Le piccole cose. Interstizi e teoria della vita quotidiana
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Collana «Sociologia della vita quotidiana» promossa dalla sezione «Vita quotidiana» dell’Associazione Italiana di Sociologia diretta da Carmen Leccardi

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Coordinamento editoriale: Maurizio Ghisleni 1. Nicoletta Bosco, Dilemmi del welfare. Politiche assistenziali e comunicazione pubblica 2. Marita Rampazi (a cura di), L’incertezza quotidiana. Politica, lavoro, relazioni nella società del rischio 3. Carmen Leccardi (a cura di), Tra i generi. Rileggendo le differenze di genere, di generazione, di orientamento sessuale 4. Rita Palidda (a cura di), Fare sociologia. Paradigmi conoscitivi ed esperienze sul campo 5. Chiara Bertone, Alessandro Casiccia, Chiara Saraceno, Paola Torrioni, Diversi da chi? Gay, lesbiche, transessuali in un’area metropolitana, a cura di Chiara Saraceno 6. Giuliana Mandich, Abitare lo spazio sociale. Giovani, reti di relazione e costruzione dell’identità 7. Gabriella Paolucci (a cura di), Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione 8. Giovanni Gasparini (a cura di), Le piccole cose. Interstizi e teoria della vita quotidiana

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SOCIOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

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© 2004 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA viale Filippetti, 28 – 20122 Milano http://www.guerini.it e-mail: [email protected] Prima edizione: ottobre 2004 Ristampa:

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2004 2005 2006 2007 2008

Printed in Italy ISBN 88-8335-559-8 Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe, 2 – 20121 Milano, tel. e fax 02 809506, e-mail: [email protected].

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LE PICCOLE COSE Interstizi e teoria della vita quotidiana

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a cura di Giovanni Gasparini

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Considerare sempre le piccole cose come una prefigurazione delle grandi

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Simone Weil

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INDICE

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INTRODUZIONE

Interstizi e piccole cose della vita quotidiana Giovanni Gasparini PARTE PRIMA ESPLORAZIONI E RICOGNIZIONI TEORICHE

31

SENSO ED ENIGMA DELLA VITA QUOTIDIANA: UNO SGUARDO FILOSOFICO E SOCIOLOGICO

Antonio De Simone 53

L’ORDINE DEGLI INTERSTIZI: RIFLESSIONI QUASI SIMMELIANE

Alessandro Cavalli

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59 67

LE PICCOLE GRANDI COSE: INTERSTIZI E RITI DI PASSAGGIO

Giovanna Salvioni

APRIRSI ALL’INATTESO: LA SORPRESA IN MICHEL DE CERTEAU E EDGAR MORIN

Fabio Introini e Cristina Pasqualini

99

UNA FILOSOFIA DELLE PICCOLE COSE

107

TRE LETTURE INTERSTIZIALI

Francesca Rigotti Laura Balbo

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8

PARTE SECONDA PUNTI DI VISTA INTERSTIZIALI SU FENOMENI ED ESPERIENZE SOCIOCULTURALI 119

INTERSTIZI E AREE DI INTERSCAMBIO NELLA CITTÀ

129

LA SOSPENSIONE DELL’AZIONE NEL FRONTEGGIAMENTO DI

Enrico Maria Tacchi

EVENTI INEDITI E INASPETTATI

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Luigi Colaianni 143

GLI INTERSTIZI NELLA COMUNICAZIONE CORPOREA: IL NUDO

Paolo Volontè 155

LA POESIA DI MONTALE E GLI INTERSTIZI

161

IL CONSUMO INTERSTIZIALE DI TELEVISIONE

169

Claudio Scarpati

Piermarco Aroldi

PASSAGGI E SOSTE NEL FILM COLAZIONE DA TIFFANY DI BLAKE EDWARDS

Concetta Cammarata e Miriam Visalli

185

I RESI: ONTOLOGIA DELLA MERCE TEMPORANEAMENTE SOSPESA

Giampaolo Azzoni 193

TEORIA ECONOMICA E COMPORTAMENTI EFFETTIVI: IL CASO DELL’EURO

Pierpaolo Varri 199

NOTA SUGLI AUTORI

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INTRODUZIONE

INTERSTIZI

E PICCOLE COSE DELLA VITA QUOTIDIANA

Giovanni Gasparini

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Piccole cose, grandi cose, interstizi della vita quotidiana Piccole cose: cose trascurate o trascurabili per la loro presunta insignificanza e banalità, per la loro piccolezza appunto. Bagattelle, inezie, quisquilie, sciocchezze, minuzie, baggianate… E invece no. Il senso di piccolo da cui si vorrebbe partire e su cui si intende qui puntare l’attenzione non corrisponde alle accezioni di «meschino, misero, ristretto, angusto, secondario, irrilevante» ma rimanda piuttosto a quelle di «minuscolo, umile, dimesso, ordinario, quotidiano, familiare». In questo senso, assumiamo che ciò che è piccolo ci è caro perché è domestico, addomesticato o addomesticabile e anche perché ci parla allusivamente – su piccola scala, appunto – di ciò che è grande, cioè importante e rilevante per noi, per la nostra vita immersa in una quotidianità apparentemente banale ma attraversata anche da relazioni, progetti e valori che ci premono e per questo sono grandi: essi lo sono individualmente per ciascun individuo e nello stesso tempo acquistano una valenza collettiva e condivisa, proiettando sul sociale la loro ombra. E non sarà forse un caso che «piccolo» ricorra spesso in opere letterarie a cui molti sono stati o sono affezionati, indipendentemente dall’età: da Piccole donne della Alcott al Piccolo mondo antico di Fogazzaro e al Piccolo principe di Saint-Exupéry. E si potrebbe citare in campo musicale Eine kleine Nachtmusik, quella serenata notturna del 1787 che – proprio perché è definita ed è piccola – rappresenta un vertice straordinario di leggerezza e d’intensità ideale della produzione mozartiana. In termini più ampi, si tratta di rivalutare, all’interno di una società di massa o massificata che sta crescendo sempre più nelle dimensioni ma non nella capacità di governo del processo relativo, il ruolo e le potenzialità di senso di quell’uomo comune di cui parlava M. de Certeau quando tra i primi studiava quelle pratiche

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10 ordinarie del fare quotidiano che sono l’abitare, il cucinare e così via: piccole cose, appunto, come sono anche – lo vedremo subito – le esperienze interstiziali e i fenomeni ai quali possiamo applicare il punto di vista dell’interstizialità nel senso della marginalità. Il richiamo alle piccole cose evoca, quanto meno per assonanza o affinità formale, certe linee di pensiero e di sviluppo in alcune scienze umane, che non sono peraltro recentissime ed hanno rappresentato reazioni a modelli consolidati precedenti. In economia l’idea-slogan «Piccolo è bello», divulgata negli anni Settanta da E.F. Schumacher (1978), si collocava in un quadro di critica alle economie di scala e al gigantismo delle organizzazioni produttive, esprimendo sensibilità verso quello che in effetti si è rivelato uno dei trend più significativi di evoluzione tecnologico-organizzativa delle realtà produttive e di altre unità sociali nei sistemi postindustriali. In storia, la svolta metodologica segnata dalla scuola francese delle Annales ha dato spazio o favorito indirettamente la messa a tema di aree precedentemente trascurate nell’analisi della storia economica e sociale: come la vita privata, il tempo libero, i consumi e, in termini più rilevanti ai fini del nostro discorso, quella che D. Roche chiama una Storia delle cose banali, tra le quali figurano l’acqua, la casa e i mobili, gli abiti, il pane e il vino (Roche, 2002). In questi ultimi anni, si segnala il singolare approccio di F. Rigotti, che sta portando avanti nei suoi lavori più recenti l’idea di una Filosofia delle piccole cose la quale si alimenta molto di letteratura (con la valorizzazione sistematica delle metafore e delle accezioni linguistiche dei termini) e di uno sguardo etno-antropologico sui «sistemi minimi». Si tratta di un disegno che, partito dalla cucina e dalla preparazione dei cibi (Rigotti, 1999), ha rivolto attenzione successivamente alla metafora del tèssere e ai legami tra filo del cucito e filo del pensiero (Rigotti, 2002), approdando quindi all’analisi filosofico-simbolica di una serie di piccole cose della quotidianità (dal ferro da stiro al secchio dei rifiuti, dalla brocca al pane, ai resti e agli avanzi), viste soprattutto nel loro legame con la condizione femminile (Rigotti, 2004). L’autrice rivaluta gli oggetti piccoli e dimessi della quotidianità: si tratta, essa nota, di sviluppare un metodo che si china ad ascoltare la voce delle piccole cose, «scrutando attentamente le parole che le descrivono, le metafore, le analogie e le immagini che le evocano» (Rigotti, 2002, p. 11). C’è sintonia tra questa studiosa e la scrittrice indiana Arundhati Roy, nota per un romanzo ambientato in India che è divenuto un best-seller mondiale e intitolato Il dio delle piccole cose (Roy, 1997), e per altri suoi saggi in cui sviluppa l’osservazione, ripresa e citata dalla stessa Rigotti negli ultimi due suoi lavori, secondo cui il XXI

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11 secolo potrà essere il Secolo delle Piccole Cose, di pari passo con lo smantellamento delle Grandi Cose:

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Grandi bombe, grandi dighe, grandi ideologie, grandi contraddizioni, grandi Paesi, grandi guerre, grandi eroi, grandi sbagli. (Roy, 1999, p. 20)

Il dubbio, che coglie oggi l’osservatore-partecipe degli eventi di questo inizio di secolo, è che le piccole cose non bastino, e cioè che all’azione di opportuna e instancabile valorizzazione delle medesime vada unita la constatazione che le grandi cose ci sovrastano, in primo luogo nel senso delle cattive sorprese e delle cattive notizie che hanno un impatto planetario a livello non solo psicologico e di comunicazione ma anche di rappresentazioni sociali e di organizzazione della vita quotidiana degli attori (Gasparini, 2001, 2004b). Per citare solo gli eventi più appariscenti, pensiamo all’undici settembre e alla scoperta del terrorismo fondamentalista globalizzato di AlQaeda, allo scoppio di nuove guerre molto pericolose per la comunità mondiale (Afghanistan, Iraq), all’acutizzarsi e all’imbarbarimento di conflitti apparentemente locali (Israele-Palestina, Cecenia). E per non limitarci solo a questo versante, possiamo indicare il fatto straordinario – anch’esso nella logica di grandi cose, grandi accadimenti – della creazione di un’Europa di venticinque paesi (dal maggio 2004), con l’inclusione, impensabile fino alla fine del secolo appena trascorso, di paesi dell’area ex sovietica, e con la creazione di uno dei più popolosi e importanti poli economico-sociali del mondo. In questi movimenti planetari che sembrano tendere e indurre sempre più alla globalizzazione e al «grande» – in termini politici, militari, tecnologici, economici e finanziari – ci si può chiedere con una legittima perplessità quale sia lo spazio lasciato alle piccole cose, ai sistemi minimi, alle esperienze interstiziali della vita quotidiana. Ci soccorre qui Simone Weil, che in una delle mille note geniali e lapidarie dei suoi Cahiers indica così il valore delle piccole cose: Considerare sempre le piccole cose come una prefigurazione delle grandi: si evita così sia la negligenza sia la pignoleria (Weil, 19913, p. 184).

Ecco dunque il punto cruciale: si tratta di tenere insieme le une e le altre. Senza l’attenzione alle piccole cose non si evita «la negligenza» (e quindi il trascurare ciò che non andrebbe lasciato perdere), ma senza le grandi cose sullo sfondo le piccole diventano «pignoleria», attaccamento all’inessenziale o al mediocre.

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12 Le grandi cose sono utili e necessarie, e mai come oggi forse ce ne rendiamo conto, in una società interdipendente in ogni sua parte, anzitutto in termini di comunicazione. In particolare, le Nazioni Unite sono necessarie, e tanto più lo sono le grandi dichiarazioni di valori come la Dichiarazione internazionale dei diritti dell’uomo di San Francisco del 1948 e il dettato della Costituzione dell’Unione Europea del 2004. A livello di ciascun paese, e per ciascun attore che ne fa parte, si può pensare al valore che rivestono in termini di identificazione collettiva le istituzioni e la loro presenza, come fattore e cornice di sfondo che consente lo svolgersi normale e ordinato della stessa vita quotidiana: lo stato, gli enti locali, le grandi organizzazioni di servizio pubbliche e private, ma anche quelle grandi unità produttive che rappresentano la storia collettiva di un paese (la Guinness per gli irlandesi, la Renault per i francesi, la Fiat per gli italiani e così via), e poi i riti religiosi e civili diffusi, e persino la lingua vista nella sua dimensione storico-sociale. D’altra parte, le grandi cose, come le istituzioni nella fattispecie, rischiano di restare impalcature formali e gusci vuoti se non vengono corroborate e riempite dalle piccole cose in cui è coinvolta una miriade di individui che nella loro stessa vita quotidiana sono chiamati a dare non solo significato alla propria esperienza esistenziale ma anche senso e consenso ai sistemi sociali di cui fanno parte come attori e cioè come persone consapevoli, capaci di esprimere e indirizzare scelte collettive e politiche dal basso. Esporre la bandiera multicolore con la scritta «Pace» sul proprio balcone è una piccola cosa, così come lo è la partecipazione di un singolo o di un piccolo gruppo ad una manifestazione contro la guerra: ma quando milioni di bandiere sventolano sui balconi, e decine di milioni di persone comuni manifestano insieme per le vie delle grandi città d’Europa (come è accaduto in particolare nel 2003, appena prima della guerra in Iraq), si avverte una sorta di saldatura tra piccolo e grande. Si tratta soltanto di un esempio tra quelli che ci fornisce l’osservazione di questi ultimi anni: un altro, di genere molto diverso, è quello rappresentato dalla repentina e consistente diminuzione della criminalità a New York a metà degli anni Novanta, in seguito all’energica azione svolta dal sindaco Giuliani e dalla polizia nel reprimere e sanzionare i gesti di piccola devianza, come le finestre rotte e i graffiti nella metropolitana. L’esperienza della metropoli americana dimostra che l’intervento attento e continuativo sulle piccole cose come la pulizia nei treni della metropolitana, insieme alla repressione puntuale dei vandalismi e della trasgressione consistente nel non pagare il biglietto, ha dispiegato effetti positivi a

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tutti i livelli, spezzando il legame tra microdevianza e crimini più gravi. I criminologi Wilson e Kelling, in particolare, hanno sostenuto la cosiddetta teoria delle finestre rotte, quella secondo cui «se una finestra è rotta e non viene riparata, chi vi passa davanti concluderà che nessuno se ne preoccupa e che nessuno ha la responsabilità di provvedere» (Gladwell, 2000, p. 168). È tempo ora di passare dalla sfera delle piccole cose, che ci hanno fornito utili spunti introduttivi di riflessione e di analisi, alla tematica degli interstizi della vita quotidiana, che sono più espressamente oggetto di questo saggio e di questo volume. Con le piccole cose essi condividono l’attenzione ai sistemi minimi, così come l’interesse al recupero di ciò che è prevalentemente dimenticato, negletto, tralasciato, non considerato, rimosso o represso tanto nell’azione e nelle scelte dei sistemi sociali quanto nell’analisi stessa delle scienze umane e sociali. Ma, come vedremo subito, essi si pongono con una propria autonoma sfera concettuale e di significato, e con una focalizzazione distinta e peculiare. Agli interstizi della vita quotidiana chi scrive ha dedicato una serie di lavori apparsi dalla fine degli anni Novanta (Gasparini, 1998, 2001, 2002, 2004a, 2004c). L’idea-ipotesi di un loro utilizzo teorico è nata, forse come un modesto caso di serendipity, nel corso dello studio di un tempo sociale molto comune ma pressoché sfuggito all’analisi delle scienze sociali, quello dell’attesa, tipica esperienza interstiziale dal punto di vista temporale (Gasparini, 1992, 1994, 1995). Successivamente, l’idea di interstizio e interstizialità è stata estesa ad altri fenomeni attraverso la dimensione dello spazio e quella trasversale della comunicazione, in una prospettiva che dall’analisi sociologica dei tempi sociali si è portata in direzione di un approccio più ampio di socio-antropologia della vita quotidiana. Vengo ora ad illustrare gli sviluppi personali di questa riflessione1 e successivamente una serie di sue ricadute testimoniate dai contributi presenti nel volume. La prospettiva teorica Un primo problema di base, a cavallo tra teoria e metodologia, riguarda la possibilità di assumere un termine del linguaggio corrente e di senso comune in un quadro analitico e concettuale: del Riprendo qui in qualche misura, sviluppandole ulteriormente, considerazioni presenti in Gasparini, 2002 e 2004a. 1

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14 resto, la stessa locuzione «vita quotidiana» potrebbe rappresentare l’esempio paradigmatico al riguardo, se si pensa agli obiettivi che si pone una Sociologia della vita quotidiana. Interstizio, termine antico in uso nel volgare dal Tre-Quattrocento, deriva dal latino interstitium e interstare, stare in mezzo, essere collocato nell’intervallo, con connotazioni sia in senso spaziale che temporale. Le due accezioni principali riconosciute oggi sono appunto quella di «piccolo spazio tra due corpi o tra due parti di uno stesso corpo» e quella di «intervallo di tempo» (De Mauro, 2000). Assumendo dal linguaggio comune questo termine che non compare quasi mai nella letteratura delle scienze umane e che ha d’altronde una evidenza immediata nel mondo della realtà fisica e naturale, ho assunto l’ipotesi che si tratti di un termine dotato di capacità euristiche nel sociale, in particolare nella sfera della vita quotidiana. Al riguardo, un aspetto strategico di «interstizio» è dato dall’ampiezza del campo semantico che coinvolge. Esso infatti allude, in primo luogo e secondo la sua etimologia, ad uno «stare fra» due realtà o fenomeni o situazioni che è bene espresso dalle locuzioni entre-deux in francese e in-between in inglese; il tedesco poi, non conoscendo la derivazione dal termine latino, indica l’interstizio come uno Zwischenraum, uno spazio che sta in mezzo tra due elementi. Abbiamo a che fare qui con una prima accezione (gli «interstizi di primo livello»), che può essere declinata dal punto di vista dello spazio, del tempo e comprensivamente della comunicazione: nel primo caso (spazio) la prospettiva interstiziale ci consente di esplorare fenomeni quali il viaggio e il passaggio; nel secondo caso (tempo) abbiamo a che fare con esperienze solitamente trascurate nell’analisi quali l’attesa, la sosta e l’anticipazione; nel terzo caso (comunicazione) possiamo esemplificare attraverso fenomeni quali il silenzio, inteso come interstizio tra flussi pressoché incessanti di comunicazione verbale, e la corrispondenza epistolare in quanto intervallo aperto tra due attori interagenti. Una seconda accezione o livello nel cui ambito può essere compiuta l’esplorazione è quello della marginalità, nel senso di fenomeni considerati marginali o eccezionali rispetto ad altri ritenuti centrali, normali e ordinari all’interno di un sistema dato e in un quadro di convenzioni sociali consolidate. In questa ottica (quella degli «interstizi di secondo livello») possono essere messi a tema e inclusi fenomeni quali, ad esempio, il dono – in quanto marginale rispetto al mercato e al sistema del Welfare –, la sorpresa – in contrapposizione ad una cultura temporale di programmazione tipica dei nostri sistemi –, il gioco e il comico come fenomeni residuali rispetto al

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15 mondo della serietà, il perdere rispetto al vincere e al successo assunti quali mete culturali normali e consolidate (vedi Tabella 1). Mi limito ad osservare la contiguità in parecchi casi tra interstizi di primo e di secondo livello, dal momento che lo «stare fra» può essere, in termini di considerazione sociale, sinonimo o indicatore di marginalità-eccezionalità. In alcuni fenomeni le due accezioni tendono anzi a sovrapporsi: è il caso del silenzio, che per il suo carattere residuale e marginale nei nostri sistemi può essere considerato un interstizio di secondo oltre che di primo livello.

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Tabella 1 – Gli interstizi della vita quotidiana. Alcune esemplificazioni INTERSTIZI

DI I LIVELLO

AMBITO

AREE TRATTATE IN GASPARINI 1998

AREE TRATTATE IN

Spazio

Viaggio

Passaggio

Tempo

Attesa

Sosta

Comunicazione

Silenzio

Corrispondenza

INTERSTIZI

ALTRE AREE

GASPARINI 2002

Anticipazione

DI II LIVELLO

Sorpresa

Gioco

Riso

Dono

Perdita

Stoltezza, follia

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Mondi virtuali

Fonte: Gasparini 2002

Per quanto concerne gli interstizi di primo livello, e particolarmente quelli che hanno attinenza allo spazio, è interessante poi rilevare che essi si prestano ad evocare alternativamente il carattere di continuità ovvero discontinuità dei fenomeni relativi: nel primo caso ci si avvicina all’idea di limes, cioè di un limite relativamente netto che separa esperienze o realtà sociali ritenute diverse e distanti; nel secondo caso, l’interstizio è assimilabile ad un limen, cioè ad una soglia, in una logica di continuità e transizione tra fenomeni contigui. Due inter-

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16 stizi naturali che si offrono ad illustrare il duplice carattere indicato sono il braccio di mare, metafora del limes o della discontinuità, e la marea, metafora del limen o della continuità attraverso il gioco graduale che si esprime tra terra e mare. Ricorrendo all’alternativa limes/limen, si può, ad esempio, offrire una interpretazione del celebre racconto biblico del passaggio del mar Rosso da parte degli Ebrei in fuga, inseguiti dagli Egiziani (Gasparini, 2002, pp. 9-11): il marelimes, barriera d’acqua invalicabile, diventa temporaneamente ed eccezionalmente, per l’intervento miracoloso di Jahwé, un marelimen, e cioè un luogo asciutto (verosimilmente una striscia interstiziale di terra dovuta all’azione di imponenti maree) che consente il passaggio di Mosè e dei suoi, ma subito dopo, non appena arrivano cavalli e cavalieri nemici, si ritrasforma in un mare-limes che provoca l’annegamento degli Egiziani e permette agli Israeliti di intraprendere il lungo esodo verso la Terra promessa. Vorrei richiamare qui per sommi capi alcune affinità, contiguità e punti di contatto teorici della prospettiva dell’interstizialità rispetto ad altri approcci delle scienze sociali (cfr. Gasparini, 2004a). Così, se si privilegia l’aspetto di mutamento che pervade parecchi fenomeni interstiziali, affiora il riferimento al noto schema dei riti di passaggio, che venne introdotto quasi un secolo fa dall’etnoantropologo francese Van Gennep (1981) e che è stato ripreso e utilizzato tra l’altro da Turner (1972), con la messa a fuoco delle tre fasi di disaggregazione, liminale e di riaggregazione dell’individuo soggetto al rito. È evidente che alcuni interstizi della vita quotidiana, come quelli trattati a proposito del viaggio e del passaggio, sono particolarmente interessabili a questo approccio, anche se essi non si identificano con fenomeni rituali né si esauriscono in esperienze di passaggio, sia di carattere fisico che simbolico. Ulteriori connessioni rispetto alla tematica del passaggio-trasformazione possono essere colte nell’approccio teorico dello «stato nascente», elaborato da Alberoni negli anni Settanta con riferimento alla dinamica tra movimento e istituzione e sulla scia di una concettualizzazione weberiana: lo stato nascente corrisponde ad una forma di transizione tra un assetto sociale e un altro, e dunque ad una fase di grande intensità emozionale che si traduce nell’attraversamento di una soglia (Alberoni, 1977). Le affinità con la prospettiva dell’interstizialità non riguardano solo, come nel caso dello schema di Van Gennep, il richiamo a fenomeni di passaggio e mutamento nello spazio, nel tempo e nella costruzione sociale della realtà. Più in profondità, mi sembra che la prospettiva dell’interstizialità condivida con quella dello stato nascente l’interesse per l’esplorazione della creati-

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17 vità, del mutamento che insorge dal basso, dalle piccole cose della vita quotidiana, in modi all’inizio poco visibili: pensiamo, ad esempio, a gruppi che inventano nuove forme di dono possibili nella società contemporanea, ad ambiti dove si praticano forme di valorizzazione delle esperienze di attesa e di sosta, ad attori individuali o collettivi che reagiscono in modo innovativo a fenomeni di sorpresa, o che perfino accettano consapevolmente e «ragionevolmente» (in base a forme di razionalità diverse da quella tipicamente weberiana) prospettive di perdita anziché di successo o affermazione. Un altro contributo teorico che va qui ricordato è quello utilizzato da Berger nello studio del riso, alla frontiera tra il comico e il gioco (Berger, 1999): egli si ricollega ad una importante intuizione di Schutz a proposito delle multiple realities e dell’idea di sfera o «provincia» limitata di significato; una di queste è appunto quella esemplificata dall’homo ridens, dal momento che l’esperienza del comico può essere ritenuta ricorrente e come altre dotata, appunto, di una sfera limitata di significato. Schutz, rielaborando a sua volta la teoria psicologica di W. James, esemplifica una serie di sub-universi o province limitati di significato: non solo il gioco ma anche la follia, il mondo dei sogni, il mondo dell’arte e la contemplazione scientifica (Schutz, 1962). È evidente il collegamento che si può operare qui rispetto agli interstizi definiti di secondo livello, i quali esprimono esperienze di marginalità o eccezionalità-eccentricità rispetto alla cultura dominante o alla definizione della realtà sociale considerata normale: in particolare, il caso del gioco in quanto fenomeno interstiziale (Gasparini, 2002, cap. 4) può essere inteso come l’analisi di un’area dalla sfera di significato circoscritto, vale a dire come uno di quegli universi paralleli al mondo normale ma nondimeno rilevanti o addirittura essenziali per comprendere la varietà e la completezza delle situazioni sociali inerenti; ne testimonia il fatto che nei nostri sistemi le logiche ludiche dimostrano una elevata capacità diffusiva, influenzando tra l’altro aree rilevanti e formalmente distinte come quelle dello sport e del loisir in senso lato. Per concludere questa sintetica presentazione di affinità teoriche, vorrei dar atto di una certa convergenza della prospettiva dell’interstizialità con l’originale approccio ai fenomeni sociali e all’«invenzione del quotidiano» operato da M. de Certeau (1990; de Certeau, Giard, Mayol, 1994), autore di grande polivalenza e trasversalità che ha condotto pionieristiche indagini transdisciplinari sui fenomeni ordinari e apparentemente banali della vita quotidiana, quelli che riguardano le «pratiche comuni» dell’homme ordinaire, questo eroe che viene da lontano e che, anticipando le analisi degli scienziati

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18 sociali, rappresenta in un certo senso «il mormorio delle società» (de Certeau, 1990, p. 11). In particolare, poi, va sottolineata l’attenzione rivolta dallo studioso francese, sia pure in nuce e in modo sintetico, al fenomeno interstiziale della sorpresa e dell’inatteso nei nostri sistemi sociali, a testimonianza dell’esistenza di ciò che viene da lui chiamato un «tempo accidentato» (Ibid., pp. 295-296).

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Gli interstizi della vita quotidiana nella pratica delle società contemporanee Il problema di fondo che si pone riguardo all’approccio in esame è quello del suo valore euristico. In altri termini, e schematicamente, si tratta di vedere e di capire se la prospettiva dell’interstizialità sia in grado di fornire un supplemento di senso ai fenomeni via via studiati e si presti ad essere impiegata come una categoria analitica atta a fornire, accanto ad altre, elementi descrittivointerpretativi delle società contemporanee. Cerco di offrire qui una serie di indicazioni e valutazioni, ricavate dal lavoro svolto e da quello in corso sui fenomeni interstiziali. Un primo elemento di qualche interesse al riguardo è fornito dal fatto che lo studio collegato e congiunto di fenomeni apparentemente disparati come quelli denominati interstiziali sembra aver colto e messo in luce una serie di collegamenti e riscontri che normalmente non sono accessibili o evidenti attraverso un’analisi puntuale degli stessi fenomeni singolarmente considerati. Non si tratta solo delle ipotesi generali di lettura trasversale come quelle implicite nella distinzione tra spazio-tempo-comunicazione, tra limen/limes o tra interstizi denominati di primo e di secondo livello. Si tratta anche, ad esempio, del fatto che al termine di una esplorazione che ha accostato fenomeni disparati quali viaggio-attesa-silenzio-sorpresa-dono è stato possibile rilevare una molteplicità di connessioni bilaterali tra singole esperienze interstiziali e offrire chiavi di lettura complessive di situazioni sociali o di contesti narrativi, come nella fattispecie il capitolo-chiave del racconto del Piccolo principe di SaintExupéry (1965; cfr. Gasparini, 1998, Epilogo). Un secondo elemento teorico relativamente al quale la ricerca sugli interstizi della vita quotidiana sembra promettente è rappresentato dalla messa in discussione e ridefinizione dei rapporti tra periferia e centro, vale a dire tra ciò che in un sistema dato è ritenuto o è effettivamente marginale rispetto a ciò che è considerato ed è centrale o dominante. Di singolare efficacia si presenta in proposito la descrizione fatta da I. Calvino, uno degli scrittori con-

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19 temporanei più creativi e dotati anche di immaginazione sociologica, in occasione dell’illustrazione di una delle 55 città immaginarie di uno dei suoi romanzi più acuti e visionari, Le città invisibili (Calvino, 1972). Dunque l’autore descrive il suo incontro in Cecilia, «città molto illustre», con un capraio che gli si rivolge per sapere il nome di tale città e che non è in grado di riconoscere in quanto, asserisce, «Le città per me non hanno nome: sono luoghi senza foglie che separano un pascolo dall’altro, e dove le capre si spaventano ai crocevia e si sbandano». Alla prospettiva del capraio, per il quale sono i pascoli ad essere centrali, ben discernibili e infatti da lui denotati ciascuno con un proprio nome, l’autore-cittadino contrappone la propria visione di centralità/perifericità: «Al contrario di te – affermai –, io riconosco solo le città e non distinguo ciò che è fuori. Nei luoghi disabitati ogni pietra e ogni erba si confonde ai miei occhi con ogni pietra ed erba» (Ibid., p. 158). Questo dialogo immaginario ci illustra la reversibilità tra centralità e marginalità-perifericità a cui induce un’analisi degli interstizi, specialmente di secondo livello: essi infatti rappresentano spesso degli indicatori o delle spie di mutamenti in atto e in fase di crescita, dai quali potranno originarsi nuove costruzioni e definizioni del sociale. L’osservazione sociologica recente sia a livello «macro» che «micro» ci porta effettivamente a rilevare un’estensione e un ampliamento consistenti, talora persino impressionanti, di fenomeni interstiziali qui definiti di secondo livello, cioè di quelli relegati alle manifestazioni eccezionali, marginali o straordinarie. Viene in evidenza in particolare la moltiplicazione, negli ultimi 10-15 anni, dei fenomeni di sorpresa, in contrapposizione ad un tratto culturale pregnante della nostra organizzazione sociale del tempo quale è la programmazione: le cattive sorprese collegate ad eventi tecnologici, climatici e meteorologici (incidenti, catastrofi ambientali, calamità naturali, emergenze legate a mutamenti climatici e simili) si sono progressivamente accresciute, al punto tale che un filosofo acuto ma francamente un po’ inquietante come P. Virilio ha proposto recentemente, nel corso di una singolare mostra svolta a Parigi e da lui organizzata2, di creare un «Museo dei grandi incidenti» (Musée des accidents majeurs). A questo si aggiunge la sorpresa globale determinata dagli eventi dell’11 settembre 2001 e dai mutamenti drammatici portati avanti dall’azione del terrorismo Si tratta di «Ce qui arrive – Une exposition conçue par Paul Virilio», Fondation Cartier pour l’art contemporain, Paris 2003; v. Fondation Cartier, 2003. 2

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20 internazionale, tra cui quello di Madrid dell’11 marzo 2004. In sostanza, il ripetersi e il moltiplicarsi di fenomeni considerabili fino a poco tempo fa come interstiziali (nel senso di marginali o eccezionali) riporta al centro dell’attenzione e del dibattito tali fenomeni, che tendono così a cessare di essere interstiziali3. Altre esperienze ritenute interstiziali tendono ad acquistare maggiore visibilità: è, ad esempio, il caso del dono, la cui marginalità si erode via via che nei sistemi socio-economici si diffondono in misura rilevante e condivisa pratiche come quella del volontariato o iniziative come quelle che fanno capo al cosiddetto terzo settore. In sostanza, mentre possono cambiare i fenomeni considerati come interstiziali in un certo contesto storico-sociale, la categoria dell’interstizialità rinnova con la sua duttilità la capacità di comprensione del sociale attraverso un’attenzione alle piccole cose, ai mutamenti dal basso che possono sfociare in orientamenti condivisi da gruppi e in movimenti sociali più o meno estesi. L’interstizialità può rappresentare così una prospettiva generale accanto ad altre per leggere il sociale o anche certi periodi storici; ed è indubbio che una società attraversata da forme molteplici e pervasive di mutamento come quella contemporanea si presti particolarmente ad essere studiata da questo punto di vista. Siamo così ad un terzo argomento che si collega alla questione di partenza sulla portata euristica degli interstizi della vita quotidiana: in effetti, l’esplorazione condotta su una serie oramai abbastanza numerosa di fenomeni interstiziali ha mostrato che essi sono quasi sempre indicatori di valori emergenti o in nuce, specialmente nella direzione del miglioramento della qualità della vita: cito tra l’altro il valore dell’autenticità e dello spaesamento per il viaggio e il passaggio, il valore della lentezza e della gradualità nelle esperienze di attesa e di sosta, l’aspetto della gratuità nel dono, nel gioco e nella perdita, la concentrazione nell’esperienza del silenzio, la capacità di ascolto e l’arricchimento personale nella corrispondenza epistolare. In modo più ampio, si potrebbe parlare delle potenzialità rigenerative, ricostitutive e ricreative degli interstizi in genere, da ritenersi come esperienze positive di vuoto e di pausa nel trop-plein della vita quotidiana. Riprendendo dunque in termini conclusivi la questione posta all’inizio del paragrafo, ritengo che l’interstizialità così come è stata qui definita abbia un’interessante portata euristica: la sua attitudi3 Nella presentazione della mostra suindicata si cita la frase di Freud (1914-15) che «L’accumulation met fin à l’impression de hasard».

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ne ad essere impiegata come categoria analitica si fonda principalmente sul fatto che i fenomeni relativi rappresentano, paradossalmente e letteralmente, un elemento cruciale. Ponendosi all’intersezione di azioni e di scelte umane e sociali latenti, essi costituiscono soglie che mettono l’accento su ciò che è intermedio, su quello che sta tra il prima e il dopo, tra una fase di stabilità e una di mutamento incipiente. E forse l’attitudine a vivere e a valorizzare le esperienze interstiziali non è lontana dall’idea luminosa di uomo metorios a cui alludeva quasi duemila anni fa Filone di Alessandria: di quell’uomo cioè che sta sul crinale, in posizione interstiziale dunque, e che per ciò stesso, secondo il filosofo antico, possiede un’acuità visiva particolare e una saggezza che lo distingue dagli altri uomini (Filone di Alessandria, 1986).

