Le vie del Buddhismo

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Le vie del Buddhismo

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PIO FILIPPANI RONCONI

Le vie del Buddhismo

BASAlA

TUTTI

I

SONO

RISERVATI

© 1986 Manilo Basaia Editore Cas. Post. 6097

-

00195 Roma

DIRITTI

A Sveva, mia figlia.

INTRODUZIONE

Il Buddhismo rappresenta una dei massimi eventi che si siano verificati, non solo nel campo della religione ma anche in quello più universale del pensiero umano. Nato come un movimento ascetico, fondato su presupposti razio­ nali, il Buddhismo assurse, secoli più tardi, alle più alte vette della metafisica e, contemporaneamente, sotto l'in­ flusso dei movimenti gnostici sviluppatisi nell'India dal II all'XI secolo d.C., maturò nel suo seno un insieme di sistemi mistico-religiosi articolati in numerose sètte. Que­ ste, fra loro tollerantissime, se, da una parte, servono per soddisfare l'anelito devozionale e religioso dell'uomo comu­ ne, dall'altra - con la loro complessa simbologia - allu­ dono a condizioni sovrasensibili della coscienza che sono la premessa per raggiungere le .stesse mète che il Buddha, con semplici ragionamenti e con toccanti parole, aveva indicato. Questa è la ragione per la quale il Buddhismo, senza mutare minimamente le sue teorie fondamentali, che non implicano affatto interventi divini o sovrumani per la salvezza dell'uomo, ma il suo solo sforz.o personale, è diven­ tato una vera e propria religione, agglutinando a sé, nei secoli della sua inarrestabile diffusione, tutte le religioni. fedi e credenze con le quali si sono imbattuti i suoi missio­ nari. Come può essere avvenuto un fatto simile? Sempli­ cemente perché, per il Buddhismo, gli dèi - al contrario di quelli dell'Induismo o delle altre religioni del mondo non sono affatto concepiti come entità reali, concrete pur nella loro ineffabile trascendenza o immanenza, ma come semplici proiezioni, esteriorizzate nel culto, e, quindi, fon­ damentalmente illusorie, di elementi noetici e psichici ap­ partenenti alla coscien(.a sogf!ettiva. Per il Buddhista puro, quindi, l'uomo cc si libera » di queste formazioni o energie psicologiche rappresentandosele, aggettivandole, ponendo5

sel e davanti come immagini - di dèi oppure di démoni, ma co munque sempre personificazioni di energie che agi­ sco no nella sua stessa coscienza - sì da stabilire un rap­ porto di conoscenza che le disciolga gradualmente nella sfera dell'illusione cosmica (maya) dalla quale sono sorte. E. un procedimento - quello dell'aggettivazione - molto ben conosciuto dalla psicologia sperimentale moderna che però, millenni or sono, il Buddhismo ha condotto ad estre­ ma perfezione e sottile raffinatezza. Questo paradosso, di una religione fondamentalmente «atea», che il Buddhismo ha in comune con il Jainismo, non è il solo che esso ci presenti. Un altro paraaosso, più formale che sostanziale, è che il Buddhismo, di fronte alle varie religioni indiane che attribuiscono un senso trascen­ dente alla Storia, interpretando/a come la proiezione di un divenire cosmico, divino, che attraversa l'Umanità, nega invece qualunque valore oggettivo agli eventi del divenire in continuo mutamento (sarpsara), a tutta l'esistenza, quin­ di alla Storia in blocco. Ciò nonostante il Buddhismo en tra come un impulso chiaramente defi1J.ito nella medesima cor­ rente della storia umana, la cui non-significanza teorica­ mente afferma. Ciò avviene perché il Buddhismo attribui­ sce un valore fondamentale ed universale al pensiero, che che è poi l'unico che può conferire un senso alla Storia. Finché l'uomo vive immerso in un limbo magico-divino, infatti, non può attribuire agli eventi esteriori quella con­ nessione oggettiva che è il tessuto stesso della Storia, e che gli permette di interpretar/a. Come tutti gli altri sistemi filosofici o religiosi del­ l'India, lo scopo che si propone il Buddhismo è la libera­ zione (mukti, mok�a) dal giro inesauribile delle esistenze (sarpsara). Questa liberazione, però, viene concepita nel Buddhismo in una forma robustamente concreta e perso­ nale, e non misticamente ed impersonalmente come nel­ l'Induismo: finché restiamo immersi nel sarp.sara, qualun­ que sia la nostra condizione di esistenza - di uomini, di d�i, di dèmoni eccetera - viviamo in un alternarsi di dolore e di piacere, o in uno stato di piacere, che dura fin­ ché permane il frutto (phala) dell'azione (karman) com­ messa in un'esistenza precedente oppure in questa, che ce

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lo fa toccare in sorte o ce lo fa conquistare, dopo di che si ritorna a soffrire. Ora, questa sofferenza, o questo esse­ re il piacere condizionato alla sofferenza o viceversa, sono manifestazioni dell'Universale Dolore (dul;tkha, dukkha) , simbolo del permanere nel sarpsara. Tale dolore, però, esi­ ste in quanto c'è un io che se lo raffigura, non un Io assoluto, certo, ma quel nucleo di tendenze, passioni, voli­ zioni eccetera, più o meno mentalizzate, che costituiscono il soggetto della nostra esistenza. E: questo nucleo sogget­ tivo èiò che rende possibile il sarp.sira, che gli conferisce aspetto di realtà e ce lo fa patire. Il nostro compito è, è, quindi, di scardinare questo falso io, sperimentandone la non-essenza (an-atmata, an-atta) , inesorabilmente rico­ noscendo gli elementi psicologici che lo compongono. In tale modo si avrà un graduale distacco dagli oggetti ai quali, duran te la vita, coscientemente o inconscietemente si aderisce, distacco che condurrà alla liberazione. Tale liberazione, denotata, nel B uddhismo, col termine nega­ tivo di «estinzione» (nirvaQ.a, nibbana) , si avvera come conseguenza di una silenziosa illuminazione interiore· (bodh i), di un « risveglio» alla coscienza dell'universale «non sussistenza» (a-nityata, aniccata) , di tutti gli elementi dell'esistenza. Quindi il Buddhismo, che teoricamente par­ ie da premesse perfettamente comprensibili ed ammissibili per un Indiano tradizionale, b rahmanico o indù, tende ad uno scopo che è esattamente l'opposto di quello delle reli· gioni indiane summenzionate. Queste tendono a ritrovare nel divino una concretezza di esperienza, quello a distrug­ gere l'illusione circa la concretezza di qualunque espe­ rienza. Queste si volgono alla realizzazione di un Io asso­ luto (lo atman o il brahman), quello alla distruzione speri­ mentata di qualunque concezione circa un io o un non-io, cioè all' «estinzione» per eccellenza, al nirval)a. E: in teressante osservare come il Buddhismo, religione­ filosofia di genere apostolico universale, si sia proprio estinto nella sua patria di origine, dove sopravvive quasi esclusivamen te nell'isola di Ceylon, mentre il Brahmane­ simo, originariamente religione « teologica» di una ristret­ ta casta ereditaria di sacerdoti, quindi naturalmente esclu­ sivista, abbia invece, sotto forma di ciò che denominiamo 7

Induismo, totalmente conquistato l'Ind ia, salvo natural­ mente, le zone islamiche e cristiane, amalgamando a sé un insieme disparato ed apparentemente incoerente di culti, di tradizioni e di . credenze religiose, appartenenti alle diversissime razze che popolano il sub-continente indiano. Ma dove appare con chiarezza solare l'inconciliabilità fra le due tendenze spirituali, il Buddhismo ed il Brahma­ nesimo, è nella concezione del Dharma. Per gli Indù, il Dharma è l'Ordine cosmico e morale per eccellenza (lo Rtà ve dico), al quale ci si adegua compiendo i riti ed osservando le prescrizioni, anche se queste conducono, come nel caso dei vari sistemi yoga (che verranno, più o meno, adottati dal Buddhismo), ad un superamento dei vincoli morali dell'individuo di fronte alla società: lo scopo dei riti . brahmanici è quello di trasporre l'uomo in una entità divina. Per il Buddhismo è esattamente l'opposto: il Dharma o, meglio, il Saddharma (la Buona Legge) è di là dall'Ordine cosmico medesimo, il quale, poi, è soltanto una forma di saq1sara, lo scorrere indefinito e non-signifi­ cante di esistenza in esistenza. Questo Dharma buddhistico non cerca affatto di creare un « s.uperuomo » o di enu­ cleare un essere divino dall'uomo: si propone semplicemen­ te di estinguere per sempre la catena delle esistenze con­ tingenti a cui l'uomo soggiace. Il N irvaQ.a, al quale il Dharma conduce, è una condizione non-dialettica, indicibi­ le, di là dall'esistere, dall'essere (come dal non-essere), che si invera come una >. Inoltre i gruppi iniizali contenenti una « r >> subi­ scono varie metamorfosi in senso cerebrale, es. sgrol-ma viene articolato come tjolma eccetera.

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I PARTE IL BUDDHA E LA BUDDHEITA'

Buddha non è il nome di una persona, bensì l'appel­ lativo con cui si indica un essere umano il quale, avendo in se stesso sperimentato quella che è la più profonda con­ sapevolezza, quella che è la più intima coscienza, di là da tutte le oscillazioni dello spirito, .dei sentimenti, di là dalle parvenze di cui la realtà si riveste, si identifica a questa coscienza illuminativa, che gli indiani chiamano bodhi, e diventa per tutta l'umanità della sua epoca la guida per compiere la medesima esperienza. Buddha signi­ fica infatti Risvegliato, Illuminato. Non dio né mago né taumaturgo, anche se ne ha la capacità. � un uomo « sveglio in mezzo agli addormentati », che procede lucido e distaccato fra coloro che sognano appassionatamente l 'illusione di un'esistenza alla quale essi stessi prestano vita. È un uomo che ha « compiuto l'opera da compiere »: quelle di domare interamente se stesso e giungere interna­ mente a quella sfera di immota luminosa serenità, di tota­ le trasparenza a se stesso, ove sono completamente estinti sentimenti, passioni, attaccamenti, repugnanze, abitudini , complessi psichici innati ed acquisiti, tutto quel divenire doloroso e affannoso - fatto realmente di nulla - di cui è tessuta la perpetua vicenda di nascere-vivere-morire­ rinascere, che gli Indiani denominano sarrzsiira, cioè flusso, scorrere continuo . L'uomo che chiamiamo Buddha è giu nto a realizzare questa esperienza di una Realtà di .là da tutte le fo�e, indicibile sino ad essere « essenziata di vuoto », senza l 'aiuto degli dèi , senza l'appoggio di tradizioni, senza la guida di maestri. Egli è stato un uomo libero. La sua sco­ perta, se così la possiamo chiamare, è che, al centro di

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se stesso, nella realtà più intima e segreta di ogni uom,o, non tanto vi è un essere che assista stupefatto e impotente alla caotica successione dei fatti della propria esistenza, determinati nel loro apparente disordine dal ferreo nesso di causa ed effetto, quanto un atto di folgorante intuizio­ ne, una continua presenza a se stesso, una coscienza im· macolata intangibile, inafferrabile, che si invera di là da tutti gli stati d'animo, di là da tutte le sensazioni, di là da tutte le percezioni che danno all'uomo l'illusione di vivere in uno scenario animato da enti e da forme, alla vita dei quali esso inestricabilmente partecipa. Ora, se questo atto di coscienza-risveglio, questa pre­ senza a se stesso, questa bodhi, costituisce la più intima realtà dell'essere umano, il Buddha è colui che, pur viven­ do come uomo di carne e ossa, lo ha sulla Terra piena­ mente personificato. Si può anche dire che, essendo tutti gli uomini nel loro nucleo più profondo essenziati di que­ sta sublime consapevolezza, essendo cioè dei Risvegliati in potenza (solo che non lo sanno) , il Buddha è colui attra­ verso il quale l'umanità è giunta al suo acme, ritrovando il significato di se stessa. La tradizione indiana afferma che per ogni grande ciclo storico vi è almeno un uomo che compie quest'espe­ ; rienza centrale e che, talvolta, trasmette il metodo per raggiungerlo agli altri uomini, con il linguaggio adatto al tempo in cui vive e alla possibilità dei suoi contemporanei di comprenderlo e di accoglierne il messaggio. L'ultimo uomo siffatto comparso sulla Terra fu il principe Siddh�rtha, detto Gautama Sakyamuni. Il fatto che il Buddhismo ed il Jainismo in India, il Confucianesimo ed il Taoismo in Cina, i sistemi filosofici di Eraclito, di Pitagora e degli Eleati in Grecia siano tutti contemporanei, nel senso più stretto del termine (i lo ro protagonisti avrebbero potuto conoscersi personalmente, addirittura), ciò potrebbe indicare il verificarsi di un even­ to storico e psicologico che investe lo spirito umano in tutte le civiltà superiori , indipendentemente dalle loro eventuali inter-comunicazioni . Questo evento si concreta nello sbocciare delle facoltà razionali umane le quali, con la forza di un pensiero attivo, si volgono alla ricerca dei 12

Supremi Veri, indipendentemente da rivelazioni divine, da arcane tradizioni o da mistici trascendimenti. Per questo fatto, di importanza universale, il Buddhismo ha realmen­ te plasmato un nuovo tipo d'uomo che ancor oggi resta l'ideale di tutti i popoli dell'Asia Orientale, dal Tibet al Giappone, dalla Mongolia alla Birmania ed all'Indocina. E quel tipo di uomo calmo, raccolto in sé, compassione­ vole, ma intimamente distaccato da se stesso e dal mondo - che per lui non è altro che dolore -, profondamente attento a quanto compie, pensa e sente, che domina il suo pensiero al pari di uno yogin; è il tipo umano che ha potuto, in terre diverse, assimilare al suo spirito le esigenze etico-sociali confuciane, il senso di armonia taoi­ sta, le aspirazioni magiche dei Tibetani e perfino la mora­ le guerriera dei samurai e dei rl1nin giapponesi. Questo nuovo tipo di uomo, che da circa millecinquecento anni domina l'Asia Orientale, è l'immagine, riflessa nelle diver­ se culture di quella regione, del Buddha, dello « Svegliato ».

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Vita del Buddha, sua Illuminazione e Dottrina SiddhD.rtha, « Colui il quale ha raggiunto lo scopo », venne al mondo fra il 563 e il 570 a.C., secondo altre tradizioni (in particolare quella· Thera-viida) nel 623 a.C. , in una località dell 'India settentrionale, a circa 100 km . a nord di Benares, dove suo pad re, �uddhodana, era re degli Sli.kya (i Potenti), egemoni della piccola confedera­ zione di stati dell'Uttara-Ko§ala, la cui capitale era Kapihl­ vastu . I l nome della famiglia era Gautama, cioè disc�ndente da Gotama, nome di un antico veggente vedico che traeva le sue origini da Ik�v�ku, re di Ayodhya, figlio a sua volta del Manu Vaivasvata, il settimo dei Legislatori Universali , quello che governa la presente èra umana, a sua volta figlio del Sole. Questa è la ragione per cui nel Canone bud dhista il Buddha viene spesso chiamato discendente del Sole. Di nobile ed antica stirpe egli era, quindi, ed i suoi ap partenevano alla casta dei guerrieri, che, assieme a quel­ la dei sacerdoti (brlihmarJ.a) e a quella degli agricoltori­ allevatori, rappresenta lo strato ariano dell 'India antica. Suo padre aveva sposato due sorelle , Maya- (o Mayadev'i), madre di Buddha, e Mah�praja-patT. Le pie tradizioni circondano la nascita del Buddha di un alone meravi­ glioso, né mancano· quelle che affermano essere stata la sua concezione immacolata. Comunque sia, Maya fu colta dalle doglie del parto mentre tendeva la mano per stac­ care un ramo da un albero, in un bosco vicino al paese di LumbinT (att. Rummindei). La scena fa parte dell 'icono­ grafia buddhista ed è riprodotta in un bassorilievo trova­ to nella zona verso la fine del secolo scorso. Una settimana dopo il parto, avvenuto la notte del plenilunio del mese di aprile-maggio, Ma-ya- morì. Il neo­ nato fu affidato alle cure della zia, che in seguito ebbe

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una figlia e un figlio, chiamato Nanda; poi discepolo del Buddha. Poco dopo la nascita, Siqdhartha fu portato al tempio di Abhaya (il « Senza Paura ») , ove il vecchio sacerdote KaJa Devala (o Asita) riconobbe nel suo corpo i 32 segni caratteristici (lak�a1J.a, laficana) e gli . 80 secondari (anu­ vyafijana) dell'Uomo Cosmico (Mahli.puru�a), e, prevedendo che egli sarebbe diventato o un Sovrano Universale (Cakra­ vartin, « volgitore di ruqta » ) , o un Buddha, pianse, per­ ché la sua età già inoltrata non gli avrebbe permesso di arrivare a vedere le imprese del principe. L'episodio ricor­ da quello analogo riferito nel Vangelo di Luca, 2, 25-36, in cui si narra che il levita Simone pianse di gioia allor­ ché gli fu presentato il bimbo, perché era vissuto abba­ stanza a lungo per riconoscere immediatamente nell'infan­ te il Messia. La profezia del sacerdote colmò di speranze S uddho­ dana ma allo stesso tempo lo riempì di apprensione : diffi­ cilmente, infatti, sarebbe potuto nascere in seno alla sua stirpe un altro uomo destinato all'impero universale, qua­ lora Siddhartha avesse scelto la via dell'ascesi . Egli allevò quindi il figlio ponendo ogni att�nzione nel nascondergli il lato doloroso della vita e le brutture del mondo, sì che non gli sorgesse nell'animo il desiderio di abbandonarlo. Il fanciullo cresceva in un grande parco allietato di stagni fioriti e di padiglioni adatti alle diverse stagioni, attorno al quale vegliavano sentinelle in armi, per impe­ dire che al cospetto del principe giungessero vecchi o in­ fermi, oppure che egli potesse vedere cadaveri condotti al rogo o asceti, o tutte quelle altre testimonianze del­ l'aspetto tragico dell'esistenza quotidiana di cui l'India di tutti i tempi è particolarmente doviziosa. Per noi è più naturale Cr-edere che Siddhartha ' cre­ scesse forte e spensierato in mezzo ai cootanei , curato come conveniva al suo rango. Le stesse sc.ritture buddhi­ ste più antiche ci offrono l'immagine di un ambiente indiano psicologicamente molto più simile , almeno nella zona prehimalayana: a Que11o dell'antica Europa mediter­ ranea che a Quello dell'India brahmanica posteriore. Poli­ ticamente la regione rifletteva le condizioni ivi stabilite

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dagli A rya conquistatori, i quali avevano costituito da tempo un insieme di piccoli stati feudali governati con sistemi · aristocrat�co-oligarchici, attorno a quattro regni principali, i cui nomi ricòrreranno frequentemente nella biografia del . Buddha. Erano questi ultimi di Magadha (att. Bihar) , la cui capitale era Raj agrha, sostituita poi da Pataliputra, att. Patna; il Kosala, con la capitale S ravastì; il regno dei Vatsa, il regno di Avanti. Da questi regni dipendenvano più o meno i raggruppamenti tribali di guer­ rieri ai quali si è accennato, come gli Sakya, o i Vrjji, fra i quali i Licchavi di VaiSali, i Malia, ed altri. In questa regione meravigliosa compresa fra lo H ima ­ laya e il divino Gange, vicino alle frontiere dell 'attuale Nep al, dove ora si estende la giungla impenetrabile del Terai, regno delle tigri, che dai pantani meridionali sale verso le nevose montagne, cresceva allora vigorosa la stir­ pe degli S akya, discendenti, secondo la leggenda, dei figli di Ik�vaku esiliati dal loro stesso padre (probabile ricordo di una migrazione sacra caratteristica degli antichi Arii d'India come lo era di quelli d'Italia) . Quando il vecchio re seppe che i figli avevano trovato ricetto sulla sponda di un lago, in un bosco di maestose querce saka, esclamò : « Querce, dico, sono i miei figli, superbe querce sono i miei figli ! », donde il loro nome, il cui etimo è tanto comune nel nostro Occidente per denotare ciò che è « robusto » . Sull'indole gioviale e sbrigativa di quella stirpe di guerrieri ci ragguaglia il Dighanikaya nell'Am baghasutta in cui il briihma7J.a Ambatiha si lagna presso il Buddha di non essere stato ricevuto dagli Sakya con i riguardi dovuti alla sua casta sacerdotale : « Selvaggia, o Gotama, è la stirpe dei Sakya; rude, ruvida e rozza, o Gotama, è la stirpe dei Sakya; con faccia impudente, con gesti im­ pudenti, essi non stimano i sacerdoti, non . rispettano i sacerdoti, non onorano i sacerdoti, non venerano i sacer­ doti, non calcolano i sacerdoti... » . Al che il Buddha sorri­ dendo rispose : « Anche uno scricciolo nel suo nido, Am­ battha, può cinguettare a suo piacere, e a Kapilavastu gli Sakya sono a casa propria: non voglia l'onorevole Am­ battha alterarsi per si piccola cosa ». Questo grazioso ,

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quadretto rappresenta con genuina freschezza il contra­ sto, esistente nel VI sec. a.C., tra gli indo-ariani della montagna, d del confine, che conservavano ancora l'antica libertà e plasticità dei guerrieri vedici, e quelli della bassa · valle del Gange, già suddivisi in caste, su cui gravava il giogo sacerdotale brahmanico 1• In quei tempi, quando probabilmente venivano redatte le Upani�ad, _; cioè i testi dell'arcana sapienza degli eremiti che cercano in se stessi la Realtà delle Realtà, la casta dei guerrieri si presenta come il lievito spirituale dell'In­ · dia antica. Le Upani�ad . citano spesso il caso di asceti di stirpe guerriera che ammaestrano sulle Verità appartenen­ ti alla casta sacerdotale. Era nel medesimo periodo in cui il Buddha veniva al mondo che un altro guerriero, d fina (« Vincitore » ) , compiva la sua terribile ascesi nelle foreste del Rarh, dando inizio alla sètta Jaina , tuttora esistente. Era il tempo in cui, nella tradizione ortodossa indiana, si effettuava il trapasso tra la fase religiosa dei Veda, basati sul sacrificio, e quella più meditativa ed interiorizzata che noi conosciamo come Brahmanesimo, l 'epoca in cui le tradizioni eroiche dei Kaurava, dei Paç.­ c;lava, degli�dava e del dio-uOmo Krgta, giunteci con i poemi del Mahabhllrata e del Rllmliyana, fondevano l'ém­ pito religioso dei Purli1].a e la metodologia ascetica dello Yoga, per coagularsi in quell'immagine che l'India conser­ verà attraverso i secoli come la sua più autentica realtà : quella che, ispirandosi alla memoria mai ·smarrita di un preterito mondo spirituale, ne ricerca le fattezze nella vita quotidiana, quale arra di Liberazione. Dal vivace ritratto dell'India tramandatoci dalle scrit­ ture buddhiste vediamo quale interesse avesse presso tutte le classi sociali la ricerca dell'Assoluto : interesse che in India non si spegnerà mai . Nei testi si stagliano a tutto tondo le figure di asceti vaganti . detti « dipartiti » Pravrajaka, degli « svincolati >> Nirgran tha, probabili discepoli di Jina, e di eremiti silve·

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Giuseppe De Lorenzo, India e Buddhismo an tico, Laterza Bari 1926.

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stri fedeli alla tradizione vedica. Né mancavano torme di giovani che, al seguito di qualche famoso maestro, per­ correvano l'immenso paese durante la buona stagione, per ritirarsi sotto le frasche di una capanna quando giungeva il monsone. Tutti costoro, chi più chi meno, si esercita­ vano in quelle antichissime discipline psicofisiche, tipiche dell'ascesi indiana, note col nome di yoga. L'elemento interessante è che molti di loro, da queste esperienze, cominciavano a dedurre i primi elementi di concezioni del mondo che diverranno poi le dottrine filo­ sofiche delle diverse scuole storiche. Siamo, in effetti , alle soglie della formazione embrionale ·della filosofia indiana che, secoli più tardi, proprio per effetto dello stimolo buddhista, troverà la sua possente formulazione nei sei sistemi classici. ·

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In questo mondo, materialmente prospero e spiritual­ mente inquieto, dobbiamo immaginare che crescesse colui che diverrà il Grande Illuminato. Anche se la leggenda insiste nel descrivercelo racchiuso in una gabbia dorata, a tratti si rivela come egli partecipasse alla vita ed ai costumi della gioventù del suo tempo : esempio classico l'episodio delle sue nozze, stil quale i testi canonici mo­ strano evidente imbarazzo dato che nulla vincola al sa rrz­ sara quanto la perdita di consapevolezza propria all'atto coniugale, ove la temporanea « morte » della coscienza, data dall'estasi, si proietta nella vita donata a un altro essere. � probabile che il Buddha abbia avuto due mogli, cugi­ ne sue : Gopa e Ya�odhara , o forse addirittura tre. Siddhar­ tha se le conquistò durante una specie di tenzone cavalle­ resca, primeggiando sugli altri pretendenti in competizioni di tiro all'arco e di lotta. Una volta ammogliatosi, ciò che avvenne ai suoi 16 anni, visse tranquillo per altri tredici in un'esistenza di delizie che egli stesso descriverà nel 75o discorso del ·

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Dighanikaya 2: « Anche io ho già vissuto in famiglia e nel possesso e godimento delle cinque facoltà di bramare ... .Ed io possedevo tre palazzi, urio per l'autunno, uno per l 'inverno, uno per l'estate 3• Ed io trascorrevo i quattro mesi della pioggia nel palazzo autunnale, dove fanciulle cantavano per me e suonavano >>. Ma già si delineavano i segni annunciatori di quella che sarà la Grande Dipartita, ispiratagli da quattro uscite dal parco reale durante le quali Siddhartha incontrò prima un vecchio canuto, rattrappito e malfermo, poi un amma­ lato, poi un corteo funebre. Da queste tre visioni egli conobbe la realtà universale del dolore : quel dolore che, gli diceva il fedele auriga, ChaQ.c;laka, egli stesso avrebbe sperimentato durante la sua vita mortale. Il quarto incontro fu invece quello con un asceta. Egli procedeva libero e sereno per la sua strada, simbolo vivente della condizione nella quale il dolore non ha più presa. La leggenda narra che il principe, dopo averlo visto, non tornò subito a palazzo, poiché nel suo animo già si espandeva la decisione di seguirne l'esempio. E un verso di lode rivoltogli da una donna avrebbe risvegliato in lui l'idea dell'Estinzione, nirvii71-a, quella sfera d'immutata serenità ove morte, malattia, vecchiaia non hanno più senso. Al suo ritorno gli annunciarono che, dopo ben tredici anni di matrimonio sterile, gli era finalmente nato un figlio. « Un Rllhula è nato, un vincolo è nato )) , disse Sid­ dartha oscuramente. Possiamo supporre che egli alludesse al fatto che il bambino era nato durante una eclisse (pro­ vocata, secondo gli Indiani, dal dèmone Rahu, che inghiot­ te la luna) , e quindi all'eclisse della propria vita conse­ guente alla nascita del bambino. Suddhodana, conosciute le parole del figlio, fece chiamare Rahula il nipote. ·

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De Lorenzo, op. cit., pag. 121 . L'antico anno indiano, dato l'avvento fisso del monsone, era sud­ diviso in tre o sei stagioni, di quattro o due mesi ciascuna. Le sei stagioni erano: la primavera, la calura, la pioggia, l'autunno, l'inverno (o la nevicata), la frescura. 3

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La nascita di un discendente legittimo affrettava, per Siddhartha, la sua consacrazione a principe ereditario, as­ sociato al trono· paterno. Secondo il rito ciò avrebbe dovuto avvenire con l'aspersione con la quale i re arii venivano iniziati. · Seguendo questa via Siddhartha avrebbe ·raggiunto, come gli aveva profetato Asita, la condizione di re universale, ma· egli scelse allora l'altra supremazia. La leggenda narra che la visione delle danzatrici e dei cortigiani, scompostamente addormentati dopo il convito col quale era stata celebrata la nascita di un discençlente nella casa di Suddhodana, lo colmò di nausea. La sala gli sembrò un cimitero pieno di corpi in decomposizione, sì che egli decise di andarsene subito e di attuare in quello stesso momento la Grande Dipartita. Prima di uscire per sempre dalla sua casa Siddhartha guardò il figlio che dormiva su un letto coperto di fiori : avrebbe voluto sollevarlo a sé ancora una volta, ma la madre gli teneva la mano sulla testolina e si sarebbe risvegliata se egli avesse tentato di scostarla. Decise così di rivederlo solo quando avesse raggiunto la condizione di Buddha. Seguito dallo scudiero, Siddhartha si allontanò dalla città, si rase le chiome con la spada , mutò le sue ricche vesti con quelle di un cacciatore e rimandò indietro ChaQ.­ çlaka. Così dice la leggenda. Ma è più probabile che egli abbia scelto la vita ascetica dopo averne informato il padre. A ciò allude il 36° capitolo del Dighanikaya, allor­ ché narra : « . . . e dopo qualche tempo, o monaci, ancora fiorente, splendente di capelli neri, nel godimento della felice giovinezza, nella prima età virile, contro il deside­ rio dei miei genitori piangenti e gementi, rasi capelli e barba, vestito dell'abito giallo, rinunciai alla casa per la povertà ascetica » . Questa è la « Grande Dipartita » (Mah a­ ni�kramatza, con la quale Siddhartha, già Bodhisattva, cioè « Buddha in potenza », antepose il Grande Risveglio al dominio su questo mondo, che per Karman gli sarebbe toccato di conquistare. *

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La parte successiva della vita di colui che doveva diven­ tare il Buddha, proprio perché riguarda un insieme di atti 20

interiori di ordine spirituale, è trattata dai testi canomc1 con obiettività storica: il mito, la pia leggenda cedono il passo ad eventi di matematica chiarezza, destinati a cul­ minare nella Realtà delle Realtà, rEstinzione, il Nirviina. Recatosi a Vaisali, Siddhartha diventa discepolo del maestro Arac;la Kalama, il quale insegnava la teoria della « sfera del nulla » , realizzata attraverso la' pratica del cosiddetto « adeguamento » (Samiipatti) conducente ad uno stadio in cui vi è né presa-di-coscienza né non-presa­ di-coscienza. Egli si impossessò · della disciplina in modo tale che il maestro tentò di associarselo nell'insegnamento. Successivamente Siddhartha si recò presso il maestro Rudraka Ramaputra, che insegnava una disciplina di rac. coglimento profondo, tale da portare l'asceta di là dalla coscienza di veglia come dall'incoscienza. Ma neanche co­ stui lo soddisfece, perché neppure la sua dottrina condu­ ceva alla suprema Liberazione. Durante il. suo sqggiomo a Raj agrha (att. Rajgir) si pone il suo incontro con il re Bimbisara , del quale n:arra il Suttanipata 4• Il re, scorto il monaco che usciva .dalla · città, impressionato dal suo aspetto nia�stoso, era montato sul suo carro e lo aveva raggiunto, indirizzaridogli queste parole : « Così giovane, forte, fresco, nel primo fiore della viri­ lità, di nobile aspetto, di bella figura, tu sembri di nascita un guerriero che possa · risplendere dinanzi all'esercito, seguìto dalle schiere degli elefanti : io ti dono tesori, sii un compagno e dimmi di che gente tu sei » . E Siddhartha : « Nel settentrione, o re , v'è una terra che si stende ai piedi dell'Himalaya , dotata di forza e di ricchezza, confinante coi vicini Kosali. Dalla stirpe solare io discendo, sono uno Sakya per nascita : a tale casa ho rinunciato, non bramo più godimento. Nel godimento vidi miseria; cerco, sfuggitone, la sicurezza. Procedo combat· tendo, e in ciò l'animo mio si conforta » .

4 •

Raccolta di aforismi



Canone buddhista,

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di P. Filippani-Ronconi, Torino 1968, pp. 421-424.

Discorsi brevi

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a cura

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Bimbisara, impressionato da quèste p'!.role e più ancora dalla forza spirituale che traspariva dall'asceta gli offrì metà del. suo regno in cambio della conoscenza (e nell'In­ dia di quei tempi non era un'offerta peregrina) . Siddhar­ tha, a sua volta, rifiutò il regno ma promise che, quando l'avesse scoperta, gli avrebbe rivelato la via della salvezza. E si _rimise in cammino, per scoprire da solo quella via che nessuno poteva indicargli. Per ben sei anni ancora Siddhartha avrebbe praticato le più severe forme di ascesi escogitate da generazioni di penitenti allo scopo di reprimere i moti istintivi che dal­ l'ente vitale dell'uomo traggono alimento, e superare in tal modo quello che è il massimo ostacolo alla Libera­ zione. I capitoli 4, 12, 26, 36 e 85 del Majjhimanikaya 5 descrivono le orripilanti mortificazioni (non diverse, del resto, da quelle ancor oggi praticate da alcune classi di asceti indiani) alle quali egli si assoggettò. Alla fine, quando, dopo tanto soffrire, stava per morire di sfinimento, egli si avvide che gli istinti, le brame pro­ fonde, che nell'uomo comune sono in un certo qual modo attutite dai pensieri e dalle preoccupazioni inerenti al fat­ to di vivere nel mondo, nell'asceta (la cui attenzione è tutta concentrata nel respingerli) insorgono e si affermano, intorbidando la coscienza, la cui chiarezza egli presume di conquistare . « Allora mi venne il pensiero : di quello che mai asceti o sacerdoti hanno provato nel passato o proveranno nel futuro o provano nel presente di sensazioni amare, dolo­ rose e cocenti, questo è il massimo, non si può andare oltre. Eppure con questa arnara ascesi di dolore io non raggiungo la sopraterrena, santa dovizia della chiarezza di conoscenza! Forse vi· è un'altra Via per il Risveglio. Allora mi venne un pensiero : io mi ricordo che una volta, durante i lavori dei campi presso mio padre, seden­ do nella fresca ombra di un albero di rnelarosa, ben lun-

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pitaka.

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Mucchio dei Testi Medi

»:

parte del Canone contenuta nel Sutta­

gi da brame, !ungi da cose non salutari, non senziente , non pensante, sperimentando una beata serenità nata dalla pace, raggiunsi il grado della prima contemplazione : questa può forse essere la Via del Risveglio. Allora sorse in me la consapevolezza adeguata alla conoscenza : questa è la Via del Risveglio » . Siddhartha decise di ristorare le forze. Si alzò e andò in cerca di cibo. I suoi indumenti gli caddero di dosso , imputriditi : una morente gli donò i suoi (secondo un altro racconto egli raccolse un sudario e se ne rivestì). Una giovane Sujata, « Eugenia », preceduta dalla dome­ stica, stava andando a portare un'offerta di riso e aromi ad un albero sacro « Ajapala » , per ottenere un degno marito ed un figlio. La domestica, visto l'asceta, la consi­ glia di dare piuttosto a lui il cibo, e quella acconsente. Siddhartha scende al fiume, si lava e, diviso il bolo di riso in 49 parti, che gli sarebbero bastate per le sette setti­ mane successive, mangia la prima porzione. Ciò basta a ridargli colorito e vigore. Getta la scodella d'oro che aveva contenuto il cibo nel fiume : invece di scendere con la corrente essa la risale. La narrazione, può facilmente prestarsi a molte inter­ pretazioni simboliche, dai nomi dei personaggi agli eventi medesimi (la scodella che risale la corrente : allusione al rifluire degli effetti - scodella, vita nel mondo - alla sfera delle cause, l'àmbito della Legge) . A questo punto inizia l 'ascesi finale di Siddhartha, or­ mai potenzialmente un Buddha, giacché ha intuito la Via del Risveglio. Intanto i cinque condiscepoli che, soggio­ gati dall'esempio della sua austerità, lo avevano seguìto , pensano che egli abbia rinunciato, e lo abbandonano . Il giorno successivo, al tramonto, il Buddha muove verso un albero asvattha (Ficus religiosa), simbolo del­ l 'Asse del Mondo· e, come indica la Bhagavad-gitli., dello Spirito Universale, a cagione delle sue radici aeree che dai rami scendono verso il suolo , come lo spirito che dal cielo fluisce verso gli uomini. Compie la sacra circumambulazione dell'albero da de­ stra verso sinistra, poi siede in meditazione . Immediata­ mente Mara, dio della morte e del desiderio che lega 23

l'uomo all'illusione esistenziale, assale Siddhartha, perché si accorge che il suo regno sta per finire,. con una schiera di dèmoni, rappresentazione delle angosce che brulicano nella coscienza profonda, ma l'asceta li annichilisce con la sua amorevolezza. Allora Mata torna alla carica, preten­ dendo l'Illuminazione per sé : Siddhartha lo sconfigge invocando la testimonianza della Terra, . che tocca con la destra. nel tipico gesto eternato dall'iconografia buddhista. Mara fa quindi apparire dinanzi al Buddha le sue tre figlie, ma sempre invano. Inizia per l'asceta l'ultima veglia : è la notte del plenilunio di ·aprile-maggio del 523 a.C. Egli comincia la meditazione seiDJendo la disciplina del (( rammemoramento mediante if respiro » ( ana-apàtza-smrti, iiniipllnasati) (che risveglia la consapevolezza propria al respirare), poi passa alle quattro contemplazioni succes­ sive, durante le quali si disidentifica progressivamente da ciò che è corpo, oggetti della mente, coscienza priva di oggetti e oggetti mentali puri . « Costante io perseverai, senza vacillare, con mente chiara, senza stupore, con animo raccolto, unificato. Lungi da brame, lungi da cose non salutari, io restavo in senzien­ te, pensante, nata di pace, beata serenità : così raggiunsi la prima contemplazione. Dopo il compimento del sentire e pensare, io raggiunsi l 'intera calma, l'unità dell'animo, la libertà di sentire e pensare, nata dal raccoglimento, beata serenità, la seconda contemplazione. Iri serena pace io restavo equanime, savio, chiaro, cosciente, provavo in me la felicità di cui i santi dicono : "l'equanime savio vive felice"; così raggiunsi la terza contemplazione. Dopo riget· to delle gioie e dei dolori, dopo annientamento della leti­ tizia e della tristezza anteriore, io raggiunsi la non triste, non lieta, equanime, savia, perfetta purezza, la quarta contemplazione » 6• .. Nella seconda vegli a, apertoglisi l'occhio divino (divya­ cak�us), egli può contemplare gli infiniti universi e le creature che, impulse da gioia e da dolore, da brama e da repugnanza, trascorrono incessantemente da uno stato al-

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De Lorenzo, op. cit. , pag. 135.

l'altro, secondo la legge delle cause concatenate (pratitya­ sam utpllda, paticasamuppllda): tale legge è basata sul fat­ to che dall'ignoranza (a-vidyll, avijjli), non di un oggetto particolare, ma ignoranza come forza cosmica, nascono i cosiddetti sarrzskara, sankhara, forze istintive plasmate in un modo particolare dal karman della vita precedente, dai quali sorge il vijfzllna, v i iiffan a, coscienza, come nocciolo della nuova personalità : da essa deriva il nlima-rupa, nome­ forma, ossia l'individualità spirituale e fisica che si forma nel seno materno : questa genera gli �a tf. aya tana, sa[llya­ tana, i sei ricettacoli o sostegni dei sei sensi (vista, udito, odorato, gusto, tatto e mente ricettiva) , dai quali si gene­ ra lo sparsa, il contatto col mondo esteriorizzato ; questo è l 'origine della vedana, o sensazione, che, .a sua volta, genera la tr�rJ.li, taizha, o sete dell'oggetto, d�lla quale nasce lo upadana, attaccamento alla vita che è la base del bhava, esistenza, concepita come divenire karmico : que­ st'ultimo si manifesta come jliti (nuova) nascita, dalla qua­ le provengono jarli-mararJ.a, vecchiaia e morte, ovvero la fatale conclusione del ciclo, il qual� si riapre, poi, con uno nuovo, e così via indefinitamente, finché l'ignoranza non venga estinta. Compiuto il ciclo dell'esistenza terrestre l'uomo passa alla condizione di morte (mrtyu-bhava), nella quale esperimenta una « esistenza intermedia » (antara­ bhava) che conduce a vari destini (gati) dipendenti dal frutto delle azioni, karman, kamma, co.m piute durante la precedente vita. Quindi inizia la terza veglia e Siddh�rtha rivolge l'ani­ mo all'estinzione delle manie che condizionano la vita degli uomini, deduçendone il metodo che conduce alla loro estin­ zione. Riconosce così le quattro Nobili Verità (arya-satyllni, ariya sacclini), che sono : la realtà del mondo è essenzial­ mente dolore (duiJ.kha, dukkha), dolore consistente nella nascita, malattia e morte, unione con ciò che disgusta, separazione da ciò che si ama, nella limitazione nel tempo di tutti i beni acquistati; l'origine (samudaya) del dolore è la « sete » (tr�rJ.ll, tanha.), l'appetito dei godimenti, il desiderio di esistere o di . non esistere; l' « arresto)) (niro­ dha) della sete generatrice delle rinascite, che è l' « estin­ zione)) (nirvllrJ.a, nibbana); la via che conduce all'arresto -

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del dolore (duhkha-nirodha-gamini pratipad), che la Legge (Dharma), la quale si articola nell'Ottuplice è Sentiero (astlinga-marga, auhangika-magga), cioè nei seguenti orien­ tamenti : retta visione (samyag-dr�ti, sammli diUhi); retta rappresentazione concettuale (samyak- sankalpa, sammll­ sdnkappa); retta par�la (samyag-vac, spmmiivaca); retta attività (samyak-karmiinta, sammfi.. k ammanta); retto meto­ do di vita (samyag-iijfva, samma-lljiva),· retta applicazione (samyak-vyllyllma, sammlivayama); retta presenza di spirito (samyak-smrti, sammzt.sati); retta maniera di me­ ditare (samyak-samiidhi, samma-samlldhi). Nella presa di coscienza totale della realtà del mondo, della sua origine, di come esso sussista nello spirito del­ l'uomo ed in questo si dissolva, egli trascorse l'ultima veglia. Quando il giorno albeggiò : « ... l'ignoranza era di­ strutta, era sorta la scienza, dissipata l'oscurità ! guadagna­ ta la luce, mentre con serio intendimento », dice il Buddha, « strenuo, risoluto io vi dimoravo ». Gautama § akyamuni era diventato il Buddha, « lo Svegliato » . Ecco come i l Buddha stesso descrisse, anni dopo, que­ sta esperienza : « Con tale animo, saldo, purificato, terso, schietto, schiarito di mente, malleabile, duttile, compatto, incorruttibile, io rivolsi l'animo alla cognizione dell'e­ stinguersi delle manie. "Questo è il dolore", compresi con­ forme a realtà. "Questa è l'origine del dolore" ... "Questa è la fine del dolore" ... "Questa è la mania, l'origine della mania, la fine della mania, la Via per la fine della mania", compresi conforme a realtà. Così riconoscendo, così veden­ do, il mio animo fu redento dalla mania del desiderio, redento dalla mania dell'esistenza, redento dalla mania dell'ignoranza" » 7• Interiormente illuminato dalla verità e da essa pervaso, Siddh'artha sciolse per sempre la catena del saptZsiira: dive­ nuto il Buddha, lo Svegliato, egli avrebbe vissuto ancora per quanto durava l 'effetto della sua ultima esistenza, ma non sarebbe mai più rinato. Si vuole che in queJ

' De Lorenzo, op. cit., pag. 136.

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momento egli pronunciasse le parole che:: ci sono state tra­ mandate dal Dhammapiida: « Per il volgere di innumerevoli nascite corsi senza tre­ gua cercando il costruttore ·della casa ( = la causa della rinascita) . Orribile è l'eterna rinascita. O costruttore, ora ti ho scoperto ! Tu Iion fabbricherai più alcuna casa. In­ frante sono le tue travi e il tetto della casa è crollato. Il cuore, fatto libero, ha estinto ogni brama » 8• A Buddha Gaya, là ove il Buddha aveva conseguito l 'Illuminazione, fino al 1876 si poteva contemplare il vetu� stissimo tronco dell'albero sotto il quale egli era stato seduto in meditazione. Un ramo, trasportato nel I I I sec. a.C. a Ceylon, presso Anuradhapura, si sviluppò in un albe­ ro che tuttora sussiste, ed è oggetto di venerazione per i buddhisti locali. *

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I fatti successivi alla Liberazione rispecchiano evidente­ mente, nella loro proiezione biografica, concezioni cosmo· logiche antichissime, come i 7 giorni trascorsi sotto l'al­ bero dell'Illuminazione, paralleli ai 7 giorni che il re consa­ crato doveva trascorrere sul luogo della sua iniziazione, i 7 giorni di meditazione, i 7 giorni di circumambulazione, i 7 giorni trascorsi presso il lago Mucalinda, durante i quali il Buddha viene protetto da un'alluvione dal genio­ cobra omonimo, che lo ravvolge di sette spire e ne proteg­ ge il capo col proprio cappuccio. Infine la settima setti­ mana, trascorsa sotto un albero detto Soggiorno di Re. Se questi fatti �imbolici ancorché veritieri, non hanno ai nostri occhi grande importanza, ne ha invece grandissi­ ma la decisione che egli prese dopo lunga incertezza : co­ municare la verità acquisita a tutta l'umanità, invece di restare un Buddha Silente. Il dubbio derivava al grande asceta dalla considerazio­ ne realistica che « la gente non cerca questa verità profon-

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Dhammapada, Jarli·vagga, pag. 1 18.

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da, difficile a scoprire, tranquilla, preziosa, intima, acces­ sibile ai sapienti; la gente cerca il piacere, ama il piacere, predilige il piacere; a questa gente una realtà come la causalità, l'origine delle cause, sarà poco intellegibile. E la gente comprenderà appena quest'altra cosa : lo svanire di ogni distinzione, il distacco da ogni attaccamento, l'estinguersi della sete, la consumazione, la dissoluzione, l 'estinzione . . . ». L'impulso che determinò il Buddha alla rivelazione del­ la verità fu la compassione verso tutti gli esseri. Impulso totalmente gratuito : Illusione essendo la realtà del mondo e Liberazione di se stesso l'unico compito che gli incom­ beva, cosa poteva importargli di mettere gli altri al cor­ rente della Via da lui scoperta ? Si afferina, a questo punto, quell'elemento dell'azione per l'azione , dell'amore distaccato verso tutti gli esseri, che è caratteristico di un'altra religione indiana, sia pure su una gamma ben più elevata, cioè del Krsnaismo. Il Dio dell à Morte ��r�a ancora una volta di convin­ cere l'asceta a non predicare la Buona Legge, ma invano : il Buddha decide di insegnare la dottrina ai suoi cinque antichi discepoli, quelli del « beato gruppo », che lo aveva­ no abbandonato e che in quel momento si trovavano pres­ so Benares, là dove oggi sorge Sarnath. Appena fatti i primi passi gli si avvicina un asceta nudo, chiedendogli quale fosse la sua scuola e la sua dot­ trina. Appreso che il Buddha non aveva maestro scosse il capo, dubbioso e se ne andò dicendo : « E se anche così fosse . . ». Subito dopo un altro incontro : il convoglio di due mer­ canti che dall'attuale Orissa viaggiava verso l'India setten­ trionale si arresta misteriosamente. I 500 carri di cui è composto non riescono a muoversi. I mercanti, Trapu�a e Bhallika, scorgono l'asceta; gli offrono cibo e doni . Il Buddha insegna loro la dottrina, ed essi l'accolgono. � significativo che i primi a conoscere questa dottri­ na, fondata sulla pura intuizione umana e pertanto svin­ colata da qualunque tradizione, non fossero già degli asceti, dei sacerdoti o dei ricercatori, bensì due laici viventi nel mondo e immersi nei suoi traffici. .

