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Le storie che curano. Freud, Jung, Adler
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JAMES HILLMAN

Freud, Jung, Adler

~ Raffaello Cortina Editore

James Hillman

Le storie che curano Freud, Jung, Adler

~ &iffàello Cortina Editore

Titolo originale Healing fiction © 1983 James Hillman Traduzione a cura di Milka Ventura e Paola Donfrancesco Redazione di Irene Bemardini Le opere di psicologia archetipica che appaiono in questa collana sono curate da Pierre Denivelle, Francesco Donfrancesco, Paola Donfrancesco e Bianca Garufi Copertina Unistudio I.S.B.N. 88-7078-030-9 © 1984 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 III ristampa

Indice

Prefazione all'edizione italiana Nota dei traduttori Le storie cliniche come narrativa 1. Il Freud narrativo 2. Teoria e trama 3. La narrativa empirica 4. Le storie-in terapia 5. Archetipo e genere letterario 6. Storia dell'anima e storia clinica 7. Jung: figlio di Ermes? 8. Sogno, dramma, Dioniso 9. Il bisogno di storicizzare 10. Il dono della storia clinica Note Il pandemonio delle immagini 1. I daimones di Jung 2. Introspezione 3. L'attacco di Jaspers alla demonologia

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4. Imagismo e iconoclastia 5. Dèmoni e demòni 6. Immaginazione attiva: l'arte che cura 7. Un'eco Note

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Cosa l'anima vuole 1. Scrivere all'anima 2. La poetica della terapia adleriana 3. Il senso della finzione nella psicologia archetipica 4. Il senso comunitario Note

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Prefazione all'edizione italiana

Tema di questo libro è la base poetica della mente. Esso si muove infatti nello spazio intermedio fra psicoterapia e letteratura, fra l'arte di curare e l'arte di narrare. Sebbene a prima vista sembri diretto al terapeuta, è in modo più nascosto indirizzato allo scrittore. Se poi sono tornato a un vecchio terreno, ossia alle figure classiche di Freud, Jung e Adler, per leggere la loro opera in cerca dei loro racconti, l'ho fatto con l'intenzione di dissodare qualche pezzo di un terreno nuovo nella psicoterapia. Ormai sappiamo che la psicoterapia è inutile: raramente i sintomi ne sono guariti, difficilmente i matrimoni salvati, gli impieghi trovati; dipendenze, depressioni, suicidi, non sono evitati. I miei colleghi mi rammentano le statistiche, secondo cui per chi ha avuto un trattamento psicologico e per chi è invece stato curato con farmaci o lasciato a se stesso, il risultato è più o meno il medesimo. La remissione spontanea (l'espressione con cui ora chiamiamo la "grazia") non è stata incrementata dalla psicoterapia. Per di più, non sono stati ancora stabiliti punti fermi per la "salute mentale", e nemmeno abbiamo un'opinione concorde sul "disturbo mentale". Perché dunque gli analisti perpetuano la finzione di essere impegnati I

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in un trattamento dei disturbi psicologici, usando modelli medici e nozioni progressiviste di salute, sviluppo, maturità? Perché non ammettere la finzione della guarigione, e che la guarigione è una storia di copertura? Perché non partire dal presupposto dell'inutilità, e vedere dove quest'idea ci porterebbe? Se prendiamo questa strada, giungiamo ben presto alle arti. A partire da Emanuele Kant, l'attività estetica è stata caratterizzata da un criterio di inutilità. Nessuno scopo oltre a se stessa, certamente nessun intento di cambiare qualcuno, secondo uno stile tendenzioso e volto al miglioramento di sé. Nessuno sostiene che l'arte sia salutare e contribuisca a risolvere i problemi. Ci impegniamo nell'arte per amore dell'impegno. Questo "fare", fine a se stesso, i greci lo chiamavano poiesis. La psicoterapia è allora una sorta di poesia? È forse questo il modo migliore di immaginarla? Nei capitoli che seguono si fa proprio questo tentativo: si cerca di vedere l'arte narrativa nella psicoterapia e la psicoterapia come un'attività narrativa. La psicoterapia è riuscita a inventare una narrativa che cura. Il Romanzo Terapeutico si differenzia soltanto per lo stile e per la trama usati dagli scrittori delle diverse scuole, però sappiamo tutti come la storia terapeutica dovrebbe andare a finire: con un caso risolt·'.i. Ma che ne è dell'altro aspetto? Che ne è della storia che cura, della terapia delle arti letterarie? Potrebbe la psicologia del profondo aver qualcosa da dire allo scrittore sull'azione terapeutica propria del suo campo? Leggere Freud, Jung e Adler per la loro immaginazione, dove appunto si situa il potere terapeutico delle loro cure, può portare lo scrittore a riacquistare fiducia nell'efficacia delle sue narrazioni. Un tempo l'arte dello scrivere si prefiggeva un intento terapeutico, quello di donare la catarsi e l'unità tematica a un'anima. Oggi può mettere a nudo, ma raramente guarisce. Come i tefapèuti hanno ignorato il loro impegno nella poiesis, così i poeti hanno dimenticato la loro funzione terapeutiII

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ca. Nel nostro secolo non ci volgiamo alle arti per guarire. Abbiamo una nuova arte cui si richiede questa funzione: la psicoterapia. Perfino gli artisti vanno in analisi, e questo perché la psicoterapia, più delle arti, è impegnata nel riportare l'anima dalla Prosa alla Poesia (come dice Hegel): una redenzione della psiche, dal suo pedestre "realismo" a un risveglio, da parte del cuore che immagina, delle sensibilità, delle intimità, dei ricordi. La terapia riscatta il mondo sottile delle immagini dal mondo grossolano dei fatti, e volge l'anima verso gli Dei. Per questo, naturalmente, ha invaso il campo delle arti e della critica d'arte, diventando, con i suoi rituali, i suoi maestri, le sue "botteghe", la forma d'arte predominante nel nostro tempo. Essa è la sola che ardisca di penetrare nella vita immediata dell'anima individuale e di impegnarvisi, con l'intento di guarire l'anima dalla sua condizione prosaica, offrendole una nuova storia per le sue immagini. Questa "storia", questa finzione, l'ho chiamata "base poetica della mente". Immagino che la mente sia fondata non sulle microstrutture del cervello o del linguaggio, ma su quelle storie supreme, gli Dei, che costituiscono i modelli fondamentali del nostro agire, credere, conoscere, sentire e soffrire, dove possono persino trovare dimora. È soltanto nelle storie che questi Dei si mostrano ancora. La mente è fondata nella sua stessa attività narrativa, nel suo fare fantasia. Questo "fare" è poiesis. Conoscere la profondità della mente significa conoscere le sue immagini, leggere le immagini, ascoltare le storie con un'attenzione poetica, che colga in un singolo atto intuitivo le due nature degli eventi psichici, quella terapeutica e quella estetica. La figura sconosciuta che sale le scale, la voce che si rivolge a noi dal corpo di un aI),imale, la donnona con la gonna larga sotto l'albero - che appartengano a sogni e aricordi della terapia, o siano immagini dell'arte - parlano all'artista e al terapeuta; evocano, infatti, l'artista che è nel terapeuta e il terapeuta che è nell'artista. Nell'atto di cogliere l'immagine, la coscienza poetica e quella terapeutica si fondoIII

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no in un unico punto focale: l'interesse appassionato per l'immagine. Tutti siamo pazienti dell'immaginazione. Il suo carattere di inutilità non solo allontana la psicoterapia dagli schemi medici di guarigione e dai modelli secolari di assistenza, ma la porta anche a una migliore comprensione dell'accusa che le viene mossa di essere un lusso cui indulge la classe agiata. Elitaria, ombelicale, narcisistica; il divano, una chaise-longue per il borghese, e l'appellativo di "nevrotico", qualifica riservata soltanto a chi può pagare per sentirsi definire tale. Questi addebiti dimostrano quanto la gente comune abbia avvertito che la psicoterapia è un'attività estetica. Le stesse identiche accuse sono state rivolte all'arte. L'addebito deve essere psicologizzato: non la classe agiata, ma piuttosto la classe poetica, e non in quanto ceto sociale o economico, ma come classe nel senso platonico, dove il termine indica una prospettiva interna al corpo politico, esistente anche in ciascun individuo. Non soltanto i poeti sono poeti; una parte di ciascuno di noi funziona poeticamente e appartiene alla classe poetica. Questa classe è continuamente impegnata nell'attività immaginativa, che dal punto di vista delle altre classi è sempre inutile e sempre una piacevole perdita di tempo. La psicoterapia è l'arte che coltiva questa classe della psiche. Essa coltiva le sue attività immaginative, quelle che di continuo tornano sulla finzione di curare il nostro amore, il nostro-passato, la nostra morte. Come tale, la psicoterapia è un'educazione all'abilità immaginativa della classe che ha tempo a disposizione, insegna l'arte di vivere fra immagini. Il secondo e il terzo capitolo di questo libro tentano di descrivere quest'arte. Inoltre, come qualunque altra arte, la psicoterapia è interminabile: c'è sempre un'altra figura della fantasia, un altro sentimento o un altro sogno, che chiedono di essere modellati. Vedere la terapia su uno sfondo estetico - avendo presente la terza critica di Kant e non la prima e la seconda (ragione ed etica) - richiede una re-visione dei nostri progenitori: Freud, 1

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Jung e Adler. Per vederci impegnati nella terapia come arte, dobbiamo vedere anche loro impegnati nello stesso modo, leggerli come facitori di immagini, la cui lotta essenziale si svolgeva con le passioni e le configurazioni dell'immaginazione. Dobbiamo cioè deletteralizzare le teorie freudiana, junghiana e adleriana, e apprezzarle di n,uovo come tentativi di formulare l'immaginazione in storie, per il cui tramite lapoiesis possa procedere in ogni anima individuale, attraverso il travestimento immaginativo chiamato "cura". Poiché non era la cura ciò che più contava nel loro rapporto con i casi, compreso il proprio, bensì il fare immagini. La storia del movimento psicoanalitico è di per sé come un romanzo continuo, in cui ogni nuovo capitolo si apre con rivelazioni sui personaggi principali - le loro lettere, le loro battaglie, i loro incesti. Il romanzo della psicoanalisi ne anticipa le "teorie". Lo sviluppo del pensiero di Freud e la scoperta di Jung della psiche autonoma così come viene narrata nelle sue memorie si dispiegano come trame romanzesche, popolate di straordinari personaggi fiabeschi: Dora, Anna e l'uomo dei topi, Filemone, Miss Miller la Personalità Numero Due, e anche Sabina, Minna e Toni; per non parlare di loro, poderosi protagonisti essi stessi della gigantomachia dei primi anni: Freud, Jung e Adler. Tutto sta nella mente, diceva la psicoanalisi, compresi i casi e i loro fatti, compresa la stessa "psicoanalisi. Perché la mente è poiesis, che "fa" finzioni letterarie per guarirsi dai suoi poeti letteralizzati. La capacità della psicoterapia di guarire, dipende dalla sua capacità di continuare a ri-raccontarsi, in rinnovate letture immaginative delle sue stesse storie. È per questo che in modo ricorrente torniamo ai nostri fondatori, come gli scolastici a Tommaso, come gli americani a Whitman, Hawthorne e Melville. La filosofia platonica è rimasta vitale dopo duemilacinquecento anni, perché Platone, e quel meraviglioso vecchio bislacco di Socrate, sono stati ri-visti daccapo da ciascun platonico in ogni periodo. Allo stesso modo, questo libro presen-

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ta saggi in uno stile immaginativo, il cui scopo è di rendere i maestri leggendari, Freud, Jung e Adler, ancora capaci di guarire. Quel che rende una psicoterapia capace di guarire - e per guarire voglio qui intendere restituire il senso del vivere e del morire all'interno di un cosmo immaginale, un ricondurre la propria costrizione umana ai modelli di necessità che governano l'immaginazione - quel che rende ogni terapia capace di guarire è una percezione immaginale di se stessa, quell'orecchio rivolto a ciò che sta facendo, dicendo, scrivendo. Essa cura costantemente il proprio linguaggio con un terzo occhio, un terzo orecchio. Ogni arte in cui s'inaridisca l'immaginazione diventa una scuola letterale, una serie di tecniche, una professione. Quando la psicoterapia non è più capace di ascoltare i propri fondatori come figure dell'immaginazione che parlano all'immaginazione, o di trattare come voci i propri principi, cosa può dire allora alle figure e alle voci del paziente? Il modo migliore di mantenere il flusso delle immagini perché la poiesis possa continuare, è quello di lasciare che le voci dell'anima, come i personaggi di una favola, continuino il loro racconto anche quando il libro è già chiuso. La psiche consiste essenzialmente in immagini, diceva Jung, e noi dobbiamo sognare il mito insieme ad essa. Siamo guidati da finzioni, diceva Adler; anche i nostri scopi sono finzioni, anche lo scopo della guarigione. Analisi interminabili, diceva Freud. La cura durerà finché potrà esserne mantenuto il senso romanzesco, perché la morte è l'unica vera guarigione, diceva Socrate. Che questa visione sia priva di fondamento, corrisponde a quel carattere di inutilità che viene riferito alla classe poetica. Fatevi coraggio.

James Hillman

Dallas, 12 aprile 1982

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Nota dei traduttori

Il titolo inglese Healing Fiction comprende due vocaboli che ricorreranno molto nel testo, costituendo una difficoltà di traduzione per la loro molteplicità di significati. Fra i vari significati di fiction (narrativa, romanzo, novella, storia, racconto, fantasticheria, finzione, invenzione) c'è anche quello di "finzione" che Adler mutuò dalla filosofia di Vaihinger. Con il verbo (to) heal e con 1 termini che ne derivano, s'intende sia il "curare" che il "guarire" (e quest'ultimo inteso sia nel senso transitivo di sanare, risanare, purificare, liberare dal male, sia nel senso intransitivo di ristabilirsi, riacquistare la salute). Spesso nell'autore l'ambiguità di significato è intenzionale, ma non era possibile conservarla in italiano, se non in casi particolari. Per lo più si è dovuto scegliere quel significato che di volta in volta sembrava preponderante e che quindi sarebbe stato più fuorviante perdere.

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LE STORIE CLINICHE* COME NARRATIVA Un percorso circolare

1. Il Freud narrativo Nel 1934, Giovanni Papini pubblicava una singolare intervista a Freud. L'intervista si presentava come un dialogo diretto, quasi che Freud confessasse in privato la vera natura della sua opera. Questo diceva "Freud": Tutti credono, riprese [Freud], che io tenga al carattere scientifico della mia opera e che il mio scopo principale sia la guarigione delle malattie mentali. È un enorme malinteso che dura da troppi anni e che non son riuscito a dissipare. Io sono uno scienziato per necessità, non per vocazione. La mia vera natura è d'artista. [... ]. E c'è una prova inconfutabile: in tutti i paesi dov'è penetrata la Psicoanalisi essa è stata meglio intesa e applicata dagli scrittori che dai medici. I miei libri, difat'" Quando, nel 1924, Freud raccolse in un unico volume quegli scritti che nell'edizione italiana - Einaudi, Torino 1952 - sono stati pubblicati con il titolo Casi clinici, li intitolò Krankengeschichten (storie cliniche); questa denominazione, più di quella abituale italiana, si avvicina all'inglese "Case History", e perciò l'abbiamo preferita nel titolo e in molti punti del testo. L'espressione inglese corrisponde anche all'italiano "anamnesi", che del "caso clinico" rappresenta solo un aspetto: questa valenza di significato è però importante, perché "anamnesi" è anche reminiscenza nel senso platonico, cioè "memoria". [NdTJ

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ti, somigliano assai più a opere d'immaginazione che a trattati di patologia[ ... ]. In ogni modo ho saputo vincere, per una via traversa, il mio destino ed ho raggiunto il mio sogno: rimanere un letterato pur facendo, in apparenza, il medico. In tutti i grandi scienziati esiste il lievi10 della fanta1 "La spina dorsale d'un romanzo dev'essere una storia", e una storia "è una narrazione di avvenimenti esposti secondo il loro ordine cronologico". Continuiamo a leggere una storia per scoprire "cosa succederà poi"; semplice "curiosità primordiale", dice Forster. E Freud ci viene incontro su questo piano: suspense, allusioni, dissimulazioni, e una scena che evoca la curiosità: la consultazione clinica (la prima parte del suo caso si chiama "il quadro clinico"). Nella sua storia ci attira anche un'altra tecnica narrativa, la stessa che troviamo, per esempio, in Joseph Conrad: l'incoerenza della storia, che impone all'autore (e al lettore) di ricomporla, e i due livelli simultanei su cui procede il racconto del personaggio principale (Dora). Freud usa ancora altri espedienti: la modestia dell'umile narratore che rimane sullo sfondo, messa a confronto con l'importanza di quel che viene rivelato in sua presenza e alla sua riflessione; l'approfondirsi delle scoperte in risposta al "cosa accade poi"; i limiti di tempo annunciati all'inizio, "solo tre mesi"; la promessa allettante, nella prefazione, di successive rivelazioni di particolari sessuali ("mi limiterò a rivendicare gli stessi diritti del ginecologo", con la sua eco pornografica che richiama "la giovane e il medico"); e poi le giustificazioni di fronte alle esigenze della professione medica, che pure sentiva: l'impossibilità per altri specialisti di verificare i risultati; un discorso non riportato testualmente, ma trascritto a memoria e alla fine; "la brevità dovuta all'omissione della tecnica" (vale a dire di quel che fece in pratica nel trattare il caso). Queste giustificazioni non sono di poco conto. Perché proprio qui, benché si mostri consapevole delle esigenze dell' empirismo, il nostro autore rinuncia a quel modo di scrivere in cui si trovava perfettamente a suo agio fin dai primi scritti sul5

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la patologia del cervello e sugli esperimenti con la cocaina. Un caso clinico, in quanto prova empirica, avrebbe dovuto offrire alla scienza i mezzi per una verifica pubblica; non poteva essere soltanto una registrazione ricavata dalla memoria, a meno di non considerarlo soltanto come reminiscenza aneddotica; e tutta la tecnica terapeutica usata- l'omissione principale di Freud - avrebbe dovuto far parte della registrazione. Ci aspetteremmo di apprendere esattamente che,cosa fece il medico; ma Freud ce lo dice soltanto in modo oscuro e lacunoso. Nell'accingersi a mostrare "l'intima struttura di un disturbo nevrotico" (perché tale era la sua intenzione in questo caso), Freud avrebbe potuto seguire la via di Vesalio o quella di Balzac, l'anatomista o il moralista: il primo rivela le intime strutture del male fisico, l'altro quelle del male mentale, morale o psicologico. Avrebbe potuto affrontare il problema dall'esterno o dall'interno, o seguire l'impostazione dello scrittore francese Alain, secondo il quale l'essere umano ha due lati, l'uno adatto alla storia, l'altro al romanzo. Tutto quanto è osservabile in un uomo - dice Alain - cade sotto il dominio della storia; la parte romanzesca o romantica (roman come narrativa) comprende invece "le passioni veraci, [... ] le fantasticherie, le gioie, le tristezze, i dialoghi con se stessi, di cui cortesia e pudore distolgono dal parlare";< 1 >e l'esprimere questo lato della natura umana è una delle funzioni principali del romanzo. Mentre Alain parla di "cortesia e pudore", Freud scrive: "I pazienti nascondono [... ] parte di quello che è loro perfettamente noto[ ... ] per motivi non ancora superati di timidezza e di vergogna". Le storie di Freud sono materia narrativa, esprimono il lato narrativo della natura umana, il suo romanzo. Nel duplice dilemma tra storia e romanzo, tra esteriore e interiore, Freud, come un prestigiatore, trova quel compromesso che diviene per lui lo stile per raccontare un caso clinico, e per noi un nuovo genere con cui scrivere di psicoterapia. Ci 6

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dà "le passioni veraci [... ] le fantasticherie [... ] i dialoghi con se stessi", ma lo fa dall'esterno, da medico patologo delle strutture morbose, la sua prima vocazione. Non ci immergiamo nel caso come faremmo con un romanzo, simpatizzando con Dora, ma ne restiamo al di fuori, mettendone a nudo i tessuti e analizzandoli insieme a Freud. Come lettori, ci identifichiamo con la protagonista, ma non con la sua soggettività, i suoi sentimenti, i suoi tormenti; ci identifichiamo piuttosto con "l'intima struttura di un disordine nevrotico", con l'idea che il personaggio incarna, la rimozione sessuale e i suoi dinamismi. Poiché il focus del nostro interesse si sposta impercettibilmente da un soggetto rivelato a un oggetto esibito, dallo studio del personaggio all'analisi del personaggio e, mediante il personaggio, a una dimostrazione delle mire tendenziose dell'autore. (Infatti Freud non ci parla tanto di lei come persona, quanto dei suoi sogni, del suo materiale). Il nostro interesse può essere destato dalla curiosità per cosa avverrà poi, e trattenuto dalle sottigliezze tècniche dell'autore, ma in realtà non è tanto della storia che Freud si preoccupa, quanto della trama. Per di più, lo svolgersi della storia - la scoperta del fattore patologico e il suo procedere verso la guarigione - ha poco a che fare con il personaggio della paziente; il grande dramma dell'azione si svolge indipendentemente dalla sua personalità particolare. Ha coraggio? È meschina? Qual è la natura della sua coscienza? Qual è il suo punto di rottura? Quali sarebbero le sue mosse in una crisi che desse forma al corso del r~cconto? Nonostante l'apparente intensità del personaggio, l'azione dell'analisi poggia su basi esterne all'influenza che esso vi esercita; il racconto può andare avanti con chiunque; paziente e medico possono essere entrambi sostituiti da un altro medico e da un'altra paziente in un'altra città, in un altro decennio - e lo sono, perché questa è la psicoanalisi come metodo scientifico. Il caso non è che un'illustrazione, e il personaggio non è in grado, né gli è concesso, di influenzarne 7

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l'azione. Quel che rivela ciò che accade non è il personaggio con la sua storia, e nemmeno l'azione: è la trama delle psicodinamiche. I personaggi sono elementi casuali di una trama universale e, come tali, sono relativamente accidentali. Fu un compromesso la formula che Freud trovò per la natura del sogno, dell'Io, del sintomo, e lo fu anche il modo in cui costruì la sua teoria del sogno, come integrazione di compromesso tra le teorie che in quel tempo si contendevano il campo. E proprio perché la sua stesura dei casi si deve a un compromesso, non possiamo accodarci a chi sostiene che Freud fu "un vero medico" con la fortuna di un talento letterario, né a chi sostiene che fu "un vero scrittore" cui accadde di manifestarsi nel campo della medicina. Il successo del suo stile sta proprio nella maschera; la maschera tanto necessaria allo scrittore - e Thomas Mann non ha mai cessato di sostenerlo - dietro cui l'autore deve nascondersi per potersi manifestare. Il suo duplice movimento è meglio espresso nei termini freudiani: è una forma di compromesso tra una presentazione letteraria inconscia (lo stile del romancier) e l'analogia conscia con la medicina somatica (la similitudine del ginecologo). Il materiale manifesto era medico, ma l'intenzione latente, cne esigeva la repressione trasfigurativa della metodologia medica ed empirica, era quella dell'arte poetica. I suoi casi dinici•.sono formazioni sintomatiche brillantemente duscite, sublimate e trasfigurate in un nuovo genere letterario, sono come sogni; e tutti questi aspetti - arte, formazioni sintomatiche e sogni - nell'opera di Freud non sono che compromessi fra due esigenze inconciliabili, atti a erigere difese contro la consapevolezza di ciò che lo coinvolgeva più profondamente: l'opera narrativa. Altri due lunghi casi clinici sono essenziali ai "fondamenti empirici" della psicoanalisi freudiana: Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (1909) e Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (1911). Come il primo caso, "Do8

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ra", anche questi due sono più noti con il loro titolo da romanzo: "Il piccolo Hans" e il "Caso Schreber". Freud abbandona qui le esigenze della storia clinica in quanto anamnesi empirica e passa liberamente al suo nuovo genere: è diventato un commentatore, che interpreta stando fuori dalla scena delle reali operazioni terapeutiche. Freud non analizzò il piccolo Hans, né Daniel Schreber; analizzò la storia che gli raccontava il padre di Hans e quella scritta nelle memorie di Schreber. Non siamo ancora al punto del percorso di Freud in cui egli non ha più bisogno di basare i suoi scritti su personaggi tratti dalla sua pratica, o dalla pratica in generale. Tre sono i suoi saggi in questo stile: sulla Gradiva di Jensen (1907), su Leonardo (1910) e sul Mosé di Michelangelo (1914), quest'ultimo pubblicato anonimo, con travestimento editoriale. (Le date dimostrano che questi saggi furono scritti parallelamente ai suoi casi più importanti.) Lo studio sulla Gradiva è l'analisi di sogni interamente fantastici, i sogni di un romanzo. Ma l'avventura maggiore di Freud nel regno della storia interamente inventata è costituita da Totem e tabù e da Mosé e il monoteismo, le narrazioni religiose che espongono la scienza di Freud (a differenza delle narrazioni scientifiche che espongono la religione di Jung, ossia i suoi saggi sui dischi volanti, sulla sincronicità, sull'alchimia). Per Totem e tabù e per Mosé e il monoteismo nessuna prova empirica potrà mai essere addotta; Freud lascia cadere il travestimento empirico e ci si mostra scrittore di pura invenzione. È a partire da quel momento che tutti noi che ci muoviamo nell'ambito della psicoterapia non siamo più empiristi medici, ma siamo operatori di storie.

2. Teoria e trama Alain< 11 ) ci offre un'altra traccia importante sulla natura della narrativa: "[ ... ] non vi ha fatalità nel romanzo; e il sen9

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timento che vi domina è d'una vita in cui tutto è voluto, anche la passione e il delitto, anche la sventura." È la trama che rivela queste intenzioni umane; è la trama che mostra come tutto sia connesso e abbia senso. Solo quando una narrazione trova la sua coerenza interna nelle profondità della natura umana abbiamo davvero un romanzo, e per questo romanzo dobbiamo avere una trama. Forster descrive la trama in questi termini:< 12 > "La trama è [... ] una narrazione di avvenimenti, ma qui l'accento cade sulla casualità: 'Il re morì, poi morì la regina', è una storia. 'Il re morì, poi la regina morì di dolore', è una trama. Un racconto dice cosa avvenne poi, una trama ce ne dice il perché".

Imbastire una trama è passare dalla domanda "e cosa accadde allora?", a quella "perché avvenne?". Nel nostro genere di narrativa le trame sono le nostre teorie; sono i modi in cui correliamo le intenzioni della natura umana, così da poter capire quel perché, frapposto nella sequenza degli eventi di una storia. Dirci il perché è lo scopo principale che Freud si prefigge nei suoi casi clinici; tutta la sua abilità narrativa si concentra in funzione della trama. E Freud ideò una trama adatta a tutte le sue storie; una trama abbastanza semplice in sé, ma che richiede complicazione, fantasia, e in parte mistificazione. L'astuzia di Freud è resa necessaria dalla sua teoria. Debbono esserci dissimulazioni, flashback su ricordi precoci, e ricordi di copertura; la trama deve ispessirsi con le intense complicazioni di transfert e resistenza, con regressioni nello sviluppo del personaggio, e con momenti critici nell'irrompere della storia. Tutta questa ricchezza, che deriva dalla struttura stessa della trama, esige da noi memoria e intelligenza, facoltà che Forster considera essenziali per le trame. E la trama di Freud era assolutamente economica: niente restava in sospeso. In termini teorici questa economia della trama si chiama

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eleganza. Ogni narrazione freudiana si presenta allo stesso modo, e può essere smontata per offrire una risposta alla domanda del perché. Il mistero è la rimozione (in una delle sue molte varietà), seguita da passioni, delitti e infelicità (formazione del sintomo), poi dal coinvolgimento dell'autore (transfert del rimosso), che elimina la rimozione attraverso ripetuti smascheramenti (psicoterapia), e dall'epilogo (dénouement), che è la conclusione della terapia. Quando Jung accusa Freud di usare uno schema causale troppo semplicistico, è proprio il suo modo di intessere la trama che gli sta rimproverando. Nella vita dell'uomo le trame non si svelano di pari passo con 1a sua storia; lo sviluppo della mia vita e lo sviluppo della sua trama sono disvelamenti distinti l'uno dall'altro. Alla domanda del perché solo Freud può rispondere in termini di sequenze temporali: cosa avvenne prima, e cosa avvenne dopo. La domanda del perché ha anche risposte diverse oltre quelle della causalità materiale ed efficiente: essa chiede anche a che scopo (causa finale) e perché, nel senso di quale idea archetipica, mito o persona (causa formale) sia all'opera in quella storia. Jung ci insegna a considerare il fine cui tendono i personaggi e il luogo ove si dirigono, perché sono questi aspetti che principalmente influenzano la forma delle storie. Ciascun personaggio, nel suo individuarsi, porta con sé la sua trama, scrivendo la sua storia in avanti e a ritroso. Jung dà molto più peso al singolo personaggio che non alla narrazione o alla trama. Se "la trama emerge dalla logica selettiva agìta dallo scrittore", e13 > Jung considera Freud troppo selettivo e troppo logico, perché modella tutte le scarpe su una sola forma. Tutto può essere fondato sulla natura umana, ma la natura umana si fonda su cose che stanno al di là della natura umana. La trama di Jung (la sua teoria degli archetipi) è intrinsecamente molteplice e variegata; l'individuazione assume molte forme, non ha tempi preordinati, e può non avere affatto una fine. I 11

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casi di Jung intrecciano molti fili colorati ma estranei; non rendono la lettura eccitante come quella di Freud, proprio perché la sua trama ha una logica meno selettiva, e quindi è meno ineluttabile. Soltanto quando ne siano dati i personaggi, o quando la si legga secondo i moduli di una ricerca eroica (o del viaggio iniziatico del pellegrino), la trama dell'individuazione afferra il lettore; ma è solo uno dei modi archetipiçi dell'individuazione, uno dei modi della logica selettiva. Uno dei motivi per cui gli scritti di Adler non hanno lo stesso fascino di quelli di Freud sta in ciò, che la trama di Adler elimina le complessità. L'intreccio della trama di Adler- monistico come quello di Freud, con una sola trama buona per tutti - non consente tante elaborazioni secondarie: simbolizzazioni, difese, mascheramenti, spostamenti, formazioni reattive, messaggi cifrati e censura. Gli antagonisti principali della psicomachia (Io, Es, Super-io) sono aboliti, e intelligenza e memoria del lettore non sono messe così a dura prova. Freud presentò in forma di teoria la sua trama sulla natura umana, e questa teoria ha il proprio linguaggio di libido, linguaggio medico, biologico, empirico. Il duplice stile del suo scrivere esigeva che quanto era trama e mito a un certo livello, fosse, ad un altro, teoria e scienza. Ma per noi che lo leggiamo, è importante tener presente che il motivo di fondo del nostro disagio nei confronti della teoria di Freud non è il fatto che quella teoria non possa essere verificata, bensì che non soddisfa. Non ce ne lasciamo avvincere, non tanto perché non regga empiricamente come ipotesi sulla natura umana, ma perché non regge poeticamente, perché come trama non è abbastanza profonda, abbastanza racchiudente, abbastanza estetica da fornire coerenza dinamica e significato ai racconti dispersi della nostra vita. Alla sua unica trama Freud dette il nome di un mito, quello di Edipo; con questa mossa anche Freud poneva la mente su fondamenta poetiche, e capiva che l'intero racconto di una vita umana, i personaggi che impersoniamo e i sogni in cui ci 12

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addentriamo, sono strutturati dalla logica selettiva di un profondo mythos nella psiche. La "scoperta" freudiana della tragedia di Edipo situava la psicologia proprio all'inizio della poetica, collegandola all'uso che di mythos fa Aristotele nella sua Poetica. Quando apriamo quel libro per sapere cos'è la trama, troviamo che, ovunque appaia quel termine, la parola greca originaria è mythos. Le trame sono miti, ed è nei miti che vanno trovate le risposte basilari al perché di una storia. Ma un mythos è più di una teoria e più di una trama: è la favola dell'interagire dell'umano e del divino. Essere in un mythos è essere indissolubilmente legati alle forze divine, essere, addirittura, in mimesi con loro. Una volta arrivati a comprendere la natura umana in forma di mito, Freud e Jung si volsero dalla natura umana alla natura delle forze religiose. Il fondamento poetico della mente ci dice che la logica selettiva che opera nelle trame delle nostre vite è la logica del mythos, è mitologia.

3. La narrativa empirica Uso la parola narrativa (fiction) e propongo di considerare le storie cliniche come narrativa (fiction) nei tre significati di questo termine: 1. La storia clinica come storia reale, vero resoconto, vera conoscenza della "successione degli eventi attraverso cui tutto passa" ,< 14 > è narrativa (fiction) nel senso di artificio, di non vero; ma è non vero soltanto quando pretende di assurgere a verità letterale. Ben presto, nell'annotare i casi clinici, Freud si accorse che non stava registrando un vero resoconto di eventi storici, ma fantasie di eventi, come se questi fossero realmente accaduti. Il materiale di un caso clinico non è costituito da fatti storici, ma da fantasie psicologiche, quel materiale soggettivo che è campo specifico della narrativa, nel sen13

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so di Alain e di Forster. Anche oggi che usiamo registratori e informazioni pubbliche ricavate da intere famiglie, non possiamo pretendere che quanto viene detto nei racconti su un caso clinico sia un vero e proprio resoconto degli eventi attraverso cui una data cosa è passata. Ciò è presumibilmente vero per ogni genere di storia, ma lo è in modo particolare per le storie cliniche, e per queste ragioni: a) il materiale del caso dev'essere solipsistico: sogni, passioni, fantasie, desideri, dolori, di nessuno dei quali lo scrittore può essere testimone diretto; b) il materiale è particolarmentefantastico (fictive), ossia incredibile, non plausibile, perché appartiene a quelle categorie surrealistiche e bizzarre di eventi che, in termini clinici, chiamiamo isterici, paranoidi, allucinatori ecc.; c) la conferma esterna di una storia clinica (da parte di un altro clinico o di un membro della famiglia) è possibile solo rispetto a una quantità limitata di dettagli; d) qualsiasi cosa cui ci si riferisca come "storia", deve essere soggetta alla cronicità, ma le realtà psichiche, come Freud e Jung hanno entrambi ripetutamente sostenuto, non seguono le leggi del tempo. 2. La storia clinica è narrativa (fiction), nel senso di resoconto inventato dei processi interiori immaginati di un personaggio centrale in un racconto. Chi lo scrive non ne è il personaggio principale, non si tratta cioè di autobiografia; e nemmeno di biografia, perché gli eventi della narrazione sono accuratamente scelti in funzione della trama. È una forma narrativa per cui è essenziale il travestimento empirico. Ci sarebbe molto da dire sull'empirismo in psicoterapia; qui voglio soltanto sfiorare l'argomento, e sotto un aspetto particolare. Uno dei motivi dell'empirismo in filosofia è, secondo A.J. Ayer,< 15 > "l'asserzione egocentrica": l'empirismo evita il solipsismo, ci toglie dal cerchio delle nostre menti, additandoci a conferma eventi pubblici e dimostrabili. L'empirismo non è soltanto una difesa contro il platonismo (idee innate, universali, idealismo deduttivo); dal punto di vista psi14

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cologico è quella fantasia che ci fa sentire al riparo dal solipsismo, dal suo isolamento, dalle sue potenzialità paranoidi. Dunque, dato che il materiale psicologico è essenzialmente soggettivo e che la situazione terapeutica rafforza, attraverso un rispecchiarsi e un raddoppiarsi (il vaso chiuso), questa soggettività isolata, il ricorso all'empirismo della terapia è una diretta conseguenza del solipsismo della terapia. Il travestimento empirico nei casi clinici è una difesa inevitabile contro il potere solipsistico delle finzioni con cui la terapia si misura. 3. La storia clinica come presentazione di affermazioni letterali, trasposte su un piano ove non possono essere confutate o verificate, è un racconto (fiction) in senso filosofico, una formula, cioè, che deve necessariamente porsi al di là dei criteri di vero e falso, al pari delle finzioni espresse dal "come se" di Vaihinger. 06 > Qui le finzioni sono costrutti mentali, fantasie mediante cui formiamo o plasmiamo (il fingere latino) una vita o una persona in una storia clinica. Torneremo di nuovo su questi tre generi di narrativa e sulla loro attinenza alla psicoterapia. Prima però è necessario che si abbia in mente, ben impressa, tutta la realtà di questo nuovo genere di narrativa, inventato e sviluppato durante il ventesimo secolo, scritto da migliaia di mani nelle cliniche, negli studi privati, nei centri di assistenza; talora pubblicato, ma più spesso inedito, generalmente conservato negli archivi degli istituti psichiatrici o nelle soffitte degli analisti. Di sera, nella Schreibstube, come faceva Freud, il terapeuta siede solo e registra, detta, scrive a macchina questi resoconti, nella stretta delle storie dei suoi pazienti e della loro comune fantasia terapeutica. Tutte queste storie, dovunque e da chiunque siano state scritte, che la loro sia una trama freudiana, o che derivi da uno qualunque fra i diversi miti, hanno un unico e identico leitmotiv: il personaggio principale inizia la terapia. La terapia può apparire come l'epilogo (dénouement) (l'anamnesi classica che conduce ali' "ecco perché sono da lei, dottore"); oppure può essere l'inizio stesso della storia, come nei casi di 15

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Freud, che si aprono con l'arrivo del personaggio nello studio (per esempio, il caso dell'uomo dei topi, del 1909). Per questo chiamo il nostro genere "romanzo terapeutico". Come una storia poliziesca esige la scoperta dell'assassino, una tragedia eroica la morte del protagonista e una commedia il felice scioglimento dei conflitti, così il romanzo terapeutico è la storia di una persona che giunge in terapia, ed è più spesso la storia della terapia che non quella della persona. Terapia è sia l'intero contenuto, sia la storia che conduce alla terapia. Il Lamento di Portnoy di Roth, quanto al genere, è un romanzo terapeutico, e tuttavia ne differisce, principalmente perché Roth non fa uso del travestimento empirico. Di solito la terapia è il tema che fa da supporto agli episodi narrati, come nella storia di Dora; ed è la terapia che fornisce i mezzi per mettere a fuoco e per selezionare gli episodi, come un romanzo politico sceglie gli eventi politicamente rilevanti. Generalmente poi, alla fine, la storia porta fuori dalla terapia, alla guarigione e al mondo (oppure a un "caso fallito", se il dénouement è antiterapeutico). Freud termina la storia di Dora con queste parole: "Sono passati anni da quella visita. Dora si è sposata [... ] restituendosi alla vita". Se è con un occhio terapeutico che vengono scritti i racconti di questo genere, è con lo stesso occhio terapeutico che vengono letti da un nuovo genere di lettore, che può infatti leggere anche Shakespeare, Faulkner, o la sua stessa biografia come romanzi terapeutici. Abbiamo visto in che modo questo si sia verificato nel caso di Freud: è ora il momento di chiedersi quali ne siano le implicazioni.