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Il fall-out del pensiero interstiziale: i contributi del volume I contributi che, a seguito del presente saggio introduttivo, danno sostanza al volume rappresentano un fall-out ampio e significativo, anche se ovviamente non esaustivo o sistematico, della prospettiva dell’interstizialità. Mi sembra degno di nota il fatto che una quindicina di studiosi e ricercatori provenienti non solo dalla Sociologia nelle sue diverse ramificazioni ma da un vasto spettro di discipline accademiche qui rappresentate – quali l’Antropologia culturale, la Filosofia, la Psicologia sociale, la Letteratura, il Diritto, l’Economia, la Semiotica – abbiano raccolto l’idea-ipotesi degli interstizi come possibile categoria descrittiva e interpretativa di fenomeni o esperienze della vita quotidiana, e vi abbiano reagito ciascuno dal proprio punto di vista o relativamente ad una specifica problematica, esprimendo impegno intellettuale e creatività. Anche se la dimensione teorica è preoccupazione costante e comune a tutti i contributi, nella prima parte del volume vengono presentati quelli che in modo più esplicito e diretto si pongono in questa ottica di esplorazione e ricognizione. Il contributo di Antonio De Simone (Senso ed enigma della vita quotidiana), a cavallo tra filosofia e sociologia nella tradizione simmeliana a cui si orienta, rappresenta in questa linea un puntuale affresco sul problema della quotidianità: prendendo le mosse da Lukács, da Weber e dallo stesso Simmel per poi ricollegarsi ad analisi di sociologi e filosofi contemporanei e tra l’altro all’approccio teorico dell’interstizialità, esso mette a tema il problema centrale del senso della vita quotidiana, sottolineandone il carattere di avventura (sempre mu-

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22 tuando da Simmel) e il fondamentale aspetto di incertezza e di enigmaticità. Assai diverso dal precedente nella forma e nel taglio, ma anch’esso simmeliano sin dal titolo e nell’incedere delle osservazioni che s’innestano direttamente su riflessioni relative a «piccole cose» e ad eventi ordinari della vita quotidiana, il breve e denso contributo di Alessandro Cavalli (L’ordine degli interstizi: riflessioni quasi simmeliane) allarga e approfondisce in modo interessante l’idea di interstizio relativamente al tempo, distinguendo tra gli intervalli intercorrenti tra un’azione e la successiva (che corrispondono sostanzialmente ai cosiddetti interstizi temporali di primo livello) e quelle frazioni di tempo «in cui un’azione precedente si sovrappone a un’azione successiva» non ancora terminata. Mentre nel primo caso si può ovviare con azioni e strategie di riempimento (come quelle chiamate da scrive di arredamento dell’attesa: Gasparini, 1998, cap. 2) nel secondo si pone secondo Cavalli un problema di «disordine», derivante dalle interruzioni che – come quelle indotte tipicamente dal telefono cellulare – punteggiano la nostra giornata e ostacolano il completamento delle azioni iniziate precedentemente. La proposta dell’autore è di utilizzare gli interstizi del primo tipo «per ‘sanare’ il disordine provocato dagli interstizi del secondo tipo»: in realtà, il problema che sta sullo sfondo è molto vasto e riporta alla sempre più diffusa e invasiva pratica del multitasking favorita o indotta dagli strumenti della telecomunicazione moderna e cioè al fare più cose contemporaneamente, delle quali una legata alla comunicazione a distanza o alla riproduzione di suoni e immagini (cellulare, radio, televisione, computer, walkman o lettore di cd ecc.). Altri due saggi si collocano nella linea di accostamento tra concetti e approcci di autori classici o comunque rilevanti e la categoria dell’interstizialità. Il contributo antropologico di Giovanna Salvioni (Le piccole grandi cose: interstizi e riti di passaggio) parte dalla constatazione del carattere paradossale degli interstizi, che si rivelano in realtà «come la più densa, concentrata presenza di senso, come il momento più ricco e creativo di un intero processo»: essi vengono accostati al noto schema dei riti di passaggio di A. Van Gennep e illustrati attraverso alcuni esempi tratti da società africane. Da parte sua, il contributo di Fabio Introini e Cristina Pasqualini (Aprirsi all’inatteso: la sorpresa in Michel de Certeau e Edgar Morin) si pone nella logica di trarre dall’approccio di due eminenti studiosi contemporanei elementi di conferma di un fenomeno interstiziale particolarmente importante nella società contemporanea, come accennato in precedenza, quello della sorpresa: il lavoro di accostamento tra questi due autori dotati di grande polivalenza e apertura alle intersezioni

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23 transdisciplinari riesce in effetti a individuare tra essi una convergenza, quella che appare soprattutto nella paradossalità di «considerare l’esperienza dell’inatteso come evento quotidiano». Il contributo successivo, di Francesca Rigotti (Una filosofia delle piccole cose), è opera di un’autrice già richiamata all’inizio dell’Introduzione e che con le sue considerazioni e le sue esemplificazioni creative – porte, ragni e fessure, giochi di bambini per la strada – sviluppa ulteriormente non solo la connessione tra grandi cose e piccole cose in filosofia ma anche il legame tra queste ultime e la prospettiva dell’interstizialità che è al centro del presente volume. Per chiudere la presentazione dei saggi della prima parte, resta da accennare al contributo di Laura Balbo (Tre letture interstiziali), che rilegge attraverso la categoria dell’interstizialità tre aree che rappresentano nello stesso tempo terreni dei quali e nei quali l’autrice ha avuto diretta e fattiva esperienza, in termini operativi e/o di ricerca: si tratta dell’attività politica, considerata come «mondo a parte» (e, cioè, come realtà eccezionale rispetto a quella degli attori normali, dunque come interstizio di secondo livello secondo lo schema qui adottato); dell’idea e delle ricerche sulla «doppia presenza» per interpretare le problematiche delle donne ai confini tra lavoro e universo domestico-familiare; e dell’esperienza, lanciata dall’autrice con altri sociologi della vita quotidiana negli anni Novanta, della pubblicazione annuale di Friendly –Almanacco della società italiana, che veniva definito «uno strumento per osservare la società italiana (e noi che ci viviamo) da un punto di vista che è quello dei soggetti nel loro vivere di ogni giorno». L’interesse del richiamo a questo progetto e pubblicazione è anche di tipo metodologico: non solo nel senso di una rilettura compiuta dall’autrice nei confronti della «scelta di quella metodologia che, evidentemente, è interstiziale», ma anche perché indica per il prossimo futuro l’opportunità di mettere a tema il problema metodologico, accanto e insieme a quello teoretico, negli studi e nelle ricerche sull’interstizialità. I contributi della seconda parte del volume («Punti di vista interstiziali su fenomeni ed esperienze socioculturali») rappresentano un singolare éclatement del «pensiero interstiziale», nel senso non solo di uno sviluppo e di un’applicazione ma di qualcosa che assomiglia letteralmente ad uno scoppio, al fall-out di un fuoco d’artificio che da un unico nucleo originante si irradia e ramifica in molte linee, rivoli o derive. Per questo, credo che la prima impressione che potrebbe avere un lettore – quella di trovarsi di fronte a contributi disparati o eccessivamente eterogenei – debba essere corretta tenendo

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24 conto dello sforzo di connessione e collegamento ad un core problematico centrale che è stato compiuto da tutti gli autori, i quali hanno provenienze disciplinari e accademiche assai diversificate. Lo scritto di Enrico M. Tacchi (Interstizi e aree di interscambio nella città) ha il pregio di riportare il nucleo della problematica attuale della sociologia urbana – e delle relative, possibili politiche territoriali – nell’ambito della prospettiva interstiziale e di cogliere le connessioni tra interstizi spaziali, come le aree di risulta e quelle di interscambio, e interstizi temporali. Un tema di grande rilievo dal punto di vista della qualità della vita che viene accennato è quello della possibile «trasformazione in luoghi sociali delle aree sinora considerate come ‘non luoghi’», riprendendo la nota formulazione di Augé. Di taglio ben diverso è l’esplorazione condotta nel contributo di Luigi Colaianni (La sospensione dell’azione nel fronteggiamento di eventi inediti e inaspettati). Avvalendosi dei risultati di una ricerca empirica di carattere psicosociologico, l’autore legge nella chiave dell’interstizialità, e particolarmente dell’interruzione di una aspettativa consolidata nel tempo (expectation) e della sorpresa, l’accadimento di eventi inediti e difficili da fronteggiare che possono intervenire nel corso di vita di un attore e cambiarne il carattere: come fra l’altro il «diventare ‘pazienti psichiatrici’, il ritrovarsi senza lavoro in età avanzata, subire violenze e/o abusi sessuali» o anche, semplicemente, l’andare in pensione o il perdere una persona cara. La sorpresa e la mancata capacità di anticipazione vengono rielaborate successivamente dagli attori: il contributo analizza le modalità da essi utilizzate più frequentemente al riguardo, in particolare il comportamento di «resa-e-cattura» che permette di accettare la nuova realtà e di riprendere l’azione. Alla tematica del corpo è dedicato il contributo seguente, dovuto a Paolo Volontè (Gli interstizi nella comunicazione corporea: il nudo). Egli conduce un’esplorazione al confine tra sociologia, semiotica ed estetica sul linguaggio degli abiti e su quello del corpo, così come sul corpo svestito e rivestito: di particolare interesse è qui la proposta di recupero della categoria dell’interstizialità, nel senso della sospensione e marginalità, per interpretare il nudo artistico (si cita il David di Michelangelo) e il nudo nella medicina, in particolare nel corso degli interventi chirurgici. I tre contributi successivi sono in qualche modo legati dal ricorso a fonti consistenti in testi scritti o rappresentati: letteratura, televisione e cinema. Lo scritto di Claudio Scarpati su Montale (La poesia di Montale e gli interstizi) coglie l’attenzione alle piccole cose e ai fenomeni interstiziali della vita quotidiana che il premio Nobel espresse soprattutto nella seconda fase della sua poesia, dal 1970 in

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25 poi: ma se il linguaggio poetico porta «il peso della banalità quotidiana» è perché – nota Scarpati, in sintonia con l’idea di valore paradossale degli interstizi sostenuta in questo volume – «dal fondo qualcosa si sollevi, dal grigiore qualcosa torni a balenare: un’ipotesi, una possibilità, una verità conquistata, un’intuizione». Il contributo di Piermarco Aroldi (Il consumo interstiziale di televisione), che si basa su un’approfondita conoscenza delle caratteristiche e funzioni della televisione, offre un’interpretazione di questo medium dal punto di vista dell’interstizialità, nel senso di un’attività diffusa e anzi preminente della vita quotidiana che si può concepire come «una pratica che sta fra altre dal punto di vista temporale, qualificandosi come un ‘interstizio di primo livello’, come la sosta o l’attesa»: di particolare interesse dal punto di vista teorico è, nelle considerazioni conclusive, la proposta di far interagire «due ‘quasi concetti’ come le aspettative sociali di durata di Merton e la nozione di ‘interstizio’». Lo scritto di Concetta Cammarata e Miriam Visalli (Passaggi e soste nel film Colazione da Tiffany di Blake Edwards) è un esercizio di rilettura di un film ben noto nella storia del cinema (tratto dal romanzo di Truman Capote) attraverso la griglia degli interstizi spaziali e temporali (passaggio, viaggio, sosta) ma anche di quelli cosiddetti di secondo livello (dono, sorpresa, gioco) e con la messa in evidenza del valore delle piccole cose, come è quell’anellino insignificante che Paul trova in una scatola di pop-corn ma che egli farà incidere e donerà alla protagonista Holly, facendone l’oggetto emblematico della narrazione filmica. Alla tematica degli oggetti materiali, ma in un’ottica molto diversa e peculiare, è dedicato il successivo contributo di Giampaolo Azzoni, che si occupa di piccole cose interstiziali davvero rimosse e non considerate quali sono i resi, sia quelli dovuti che quelli non dovuti: il suo approccio media tra analisi giuridica, filosofica ed estetica, senza trascurare considerazioni di carattere ecologico. Chiude la seconda parte del volume lo scritto di Pierpaolo Varri, che reagisce da economista alla provocazione intellettuale dell’interstizialità e delle «piccole cose», considerata in quanto fattore di emersione di nuovi valori ed orientamenti imprevisti nei sistemi sociali: la sua attenzione e la sua riflessione sono rivolte alle caratteristiche e alle conseguenze – inattese dalla teoria economica – che, in termini di comportamento dei consumatori, hanno accompagnato la recente introduzione dell’euro nel nostro paese. In complesso, mi sembra che la varietà, la trasversalità e l’impegno con cui sono stati scritti i vari capitoli del libro – quasi tutti brevi ma

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26 densi, in coerenza con la logica stessa degli interstizi e delle piccole cose – testimonino che la sfida è stata accolta e raccolta: quella, intendo, di reagire ad una proposta inconsueta e apparentemente eterodossa, che mi pare in realtà sempre più sostenibile dal punto di vista anzitutto teorico. I contributi del volume non solo dimostrano che la nozione di interstizio è praticabile ed efficace in parecchi casi o contingenze; essi anzi estendono, attraverso nuove esplorazioni teoriche ed empiriche, la portata e l’applicabilità stessa della categoria dell’interstizialità in quel compito di descrizione e comprensione innovativa delle società postindustriali che oggi fronteggia le scienze umane e sociali. Il lettore noterà, attraverso la varietà quasi sconcertante degli argomenti specifici trattati, la ricorrenza dei riferimenti ad alcuni grandi classici del pensiero filosofico, sociologico e antropologico; e non gli sfuggirà la frequenza con cui gli autori esemplificano o arricchiscono le loro analisi attraverso il ricorso alla grande poesia – Dante, Leopardi, Keats, Rilke, Montale – e all’arte, da Michelangelo a Beuys: anche questo fatto testimonia l’atteggiamento a passare attraverso i confini e le intersezioni disciplinari a cui spinge un pensiero per così dire interstiziale. Naturalmente, questa prospettiva offre solo uno strumento analitico innovativo accanto ad altri. La stessa strategica ampiezza semantica del termine «interstizio» va utilizzata cum grano salis, senza annacquarlo né pretendere di farne un grimaldello o una sorta di elemento catch-all o fourre-tout4. E vanno sviluppati alcuni aspetti che consentano una più esplicita legittimazione metodologica dell’approccio: ad esempio, come indagare su questi fenomeni ed esperienze della vita quotidiana, come stabilire un loro corretto feed-back rispetto alla teoria sociologica e alle analisi delle scienze sociali in genere. Vorrei sottolineare, in chiusura, la sintonia di questo volume, almeno come auspicio e come deriva, con l’insegnamento di un maestro della sociologia contemporanea, Charles Wright Mills. Credo che la sua felice e ormai classica intuizione di una immaginazione sociologica da sviluppare e coltivare resti uno stimolo costante a ripensare categorie e schemi concettuali, a non cessare di esplorare per mettere a punto strumenti analitici nuovi e adatti a questa società ipercomplessa nella quale a noi – ricercatori, osser4 Si noti che per entrambi i termini indicati la traduzione italiana più evidente è «ripostiglio», voce che tuttavia non rende adeguatamente la ricchezza semantica degli originali inglese e francese.

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27 vatori, persone comuni, hommes et femmes ordinaires – è stato dato di vivere e di riflettere oggi. Ma soprattutto, per concludere veramente, mi sembra che i contributi del volume dicano che resta immutata la bellezza di un’avventura intellettuale che è partita come una piccola cosa e rimane tale. E al curatore, se è consentito, va la gratificazione di aver socializzato un’idea, di aver offerto alla comunità dei ricercatori uno spunto di immaginazione sociologica che si sta forse rivelando di qualche utilità.

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Passo ora ai ringraziamenti: anzitutto ai miei giovani collaboratori – Cristina Pasqualini e Fabio Introini – che mi hanno sostenuto entusiasticamente nell’idea di questo volume atipico, nato e cresciuto quasi come un sorprendente evento interstiziale, e mi hanno aiutato a realizzarlo5; a tutti i colleghi e amici che hanno risposto e reagito, davvero al di là delle mie attese, alla provocazione teorica dell’interstizialità e hanno saputo concretizzare nel libro riflessioni significative e promettenti, porteuses come dicono i francesi; a Paolo Jedlowski e Carmen Leccardi della sezione Vita Quotidiana dell’Associazione Italiana di Sociologia; a Vincenzo Cesareo e a Luigi Campiglio, rispettivamente direttore del Dipartimento di Sociologia e pro-rettore della mia università, l’Università Cattolica di Milano.

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Bibliografia Alberoni F. (1977), Movimento e istituzione, il Mulino, Bologna. Berger P. (1997), Homo ridens, tr. it. il Mulino, Bologna 1999. Calvino I. (1972), Le città invisibili, Einaudi, Torino. de Certeau M. (1990), L’invention du quotidien, 1. Arts de faire, Gallimard, Paris. de Certeau M., Giard L., Mayol P. (1994), L’invention du quotidien, 2. Habiter, cuisiner, Gallimard, Paris. De Mauro T. (2000), Il dizionario della lingua italiana, Paravia Bruno Mondadori, Milano. Filone di Alessandria (1986), L’uomo e Dio, Rusconi, Milano.

5 Il volume rappresenta l’esito di un lavoro avviato nel workshop «Le piccole cose – Interstizi e teoria della vita quotidiana» organizzato da chi scrive nell’ambito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica, con il supporto dell’Associazione Italiana di Sociologia – Sezione Vita Quotidiana, a Milano (Università Cattolica), il 7 novembre 2003.

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28 Fondation Cartier pour l’Art contemporain (2003), Ce qui arrive [Catalogue d’une exposition organisée par Paul Virilio], Actes Sud, Arles. Gasparini G. (1992), «L’attesa: un tempo interstiziale?», Studi di sociologia, XXX, 1, pp. 23-43. – (1994), La dimensione sociale del tempo, Franco Angeli, Milano. – (1995), «On waiting», Time & Society, IV, 1, pp. 29-45. – (1998), Sociologia degli interstizi – Viaggio, attesa, silenzio, sorpresa, dono, Bruno Mondadori, Milano. – (2001), «Un bosco disetaneo», Vita e Pensiero, 84, 6, pp. 514-525. – (2002), Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma. – (2004a), «Gli interstizi della vita quotidiana: verso una nuova categoria analitica?», Quaderni di teoria sociale, in stampa. – (2004b), «Terrorismo, etica e vita quotidiana», Rivista del clero italiano, LXXV, 5 pp. 389-399. – (2004c), «Anticipation and the surprises of everyday life», Social Science Information/Information sur les Sciences Sociales, 43, 3, in stampa. Gladwell M. (2000), Il punto critico, Rizzoli, Milano. Rigotti F. (1999), La filosofia in cucina, il Mulino, Bologna. – (2002), Il filo del pensiero, il Mulino, Bologna. – (2004), La filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara. Roche D. (1997), Storia delle cose banali, tr. it. Editori Riuniti, Roma 2002. Roy A. (1997), Il dio delle piccole cose, tr. it. Guanda, Parma 1997. – (1999), La fine delle illusioni, tr. it. Guanda, Parma 1999. Saint-Exupéry A. de (1943), Il piccolo principe, tr. it. Bompiani, Milano 1965. Schumacher E.F. (1977), Piccolo è bello, tr. it. Mondadori, Milano 1978. Schutz A. (1962), «On multiple realities», in Id., Collected papers, I. The problem of social reality, M. Nijhoff, The Hague. Turner V.W. (1969), Il processo rituale, tr. it. Morcelliana, Brescia 1972. Van Gennep A. (1909), I riti di passaggio, tr. it. Boringhieri, Torino 1981. Weil S. (1970), Quaderni, I, tr. it. Adelphi, Milano, 19913.

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PARTE PRIMA

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ESPLORAZIONI E RICOGNIZIONI TEORICHE

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SENSO

ED ENIGMA DELLA VITA QUOTIDIANA:

UNO SGUARDO FILOSOFICO E SOCIOLOGICO

Antonio De Simone

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Il problema della quotidianità: tra Simmel e Lukács

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Dopo Simmel, tra l’altro oggi considerato anche «il nume tutelare della sociologia della vita quotidiana» (Jedlowski, 2003, p. 33)1, è stato Geörgy Lukács – a suo tempo uno dei più brillanti giovani allievi di Simmel a Berlino2 – a sostenere (poco prima della sua scomparsa, datata 4 giugno 1971) nella Prefazione al volume della sua allieva Agnés Heller – Sociologia della vita quotidiana – che «la vita quotidiana possiede una universalità estensiva. La società può essere compresa nella sua totalità, nella sua dinamica evolutiva, solo quando si è in grado di intendere la vita quotidiana in questa sua eterogeneità universale. Questa costituisce la mediazione oggettivo-ontologica fra la semplice riproduzione spontanea dell’esistenza fisica e le forme più alte della genericità divenuta cosciente, appunto perché in essa ininterrottamente le costellazioni più eterogenee fanno sì che i due poli umani delle tendenze appropriative della realtà sociale, la particolarità e la genericità, operino nella loro interrelazione immediatamente dinamica». Uno studio della sfera specifica della vita quotidiana «può dunque far luce sulla dinamica interna dello sviluppo della genericità dell’uomo, proprio in quanto contribuisce a rendere 1 Con efficace sintesi sempre Jedlowski ha scritto: «Attraverso lo sguardo di Simmel, la vita quotidiana appare soprattutto come la dimensione dell’esistenza in cui gli elementi oggettivi e soggettivi della vita sociale si fondono nel dar forma all’esperienza degli individui. In altri termini, appare il luogo in cui si fa più evidente che mai il modo in cui, sottilmente, gli assetti del mondo che ci circonda penetrano in ciascuno di noi, e in cui le forme della nostra sensibilità o dei nostri atteggiamenti nei confronti della vita, altrettanto sottilmente, penetrano nelle cose stesse» (Jedlowski, 2003a, pp. 181-182). 2 Cfr. De Simone, 2002, pp. 23-33 e pp. 263-291.

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32 comprensibili quei processi eterogenei che, nella realtà sociale stessa, fanno realmente venire in vita le realizzazioni della genericità» (Lukács, 1975, p. 12). Per Lukács, quindi, la vita quotidiana, ovvero la forma immediata della genericità dell’uomo, «appare come la base di tutte le reazioni spontanee degli uomini al loro ambiente sociale la quale spesso mostra di operare in modo caotico. Ma proprio per questo vi è contenuta la totalità di questi modi di reazione, naturalmente non come manifestazioni pure, bensì caotico-eterogenee. Chi voglia dunque comprendere la reale genesi storico-sociale di queste reazioni, è obbligato dal punto di vista sia del contenuto che del metodo a indagare con precisione questa zona dell’essere» (Ibidem). Il filosofo ungherese ha avuto il merito, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, vero e proprio spartiacque epistemologico-fondativo della sociologia della vita quotidiana, di porre in rilievo la tematizzazione della «quotidianità» come problema centrale dell’analisi teoretica, tanto filosofica quanto sociologica. Tale tematizzazione costituisce uno dei Leitmotiven di questo breve contributo. Nel suo approccio ontologico – specifico soprattutto delle sue ultime opere, tra le quali l’Ontologia dell’essere sociale (Lukács, 1976, 1981) – Lukács, con «l’occhio rivolto alla realtà», ritiene che il tema della estrema eterogeneità della vita quotidiana contribuisca a definire meglio «il campo d’indagine capace di riunire la particolarità degli individui concreti alle grandi casualità economiche e sociali del processo storico». Partendo dall’autentica costituzione ontologica dei caratteri paradossali dell’essere e del divenire della vita quotidiana si può così giungere ad un campo di ricerca fondamentale rivolto alla comprensione della genesi e del divenire dell’essere sociale concreto. Illuminare il quotidiano come «genesi e base ontologica delle principali forme di oggettivazione umana», questo è il compito che si prefigge Lukács già a partire dal breve ma strategico capitolo Vita quotidiana, persona privata e bisogno religioso (per lo più ignorato dai sociologi della vita quotidiana contemporanei) della sua Estetica del 1963 (Lukács, 1975a, pp. 835-863), che può senz’altro essere annoverato tra le fonti teoriche della sociologia della vita quotidiana contemporanea e che precede l’analisi successiva ed estesa che il filosofo ungherese compirà della dialettica tra la particolarità della vita individuale e la genericità dell’oggettivazione sociale (in primo luogo il lavoro) che egli svilupperà nell’opera postuma Ontologia dell’essere sociale. Il necessario richiamo a questo capitolo dell’Estetica è essenziale perché è qui che Lukács, tra l’altro, pone il problema del senso e dell’enigma della vita quotidiana. Per Lukács, «ogni attività dell’uomo, ogni sua ricezione dei fenomeni si svolge in un contesto sociale e quindi è oggettivamente lega-

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ta – in modo diretto o indiretto, da vicino o da lontano – al destino della specie umana, allo sviluppo dell’umanità» (Ibid., p. 835). L’uomo quotidiano, in virtù della sua individualità personale e privata quale «centro motore di tutto nella vita e nel pensiero, nel sentimento e nell’azione», nella sua autoriproduzione «crea strumenti che non possono essere maneggiati in modo adeguato se egli stesso usandoli non supera la sua individualità personale o almeno non tende a oltrepassarla in qualche direzione» (Ibid., p. 836). In questo movimento dialettico dell’esistenza la sua individualità personale non viene mai distrutta: essa anzi «resta sempre la base di vita cui si attingono le forze essenziali per il suo autosuperamento, la riserva ultima che alimenta gli sforzi in vista sia dei fini prossimi che dei fini supremi» (Ibidem)3. Se l’individualità personale non viene di fatto annullata, ciò non significa che essa sia semplicemente conservata: «il suo elevarsi a un livello superiore del possibile umano-sociale provoca in essa trasformazioni di contenuto e di struttura che implicano un esser-altro qualitativo rispetto al suo modo di essere originario e immediato» (Ibidem). Benché la scienza e l’arte siano tra i più forti fattori della trasformazione qualitativa dell’individualità personale immediata e nonostante nella spontaneità della vita quotidiana tutto sia riferito all’io privato e individuale, occorre sottolineare che le esperienze, in primo luogo quelle del lavoro, insegnano sì agli uomini ad osservare a fondo le leggi, da loro indipendenti, della realtà oggettiva; ma è proprio della vita quotidiana il riferire le conoscenze così acquisite all’io individuale: la sua fortuna o sfortuna nel controllo sul mondo, ottenuto mediante l’osservazione delle sue leggi, appaiono a loro volta riferite al soggetto: l’uomo della vita quotidiana dimentica fin troppo spesso che egli stesso col suo lavoro ha imposto al mondo oggettivo una teleologia; ritiene che la stessa vicenda del mondo sarebbe teleologica, e nel senso che la sua sorte individuale-personale dovrebbe costituire almeno uno dei punti nodali delle serie teleologiche (Ibid., p. 839). Lukács, com’è noto, si rifà a Nicolai Hartmann, il quale ha bene analizzato la dimensione gnoseologica della spontaneità della vita quotidiana (Hartmann, 1951). Muovendo dalla rappresentazione oggi corrente della vita quotidiana, e dal modo di pensare che in essa predomina, Hartmann si pone i seguenti interrogativi: «C’è la tenden3

Ibidem.

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34 za a chiedersi in ogni occasione ‘a che scopo, perché’ è andata proprio così? ‘Perché mi è dovuto capitare questo?’, oppure: ‘Perché devo soffrire così?’, ‘Perché egli è dovuto morire così presto?’. Per ogni fatto che in qualche modo ci ‘tocca’ è ovvio porsi queste domande, anche se esprimono soltanto perplessità o impotenza. Si presuppone tacitamente che quel fatto debba essere buono per qualche cosa; si cerca di trovarvi un senso, una giustificazione. Come se fosse pacifico che tutto ciò che accade debba avere un senso» (Ibid., p. 13). All’uomo quotidiano il caso appare come un che di incalcolabile, che stravolge e turba i suoi progetti. Qui si danno soltanto due possibili movimenti. L’uno «tende a conoscere la necessità causale del caso, la dialettica di caso e necessità, riconosciuta ed elaborata filosoficamente per la prima volta da Hegel» (Lukács, 1975a, p. 840). L’altro movimento ha le sue radici nella concezione generale del mondo della vita quotidiana. Da essa consegue l’avversione del pensiero quotidiano contro il caso: «esso non può essere negato come fatto», ma è interpretato come «un che di previsto e di voluto al tempo stesso», dietro al quale sta un’altra preveggenza, «non più umana, una volontà superiore a quella dell’uomo». Qui appare in tutta evidenza come la «concezione del mondo» della vita quotidiana trapassi nella sfera religiosa. Questo fenomeno, di per sé profondamente radicato nella vita quotidiana, è dovuto al fatto che nella vita quotidiana «teoria e prassi sono in rapporto immediato» (Ibidem). In virtù di questo principio «universalmente dominante», tutto «è riportato all’io attraverso un riferimento teleologico, in quanto nella vita quotidiana ogni spiegazione dei nessi oggettivi ottenuta nel lavoro e nella scienza, ogni superamento artistico dei riferimenti al soggetto, cioè esistenti in sé, torna sempre a dipendere in modo teleologico spontaneo dal soggetto individuale personale» (Ibidem). Per Lukács, la profonda «affinità» tra la vita quotidiana e la vita determinata dalla religione dipende dal fatto che «la religione – a differenza dell’arte e della scienza che distruggono questo riferimento teleologico spontaneo all’io individuale – tende e deve tendere a conservare, a perpetuare questa struttura» (Ibid., pp. 840-841). Hartmann ha chiarito, sia sul piano del contesto categoriale dei «fatti elementari» della vita quotidiana che su quello dei problemi ideologici, come il riferimento teleologico all’io personale finisca col deformare e falsificare le questioni che si presentano. Illustrando la falsa alternativa: «il mondo dev’essere o sensato o insensato», Hartmann ha spiegato come anche questo dilemma di fatto «nasce soltanto dal riferimento teleologico del mondo esterno all’io personale, dove l’insensatezza – sotto l’aspetto negativo – è teleologicamente raggruppata intorno all’uomo individuale al pari della sensatezza, valutata positivamente»

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35 (Ibid., p. 841). Diversamente da tutto ciò, oggettivamente si può individuare secondo Hartmann una terza possibilità relativa alla datità di un mondo che «non è né sensato né insensato ma indifferente rispetto al senso» (Ibidem). Esso, come scrive Hartmann,

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è il mondo che nel suo complesso non è determinato rispetto al senso, e nel quale a seconda delle circostanze (cioè secondo la cieca necessità del ‘caso’) sensatezza e insensatezza si mescolano variamente. Ma è proprio ciò che vediamo empiricamente di continuo nel mondo dato. Di questa varia mescolanza tra sensatezza e insensatezza non si deve dare affatto un’interpretazione teleologica; in essa non c’è alcuna direzione prestabilita […]. Solo l’uomo con la sua interpretazione ha trasformato il senso aperto del mondo in un senso chiuso. Solo così egli nega la significatività che poteva dargli e ne fa un mondo veramente insensato (Hartmann, 1951, p. 109).

Se nella pratica quotidiana il momento centrale è costituito «dalla preservazione della personalità individuale», soprattutto attraverso il lavoro, con il quale «l’uomo acquista coscienza di un reale rapporto soggetto-oggetto» (Lukács, 1975, p. 842), tuttavia, secondo Lukács, la vita quotidiana non è affatto semplicemente «la scena di attività pratiche immediate», poiché in essa trovano posto «grandi drammi della vita umana» (Ibid., p. 847). Basti pensare al fenomeno della morte, – (intesa anche nella dimensione interstiziale della perdita)4 –, alla nostra o a quella di una persona a noi strettamente legata. La morte come situazione estrema rivela con molta chiarezza le determinazioni reali della vita quotidiana nel loro nesso reale. A suo tempo, già Simmel, nel suo saggio «Zur Metaphysik des Todes» apparso su Logos (1910-11)5, poi sostanzialmente ripreso e modificato nel terzo capitolo della Lebensanschauung (Tod und Unsterblichkeit) del 1918 (Simmel, 1997, pp. 79-122), aveva affrontato il tema della morte come forma-limite, come elemento consustanziale della vita. Nel «più-vita» (Mehr Leben) è implicito l’estraneo alla vita: il suo altro – la morte del «più-che-vita» (Mehr als Leben). Per Simmel, la morte «è il momento costitutivamente formale della vita, il suo ‘confine immanente’, connesso alla vita ‘fin dal principio e dall’interno’. E in ciò essa rivela lo stesso segreto della forma» (Desideri, 1993, p. 115). Scrive infatti Simmel: «Il segreto della forma sta nel fatto che essa è limite; essa è la cosa stessa e ad un tempo il cessare della cosa, il ter4 5

Cfr. Gasparini, 2002, pp. 79-93. Cfr. Simmel, 1976, pp. 67-73.

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36 ritorio in cui l’essere e il non-essere-più della cosa sono una cosa sola» (Simmel, 1997, p. 79). La forma è «confine» spaziale e temporale e la morte è ciò che delimita la vita dell’uomo, ciò che appunto le conferisce forma: «proprio per il fatto che il vivente muore, che il morire è posto con la sua natura stessa […], la sua vita riceve una forma» (Ibidem). La morte, intesa come limite invalicabile della vita, «è propriamente ciò che giustifica la vita stessa, conferendole un senso: l’esistenza individuale in quanto forma irripetibile, è ciò ch’è destinato a essere superato dal procedere incessante della vita» (Monceri, 1999, p. 123). Pur essendo «l’antitesi materiale della vita», tale antitesi della vita non ha altra origine se non nella vita stessa: «è la vita stessa che l’ha prodotta e che la racchiude in sé» (Simmel, 1997, p. 81). Come leggiamo nel suo Rembrandt del 1916, per Simmel, «sin dall’inizio la morte è dentro la vita» (Simmel, 1991, p. 106). Certo – prosegue Simmel –, essa raggiunge una evidenza macroscopica, una sorta di autocrazia, solo in quell’attimo. Ma la vita sarebbe diversa sin dalla nascita, e in ciascuno dei suoi momenti e in ciascuna delle sue fasi, se noi non morissimo. La morte non si pone rispetto alla vita come una possibilità che prima o poi diverrà realtà, ma la nostra vita vien resa ciò che noi conosciamo solo dal fatto che, crescendo o appassendo, al culmine della vita come all’ombra del suo declinare, noi siamo sempre destinati a morire (Ibidem).

La morte è sin dall’inizio «un character indelebilis» della vita. Coabitando con la vita, la morte è in essa costantemente presente: «In ogni momento della vita noi siamo esseri che moriranno ed ogni momento sarebbe diverso se questa non fosse la nostra destinazione connaturata, attiva in qualche modo in esso» (Simmel, 1997, p. 81). La morte però non è l’ultima forma, ma soltanto «un momento» formale della nostra vita: «La vita che noi consumiamo nell’avvicinarci alla morte, la consumiamo per fuggire la morte» (Ibid., p. 88). Di fronte alla forma-limite, all’esperienza della morte, ovvero «all’annullamento inesorabile proprio della personalità individuale dell’uomo», come dice Lukács, le determinazioni decisive della vita religiosa «devono apparire in tutta la loro evidenza e nel pieno della loro problematicità interna» (Lukács, 1975a, p. 847). In questo caso, l’essenziale diventa «il fondamento del bisogno religioso nella vita quotidiana, il desiderio che il nesso causale del tutto indipendente dalla coscienza umana subisca una conversione teleologica che corrisponda alle esigenze di vita più elementari e più autentiche dell’individuo particolare e personale» (Ibidem). In tale situazione la «preghiera religiosa» assume una particolare determinazione magi-

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37 ca in quanto «si rivolge alla misericordia di Dio e spera di ottenere che egli faccia un miracolo, cioè sospenda in questo caso speciale l’azione normale delle leggi di natura, che la religione di regola riconosce» (Ibidem). Anche per Lukács, dunque, il rapporto della morte col bisogno religioso è per sua essenza «un problema della vita, della condotta della vita umana», anche se, implicitamente, «nella maggior parte dei casi le connessioni, le mediazioni vere e reali non diventano consapevoli» (Ibidem). Lukács per comprendere gli effetti problematici di questo rapporto si richiama a Tolstoj, il quale, soprattutto in riferimento alla religiosità esteriore del contadino, ha cercato nelle sue opere di chiarire la profonda corrispondenza tra la condotta di vita e la morte, del rapporto tra vita sensata o insensata. Per lui, scrive Lukács, «l’aspetto soggettivo della morte, come conclusione di ogni vita, corrisponde quindi esattamente alla condotta di vita della persona: la vita vissuta sensatamente è conclusa da una morte calma, la vita insensata è conclusa da una lotta tormentosa e disperata con la fine insensata» (Ibid., p. 849)6. Nella modernità la specifica problematicità del bisogno religioso viene condizionata dallo sviluppo del processo di razionalizzazione scientifica e di parallelo «disincantamento del mondo», che non riesce a conferire alla vita un senso che oltrepassi la dimensione meramente pratica e tecnica. Per spiegare questa contraddittorietà, anche Weber7, di cui Lukács è stato da giovane allievo, ha fatto esplicitamente riferimento a Tolstoj, concordando «simpateticamente» con lo scrittore russo nel ritenere che la morte e con essa la vita non possono in quanto tali ricevere senso dalla scienza. Al riguardo Löwith ha osservato: «Weber si richiama al vecchio Tolstoj, che disse di no a tutta questa civiltà tecnico-scientifica, e per un motivo validissimo. Egli si chiedeva se la morte avesse un significato in una civiltà così industrializzata; per l’uomo appartenente a una civiltà pervasa da volontà di progresso e da fede nel progresso essa non ce l’ha, perché in conformità all’infinito progresso scientifico la vita non dovrebbe avere una fine» (Löwith, 1994, p. 103). Un brano della celebre conferenza Wissenschaft als Beruf ribadisce il significato del richiamo di Weber a Tolstoj: Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva ‘vecchio e sazio della vita’ poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non

6 7

Ibid., p. 849. Cfr. De Simone, 1999, pp. 168 sgg.

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rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne ‘abbastanza’. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì ‘stanco della vita’, ma non sazio della vita. Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua ‘progressività’ priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque, nei suoi ultimi romanzi, quest’idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj (Weber, 2001, p. 18).