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Lasciati questi due primi discepoli il Buddha procede per Benares e giunge alla vista dei cinque del « beato gruppo >> . Costoro, all'inizio, non vorrebbero nemmeno sa­ lutarlo, ma vengono sopraffati dallo splendore che da lui irraggia. A loro il Buddha si annuncia come un Tathllgata (« Così venuto [ad essere ] >> ) e dice : « Date ascolto, mo­ naci, l 'immortalità è trovata. Io guido, espongo la Dottri­ na. Seguendo la guida voi, in breve tempo, ancora in questà vita la renderete a voi stessi palese, realizzerete e conquisterete la più alta perfezione della Verità : quel fine per il quale i nobili figli lasciano la casa per la mendicità >> . Cala la notte. Persuasi gli antichi compagni ad ascol­ tare la sua parola, il Buddha tace durante la prima vigilia, profondamente raccolto in sé, spiega nella seconda il mo­ tivo per cui rinunciò all'ascesi esagerata (così enunciando la Via Mediana, egualmente lontana dalla vita nel mondo e dall'inutile mortificazione, che si basa sull'Ottuplice Sen­ tiero) e, nella terza vigilia, espone la dottrina delle Quat­ tro Nobili Verità. Si tratta del famoso sermone di Benares, detto anche « la messa in moto della Ruota della Legge » (Dharma-cakra-pravartana), col quale il Buddha iniziò la sua predicazione, che doveva continuare ancora per circa quarantacinque anni, nell'ampia contrada che dall'Hima­ laya si estende fino ai primi contrafforti dei Vindhya, dalla sacra città di Benares fino all'Oceano Indiano. Àjflli.ta Kaurp;liya, uno dei compagni, avendo imme­ diatamente afferrato la dottrina non solo si converte subito, ma diviene un Arhant (arhat, santo) . Nei giorni seguenti gli altri quattro compagni afferrano piena­ mente la dottrina, in seguito ad un'esposizione dell'incon­ sistenza dello i!tman, e divengono altrettanti arhant. Tutte le cose, spiega il Buddha, sono « sprovviste di un essere a sé>> (an-litmaka, anatta), perché sono impermanenti (ani­ tya, anicca) e trascorrono di stato in istato, incessante­ mente. Solo il Nirvava (nib bana) sfugge a questa condi­ zione : esso non è uno « stato >> ma una « condizione di assenza », assenza di morte, di vita, di salute, di malattia (cfr. la Svetllsvdtara-upani�ad, Parte Prima, là dove si dice che « il B rahman supremo è come un fuoco che ha consumato il suo combustibile ») . Lo stesso aggregato urna-

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no, quello che l'uomo comune prende per un « io » per­ manente, non è altro che una successione (san t ati, santllna) di stati di coscienza, fondati su un aggregato di psichismi e di apparenze fisiche, che il Buddha denomina i cinque skandha (khanda) (« parti costituenti ») , che sono : rilpa (forma) , l'elemento formale-sensibile, quello che l'uomo comune riconosce come proprio corpo o come sostanza fisico-sensibile di cui è costituito il mondo; vedana, cioè l'insieme delle « sensazioni »; le « nozioni » o « ideazioni » (sarrz-jna, sannii) da queste risultanti; tali elementi danno luogo a « costruzioni » psichiche soggettive sarrzskzzra (sankhlira), coscienti ed incoscienti, che insensibilmente ci determinano verso un « insieme di pensieri » occasio­ nale oppure innato (vijnana, vinnlina, « stato di coscien­ za ») , che rappresenta il fondo della nostra abituale vita interiore condizionata dalle nostre azioni, più che dal mon­ do in sé, il quale può essere assunto in un modo o in un altro (« per un libertino il corpo di una cortigiana è un oggetto animato desiderabile, per un asceta è un ammasso di carne destinato, a suo tempo, alla decomposizione! ») . Le azioni sono di tre specie, secondo se si articolano nel­ l'atto rn,ateriale (kaya; « corpo ») , nella parola (vak, vllcZl) o nel pensiero (manas), ma, qualunque sia la loro espres­ sione, esse obbediscono ad un' « ideazione » (cetanli), la quale lascia nell'aggregato umano una « impregnazione » , un « abito » (vasanli) generalmente latente, che costituisce l'insieme di tendenze, psichiche prima, fisiche poi, che si determinano nel sarrzskzz.ra (v. supra) e sono l'occasione (nidzzna) per lo svolgimento delle dodici cause concate­ nate di esistenza (pratityasamutpada, v. supra) , materiale di dolore. La cessazione del dolore e, quindi, l 'arresto del­ le dodici cause alle quali si è accennato, sarà conseguito soltanto attraverso l'arresto della formazione delle costru­ zioni psichiche, dei sarrzsklira. A ciò soccorrono condizioni di comportamento morale (§ila, sila), che attenuano la ten­ denza a « lasciarsi prendere la mano » dalle abitudini in­ conscie (le vasana suaccennate) e, poi, tutto quell 'insieme di atteggiamenti psicologici che costituisce il già descritto · « ottuplice sentiero ». La condizione fondamentale di colui che intende procedere sul cammino del Dharma risiede,

pero, m un atteggiamento di « vigilante attenzione » (apra­ mllda, appamada) (« l'attenzione conduce all'immortalità, la disattenzione alla morte : gli attenti non muoiono, i di­ sattenti sono come già morti » , Dhammaplida, Il, 2 1. « Mor­ te » è qui da intendersi come propensione ad una nuova nascita condizionata; « non-morte )) è sinonimo di nirvll1Ja) e di > . In questo secondo metodo risplende l'originalità del Buddhismo, poiché, pur negando in sede metafisica la realtà degli elementi della esistenza obiettiva, si serve di questi come supporto per realizzare la pura essenza della mente, che trascende i fattori del mondo condizionato, pur conoscendolo obiettivamente con i suoi caratteri reali. La vipassanll è fondata sulla vigile consapevolezza (smrti, sati, rammemoramento) di qualsiasi fenomeno emerga nella coscienza, in rapporto a ciò che si fa, si percepisce o si sente: l 'asceta che stia in piedi, che si muova, che giaccia o stia seduto, che respiri, che mangi o beva eccetera, si rende perfettamente cosciente di ciò che gli accade, senza distrarsi mai (avikkhepa), con vigile attenzione (appamilda). Questa attenzione non si applica solamente ai fatti fisici (bhuta-rupa) ma anche ai processi mentali. · L'esercizio conduce a realizzare una serie sempre più ·

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profonda di « prese di coscienza » o « purificazioni » (visud­ dhi) che conducono a vedere la realtà secondo ciò che essa significa. Si inizia con una purificazione morale sila-visud­ dhi, per cui i bisogni e le esigenze del mediante subiscono una radicale riduzione, e continua con altri sei gradini, dei quali si fa brevemente cenno. La « purificazione della men­ te » (citta-visuddhi) costituisce un approfondimento della via della consapevolezza (smrti-upasthllna, satipatthllna: per essa si compie lo sradicamento dei cinque n'ivarana, i fat­ tori psichici turbativi, analogamente all'upacara-samlldhi nel cammino della samatha-bhavana. Segue la ditthi-visud­ dhi, « purificazione dell'opinione » con cu·i iniziano una serie di « prese di coscienza » (iill.tza, scrt. jnana) della real­ tà del corpo, della mente, dei fattori psichici e vitali, sì da smobilitare la concezione abituale che si ha dell' « io » (sarebbe meglio dire l'ego) quale soggetto solido dell'avven­ tura esistenziale. I fenomeni e la causalità che determina il loro insorgere e le loro tre caratteristiche fondamentali ( impermanenza, anicca, insostanzialità, anattll, e soffe­ renza, dukkha) sono oggetto della purificazione tramite il superamento del dubbio » (kankhll-vitarava-visuddhi) che comprende anche l'attenta e distaccata contemplazione del­ l'insorgere e svanire di fatti psicologici, di per sé positivi come entusiasmo, decisione, gioia, energia eccetera, ma pur turbativi della pura presa di coscienza del mondo. La « purificazione inerente alla visione noetica di sentiero e non-sentiero » (maggamagga-iilitzadassana-visuddhi) riguar­ da essenzialmente un potere di discriminazione fra la via giusta e quella falsa che insorge allorché l 'asceta compie la visione penetrativa (naya-vipassanli) nei cinque aggrega­ ti, i khanda. Ad essa succede la « purificazione dovuta alla visione noetica del progresso nella pratica » (patipada­ iiava-dassana-visuddhi), per cui l'asceta, giunto a prender chiaramente coscienza dei minimi elementi della realtà in continua trasformazione, quale un pulviscolo di fenomeni incessante, deve superare la paura, lo smarrimento, il pa­ nico che questo spettacolo gli suscita, nonché la voglia di­ sperata di liberarsi da tale situazione. È la s i tuazione, ben nota a tutti i mistici, della « notte oscura dell'anima », che giunge al fine quando nel meditante emerge la « presa di .58

coscienza relativa all'equanimità di fronte ai fenomeni reci­ procamente condizionati » sankhara-upekkhil-nar.za, per cui la mente illimpiditasi totalmente contempla senza timore né gioia all'insorgere interminabile dei vari sankhara, per cui ad un certo momento, denotato come gotra-bhu (forse « realizzare la propria " famiglia " spirituale ») si invera una vera e propria revulsione (che più tardi il Mahay�na de­ nominerà asraya-paravrtti, la « revulsione dell'appoggio ») folgorante, per cui il flusso di coscienza si volge, non più verso i fenomeni della realtà condizionata, bensì verso la loro totale cessazione, la loro inessenzialità, che costi­ tuisce la porta di accesso al nibbar.za. Questo è il soggetto­ oggetto dell'ultima visuddhi, « la purificazione della visio­ ne noetica » (fiar,za-dassana-visuddhi), per cui l 'asceta con­ segue la doppia visione, quella del senso della Via com­ piuta (magga-filir,za) e quella del frutto (phala-filir,za) delle azioni che a tale presa di coscienza lo hanno condotto : questo permette anche la « visione retrospettiva » (pacca­ vekkhana-filir,za) per cui, pur risiedendo nell'atemporalità del nibbana può chiaramente aver coscienza di quanto è avvenuto ' prima dell'istante della sua realizzazione e rie­ mergere nella sfera temporale. Numerose sono le combinazioni fra le due linee di realizzazione consentite dall'iter buddhista, data la simili­ tudine di alcuni stadi della prima con i gradi della secon­ da. Quest 'ultima sembra essere quella più originalmente buddhista, in quanto, lasciando il mondo « dove sta » si adopra a penetrare, di là dalle fatezze pereunti, il suo significato. Difatti è la linea sperimentale più seguita, che, quando è priva di contaminazioni con la prima, viene de­ notata come vipassanll « asciutta » (sukkha-v.).

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IL BUDDHI SMO PRIMITIVO E LO H JNAY A NA

Il Buddhismo, come lo conosciamo, ci appare netta­ mente diviso in due gruppi di comunità, o due orienta­ menti, spiccatamente differenziati. Questi sono il cosiddet­ to Hinayllna, o Veicolo Inferiore, o Piccolo Veicolo, ed il Mahayana, o Grande Veicolo. Lo Hìnaylina, così detto dai seguaci del secondo, che lo considerano una forma di pre­ parazione alle superiori verità impartite dal Mahliyana, è attualmente diffuso nell'isola di Ceylon, nel Siam, in Bir­ mania, Laos, Vietnam, e Tonkino ; il suo orientamento è rigorosamente ascetico, morale e disciplinare, con quel tan­ to di filosofia che basta per giustificarne gli assunti me­ ditativi ed etici. Lo Hfnayllna è la forma certamente più vicina alla Legge predicata dal Buddha, o, almeno, al Buddhismo come era praticato nei tempi a lui immedia­ tamente successivi. Il secondo sistema, cioè il Mahaylina, diffusosi, specialmente dal I I all'XI secolo -d.C., nell 'enor­ me territorio abbracciante l'Asia Centrale, il Tibet, la Cina, la Corea ed il Giappone e, per qualche tempo, anche l 'Assam, la Birmania e l'Indonesia, è, invece, costituito da un gran numero di scuole di intonazione profondamente mistica e religiosa: ciò nonostante, esse fondano le loro elucubrazioni su sistemi filosofici di straordinaria eleva­ tezza e perfezione metafisica, avvalendosi, per quella che è la parte pratica, realizzativa, di discipline mistiche mu­ tuate dagli ambienti yoghici dell 'India settentrionale, pro­ babilmente sivaiti. Parlando di Buddhismo ci troviamo pertanto di fronte a due forme spirituali diversissime, addirittura antinomi­ che, e ciò nonostante la seconda scuola, il Mahliylina, con­ globi nelle sue esperienze e nelle sue dottrine anche quelle che sono proprie alla prima, cioè allo Hìnayana. Il Ma­ hayana è ciò che, in coscienza, possiamo denominare la 60

« Religione Buddhista », poiché in esso confluirono, con stupefacente facilità (il Buddhismo cerca, per quanto è possibile, di non scalzare deliberatamente le religioni pre­ esistenti) , le esperienze religiose e filosofiche (questo è il caso della Cina) dei popoli fra i quali si è diffuso. Le vere radici storiche del Mahayilna sono però, come si vedrà in seguito, lontanissime, immediatamente posteriori, addirit-. tura, all'epoca del trapasso del Buddha, allorché nella Comunità cominciarono a manifestarsi i primi fermenti, le prime aspirazioni devozionali, da parte di coloro che non si sentivano intimamente paghi della scarna Legge predicata dal loro Maestro. Per quanto si riferisce alla teoria del Buddhismo primi­ tivo, questa si andò configurando attraverso una serie di concilii, quattro, per la precisione. Il primo concilio (sarrz­ giti) fu tenuto immediatamente dopo il trapasso del Mae­ �tro e la distribuzione delle sue reliquie, nella medesima capitale di Rajagrha (477 oppure 483 a.C.), con la parteci­ pazione di circa cinquecento Arhant: durò sette mesi. La direzione del concilio fu immediatamente assunta dall'ener­ gico [ Maha] -Kasyapa, che godeva di grande prestigio nel Sangha. Ananda stesso, che per venticinque anni era stato il fedele servitore del Maestro, non aveva potuto , proprio per questo, dedicarsi totalmente a quella disciplina medi­ tativa (dhyana, jhana) che è il fondamento dell'Illumina­ zione. Inoltre, il suo carattere tollerante, e conciliante, gli valse sin dall'inizio l'ammonizione severa degli Arhant, i quali gli rimproverarono anche di aver perorato l'ammis­ sione di monache nell'Ordine; dall'Ordine, probabilmente, egli venne temporaneamente sospeso. Con tutto ciò, Anan­ da era sempre quegli che aveva raccolto dalle labbra del Buddha ogni parola da questi pronunciata nel corso di un quarto di secolo e, pertanto, ap - 'rché non avesse mai superato lo stadio di novizio, era massima testimonian­ za per la compilazione del Canone. Ritiratosi in solitudine a meditare in una foresta, egli raggiunse ben presto narrano le pie leggende -, anche per i meriti acquisiti servendo l'Illuminato, la condizione di Arhant, che dimo­ strò variamente con portenti, sì da poter partecipare auto­ revolmente al Concilio, cosa di cui tutti si rallegrarono.

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Sfrondando l'agiografia dei particolari miracolosi, si può benissimo ammettere che, compiutosi il trapasso del Bud­ dha, i suoi principali discepoli si adunassero per stabilire in quale maniera e su quali principi l 'Ordine avrebbe do­ vuto essere retto e condotto. Il problema fondamentale consisteva nello stabilire con la massima precisione possi­ bile e tramandare ai posteri tutto ciò che il Buddha aveva detto e fatto. Abbiamo quindi, come atto fondamentale del Concilio, la redazione del Cànone, il cosiddetto Tri­ pitaka (Tipi(aka), cioè le « Tre Ceste », contenenti : l) i det­ ti testuali del Buddha, le sue prediche ed i suoi sermoni, i Sutra (Sutta-pi{aka) ; 2) le regole morali da lui impartite ed i principi disciplinari dell'Ordine (Vinaya-pi{aka) ; 3) la Summa filosofica, Abhidharma (Abhidhamma-pitaka), ag­ giunta in epoca più tarda come terza « Cesta » . Le tradi­ zioni riferite nei Sutta-piJaka furono rammentate parola per parola dallo stesso Ananda, mentre le regole discipli­ nari furono tramandate all'assemblea degli Arhant da Upali, un altro discepolo del Buddha. (Si rimanda alla Nota Bibliografica per l'elenco ana­ litico della quarantina di opere contenute nel Cànone) . Si è osservato che, a differenza dei Cristiani, i quali attesero, per qualche tempo dopo la morte del Maestro, a darsi un'organizzazione unitaria, i Buddhisti ebbero subito una Chiesa fondata su un ordine di monaci retti da una severa disciplina, già determinata in tutti i suoi particolari. Ciò che, però, contrasta con questo fatto, è la pratica mancanza di gerarchie ecclesiastiche fra i mo­ naci, eccezion fatta, naturalmente, della graduazione fra laici (upasaka) novizi (srama1J.a, sama1J.era) e monaci veri e propri (bhik$u, bhikkhu). Questi ultimi fungevano fre­ quentemente da tutori (iiclirya o uplldhyi!ya, upajjhllya) dei novizi e li ammaestravano nel Dharma fintanto che non fossero stati maturi per venir ammessi nell'Ordine. La mancanza di una gerarchia centrale, nel senso con cui intendiamo in Occidente il concetto di Chiesa, favorì sin dal principio ogni specie di scismi e la nascita di varie sètte, che esistono ancora oggi . I primi quattro concili ai quali si è accennato cercarono in parte di arginare que­ sto fenomeno. 62

Vediamo ora in qual modo avvenisse nei primi tempi (e tuttora nello Hinayana) l'ammissione al Sangha dei novizi, cioè di coloro che, sentendosi toccati in modo particolare dal messaggio del Buddha, ne intendessero seguire la via più ascetica. In primo luogo, al Sangha pote­ vano accedere persone di qualsiasi casta (con tutto ciò si osserva che esso fu formato, per secoli, da persone pro­ venienti soprattutto dai ceti più elevati della società india­ na, specialmente briihmav.a, k�atriya, figli di nobili fami­ glie (kula-putra), agiati negozianti e persone di alta pre­ parazione culturale. Diceva, a tale proposito, il Buddha medesimo : « All'intelligente appartiene questa Dottrina, non all'ignorante ») . Dal Sangha erano però esclusi i malati di infermità contagiose, gli incurabili (anche perché la vita di privazioni che avrebbe dovuto sopportare il monaco richiedeva una salute di ferro) , gli eunuchi, gli assassini, i condannati a pene infamanti, i debitori, gli schiavi, i sol­ dati, i minori di 15 anni di età e coloro che non avessero ottenuto da parte dei genitori o dei tutori il permesso di entrarvi. L'idea, da taluno vagheggiata, che il Buddha in­ tendesse promuovere, col suo Ordine, una riforma sociale abolendo le caste, è totalmente falsa, in primo luogo per­ ché la sua dottrina non si pone alcun problema sociale, in secondo luogo perché egli stesso considerava naturale l'ordinamento della società nei suoi tempi. Semmai si voles­ se riconoscere un particolare « tono » sociale alla Chiesa buddhista, bisognerebbe dire che questo è piuttosto ari­ stocratico che democratico, tanto è vero che i suoi seguaci si usavano chiamare « nobili » (lirya, ariya). Colui che aspi­ rava ad entrare nell'Ordine doveva per prima cosa espri­ mere il proposito della « dipartita » (pravrajyii, pabbajjii), pronunciando tre volte la formula, già citata, del rifugio nel Tri-ratna: « Mi rifugio nel Buddha, mi rifugio nel Dharma, mi rifugio nel Sangha ». Rivestito l'abito giallo del monaco, restava affidato ad un maestro per qualche anno, in genere non oltre un decennio. Al maestro, o tuto­ re, pre�tava tutti quei servizi che i discepoli di qualun­ que setta indiana prestano al loro guru : acompagnarlo nella questua, preparargli le vesti ed il bagno, tenergli in ordine e spazzargli la cella, lavargli la biancheria eccetera. 63

Intanto egli veniva accuratamente istruito nel Dharma e disciplinato all'obbedienza del Vinaya. Quando al precet­ tore sembrava che il discepolo potesse venir ammesso co­ me monaco a tutti gli effetti, aveva luogo la cerimonia più solenne del suo « ingresso » (upasampadli.), alla condizione di membro effettivo del Sangha, che doveva avvenire in presenza di almeno dieci monaci. In pratica si trattava di una (( cooptazione )) nella quale, dopo la formale dichiara­ zione del tutore che nulla ostava all'accettazione del can­ didato, i monaci esprimevano l'approvazione tacendo, o l'opposizione motivandola. Nel primo caso il presidente dell'assemblea accoglieva il nuovo monaco prescrivendogli i « quattro aiuti » o « requisiti » (nisraya, nissaya), e le « quattro proibizioni » (akaral')iyiini). I cosiddetti « quattro requisiti » consistevano nel mangiare solo il cibo posto, per elemosina, nella ciotola (kala�a, pattra), nel vestirsi di cenci raccolti nella spazzatura o, meglio, in un cimitero (la meditazione nei cimiteri - sia detto per inciso è una disciplina molto usata nel Buddhismo) , nel coricarsi per dormire ai piedi di un albero (come faceva il Buddha) e nel curarsi, in caso di malattia, servendosi solo di orina di vacca ( tradizione evidentemente di origine magico-brah­ manica) . Questi precetti così rigorosi, che ripetevano fatti tramandati della vita del Buddha, erano in pratica mitigati da varie dispense (atirekalabha), come l 'accettar inviti a pranzo, portare abiti donati, purché divisi in tre pezzi e tinti di giallo (color zafferano) , abitare in casse, capanne o grotte e servirsi, per medicina, anche di burro, miele, olio e zucchero. Le « quattro proibizioni » riguardano le colpe capitali indicate nella prima sezione del Pratimok�a (Piitimokkha), una breve raccolta di precetti, dalla quale si sviluppò più tardi la regola monastica. Le otto sezioni di quest'opera, di grande importanza, come si vedrà in seguito, per il « culto » buddhista, constano dei capi seguenti : l ) colpe che conducono all'espulsione dal Sangha : lussuria, furto, uccisione, attribuirsi falsamente poteri sovrumani (rddhi, iddhi) ; 2) colpe comportanti l'esclusione temporanea dal Sangha; 3) colpe dovute a circostanze impreviste; 4) colpe comportanti una confisca; 5) colpe comportanti un'espia-

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zione; 6) colpe comportanti, come tutta penitenza, la sem­ plice confessione; 7) regole di condotta e galateo ; 8) regole giuridiche e procedurali . I monaci si radunano abitualmente ogni quindici giorni per la recitazione del Pratimok�a, nell'assemblea detta upavasatha (uposatha), durante la quale chi ha compiuto qualche infrazione deve farne ampia confessione pubblica, a1lorché la colpa viene menzionata nel Pratimok�a, sotto­ ponendosi alla pena che gli infliggerà l'assemblea. Questa confessione dei peccati, comune a molte altre religioni, si accompagna ad un'altra usanza del Buddhismo primitivo e dello Hfnaylina, detta pravlirar.zli (pavlira71-li, invito) , in cui ogni monaco invita i compagni a dichiarargli se abbiano osservato nel suo comportamento qualche difetto, affinché ne faccia ammenda. Quest'ultima cerimonia, che si cele­ brava una volta all'anno, concludeva con una distribuzione di cotone greggio (kafhina) e di tutti gli abiti che erano stati donati alla Comunità durante la trascorsa annata. A queste scarse cerimonie e ad onori tributati molto mode-. stamente ai luoghi santi (Kapilavastu, ove nacque il Bud� dha, Buddhagaya (o Bodhigaya) , ove egli ebbe la rivela­ zione, Kasr (Vara:Q.asi o Benares) , ove egli predicò per la prima volta e Kusinagara (Kusinara) , ove egli trapassò nel nirvll:Q.a) · si riduceva tutto il culto nel Buddhismo primi­ tivo. Più tardi si aggiunsero a ciò i pellegrinaggi, permessi in punto di morte dal Buddha, che ben si rendeva conto dell'importanza di un minimo di cerimonie per mantenere viva la fede ed il ricordo della sua dottrina, le onoranze tributate ai luoghi ove sorgono templi (caitya, cetiya), tu­ muli (stupa, th upa) e cappelle (dhatugarbha, dhatu-gabbha), in cui sono state racchiuse le reliquie (ossa, denti, capelli, unghie, eccetera) del Buddha. Si è sempre raccomandato, però, di non ravvisare alcunché di divino in detti monu­ menti, il compito dei quali era semplicemente quello di « ricordare » o risvegliare la fede nei Tre Gioielli . Ma, di là da queste manifestazioni esteriori, volendosi precisare l'essenza del culto buddhista, bisogna dire che esso consiste soprattutto nella meditazione (dhyiina, jhiina), la quale, come nell'Induismo, non è già uno sceverare raziÒrÌale oppure un alambiccare circa un oggetto : una voi-

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ta arrestato il flusso dei pensieri, delle associazioni men­ taJ i, dei sentimenti abituali, delle sensazioni ed impressioni sensorie, la meditazione inizia col focalizzare la mente su una particolare verità {per esempio il pratityasamutpiida), o ciascuna delle Quattro Nobili Verità ( arya-satyani) , fino al punto di intuirne il significato profondo, trans-razion:ale, raggiungendo una immedesimazione con l 'oggetto della me­ ditazione stessa. Ciò, naturalmente, è yoga, nel vero senso della parola. Il Buddhismo dovette la sua prima fortuna, molto probabilmente, al fatto che era considerato dai contemporanei del Buddha come una forma di yoga più pratico ed efficiente. Si badi bene, però, che questa medi­ tazione non ha nulla di astratto, secondo l 'accezione occi­ dentale del termine� bensì culmina in una forma estrema­ mente concreta, vivente ed immediata di percezione intui­ tiva, che tradurremmo come « enstasi » piuttosto che co­ me « estasi » . La meditazione fa convergere i n u n punto solo, secon­ do le parole del Buddha, i cosiddetti « sette fattori del­ l'Illuminazione >> (bodhy-anga, bojjanga), i quali sono : l ) consapevolezza (smrti, sati) ; 2) profonda investigazione circa il Dharma (Dharma-vicaya, Dhamma-vzcaya); 3) ener­ gia virile nel pensare (virya, viriya); 4) gioia profonda (priti, piti); 5) quiete (prasiintatii, pasaddhi); 6) concentra­ zione (samlldhi), la quale « permette alla mente di vedere le cose come realmente sono » ; 7) infine, equanimità e neu­ tralità rispetto alle impressioni, atarassia (upek$ii, upek­ kha). Parlando di questi sette bodhy-anga il Buddha, prima di spiegare il significato e lo sviluppo di ciascuno, disse : « O monaci, proprio come in un padiglione, sormontato da un tetto aguzzo, tutte le travi di sostegno tendono ver­ so la cima, si uniscono nella cima, e di loro tutte la cima è ottima meta, così pure, o monaci, colui il quale coltivi e rinvigorisca i sette fattori di Illuminazione ascende ver­ so il nirvii17-a, è incline al nirvava, tende verso il nirvava » . In particolare la consapevolezza (smrti, sa ti) sembra essere la chiave di volta di questo processo di approfondimento interiore. L'asceta prende consapevolezza e, letteralmente, « si sveglia » nei riguardi di tutti i processi fisici, sensori, psichici e mentali, che operano nella sua persona, fino a

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percepirne « concretamente » la radicale alterità rispetto a ciò che egli più intimamente è. Così, dice il Cànone, egli tronca ogni impulso di brama verso il mondo, sino al punto di estinguere in sé sia l'oggetto del desiderio sia il soggetto che lo desidera, cioè l'ego, quell'io transeunte e vitale che, come insegna il Buddha, consiste non già in un'entità reale, ma nella coalescenza dei già detti cinque skandha (khanda): forma (rilpa), sensazione soggettivata (vedanli), ideazione (samjiia), attitudini ed energie istintive (sal']1skara) ed infine la coscienza (vijiiana), ove queste si individuano e prendono forma. Considerata la personalità umana principalmente come un fatto coscienziale il Bud­ dhismo, sin dai tempi del suo Fondatore, ha diretto la sua attenzione al fenomeno-pensiero, sviluppando un gran nu­ mero di tecniche sottili e raffinate per domarne i moti inconsulti e cogliere il punto in cui, per impulsi innati o per abitudini semicoscienti, si generano e si sviluppano tutte quelle formazioni psicologiche che fanno da velo alla pura percezione della realtà, mentre, al tempo stesso, danno luogo a deformazioni animiche (le cosiddette vllsa­ na, « complessi ») , che attingono fino al limite fisico, con­ ducendo a neurosi e malattie. Pertanto, nel Buddhismo, la disciplina morale è assolutamente secondaria e condizio­ nata al dominio del pensiero, centro della persona co­ sciente. Ciò spiega, almeno psicologicamente, come i Bud­ dhisti primitivi avessero una marcata avversione per ogni forma di astratto filosofare, cioè di aggiungere esterior­ mente alla realtà, già difficile ad afferrare nella sua essen­ za, altre costruzioni puramente mentali. Inoltre, da quanto si è esposto circ;a la dottrina originaria del Buddha, appa­ re evidente che per lui e per i suoi seguaci la realtà mon­ dana risulta sprovvista di qualunque fondamento con­ creto : essa è, per chi la sperimenta, un mutarsi continuo di forze psichiche, i cosiddetti dharma (da non confondersi con l'omonimo Dharma, cioè la Dottrina, la Legge per eccellenza) , che sono di sostegno (la radice dhr significa appunto « sostenere »), o di substrato, alle percezioni sen­ sibili, ai movimenti mentali ed ai loro riflessi, sui quali si tesse la nostra vita cosciente. Il Buddha, infatti, non am­ mette una sostanza spirituale eterna, ciò che lo distingue

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dagli altri sistemi che pure affermano la serie indefinita delle rinascite. Al posto di questa sostanza spirituale eter­ na, il Buddhismo pone come base dell'esistenza la conti­ nuità, il flusso (santèina) dei dharma nascenti e disparenti, l 'un l 'altro . connessi dal karman. In questo santifna consi­ ste anche la personalità umana, la quale « è simile ad una vettura consistente di parti diverse, come il timone, le ruote, il telaio eccetera, e che altro non contiene che queste, o simile ad una fiamma che, ad ogni istante, con­ suma nuovo combustibile . .. » . In altri termini, l'Io empi­ rico, per i buddhisti, è una unità funzionale di elementi concomitanti continuamente rinnovantisi, fino alla morte, quando, cioè, il karman accumulato proietta nella futura vita una nuova aggregazione di cinque skandha. A questo perenne riformarsi della personalità empirica pone fine il nirvlir.za, che estingue il karman, causa prima della aggre­ gazione degli skandha. Pertanto i dharma, gli elementi minimi ai quali si può ridurre la realtà, furono raggrup­ pati, nel corso delle prime sistemazioni filosofiche, non secondo le diverse caratteristiche essenziali loro proprie, bensì secondo gli skandha, cioè agli elementi della persona­ lità umana con i quali vengono in rapporto : al rupa­ skandha appartiene quanto è oggetto di vista ed udito ; al vedanli-skandha la sensazione e gli oggetti della medesima; al samjiili-skandha le percezioni, l'atto di distinguerle e l'ideazione; al vijiiO.na-skandha l'atto di divenire coscienti; al sarrzskllra-skandha l'insieme dei fattori di vita la cui esi­ stenza è condizionata (sarrzskrta-dharma): di là da questi ultimi, incondizionati (a-sarrzskrta), sono il nirva1J.a e l'ete­ reo spazio (akasa), concep ito, quest'ultimo, non tanto come lo spazio fisicamente riempibile, bensì come la sede ideale in cui si individua l'esperienza del vuoto. Come si può osservare, la classificazione dei dharma non segue il criterio di rigida obiettività, e -quindi di sepa­ razione assoluta, fra categoria e categoria, come avverreb­ be in un sistema filosofico occidentale. Le classi dei dharma sono inter-permeabili e la loro assegnazione ad una categoria o ad un'altra dipende dalla loro diversa assunzione da parte del soggetto. Ciò dipende dal fatto che, in fondo, il Buddhismo, pur negandole un fondamen•..

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to di assoluta realtà, considera valida la sola esperienza soggettiva, quella, cioè, che si dispiega sullo scenario inte­ riore della coscienza individuale, ed è a questa che rivolge la sua pratica. Un'altra classificazione dei dharma, che a noi appare più gnoseologica che antologica, è quella ammessa dal Cànone che, all'interno degli skandha, li divide, secondo la loro funzione nel processo della conoscenza, nei dodici liyatana, o « basi » della conoscenza stessa. Essi sono i sei ayatana interni, cioè relativi al soggetto empirico, ripartiti nei cinque sensi più il pensiero, come loro coordinatore oltre che senso a sé, ed i sei ayatana esterni, comprendenti gli oggetti dei cinque sensi e del pensiero, concepiti più o meno come i tanmlitra del Sailkhya. La classificazione dei dharma in ayatana interni ed esterni coincide parzialmente con un'altra classificazione ancora, quella secondo i dhatu, sfere di azione o elementi fondamentali. I dhatu, che sono diciotto, oltre a compren­ dere le dodici classi già menzionate come ayatana, ne ab­ bracciano altre sei, rappresentate dalle facoltà di vedere, udire ecc., che corrispondono più o meno ai karmendriya del Sankhya. Estinguendosi col nirvli1J-a il karman, sia quello cattivo che quello buono (l'asceta abbandona anche l 'attaccamen­ to alle azioni meritorie così « come colui che ha traghet­ tato un fiume abbandona la zattera che gli ha permesso di attraversarlo, e non se la porta seco per monti e per val­ li . . . » ), viene a mancare il rapporto di causa-effetto, di cui la personalità transeunte dell'uomo è responsabile, e così pure svaniscono i dharma i quali, si ripete, esistono solo in grazia ad una sussunzione personale. Quindi, sin dal principio, il Buddhismo, perfettamente indifferente ai pro­ blemi di filosofia « fisica », risolve il mondo e l'esistere nel mondo nell'insieme dei moti della coscienza soggettiva mentalizzata. Ma sarà proprio per questo motivo, nono­ stante la sua avversione iniziale per ogni forma di specu­ lazione, che il Buddhismo svilupperà, molto paradossal­ mente, una formidabile metafisica, cercando di stabilire come il mondo nasca dalla mente ed in questa possa risol­ versi. Per ragioni analoghe, nonostante la sua a-religiosità

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fondamentale, il Buddhismo darà luogo a numerose, arti­ colate e - secondo il punto di vista occidentale - com­ plicate forme religiose, appunto perché infinite sono le forme divine in cui lo spirito, che è il soggetto dell'espe­ rienza religiosa, riconosce i momenti e le energie del suo stesso divenire . L'evoluzione in senso metafisico-religioso del Buddhismo, che condurrà alla creazione del Mahayana, si preannuncia proprio nel corso dei successivi concilii. Il concilio a Vai�ali, tenuto probabilmente nel 367 a.C., fu originato da una banale questione di disciplina frate­ sca. Yasa�, vecchio discepolo di Ananda, trovò biasimevoli una decina di innovazioni adottate dai monaci di VaiSalr, i quali, come tutta risposta, lo esclusero dalla propria comunità. Egli, allora, fece convocare un concilio ge­ nerale per giudicare la questione, ed a questo partecipa­ rono settecento monaci che, nella loro maggioranza, gli diedero ragione. Secondo le cronache posteriori, special­ mente singhalesi, i monaci ribelli, detti Vrjjiputraka (Vajjiputtaka, appartenenti al paese di Vrjji) , riunirono a loro volta un contro-concilio, che diede luogo allo scisma cosiddetto dei Mahlisli:hghika (« Quelli della Grande Comu­ nità ») . Sia come sia, è certo che un monaco di Mathura (dipinto dai testi ortodossi a colori molto foschi) , procla­ matosi arhant a Pataliputra, ove si trovava di passaggio, diresse i locali monaci ma/:zasiinghika, suoi adepti, ponen­ do in minoranza i cosiddetti « Vecchi » (Sthavira, Thera), in una discussione riguardante cinque punti pratici : l) un arhant, pur con tutta la sua santità morale, può essere soggetto ad atti « diabolici », come fatti fisiologici incon­ trollati ; 2) non è totalmente Illuminato, in lui esiste anco­ ra un residuo di ignoranza; 3) così pure può avere dubbi ; 4) può acquistare la conoscenza su un fatto particolare con l'aiuto di un altro ; 5) può denominare con parole l'inef­ fabile Via conducente alla Salvazione. La divisione fra Sthavira, i « Vecchi » seguaci della pura disciplina del Buddha, e Mahiisiinghika, che si ritenevano interpreti di una più ampia corrente popolare (maha, grande, sangha, comunità) , si andò sempre più approfondendo. La prima corrente può essere considerata come l'impulso centrale dello Hinayana, la seconda, invece, si trasformò, col pas-

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sare dei secoli, nel Mahayana. In quest'ultima corrente si fece sempre più sentire la necessità di attribuire al Bud­ dha una personalità sovraterrena (lokottara), fuori del tempo e dello spazio, inalterabile, omnisciente eccetera, la quale, di tanto in tanto, si incarna tra gli uomini per rivelare loro il Dharma, che è la loro vera origine, traen­ doli dal sa1flsilra, al quale tendono incessantemente ad identificarsi a causa della grande Illusione, la Maya, di cui si è già parlato. Non basta : secondo questa corrente, il Buddha, come fenomeno primordiale (.Adi-Buddha, « il Buddha originario »), oltre a poter risiedere eternamente nella condizione inesplicabile ed inaccessibile del nirvl11;ta, può contemporaneamente rendersi partecipe del divenire umano, rimandando indefinitivamente la sua realizzazione e restando nella condizione di Bodhi-sattva (« Colui la cui essenza è Illuminazione »), fintanto che tutti gli uomini non siano stati liberati. Questo sacrificio del Buddha, che sotto un certo punto di vista lo assimila all'Uomo Cosmi­ co, il Maha-puru$a indù, apre vastissime possibilità di rea­ lizzazione religiosa, che il Mahayana condurrà ad estreme conseguenze. In primo luogo si affermerà il principio, to­ talmente inconcepibile nel Buddhismo primitivo, della Gra­ zia (adhi�{hana, anugraha, praslida) da parte dei vari Bodhisattva e dei Tathagata verso l 'umanità che in un modo o nell'altro hanno il compito di salvare; in secondo luogo si asserirà con crescente energia che tutti gli uomini sono Bodhisavattva in potenza, altrimenti non si potrebbe inverare per alcuno di loro la condizione di Illuminazione, cioè la Bodhi! Con ciò, i Mahlisanghika prima ed il Ma­ haylina dopo rientrano nella grande corrente tradizionale indiana, dalla quale il Buddha sembra distaccarsi, assieme al Jina, per la singolarità della sua realizzazione interiore, indipendente da maestri, testi e linee di trasmissioni ri­ tuali (sampradliya). Nel capitolo successivo tratteggere:q1o i caratteri del movimento Mahliylina sotto il punto di vista filosofico, religioso e storico. Un altro scisma, che però restò compreso nelle scuole Hìnayana, fu quello dei Vlitsfputrfya, dal nome di un monaco del Kasmìr, certo Vatsa, di origine brlihma'l)a, il quale reintrodusse nel Buddhismo la nozione dello atman,

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che questo aveva sin dal principio risolutamente negato, con la nota teoria dell'anatta e dei cinque skandha (v . supra) . L'origine di questa, chiamiamola così, « eresia » , deriva dalla constatazione che, a parte il fatto che la personalità egoica, illusoria, che noi chiamiamo « io » non è veramente un « io », ma un fascio di volizioni, sensa­ zioni, tendenze innate eccetera, ci deve pur essere una « persona » (pudgala) la quale sia la responsabile del karman, cioè di ciò che di vita in vita successivamente si compie, e sia pure il soggetto del nirvli1].a. Cioè, chi è colui che esperimenta il nirvlir.z.a? Se non ci fosse, se non esistes­ se la persona che lo compie, esso non sarebbe concepibile. Inoltre il Buddha stesso, in un suo discorso, disse testual­ mente che « il Tathagata è una persona reale » : se tale non fosse come avrebbe potuto apparire nel nostro mon­ do, sia pure irreale ? e, se il mondo è irreale, ci deve pur essere qualcuno che lo consideri o « lo scopra » come tale, essendo lui reale, realissimo ! Questi Pudgalavadin, « Asser­ tori della Persona » , non ebbero un'importanza immediata, ma influirono sulla successiva speculazione filosofica, che nei seguenti concili si configurò, se non altro per combat­ tere gli attacchi che le provenivano dagli agguerriti am­ bienti tradizionali brahmanici. Il successivo · concilio avvenne in un momento estrema­ mente importante della storia indiana, e cioè regnante il primo imperatore storico indiano, il Maurya (Moriya) Asoka (Asoka) . Era costui nipote di quel generale Candra­ gupta che la storia ricorda come Sandnftkottos, avversario e poi amico di Alessandro Magno. Quando Candragupta morì, nel 297 a.C., gli successe il figlio Bindusara (296260) e, infine, il nipote A�oka (« il senza-dolore ») (260-236) , che concluse l'opera del padre e dell'avo, fondatore della dinastia, conquistando con feroci guerre parte del Dek­ khaqil Kalinga (attuale Orissa) ed estendendo i suoi domi­ ni fuori dell'India geografica, negli attuali Afghanistan e Balucistan. Pare che le selvagge guerre da lui stesso con­ dotte, in particolare la conquista del Kalinga, generassero profondo disgusto in A�oka, sicché, stanco di lotte e di stragi, egli si convertì poco per volta al mite messaggio del Buddha, convinto a tale passo dallo sthavira Mogga72

liputta. Da quel momento, che si colloca storicamente nove anni dopo la sua consacrazione regale, cioè presumibilmen­ te verso il 250 a.C., fino alla fine dei suoi giorni , A soka si dedicò instancabilmente alla propagazione del Dharma nel suo immenso impero, mandando missionari anche fuori del regno, in Asia Centrale, in Ceylon (che fu con­ vertita da suo figlio Mahendra, fattosi monaco) e nei re­ gni dei Diadochi greci, che governavano l 'eredità del gran­ de Alessandro, dall'India nord-ovest fino all'Egitto. Non solo, ma sappiamo dai suoi 25 editti, scolpiti nella roccia e su colonne in una lingua medio-indiana (ne è stato sco­ perto recentemente uno da una spedizione italiana in Afga­ nistan, scritto però in greco ed in aramaico, lingua ammi­ nistrativa nella Persia antica) , che egli curò personalmente e minuziosamente la fondazione di numerosissime opere pie, di utilità sociale e pubblica e per il sollievo dei po­ veri e degli infelici, come ospedali, zoocomi, nuove strade alberate, apertura di canali di irrigazione, prosciugamento di paludi, introduzione di nuove colture agricole eccetera; emanò inoltre una legislazione straordinariamente mite e previdente, considerando la cura dei sudditi un mezzo per compiere le opere morali prescritte dalla Buona Legge. Ecco qualche esempio dei suoi editti : · « Nella cucina del devoto re Piyadassi prima si ammaz­ zavano ogni giorno molte centinaia di animali per le mine­ stre. Ora, da che è emanato questo decreto religioso, si uc­ cidono solamente tre animali, due pavoni ed un'antilope : l'antilope, però, non è fissa. Ma, in avvenire, non si uccide­ ranno nemmeno questi tre animali » (Editto I) . « Il devoto re Piyadassi non tiene la fama e la gloria in conto di cose molto utili; egli le desidera solo affinché il suo popolo, ora ed in avvenire, ubbidisca alla sua leg­ ge e secondo la sua legge viva; per questo riguardo il devoto re Piyadassi desidera fama e gloria. Tutto quello per cui si dà premura il devoto re Piyadassi riguarda la vi­ ta futura : egli perciò si dà premura che ognuno si sottrag­ ga al pericolo. Ma il pericolo sta nel peccato » (Editto X) . « Il devoto re Piyadassi così dice : « Non v'è alcun dono simile al dono della Legge, nessuna generosità simile alla

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generosità [ dell'insegnare] la Legge, nessuna parentela co­ me quella della Legge. Questo fa parte della Legge : bene­ · volenza verso gli schiavi ed· i servi, obbedienza verso i ge­ nitori, generosità verso. i parenti e gli amici, verso gli asceti (buddhisti) ed i brahmani, il rispettare la vita di qualunque creatura. Si tratti di un padre o di un figlio o di un fratello o di un amico o di un conoscente o di un vicino, egli così dica : con ciò si acquistano meriti, ciò si deve fare. Se così si opera, ne viene contentezza in que­ sto mondo e nell'altro se ne raccoglie merito infinito » (Editto XI) (traduzione P.E. Pavolini, « Buddhismo », Mi­ lano 1 898, pag. 95 e segg.) . Probabilmente mai regno godé, in epoca storica, di un governo così benefico, tanto più se si considera l'enorme estensione dei possedimenti di A s oka. Cosa molto impor­ tante, e caratteristica del Buddhismo, mentre cercava di convertire i suoi soggetti alla Buona Legge, egli emanava severi provvedimenti legislativi contro qualunque forma di intolleranza o di oppressione verso diverse sette, con­ fessioni o religioni. Riteneva, non a torto, l'esempio come il migliore strumento per la conversione. L'epoca di Asoka, detto anche Priyadadin (Piyadassi, « dal Grazioso Volto », probabile titolo ufficiale, come _ il nostro . « Sua Maestà ») , segna il massimo sviluppo del tronco sthavira (thera) della fede buddhista, nonostante che, in seguito al concilio del quale si parla in seguito, avvenisse un'altra scissione fra gli adepti del Dharma. Questo concilio, fatto indire a Pataliputra da Asoka sotto la presidenza di Moggaliputta Tissa, avvenne in un'epoca che si può situare nel diciottesimo anno dalla consacra­ zione del re, cioè verso il 242-243 a.C. Esso fu dovuto alla necessità di regolare definitivamente la dottrina degli Stha­ vira, dato che numerosi eterodossi si erano insinuati nella Comunità, sicché gli altri monaci si rifiutavano di cele­ brare con loro la cerimonia dell'uposatha (v. supra)� Nel testo detto Kathavatthu (« Libro delle controversie »), che è il terzo dell'Abhidharma, sono contenute tutte le refu­ tazioni con cui Moggaliputta condannò gli eterodossi. A questo testo venerando, che contiene in nuce la tradizione filosofica degli Sthavira, detti anche Vibhajyavlidin (« det74

tagliatori », perché consideravano i problemi nei mm1m1 dettagli, denominazione che il Buddha applicava a se stes­ so) furono fatti numerosissimi commentari, fra i quali si estolle quello detto Visuddhimagga (sanscrito Visuddhi­ mllrga, « Via verso la Purificazione » ) , opera del celebre Buddhagho�a, brahma1,1a dell'India settentrionale che, con­ vertito al Buddhismo, meditò ed operò nell 'estremo sud, nell'isola di Ceylon. La dottrina sthavira o theravlidin verte soprattutto sulla definizione dei dharma innumerevoli, le combinazio­ ni dei quali producono i fenomeni dell'esistenza empirica . Gli Sthavira non ricercano alcuna realtà nascosta dietro il molteplice apparire e combinarsi dei dharma . Questi, da soli, costituiscono tutta la realtà della nostra esistenza che, beninteso, resta illusoria e dolorosa finché non interviene il nirvlitza. Come conseguenza a tale punto di vista - e questo è la base fondamentale della loro dottrina - l'esi­ stente per loro altro non è che tutto ciò che, nel momento presente, produce un effetto, quindi anche ciò che è esi­ stito nel passato, ma che ancora non ha prodotto un effet­ to, come, ad esempio, un atto il cui karman non si sia ancora maturato e divenuto frutto. Gli Sthavira classificano i dharma secondo tre grandi classi, relative alla loro sfera d'azione : I) 28 dharma appar­ tenenti alla classe formale (rupa), fra i quali si contano i quattro elementi materiali, i cinque organi fisici sostegno delle percezioni (occhi, orecchie, naso, pelle, lingua) , le quattro forze materiali di base (coesione, repulsione, movi­ mento, calore) , la base fisica al senso mentale (hrdaya­ vastu, senso del cuore) , la forza vitale {jfvita), Io spazio (llkll�a), il nutrimento (iihlira) ed altre facoltà e qualità umane; 2) 52 dharma classificati come fattori psichici (caitasika, o caitta, pali cetasika), che comprendono tutti dharma immateriali che posson essere oggetto di coscien­ za; 3) la coscienza (citta), come pura conoscenza senza contenuto, la quale comprende 8 1 dharma condizionati più il nirviitza. Dal punto di vista storico, il più grande evento nel Buddhismo resta senz'altro la conversione dell'isola di Ceylon ad opera di Mahendra (Mahinda) , figlio di Asoka, 75

conquista tanto più duratura in quanto questo è pratica­ mente l'unico luogo i n India ove il Buddhismo Hinayana sia al giorno d'oggi seguito nella sua forma più pura ed originaria. La narrazione dell'arrivo di Mahendra nell'isola di Sirphala ( �< la Leonina » Ceylon) è piena di miracolosi particolari, ma se pure questi sono il prodotto di pie leg­ gende posteriori, miracolosa è senza dubbio la totale ed imme d iata conversione del popolo e del suo re ad una reli­ gione recata da un principe straniero che parlava, almeno al principio, una lingua straniera. Il Dipavamsa (sanscrito Dvipa-varrzsa, > ( dak#r.ziiciira) e « pratiche della mano sini­ stra >> ( vllmllcllra), a seconda della mancanza o del preva1 09

lere dell 'elemento saktico. La sakti, come si è già detto a proposito delle sètte sak ta indù, è la Sposa-potenza del dio, il cosmico femininum creatore. La concezione, tipica­ mente indiana, passata probabilmente dalle scuole sivaite del Ka�mir a quelle buddhiste del Gandhara attorno al settimo secolo d.C. , ebbe una grandissima fortuna nel Vaj raya:na indo-tibetano, quello , per intenderei, che ha come sampradaya (linea di trasmissione) Indrabhtiti (con­ temporaneo e forse allievo di Gorak�ana:tha, maestro ed iniziatore dello « Yoga violento », HaJhayoga), Padmasarp­ bhava e poi, nel Tibet, Tilopll, Naropll, Marpa e Milare­ spa. Tale scuola concepisce che il Buddha Supremo e, dopo di lui, le sue varie ipostasi, attuino la loro mani­ festazione passando dalla potenza all'atto mediante le relative Forze Creatrici e Potenze ( sak ti, dalla radice sak, essere potente ), le quali, data l'ambivalenza del termine sakti, significante anche sposa, vengono immaginate sim­ bolicamente come deità femminili che, unite ai cinque Buddha, creano il mondo della miiyii, non più pensato come limitazione all'azione divina, ma come sua splen­ dente veste di potenza. Inoltre, le varie coppie Buddha­ Sakti, talvolta rappresentate con figure di uno sconcer­ tante verismo, rappresentano l 'unione dei due elementi fondamentali della liberazione e della buddheità, ovvero la prajnli e lo upliya, la gnosi ed il mezzo, per cui essa si invera nel miste e, attraverso lui, nel mondo. Questo simbolismo femminile non resta limitato all 'allegoria, ma viene a far parte dei rituali segreti tantrici che nelle sètte slikta, facevano realmente uso della donna nel senso delle tecniche del panca-tattva, con assoluto disprezzo delle regole del Vinaya buddhistico . Le scuole tantriche, nonostante le degenerazioni a cui furono soggette, ebbero un grande successo, perché, dopo un millennio di Bud­ dhismo ascetico e pessimista, tornavano a conferire valore al mondo della realtà obiettiva, considerato anch'esso come mezzo per le supreme realìzzazioni. Per queste scuo­ le, le forze che conducono alla caduta sono le stesse che, ricondotte meditativamente ai loro archetipi impersonali (i cinque Tathligata), riportano alla sfera celeste l'uomo che pur ne era soggetto. Il principio della rettificazione