4. Le storie in terapia La sofisticata "classe in terapia privata" ha le sue storie già formulate in un genere terapeutico: la storia riflette se stessa ed è focalizzata sui "problemi" del personaggio principale. 16

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Con i "pazienti ospedalizzati", invece, la forma della storia esige spesso, da chi ascolta, una particolare capacità nel riorganizzarla: ci sono troppi personaggi principali (proiezioni), gli avvenimenti non sono selezionati come richiederebbe l'economia di una trama terapeutica, la sequenza temporale, essenziale alla definizione di una storia, può mancare del tutto. Sebbene sia chi ascolta a organizzare il racconto entro il genere terapeutico, la condizione del narratore - quella che ne fa un paziente ospedaliero - gioca un ruolo notevole nella forma del racconto, e specialmente nel suo stile. I pazienti usano le loro storie in modi diversi; alcuni le raccontano per passare o per ingannare il tempo, altri sono dei cronisti, altri ancora pubblici ministeri che sostengono un'accusa. Capita talora che un racconto passi completamente sul piano della metafora, dove ogni singolo aspetto di "quel che ho visto ieri" - il grande edificio, il caporeparto con il cappello rigido nella cabina di controllo, la ragazzina che in una pozzanghera di pioggia scintillante e argentea è in pericolo a causa di un bulldozer, il passante che interviene - si riferisce anche a figure interne alla psiche del paziente, e al loro interagire. I clinici sarebbero tenuti a prendere nota del modo in cui le storie vengono narrate; vecchi testi di psichiatria, come quello di Eugen Bleuler, consideravano lo stile come un sussidio per la diagnosi, e lo psichiatra era incoraggiato a notare l' eccessiva espansività, le divagazioni, le allitterazioni, i giochi di parole e le associazioni di parole bizzarre, le iperboli, gli arcaismi, i manierismi: tutti termini che troviamo nei testi letterari sullo stile. Una diagnosi si fa anche sulla base dello stile che una persona imprime al suo racconto. Anche una diagnosi psicologica è un "raccontare di un paziente"; è una caricatura, uno schizzo sommario di un personaggio - Szasz e Goffman direbbero "un assassinio del personaggio" - nel linguaggio specialistico di un clinico e ad uso 17

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di altri clinici. (Non è certo intesa per il paziente). Una diagnosi psicologica non dice che cosa abbia una persona o che cosa una persona sia; descrive il suo Zustandsbild, il suo quadro clinico, e parla della presentazione fatta di sé allo scrittore clinico. Lo scrittore clinico racconta un personaggio in una diagnosi, in una "storia anormale". Intendo "anormale" in due sensi: in primo luogo, si tratta di una storia scritta con l'occhio rivolto al morboso, al deviante, al bizzarro, come un romanzo gotico o un racconto di Poe, presentato con il naturalismo di Zola. Ma a differenzà di un romanzo gotico, di un racconto di Poe o di Zola - ecco il secondo significato di anormale -, questa è una storia che si prende alla lettera, che si considera una storia reale, e quindi deroga dalle norme di una storia. Le diagnosi sono, nel loro storicismo, assolutamente letteralistiche, e senza dubbio è necessario che siano fatte in questo modo, affinché possano strutturare il personaggio che ne è oggetto proprio in quello stile di narrativa che lo scrittore ha il potere di creare: le diagnosi sono espressioni altamente creative dello scrivere. Il potere delle loro storie letteralistiche è schiacciante (come lo sono tutti gli scritti letteralistici, dove l'immaginare è mascherato da specchio veritiero dei "fatti reali"). Il letteralismo è comunque lo strumento essenziale della mentalità clinica . . . Il potere delle storie diagnostiche è tale che non sarà mai messo abbastanza in evidenza: una volta inclusa nella stesura di una particolare fantasia clinica - con le aspettative, gli aspetti peculiari, i tratti caratteristici e il ricco vocabolario che offre al riconoscimento di sé - una persona comincia a ricapitolare la propria vita in forma di storia; anche il passato viene ri-narrato e trova una nuova coerenza interna. Una dia-' gnosi è infatti una gnosi, un modo di conoscenza di sé, che crea nella sua immagine un cosmo. In ogni caso clinico la storia conduce alla terapia, come si è detto; ma questo significa anche che io, il terapeuta-scrittore, 18

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sono ora entrato nel racconto, diventando di fatto una figura chiave in una storia i cui inizi, il cui sviluppo, la cui trama e il cui stile non hanno avuto, fino a questo incontro, niente a che fare con me. Non ho mai conosciuto, e probabilmente mai conoscerò, nessuno degli altri personaggi, né potrò prendere parte ad alcuna delle altre scene, né essere al corrente di "cosa avviene poi" o, come dicono i clinici, dell'"evoluzione". Eppure, una storia di genere terapeutico non esisteva nemmeno finché "io" non ci sono entrato dentro: è una storia completamente nuova che comincia nel momento in cui il protagonista varca la soglia della terapia, o meglio, è la vecchia storia che assume una fisionomia totalmente diversa, quando il racconto originale viene re-visionato e trasposto nel genere terapeutico. Comincia qui la difficoltà che è stata chiamata resistenza, quel tentativo del paziente di dimenticare, distorcere, celare, per mantenere la prima versione. Comincia qui anche l'altra difficoltà, che è stata chiamata controtransfert, l'indulgenza che ha per sé nella storia il terapeutascrittore. Due autori collaborano ora a un comune romanzo di terapia, anche se di solito solo uno di loro lo scriverà. Sono entrambi così presi dalla storia, diventati oggetti interni ad essa, che la loro collaborazione può diventare unafolie à deux, tale da mostrare il potere della trama sulla volontà dei personaggi. Una collega mi parlò una volta di un nuovo paziente che l'aveva piantata in asso quando lei si era opposta al motivo tematico della sua storia. Il paziente presentava se stesso come un caso piuttosto grave, più o meno stabilmente in terapia per quindici dei suoi trentasei anni senza che le cose fossero cambiate granché (alcool, omosessualità, depressione, preoccupazioni finanziarie); aveva anche tentato tipi diversi di terapia. La mia collega gli disse: "Per me, lei è un nuovo caso, e non accetto che sia malato come crede: cominciamo dunque da oggi." Rifiutando le sue intricate costruzioni, lo aveva ta19

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gliato fuori anche dal racconto che lo sosteneva; e lui non ritornò. La sua storia aveva ancora senso per lui: un incurabile, ma ancora membro a pieno titolo del traffico terapeutico; voleva che l'analisi e l'analista si adattassero alla sua storia. Un secondo caso, questa volta tratto dalla mia pratica: una storia di episodi psicotici e di ospedalizzazione, con abusi medici, seduzioni, violazioni di diritti, trattamenti con shock e "droghe utili". Considerai questa storia come avrei fatto con quella di un'altra donna che mi avesse raccontato di essersi innamorata al liceo e di aver poi sposato il ragazzo della porta accanto, di avere un marito affettuoso, dei bambini e uno spaniel: una storia di realizzazione. In altre parole, entrambi sono resoconti coerenti, che espongono un motivo tematico che organizza gli eventi in un'esperienza. Entrambe le donne, quella con le lenzuola di percalle e l'altra con la camicia di forza - per esprimere la fantasia in modo figurato - sarebbero potute arrivare ugualmente disperate, dicendo proprio la stessa cosa: "Non c'è alcun senso; ho perso gli anni migliori della mia vita, non so dove sono né chi sono." La mancanza di senso deriva da un crollo nel motivo tematico, che cessa di tenere insieme gli eventi e di dar loro un significato, e non fornisce più lo stile dell'esperienza. La paziente è in cerca di una nuova storia, o di ricongiungersi con quella passata. " Pensai che il racconto di quella donna fosse la sua storia portante, e che tuttavia lei non ne avesse letto le possibilità ermetiche e i significati, reconditi. Aveva considerato la sua storia in modo letterale, nello stesso linguaggio clinico in cui le era stata detta: un racconto di malattia, di abuso, di spreco degli anni migliori. Era la storia, non lei, che aveva bisogno di essere curata; aveva bisogno di essere reimmaginata. Inserii così in un altro racconto i suoi anni sprecati: lei conosceva la psiche, per essere stata immersa nelle sue profondità. L'ospedale era stato per lei la scuola di perfezionamento, i riti di iniziazione, la

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conferma religiosa, la violenza subita e l'apprendistato delle realtà psicologiche. La capacità della sua anima di resistere attraverso questi orrori psicologici, e di goderne masochisticamente, era il suo pedigree per la sopravvivenza, e il suo diploma. Era davvero una vittima: non però della sua storia, ma del racconto in cui l'aveva inclusa. Avrete notato che la mia collega contestò una storia di malattia, e che io ne confermai un'altra, ma che tutti e due ci trovammo a cozzare con il racconto proposto, iniziando così la lotta delle storie, che è un aspetto essenziale della terapia faccia-a-faccia e dei consulti sui casi clinici. L'abbiamo già visto in Freud, con il caso di Dora: egli prese la sua storia e le dette una nuova trama, una trama freudiana: e parte di questa trama è che essa è buona per voi; è la migliore delle trame perché cura, il che è poi la migliore "soluzione" (dénouement) del genere terapeutico. Quel che si esprime in parole nell'analisi del profondo non è la mera analisi di una persona da parte di un'altra, e qualunque altra cosa si presenti in una seduta di analisi - rituale, suggestione, eros, potere, proiezione - è anche una gara fra cantori, che rinnovano uno dei più antichi generi di diletto culturale conosciuto da noi esseri umani. È questo uno dei motivi per cui la terapia ha la pretesa di essere creativa, e uso questo termine a ragion veduta, per indicare l'originarsi di modelli immaginativi significanti, la poiesis. Una terapia riuscita è quindi una collaborazione fra narrazioni, una revisione della storia in una trama più intelligente, più immaginativa, che implichi altresì il senso del mythos in ogni parte della storia. Sfortunatamente, noi terapeuti siamo troppo poco consapevoli di essere dei cantori, e trascuriamo molto di quanto potremmo fare. I nostri modi narrativi si limitano a quattro tipi: epico, comico, poliziesco e realistico. Prendiamo quel che ci arriva - non importa quanto appassionato ed erotico, tragico e nobile, strampalato e arbitrario esso sia - e lo travasiamo in 21

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uno dei nostri quattro modi. Nel primo rientrano i casi che presentano lo sviluppo dell'Io, soprattutto dall'infanzia, attraverso ostacoli e sconfitte: l'epopea eroica. Nel secondo i racconti di grovigli, di identità scambiate e sessi incerti, di goffe e incredibili inadeguatezze della sciocca vittima, che però sfociano in una soluzione a lieto fine: il genere comico. Nel terzo è tutto uno smascherare trame nascoste attraverso indizi e crisi, e un rintracciare instancabilmente gli errori ad opera di un detective con la pipa in bocca, taciturno ma con lo sguardo malizioso, non poi tanto diverso da Holmes o Poirot. Al quarto appartengono le descrizioni dettagliate di circostanze minute e verosimiglianti: la famiglia che è una disgrazia, le condizioni ambientàli che sono un'altra disgrazia, il tutto presentato con una squallida terminologia sociologica e con inquadrature enfatiche e tendenziose: il realismo sociale. La psicologia farebbe meglio a rivolgersi direttamente alla letteratura, anziché usarla inconsapevolmente. La letteratura ci è stata amica, assorbendo apertamente e a piene mani quanto le veniva dalla psicoanalisi. I letterati sanno vedere la psicologia nella narrativa; tocca a noi, adesso, saper vedere la narrativa in psicologia.07l Potremmo ad esempio guardare allo stile picaresco, dove la figura centrale non si evolve (né si deteriora), ma si muove in modo episodico e discontinuo. La sua storia s'interrompe improvvisamente, senza conclusione, perché non vi è alcuna meta, e il suo epilogo (dénouement) non potrà essere né lo sciogliersi della commedia, né l'incrinarsi fatale della tragedia. Invece di ricorrere a strumenti di misura ampi e programmati, successo e fallimento si misurano sul sapore dell'esperienza quotidiana. (Qui si presta attenzione scrupolosa al mangiare, al vestire, al denaro, al sesso.) Ci sono racconti nei racconti, che certo non favoriscono il dispiegarsi di una trama, ma mostrano come la storia psichica si svolga contemporaneamente in molti luoghi - "nel frattempo, dietro la fattoria, in un'altra parte della foresta" - e contemporaneamente in molte fi22

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gure. Altri personaggi della storia sono interessanti quanto il personaggio principale, proprio come le altre figure nei nostri sogni e nelle nostre fantasie spesso ci dicono di più sul nostro destino di quanto non faccia l'Io. Non vi sono relazioni durevoli; e grande enfasi è posta sulle personae, i costumi e le maschere della vita a tutti i livelli, e specialmente sul mondo d'ombra di ruffiani, ladri, bastardi, ciarlatani e pomposi dignitari. Queste figure rappresentano, in ciascuno di noi, il regno del riflettersi picaresco, del guardare in trasparenza ogni atteggiamento instaurato, ma senza alcuna implicazione morale. E anche quando il personaggio picaresco patisce la sconfitta, la depressione e il tradimento, la sofferenza non è per lui un tramite di progresso verso la luce. In una prospettiva tragica un simile modo di formulare una storia clinica non è che spreco; l'anima esige qualcosa di metafisicamente più importante. Dal punto di vista comico, dovrebbe esserci uno scioglimento, una sorta di consapevolezza accettante e un adattamento alla società, che invece, per la persona picaresca, rimane sempre ostile. Secondo una visuale eroica lo stile picaresco è una parodia psicopatica dell'epopea dell'individuazione - ma l'individuazione potrebbe essere allora un'organizzazione paranoide del picaresco. La medesima storia, raccontata nel linguaggio del realismo sociale, si trasformerebbe in un trattatello di politica; e infatti l'anarchismo e il picaresco prosperano meglio in terra spagnola. Comunque sia, ho esposto quello che penso: le storie cliniche hanno diversi stili narrativi e possono essere scritte seguendo molteplici generi letterari; e la terapia può essere molto più efficace, quando una persona è capace di porre la propria vita entro questa varietà, come in un pantheon politeistico, senza dover scegliere uno stile a discapito degli altri. Perché anche quando una parte di me sa che l'anima s'avvia alla morte nella tragedia, un'altra vive invece una fantasia picare-. sca, e una terza ancora è impegnata nell'eroica commedia del miglioramento. 23

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5. Archetipo e genere letterario Un amico junghiano, Wolfgang Giegerich, nell'esporre il modello archetipico presente negli scritti di Erich Neumann, fa la seguente osservazione: Qualcosa (qualche "fattore") evidentemente ci trattiene da un orientamento genuinamente psicologico, e rende apsicologico il nostro pensiero, facendoci desiderare la dimostrazion.e empirica, la verità scientifica, le sistematizzazioni, e creandocene perfino il bisogno. Questo "fattore" è il nostro essere contenuti nel mito della Grande Madre e dell'Eroe, la cui natura è di creare la fantasia (mitica!) della possibilità di uscire eroicamente dal mito verso la "realtà", la "verità", la "scienza" .

Giegerich prosegue sviluppando il tema e mostrando che un resoconto narrativo in termini evolutivi è un genere letterario che appartiene alla prospettiva Eroe/Grande Madre. Ne deriva che quando concepiamo la storia della nostra vita come Lotta per la Liberazione dalla Grande Madre - come Jung l'ha definita - siamo impegnati su un versante eroico, che si riflette in concetti quali sviluppo dell'Io, forza dell'Io e identità personale. La teoria che emerge da questa prospettiva archetipica è appunto quella della Storia delle origini della coscienza di Neumann. Quel libro non è una dichiarazione difede in corso, né un'opera di scienza in evoluzione; non è neppure, come dimostra Giegerich, una storia in nessuna delle accezioni di questo termine, tranne quella di racconto. È piuttosto una fantasia archetipica che si regge su una trama accattivante: lo sviluppo dell'Io, di un Uomo Qualunque con cui tutti possiamo identificarci. La sua forza persuasiva poggia sullo stesso fondamento archetipico - la retorica dell'archetipo - che in questo caso proietta tutti noi lettori in una ricapitolazione ontogenetica dell'eroica lotta per la liberazione dalla claustrofobia uroborica della madre. 24

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Giegerich collega dunque un genere di scrittura psicoanalitica a un archetipo. In un mio breve scritto, ho anch'io tentato di mostrare che un certo stile nel presentare la psicologia quella di Jung in particolare - che si serve di diagrammi, figure e cristalli, che si vale di riferimenti all'introversione e alla lentezza perseverante, delle immagini del Vecchio Saggio e degli usi dell'antica saggezza e della magia, è uno stile che appartiene alla coscienza senex di Saturno.< 19 > Di nuovo, la retorica di un archetipo; di nuovo un genere letterario che determina le nostre trame e il nostro stile nello scrivere casi clinici. L'elaborazione più famosa del rapporto fra archetipo e genere letterario è quella compiuta da Northrop Frye nel suo Anatomy of Criticism, dove a ciascuno dei quattro generi letterari classici viene assegnata una stagione dell'anno, facendo così percorrere alla letteratura il ciclo del Dio del grano. Ma anche il sistema di Frye, sebbene quadripartito, resta ancora all'interno del solo mito della Grande Madre, di suo figlio il Dio-eroe e del ciclo della natura. Un approccio più fondamentale, rispetto a tutti questi tentativi di definire la relazione tra archetipo e genere letterario, si può dedurre da uno scritto di Patrieia Berry, dove essa sostiene che la narrativa in quanto tale non può che riflettere gli interessi dell'Io, perché la narrativa è essenzialmente il genere letterario dell'archetipo dell'eroe. Scrive la Berry: La terapia può anche rafforzare la narrazione. Narriamo le storie della nostra vita così come raccontiamo i nostri sogni. Non soltanto il contenuto dei nostri sogni è influenzato dall'analisi, ma lo stile stesso del nostro ricordare [... ]. Dal momento che lo stile narrativo della descrizione è inestricabilmente legato a un senso di continuità - che in psicoterapia definiamo lo - un abuso di continuità determinato dall'Io è sempre lì, a portata di mano[ ... ]. La difficoltà più rilevante della narrativa è che tende a diventare il viaggio dell'Io: l'eroe ha modo di trovarsi al centro di ogni racconto, può trasformare qualunque cosa in una parabola del modo di raggiun25

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gerla e di padroneggiarla. La continuità di un racconto diventa il suo procedere eroico; per cui, quando leggiamo un sogno come narrazione, non vi è niente di più tipicamente egoico che considerare la sequenza dei movimenti come una progressione che culmina nella giusta ricompensa o nella disfatta del sognatore. Il modo in cui un racconto incapsula l'individuo come suo protagonista altera il sogno, trasformandolo in uno specchio dove l'Io scorge soltanto ciò che lo riguarda.

Un'idea analoga è espressa succintamente nel dizionario di Roger Fowler: "La narrativa senza un eroe rimane una narrativa critica."< 21 > Anche !'"antieroe" è quello che in psicologia definiremmo un'inflazione negativa dell'Io: invocato o no, l'Io è sempre presente. Accingendoci a raccontare una storia in forma narrativa, ci apprestiamo anche a rivelare la teoria dell'Io. Secondo quanto suggerisce la Berry, è proprio il genere di narrativa a determinare la trama in cui formiamo e comprendiamo il nostro caso clinico. Ci si può chiedere ora: è il nostro stile di esposizione del caso clinico, nonché di interpretazione dei sogni e delle situazioni individuali, una conseguenza della psicologia dell'Io, oppure è possibile che sia la psicologia dell'Io - come fu presentata dapprima da Freud, poi da una parte della sua scuola, e oggi dal sistema terapeutico - a essere una conseguenza del nostro stile di esposizione del caso clinico? Siamo stati forse noi a produrre la psicologia dell'Io, con il nostro modo di scrivere i casi? E i nostri casi clinici non sono forse, più che dimostrazioni empiriche del modo in cui funziona la psiche, proprio dimostrazioni empiriche del modo in cui opera la poiesis nell'organizzare la nostra visione? Questo significa che dovremmo cominciare a leggere i casi clinici con uno sguardo archetipico rivolto alla loro forma, interessarci al genere letterario in cui il caso viene fantasticato, e perfino al ritmo, al linguaggio, alla struttura fraseologica, alle metafore, perché gli archetipi non li troviamo solo nel con26

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tenuto di una storia clinica: anche la forma è archetipica, e c'è una psicologia archetipica della forma. Ci apriremmo allora all'idea che, se la storia fosse scritta in altro modo, da un'altra mano, con un'altra prospettiva, suonerebbe diversa, e quindi sarebbe una storia diversa. Quel che sto suggerendo è l'esistenza di un fondameno poetico della terapia, della biografia, delle nostre stesse esistenze. Forse gli esempi dell'Io eroico e del picaresco non bastano a spiegare cosa intendo. Torniamo allora alle astrazioni della coscienza senex, dove ci allontaniamo del tutto dalla narrativa, sia essa epica o episodica. Troviamo in questo stile senex di scrittura - che è freudiano come junghiano - un porre l'accento sulla riduzione, sia rivolta in basso, verso l'angoscia di castrazione, le fantasie di onnipotenza, la scena primaria ecc., sia rivolta in alto, verso la totalità, il Sé, la quaternità. L'opera dell'analisi non si presenta tanto in termini di "cosa avvenne poi", quanto in termini di stati descrittivi dell'essere, di astrazioni fondamentali dei poteri all'opera nell'anima. Le astrazioni e le riduzioni possono essere teoriche, in termini di libido e sue quantificazioni, oppure storiche, numeriche (quaternio), configurative (mandala). Le immagini di un sogno, anziché essere primarie e irriducibili - come la stessa teoria di Jung indica - diventano rappresentazioni di qualcosa di più astratto. La signora che aggiusta i tappeti nella vetrina del negozio non è quella precisa immagine con le sue implicazioni metaforiche, ma la rappresentazione di un'imago materna astratta e irrappresentabile, a cui può essere ridotta. Le scene dell'infanzia non sono assunte come immagini, o connesse in uno sviluppo narrativo, ma diventano esemplificazioni di universi teorici, anali o edipici. Gli eventi non narrano una storia, ma espongono una struttura; e questa struttura viene poi applicata ad altri eventi sparsi nel tempo, e ad altre immagini, indipendentemente dal contesto - gli sforzi per essere il primo della classe, il cambio ossessivo della biancheria intima, il timore della foresta oscu27

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ra al campeggio - riunendoli tutti insieme quali manifestazioni di un unico principio base. Non si tratta più di cosa è accaduto dopo e del modo in cui si passa da una situazione a quella che segue; si tratta semmai di esemplificazioni di princìpi, di immagini come allegorie, di scene come emanazioni nel tempo di verità eterne. Esaminando il caso in questo genere letterario - e dico "esaminando" deliberatamente - la funzione della coscienza, rappresentata dall'analista-scrittore, è quella di vedere astrazioni, con una perspicacia capace di penetrare nelle strutture e nelle leggi. La funzione connettiva della coscienza non è qui definita ermeticamente in termini di importanza, o marzialmente in termini di attivazione, e neppure eroticamente o dionisiacamente, bensì sistematicamente, grazie a un'abilità paranoide di vedere difese e resistenze come fossero meccanismi (e non ostacoli al corso eroico della progressione). In questo genere letterario, infine, l'epilogo (dénouement) non è tanto in relazione a un obiettivo del paziente (miglioramento, per esempio), come si addirebbe allo stile narrativo e allo sviluppo dell'Io, ma è piuttosto un insegnamento di scienza analitica, un contributo alla teoria, che aggiunge un'altra pietra al suo monumento. Saturno, il senex. Avrete notato che ho accennato ad alcune alternative di cui non si è ancora discusso: la scrittura ermetica, dove le connessioni non portano a conclusioni, ma aprono e rivelano; quella afroditica, dove lo sguardo si posa sul valore del sensibile, o magari sul personale, o sul sesso; la scrittura dionisiaca, dove quel che più conta è il fluire. Ho lasciato allo stato di allusione anche il punto di vista dell'anima che, a mio modo di vedere, vorrebbe soffermarsi sulle immagini e sulle fantasie come tali, senza mai tradurle né organizzarle in una narrazione o in una trama, ma rispondendo loro in uno stile metaforico, dove la coscienza non è che uno dei movimenti di insinuazione, riflessione, eco, tono, elusione. L'idea che vi sia un Dio nel nostro narrare, e che questo

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Dio disponga le parole nella precisa sintassi di un genere, non è del tutto nuova agli studi letterari, anche se può suonare sconvolgente per quei colleghi che davvero credono di scrivere soltanto resoconti di fatti clinici. Annabel Patterson, ad esempio, ha ripreso le Sette Stelle Capitali, vale a dire la descrizione delle sette diverse idee di stile impiegate nelle composizioni rinascimentali, dove si osserva come ai generi letterari possano essere connesse divinità diverse: la gravità con Saturno, l'agilità con Mercurio, la bellezza con Venere, la veemenza con Marte, e così via. Naturalmente questi parallelismi reciproci non vanno forzati: la psicologia politeistica non può esprimersi in modo schematico, questo-a-quello (one-to-one). Essi vanno semmai immaginati come prospettive suggestive per la scrittura e la lettura dei resoconti clinici, e per l'ascolto del linguaggio del paziente. Quel che voglio sostenere in questo paragrafo è già stato espresso nell'articolo della Berry che ho citato prima: "Il modo in cui raccontiamo la nostra storia è anche il modo in cui _diamo forma alla nostra terapia." Il modo in cui immaginiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci apprestiamo a viverla, perché la maniera in cui ci diciamo cosa sta accadendo è il genere per il cui tramite gli avvenimenti diventano esperienza. Non ci sono nudi eventi, fatti chiari, semplici dati; anche questa, semmai, è una fantasia archetipica: il semplicismo della natura bruta (o morta). Retorica significa arte della persuasione, e la retorica dell'archetipo è il modo in cui ogni Dio ci induce a credere nel mito che fa da trama alla nostra storia clinica. Ma il mito e il Dio non sono qualcosa di distaccato, che debba manifestarsi negli attimi numinosi della rivelazione, con un oracolo, o attraverso epifanie di immagini; essi sono presenti nella retorica stessa, nel modo in cui usiamo le parole per persuaderci di noi stessi, in cui raccontiamo cosa è accaduto poi, e rispondiamo alla domanda del perché. In psicologia, per trovare gli Dei, dobbiamo in primo luogo guardare ai generi mediante i quali

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esponiamo le nostre storie cliniche. La nostra riflessione ha bisogno di rivolgersi alla letteratura psicoanalitica in quanto letteratura; e credo che la riflessione letteraria sia un modo primario di cogliere quegli aspetti del caso, di fronte ai quali si è ignoranti, inconsci, ciechi, per non aver saputo differenziare il fattore soggettivo, gli Dei nel proprio operare.

6. Storia dell'anima e storia clinica Prima di procedere oltre, dobbiamo tornare alla distinzione di Alain tra storia come racconto di eventi esteriori e romanzo come racconto di eventi interiori. Questa medesima distinzione è stata essenziale alla mia tesi in Il suicidio e l'anima, dove sostenevo che il suicidio può essere compreso, ammesso che sia possibile, solo dal punto di vista dell'anima e della sua storia interiore, e che gli avvenimenti esterni del caso non bastano. Permettetemi di riportare quanto allora scrivevo: Esteriore e interiore, vita e anima, si presentano come paralleli nella "storia clinica" e nella "storia dell'anima". Una storia clinica è una biografia di eventi storici a cui si è preso parte: famiglia, scuola, lavoro, malattia, guerra, amore. La storia dell'anima spesso trascura interamente alcuni o molti di tali eventi e inventa spontaneamente finzioni e "paesaggi interiori" privi di importanti correlazioni esterne. La biografia dell'anima riguarda l'esperienza; sembra non seguire la direzione a senso unico del flusso del tempo, ed è riferita nel modo migliore da emozioni, sogni, e fantasie [... ]. Le esperienze che derivano da grandi sogni, crisi, e intuizioni, definiscono la personalità. Anch'esse hanno "nomi" e "date" come gli eventi esterni della storia clinica; sono simili a pietre di confine che delimitano il proprio terreno individuale. Questi segni possono essere negati meno di quanto si possa fare con i

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fatti esterni della vita, poiché la nazionalità, il matrimonio, la religione, l'occupazione, e anche il proprio nome possono essere alterati [... ]. La storia clinica riferisce i successi e i fallimenti della vita al mondo dei fatti. Ma l'anima non ha raggiunto gli stessi successi né ha subito i medesimi fallimenti [... ]. L'anima immagina e gioca, e il gioco non è riportato dal resoconto. Che cosa resta degli anni del nostro gioco infantile che potrebbe essere annotato in una storia clinica? [... ]. Mentre una storia clinica presenta una sequenza di fatti che conducono alla diagnosi, la storia dell'anima mostra piuttosto un notevole scompiglio concentrico che punta sempre al di là di se stesso[ ... ]. Non possiamo tracciare una storia dell'anima servendoci di una storia clinica.

Il successivo addolcimento di questa radicalità occupa troppe pagine perché sia possibile citarle qui, e tuttavia la distinzione vi rimane netta: la storia clinica viene liquidata come "i successi e i fallimenti della vita con il mondo dei fatti", una mera reliquia del modello medico, accidentale per gli interessi dell'anima. Ma questo è insoddisfacente. Che ne è della storia clinica, non solo come documento scritto, ma come realtà di ogni esistenza? Ciascuno di noi ha le sue storie: genitori e scuole, malattie e diplomi, attività esercitate e amori perduti. Sono poi così banali e accessorie per l'anima? Il lavoro sulla storia clinica, in questo scritto, vuol essere un proseguimento di quel lavoro sul suicidio: che cosa ha da dirci la storia clinica? E a che cosa serve? Fintanto che il problema resta chiuso entro le vecchie duali~ tà meccaniche di anima e mondo, interiore ed esteriore, psicologico e medico, non facciamo che sbuffare su e giù per le solite vecchie rotaie. Dobbiamo invece saper vedere la necessità interiore degli eventi storici proprio lì, negli avvenimenti stessi, dove "interiore" non significa più privato e proprietà di un sé, di un'anima, o di un Io; dove "interiore" non è più un luogo letteralizzato entro un soggetto, ma è la soggettività negli 31

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eventi stessi e l'atteggiamento che interiorizza quegli eventi, che li penetra alla ricerca delle profondità psicologiche. L'errore di fondo del meccanicismo in psicologia è quello di letteralizzare funzioni e azioni come parti distinte in movimento, separate le une dalle altre. L'errore di fondo della mia distinzione in due tipi di "storie" era in questa separazione meccanicistica di anima e caso clinico, dove il secondo si solidificava sempre più entro fatti letterali. Il passaggio citato ne è un esempio fin troppo evidente. Ostinandomi a tal punto nel considerare la storia clinica come crudezza di fatti, potevo liberare la storia dell'anima in una dimensione totalmente interiore, importante, simbolica. Quello schema delle due storie include l'errore di cui sono presumibilmente consapevoli gli storici, l'errore del letteralismo storico, per cui quanto è scritto nella storia è ciò che realmente è accaduto, una cronaca dei fatti, un resoconto verificabile di eventi concreti quali realmente furono. Anche Alain commette questo errore, mettendo la storia tutta da una parte e la narrativa tutta dall'altra. Questa separazione attribuisce alla storia clinica il valore di realtà letterale, che allora deve essere controbilanciata enfatizzando oltre il dovuto - come facevo nel passo citato - che la storia dell'anima ha quella stessa sorta di realtà: "Anch'esse [le esperienze dei sogni, delle crisi e delle intuizioni] hanno 'nomi' e 'date' [... ] simili a 1)ietre di confine[ ... ] ". Avendo letteralizzato l'esteriore, dovevo letteralizzare e irrobustire l'interiore. Quel che là ho trascurato, e che qui voglio correggere, è che una storia clinica - per quanto "esteriore" possa esserne lo stile - è anche un modo di immaginare. Vorrei considerare di nuovo la storia clinica, vedendola come uno dei modi dell'anima di parlare di sé, in quanto caso e con una storia, perché è così che possiamo rispettare la storia clinica per il genere di narrativa in cui si configura: una narrativa fatta di letteralismi, che inevitabilmente non si riconosce come tale, perché - come vedremo in questo percorso circolare - questo ti32

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po di letteralismo è necessario all'anima, che vuole la sua storia clinica letterale, arricchendola via via che si impegna nella vita. In primo luogo, non possiamo asserire le certezze interiori dell'anima in contrapposizione al fluttuare dei fatti esterni: quel che diciamo sulle nostre "vere" identità e sulle pietre miliari dell'anima è altrettanto soggetto a dissoluzione, fraintendimento e slittamento di confini, quanto qualunque evento "esterno". Possiamo ingannarci su noi stessi come sul mondo dei fatti. La distinzione tra una storia clinica di eventi esteriori e una storia dell'anima di esperienze interiori, non si può fare in termini di permanenza indelebile e di verità letterale: nessuna delle due vie è più "reale" perché più solida. Dobbiamo affermare la realtà psichica in tutt'altro modo, e non copiando le metafore letteralistiche, le fantasie di fissità e di durezza che usiamo per la realtà esterna. Porre su basi diverse la distinzione tra interiore ed esteriore significa saper vedere il movimento tra anima e storia come un processo che interiorizza ed esteriorizza incessantemente, che coglie intuizioni e le smarrisce, che deletteralizza e riletteralizza. Anima e storia sono nomi che diamo a questa operazione fondamentale tra ciò che il pensiero indù chiama suksma (sottile) e sthula (ottuso), tra il punto di vista metaforico della narrativa e quello letteralistico della storia, fra interiorità ed esteriorità. Non è che vi siano due specie di eventi o due luoghi dell'accadere, bensì due prospettive sugli eventi, una psicologica ed interiore, un'altra storica ed esteriore. Arriviamo ora a uno dei fondamenti del rapporto tra anima e storia. Un avvenimento diventa esperienza, si sposta dall'esteriore all'interiore, si fa anima, quando passa attraverso un processo psicologico, quando l'anima vi influisce in uno dei suoi tanti modi. Platone ce ne ha indicati i principali: la dialettica, alcuni tipi di mania che includono il rituale e l'amore, e la poesia, a cui possiamo aggiungere la malattia o il patologizzare, comie attività tanatologica della psiche. Possia33

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mo accogliere in noi il mondo facendolo passare attraverso la malattia; con la formazione del sintomo possiamo trasformare un avvenimento in esperienza. Ma la sola narrazione, il puro e semplice racconto, non basta da sé a fare anima. Una storia d'amore non è che una histoire, una delle mille e tre,* la vicenda esteriore di eventi emotivi, come un gran mazzo di asfodeli gialli, a meno che non venga ricordata in tranquillità, fatta passare attraverso un'operazione psicologica, come quella che l'anima induce a compiere - lettere d'amore, ansietà, poesie, confidenze, rischiosi convegni segreti, turgide fantasie. Sogni, visioni e sentimenti - così totalmente interiori e miei - non hanno niente a che fare con l'anima se non sono ricordati, trascritti, se non entrano nella storia. Sentimenti e immagini interiori (la cosiddetta materia dell'anima) sono a disposizione ogni notte alla fiera onirica, semplici e involontarie rivelazioni provenienti dal tunnel dell'amore e dalla camera degli orrori, salvo che non vengano sottoposti all'intelligenza qualificante, al fare-storia della psiche, vagliati e soppesati dalla disciplinata riflessione dell'amore, del rituale, della dialettica, o di un'arte - oppure, dall'analisi psicologica con la sua trama terapeutica. Vi sarete accorti che sto ora parlando di "storia" in un altro modo, come di un equivalente del fare anima, come di un'operazione digestiva. Queste due modalità di storia riappaiono nell'opposizione tra anima e caso clinico. Il tipo di storia del caso clinico è il racconto dell'esteriorità, materia grezza e ottusa, non fermentata, indigerita, non elaborata; questo materiale del caso (come appunto viene chiamato) può consistere indifferentemente delle intense fantasie private di un viaggio con l'LSD o di un'epifania religiosa, o anche dei monotoni scritti pubblici dei miei archivi, fintantoché non sia stato setacciato e ingerito * In italiano nel testo

(si riferisce al Don Giovanni di Mozart). [NdT]

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per diventare esperienza. Esterno significa semplicemente che lo stiamo guardando dal di fuori, che è chiuso nel suo letteralismo fattuale: accadde questo e quest'altro, e poi quest'altro ancora. Interiore significa che lo stiamo accogliendo, che è aperto all'intuizione. L'ingestione rallenta la discesa degli avvenimenti, per il piacere di masticare. Possiamo allora concepire la storia dal punto di vista dell'anima; collazionando accuratamente quel che è accaduto, la storia digerisce gli avvenimenti trasformandoli da materiale del caso in materia sottile. Nascosto in questa fantasia c'è un caposaldo del mio credo: l'anima rallenta la parata della storia; la digestione doma l'appetito; l'esperienza coagula gli avvenimenti. Credo che, se sapessimo esperire di più, ci sarebbe un minor bisogno di avvenimenti, e avrebbe fine lo scorrere troppo rapido del tempo; credo anche che quanto non digeriamo si riversi altrove, negli altri, nel mondo politico, nei sogni, nei sintomi del corpo, diventando .letterale ed esteriore (e lo chiamiamo storia), perché è troppo duro per noi, e troppo opaco per poter essere squarciato o intuito. Quello che non sperimentiamo diventa soltanto materiale per il caso, o storia del mondo, affretta il ritmo degli eventi, nella mia anima come nel mondo. Tutta la fretta viene dal diavolo, come dice un vecchio proverbio; il che significa, da un punto di vista psicologico, che il proprio diavolo va trovato nella propria indigestione, nell'avere più accadimenti che esperienze. Quello che sperimentiamo davvero, filtrandolo attraverso un processo immaginativo, è tolto dalle strade del tempo e dal mare ignaro della mia turbolenza mentale. Sconfiggiamo il diavolo semplicemente rimanendo calmi. Oppure, tornando indietro: la regressione appartiene al modo digestivo del fare anima, per cui una buona dose di rimembranza, la sua pena e la sua vergogna, sono ricapitolazioni, sono ulteriori revisioni del capitolo prima di poterlo chiudere. Gli analisti dovrebbero forse ri-scrivere più volte le loro 35

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storie cliniche, come fanno i narratori per i loro romanzi. Fare la stesura del caso clinico, e poi riscriverla, revisionarla, fa parte della sua terapia; serve a guarire il racconto dai suoi momenti mal-considerati, dai suoi residui indigeriti. Abbiamo bisogno anche noi di purgare i nostri scritti dal gergo di moda delle idee prese a prestito, dal convenzionalismo e dai concettualismi che non riflettono altro che se stessi; dobbiamo prestare attenzione agli aggettivi, alle frasi prepositive, persino alle virgole, che contribuiscono alla precisione e affinano le immagini fino a ridurle ai loro elementi essenziali. Se noi analisti diventassimo più letterati, potremmo diventare meno letterali, meno attaccati al caso senza una visione della sua anima. Dopotutto, psicoterapia significa terapia della psiche, e la sua pratica non può limitarsi alla persona che è passata attraverso la clinica per scomparire anonimamente nella vita. Il "seguito" nello scrivere è la nostra digestione; la pratica prosegue in chi la esercita, e noi stiamo ancora "esercitandoci" con i casi di Freud. La psicoterapia avanza solo attraverso la regressione, ritornando sul suo materiale più volte, riscrivendo la sua propria storia. Per questa ragione riservo un culto tutto psicologico all'altare del Dio del tempo storico e della lentezza, Saturno, il divoratore archetipico, che ci insegna l'arte della digestione interna, attraverso il magistero della sua sindrome depressiva. È strano scoprire che l'analisi non sa guardare alla storia in questa maniera benefica. Le psicoterapie del profondo entrano nel passato di una persona col desiderio di modificare quel passato, e perfino di disfarsene; una persona è un caso con una storia proprio a causa della storia, e la terapia è una sorta di opus contra historiam, che opera contro le influenze storiche dell'infanzia e della società per svelare un "vero" Sé astorico e liberarlo. Troviamo così terapie del profondo che invocano principi astorici, come gli istinti, l'atemporalità dell'inconscio, la rinascita, gli archetipi e altri universali eterni, quali il complesso di Edipo o il Sé. Profonda tende a significare 36

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al di là o al di fuori della storia. Queste terapie tentano anche di dare all'anima una storia che sia indipendente dal materiale del proprio caso, un'anima la cui storia ricapitoli la filogenesi o l'individuazione religiosa. Alla questione della storia io giungo invece partendo da un'angolatura diversa: vedo l'opposizione tra i due tipi di storia come una necessità della trama terapeutica. La terapia ha bisogno del racconto delle realtà letterali come materia prima su cui lavorare; deve avere il crudo per poter cuocere. Perciò cominciamo con un'anamnesi classica: non perché questa mossa ci serva ad avere una base di fatti, ma perché queste storie fattuali sono la materia prima in cui si. trova impigliata la psiche del paziente, che è immerso in questi attaccamenti e in queste identificazioni letterali, nelle stringenti circostanzialità della physis. Ecco l'abisso apparentemente senz'anima, il materiale informe e non psicologico, pieno di dati collaterali, di calcoli economici, di passaggi attraverso centri di assistenza sociale, dolori, sofferenze, bisogni, non ancora "elaborati" in una trama: tutto quanto precede la fermentazione. Questo stadio della narrazione deve presentarsi in modo letteralistico, perché la trama terapeutica ha bisogno di eventi opachi da poter penetrare con le intuizioni. Per di più, la trama terapeutica come processo costante continua ad aver bisogno di nuovi materiali, per procedere nel fare anima. La storia clinica e il suo materiale scorrono allora in contiguità con la storia dell'anima, e la rendono possibile. Mantenere i confini fra "esteriore" e "interiore" serve alla terapia per muovere le cose, con la sua arte interpretativa, avanti e indietro fra i due. Le interpretazioni esigono confini ben definiti, forse persino li tracciano. Forse, tutti quei confini così ben delimitati che circondano la terapia - tra medico e paziente, oggettivo e soggettivo, simboli e concetti, conscio e inconscio - derivano proprio da quella prima mossa fondamentale della terapia che è la traduzione interpretativa. Difese, resistenze, opposizioni, 37

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auto-delimitazioni: è il linguaggio del confine. Forse lo stesso transfert è una funzione dell'interpretazione; e se lasciassimo perdere i confini che richiedono la traduzione fra due linguaggi, forse non avremmo quella tensione transferenziale fra le due persone. Supponiamo di immaginare i confini non come fossati e canali fra due sponde opposte, che esigono censori, interpreti, ruoli professionali, bensì come specchi: l'analisi come mimesi. Ed ecco la terapia evocare immagini corrispondenti, avanti e indietro. L'immagine che il paziente porta con sé riceve da parte mia un riflesso immaginativo, anziché una traduzione nel mio linguaggio. Noi lasciamo che la pittura e la musica risuonino in noi senza tradurle: perché non farlo anche con il sogno? L'arte di immaginare fa a meno dell'interpretazione e richiede invece un equivalente atto di immaginazione; il tuo sogno evoca in me un sogno, il mio lo evoca in te - non in senso letterale, come tale, non una partecipazione e una confessione reciproca (che disperde l'immagine nel soggettivismo personale) - ma il sogno come fantasticheria, fantasia, risonanza immaginativa, come un frammento del fare-anima la cui finalità non è ermeneutica, non è un gesto di comprensione. Lungo i confini specchiati non si ode il linguaggio del significato: capirsi l'un l'altro non è il fine, e la traduzione si dilegua. Al suo posto, è una danza mimica che volteggia avanti è indietro fra i guardiani dei confini: sono ossequi alle immagini, lo scambio di doni, le cerimonie. Vi siete accorti chi sto additando? Ermes, il Dio dei confini e dell'ermeneutica, delle connessioni tra mondi diversi. Come procedimento d'interpretazione, la psicoterapia è attratta da Ermes, scaltro e mercuriale, con il suo commercio, il suo fallo, i suoi inganni; ma deve poi tenerlo sotto controllo con restrizioni che, in quanto confini, servono solo a incoraggiare Ermes ancora di più. Un circolo vizioso, il circolo ermeneutico. Analisi senza fine, perché è sempre di più il materiale inconscio da interpretare coscientemente. 38

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Non voglio dire con questo che Ermes sia il Dio adatto all'analisi; voglio dire che, dal momento che è stato invitato, si sappia almeno cosa possiamo aspettarci. Anche Ermes è una storia che cura, un Dio, e cura convincendoci di quelle finzioni interpretative, facendole funzionare in modo che l'interprete si imbatta proprio nella parola che apre la strada. Ma se Ermes ha come funzione la guida delle anime, dobbiamo avere del materiale che lui possa trasformare in un messaggio. Niente sogni, niente intuizioni terapeutiche. Dev'esserci qualcosa da portare oltre la soglia e da barattare e tradurre in un'intuizione. È nell'atto interpretativo che Ermes si manifesta; il suo dono è l'intuizione. Si può riconoscere dov'è stato dal mucchio di pietre eretto a segnare il suo intervento; e queste pietre di confine continuano a essere erette nella psiche come parte della sua storia dell'anima (come si è detto), quando sia stata svolta una certa opera di abile ermeneutica su un sogno o su un racconto. Quando Ermes è all'opera in un'analisi, si ha la sensazione che il proprio racconto sia stato rubato e trasformato in qualcos'altro. (La mia collega che "defraudava" il nuovo paziente, non dandogli ciò che lui voleva per la sua storia: quella era una mossa di Ermes, anche se non servì). Il paziente narra la sua storia, e improvvisamente la trama non è più quella; lui resiste, come per fermare un ladro: no, non è affatto questo che volevo dire, assolutamente. Troppo tardi: Ermes ha afferrato la storia, le ha girato i piedi, ha reso bianco il nero, le ha dato le ali; e la storia si è spostata dai nessi storici del mondo supero, dove è cominciata, ed è stata sovvertita in un significato infero. Freud e Jung esordirono entrambi con queste astuzie ermetiche: "Ieri mi è successo qualcosa di folle!" diventò per loro un messaggio ermeneutico. Tolsero i lapsus verbali, le battute e le stranezze delle associazioni verbali dal loro innocente contesto di prima facie, e li introdussero nelle vaste caverne dell'implicito significato psichico. Erano entrambi maestri 39

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nella conversione ermetica, nel trasformare in anima il materiale dei casi.