Nell’orizzonte filosofico in cui si muove Lukács, in termini ontologici, lavoro, teleologia e libertà, linguaggio, particolarità e generalità, oggettivazione, alienazione ed estraniazione sono alcune delle categorie specifiche dell’essere sociale considerate in rapporto al tema della vita quotidiana. La peculiarità dell’essere sociale come «complesso dei complessi» è individuata nella capacità dell’uomo di dare risposte alle necessità vitali e all’ambiente: l’uomo, come «soggetto dell’alternativa» (Lukács, 1981, p. 114), «è un essere che risponde» (Ibid., p. 324)8. Nello specificare il ruolo della vita quotidiana, Lukács distingue, da un lato, le forme superiori di oggettivazione (ad es., arte e/o scienza), e, dall’altro, il complesso delle oggettivazioni che sono di fatto finalizzate alla riproduzione della vita biologica e di una data società (Mancini, 1985, p. 152). «Nelle prime l’uomo, oltre a essere un ente che risponde, è sempre più l’ente che domanda, acquistando distanza dall’ambiente naturale ed originando egli stesso l’impulso a nuove conoscenze e realizzazioni. Le seconde rappresentano il nerbo della quotidianità e sono caratterizzate da un pensiero antropomorfizzante, che cioè riferisce ogni fatto al singolo soggetto che lo sta vivendo» (Ibidem)9. A partire dal paradigma dell’interstizio: pensare sociologicamente la vita quotidiana Nelle condizioni odierne, pensare sociologicamente cosa significa dar senso alla vita quotidiana comporta di fatto prendere posizione su 8 9

Ibid., p. 324. Ibidem.

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39 una realtà controversa ed enigmatica della nostra contemporaneità personale e individuale in continua trasformazione. È necessario comprendere ed analizzare meglio la dimensione epistemologica delle categorie sociologiche con cui pensiamo la vita quotidiana se non vogliamo fare della sociologia della vita quotidiana una filosofia falsamente «popolare». A questo proposito, si può e si deve riconoscere sul piano analitico, concettuale ed euristico un particolare valore strategico all’interstizio come vero e proprio «paradigma sociologico» capace di riflettere analiticamente e comprendere ermeneuticamente le molteplici esperienze che connotano la vita quotidiana. È merito della sociologia degli interstizi – sviluppata recentemente da Giovanni Gasparini (1998, 2001) – aver chiarito in modo originale e persuasivo che gli interstizi della vita quotidiana possono fornire un supplemento di senso «all’analisi di aree significative del sociale, così come all’interpretazione di certi punti di snodo tra orientamenti individuali e comportamenti collettivi» (Gasparini, 2002, p. 106). In effetti, «l’attenzione all’interstizialità come categoria ci consente di mantenere vigile l’immaginazione sociologica e di alimentare la creatività, di seguire certe trasformazioni che partono dal basso o da esperienze apparentemente banali e inizialmente trascurabili, di tenere il mondo aperto attraverso quelle soglie paradossali che sono appunto gli interstizi della vita quotidiana» (Ibidem). Se gli interstizi nell’analisi sociologica costituiscono una sorta di categoria tanto intuitiva quanto analitica, giacché essi rappresentano «una mimesi della realtà fisica» (Ibid., p. 102), allora occorre registrarne la valenza descrittivo-interpretativa che consente di interrogarci criticamente qui di seguito su alcuni aspetti cruciali che connotano a titolo esemplificativo il pensare sociologicamente la vita quotidiana. L’esperienza della vita quotidiana, nella nostra contemporaneità, è ricolma di situazioni paradossali, ma soprattutto di marginalità: quest’ultima si è universalizzata, è divenuta «maggioranza silenziosa» (de Certeau, 2001, p. 13). Ciò implica la possibilità di approntare un’analisi polemologica della cultura10, dal momento che, in particolare, le tattiche odierne del consumo finiscono per sfociare in una politicizzazione delle pratiche quotidiane, mentre la comunicazione

10 Per A.W. Gouldner (2002², p. 31), la vita quotidiana può essere in parte interpretata «come critica implicita del concetto convenzionale e reificato di cultura; peraltro […] il concetto di vita quotidiana mentre esprime la critica di un concetto tecnico come quello di ‘cultura’ ha anche radici profonde nella critica di una serie di fattori tradizionali della cultura comune, quotidiana, occidentale».

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40 come «viaggio dello sguardo» riconferma il primato epocale del paradigma ottico, ovvero della supremazia dell’occhio, che già Simmel aveva descritto nella sua sociologia dei sensi. Tra new economy e semiocrazia, il consumatore vive l’esperienza quotidiana dell’ipertrofia della lettura («occhio esorbitante della cultura contemporanea e del suo consumo»), perché ridotto sempre più a voyeur itinerante, a navigatore nomade, errabondo in una «società dello spettacolo»: la stessa esperienza dello zapping lo inserisce in una dimensione interstiziale. L’uomo quotidiano è l’uomo comune (der gemeine Mann). È l’uomo «senza qualità»11: l’eroe di tutti i giorni, un personaggio diffuso nella scena metropolitana. L’uomo quotidiano, l’uomo comune, il «ciascuno-nessuno», si con-fonde nel rumore della storia. È l’eroe anonimo che vive nel brusio della società. Allora, perché per i sociologi esso occupa il centro della scena sociale? Se siamo sottomessi alle pratiche del linguaggio comune, anche se non ci identifichiamo in e con esso, come possiamo pensare il quotidiano, dal momento che nel conoscere umano l’intervento necessario del pensiero attesta sempre e comunque che il conoscere umano è necessariamente finito e, pertanto, necessariamente temporale? Con quale prosa del mondo possiamo descrivere e interpretare le traiettorie, le strategie, le tattiche e le retoriche del quotidiano, dell’everyday life, nelle strutturazioni fattuali (storiche), nelle «forme di vita» (Lebensformen) che caratterizzano la nostra esistenza contemporanea? I fatti della vita quotidiana sono approssimazioni della verità o un mondo della realtà solo apparente? C’è una scienza transdisciplinare della vita quotidiana? Il tempo comune (quello condiviso) della vita quotidiana è (sempre) altro rispetto alla storia? Per Hegel, «in ciò che noi siamo, il nucleo comune e imperituro è collegato indissolubilmente con ciò che siamo per opera della storia» (Hegel, 1981, p. 10): dunque, hegelianamente, «tutto ciò che noi siamo, lo siamo anche per opera della 11 Con incisive parole, Vincenzo Cesareo (2003, p. 9) ha osservato criticamente che per effetto dell’omologazione collettiva azionata dal processo contemporaneo di globalizzazione «l’individuo perde i confini della propria identità pur affermandosi singolarmente attraverso la propria rex extensa: suoi e soltanto suoi sono i bisogni e i desideri che agitano il proprio corpo. Ma, la propria, è un’esistenza intercambiabile al pari di uno degli elementi di una macchina. La sua presenza è de-identificata ab imis per effetto della perdita della Lebenswelt e risulta priva di qualità. L’uomo senza qualità di questo inizio di secolo è il parvenu occidentale che ha mutuato ed applicato alla sua stessa vita, in modo irriflesso ed interamente, le categorie della contingenza e della de-ubificazione spaziale: l’esito è un eterno presente che si dipana senza passato e senza progetto».

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41 storia» (Ibidem). Nel modello di «sociologia riflessiva» elaborato da Gouldner (20022), invece, la vita quotidiana è caratterizzata da una problematica ambivalenza. Teatro di una socialità multiforme, attestata da una dinamica fenomenologica e sociologica delle circostanze, la vita quotidiana è costretta dal suo interesse per il presente. La vita quotidiana è questo mondo, è il solo regno del valore, perché è il solo regno, il tutto: essa è costruita più su una cultura del giorno che della notte; è l’interfaccia tra cultura e natura. È la vita pedestre e mondana che si ripete in modo così comune che i suoi partecipanti stentano ad averne consapevolezza. La vita quotidiana è la vitavista-ma-non-riconosciuta: è la vita mondana, secolare, spogliata dall’elemento sacrale. La storia si basa sulla natura della vita quotidiana. La dimensione storica è il non-quotidiano: la vita quotidiana è l’«argine» lungo il quale scorrono e si agitano i fiumi dei percorsi della storia. Per Gouldner, dunque, il compito della «sociologia riflessiva» è quello di fondare una teoria della vita quotidiana quale «confine» e «cornice» della storia. Diversamente, nel modello sociologico sviluppato recentemente da Paolo Jedlowski (2003, pp. 167-199), la storia passa attraverso la forma della nostra vita quotidiana: «Le routine che oggi diamo per scontate non sono le stesse in cui si impegnavano abitualmente i nostri genitori o i nostri nonni, o men che meno altri più lontani nel tempo, perché sono diversi gli ambienti, gli oggetti, le tecnologie, le opportunità e persino i significati che alla vita di ogni giorno vengono attribuiti. La quotidianità è storica e cambia anche se il mutamento giorno per giorno può essere impercettibile. Muta per ciascuno, nel corso del cammino biografico, e muta per tutti: la sua forma è differente in momenti diversi della storia e in diverse culture» (Ibid., p. 167). Dunque, per Jedlowski, «fare sociologia della vita quotidiana» significa «restituire il quotidiano alla storia: non in modo astratto, bensì nei modi che gli individui possono meglio avvicinare alla propria esperienza» (Ibid., p. 194): oggi non è più possibile pensare alla vita quotidiana come al regno dell’anonimato e di un tempo senza storia (Jedlowski, 1986; Ghisleni, 2000, pp. 225-232). Nella scena della vita umana e sociale il «tutto» ha una sua imprescindibile quotidianità: l’uomo è quotidiano o non è affatto. La vita quotidiana «è la vita che c’è» (Jedlowski). Cosa c’è oltre il quotidiano12? Dal momento che nella costruzione dell’identità personale 12 Con amara e icastica ironia, Zygmunt Bauman (2002, p. 189) registra che nella società odierna le alternative della vita quotidiana sono rappresentate dalle puntate ai centri commerciali vissute come «spedizioni verso un

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42 ogni soggetto nella sua differenza e particolarità è un enigma per se stesso, non c’è in assoluto alcun senso della vita quotidiana13? Secondo quanto ha osservato Franco Crespi (2004, p. 78), se con il termine senso intendiamo riferirci «all’originario ambito preriflessivo, connotato da bisogni, stimoli, emozioni all’interno del quale diventa possibile ogni riflessività cosciente del soggetto, ogni attività cognitiva e ogni determinazione di significato», allora il senso «non dipende dal soggetto, ma è ciò che si dà come struttura biologica e relazionale, come orizzonte temporale dell’essere-già-in-un-mondo, senza che vi sia la possibilità di definire in modo determinato la provenienza ultima del senso». Questo modo di intendere il senso, dunque, «non presuppone una fede o una speranza nel fatto che l’esistenza abbia un senso, quasi che quest’ultimo debba giustificarla in base a un criterio esterno come risposta alla domanda ‘che senso ha la vita?’. È l’esistenza stessa che, nel suo darsi, dà il senso: per il semplice fatto che qualcosa si dà, si dà necessariamente senso. Il darsi di qualcosa provoca una differenza che determina una direzione, un senso» (Ibidem). Il concetto di senso «non aggiunge quindi nulla a quello di esistenza, che, in quanto condizione ontologica o quasi-biologica vissuta emotivamente, porta fatalmente la nostra riflessività a interrogarsi su di essa senza tuttavia mai riuscire a comprenderla esaustivamente a livello cognitivo» (Ibidem). Dal punto di vista ermeneutico-fenomenologico di una ontologia della comprensione di sé, come dice Ricoeur in Le conflit des interprétations, nella coestensiva condizione di homo ermeneuticus, il soggetto, nell’atto riflessivo, «è un esistente, che scopre, mediante l’esegesi della sua vita, che è posto nell’essere prima ancora di porsi e di possedersi» (Ricoeur, 1977, p. 25). In questa prospettiva, come sottolinea Crespi (2004, p. 79), il senso può essere altro mondo nettamente diverso dal resto della vita di ogni giorno, verso quell’‘altrove’ dove si possono sperimentare brevemente la fiducia e l’‘autenticità’ che si cercano invano nelle occupazioni della routine giornaliera». In questo modo, «lo shopping colma il vuoto lasciato dai viaggi che l’immaginazione non compie più verso una società alternativa, più sicura, umana e giusta» (Ibid., p. 190). 13 Paolo Jedlowski (2003, p. 179) ha sottolineato che il senso della vita quotidiana «è innanzitutto senso comune, vale a dire un insieme di credenze, competenze, modalità di condotta e definizioni tipizzate delle situazioni che ciascun membro di una società condivide con gli altri dandole per scontate. La prestazione fondamentale del senso comune è di avvolgere i contenuti di una cultura in un’aura di naturalezza; poiché questi contenuti non sono tuttavia naturali, bensì socialmente e storicamente variabili, il compito della sociologia nei suoi confronti è quello di una ricorrente denaturalizzazione».

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visto come quell’insieme delle indeterminate potenzialità e risorse a partire dal quale, grazie alla sua capacità innata di intenzionalità riflessiva e di memoria, l’individuo può pervenire «ai significati più o meno codificati attraverso i quali interpretare se stesso, gli altri e il mondo»; fermo restando che «il significato culturalmente determinato è sempre una riduzione della complessità del senso originario che, come tale, nella sua inesauribilità, resta irriducibile al significato il quale può solo rinviare indirettamente al senso» (Ibidem). La vita quotidiana si autocomprende? Produce senso o consuma senso? Quali sono il ruolo e la funzione del non-senso nella vita quotidiana? Parafrasando Lukács (quello de L’anima e le forme) in senso critico, potremmo dire che l’esistenza, la vita quotidiana, non è un’anarchia del chiaroscuro. La vita quotidiana passa, trascorre, si esaurisce, per riprodursi continuamente. La «freccia»14 del tempo la porta via inesorabilmente. Come dice Ezio Raimondi: «Il tempo produce e distrugge, dà la vita e la morte. È il segno della nostra ambivalenza, cresciamo e diminuiamo»15. La questione del rapporto fra tempo e vita quotidiana, del dare senso al tempo della vita quotidiana nella società contemporanea (Gasparini, 2001), dunque, «è inaggirabile per ciascun soggetto pensante, per ogni persona consapevole della finitezza che regge la propria esperienza di vita compresa tra l’involontaria cesura della nascita e il limite inevitabile della morte, tra un passato e un futuro che solo nel vissuto del presente possono essere afferrati» (Ibid., p. IX)16. Dilettanti, artigiani e pellegrini della vita quotidiana, viviamo la dialettica della temporalità tra l’enigma della passeità del passato, il paradosso della presenza-assenza del presente e le attese della futurità (futurité), una dialettica che l’ultimo Ricoeur (2004), muovendosi liberamente (con prestiti e critiche) tra Nella condizione temporale tardomoderna, come precisa Gabriella Paolucci (2000, p. 210), «la parcellizzazione e l’eterogeneità temporale, insieme all’accorciarsi degli orizzonti temporali individuali e collettivi, cancellano a poco a poco l’immagine del tempo che ha dominato per tutta l’epoca moderna. La metafora della freccia non rappresenta più l’esperienza del tempo. Non c’è un’unica direzione verso la quale indirizzare la complessa gestione del tempo quotidiano, né, a dire il vero, del tempo storico. Per padroneggiare il tempo è necessario imparare a destreggiarsi nella frammentarietà delle molteplici dimensioni del presente. All’immagine della freccia possiamo forse sostituire quella di un complicato puzzle in mezzo al quale un soggetto ‘nomade’ tenta di orientarsi come meglio può». 15 Intervista a Ezio Raimondi di C. Donati, il Resto del Carlino, 4 febbraio 2004, p. 37. 16 Ibid., p. IX.

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44 Agostino e Heidegger, ci ha aiutato a comprendere criticamente. La tragica miopia sull’avvenire del nostro passato e la mancanza di visione sul futuro ci fanno forse sprofondare inevitabilmente nell’accecamento del presente anonimo e singolare? Esse segnano di fatto la traccia di ogni presenza nella piega o nella piaga del quotidiano che si crea tra le due, nell’entre-deux che le divide e le unisce? Nei cicli e nei mondi vitali il segno del visibile è quello della vita quotidiana, quantunque essa disveli i possibili connessi all’invisibile e sia pervasa anche dall’invisto. Le retoriche e le pratiche della vita quotidiana espongono il problema di una scrittura critica (una storiografia) del quotidiano capace di far apparire l’invisto e nel medesimo tempo le topiche del suo visibile, per i quali – come ha diagnosticato criticamente a suo tempo Walter Benjamin (Jedlowski, 2002, pp. 13-42) – sono compossibili la problematica atrofia e mercificazione dell’esperienza (nella duplice e differenziata accezione di Erfahrung ed Erlebnis)17 nella modernità, l’immagine/scrittura (photo-grafia) e la sedimentazione della memoria individuale e collettiva. Le indicazioni di Benjamin permangono significativamente

17 Sull’opposizione Erfahrung/Erlebnis, Remo Bodei (1991, pp. 114-115), tra l’altro, ha affermato che nel viaggio della vita «le cose più importanti non si insegnano e non si imparano. Ciascuno deve farne diretta esperienza attraverso percorsi irripetibili e individuali, accidentati e inconclusi. Qualunque sia l’esito, paga il proprio apprendistato con errori, sofferenze, esitazioni, ciascuna delle quali sarebbe forse evitabile, ma che nel complesso appaiono inaggirabili. Quel che ciascuno capisce, lo afferra spesso quando è ormai troppo tardi per trarne un vantaggio o per porre un rimedio. Il suo tirocinio non sfocerà mai nel possesso di un’arte o nella fondazione di una scienza che abbia il senso e la condotta della vita come oggetto. Una opacità di fondo sembra circondare qualsiasi tentativo di diventare un ‘professionista’ di questa vita. L’esperienza rimane costitutivamente incompiuta. Il passo ai saperi di cui maggiormente avremmo bisogno appare come invalicabile. L’Erlebnis, nel senso del vissuto sempre diverso che si porta con sé, sostituisce l’Erfahrung, l’esperienza cumulabile, di chi ha molto viaggiato (Fahrt) e provato. […] La vita non si lascia sottoporre ad alcun esperimento, proprio perché è irripetibile. Essa è oggetto di esperienza, nel duplice senso dei termini tedeschi Erfahrung ed Erlebnis. Il primo – che deriva dalla stessa radice di Fahrt, viaggio – implica una maggiore apertura al mondo, un mettersi in viaggio, un condividere con altri percorsi o rotte […]. Il secondo, l’Erlebnis, appare meno comunicabile, più legato ad una traduzione, ad uno sfruttamento personale della miniera dello spirito oggettivo, ad una serie di intersezioni del vissuto che hanno bisogno della storia come referente e quadro di intelligibilità».

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45 strategiche nella costruzione di una teoria sociologica della vita quotidiana perché «ci portano a individuare nella vita quotidiana il terreno di coltura potenziale dell’esperienza» (Jedlowski, 2002, p. 40). Va da sé che con ciò, come osserva Jedlowski, non si intende dire che «la vita quotidiana sia l’esperienza: la vita quotidiana non è in sé esperienza» (Ibidem). Tuttavia, «è vero che i contenuti dell’esperienza che restano come distillato di un’esistenza sono in ultima analisi esattamente ciò che è precipitato in essa di quello che quotidianamente si è imparato a fare, ad amare, a vedere. L’atteggiamento connesso alle attività della vita quotidiana è un atteggiamento che tende a dare le cose per scontate; al contrario, ‘avere esperienza’ non corrisponde a una sensazione di ovvio: nella misura in cui, infatti, l’esperienza è riappropriazione consapevole di ciò che è vissuto, essa richiede come uno dei suoi momenti una presa di distanza dal vissuto stesso». Un discorso sociologico sull’esperienza impostato attraverso le categorie di Benjamin mette comunque in gioco importanti ed ineludibili questioni che conservano ancor oggi grande pertinenza ed attualità: «dai rapporti dei singoli con la memoria e con il tempo, alle forme materiali della vita di ogni giorno, all’abitudine e alla familiarità, fino ai rapporti dell’esperire silenzioso del singolo immerso nelle secrezioni del suo ambiente sociale con le forme nelle quali tutto ciò può essere detto» (Ibid., p. 42). Senza il quotidiano la nostra vita «non esisterebbe». Il mondodella-vita-quotidiana non è soltanto un mondo-per-me, ma anche un orizzonte di coesistenze intersoggettive; la vita quotidiana è-ditutti: nella carne del mondo, nelle storie raccontate e vissute dall’io, essa riempie e fodera sia la realtà che gli orli e gli interstizi dell’essere. Signori e prigionieri della propria quotidianità, identità e alterità, i soggetti narranti non ne posseggono mai interamente e in modo trasparente il possibile senso. Dialoganti in un con-testo in-finito, i soggetti de-scrivono nel loro «diario fenomenologico» la bio-grafia della loro quotidianità, pronti come sempre a ri-parlarne il giorno dopo nella concretezza dei corpi, degli spazi e delle dimensioni dei vissuti che essi occupano riflessivamente con la propria soggettività patica e interpretante. Dare senso al tempo della vita quotidiana che si svolge nei sistemi sociali contemporanei è il grande enigma della nuova condizione umana (Bauman, 2003) stretta com’è, quest’ultima, tra il tempo visibile e l’ulteriorità, l’oltre-tempo, cioè quel dominio non sperimentabile dei sensi che per alcuni è misterioso passaggio alla vita eterna e per altri è l’annullamento di ogni esperienza nel e del tempo. Parafrasando Leopardi, la vita quotidiana è «il tempo della nostra vita mortale», la vita che segna giorno-dopo-giorno il trascorrere del tempo e la caducità delle cose umane: quella caducità

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46 che impregna di sé non soltanto i giorni feriali, ma anche il dì di festa, la domenica, la quale ha anch’essa un valore interstiziale sospesa com’è tra i giorni feriali della settimana e quelli ancora inediti, enigmatici, della nuova settimana che per l’appunto si apre alle novità, alle occasioni, ai momenti, ai vincoli e alle scelte che i soggetti possono vivere. Nelle sue possibili configurazioni di senso, la vita quotidiana è sempre più diventata lo strato dell’esperienza dell’«ancora sempre»: in essa dobbiamo sempre scegliere, come se avessimo sconfitto il destino. Perdendo la propria «ovvietà», l’uomo della vita quotidiana, come ha detto Sartre, diventa la scelta delle proprie possibilità (homo optionis). Di-segnando il proprio destino personale e destreggiandosi col proprio stile di vita, nel modulare se stessi attraverso la molteplice combinazione dei «possibili», ormai nessuno si contenta facilmente di quello che è: «ognuno cerca la pienezza e il significato della propria esistenza anche in un altrove insituabile nella serie dei luoghi e degli eventi in cui si trova normalmente implicato, ossia nell’avventura, dove l’io riesce tanto più ad articolarsi e a espandersi, quanto più diventa indeterminato. L’avventura è infatti un impaziente abbandonarsi al caso, accompagnato dalla sensazione di crescente rinnovamento di se stessi: in una sorta di incipit vita nova, ci si guarda con meraviglia, stupiti dal constatare che si stanno vivendo in prima persona esperienze che sembrano appartenere a qualche altro» (Bodei, 2002, p. 173). Indubbiamente, la misteriosa necessità dell’avventura rappresenta un autentico enigma della vita quotidiana. Come l’ha interpretata Simmel, l’avventura consiste nel «sottrarsi alla connessione della vita» (Simmel, 2001, p. 57), essa è «un’immagine della vita sospesa tra caso e necessità, tra la molteplicità dell’esperienza e il suo senso unitario» (Vozza, 2003, p. 64). Ponendosi al di fuori della continuità esperienziale, l’avventura può simmelianamente essere descritta nei termini di «una complessa estraneità nei confronti della vita ordinaria, una contingenza extraterritoriale rispetto alle province di senso abitualmente frequentate dall’individuo» (Ibidem). L’avventura come esperienza vissuta si caratterizza come una temporanea presa di congedo dalla totalità organica degli eventi quotidiani. «Al concatenarsi degli anelli della vita – scrive Simmel –, al sentimento che nonostante tutte quelle inversioni, quelle curvature, quei grovigli, in ultima analisi si tesse una trama unitaria, si oppone quella che chiamiamo avventura» (Simmel, 2001, p. 57). La rilevanza dell’avventura risiede proprio nella «sensazione che qualcosa di accidentale ed estraneo al corso ordinario della vita possa celare un senso e una necessità, che si presenta sotto forma di enigma, di inquietante mistero proprio per il carattere extraterritoriale del suo accadere» (Vozza, 2003,

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47 p. 65). Diversamente dall’esistenza stagnante, priva di scopi e di intima soddisfazione, l’avventura si configura come una «gemma incastonata nel quotidiano» (Bodei, 2002, p. 176): abbandonarsi ad essa «significa aborrire il ristagno della propria vita, consegnandola a una magnifica incertezza agitata da inconsuete passioni, entrare in una specie di ékstasis o di parentesi temporale, in grado di proiettare l’individuo fuori di sé e di isolarlo dalla monotona successione di attimi opachi, di risarcirlo del suo essere obbligato a vivere nel mondo senza sorprese della routine, mettendolo però di fronte, grazie proprio all’eccezione, alla ‘vita nella sua totalità’» (Ibid., p. 174). L’eccentricità, la virtualità e non progettabilità dell’avventura rivela nel modo più puro l’essenza dell’accadere, la sua radicale finitezza temporale, segnata da un inizio e da una fine irrevocabile. «Dei normali avvenimenti dell’esistenza quotidiana percepiamo che l’uno finisce mentre o perché l’altro incomincia, essi determinano reciprocamente i propri confini, e in tal modo si forma o si esprime l’unità della connessione vitale. L’avventura invece, in quanto avventura, è indipendente dal prima e dal poi, determina da sola, senza riguardo a questi ultimi, i propri confini» (Simmel, 2001, p. 58). Nel tempo dell’avventura, per il suo configurarsi e consumarsi come esperienza limite, come «un’isola nella vita» (Ibidem), «l’evento riceve una compiuta figurazione di senso, rivela in modo perentorio la sua intima e irripetibile ragion d’essere» (Vozza, 2003, p. 66), perciò, nell’avventura, «l’uomo si sottrae alla storia, vive esclusivamente in un presente che non ammette deroghe» (Ibidem). Secondo Simmel, «fra caso e necessità, fra il carattere frammentario di ciò che è dato dall’esterno e il significato unitario della vita che si sviluppa dall’interno, si svolge in noi un eterno processo, e le grandi forme nelle quali plasmiamo i contenuti della vita sono le sintesi, gli antagonismi o i compromessi di quei due aspetti fondamentali. L’avventura è uno di essi» (Simmel, 2001, pp. 60-61). Accettando fatalmente la mutevolezza delle occasioni, cercando temerariamente di padroneggiarne l’implicita insecuritas, nella vertigine dell’avventura intesa come strategia fatale del fluire dell’esperienza, per la vita umana «ogni evento sembra collocarsi alla periferia della vita, esteriore e occasionale: l’accadere si dà come frammento, come assoluta contingenza, senza scorgere in esso la presenza di un senso razionale capace di porre in relazione il passato e il futuro della nostra esistenza, la memoria e il progetto» (Vozza, 2003, p. 69). Nell’avventura, dunque, «l’essenziale si annida nell’inessenziale, così che il centro dei nostri interessi gravita nella periferia della vita consueta. Un provvisorio appagamento, un ubi consistam, si incontra solo nell’ulteriorità cui siamo, a ogni momento, rinviati e dove siamo provvisoriamente invitati a sostare,

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48 prima di riprendere il cammino: nelle esperienze laterali, nell’eccentrico, nelle possibilità insature che ci vengono incontro senza alcun ordine» (Bodei, 2002, pp. 174-175). Per inciso, analogicamente, nella prospettiva interstiziale e temporale della vita quotidiana, sappiamo, la logica della sosta (Gasparini, 2002a, pp. 34-48) è alternativa ed antitetica alla velocità del tempo continuo, omogeneo, quantitativo della «società incessante» in cui effettivamente viviamo e nella quale siamo sempre in transito, in itinere, senza che tale cammino abbia un qualunque télos predeterminato: viaggiatori e pellegrini attraverso-la-vita, nessuno di noi sa con certezza dove dirigersi, perciò ognuno cerca, come ha detto Simmel, «il punto di passaggio di un vagabondare che dall’indeterminato procede verso l’indeterminato, che ama le vie senza le mete e le mete senza le vie» (Simmel, 1985, p. 213). Tutto ciò senz’altro partecipa delle possibili configurazioni di senso che la nostra vita quotidiana può assumere e ricevere nelle sue molteplici espressioni e dinamiche anche «interstiziali». Per quanto concerne invece il misterioso e necessario enigma che la vita quotidiana continuamente ci riserva nel tentativo di dare forma e significato alla finitezza e temporalità della nostra umana esistenza, mutuando la parola poetica di Montale, è presumibile pensare che per la vita di «ogni giorno» è ridicolo ipotecare il tempo e lo è altrettanto immaginare un tempo suddiviso in più tempi e più che mai supporre che qualcosa esista fuori dell’esistibile, il solo che si guarda dall’esistere18. Dopo la parola del poeta, per concludere, ora è quella del teorico sociale, in questo caso Giddens, a ricordarci comunque che «il carattere ordinato della vita quotidiana è un’occorrenza miracolosa, ma non è la conseguenza di un intervento regolatore esterno; deriva piuttosto da un incessante impegno realizzativo di ogni attore socia18

Montale (2004, p. 185).

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le comune, secondo una modalità interamente routinizzata. Il carattere ordinato della vita quotidiana è solido e costante; tuttavia può essere minacciato dal più impercettibile degli sguardi di una persona ad un’altra persona, dall’inflessione della voce, dal cambiamento di un’espressione, da un gesto del corpo» (Giddens, 1999, p. 67). Assumibile quale epitome della moderna condizione umana, questa citazione del sociologo inglese ci aiuta a comprendere che anche nelle «piccole cose» la vita quotidiana è sempre «il contesto sociale nel quale si forma e si sviluppa la soggettività dell’attore che con la sua azione contribuisce ad un tempo sia al mantenimento della struttura sociale sia al suo cambiamento, in una situazione di contingenza e di incertezza» (Ibidem), quell’incertezza che è il maggior carattere enigmatico del vivere, al quale l’uomo quotidiano cerca di offrire un paradigma di senso quale cifra relativa e distintiva del suo Dasein che, secondo Charles Taylor, fa di esso – in quanto self-interpreting being – un agente incarnato (embodied agent) e una soggettività in situazione (subiectivity in situation) capace non solo di afrontare come persona anche l’orizzonte dell’hic et nunc con «consapevolezza riflessiva», ma di utilizzare pure un vocabolario di valore (vocabulary of worth) tale da aiutarlo a tracciare una topografia morale del sé all’interno della quale prendere – nell’affermazione della vita quotidiana (ordinary life) – una posizione e rispondere così a quella fondamentale domanda: «chi sono io?», che emblematicamente segna l’agenda esistenziale del nostro tempo (Pirni, 2004, pp. 23 sgg.).

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L’ORDINE

DEGLI INTERSTIZI: RIFLESSIONI QUASI SIMMELIANE

Alessandro Cavalli

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Nelle riflessioni che seguono userò il concetto di «interstizio» in due accezioni diverse anche se collegate. Si tratta in realtà di due tipi di interstizio:

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1. interstizio come il tempo intercorrente tra un’azione e l’azione successiva; 2. interstizio come il tempo in cui un’azione precedente si sovrappone a un’azione successiva. Perché si generi il primo tipo di interstizio è necessario che un’azione sia conclusa prima che ne incominci un’altra. Le cose non sono mai così semplici. Interstizio è ciò che sta in mezzo. Può essere riempito sia dal ricordo dell’azione che precede, sia dall’attesa dell’azione che segue. Anzi, molto spesso da tutte e due. Ogni azione, in altre parole, produce una sorta di «alone» prima di iniziare (attesa) e dopo essere finita (ricordo). In questo senso c’è sempre un overlapping: quando mi accingo a fare una cosa non mi sono ancora del tutto distaccato dall’azione precedente che quindi getta la sua ombra su ciò che la segue immediatamente. Questo tipo di interstizio evoca l’esperienza dell’attesa, attesa di un evento che non si è ancora verificato. Ci sono tante strategie per «riempire» i tempi di attesa: leggere il giornale, fare una telefonata, passeggiare lungo in marciapiede se l’attesa è quella del treno, guardare come un etologo cosa fanno gli altri esseri umani a portata di vista. Anche il tragitto può essere un interstizio, in attesa di arrivare a destinazione. Viaggiare è un fare, ma anche un non fare, un interstizio tra due «fare». Faccio da una vita il pendolare, passo quasi ogni giorno almeno il 10% delle 24 ore a disposizione su un mezzo di trasporto. Più che un interstizio potrebbe essere una voragine, se non avessi ormai sedimentato delle abitudini di riempimento.

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54 In genere quindi gli interstizi tra un’azione e la successiva sono riempiti da altre azioni che si prospettano brevi, oppure interrompibili a piacere in qualsiasi momento senza danno (ad esempio, la lettura del giornale).

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Primo breve excursus: il tempo «vuoto» e la «noia» Raramente gli interstizi restano «vuoti», il tempo vuoto è un tempo che non si sa come riempire. È una delle fonti del sentimento della noia. Un’altra fonte di noia, invece, è, per certi individui, la monotonia. Quando non succede mai niente di inatteso, niente che produce stupore e suscita curiosità. Non doveva essere così, invece, per un tipo come Immanuel Kant. Dai racconti sembra che la sua quotidianità fosse riempita da routine ripetitive che facevano di ogni giorno la copia di quello precedente. Non risulta che abbia mai sperimentato un sentimento simile a quello che noi chiamiamo «noia». L’organizzazione della giornata come successione di azioni abitudinarie risulta in questo caso una strategia straordinariamente «economica», minimizzando il tempo e le energie da impiegare nella «deliberazione» su cosa fare, come e quando. Il tempo e le energie risparmiati eliminando gli interstizi del primo tipo attraverso «comportamenti abitudinari» hanno consentito a Kant di investire queste risorse in altri tipi di azioni «creative». Gli «interstizi» del primo tipo pongono però un problema: quando un’azione si può dire conclusa, a parte il caso, al quale ho appena accennato, dell’alone del ricordo? Un esempio può meglio chiarire cosa intendo. Voglio scrivere una lettera, ma prima di mettermi alla scrivania voglio prendere un caffè. Quando mi metterò alla scrivania? Dopo aver bevuto il caffè, oppure dopo aver rimesso il barattolo del caffè al suo posto nello scaffale, dopo aver lavato la tazzina e il cucchiaino e averli riposti al loro posto nella credenza? Quando mi autorizzo a passare, con tutta calma e senza fretta, prendendo tempo, all’azione successiva? Ovviamente, posso essere in grado di delegare tutte le fasi preliminari (preparare il caffè) e conclusive dell’azione ad altri e ridurre l’azione alla sua fase essenziale (bere il caffè). Confesso che appartengo a quella categoria di persone che provano un certo senso di fastidio quando incominciano un’azione senza aver concluso quella precedente. Il principio dell’ordine è: ogni cosa al suo posto, ovvero, a ogni azione il suo tempo. Avverto l’esigenza, forse è un bisogno psicologico, di un minimo (non un massimo) di ordine. Non so se qualche psicologo o sociologo abbia

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cercato di studiare (e misurare) il grado di tolleranza del disordine, cioè oltre quale soglia il disordine diventa un ostacolo a perseguire le mete desiderate. Anche in questo caso ho il sospetto che siamo di fronte a una variabile di «personalità». Il secondo tipo di interstizio si genera quando un’azione inizia prima che l’azione precedente sia conclusa. Ciò si verifica in almeno due casi: quando si cerca di fare più cose contemporaneamente, oppure quando un’azione viene interrotta. Nel primo caso ho il sospetto che una delle differenze profonde tra gli esseri umani sia la loro capacità di «staccare/separare un’azione dall’altra», quindi di creare degli interstizi del primo tipo, evitando le sovrapposizioni. A questa «capacità» ne corrisponde un’altra opposta: non perdere la coordinazione quando si fanno più cose (più azioni) contemporaneamente, quando cioè si devono gestire le sovrapposizioni. Ho anche il sospetto che la prima capacità sia prevalentemente maschile e la seconda prevalentemente femminile. Nel secondo caso abbiamo a che fare con le sovrapposizioni dovute all’interruzione di un’azione. L’interruzione è anch’essa almeno di due tipi: può essere «volontaria» o «involontaria». Il primo tipo si ha, ad esempio, quando non riesco a concentrarmi su un compito e interrompo frequentemente la sua esecuzione, sto facendo una cosa e me ne viene in mente un’altra, non differisco la sua esecuzione in attesa di terminare l’azione in corso, ma la interrompo del tutto o in parte. L’interruzione «involontaria» si ha invece quando è imputabile a qualcun altro che si intromette in quello che sto facendo. Gli studenti, ad esempio, hanno il dono di bussare alla porta proprio quando il professore cerca di concentrarsi su un compito. Una causa frequente di interruzione involontaria è lo squillo del telefono. I cellulari hanno drasticamente aggravato questo aspetto della quotidianità. Il telefono fisso era una sorta di appendice dell’ambiente e quindi c’erano ambienti privi di telefono dove si poteva garantirsi l’irreperibilità. Il cellulare è una sorta di protesi applicata alla persona. Si può ovviamente spegnerlo e liberarsi così della sua intrusiva presenza. Molti però non vivono lo spegnimento come una liberazione, ritengono che la reperibilità in ogni tempo e luogo sia un valore e non una sciagura. In ogni caso, quale che sia lo strumento tecnico, quando si chiude una telefonata generalmente ci si chiede: che cosa stavo facendo? Sarà bene che me lo ricordi e che continui l’azione, oppure la porti a termine, almeno prima della telefonata successiva, se voglio evitare l’accumulo degli «atti incompiuti».

