Le vie del Buddhismo

La presente opera, di cui è autore uno dei maggiori orientalisti italiani, fornisce un quadro sintetico della dottrina b

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Italian Pages 232 [238] Year 1986

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Le vie del Buddhismo

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PIO FILIPPANI RONCONI

Le vie del Buddhismo

BASAlA

TUTTI SONO

©

I

DIRITTI

RISERVATI

1986 Manilo Basaia Editore Cas. Post. 6097 - 00195 Roma

A Sveva, mia figlia.

INTRODUZIONE Il Buddhismo rappresenta una dei massimi eventi che si siano verificati, non solo nel campo della religione ma anche in quello più universale del pensiero umano. Nato come un movimento ascetico, fondato su presupposti razio­ nali, il Buddhismo assurse, secoli più tardi, alle più alte vette della metafisica e, contemporaneamente, sotto l'in­ flusso dei movimenti gnostici sviluppatisi nell'India dal II all'XI secolo d.C., maturò nel suo seno un insieme di sistemi mistico-religiosi articolati in numerose sètte. Que­ ste, fra loro tollerantissime, se, da una parte, servono per soddisfare l'anelito devozionale e religioso dell'uomo comu­ ne, dall'altra - con la loro complessa simbologia - allu­ dono a condizioni sovrasensibili della coscienza che sono la premessa per raggiungere le -stesse mète che il Buddha, con semplici ragionamenti e con toccanti parole, aveva indicato. Questa è la ragione per la quale !J Buddhisn:zo, senza mutare minimamente le sue teorie fonaamentali, che nòn implicano affatto interventi divini o sovrumani p_-e·.;:. Ia salVezza dell'uomo, ma il suo solo sforzo personale, è diven­ ta_to.una vera e propria religione, agglutinando a sé, nei secolz della sua inarrestabile diffusione, tutte le religioni. fedi e credenze con le quali si sono imbattuti i suoi missio­ nari. Come può essere avvenuto un fatto simile? Sempli­ cemente perché, P..er il Buddhismo, gli dèi - al contrario di quelli dell'Indu'Tsmo o delle altre religioni del mondo non sono affatto concepiti come entità reali, concr�� nella loro ine abile trascenden a o immanenza ma come semp zct proiezioni, esterioriz ate nel cult , e, quindi, fon­ da a mente i usorie, di elementi noetici e psichici ap­ partenenti alla coscienza �ogf!,ettiva. Per il Buddhista puro, or lltiOnt quindi, l'uomo « si libera » pszco ogzc e rappresentandosele, oggettivando e, •

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sele davanti come immagini - di dèi oppure di démoni, ma comunque sempre personificazioni di energie che agi­ scono nella sua stessa coscienza - sì da stabilire un rap­ porto di conoscenza che le disciolga gradualmente nella sfera dellJQt�:�ion�-�?!_l?'}ica (m�� ) dalla quale sono sorte. È un procedimento - fii,ièrlo dell'aggettivazione - molto ben conosciuto dalla psicologia sperimentale moderna che però, millenni or sono, il Buddhismo ha condotto ad estre­ ma perfezione e sottile raffinatezza. Questo paradosso, di una religione fondamentalmente «atea », che il Buddhismo ha in �ne con il Jainismo, non è il solo che esso ci presentz. Un altro paradosso, più formale che sostanziale, è che il Buddhismo, di fronte alle varie religioni indiane che attribuiscono un senso trascen­ dente alla Storia, interpretandola come la proiezione di un divenire cosmico, divino, che attraversa l'Umanità, nega invece qualunque valore oggettivo agli eventi del divenire in c:QI!!inuo mut����é!}_, a tutta l'esistenza, quin­ di alla Storia in blocco. Ciò nonostante il Buddhismo entra come un impulso chiaramente defirzito nella medesima cor­ rente della storia umana, la cui non-significanza teorica­ mente afferma. Ciò avviene perché il Buddhismo attribui­ sce un valore fondamentale ed universale al pensiero, che che è poi l'unico che può conferire un senso alla Storia. Finché l'uomo vive immerso in un limbo magico-divino, infatti, non può attribuire agli eventi esteriori quella con­ nessione oggettiva che è il tessuto stesso della Storia, e che gli permette di interpretar/a. Come tutti gli altri sistemi filosofici o religiosi del­ l'India, lo scopo che si propone il Buddhismo è la libera­ zion..e (mukti, mok�a) dal giro inesauribile delle esistenze (sarp.sara). Questa liberazione, però, viene concepita nel Buddhismo in una forma robustamente concreta e perso­ nale, e non misticamente ed impersonalmente come nel­ l'Induismo: finché restiamo immersi nel sarpsara, qualun­ que sia la nostra condizione di esistenza - di uomini, di dèi, di dèmoni eccetera - viviamo in un alternarsi di dolore e di piacere, o in uno stato di piacere, che dura fin­ ché permane il frutto {phala) dell'azione (karman) com­ messa in un'esistenza p�ecedente oppure in questa, che ce

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lo fa toccare in sorte o ce lo fa conquistare, dopo di che si ritorna a soffrire. Ora, questa sofferenza, o questo esse­ re il piacere condizionato alla sofferenza o viceversa, sono manifestazioni dell'Universale Dolore (dul)kha, dukkha), simbolo del permanere nel sarpsara. Tale dolore, però, � ste in quanto c'è un io ....che se lo �non un Io ----. assoluto, certo, ma fl!:!.el nucleo di tendenze. T?_assioni. vol iz!iii{�§� o '!leno mentalizzate, che cos� il __§.Qggetto della nostra esistenza. E questo nucleo sogget­ tivo c71Jdze rende possibile il s "'iqisara, che gli conferisce aspetto di realtà e ce lo fa patire. Il nostro compito è, è, quindi, di scardinare questo falso io, sperimentandone la non-essenza (an-atmata, an-atta), inesorabilmente rico­ noscendo gli elementi psicologici che lo compongono. J..fl._ tale modo �L .. .avrà un gradual_e di.$tacco dagli ogg�Ui ai ..... ---�----�-------·-.......___ .- -··--··------q"!-a_l i,_� çp�ç_ntemenJe__Q_incp n�ç_i_tE_e '!ill!:� si_ aderj__�_f!:i!_{qcw��rà_f!l!!!_ _ lib..er� Tale lioerazione, denotata, nel Buddhismo, col termine nega­ tivo di « ;»,i_nzione» (�nibbana) , si avvera come conseguenza di una silenziosa illuminazione interiore (bodhi), di un cc risveglio» alla coscienza dell'universale cc non sussistenza» (a-nityata, aniccata), di tutti gli elementi dell'esistenza. Quindi il Buddhismo, che teoricamente par­ te da premesse perfettamente comprensibili ed ammissibili per un Indiémo tradizionale, brahmanico o indù, tende ad uno scopo che è esattamente l'opposto di quello delle reli­ gioni indiane summenzionate. Queste tendono a ritrovare nel divino una concretezza di esperienza, quello a distrug­ gere l'illusione circa la concretezza di qualunque espe­ rienza. Queste si volgono alla realizzazione di un Io asso­ {EJ.sL (lo � o il�). quello alla distruzione speri­ mentata di qualunque concezione circa un io o un non-io, cioè all' cc estinzione» per eccellenza, al nirvaiJa . E interessante osservare come il Buddhismo, religione­ filosofia di genere apostolico universale, si sia p_roprio estinto n a atria di ori ine, dove so =ravvive u mentre il Brahmane­ esclu mente nell'iso a i Ce o simo, origmariamente religione « teologica >> di una ristret­ ta casta ereditaria di sacerdoti, quindi naturalmente esclu­ sivista, abbia invece, sotto forma di ciò che denominiamo -

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Induismo, totalmente conquistato l'India, salvo natural­ mente, le zone islamiche e cristiane, amalgamando a sé un insieme disparato ed apparentemente incoerente di culti, di tradizioni e di credenze religiose, appartenenti alle diversissime razze che popolano il sub-continente indiano. Ma dove appare con chiarezza solare lJ bilità fr-a le dy,e--4-�piri!_l},.ali,.Jl-B.udd h.im!_Q.E!_il Bran.riìa­ nesirho, è nella concez�� �a. Per gli Indù,fl ":iSliarma è l'Ordine cosmico e -morale per eccellenza (lo �tà vedico), al quale ci si adegua compiendo i riti ed osservando le prescrizioni, anche se queste conducono, come nel caso dei vari sistemi yoga (che verranno, più o meno, adottati dal Buddhismo), ad un superamento dei vincoli morali dell'individuo di fronte alla società: lo scopo dei riti brahmanici è quello di trasporre l'uomo in una entità divina. Per il Buddhismo è esattamente l'opposto: il Dharma o, meglio, il Saddharma (la Buona Legge) è di là dall'Ordine cosmico medesimo, il quale, poi, è soltanto una forma di sarp.sara, lo scorrere indefinito e non-signifi­ cante di esistenza in esistenza. Questo Dharma buddhistico non cerca affatto di" creare un cc SJ.lperuomo » o di enu­ cleare un essere divino dall'uomo: si propone semplicemen­ te di estinguere per sempre la catena delle esistenze con­ tingenti a cui ·l'uomo soggiace. Il Nirvl!Q.a, al quale il Dharma conduce, è una condizione non-dialettica, indicibi­ le, di là dall'esistere, dall'essere (come dal non-essere), che si invera come una cc quiete»(§anti) immota, luminosa di per sé, una coscienza non turbata da alcuna conoscenza, dato che gli eventuali oggetti da conoscere hanno cessato, anche loro, di comparire, di esistere. Questa teoria non è stata rivelata da una divinità e nemmeno serbata agli uomini da una tradizione divino­ sacerdotale. Essa si pone come la scoperta di un Uomo. un pensatore ed un asceta, il Buddha, il quale afferma che la sua dottrina è accessibile a tutti coloro che sono ani­ mati da sincerità, intelligenza e volontà.



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TRASCRIZIONE DEI TERMI NI SANSCRITI, PALI E TI BETANI Nella prima parte di questa opera i termini sanscrztz vengono citati con accanto la traduzione del « s tandard » medesimo vocabolo in pali, la lingua in cui è reda t to il Canone b uddh ista hìnaylina; le regole di trascrizion e delle due lingue, che hanno reciprocamente un rapporto gene­ tico come fra il latino e l'italiano, sono quelle in ternazio­ nali. E cioè: le vocali e i dit tonghi hanno lo stesso valore che in i taliano, salvo la r e la ! che vengono articolate come le corrispondenti linguali con tinue, senza l 'appoggio di una vocale (cfr. il serbo-croato srce, crna in cui la r accen tata è pronunciata rapidamente come se fosse prece­ duta da una mezza vocale e). Il segno della « lunga» « -:;.» sulla vocale significa che il suo suono dura due tempi. Per le consonanti sanscrite e pllli si tengano presen t i l e avvertenze: l e k e g vanno pronunciate sempre sorde, cioè kala e gita hanno il suono di « cala» e « ghita >>, le corrispondenti aspira te kh e gh, vanno pronunciate facen­ do chiaramente sent ire lo iato dell'acca, come nell'inglese « in khorn >>, es.: khara e ghata . Di con tro le consonanti c e j, vanno pronunciate com e le i taliane ci e gi , quindi pafica e janas hanno il suono approssimativo dell 'italiano (( pancia » e (( gianas >>. Lo fi deve venir pronunciato come il corrispondente suono spagnolo, italiano gn. Le lingua/i !, 9, th e 9h de b bono essere pronunciate pun tando la lin­ gua sul pala to, ove si pronuncia la r, come nel siciliano cut ieddu e cas teddu. La sibilante s ha il suono della no­ s tra (( s > > di sordo e sicuro, non di viso. La spirante pala­ tale s e quella linguale !ì vanno pronunciate approssimati­ vamente come lo sci italiano, es. sakti che si pronuncia come « sciact i >>. Lo y non è altro che uno i che precede una vocale come yoga, pron. (( ioga». Le varie nasali in9

dicate con la «n» sormontata da un punto (fl) o con un punto sotto (t;t) vanno pronunciate, o gutturali come il ted. Inge o il greco aggelos, o con l'attacco linguale della con­ sonante vicina come Kr s na . La m e la m sono due sonanti nasali indistinte che r��dono pi� o meno mugolata la vo­ cale precedente. La h va chiaramente pronunciata come la corrispo n dente tedesca all'inizio di sillaba, mentre la };l deve essere articolata (sempre in fine di parola) come una acca «sibilata » come il tedesco ich, es.: asva};l, leggere cc ascvahs ». Per i termini tibetani citati negli ultimi capitoli è più difficile dare regole precise, data la distanza fra la lingua scritta e le diverse pronuncie vernacolari in uso anche nel­ la lettura dei testi classici. In generale, ferma restando la lettura delle consonanti isolate come il sanscrito, non si leggano le consonanti sonore finali e i gruppi prefissi, es.: bskyod va pronunciato « kyo », bKa'rgyud pa va letto cc ka­ yii.-pa ». Inoltre i gruppi iniizali contenenti una cc r >> subi­ scono varie metamorfosi in senso cerebrale, es. sgrol-ma viene articolato come tjolma eccetera.

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I PARTE IL BUDDHA E LA BUDDHEITA'

B uddha non è il nome di una persona, bensì l'appel­ lativo con cui si indica un essere umano il quale, avendo in se stesso sperimentato quella che è la più profonda con­ sapevolezza, quella che è la più intima coscienza, di là da tutte le oscillazioni dello spirito, .d ei sentimenti , di là dalle parvenze di cui la realtà si riveste, si identifica a questa coscienza illuminativa, che gli indiani chiamano bodh i, e diventa per tutta l'umanità della sua epoca la guida per compiere la medesima esperienza. B uddha signi­ fica infatti Risvegliato, I lluminato. Non dio né mago né taumaturgo, anche se ne ha la capacità. È un uomo « sveglio in mezzo agli addormentati » , che procede lucido e distaccato fra coloro che sognano appassionatamente l 'illusione di un'esistenza alla quale essi stessi prestano vita . È un uomo che ha « compiuto l'opera da compiere » : quelle di domare interamente s e stesso e giungere interna­ mente a quella sfera di immota luminosa serenità, di tota­ le trasparenza a se stesso, ove sono completamente estinti sentimenti, passioni , attaccamenti, repugnanze, abitudini , complessi psichici innati ed acquisiti , tutto quel divenire doloroso e affannoso - fatto realmente di nulla - di cui è tessuta la perpetua vicenda di nascere-vivere-morire­ rinascere, che gli Indiani denominano sarrzséira, cioè flusso , scorrere continuo. L'uomo che chiamiamo B uddha è giunto a realizzare questa esperienza di una Realtà di .là da tutte le forme, indicibile sino ad essere (( essenziata di vuoto », s e nza l 'aiuto degli dèi , senza l 'appoggio di tradizioni , senza la guida di maestri . Egli è stato un uomo libero. La sua sco­ perta, se così la possiamo chiamare, è che, al centro di 11

se stesso, nella realtà più intima e segreta di ogni uomo, non tanto vi è un essere che assista stupefatto e impotente alla caotica successione dei fatti della propria esistenza, determinati nel loro apparente disordine dal ferreo nesso di causa ed effetto, quanto un atto di folgorante intuizio­ ne, una continua presenza a se stesso, una coscienza im­ macolata intangibile, inafferrabile, che si invera di là da tutti gli stati d 'animo, di là da tutte le sensazioni, di là da tutte le percezioni che danno all'uomo l 'illusione di vivere in uno scenario animato da enti e da forme, alla vita dei quali esso inestricabilmente partecipa . Ora, se questo atto di coscienza-risveglio, questa pre­ senza a se stesso, questa bodhi, costituisce la più intima realtà dell 'essere umano, il Buddha è colui che, pur viven­ do come uomo di carne e ossa, lo ha sulla Terra piena­ mente personificato . Si può anche dire che, essendo tutti gli uomini nel loro nucleo più profondo essenziati di que­ sta sublime consapevolezza, essendo cioè dei Risvegliati in potenza (solo che non lo sanno) , il B uddha è colui attra­ verso il quale l 'umanità è giunta al suo acme, ritrovando il significato di se stessa. La tradizione indiana afferma che per ogni grande ciclo storico vi è almeno un uomo che compie quest 'espe­ rienza 'centrale e che, talvolta, trasmette il metodo per raggiungerlo agli altri uomini, con il linguaggio adatto al tempo in cui vive e alla possibilità dei suoi contemporanei di comprenderlo e di accoglierne il messaggio . L'ultimo uomo siffatto comparso sulla Terra fu il principe Siddhartha, detto Gautama S akyamuni . I l fatto che il Buddhismo ed il Jainismo in I ndia, il Confucianesimo ed il Taoismo in Cina, i sistemi filosofici di Eraclito, di Pitagora e degli Eleati in Grecia siano tutti contemporanei , nel senso più stretto del termine (i l oro protagonisti avrebbero potuto conoscersi personalmente, addirittura), ciò potrebbe indicare il verificarsi di un even­ to storico e psicologico che investe lo spirito umano in tutte le civiltà superiori , indipendentemente dalle loro eventuali inter-comunicazioni. Questo evento si concreta nel1o sbocciare delle facoltà razionali umane le quali, con la forza di un pensiero attivo , si volgono alla ricerca dei 12

Supremi Veri, indipendentemente da rivelazioni divine, da arcane tradizioni o da mistici trascendimenti. Per questo fatto, di importanza universale, il Buddhismo ha realmen­ te plasmato un nuovo tipo. d'uomo che ancor oggi resta l'ideale di tutti i popoli dell 'Asia Orientale, dal Tibet al Giappone, dalla Mongolia alla Birmania ed all'Indocina. E quel tipo di uomo calmo, raccolto in sé, compassione­ vole, ma intimamente distaccato da se stesso e dal mondo - che per lui non è altro che dolore -, profondamente attento a quanto compie, pensa e sente, che domina il suo pensiero al pari di uno yogin; è il tipo umano che ha potuto, in terre diverse, assimilare al suo spirito le esigenze etico-sociali confuciane, il senso di armonia taoi­ sta, le aspirazioni magiche dei Tibetani e perfino la mora­ le guerriera dei samurai e dei ronin giapponesi . Questo nuovo tipo di uomo, che da circa millecinquecento anni domina l'Asia Orientale, è l 'immagine, riflessa nelle diver­ se culture di quella regione, del Buddha, dello > Nirgrantha, probabili discepoli di Jina, e di eremiti silve•

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Giuseppe De Lorenzo, India

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Buddhismo antico, Laterza Bari 1926.

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stri fedeli alla tradizione vedica. Né mancavano torme di giovani che, al seguito di qualche famoso maestro, per­ correvano l'immenso paese durante la buona stagione, per ritirarsi sotto le frasche di una capanna quando giungeva il monsone. Tutti costoro, chi più chi meno, si esercita­ vano in quelle antichissime discipline psicofisiche, tipiche dell'ascesi indiana, note col nome .di yoga. L'elemento interessante è che molti di loro, da queste esperienze, cominciavano a dedurre i primi elementi di concezioni del mondo che diverranno poi le dottrine filo­ sofiche delle diverse scuole storiche. Siamo, in effetti, alle soglie della formazione embrionale della filosofia indiana che, secoli più tardi, proprio per effetto dello stimolo buddhista, troverà la sua possente formulazione nei sei sistemi classici. *

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In questo mondo, materialmente prospero e spiritual­ mente inquieto, dobbiamo immaginare che crescesse colui che diverrà il Grande Illuminato. Anche se la leggenda insiste nel descrivercelo racchiuso in una gabbia dorata, a tratti si rivela come. egli partecipasse alla vita ed ai costumi della gioventù del suo tempo: esempio classico l'episodio delle sue nozze, stil quale i testi canonici mo­ strano evidente imbarazzo dato che nulla vincola al sarrz­ sara quanto la perdita di consapevolezza propria all'atto coniugale, ove la temporanea «morte» della coscienza, data dall'estasi, si proietta nella vita donata a un altro essere. :È probabile che il Buddha abbia avuto due mogli, cugi­ ne sue: Gopa e Ya§odharll, o forse addirittura tre. Siddhar­ tha se le conquistò durante una specie di tenzone cavalle­ resca, primeggiando sugli altri pretendenti in competizioni di tiro all'arco e di lotta. Una volta ammogliatosi, ciò che avvenne ai suoi 16 anni, visse tranquillo per altri tredici in un'esistenza di delizie che egli stesso descriverà nel 75o discorso del ·

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Dighanikaya �: « Anche io ho già vissuto in famiglia e nel possesso e godimento delle cinque facoltà di bramare . . . _Bd io possedevo tre palazzi, urio per l'autunno, uno per l'inverno, uno per l'estate 3• Ed io trascorrevo i quattro mesi della pioggia nel palazzo autunnale, dove fanciulle cantavano per me e suonavano > >. Ma già si delineavano i segni annunciatori di quella che sarà la Grande Dipartita, ispiratagli da quattro uscite dal parco reale durante le quali Siddhartha incontrò prima un vecchio canuto, rattrappito e malfermo, poi un amma­ lato, poi un corteo funebre. Da queste tre visioni egli conobbe la realtà universale del dolore : quel dolore che, gli diceva il fedele auriga, ChaQ.c;laka, egli stesso avrebbe sperimentato durante la sua vita mortale. Il quarto incontro fu invece quello con un asceta. Egli procedeva libero e sereno per la sua s trada, simbolo vivente della condizione nella quale il dolore non ha più presa. La leggenda narra che il principe, dopo averlo visto, non tornò subito a palazzo, poiché nel suo animo già si espandeva la decisione di seguirne l'esempio. E un verso di lode rivoltogli da una donna avrebbe risvegliato in lui l'idea dell 'Estinzione, nirvli1J.a, quella sfera d'immutata serenità ove morte, malattia, vecchiaia non hanno più senso. Al suo ritorno gli annunciarono che, dopo ben tredici anni di matrimonio sterile, gli era finalmente nato un figlio. « Un Rllhula è nato, un vincolo è nato », disse Sid­ dartha oscuramente . Possiamo supporre che egli alludesse al fatto che il bambino era nato durante una eclisse (pro­ vocata, secondo gli Indiani, dal dèmone Rahu, che inghiot­ te la luna) , e quindi all'eclisse della propria vita conse­ guente alla nascita del bambino . Suddhodana, conosciute le parole del figlio, fece chiamare Rahula il nipote.

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De Lorenzo, op. cit., pag. 121. 3 L'antico anno indiano, dato l'avvento fisso del monsone, era sud­

diviso in tre o sei stagioni, di quattro o due mesi ciascuna. Le sei stagioni erano: la primavera, la calura, la pioggia, l'autunno, l'inverno (o la nevicata), la frescura.

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La nascita di un discendente legittimo affrettava, per Siddhartha, la sua consacrazione a principe ereditario, as­ sociato al trono· paterno. Secondo il rito ciò avrebbe dovuto avvenire con l'aspersione con la quale i re arii venivano iniziati. · Seguendo questa via Siddhartha avrebbe ·raggiunto, come gli aveva profetato Asita, la condizione di re universale, ma· egli scelse allora l'altra supremazia. La leggenda narra che la visione delle danzatrici e dei cortigiani, scompostamente addormentati dopo il convito col quale era stata celebrata la nascita di un discendente nella casa di Suddhodana, lo colmò di nausea. La sala gli sembrò un cimitero pieno di corpi in decomposizione, sì che egli decise di andarsene subito e di attuare in quello stesso momento la Grande Dipartita. Prima di uscire per sempre dalla sua casa Siddhartha guardò il figlio che dormiva su un letto coperto di fiori : avrebbe voluto sollevarlo a sé ancora una volta, ma la madre gli teneva la mano sulla testolina e si sarebbe risvegliata se egli avesse tentato di scostarla . Decise così di rivederlo solo quando avesse raggiunto la condizione di Buddha. Seguito dallo scudiero, Siddhartha si allontanò dalla città, si rase le chiome con la spada, mutò le sue ricche vesti con quelle di un cacciatore e rimandò indietro ChaQ­ çlaka . Così dice la leggenda . Ma è più probabile che egli abbia scelto la vita ascetica dopo averne informato il padre . A ciò allude il 36° capitolo del Dighanikaya, allor­ ché narra : « . .. e dopo qualche tempo, o monaci, ancora fiorente, splendente di capelli neri , nel godimento della felice giovinezza, nella prima età virile, contro il deside­ rio dei miei genitori piangenti e gementi, rasi capelli e barba, vestito dell'abito giallo, rinun ciai alla casa per la povertà ascetica » . Questa è la « Grande Dipartita » (Mahli­ ni�krama�Ja, con la quale Siddhartha, già Bodhisat tva, cioè « Buddha in potenza », antepose il Grande Risveglio al dominio su questo mondo, che per Karman gli sarebbe toccato di conquistare. *

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La parte successiva della vita di colui che doveva diven­ tare il Buddha, proprio perché riguarda un insieme di atti 20

interiori di ordine spirituale, è trattata dai testi canomc1 con obiettività storica: il mito, la pia leggenda cedono il passo ad eventi di matematica chiarezza, destinati a cul­ minare nella Realtà delle Realtà, rEstinzione, il Nirvlina. Recatosi a Vaisali, Siddhartha diventa discepolo del maestro Arac;la Kalama:, il quale insegnava la teoria della > , realizzata attraverso la' pratica del cosiddetto 7• Interiormente illuminato dalla verità e da essa pervaso, Siddhartha sciolse per sempre Ja catena del sartZsiira: dive­ nuto il Buddha, lo Svegliato, egli avrebbe vissuto ancora per quanto durava l 'effetto della sua ultima esistenza , ma non sarebbe mai più rinato. Si vuole che in quel ·

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De Lorenzo, op. cit., pag. 136.

momento egli pronunciasse le parole che ci sono state tra·

mandate dai Dhammapada: « Per il volgere di innumerevoli nasci te corsi senza tre­ gua cercando il costruttore ·della casa ( = la causa della rinascita) . Orribile è l'eterna rinascita. O costruttore, ora ti ho scoperto ! Tu Iion fabbricherai più alcuna casa. In­ frante sono le tue travi e il tetto della casa è cro llato . Il cuore, fatto libero, ha estinto ogni brama » 8• A Buddha Gaya, là ove il Buddha aveva conseguito l' Illuminazione, fino al 1876 si poteva contemplare il vetu� stissimo tronco dell'albero sotto il quale egli era stato seduto in meditazione. Un ramo, trasportato nel I I I sec. a.C. a Ceylon, presso Anuradhapura, si sviluppò in un albe­ ro che tuttora sussiste, ed è oggetto di venerazione per i buddhisti locali. *

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I fatti successivi alla Liberazione rispecchiano evidente­ mente, nella loro proiezione biografica, concezioni cosmo· logiche antichissime, come i 7 g iorni trascorsi sotto l 'al­ bero dell'Illuminazione, paralleli ai 7 giorni che il re consa­ crato doveva trascorrere sul luogo della sua iniziazione, i 7 giorni di meditazione, i 7 giorni di circumambulazione, i 7 giorni trascorsi presso il lago Mucalinda, durante i quali il Buddha viene protetto da un'alluvione dal genio­ cobra omonimo, che lo ravvolge di sette spire e ne proteg­ ge il capo col proprio cappuccio. Infine la settima setti­ mana, trascorsa sotto un albero detto Soggiorno di Re. Se questi fatti �imbolici ancorché veritieri, non hanno ai nostri occhi grande importanza, ne ha invece grandissi­ ma la decisione che egli prese dopo lunga incertezza : co­ municare la verità acquisita a tutta l'umanità , invece di restare un Buddha Silente. Il dubbio derivava al grande asceta dalla considerazio­ ne realistica che « la gente non cerca questa verità profon-

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Dhammapada, Jarzt-vagga, pag. 118.

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da, difficile a scoprire, tranquilla, preziosa, intima, acces­ sibile ai sapienti ; la gente cerca il piacere, ama il piacere, predilige il piacere ; a questa gente una realtà come la causalità, l'origine delle cause, sarà poco intellegibile. E la gente comprenderà appena quest'altra cosa : lo svanire di ogni distinzione, il distacco da ogni attaccamento , l'estinguersi della sete, la consumazione, la dissoluzione, l 'estinzione » . L'impulso che determinò il Buddha alla rivelazione del­ la verità fu la compassione verso tutti gli esseri . Impulso totalmente gratuito : I llusione essendo la realtà del mondo e Liberazione di se stesso l 'unico compito che gli incom­ beva, cosa poteva importargli di mettere gli altri al cor­ rente della Via da lui scoperta ? Si afferina, a questo punto, quell'elemento dell 'azione per l 'azione, dell 'amore distaccato verso tutti gli esseri , che è caratteristico di un'altra religione indiana, sia pure su una gamma ben più elevata, cioè del Krsnaismo . Il Dio dell à Morte �e'r� a ancora una volta di convin­ cere l'asceta a non predicare la Buona Legge, ma invano : il Buddha decide di insegnare la dottrina ai suoi cinque antichi discepoli , quelli del « beato gruppo » , che lo aveva­ no abbandonato e che in quel momento si trovavano pres­ so Benares, là dove oggi sorge Sarnath. Appena fatti i primi passi gli si avvicina un asceta nudo, chiedendogli quale fosse la sua scuola e la sua dot­ trina. Appreso che il Buddha non aveva maestro scosse il capo, dubbioso e se ne andò dicendo : « E se anche così fosse . . . » . Subito dopo un altro incontro : il convoglio di due mer­ canti che dall 'attuale Orissa viaggiava verso l ' I ndia setten­ trionale si arresta misteriosamente. I 500 carri di cui è composto non riescono a muoversi . I mercanti, Trapu�a e Bhallika, scorgono l 'asceta ; gli offrono cibo e doni . I l Buddha insegna loro l a dottrina, e d essi l 'accolgono . � significativo che i primi a conoscere q uesta dottri­ na, fondata sulla pura intuizione umana e pertanto svin­ colata da qualunque tradizione, non fossero già degli asceti, dei sacerdoti o dei ricercatori, bensì due laici viventi nel mondo e immersi nei suoi traffici. . . .

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Lasciati questi due primi discepoli il Buddha procede er Benares e giunge alla vist a dei cinque del « beato p gruppo ». Costoro, all 'inizio, non vorrebbero nemmeno sa­ lutarlo, ma vengono sopraffati dallo splendore che da lui irraggia . A loro il Buddha si annuncia come un Tathagata (« Così venuto [ ad essere ] ») e dice : « Date ascolto, mo­ naci, l'immortalità è trovata . I o guido, espongo la Dottri­ na. Seguendo la guida voi, in breve tempo, ancora in questà vita la renderete a voi stessi palese, realizzerete e conquisterete la più alta perfezione della Verità : quel fine per il quale i nobili figli lasciano la casa per la mendicità » . Cala l a notte . Persuasi gli antichi compagni a d ascol­ tare la sua parola , il Buddha tace durante la prima vigilia, profondamente raccolto in sé, spiega nella seconda il mo­ tivo per cui rinunciò all 'ascesi esagerata (così enunciando la Via Mediana, egualmente · lontana dalla vita nel mondo e dall 'inutile mortificazione, che si basa sull'Ottuplice Sen­ tiero) e, nella terza vigilia, espone la dottrina delle Quat­ tro Nobili Verità. Si tratta del famoso sermone di Benares , detto anche « la messa in moto della Ruota della Legge » (Dharma-cakra-pravartana), col quale il Buddha iniziò la sua predicazione, che doveva continuare ancora per circa quarantacinque anni, nell 'ampia contrada che dall'Hima­ laya si estende fino ai primi contrafforti dei Vindhya, dalla sacra città di Benares fino all 'Oceano Indiano. Ajnlita KaurJrJiya, uno dei compagni , avendo imme­ diatamente afferrato la dottrina non solo si converte subito, ma diviene un Arhan t (arhat, santo) . Nei giorni seguenti ·g li altri quattro compagni afferrano piena­ mente la dottrina , in seguito ad un 'esposizione dell'incon­ sistenza dello lltman, e divengono altrettanti a rhan t . Tutte le cose, spiega il Buddha, sono < < sprovv i ste di un essere a sé » (an-atmaka, anatta), perché sono impermanenti (ani­ tya, anicca) e trascorrono di stato . in istato, incessante­ mente. Solo il Nirvli.1J.a (nibbana) sfugge a questa condi­ zione : esso non è uno > si adopra a penetrare , di là dalle fatezze. pereunti, il suo significato. Difatti è la linea sperimentale più seguita, che, quando è priva di contaminazion,i con la prima, viene de­ notata come vipassanli « asciutta » (suk kha-v.) .

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I L BUDDHI SMO PRIMITIVO E LO H INA Y A NA

Il Buddhismo, come lo conosciamo, ci appare netta­ mente diviso in çlue gruppi di comunità, o due orienta­ menti, spiccatamente differenziati . Questi sono il cosiddet­ to Hfnayana, o �� o Piccolo Veicolo, ed il Mahllyllna, o � Lo Hinayana, così detto dai seguaci del se c ondo, che lo considerano una forma di pre­ parazione alle superiori verità impartite dal Mahayana, è attualmente diffuso nell 'isola di Ceylon, nel Siam, in Bir­ mania, Laos , Vietnam, e Tonkino ; il suo orientamento è rigorosamente ascetico, morale e disciplinare, con quel tan­ to di filosofia che basta per giustificarne gli assunti me­ ditativi ed etici. Lo Hinayana è la forma certamente più vicina alla Legge predicata dal Buddha, o, almeno, al Buddhismo come era praticato nei tempi a lui immedia­ tamente successivi . Il secondo sistema, cioè il Mahayllna, diffusosi, specialmente dal II all'XI secolo d . C . , nell 'enor­ me territorio abbracciante l 'Asia Centrale, il Tibet, la Cina, la Corea ed il Giappone e, per qualche tempo, anche l 'Assam, la Birmania e l ' Indonesia, è , invece, costituito da un gran numero di scuole di intonazione profondamente mistica e religiosa : ciò nonostante, esse fondano le loro elucubrazioni su sistemi filosofici di straordinaria eleva­ tezza e perfezione metafisica, avvale n dosi, per quella che è la parte pratica, realizzativa, di discipline mistiche mu­ tuate dagli ambienti yoghici del l 'India settentrionale, pro­ babilmente sivaiti. Parlando di Buddhismo ci troviamo pertanto di fronte a due forme spirituali diversissime, addirittura antinomi­ che, e ciò nonostante la seconda scuola, il Mahayana, con­ globi nelle sue esperienze e nelle sue dottrine anche quelle che sono proprie alla prima, cioè allo Hìnayana. Il Ma­ hayllna è ciò che, in coscienza, possiamo denominare la 60

Religione Buddhista » , poiché in esso confluirono, con stupefacente facilità (il Buddhismo ce rca, per quanto è possibile, di non scalzare deliberatamente le religioni pre­ esistenti) , le esperienze religiose e filosofiche (questo è il caso della Cina) dei popoli fra i quali si è diffuso . Le vere radici storiche del Mahayllna sono però, come si vedrà in seguito, lontanissime, immediatamente posteriori, addirit-. tura, all 'epoca del trapasso del Buddha, allorché nella Comunità cominciarono a manifestarsi i primi fermenti, l e prime aspirazioni devozionali, da parte di coloro che . non si sentivano intimamente paghi della scarna Legge predicata dal loro Maestro . Per quanto si riferisce alla teoria del Buddhismo p rimi­ tivo, questa si andò configurando attraverso una serie di concilii, quattro, per la precisione. Il primo concilio (sarrz­ giti) fu tenuto immediatamente dopo il trapasso del Mae­ �tro e la distribuzione delle sue reliquie, nella medesima capitale di Raj agrha (477 oppure 483 a.C.) , con la parteci­ pazione di circa cinquecento A rhant : durò sette mesi. La direzione del concilio fu immediatamente assunta dall'ener­ gico [ Maha] -Kasyapa, che godeva di grande- prestigio nel Sangha. Ananda stesso, che per venticinque anni era stato il fedele servitore del Maestro, non aveva potuto, proprio per questo, dedicarsi totalmente a quella disciplina medi­ tativa (dhyana, jhana) che è il fondamento dell'Illumina­ zione. Inoltre, il suo carattere tollerante, e conciliante, gli valse sin dall'inizio l'ammonizione severa degli Arhan t, i quali gli rimproverarono anche di aver perorato l 'ammis­ sione di monache nell 'Ordine ; dall'Ordine , probabilmente, egli venne temporaneamente sospeso. Con tutto ciò, A nan­ da era sempre quegli che aveva raccolto dalle labbra del Buddha ogni parola da questi pronunciata nel corso di un quarto di secolo e, pertanto, ap - "'rché non avesse mai superato lo stadio di novizio, era massima testimonian­ za per la compilazione del Canone. Ritiratosi in solitudine a meditare in una foresta, egli raggiunse ben presto narrano le pie leggende -, anche per i meriti acquisiti servendo l 'Illuminato, la condizione di A rhant, che dimo­ strò variamente con portenti, sì da poter partecipare auto­ revolmente al Concilio, cosa di cui tutti si rallegrarono. «

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Sfrondando l'agiografia dei particolari miracolosi, si può benissimo ammettere che, compiutosi il trapasso del Bud­ dha, i suoi principali· discep o li si adunassero per stabilire in quale maniera e su quali principi l 'Ordine avrebbe do­ vuto essere retto e condotto . Il problema fondamentale consisteva nello stabilire con la massima precisione possi­ bile e tramandare ai posteri tutto ciò che il Buddha aveva detto e fatto. Abbiamo quindi, come atto fondamentale del Concilio, la redazio n e del Cànone, il cosiddetto Tri­ pitaka (Tipi{aka), cioè le « Tre Ceste », contenenti : l ) i det­ ti testuali del Buddha, le sue prediche ed i suoi sermoni, i Scura (Sutta-pi{aka) ; 2) le regole morali da lui impartite ed i principi disciplinari dell'Ordine (Vinaya-pitaka) ; 3) la Summa filosofica, Abhidharma (Abhidhamma-pitaka), ag­ giunta in epoca più tarda come terza « Cesta » . Le tradi­ zioni riferite nei Sutta-pifaka furono rammentate parola per parola dallo stesso A nanda, mentre le regole discipli­ nari furono tramandate all'assemblea degli Arhan t da Upali, un altro discepolo del Buddha. (Si rimanda alla Nota Bibliografica per l 'elenco ana­ litico della quarantina di opere contenute nel Cànone) . Si è osservato che, a differenza dei Cristiani, i quali attesero, per qualche tempo dopo la morte del Maestro, a darsi un'organizzazione unitaria, i Buddhisti ebbero subito una Chiesa fon data su un ordine di monaci retti da una severa disciplina, già determinata in tutti i suoi particolari . Ciò che, però, contrasta con questo fatto, è la pratica mancanza di gerarchie ecclesiastiche fra i mo­ naci, eccezion fatta, naturalmente, della graduazione fra laici ( upli.saka) novizi ( srama7'Ja, sama7'Jera) e monaci veri e propri (bhik$u, bhik khu). Questi ultimi fungevano fre­ quentemente da tutori (acarya o upadhyliya, upajjhllya) dei novizi e li ammaestravano nel Dharma fintanto che non fossero stati maturi per venir ammessi nell 'Ordine. La mancanza di una gerarchia centrale, nel senso con cui intendiamo in Occidente il concetto di Chiesa, favorì sin dal principio ogni specie di scismi e la nascita di varie sètte, che esiston Ò ancora oggi . I primi quattro concili ai quali si è accennato ce rcarono in parte di arginare que­ sto fe n o m eno .