7. Jung: figlio di Ermes? Accanto ai generi che abbiamo indicato - ermetico, eroico, picaresco o episodico, erotico, saturnino, e quello dell'anima- possiamo trovare in Jung i germi di un altro genere. Ma dobbiamo guardare nel posto giusto, perché, sebbene Jung abbia dato parecchi contributi ai rapporti tra psicologia e letteratura, questi approcci si collocano fra i più convenzionali che la psicologia del profondo abbia rivolto alla materia. Sono generali e dispongono l'intera questione in termini di opposti: inconscio personale/collettivo, estetico/psicologico, creatività/normalità, formà/contenuto ecc. Le rare osservazioni di Jung sulla narrativa, ad eccezione del suo lavoro sull'Ulisse di Joyce e della sua affinità col Faust di Goethe, riguardano per lo più scrittori di secondo piano come Rider Haggard. Il suo vero contributo, come quello di Freud, è proprio nella narrativa che lui stesso ha realizzato, nel suo modo di scrivere psicologia. Risposta a Giobbe ne è la prova più evidente, ma analogie ancora più interessanti con la produzione letteraria sono le sue fenomenologie dei vari archetipi - il Briccone, Mercurio, il Puer, l'Anima, la Madre - che rappresentano l'invenzione creativa di personaggi romanzeschi, biografie o caratterizzazioni di persone archetipiche. Come nel caso di Freud, gran parte del materiale clinico pubblicato da Jung (esclusi i suoi primi articoli psichiatrici e freudiani, vale a dire l'opera anteriore ai trantasette anni, quando Jung diventò quello che oggi definiamo "junghiano") rappresenta un passo gigantesco oltre l'empirismo clinico. Riferendosi ai casi, come fa in tutti i suoi scritti, non li usa nel senso clinico empirico, ma come fossero riempitivi aneddotici, o come esempi a sostegno di una tesi. I suoi casi sono illu-

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strazioni secondarie precedute spesso dalla nota: "Vorrei illustrare ciò mediante un esempio". Sebbene si tratti di "un'analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia", come dimostra il sottotitolo posto da Jung a Simboli della trasformazione, il suo caso clinico più esteso e più famoso, "Miss Miller", è, come il caso Schreber di Freud, l'analisi di un documento stampato, scritto originariamente da un'americana, che Jung tradusse in tedesco dalla versione francese. Un altro caso pubblicato, il secondo per importanza (Psicologia e Alchimia), come "il piccolo Hans" di Freud, era materiale di un paziente che non aveva lavorato analiticamente con Jung. Jung scelse volutamente un caso non suo perché la dimostrazione della sua teoria mediante un caso fosse ancor più oggettivamente empirica, cioè meno soggetta alla sua influenza. Anche il famoso paziente del Burgholzli, la cui fantasia spontanea del fallo solare creatore del vento divenne la base "empirica" dell'ipotesi junghiana dell'inconscio collettivo e degli archetipi, è risultato essere non suo, ma del suo allievo Honegger che gliene aveva parlato. Nell'introdurre quel volume delle sue opere complete che contiene i suoi scritti sull'analisi empirica, ed è empiricamente intitolato Pratica della psicoterapia, Jung dice: "Questo libro può servire a dare al lettore una buona idea dei fondamenti empirici della psicoterapia." Il lettore pedestre si aspetta "materiale clinico"; ma gli undici casi menzionati nel libro - eccetto il breve caso aggiunto in appendice dai curatori della seconda edizione, dopo la morte di Jung - sono riferimenti aneddotici en passant, o sono sogni di pazienti che servono da materiale per il metodo interpretativo di Jung. Il modo in cui l'ultimo Jung usa il termine "empirico" varrebbe da solo la pena di uno studio, per come sa rinverdire un termine ridottosi a un cliché incrostato di scientismo. Penso che il suo uso della parola sia connesso a un processo soggettivo che si è svolto in lui, e sia quindi più vicino all'uso poetico 41

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di "empirico". L'evento empirico - l'immagine del fallo solare in un paziente - libera nella mente un movimento che dà vita a un'ipotesi (o a un'immagine, a un verso); si indica allora l'evento empirico come causa efficiente, perché l'ipotesi ha preso davvero il via da un dato empirico, con un tempo e un luogo, come una poesia può scaturire da una percezione concreta. E come il poeta, Jung ritorna di quando in quando al mondo concreto delle percezioni (casi, sogni, fantasie religiose, antichi testi). In questa prima accezione, è un empirico; in una seconda, è empirico nel suo accumulare esempi per sostenere la sua ipotesi; in una terza, è empirico nel senso pragmatico: valuta le ipotesi in termini di euristica terapeutica pratica. Ma non è un empirico, neppure nel senso clinico del singolo caso come paradigma, perché il caso non è la fonte indispensabile delle sue intuizioni, né il luogo della loro dimostrazione. Fa eccezione il caso della sua autobiografia, che veniva a concludere la sua cosmologia in venti volumi, e non voleva essere parte della dimostrazione delle sue teorie, di gran lunga precedenti, sebbene si sia poi dimostrata il principale contenitore empirico di tutta la sua opera. L'opera di Jung, infatti, come la teoria freudiana dei sogni, della rimozione e dell'inconscio, scaturisce da un caso clinico principale che la dimostra, ossia da quello del suo autore. Per riassumere, il modo in cui Jung presenta i casi non è decisamente quello dell'empirismo medico - resoconti delle interazioni tra medico, paziente, patologia e trattamento - è semmai un presentare, attraverso il materiale del caso, le spontanee invenzioni psichiche e le loro interpretazioni. (Il rapporto di questi sogni e fantasie con il "caso" e il dottore Jung - è appena abbozzato e di solito è accidentale). I suoi casi non sono neanche anamnesi, presentazioni biografiche della vita, e nemmeno storie dell'anima; Jung rinnega espressamente questo metodo: 42

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In certi settori è stata avanzata l'accusa che la moderna psicoterapia si soffermi troppo sui problemi filosofici e non abbastanza sul lavoro minuto dei casi clinici. Questa accusa deve essere decisamente respinta, perché i problemi filosofici appartengono nel più alto grado al campo empirico delìo studio dell'anima, come oggetto sia di studio sia di critica filosofica. L'intelletto empirico, occupandosi del lavoro minuto dei casi clinici, introduce involontariamente le proprie premesse filosofiche non solo nell'ordinamento, ma anche nella valutazione del materiale, e perfino nella presentazione apparentemente obiettiva dei dati. Se oggi lo psicoterapeuta comincia a parlare di Weltanschauung, di filosofia della vita, ciò dimostra semplicemente che ha scoperto l'esistenza di determinate premesse generali, precedentemente neglette nella maniera più ingenua. A cosa serve anche il lavoro più accurato e puritiglioso se è pregiudicato da un assunto inconfessato? 0 •>

Cosa ci resta allora? L'interpretazione e il commento dello spontaneo immaginare della psiche, la cui materia è narrativa anche se viene definita "materiale inconscio". Mentre Freud è uno che scrive storie nel senso che abbiamo visto, Jung è uno che scrive sulle storie; e per Jung, quanto più la storia era fittizia e distante, tanto meglio era (da qui l'alchimia, il Tibet, Zarathustra, gli eoni astrologici, la schizofrenia, la parapsicologia), perché tali "materiali" lo obbligavano ad affrontarli a un livello altrettanto immaginativo. Tuttavia, sia Freud che Jung assunsero una posizione empirica, si sottoposero alla critica empirica e tentarono di replicare con difese empiriche. Sarebbe stato meglio per loro se avessero cercato aiuto nel campo in cui essi stessi operavano, nel campo dell'immaginazione letteraria. Lo stile in cui Jung scrive di psicologia assume varie forme, ora esortative e apocalittiche, come di un predicatore eretico, ora con le mappe e i dati di uno sperimentalista wundtiano, ora con i sistemi folli, il linguaggio impenetrabile e gli arcani riferimenti di un antico gnostico del vicino Oriente. Al pari di 43

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Ermes, i cui piedi alati si posano nell'Ade come sull'Olimpo, e che reca i messaggi di ciascuno degli Dei, l'ermeneutica di Jung non conosceva barriere di spazio e di tempo - yoga cinese, riti messicani, avvenimenti di storia contemporanea, pazienti d'ospedale, fisica moderna - tutto avrebbe interpretato; qualsiasi cosa era prima materia per le sue operazioni psicologiche. La sua psicologia si presenta come un saggio ininterrotto, un Versuch. Quale ogni altro grande saggista, Montaigne o Emerson per esempio, anche Jung - come lui stesso ha sempre sostenuto - non compose un sistema. Che poi la seconda generazione dei suoi seguaci si sia affrettata a mostrare la cosmologia sepolta all'interno dei suoi saggi non sistematici - completa di mappe e simboli - non riesce a rendere Jung meno ermetico. L'unico testo che "tenti" un approccio sistematico (il volume 7 delle "Opere") risale a prima che i suoi lavori principali su scienza, religione, mito, alchimia e realtà psichica fossero stati concepiti. (Che poi questo libro sia tuttora usato come manuale introduttivo all'opera di Jung, sta a dimostrare il nostro disperato bisogno di sistemi esplicativi della psicologia, e non di saggi che la penetrino intuitivamente.) Il modo di Jung di scrivere psicologia sembra dunque essere stato per molti aspetti sotto la tutela di Ermes: l'attenzione per le condizioni limite della psiche; l'impegno rivolto ai segreti ermetici della psiche; e ancora la sua ricerca ermeneutica lungo i confini della psicologia, dove campi diversi si toccano l'un l'altro. L'opera di Jung è inoltre di per sé un'ermeneutica nello stile di Ermes, un'ermeneutica che non costruisce una nuova cosmologia, ma la risignifica guidandola verso la psiche, e guidando la psiche verso la morte. Tutte le cose recano messaggi degli Dei per l'anima. Ermes appare nel coinvolgimento di Jung nel mito dei significati, nella sua attrazione costante e ricorrente per Mercurio, tanto nella schizofrenia, nella sincronicità, nella trasformazione e nella morte, quanto nell'arte ermetica, l'alchimia. Ermes è anche il briccone che 44

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può torcere una parola, come "empirico", per portare il messaggio necessario al momento, per insinuarvi un altro significato. Al centro della sua scultura in pietra a Bollingen, circondato dai glifi dei pianeti, c'è il segno di Mercurio;< 35 > e Mercurio, tra le altre cose, è il Dio della scrittura. Nel modo mercuriale che mi è proprio però, non è Ermes, ma Dioniso il Dio che mi preme mettere in evidenza in Jung; a questo scopo, è necessario che ci volgiamo alla trattazione che Jung riserva al sogno.

8. Sogno, dramma, Dioniso Jung non accettò la narrazione freudiana del sogno; era troppo macchinosa e allo stesso tempo troppo semplicistica. Per Jung il sogno non era allegorico, "una descrizione narrativa di un argomento nelle guise di un altro", nel quale "personaggi, azione e scenario sono sistematicamente simbolici". Il sogno è metaforico, parla contemporaneamente due lingue, o meglio - come Jung espresse questa duplicità ermetica - il sogno è un simbolo, un far coincidere in un'unica voce due dissonanze. La differenza tra Freud e Jung è differenza tra allegoria e metafora; e la differenza tra allegoria e metafora è più profondamente determinante, per le vere scuole di psicologia e per la comprensione dell'anima e del suo linguaggio, di quanto non lo siano altre differenze derivate dalle trame o dalle teorie di Freud e Jung. Allegoria e metafora esordiscono entrambe dicendo una cosa come se fosse un'altra; ma mentre il metodo allegorico divide questo linguaggio duplice in due elementi costitutivi latente e manifesto - e richiede una traduzione dal materiale manifesto nel latente, il metodo metaforico mantiene unite le due voci, ascoltando il sogno così come si esprime, ambiguamente evocativo e concretamente preciso in ogni singolo momento. Le metafore non sono passibili di traduzione interpre45

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tativa, senza che ne vada distrutta la peculiare unità. "Quell'uomo ha una gamba di legno" non è più una metafora quando si dica: guardate, sotto i pantaloni una delle sue gambe è artificiale; o quando si prenda l'altra direzione: intendo dire, solo in modo figurato, che il suo stile è simile a quello di uno che abbia una gamba di legno; è falso, vuoto; zoppica, strascica. Se simboli e metafore non si possono tradurre, è necessario un altro metodo per comprendere i sogni, un metodo che implichi maschere, travestimenti e doppiezza, un metodo che sia esso stesso metaforico. Questo stile metaforico del discorso è, per Jung, la voce stessa della natura; la metafora preferita di Jung per il sogno è che sia la natura stessa a parlare, con ciò intendendo - almeno per me - sia la natura naturans (la forza primordiale della natura), che la natura naturata (le forme primordiali della natura, le ambigue ma nitide immagini archetipiche). Col volgersi ai sogni per giungere alla natura creativa dell'anima, Jung si volgeva anche al Dio di questa natura, Dioniso, che è tanto la forza vitale, zoé, quanto l'ambiguo flusso della fantasia primordiale; è sempre bambino, bisessuale, ed è il Signore delle Anime, la vita psichica della trasformazione mediante eventi semi-occulti. Jung ha indicato Dioniso anche nell'affermare che il sogno ha una struttura drammatica, poiché Dioniso è il Dio del teatro e la parola tragedia significa •~canzone del capro". Quando Jung diceva che il sogno ha una struttura drammatica e che la sua natura potrebbe essere letta come teatro, compiva lo stesso passo di Freud; entrambi proiettavano sul sogno l'idea con cui lo concepivano. Freud affermava che il sogno contiene sessualità rimossa, mentre era lui che l'osservava e lo decifrava attraverso quell'idea (che, per inciso, non è tanto una teoria dell'istinto o un modello biologico, quanto una trama archetipica che esprime Afrodite, Eros, Priapo e Dioniso-Liber). Jung affermava che il sogno ha una struttura drammatica, mentre era lui che usava la prospettiva del dram46

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ma per leggere il sogno. Questa confusione tra "cosa" vediamo e "come" vediamo è un altro esempio dell'effetto prodotto dalle idee; infatti eidos significava originariamente ciò che si vede e ciò mediante cui si vede. In realtà, possiamo vedere la struttura drammatica soltanto se guardiamo per suo tramite; vediamo quello che le nostre idee, rette dagli archetipi, ci consentono di vedere. L'addentrarsi nel dramma fu un'altra delle mosse letterarie di Jung; fu un altro passo cruciale, che avvicinava la psicologia alla poetica. E voglio aggiungere questo pensiero come ipotesi, e in corsivo per sconcertarvi: se il sogno è natura psichica per sé, incondizionata, spontanea, primaria, e se questa natura psichica può mostrare una struttura drammatica, allora la natura della mente è poetica. Per andare alla radice dell'ontologia umana, alla sua verità, alla sua essenza e natura, ci si deve allora muovere nello stile narrativo e si devono usare strumenti poetici. Per capire la struttura del sogno ci volgiamo al dramma; la poiesis è la via regia alla via regia. L'inconscio produce drammi, invenzioni poetiche: è teatro. In un saggio rimasto inedito fino al 1945, Jung traccia i quattro stadi della struttura drammatica (indicazione del luogo, dramatis personae, esposizione; sviluppo della trama; culmine o crisis; soluzione o lysis). Non starò a ripetervelo; vi lascio il piacere di leggerlo da voi: è istruttivo, utile e fuorviante. Infatti la struttura drammatica non è vera al livello in cui Jung la pone: in pratica è raro che i sogni possano essere analizzati distinguendone quattro stadi definiti, perché i sogni sono per lo più sconnessi e frammentari, o istericamente rigonfi e labirinticamente lunghi. L'idea della struttura drammatica è inoltre fuorviante anche in un senso più profondo: il sogno è primariamente un'immagine - oneiros (sogno, in greco) significa "immagine" e non "racconto". Possiamo vedere il sogno dal punto di vista narrativo, allegorico o drammatico, ma di per sé esso è un'immagine o un gruppo di immagini; quando vediamo in esso il dramma, sono sempre le nostre

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ipotesi quelle che stiamo guardando, almeno in parte. L'ipotesi dionisiaca è stata preziosa per guardare il sogno in altro modo; potrà esserlo ancora di più per guardare in altro modo Dioniso. Dioniso è stato cancellato o adulato per la sua isteria; è arrivato a significare semplicemente il contrario di Apollo, ed è perciò diventato, nella mente popolare e anche in quella accademica, una creatura di menadi in delirio, estasi collettiva, perdita dei limiti, rivoluzione, teatralità. Il logos andava reperito altrove, in Apollo per esempio; ma quando Jung dice che il sogno ha una struttura drammatica sta dicendo che esso ha una logica drammatica, che c'è un logos dionisiaco e che questo è la logica del teatro. Il sogno non è soltanto natura psichica; presenta anche la logica psichica. (Freud ha senza dubbio presentato la prima grammatica di questa logica nel capitolo settimo della sua Traumdeutung; ma quell'opera si può vedere anche come un perverso stravolgimento della retorica poetica in meccanismi patologici. I termini usati da Freud per il lavoro onirico - condensazione, spostamento, simbolizzazione, e simili - sono i modi stessi della dizione poetica.) Credo che Jung voglia indicare questo: se la psicoterapia vuol comprendere dal di dentro l'anima sognante, è meglio che si volga alla "logica teatrale". Nel suo più immediato presentarsi, la natura della mente ha una forma specifica: la forma dionisiaca. Dioniso può essere "la forza che nella verde miccia spinge il fiore" (Dylan Thomas), ma questa forza non è cieca, ha una sua organizzazione interna; in psicologia questo linguaggio non si esprime secondo la genetica o la biochimica, con il codice del DNA, ma direttamente, nella forma d'arte peculiare a Dioniso, la poetica teatrale. Questo significa che il sogno non è affatto un messaggio cifrato, ma un' esibizione, una Schau, in cui il sognatore stesso svolge un ruolo o fa parte del pubblico, ma è comunque coinvolto. Non fa meraviglia che Aristotele ponga la psicoterapia (catarsi) nel contesto del teatro: le nostre esistenze sono la rappresentazio48

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ne dei nostri sogni; le nostre storie cliniche sono fin dall'inizio, in un modo archetipico, drammi; e noi siamo maschere (personae) attraverso cui risuonano (personare) gli Dei. Come i sogni, anche le fantasie interiori (su cui torneremo in modo più attento nel secondo capitolo) hanno la logica avvincente del teatro. Scrive Jung:< 41 > Una catena di rappresentazioni di fantasia si sviluppa e assume gradualmente un carattere drammatico: il processo passivo diviene un'azione. Dapprima essa consiste di figure proiettate, e queste immagini vengono osservate come scene su un palcoscenico. In altre parole, sognate a occhi aperti. C'è, di solito, una marcata tendenza a godersi semplicemente questo spettacolo interiore [ ... ]. Ciò che si rappresenta sul palcoscenico rimane ancora un processo di sfondo; non tocca l'osservatore in alcun modo: e quanto meno lo tocca, tanto minore sarà l'effetto catartico di questo teatro privato. Il pezzo che viene messo in scena non vuol essere solo guardato con imparzialità, vuol costringere alla partecipazione. Se lo spettatore capisce che è il suo stesso dramma che si sta rappresentando sul palcoscenico interiore, non può restare indifferente alla trama e al suo scioglimento; si accorgerà, via via che gli attori si succedono e che l'intreccio si complica, che [... ] è l'inconscio che si rivolge a lui e fa sì che queste immagini di fantasia gli appaiano davanti. Si sente perciò costretto, o viene incoraggiato dal suo analista, a prendere parte alla recita [ ... ].

Questa sorprendente analogia letteraria con il processo di guarigione ci riporta alla Grecia e al posto occupato dal teatro dionisiaco nella guarigione. Il paziente entra nel ruolo di un personaggio rappresentato, dell'attore; la guarigione ha inizio quando usciamo dall'uditorio ed entriamo nel palcoscenico della psiche, quando diventiamo personaggi di una finzione (perfino la voce della Verità, simile a quella di un Dio, anch'essa finzione); e quando il dramma si fa più intenso, avviene la catarsi; ci purghiamo degli attaccamenti ai destini let-

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terali, troviamo la libertà nel recitare parti parziali, smembrate, dionisiache, senza mai essere totali, ma partecipando alla totalità che è una commedia, da essa ricordati come suoi attori. E il compito assegnato dalla commedia e dal suo Dio è quello di recitare una parte con maestria, con passione. Dare dimora ai sogni insieme al dramma e a Dioniso significa non farli convivere con la profezia e Apollo; la mossa di Jung invalida l'intero approccio oracolare al sogno, un approccio cui lo stesso Jung spesso inclinava, leggendo il segno come un messaggio profetico sul che cosa fare e come comportarsi: l'interpretazione dei sogni come consiglieri della vita quotidiana. Ancora: non messaggi, maschere. Se la struttura della logica dionisiaca è quella del dramma, l'incarnazione particolare della logica dionisiaca è l'attore; il logos dionisiaco è la rappresentazione della finzione, dove l'individuo è un essere "come se", la cui realtà proviene interamente dall'immaginazione e dalla convinzione che essa impone. L'attore è e non è, persona e maschera (persona), diviso e indiviso - come veniva chiamato Dioniso. Il sé diviso è precisamente dove il sé è autenticamente situato - contrariamente a quanto sostiene Laing - e l'autenticità è il perpetuo smembrarsi nell'essere e nel non essere un sé, in un essere che è sempre in molte parti, come un sogno con un cast al completo. Abbiamo tutti crisi di identità, perché un'identità singola è un'illusione della mente monoteistica, che ad ogni costo vorrebbe sconfiggere Dioniso; abbiamo tutti una coscienza dispersa in tutte le parti del nostro corpo, uteri vagabondi; siamo tutti isterici. L'autenticità è ne/l'illusione, nel recitarla, nell'osservare in trasparenza dal suo interno mentre la recitiamo, come un attore che vede attraverso la sua maschera, e solo in questo modo può vedere. Non riuscire a capire questa logica dionisiaca, non comprendere che i nostri drammi sono pieni di forma e di coerenza dinamica, perché sono tramati dai miti cui partecipano gli Dei, ci spinge all'esterno; tentiamo allora di vedere attraverso 50

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quel che sta accadendo come osservatori distaccati; abbiamo Penteo sul suo albero, il movimento schizoide, apollineo, che esce dall'isteria, privando la logica della sua vita e la vita della sua logica, entrambe folli. L'essenza del teatro risiede nel sapere che di teatro si tratta, che si sta recitando, mettendo in scena, mimando, in una realtà che è del tutto finzione. E quando Dioniso è chiamato Signore delle Anime, questo appellativo non va inteso soltanto nel senso metafisico della morte e dei misteri del mondo infero, ma anche nel senso della intuizione psichica, del punto di vista psicologico che vede tutte le cose come maschere, onde vedere in trasparenza attraverso tutte le cose. Perché dove il mascherarsi è essenziale a una logica, è implicito il vedere in trasparenza. La logica dionisiaca è necessariamente mistica e trasformazionale, perché considera gli eventi come maschere, che richiedono il processo esoterico del vedere in trasparenza fino all'intuizione successiva. È la logica di Dioniso che rende necessari i suoi attributi di movimento, danza, flusso; il suo è il punto di vista che non può prendere niente in modo statico, niente in modo letterale, perché tutto confluisce letterariamente in finzioni drammatiche. Tutto il mondo è un palcoscenico e noi siamo della materia dei sogni, diceva Shakespeare, lo psicologo di corte di Elisabetta. Siamo stati a lungo indotti a credere che il logos possa essere definito solo dalle strutture olimpiche, dai figli di Zeus, da Atena, o da Apollo, Ermes, Saturno; logos come forma, legge, sistema, o matematica. Ma Eraclito ci ha detto che è come il fuoco, un flusso; e Gesù, che è amore. Ogni Dio ha il suo logos, che non ha un'unica definizione, ma che è sostanzialmente il potere intuitivo della mente di creare un cosmo e di dargli un senso; è una parola antica per la nostra parola peggiore: coscienza. La coscienza dionisiaca comprende i conflitti nelle nostre storie attraverso tensioni drammatiche, e non mediante opposizioni concettuali; siamo composti di agonie e non di polari51

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tà. La coscienza dionisiaca è il modo di dare un senso alle nostre vite e ai nostri mondi attraverso la consapevolezza della mimesi, riconoscendo che l'intera nostra storia clinica è una rappresentazione, "sia per tragedia, commedia, istoria, pastorale, pastorale comica, storico-pastorale, tragico-istorica, tragico-comico-istorico-pastorale", e che essere "psicologico" significa vedere me stesso nelle maschere di questa particolare finzione che è mio destino rappresentare. Infine, osservarci dall'interno di un dramma riconduce alle origini religiose non solo del dramma, ma delle vicende mitiche, cui diamo rappresentazione e nomi con la maschera del "comportamento".

9. Il bisogno di storicizzare La scoperta cruciale di Freud, che le storie che gli venivano narrate erano accadimenti psicologici in veste di storia, sperimentati come eventi ricordati, fu il primo riconoscimento nella psicologia moderna di una realtà psichica autonoma da altre realtà; e fu anche un riconoscimento dell'autonomia della memoria dalla storia e della storia dalla memoria. C'è una storia che non è ricordata: dimenticanza, distorsione, negazione, rimozione. C'è anche una memoria che non è storica: ricordi di copertura, confabulazioni, e quelle favole di precoci traumi sessuali e scene primarie, che gli venivano raccontate senza che fossero avvenute nel passato storico letterale. La separabilità di storia e memoria - basata sulla convinzione che la memoria non sia una guida attendibile della storia e la possa falsificare - è un vecchio alibi per gli storici; da qui la loro insistenza sulle testimonianze documentarie oggettive: niente documenti, niente eventi. Tuttavia, pensare che la storia non costituisca la vera essenza della memoria, e che la memoria si auto-origini presentando le sue produzioni come riproduzioni, spalanca ampie visuali sulla mente, sulla remi52

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niscenza, sul senso del tempo. I platonici non trovano niente di sorprendente nella riscoperta freudiana di quanto hanno sempre sostenuto: dal Menone, attraverso le Confessioni di Agostino e l'Arte della memoria di Giulio Camillo, a Swedenborg, alla filosofia romantica e a Rudolf Steiner, la reminiscenza non si limita mai ai soli fatti accaduti nel corso della vostra o della mia esistenza, impressi nella tavoletta di cera della mente, immagazzinati e recuperati median~ gli anelli dell'associazione. Memoria è per il platonismo un vasto potenziale di tutta la conoscenza, non solo scritta dalla mano degli avvenimenti, ma siglata dalla firma degli Dei; tutte le immagini e l'attività mentale che le riassume sono in qualche diretta ma oscura relazione con la mente del Dio. Ricordare, nel senso platonico, è muoversi nella storia per entrare nella gnosi. Per correttezza, questo "ricordare quel che non è mai accaduto" bisognerebbe chiamarlo proprio immaginare, e questa forma di memoria è proprio immaginazione. Memoria era l'antico termine per entrambe, e si riferiva a un'attività e a un luogo che oggi definiamo, a seconda dei casi, memoria, immaginazione e inconscio. Memoria veniva descritta come una grande sala, un magazzino, un teatro gremito di immagini; e la sola differenza fra il ricordare e l'immaginare consisteva nel fatto che le immagini della memoria erano quelle cui si era aggiunto un senso di tempo, la curiosa convinzione che esse fossero accadute una volta. Liberati dal dover-essere-accaduti, dal bisogno di essere storici, i ricordi diventano immagini pre-storiche, cioè archetipiche. Gli eventi richiamati dal magazzino della memoria sono mitici, nel senso platonico di non essere mai accaduti e tuttavia di "essere" sempre. Sono presenti eternamente non dimenticati, non trascorsi. Sono presenti adesso, così come Freud li ha riscoperti all'opera nelle psicopatologie della vita quotidiana. Il modo di entrare in queste sale memoriali è personale: eia-

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scuno di noi ha le proprie porte d'accesso, che ci inducono a credere che la stessa memoria sia personale, tutta nostra. Il divano psicoanalitico è una di queste porte; il taccuino del poeta, il tavolo dello scrittore ne sono altre. Eppure, la memorabilità di immagini particolari - la piccola vicina di casa col prendisole giallo che, in una spiaggia estiva, scava la sabbia in cerca della Cina, l'ultimo dente insanguinato nel dolce della festa-, che siano state scelte, recuperate, raccontate proprio queste immagini, e qùeste immagini in modo così preciso, ci dice 'quanto la loro materia vitale sia memorabile in senso archetipico. La memoria infonde memorabilità alle immagini, rendendole più "vere" da utilizzare, arricchendole del senso del tempo passato, dotandole di realtà storica; ma la realtà storica è solo uno schermo alla significanza dell'anima, soltanto un modo di adeguare il senso archetipico del mistero e dell'importanza a una coscienza immersa nei fatti storici. Se l'immagine non si presentasse come storia non la prenderemmo per vera. La rimembranza è all9ra una commemorazione, un richiamo rituale delle nostre esistenze alle immagini, nel retroscena dell'anima. Col ricordare dotiamo le nostre vite di una sorta di leggenda commemorativa, di un'immagine fondante, proprio come nei casi di Freud i ricordi dei pazienti offrivano lo sfondo leggendario alla loro terapia e al fondarsi della psicoanalisi; I traumi sessuali erano "accaduti" davvero, ma nell'immaginazione, e accadono sempre, come commemorazioni rituali, come leggende fondanti, su cui si è consolidata l'istituzione freudiana, e il suo dogma, il suo culto, il suo sàcerdozio. Non è per scoprire chi sono che devo raccontare le mie storie, ma perché ho bisogno di fondarmi su una storia che io possa sentire "mia"; e sono storie che mi spaventano, perché per il loro tramite posso venire scoperto, e le mie stesse basi immaginali possono esserne esposte. La rimozione è cementata in ogni storia, come paura della storia in sé; paura della vicinanza degli Dei nel mito che mi fonda. Per questo l'arte del54

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la terapia richiede una particolare abilità nel trattare la memoria, la storia clinica, perché possa davvero fondare il paziente; e da qui l'importanza di introdurre nella terapia i grandi miti, che sono modi di leggere la storia personale nello stile fondante della narrativa. A partire da Freud, sono stati i ricordi il materiale della psicoterapia; ma se era di leggende commemorative che quel materiale si componeva, è vero allora che la psicoterapia si è impegnata nel campo della mythopoiesis, come le altre arti. Il padre della terapia può essere Freud, ma la madre è Mnemosine, Memoria, madre delle Muse, la cui decima figlia, invisibile, dev'essere Psiche. Guarire la memoria fu il primo compito cui si accinse la psicoterapia; il primo passo di quel trattamento si realizzò quando Freud curò la memoria della sua nozione di sé come storia - l'identificazione di Mnemosine con una figlia particolare, Clio. Il secondo passo procede nel curare la memoria dalla sua fissazione ai suoi ricordi, riconoscendoli come immagini. La memoria guarisce nell'immaginazione. II passo .finale ha luogo quando riconosciamo che la memoria, la rimembranza, procede attraverso le sue figlie nei modi della riflessione e dell'immaginazione, per cui la psicoterapia incoraggia la riflessione, l'attività che libera i ricordi in immagini. Quando riflettiamo su un ricordo, esso diventa un'immagine che si spoglia della sua fattualità storica letterale, si scioglie dalle sue catene causali, e si apre sulla materia che è propria dell'arte. L'arte di guarire è guarire nell'arte. Naturalmente non in senso letterale ... Siamo giunti a questo punto tralasciando la scoperta cruciale di Freud, che le produzioni della memoria si presentavano, nei suoi casi, come riproduzioni della storia. Perché dunque la psiche ha bisogno di presentare l'esperienza nei panni del passato, come se fosse storia? Perché la psiche storicizza? Cosa serve all'anima storicizzare? Mi pare che sia questa la questione psicologica più impor-

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tante, che sorge dall'intuizione di Freud della "falsificazione" storica dei ricordi, perché questa "falsificazione" non è altro che l'attività storicizzante della psiche. È proprio la psiche che fa "storia", una storia che è completamente romanzesca. Non stiamo semplicemente facendo storia, la stiamo costruendo nel percorrerla. Henry Corbin ha sempre sostenuto che la storia è nell'anima (e non noi nella storia). Il "fare storia" è un processo riflessivo e poetico di Clio, che procede come un'attività archetipica e autonoma, .che ci porge le favole come fossero fatti. E non possiamo trascendere la storia, non tanto perché non possiamo uscire dal tempo o sfuggire al passato, ma perché siamo sempre nell'anima e soggetti alle sue riflessioni. La necessità storica significa semmai che siamo presi nelle nostre storie, nelle vicende, nelle tragedie, nelle commedie dell'anima, nel suo bisogno di dare alla propria soggettività la forma della storia. È stato sostenuto, e confesso di aver assunto un tempo questa linea, che situare gli eventi nel passato è una manovra difensiva, che manifesta sentimenti scissi: non si può tollerare una vergogna e la si mette perciò al tempo passato. Quando dico: avevo l'abitudine di mentire al mio primo analista; mi masturbavo; mi capitava di udire delle voci, ma non le odo più, non ora: questo stabilisce una distanza tra me stesso e l'azione. Situandolo nel passato, l'evento che mi suscita vergogna non mi opprime più così dappresso; me ne esproprio. La storicizzazione è uno schermo. Oggi considero invece questi movimenti, che introducono nella storia, come strumenti di distacco. Chiamarli difese ci riporta all'Io, che viene accusato di non prendere posizione, di scindersi, di non prendere possesso di sé. Ma non è l'Io che fa queste mosse, bensì la psiche. È lei che storicizza spontaneamente, persino nei sogni, e lo fa, credo, per ottenere un particolare tipo di distanza, quale tramite per separare un atto dalla sua attualità. Mentire, masturbarsi, avere allucinazioni diventano eventi psichici e non eventi dell'Io, qualcosa su 56

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cui riflettere, più che da controllare. Sono ora meno affettivi e personali, più collettivi e generali, parte di un racconto più che di una cronaca. Grazie all'espropriazione, si sono trasferiti dalla vera confessione alla finzione storica, dove possono essere guardati sotto un'altra luce. In questo senso lo schermo della storia favorisce la discrezione, mantenendo un evento intatto ma distante, in un contenitore di vetro, in modo che si possa restarne disorientati senza identificarcisi.· Resta il mio crimine, ma il crimine non è più me; posso distaccarmene, mentre se dovesse accadere qui e ora sarei alla sua mercé, senza discernimento, solo con difese e recriminazioni. Il passaggio al tempo passato è in analisi un segnale che la psiche vuole l'analisi; è un tentativo di autoguarigione che include le ferite in un'aura di fattualità oggettiva, per poterle trattare con minore sofferenza. La psiche situa un evento in un altro tempo, perché si possa trattarlo con un altro stile, al modo in cui tratteremmo qualunque avvenimento storico, con una certa dose di rispetto, di assorta curiosità e di indagine spassionata, e soprattutto ricostituendo il suo contesto culturale. Storicizzare non è tanto un segno della difensività psicologica, quanto un segno della psiche che sta sfuggendo al dominio dell'Io. Storicizzare, inoltre, situa gli eventi in un altro genere; non qui e ora, né "c'era una volta", bensì a mezza strada tra i due. Eppure questo "frammezzo" ha un focus preciso nella storia, e un evento là situato può richiedere un trattamento nello stile di quel tempo storico. Non tutti i complessi psicologici, che appaiono come figure del sogno e come sintomi, sono al passo con i tempi, in cerca di un tipo di terapia attuale. Vi sono parti di me che vivono in storie fuori moda, storie narrate anche prima che io nascessi, che sfuggono al rolfing e a Esalen, che potrebbero anche cadere svenute, avere un attacco di nervi, o inaridirsi nell'acedia, se fossero costrette ad andare in week-end. Talune di queste parti vivono ancora sulla frontiera, dietro una palizza57

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ta fondamentalistica, o a Versailles prima della rivoluzione, o tradiscono il colonialismo del XIX secolo, o l'erotismo fumoso e ovattato della Vienna di Freud. Le finzioni storiche di cui la psiche si serve per dirci dove siamo, parlano anche del tipo di terapia che ci serve. La grande isteria, nel senso classico di Charcot, Janet e Freud, ha la sua massima espressione in quel contesto storico, e se dovesse apparire in un paziente contemporaneo, è probabile che riapparirebbe anche quel contesto storico con tutto il suo soffocante scenario. I sintomi sono modi di entrare nella storia: altri tempi, altri lamenti. La storia è un modo di entrare nei sintomi. Ma c'è di più nello storicizzare. Perché la storia parla di re, dichiarazioni e battaglie decisive, di grandi invenzioni, epoche e imperi? Il passato è presentato come monumento, come cose che sono passate alla storia, così da farci ritenere che solo ciò che conta viene storicizzato, riceve dignità di storia. La storia valorizza, nobilita. Il volgersi al passato, per gli scrittori del Rinascimento, era parte del loro interesse per la dignità: il passato era la via per nobilitare il presente. Storicizziamo per dare agli avvenimenti della nostra vita una dignità che non possono ricevere dalla contemporaneità; lo storicizzare riporta allora gli eventi a mezza strada verso il "c'era una volta", verso il sacro e l'eterno. Qualunque avvenimento della vita personale, anche il più insignificante - le colazioni di Napoleone, le scorregge di Lutero - una volta storicizzato assume immediatamente un altro significato interiore, risuona di metafore, passa dalla descrizione al simbolo. La storia nobilita perché muove gli eventi sul palcoscenico della storia, che diventa in tal modo tragica, epica e immaginativa. Gli storici, però, perdono spesso di vista la funzione immaginativa del loro lavoro; per loro la storia è una gigantesca struttura supersonica, costruita da centinaia di lavoratori in un hangar oscuro, mettendo insieme milioni di parti. Ma una volta spinta sulla pista di decollo, essa è un'immagine, etale è sempre stata; i dadi e i bulloni scompaiono in una visione argentea. 0

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È questo l'approccio al caso clinico che gli restituisce vita. La mia storia è un complesso grigio di dadi e bulloni, tutto quel tedio metallico di quel che andava storto e di chi aveva ragione; eppure in quella storia clinica c'è la mia immagine, la mia dignità, il mio monumento. E c'è la storia stessa: mia madre aveva una madre, e dietro di lei un fluire etnico ancestrale; il figlio con cui combatto è oggi, e anche domani. Non c'è parte della mia testimonianza personale che non sia al tempo stesso testimonianza di una comunità, di una società, di una nazione, di un'epoca. Questa è l'implicazione: se la storia nobilita, la storia clinica, come forma di scrittura storica, nobilita anch'essa. Nella nostra storia clinica c'è la nostra dignità umana, anche se quella storia viene scritta da Zola, Genet, Spillane o :Oickens. Anche se è un racconto di degradazione ed è scritto con sentimentalismo, anche se è presentata come un cappio tutto letterale di fatti per impiccare l'individuo a una diagnosi clinica, una storia clinica, per il suo essere storia - e quindi narrativa - è un passo nell'immaginazione. Perché è l'immaginazione che dà distanza e dignità, consentendoci di vedere gli eventi come immagini. È l'immaginazione che si pone a mezza strada tra il mondo dell'adesso e le impercettibili eternità dello spirito. Dietro la storia c'è Mnemosine (Memoria), l'immaginale, madre dello storicizzare, il processo archetipico sui generis dell'anima che medita e vaga in termini di storia. La storia è un modo di riflessione su di sé, e la storia clinica è anch'essa espressione di Clio, è uno dei modi in cui la professione terapeutica e i pazienti possono meditare terapeuticamente. Che non abbia successo e crei degradazione e diagnosi, anziché distacco e dignità, indica ancora e soltanto il potere del racconto nel determinare chi siamo; ma la possibilità di revisionare e di valorizzare chi siamo è insita nelle vicende di ogni storia clinica, purché impariamo a leggerla come narrativa e a leggere i suoi eventi come immagini di Memoria, che ha bisogno di ricordare per poter creare. 59

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10. Il dono della storia clinica Ho avuto modo di notare che chi si è formato fin dall'infanzia un senso del racconto è in condizioni migliori rispetto a chi non ha avuto storie, non le ha udite, lette, recitate o inventate; e qui mi riferisco alle storie orali, quelle che si affidano soprattutto alla parola - e. anche leggere ha un aspetto orale, anche quando si legge da soli e in silenzio - più che a quelle viste sullo schermo o in un libro illustrato. (La preferenza per la parola rispetto all'occhio la spiegherò tra un istante.) Una precoce consuetudine con i racconti abitua all'esperienza della loro efficacia. Si sa quanto possano le storie, come possano costruire dei mondi e trasporre l'esistenza in questi mondi; si conserva un senso del mondo immaginale, della realtà persuasiva della sua esistenza, del suo essere popolato, del potervi entrare e uscire, del suo essere sempre là, con i suoi campi e i suoi palazzi, con le sue celle segrete e i lunghi bastimenti in attesa. Si impara che i mondi sono fatti anche con le parole, e non solo con i martelli e i fili metallici. Le storie filmate e illustrate sono differenti, perché entrano nell'immaginazione mediante la percezione, rinforzando la confusione tra figure percettive e immagini immaginative; le prime, che percepiamo tramite i sensi; le seconde, che immaginiamo. O meglio - seguendo la definizione di Edward Casey - un'immagine non è un contenuto che vediamo, ma un modo in cui vediamo. Possiamo vedere le illustrazioni come immagini, e una pellicola cinematografica può essere immaginata e diventare un'immagine; ma queste immagini restano di solito legate alla visualità in cui sono apparse per la prima volta. Le parole-immagini, invece, sono proprietà immediata dell'immaginazione, che può a sua volta visualizzarle (come visualizzando scene di musica, o i volti di personaggi letterari, o gli ambienti di un romanzo); ma l'essenza delle parole-immagini è che esse sono libere dal mondo percettibile, e da esso liberano. Riportano la mente alla sua dimora, al 60

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suo fondamento poetico, all'immaginale. Si deve ancora a Freud la riscoperta della differenza fra immagini percettive e immaginative. Le immagini reali - papà e mamma a letto di sabato pomeriggio - non hanno il potere evocativo, la forza di fare-sintomo, che hanno le immagini della Scena Primaria. Per parafrasare Casey: un trauma non è ciò che è accaduto, ma il modo in cui vediamo ciò che è accaduto. Un trauma non è un evento patologico, ma un'immagine patologizzata, un'immagine diventata "intollerabile", come dice Lopez-Pedraza. Se siamo malati a causa di queste immagini intollerabili, staremo bene grazie all'immaginazione: poiesis come terapia. Chi ha avuto precocemente le sue storie, ha esercitato la sua immaginazione come attività. Può immaginare la vita, non solo pensarla, sentirla, percepirla, o impararla; e sa riconoscere che l'immaginazione è un luogo dove si può essere, un modo dell'essere. Ha inoltre incontrato immagini patologizzate, figure fantastiche che sono storpie, folli, oscene, violente e crudeli, onnipotentemente belle e seduttive. La terapia è un modo di ridare vita all'immaginazione e di esercitarla. L'intera attività terapeutica è in fondo questa sorta di esercizio immaginativo, che recupera la tradizione orale del narrare storie: la terapia ridà storia alla vita. Per far questo, bisogna certo che torniamo all'infanzia, perché è lì che la nostra società e ognuno di noi ha situato l'immaginazione, e la terapia deve occuparsi della nostra parte infantile, per poter ricreare ed esercitare l'immaginazione. Quelli che ancora aderiscono alla teoria razionalistica e associazionistica della mente e alla teoria positivistica dell'uomo, sosterranno che può esserci troppa fantasia, che la fantasia è una fuga dalla realtà, e che il compito della terapia è proprio il contrario di quello che io ho abbozzato. La terapia, diranno, è mettere gradualmente ordine nell'immaginazione e condurla al servizio di fini realistici; quel che rende folle un uomo o una donna, dicono, è proprio l'essere sopraffatti dal61

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la fantasia: troppe storie, storie confuse con la storia, realtà dileguate. Ma le scuole di terapia immaginativa, che Mary Watkins illustra con la sensibilità del pioniere nel suo libro Waking Dreams, entrano senza esitazione nella fantasia, prendendo decisamente alla lettera che il terapeuta è un'operatore di storie. Sfortunatamente questo può portarli a fare a meno della storia clinica, come fosse solo esteriorità, dimenticando che anche questa storia è un frammento di immaginazione e che tutti i personaggi che vi figurano, comprese le onnipresenti figure traumatiche - papà e mamma - non sono figure del ricordo, ma immagini della memoria con la loro eco archetipica, progenitori del mio mito genealogico, che continuano a generare la mia anima con le fantasie e le emozioni che ancora suscitano. La storia clinica non è un luogo di inibizioni da lasciarsi alle spalle; è anch'essa un sogno a occhi aperti che offre altrettante meraviglie di una discesa nella caverna del drago, o di una passeggiata nei giardini del paradiso - purché si sappia leggere ogni frase letterale della propria vita in modo metaforico, e vedere ogni scena del passato come un'immagine. Possiamo infine riconoscere che la storia clinica in psicologia è un genuino evento psichico, un'autentica espressione ddl'anima, un racconto creato non dal medico, ma dall'attività storicizzante della psiche, e che questo genere di narrativa corrisponde al riemergere dell'anima nella nostra epoca, attraverso l'analisi del profondo. Inventando un nuovo tipo di professionista e di paziente, un nuovo linguaggio, un nuovo stile di rituale e un nuovo modo di amare, la psicologi~ del profondo ha dato forma a un nuovo genere di racconto, che non è biografico e non è medico, e non è neppure testimonianza confessionale, ma è una narrativa dell'operare interiore dell'anima attraverso il tempo, una storia di ricordi, sogni, riflessioni, talora mascherati, ma non necessariamente, da 62

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realtà empiriche: documenti dell'anima, che restano tali chiunque li scriva. L'analista solitario nella sua Schreibstube illuminata, l'assistente sociale che fuma accanitamente battendo a macchina sotto pressione: l'urgenza stessa di scrivere queste storie, sia pure destinate a rimanere inedite e non lette, è un gesto psicologico, esso stesso un narrare. Perché questa nuova forma di narrativa irrompe nella nostra epoca spintavi a viva forza. Vogliamo metterla per iscritto; ci sono tante cose da dire. Queste piccole banalità sono d'importanza estrema, perché la storia si svolge ora nell'anima, e l'anima è nuovamente entrata nella storia. I terapeuti sono i nuovi storici. (49 > È in questo senso che le storie cliniche sono fondamentali per la psicologia del profondo; non è come fondamenti empirici o come residui del modello medico che si guadagnano la nostra attenzione, né come esempi paradigmatici che dimostrino le trame dell'uno o dell'altro teorico, ma per il loro essere fenomeni soggettivi, storie dell'anima. La loro importanza capitale sta nel personaggio su cui sono scritte, tu, io. Ci danno una narrazione, un'invenzione letteraria che deletteralizza la nostra vita dalla sua ossessione proiettiva per l'esteriorità, perché la iscrivono entro una storia. Ci spostano, dalla finzione della realtà alla realtà della finzione. Ci donano la possibilità di riconoscerci nel disordine del mondo, per esserci impegnati e per essere sempre impegnati nel fare-anima,< 50 > dove "fare" ritorna al suo significato originario dipoiesis: fare anima come poiesis psicologica, il fare dell'anima tramite l'immaginazione delle parole.< 51 > Forse la nostra età non è andata in analisi per essere amata o per venire curata, e neanche per il "conosci te stesso". Forse ci andiamo per ricevere una storia clinica, il dono di trovare se stessi nel mito; nei miti dove gli Dei e gli uomini s'incontrano.