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conoscitiva del mondo è espresso dal verso del Mahiivai­ rocana-siltra ( 700 ) : « Grazie al pensiero dell'omniscienza innata alla forza della conoscenza, l'asceta può evitare qualsiasi pericolo » : egli può, pertanto, vivere come un padre di famiglia, come un libertino e come un artigiano, un re, un guerriero, un mercante, eccetera, pur essendo interiormente un bodhisat tva. Bodhicit ta, per dare un e­ sempio dell 'amfibologia in uso in queste sètte vajrayana, oltre a significare, come già detto, « pensiero o ricordo dell'Illuminazione », ha anche il senso rituale, seppur ma­ teriale, di « forza seminale », la quale, attivata durante i riti del pancatattva oppure di altri simili, deve venir strap­ pata dalla sua tendenza a scendere nella sfera terrena, estrovertendosi nella generazione, per venire, invece, ri­ portata « in alto » ( urdhva-retas ), dove ridiventa luce crea­ trice non maculata di brama ( donde la raccomandazione all'asceta : bodhicittarrz na-u t�rjet = [ l'asceta ] non faccia erompere il bodhicitta [ ma lo riporti « in alto » ] ; Sekod­ desatika, passim ). Non tutte le sètte Vajrayana giunsero, però, alle estre­ me conseguenze adombrate nelle linee precedenti, che riguardano esclusivamente quelle seguaci delle dottrine « della mano sinistra », che si diffusero fuori dell'India, nel Nepal, nel Tibet, in Birmania e Cambogia. Vi furono anche forme di Vajraylina « della mano destra », prive cioè dell'elemento femminile saktico, che tuttora sussiste in Giappone col nome di Shingon. Il capostipite di questa seconda corrente è Nagarj una « II » (v. supra), vissuto durante il settimo secolo nell'India meridionale. A lui risale la « rivelazione » del Mahii-Vairocana-siltra, nel qua­ le il Buddha cosmico Vairocana, sotto la forma di dhar­ ma-kaya ( corpo della Legge ), predica all'assemblea dei Tathllgata e dei Bodhisattva la dottrina segreta, dispen­ sando, inoltre, le sue istruzioni al Dharma-sattva ( Essenza del Dharma, simbolo del genere umano ), che lo interroga ' su punti pratici, riguardanti la messa in opera di tale sapere da lui enunciato. La leggenda narra che in un luogo misterioso dell 'India meridionale Nagarj una compì il sa­ cro rito della pradak#JJ.a, cioè la deambulazione rituale verso destra, attorno ad uno stupa di ferro ( simbolo pro111

babile dello stesso corpo umano cosmicizzato) per ben sette giorni ; alla fine egli fu accolto nel suo interno dal Vajra-sattva ( « Essenza adamantina », simbolo dell'Uomo cosmico primordiale}, che lo consacrò e lo istruì ne Ì la dottrina segreta. Suo discepolo e compagno fu Na:gabodhi, vissuto, secondo la leggenda, ben sette secoli sulla terra, comunque nato nello S riparvata, nell'India meridionale. A sua volta il discepolo di Nagabodhi fu un principe di una casa reale dell'India cen.trale, Vaj rabodhi, nato nel 670, che, dopo i sette anni di apprendistato presso il suo maestro, si imbarcò nel 7 1 7 per Ceylon, donde passò a Giava, ove fondò le fiorenti scuole di Vajrayllna durate secoli interi, fino all'avvento dello S ivaismo prima e del­ l'Islam dopo; da lì passò, nel 7 1 9, a Canton, dove morì nel 74 1 , dopo aver tradotto in cinese parecchi tantra, come il Maha-vairocana-sii.tra, già citato, il Vajrasekhara­ sii.. t ra ed altri. Suo compagno ed allievo fu un giovane brahmal)a dell 'India settentrionale, Amoghavaj ra, che lo conobbe a Giava e lo accompagnò in Cina. Fra H 743 ed il 746 Amoghavaj ra compì alcuni viaggi a Ceyl on ed in India, dove conobbe Nagabodhi e si perfezionò sotto la sua guida. Ritornato in Cina, il suo insegnamento e, più ancora, i riti da lui introdotti, vagamente somiglianti a quelli delle messe funebri cattoliche, gli valsero il favore della corte dei T'ang. Morì nel 774. Questi missionari vajrayana furono però preceduti da un maestro della me­ desima scuola, S ubhakarasi:rpha (637-735 ), un re del Ma­ gadha che, fattosi monaco, studiò nell'Università buddhi­ sta di Nalanda ( v . post), sotto la guida del famoso mae­ stro Dharmagupta, che giunse in Cina nel 7 1 6, attraversan­ do il Kasmir ed il Tibet. lvi fuse ed unificò, sistemandole, le diverse dottrine del Vajraylina non saktico, e tradusse numerosi tantra della sua scuola, fra i quali il Su�iddhika­ ra-tantra. Una generazione era passata, dalla morte di que­ sti tre missionari, quando il sapiente monaco giapponesé Kobo-daishi (Kukai ) approdava in Cina, dove si fece inizia­ re al medesimo Vajrayllna, che riportò più tardi in Giap­ pone, ove ebbe una straordinaria fioritura ed influssi in­ calcolabili su tutto lo sviluppo artistico, letterario e re­ ligioso di quella Nazione, sotto il nome del già citato 1 12

Shingon ( dal cinese Chen-yen, traduzione del termine san­ scrito mantra). La liturgia e la forma di realizzazione di questa scuola, qui solo brevemente accennata, si basa su due cicli di esperienze esposti nei tantra Tattva-samgraha ed il Maha-vairocana [- abhisatrzbodhi}-sutra, corredati, il primo, da un mar:rçlala (v. post) fondamentale, il secondo da due, che simboleggiano, rispettivamente, il processo di manifestazione dalla Coscienza Cosmica (causa) alla molteplicità degli esseri, ed il processo inverso di rias­ sorbimento dell'essere individuato (effetto ) nella Coscien­ za Cosmica. Questi ma�J.çlala sono rispettivamente denotati come il Vajradhlltu-mm:zçlala ed il Garbhadhutu-mar:rçlala (cioè il marJ,çlala della sfera fulgurea e quello della sfera embrionale ). La figura centrale, in questi due cicli, è quel­ la del Tathligata Vairocana, che rappresenta il punto di passaggio dalla Coscienza Immanifesta al mondo mani­ festo. Nell'India settentrionale, come si è detto, fiorì l'altra forma di Vajrayllna, la cui catena di trasmissione inizia probabilmente con Padmavaj ra, vissuto nel VI sec., autore della Guhyasiddhi ( La Perfezione Segreta), che fu maestro ad Anangavaj ra, che redasse il Prajfiopaya-viniscaya-siddhi (La Perfezione della Decisione di Gnosi e Mezzo ); continua col già citato re IndrabhUti, autore della Jfianasiddhi ( Per­ fezione della Conoscenza) e qm sua sorella Lak�mikara, autrice dell'opuscolo detto Advaya-siddhi ( Perfezione di là dalla dualità) ed ancora col già citato Padmasambhava, figlio adottivo di Indrabhati, cognato del maestro S anti­ rak�ita, che, nel 747, lo chiamò dal Tibet affinché lo aiutasse a propagare la Buona Legge, fra una popolazione sorda agli incitamenti morali del Buddha, ma decisa­ mente sensibile all 'ascendente personale esercitato da te­ mibili yogin del genere di Padmasambhava, ed ancor più ai portenti che questi provocava, in caso di pericolo o di dubbio. A parte il simbolismo sessuale con cui il Vaj rayana rappresentava l'unione fra la gnosi ( prajfili) e la messa in opera del « mezzo » ( upliya-kausalya ), qa cui scaturisce la Grande Beatitudine ( mahli-sukha) dell'Illuminazione, l'insegnamento fondamentale di questa scuola, come quel1 13

lo della scuola Dhylina di Bodhidharma (prima metà del VI secolo), detta dai cinesi Ch'an e Zen dai giapponesi, si riassume nel precetto di utilizzare ogni attività del cor­ po, della parola e della mente ( kliya-vlik-citta), allo scopo di procedere sul cammino dell'Illuminazione : in altri ter­ mini, in ogni nostro atto, pensiero, percezione, sentimen­ to, volizione, azione ecc., è presente, immanente la Su­ prema Coscienza, matrice di ogni realtà. La questione è di rendersene cosciente in modo totale. Una scuola si­ mile, fiorita nell'India settentrionale fra il V e l'VI I I secolo, Avatamsaka (così detta dal suo testo fondamenta­ le, l'Avalalflsaka-satra, il « Sutra dell'Ornamento [ del Bud­ dha ] » ), insegnava che « ogni grano di polvere » , ogni mi­ nimo elemento della realtà, contiene in sé - come in potenza - la sintesi di tutto l'universo, perché ad ogni cosa, ad ogni avvenimento, ad ogni atto, è immanente la vacuità ( si:lnyata), che è la Realtà assoluta (Dharmadhmu). Quindi non si tratta di scansare l'azione, perché impura o sconveniente, bensì di giungere ad operare· intimamente collegati all'essenza dell 'Universo : cessa così ogni attac­ camento ad un oggetto particolare, visto come sanya, e si ha la liberazione, qualunque cosa si faccia.

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SAHAJAYA NA E KALACAKRA

La metafisica dello sunya costituisce il fondamento, se così si può dire, dell'ultima scuola gnostica buddhista, sor­ ta in terra indiana, in particolare nel Bengala e regioni circumvicine, e nota con il nome di Sahaja-yana, « la Via del Principio innato » (saha-ja o Sahajiyll), i cui rappre­ sentanti sarebbero stati gli 84 cosiddetti Siddha ( « i Com­ piuti » ), che molti annoverano fra i cosiddetti Natha ( « i Signori » ), maestri e capiscuola « hindu » ( ! ) di scuole vigmite e §ivaite. Documenti di questo movimento sono i cosiddetti carya-pada, « i versi della disciplina » , redatti in bengali, con intrusioni di altri idiomi vicini, maithilf e oçliya con influssi sauraseni, che furono seguiti dai doha, scritti in apabhrarp§a occidentale, probabilmente fra l'VIII e il XII sec. d.C., quando fioriva la dinastia Pala, protettri­ ce delle grandi università di Nalanda, Vikramasila e Odan­ tapuri. Molti ritengono anche che il Sahaja-yana, come il probabilmente successivo Kala-cakra sviluppatosi nel Tibet, siano delle forme particolari del Vajrayana, di cui si è discorso, opinione tipologicamente fondata. In ogni caso, dalle nebbie dei primordi della setta, emergono le figure dei due capiscuola perfettamente storici vissuti fra il decimo e l'undicesimo secolo, Lui-pa e il Dipailkara S ri-j fil:lna, quest'ultimo nato nel 990, missionario in Tibet fra il 1 042 e il 1 056. Secondo alcuni (come il pa1;u;lit Sarpkrtyayana), Lui-pa sarebbe stato allievo di S avara-pada, appartenente alla scuola di Haribhadra, che aveva avuto come maestro il grande dotto S antirak�ita. Haribhadra è ritenuto aver vis­ suto al tempo del re Dharma-pala, della dinastia Pala, che governò il Bengala fra il 770 e 1'8 1 5 . Altri sarrzpradiiya ci­ tano fra gli antenati spirituali dei due maestri summen­ zionati i celebri asceti e taumaturghi Tilopa ( Taila-pada, 1 15

Tilipa) e Naropa ( Nac;la-pada), che in Tibet sono conside­ rati i fondatori della setta bKa'-rGyud-pa (v. infra). Non è facile districare la serie delle successioni spi­ rituali, anche perché i vari sp.rrzprad'llya non sono soltanto buddhisti, ma mostrano personaggi, spesso citati con le loro consorti e yogini (all'uso sciamanico ! ) , che furono maestri ed iniziatori di sètte tantriche vi�Q.uite, fortemen­ te impregnate dell'elemento devozionale, della bhakti. È probabilmente dovuto a queste mistiche presenze, la cui personalità torreggia nella storia spirituale del Bengala, se il Buddha storico venne allora concepito come la pe­ nultima incarnazione, o avatiira, di Visnu, prima del Kal­ ki-avat'll ra, quello che riporterà la terra e l'umanità al­ l'epoca dell'oro. Dal punto di vista strettamente dottrinario, a parte la letteratura « estatico-emotiva » dei caryli-pada e delle dohli, l'opera di questi maestri è fedelmente riflessa in ambito tantrico-buddhista - nei cosiddetti anuttara­ tan tra ( tib. bLa-na med, sott. rGyud, « i T. di cui non vi è superiore ), ulteriormente suddivisi in upaya ( tib . thabs , « mezzo ») , prajnli (ye-ses, « gnosi ») e advaya (gnis-par med, « di là dalla dualità » ), che si suppone che siano stati rivelati rispettivamente in Uçlçliyana (come il Gu­ hyasamaja), in Magadha (come lo Heruka o He-vajra), o addirittura nella misteriosa regione di S ambhala ( come il Kllla-cakra). Di questi Illuminati vi sono due raccolte complete di biografie, una conservata nel medesimo ca­ none, il Tanjur ( Grub thob brgyad eu rtsa bzihi lo rgyud, vol . 86 del bsTan-�gyur, tradotto dal Grtinwedel come « Die vierundachtzig Zauberer », Baesler Archiv, vol. 5) , un'altra nelle opere di Taranatha ( bKah babs bdun ldan, ed. da Sarat Chandra Das, Calcutta 1 90 1 ). La genealogia di questi maestri tantrici buddhisti è stata recentemente studiata ( 1 934) da Sailkrtyayana (JA 225 , 1 934, pp. 2 1 8 s s . ) e da Shahidullah nella sua introduzione ai «Chants mystiques » ( Paris 1 928). II problema della successione nel magistero, il sampradiiya, è stato riassunto dallo Snellgrove nell'In­ troduzione al suo « The Hevaj ratantra - Part. I, pp. 1 3 ss., ( Oxford-London 1 959). Non è molto facile identificare i vari siddha basandosi sul loro solo nome, perché alcuni 1 16

casi si danno in cui il nome è ripetuto per varie persone della stessa linea di trasmissione, tanto meno orientarsi sulle date della loro presunta esistenza in vita. Lo Snell­ grove, riferendosi allo Heruka-tantra, probabilmente com­ pilato da Saroruha e Kampala, presenta due genealogie diverse, che concludono con lo stesso personaggio ( Indra­ bhuti I I ). La prima presenta la serie : Indrabhu.ti I ( il famoso re-mago dell'Uc;lc;liy�na, presunto compilatore del Guhyasamaj a-tantra, maestro del celebre Padma-sambhava, Urgyen-pa, missionario in Tibet probabilmente dopo il 747) - Mah�padmavaj ra - Anaiigavaj ra - Saroruha - In­ drabhu.ti I l ; l'altra, invece, inizia con A�vapada e continua con Vilasyavaj ra - Vaj raghaQ.ta - Kampala (contempo­ raneo di Saroruha) e Indrabhuti I l . Costui sarebbe stato il maestro di Jalandhari, maestro di Kr�Qa ( KaQha ) autore della Yogaratnamlllll, commento allo Hevaj ratantra, pro­ babilmente vissuto nel IX sec., maestro di Bhadrapada, a sua volta iniziatore di Tilopa, maestro di Naropa - Marpa ­ Milaraspa, con cui si entra nella chiara tradizione della scuola bKa' rGyud-pa, di cuj gli ultimi tre furono i fon­ datori. Di Tilopa si ha occasione di parlare più avanti. Vediamo ora le dottrine.

Saha-ja ( « il Con-naturato » ) è la natura essenziale del pensare, di là da tutte le determinazioni noetiche e psi­ chiche. E. il fondo inalterabile della realtà, naturato di Luce di coscienza, ineffabile e inconoscibile secondo il pen­ siero comune dualizzante che distingue, cioè, il soggetto dall'oggetto della conoscenza. E. la folgore di consape­ volezza che si sprigiona in ogni attimo del pensare, del percepire e del sentire; si potrebbe dire che è la Volontà cosmica « che si fa Pensare umano ». Quale che sia · la condizione in cui uno si trovi, gioia, ira, collera, istupidi­ mento, terrore, ansietà, brama, godimento, o quale che sia il suo rapporto con il mondo, chiaro, offuscato, ottuso, sognante, distaccato, repugnante o bramoso, questa im­ mobile, incolore luce del pensare è l'inalterabile e peren­ ne schermo su cui si individua ogni esperienza, non solo, ma è anche la sostanza dell'esperienza stessa : è atto di conoscenza che diventa « cosa » , è la « cosa » stessa che si discioglie nella potenza che la conosce, ritornando ad 1 17

essere significato puro, archetipo. Anche in un atto di ira - per fare un esempio - come in un'opposta pro­ fonda esperienza contemplativa, è sempre questo « princi­ pio innato », il sahaja, ad attuarsi in una forma o in un'altra, pur rimanendo in ogni manifestazione identico a sé, remoto ed inalterabile come la calma profondità del mare rispetto alla variabilità della sua superficie on dosa. Si · abbia presente, trattando del sahaja, quanto già alluso trattando dell'alaya-vijfiilna nello Yogacara. Non si tratta di un ente, di un « essere », bensì di un « atto » spirituale, un lampo di inco rporeo pensiero autocosciente, che si attua nella « vacuità » (sanyatli), che è la realtà ultima delle cose, alle quali il nostro pensiero soggettivo presta un'essenza che esse, di per sé, non hanno. Nella disciplina illuminativa, i Carya�pa:da distinguono progressivamente quattro modalità metafisicamente suc­ cessive, per le quali la vacuità s'invera, che, poi, corrispon­ dono ad altrettanti gradi della conoscenza superiore. Il Paficakrama di Nagarj una-pada denota queste quattro va­ cuità come .§unya, « vuoto », ati-sunya, « transvuo to », ma­ hll-sunya, « megavuoto » e sarva-sunya « omnivuoto » , in­ dicando, con questi nomi, non già una modalità contin­ gente appartenente ad un particolare ordine di realtà, bensì i gradi di adeguamento soggettivo a quella che è la realtà delle realtà, cioè il vuoto. Il primo grado dello sunya è denotato come aloka, cioè (( luce », ed è" quello per cui si sperimenta la natura eteronoma ( para-tantra) delle 33 funzioni impure dell 'esistenza contingente, come paura, cruccio, emozione, angoscia, fame, sete, sonno, dub­ bio, gelosia, i cosiddetti do$a, « difetti », riconoscendoli come non appartenenti a sé, pur soggiacendovi nella vita di tutti i giorni . Questa è ritenuta essere una condizione passiva, variamente denominata « donna » ·(stri) e « sini­ stra » ( vlima), simboleggiata dal loto entro il cerchio lu­ nare e dalla lettera A, che in un certo modo allude al gesto primordiale dello « stupore » ( vismaya) di cui è intrisa la conoscenza. Il secondo grado, cioè il « transvuoto », atisllnya, è de­ finito « manifestazione di luce » ( liloka-llbhll.sa) : concepito 1 18

quale « mezzo » ( u�ya) procedente dal primo grado, è naturato di « im,maginazione construttiva » , parikalpa, ciò che significa che esso è la potenza inerente a quel pensiero che crea punti di riferimento concettuali per l'identifica­ zione del mondo. Denominato « destro », dak#rJ.a, è sim­ boleggiato dall'orbe so lare (silrya-mar}.çiala). Il terzo grado, procedente dall'unione dei pnm1 due, è denominato « intuizione di luce » ( liloka upalabdhi ). Es­ so è il « grande vuoto » .( maha-sunya), inerente alla Ne­ scienza, avidya, ed ai sette fattori dell'impurità mentale quali dimenticanza, illusione, stupore eccetera, nel senso che esso è la potenza che si estroverte secondo tali fun­ zioni negative ; la sua natura, pertanto, è assoluta (pari­ ni$pa7J.7J.a), poiché trascende la assunzione contingente di un mondo come reale, indipendentemente dal pensiero che se lo rappresenta. A sua volta, questa diade di soggetto ed oggetto di pensiero e, quest'ultimo, moltiplicabile al­ l'infinito, è trasceso dal « vuoto universale », sarva-sunya, che è pura luce di coscienza ( prabhlisvara1f1. citl a1f1. ), di cui non si può dire né che sia, né che non sia e, neppure, che sia e non sia allo stesso tempo : è la ineffabile Realtà. La teoria buddhica dello silnya, se teoricamente costituisce l'applicazione del metodo apofatko del Buddha (così si­ mile al neti neti, « non così, non così » delle Upani!iad), d'altra parte costituisce la controparte pratica della dot­ trina dei tre corpi già esaminata : nirmli'l'}a-kliya, sa1flbho­ ga-kliya, dharma-kllya, trascesi dallo svabhavika-kliya, « cor­ po del proprio essere » , o sahaja-kllya, categoria di pura, luminosa autocoscienza, « perpendicolare » rispetto alle al­ tre tre. Tutti gli elementi dell'esistenza, i dharma, essendo reciprocamente condizionati ( « senza l'uno non sussiste l 'altro >> ) , la natura propria, lo svabhava, di ognuno di loro è il Vuoto, che si attua come « estinzione » , nirva'l'}a. L'at­ to per cui ciò avviene è detto dai testi tantrici la « Grap.de Beatitudine » ( Maha-sukha), che, seguendo la descrizione del nirvlitza esposta dalla Vijnapti-matrata-siddhi di Vasu­ bandhu, è « . . . l'immutabile elemento di là da ogni intèlle­ zione, buono, permanente l Beatitudine, corpo di Libera­ zione . . . » ( Trirpsika, 30). 119

Tale condizione, Beatitudine totale e infinita, è il « se­ me » (bija) di ogni realtà : essa si riflette soggettivamente nella sorpresa e beatitudine con cui ognuno prende co­ scienza di se stesso e del mondo, beatitudine che è so­ stanziata di p�ra consapevolezza (vijfiilpti-m'litrat'li). A questo punto si può brevemente trattare la psico­ logia soterica del Sahaj a-yana. Dice Kankanapada in un suo canto : « . . . Quando il Vuoto (cioè il triplice Vuoto delle impurità) sprofonda nel Vuoto stesso ( cioè il Quar­ to Vuoto), allora si viene a realizzare la natura di tutte le cose. . . Il b indu e il nlida non penetrano nel cuore e, ve­ dendo l'Uno (cioè il Vuoto), l'Altro (cioè la mente ) è di­ strutto . . . Ogni clamore sprofonda nel rombo della Tathata (nella Quiddità, nell'« Essere-così » delle cose)� La conoscen­ za è per identità. B indu e niida, importanti termini tan­ trici designanti i due poli di « suono » ( nllda), di cui il tutto è sostanziato, e il « punto » (bindu), sintesi di essere e di conoscenza di cui ogni realtà consiste, sono qui as­ sunti� rispettivamente, come oggetto di conoscenza, cioè l'Universo, e soggetto di conoscenza, cioè l'egoità ( ahan til). Il terzo termine, procedente dai due, è bija, il « seme » di tutte le categorie del Reale e del Possibile . Nei sistemi di Tantrismo estremo come il Sahaj a-yana, bija non è più concepito come potere di estroversione creatrice, bensì come potenza di conversione dal creato al­ l'ideale, come Bodhicitta, il « pensiero dell'Illuminazio­ ne » , che è il ricordo - praticamente sommerso nel miracolo della generazione - della condizione primor­ diale di ognuno di noi, il Mahll-sukha, latente nei tre gradi del nirmli71a-, sarrtbhoga- e dharma-kliya, quale o­ minipresenza della Bodhi. Da questo deriva la grande im­ portanza attribuita al corpo « fisico » nella siidhana tan­ trica, non più ostacolo, bensì mezzo per l 'Illuminazione. Nello Hevajratantra (ms. p. 36A) troviamo che il Si­ gnore, richiesto da un Bodhisattva se vi fosse alcuna ne­ cessità di questo mondo e del corpo, dato che ogni cosa è in verità puro vuoto, rispose che senza il corpo non esi­ steva possibilità di realizzare il Mahii-sukha ( . .. deha abha­ ve kutah saukhyarrz ... ?). Il corpo è la proiezione del Co­ smo entro l 'anima del singolo essere umano, che ivi se lo 1 20

percepisce e che, mediante il corpo, può porsi il .problema della propria Liberazione e risolverlo. Il Kllla-cakra-tantra (ms . Cambridge, Add. 236 (4) p . 33B) ricorda come « ... senza il corpo non vi può essere perfe­ zione, né la Suprema Beatitudine può essere conseguita in questa vita senza il corpo. . . se si ottiene la perfezione (siddh i, « potere miracoloso » ) del corpo, ogni specie di perfezione nel trimundio viene facilmente ottenuta » ( kl1ya­ dbhllve na siddhir na ca parama-sukham prlipyate janma­ ni iha. .. kl1ye siddhe anyasiddhis tribhuvana-nilaye kin ka­ ratvarrz prayllti). In questa prospettiva, tutti i principi della pratica yoga ( hatha) di Gorak�anatha (Gorakhnath) - che, fra l'altro, assieme al suo maestro Matsyendranath ( Macchindanl:rth ) è considerato l'antenato spirituale di tutti i siddha - su­ biscono una reinterpretazione mah�yanica, per cui i quat­ tro kliya vengono identificati in altrettanti cakra, tolti dalla serie dei sette. Il nirmfi7J.a-kliya viene ricondotto al marJ.ipura-cakra, il plesso solare sede simbolica del fuoco, il sarrzbhoga-kaya al visuddhacakra, il plesso laringeo sede dell'etere, il dharma-kfiya all'anlihata-cakra, plesso tora­ cico sede dell'aria, o al hrdaya-cakra, plesso cardiaco e, finalmente, il vajra- o sahaja-kliya è riferito al sahasrfira­ cakra, « ruota dei mille raggi » , di là dalla sutura sagit­ talis, dodici dita al di sopra del cranio, sede di tutti gli stati immanifesti di là dall'essere e dal non-essere. Allo stesso modo, in sede operativa, i due principi me­ tafisici della prajfili e dell' upliya, o §unyatli e karu1J.li, « va­ cuità » e « compassione », vengono simbolicamente localiz­ zati, indi realizzati nelle due vene para-spinali itJ.li e pin­ gall1, mentre la vena centrale, « la ben sottile », su�um7J.li, viene concepita come l'avadhuti�marga, o « Via dello scuo­ timento-da-sé » di ogni peccato e di ogni pensiero dualiz­ zante ( vikalpa ), la Via Regia del Sahaja, per la quale il bodhicitta fisico, che è il seme ( retas ) viene tramutato nel suo archetipo cosmico, per cui la congiunzione del ma­ schio con la femmina diventa, « in cielo )) l'unione fra il ' samvrtti-satya e il paramli.rtha-satya, fra la Verità relativa e la Verità assoluta, trascese entrambe dalla ·Tath'a tli, la Realtà in sé. Incarnando il polo della Compassione, la

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karu1Jll, « l'altro », cioè la donna, viene sperimentato come il negativo dell'immagine maschile, e viceversa, a livello del loto del cuore, come emozione pura che si attua come scoperta dell'Universo intero. La compassione si rivela co­ me impulso per la Liberazione di tutti gli esseri, quello per cui i Bodhisattva rimandano all'infinito la propria perso­ nale Estinzione Totale, il pari1Jirvll1Ja. Per i Sahaj iya, il punto essenziale di questa Via è che, fintanto che la bea­ titudine cagionata dalla congiunzione fra gli opposti praj­ fià e upaya, nel caso empirico, uomo e donna, resta intrisa di brama irresoluta nella sfera del nirmli!J.a-kiiya, si per­ petuerà la sofferenza del ciclo delle rinascite : quando invece questa beatitudine viene riportata alla sfera arche­ tipale, risalendo le tappe note come le 1 0 · Bodhicitta-bhu­ mi, essa si attua come Mahli-sukha e Muk ti, Grande Bea­ titudine e Liberazione. Il processo per cui il Bodhicitta si instaura secondo le quattro modalità suaccennate dello sunya è considerato come un « movimento regressivo », u/tli-sadhana o u jlln a­ siidhana, che secondo il Mahayllna-sutra alarrz klira ( 4. IX, 4 1 -46 ) si invera come « rovesciamento », paravrtti, delle funzioni di percezione, del mentale, della fruizione in ge­ nere della realtà fisica e, in particolare, dell'atto genesico; dato che in esso si ha il massimo di brama verso il « di­ verso-da-sé » , cioè la donna, e pertanto si rinsalda la catena nel ciclo delle nascite, nel sarrzsiira. La concezione è pressappoco identica a quella dell'urdhva-retas, « il seme riportato in alto » del Tantrismo vamacarin, cioè « sini­ stro » §ivaita e di alcune sètte vi�1;mite. Il procedimento relativo si attua come un « arresto », k$ema ( khema), delle funzioni che vengono obiettivate, indi contemplate come energia pura impersonale, quindi riassorbite e possedute dalla coscienza attraverso identificazione estatica ( bhliva­ na). Nel Siddha-siddhiin ta-paddhati ( I , 62 ) attribuito a Ge­ rak�anatha, il corpo visibile ( pi1;zçla) che è oggetto dell'a­ scesi è considerato e realizzato come coalescenza di cinque energie dette Karman, attività, Kllma, desiderio, Candra, luna, Surya, sole, Agni, fuoco . Di tutte queste, due sono es­ senziali, Candra, rappresentata dal rasa o soma, la linfa vitale che pervade tutto ciò che è fruibile, dallo spettacolo 1 22

teatrale al c ibo ( upa-bhogya), e che è l'implicito princlplO d'immortalità ( amrta) celato nel seme umano ( sukra) che ha sede al di sotto del sahasrllra-cakra, mentre Siirya, che come igneo elemento, ha sede nel matzipura-cakra al disot­ to dell'ombelico, è dotato di natura distruttiva e trasfor­ mativa ( kllla-agni). Nel Buddhismo Sahaj iya queste due potenze vengono identificate, il Sole-fuoco con il Nirmlir)a­ kll.ya, rappresentato dalla terrifica dea Catz4lili, residente nella zona subumbilicale, e la Luna-linfa come il Bodhicit­ ta, idealmente assiso nell'usnisa-kamala al sommo del ca­ po. Questi due principi si r�iettano nell'alterno gioco del prlitza e dello apll.na, i due poteri opposti del respiro, che lo yogin è tenuto ad arrestare, indi a costringere entro l'eterea vena centrale della spina dorsale, sicché il bodhi­ citta la risalga sino a ricongiungersi al suo archetipo, per sperimentar� la Grande Beatitudine, il Mahli-sukha. Tutto questo procedimento estatico è organato da una energia di natura « femminile » che, nella sua modalità universale, è denominata Catzçliili, Savari, Yogini, Nairlitmi, Sahaja-sundari eccetera : essa null'altro è che l'attuazione della vacuità (sunyata), che alla coscienza « non ancora vacua » appare con i caratteri terrifici allu si dal nome, per esempio, di Catzçliili, « la Rovente » . Nella vita comune l'uomo concepisce il mondo come un insieme di « cose » destinate, appunto, ad essere « arse >> nel procedere del tempo, sulla via del Sahaja, invece, egli, sperimentando il vuoto che trascende tutte le cose, realizza il mondo come pura energia. Questa esperienza che, essenzialmente, con­ siste nell'obiettivare e . contemplare fuori di sé quell'insie­ me di potenze da cui la realtà materiale e le nostre vicen­ de personali sono occultamente rette, è semplicemente ter­ rificante poiché si contempla il potere della Morte. In ciò risiede la realizzazione del nairll.tmya, « l'inessenziali­ tà >> del Reale. Dal punto di vista tecnico, il punto essen­ ziale di questa sadhana, come esemplificato da grande nu­ mero di Carya-pada, sembra essere almeno all 'inizio il rattenimento del bodhicitta ( « ... bodhicitta ca notsrjet . . . ») a cui segue la sua ascesa e il suo riflusso di là dal setù, la « diga )) dell'intercilio, operazione che gli Àgama sivaiti

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denominano bhru-k�epa, « proiezione nello intercilio )) . Va da sé che il rattenimento pura�ente materiale del bodhi­ citta a livello fisico non significa niente, potendo essere anche il risultato, abbastanza discutibile, di una partico­ lare forma di prli1J.li.yama. Il senso di questa disciplina emerge spontaneamente già nel primo grado dell'esperienza dello .Sanya, allorché la compagine fisica, il nirmli1Ja-kliya, viene percepita al suo « rovescio )), come vuoto contenuto dalla pelle (cfr. Vij:M:nabhairava-tantra, sutra 48), o meglio, come spazio « esterno )) limitato dalla pelle. Seguendo l'indicazione dei testi, la vacuità viene sperimentata a livello delle forme ( il mondo fisico svuotato dal contenuto sostanziale, come forma pura ), indi a livello di suono (come vocalità, man­ tra, che attua l'essenza del mondo ), poi a livello di pen­ siero ( il citta-vajra, « pensiero puro )) ), per cui « si me­ dita su tutto ciò che appare, ogni pensiero e ogni sapere, come sintesi di conoscenza (prajiia, tib . ye-ses) e di vacui­ tà ( sllnyata, tib . ston-pa iiid)! Questo è la Mahli-mudra, « il Grande Sigillo )) , cioè la pura vacuità che si invera in ci ascuno come essenza del­ la propria mente. La realizzazione della Mahlimudrli. co­ stituisce una delle pratiche fondamentali del Vaj rayana, nell'ambito che convenzionalmente denotiamo come Sid­ dha. In esso i quattro stadi del vuoto per la realizzazione del bodhicitta vengono denominati Karma-mudrli., Dharma­ mudrli., Mahlf-mudrli. e Samaya-mudrli. ( la cosiddetta Ca­ tur-mudrli. cit. nell'Advaya-vajra-sa111 graha, XL), ma, in so­ stanza, si tratta di quattro momenti dell'esperienza di ciò che il Vaj rayana strictu sensu denomina Mahli.-mudrll. Il suo esercizio segue la via di una atarassia crescente fi"no alla quiete totale. La mente resta totalmente vuota : pen­ sieri, emozioni, impulsi sorgono in essa e in essa si dis­ solvono, come onde nel mare senza causare turbamento od altro moto che la placida notazione di ciò che accade. Il pensiero è totalmente spersonalizzato : Esso pensa, non il soggetto. I tre punti essenziali di tale pratica sono : la « non distrazione >> ( apramli.da), cioè l'animo diventa sem­ pre più vigile e lucido, non distolto da emozioni o ri­ fl�ssioni, il « non sforzo )) nel senso che non è necessario '

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costringere la mente a compiere qualcosa di diverso da ciò che essa già E, e, infine la « non-meditazione », in quanto non esiste alcun fine o contenuto a cui tendere, su cui polarizzare l'attenzione, anzi, come su uno schermo limpido, la essenza intima del pensare ordinario come me­ ditazione-energia si attua completamente. In ciò, la teoria e la pratica della Mahll-mudrlE sembrano preannunciare i temi fondamentali dello Zen Smo (v. infra ), ed è così . Nella disciplina della Mahllmudrll si tende essenzial­ mente a superare la brama di esistere, o attaccamento, e il terrore del vuoto, mediante un transfert devozionale alla persona di Avalokitesvara ( tib. Spyan ras gzigs, v. in « Figure divine ») . Realizzando l'infinita compassione di que­ sto Bodhisattva, rettore dell'attuale ciclo, emerge la praj­ nll (ye-ses ), come luce di coscienza primordiale, in cui si dissolve il mondo esterno sullo schermo interiore, che è il cuore. Tutto il procedimento occulto è fondato sulla separazione fra il pensare ed il sentire, quest'ultimo me­ diante la sua identificazione al Bodhisattva suaccennato. Si tratta, in sostanza, di compiere una penetrazione noetica nel mondo delle percezioni e delle emozioni, sic­ ché queste si disciolgano in una dimensione di puro pensiero, « pneumatica » per l'appunto, con riferimento alle quattro esperienze del Vuoto. Difatti, non si tratta di rigettare distrazioni, passioni e angosce, bensì di « utiliz­ zare distrazioni e pensieri discorsivi per progredire nella Realizzazione », indi, « utilizzare i desideri e le brame per progredire nella Realizzazione » . « A volte - dice il lama Kong Ka - dovresti fomentare di proposito desideri-pas­ sioni quali lussuria, odio, gelosia ecc., e poi osservarli in profondità. Non dovresti seguirli, abbandonarli o correg­ gerli ma, con chiarezza e consapevolmente, rimanere in uno stato sciolto e naturale. Quando dormi profondamente dovresti cercare di fondere la Consapevolezza con l'incon­ scio senza sforzo. Questo è il modo migliore per trasfor­ mare l'inconscio in "luce" » . Egualmente si usano come oggetto d i contemplazione profonda i terrori, il sentimento di compassione, il senso di dolore, le malattie e le esperienze connesse alla Morte per progredire nella Mahamudra. L'insegnamento centrale

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nella pratica della Mah�m.udra è « gettate da parte ogni attaccamento e l'essenia emergerà » . Questa « essenza » è praticamente l'attualizzazione del­ l'elemento-bodhicitta nella coscienza del soggetto. Bodhicit­ ta, si è visto, è il « :ricordo » di essere g ià illum inato in una sfera che è anteriore al medesimo fluire del tempo, l'immanere di questa medesima qualità in ogni attimo della percezione e dell'intellezione del mondo, allorché il pensare, istante per istante, si attua come identità fra il sé e il mondo, donde nascono i diversi modi della cono­ scenza. La Upani�ad (a. e. la Cha. VII , xiii, 1 -2) riconosce la « memoria » (smara) come origine della coscienza : sma­ ra-linanda, la « beatitudine della memoria » indica nel lin­ guaggio tantrico non solo « la beatitudine della memoria », quanto « dell'amore » , in quanto - in quel particolar mo­ mento - ci si ricorda di essere uno « con l'altro » e si trascende la dualità nella reciproca conoscenza fra i due poli metafisici simboleggiati da uomo e donn�. La Sekod­ de§a-tika ( G O S pp. 54-55 e p. 27 ), l'Advaya-vaj ra-sarp­ graha ( GOS, 1 .33-34 ) oltre allo Hevaj ra-tantra (Ms., p. 2 ss . ) ricorda come l'espefienza delle quattro mudrli. corri­ sponda tecnicamente a quattro gerarchie dette vicitra, vi­ plika, vimarda e vilak�atta, ad ognuna delle quali emerge un tipo diverso di beatitudine detto, in successione, Zi.nan­ da, parama-iinanda, v i rama-linanda e sahaja-linanda, che corrispondono alle quattro condizioni di veglia (jligrat), sogno (syapna), sonno profondo ( su�upti) e catalessi ( tu­ riya) .

.Ananda è la beatitudine scaturente dal piacere ordina­ rio proprio al fruimento dell'oggetto · sensibile, trascesa, però, dalla contemplazione meditativa ed obiettiva del­ l 'atto donde essa si origina, sì da sperimentarla come po­ tenza pura di conoscenza. Per essa, il bodhicitta si attua nel nirmllr,za-kliya, « il corpo della manifestazione » , la J;eal­ tà fisico-sensibile, vicitra, « il variegato » , al cui livello opera la karma-mudrll di cui si è parlato . A questo punto si attua la separazione alchemica « del sottile dal denso » , cioè l'elemento vibrante d i beatitudine dall'attaccamento proprio al piacere ordinario. 1 26

Parama-linanda, « suprema beatitudine » è quella che si sperimenta allorché si invera il dharma-dhatu, la realtà fondamentale di cui il mondo è essenziato. Secondo la Sekoddesa-tika ( pp. 54-55 e 27b ), mentre al livello llnanda puro e semplice si ha a che fare con il mondo formale ( jagad-rupa), al livello successivo la beatitudine - già pu­ rificata dall'attaccamento soggettivo - si riferisce alla real­ tà - diremmo :____ archetipa del mondo che viene speri­ mentata come sua immobile causalità. Il bodhicit ta, dico­ no i testi ( Hevaj ra-t. e. S ekoddesa-t . ) risale fino alla fron­ te, allo li.jfia-cakra : presumiamo che si tratti della mede­ sima operazione descritta in ambito saiva come bhru­ k$ epa. Al gradino successivo, corrispondente al salflbhoga­ kaya, la beatitudine si attua come vita universale - net­ tare, amrta - che, come linfa lunare si effonde dal centro frontale suaccennato e raggiunge la sede mediana. Que­ sto è il virama-linanda, « beatitudine nascente dalla cessa­ zione >> dell 'attaccamento al piacere/dolore dell'esperienza del mondo, beatitudine propria al livello dei bodhisattva della quale, per l 'appunto, è sostanziato il salflbhoga-kaya, che è il loro ambito specifico, il corpo di comunione. Persiste tuttora una coscienza del sé, che è soprattutto consapevolezza dell 'attuarsi della beatitudine medesima nel vuoto della coscienza. Questa consapevolezza; però, svani­ sce all'ultimo stadio, quello del sahaja-iinanda, « beatitudi­ ne innata », nel quale si dissolve la distinzione di soggetto ed oggetto dell'esperienza. È la realtà sub-iacente ad ogni istante della percezione, l 'essenza intima, si potrebbe dire, della vita animica di ogni individuo, il « negativo » di ogni esperienza di dolore o di piacere vissuta nella maya ( Hevaj ra-t . M s , p . 39A). La contemplazione obiettiva, di là dalla concentrazione e dalla mera meditazione, è quella che permette di sce­ verare con chiarezza i quattro gradini dell'ananda. Dice, difatti, lo Hevaj ra-tantra ( ib. ) anandiis tatra jiiyante k$ana-bhedena bheditlll;t k$atza-jfianlit sukha-jfianam evalflkllre pratisthitam « le beatitudini sorgono, in questo caso, secondo i mo­ menti, separatamente ; la perfetta conoscenza della bea­ titudine è conseguente alla conoscenza dei momenti ». 1 27

Questi vari k�a1Ja corrispondono ai sedici digiti della luna, nella misura di 5-5-5-l , l'ultimo, che tutti trascende, corrisponde al sahaja-llnanda, o mahll-sukha, la « grande felicità » - la essenza di ogni esperienza. Essenza che è un puro attimo coscienziale. Questa essenza si attua nell'a�ceta secondo i tre prin­ cipi dell'equilibrio, scioglimento e spon taneità. L'equilibrio è fra il corpo (kaya, sku), la parola (vlik, gsun) e la mente ( citta, t'ugs ), nel senso che i tre elementi devono restare reciprocamente coa p tati in maniera naturale e, in parti­ colare la mente non deve farsi invischiare in nulla né poggiare su alcun pensiero : la pratica del prlivayllma e l'ataraxia mentale sono gli strumenti abituali per questo conseguimento. Lo scioglimento o il rilassamento, consiste nello svincolare la mente in profondo da ogni rappresen­ tazione senza peraltro distrarsi. La spontaneità o natura­ lezza consiste nel non-afferrarsi a nulla : sensi e mente sono liberi di fluire od arrestarsi a loro talento senza che intervenga la volontà individuale a ii1dirizzarli o co­ stringerli. « Nello spazio si · formano forme e colori, cantava il Grande Yogin Tilopa, ma esso non è macchiato né dal nero né dal bianco ; dalla natura della mente emergono tutte le cose, ma la mente da vizi e virtù non è contami­ nata . . . » e ancora « trascender il dualismo è la Visione Regale; vincere le distrazioni è la Pratica Regale; il Sentie­ ro della non-pratica è la Via dei Buddha; colui che segue questo sentiero consegue la buddheità . . . » e, infine, « non si dovrebbe dare o prendere, ma rimanere neutrali, per­ ché la Mahamudrà è di là da ogni accettazione o rifiuto ». Poiché la Coscienza-deposito (alaya-vijfiiina) è il non­ nato, nessuno può ostruirla o sporcarla; stando nel Regno non-nato, ogni parvenza si dissolverà nella Natura Asso­ luta (Dharmatli), ogni senso di sé e ogni considerazione di sé ( egoismo e orgoglio ) svaniranno nel nulla » . Il ritor­ no a questa spontaneità e libertà primordiale, che tanto ricorda . lo Tzu-j an taoistico, è caratterizzato dallo stesso Tilopa con i versi : « Al principio lo yogin sente la sua mente l precipitare come una cascata; l a metà strada, come il Gange, l scorre lenta e con dolcezza; l alla fine ·

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è come un immenso l oceano, laddove la Luce Madre ( cioè il Dharma-kllya) l e la Luce Figlio ( la luce contingente del­ la mente) si fondono in una » . Carattere nettamente · apocalittico e, come tale, ap­ parentemente connesso ai Purlltta hindu che trattano l'av­ vento del decimo avatara di Vi�Q.U, Kalkin ( probab . « Que­ gli dal Cavallo Bianco », kalka), riveste il l(.llla-cak ra-tan­ t ra, « il Tantra della Ruota del Tempo » , oppure « il Tan­ tra del Tempo ( kala ) e della Ruota (cakra) ». Come molte altre opere hindu o buddhiste estreme di tale carattere, quest'opera e la scuola che fa capo ad essa hanno un aspetto teologico segnato da un'impronta iranica, che li riconduce, da una parte alla figura dello Zurvan akarenlJ, « l'Eone Infinito ,, padre degli opposti Ahura Mazdlih e Ar,zra Mainyu, e dall 'altra alla figura di Mithra Saosyant, « Mitra il Salvatore », il Messia degli Ultimi Giorni. Il sistema del Kalacakra, che fiorì improvvisamente in India al tempo del re Mahipala I ( ca. 978- 1 030 d.C.) sarebbe stato rivelato, . secondo la pia tradizione, dallo stesso Buddha ad un'accolta di esseri spirituali a Dha­ nyakataka ( att. Dharanikota), località famosa presso Ama­ ravatì, alla foce della Kn:Q.a, dove sorge il famoso stfipa. La leggenda narra come il richiedente (adhye§aka) di tale rivelazione fosse re Sucandra o Candrabhadra di S ambha­ la, luogo misterioso che gli storici si sono affannati di ricercare nel Tibet o addirittura nella valle del Tarìm in Asia Centrale. In realtà si tratta di un locus spiritualis, una specie di Castello del Graal , visibile soltanto agli Elet­ ti, che però si renderà manifesto a tutti sotto il suo ven­ ticinquesimo re ( l 'attuale suo sovrano ne è il ventunesimo). A S ambhala venne iniziato in tale tantra il maestro Cilupli, o T ilopll, da noi già incontrato, che lo trasmise al suo allievo Naroplf, dopo una famosa battaglia filosofie� avuta con lui e con altri cinquecento paQ.c;lita all'Univer­ sità di Nalanda. Sessant 'anni più tardi, questo tantra ve­ niva introdotto nel Tibet dal maestro kasmir Somanatha, che lo tradusse assieme al suo commento Vimala-prabha ( « Immacolato Splendore » ). lvi divenne patrimonio eso­ terico di diverse sètte tantriche, quali quelle dei rN in-ma pa, dei bKa' rGyud pa, dei Sa-skya pa e dei dce:[ugs pa.

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I commenti più interessanti a codesto tantra, di cui e sopravvissuta la redazione abbreviata (laghu-tan tra) del testo originariamente ammontante a 1 2 .000 versi, sono quelli dell'« omnisapiente » Bu-s ton ( 1 290- 1 364 ), che ne riassunse tutte le interpretazioni, e di mKhas-grub rle ( sec . XV ). Secondo questo sistema la suprema ed ultima realtà delle realtà è Kllla, il tempo di cui si tesse la vicenda uma­ na e mondana, già celebrato dall 'Atharva-veda ( 1 9, 53) co­ me supremo Iddio. Esso si manifesta alla mente umana come « la Ruota del Tempo Esterna », che coi suoi cicli cosmici scandisce la vicenda dell'Universo, e come « la Ruota del Tempo Interna », che è la realtà interiore psi­ cofisica dell'essere umano. La pratica yoga di questo si­ stema consiste nella cosciente interiorizzazione dei prin­ cipi cosmici della Ruota del Tempo entro l'uomo, creando la cosiddetta « Ruota del Tempo Alternativa », che viene ad essere il mediatore fra tali due aspetti della realtà universale, quella esteriore e quella interiore. Il Tempo come tale comporta per l'uomo un potere di mutazione e di morte che nel non-liberato si esprime come il sarrzsii.ra, il giro delle rinascite. La realizzazione dei suoi dieci principi o archetipi, sin­ tetizzati nel magico sigillo del Dasiikii.ro Vasi, « il Potente dai Dieci Aspetti » conduce alla liberazione ed all'immor­ talità. I dieci « germi », bija, che costituiscono gli archeti­ pi di tale « Potente », sono, rispettivamente, il vento, il fuoco, l'acqua, la terra, il monte Meru - sede dei 33 dèi -, la sfera delle forme ( rupa-dhatu), la sfera infor­ mate ( arr:cpa-dhlltu ), la luna ed il · sole ( simboli dei prin­ cipi maschile e femminile ) e del suono primogeneo , nada, manifestazione o, meglio detto, « fenomeno inverso » del démone Rllhu, quello che inghiotte il sole nelle eclissi : è la potenza che arresta la luce visibile, permettendo al mondo di manifestarsi come materia « fisica » , correlata ad un pensiero astratto che se la rappresenta. Al di fuori della rappresentazione soggettiva umana, la Luce domina la Tenebra, ma l'uomo comune non penetra nella tenebra perché non possiede il principio di luce con cui guarda, che è il principio intuitivo della mente ( nel nostro Occi.