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Vediamo ora in qual modo avvenisse nei pnm1 tempi (e tuttora nello Hinayana) l 'ammissione al Sangha dei novizi, cioè di coloro che, sentendosi toccati in modo particolare dal messaggio del Buddha, ne intendessero seguire la via più ascetica. In primo luogo, al Sangha pote­ vano accedere persone di qualsiasi casta (con tutto ciò s i osserva che esso f u formato, per secoli, d a persone pro­ venienti soprattutto dai ceti più elevati della società india­ na, specialmente b rlihmm;za, k � atriya, figli di nobili fami­ glie (kula-putra), agiati negozianti e persone di alta pre­ parazione culturale. Diceva, a tale proposito, il Buddha medesimo : « All'intelligente appartiene questa Dottrina, non all'ignorante ») . Dal Sangha erano però esclusi i malati di infermità contagiose, gli incurabi l i (anche perché la vita di privazioni che avrebbe dovuto sopportare il monaco richiedeva una salute di ferro) , gli eunuchi, gli assassini, i condannati a pene infamanti, i debitori, gli schiavi, i sol­ dati, i minori di 1 5 anni di età e coloro che non avessero ottenuto da parte dei genitori o dei tutori i l permesso di entrarvi. L 'i dea, da taluno vagheggiata, che i l Buddha in­ tendesse promuovere, col suo Ordine, una riforma sociale abolendo le caste, è totalmente falsa, in primo luogo per­ ché la sua dottrina non si pone alcun problema sociale, in secondo luogo perché egli stesso considerava naturale l'ordinamento della società nei · suoi temp i . Semmai si voles­ se riconoscere un particolare « tono » sociale alla Chiesa · buddhista, bisognerebbe dire che questo è piuttosto ari­ stocratico che democratico, tanto è vero che i suoi seguaci si usavano chiamare « nobili » (lirya, a riya). Colui che aspi­ rava ad entrare nell'Ordine doveva per prima cosa espri­ mere il proposito della « dipartita » (pravrajyli, pab bajjéi), pronunciando tre volte la formula, già citata, del rifugio nel Tri-ratna: « Mi rifugio nel Buddha, mi rifugio nel Dharma, mi rifugio nel Sangha ». Rivestito l 'abito giallo del monaco, restava affidato ad un maestro per qualche anno, in genere non oltre un decennio. Al maestro , o tuto­ re, pre�tava tutti quei servizi che i discepoli di qualun­ que setta indiana prestano al loro guru : acompagnarlo nella questua, preparargli le vesti ed il bagno, tener gli in ordine e spazzargli la cella, lavargli la biancheria eccetera. 63

Intanto egli veniva accuratamente istruito nel Dharma e disciplinato all'obbedienza del Vinaya. Quando al precet­ tore sembrava che il discepolo potesse venir ammesso co­ me monaco a tutti gli effetti, aveva luogo la cerimonia più solenne del suo « ingresso » (upasampada), alla condizione di membro effettivo del Sangha, che doveva avvenire in presenza di almeno dieci monaci . In pratica si trattava di una « cooptazione » nella quale, dopo la formale dichiara­ zione del tutore che nulla ostava all'accettazione del can­ didato, i monaci esprimevano l 'approvazione tacendo, o l'opposizione motivandola. Nel primo caso il presidente dell 'assemblea accoglieva il nuovo monaco prescrivendogli i « quattro aiuti » o « requisiti » (nisraya, nissaya), e le « quattro proibizioni » ( akara13iyiini). I cosiddetti « quattro requisiti » consistevano nel mangiare solo i l cibo posto, per elemosina, nella ciotola (kalasa, pa ttra), nel vestirsi di cenci raccolti nella spazzatu ra o, meglio, in un cimitero (la meditazione nei cimiteri - sia detto per inciso - è una disciplina molto usata nel Buddhismo) , nel coricarsi per dormire ai piedi di un albero (come faceva il Buddha) e nel curarsi , in caso di malattia, servendosi solo di orina di vacca ( tradizione evidentemente di origine magico-brah­ manica) . Questi precetti così rigorosi, che ripetevano fatti tramandati della vita del Buddha, erano in pratica mitigati da varie dispense (atirekaliibha), come l'accettar inviti a pranzo, portare abiti donati , purché divisi in tre pezzi e tinti di giallo (color zafferano) , abitare in casse, capanne o grotte e servirsi , per medicina , anche di burro , miele, olio e zucchero. Le « quattro proibizioni » riguardano le colpe capitali indicate nella prima sezione del Pratimok�a (Patimok kha), una breve raccolta di precetti , dalla quale si sviluppò più tardi la regola monastica. Le otto sezioni di quest 'opera, di grande importanza, come si vedrà in seguito, per il « culto » buddhista, constano dei capi seguenti : l) colpe che conducono all 'espulsione dal Sangha : lussuria, furto, uccisione, attribuirsi falsamente poteri sovrumani (rddhi, iddhi) ; 2) colpe comportanti l'esclusione temporanea dal Sail.gha ; 3) colpe dovute a circostanze impreviste; 4) colpe comportanti una confisca ; 5) colpe comportanti un'espia64

zione; 6) colpe comportanti, come tutta penitenza, la sem­ plice confessione; 7) regole di condotta e galateo ; 8) regole giuridiche e procedurali . I monaci si radunano abitualmente ogni quindici giorni per la recitazione del Pratimok$a, nell 'assemblea detta upavasatha (uposatha), durante la quale chi ha compiuto qualche infrazione deve farne ampia confessione pubblica, allorché la colpa viene menzionata nel Pratimok�a, sotto­ ponendosi alla pena che gli infliggerà l'assemblea. Questa confessione dei peccati, comune a molte altre religioni, s i accompagna ad un'altra usanza del Buddhismo p rimitivo e dello Hfnayana, detta pravarar,zli. (pavli.rar.zii, invito) , in cui ogni monaco invita i compagni a dichiarargli se abbiano osservato nel suo comportamento qualche difetto, affinché ne faccia ammenda. Quest'ultima cerimonia, che si cele­ brava una volta all'anno, concludeva con una distribuzione di cotone greggio (kafhina) e di tutti gli abiti che erano stati donati alla Comunità durante la trascorsa annata. A queste scarse cerimonie e ad onori tributati molto mode­ stamente ai luoghi santi (Kapilav à stu, ove nacque il Bud � dha, Buddhagaya (o Bodhigaya) , ove egli ebbe la rivela­ zione, Ka s ì (VadiQ.asi o Benares) , ove egli predicò per la prima volta e Kusinagara (Kusinara) , ove egli trapassò nel nirv:IQ.a) · si riduceva tutto il culto nel Buddhismo primi­ tivo. Più tardi si aggiunsero a ciò i pellegrinaggi , permessi in punto di morte dal Buddha, che ben si rendeva conto dell'importanza di un minimo di cerimonie per mantenere viva la fede ed il ricordo della sua dottrina, le onoranze tributate ai luoghi ove sorgono templi (caitya, cetiya), tu­ muli (stU.pa, thupa) e cappelle ( dhatugarbha, dhlitu-gabbha), in cui sono state racchiuse le reliquie (ossa, denti, capelli, unghie, eccetera) del Buddha. Si è sempre raccomandato, però, di non ravvisare alcunché di divino in detti monu­ m enti, il compito dei quali era semplicemente quello di « ricordare ,> o risvegliare la fede nei Tre Gioielli. Ma, di là da queste manifestazioni esteriori , volendosi precisare l'essenza del culto buddhista, bisogna dire che esso consiste soprattutto nella meditazione (dhyana, jhlina), la quale, come nell'Induismo, non è già uno sceverare razi o nale oppure un alambiccare circa un oggetto : una voi65

ta arrestato il flusso dei pensieri, delle associazioni men­ taJ i , dei sentimenti abituali, delle sensazioni ed impressioni sensorie, la meditazione inizia col focalizzarè la mente su una particolare verità (per esempio il pratityasamutpiida), o ciascuna delle Quattro Nobili Verità ( arya-satyani) , fino al punto di intuirne il significato profondo, trans-razionale, raggiungendo una immedesimazione con l 'oggetto deila me­ ditazione stessa . Ciò, Q.aturalmente, è yoga, nel vero senso della parola. Il Buddhismo dovette la sua prima fortuna, molto probabilmente, al fatto che era considerato dai contemporanei del Buddha come una forma di yoga più pratico ed efficiente. Si badi bene, però, che questa medi­ tazione non ha nulla di astratto, secondo l'accezione occi­ dentale del termine, bensì culmina in una forma estrema­ mente concreta, vivente ed immediata di percezione intui­ tiva, che tradurremmo come « enstasi » piuttosto che co­ me « estasi » . La meditazione f a convergere in u n punto solo, secon­ re do ·pàrole del Budaha, t costddeft1 « sette filttori del­ l'Illuminazione >> � -(bodhy-anga, b ojjanga), i quali sono : l ) consapevole�a (smrti, sa ti) ; 2) rofonda investigazione ener­ cìrc·a i l Dharma (Dharma-vicaya, Dhamma-vzcaya ; � ensare (virya, viriya); 4) gioia pr�a prit i, pz t z ; �e_te (prasiintatli, pasaddhi); 6)_co n c � zione (samadhi), 1a quale « permette alla mente di ve ere 'leèose come realmente sono »; 7)'inhne, equanimità e neu­ trlilita nspetto alle im ressi ni atarassza """(u pe k ?a, upe k­ k a . Par an 1 questi sette bodhy-anga il Buddha, prima di spiegare il significato e lo sviluppo di ciascuno, disse : « O monaci, proprio come in un padiglione, sormontato da un tetto aguzzo , tutte le travi di sostegno tendono ver­ so la cima, si uniscono nella cima, e di loro tutte la cima è ottima meta, così pure, o monaci, colui il quale coltivi e rinvigorisca i sette fattori di I lluminazione ascende ver­ so il nirvii11-a, è incline al n irvll1Ja, tende verso il n i r vii'IJ a » . In particolare la consapevolezza (smrti, s a ti) sembra essere la chiave di volta di questo processo di approfondimento interiore. L'asceta prende consa evolezza e, letteralm « si sveglia >; · 1 nguar 1 i tutti i processi is1c1,�i , p s ichic i'e mentah, che operano nélla sua�a , fino a ·



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p �epirne � concretamente » la radicale alterità r�_!.!.2. a ciò che e· h pnf inti e , egli e è . Co fronca ogni impulso di brama verso il mondo, sino al punto di estinguere in sé· sia l 'oggetto del desiderio sia il soggetto che lo desidera, cioè l 'ego, quell'io transeunte e vitale che, come insegna il Buddha, consiste non già in un'entità reale, ma nella coalescenza dei già detti cinque skandha (khanda) : forma (rapa), sensazione soggettivata (vedanll), ideazione (samjiia), attitudini ed energie istintive ( sa1'}1s kara) ed infine la coscienza (vijiiana), ove queste si individuano e prendono forma. Considerata la personalità umana principalmente come un fatto coscienziale il Bud­ dhismo , sin dai tempi del suo Fondatore, ha diretto la sua -� t nzion l fenomeno-pensiero, sviluppando un gran nu­ mero i tecnic e sott1 i e ra ma e per omarne i_ mo!j_ inc nsulti e cogliere il punto in cui , e im ulsi in�a.!.LQ. per a 1m semicoscienti, si generano e si svilupp!,._n o tu � azion p ologfche-cfi�fiin n al a e de la realtà, mentre, al ' tempo stesso, danno luo o a deformazioni animiche �te cosiddette vlls a­ na, « complessi ») , c e o mo al limite fisico, con­ ducendo a neurosi e malattie . Pertanto, nel Buddhismo, la disciplma morale è assolutamente secondaria e condizio­ nata al dominio del pensiero, _centro della persona co­ sciente. Ciò spiega, almeno psicologicamente, come i Bud­ dhisti primitivi avessero una marcata avversione per ogni forma di astratto filosofare, cioè di aggiungere esterior­ mente alla realtà, già difficile ad afferrare nella sua essen­ za, altre costruzioni puramente mentali . Inoltre, da quanto si è esposto circ;a la dottrina originaria del Buddha, appa­ re evidente che per lui e per i suoi seguaci la realtà mon­ dana risulta sprovvista di qualunque fondamento con­ creto : essa è, per chi la sperimenta, un mutarsi continuo di forze psichiche, i cosiddetti dharma (da non confondersi con l 'omonimo Dharma, cioè la Dottrina, la Legge per eccellenza) , che sono di sostegno (la radice dhr significa appunto « sostenere ») , o di substrato, alle percezioni sen­ sibili, ai movimenti mentali ed ai loro riflessi, sui quali si tesse la nostra vita cosciente . Il Buddha, infatti, non am­ mette una sostanza spirituale eterna, ciò che lo distingue



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dagli altri sistemi che pure affermano la serie indefinita delle rinascite. Al posto di questa sostanza spirituale eter­ na, il Buddhismo pone come base dell'esistenza la conti­ nuità, il flusso (santèina) dei dharma nascenti e disparenti, l 'un l 'altro connessi dal karman. In questo santana consi­ ste anche la personalità umana, la quale « . è simile ad una vettura consistente di parti diverse, come il timone, le ruote, il telaio eccetera, e che altro non contiene che queste, o simile ad una fiamma che, ad ogni istante, con­ suma nuovo combustibile ... » . I n altri termini, l'Io empi­ rico, per i buddhisti, è una unità funzionale di elementi concomitanti continuamente rinnovantisi, fino alla morte, quando, cioè, il karman accumulato proietta nella futura vita una nuova aggregazione di cinque skandha. A questo perenne riformarsi della personalità empirica pone fine il nirviir,za, che estingue i l karman, causa prima della aggre­ gazione degli skandha. Pertanto i dharma, gli elementi minimi ai quali si può ridurre la realtà, furono raggrup­ pati, nel corso delle prime sistemazioni filosofiche, non secondo le diverse caratteristiche essenziali loro proprie, bensì secondo gli skandha, cioè agli elementi della persona­ lità umana con i quali vengono in rapporto : al rupa­ skandha appartiene quanto è oggetto di vista ed udito ; al vedana-skandha la sensazione e gli oggetti della medesima; al samjiia-skandha le percezioni, l 'atto di distinguerle e l'ideazione ; al vijnana-skandha l 'atto di divenire coscienti ; al sarrzskllra-skandha l 'insieme dei fattori di vita la cui esi­ stenza è condizionata (sarrzsk rta-dharma) : di là da questi ultimi, incondizionati (a-sarrzskrta), sono il nirva1J.a e l 'ete­ reo spazio (akasa), concep ito, quest'ultimo, non tanto come lo spazio fisicamente riempibile, bensì come la sede ideale in cui si individua l 'esperienza del vuoto. Come si può osservare, la classificazione dei dharma non segue il criterio di rigida obiettività, e ·quindi di sepa­ razione assoluta, fra categoria e categoria, come avverreb­ be in un sistema filosofico occidentale. Le classi dei dharma sono inter-permeabili e la loro assegnazione ad una categoria o ad un'altra dipende dalla loro diversa assunzione da parte del soggetto. Ciò dipende dal fatto che, in fondo, il Buddhismo , pur negandole un fondamen.

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to di assoluta realtà, considera valida la sola esperienza soggettiva, quella, cioè, che si dispiega sullo scenario inte­ riore della coscienza individuale, ed è a questa che rivolge la sua pratica. Un'altra classificazione dei dharma, che a noi appare più gnoseologica che ontologica, è quella ammessa dal Cànone che, all'interno degli s kandha, li divide, secondo la loro funzione nel processo della conoscenza, nei dodici iiyatana, o « basi » della conoscenza stessa. Essi sono i sei aya tana interni, 'cioè relativi al soggetto empirico, ripartiti nei cinque sensi più il pensiero, come loro coordinatore oltre che senso a sé, ed i sei iiyatana es terni, comprendenti gli oggetti dei . cinque sensi e del pensiero , concepiti più o meno come i tanmatra del Sailkhya. La classificazione dei dharma in ayatana interni ed esterni coincide parzialmente con un'altra classificazione ancora, quella secondo i dhatu, sfere di azione o elementi fondamental i . I dhatu, che sono diciotto, oltre a compren­ dere le dodici classi già menzionate come ayatana, ne ab­ bracciano altre sei, rappresentate dalle facoltà di vedere, udire ecc . , che corrispondono più o meno ai karmendriya del Sailkhya. Estin ue dosi col nirva'I'J.a il karman, sia quello cattivo che que Ùo buono (l'asceta abbandona anche l 'attaccamm to alle azioni meritorie così « come colui che ha traghet­ tato un fiume abbandona la zattera che gli ha permesso di attraversarlo, e non se la porta seco per monti e per val­ li . . . » ), viene a mancare il rapporto di causa-effetto �cui la personalità transeunte dell'uomo è responsabile.�. e così pure svaniscono i dharma i quali, si ripete, esistono solo in grazia ad una sussunzione personale . Quindi, sin dal principio , il Buddhismo, perfettamente indifferente ai pro­ blemi di filosofia « fisica » , risolve il mondo e l 'esistere nel mondo nell 'insieme dei moti della coscienza sogget_tiva mentalizzata. Ma sarà proprio per questo motivo, nono­ stante la sua avversione iniziale per ogni forma di specu­ lazione, che il Buddhismo svilupperà, molto paradossal­ mente, una formidabile metafisica, cercando di stab ilire come il mondo nasca dalla mente ed in questa possa risol­ versi. Per ragioni analoghe, nonostante la sua a-religiosità

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fondamentale, il Buddhismo darà luogo a numerose, arti­ colate e - secondo il punto di vista occidentale - com­ plicate forme religiose, appunto perché infinite sono le forme divine in cui lo spirito, che è il soggetto dell 'espe­ rienza religiosa, riconosce i momenti e le energie del suo stesso divenire . L'evoluzione in senso metafisico-religioso del Buddhismo, che condurrà alla creazione del Mahayana , si preannuncia proprio nel corso dei successivi concili i . Il concilio a Vai�ali, tenuto probabilmente nel 367 a . C . , fu originato da una banale questione di disciplina frate­ sca. Yasa�, vecchio discepolo di Ananda, trovò biasimevoli una decina di innovazioni adottate dai monaci di Vaisalf, i quali, come tutta risposta, lo esclusero dalla propria comunità. Egli, allora, fece convocare un concilio ge­ nerale per giudicare la questione, ed a questo partecipa­ rono settecento monaci che, nella loro maggioranza , gli diedero ragione. Secondo le cronache posteriori , special­ mente singhales i , i monaci ribelli, detti Vrjjiputraka (Vajjiputtaka, appartenenti al paese di Vrjji) , riunirono a loro volta un contro-concilio, che diede luogo allo scisma cosiddetto dei Mahlislinghika (« Quelli della Grande Comu­ nità ») . Sia come sia, è certo che un monaco di Mathura (dipinto dai testi ortodossi a colori molto foschi) , procla­ matosi arhant a Pataliputra, ove si trovava di passaggio , diresse i locali monaci mahasiinghika, suoi adepti, ponen­ do in minoranza i cosiddetti « Vecchi » (S thavira, Thera}, in una discussione riguardante cinque punti pratici : l) un arhant, pur con tutta la sua santità morale, può essere soggetto ad atti « diabolici » , come fatti fisiologici incon­ trollati ; 2) non è totalmente Illuminato, in lui esiste anco­ ra un residuo di ignoranza; 3) così pure può avere dubb i ; 4 ) può acquistare l a conoscenza s u un fatto particolare con l 'aiuto di un altro ; 5) può denominare con parole l 'inef­ fabile Via conducente alla Salvazione . La divisione fra S thavira, i « Vecchi » seguaci della pura disciplina del Buddha, e Mahasanghika, che si ritenevano interpreti di una più ampia corrente popolare (mahii, grande, sangha, comunità) , si andò sempre più approfondendo. La prima corrente può essere considerata come l'impulso centrale dello Hinayana, la seconda, invece, si trasformò, col pas-

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sare dei secoli , nel Mahayana. In quest'ultima corrente si fece sempre più sentire la necessità di attribuire al Bud­ dha una personalità sovraterrena (lo kot tara), fuori del tempo e dello spazio, inalterabile, omnisciente eccetera, la quale, di tanto in tanto, si incarna tra gli uomini per rivelare loro il Dharma, che è la loro vera origine, traen­ doli dal sarrzsara, al quale tendono incessantemente ad identificarsi a causa della grande Illusione, la Maya, di cui si è già parlato. Non basta : secondo questa corrente, il Buddha, come fenomeno primordiale (Adi-Buddha, « il Buddha originario ») , oltre a poter risiedere eternamente nella condizione inesplicabile ed inaccessibile del nirv l1r.z a, può contemporaneamente rendersi partecipe del divenire umano, rimandando indefinitivamente la sua realizzazione e restando nella condizione di Bodhi-sattva (« Colui la cui essenza è Illuminazione ») , fintanto che tutti gli uomini non siano stati liberati . Questo sacrificio del Buddha, che sotto un certo punto di vista lo assimila all'Uomo Cosmi­ co, il Mahli.-puru�a indù, apre vastissime possibilità di rea­ lizzazione religiosa, che il Mahayana condurrà ad estreme conseguenze . In primo luogo si affermerà il principio, to­ talmente inconcepibile nel Buddhismo primitivo, della Gra­ zia (adh i�!hllna, anugraha, praslfda) da parte dei vari Bodhisa ttva e dei Tathiigata verso l'umanità che in un modo o nell 'altro hanno il compito di salvare ; in secondo luogo si asserirà con crescente energia che tutti gli uomini sono Bodhisavattva in potenza, altrimenti non si potrebbe inverare per alcuno di loro la condizione di Illuminazione , cioè la · Bodhi! Con ciò, i Mahasanghika prima ed il Ma­ hiiyiina dopo rientrano nella grande corrente tradizionale indiana, dalla quale il Buddha s,e mbra distaccarsi, assieme al Jina, per la singolarità della sua realizzazione interiore, indipendente da maestri, testi e linee di trasmissioni ri­ tuali (sampradiiya). Nel capitolo successivo tratteggererpo i caratteri del movimento Mahiiyiina sotto il punto di vista filosofico, religioso e storico . Un altro scisma, che però restò compreso nelle scuole Hfnayana, fu quello dei Viitsfpu trfya, dal nome di un monaco del Kasmir, certo Vatsa, di origine briihma7J.a, il quale reintrodusse nel Buddhismo la nozione dello atman, 71

che questo aveva sin dal principio risolutamente negato , con la nota teoria dell'anat ta e dei cinque skandha (v . supra) . L'origine di questa, chiamiamola così, « eresia » , deriva dalla constatazione che, a parte i l fatto che la personalità egoica, illusoria, che noi chiamiamo « io » non è veramente un « io », ma un fascio di volizioni, sensa­ zioni, tendenze innate eccetera, ci deve pur essere una « persona » (pudgala) la quale sia la responsabile del karman, cioè di ciò . che di vita in vita successivamente si compie, e sia pure il soggetto del nirvii1].a. Cioè, chi è colui che esperimenta i l nirviil').a ? Se non ci fosse, se non esistes­ se la persona che lo compie, esso non sarebbe concepibile. Inoltre il Buddha stesso, in un suo discorso, disse testual­ mente che « il Tathagata è una persona reale » : se tale non fosse come avrebbe potuto apparire nel nostro mon­ do, sia pure irreale ? e, se il mondo è irreale, ci deve pur essere qualcuno che lo consideri o « lo scopra » come tale , essendo lui reale, realissimo ! Questi Pudgalavlidin, « Asser­ tori della Persona » , non ebbero un'importanza immediata , ma influirono sulla successiva speculazione filosofica , che nei seguenti concili si configurò, se non altro per combat­ tere gli attacchi che le provenivano dagli agguerriti am­ bienti tradizionali brahmanici. I l successivo · concilio avvenne in un momento estrema­ mente importante della stori.a indiana, e cioè regnante il primo imperatore storico indiano , il Maurya (Moriya) Asoka (Asoka) . Era costui nipote di quel generale Candra­ gupta che la storia ricorda come Sandnikottos , avversario e poi amico di Alessandro Magno . Quando Candragupta morì, nel 297 a . C . , gli successe il figlio Bindusara (296260) e, infine, il nipote A�oka (« il senza-dolore ») (260-236) , che concluse l 'opera del padre e dell'avo, fondatore della dinastia, conquistando con feroci guerre parte del Dek­ khan,il Kalinga (attuale Orissa) ed es tendendo i suoi domi­ ni fuori del l 'India geografica, negli attuali Afghanistan e Balucistan . Pare che le selvagge guerre da lui stesso con­ dotte, in particolare la conquista del Kaliriga , generassero profondo disgusto in A�oka, sicché, stanco di lotte e di stragi, egli si convertì poco per volta al mite messaggio del Buddha, convinto a -tale passo dallo sthavira Mogga72

liputta. Da quel momento, che si colloca storicamente nove anni dopo la sua consacrazione regale, cioè presumibilmen­ te verso il 250 a.C., fino alla fine dei suoi giorni , A�oka si dedicò instancabilm�nte alla propagazione del Dharma nel suo immenso impero, mandando missionari anche fuori del regno, in Asia Centrale, in Ceylon (che fu con­ vertita da suo figlio Mahendra, fattosi monaco) e nei re­ gni dei Diadochi greci, che governavano l 'eredità del gran­ de Alessandro, dall ' India nord-ovest fino all'Egitto . Non solo, ma sappiamo dai suoi 25 editti, scolpiti nella roccia ·e su colonne in una lingua medio-indiana (ne è stato sco­ perto recentemente uno da una spedizione italiana in Afga­ nistan, scritto però in greco ed in aramaico , lingua ammi­ nistrativa nella Persia antica) , che egli curò personalmente e minuziosamente la fondazione di numerosissime opere pie, di utilità sociale e pubblica e per il sollievo dei po­ veri e degli infelici, come ospedali, zoocomi, nuove strade alberate, apertura di canali di irrigazione, prosCiugamento di paludi, introduzione di nuove colture agricole eccetera ; emanò inoltre una legislazione straordinariamente mite e previdente, considerando la cura dei sudditi un mezzo per compiere le opere morali prescritte dalla Buona Legge. Ecco qualche esempio dei suoi editti : « Nella cucina del devoto re Piyadassi prima si ammaz­ zavano ogni giorno molte centinaia di animali per le mine­ stre. Ora, da che è emanato questo decreto religioso, si uc­ cidono solamente tre animali, due pavoni ed un'antilope : l 'antilope, però , non è fissa. -Ma, in avvenire, non si uccide­ ranno nemmeno questi· tre animali » (Editto 1) . « I l devoto re Piyadassi non tiene la fama e la gloria in conto di cose molto util i ; egli le desidera solo affinché il suo popolo, ora ed in avvenire, ubbidisca alla sua leg­ ge e secondo la sua legge viva ; per questo riguardo il devoto re Piyadassi desidera fama e gloria. Tutto quello per cui si dà premura il devoto re Piyadassi riguarda la vi­ ta futura : egli perciò si dà premura che ognuno si sottrag­ ga al pericolo. Ma il pericolo sta nel peccato » (Editto X) . « Il devoto re Piyadassi così dice : « Non v'è alcun dono simile al dono della Legge, nessuna generosità simile alla 73

generosità [ dell'insegnare] la Legge, nessuna parentela co­ me quella della Legge. Questo fa parte della Legge : bene­ volenza verso gli schiavi ed· i servi , · obbedienza verso i ge­ nitori, generosità verso i parenti e gli amici, verso gli asceti (buddhis ti) ed i. brahmani, il rispettare la vita di qualunque creatura . Si tratti di un padre o di un figlio o di un fratello o di un amico o di un conoscente o di un vicino, egli così dica : con ciò si acquistano meriti, ciò si deve fare. Se così si opera, ne viene contentezza in que­ sto mondo e nell 'altro se ne raccoglie merito infinito » (Editto Xl) (traduzione P . E . Pavolini, « Buddhismo » , Mi­ lano 1 898, pag. 95 e segg.) . Probabilmente mai regno godé, in epoca storica, di un governo così benefico, tanto più se si considera l 'enorme estensione dei possedimenti di Asoka . Cosa molto impor­ tante, e caratteristica del Buddhismo, mentre cercava di convertire i suoi soggetti alla Buona Legge, egli emanava severi provvedimenti legislativi contro qualunque forma di intolleranza o di oppressione verso diverse sette , con­ fessioni o religioni . Riteneva, non a torto, l 'esempio come il migliore strumento per la conversione. L'epoca di Asoka, detto anche Priyadar5in (Piyadassi, « dal Grazioso Volto » , probabile titolo ufficiale, come _ il nostro . « Sua Maestà » ) , segna il massimo sviluppo del tronco s thavira (thera) della fede buddhista, nonostante che, in seguito al concilio del quale si parla in seguito , avvenisse un'altra scissione fra gli adepti del Dharma. Questo concilio , fatto indire a Pataliputra da Asoka sotto la presidenza di Moggaliputta Tissa, avvenne in un'epoca che si può situare nel diciottesimo anno dalla consacra­ zione del re, cioè verso il 242-243 a . C . Esso fu dovuto alla necessità di regolare definitivamente la dottrina degli Stha­ vira, dato che numerosi eterodossi si erano insinuati nella Comunità, sicché gli altri monaci si rifiutavano di cele­ brare con loro la cerimonia dell 'uposa tha (v. supra).. Nel testo detto Kathavatthu (« Libro delle controversie ») , che è il terzo dell'Abhidharma, sono contenute tutte le refu­ tazioni con cui Moggaliputta condannò gli eterodossi. A questo testo venerando, che contiene in nuce la tradizione filosofica degli Sthavira, detti anche Vibhajyavlidin ( « det-

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tagliatori » , perché consideravano i problemi nei mm1m1 dettagli, denominazione che il Buddha applicava a se stes­ so) furono fatti numerosissimi commentari , fra i quali si estolle quello detto Visuddhimagga (sanscrito Visuddhi­ ma:rga, « Via: verso la Purificazione » ) , opera del celebre Buddhagho!;ìa, brahmaiJ.a dell 'India settentrionale che, con­ vertito al Buddhismo, meditò ed operò nell 'estremo sud,. nell'isola di Ceylon . La dottrina s thavira o theravadin verte soprattutto sulla definizione dei dharma innumerevoli, le combinazio­ ni dei quali producono i fenomeni dell 'esistenza empirica . Gli Sthavira non ricercano alcuna realtà nascosta dietro il molteplice apparire e combinarsi dei dharma . Questi, da soli, costituiscono tutta la realtà della nostra esistenza che , beninteso, resta illusoria e dolorosa finché non interviene il nirvlitza. Come conseguenza a tale punto di vista - e questo è la base fondamentale della loro dottrina - l 'esi­ stente per loro altro non è che tutto ciò che , nel momento p resente, produce un effetto, quindi anche ciò che è esi­ stito nel passato , ma che ancora non ha prodotto un effet­ to, come, ad esempio, un atto il cui karman non si sia ancora maturato e divenuto frutto . Gli S thavira classificano i dharma secondo tre grandi classi, relative alla loro sfera d 'azione : I) 28 dharma appar­ tenenti alla classe formale (rupa), fra i quali si contano i quattro elementi materiali, i cinque organi fisici sostegno ·delle percezioni (occhi, orecchie, naso, pelle, lingua) , le quattro forze materiali di base (coesione, repulsione, movi­ mento, calore) , la base fisica al senso mentale (hrdaya­ vastu, senso del cuore) , la forza vitale (jfvita), lo spazio (aka�a), il nutrimento (lihlira) ed altre facoltà e qualità umane ; 2) 52 dharma classificati come fattori psichici (caitasika, o caitta, pali cetasika), che comprendono tutti dharma immateriali che posson essere oggetto di coscien­ za; 3) la coscienza (citta), come pura conoscenza senza contenuto, la quale comprende 8 1 dharma condizionati più il nirvli1J.a. Dal punto di vista storico, il più grande evento nel Buddhismo resta senz'altro la conversione dell'isola di Ceylon ad opera di Mahendra (Mahinda) , figlio di Asoka, 75

conquista tanto più duratura in quanto questo è pratica­ mente l'unico luogo in India ove il Buddhismo Hinayana sia al giorno d'oggi seguito nella sua forma più pura ed originaria . La narrazione dell 'arrivo di Mahendra nell 'isola di Sirphala (�< la Leonina » Ceylon) è piena di miracolosi particolari, ma se pure questi sono il prodotto di pie leg­ gende posteriori , miracolosa è senza dubbio la totale ed immediata conversione del popolo e del suo re ad una reli­ gione recata da un principe straniero che parlava , almeno al principio, una lingua straniera. Il Dipavamsa (sanscrito Dv1pa-varrz$a, > (ibidem) . L'influsso greco si fece sentire per secoli, in India, sia nella letteratura (il dramma e certe forme epistolari di letteratura didattica risentono della moda greca) , sia negli usi amministrativi (la monetazione, per esempio) , meno nei costumi bellici, nonostante che le truppe mercenarie Yava­ na, prima greche, poi quasi certamente romane, avessero ·