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Note 1. - PAPINI, G. Visita a Freud. In: Gog. Vallecchi, Firenze 1931, pp. 124, 129-130. 2. - HILLMAN, J. Re-visione della psicologia. Tr. it. Adelphi, Milano 1983. 3. - FREUD, S. "Opere", voi. 4. Tr. it. Boringhieri, Torino 1970, p. 306. Il testo italiano traduce "romanzo a chiave", mentre quello-inglese citato da Hillman conserva l'espressione francese. [NdT] Per alcune recenti discussioni dei casi di Freud dal punto di vista letterario vedi MARCUS, S. Freud und Dora. Roman, Geschichte, Krankengeschichte. Psyche, 28, 1974, pp. 32-79; FREEMAN, L. Bibliografia, nel suo La storia di Anna O. Tr..it. Feltrinelli, Milano 1979. 4. - FowLER, R. A Dictionary of Modem Criticai Terms. Routledge & Kegan Paul, Boston/London 1973. Vedi "technique". 5. - FORSTER, E.M. Aspetti del romanzo. Tr. it. Il Saggiatore, Milano 1963 [traduzione modificata]. 6. - Ho sentito dire che il libro che Freud leggeva prima di morire era Peau de chagrin di Balzac. 7. - ALAIN (pseud. di CHARTIER, E.A.) Sistema delle arti. Tr. it. Muggiani, Milano 1947, p. 257. 8. - FREUD, S. op. cit., p. 313. La difesa che fa Freud delle difese del paziente (timidezza e vergogna) gli fornisce anche l'opportunità di intervenire come narratore tra la storia e il lettore. Questo espediente è fondamentale nella narrazione di storie: "Nella letteratura immaginativa, la natura del legame tra lettore e testo è cruciale, e qui il narratore diventa importante. La narrativa ha due aspetti sovrapposti. Il primo è una questione_ di contenuto, l'ordinamento del materiale, l'altro è retorico, eriguarda il modo in cui la narrativa viene presentata al pubblico." FowLER, R. op. cit., vedi "narrative". 9. - Vedi HILLMAN, J, Methodology Problems in Dream- Research. In: Loose Ends - Primary Papers in Archetypal Psychology. Spring Pubi., New York/Ziirich 1975, pp. 196-198. 10. - La miglior trattazione con documentazione bibliografica del caso Schreber è quella di Roberto Calasso, in appendice alla traduzione italiana delle Memorie (SCHREBER, D.P. Memorie di un malato di nervi. Tr. it. Adelphi, Milano 1974). 11. - ALAIN, op. cit., p. 258. 12. - F0RSTER, E.M. op. cit., pp. 93-95. 13.-:- F0WLER, R. op. cit., vedi "plot". 14. - Prima definizione di "storia" data da BALDWIN, J.M. Dictionary of Philosophy and Psychology. Macmillan, New York 1925. Vedi "history". 15. - A YER, A.J. The Foundations of Empirica! Knowledge. Macmillan, London 1969, p. 79. 16. - VAIHINGER, H. La filosofia del "come se". Tr. it. Ubaldini, Roma 1967. A proposito dell'importanza per la psicologia archetipica della finzione "come se" vedi HILLMAN, J. Re-visione della psicologia, cit., pp. 265 sgg. 17. - Roy Schafer è tra coloro che hanno analizzato i modi narrativi della visione che del caso ha un analista. (Vedi Tue Psychoanalytic Vision of Reality. lnternational Journal of Psycho-Analysis, 51, 1970, pp. 279-297.) Schafer individua quattro visioni essenziali nella scrittura psicoanalitica: comica, romantica, tragica e ironica

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Le storie che curano (riconoscendo il suo debito verso Northrop Frye, che a sua volta riconosce il suo verso Jung). 18. - GIEGERICH, w. Ontogeny=Phylogeny? Spring 1975, Spring Pubi., New York/Ztirich, p. 118. 19. - Vedi HILLMAN, J. On Senex Consciousness. Spring 1970, Spring Pubi., New York/Ztirich, pp. 146-165. Sempre su Saturno dal punto di vista psicologico vedi VITALE, A. Saturo: the Transformation ofthe Father. In: Fathers and Mothers: Essays by Pive Hands. Spring Pubi., New York/Zurich 1973, pp. 5-39. 20. - BERRY, P. An approach to the Dream. In: Echo's Subtle Body. Spring Publ., Dallas 1982. 21. - F0WLER, R. op. cit., vedi "hero". 22. - Su Saturno e la riduzione vedi BERRY, P. On Reduction, in: op. cit., e HILLMAN, J. The "Negative" Senex and a Renaissance Solution. Spring 1975, Spring Pubi., New York/Ztirich, pp. 88 sgg. 23. - PATTERS0N, A.M. Hermogenes and the Renaissance: Seven Jdeas of Style. Princeton Univ. Press, Princeton 1970. 24. - HILLMAN, J. Il suicidio e l'anima. Tr. it. Astrolabio, Roma 1972, pp. 59 .sgg. [traduzione modificata]. 25. - Tutti i riferimenti a Jung, salvo diversa indicazione, rinviano a "The Collected Works of C.G. Jung" (Bollingen Series, Princeton Univ. Press) che qui citiamo con CW seguito dal numero del volume e dal paragrafo. In italiano le opere di Jung sono tradotte da Boringhieri e ne sono disponibili i volumi l, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9*, 9**, 11 e 16 che qui citiamo con "Opere" seguito dal numero del volume. 26. - JUNG, C.G. cw 15. 27. - JuNG, C.G. "Opere", voi. 8, pp. 266,441,257,467,259, 164; CW 7, parr. 44, 75, 206; "Opere", voi. 16, pp. 52, 155, 165, 260; CW 10, parr. 29, 627. 28. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 5. 29 - JUN~; C.G. Psicologia e alchimia. Tr. it. Boringhieri, Torino 1981. 30. - JuNG, C.G. "Opere", voi. 11, p. 34. 31. - WALSÈR, H.H. An Early Psychoanalytical Tragedy. Spring 1974, Spring Pubi., New York/Ztirich, p. 248. 32. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 16. 33. - Sul rapporto tra le idee di Jung e la sua storia clinica vedi JAFFÉ, A. Le fasi creative nella vita di Jung. Tr. it. in: Riv. Psic. Analitica, 26, 1982. 34. - JUNG, C.G. CW 10, par. 1042; per le ulteriori ragioni per cui Jung non entra nella storia clinica nel senso consueto vedi "Opere", voi. 9*, p. 184. 35. - Su Jung ed Ermes vedi NoEL, D.C. Veiled Kabir: C.B. Jung's Phallic SelfImage. Spring 1974, Spring Pubi., New York/Zurich, particolarmente pp. 235-240. 36. - CLIFF0RD, G. Transformations of Allegory. Routledge, London 1974. 37. - FowLER, R. op. cit., vedi "allegory". 38. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 8. 39. - BERRY, P. op. cit., pp. 69 sgg., sul rapporto nel sogno tra narrativa e immagine. 40. - Sulla storia del contrasto Dioniso/Apollo, vedi RITTER, J. (Ed.) Historisches Worterbuch der Philosophie. In "Apollonische/Dionysische", voi. l. Schwabe, Basel/Stuttgart 1971, p. 422. Sulle idee di Jung su Dioniso, vedi HILLMAN, J.

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James Hillman Dionysus in Jung's Writings, Spring 1972, Spring Pubi. New York/Ziirich. Sul contrasto Apollo-Dioniso, vedi HILLMAN, J. li mito dell'analisi, tr. it. Adelphi, Milano 1979, pt. III, e HoLTON, G. On Being Caught between Dyonisians and Apollonians, Daedalus, Summer 1974, pp. 65-81. Opere indispensabili sul Dio greco sono quelle di Orro, W.F. Dionysos: Mythos und Kultus, Klostermann, Frankfurt 1933 (tr. ingl.: Dionysus: Myth and Cult. Spring Pubi., New York/Ziirich 1981), e di KERENYI, K. Dionysos_· Urbild des unzerstorbaren Lebens, Langen Miiller, Miinchen 1976 (tr. ingl. Dionysus: Archetypal lmage of lndestructible Lije. Princeton Univ. Press, Princeton 1977). Le opere moderne sul tema sono spesso fuorvianti perché non danno un quadro abbastanza completo né di Dioniso né di Apollo, e questo perché sono troppo ancorate all'antitesi tra le due divinità, ed esprimono perciò concezioni a un tempo archetipiche e stereotipate. Vedi per es. SLATER, P.E. The G!ory of Hera, Beacon, Boston 1968, e SPEARS, M.K. Dionysus and the City, Oxford Univ. Press, New York 1970. Come ho sostenuto nel mio articolo sul Dioniso di Jung, la nostra immagine generale di questo Dio è nietzscheana, wotanica e germanica. Per una raccolta di materiali su questo Dioniso germanico, vedi R0STEUSCHER, J.H.W. Die Wiederkunft des Dionysos. Francke Verlag, Bern 1947. 41. - JUNG, C.G. CW 14, par. 706. 42. - SHAKESPEARE, w. Amleto, Il, 2. Tr. it. in: "Teatro", voi. II. Sansoni, Firenze 1946, p. 894. 43. - La differenza classica tra memoria e immaginazione è solo nel fatto che le immagini "ricordate" hanno in più la qualità del tempo. Questa distinzione risale ad Aristotele. Vedi YATES, F. L'arte della memoria. Tr. it. Einaudi, Torino 1972, pp. 32 sgg. 44. - Quando Sallustio spiega la natura dei miti, scrive: "Tutto questo non è mai accaduto, ma è così da sempre." SALLUSTI0 De Diis et mundo, IV. Roma 1638. Tr. ingl. Concerning the Gods and the Universe, IV. Cambridge Univ. Press, New York 1926. 45. - Vedi P0PPER, K.R. Miseria dello storicismo. Tr. it. L'Industria, Milano 1954. Popper è il primo ad affrontare la trattazione della storia considerandola un bisogno psicologico, ma parla di una concezione e di un uso particolare della storia: lo storicismo. Qui allarghiamo ulteriormente la questione: perché proprio lo stile storico, per l'appunto? 46. - BURKE, P. The Renaissance Sense of the Past. Amold, London 1%9, p. 105. 47. - CASEY, E.S. Toward a Phenomenology of Imagination. J. British Society Fhenomenology, 5, 1974, p. l(}. 48. - Ho discusso ampiamente il rapporto tra immaginazione e infanzia nel mio Abandoning the Child. Eranos, 40, 1971. 49. - Le differenze nella redazione delle storie cliniche seguono vecchie convenzioni. L'interesse del realismo sociale per i dettagli banali e volgari richiede lo stile dimesso in cui si scrive di cose della vita quotiq.iana. Lo stile junghiano è "elevato", con le sue risonanze archetipiche di eventi eroici, razziali e mitici; esso segue l'idea classica e rinascimentale della storia che "escludeva le persone, le cose e le parole 'modeste"' (BURKE, P. op. cit., p. 105). 50. - Il termine "fare anima", e l'idea del suo svolgersi nella valle del mondo, si deve a John Keats; vedi la mia discussione in Il mito dell'analisi, cit., e in Re-visione della psicologia, cit. 51. - Per un'ottima presentazione del fare anima e della psicoterapia mediante le parole vedi ENTRALG0, P .L. The Therapy of the World in Classica! Antiquity. Yale Univ. Press., New Haven 1970.

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IL PANDEMONIO DELLE IMMAGINI Il contributo di Jung al "conosci te stesso" Non è possibile parlare adeguatamente degli Dei senza gli Dei. Giamblico

1. I daimones di Jung Quando ci interroghiamo sul contributo che Jung ha dato alla nostra cultura, mi sembra che emerga in particolare un merito. Jung ha dato una precisa risposta al bisogno psicologico più persistente nella nostra cultura, da Edipo a Socrate, attraverso Amleto e Faust: Conosci te stesso. Non solo Jung prese questa massima come leitmotiv della propria vita, ma ci offrì un metodo grazie al quale ciascuno di noi può rispondere a questa fondamentale domanda di autoconoscenza. Questo come, l'arte o il modo di procedere con se stessi, che è poi anche l'impulsO'fondamentale inerente a tutta la psicologia, è ciò che in modo particolare possiamo imparare da Jung. Il tema che desidero sviluppare in questo capitolo è quindi il metodo psicologico di Jung, il dono più prezioso che egli ci abbia fatto. Forse ricorderete come la cosa ebbe inizio: lo racconta Aniela Jaffé nell'autobiografia di Jung. 0 > Jung fu sommerso da "un flusso incessante di fantasie", una "molteplicità di contenuti psichici e di immagini". Per far fronte a questa tempesta di emozioni annotò queste fantasie e lasciò che le tempeste si 67

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trasponessero in immagini. Ricorderete anche quando questo avvenne: poco dopo la rottura con Freud, tanto che Stanley Leavy< 2 > ha suggerito che la Salomé della visione, cui arrivo subito, altri non sia che una Lou Andreas-Salomé mascherata, e che Elia sia Freud. In quel momento della sua vita Jung era spiritualmente solo. Ma in questo isolamento non si rivolse a un nuovo gruppo, né a una religione organizzata, né si rifugiò nella psicosi, o nella sicurezza delle attività convenzionali, nel lavoro o nella famiglia. Si rivolse alle im.Ìnagini. Quando non c'era nient'altro cui aggrapparsi, Jung si rivolse alle immagini personificate della visione interiore. Entrò in un dramma interiore. Si dedicò a una sorta di finzione immaginativa, e forse ebbe inizio allora la sua guarigione, anche se quello fu definito il suo "crollo". Qui trovò un "luogo dove andare" che non era più Vienna, figure con cui comunicare che non erano più il circolo psicoanalitico dei colleghi, e un consigliere che non era più Freud. L'incontro con quelle figure personali portò alle prime personificazioni del suo destino maturo, e questo è anche il modo in cui Jung parla delle personificazioni che incontriamo quando ci volgiamo all'interno per il Conosci te stesso. Fu in questo periodo, durante il quale la colomba-vergine gli parlò in un sogno cruciale, che Jung trovò la sua vocazione, la sua fede psicologica e un senso di personalità. È a partire da questo momento·che Jung diviene lo straordinario e pionieristico difensore della realtà della psiche. Abbiamo guardato il come e il quando; guardiamo adesso il cosa e il chi. Quale fu il contenuto delle prime visioni, e chi incontrò Jung? L'autobiografia dice: Allo scopo di capire le fantasie, spesso mi raffiguravo una ripida discesa. Facevo vari tentativi di raggiungere il fondo [... ]. Era come un viaggio sulla luna, o come una discesa nel vuoto[ ... ], avevo la sensazione di essere in una terra di morti [... ]. L'altro mondo [... ]. Vedevo due figure, un vecchio con

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una barba bianca e una bella giovinetta. Mi facevo coraggio, li avvicinavo, come se fossero persone in carne e ossa, e ascoltavo attentamente ciò che mi dicevano. es>

(Cito questo passo in dettaglio perché è la chiave del metodo: possiamo considerarlo un manuale d'istruzione.) Le figure che Jung incontrò erano Elia, Salomé e un serpente nero. Ben presto Elia si trasformò in Filemone, di cui Jung dice: Filemone era un pagano, ma avvolto in un'atmosfera egizioellenistica, con una coloritura gnostica [... ]. Filemone e le altre immagini della mia fantasia mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dall'Io, ma che si producono da sé, e hanno una vita propria. c6 >

Il cosmo portato da Elia~ da S-alomé, dal serpente nero e da Filemone - questa "atmosfera egizio-ellenistica, con una coloritura gnostica" - era proprio quello adatto a sostenere ciò che Jung stava rappresentando. Non riuscirò mai a sottolineare abbastanza questo fatto: le figure che Jung incontrò per prime e che lo convinsero della realtà della lor.o essenza psichica, estendendo a lui relazioni personali con i poteri della psiche, queste figure derivano dal mondo ellenistico e dalla sua fede nei dèmoni. (Daimon è l'espressione greca originaria perqueste figure, che in seguito divennero demòni, a causa della visione cristiana, e dèmoni in contraddizione positiva con tale visione.) La discesa di Jung alla "terra dei morti" gli fece incontrare i suoi avi spirituali che, attraverso di lui, annunciavano una nuova demonologia e una nuova angelologia. Conosci te stesso alla maniera di Jung significa divenire familiari con i dèmoni, dischiudersi ad essi e ascoltarli, cioè conoscerli e distinguerli. Entrare nella propria storia interiore richiede un coraggio simile a quello necessario per cominciare 69

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un romanzo. Si tratta di avere a che fare con persone, la cui autonomia può modificare radicalmente e perfino.dominare i nostri pensieri e i nostri sentimenti, senza dar ordini a queste persone né concedere loro pieno potere. Fittizi e reali allo stesso tempo, loro e noi, come fili siamo tessuti insieme in un mythos, in una trama, finché morte non ci separi. Ed è un coraggio raro quello che ci assoggetta a questa regione intermedia della realtà psichica, dove la presunta sicurezza dei fatti e l'illusione della finzione si scambiano gli abiti. A ricordarci quale passo radicale, sconvolgente - teologico, epistemologico, ontologico - sia stata la personizzazione operata da Jung, lasciate semplicemente che evochi il giudizio consueto sui dèmoni, che è parte della nostra psicologia religiosa occidentale. Per la Chiesa orientale e per quella romana, per il Vecchio Testamento, come per il Nuovo, per il protestante e per il cattolico i dèmoni non sono cose buone. Fanno parte del mondo di Satana, del Caos, della Tentazione. I maggiori teologi cristiani, nel corso dei secoli, hanno scritto contro di loro; sono stati associati al culto del serpente, proprio al centro dell'Europa cristiana; sono, secondo l'autorità del Vangelo di Matteo, la fonte della possessione, della malattia e della magia. Ma chi sono in effetti queste figure, per poter essere così minacciose? Se guardiamo al mondo che precede e a quello parallelo alla nascita della cristianità - prima a Omero, poi a Platone e ai tragici, poi a Plutarco, Plotino, Giamblico e infine al Rinascimento - i daimones erano figure del regno intermedio, non del tutto Dei trascendenti, non del tutto esseri umani corporei; e ce n'erano molte specie: benèfici, terrificanti, messaggeri, mediatori, voci di guida e di ammonimento (come il dèmone di Socrate e come Diotima). Anche Eros era un daimon. La cristallizzazione dogmatica della nostra cultura religiosa ha demonizzato i dèmoni. In quanto componente fondamentale del paganesimo politeistico, essi dovevano essere negati e

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Le storie che curano

rinnegati dalla teologia cristiana, che ha proiettato sui dèmoni la propria rimozione, chiamandoli forze del rifiuto e della negazione. Cosicché il procedimento di Jung, che si rivolgeva direttamente alle immagini e alle figure del regno intermedio, era un procedimento eretico e demoniaco. Il suo inoltrarsi nell'immaginazione, cui era stato costretto dalle sue fantasie ed emozioni, nel nostro linguaggio religioso è stato ormai bollato come demoniaco, e nel nostro linguaggio clinico come personalità multipla, o schizofrenia. Eppure, fu proprio questa attiva. zione radicale dell'immaginazione il metodo di Jung per il Conosci te stesso. Il suo porsi tra le due ortodossie, la religione teologica e lo scientismo clinico, ha ristabilito nell'esperienza il regno intermedio, che egli chiamò "realtà psichica". Questa realtà psichica scoperta da Jung è fatta di figure immaginarie. La sua natura ha a che fare con la poesia, il teatro, la letteratura. Il metaxy di Platone parla per immagini letterarie mitiche. Il carattere letterario di Freud traspare, mascherato, nelle storie cliniche e nelle sue teorie cosmogoniche; quello di Jung si esprime apertamente nella sua stessa storia clinica. Freud entra nell'immaginazione letteraria scrivendo di altri, Jung immaginando se stesso come "altre persone". Ciò che impariamo da Freud è che questa immaginazione letteraria si svolge al centro del fatto storico. Ciò che impariamo da Jung è che questa immaginazione letteraria si svolge al centro di noi stessi. Le finzioni poetiche e del dramma sono ciò che realmente popola la nostra vita psichica. La nostra vita nell'anima è una vita nell'immaginazione. Ci è stata data ormai, nel manuale d'istruzione, l'indicazione di come questo terzo regno, tradizionalmente chiamato "anima", possa essere ristabilito, e da parte di chiunque. Jung dice che si comportava con le figure che incontrava "come se fossero persone in carne ed ossa". La chiave è proprio quel "come se": la realtà metaforica del "come se", non reale letteralmente (allucinazioni, o gente per la strada), né irreale/non reale ("pu71

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re" finzioni, proiezioni che "io" invento come parti di "me", illusioni autosuggestive). In una coscienza "come se" tali figure sono potenze con voce, corpo, movimento e pensiero, sentite pienamente, ma del tutto immaginarie. Appunto questa è realtà psichica, e si presenta sotto l'aspetto di dèmoni. Per mezzo di queste realtà demoniche, Jung ha confermato l'autonomia dell'anima. Proprio la sua esperienza ha collegato nuovamente il regno dei dèmoni a quello dell'anima e, a partire dal suo procedimento, anima e dèmoni si implicano vicendevolmente e persino si necessitano f'un l'altro.

2. Introspezione Consideriamo brevemente il problema dell'introspezione, al fine di riconoscere perché l'approccio di Jung al Conosci te stesso sia radicale, non solo filosoficamente e teologicamente, ma anche perché dobbiamo considerarlo un passo nuovo e importante della psicologia. Quando voi o io cerchiamo di conoscere noi stessi, quali sono i modi con cui potremmo procedere? Possiamo chiedere ad altri. Possiamo fare dei test: quelli proiettivi dei nostri contenuti interni (Rorschach); quelli che fanno l'inventario dei nostri contenuti psichici; quelli comparativi, come i test d'intelligenza, che valutano le nostre facoltà e abilità in rapporto a valori standard, stabiliti su altre persone. Possiamo ricordare; possiamo associare a ritroso e verso il profondo, inoltrandoci nel dimenticato e nel rimosso. Possiamo esaminare le nostre azioni e occuparci di cosa ne abbiamo fatto, di quel che abbiamo passato: la nostra biografia. Possiamo liberare il nostro "vero sé" dal nostro sé quotidiano, alterando il nostro stato di coscienza nei modi suggeriti da Platone coi suoi quattro tipi di mania, oppure possiamo farlo con i moderni metodi delle terapie di liberazione. Possiamo amare: perché, come alcuni ritengono, soltanto nell'amore il 72

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nostro sé si rende visibile e conoscibile. (Ciò implica che tu non puoi conoscere te stesso completamente o sempre, ma soltanto rivelare te stesso; possiamo essere conosciuti, non conoscere.) Questa diversità di risposte tradisce una premessa di psicologia archetipica; c'è infatti una molteplicità di risposte a tutti i generi di domande più importanti e archetipiche, e le risposte dipendono dal Dio e dal mitema che informa la nostra risposta; a seconda che questo sia distaccato e apollineo, astratto e saturnino, un Dio dell'amore o della liberazione dionisiaca, delle azioni eroiche o delle produzioni efestiane. Sembra che non esista un unico modo di conoscere se stessi, anche se la psicologia ha privilegiato il metodo dell'introspezione. L'introspezione è strettamente legata alla storia della psicologia. Forse la moderna psicologia è nata proprio dalla tendenza introspettiva, ed è un'oggettivazione e una sistematizzazione del tentativo della coscienza di osservare con distacco. Possiamo trovare radici dell'introspezione già in Platone, nel Menane per esempio, e naturalmente nel comportamento di Socrate. Troviamo l'introspezione come metodo nelle Confessioni di S. Agostino, e la troviamo ancora a fondamento della moderna psicologia filosofica, dall'inspectio di Cartesio, a Locke e Hume, fino a Husserl. Tralascio qui di parlare dell'introspezione religiosa propria delle discipline spirituali, del pietismo, dell'esame di coscienza, e simili. La moderna introspezione come metodo ha inizio con Karl Philipp Moritz (1756-93), che mutò il metodo pietistico di osservare se stessi in una scienza illuminata. Il metodo culminò nell'opera di Oswald Kulpe e della Scuola di Wiirzburg. Per conoscere se stessi, per conoscere l'anima, si osservano le proprie associazioni, i modi di volere, di ricordare, le maniere di percepire, di provare, di sentire, attraverso i sensi e attraverso i sentimenti, e in particolare i modi di meditazione, di pensiero puro, senza immagini. Ora, il grande fallimento di questo metodo - e di fallimen73

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tosi trattò, altrimenti non avrebbe ceduto il posto così facilmente al comportamentismo da una parte e alla psicoanalisi dall'altra - sta nel fatto che l'introspezione rimane chiusa entro l'anima razionale. È in definitiva solipsistica. Non usciamo mai fuori dai nostri sentimenti privati, dai pensieri, dalla volontà, dai ricordi. Rimane in primo luogo un'investigazione sulle tonalità della coscienza dell'io. E dove riappare oggi, si tratti di Merleau-Ponty, di Eugene Gendlin, o di Roger Poole, l'introspezione rimane un'inspectio dell'io cartesiano. Oppure, detto nei termini mitologici propri di una psicologia archetipica, questo metodo è manifestazione di ApolloElios. Ma cosa ne è del profondo? È possibile ispezionarlo dal di sopra e alla luce del sole? In questo modo non potrà aver luogo che una distaccata osservazione alla luce del sole, anche quando si tenti di concentrarsi sulle sensazioni viscerali. I sentimenti che emergono sono espressi in un linguaggio concettuale; parole quali ansia, senso di colpa, disperazione, ostilità, sono tutte astrazioni prive di immagini. Il vero corpo idiopatico viene levigato e formulato in espressioni nomotetiche che lo rappresentano. Questa sottile sostituzione dei sentimenti effettivi con sentimenti concettualizzati, prosciugati in un'apollinea luce solare, deriva dal processo d'introspezione cartesiano. O forse, nel profondo, non si dovrebbe invece discendervi, come fece Jung? Mentre voi ed io ci dibattiamo in una confusione cruciale, è possibile esaminare dentro di noi la radice del problema? Si può vedere nel fondo della disperazione, o nella fonte dell'ansia? Volgendoci all'interno non otteniamo alcun risultato. Gli scrittori sanno bene che non possono fare l'introspezione dei loro personaggi. Le loro scene vengono da sé e le loro figure parlano, vanno e vengono. Con poche persone lo scrittore è più in intimità che con i suoi personaggi; eppure essi non cessano di sorprenderlo per la loro autonomia. E inoltre 74

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essi non sono interessati a "me" ma al mondo che essi abitano, e che soltanto indirettamente riguarda me che faccio l'introspezione. L'atto di rivolgersi all'immaginazione non è un atto d'introspezione: è una capacità negativa, una sospensione volontaria della sfiducia in quei personaggi, e della fiducia che invece abbiamo in noi stessi in quanto loro autori. La relativizzazione dell'autore - di colui che inventa, che scrive va di pari passo con il modo della narrativa: nel corso dell'immaginazione attiva si fluttua tra la perdita di controllo e il mettere le parole in bocca ai personaggi. Non sarà l'introspezione a risolvere il_ problema, ma soltanto l'atto di continuare a narrare e immaginare. L'introspezione non fa altro che riportarci al letteralismo della soggettività. Abbiamo preso così alla lettera il concetto di soggettività, che adesso crediamo ad un soggetto immaginario, all'inizio di ogni frase, che compie l'azione; un soggetto che pre-stabilisce ogni verbo. Invece l'azione è compiuta dai verbi stessi: sono loro che stanno inventando, immaginando attivamente, non io. L'azione è nella trama, inaccessibile all'introspezione, e solo i personaggi sanno che cosa succede. Come insegnava Filemone a Jung: non sei tu l'autore di quella rappresentazione teatrale che è la psiche. Ma soprattutto, e ciò è anche più importante dell'atto in sé: chi sta eseguendo l'introspezione? Non è forse lo stesso vecchio "io"? Come possiamo esaminare questo esaminatore? Come possiamo relativizzare l'osservatore, e andare più in profondità del soggetto che sta cercando di sapere, in modo da scoprire un'oggettività psichica che non sia determinata dall'io? Con l'oggettività psichica, o ciò che Jung chiama la psiche oggettiva, cerchiamo in primo luogo oggetti psichici, le forze che ostruiscono inesorabilmente il sentiero dell'io: ostacoli, ossessioni, ostruzioni. È proprio questo il modo in cui Jung parla dei complessi, come di Dei o dèmoni che incrociano la nostra volontà soggettiva. 75

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I complessi non rispondono se si affrontano con ansia, non sono sensibili alle spedizioni di salvataggio, ai naturalisti con i loro cartellini e le loro etichette. Il "piccolo popolo" (come Jung chiama i complessi) s'affretta a nascondersi nei cespugli, nell'attimo in cui gli si rivolge l'attenzione. I complessi non possono essere scoperti nemmeno lasciandoci semplicemente andare, quasi potessero comparire al momento in cui ci sdraiamo. L'introspezione rilassata, con riferimento al corpo, è pur sempre concepita in termini di volontà. (Inoltre, un'immagine o una sensazione corporea che siano illustrazione di ciò che stiamo già sperimentando nella coscienza, sono soltanto un'allegoria; sono lo stesso contenuto già noto, soltanto raffigurato attraverso un mezzo diverso.) I complessi che sono nel profondo hanno una corporeità e una volontà proprie che non dipendono dall'io per una legge di compensazione. Perciò mai le terapie umanistiche vanno oltre l'umano nell'uomo, né possono abbandonare la sua soggettività. Tutto il procedimento esistenzialistico della scelta da parte dell'uomo, che decide dopo aver cercato se stesso o essere affondato in se stesso, è basato su un'introspezione che omette il "piccolo popolo". Spesso le loro opinioni si manifestano soltanto quando non sono richieste, come visitazioni o interferenze al di là della coscienza dell'io. È forse possibile convocare gli angeli? Obbediscono essi al principio di compensazione? Forse per questo Nietzsche, Dilthey e Jung sono tutti nettamente scettici sul valore della consueta introspezione. Dilthey< 13 > insisteva sulla convinzione che l'introspezione non sarebbe mai stata sufficiente ad afferrare la natura umana; ma che poteva esserlo la storia. Nietzsche scrisse: "L'immediata osservazione di sé è ben lungi dal bastare per conoscere se stessi: abbiamo bisogno della storia, giacché il passato continua a scorrere in noi in cento onde."< 14 > Se traduciamo la "storia" di Dilthey e di Nietzsche in "inconscio collettivo", ci avviciniamo alla posizione di Jung ri76

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guardo al Conosci te stesso. Conosci te stesso significa qui conoscere l'inconscietà della storia, e in particolare come essa operi nell'io, l'introspettore "oggettivo" stesso. Fintanto che questo "io" è l'io storico, che riflette inconsciamente la storia che lo ha formato, e la cui continuità egli sosterrebbe, tutto ciò che scopriamo nelle nostre introspezioni prenderà la forma della nostra stessa immagine storica. Sarò costretto a credere che le figure che incontro sono parti di "me", proiezioni di "me". Le valuterò, giustamente, come semplici fantasmi, come ombre che ho proiettato, e le disprezzerò. In questo modo tralascerò tuttavia quel passo iniziale verso il Conosci te stesso, prodotto da queste immagini di me-in-esse, perché esse sono prima di tutto mie ombre, che raffigurano la mia situazione storica. Esse offrono l'occasione di riconoscere i cento canali della storia (come il Sigfrido e le immagini bibliche di Jung), che stanno realmente determinando la mia coscienw. È d'importanza: primaria riconoscere qui che questo "piccolo popolo" proviene dalla terra dei morti. Come il Filemone e la Salomé di Jung, essi sono leggendari personaggi della storia, che mostrano la cultura all'opera nei canali dell'anima. La terra dei morti è il paese degli antenati, e le immagini che ci appaiono sono i nostri antenati. Se non sono letteralmente il sangue e i geni da cui discendiamo, sono allora i progenitori storici, o archetipici, del nostro spirito particolare, che lo informano di cultura ancestrale. A questa ricognizione storica - l'immagine come antenato - fa seguito l'esperienza della richiesta che le immagini mi fanno. È questo il momento morale dell'immaginazione. La moralità immaginativa non consiste essenzialmente nel mio giudicare se i dèmoni che scorgo siano buoni o cattivi, e neppure nell'applicazione dell'immaginazione (come sarebbe il trasferire nelle azioni della vita ciò che scopro attraverso le immagini). Questa moralità consiste piuttosto nel riconoscere le immagini religiosamente, come potenze che esprimono richie77

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ste. Jung pone questo problema etico nello stesso capitolo che abbiamo già citato: Misi ogni cura nel cercare di intendere tutte le immagini [... ] e, soprattutto, di attuarle nella vita. Ciò è quanto di solito trascuriamo di fare. Lasciamo sorgere le immagini, e forse ce ne sorprendiamo, ma questo è tutto: non ci diamo la pena di capirle, ne traiamo solo delle conclusioni morali [... ].- È un grande errore anche ritenere che sia sufficiente raggiungere una certa comprensione dell~ immagini [... ]. La conoscenza (deve) convertirsi in un obbligo morale [... ]. Grande è la responsabilità umana verso le immagini dell'inconscio. ), o provengano dall'immaginazione interiore, come nel caso di Jung, figure semoventi di una fantasia animata. (Filemone-Elia era accompagnato da una donna bella e giovane.) Ciò che interessa l'iconofilo è quello che Jaspers condanna: essere, potenza e realtà sono investiti nelle immagini. Esse sono numinose perché animate, cariche di anima, sia che abbiano la forma di icone esterne, sia che vengano immaginate e con esse si parli dentro l'anima. Abbiamo preso il caso di Jung come presentazione di un metodo, un manuale che dica il "come". Riprenderemo que95

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sto caso come un récit, nel senso di Henry Corbin, cioè come relazione di un'avventura nell'immaginale, o con l'immaginale. Avventure come queste aprono nuove regioni dell'anima, danno all'anima nuovo spazio, o le restituiscono l'antico. Così, grazie all'esempio e al metodo di Jung, tutti noi possiamo sciogliere la stretta delle vecchie dita ecclesiastiche dai nostri cuori che immaginano. Tutti noi possiamo ristabilire il primato dell'immagine nella nostra vita individuale, comprendendo così di nuovo la relazione diretta tra immagine e psiche. Quando infatti Jung formula la sua esperienza, scrive: "L'immagine è psiche."< 46 > Così quando mi chiedo: "Dov'è la mia anima; come la incontro; cosa vuole adesso?", la risposta è: "Rivolgiti alle tue immagini." Jung scrive: "Ogni accadimento psichico è un'immagine e un immaginare", e "queste immagini sono reali come tu stesso sei reale." O, come dice Stevens, il poeta americano dell'immaginazione: "Quando ci svegliamo nelle immagini [... ] ecco, noi siamo."< 49 > Cito qui un poeta a ragion veduta, perché Jung dice che quando parla di immagine intende "una concezione proveniente dal linguaggio poetico, cioè l'immagine fantastica". Le immagini non sono residui della percezione, né un senso indebolito, o immagini a posteriori, copie da realismo nai'.f. L'immagine è spontanea, primordiale, data con la psiche stessa, una "poesia essenziale al cuore delle cose".< 51 > Il dato primario è l'immagine - il dèmone di Jaspers -, l'anima che si presenta direttamente. Jung dice che la libido non appare come tale, ma sempre prende forma nelle immagini, cosicché, quando ci rivolgiamo alla fantasia, osserviamo la nostra energia psichica e partecipiamo ad essa. Dice ancora: queste immagini sono il materiale stesso che costituisce le nostre anime, gli unici dati che si presentino direttamente. Ogni altra cosa il mondo, gli altri, il nostro corpo - giunge alla coscienza mediata da questo fattore poetico ancestrale, l'immagine. Tutto ciò che diciamo sul mondo, sugli altri, sul nostro corpo, è influenzato da queste immagini archetipiche di fantasia. Ci so96

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no Dei, dèmoni ed eroi nelle nostre percezioni, nei sentimenti, nelle idee e nelle azioni, e queste persone della fantasia determinano il nostro modo di vedere, di sentire, di pensare e di comportarci, tutta l'esistenza strutturata dall'immaginazione. Questo conduce a una psicologia archetipica: la riflessione su quei fattori soggettivi della fantasia che persistono sempre, il riconoscere le immagini e il loro continuo operare in tutte le nostre realtà. Come dice Jung: "La psiche crea giorno per giorno la realtà. A questa attività non so dare altro nome che quello difantasia [... ]. La fantasia mi sembra quindi l'espressione più chiara dell'attività specifica della psiche."

