all’attiva­ zione di immediate conseguenze politiche, perché di fronte al crollo delle forme politico-istituzionali pro­ dotto dall’invasione napoleonica si poneva ineludibil­ mente il problema della rinascita della Germania come nazione, del risveglio della propria identità na­ zionale attraverso un confronto critico con l’eredità dell’illuminismo francese e un ritorno alla propria tra­ dizione religiosa. In effetti, come si vedrà in seguito, è sul terreno di una riappropriazione pensante della propria tradizione religiosa che Schelling, collegandosi alla nuova sensibilità ridestata dal movimento roman­ tico, riconoscerà la possibilità di una risposta adeguata al problema dell’identità nazionale tedesca. La rivista intendeva certo trattare di filosofìa, ma «soprattutto [...] nel suo rapporto alla vita e alla sua faccenda suprema, la religione»7.

30

Origine e senso della «scienza tedesca»

Si sa che nello spazio spirituale dell’idealismo te­ desco la filosofìa, come sapere capace di risalire al fondamento dell’ente nella sua totalità e di esibire i princìpi ultimi di una tale connessione, prende anche il nome di «scienza». È in tale senso, infatti, che Fi­ chte impiega il termine «Dottrina della scienza» e Hegel quello di «Scienza della logica». Si potrebbe risalire, però, alle origini stesse della filosofìa occidentale, al suo inizio greco, per indivi­ duare nella forma del sapere filosofico, caratterizzato dalla rivendicazione di una pretesa veritativa univer­ sale e necessaria, la struttura di una archiscienza, cioè di una scienza originaria, in quanto campo totale dei nostri rapporti con l’essere, dentro cui si situerebbero, senza perdita della loro autonomia, i sistemi intenzio­ nali delle singole scienze. In età moderna poi è sembrato che alla filosofìa non potesse essere assicurato il carattere di «scienza» che nella forma di un «sistema». Per quanto ogni gran­ de filosofìa, anche se non necessariamente organizzata in «sistema», sia stata sempre «sistematica», cioè deter­ minata dall’orientamento «fondamentale» a ricondurre il «molteplice» all’«uno» per poterlo riconoscere in una «connessione fondata» e, quindi, nel suo significa­ to «vero», la «volontà di sistema», sulla quale, com’è noto, si è esercitata l’ironia di pensatori come Kierke­ gaard e Nietzsche, «sorge, ha scritto Heidegger, all’ini­ zio, o meglio si attua come inizio dell’età moderna». «Sistema non è semplicemente e in primo luogo l’or­ dine di un contenuto del sapere già presente o di ciò che merita di essere saputo ai fini di una buona tra­ smissione del sapere; il sistema è invece la compagina­ zione (Fugung) di ciò stesso che può essere saputo, il 3»

H

dispiegamento e la configurazione che lo fondano; anzi, ancor più propriamente è la compaginazione, conforme al sapere, della compagine e della commessura dell’es­ sere stesso»8. Le condizioni per la nascita di questa tipologia di «sistema» dell’età moderna coincidono con quella rot­ tura trasformatrice del rapporto tra soggetto e mondo determinata dal progetto di una matematizzazione del mondo, con il quale si dischiude ora la possibilità di disporre, grazie alla certezza metodicamente esibita di un tale sapere, dell’ente nella sua totalità. A questo «predominio del matematico come criterio della scientificità», a cui si può far corrispondere la trasfor­ mazione della verità nella certezza metodicamente raggiunta, nell’autocertezza dell’io, si deve ricondurre anche quel gigantesco processo di «secolarizzazione» del mondo col quale si ridetermina un nuovo rapporto tra fede e sapere e si afferma una nuova libertà del­ l’uomo per il mondo in ogni campo della sua attività. Questo complesso di condizioni che accompa­ gnano la nascita del «sistema» in età moderna riflui­ sce poi nell’idealismo classico tedesco con il quale, a sua volta, l’esigenza per il sapere filosofico di organiz­ zarsi in sistema si radicalizza in quella che un tale sa­ pere si configuri come un sapere «assoluto». Tutto questo richiedeva, però, innanzitutto di andare con Kant, oltre Kant. In effetti Kant, con la sua riflessione sull’essenza della ragione umana, deve essere visto propriamente come l’anello di congiunzione nel trapasso dall’idea «moderna» di sistema a quella dell’idealismo tedesco. Certo la figura idealistica della ragione, per quanto si richiami a lui, non coincide con quella kantiana, che resta pur sempre ragione umana finita, ma era stato innanzitutto Kant ad aver messo in risalto l’elemento 32

dinamico e creativo di una tale ragione. Appunto que­ sto carattere della ragione kantiana consentirà di di­ stinguerla persino dalle altre superiori facoltà conosci­ tive dell’intelletto e del giudizio fino a riconoscerle il carattere di facoltà «suprema». Anzi, propriamente la ragione è per Kant facoltà delle «idee», intese come rappresentazioni non estensive, ma puramente regolative, mediante le quali una molteplicità viene ricon­ dotta all’unità. «La ragione fa sì che noi, in tutto ciò che ci si presenta, preliminarmente «guardiamo-oltre», all’unità di una connessione fondamentale (A665, B683). La ragione è la facoltà di guardare oltre, di avere una visione d’insieme, la facoltà che forma un orizzonte1. Così la ragione stessa non è altro che la fa­ coltà del sistema, e l’interesse della ragione è rivolto a mettere in luce la massima molteplicità possibile di co­ noscenze nella più alta unità possibile. Questa esigenza costituisce l’essenza della ragione stessa»9. D’ora in poi la filosofia dovrà conformarsi all’intrinseco carattere si­ stematico della ragione: «in questa determinazione del concetto di filosofìa la ragione umana non viene intesa solo come lo strumento di cui la filosofìa si serve per conoscere; la ragione è invece l’oggetto della scienza fi­ losofica, e precisamente con riguardo a ciò che costitui­ sce l’unità direttiva e onnicomprensiva della ragione, ovvero il suo sistema»10. La filosofia con Kant diventa formazione del sistema della ragione; essa, mediante le idee regolative di Dio, mondo e uomo, rende possibile conferire unità e finalità al molteplice della nostra esperienza. Kant, però, non è pervenuto a una fonda­ zione adeguata di questo sistema, lasciando in una sorta di oscurità impenetrabile il problema dell’origine delle idee, fornendo come unica risposta a un tale problema il fatto che le idee sono funzioni necessarie e, quindi, cooriginarie e costitutive, della natura umana. 33