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dente si direbbe « del pensare » ! ). L'Universo, quindi, si è contratto nella forma umana, per cui la scala dei piane­ ti esprime le diverse ottave, risuonanti nel vitale, dei principi spirituali che si manifestano nello zodiaco . In questa specie di cosmo-fisiologia occulta, il cuore viene concepito come il « vuoto del vuoto » (ati-§unya) in cui converge la luce di coscienza per irraggiarsi nella duplice modalità di soggetto ed oggetto di esperienza, a cui è correlata la duplicità dell'organismo umano ( due occhi , due polmoni, due testicoli eccetera). La terra, quindi, è per l'uomo lo specchio dell'Universo degli archetipi ed è, secondo un modello che sembra più zoroastriano che bud­ dhista, il luogo per lui di Resurrezione ed Immortalità. Dal punto di vfsta meramente settario, l'oggetto del Ka:lacakra sembra essere la realizzazione di ciò che nel sahaj a-yana viene denotato come Samaya-mudra; samaya significa « momento », « occasione », « tempo », mudra come abbiamo visto - significa « sigillo », « gesto ritua­ le », donna », « cereale » ecc. Samaya-mudrii è, in pratica, la realizzazione del senso · universale della realtà, come si manifesta nelle cose, attraverso ciò che offre il « momento particolare », l'« incontro » (sam-aya ) con un evento qual­ siasi. Esso presuppone la intuizione continua di quel « vuoto », che è proprio alla condizione di catalessi e che illusoriamente ci appare nella condizione di consistenza fisica del mondo, il « trans-vuoto » (ati-sunya ) immanente in tutti i fenomeni e tutte le accidenze di ogni grado del­ l'esistenza . Il Kalacakra-tantra appare anche come una specie di Vangelo degli Ultimi Giorni , sintesi di tutti i sistemi che l'hanno preceduto, i quali vengono da esso elencati, classificati secondo i tre gutza hindu, sattva, « al­ bedine », « trasparenza », rajas, « rubedine », « motilità » , « collera » e tamas, « nigredine », « opacità », « inerzia » . Naturati di sat tva sono i due gruppi degli r�i vedici : quelli dell'Orsa Maggiore (Marici, Atri , Ailgiras etc . ) e i sette che presiedono ai giorni della settimana. Al rajas appartengono le otto incarnazioni (gli avatllra) di ViglU e le dottrine da esse propagate. Connessi, invece, al tamas e quindi all'opacità spirituale sono un insieme di eretici maestri dei barbari ( mleccha), che ai versi 1 5 1 e 1 52 ven131

gono tranquillamente elencati come Mani, Abramo, Gesù, il Jina, Mosè ed Henoch, indicando anche, per maggior si­ curezza di interpretazione, i luoghi dove il loro verbo si è diffuso. Il Kalacakra-tantra è fondato, nella sua parte più « ma­ tematica » , sui dati dell'astronomia-astrologia tradizionale indiana, sia il Jyoti$a-ved{fnga, che il Surya-siddhan ta, non esente, quest'ultimo, di elementi di scienza ellenistica o comunque, procedente dall'area mediterranea. Naturalmen­ te questa parte ha suscitato viva curiosità nei ricercatori di alcune localizzazioni particolarmente significative nella storia della trasmissione della sua dottrina, in primo luogo della misteriosa sede di � ambhala, la quale, secondo il ri­ levamento riportato dallo scienziato tedesco W. Petri (v. Helmuth Hoffman, Saeculum - XV, 1 966, p. 1 30), sarebbe in pieno territorio iranico al meridiano 30Q 46� che corri­ sponde ad una zona sacra ripetutamente mentovata nel­ l'Avesta « Recente », cioè il Seistan settentrionale e, in particolare il Kuh-i S llh, « il Monte del Re » , sede di nu­ merosi miti regali connessi al ciclo eroico di Rustaham (Ru­ stam ). Del resto, nel notissimo K'a c'è pa lu tibetano si indica come terra originaria delle sue dottrine il paese dei Tazig ( i Tiig"ik ossia i Persiani ) ove Lha ( « Dio ») viene detto X wuda!

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INTERMEZZO STORICO (II)

Prima di passare a trattare le figure divine che popo­ lano con la loro simbologia esoterica, ora placata ( santa), ora terrifica ( krodha), i cicli tantrici che sono, allo stesso tempo, oggetto di adorazione da parte delle masse reli­ giose, incuranti delle sublimi realizzazioni e paghe della modesta si�urezza che offre la protezione del dio prescel­ to ( i${ii-devatll}, al quale concretamente rivolgere i loro aneliti e le loro speranze, occorre fornire al lettore qual­ che notizia storica relativa agli ultimi cinque-sei secoli di vita del Buddhismo in terra indiana. Durante la serie delle dina � tie straniere, dai Greci agli S aka , ai Ku�ana, che si successero nell'India settentrionale, in pratica dal II sec. a.C. al I I I d.C., il Buddhismo conobbe lo sviluppo dottrinario descritto nelle pagine precedenti, ed un'espan­ sione geografica - specialmente sotto i Ku�ana - che lo condusse fino alle oasi dell'Asia Centrale, donde si irradiò fino in Cina, oltre ad una fioritura artistica, il­ lustrata dalle due scuole del Gandhara, di ispirazione in­ do-greca, e di Mathura ( capitale dei possedimenti indiani dei Ku�ana ) , di carattere nazionale indiano, quindi con figure più massicce ed espressivamente più astratte ( di contro alla mobilità « umana >> delle immagini dell'altra scuola). È questa l 'epoca in cui, ad opera dei Malasarvli­ stiviidin ( « i Realisti Radicali )) ) prima, e delle primitive co rrenti Mahayana, poi nasce la letteratura, dapprima cano­ nica, · poi letteraria, in sanscrito. Alla scuola Sarvastivada appartengono le pregevoli pie leggende e testi edificanti come l'Avadiina-sataka (La Centuria delle Imprese} , descri­ venti dieci decadi di esempi d'azione che conducono a diventare buddha, praty-eka-buddha (Buddha impersonato, una specie di Bodhisattva ante litteram), preta (mane di defunto), deva, arhant od arhatf ( arhant donna). Sono nar-

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rate celebri profezie sul destino di alcuni personaggi parti­ colarmente meritevoli e celebri leggende, come quella di MaitrakaJ?.yaka, orfano di un mercante perito in mare che, quando conosce la professione del padre, vuole ab­ bracciarla anche lui, nonostante l'opposizione della madre, che egli giunge a battere. In seguito approda in un paese beato, ove è accolto da schiere di apsaras, ricompensa per gli anni che egli ha impiegato per aiutare la madre col suo lavoro. Ma subito dopo una ruota incandescente gli taglia la testa - in punizione del crimine da lui com­ messo percuotendo sua madre. Tuttavia il supplizio avrà fine ed egli potrà fare il voto di continuare le sue austere meditazioni, finché tutti gli esseri saranno salvati . Così diventa l'omonimo Bodhisattva. Altra opera del genere è il Divya-avadlJ.na ( « La Divina Impresa » ), che comprende altre celebri leggende, come quella narrata dal Buddha per giustificare l'ammissione all 'Ordine di una monaca di gen­ te « fuori-casta » , cavr,lala. Alla fase di passaggio dal Maha­ sangha al Mahli-ylina appartiene il celebre Mahii-vastu ( Il Grande Argomento), che è una raccolta di detti del Bud­ dha, di pie leggende e di Jataka, di un genere che lo ha fatto comparare ai Purlil').a brahmanici. In un sanscrito molto più puro e scevro di prakrtismi sono redatti, nella stessa epoca, i grandi siltra della scuola Mahaya:na, che allora cominciava a formarsi, sotto l'im­ pulso di Nagarj una e di Aryadeva, dei quali si è già par­ lato. Essi sono, fra gli altri, il Lalitavistara, che narra la leggenda della vita anteriore del Buddha e della sua ul­ tima, fino al sermone di Benares ; il celeberrimo Saddhar­ ma-pul').çlarika, « Il Loto della Buona Legge » , contenente numerose parabole al fine di dimostrare come la stessa Buona Legge predicata dal Buddha abbia un valore stru­ mentale non assoluto, come farebbe un padre che, ve­ dendo i figli giocare in una casa già avvolta dalle fiam­ me, prometta a quelli, che non vogliono uscire, tre me­ ravigliosi carri se verranno subito fuori. I figli escono, ma non trovano il dono promesso : però il padre, con questa menzogna, ha salvato loro la vita. Così pure, la verità assoluta è la trascendenza del Tathagata eterno, che ha predicato in una forma umana passeggera per tra-

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scinare gli uditori ( Srlivaka) alla salvezza. Molto singolare appare un altro siltra della medesima epoca, il Lankavatii­ ta-sutra ( Il SITtra della Discesa a Lanka), che contiene gli insegnamenti impartiti al re di Lanka ( Ceylon ), RavaiJ.a, cioè il « cattivo » àsura del Riiml:iyaJ)a, dal Buddha uscito da un palazzo subacqueo dei Nllga. Si tratta, in pratica, della dottrina della coscienza, come verrà sviluppata dai Vijiiana-vadin. Curiosa è la tradizione « positiva » circa Raval}a, nota anche in circoli religiosi indiani non-vi�Q.uiti . I Sutra su Amitlibha ( « il Dio della Luce Infinita » ), Bud­ dha del Paradiso di Occidente ( Sukhavatf, « la Terra Fe­ lice », identificata storicamente con l'isola di Soqotra, al largo dell 'antica Arabia Felix, l'Eden biblico, attuale Aden ), in particolare il Sukhlivatf-vyukha ( « Lo Sviluppo della Terra Felice » ), hanno grande interesse perché testi­ moniano come il Mahliylina si andasse, in quei tempi, im­ pregnando di concezioni mitologiche più vicine all'Irani­ smo che all 'Induismo. Le varie Prajiiliparamita ( Perfezione della Gnosi ), che in quell 'epoca si andavano formando, in un sanscrito non molto pregevole per stile, ma di enor­ me importanza per contenuto ( sono i testi base del Mahii­ yllna ), concludono il rapido quadro della letteratura cano­ nica all'epoca degli ultimi Ku�ana. Per quanto si riferisce alla letteratura « d'arte », citiamo i nomi di A�vagholja, Aryasilra, Kumaralata e Matrceta, che verranno rapida­ mente trattati in seguito, in quanto il loro influsso si ri­ verbera principalmente sul successivo periodo Gupta. La riscossa indiana della dinastia dei Gupta ( IV-VI sec. d.C . ) rappresenta, per il Buddhismo indiano, un mo­ mento non più di espansione, ma di raccoglimento ed elaborazione intensissima, mentre fuori dell'India continua inarrestabile la diffusione del Dharma, che di converso at­ tira in India folle di pellegrini cinesi, centroasiatici ed iranici a visitare i luoghi sacri alle memorie del Buddha e ad istruirsi nel Dharma. Il Buddhismo fu, quindi, in quell 'epoca e, in pratica, fino all'XI secolo, il veicolo della cultura indiana fuori della patria d'origine . Fra i vari pel­ legrini cinesi abbiamo il famoso Fa-hsien, che visitò l'India fra il 399 ed il 420, durante il regno di Candragupta I I , !asciandocene una descrizione precisa e fedele, nella quale

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sono anche dettagliate con esattezza « cinese » le con­ dizioni del Buddhismo e delle sue sètte in quei tempi. I l successore d i Candragupta II fu Kumaragupta I (circa 4 1 4-455), durante il cui regno fu fondata l 'università bud­ dhista di Nalanda, uno dei principali centri , se non il primo per importanza, del pensiero mahayanico in India durante i cinque secoli successivi . Durante il regno del suo successore, il valoroso principe Skandagupta, ebbe luogo la prima delle invasioni dei cosiddetti Hunni (Hu�Ja ) « Bianchi » , di razza probabilmente proto-turca, detti an­ che Chioniti o Eftaliti, che si erano già insediati nella Bac­ triana strappata ai Sa�anidi di Persia. Gli Hunni , come i loro contemporanei omonimi in Occidente, rappresenta­ rono per l'India un flagello disumano. Saccheggiarono e distrussero nel Gandhara ogni focolaio di civiltà, estin­ guendo nel sangue e nel fuoco le fiorenti e numerosissime comunità buddhiste ivi insediate; poi si riversarono nella pianura, guidati prima dal terribile ToramaQ.a, indi da suo figlio Mihirakula, altrettanto feroce ( 5 1 2-528 ), giungen­ do fino ad invadere il Malava (capitale Ujj ayinT), dove, però, vennero disfatti per sempre dal re Prthivi!?ena, della dinastia dekkhanese Vakataka . Sotto questa dinastia del­ l'India centro-meridionale, che fu soppiantata poco dopo dal Calukya, il Buddhismo fu protetto, ancorché i re fos­ sero indù : continuò a svilupparsi l'arte pittorica delle grotte di Aj anta, che aveva cominciato ad esistere nel precedente periodo . Più a sud, ad Amaravati, nel regno degli Andhra, sulle rive della Kr�IJ.a era già fiorita un'arte contemporanea di quella del Gandhara ed in un certo modo ispirata a questa, solo nei temi , però, perché le forme - il tipo del classico Buddha dal volto allungato che si diffuse in tutta l 'Asia sud-est - erano prettamente indiane. Al tempo dei Gupta, però, i l Brahmanesimo inizia a riconquistare il terreno perduto nei secoli precedenti a favore del Buddhismo. Questo Brahmanesimo non è più quello puro della Mìma:rps� e delle Upani�ad, del quale si è già parlato, bensì l'Induismo dei PuraQ.a e delle prime Sarphita. Il Buddhismo, forse stimolato dalla reazione brahmanica, genera, nei due rami dello Hinayana e del Mahayana, le figure dei suoi massimi pensatori . Per lo 1 36

Hinayana ab biamo Buddhagho�a, il grande commentatore del Cànone pali, e Vasubandhu « I » , l'autore dell 'Abhi­ dharma-kosa. Nel Mahaylina sorge la scuola del Vijiilina-vllda, ad opera di Asanga e Vasubandhu « II », che sviluppa le pre­ messe poste · da Na:garj una « I >> con lo sunya-vlida. Più tardi, la stessa necessità di disputare con i dottori brah­ mana nelle grandi giostre oratorie e filosofiche, delle qua­ li i sovrani indiani e le loro corti si dilettavano somma­ mente, fa sorgere la scuola logica mahayanica, che si il­ lustra dei nomi di Diimaga e di Dharmakirti . Allo stesso tempo si sviluppano, nelle zone di confine , dove reg na­ vano precariamente gli epigoni Ku!iana, i cosiddetti Sahl buddhisti, cioè nel Kasmir, Gandhara e nell'attuale Afga­ nistan, le complesse scuole buddhistiche delle quali si è ora discorso, che si estendono rapidamente verso l'Orien­ te, cioè il Nepal ed il Bengala, prima di passare in Bir­ mania ed in Cambogia ( scuola vajraylina della « mano sinistra >> , dei cosiddetti Arya nilapata ( i Nobili azzurro­ vestiti), che continueranno · a svilupparsi fin verso il IX secolo, quando verranno soppiantati dagli adepti allo Hi­ nayana preferiti dal re Anaurahta). Le sètte vajrayllna si diffondono anche nell'Indonesia, Sumatra, Borneo, Giava, Celebes eccetera. Sotto i Gupta si conclude quel singolare fenomeno della ri-sanscritizza­ zione della cultura indiana : .i l vecchio idioma sanscrito non era mai stato abbandonato, bene inteso, ma, mentre il Buddhismo si serviva, seguendo gli esempi delle varie amministrazioni statali e delle corti, delle diverse forme di medio-indiano ( prakrta), fra i quali il pali, il sanscrito si era più o meno cristallizzato nella funzione di lingua tradizionale-religiosa, come avveniva con il latino nell 'Oc­ cidente medioevale. All'epoca dei Gupta esso è già ridi­ venuto trionfalmente la lingua ufficiale dei governi india­ ni, non solo, ma riacquista un 'agilità di espressione e di purezza di eloquio proprie ad un idioma vivo, parlato e « pensa t o >> . Il Buddhismo si adegua a questa situazione, già rico­ nosciuta dai Sarvastivlldin, autori di un Abhidharma in sanscrito, di contro a quello pali degli Sthavira : il primo 1 37

grande poeta vissuto fra l'epoca ku�ana e gupta fu il buddhista Asvagho�a. autore del bellissimo poema B ud­ dhaclirita ( Gesta del Buddha ), in 28 canti, 1 2 dei quali ci sono restati nell'originale, gli altri nelle traduzioni tibe­ tana e cinese. Si tratta di una magnifica opera letteraria del genere epico ( kllvya), redatta secondo le più sapienti e raffinate regole dell � retorica (alarrzkllra) indiana. Così pu­ re il suo dramma Sllriputra-prakarar.za ( I l « Dramma ter­ reno di S ariputra, il noto discepolo del Buddha) ed il poe­ ma edificante Saundara- nanda-klivya ( La Storia del Bel Nanda, « cugino » del Buddha). Di poco posteriore ad À�vagho$a è Aryasura, autore del­ la nota llitaka-mlllll ( Collana delle vite successive del Bud­ dha), tratta dai Jzuaka e dagli Avadana, le pie leggende già diffuse in varie lingue medio-indiane, specialmente in plili, che non infrequentemente raggiungevano le vette del­ la migliore arte. Autore contemporaneo di Asvagho�a. o di poco posteriore, fu Kumaralata, dottore della scuola Sautrlintika, considerato anche lui uno dei « Soli del mon­ do », autore di numerose opere, quasi tutte conservate nelle traduzioni tibetane o cinesi; di lui resta, in sanscrito, la Vajra-suci ( L'Ago di Diamante ). Matrcetas iniziò invece la tradizione degli inni laudativi al Buddha, componendo­ ne una decina, di grandissimo valore letterario, oltre a varie opere fra le quali la nota epistola Mahlirlijakani [ � ] kalekha, « la Lettera al Grande Re Kanika » , probabilmen­ te diretta a Kani$ka I I . Sono, quindi, i letterati buddhisti a precedere di poco tempo quella eccezionale fioritura del­ la poesia e del dramma indiano in sanscrito, che si orne­ rà dei nomi di Kalida:sa e di BhavabhUti, autori rispettiva­ mente delle gemme artistiche della S akuntalli e della Utta­ raramacarita ( « l'Ultima Avventura di Rama » ). Con i Gupta inizia anche l'architettura templare india­ na vera e propria, la cui parte buddhistica è rappresenta­ ta dagli stflpa, quasi tutti rovinati . La scultura buddhista è caratterizzata, nel nord, da immagini monumentali ( 35 e 50 m. di altezza misurano i due Buddha di Bamiyan, nell'Afg�nista:n settentrionale), nel Sud e nel centro del­ l'India ( Sarnath e Mathura) abbiamo le statue, spogliate dal panneggio gandharico, che uniscono vigoria di model1 38

lato ( rilevato dalla cosiddetta « triplice flessione » , trib­ hanga) a calma ieratica di espressione . All'epoca Gupta la pittura è all'apogeo : ne sono esempio gran parte degli affreschi delle grotte di Aj anta, che, con argomenti trat­ ti dai Jataka buddhisti, raffigurano lussureggianti scene della vita quotidiana e di corte nell'India antica, ove trion­ fa, con proporzioni bellissime ed a rmonia di colore, il « seminudo » indiano. Dopo il VI secolo, quella tendenza unitaria o di coali­ zione fra varie dinastie indiane contro i nemici esterni sparisce, dando luogo al formarsi di vari stati regionali, che gradualmente saranno sopraffatti dalle non lontane invasioni turco-islamiche ( preannunciate dalle irruzioni a­ rabe nel Sindh, anno 7 1 3 ), le· quali, con la distruzione dei monasteri, delle Università buddhiste e delle dinastie più o meno favorevoli al Sangha, ne provocheranno la sin­ cope e la rapida scomparsa. l primi a cadere furono gli Sahi buddhisti del Kapisa ( Kabul ) nell'870, sotto l'urto degli Arabi, poi i loro successori, gli S ahi brahmanici nel Panj ab, ove furono distrutti dalle terribili undici incur­ sioni di Mabmud di Gazna ( 997- 1030). Nell'India centro-settentrionale, dopo il crollo dei Gup­ ta, brillò solitaria la figura del re Har�a ( 606-647 ), in ori­ gine raj a di Thanesvar, che estese progressivamente i suoi domini su tutta l'India gangetica. La sua corte di Kanya­ kubj a ( Kanauj ) fu un centro di cultura letteraria sanscri­ ta, forse uno degli ultimi di prima grandezza. Egli, per­ sonalmente, oltre ad essere un eccellente guerriero ed un buon amministratore, esercitava assiduamente le lettere : a lui si devono tre drammi sanscriti . Del suo regno ab­ biamo una vivace descrizione, }asciataci dal grande pelle­ grino cinese Hsi.ian-tsang, che vi sostò fra il 636 ad il 642, nel corso del suo memorabile viaggio in India, dal quale riportò in Cina oltre seicento testi buddhisti e la mi­ gliore tradizione Yogiiciira, come era tramandata nella grande università dell'India settentrionale. Per tornare a Har�a, questo A§oka in formato minore, che era passato dallo S ivaismo al Buddhismo mahayanico, abbiamo la testimonianza di una grande cerimonia, nota come Kumbha-M:elii, tramandataci dal pellegrino cinese

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summenzionato, durante la quale il sovrano fece dono di tutti i suoi beni agli asceti , ai dignitari ed ai rappre­ sentanti di tutte le caste del suo popolo. A questa festa, che veniva celebrata ogni venti anni a Prayaga ( Allaha­ bad), parteciparono, nell 'anno 644, 1 8 re vassalli e mezzo milione di p ersone. Il luogo, particolarmente sacro alle tradizioni indù, perché ivi si mescolano le acque azzurre della Yamuna con quelle verdi della Ganga, fu il teatro di una celebrazione allo stesso tempo brahmanica e bud­ dhista. « Nel primo giorno , in un tempio coperto di fra­ sche, entro il recinto reale, fu collocata una statua del Buddha, ed i più pregiati oggetti ed abiti furono distri­ buiti. Furono provveduti anche cibi scelti, e dappertutto furono sparsi fiori, e si sentiva una musica dolcissima . Il secondo giorno fu eretta una statua del dio Sole , e doni preziosi furono nuovamente distribuiti, benché in mi­ nor quantità del primo giorno. Analoga distribuzione ebbe luogo il terzo giorno, quando una statua di f svara, il po­ tente, fu installata. Il quarto giorno furono distribuite le elemosine a 1 0.000 monaci; essi stavano seduti su cento file, ad ognuna delle quali furono distribuite cento pezze d'oro, panni, cibi e bevande, come pure profumi e fiori . La quinta elargizione fu quella concessa ai brahmai).a, che durò venti giorni; la sesta agli eretici , che durò dieci giorni, e la settima ai mendicanti di lontane contrade, e durò pure dieci giorni. L'ottava durò un mese, e ne furo­ no beneficati i poveri , gli orfani e coloro che non avevano amici. Trascorso questo tempo le casse reali, con la loro ricchezza accumulata per cinque anni, erano completamen­ te vuote. Non restava altro, al Re, che i suoi elefanti, i cavalli e le sue armi da guerra, necessari per tenere a bada la gente riottosa e per proteggere il suo regno . Le sue vesti regali, le sue collane, orecchini , bracciali, la sua corona, le sue perle ed il carbuncolo che brillava al centro del suo copricapo, tutto egli diede in elemosina, senza te­ nere per sé nulla di quanto aveva posseduto. Avendo così disposto di tutti i suoi beni terreni, il Re chiese a sua sorella un pezzo di stoffa usata e, coprendosene , adorò i Buddha delle dieci regioni . In un trasporto di gioia e di esultanza egli unì le mani e disse : « Mentre accumulavo 140

questi tesori ero perpetuamente intimorito dal pensiero di non poterli custodire con sicurezza. Ma ora che li ho messi nel campo della felicità so che saranno per sempre al sicuro. In tutte le _mie vite future possa io accumulare ricchezze per aiutare i miei simili, e così conseguire nella loro pienezza le dieci divine perfezioni » . . Gli eredi dell'impero centro-indiano di Har�a furono i Pratmara, che dominavano le cinque città sante di Mathu­ ra, Indraprastha, Kanyakubj a, Prayaga (Allahabad) e Be­ nares, i Pala dell'estrema piana gangetica ed i Ra�trakrrta, che nei due secoli successivi esaurirono le loro forze in lotte fra di loro, crollando poi poco per volta di fronte all'avanzata dell'Islam, talvolta contemporanea ad attacchi provenienti da lontani stati come il Tibet, il Kasmir e le varie dinastie dell'estremo Sud ( Cola, Pallava, Calukya ecc . ). Per i riflessi interessanti il Buddhismo, massima im­ portanza ebbe la dinastia Pala, portata al trono dal po­ polo del Bengala, sul quale regnò dal 765 al · 1 080. Fatte le eccezioni di sopravvivenza del Buddhismo, fino alle soglie del XIII -XIV secolo, · in regioni geografiche chiuse come il Kasmrr ( non si parla qui del Nepal e di Ceylon, dove il Buddhismo sussiste ancora ai giorni nostri ) il Bengala conobbe, sotto i Pala, l'estrema sintesi e fioritura del Buddhismo, specie mahli.ylina ( scuola Sahajiyli, scuola dei Siddha - i Perfetti · - dediti al Vlimli.cara), per merito esclusivo dei suoi grandi sovrani : Gopala, il fondatore della dinastia, che fece edificare il monastero buddhista di OdanHipuri nel Bihas ; Dharmapala (770-8 1 0 ), fondatore della grande università monastica di Vikramasìla, che si illustrò con Atfsa, il quale riconvertì il Tibet al Buddhismo e che, assieme a Nalanda, fu ma ssimo focolare del Maha­ yana nell'India settentrionale. L'ultimo grande sovrano di ·questa dinastia fu Devapala ( 8 1 0-850), le cui grandi im­ prese militari nell'Assam e nell'Crissa dischiusero al Dhar­ ma queste ultime zone di missione. Ma ormai il Buddhi­ smo aveva, in India, i giorni contati, e non tanto per la brutale distruzione dei suoi centri di cultura e la disper­ sione dei suoi monasteri ad opera degli invasori turchi, quanto perché aveva esaurito le sue forze innate di espan­ sione e perché i luoghi del suo massimo rigoglio, i suoi 141

centri di studio, di meditazione, si trovarono inclusi in territori dominati da dinastie acerrimamente ostili al Buddhismo e specialmente devote allo S ivaismo, come quella dei Sena ( 1 095- 1 200), che successe ai Pala. Poi giun­ se la fine col ferro e col fuoco, che gli stessi Dottori della Legge avevano profetizzato, con sconcertante esattezza, nei giorni del massimo splendore. Alla fine del XII secolo Mul}.ammad ibn Bakhtiyar, invadendo il Bihar, distrusse le grandi università buddhiste, massacrandone i monaci, solo una piccola parte dei quali poté riparare nel Tibet. Quindi le cause dell'estinguersi del Buddhismo in India non furono semplicemente dovute alle persecuzioni sivaite o mussulmane, quanto al fatto che il Buddhismo, nelle sue forme vijnllna-vlidin e tantriche, si era talmente av­ vicinato alle simili esperienze saiva e vai$11ava da rendere ardua, e quindi superflua, una differenziazione delle re­ ligioni indù da parte dei laici, inclini, naturalmente, a seguire la religione del loro sovrano, sivaita o vi�l)uita. Senza l'aiuto dei laici o senza l'appoggio di un sovrano, una comunità di monaci, così aliena dal mondo come era quella dei Buddhisti indiani, sopravvive difficilmente. Inol­ tre, tanto più la speculazione e le loro esperienze si an­ davano raffinando, tanto meno i Buddhisti potevano tro­ vare adesione fra le popolazioni, ansiose di credere in dèi « reali » , di sperare in concreti aiuti superni e di essere materialmente vincolate ad una disciplina di devozione re­ ligiosa. Ridotti gli dèi a proiezioni di una coscienza cosmica, ineffabile ed inafferrabile, il mondo ad una sede di espe­ rienze illusorie, il Buddhismo doveva necessariamente de­ cadere in un'epoca di terribili rivolgimenti, quando i po­ poli indiani sentirono urgere l'anelito verso una fede che li salvasse moralmente dalle terribili distrette in cui ma­ terialmente si dibattevano. La similitudine, per non dire l'identità, fra le sue esperienze mistiche con quelle offerte dalle fedi tradizionali saiva e vaÌ$1J.ava affrettò la fine del Buddhismo sul suolo che l'aveva visto nascere.

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Figure divine e culto

In alcuni testi di passaggio fra il Mahayana classico e le scuole tantriche accennate, come il Mafijusri-mulakal­ pa ( traducibile come « Metodo radicale di Mafijusri », os­ sia del mitico bodhisattva civilizzatore del Nepal), il cele­ berrimo Saddharma-pu1Jçlarika ( Il Loto della Buona Leg­ ge), il Lalitavistara ( Lo Sviluppo del Gioco - della vita del Buddha sulla terra), eccetera, la persona del Buddha ap­ pare sempre di più cosmicizzata �. gradualmente, identi­ ficata alla sfera dell'Assoluto ( dharma-dhlltu), da dove secondo il Saddharmapw:ujarika - derivano tutti i Bud­ dha discesi di epoca in epoca sulla terra per istruire gli uomini sulla dottrina della salvezza. Caratteri di questa sfera dell'Assoluto ( non diremmo dell'« essere » , perché si pone di là da « essere » e « non-essere » ), allorché si invera per l'asceta sono, secondo il Mahl1yl1na-sarrzgraha ( « Sintesi del Mahliylina », di Asanga) : l) l'lisrtiya-paravrtti, o « revul­ sione dell'appoggio » , per cui lo spirito assoluto, o « co­ scienza-deposito » - l1laya-vijfil1na - non è più volto alla nozione degli oggetti particolari, ma alla conoscenza della sua vacuità C§unyata); 2) è « immacolata e splendente » (sukla - termine che significa anche « luce » e « sperma » , con numerosi sottintesi nelle pratiche tantriche) i n se­ guito all'esercizio delle sei p erfezioni ( pliramitli) e delle dieci « possessioni » ( vasita), che sono relative alla serie : vita - parola - mente - dotazione iniziatica - karman - in­ clinazioni psichiche - voto - gnosi - dharma - poteri mira­ colosi - (ayus - vlik - citta - pari�kara - karman - adhi­ mukti - pra1Jidhllna - jfillna - dharma - rddhi); 3 ) è di là dalla dualità, a-dvll.ya, perché gli manca qualunque realtà a cui contrapporsi ; 4) è eterna, nitya; 5 ) è di là dalla pen­ sabilità, ineffabile, a-cintya. La funzione di questa Sfera dell'Assoluto è data dal fatto che, tale essendo, è la ma-

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trice di ogni possibile realtà e quindi il suo rapporto coi mondi contingenti è dato dalla Grande Compassione ( ma­ hli-karuttll). La compassione è · lo strumento ( upaya ) me­ diante il quale i vari Buddha e Bodhisattva emanati dal Buddha primordiale (Adi-Buddha ) espletano la loro mis­ sione nei successivi evi e nei diversi mondi . I Tantra sim­ boleggiano questa compass.ione cosmica, lo « strumento » per eccellenza , con la matrice femminile ( bhaga, che ha anche il significato di « beatitudine », « partecipazione » ecc . ), rappresentata dalla campanella rituale, ghar.zta. Il simbolo opposto e complementare, si è accennato, è la « gnosi » (prajfill, jfiana, vidyli), cioè la realizzazione del vuoto ( sunya ), che è il fondo inalterabile del tutto, rappre­ sentato dalla folgore-diamante ( vajra, che significa anche « membro virile » ). Fra questo Buddha primordiale, tal­ volta detto Essenza Adamantina ( Vajrasattva), specialmen­ te nelle scuole tantriche del Bengala, Sahajiyll, ed i vari Buddha umani, vi è, come si è alluso, un processo di emanazione, un 'epifania, che, mediante un simbolico di­ spiegamento di Esseri-colori (alterazioni della Luce primor­ diale incolore della Coscienza), degrada attraverso i tre piani cosmici, già descritti, del dharma-�llya, saY]1bhoga­ kliya e nirmll"f1.a-kllya, fino all'apparizione sul piano terre­ stre : su questo ultimo pian:o avviene la comparsa del particolare Buddha e la predicazione del suo messaggio. Questo processo, che ricorda in parecchi modi la « pa­ rousìa ,, della Gnosi greca e la concezione dei Cinque Es­ seri di Splendore manicaici, può essere concepito secondo due opposte direzioni spirituali: una direzione di estro­ versione dalla Luce Increata verso il mondo delle forme ed una direzione opposta di introversione, diremmo « apo­ katastasi », per cui il mondo delle forme si reintegra alla sua inalterabile sorgente, la Luce Increata suddetta. Come si è detto, l 'atto primordiale di culto, nel Bud­ dhismo, consiste nella meditazione ( dhyllna ) : questa è una realizzazione mentale e concreta allo stesso tempo ( bhiivanll), che conduce all'« enstasi ,, (samadhi). Ora l 'a­ depto tantrico rivive, in tale stato di profortda meditazio­ ne, i processi suindicati, secondo la guida datagli dal guru del particolare Tantra da lui seguito, fino a giun-

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gere - talvolta attraverso un vero e proprio shock psi­ chico ( specialmente nel Vajrayiina della « mano sinistra » e, fuori dell 'India, nello Zen giapponese) - a ritrovare entro di sé l'inalterabile essenza di tutte le cose, che è Coscienza Assoluta essenziata di Vuoto. Dice a tale pro­ posito il Mahii-vairocana-sutra, già citato nel precedente capitolo : « Intendi la verità del tuo stesso cuore . . . "Cuore" (hrdaya) è il Bodhicitta ( pensiero di illuminazione) re­ stituito alla sua purità ( visuddha): esso è coscienza pura, inalterata per sua stessa natura (prakrti-visuddha-citta), è la luce celata nel fondo della nostra stessa anima. Cono­ scere la Bodhi è conoscere il proprio cuore, come esso è . . . ( eccetera) » . Il simbolo sussidiario a i Tantra, l a cui contemplazio­ ne serve di appoggio alla meditaizone dell'asceta ed alla preghiera del devoto, è il cosiddetto ma�J4ala. In parti­ colare, nei Tantra buddhistici, il ma�Jçlala ha un'articola­ zione più vasta che in quelli indù. Esso, in generale, è la rappresentazione, proiettata sul piano pittorico, del pro­ cesso di emanazione o di riassorbimento degli enti e delle forme da e nella Luce primordiale di Coscienza : quindi non è soltanto una raffigurazione cosmica di un insieme di immobili mondi e piani divini, popolata di figure di dèi, dèmoni e beati, ma l'espressione dinamica di un di­ venire, di un « dramma » che viene « strumentalizzato » dalla meditazione estatica dell'asceta. Questa specie di cosmogramma, il quale esprime pittoricamente il conte­ nuto dottrinario dei Tantra, consta di un insieme di ele­ menti, che si possono sintetizzare come segue. Un qua­ drato, o un cerchio, dipinto su di un panno oppure di­ segnato con terre colorate sul pavimento, nel centro del quale è raffigurata una divinità, generalmente accoppiata alla sua §akti : questa è la divinità centrale, frequente­ mente Vairocana od Ak�obhya, del ciclo divino al quale si riferisce il Tantra corrispondente. Internamente, ai quattro lati del ma7J.çlala, ed in corrispondenza ai quattro punti cardinali, sono raffigurate altre quattro divinità, ge­ neralmente gli altri quattro Tathiigata (Ak$obhya all'est, Ratnasarrzbhava a sud, Amitabha ad ovest, Amoghavajra a nord), emanati dalla divinità centrale : le quattro divinità,

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o multiple di quattro, guardano verso il centro, se il mar:z­ çlala esprime il processo di conversione del creato verso lo stadio anteriore all 'emanazione delle forme e delle cose ; nel caso, invece, che il ma1J.çlala rappresenti il movimento di estroversione creativa, le divinità guardano verso fuo­ ri . Questa è la sfera archetipale che occupa la parte più interna del ma1J.çlala; di là da questa, andando verso le quattro porte, simbolicamente rappresentate ai quattro la­ ti del ma1J.rJala, possono esservi altre figure ed immagini , simboleggianti le forze cosmiche operanti nel mondo, de­ rivate per emanazione dai cinque archetipi fondamentali . A d ogni porta è rappresentata l a figura terrifica d i un guardiano ( Lokapllla ), che interdice l 'entrata nel recinto sacro a quanto non appartiene al puro mondo delle in­ tenzioni cosmiche. I differenti �a�> . Il « suono seminale >> ( bija) che lo simboleggia è la A, inizio di tutti i suoni e, allo stesso tempo, particella negativa o privativa della lingua sanscrita ( come in greco), em­ blematica dell 'inessenzialità di tutte le cose, oppure è Orrz, simbolo del cosmo intero nelle sue tre fasi. Il difetto ( kle­ §a) che in lui viene sublimato e capovolto in virtù è la stupidità ( moha). Il suo Bodhisattva è Sami'intabhadra, la 147

sua sakti Vajradhlltu-isvari ( « la Signora del Vajra-dhlltu, o Sfera Adamantina), o Tarli ( « la Salvatrice », trasforma­ zione, probabilmente, di Urna o Gauri indiana). Il Buddha umano che gli corrisponde e che visse tre cicli storici fa è Krakucchanda. 2) Ak�obhya ( « l'Imperturbabile » ) è rappresentato ad est del ma1].çlala ( talvolta al centro ), come una deità di colore azzurro; la sua mudra è la bhumi-sparsa-mudrll ( « il sigillo del toccare la terra », per chiamarla a testimone della raggiunta illuminazione - momento della vita del Buddha che egli simboleggia ): il suo veicolo è l'elefante ed il suo simbolo il vajra. Come tale è concepito divinità centrale nelle sètte del Vajrayllna « della mano sinistra », in quanto pura folgore, autocoscienza del vuoto essenzia­ le, che trascende l'esistenza contingente. Il suo elemento è l'aria, il senso da lui dominato il tatto ( sparsa), il suo bfja è Ya, oppure Hurrz. In lui viene sublimato l'odio ( dve�a ), che diventa moto iniziale verso la conoscenza discrimina­ trice, nascente dalla separazione di soggetto ed oggetto. Il suo Bodhisattva è Vajra-plltzi ( « tenente la Folgore in Mano » ), trasfigurazione del dio vedico Indra. La sua sakti è Locana ( la Dea della Visione ); il Buddha umano che gli corrisponde è Kanakamuni, vissuto due cicli storici fa. Il paradiso ove risiede, forse in antitesi alle sue caratte­ ristiche spesso ira te, è detto Abhirati ( « Diletto » ). 3) Ratnasarrzbhava ( « il Buddha dalla Gemmea Nasci­ ta ») è rappresentato a sud del- ma1J.ç/.ala, come una divi­ nità di colore giallo, nell'atto di compiere il gesto che con­ cede doni ( varada-mudra): mano destra in grembo con la palma rivolta in su e, frequentemente, col pollice che attraversa le altre dita, il che simboleggia la decisione del Buddha di concedere all'umanità il messaggio della Buona Legge. Suo veicolo è il cavallo o il leone (nel secondo caso Vairocana assume come veicolo il serpente ). L'elemento sul quale domina è il fuoco, il senso corrispondente è la vista. Il suo bija è - TraiJ., o Ra o Svii. È simboleggiato dal talismano per cui si invera ogni pensiero (cin tllmar.zi). In lui avviene la conversione dell'elemento « vanità » (mana) . Il suo bodhisattva è Ratnapli1J.i (Avente la Gemma in Ma­ no) . La sua sakti è Miimakr ed il Buddha umano che, da lui .

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ispirato, scese sulla terra nel ciclo cosmico precedente, è Kllsyapa. 4) Amitabha ( il [ Buddha ] dalla Luce Infinita) è un'im­ portantissima divinità, oltre che uno dei cinque Tathllgata. Viene raffigurato come · un dio di colore rosso, col gesto di meditazione ( dhyana-mudrll.), due palme volte in su sovrapposte in grembo, talora coi pollici uniti in cerchio agli indici. Questo Tathiigata, essendo il patrono del Bud­ dha del presente ciclo, Gautama S llkyamun i, è il simbolo dell'illuminazione che, mediante lui, si produce subliman­ do e capovolgendo l'elemento di « attaccamento » ( rllga). Il suo veicolo è il pavone e l'elemento su cui domina è l'acqua : quindi il senso da lui protetto è il sapore ( rasa) secondo altre scuole, invece, Amitabha presiede all'ele­ mento fuoco ed alla funzione visiva, che qui sono attri­ buiti a Ratnasarrzbhava. La sua sakti è PiirJ.çlara ( la Rosa­ pallido ) ed il suo Bodhisa ttva è la divinità Avalokitesvara (Signore dallo Sguardo Misericordioso) , rappresentato come una deità femminile in Cina ed in Giappone. Amitlibha, assieme alla sua divinità gemelli Amitiiyus ( « il Buddha dalla Vita Infinita), risiede, come si è detto, nel Paradiso di Occidente, la cosiddetta Terra Beata ( Sùkhiivati), che ricorda straordinariamente la Terra Beata et Lucida dei Manichei, ove i Bodhisattva che vi accedono, se furono donne sulla terra, si trasformano in uomini. L'importanza di questa deità, ali� quale molti attribuiscono origini ira­ niche, si fonda, in primo luogo, sul fatto che è il Tathli­ gata patrono del Buddha terrestre attuale e, in secondo luogo, su un insieme di leggende raccolte nei sacri testi, già menzionati, del Sukhllvati-vyuha, Saddharma-purJ.{lart­ ka ec;l Apar i-mitayu/:1.-siltra : secondo le loro leggende Ami­ tlibha era, in un ciclo cosmico trascorso, il monaco-bodhi­ sattva Dharmllkara, il quale pronunciò il voto di aiutare tu t ti . gli esseri che avessero chiesto il suo aiuto, allorché fosse giunto alla piena Buddheità. Su questa tradizione si fondano numerose sètte fiorenti in Cina e più ancora in Giappone (come il Ch 'ing T'u, giapponese Jijd(J, « Terra Pura » ), di carattere ardentemente devozionale. Maggiore importanza ha, forse, come si dirà in seguito, il suo bo­ dhisattva Avalokitesvara. Il suo bija è Hril;t, Ba oppurt> 149

AJ,z; simbolo ne è la patera per le elemosine (pattra), mentre quello di Amitllyus è iJ vaso (kalasa), supposto contenere l'ambrosia ( amrta) ed un ramo di salice che, uscendo dal vaso suddetto, gli tocca la spalla destra. Amitllyus, inoltre, è rappresentato riccamente vestito da principe indiano, con i tredici ornamenti caratteristici per le raffigurazioni dei Bodhisattva. Amitlibha, talvolta, è rappresentato in unione carnale ( maithunll', tibetano yab­ yum ) con la sua sakti Pllr).(iara, nel quale caso tiene, nelle mani incrociate dietro · la schiena della sua mitica sposa, il vajra e la gha1J.{ll. 5 ) Amoghasiddhi ( « il [ Buddha ] dall'Infallibile Realiz­ zazione » ). Questo Tatha-gata è raffigurato nel settore set­ tentrionale del ma1J.çlala come un dio di colore verde, se­ duto su un loto blu o sull'uccello Garut}.a. Il suo gesto è quello dell'impavidità (a-bhaya-mudrll, consistente nel te­ nere la mano levata lateralmente all'altezza della testa, di fronte allo spettatore, col pollice attravei_""s o la palma, simboleggiante la vittoria del Buddha sulle apparizioni terrifiche di Mara). Domina l'elemento terra e quindi il senso dell'olfatto. Attraverso lui avviene la conversione dell'elemento « invidia >> ( frsya). Il suo simbolo è la doppia folgore ( due folgori a forma di « 8 » incrociate : visva­ vajra), la sua sakti Tiirii (v. supra) verde. Il suo Bodhi­ sattva è Visvapi'i.J:Zi ed il Buddha umanò da lui patrocinato è il venturo (fra circa 2500 anni) Maitreya. Ognuna di queste figure divine rappresenta, nei Tantra, una particolare esperienza illuminativa alla quale possono accedere gli adepti che appartengono alla loro stessa fa­ miglia mistica ( kula), come già spiegammo, non sradican­ do, bensì sublimando, il difetto innato ( klesa) in loro pre­ dominante. Come nello Yoga praticato dalle sètte siikta e sivaite, uno dei metodi principalmente usati per rag­ giungere l'estasi, alla quale si riferisce ogni figura di Ta­ thagata, è quello della meditazione sui loro bija o la ri­ petizione (japa) dei mantra che li simboleggiano sul piano fonetico. I mantra, in questo caso, sono l'estrema riduzio­ ne delle cosiddette dhlira1J.i, o formulae; privi di significa­ to discorsivo, la loro pronuncia, rettamente articolata con segreti ritmi respiratori e fondata su appropriate medita·