5. Dèmoni e demòni Ma adesso, in simpatia con Jaspers, chiederete certo conto dei pericoli. Le tradizioni sembrano trovarsi tutte d'accordo sul fatto che i dèmoni sono pericoli, come pericolosa è la realtà di qualsiasi tipo. Ma come possiamo discernere, se queste immagini sono malvagi tentatori oppure custodi? Come potremo sapere se per noi sono positive o se invece s'impossesseranno di noi?< 53 > E cosa ne sarà delle devozioni e delle pratiche della nostra tradizione, se prestiamo attenzione al via vai delle nostre immagini, e ci dedichiamo a coltivarle in privato con l'immaginazione attiva? Di questo genere di problemi si occuparono anche gli antichi psicologi. Porfirio, ad esempio, sollevò questioni che riguardano le distinzioni tra Dei e dèmoni e, come già Plotino prima di lui, criticò i tentativi teurgici (preghiera, divinazione, sacrificio) di influenzare il comportamento dei dèmoni a beneficio dell'anima. Giamblico si pose queste domande: "[ ... ] Qual è l'indicazione che permette di riconoscere la presenza di un Dio, di un angelo, di un arcangelo o di un dèmone?" "Che cosa distingue i dèmoni dagli Dei visibili e invisibili?" I suoi tenta-

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tivi di afferrare con descrizioni, e di presentare in ordine gerarchico, le persone immaginali e i loro effetti, sono comparabili a quei tentativi di precise descrizioni degli eventi psichici che possiamo trovare oggigiorno tra gli introspettivi, i fenomenologi e gli psichiatri istituzionali. All'intelletto sembra che i dèmoni si presentino come un pandemonio, e la reazione dell'intelletto è di tentare una diacrisi intellettuale (discernimento, differenziazione). La conversazione di Jung con le immagini era una diacrisi psicologica, che dava ad esse la possibilità di presentare il loro proprio logos. Ed esse, nota bene, non gli apparivano come pandemonio, ma come figure distinte, riconoscibili, e con nomi propri. Ciò che sembra avere impegnato particolarmente gli scrittori neoplatonici fu la relazione tra Dei e dèmoni. Non è Jung il primo a parlare di loro in modo intercambiabile. È già capitato in Omero, e poi continua quasi come una convenzione. Ma la distinzione è importante, in quanto si suppone che gli Dei siano trascendenti e i dèmoni immanenti, o almeno dimorino nel regno intermedio. Questa distinzione comporta quella più astratta tra le potenze dello spirito e quelle dell'anima. Sotto l'effetto dell'emozione, o di un improvviso raptus intuitivo, come potremmo dire se si tratti di una chiamata o di un complesso? Di un Dio o di un dèmone? Questa semplificazione, che pone tutto il buono con gli Dei e tutte le ambiguità con i dèmoni, sfocia alla fine nel luogo comune popolare: il paziente è un soggetto adatto agli esorcismi di un prete, o all'abreazione psicoterapeutica! Perciò la ricerca più profonda è quella che tenta di scoprire la relazione tra Dei e dèmoni, o fra archetipi e complessi, per usare il linguaggio di Jung. Ma in che modo gli eventi improvvisi attribuiti ai dèmoni, o le immagini della nostra vita interiore, trovano il loro posto nell'ampio abbraccio dei principi cosmici planetari, gli Dei o archetipi? Proclo risolve la questione affermando che "attorno a ogni Dio c'è un'innumerevole moltitudine di dèmoni, che hanno 98

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gli stessi appellativi dei loro capi [... ] perché esprimono in se stessi la peculiarità caratteristica dei loro Dei principali". Ciò implica che i piccoli dèmoni dei nostri complessi, sintomi e fantasie, siano la scorta che precede le divinità maggiori, e che essi esprimano qualità apollinee, marziali o venusiane. Troviamo gli Dei in mezzo ai dèmoni, che li circondano. O come dice Jung: "Le divinità sono diventate malattie". Troviamo gli Dei nel mezzo dei nostri ostinati problemi psichici "demoniaci", se li guardiamo con un occhio che immagina in modo critico.< 62 > Trarre le conseguenze per la psicologia del profondo da quel che Giamblico ha prospettato, non è qui possibile. Ma per invogliarvi a leggerlo approfonditamente, citerò almeno i modi delle sue distinzioni tra le persone immaginali, per quanto riguarda la loro bellezza, il loro movimento, la loro luminosità ed energia. Dice ad esempio che i fantasmi eroici sono soggetti a muoversi e a cambiare, e che si presentano con magnificenza; che gli angeli non parlano; che i dèmoni generano paura, ma le loro azioni non sono rapide come potrebbero sembrare. Noi torniamo a questi primi scrittori per la loro comprensione dell'anima, per la loro psicologia. Per troppo tempo ci si è rivolti loro soltanto per gli argomenti dottrinari e morali, per la loro spiritualità. La svolta di Jung ha determinato il ritorno alla tradizione chiamata in genere neoplatonica, perché soltanto in essa il regno intermedio della psiche riceve un'attenzione appassionata. (Fin dall'869 163 > il pensiero ufficiale, nella sua linea dominante, aveva escluso l'anima, riducendo l'uomo entro un'antropologia dualistica di corpo e spirito.) La svolta di Jung ci permette anche di ravvivare il neoplatonismo, di mettere in relazione le sue intuizioni con i dèmoni della nostra coscienza contemporanea, e con la pluralità dei suoi mondi. La pluralità di mondi, in senso psicologico, si riferisce alla pluralità delle prospettive che determinano la nostra soggettività, ai molti occhi che vedono attraverso i nostri. Non che ci 99

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siano molti mondi nettamente diversi e ciascuno regolato da un Dio; c'è piuttosto, come Kerényi con insistenza ha sostenuto, uno stesso mondo che condividiamo, ma sempre e soltanto attraverso il cosmo di questa o quella fra le figure-guida immaginali, in una costellazione particolare o mitema. Sono questi i fondamenti divini di ciò che l'umanesimo esistenziale da Nietzsche in poi chiama "prospettive". Queste figure danno forma ai nostri cosiddetti mondi reali nelle immagini di questo eroe, di quell'angelo, dell'anima, del dèmone, o di Dio. La demonologia nel suo senso più ampio diviene così il logas delle persone immaginali, che sono contenute in tutte le nostre idee e in tutte le nostre azioni. La demonologia è nel suo senso più ampio anche antropologia, poiché, come dice anche Stevens, "[ ... ] lo studio delle sue immagini/ è lo studio dell'uomo [... ]" , Inoltre la demonologia, nel suo senso più ampio che include tutte le persone, perfino gli angeli dell'immaginazione, diviene la base non solo per la nostra psicopatologia, ma anche per la nostra epistemologia, per qualunque conoscenza. I modi della conoscenza non sono mai del tutto purificati dal "fattore soggettivo", e questo fattore è una qualsiasi persona immaginale, che lancia la nostra coscienza in specifiche premesse epistemologiche. Il primo compito della conoscenza è quindi la conoscenza di queste premesse, il Conosci te stesso. Le pluralità dell'immaginazione precedono anche la nostra percezione di esse, per non parlare della nostra comprensione. ("Noi siamo vissuti dalle Potenze che pretendiamo di capire", disse W. H. Auden.) Esse, le persone che si presentano a noi come nostri dèmoni, rendono possibili i modi della nostra percezione e gli stili di partecipazione alla realtà delle cose. Come primo compito (e anche come primo piacere) il Conosci te stesso è il momento di riflessione su di sé, un a priori psicologico entro tutti gli altri momenti, quel sorriso di autoriconoscimento intravisto nelle immagini di sé contenute in tutte le cose. 100

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6. Immaginazione attiva: l'arte che cura Interrompo qui, per concludere questo capitolo con una nota sul fine dell'immaginazione attiva, che Jung, al termine della più importante fra le sue ultime opere, Mysterium coniunctionis, connette al Conosci te stesso. Ed è proprio per mezzo dell'immaginazione attiva, io credo, che Jung collega la tradizione ellenistica, neoplatonica del lavoro sulle immagini al modo analitico di conoscenza di sé dovuto a Freud. Credo che questa connessione sia più importante della solita frattura tra platonismo e Freud: infatti, una delle maggiori potenzialità dell'approccio di Jung consiste precisamente nel rendere possibile una rilettura di Freud. Se si studia Jung attentamente riguardo al perché uno intraprenda l'immaginazione attiva, troviamo queste note fondamentali. Esse possono essere presentate come una via negativa di avvertimenti, simile alla misurata limitazione che impregna di pietà religiosa il modo analitico di Freud. 1. L'immaginazione attiva non è una disciplina spirituale; non è la via di Ignazio di Loyola o dello yoga orientale, perché non ci sono fantasie prescritte o fantasie proscritte. Si lavora con le immagini che sorgono, non con quelle speciali scelte da un maestro o da un codice. 2. L'immaginazione attiva non è una prova artistica, né una creazione di pittura o poesia. Si può dar forma estetica alle immagini, anzi, si dovrebbe farlo quanto più è possibile in modo estetico. Ma ciò in omaggio alle figure stesse, per dedizione ad esse e per capirne la bellezza, non in omaggio all'arte. Il lavoro estetico dell'immaginazione attiva non va quindi confuso con l'arte destinata ad essere esibita o pubblicata. 3. L'immaginazione attiva non mira al silenzio, ma al discorso; non all'immobilità, ma al racconto, al teatro o alla conversazione. Enfatizza l'importanza della parola, non la cancellazione della parola, che diviene così un modo di "mettere in relazione", uno strumento del sentimento. 101

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4. Non è quindi un'attività mistica, che si compia con il fine dell'illuminazione, o per raggiungere stadi elevati di coscienza (samàdhi, satori, unione con il tutto). Ciò imporrebbe un'intenzione spirituale all'attività psicologica; sarebbe una dominazione, o anche una rimozione dell'anima da parte dello spirito. 5. Quest'ultima affermazione non significa tuttavia che l'immaginazione attiva sia un'attività psicologica soltanto nel senso personale, atta a curare sintomi, calmare o abreagire terrori e bramosie, migliorare le famiglie, far avanzare e sviluppare la personalità. Questo vorrebbe dire ridurre i dèmoni a servi personali, il cui compito dovrebbe essere quello di risolvere i problemi insiti in quelle illusioni che chiamiamo realtà perché non abbiamo saputo vedere attraverso le fantasie e le immagini-guida che ce le proiettano davanti. 6. L'immaginazione attiva non è però un'attività psicologica nel senso transpersonale della teurgia (la magia rituale), il tentativo di operare con le immagini per mezzo della volontà umana e secondo il suo fine. Da entrambi i lati della tradizione della psicologia archetipica - Plotino e Freud - siamo stati messi in guardia dall'aprire le dighe alla "nera marea di fango dell'occultismo". L'immaginazione attiva diventa teurgia popolaristica e superstiziosa quando attiviamo le immagini artificialmente (droghe); quando lo facciamo di routinè, come un ritualismo; quando favoriamo effetti speciali (sincronismi); quando incoraggiamo capacità divinatorie (rivolgendoci alle voci interne per interpretare i sogni); quando usiamo tutto ciò per aumentare la fiducia in noi stessi al momento di una decisione (potere). Ciascuno di questi usi non è più un modo per conoscere se stessi, ma un modo per aumentare la propria importanza, coperto adesso da un'innocente etichetta: "crescita psichica". Faust pervade e perverte ancora il nostro Conosci te stesso, trasformandolo in una sollecitazione a superare proprio quei limiti che quella massima in origine implicava: "Conosci di non essere altri che un uomo, di 102

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non essere divino." L'immaginazione attiva come divinazione teurgica agirebbe sugli Dei, anziché riconoscere la loro azione su di noi. Ci spingiamo allora troppo avanti, trascurando i dèmoni che sono presenti ogni giorno, e anche ogni notte. Come dice Plotino: "Spetta agli Dei venire da me, non a me andare da loro". L'immaginazione, il metodo introspettivo di Jung, non è dunque rivolta a nessuno di questi scopi: disciplina spirituale, creatività artistica, trascendenza dal mondano, visione o unione mistica, miglioramento personale, effetto magico. Ma allora perché? Qual è il suo fine? In primo luogo essa mira a curare la psiche ri-stabilendola nel metaxy, donde era caduta nella malattia del letteralismo. Trovare la via che riporta al metaxy, rievoca un modo mitico di immaginare, simile a quello che il Socrate platonico usava per curare le anime. Questo ritorno al regno intermedio della narrativa, del mito, porta a una colloquiale familiarità con il cosmo che si abita. Curare significa così Ritorno, e coscienza psichica significa Colloquio. Una "coscienza guarita" vive in modo narrativo, proprio come le figure che guariscono, ad esempio Jung e Freud, diventano sotto i nostri occhi personaggi di un racconto: le loro effettive biografie si dissolvono per coagularsi in miti, mentre diventano narrazione; e in tal modo possono continuare a guarire. Per questo l'immaginazione attiva, così vicina all'arte per il modo di procedere, si distacca da essa per quanto riguarda lo scopo. E ciò non soltanto perché l'immaginazione attiva non si propone quale risultato un prodotto materiale, ma soprattutto perché la sua intenzione è il Conosci te stesso, la comprensione di sé, che al tempo stesso è il suo limite: il limite paradossale dell'interminabilità, che corrisponde all'eraclitea interminabilità della psiche stessa. La conoscenza di sé è necessariamente uroborica, un interminabile volgersi circolare in mezzo alle sue scene, alle sue visioni, alle sue voci. Conosci te stesso è fine a se stesso e non ha fine. È mercu103

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riale. È un processo continuo e intermittente, un'arte ermetica paradossale, al tempo stesso diretta a una meta eppure senza termine, tanto che Freud ormai vecchio, in uno degli ultimi articoli prima dell'esilio da Vienna, disse dell'analisi sia del suo termine come scopo, sia del suo termine nel tempo - che non solo l'analisi terapeutica del malato, ma anche quella dell'analista stesso, da compito terminabile si trasformerebbe in compito interminabile. Non c'è nessun altro fine che l'opera medesima del far anima, e l'anima è senza fine.

7. Un'eco Al momento di concludere sorge una tentazione: il dèmone del post scriptum. L'inesauribilità dell'opus del Conosci te stesso è, nel linguaggio di Jung, un processo d'individuazione. Via via che procede, il calore aumenta. Tra le successive operazioni dello spirito hanno la precedenza quelle chiamate distillazione, volatilizzazione, sublimazione, e in particolare ciò che gli alchimisti chiamavano moltiplicazione. Mentre queste operazioni intensificano il potere dello spirito, tendono .anche a rompere il vaso psichico e a espandersi nella materia, nell'azione, nella società, nella politica, con la fervida urgenza della profezia e della missione. Ad ogni aumento del calore dello spirito deve esserci un corrispondente aumento della capacità che l'anima ha di contenerlo, di amplificarlo entro il suo spazio interno sacrale. Questo spazio - questo variopinto e intricato tappeto dell'anima, le sue bordure, le sue sete - è il vaso di colei che nutre, tesse, riflette: l'anima. Qui la coniunctio è questo spirito contenuto, questo contenimento spiritato, ispirato. La multiplicatio non è quindi una missione nel mondo, così come la tintura non è diffondere e colorare di spirito il materialismo del mondo politico e sociale. Suggerisco che la multi104

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plicatio sia piuttosto un effetto del toccare con spirito tutti i punti dell'anima, i suo cento canali di immagini, e dell'indurre immagini cariche di anima, per le quali i brillanti impulsi dello spirito possano trovare testimonianza e conoscere se stessi. Il Conosci te stesso adesso lascia del tutto colui che conosce, diventando l' autoconoscenza dello spirito nello specchio dell'anima, il riconoscimento da parte dell'anima dei suoi spiriti. La multiplicatio, con il suo calore rosso, spande il proprio modo nel corpus, il corpo del mondo degli eventi materiali, che si trasfondono attraverso il regno intermedio, l'anima. Allora questi eventi materiali, politici, sociali, sono immaginati come una molteplicità: non più il dualismo di spirito contro materia, che richiede una battaglia dialettica. Non più polarità, ma pluralità. O, per ripetere: prima Psyche, poi il mondo; attraverso Psyche, la mediatrice, al mondo; e il mondo anch'esso, psiche, liberato in tal modo, in molteplici mondi.

Note l. - JAFFÉ, A. (a cura di) Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung. Tr. it. Rizzoli, Milano 1978. 2. - LEAVY, S. A Footnote to Jung's "Memories". Psychoanalytic Q., 33, 1964, pp. 567-574. 3. - JUNG, C.G. Psicologia dell'inconscio. Tr. it. Boringhieri, Torino 1968, p. 172. Per un ulteriore approfondimento sul tema del dèmone come colui che assegna il destino vedi DIETRICH, B.C. Death, Fate and the Gods. Athlone, London 1967, pp. 18, 57. 4. - Vedi GRINNEL, R. Reflections on the Archetype of Consciousness. Personality and Psychological Faith. Spring 1970, Spring Pubi., New York/Ziirich, pp. 30-39.

5. - JAFFÉ, A. op. cit., pp. 223 sg. 6. - Ibidem, p. 225 sg. 7. - Vedi Matteo XXIV, 4-24 (sebbene i dèmoni non vi siano direttamente menzionati); VIII,31; IX,32; XI,18; XV,22; Marco 1,32; V,12; Giovanni III,15; II,19. Ad altre affermazioni del Nuovo Testamento sui dèmoni ci si riferisce in note successive. 8. - Per un'introduzione alla letteratura sui dèmoni e sulla demonologia vedi RGG Damonen; VAN DER LEEUW, G. Fenomenologia della religione. Tr. it. Bo rin-

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James Hillman ghieri, Torino 1975, parr. 14, 15, 40, 42 (sui dèmoni, gli angeli, le anime al plurale, !"'anima esterna"); RHODE, E. Psyche. Tr. it. Laterza, Bari 1982. Per opere più recenti vedi WILFORD, F.A. Daimon in Homer. Numen, XII/3, 1965, pp. 217-232; BARROW, R.H. Plutarch and his Times. Indiana Univ. Press, Bloomington/London 1969, pp. 86-91; SouRY, G. La démonologie de Plutarque. Paris 1942; sul tema generale dell'antichità vedi DETIENNE, M. La notion de "daimon" dans le pythagorisme ancien. Belles Lettres, Paris 1963; Dooos, E.R. Pagani e cristiani in un'epoca d'angoscia. Tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1970; CooK, A. Daimon. In: Enactment: Greek Tragedy. Swallow Press, Chicago 1971. Passi particolarmente penetranti si possono trovare in ONIANS, R.B. The Origins of European Thought. University Press, Cambridge 1953; O'BRIEN, D.O. Empedocles' Cosmic Cycle. University Press, Cambridge 1969, pp. 85-97, 325-336; NocK, A.D. The Emperor's Divine Comes. In: Essays on Religion and the Ancient World. Clarendon, Oxford 1972, pp. 664 sgg.; WALKER, D.P. Spiritual and Demonic Magicfrom Ficino to Campanella. Univ. Notre Dame Press, 1975, pp. 42-55 e passim; Dooos, E.R. Commentary to Proclus' The Elements of Theology. University Press, Oxford 1963, pp. 249 sgg. Notevoli sono anche: BENZ, E. Die Vision. Erfahrungsformen und Bilderwelt. Klett, Stuttgart 1969; DIETHELM, O. The Medicai Teaching of Demonology in the 17th and 18th Centuries. J. Hist. Behav. Science, VI/1, 1970, pp. 3-15; MAY, R. PsychotheraPY and the Daimonic. In: CAMPBELL, J. (Ed.) Myths, Dreams and Religion. Dutton, New York 1970, pp. 196-210; FRIEDLÀNDER, P. Demon and Eros. In: Plato, vol. 1, cap. 2. Pantheon, New York 1958; STEWART, J.A. Excursus on the History of the Doctrine of Daemons. In: The Myths of Plato. Centaur Press, London 1960, pp. 384-401. 9. - Per i greci omerici "l'identità di ciascuno è soprattutto espressa in termini di storia o storie della sua vita. Gli eventi cui un uomo ha partecipato [... ] costituiscono la sua identità. Se la versione degli eventi è differente, differente è l'identità" (SIMON, B., WEINER, H. Models of Mind and Menta! Illness in Ancient Greece, I. J. Hist. Behav. Science, II, 1966, p. 308). Poiché gli Dei partecipano a queste storie, esse sono miti, e la biografia di ciascuno diventa la sua mitologia. La conoscenza di sé, o "introspezione", è considerata dal greco in epoca più tarda un "esaminare, sistemare, un vagliare attentamente" queste "storie". 10. - GENDLIN, E. Focusing. Psychotherapy, 611, 1969, pp. 4-15. Questo eccellente articolo è esemplare per mostrare i limiti dell'introspezione nella terapia fenomenologica e in quelle rivolte al corpo. L'esame di sé in esse non abbandona mai !"',interno" della coscienza. 11. - PooLE, R. Towards Deep Subjectivity. Allen Lane, Penguin, London 1972. Qui la dimensione profonda non scende mai veramente al di sotto dell'io storico e dei suoi sentimenti. Il richiamo a una "totalità di prospettive multiple" resta un umanesimo egocentrico, se non ci sono i cosmoi divini a connettere le varie prospettive attraverso i miti, e a dar loro le metafore d'origine e le comunanze di significato entro cui esse risultino necessarie. In assenza delle persone archetipiche, che forniscano soggettività veramente profonde (nel senso di aldilà), e che non siano soltanto mie, l'umanesimo esistenziale e fenomenologico rimane cieco alle proprie infrastrutture. Diventa un relativismo secolare e radicale, o un solipsismo di sentimenti personali in lotta (come Poole ammette), una semplice via dell'opinione, che non cambia se cresce il numero delle opinioni. Nel momento stesso in cui difende prospettive soggettive multiple, questa posizione tradisce un'empietà nei confronti della loro fonte. Perché col porre tutti gli occhi nella testa dell'uomo onniscente (una totalità di punti di vista) o con l'introiezione di un membro del comitato, vengono ignorati gli Dei, che in realtà stanno usando in questo momento i nostri occhi; Soltanto gli Dei rendono

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Le storie che curano legittimo, e tollerabile, il relativismo radicale. Ma una volta che li abbiamo ammessi, abbiamo abbandonato Poole (che difende l'umanesimo di Protagora, Husserl, Sartre, Laing, Kierkegaard, ecc.) a vantaggio della precisione imagistica di una psicologia archetipica. Allora la soggettività profonda si riferisce ai soggetti presenti nelle mie profondità. 12. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 8, pp. 115, 354, 397; "Opere", voi. 6, p. 118, 211, e inoltre Comments on a Passage from Nietzsche's Zarathustra. Spring 1972, Spring Pubi., New York/Ztirich, pp. 152-154. Questi brani illustrano la concezione religiosa che Jung ha dei complessi. 13. - Vedi KAMERBEEK, J. Dilthey versus Nietzsche. Studia Philos., X, 1950, pp. 52 sgg., per una raccolta di passi in cui i due autori attaccano l'introspezione. 14. - NIETZSCHE, F. Umano, troppo umano, II. Tr. it. Adelphi, Milano 1965, p. 87. 15. - JAFFÉ, A. op. cit., pp. 236 sg. 16. - Una reazione simile, in termini di moralità, si ha in Jaspers non appena comincia a parlare dei dèmoni (vedi oltre). Per una ricerca approfondita sulla questione morale in rapporto alle immagini archetipiche vedi GRINNEL, R. In Praise of the "Instinct for Unholiness". Intimations of a Mora! Archetype. Spring 1971, Spring Pubi., New York/Ziirich, pp. 168-185. 17. - JAFFÉ, A. op. cit., p. 226. 18. - Ibidem, p. 406. 19. - A proposito della distinzione e della relazione fra anima e spirito, vedi HILMANN, J. Re-visione della psicologia. Tr. it. Adelphi, Milano 1983; Anima Il. Tr. it. in: Riv. Psic. Analitica, 27, 1983. 20. - JASPERS, K. The Perennial Scope of Philosophy. Routledge, London 1950, p. 177. Jaspers aveva già esaminato e condannato "il Weltbild Initologico-demonico", in particolare come è esemplificato in Goethe, in Psicologia delle visioni del mondo. Tr. it. Astrolabio, Roma 1950. 21. - BARTH, K. Die kirchliche Dogmatik, III, 3, p. 608 sg. 22. - Citato da GRAY, P.D. The Oneand the Many: Teilhard de Chardin's vision of Unity. Bums & Oates, London 1969, p. 21. Per una molteplicità di concezioni archetipiche della creatività, vedi HILLMAN, J. Il mito dell'analisi. Tr. it. Adelphi, Milano 1979, pt. I. La visione di Teilhard è qui chiaramente la prospettiva dell'archetipo del senex. 23. - Sull'inconscio come coscienza multipla vedi JUNG, C.G. "Opere", voi. 8, pp. 208-217; vedi anche pp. 329 sgg. 24. - Il problema è già sollevato in Marco 1,34, dove si afferma che Gesù "non permetteva ai dèmoni di parlare." 25. - THEILER, W. Die Sprache des Geistes in der Antike. In: Forschungen zum Neuplatonismus. Berlin 1966, pp. 302-312. 26. - Differenze fra linguaggio dello spirito e linguaggio dell'anima si possono trovare in HILLMAN, J. Peaks and Vales. In: GILES, C. (Ed.) Puer Papers, Spring Pubi., Dallas 1979. 27. - "La realtà consiste di una molteplicità di cose. Ma 'uno' non è un numero; il primo numero è il due, e con esso comincia la molteplicità e la realtà" (JUNG, C.G. CW 14, par. 659); vedi anche il passo sulla molteplicità nel suo Septem Sermones ad

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James Hillman Mortuos, IV: "La molteplicità degli Dei corrisponde alla molteplicità dell'uomo" (Ricordi, cit., pp. 449-468). "L'unità della coscienza, o della cosiddetta personalità, non è una realtà ma un pio desiderio" ("Opere", vol. 9*, p. 103). 28. - Vedi JAFFÉ, A. op. cit., pp. 228-231; JUNG, C.G. "Opere", vol. 8, pp. 99102. 29. - Si confronti il radicale dualismo di Jaspers ("niente in mezzo") con questo passo tratto da Platone (Diotima che parla nel Simposio): " 'Tale è, vedi, la caratteristica di tutti gli esseri demonici; intermedi essi sono fra il Dio e l'uomo mortale'. 'E quale il loro ufficio? ' 'Interpretano e trasmettono agli Dei gli umani desideri; così pure agli uominì i divini voleri[ ... ]. In mezzo tra uno e l'altro mondo, colmano intero l'immenso vuoto che separa i due mondi [... ]. La divinità, vedi, non ha diretto rapporto con il genere umano; soltanto per mezzo di dèmoni ha relazione con noi; ogni suo colloquio con gli uomini, così nella veglia come nel sonno, avviene per il loro tramite. E si dice appunto che chi ha conoscenza sicura di questo è un uomo in rapporto con potenze superiori, un uomo demonico' " (202 d-e, 203) (PLATONE/ dialoghi, voi. 1. Tr. it. Rizzoli, Milano 1964). Plutarco è andato anche oltre, dicendo che chi nega i dèmoni spezza la catena che unisce il mondo a Dio (De Defectu Orac., 13). Chiaramente, come fa notare G. B1GG in The Christian Platonists of Alexandria (Clarendon, Oxford 1968, pp. 307-308), "la dottrina dei dèmoni, compresa correttamente, renderebbe superflua la figura del Cristo". La questione riguarda quindi la figura del mediatore - sia quell'unica persona storica, Cristo e la Croce (axis mundi), sia le molteplici persone immaginali. Di qui il segno della croce come protezione contro i dèmoni. Lo stesso uso può essere fatto della "croce psicologica", cioè il mandala, che nacque nella mente di Jung nello stesso periodo in cui egli s'incontrava con i dèmoni e che, nei suoi scritti sul mandàla, è presentato come rifugio contro le incursioni delle potenze psichiche ("Opere", voi. 9*, pp. 9, 376). (A proposito della Croce in relazione alle potenze multiple, vedi "Opere", voi. 11, pp. 269 sgg.) Come Jung ha ulteriormente dimostrato, la caduta di questo axis mundi (la cristianità come mediatore) ha resuscitato i dèmoni e nel loro posto precedente, più alto, come "cose che si vedono in cielo" (Su cose che si vedono nel cielo. Tr. it. Bompiani, Milano 1970), negli stessi termini descrittivi usati da Giamblico per i dèmoni (vedi oltre): rapidità, luminosità, ecc. La religione ufficiale di oggi (la scienza, il potere militare e quello governativo) attraverso i suoi bureaux dell'"inspectio", ha dichiarato anch'essa questi dèmoni "non esistenti", mentre la credenza popolare continua a "vederli" e a dame testimonianza. 30. ~- Che l'anima mediatrice sia anche quella che sostiene le distinzioni è l'elaborazione che Giamblico fa della logica del terzo regno ("due termini dissimili devono essere legati da un intermedio, che abbia qualcosa in comune con ciascuno di essi"). Dunque l'anima è mediatrice perché ha qualcosa in comune sia con il mondo che con il divino, allo stesso tempo "tenendoli rigorosamente separati". Citazione e discussione tratte da WALLIS, R.T. Neo-Platonism. Duckworth, London 1972, p. 131. 31. - Vedi la mia nota su questa immagine di Proteo in Jung e nel Rinascimento in Re-visione della psicologia, cit., p. 428, nota 74. 32. - Proclo aveva già notato che i dèmoni ci insegnano il modo "come se" di pensare il mito (An Apology for the Fables of Homer. In: RAINE, X., HARPER, G .M. (Eds.) Thomas Taylor the Platonist: Selected Writings. Univ. Press., Princeton 1969, p. 461: "[ ... ] possiamo in particolare percepire l'affinità di queste favole con la famiglia dei dèmoni, le cui energie manifestano molte cose in modo simbolico, come sanno coloro che si sono incontrati con i dèmoni da svegli, o che hanno goduto della loro ispirazione nei sogni [... ]."

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Le storie che curano 33. - STIERLIN, H. Karl Jaspers' Psychiatry in the Light of his Basic Philosophical Position. J. Hist. Behav. Science, X, 2, 1974, p. 221. L'accusa di Stierlin, secondo cui Jaspers ha fallito nei riguardi della schizofrenia, è un altro modo per affermare che ha fallito con i dèmoni. 34. - JUNG, e.o. "Opere", vol. 5, p. 254. 35. - YATES, F.A. L'arte della memoria. Tr. it. Einaudi, Torino 1972, p. 11. 36. - La controversia iconoclastica è completamente riesaminata da HEFELE, C.J. A History of the Councils of the Church. Clark, Edinburgh 1896, V, 260-301. 37. - EuSEBIUS Hist. ecci., VII, 18; vedi SHELD0N-WILLIAMS, l.P. The Philosophy of Icons. In: ARMSTRONG, A.H. (Ed.) Cambridge History of Later Greek and Early Medieval Philosophy. Cambridge 1970, p. 515. 38. - HEFELE, C.J. op. cit., pp. 378-385. 39. - HEFELE, C.J. op. cit., pp. 371-372 (relazione della quinta sessione del Concilio). Vedi OusPENSKY, L. Theology of the lkon. St. Vladimir's Seminary Press, Crestwood, New York 1978, pp. 145-178. "[ ... ] il concilio specifica e sottolinea in modo particolare che il nostro atteggiamento nei confronti dell'immagine dovrebbe essere un atteggiamento di rispetto e di venerazione, ma non di vera adorazione, che spetta solo a Dio[ ... ]" (p. 170). Il termine greco che il concilio usa per questa venerazione è proskunesis. Questa parola possiede connotazioni di saluto, di benvenuto, e anche di bacio, il che suggerisce che la relazione con le immagini sia una relazione che passa attraverso l'anima. 40. - Da una parte gli iconofili sostennero, per bocca di Giovanni Damasceno, III (vedi nota 43): "Un'immagine è una somiglianza e una rappresentazione di qual·cuno, che contiene in sé stessa la persona immaginata" (il corsivo è mio). Dall'altra parte la posizione ufficiale, così come fu ulteriormente chiarita nel concilio dell'869870 (HEFELE, C.J. Conciliengeschichte, IV, par. 402, Canone 3) sosteneva: "La sacra immagine di Nostro Signor Gesù Cristo, come i libri degli Evangelisti, deve essere venerata; perché come le parole delle Scritture ci portano alla salvezza, così le immagini operano attraverso i colori, e tutti, dotti e ignoranti, le trovano utili" (il corsivo è mio). La dottrina sentenzia inoltre: "Ogni volta che vediamo la loro rappresentazione in un'immagine, ogni volta, mentre le osserviamo, siamo costretti a ricordare i prototipi[ ... ]" (OUSPENSKY, L. op. cit., p. 160). Le immagini sarebbero strumenti di mediazione con i prototipi, un punto di vista che implica sempre che le immagini appartengano a un ordine secondario e inferiore dell'essere. 41. - Jung ("Opere", vol. 8, p. 58) connette "l'estirpazione del politeismo" con la repressione cristiana della "formazione di simboli". Ma "via via che l'intensità dell'idea cristiana incomincia a impallidire, è lecito attendersi anche una rifioritura della formazione simbolica individuale". Questo non vieta che la formazione simbolica possa essere cristiana, come lo fu nel caso di Jung. 42. - SHELDON-WILLIAMS, LP. op. cit., p. 512. 43. - GIOVANNI DAMASCENO On Holy Images. Thos. Baker, London 1898. 44. - BASILIO De Spiritu Sancta, XVIII. In: SHELDON-WILLIAMS op. cit., p. 509. 45. - Generalmente è trascurato il fatto che Otto ha trasposto un termine romano dal contesto imagistico del politeismo in un sentimento teologico giudeo-cristiano. Si dice che// Sacro abbia avuto la sua origine in un'esperienza del "numinoso" avuta in una sinagoga di Tangeri (vedi SCHINZER, R. Rudolf Otto: Entwurf einer Biographie. In: BENZ, E. (Ed.) Rudolf Otto's Bedeutung fur die Religionswissenshaft und die Theologie heute. Brill, Leiden 1971, p. 17; inoltre p. 37 dell'articolo di Benz).

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James Hillman L'esperienza di Otto e il linguaggio luterano continuano a influenzare la psicologia junghiana (per esempio quando il sé e altri archetipi sarebbero riconosciuti in particolare attraverso eventi "numinosi"), senza che ci si renda conto che un numen è un'immagine. "Numinoso", perciò, implica non una potenza sacra "assolutamente altra", ma la natura numinosa di un'immagine. 46. - JUNG, C.G. CW 13, par. 75; sul complesso come "immagine" e come "persona" vedi JuNG, C.G. "Opere", voi. 8, p. 113. 47. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 11, p. 555. 48. - JUNG, C.G. CW 14, par. 753. 49. - The Collected Poems of Wallace Stevens. Faber, London 1955, p. 463: Tue Study of Images I. 50. - JUNG, e.o. "Opere", voi. 6, p. 452. 51. - The Collected Poems, cit., p. 440: A Primitive Like an Orb. 52. - JUNG, e.o. "Opere", voi. 6, p. 63. 53. - Il problema del dualismo morale riguardo ai dèmoni (la divisione di Jaspers in "benevoli e malevoli") sarebbe - come si dice di tanti dualismi occidentali un'influenza persiana, che separa radicalmente le forze del Bene (angeli), che sono con Dio, dalle forze di Ahriman (dèmoni del Male). Eppure, come dice A.D. Nock, "i termini [theoi e daimones] generalmente non comportano un'antitesi come quella tra bene e male" (Greeks and Magi. In: Essays, voi. II, p. 520). Dodds (Pagani e Cristiani, cit., p. 118) dimostra che il dualismo, caratteristico di Plutarco, risale ad Empedocle (vedi PLUTARCO Iside e Osiride. Tr. it. Firenze 1923). Ma non è Paolo che ha spinto fino all'impossibile la questione del dualismo riguardo ai dèmoni, in I Cor., X, 19-21? Immediatamente dopo aver condannato le immagini egli dice: "Non potete bere il calice del Signore e il calice dei dèmoni". Una cosa o l'altra. Il neoplatonismo ha cercato di risolvere il dualismo con un pluralismo, disponendo i dèmoni lungo una catena verticale e differenziata, attraverso la regione intermedia. La differenziazione che Jung fa della psiche per mezzo di figure pérsonificate (Ombra, Puer, Madre, Senex, Anima/Animus, ecc.) può essere paragonata ai tentativi neoplatonici. In entrambi i casi l'anima è strutturata secondo generi di persone immaginali. Così fa anche il Teatro di Giulio Camillo nell'Arte della Memoria. Tutte queste sono demonologie, che si rivolgono a una pluralità di divinità mitiche personificate (archetipi) per la loro organizzazione dell'anima, e che pongono i fattori organizzanti nell'anima stessa, l'immaginazione. 54. - WALLIS, R.T. op. cit., p. 109. 55. - IAMIÌLICHUS On the Mysteries ofthe Egyptians, Chaldeans, and Assyrians, II. Watkins, London 1%8, par. 3. 56. - Ibidem, I, par. 20. (Le domande sono sollevate da Porfirio in un'Epistola ad Anebo tradotta nello stesso volume, pp. 1-16.) 57. - Per un diagramma della gerarchia vedi WALLIS, R.T. op. cit., p. 152. 58. - Per una discussione esauriente vedi DIETRICH, B.C. The Daemon and thç Hero. In: Death, Fate and the Gods, cit., cap. II. 59. - La distinzione fra spirito e anima è fondamentale nell'opera di Jung, a cominciare da un articolo del 1919 su questo problema ("Opere", voi. 8, pp. 323 sgg.), fino alla grande opera sulla loro congiunzione (CW 14). Vedi anche la nota 19. 60. - lAMBLICHUS op. cit., p. 260 (una nota di T. Taylor, che cita il commento di Proclo all'Alcibiade Primo).

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Le storie che curano 61. - JUNG, C.G., WrLHELM, R. Il segreto de/fiore d'oro. Tr. it. Boringhieri, Torino 1981, p. 44. 62. - L'atteggiamento demonico non è presente soltanto nelle immagini. Appare anche nella riflessione o, come dice Nock: "Va ricordato che, come Wilamowitz e Nilsson ci hanno insegnato, la parola daimon è estremamente rara nel culto. È una parola di riflessione e di analisi" (The Cult of Heroes. In: Essays, II, 580n.). L'atteggiamento demonico si manifesta nel nostro rnitologizzare un evento dopo che è accaduto. 63. - Nella Decima Sessione, Canone XI, del Concilio dell'869, l'uomo fu ufficialmente scisso in una dualità, materiale e immateriale. La parte immateriale fondeva in uno anima e spirito. Una distinzione essenziale andava così perduta. L'eliminazione dell'anima era stata già preparata nel Concilio del 787 (vedi sopra) con l'addomesticamento delle immagini. La lezione è chiara; la storia si ricapitola nella psicologia. Una volta privata l'immagine della sua autonomia e del suo potere, non c'è più alcuna evidenza esperienziale per !'"anima", che allora declina, senza l'immagine, in un mero concetto (teologico) senza necessità. 64. - The Collected Poems, cit., p. 463: The Study of Images I. 65. - Per un elenco completo di passi vedi HULL, R.F.C. Bibliographical Notes on Active Imagination in the Works of C.G. Jung. Spring 1971, Spring Pubi., New York/Ziirich, pp. 115-120. 66. - JUNG, C.G. CW 14, parr. 707 sgg. (pt. VI, 6, Conoscenza di sé). 67. - JuNo, C.G. CW 14, parr. 708, 749. 68. - Jung sottolinea come sia importante che abbia luogo "un discorso interiore di una persona con un'altra che è invisibile, come nell'invocazione alla divinità o come nella comunione con il proprio sé o con il proprio Angelo custode" (citazione dal dizionario alchemico di Ruland, CW 14, par. 707). 69. - Citazione da Jung dell'ammonimento che gli rivolse Freud. In: Ricordi, cit., p. 191. 70. - Si attribuisce sempre al neoplatonismo la superstiziosa teurgia popolaristica (influenzare gli Dei) e vi è su ciò un acceso dibattito: per esempio, BARB, A.A. La sopravvivenza delle arti magiche. In: MOMIGLIANO, A. (a cura di) Il conflitto fra Cristianesimo e Paganesimo nel secolo IV. Tr. it. Einaudi, Torino 1968. Una teurgia "elevata" (o magia bianca) fu invece raccomandata da Giamblico. Una radice del popolarismo nel neoplatonismo (o nell'immaginazione attiva junghiana) è rappresentata dal suo modo di pensare psicologico, il pensare secondo "invisibili". Così la teurgia fu raccomandata da alcuni neoplatonici (GIAMBLICO Misteri, V, 15-17) al fine di immettere il corpo nella filosofia; oppure (secondo Porfirio) la teurgia è una facile introduzione per menti semplici e rozze (quelle cioè che agiscono in modo letterale e soltanto in concreto) per comunicare con le Potenze. Ma fondamentalmente, come insiste Plotino (Enneadi, II, 9, 14), la teurgia non può aiutare il ritorno dell'anima all'ordine intellegibile. Al massimo tale teurgia (immagine guidata) è una contro-magia per effetti pratici immediati (Enneadi, IV, 4, 43) o, come lo chiama oggi la psicoterapia, è un "rituale contro fobico". Vedi la discussione e i riferimenti in W ALLIS, R.T. op. cit., p. 71, e anche pp. 3, 14, 108 sg., 153; Dooo, E. La teurgia, Appendice Il del suo I Greci e l'Irrazionale. Tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1978; WALKER, D.P. op. cit. 71. - PORFIRIO Vita di Plotino e ordine dei suoi libri, X, 60. In: PLOTINO Ennea-

di, I. Tr. it. Laterza, Bari 1973, p. 15.

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James Hil/man 72. - Che la conoscenza di sé sia senza fine non è soltanto un concetto eracliteo (l'anima è senza fine) e socratico (la conoscenza di sé è in definitiva lo studio del morire così come del divino -Alcibiade Primo, 127 sgg. - dove il sé è interpretato come anima). È anche un concetto giudaico-islamico, dove "Conosci te stesso" significa fondamentalmente conoscenza di Dio (homo imago Dei): "Colui che conosce sé stesso conosce il suo Signore" (vedi ALTMAN, A. The Delphic Maxim in Medieval Islam and Judaism. In: Studies in Religious Philosophy and Mysticism. Routledge, London 1969, pp. 1-40). Attenendomi a questa tradizione, in tutto questo articolo ho considerato il "sé stesso" di Delfi come "anima", nefesh, nafs, nafashu, psyché, anima. 73. - La discussione di Jung, nell'ultima parte di Mysterium Coniunctionis, riguardo alla conoscenza di sé e all'immaginazione attiva, torna continuamente su Mercurio, che sembra così contemporaneamente il segreto (ermetico) conoscitore e l'oggetto del conoscere: CW 14, dal par. 705 fino alla fine. 74. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 11, p. 532. 75. - "La moltiplicazione[ ... ] consiste nel ricominciare l'operazione già eseguita, ma con materie esaltate e perfezionate, e non con sostanze grezze[ ... ]. Tutto il segreto[ ... ] è una dissoluzione fisica in Mercurio[ ... ]" (RULAND, M. Lexicon alchemiae. Frankfurt 1612). L'implicazione è chiara: l'operazione richiede di sciogliere la fisicità di un impulso (una "proiezione", come la chiamano anche gli alchimisti) di nuovo nello psicologico (Mercurio); e, anziché operare secondo le grossolane sostanzialità di oggi, cioè i materialismi sociologici comportamentisti, ricominciare il lavoro psicologico, ma adesso con maggior sottigliezza. 76. - La figura è di nuovo quella di Mercurio mu/tiflores "che ci tenta verso un mondo di sensi", e la cui abitazione è nelle vene gonfie di sangue (JUNG, C.G. CW 13, par. 299). Una fondamentale massima alchemica dice che l'opera è rovinata se la "rubedo avviene troppo presto"; in questo caso, se l'opera entra nel mondo prima di aver tinto l'anima.

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COSA L'ANIMA VUOLE La fantasia dell'inferiorità in Adler Intanto, povero sempre [Eros]; e non è affatto delicato e bello, come perlopiù si crede; bens1: ispido, scalzo, senza tetto; giace per terra sempre e nulla possiede per coprirsi; riposa dormendo sotto l'aperto cielo nelle vie e presso le porte. Insomma riferisce chiara la natura di sua madre [Penia], dimorando sempre insieme con "povertà". Platone*

1. Scrivere all'anima Prudens quaestio dimidium scientiae

Ogni analisi psicoterapeutica racchiude una domanda; e questa può venire tanto dal paziente, quanto da me che su di lui mi concentro. Io mi chiedo cos'altro egli vuole, oltre ciò che abbiamo cercato di formulare, così come il paziente cerca di scoprire il motivo vero per cui è venuto. E questa domanda non si presenta il primo giorno soltanto, ma si ripete, talvolta riproposta con intenzione, al fine di una consapevolezza maggiore riguardo all'analisi. Tuttavia le risposte ad essa non sono mai semplici come quelle che si leggono nei libri, dove è detto che il paziente chiede di essere amato, o guarito da un sintomo, o che vuole trovare, salvare o migliorare una relazione, sviluppare tutte le sue potenzialità, oppure essere preparato alla professione di analista. Né la domanda può essere soddisfatta semplicemente enumerando le esigenze del terapeuta: aiutare qualcuno, stabilire profondi rapporti con la gente, guadagnarsi da vivere standosene in poltrona, indagare * PLATONE Il Convivio. Tr. it. in: I Dialoghi, voi. I, Rizzoli, Milano 1964, 2• ed. 113

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la psiche, risolvere i propri complessi. Infatti, ciò che io voglio e ciò che vuole il paziente sembra sempre complicato da un altro fattore, quasi un filo che tira indietro, un'esitazione riflessiva che impedisce all'affermazione di ciò che realmente si vuole di trovare un'espressione diretta; tanto che, anche quando si arriva a toccare le proprie intenzioni, subito esse negano se stesse: "Non è questo, assolutamente. Non è affatto quel che intendevo". Mi sono ormai convinto che l'incertezza riguardo al vero motivo per cui il paziente ed io ci troviamo lì, è appunto il motivo per cui siamo lì: questo terzo fattore, che sembra mantenere intenzionalmente mutevoli ed enigmatici i nostri scopi, e che ci incalza con la sua domanda anche mentre rifiuta le nostre risposte. Questo momento di intervento riflessivo, questo terzo fattore nell'esperienza terapeutica, lo attribuisco all'anima./Sono convinto che il paziente ed io siamo trattenuti nell'artalisi psicoterapeutica perché è lei che lì ci trattiene con mezzi di ogni sorta, dalle ossessioni del transfert al persistere dei sintomi, all'enigma dei sogni: tutti fenomeni che non comprendiamo. Ma soprattutto siamo trattenuti da quella sensazione di volere qualcosa di profondamente importante, che non può essere mai identificato con quel che crediamo di volere. Questo indistinto desiderio ci fa provare inoltre una dolorosa inferiorità. Ci sentiamo inferi ori semplicemente perché non riusciamo ad afferrare per quale motivo siamo impegnati in un'analisi, che cosa essa sia, se stia andando avanti bene o invece non stia andando avanti per niente, e in quale momento essa finisca. E proprio perché ne sappiamo così poco, ci affidiamo così tanto ai positivismi: alle scienze positive, a ciò che di positivo è contenuto negli insegnamenti spirituali, alle posizioni morali delle ideologie. Ci aggrappiamo a queste festuche luccicanti e rigide, perché la base su cui ci troviamo, l'anima, è senza fine e inconoscibile. Quindi, in primo luogo, il nostro tema d'inferiorità nella 114

Le storie che curano

psicoterapia appare come quella mancanza - al di là delle effettive inferiorità del fallimento, della depressione, della ripetizione e della sofferenza, che costituiscono il contenuto della terapia-, come quel senso d'irrimediabile inadeguatezza che sta alla radice del nostro lavoro, e che la parola "anima" ci porta. Un modo per acquietare questa incertezza è quello di andare proprio all'anima, onde scoprire cosa vuole, indipendentemente sia dai resoconti del paziente che dalle diagnosi del medico. Già Tertulliano prendeva esplicitamente una posizione di questo tipo, quando nel suo De testimonio animae scriveva: Invoco una testimonianza nuova, o piuttosto una testimonianza che è più nota di qualunque memoria scritta [... ] più diffusa di qualunque opera pubblicata, più grande di tutto l'uomo [... ]. Or dunque accostati, o anima [... ], accostati e porgi la tua testimonianza.