Lì; : -i !

■p

i

In questa consapevolezza della ineludibilità del si­ stema e al tempo stesso della necessità di una sua «adeguata» fondazione, che Kant aveva cercato senza riuscire a trovarla, l’idealismo tedesco si propone di portare a compiuta attuazione l’esigenza kantiana del «sistema», cioè di un’autofondazione totale del sapere come struttura di quella «scienza» sui generis che è la filosofìa. In quanto sapere dell’ente nella sua totalità ora la filosofìa non può essere che «intuizione intel­ lettuale dell’assoluto». Anche la ragione kantiana era proiettata sull’ente nella sua totalità, ma esso, in quanto inoggettivabile, restava inconoscibile, se ap­ punto kantianamente ci poteva essere conoscenza solo di ciò che si configurasse come oggetto di un’intui­ zione sensibile. Se, però, l’ente nella sua totalità non è un «oggetto» è perciò un «niente»? Com’è possibile inoltre un «sapere» di ciò che non è «oggetto», quale ad esempio il correlato delle idee kantiane, e tuttavia non è un niente? Un tale sapere ora per la filosofìa idealistica non può essere che un’«intuizione dell’assoluto», ma, non essendo l’assoluto una «cosa», una tale intuizione non può essere che un’intuizione «intellettuale» dell’asso­ luto, conoscenza appunto non sensibile della totalità dell’essere, di quella totalità di connessioni su cui sporgeva e di fronte a cui si arrestava il movimento « regolativo» della ragione kantiana. «Questo sapere non oggettivo dell’ente nella sua totalità si sa ormai come il vero sapere, come il sapere per eccellenza. Ciò che esso vuol sapere non è altro che la compa­ gine dell’essere, che ora non sta più da qualche parte di fronte al sapere come un oggetto, ma diviene nel sapere stesso, e questo divenire se stesso è l’essere as­ soluto»11. Solo in un tale sapere, che è il sapere della scienza per eccellenza, cioè della filosofia, si attua

li 34

quell’esperienza di radicale libertà che per Schelling coincide con la «libertà trascendentale». «Se in noi non ci fosse un’intuizione intellettuale, saremmo per sempre schiavi delle nostre rappresentazioni oggettive, e non vi sarebbe nessun pensiero trascendentale, nes­ suna immaginazione trascendentale, nessuna filosofia, né teoretica né pratica». Alla fine è pur sempre la bandiera della libertà quella che il pensiero trascendentale ha agitato contro ogni espressione del vecchio «dogmatismo». «Il dog­ matismo rinchiude sin dall’inizio i suoi seguaci in un sistema necessario di rappresentazioni, dal quale è im­ possibile trovare un’uscita o prendere il volo verso il mondo superiore (della libertà). La filosofia trascen­ dentale ha di proprio che essa pone sin dall’inizio in libertà colui che la accoglie, spezzando le catene con cui il sapere empirico lo aveva avvinto. Tutto ciò che è oggettivo, per sua natura, limita. Persino ciò che è nostra propria opera, non appena è uscito dall’anima ed è divenuto oggettivo, diventa per noi un limite, e sparisce il sentimento creativo col quale era sorto»12. Si è osservato all’inizio di queste considerazioni il costante interesse dei tedeschi per l’indagine filosofica e in particolare la loro inclinazione per la ricerca spe­ culativa. Si è visto che lo stesso Schelling non si è sot­ tratto a fornire anche un tentativo di spiegazione em­ pirica di questo fatto: «non è poi così strano che i tedeschi, i quali da tanto tempo hanno offerto la loro patria come teatro in cui altre nazioni recitassero la loro parte, per rifarsi dell’inerzia a cui sono condan­ nati, si siano almeno riservati il diletto del giudizio e della ricerca secondo princìpi»1,3. Accanto a questa spiegazione di tipo empirico, però, non mancano elementi di valutazione che sem­ brano prefigurare una predisposizione del tedesco per 35

I

II

1'1

!