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gran parte nelle lotte di quei tempi (nel Kerala i re Cera reclutavano veterani greci e romani", « dall'aspetto terri­ bile, robusti, dall'occhio duro ») , e soprattutto, molto sor­ prendentemente, nell'iconografia religiosa buddhista che, come si è già detto, è di origine puramente ellenistica, se non addirittura greco-romana. Non si deve inoltre dimen­ ticare che l 'astronomia indiana è di origine greco-caldaica ed un forte influsso ellenico si nota anche nella medicina . Intanto avvenivano, a partire dal IV sec. a.C., in Asia Centrale movimenti di- popoli destinati a modificare pro­ fondamente la fisionomia etnica dell 'Asia e, alla lunga, a .p rodurre le stesse invasioni barbariche dell'Impero Roma­ no. Dalle fonti cinesi possiamo ricostruire le complesse vicende che portarono all'espulsione, dall 'attuale regione del Kansu, di popolazioni parlanti linguaggi ario-iranici, misti ad una lingua indoeuropea occidentale (il tokhario) , chiamate dai cinesi Yiieh-chih. Questa cacciata degli Yiieh­ chih dalle loro sedi originarie avvenne ad opera di un complesso di genti nomadi, dalle origini male identificate (probabilmente proto-turche o paleo-siberiane mongoliz­ zate) , denominate Hsiung-nu (gli Hiina delle fonti san­ scrite e, quasi sicuramente, gli Hunni della nostra storia) , i quali, impotenti a penetrare nell 'impero cinese dei Ch'ing ( I I I sec. a . C .) e degli Han ( I I I sec. a.C. - I I I sec. d.C.) , rifluirono verso occidente, iniziando la lunghissima marcia (che doveva condurli ai Campi Catalaunici nel 450, mentre sospingevano innanzi a sé gli Yiieh-chih, che, nella zona fra lo I l i e lo Yssiq-Qul, alle frontiere dell'attuale Asia Centrale sovietica, andarono a cozzare contro un altro bellicosissimo popolo iranico, chiamato dai cinesi Wu­ sung, dai mongoli Asod, probabili progenitori degli Alani (giunti poi con gli Hunni in Occidente durante le invasio· ni barbariche) . Gli Yiieh-chih, vinti dagli Hsiung-nu e dai Wu-sung, furono costretti ad interrompere la loro marcia verso l 'occidente ed a volgere verso il sud. Dal bacino centro-asiatico del fiume Tarlm (che allora aveva un corso molto diverso da quello attuale e lungo il quale si snoda· va la famosa « via della seta » , conducente verso l 'Iran e l 'Occidente mediterraneo) e della Ferghana, gli Yiieh-chih espulsero le genti scitiche dette §aka (cioè i Sakoi noti 84

ai Greci, le orde nomadi dei quali giungevano in tempo antico fino alle attuali Russia meridionale, Bulgaria e Tra­ eia) . Gli S aka, sbalzati dalle regioni settentrionali, si get­ tarono sul regno greco-battriano che distrussero subito, indi prosegui rono, sempre tallonati dagli Ytieh-chih, verso il Sud, dove vennero a conflitto coi Parthi, nell'attuale Khorasan. I Parthi riuscirono a contenerli e ad indirizzarli , come loro vassalli, verso il S u d , ove si stabilirono i n gran numero nell'attuale Seistan (da Sakastan) . Non contenti della nuova sede, parte di loro penetrò, attraverso l'Afga­ nistan meridionale, . nel bacino dell'Indo, prendendo alle spalle i Greci che si erano stabiliti, come si è visto, nel Panj ab e nella zona di Tàxila. Questi si difesero a lungo, ma alla fine furono respinti nelle montagne dell'Afgani­ stan centrale e dell'India del nord-est (ancora in epoca moderna i capi di alcune remote valli, che uniscono l 'In­ dia all'Asia Centrale, pretendono di essere di discendenza macedone : tali sono i Mir del Badakhshan, spossessati nel 1822; i capi di Darwaz, Kulab , Shughnan e Wakhan nel Pamir e, dalla parte indopakistana, i principi del Chitral, Gilgit ed Iskardo; nell'Asia Centrale sovietica i Tungani di Y arkahd reclamano pure loro discendenza greco-mace­ done) . Comunque, i Greci scomparvero politicamente dalla scena nel trentennio fra 1'85 a.C. (presa di Taxila) ed il 55 a.C. (caduta di Hermaios , ultimo re della valle del Kabul) . Gli S aka ed i Parthi (Pahlava) , loro signori e con i quali erano misti, si affermarono per circa un secolo nel­ l ' A fganistan, nel Raj asthan e perfino nel Dekkhan, dove si andarono a rifugiare allorché crollarono di fronte alla nuova invasione centro-asiatica di cui si parlerà in seguito . I loro governanti regnarono su di una specie di confede­ razione feudale, dipendente politicamente dalla Persia; fra loro, oltre a Maves, vincitore di Hermaios, Azes l , Azilises ed Azes I I , si ricorda Gondophares, celebre per la leggenda di S. Tommaso che, dopo averlo visitato, andò, secondo la tradizione, a morire nella lontana Mathura. Data la loro dipendenza dai re parthi, i monumenti e le cronache india­ ne li ricordano come gli K�aharata, cioè i Satrapi del Gran Re. La loro dinastia, dopo un periodo di decadenza, si riaffermò con Ca� tana, fondatore di un regno ad Uj j ain, 85

che successivamente dominò il.. Malva, il Raj iisthan meri­ dionale, facendo sentìre la sua influenza fino a sud del­ l'attuale Bombay. Nell'ultimo secolo di vita della dinastia (295-395 d.C.), questi Satrapi, già totalmente induizzati ( a i loro sovrani si deve il risorgere del sanscrito come lin­ gua letteraria ed ufficiale ! ) , essi riconobbero la sovranità dei Sassanidi di Persia, secondo quel destino di sogge­ zione all'influsso iranico che sembra essere la costante storica dell'India occidentale, dal tempo degli Achemenidi fino ai Moghul ed al PakisHin attuale. Su questo complicato mosaico etnico e religioso abbia­ mo dovuto indugiare per palesare gli influssi politici e reli­ giosi ricevuti nell'ambiente indiano, da popolazioni fino allora poco conosciute. Questi eventi si rivelarono, in un certo modo, provvidenziali per il Buddhismo, non solo perché questo assorbì dall'ambiente, che possiamo appros­ simativamente definire greco-iranico, un numero di con­ cezioni che compariranno nel Mahayana, allora in for­ mazione, mà anche perché, da allora in poi, fino alle gran­ di invasioni musulmane , la via fra l'India, l 'Asia Centrale e la Cina restò aperta ad un flusso ininterrotto di correnti culturali, artistiche e religiose, nonché mistiche, sull ' onda delle quali la civiltà buddhista e, in parte, le forme del pensiero indiano giunsero dalle steppe dell 'Asia Centraìe fino agli ultimi lidi dell'Estremo Oriente, diffondendo , assieme al nuovo Verbo religioso, un nuovo tipo ideale di essere umano, che venne accolto da civiltà diversissime, quali quella cinese, coreana, giapponese, tibetana e mon­ gola, birmana ed indocinese. Si deve, in ultima analisi, all'intraprendenza guerriera di questi incolti barbari scito­ iranici , dietro ai quali già si affacciavano le più inquie­ tanti orde turche e hunne, se buona parte dell 'Asia ha accolto ed assimilato un particolare impulso spirituale, quello buddhista, che ne ha plasmato, in buona parte , la fisionomia attuale. Fra le valanghe barbariche che dalla decadenza dei Maurya in poi scesero sull'India, ebbe la massima impor­ tanza quella degli Yi.ieh-chih, che, già installatisi nella Battriana, ripresero l'avanzata sotto il re Kujula Kad­ phises (verso il 30 d.C.) , capo di uno dei cinque popoli 86

che formavano quella nazione, i Ku�ana, identificab�li pro­

babilmente con i Tokhari dei quali · si è già parlato. Questo re attraversò lo Hindilkus h, si impadronì di Kabul e pas­ sò in India, dove si arrestò all'Indo. Suo figlio, Wima Ka dphises, estese il dominio ku�ana fin nel cuore dell'India . tradizionale, ponendo la sua capi­ tale nella città sacra di Mathura. L'impero ku�ana, con le sue due facce, l 'una rivolta verso l'India e l'altra verso l'Asia centrale (allora quasi totalmente popolata da tribù i raniche) , raggiunse il suo apogeo con Kani�ka, che regnò probabilmente fra il 144 ed il 1 67 d.C. Egli conquistò il Kasmir e fece riconoscere il suo dominio fino nel Maga­ dha; di là dal Pamir le sue truppe conquistarono Ka�gar e Khotan, giungendo quindi presso le frontiere orientali del­ l'Impero cinese, l'attuale Hsin iang. Con i successori di Kani�ka, cioè Vasi�ka, Huvi�ka I, Kani�ka II e VasudevaJ (2 1 7-244) la dinastia perse i territori transindiani e finì per induizzarsi completamente. Prima di giungere a questo punto, fatale per tutti i popoli che invadono l'India, i Ku�ana svilupparono una civiltà propria di caratteri com­ positi, ave si incrociavano gli influssi più disparati, da quelli iranici a quelli greci (sotto il loro dominio giunge alla massima fioritura l'arte indo-greca del Gandhara) , a quelli locali indiani, a quelli centro�asiatici, che :recavano lontane risonanze cinesi . La monetazione ku�ana dà una immagine fedele di quella che dovette essere la civiltà di quell'impero . Vi sono monete di tipo augusteo, denari aurei con scritte greche o saka o medio-indiane (prakrta) , scritte in alfabeti diversi : greco, kharo�thi e brah�i, con le titolature tradizionali di diversi popoli e dinastie. Ka­ ni�ka I l , ad esempio, sfoggiava perfino il titolo romano di Kaisara (Caesar) , oltre a quelli indiani di maharaj a (imperatore) , tradata (salvatore, calco del greco soter) , quello iranico di sahinsah (re dei re) eccetera. I Ku�ana, come dinastia o clan dominante un variopinto impero, avevano praticamente accolto tutti gli dèi e le religioni déi paesi dominati, oltre, naturalmente, a conservare i propri, ciò che evidentemente preparò quel sincretismo religioso che caratterizza il Mahayana nella sua parte devozionale e cultuale. 87

In quei tempi di guerre, tumulti ed avventure, si estol­ le la persona di Kani�ka , specialmente perché, sotto il suo regno, che le storie buddhiste ci rappresentano come quello di un secondo Asoka, ebbe luogo il quarto ed ulti­ mo concilio pan-buddhistico, quello di Jalandhara, nel Kasmir, .in un luogo detto �açlarhat-vana (Foresta dei sei Arhant, attuale Harvan) . Non è molto probabile che Kani­ ska fosse buddhista; la sua instancabile azione guerriera e l 'apparecchio barbarico della sua persona non lo ren­ dono molto credibile (ci resta di lui una statua acefala, che lo rappresenta vestito ed armato con due spade, alla moda scitica) . Probabilmente venerava e rispettava egual­ mente dèi, miti e religioni del suo grandissimo impero (sulle sue monete, oltre all'immagine degli dèi indiani , compaiono quelle di Herakles , Helios, Selene, Serapis , Dea Roma eccetera) , ma non è da escludere che abbia patrocinato il concilio di J alandhara ed è quasi certo che abbia protetto il grande poeta buddhista Asvagho�a. auto­ re del Buddhacarita (« l 'Avventura del Buddha ») , uno dei primi esempi, oltre tutto insigne, di letteratura buddhista non in vernacolo medio indiano (priikrta), bensì in sanscri­ to, l 'antica lingua classica che p roprio in quei tempi barbarici iniziava la sua rinascita, ma che conoscerà il suo massimo splendore durante la successiva dinastia na­ zionale indiana dei Gupta (320 d.C., - VI sec. d.C.) . Al concilio di Jalandhara, la separazione ed irriconcilia­ bilità dottrinale (con tutta la reciproca tolleranza, carat­ teristica delle diverse fedi degli Indiani) , fra le varie sètte buddhiste, è un fatto compiuto. La chiesa Sthavira pare non prendesse neppure parte al concilio. Tale occasione segnò soprattutto il sopravvento della scuola Sarvlistivli.din su tutte le altre Hìnayli.na, ciò che è abbastanza compren­ sibile : essa era l 'unica che potesse opporre, col suo Abhidharma sanscrito, un'organica costruzione filosofica e metafisica alla speculazione brahmanica, che in quei tem­ pi sviluppava i suoi grandi sistemi filosofici e religiosi, riguadagnando il terreno perduto nei secoli precedenti . Nel concilio suddetto parteciparono cinquecento a rhant che, sotto la direzione di Parsva, redassero il « Grande Commento » , o la « Grande Opzione » (Mahli.vibha�a) al88

l ' Abhidharma, donde la denominazione di V aibhii§ika, sino­ nimo di Sarvas tivadin, a cui si è rapidamente accennato nelle pagine precedenti, o piuttosto allo Jfiiiprasthiina (i b i­ dem) . Con quest'opera, che abbraccia le opinioni dei mag­ giori maestri della scuola, opinioni accuratamente com­ mentate, e con l'Abhidhar-makosa (Il Tesoro di Metafi­ sica) di Vasubandhu, lo Hìnayana raggiunge il culmine del­ la sua speculazione, alla quale ben poco gli resta da ag­ giungere. Sullo scenario del Buddhismo indiano ed extra­ indiano si affermeranno con crescente influenza, da allora in poi, le scuole e le sètte del Mahiiyllna, che rapidamente ridurranno lo Hinayana al suo dominio meridionale, ove ancor oggi sopravvive. Ma, prima di trattare il Mahliylina, che sarà oggetto del prossimo capitolo, spendiamo due parole per una sètta derivata dai Sarvlis tivlidin, la quale, formata da monaci emigrati dal Kasmfr nel Gandhara, rifiutò I'Abhidharma dei suoi confratelli e la relativa Vibhli$ii, appellandosi alla pura e semplice parola del Buddha come è s tata tramandata dai sutra, donde la loro denominazione di Sautrlintika ( « Coloro che poggiano sui S ii.tra) . Questi Sautrlin tika, guidati da Kumaralata, uno dei « Soli » della religione, sostenevano che gli « aggre­ gati » (sarrzsklira) dei dharma, con cui la realtà ci appare sia fisicamente che psichicamente, non sono suscettibili di « spostamento » (sarrz kranti) nel tempo e nello spazio, mantenendo una propria-natura (svabhavana). Essi appaio­ no, pertanto, solo istantaneamente in ogni momento ( k�a 'J a) per resuscitare immediatamente nell'istante se­ guente : esiste, però, un quid psichico che è il « movimen­ to » (gati) e la manifestazione esteriore corporea (kiiya­ vijfiapti), due fattori che suscitano la forma motrice (l'ele­ mento-vento della cosmologia indiana, Vayu) , la quale ri­ produce altrove il nuovo « aggregato » che succede al pre­ cedente. Tale concezione ha lo scopo di conciliare l 'impos­ sibilità teoretica del movimento (sia fisico che ideale, necessario alla relazione causa-effetto) con la constatazio­ ne del fatto che prati.ca m ente avviene il movimento. La scuola Sautriintika, che si occupò attivamente di questioni di psicologia, affermava, sul piano pratico, che la « forma carnale del cuore » (hrdaya-marrzsa-riipa) conserva, durante 89

gli esercizi di arresto del pensiero (sonno, estasi eccetera) i germi per il suo ritorno dopo l 'esercizio. Detta scuola ha così approfondito non soltanto gli studi relativi al rappor­ to causale fra azione ed effetto, ma anche quelli relativi al permanere della continuità di coscienza, situata psico­ fisicamente « nel cuore » di là dalle interruzioni dovute a cause varie. Di queste dottrine empiricamente affermate dai Sautrlintika si gioverà, qualche secolo più tardi, la scuola Yogliclira appartenente al Mahayiina. Dopo lo sviluppo della scuola Sarviistivlida, lo Hmayii­ na sembra poco per volta raccogliersi e, in un certo modo, immobilizzarsi nelle dottrine che erano state già teoriz­ zate dagli S thavira. L'impulso missionario del Buddhismo non gli apparterrà più : sarà grazie al Mahliyiina che il Buddhismo si estenderà su tutta l'India settentrionale c ne valicherà i confini verso l'Asia Centrale, la Cina ed il t ibet, approfittando delle circostanze politiche, per cui province settentrionali dell'India si trovavano frequente­ mente sottomesse a popoli e dinastie che contemporanea­ mente con�ervavano il dominio sulla loro sede originaria fuori dell 'India (Asia Centrale, Bactria, Iran eccetera) e con essa mantenevano rapporti regolari e costanti. A favo­ rire questa situazione si aggiungeva il fatto che per secoli fiorirono lungo la Via della Seta, nel bacino del Tarim, una serie di piccoli regni vassalli ora della Cina, ora degli Indosciti, cioè dei Ku�ana, ora alleati dei lontani Parthi , indi dei Sasanidi di Persia, nei quali si parlavano diversi idiomi iranici (più tardi sostituiti da lingue turche) ; questi regni svilupparono una brillante civiltà, nella quale con­ fluivano elementi spirituali indiani, i ranici ed ellenistici . Questa sarà la zona di espansione e di missione del Maz­ aeismo, del Manicheismo e del Nestorianesimo provenien­ ti dalla Persia e dalla Siria; ma, prima ancora, sarà un vero e proprio focolaio di Buddhismo e di altre forme del­ la civiltà indiana, che, dal I al V sec. d.C . , penetreranno di là nel prossimo I mpero cinese, proprio quando esso, sotto gli Han, compiva fortunate azioni di conquista verso il lontano Occidente, tentando di congiungere le sue fron­ tiere a quelle dei Sasanidi di Persia. 90

I I PARTE IL MAHAYANA ED I SUOI ORIENTAMENTI FONDAMENTALI Col Mahll.ylina si può realmente cominciare a parlare di « religione » buddhista. Si tratta, però, di un fenomeno complesso, nel quale elementi filosofici e religiosi si sono andati l 'un l'altro agglutinando, nel corso dei secoli, in seguito a circostanze storiche ed ambientali. Come il nome stesso suggerisce (Mq.ha-ylin a, « Grande veicolo » ) , esso vuole essere, almeno come principio, un mezzo di salvezza più ampio che la ristretta ed aspra via ascetica additata dallo Hina-ylina, un sistema, cioè, più adatto alle diverse disposizioni psichiche dell'uomo verso l'Illuminazione. Ciò giustificherà, nei secoli successivi, le forme e gli atteggia­ menti religiosi che il Mahayana assumerà. Come già si preannunciava nell 'eresia dei Mahasm:zghika, della quale si è parlato precedentemente (p . 70) , i l Mahiiyii­ na pretende di estendere i benefici del Dharma fuori della ristretta schiera degli Arhant, i quali, in vita, non dimo­ stravano incontrovertibilmente di essere già dotati di quel­ la perfezione assoluta tale da condurli senza dubbio al nirvii.tza dopo la morte. Alla pratica diversità di mezzi per la salvezza a seconda degli uomini, denotata col nome di upii.ya-kau�alya (« abilità nella scelta del mezzo ») , il Mahii.­ yll.na aggiunge un insieme di teorie del Buddha, una bud­ dhologia atta a spiegare come in una creatura, già conç:li­ zionata dalla serie delle morti e delle rinascite anteriori, come era lo Sakyamuni, potesse improvvisamente sboccia­ re, in seguito ad uno sforzo compiuto vivendo nell'esisten­ za illusoria sulla terra, quell 'elemento eterno ed immaco­ lato che è la Bodhi, l'Illuminazione. La Bodhi, insegna il Mahaylina, è la vera essenza di colui che conosciamo come 91

il Buddha, e non già il nirvl11J.a, cioè l 'estinzione, che è la « condizione limite » in cui la Bodhi pienamente si invera . I l « vero » Buddha, in quanto persona che realizza la Bodhi, è di là dal tempo e dallo spazio, anteriore, anche metafisicamente, alle personalità storiche, i successivi Manu�ì-Buddha, o Buddha umani, attraverso i quali, di ciclo in ciclo, Esso manifesta la sua inalterabile essenza, secondo le modalità di volta in volta adatte ai nuovi tem­ pi. Queste diverse modalità in cui si può esprimere la suprema liberazione, sono nel Mahliyana simboleggiate da un insieme di figure archetipali (da cinque a otto) , q ette i Tathagata (« i così-venuti ») , dei quali si discorrerà in seguito . Abbiamo quindi già, sul piano metafisica ed allo stesso tempo religioso, una distinzione fra il « feno­ meno-primordiale » del Buddha, lo Adi-Buddha (il « Bud­ dha primordiale »), che è personificazione eterna dd Dharma, o Dharma-kaya, ( « corpo del dharma») e le sue principali cinque energie e manifestazioni cosmiche, i Tathligata. Ma il punto in cui il Mahliyana esprime com­ piutamente la sua originalità rispetto allo Hinayllna (seb­ b e ne la teoria sia già in questo adombrata) , è nella dottri­ n a del Bodhi-sat tva (« Colui la cui essenza è illuminazio­ ne ») . Questi è un Buddha in potenza, il quale rimanda indefinitivamente la sua liberazione nel nirvli1J.a fintanto che tutti gli uomini non siano stati redenti dal Dharma, oppure, più realisticamente, finché egli non abbia compiu­ to totalmente la missione affidatagli per quel particolare ciclo storico oppure evo cosmico . La quale missione consi­ ste nel p reparare l 'atmosfera spirituale della Terra alla predicazione del Dharma da parte di un particolare Bud­ dha umano, riguardo al quale il Bodhisattva funge da pre­ cursore e da protettore, su un piano di « comunione » spirituale (il saY]'lbhoga-kaya, o « corpo di partecipazione ») . Il Buddha fisico, vivente, discende invece fino al piano animico e corporeo (il nirmli1Ja-kaya, o « corpo di appari­ zione ») , assoggettandosi alle sue limitazioni ed esigenze, fino al momento del t rapasso, in cui si riassorbe nel nir­ vavà, avendo egli assolto alla sua missione. Il Bodhisattva, ancor più del Buddha, il quale, in fondo , impersona la sovrumana. astrazione del Dharma, è per il 92

Mahay71na aperto e soccorrevole alle infinite esigenze dei singoli uomini avviluppati nella rete del dolore, soggetti alla triplice impurità (mala, klesa) di brama (lobha, rliga, kama), disgusto od inimicizia ( dve�a) ed offuscamento mentale (moha), nascenti · dall'ignoranza (avid.yli) . Perciò, attorno alle figure dei vari Bodhisattva, ben p resto i denti­ ficati, assieme ai loro accoliti e sub-manifestazioni, alle varie divinità nazionali dei popoli presso i quali si diffuse il Buddhismo, si creò ben presto un culto appassionato, una vera devozione religiosa. Ciò si spiega perché il Bud­ dhismo non si preoccupò minimamente di scalzare le reli­ gioni preesistenti, ma le assorbì tranquillamente, confe­ rendo ai loro miti, talvolta, un significato filosofico che prima non avevano affato. Questo è il caso., ad esempio, del Ryobu Shinto (« lo Shinto dalle due facce » , che per dieci secoli invalse in Giappone, rimanendo Shinto per gli scintoisti e Buddhismo per i buddhisti) . Dove, invece, per ostilità .del clero locale, vi fu lotta, questa finì con la reci­ proca assimilazione (questo è il caso 9el Tibet, ove attual­ mente il Buddhismo è fortemente colorito di esperienze Bon-po ed il supertiste Bon-po è radicalmente buddhizza­ to) . In Cina, invece, l 'assimilazione del Buddhismo fu un fenomeno molto più complesso, perché ivi esistevano , oltre ad una religione popolare, almeno due sistemi filosofici, il Confucianesimo ed il Taoismo, con valore religioso e sociale, e, nel caso del Confucianesimo, addirittura ammi­ nistrativo. Ma anche qui il Buddhismo trovò la maniera di adattarsi, assumendo ed interpretando secondo le pro­ prie categorie le esperienze mistiche del Taoismo (i Taoi­ sti credettero in un primo tempo che il Buddha fosse addi­ rittura un discepolo « barbaro » del loro maestro Lao Tzu ! ) e, allo stesso tempo, conferendo una struttura meta­ fisica al Confucianesimo (v. , in particolare, P. Filippani­ Ronconi, « S toria del Pensiero Cinese » , Torino 1 964) . La concezione salvatrice dei Bodhisattva, veri e propri dèi buddhici, implicò naturalmente il concetto che da loro possa emanare una grazia liberatrice, indipendente dal merito e persino dal demerito acquisiti dal fedele. Dal­ l 'altra parte, il fedele assume nei riguardi dei Bodhi­ sat tva quell 'atteggiamento di bhakti, o devozione amorosa, 93

che abbiamo visto prevalere nelle religioni indiane. La dottrina religiosa del Buddhismo mahay 'ana si sviluppa, quindi, non tanto da un insieme di teorie filosofiche , quanto da una necessità popolare della Buona Legge, che si attendeva anche l 'appagamento delle sue esigenze emo­ tive, devozionali, oltre all'indicazione di una disciplina liberatrice. Ora, lasciando da parte le mistiche esperienze ed i miti religiosi connessi alle figure di questi Tathagata e Bodhi­ sattva, che verranno trattati nei successivi capitoli, con­ viene soffermarsi sugli elementi dottrinali, tradotti in linguaggio filosofico, sui quali si basano le teorie del Mahiiylina. La dottrina centrale è la cosiddetta « teoria del vuoto » (sunya-viida), che troviamo prefigurata già nei testi Hinayana, specialmente nel Majjhimanikayo (I I I , pag. 1 04 segg.) . Questo testo insegna che ciò che è « privo di Sé », che non ha esistenza assolutamente autonoma , è « vuoto » . Tale, per esempio, è il mondo e le nozioni che uno si forma a suo riguardo. I l monaco, pertanto, deve distaccare il pensiero da tutte le cognizioni definibili . Abbandonando per esempio il pensiero « villaggio » o, « uomo » , concepisce l'idea della foresta; abbandonando anche questa nozione occupa la sua mente col pensiero « terra » ; abbandonando anche questa idea pensa allo spazio infinito ; compie lo stesso processo con le nozioni dell 'infinità dello spazio, indi dell'infinità della coscienza che lo concepisce, abolite le quali raggiunge a concepire ciò che sta di là da qualunque esistenza definibile , indi sospende il limite fra distinzione e non distinzione, fino a che egli resti spiritualmente concentrato su un « qual­ cosa > > privo di carattere ( a-lak�a1Ja). Allorché riconosce che anche questo qualcosa è un « quid » concepito oppure ·i mmaginato, lo abbandona e, nel « vuoto » (sii.nya) su cui il suo spirito paradossamente è concentrato, consegue l 'in­ teriore illuminazione, cioè la liberazione da ogni limite e da ogni concetto . Questo procedimento, come tutti quelli illustrati dallo Yoga e dei Tantra indù, non ha nulla di astratto, bensì è una riduzione « puntuale » del pensiero alla sua vera essenza, che è luce immacolata di coscienza, priva di oggetto perché in sé omnipervadente. Pertanto la ·

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bodhi, l'Illuminazione, è identica alla più intima essenza del pensiero « a sé » (non come attività . pensante rivolta ad un oggetto) : essa è l 'inesauribile scaturigine .di tutte le illusioni-realtà (miiyO.), che il pensiero trascende, pur dan­ do loro coesione e quindi significato . Ma il « luogo » , se così vogliamo chiamarlo, in cui questa Illuminazione si individua, è il « vuoto assoluto » ( ati-�unya), altrimenti ci sarebbe qualcosa di « altro » rispetto a lei, ciò che lede­ rebbe il principio della sua solitudine, della sua assolu­ tezza. Questo vuoto - relativo od assoluto -, più che la negazione, è l 'abbandono di qualunque concezione riguar­ dante l 'essere e l 'esistere, non solo, ma si pone di là dalle nozioni, perfino, di sarrzsara e di nirvava, in quanto queste vengono ad esistere per contrapposizione reciproca. A mitigare questa vertiginosa teoria del vuoto meta­ fisico, in cui ogni realtà si dissolve in un effimero riflesso di pensiero, il Mahayana accentua quello che è l'elemento della volontà attiva, traducendolo nel principio della eroi­ ca « carità » (karuiJii), che è lo strumento (upliya) mediante il quale il Bodhisattva esercita la sua missione . Questi, mentre interiormente si libra nella sfera della assoluta conoscenza (prajfiii), ove ogni esistere contingente si ai­ scioglie, è contemporaneamente e totalmente dedito al­ l'Umanità - partecipando al suo infinito dolore, per in­ durla al Dharma, alla Dottrina, cioè, che può liberarla dal­ l 'inalterabile necessità di soffrire. Prajfia e upiiya, bodhi e karuvii sono i due poli dottri­ nari del Mahaya.na, detto anche, per antonomasia, « la Dottrina di Mezzo » (Mqdhyama-pratipad), in quanto si po­ ne di là da qualunque negazione o affermazione. Ciò è chia­ rito dalla teoria della « doppia verità » : esiste una verità strumentale, una verità « velata )) (saytZvrtti-satya), la quale ci serve per vivere moralmente ed assennatamente nel mondo, assumendolo come concretamente reale, seppure idealmente irreale. Vi è poi, un'altra verità, quella della « Suprema Saggezza )) (paramartha-satya), che consiste nel­ lo sperimentare che non esiste alcuna realtà in sé, ma solo relativamente, cioè che ogni cosa è tale in rapporto a qualcosa di diverso da lei. Questa dottrina fu filosofica­ mente definita da Nagarj una, un bdihmal}.a del Vidarbha 95

(Berar) , convertito al MahayanaJ che fu, oltre che una per­ sonalità leggendaria, uno dei più acuti ingegni espressi dall'Asia antica. Visse, probabilmente, attorno al I I sec. d.C. e riassunse la te o ria del vuoto (siinya-vada), già espo­ sta nei testi sapienziali di ignota origine detti Prajiia­ piiramit'ii-siitra (« il Sutra della · Perfezione della Conoscen­ za ») , nei quattrocento versi mnemonici della Dottrina di Mezzo (Miìdhyamika-karikii). In questi aforismi egli riduce spietatamente ad absurdum tutti i gruppi fondamentali di concetti ed idee, dimostrando la loro reciproca contraddi­ zione. Pertanto, anche i dharma, cioè i minimi « punti in­ stanti » di esperienza del mondo, ai quali lo HTnayiina ave­ va lasciato una parvenza di realtà, vengono da Nagarj una dimostrati come mera illusione, magicamente assunta dal­ la realtà assoluta, cioè il vuoto, per apparire. L'atteggia­ mento del saggio, quindi, di fronte a questa molteplicità che lo circonda, la quale in sé non sussiste, è il silenzio: « La realtà non si può dire né che è vuota né che è non­ vuota, né, infine, che è non vuota e non-non-vuota. Queste parole non sono altro se non una designazione metafo­ rica » . (Madhyamika-karikii, XXI I , 1 1 , trad .R. Gnoli) . Men­ tre il saggio coltiva interiormente la comprensione di que­ sta ineffabile verità, è necessario, però, che egli viva esteriormente coerente, accettando la realtà per quello che empiricamente appare. I l voler correggere la realtà pur servendosi delle medesime categorie mentali che ci per­ mettono di muoverei nel mondo significa sostituire un'illu­ sione praticamente efficiente con un'altra illusione mera· mente escogitata, restando vincolati all'attività di un me­ desimo pensiero, offuscato dall'Ignoranza, che innalza nuo­ ve costruzioni mentali con le rovine del senso comune. Come si veae, nulla è più alieno al Buddhismo che la « mistica dell 'evasione » ! Questi principi vengono maggior­ mente chiariti e ribaditi dal commento del medesimo Naga­ rj una ai suoi aforismi, detto Akutobhayah (« Che non ha da temere da nessua parte ») e dall 'altro commento, scrit­ to dal suo discepolo e successore A ryadeva, i Catul;zsataka (« Le Quattro Centurie ») . Altri seguaci della scuola di Nagarj una furono, fra il quinto ed il sesto secolo d.C., Buddhapalita, Candrak1rti e Bhavya, sotti li filosofi oltre 96

che mistici . insigni. La tradizione buddhista settentrionale considera tJagarj una come il continuatore del Buddha, come colui che, per seconda volta, . « ha messo in moto la Ruota della Legge )) . . La terza « messa in moto della Ruota della Legge )) (sempre secondo la tradizione Mahayiina), avverrà di lì a poco, ad opera dei fondatori della seconda grande scuola, detta Vijfiiina-viida (« Teoria della Coscienza ))) o Yogacara (« Pratica dello Yoga ))), con la quale il Buddhismo torna ad inserirsi, come movimento di pensiero, nella grande corrente speculativa dell'In d ia. Diamo alcuni cenni delle dottrine di questa scuola di « idealismo magico )) , che ebbe immensa influenza sullo sviluppo del Buddhismo in India e sulla sua diffusione nel Tibet, Giappone e Cina. I fon­ datori di questa scuola furono il misterioso Maitreya, ta­ lora considerato una specie di incarnazione del ManU$Ì­ buddha venturo dallo stesso nome, ed i suoi discepoli, i due fratelli Asanga e Vasubandhu, due brahmal).a del Nord-ovest vissuti probabilmente verso il IV sec. d.C. Vasubandhu è ritenuto essere lo stesso che, nell a prima parte della sua vita, abbracciata la dottrina sarvastiviida, aveva scritto il celebre commento all'Abhidharma detto Abhidharma-kosa (Tesoro di Metafisica) , al quale si è già alluso. È, però, anche possibile che si tratti di un altro Vasubandhu. La loro dottrina si basa, ad osservare bene, su un concetto implicito nello stesso insegnamento del Buddha. Tutto essendo impermanente, sia il mondo come variabile aggregato di dharma, sia il soggetto come conglomerato dei cinque skandha, resta soltanto una certa continuità di coscienza (vijniiria-santatì, o vijfiiina-san tana) come soste­ gno dell'esperienza del mondo . Alcuni testi sacri maha"yana del I e del I I secolo, come il Sandhi-nirmocana-sutra (« La spiegazione dei misteri » ) ed il Lankiivatiira-sutra ( « I l siltra della discesa del Buddha a Lailka )) ) , dichiaravano esplicitamente che « tutto ciò che esiste è coscienza » (cittarrz. hi sarvarrz). Da questo ad affermare filosofica­ mente che tutto il mondo non è altro che un'obiettivizza­ zione di un pensiero universale (e il soggetto che lo con­ cepisce è, di co nverso, un'autolimitazione soggettiva del _ 97

medesimo pensiero) , non v'è che un passo. I Vijnarz a-vlidin osservavano, come secoli più tardi il vedantino Sailkara, che il solo modo per approfondire la conoscenza dell'io e del mondo non può essere che la coscienza del Sé, la quale è il substrato ad ogni atto di pensiero e di perce­ zione : quindi occorre compiere un'analisi retrospettiva d ella coscienza per venire a capo di questi due problemi . Ora noi abbiamo, allo stato di veglia, cinque forme di coscienza riguardanti i cinque sensi, più una sesta (mano­ vijnllna) per la quale siamo coscienti di pensare. Ma questo non basta a spiegarci come possa essere una continuità della personalità, un :riallacciamento con ciò che eravamo prima, dopo un periodo in cui questa coscienza non abbia funzionato, come dopo il sonno, lo stato di catalessi, la sincope eccetera. Bisogna quindi ammettere una settima forma di coscienza che assicuri detta continuità ininter­ rotta della vita empirica, di là dalle sei menzionate che si manifestano, di volta in volta, in atti e condizioni parti­ colari, diventando subito dopo latenti o subconscie. Que­ sta settima forma postula un'ottava, sintesi di soggetto, di Sé e di Mondo, altrimenti non vi sarebbe alcun tramite fra i due poli della conoscenza (l'io che conosce ed il re­ sto che è conosciuto) , sui quali si fonda la coerente perso­ nalità umana. Questa ottava forma di coscienza, che ab­ braccia tutte le precedenti, è detta « coscienza-deposito >> (alaya-vijnllna) e costituisce il fondo coscienziale imma­ colato di tutte le realtà e di tutti gli esseri che se le conce­ piscono. Ora, come le precedenti dottrine, questa teoria non è certo pura e semplice escogitazione dialettica o ver­ bale per risolvere un problema in un modo particolar­ mente brillante. Essa si articola in un sistema sperimen­ tale, donde l 'altro nome della scuola di Yogacara ( « Prati­ ca dello Y oga » ) . Le diverse forme di coscienza sono proprie a differenti condizioni psichiche, che vengono pra­ ticamente sperimentate, come già indicato a tale proposito dalle Upani$ad (v. Mar:u;lukya-upanisad, I, VI , ss.) e dal Vedanta. « Svegli » allo stato di veglia si percepiscono le cinque forme di coscienza proprie alla percezione sensibile più la sesta, propria all'ideazione mentale; « restando sve­ � li » , nella condizione di sonno, si ha la percezione della 98

settima forma di coscienza, quella che assicura la continui­ tà della personalità attraverso le varie interruzioni; « re­ stando svegli », ancora, negli stati di sonno profondo e di là da questi (catalessi, sincope, « trance », eccetera) , ci si unifica interiormente all'alaya-vijiiana, matrice di ogni realtà. Tale esperienza graduale comporta la realizzazione del mondo, successivamente, secondo tre piani : un piano immaginativo-dialettico (parikalpita), per cui noi creiamo nella vita ordinaria, un'immagine del mondo « pietrifi­ cato » in ogni istante successivo, fisicizzato nella sua ap­ parizione sensibile che, però, incessantemente si muta, ed alla quale corrisponde un pensiero dialettico-razionale che ne studia i nessi esteriori; nel secondo, invece, giungiamo a percepire a reciproca relatività (paratantra) di tutti gli elementi della cosiddetta real tà, i dharma; quando il con­ cepire « immaginario » si è disciolto in questa intuizione della totale relatività reciproca degli elementi della real­ tà (di cui parlava Nagarj una) , sboccia, erompe, nella co­ scienza estatica (samlidhi), di là da ogni nozione, l 'intui­ zione del piano assoluto (parini?panna}, che è puro pen­ siero-coscienza (cit, citta), immacolato, poiché non ha altro oggetto e soggetto che se stesso. Questa esperienza, conse­ guibile soltanto mediante un'interiore trasformazione, è relativa alla realizzazione pratica, cioè all'esperienza dei tre corpi del Buddha, ai quali si è alluso . l) Il nirmli1J-a­ kaya, o « corpo di apparizione » , con cui Egli fisicamente compare sulla terra per rivelare una dottrina vera solo relativamente alla condizione umana terrestre (questo è il punto per cui il Mahliylina, ritenendosi depositario di una « religione perenne ))' si considera superiore allo Hinaylina; ·2) il sarrzbogha-kiiya, o « corpo di partecipazione )), o « di comunione )), che è il tramite per cui i Bodhisattva assol­ vono alla loro missione, consci della relatività dei dharma, ai quali corrisponde l 'esperienza del dolore; 3) il dharma­ kliya, o « corpo della Legge )) ' in cui ogni relatività si trç>va dissolta nell 'inalterabile identità a se stesso del Dharma, della Legge, di là dalla diade sarrzsara-nirvlf1J.a. Secondo ta­ lune scuole esiste una quarta possibilità - che corri­ sponde al turfya del Vedanta e dello Yoga - rappresentata dal : 4) sahaja-kliya, « corpo innato )) , che rappresenta l 'in99

sieme degii stati incondizionati ed ineffabili (lo ati-sillJ.ya, o « trans-vuoto ») , allusi dal citato verso di Nagarj una (v. supra) . Come sia sia, questa terza o quarta condizione si invera per il miste attraverso appositi esercizi di concen­ trazione e meditazione conducenti alla « revulsione dell 'ap­ poggio » (iisraya-paravrtti). L'appoggio è quello che, nella vita comune, offre la coscienza separante e discriminante, per cui esiste un sarrzsara ed un nirvava: con l' asraya ­ pariivrtti tale discriminazione cessa di sussistere e l 'asceta, « con l 'occhio del Buddha » , riconosce quella realtà fonda­ mentale, indicibile, alla quale si può soltanto accennare dicendo che « è la condizione per essere ciò che si è » (tathatli, da tatha, « così »), oppure alludendola con « pura notificazione, o resa di conoscenza » (vijfiapti-mlit rata). Esorbita dagli scopi della presente opera di parlare diffu­ samente dei grandi logici buddhisti, Diini.aga (450 d.C.) e Dharmakfrti (600/650 d.C.) , il pensiero dei quali discende direttamente dalle esperienze dello Y ogiiciira. Possiamo soltanto accennarne, dicendo che il loro merito consiste nella « messa a fuoco » del problema della conoscenza . Senza conoscenza, infatti, non c'è salvezza. La loro sco­ perta, la cui valutazione potrebbe essere di grande impor­ tanza per il moderno mondo scientifico, risiede nell 'aver osservato come, nell"atto della conoscenza empirica, si possano distinguere due momenti : nel ' primo si percepisce immediatamente la cosa in sé (svalak$a1Ja), che il puro pensiero ricon osce istantaneamente, connessa all'universo intero; nel secondo momento, che immediatamente succè­ de a tale intuizione, questa è sostituita da un'immagine suggerita da costruzioni psichiche soggettive (sarrzskara, « complessi innati » o vasanli, « abitudini create » di pen­ siero e reazioni psichiche ad esso relative) . Per questi pensatori , quindi, il pensiero logico-raziona­ le, basato sulla definizione e delimitazione dei significati e, con esso, il linguaggio (in India, come nella Grecia anti­ ca, non v ' è una netta separazione strumentale fra pensie­ ro e linguaggio) , indicano in pratica ciò che le cose non sono, avendo come oggetto le differenze esistenti fra le cose medesime. L'errore (bhrlinti) deriva dal fatto che l 'uomo assume queste differenze per le cose stesse, dimen1 00

ticando la loro reciproca relatività. Ciò avviene in seguito ad una « maculazione » innata, (mala), che è l'Ignoranza (avidyll), per cui il mondo è creduto dall'uomo come un insieme caotico di dati da collegare esteriormente mediante pensiero razionale, anz� ché intuirli sottesi ad un'unitaria essenza. Questa Ignoranza, aggiungiamo, è però un aspetto con cui la Suprema Coscienza (cit) manifesta sé a se stessa, cioè il suo stesso potere (sdkti), di differenziarsi nelle for­ me e negli enti, attraverso la sua stessa ' magica libertà, la miiya, o cosmica Illusione. Questa concezione unitaria, i:n cui convergono le op p oste esperienze del sarrtsara e del nirva1;1.a, ha come controparte sperimentale, pratica, la tec­ nica realizzativa dei Tantra buddhistici, che vengono trat­ tati nel capitolo seguente. Questi, come si vedrà, se da una parte offrono ad una minoranza qualificata i mezzi per la liberazione meditativa ed estatica, dall'altra forniscono alle masse quell'imponente apparato di figure divine, di riti e di culti che formano l'aspetto più appariscente di ciò che si è convenuto chiamare « Religione Buddhista: » .