La tradizione di parlare direttamente con l'anima risale ancor più indietro nel tempo, all'egizio stanco della vita che parla con il suo Ba, a Socrate con Diotima; e c'è più tardi Boezio, che è consolato in prigione dalla voce della filosofia, e Polifilo che, fra gli altri nel Rinascimento, conversa con la sua Polia; infine, ai nostri giorni, c'è il metodo terapeutico dell'immaginazione attiva, l'esempio offerto da Jung stesso, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Attraverso qualche esempio, tratto dalla mia pratica personale, potrete ora vedere come chiunque possa impegnarsi direttamente nelle conversazioni dell'immaginazione. Una donna di circa quarant'anni, che lavorava in una delle più importanti banche di Zurigo e vi occupava una buona posizione, una donna che proveniva dalla campagna e ora viveva sola in un grande casamento moderno, lontana dalla famiglia, senza un innamorato, e che sentiva in modo acuto la so115

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litudine murata e puntuale di segretaria, della sua vita efficiente, dal tenore elevato - con il segreto timore di impazzire, di fare qualche pazzia-, sognò un giovane sconosciuto, in camicia bianca e cappello verde, che si trovava in prigione. Emaciato, trasandato, si muoveva a scatti come un mimo o un acrobata, o come "qualcuno che sia pazzo". Nel sogno, lei voleva farlo uscire dalla prigione. Le dissi: "Ci vada con l'immaginazione, e parli con lui". Trovò facile entrare. Era una cosa inconsueta, ma lo fece. Gli pose delle domande: come si chiamava, da dove veniva, perché si trovava in prigione, cosa avrebbe potuto fare per liberarlo. Lui non parlava; non faceva che saltellare su e giù, dondolare la testa e comportarsi da matto. Alla seduta successiva la donna giunse in preda alla disperazione per quella visita al carcerato. Le dissi: "Continui ad andarci. Però, cerchiamo anche qui di scoprire se non ci sia per caso qualcosa in lei che lo induce a comportarsi in questo modo". Scoprimmo allora che era "arrabbiata con lui", perché lui non collaborava, non rispondeva, e sembrava non capire che lei cercava di aiutarlo. Cominciammo così a vedere che era lei il giudice, che lo stava giudicando anche adesso, in prigione, mentre andava per aiutarlo, e che quel suo fargli domande era un ulteriore processo. Non ci volle molto a capire chi lo aveva chiuso in cella. Tornò da lui, ma questa volta non disse niente, e nemmeno lui parlò. Si guardavano attentamente, attraverso le sbarre. Poi nell'immaginazione lei si ritrovò al di là delle sbarre, con lui; o almeno le sbarre non c'erano più. Lui le poggiò la testa in grembo e lei toccò il suo cappello verde, e disse: "Come va oggi?". Lui non rispose. "Ah, ancora una volta gli ho fatto una domanda - pensò lei - sto ancora cercando di cavargli fuori un'informazione, sto facendo ancora la poliziotta." Posò allora la mano sul cappello. Fece per dire: "Questo ti è d'aiuto?", ma si fermò subito. Poi, dopo aver trattenuto dentro di sé alcune uscite di questo tipo, tutt'a un tratto lo udì di116

Le storie che curano

re chiaramente: "Grazie. Sono stato così a lungo solo. Adesso non impazzirò". Sarete riusciti di sicuro a intravedere un abbozzo di risposta alla domanda "cosa vuole l'anima?". Per prima cosa andiamo da lei, così, semplicemente, e lasciamo che sia lei stessa a dircelo. Non sarà forse così facile, perché probabilmente non parlerà finché non saremo capaci di ascoltare. Soltanto quando la donna ebbe cessato di far domande (di fare un processo, di indagare) e di condannare (giudicare), soltanto quando anche lei fu dietro le sbarre e le sbarre che la separavano dall'uomo furono sparite, soltanto quando lei ebbe accolto in grembo la testa del giovane, la voce di lui risuonò in modo chiaro. E cosa voleva? Nient'altro, pare, che non essere lasciato solo, così da non diventare pazzo. La pazzia infatti {e la paura che la donna aveva d'impazzire) era stata l'unica maniera per far sapere che lui esisteva. Era stata la sua difesa contro la negligenza della donna, contro i suoi giudizi, la sua razionalità terribilmente efficiente. L'esempio che ora segue è quello di un uomo anziano, che aveva già superato i sessant'anni. Non aveva figli. Venne a Zurigo dall'estero, dopo la morte della moglie, affittò una cameretta, e cominciò a studiare tutto ciò che di psicologico riusciva a rimediare. Teneva un diario; eccone un passo: 27 agosto. Ancora molto freddo. Mi sono preparato un pranzo caldo, poi sono tornato a leggere Neumann. Poco dopo, la mia attenzione ha cominciato a divagare e ho udito chiaramente una giovane voce che diceva: "Dove sei stato, padre?". Poteva essere la voce di un ragazzo o di una ragazza. Se arrivo alla conclusione che, data la lettera di B., il padre del sogno è morto, allora io posso adesso assumere il ruolo del padre. Sto diventando padre. Se era un ragazzo a parlare, era forse il fanciullo divino che è in me? Oppure chi era? Se invece era una ragazza, presumibilmente sarà una figura d'Anima. Ma perché io divento suo padre? Sono smarrito [... ]. Più tardi, dopo ciò che in precedenza era avvenuto, ho 117

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cercato di riprendere contatto con la voce, usando le frasi più invitanti che potessi trovare, ma senza riuscirvi. Ma siediti comodo, vecchio sciocco, e ama quella voce.

Vi sarete certamente accorti del semplice e alquanto tragico errore di quest'uomo. Semplice, perché tutto quello che avrebbe dovuto fare era ascoltare la domanda del ragazzo dove era stato? - e cercare di rispondervi. Tragico, perché cercò di rispondere a quella domanda con psicologismi e interpretazioni, usò cioè la psicologia contro l'anima. Si potrebbe azzardare l'ipotesi che la sua risposta - tutti quegli interrogativi psicologici: data la lettera di B., sto diventando padre, è un ragazzo, è una ragazza, se è una ragazza allora ... - indica proprio il luogo dove era stato; e proprio perché si trovava al centro di uno sconcertante groviglio di deduzioni, non stava ascoltando. La voce del ragazzo, con la sua chiarezza semplice, irrompe nelle concezioni sistematiche rappresentate dal suo leggere Neumann, offrendogli una via d'uscita dal groviglio. Invece lui cerca di arrivare al ragazzo con l'introspezione, e in questo modo l'anima non si può raggiungere, come già abbiamo visto nel secondo capitolo. Né la si può far venir fuori semplicemente amandola, perché l'autoprescrizione "ama quella voce", in questo contesto, è ancora uno psicologismo. Il ragazzo non dice "amami". Gli domanda, a voce alta e chiara, "dove sei stato, padre?". Lui si era lasciato sfuggire il momento, e tutte le suppliche e gli allettamenti non valsero a farlo tornare. Come dev'essere sconcertante per persone intelligenti, competenti e mature, come questi due, l'uomo e la donna dei nostri esempi, doversi sentire umili fino a un'inferiorità così sciocca di fronte alle loro stesse immagini e alle loro stesse voci. Com'è difficile agire nel modo giusto con l'anima! È come se l'immaginazione di quest'ultima ci rendesse inferiori, con quel senso di colpa, di stupidità, di inesattezza che capita di provare a una persona in analisi; un soffrire senza dolore né 118

Le storie che curano

focus, oppure con unfocus sbagliato, in cui semplicemente si piange sulla propria inettitudine, ansiosi, senza capirci niente, pietosamente inferiori. Forse tutto questo accade non soltanto perché la terapia ci riporta a parti non sviluppate o perché essa è una situazione di potere e di dipendenza; forse la terapia invita l'anima, e l'anima costella un altro e diverso potere, che è sia la nostra inferiorità in sé sia quello che rende inferiore ad esso tutto ciò che siamo stati e che siamo. Osserviamo cpme si comporta l'anima, dopo averle chiesto che cosa vuole::'"Questa volta i nostri documenti sono il carteggio tra uno scrittore e la sua figura d'anima, che egli chiama Agatha. Il paziente era stato un famoso giornalista, dotato di intelligenza e talento superiori a quelli che il suo lavoro fino ad allora aveva messo in luce. Era ormai prossimo ai quarant'anni, quando cadde in una depressione legata all'invecchiamento: la fine delpuer significava la fine del talento e della fortuna. Era ossessionato dalla morte precoce, avvenuta proprio alla soglia dei quarant'anni, di Mozart, Pascal, Poe, Dylan Thomas, Nathaniel West, Thomas Wolfe, e di altri idoli di genio. Il suo scrivere era totalmente contratto, ed egli era governato dagli umori, dai bagordi e dall'ipocondria. In queste condizioni ebbe inizio la sua corrispondenza con l'anima. Ecco la prima lettera: Cara Agatha, sto leggendo ciò che Jung scrive a proposito dell'Anima, e questo mi ha fatto venire l'idea di scriverti. Leggo in Jung che esiste un mondo psichico oggettivo che chiamiamo inconscio, cui si può accedere attraverso l'Anima; nel mio caso, attraverso te. Mi ha sorpreso scoprire che talvolta l'Anima produce in un uomo umori che egli non comprende, e perfino sintomi somatici. Mi sembrava, ieri sera, che Hillman suggerisse che cercavi di venir fuori, dopo essere stata rimossa per vent'anni o più. È vero? Per favore, dimmi cosa vuoi. Il tuo amico William

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Abbiamo la domanda: "Dimmi cosa vuoi". Ecco la risposta di Agatha: Caro William, mi chiedi cosa voglio. Ho bisogno della tua compagnia, così come tu hai bisogno della mia. Voglio il tuo amore e la tua devozione. Devi dedicare a me la tua vita, e in cambio io mi darò a te. Devi però scoprire come essermi più vicino, equesto io non posso dirtelo. Devi essere tu a prendere la decisione, e questo è anche il modo per scoprire la vera natura della tua vocazione, che tanto ti ha angustiato in questi ultimi tempi. Dato che ho visto quello che hai fatto oggi, permetti che ti faccia qualche commento in proposito. Hai avuto una buona idea a scrivermi, ma fallo dal di dentro. Metti l'anima nello scrivere. Perché non lasci che l'immaginazione corra di nuovo libera? Ciò che stavi scrivendo non vale nulla, perché non te ne importa niente. Non ha nessun valore per te. Io ti aiuterò. Con affetto Agatha

Lui le rispose immediatamente: Cara Agatha, grazie per la tua risposta e per i suggerimenti a proposito del mio scrivere. Mi piacciono le tue idee, ma adesso vorrei chiederti qualche altra cosa. Che cosa stai tramando? Mi sono sentito ansioso. Voglio dirti che sono ancora spaventato per questo processo [... ]. Ma adesso dimmi, cara Anima, cos'è tutto questo che mi sta succedendo? Cosa stai tramando? William

La risposta fu la seguente: Caro William, mi sorprendi. Mi sono preoccupata di darti dei suggerimenti

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per il tuo scrivere e, anziché seguirli, mi volti le spalle e mi accusi di essere la causa della tua ansia [... ] . Un'altra cosa: non sono affatto così stupida come mi sembra tu creda. Io incarno ideali che tu apprezzi, quali la bellezza, la saggezza e la verità. In questi ultimi tempi ti sei stato a scervellare per capire in cosa hai fede, per sapere come davvero stanno le cose che ti riguardano, per scoprire quali sono i tuoi veri valori. Se mi stai più vicino, ti sarà più facile scoprire le risposte a queste domande, e aver fiducia nella tua particolare verità. Sempre tua Agatha

Agatha firmava le sue lettere con amore e fedeltà, e lo chiamava per nome. William firmava le sue con maggior reticenza, e spesso si rivolgeva ad Agatha con l'espressione "Anima", uno psicologismo. La loro corrispondenza, piuttosto formale, andò avanti per alcuni mesi; ma per quello che ora ci interessa, basti notare nuovamente che perfino quando l'anima risponde alle domande che in buona fede le vengono rivolte, essa non viene ascoltata. C'è una curiosa riluttanza, da parte di colui che interroga, a sottomettersi alle premure di lei, come se, nonostante le migliori intenzioni, volesse mantenersene al di sopra. Quel che dice l'anima non è considerato con altrettanta serietà di quel che dice lui: le richieste di lei vengono dopo le richieste di lui. Come il vedovo era interessato più alle proprie interpretazioni psicologiche della voce che alla voce stessa, così questo scrittore era interessato più alla propria ansia e alle sue cause psicologiche - e l'anima veniva usata per spiegare i suoi sintomi - che a quanto la figura gli diceva a proposito del bisogno che lei aveva di compagnia e devozione; il che aveva a che fare, naturalmente, con il bisogno di lui di lasciarsi andare a uno scrivere immaginativo. Avete notato che Agatha vuole che il suo valore le sia riconosciuto? Non vuole essere considerata dall'alto in basso, co121

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me un ~ssere inferiore, né che le si parli in modo stupido. Durante la conversazione con un serpente nero, una donna lo insultava chiamandolo "animale della fantasia". In seguito, questo serpente cominciò a stancarsi del livello della conversazione di lei, e rispose: "Ne ho avuto abbastanza di quello che pensi, dei tuoi bisogni e dei tuoi sentimenti. Me ne ritorno alla mia giungla e alla mia natura, finché non arriverai a questioni per me più importanti". L'ultimo di questa serie di esempi è quello di un giovane chirurgo, Ulrich, al suo primo tentativo di dialogo interiore. Comincia a parlare con una donna: Lei: Cosa vuoi da me? Ulrich: Vorrei parlare con te del mostro che ho sognato. Lei: È sempre pronto a saltarti alle spalle.

E qui interviene una voce interiore, che dice: "Sono tutte sciocchezze", la voce di una ragione scettica. Ed ecco che la donna riprende subito, chiedendo a Ulrich: "A cosa assomiglia?". E incalza: "Valuta l'immagine prima del contenuto. Poniti di fronte a lei, guarda chi è a parlare, altrimenti sarai catturato da ciò che vien detto". Ulrich: Ha un aspetto molto severo, è un uomo grigio, la sua

faccia è grigiastra. Donna: Dagli un nome. Ulrich: Non saprei quale. Donna: Dagli un nome, uno qualsiasi. L'uomo grigio: Non ha senso darmi un nome. Ulrich: Lo chiamerò l'Uomo. L'uomo grigio: Ma è tutta una fantasia.

Queste poche battute già danno un'idea di cosa vuole l'anima. Per prima cosa lei chiede a lui, a Ulrich, cosa vuole, come se, in questo caso, ciò che si vuole da lui è che esprima le sue richieste in modo chiaro (così come, prima, lo scrittore dove122

Le storie che curano

va scoprire "come avvicinarsi di più", perché Agatha non poteva dirglielo). La donna adesso vuole che il nostro giovane chirurgo sia preciso, che si faccia un'immagine esatta, con un nome preciso, del suo scettico interiore. (Si noti che allo scettico è consentito soltanto un discorso indiretto.) E, come negli altri esempi, Ulrich non ascolta affatto ciò che gli viene chiesto. Chiama la figura semplicemente "grigiastra", tenendola nel vago, e "l'Uomo", mantenendola impersonale, a distanza, anonima. È vero che dire "l'Uomo" è un modo simbolico di parlare, per indicare genericamente l'essere uomo, l'uomo nella sua gioventù; ma in questo caso, non dando pieno ascolto alle istruzioni dell'anima, Ulrich rivela di essere in segreta alleanza con la persona piena di dubbi che è dentro di lui, con il suo scettico anti-psichico. E così i suoi dialoghi con l'anima finirono poco dopo il loro inizio. La mia intenzione nel riferire questi dialoghi non è quella di trarre conclusioni generali a proposito dell'anima; non sto servendomi di essi per costituire una prova empirica a dimostrazione, per esempio, che questo è il modo in cui l'anima parla, che l'anima sa ciò che vuole, e ha infallibilmente "ragione"; oppure che le voci che ho affermato parlassero per l'anima sono proprio l'anima. Quello che intendo sostenere, a questo proposito, è soltanto che sono queste le voci delle nostre immagini; e poiché, come Jung diceva, "l'immagine è psiche", dove è possibile sentire cosa vuole l'anima se non nelle immagini, che nell'intimo parlano alle nostre condizioni psichiche? Esse sono inoltre le voci del mondo infero, di quelli di laggiù, gli inferiores, che parlano sotto voce; e questo mondo infero è il luogo preminente dell'anima (un tema che ho ampiamente sviluppato in Il sogno e il mondo infero). Gli inferiores sono i daimones che abitano le regioni inferiori; Ombra è il termine psicologico che li designa; e noi siamo indeboliti, umiliati, costretti alla vergogna, quando queste figure dicono cosa vogliono. Non tanto perché spingano ad azioni basse, quanto perché li abbiamo nascosti, li abbiamo trattati 123

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con vergogna, umiliandoli con il nostro non ascoltarli, curandoci poco delle zone più basse della nostra società psichica. Questi dialoghi non intendono dunque dimostrare un'ipotesi, e nemmeno un insieme di fatti, ma vogliono presentare un modo di far terapia, un metodo, ripreso da Jung, basato sull'impegno attivo nell'immaginazione, e in particolare nell'immaginazione inferiore: immagini di esseri inferiori e immagini che ci fanno comportare in modo inferiore; un metodo ben diverso dalle discipline spirituali, che si concentrano sn ideali e mete superiori. Il nostro metodo, inoltre, non interpreta l'immagine, ma parla con essa. Non chiede cosa quell'immagine significa, ma cosa essa vuole. E dunque il nostro primo approccio con la domanda "Cosa vuole l'anima?" non produce una risposta sostanziale, cosa vuole, ma una risposta di metodo, come scoprire cosa vuole. Questo metodo di ricerca è simile allo scrivere romanzi, e talvolta viene anche denominato "fantasia creativa". È ungenere che si avvicina molto al Bildungsroman: un resoconto istruttivo dei molti incontri attraverso i quali l'autore riceve un'educazione, nel nostro caso da parte dell'anima. Ci sono tuttavia differenze tra lo scrivere romanzi e l'immaginazione attiva, e alcune le abbiamo già menzionate. La differenza che qui mi preme sottolineare riguarda l'intervento attivo, nella narrazione, dell'interlocutore stesso. Questi dialoghi esigono che anche l'autore assuma una parte nella sua storia, che tenti per tutto il tempo di svolgere il ruolo del personaggio principale, la prima persona singolare, l"'io", quanto più possibile aderente al realismo sociale; come Carlos Castaneda, per esempio, che mantiene la sua parvenza di realismo sociale recitando il ruolo dell'intervistatore antropologico, nei suoi dialoghi immaginari con Don Juan. Anche quando l'immaginazione situa il racconto alla Corte Suprema, o in una Clinica Psichiatrica, o nell'harem dello Sceicco d'Arabia, si presume che l'io rimanga il suo "effettivo e reale sé", appassionatamente coinvolto, sempre tuttavia interrogante; un personag124

Le storie che curano

gio inventato della realtà abituale, necessario allo stile della storia, come il meticoloso scrivano-autore che riferisce le straordinarie avventure di Adrian Leverkiihn nel Doctor Faustus di Thomas Mann. Compito di questo sé ordinario è di farsi educare (o guarire) dal fatto stesso di perseguire il proprio destino, il destino della propria anima, perseverando nella domanda "Cosa vuole l'anima?", attraverso tutte le vicissitudini e le deviazioni che l'immaginazione crea. Soprattutto, vorrei che rilevassimo da questi documenti il fraintendimento che inevitabilmente si verifica. Quanto poco comprendiamo la psiche! Anche con le migliori intenzioni, sembriamo pasticciare, e vi ho citato dialoghi acuti, di persone sensibili e seriamente impegnate. Ce ne sono molti altri, che esordiscono semplicemente così: "Bene, chi sei, cosa vuoi?" quasi che, fucile alla mano, si fosse scoperto un intruso nel ripostiglio; palesemente minacciosi e privi di ogni curiosità. Se c'è qualcosa con cui si dovrebbe usare abilità e attenzione, questa dovrebbe proprio essere l'anima. Dopo tutto, viviamo con lei fin dalla nascita, e con lei dormiamo ogni notte. Cosa potrebbe esserci di più importante? Eppure, se foste impegnati in una lezione di guida o di cucina, prestereste, a ciò che viene detto, maggior attenzione di quanta non ne rivolgessero queste persone alle lori voci più intime. Benché la terapia spinga verso le relazioni e le comunicazioni umane, non sappiamo neppure ascoltare e parlare nel modo giusto con noi stessi. Le nostre figure interiori, come il serpente, scivolano via offese. E quando finalmente riusciamo a sentire, quasi inevitabilmente partiamo con il piede sbagliato, facendo tutti gli sbagli possibili, come il vedovo che prescriveva a se stesso di amare, mentre non era questo ciò che il ragazzo chiedeva; o come il giovane chirurgo che diceva: "Non saprei quale nome". Quel poco che abbiamo visto conferma qualcosa che è stato detto da Jung: anche se tutti abbiamo una psiche, non tutti siamo psicologi. Non si è psicologi per natura. La psicologia 125

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va conquistata perché non è data; e senza un'educazione psicologica non riusciamo a comprendere noi stessi, e facciamo soffrire i nostri dèmoni. Ciò fa capire che una motivazione per una psicoterapia, di qualsiasi scuola e per qualsiasi disturbo, è quella di procurarci psicologia - un logos dell'anima che è al tempo stesso una therapeia dell'anima. Dobbiamo procurarci la risposta intelligente che rende l'anima intellegibile, un'abilità e un ordine che la capiscano, una sapiente destrezza che si prenda cura con la parola delle sue necessità. E se il logos è la sua terapia, perché articola le richieste della psiche, allora una risposta al "cosa l'anima vuole" è la psicologia. La psicologia del profondo ufficiale ha già dichiarato cosa vuole l'anima. Proprio il fatto che essa voglia è per la scuola esistenzialistica una rivelazione della sua natura. E ciò che essa vuole è il riflesso del timore, quel vuoto abisso su cui poggia l'esistenza psichica (Dasein). Sulla richiesta dell'anima l'esistenzialismo ha costruito la sua Weltanshauung. Se la domanda è intesa in senso freudiano, allora la richiesta dell'anima si riferisce al desiderio dell'Es, un desiderio di soddisfazione libidica. Di nuovo, si costruisce una visione della realtà e di un io che possa provvedere tanto alle richieste dell'anima quanto a una realtà che nega tali richieste. Considerate invece nel senso di Jung, le richieste dell'anima sono il terreno dell'intenzionalità psichica. L'anima cerca il mistero iniziatico (teleté), che significa anche adempimento. Le richieste dell'anima sono teleologiche perché essa non è differenziata, non è completa né congiunta: il processo d'individuazione, la cui meta (telos) è la totalità, risponde alle richieste dell'anima. Questi tre esempi dimostrano che la domanda che ci siamo posti si apre sui principali presupposti della psicologia del profondo. Vediamo anche che questi principali presuppostiil timore, il soddisfacimento del desiderio, la totalità - sono risposte metapsicologiche alla domanda dell'anima. Nel dia126

Le storie che curano

logo le voci rispondono con più precisione, ma in ciascun caso suscitando inferiorità, sia come sentimento in chi interroga, sia come parte dell'immagine della voce. Le voci non fornivano una risposta metapsicologica generale, ci mettevano invece di fronte all'immediata relazione psicologica con l'anima, e in termini di inferiorità. E per giungere a un contatto più stretto con l'inferiorità, un punto che sembra così centrale per la nostra domanda, torniamo alla storia della psicoterapia e a prospettive più teoriche. Come vi aspetterete, la nostra attenzione dovrà rivolgersi al pensiero di Alfred Adler.

2. La poetica della terapia adleriana Chiunque s'interessa alla "psicoanalisi" e cerca di farsi un'idea abbastanza completa dell'intero settore della moderna psicologia medica non dovrebbe tralasciare di studiare gli scritti di Adler. Ne trarrà i più preziosi stimoli[ ... ]. C.G. Jung*

Chi oggi si occupa di psicologia del profondo riconosce in Alfred Adler uno dei tre capostipiti< 2 > di questa disciplina. Dopodiché, però, egli tenderà a non occuparsi più di lui. Non esiste un Archivio Adler; non un volume delle sue lettere; rare le fotografie, e anche nei riti della pop-psicologia viene menzionato ben poco. Adler proveniva dalla provincia austro-ungarica del Burgenland (la provincia di Liszt e di Haydn), era un medico generico con specializzazione in oftalmologia, un ebreo che in seguito si convertì al protestantesimo. Era tarchiato, pallido e grassoccio, con sopracciglia marcate. Aveva combattuto sul fronte russo durante la prima guerra mondiale, e trascorse la maggior parte della vita a Vienna. Era più giovane di Freud di circa quattordici anni e più vecchio di Jung di cinque, quando, a trentadue anni, nel 1902, fu chiamato da Freud a far parte di un piccolo circolo, formato da * JuNG, C.G. Prefazione a W.M. Kranefeldt, "La psicoanalisi". Tr. it. in: "Opere", vol. 4, Boringhieri, Torino 1973, p. 349. 127

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cinque persone, la comunità psicoanalitica degli inizi. Pochi anni dopo, nel 1907, l'anno che vide la pubblicazione dell'opera classica di Jung Psicologia della dementia praecox, Adler pubblicò il suo classico Studie iiber Minderwertigkeit von Organen, che dieci anni più tardi venne tradotto in inglese con il titolo Studies of Organ lnferiority and its Psychical Compensation. Lo scarso interesse con cui la fatica di Adler è stata accolta è in parte dovuto all'uomo stesso, la c1.1Ì~ffabile arguzia e acuta intelligenza venivano spese nel raccontare barzellette nelle conversazioni al caffè, o celate in uno stile letterario che nella stessa frase semplificava all'eccesso un concetto e insieme lo ingarbugliava. Un uomo la cui sensibilità psichica era rivolta al godimento della musica e del canto, nonché a sarti, insegnanti, operatori sociali: una clientela ben diversa da quella di Freud e di Jung. Un uomo il cui successivo isolamento - in contrasto con la stoica nobiltà da patriarca che Freud dimostrò di fronte al dolore, o con la cultura eccezionale e d'imponenza gotica di Jung - fu un tormentato esilio in un appartamento di New York durante la grande depressione, le serate passate al cinema anziché nella Schreibstube. Un uomo che morì, a 67 anni, per la strada, in una remota città della Scozia. Come i suoi grandi colleghi, anche Adler incarnò nella vita e nella morte le sue idee dominanti: l'inferiorità e la solidarietà proprie dell'uomo. Dopo la pubblicazione del carteggio Freud-Jung, del terzetto iniziale furono loro due che risultarono più che mai in evidenza. Particolarmente trascurata, da parte dei seguaci, fu poi la connessione tra il pensiero adlerìano e quello junghiano. P> Ellenberger, ad esempio, nella sua ampia e accurata disamina dei primordi della psicologia del profondo, nel capitolo dedicato ad Adler cita Jung solo due volte, e di sfuggita. Jung invece, che conosceva abbastanza bene le prime importanti opere di Adler, riassunse nei suoi scritti il loro contenuto, e in più occasioni dimostrò per lui apprezzamento. Duran128

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te il dissidio tra Adler e Freud, Jung si schierò in un primo tempo dalla parte di quest'ultimo, ma successivamente, in una lettera cruciale, gli sfuggì un lapsus calami, che rivelava la sua identificazione con Adler e la sua indipendenza. Jung e Adler hanno tuttavia ben altro in comune che la loro battaglia con Freud. Entrambi avevano subito l'influenza di Kant e Nietzsche, e si appoggiavano entrambi a fondamentali idee comuni - sia pure diversamente elaborate - quali il significato, l'individualità, la coscienza collettiva e il sentimento di affinità, gli opposti e la compensazione, la bisessualità della psiche. Se esistono delle corrispondenze tra Freud e Jung, ancor più numerose sono quelle tra Adler e Jung. L'opera di Adler ha introdotto nella pratica professionale quel motivo dell'umano destino che costituisce il tema di questo capitolo e insieme uno dei temi più importanti di questo libro: c_l.!1;:Jameçl.t;lsentimento 4'iIIlp~rfezione? Come viverlo? Se iridascuno di noi esiste un'inferiorità primaria, e tuttavia il fondamentale anelito umano è rivolto alla perfezione, come possiamo riconoscere la nostra bassezza e al tempo stesso innalzarci alle nostre altezze? Non è appunto questa la guarigione che cerchiamo? Essere sollevati da quella duplice maledizione contenuta nel nostro mito occidentale: la visione di perfezione propria dello spirito e la fondamentale limitatezza propria della materia; due finzioni archetipiche, che hanno determinato anche il doppio senso implicito in una "richiesta", un bisogno che spinge e insieme un vuoto, una mancanza. Ancora su questo tema: qual è la connessione tra il luogo della finzione nella guarigione cercata e il luogo della psiche, tra perfezioni dello spirito e limitatezze della materia? È Adler lo psicologo del profondo che considerò questi temi - la duplicità, l'inferiorità, la perfezione, la finzione, proprie dell'uomo - come fondamentali costruzioni per la propria metafora della natura umana. Forse sarebbe meglio immaginare queste costruzioni come finzioni, se si vuole essere fedeli ad Adler. Infatti, nonostante 129

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la caratteristica tetraggine del suo stile, egli è meno letterale e privo d'immaginazione di quanto potrebbe sembrare, tanto che tutte le sue costruzioni fondamentali possono essere lette come una poetica della vita, così come la teoria dei sogni di Freud e la teoria delle immagini archetipiche di Jung sono una poetica, sono opere immaginative.

a. Inferiorità d'organo e inferiorità dell'organico Già nei rituali medici egizi c'era una relazione tra specifici organi del corpo e specifiche immagini divine. Durante la preparazione di una mummia, i polmoni venivano messi in un vaso a forma di scimmia, gli intestini in un vaso con coperchio a forma di falco, lo stomaco in un vaso con testa di sciacallo, e il fegato in un vaso a forma di testa umana. Gli organi erano fisicamente posti sotto le "intestazioni" delle immagini divine, o delle strutture archetipiche cui s'immaginava essi corrispondessero o appartenessero. In tutta la medicina medievale, e ciò in parte grazie agli influssi di Galeno e del1' Islam, venivano attribuiti alle diverse regioni e ai diversi sistemi del corpo tipi di anime differenti: animale, vegetale, generativa, spirituale, sanguigna. In tempi più recenti, Platner (1744-1818) immaginò che ogni organo principale avesse una propria forza vitale, e Domrich, verso la metà del secolo scorso; mise in evidenza la relazione tra specifiche emozioni e organi specifici. Verso la fine del secolo, Wernicke riteneva che gli organi principali avessero specifiche rappresentazioni simboliche. Jung fa riferimento all'idea di Wernicke, e nelle Tavistock Lectures La sua teoria dell'inferiorità d'organo fu giudicata non abbastanza scientifica per i criteri del tempo: innanzitutto, perché considera gli organi come sistemi funzionali completi, in relazione con la costituzione che non è la stessa cosa dell'eredità; in secondo luogo, perché trascura il microlivello degli organi e le loro interrelazioni. Non è però il concetto fisiologicamente letterale di organi inferiori ciò che. attira la nostra attenzione, bensì l'aspetto psicologicamente immaginativo: la convinzione che tutta la nostra vita psicologica prenda le mosse da un senso di debolezza organica. Non tanto un organo inferiore, quanto un'inferiorità organica: noi, creature corporee, siamo deboli per natura, ed è proprio l'inferiorità ciò che sprona la nostra vita all'azione. Per dirlo con le parole di Adler: "Il senso d'inferiorità somatica che viene suscitato nell'individuo da uno degli organi diventa un fattore permanente del suo sviluppo psichico".< 13 > "L'organo inferiore è oggetto di particolare interesse e sollecitudine."< 14 > L'uno o l'altro dei nostri sistemi organici - la gola e l'ingoiare, le ginocchia e la loro flessione, la pelle con la sua sensibilità espressivo/protettiva - diventa il complesso o l'immagine su cui si polarizza la nostra atten131

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zione psichica; un po' come lapetite tache humide nel polmone di Hans Castorp originò l'immagine di una montagna incantata di attività psichiche. L'organo inferiore parla; esiste quel che Adler chiama "linguaggio degli organi", "gergo degli organi", che ci parlano di noi stessi, una volta che ne abbiamo imparato il linguaggio. L'organo leso ottiene la nostra costante attenzione: come un'immagine dominante, esso rappresenta "un'inesauribile miniera di materiali"< 15 > per le nostre fantasie psichiche e i nostri comportamenti psichici. Dunque, proprio questi punti inferiori, per lo "sviluppo più intenso che l'attenzione e la concentrazione conferiscono loro",< 16 > sono i luoghi di massima potenzialità. "Tutta la nostra cultura umana è fondata sui sentimenti d'inferiorità."< 17 > Però non dobbiamo prendere troppo alla lettera, e quindi in modo troppo restrittivo, il focus dell'organo, e neppure il sentimento d'inferiorità. Con ciò Adler intendeva anche quelle caratteristiche estreme di ogni tipo, ivi compresa la grande bellezza. Tuttavia la vita dell'anima deriva da un sentimento di singolare inferiorità - e quindi anche lo esige - che è localizzato in un'unica essenziale immagine organica, sicché quel locus diviene sia una pars pro toto della creaturale inferiorità in genere, sia, in particolare, un'immagine nella carne che, come un dèmone, guida e sorveglia l'effettiva crescita della vita psichica e individuale. Noi cresciamo intorno ai nostri punti deboli, e a partire da essi viviamo. E dunque, ogni fantasia di cura che perda questo senso di inferiorità organica, la sua particolare localizzazione in un'immagine corporea, perde anche, se si segue Adler fino in fondo, il senso stesso che è proprio dell'anima. Adler diceva, e anche lo sottolineava, in una lettera a Lou Salomé, che "Psiche è nome appropriato per il potenziale di vita di una creatura inferi ore". Come se il fatto stesso di avere senso dell'anima comportasse il sentirsi inferiori. La vecchia ricerca della localizzazione dell'anima nel corpo acquista ora, attraverso Adler, un altro 132

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significato: la nostra anima è il punto nostro di minor resistenza. Il focus di minor resistenza naturalmente è proprio il punto in cui la resistenza si raccoglie in difesa. Laddove siamo più sensibili siamo anche particolarmente ostinati; dove maggiormente siamo esposti, lì concentriamo tutti i nostri sforzi per nasconderci. Per la psicoterapia la teoria adleriana dell'inferiorità d'organo implica che ci si avvicini più che mai all'anima, quando ci si occupa più da vicino delle sue difese. Compito della terapia non è tanto far crollare le difese e superare le resistenze, quanto riscoprire la necessità di queste manovre, che sono appunto le risposte della psiche alla propria debolezza. L'anima è fatta delle sue stesse difese. Il concetto adleriano di inferiorità d'organo offre diverse intuizioni terapeutiche. Sposta innanzitutto "l'inconscio" da una regione mentale a un'esperienza di inferiorità vissuta. L'inconscio è l'immediato patire una inadeguatezza; e produciamo inconscietà continuamente quando ci difendiamo dal sentirci inferiori. In secondo luogo, Adler suggerisce il valore dei sintomi somatici. Proprio perché ci richiamano alla nostra inferiorità, essi ci tengono in contatto con l'anima. Nei tuoi sintomi è la tua anima: potrebbe essere un motto. In terzo luogo, Adler dà una nuova formulazione all'antica tensione tra anima e spirito, e scopre che essa agisce nella vita umana fin dalla prima infanzia. La parte che dirige i suoi sforzi v,erso l'alto, storicamente considerata spirituale, spinge giù l'altra parte, giudicando se stessa perfetta, e femminile e inferi ore la sua partner. L'anima viene spinta dalla prospettiva gerarchica dello spirito in regioni che esso considera ancor più distali e basse, il corpo organico, laddove l'anima rivela la sua presenza in forma di sintomi.

b. Il pensiero nevrotico e l'Ermafrodito È nel nostro modo di pensare che l'inferiorità si rivela. Pro133

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prio per i sentimenti d'inferiorità e d'insicurezza, escogitiamo costruzioni mentali che tengano a bada questi sentimenti. E queste costruzioni agiscono come finzioni che guidano e come fantasie che governano, ed è attraverso esse che percepiamo il mondo. La più essenziale di queste protezioni nevrotiche, quella cui forse possono essere ricondotte tutte le altre, Adler la chiama "pensiero antitetico", un "tipo di percezione basata sul principio degli opposti". La mente stabilisce polarità opposte: forte/debole, sopra/sotto, maschile/femminile - e queste finzioni-guida determinano il modo del nostro sperimentare. Le antitesi dividono il mondo in maniera netta, e danno così la possibilità di esercitare un potere con azioni decise, preservandoci dal sentirci deboli e inefficaci. Ma ancor più importante di queste coppie, è il fatto che il pensare per opposti è di per sé un'indulgente protezione rispetto alla realtà vera del mondo, che per Adler è costituita invece da differenziazioni sfumate e non da opposizioni. Secondo lui, pensare che opposti astratti riflettano la realtà è un pensare nevrotico, perché tutte le antitesi in definitiva riconducono a quella costruzione di potere, quel superiore/inferiore incarnato nella società come maschile/femminile. Il pensare per antitesi non serve dunque una logica della realtà, ma una magia di potenza su di essa, e quindi è tipico del pensiero primitivo (come Lévi-Strauss ha "scoperto" nella sua" struttura binaria del mito). Tanto nella "mitologia, nelle leggende, nella cosmogenia (sic), nella teogenia (sic), nell'arte primitiva, nella produzione psicotica, quanto negli inizi della filosofia[ ... ] i fenomeni sono nettamente separati mediante la finzione astrattiva. La spinta a far questo[ ... ] nasce dalla tendenza protettiva". "Questo modo primitivo di orientarsi nel mondo ha anch'esso origine dal senso d'insicurezza[ ... ] e corrisponde alle categorie antitetiche di Aristotele ed alle tavole di opposizione di Pitagora[ ... ]. Al contrario di quanto si crede generalmente, non si tratta, in questo caso, di un' opposizione inerente alla natura delle cose."< 23 > 134

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Il motivo che sta alla radice del pensare per opposti è la coppia maschio/femmina, "l'unica vera antitesi", che a sua volta può essere ricondotta alla prima esperienza che di essa si fa nell'infanzia, l'"ermafroditismo psichico", un titolo questo che già nel 1910 Adler dette a un suo articolo. "La psiche ha tratti sia femminili che maschili" e, dall'infanzia in poi, noi identifichiamo con il femminile non solo la debolezza e l'inferiorità, ma anche l'ambivalenza causata dalla debolezza; tanto che perfino l'ambivalenza ermafroditica denota l'inferiorità, ed è "appercepita in un modo fortemente antitetico", tale da proteggerci da essa. La società ci convince che "soltanto due sono i ruoli sessuali possibili", e si verifica così una "dissezione". L'incertezza la si affronta con un taglio netto, o/o, quello stesso modo di pensare per alternative che Jung mette in relazione con la coscienza dell'io< 30 > e con l'unilateralità della nevrosi. Potremmo notare, a questo punto, che la "scoperta" dell'inconscio avvenne proprio nello stesso momento in cui fu "messa in luce" la bisessualità. Da allora in poi la psicologia del profondo - da Fliess, Weininger, Ellis e Lombroso a Freud, Adler e Jung fino a Neumann, al cervello bicamerale e alle mode dell'androginia - continua a mescolare tra loro questi due generi di natura duplice. La bisessualità diventa indistinguibile dalla bimentalità, cosicché i due tipi di attività mentale vengono etichettati con i segni del genere, e la mente divisa in se stessa è immaginata secondo la terminologia dei generi. Ho il sospetto che dietro questa finzione si nasconda una persona archetipica, proprio quella figura che Adler chiamava Ermafrodito; una figura che congiunge sì i due generi, ma che congiunge anche i temi essenziali della psicologia del profondo: i segreti ermetici e l'ermeneutica con l'immaginazione erotica, che sessualizza ciò che le accade. Ermafrodito è figlio di Ermes e di Afrodite. Lascia intravedere un intero mitema, che è contemporaneamente vergognoso, libidico, in135

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naturale, oltremodo bizzarro, e che pure attira verso il mistero, evocando una insaziabile curiosità. Questa figura si presenta a uno stesso tempo sotto forma di opposti antitetici, che sono la sua vera essenza, ma che non possono tuttavia essere presi alla lettera. Ci troviamo faccia a faccia con sconcertanti ambivalenze, un pruriginoso conoscitore (la componente sessuale dell'impulso ermeneutico) e un incomprensibile ignoto (la resistenza propria del segreto ermetico). Per quanto repellente possa essere una simile figura, essa è pur sempre il figlio di Afrodite, attraente e seducente. Come l'Ermafrodito, la psicologia del profondo offre sempre nuovi enigmi per ulteriori smascheramenti; può libidizzare senza erotizzare, e può trasferire la fantasia in amori impossibili, che non sono finalizzati alla procreazione naturale. La psicologia del profondo ha cercato di ridurre questi fenomeni a varie spiegazioni razionali, ma il fondamento mitico può essere meglio cercato nella figura che Adler ha evocato. Non solo Adler, ma anche Freud e Jung sembrano basare sull'Ermafrodito la loro visione dello scopo dell'analisi. Secondo Freud, questo scopo è nell'uomo superare la paura della castrazione, e nelle donne l'invidia del pene; secondo Jung, il fine è espresso dalle immagini sessualmente esplicite dell'incesto, un matrimonio sacro e una coniunctio ermafroditica. Soltanto la grottesca immagine di Ermafrodito consente una qualche comprensione del fatto che queste idee scientifiche, lucide e serie, siano espresse in una terminologia d'organo così particolare, quasi pornografica. Se restaurare l'ermafroditismo psichico, in un modo o nell'altro, è essenziale al concetto di cura in tutte e tre le forme di terapia del profondo, allora è controindicata ogni mossa disgiuntiva. Per arrivare a guarire, non possiamo allora contare sull'io, modellato com'è sull'eroe che impugna la spada della decisione. Ancora una volta, esso non è altro che una forma dissociante della protesta virile contro l'inferiorità; e il suo piede di Edipo, il suo tallone di Achille e la sua camicia di Er136

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cole sono i segni del suo innato ermafroditismo. L'ermafroditismo psichico mantiene le giustapposizioni senza sentirle come opposizioni. Le opposizioni tra coscienza e inconscio, maschile e femminile, positivo e negativo, anima privata e mondo pubblico, tagliano in due l'ambivalenza, che per l'ermafrodito è invece naturale. Ermafrodito offre infatti un'immagine in cui ciò che è naturale è l'innaturale, un'immagine primordiale del contra naturam. L'atteggiamento fisico dei corpi naturali e dei sessi biologici è rivalutato dalla configurazione della fantasia non-naturale. La natura è trasformata attraverso la deformazione immaginativa, la physis attraverso la poiesis. Questo ci dice anche quali siano le finzioni che curano: quelle assurde, irrealizzabili, non letterali, quelle da cui è organicamente bandita l'univocità di significato. Non è forse questa la finzione in sé? Ed è per questo che la psicoterapia, ridotta ormai alla disperazione dopo secoli di illuminismo, si rivolse ai miti per trovare sostegno alla sua terapia, perché senza mito l'Ermafrodito diventa un triste e strano transessuale, un caso letterale senza una vera storia nella trama che lo narra. Se Asclepio è una figura archetipica di guaritore, Ermafrodito è la figura archetipica del guarire, il guarire psichico dell'immaginazione, la finzione del guarire, il guaritore "finzionale" cui non si confà alcun pronome personale, impossibile nella vita e necessario nell'immaginazione. Questa figura contribuisce a farci rivalutare il modo di pensare per antitesi, che diventa un modo d'intuizione da fratelli siamesi. Non si è mai soltanto uno, ma sempre inseparabilmente legati in una sizigia, e le nostre intuizioni provengono da uno dei membri di una coppia. All'interno di queste coppie, arriviamo a poter riflettere l'intuizione stessa, a guardare il nostro stesso sguardo. Ogni intuizione presuppone una prospettiva donde essa sia colta: qualunque cosa mi appaia inferiore e debole è vista dalla parte del gemello della superiorità e della forza. Niente è così com'è. Non posso vedere una 137