la speculazione inscritta per così dire quasi nel suo codice genetico, un tótux; d’altronde ricorrente in molta letteratura diffusa e lapidariamente riassunto nella tesi che il popolo tedesco sarebbe «il popolo metafìsico per eccellenza» (Heidegger), la qual cosa non sembra poi lontana più di tanto da ciò a cui al­ lude l’espressione schellinghiana di «scienza tedesca». «Si può parlare di scienza tedesca, scrive Schelling, perché essa non è un qualcosa di esterno rispetto alla stessa nazione, un qualcosa che si aggiunga a qual­ cos’altro o venga praticato come mezzo: essa è la vera interiorità, l’essenza, il cuore della nazione, è intrec­ ciata con la sua esistenza» Attestazioni di questo intreccio forte tra scienza e nazione tedesca sono «le rivoluzioni scientifiche e reli­ giose» promosse con una radicalità che non trova ri­ scontro in nessun’altra nazione e per alcun altro scopo, «l’amore per le ricerche -metafìsiche» costantemente tenuto vivo e, a differenza di altre nazioni, mai invec­ chiato, la perseveranza, senza cedimenti a mode stra­ niere, in questa vocazione speculativa che Schelling in­ terpreta come un riconoscersi e un ritrovarsi nel movi­ mento destinale della nazione tedesca. «Questo popolo si è costituito un suo animo spirituale troppo peculiare per tenere il passo con altre nazioni sul loro cammino. Esso deve percorrere la sua propria strada e la percor­ rerà senza perdersi né lasciarsi fuorviare, come sempre invano fu tentato. Il suo compito è del tutto specifico, la direzione delle sue evoluzioni e progressi è una dire­ zione necessaria»14. Dietro la passione del confronto si scopre la necessità di un destino e la consapevolezza che attraverso la «scienza tedesca» accade qualcosa di essenziale, carico di un avvenire creativo. Un immediato campo di applicazione della genia­ lità speculativa della filosofìa tedesca era dato dalla 36

I

i

condizione della coscienza religiosa dell’epoca, la quale appariva lacerata non solo per l’antica eredità delle divisioni confessionali all’interno della nazione, ma anche per la nuova situazione di conflitto tra sa­ pere e fede ereditata dall’illuminismo. La forza della filosofia tedesca doveva ora mostrare la sua capacità di rimarginare le ferite ricostituendo una nuova concilia­ zione di sapere e fede, la qual cosa richiedeva al tempo stesso di neutralizzare gli effetti nefasti pro­ dotti dall’illuminismo francese: una rivincita «naziona­ le» dietro una battaglia culturale, ma una battaglia cul­ turale giocata essenzialmente sul terreno della «que­ stione religiosa» nel suo intreccio con la «scienza filo­ sofica» vista essenzialmente come un fatto della «na zione». «La storia della filosofia tedesca, scriverà il vec­ chio Schelling, è intrecciata fm dall’inizio con la storia del popolo tedesco. Quando, con la Riforma, compì il grande gesto della liberazione, esso promise a se stesso di non riposare lino a che quei supremi oggetti che fino allora erano conosciuti soltanto ciecamente, non aves­ sero trovato la loro giusta posizione, assunti in una co­ noscenza del tutto libera, attraversata dalla ragione»15.

Rinascita della religione dalla «scienza tedesca»

Nel ricostruire l’inizio storico-genetico della «scien­ za tedesca» si è messa in risalto la «centralità» del cri­ ticismo kantiano come punto di confluenza della «mo­ dernità». In effetti, però, è sul terreno dell’analisi del­ l’esperienza religiosa nel suo dinamico configurarsi al­ l’interno della nazione tedesca che un tale inizio può essere meglio colto e determinato. «Da quando il po­ polo tedesco si è liberato della fede esistente in quanto essa era o vuota di ogni sapere o fondata su forme sof37

:



i

II; li

i

focanti e morte di sapere, fidando solo sulle forze della scienza e della chiara conoscenza, da allora esiste la scienza tedesca in tutta la peculiarità del suo signifi­ cato. D’ora in poi i suoi progressi non sono più casuali né indeterminati (come quelli di altre nazioni), ma hanno un fine determinato e una direzione necessaria». Lo stesso conflitto confessionale introdotto dall’evento della Riforma — «questa contraddizione nel cuore della nazione» — s’inscrive per Schelling in una logica prov­ videnziale per la quale i vantaggi sopravanzano di gran lunga gli svantaggi. « Dall’epoca del decisivo distacco dal­ la fede tramandata il popolo tedesco solennemente pro­ mise e giurò a se stesso di portare l’opposizione sino alla completa dissoluzione, di abbandonare l’unità inte­ sa come uno stato di pace privo di conoscenza e di rico­ stituirla a un grado più alto, come unità consapevole». A una tale decisione, che segna l’inizio della moema storia religiosa della nazione tedesca, si colle­ gava per Schelling lo stesso progetto di un «teismo scientifico» assunto come centrale punto programma­ tico dell’idealismo tedesco. L’esigenza di riprodurre una nuova sintesi di fede e sapere obbligava ora la filosofìa a non lasciare l’elemento della fede nella «pura» fede, ma a renderlo permeabile al movimento del sapere, alla sua compenetrazione razionale. In tale volontà di pervenire a un «sapere» di ciò che ci si limita per lo più a «credere», lo stesso classico pro­ blema «de Deo» doveva diventare un «oggetto della ricerca scientifica», anzi il tema più alto e ultimo della scienza, cioè della filosofia. «Questo è il fine del popolo tedesco, quel voto che lo fa apparire povero ri­ spetto alia ricchezza, umile rispetto alla baldanza di al­ tre nazioni, lo stimolo del suo entusiasmo per il quale, a fronte della presunzione altrui di aver portato a conclu­ sione le ricerche supreme e di disporre dei sommi 38