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zioni, risveglia arcani poteri (le siddhi o rddhi), conducen­ do all'acquisto del mistico sapere da loro alluso . Per il lettore curioso ne diamo a segui t o un breve estratto. Vairocana - Orrz Vairocana Hurrz ! Ak�obhya - Orrz Vajra-ak�obhya Hilrrz ! Ratnasambhava - Orrz Ratnasambhava Tra rrz ! Amitabha - Om Am itlibha Hrf! Amoghasiddhi ....:_ Orrz Amoghasiddhi A� Hurrz! Poiché il corpo umano è considerato un ma1J.t}ala, i cinque Tathilgata trovano anche in esso le loro proiezion i, venendo localizzati e visualizzati nella meditazione, rispet­ tivamente, nel capo, nel cuore, nell 'ombelico , nella bocca e nelle gambe. Più ancora dei Tathli.gata, i Bodhisattva rap­ presentano l'elemento fondamentale, nella teologia maha­ yana e tantrica, perché è proprio in loro che si fonda la concezione dinamica dell 'Illuminazione che è propria al Buddhismo settentrionale. Essi sono il tramite vivente e presente fra l'umanità immersa nel sarpsara e la bodhi. Non sono, però, da paragonarsi ai santi o semidèi di altre religioni, perché, in effetti, essi posseggono già l 'esperienza dell'Illuminazione, che però non hanno voluto condurre all'estrema conseguenza - al nirvliiJ.a - allo scopo di re­ stare fra gli uomini ( tale è il senso della karw:za). La loro funzione cosmica è, quindi, una ripetizione del gesto com­ piuto da S akyamuni, allorché preferì restare sulla terra a predicare la Buona Legge, anziché trapassare subito nel nirvi113-a. Il compito attuale di ogni Bodhisattva è quello di fare evolvere il mondo, ' in attesa che si compia il mo­ mento nel quale comparirà il particolare Mlinu�i-Buddha. Quando questi ha compiuto la missione terrena, il Bo­ dhisattva ne continua « etericamente » l'opera, mantenen­ do l'atmosfera propizia all'esperienza di quella particolare forma del Dharma che dal Buddha è stata annunciata agli uomini. I gradi attraverso i quali passa l'essere umano per giungere alla condizione di Bodhisattva sono i se­ guenti sei stadi : consegue le sei perfezioni ; diventa co­ sciente del suo destino (e questo è il rivelarglisi del bo­ dhicitta, v. supra ); formJ,lla il voto (samaya ); incontra il futuro Buddha del proprio tempo e stringe con lui un 151

accordo spirituale ; consegue lo stato di an-agllmin ( « co­ lui che non ritornerà più » sulla terra, perché ha consu­ mato tutto il karman che può provocarne una rinascita mondana. I gradi precedenti sono : srota-lipanna, « entrata nella corrente [ del Dharma ] » sakrd�iigamin, « che ritòrne­ rà ancora una volta [ sulla terra ] » . Allo stadio di an-aga­ min, secondo lo Hfnayana, segue la condizione di arhant. L'ultimo grado consiste nel fatto che il Bodhisattva ascen­ de al cielo Tu�ita, ovè decide se procedere per i tredici stadi successivi fino alle soglie della Buddheità, oppure scendere sulla terra come futuro MlinU$i-Buddha ( l'unico esempio previsto in questo senso è quello di Maitreya, il Buddha futuro, attualmente Bodhisattva di Amoghasiddh i, assieme a Visvapavi (che poi è un suo sdoppiamento ). L'adorazione ed il culto dei Bodhisattva vengono rivolti alle singole figure, oppure a trinità nelle quali, secondo particolari occulte affinità, sono associati Buddha e Bo­ dhisattva, oppure a gruppi, come sono meditati nei di­ versi ma1'].çlala, spesso in associazione ai relativi Tath�gata. Nei gruppi venerati e meditati nei ma1'].çiala, che sono effettivamente i più interessanti, i Bodhisattva appaiono come la proiezione, l'ipostasi dei cinque Tathagata nel mondo delle forme pure ( rupa-dhatu), ove essi esprimono una particolare energia conoscitiva promanante dal mondo assoluto (dharma-dhiitu). La condizione di interiore rap­ porto con i Tathagata, da una parte, e con l'umanità, dal­ l'altra, è data dal « corpo di comunione » (sarrzbhoga-kaya ), di cui si è già parlato. I Bodhisattva, come si è accen­ nato a proposito di Amitli.yus, l'unico Tathagata raffigu­ rato come un Bodhisattva, sono facilmente riconoscibili anche per il profano, perché sono rivestiti dei 1 3 attri­ buti principeschi, e cioè : corona a cinque punte, su ognuna delle quali è raffigurato un Tathligata, un orecchino, una collana stretta al collo, un'armilla al braccio ed un brac­ ciale al polso ; uno scialle coprente le membra inferiori ed uno la parte superiore del corpo ; una cintura con ghir­ landa pendente sull 'ombelico ed una fascia di seta. Sulla foglia, o arista centrale della corona, è raffigurato il pro­ prio Tathagata, i capelli sono raccolti a mitria come quelli di S iva asceta ( kapardin ), e possono essere ornati di gioiel1 52

li. Il Terzo Occhio ( flr�li, « ricciolo » ), allusivo alla VISIO­ ne trascendente la tritemporalità in mezzo alla fronte, o nell'intercilio, è abbastanza comune, come pure il « lofo » (§ikhara) sulla testa. I Bodhisattva sono rappresentati in piedi accanto al loro Tathligata, oppure seduti, in uno dei numerosi asana. se sono raffigurati soli . I primi Bodhisattva rammentati nelle sacre ·scritture mah�y�niche sono Maftjusrf, simbolo della sapienza del Buddha, Avalokitesvara, simbolo della sua compassione, e Vajrapar.zi, simbolo dei suoi poteri sovrannaturali (siddh i). Questa triade è molto popolare nel Nepal e nel Tibet . I mar.zçlala principali . li rappresentano secondo pentadi parallele alle pentadi dei Tathligata - o secondo ogdoadi . Il primo caso è il più comune e, quindi, passiamo a de­ scriverlo rapidamente. l ) Samllnta-bhadra ( « Buono da tutti i lati ,, ), proie­ zione di Vairocana, al centro del mar.zçl.ala, di colore verde, con l'elefante come vlihana, con le mani atteggiate o nelle varada-mudrli (v. supra ) o nella vitarka-mudrll ( « sigillo dogmatico » , braccio piegato, mano con tutte le dita volte in alto eccetto l'indice e l'anulare, congiunto al pollice co­ me per formare un triangolo ). Suoi simboli sono o il loto blu ( nilotpala) o la pietra-talismano ( cin tama11i). Samlln­ tabhadra, che, in origine, era la rappresentazione dell'Adi­ Buddha o del Vajra-dhara (v� supra ), cioè della sfera ada­ mantina dell'assoluta realizzazione, è, per eccellenza, il protettore e l'ispiratore delle sètte più estreme « della mano sinistra » , specialmente i Siddha del Nepal e del Beng�la, nonché gli rN in-ma pa tibetani , iniziati col già citato Padmasambhava, per i quali « tutto è buono » ( que­ sti è il senso etimologico del nome stesso di Bodhisattva ), allorché se ne individua l'elemento illuminativo . � spesso venerato in triade con Am itabha ( al centro ) e Maftjusrì (a sinistra di Amitabha). 2) Vajrapar.zi ( che Tiene la Folgore in Mano ), proie­ zione di Ak�obhya, ad est del maQçlala, di colore azzurro, è rappresentato in sei o sette modi diversi, con una, tre quattro teste e, rispettivamente, con quattro, sei otto braccia, nelle quali regge il vajra ( la solita folgore a forma di 8, derivata probabilmente dal tipo della folgore di 1 53

Zeus), la spada (khaçlga), il laccio (pasa) e la campanella ( gha�J!li.). Suo veicolo è il serpe e un piccolo Garuçla. In lui si assommano i caratteri degli dèi vedici Parjanya ( per la pioggia che produce evocando i Nllga delle nubi), Indra ( per il vajra), Varu�Ja ( per il laccio), Sjva ( per il colore azzurro, dovuto al fatto che come Siva fu costretto a bere l'ambrosia - di cui è custode. - mista al veleno halllhala che vi aveva versato il rapitore Rahu). Oltre ad essere il bodhisattva di Ak�obhya, questa divinità è con­ cepita come un'emanazione feroce ( krodha) del Vajradhara (cioè il Sostegno Adamantino dell'esp.e rienza della Bodhi) proiettata nel Sarrzbhoga-kli.ya. A tutti questi complessi ca­ ratteri, nei quali sono confluite le esperienze simboleg­ giate dalle divinità vediche ed indù su citate, si aggiunge quello singolarissimo di essere il protettore dei Naga ( Ge­ ni-serpenti) contro i Garuçla ( Geni-aquila), che abitualmen­ te se ne cibano. Ciò probabilmente adombra il fatto che i Niiga, come le J)aki�Jt ( temibili sakti volanti, general­ mente dall'aspetto furioso), sono considerati ( al pari dei Gandharva indù) esseri pericolosi per i comuni mortali, ma anche per gli eroi ( vira), depositari occulti della co­ noscenza liberatrice, cioè dei Tantra, che di ciclo in ciclo essi rivelano in luoghi misteriosi, fisicamente irraggiungi­ pili (Agarttha), come Sa mbh ala il Monte Meru (1'-Axis Mun­ di indiano) ecc. Da Vajrapilr).i vengono emanati vari krodha - o dèi irati -, custodi dell'intimo significato della Legge ( Dharma-pli.la). Nel Tibet e nel Nepal Vajrapli.r).i è venerato come custode dell'elisir della vita, in triade con MafzjusrT, che regge il vaso in cui questa è raccolta, e Padmapilni, emanazione di Avalokitesvara, che regge la brocca ( kalasa) dell'amrta. 3) Ratnaplir).i ( che Tiene il Gioiello in Mano ) è la pro­ iezione del Tathagata Ratnasarrzbhava nel Sarrzbhoga-kiiya, ove simboleggia la Saggezza del Buddha. Il suo colore è il giallo ed il suo simbolo è, come per il suo Tathli.gata, la cintl!mar).i, che nel caso suo è raffigurata come una per­ la dalla quale si diparte una fiamma triforcuta, rammen­ tante il tridente ( trisilla) di S iva. La sua mudra è quella del dono ( varada-mudra). 1 54

4) Avalokitesvara (il Dio dello Sguardo Misericordioso ). Simbolo della compassione del Buddha, è la deità più po­ polare del Mahayana, nota nel Tibet come Spyan-ras-gzigs ( pronuncia Cenrezig) ed ivi ritenuta protettrice del Paese . Una sua emanazione, Padmapllr;i è considerata incarnarsi nel sovrano religioso e politico, il Dalai bLa-ma di Lha-sa; in Cina e Giappone è venerata più delle altre manifesta­ zioni eccetto forse Amiti!bha, suo Tathllgata. In quei paesi Avolokitesvara ( Kuan-yin, Kwannon ) è considerato di ses­ so femminile e, sotto la forma di Sung-tzu ( « che porta con sé i bimbi » ), continua la tradizione delle indiane S itèilti e Maryammei, con funzioni rovesciate, cioè come protettrice degli infanti e non più come causa della loro morte. Le forme con cui è rappresentato sono numerosis­ sime, circa trentasei principali ed una cinquantina deri­ vate, e non è qui il caso di darne conto dettagliatamente. Nel Nepal è rappresentato di color rosso, bianco altrove, portando, come simbolo, il rosario di cristallo di 1 08 grani ( ak$a-mllll!) ed il loto. Poiché è raffigurato generalmente con varie� braccia ( da due a quattro, a diciotto, a « 22 mila » ( ! ) ), nel caso che queste siano quattro, il più fre­ quente, due mani compiono il gesto del saluto (anjali o namasklira; palme unite (come nella preghiera cristiana ), all'altezza del petto o dell'intercilio, un'altra la varada­ mudrll e un'altra ancora la vitarka-mudra ( v . supra). La sua sakti è una delle tante forme di Tarli, la salvatrice ( ritenuta essersi incarnata nella principessa nepalese B hr­ ku[i, sposa del re tibetano SroiJ. bTsan sGam po, che ella indusse ad introdurre il Buddhismo nel Tibet ; quest'ulti­ mo, a sua volta, è ritenuto avere accolto in sé il princi­ pio spirituale del Buddha venturo Maitreya). Avalokitesva­ ra, il cui culto fu molto vivo nell'India settentrionale fra il I I I ed il VII secolo, è ritenuto essere nato da un rag­ gio di luce partito dall'« occhio centrale » del Buddha ; egli è il guardiano della Buona Legge fino all'arrivo sulla terra di Maitreya. Abitatore delle cime _( Hstiang-tsang af­ ferma che era venerato sul monte Potala, nell'India me­ ridionale, come lo era fino alla recente invasi Òne cinese sull'omonimo monte che sovrasta Lhasa), Avalokitesvara continua, sotto questa forma, una delle funzioni di S iva,

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al quale lo apparentano alcune sue rappresentazioni, spe­ cialmente quando raffigurato in maithuna con la sua sakti Tlira. Vicario del Buddha presente nell'atmosfera terrestre, Avalokitesvara è ritenuto essersi manifestato su questa almeno 333 volte, per salvare l'umanità. In questa veste egli assume l'aspetto di if.rya-plila-Avalokitesvara (Avalo­ kite5vara, « il Nobile Protettore ») , raffigurato in namas­ klira-mudrll, di colore bianco o giallo e con 1 1 teste (con­ tinuazione degli 1 1 Rudra, o Marut vedici) e delle 1 1 for­ me di § iva indù, che guardano in tutte le direzioni ( sa­ manta-mukha), ed un numero variabile di braccia, che reggono diversi attributi . La leggenda che giustifica que­ sta rappresentazione narra che Avalokitesvara, nella sua universale compassione, decise di scendere agli Inferi per liberare i penitenti e condurli nel paradiso di Amitlibha, la Sukhavatì; si accorse ben presto, però, che per ogni dannato che saliva un altro scendeva a prendere il posto . Dal dolore gli ·si spaccò il capo in dieci spicchi ( le quat­ tro direzioni principali, le quattro intermedie, lo zenith ed il nadir, verso i quali egli vigila costantemente). Amitltbha fece, di tali spicchi, dieci teste ( tre corrispondenti ad Ava­ lokitesvara stesso, Mafiju§rf e Padmap'à�J.i, tre corrispon­ denti ai tre mondi : kama-loka ( mondo della brama arden­ te, in cui psichicamente siamo più o meno immersi), satya­ loka (mondo della realtà) ed arupa-loka ( mondo informa­ le), sormontate dalla testa propria di Amitabha. Le undici teste simboleggiano anche i cinque sensi, i cinque ele­ menti più il manas, cioè gli undici prliJJ.a. In tali forme Avalokitesvara ha come simboli il libro ( simbolo di Mafi­ jusrT) ed il vajra ( simbolo di Vajrap'li.JJ.i). Tra le altre innumerevoli forme di Avalokite§vara vale menzionare quelle, create in terra indiana, di Sirrzha-nada­ Avalokitesvara (Avalokite§vara « dalla voce di leone » ), sim­ boleggiante l'annuncio della Legge, rappresentata con Ava­ lokitesvara in raja-tfla-asana ( « posizione di regale como­ do » : seduto, con un piede posato a terra e l'altro ripie­ gato sulla coscia, pianta in alto) e simboleggiato col loto dal quale sorge una fiamma a forma di gladio, e la forma di Nilaka71-tha ( « dalla gola azzurra » , che ricorda il noto mito di Siva), in atteggiamento meditativo ( dhyana-mu1 56

drll), rivestito del cordone brahmanico (yajfzopavrta) e del­ la pelle di una antilope, secondo l'uso degli asceti ( vedasi la tipologia degli S iva kapardin ). lpostasi generalmente non-tantrica di Avalo kitesvara è Padmap71ij.i ( « il Tenente il Loto in Mano » ) , il quale è rap­ presentato mentre regge il loto ( simbolo del principio attivo creatore conferito dallo Adi-Buddha ad Am itabha ) ed il kalasa ( la già citata brocca per l'Acqua della Vita ). Padmapli:IJi è considerato come il creatore materiale del mondo in cui viviamo nel presente ciclo cosmico: È rap­ presentato come un giovane principe indiano incoronato (nello spicchio frontale della corona abitualmente è rap­ presentato il Tathagata di cui egli è l'emanazione ; nel pre­ sente caso Amitabha). Sul capo, come del resto in molte immagini di Avalokitesvara, figura il « lofo », o rigonfia­ mento, detto U$ni'$a, che è il ricettacolo del divino manas del Buddha, o il mezzo di comunicazione coi mondi tra­ scendenti la manifestazione formale ( v . sahlisrara-cakra e brahmarandhra). Quando è rappresentato in piedi le sue mani sono atteggiate nella vitarka-mudrli. e nella varada­ mudra, quando è in r'llja-lila-asana la sua mano sinistra reca un loto rosa sbocciato. È talvolta raffigurato accom­ pagnato dalle sak ti Tara ( verde ) e Prajfza-pli.ramitli ( « Per­ fezione della Gnosi », testo fondamentale del Mahliy'l!na). Il mantra fondamentale di Avalokitesvara, come di Pad­ maplir,zi, è il famoso « Orrz matJi padme Hurrz » ( Orrz, gioiel­ lo nel fiore di loto, Hurrz ), che, specialmente nel buddhi­ smo tibetano e nepalese è ritenuto simboleggiare la quin­ tessenza del Dharma predicato dal Buddha del presente ciclo, oltre a contenere magicamente, « ex opere operato » , l a virtù d i conferire la Bodhi a chi si immerge totalmente nella meditazione su di lui ( non si tratta, certamente, di uno sceveramento razionale, ma di un'immersione estatica nel simbolo espresso da tali suoni). Vediamo ora l'ultimo Bodhisattva, della serie costituen­ te la pen t ade sacra : 5) VisvapaiJi ( « Avente le Mani rivolte in tutte le dire­ zioni » ) , che è la proiezione di Amoghasiddhi nel S arrzbho ­ ga-kliya. È una deità raramente rappresentata, riconosci­ bile perché nella mano destra regge il visvavajra ed atteg1 57

gia la sinistra nella varada-mudra. La sua funzione è quel­ la di contemplare lo Adi-Buddha in attesa della riyelazione del V ciclo buddhico, quello in cui si manifest�rà Mai­ treya, che esso in certo modo prefigura. Il ciclo dei cinque Tathllgata e dei cinque Bodhisattva, qui riassunti, è il più comune nel Mahayana delle diverse forme. Ne esistono, però, altri, in cui figurano altri Bo­ dhisat tva finora non citati, come ad esempio quello degli otto Bodhisattva, che si esemplifica a seguito. Discenden­ do a destra del ma1J.çlala sono rappresentate, successiva­ niente, le figure di Avalokitesvara, Akasa-garbha, Vajra· pli1J.i, K$iti-garbha, indi, a sinistra, Sarva-nfrvararJ.a-vi�kam­ bhin, Maitreya ( concepito come Bodhisattva e non come futuro Buddha umano), Saman tabhadra e Manju�rf. Ef­ fettivamente questa ogdoade obbedisce ad un fine più teologico e mistico che puramente devozionale, come è dimostrato dalla differente importanza dei vari Bodhi­ sattva, riuniti in tale specie di ma1Jçlala, nei riguardi del culto che a loro viene . realmente rivolto. A p�rte i Bodh i­ sattva sopra descritti nella pentade ( e fra loro già Ratna­ pll1J.i non ha grande rilievo ), fra questi altri Bodhisattva i più importanti sono indubbiamente Maitreya, la cui fi­ gura è conosciuta già nello Hfnaylina, e Manjusrf. Questi due sono vere e proprie divinità, che il Buddhismo può benissimo aver mutuato da qualche religione locale o aver ricevuto, tramite una particolare concezione mistica. U n rapido sguardo, ora, alla tipologia di queste altre figure divine. Akllsa-garbha ( « Germe dello Spazio » ) (likasa significa anche « etere » e « luce » ). È rappresentato col solito aspet­ to di Bodhisattva, avente, però, lo u�nf�a a forma di stilpa; sue mudrli sono quella dogmatica ( vitarka) con la mano destra e la varada-mudra, o abhaya-mudra ( mudra dell'impavidità, v. supra) con la sinistra. Suo simbolo è il dio-Sole, Surya, retto da un loto poggiato sulla spalla si­ nistra del Bodhisattva. K$ifi-garbha (Germe della Terra) . Simboleggia la testi­ monianza data dalla terra alla vittoria del Buddha sulle forze di Mara. Ci- viene rappresentato con la mano destra in vitarka-mudra e la sinistra in varada-mudrlZ. All'altezza ·

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della spalla destra ha un loto che regge una perla circon­ data da fiamme; presso la spalla sinistra, invece, appare frequentemente un libro retto egualmente dal loto. Rara­ mente rappresentato fuori dell'ogdoade suddetta, K$iti-gar­ bha è il Bodhisattva che guida il miste nelle cerimonie di iniziazione ai misteri della Terra. Per questo motivo nel Buddhismo cinese e giapponese è stato identificato a Yama, il Signore dei Trapassati, dio della morte e re delle sei forme di esistenza ( bodhisattva, uomo, animale, dè­ mone, asura e preta, o lemure ). In Giappone ed in Cina è raffigurato come un monaco che tiene nella destra il khakkhara, o bastone col sistro in cima, con cui il mo­ naco - tacendo - può annunziare la sua presenza durante la questua. Sarva-ntvara1J.a-vi$kalflbhin (il « Cancellatore di tutti gli Ostacoli » ). Bodhisattva rappresentato generalmente di co­ lore bianco, con le mani atteggiate nelle vitarka e varada­ mudrll, ha come simbolo la luna, oppure il libro che porta, al solito, retto da un loto sulla spalla destra. Talvolta è raffigurato tenente nelle mani la pietra c i ntllma1J.i ed una coppa di ambrosia. È talvolta concepito come liberatore dai se rpenti . Maitreya ( l'Amichevole, Amorevole ). È l'unico caso di un Bodhisattva che opti per il destino di scendere sulla terra a compiere l'opera di un Manu$Ì-Buddha, avveni­ mento che si verificherà 4.500 o 5 .000 anni dopo il nirvllva di Gautama § akyamuni, secondo le pie tradizioni - che devono essere molto antiche, dato che sono ammesse an­ che dallo Hiniiyana singalese, birmano e siamese, che lo rappresenta iconograficamente ( unico Bodhisattva) accom­ pagnato dal Buddha attuale . È facilmente riconoscibile perché è il solo Bodhisattva raffigurato ·seduto all'europea, quando non ritto in piedi . Come il Buddha attuale, è raf­ figurato coi capelli ricciuti, l 'u$ni$a, l 'urva e le lunghe orecchie lobate ; le sue mani sono atteggiate nella dharma­ cakrll-mudrli ( la mudra « della messa in moto della Ruota [ della Legge ] » : il medio, l'anulare ed il mignolo delle due mani sono distesi, i pollici, invece, toccano i rispettivi indici, la mano sinistra orizzontale sul grembo, la destra verticale, perpendicolarmente sulla sinistra), oppure la 1 59

destra nella varada-mudrli e la sinistra nella vitarka-mu­ drli, oppure ancora ( nelle rappresentazioni del Gandhara ) con un kalasa ovale nella mano sinistra. Il suo simbolo è i l fiore campa o nliga-puspa, bianco col centro giallo. Un altro suo emblema è la sciarpa di cui si cinge, stretta da un nodo a sinistra, con i due lembi cadenti fino a terra. Sono numerose le leggende relative all 'avvento di questo Bodhisat tva, che, sia per la funzione che per il nome, richiama la dottrina iranica di Mithra Saosyan t, il futuro Salvatore dell 'Umanità ( concezione ripresa nel Kalki-avatlira di Visr.zu). Si ritiene, ad esempio, che sia sta­ to incaricato della sua futura missione dallo stesso S akya­ muni, .in una visita· da questi compiuta nel cielo Tusita, ove Maitreya risiede . Da questo cielo egli sarebbe già di­ sceso una volta sotto le sembianze del Maitreya umano - il maestro di Asar'lga e Vasubandhu - per rivelare ai due la dottrina Yogiicara. Esso, inoltre, è talvolta conce­ pito come il fondatore delle scuole tantriche. Si ritiene , ad esempio, che molti Santi (come Maha-Kasyapa in India e Kobo Daishi in Giappone ), non siano realmente mai morti, ma immersi in una sorta di sonno magico dal quale si risveglieranno allorché Maitreya effettuerà la sua disce­ sa sulla Terra ( concezione, questa, molto simile a quella iranica antica di Keresaspa che attende, in istato di ca­ talessi, l 'arrivo di Mithra Sao�yant, o a quella persiana mo­ derna dell Im am « nascosto >> da circa undici sec�li per lo stesso motivo, a tacere di simili leggende, diffuse nel­ l'Europa occidentale, connesse al ciclo del Graal ). Mait re­ ya, come Avalokitesvara e Mafzjusrf, non appare tanto co­ me una figura teologale e mistica, ma come un dio vero e proprio assimilato dal Buddhismo . Di origine meno chiara appare essere il seguente Bodhisattva : Mafzjusrf ( « Felice per Bellezza » ), del quale sono note almeno quindici forme fondamentali, cultuali, mistiche ( tantriche) e teologali . La forma più comune ce lo rap­ presenta di colore zafferano, bianco, rosso o nero, mon­ tato su un leone ( ciò che ricorda il sùrzha-nada-Avaloki­ tesvara ), con le mani atteggiate nella dharma-cakra-mudrii (v. supra). Essendo la personificazione della Sapienza tra­ scendentale del Buddha, i · suoi simboli sono il Libro (pu'

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$taka), e la spada ( khaçlga ) cioè la gnosi (prajiili ) e la sua messa in funzione ( upllya ). La sua sakti è, assai significa­ tivamente, Sarasvati, l'antica dea-Parola sposa di B rahmli nell'Induismo . In MaiijusrT conviene distinguere due a­ spetti : quello storico e quello mistico e teologico. Stori­ camente è ritenuto essere la personificazione, in generale, del missionario buddhista nei Paesi a nord dell'India. Il pellegrino cinese Yi-ching ( 634-7 1 3 ), che visse a lungo nel­ l 'Università di Nalanda, narra nelle sue Memorie che gli Indiani ritenevano che Maiijusri fosse l'apostolo buddhista in Cina ed il civilizzatore del Nepal. Lo Svayan:zbha-pu rlliJ.a (X secolo ) rammenta un mitico Maiijusri, il quale , recatosi nel Nepal quando esso era ancora una contrada selvaggia, per venerare il sacrario del « Nato da Se Stesso » ( Svayalfl­ bhu, altro nome per il Buddha primordiale, come per il Brahman o per Vi!jQ.U ), sito in una montagna, trovò l'adia­ cente lago Kalihrada pieno di mostri acquatici, che rende­ vano il tempio inaccessibile. Perciò, con la sua spada , aprì un canale a sud del lago , che fece fluire a valle le acque : sul fondo così prosciugato fondò la città di Kath­ mandu . Altro elemento storico extra-indiano è dato dal suo stesso nome, la cui prima parte, Maiiju, sembra avere - in tokhario - il significato di « principe ereditario » ( monju ), come il sanscrito kumlira. Mariju§ri è, infatti, raffigurato sempre con l 'abbigliamento convenzionale di un principe, più ancora degli altri Bodhisattva : porta inol­ tre la corona, con l'immagine di Ak$obhya nello spicchio centrale, l'u$ni�a sormontato da una perla fiammeggiante, ed ha la urva dipinta nel centro della fronte, colorato ge­ neralmente in giallo, nero, rosso o bianco. L'aspetto teo­ logale e tantrico ce lo rappresenta con i due attributi di Sapienza e di « Centralità ». Un aureo raggio partito dalla fronte del Buddha colpì un albero jambu ( uno dei tanti alberi che simboleggiano misticamente il « centro del mon­ do » , o « ombelico dell'universo » , cfr, il greco òmphalos ), che cresceva ai piedi del monte Paiica-sìrsa ( « Cinque Ci­ me » - allusive alle cinque potenze universali rappresen­ tate dai cinque Tathagata); dall 'albero sbocciò un loto, nel quale si trovava il principe dei saggi, Arya-Mafijusri; · il suo colore era giallo, nella mano destra brandiva la spada 161

della Sapienza, nella sinistra teneva un libro ( la Prajnli­ pllram i tlt) rettogli da un loto azzurro (nflotpala). Nato senza padre e senza madre egli è l ibero dall'impurità pro­ pria alla generazione . Fra le numerosissime varietà delle quindici forme principali suaccennate ve ne sono molte che ce lo rappresentano seduto in padmasana, con la Ìnano sinistra atteggiata nella vitarka-mudrlf e la destra agitante la campanella, simbolo dell'inessenzialità di tutte le cose; altre ce lo raffigurano con . tre teste, assieme alla sua sak ti Sarasvati, più piccola di lui, seduta sul suo ginoc­ chio 'sinistro, mentre egli, con otto braccia, brandisce di­ versi simboli, oltre alla spada ed al libro, ed è circondato da un alone di fiamme; in altre appare simile ad Avaloki­ te�vara, seduto su un leone ' nella posizione di raja-lfla (v. supra). La località Pafica-sir�a è stata ben presto iden­ tificata dai Cinesi al WuTai Shan (Monte dai Cinque Pic­ chi ), nello Shan-hsi, ove è venerato da Cinesi, Mongoli e Manciù. Particolare abbastanza curioso, pare che s.ia pro­ prio il nome di Manju a dar luogo alla denominazione nazionale dei Manciù, che in qualche epoca ne sono stati ferventi devoti . Con queste figure divine si è rapidamente completata !a serie dei Bodhisattva più generalmente rappresentati. Ve ne sono, però, molti altri che, seppure più rari, com­ paiono in particolari cicli tantrici, come Mahli-sthltna­ prlipta ( « Colui che ha conseguito la Grande Sede, o For­ za » ) e Trailokya-vijaya ( il « Vincitore dei Tre Mondi » ) . Questi ultimi, però, assieme a molti altri Bodhisattva, più che al Buddhismo mahllyllna formatosi in India, appar­ tengono ai suoi sviluppi mistici tibetani. Con ciò si è lungi dall'aver esaurito il Pantheòn ma­ hllyllna, che, nella forma tibetana, nota comunemente co­ me Lamaismo, conta centinaia di figure, ognuna delle quali esprime, con preciso simbolismo, un particolare gra­ do dell 'esperienza conoscitiva dell'adepto ai Tantra. Col progresso del Vajrayana l 'elemento siik ta è andato acquistando crescente importanza, fino a diventare parte fondamentale del Mahliylina. Le concezioni relative alle sakti non si differenziano di molto da quelle contempora­ nee dello S ivaismo. La §akti, o « sposa-potenza » , è l'ener·

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gia femminile per cui la virtualità dei Tathiigata e dei Bodhisat tva diventa atto di creazione o di distruzione. Donde il carattere ambiguo che le sakti, più ancora che le deità maschili, assumono nell'economia tantrica. Possono, quasi tutte, essere terribili o salvatrici, oppure conservare le due forme contemporaneamente. Questo è il caso delle numerose Tara ( « Salvatrici » ), classificate secondo il co­ lore con cui sono rappresentate, allusivo alla famiglia mi­ stica dell'adepto ( kula), che le sceglie per giungere all 'espe­ rienza illuminativa. Fra le principali, verdi, si annoverano Mahat tarf, Khadiravavf, Varadli, Dhanadii, Durgottarivi; fra quelle bianche Mrtyuvafzcanii, languir ( Sabarakumarl); fra le gialle Bhrku{T (v. supra) e Vajratiirl1; fra le rosse Ku­ rukullii, fra le blu Ugrl1 ed Ekaja{ll. Quasi tutte queste, in particolare le terribili Mllricf, Vajravarahf, le cinque Rak$li e Parva-Sabarf, « la Selvaggia coperta di penne » , derivano direttamente da simili deità femminili indù a proposito dei culti sak ta. Queste sakti e, in particolar mo­ do, una classe semidivina di loro, detta delle yoginf, o vajra-yoginf ( le « Praticanti lo Yoga Adamantino » ), rap­ presentano non tanto le energie cosmogoniche promananti dal mondo divino, ·· quanto l'energia insita negli impulsi che conducono l'uomo a compiere le cinque infrazioni ca­ pitali della morale buddhista, e, quindi, alla sua rovina. Sono le forze che, all'uomo comune volto al bene, appa­ iono particolarmente malvage, selvagge, frenetiche, ma che possono venir sublimate dall'adepto ai Tantra sì da raggiungere, tramite loro, le siddhi ( perfezioni, poteri ma­ gici ). Il Vajrayana crea quindi un nuovo ideale, per l'uo­ mo, dopo quello dell'Arhan t o quello del Bodh isattva : l'ideale del Siddha, del « Compiuto » , che ha raggiunto ta­ le stato proprio mercè gli stessi impulsi passionali che condannano l'uomo comune al servaggio della ineludi­ bile catena delle rinascite. La rettificazione, in senso co­ smico, di questi impulsi, avviene allorché l 'uomo si strappa alla loro soggezione, dovuta all'ego transitorio : realizzata l'inessenzialità dell'ego, questi impulsi vengono restituiti alla loro sfera di cosmica energia. Ciò implica, naturalmen­ te, il trapasso, dalla coscienza legata agli impulsi vitali di una transeunte personalità, alla coscienza assoluta, auto1 63

luminosa, essenziata di vacuità, silnyata; solo in questo stato si ha la pura percezione di forze che all 'uomo nor­ male appaiono come passioni , ma che il Siddha speri­ menta immediatamente come energie creatrici . Pertanto i compiti che si propongono i rituali tantrici non sono mol­ to dissimili da quelli che pretendono conseguire le diver­ se forme dei Tantra sivaiti e siik ta. I l corpo umano è con­ cepito come un ma�Jç/.ala, ove lo yogin si identifica suc­ cessivamente alle energie capitali dell 'Universo nascenti dal rapporto attivo fra gli archetipi ( i TathZigata ) e le loro Sakti, fino ad obiettivare il gioco universale della Maya ( lfla-miiyli-sakti) e reintegrarsi nell 'assoluto « vacuum » del­ lo Adi-Buddha o Vajrasattva (v. supra). Un cenno , ora, al culto e, in particolare , alle tecniche tantriche. In uno stato di meditazione corrispondente alla bhlivana, Io yogin sperimenta, proiettati nel proprio cor­ po, anziché i sei cakra del Tantrismo sivaita o sakta, i quattro corpi del Buddha, rispettivamente. il nirmiiiJa­ kaya nella zona ombelicale, il dharma-kliya in quella car­ diaca, il saYJlbhoga-kayii nella zona laringea, il sahaja-kaya, o « corpo innato », trascendente i tre primi ( talvolta detto klima-bhoga-kliya, « corpo del fruimento di amore ») al di sopra della testa, nell 'u�nf�a caratteristico delle figurazio­ ni buddhiche, che corrisponde all 'esperienza del sahasrZira­ cakra dello Yoga ( « cerchio dai mille petali » ), ove si in­ vera la « Grande Felicità » (MahZi-sukha), cioè il brahma­ nico 'Ananda. L'operazione, come il risveglio di kw:zçl.alini dei Tantra slik ta, si effettua attraverso il gioco, attivato, reso cosciente nello yogin, delle tre vene sottili, che i Tantra indù denominano fç/.li, pingala e su�umnll e che quel­ li buddhisti conoscono come lalanll ( « la frivola » ), che par­ te da sinistra ed è il simbolo della Gnosi, rasanlf (« la gu­ stante » ), che parte da destra ed è simbolo del Mezzo, ed infine la vena di mezzo, detta avadhilti' ( « la vibrante >> ) , la quale è il condotto attraverso il quale spira il vento nascente dall 'unione delle prime due, concretamente sim­ boleggiato dal seme virile che, con le pratiche già accen­ nate, non viene fisicamente emesso, ma conservato •nella sua primitiva eterea essenza di vita vibrante e « portato­ su >> ( urdhva-retas ), cioè fatto rifluire verso la sfera in-

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formale, identificata ad uno dei suaccennati centri spiritua­ li del corpo. L'unione ed il reciproco annichilimento di prajfia ed upaya vengono così effettuati , e lo yogin rea­ lizza, fino al livello corporeo, l'esperienza della vacuità ( sanyata). Questa forma estrema di Yoga, implicante il superamento della stessa morale buddhistica, viene talvol­ ta effettuata, come nei rasa-mavçlala sivaiti , con l'ausilio di yogfni, giovani donne in carne ed ossa, che propiziano, con la loro presenza, la « messa in vibrazione » dell 'etere fluente nelle tre vene sottili suaccennate. La meditazione , il controllo del respiro e le altre discipline dello yoga, rendono l'asceta padrone di detti processi che, ad un certo punto, raggiunto l'acme ( che nell 'uomo « normale » cor­ risponde all'orgasmo), vengono bruscamente capovolti ( per l'attuazione della revulsione dell 'appoggio asraya-paravrtti), per cui la quiddità ( tathatli) del seme viene sperimentata come Bodhicit ta ( v . supra), e questo « pensiero dell 'illumi­ nazione » è la suprema realtà in cui si discioglie la per­ sonalità contingente dello yogin . Queste esperienze, che generalmente hanno dato luogo , in India, ad ogni genere di degenerazione e di abuso, ma che si sono conservate relativamente pure, fino a qualche tempo fa, nel Tibet, sono proprie a numerose sotto-sètte del Vajrayana, come il già citato Sahaja-ylina. Nell'iniziazione a quest'ultimo sistema gioca una parte essenziale il cosiddetto krodha-avesa ( « l'entrata in frene­ sia » ), che risveglia la potenzialità violenta dell 'inconscio per risolverla, attraverso la successiva e graduale identi­ ficazione meditativa coi diversi Buddha, meditati secondo l'aspetto krodha , cioè terrifico, nella suprema immota realtà simboleggiata dallo Adi-Buddha, denominato dal Kiilacak ra come il Brahman, cioè Svayambhu, il Nato da Se stesso. Nonostante il loro aspetto apparentemente scandaloso queste pratiche erotizzanti, più o meno segrete, hanno mantenuto nella pura tradizione tantrica un contenuto al­ tamente spirituale. Il principio che le ispira è il seguente : tutti gli elementi negativi dell'esistenza, anziché repressi e, quindi, potenziati dal subconscio, vanno risolti nella Su­ prema Realtà dalla quale traggono il loro essere. Il gradi-

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no iniziale della pratica consiste nel percepirli nella loro quiddità, come pure e semplici forze, sciolte dalla loro relazione passionale con il soggetto che le patisce. Indi vengono meditativamente restituiti alla sfera da cui pro­ cedono, e così si consegue gradualmente la soluzione di tutti gli elementi dell 'esperienza nella sfera dell 'Assoluto. Anche il rituale cultuale e devozionale del Buddhismo, specialmente Mahayana, ha presente lo scopo supremo di tale realizzazione. Data la quasi totale scomparsa del Bud­ dhismo in India, salvo le zone eccentriche del Nepal, Bhutan , Sikkfm e di Ceylon, si fa a seguito un breve cenno del culto quotidiano come è ancora conservato nei monasteri nepalesi. Esso consta di sette momenti prin­ cipali che somigliano parzialmente alla pujli indù : il loro scopo è sempre quello di propiziare la meditazione, l'inte­ riore avvento e l'identificazione con la « divinità prescel­ ta » ( i�!a-devatl[, tibetano yi-dam ), la quale è una delle forme divine elencate che, corrispondendo alla « famiglia mistica » dell 'adoratore, offre una maggiore facilità per aprirgli la via verso l'illuminazione. I momenti fondamen­ tali del culto sono i seguenti : l ) invocazione, mediante le varie dhara1J.i, mantra e bl­ ja, del Buddha, o Bodhisattva, o, comunque sia, l 'I�fade­ vata prescelta; 2) invito alla divinità ad essere presente nel ma1J.pala, ove viene visualizzata e meditata; 3 ) offerta di diverse sostanze simboleggianti i vari componenti della personalità umana : riso, zucchero, in­ censo, acqua, lampade alimentate da burro, che vengono poste nel sacrario, dinanzi al quale l'officiante è seduto . L'atto può essere accompagnato dal suono di tamburelli o trombe che scandiscono la recitazione di particolari inni ( stotra ) o siltra; 4) inni in onore del Buddha e dell'I�tadevata tutelare ; 5 ) recitazione ed interiorizzazione dei man tra relativi alle varie deità; 6 ) propiziazione della deità per il beneficio e benessere di tutti gli esseri viventi ; 7) benedizione finale.

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Ci sono innumerevoli altri riti ed atti di omaggio più semplici di pratica quotidiana oppure occasionale, che non si differenziano grandemente da quelli indù e che il po­ polo rivolge indifferentemente ai Tathagata, ai Bodhisattva o alle deità indù ( ! ) , come l'omaggio ( namas-kllra), l'of­ ferta di riso, fiori e frutta, l'accensione di bacchette di incenso o di lampade di fronte all'immagine, la pronuncia delle dharaiJ.i o dei mantra, soprattutto quello citato già, proprio ad Avalokitesvara ( lo orrz ma1Ji padme hurrz, o mantra dalle sei sillabe , $ad-ak�ara-man tra), ognuna delle quali ritenuta simboleggiare e riassumere una delle sei forme di esistenza ( v. supra), oltre a rivestire altri signi­ ficati esoterici, evidenti per gli iniziati ai Tantra). Nono­ stante l'illusorietà che il Buddhismo dogmaticamente at­ tribuisce ad ognuna delle innumerevoli figure divine, nelle quali si articola il suo pantheòn, il popolo buddhista tri­ buta un culto schiettamente devozionale e personale alle immagini, statue e simboli non solo dei Tathiigata, Bodh i­ sattva e relative Sakti, che sono dèi veri e propri, ancor­ ché trasfigurati nella simbologia tantrica, ma anche a quelle dei vari Buddha umani, specialmente Dipankara, in triad � ' con Mafijusri o Avalokitesvara e Vajrapli1Ji, oppu,re con Sllkyamuni e Mait reya, Klisyapa, oltre all 'ultimo Sà­ kyamuni; vengono anche venerate come concrete divinità le sublimi astrazioni metafisiche dello Adi-Buddha, assimi­ late nel culto ora ad Amitiibha, ora a Vairocana ( special­ mente in Giappone, nella figura di Dai Nichi Nyorai) , ora addirittura a Samlln tabhadra, quindi ad un Bodhisat tva! Le stesse ipostasi dello Adi-Buddha, Vajrasattva e Vaj­ radhara, che ne simboleggiano la virtualità creativa ante­ riore al dispiegamento dei cinque Tathiigata, sono talvol­ ta assimilate, nel culto popolare, ad Ak$obhya, o conside­ rate, in determinati cicli, un sesto Tathiigata, che riassume le esperienze di tutti gli altri cinque, domina sul manas umano ed è, nelle forme ibride di culto indù-buddhista, identificato a B rahmli e raffigurato con quattro teste co­ ronate, col vajra stretto sul petto con la mano destra e la gha1J!ll posata sulla coscia sinistra (gha1J!li e vajra han­ no, nel Buddhismo mahayanico indiano, una grande im­ portanza rituale oltre che simbolica). 1 67

La tolleranza cultuale verso le figure divine di altre religioni, l'identità o similitudine estrema delle esperienze del Vajrayllna con quelle tantriche §aiva e vai�Q.ava, unite alle circostanze storiche e politiche accennate nel prece­ dente capitolo, affrettarono la quasi totale scomparsa del Buddhismo dallo scenario religioso e mistico dell'India continentale. Se si vuole astrarre la sopravvivenza Thera­ vlidin ( Sthavira) in Ceylon, dovuta soprattutto all'isolamen­ to religioso dell'isola, si può affermare che il Buddhismo maha�nico indiano ha con"t inuato ad evolvere e svilup­ parsi, con stretta consequenzialità all'impulso ricevuto dalle università di Nalanda, Odantapura e Vikramasila, nelle varie scuole tibetaiie, cioè in quella particolare specie di Buddhismo che si suole denominare Lamaismo.

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APPENDICI ALLA PARTE SECONDA

l) I l Lamaismo Non è possibile avere un'idea compiuta del Buddhismo indiano, specialmente quello mahayana, se non se ne cono­ sce il suo naturale sviluppo in terra tibetana. La religione che si suole denominare Lamaismo (dal tibetano bLa-ma, « superiore », termine con cui si rivolge la · parola ai reli­ giosi buddhisti) , dominante nel Tibet e nella Mongolia, altro non è che la continuazione del Mahayana, fortemen­ te tantrico, dominante nell'India Settentrionale . durante gli ultimi secoli della sua esistenza. Adattandosi all'am­ biente tibetano, il Buddhismo ha accentuato proprio quei caratteri religiosi e magici insiti nel Tantrismo, subendo contemporaneamente l'influsso della preesistente religione Bon-po, di carattere sciamanico, che ancor oggi sopravvi­ ve qua e là, però fortemente buddhizzata. La penetrazione del Buddhismo nel Tibet è la conse­ guenza di un fatto storico e dell'evoluzione culturale di tale paese : l'unificazione politica del Tibet ed il suo inci­ vilimento. Il merito di questa benefica rivoluzione deve ascriversi ad un principe della stirpe di Yar kluns che, già nel secolo VI , aveva creato un regno abbastanza esteso fra la Cina e l'India. Questi era Sron-brtsan-sgam-po (620649) , per merito del quale il Tibet divenne una grande potenza asiatica. Questo sovrano, oltre ad essere un con­ quistatore, si preoccupò delle sorti future del popolo che, consigliato dal saggio ministro T'an-mi Sambhota, provvide di una legislazione, di una organizzazione statale di tipo feudale riflettente la sua ripartizione in clan ; infine egli impose al paese, fino ad allora analfabeta, un sistema di scrittura inventato dal ministro, sul modello del brahmi indiano. Tale fu la potenza di questo re che, nonostante qualche attrito con la Cina confinante, proprio in quegli

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anni riunificata dal primo imperatore della dinastia T'ang (T'ai-tsung), egli poté pretendere in moglie la figlia dello stesso imperatore, la principessa Wang-cheng (tib . Gyaza) e, contemporaneamente, impalmare Bhrku{f (tib. B ribsun) , che era la figlia del re del Nepal Amsuvarman. Fu grazie a queste due principesse, entrambe buddhiste , che la Buona Legge ebbe accesso al Paese delle Nevi , assieme alla civil­ tà cinese ed indiana, l'influsso delle quali si contenderà la supremazia sul Tibet tutti i secoli a venire . Il re stesso, per convinzione personale o per calcolo politico, o perché realmente convertito dalle sue due mogli (considerate posteriormente due incarnazioni viven­ ti della dea Tiira, la Salvatrice, tib . sGrol-ma) , si fece bud­ dhista ed inviò in India, alle grandi Università, schiere di giovani dell'aristocrazia tibetana, affinché si istruissero nella Legge del Buddha, aprendessero il sanscrito, la lette­ ratura, la filosofia e le scienze dell 'India. I centri di Na­ landa, Odantapura e Vikramasila accolgono questi giovan i barbari (molti dei quali non rivedranno il suolo natio , uccisi dal clima indiano) , ed innestano nelle loro fresche energie il millenario sapere della civiltà indiana, oltre alla conoscenza della Buona Legge. Era uno di quei momenti della civiltà umana in ogni senso gravido di fatali sviluppi . Si pensi che, in quegli anni stessi, tornava in Cina il viaggiatore Hstian-tsang, accolto trionfalmente dalla corte dopo la ventennale per­ manenza in India, portando con sé qualcosa come seicen­ to testi sacri buddhisti, avendo avuto l 'insegnamento vi­ vente della scuola Yogacara; contemporaneamente predi­ cavano in Cina una forma di Vajriiyana « della mano de­ stra ,, Amoghasiddhi, Vaj rabodhi e S ubhakarasimha, i qua­ li ebbero una tale fortuna da giungere ad istituire presso la corte una forma di « messa ,, liturgica. Il grande re tibetano ed il non meno grande imperatore cinese sono contemporanei di Maometto, i cui seguaci, pochi decenni più tardi, imporranno la loro religione nell 'Asia Centrale iranica, in quelle stesse Balkh ( Bactria ) e Bukhara ( dal sanscrito vihara, monastero buddhista), già centri di irra­ diazione buddhisti, non solo, ma che, alla fine del me­ desimo secolo, giungeranno a sottomettere al loro dominio 1 70

ed alla loro religione il Sindh ed una parte del Guj rlH ! Pertanto il Tibet assunse la funzione di salvatore e con­ servatore del Buddhismo mahayana indiano, destinato , di lì a pochi secoli, ad essere sradicato nella sua terra na­ tale dalle pugnaci orde mussulmane. La diffusione del Buddhismo nel Tibet in questo primo periodo ( sna dar) non uscì, probabilmente, dagli ambienti elevati della corte e dell 'aristocrazia, parte del la quale , però ( come ad esempio il clan mC'ibs della stessa madre del re ), gli era fieramente avversa. Ci volle poco più di un secolo perché il Buddhismo si affermasse in modo così totale da divenire religione di stato, ciò che avvenne al tempo del re K'ri-sron-lde-brtsan (755-797 ), che segnò l 'a­ pogeo politico della monarchia tibetana antica. I nfatti, sotto i regni di Man-sron-man-brtsan ( 649-676 ) i Tibetani estesero, in concorrenza con i Cinesi, il loro regno nella regione dell'attuale Koko-nor; subito dopo si impossessa­ rono del bacino del Tarim, immensa via di transito del traffico della seta che conduceva all 'Occidente. Dopo qual­ che rovescio, che fece ritornare i Tibetani nel loro deso­ lato altipiano, sotto i re �Du-srOI} Mal).-pc-rj e ( 676-704 ) e K'ri-lde-gtugs-brtsan (704-755) , i Tibetani, coperti alle spal­ le dagli Arabi loro alleati, che ormai dilagavano nel Tur­ kestan occidentale, ripresero le loro scorrerie contro la Cina, nel Bengala e nel Baltistan. Con K'ri-srOJ).-lde-brtsan le armate tibetane, d'accordo con gli Arabi ed i Turchi Qarluq, infliggevano una rotta definitiva all 'esercito cine­ se presso il Talas (75 1 ) e, fra il 760 ed il 766, quasi tutto il Kan-su e lo Szechwan occidentali cadevano in mani tibetane. In seguito a queste vittorie le guarnigioni cinesi dell'Asia Centrale restavano isolate e tutto il bacino del Tarlm cadeva nuovamente nelle mani dei guerrieri tibe­ tani. Il successo più strepitoso fu l'occupazione della ca­ pitale cinese Ch'ang An da parte di un corpo d'armata tibetano. Dal Gange fino alle sabbie dell'Asia Centrale la potenza tibetana, alleata politicamente del giovane Islam , non conosceva rivali. Durante quest'ultimo periodo si pone la vittoria definitiva, nel Tibet, del Buddhismo di scuola indiana su quello di scuola cinese, in seguito ad un so­ lenne dibattito che durò dal 792 al 794. 171

La diffusione fra il popolo del ,Buddhismo fu dovuta a due famosi santi. Il primo fu Santirak$ita, che portò con sé, dall'università di Nalanda, una turba di discepoli e missionari. La sua predicazione, al principio, non fu però accettata, forse perché troppo elevata ed astratta nelle sue concezioni ( egli era seguace del Vijfiana-vlida) per essere compresa dal popolo, avido di prodigi e di sortilegi come · quelli fatti dai locali maghi bon-po. Anzi, in seguito a pestilenze -ed altre calamità, che furono at­ tribuite al suo cattivo influsso, egli dovette abbandonare temporaneamente il territorio tibetano, esortato a ciò dallo stesso re. A Naland�. però, si incontrò col secondo santo, il già ripetutamente citato monaco Padma-saxpbha­ va ( « il Nato dal Loto », allusione alla sua favoleggiata na­ scita verginale), figlio adottivo di Indrabhiiti, re nel Gan­ dhara, famoso siddha tantrico lui stesso. La biografia di Padmasarpbhava è intessuta di eventi straordinari, come del resto quella di tutti i più famosi maestri del Vajra­ yana della « mano sinistra » . Condannato ad essere im­ palato per una serie di omicidi, compiuti in giovane età, gli fu commutata la pena con la residenza nel cimitero Citavana, dove si diede ad esercizi di meditazione che do­ vevano condurlo alla sua resurrezione spirituale ed al possesso di quei poteri magici che furono la sua principale arma per la vittoria del Buddhismo da lui predicato . La citazione testuale di un Tantra, sia pure in sandhya-bhiifli ( « linguaggio crepuscolare » , cioè linguaggio occulto ), trat­ ta dal « Libro Tibetano della Grande Liberazione » ( Oxford 1 954), può dare un'idea dell'esperienza esoterica di Pad­ masaxpbhava e, quindi, degli adepti al suo insegnamento : « . . . Segregato dal consorzio umano nel cimitero, Pad­ masar:p.bhava, in profonda meditazione, evoca la J)akitzt regnante sugli spaventevoli esseri che infestavano il luo­ go . . . ». « La Signora abitava in un giardino di alberi di sandalo in mezzo all'area in cui si bruciavano i cadaveri, dentro un palazzo fatto di crani umani. Quando Padma­ saxpbhava giunse alla porta, la trovò chiusa . Vide, allora, una fanciulla portatrice di acqua. Immerso in concentra­ zione, rese impossibile, col suo potere magico, alla fan­ ciulla di superarlo, ed essa, quindi, dovette arrestarsi.