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pagliuzza senza allo stesso tempo rendermi conto della mia trave. Così, quando c'imbattiamo nel pensiero per antitesi, il problema non sarà più come congiungere, come trascendere, come trovare un terzo sintetico, o come generare un androgino. Questo sarebbe infatti prendere le antitesi alla lettera, e impedirebbe alla mente di uscire dalle sue costruzioni nevrotiche, di spostarsi dai fatti freudiani alle finzioni adleriane. Il problema sarà invece questo: cosa abbiamo già fatto per perdere quel nostro gemello che a noi fu dato con l'anima? Il sentimento ambivalente, inferi ore e perfino vergognoso, del nostro ermafrodito psichico. Quella figura, celata negli "opposti" (usati come difesa contro di essa), è anche la figura assunta dalla terapia come meta nel suo lavoro; un lavoro davvero strano, veramente innaturale e fantastico, addirittura vergognoso.

c. Mete "finzionali" Il più importante e dannoso movimento di allontanamento dalla natura semplice dell'anima, Adler lo chiama "protesta virile", il bisogno di vincere, di essere i primi. Lo chiama anche "aspirazione ad emergere" o "superiorità", e in un primo tempo concepì per esso fondamenti diversi, quali il darwinismo sociale e la lotta per la sopravvivenza, l'inferiorità d'organo biologica e l'esigenza di superare la debolezza, o la nietzschiana volontà di potenza. (Nello stesso periodo, Jung< 36 > andava immaginando in forma di mito dell'eroe quel medesimo allontanamento: il movimento dall'ambiguità verso la coscienza solare diretta.) Via via che il pensiero di Adler andò maturando, egli smise di attribuire le radici dell'aspirazione ad emergere ad altro che non fosse l'essere umano individuale. Era sui generis, propria della natura umana, "una brama, un impulso, un qualcosa senza cui la vita sarebbe stata impensabile". c37 > Negli ultimi scritti, il primo piano e lo 138

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sfondo si invertono: non è l'inferiorità a spingerci verso la superiorità, ma i nostri sentimenti d'inferiorità derivano da un impulso "innato" alla perfezione. Non più l'anima timorosa, e la sua debolezza organica compensata dallo spirito più elevato, bensì lo spirito che aspira a più di quanto l'anima possa realizzare. Dobbiamo fare particolare attenzione a non ascoltare Adler soltanto con l'orecchio junghiano, a non considerare "la grande spinta verso l'alto", come Adler la chiama, quale il Sé in quanto realtà letterale. Questo punto è sottile, e importante. Adler dice: "Lavolontà di potenza è innata. Essa non va intesa in senso concreto, come se ci fosse una spinta[ ... ] capace di portare ogni cosa a compimento, e soltanto bisognosa di svilupparsi". c3s> Affermando questo, credo che egli intendesse operare una distinzione fra un finalismo spirituale intrinseco, che caratterizza tutti i tentativi psichici, e le mete "finzionali" attraverso cui l'anima immagina queste mete ideali. Raccomandava cioè di non intendere "innato" come impulso letterale (nel senso freudiano), o come fatto empirico per il quale raccogliamo prove (nel senso junghianò). Siamo sì protesi verso la perfezione, ma la perfezione non ha mete concrete, empiriche. Adler potrebbe dare una prima risposta al nostro interrogativo su cosa l'anima vuole, dicendo che l'anima vuole perché la sua causa finale, il suo telos, deve rimanere inadempiuto. Ogni suo movimento possiede per sua natura un fine, e tuttavia quest'intenzionalità non può essere formulata in una meta letterale. Ed è qui l'acutezza del pensiero di Adler, perché la sua "aspirazione ad emergere" è un concetto dello spirito, che non può essere fissato in nessuna delle sue epifanie, anche quando esso riempia di significato ogni aspirazione ad emergere. Qui Adler è più vicino allo Jung che considerava finale quel punto di vista presente in tutti gli eventi psichici - il suo considerarli dotati di un proprio fine - che non allo Jung 139

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propenso a letteralizzare il fine in un dimostrabile processo di individuazione del Sé. Ad Adler fu possibile questa mossa deletteralizzante, che né Freud né Jung riuscirono a compiere, perché egli si rifaceva a una fonte diversa dalla loro, vale a dire alla filosofia del "come se" (Als Ob), cui Adler riconobbe costantemente di dovere molto. Sebbene non sempre Adler sia capace di vedere i suoi stessi letteralismi come dei come se, nella sua psicologia niente è più caratteristico o più utile per noi del suo aver capito l'aspetto completamente "finzionale" della nostra mente. Come diceva Vaihinger "soggettivo equivale a 'finzionale' ". La psiche costruisce, inventa immagini, e la mente le segue come guide: "finzioni-guida" le chiama Adler. La perfezione è dunque una necessaria finzione, pragmaticamente necessaria, così come la verità "è semplicemente il più vantaggioso degli errori". c42 > Quando riconosciamo la meta della perfezione, verso cui orientiamo i nostri sforzi come verso un impossibile in ogni senso oggettivo e letterale, allora siamo anche in grado di riconoscere quanto questa percezione ''finzionale" sia necessaria. Le mete vengono lanciate in alto dalla psiche, come esche per il pesce vivo, finzioni per sollecitare e guidare l'azione. Come diceva Jung, "una meta spirituale che addita più oltre [... ] è una necessità assoluta per la salute dell'anima". Insomma, ciò che è fecondo, tanto in Adler che in Jung, non è la meta definita, il fine stabilito, ma il senso di un fine. È questo il punto di vista finalistico: "Non esistono processi psichici privi di scopo", dice Jung. Tutto ha importanza, tutto ha significato. Sentiamo di avere uno scopo, sentiamo che esiste una via e che per una via ci si sta muovendo, un processo in una direzione ben definita, che Adler chiamava aspirazione ad emergere, Jung individuazione. Al termine "via" può corrispondere in greco methodos, metodo. La realizzazione di ciò di cui Adler e Jung parlano è nella via o metodo della psicoterapia, il cui scopo essenziale è 140

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di mantenere, attraverso il proprio metodo, quel senso stesso di via. Possiamo tenere in movimento questa via soltanto facendo sì che il suo avere uno scopo non venga letteralizzato in mete definite. Le mete, soprattutto quelle più elevate e più belle, agiscono come idee sopravvalutate, fonti di delusioni, che sostengono le grandi volte della paranoia protettiva, quei pervasivi ideali di grandezza e importanza che oggigiorno caratterizzano le mete positive di tante scuole di terapia. Ne vediamo abbastanza gli effetti disastrosi nella vita di ogni giorno, dove il credere in un'idea fondamentale circa il proprio fine nella vita - quello che dobbiamo fare, la raison d'étre della nostra esistenza - fa sì che sia la meta stessa a bloccare la via. La psicoterapia rimane dunque con l'uomo inferiore, con le orbite più piccole delle vie intese ,come mete; forse, si potrebbe definire anche come il metodo del piccolo, dove il piccolo è la via. Nella misura in cui una meta è una storia che mostra una via, essa è storia che cura. "Essere curato": questa è la meta che ci porta in terapia, e di quella meta siamo guariti quando la riconosciamo come storia. Ecco che allora la meta come storia è diventata una realtà psichica essa stessa, così che la via è diventata davvero la meta. Questo metodo di cura deletteralizzato, così ironico, sfuggente, paradossale, che sembra al tempo stesso soddisfare e frustrare i nostri sforzi (come se i due sensi del verbo "volere" improvvisamente si congiungessero), rivela la coscienza mercuriale di Ermes, Guida delle Anime, Guida delle Vie. La cosa migliore che la psicoterapia possa fare è dunque sintonizzare il senso della finzione; sarà possibile allora guardare in trasparenza, come a finzioni-guida, quelle mete cui la terapia rivolge i suoi sforzi: la maturità, il completamento, l'interezza, l'attualizzazione. In tal modo esse non chiudono la via. La terapia non è più un ausilio alla "grande spinta verso l'alto", ma è un lavoro di deletteralizzazione di quelle finzioni in cui il fine si è fissato e dove, attraverso le proprie me141

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te, ci si sta davvero difendendo dall'innata direzionalità dell'anima. Questa è una terapia di prospettive. Le mete dello spirito non diventano dunque illusioni che devono essere cinicamente minimizzate perché sono "soltanto" finzioni. Semplicemente, non le ascoltiamo nei loro termini letterali, come mete e verità. Come prospettive "finzionali" o come fantasie esse sono utili e feconde, poiché il valore di una finzione consiste nel fatto che essa è "un errore consapevole, pratico, uti-

le". È come se il senso della finzione diventasse la meta della psicoterapia e dovesse essere la via attraverso cui perfezionarci. Ciò fa pensare che l'unica possibile perfezione voluta dall'anima sia la perfezione della capacità di comprenderla nella sua finzione, di coglierla nelle sue immagini; lei stessa una finzione tra le finzioni. La terapia sottopone l'anima a un processo che dissolve le sostanziazioni< 47 > di sé, trasformandole in prospettive. Il metodo del "come se" tiene aperta la via, e sembra questo il punto in cui l'approccio adleriano si avvicina di più all'idea religiosa che meta finale sia la via stessa, in questo caso la via della finzione.

d. Gemeinschaftsgefiihl Il quarto importante elemento della teoria adleriana è il Gemeinschaftsgefiihl, il sentimento comunitario o interesse sociale: "Ci rifiutiamo di riconoscere e prendere in considerazione un essere umano isolato", perché non è possibile sfuggire alla "ferrea logica del vivere comunitario". Nonostante questo letteralismo della dottrina, permane la distorsione soggettivistica adleriana, perché l'interesse sociale non è un fatto sociale ma un sentimento sociale, "quel sentimento di intima appartenenza all'intero spettro dell'umanità",

sub specie aeternitatis. La ferrea logica inerente all'esser parte di una società non è considerata dal punto di vista sociologico, bensì da quello psi142

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cologico. Non si tratta semplicemente del fatto che la società viene per prima, ma che la psiche è intrinsecamente mitmenschlich. Ciò che interessa Adler non sono le mere circostanze, ma il loro significato< 52 > per l'individuo, compreso il suo interesse sociale. Dobbiamo avere ben chiaro che l'interesse sociale di Adler, dal primitivo socialismo marxiano al successivo idealismo altruistico, era psico-sociale, come l'interesse di Freud per la sessualità era psico-sessuale. Tanto Freud che Adler furono in seguito letteralizzati da menti meno sottili delle loro. Così come è sbagliato ritenere che l'interesse di Freud fosse rivolto alla sessualiià in sé e per sé, è altrettanto sbagliato ritenere che l'interesse di Adler fosse riposto nella società (o quello di Jung nella religione). È l'intrinseco altruismo della psiche quello che Adler formula nella sua psicologia, così come Freud elabora la sessualità della psiche e Jung la sua religiosità. Essere sociale è dunque una necessità dell'essere umano. E quanto più quell'essere è pieno e maturo, tanto più questo interesse sociale determina il comportamento e gli obiettivi di una persona. In quanto esseri animati, noi ci sentiamo naturalmente legati a tutto il genere umano, passato, presente e futuro; e mentre Jung dimostra questo legame universale in modo oggettivo, in forma di modelli archetipici che si ripetono attraverso la storia, la cultura, l'istinto, Adler è interessato invece al sentimento e all'azione di questo legame: in che modo esso agisce nell'uso che se ne fa. Come si comportano gli esseri umani rispetto al loro modo altruistico di sentire la comunità universale? Lo sfondo filosofico è qui l'etica di Kant: l'imperativo delle relazioni umane. Ma, nel mondo, in che modo l'ideale etico kantiano si salda con una nietzschiana volontà di potenza? Risposta: nel mondo! L'apparente conflitto tra "le due grandi tendenze", l'innato Gemeinschaftsgefuhl e l'innata spinta alla superiorità, nella teoria di Adler è risolto mediante un'idea di ragio143

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ne, anch'essa derivata da Kant. Perché una finzione-guida sia euristicamente utile e non sia nevrotica, dev'essere ragionevole e riflettere conclusioni sensate, generalmente valide, sul mondo com'è. Si è superiori soltanto se si è ragionevoli, il che significa riconoscere l'interesse sociale, sì che le proprie azioni siano superiori dal punto di vista del mondo, e per gli altri siano di utilità. Per Adler, quindi, il genio non è un uomo speciale, in anticipo sul suo tempo, ai margini della società: "Un uomo di genio è in primo luogo un uomo di utilità suprema". "L'umanità chiama geni soltanto quegli individui che hanno molto contribuito al benessere comune. Non possiamo immaginare un genio che non abbia lasciato dietro di sé un qualche vantaggio per l'umanità."< 55 > La fantasia di superiorità al grado estremo, la fantasia del genio, è anch'essa al servizio del Gemeinschaftsgefuhl. Il genio è infatti colui che è più degli altri capace di percepire la ferrea logica della vita comune, e di portare ad espressione la "generale interdipendenza del cosmo, che vive all'interno di noi, dal quale non possiamo astrarci completamente e che ci fornisce la capacità di 'sentire dentro', vale a dire di collegarci empaticamente con gli altri esseri". Se dunque rivolgiamo di nuovo ad Adler le domande: "Cosa vuole l'anima? Qual è la sua intenzione innata?", adesso ci risponderà che l'anima vuole la comunità, vuole vivere secondo ragione in un inondo che rifletta il significato cosmico, allora, adesso, e sempre; dove l'anima, quale potenziale di quest'ordine, lotta per un fine e a ogni atto dà significato, come se ciascun atto "contribuisse" alla vita, facendola muovere verso la perfezione, comune e cosmica. "Dare un contributo è il vero significato della vita."< 57 > Ma - e questo "ma" è veramente grosso - "il regno dei significati", dice Adler, "è il regno degli errori", tanto che ogni significato attribuito a quel che l'anima vuole - e Adler dice che ci sono tanti significati quanti sono gli esseri umani "comporta più o meno un errore". Ciò che l'anima vuole 144

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dev'essere dunque una comprensione "finzionale" ed erronea di ogni significato che essa stessa propone. Può essere questa l'unica via che consenta alla comunità umana proprio quella perfezione che Adler immagina. Non possiamo rispondere alle richieste dell'anima con una certezza, con una meta, senza renderci conto, nello stesso momento, che questa meta è una finzione, e che letteralizzarla è un errore, sia pure un errore necessario. È certezza identificarsi con un significato unico; il proprio e privato significato viene posto in una "posizione di finalità", il che serve soltanto a isolarci, frustrando il nostro innato altruismo, e allontanandoci dalla comunità umana. Questo isolamento è anche pazzia. ("Il grado più alto dell'isolamento è rappresentato dalla pazzia."< 60 >) Perciò anche la stessa meta adleriana della comunità, se presa con letterale certezza, può isolarci, come possiamo vedere nel caso di riformatori, filantropi e terroristi. Quanto più sono identificati con certezza nel loro Gemeinschaftsgefiihl, tanto più diventano isolati e pazzi. (Tuttavia, nel momento della frustrazione e dello smarrimento, si legano empaticamente proprio alla comunità che avevano cercato di dominare.) Il Gemeinschajtsgefiihl non può rispondere a ciò che l'anima vuole, né può farci conoscere la sua meta; può servire soltanto come strumento per riflettere tutte le nostre mete. Contengono esse un contributo, un sentimento per gli altri? Il Gemeinschaftsgefiihl ci dà così modo di scoprire le nostre finzioni che ci isolano, e i nostri errori. Se mai siamo in comunione, è proprio nell'empatia dei nostri errori e in quella tolleranza non priva di umorismo che il senso della finzione ci dà/ Noi siamo umani non tanto in virtù delle nostre mete ideali, quanto per il difetto proprio della nostra inferiorità. Quindi .il senso dell'imperfezione, quello che Jung chiamò Ombrq;; è l'unica possibile base per la meta adleriana del Gemeinschaftsgefiihl. Anche Jung diceva la stessa cosa: 161 > "La relazione non si basa sulla [... ] perfezione[ ... ], si basa piuttosto sull'imperfezione, su quanto c'è di debole, indifeso [... ] 145

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che è il vero terreno e il motivo della dipendenza". Terminare con una citazione di Jung sarebbe trascurare la distorsione adleriana. L'Ombra della debolezza non è soltanto morale, è anche umoristica. Il migliore accesso all'imperfezione è l'umorismo, l'autoironia, lo sciogliersi in una risata, la capacità di accettare un'umiliazione, che non richieda poi compensazioni verso l'alto. Il senso dell'imperfezione può essere una via al sentimento comunitario. Un'altra via, ancor più sicura, è quel legame così umano che è il senso dell'umorismo.

3. Il senso della finzione in psicologia archetipica La psicologia individuale [... ] non pretende di essere tanto un sistema di ipotesi da controllare, quanto un sistema di finzioni.

Tanto Freud in una lettera a Jung, che Jung in una lettera a Freud, affermano che Adler non è psicologico, e cosa essi intendessero con tale affermazione possiamo cominciare a capirlo adesso; infatti, avendo esaminato la prospettiva adleriana, possiamo ora notare meglio le restrizioni che Freud e Jung avevano imposto alla psicologia. Se non tiene conto di - Adler, la psicoterapia restringe la sua visua\e, e perde una parte del suo terreno originario. Quando Freud e Jung usavano il termine "psicologia" loriferivano, naturalmente, ai loro progetti - comporre cioè una mappa della mente profonda, dei suoi livelli e dei suoi dinamismi invisibili - con cui spiegare tutti i comportamenti evidenti della vita umana, dai sintomi e dalle opinioni alla religione e alla cultura. Per psicologia essi intendevano una descrizione esplicativa e particolareggiata di quegli oggettivi ma invisibili processi che, a livello universale, si svolgono al di sotto dell'esistenza dei singoli individui. Freud e Jung erano creatori di miti, cosmogonisti, e le ben note differenze tra le 146

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loro costruzioni del mondo erano sì importanti, ma non fondamentali, se confrontate con quella di Adler. Adler infatti stava facendo qualcosa di diverso, e già questo è notevole. Immaginate di essere nella ristretta cerchia di Freud da circa nove anni, proprio fin da quando il suo genio cominciava ad emergere, e di essere nel contempo anche nel1' orbita della personalità di Jung, e tuttavia non solo di concepire e conservare una psicologia differente, ma anche di lavorare partendo da premesse talmente diverse da dare una diversa idea della psicologia stessa. Adler non si propose di costruire un oggettivo sistema esplicativo. Non aveva regioni, livelli, psico-energetica di nuclei, catexi, conversioni o poli, né una cosmologia popolata di dèmoni in volo. Non era un mitologo. Le .differenze, tra Adler da una parte e Freud e Jung dall'altra, sono state spesso interpretate in termini di fondamenti filosofici diversi e di diverse influenze sociologiche. Ellenberger rileva invece una differenza più interessante e più psicologica. Egli ritiene che i principi fondamentali di Freud e Jung siano nati dall'interno delle loro stesse esperienze, durante le loro "malattie creative". Visioni personali di tipo sciamanico divennero sistemi dottrinari che convalidavano se stessi, e che ebbero poi bisogno di essere rafforzati con la verifica empirica e l'indottrinamento dei seguaci (analisi didattica). Le idee di Adler riflettono invece "ricerche cliniche oggettive". Quindi, così si potrebbe supporre, egli cercava non tanto la convalida, quanto la deletteralizzazione metaforica. Non sono qui del tutto d'accordo con Ellenberger. Di nessuno dei tre si potrebbe dire che fosse meno oggettivamente empirico o più solipsisticamente paranoide. Secondo me, Freud e Jung appartenevano alla tradizione profetica dei vecchi saggi, sul cui sfondo si muoveva il senex archetipico. La psicologia di Adler, nella misura in cui egli tendeva a dirci come vivere e quale significato dovrebbe avere la vita, rimane una psi147

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cologia soggettivistica ed ermeneutica. Essa ci riporta sempre a noi stessi, alle nostre finzioni, ai nostri impulsi di potenza, alle nostre inferiorità. Dove Freud e Jung ci danno dei significati, Adler ci costringe a guardare in trasparenza i nostri significati. In questo, Adler è precursore di quella che adesso viene chiamata "coscienza post-moderna"; più di quanto non lo siano Freud e Jung, quando si pronunciano sulla natura oggettiva della psiche e ci offrono sistemi di ipotesi metapsicologici. Adler ha invece aperto la strada alla psicologia come modo di finzione. Mentre la psicologia del profondo classica s'irrigidisce nell'ortodossia, le idee di Adler offrono ad essa qualcosa di più; ma la minacciano anche, più di quanto non facessero cinquanta o settanta anni fa, quando venivano considerate oggettivi concetti sulla coscienza, piuttosto che un metodo della coscienza. Adler era un fenomenologo che voleva capire la coscienza dal suo interno, e senza ricorrere a strutture ad essa esterne, che di essa sono sempre e comunque finzioni. Così egli scrive: "L'inconscio [... ] non si nasconde in qualche inconscio o subconscio recesso della nostra mente, ma è una parte della nostra coscienza, di cui non abbiamo compreso appieno il significato". Ciò che deve essere compreso, insieme alla vera natura della stessa comprensione psicologica, è la natura di finzione propria della soggettività. Allora l'"inconscietà" si riferisce essenzialmente al fatto che noi non siamo chiari a proposito delle finzioni soggettive che danno stile alla nostra vita. In termini nostri: diventare "coscienti" significa riconoscere le fantasie che si stanno rappresentando attraverso ogni comportamento; e il bisogno di comprensione psicoterapeutica che ha la psiche significa che essa chiede di diventare consapevole delle sue .fantasie. Osserviamo, ad esempio, come Adler affronta la sempre ricorrente domanda sulla mente: cos'è la sua follia? Qual è la distinzione fra normale, nevrotico e psicotico? Freud e Jung 148

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affrontano entrambi questo problema in termini di relazione soggetto-oggetto, e in termini di energetica. Ed entrambi danno spiegazioni sistematiche, dinamiche, scientifiche. Adler, invece, dà una spiegazione ermeneutica, restando completamente entro l'ambito della coscienza e di come essa intende il mondo. (''Gli esseri umani vivono nel regno dei significati", così si apre uno dei suoi libri. 168 >) La pazzia non è questione di energia che si fissa o si ritira, di circostanze del passato, di unilateralità non compensata, di conversione in tossine; la pazzia è una questione d'interpretazione, una poiesis delirante, una vera malattia mentale, un disordine psichico, di cui non si può dar conto in termini oggettivi. Dice Adler: "Non ho difficoltà ad accettare le geniali concezioni di Vaihinger, il quale sostiene che di fatto le idee tendono ad evolvere da finzioni (costruzioni non reali ma utili dal punto di vista pratico) ad ipotesi e infine a dogmi". "Questo cambiamento di intensità distingue, in linea generale, il pensiero dell'uomo normale (la finzione come espediente) da quello del nevrotico (il tentativo di realizzare la finzione) e dello psicotico ([ ... ] reificazione della finzione: dogmatizzazione)."169> La persona normale, dice Adler, prende principi-guida e mete in modo metaforico, con il senso del "come se": per essa "sono figure retoriche", costrutti euristici, pratici. "Il nevrotico invece, [... ] si aggrappa al filo di paglia della finzione, la ipostatizza, le attribuisce un valore reale," ed infine, nelle psicosi, essa è elevata a dogma. "Il simbolo come modus dicendi domina il nostro linguaggio e il nostro pensiero."< 10 >È il letteralismo che fa la pazzia.< 71 > Ma allora, se il passaggio dalla salute alla malattia mentale si distingue per i gradi di letteralismo, ciò significa che la strada terapeutica, per tornare dalla psicosi alla salute mentale, è quella di ripercorrere all'indietro lo stesso passaggio ermeneutico: la deletteralizzazione. Per essere sani mentalmente, dobbiamo riconoscere come finzioni le nostre convinzioni, e 149

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guardare in trasparenza come fantasie le nostre ipotesi. La differenza tra pazzia e salute mentale non dipende, infatti, dalla società o dalla politica, dall'educazione o dalla chimica, dipende interamente dal nostro senso della finzione. Ma non basta: anche il prendere alla lettera una qualsiasi delle ipotesi, l'educazione o la chimica, la società o la politica, come fosse l'effettiva verità e la ragione della malattia mentale, è in sé malattia mentale, questa volta in forma di una finzione esplicativa presa alla lettera anziché in modo euristico. Ma perché il letteralismo? Anche a questa domanda Adler risponde rifacendosi a Vaihinger, il quale osservava che il senso del "come se" comporta una "situazione di attesa [... ] un sentimento spiacevole (per cui] può essere spiegata del tutto naturalmente la tendenza dell'anima a mutare ogni ipotesi in un dogma". Per liberarci dalla tensione dell'ambiguità, ci buttiamo verso la pazzia del letteralismo, e in qualche forma di attività. La "protesta virile" che, eroica, agisce all'esterno, non può reggere l'innata tensione, descritta altrove da Adler come ermafroditismo psichico. Qui ci sentiamo vicini alla nostra inferiorità. È questa la condizione di quando si sta facendo un tentativo; è qui che le nostre ipotesi si sentono meno certe e positive, e le nostre convinzioni vulnerabili. Se accettiamo di rimanere in questa condizione di ambiguità, non riusciremo più ad esser così letterali in tutto, e avremo quindi minori possibilit.à di finire nei deliri della nevrosi e della follia. La salute psichica esige dunque che si resti all'interno dell'ermafroditismo psichico, perché esso costella quei sentimenti d'inferiorità che impediscono il letteralismo. L'immagine dell'ermafrodito mantiene la tensione. La moderna terapia adleriana, che enfatizza il senso dell'umorismo e il paradosso (il junktim adleriano)< 15 > come modalità di cura, riflette la figura stramba e scomoda dell'ermafrodito, un'immagine che impedisce, come il senso dell'umorismo, come la metafora, il letteralismo dell'antitesi. Anche la terapia adle150

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riana invoca l'aiuto della consapevolezza metaforica: nòi stessi tradotti fuori dall'unilateralità; tutte le posizioni viste come figure retoriche di un discorso le cui stesse parole vengono deletteralizzate, al modo di una battuta scherzosa o di una poesia. Niente si può prendere in modo positivo senza perdere anche il sentimento d'inferiorità; e quindi l'inferiorità è una chiave per il senso di realtà psicologico, metaforico. Quel che è poetico, ecco diventa pratico, e quel che è positivo diventa folle. Guardiamo la vita con occhio poetico: "Capire uno stile di vita è come capire l'opera di un poeta. Un poeta deve servirsi di parole, ma noi dobbiamo leggere fra le righe". Da parte di freudiani e junghiani ci sarà la tendenza a considerare non-psicologico questo modo adleriano di addentrarsi nella psicologia della follia e della salute psichica; e ciò ogniqualvolta essi prenderanno troppo alla lettera le loro finzioni-guida. Quando Adler afferma che "si deve evitare di prendere la finzione sessuale, questo, per così dire, modus dicendi o, come l'ho chiamato io, questo gergo sessuale, come un'esperienza originaria"< 11 > (cioè alla lettera), allora i freudiani sono obbligati a rivedere la loro dottrina metapsicologica della libido sessuale. Se, nella visione di Adler, i mondi privati e il pensare per antitesi sono manifestazioni nevrotiche, allora gli junghiani sono obbligati a rivedere le loro dottrine dell'introversione e degli opposti. Se junghiani e freudiani si rifiutano di porre entro la modalità del "come se" tutte le loro ipotesi, essi perdono contatto con quell'aspetto inferiorizzante di tentativo e di provvisorietà, insito in ogni enunciazione psicologica. Perdono così contatto con l'anima stessa, ericadono in una terapia basata sulle difese nevrotiche, elevate a principi teorici positivi. Ci siamo ora imbarcati in una critica adleriana della psicoterapia, sulla base permanente della nostra domanda iniziale: cosa vuole l'anima? Una volta ammesso che l'anima parla con la voce degli inferiores, di coloro che sono sottomessi, tenuti in basso e indietro, come i bambini, le donne, gli antenati 151

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e i defunti, gli animali, ciò che è debole e ferito, ripugnante e brutto, le ombre giudicate e imprigionate; una volta ammesso questo, il compito di ogni psicoterapia sarà allora quello di rimanere in contatto con questi inferiores, e da essi lasciarsi muovere. Da Adler abbiamo imparato però che c'è un ardente desiderio di lasciarsi l'inferiorità alle spalle, e che proprio da ciò vien fuori la nevrosi. Ma può diventare nevrotica anche la terapia quando, attraverso le sue letteralizzate finzioni di dottrina e professione, protegge se stessa dai suoi sentimenti d'inferiorità, che invece le sono necessari. Allora anch'essa perde coscienza, e proprio in nome della coscienza; e corre il rischio di diventare non più una terapia dell'anima per l'anima, ma un'attività di mondi privati, chiamati "scuole analitiche", che sviluppano uno stile di vita con il quale mantenere un predominio sùll'anima. Più o meno negli ultimi dieci anni, una critica della terapia è andata emergendo qua e là, fra vari studiosi che si occupano di psicologia junghiana, e talvolta sotto la comune denominazione di psicologia archetipica. I loro scritti presentano approcci nettamente simili ad alcuni aspetti del pensiero adleriano, così come io l'ho qui presentato. Vorrei passare in rassegna le loro opere: un piacere particolare per me, dato che essi sono anche colleghi ed amici. A Stoccarda, Wolfgang Giegerich ha portato l'esame delle finzioni entro la teoria stessa. Ha cercato di dimostrare che la nevrosi non è semplicemente una condizione in cui il paziente si trova e che la terapia cura, ma che essa s'incrementa e si consolida ogni volta che i concetti psicologici, entro cui la terapia si colloca, non vengono esaminati. Guarigione e cura, positivo e negativo, io e inconscio, matriarcato e stadi di sviluppo, non sono "realtà" letterali, ma finzioni o fantasie euristiche, che devono essere riconosciute come tali, se si vuole che la psicoterapia resti in contatto con quella che Giegerich chiama "la nevrosi della nostra disciplina". "La prima pa152

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ziente della psicologia deve essere la psicologia stessa."< 78 > Un appello analogo, affinché sia mantenuto nella teoria psicologica il contatto con l'inferiorità, è quello che ci viene da Mary Watkins, della Clark University, il cui interesse si è concentrato sui metodi dell'immaginazione attiva. Essa dimostra che proprio in quelle terapie il cui scopo è di curare le nevrosi operano concetti nevrotici. Nelle istruzioni P~!.J~vorare con le immagint n€!Uospaziointeriore, ,ciò che più spesso "vien-fuorièICteiitativo di dominare e di sfruttare la psiche più bassa, più oscura, più debole, più brutta, a vantaggio delle "finzionali" mete-di superiorità proprie dell'io. Ci domandiamo allora non cosa vogliono le immagini, ma cosa vuole il nostro io. La Watkins conferma con la sua opera un fondamentale atteggiamento archetipico, che ritroviamo tanto in Adler che in Jung: l'individuo si trova in un più ampio contesto di psiche, di Gemeinschaft; finché immagina l'anima come un luogo interno, privato e "proprio", allora sarà naturale per lui credere di poter dominare lo spazio dell'anima con le proprie intenzioni. A Zurigo, Adolf Guggenbuhl-Craig, in uno scritto breve ma fondamentale, cso> ha sviluppato il concetto di pensiero per antitesi, lungo linee che potremmo anche definire adleriane. Adleriano è anche il punto focale del suo pensiero: il potere, la tendenza alla superiorità, presenti in tutte quelle professioni che in qualche modo sono assistenziali, e la polarizzazione debole-forte (paziente e medico, alunno e insegnante, e così via). Queste antitesi distruttive si verificano, egli dice, quando il medico perde contatto con la sua vulnerabilità, l'insegnante con la sua ignoranza e l'operatore sociale con la sua asociale immoralità. L'assistere e il curare sono assolutamente subordinati, secondo Guggenbilhl-Craig, al mantenimento di una consapevolezza di quell'Ombra che è costituita dall'inferiorità. Un altro psichiatra junghiano di Zurigo, Alfred Ziegler, opera nel campo della psicosomatica e della ricerca meccanica 153

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sul sogno. I suoi studi< 81 > riprendono un altro dei temi di Adler: l'inferiorità d'organo. Ziegler deduce, dall'esame dei sogni e di quei sintomi che chiamiamo "psicosomatici", che la nostra sofferenza è psicofisica e sui generis. I sogni presentano statisticamente più dispiacere che piacere. Il corpo è cronicamente inferiore, e incurabilmente refrattario a quelle finzioni-guida che additano una salute libera da sintomi e una natura positiva, favorevole alla vita. I nostri sentimenti d'inferiorità esprimono la fondamentale inferiorità organica dell'essere umano psicofisico, il quale può esistere soltanto in uno stato di relativo malessere; e ciò perché si preservi quella base di tensione che è propria della sua coscienza. Da questo punto di vista, la perdita del senso dell'inferiorità organica non è soltanto delirante, ma è anche suicida. Un altro concetto di Adler, l'ermafroditismo psichico, è uno degli argomenti principali di Rafael Lopez-Pedraza, venezuelano. Durante i seminari tenuti all'Università di Caracas, egli ha via via elaborato quel genere di coscienza che è raffigurata nei miti di Ermes, così come di Psiche e di Luna; una coscienza che non perde mai di vista la sua debolezza, e che si mantiene sempre sulla linea di confine, senza operare scissioni in antitetici letteralismi di maschile e femminile, di bene e male, di progresso e regresso. Questi sono ammissibili soltanto come finzioni-guida, che devono essere giudicate soltanto p~r il loro uso terapeutico, per il loro effetto sull'anima. Lopez-Pedraza ha individuato nelle figure mitiche, particolarmente in quella di Ermes, una base archetipica per la coscienza, completamente diversa dall'io prometeico, con le sue necessarie opposizioni e letteralizzazioni. In alcuni articoli dedicati alle dee Gaia, Demetra e Persefone, Patricia Berry ha immerso il concetto d'inferiorità fin nelle profondità archetipiche, fino in quel vuoto che è all'interno delle immagini stesse del materno e del materiale. Il terreno a fondamento dell'essere è per sua natura ed essenza mancante, è sempre bisognoso: un bisogno che la terapia cer154

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ca di superare, nella pratica e nella teoria, con sostegni e consolidamenti di vario genere. L'opera della Berry offre un approccio nuovo a ciò che è inferiore e marginale, una via per ridurre o per ricondurre al vuoto come sostanza; in modo che la psicoterapia non debba più aver bisogno di essere un sistema di difesa contro le patologie, o sofferenze dell'anima, che sono anzi necessarie e che c'introducono in un territorio più profondo. Alla Sonoma State University, Gordon Tappan (che un tempo è stato adleriano, e in seguito junghiano) ha compiuto il passo successivo, ossia quello di combinare nell'educazione universitaria il sentimento d'inferiorità con il senso sociale. Il suo piano di studi, davvero innovatore, per la laurea in psicologia archetipica, è legato al suo ruolo di terapeuta-educatore all'interno di un gruppo sociale. Egli persegue uno degli interessi che per tutta la vita accompagnarono Adler, l' educazione, in questo caso mettendo in pratica il fondamentale bisogno che l'anima ha della mente, e che la mente ha dell'ani. ma. La sua opera, riunendo disciplina accademica e immagine individuale, tenta di sanare la divisione tra logos della psiche e terapia della psiche. Presso l'Università del Connecticut, Charles Boer e Peter Kugler hanno poi sviluppato una teoria della percezione che demolisce - cosa tentata anche da Adler - i concetti di mondi privati nella mente, di inconsci privati e di immagini sperimentate in modo privato: la loro teoria restituisce importanza al mondo della strada, qual è immediatamente immaginato. Questo ritorno della psicologia alla strada è l'intento principale dei programmi iniziati da Robert Sardello al Dallas Institute of Humanities. La sua metafora primaria, la Città, consente di perseguire gli interessi sociali ed educativi di Adler in una più profonda dimensione psicologica della cultura. Esaminando per mezzo di un approccio metaforico e immaginale la nostra vita quotidiana nelle città, i suoi studi raggiun-

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gono il risultato di stabilire una relazione fra l'anima della città e la Città dell'anima. C'è infine la ricerca di Paul Kugler sul linguaggio d'organo, le parole che nel corpo trasformano il corpo in immagine verbale. Kugler ci inoltra ancor di più nell'idea che le nostre finzioni-guida possono in particolare essere colte nei modus dicendi, in quelle parole che "dominano il nostro linguaggio e il nostro pensiero" (Adler); e così ci offre un nuovo approccio alla poetica della psicosi, a quell'innata follia che è nel linguaggio catturato dalla lettera. Motivi di spazio mi impongono di limitare questo excursus• - una esposizione del mio Gemeinschaftsgefiihl - a scarne annotazioni su poche persone; non posso tuttavia proseguire senza menzionare l'opera significativa di David Miller e di Rudolf Ritsema. Tra i molteplici e complessi contributi di Miller, voglio qui segnalare il suo metodo, che non è dato tanto dalla sua cultura diligente, e nemmeno dalla ricerca e dalle idee che ne derivano, ma dalla simultanea deletteralizzazione della cultura e delle idee, attraverso iljunktim adleriano; la metafora, la giustapposizione verbale, il rovesciamento e la combinazione inconsueta di pensieri, campi e periodi; e più in particolare attraverso l'humour, che fa scintillare in ogni frase un senso di finzione. Il suo stile sfocia in un metodo dell'intelletto psicoterapeutico, perché la sua è una serietà che evita la scrupolosità letterale dell'io. Egli tenta unapoiesis di ciò che è borderline, cercando d'impedire che la mente si spacchi in quelle scissioni chiamate sano e insano. L'attento esame che Rudolf Ritsema fa dell' I King< 81 > ha favorito l'intuizione psicologica anche nelle nostre abitudini linguistiche occidentali, dove particolarmente, e in modo invisibile, si annida la finzione letteralistica. Ritsema ci mostra come aderire all'immagine usando parole. La sua "sintassi dell'immaginale" debella quegli abiti mentali che si basano sulla causalità e sul pensiero lineare, sulla positività delle af156

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fermazioni e sui dogmi, proprio quel procedere verso la follia da cui Adler ci metteva in guardia. L'esame che Ritsema fa dell' I King suggerisce anche altro: quei due pali di totem, che dall'Isola Orientale come muti giganti di pietra stanno a guardia degli approcci all'analisi- intendo il Maschile e il Femminile - sono monolitici concretismi moderni, sono una coppia di antitesi nevrotiche sostanzializzate; e nessun sostegno essi possono trarre dal gioco fluido delle immagini di Yin e Yang, il quale è sempre sottile, differenziato, preciso. L'opera di questi amici, come i miei vari saggi sul fallimento, la depressione, il tradimento, il suicidio, l'esser feriti, l'anormalità, l'invecchiare, e come il mio prendere orientamento dal mondo infero, può contribuire alla confluenza nella psicoterapia contemporanea di una corrente radicata nell'esperienza dell'inferiorità. In un certo senso, noi siamo come i taoisti della psicoterapia, che stanno dalla parte di ciò che è basso, oscuro e debole, o dalla parte dell'inferiorità della disciplina, data dalla bassezza, dall'oscurità e dalla debolezza dell'anima. Da un altro punto di vista, operiamo come lo Zen, nel tentativo di guardare in trasparenza le finzioni soggettive della coscienza, e così dissolvere quei letteralismi con i quali essa si identifica e che poi chiama metodi per divenire coscienti: il pensare per opposti, l'inventare mondi privati per la soggettività individuale e quindi sistemi concettuali oggettivi per rendere ragione di questi mondi; oppure il crearsi la finzione di mete, con tutti gli ottimistici sentimenti che ad esse si accompagnano. Il nostro Zen sta in guardia, affinché i concetti della psicoterapia e le sue teorie degli invisibili non coprano la dura presenza dell'anima.

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4. Il senso comunitario L'unica caratteristica comune a tutti i disordini mentali è la perdita del sensus communis [senso comune e senso comunitario] e il compensatorio sviluppo di un sensus privatus del ragionare. Immanuel Kant

Torniamo adesso al nostro interrogativo iniziale su cosa l'anima vuole, e ad alcuni dialoghi a questo proposito. Rispetto ai precedenti, le difficoltà di ascoltare l'anima sembrano minori, cosicché abbiamo maggiori possibilità di udire cosa essa vuole. Il primo esempio è quello di una giovane insegnante tedesca, divorziata, che viveva con la figlia. Essa personificava quel che Jung chiama un Animus fortemente sviluppato, e Adler una protesta virile. Anche la figlia, una ragazzina adattabile ma decisa, non portava con sé i suoi valori di anima, essendo una copia più giovane della madre. Nella fantasia della donna appariva invece un'altra ragazzina, "come se" fosse una figlia: scura, con grandi occhi, come se ne vedono nei manifesti per la fame nel mondo o per l'infanzia abbandonata. Talvolta questa ragazzina era anche un ragazzino tra i sette e gli undici anni: l'ermafrodito psichico. Ci inseriamo nella conversazione proprio al punto in cui viene posta la nostra domanda. Donna: Ma allora, cosa vuoi? Bambina: Essere lasciata in pace e non dover fare sempre qualcosa. Mi stai sempre addosso. Donna: Voglio che tu cresca.

(Da notare che siamo già passati a ciò che vuole la donna. La bambina è sulle difensive.) Bambina: Cosa ci si guadagna a crescere? Donna: Non sarai più una simile lagna. 158

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Bambina: Se devo crescere per far piacere a te, non voglio crescere! Donna: Testona!

(Scrive la donna: Ero furibonda, e respiravo con molta fatica.) La bambina comincia a piangere, poi dice: "Insegnami. Io non so, ma vorrei imparare". (A questo punto la donna si scopre a singhiozzare: si tratta dopo tutto di un'insegnante. Disse che stava piangendo "non come una bambina, ma come se stessa". Si rendeva conto che era questa bambina della sua anima la ragione per cui lei era un'insegnante - per vocazione e per professione.) La sera seguente il dialogo riprese: Donna: Prima mi hai detto che vuoi esser lasciata in pace, poi mi dici: "insegnami". Non ti capisco. Bambina: Proprio non mi capisci. Donna: Se ti lascio in pace non ti insegno, e se ti insegno non ti lascio in pace. Con te, proprio non so come comportarmi. Bambina: Con me non sai come comportarti. Donna: Mi fai sentire una stupida. Mai mi sento così inferiore come quando sono con te. Bambina: Bene, ora mi puoi insegnare. Donna: Continuo a non capire. Bambina: Quando capisci non puoi insegnarmi, perché allora non rispetti la mia ignoranza. Per te, capirmi è diventato starmi sempre addosso. Ti prego, insegnami le cose che sai, le cose che leggi. Insegnami la psicologia, insegnami della psiche. Voglio imparare a pensare, a capire, non come comportarmi.

Vorrei sottolineare qui la stretta e reciproca relazione tra pensiero e sentimento, che non sono in antitesi: qui, sentimento nei confronti della bambina significa insegnarle a pensare. Di questo dialogo è possibile indicare anche il contenuto adleriano: solo quando lei diventa inferiore alla sua inferiorità, ha inizio la terapia di quell'inferiorità che è la bambina. 159

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Ma il mio scopo principale, con questo brano narrativo del1' anima, o immaginazione attiva, è quello di mostrare come la psicologia sia importante per la psicoterapia, e che l'anima vuole imparare la psicologia; essa vuole di se stessa formulazioni ben ponderate. È questo un modo della sua guarigione. La donna obbedì: cominciò a leggere di psicologia in modo diverso, non imparandola in cerca di un'informazione da applicare all'educazione, né per diventare analista, ma mettendola in relazione con la sua esperienza, e particolarmente con la sua inferiorità, la sua bambina debole e taciturna. Mi piacerebbe leggere alcune altre pagine, di altre persone, che illustrano questo desiderio che ha l'anima di psicologia, di senso e di intelligenza psicologici, di un uso della mente accresciuto, accurato, penetrante. Talvolta le figure d'anima dicono: "Non essere così sciocco"; oppure: "Usa la tua intelligenza"; o ancora: "Basta con queste chiacchiere, e pensa a ciò che stai dicendo". Quest'altro esempio riguarda un inglese, e risale a molti anni or sono, al dopoguerra. Durante la sua eroica vita militare, nelle colonie britanniche, era stato ferito alla spalla sinistra in modo tale che anche il cuore ne era rimasto leso. Nell'immaginazione che segue egli ha appena cominciato un dialogo con una negra, gobba e deforme, che si chiamava Sheba. Sheba: Non sopporto che tu mi veda. Perché sei venuto? Non lo sopporto. Vattene! Mark: Come potrei? Sarebbe come chiedermi di abbandonare il mio cuore e il mio braccio sinistro. Sheba: Io sono il tuo cuore e il tuo braccio sinistro. È così che appare in te la mia schiena deforme. Mark: Nello stesso momento i giapponesi colpirono anche te, non è vero? Sheba: Sei stato coraggioso. Mark: Proprio da te un complimento? Sheba: Sei coraggioso. Mark: Posso toccarti? 160

Le storie che curano

(Lui scrive: Sheba è in piedi, nuda, in una stanza verdolina. È terribilmente deforme: piegata in due, con la parte posteriore della testa un po' più in basso, rispetto al punto più alto della gobba. Il suo corpo è molto sottile e conserva le tracce di una passata bellezza. Lui le si avvicina e le accarezza lentamente la gobba. Lei piange.) Sheba: Non avrebbero dovuto farti entrare. Lasciami, lasciami!