princìpi, esso è continuamente spronato a rimestare le certezze fondamentali di ogni conoscenza e a scendere in profondità impensabili»16. Naturalmente dietro «la trasformazione spirituale del XVI secolo», che fu «una rivoluzione prodotta attra­ verso la scienza, attraverso la vera metafìsica contro il meccanicismo e la fìsica della fede religiosa di quelJ^epoca», deve riconoscersi l’azione di Lutero, perce­ pito non solo come genio religioso, ma come rappre­ sentante «geniale» del suo popolo, come cifra e destino di un mondo e di una svolta epocale. Liberando la fede da ogni appiattimento mondano e da ogni puntello na­ turalistico Lutero ha propriamente riabilitato e pro­ mosso una «metafisica del sentimento». «Da qui non l’opera, ma la magìa della fede fu l’uno e il tutto delk sua dottrina. Ciò che in seguito innanzitutto si svilupp nella scienza tedesca, ciò che nella nostra epoca è statstimolato, causato, fatto con nuova forza, si trova, come conseguenza mediata o diretta, nella più stretta connes­ sione con quell’inizio della scienza tedesca». L’azione di Lutero non è rimasta, dunque, senza efficacia sul proprio presente, anzi lo ha formato e permeato al punto che esso resta legato a lui da un vincolo solidissimo che attesta della sua vicinanza nella stessa lontananza che separa ogni presente da lui. Anzi, «tutto ciò che c’è tra questo inizio e il tempo presente» non è per Schelling che «pura, ne­ cessaria apparizione intermedia», espressione di una Diirftigkeit senza scampo, in quanto epoca irretita in un dualismo improduttivo come esito della perdita dell’unità precedente. Gli opposti, con la rottura della falsa armonia dietro cui si nascondevano, riguada­ gnano ora libero gioco fino a irrigidirsi, però, in quei dualismo radicale che diventa il vero spirito dell’epoca in ogni sua espressione. 39





•j

n

Il destino dell’epoca moderna è segnato appunto dalla rottura dell’unità percepibile in ogni sfera della vita, non solo in quella che concerne il rapporto tra fede e sapere, ma anche quello tra filosofìa e scienza della natura. «D’ora in poi l’originaria idea dualistica, estranea al popolo tedesco, della morte della natura e dell’esclusiva vitalità nell’uomo del principio spirituale, ha potuto emergere come sistema, come idea domi­ nante». Irrompe ora quella visione meccanicistica della vita per la quale, da un lato, l’essere esteriore diventa la forma canonica dell’essere e il mondo si ri­ solve nella catena delle sue relazioni causali, dall’altro lo spirito è obbligato a sovrastare l’esperienza dall’alto e dall’esterno, senza poter stabilire con essa un con­ tatto vero e uno scambio reale, una visione i cui ef’etti non mancheranno di ripercuotersi sulla stessa inerpretazione della religione. «Dopo che secondo que>t’idea tutto sulla terra e nel cielo era morto, eccetto la parvenza di vita del soggetto, ogni metafìsica, riti­ randosi su questo, per essere ancora distinta dalla fì­ sica, dovette trapassare in empirismo, mentre la reli­ gione, con tutto ciò che le appartiene, dovette fuggire in un al di là, oltre ogni mondo reale»17. Ricostituire una nuova unità doveva ora significare innanzitutto per Schelling rifondare la stessa metafì­ sica, la quale in quanto «meta-fìsica» si sarebbe po­ tuta costruire solo sopra la fìsica, non certo annul­ lando il suo immediato rapporto con la natura e di­ sdegnando ogni connessione con la fìsica, come aveva preteso la filosofìa moderna, in particolare con Fichte, la quale, volendo spiritualizzare tutto, si era votata all’in-fondatezza (Bodenlosigkeit)1**. Ora a questa nuova filosofìa, che avrebbe dovuto attingere dalla natura il suo punto di partenza e la radice della sua forza, si connetteva anche il progetto di un nuovo teismo, di 4o

cui Schelling era alla ricerca, nel quale si doveva at­ tuare una rinnovata conciliazione di Dio con la natura e col mondo. Era il tentativo di porre rimedio alle due facce di un unico processo per il quale, da un lato, l’interpretazione meccanicistica del mondo aveva portato a una radicale emarginazione del divino dal mondo e, dall’altro lato, l’assunzione del meccanici­ smo come modello unico di conoscenza aveva reso inevitabile il ricorso all’unico sensorio della fede per l’attingimento di quel divino. Si trattava ora di agire contro questa «assoluta separazione» per la quale si riconosceva che ci poteva essere «scienza» solo «di ciò che è morto e in ciò che è morto, mentre per ciò che è vivo, libero e divino all’uomo resterebbe solo la profonda coscienza del suo non sapere, illuminata uni­ camente da presentimento, fede e sentire privo di co­ noscenza», col risultato che «il finito e il cosiddetto reale, in quanto positivo, era portato tutto da una parte, l’infinito e il cosiddetto ideale, in quanto nega­ tivo, era portato tutto dall’altra parte», con la com­ pleta scomparsa, quindi, del «legame con cui ambe­ due erano tenuti insieme»19. Schelling si proponeva, dunque, di lavorare per il recupero di una nuova, superiore unità che doveva certo riguardare innanzitutto il rapporto fede-sapere, ma con la consapevolezza che attorno a questo nesso si giocavano destini più ampi con una loro inevitabile ricaduta sull’intero spirito dell’epoca. La pura separazione e contrapposizione tra lai di qua e l’al di là come ambiti di delimitazione della vita affidati a sensori diversi non aveva mancato di riflet­ tersi sull’impoverimento della vita stessa nel suo al di qua, confinandola a una percezione superficiale e frammentata delle cose, chiusa all’esigenza di osser­ varle nel loro fondamento e nella loro connessione 41