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IL BUDDH I SMO TANTRICO E IL VAJRAY A NA

Le Scuole del Vuoto ( sunya-vada ) e dell'« Null 'altro che Coscienza » (Cit ta-miitra, o Vijfiana-vada) prepararono il terreno all'ultima grande trasformazione del Buddhismo in terra indiana, quella che venne denominata « la terza messa in moto della Ruota della Legge » , la quale, però, dal punto di vista filosofico e metafisica, mantenne in­ tatte le dottrine delle scuole precedenti. Si tratta soprat­ tutto di una metodologia, intrisa di esperienza mistico­ religiosa, che sul piano tecnico si giova delle collaudate discipline dello Yoga. Questa nuova fase del Buddhismo indiano viene denominata col termine già noto di Tan t ra, cioè Insegnamento, o, più precisamente, Arcana Discipli­ na. Le suaccennate Scuole del Vuoto e della Coscienza avevano indotto a riconoscere che il più profondo ed in­ timo nucleo autocosciente umano è essenziato di quella stessa luce di coscienza immacolata ( prabhiisvararrz cit tam ) che è la realtà delle realtà, il vuoto ( Sunya ) dal quale, per una sorta di negazione metafisica, sono stati tratti ad esistere tutti gli esseri contingenti . L'Illusione per cui il mondo appare e l 'uomo si ritiene ad esso vincolato, è la Miiya. Per i sistemi filosofici indiani extra-buddhistici, specialmente il Vedan ta di S ankara ( non certo lo S ivaismo settentrionale ), la Miiyii è qualcosa di inesplicabilmente opposto al mondo del B rahman, dell'essere, una negati­ vità che il Saggio deve saper superare. Per i sistemi tan­ trici, invece, la Miiyli. è la stessa veste e sposa del Divino , mediante la quale esso si manifesta a se stesso nel suo infinito gioco ( tila) cosmico . La Miiya, in tutte le sue innumerevoli forme, è la Sposa-Potenza (sa lc ti) attraver­ so la quale il Buddha primordiale ( Adi-B uddha), se, da una parte, essendo sorgente di tutti i modi dell 'essere, lo è anche del mondo illusorio materiato di dolore ( dul:z1 03

kha), dall'altra crea, contemporaneamente, tutte le forme di riscatto da questo medesimo mondo. Pertanto i Tantra e le concezioni loro relative si pongono ben !ungi dalla negatività e dal pessimismo del Buddhismo primitivo. Questo mondo è, sì, la sede del dolore, ma lo è anche della Liberazione ( mok$ a, mukti), perché può diventare, per chi conosce il retto insegnamento, lo strumento atto a conseguire la suprema illuminazione ( bodhi). Per il Mahayana in generale ed i Tantra in particolare, la bodhi non è il limite inesplicabile e pqramente negativo della realtà contingente, come il nirviil;la, bensì è la visione pro­ pria ai Buddha che, restituendo alle cose la loro essen­ ziale insussistenza, la sunyata, si pone di là dalla diade di saYf1sllra-nirv'li7J.. a . I Tantra sono quindi permeati di un atteggiamento dinamico e positivo, molto distante dal pes­ simismo predicato dagli Arhant del primo Buddhismo. La anatta dello Hfnaylina, cioè la mancanza funzionale di un io personale, centro responsabile dell'esperienza umana, che conduceva all'inesplicabilità delle leggi del karman, è sostituita dal nairlitmya ( letteralmente : « mancanza di sé » ) riferito all'oggetto dell'esperienza, cioè l'inessenzia­ lità di ogni elemento empirico. La meditazione e, quindi, la realizzazione del nairlltmya, conduce al superamento della « copertura » dovuta ai difetti radicali dell'individuo ( kle§livara!J.a), come di quella dovuta all'ignoranza del ve­ ro essere del mondo (jfieyll.varai'Ja) : con ciò si supera la falsa concezione ( kalpanli) circa un'esistenza reale e con­ creta ( b hava) del mondo e dell'« ego » che se lo raffigura, e si sfocia nell'Illuminazione ( bodhi), che è l 'inverarsi di una coscienza assoluta, senz'altro contenuto che se stessa. Tutto ciò, al lettore occidental è , può apparire un gioco dialettico tessuto di concetti ed astrazioni, che, però, non muta sostanzialmente i termini della realtà. Per il se­ guace dei Tantra si tratta, invece, di un'esperienza diretta, conducente alla « revulsione dell'appoggio » di cui si è già parlato. Tra l 'individuo che, pur seguendo le disci­ pline buddhistiche ( ottuplice sentiero, discipline morali, meditazioni eccetera), non ha ricevuto in sé l'Illuminazio­ ne, e l'Illuminato, non solo vi è una differenza radicale, ma una vera e :propria soluzione di continuità. L'iniziato 1 04

ai Tantra, l ' Illuminato, non è più la stessa persona d i prima ( s i ricordi l 'episodio evangelico del Cristo giovi­ netto ammaestrante nella sinagoga, che non riconosce più Sua Madre ) : il rapporto « storico » fra la persona di pri­ ma e quella di dopo rig1,1arda gli altri, non lui . È perciò che un famoso maestro buddhista cinese, Tao-sheng, al­ lievo dell'indiano Kuma:raj iva, pronunciò lo « scandaloso » aforisma secondo il quale « una buona azione non implica ricompensa » . « Buona azione » è un atto rettamente ri­ volto a conseguire un oggetto particolare, con un « buon » fine coerente e determinato, il quale è l 'opposto della cosiddetta « cattiva azione » : entrambi , però, conducono ad un « frutto » ( phala ) determinato, destinato ad esau­ rirsi con l 'estinguersi della carica di karman che lo ha causato. Questo frutto non può essere chiamato « ricom­ pensa >> in nessun caso, dato che l 'unica ricompensa con­ cepibile, perché assoluta, è l'Illuminazione . È giunto ora il momento di fornire alcune notizie più precise circa i Tantra buddhistici . La tradizione maha'ya­ nica, in particolare tibetana, divide i Tantra e i testi con­ simili nelle seguenti quattro classi : le tre prime classi k riyll ( tib . bya ), caryll ( ti b. spyod ) e yoga ( tib . rnal çibyor), cioè rituale , disciplina e yoga, che sembrano ricalcare gli omonimi pllda, cioè le « sezioni >> degli agama si vai ti ( da notare che i k riyll- ta n t ra sembrano essere i più antichi e contengono anche importanti elementi di buddhologia), e gli anut tara ( bla-na med ) o supremi, che a loro volta sono divisi nelle seguenti tre classi : up'llya ( thabs) o « mezzo » , generalmente rivelati i n Uçl(iiyllna, cioè nel Gandhara, fra i quali il Guhya-samaj a-tantra, « il T. della Raccolta Se­ greta » , prajfia ( ye s es ) o « gnosi » , rivelati nel Magadha, fra i quali lo Hevajra-T. e il ciclo di Heruka, a cui, fra gli altri, venne iniziato lo stesso Qubilay-khan dal missio­ nario tibetano Pags-pa, e infine, la classe advaya ( gfi is-par med), « di là dalla dualità » , rivelata nella misteriosa re� gione di S ambhala, di cui è esempio il Klllacak ra-tantra, « il T. della Ruota del Tempo » , di cui si discorre in se­ guito. I l Tantra buddhistico consiste essenzialmente in un trattato liturgico attraverso il quale viene impartito un 105

insegnamento esoterico, impegnante, ciOe, una trasfor­ mazione profonda della persona che sotto la guida di un maestro (guru, li.cli.rya ), appartenente ad una particolare linea di trasmissione ( sarrzpradiiya), viene ad esso iniziato . Un Tantra buddhistico ( prendiamo due esempi caratteri­ stici : il Maftjusr'fmulakalpa ed il Guhyasamlija ) consiste nella narrazione dell 'epifania di un insieme di esseri di­ vini e di cosmi da parte di un Buddha primordiale, sim­ bolo della Luce Cosciente I ncolore , detto Adi-B uddha, o Ta thagata-gari;Jha ( Germe dei Tathagata ), o Vajradhara ( Sostegno Adamantino, o Fulgureo ), o Generatore di tutti i Buddha ( janakal;z sarva-buddhanarrz ), o Vaj rasa ttva ( Es­ senza adamantina, o Fulgurea), eccetera . Questa epifania avviene secondo una caratteristica simbologia lum inosa ( che, secondo molti studiosi , tradisce origini iraniche ) : la Luce Immacolata di Coscienza ( prabhasva rarrz cittam ), in seguito ad una vibrazione o ad un tremolio ( k$obha, spanda ), pur restando in sé identica a se stessa, assume da cinque a otto colori fondamentali , ad ognuno dei quali corrisponde un Tathiiga ta. Questi Tat hllgata, sia ben chia­ ro, non hanno nulla a che fare con i diversi Buddha sto­ rici, salvo un rapporto puramente simbolico . Essi rappre­ sentano gli archetipi o le energie fondamentali dell 'uni­ verso sui tre diversi piani, già rammentati, quel lo spiri­ tuale o noetico ( dharma-kliya ), quello animico o psichico ( sarrzbhoga-kllya ) e quello fisico ( n irmif!J.a-kiiya ), secondo la degradazione rappresentata dalla discesa verso il livello della Mllyii completa. Dopo aver emanato, dalla sua inal­ terabile essenza, questi Tathagata, Bodh isa t tva e Manu�i­ Buddha, il Vajradhara ( tanto per scegliere uno dei termini usati ) rivela loro una particolare dottrina, che si articola , lungo il Tantra, in una specie di dramma mistico simbo­ leggiato dall 'emanazione, o riassorbimento in lui, di crea­ ture sovrannaturali , delle loro relative sfere di azione ( dhatu ) e funzioni cosmico-spirituali eccetera . Fin qui l 'aspetto esteriore, che ben poco può dire circa la realizza­ zione interiore dell 'esperienza adombrata dal mito. Per quanto si riferisce a quest 'ultima, si deve tener conto di due principi, che sono impliciti nella liturgia tantrica, senza i quali essa resterebbe una vuota manifestazione religiosa con qualche implicazione magica. 1 06

I l primo principiO, per la co�prensione e « messa in funzione ,, di un qualsivoglia Tantra, è che le energie cosmiche simboleggiate dai Tathagata, supponiamo i cin­ que « classici » , Vairocana, A k�obhya, Ratnasarrzbhava, Am itiibha-Amitiiyus, Amoghas i ddhi ( che sono i capostipiti delle innumerevoli divinità del pantheòn buddhista set­ tentrionale, v. post ), rappresentano le cinque diverse fun­ zioni della Coscienza Assoluta nel processo della sua estroversione creativa e, allo stesso tempo, sono la vivente essenzialità . delle « cinque famiglie ,, ( paflca.:kula) nelle quali si dividono gli esseri umani in base alla loro costi­ tuzione psichica e fisica, alle loro diverse propensioni verso una particolare via per la liberazione e, perfino, in base ai difetti e vizi innati . I Tantra, infatti, presuppon­ gono che in ogni uomo vi sia la possibilità di raggiungere la liberazione seguendo una . particolare via che si adatti al suo temperamento, ai suoi difetti ed alla sua costi­ tuzione karmica . Quindi la classificazione dei cinque Ta­ t hllgata indica · cinque vie diverse per altrettante varietà di esseri uman i . Le cinque famiglie, espressione della pen­ tade suprema, sono denominate : quella dei Tathagata, rappresentata dal Buddha Vairocana ( l ' Irraggiante), quel­ la del Vajra, simboleggiata col Buddha Ak�obhya ( l ' In­ crollabile ), quella della Gemma ( Ratna), che ha al centro il Buddha Ra t nasarrz bhava ( Nascente dalla Gemma), quella del Loto ( Padma), rappresentata da Amitabha ( Luce In­ finita) o da Amitiiyus ( Eone Infinito), oppure Lo ke5vara ( Signore del Mondo ) e, infine, quella dell'attività operante, che si esprime con Amoghasiddhi ( Indefettibile Realizza­ zione ). Nella divisione degli esseri umani e, quindi, nella real­ tà che nell 'uomo trova la sua sintesi, in cinque classi fon­ damentali, si afferma un principio psicologico molto im­ portante, che rappresenta uno dei cardini di tutta la pra­ tica tantrica. Si tratta di questo : nelle cinque famiglie sono ripartiti i principali ostacoli interiori, come odio, of­ fuscamento , brama, vanità eccetera, noti come klesa, che impediscono all'individuo di riconoscere il nirvllr.za e di liberarsi dal sarrzsiira. Questi cinque ostacoli o difetti sono dai Tantra concepiti come cinque energie cosmiche, er107

roneamente sussunte dall'individuo come forze negative a cagione dei suoi particolari sarrzs kiira, prodotti a loro vol­ . ta dal karman. della sua vita passata. In altri termini, la

negatività empir i ca di queste cinque forze dipende da un errato rapporto conosCitivo con la real tà da parte del sogge t to : di per sé esse sono le energie creatrici del mon­ do e le funzioni supreme del B uddha A rche t ipo ( Adi­ B uddha ). La via dei Tantra non insiste, di conseguenza, sull'estirpazione dei kle§a nell 'individuo mediante la disci­

plina morale, la quale, se non condotta a fondo, altro risultato non sorte che respingerli negli strati più profondi dell'umana compagine, rendendoli , in definitiva, più forti. I Tantra tendono, al contrario, a sublimarli, trasforman­ doli mediante particolari discipline meditative, che opera­ no laddove si altera il rapporto gnoseologico ( di pensiero e di percezione ) con la realtà : in tale modo, tali energie cosmiche vengono sottratte alla deformazione che patisco­ no venendo assunte come klesa e divengono, invece, forze animatrici, ausiliatrici verso la via della reintegrazione : la collera si trasforma in ardente devozione, la sensualità in amore per tutti gli esseri, l'odio in discriminazione e co­ noscenza, eccetera . I l secondo principio per la realizzazione dei Tantra ri­ siede nel cosiddetto principio del Bodhici tta ( « Pensiero d ell'Illuminazione » ) . Il B odhicitta è, contemporaneamente, la autotrasparenza assoluta della Luce di Coscienza du­ rante il processo della creazione dei Tathllgata, B odhi­ sat tva ecc., ed infine ( questo è il punto essenziale ), è il medesimo procedimento per il quale il Bodhicitta stesso si invera nello spirito del miste che, attraverso l'estasi meditativa, compie a ritroso il cammino della manifesta­ zione del V ajradhara al mondo degli enti e delle forme. Il B odhicit ta è pertanto l 'alpha e l'omega di tutta la realizzazione tantrica. Non solo è ciò che grecamente di­ remmo il l6gos della creazione, o, meglio detto, dell'ema­ nazione, indi del riassorbimento dei mondi, ma la sua enteléche ia, la causa finale, cioè la stessa Luce originaria donde essi furono tratti ed è, anche, l'intima essenza del meditante. Il compito dei Tantra è che il meditante si ren­ da attualmente cosciente di ciò, vale a dire che non è che 1 08

ci sia una concreta personalità umana che trova la libe­ razione dalla irrefrenabile ruota delle morti e delle rina­ scite, bensì è il B odhicitta che ritrova se stesso, attraverso l ' au torealizzazione dell'asceta. Questo punto di estrema sintesi fra le dottrine Hina­ yllna del dolore, della causalità condizionata e dell'assenza dell 'ego, le teorie Mahaylina del vuoto e della cosmica co­ scienzialità, e la pratica delle forme più raffinate dello Yoga indiano, fu raggiunto dalla scuola tantrica detta Vaj rayllna ( Veicolo fulgureo o adam�ntino : vajra s igni­ fica, come si è già detto, contemporaneamente folgore e diamante, col senso di indivisibilità ed incorruttibilità) . I l vajra è il simbolo della Suprema Conoscenza, prajfzll, men­ tre la campanella ( ghatztll), adoperata nella liturgia tan­ trica, è il simbolo dell'insostanzialità di ogni cosa, il Mezzo ( upaya ) per la realizzazione della bodhi. Il Vajrayana, che ebbe una parte fondamentale nella prima conversione al Buddhismo del Tibet, si illustrò di grandi personalità di pensatori ed allo stesso tempo maghi. Famosissimi furono Indrabhuti, re dello Swat, fiorito alla fine del settimo secolo, il suo discepolo Padmasambhava, leggendario mis­ siona r io nel Tibet, ove compì straordinari e terribili por­ tenti, che annichilirono le cattive intenzioni del clero bon­ po indigeno , Nagarj una « II ,, ( per distinguerlo da Naga­ rj una filosofo, vissuto cinque secoli prima, nonostante le pie tradizioni affermassero trattarsi della medesima per­ scnalità ), maestro dell 'altrettanto leggendario Nagabodhi e dei tre missiona r i Vaj raylina, che dall'India andarono in Cina : Vaj rabodhi ( 670-74 1 ), Amoghavaj ra ( 705-774 ) e S ub­ hakarasirpha ( 637-735 ), dei quali si parlerà in seguito. I l Vajrayllna, che assieme alle forme da lui derivate Sahajayana e Kalacak ra è il prodotto estremo del Bud­ dhismo « gnostico ,, indiano, destinato da lì a poco a spe­ gnersi, riassorbito dall'Induismo o sradicato dalle inva­ sioni mussulmane dei secoli X-XI I , può rapidamente esse­ re considerato secondo i suoi due rami fondamentali, i quali, a similitudine di quanto succedeva nelle scuole tan­ triche indù saiva e §ak ta, si divisero in « pratiche . della · mano destra l> ( dak�iiJ. licara ) e « pratiche della mano sini­ stra ,, ( vlimllcllra ), a seconda della mancanza o del preva1 09

lere dell 'elemento saktico. La sak ti, come si è già detto a proposito delle sètte sak ta indù, è la Sposa-potenza del dio, il cosmico fem ininum creatore. La concezione , tipica­ mente indiana, passa t a probabilmente dalle scuole sivaite del Kasmir a quelle buddhiste del Gandhara attorno al settimo secolo d.C., ebbe . una grandissima fortuna nel Vaj rayana indo-tibetano, quello, per intenderei, che ha come sampradaya (linea di trasmissione) Indrabhtiti (con­ temporaneo e forse allievo di Gorak�anatha, maestro ed iniziatore dello « Yoga violento » , Hafhayoga ), Padmasarp­ bhava e poi, nel Tibet , Tilop�. Narop�, Marpa e Milare­ spa. Tale scuola concepisce che il Buddha Supremo e, dopo di lui, le sue varie ipostasi, attuino la loro mani­ festazione passando dalla potenza all'atto mediante le relative Forze Creatrici e Potenze ( Sa k t i, dalla radice sak, essere potente), le quali , data l 'ambivalenza del termine sa kti, significante anche sposa, vengono immaginate sim­ bolicamente come deità femminili che, unite ai cinque Buddha, creano il mondo della miiyii, non più pensato come limitazione all 'azione divina, ma come sua splen­ dente veste di potenza. I nol tre, le varie coppie B uddha­ Sak ti, talvolta rappresentate con figure di uno sconcer­ tante verismo, rappresentano l 'unione dei due elementi fondamentali della liberazione e della buddheità, ovvero la prajfiii e lo upliya, la gnosi ed il mezzo , per cui essa si invera nel miste e, attraverso lui, nel mondo. Questo simbolismo femminile non resta limitato all'allegoria, ma viene a far parte dei rituali segreti tantrici che nelle sètte slik ta, facevano realmente uso della donna nel senso delle tecniche del pafica-tat tva, con assoluto disprezzo delle regole del Vinaya buddhistico . Le scuole tantriche , nonostante le degenerazioni a cui furono soggette, ebbero un grande successo, perché, dopo un millennio di Bud­ dhismo ascetico e pessimista, tornavano a conferire valore al mondo della realtà obiettiva, considerato anch'esso come mezzo per le supreme realizzazioni . Per queste scuo­ le, le forze che conducono alla caduta sono le stesse · che, ricondotte meditativamente ai loro archetipi impersonali (i cinque Ta t hagata ), riportano al!a sfera celeste l'uomo che pur ne era soggetto. Il principio della rettificazione 110

conoscitiva del mondo è espresso dal verso del Mahlivai­ rocana-sU t ra ( 700 ) : « Grazie al pensiero dell 'omniscienza innata alla forza della conoscenza, l 'asceta può evi tare qualsiasi pericolo » : egli può, pertanto, vivere come un padre di famiglia, come un libertino e come un artigiano, un re, un guerriero, un mercante, eccetera, pur essendo interiormente un bodh isat tva. Bodh icit ta, per dare un . e­ sempio dell'amfibologia in uso in queste sètte vajrayli.na, oltre a significare, come già detto, « pensiero o ricordo dell 'Illuminazione », ha anche il senso rituale, seppur ma­ teriale, di « forza seminale », la quale, attivata durante i riti del paficatat tva oppure di altri simili, deve venir strap­ pata dalla sua tendenza a scendere nella sfera terrena , estrovertendosi nella generazione, per venire, invece, ri­ portata « in alto » ( ilrdhva-re tas ), dove ridiventa luce crea­ trice non maculata di brama ( donde la raccomandazione all'asceta: bodhicit tarrz na-u t?rjet = [ l 'asceta ] non faccia erompere il bodhicitta [ ma lo riporti « in alto » ] ; Se kod­ desafika, passim ).

Non tutte le sètte Vaj raylina giunsero, però , alle estre­ me conseguenze adombrate nelle linee precedenti, che riguardano esclusivamente quelle seguaci delle dottrine « della mano s inistra » , che si diffusero fuori dell 'India, nel Nepal, nel Tibet, in Birmania e Cambogia. Vi furono anche forme di Vajraylina « della mano destra » , prive cioè del l'elemento femminile sak tico, che tuttora sussiste in Giappone col nome di Shingon. Il capostipite di questa seconda corrente è Nagarj una « II ,, ( v . supra ), vissuto durante il settimo secolo nel l ' India meridionale. A lui risale la « rivelazione » del Mahli-Va i rocana-silt ra, nel qua­ le il Buddha cosmico Vairocana, sotto la forma di dhar­ ma-kaya ( corpo della Legge ), predica all 'assemblea dei Tathaga ta e dei Bodhisa t tva la dottrina segreta, dispen­ sando, inoltre, le sue istruzioni al Dha rma-sat tva ( Essenza del Dharma, simbolo del genere umano ), che lo interroga su punti pratici , riguardanti la messa in opera di tale sapere da lui enunciato . La leggenda narra che in un luogo misterioso del l ' India meridionale Nagarj una compì il sa­ cro rito della pradak$i'1:za, cioè la deambulazione rituale verso destra, attorno ad uno stùpa di ferro ( simbolo pro111

ba bile dello stesso corpo umano cosmicizzato ) per ben sette giorni ; alla fine egli fu accolto nel suo interno dal Vajra-sat tva ( « Essenza adamantina » , simbolo dell 'Uo � o cosmico primordiale ), che lo consacrò e lo istruì nella dottrina segreta. Suo discepolo e compagno fu Nagabodhi, vissuto, secondo la leggenda, ben sette secoli sulla terra, comunque nato nello S riparvata, nell'India meridionale . A sua volta il discepolo di Na:gabodhi fu un principe di una casa reale dell'India cen_trale, Vaj rabodhi, nato nel 670, che, dopo i sette anni di apprendistato presso il suo maestro, si imbarcò nel 7 1 7 per Ceylon, donde passò a Giava, ove fondò le fiorenti scuole di Vajraylina durate secoli interi, fino all'avvento dello S ivaismo prima e del­ l'Islam dopo ; da lì passò, nel 7 1 9, a Canton, dove morì nel 74 1 , dopo aver tradotto in cinese parecchi tantra, come il Mahli-vairocana-sutra, già citato, il V ajrasekhara­ s i:it ra ed altri. Suo compagno ed allievo fu un giovane brahmalJ.a dell'India settentrionale, Amoghavaj ra, che lo conobbe a Giava e lo accompagnò in Cina. Fra H 743 ed il 746 Amoghavaj ra compì alcuni viaggi a Ceylon ed in India, dove conobbe Nagabodhi e si perfezionò sotto la sua guida. Ritornato in Cina, il suo insegnamento e, più ancora, i riti da lui introdotti, vagamente somiglianti a quelli delle messe funebri cattoliche, gli valsero il favore della corte dei T'ang. Morì nel 774. Questi missionari vajrayana furono però preceduti da un maestro della me­ desima scuola, S ubhakarasirpha ( 637-735 ), un re del Ma­ gadha che, fattosi monaco , studiò nell'Università buddhi­ sta di Nalanda ( v . post ), sotto la guida del famoso mae­ stro Dharmagupta, che giunse in Cina nel 7 1 6, attraversan­ do il KasmTr ed il Tibet. lvi fuse ed unificò, sistemandole, le diverse dottrine del Vajraylina non saktico, e tradusse numerosi tan t ra della sua scuola, fra i quali il S u �iddhika­ ra-tant ra. Una generazione era passata, dalla morte di que­ sti tre missionari, quando il sapiente monaco giapponesé Kobo-daishi (Kukai ) approdava in Cina, dove si fece inizia­ re al medesimo Vajrayllna, che riportò più tardi in Giap­ pone, ove ebbe una straordinaria fioritura ed influssi in­ calcolabili su tutto lo sviluppo artistico , letterario e re­ ligioso di quella Nazione, sotto il nome del già citato 1 12

Shingon ( dal cinese Chen-yen, traduzione del termine san­ scrito man t ra). La liturgia e la forma di realizzazione di

q uesta scuola, qui solo brevemente accennata, si basa su due cicli di esperienze esposti nei tantra Tat tva-samgraha e d il Maha-vai rocana [- abhismrz b odhi ]-sut ra, corredati, il p rimo, da un ma7Jçlala (v. post) fondamentale, il secondo da due, che simboleggiano, rispettivamente, il processo di manifestazione dalla Coscienza Cosmica ( causa) alla molteplicità degli esseri, ed il processo inverso di rias­ sorbimento dell'essere individuato ( effetto ) nella Coscien­ za Cosmica. Questi ma1J.çlala sono rispettivamente denotati come il Vajradhatu-mavçlala ed il Garbhadhlit u-ma1J.çlala ( cioè il ma1Jçlala della sfera fulgurea e quello della sfera embrionale ). La figura centrale, in questi due cicli , è quel­ la del Tathagata Va irocana, che rappresenta il punto di passaggio dalla Coscienza Immanifesta al mondo mani­ festo. Nell'India settentrionale, come si è detto, fiorì l'altra forma di V ajrayllna, la cui catena di trasmissione inizia probabilmente con Padmavaj ra, vissuto nel VI sec . , autore della Guhya siddhi ( La Perfezione Segreta ), che fu maestro ad Anangavaj ra, che redasse il Prajftopaya-vin iscaya-siddhi ( La Perfezione della Decisione di Gnosi e Mezzo ); continua col già citato re Indrabhilti, autore della Jiianasiddh i ( Per­ fezione della Conoscenza) e qm sua sorella Lak�m"ikara, autrice dell'opuscolo detto Advaya-siddh i ( Perfezione di là dalla dualità ) ed ancora col già citato Padmasambhava, figlio adottivo di Indrabho:ti, cognato del maestro S anti­ rak�ita, che, nel 747, lo chiamò dal Tibet affinché lo aiutasse a propagare la Buona Legge, fra una popolazione sorda agli incitamenti morali del Buddha, ma decisa­ mente sensibile all 'ascendente personale esercitato da te­ mibili yogin del genere di Padmasambhava, ed ancor più ai portenti che questi provocava, in caso di pericolo o di dubbio. A parte il simbolismo sessuale con cui il Vaj rayana rappresentava l 'unione fra la gnosi ( prajfta) e la messa in opera del « mezzo » ( upaya-kausalya ), qa cui scaturisce la Grande Beatitudine ( maha-su kha) dell'Illuminazione, l 'insegnamento fondamentale di questa scuola, come quel1 13

lo della scuola Dhyana di Bodhidharma ( prima metà del VI secolo), detta dai cinesi Ch 'an e Zen dai giapponesi, si riassume nel precetto di utilizzare ogni attività del cor­ po, della parola e della mente ( kliya-viik-citta ), allo scopo di procedere sul cammino dell'Illumin�zione : in altri ter­ mini, in ogni nostro a t to, pensiero, percezione, sentimen­ to, volizione, azione ecc ., è presente, immanente la Su­ prema Coscienza, matrice di ogni realtà. La questione è di rendersene cosciente in modo totale. Una scuola si­ mile, fiorita nell'India settentrionale fra il V e l 'VI I I secolo, Avata1'[lsaka ( così detta dal suo testo fondamenta­ le, l 'AvataYfZsaka-sat ra, il « So.tra dell'Ornamento [ del Bud­ dha ] » ) , insegnava che « ogni grano di polvere » , ogni mi­ nimo elemento della realtà, contiene in sé - come in potenza - la sintesi di tutto l 'universo, perché ad ogni cosa, ad ogni avvenimento, ad ogni atto, è immanente la vacuità ( stlnya ta), che è la Realtà assoluta ( DharmadhlJ.tu). Quindi non si tratta di scansare l 'azione, perché impura o sconveniente, bensì di giungere ad operare· intimamente collegati all 'essenza dell 'Universo : cessa così ogni attac­ camento ad un oggetto particolare, visto come sunya, e si ha la liberazione, qualunque cosa si faccia.

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SAHAJAY A NA E KALACAKRA

La metafisica dello sunya costituisce il fondamento, se così si può dire, dell'ultima scu Ò la gnostica buddhista, sor­ ta in terra indiana, in particolare nel Bengala e regioni circumvicine, e nota con il nome di Sahaja-ycma, « la Via del Principio innato » (saha-ja o Sahajiyll), i cui rappre­ sentanti sarebbero stati gli 84 cosiddetti Siddha ( « i Com­ piuti » ) che molti annoverano fra i cosiddetti Nlitha ( « i Signori » ) maestri e capiscuola « hindu >> ( ! ) di scuole vi�ç.uite e §ivaite. Documenti di questo movimento sono i cosiddetti caryii-pada, « i versi della disciplina », redatti in bengali, con intrusioni di altri idiomi vicini, maithilf e oçliya con influssi sauraseni, che furono seguiti dai doha, scritti in apabhrarp§a occidentale , probabilmente fra l'VI I I e i l XII sec. d.C., quando fioriva la dinastia Pala, protettri­ ce delle grandi università di Nalanda, Vikramasila e Odan­ tapuri. Molti ritengono anche che il Sahaj a-yana, come il probabilmente successivo Kala-cak ra sviluppatosi nel Tibet, siano delle forme particolari del Vajraylina, di cui si è discorso, opinione tipologicamente fondata. In ogni caso, dalle nebbie dei primordi della setta, emergono le figure dei due capiscuola perfettamente storici vissuti fra il decimo e l'undicesimo secolo, Lui-pa e il Dipailkara S ri-j fillna, quest'ultimo nato nel 990, missionario in Tibet fra il 1 042 e il 1 056. Secondo alcuni ( come il par;u;lit Sarpkrtyayana), Lui-pa sarebbe stato allievo di S avara-pada, appartenente alla scuola di Haribhadra, che aveva avuto come maestro il grande dotto S antirak�ita. Haribhadra è ritenuto aver vis­ suto al tempo del re Dharma-pala, della dinastia Pala, che governò il Bengala fra il 770 e 1 '8 1 5 . Altri sa1fLpradiiya ci­ tano fra gli antenati spirituali dei due maestri summen­ zionati i celebri asceti e taumaturghi Tilopa ( Taila-pada, . ,

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Tilip=:t) e Naropa ( Na�a-pada), che in Tibet sono conside­ rati i fondatori della setta bKa'-rGyud-pa ( v . i nfra ) . Non è facile districare la serie delle success ioni spi­ rituali, anche perché i vari sarrzpradaya non sono soltanto buddhisti, ma mostrano personaggi, spesso citati con le loro consorti e yogini (all'uso sciamanico ! ) , che furono maestri ed iniziatori di sètte tantriche . vi�Q.uite, fortemen­ te impregnate dell'elemento devozionale, della bhak t i. È probabilmente dovuto a queste mistiche presenze, la cui personalità torreggia nella storia spirituale del Bengala, se il Buddha storico ve n:ne allora concepito come la pe­ nultima incarnazione, o avatara, di Visnu, prima del Ka l­ k i-avatara, quello che riporterà la terra e l 'umanità al­ l'epoca dell 'oro . Dal punto di vista strettamente dottrinario, a parte la letteratura « estatico-emotiva » dei caryli-pada e delle doha, l 'opera di questi maestri è fedelmente riflessa in ambito tantrico-buddhista - nei cosiddetti anut tara­ tan t ra ( tib. bLa-na med, sott. rGyud, « i T. di .cui non vi è superiore ), ulteriormente suddivisi in upaya ( ti b . thabs, « mezzo ») , prajfzli (ye-ses, « gnosi ») e advaya (gfzis-par med, « di là dalla dualità » ), che si suppone che siano stati rivelati rispettivamente in Uçl.çl.iyana ( come il Gu­ hyasamaja), in Magadha ( come lo He ru ka o He-vaj ra), o addirittura nella misteriosa regione di S ambhala ( come il Kala-cak ra ) . Di questi I lluminati vi sono due raccolte complete di biografie, una conservata nel medesimo ca­ none, il Tanj ur ( G rub thob b rgyad eu rtsa bzihi lo rgyud, vol . 86 del bsTan-�gyur, tradotto dal Griinwedel come > , su�um1Jli, viene concepita come l'avadhuti-mli.rga, o « Via dello scuo­ timento-da-sé > > di ogni peccato e di ogni pensiero dualiz­ zante ( vikalpa ), la Via Regia del Sahaja, per la quale il bodhicitta fisico, che è il seme ( re tas ) viene tramutato nel suo archetipo cosmico, per cui la congiunzione del ma­ schio con la femmina diventa, « in cielo >> , l'unione fra il samvrtt i-satya e il pa rlimli.rtha-satya, fra la Verità relativa e la Verità assoluta, trascese entrambe dalla ·Tathatli, la Real tà in sé. Incarnando il polo della Compassione, la è

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karu1J.ll, « l'altro » , cioè la donna; viene sperimentato come

il negativo dell'immagine maschile, e viceversa, a livello del loto del cuore, come emozione pura che si attua come scoperta dell'Universo in�ero. La compassione si rivela co­ me impulso per la Liberazione di tutti gli esseri, quello per cui i Bodhisattva rimandano all 'infinito la propria perso­ nale Estinzione Totale, il pari1J.irvll1J.a. Per i Sahaj iy�. il punto essenziale di questa Via è che, fintanto che la bea­ titudine cagionata dalla congiunzione fra gli opposti praj­ na e upaya, nel caso empirico, uomo e donna, resta intrisa di brama irresoluta nella sfera del n irmava-kliya, si per­ petuerà la sofferenza del ciclo delle rinascite : quando invece questa beatitudine viene riportata alla sfera arche­ tipale, risalendo le tappe note come le w · Bodhicit ta-bhu­ mi, essa si attua come Mahii-sukha e Mu kti, Grande Bea­ titudine e Liberazione. Il processo per cui il Bodhicitta si instaura secondo le quattro modalità suaccennate dello sunya è considerato come un « movimento regressivo », u/ta-sadhana o ujana­ sadhanli, che secondo il Mahayana-sutra alalflkara ( 4. I X , 4 1 -46 ) si invera come « rovesciamento » , parli.vrtti, delle funzioni di percezione, del mentale, della fruizione in ge­ nere della realtà fisica e, in particolare, dell'atto genesico, dato che in esso si ha il massimo di brama verso il « di­ verso-da-sé » , cioè la donna, e pertanto si rinsalda la catena nel cicl o delle nascite, nel salflslira. La concezione è pressappoco identica a quella dell'urdhva-retas, « il seme riportato in alto » del Tantrismo vamacarin, cioè « sini­ stro » §ivaita e di alcune sètte vigmite . I l procedimento relativo si attua come un « arresto » , k$ema ( khema), delle funzioni che vengono obiettivate, indi contemplate come energia pura impersonale, quindi riassorbite e possedute dalla coscienza attraverso identificazione estatica ( bhava­ na). Nel Siddha-siddhlinta-paddhati ( 1 , 62 ) attribuito a G0rak�anatha, il corpo visibile ( pil;z.çla ) che è oggetto dell'a­ scesi è considerato e realizzato come coalescenza di cinque energie dette Karman, attività, Kllma, desiderio, Candra, luna, Surya, sole, Agni, fuoco . Di tutte queste, due sono es­ senziali , Candra, rappresentata dal rasa o soma, la linfa vitale che pervade tutto ciò che è fruibile, dallo spettacolo 1 22

teatrale al cibo ( upa-bhogya), e che è l 'implicito princ1p1o d'immortalità (amrta) celato nel seme umano ( su k ra ) che ha sede al di sotto del sahasrllra-cakra, mentre Siirya, che come igneo elemento, ha sede nel mavipura-cakra al disot­ to dell'ombelico, è dptato di natura distruttiva e trasfor­ mativa ( klila-agni). Nel Buddhismo Sahaj iya queste due potenze vengono identificate, il Sole-fuoco con il Nirmli1Ja­ kliya, rappresentato dalla terrifica dea Cavç/.lili, residente nella zona subumbilicale, e la Luna-linfa come il Bodhicit­ ta, idealmente assiso nell'u�I'J.i�a-kamala al sommo del ca­ po. Questi due principi si proiettano nell 'alterno gioco del prava e dello aplina, i due poteri opposti del respiro , che lo yogin è tenuto ad arrestare, indi a costringere entro l'eterea vena centrale della spina dorsale, sicché il bodhi­ cit ta la risalga sino a ricongiungersi al suo archetipo, per sperimentar� la Grande Beatitudine, il Maha-sukha. Tutto questo procedimento estatico è organato da una energia di natura « femminile » che, nella sua modalità universale, è denominata Ca1Jçliili, S a vari, Y oginl, N airiitml, Sahaja-sundarf eccetera : essa null'altro è che l'attuazione della vacuità ( siinyatli. ), che alla coscienza « non ancora vacua » appare con i caratteri terrifici allusi dal nome, per esempio, di CaiJçliili, « la Rovente » . Nella vita comune l'uomo concepisce il mor:tdo come un insieme di « cose » destinate, appunto, ad essere. « arse » nel procedere del tempo, sulla via del Sahaja, invece, egli, sperimentando il vuoto che trascende tutte le cose, realizza il mondo come pura energia. Questa esperienza che, essenzialmente, con­ siste nell'obiettivare e contemplare fuori di sé quell 'insie­ me di potenze da cui la realtà materiale e le nostre vicen­ de personali sono occultamente rette, è semplicemente ter­ rificante poiché si contempla il potere della Morte . I n ciò risiede la realizzazione del nairlltmya, « l'inessenziali­ tà » del Reale. Dal punto di vista tecnico, il punto essen­ ziale di questa sadhana, come esemplificato da grande nu­ mero di Carya-pada, sembra essere almeno all 'inizio il rattenimento del bodhicit ta ( « . bodhicitta . ca notsrjet . » ) a cui segue la - sua ascesa e il suo riflusso di là dal setù, la « diga » dell'intercilio, operazione che gli .A gama sivaiti ..