Mark: Tornerò.

(Lui la lascia, come lei vuole, dimostrando una notevole sensibilità riguardo al momento d'interrompere. Il giorno successivo, passeggia con lei lungo l'argine del Tamigi, parlando mentre cammina, e annotando poi il colloquio in un secondo tempo.) Sheba: Non ero mai uscita prima.

Mark: Mai? Sheba: Non così... non per conto mio. Soltanto nel caos dell'essere di un'altra donna. Il suo essere si confondeva con il mio, tranne quando io volevo spingerla via da te. O te via da lei ... (nel dir questo respira affannosamente) Più piano, per favore. Mark (rallentando il passo): Va bene così? Sheba: Ancora troppo veloce. È la prima volta, capisci? Mark (camminando il più piano possibile): Va bene ora? Sheba: Se vuoi che stia con te, ogni tanto devi rallentare tutto - il passo, il pensiero, il parlare.

(Giungono ad un angolo dove il traffico è intenso e veloce.) Sheba: Oh, sono sgomenta.

Mark: Piano! Va tutto bene. Ti piace, tutto questo? (mentre insieme attraversano la strada) Sheba: Tu non puoi capire, se ti dico che questo momento è il più felice della mia vita: essere così, a passeggiare fuori con te. 161

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Condurre l'anima per strada, e prendersi cura di lei per la strada, non nel caos dell'essere di un'altra persona, non in privato, nei propri dialoghi e nelle proprie emozioni interiori. Ma la psiche nella vita, via via che si procede: ecco la saggezza salomonica che questa Sheba insegna. Una caratteristica di questo dialogo è apparsa prima nel dialogo di Ulrich, il giovane chirurgo. Quando si arriva molto vicini all'emozione, ecco che si passa al discorso indiretto, come se la persona-io cercasse di prendere le distanze dall'intensità immaginale. Nel caso di Ulrich era l'uomo grigiastro quello cui Ulrich non consentiva di parlare in modo diretto. Nel caso di Mark ciò avviene nel momento in cui vede Sheba nuda, negra e deforme, nel momento in cui tocca il suo corpo. La loro relazione nel mondo, per la strada e nel corpo, riconnetteva Mark non soltanto con la sua perdita d'anima (Anima) "nel caos dell'essere di un'altra donna" e nel suo passo troppo affrettato, ma anèhe con il suo coraggio fisico, con il suo amore per la vita. Adler diceva che il coraggio senza uno scopo è del tutto inutile. Sheba, riconoscendo il valore di Mark, gli restituisce quel coraggio che lui aveva avuto durante la guerra, quando trovare uno scopo non era difficile. Adesso, lei mette il coraggio in relazione con se stessa, i dialoghi attraverso i quali lui faceva anima. Tutto il loro incontro, compresa la passeggiata per la strada, costella il coraggio necessario ad incontrare l'anima brutta e storpia, e a prendere la propria inferiorità altrettanto sul serio quanto l'intenso traffico della strada. Le implicazioni più radicali, più filosofiche, del dfalogo tra Mark e Sheba emergono ancor meglio nel prossimo brano; questa volta si tratta di un analista eclettico e di vasta esperienza, venuto a Zurigo per approfondire il suo training junghiano. Ancora una volta il dialogo con l'anima prende le mosse dal nostro ritornello: 162

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Lui: Che cosa vuoi? "Voglio uscire", dice una voce che egli chiama in vari modi: "voce dell'anima (Anima)", "voce dal petto", "la mia persona". Lui: Uscire! Sembra che tu sia prigioniera. Voce dell'anima: Non ti dico questo. Non ti sto rimproverando. Nel bene e nel male tu mi tieni dentro. Per proteggermi. Ma io voglio uscire. Lui: Ma io non capisco ... (La solita frase!). Mi ci son voluti tanti anni, per trovarti e portarti dentro quale fattore psichico, come dice Jung, in modo da poter avere dialoghi come questo; e lasciarti uscire significherebbe ricominciare con tutte quelle proiezioni. Voce dell'anima: Hai paura a lasciarmi uscire; e allora mi tieni "nel male": non proteggi me, ma te stesso. Io sono prigioniera. Lui: È il fatto che io ti voglia tener dentro e psichica che ti rende prigioniera? Voce dell'anima: Prigioniera della tua psicologia. Tu mi hai imprigionata nel tuo sistema psicologico, impedendomi di apparire là dove mi piace. Lui: È il modo in cui lo dici che mi spaventa. "Dove ti piace" vuol dire seduzioni dell'Anima, di nuovo speculazioni su sciocchezze, a inseguire un'oca selvatica, una fantasia. Quando tu sei "fuori", io divento una stupida oca. Non posso permettermelo. Devo proteggermi.

Era insoddisfatto di una simile situazione di conflitto: lui guardiano della sua stessa anima. Lei lo lasciava perplesso. Da una parte, quando l'aveva vinta lei, non si sentiva adeguato; dall'altra, quando l'aveva vinta lui, diventava duro e ipersicuro. Cercava un modo per essere più morbido e malleabile, e allo stesso tempo non così vulnerabile da doversi proteggere e chiudere del tutto. Due giorni dopo tornò al dialogo: Lui: Sono stato troppo duro con te. Non ascoltavo. Interpretavo e raccontavo a te le mie paure. 163

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Voce dal petto: Non preoccuparti. Non c'è fretta. Mi piacciono i tuoi errori. Lui: Anche quelli nei tuoi confronti? Voce dal petto: Ogni volta che fai un errore, ti avvicini un po' di più a me, e diventiamo più chiari l'uno all'altra. La cosa peggiore che puoi fare nei miei confronti è di essere in posizione di predominio. (Notare di nuovo l'espressione adleriana.) Ormai ti sei accorto che mi trovavi soltanto quando eri malato, quando avevi disturbi cardiaci. Lui: Ma proprio i miei errori sono ciò che ci tiene lontani. Voglio dire, questo errore di interpretare sempre e di non ascoltare. Voce dal petto: Non è poi così importante, se riesci a percepire che i tuoi errori hanno a che fare con me, e questo ti preoccupa e ti rode dentro; se senti che quanto è successo di recente, come due giorni fa, ti logora. Ecco perché mi piace l'analisi, e perché sei un buon analista. Tutto questo ti preoccupa, ti rende inquieto, come un sassolino nella scarpa: ad ogni passo sei un pochino ferito. Lui: Posso tornare alla mia domanda? Voce dal petto: Certo. Non c'è bisogno che tu mi chieda il permesso: ecco un altro errore. Parlami direttamente. Che cosa hai in mente? Non essere così circospetto.

Notate come è difficile, anche per un analista sottile come questo, trovare il giusto modo di parlare con l'anima. Vedete come diventa sottomesso e inferiore, laddove gli altri assumono una posizione di dominio? Veniamo adesso alla parte più filosofica, che riguarda le intenzioni dell'anima. Lui: Vorrei sapere cosa intendi per "voler uscire". Voce dal petto: Essere il grande per il tuo piccolo. Fintanto che sono dentro, nella tua interiorità, nella tua psicologia, nella tue proiezioni, non raggiungerò mai tutta la mia statura. Tu ancora non mi hai riconosciuto. Lui: Ma non dovresti essere dentro di me? La mia persona interiore? 164

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Voce dal petto: Tu ti blocchi sulle parole. Interiore significa semplicemente più profondo. Andare dentro significa semplicemente andare più in profondità nelle cose, nel loro cuore e nella loro anima. Interiore è un senso di ambiente interno, quella cavità nel petto che produce risonanza. Non si tratta di un luogo dove andare, e non significa tutte quelle cose che hai imparato e che hai inteso in modo così letterale: introversione, introspezione, interiorizzazione. Lui: Non so che altro dire. Voce dal petto: E allora non dire nulla.

Passò più di una settimana prima ch'egli riprendesse il dialogo, nonostante fosse rimasto alle prese con quel "voler uscire", senza trovarvi una soluzione. In realtà non fu lui a riprendere, ma gli accadde come per caso, dopo una nuotata nel lago. Nell'uscire dall'acqua, ebbe la percezione del suo corpo come avvolto nello spazio; uno spazio pieno di presenza, un'aria che aveva densità. Udì lei che diceva chiaramente, a voce così alta da sembrare un'allucinazione: "Adesso sono fuori. Adesso tu sei dentro". Quando mi raccontò questo episodio, feci alcune osservazioni a proposito della coagulatio dell'anima in alchimia; il suo diventare più spessa, che è percepito quale una presenza. Evidentemente, come in un processo chimico, era avvenuto questo: dopo una prolungata cottura, un mescolamento, un'attesa, tutt'a un tratto, come quando si fa una salsa, ecco la coagulazione. La loro conversazione continuò poi nel modo seguente: Lui: Adesso capisco: tutte le donne, tutte le cose in cui mi sono addentrato, nelle quali tu, Anima, mi hai condotto, e che io ho chiamato proiezioni, c'erano per darmi il senso di essere dentro, di essere più piccolo, inferiore rispetto a ciò in cui ero entrato. Ecco perché è stato sempre troppo. Ecco il segreto delle possessioni dell'Anima: dimostrarmi che a possedermi sei tu e che tu sei più grande di me. Se posso 165

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darti questo riconoscimento ... no, se posso conservare questa consapevolezza della mia inferiorità rispetto all'anima, che io sono sempre contenuto nell'abbraccio di uno stato psichico, allora non ho bisogno di essere posseduto per aver la prova di essere abbracciato. Voce dell'Anima: Io non posso garantirti nulla: non obbedisco alla legge di compensazione, sarebbe un rimettermi dentro qualcosa. Lui: Allora, è soltanto un sentire la tua presenza, tutt'intorno ame. Voce dell'Anima: Non è "soltanto", e non è un "sentire". Lui: Che cos'è allora? Voce dell'Anima: È un essere. Essere nell'anima. Lui: È questo che vuoi? Quello che l'anima vuole? Voce dell'Anima: Fuori; dovunque; spazio. Lui: Io mi muovo nel tuo spazio. Voce dell'Anima: Io ti muovo nel nostro spazio. Lui: II nostro spazio? Tu muovi me? Voce dell'Anima: Ti muovono le mie immagini, e tu, a meno che non ti muova nuotando nell'acqua, non avverti lo spazio. Lo spazio dell'anima viene ad essere soltanto attraverso i tuoi movimenti, non solo i movimenti delle braccia e delle gambe, ma i movimenti della mente e del cuore. Sì, anche i disturbi di cuore. Se non agisci o non fai, se non hai un qualche comportamento, se non pensi, non vivi, non vuoi, se non desideri o non immagini, io sono vuota. Io non sono niente, se non ti muovi in me, come mio contenuto. Sei tu il luogo della mia attività psichica, ma non rinchiudermi nell'attività. L'anima non "è mai le sue azioni. Io non sono il comportamento, ma sono l'immagine che è nel comportamento. Tuttavia, non cercare di portarmi fuori estraendomi dal comportamento. Io sono indipendente da ogni luogo in cui cerchi di mettermi, e dipendo completamente dal muovermi dentro e fuori quei luoghi nei quali sono tenuta. La mia ampiezza dipende completamente dal poter uscire.

Questo dialogo è una prova della dimensione filosofica 166

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dell'anima, e ci ricorda un récit, nel senso che ad esso dava Corbin. Il materiale è degno di scrittori antichi, perché solleva problemi antichi. E chiunque abbia una certa familiarità con la storia della psicologia riconoscerà il riemergere di Eraclito: infatti, come può l'anima, che non ha limiti, esser trattenuta· . in una misera persona? Ci torna in mente lo stile didattico di) Diotima che insegna a Socrate, l'insistenza di Plotino sul libero movimento dell'anima attraverso i molti luoghi nella coscienza di un individuo, così come la sua intrinseca relazione con le immagini; e ricorderemo anche Agostino, che nelle Confessioni si dibatte con il problema di interno ed esterno, di più grande e più piccolo. In questo dialogo, però, appare anche una sfumatura aristotelica, di quell'Aristotele che considerava l'anima il motore primo, e i suoi movimenti la nostra vita. Riascoltiamo anche Jung, il quale diceva che !'"immagine è anima";< 91 > che la coscienza viene dall'anima, e questa è la "vita dietro la coscienza", da cui "la coscienza proviene", "emerge"; e il quale diceva ancora che "l'uomo è nella psiche". Tuttavia, ed è proprio questo il difficile, l'effetto concreto che questo dialogo produsse sul paziente non fu né filosofia né immaginazione, e neppure un'ulteriore esplorazione della sua interiorità, ma uno spostamento nella direzione di Alfred Adler: egli scoprì il mondo politico e sociale. Tornato a casa, smise di esercitare la terapia di gruppo, che giudicò un compromesso in quanto non lasciava l'anima veramente fuori; e invece entrò a far parte di gruppi che avevano precisi scopi sociali: un gruppo per la riforma del sistema sanitario e uno per la protezione dell'ambiente. Cominciò a tenere un corso in una scuola serale, accettò un incarico volontario nella sua società professionale, e nondimeno continuò la professio ne nell'ambito dell'analisi individuale. Aveva scoperto quella che Adler considerava l'unica meta realistica della psicoterapia: il Gemeinschaftsgefuhl. 167

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Oggi gli adleriani dicono che il Gemeinschaftsgefuhl "non può scaturire da una decisione cosciente, razionale", che non serve sollecitare noi stessi all'impegno. Deve avvenire un cambiamento nel cosmo, in modo che si possa sentire effettivamente un senso esteso d'identità. Scrive Adler: Udire, vedere o parlare "correttamente" significa[ ... ] identificarsi con quella persona o quella cosa. Soltanto la capacità di identificarsi ci rende capaci di amicizia, di amore per l'umanità, di simpatia [... ] è il fondamento dell'interesse sociale, che può allargarsi ancora[ ... ] agli animali, alle piante, agli oggetti inanimati: in definitiva, a tutto il cosmo.

Abbiamo assistito al verificarsi di questo cambiamento di identità. La voce chiamata "Anima" o "la mia persona", situata in un primo tempo nelprivatissimum del suo petto, dette al nostro paziente quell'intensa sensazione d'identità personale che lo portava ad aggrapparsi all'anima come a un suo privato evento interiore. Possesso. Ma una simile interiorità genera inferiorità: lei dentro di me; lei piccola, io grande; lei dentro e sotto, io al di sopra, che la contengo. Il movimento cui abbiamo assistito era quello che va dalla mia anima a /'anima, dalla mia Anima all'anima mundi, da sentimenti soggettivi al mondo oggettivo animato. Si ricordi come lavoce dell'anima rifiutasse di essere considerata semplicemente quale suo sentimento. Il processo che libera l'anima dall'interiorità letterale al tempo stesso la coagula. Finché deve essere protetta, essa viene immaginata delicata, fragile, alata, una pressione volatile che cerca sempre di sfuggire e di scomparire, come una ninfa nella forma più consistente di un'altra persona. Ma proteggendo l'anima con tanta attenzione, non la stiamo forse coccolando come fosse un'invalida? Non stiamo tenendo ulteriormente separata la psiche dalla vita comune, quella che si svolge nella strada, separando così l'anima dalla comunità, e la comunità dall'anima? 168

Le storie che curano

Adler mette in guardia dal letteralizzare il sentimento comunitario in una specifica comunità, con specifici scopi. Il Gemeinschaftsgefiihl "non è mai [soltanto] una comunità o una società dell'oggi, una specifica formazione politica o religiosa". Esso significa comunità sub specie aeternitatis. Anche se il nostro uomo si indirizzò a un effettivo servizio sociale, non lo fece in considerazione degli scopi di tali servizi, che egli invece considerava come luoghi in cui un patrimonio di solidarietà in espansione aveva la possibilità di vivere e respirare. Se ci domandiamo come sia avvenuto il cambiamento di identità, e quindi, andando più in profondità, ci domandiamo come lo stesso interesse sociale sia venuto fuori (dal momento che non può essere stato per una decisione della coscienza), riconosciamo allora che un mito in atto rende possibile la capacità di identificazione. Il prolungato impegno di quest'uomo con l'anima portò all'amore. Psyche ha condotto ad Eros. Torniamo dunque a ciò che ho cercato di presentare in Il mito dell'a.nalisi: le relazioni tra Psyche ed Eros come il mito dominante della psicoterapia. Il nostro esempio dimostra che quell'uomo non amò prima l'anima e trasferì poi il suo amore nel mondo, come un dove:re morale:< 9s> operare per gli altri. E nemmeno fu l'anima ad amarlo per prima, in modo che egli potesse restituire al mondo questo amore. Fu l'amore stesso che cambiò natura, come nel mito di Eros e Psyche. Ora, il suo amare l'anima, e il prendersene cura, non era più come Sorge, come un Ich di fronte a un Du. Adesso Psyche ed Eros si sono congiunti in modo indistinguibile: quando lui era con psiche, c'era amore che lo includeva come una fra le sue immagini, e che spontaneamente si espandeva "fuori", nel sentimento di solidarietà. Con il sentire l'importanza delle sue persone psichiche, egli sentì anche di essere amato da esse. Non c'era più qualcuno, un soggetto, che amava qualcun altro, un oggetto. A condurlo al mondo non fu l'amore per il mondo, ma•. 169

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l'amore per l'anima, perché l'anima, come anima mundi, è essa stessa mondo, il luogo dell'agire dell'anima. Il passaggio indiretto dell'amore al mondo attraverso l'anima si compie attraverso i molteplici ed erranti meandri della psiche. Gli errori, direbbe Adler, rendono psicologico l'amore, quell'intelligente e· differenziata comprensione dell'identità di quel che si ama. Possiamo identificarlo "correttamente", soltanto quando riusciamo a riconoscere l'identità di ogni volto presente nell'unica immagine. Il lavoro del nostro paziente, con i suoi pazienti e nei comitati politici, richiedeva un acuto senso dell'amore, che era al tempo stesso anche un senso della psiche. Egli non si occupava di principi umanitari o di generici sentimenti mistici, ma dell'arte del piccolo, dei particolari, individualmente diversi. Le persone. Individuazione, dice Jung, significa differenziazione. E che l'amore sia differenziazione a questo mio paziente apparve chiaro in quest'altro dialogo, che qui riportiamo come conclusione. Lui: Non posso guardare gli alberi come fossero foreste. Da quando mi sono sentito avvolto dalla tua densa presenza, mi sento come sommerso. Mi sembra che sia come l'esperienza del lago. Voce; O dell'utero. L'ontogenesi ricapitola la filogenesi: l'aqima-Anima ritorna dapprima alla madre-Anima. Ti stai ri-congiungendo alle sorgenti di ogni vita. Un'immersione nel tuo stesso petto. Lui: Mi sembra di aver perso il mio spazio, stando nel tuo. Voce: E allora fai posto a te stesso. Lui: Dunque, tu vuoi un io. Voce: Ecco che interpreti di nuovo. Io ho detto "fai posto a te stesso", non ho parlato di "io": chi è l' "io"? Volevi sapere cosa l'anima vuole? Ora lo sai, almeno in parte: vuole che dello spazio tu faccia un luogo. Lui: Ho capito! Se non riesco a dare un luogo alle cose, non ho fatto che spaziare, dovunque, nuotando senza strutture, 170

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senza una gerarchia, senza sapere dove vanno situate le cose, sia per me che per chiunque altro. Voce: Sì. Non si tratta di dare spazio agli altri, o di sentire il loro spazio, di sentire i tuoi pazienti, ma di percepire il posto esatto in cui ciascuno di essi si trova, entro cui si muove, quale parte della casa è la loro; e ciò con accuratezza e nel piccolo. Il posto qualifica lo spazio. Una pittura è composta da piccoli, leggeri colpi di pennello, una scultura viene fuori da tanti piccoli colpi di scalpello, una sinfonia è fatta di note minuscole. Anche le molecole, ciascuna al suo posto preciso. Ogni immagine è assegnare un posto. Per quanto tu ti possa muovere sul piccolo, non sarà mai abbastanza.

L'insegnamento della voce comincia poi a farsi sibillino, e qui ci fermiamo; perché l'elaborazione delle sue affermazioni richiese al mio paziente molto più tempo di quanto qui ci sia concesso. Possiamo tuttavia delineare questa conclusione a proposito della domanda da cui siamo partiti. L'anima vuole molte cose: che la si ami, la si ascolti, le si dia un nome e la si guardi, che le si insegni, la si lasci uscire: uscire nella strada, uscire dalle prigioni dei sistemi psicologici, uscire dalla finzione dell'interiorità, che la costringe a proiettarsi per poter ottenere un riconoscimento esterno. Sappiamo anche che ha un interesse vitale per la vita e per il comportamento del suo custode, dal quale dipende; ma questo interesse non è per la vita e il comportamento in quanto tali, né per aiutarli né per guarirli. Piuttosto, sembra si tratti di un amore della vita ma in funzione dell'anima. Sembra ci chieda che il nostro senso di importanza primaria si sposti dalla vita all' anima, e che si dia valore alla vita in termini di anima, piuttosto che a un'anima valutata in termini di vita. Essa dunque non sopporta di essere trascurata nella vita, e ciò sopra ogni altra cosa; ed è quindi come per le antiche divinità, che consideravano l'empietà un unico grande peccato: la trascuratezza. Abbiamo anche visto che nella psiche c'è una vitale interdi171

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pendenza tra il suo logos e la sua terapia. La psiche chiede psicologia, necessaria per la sua terapia, e chiede psicoterapia per fare la sua psicologia. Anche se l'anima diffida dall'essere imprigionata in questo logos, in strutture, sistemi e parole letteralizzati, essa è tuttavia profondamente filosofica. Come abbiamo visto, fa della filosofia. La psiche è un'intelligenza che vuole in risposta una psicologia intelligente. La sua innata inferiorità non significa stupidità; non può vivere nei cliché della psicologia inferiore, o anche nelle idee superiori allorché queste sono prese pari pari dai maestri. Ricordate la voce che diceva: "Mi piacciono i tuoi errori"; e ancora: "Non obbedisco alla legge di compensazione". La terapia della psiche esige che si elabori il logos della psiche: ogni individuo uno psicologo. La psicologia, abbiamo detto, ha dato tre risposte principali alla domanda "cosa l'anima vuole": quella esistenzialistica, quella freudiana e quella junghiana, a seconda di come viene intesa la parola vuole, come un abisso tremendo, come un desiderio di appagamento o come una ricerca della totalità. In Adler possiamo trovare un'altra risposta ancora: ciò che l'anima vuole è l'insufficienza dell'anima, che le manca come un wo es fehlt. Questa risposta ci dice che l'inferiorità è per essa fondamentale, e che non è soltanto l'effetto della fantasia di perfezione dello spirito. Il terreno della sua mancanza sono gli inferiores, le più profonde figure del mondo infero, le cui voci svuotano ogni positiva sicurezza disgregando, rimpicciolendo e indebolendo quelle sostanziazioni che trascurano l'inferiorità. La mancanza che è propria dell'anima è data con essa, come la mancanza che è propria dell'Ermafrodito di Aristofane nel Convivio, come la mancanza propria delle anime in Ade e delle voci nei dialoghi che abbiamo ascoltato. Questa mancanza propria dell'anima non riflette forse la natura essenziale di Eros, la cui madre era Penia (povertà, bisogno, mancanza)? E non è proprio questa mancanza che si presenta di nuovo ogni volta che amiamo, vuoi nel transfert 0

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analitico, vuoi in quel genere di amore che sboccia pian piano, mentre siamo immersi in un passo di un'opera immaginativa, poesia o romanzo? Anche quancio siamo inventivi è pieni di risorse (il padre di Eros era Poros, l'intelligente abbondanza di risorse), e 100 > siamo nondimeno in perdita. Lo stesso Eros induce in noi inferiorità, quel senso di sgomento perché non siamo abbastanza, perché non abbiamo la capacità, perché la nostra stessa anima è bisognosa, e dunque sempre in uno stato di mancanza. La necessità è la madre della condizione erotica dell'anima; la mancanza propria dell'anima è inevitabilmente legata al suo eros, la cosa che essa sembravolere sopra tutte le altre, e che tuttavia è anche all'origine di quella mancanza. Se la mancanza propria dell'anima è un a priori, allora la perdita è una permanente possibilità dell'anima. Possiamo avere più anima o essere di più nell'anima (esse in anima) quando di più sentiamo la sua perdita. Il senso di mancanza appartiene allora all'ontologia dell'anima, e a ciò che intendiamo con l'espressione "essere psicologici". Non esiste un atto psicologico che possa soddisfare del tutto, non esiste un'interpretazione completamente appropriata, come una chiave capace di far scattare una serratura; non esiste una relazione fra anime che sia in grado di colmare quella mancanza e quel fallimento che riflettono l'essenza della psiche. L'imperfezione è nella sua essenza, e la nostra completezza si realizza soltanto attraverso la condizione di mancanza. Ci sarà sempre un errore, ed è proprio questo che dà valore al coraggio psicoterapeutico. La psicoterapia può soltanto stare con la sua inferiorità, se vuol rimanere psicoterapeutica. Ma, come i pazienti dei precedenti dialoghi, anche la psicoterapia ascolta con difficoltà le voci dei suoi inferiores. Anch'essa vorrebbe sfuggire le sue ombre, le sue malattie, i suoi antenati. Questo sfuggire l'inferiorità è il "complesso d'inferiorità della psicoterapia", che appare nella pratica della seduta e nel ricordo della sua storia, entrambi costruiti non su una cono173

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scenza positiva, ma in risposta ad anime in stato di necessità; e anche questa risposta psicoterapeutica è multiforme e in contraddizione con se stessa, come lo furono coloro che per primi la proposero. Parte di questa storia è Alfred Adler, tra gli antenati il membro "minore". Il nostro recupero di Adler in questo capitolo aveva lo scopo di restituircelo, e con lui di restituirci il contributo che egli ha dato all'inferiorità della psicoterapia. Tutto l'insieme dell'opus terapeutico, infatti, con la sua visione di perfezione nell'amore propria del senso di solidarietà, non può mai perdere di vista quell'inizio piccolo, quella pietruzza nella scarpa, quella petite tache humide che ci riporta ai sentimenti d'inferiorità, dati con l'incarnarsi nella nostra organica condizione di creature. E anche le nostre risposte alla domanda "cosa l'anima vuole" non ci mettono dunque al di sopra della questione. Non ne usciamo completamente a posto; non tutto andrà bene. E tuttavia stiamo cercando di rimanere in contatto con l'anima, per mezzo di quella domanda. Per la psicoterapia può essere già sufficiente ricordare non cosa essa vuole, ma il fatto che essa vuole qualcosa, e che l'eterno volere dell'anima è l'eterno interrogativo della psicoterapia.

Note 1. - I suoi interrogativi cercavano di dividere l'ermafrodito psichico; vedi più avanti Il pensiero nevrotico e l'Ermafrodito. 2. - Per coloro che s'interessano di astrologia: tutti e tre i membri di questo triumvirato sono nati in segni fissi (Freud il 6 maggio, Toro; Adler il 7 febbraio, Acquario; Jung il 26 luglio, Leone). Desta dunque maggior meraviglia la loro intesa che non la loro intolleranza e il loro persistere sulle proprie posizioni. 3. - Uno schema comparativo è stato di recente proposto da R.J. HuBER e R. STEIR in: Socia! Interest and Individuation: A Comparison of Jung and Adler. Character Poten:tial, 7, 1976, pp. 174-180. Saggi di comparazione, considerati ormai dei classici, risalgono alla prima metà di questo secolo ("scuole di psicologia del profondo comparate") e, di questi, due si avvalgono dell'introduzione di Jung: ADLER, G. (1934) Entdeckung der Seele, e KRANEFELDT, W.M. (1930) Secret Ways ofthe Mind.

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Le storie che curano 4. - Lettere tra Freud e Jung. Tr. it. Boringhieri, Torino 1974, p. 574. 5. - TH0MPS0N R0WLING, J. Pathological Changes in Mummies. Proc. Rov. Soc. Med., 54, 1961, p. 140. Erik Hornung mi informa che la correlazione tra organo e divinità non era affatto stretta: noi non osiamo leggere la libertà della fantasia politeistica egizia con le identità sistemiche della nostra mentalità monoteistica. 6. - JUNG, C.G. 7. - JUNG, C.G.

cw 15, par. 112; cw 12, par. cw 18, parr. 135, 299.

440.

8. - Riguardo al rapporto tra immagine psichica e organo corporeo nel pensiero junghiano, vedi JUNG, C.G. Psychological Commentary on Kundalini Yoga. Spring 1976, 1977, Spring Pubi., New York/Zurich; HEYER, G.R. The Organism of the Mind. Kegan Paul, London 1933; BÀCH, S.R. Spontaneous Paintings of Severely Il! Patients. Documenta Geigy, Acta Psychosomatica, Base! 1966. 9. - ADLER, A. Study of Organ Inferiority and Its Psychical Compensation: A Contribution to Clinica/ Medicine. Nervous and Menta! Disease Pubi. Co., New York 1917. 10. - Ibidem, par.

61.

11. - ELLENBERGER, H.F. La scoperta dell'inconscio. Storia della psichiatria dinamica. Tr. it. Boringhieri, Torino 1972, p. 671. 12. - The Freud Joumal of LouAndreas-Salomé. Hogart, London 1965, par. 161.

13. - ADLER, A. The Neurotic Constitution. Moffat Yard, New York 1917, par. l. Il corsivo è nel testo. 14. - Ibidem, par. 11. 15. - Ibidem, par. 7. 16. - Ibidem, par. 8. 17. - ADLER, A. What Life Should Mean to You. Unwin Books, London 1962, par. 45. 18. - O'C0NNEL, W.E. Individuai Psychology. New Catholic Encyclopedia, 1967, par. 473. 19. - The Freud Joumal of Lou Andreas-Salomé, cit., par. 161. 20. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., parr. 24 sgg., 334 sgg. 21. - ADLER, A. What Life Should Mean to You, cit., par. 74. 22. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. The Individuai Psychology of Aljred Adler. Harper Torchbook, New York 1964, par. 248. 23. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., par. 25; vedi ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op cit., par. 229. La "natura dialettica della realtà", proposta dagli psicologi a cominciare da Eraclito, attraverso Coleridge fino a Jung, e da filosofi quali Hegel e Marx, così come il "metodo dialettico" (Nietzsche, per esempio), possono essere drasticamente giudicati, da una prospettiva adleriana, come modi di pensare nevrotici, se tali modi non vengono considerati come strumenti pragmatici o finzioni ipotetiche, che hanno nello sfondo il predominio della varietà. Vedi anche D0LLIVER, R.H. Alfred Adler and the Dialectic. J. Hist. Behav. Science, XII, 1974, pp. 16-20. 24. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., par. 99. 25. - ADLER, A. Der Psychische Hermaphroditismus im Leben und in der Neuro-

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James Hillman se. Fortschritte d. Medizin, 28, 1910, pp. 486-493. Vedi anche ADLER, A. Psychical Hermaphroditism and the Masculine Protest. In: The Practice and Theory of Individuai Psychology. Routledge, London 1929. 26. - Ibidem, par. 21. 27. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., par. 353. 28. - ADLER, A. Understanding Human Nature. Allen & Unwin, London 1928, par. 135. 29. - ADLER, A. The Neuro tic Constitution, cit., par. 345. 30. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 5, pp. 21-32; voi. 8, pp. 313 sgg. 31. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 16, p. 139; voi. 3, p. 215. 32. - ADLER, A. ThePracticeand Theoryof Individuai Psychology, cit., par. 21. 33. - Lo studio migliore su questo mitema dalla prospettiva della psicopatologia del profondo è quello di R. LOPEZ-PEDRAZA: Ermes e i suoi figli. Tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1983, in particolare il cap. I, sull'Ermafrodito. 34. - Per una critica dell'opposizionismo in psicologia, vedi HILLMAN, J. Il sogno e il mondo infero. Tr. it. Edizioni di Comunità, Milano 1984; per due esempi dicoscienza della sizigia, vedi HILLMAN, J. Senex e Puer. Tr. it. Marsilio, Venezia 1973; Anima IL Tr. it. in: Riv. Psic. Analitica, 27, 1983. 35. - The Freud Journal of Lou Andreas-Salomé, cit., parr. 52, 127. 36. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 5. 37. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 104. 38. - Ibidem. 39. - Vedi ADLER, A. The Practice and Theory of Individuai Psychology, cit., parr. 224, 230; The Neurotic Constitution, cit., passim; ELLENBERGER, H. F. op. cit., pp. 669, 726; ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., parr. 76-89. 40. - Per Adler il letteralismo fondamentale è la coppia maschile-femminile, "l'unica vera antitesi" (The Neurotic Constitution, cit., par. 99) alla quale tutte le altre antitesi possono essere ricondotte. A proposito del rapporto tra il letteralismo e il pensare per generi, vedi BERRY, P. The Dogma of Gender. In: Echo's Subtle Body. Spring Pubi., Dallas 1982. La mia opinione sull'antitesi adleriana maschilefemminile è che questa sizigia stia per un'altra fondamentale coppia metaforica, spirito-anir,na, che non si presta ad essere presa alla lettera nello stesso modo concreto ed empirico di maschile-femminile. 41. - VAIHINGER, H. La filosofia del 'come se'. Ubaldini, Roma 1967, p. 113. 42. - Ibidem. 43. - JUNG, C.G. CW 17, par. 291. 44. - JUNG, C.G. "Opere", voi. 5, p. 69. Il corsivo è nel testo. 45. - VAIHINGER, H. op. cit., p. 24. 46. - Ibidem, p. 99. Il corsivo è nel testo. 47. - ELLENBERGER, H.F. op. cit., p. 698. 48. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 126. 49. - Ibidem, par. 127. 50. - O'C0NNEL, W.E. op. cit., par. 472.

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Le storie che curano 51. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 142. 52. - ADLER, A. What Life Should Mean to You, cit., parr. 9 sgg. 53. - HUBER, R.I. Socia! Interest Revisited. Character Potential, 7, 1975, pp. 69. 54. - ADLER, A. Understanding Human Nature, cit., par. 120. 55. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 153. 56. - ELLENBERGER, H.F. op. cit, p. 700. 57. - ADLER, A. What Life Should Mean to You, cit., par. 14. 58. - Ibidem, par. 9. 59. - Ibidem, par. 146. 60. - Ibidem, par. 184. 61. - JUNG, C.G. CW 10, par. 579. 62. - ELLENBERGER, H.F. op. cit., p. 727. 63. - Lettere tra Freud e Jung, cit., pp. 251-253, 390-392. 64. - ELLENBERGER, H.F. op. cit., pp. 1034-36. 65. - Ibidem. 66. - Vedi The Freud Journal of Lou Andreas-Salomé, cit., par. 43. 67. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., parr. 232 sgg. 68. - ADLER, A. What Life Should Mean to You, cit., par. 9. Si noti qui la differenza tra Jung, che continuamente richiama l'attenzione sul significato come qualcosa che viene ricercato o integrato via via che si realizza il Sé, e Adler, che sostiene che i significati ci sono già, che viviamo in mezzo ai significati. Mentre il senso che Jung dà al significato è profetico e religioso, quello di Adler è interpretativo e pragmatico. 69. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., par. 169. ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 247. 70. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., parr. 29-30. 71. - Vedi BATES0N, G. (Ed.) Perceval's Narrative. Stanford Univ. Press, 1961, per la testimonianza, dei primi del XIX secolo, data da un pazzo recluso, che attribuisce il suo periodo di follia all'aver preso alla lettera la parola dello spirito. 72. - VAIHINGER, H. op. cit., p. 130. 73. - ADLER, A. What Life Should Mean to You, cit., par. 42. 74. - Ad esempio: M0ZDZIER, G.J., MACCHITELLI, F.J., LISIECKI, J. The Paradox in Psychotherapy: An Adlerian Perspective. J. Indiv. Psychol., 32/2, 1976, pp. 169-184; O'C0NNEL, W.E. The Sense of Humour: Actualizer of Persons and Theories. In: CHAPMAN, A., FoT, H. (Eds.) It's A Funny Thing. Humour. Pergamon, Oxford 1977. 75. - "Junktim: connessione intenzionale di due complessi ideo 0affettivi, che in realtà hanno poco a che fare fra loro, allo scopo di rafforzare l'affetto. La metafora ha un'origine simile." (ADLER, A. The Practice and Theory of Individuai Psychology, cit., par. 39; vedi ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 283.) Il Junktim di Adler è paragonabile al complesso di Jung. Entrambi i termini, per la costruzione del loro significato, hanno affinità con il greco symptoma, un qualcosa che si verifica contemporaneamente. Jung considera il complesso in modo oggettivo. È

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James Hillman un dato fondamentale della psiche, che presenta i contenuti empirici dei suoi affetti; e dunque i complessi possono essere dimostrati per mezzo dell'esperimento associativo. Adler, tuttavia, considera il junktim come un'intenzionale invenzione per intensificare gli affetti, un po' come la retorica dell'iperbole e della condensazione nei sogni e nella poesia (ADLER, A. WhatLife Should Mean to You, cit., par. 79; Understanding Human Nature, cit., par. 116; The Practice and Theory of Individuai Psychology, cit., par. 219; ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., parr. 360sgg). Se adesso combiniamo complesso e junktim, possiamo comprendere i nostri complessi sia come fatti empirici, che sono i nuclei della nostra energia psichica, sia come metafore dei nostri miti psichici. Ri-concepire il complesso come un'immagine verbale (metafora) sposta la base della mente dalle descrizioni scientifiche alle descrizioni poetiche. Paul Kugler ha dato inizio a questo movimento sismico, che è lo spostare il basamento scientista dell'empirismo junghiano, riesaminando gli scritti di Jung sull'associazione verbale per il loro valore linguistico e imagistico (KuoLER, P. The Alchemy of Discourse. Bucknell Univ. Press, Lewisburg Pa. 1983). È curioso scoprire che Jung, a 82 anni (Lettera a Hanhart. In: Briefe, voi. III., Walter, Olten 1973, p. 79), si ricordava deljunktim di Adler, sebbene allora egli se ne servisse come di un antecedente del suo concetto di sincronicità (il verificarsi contemporaneo di eventi privi di rapporto causale, symptoma). Freud parlava di unjunktim zwischen Heilen und Forschen, nel suo tardo saggio sull'analisi laica. Lo stesso termine viene abitualmente usato in tedesco in contesti giuridico-politici. ,, 76. - ADLER, A. What Life Should Mean to You, cit., par. 47. 77. - ADLER, A. The Neurotic Constitution, cit., par. 158. 78. - GIEGERICH, W. The Neurosis of the Psychology, or the One of the Two. Spring 1977, Spring Pubi., New York/Ziirich, p. 168. 79. - WATKINS, M. Waking Dreams. Harper Colophon, New York 1977. 80. - GUGGENBÙHL-CRAIG, A. Power in the Helping Professions. Spring Pubi., New York/Ziirich 1971. 81. - Vedi ZIEGLER, A. Rousseauian Optimism, Natural Distress, and Dream Research. Spring 1976, Spring Pubi., New York/Ziirich. 82. - LOPEZ-PEDRAZA, R. op. cit. 83. - BERRY, P. Demeter/Persephone and Neurosis. Spring 1975, Spring Pubi., New York/Ziirich; La mancanza che fonda. Tr. it. in: Riv. Psic. Analitica, 26, 1982. Vedi: On ~eduction. Spring 1973, Spring. Pubi., New York/Ziirich; Radical Woman [conferenza tenuta all'Università di Notre Dame, Annua! Jung Conference, 1977]. 84. - TAPPAN, G. Archetypal Psychology and Education [contributo al Primo Seminario di Psicologia Archetipica, Università di Dallas, 1977]. 85. - BOER, c., KUGLER, P. Archetypal Psychology as Mythical Realism. Spring 1977, Spring Pubi., New York/Ziirich. 86. - Vedi Eranos 44-1975, 46-1977; Spring 1973, 1976, Spring Pubi., New York/Ziirich. 87. - Pubblicato a puntate su Spring dal 1972. 88. - ELLENBERGER, H.F. op. cit., p. 719. 89. - Vedi JUNG, C.G. "Opere", voi. 7, p. 223, e la discussione sui modi sbagliati di intendere il concetto junghiano di "integrazione dell'Anima" in HILLMAN, J. Anima II, cit.

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Le storie che curano 90. - Vedi Understanding Human Nature, cit., par. 13, e What Life Should Mean to You, cit., par. 9, sull'importanza degli errori, e la via dell'errore come l'unica che consente di conoscere l'anima e di trovare un significato.

91. - JUNG, C.G., WILHELM, R. Il segreto del fiore d'oro. Tr. it. Boringhieri, Torino 1981, p. 60. Il corsivo è nel testo. 92. - Ibidem, p. 50 e "Opere", vol. 9*, p. 25. 93. - JUNG, C.G. Briefe, vol. II, cit., pp. 188, 225. A proposito del rapporto tra Anima e psiche e del problema interiore/esteriore, vedi HILLMAN, J. Anima. Tr. it. in: Riv. Psic. Analitica, 21, 1980. 94. - O'CoNNEL, W.E. 'The Friends of Adler' Phenomenon. J. Indiv. Psychology, 32/1, 1976, p. 15. 95. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 136. 96. - ADLER, A. Understanding Human Nature, cit., par. 43. 97. - ANSBACHER, H.L., ANSBACHER, R.R. op. cit., par. 142. 98. - "Nella psicologia di Adler, il sentimento sociale è forse il sentimento più difficile da intendere correttamente. Considerarlo un concetto filosofico o un principio morale significa perderne completamente la vera essenza. 'Se qualcuno parla di morale - Adler disse una volta - vado subito a vedere se per caso non abbia la mano nella mia tasca!' La psicologia non deve [... ] fare della morale [... ] il suo scopo è strettamente terapeutico. Il sentimento sociale[ ... ] è un principio basilare di vita che una persona deve possedere per [... ] mantenere una buona salute psichica." (YvAY, L. Introduzione ad Alfred Adler. Tr. it. Editrice Universitaria, Firenze 1963, p. 208.) 99. - Riferimenti alla "cura" (Sorge) in Martin Heidegger e all'io-tu (Jch-Du) in Martin Buber. 100. - Per un'interpretazione psicologica dettagliata delle metafore del padre e della madre di Eros (tratte dal racconto che Platone fa nel Convivio e dal quale ho tratto l'epigrafe per questo capitolo), vedi la traduzione di Sears Jayne del commento di Marsilio Ficino al Convivio platonico, Sopra lo amore (Commentary on Plato's "Symposium" on Love by Marsilio Ficino, Spring Pubi., 2• ed., in corso di stampa).

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