I

unitaria. Era come se in questa incapacità generale di veder presente nel finito l’infinito si fosse spenta la forma più alta e originaria dì «rivelazione» della stessa filosofia. «Là dove si spense la luce di questa rivela­ zione, e gli uomini vollero riconoscere le cose non già a partire dal Tutto, bensì distintamente l’una dall’altra, non nell’unione, bensì nella separazione, e vollero comprendere se stessi nella singolarità e particolarità avulsa dal Tutto - si vede la scienza trasformata in un deserto di vaste dimensioni, gli scarsi progressi, otte­ nuti per giunta con grande sforzo, di una conoscenza che nel suo sviluppo non fa che contare un grano di sabbia dopo l’altro per edificare l’universo; e nello stesso tempo si vede sparire la bellezza della vita, dif­ fondersi una guerra selvaggia di opinioni sulle cose prime e più importanti, e il completo disgregarsi di tutte le cose nella singolarità»20. Resistere a questa deriva del mondo moderno di­ ventava per Schelling un ineludibile compito etico e pedagogico al quale si poteva far fronte innanzitutto rifiutando quel dualismo fondamentale tra «filosofia» e «religione», con il quale alla filosofia veniva riser­ vata la conoscenza del puro al di qua e alla religione il presentimento o la fede del puro al di là, una se­ parazione che aveva trovato la sua espressione sinte­ tica più nota nello scritto di C.A. Eschenmayer «La filosofia e il suo passaggio alla non-filosofia», a cui pe­ raltro lo stesso Schelling aveva replicato con il saggio «Filosofìa e religione». Ciò che, però, qui giova met­ tere in risalto è che in questa impresa di recuperare l’intero mondo della religione alla totalità della rifles­ sione filosofica, alla sua compenetrazione «scientifi­ ca», oltrepassando i limiti posti da Kant alla filosofia, affidando anzi alla filosofia il compito di essere si­ stema della religione elevato a sapere, ne andava per 42

Schelling del ritorno allo «spirito» stesso della «nazio­ ne tedesca», alla coerenza con le sue radici religiose. «La nazione tedesca mira con tutto il suo essere alla religione, ma secondo la sua peculiarità, a una reli­ gione che è unita alla conoscenza ed è fondata sulla scienza [...] Rinascita della religione mediante la scienza suprema, questo è propriamente il compito dello spirito tedesco, il fine determinato di tutti i suoi sforzi. Dopo il tempo necessario del passaggio e della divisione riprendiamo l’opera iniziata dalla rivoluzione religiosa di un precedente secolo proprio al punto in cui è stata abbandonata. Ora inizia il tempo della piena e compiuta attuazione»21. Riemerge così la con­ tinuità ideale tra l’inizio storico-genetico della nazione tedesca e il proprio presente vivente, riscattato dall’insignifìcanza di essere un «puro» presente e investito per così dire di un compito che si lega a una co scienza «escatologica» del proprio tempo.

Linee per una storiografia filosofica della modernità Attraverso la ricostruzione delle tesi schellinghiane non è stato diffìcile avvertire il confronto che egli isti­ tuisce continuamente con la propria tradizione di pen­ siero riesaminata ogni volta nei suoi momenti decisivi e nelle sue figure centrali. Naturalmente è opportuno tener presente che una tale ricostruzione storiografica della propria tradizione filosofica mira programmatica­ mente ad essere essa stessa una filosofìa, con i van­ taggi e gli svantaggi di una tale operazione culturale. Se, infatti, una storia «filosofica» della filosofìa, di cui quella «idealistica» può essere assunta a esempio pa­ radigmatico, da un lato si connette a una pratica er­ meneutica che, muovendo dal presupposto che un’o43

ì ' '1

!.

i

il

?

j

pera filosofica non presenta dati da inventariare, ma appelli al pensiero, s’innesta sulla sua potenza d’inter­ pellanza e, nel rischio di una ripresa pensante, la ria­ pre a nuove possibilità di dire, restituendola al suo ca­ rattere di opera ancora operante, dall’altro lato essa si espone al pericolo di rapportarsi ai sistemi filosofici del passato come a stazioni preparatorie e insufficienti di un cammino di pensiero destinato a trovare la sua compiuta attuazione solo nel proprio presente, col ri­ sultato di ignorare che i singoli sistemi non possono essere del tutto decontestualizzati dal loro terreno storico/ambientale di provenienza, perché essi rappresen­ tano ogni volta tentativi di risposta a problemi e in­ terrogativi dell’epoca. È chiaro, però, che pur nei li­ miti di un modello storiografico inscritto nella logica di una filosofìa «idealistica», il lettore di Schelling trova qui, certo in una forma contratta rispetto alle successive Lezioni monachesi, una ricchezza di giudizi storiografici sui suoi predecessori che illuminano grandi scenari del passato e dischiudono nuove possi­ bilità per il presente. Si tratta innanzitutto di scandagli selettivi sulla propria tradizione culturale, perché, come aveva già osservato il giovane Schelling, «in una tale storia della filosofìa deve valere come legge che in essa trovino posto solo degli spiriti originali, quelli che in filosofìa partirono dalle fondamenta, e non chi ha intrapreso il lavoro a giornata». Inoltre anche qui deve valere la legge generale della vita che si tratta di interpretare non secondo la lettera, ma secondo lo spirito e che solo a questa condizione diventa possibile cogliere lo «spirito guida» di un sistema, immedesimarsi nel suo «punto centrale prospettico». «Finché ci si ferma alla lettera e alle formule dei sistemi, in realtà nei contra­ sti tra le diverse dottrine non si vede nient’altro che 44