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56 Il «disordine» è provocato dalle interruzioni e dagli overlapping tra azioni: più che il risultato di atti mancati, il disordine è il risultato di atti incompiuti.

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Secondo breve excursus: interruzione, attesa e potere Ho detto che il secondo tipo di interstizi è frequentemente, se non sempre, prodotto da azioni interrotte. Interruzioni e attese, quando si presentano nel quadro di una relazione sociale, hanno un elemento in comune: evidenziano la dimensione di potere della relazione. Se qualcuno pretende di avere il diritto di interrompere l’azione che un’altra persona sta facendo si pone implicitamente in una posizione di potere. Lo stesso accade nel caso della persona che mi fa aspettare in anticamera, oppure che arriva in ritardo ad un appuntamento. Comandare il tempo altrui è una delle prerogative del potere. Per difendersi da questa pretesa di potere e ribadire il proprio, gli uomini pubblici hanno sviluppato pratiche e rituali per ridurre la loro accessibilità, e con essa il rischio di essere interrotti, introducendo dei filtri (liste d’attesa, segretarie, numeri telefonici privatissimi). Un esempio: per ristabilire un minimo di parità senza il quale la relazione potrebbe essere compromessa, quando si arriva in ritardo ad un appuntamento ci si scusa «per averti fatto aspettare». Un altro esempio: il dipendente che esce da un colloquio da lui richiesto con il capo ufficio misura la considerazione in cui è tenuto dicendo: «non mi ha neppure fatto aspettare prima di ricevermi». Ovviamente, le persone in vista non possono fare a meno di schermare la loro esistenza dall’assalto dei questuanti e dei curiosi. Ma anche le persone «normali» devono guardarsi dalle interruzioni troppo frequenti, altrimenti gli interstizi del secondo tipo rischiano di diventare dominanti e dissolvere lo spazio/tempo dell’azione intenzionale. Gli interstizi del secondo tipo sono in certa misura inevitabili nella quotidianità di esseri che vivono in società con altri esseri umani. Possiamo, come alcuni fanno con un certo snobismo, rifiutarci di utilizzare il telefono cellulare e possiamo ridurre il nostro grado di accessibilità. Ma non possiamo isolarci dalle perturbazioni (così come dagli stimoli) che vengono dal resto del consorzio umano. Per cooperare bisogna però sapere aspettare e fare aspettare gli altri, soprattutto quando non si vuole interrompere troppo frequentemente le loro azioni e quando non si vuole essere interrotti troppo di frequente. È raccomandabile quindi che si sviluppi una capacità di tipo «trasversale», la capacità di gestire gli interstizi.

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57 Terzo breve excursus: cultura e spazi interstiziali

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Azzardo l’ipotesi che la capacità di gestire gli interstizi nell’organizzazione della vita quotidiana sia in qualche modo collegata ad un fattore culturale, vale a dire alla cura dedicata all’organizzazione degli spazi fisici interstiziali (raccordi tra edifici, sfridi tra manufatti, bordure di strade, aree di risulta ecc.). Basta uno sguardo anche distratto per accorgersi, varcato un confine della penisola, che la cultura degli italiani non brilla per attenzione nella cura dei particolari nell’organizzazione degli spazi interstiziali. La mia proposta «pedagogica» è di usare gli interstizi temporali del primo tipo per «sanare» il disordine provocato dagli interstizi del secondo tipo. La proposta è «pedagogica» perché sono convinto che ci sia un certo nesso tra l’ordine delle cose nella quotidianità (quando non è ossessivo) e l’ordine della mente e che avere una mente ordinata è, quasi sempre, un modo per non dissipare energie fisiche e mentali, per favorire quindi un comportamento «economico», nel senso, appunto, di «non dissipativo». Ed è pedagogica anche nel senso più specifico del termine. Ho qualche buona ragione per ritenere che le pratiche educative prevalenti nelle nostre scuole (primarie e secondarie) abbiano un po’ trascurato l’addestramento a fare le cose con «ordine» nella convinzione, sicuramente errata, che l’ordine sia nemico della creatività.

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LE

PICCOLE GRANDI COSE:

INTERSTIZI E RITI DI PASSAGGIO

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Giovanna Salvioni

Riflettere sulla categoria «interstizi», così come è presentata da Gianni Gasparini, comporta un imprescindibile sovvertimento del punto di vista: ciò che modestamente «sta tra», che sommessamente si manifesta nel silenzio carico di suggestioni situato tra opposti rumori, non è affatto il semplice raccordo e supporto di realtà o momenti, essi sì ricchi di senso; al contrario, ciò che «sta tra» i tempi e le cose impegnati in un mutamento si connota come la più densa, concentrata presenza di senso, come il momento più ricco e creativo di un intero processo. Nella attuale società, l’«interstizio», cui si permette di occupare spazi concreti e simbolici minimali, lasciati sbadatamente a disposizione da ciò che spesso il comune appiattimento indica come uniche grandi cose, uniche cose che contano, delinea comunque e ostinatamente il suo essere strumento ed espressione di una misura più vera e pensosa, di sempre nuovi inizi ed elaborazioni nei rapporti tra esseri umani ed esseri umani, tra idee e idee, tra natura e cultura. Si evidenzia dunque doppiamente una stretta parentela con i riti di passaggio delle società tradizionali, soprattutto nella loro fase liminale; restando come differenza sostanziale il fatto che i riti di passaggio segnino momenti alti e socialmente condivisi nella vita delle comunità arcaiche, e che invece l’interstizio sia spinto ai margini di una vita sociale che è più attenta «ad altro», non si può non notare come ambedue portino l’attenzione su ciò che ingiustamente spesso meno la attira, l’elaborazione, in cui nulla è definito ma tutto fluisce e coesiste, in cui, è il tratto caratteristico dei riti di iniziazione, vita e morte sono riportate ai primordi nella preparazione di una speciale rinascita. Nei riti di passaggio che segnano l’età della pubertà presso molte popolazioni africane, ciò che avviene nella fase di mezzo, o liminale, posta tra la fase di separazione e quella di riaggregazione, è chiaramente improntato a straordinarietà.

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60 I riti di iniziazione sono una separazione progressiva dei fanciulli dalle loro madri, e tale separazione è anche concretamente realizzata con l’allontanamento degli iniziandi dalla casa, regno della donna, dal villaggio, dai campi. L’allontanamento di un fanciullo dalla sua stessa infanzia è in buona parte anche la separazione di quanto nella sua vita è stato finora profano, non organizzato. Perché esista una netta separazione tra la condizione umana sacralizzata – dice Cazeneuve – e i non-iniziati, il rituale di iniziazione presenta spesso il carattere di un «mistero» per questi ultimi, che sono tenuti in disparte. In Australia, gli iniziati danno molta importanza al mantenimento del segreto. Se essi rivelassero alle donne ciò che succede durante l’iniziazione, ne deriverebbero gradi disgrazie. Un mito dei Kurnai racconta che l’eroe-antenato Tundun condusse la prima iniziazione istituita da suo padre, Mungan, ma che un traditore rivelò i segreti alle donne e che allora Mungan, furioso, inviò dal cielo il fuoco sulla terra, devastando il paese dei Kurnai che fu invaso dal mare. I sopravvissuti alla catastrofe furono gli antenati dei Kurnai e proprio loro vegliano sul rispetto del segreto dell’iniziazione (Cazeneuve, 1957). Il segreto, dunque, spesso non è veramente sconvolgente. L’importante è che agli iniziandi venga celato qualcosa, e che poi l’iniziazione sia una rivelazione che separi in modo inequivocabile la nuova sfera d’azione sacralizzata dalla vecchia sfera d’azione profana. D’altra parte, come una seconda nascita, l’iniziazione incide sulla condizione umana riallacciandola agli Antenati e ai protettori sovrumani. Il passaggio al livello più sacralizzato è un passaggio dalla menzogna alla verità. Per imprimere meglio la rivelazione di verità, ecco che si usa lo strumento della paura; gli iniziandi vengono immersi nelle tenebre e i maestri li sorprendono urlando, oppure suonando ossessivamente strumenti musicali rituali, nel folto degli alberi, emettendo gemiti o facendo tremare le fronde. I Dogon, dopo la circoncisione, isolano i ragazzi e li fanno frustare tutte le mattine dai fratelli maggiori; è d’obbligo che i giovani iniziati non piangano e non debbano farsi scappare un grido. I Basuto lasciavano che i fanciulli dormissero sulla nuda terra, i Thonga li esponevano al freddo, facevano loro soffrire la sete, li nutrivano con cibi repellenti, li punivano molto spesso per errori anche involontari a colpi di bastone. Tra gli Akan della Costa d’Avorio, i giovani vivevano insieme per un certo periodo (almeno qualche settimana), in stretto ritiro; non indossavano che calzoncini di rafia e si dipingevano il corpo con ocra rossa e succo di kola. Alla fine della reclusione, prima di entrare nel villaggio come membri nuovi della comunità, essi venivano frustati a lungo; il loro

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61 coraggio durante questa ultima durissima prova sarebbe stato premiato con il conferimento di un alto prestigio sociale. Alcuni ritengono che le sevizie inflitte dagli adulti tendono a sostituire una fase di dominazione maschile alla lunga fase di dominazione femminile che ha prevalso nell’infanzia dei ragazzi. Le prove rendono i giovani anche più malleabili e forse sfogano una tensione profonda degli adulti che temono i ragazzi che saranno i loro successori. Alle valenze e alle motivazioni accennate si aggiunge la funzione prettamente religiosa; i riti di iniziazione sono immersi in un’atmosfera mistica intensa, spesso sono un’occasione per l’uscita delle Maschere e per la drammatizzazione di grandiosi episodi della vita degli Antenati mitici. Presso un gran numero di popolazioni, sia africane che di altre parti della terra, le rappresentazioni durano parecchi giorni, con strette corrispondenze tra i punti salienti del mito e le azioni mimiche. Queste si svolgono in spazi ampi, circondano il villaggio e convergono poi nella piazza principale; in essa vengono mostrati oggetti della più pregnante sacralità. Tramite la drammatizzazione e la ripetizione di gesti dei sacri tempi primordiali, questi si riattano con la loro potente carica di feconda forza vitale e grazie alla presenza della nuova generazione. Un’altra situazione, molto meno drammatica e solo apparentemente non assimilabile, sottolinea invece assai efficacemente il valore doppio, positivamente ambiguo delle situazioni liminali e interstiziali: quella del saluto dei danzatori alla fine dello spettacolo. Se il saluto e la partenza o il distacco da qualcosa verso qualcosa d’altro segnano, per van Gennep, alcuni di quei momenti critici dell’esperienza umana che vengono codificati e protetti attraverso riti di passaggio, e se il rito di passaggio ha bisogno di una «porta», di una soglia almeno simbolica, e spesso anche concreta, che si ponga tra due realtà diverse, possiamo proprio puntare l’attenzione su queste idee e su questa ricerca: dov’è la soglia (dove sono le soglie) in questo particolare passaggio indicato dal saluto/commiato dei danzatori? Come si connota il periodo intermedio cui esse introducono e poi permettono di uscire? E tra quali realtà quest’altra realtà si pone? La prima e la più ovvia delle soglie, quella concreta e posta «nello spazio», non è altro che la zona anteriore del palcoscenico su cui il commiato ha luogo (e secondo i modi più tradizionali, con l’accentuazione del sipario accostato). Ricordiamo qui, inoltre, che non è né casuale né semplicemente funzionale la sopraelevazione dell’attore o del danzatore; alcune osservazioni di van Gennep a proposito dei riti di passaggio e della situazione di margine ci possono aiutare: l’idea ispiratrice è, secondo lui, che la sopraelevazione di uno o dell’altro

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62 partecipante in uno o l’altro dei momenti rituali non abbia la funzione, come spesso erroneamente si crede, di impedire la profanazione della sacralità della terra-madre a mezzo del contatto con un essere impuro; ciò è facilmente intuibile, dato che il rito vale per la nascita, la pubertà, l’iniziazione, il matrimonio, l’intronizzazione, l’ordinazione, i funerali, il trasferimento di un personaggio sacro (re o sacerdote ecc.); bisogna allora ricorrere a una spiegazione generale, la più semplice possibile, che permetta di considerare questo rito come rito di margine. «Per far vedere che fino a quel momento l’individuo non appartiene né al mondo sacro né a quello profano o anche che, appartenendo a uno dei due, non lo si vuole aggregare malamente all’altro, lo si isola, lo si tiene in una condizione intermedia, lo si tiene sospeso tra cielo e terra» (van Gennep, 1981, p. 162). Di tale condizione intermedia, che si definisce margine, ci interessa una proprietà del tutto speciale; van Gennep lo illustra efficacemente: durante le prove di resistenza al dolore e di coraggio, i novizi stanno nudi; essendo «morti», non devono uscire dal loro rito e mostrarsi agli estranei; istruzioni specifiche vengono impartite dal sacerdote mago; ci sono inoltre l’impiego di un linguaggio particolare e un’alimentazione speciale. Seguono i riti di reintegrazione nel mondo precedente: «Insomma, vi è un duplice canovaccio: riti di separazione dal mondo comune e riti di aggregazione al mondo sacro; poi un periodo di margine; infine riti di separazione dal mondo sacro […] e riti di reintegrazione nel mondo consueto: di questo passaggio attraverso il mondo sacro all’iniziato resta una qualità speciale, magico-religiosa» (van Gennep, 1981, p. 71). Il danzatore, come l’iniziato che muore e rinasce due volte e acquista poteri dal passaggio tra una realtà e l’altra, porta la nostra attenzione sul valore altamente concentrato del margine. Nel tempo sospeso in cui il saluto si colloca, si compone e si consuma, il danzatore non è più personaggio e non è ancora persona «quotidiana», agisce non in un vuoto di significato ma immerso in una terza realtà, come il suo comportamento formale sottolinea: il suo saluto (nella accezione più tradizionale e soprattutto per i principali protagonisti) non ripropone i gesti e le caratteristiche del personaggio o comunque della performance, e non è neppure il saluto usuale tra persone che si incontrano e quindi si separano né un saluto distratto; il danzatore non si è ancora «spogliato» completamente della straordinarietà dei tempi separati e in particolare dei tempi interstiziali che egli stesso ha messo in atto e nei quali ha agito, elaborato e operato i vari cambiamenti, è nella condizione del mago che non sta al momento operando una magia ma ha in sé tutti i suoi poteri, più vitali e affascinanti di qualunque magia egli possa compiere.

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63 Una figura, nei miti e nei rituali di varie popolazioni tradizionali, accoglie in sé i grandi valori del doppio e della fertile ambiguità di ciò che «sta tra»: il Buffone sacro, strettamente imparentato col Demiurgo Pasticcione (Trickster) degli indiani nordamericani. Presso i Bambara del Mali, nelle grandi cerimonie iniziatiche i gruppi di danzatori che si autoinfliggono punizioni corporali avanzano a piccoli passi, portando avanti di scatto prima il piede destro poi il sinistro; il loro lento avanzare è ritmato dai colpi della sferza e dal volteggiare delle torce accese; a lenire le loro sofferenze intervengono i Buffoni, i quali sventagliano le eventuali ferite con morbidi rami frondosi; l’atteggiamento benevolo e soccorritore non deve però far trarre conclusioni affrettate: la mossa successiva dei korè duga è una vivace e beffarda rappresentazione dell’atto sessuale. Le contraddizioni sono però solo apparenti; i Buffoni sono sfrenati perché ormai al di là delle regole ordinarie, che riconfermano beffandosene, sono «osceni» perché devono nel modo più comprensibile a tutti simboleggiare il godimento pieno del sapiente; la loro cavalcata avviene a mezzo di destrieri che sono nello stesso tempo intelligenza, intuizione, scienza segreta relativa l’immortalità; i Buffoni sacri sono il simbolo del saggio, il quale è inebriato dal raggiungimento della conoscenza totale, e dimostra tutta la propria gioia e vitalità; vivo e felice al massimo grado, il korè duga cerca di suscitare con ogni mezzo sensazioni e sentimenti analoghi nel pubblico; e il pubblico può avere un’idea della piena soddisfazione e della gioia soprattutto attraverso «[…] allusioni al coito e ai piaceri sessuali. È così che i gesti, le parole e le danze ‘lascive’ dei korè duga, tutto ciò che insomma autori non avvertiti hanno qualificato ‘orgiastico’ e ‘osceno’, è destinato in effetti a figurare la beatitudine del saggio pervenuto alla suprema saggezza e soprattutto all’unione dello spirito con la divinità». Ciò premesso, è logico che essi si lancino in ogni tipo di scherzo, smorfia, pantomima, che non si curino nei gesti, nelle parole, nell’abbigliamento di nessuna convenienza, che rappresentino davanti a tutti quello che di norma è gelosamente racchiuso tra le pareti domestiche, che beffino tutti suscitando irrefrenabilmente l’ilarità. L’«ambiguità» dei buffoni sacri viene da N.R. Crumrine intesa come uno stimolo, per chi osserva, ad una attività mentale più rapida e intensa, tendente ad una limpida messa a fuoco della realtà; parlando dei Buffoni … apakoba degli indiani Mayo (stato di Sonora, Messico) Crumrine afferma che durante le loro esibizioni essi mimano addirittura davanti all’altare (i Mayo sono cattolici ferventi e praticanti nonostante il sincretismo) e di fronte persino alle donne e ai bambini l’accoppiamento, nonostante che i Mayo siano conosciuti come una popolazione estremamente pudica e riservata

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64 soprattutto in materia sessuale. Crumrine spiega l’azione dei … apakoba sostenendo che, in seguito ai conflitti causati nei fedeli e negli spettatori in genere dal comportamento di questi, «le relazioni sociali tradizionali e la struttura conoscitiva dell’universo sono fortemente rinvigorite e percepite con maggior profondità. I Buffoni mascherati aiutano pertanto i giovani e le donne che sono in chiesa (e i Mayo in generale) a comprendere bene il tipo di rapporti sociali esistenti tra i sessi, la malattia e la salute, la vita e la morte e i rapporti sussistenti tra i due tipi di assetto sociale: uno egualitario, l’altro coercitivo e gerarchico» (Mazzoleni, 1973, p. 62). La studiosa Laura Makarius, dal canto suo, ritiene che dare troppo rilievo alle sfumature comiche ed ambigue del comportamento dei Buffoni sia trascurare i significati più profondi del loro ruolo e delle loro azioni mimiche; una analisi comparativa rivelerebbe le similitudini esistenti tra la figura del Buffone e quella del Trickster (o demiurgo pasticcione e beffardo delle narrazioni mitiche nordamericane). La Makarius afferma che il Buffone è la «controparte rituale del Trickster, quale […] personificazione del violatore magico di tabù e, più particolarmente, del trasgressore che agisce a beneficio del gruppo» (Makarius,1972, p. 596) In questa prospettiva, sia i buffoni … apakoba degli indiani Mayo che molti altri agiscono comprensibilmente; se violare ciò che è proibito è la loro precipua funzione rituale, è coerente che essi simulino il rapporto sessuale tra uomo e donna e i travagli del parto davanti all’altare e alla presenza dei bambini; è nella stessa linea che al di là, o meglio al di sopra, del normale senso del pudore, essi profanino con la defecazione gli oggetti del culto, esibiscano carcasse puzzolenti di animali, aggrediscano gli astanti brandendo sguaiatamente simboli fallici. Gilberto Mazzoleni, riportando pur con qualche riserva le conclusione della Makarius, espone la teoria secondo cui il Trickster e il clown sono rispettivamente i protagonisti, mitico l’uno e rituale l’altro, della violazione dei tabù ed, essendo oggi i … apakoba assimilati alla tradizione cristiana, addirittura i persecutori di Cristo che nello stesso tempo si identificano con Lui; i Buffoni devono sudare e faticare, sotto le maschere, devono soffrire come Cristo soffrì nei suoi ultimi giorni; come profanatori, perseguitano la divinità e le si ergono contro, ma come espiatori a favore del gruppo assurgono al ruolo di vittime e redentori. Lèvi-Strauss fa rientrare il Trickster nella categoria dei «mediatori»; secondo lui, anche se degli ambiti sono in origine contigui, devono subire l’intromissione della discontinuità (mediante l’eliminazione di alcune frazioni del continuo) per essere concettualizzati; inoltre, una volta che si sia manifestata l’esistenza di alcune opposi-

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zioni di significato, il pensiero mitico mette in opera dei tentativi di «mediazione progressiva». «Così – citiamo Mazzoleni – se per due termini (ad esempio, vita e morte) non è possibile stabilire una correlazione, perché impossibile sembra il ‘passaggio’, si potranno sostituire i termini polari con due termini equivalenti (agricoltura e guerra) che ammettano questa volta un comune intermediario (caccia)». Lèvi-Strauss afferma che le correlazioni si verificano anche sul piano linguistico e si identificano concettualmente con tutta una categoria, appunto, di «mediatori»; in ambito nordamericano il coyote (che usualmente si nutre di carogne) «è intermediario tra erbivori e carnivori come la nebbia tra Cielo e Terra, come lo scalp tra guerra e agricoltura (lo scalp è una messe guerriera), come la nigella tra piante selvatiche e piante coltivate (si sviluppa su queste ultime, al modo delle prime), come l’abbigliamento tra «natura» e «cultura, come le immondizie tra villaggio abitato e boscaglia; come le ceneri (e la fuliggine) tra il focolare (al suolo) e il tetto (immagine della volta celeste)» (Lévi-Strauss in Mazzoleni, 1973, p. 63). Il Trickster e implicitamente anche il Buffone sono «mediatori», pertanto mantengono in parte quella dualità che hanno in sorte di superare. Interstizio, limen, dunque, non come semplice passaggio, non come «nonluogo» secondo la visione di Augè, ma al contrario, sia nel nostro quotidiano come negli alti momenti rituali di molte civiltà, come percorso al di là del tempo, dello spazio e delle categorie della vita sociale e simbolica che tutto contiene in essenza e che, pescando nel senso primordiale dell’esistenza, la arricchisce e riconferma.

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Bibliografia Cazeneuve J. (1957), Les rites et la condition humaine d’après des documents ethnographiques, PUF, Paris. Makarius L. (1969), «Le mythe du trickster», Revue de l’Histoire de Religions, 175, pp. 17-46. – (1970), «Ritual Clowns and Symbolical Behaviour», Diogenes, 69, pp. 44-73. – (1972), «The Capakaba of Sonora, Mexico», Antropos, 3-4, 67, pp. 595-596. Mazzoleni G. (1973), I Buffoni Sacri d’America, Bulzoni, Roma. Paques V. (1954), Les Bambara, PUF, Paris. Servier J. (1967), L’uomo e l’invisibile, tr. it. Borla, Torino. Van Gennep A. (1909), I riti di passaggio, tr. it. Boringhieri, Torino 1981.

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LA SORPRESA

APRIRSI ALL’INATTESO: IN MICHEL DE CERTEAU E EDGAR MORIN

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Fabio Introini e Cristina Pasqualini*

Il dibattito sulla postmodernità ci aveva consegnato l’immagine di una società che, in opposizione a quella moderna, caratterizzata dalla costante, entusiasmante e trionfante marcia verso la novità, ha dovuto imparare a convivere con la ripetitività di un orizzonte in cui tutto appare ormai dispiegato e trasparente a se stesso (Vattimo, 1989). La più recente letteratura sull’identità in epoca di globalizzazione, che non a caso si intreccia al dibattito sulla postmodernità (Cesareo, a cura di, 2000), ha invece delineato l’immagine di un soggetto che ha ormai preso coscienza della precarietà esistenziale e dell’incertezza normativa come condizioni della sua stessa quotidiana esperienza. Insomma: in una società in cui tutto ormai è noto e incerto, qual è lo spazio che rimane per l’inatteso? Da questo punto di vista l’incontro con due autori come de Certeau e Morin si configura esso stesso come sorprendente, proprio per la capacità, comune ad entrambi, per quanto su terreni differenti, di mostrare il ruolo che la sorpresa e l’inatteso sono ancora in grado di giocare all’interno dell’attuale scenario epistemologico e sociale. Ciò significa, per converso, richiamare l’attenzione su come alcune «costanti» socio-antropologiche continuino ad indirizzare la vita così come la riflessione scientifica, orientandole lungo binari invisibili ma proprio per questo ancor più efficaci nello svolgere la loro funzione ordinatrice e normativa. Così per Morin, che svolge una riflessione prevalentemente epistemologica, la sorpresa si staglia sull’orizzonte del «pensiero riduzionista», più preoccupato di difendere i propri guadagni – nonché gli equilibri di potere che su Il presente contributo è stato progettato in comune dai due autori. In particolare, Fabio Introini ha scritto il primo paragrafo e Cristina Pasqualini il secondo. *

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68 di esso si reggono, a partire dagli ambienti accademici – che non di mantenere quella costante apertura al nuovo e all’inatteso che dovrebbe costituire la stessa forma mentis dell’autentica ricerca. Per de Certeau, invece, l’inatteso si definisce tale in opposizione alle trame di senso prodotte dalle grammatiche culturali invisibilmente diffuse all’interno del sociale da parte delle élites che, nella cibernetica società dell’informazione, detengono il potere. Così concepita, la sorpresa si declina come evento interstiziale (Gasparini, 1998) in quanto, emergendo come inattesa, si insinua in maniera dirompente nelle trame del sapere e degli schemi mentali e sociali consolidati, decostruendoli e costringendo al loro ripensamento. Se inoltre siamo disposti a riconoscere, con Gasparini, una sostanziale prossimità semantica tra il concetto di interstizialità e quello di marginalità (nel senso di eccentricità), scopriamo che vi è un altro senso in cui l’interstizialità avvicina i due autori di cui questo contributo si occupa, legato, più che ai contenuti della loro produzione scientifica, alla collocazione della loro figura di intellettuali all’interno dello scenario culturale e accademico. Come sottolinea lo stesso Abruzzese (2001) nella sua premessa a L’Invenzione del quotidiano, tanto Morin che de Certeau, insieme alla comune appartenenza accademica1, condividono il ruolo di outsiders rispetto all’ufficialità del sapere legittimo e legittimato dalle istituzioni universitarie. Ma dal margine, dalla periferia del sistema è possibile godere di maggiore libertà, libertà di seguire in maniera originale le traiettorie del proprio pensiero; libertà di sconfinare, muovendosi tra i differenti saperi, individuando i percorsi e le aree al cui interno le loro specifiche «strutture» si intersecano e sovrappongono. Le loro figure così come le loro opere possono quindi dirsi a tutti gli effetti interstiziali e, in quanto tali, costituiscono un costante invito, rivolto ai «tutori» e ai custodi del sapere ufficiale, a quel1 Michel de Certeau (1925-1986), gesuita francese, pensatore poliedrico, si è interessato di storia, linguistica, psicoanalisi e antropologia; ha insegnato per anni all’Università di California e ha ricoperto la cattedra di Antropologia Religiosa presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Edgar Morin (Parigi, 1921), sociologo, è tra le figure più prestigiose della cultura contemporanea. Le sue ricerche toccano problemi di pertinenza del mondo dei media, della sociologia contemporanea, della vita politica del Novecento, della biologia e della fisica contemporanea, nonché delle scienze umane e sociali in generale. Attualmente dirige il CETSAP, Centre d’Etudes Transdisciplinaires, di Parigi, collegato all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales.

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69 l’apertura al nuovo e all’imprevisto che è stata il contenuto stesso delle loro riflessioni.

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L’inedito e l’inatteso. La dimensione interstiziale della sorpresa tra latenza e visibilità in Michel de Certeau Come la tradizione e la più recente storiografia del pensiero sociologico hanno ormai cristallizzato e tramandato, la sociologia della vita quotidiana nasce, fondamentalmente, all’interno della sociologia nordamericana come concretizzazione di un profondo distacco da quella che più che una corrente di pensiero stava diventando, per utilizzare la terminologia hegeliana, un’idea in sé che chiedeva di essere attuata per sé, vale a dire di divenire il principio stesso dell’organizzazione del reale sociale: lo struttural-funzionalismo parsonsiano (Bovone, 1990). Così, di contro alla chiusura che le rigide categorie funzionaliste, normative ancor prima che descrittive, imponevano all’analisi e alla comprensione della realtà, la sociologia della vita quotidiana, recuperando una lezione dell’«antico» Weber, nacque come movimento di pensiero capace di richiamare l’attenzione verso la complessità della vita sociale, vale a dire la sua irriducibilità a circoscritti schemi e modelli esplicativi. Un richiamo, insomma, al carattere emergente dei fenomeni sociali, di cui la vita quotidiana risulta essere con le molteplici e imprevedibili situazioni di cui è foriera, sfondo e condizione. Alle sociologie della vita quotidiana nordamericane, decisamente micro e radicali, poté unirsi, nell’impresa di riscattare la quotidianità, anche la tradizione fenomenologica europea, con il suo richiamo ai «mondi di vita» come luoghi di ricezione-produzione di quei significati che costituiscono la materia stessa di cui il sociale è composto. Eppure, leggendo L’invenzione del Quotidiano di M. de Certeau, scritto ad anni di distanza (1990)2 dal consolidamento di questa tradizione, si ha molto più che la semplice impressione di trovarsi di fronte ad un’opera fondativa, impegnata a legittimare e predisporre le linee guida per una autentica definizione-rivalutazione ed analisi del quotidiano medesimo. Ciò che in questo breve contributo intorno al pensiero di de Certeau vogliamo offrire è un’interpretazione del suo pensiero che tenda a mettere in luce i tratti di un quotidiano ideologizzato e 2 Data dell’edizione originale, de Certeau (1990), L’invention du quotidien, Gallimard, Paris.

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70 «militante», o, per utilizzare le parole dell’autore, «polemologico» (de Certeau 2001, p. 13) in cui gli attori, lungi dall’essere affannati dall’unica preoccupazione di rendere possibile e coeso l’ordine sociale, operino piuttosto attraverso le loro pratiche una serie infinita ed imprevedibile di microsovversioni dello status quo e della sua macchina disciplinare che, nella Società dell’Informazione, esercita la sua strategia prevalentemente attraverso la costruzione di grammatiche culturali.

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Breve excursus sul potere Il concetto di grammatica culturale, la cui ascendenza è, almeno indirettamente, foucaultiana e che, nella tradizione sociologica italiana, viene ripreso da Melucci, vuole indicare le modalità attraverso cui, nella società contemporanea, i sistemi esercitano il loro potere sull’individuo e sulla società civile. Secondo le più recenti riflessioni in tema, il potere, nella cosiddetta società dell’informazione, avrebbe intrapreso un processo di radicalizzazione del suo farsi invisibile. Il potere «moderno», per esercitare il proprio ruolo disciplinare e garantire, in questo modo, controllo e ordine sociale, doveva servirsi, in modo consistente, della sua visibilità. Il potere, per dirla con Foucault, necessitava di apparati istituzionali panottici, o di quelle che Bauman chiama «fattorie di acquiescenza» (Bauman, 2001, p. 43). Proprio il Panopticon di cui parla Foucault permette tuttavia di chiarire il passaggio da questa condizione del potere a quella contemporanea, che vede al centro del suo esercizio le grammatiche culturali. Di moderno il Panopticon conserva l’elemento di visibilità del potere. Il detenuto sa che all’interno della torre che sta al centro dell’anello in cui le celle dei reclusi sono disposte è collocato un funzionario, un burocrate del potere. Ciò di cui invece non può avere consapevolezza è lo sguardo del sorvegliante, protetto, in ogni momento, da appositi dispositivi che gli consentono di osservare senza essere a sua volta visto. In questo senso, come scrive Foucault in Sorvegliare e Punire, «il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti: nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale si vede tutto, senza mai essere visti» (Foucault, 1993, p. 220). Proprio questo differente regime della visibilità fa sì che il prigioniero sia condannato ad una costante incertezza in quanto consapevole di essere sempre potenzialmente osservato ma mai nella condizione di stabilire quando questa potenza si trasformi in atto. Così Foucault descrive e commenta i muta-

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71 menti nelle modalità di esercizio del potere indotti dal Panopticon: «l’efficacia del potere, la sua forza costrittiva sono, in qualche modo, passate dall’altra parte, dalla parte della superficie di applicazione. Colui che è sottoposto ad un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del potere; le fa giocare spontaneamente su se-stesso; inscrive in se-stesso il rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente i due ruoli, diviene il principio del proprio assoggettamento. In effetti, anche il potere esterno può alleggerirsi delle sue pesantezze fisiche, tendere all’incorporeo; e più si avvicina a questo limite, più i suoi effetti sono costanti, profondi, acquisiti una volta per tutte, incessantemente ricondotti: perpetua vittoria che evita ogni scontro fisico e che è sempre giocata in anticipo» (Foucault, 1993, p. 221). Questo secondo aspetto sta già nel «postmoderno», perché, per citare un’espressione di Bauman, indica una modalità di esercizio del potere che grazie alla sua invisibilità non ha più bisogno di enormi e dispendiose «fattorie di acquiescenza». Lo stesso Bentham, dice Foucault (1993, p. 221), si stupiva di quanto leggere potessero essere le istituzioni panottiche. Dal Panopticon in avanti, quindi, il potere ha tutto l’interesse a sparire e nella società contemporanea, o dell’informazione che dir si voglia, può continuare a sussistere anche senza quella «torre» in cui i suoi funzionari erano racchiusi. L’esperienza del Panopticon infatti ha insegnato che il potere è molto più forte se riesce a spostare il suo centro d’azione dall’esterno all’interno delle pratiche e delle azioni dei soggetti, divenendo l’«apriori» che struttura l’azione più che non l’«aposteriori» che la sorveglia repressivamente. Foucault perviene quindi ad una concezione del potere visto non tanto come la prerogativa di determinati soggetti o istituzioni, quanto piuttosto come una sorta di «trascendentale» costitutivo dello stesso mondo dell’esperienza. Esso non si darebbe a vedere, quindi, in sé e per sé, ma solo riflessivamente, attraverso l’analisi genealogica degli artefatti alla cui realizzazione esso non può non contribuire, a cominciare dal linguaggio, per poi passare alle relazioni, alle istituzioni e alla società. Detto altrimenti, le modalità di esercizio del potere coincidono con gli atti istitutivi del reale sociale che ha inizio proprio a partire dal linguaggio. In quanto tale, come direbbe Melucci, il potere si configura, innanzitutto e primordialmente, come potere di nominare. Tale concezione che unisce in rapporto osmotico potere e linguaggio, forme del suo esercizio e capacità di dominazione, è assai idonea a descrivere le dinamiche del potere all’interno di una società in cui la dimensione simbolica, culturale e informazionale non rappresentano più un’autonoma sfera della produzione e del consu-

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mo ma divengono, per così dire, l’orizzonte intrascendibile in cui la vita, i processi e l’esperienza sociale vengono a svolgersi e mediarsi3. Sulla «svolta linguistica» del potere e delle dinamiche del suo esercizio nella società dell’informazione è lo stesso Melucci a richiamare l’attenzione sottolineando che il potere come relazione resta una dimensione strutturante della vita sociale, ma certamente laddove l’informazione diventa risorsa cruciale il potere si sposta dal contenuto espresso dell’azione alle sue precondizioni, a quelli che ho chiamato già molti anni fa i ‘codici’ dell’agire sociale. Non si può esercitare potere sull’azione se non controllandone le precondizioni: infatti in sistemi ad alta intensità di informazione non basta più controllare gli effetti manifesti dell’azione, perché essi diventano relativamente sostituibili, intercambiabili, modificabili e trasferibili […]. Ciò che assicura il controllo non è il semplice possesso di determinati beni o valori, ma la capacità di dominare i linguaggi, le grammatiche e le sintassi che organizzano il loro senso. Il potere consiste nella capacità di dominare quelle precondizioni cognitive, motivazionali, e sempre più verosimilmente biologiche che permettono l’intelligibilità e l’intenzionalità dei comportamenti espressi, delle relazioni sociali costruite, dei sistemi istituzionali prodotti (Melucci, 1999, p. 126).