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Allora, non potendo più portare l 'acqua, la fanciulla trasse un coltello di vetro, col quale si squarciò il petto. Pad­ masaqil;>hava vide allora, nella parte superiore del petto della fanciulla, le 42 forme benevole e, nella parte infe­ riore, le 58 forme terrifiche dei 5 Buddha Tathagata. Allora la ragazza disse. a Padmasambhava : « Vedo che siete un potente yogin. Guardatemi, avete fiducia in me ? » . Pad­ masarp.bhava si inchinò, le chiese perdono e le domandò istruzioni. Essa rispose : « Sono soltanto una serva della Signora » , ed aprì la porta del palazzo, pregandolo di entrare. Quando Padmasaqibhava fu introdotto al cospet­ to della /)akirJÌ, la vide sedente sul trono solare-lunare , te­ nendo in mano il tamburello ( çlamaru) e nell 'altra una coppa fatta di un cranio umano, circondata da altre 32 da:kiQ.T che la servivano. Queste, offrendole doni, la pre­ garono di rivelare loro le dottrine esoteriche ed exoteri­ che. Allora comparvero nello spazio di sopra alla /)li.kitif le cento ferme benigne e terrifiche dei Tathltgata ( gli stes­ si che Padasaipbhava aveva visto nel petto dell 'ancella). Volgendosi a Padmasaipbhava la l)akinf gli disse : « Guar­ date questi dèi e chiedete loro l'iniziazione » . Padmasaip­ bhava replicò : « Tutti i Buddha, attraverso tutti gli evi cosmici, hanno avuto i loro Guru. Vogliate, pertanto, es­ sere Voi il mio Guru, ed accettarmi come discepolo » . I n quel punto l a J)akint fece entrare nel proprio corpo tutte le forme benigne e ten:'ibili dei Tathltgata, e tra­ sformò Padmasaipbhava · nel mantra HUI\1 (simbolo del­ l'omnipresenza dell'Io-coscienza). Mentre la sillaba Hurp. vibrava ancora sulle sue labbra, gli conferì l'iniziazione (abhi$eka) di Amitabha ( tib . 'Og-dpag-med). Indi inghiottì il mantra Hurrz e nel . suo ventre gli conferì l'iniziazione del corpo-verbo-mente (sku-gsw:z-t 'ugs ) propria ad Avaloki­ tesvara ( ti b. Spyan-ras-gzis ) » . Questa è l a storia dell'iniziazione d i Padmasarp.bhava. Vediamone ora l 'interpretazione yoghica. Il giardino di profumati alberi di sandalo in mezzo al crematorio è il mondo della vita, bello in apparenza, ma circondato da morte e malattia. La /)li.kirJT stessa abita in un palazzo di crani, simbolo del corpo umano, eredità di milioni di pas1 73

sate forme di vita, cristallizzazione del frutto di trascorsi pensieri, parole ed azioni . Padmasarpbhava non trova la chiave del palazzo, cioè non comprende il senso e la funzione della corporeità fisica nell'economia della Libera­ zione. Gli appare l 'ancella che porta acqua. « Acqua » è la forza vitale, è il prli.1J.a, l 'eterea energia che pervade l 'uomo. Egli interrompe il flusso dell'acqua al palazzo, cioè si concentra interrompendo - secondo la tecnica yoghica - il contingente « va-e-vieni » del respiro, media­ tore fra il corpo e la mente. Il coltello di cristallo, cioè l'« introvisione » intuitiva ( v ipasyana), gli palesa le diverse forme dei Buddha riunite ed equilibrate nei vari marz­ rjala, cioè a dire gli dimostra che il corpo, nonostante la sua impermanenza e corruttibilità, è il tempio delle forze supreme e delle più alte realizzazioni spirituali. L'inchino di Padmasambhava di fronte all'ancella è simbolo di u­ miltà e di interiore adeguamento, che propizia la cono­ scenza dei Supremi Veri . Il « Sole ,, e la « Luna ,, sui quali siede la sakti-çlaki1J.l sono le due opposte polarità del prli1')a ( frja e pingalli), che pervadono il corpo eterico del­ l'uomo nelle due omonime correnti intrecciate attorno alla spina dorsale. Il tamburello rituale che essa regge nella mano destra è simbolo del ritmo universale, attra­ verso il quale risuona la suprema realtà del Dharma; la coppa a cranio tenuta nella mano sinistra è simbolo della Conoscenza (prajffli), che si ottiene rinunciando ad aderire all'apparenza della vita. Le 32 ancelle J)akirJT sono gli altrettanti simboli ( lak�arza) della spirituale perfezione che permea il corpo. Quando Padmasar:pbhava chiede alla J)aki1')i' di istruirlo, appaiono nello spazio al di sopra del di lei capo i due marJrJala delle deità irate e benigne, totalmente obiettivate, le quali, però, al momento dell'ini­ ziazione si sciolgono nel corpo della J)aki1')f, che si rivela come l 'incorporamento della Saggezza di tutti i Buddha. La trasformazione di Padmasarpbhava nella sillaba HUM rappresenta l'identificazione del sadhaka allo scopo della sua meditazione, cioè all'oggetto della sua devozione, per cui esso si trasforma o, meglio, rivela sé a se stesso, come la forza ispiratrice dell'Illuminazione di tutti i Buddha, cioè « il pensiero dell'Illuminazione ,, ( il Bodhi-citta), ec1 74

cetera. Si badi bene, però, che le realizzazioni spirituali adombrate in questo ed in altri Tantra non escludono affatto l'esperienza fisica che le simboleggia, la quale espe­ rienza, specialmente nei casi di yoga sessuale ( maithuna, tib. yab-yum ) o « cemeteriale » (gCod, v. infra ), può scen­ dere ad un livello fisico estremamente realistico . Come nelle varie forme di sivaismo e di saktismo, il sadhaka provoca nella sua compagine psichica un trauma, uno scompenso, che induce le forze profonde che reggono il suo essere a rivelarsi secondo le loro modalità cosmiche, promananti da una primordiale coscienza « adamantina » ( vajra-dhara, tib. rdo-rje-flc'an), essenziate di Vacuità ( sil­ nyatii, tib. ston-pa-iiid ). Questo era il tipo di esperienza di cui Padmasarp.bhava era il portatore. S antirak�ita, infatti, comprese che solo un individuo di quel genere avrebbe potuto spezzare il potere dei bon­ po sulle menti rudimentali dei Tibetani , i quali, anche a cagione della vita orrida e squallida che conducevano sui gelidi altipiani, erano ben poco propensi alle rinunce fisiche ed alle finezze psicologiche del Buddhismo, come era praticato in India : la loro esistenza era, come lo è ancora, dominata da concezioni terrifiche della divinità che, ai loro occhi, in quelle speci di « stati frenetici » , fre­ quenti per chi vive nelle grandi altezze ( e del resto af­ fine alla ricorrente « follia artica » degli Esquimesi ), si proiettano in immagini spaventevoli, psichicamente perce­ pibili, che i sacerdoti bon-po, con le loro tecniche estati­ che, ingigantivano visibilmente e rendevano strumento del­ la loro volontà. Santirak�ita ritornò quindi nel Tibet accompagnato da questo potente seguace degli insegnamenti occulti della « mano sinistra » , il quale, in breve, con una serie di pro­ digi terrificanti, ebbe partita vinta sui maghi bon-po ed i loro dèi, dando al Buddhismo un prestigio popolare che prima di allora tale religione non aveva mai conosciuto. Questo, se da un lato fu un bene, dall 'altro condusse il Buddhismo tibetano « di prima maniera » a svilupparsi prevalentemente nel senso tantrico, più lontano, quindi, dal messaggio originale del Buddha, al quale venne attri­ buito un significato totalmente preparatorio e simbolico . 175

Questa contaminazione con lo spirito bon-po caratterizzò per sempre il Buddhismo tibetano : le passioni, esaltate meditativamente, vengono spersonalizzate e vissute come forze cosmiche, potenze ora spaventevoli ed irate ( k'ro-ba), ora placate e benefiche ( si-ba), attraverso le quali l 'Asso­ luto - immota e luminosa consapevolezza di sé - si ma­ nifesta estrovertendosi secondo la nota serie delle cinque famiglie mistiche. Questo retaggio magico di origine indo­ gandharica ( difatti Padmasa�pbhava è detto in tibetano sia Guru Rin- [pc l c'e n, « il Prezioso Maestro », sia U r-gyan­ pa, « quello dell 'Uçlçf.iyana », cioè del Gandhara, ritenuto in quei tempi la patria di tu tti i maghi e di tutti i sortilegi ), fu rapidamente assimilato ed entusiasticamente accettato dai Tibetani. Tale fu il canale attraverso il quale il Bud­ dhismo si aprì la via nelle loro coscienze. Compiuta la sua missione, attraverso pericoli di ogni specie, Padmasa�pbhava scomparve. La tradizione tibetana ritiene che egli continui a vivere, circondato da migliaia di l)aki1Jf. in una specie di paradiso in terra, nell'isola di Lanka ( Ceylon), nella «Nobile Montagna Color di Rame » (zan dog dpal ri), che lo yogin si è conquistato vincendo i Rak�asa ivi abitanti . Mentre egli indulge, nel suo paradi­ so, alle gioie offerte dalle bellissime e sapienti fate, i Rak�asa wbiscono, ai piedi della montagna, un singolare supplizio . Ogni mattina vedono Padmasa�pbhava svegliarsi con l'aspetto di un bimbo, diventare nella giornata uomo maturo ed assumere infine, di sera, il sembiante di un vecchio decrepito : i dèmoni si rallegrano allora della sua prossima morte, per poi restare delusi l'indomani, quando lo rivedono giovane più di prima. Nel 787 fu fondato il monastero di bSam-yas , ove S an­ tiraksita ordinò i primi monaci tibetani. lvi fu pure tenuto il primo concilio (c'os çLk'or), nel 793 , ove si riunirono i rappresentanti di tutte le sètte buddhiste del Tibet, per stabilire il piano di missione nelle nuove terre, dibattere punti di fede e di metodologia apostolica e stabilire una regola per le traduzioni delle opere dogmatiche dal san­ scrito in tibetano. Le correnti buddhiste che si contende­ vano pacificamente la supremazia nel Paese delle Nevi erano praticamente le seguenti : l) il Vajrayana « della ma1 76

no sinistra » (vamliclira, cioè implicante pratiche rituali condannabili per la morale comune, sessuali, inebrianti ecc.) introdotto da Padmasarpbhava; 2) la sintesi pala fra Scuo­ la del Vuoto (silnya-vllda) e Tantra, dominante nelle gran­ di università del Magadha, e queste furono le due corren­ ti prevalenti; 3) dal Sud Ovest giunsero anche missionari hinayana della scuola realista Sarv7isti-vada, che ebbero poca fortuna, nonostante l'appoggio del re, a cagione del loro credo ascetico e delle loro pratiche ortodosse, poco attraenti, per non dire « climaticamente » inadattabili nel Tibet (nutrimento scarso e vegetale, vestiario di cotone, rifiuto di praticare l 'arte medica - chiave di penetrazione in tutte le società primitive da parte di qualunque specie di missionari, siano essi buddhisti, manichei o cristiani) ; 4) si può infine, registrare un tentativo di penetrazione, nel Tibet, della scuola cinese Ch 'an (sanscrito Dhyllna, ossia della meditazione pura, propagandata in Cina dal misterioso Bodhidharma, forse singhalese, forse persiano) , che poi darà luogo , in Giappone, alla scuola Zen. Questa ultima scuola teorica fu totalmente sconfessata, per le sue vedute giudicate estreme persino in un paese come il Tibet. Essa, in sostanza, predicava che, attraverso l'uni­ co strumento della meditazione, pur vivendo sprofondati nel mondo, si giunge « per folgorazione » alla Bodhi; que­ sta I lluminazione, priva metafisicamente di qualunque re­ lazione con le azioni meritorie o peccaminose compiute preventivamente dall'individuo, lo traspone in un piano nel quale si realizza la coincidenza ed assoluta coerenza fra sarrzsara e nirvlirza: « il Buddha », dicono i monaci ch 'an, « è la testa di questo asino ! » , per indicare l'omni­ presenza dell'Illuminazione in ogni elemento dell'esistenza sensibile o puramente psichica. Questa dottrina, che poi ebbe tanta fortuna nell'Estremo Oriente, fu giudicata proprio a causa della sua spregiudicatezza - totalmente condannabile ed inapplicabile in una terra di missione come il Tibet. Dopo questo concilio le opere di missione buddhista e la traduzione di testi sanscriti ripresero con maggior lena. Nell'8 1 5 fu redatta la Maha-vyutpatti, con cui si fissavano defintitivamente le regole di traduzione dei testi da una 1 77

lingua all'altra e la terminologia da usare, con tanta pre­ cisione che, al giorno d'oggi, è possibile ritradurre dal ti­ betano al sanscrito opere perdute nel loro originale, con un margine minimo di errori. Nel frattempo, però, .declinavano le fortune della dina­ stia, e, con loro, quelle del Buddhismo della « prima intro­ duzione » precipitavano. La Cina, questa volta alleata degli Arabi e degli Uiguri, riprende l'iniziativa · ed i Tibetani, sot­ to il re Ral-pa-éan (8 1 5-838) , vengono scacciati dalle provin­ ce conquistate e ridotti al loro altipiano. Intanto il mal­ contento dell 'aristocrazia, restata fedele alla religione bon­ po, cresceva, di fronte all'invasione di monaci e di paYJ.fl.ita (conoscitori del sanscrito dei testi sacri) indiani, finché si giunse alla reazione. Il re fu ucciso e suo fratello gLan-dar­ ma, fervente bon-po, salì al trono; conquistato il potere egli diede il via ad una sanguinosa persecuzione del Bud­ dhismo. I monaci furono cacciati dal paese o caddero uccisi, i monasteri ed i luoghi di preghiera furono distrut­ ti, i libri incendiati. Nemmeno l'uccisione (84 1 ) del re da parte di un monaco tibetano poté ristabilire il Buddhismo alla pristina fortuna. Sembrò, anzi, che scomparisse total­ mente dal Paese delle Nevi. Contemporaneamente, in se­ guito a guerre civili e ad un crescendo di rovesci militari, l 'opera di due secoli di gloriosa espansione andò perduta per sempre. Non solo, ma il Tibet si scompose in numero­ re dinastie locali, nessuna delle quali ebbe più la forza di riunificarlo. Da allora fino ad oggi il Tibet resterà, poli­ ticamente, isolato nelle sue montagne, soggetto, in epoche ricorrenti, alla pressione cinese. I l Buddhismo tibetano, come noi lo conosciamo attual­ mente, è il risultato non della prima predicazione esposta in queste pagine, bensì della seconda (p'yi dar). Questa, che ebbe del miracoloso, fu favorita e promossa, un secolo e mezzo più tardi, dai bisnipoti dello stesso gLai:t-dar-ma, i quali regnavano sui vari stati indipendenti del Tibet cen­ trale ed occidentale, come Mar-yul, Guge e Pu-rai:t, nei pressi del Ladakh attuale e nei distretti finitimi. L'inizia­ tiva di questi re, che chiamarono nel Tibet i più valenti dottori della Legge ed i più abili missionari, salvarono il retaggio del Buddhismo indiano, che già in quegli anni si 178

avviava alla sua definitiva scomparsa, ad opera dei so­ vrani sivaiti dell'India settentrionale e, ancor più, in con­ seguenza delle invasioni musulmane. Fra queste eminenti figure di sovrani, è il caso di ricordare almeno Y e-ses-od di Guge, patrono del lotsliva (traduttore) Rin-c'en bzan-po (9581 055) , che, sequestrato da briganti durante un suo viag­ gio, dissuase il nipote, Byail-c'ub, a pagare il riscatto ri­ chiesto, consigliandolo invece di impiegare la somma per far venire dall'India missionari e testi sacri; i re Od-lDe­ mNa'-ris, patrono del missionario Atisa (957- 1 042) , e Sron­ ne, costruttore del monastero di mTo-li:h, oltre molti altri. I l fervore di propaganda, traduzioni ed insegnamento assunse, in questi anni, proporzioni difficilmente imma­ ginabili. I grandi maestri buddhisti erano perfettamente coscienti, da secoli, della fine che attendeva in India la Buona Legge, non solo, ma percepivano la svolta che avrebbe rappresentato per tutta la civiltà indiana l'inva­ sione mussulmana, da allora già iniziante a divenire siste­ matica. Si studiarono quindi di trasportare al sicuro ed a trasmettere a fidi discepoli tutto il patrimonio filosofico di quindici secoli di Buddhismo e, allo stesso tempo, tutti gli elementi fondamentali della civiltà filosofica, artistica, tecnica e, fino ad un certo punto, letteraria dell'India, co­ me veniva insegnata nelle grandi università del tempo. Il Tibet divenne la succursale prima, l'erede poi , dell 'India buddhista del secolo X I . Alcune note biografiche sui due massimi esponenti d i questa seconda diffusione del Buddhismo. Rin-c'en bzan-po nacque nel Tibet occidentale o nella limitrofa regione in­ diana, come si è detto, nel 958, fu ordinato monaco a 1 3 anni e si istruì nel Kasmir dove, in seguito, compì altri due viaggi per migliorare le sue conoscenze e per ripor­ tare nel Tibet eminenti missionari ed artisti indiani, spe­ cialmente architetti, scultori e pittori, i quali divennero gli iniziatori ed i maestri dell 'arte tibetana. La sua attività di traduttore fu semplicemente prodigiosa : in questa sua opera fu aiutato dai tre famosi commentatori del Vinaya, cioè Sadhupala, Gunapala e Prajfiapala, noti come « i tre Pala » . Egli, però, non si limitò a tradurre, bensì trasmise ai Tibetani la mistica sapienza appresa dai guru indiani , 1 79

introducendo nel Tibet il sistema di interpretazione degli yoga-tantra (rNal (}byur rgyud). Fra i cicli tantrici che trasportò al Tibet con i relativi commenti figurano il Tattvasarrzgraha (De nid bsdus pai rgyud), il Paramaditantra (dPal mc'og mai rgyud), il Vaj­ rodaya-tantra (rDo rje abyun pai rgyud) e molti altri, delle classi krfya (bya), carya (sPyod), yoga (rNal (}byor) ed anuttara (Bla na med); fra questi ultimi il Guhyasamiija, spiegatogli dal maestro Naropa, secondo le due interpre­ tazioni fondamentali di Buddhaj fi.ana e Nagarj una. Per quanto riguarda la sua attività artistica e costruttiva, sono innumerevoli i romitori (dgon pa) , i templi (lha k 'an) ed i sacelli da lui fatti erigere, che ancor oggi costellano le zone scenario della sua predicazione. In questi edifici reli­ giosi è riconoscibile l'influsso artistico kasmTro, diverso da quello bengalico-nepalese che caratterizza le opere più tarde in altre regioni del Tibet. L'altra personalità eminente è Atfsa, celebre maestro dell'università di VikramasTia, dove era stato egli stesso allievo, molti anni prima, del guru Naropa (v. post) . Du­ rante la sua lunghissima vita Atfsa ebbe anche occasione di viaggiare nel Bengala, in Birmania ed in Malesia, allora centri fiorenti di Buddhismo, fino all 'isola di Sumatra . Là, secondo le tradizioni, fu allievo, per dodici anni, del grande maestro Dharmapala. All'età di 44 anni tornò in India, dove insegnò nella medesima università di Vikra­ masTia che l'aveva conosciuto allievo. Aveva, quindi, varca­ to la sessantina quando, invitato nel Tibet dal re di Guge ( 1 026) , introdusse nel Paese delle Nevi la sintesi Pala del Mahayana, come era stata elaborata nelle scuole del Maga­ dha. Diversamente da Rin-c'en bzan-po, con il quale ebbe anche occasione di incontrarsi nel 1 042, Atisa tentò di fondare una scuola vera e propria, basata sulle severe regole del Vinaya, tentativo nel quale non ebbe molto successo, ma che sarà ripreso tre secoli e mezzo più tardi dal celebre bTsoil k'a pa, fondatore della sètta dei « Vir­ tuosi » (dGe lugs pa), detta volgarmente dei « Berretti Gial­ li >> . Atfsa, oltre al lavoro di traduzione, diffuse il sistema del Klilacakra, « Ruota del Tempo » , sintesi di astrologia e tantrismo, ed introdusse un calendario i cui anni rispon-

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dono a nomi di animali e di elementi, oltre a cercare in ogni modo di disciplinare ed organizzare il Buddhismo tibetano, rinascente sotto sì buoni auspici. La sua opera più importante resta la « Lampada rischia­ rante la via dell'Illuminazione » (Bodhimargapradfpaka}, che costituisce una guida all'uso delle diverse tecniche yoga impiegate nella meditazione, divise in tre gradi pro­ gressivi . Anche quest 'opera darà i suoi frutti migliori tre secoli e mezzo dopo, con la riforma di bTso:ri k'a pa. Con queste due grandi figure di traduttori e missiona­ ri; alle quali si aggiungono numerose altre, come Padma dkar-po e �Pags -pa ses-rab, detto il lotsliva di Za:ris dkar, inizia la codificazione del colossale Cànone del Buddhismo settentrionale, nelle sue due parti : bKa' ·çzgyur (sutra, rive­ lazione vera e propria, parole attribuite al Buddha) e bsTan p.gyur (sastra, insegnamento dottrinario) , che ver­ ranno compiute, rispettivamente, nel secolo X I I I e nel se­ colo XIV, e stampate nel periodo che va fra il 1 73 1 ed il 1 742 . Durante il medesimo periodo, la necessità di organizza­ re la chiesa buddhista, la quale ben presto assunse quel tipico aspetto noto come Lamaismo, diede luogo a vari concilii (c'os p.k 'or), fra i quali uno dei più importanti fu quello tenuto nel monastero di mTo li:ri nel 1 076. Durante questi concilii cominciarono a delinearsi i caratteri delle diverse sètte facenti capo a differenti cicli tantrici, a di­ verse esperienze ed a divergenti interpretazioni pratiche dei testi del Grande Veicolo . Si può, però, affermare che esiste un carattere che affratella tutte le scuole tibetane , ed è la tendenza verso l'esperienza magica. Riassumiamo ora brevemente i caratteri delle princi­ pali sètte tibetane, nelle quali si esprime l'originalità del Buddhismo resuscitato nelle gelide contrade del setten­ trione. Abbiamo, in primo luogo, i seguaci del Vajraylina di Pa­ masarpbhava, che apparentemente furono gli unici a non essere spazzati dalla persecuzione di gLa:ri-dar-ma. Proba­ bilmente gli stessi esecutori della volontà del re conside­ rarono sconsigliabile aggredire individui magicamente così pericolosi. Essi sono detti « gli Antichi » (riìlin-ma-pa}, per-

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ché sopravvissuti alla prima predicazione. In loro si è veri­ ficata una notevole simbiosi col bon-po indigeno. Gli adepti di questa sètta, che ha sempre goduto alto prestigio in tutto il Tibet, si considerano totalmente svincolati dai precetti religiosi e morali, compresi quelli di non bere sostanze inebrianti, conservare la castità e non uccidere. Affermano che l'Illuminazione va conquistata attraverso la corporeità, gli psichismi della quale vengono sperimentati come potenza pura, secondo quanto detto precedentemente . Sono proprie agli adepti di questa temibile sètta pratiche particolarmente raccapriccianti, come il gCod, che viene effettuato nei cimiteri (grì-gug), ave, secondo l'uso tibe­ tano, i morti sono esposti agli uccelli di rapina, previo squartamento : allo scopo di sciogliere l'ego da ogni forma di attaccamento all'oggetto, l 'asceta offre se stesso ai dèmoni che popolano il cimitero, opportunamente evocan­ doli e rendendoli percettibili . Il meditante, che va di not­ te nel cimitero, si riveste di una corazza fatta con ossa umane finemente lavorate (rus-pai rgyan) e suona il la­ mentoso richiamo con una tromba (rkan-dun) fatta col femore destro di una vergine di sedici anni, dopo aver delimitato l'area dell'operazione col pugnale magico (pur­ bù). Indi rende visibili, in quel luogo di disfacimento, gli elementi psichici, gli atavici terrori nascenti dalla brama di vita che vuoi sfuggire allo spettacolo della morte, perso­ nificandoli a mezzo dei mantra. Le orribili deità ed i le­ muri che appaiono altro non sono che una proiezione con­ creta di creature nate dalla stessa coscienza dello yogin, le quali possono, così, diventare oggetto di meditazione e di conoscenza. Fin che si vive contessuti nella maglia delle brame e dei terrori, ci si identifica sempre ad un ego basato su una particolare configurazione di tali elemen ti psichici, perciò questo, come altri esrcizi di carattere terri­ ficante, ha il proposito di esteriorizzare e rendere final­ mente cognoscibili i complessi di angoscia e di terrore che giacciono latenti nel subconscio, per poi sublimarli nella meditazione e risolverli, come pure energie, nella Luce Imperturbabile della Coscienza, natura essenziale del­ la mente, simboleggiata dal Bodhisattva Kun-tu bzan-po (Samantabhadra, v. supra) . Questo significa che tutto ciò

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che è esperienza, buona, cattiva, placida, terribile, possiede in sé, in quanto tale, l'essenza cosciente della Luce, altri­ menti non potrebbe diventare pensiero. È, questo, per l'a­ sceta, l'elemento che bisogna realizzare, nella sua purità assoluta, priva di riferimento alla transitoria occasione che lo suscita. Oltre al Cànone comune alle altre sètte, gli rNin-ma-pa posseggono una serie di testi, detti « tesori dissepolti » (gTer-ma), che furono « rivelati >> fra il 1 1 50 ed il 1 550. È facile dire che si tratta di testi apocrifi , inventati da sconosciuti maestri di detta scuola. La verità è che questi testi sono, in pratica, manuali tecnici per esercizi misti­ ci, estatici e magici, risalenti, con ogni probabilità, all'an­ tichità più remota, forse alla preistoria stessa. Uno di que­ sti è il cosiddetto « Libro dei Morti » , il Bar-do t 'os grol (letteralmente : « La salvazione udita per lo .s tadio interme­ dio ») . Il bar-do (letteralmente : « in mezzo a due ») è un insieme di condizioni di coscienza extra-fisiche, alcune del­ le quali esperimentabili in vita, nello stato di medita­ zione profonda (tifz.-fz.e-g.dzin, sanscrito : samlidhi, samli­ patti) . Per antonomasia, però, bar-do significa la condizio­ ne di coscienza nei quarantanove giorni seguenti la morte. Il testo a cui ci si riferisce viene, pertanto, recitato al mo­ rente, disposto in modo particolare, affinché sappia come regolarsi nei primi passi nel mondo dell'al di là, aprendosi la strada attraverso la marea delle allucinazioni sarp.sa­ riche, e riesca possibilmente ad evocare in sé quella Luce capace di sottrarlo alla necessità di reincamarsi in un nuo­ vo corpo, realizzando così una postuma Liberazione. Nel caso che, per l'eccessivo peso del karman accumulato, questo tentativo non riuscisse, il morente sarà capace, però, di dirigere le sue componenti psichiche (p'ufz.-po, sanscrito skandha) verso una forma nuova di aggregazione, nella prossima nascita, più favorevole alla Liberazione finale. Altre discipline connesse al bar-do sono le pratiche del­ l'çp'o-ba e del gron-çjug. Lo çp'o-ba (« trasferimento ») , co­ nosciuto anche in India, consiste nel cadere in uno stato di morte apparente, durante il quale l'asceta può trasferire il proprio principio cosciente, ad esempio, nei mondi sovra­ sensibili, per aiutare lo spirito di una persona morta da

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poco a dirigersi in mezzo alle allucinazioni del bar-do, sì da scegliere una migliore rinascita. Il gron-t:J.jug è, inve­ ce, il trasferimento del principio cosciente di una persona in un'altra, e quindi la capacità di farla resuscitare se è morta. I testi relativi a queste pratiche, trasmesse da Tilo­ pa ai suoi discepoli (comuni, quindi, agli rN in-ma-pa ed ai bKa'-rgyud-pa, v. infra) , sono stati resi noti in Europa dal­ le traduzioni del lama Dawa Kazi Samdup, quindi sono let­ teralmente accessibili . La loro realizzazione , invece, è pro­ pria a coloro che sqno stati iniziati ai più alti gradi dello Yoga come praticato nel Vajrayllna. Pertanto, mancando il maestro, questi insegnamenti sono praticamente « morti » . Totalmente diversa d a questa è l a sètta fondata dal discepolo di Atisa, Broli-ston, denominata bKa'-gdams-pa ( « che segue la parola [ del maestro ] » ). Si tratta di una sètta rituale e tradizionalista, che tende a ristabilire, nel clero mo n astico, le regole severe dell'antica disciplina, alla quale i Tibetani di quei tempi si sentivano poco por­ tati . I risultati dell'opera, non solo gen�ricamente mis­ sionaria e religiosa, ma anche monastica, di Atisa e del suo discepolo tibetano, daranno i loro pieni frutti due secoli più tardi, come si è detto, con la riforma di bTson­ k 'a-pa. Poco portati alla vita collettiva nei grandi monasteri ( dgon-pa), che da allora in poi andranno costellando il panorama tibetano, furono i così detti « Pacificatori » ( si­ byed-pa), una sètta professante la Dottrina del Vuoto ( su­ nya-vada, tib . ston-pa), dal punto di vista dogmatico, e la disciplina dei mantra ( snags ) dal punto di vista pratico . La denominazione di questa scuola, fondata da un Singha­ lese dal nome tibetano di P'a-dam-pa, è dovuta al fatto che essa si propone di conseguire una superiore inalte­ rabile pacificazione dello spirito, disimpegnandolo dall'in­ sieme di complessi psichici innati oppure acquisiti (sa'?'l­ skara, vasana). Questi vengono obiettivati mediante parti­ colari meditazioni e proiettati « visibilmente », di fronte all'asceta, come quell'insieme di entità disincarnate, àsura, gandharva, çlaki-111 ( mK'a "-gro ), eccetera che guidano invi­ sibilmente l 'uomo soggetto alle sollecitazioni della natura. Una volta rese oggettive, queste entità possono venir do1 84

mate e risolte dallo yogin mediante l'uso di particolari mantra loro relativi, sicché l'asceta raggiunge quella se­ renità foriera dell'Illuminazione . Questa sètta quietistica ha caratteri opposti, per quan­ to riguarda la pratica di vita, alle sètte seguenti : i bKa'-rgyud-pa, sètta tantrica del « berretto rosso » , che è la più caratteristica del Tibet. La sua tradizione , prettamente vajray'lina, risale ad una serie di maestri fa­ centi capo, anche loro, a Padmasarpbhava. I più celebri sono Tilopa, maestro di Naropa ( m . 1027 ), a sua volta maestro di Marpa ( 1 0 1 2- 1 097 ), che iniziò il celebre poeta e taumaturgo tibetano Mi-la-ras-pa, autore dei « Centomila Canti » (1J1.Gur-{lbum ). Questi, che sin da ragazzo era stato un individuo poco raccomandabile, violento, dedito ad ogni eccesso ed inoltre anche omicida, si convertì , e giunse alla santità seguendo le più aspre discipline. Le tradizioni ti­ betane lo ricordano come un secondo Padmasambhava e riferiscono infinite leggende su quest'uomo, eh� sembra aver incarnato i vizi e le virtù della sua razza . Senza, però, scomodare le leggende tibetane, bastano la sua vera biografia e la sua opera poetica per caratterizzarne la straordinaria personalità. A questa sètta, dominata da grandi figure di siddha, si deve una estesa letteratura yoga ( rNal-çbyor), data la preferenza da essa data all 'espe­ rienza pratica ( bya ). Seguendo nell'elenco delle sètte abbiamo ora le ultime due, che, fino a poco tempo fa, hanno avuto grandissima importanza politica. La prima è la sètta dei Sa-skya ( dal­ l'omonimo convento fondato nel 1073 ), molto simile a quella dei bKa- rgyud pa, dal punto di vista dottrinale e mistico. Seguaci della « mano sinistra » , i monaci di gra­ do superiore di questa scuola non si fanno scrupolo di prender moglie, per cui si è venuta a creare una vera e propria dinastia abatesca, in cui il potere viene trasmesso di padre in figlio. Allorché si spensero le varie dinastie del Tibet centro-occidentale, gli abati di Sa-skya avevano una tale influenza sulle popolazioni e possedevano una tale organizzazione politico-economica, annessa al loro convento, ( le lamaserie, dgon-pa, funzionano più o meno come le abbazie medioevali ; sono vere città che fungono 1 85

da centri religiosi, culturali, sociali, politici ed economi­ ci), da potersi loro sostituire con le buone o con le cat­ tive (i monaci tibetani, ad onta della loro elevata spiri­ tualità, non hanno esitato ad impugnare le armi in più di una occasione ). La sanzione del loro diritto a regnare sul Tibet venne conferita dal grande sovrano mongolo, imperatore di buona parte della Cina, QubTlay qaan ( il « Gran Can » di Marco Polo ), il quale, in compenso, fu iniziato al ciclo tantrico di H e ruka dall 'abate ç�.P'ags-pa ( 1 235- 1 280). Il loro regno temporale sul Tibet avrebbe con­ tinuato per chissà quanto, se non fosse sorta poco dopo la grande sètta riformatrice dei dGe-lugs-pa, detta anche dGe-ldan-pa ( « i Virtuosi » ), nota in Occidente come la sètta dei « Berretti Gialli », fondata dal grande maestro e riformatore tibetano bTsmi.-k'a-pa ( 1 327- 1 4 1 9). Nato nel Tibet orientale, bTsmi.-k'a-pa compì la sua formazione fi­ losofica e religiosa nei principali monasteri tibetani , ri­ cevendo l'ordinazione a venticinque anni, a Yar lun, nel Tibet meridionale. Dai venticinque ai quaranta anni egli si approfondì, nel corso di lunghi ritiri e profonde me­ ditazioni, nel Cànone buddhista e nei principali cicli tan­ trici, fino a raggiungere una conoscenza completa di quan­ to era stato pensato e sperimentato nel Buddhismo india­ no e tibetano fino ai suoi tempi. Da questa visione nacque in lui il proposito di rinnovare la Buona Legge, e si accinse a questo compito, st àbilendo come punto di par­ tenza teorico la dottrina della insostanzialità, alla quale era stato iniziato dal Lama Uma-pli, e come fondamento conventuale una nuova regola, atta a stabilire una severa disciplina di vita fra i monaci . Fu severamente riaffer­ mato il celibato, dal quale si erano allontanati i Sa-skya, e molte altre sètte, oltre agli altri voti del Buddhismo originario. I monaci furono divisi in diversi gradi, con obblighi crescenti (i dGe-tsul, grado intermedio, sottostan­ no a quaranta astinenze, i dGe-lon a ben 253 ), e sottopo­ sti ad una severa disciplina gerarchica, il segno esteriore della quale divenne la veste gialla o, meglio, color zaf­ ferano, propria ai primi monaci mendicanti. Egli riprese, riaffermandoli sui piani dottrinario e disciplinare, i prin­ cipi sui quali AtiSa aveva tentato di creare un'organizza1 86

zione religiosa unitaria nel Tibet, che erano stati · adottati solamente dai bKa'-gdams-pa e dagli Si-byed-pa. L'osser­ vanza dei principi etici, la limitazione delle pratiche ma­ giche (che bTson-k 'a-pa conosceva pur bene, essendo stato egli stesso un adepto del Vajrayiina) ed in generale il ri­ salto dato agli aspetti puramente spirituali del Buddhismo condussero, attraverso molte lotte, ad un profondo rinno­ vamento della vita religiosa nel Tibet. Espressione di questo rinnovamento è la cosiddetta Chiesa Gialla, che fi­ no a poco tempo fa ( 1 950) ha avuto anche il potere poli­ tico su tutto il Paese delle Nevi. A questo proposito è necessario un breve cenno storico sulle principali vicende dei dGe-lugs-pa, anche per comprendere la loro trasforma­ zione da sètta conventuale in ordine teocratico. Morto bTso:ri-k'a-pa e, secondo i suoi seguaci, assunto nel cielo Tu$ita col nome di Mafijusri-garbha, la direzione dell 'Ordine fu assunta, di generazione in generazione, da una serie di abati, considerati incarnazione di quella for­ ma particolare del Buddha, o, meglio della buddheità, simboleggiata da PadmapiirJ.i. Il successore di bTso:ri-k'a-pa fondò inoltre il monastero di Tashi lhum-po nel Tibet me­ ridionale, riconoscendo al suo abate, detto paJJ.-c'en rin-po­ c'e ( Gioiello dei Maestri ) e ritenuto incarnazione di Mafi­ jusri ( tib . �jam-dpal), una posizione gerarchica quasi pari alla propria. Il terzo successore di bTso:ri-k'a-pa fu riconosciuto ca­ po spirituale del Buddhismo tibetano e mongolo, nonché sovrano del Tibet, dal capo mongolo Altan-qaan, il quale gli attribuì il ben noto titolo di Dalai bLa-ma ( « Lama oceanico » }, ricevendo, in cambio, l'appellativo indiano di Cakra-vartin « Colui che fa girare la Ruota », cioè Sovra­ no Universale). L'alleanza fra i capi mongoli ed i Dalai Lama servì a difendere questi ultimi, specialmente il quinto, dagli attacchi 'di alcuni re dei Tibet meridionale, specialmente di Tsa:ri-po, favoriti dalle sètte nemiche della Chiesa Gialla. Il quinto Dalai Lama fu infatti saldamente appoggiato dal capo della conf�derazione mongola degli Oirati, Gusri­ qaan, e fu il primo a risiedere permanentemente a Lha­ sa, dove si trasferì dal convento di Tsa-pa-ran, nel Tibet

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occidentale. L'alleanza mongola-tibetana suscitò vive preoc­ cupazioni alla Cina, impegnata sotto i Ming ed ancor più sotto i Manciù nella lotta contro la confederazione mon­ gola degli Oirati, costituita dalle quattro tribù dei Targut, che rappresentava il sostegno politico-militare della teocra­ zia del Dalai Lama. La distruzione della lega mongola, compiuta dall'imperatore manciù Kang-hsi, e la rivalità fra il Dalai Lama ed il Tashi Lama ( cioè il pa 1J-c ' en rin­ po-c'è) di bKra-sis-lhun-po (pronuncia Tashi-hlumpo) , fa­ vorita dai Cinesi, permise alla Cina, sin dalla fine del XVII secolo, la crescente ingerenza negli affari tibetani, equilibrata, dal tempo della guerra Gurkha ( 1 79 1 ) in poi, dall'influenza britannica nella vicina India. I l Tibet, per­ tanto, e la Chiesa Gialla - che durante il periodo mon­ golo si era estesa a tutta la Mongolia, nella cui capitale Ta Khure (vulgo Urga, attualmente Ulan Baatur) , risiedet­ te fino al 1 922 il lama Khutuk tu, ritenuto incarnazione di Maitreya - soggiacque ad un rapporto di vassallaggio verso la Cina, subendo i contraccolpi delle vicende che hanno agitato i confini occidentali cinesi fino ai giorni nostri . Negli ultimi cinque secoli la Chiesa Gialla ha, pertanto, retto i destini politici del Tibet, facendo sentire la sua influenza spirituale anche in Mongolia e perfino in Cina, dove due imperatori, Yung Cheng ( 1 723- 1 735 ) e Ch'ien Lung ( 1 736- 1 795) molto si adoperarono per l'introduzione del Lamaismo nell'Impero di Mezzo : testimonianza di que­ sto loro interesse è la lamaseria di Pechino, la Yung-ho­ kung. Oltre a questo, ai dGe lugs-pa spetta il merito di aver riorganizzato il Buddhismo nel Tibet, conferendo la pro­ pria impronta anche negli ordini loro avversari. Monu­ mento di questa loro attività sono le chiose ed i commenti all'opera del maestro bTsoil-k'a-pa, abbracciante, questa, ben 1 6 poderosi volumi fra i quali importanti guide medi­ tative all'ottenimento della Liberazione mediante l 'eserci­ zio delle paramita e mediante la pratica dei tantra. La Chiesa Gialla ha il merito, infine, di aver fatto penetrare profondamente il Buddhismo nelle coscienze dei Tibetani, che, prima della rifonna di bTsoi:t-k'a-pa, oscillavano fra la

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sregolata pratica dei riti tantrici e l'esercizio della magia Bon. A tale fine ha contribuito in misura notevole l'origi­ nale forma di teocrazia vigente nel Tibet , per cui la perso­ na del supremo rettore, il Dalai bLa ma, non viene scelta dall'arbitrio dei potenti o, peggio, in seguito ad eredità da padre in figlio (come avviene presso i Sakya pa) , bensì per indicazione dall 'alto, essendo concepito come incarna-. zione del Bodhisattva protettore del Tibet (Avalokite5vara, tib. Spyan-ras-gzig, o Padmapavi, tib . Pyag-na padma), il quale assume di volta in volta un corpo materiale appa­ rente (sprul sku, sanscrito nirmava-kaya), per essere fisi­ camente regnante a Lha-sa. Morto il Dalai bLa ma in cari­ ca si cerca, nelle varie parti del Tibet e della Mongolia, un fanciullo concepito entro i 49 giorni dopo il trapasso del sovrano-pontefice, che rechi nel corpo i segni che ne attestano, secondo la tradizione e secondo la deliberazione dei veggenti, la divina incarnazione. Scelto il bimbo, esso viene educato ed addestrato, generalmente dal Tashi Lama, alla sua futura funzione di sovrano temporale e spirituale, che assume entrando nella giovinezza. Come esempio di scelta del Dalai bLa-ma citiamo il rap­ porto cinese del Tibet che descrive i motivi i quali, nel 1940, fecero cadere la preferenza su quello attuale (presen­ temente in esilio in India) . « Quando egli nacque, apparve un'immagine della casa ove abitavano i suoi genitori sulle acque del sacro lago di C'u �k'o-ci, ciò che fu visto e confermato , poi, da un gruppo di ricercatori guidato da me stesso . Inoltre un insie­ me di presagi indicavano che egli era nato nel Tibet orien­ tale. Furono quindi inviati tre gruppi in tre differenti dire­ zioni, per accertarsi ove una vera incarnazione divina po­ tesse venir rintracciata. Il gruppo inviato verso l'est, gui­ dato da Kyi-tsang Khutuktu, trovò ben ventiquattro bam­ bini maschi che mostravano segni straordinari e notevole �spetto. Fra di loro vi era il fanciullo di nome La-mu-ran­ cu, nato nel sesto giorno del sesto mese dell'anno I-hai ( 1 935), in una famiglia di cognome C'i, nelle vicinanze del monastero (sku g.bum), nel KokO-nor. Al momento della sua nascita tutta la gente della contrada vide un arcobaleno che indicava la sua casa. In seguito, quando il gruppo dei 1 89

ricercatori arrivò a quella casa, nonostante che né il pa­ dre né la madre avessero alcuna conoscenza di tibetano , il bambino manifestò grande gioia alla vista della comitiva, e pronunciò parole in un dialetto tibetano. Egli fu provato indi con quattro oggetti che erano appartenuti al prece­ dente Dalai bLa-ma, ognuno dei quali aveva una copia. In ogni caso il fanciullo estrasse l'oggetto giusto. Pertanto tutto il popolo, clero e laici , riteneva che egli fosse la vera reincarnazione del 1 3° Dalai bLa-ma. P oiché la convinzione appariva unanime, si è ritenuta superflua l 'estrazione del­ le sorti dal vaso d'oro ; il fanciullo, pertanto, è pronto ad avere rasa la testa ed a prendere i voti. Dato che l'anno K',ang-cheng è astrologicamente appropriato, si è scelto il 14• giorno del sesto mese (2 1 febbraio 1 940) per la sua in­ stallazione al trono. Sperando nell'approvazione del Gover­ no Centrale (cinese) , si attende una pronta risposta » . I l culto del bLa-ma, nel Tibet, ha raggiunto una tale profondità che la sua persona è stata aggiunta al tradizio­ nale Tri-ratna, per cui chi prende i voti monastici aggiun­ ge, alla formula rituale : « . . . io prendo rifugio nel bLa­ ma . . . » . Il Dalai bLa-ma, i n quanto sovrano del Tibet, è conce­ pito come la figura del re presso altri popoli estremo­ orientali, cioè come una proiezione dell 'Universo spirituale, il Macrocosmo, in un Microcosmo umano, oggetto di medi­ tazione realizzatrice, e, come tale, venerato. In tutti i testi mahayana si afferma in ogni passo che tutti gli esseri , dai più infimi fino ai Buddha, altro non sono che una proie­ zione dell 'universale I llusione sulla coscienza transeunte di chi se li raffigura. Come si concilia questo con l'ardente devozione che, specialmente nel Lamaismo, viene tributata alla folla di centinaia di divinità che popolano il suo pan­ theòn ? A parte il fatto del culto popolare, per il quale non è il caso di porsi problemi metafisici, tale adorazione è giustificata con la teoria che dette divinità sono l' « appog­ gio » (dhara, ti b. r;.dzin) provvisorio per esperienze sovra­ sensibili. Come già detto, il culto per eccellenza è la visua­ lizzazione unita ad uno stato di meditazione profonda, pre­ ceduta dalla concentrazione del pensiero sull'oggetto, che conduce all'identificazione col dio particolare, che funge da

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gradino intermedio per conseguire l'estasi (samiidhi, tin-ne çLdz.in) priva di contenuto. La divinità tipica per questo processo di progressiva astrazione è lo Yi-dam (sanscrito Ì$/a-devatli, « deità prescelta » ) , cioè il nume tutelare scelto dall'asceta, al quale egli dirige venerazione e meditazione , mantenendone segreto il nome. Per avere la rivelazione dello yi-dam il monaco si sottopone ad un severo periodo qi purificazione, ascesi ed isolamento, alla fine del quale lo Yi-dam gli appare in sogno o in visione, nella forma irata o in quella benigna. Beninteso, e questo è un punto di dottrina, lo Yi-dam è solo una costruzione mentale sog­ gettiva, che rispecchia la costituzione psichica, occulta, dell'asceta, ciò che gli permette di ritrovare più facilmen­ te la via per la propria liberazione. Allo Yi-dam corrispon­ de, naturalmente, un sistema segreto di man tra, yan tra e maJ;Zçlala, cioè l'apparecchio cultuale che permette di evo­ carlo ed assimilarlo . Talvolta esso appare congiunto in ya b­ yum (padre-madre) con la sua mK 'a-pgro-ma (J)liki1if) : que­ sta è la forma sublime, detta « adamantina » (vajra, tibe­ tano rdo-rje), che rivela i più profondi segreti. In questo caso, la deità maschile, di colore generalmente qlu, talora è raffigurata danzante, talaltra mentre avanza con la gam­ ba sinistra tesa e la destra piegata : su quest'ultima è avvin­ ghiata la DakiJ;Zì, generalmente di color rosa, che tiene, come al solito, la coppa a teschio nella sinistra ed il col­ tellaccio (gri-gùg) nella destra. Lo Yi-dam è rappresentato · generalmente col terzo occhio e con altri « sei preziosi or­ namenti » : una corona di teschi, invece della corona solita dei Bodhisattva, orecchini con nastri, armille nelle braccia ed avambracci, di due speci diverse, una cintura oppure una catena, spesso anche una collana pendente sul petto, la quale porta al centro la Ruota della Legge . Sul petto di alcune di queste deità tantriche si osserva un grande serpe attorto, in atto di stritolare la Ruota della Legge, rappre­ sentata formata di ossa umane. La tipologia degli Yi-dam, che rappresentano il caratte­ re distintivo dell 'iconografia lamaista, è vastissima, anche perché essi sono frequentemente concepiti quali emana­ zioni dei diversi Bodhisat tva. Ne descriviamo uno , lo Yi-dam bDen-éog (sanscrito Sarrzvara) : « Lo Yi-dam dalle 191

quattro teste e dodici braccia avanza con la gamba Sini­ stra, venendo abbracciato dalla sua l)llki1J.i. Sulla sua qua­ druplice testa la faccia al centro è blu, le due a destra rispettivamente verde e rossa, quella a sinistra, biartca, por­ ta una corona di teschi (t'od-pa), un'alta corona di capelli, di fronte uri doppio vaj ra (visva-vajra, tib . kun-tu rdo-rje) e a sinistra una mezzaluna bianca. Le sue mani destre reg­ gono i seguenti oggetti : una pelle di elefante bianco (glan­ -dpags) che gli _ pende sul dorso, il tamburo çlamaru, tib . c'an-te), un'ascia (tib . dgra-sta) , un tridente (tib . k'a-tvan rtse-gsum) con una bandiera, un coltellaccio ricurvo (gri­ gùg) e, nella mano destra posata sul dorso della sposa, regge un vajra. A sinistra regge l'altro capo della pelle di elefante, il laccio (tib . z 'ags-pa) , il vaj ra (con l'altra mano con la quale abbraccia la sposa) eccetera. Lo Yi-dam è blu, la l)aki1J.i rossa, con ornamenti bianchi. Accanto al suo piede sinistro giace un cadavere femminile nudo, con orna­ menti bianchi. . . . . . Accanto a l piede destro dello Yi-dam giace u n cada­ vere maschile blu ravvolto in una pelle di tigre, coronato e dotato di quattro mani. . . » . Che · cosa significa, a quale esperienza conduce una simile rappresentazione, sotto molti punti di vista strana, se non ributtante ? Ecco che cosa ne dice il famoso tantra §ri-cakra-sarrzbhllra : « Il meditante visualizzi se stesso nel centro del loto ( = ma7J.(l.ala), identificandosi allo Yi-dam bK'or-lo bDen­ c'og ( sanscrito Cakra-mahii-sukha, « la Grande Felicità del Cerchio » ) , con le quattro facce simboleggianti i quattro elementi restituiti alla loro pura essenza : terra, acqua, fuoco ed aria, ad ognuno dei quali corrispondono le quat­ tro Infinite Virtù ( maitr'i, mudita, karurza, upek�ll), simbo­ leggiate dai quattro colori delle facce. Per dimostrare che egli non muta dalla Conoscenza della Sfera del Dharma ( Dharma-dhatu-jnllna, matrice di tutti i Buddha) il suo corpo è blu. Ogni suo volto · ha tre occhi per indicare che egli conosce i tre mondi ( loka, tib . t;zjig-rten ) : il Kiima­ loka, o mondo delle brame fluenti, il Rilpa-loka, o mondo delle pure forme, e l'arilpa-loka, o il mondo informale, spirituale; i tre occhi indicano pure che possiede contem_

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poraneamente la VISione del passato, presente, futuro. Le dodici braccia simboleggiano che egli riconosce il processo di evoluzione ed involuzione dei dodici nidllna ( le dodici cause concatenate del . pratityasamutpiida). La folgore ( vajra, tib. rdo-rje ) e la campanella (ghatz.fli, tib. dril) che regge nelle sue mani superiori, con le quali abbraccia la /)llkitzì, indicano che il Pensiero dell'Illumina­ zione ( bodhicit ta) è sintesi di vuoto ( silnya) e compassione ( karur.zli). L'abbraccio ·con la J)iikitzi rappresenta l'unione di Efficienza ( upliya ) e Saggezza (prajnli). Le due braccia successive reggono la pelle grezza di elefante, emblema dell'ignoranza, che sollevano dalla parte superiore del cor­ po. La terza mano destra regge il tamburello, per signi­ ficare che egli proclama la Buona Novella; la quarta ma­ no destra solleva l'ascia, per indicare che taglia i sei mali ( orgoglio, sfiducia, mancanza di devozione, distrazione, di­ sattenzione e noia); la sesta mano impugna il tridente, per significare che distrugge i mali pertinenti ai tre mon­ di (collera, pigrizia e brama ) . . . eccetera » . Quindi i l meditante rivive, i n uno stato d i meditazione estatica, tutti gli elementi bivalenti dello Yi-dam, che sono elementi della sua stessa interiorità, per trasformarli, co­ me si è detto, nelle energie cosmiche corrispondenti. Se qui si arresta, il meditante diverrà un siddha, un uomo dotato di poteri sovrumani, ma pur sempre legato al po­ tere di cui dispone. Il gradino eccelso consiste nella so­ luzione totale di ogni elemento dell'esperienza, anche so­ vrasensibile, nel Vuoto ( silnya ) che, immoto, si invera di là dal loro apparire. Da quanto è stato detto finora appare evidente che il Buddhismo tibetano persegue soprattutto una linea di sviluppo, secondo diversi metodi impartiti dalle varie scuole, ereditata direttamente dal Tantrismo buddhista, e forse anche indù, dell'India settentrionale. La trasforma­ zione della preghiera in meditazione, propria al Buddhi­ smo primitivo, viene, nel Lamaismo, condotta alle estreme conseguenze. Si tratta sempre di concentrarsi su un pen­ siero, simboleggiato da un'immagine ( alla quale psichica­ mente si aderisce mediante gli atti di culto), onde rea­ lizzarlo come puro atto di conoscenza, di cui la mente del

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meditante è lo scenario sul quale s'invera. Indi si medita sulla coscienza che se lo pone come oggetto, raggiungendo così la sfera informate, priva di contenuto, perché lumi­ nosa, immobile autotrasparenza. Le varie teologie, i simbo­ li del culto, i monumenti architettonici, specialmente gli stupa ( tib . mCod- rten ) e l'insieme degli edifici che costi­ tuiscono i monasteri ( dgon-pa ) sono, per i religiosi tibe­ tani, altrettanti simboli cosmici , che possono servire di « appoggio » al contemplatore, al meditante ed all 'asceta per assurgere all'identificazione concreta, reale, con la Suprema Realtà, fra il nascere e lo scomparire, nello sce­ nario della coscienza. Questo è il motivo per cui il Lamaismo poté tranquilla­ mente « digerire » tutta la teologia e la cosmologia bon-po senza minimamente mutare il contenuto delle sue esperien­ ze, attribuendo, anzi, un significato superiore, mistico ed operativo, alle diverse divinità dell 'antica religione, come i « genii loci » (sa-bDag, « Signore della Terra ») , i « serpenti­ pesci » (kLu), le sirene volanti (mKa '-çigro), gli spaventevoli jig-rTen skyon ( « Guardiani del Mondo ») , le deità dei pia­ neti (T'e) ed i dMu, che popolano il quinto cielo, i P'ya eccetera. Tutti costoro continuarono ad essere oggetto di venerazione e culto da parte dei Buddhisti , non solo , ma i residui della religione Bon (detta anche, dal suo simbolo, Gyun drwi, cioè Religione della Sauvastika, « svastika » rovesciata, con andamento sinistrorso, al contrario del sim­ bolo del Buddha per eccellenza, che è la croce uncinata con i bracci rivolti a destra) dovettero adattarsi alla siste­ mazione ideale e teologica del Buddhismo, imitandola com­ pletamente. Dopo secoli di lotte accanite le due religioni sono giunte ad un tale punto di simbiosi che capita fre­ quentemente che, in un monastero lamaista, vi sia una stanza riservata al monaco bon dal copricapo nero, il quale coadiuva, da parte sua, alle funzioni del monastero come augure, indovino ed esorcista.