una serie di inutili e penose controversie su parole e concetti senza senso e si diviene perciò inclini ad as­ sumere un atteggiamento di superiorità nei confronti della filosofìa, come mera scienza di scuola, e a porre così in perfetto equilibrio i meriti delle più diverse e contrastanti opinioni. Se però si torna allo spirito dei diversi sistemi, si vede subito che i veri filosofi sono stati in fondo sempre così concordi tra loro, e tuttavia (ognuno singolarmente) così originali, come non è possibile ai matematici; che da sempre sono stati tra loro in disaccordo soltanto i filosofi della lettera, o fi­ losofi di spirito e filosofi senza spirito». Ne consegue per Schelling che «anche ogni progresso in filosofìa è solo un progresso per svolgimento; ogni singolo si­ stema, che meriti questo nome, può essere conside­ rato come un seme, che si sviluppa nelle più vari' evoluzioni, certo lentamente e gradualmente, ma il cessantemente e in tutte le direzioni. Solo chi abb trovato per la storia della filosofìa un tale punto cen trale, è capace di descriverla veramente e in maniera conforme alla dignità dello spirito umano»22. C’è da aggiungere solo un altro tassello per com­ pletare il quadro dei princìpi a cui si ispira questa er­ meneutica storiografica di Schelling, e cioè la stretta connessione, richiamata ancora una volta, con lo «spi­ rito» della nazione tedesca di quel processo che in Germania, a differenza delle altre nazioni europee, «dalla morte e dal tramonto della falsa scienza e delle astratte teorie» vide «scaturire la vera scienza e me­ tafìsica». «Sarebbe una visione molto riduttiva scor­ gere nelle successive tras forni azioni scientifiche della Germania nessun principio più alto che lo spirito di singoli uomini, attraverso i quali esse ebbero inizio. Cera in queste, come nelle precedenti tras forni azioni religiose, l’essenza, lo spirito della stessa nazione, da 45

I

•i I

il

cui esse ricevettero l’origine, la forza e la spinta per il loro proseguimento. Allo stesso modo le asserzioni di questi uomini non devono essere considerate nel loro significato come apparvero ai loro contemporanei o persino a loro stessi, ma nel grande contesto dei tempi e della cultura successiva»23. Sorretto da questo armamentario ermeneutico Schelling passa ora all’ana­ lisi delle figure di pensiero che hanno contribuito a un progressivo cambiamento dello spirito dell’epoca moderna soffocato, nella sua lucida e impietosa dia­ gnosi, da una crescente meccanicizzazione della vita e da un dualismo senza vie d’uscita. Momento chiave di questo passaggio è per Schel­ ling ancora una volta Kant, nel quale l’esigenza di una conoscenza rigorosa, da realizzare attraverso una cri­ tica preliminare delle possibilità della ragione conosci­ tiva, permetteva di postulare al di là del mondo feno­ menico, organizzato dentro le forme aprioriche del­ l'intelletto e, quindi, anche al di là della natura nella sua rigida struttura meccanicistica, un qualcosa di es­ senziale, di vivente, anche se irrangiungibile dalla pura forma dell’intelletto». Contribuendo alla legitti­ mazione della scienza della natura la critica kantiana della ragione al tempo stesso la oltrepassava postulando un «in-sé» delle cose e indirizzando verso uno sfondo metaempirico che la scienza era incapace di cogliere e persino disinteressata a pensare. Nel limitare la scienza, senza rinnegarla, il pensiero kantiano entrava in consonanza con «una vera metafisica» e fu «il primo, dopo lungo tempo, a porre di nuovo alla base della na­ tura un qualcosa di divino, di sorgivo, un ente vero». Fichte ha a sua volta ripreso il processo inaugurato da Kant. Il suo merito è stato di aver colto la vera es­ senza dell’«in-sé» e di averlo concepito come «la fonte dell’automovimento, dell’autorivelazione e dell’afferma46

zjpne dell’io». In tal modo nella forma dell’appropria­ zione Fichte opera una trasformazione della tesi kan­ tiana, ma il suo merito inestimabile di aver prodotto una radicale svolta verso la soggettività e di aver aperto il cammino all’idealismo, resta oscurato dal fatto di non aver esteso il principio dell’automovimento, cioè della soggettività, all’intera natura, di aver mantenuto l’inter­ pretazione della natura dentro i confini di un approccio fisico-matematico o di puro campo residuale delle og­ gettivazioni dell’io. L’unica possibilità di sottrarsi alla clausura dell’io dentro l’io è per Schelling quella di com­ prendere Fichte attraverso Spinoza e, come si vedrà, Spinoza attraverso Fichte. «Il futuro possa ricercare che cosa abbia impedito a questo forte spirito, dopo questa conoscenza vera dell’in sé, scorgerlo nel Tutto e così, intuendo l’identità e la vitalità di tutte le cose e dell’intera natura, elevarsi fino a quella fonte originaru di ogni struttura dell’io, di cui ogni altro io, considerate nella separazione, è solo ombra e illusione, considerato nella unità, è parte vivente e immagine reale»24. A fronte dello schema meccanicistico con cui le moderne scienze sperimentali avevano interpretato il rapporto con la natura, ridotta a grandezza puramente quantitativa e calcolabile, s’imponeva l’esigenza di sca­ vare dentro questa realtà oggettiva compatta per ritro­ vare un’esperienza dinamica della realtà in generale, fornita del carattere di autoattività e perciò, in quanto configurabile essa stessa come soggettività, legata con le operazioni della sfera pratica dell’uomo. Un tale concetto vivente di natura, di cui si trattava di fornire la fondazione sistematica, si poneva ora al tempo stesso come prolungamento e trasformazione di quella posizione filosofica fichtiana da cui Schelling aveva inizialmente preso ispirazione. «Non basta affatto so­ stenere che «attività, vita e libertà soltanto siano il 47