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denominano bh ra-k�epa, « proiezione nello intercilio » . Va da sé che il rattenimento pura�ente materiale del bodhi­ citta a livello fisico non significa niente, potendo essere anche il risultato, abbastanza discutibile, di una partico­ lare forma di prli1'}liyama. Il senso di questa disciplina emerge spontaneamente già nel primo grado dell 'esperienza dello sanya, allorché la compagine fisica, il nirmlil'}a-kaya, viene percepita al suo « rovescio » , come vuoto contenuto dalla pelle ( cfr. Vij iia:nabhairava-tantra, sutra 48), o meglio, come spazio « esterno » limitato dalla pelle. Seguendo l ' indicazione dei testi , la vacuità viene sperimentata a livello delle forme ( il mondo fisico svuotato dal contenuto sostanziale, come forma pura ), indi a livello di suono ( come vocalità, man­ t ra, che attua l 'essenza del mondo ), poi a livello di pen­ s iero ( il cit ta-vajra, « pensiero puro » ), per cui « si me­ dita su tutto ciò che appare, ogni pensiero e ogni sapere, come sintesi di conoscenza ( prajii'li, tib . ye-ses ) e di vacui­ t8. ( sifnya t a, tib. ston-pa iiid ) ! Questo è la Mahli-mudra, « il Grande Sigillo » , cioè l a pura vacuità che s i invera in ci ascuno come essenza del­ la propria mente. La realizzazione della Mahlimudra co­ stituisce una delle pratiche fondamentali del Vaj rayana, nell 'ambito che convenzionalmente denotiamo come Sid­ dha. In esso i quattro stadi del vuoto per la realizzazione del bodhicitta vengono denominati Karma-mudra, Dharma­ mudra, Maha-mudra e Samaya-mudra ( la cosiddetta Ca­ tur-m udra cit. nell 'Advaya-vaj ra-sa171graha, XL), ma, in so­ stanza, si tratta di quattro momenti dell 'esperienza di ciò che il Vaj rayana s t rictu s e nsu denomina Maha-mudra. . I l suo esercizio segue la via d i una atarassia crescente fi no alla quiete totale. La mente resta totalmente vuota : pen­ sieri , emozioni, impulsi sorgono in essa e in essa si dis­ solvono, come onde nel mare senza causare turbamento od altro moto che la placida notazione di ciò che accade . I l pensiero è totalmente spersonalizzato : Esso pensa, non il soggetto. I tre punti essenziali di tale pratica sono : la « non distrazione » ( apramada ), cioè l 'animo diventa sem­ pre più vigile e lucido, non distolto da emozioni o ri­ fle,ssioni , il « non sforzo », nel senso che non è necessario 1 24

costringere la mente a compiere qualcosa di diverso da ciò che essa già E, e, infine la « non-meditazione » , in quanto non esiste alcun _fine o contenuto a cui tendere, su cui polarizzare l 'attenzione, anzi, come su uno schermo limpido, la essenza inti_ma del pensare ordinario come me­ ditazione-energia si attua completamente . In ciò, la teoria e la pratica della Maha-mudrlf sembrano preannunciare i temi fondamentali dello Zen SotD ( v . infra ), ed è così . Nella disciplina della Mahamudra si tende essenzial­ · mente a superare la brama di esistere, o attaccamento, e il terrore del vuoto, mediante un transfe rt devozionale alla persona di Avalo kitesvara ( tib . Spyan ras gzigs, v. in « Figure divine ») . Realizzando l 'infinita compassione di que­ sto Bodhisattva, rettore dell'attuale ciclo, emerge la p ra j­ fili (ye-ses ), come luce di coscienza p rimordiale, in cui si dissolve il mondo esterno sullo schermo interiore, che è il cuore. Tutto il procedimento occulto è fondato sulla separazione fra il pensare ed il sentire, quest'ultimo me­ diante la sua identificazione al Bodhisattva suaccennato. Si tratta, in sostanza, di compiere una penetrazione noetica nel mondo delle percezioni e delle emozioni, sic­ ché queste si disciolgano in una dimensione di puro pensiero, « pneumatica >> per l 'appunto, con riferimento alle quattro esperienze del Vuoto. Difatti, non si tratta di rigettare distrazioni , passioni e angosce, bensì di « utiliz­ zare distrazioni e pensieri discorsivi per progredire nella Realizzazione >> , indi, « utilizzare i desideri e le brame per progredire nella Realizzazione >> . « A volte - dice il lama Kong Ka - dovresti fomentare di proposito desideri-pas­ sioni quali lussuria, odio, gelosia ecc. , e poi osservarli in profondità. Non dovresti seguirli, abbandonarli o correg­ gerli ma, con chiarezza e consapevolmente, rimanere in uno stato sciolto e naturale . Quando dormi profondamente dovresti cercare di fondere la Consapevolezza con l'incon­ scio senza sforzo . Questo è il modo migliore per trasfor­ mare l 'inconscio in "luce" >> . Egualmente si usano come oggetto di contemplazione profonda i terrori, il sentimento di compassione, il senso di dolore, le malattie e le esperienze connesse alla Morte per progredire nella Mahamudra . L'insegnamento centrale ·

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nella pratica della Mahamudra è « gettate da parte ogni attaccamento e l 'essenza emergerà » . Questa « essenza » è praticamente l 'attualizzazione de1I'e1emento-bodhicitta nella coscienza del soggetto . B odhicit­ ta, si è visto, è il « :ricordo » di essere g ià illum inato in una sfera che è anteriore al medesimo fluire del tempo, l 'immanere di questa medesima qualità in ogni attimo della percezione e dell'intellezione del mondo, allorché il pensare, istante per istante, s i attua come identità fra il sé e il mondo, donde nascono i diversi modi della cono­ scenza. La Upani�ad (a . e. la Cha. V I I , xiii, 1-2) riconosce la « memoria » ( smara) come origine della coscienza : sma­ ra-ananda, la « beatitudine della memoria » indica nel lin­ guaggio tantrico non solo « la beatitudine della memoria » , quanto « dell 'amore » , i n quanto - i n quel particolar mo­ mento - ci si ricorda di essere uno « con l 'altro » e si trascende la dualità nella reciproca conoscenza fra i due poli metafisici simboleggiati da uomo e donnéi\. La Sekod­ de�a-tika ( G O S pp . 54-55 e p. 27 ), l 'Advaya-vaj ra-sarp­ graha ( GO S , 1 .33-34 ) oltre allo Hevaj ra-tantra ( Ms . , p . 2 s s . ) ricorda come l 'esperienza delle quattro mudra corri­ sponda tecnicamente a quattro gerarchie dette vicit ra, vi­ paka, vimarda e vilak$atza, ad ognuna delle quali emerge un tipo diverso di beatitudine detto, in successione, anan­ da, parama-flnanda, v i rama-ananda e sahaja-ananda, che corrispondono alle quattro condizioni di veglia ( jagrat), sogno ( s vapna ), sonno profondo ( su$upti) e catalessi ( tu­ rìya ). Ananda è la beatitudine scaturente dal piacere ordina­

rio proprio al fruimento dell'oggetto sensibile, trascesa, però, dalla contemplazione meditativa ed obiettiva del­ l 'atto donde essa si origina, sì da sperimentarla come po­ tenza pura di conoscenza. Per essa, il bodhicitta si attua nel nirmlitza-kaya, « il corpo della manifestazione », la :r:eal­ tà fisico-sensibile, vicitra, « il variegato », al cui livello opera la karma-mudra di cui si è parlato. A questo punto si attua la separazione alchemica « del sottile dal denso » , cioè l'elemento vibrante d i beatitudine dall'attaccamento proprio al piacere ordinario. 1 26

Parama-linanda, « suprema beatitudine » è quella che si sperimenta allorché si invera il dharma-dhlitu, la realtà fondamentale di cui il mondo è essenziato . Secondo la Sekoddesa-tika ( pp . 54-55 e 27b ), mentre al livello linanda p uro e semplice si ha a che fare con il mondo formale ( jagad-rupa ), al livel lo successivo la beatitudine - già pu­ rificata dall'attaccamento soggettivo - si riferisce alla real­ tà - diremmo � archetipa del mondo che viene speri­ mentata come sua immobile causalità. I l bodhicit ta, dico­ no i testi ( Hevaj ra-t. e S ekoddesa-t. ) risale fino alla fron­ te, allo ajfta-cak ra : presumiamo che si tratti della mede­ sima operazione descritta in ambito saiva come bh r u­ k?epa. Al gradino successivo, corrispondente al saytzbhoga­ kaya, la beatitudine si attua come vita universale - net­ tare, amrta che, come linfa lunare si effonde dal centro frontale suaccennato e raggiunge la sede mediana. Que­ sto è il virlima-lfnanda, « beatitudin e nascente dalla cessa­ zione » dell'attaccamento al piacere/dolore dell 'esperienza del mondo, beatitudine propria al livello dei bodhisat tva della quale, per l 'appunto, è sostanziato il sarrz bhoga-kaya, che è il loro ambito specifico, il corpo di comunione . Persiste tuttora una coscienza del sé, che è soprattutto consapevolezza dell 'attuarsi della beatitudine medesima nel vuoto della coscienza. Questa consapevolezza; però , svani­ sce all'ultimo s tadio, quello del sahaja-iinanda, « beatitudi­ ne innata », nel quale si dissolve la distinzione di soggetto ed oggetto dell'esperienza . È la realtà sub-iacente ad ogni istante della percezione, l'essenza intima, si potrebbe dire , della vita animica di ogni individuo , i l « negativo » di ogni esperienza di dolore o di piacere vissuta nella maya ( Hevaj ra-t. M s , p. 39A). La contemplazione obiettiva, di là dalla concentrazione e dalla mera meditazione, è quella che permette di sce­ verare con chiarezza i quattro gradini dell 'ananda. Dice, difatti, lo Hevaj ra-tantra ( ib . ) -

linandiis tat ra jiiyante k?ana-bhedena bheditab k$a!J.a-jftanllt sukha-jftllnam evarrz klire pratis thitam

« le beatitudini sorgono, in questo caso , secondo i mo­ menti, separatamente; la perfetta conoscenza della bea­ titudine è conseguente alla conoscenza dei momenti » . 1 27

Questi vari k$a'Y)a corrispondono ai sedici digiti della luna, nella misura di 5-5-5- l , l 'ultimo, che tutti trascende, corrisponde al sahaja-llnanda, o maha-sukha, la « grande felicità » - la essenza di ogni esperienza. Essenza che è un puro attimo coscie.n ziale. Questa essenza si attua nell'a�ceta secondo i tre prin­ cipi dell' e q uilib r io , scioglimento e spontaneità. L'equilibrio è fra il corpo (kllya, sku), la parola (vlik, gsun) e la mente ( citta, t 'ugs ), nel senso che i tre elementi devono restare reciprocamente coa p tati in maniera naturale e, in parti­ colare la mente non deve farsi invischiare in nulla né poggiare su alcun pensiero : la pratica del prlitzliylima e l'ataraxia mentale sono gli strumenti abituali per questo conseguimento . Lo scioglimento o il rilassamento, consiste nello svincolare la mente in profondo da ogni rappresen­ tazione senza peraltro distrarsi. La spontaneità o natura­ lezza consiste nel non-afferrarsi a nulla : sensi e mente sono liberi di fluire od arrestarsi a loro talento senza che intervenga la volontà individuale a indirizzarli o co­ stringerli . « Nello spazio si formano forme e colori, cantava il Grande Yogin Tilopa, ma esso non è macchiato né dal nero né dal bianco ; dalla natura della mente emergono tutte le cose, ma la mente da vizi e virtù non è contami­ nata ... » e ancora « . . trascender il dualismo è la Visione Regale; vincere le distrazioni è la Pratica Regale ; il Sentie­ ro della non-pratica è la Via dei Buddha; colui che segue questo sentiero consegue la buddheità . . . » e, infine, « . . non si dovrebbe dare o prendere, ma rimanere neutrali, per­ ché la Mahamudrà è di là da ogni accettazione o rifiuto ». Poiché la Coscienza-deposito (lilaya-vijiilina) è il non­ nato, nessuno può ostruirla o sporcarla; stando nel Regno non-nato, ogni parvenza si dissolverà nella Natura Asso­ luta ( Dharmatli), ogni senso di sé e ogni considerazione di sé ( egoismo e orgoglio) svaniranno nel nulla » . Il ritor­ no a questa spontaneità e libertà primordiale, che tanto ricorda , lo Tzu-j an taoistico, è caratterizzato dallo stesso Tilopa con i vers i : « . . Al principio lo yogin sente la sua mente l precipitare come una cascata; l a metà strada, come il Gange, l scorre lenta e con dolcezza; l alla fine ·

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è come un immenso l oceano, laddove la Luce Madre (cioè il Dharma-kaya ) l e la Luce Figlio ( la luce contingente del­ la mente) si fondono in una » . Carattere nettamente · apocalittico e , come tale, ap­ parentemente connesso ai Purll"{la hindu che trattano l'av­ vento del decimo avatara di Vigm, Kalkin ( probab . « Que­ gli dal Cavallo Bianco » , kalka ), riveste il l(.ala-cak ra-tan­ t ra, « il Tantra della Ruota del Tempo » , oppure « il Tan­ tra del Tempo ( kala ) e della Ruota ( ca k ra) ». Come molte altre opere hindu o buddhiste estreme di tale carattere, quest'opera e la scuola che fa capo ad essa hanno un aspetto teologico segnato da un'impronta iranica, che li riconduce, da una parte alla figura dello Zurvan akareno, « l'Eone Infinito » padre degli opposti Ahur a Mazdah e A1;2 ra Mainyu, e dall'altra alla figura di Mithra Saosyan t, « Mitra il Salvatore » , il Messia degli Ultimi Giorni. I l sistema del Kalacakra, che fiorì improvvisamente in India al tempo del re Mahipala I ( ca. 978- 1 030 d . C . ) sarebbe stato rivelato, secondo la p i a tradizione, dallo stesso Buddha ad un'accolta di esseri spirituali a Dha­ nyakataka ( att. Dharanikota), località famosa presso Ama­ ravatì, alla foce della KHç.a, dove sorge il famoso stiipa. La leggenda narra come il richiedente ( adhyesaka) di tale rivelazione fosse re Sucandra o Candrabhadra di S ambha­ la, luogo misterioso che gli storici si sono affannati di ricercare nel Tibet o addirittura nella valle del Tarfm in Asia Centrale. In realtà si tratta di un locus spiritualis, una specie di Castello del Graal, visibile soltanto agli Elet­ ti, che però si renderà manifesto a tutti sotto il suo ven­ ticinquesimo re ( l 'attuale suo sovrano ne è il ventunesimo ). A S ambhala venne iniziato in tale tantra il maestro Cilupli, o Tilopll, da noi già incontrato, che lo trasmise al suo allievo Naropll, dopo una famosa battaglia filosofica, avuta con lui e con altri cinquecento paQçlita all'Univer­ sità di Nalanda. Sessant 'anni più tardi, questo tantra ve­ niva introdotto nel Tibet dal maestro kasmìr Somanatha, che lo tradusse assieme al suo commento V i mala-prabha ( « Immacolato Splendore » ). lvi divenne patrimonio eso­ terico di diverse sètte tantriche, quali quelle dei rN ùi-ma p a , dei bKa' rGyud pa, dei Sa-s kya pa e dei dGe:[ugs pa. 1 29

I commenti p iù interessanti a codesto tantra, di cui e sopravvissuta la redazione abbreviata ( laghu-tan t ra ) del testo originariamente ammontante a 1 2 .000 vers i , sono quelli dell'> ) . Questo Tath�gata è raffigurato nel settore set­ tentrionale del matzçlala come un dio di colore verde, se­ duto su un loto blu o sull'uccello Garurj.a. Il suo gesto è quello dell'impavidità (a-bhaya-mudrll, consistente nel te­ nere la mano levata lateralmente all'altezza della testa, di fronte allo spettatore, col pollice attraverso la palma, simboleggiante la vittoria del Buddha sulle apparizioni terrifiche di Mara). Domina l 'elemento terra e quindi il senso dell'olfatto. Attr averso lui avviene la conversione dell'elemento « invidia » ( frsya ). Il suo simbolo è la doppia folgore ( due folgori a forma di « 8 » incrociate : visva­ vajra), la sua sakti Ttirli ( v . supra ) verde. Il suo B o dhi­ sat tva è Visvapii"l;li ed il Buddha umanò da lui patrocinato è il venturo (fra circa 2500 anni) Maitreya. Ognuna di queste figure divine rappresenta, nei Tantra, una particolare esperienza illuminativa alla quale possono accedere gli adepti che appartengono alla loro stessa fa­ miglia mistica ( kula), come già spiegammo, non sradican­ do, bensì sub limando, il difetto innato ( kle§a ) in loro pre­ dominante. Come nello Yoga praticato dalle sètte §ak ta e sivaite, uno dei metodi principalmente usati per rag­ giungere l'estasi, alla quale si riferisce ogni figura di Ta­ thagata, è quello della meditazione sui loro bija o la ri­ petizione (japa) dei mantra che li simboleggiano sul piano fonetico. I mantra, in questo caso, sono l 'estrema riduzio­ ne delle cosiddette dhara1J.f, o formulae; privi di significa­ to discorsivo, la loro pronuncia, rettamente articolata con segreti ritmi respiratori e fondata su appropriate medita·

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zioni, risveglia arcani poteri ( le siddhi o rddh i), conducen­ do all'acquisto del mistico sapere da loro al luso . Per il lettore curioso ne diamo · a seguito un breve estratto . Vairocana - Orrz Vairocana HUrrz ! Ak�obhya 01J1 Vaj ra-a k�obhya H il iJl ! Ratnasambhava Olfl Ra t nasam bhava Tra 1J1 ! Amitabha O rrz Amitabha Hrf! Amoghasiddhi Orrt Am oghasiddh i A� H u rrz ! Poiché il corpo umano è considerato un mai'J.ç/ala, i cinque Ta thagata trovano anche in esso le loro proiezion i , venendo localizzati e visualizzati nel la meditazione , rispet­ tivamente, nel capo, nel cuore, nell ' ombel ico , nel la bocca e nelle gambe . Più ancora dei Ta thiiga ta, i Bodhisat tva rap­ presentano l'elemento fondamentale, nella teologia maha­ yana e tantrica , perché è proprio in loro che s i fonda la concezione dinamica del l ' I lluminazione che è propria al Buddhismo settentrionale. Essi sono i l tram ite vivente e presente fra l 'umanità immersa nel sarpsara e la bodh i . Non sono, però , d a paragonarsi a i santi o semidèi di altre religioni , perché, in effetti , essi posseggono già l 'esperienza dell ' I lluminazione, che però non hanno voluto condurre all 'estrema conseguenza - al n irvlfJJa - allo scopo di re­ stare fra gli uomini ( tale è il senso della karu 1J l1 ) . La loro funzione cosmica è, quindi , una ripetizione del ges to com­ piuto da S akyamuni , allorché preferì restare sulla terra a predicare la Buona Legge , anziché trapassare subito nel nirvlf13a. I l compito attuale di ogni Bodhisat tva è quel lo · di fare evolvere il mondo, " in attesa che s i compia i l mo­ mento nel quale comparirà i l particolare Miin u$i-B uddha. Quando questi ha compiuto la missione terrena, i l Bo­ dhisattva ne continua « etericamente » l 'opera , mantenen­ do l 'atmosfera propizia all 'esperienza di quel l a particolare forma del Dharma che dal Buddha è stata annunciata agli uomini . I gradi attraverso i quali passa l 'essere umano per giungere alla condizione di Bodhisattva sono i se­ guenti sei s tadi : consegue le sei perfezioni ; diventa co­ sciente del suo destino (e ques to è il rivelarglisi del bo­ dhicit ta, v. supra ) ; formula il voto ( samaya ) ; incol)tra il futuro Buddha del proprio tempo e stringe con lui un -

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accordo spirituale; consegue lo stato di an-agllmin ( « co­ lui che non ritornerà più » sulla terra, perché ha consu­ mato tutto il karman che può provocarne una rinascita mondana. I gradi precedenti sono : s ro ta-apanna, « entrata nella corrente [ del Dharma ] » sakrd�agamin, « che ritorne­ rà ancora una volta [ sulla terra ] » . Allo stadio di an-aga­ min, secondo lo Hfnayana, segue la condizione di a rhant. L'ultimo grado consiste nel fatto che il Bodhisattva ascen­ de al cielo Tu�ita, ove decide se procedere per i tredici stadi successivi fino alle soglie della Buddheità, oppure scendere sulla terra come futuro MlCnu$i-Buddha ( l 'unico esempio previsto in questo senso è quello di Mait reya, il Buddha futuro, attualmente Bodhisattva di Amoghas iddh i, assieme a Visvapatzi ( che poi è un suo sdoppiamento ). L'adorazione ed il culto dei Bodhisattva vengono rivolti alle singole figure, oppure a trinità nelle quali , secondo particolari occulte affinità, sono associati Buddha e Bo­ dhisattva, oppure a gruppi, come sono meditati nei di­ versi maYJçlala, spesso in associazione ai relativi Tathagata. Nei gruppi venerati e meditati nei mm:zçlala, che sono effettivamente i più interessanti, i Bodhisat tva appaiono come la proiezione, l 'ipostasi dei cinque Tathagata nel mondo delle forme pure ( rupa-dhat u ) , ove essi esprimono una particolare energia conoscitiva promanante dal mondo assoluto ( dharma-dhat u ) . La condizione di interiore rap­ porto con i Tathagata, da una parte, e con l'umanità, dal­ l 'altra, è data dal « corpo di comunione » ( sarrzbhcga-kaya ), di cui si è già parlato. I Bodhisattva, come si è accen­ nato a proposito di Amitayus, l 'unico Tathaga ta raffigu­ rato come un Bodhisat tva, sono facilmente riconoscibili anche per il profano, perché sono rivestiti dei 13 attri­ buti principeschi , e cioè : corona a cinque punte, su ognuna delle quali è raffigurato un Tathaga ta, un orecchino, una collana stretta al collo, un'armilla al braccio ed un brac­ ciale al polso ; uno scialle coprente le membra inferiori ed uno la parte superiore del corpo; una cintura con ghir­ landa pendente sull 'ombelico ed una fascia di seta. Sulla foglia, o arista centrale della corona , è raffigurato il pro­ prio Ta thagata, i capelli sono raccolti a mitria come quelli di S iva asceta ( kapardin ), e possono essere ornati di gioiel1 52

li. I l Terzo Occhio ( ar7Jlf, « ricciolo » ), allusivo alla VISIO­ ne trascendente la tritemporalità in mezzo alla fronte, o nell'intercilio, è abbastanza comune, come pure i l « lofo » ( sikhara ) sulla testa. I B odhisa t tva sono rappresentati in piedi accanto al loro Tathligata, oppure seduti , in uno dei numerosi lisana, se sono raffigurati soli . I primi B odhisat tva rammentati nelle sacre ·scritture mahayaniche sono Mafijusrf, simbolo del la sapienza del Buddha, Avalo k i tesvara, simbolo della sua compassione, e Vaj rapar.t i, simbolo dei suoi poteri sovrannaturali ( siddh i) . Questa triade è molto popolare nel Nepal e nel Tibet . I mavdala principali li rappresentano secondo pentadi parallele alle pentadi dei Tathaga ta - o secondo ogdoadi . I l primo caso è il p i ù comune e, quindi, pass iamo a de­ scriverlo rapidamente. l ) Saman ta-bhadra ( « Buono da tutti i lati » ), proie­ zione di Vairocana, al centro del mavçlala, di colore verde , con l 'elefante come vlihana, con le mani atteggiate o nelle varada-mudra (v. supra ) o nella vitarka-mudra ( « sigillo dogmatico » , braccio piegato, mano con tutte le dita volte in alto eccetto l'indice e l 'anulare, congiunto al pollice co­ me per formare un triangolo). Suoi simboli sono o il loto blu ( nilo tpala ) o la pietra-talismano ( cin tamar) i ). Samlin­ tabhadra, che, in origine, era la rappresentazione del l ' A di­ Buddha o del Vaj ra-dhara ( v � supra ), cioè della sfera ada­ mantina dell 'assoluta realizzazione, è, per eccellenza, il protettore e l 'ispiratore delle sètte più es treme « della mano sinistra », specialmente i S iddha del Nepal e del Benga:la, nonché gli rN Ì1i-ma pa tibetani, iniziati col già citato Padmasambhava, per i quali « tutto è buono » ( que­ sti è il senso etimologico del nome stesso di Bodhisattva ), allorché se ne individua l 'elemento illuminativo . È spesse venerato in triade con Amitabha ( al centro ) e Mafijusrì ( a sinistra di Am itabha ). 2 ) Vajrapfir.ti ( che Tiene la Folgore in Mano ), proie­ zione di Ak�o bhya, ad est del mal).çlala, di colore azzurro, è rappresentato in sei o sette modi divers i , con una, tre quattro teste e, rispettivamente, con quattro, sei otto braccia, nelle quali regge il vaj ra ( la solita folgore a forma di 8, derivata probabilmente dal tipo della folgore di 1 53

Zeus) , la spada (khaçlga), il laccio (pa sa) e la ca mpanella ( ghatz!7i ). Suo veicolo è il serpe e un piccolo Garuçla. In lui si assommano i caratteri degli dèi vedici Parjanya ( per la pioggia che produce evocando i Naga delle nubi), Indra ( per il vajra ), Varw:za ( per il laccio), Sjva ( per il colore azzurro, dovuto al fatto che come Siva fu costretto a bere l 'ambrosia - di cui è custode. - mista al veleno hallihala che vi aveva versato il rapitore Rahu). Oltre ad essere il bodhisattva di Ak�obhya, questa divinità è con­ cepita come un'emanazione feroce ( k rodha ) del Vajradhara ( cioè il Sostegno Adamantino dell 'esperienza della Bodhi) proiettata nel Sarrzbhoga-kaya. A tutti questi complessi ca­ ratteri, nei quali sono confluite le esperienze simboleg­ giate dalle divinità vediche ed indù su citate, si aggiunge quello singolarissimo di essere il protettore dei Naga ( Ge­ ni-serpenti ) contro i Garuçla ( Geni-aquila), che abitualmen­ te se ne cibano. Ciò probabilmente adombra il fatto che i Nliga, come le l)akùii ( temibili sak t i volanti, general­ mente dall'aspetto furioso), sono considerati ( al pari dei Gandharva indù) esseri pericolosi per i comuni mortali, ma anche per gli eroi ( vira ), depositari occulti della co­ noscenza liberatrice, cioè dei Tantra, che di ciclo in ciclo essi rivelano in luoghi misteriosi , fisicamente irraggiungi­ bili (Agart tha) , come Sa mbhala il Monte Meru (l'Axis Mun­ di indiano) ecc. Da Vajraplltzi vengono emanati vari k rodha o dèi irati -, custodi dell'intimo significato della Legge ( Dharma-plila ). Nel Tibet e nel Nepal Vaj rapiitz i è venerato come custode dell 'elisir della vita, in triade con Mafijusr'i, che regge il vaso in cui questa è raccolta, e Padmaplln i, emanazione di Avalo kitesvara, che regge la brocca ( kalasa )

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dell 'amrta. 3 ) Ratnapiitz i ( che Tiene il Gioiello in Mano ) è la pro­ iezione del Tathagata Ratnasmrz bhava nel Sarrzbhoga- kilya,

ove simboleggia la Saggezza del Buddha . Il suo colore è il giallo ed il suo simbolo è, come per il suo Tathligata, la cintllmar.z i, che nel caso suo è raffigurata come una per­ la dalla quale si diparte una fiamma triforcuta, rammen­ tante il tridente ( trisula ) di S iva. La sua mudrll è quella del dono ( va rada-mudra). 1 54

4) Avalokitesvara ( il Dio dello Sguardo Misericordioso ). Simbolo della compassione del Buddha, è la deità più po­ polare del Mahayana, nota nel Tibet come Spyan-ras-gzigs (pronuncia Cenrezig ) ed ivi ritenuta protettrice del Paese . Una sua emanazione, Padmaplir;i è considerata incarnarsi nel sovrano religioso e politico, il Dalai bLa-ma di Lha-sa ; in Cina e Giappone è venerata più delle altre manifesta­ zioni eccetto forse Amitabha, suo Tathligata. In quei paesi Avolok i tesvara ( Kuan-yin, Kwannon ) è considerato di ses­ so femminile e, sotto la forma di Sung-tzu ( « che porta con sé i bimbi » ), continua la tradizione delle indiane S itala e Maryammei, con funzioni rovesciate, cioè come protettrice degli infanti e non più come causa della loro morte. Le forme con cui è rappresentato sono numerosis­ sime, circa trentasei principali e d una cinquantina deri­ vate, e non è qui il caso di darne conto dettagliatamente . Nel Nepal è rappresentato di color rosso, bianco altrove, portando, come simbolo, il rosario di cristallo di 1 08 grani ( ak$a-malli) ed il loto. Poiché è raffigurato generalmente con varie. braccia ( da due a quattro, a diciotto, a « 22 mila » ( ! ) ) nel caso che queste siano quattro, il più fre­ quente, due mani compiono il gesto del saluto ( anjali o namaskllra; palme unite ( come nella preghiera cristiana ), all'altezza del petto o dell'intercilio , un 'altra la varada­ mudrli e un'altra ancora la vitarka-mudra ( v . supra ). La sua sak t i è una delle . tante · forme di Tara, la salvatrice ( ritenuta essersi incarnata nella principessa nepalese Bhr­ k ufi, sposa del re tibetano Sror;z bTsan sGam po, che ella indusse ad introdurre i l Buddhismo nel Tibet; quest'ulti­ mo, a sua volta, è ritenuto avere accolto in sé il princi­ pio spirituale del Buddha venturo Mait reya) . Avalo kitesva­ ra, il cui culto fu molto vivo nell'India settentrionale fra il I I I ed il V I I secolo, è ritenuto essere nato da un rag­ gio di luce partito dall'« occhio centrale » del Buddha ; egli è il guardiano della Buona Legge fino all'arrivo sulla terra di Maitreya. Abitatore delle cime .( Hstiang-tsang af­ ferma che era venerato sul monte Po tala, nell'India me­ ridionale, come lo era fino alla recente invasione cinese sull'omonimo monte che sovrasta Lhasa), Avalo kitesvara continua, sotto questa forma, una delle funzioni di S iva, ,

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al quale lo apparentano alcune sue rappresentazioni, spe­ cialmente quando raff\gurato in maithuna con la sua sakti Tlira. Vicario del Buddha presente nell'atmosfera terrestre, Avalo kite svara è ri tenuto essersi manifestato su questa almeno 333 volte, per salvare l 'umanità. In questa veste egli assume l 'aspetto di Arya-piila-Avalo kite svara ( Avalo­ kite§vara , « il Nobile P rotettore ») , raffigurato in namas­ kara-mudril, di colore bianco o giallo e con 1 1 teste ( con­ tinuazione degli 1 1 Rudra, o Marut vedici ) e delle 1 1 for­ me di S iva indù, che guardano in tutte le direzioni ( sa ­ manta-m ukha), ed u·n numero variabile di braccia, che reggono diversi attributi. La leggenda che giustifica que­ sta rappresentazione narra che Avalokitesvara, nella sua universale compassione, decise di scendere agli I nferi per liberare i penitenti e condurli nel paradiso di Amitiibha, la Sukhavati; si accorse ben presto, però, che per ogni dannato che saliva un altro scendeva a prendere il posto . Dal dolore gli si spaccò il capo in dieci spicchi ( le quat­ tro direzioni principali , le quattro intermedie, lo zenith ed il nadir, verso i quali egli vigila còstantemente ). Amitilbha fece, di tali spicchi , dieci teste ( tre corrispondenti ad Ava­ lo kitesvara stesso, Manjusrz e Padmapa'l']i, tre corrispon­ denti ai tre mondi : kama-lo ka ( mondo della brama arden­ te, in cui psichicamente siamo più o meno immersi), satya­ loka ( mondo della realtà) ed arupa-lo ka ( mondo informa­ le), sormontate dalla testa propria di Ami tabha. Le undici teste simboleggiano anche i cinque sensi , i cinque ele­ menti più il manas, cioè gli undici prlina. In tali forme Avalok itesvara ha come simboli il libro ( simbolo di Man­ jusrl) ed il vaj ra ( simbolo di Vajrapani ) . Tra le altre innumerevoli forme d i Avalo kitesvara vale menzionare quelle, create in terra indiana, di Sirrzha-niida­ Avalo k itesvara (Avalo kitesvara « dalla voce di leone » ), sim­ boleggiante l 'annuncio della Legge, rappresentata con Ava­ lokite§vara in rlija-llla-asana ( « posizione di regale como­ do » : seduto, con un piede posato a terra e l 'altro ripie­ gato sulla coscia, pianta in alto ) e simboleggiato col loto dal quale sorge una fiamma a forma di gladio, e la forma di Nilakatzfha ( « dalla gola azzurra », che ricorda il noto mito di S iva), in atteggiamento meditativo ( dhyana-mu1 56

dra), rivestito del cordone brahmanico (yajfl6pavìta) e del­

la pelle di una antilope, secondo l 'uso degli asceti ( vedasi la tipologia degli S iva kapardin ) . lpostasi generalmente non-tantrica di Avalo k i tesvara è Padmapliij.i ( « il Tenente il Loto in Mano » ), il quale è rap­ presentato mentre regge il loto ( simbolo del principio attivo creatore conferito dallo Adi-B uddha ad Amitiibha ) ed il kalasa ( la già citata brocca per l'Acqua della Vita ). PadmapliJJ.i è considerato come il creatore materiale del mondo in cui viviamo nel presente ciclo cosmico: È rap­ presentato come un giovane principe indiano incoronato ( nello spicchio frontale della corona abitualmente è rap­ presentato il Ta thaga ta di cui egli è l'emanazione ; nel pre­ sente caso Amitabha). Sul capo, come del resto in molte immagini di Avalokitesvara, figura i l « lofo », o rigonfia­ mento, detto U$ni$a, che è il ricettacolo del divino manas del Buddha, o il mezzo di comunicazione coi mondi tra­ scendenti la manifestazione formale ( v . sahli.s ra ra-ca k ra e brahmarandh ra ) . Quando è rappresentato in piedi le sue mani sono atteggiate nella vitarka-m udra e nella va rada­ mudrli, quando è in raja-lila-asana la sua mano sinistra reca un loto rosa sbocciato. È talvolta raffigurato accom­ pagnato dalle sak t i Tarli ( verde ) e Prajiia-paramita ( « Per­ fezione della Gnosi » , testo fondamentale del Mahay71.na). Il mantra fondamentale di Avalo kitesvara, come di Pad­ maplir.ti, è il famoso « Orrt maJJ.i padme Hurrt » ( Orrz, gioiel­ lo nel fiore di loto, Hulfl ), che , specialmente nel buddhi­ smo tibetano e nepalese è ritenuto simboleggiare la quin­ tessenza del Dharma predicato dal Buddha del presente ciclo, oltre a contenere magicamente, « ex opere operato » , l a virtù d i conferire l a Bodhi a chi si immerge totalmente nella meditazione su di lui ( non si tratta, certamente, di uno sceveramento razionale, ma di un'immersione estatica nel simbolo espresso da tali suoni ) . Vediamo ora l'ultimo Bodhisat tva, della serie costituen­ te la pentade sacra : 5) Visvapli!Ji (« Avente le Mani rivolte in tutte le dire­ zioni >> ) , che è la proiezione di Amoghasiddhi nel Sarrtbho­ ga-kliya. È una deità raramente rappresentata, riconosci­ bile perché nella mano destra regge il visvavaj ra ed atteg1 57

gia la sinistra nella varada-mudrli. La sua funzione è quel­ la di contemplare lo Adi-B uddha in atfesa della riyelazione del V ciclo buddhico, quello in cui si manifesterà Mai­ treya, che esso in certo modo prefigura. Il ciclo dei cinque Tathllgata e dei cinque B odhisat tva, qui riassunti, è il più comune nel Mahliylina delle diverse forme. Ne esistono, però, altri, in cui figurano altri B o­ d li isat tva finora non citati, come ad esempio quello degli otto B odhisa t tva, che si esemplifica a seguito. Discenden­ do a destra del mar,zçlala sono rappresentate, successiva­ ni ente, le figure di Avalo kite svara, .Akasa-garbha, Vajra­ par,zi, K$iti-garbha, indi, a sinistra, Sarva-nfrvararJ.a-vi�kam­ bhin, Mait reya ( concepito come B odhisat tva e non come futuro Buddha umano ), Samlin tabhadra e Manju�rt. Ef­ fettivamente questa ogdoade obbedisce ad un fine più teologico e mistico che puramente devozionale, come è dimostrato dalla differente importanza dei vari B odhi­ sat tva, riuniti in tale specie di ma1J.çlala, nei riguardi del culto che a loro viene . realmente rivolto. A parte i B odh i­ sat tva sopra descritti nella pentade ( e fra loro già Ratna­ plir,zi non ha grande rilievo ), fra questi altri Bodhisat tva i più importanti sono indubbiamente Mait reya, la cui fi­ gura è conosciuta già nello Hfnaylina, e Manjusrf. Questi due sono vere e proprie divinità, che il Buddhismo può benissimo aver mutuato da qualche religione locale o aver ricevuto, tramite una particolare concezione mistica. U n rapido sguardo, ora, alla tipologia di queste altre figure divine. Akasa-garbha ( « Germe dello Spazio » ) ( likiisa significa anche « etere » e « luce » ) . È rappresentato col solito aspet­ to di B odhisa ttva, avente, però, lo u�nf$a a forma di s tupa; sue mudrli sono quella dogmatica ( vitarka ) con la mano destra e la varada-mudrli, o abhaya-mudra ( mudrli dell'impavidità, v . supra ) con la sinistra. Suo simbolo è i l dio-Sole, Surya, retto da u n loto poggiato sulla spalla si­ nistra del Bodhisat tva. K$i t i-garbha (Germe della Terra) . Simboleggia la testi­ monianza data dalla terra alla vittoria del Buddha sulle forze di Mara. Ci- viene rappresentato con la mano destra in vitarka-mudrli e la sinistra in varada-mudrll. All'altt:: z za ·