Come si sottolineava in precedenza, è proprio l’aprioristica fungenza del potere, che agisce trascendentalmente all’esperienza sociale fornendo, attraverso codici e grammatiche, le regole generative del senso, a renderlo invisibile al soggetto che agisce non attraverso esso bensì in esso. Codici e grammatiche, proprio come accade nell’esperienza linguistica, rimangono sullo sfondo. Ciò fa sì che i differenti soggetti vi ricorrano spontaneamente, applicandoli in maniera irriflessa e riproducendone, in questo modo, regole e funzionamento. Tornando al linguaggio di Foucault, la società contemporanea non ha più bisogno di un Panopticon, perché è il sociale stesso ad essersi complessivamente panotticizzato. Niente più torri, niente più celle disposte ad anello intorno ad esse, perché ormai l’incorporazione del potere può avvenire attraverso altri dispositivi, altre macchine, del tutto invisibili, quali i media e il mercato e le narrazioni-costruzioni simboliche, vecchie e nuove, di cui sono capaci.

3 Non è un caso che la questione del rapporto tra potere e significazione sia stato messo a tema durante gli anni Settanta proprio dalle scienze della comunicazione, con la scuola dei Cultural Studies (Moores, 1998).

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73 Potere e visione polemologica del quotidiano

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Torniamo, dopo questo lungo ma necessario excursus sul mutare delle condizioni di esercizio del potere, a de Certeau e a quella che, utilizzando le sue stesse parole, abbiamo definito come visione «polemologica del quotidiano». Secondo il gesuita francese il quotidiano e l’insieme delle pratiche di cui è costituito, come avremo modo di vedere più dettagliatamente nel corso di questa nostra riflessione, lungi dall’essere quella indolente e grigia sfera di ripetizioni routinarie sono fondamentalmente produttori di novità, novità capaci di produrre sorpresa nella misura in cui, uscendo dalla loro latenza, vengono a scontrarsi con le grammatiche dell’ordine costituito. Le numerose pratiche che intessono la vita quotidiana e che le grammatiche culturali vorrebbero in qualche modo irregimentare sono infatti caratterizzate, secondo il gesuita francese, dalla più o meno consapevole appropriazione, da parte dei soggetti, di quei contenuti, di quei segni e di quei simboli attraverso cui il sistema del mercato, dei media e del potere in generale vorrebbero esercitare la loro stessa egemonia. E appropriazione significa, per de Certeau, interpretazione, distorsione, decodifica «aberrante», applicazione inedita. Insomma: produzione di novità inattesa. Afferma in proposito l’autore:

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i codici sociali vengono trasformati da chi li usa in metafore ed ellissi delle loro cacce di frodo. L’ordine imperante funge così da supporto a innumerevoli produzioni, fra la cecità dei detentori del potere ai quali sfugge questa creatività (al pari dei padroni che non possono vedere ciò che di diverso viene inventato nelle loro fabbriche.) Quest’ordine potrebbe essere paragonato alle regole della metrica e della rima per i poeti di un tempo: un sistema di vincoli che stimolano l’invenzione, una regolamentazione che non impedisce le improvvisazioni (de Certeau, 2001, p. 19).

Il prosiego di questo contributo vorrebbe mostrare come il concetto di interstizio4 così come definito da Gasparini (2002) risulti essere

4 Il termine «interstizio» viene utilizzato dallo stesso de Certeau all’interno de L’invenzione del quotidiano per descrivere gli «spazi» (margini o «crepe») presenti all’interno delle costruzioni strategiche e che consentono alle tattiche di svilupparsi e insinuarsi all’interno del sistema e del suo apparato simbolico-normativo. L’uso che de Certeau fa di questo termine è tuttavia generico nel senso che l’autore lo utilizza nella sua generale declinazione datagli

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74 particolarmente fecondo nel cogliere le suddette dinamiche che per il gesuita francese costituiscono, appunto, il quotidiano. La nostra proposta, insomma, è quella di rileggere L’invenzione del quotidiano alla luce della categoria della sorpresa, che nasce dagli interstizi ed è a sua volta evento interstiziale.

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Le due trame del quotidiano Per quanto si sia sottolineata la marginalità riservata a de Certeau da parte degli ambienti accademici e dei «garanti» del sapere ufficiale, legittimo e legittimato (Abruzzese, 2001), è nota, complice forse la sua particolare efficacia nel descrivere alcuni processi caratteristici del consumo tout court ed in particolar modo di quello mediale, la distinzione operata dall’autore tra strategia e tattica, all’interno della quale si riassume tutta la sua riflessione intorno alle pratiche della vita quotidiana. Il quotidiano, scrive l’autore, si caratterizza come insieme di pratiche in grado di produrre détournement, risemantizzare, rifunzionalizzare gli elementi, vale a dire, fondamentalmente, i simboli e le grammatiche culturali che li organizzano, prodotti e diffusi, all’interno del sociale, dalle élites dominanti per produrre e mantenere il proprio potere. È già a questo primo livello che appare, in de Certeau, la dimensione interstiziale del quotidiano: Questa ‘fabbricazione’ da svelare è una produzione, una poietica, ma nascosta, perché si dissemina negli spazi definiti e occupati dai sistemi della ‘produzione’ (televisiva, urbanistica, commerciale eccetera) e perché l’estensione sempre più totalitaria di tali sistemi non lascia più ai ‘consumatori’ un luogo in cui rivelare ciò che fanno dei prodotti. A una produzione razionalizzata, espansionista e al tempo stesso centralizzata, chiassosa e spettacolare, ne corrisponde un’altra, definita ‘consumo’: un’attività astuta, dispersa, che però si insinua ovunque, silenziosa e quasi invisibile, poiché non si segnala con prodotti propri, ma attraverso i modi di usare quelli imposti da un ordine economico dominante (de Certeau, 2001, p. 7). Se le strategie, eminentemente simboliche e grammaticali, attraverso cui il potere delle élites si produce e riproduce si avvalgono di una dal senso comune, senza accentuarne particolari valenze semantiche, come invece fa Gasparini (1998, 2002).

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75 occupazione semantica dello spazio, le pratiche tattiche del quotidiano si definiscono a partire da una a-spazialità definendo come proprio compito quello della liberazione e risemantizzazione dello spazio medesimo. Proprio per questo motivo il loro esercizio può prendere l’abbrivo solo dagli interstizi, intesi come «anelli deboli» del processo di significazione. Da qui il carattere effimero, transitorio e non capitalizzabile delle pratiche tattiche, il cui senso viene a definirsi più in rapporto alla temporalità che non alla spazialità:

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La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Si insinua in modo frammentario, senza coglierlo nella sua interezza, senza poterlo tenere a distanza. Non dispone di una base su cui capitalizzare i suoi vantaggi, prepararsi a espandersi e garantire un’indipendenza in rapporto alle circostanze. Il ‘proprio’ è una vittoria del luogo sul tempo. Al contrario, in virtù del suo non-luogo, la tattica dipende dal tempo, pronta a ‘cogliere al volo’ possibili vantaggi. Ma ciò che guadagna non lo tesaurizza. Deve giocare continuamente con gli eventi per trasformarli in ‘occasioni’. Senza posa, il debole deve trar partito da forze che gli sono estranee. E lo fa nei momenti opportuni in cui combina elementi eterogenei […] ma la loro sintesi intellettuale ha come forma non già un discorso, bensì la decisione stessa, ovvero l’atto e il modo di ‘cogliere l’occasione’ (de Certeau, 2001, pp. 15-16).

L’interstizialità è allora, innanzitutto, la dimensione aspaziale in cui viene a generarsi, all’interno del sociale, il nuovo senso. Novità che, viste le condizioni del suo stesso prodursi, vale a dire attraverso il détournement di elementi simbolici già diffusi all’interno del sociale, non può mai dirsi totale. Anzi il senso di sorpresa, di inatteso e di imprevisto che le pratiche quotidiane sono potenzialmente in grado di generare nasce proprio dal loro dipendere dai significati istituzionali ed istituzionalizzati. Ciò che genera l’imprevisto, dunque il potenziale sovversivo delle pratiche che costituiscono il quotidiano, sta proprio nella loro capacità di rendere eccentrico e inusuale ciò che solitamente appare stabile e definito, come nella poetica surrealista dell’incontro casuale dell’ombrello e della macchina da cucire. Interstizio dunque come discontinuità nella catena della significazione, ma pure, all’interno di una topografia che è anche una semantica, come dimensione nascosta della produzione di nuovo senso e nuovo significato. Se d’altro canto, a questo livello del processo, l’interstizialità può aprire eterotopie per l’esercizio di attività liberate e liberanti, il nuovo che in esso si produce non è ancora in grado di esprimere tutto il suo potenziale dirompente. Detto in altri termini, non riesce ancora a tradursi nell’evento della sorpresa.

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76 Operazione che può avvenire solo nel momento in cui ciò che viene prodotto nella latenza trova la propria via alla manifestazione. La sorpresa, infatti, ha la natura dell’evento e in quanto tale può prodursi solamente stagliandosi sullo sfondo del noto, dell’atteso e dell’istituzionale, declinando la gadameriana «fusione di orizzonti»5 in termini di scontro. Spesso obliteriamo la dimensione eventuale della sorpresa, complici un linguaggio e un senso comune che metonimicamente hanno attribuito tale termine ad un oggetto più che non all’effetto che esso è in grado di produrre sul soggetto ignaro. Così la sorpresa è nuovamente interstiziale, perché apre squarci nelle trame dell’ovvio, nelle topiche del senso comune, decostruendo anche se solo en passant schemi e logiche dell’establishment, aprendo nuove possibilità e lasciando, momentaneamente, intravvedere nuove vie. Dice in proposito l’autore, parlando dell’imprevisto: «il tempo accidentato appare soltanto come il buio che crea intoppi e lacune nella produzione. È il lapsus del sistema, e il suo nemico diabolico; ciò che la storiografia ha cercato di esorcizzare sostituendo a queste incongruità dell’altro la trasparente organicità di un’intellegibilità scientifica […]. Questi tempi costruiti attraverso il discorso appaiono, nella realtà, spezzati e accidentati» (de Certeau, 2001, p. 283). Così per de Certeau il quotidiano si definisce e si struttura in virtù di una duplice trama: la prima manifesta, spazializzata e semantizzata nei topoi organizzati dai produttori dell’immaginario collettivo, la seconda latente, interstiziale e «a margine» del manifesto e che può, a particolari condizioni, irrompere nella prima dimensione generando, appunto, la sorpresa vera e propria. In una società in cui la macchina del potere e della disciplina si smaterializza per trasmigrare all’interno delle grammatiche cultu-

5 Il concetto di «fusione di orizzonti» è alla base della stessa teoria-ontologia ermeneutica di Gadamer. Attraverso questa espressione il filosofo tedesco vuole indicare quel processo di produzione di nuovo senso che si dà sempre all’interno dell’esperienza conoscitiva, qualsivoglia sia l’oggetto stesso del nostro conoscere. Attraverso il concetto di fusione di orizzonti Gadamer propone il superamento delle teorie della conoscenza (e della scienza) che concepiscono, come previsto da ciò che egli definisce «metodo», il processo di conoscenza come obiettivante, cioè fondato su una radicale quanto necessaria separazione di soggetto ed oggetto del conoscere. Per Gadamer invece la conoscenza è sempre fusione di orizzonti, vale a dire incontro tra due campi di senso (quello del soggetto e dell’oggetto) durante la quale si giunge alla produzione di un novum. Proprio per questo l’esperienza conoscitiva è definita, dal filosofo tedesco, come evento (Gadamer, 1983).

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rali, le pratiche quotidiane, così come il potenziale destabilizzante che potrebbe scaturire da esse nella misura in cui irrompono nella sfera del visibile, sono soggette ad un processo di subpoliticizzazione, vale a dire, parafrasando il linguaggio di Beck, assumono una forte valenza politica (Beck, 2000). Detto altrimenti, se nella contemporanea società dell’informazione il potere tende ad esercitare la sua forza iscrivendosi sugli stessi corpi dei sudditi e cercando di dare forma allo stesso ambiente di esperienza in cui gli attori sociali si muovono, il conflitto, per quanto attiene sia le sue modalità espressive, sia l’arena del suo stesso esercizio, tende a spostarsi all’interno delle dinamiche, pratiche e relazioni che formano la vita quotidiana stessa. Così ha ragione Beck quando afferma che, in quella che egli definisce come modernità riflessiva, «si verifica un precario capovolgimento di politica e non-politica. Il politico diventa impolitico e l’impolitico politico» (Beck, 2000, p. 260)6. La questione della possibilità di una politica di resistenza e di opposizione all’ordine costituito diventa così per de Certeau il problema di come riuscire a concertare un’emersione efficace delle pratiche latenti che intessono il quotidiano, problema assai complesso dal momento che, come abbiamo più volte ricordato sopra, le pratiche del quotidiano sono per definizione effimere e, non potendo fondare su alcuna base spaziale la loro prassi, non sono in grado di capitalizzare ed oggettivare il risultato del proprio fare. Occorre, insomma, che questo agire diffuso e disperso in mille pratiche, accomunate tuttavia dalla medesima ratio, riesca a trovare la via verso una propria autorappresentazione e ricomposizione, favorendo in questo modo l’emersione sorprendente delle pratiche di quegli attori cui de Certeau riserva l’intrigante definizione di «maggioranza marginale» e silenziosa (de Certeau, 2001, pp. 1213). Definite, quindi, le pratiche tattiche del quotidiano anche come astuzie per il loro «lavorare di straforo», per la loro emulazione dei bracconieri, de Certeau può affermare che resta dunque da elaborare una politica di queste astuzie, che nella prospettiva aperta da Il Disagio della Civiltà deve inoltre interrogarsi su ciò che potrebbe essere oggi la rappresentazione pubblica (‘democratica’) delle alleanze microscopiche, multiformi e innumerevoli fra manipolazione e ricerca del piacere, realtà sfuggente quanto diffusa di un’attività sociale che gioca con l’ordine che la sovrasta (de Certeau, 2001, p. 22).

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Corsivi dell’autore.

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78 Per quanto riguarda la sua collocazione spaziale la sorpresa e il nuovo latente da cui si genera vivono nel non-luogo o forse sarebbe più corretto dire in un’eterotopia7 performativa, perché, come accade sempre per l’agire tattico, la spazialità liberata sussiste attraverso l’esercizio della pratica e permane fino a che la pratica è mantenuta in esecuzione. Per questo la sorpresa ha una dimensione prevalentemente temporale. Non si vuole dire, con questo, che essa lega i suoi effetti ad una particolare declinazione del vissuto temporale, vale a dire la rapidità, che spesso, come nei raid militari o nelle azioni criminali, ne costituiscono la modalità tipica. La sorpresa è geneticamente temporale, poiché scaturisce, fondamentalmente, dall’abilità con cui il soggetto è in grado di cogliere l’occasione propizia alla sua azione. Se la sorpresa provoca un riorientamento gestaltico delle categorie con cui si costruisce e si impone l’ovvio, l’ordine, allora, non potrà che nascere dall’intuizione creativa di un soggetto che, rileggendo in modo altro gli elementi di una data situazione, è in grado di appropriarsi e di stra-volgere a proprio vantaggio quegli stessi elementi. Quindi se da un lato è vero che il quotidiano è intessuto di una serie di pratiche legate ad un’azione è altrettanto vero che la sorpresa, minimo comune denominatore da cui scaturiscono, ha come suo luogo uno spazio mentale, cognitivo. Del resto, l’effetto delle stesse pratiche, il prodotto dell’azione che le caratterizza, come afferma lo stesso de Certeau, non può oggettivarsi e nemmeno capitalizzarsi. Anche gli effetti, quindi, si dispiegano, prevalentemente all’interno dello spazio cognitivo. È ciò che avviene, ad esempio, all’interno di quelle che nella società contemporanea possiamo considerare come le più tipiche, diffuse e «normali» forme di consumo, vale a dire la lettura e la fruizione mediale in genere. Scrive in proposito l’autore: a una produzione razionalizzata, espansionista, centralizzata, spettacolare e chiassosa, fa fronte una produzione ti tipo completamente diverso, definita ‘consumo’, contrassegnata dalle sue astuzie, dalla sua frantumazione legata alle occasioni, dai suoi bracconaggi, dalla sua clandestinità, dal suo instancabile mormorio, che la rende quasi invisibile poiché non si segnala in alcun modo attraverso creazioni proprie, bensì mediante un’arte di utilizzare ciò che le viene imposto (de Certeau, 2001, p. 66).

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Sul concetto di eterotopia si veda Foucault (1997).

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79 E a sottolineare ancor di più l’invisibilità delle pratiche e dei suoi «prodotti» che qui chiediamo di interpretare in termini di cognitivizzazione dell’azione medesima, de Certeau scrive: Le pratiche del consumo sono i fantasmi della società che porta il loro nome. Come gli ‘spiriti’ di un tempo, costituiscono il postulato multiforme e occulto dell’attività produttiva (de Certeau, 2001, p. 71).

Metis

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Le «attività di bracconaggio» che costituiscono l’insieme delle pratiche che più o meno coscientemente il soggetto dispiega nella sua vita quotidiana fanno capo, secondo de Certeau, ad un modello di razionalità peculiare, per quanto noto fin dagli esordi ellenici della filosofia, vale a dire la metis, ragione pratica e pratica della ragione, assai diversa dalla più nota e celebrata ragion teoretica. Citando Detienne, che a sua volta fa riferimento a Vernant, de Certeau definisce la metis come

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Una forma di intelligenza sempre ‘immersa in una pratica’ in cui si combinano ‘il fiuto, la sagacia, la previsione, la duttilità, la dissimulazione, la capacità di sbrogliarsela, l’attenzione vigile, il senso dell’opportunità, abilità diverse, un’esperienza di lunga data’8. […] La metis è molto simile alle tattiche quotidiane per i suoi ‘colpi di mano, la sua destrezza e i suoi stratagemmi’, e per il ventaglio di comportamenti che essa abbraccia, dal saper fare fino all’astuzia (de Certeau, 2001, p. 130).

È proprio la metis che permette all’autore di ricapitolare in un unico concetto tutti gli elementi finora dispiegati dal suo discorso. Grazie alla sua capacità di accumulare, come in una topica delle situazioni, le passate esperienze e di prospettare, alla luce di queste, un’ampia gamma di soluzioni possibili nuove ed alternative, la metis incarna in se stessa nella dimensione temporale quella dialettica tra visibile ed invisibile che abbiamo anche definito come la duplice trama del quotidiano. Nella continuità invisibile della durata la metis raccoglie, archivia e cataloga esperienze per far esplodere, nel presentarsi dell’occasione propizia, l’alterità radicale di cui è portatrice, cercando di fare in modo, come nell’applicazione di una sorta di economia energetica della detonazione, di otte8

Detienne, Vernant (1992), pp. 9-10.

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80 nere, nel tempo minimo che ha per manifestarsi, il risultato massimamente dirompente. Alla metis spetta quindi un duplice compito: in quanto ermeneutica silenziosa taglia, cuce, legge, rilegge, combina e attua il détournement dei significati dell’esperienza quotidiana. Inoltre essa è anche dispositivo detonante, pronta a scattare, a esplodere nel momento in cui il presente le offre l’occasione per poterlo fare. Il passaggio da latenza a visibilità non è quindi sottoposto a decisione, ma accade, quasi automaticamente, come una reazione chimica (e del resto cos’è la detonazione se non un processo di questo genere?) nel momento in cui tutti gli elementi indispensabili al suo prodursi vengono a concentrarsi ed assommarsi. Da qui, ancora una volta, il suo ineliminabile carattere di sorpresa. Ci permettiamo, giunti a questo punto della nostra ricostruzione, di forzare, anche se solo lievemente, la mano dell’autore proponendo di ricapitolare quanto finora detto nella distinzione di un doppio livello della diade visibile/invisibile, al fine di meglio comprendere le modalità del quotidiano inventivo, resistente e potenzialmente sovversivo, e meglio correlarlo al tema della sorpresa e, tramite questo, alla più ampia fenomenologia degli interstizi. Si propone qui di distinguere la visibilità in pubblica e circoscritta. Partiamo da questa seconda declinazione. Con essa intendiamo l’effettuale produzione di pratiche d’azione altre o tattiche, capaci di aprire spazi eterotopici all’interno dell’ordine costituito. Questo tipo di attività non abbisogna necessariamente di una visibilità pubblica. È sufficiente che venga socializzata all’interno di un particolare ambiente, di una particolare cerchia sociale, o al limite che venga consapevolmente praticata da un solo soggetto. In questo caso l’occasione di cui parlavamo è data dal rinnovarsi di volta in volta delle opportunità che il sistema sorvegliante e dominante produce, a sua insaputa, per l’esercizio stesso di questa pratica. Scegliamo, come esempio di quanto detto, quella pratica (che è in realtà una metapratica) che il gesuita francese chiama «lavoro di straforo» (la perruque). Qui è anzi fondamentale che la visibilità pubblica non venga raggiunta e l’interstizialità si definirà tanto come a-spazialità latente in cui tale pratica si esercita, quanto come sua fenomenologia temporale intermittente (ogni volta che è possibile, ogni volta che se ne presenta l’occasione). La sorpresa, in questo caso, può solo configurarsi come evento non desiderato, vale a dire come scoperta da parte dell’ordine costituito. In altri casi, invece, la metis finalizza la latenza proprio alla preparazione occulta di un evento il cui scopo è quello di irrompere nella visibilità pubblica e creare sorpresa, a scopi apertamente destabilizzanti, come avviene nel caso degli attentati terroristici. Vi è poi una via di mezzo, in cui le attività di détournement simbolico vo-

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gliono a loro volta raggiungere una visibilità pubblica, per colpire il sistema nel cuore della sua semiocrazia e delle sue grammatiche culturali. È il caso di tutte quelle tattiche, legate ad alcune frange dei movimenti, come quella del mediattivismo (Pasquinelli, a cura di, 2002; Introini, 2004; Berardi, Jaquemet, Vitali, 2003) e del cultural jamming (AA.VV., 2001), che prendono ispirazione, per le loro pratiche, da Debord e dall’Internazionale Situazionista9 e che hanno in alcuni luoghi della rete (Indymedia e tutta la galassia dei media indipendenti10) di Internet i loro nodi catalizzatori. Se il mediattivismo indica, sostanzialmente, quelle pratiche sovversive e di resistenza che hanno i media come tramite, soggetto e oggetto della loro azione e che mirano, sostanzialmente, a creare una rete mediale indipendente come presupposto di una palingenesi del sociale medesimo, il cultural jamming prende come riferimento della sua azione dissidente l’immaginario collettivo costruito dal mediascape al fine di decostruirne, mediante la tattica situazionista del détournement, simboli, modelli e discorsi (AA.VV., 2001; Berardi, Pignatti, Magagnoli, 2003). Come emerge da quanto finora detto, quindi, è possibile, alla luce della lettura di de Certeau, delineare un continuum delle tattiche sovversive che va dalle pratiche quotidiane apparentemente più innocue, omologate e al limite individualizzate (la lettura, la fruizione televisiva) alle più concertate azioni di movimento. Un continuum che da un lato non fa che dare al quotidiano un carattere, appunto, polemologico e che dall’altro mostra la forte possibilità di diffondere all’interno della società civile pratiche resistenti più mirate e specifiche, ma logicamente non differenti e per questo di consentire loro di raggiungere la massa critica necessaria ai fini della sovversione. Ciò che inoltre emerge all’interno dell’opera di de Certeau è la consapevolezza che in una società come quella attuale, sia essa definita dell’informazione o della conoscenza, in cui il controllo sociale è ad un tempo il più pervasivo e il più invisibile della storia, pro-

9 Sull’Internazionale Situazionista, le sue teorie, le sue pratiche e la sua evoluzione, si veda Perniola (1998). 10 I media indipendenti della rete sono luoghi di Internet che svolgono il ruolo di nodi mediali rispetto alle più disperse e diffuse fonti di controinformazione. Indymedia è il loro capostipite. Nato a ridosso degli eventi di Seattle 1999, data che segna, «ufficialmente», la comparsa del movimento New Global, Indymedia è oggi diffuso, grazie alla capillarità della rete Internet, in gran parte del mondo occidentale. Per un approfondimento rinviamo a Pasquinelli (a cura di, 2002).

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82 prio perché esercitato attraverso la costruzione simbolica della realtà, l’unico margine per un’azione alternativa e indipendente abita, prende forma e si esercita negli interstizi, il più importante dei quali è proprio la mente dell’uomo. Ciò configura, in una società che marcia verso la sua cognitivizzazione (Morin, 2000), la stessa cognitivizzazione dell’azione sociale che parte dalla mente per farvi ritorno configurando il mutamento sociale eminentemente come metanoia. In quell’interstizio, che, in ultima analisi, è spazio ermeneutico tra un messaggio e il soggetto interpretante e che si apre all’interno della libera mente del soggetto, si configura una dimensione di costante elaborazione della possibilità e della differenza. E in un mondo che, in virtù dei processi di virtualizzazione (Castells, 2002; Levy, 1997; Boccia-Artieri, 2000, 2004), assomiglia sempre più alla mente dell’uomo, i possibili effetti sociali del mutamento cognitivo diventano sempre più concreti. E su questi toni cognitivizzanti è lo stesso de Certeau a chiudere il suo discorso affermando che «le pratiche quotidiane, fondate sul rapporto con l’occasione, ovvero sul tempo accidentato, sarebbero, dunque, sparpagliate nel corso della durata, equiparabili ad atti11 di pensiero, suoi gesti permanenti» (de Certeau, 2001, p. 284). Edgar Morin: cogliere l’inatteso come strategia del pensiero complesso Imparare a sorprendersi, ad accogliere l’incertezza e l’inatteso è la sfida che pone Edgar Morin alla condizione umana, oramai assuefatta dalla ritualità della vita quotidiana, intrappolata in meccanismi conoscitivi sterili e tautologici. Il concetto di sorpresa risulta infatti centrale nella riflessione epistemologica sviluppata da Morin in questi anni, un’area di attenzione che attraversa trasversalmente e caratterizza tutta la sua produzione scientifica, a partire da Il Metodo12

Corsivo dell’autore. Nel Metodo, un’opera «fondativa» del sapere in cinque volumi, è possibile ripercorre l’avventura epistemologica, sociologica ed antropologica moriniana. Mentre i primi due volumi (1983, 1987) «raccordano l’interrogazione dell’umano a quella del mondo fisico e del mondo vivente», il terzo e il quarto (1989, 1993a) «trattano delle possibilità e dei limiti della nostra conoscenza, legando antropologia ed epistemologia» (Morin, 2002, p. XIX). Infine, il quinto volume del Metodo è dedicato all’Umanità dell’umanità e si compone di un primo tomo su L’identità umana (2002) e di un secondo tomo su L’etica complessa a cui Morin sta ancora lavorando. 11 12

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83 sino a giungere alle più recenti considerazioni sulla problematica educativa. Attorno all’idea di sorpresa, il sociologo francese costruisce le fondamenta per una riforma epistemologica relativa al modo di conoscere, oramai consapevole dei limiti e dei rischi che un pensiero riduzionista e frammentato può generare. Proprio in risposta al dominio incontrastato di cui ha goduto il pensiero riduzionista, pur riconoscendone tutti i pregi in campo conoscitivo, egli propone una riforma del pensiero, che definisce complesso, ossia capace di connettere i saperi, di creare sinergie, di aprirsi al confronto interdisciplinare, di sorprendersi dinanzi all’inatteso. Il sapere sembra oramai sempre più arroccato sulle sue posizioni, indiscutibile e allo stesso tempo frammentato e specialistico, in mano a pochi detentori, i quali utilizzano un linguaggio specifico che risulta spesso incomprensibile ai non addetti ai lavori. Di qui la proposta epistemologica moriniana di ripensare le modalità del conoscere, come possibile via di uscita dalla situazione di empasse. Il pensiero complesso (Morin, 1993), all’interno di un mondo in continua trasformazione, è la soluzione che può consentire agli scienziati sociali di sorprendersi al cospetto del nuovo che avanza. Le forti accelerazioni, le inaspettate e «sorprendenti» metamorfosi dei sistemi sociali e delle stesse identità richiedono nuove chiavi interpretative per comprendere la direzione, la portata e il senso dei cambiamenti in atto. Assumere che i paradigmi interpretativi, che erano stati pensati per la modernità, non riescono a cogliere le sfumature dell’attuale condizione storica, significa non accontentarsi del noto e dell’atteso, in una prospettiva riduzionistica, ma cercare di de-codificare il presente, la vita quotidiana e i problemi globali con nuovi occhiali, i quali dovrebbero aiutarci proprio a cogliere quanto non siamo ancora abituati a vedere, quanto non siamo soliti riconoscere perché non classificabile nelle nostre categorie interpretative. Leggere i fenomeni sociali con una mente riformata, secondo la prospettiva della complessità, costituisce una sfida che vale la pena affrontare per produrre un sapere aderente alla realtà, che non utilizza paradigmi precostituiti e spesso sterili, ma cerca di comprendere, di utilizzare le pre-comprensioni in senso gadameriano13, di far dialogare i saperi, di predisporsi ad accogliere le trasformazioni, in una prospettiva non aprioristica ma dialettica e democratica14. La proposta Gadamer (1983), De Simone (1999). Morin prospetta, infatti, l’avvento di un nuovo umanesimo, in cui il sapere scientifico e il sapere delle scienze umane imparino a dialogare e a fecondarsi a vicenda. 13 14

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84 di Morin è riconducibile al tentativo di ecologizzare le discipline, di trasformare il pensiero chiuso e specialistico in un sapere ecologico, in quanto «la storia ufficiale della scienza è quella della disciplinarietà, un’altra storia, legata e inseparabile, è quella delle inter-poli-transdisciplinarietà»15 (Morin, 2000, p. 114). In un contesto sociale fluido, in continua trasformazione e in cui le parti, paradossalmente, sono sempre più frammentate e interconnesse le une alle altre, Morin sente l’esigenza di sensibilizzare gli individui alla stessa comunità di destino16, proponendo una riforma del pensiero interconnessa ad una riforma dell’educazione, che, passando per la responsabilità individuale, conduca ad una presa di coscienza collettiva. La storia insegna che, così come è successo per tutte le trasformazioni e le riforme, anche questa farà fatica ad attecchire e a subentrare al sistema in vigore: saranno pochi, saranno pionieri coloro che sposeranno questa causa, spesso incompresi e osteggiati, ma solo per questa strada si potrà giungere al consenso17. In questa pro-

15 Nel volume La testa ben fatta, Morin sviluppa in maniera puntuale il dibattito sulla questione delle virtù della specializzazione e dei rischi dell’iper-specializzione. Egli ritiene, infatti, che le singole discipline dovrebbero essere contemporaneamente sia chiuse che aperte: «Occorre anche un punto di vista metadisciplinare, dove il termine ‘meta’ significa superare e conservare. Non si può distruggere ciò che è stato creato dalle discipline; non si può distruggere ogni chiusura, ne va del problema della disciplina, del problema della scienza come del problema della vita: bisogna che una disciplina sia nello stesso tempo aperta e chiusa» (Morin, 2000, p. 124). 16 Alla questione della comunità di destino, Morin ha dedicato un’ampia sezione nel volume L’identità umana (2002). Nel pensiero di Morin, i concetti di comunità di destino, di democrazia cognitiva e di riforma del pensiero e dell’educazione sono interconnessi, in quanto la consapevolezza di vivere in una Terra-Patria in cui siamo esposti agli stessi rischi può nascere nelle coscienze individuali solo se il pensiero viene educato a ragionare in maniera ecologica e multidimensionale, a riappropriarsi del sapere e delle chiavi di accesso ad esso. Ad esempio, i rischi del terrorismo ed ecologici sono oramai percepiti come globalizzati, come esperienze che legano gli individui ad una stessa comunità di destino, problemi globali a cui si può cercare di far fronte con la formazione di una coscienza planetaria, che ha gli strumenti per attingere al sapere e per riflettere in maniera responsabile sugli esiti della propria azione e di orientarla, eventualmente, in maniera critica e costruttiva al ripensamento di alcune dinamiche culturali e sociali. 17 La riforma del pensiero, che per Morin significa affrontare le sfide del globale, del complesso e dell’espansione incontrollata del sapere, «verrà da

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85 spettiva, quando progetta e auspica l’avvento di una democrazia cognitiva18, Morin intende offrire a tutti indistintamente la possibilità di attingere ai vari saperi, un’operazione che conduce gli individui a divenire protagonisti e non più spettatori inermi, che li rende finalmente capaci di scegliere, di comprendere e di agire con consapevolezza. Ripensare a pensare

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Nei cinque volumi de Il Metodo, il sociologo francese espone e argomenta il suo progetto di riforma del pensiero secondo il paradigma della complessità che si contrappone al paradigma moderno di disgiunzione-riduzione-semplificazione. La critica moriniana al paradigma moderno riduzionista «ripercorre le fasi del processo che hanno prodotto la separazione tra res cogitans e res extensa; rottura che ha determinato l’allontanamento del dominio scientifico da quello filosofico, della natura dallo spirito privando, in tal modo, la scienza di importanti strumenti per riflettere su se stessa, per autocriticarsi, per auto-osservarsi»19 (Pasqualini, 2000, p. 51). Separare, tenere distinti il soggetto conoscente dall’oggetto della conoscenza una minoranza di educatori animati dalla fede nella necessità di riformare il pensiero e di rigenerare l’insegnamento» (Pasqualini, 2000, p. 58). Saranno educatori «che hanno già in sé il senso della loro missione. Le trasformazioni sono sempre difficili da accettare ma bisogna sapere cominciare e l’inizio non può che essere deviante e marginale» (Morin, 2000, p. 105). 18 In una intervista a Morin, realizzata da Antonella Martini nel 1997 e pubblicata nel 1999, il sociologo francese cerca di definire che cosa intende per democrazia cognitiva: «La democrazia cognitiva presuppone essa stessa la riforma del pensiero, poiché la scienza, le scienze sono estremamente esoteriche per i cittadini. Essi rinunciano a comprendere, sono sicuri di non poter comprendere e gli scienziati stessi dicono loro ‘voi non potreste comprendere’. Quindi si è creato un fossato tanto più grave dal momento che i problemi politici più importanti hanno tutti una componente scientifica e tecnica che è riservata agli esperti. E lo vediamo, oggi, per tutti i problemi di bioetica. Allora, la democrazia cognitiva suppone che i cittadini possano incorporare in se stessi gli apporti più fondamentali delle scienze» (Morin, 1999, p. 20). 19 Nel Prologo del volume L’identità umana e in tutta la sua ampia produzione diaristica – Autocritica (1991), Il vivo del soggetto (1995), I miei demoni (1999) – Morin sottolinea la fusione tra soggetto e oggetto come necessità ed evidenza imprescindibile nello studio della condizione umana. Egli riconosce, infatti, «che il soggetto umano che studia è incluso nel suo oggetto» (Morin, 2002, p. XVIII).

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86 ha generato, inoltre, l’isolamento e l’allontanamento tra le diverse macro-aree di ricerca scientifica, quali la fisica, la biologia e le scienze dell’uomo, producendo e alimentando un sapere frammentato, parcellizzato e di nicchia20. Per quanto concerne il metodo, occorre divenire consapevoli che, accanto alle importanti conoscenze sul mondo fisico, biologico, psicologico e sociologico acquisite dalla scienza con il metodo della verifica empirica e logica, progrediscono di pari passo l’errore, l’ignoranza e la cecità.

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Ci è indispensabile una presa di coscienza radicale: –

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la causa profonda dell’errore non è nell’errore di fatto (errata percezione) o nell’errore logico (incoerenza), ma nel modo in cui il nostro sapere è organizzato in sistema di idee (teorie, ideologie); esiste una nuova ignoranza legata allo sviluppo della scienza stessa; esiste una nuova cecità legata all’uso degradato della ragione; le minacce più gravi cui l’umanità va incontro sono legate al progresso cieco e incontrollato della conoscenza (armi termonucleari, manipolazioni di ogni genere, squilibrio ecologico ecc.) (Morin, 1993, p. 5).