ì

vero reale» [...]; si esige piuttosto che si dimostri, an­ che reciprocamente, che ogni reale (la natura, il mondo delle cose) abbia per suo principio attività, vita e libertà, o, secondo l’espressione di Fichte, che non soltanto l’io sia tutto, ma che anche, all’inverso, il tutto sia Io. Il pensiero di fare della libertà l’uno e il tutto della filosofìa ha posto in libertà lo spirito umano in generale, e non semplicemente in rapporto a se stesso, e ha causato in tutte le parti della scienza uno sconvolgimento più forte di qualsiasi rivoluzione precedente»25. Muovendo dal presupposto dell’«idealismo», se­ condo cui «solo chi ha gustato la libertà, può capire il desiderio di trovare dovunque analogia con essa, di estenderla a tutto l’universo», Schelling riscopre quel «più elevato realismo» che caratterizza l’ontologia della natura come vita: «la suprema aspirazione del­ l’interpretazione dinamica altro non è che questa ri­ duzione della legge naturale a sentimento, spirito e volere»26. Più in generale si trattava di riconoscere nei fenomeni della natura, tra i quali quello della luce, del magnetismo, della gravitazione, dell’elettri­ cità attivarono in particolare la curiosità speculativa di Schelling, prefigurazioni dello spirito fino a riconver­ tire l’interpretazione fìchtiana della natura come pura materia in una interpretazione della natura come tra­ ma intelligibile strutturata secondo un certo ordine e, quindi, fornita di razionalità: un analogon dello spirito. All’interpretazione meccanica della natura suben­ trava quella organica, cioè l’interpretazione di una realtà intesa come organismo vivente, come una tota­ lità unitaria fornita di un principio interno di configu­ razione e di autoregolazione, di compenetrazione tra le parti e il tutto, in cui non era diffìcile avvertire la tralucenza, per quanto incoativa e inconscia, di una 48

connessione di senso. La ragione, riscoprendosi coe­ stensiva con l’intero ordine della natura, si dilata ora a organo della vita universale, si articola come il movi­ mento che sottende le pulsazioni della vita prima e al di là della loro distinzione tra inconscio e coscienza, si riconosce come Weltseele. L’io stesso in tale contesto è rappresentabile solo all’interno di questo processo evolutivo dalla natura allo spirito, come il più alto punto di emergenza di un intreccio in cui lo spirituale rinvia inestricabilmente alla natura come al suo fondamento ineliminabile, da cui trae nutrimento e forza. Natura e spirito si confi­ gurano in tal modo come due campi dinamici carat­ terizzati da un’osmosi ininterrotta all’interno di un quadro del mondo che è insieme storia della natura e storia dello spirito. «Si potrebbe anche dire, aveva scritto il giovane Schelling, che lo scopo finale ultimo dell'io sia quello di fare delle leggi della libertà leggi di natura e delle leggi di natura leggi di libertà, pro­ ducendo natura nell’io e io nella natura»27. Da un tale scambio vitale nasce quella circolarità tra filosofìa, religione e scienza che aveva fatto scrivere a Schelling: «indubbiamente la religione non è la filo sofìa; ma anche quella filosofìa che non unisse in un sa­ cro accordo la religione con la scienza non sarebbe più filosofìa. La religione del filosofo ha il colore della na­ tura, è la religione potente di colui che, con animo au­ dace, scende nella profondità della natura, e non l’autocontemplazione, solitaria ed oziosa, che in nessun modo va posta in relazione con questa filosofìa intera­ mente fondata sulla totalità della natura»28. «Ogni scienza tedesca» ha aspirato «fin dall’inizio» a questa percezione religiosa dell’unitolalità, che è at­ testazione della «vitalità della natura» e della sua «in­ terna unità con l’essenza spirituale e divina»; di essa si 49

I

:

è nutrito «il grande spirito» di Keplero, figura polie­ drica nella quale convivono e si sintetizzano motivi della scienza moderna e del platonismo rinascimen­ tale, che Schelling inserisce qui in quella galleria di personaggi che hanno contribuito a decostruire l’ere­ dità del meccanicismo cartesiano e a fornire, resti­ tuendo «respiro e anima alla terra», un’ispezione della natura più profonda di quella offerta dalla «pura» scienza della natura. Al tempo stesso, con il ricono­ scimento della «esemplarità della mathesis in rapporto alla natura e al sistema del mondo», Keplero prean­ nuncia un tema diventato poi centrale in Leibniz, anzi «l’anima» stessa della filosofìa di questo «geniale in­ ventore tedesco». La figura di Leibniz appare, nelle poche battute che gli vengono riservate in questo saggio, strettanente legata, come l’ombra che la accompagna, a juella di Spinoza, rispetto al quale Schelling gli ha già ritagliato il ruolo da svolgere: rappresentare un pro­ duttivo momento di correzione e di integrazione del­ l’ebbrezza spinozista per la totalità. L’unico modo, però, per resistere alla seduzione spinozista restava quello di scongelare il suo concetto di sostanza, rico­ noscendo l’insufficienza della «vita dell’unica sostanza che contiene ogni vita», e rivendicando per una tale totalità la legittima rappresentanza della molteplicità e della varietà delle forme individuali, riconoscendo che «ogni parte della materia era simile a un giardino pieno di piante, a un mare pieno di esseri viventi»20. In ciò è il senso della famosa affermazione di Leibniz, riportata da Schelling negli Aforismi: «se non ci fos­ sero monadi, avrebbe ragione Spinoza»30. Correggendo Spinoza attraverso Leibniz e Leibniz attraverso Spinoza il progetto schellinghiano dell’unitotalità si garantisce dagli opposti estremismi e si 50