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della spalla destra ha un loto che regge una perla circon­ data da fiamme; presso la spalla sinistra, invece, appare frequentemente un libro retto egualmente dal loto. Rara­ mente rappresentato fuori dell 'ogdoade suddetta, K�iti-gar­ bha è il B odhisat tva che guida il miste nelle cerimonie di iniziazione ai misteri della Terra. Per questo motivo nel Buddhismo cinese e giapponese è stato identificato a Yama, il Signore dei Tra passati, dio della morte e re delle sei forme di esistenza ( bodhisa t tva, uomo, animale, dè­ mone, asura e pre ta, o lemure). In Giappone ed in Cina è raffigurato come un monaco che tiene nella destra il khakkhara, o bastone col sistro in cima, con cui il mo­ naco - tacendo - può annunziare la sua presenza durante la questua. Sarva-nfvarat;za-vi$karrzbhin (il « Cancellatore di tutti gli Ostacoli » ) . B odhisat tva rap p resentato generalmente di co­ lore bianco , con le mani atteggiate nelle vitarka e varada­ mudra, ha come simbolo la luna, oppure il libro che porta, al solito, retto da un loto sulla spalla destra. Talvolta è raffigurato tenente nelle mani la pietra c i n tllmatzi ed una coppa di ambrosia. È talvolta concepito come liberatore dai se rpenti . Mait reya ( l 'Amichevole, Amorevole). È l 'unico caso di un B odhisa ttva che opti per il destino di scendere sulla terra a compiere l 'opera di un Manu�i-B uddha, avveni­ mento che si verificherà 4.500 o 5 .000 anni dopo il nirvl1.7J.a di Gautama § akyamuni , secondo le pie tradizioni - che devono essere molto antiche, dato che sono ammesse an­ che dallo Hfniiyana singalese, birmano e siamese, che Io rappresenta iconograficamente ( unico Bodhisat tva ) accom­ pagnato dal Buddha attuale . È facilmente riconoscibile perché è il solo Bodhisattva raffigurato ·seduto all'europea, quando non ritto in piedi . Come il Buddha attuale, è raf­ figurato coi capelli ricciuti , l'u�ni?a, l ' il r 'IJ.if e le lunghe orecchie lobate; le sue mani sono atteggiate nella dharma­ cak rll-mudra ( la m udra « della messa in moto della Ruota [ della Legge ] » : il medio, l 'anulare ed il mignolo delle due mani sono distesi, i pollici, invece, toccano i rispettivi indici , la mano sinistra orizzontale sul grembo, la destra verticale, perpendicolarmente sulla sinistra ), oppure la 1 59

destra nella va rada-mudrli e la sinistra nella vitarka-mu­ drli, oppure ancora ( nelle rappresentazioni del Gandhara ) con un kalasa ovale nella mano sinistra. I l suo simbolo è i l fiore campa o nliga-pu�pa, bianco col centro giallo. Un

altro suo e mblema è la sciarpa di cui si cinge, stretta da un nodo a sinistra, con i due lembi cadenti fino a terra. Sono numerose le leggende relative all'avvento di questo Bodhisattva, che, sia per la funzione che per il nome, richiama la dottrina iranica di Mithra Saosyant, il futuro Salvatore dell 'Umanità ( concezione ripresa nel Kalki-ava tlira di Vi$VU). Si ritiene, ad esempio, che sia sta­ to incaricato della sua futura missione dallo s tesso S akya­ muni, in una visita· da questi compiuta nel cielo Tu�ita, ove Mai t reya risiede. Da questo cielo egli sarebbe già di­ sceso una volta sotto le sembianze del Maitreya umano - i l maestro di Asailga e Vasubandhu - per rivelare ai due la dottrina Yogacara. Esso, inoltre, è talvolta conce­ pito come il fondatore delle scuole tantriche. Si ritiene, ad esempio, che molti Santi (come Maha-Kasyapa in I ndia e Kobo Daishi in Giappone ), non s iano realmente mai morti , ma immersi in una sorta di sonno magico dal quale si risveglieranno allorché Mait reya effettuerà la sua disce­ sa sulla Terra ( concezione, questa, molto simile a quel la i ranica antica di Ke resaspa che attende, in is tato di ca­ talessi , l'arrivo di Mith ra Sao�yan t, o a quella persiana mo­ derna dell'Imam « nascosto » da circa undici secoli per lo stesso motivo, a tacere di simili leggende, diffuse nel­ l 'Europa occidentale, connesse al ciclo del Graal ). Mait re­ ya, come Avalo kitesva ra e Manjusrf, non appare tanto co­ me una figura teologale e mistica, ma come un dio v�ro e proprio assimilato dal Buddhismo . Di origine meno chiara appare essere il seguente Bodhisattva : Manjusr[ ( « Felice per Bellezza » ), del quale sono note almeno quindici forme fondamental i , cultuali , mistiche ( tantriche ) e teologali . La forma più comune ce lo rap­ presenta di colore zafferano, bianco, rosso o nero, mon­ tato su un leone ( ciò che ricorda il sirrz ha-niida-Avalo ki­ tesvara), con le mani atteggiate nella dharma-cak ra-mudrii ( v . supra ). Essendo la personificazione della Sapienza tra­ scendentale del Buddha, i · suoi simboli sono il Libro ( pu1 60

$ faka), e la spada ( khaçlga ) cioè la gnosi ( prajfzli) e la sua messa in funzione ( upllya ). La sua sa k t i è, assai significa­ tivamente, Sarasva ti, l 'antica dea-Parola sposa di B rahmli nell 'Induismo. In Mafzjusrf conviene distinguere due a­

spetti : quello storico e quello mistico e teologico . Stori­ camente è ritenuto essere la personificazione, in generale , del missionario buddhista nei Paesi a nord dell'India. Il pellegrino cinese Yi-ching ( 634-7 1 3 ), che visse a lungo nel­ l 'Università di Nalanda, narra nelle sue Memorie che gli Indiani ritenevano che Mafzjusrf fosse l 'apostolo buddhista in Cina ed il civilizzatore del Nepal . Lo Svayarrzbha-pu rl11Ja (X secolo ) rammenta un mitico Mafzjusrl, il quale , recatosi nel Nepal quando esso era ancora una contrada selvaggia, per venerare il sacrario del « Nato da Se Stesso » ( Svayarrz­ bhii., altro nome per il Buddha primordiale, come per il Brahman o per Vigm), sito in una montagna, trovò l 'adia­ cente lago Kalihrada pieno di mostri acquatici, che rende­ vano il tempio inaccessibile. Perciò, con la sUa spada, aprì un canale a sud del lago , che fece fluire a valle le acque : sul fondo così prosciugato fondò la città di Kath­ mandu . Altro elemento storico extra-indiano è dato dal suo stesso nome, la cui prima parte, Mafzju, sembra avere - in tokhario - il significato di « principe ereditario » ( monju ), come il sanscrito kum a r a . Marìjusri è , infatti, raffigurato sempre con l 'abbigliamento convenzionale di un principe, più ancora degli altri Bodhisattva : porta inol­ tre la corona, con l'immagine di A k � obhya nello spicchio centrale, l 'u$nf�a sormontato da una perla fiammeggiante, ed ha la un:zll dipinta nel · centro della fronte, colorato ge­ neralmente in giallo, nero, rosso o bianco. L'aspetto teo­ logale e tantrico ce lo rappresenta con i due attributi di Sapienza e di « Centralità » . Un aureo raggio partito dalla fronte del Buddha colpì un albero jam bu ( uno dei tanti alberi che simboleggiano misticamente il « centro del mon­ do » , o « ombelico dell 'universo » , cfr, il greco òmphalos), che cresceva ai piedi del monte Pafzca-sfrsa ( « Cinque Ci­ me » - allusive alle cinque potenze universali rappresen­ tate dai cinque Tathllga ta ) ; dall 'albero sbocciò un loto, nel quale si trovava il principe dei saggi , Arya-Mafzjusr'i; il suo colore era giallo, nella mano destra brandiva la spada 161

della Sapienza, nella sinistra teneva un libro ( la P ra jft.li­ Nato senza padre e senza madre egli è l ibero dall'impurità pro­ pria alla generazione . Fra le numerosissime varietà delle quindici forme principali suaccennate ve ne sono molte che ce lo rappresentano seduto in padmlisana, con la mano sinistra atteggiata nella vitarka-mudrlf e la destra agitante la campanella, simbolo dell'inessenzialità di tutte le cose; altre ce lo raffigurano con . tre teste, assieme alla sua sak t i Sarasvati, più piccola di lui, seduta sul suo ginoc­ chio sinistro, mentre egli, con otto braccia, brandisce di­ versi simboli , oltre alla spada ed al libro, ed è circondato da un alone di fiamme ; in altre appare simile ad Avaloki­ te�vara, seduto su un leone nella posizione di rlija-lila ( v. supra ). La località Pafica-sir�a è stata ben presto iden­ tificata dai Cinesi al WuTà.i Shan (Monte dai Cinque Pic­ chi ), nello Shan-hsi, ove è venerato da Cinesi, Mongoli e Manciù . Particolare abbastanza curioso, pare che sia pro­ prio il nome di Mafiju a dar luogo alla denominazione nazionale dei Manciù, che in qualche epoca ne sono stati ferventi devoti . Con queste figure divine si è rapidamente completata la serie dei Bodhisattva più generalmente rappresentati . Ve ne sono, però, molti altri che, seppure più rari, com­ paiono in particolari cicli tantrici , come Mahli-sthllna­ prètpta ( « Colui che ha conseguito la Grande Sede, o For­ za » ) e Trailokya-vijaya ( il « Vincitore dei Tre Mondi » ) . Questi ultimi, però, assieme a molti altri Bodhisattva, più che al Buddhismo mahayana formatosi in India, appar­ tengono ai suoi sviluppi mistici tibetani . Con ciò si è lungi dall'aver esaurito il Pantheòn ma­ hi'Iyllna, che, nella forma tibetana, nota comunemente co­ me Lamaismo , conta centinaia di figure, ognuna delle quali esprime, con preciso simbolismo, un particolare gra­ do dell 'esperienza conoscitiva dell 'adepto ai Tantra . Col progresso del Vajrayàna l 'elemento sàk ta è andato acquistando crescente importanza, fino a diventare parte fondamentale del Mahliylina. Le concezioni relative alle sa k t i non si differenziano di molto da quelle contempora­ nee dello S ivaismo. La sak ti, o « sposa-potenza » , è l 'enerparam i ta) rettogli da un loto azzurro ( n ìl6 tpala).

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gia femminile per cui la virtualità dei Tathllgata e dei Bodhisat tva diventa atto di creazione o di distruzione. Donde il carattere ambiguo che le sak t i, più ancora che le deità maschili, assumono nell 'economia tantrica. Possono, quasi tutte, essere terribili o salvatrici, oppure conservare le due forme contemporaneamente. Questo è il caso delle numerose Tara ( « S alvatrici » ), classificate secondo il co­ lore con cui sono rappresentate, allusivo alla famiglia m i­ stica dell'adepto ( kula), che le sceglie per giungere all 'espe­ rienza illuminativa. Fra le principali, verdi, si annoverano Maha t tarf, KhadiravavT, Varada, Dhanadii, Durgo t tarivz; fra quelle bianche Mrtyuvaficanll, languii ( S abarakumarT) ; fra le gialle B hrku{f (v. supra ) e Vajra tllra; fra le rosse Ku­ rukullll, fra le blu Ugrll ed E kaja{ll. Quasi tutte queste, in particolare le terribili MllricT, Vaj ravarlihf, le cinque Rak$Zi e Parva- Sabarf, « la Selvaggia coperta di penne » , derivano direttamente d a simili deità femminili indù a proposito dei culti slik ta. Queste sa k t i e, in particolar mo­ do, una classe semidivina di loro, detta delle yoginl, o vaj ra-yogin'f ( le « Praticanti lo Yoga Adamantino » ), rap­ presentano non tanto le energie cosmogoniche promananti dal mondo divino, quanto l'energia insita negli impulsi che conducono l 'uomo a compiere le cinque infrazioni ca­ p itali della morale buddhista, e, quindi, alla sua rovina. Sono le forze che, all 'uomo comune volto al bene, appa­ iono particolarmente malvagè , selvagge, frenetiche, ma che possono venir sublimate dall'adepto ai Tantra sì da raggiungere, trami te loro, le siddhi ( perfezioni, poteri ma­ gici ) . Il Vaj rayana crea quindi un nuovo ideale, per l 'uo­ mo, dopo quello dell'Arhan t o quello del Bodhisat tva : l'ideale del Siddha, del « Compiuto » , che ha raggiunto ta­ le stato proprio mercè gli stessi impulsi passionali che condannano l 'uomo comune al servaggio della ineludi­ bile catena delle rinascite. La rettificazione, in senso co­ smico, di questi impulsi, avviene allorché l'uomo si strappa alla loro soggezione, dovuta all'ego transitorio : realizzata l 'inessenzialità dell'ego, questi impulsi vengono restituiti alla loro sfera di cosmica energia. Ciò implica, naturalmen­ te, il trapasso, dalla coscienza legata agli impulsi vitali di una transeunte personalità, alla coscienza assoluta, auto1 63

luminosa, essenziata di vacuit�, silnyatll; solo in questo ' stato si ha la pura percezione di forze che all 'uomo nor­ male appaiono come passioni, ma che il Siddha speri­ menta immediatamente come energie creatric i . Pertanto i compiti che si propongono i rituali tantrici non sono mol­ to dissimili da quelli che pretendono conseguire le diver­ se forme dei Tantra s ivaiti e slik ta. Il corpo umano è con­ cepito come un ma�Jçlala, oye lo yogin si identifica suc­ cessivamente alle energie capitali dell 'Universo nascenti dal rapporto attivo fra gli archetipi (i Ta thaga ta) e le loro Sakti, fino ad obiettivare il gioco universale della Maya ( lfla-mliyli-sa k t i ) e reintegrarsi nell 'assoluto « vacuum > > del­ lo Adi-Buddha o Vajrasat tva ( v . supra ). Un cenno , ora, al culto e, in particolare, alle tecniche tantriche . I n uno s tato di medi tazione corrispondente alla bhavanll, lo yogin sperimenta, proiet tati nel proprio cor­ po, anziché i sei cak ra del Tantrismo sivaita o sakta, i quattro corpi del Buddha, rispettivamente . il nirmlir)a­ kaya nella zona ombelicale, il dharma-kliya in quella car­ diaca, il sarrz bhoga-kaya nella zona laringea, il sahaja-kayii, o « corpo innato )) trascendente i tre primi ( talvolta detto ' kllma-bhoga-kiiya, « corpo del fruimento di amore >> ) al di sopra della testa, nell 'u�n f�a caratteristico delle figurazio­ ni buddhiche , che corrisponde all 'esperienza del sahas rara­ cakra dello Y oga ( « cerchio dai mille petali )) ) , o ve si in­ vera la « Grande Felicità > > ( Maha-sukha), cioè il b rahma­ nico Ananda. L ' operazione, come il risveglio di kuvçlalin i dei Tantra siik ta, si effettua attraverso il gioco, attivato, reso cosciente nello yogin, delle tre vene sottili, che i Tant ra indù denominano ftjii, pingala e su�umna e che quel­ li buddhisti conoscono come lalanli ( « la frivola )) ), che par­ te da sinistra ed è il simbolo della Gnosi , rasana ( « la gu­ stante )) ), che parte da destra ed è simbolo del Mezzo, ed infine la vena di mezzo, detta avadhut f ( « la vibrante » ), la quale è il condotto attraverso il quale spira il vento nascente dall 'unione delle prime due, concretamente sim­ boleggiato dal seme virile che, con le pratiche già accen­ nate, non viene fisicamente emesso, ma conservato •nella sua primitiva eterea essenza di vita vibrante e « portato­ su » ( urdhva-re tas ), cioè fatto rifluire verso la sfera in164

formale, identificata ad uno dei suaccennati centri spir-itua­ li del corpo . L'unione ed il reciproco annichilimento di prajnli ed upliya vengono così effettuati , e lo yogin rea­ lizza , fino al livello corporeo, l'esperienza della vacuità ( silnyatli). Questa forma estrema di Yoga, implicant e il superamento della stessa morale buddhistica, viene talvol­ ta effettuata, come nei rasa-mal;lçlala sivaiti, con l'ausilio di yog fni, giovani donne in carne ed ossa, che propiziano, con la loro presenza, la « messa in vibrazione » del l 'etere fluente nelle tre vene sottili suaccennate. La medi tazione , il controllo · del respiro e le altre discipline dello yoga , rendono l 'asceta padrone di detti processi che, ad un certo punto, raggiunto l 'acme ( che nell 'uomo « normale » cor­ risponde all'orgasmo), vengono bruscamente capovolti ( per l'attuazione della revulsione dell 'appoggio as raya-paravr t t i ), per cui la quiddità ( tathata) del seme viene sperimentata come Bodhicit ta ( v . supra ), e questo « pensiero dell'illumi­ nazione » è la suprema realtà in cui si discioglie la per­ sonalità contingente dello yogin . Queste esperienze, che generalmente hanno dato luogo , in India, ad ogni genere di degenerazione e di abuso , ma che si sono conservate relativamente pure, fino a qualche tempo fa, nel Tibet, sono proprie a numerose sotto-sètte del Vajrayllna, come il già citato Sahaja-yli.na. Nell 'iniziazione a quest 'ultimo sistema gioca una parte essenziale il cosiddetto k rodha-ave sa ( « l 'entrata in frene­ sia » ), che risveglia la potenzialità violenta dell 'inconscio per risolverla, attraverso la successiva e graduale identi­ ficazione meditativa coi diversi Buddha, meditati secondo l 'aspetto k rodha , cioè terrifico , nella suprema immota realtà sim boleggiata dallo A di-Buddha, denominato dal Kalacak ra come il B rahman, cioè Svayambhu, il Nato da Se stesso. Nonostante il loro aspetto apparentemente scandaloso queste pratiche erotizzanti, più o meno segrete , hanno mantenuto nella pura tradizione tantrica un contenuto al­ tamente spirituale. Il principio che le ispira è il seguente : tutti gli elementi negativi dell 'esistenza, anziché repressi e, quindi, potenziati dal subconscio, vanno risolti nella Su­ prema Realtà dalla quale traggono il loro essere. Il gradi1 65

no iniziale della pratica consiste nel percepirli nella loro quiddità, come pure e sempliçi forze, sciolte dalla loro relazione passionale con il soggetto che le patisce. Indi vengono meditativamente restituiti alla sfera da cui pro­ cedono, e così si consegue gradualmente la soluzione di tutti gli elementi dell 'esperienza nella sfera dell 'Assoluto . Anche il rituale cultuale e devozionale del Buddhismo, specialmente Mahaylina, ha . presente lo scopo supremo di tale realizzazione . Data la quasi totale scomparsa del Bud­ dhismo in India, salvo le zone eccentriche del Nepal , BhUtan, Sikklm e di Ceylon, si fa a seguito un breve cenno del culto quotidiano come è ancora conservato nei monasteri nepalesi . Esso consta di sette momenti prin­ cipali che somigliano parzialmente alla pujll indù : il loro scopo è sempre quello di propiziare la meditazione , l 'inte­ riore avvento e l'identificazione con la « divinità prescel­ ta » ( i�[a-devatlf, tibetano yi-dam ), la quale è una delle forme divine elencate che, corrispondendo alla « famiglia mistica » dell 'adoratore, offre una maggiore facilità per aprirgli la via verso l 'illuminazione. I momenti fondamen­ tali del culto sono i seguenti : l ) invocazione, mediante le varie dhara7Ji, man t ra e bT­ ja, del Buddha, o Bodhisattva, o, comunque sia, l 'I�fade­ va ta prescelta; 2) invito alla divinità ad essere presente nel ma7Jçlala, ove viene visualizzata e meditata ; 3 ) offerta di diverse sostanze simboleggianti i vari componenti della personalità umana : riso, zucchero, in­ censo, acqua, lampade alimentate da burro, che vengono poste nel sacrario, dinanzi al quale l 'officiante è seduto . L'atto può essere accompagnato dal suono di tamburelli o trombe che scandiscono la recitazione di particolari inni ( s t o t ra ) o silt ra; 4) inni in onore del Buddha e dell 'l${adevatll tutelare ; 5 ) recitazione ed interiorizzazione dei man tra relativi alle varie deità; 6 ) propiziazione della deità per il beneficio e benessere di tutti gli esseri viventi ; 7) benedizione finale. 1 66

Ci sono innumerevoli altri riti ed atti di omaggio più semplici di pratica quotidiana oppure occasionale, che non si differenziano grandemente da quelli indù e che il po­ polo rivolge indifferentemente ai Tathagata, ai Bodhisattva o alle deità indù ( ! ), come l 'omaggio ( namas-kllra ) , l 'of­ ferta di riso , fiori e frutta, l 'accensione di bacchette di incenso o di lampade di fronte all'immagine, la pronuncia delle dharaQ.i o dei mantra, soprattutto quello citato già, proprio ad Avalo k itesvara ( lo 01fl ma1;1i padme hi11fl, o man t ra dalle sei sillabe , ?ad-ak�ara-ma n t ra ), ognuna delle quali ritenuta simboleggiare e riassumere una delle sei forme di esistenza ( v . supra ), oltre a rivestire altri signi­ ficati esoterici, evidenti per gli iniziati ai Tantra ). Nono­ stante l 'illusorietà che il Buddhismo dogmaticamente at­ tribuisce ad ognuna delle innumerevoli figure divine, nelle quali si articola il suo pantheòn, il popolo buddhista tri­ buta un culto schiettamente devozionale e personale alle immagini , statue e simboli non solo dei Ta thiigata, B odh i­ sa ttva e relative Sa k t i, che sono dèi veri e propri , ancor­ ché trasfigurati nella simbologia tantrica, ma anche a quelle dei vari Buddha umani, specialmente Dipan kara, in triade · con Maiijusri o Avalo kite5va ra e Vajraplin i, oppure con S llkyam uni e Mait reya, Kasyapa, oltre all' � ltimo Sà­ kyamuni; vengono anche venerate come concrete divinità le sublimi astrazioni metafisiche dello Adi-Buddha, assimi­ late nel culto ora ad Amitiibha, ora a Vairocana ( special­ mente in Giappone, nella figura di Dai Nich i Nyorai) , ora addirittura a Samlln tabhadra, quindi ad un Bodh isat tva! Le stesse ipostasi dello Adi-B uddha, Vajrasa t tva e Vaj­ radha ra, che ne simboleggiano la virtualità creativa ante­ riore al dispiegamento dei cinque Ta thllgata, sono talvol­ ta assimilate, nel culto popolare , ad Ak$obhya, o conside­ rate, in determinati cicl i , un sesto Ta thllga ta, che riassume le esperienze di tutti gli altri cinque , domina sul manas umano ed è, nelle forme ibride di culto indù-buddhista, identificato a B rahma e raffigurato con quattro teste co­ ronate, col vajra stretto sul petto con la mano destra e la gha1Jfll posata sulla coscia sinistra ( gha1;1(ll e vaj ra han­ no, nel Buddhismo mahayanico indiano , una grande im­ portanza rituale oltre che simbolica). 1 67

La tolleranza cultuale verso le figure -divine di altre religioni , l'identità o similitudine estrema delle esperienze del Vajrayllna con quelle tantriche saiva e vaigtava, unite alle circostanze storiche e politiche accennate nel prece­ dente capitolo, affrettaro.no la quasi totale scomparsa del Buddhismo dallo scenario religioso e mistico dell'India continentale. Se si vuole astrarre la sopravvivenza Thera­ vadin ( S thavira ) in Ceylon, dovuta soprattutto all'isolamen­ to religioso dell'isola, si può affermare che il Buddhismo mahayanico indiano ha continuato ad evolvere e svilup­ parsi, con stretta consequenzialità all 'impulso ricevuto dalle università di Nalanda, Odantapura e Vikramasila, nelle varie scuole tibetane, cioè in quella particolare specie di Buddhismo che si suole denominare Lamaismo.

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APPENDICI ALLA PARTE S ECONDA l) Il Lamaismo

Non è possibile avere un'idea compiuta del Buddhismo indiano, specialmente quello mahayana, se non se ne cono­ sce il suo naturale sviluppo in terra tibetana . La religione che si suole denominare Lamaismo (dal tibetano bLa-ma, « superiore » , termine con cui si rivolge la parola ai reli­ giosi buddhisti) , dominante nel Tibet e nella Mongolia, altro non è che la continuazione del Mahayana, fortemen­ te tantrico, dominante nell'India Settentrionale . durante gli ultimi secoli della sua esistenza. Adattandosi all'am­ biente tibetano, il Buddhismo ha accentuato proprio quei caratteri religiosi e magici insiti nel Tantrismo, subendo contemporaneamente l 'influsso della preesistente religione B on-po, di carattere sciamanico, che ancor oggi sopravvi­ ve qua e là, però fortemente buddhizzata. La penetrazione del Buddhismo nel Tibet è la conse­ guenza di un fatto storico e dell'evoluzione culturale di tale paese: l 'unificazione politica del Tibet ed i l suo inci­ vilimento. Il merito di questa benefica rivoluzione deve ascriversi ad un principe della stirpe di Yar kluns che, già nel secolo VI , aveva creato un regno abbastanza esteso fra la Cina e l 'India. Questi era Sron-b rtsan-sgam-po (620649) , per merito del quale il Tibet divenne una grande potenza asiatica. Questo sovrano, oltre ad essere un con­ quistatore , si preoccupò delle sorti future del popolo che, consigliato dal saggio ministro T'o n-mi Sambhota, provvi d e di una legislazione, di una organizzazione statale di tipo feudale riflettente la sua ripartizione in clan ; infine egli impose al paese, fino ad allora analfabeta, un sistema di scrittura inventato dal ministro, sul modello del b rahmì indiano. Tale fu la potenza di questo re che, nonostante qualche attrito con la Cina confinante, proprio in quegli 169

anni riunificata dal primo imperatore della dinastia T 'ang (T'ai-tsung}, egli poté p retendere in moglie la figl ia dello s tesso imperatore, la principessa Wang-cheng (tib . Gyazu) e, contemporaneamente, impalmare Bhrku(f (tib . B ribsun) , che era la figlia del re del Nepal Amsllva rman . Fu grazie a queste due principesse, entrambe buddhiste, che la Buona Legge ebbe accesso al Paese delle Nevi , assieme alla civil­ tà cinese ed indiana, l 'influsso delle quali si con tenderà la supremazia sul Tibet tutti i secoli a venire. I l re stesso, per convinzione personale o per calcol o politico, o perché realmente convertito dalle s u e due mogli (considerate posteriormente due incarnazioni viven­ ti della dea Tar'a, la Salvatrice, tib . sGrol-ma) , si fece bud­ dhista ed inviò in India, alle grandi Università , schiere di giovani dell'aristocrazia tibetana, affinché si istruissero nella Legge del Buddha, aprendessero il sanscri to, la lette­ ratura, la filosofia e le scienze dell 'India. I centri di Na­ Ianda, Odantapura e Vikrama �ìla accolgono questi giovan i barbari (molti dei quali non rivedranno il suolo natìo , uccisi dal clima indiano) , ed innestano nelle loro fresche energie il millenario sapere della civiltà indiana , oltre alla conoscenza della Buona Legge . Era uno di quei momenti della c iviltà umana in ogn i senso gravido di fatali sviluppi . Si pensi che, i n quegli anni stess i , tornava in Cina il viaggiatore Hsi.ian-tsang, accolto trionfalmente dalla corte dopo la ventennale per­ manenza in I ndia, portando con sé qualcosa come seicen­ to testi s a cri buddhisti, avendo avuto l ' insegnamento vi­ vente della scuola Yogacara; contemporaneamente predi­ cavano in Cina una forma di Vaj rayana « della mano de­ stra » Amoghasiddhi , Vaj rabodhi e S ubhakarasimha, i qua­ li ebbero una tale fortuna da giungere ad istituire presso la corte una forma di « messa » liturgica. Il grande re tibetano ed il non meno grande imperatore cinese sono contemporanei di Maometto , i cui seguaci , pochi decenni più tardi, imporranno la loro religione nell ' Asia Centrale iranica, in quelle stesse Balkh ( Bac tria) e Bukhara ( dal sanscrito vihara, monastero buddhista), già centri di irra­ diazione buddhisti, non solo , ma che , alla fine del me­ desimo secolo, giungeranno a sottomettere al loro dominio 1 70

ed alla loro religione il Sindh ed una parte del Guj rat ! Pertanto il Tibet assunse l a funzione di salvatore e con­ servatore del Buddhismo mahayana indiano , des tinato , di lì a pochi secoli, ad essere sradicato nella sua terra na­ tale dalle pugnaci orde mussulmane . La diffus ione del Buddhismo nel Tibet in questo primo periodo ( sna dar) non uscì , probabilmente , dagli ambie n t i elevati della corte e dell 'aristocrazia, parte della quale, però ( come ad esempio il clan mC'ibs della stessa madre del re ), gli era fieramente avversa. Ci volle poco più d i u n secolo perché il Buddhismo si affermasse i n modo così totale da divenire religione di stato , ciò che avvenne al tempo del re K'ri-sroò.-lde-brtsan ( 755-797 ), che segnò l 'a­ pogeo politico della monarchia tibetana antica. I nfat t i , sotto i regni di Ma:b.-sron-maò.-brtsan ( 649-676) i Tibetan i estesero, in concorrenza con i Cines i , il loro regno nella regione dell'attuale Koko-nor ; subito dopo si impossessa­ rono del bacino del Tarim , immensa via di trans ito del traffico della seta che conduceva all 'Occidente. Dopo qual­ che rovescio, che fece ritornare i Tibetani nel loro deso­ lato altipiano, sotto i re �Du-sroç Ma:t:J.-po-rj e ( 676-704 ) e K'ri-lde-gtugs-brtsan (704-755) , i Tibetani , coperti alle spal­ le dagli Arabi loro alleati, che ormai di lagavano nel Tur­ kestan occidentale, ripresero le loro scorrerie contro la Cina, nel Bengala e nel Baltis tan . Con K'ri-sro:t:J.-lde-brtsan le armate tibetane , d 'accordo con gli Arabi ed i Turchi Qarluq, infliggevano una rotta definitiva all 'eserc ito cine­ se presso il Talas ( 75 1 ) e, fra il 760 ed il 766, quasi tutto il Kan-su e lo Szechwan occidentali cadevano in man i tibetane. In seguito a queste vittorie le guarnigioni cinesi dell 'Asia Centrale restavano isolate e tutto il bacino del Tarfm cadeva nuovamente nelle mani dei guerrieri tibe­ tani . Il successo più strepitoso fu l'occupazione della ca­ pitale cinese Ch'ang An da parte di un corpo d 'armata t:ibetano . Dal Gange fino alle sabbie del l 'Asia Cen trale la potenza tibetana, alleata poli ticamente del giovane I sUim , non conosceva rivali. Durante quest 'ul timo periodo si pone la vittoria definit iva, nel Tibe t , del Buddh ismo di scuola indiana su quello di scuola c inese , i n seguito ad un so­ lenne dibattito che durò dal 792 al 794 . 171

La diffusione fra il popolo del ,... Buddhism o fu dovuta a due famosi santi. Il primo fu Santirak�ita, che portò con sé, dall'università di Nalanda, una turba di discepoli e missionari . La sua predicazione, al principio, non fu però accettata, forse perché troppo elevata ed astratta nelle sue c oncezioni ( egli era seguace del Vijfiana-vada ) per essere compresa dal popolo, avido di prodigi e di sortilegi come quelli fatti dai locali maghi bon-po. Anzi, in seguito a pestilenze -ed altre calamità, che furono at­ tribuite al suo cattivo influsso, egli dovette abbandonare temporaneamente il territorio tibetano, esortato a ciò dallo stesso re. A Naland:I, però, si incontrò col secondo santo, il già ripetutamente citato monaco Padma-sarpbha­ va ( « il Nato dal Loto », allusione alla sua favoleggiata na­ scita verginale) , figlio adottivo di Indrabhrrti , re nel Gan­ dhara, famoso s iddha tantrico lui stesso. La b iografia di Padmasambhava è intessuta di eventi straordinari , come · del resto quella di tutti i più famosi maestri del Vajra­ yana della « mano sinistra » . Condannato ad essere im­ palato per una serie di omicidi, compiuti in giovane età , gli fu commutata la pena con la residenza nel cimitero Citavana, dove si diede ad esercizi di meditazione che do­ vevano condurlo alla sua resurrezione spirituale ed al possesso di quei poteri magici che furono la sua principale arma per la vittoria del Buddhismo da lui predicato . La citazione testuale di un Tantra, sia pure in sandhya-bha�a ( « linguaggio crepuscolare » , cioè l inguaggio occulto ), tra t­ ta dal « Libro Tibetano della Grande Liberazione » ( Oxford 1 954) , può dare un'idea dell 'esperienza esoterica di Pad­ masarpbhava e, quindi , degli adepti al suo insegnamento : « . . . Segregato dal consorzio umano nel cimitero, Pad­ masarp.bhava, in profonda meditazione, evoca la J)iiki'IJ.f regnante sugli spaventevoli esseri che infestavano il luo­ go . . . » . « La Signora abitava in un giardino di a lberi di sandalo in mezzo all'area in cui si bruciavano i cadaveri , dentro un palazzo fatto di crani umani. Quando Padma­ sarpbhava giunse alla porta, la trovò chiusa. Vide, allora, una fanciulla portatrice di ncqua. Immerso in concentra­ zione, rese impossibile, col suo potere magico , alla fan­ ciulla di superarlo, ed essa, quindi, dovette arrestarsi . 1 72