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2) Diffusione del Buddhismo in Cina L'occasione storica per la penetrazione del Buddhismo in Cina fu data essenzialmente da circostanze politiche. La Cina degli Han, in seguito all'emigrazione verso Occidente degli indoeuropei Ytieh Chih e dei turco-mongoli Hsiung Nu, aveva occupato, con alterne vicende durate qualche secolo, le oasi dell'Asia Centrale scaglionate lungo la « Via della seta » . Le continue guerre combattute fra Cinesi e Indosciti, specialmente alla fine del primo secolo d.C., ave­ vano intensificato i contatti della Cina con una regione fortemente buddhizzata. Fra l'altro, numerosi prigionieri e ostaggi buddhisti furono trasportati in Cina, dove diffu­ sero i principi della loro fede. L'inizio storico della penetrazione del Buddhismo in Cina è collegato alla personalità dell'imperatore Ming-ti (65 d.C.) , che, ispirato da un celebre sogno, mandò a K.ho­ tan una deputazione di diciotto persone diretta dai teologi indiani Matanga e Gobharana, con l 'incarico di riportare di là testi dottrinari buddhisti. Sappiamo però che, indipen­ dentemente da queste iniziative imperiali - probabilmente dettate da ragioni politiche e da interessi scientifici più che da impulsi filosofici e religiosi, - esisteva già nella medesima epoca una fiorente colonia buddhista sullo Y ang­ tsu Kiang, forse fondata da commercianti o missionari giunti via mare dalle Indie. In ogni caso la grande massa dei missionari e dei monaci venuti in questo periodo è formata quasi esclusivamente da Sciti, Iranici e Indiani entrati in Cina dalle frontiere occidentali, come ad esem­ pio la coppia di Dharmaratna (cinese Fa-lang) e il citato Kasyapa-Matariga, i quali tradussero in cinese il sutra i11 42 capitoli e varie vite del Buddha. An Shih-kao, principe arsacide (An indica appunto il nome etnico « partho ») , venuto in Cina nel 148, Chu Shuo-fo, detto « il Bodhisattva indiano » e Chi-ch'an (sanscrito Lokak$ema) , detto « il

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Bodhisattva ytieh-chih », i due ultimi venuti nel 1 70 d.C., sono considerati i fondatori del monastero del Cavallo Bianco (Pai-ma-ssu), nella capitale degli Han, Lo-yang, che fu certamente il più vivace focolaio di Buddhismo in quel­ l'epoca. La principale attività storicamente provata di que­ sti primi missionari, oltre, naturalmente, l'apostolato, è quella di traduttori in cinese di svariate opere buddhiste, come il Sukhavatf-vyuha ( « Spiegamento del mondo bea­ to », cioè il paradiso di Amitabha, Buddha, della Luce Infinita) tradotto da An Shih-kao, l'Amitayuhsutra, ovvero il s'ii.t ra del Buddha della Vita Infinita, e altre opere di etica e dogmatica buddhista, come i 142 capitoli del Pratimok�a (Confessione dei peccati) , opera del missiona­ rio Sailghavarman, figlio dell'ambasciatore della Sogh­ diana presso la corte degli Han. Altri missionari soghdiani e sciti, pure appartenenti al monastero del Cavallo Bianco, furono, secondo la tradizione cinese dei loro nomi, Chih­ ch'ien, figlio di un ambasciatore ytieh-chih, K'ang-chti, eK'ang Meng-hsiang. Probabilmente a questo gruppo di monaci risalgono le traduzioni di alcune fra le più impor­ tanti opere del Mahliyana, fra le quali si annoverano la Vimalakfrti-Vibhasa (tradotta nel 1 88 d.C.) , la Prajiiapiira­ mitll, il Saddharmapur.uJarika (tradotto nel 250 d.C.), ov­ vero il « Loto della Buona Legge » , sutra di fondamentale importanza al quale si deve la popolarità del culto del Buddha Avalokite§vara, noto in Cina sotto la forma fem­ minile di Kuan-yin. Si trattava di personalità dotate di profonda cultura e di tutti i beni spirituali e pratici necessari per un sì arduo ministero. Poche dottrine sono infatti così ostiche alla mentalità cinese quanto il Buddhismo, sia per la sua disciplina monastica, fondata sul distacco dalla famiglia e dalla società, in opposizione al tradizionale culto cinese per questi due valori, sia per la sua esigenza soteriologica, incomprensibile in un ambiente ove il problema fonda­ mentale era come vivere in questo mondo, non come sal­ varsi dal medesimo. Inoltre il Buddhismo considerava la disciplina morale come un mezzo propedeutico per l'illu­ minazione, mentre per i Cinesi la morale pratica, addirit­ tura di rito formale li rappresentava di per sé un -

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valore metafisicamente giustificato. Ciò nonostante il Bud­ dhismo era destinato a diventare, assieme al Confuciane­ simo e al Taoismo, uno degli impulsi fondamentali della civiltà cinese quale noi la conosciamo. La ragione di que­ sto è che il Buddhismo, pur adattandosi alla mentalità cinese, reinterpretò, su dimensioni metafisiche, la conce­ zione cinese dello Spirito Universale, e portò alla filosofia cinese, già preparata dalle esperienze di pensiero taoiste, il metodo negativo di metafisica fondato sulla teoria dello sunya. Infatti a questo punto occorre sottolineare che il Buddhismo trovò comprensione soprattutto fra i circoli del Taoismo filosofico, i quali ravvisavano nella nuova Legge una forma particolare della loro dottrina della Via e della Virtù adattata alle esigenze dei popoli di Occi­ dente. Alcuni Taoisti, fondandosi sul fatto che Lao Tzu, alla fine della sua vita, scomparve di là dalle frontiere occi­ dentali della Cina, giunsero ad affermare che il Buddha sarebbe stato uno dei ventinove discepoli del fondatore della loro scuola, da lui avuti fuori dalla Cina, e interpre­ tarono di conseguenza la sua dottrina. Il Buddhismo pertanto dovette subire un completo « ripensamento » e adattamento alla mentalità cinese che, fra l'altro, era priva della formidabile esperienza logico­ dialettica della civiltà indiana. I missionari buddhisti, quin­ di, mitigarono le dottrine che sarebbero parse inaccetta­ bili o immorali ai Cinesi, come la anattii (non-essere del­ l'io) del Piccolo Veicolo e la nairatmya (inessenzialità di tutte le cose) del Grande Veicolo, abbondarono nelle chio­ se alle loro traduzioni di citazioni di Lao Tzìi e dei pre­ sunti detti dello Huang Ti, specialmente laddove queste affermano il perenne mutarsi di stato in istato delle cose e il consistere della realtà in wu (non-essere) « trascenden­ te forme e fattezze » . I traduttori d i testi buddhisti i n questo primo periodo di apostolato nell'Impero di Mezzo adottarono la termino­ logia taoista : marga (via) venne reso con tao, satipaJthana (consapevolezza) con shou-yi, nairatmya con pu-shèn, sunya con pèn-wu; egualmente i termini taoisti yu (esistente), wu (non-essere) , yu-wey (azione), wu-wei (non-azione) ven-

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nero a significare concetti buddhisti. Questo sistema, ba­ sato sull'interpretazione delle idee buddhiste secondo i con­ cetti del taoismo filosofico, fu chiamato ko-yi, interpreta­ zione per analogia, e restò in uso fino a quando, nel quin­ to secolo, iniziò con Kumarajiva un nuovo orientamento nelle traduzioni, che permise ai Cinesi di conoscere meglio il pensiero originale del Buddhismo. È in ogni caso interessante osservare come i Cinesi, ritenuti un popolo essenzialmente pratico e alieno dalle astrazioni filosofiche, abbiano invece accolto con straordi­ nario favore i più ardui testi della metafisica buddhista, come la Prajfiliparamita e le altre opere delle scuole Ma­ dhyamaka e Yogacara. Lo studio appassionato delle rela­ zioni fra essere e non-essere diede pertanto l'impronta alle prime « Sette Scuole » , fra le quali si ricorda la « Scuola del Non-Essere originario » di Tao An (3 1 2-85) , che inse­ gnava la processione del mondo delle forme dalla originale Vacuità. Presso queste prime sette scuole, propriamente cinesi, la parte pratica e meditativa del Buddhismo veniva rappresentata con immagini molto simili alla Virtù (Teh) taoista, come il non-essere della mente del saggio, che pre­ lude alla non-intenzione (Wu-hsin) della scuola Ch 'an, della quale si tratterà in seguito. Poiché la diffusione del Buddhismo in Cina è avvenuta, in un certo modo, a « ondate » successive, ognuna con caratteri diversi, se non opposti, dalla precedente, la de­ scrizione di questo grandioso avvenimento dovrà abbrac­ ciare un ciclo di almeno una decina di secoli di storia, Il primo periodo del Buddhismo fu eminentemente ricettivo, e non si ha notizia di un'importante elaborazione cinese del pensiero mahayanico. Una delle cause di questa inerzia fu probabilmente dovuta alla proibizione imperia­ le ai sudditi dell'Impero di Mezzo di prendere gli ordini l-eligiosi, durata fino al 335 d.C. I Cinesi potevano quindi essere al massimo devoti laici uplisaka ma non acce­ bhik�u, l'unica atta dere alla condizione di monaco a favorire lo studio indipendente della dottrina e il pieno esercizio dell'ascesi meditativa sulla quale si fonda la disci­ plina buddhista. Il passaggio da questo primo periodo a uno successivo, di ripensamento cinese del Buddhismo, è -

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segnato dall'arrivo alla capitale cinese Ch'ang-an, nell'anno 401 , di un celebre maestro, i� principe Kuma rajiva (3444 1 3) , di stirpe indiana, ma stretto parente del re di Kuca, in Asia Centrale, donde lo aveva tratto come ostaggio il generale Lti Kuang sin dal 384, portandoselo a Lan-chou, nel Kan Su. Giunto a Ch'ang-an, Kumarajiva non tardò a entrare nelle grazie dell'imperatore Yao-hsing che lo nomi­ nò kuo-shih, direttore dell'insegnamento. Durante la sua permanenza in Cina tradusse un centinaio di opere di dot­ trina buddhista e compì numerose ritraduzioni di prece­ denti versioni in cinese. Kumarajiva aveva una completa formazione letteraria, filosofica e religiosa: era una di quelle personalità nelle quali sono riunite, in sintesi, le esperienze di un'intera civiltà. Possedendo perfettamente lo strumento linguistico, fu in grado di rendere ai Cinesi il senso originario delle opere buddhiste, fino allora inter­ pretate soltanto secondo le categorie di pensiero proprie all'esperienza filosofica cinese. Ciò che importa soprattut­ to porre in rilievo è che, dopo Kumaraj iva, il Buddhismo, in Cina, passa dalla fase di interpretazione a quella di ela­ borazione vera e propria : il Buddhismo diventa un feno­ meno cinese. Questo compito fu iniziato dai due principali discepoli cinesi di Kumarajiva : Seng Chao (384-4 14) e Chu Tao-sheng (360-434) . Seng Chao era nativo della regione presso Ch'ang-an. Prima di abbracciare il Buddhismo egli studiò profonda­ mente Chuang Tzu e Lao Tzu, come si ravvisa nei suoi scritti radunati nel Chao Lun (Dialoghi di Chao) . In parti­ colare egli sviluppò e condusse alle massime conseguenze la dialettica del wu e dello yu, combinandola con il metodo della doppia verità di Nagarjuna che, come si vedrà in seguito, costituirà la base filosofica della dottrina di Chi­ tsang. Si tratta cioè di riconoscere che ciò che rappresenta la più alta verità a un livello comune è la verità inferiore a un livello superiore. Ad esempio : riconoscendo la mutabi­ . lità delle cose a ogni istante, si dice che c'è mutamento e non permanenza; riconoscendo invece che ogni cosa in ogni istante permane in quell'istante, si · afferma che c'è permanenza e non mutamento. Pertanto, a un livello più basso, la doppia verità consiste nel riconoscere che le cose 1 99

sono, sia yu e permanenti, sia wu e impermanenti. A un livello più alto, trascendendo questa dualità, si affermerà che le cose non sono né permanenti né mutevoli, né yu né wu. Da questa considerazione passò a riconoscere che la prajfia non è conoscenza, in quanto quest'ultima consiste nel riconoscere le qualità distintive degli oggetti della me­ desima conoscenza. La prajfill, invece, ha per oggetto ciò che trascende forme e fattezze, cioè il wu: ciò significa che il saggio si è identificato al wu, e questa identificazione è il nirvllr,za. A un terzo livello di verità, quello sublime, una volta riconosciuto che nirvllr,za e prajfia sono due aspetti della medesima condizione, priva di soggetto e di oggetto, si raggiunge un atteggiamento di assoluto silenzio, in quan­ to nulla può essere né detto né non detto. Tao-sheng, condiscepolo di Seng Chao, nacque a P'eng-ch'eng nel Kiang-su. Fu un monaco estremamente dotato di eloquenza, erudizione e capacità filosofica : le sue concezioni lasciarono traccia durevole nel Buddhismo cine­ se, pur essendo in un primo tempo così male accolte da dover egli abbandonare la città (Nanchino) ove insegnava, in seguito ala riprovazione degli altri monaci. Riassumendo brevemente i principali problemi da lui trattati, si può affermare che questi furono tre :· il primo è il problema dei cosiddetti icchantika, ovvero coloro ai quali è precluso per ragioni di destino e di inclinazione l'accesso alla Buona Dottrina. A tale riguardo Tao-sheng affermava che an­ ch'essi posseggono, come essenziale realtà del loro essere, la natura di Buddha, e quindi possono realizzarla, se non in questa in un'altra vita. Questa fu la teoria che valse a Tao-sheng l'esilio, dal quale ritornò. allorché, giunto in Cina e tradotto il Parinirvli1}a-sutra, si vide che l'audace tesi di Tao-sheng era confortata dall'autorevole appoggio delle Scritture. Quanto a queste ultime, Tao-sheng affer­ mò sempre di tenerle in conto di meri strumenti provvi� sori per raggiungere la realtà delle cose : una volta perve­ nuti a queste esse diventano superflue, come la rete per chi ha preso il pesce (il Tao) . Continuando su questa via logica, egli affermò che ogni essere cosciente ha la natura del Buddha o, secondo la tipi-

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ca visione cinese, dello Spirito Universale, soltanto che non si accorge di possederla : la vissuta consapevolezza di que­ sta è il nirviir,za, il quale però non esige l 'abbandono della vita comune. Anzi, esperimentando la buddheità, il mondo fenomenico e quello trascendente coincidono in un atto continuo. Questo punto di vista, come altri che si espon­ gono in seguito, verrà ripreso dalla scuola Ch'an, allorché questa affermerà che l'esperienza del Buddha consiste nel « non cercare più l'asino sul quale si cavalca » . Il secondo principio enunciato d a Tao-sheng è quello secondo il quale « una buona azione non comporta ricom­ pensa » . Questa affermazione, apparentemente scandalosa, allude al fatto che, quando nell 'azione si seguono i prin­ cipi del wu-wei (non-azione) e wu-hsin (non-intenzione) , si spegne ogni attaccamento dovuto alla brama che ci fa aggrappare a un risultato particolare, e quindi l'azione si reintegra alla sua sfera primordiale di pura libertà : per­ ciò il karman di chi agisce senza attaccamento non com­ porta alcuna ricompensa. (È il medesimo principio del tyiiga che noi vediamo predicato nella Bhagavad-gìtii, allor­ ché questa raccomanda di compiere l'azione (karman) e fruirne (bhoga), restandone però distaccati) . Il terzo principio di Tao-sheng, che fu pienamente con­ diviso dalla scuola Ch'an, è quello secondo il quale il con­ seguimento della condizione di Buddha è un atto istanta­ neo, una folgorazione che non ha alcun rapporto di con­ tinuazione rispetto alla disciplina preparatoria seguita du­ rante il periodo di ascesi, poiché diventare Buddha signi­ fica identificarsi nel wu (non-essere) , ovvero lo Spirito Universale, quello che « trascende forme e fattezze » , e, quindi, tutte le forme condizionate di esistenza. Il wu non è una « cosa » divisibile in parti : è il tutto, inteso come unità di soggetto e di esperienza, di là da qualunque ap­ prendimento proprio a quel conoscere partitivo che appar­ tiene alla sfera dello yu. L'epoca ricordata nella storia cinese come quella della disunione nazionale, durata dal 22 1 al 589 d.C., fu in gene­ rale molto favorevole allo sviluppo del Taoismo e del Bud­ dhismo. Alcuni autori hanno interpretato questo fatto asse­ rendo che, in tempi così calamitosi, i Cinesi erano portati 20 1

a preferire sistemi religiosi e filosofici che li distaccassero dalle cure di questa terra, anziché quelli classici, come il Confucianesimo, che esigevano una presenza attiva e ope­ rante dell'uomo nella società e nello Stato, inteso come manifestazione della Legge del Cielo sull Terra. Altri auto­ ri hanno invece rilevato il favore goduto da questi due sistemi presso le dinastie straniere che si successero sul suolo cinese, portate da invasori turchi, mongoli o tungusi, ed hanno concluso che tali dinastie, estranee . originaria­ mente alla cultura cinese, preferivano naturalmente forme di spiritualità non legate necessariamente alla cultura del popolo soggetto. Contro questa teoria vi è però da osser­ vare che fu proprio sotto la successiva dinastia unitaria cinese dei T'ang (6 1 8-907) che il Buddhismo, continuando il cammino ascendente compiuto ai tempi degli Wei e dei Sui, raggiunse le sue più alte espressioni e godé di un favore non minore di quello avuto sotto le dinastie stra­ niere. La verità, probabilmente, è a metà strada fra le due teorie. Il periodo fra il terzo e il settimo secolo fu ricco di stimoli e di impulsi, forse anche per la mancanza di un'uniformità politica e per la !abilità delle frontiere dei diversi Stati, ciò che permetteva la libera entrata di per­ sone e di idee provenienti dall'India e dall'Asia Centrale. Gli stessi sovrani, generalmente di origine e di costume barbarico, non avevano motivi per opporsi a questa pene­ trazione del Buddhismo, dato che non sentivano un parti­ colare bisogno di difendere la tradizione e la cultura cinese dagli influssi stranieri. Ciò permise alla civiltà cinese di assimilare e di fare suo il pensiero buddhista, portatore di nuovi orizzonti filosofici e di una robusta impalcatura me­ tafisica e dialettica dovuta alla sua lunga evoluzione in­ diana. Il contatto col Buddhismo diede nuove dimensioni alla speculazione cinese, in particolare al Neo-Taoismo e al Neo-Confucianesimo, col quale la filosofia cinese raggiungerà le più alte vette della sua evoluzione. ·

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3) Le otto grandi scuole buddhiste

Durante la dinastia T'ang (6 1 8-906) la Cina giunse al­ l'apogeo della sua potenza politica, estendendo le sue fron­ tiere oltre i confini dell'Asia centrale, rendendo tributari il Tibet e la Corea, e occupando le sue attuali province meridionali, sin da allora sinizzate. L'Impero di Mezzo conobbe inoltre un'èra di pace, di unità e di prosperità, che permise un ammirevole sviluppo del ie arti, della lette­ ratura e delle scuole speculative. Per quanto si riferisce a queste ultime, si accentuò la loro reciproca influenzà e, in una certa misura, il processo di sincretismo fra Buddhi­ smo, Taoismo e Confucianesimo. In quest'epoca il Buddhismo cinese conosce la s ua mas­ sima fioritura. L'inizio della grande epoca del Buddhi­ smo cinese fu segnato dai celebri viaggi dei pellegrini cine­ si in India. Essi stabilirono gli ultimi contatti diretti con la vivente tradizione buddhista dell'India, e soprattutto trasfusero nel Buddhismo cinese la quintessenza di ciò che le ultime scuole indiane avevano creato ed elaborato in fatto di metafisica e di mistica liberatrice. Fra questi viag­ giatori spicca la figura di Fa Hsien il quale, all'inizio del quinto secolo, attraversò i'Asia centrale, visitò l'India, ove raccolse numerosi testi sanscriti, e tornò per mare a Can­ ton. A lui dobbiamo una preziosa quanto esatta descri­ zione dell'India dei suoi tempi, tramandataci nel Fo-kuo chi (Memorie del Paese del Buddha) . Altri pellegrini furono I Ching (634-7 1 3), che si recò in India per mare, visse nel­ l'università di Nalanda, dove raccolse i Vinaya (Regole di · Ascesi) dei Mula-sarvat ivadin, e soggiornò a Giava; e il ben più famoso Hsiian Tsang (596-664) , che visse in India i primi vent 'anni del secolo settimo, ivi ricevendo una completa formazione filosofica e religiosa. Celebre in India 203

come in Cina, protetto e onorato dai maggiori sovrani del suo tempo, da Kumaraphala re dell'Assam, per il quale tradusse in sanscrito il Tao Teh Ching, a T'ai-tsung, primo imperatore della dinastia T'ang, conoscitore profondo del sanscrito, lingua nella quale sostenne numerose controver­ sie filosofiche con dotti pandita indiani, riportò dall'India 650 volumi, parte dei quali egli tradusse, come I'Abhidhar­ makosa (Tesoro di metafisica) di Vasubandhu con il rela­ tivo commento (vyiikhya) e ipercommento (bha�yii), la Vijfillptimlitratlisiddhi (Dimostrazione che ogni cosa è solo denominazione) , appartenente al secondo periodo, quello yogltcl!ra, del medesimo autore, e una decina di commenti riflettenti l'interpretazione di Dharmapala (sesto secolo) alla Tri1rzsikli (La « Trentina ») di Vasubandhu. Hsiian Tsang, dopo il suo ritorno in Cina, fu l'iniziatore di una scuola idealista alla quale si accennerà in seguito. Siamo giunti così a tracciare un breve riassunto delle principali scuole buddhiste che fiorirono in Cina fra i secoli sesto e nono. Fra queste otto sono considerate prin­ cipali, oltre alle due scuole Chii.-shih Tsung, fondata sul citato Abhidharmakosa, e Ch' eng-shih Tsung, basata sulla Satyasiddhi, di Harivarman, opera di passaggio fra il Pic­ colo e il Grande Veicolo, tradotta in cinese da Kumaraj fva . Queste due scuole vengono qui menzionate perché, come si vedrà in seguito, pur non avendo avuto grande impor­ tanza sul suolo cinese, fioriranno in Giappone sotto i nomi rispettivamente di Kusha e Jojitsu. Delle otto scuole che si nominano in seguito, le prime quattro, restate aderenti ai modelli indiani, hanno avuto un potere unicamente introduttivo sulla cultura cinese, mentre le successive quattro sono venute a costituire al­ trettanti elementi originali e vitali nella civiltà della Cina. La prima scuola fu quella detta Lii. Tsung (giapp . Risshii), fondata da Tao-hsiian (596-667) . Questa scuola, trascuran­ do la parte dogmatica, diede grande importanza all'ottem­ peramento delle regole del Vinaya, sulle quali era basa�a. Ebbe importanza storica in quanto, durante due secoli e mezzo, per una forma di simbiosi possibile probabilmente solo nel Buddhismo, abitarono nei suoi conventi anche i monaci seguaci della setta Ch'an.

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La seconda scuola fu quella detta San-lun (giapponese Sanron) , perché basava la sua dottrina su tre testi della scuola Madhyamaka, e cioè il Madhyamakasastra di Naga­ rjuna, lo Sata-sllstra (Trattato di Cento versi) e il Dviidasa­ nikaya-sllstra (Trattato di Dodici Capi) del successore di Nagarjuna, Aryadeva. Il suo fondatore, Chi-tsang (549623) , considerato continuatore di Kumaraj iva, ripeté in veste cinese i noti principi della scuola Madhyamaka, e cioè la liberazione dello spirito da ogni idea affinché in esso s 'inveri lo sanya. La terza scuola fu quella Vijfzlinaviida o Yogliclira, det­ ta in cinese Wei-shi (giapp. Rosso) , oppure Hsiang-tsung, che ebbe come personalità più eminenti il pellegrino Hstian Tsang (596-664) , suo fondatore, e il suo discepolo K'uei chi (632-82) . Il testo basilare di questa scuola è la Dottrina della Pura I deazione (Ch'eng Wei-shih Lun). Questa scuola di idealismo soggettivo non soddisfece pienamente lo spirito cinese, alieno dal considerare come pura rappresentazione soggettiva il mondo della realtà este­ riore. Filosoficamente questa scuola decadde allorché alla meditazione sull'lllaya-vijfzana si sostituirono sterili elucu­ brazioni su una « ottava » e « nona » forma di coscienza, distinzioni scolastiche importate dall'ultimo Buddhismo in­ diano. La sua importanza storica e filosofica consiste nel­ l'aver impresso un orientamento idealistico a tutto il suc­ cessivo Buddhismo cinese, dandogli la possibilità, in se­ guito, di raggiungere le più alte vette speculative. La successiva scuola, detta Mi Tsung (Scuola dei miste­ ri) , o Chen-yen (Scuola dei mantra) (giapp . Shingon) , fu introdotta in Cina nel 7 1 9 dai singhalesi Vaj rabodhi (67074 1 ) , Amoghavaj ra (705-774) e S ubhakarasimQ.a (637-735) . S i tratta d i una scuola d i Vajraylina non saktico facente capo a due cicli di esperienze contenuti nei due tes ti Tattvasarrz.graha e Màhavairocana-abhisarrz.bodhi, il primo dei quali è corredato da un marJ.{iala fondamentale, il se­ condo da due maJJ.çlala. Questi ultimi due simboleggiano, il primo il processo di manifes tazione dalla coscienza cosmi­ ca alla molteplicità degli esseri, il secondo il cammino in­ verso, ovvero il riassorbimento dell'essere individuato (ef­ fetto) nella coscienza cosmica (causa) . Essi sono rispettiva205

mente il Vajradhatumatzçlala ed il Garbhadnatuma1J4ala. La figura centrale di questi cicli è Vairocana, che appunto rappresenta la coscienza incondizionata che sta alla base del mondo manifesto (v. pp. 1 1 1- 1 1 2) . Questa scuola puramente liturgica trovò favore nella cotte dei T'ang non tanto per la sua dottrina, quanto per l'efficacia che si attribuiva ai suoi riti esoterici, volti a scongiurare disgrazie e a influire favorevolmente sull'esito delle azioni intraprese dal sovrano. In Cina non durò mol­ to a lungo, anche perché non penetrò nel costume e nella coscienza del popolo : ebbe invece grande sviluppo in Giappone, dove fu introdotta da Kobo Daishi, vissuto in Cina al tempo di Vayrabodhi. Maggiore importanza ebbero le seguenti tre scuole bud­ dhiste, l 'influsso delle quali si fece fortemente sentire nella vita nazionale cinese e in particolare sull'arte, sul gusto e sulla mentalità religiosa. La prima di queste è la cosiddet­ ta Hua-yen Tsung (Scuola della Ghirlanda) fondata da Fa Tsang (643-7 1 2) , soghdiano, discepolo di Hsiian-tsang. Il termine Ghirlanda è l'approssimativa traduzione del san­ scrito Avata111 s aka (-sutra), ovvero siitra dell 'Ornamento, testo sul qJ.lale si basa l'omonima scuola mahayanica, con­ siderata l'ultima apparsa e cresciuta in India, dove ebbe ampia letteratura fra il quinto e l'ottavo secolo. La teoria di questa scuola ci appare come l'assunzione, in funzione meditativa e in termini cosmici , dei principi dello Yoga-· cara. La sua dottrina centrale consi ste nell'affermare che ogni cosa, ogni « grano di polvere » , contiene in sé tutta la realtà : ogni cosa pertanto può rivelare i segreti dell'uni­ verso intero, in quanto le è immanente il vuoto, che è la vera essenza della realtà ( dharmadhiitu). Per dirla in termi­ ni goethiani, ogni elemento della realtà contiene in sé lo Urphiinomen - l'archetipo - di tutto l'universo. Poiché il vero reale è la mente, ne consegue che ogni pensiero è col­ legato con tutto ciò che è, stato e sarà. Nella sua opera La meditazione che estingue le false immaginazioni e ricon­ duce alla sorgente, Fa Tsang indica sei soggetti di medita­ zione : l ) l'invariata coscienza alla quale ritornano tutte le cose ; 2) l'unica coscienza che trascende tutte le forme indi­ viduate ; 3) l'interpenetrarsi misterioso di tutte le cose; 206

4) la quiddità (tathiitii), fuori dalla quale nulla esiste; 5) lo specchio dell'identità (il principio per cui tutte le cose sono presenti in ogni cosa) riflettente le immagini di tutte le cose, per cui esse cessano di esistere per reciproca limi­ tazione; 6) il fatto che prendere una cosa particolare impli­ ca prendere tutte le cose che compongono l'universo. Questa dottrina non portò, come sarebbe avvenuto in India, allo sviluppo di un sistema tantrico volto alla mani­ polazione e al dominio delle forze cosmiche, bensì raffor­ zò in seno alla cultura cinese quell'orientamento estetico di fronte alla natura proprio allo spirito estremo-orientale, detto in giapponese mano no aware, che consiste nel sen­ tirsi l'uomo parte del tutto e nello stesso tempo sintesi di tutto l 'universo; è un sentimento di profonda armonia in­ teriore che traspare da tutte le opere d'arte proprie a quel­ la cultura umana. La scuola seguente è quella detta T'ien-t'ai, dal nome di un monte nel Che-kiang, ove visse il suo fondatore Chih-k'ai (53 1 -97) . Questa scuola è nota anche col nome di Fa-hua (Loto della Legge) , dal suo testo fondamentale che è il famoso Sad-dharma-pur;çlarika (Il Loto della Buo­ na Legge) , ritradotto in cinese da Kumarajiva. Il T'ien-t'ai, not.o come Tendai in Giappone, dove fu introdotto da Dengyo Daishi nell'ottavo secolo, è una forma di Buddhi­ smo mahayanico sincretico, nel quale sono ravvisabili ele­ menti appartenenti alle dotrine delle già descritte scuole Wei-shih e Hua-yen. Similmente a quest'ultima scuola, esso ·r itiene che ogni cosa contenga in sé tutta la Mente asso­ luta e che tutte le cose abbiano la natura del Buddha. Questa, denominata Tathligatagarbha (Germe dei Tathli­ gata) , genera contemporaneamente il mondo degli arche­ tipi, trascendente, e questo mondo, per cui tutti gli eventi sono, a cagione dell'immanenza in loro di un'unica realtà, armonicamente integrati. Nonostante questi presupposti idealistici, il T'ien-t'ai attribuì al mondo fenomenico ima realtà maggiore di quanto non comportassero le sue dot­ trine così chiaramente ispirate allo Yogllclira. Obbedendo a un'esigenza classica nello spirito cinese, affermò che la realizzazione del nirvll1Ja non estingue l'assunzione come reale del mondo fenomenico, e pertanto la possibilità di

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azione « impura », legata cioè a questo mondo, da parte del Buddha. Da questa affermazione discende una conse­ guenza morale e pratica che influì beneficamente sull'esi­ stenza della setta in Cina, che consisté nell'appoggio che essa diede all'ordine sociale e quindi all'attività delle auto­ rità politiche. Di tendenze radicalmente opposte, devozionali e popo­ lari, fu la scuola della Terra Pura (Ch 'ing-tu, giapp . lodo) , le cui origini lontane risalgono alle dottrine di Hui-yi.ian, ritiratosi nel 386 nel monastero di Lu-shan. La sua organiz­ zazione definitiva avvenne due secoli più tardi, ad opera di Tao Ch'o (652-645) e Shan Tao (6 1 3-8 1 ) . La teoria di questa setta, riassunta in poche parole, consiste in un devoto abbandono al Buddha della Luce Infinita, Amita­ bha (cinese : 0-mi-t'o-fo) , la pronuncia del cui nome è suf­ ficiente per allontanare qualsiasi ostacolo alla realizza­ zione del nirvll1Ja. Questa dottrina di grazia si basa sul Sukhavati-vyuha (Descrizione del Paese Beato) , tradotta da An Shih kao, il quale narra come il bodhisattva Dharma­ kara, nell'atto di diventare il Buddha Amitabha, una decina di coni fa, si stabilisce nella Terra Pura d'Occidente e ivi formulasse il voto, per il quale sarebbe venuto in aiuto di qualunque essere lo avesse invocato. Questa setta ha avuto in Cina e in Giappone un'enorme forza culturale e artistica. Nel suo seno si è sviluppato anche il culto del Dio dallo Sgu�rdo Misericordioso (Avalokitesvara, cioè Kuan-yin) . . I vari indirizzi assunti dal Buddhismo cinese, la varie­ tà dei mezzi di salvazione messi a disposizione dei prati­ canti, il grande sviluppo conseguito dalla metafisica dei differenti sistemi, avevano poco per volta fatto perdere di vista il vero fine della predicazione del Buddha. Avverso a questo stato di cose sorse l'ottava grande scuola cinese - detta Ch 'an, dal sanscrito dhyiina (pali jhana) , medita­ zione - la cui caratteristica esteriore più apparente è ap­ punto l'estrema sobrietà di mezzi soterici, la scarsezza di formulazioni filosofiche e la totale assenza di rituale e di liturgia. I caratteri elusivi di questo movimento, conside­ rato in Cina e Giappone come la quarta rielaborazione originale del pensiero del Buddha (dopo I'Abhidharma, il

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Mahaylina e il Tantra), rendono molto difficile tratteggiar­ ne il contenuto dottrinale, tanto più che il Ch'an, total­ mente immerso nella realizzazione pratica, non ha mai curato l'elaborazione di teorie filosofiche. In primo luogo vi è un'estrema semplificazione dei mezzi per la libera­ zione, che in pratica sono ridotti a uno solo - la medita­ zione (dhylina) - alternata, nelle comunità monastiche, a un'intensa attività di lavoro (contrariamente alle regole delle altre sètte buddhiste che impongono ai monaci di vivere di elemosina) . Ammessa la totale inesprimibilità del principio assoluto di tutte le cose, poiché riguardo ad esso non può esistere il soggetto di un'esperienza che lo assu­ ma come oggetto, la meditazione ch'an parte da un vuoto mentale e procede secondo una crescente consapevolezza del principio illuminativo insito nella sua pura attività, fino a giungere a un « punto di rottura », di là dal quale il meditante si trova improvvisamente traspo�to, identifi­ cato, al piano dello siinya. Data la diversità radicale fra l'insieme degli stati che precedono l'illuminazione ed essa stessa, questa si invera come una folgorazione istantanea. Questa folgorazione è denominata in cinese wu, in giappo­ nese satori. Il Ch'an afferma inoltre un altro principio molto im­ portante, e cioè che la meditazione debba svilupparsi sen­ za essere condizionata a un risultato particolare, e sia quindi « senza intenzione » (wu hsin), poiché, qualunque specie di oggetto o condizione essa si ponesse, le togliereb­ be quel carattere di libera attività (dell'lo, diremmo noi) , nel quale consiste l'essenza della bodhi in lei insita. Questo principio è una trasposizione, in termini buddhisti, del principio taoista del « non-agire t> (wu-wei), perché l' « agire­ senza-agire » (wei-wu-wei) è la Virtù (Teh) dell'Assoluta Realtà (Tao). « Risiedere nel non-pensiero » significa non legare il pensiero a un contenuto particolare, che in quan­ to tale lo limita con la sua determinatezza. L'eventuale oggetto della meditazione, assunto al principio della mede­ sima, deve servire soltanto come pretesto a un'attività pensante, che in un momento successivo contempla se stes­ sa per sperimentarsi. Il pensiero quindi si sviluppa nella meditazione come una attività distaccata, disimpegnata da 209

qualunque oggetto specifico, intesa a vivere la propria libertà fondata sul vuoto. Da ciò nasce la straordinaria sinteticità e sobrietà del Ch'an, nella cui pratica non vi è posto per qualsiasi specie di attaccamento, anche per il Buddha (« che, se vi tagliasse la strada », disse un mae­ stro, « dovete eliminare » ) . La liberazione, in altri termini, nasce dalla libertà stessa della coscienza pensante priva di contenuto. (A tale proposito si narra l'aneddoto del patriarca Huai Jang (677-744) , che, vedendo il suo disce­ polo Ma-tzu meditare per ottenere la bodhi, gli si pose vicino a lucidare la superficie di un mattone, dicendo di volerne fare uno specchio. Con ciò volle significare l'ina­ nità di una meditazione fondata sull'attaccamento a un oggetto, per quanto elevato, come può essere la bodhi) . Un altro carattere del Ch'an è la completa naturalezza di vita alla quale è tenuto chi lo pratica : naturalezza sotto­ lineata dall'obbligo di lavorare dei suoi adepti, che contra­ sta con i princìpi di tutte le altre sètte buddhiste. Questa normalità di vita nasce dal fatto che la illuminazione non contraddice il mondo della comune esperienza, bensì lo riduce a una sfera di libertà, conferendogli il suo vero, interiore significato. Sarrzsiira e nirviil;la, come si è già det­ to a proposito dello Yogacara, sorgono l'un dall'altro illu­ soriamente, perché vi è un pensierò che li distingue. Allor­ ché questo pensiero si riàssorbe nell'atto illuminativo, nasce una visione che in tutte le cose riconosce lo sunya e, quindi, la suprema realtà. Di fuori il monaco continua a vivere normalmente, interiormente egli è sanyati[. Per queste esigenze il Ch'an ricorda molto il Tantrismo vaj rayana, pur essendo privo di ogni liturgia e di quel sistema di « appoggi » mistici che caratterizza tale si­ stema. Ancora di più ricorda il Tantrismo del cosiddetto Sahajaylina buddhista dell'India, quando, evitando ogni formulazione dogmatica, conduce i suoi adepti alla libera­ zione mediante la meditazione su paradossi e immagini razionalmente incomprensibili, tendenti a svegliare l'intui­ zione della suprema verità proprio mediante la loro irre­ solubilità logica. Il sistema dei paradossi per ottenere il wu è un aspet­ to caratteristico di alcune sètte Ch'an che fondano la loro 210

disciplina illuminativa sui cosiddett.i « casi giuridici >> (kung-an, giapponese ko an), frasi apparentemente prive di significato e che pertanto, a�lorché il pensiero si con­ centra su di loro, non lo legano ad alcun concatenamento logico o affettivo. La comprensione di tali frasi, di conse­ guenza, avviene in s�guito a un'intuizione a-razionale alla quale il discepolo giunge attraverso il penoso esercizio di una severa meditazione, talvolta arricchita dalle dure lezio­ ni del maestro (il cosiddetto sistema « dell'urlo e del ba­ stone »), intese a scuotere là compagine psichica del medi­ tante e ad allontanarlo da inconsci attaccamenti e compia­ cimenti che intorbidano la meditazione. Intuizione dell'ar­ monia dell'uomo con tutte le cose, semplicità e vigile atti­ vità sono gli elementi fondamentali che caratterizzano que­ sta setta buddhista, che ha avuto un influsso molto gran­ de nella formazione della· civiltà estremo-orientale. Secondo la tradizione del Ch'an, il suo insegnamento sarebbe stato · segretamente trasmesso dal Buddh� al suo discepolo Maha:kasyapa, da questi al suo allievo e così via, per 28 maestri che formano la successione dei 28 Pa­ triarchi indiani. L'ultimo di · questi è il misterioso Bodhi­ dharma, singhalese o persiano, venuto in Cina al tempo dell'imperatore Wu (502-49) della dinastia Liang. Si sta­ �ilì a Lo-yang, dove trascorse silenziosamente nove anni « a contemplare un muro » . Dopo la sua morte la dire­ zione della scuola passò al discepolo Hui K'o (487-593) , che divenne così il secondo patriarca cinese, indi al terzo patriarca Seng Ts'an (m. 606), autore dello Hsin Hsin Ming (Incisioni di Fede) , che è anche uno dei classici del­ la letteratura buddhista cinese, poi al quarto patriarca, Tao-hsin (580-636) , e al quintp, Hung Jen (602-75) . Dopo la morte di Hung Jen la scuola Ch'an si scisse in due indi­ rizzi fondamentali, quello di Shen Hsiu (600-706) (Scuola del Nord) , detto anche dello Spirito Universale (Hsing Tsung), perché come tale veniva concepito il Buddha, affermante la gradualità dell'illuminazione, e quello del sesto patriarca, Hui Neng (638-7 1 3) (Scuola del Sud), detto del Vuoto (K'ung Tsung), affermante invece l 'istantaneità della illuminazione, che infine prevalse e fu considerato ortodosso.