20 Lo studio dell’identità umana e della condizione umana più in generale, che costituisce la costante moriniana, può essere affrontato solo pensando la connessione dei saperi, in quanto l’uomo è sia natura che cultura. I diversi saperi, non sommati ma organizzati, concorrono alla produzione della conoscenza dell’Homo complexus. L’uomo è per Morin individuo-specie e società, una trinità umana, con un radicamento cosmico e biologico, una identità polimorfa e relazionale, è Sapiens, faber e demens, una identità individuale, storica, sociale e planetaria. Dunque: «Se homo è nello stesso tempo sapiens e demens, affettivo, ludico, immaginario, poetico, prosaico, se è un animale isterico, posseduto dai suoi sogni e tuttavia capace di oggettività, calcolo, di razionalità, è perché è homo complexus» (Morin, 2002, p. 125). Dal canto loro, le scienze, ciascuna con le proprie specificità, mettono in campo il proprio capitale culturale e scientifico, offrendo da prospettive diverse un contributo per la spiegazione e la comprensione dell’essere umano. Il Metodo 5. L’identità umana rappresenta un importante tentativo di connessione dei saperi intorno ad un oggetto di studio complesso, che, nel caso specifico della condizione umana, si realizza solo attraverso l’incontro, lo scontro e il riconoscimento tra soggetto e oggetto.

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87 L’intelligenza cieca – così la definisce Morin – produce conoscenze mutilate e parziali, proprio perché è incapace di riconoscere e comprendere la complessità del reale. Se la realtà che studiamo è complessa, il pensiero che si propone di conoscerla non può adottare delle strategie riduzionistiche, poiché, per la sua stessa intrinseca natura, è impossibile semplificare ciò che è complesso. Come osserva Morin, la conoscenza deve necessariamente prendere coscienza dei suoi limiti, imparando a convivere quotidianamente con l’errore e l’illusione:

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Il contributo più importante del sapere del XX secolo è stata la conoscenza dei limiti della conoscenza. La più grande certezza che ci abbia dato è quella dell’ineliminabilità delle incertezze, non solo nelle azioni, ma anche nella conoscenza. […] Una delle principali conseguenze di queste due apparenti sconfitte, in realtà vere e proprie conquiste della mente umana, è di metterci in condizioni di affrontare le incertezze e più globalmente il destino incerto di ciascun individuo e di tutta l’umanità. Conviene far convergere più insegnamenti, mobilitare più scienze e discipline, per imparare ad affrontare l’incertezza (Morin, 2000, pp. 55-56).

Morin, in linea con molti altri sociologici contemporanei quali Bauman e Beck21, fa riflettere su come l’esperienza dell’incertezza riguardi non solo la conoscenza ma anche la storia dell’umanità, le azioni e il nostro futuro22. È interessante osservare che solo di recente la comunità scientifica ha preso atto di come la storia non progredisca in senso lineare, secondo il principio del progresso ad libitum, ma come in realtà siano in atto processi sistemici in controtendenza, di involuzione. Sappiamo, infatti, che solo nel XX secolo gli scienziati sociali hanno incominciato a pensare che la storia umana è stata contrassegnata da una forte incertezza e non da un futuro ripetitivo e progressivo, assumendo altresì i tratti di «un’avventura ignota». L’avvenire della condizione umana rimane un grande mistero ed è pressoché impossibile predire il destino

21 La questione dell’incertezza è «intimamente» connessa al processo di de-istituzionalizzazione, descritto da molti sociologici contemporanei, tra cui ricordiamo Touraine, Beck e Bauman. Per approfondimenti si faccia riferimento ai volumi di Bauman (1999); Beck (2000); Touraine (1998). 22 Per una ricostruzione puntuale della questione, si faccia riferimento ai seguenti volumi: Giaccardi, Magatti (2003); Bocchi, Ceruti (1993); Morin (2002).

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umano, anche se è sicuramente un destino comune, planetario. Pur riconoscendo il potere delle determinazioni politiche, economiche e sociologiche nel corso della storia, esse tuttavia «sono in relazione instabile e incerta con innumerevoli casi ed eventi che fanno deviare e sviare il suo corso». Nello specifico, Morin cerca di descrivere, con uno sguardo sociologico, la transizione delle civiltà umane da uno stato di certezza ad uno di forte incertezza: Le civiltà tradizionali vivevano nella certezza di un tempo ciclico, al quale bisognava assicurare il buon funzionamento con sacrifici talvolta umani. La civiltà moderna ha vissuto del progresso storico. La presa di coscienza dell’incertezza storica si compie oggi nel crollo del mito del progresso. Un progresso è certo possibile, ma è incerto. All’incertezza del futuro si aggiungono tutte le incertezze dovute alla velocità e all’accelerazione dei processi complessi e aleatori della nostra era planetaria, che né la mente umana, né un super computer, né alcun demone di Laplace saprebbe comprendere (Morin, 2001, pp. 81-82).

Proprio per questo motivo, la svolta epistemologica di Morin cerca di percorrere la via della complessità, proponendo un pensiero complesso e multidimensionale, capace di connettere il soggetto e l’oggetto e di produrre una conoscenza non più assoluta e completa, ma contingente, mutevole e parziale, dominata dal disordine e, se vogliamo, dalla sorpresa e dall’inatteso. In questo modello epistemologico il disordine è fondamentale, così come nella prospettiva di Heinz von Foerster (1988), il quale utilizza il concetto di order from noise per spiegare come si possa giungere all’ordine anche grazie ad elementi di disturbo come il disordine e il rumore23. In realtà, osserva Morin, non abbiamo ancora incorporato il messaggio di Euripide, secondo il quale occorre attendersi l’inatteso, che in definitiva ci sorprende sempre perché inaspettato: «Gli dèi ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre la via» (Euripide, Medea). Il pensiero complesso deve imparare a fronteggiare le incertezze, perché, come afferma l’autore: L’inatteso ci sorprende. Il fatto è che ci siamo installati con troppo grande sicurezza nelle nostre teorie e nelle nostre idee, e che queste non hanno alcuna struttura di accoglienza per il nuovo. Il nuovo spun23 Per ulteriori approfondimenti si faccia riferimento ai volumi di Ceruti (1989); Bocchi, Ceruti (1985); Prigogine, Stengers (1991).

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89 ta continuamente. Non possiamo mai prevedere il modo in cui si presenterà, ma dobbiamo aspettarci la sua venuta cioè attenderci l’inatteso. E, una volta giunto l’inatteso, si dovrà essere capaci di rivedere le nostre teorie e idee più che far entrare con il forcipe il fatto nuovo nella teoria incapace di accoglierla veramente (Morin, 2001, p. 30).

Ri-formare le mappe cognitive a partire dalla formazione

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Un pensiero complesso, che opera per connessioni e non per riduzioni, ha bisogno di essere educato; di qui l’esigenza imprescindibile di legare la riforma del pensiero alla riforma del sistema formativo, come due processi che concorrono alla produzione di una conoscenza pertinente, complessa e interdisciplinare. Sono proprio gli sviluppi caratteristici del nostro secolo e della nostra era planetaria a porci dinanzi alle sfide della complessità, che possono esser affrontate adeguatamente solo con un pensiero complesso e non frammentato, unidimensionale e parcellizzato. A problemi complessi occorrono soluzioni altrettanto complesse e multidimensionali. Al contrario, secondo Morin, spesso accade che:

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Più i problemi divengono multidimensionali e più si è incapaci di pensare la loro multidimensionalità; più la crisi progredisce, più progredisce l’incapacità a pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più essi diventano impensati. Un’intelligenza incapace di considerare il contesto e il complesso planetario rende ciechi, incoscienti e irresponsabili (Morin, 2000, p. 7).

Il sapere, anche in seguito agli sviluppi accademici, si è iper-specializzato e frammentato facendo perdere di vista l’importanza dell’unitarietà del sapere. Dal canto loro, le istituzioni scolastiche hanno contribuito alla riproduzione di un sapere parcellizzato, in quanto, sin dalla scuola dell’obbligo, si insegna a isolare gli oggetti dal loro ambiente, a separare le discipline e a disgiungere i problemi. In realtà, più che insegnare a ridurre il semplice al complesso, sarebbe necessario connettere le conoscenze, senza eliminare tutto ciò che sembra inatteso e produrre disordine nel nostro intelletto. La sfida più complessa, a cui i sistemi formativi sono sottoposti, a cui devono saper rispondere e a cui non possono più sottrarsi, consiste appunto nell’imparare a legare i saperi e le conoscenze, così come insegna Morin nel volume Relier les connaissances (1999a). Occorre pertanto connettere i saperi, attraverso una riforma del pensiero, una riforma paradigmatica e non programmatica, che riguarda le nostra capacità di organizzare le conoscenze. Riforma

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90 del pensiero e riforma dell’insegnamento vanno lette insieme, pertanto la sfida delle sfide per Morin può essere riassunta come segue: «La riforma dell’insegnamento deve condurre alla riforma di pensiero e la riforma di pensiero deve condurre a quella dell’insegnamento» (Morin, 2000, p. 13). Il risultato di una riforma del pensiero, che parte e conduce alla riforma dell’insegnamento, fa proprio il principio di Montaigne secondo il quale «è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena», ossia occorre imparare a districarsi nella complessità sviluppando un pensiero che sia in grado di connettere i saperi, di contestualizzare i problemi, attraverso la formazione di mappe cognitive flessibili, come direbbero gli stessi Bocchi e Ceruti riprendendo la lezione moriniana. La questione della ri-formazione delle mappe cognitive riconduce inevitabilmente al concetto di sorpresa, intesa come forma mentis aperta all’imprevisto, capace di rimettere in discussione le conoscenze acquisite che, molto spesso, appare necessaria, l’unica via percorribile, per far fronte alle trasformazioni sociali che impattano sulla vita quotidiana e sui percorsi biografici. La posta in gioco è quella di delineare mappe cognitive in grado di evolvere, che incarnino un’idea di sapere aperta alla discontinuità, alla sorpresa, all’incertezza, alle sfide della scoperta e dell’innovazione, alla consapevolezza dei mutamenti paradigmatici, alla capacità di riformulare le dimensioni della propria interrogazione. L’attenzione dovrebbe vertere certo sulla ristrutturazione delle conoscenze in quanto oggetto di studio, ma anche sulla riflessione intorno alle dinamiche della conoscenza in quanto processo (Bocchi, Ceruti, 2004, p. 5).

Scoprire e riscoprirsi come identità in cambiamento attraverso la costruzione di mappe cognitive flessibili non è più un’opportunità, un’opzione, un’alternativa possibile, ma una reale esigenza per ricollocarsi in un sistema sociale in cui tutto si trasforma quotidianamente, in cui più nulla è dato una volta per tutte, in cui l’unica certezza è paradossalmente l’incertezza. Acquisire una forma mentis flessibile, aperta all’inatteso e capace di farvi fronte con successo, vede proprio nella strategia, piuttosto che nel programma, lo strumento vincente. Mentre è sempre più difficile programmare, pensare in maniera strategica, anche in relazione alle situazioni che si creano di volta in volta, consente agli individui di adattarsi al presente, aprirsi all’inatteso pur mantenendo una qualche forma identitaria. L’acquisizione dell’identità – che può essere una e molteplice – è il nodo centrale,

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la preoccupazione emergente di questi anni. L’Homo complexus non ha una identità monolitica, ma contratta, adatta, propone e impone la sua identità nei vari ambiti di vita in cui fa esperienza e si relaziona quotidianamente; si rimette in discussione, si sorprende e sorprende, è aperto al cambiamento. Se la preoccupazione della modernità era quella di assumere una identità immutabile e ancorata saldamente a delle certezze, per far fronte alle sfide della complessità agli individui è richiesto di costruire, organizzare e modellare la propria identità in itinere, nel confronto, scambiando informazioni con l’ambiente, rimettendosi in gioco. Pertanto, se il problema degli individui della modernità liquida24 – come sappiamo anche da Bauman – è quello di non scegliere in maniera irreversibile, ma di lasciarsi aperte più possibilità, Morin individua nella strategia la possibilità del cambiamento nella continuità. Orientare l’azione in tempi di incertezza: strategia versus programma Tutto riconduce all’idea di sorpresa, di incertezza, di inatteso, sia per quanto riguarda la formazione delle mappe cognitive sia per i processi di costruzione identitaria, processi complessi che passano anche attraverso l’azione e l’esperienza, e che necessitano di un pensiero strategico:

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L’azione è strategia. La parola strategia non indica un programma predeterminato che è sufficiente applicare ne varietur nel tempo. La strategia consente, muovendo da una decisione iniziale, di ipotizzare un certo numero di scenari per l’azione, che arriveranno nel corso dell’azione e secondo le alee che sopraggiungeranno e perturberanno l’azione (Morin, 1993, p. 79).

La società complessa privilegia la strategia sul programma, in quanto, essendo esposta all’imprevisto e al rischio, richiede agli individui la capacità di agire in base alle necessità che si presentano contestualmente, secondo il principio della presentificazione, ossia del vivere nel presente assoluto25. Al contrario, il programma si configura come una serie di tappe in sequenza che devono e possono essere ese-

24 L’espressione modernità liquida è introdotta e discussa da Bauman nell’omonimo suo volume (2002). 25 Per approfondimenti si faccia riferimento ai contributi di Gasparini (2000); Magatti, Cesareo (2000), Giddens (1994); Kern (1998); Novotny (1992).

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guite solo in un ambiente stabile, in cui non intervengono variazioni a turbare l’ordine procedurale stabilito. Infatti, se il disordine entra nel sistema o vengono meno delle condizioni esterne ad esso, «il programma» si blocca e non è possibile proseguire il percorso tracciato. La strategia, al contrario, prevede la reversibilità delle scelte: La strategia elabora uno scenario di azione esaminando le certezze e le incertezze della situazione, le probabilità e le improbabilità. Lo scenario può e deve essere modificato secondo le informazioni raccolte, i casi, i contrattempi o le sorti favorevoli incontrate strada facendo. Possiamo, nelle nostre strategie, utilizzare piccole sequenze programmate, ma, in un ambiente instabile e incerto, si impone la strategia. […] La strategia può e deve effettuare compromessi (Morin, 2001, p. 93).

Siamo sempre più incapaci di prevedere a lungo termine. Il potere dell’azione individuale si è considerevolmente ridotto, nel senso che sempre più spesso siamo spettatori, incapaci di far valere la nostra azione sul sistema che ci sovrasta. Morin ha particolarmente a cuore la questione della nascita di una coscienza planetaria, una coscienza terrestre26 consapevole di abitare la Terra-Patria (Morin, Kern, 1994)27, in cui gli individui percepiscano di essere accomunati da un destino comune, in quanto esposti agli stessi rischi che sono quelli del terrorismo, della minaccia nucleare ed ecologica. Di fronte a questa situazione di incertezza, di sorpresa che potrebbe sopraggiungere da un momento all’altro, ma di cui facciamo fatica a prevedere i tempi e le modalità, l’azione individuale deve privilegiare necessariamente la strategia, essere pronta all’inatteso. 26 Nel volume I Sette Saperi, Morin ribadisce che se siamo una comunità di destino occorre assumere una coscienza terrestre proprio perché «tutti gli esseri umani, dal XX secolo, vivono gli stessi problemi fondamentali di vita e di morte, e sono legati gli uni agli altri nella stessa comunità di destino planetaria […]. Abbiamo bisogno ormai di imparare a essere, a vivere, a condividere, a comunicare, essere in comunione anche in quanto umani del pianeta Terra. Non dobbiamo più solo essere di una cultura, ma anche esseri terrestri. Dobbiamo impegnarci non a dominare, ma a prenderci cura, migliorare, comprendere. Dobbiamo inscrivere in noi la coscienza antropologica, la coscienza ecologica, la coscienza civica, la coscienza dialogica» (Morin, 2000, pp. 77-78). 27 Nell’opera Terra-Patria, Morin sottolinea che la Terra è dell’uomo, che non deve dominarla ma abitarla, curarla e rispettarla: «Ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla Terra. Apparteniamo alla Terra che ci appartiene» (Morin, Kern, 1994, p. 187).

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93 La realtà mondiale è appunto inafferrabile; comporta enormi incertezze dovute alla sua complessità, alle sue fluttuazioni, ai suoi dinamismi mescolati e antagonistici, alle sue biforcazioni inattese, alle possibilità che sembrano impossibili e alle impossibilità che sembrano possibili. L’inafferrabilità della realtà globale retroagisce sulle singole parti, poiché il divenire delle parti dipende dal divenire del tutto. Eccoci di fronte al paradosso inaudito in cui il realismo diventa utopico e in cui il possibile è impossibile. Ma questo paradosso ci dice anche che c’è un’utopia realistica, e che c’è un impossibile possibile. Il principio di incertezza della realtà è una breccia sia nel realismo sia nell’impossibile (Morin, Kern, 1994, pp. 136-137). Documento acquistato da () il 2024/02/18.

Riforma del pensiero, formazione di mappe cognitive aperte, predisporsi all’inatteso con una azione strategica significa anche comprendere che esistono problemi globali che richiedono soluzioni globali e non individuali. Le minacce presenti su scala globale hanno bisogno di interventi e strategie globali, che passano, innanzitutto, attraverso una riforma del pensiero, che aiuti gli individui a pensarsi come identità complesse ed irripetibili, il cui destino comune si gioca all’interno della Terra-Patria. Di qui l’urgenza, esplicitata da Morin, di guardare al futuro in maniera ologrammatica, ricorsiva e strategica, connettendo le dimensioni della vita quotidiana, del locale con quella globale, con interventi che pur radicandosi nelle coscienze degli individui, ossia che fanno leva sul senso di responsabilità individuale, producono effetti a livello planetario.

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Conclusioni Giunti a questo punto del nostro itinerario non resta che riannodare i fili del discorso finora svolto e provare a delineare le risultanti di questo confronto e le chiavi di lettura dell’attuale orizzonte sociale ed epistemologico che i due autori offrono al polifonico dibattito in corso. Innanzitutto, riallacciando il filo di queste conclusioni alla domanda che ci eravamo posti introducendo il confronto tra Morin e de Certeau, entrambi pongono particolare attenzione alla questione della sorpresa. Ma ciò che li accomuna, oltre al semplice fatto di dare importanza a questo evento interstiziale, è anche il modo in cui ce la presentano. Entrambi, sostanzialmente, chiedono all’uomo contemporaneo qualcosa di paradossale. Da un lato, infatti, il loro invito è quello a considerare l’esperienza dell’inatteso come evento quotidiano. Per de Certeau esso è infatti il lievito che fa fer-

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94 mentare, dall’interno, a volte inconsapevolmente, il sociale stesso; è la cifra delle pratiche di cui è intessuta la nostra vita quotidiana. Per Morin è l’evento che, quotidianamente, il ricercatore, e l’uomo comune, devono imparare ad attendersi e ad accogliere nella sua carica dirompente, per decostruire gli angusti limiti del pensiero riduzionista ed aprirsi in modo autentico alla complessità che, per definizione, non può mai essere ridotta a schemi e strutture permanenti ed esaustive. Ma sia che la sorpresa si quotidianizzi spontaneamente (de Certeau) o venga incorporata dal soggetto nei suoi schemi di pensiero (Morin), ciò non deve portare alla neutralizzazione-naturalizzazione del suo potenziale dirompente. Il paradosso cui accennavamo in partenza sta dunque in questa duplice tensione tra attesa dell’inatteso e mantenimento della sua carica stupefacente che l’uomo contemporaneo deve saper mantenere, pena la perdita di tutto il suo potenziale rivoluzionario che per de Certeau si declina «politicamente» e per Morin epistemologicamente. In secondo luogo, ciò che ci pare accomunare i due autori è la centralità che la dimensione cognitiva viene ad avere all’interno dello scenario sociale. Per Morin, infatti, la «riforma di pensiero», vale a dire la nascita di uno stile cognitivo connessionista capace di collegare tra loro i differenti saperi e «autorevisionista», vale a dire sempre disposto a rivedere le proprie mappe, è l’unica soluzione che permette al soggetto così come allo scienziato di adeguarsi alla complessità. La chiave di volta che consente al soggetto di stare in equilibrio all’interno del complesso contesto della contemporaneità è allora questa metanoia o «conversione», vale a dire un evento, appunto, cognitivo. Anche de Certeau, seppur non in modo così esplicito, dimostra di prendere in seria considerazione il ruolo dello spazio mentale all’interno della determinazione dei fenomeni sociali. Il potenziale liberante delle tattiche da lui descritte nasce infatti dal silenzioso ed invisibile lavoro della metis che accumula, archivia e cataloga le esperienze passate, elaborando continuamente nuove possibilità pronte a manifestarsi non appena l’occasione lo consenta. Inoltre, vista l’impossibilità da parte delle tattiche di capitalizzare-oggettivare il prodotto del proprio operato, questo non può che vivere ed operare all’interno della mente stessa del soggetto. Se la tattica altro non è che un «lavorare di straforo» con gli stessi strumenti che il sistema mette a disposizione, allora la differenza tra l’uso conforme a norma e l’uso «deviante», l’uso corretto e l’uso «sviato» si può spesso determinare solo in interiore homine e l’azione sociale finisce per esercitarsi, appunto, sul piano cognitivo. Del resto non potrebbe essere altrimenti in una società in cui il potere è veicolato, per lo più, attraverso la costruzione di

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95 grammatiche culturali e in cui il regime, il sistema, viene a definirsi come «semiocrazia». Il cognitivo diviene, a testimonianza della sua centralità negli attuali processi sociali, politico. E anche su questo fronte i due autori si trovano allineati. Per de Certeau la sorpresa, l’inatteso, il nuovo sono carichi di valenza politica anche nella misura in cui il loro sviluppo prosegue e si mantiene nella latenza. A maggior ragione lo sono quando, fuoriuscendo dagli interstizi in cui sono germinati, si scontrano con le trame dell’ovvio che caratterizzano il pensiero dominante. In una società in cui le élites esercitano il proprio dominio attraverso i segni e le regole grammaticali preposte al loro utilizzo, qualsiasi tipo di manipolazione intrasemiotica diviene, automaticamente, politica. Del resto la sorpresa dispiega i suoi effetti più sul piano cognitivo che su quelli del reale sociale; la sua efficacia deve essere valutata non tanto in base a ciò che provoca a oggetti o a persone fisiche ma alle menti. Il suo successo sta nella sua capacità di portare ad una autentica metanoia, aprendo varchi nelle regole e nelle rappresentazioni diffuse e condivise. Per Morin, invece, il connessionismo dei saperi, la capacità di connettere e cogliere le strutture che, interstizialmente, «stanno in mezzo» alle differenti discipline si traduce in sensibilità e disposizione allo sconfinamento, che politicamente si deve declinare come costruzione-consolidamento di una comunità di destino unificata da un’unica coscienza planetaria e, soprattutto, come risposta al tecnicismo divisionista, esito di quella scissione tra cultura umanistica e cultura scientifica che l’occidente, di fatto, non ha ancora saputo ricomporre. Fino a che tale divisione verrà mantenuta sarà impossibile ricostruire una sfera politica che vada a sua volta al di là del tecnicismo cui la divisione del lavoro sociale l’ha confinata. Perché vi sia politica autentica, infatti, occorrono responsabilità sociale e senso di appartenenza-impegno verso il bene comune; ma fino a che le soggettività resteranno disperse e affaccendate nella coltivazione dei propri ambiti specifici, probabilmente, nulla di comune e condiviso potrà mai sorgere. Bibliografia AA.VV.

(2001), Comunicazione-Guerriglia. Tattiche di agitazione gioiosa e resistenza ludica all’oppressione, Derive e Approdi, Roma. Abruzzese A. (2001), «Introduzione», in de Certeau M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma.

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96 Bauman Z. (1999), La società dell’incertezza, il Mulino, Bologna. – (2001), Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari. – (2002), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari. Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma. Berardi F., Jacquemet M., Vitali G. (2003), Telestreet. Macchina immaginativa non omologata, Baldini e Castoldi, Milano. Berardi F., Pignatti L., Magagnoli M. (2003), Errore di Sistema. Teoria e pratiche di Adbusters, Feltrinelli, Milano. Boccia-Artieri G. (2000), «Comunicazione, rete, virtualità: forme emergenti del sociale», in Boccia Artieri G., Mazzoli G. (a cura di), Tracce nella rete. Le trame del moderno fra sistema sociale ed organizzazione, Franco Angeli, Milano. – (2004), I media-mondo. Forme e linguaggi dell’esperienza contemporanea, Meltemi, Roma. Bocchi G., Ceruti M. (1985), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano. – (2004), Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano. Bovone L. (1990), In tema di postmoderno. Tendenze della società e della sociologia, Vita e Pensiero, Milano. Castells M. (2002), La nascita della società in rete, Egea, Milano. Ceruti M. (1989), La danza che crea. Evoluzione e cognizione nell’epistemologia genetica, Feltrinelli, Milano. Cesareo V. (a cura di) (2000), Globalizzazione e contesi locali. Una ricerca sulla realtà italiana, Franco Angeli, Milano. Cesareo V., Magatti M. (a cura di) (2000), Radicati nel mondo globale, Franco Angeli, Milano. de Certeau M. (2001), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma. De Simone A. (1999), «Il paradigma ermeneutico della ragione: Gadamer e Habermas», in Id., Habermas. Le metamorfosi della razionalità e il paradosso della razionalizzazione, Milella, Lecce, 2ª ed. ampliata. Detienne M., Vernant J.-P. (1992), Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Mondadori, Milano. Foucault M. (1993), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino. – (1997), «Eterotopia», in AA.VV., Eterotopia: luoghi e nonluoghi metropolitani, Mimesis, Milano. Gadamer H.G. (1983), Verità e metodo, Bompiani, Milano. Gasparini G. (1998), Sociologia degli interstizi, Bruno Mondadori, Milano.

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97 – (2000), La dimensione sociale del tempo, Franco Angeli, Milano. – (2002), Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma. Giaccardi C., Magatti M. (2003), L’io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Laterza, Roma-Bari. Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, il Mulino, Bologna. Introini F. (2004), Comunicazione come partecipazione. Gli usi politici di Internet, Tesi di dottorato in Sociologia e Metodologia della Ricerca, Università Cattolica, Milano. Kern S. (1998), Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna. Levy P. (1997), Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano. Melucci A. (1999), «Diventare persone. Nuove frontiere per l’identità e la cittadinanza in una società planetaria», in Leccardi C. (a cura di), Limiti della modernità, trasformazioni del mondo e della conoscenza, Carocci, Roma, pp. 123-146. – (2000), Culture in gioco. Differenze per convivere, Il Saggiatore, Milano. Moores S. (1998), Il consumo dei media, il Mulino, Bologna. Morin E. (1983), Il Metodo. Ordine, disordine, organizzazione, Feltrinelli, Milano. – (1987), La vita della vita, Feltrinelli, Milano. – (1989), La conoscenza della conoscenza, Feltrinelli, Milano. – (1991), Autocritica, Moretti & Vitali, Bergamo. – (1993), Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano. – (1993a), Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi, Feltrinelli, Milano. – (1995), Il vivo del soggetto, Moretti & Vitali, Bergamo. – (1999), Educare gli educatori. Una riforma del pensiero per la Democrazia cognitiva, EdUp, Roma. – (1999a), Relier les connaissances, Seuil, Paris. – (1999b), I miei demoni, Meltemi, Roma. – (2000), La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano. – (2001), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano. – (2002), Il Metodo 5. L’identità umana, Raffaello Cortina Editore, Milano. Morin E., Kern A.B. (1994), Terra-Patria, Raffaello Cortina Editore, Milano. Novotny H. (1992), «Time and social theory: towards a social theory of time», Time & Society, 1, 3, pp. 421-454.

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Pasqualini C. (2000), «Ordine/Disordine: epistemologie della complessità. Note su Heinz von Foerster e Edgar Morin», Studi e Ricerche, n. 5/6, gennaio/dicembre, pp. 43-66. Pasquinelli M. (a cura di) (2002), Media Activism. Strategie e pratiche della comunicaziome indipendente, Derive e Approdi, Roma. Perniola M. (1998), I situazionisti. Il movimento che ha profetizzato la «Società dello spettacolo», Castelvecchi, Roma. Prigogine I., Stengers I. (1991), La complessità, Einaudi, Torino. Touraine A. (1998), Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Il Saggiatore, Milano. Vattimo G. (1989), La società trasparente, Garzanti, Milano. Von Foerster H. (1988), Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma.

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UNA

FILOSOFIA DELLE PICCOLE COSE

Francesca Rigotti

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Filosofia e pittura «La filosofia fa come la cattiva pittura, che s’immagina che la dignità di un’opera e la gloria che le spetta dipendano dalla dignità degli oggetti, e che una rappresentazione della battaglia di Lipsia valga di più di una seggiola vista di sbieco». In questo passo dall’aforisma 144 di Minima moralia, intitolato Grande e piccolo, Theodor Wiesengrund Adorno critica il vezzo e l’abitudine della filosofia di fissare e seguire gerarchie di importanze. I filosofi stabiliscono di che cosa è necessario e ragionevole occuparsi, e questo è l’attuale e il rilevante; tutto ciò che è secondario viene elegantemente accantonato, oppure ammesso, con indulgenza, come «contorno dei fatti fondamentali» (Adorno, 1951, pp. 145-146). Ma il culto dell’importante per l’importante, riflette ancora Adorno, rivela un elemento illiberale e regressivo in quanto vincola il pensiero a una riflessione coatta su temi prestabiliti, impedendogli di riflettere liberamente. L’accanirsi a pensare e a scrivere su grandi temi e grandi cose – continua – è simile al comportamento primordiale del cane, costretto a fare i suoi bisogni dove gli odori dominanti lo obbligano a fermarsi. La conclusione di Adorno, per quanto drastica, è decisiva per ogni filosofia delle piccole cose (Rigotti, 2004) e per ogni sapere interstiziale. I temi «minori», nell’arte, nella letteratura, nella sociologia o nella filosofia, le cose piccole della vita quotidiana possono evocare e spiegare molte cose grandi, se sapientemente ascoltate e valorizzate e non solo ridotte a contorno del piatto forte, che come vuole il nome sarà prevalentemente il conflitto, la lotta, la battaglia, la violenza. Il paragone della filosofia con la pittura (o più precisamente della cattiva filosofia con la cattiva pittura) introdotto da Adorno illustra in maniera efficace il pregiudizio secondo il quale solo i generi alti e i temi grandi, come la battaglia di Lipsia, sono interessanti e degni

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100 di investigazione: più delle seggiole, diritte o di sbieco, più delle nature morte. Gli oggetti su piccola scala, legati al livello creaturale della realtà, così anonimi e banali, vengono senz’altro subordinati ai grandi eventi, alle crisi della storia, alle leggende di condottieri, santi ed eroi. Determinate pressioni culturali portarono e tuttora portano a esaltare alcuni livelli dell’agire umano considerati nobili, sublimi ed elevati, e ad abbassarne altri ritenuti umili, modesti e insignificanti. Nella storia dell’arte l’argomento è stato sviluppato da Norman Bryson (Bryson, 1990, pp. 136-137), che attribuisce ad esso anche una determinazione di genere: l’alto al maschile, il basso al femminile. Tuttavia più ancora che nella pittura – dove le scuole fiamminga e spagnola del Seicento contribuirono a rivalutare gli aspetti minori, quotidiani e ripetitivi dell’esistenza, il cibo che consumiamo, gli utensili di cui ci serviamo – è nella filosofia che il processo teorico si suppone indirizzato a ciò che è elevato, sublime, grande. La filosofia specula sull’essere in quanto essere, sui massimi sistemi, sulle idee astratte, generali e universali. Facendosi strada a fatica, la filosofia delle piccole cose cerca invece di sollevare altri contesti e altri oggetti alla dignità della teoria, e riflettendo su cose minori, piccole e interstiziali, si sforza di produrre speculazioni significative. I re non chiudono le porte Per esempio, riflettendo sulle porte. Le porte non sono state prese granché in considerazione dalla speculazione filosofica. Eppure separano l’interno dall’esterno, uniscono l’interno con l’esterno. Come il mondo/tavolo di Hannah Arendt che separa e unisce i commensali: «esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno: il mondo, come ogni in-fra [in-between], mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo» (Arendt, 1994, p. 39). Le porte difendono l’interno dall’invasione dell’esterno ma fanno anche fuggire all’esterno se l’interno è soffocante. Per fortuna le nostre case infatti, a differenza delle monadi leibniziane, hanno sia porte che finestre. Le porte separano a lungo, nel mondo degli antichi, gli ambienti aperti, esterni e luminosi, propri del maschile, dalle stanze chiuse, interne e ombreggiate del femminile. Le porte, come i veli e le tende degli harem e dei serragli orientali, tennero chiuso ciò che si voleva controllare, domare e dominare. La porta poi è un elemento «interstiziale» per eccellenza, per esprimersi nella terminologia di Giovanni Gasparini (1998) e della sua geniale quanto originale sociologia degli interstizi: la porta in-

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101 fatti manifesta, in quanto apertura di un edificio o di un’area recintata, quel «carattere di stacco e cesura spaziale» che rappresenta una delle caratteristiche principali degli interstizi. In quanto battente poi, tavola di materiale svariato, dal legno al metallo alla plastica, la porta mostra le sue virtù interstiziali sì nell’unire e insieme nel tenere separato, ma anche in quanto «elemento terzo che si interpone» tra due altri elementi, quali in questo caso interno e esterno. Che cosa dirà la porta a chi non si limiterà ad aprirla e a chiuderla con gesto meccanico e irriflesso, bensì ci penserà sopra con attenzione, direi quasi con affetto? Gli ispirerà, innanzitutto, una grande felicità. Quella felicità che i re non conoscono perché, spiega il Poeta delle Piccole Cose, se mai ce ne fu uno (la Scrittrice delle Piccole Cose pure c’è, ed è Arundhati Roy): «I re non toccano le porte. Non conoscono questa felicità: spingere davanti a sé con dolcezza o bruscamente uno di quei grandi pannelli familiari, voltarsi verso di esso per rimetterlo a posto, tenere fra le braccia una porta». Il poeta è Francis Ponge e il passo citato è tratto da una delle sue poesie in prosa dal titolo I piaceri della porta (Ponge, 1979, p. 29). La porta è una cosa piccola, un oggetto quotidiano che abbiamo davanti agli occhi continuamente, ma che le parole di Ponge – nota Italo Calvino – ci fanno riscoprire al punto tale che «siamo felici di trovarci in un mondo pieno di porte da aprire e da chiudere» (Calvino, 1991, p. 285). Vista con gli occhi di Ponge la porta rivela una ricchezza inaspettata e ci apre a un’esperienza più intensa con la cosa. La cosa/porta si rivela per ciò che è: ciò che riguarda l’uomo, come aveva scritto Heidegger della cosa, a metà del Novecento (Heidegger, 1994, p. 32), nello stesso periodo in cui Ponge abbracciava le sue porte, e nello stesso periodo in cui le porte Adorno invece le sbatteva. La porta di Adorno infatti non è la calda porta europea di legno massiccio, con al ventre, scriveva Ponge, «il suo nodo di porcellana». È la porta americana di un panciuto frigidaire, come i frigoriferi bombati della mia infanzia con la lunga leva di apertura da manovrare a guisa di timone; oppure, le portiere di un’automobile, quelle che vanno sbattute con forza e che eliminano dal gesto ogni garbo e ogni cortesia. Adorno pensa alle porte del mondo tecnicizzato, che rende le mosse brutali e precise e fa diventare superfluo il gesto discreto del bussare. Non a caso l’aforisma sulle porte è intitolato «Non bussare». Le porte del mondo non ancora sottoposto alla legge della pura funzionalità, uno imparava a chiuderle piano, «con cautela eppur saldamente». Le porte del mondo della tecnica soggetto alla pura manipolazione, al contrario, non hanno più «molli maniglie» e nemmeno nodi di porcellana. Anzi esprimono, come i movimenti delle

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102 macchine e di coloro che le adoperano, «tutta la violenza, la brutalità, la continuità a scatti dei misfatti fascisti» (Adorno, 1994, p. 36).