Allora, non potendo più portare l 'acqua, la fanciulla trasse un coltello di vetro, col quale si squarciò il petto. Pad­ masarpl?hava vide allora, nella parte superiore del petto della fanciulla, le 42 forme benevole e, nella parte infe ­ riore, le 58 forme terrifiche dei 5 Buddha Tathagata . Al lora la ragazza disse. a Padmasambhava : « Vedo che siete un potente yogin. Guardatemi, avete fiducia in me ? » . Pad­ masarpbhava si inchinò, le chiese perdono e le domandò istruzioni . Essa rispose : « Sono soltanto una serva della Signora » , ed aprì la porta del palazzo, pregandolo di entrare. Quando Padmasarp.bhava fu introdotto al cospet­ to della J)llkiJJÌ, la vide sedente sul trono solare-lunare , te­ nendo in mano il tamburello ( çlamaru ) e nell 'altra una coppa fatta di un cranio umano, circondata da altre 32 da:kiQ.T che la servivano. Queste, offrendole doni , la pre­ garono di rivelare loro le dottrine esoteriche ed exoteri­ che. Allora comparvero nello spazio di sopra alla J)llk i�;ii le cento forme benigne e terrifiche dei Tathllgata ( gli stes­ s i che Padasarpbhava aveva visto nel petto dell 'ancella). Volgendosi a Padmasarpbhava la l)ak inf gli disse : « Guar­ date questi dèi e chiedete loro l 'iniziazione » . Padmasarp­ bhava replicò : « Tutti i Buddha, attraverso tutti gl i evi cosmici, hanno avuto i loro Guru. Vogliate, pertanto , es­ sere Voi il mio Guru, ed accettarmi come discepolo » . I n quel punto la l;>lik int fece entrare nel proprio corpo tutte le forme benigne e terribili dei Ta thllga ta, e tra­ · sformò Padmasarpbhava nel mantra HU.lyl ( simbolo del­ l 'omnipresenza dell'Io-coscienza ) . Mentre la sillaba Hurp. vibrava ancora sulle sue labbra, gli conferì l'iniziazione ( abhi�eka) di Amitabha ( tib . 'Og-dpag-med ) . Indi inghiottì il mantra Hurrz e nel . suo ventre gli conferì l 'iniziazione del corpo-verbo-mente ( s k u-gsw.:z- t'ugs ) propria ad Avaloki­ tesvara ( ti b. Spyan-ras-gzis ) » . Questa è l a storia dell'iniziazione d i Padmasarp.bhava. Vediamone ora l 'interpretazione yoghica. I l giardino di profumati alberi di sandalo in mezzo al crematorio è il mondo della vita, bello in apparenza, ma circondato da morte e malattia. La J)likiJJ'i stessa abita in un palazzo di crani, simbolo del corpo umano, eredità di milioni di pas1 73

sate forme di vita, cristallizzazione del frutto di trascorsi pensieri , parole ed azioni . Padmasarp.bhava non trova la chiave del palazzo, cioè non comprende il senso e la funzione della corporeità fisica nell 'economia della Libera­ zione. Gli appare l 'ancella che porta acqua. « Acqua >> è la forza vitale, è il prlitza, l 'eterea energia che pervade l 'uomo . Egli interrompe il flusso dell'acqua al palazzo, cioè s i concentra interrompendo - secondo la tecnica yoghica - il contingente « va-e-vieni » del respiro, media­ tore fra il corpo e la ment� . I l coltello di cristallo, cioè l '« introvisione » intuiti va ( v ipa sy a n a ) , gli palesa le diverse forme dei Buddha riunite ed equilibrate nei vari matz­ rjala cioè a dire gli dimostra che il corpo , nonostante la sua impermanenza e corruttibilità, è il tempio delle forze supreme e delle più alte realizzazioni spiritual i . L'inchino di Padmasambhava di fronte all'ancella è simbolo di u­ miltà e di interiore adeguamento, che propizia la cono­ scenza dei Supremi Veri . Il « Sole » e la « Luna » sui quali siede la sak t i-çlak itzi sono le due opposte polarità del prli!Ja ( zrja e pingala), che pervadono il corpo eterico del­ l 'uomo nelle due omonime correnti intrecciate attorno alla spina dorsale. Il tamburello rituale che essa regge nella mano destra è simbolo del ritmo univer sale, attra­ verso il quale risuona la suprema realtà del Dharma; la coppa a cranio tenuta nella mano sinistra è simbolo della Conoscenza ( p rajfia), che si ottiene rinunciando ad aderire all 'apparenza della vita. Le 32 ancelle J)ak i1'fz sono gli altrettanti simboli ( lak�m:za ) della spirituale perfezione che permea il corpo. Quando Padmasaq1bhava chiede alla J)ak i�Jz di istruirlo, appaiono nello spazio al di sopra del di lei capo i due matzçlala delle deità irate e benigne, totalmente obiettivate, le quali, però, al momento dell'ini­ ziazione si sciolgono nel corpo della J)O.ki'l'].'f, che si rivela come l 'incorporamento della Saggezza di tutti i Buddha. La trasformazione di Padmasa:rpbhava nella sillaba HUM rappresenta l'identificazione del slidhaka allo scopo della sua meditazione, cioè all'oggetto della sua devozione, per cui esso si trasforma o , meglio, rivela sé a se stesso, come la forza ispiratrice dell'Illuminazione di tutti i Buddha, cioè « il pensiero dell 'Illuminazione » ( il Bodhi-citta), ec,

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cetera . Si badi bene, però , che le realizzazioni spirituali adombrate in questo ed in altri Tantra non escludono affatto l 'esperienza fisica che le s imboleggia, la quale espe­ rienza, specialmente nei casi di yoga sessuale ( maithuna, tib. yab-yum ) o « cemeteriale » ( gCod, v . infra ), può scen­ dere ad un livello fisico estremamente realistico. Come nelle varie forme di sivaismo e di saktismo, il sadhaka provoca nella sua compagine psichica un trauma , uno scompenso, che induce le forze profonde che reggono il suo essere a rivelarsi secondo le loro modalità cosmiche, promananti da una primordiale coscienza « adamantina » ( vajra-dhara, tib. rdo-rje-{l.c'an ), essenziate di Vacuità ( su­ nya ta, tib . s ton-pa-iiid ). Questo era il tipo di esperienza di cui Padmasarp.bhava era il portatore. , Santirak�ita, infatti, comprese che solo un individuo di quel genere avrebbe potuto spezzare il potere dei bon­ po sulle menti rudimenta li dei Tibetani, i quali , anche a cagione della vita orrida e squallida che conducevano sui gelidi altipiani , erano ben poco propensi alle rinunce fisiche ed alle finezze psicologiche del Buddhismo, come era praticato in India : la loro esistenza era, come lo è ancora, dominata da concezioni terrifiche della divinità che, ai loro occhi, in quelle speci di « stati frenetici » , fre­ quenti per chi vive nelle grandi altezze ( e del resto af­ fine alla ricorrente « follia artica » degli Esquimesi ), si proiettano in immagini spaventevoli, psichicamente perce­ pibili, che i sacerdoti bon-po, con le loro tecniche estati­ che, ingigantivano visibilmente e rendevano strumento del­ la loro volontà. S antirak�ita ritornò quindi nel Tibet accompagnato da questo potente seguace degli insegnamenti occulti del l a « mano sinistra » , il quale, i n breve, con una serie di pro­ digi terrificanti, ebbe partita vinta sui maghi bon-po ed i loro dèi, dando al Buddhismo un prestigio popolare che prima di allora tale religione non aveva mai conosciuto . Questo, se da un lato fu un bene , dall 'altro condusse i l Buddhismo tibetano « di prima maniera » a svilupparsi prevalentemente nel senso tantrico, più lontano, quindi, dal messaggio originale del Buddha, al quale venne attri­ buito un significato totalmente preparatorio e simbolico . 175

Questa contaminazione con lo spirito bon-po caratterizzò per sempre il Buddhismo tibetano : le passioni, esaltate meditativamente, vengono spersonalizzate e vissute come forze cosmiche, potenze ora spaventevoli ed irate ( k 'ro-ba ), ora placate e benefiche ( si-ba), attraverso le quali l 'Asso­ luto � immota e luminosa consapevolezza di sé - si ma­ nifesta estrovertendosi secondo la nota serie delle cinque famiglie mistiche . Questo retaggio magico di origine indo­ gandharica ( difatti Padmasarpbhava è detto in t ibetano sia Guru R in- [ pc ] c'en, « il Prezioso Maestro » , sia Ur-gyan­ pa, « quello dell'Uçlçliyana » , cioè del Gandhara, ritenuto in quei tempi la patria di tutti i maghi e di tutti i sortilegi ), fu rapidamen te assimilato ed entusiasticamente accettato dai Tibetani . Tale fu il canale attraverso il quale il Bud­ dhismo si aprì la via nelle loro coscienze . Compiuta la sua missione, attraverso pericoli di ogni specie, Padmasarpbhava scomparve. La tradizione tibetana ritiene che egli continui a vivere, circondato da migliaia di J)aki�Jl, in una specie di paradiso in terra, nell 'isola di Lanka ( Ceylon ), nella «Nobile Montagna Color di Rame » ( zan dog dpal ri), che lo yogin si è conquistato vincendo i Rak�asa ivi abitanti . Mentre egli indulge, nel suo paradi­ so, alle gioie offerte dalle bellissime e sapienti fate, i Rak�asa subiscono, ai piedi della montagna, un singolare supplizio. Ogni mattina vedono Padmasarpbhava svegliarsi con l'aspetto di un bimbo, diventare nella giornata uomo maturo ed ass]..l m ere infine, di sera , il sembiante di un vecchio decrepito : i dèmoni si rallegrano allora della sua prossima morte, per poi restare delusi l'indomani , quando Io rivedono giovane più di prima. " Nel 787 fu fondato il monastero di bSam-yas , ove Santiraksita ordinò i primi monaci tibetani. lvi fu pure tenuto il primo concilio (c'os 9- k 'or), nel 793 , ove si riuni rono i rappresentanti di tutte le sètte buddhiste del Tibet, per stabilire il piano di missione nelle nuove terre, dibattere punti di fede e di metodologia apostolica e stabilire una regola per le traduzioni delle opere dogmatiche dal san­ scrito in tibetano . Le correnti buddhiste che si contende­ vano pacificamente la supremazia nel Paese delle Nevi erano praticamente le seguenti : l) il Vajrayana « della ma1 76

no sinistra » (vamlicara, cioè implicante pratiche rituali condannabili per la morale comune, sessuali, inebrianti ecc.) introdotto da Padmasarpbhava ; 2) la sintesi pala fra Scuo­ la del Vuoto (silnya-vllda) e T an tra, dominante nelle gran­ di università del Magadha, e queste furono le due corren­ ti prevalenti; 3) dal Sud Ovest giunsero anche missionari htnayana della scuola realista Sarvas ti-v7ida, che ebbero poca fortuna, nonostante l 'appoggio del re, a cagione del loro credo ascetico e delle loro p ratiche ortodosse, poco attraenti, per non dire « climaticamente » inadattabili nel Tibet (nutrimento scarso e vegetale, vestiario di cotone, rifiuto di praticare l 'arte medica - chiave di penetrazione in tutte le società primitive da parte di qualunque specie di missionari, siano essi buddhisti, manichei o cristiani) ; 4) si può infine, registrare un tentativo di penetrazione, nel Tibet, della scuola cinese Ch 'an (sanscrito Dhyllna, ossia della meditazione pura, propagandata in Cina dal misterioso Bodhidharma, forse singhalese, forse persiano) , che poi darà luogo , in Giappone, alla scuola Zen . Questa ultima scuola teorica fu totalmente sconfessata, per le sue vedute giudicate estreme persino in un paese come il Tibet . Essa, in sostanza, p redicava che, attraverso l 'uni­ co strumento della meditazione, pur vivendo sprofondati nel mondo, si giunge « per folgorazione » alla Bodh i ; que­ sta I lluminazione, priva metafisicamente di qualunque re­ lazione con le azioni meritorie o peccaminose compiute preventivamente dall'individuo, lo traspone in un piano nel quale si realizza la coincidenza ed assoluta coerenza fra sarrzslira e nirvli1;za: « il Buddha », dicono i monaci ch 'an, « è la testa di questo asino ! » , per indicare l 'amni­ presenza dell'Illuminazione in ogni elemento dell'esistenza sensibile o puramente psichica . Questa dottrina, che poi ebbe tanta fortuna nell'Estremo Oriente, fu giudicata proprio a causa della sua spregiudicatezza - totalmente condannabile ed inapplicabile in una terra di missione come il Tibet. Dopo questo concilio le opere di missione buddhista e la traduzione di testi sanscriti ripresero con maggior lena . Nell'8 1 5 fu redatta la Mahll-vyutpa t t i, con cui si fissavano defintitivamente le rego�e di traduzione dei testi da una 1 77

lingua all 'altra e la terminologia da usare, con tanta pre­ cisione che, al giorno d 'oggi, è possibile ritradurre dal t i­ betano al sanscrito opere perdute nel loro originale, con un margine minimo di errori. Nel frattempo, però, .decl inavano le fortune della dina­ s tia, e, con loro, quelle del Buddhismo della « prima intro­ duzione » precipitavan o . La Cina, questa volta alleata degli Arabi e degli Uiguri, riprende l 'iniziativa ed i Tibetani, sot­ to i l re Ral-pa- é an (8 1 5-838) , vengono scacciati dalle provin­ ce conquistate e ridotti al loro altipiano. Intanto i l mal­ contento dell 'aristocrazia, restata fedele alla rel igione bon­ po, cresceva, di fronte all'invasione di monaci e di parJçlita (conoscitori del sanscrito dei testi sacri) indiani, finché s i giunse alla reazione . I l re fu ucciso e suo fratello gLan-dar­ ma, fervente bon-po, salì al trono; conquistato il potere egli diede il via ad una sanguinosa persecuzione del Bud­ dhismo . I monaci furono cacciati dal paese o caddero uccisi, i monasteri ed i luoghi di preghiera furono distrut­ ti, i libri incendiati. Nemmeno l 'uccisione (84 1 ) del re da parte di un monaco tibetano poté ristabilire il Buddhismo alla pristina fortuna. Sembrò , anzi , che scomparisse total­ mente dal Paese delle Nevi. Contemporaneamente, in se­ guito a guerre civili e ad un crescendo di rovesci militari, l 'opera di due secoli di gloriosa espansione andò perduta per sempre . Non solo, ma il Tibet si scompose in numero­ re dinastie locali, nessuna delle quali ebbe più la forza di riunificarlo. Da allora fino ad oggi il Tibet resterà, poli­ ticamente, isolato nelle sue montagne, soggetto, in epoche ricorrenti, alla pressione cinese. I l Buddhismo tibetano, come noi lo conosciamo attual­ mente, è il risultato non della prima predicazione esposta in queste pagine, bensì della seconda (p'yi dar) . Questa, che ebbe del miracoloso, fu favorita e promossa, un secolo e mezzo più tardi , dai bisnipoti dello stesso gLail-dar-ma, i quali regnavano sui vari stati indipendenti del Tibet cen­ trale ed occidentale, come Mar-yul , Guge e Pu-rail, nei pressi del Ladakh attuale e nei distretti finitimi . L'inizia­ tiva di questi re, che chiamarono nel Tibet i più valenti dottori della Legge ed i più abili missionari , salvarono il retaggio del Buddhismo indiano, che già in quegli anni si 1 78

avviava alla sua definitiva scomparsa, ad opera dei so­ vrani sivaiti dell'India settentrionale e, ancor più, in con­ seguenza delle invasioni musulmane. Fra queste eminenti figure di sovrani, è il caso di ricordare almeno Y e-ses-od di Guge, patrono del lo tsliva (traduttore) Rin-c'en bzail-po (9581 055) , che, sequestrato da b riganti durante un suo viag­ gio, dissuase il nipote, Byail-c'ub, a pagare il riscatto ri­ chiesto, consigliandolo invece di impiegare la somma per far venire dall'India missionari e testi sacri; i re Od-lDe­ mNa'-ris , patrono del missionario Atrsa (957- 1 042) , e Sroil­ ne, costruttore del monastero di mTo-liil, oltre molti altri . I l fervore di propaganda, traduzioni ed insegnamento assunse, in questi anni, proporzioni difficilmente imma­ ginabili. I grandi maestri buddhisti erano perfettamente coscienti, da secoli, della fine che attendeva in I ndia la Buona Legge, non solo, ma percepivano la svolta che avrebbe rappresentato per tutta la civiltà indiana l 'inva­ sione mussulmana, da allora già iniziante a divenire siste­ matica . Si s tudiarono quindi di trasportare al sicuro ed a trasmettere a fidi discepoli tutto il patrimonio filosofico di quindici secoli di Buddhismo e, allo stesso tempo, tutti gli elementi fondamentali della civiltà filosofica , artistica, tecnica e, fino ad un certo punto, letteraria dell 'India , co­ me veniva insegnata nelle grandi università del tempo . Il Tibet divenne la succursale prima, l 'erede poi , dell'India buddhista del secolo X l . Alcune note biografiche s u i due massimi esponenti di questa seconda diffusione del Buddhismo . Rin-c'en bzail-po nacque nel Tibet occidentale o nella limitrofa regione in­ diana, come si è detto, nel 958, fu ordinato monaco a 1 3 anni e s i istruì nel Kasmir dove, i n seguito, compì altri due viaggi per migliorare le sue conoscenze e per ripor­ tare nel Tibet eminenti missionari ed artisti indiani, spe­ cialmente architetti, scultori e pittori, i quali divennero gli iniziatori ed i maestri dell 'arte tibetana. La sua attività di traduttore fu semplicemente prodigiosa : in questa sua opera fu aiutato dai tre famosi commentatori del Vinaya, cioè Sadhupala, Gunapala e Praj:fi.apala, noti come « i tre Pala » . Egli, però, non si limitò a tradurre, bensì trasmise ai Tibetani la mistica sapienza appresa dai guru indiani, 1 79

introducendo nel Tibet il sistema di interpretazione degli yoga-tan t ra (rNal r;.byur rgyud) . Fra i cicli tantrici che trasportò al Tibet con i relativi commenti figurano il Tat tvasarrzgraha (De n id bsdus pai rgyud), il Paramaditan tra (dPal mc 'og mai rgyud), il V a j­ rodaya-tan tra (rDo rje abyufz pa i rgyud) e molti altri, delle classi k rfya (bya), carya (sPyod}, yoga (rNal r;. byor) ed anuttara (B la na med); fra questi ultimi il Guhyasamiija, spiegatogli dal maestro Naropa, secondo le due interpre­ tazioni fondamentali di Buddhaj fiana e Nagarj una . Per quanto riguarda la sua attività artistica e costruttiva, sono innumerevoli i romitori (dgon pa) , i templ i (lha k 'an) ed i sacelli da lui fatti erigere, che ancor oggi costellano le zone scenario della sua predicazione . In questi edifici reli­ giosi è riconoscibile l 'influsso artistico kasmTro , diverso da quello bengalico-nepalese che caratterizza le opere più tarde in altre regioni del Tibet. L'altra personalità eminente è Atfsa, celebre maestro dell'università di VikramasTia, dove era stato egli stesso allievo, molti anni prima, del guru Naropa (v. post) . Du­ rante la sua lunghissima vita AtTsa ebbe anche occasione di viaggiare nel Bengala , in Birmania ed in Malesia, allora centri fiorenti di Buddhismo, fino all 'isola di Sumatra . Là, secondo le tradizioni, fu allievo, per dodici anni , del grande maestro Dharmapala; All'età di 44 anni tornò in India, dove insegnò nella medesima università di Vikra­ masTia che l 'aveva conosciuto allievo . Aveva , quindi , varca­ to la sessantina quando, invitato nel Tibet dal re di Guge ( 1 026) , introdusse nel Paese delle Nevi la sintesi Pala del Mahayana, come era stata elaborata nelle scuoJ e del Maga­ dha. Diversamente da Rin-c'en bzan-po, con il quale ebbe anche occasione di incontrarsi nel 1 042 , Atisa tentò di fondare una scuola vera e propria, basata sulle severe regole del Vinaya, tentativo nel quale non ebbe molto successo, ma che sarà ripreso tre secoli e mezzo più tardi dal celebre bTsofl k'a pa, fondatore della sètta dei « Vir­ tuosi » (dGe lugs pa), detta volgarmente dei « Berretti Gial­ li ». AtTSa , oltre al lavoro di traduzione, diffuse il sistema del Kalacakra, > , sintesi di astrologia e tantrismo, ed introduss e un calendario i cui anni rispon1 80

dono a nomi di animali e di elementi, oltre a cerc are in ogni modo di disciplinare ed organizzare il Buddhismo tibetano, rinascente sotto sì buoni auspici. La sua opera più importante resta la « Lampada rischia­ rante la via dell 'Illuminazione » (Bodhimargapradfpaka), che costituisce una guida all 'uso delle diverse tecniche yoga impiegate nella meditazione , divise in tre gradi pro­ gressivi . Anche quest 'opera darà i suoi frutti migliori tre secoli e mezzo dopo, con la . riforma di bTsoil k'a pa. Con queste due grandi figure di traduttori e missiona­ ri; alle quali si aggiungono numerose altre, come Padma dkar-po e �Pags -pa ses -rab, detto il lotsava di Zans dkar, inizia la codificazione del colossale Cànone del Buddhismo settentrionale, nelle sue due parti : bKa' -ç1. gyur (sìltra, rive­ lazione vera e propria, parole attribuite al Buddha) e bsTan {lgyur ( sas t ra, insegnamento dottrinario) , che ver­ ranno compiute, rispettivamente, nel secolo X I I I e nel se­ colo XIV, e stampate nel periodo che va fra il 1 73 1 ed il 1 742. Durante il medesimo periodo, la necessità di organizza­ re la chiesa buddhista, la quale ben presto assunse quel tipico aspetto noto come Lamaismo, diede luogo a vari concilii (c 'os p.k 'or), fra i quali uno dei più importanti fu quello tenuto nel monastero di mTo lin nel 1 076. Durante questi concilii cominciarono a delinearsi i caratteri delle diverse sètte facenti capo a differenti cicli tantrici, a di­ verse esperienze ed a divergenti interpretazioni pratiche dei testi del Grande Veicolo. Si può, però, affermare che esiste un carattere che affratella tutte le scuole tibetane , ed è la tendenza verso l 'esperienza magica. Riassumiamo ora breveme n te i caratteri delle princi­ pali sètte tibetane, nelle quali si esprime l 'originalità del Buddhismo resuscitato nelle gelide contrade del setten­ trione. Abbiamo, in primo luogo, i seguaci del Vajrayiina di Pa­ masaipbhava, che apparentemente furono gli unici a non essere spazzati dalla persecuzione di gLail-dar-ma. Proba­ bilmente gli stessi esecutori della volontà del re conside­ rarono sconsigliabile aggredire individui magicamente così pericolosi. Essi sono detti « gli Antichi >> (rf:J in-ma-pa), per181

ché sopravvissuti alla prima predicazione. In loro si è veri­ ficata una notevole simbiosi col bon-po indigeno. Gli adepti di questa sètta, che ha sempre goduto alto prestigio in tutto il Tibet, si considerano totalmente svincolati dai precetti religiosi e morali, compresi quelli di non bere sostanze inebrianti, conservare la castità e non uccidere . Affermano che l'Illuminazione va conquistata attraverso la corporeità, gli psichismi della quale vengono sperimentati come potenza pura, secondo quanto detto precedentemente . Sono proprie agli adepti di questa temibile sètta pratiche particolarmente raccapriccianti, come il gCod, che viene effettuato nei cimiteri (grì-gug), ove, secondo l'uso tibe­ tano, i morti sono esposti agli uccelli di rapina , previo squartamento : allo scopo di sciogliere l e g o da ogni forma di attaccamento all'oggetto, l 'asceta offre se s tesso ai dèmoni che popolano il cimitero, opportunamente evocan­ doli e rendendoli percettibili. Il meditante, che va di not­ te nel cimitero, si riveste di una corazza fatta con ossa umane finemente lavorate (rus-pai rgyan) e suona il la­ mentoso richiamo con una tromba (rkan-dufz} fatta col femore destro di una vergine di sedici anni, dopo aver delimitato l 'area dell'operazione col pugnale magico (pu r­ bù}. Indi rende visibili, in quel luogo di disfacimento , gli elementi psichici, gli atavici terrori nascenti dalla brama di vita che vuol sfuggire allo spettacolo della morte, perso­ nificandoli a mezzo dei man t ra. Le orribili deità ed i le­ muri che appaiono altro non sono che una proiezione con­ creta di creature nate dalla stessa coscienza dello yogin, le quali possono, così, diventare oggetto di meditazione e di conoscenza. Fin che si vive contessuti nella maglia delle brame e dei terrori, ci si identifica sempre ad un ego basato su una particolare configurazione di tali elemen ti psichici, perciò questo, come altri esrcizi di carattere terri­ ficante, ha il proposito di esteriorizzare e rendere final­ mente cognoscibili i complessi di angoscia e di terrore che giacciono latenti nel subconscio , per poi sublimarli nella meditazione e risolverli , come pure energie, nella Luce Imperturbabile della Coscienza, natura essenziale del­ la mente, simboleggiata dal Bodhisattva Kun- tu bzafz-po (Saman tabhadra, v. supra) . Questo significa che tutto ciò .

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che è esperienza, buona, .c attiva, placida, terribile, possiede in sé, in quanto tale, l 'essenza cosciente della Luce, altri­ men ti non po t re b be diyentare pensiero. E., questo, per l 'a­ sceta, l 'elemento che bisogna realizzare, nella sua purità assoluta, priva di riferimento alla transitoria occasione che lo suscita. Oltre al Cànone comune alle altre sètte, gli rNifz-ma-pa posseggono una serie di testi, detti « tesori dissepolti » (gTer-ma), che furono « rivelati » fra il 1 1 50 ed il 1 550. È facile dire che si tratta di testi apocrifi , inventati da sconosciuti maestri di detta scuola. La verità è che questi testi sono, in pratica, manuali tecnici per esercizi misti­ ci, estatici e magici, risalenti , con ogni probabilità, all'an­ tichità più remota, forse alla preistoria stessa. Uno di que­ sti è il cosiddetto « Libro dei Morti » , il Bar-do t 'os grol (letteralmente : « La salvazione udita per lo stadio interme­ dio ») . I l bar-do (letteralmente : « in mezzo a due ») è un insieme di condizioni di coscienza extra-fisiche, alcune del­ le quali esperimentabili in vita, nello stato di medita­ zione profonda (tin-ne-çzdzin, sanscrito : samadhi, sam'{[­ pat t i) . Per antonomasia, però, bar-do significa la condizio­ ne di coscienza nei quarantanove giorni seguenti la morte. I l testo a cui ci si riferisce viene, pertanto, recitato al mo­ rente, disposto in modo particolare, affinché sappia come regolarsi nei primi passi nel mondo dell 'al di là, aprendosi la strada attraverso la marea delle allucinazioni sarpsa­ riche, e riesca possibilmente ad evocare in sé quella Luce capace di sottrarlo alla necessità di reincarnarsi in un nuo­ vo corpo, realizzando così una postuma Liberazione. Nel caso che, per l 'eccessivo peso del karman accumulato, questo tentativo non riuscisse, il morente sarà capace, però , d i dirigere l e sue componenti psichiche (p'un-po, sanscrito ,> .

I l Dalai bLa-ma, in quanto sovrano del Tibet, è conce­ pito come la figura del re presso altri popoli estremo­ orientali , cioè come una proiezione dell 'Universo spirituale, il Macrocosmo, in un Microcosmo umano, oggetto di medi­ tazione realizzatrice, e, come tale, venerato. In tutti i testi mahayana si afferma in ogni passo che tutti gli esseri , dai più infimi fino ai Buddha, altro non sono che una p roie­ zione dell 'universale I llusione sulla coscienza transeunte di chi se li raffigura . Come si concilia questo con l 'ardente devozione che, specialmente nel Lamaismo , viene tributata alla folla di centinaia di divinità che popolano il suo pan­ theòn ? A parte i l fatto del culto popolare, per il quale non è il caso di porsi problemi metafisici, tale adorazione è giustificata con la teoria che dette divinità sono l ' « appog­ gio » ( dha ra, tib . çldzin) provvisorio per esperienze sovra­ sensibili . Come già detto , il culto per eccellenza è la visua­ l izzazione unita ad uno stato di meditazione profonda, pre­ ceduta dalla concentrazione del pensiero sull 'oggetto, che conduce all 'identificazione col dio particolare, che funge da

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gradino intermedio per conseguire l 'estasi (samiidh i, t in-ne f!.dz.in) priva di contenuto . La divinità tipica per questo processo di progressiva astrazione è Io Yi-dam (sanscrito i�!a-devatli., « deità prescelta » ) , cioè il nume tutelare scelto dall'asceta, al quale egli dirige venerazione e meditazione, mantenendone segreto il nome . Per avere la rivelazione dello yi-dam il monaco si sottopone ad un severo periodo qi purificazione, ascesi ed isolamento, alla fine del quale lo Yi-dam gli appare in sogno o in visione, nella forma irata o in quella benigna . Beninteso, e ques to è un punto di dottrina, lo Yi-dam è solo una costruzione mentale sog­ gettiva, che rispecchia la costituzione psichica, occulta , dell 'asceta, ciò che gli permette di ritrovare più facilmen­ te la via per la propria liberazione. Allo Y i-dam corrispon­ de, naturalmente, un sistema segreto di man t ra, yan t ra e ma1J.çlala, cioè l'apparecchio cultuale che permette di evo­ carlo ed assimilarlo . Talvolta esso appare congiunto in yab­ yum (padre-madre) con la sua mK 'a-p.gro-ma (J)ii.k ilif) : que­ sta è la forma sublime, detta « adamantina » (vajra, tibe­ tano rdo-rje), che rivela i più profondi segreti. In ques to caso, la deità maschile, di colore generalmente blu, talora è raffigurata danzante, talaltra mentre avanza con la gam­ ba sinistra tesa e la destra piegata : su quest'ultima è avvin­ ghiata la Dak iJJ.Ì, generalmente di color rosa, che tiene , come al solito, la coppa a teschio nella sinistra ed il col­ tellaccio (gri-gùg) nella destra.. Lo Yi-dam è rappresentato generalmente col terzo occhio e con altri « sei preziosi or­ namenti » : una corona di teschi, invece della corona solita dei Bodhisat tva, orecchini con nastri , armille nelle braccia ed avambracci, di due speci diverse, una cintura oppure una catena, spesso anche una collana pendente sul petto, la quale porta al centro la Ruota della Legge . Sul petto di alcune di queste deità tantriche si osserva un grande serpe attorto, in atto di stritolare la Ruota della Legge, rappre­ sentata formata di ossa umane. La tipologia degli Yi-dam, che rappresentano il caratte­ re distintivo dell'iconografia lamaista, è vastissima, anche perché essi sono frequentemente concepiti quali emana­ zioni dei diversi Bodhisat tva. Ne descriviamo uno, Io Yi-dam bDen-éog (sanscrito S arrzvara) : « Lo Yi-dam dalle 191

quattro teste e dodici braccia avanza con la gamba smi­ stra, venendo abbracciato dalla sua l)llkiv1. Sulla sua qua­ druplice testa la faccia al centro è blu, le due a destra rispettivamente verde e rossa, quella a sinistra, biartca, por­ ta una corona di teschi (t 'od-pa), un'alta corona di capelli, di fronte un doppio vaj ra (visva-vajra, tib. kun-tu rdo-rje) e a sinistra una mezzaluna bianca. Le sue mani destre reg­ gono i seguenti oggetti : una pelle di elefante bianco ( glan­ -dpags) che gli . Pende sul dorso, il tamburo çlamaru, tib . c 'an-te), un'ascia (tib . dgra-s ta) , un tridente (tib . k'a -tvan rtse-gsum) con una bandiera, un coltellaccio ricurvo (gri­ gùg) e, nella mano destra posata sul dorso della sposa, regge un vajra. A sinistra regge l 'altro capo della pelle di elefante, il laccio (tib. z'ags-pa) , il vaj ra (con l 'altra mano con la quale abbraccia la sposa) eccetera. Lo Y i-dam è blu, la l)likitJ.ì rossa, con ornamenti bianchi . Accanto al suo piede sinistro giace un cadavere femminile nudo, con orna­ menti bianchi . . . ... Accanto al piede destro dello Yi-dam giace u n cada­ vere maschile blu ravvolto in una pelle di tigre, coronato e dotato di quattro mani . . . » . Che cosa significa, a quale esperienza conduce una simile rappresentazione, sotto molti punti di vista strana, se non ributtante ? Ecco che cosa ne dice il famoso tantra Sri-cak ra-sartzb hllra :

« Il meditante visualizzi se stesso nel centro del loto ( = ma1J.(iala), identificandcsi allo Yi-dam bK'or-lo bDen­ c 'og ( sanscrito Cak ra-mahli-sukha, « la Grande Felicità del Cerchio » ), con le quattro facce simboleggianti i quattro elementi restituiti alla loro pura essenza : terra, acqua, fuoco ed aria, ad ognuno dei quali corrispondono le quat­ tro Infinite Virtù ( maitrì, mudita, karw:za, upek�ll), simbo­ leggiate dai quattro colori delle facce. Per dimostrare che egli non muta dalla Conoscenza della Sfera del Dharma ( Dharma-dhatu-jnana, matrice di tutti i Buddha) il suo corpo è blu. Ogni suo volto ' ha tre occhi per indicare che egli conosce i tre mondi ( loka, tib . çJ.jig-rten ) : il Kama­ loka, o mondo delle brame fluenti, il Rilpa-lo ka, o mondo delle pure forme, e l'arilpa-lo ka, o il mondo informale, spirituale ; i tre occhi indicano pure che possiede contem1 92

poraneamente la VISione del passato, presente, futuro . Le dodici braccia simboleggiano che egli riconosce il processo di evoluzione ed involuzione dei dodici n idtlna ( le dodici cause concatenate del . pratityasamu tpli.da) . L a folgore ( vajra, t i b . rdo-rje ) e l a campanella (gha�J.fil, tib. dril ) che regge nelle sue mani superiori, con le quali abbraccia la fJlikir;ì, indicano che il Pensiero dell'Illumina­ zione ( bodh icit ta ) è sintesi di vuoto ( silnya ) e compassione ( karur.ta ). L'abbraccio ·con la J)ii k il'}.t rappresenta l 'unione di Efficienza ( upaya ) e Saggezza ( p rajiia ). Le due braccia successive reggono la pelle grezza di elefante, emblema dell'ignoranza, che sollevano dalla parte superiore del cor­ po. La terza mano destra regge il tamburello, per signi­ ficare che egl i proclama la Buona Novella; la quarta ma­ no destra sol leva l 'ascia, per indicare che taglia i sei mali ( orgoglio, sfiducia, mancanza di devozione, distrazione, di­ sattenzione e noia ) ; la sesta mano impugna il tridente, per significare che distrugge i mali pertinenti ai tre mon­ di ( collera, pigrizia e brama ) . . . eccetera » . Quindi i l meditante rivive, i n uno stato d i meditazione estatica, tutti gli elementi bivalenti dello Yi-dam, che sono elementi della sua stessa interiorità, per trasformarli, co­ me si è detto, nelle energie cosmiche corrispondent i . Se qui si arresta, il meditante diverrà un siddha, un uomo dotato di poteri sovrumani , ma pur sempre legato al po­ tere di cui dispone. Il gradino eccelso consiste nella so­ luzione totale di ogni elemento dell'esperienza, anche so­ vrasensibile, nel Vuoto ( siinya ) che, immoto, si invera di là dal loro apparire . Da quanto è stato detto finora appare evidente che il Buddhismo tibetano persegue soprattutto una linea di sviluppo, secondo diversi metodi impartiti dalle varie scuole, ereditata direttamente dal Tantrismo buddhista, e forse anche indù, dell 'India settentrionale . La trasforma­ zione della preghiera in meditazione, propria al Buddhi­ smo primitivo, viene, nel Lamaismo, condotta alle estreme conseguenze . Si tratta sempre di concentrarsi su un pen­ siero , simboleggiato da un'immagine ( alla quale psichica­ mente si aderisce mediante gli atti di culto ), onde rea­ lizzarlo come puro atto di conoscenza, di cui la mente del 1 93

meditante è Io scenario sul quale s 'invera. Indi si medita sulla co�denza che se Io pone come oggetto , raggiungendo così la sfera informale , priva di contenuto, perché l u m i­ nosa, immobile autotrasparenza . Le varie teologie, i simbo­ l i del culto, i monumenti archi tettonici, specialmente gli stupa ( tib. mCod- rten ) e l 'insieme degli edifici che costi­ tuiscono i monasteri ( dgon-pa ) sono, per i religiosi tibe­ tani, altrettanti simboli cosmici , che possono servi re di « appoggio » al contemplatore, al meditante ed all 'asceta per assurgere al l 'identificazione concreta , reale, con la Suprema Realtà, fra il nascere e lo scomparire, nello sce­ nario della coscienza. Questo è il motivo per cui il Lamaismo poté tranquil la­ mente « digerire » tutta la teologia e la cosmologia bon-po senza minimamente mutare il contenuto delle sue esperien­ ze, attribuendo, anzi , un significato superiore, mistico ed operativo, alle diverse divinità dell 'antica religione , come i « genii loci » (sa-bDag, « Signore della Terra ») , i « serpenti­ pesci » (kLu), le sirene volanti (mKa '-çi.gro}, gli spaventevoli jig-rTen s kyon (« Guardiani del Mondo ») , le deità dei pia­ neti (T'e) ed i dMu, che popolano il quinto cielo, i P'ya eccetera. Tutti costoro continuarono ad essere oggetto di venerazione e culto da parte dei Buddhisti , non solo , ma i residui della religione Bon (detta anche, dal suo simbolo, Gyun d run, cioè Religione . della Sauvas tika, « svastika » rovesciata, con andamento sinistrorso, al contrario del sim­ bolo del Buddha per eccellenza, che è la croce uncinata con i bracci rivolti a destra) dovettero adattarsi alla siste­ mazione ideale e teologica del Buddhismo, imitandola com­ pletamente. Dopo secoli di lotte accanite le due rel igioni sono giunte ad un tale punto di simbiosi che capita fre­ quentemente che, in un monastero lamaista, vi sia una stanza riservata al monaco bon dal copricapo nero, il quale coadiuva, da parte sua, alle funzioni del monastero come augure, indovino ed esorcista.