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Dopo il sesto partiarca la scuola Ch'an esce dalle neb­ bie della leggenda ed entra nella storia vera e propria del Buddhismo cinese. Sotto la . guida dei tre successivi pa­ triarchi, Huai Jang, Ma-tsii e Po Chang (720-8 14) , il Ch'an acquistò la fisionomia .anche esteriore di una scuola con proprie caratteristiche. Po Chang, in particolare, tolse i monaci dai conventi della scuola del Vinaya (Lu Tsung), nei quali essi abitualmente alloggiavano, istituì per loro speciali regole monastiche, basate sul vinaya e sull'etichet­ ta confuciana, e soprattutto li fece lavorare, non soltanto per ragioni pratiche, ma anche per disintellettualizzare la loro vita interiore. Sotto questi tre patriarchi ebbe luogo inoltre una feconda sintesi fra Ch'an e Taoismo, che im­ pregnò di sé la cultura cinese, esercitando uh considere­ vole influsso anche su filosofi e letterati neo-confuciani. Pur essendo alieni da quella devozione per i siltra e gli slistra (testi dogmatici; in cinese lun) , propria alle tre sètte buddhiste, i monaci Ch'an ammisero alcuni testi co­ me avviamento alla meditazione, prediligendo la Vajracche­ dik'li-prajfi'liparlimita (La Prajfi'lipar'limitli che taglia come un diamante) e il Lanklivatarasii.tra (Il Sii.tra della rive­ lazione a Laiika) , sul quale si basa la dottrina del V ij fili­ navlida. La setta Ch'an possiede inoltre, come testi cano­ nici propri, raccolte di detti dei suoi patriarchi, · che essa considera pari al Buddha. Questi sono Ch'uan-teng lu (Le Testimonianze sulla Trasmissione della Luce) di Yang-yi (m. 1 020) ; Liu-tst:l T'an-ching (Il Satra nella Versione del Sesto Patriarca) ; il Ku tsun-hsu Yu-lu (La Raccolta di Mas­ sime di Antichi Virtuosi) , compilata da Tse nel decimo secolo. Tali opere illuminano sulla particolare tecnica psi­ cologica del Ch'an e sulla metodologia ascetica propria a questa scuola, in special modo per quanto riguarda il me­ todo educativo avente lo scopo di far desistere il pratican­ te da ogni sforzo deliberato nella meditazione e quindi nel­ la vita di tutti i giorni, sviluppandogli la naturalezza e ·la fiducia in se stesso. Dopo il decimo secolo le varie scuole buddhiste in Cina decadono come movimenti separati, mentre, allo stesso tempo, cresce il loro influsso su tutti i fenomeni culturali di quella nazione, in particolare sull'arte dell'epoca Sung 212

{960- 1 270) e su quel grandioso fenomeno che fu la rina­ scita confuciana dal decimo al dodicesimo secolo. Si accen­ tuò la sintesi fra i diversi movimenti buddhisti e il loro sincretismo con la religione e la cultura propriamente cinesi. Le uniche scuole che prosperarono singolarmente furono quella devozionale del Ch'ing T'u e quella medita­ tiva del Ch'an. Per quanto si riferisce a quest'ultima, è interessante osservare comt:: l'indirizzo ortodosso del qua­ le si è già parlato (l'altro scomparve rapidamente) viene trasmesso in quest'ultimo periodo secondo cinque linee di trasmissione, le quali, similmente a quanto si verifica nei tantra, hanno lo scopo di adattare l'insegnamento ai cinque diversi tipi di uomini. Tralasciando di descrivere le minuzie relative a tutte queste sottoscuole, che in diver· sa misura accolgono elementi di altre correnti mahayana, in particolare dello Hua-yen Tsung, ci contentiamo di indi­ care le due principali che sopravvivono ancora oggi, spe­ .c ialmente nella loro espressione giapponese. Esse sono : La Ts'ao-tung Tsung (giapponese Soto), fondata da Tung­ shan Liang-chih (807-69) , detta successivamente, dal mae­ stro Hung-chih Cheng-chueh (m. 1 1 57) , Mao-chao ch 'an (Illuminazione Silenziosa Ch'an) . La pratica di questa se t­ ta ha come elementi fondamentali il cosiddetto tso-ch 'an, la « calma meditazione » (che penetrerà fra le discipline neo-confuciane come il ching-tso, il « calmo star seduti ») , e la « dottrina delle cinque dignità », tratta dallo I Ching, indicante cinque stati di progressiva purificazione prima di accostarsi al'esperienza del wu. La teoria di questa setta, di orientamento quietistico, afferma che ogni uomo nasce illuminato, perché il suo vero essere è il Buddha : per esperimentare ciò gli occorre solo una tranquilla contemplazione che attui quanto prima ciò che è soltanto un dato di conoscenza intellettuale. Afferma inoltre la ne­ cessità della pratica quotidiana dei riti religiosi e delle regole morali, onde mantenere il clima interiore che favo­ risce lo sbocciare della illuminazione. Indirizzo opposto ha invece la scuola contemporanea Lin-chi Tsung (giapponese : Rinzai) , fondata da Lin-chi l Hslian (m. 867) . Questa ha un orientamento brusco ed energico, seguendo, sim�lmente a un'altra scuola Ch'an 2 13

(Yiln-men Tsung), il sistema già ricordato « dell'urlo e del bastone » e degli enigmi kung-an, dei quali si è già parla­ to. Il discepolo viene portato all'illuminazione mediante una profonda scossa psichica, che provoca lo scompiglio nella sua compagine interiore, sì da fare repentinamente erompere il suo vero essere, che è il bodhi (cin. wu, giapp. satori) . Tale scossa viene provocata mediante l'intensa con­ centrazione mentale su di un dato kung-an, continuata inin­ terrottamente durante la normale vita di tutti i giorni. Di questi kung-an esistono alcune raccolte, le più celebri delle quali sono Wu-men kuan (La Porta Senza Porta) e la collezione di cento enigmi detta Pi-en lu, redatta al princi­ pio del dodicesimo secolo.

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4) Diffusione del Buddhismo in Giappone L'introduzione del Buddhismo in Giappone segna il passaggio, nella storia del paese, dalla remota antichità (o-mukashi) alla nuova epoca, nota nella storiografia at­ tuale come evo antico (inishie). La penetrazione della dot­ trina buddhista (Bukkyo) nell'arcipelago nipponico coinci­ se, più o meno, con l'adozione delle forme della civiltà cinese (Shina no bummei), evento che impresse a tutta la cultura giapponese un nuovo orientamento. Come data dei primi contatti del Giappone col Buddhi­ smo si ricorda il 552, allorché Kimmei Tenno (539-57 1 ) ricevette i n dono dal re coreano d i Kudara, Song Myong (523-54) , una statua del Buddha assieme a dei keiten (siltra). L'arrivo del nuovo culto, sebbene favorito dal­ l'Imperatore, non fu accolto molto favorevolmente dalle correnti tradizionaliste giapponesi, impersonate dai Mono­ nobe, guardiani del palazzo : questi attribuirono alla sta­ tua del Buddha la responsabilità di un'epidemia, per cui fu ordinato che venisse gettata in un fosso e fossero fru­ stati alcuni monaci buddhisti giunti allora in Giappone. In seguito a ciò scoppiarono altre violente epidemie, che lasciavano i segni di frustate sul corpo dei malati, per cui le autorità del Paese stimarono più opportuno cessare questa persecuzione contro le effigi e la religione del Buddha. In realtà, dietro a questi eventi mitologizzati, si cela la lotta fra due potenti consorterie baronali che si dispu­ tavano il dominio della corte e quindi del Paese, le quali erano i Soga, buddhofili, eclettici, che volevano rinnova­ re il Paese con elementi tratti dalla civiltà cinese e corea­ na, ed i Mononobe, shintoisti, che nella tradizione vede­ vano il miglior sostegno delle fortune giappone�i e delle loro proprie. La lotta durò 35 anni e finì quando, sullo storico monte Shigi, Soga Umako sconfisse Mononobe

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Moriya (587) . Prima ancora della fine di questa lotta il Buddhismo aveva compiuto notevoli progressi, fra i quali la conversione del medesimo imperatore Yomei Tenno alla nuova fede. La vittoria definitiva arrise alla nuova religione sotto l'imperatrice Suiko (593-629) , il cui governo, però, era nelle mani del suo energico nipote Toyo-mini, detto anche Ya-mimi oj i (il principe dalle otto orecchie) , e ricordato nella storia sotto il nome di Shatoku Taishi (572-62 1 ) . Questi era stato iniziato alla dottrina del Buddha da un monaco coreano, tale Hye Cha (giapponese Ej i, ?-623) , ed appena nominato alla reggenza (sessho), che durò trenta anni (593-62 1 ) , favorì la massima propaganda del Buddhi­ smo in Giappone, facendo costruire una cinquantina di templi, fra i quali lo Ikaruga-dera costruito a Nara nel 607, che, pertanto, è il più antico tera (tempio buddhi­ sta) costruito in terra giapponese. L'arte giapponese del­ l'epoca Suiko ci ha tramandato opere di scultura che, nella loro spirituale sottigliezza, continuano l'arte dei Wei, ed affreschi che ripetono le forme ed i modi degli affreschi di Qlzi1 in Asia Centrale, ispirati all'arte indiana. In quest'epoca il Buddhismo cominciò ad essere ripen­ sato in forma giapponese, per cui, due secoli più tardi, diverrà un fenomeno nazionale. Allo stesso tempo, dopo alcuni tentativi di ribellione shintoistica, si addivenne a quella riconciliazione ed avvicinamento reciproco fra le due religioni che condurrà, nel secolo IX, alla creazione del Ryobu-shinto (lo Shinto dai due aspetti) , che pratica­ mente rappresenta l'assunzione, da parte del Buddhismo (di partenza a-religioso) , del pantheòn giapponese e l'am­ missione, o almeno la tolleranza, da parte dello Shinto (religione constante di una mitologia e di rituali magici; senza implicazioni morali e metafisiche) , dei principii mo­ rali e filosofici buddhisti. È notevole il fatto che la sintesi fra queste due correnti sul piano religioso, pur essendo molto intima, non impedì, mille anni più tardi, la loro separazione ufficiale allorché lo Shinto fu nuovamente assunto come religione di stato. Sotto il diretto influsso del Buddhismo e nel segno della civiltà cinese si ·e bbe, durante il regno dell'impe-

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ratore Kotoku (645-654) , l'inizio di quel cinquantennio (645-70 1) noto nella storia giapponese come Taikwa no kaishin (la grande riforma dell'èra Taikwa) nel quale tutta l'amministrazione del paese fu riformata secondo il model­ lo statale cinese. Le prime sette buddhiste che si diffusero in Giappone furono, nei secoli VII ed VIII, più che organizzazioni reli­ giose vere e proprie, semplici scuole filosofiche, che . con­ tinuarono sul territorio giapponese l'elaborazione dottri­ naria di particolari testi, iniziata in Cina. Esse sono, in particolare, le seguenti sei scuole, già note nella storia del Buddhismo in Cina: Sanron-shu, corrispondente alla cinese San-lun Tsung , della sunyavada, scuola fondata sui tre testi di Nagarj una e di Aryadeva. Fu introdotta nel 625 ; Jojitsu (cinese : Ch'eng-shih Tsung) , fondata sul Satya­ siddhi di Harivarman, opera di passaggio fra lo Hina ed il Maha.yana : introdotta nel 625 ; Hosso-shu, il cui testo fondamentale era lo Yuishiki (cinese : Wei-shih Tsung) , scuola di idealismo soggettivo vjfzlina-viida fondata da Hsi.iang Tsang, introdotta in Giap­ pone dal bonzo Dosho ( ?-700) nel 654 ed illustrata dalle personalità dei bonzi Gien ( ?-728) , Gyogi (670-749) , Gem­ bo ( ?-746) ; Kusha-shu (dal sanscrito : Kosa) corrispondente alla scuola cinese Chii.-shih Tsung, basata sull'Abhidharmako§a di Vasubandhu, introdotta nel 658. Nel periodo Nara (7 1 0-784) si aggiunsero le seguenti due, a completamento del numero di sei : Kegon-sha, corrispondente alla scuola cinese dello Hua­ yen, di Fa Tsang, introdotta nel 730, che in Giappone svi­ luppò il culto di Vairocana (Roshana o Birushana, identi­ ficato con la divinità femminile solare shintoista Amate­ rasu-omi-kami, progenitrice della dinastia imperiale nip­ ponica) ; Risshfl, corrispondente alla scuola del Vinaya (cinese : Lii. Tsung, di Tao Hsi.ian) che fu introdotta in Giappone nel 753 . Queste sei scuole non sopravvissero molti secoli, poiché rappresentarono nella cultura giapponese null'altro che la 217

prima traduzione, in termini nazionali, di un pensiero che in Cina aveva raggiunto un'espressione compiuta e ormai adatta alla civiltà dell'Asia Orientale. Ben più fecondi, sot­ to questo punto di vista, furono i secoli dei successivi pe­ riodi di Nara (7 10-794) e di Heian (794-1 1 86) , durante i quali furono introdotti · nelle terre di Yamato due movi­ menti buddhisti, che ancor oggi prosperano, poich� rap­ presentano una rielaborazione originale giapponese di due scuole che in Cina ebbero la loro prima manifestazione. Questi due movimenti sono : La Tendai-shu, corrispondente al cinese T'ien-t 'ai di Chih K'ai, setta esoterica basata sull'interpretazione del Sad­ dharmapur.ularika, di cui si è parlato già, introdotta in Giappone dalla Cina ad opera del monaco Dengyo Daishi (767-822) . Questa scuola ha il suo centro nel monte Hiei presso Heian-kyo (attualmente Kyoto) , al quale Dengyo Daishi mutò il nome in Sanno, cinese Shan W ang (re del­ le montagne) , volendo significare col simbolo dei due ideo­ grammi la teoria della doppia verità propria al Mahaylina, e cioè : shan llJ : dal punto di vista dello sunya si è oltre la negazione e l'affermazione, oltre il sa1J1slira ed il nirvli1Ja, rappresentati dalle due .aste terminali dell'ideogramma (quella del centro indica appunto la madhyamii-pratipad che entrambe trascende) ; wang .:E , indica invece che, dal punto della verità contingente (linea centrale orizzontale) esistono due realtà irreconciliabili, l'affermazione (linea su­ periore) e la negazione (linea inferiore) . Il sincretismo innato di questa scuola, la cui teoria, come si è detto, rappresenta una fusione di Hua-yen e di Wei-shih, si adattò alla mentalità semplificatrice propria al popolo giapponese e ne permise un'originale rielabora­ zione. Questo spiega l'influsso di questa setta non solo nell'ambito dei suoi seguaci, che sulle falde del monte Hiei edificarono ben 300 templi e conventi, ma anche pres­ so le successive sette buddhiste che da essa trassero impor­ tanti elementi della loro economia filosofica e religiosa. Favorì il suo successo, anche fra le classi non elevate della popolazione, il fatto che il suo fondatore accogliesse nei riti tutte le divinità shintoiste (i kami), considerandole emanazione della coscienza cosmica primordiale, il Tathii218

gata-garbha (il germe dei Tathagata) , e come tali le identi­ ficasse a funzioni del supremo Buddha, secondo un pro­ cesso di assimilazione di divinità locali già avvenuto nel Buddhismo mahliylinico dell'India e del Tibet . (Per quanto si riferisce al contenuto dottrinale del Tendai, veggasi quan­ to già detto a proposito del T'ien T'ai cinese) . La Shingon-shu, pronuncia giapponese di : Chen-yen Tsung, la scuola tantrica della quale si è parlato nel pre­ cedente capitolo. Essa fu introdotta in Giappone dal céle­ bre Kobo Daishi, vissuto dal 774 all'834, famoso scrittore, pittore e scultore, inventore dei caratteri sillabici hira­ gana, dai Giapponesi considerato come il più grande mae­ stro comparso nel loro paese e, pertanto, ritenuto manife­ stazione di Vairocana, divinità centrale dello Shingon. La tradizione popolare ritiene che egli non sia mai morto, bensì attenda nella tomba il momento di uscirne allorché scenderà sulla terra Maitreya (giapponese Miroku) per unirsi a lui e restaurare la Buona Legge fra gli uomini. La Shingon, della cui dottrina si è . già parlato, godé di molto favore fra l'aristocrazia e"' gli ambienti di corte, non solo per la grande personalità del suo introduttore, al quale l'imperatore Nimmyo Tenno diede il convento di TOj i presso Ky6t6, indi il monte Koya, ma anche per il contenuto arcano delle sue dottrine e per il fascino della sua liturgia, basata; come si è detto, sui due ma1Jf/ala: il Vajradhlitu-ma�J.çlala (Kongo-kai), o quello della gnosi (praj­ na), o degli archetipi, ed il Garbhadhatu-ma�J.çlala (Taizu Kai), quello del fenomeno, oppure del mezzo (upliya) o della compassione karw:zli . Seguendo la tendenza del Buddhi­ smo nipponico, che identifica le divinità shintoistiche a funzioni del Supremo Buddha, Vairocana, che è il sim­ bolo centrale di questa forma di Veicolo Adamantino, fu assimilata alla divintà solare Dai nichi, cara allo spirito nazionale nipponico. La setta, in seguito divisasi in due rami (Ko-gi e Shin-gi, detti complessi:vamente gli Shingon­ shu-ni-ha), stabilì il suo centro nel monastero di Koyasan , dove la sua attività esteriore consisteva nel compiere i numerosi riti della liturgia tantrica, intesi a purificare gli iniziandi attraverso il « passaggio » per i diversi mar,z(lala, fino ad essere degni della realizzazione dei due principali. 219

Oltre a questa attività liturgica, la quale ebbe anche una notevole importanza sulla .formazione dei tipi dell'arte religiosa giapponese, lo Shingon, così come la setta paral­ lela Tendai, si preoccupò di far rivivere il fervore di ricer­ ca interiore del Buddhismo primitivo attraverso i suoi monaci solitari, viventi di fuori dalla comunità conventua­ le, noti come shugenja (asceti) o yamabushi (uomini delle montagne) , appunto perché sulle montagne solitarie si ritiravano a meditare. Le due sette delle quali si è ora parlato si diffusero principalmente fra l'aristocrazia di corte. La loro importan­ za non è limitata nell'ambito religioso, ma si espande a quello della cultura e dell'arte. Esse, infatti, possono venir considerate come le educatrici del gusto e della sensibilità del popolo giapponese ed uno dei mezzi principali attra­ verso i quali la superiore cultura cinese trovò modo di penetrare in Giappone e diventare parte integrante della sua civiltà. Differentemente che in Cina, dove il Buddhi­ smo, anche nei periodi di massimo favore, era considerato come una dottrina straniera e fu sempre osteggiato dal Confucianesimo, in Giappone esso apparve come una reli­ gione superiore ed un messaggio provvidenziale per lo stesso sviluppo dello spirito nazionale, come si vedrà nel periodo seguente. Nell'epoca di cui si è trattato finora il centro di questa raffinata cultura sino-buddhista fu la corte di Kyoto, la quale, però, nella successiva epoca Kamakura ( 1 1 92- 1 333) , perse ogni potere politico di fronte alle baronie dei myo­ den (poi daimyo) che obbedivano al Reggente (lo Shikken) della famiglia degli Hojo, residente a Kamakura. In que" st'epoca l'amministrazione centralizzata di tipo cinese andò in frantumi, sostituita da un'organizzazione feudale. In un tempo corrusco di lotte, come questo, si affermano di fronte agli ideali estetici e mistici dell'epoca precedente - quelli eroici e guerrieri, quelli stessi che permetteranno· al Giappone di salvarsi dalla duplice invasione dei mon­ goli di Qubilay qaan ( 1 274 e 1 28 1 ) . Le sette che si affermano nell'epoca d i Kamakura sono impregnate di slancio devozionale, di semplicità e di fer­ vore meditativo. Esse sono, in sintesi, le scuole basate sul

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culto di Amitabha (Amida) e quello pratico-meditativo Ch 'an (Zen). Le sette devozionali nacquero soprattutto per la necessi­ tà di dare al comune credente un mezzo di salvazione più semplice, più immediato e, soprattutto, più comprensibile di quanto non fosse la complicata liturgia delle altre scuo­ le, richiedente, fra l'altro, una preparazione intellettuale ed un impegno di tempo, e quindi di mezzi, non alla por­ tata di ogni buddhista. Inoltre, queste sette obbediscono a quella che è l'esigenza più propriamente religiosa del­ l 'umanità, molto più diffusa dell'impulso verso la ricerca metafisica, proprio ad una aristocrazia intellettualmente evoluta. Questi due elementi, uniti alle eccezionali qualità dei fondatari delle scuole che si trattano più sotto, spie­ gano l'immenso successo che raggiunsero ed il benefico effetto che ebbero sul Giappone in tempi calamitosi e cri­ tici della sua storia. Le scuole di cÙi si tratta furono numerose, anche perché diedero luogo a varie sotto-sette, tuttora fiorenti. Le principali furono, però, le cinque se­ guenti : - Dall'invocazione Namo 'mitabhllya Buddhaya (giap­ ponese : Namu Amida Butsu, onore al Buddha Amitabha ! ) , prese il nome l a prima setta, chiamata Yilzil Nembutsu, fondata nel 1 1 24 da Ryonin ( 1 072- 1 1 32) , il quale, rammen­ tando la promessa, fatta da Dharmakara nell'atto di dive­ nire Amitabha nel Paradiso di Occidente, di venire in aiuto , cioè, a chi lo avesse chiamato, additò la continua invoca­ zione ad Amitabha come mezzo per la salvezza. La seconda setta devozionale, che esercitò ben più gran­ de influenza fra tutti gli strati della popolazione, è una par­ ticolare interpretazione della dottrina della scuola cinese Ch'ing-tu (giapponese : lodo) da parte del monaco Honen ( 1 1 33- 1 2 1 2) , il quale, nel 1 1 75, giunse alla conclusione che la via tradizionale del Buddhismo, fondata sulle buone opere, �ui dasa-sflani e sul Vinaya, non era più adatta ai corrotti tempi moderni. L'unica salvezza, pertanto, consi­ ste nella ininterrotta meditazione su Amida e l'invoca­ zione del suo nome in tutti i momenti della vita, qualun­ que altra cosa si stia facendo. Affermò, in contrasto con i principii del primo Buddhismo, che l'uomo non può più

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salvarsi facendo affidamento sulla « propria forza » (jiriki); deve pertanto ricorrere a quella ben piii alta di Amitabha (tariki = forza altrui) . Seguendo questa via, egli ottiene di rinascere nella Terra Pura (lodo) restando accanto ad Amitabha. Questa dottrina fu in seguito interpretata sub specie interioritatis dal patriarca Ryoyo ( 1 34 1 - 1 420) , nel senso che la Terra Pura è una qualità interiore o, meglio, una condizione di vita interiore, nella quale lo spirito uma­ no si trova trasposto in seguito alle pratiche di meditativa devozione. La setta della quale si è ora parlato subì una brusca trasformazione ad opera del monaco Shinran ( 1 1 74-1 268), già discepolo di Honen, il quale condusse alle estreme con­ seguenze i presupposti del lodo, nella nuova setta da lui fondata, nota con il nome di lodo-shinshu (vera setta Jado) o più semplicemente Shin, attualmente molto fioren­ �e nei suoi dieci rami che abbracciano circa 1 3 milioni di tedeli. Shinran pose l 'accento, piuttosto che sull'azione del fe­ dele che invoca Amida, sull'atto di libertà che Amida com­ pie allorché largisce la sua grazia. Pertanto, ciò che ve­ ramente importa, per far funzionare tale grazia, è l'abban­ dono totale della propria iniziativa, la quale è jiriki, fidu­ cia nei proprii mezzi. Di conseguenza, Shinran affermò che basta invocare Amida una volta sola con mente de­ vota per assicurarsi il suo beneficio, rigettò il monache­ simo (egli stesso lasciò lo stato religioso, per sposarsi e vivere la vita del mondo) ed affermò la tesi paradossale secondo la quale il malvagio ha maggiori probabilità di arrivare alla Terra Pura, perché non può confidare su azioni meritorie da lui compiute, e, quindi, basarsi sui suoi mezzi (jiriki). L'ultima setta del culto di Amitabha, nata nel periodo Kamakura, fu quella fondata da lppen ( 1 239-89 ) nel 1 275, detta li ( il « tempo », perché ritenuta l'unica adatta . al suo tempo) che successivamente si divise in tredici rami. lppen affermò che nemmeno la fede in Amida è necessa­ ria per la liberazione, perché in essa vi è un elemento in­ tellettuale che, proponendosi un risultato particolare, lega l'uomo a questo; per la salvazione basta la pronuncia del 222

nome di Amida, che opera in virtù del proprio suono. Questa setta, più che per la sua paradossale dottrina, fu importante per il sincretismo a cui diede luogo fra Bud­ 'dhismo e Shintoismo. Una setta devozionale che tornò al Saddharmapw;zçlari­ ka ( giapponese : Myoho-renge-kyo ) e ne fece il suo vessillo, fu quella fondata dal battagliero monaco Nichiren ( Loto del sole, 1 222-82 ), ritenuto dai suoi seguaci incarnazione di un discepolo del Buddha ( il bosatsu Jogyo ). Nichiren constatò la decadenza nella quale versava l'insegnamento del Buddha, disperso nei rivoli delle varie sette e sotto­ sette, nessuna delle quali, a suo avviso, riusciva veramente ad elevarsi ad un'esperienza vivente delle verità fondamen­ tali della Buona Legge. Inoltre egli si avvide che un pe­ ricolo ancora maggiore era costituito dall'ottusità delle coscienze, per le quali la parola del Buddha, nelle diffe­ renti versioni nelle quali veniva diffusa, era diventata un mezzo automatico di salvazione e non più qualcosa che attendeva l'azione umana per venir ravvivata e resa ope­ rante. Nichiren intraprese una lotta senza quartiere contro tutte le altre scuole, cosa che alla mentalità buddhista è quasi inconcepibile, e, ciò che è ancor meno buddhista, assunse un atteggiamento nazionalistico e combattivo, in­ citando i Giapponesi all'unità degli animi, di fronte al­ J 'incombente minaccia dell'invasione mongola, che egli puntualmente previde, ed all'unità politica sotto un unico sovrano ( si ricordi la doppia autorità Tenno-Shogun alla quale sottostò il Giappone fino al 1 868 ), ciò che gli valse una condanna a morte da parte del reggente Hoj o Tokiyori ( 1 226-63 ), commutatagli in seguito ad un miracolo a varie condanne all'esilio. L'attività fanatica e spesso turbolenta di questo monaco ebbe l'effetto di ravvivare la fede bud­ dhista in Giappone, anche fra coloro che non apparte­ nevano alla sua setta, e di dare una nota religiosa al ri­ sveglio del sentimento nazionale che condusse alla vittoria sui Mongoli. Lo spirito giapponese è naturalmente guerriero, attivo ed amante della semplicità. La forma del Buddhismo che probabilmente meglio si adattò alle naturali qualità giap­ ponesi e le sublimò in un'attività spirituale fu quella del223

la scuola Ch'an, detta in Giappone Zen. Il Ch'an venne conosciuto dai giapponesi nelle sue due forme Lin-chi ( giapponese : Rinzai), introdotto da Eisai ( 1 141- 1 2 1 5 ) e Ts'ao-tung ( giapponese Soto) diffuso in Giappone da Do­ gen ( 1 200- 1 25 3 ) ed organizzato da Keizan Shokin ( 1 2681 325). Dopo quanto si è detto a proposito del Ch'an cinese, non è molto facile esporre i principii nei quali consiste la particolare dottrina dello Zen giapponese, non perché vi sia una differenza sostanziale fra i due movimenti, dato che il secondo è la continuazione del primo, ma perché la totale inintellettualità, la scarna semplicità e, allo stesso tempo, la elusività, che nella scuola giapponese sono · più accentuate che in · quella cinese, rendono lo Zen nipponico, più che un insieme di dottrine fondate su di un testo par­ ticolare, una pratica avente per scopo l'intuizione attiva della vera realtà delle cose. Questa intuizione appare pres­ so lo Zen come un atto ( non un fatto!} continuo dello spi­ rito che coglie, operando, il senso delle cose, simboleg­ giato dal Buddha. Questa realtà ultima, si è detto, è il vuoto, lo sunya : la sua realizzazione è la meditazione in­ formale, da cui sboccia la folgorazione ( cinese wu, giap­ ponese satori), mediante la quale la mente esperimenta la propria essenza, che è il tessuto dell'universo; la sua e­ spressione è, pertanto, il silenzio, donde la carenza di for­ mulazioni teoriche, la mancanza di prese di posizione, di atteggiamenti e di impegni dottrinari. Nello Zen giapponese, particolarmente nel Rinzai, ap­ pare molto importante l'alternarsi di meditazione e di azione, le quali costituiscono i due cardini della sua pratica. La meditazione, spiega Dogen nell'Occhio della Vera Legge ( ShlJblJ genzlJ), va compiuta senza intenzione e sen­ za mirare ad un risultato particolare, ciò che impegne­ rebbe la mente in una determinata direzione, non renden­ dola atta a sperimentare la propria vera natura. L'illumi­ nazione, afferma il medesimo autore, poiché costituisce la più intima essenza di ogni uomo, è presente ancora prima dello zazen ( sessione meditativa); la meditazione, pertanto, è un atto post-illuminativo. Occorre a questo punto osser224

vare, da parte nostra, che « prima » e « poi » non tanto si riferiscono al tempo misurabile, quanto al fatto che il « prima » è la condizione per la quale si può meditare, cioè l'esistere perenne dell'illuminazione, la quale sottende ogni atto di pensiero e quindi è il presupposto per quel movimento verso di lei che è la meditazione, il quale costituisce, pertanto, il « poi ». Questa considerazione giu­ stifica l'espressione dello Zen, secondo la quale l'illumi­ .nazione è « rivedere il volto che si aveva prima di nasce­ re ». Allorché si compie questa esperienza non si viene trasposti in un mondo diverso, bensì questo mondo appare per quello che realmente è e come realmente è. Si dice a tale proposito che « prima dello Zen i monti sono monti e le valli sono valli; durante la pratica dello Zen i monti non sono monti e le valli non sono valli; dopo l'illumina­ zione i monti sono nuovamente monti e le valli sono val­ li ». Ogni cosa, si dice, ha la natura del Buddha, per cui questa non è nulla di più « del muso di un asino e della bocca di un cavallo » . Libero d a trascendenze e d a speranze ultraterrene, lo Zen si volge alla vita ed all'attività umana, impregnando ogni atto del suo spirito solerte e distaccato. Semplicità ed essenzialità sono i caratteri delle opere create dallo Zen : da ciò nasce quella sobria eleganza distintiva dell'ar­ te giapponese, ad esempio. Infatti lo Zen, forse più di qua­ lunque altra forma culturale, ha foggiato lo spirito della civiltà nipponica. Le sue due forme, alle quali si è alluso, ebbero grandissima fortuna in Giappone, e ne hanno tutto­ ra, perché rappresentano, fra l'altro, la giustificazione e la spiritualizzazione di quell'impulso eroico che, assieme al sentimento di armonia con l'universo delle cose create ( mono no aware) appare come l'essenza dell 'anima giap­ ponese. Continuando la tendenza manifestata in Cina dagli ana­ loghi movimenti, lo Zen SiJto assunse in Giappone un in­ dirizzo piuttosto quietista, mentre il Rinzai si espresse co­ me una scuola volta all 'attività pratica. Questo ultimo, che sotto gli Shogun Ashikaga (XIV-XVI sec . ), godé dell'appog­ gio governativo, si diffuse presso l'aristocrazia militare e di sé improntò il bushi-d(J, ovvero la regola di vita del

225

guerriero, ed importanti manifestazioni artistiche e spiri­ tuali come la cerimonia del té, il cui rito fu stabilito da maestri Zen del XV secolo, i drammi No, l'arte pittorica - tipicamente sintetica ed allusiva - e la poesia, in par­ ticolare i cosiddetti « canti di addio » . Lo Zen giunse ad interpretare, in ua società che viveva immersa nella guer­ ra e presso un'aristocrazia i cui uomini avevano dinanzi a sé la continua alternativa della morte, le stesse arti mar­ ziali come strumenti meditativi : l'arte della spada, il tiro dell'arco ecc. diventano mezzi per realizzare quella suprema semplicità di spirito per la quale, durante il com­ battimento e nell'atto di vibrare il colpo, viene risolta in pura azione l'apparente separazione fra tiratore e bersa­ glio, così come nel satori scompare la dualità fra nirvliv.a e sarrzszzra. Sgombra la mente da ogni pensiero concettuale, tradot­ ta questa sua pura condizione in un atto continuo, ogni azione diviene sua manifestazione, ed essa ritrova la pro­ pria essenza e si riconquista in ogni gesto, in ogni movi­ mento, in ogni espressione.

226

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Una bibliografia, anche moderatamente estesa, delle opere riguar­ danti il Buddhismo supererebbe di molto i limiti della presente opera, tanto più che negli ultimi vent'anni si è assistito ad una vera. e propria fioritura di lavori sul Buddhismo, dovuti al crescente interesse che esso esercita negli ambienti spirituali o semplicemente culturali dell'Occiden­ te. Eccellenti bibliografie si possono trovare in: Amalia Pezzali , Storia del Buddhismo, Bologna 1983 (Bibl. a cura di Flavio Poli) , nei voli. 14 e 15 della Storia delle Religioni (a cura di Henri-Charles Puech) pubbl. dalla Universale Laterza, Bari 1 978, ne Il Buddhismo di Oscar Botto (in Le Religioni dell'Umanità), Milano 1959, nella Nota Bibliografica del nostro Canone Buddhista - Discorsi Brevi (Torino - UTET 1968, pp. 761) , a i quali si rimanda. Ci s i limita quindi ad indicare l e opere essenziali in lingue occidentali di non difficile reperimento.

l) Opere generali Bareau, André, Le Bouddhisme indien, in Les religions de l'Indie, t . I I I , Paris, 1966; Beckh, H., Buddhismus, 2 voli, Berlin 1928; Belloni Filippi, F., La dottrina di Gotama Buddha, Lanciano 1928; Botto, 0., Buddha e il Buddhismo, Fossano 1974; Bu Ston, History of Buddhism (trad. H. Obermiller), Heidelberg 1931-32; Conze E., Il Buddhismo, Milano 1955; Buddhismo, ne L� Civiltà dell'Oriente, Roma 1958; David Neel A., Il Buddhismo di Buddha, Basaia, Roma 1986. de la Vallée Poussin, L., Bouddhisme, Paris 1909; Morale bouddhique, Paris 1930; Dogme et Philosophie du Bouddhisme, Paris 1930; Filippani-Ronconi, P., (Avviamento allo Studio del pensiero orientale, vol. Il) Il Buddhis mo, Napoli 1959; Filliozat, J., Le Bouddhisme in lnde Classique, I I , Paris 1947; v. Glasenapp, H . , Der Buddhismus in lndien und im fernem Osten, Berlin 1936; Lamotte, E., Histoire du. • Bouddhisme indien, dès origines à l'ère Saka, Louvain 1958; MacGovern, W. M., Manual of Buddhist Philosophy, London 1923; Pavolini, P. E . , Buddismo, Milano 1 898; Pischel, R., Vita e Dottrina del Buddha, Palermo-Milano 1924; Tucci, G., Il Buddhismo, Foligno 1926; Yakamaki, S., Systems of Buddhist Thought, Calcutta 1912.

2) Buddhismo antico e Hinaylna Allen, G. F. , The Buddha's Philosophy, Selections from don 1959; Conze, E . , Buddhist Meditation, London 1956;

the Pali, Lon­

227

la Vallée Poussin, L., Abhidharmakosa de Vasuband!Ju, Louvain 1923-31 ; Les deux premiers conciles, in Muséon (VI , 1905); de Lorenzo, G., India e Buddhismo antico, Bari 1926; (in collab. con Neumann K. E.), I Discorsi del Buddha (1-111), Bari 1925-27; Foucher, A., La Vie du Bouddha, Paris 1949; Frauwallner, E., The earliest Vinaya and the beginning of Buddhist Literature, Roma 1956; Nyanatiloka, Bh., La parole du Bouddha, Paris 1948; Visuddhimagga (trad. ted.), Weg zur Reinheit, Miinchen 193 1 ; Pavolini, P. E., Testi d i Morale Buddhistica (Dhammapada, Suttanipata, Itivuttaka), Lanciano 1933; Puini, C., MahiiparinirvlZva-sutra ecc., Lanciano 191 1 ; Rhys, David, Dhamma-sangani, a Manual of psychol., Ethics, London 1900; Early Buddhism, London 1908. Schrader F. 0 . , Milinda Panha (trad.) , Berlin 1907; Stcherbatsky Th., The Centrai Conception of Buddhism and the meaning of the word « Dharma », London 1923. Per le edizioni e traduzioni del Canone pali, veggasi la Bibliografia indicata nell'opera suindicata di A. Pezzali e nella traduzione del Khud­ daka-nikayo di P. Filippani-Ronconi. de

3) Mahayana Bumouf, Saddharmapw;zflarikli (Il Loto della Buona Legge, trad. frane.), Paris 1852; Conze, E., Vajracchedikii Prajniipliramitii, Roma 1957; de La Vallée Poussin L., Madhyamaka avec Bibliograp hie (Mélanges chinois et Bouddhiques), vol. 2, Bruxelles 1933; SlZlistambasutra, Gand 1913; Vijnatimatratasiddhi, Paris 1928; Gnoli, R., PramlZnavllrttikam of Dharmakirti, Roma 1960; Lamotte E., San dhinirmoca na-sutra, Louvain 1935; Somme du Grand V éhicule, Louvain 1938; Le Traité de la Grande Vertu de Sagesse (Mahapraj iiaparamita-sastra), Louvain 1944-49; Lévi, S., Sutralankara de Asanga, Pa.ris 191 1 ; Mac Govern, W . M . , Introduction t o Mahayana Buddhism, London 1922; Masuda, J., Yogacara-Schule, Heidelberg 1926; Mookerjee, S., Philosphy of universal Flux (Dignaga), Calcutta 1936; Richard, T., The Awakening of Faith (Asvaghosa) , Shanghai 1907; Schulemann, G., Botschaft des B. vom Lotus Guten Gesetzes (Saddharmapu!]qarikii), Freiburg 1937; Stcherbatsky, Th., Erkenntnistheorie und Logik der spiiteren Buddhis­ mus, Miinchen 1924; Buddhist Logik, Leningrad 1930-32; Tucci, G., Studio comparativo fra le tre versioni cinesi ed il testo san­ scrito del I e II capitolo del Lanklivatllra, Roma 1923; Saptasatikii­ prajnllpllramitli, Roma 1923; Studi Mahayanici, Roma 1925-29; Sata­ sastra, « Le cento Strofe » ecc. , Roma 1925; Pre-difzniiga Buddhist Texts on Logic, ecc., Baroda 1929; Buddhist Logic before Dinnliga (Asaitga, Vasubandhu etc.) , JRAS, London 1929; Bhamaha and Dirf­ naga, Bombay 1930; Doctrines of Maitreya and Asanga, Calcutta 1930; The Prajniiparamitii of Difmiiga, IRAS, London 1947; Minor Buddhist Texts, Parte I, Roma 1956, Parte I I , Roma 1958; Walleser, PrajnlZpliramitii, Gottingen 1914; Wolff E., Lehre und Bewusstsein, Heidelberg 1930.

228

4) Buddhismo Tantrlco (Scuole gnostiche e loro metodi) Conze, E., Homer, I. B., Snellgrove, D., Waley, A., Buddhist Texts through the Ages, Oxford 1954; Das Gupta, S. B., An Introduction to Tantric Buddhism, Calcutta 1950; Filippani-Ronconi, P., Note sulla costruzione del mal;lçlala ecc. (Atti del­ l'Istituto Univ. Orientale), Napoli 1959; Filippani-Ronconi, P., La Formulazione Liturgica del Bodhicitta nel 1:> Cap. del Guhyasamajatantra, A.I.U.O., Napoli 1972 (vol. 32); La coscienza-deposito (alaya-vijfiana) quale fondamento epistemolo­ gico della realtà, Atti dell'Accademia Pontaniana, vol. XXI, Napoli 1938; Gallerano Burrini, A., Il Bodhicittotpiida e lo Svincolamento dal Kar­ man, (1) , Annali dell'1st. Univ. Orientale, Napoli (vol. 45) 1985; v. Glasenapp, H., Buddhistische Mysterien, Stuttgart 1940; Guenther, H. V., The Tantric View of Life, Ed. Shambhala, Berkeley (Cal.) 1972; Tucci, G., Tibetan Painted Scrolls, 3 voli. , Roma 1949; Teoria e pratica del mar.zçlala, Roma 1949; Some glosses upon the Guhyasamiija Mélanges chio, et B.), Bruxelles 1935; Indo-Tibetica, 4 voli., Roma 1932-41 ; Snellgrove, D. L., The Hevajra Tantra, A Critical Study, voli. 2 , Oxford Univ. Press. 1959; Wayman, A., Yoga of the Guhyasamlijatantra, Ed. M. Banarsidass, Delhi 1977.

5) Diffusione del Buddhismo in India, nel Nepal, nel Kasmir ed a Ceylon de Silva, W. A., History of Buddhism in Ceylon, in « Buddhist Studies », Calcutta 193 1 ; Frauwallner, E., The earliest Vinaya and t h e beginning o f Buddhist Literature, Rom8. 1956; Ganhar, J. N. e P. N., Buddhism i11 Kashmir and Ladakh, New Delhi 1956; Lévi, S., Le Népal, 3 voli., Par,is 1905-08; Kern, H., Hi.s toire du Bouddhisme dans l'Inde, 2 voli., Paris 1901-3; Mitra, R. C., The decline of Buddhism in India, Visvabharati 1954; Rahula, W., History of Buddhism in Ceylon etc., Colombo 1956; Snellgrove, D., Buddhist Himalaya, Oxford 1957.

6) Lamaismo Anuruddha, R. P., lntroduction into Lamaism, Hoshiapur 1959; Beli, Ch., The Religion of Tibet, Oxford 193 1 ; Carelli, M., Lamaismo, l a religione del Tibet e della Mongolia, Torino 1955; David-Neel, A., Mystiques et Magiciens du Tibet, Paris 1930; Evans-Wentz, W. Y., Tibet's great Yogi Milarespa, London 1929; Ferrari, A., Mk'yen b rTse's Guide to the Holy Places of Central Tibet, Roma 1958; Filippani-Ronconi, P., La Preghiera nel Lamaismo, Torino 1964-65; Grunwedel, A., Mythologien des Buddhismus in Tibet und in der Mon­ golei, Berlin 1900 ; Hoffmann, H., Die Religionen Tibets, Freiburg . 1956;

229

Huth, H., Geschichte des Buddhismus in der Mongolei etc., 2 voli., Strassburg 1896; Laguilhermie, L., La Religione dei Mongoli, in « Asia Religiosa », Roma 1946;

Tucci, G., Le Religioni del Tibet, Roma (ediz. ital.), 1976; Tucci, G., Teorie ed esperienze dei Mistici Tibetani, Città di Castello 1931; Tucci, G. e Gherzi, E . , Secrets of Tibet, London & Glasgow 1935; Tucci, G., Il Libro Tibetano dei Morti, Milano 1949; A Lhasa e oltre, Roma 1955; . The Symbolism of the Temples of bSam yas, Roma 1956; La Letteratura Tibetana (in « Le Civiltà dell'Oriente ») , Roma 1957; Tucci, G. e Petech, L., The Fifth Dalai Lama's Chronicle of Tibet, Roma 1959; Waddel, L. A., The Buddhism of Tibet or Lamaism, London 1895.

7) Aggiunte recenti (opere di contenuto pratico facilmente reperi­ bili in Italia)

Blofeld, J., La Via del Potere (sul Vajrayilna), Roma 1978; Garina C. C. Chang, Insegnamenti di Yoga tibetano, Roma 198 1 ; Esoteric Teachings o f the Tibetan Tantra, ed. b y C. A . Musès (Sa­ muel Weiser), York Beach, Maine, 1982; ChOgyam Trungpa, Shambhala (sul Vaj rayilna e Kiilacakra) , Roma 1975; lzutsu, T., La Filosofia del Buddhismo Zen, Roma 1984; The St ructure of Selfhood in Zen Buddhism, Eranos-Jahrbuch, Ziirich 1971; Sense and Nonsense in Zen Buddhism, ib. , Leiden 1973; Sekida, K., La Pratica dello Zen, Metodi e Filosofia, Roma 1976; Prats, R., Contributo allo S tudio Biografico dei Primi Gter-..f)ton, Na­ poli 1982; Shashibhushan Dasgupta, Introduzione al Buddhismo Tantrico, Roma 1977; Tsong-ka-pa, Tantra in Tibet, La grande Esposizione del Mantra Segreto, Roma 1980. A questi conviene aggiungere frequenti studi apparsi sulla Rivista degli Studi Orientali deli'Univ. di Roma, quali le monografie di Mauro Bergonzi su Osservazioni su Samatha e Vipassanli nel Buddhismo The­ ravlida (vol. IV, fase. 1-1 1 , 1980), o su Conoscenza Religiosa, quali Matz{lala Buddhista e Vista Simbolica (1 /2) del medesimo Autore, Ro­ ma 1979, e Meditazione Buddhista Intensiva: Esperienze e Riflessioni di Corrado Pensa, 4, Roma 1978. ·

230

Il Canone pali: l) Edizioni. Le edizioni fondamentali del Canone plili (Tipi{aka) sono in pratica tre: quella completa in caratteri siamesi che consta di 39 volumi in 8° (Bangkok, 1893-94), fatta curare dal re del Siam Rama V (Chulalangkorn) in occasione del XXV anniversario della sua incoronazione; quella quasi completa in caratteri latini, continuamente aggiornata e curata critica­ mente sulla scorta dei migliori manoscritti, della Plili Text Society di Londra; infine la nitida edizione in caratteri devanllgari stampati dal Pllli Publication Board (P.P.B.) nelle Nlllandll-Devanagari-Plili-Series (Khuddhaka-nikaya, voli. I-VII) a cura del governo di Bihar. La acribia delle edizioni della Plili Text Society (P. T.S.), che abbraccia tutte le va­ rianti al testo reperibili nei principali manoscritti, oltre al fatto mate­ riale della loro maneggevolezza e chiara leggibilità, è il fattore che rende queste preferibili allo studioso. Per quanto riguarda l 'analisi specifica dei singoli testi e le principali traduzioni in lingue occidentali, si rimanda alla Bibliografia contenuta nella citata Storia del Buddhismo di Amalia Pezzali (pp. 121 ss. e 402-420) ed a quella stessa contenuta nel nostro Canone Buddhista, I Discorsi Brevi (Torino 1968, pp. 79 ss.) . 2) Sommario generale del Canone pàli:

l

-

(« 2 ») SurrA-PITAKA, « Cesta dei Detti Testuali ».

l) Dìgha-nikaya (34 sutta), « Mucchio dei testi lunghi ». Il) Majjhima-nikaya (152 sutta), « Mucchio dei testi medi ». III) Sa111 y ut ta-nikllya (56 gruppi di sutta), « Mucchio dei testi l'un l'al­ tro connessi ». IV) Ar;zguttura-nikllya (più di 2300 sutta), « Mucchio dei testi da "un (verso) in poi" ». V) Khuddaka-nikllya, « Mucchio dei testi piccoli ». l) Khuddakapli(ha, « Le piccole lezioni ». 2) Dhammapada, « I versi della Legge ». 3) Udllna, « Versi di esaltazione ». 4) ltivuttaka, « Così è stato detto ». 5) Suttanipiita, « Raccolta di aforismi ». 6) Vimllnavatthu, « I divini palazzi ». 7) Petavat thu, « I trapassati ». 8) Theragl1thll, « Canti dei monaci ». 9) Therigllthll, « Canti delle monache ». 10) Jlltaka, « Le nascite ». 11) Niddesa, « L'Indice ». 12) Pa{isa111 b hidllmagga, « Il sentiero della completa zione ». 13) Apadllna, « Le imprese ».

discrimina­

23 1

14) Buddhavamsa, « La stirpe dei Buddha ». 15) Cariya-pifaka, « La Cesta della condotta ». 2

-

(« 1 ») VINAYA·Pl!AKA, « Cesta della disciplina ».

l) Suttavibhanga, « Divisione dei testi », in: 1) Mahiivibhanga, « Grande divisione », o Bhikkhuvibhaizga, « Divi­ sione concernente i monaci ». 2) Bhikkhunivibhatiga, « Divisione concernente le monache "· Il) Khandhaka, « I brani ». 1) Mahavagga, « La grande sezione ». 2) Cullavagga, « La piccola sezione ». III) Parivara, corteo ». 3

-

corteo »,

o

Parivliraplitha,

« La

lezione

ABHIDHAMMA·PITAKA, « Cesta del Riferimento alla Legge ».

l) I l) III) IV) V) VI) VII)

232

« Il

Dhammasangani, « Classificazione delle realtà ». Vibhafzga, « Divisioni ». Kathiivatthu, « Circa le questioni [controverse] ». Puggalapa1111atti, « Descrizione delle personalità ». Dhii.tukathii, « Circa gli elementi ». Yamaka, « Le coppie ». Pa!(hana, « Le messe in azione ».

formante

INDICE pag.

5

»

9

Il Buddha e la buddheità

))

11

Vita del Buddha, sua Illuminazione e Dottrina

))

14

Caratteri essenziali della meditazione buddhica: le Due Vie

))

55

Il Buddhismo primitivo e lo Hinayana

))

60

Intermezzo storico (I)

))

81

Il Mahayana e i suoi orientamenti fondamentali

))

91

Il Buddhismo tantrico e il Vaj rayana

))

103

Sahajayana e Kalacakra

))

1 15

Intermezzo storico (II)

))

133

Figure divine e culto .

))

143

l) Il Lamaismo

))

1 69

2) Diffusione del Buddhismo in Cina

))

195

3) Le otto grandi scuole buddhiste .

))

203

4) Diffusione del Buddhismo in Giappone

))

215

BIBLIOGRAFIA

))

2 27

lntroduzione

.

Trascrizione dei termini sanscriti, pali e tibetanl

l . PARTE

I I . PARTE

Appendici alla I I . PARTE

ESSENZIALE



I LIBRI DEL GRAAL

CROWLEY A., « trattato di astrologia magica » DAVI D-N EEL A . , « Il buddhismo di Buddha » DE RACH EWILTZ B . , « Egitto magico-religioso » DE RACH EWILTZ B . , « Sesso magico nell'Africa nera » DE BENOIST A., « Come si può essere pagani » D 'OLIVET F., « La vera massoneria » FILIPPANI RONCONI P., « Le vie del buddhismo » GUENON R., « Considerazioni sulla Via iniziatica » GUENON R., « Studi sulla massoneria » GUENON R., « Studi sull'induismo » GURDJI EFF 1 . , « La vita reale » KREMMERZ G . , « I tarocchi dal punto di vista filosofico » MATG I O I , « La Via taoista » MATGI O I , « La Via metafisica >> MEYRINK G., (di Aa.Vv;) · « Meyrink scrittore iniziato >> MEYRINK G., « L'angelo della finestra d'occidente » MEYRINK G . , « Il diagramma magico » MEYRINK G . , « La casa dell'alchimista » MEYRINK G., « La faccia verde >> MICH ELET V. E . , « I l segreto della cavalleria >> OUSPENSKY P. D . , « I l simbolismo dei tarocchi » RAJNEESH B . S . , « Nirvana ultimo incubo » RAJNEESH B . S., « Dal sesso all'Eros cosmico » SCALIG ERO M . , « L'imaginazione creatrice » SEDIR, « La dottrina esoterica dei Rosa-Croce » SEDIR, « .La storia segreta dei Rosa-Croce » SENARD M . , « Lo zodiaco » STEINER R. , « I misteri dell'Antico Egitto » STEINER R., « La scienza dello spirito >> STEINER R., « Il pensiero cosmico >> STEINER R., « I l destino dell'uomo » ST EINER R., « Zarathustra, Ermete, Buddha >> STOKER B . , « La dama del sudario >>

Fin ito di stampare presso la ITL di Palestrina nel mese di ottobre 1986