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Ragni e fessure Lasciare che l’attenzione si posi sulle porte, prese a paradigma di cose piccole o di oggetti del quotidiano, osservarle al di fuori dei paradigmi comuni e soprattutto al di là della loro funzione d’uso, abbracciarle con tenerezza o sbatterle con rabbia, conduce a visioni inconsuete e apre la mente a interpretazioni vivaci, ma anche a riflessioni profonde. Lasciamo ora che l’attenzione, dalla porta, si posi su un interstizio, su quel piccolo spazio che separa/unisce due superfici, come la fessura di un muro o la linea dove si congiungono e si separano due piastrelle o due lastre di pietra. Guardiamo il primo interstizio, una fessura nel pavimento. Ogni notte, nell’ora in cui il sonno è pervenuto al più alto grado di intensità, un vecchio ragno di grandi dimensioni esce da quella fessura che sta al suolo, a una delle intersezioni degli angoli della stanza. Se ne può vedere il corpo nero e grinzoso che lentamente esce dal buco. Guardate questo vecchio grande ragno che tira fuori la testa da una fessura del pavimento, scrive Derrida ne La dissémination, riprendendo il passo sul ragno dai Chants de Maldoror di Lautréamont (Derrida, 1972, p. 50). Il ragno esce dalle profondità e dalle oscurità del suo nido, si mostra come punta aguzza che performa la sua stessa scrittura, testa bavosa che producendo la sua bava produce il suo testo, come la punta aguzza di uno stilo o di una matita produce la scrittura del testo. Testo che come testa di ragno esce anch’esso dalla fessura ed entra nel reale. Prima di entrare nel reale e far la sua comparsa nel mondo sviluppandosi e dipanandosi, e poi intrecciandosi a formar la tela (del ragno e del testo), il filo della scrittura se ne stava nascosto nello stomaco del ragno a sua volta celato nella fessura del pavimento. La fessura è il contenitore stretto e scuro al quale non potremmo accedere senza svellere il pavimento e danneggiare il vecchio locale. Il sapere interstiziale se ne sta ben nascosto al buio come il ragno nel suo buco, esce quando vuole uscire, tira fuori la testa quando è pronto e ha qualcosa da dire. Quale sapere si cela negli interstizi, sacri al punto che non si possono calpestare, nell’antico gioco infantile, pena la malasorte? Andando a scuola, a Milano, negli anni Cinquanta, dovevo attraversare al semaforo una strada pavimentata con lastroni di porfido

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103 lucido e rossiccio. Era, è, una delle strade della circonvallazione sotto cui scorreva tanti anni orsono il Naviglio, da tempo.

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Giochi con gli interstizi Ogni giorno, all’andata e al ritorno da scuola, era tutto un saltellare e un camminare di sbieco, con mia sorella, con le amiche, per non calpestare «le croci» e le righe tra un lastrone e l’altro. Sarà stata la pratica di questo gioco apotropaico a farmi continuare a riflettere sugli elementi che separano e uniscono nello spazio, ma anche nel tempo, come suggerisce Gasparini? Sarà il ricordo di quel gioco che mi porta ancor oggi, quando cammino, a evitare di calpestare righe e interstizi? O era un avvertimento, allora ahimé non colto, a non calpestare la riga, come ammonisce la governante Anna in una ennesima versione di Antigone, l’Antigone della filosofa spagnola Maria Zambrano? «Nel gioco – racconta Antigone alla sorella Ismene – io ero quella che calpestava più volte la riga e per questo, solo per questo, perdevo sempre. In tutto il resto ero brava, ma la riga la calpestavo sempre, facendo sempre avanti e indietro. Anna, la nostra Anna, me lo diceva: ‘Bambina, bambina, non fare tanto avanti e indietro, che non sta bene’. Io sono passata sulla riga e l’ho oltrepassata, l’ho di nuovo passata e ripassata, andando e venendo dalla terra proibita» (Zambrano, 2001, p. 76). Saltellando da un piede all’altro Antigone, la figlia di Edipopiede-gonfio, calpesta la riga e perde il gioco. La punizione per lei sarà terribile. La nostra invece, se calpesteremo la riga, non lo sarà, anzi non ci sarà castigo, se non immaginato. Rimarrà però il senso di sacralità della riga, questa piccola cosa che unisce e separa, e che non va calpestata perché è una riga, una linea, un confine, un limen e un limes. È piccola perché a margine della cosa grande; l’evento è la cosa grande, l’epifania, la manifestazione dell’essere, mentre l’interstizio è solo l’attesa, la soglia, la sponda, l’orlo, il confine, la frontiera (Gasparini, 2002, p. 8). Calpestare la riga conserva nel gioco il senso di profanazione dato dal violare il confine, come fece Romolo entrando nel terreno delimitato dal solco arato da Remo, come Cesare quando passò con sfrontatezza il Rubicone. Gesto interdetto alla donna, cui non è concesso violare ma solo essere violata, che non può entrare e uscire di sua volontà, calpestare la riga, passarla e ripassarla come osò fare invece Antigone, murata perché non potesse più materialmente oltrepassare la soglia, perché non calpestasse la riga del confine verso l’interno assegnato alle donne nel mondo greco.

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Piccolo e grande «Rappresentare momenti della filosofia comune dal punto di vista dell’esperienza soggettiva»: era questo lo specifico assunto che Adorno attribuiva ai suoi minima moralia, non magna come quelli aristotelici. Cose minime perché occupano un posto inferiore nella costruzione del tutto e costituiscono elementi individuali e particolari, quelli che Hegel liquidò con «gesto sbrigativo» e con «superiore fermezza» (Adorno, 1994, p. 5). Nonostante Hegel tuttavia si può fare filosofia delle cose, e delle cose piccole come le porte, le fessure e le righe; i fili di ragno e i fili di lana (Rigotti, 2002); le forbici, gli imbuti, le scope, i cestini della carta (Rigotti, 2004), e tutte le cose che occupano lo spazio e il tempo della vita, le cose che riguardano l’uomo. Ma non perché l’uomo abbia diritto a una posizione di dominio sulle cose. Ma perché «le cose sono cose e rimarranno sempre tali» (Musil, 1974, p. 178). Le cose sono mute e inerti, non parlano e non comunicano tra loro. Sono gli uomini e le donne tra loro che parlano delle cose: la cosa detta le condizioni perché può solo essere presa per quello che è, strumento o cosa in sé, ma è l’uomo che parla della cosa e attribuisce agli oggetti qualità umane, come quando dice che il pane è buono. Le cose sono perché sono presenti, perché sono venute a stare presso di noi, soprattutto le cose piccole, quotidiane, che ci riguardano ogni giorno ma che noi non vediamo più perché abbiamo gli occhi appannati dall’abitudine. Le cose piccole e interstiziali che non gridano e non si impongono; non strepitano né ululano come le cose grandi, né si presentano con l’arroganza e la prepotenza degli dei maggiori bensì con la grazia e la leggerezza degli dei minori. Bibliografia Adorno W.T. (1951), Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, tr. it. Einaudi, Torino 1994. Arendt H. (1958), Vita activa. La condizione umana, tr. it. Bompiani, Milano 1994. Bryson N. (1990), Looking at the Overlooked. Four Essays on Still Life Painting, Reaktion Book, London. Calvino I. (1991), Perché leggere i classici, Mondadori, Milano. Derrida J. (1972), La dissémination, Seuil, Paris. Gasparini G. (1998), Sociologia degli interstizi. Viaggio, attesa, silenzio, sorpresa, dono, Bruno Mondadori, Milano. – (2002), Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Milano.

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Heidegger M. (1994), Conferenze di Brema e di Friburgo, tr. it. Adelphi, Milano 2002. Musil R. (1906), Il giovane Törless, tr. it. Rizzoli, Milano 1974. Ponge F. (1942, 1945), Il partito preso delle cose, tr. it. Einaudi, Torino 1979. Rigotti F. (2002), Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, il Mulino, Bologna. – (2004), La filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara. Zambrano M. (1983), La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, tr. it. La Tartaruga, Milano 2001.

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TRE

LETTURE INTERSTIZIALI

Laura Balbo

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Premessa Parto da questa constatazione banale: alcuni fenomeni e processi del sociale sono difficili da osservare; anzi, vengono tenuti il più possibile nascosti (talvolta, anche a coloro che ne sono partecipi). Proprio questi aspetti e meccanismi appaiono particolarmente interessanti ad alcuni di noi (nelle scienze sociali, ma non solo). Parlare degli interstizi come occasioni per analizzare proprio ciò che sfugge alle metodologie che si utilizzano più correntemente: ecco ciò che propongo; grazie a «letture interstiziali», appunto, io ho capito per esempio alcune cose dei processi della politica, dei modi in cui si costruisce il «discorso pubblico», e delle strutture e pratiche del gendering nella nostra società. Parlerò dunque della lettura interstiziale come metodologia: una tecnica che si affianca ad altre procedure che considero tra le più innovatrici e rivelatrici: l’osservazione etnografica applicata ai nostri mondi così come la pratica Marc Augé, e lo shadowing (Marianella Sclavi lo ha applicato in molte diverse situazioni). Sono «approcci ibridi», strategie, si potrebbe anche dire «trucchi». Però va detto che nell’osservare dagli interstizi ci si accorge che queste sono occasioni di autoriflessività, di apprendimento, di scoperta. Aggiungo che la lettura interstiziale valorizza una dimensione che ha straordinarie potenzialità di demistificazione, di rovesciamento, di spiazzamento: trovarsi collocati in-between (dimensione elaborata nella letteratura degli studi post-coloniali, e in tradizioni che cominciamo appena a conoscere, i black studies e i whiteness studies). Essere in una situazione interstiziale significa che si appartiene a più mondi (punti di vista, linguaggi ecc.): che comunque non si vive un aspetto soltanto, o uno principalmente, delle complesse esperienze nelle quali, nel mondo contemporaneo, siamo immersi. E in più: per definizione, nell’utilizzare metodologie interstiziali, l’osservatore è il soggetto della lettura. Non si attiene passivamente

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alle regole codificate, anzi ha come principale attività e criterio il decostruire regole e procedure date. Descriverò tre delle «letture interstiziali» che sono andata sviluppando (altre ne potrei richiamare) seguendo un ordine temporale rovesciato. Questo perché è dalla più recente esperienza e possibilità di osservazione che ho potuto meglio capire i meccanismi delle due precedenti. Si tratta della posizione «interstiziale» nella quale mi sono trovata rispetto al «campo della politica», campo che Bourdieu definisce come «un mondo a parte» (Balbo, 2000, 2001, 2002), controllato rigidamente da quelli che vengono definiti gatekeepers; dunque conoscibile solo da chi ad esso appartiene. Di questo caso di osservazione e di analisi sottolineo l’eccezionalità: le parole che mi viene da usare sono intrusione, spionaggio, border crossing. Le altre due situazioni riguardano la prima il percorso di ricerca e di riflessione che abbiamo raccolto in Friendly (Balbo, 1993, 1994, 1995), un esercizio di lettura interstiziale rispetto ai meccanismi della comunicazione; l’altra è la collocazione interstiziale che, insieme ad altre, ha suggerito l’invenzione e l’uso del concetto della «doppia presenza» (Balbo, 1978): un concetto che mi ha fatto intuire, a partire dagli anni Settanta, molte cose sulla società e sulla sociologia. Su questi termini e sui filoni di analisi a cui mi riferisco naturalmente ritornerò. Voglio infine dire che lo sguardo di osservatrice interstiziale, che è comune alle «letture» che qui propongo, a me ha regalato momenti di scoperta e di apprendimento, anche emozioni, anche divertimento. Non è cosa da poco. Nel «mondo a parte» della politica Pierre Bourdieu descrive così il «campo» della politica: [...] una specie di mondo a parte, ripiegato su se stesso (in larga misura, non del tutto, altrimenti la vita politica non sarebbe possibile), chiuso, che prescinde largamente da quel che avviene all’esterno. Dentro questo piccolo mondo si gioca un gioco tutto particolare e si generano interessi specifici (Bourdieu, 2000, p. 34). Parlare di campo politico significa dire che il mondo politico è un microcosmo, un piccolo mondo sociale relativamente autonomo all’interno del mondo sociale [...] un universo dentro il quale operano criteri di valutazione che gli sono propri [...] un universo che

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109 obbedisce alle sue proprie leggi, differenti da quelle del mondo sociale ordinario […] (Ibid., p. 52). Chi entra in politica, come chi entra in un ordine religioso, deve operare una conversione (anche se magari non la vive come tale, e non ne ha coscienza): questo gli è tacitamente imposto, e se trasgredisce la sanzione è lo scacco o l’espulsione (Ibidem).

E soprattutto osserva:

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Aldilà delle diverse posizioni e appartenenze, una serie di fenomeni propri del campo politico hanno la comune funzione di controllare le frontiere (Ibid., p. 74).

Mettere a fuoco la «lotta sui confini» e dunque il controllo dell’accesso è allora cruciale. Né si tratta, va da sé, di un pur importantissimo «monopolio simbolico»: è un gioco in cui «non si scontrano idee soltanto, è lotta per il potere» (Ibid., p. 68). Chi vince impone, essendo a questo legittimato, i criteri della «visione e divisione del mondo sociale», in altre parole, «la vision dominante». Ciò che qui interessa, ed è quello su cui Bourdieu ripetutamente ritorna, è che esserne fuori, dal campo della politica, rende molto difficile poterlo conoscere. Viceversa questo mondo chiuso, autoreferenziale, nel quale «le idee circolano circolarmente» è di importanza fondamentale. Come riuscire, si chiede, a pensare la politica sociologicamente?

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comment penser la politique autrement que politiquement, comment la penser sociologiquement? (Ibid.)

Questo interrogativo è stato al centro del mio «pensare la politica» nel breve periodo in cui, trovandomi a fare parte del governo, ero in una collocazione interstiziale. Proverò a descriverla. Ero «fuori posto» (non ero membro di partito né professionista della politica), lì quasi per scherzo, destinata a sparire in breve tempo (come è successo): una outsider rispetto ai meccanismi di immissione/cooptazione tradizionali; outsider come sociologa (va meglio a giuristi o economisti); e come donna, certo. Ma non del tutto, è ovvio: svolgevo il lavoro collegato al mio ruolo, stavo dentro le situazioni ufficiali, avevo una immagine pubblica. Avere rapporti con me, per un ministro importante o per un leader di partito, non aveva senso: era uno spreco di tempo e di attenzione. Non mi parlavano (c’è stata qualche eccezione, natu-

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ralmente), non si accorgevano neppure che ci fossi: invisibile. Una situazione, vorrei definirla così, di «interstizio mentale». E questo facilitava il «pensare la politica sociologicamente». Potevo vedere rituali e giochi informali, ascoltare conversazioni riservate e anche battute e pettegolezzi. Osservando modi di fare e regole non dette in qualche modo intuivo che si trattava di aspetti del complesso sistema che crea e consolida separatezza e inaccessibilità. Senza sosta ho utilizzato il mio bagaglio metodologico e concettuale: ho fatto osservazione partecipante, narrativa etnografica, shadowing. Molto di questo sfugge a chi è fuori, anche a studiosi sottili (sociologi della politica e dell’organizzazione; anche a quelli attenti ai rapporti informali). Gli insiders (i politici di professione) non si rendono conto di questi sottili meccanismi, spesso neppure del tutto voluti (ai quali in ogni caso sono stati socializzati, sono per loro del tutto naturali). Forse cogliere qualcosa è possibile solo se, collocata nell’ in-between, utilizzi gli interstizi: osservi; prendi veloci appunti; fai collegamenti. Ecco alcuni dei meccanismi che contribuiscono al «mondo a parte». Molto del tempo lo si passa «nel palazzo»: in sedi istituzionali (palazzo Chigi, parlamento, ministeri) e politiche (sedi partiti, di associazioni; celebrazioni, manifestazioni). Anche in occasioni informali (partite di calcio, qualche occasione mondana) ci si trova seduti vicino a persone «del giro». Inoltre: negli spostamenti ti accompagnano persone del tuo staff e sei tenuto in permanente contatto con la tua segreteria; dunque lavori alle cose – scadenze, incontri, nodi – del tuo mondo. In convegni e conferenze un politico che conta non sta ad ascoltare gli altri interventi (di «esperti», studiosi, pubblico vario); non ci si aspetta che si sia presenti a lungo. Arriva quando può, dice quel che ha da dire, e poi se ne va: un rapido «saluto» del ministro va bene a tutti. I lunghi tempi dell’ascoltare altri (spesso tempi morti, davvero) sono aboliti. Quelle che incontri sono comunque persone che si occupano delle tue stesse cose, altri politici, o giornalisti. Poche le occasioni per l’ascolto del mondo fuori. Naturalmente hai canali di accesso privilegiati: puoi contattare il presidente della Repubblica, il presidente dell’Unione Europa, commissari e funzionari dei vari enti delle Nazioni Unite; naturalmente ministri e sottosegretari, presidenti di commissioni parlamentari; ed abitualmente inaccessibili signori ai vertici dell’esercito e della polizia e della Rai, e altri, in posizioni che hanno sigle miste-

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111 riose ma importanti. Anche il meccanismo dei media, in molte occasioni fatto oggetto di analisi, essendo «dentro» lo si coglie in modo particolare. Impari che bisogna reagire subito a una notizia di agenzia o a un passaggio televisivo che in qualche modo ti riguarda; rispondere, criticare, commentare. Per prima cosa, ogni mattina, leggere la rassegna stampa del proprio ministero, tutta organizzata, naturalmente, sulle notizie che riguardano il ministro e il suo campo di attività; e quella di Palazzo Chigi, che riguarda gli altri del «campo»: tutto questo, si impara, è prioritario rispetto a qualunque altro impegno, attenzione, attività. Dunque ci si vede «riflessi», in termini positivi o negativi – o invece assenti, e questo è molto grave – nei giornali e in televisione; e le notizie sono, in assoluta prevalenza, tutte interne al campo politico: cosa è successo nel consiglio dei ministri, in parlamento, in sedi di partito. Anche spazi (e tempi) del vivere quotidiano creano separatezza e autoreferenzialità. Negli aeroporti la carta d’imbarco è pronta, segui un percorso separato e veloce per le operazioni di check-in e per raggiungere l’uscita del tuo volo; siedi in una delle prime file per uscire appena si apre la porta: enorme risparmio sui tempi morti del viaggiare. E comunque ti trovi vicino (nella saletta vip, nei posti riservati) altri «tuoi simili»: politici, sindacalisti e manager importanti, direttori di giornali. Nel viaggiare con l’auto di servizio, a dispetto di ingorghi urbani e di code sulle autostrade, arrivi rapidamente dove devi andare. Grazie alla professionalità di chi guida, «bruciando» semafori e viaggiando anche sulla corsia di emergenza (in certi casi si attiva la sirena, o si segue un motociclista che fa strada, abilissimo e spericolato), si riesce a procedere anche nel peggiore traffico. Per particolari occasioni ci sono i voli di stato. A Ciampino è pronto l’aereo, si prende posto, si parte subito, arrivo a destinazione e immediato sbarco e avvio delle attività per cui ci si è spostati. Sono tempi – necessari in posizioni di responsabilità, questo è ovvio – che però contribuiscono alla distanza, alla separatezza: al «mondo a parte». Essere negli interstizi, dunque, e ritorno sugli aspetti metodologici, non è una collocazione fisica in senso banale. È un esercizio mentale e psicologico, un gioco di equilibrismo. Friendly: interstizi tra discorso pubblico e vita quotidiana Il mio secondo caso di lettura interstiziale si riferisce a un progetto che dieci anni fa ha coinvolto molti dei sociologi della vita quo-

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112 tidiana. Ci siamo inventati Friendly. Anche in questo caso si è trattato di un escamotage metodologico. Dieci anni fa (il primo numero è uscito nel 1993) abbiamo avviato un progetto che aveva l’ambizione di essere «uno strumento per osservare la società italiana (e noi che ci viviamo) da un punto di vista che è quello dei soggetti nel loro vivere di ogni giorno»: una prospettiva di «sociologia della vita quotidiana», allora ancora non pienamente legittimata nel contesto della nostra disciplina. Nel primo Almanacco, presentando il progetto Friendly, si diceva che si erano raccolte nel corso del 1992 dai principali quotidiani le notizie «che non stanno nei titoli né nelle prime pagine […] confinate nella cronaca, spesso liquidate in poche righe: stampate a caratteri piccoli, riportate come episodi di colore». Scrivevamo: Frammenti, accenni, flash, tracce, che riguardano attività e luoghi del vivere quotidiano: l’abitare, lo spostarsi, il sentirsi sicuri, lo stare bene, quanto si aspetta e che aria si respira e che acqua si beve.

E ancora: Il libro presenta queste notizie, spesso ignorate o dimenticate. Esplora, mette insieme, propone: è a un tempo una mappa, un catalogo, una vetrina dell’offerta che è possibile trovare: ciò che offre il mercato, o che viene sperimentato in istituzioni del sociale, o, ancora, pratiche e ‘invenzioni’ individuali.

Si potrebbe fare per la TV, oggi ci interessano SMS, Internet. Discorso pubblico, costruzione dell’agenda, processi della comunicazione sono temi da tempo centrali all’attenzione di studiosi: si analizzano priorità, gerarchie, distorsioni, omissioni, criteri di selezione. Con Friendly abbiamo voluto osservare questi meccanismi nella prospettiva della sociologia della vita quotidiana, cercando appunto le notizie marginali, irrilevanti, quasi nascoste: di fatto escluse dal discorso pubblico. La domanda è irrilevanti in che senso, e chi decide? Ed è una domanda che non sembra essere fuori luogo oggi. Rimane centrale e mette in luce i meccanismi selettivi di costruzione dell’agenda politica e del discorso pubblico (anche qui, è utilissimo fare riferimento a Bourdieu).

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A distanza di dieci anni, riandando alla scelta di quella metodologia che, evidentemente, è interstiziale, due intuizioni mi sembrano interessanti. La prima è che la presentazione fatta allora appare singolarmente anticipatrice dei processi che oggi molte ricerche descrivono: nelle pratiche del loro vivere quotidiano gli «attori sociali» sono informati, attivi, responsabili. Due esempi. La voce «starbene» mette in luce come già allora, nei modi più diversi e comunque facendone un obiettivo fondamentale dell’organizzazione della propria vita, ci si impegnasse personalmente e quotidianamente nell’orientarsi nel complesso mondo dell’informazione concernente appunto salute e benessere, in pratiche salutiste, nel fare le scelte ritenute migliori. Alla voce «sentirsi sicuri» le notizie raccolte mostravano il senso di allarme sociale, la percezione di pericoli e minacce che negli anni successivi avrebbero portato a pressioni su politici e amministratori e anche ad organizzare «dal basso» forme molteplici di tutela. Il secondo «segnale» che si poteva cogliere corrisponde a una prospettiva che oggi è centrale nel dibattito sulla governance: quella che descrive un sistema «a molti livelli e molti attori»; e tra questi livelli e attori «interfacce», «partnership», «collaborazione a due vie», con ruoli di innovazione, anticipazione; di auto-organizzazione, di protesta, di advocacy. Anche il vivere quotidiano fa parte del meccanismo dei «molti livelli e molti attori». Ciò che prende corpo nelle esperienze quotidiane (di una parte almeno della popolazione: una parte, in questo esempio, tutt’altro che minoritaria) senza dubbio ha un forte peso e in vari modi agisce sugli altri livelli e attori del sistema. Tutto questo era in qualche modo intuibile, veniva segnalato, nelle notizie «piccole» che all’inizio degli anni Novanta si potevano trovare nei quotidiani (e che in Friendly venivano riprese). Per ciò che attiene alla percezione della sicurezza, nel giro di pochi anni aumentano preoccupazione e allarme per le forme di microcriminalità, «inciviltà», violenza, in situazioni spesso degradate di vita urbana. Soprattutto la presenza degli immigrati viene percepita come minaccia. Sondaggi d’opinione, sia a livello europeo sia condotti in Italia da un crescente numero di istituti specializzati, mettono in luce il diffondersi di paure e di stereotipi (gli immigrati, tutti e comunque, percepiti come criminali) e riportano sentimenti di inquietudine e allarme. Questo crescere delle sensazioni di insicurezza (e le pressioni e richieste di tutela che ne conseguono) ha influito su iniziative ad altri livelli del sistema di governance: si attivano gli apparati pubblici, le

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associazioni e i comitati di cittadini, e il mercato. Nel mercato si assiste a un notevolissimo sviluppo di «prodotti», porte blindate, impianti di allarme, sistemi antifurto per automobili ecc. Domande di attenzione e di tutela hanno raggiunto responsabili pubblici a livello locale e nazionale: operatori di polizia, sindaci, esponenti delle forze politiche (a «sinistra» come a «destra»): iniziative di rassicurazione e di prevenzione sono diventate centrali nella politica. E inoltre si mobilitano a livello di quartiere gruppi di cittadini (contro i trafficanti di droghe, per allontanare la prostituzione o, sempre più spesso, «contro» gli immigrati). Le attività di comitati di quartiere in particolare (e le dinamiche che le determinano, e gli esiti) sono state descritte in ricerche condotte in varie città emiliane (Città Sicure). Dal punto di vista di una metodologia della lettura interstiziale forse dovremmo porci il problema di come sottoporre a critica e decostruire una struttura di comunicazione assunta come la sola possibile (o comunque quella legittimata a stabilire priorità e regole e il linguaggio stesso); e anche il problema se si possa, dal punto di vista dei destinatari, intervenire nella pratica della lettura: anche qui, mettere in discussione i criteri di selezione, organizzazione, presentazione. Organizzare un «ascolto critico», una «lettura critica» dei media, è possibile? E soprattutto: come riguarda, questo, noi delle scienze sociali? Le letture della «doppia presenza» Io ho vissuto in una posizione interstiziale per il fatto stesso di essere una donna, della mia generazione, in un percorso professionale (nel mio caso nel mondo accademico). In-between, e un po’ stretta, tra il ruolo che per tradizione si assegnava a una come me (essere qualcos’altro, comunque non una docente universitaria) e quello che via via, negli anni, è stata la mia quotidiana esperienza. A un certo punto il concetto di «doppia presenza» è apparso utile per descrivere le donne di quella generazione, le loro strategie e «invenzioni» nel vivere, negli anni Settanta, esperienze di forti cambiamenti sociali. In uno scritto recente Attila Bruni e Silvia Gherardi, due studiosi che appartengono a tradizioni disciplinari, esperienze di studio, generazioni diverse dalla mia, hanno ripreso questa categoria. Ne hanno sottolineato appunto la natura interstiziale; e come si tratti di un’esperienza capace di portare a rotture, a passaggi innovativi; e dunque, hanno suggerito, nelle scienze sociali, esercizi mentali con queste caratteristiche sono utili.

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115 La doppia presenza è una categoria creata da alcune femministe italiane negli anni Settanta per indicare esperienze cross-gender e la presenza simultanea (nell’immaginario, nella coscienza e nell’esperienza delle donne) di pubblico e privato, famiglia e lavoro, della sfera personale e di quella politica. L’espressione ‘doppia presenza’ denota un atteggiamento mentale che, appunto a metà degli anni Settanta, venne a caratterizzare molte donne adulte che si consideravano come collocate ‘in mezzo’, ‘attraverso’ mondi diversi – sia in senso proprio, sia in senso simbolico – diversi e in contrasto tra di loro (Balbo, 1978, Zanuso, 1987).

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Un numero crescente di donne, nelle loro pratiche sociali, si è collocato in ambiti molteplici e diversi; esse hanno dunque rotto con i modelli di ruolo tradizionali, hanno creato uno spazio sia pratico che mentale, sia strutturale che progettuale, sia di adattamento ai vincoli sia produttivo di nuove soluzioni personali e sociali (Bruni e Gherardi, 2002, p. 25).

Se una è sociologa, e si trova a vivere situazioni di confini «invisibili», di pratiche di genere indirette, sottili, però astute, capisce che il gender (maschile e femminile) non è irrilevante. Per capire le two-sided dynamics (Martin, 2003) delle istituzioni, gli interstizi possono rivelarsi come un punto di osservazione insostituibile, che permette di cogliere cose che sfuggono a quelli che hanno una collocazione totalizzante, che sono tutti di un pezzo (in genere, ma non soltanto, uomini).

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Assumere la categoria di genere come una pratica sociale che […] costituisce una attività ‘liminare’ […] una attività che si collega alla metafora del ‘confine’ (limen in latino): una linea invisibile, uno stacco.

Bibliografia Balbo L. (1978), «La doppia presenza», Inchiesta, marzo-aprile. – (1993), Friendly. Almanacco della società italiana, Anabasi, Milano. – (1994), Friendly. Almanacco della società italiana, Anabasi, Milano. – (1995), «Friendly. Almanacco della società italiana», Inchiesta n. 109. – (2000), «A world apart: una narrazione interculturale», Pluriverso, V, n. 4. – (2001), «Il campo della politica: come pensarlo non politiquement», Polis, XV, 1.

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116 – (2002), Riflessioni inattuali di una ex-ministro. Pensare la politica anche sociologicamente, Rubbettino, Soveria Mannelli. Bourdieu P. (2000), Propos sur le champs politique, Presses universitaires de Lyon, Lyon. Bruni A., Gherardi S. (2002), «En-gendering differences, transgressing the boundaries, coping with the dual presence», in Aaltio Marijosola I., Mills A.J. (a cura di), Gender, Identity and the Culture of Organizations, Routledge, London. Hearn J. (1992), Men in the public eye: the construction and deconstruction of public men and public patriarchies, Routledge, London. Martin P.Y. (2003), «’Said and Done’ versus ‘Saying and doing’. Gendering Practices, Practicing Gender at Work», Gender and Society, vol. 17, n. 3. Rosenau J.N. (1998), «Governance and Democracy in a Globalizing World», in Archibugi D., Held D., Kohler M. (a cura di), Re-imagining Political Community, Stanford University Press, Stanford. Zanuso L. (1987), «Gli studi sulla doppia presenza: dal conflitto alla norma», in Marcuzzo M.C., Doria A.R. (a cura di), La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, Rosemberg & Sellier, Torino.

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PARTE SECONDA

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PUNTI DI VISTA INTERSTIZIALI SU FENOMENI ED ESPERIENZE SOCIOCULTURALI

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INTERSTIZI

E AREE DI INTERSCAMBIO NELLA CITTÀ

Enrico Maria Tacchi

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Il contesto urbano, a cui questo contributo si riferisce, è una realtà complessa e talora congestionata, dove il gioco di specchi tra ciò che appare e ciò che non appare come «interstiziale» è altamente soggettivo, ancorché socialmente definito. In tutti i casi, nella città contemporanea, gli spazi fisici sono una risorsa sempre più rara e costosa, come dimostrano le edificazioni multipiano in altezza e talvolta in sotterraneo. Ma ancora più rari, almeno in certi frangenti, risultano essere i luoghi di vita sociale: per sopperire a questa mancanza, la pianificazione urbanistica e la pianificazione sociale possono senz’altro allearsi. Tuttavia, si possono osservare forme adattive di comportamento sociale che, nella vita quotidiana, si dimostrano in grado nei tempi opportuni di trasformare quelle che sembrano apparire come semplici «aree» residuali (quasi fossero scarti o rifiuti territoriali) in «luoghi» significativi di relazioni sociali.

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Un punto di vista Non mi dilungherò troppo in premesse terminologiche riguardo a come gli interstizi possano essere definiti, se non per dichiarare quale sia il punto di vista che vorrei qui utilizzare. Mi limiterò dunque a tre osservazioni, prima di sviluppare l’argomento: a) tutti gli interstizi hanno una valenza comune: sono «estensioni» o «intervalli», «vuoti» o «sovrapposizioni», talvolta reali e talaltra metaforici, di norma con un loro cominciamento e un loro termine. Ma, detto questo, nell’uso corrente si allude con questa parola almeno a due diverse categorie concettuali, l’una più ampia e generale, l’altra più limitata e specifica; b) nel senso più lato, gli interstizi possono corrispondere a qualunque estensione, anche molto grande. Se accantoniamo le allusioni

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120 metaforiche, tali estensioni di regola sono spaziali o temporali. Nel primo caso, quello spaziale, persino una grande estensione geografica come l’Oceano Pacifico può essere definita come interstiziale tra l’America e altri continenti; nel secondo caso, quello temporale, al Medio Evo è stato attribuito questo nome proprio perché, in una certa scuola di pensiero, questo lungo periodo storico è stato ideologicamente interpretato come essenzialmente interstiziale tra l’età classica e l’età moderna. La dimostrata possibilità di considerare come interstizi estensioni spaziali e temporali di qualunque entità presenta l’indubbio vantaggio di attagliarsi a sviluppi teorici molto generali, proprio perché assicura un campo assai esteso di copertura concettuale. È vero d’altro lato che questo punto di vista presenta anche lo svantaggio di una minore pregnanza specifica: in particolare, nelle scienze umane e sociali, accade assai difficilmente di avere a che fare con enti metafisici o geometrici o logici che non abbiano un loro cominciamento e una loro fine. Estremizzando, il rischio è quello di mettere a tema un principio interpretativo che, proprio perché riguarda quasi tutto, finisce col non dire quasi niente di preciso; c) in un senso più ristretto, si può alludere agli interstizi come a estensioni spaziali e temporali «relativamente più piccole», confrontabili con altre realtà «relativamente più grandi». Specularmente, questa scelta rende evidente il vantaggio di definire molto meglio un campo di analisi più specifico. Ma non sfugge all’analisi lo svantaggio costituito dal problema di dover precisare quanto sia piccolo ciò che è piccolo e quanto sia grande ciò che è grande. Ovviamente, questo dipende anzitutto dal sistema di riferimento adottato: per l’astronomo, qualche anno-luce di distanza tra le galassie potrebbe essere inteso come un intervallo relativamente piccolo; al contrario, per il fisico che studia le particelle sub-atomiche, la distanza tra gli orbitali di un elettrone che caratterizzano diversi livelli quantici di energia potrebbe essere considerata come relativamente grande. Il problema potrebbe diventare insolubile, qualora si volesse presupporre in tutti i casi la possibilità di introdurre adeguati parametri di misura, senza tenere conto degli aspetti qualitativi. E possiamo fermarci qui, perché a sua volta il criterio della rilevanza qualitativa non offre sempre un approdo sicuro: si pensi alle diverse e non comparabili valutazioni sulla «notiziabilità» del medesimo accadimento all’interno delle redazioni di un giornale sportivo o di un giornale finanziario. Nonostante le considerazioni appena svolte, il punto di vista qui adottato propende senza incertezze verso la seconda alternativa, quella ri-

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121 stretta. Inoltre, si concentra decisamente sugli interstizi spaziali, pur riconoscendo a tali spazi (come vedremo) una possibile funzione di contenitori per attività sociali interstiziali sotto il profilo temporale. Infine, il discorso si focalizza ulteriormente sull’ambiente urbano. Interstizi spaziali negli studi sul territorio

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In relazione a quanto accennato, proviamo ora a identificare qualche possibile contributo che l’analisi sociale del territorio può offrire all’analisi degli interstizi. Ci limitiamo a considerare solo quattro temi ricorrenti. Si tratta dei fenomeni sociali connessi alla diffusione urbana, al rapporto tra centri urbani e periferie, alle trasformazioni funzionali del territorio e all’uso degli spazi aperti. Non sfugge la particolare rilevanza assunta da tutti questi temi nell’analisi socio-territoriale, testimoniata anche da una costanza di riferimenti nel tempo tale da consentirne ormai l’inclusione tra le problematiche «classiche» per gli studiosi dell’argomento.