i li

rende capace, come ha osservato Tilliette, di prefigu­ rare una soluzione del problema della totalità artico­ labile in due presupposti che si richiamano reciproca­ mente: «nell’idea dell’unità di finito e infinito e nel doppio movimento che scandisce il battito dell’uni­ verso, fin-formazione dell’infinito nel finito e la resti­ tuzione del finito all’infinito, in maniera che il finito non si dissolve nella sostanza e l’infinito non si aboli­ sce nel finito»31. Anche il richiamo a Spinoza in questo testo è estremamente sobrio, anche se egli - «maestro e pre­ cursore» - era stato un costante punto di riferimento per Schelling che aveva potuto sottrarsi all’abbraccio iniziale di Fichte attraverso la mediazione di Spinoza, salvo poi a dover interpretare a sua volta Spinoza con le categorie fichtiane. L’iniziale professione entusia­ stica per Spinoza, condivisa d’altronde da Schelling con tutto l’ambiente romantico per quella forte unità che egli riaffermava tra Dio e il mondo, con l’effetto di una nuova percezione del mondo e della natura che assumeva i caratteri di una Weltfrdmmigkeit, di­ ventata il sentire comune di un’epoca, cederà poi il passo a una riflessione più articolata, da cui emergerà anche il limite di una filosofia unilateralmente assor­ bita dal carattere di «unità» della sostanza con la con­ seguente perdita della «dualità» e, quindi, dell’auto­ nomia di quel polo «soggettivo», con i connessi carat­ teri di mobilità e di molteplicità, che unicamente avrebbe potuto garantire al sistema stesso di artico­ larsi anche come vita e svolgimento. Lo spinozismo, invece, gli si configurerà addirittura quale caso emble­ matico di un «dommatismo» filosofico, in quanto esso si poneva sin dall’inizio come neutralizzazione del­ irio», che, assente nel punto di partenza, non potrà più essere recuperato neppure al termine. Si

I; i

Questo errore fatale risalta per Schelling dall’inter­ pretazione spinoziana dell’«assoluto» come «oggetto» e dall’insufficienza della stessa «intuizione intellet­ tuale» come stmmento di conoscenza dell’«assoluto», in quanto essa si configurava, appunto, come un mo­ vimento centripeto interamente assorbito dall’«assolu­ to». La preoccupazione che affiora da questo testo ap­ pare, però, sganciata da un’analisi contenutistica della filosofia spinoziana e concentrata esclusivamente sulla rivendicazione del carattere «nazionale» e «religioso» di quella filosofia. «Per senso e comprensione Spinoza appartiene ai tedeschi, lui che dagli atei francesi e in­ glesi era ritenuto uno dei loro e la cui dottrina, salvo poche eccezioni, prima della manifestazione del suo senso attraverso i tedeschi Lessing e Jacobi, era simile a un libro sigillato»32. Un altro autore recuperato alla circolazione filoso­ fica, soprattutto nell’ambito di un certo romanticismo con forti venature religiose, è stato J. Bolline che, pro­ fondamente radicato nella tradizione luterana, con un’arditezza di pensiero che rompe con l’intera eredità del teismo spiritualistico, trasferisce nella stessa abissalità di Dio le potenze del bene e del male, della luce e dell’oscurità, deducendo da questo originario nesso contrastivo un «sentimento della polarità» dell’essere in generale che, per quanto nella forma di una gnosi narrativa e non di una scienza argomentativa, si riflette sulla sua concezione dinamica e dialettica dell’«esistenza umana» e della stessa «natura»33. «Dotato di grande illuminazione, per puro entusiasmo e senza essere par­ tecipe di alcun altro insegnamento o ispirazione che quella che gli veniva dalla sua interiorità, fermo e come attonito nella sua intuizione beata, ha poetato la sua poesia labirintica, simile al fondo oscuro della natura, sulla natura delle cose e dell’essere divino». 52

!

La svolta di Schelling verso la teosofìa, propiziata soprattutto dall’incontro con Bolline, attivò, però, in lui non solo un’interpretazione della natura più dina­ mica di quella connessa alla sua precedente visione estetica, legata essenzialmente all’eredità greca, ma lo richiamò anche alla durezza e conflittualità della realtà e dell’esistenza storica, un fatto che, tradotto in termini di politica culturale, gli fece prendere co­ scienza che la stessa rinascita, morale e politica, del popolo tedesco non poteva attendersi dalla sola reli­ gione estetica, ma nel ricorso alla forza di quella re­ ligione storica collegata all’esperienza cristiana della vita. L’ultimo esponente di questa galleria di antenati richiamati da Schelling è Hamann, il rappresentante di quel teismo romantico che è rivendicazione del ca­ rattere rivelativo dell’esistenza e insieme del carattere numinoso della natura. Esistenza e natura non sono separate perché entrambe sono attraversate dal Vagire divino ed entrambe ne riflettono l’ideale grazia tra­ sformandosi in «organi della divinità». Su questo richiamo alla natura come luogo del dis­ velarsi dello spirito divino, a cui si accompagna un duro giudizio sul «colpo mortale» inferto ad essa da una concezione meccanicistica della natura e dal suo uso puramente strumentale, si conclude la rassegna necessariamente sommaria — delle figure che per Schelling si congiungono idealmente alla sua filosofìa e che potrebbero essere caratterizzate anche come au­ tentici padri fondatori dello spirito della nazione te­ desca, la quale «nella sua essenza più intima è reli­ giosa» e appunto in tale vincolo interno ha sempre riconosciuto la sua vera e permanente identità spiri­ tuale. 53

! ■

Nobiltà della «metafìsica» e miseria del «meccanici­ smo» ' I

I !

Il motivo ricorrente e unificante delle riflessioni fin qui svolte da Schelling si può riassumere senza dubbio nell’esigenza di pervenire a una conoscenza unitaria della realtà, la quale cosa significava concretamente l’esigenza di superare le false astrazioni e contrapposizioni di «spirito» e «natura», «sapere» e 2