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2) Diffusione del B.u ddhismo in Cina L'occasione storica per la penetrazione del Buddhismo in Cina fu data essenzialmente da circostanze politiche. La Cina degli Han , in seguito all'emigrazione verso Occidente degli indoeuropei Yiieh Chih e dei turco-mongoli Hsiung Nu, aveva occupato, con alterne vicende durate qualche secolo, le oasi dell'Asia Centrale scaglionate lungo la « ,Via della seta » . Le continue guerre combattute fra Cinesi e Indosciti, specialmente alla fine del primo secolo d.C., ave­ val'l:o intensificato i contatti della Cina con una regione for t emente buddhizzata. Fra l 'altro, numerosi prigionieri e ostaggi buddhisti furono trasportati in Cina, dove diffu­ sero i principi della loro fede. L'inizio storico della penetrazione del Buddhismo in · Cina è collegato alla personalità dell'imperatore Ming-ti (65 d.C.) , che, ispirato da un celebre sogno, mandò a Kho­ tan una deputazione di diciotto persone diretta dai teologi indiani Matanga e Gobharana, con l 'incarico di riportare di là testi dottrinari buddhisti. Sappiamo però che, indipen­ dentemente da queste iniziative imperiali - p robabilmente dettate da ragioni politiche e da interessi scientifici più che da impulsi filosofici e religiosi, - esisteva già nella medesima epoca una fiorente colonia buddhista sullo Yang­ tsu Kiang, forse fondata da commercianti o missionari giunti via mare dalle Indie. In ogni caso la grande massa dei missionari e dei monaci venuti in questo periodo è formata quasi esclusivamente da Sciti, I ranici e Indiani entrati in Cina dalle frontiere occidentali, come ad esem­ pio la coppia di Dharmaratna (cinese Fa-lang) e il citato Kasyapa-Matariga, i quali tradussero in cinese il sutra iQ 42 capitoli e varie vite del Buddha. An Shih-kao, principe arsacide (An indica appunto il nome etnico « partho ») , venuto in Cina nel 1 48, Chu Shuo-fo, detto « il Bodhisattva indiano » e Chi-ch'an (sanscrito Lokak�ema) , detto « il 1 95

Bodhisattva yiieh-chih » , i due ultimi venuti nel 1 70 d.C., sono considerati i fondatori del monastero del Cavallo Bianco (Pai-ma-ssu), nella capitale degli Han, Lo-yarig, che fu certamente il più vivace focolaio di Buddhismo in quel­ l'epoca. La principale attività storicamente p rovata di que­ sti primi missionari, oltre, naturalmente, l 'apostolato, è quella di traduttori in cinese di svariate opere buddhiste, come il Sukhavatl-vyuha ( « Spiegamento del mondo bea­ to » , cioè il paradiso di Amitabha, Buddha, della Luce Infinita) tradotto da An S hih-kao, l 'Amitayuhsutra, ovvero i l stUra del Buddha della Vita I nfinita, e altre opere di etica e dogmatica buddhista, come i 142 capitoli del Pratimok�a (Confessione dei peccati) , opera del missiona­ rio Sailghavarman, figlio dell'ambasciatore della Sogh­ diana presso la corte degli Han. Altri missionari soghdiani e sciti, pure appartenenti al monastero del Cavallo Bianco, furono, secondo la tradizione cinese dei loro nomi, Chih­ ch'ien, figlio di un ambasciatore yiieh-chih, K'ang-chii, eK'ang Meng-hsiang. Probabilmente a questo gruppo di monaci risalgono le traduzioni di alcune fra le più impor­ tanti opere . del Mahiiyifna, fra . le quali si annoverano la Vimalakfrti-Vibhasa (tradotta nel 1 88 d.C.) , la Prajiiliplira­ mita, il Saddharmapw:uJ.arika (tradotto nel 250 d.C.) , ov­ vero il « Loto della Buona Legge » , siitra di fondamentale importanza al quale si deve la popolarità del culto del Buddha Avalokitesvara , noto in Cina sotto la forma fem­ minile di Kuan-yi n . - Si trattava di personalità dotate di profonda cultura e di tutti i beni spirituali e pratici necessari per un sì arduo ministero . Poche dottrine sono infatti così ostiche alla mentalità cinese quanto il Buddhismo, sia per la sua disciplina monastica, fondata sul distacco dalla famiglia e dalla società, i n opposizione al tradizionale culto cinese per questi due valori, sia per la sua esigenza soteriologica, incomprensibile in un ambiente ove il problema fonda­ mentale era come vivere in questo mondo , non come sal­ varsi dal medesimo . Inoltre il Buddhismo considerava la disciplina morale come un mezzo propedeutico per l 'illu­ minazione, mentre per i Cinesi la morale pratica, addirit­ ' tura di rito formale - li - rappresentava di per sé un 1%

valore metafisicamente giustificato . Ciò nonostante i l Bud­ dhismo era destinato a diventare, assieme al Confuciane­ simo e al Taoismo, uno degli impulsi fondamentali della civiltà cinese quale noi la conosciamo. La ragione di que­ sto è che il Buddhismo, pur adattandosi alla mentalità cinese, reinterpretò, su dimensioni metafisiche, la conce­ zione cinese dello Spirito Universale, e portò alla filosofia cinese, già preparata dalle esperienze di pensiero taoiste, il metodo negativo di metafisica fondato sulla teoria dello sunya. I nfatti a questo punto occorre sottolineare che il Buddhismo trovò · comprensione soprattutto fra i circoli del Taoismo filosofico, i quali ravvisavano nella nuova Legge una forma particolare della loro dottrina della Via e della Virtù adattata alle esigenze dei popoli di Occi­ dente. Alcuni Taoisti, fondandosi sul fatto che Lao Tzu, alla fine della sua vita, scomparve di là dalle frontiere occi­ dentali della Cina, giunsero ad affermare che il Buddha sarebbe stato uno dei ventinove discepoli del fondatore della loro scuola, da lui avuti fuori dalla Cina, e interpre­ tarono di conseguenza la sua dottrina. I l Buddhismo pertanto dovette subire un completo « ripensamento » e adattamento alla mentalità cinese che, fra l 'altro, era priva della formidabile esperienza logico­ dialettica della civiltà indiana. I missionari buddhisti, quin­ di, mitigarono le dottrine che sarebbero parse i naccetta­ bili o immorali ai Cinesi, come la anattii (non-essere del­ l 'io) del Piccolo Veicolo e la nairO.tmya (inessenzialità di tutte le cose) del Grande Veicolo, abbondarono nelle chio­ se alle loro traduzioni di citazioni di Lao Tzu e dei pre­ sunti detti dello Huang Ti, specialmente laddove queste affermano il perenne mutarsi di s tato in istato delle cose e il consistere della realtà in wu (non-essere) « trascend�n­ te forme e fattezze » . I traduttori d i testi buddhisti i n questo p rimo periodo di apostolato nell'Impero di Mezzo adottarono la termino­ logia taoista : mllrga (via) venne reso con tao, satipa!{hana (consapevolezza) con shou-yi, nairlltmya con pu-shèn, sunya con pèn-wu; egualmente i termini taoisti yu (esistente), wu (non-essere) , yu-wey (azione) , wu-wei (non-azione) ven1 97

nero a significare concetti buddhisti. Questo sistema, ba­ sato sull'interpretazione delle idee buddhiste secondo i con­ cetti del taoismo filosofico, fu chiamato ko-yi, interpreta­ zione per analogia, e restò in uso fino a quando, nel quin­ to secolo, iniziò con Kumaraj iva un nuovo orientamento nelle traduzioni, che permise ai Cinesi di conoscere meglio il pensiero originale del Buddhismo. È in ogni caso interessante osservare come i Cinesi, ritenuti un popolo essenzialmente pratico e alieno dalle astrazioni filosofiche, abbiano invece accolto con straordi­ nario favore i più ardui testi della metafisica buddhista, come la Prajiiapliramita e le altre opere delle scuole Ma­ dhyamaka e Yogacara. Lo studio appassionato delle rela­ zioni fra essere e non-essere diede pertanto l'impronta alle prime « Sette Scuole », fra le quali si ricorda la « Scuola del Non-Essere originario » di Tao An (3 1 2-85) , che inse­ gnava la processione del mondo delle forme dalla originale Vacuità. Presso queste prime sette scuole, propriamente cinesi, la parte pratica e meditativa del Buddhismo veniva rappresentata con immagini molto simili alla Virtù (Teh) taoista, come il non-essere della mente del saggio, che pre­ lude alla non-intenzione ( Wu-hsin) della scuola Ch 'an, della quale si tratterà in seguito. Poiché la diffusione del Buddhismo in Cina è avv"enuta, in un certo modo, a « ondate » successive, ognuna con caratteri diversi, se non opposti, dalla precedente, la de­ scrizione di questo grandioso avvenimento dovrà abbrac­ ciare un ciclo di almeno una decina di secoli di storia, I l primo periodo del Buddhismo fu eminentemente ricettivo, e non si ha notizia di un'importante elaborazione cinese del pensiero mahayanico. Una delle cause di questa Ì nerzia fu probabilmente dovuta alla proibizione imperia­ le ai sudditi dell'Impero di Mezzo di prendere gli ordini 1-eligiosi, durata fino al 335 d.C. I Cinesi potevano quindi essere al massimo devoti laici upasaka ma non acce­ dere alla condizione di monaco bhik�u, l 'unica atta a favorire lo studio indipendente della dottrina e il pieno esercizio dell'ascesi meditativa sulla quale si fonda la disci­ plina buddhista. Il passaggio da questo priipo periodo a uno successivo, di ripensamento cinese del Buddhismo, è -

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segnato dall'arrivo alla capitale cinese Ch'ang-an, nell'anno 401 , di un celebre maestro, i� p rincipe Kuma raj fva (3444 1 3) , di stirpe indiana, ma s tretto parente del re di Kuca, in Asia Centrale, donde lo aveva tratto come ostaggio il generale L ii Kuang sin dal 384, portandoselo a Lan-chou, nel Kan Su. Giunto a Ch'ang-an, Kumaraj ìva non tardò a entrare nelle grazie dell'imperatore Yao-hsing che lo nomi­ nò kuo-shih, direttore dell'insegnamento . Durante la sua permanenza in Cina tradusse un centinaio di opere di dot­ trina buddhista e compì numerose ritraduzioni di prece­ denti versioni in cinese. Kumaraj iva aveva una completa formazione letteraria, filosofica e religiosa: era una di quelle personalità nelle quali sono riunite, in sintesi, le esperienze di un'intera civiltà. Possedendo perfettamente lo strumento linguistico, fu in grado di rendere ai Cinesi i l senso originario delle opere buddhiste, fino allora inter­ pretate soltanto secondo le categorie di pensiero proprie all'esperienza filosoHca cinese. Ciò che importa soprattut­ to porre in rilievo è che, dopo Kumaraj fva, il Buddhismo, in Cina, passa dalla fase di interpretazione a quella di ela­ borazione vera e propria : il Buddhismo diventa un feno­ meno cinese. Questo compito fu iniziato dai due principali discepoli cinesi di Kumaraj fva : Seng Chao (384-4 1 4) e Chu Tao-sheng (360-434) . Seng Chao era nativo della regione presso Ch'ang-an . Prima di abbracciare il Buddhismo egli s tudiò profonda­ mente Chuang Tzu e Lao Tzu, come si ravvisa nei suoi scritti radunati nel Chao Lun (Dialoghi di Chao) . In parti­ colare egli sviluppò e condusse alle massime conseguenze la dialettica del wu e dello yu, combinandola con il metodo della doppia verità di Nagarjuna che, come si vedrà in seguito, costituirà la base filosofica della dottrina di Chi­ tsang. Si tratta cioè di riconoscere che ciò che rappresenta la più alta verità a un livello comune è la verità inferiore a un livello superiore. Ad esempio : riconoscendo la mutabi­ . lità delle cose a ogni istante, si dice che c'è mutamento e non permanenza ; riconoscendo invece che ogni cosa in · ogni istante permane in quell 'istante, si afferma che c'è permanenza e non mutamento. Pertanto, a un livello più basso, la doppia verità consiste nel riconoscere che le cose 1 99

sono, sia yu e permanenti, sia wu e impermanenti. A un livello più alto, trascendendo questa dualità, si affermerà che le cose non sono né perma,nenti né mutev o li, né yu né wu. Da questa considerazione passò a riconoscere che la prajnli non è conoscenza, in quanto quest 'ultima consiste nel riconoscere le qualità distintive degli oggetti della me­ desima conoscenza. La prajnli, invece, ha per oggetto ciò che trascende forme e fattez�e, cioè il wu: ciò significa che il saggio si è identificato al wu, e questa identificazione è il nirvar,za. A un terzo livello di verità , quello sublime, una volta riconosciuto che nirvar.za e prajnli sono due aspetti della medesima condizione, priva di soggetto e di oggetto, si raggiunge un atteggiamento di assoluto silenzio, in quan­ to nulla può essere né detto né non detto . Tao-sheng, condiscepolo di Seng Chao, nacque a P 'eng-ch'eng nel Kiang-su. Fu un monaco estremamente dotato di eloquenza, erudizione e capacità filosofica : le sue concezioni lasciarono traccia durevole nel Buddhismo cine­ se, pur essendo in un primo tempo così male accolte da dover egli abbandonare la città (Nanchino) ove insegnava, in seguito ala riprovazione degli altri monaci. Riassumendo brevemente i principali problemi da lui trattati, si può affermare che questi furono tre : · il primo è il problema dei cosiddetti icchlintika, ovvero coloro ai quali è precluso per ragioni di destino e di inclinazione l 'accesso alla Buona Dottrina. A tale riguardo Tao-sheng affermava che an­ ch'essi posseggono, come essenziale realtà del loro essere, la natura di Buddha, e quindi possono realizzarla, se non in questa in un'altra vita. Questa fu la teoria che valse a Tao-sheng l 'esilio, dal quale ritornò . allorché, giunto in Cina e tradotto il Parinirvli'l'}a-sutra, si vide che l 'audace tesi di Tao-sheng era confortata dall'autorevole appoggio delle Scritture. Quanto a queste ultime, Tao-sheng atfer­ mò sempre di tenerle in conto di meri s trumenti provvi� sori per raggiungere la realtà delle cose: una volta p erve­ nuti a queste esse diventano superflue, come la rete per chi ha p reso il pesce (il Tao) . Continuando su questa via logica, egli affermò che ogni essere cosciente ha la natura del Buddha o, secondo la tipi··

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ca visione cinese, dello Spirito Universale, soltanto che non si accorge di possederla : la vissuta consapevolezza di que­ sta è il nirviir.ta, il quale però non esige l 'abbandono della vita comune. Anzi, esperimentando la buddheità, il mondo fenomenico e quello trascendente coincidono in un atto continuo . Questo punto di vista, come altri che si espon­ gono in seguito, verrà ripreso dalla scuola Ch'an, allorché questa affermerà che· l 'esperienza del Buddha consiste nel « non cercare più l 'asino sul quale si cavalca » . I l secondo principio enunciato da Tao-sheng è quello secondo il quale « una buona azione non comporta ricom­ pensa » . Questa affermazione, apparentemente scandalosa, allude al fatto che, quando nell 'azione si seguono i prin­ cipi del wu-wei (non-azione) e wu-hsin (non-intenzione) , si spegne ogni attaccamento dovuto alla brama che ci fa aggrappare a un risultato particolare, e quindi l'azione si reintegra alla sua sfera primordiale di pura libertà : per­ ciò il karman di chi agisce senza attaccamento non com­ porta alcuna ricompensa. (È il medesimo principio del tyaga che noi vediamo predicato nella Bhagavad-gitii, allor­ ché questa raccomanda di compiere l 'azione (karman) e fruirne (bhoga), res tandone però distaccati) . I l terzo principio di Tao-sheng, che fu pienamente con­ diviso dalla scuola Ch 'an, è quello secondo il quale il con­ seguimento della condizione di Buddha è un atto istanta­ neo, una folgorazione che non ha alcun rapporto di con­ tinuazione rispetto alla disciplina preparatoria seguita du­ rante il periodo di ascesi, poiché diventare Buddha signi­ fica identificarsi nel wu (non-essere) , ovvero lo Spirito Universale, quello che « trascende forme e fattezze » , e, quindi, tutte le forme condizionate di esistenza. Il wu non è una « cosa » divisibile in parti : è il tutto, inteso come unità di soggetto e di esperienza, di là da qualunque ap­ prendimento proprio a quel conoscere partitivo che appar­ tiene alla sfera dello yu. L 'epoca ricordata nella s toria cinese come quella della disunione nazionale, durata dal 22 1 al 589 d.C., tu in gene­ rale molto favorevole allo sviluppo del Taoismo e del Bud­ dhismo . Alcuni autori hanno interpretato questo fatto asse­ rendo che, in tempi così calamitosi, i Cinesi erano portati 20 1

a preferire sistemi religiosi e filosofici che li distaccassero dalle cure di questa terra, anziché quell i. classici, come il Confucianesimo, che esigevano una presenza attiva e ope­ rante dell'uomo nella società· e nello Stato, inteso come manifestazione della Legge del Cielo sull Terra. Altri auto­ ri hanno invece rilevato il favore goduto da questi due sistemi presso le dinastie s traniere che si successero sul suolo cinese, portate da invasori turchi, mongoli o tungusi , ed hanno concluso che tali dinastie, estranee originaria­ mente alla cultura cinese, ·preferivano naturalmente forme di spiritualità non legate necessariamente alla cultura del popolo soggetto. Contro questa teoria vi è però da osser­ vare che fu proprio sotto la successiva dinastia unitaria cinese dei T 'ang (6 1 8-907) che il Buddhismo, continuando il cammino ascendente compiuto ai tempi degli Wei e dei Sui, raggiunse le sue più alte espressioni e godé di un favore non minore di quello avuto sotto le dinastie stra­ niere. La verità, probabilmente, è a metà strada fra le due teorie. Il periodo fra il terzo e il settimo secolo fu ricco di stimoli e di impulsi, forse anche per la mancanza di un'uniformità politica e per la !abilità delle frontiere dei diversi Stati, ciò che permetteva la libera entrata di per­ sone e di idee provenienti dall'India e dall'Asia Centrale. Gli stessi sovrani, generalmente di origine e di costume barbarico, non avevano motivi per opporsi a questa pene­ trazione del Buddhismo, dato che non sentivano un parti­ colare bisogno di difendere la tradizione e la cultura cinese dagli influssi stranieri . Ciò permise alla civiltà cinese di assimilare e di fare suo il pensiero buddhista, portatore di nuovi orizzonti filosofici e di una robusta impalcatura me­ tafisica e dialettica dovuta alla sua lunga evoluzione in­ diana. Il contatto col Buddhismo diede nuove dimensioni alla speculazione cinese, in particolare al Neo-Taoismo e al Neo-Confucianesimo, col quale la filosofia cinese raggiungerà le più alte vette della sua evoluzione. ·

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3) Le otto grandi scuole buddhiste

Durante la dinastia T'ang (6 1 8-906) la Cina giunse al­ l 'apogeo della sua potenza politica, estendendo le sue fron­ tiere oltre i confini dell'Asia centrale, rendendo tributari il Tibet e la Corea, e occupando le sue attuali p rovince meridionali , sin da allora sinizzate. L'Impero di Mezzo conobbe inoltre un'èra di pace, di unità e di prosperità, che permise un ammirevole sviluppo del l e arti, della lette­ ratura e delle scuole speculative. Per quanto si riferisce a queste ultime, si accentuò la loro reciproca influenza e, in una certa misura, il p rocesso di sincretismo fra Buddhi­ smo, Taoismo e Confucianesimo. In quest'epoca il Buddhismo cinese conosce la sua mas­ sima fioritura . L'inizio della grande epoca del Buddhi­ smo cinese fu segnato dai celebri viaggi dei pellegrini cine­ si in India. Essi stabilirono gli ultimi contatti diretti con la vivente tradizione buddhista dell'India, e soprattutto trasfusero nel Buddhismo cinese la quintessenza di ciò che le ultime scuole indiane avevano creato ed elaborato in fatto di metafisica e di mistica liberatrice. Fra questi viag­ giatori spicca la figura di Fa Hsien il quale, all'inizio del quinto secolo, attraversò ì 'Asia centrale, visitò l ' India, ove raccolse numerosi testi sanscriti, e tornò per mare a Can­ ton. A lui dobbiamo una p reziosa quanto esatta descri­ zione dell'India dei suoi tempi, tramandataci nel Fo-kuo chi (Memorie del Paese del Buddha) . Altri pellegrini furono I Ching (634-7 1 3) , che si recò in I ndia per mare, visse nel­ l 'università di Nalanda, dove raccolse i Vinaya (Regole di Ascesi) dei Mula-sarviitivadin, e soggiornò a Giava; · e il ben più famoso Hsiian Tsang (596-664) , che visse in India i primi vent 'anni del secolo settimo, ivi ricevendo una completa formazione filosofica e religiosa . Celebre in India 20.3

come in Cina, protetto e onorato dai maggiori sovrani del suo tempo, da Kumaraphala re dell'Assam, per il quale tradusse in sanscrito il Tao Teh Ching, · a T'ai-tsung, primo imperatore della dinastia T'ang, conoscitore profondo del sanscrito, lingua nella quale sostenne numerose controver­ sie filosofiche con dotti pandita indiani, riportò dall'India 650 volumi, parte dei quali egli tradusse, come l'Abhidhar­ makofa (Tesoro di metafisica) di Vasubandhu con il rela­ tivo commento (vyakhya) e ipercommento (bha�ya), la Vijfi.li.ptimlltratllsiddhi (Dimostrazione che ogni cosa è solo denominazione) , appartenente al secondo periodo, quello yogllclira, del medesimo autore, e una decina di commenti riflettenti l 'interpretazione di Dharmapala (sesto secolo) alla Trirrzsika (La « Trentina ») di Vasubandhu . Hsi.ian Tsang, dopo il suo ritorno in Cina, fu l 'iniziatore di una scuola idealista alla quale si accennerà in seguito . Siamo giunti così a tracciare u n breve riassunto delle principali scuole buddhiste che fiorirono in Cina fra i secoli sesto e nono. Fra queste otto sono considerate prin­ cipali, oltre alle due scuole Chii-shih Tsung, fondata sul citato Abhidharmakosa, e Ch 'eng-shih Tsung, basata sulla Satyasiddhi, di Harivarman, opera di passaggio fra il Pic­ colo e il Grande Veicolo, tradotta in cinese da Kumanij lva . Queste due scuole vengono qui menzionate perché, come si vedrà in seguito, pur non avendo avuto grande impor­ tanza sul suolo cinese, fioriranno in Giappone sotto i nomi rispettivamente di Kusha e Jojitsu. Delle otto scuole che s i nominano in seguito, le prime quattro, restate aderenti ai modelli indiani, hanno avuto un potere unicamente introduttivo sulla cultura cinese, mentre le successive quattro sono venute a costituire al­ trettanti elementi originali e vitali nella civiltà della Cina. La prima scuola fu quella detta Lii Tsung (giapp. RisshU) , fondata da Tao-hsi.ian (596-667) . Questa scuola, trascuran­ do la parte dogmatica, diede grande importanza all'ottem­ peramento delle regole del Vinaya, sulle quali era basa�a . Ebbe importanza storica in quanto, durante due secoli e mezzo, per una forma di simbiosi possibile probabilmen te solo nel Buddhismo, abitarono nei suoi conventi anche i monaci seguaci della setta Ch'an. 204

La seconda scuola fu quella detta San-lun (giappones e Sanron) , perché basava la sua dottrina su tre testi della scuola Madhyamaka, e cioè il Madhyamakasas tra di Nag�­ rj una, lo Sata-slistra (Trattato di Cento versi). e il Dviidasa­ nikiiya-sastra (Trattato di Dodici Capi) del successore di Nagarj una, Aryadeva. I l suo fondatore, Chi-tsang (549623) , considerato continuatore di Kumaraj i"va, ripeté in veste cinese i noti principi della scuola Madhyamaka, e cioè la liberazione dello spirito da ogni idea affinché in esso s 'inveri lo sanya. La terza scuola fu quella Vijfiiinaviida o Yogiiclira, det­ ta in cinese Wei-shi (giapp. Rosso) , oppure Hsiang-tsung, che ebbe come personalità più eminenti il pellegrino Hsiian Tsang (596-664) , suo fondatore, e il suo discepolo K 'uei chi (632-82) . Il testo basilare di questa scuola è la Dottrina della Pura I deazione (Ch 'eng Wei-shih Lun). Questa scuola di idealismo soggettivo non soddisfece pienamente lo spirito cinese, alieno dal considerare come pura rappresentazione soggettiva il mondo della realtà este­ riore. Filosoficamente questa scuola decadde allorché alla meditazione sull'alaya-vijfilina si sostituirono sterili elucu­ brazioni su una « ottava » e « nona » forma di coscienza, distinzioni scolastiche importate dall'ultimo Buddhismo in­ diano . La sua importanza storica e filosofica consiste nel­ l 'aver impresso un orientamento i dealistico a tutto il suc­ cessivo Buddhismo cinese, dandogli la possibilità, in se­ guito, di raggiungere le più alte vette speculative. La successiva scuola, dett a Mi Tsung (Scuola dei miste­ ri) , o Chen-yen (Scuola dei mantra) (giapp . Shingon) , fu introdotta in Cina nel 7 1 9 dai singhalesi Vaj rabodhi (67074 1 ) , Amoghavaj ra (705-774) e S ubhakarasimQ.a (637-735) . Si tratta di una scuola di Vajraylina non saktico facente capo a due cicli di esperienze contenuti nei due tes ti Tat tvasarrzgraha e Mlihavair'ocana-abhisarrz bodhi, il primo dei quali è corredato da un ma1Jçlala fondamentale, il se­ condo da due mm:zçlala. Questi ultimi due simboleggiano, il primo il processo di manifes tazione dalla coscienza cosmi­ ca alla molteplicità degli esseri, il secondo il cammino in­ verso, ovvero il riassorbimento dell 'essere individuato (ef­ fetto) nella coscienza cosmica (causa) . Essi sono rispettiva205

mente il Vaj rad hatumar;zçlala ed il Garbhadna t u mai'J.c}.ala. La figura centrale di ques ti cicli è Va i rocana, che appunto rappresenta la coscienza incondizionata che s ta alla base del mondo manifesto (v. pp . 1 1 1 - 1 1 2) . Questa scuola puramente liturgica trovò favore nella cotte dei T 'ang non tanto per la sua dottrina, quanto per l 'efficacia che si attribuiva ai suoi riti esoterici, volti à scongiurare disgrazie e a influire favorevolmente sull 'esito delle azioni intraprese dal sovrano . In Cina non durò mol­ to a lungo, anche perché non penetrò nel costume e nella coscienza del popolo : ebbe invece grande sviluppo in Giappone, dove fu introdotta da Kobo Daishi, vissuto in Cina al tempo di Vayrabodhi . Maggiore importanza ebbero le seguenti tre scuole bud­ dhiste, l 'influsso delle quali si fece fortemente sentire nella vita nazionale cinese e in particolare sull 'arte, sul gusto e sulla mentalità religiosa. La prima di queste è la cosiddet­ ta Hu a-y e n Tsung (Scuola della Ghirlanda) fondata da Fa Tsang (643-7 1 2) , soghdiano, discepolo di Hstian-tsang. Il termine Ghi rlanda è l 'approssimativa traduzione del san­ scrito Ava t a rrz s a k a (-siit ra), ovvero s at ra dell 'Ornamento, testo sul quale si basa l 'omonima scuola mahayanica, con­ siderata l 'ultima apparsa e cresciuta in India, dove ebbe ampia letteraturft fra il quinto e l 'ottavo secolo. La teoria di questa scuola ci appare come l 'assunzione, in funzione meditativa e in termini cosmici, dei principi dello Yogli-· cara. La sua dottrina centrale consi ste nell 'affermare che ogni cosa, ogni « grano di polvere » , contiene in sé tutta la realtà : ogni cosa pertanto può rivelare i segreti dell 'uni­ verso intero , in quanto le è immanente il vuoto, che è la vera essenza della realtà ( dharmadhiitu). Per dirla in termi­ ni goethiani , ogni elemento della realtà contiene in sé lo U rphiinom e n l 'archetipo - di tutto l 'universo. Poiché il vero reale è la mente, ne consegue che ogni pensiero è col­ legato con tutto ciò che è , stato e sarà. Nella sua opera La -

meditazione che es t ingue le false im maginazio n i e . ricon­

Fa Tsang indica sei soggetti di medita­ zione : l ) l 'invariata coscienza alla quale ritornano tutte le cose ; 2) l 'unica coscienza che trascende tutte le forme indi­ viduate ; 3) l'interpenetrarsi misterioso di tutte le cose ; duce alla so rgen te,

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4) la quiddità (tathlitli), fuori dalla quale nulla esiste; 5) lo specchio dell'identità (il principio per cui tutte le cose sono presenti in ogni cosa) riflettente le immagini di tutte le cose, per cui esse cessano di esistere per reciproca limi­ tazione; 6) il fatto che prendere una cosa particolare impli­ ' ca prendere tutte le cose che compongono l 'universo. Questa dottrina non portò, come sarebbe avvenuto in India, allo sviluppo di un sistema tantrico volto alla mani­ polazione e al dominio delle forze cosmiche, bensì raffor­ zò in seno alla cultura cinese quell'orientamento estetico di fronte alla natura proprio allo spirito estremo-orientale, detto in giapponese mano nb aware, che consiste nel sen­ tirsi l 'uomo parte del tutto e nello stesso tempo sintesi di tutto l'universo; è un sentimento di profonda armonia in­ teriore che traspare da tutte le opere d'arte proprie a quel­ la cultura umana. La scuola seguente è quella d � tta T'ien-t 'ai, dal nome di un monte nel Che-kiang, ove visse il suo fondatore Chih-k'ai (53 1 -97) . Questa scuola è nota anche col nome di Fa-hua (Loto della Legge) , dal suo testo fondamentale che è il famoso Sad-dharma-pur.J.darika (Il Loto della Buo­ na Legge) , ritradotto in cinese da Kumarajìva. I l T'ien-t'ai, not.o come Tendai in Giappone, dove fu introdotto da Dengyo Daishi nell 'ottavo secolo, è una forma di Buddhi­ smo mahayanico sincretico, nel quale sono ravvisabili ele­ menti appartenenti alle dotrine delle già descritte scuole Wei-shih e Hua-yen. Similmente a quest 'ultima scuola, esso · ritiene che ogni cosa contenga in sé tutta la Mente asso­ luta e che tutte le cose abbiano la natura del Buddha. Questa, denominata T� thligatagarbha (Germe dei Tathli­ gata) , genera contemporaneamente il mondo degli arche­ tipi, trascendente, e questo mondo, per cui tutti gli eventi sono, a cagione dell'immanenza in loro di un'unica realtà, armonicamente integrati. Nonostante questi presupposti i dealistici, il T'ien-t'ai attribuì al mondo fenomenico ima realtà maggiore di quanto non comportassero le sue dot­ trine così chiaramente ispirate allo Y ogiiciira. Obbedendo a un'esigenza classica nello spirito cinese , affermò che la realizzazione del nirvii1;1a non estingue l 'assunzione come reale del mondo fenomenico, e pertanto la possibilità di 207

azione « impura », legata cioè a questo mondo, da parte del Buddha. Da questa affermazione discende una conse­ guenza morale e pratica che influì beneficamente sull 'esi­ s tenza della setta in Cina, che consisté nell'appoggio che essa diede all'ordine sociale e quindi all ' attività delle auto­ rità politiche. Di tendenze radicalmente opposte, devozionali e popo­ lari, fu la scuola della Terra Pura (Ch 'ing-tu, giapp . lodo) , le cui origini lontane risalgono alle dottrine d i Hui-ytian, ritiratosi nel 386 nel monastero di Lu-shan . La sua organiz­ zazione definitiva avvenne due secoli più tardi, ad opera di Tao Ch'o (652-645) e Shan Tao (6 1 3-8 1 ) . La teoria di questa setta, riassunta in poche parole, consiste in un devoto abbandono al Buddha della Luce Infinita, Amita­ bha (cinese : 0-mi-t'o-fo) , la pronuncia del cui nome è suf­ ficiente per allontanare qualsiasi ostacolo alla realizza­ zione del nirvlllJa. Questa dottrina di grazia si basa sul Sukhavati-vyii.ha (Descrizione del Paese Beato) , tradotta da An Shih kao, il quale narra come il bodhisattva Dharma­ kara, nell'atto di diventare il Buddha Amitabha, una decina di coni fa, si stabilisce nella Terra Pura d'Occidente e ivi formulasse il voto, per il quale sarebbe venuto in aiuto di qualunque essere lo avesse invocato. Questa setta ha avuto in Cina e in Giappone un'enorme forza culturale e artistica . Nel suo seno si è sviluppato anche il culto del Dio dallo Sgu �rdo Misericordioso (Avalokitesvara, cioè Kuan-yin) . . I vari indirizzi assunti dal Buddhismo cinese, la varie­ tà dei mezzi di salvazione messi a disposizione dei prati­ canti, il grande sviluppo conseguito dalla metafisica dei differenti sistemi, avevano poco per volta fatto perdere di vista il vero fine della predicazione del Buddha . Avverso a questo s tato di cose sorse l 'ottava grande scuola cinese - detta Ch 'an, dal sanscrito dhyiina (pali jhana) , medita­ zione - la cui caratteristica esteriore più apparente è ap­ punto l 'estrema sobrietà di mezzi soterici, la scarsezza di formulazioni filosofiche e la totale assenza di rituale e di liturgia. I caratteri elusivi di questo movimento , conside­ rato in Cina e Giappone come la quarta rielaborazione originale del pensiero del Buddha (dopo l'Abhidharma, il 208

Mahayllna e il Tantra) , rendono molto difficile tratteggiar­ ne il contenuto dottrinale, . tanto più che il Ch'an, total­ mente immerso nella realizzazione pratica, non ha mai curato l 'elaborazione di teorie filosofiche. In primo luogo vi è un'estrema semplificazione dei mezzi per la libera­ zione, che in pratica sono ridotti a uno solo - la medita­ zione (dhylina) - alternata, nelle comunità monastiche, a un'intensa attività di l�voro (contrariamente alle regole delle altre sètte buddhiste che impongono ai monaci di vivere di elemosina) . Ammessa la totale inesprimibilità del principio assoluto di tutte le cose, poiché riguardo ad esso non può esistere il soggetto di un'esperienza che lo assu­ ma come oggetto, la meditazione ch'an parte da un vuoto mentale e procede secondo una crescente consapevolezza del principio illuminativo insito nella sua pura attività, fino a giungere a un « punto di rottura » , di là dal quale il meditante si trova improvvisamente traspo�to, identifi­ cato, al piano dello sunya. Data la diversità radicale fra l'insieme degli stati che precedono l 'illuminazione ed essa stessa, questa si invera come una folgorazione istantanea. Questa folgorazione è denominata in cinese wu, in giappo­ nese satori. Il Ch'an afferma inoltre un altro p rincipio molto im­ portante, e cioè che la meditazione debba svilupparsi sen­ za essere condizionata a un risultato particolare, e sia quindi « senza intenzione » (wu hsin), poiché, qualunque specie di oggetto o condizione essa si ponesse, le togliereb­ be quel carattere di libera attività (dell'Io, diremmo noi) , nel quale consiste l 'essenza della bodhi i n lei insita. Questo principio è una trasposizione, . in termini buddhisti, del principio taoista del « non-agire >? (wu-wei), perché l ' « agire­ senza-agire » (wei-wu-wei) è la Virtù (Teh) dell'Assoluta Realtà (Tao). « Risiedere nel non-pensiero » significa non legare il pensiero a un contenuto particolare, che in quan­ to tale lo limita con la sua determinatezza. L'eventuale oggetto della meditazione, assunto al principio della mede­ sima, deve servire soltanto come pretesto a un'attività pensante, che in un momento successivo contempla se stes­ sa per sperimentarsi . Il pensiero quindi si sviluppa nella meditazione come una attività distaccata, disimpegnata da 209

qualunque oggetto specifico, intesa a vivere la propria libertà fondata sul vuoto. Da ciò nasce la straordinaria sinteticità e sobrietà del Ch'an, nella cui pratica non vi è posto per qualsiasi specie di attaccamento, anche per il Buddha (« che, se vi tagliasse la s trada », disse un mae­ stro, « dovete eliminare ») . La liberazione, in altri termini, nasce dalla libertà stessa della coscienza pensante priva di contenuto. (A tale proposito si narra l 'aneddoto del patriarca Huai Jang (677-744) , che, vedendG il suo disce­ polo Ma-tzu meditare per ottenere la bodhi, gli si pose v icino a lucidare la superficie di un mattone, dicendo di volerne fare uno specchio. Con ciò volle significare l 'ina­ nità di una meditazione fondata sull'attaccamento a un oggetto, per quanto elevato: come può essere la bodhi) . Un altro carattere del Ch'an è la completa naturalezza di vita alla quale è tenuto chi lo pratica : naturalezza sotto­ lineata dall'obbligo di lavorare dei suoi adepti, che contra­ sta con i princìpi di tutte le altre sètte buddhiste. Questa normalità di vita nasce dal fatto che la illuminazione non contraddice il mondo della comune esperienza, bensì lo riduce a una sfera di libertà, conferendogli il suo vero, interiore significato. Sarrtsli.. ra e nirvli1J.a, come si è già det­ to a proposito dello Yogacara, sorgono l 'un dall'altro illu­ soriamente, perché vi è un pensiero che li distingue. Allor­ ché questo pensiero si riassorbe nell'atto illuminativo, nasce una visione che in tutte le cose riconosce lo sunya e, quindi, la suprema realtà. Di fuori il monaco continua a vivere normalmente, interiormente egli è sanyatiL Per queste esigenze il Ch'an ricorda molto il Tantrismo vaj rayana, pur essendo privo di ogni liturgia e di quel sistema di « appoggi » mistici che caratterizza tale si­ stema. Ancora di più ricorda il Tantrismo del cosiddetto Sahajayiina buddhista dell'India, quando, evitando ogni formulazione dogmatica, conduce i suoi adepti alla libera­ zione mediante la meditazione su paradossi e immagini razionalmente incomprensibili, tendenti a svegliare l'intui­ zione della suprema verità proprio mediante la loro irre­ solubilità logica. Il sistema dei paradossi per ottenere il wu è un aspet­ to caratteristico di alcune sètte Ch'an che fondano la loro 210

disciplina illuminativa sui cosiddetti