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La diffusione urbana e il continuum urbano-rurale Un primo riferimento quasi obbligatorio, quando si parla di interstizi spaziali e territoriali, è senz’altro rintracciabile nel fenomeno della diffusione urbana, nella duplice valenza del sinecismo (che interessa tipicamente le conurbazioni complesse) e del continuum tra urbano e rurale. Il sinecismo si manifesta quando i centri di attrazione urbana preesistenti tendono a saldarsi e a dare luogo a una nuova città; si tratta di un fenomeno non ignoto nell’antica Grecia, che nelle sue forme attuali viene però analizzato negli Stati Uniti a partire dai dati censuari del 1911, considerando in particolare la costa atlantica (Sorokin, Zimmerman, 1929). In Europa, un sistema metropolitano come quello di Londra ha manifestato analoghi processi di decentramento urbano, o di sub-urbanizzazione, fin dall’inizio del Novecento (Gottdiener, Suttles, 1977). Tali processi sono stati favoriti in particolare dall’affermarsi di abitudini e di infrastrutture legate alla mobilità di massa, con l’uso intensivo dei mezzi di trasporto pubblici e privati: in questi casi si manifesta con chiarezza il fenomeno dello sprawl urbano (Gottmann, Harper, 1967), che consiste nel consumo di aree territoriali sempre più vaste da parte di città divenute reticolari, secondo una logica di espansione a macchia d’olio lungo i principali assi di comunicazione. Molti altri esempi europei potrebbero interessare contesti quali l’Italia

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122 (Ardigò, 1967), la Francia (Guerois, Pumain, 2002) o la Germania (Haag, 2002). Un fenomeno parzialmente diverso, ma che allo stesso modo genera la presenza di aree interstiziali molto ben visibili, riguarda il confine tra città e campagna, sempre più difficile da individuare nelle realtà socio-economiche occidentali. Anche senza considerare la dimensione culturale, che vede gli stili di vita allinearsi un po’ ovunque sui modelli urbani, basterebbe osservare nelle conurbazioni complesse il fenomeno delle cosiddette «frange», spesso considerate sinonimo di cattiva qualità urbana. Anche in questo caso, il precedente nord-americano è ben documentabile attraverso studi di lunga tradizione (Sorokin, Zimmerman, 1929, Martin, 1953, Platt, Macinko, 1983). Centri storici e periferie urbane Un secondo elemento riguarda, come si diceva, il rapporto tra centri e periferie. In uno dei suoi studi più noti, E. Shils (1984, pp. 7 sgg.) mette in evidenza che il concetto di centralità, in sociologia, non è in prima istanza spaziale; si tratta piuttosto di riconoscere luoghi dove il carisma è «concentrato e intenso» rispetto ad altri luoghi in cui esso è «attenuato e disperso» (Ibid., pp. 68 sgg.). Forse per questo, soprattutto in Europa, il concetto di periferia è associato a valutazioni negative, sebbene di per sé la concentrazione sia un fattore ambiguo: da un lato l’«effetto città» non può farne a meno, dall’altro la congestione e la densità divengono potenti fattori di stress, che nelle periferie tendono piuttosto a ridursi che ad accentuarsi (Moser, 1992, pp. 88 sgg.). Tutto ciò pone in evidenza un problema di valutazione sociale: infatti, la tendenza a presumere che nelle periferie vi sia necessariamente marginalità, se non esclusione sociale, fa passare in subordine il dato di una maggiore disponibilità di spazi, che potrebbero costituire al contrario una risorsa positiva. La qualità degli spazi interstiziali nei quartieri residenziali esterni è comunque determinante ai fini della loro immagine e vivibilità complessiva, tanto da giustificare nei Paesi anglosassoni la presenza dei cosiddetti new villagers, ovvero di quei ceti borghesi che manifestano una chiara preferenza per abitare nei sobborghi verdi (Radford, 1970). A conferma dell’immagine negativa dei centri urbani nella città nord-americana del Novecento, si deve aggiungere che i ghetti e gli slum sono situati di regola nel cuore della città, dove il degrado si manifesta anche in spazi interstiziali sporchi e insicuri. Gli interventi successivi di risanamento urbano hanno evidentemente ri-

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123 dotto questo fenomeno, anche se in letteratura rimane comunque una traccia consistente della tradizionale interpretazione negativa di molti quartieri centrali, a dispetto dei successivi fenomeni di gentrification che hanno comportato un certo processo di rivitalizzazione borghese dei centri urbani (Palen, London, 1994). Per una curiosa ironia della storia, negli ultimi anni anche i più antichi centri storici delle città europee, che avevano sempre rappresentato la parte più appetibile della città, hanno conosciuto talune forme di degrado, con l’insediamento dell’immigrazione più recente e più povera in stabili resi fatiscenti dalla vetustà e dall’incuria.

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Le trasformazioni funzionali del territorio Una terza categoria di spazi interstiziali urbani è collegata direttamente alle trasformazioni della città. Non si è ancora oggi cancellata la memoria degli spazi residuali che la città industriale ha creato tra Ottocento e Novecento, a margine del processo di urbanizzazione: aree sottratte di regola a un uso agricolo non più vantaggioso sotto il profilo economico, ma non ancora integrate nell’edificato. Si afferma così nella pianificazione urbana il tema della «ricucitura» territoriale, un provvedimento utile sia per l’aspetto funzionale (recuperare all’uso le aree di risulta, senza invadere altre zone più esterne) sia per l’aspetto estetico (restituire continuità a percorsi che appaiono frammentati). La destinazione funzionale di tali aree è spesso contemplata dagli strumenti di pianificazione territoriale urbana. Poiché tuttavia tali strumenti non sono di immediata attuazione, accade di regola che si affermi nella realtà quotidiana l’uso spontaneo e casuale degli intervalli spaziali; tali intervalli – che qualificano l’immagine complessiva del luogo – si prestano poi non di rado ad attività che si possono definire interstiziali anche sotto il profilo temporale. Nei casi meno problematici si può trattare di una fruizione per i giochi dei ragazzi, per il parcheggio non regolato, per il passeggio dei cani: tutto ciò contribuisce a restituire in qualche modo alla vita sociale questi spazi, considerati come provvisorie e informali risorse in attesa di una probabile destinazione immobiliare. Nei casi peggiori però l’incuria, l’ammassarsi di rifiuti o la gestione di traffici illeciti sottraggono l’area a un’utile fruizione sociale, contribuendo a peggiorare la percezione della qualità urbana. Oggi, nella città post-fordista, ai problemi accennati che ancora possono sussistere si assommano quelli derivanti dalle successive trasformazioni d’uso dell’edificato negli insediamenti urbani. Nei centri storici, infatti, gli immobili destinati originariamente all’uso

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124 abitativo sono sempre più sede di attività terziarie, pur mantenendo grosso modo la medesima sembianza esteriore: nei giorni feriali l’immagine della città non sembra cambiata di molto, ma la sera e nei giorni festivi ci si accorge che interi quartieri sono ormai assimilabili ad aree fantasma, non più luoghi vissuti, ma interstizi sostanzialmente sottratti alla vita sociale. Nelle zone ex-industriali d’altro canto la dismissione dei siti produttivi è forse la fonte più cospicua di aree di risulta, che in certi casi possono trasformarsi in domicilio irregolare per gli immigrati più poveri, se non in luoghi considerati «a rischio» dal comune cittadino. Tuttavia, anche in questo caso la pianificazione urbana può prevedere un successivo recupero per nuove e qualificate funzioni, come è avvenuto a Milano per le aree industriali dismesse della Bovisa e della Bicocca, divenute la sede di poli universitari esterni al centro storico. Infine, in un quadro di sostanziale scarsità di spazi che rende il territorio una risorsa da sfruttare intensivamente, non si dovrebbero dimenticare le operazioni tendenti a ricavare ulteriori spazi interstiziali attraverso un uso sistematico del sottosuolo. L’uso degli spazi aperti A complemento di quanto fin qui detto occorre fare cenno all’uso sociale del territorio intenzionalmente sottratto all’edificazione, a cui sono attribuite funzioni importanti (non fortuite, ma pianificate) nella città odierna: i parchi urbani, ad esempio, sono da un lato volutamente interstiziali, perché interrompono l’edificato o le vie di transito; anche se d’altro lato (in un gioco di immagini e di sfondo) possono essere a loro volta interrotti da manufatti che si insinuano al loro interno. Gli spazi aperti sono materia privilegiata della progettazione territoriale: quest’ultima infatti, a differenza della progettazione architettonica, si occupa principalmente dei vuoti più che dei pieni, estendendosi a larga scala fino alla progettazione del paesaggio e dell’ambiente in quanto beni culturali, come previsto, ad esempio, in Italia dal recente «codice Urbani» (D.Lgs. 42 del 22.1.2004). Nella disponibilità di spazi aperti rientrano quindi, oltre a episodi precisi quali i parchi, i giardini, le piazze e taluni impianti sportivi, anche le zone naturalistiche e tutte quelle aree esterne all’urbanizzato, utilizzate per l’agricoltura, l’allevamento, la forestazione, il turismo e il tempo libero o per qualsiasi altro scopo, oppure semplicemente non utilizzate. In generale, quindi, gli spazi aperti possono essere definiti oggi come risorse sociali preziose per lo svago, per il tempo libero o per

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altre attività individuali o collettive, con una forte diversificazione rispetto alla prevalente attività economica agricola che vi si svolgeva nel passato. Ma è interessante notare che nell’uso sociale pratico possono ripresentarsi le problematiche più volte evocate, ad esempio, quando gli spazi aperti diventano ricettacoli di rifiuti fisici (discariche abusive) e di emarginazione sociale (campi di dimora per nomadi o per homeless). L’antidoto per tali processi non può dunque consistere solamente in semplici soluzioni tecniche o estetiche quali l’arredo urbano, ma comporta alla radice interventi più complessi di politica sociale. A cavallo di questa netta contrapposizione valutativa vi sono le più modeste aree di frangia variamente adibite a depositi a cielo aperto, a fasce di rispetto nei sedimi di strade o ferrovie, a parcheggi più o meno abusivi. In questi casi, un criterio sufficiente di rivalutazione del sito può consistere nel recupero dal degrado: una buona manutenzione straordinaria e la periodica pulizia possono contribuire a valorizzare positivamente l’area, mentre la sporcizia, il disordine e i segni delle intemperie contribuiscono a rafforzarne la marginalità.

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Aree di interscambio spazio-temporali e «piccole cose» Un ultimo concetto da prendere in considerazione è quello dell’interscambio, come funzione particolare che potrebbe essere attribuita alle aree in esame. Il riferimento alle «aree» di interscambio va anzitutto distinto da quello dei «luoghi» di interscambio: questi ultimi infatti presuppongono significati socialmente condivisi, in quanto «spazi vissuti» (Iori, 1996), rispetto alla semplice connotazione materiale dell’area fisica. Pertanto, un primo interscambio sociale avviene a livello simbolico (Blumer, 1986). Luoghi significativi di interscambio sono dunque anzitutto quelli della socializzazione e della vita quotidiana: la propria casa, la scuola, il posto di lavoro, la parrocchia, le amicizie, le associazioni volontarie ecc. Al contrario, le aree di interscambio possono in certi casi essere destinate anche solo a processi di puro trasporto tecnico-fisico, come nel caso dell’intermodalità. La scienza logistica in particolare studia la movimentazione materiale delle merci e considera le aree di interscambio come destinate al passaggio da una modalità di trasporto (ad esempio, su ferrovia) ad un’altra (ad esempio, per nave o su strada). Naturalmente, si può fare riferimento per analogia anche alle aree di interscambio utilizzate per le persone: ad esempio, i parcheggi di cintura che permettono di lasciare l’auto priva-

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126 ta e di prendere il treno; oppure, le stazioni degli autobus che si attestano presso il capolinea di una metropolitana. È confermata in tutti questi casi, ovvero quando si parla di area anziché di luogo, la possibilità di attivare processi che non comportano relazioni sociali davvero significative. Non a caso, le stazioni e i parcheggi «di interscambio» per i trasporti collettivi o «di massa» vengono spesso evocati come esempi di non-luoghi (Augé, 1993, Agustoni, 2000). Altre situazioni intermedie possono verificarsi negli interscambi commerciali: in questi casi oltre ai simboli vengono negoziati beni e servizi. Molte di queste negoziazioni avvengono in ambienti strutturati ad hoc: botteghe, uffici, supermercati ecc. Ma in altri casi – si pensi al commercio ambulante – è la medesima attività commerciale che entra in simbiosi oppure in conflitto con gli spazi e li può rendere, almeno provvisoriamente, luoghi sociali: possiamo pensare a una piazza che normalmente serve al puro transito, ma che si trasforma in un vivace luogo di incontro nei giorni di mercato, soprattutto se per l’occasione si impedisce il traffico veicolare. Un interrogativo che può valere la pena di formulare è il seguente: sarebbe possibile, e in tal caso auspicabile, la trasformazione in luoghi sociali delle aree sinora considerate come «non luoghi» (Tacchi, 2000)? Le piste da percorrere per abbozzare una risposta a questo interrogativo porterebbero con ogni probabilità ad intercettare il più ampio argomento della difficoltà a recuperare le identità urbane nella città contemporanea: riguardo alle destinazioni d’uso di questi interstizi, i modesti comportamenti adattativi della vita quotidiana potrebbero però suggerire almeno qualche spunto. Un esempio ben noto è quello del centro commerciale anonimo e industrializzato, che diventa occasione di incontro e di socializzazione, soprattutto se altri luoghi non sono disponibili per queste funzioni: nelle periferie delle città americane, spesso prive di ogni riferimento simbolico, i capannoni commerciali della grande distribuzione a prezzi bassi sembra assolvano a questa funzione sociale, e qualcosa di analogo è ormai verificabile anche nel caso di molti ipermercati suburbani europei. Un altro esempio è offerto dalle stazioni per treni, autobus o metropolitane, che si possono arricchire di servizi tali da richiamare il pubblico non solo per le pure esigenze di mobilità, ma anche per svolgervi attività di natura commerciale, culturale e di intrattenimento sociale. Forse è vero, come si è accennato, che una soluzione più ambiziosa per l’uso di questi interstizi spaziali e temporali com-

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127 porterebbe l’affiancamento alla pianificazione urbanistica di adeguati programmi di pianificazione sociale, che ricostruiscano opportunità di incontro e di socializzazione: si pensi solo alle proposte progettuali per la riqualificazione dei quartieri in cui vivono molti anziani (Tacchi, 1995). Eppure, la possibilità di documentare esperienze autonome e spontanee di recupero sociale delle aree interstiziali, anche in situazioni originariamente poco favorevoli, suggerisce di non trascurare la dimensione micro-sociale e di riconoscere anche ad alcuni semplici accomodamenti di natura spontanea le potenzialità di cui sono portatori.

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Bibliografia Agustoni A. (2000), Sociologia dei luoghi ed esperienza urbana, Franco Angeli, Milano. Ardigò A. (1967), La diffusione urbana, Ave, Roma. Augé M. (1993), I non luoghi, tr. it. Eleuthera, Milano 1994. Blumer H. (1986), Symbolic interactionism: perspectives and method, University of California Press, Berkeley. D.Lgs. n. 42 del 22.1.2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio, G.U. n. 45 del 24.2.2004. Gottdiener M., Suttles G.D. (1977), Planned sprawl: private and public interests in suburbia, Sage, Beverly Hills-London. Gottmann J., Harper R.A. (a cura di) (1967), Metropolis on the move: geographers look at urban sprawl, J. Wiley & Sons, New York. Guerois M., Pumain D. (2002), Urban sprawl in France (1950-2000), Franco Angeli, Milano. Iori V. (1996), Lo spazio vissuto: luoghi educativi e soggettività, La Nuova Italia, Firenze. Haag G. (2002), Sprawling cities in Germany, Franco Angeli, Milano. Martin W.T. (1953), The rural-urban fringe: a study of adjustment to residence location, University of Oregon, Eugene. Moser G. (1992), Gli stress urbani, tr. it. Led, Milano 1995. Palen J., London B. (a cura di) (1994), Gentrification, Displacement and Neighborhood Revitalization, State University of New York Press, Albany. Platt R.H., Macinko G. (a cura di) (1983), Beyond the urban fringe. Land use issues of nonmetropolitan America, University of Minnesota Press, Minneapolis. Radford E. (1970), The new villagers; urban pressure on rural areas in Worcestershire, F. Cass, London. Shils E. (1975), Centro e periferia, tr. it. Morcelliana, Brescia 1984.

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Sorokin P., Zimmerman C.C. (1929), «Definizione di società rurale e società urbana», tr. it. in Martinotti G. (a cura di), Città e analisi sociologica, Marsilio, Padova 1968. Tacchi E.M. (1995), L’anziano e la sua casa, Franco Angeli, Milano. – (2000), «Dai luoghi ai non luoghi, e ritorno», Presentazione a Agustoni A., cit.

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LA

SOSPENSIONE DELL’AZIONE NEL FRONTEGGIAMENTO DI EVENTI INEDITI E INASPETTATI

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Luigi Colaianni

Una giovane donna è ritratta nella luce di una mattina avanzata d’estate. È in piedi sull’ultimo gradino del portico di una casa di città, la gamba sinistra è ferma, la destra è flessa ed il piede è fuori del gradino sullo spigolo, pronto a spingere il corpo, leggermente arcuato in avanti. Il braccio destro è piegato, la mano è poggiata sul fusto di una colonna, il braccio destro scivola dietro il corpo. Lo sguardo è volto in avanti, ma sembra rivolto ad un altrove immaginato. Una tendina di una finestra è smossa da un alito di vento, l’altra è appena discosta. Tutto è immobile e al tempo stesso percorso da un fremito, da una tensione legata dalla luce ferma; il movimento è annunciato ma non ancora iniziato, si vive, come in molti quadri di E. Hopper, un’atmosfera di esitazione e di attesa (Hopper, Summertime, 1943, olio su tela, Wilmington, Delaware Art Museum). Forse ella è lì per un appuntamento, ma la postura non è rilassata o annoiata come spesso avviene quando si attende qualcuno che ritarda. Forse la sua aspettativa di vita (expectation), legittima e piena di anticipazioni, convive con il presagio dell’irruzione del caso, e trasformandola in attesa dell’incontro con l’ignoto e con l’inaspettato (waiting). E davanti a questo ella esita su quell’ultimo gradino, diventato così il posto più certo e più rassicurante in cui indugiare: da lì tutto sarà possibile, ma ancora nulla è avvenuto. La dimensione interstiziale di ogni passaggio che nella nostra vita ci pone davanti a situazioni inedite, che siano giudicate positivamente o negativamente, appare necessaria e ricorrente per poter apprendere dalle e nelle situazioni nuove. In tali situazioni l’azione è sospesa e spesso lo sono anche il giudizio e l’immaginazione. Non poter immaginare significa non sapere e quindi non essere in grado di anticipare: si produce così la sensazione di essere in balìa degli eventi, anche se in realtà pressoché nulla sta accadendo in quel momento, perché tutto è già avvenuto o è ancora da venire.

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130 Il fronteggiare un evento inedito e spesso inaspettato, quale la nascita di un figlio, un esordio psichiatrico in famiglia, diventare «pazienti psichiatrici», il ritrovarsi senza lavoro in età avanzata, subire violenze e/o abusi sessuali, la nascita di un figlio disabile, perpetrare violenze e/o abusi sessuali, perdere una persona cara, andare in pensione, essere colpiti da una malattia invalidante, dovere fronteggiare i problemi correlati al consumo di sostanze tossiche psicoattive – alcol e droghe –, subire la carcerazione, avanzare nella perdita di capitale sociale a seguito dell’impoverimento, diventare o essere un «senza casa», rappresentano eventi che possono indurre un collasso cosmologico, inteso come il venir meno «repentino di un insieme correlato di credenze circa la natura dell’universo […]. Le persone agiscono come se gli eventi avessero coerenza nel tempo e nello spazio e come se il cambiamento si dispiegasse in modo ordinato. Queste cosmologie di tutti i giorni sono soggette a rompersi. E quando subiscono rotture gravi, io chiamo questo un episodio cosmologico» (Weick, 1993, p. 633). Il rapporto con il contesto, forzato nella quotidiana prevedibilità delle routines, diventa, così, problematico. Esso, piuttosto che non conosciuto, appare ambiguo, poiché l’ordine delle «cose» appare sconvolto e tale ordine riguarda soprattutto la rilevanza attribuita alle informazioni, quelle intorno alle quali abbiamo «creduto» fosse costruito il nostro mondo come realtà fattuale «là fuori»: Il processo di comprensione emerge dal bisogno degli individui di costruire un ordine fattuale esterno ‘là fuori’ o di riconoscere che esiste una realtà esterna nelle loro relazioni sociali (Ring e Van de Ven, 1989, p. 181),

per cui non c’è tanto bisogno di maggiori informazioni, ma si ha bisogno che «i valori, le priorità e la lucidità rispetto alle preferenze li aiutino a chiarire quali sono i progetti che contano» (Weick, 1997, p. 27). In definitiva, è necessario ridurre non l’incertezza, ma l’ambiguità. Tutto questo negli episodi cosmologici mette in scacco l’azione, ma ancor prima il modo in cui le persone immaginano se stesse come agenti: Le persone improvvisamente e radicalmente sentono che l’universo non è più un sistema ordinato e razionale. Ciò che rende un simile evento sconvolgente è che il senso di ciò che sta avvenendo crolla insieme alla fiducia nei mezzi per ricostruirlo […] un episodio cosmologico è sentito come un vu jadé – l’esatto contrario del

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131 déja vu: non l’ho mai visto prima, non ho idea di dove io sia, e di chi mi possa aiutare (Weick, 1993, p. 634).

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Il dissolvimento dei contesti e della coerenza di senso ad essi legato può portare a condizioni vissute come inalterabili e senza alternativa possibile, quali esiti di tali eventi. Nel loro fronteggiamento, prima che l’azione possa riprendere, si produce una fase di spiazzamento e disorientamento davanti all’inedito, rispetto a cui le consuete routines non sembrano appropriate ed adeguate. Quando nella vita interviene un evento critico inedito e spesso inaspettato, questo non costituisce, come spesso viene indicato, un «problema», ovvero un qualcosa che si prevede disponga di una «soluzione», salvo essere bravi nel trovarla, ma l’evento ha un effetto dis-ordinativo – potrei dire comunque ri-ordinativo1 – intorno a se stesso, e quale sia il nuovo ordine possibile non è immediatamente visibile2. L’aspettativa di vita, il sapere «con assoluta certezza quello che accadrà in ogni momento» (Stroud, in Gaddis, 1989) – ovvero l’aspettativa di poterlo conoscere – viene, nel bene e nel male, bruscamente interrotta di sorpresa. Le proprie previsioni, le proprie aspirazioni, i propri desideri di realizzazione, intorno a cui avevamo edificato la nostra vita, divengono fragili d’un tratto, come un castello di carte da gioco che l’evento spazza via, come le parole dell’informant3 evidenziano: 1 «Quando un chiodo cade sul legno dà l’impressione di essere arrivato proprio nel luogo mirato, non d’essere finito in uno qualunque dei punti utili. Porta con sé il centro, come un dolore fisico. Il dolore come il chiodo là dove penetra ordina lo spazio intorno» (De Luca, 1998, p. 30). 2 Questo è il motivo per cui le strategie di problem solving (Perlman, 1957; Simon, 1958), che prevedono la scomposizione dei problemi secondo un albero di pertinenza decisionale ordinato per complessità e priorità e «si riferiscono ad un risolutore di problemi individuale che opera in una situazione ben strutturata» (Lanzara, 1993, p. 115), pur utili in campi monodimensionali ed esplicativi come la diagnosi medica, appaiono inefficaci ed improprie in ambiti come quelli descritti, in cui abbiamo a che fare con descrizioni di descrizioni ed attribuzione di senso generativa. Il problema è continuamente ridefinito e la sua (ri)definizione, piuttosto che essere un punto di partenza, è il punto di arrivo. 3 Gli estratti delle interviste sono tratti da una ricerca qualitativa svolta dall’autore – nell’ambito delle attività del dottorato di ricerca in servizio sociale, XVI ciclo, presso l’Università RomaTre – sulle rappresentazioni delle persone che fronteggiano eventi inediti e a volte inaspettati e degli assistenti sociali che spesso si occupano professionalmente di loro (2002-2003).

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132 iEstr. 5.2.1 Quello che mi è successo nella vita è che la vita mi si è rivoltata contro quando meno me l’aspettavo, che se è bruttissimo avere un figlio che ti nasce con un handicap, e questo non l’ho provato, è ancora peggio, secondo me, avere un figlio che ha tutte le carte in regola per riuscire nella propria vita e per essere una persona completamente realizzata… e uno che ha tutti gli strumenti per poterlo essere… che ha ventinove anni, laureato e con un ottimo lavoro, ti capita di accorgerti che non sta bene… e questo è… eh… eh… contro tutto anche per… i genitori già anziani, perché con un figlio di trent’anni anni capisci che non sei più la mamma di venti, trenta o quarant’anni, ma ne hai cinquantacinque o sessanta… (perso) non hanno le stesse risorse, le stesse… la stessa forza, perché… quanti anni ho io? Adesso vado per i sessantaquattro. E quindi ti parlo di dieci anni fa, ne avevo cinquantatre, cinquantaquattro, insomma… mio marito nove di più, per cui… ecco è stato un… (Elena).

Il primo effetto percepito è quello di uno spiazzamento prodotto dall’evento e dal fatto che non si poteva essere in alcun modo preparati ad esso; ciò genera un senso di inadeguatezza per la mancata capacità di anticipazione. I propri piani vengono sconvolti, ma viene sconvolta insieme la possibilità/capacità di fare piani e senza questi si può solo, e a malapena, fronteggiare il dolore attuale. Non si è preparati alla nuova situazione e tutto quello che si riesce a pensare sembra inadeguato, incongruo e molto lontano dalla realtà che scivola intorno; si riesce a conoscere solo a posteriori, e tale conoscenza non costituisce garanzia per il fronteggiamento delle situazioni future: iEstr. 5.2.5 Poi è tornato, ha ripreso il suo lavoro, l’anno dopo è andato in Grecia, mi sembra, e quell’anno lì con ‘sta ragazza è andato alle Azzorre… una ragazza accettata in famiglia, una ragazza che io… ero contenta, perché era l’ultimo tassello che nella vita di mio figlio… forse uno ha un’idea sbagliata, però uno pensa che la vita sia questa: si nasce, si cresce, in seno ad una famiglia, si studia, e poi ci si realizza nel campo lavorativo, ne… ne… ne…negli ambiti diciamo delle amicizie ecc., poi alla fine, la cosa normale, non è che una mamma pensa che mio figlio farà il single o sarà omosessuale piuttosto che… anche se, ti dirò, il fatto che mio figlio, fino a ventinove anni, fatto diverso da tutti gli altri, non avesse avuto queste relazioni, no? perché la nostra società qual è? il figlio deve avere per forza delle rela… la figlia no, ma il figlio giustamente, no? deve avere delle relazioni con l’altro sesso per essere ritenuto normale, in fondo dentro nel mio animo c’era un pochino questo e avevo anche pensato, anche se mio figlio non ha nessuna caratteristica di omosessualità, avevo pensato:

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133 non è che avrà qualche predisposizione diversa, io magari penso che lui debba… e invece questo non avverrà mai… mi ero anche preparata un pochino in questo senso, cioè a dire, va beh… figurati a che punto uno arriva a prepararsi e non mette in conto invece un disagio mentale… quello proprio non l’avevo… (Elena).

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Si tenta il fronteggiamento con le normali routines disponibili, con i familiari repertori d’azione, ma questi si rivelano inutili, quando non dannosi. Insieme all’azione iniziano a dissolversi anche il complesso sistema di credenze connesso con le proprie idee su se stessi e sul mondo – inizia a configurarsi un evento cosmologico – ed il senso di autostima e di auto-efficacia4; il non sapere cosa fare, e non solo come fare, genera uno stato neuro vegetativo e psicologico di attivazione (arousal) utile, ma che è francamente spiacevole:

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iEstr. 5.2.6 Io parlo di una situazione legata alla mia salute nel senso che circa dieci anni fa sono stata colpita da infarto, l’infarto si è risolto abbastanza bene e mi è rimasta una cardiopatia ischemica per la quale devo essere sempre in cura e controllata. Tutto questo insieme al diabete e mi ha creato dei grandi problemi dal punto di vista della mia immagine personale, nel senso che mi sono sentita invecchiata di più di dieci anni, e comunque non mi sono più ritenuta in grado di essere così efficiente come mi piccavo di essere stata fino a quel momento; quindi dover fare i conti con certi limiti mi ha messo in défaillance; io ero molto orgogliosa della mia indipendenza, del mio benessere fisico e sociale, di non aver bisogno di niente e di nessuno, di essere padrona del mio corpo, come volevo… questa situazione… devo fare i conti continuamente e per sempre con questa cosa e questo mi dà un po’ fastidio perché mi sento molto limitata, mi stanco facilmente (Angela).

4 Meo scrive: «Gli eventi in questione mettono in discussione il quadro interpretativo di cui gli individui dispongono per collegare le esperienze passate, presenti e future nell’unità della loro biografia. In altre parole, portano all’indebolimento, se non alla perdita, del senso di continuità del sé. Provocano una frattura nella biografia che è difficilmente ricomponibile: ne interrompono la continuità e prevedibilità dal punto di vista dei referenti simbolici e relazionali, delle attese interiorizzate, dei sistemi di rilevanza e dei modelli consolidati di orientamento. In altre parole, la condizione che si trovano a vivere, nelle sue forme estreme, pone ai soggetti problemi di integrabilità rispetto alle esperienze precedenti e a ciò che ritengono essenziale alla propria identità» (Meo, 2000, p. 19).

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134 iEstr. 5.2.7 Q1.6 Anche tuo marito era in questa situazione? Insieme… insieme, tutti e due… io in maniera più, forse… più più meridionale, se vogliamo, più teatrale, e lui più… in maniera più più…più riservata, ecco, però dicia… e anche le figlie, una era già sposata, era uscita già di casa, da pochi mesi era sposata, lui si è ammalato nell’ottobre del ’92 e la figlia si è sposata in marzo del ’92… sono gemelle, sono gemelle, una delle due gemelle, una delle due gemelle, sono più piccole di due anni, A. e L.… L. era già sposata… tre figli, G. e due gemelle… niente e lì ti ripeto come lo affronti? non lo affronti, nel primo momento assolutamente non lo affronti, prevale una grande… una grande… una grande sofferenza, un grande disagio… uh… soprattutto derivato della… dall’ignoranza e dall’incapacità… (Elena). iEstr. 5.2.8 Va beh… cosa è successo… è successo che resti sconvolto… resti sconvolto innanzitutto perché non capisci per l’estrema ignoranza, perché… uno pensa a tutto, si prepara a tutto, ma di questo assolutamente… ero di un’ignoranza abissale, per cui quando ha cominciato a parlare di cose che non erano razionali, e non erano normali, che non erano ragionamenti normali, dopo un primo momento che dico: ma cosa sta dicendo questo qui? Ma cosa sta dicendo? insomma… a quel punto lì ecco… niente, io… praticamente ero sconvolta, perché… non... prima di tutto non sai di che cosa si tratta e poi non sai che cosa fare… non sai che cosa fare, perché sei completamente impreparato… a questo… a questo disagio… (Elena).

Non c’è salvezza nel guardare indietro, né consolazione5: si sa che si può solo andare avanti, ma non si vede prospettiva e si esita nell’agire, non si sa dove dirigersi e ci si sente paralizzati. L’unica cosa che sembra possibile è rifugiarsi nelle routines che hanno resistito, come la testimone qualificata racconta esserle accaduto in occasione di un evento che l’ha riguardata personalmente, Grazia, 46 anni, assistente sociale presso la direzione di un servizio sociale comunale: tqEstr. 5.2.12 Da persona che aveva scelto di fare questo lavoro molto più basato sul fare e sul fare per gli altri, perché ero partita sul fare per gli altri e non fare con gli altri, avevo un po’ quest’idea di onnipotenza: che gli assistenti sociali, visto che possono lavorare con gli E quella a me: ‘Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore’ (Dante, Inf. V, 121-3). 5

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altri, non hanno problemi e sono capaci di tutto, che poi è un limite che riscontro in molti colleghi, adesso che sono riuscita a ridimensionare il mio ruolo e tutto quanto. Ho capito che la grande difficoltà che ho avuto – ho tutt’ora, ma molto meno – è quella di chiedere aiuto; mentre io mi ponevo nella condizione di colei alla quale si poteva chiedere aiuto, non riuscivo ad avere interlocutori a cui chiedere aiuto: chi aiuta gli assistenti sociali? Boh?! Non riuscivo ad avere… nel senso che mi mettevo nella condizione di non individuare la mia necessità di aiuto… fino a che dentro di me non è esplosa una situazione così complicata e difficile da gestire che mi ha portato alla paralisi totale, nel senso che ho avuto… dopo una lunga relazione affettiva con una persona durata dieci anni, non avevo capito quanto stavo male, finché non mi sono accorta che ero entrata in una situazione di depressione vera, che prima definivo tristezza, malessere, angoscia, non avevo capito che ero entrata nella depressione finché non ho incominciato ad osservarmi ed allora mi resi conto che erano sei mesi che io l’unica cosa che facevo era andare a lavorare, che era l’unico elemento di contatto con la realtà, ma che mi serviva per campare… (Grazia).

Non è più possibile agire, e può avvenire che si diventi incapaci di svolgere anche le più semplici routines quotidiane:

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iEstr. 5.2.13 … la depressione, mi è capitata dopo il secondo ricovero di mio figlio, io sono proprio… la mattina mi sono svegliata, era la mattina di ferragosto, mio figlio era venuto già a casa dal secondo ricovero, io davanti al banco della salumeria non sono stata in grado di prendere un etto di prosciutto piuttosto che un etto… la decisione più banale, non riuscivo più a prendere una decisione, un’iniziativa… (Elena).

Ciò che prima aveva un significato certo l’ha perso, si è stinto, e il comportamento, se reiterato, si dimostra non più funzionale. Il «problema», dunque, ha poco della problematicità e della definitezza del rompicapo, ma si configura come un evento terremotizio, una sorta di dissolvimento di un modo di vedere il mondo: un vero evento cosmologico. L’evento incide, dunque, non solo sullo specifico ambito in cui marca una interruzione (relazioni familiari, di lavoro, condizioni di salute, abilità personali ecc.), ma pervade tutto il mondo vitale e può indurre un indebolimento dell’azione della persona, fino a condurla alla «completa» inerzia. Come si viene fuori da situazioni come quelle descritte? Qual è il primo passo che ci permette di andare verso la «luce»? Cos’è che

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136 può permetterci di riprendere ad agire, di riprendere una nuova tessitura della nostra vita? Di fronte all’inedito non anticipabile siamo, da una parte, spinti a mantenere la nostra coerenza narrativa, forzandola nella situazione; dall’altra, essa non riesce più a risolverci i problemi, in quanto le azioni che potrebbero ri-costituirla si rivelano inutili. Davanti alla pervasività della sofferenza, dello spaesamento prodotto e all’emergenza dell’arousal, al cospetto del puzzle scomposto dall’evento – che ha reso inutilizzabili la maggior parte dei pezzi perché, a sorpresa, il disegno da comporre è cambiato – è necessario allentare la coerenza, ovvero arrendersi (surrender) all’idea che ci si trova davanti ad una situazione di cui non si sa un gran che. In questi frangenti, invece, per lo più si tenta in principio la risposta «quanto più… tanto più…», pensando che un incremento di «forza», «energia», «volontà», di «competenza», di «cura», di «psicoterapia», insomma che un aumento di intenzionalità possa fare fronte all’aumento di complessità e di indeterminatezza6. Ciò che avviene invece è proprio il contrario: più si cerca di cambiare, più la situazione si conferma nella sua problematicità. È il gioco nel suo complesso che è cambiato e le vecchie regole non valgono per il nuovo che si va costituendo. Anzi, avviene che quanto più si rafforzi la «vecchia» risposta, tanto meno se ne venga a capo. Per cui – e non è cosa facile da fare – non resta che navigare a vista, rinunciando all’idea di avere carte e rotte da seguire. Ci si confronta, così, con il proprio limite e con i vincoli che il nuovo evento va generando. L’inizio del processo di fronteggiamento appare come un fenomeno interstiziale, in cui il passaggio temporale tra due situazioni diverse è segnato lungo un vettore che da un atteggiamento di aspettativa (expectation) di vita slitta verso un atteggiamento di attesa (waiting). Nel primo caso, «corrispondente all’italiano ‘aspettarsi’ o ‘attendersi’, si vuole significare ‘prevedere (per lo più con speranza o con timore) che una cosa avvenga’», nel secondo «si allude al fatto di aspettare o attendere nel senso di ‘essere, con la mente e con l’a-

6 «Apprendere è quindi la condizione indispensabile per resistere in modo diverso da quei soldati giapponesi rimasti in guerra su qualche atollo del Pacifico; si inizia veramente ad agire solo quando si è diventati capaci di conoscere la ricchezza di effetti preterintenzionali prodotti da ogni azione, non prima. Quando l’azione si pensa ancora straordinariamente potente e ritiene di star scrivendo qualcosa di totalmente nuovo, essa non sa che sta cambiando soltanto i nomi alla stessa tragica vicenda che per l’ennesima volta viene messa in scena» (Cassano, 1993, p. 70).

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nimo, rivolti a persona che deve arrivare o a cosa che deve accadere’» (Gasparini, 1998, p. 42). Dall’aspettativa di vita, ovvero dal «volgere lo sguardo verso» (expectare) un futuro di cui si immagina una anticipazione (attesa-previsione) sulla base di elementi attualmente disponibili, si entra in una fase interstiziale, intesa come «intervallo di tempo […] di preparazione alla completa attuazione di un passaggio»7, il cui confine interno è segnato dall’attesa-sospensione8 e dallo slittamento al ruolo di spettatore della propria vicenda. Tale passaggio può essere raffigurato con i concetti di resa-e-cattura (Wolff, 1976), che estendo per abduzione dall’ambito prettamente metodologico della ricerca empirica, come argomentato da Wolff, a quello dell’interpretazione concettuale del fenomeno analizzato. Infatti, davanti all’ignoto e all’inedito sia la situazione del ricercatore, sia quella della persona che fronteggia un problema appaiono simili, come si evince dalle parole di Corradi:

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La resa è un’esperienza attraverso la quale può passare chiunque, non costituisce il privilegio di un aristocratico gruppo di intellettuali o di menti illuminate. Molti episodi (in particolare, […] le situazioni senza precedenti) possono costituire un’occasione di resa e da questa l’individuo trae significato, comprensione, conoscenza nuovi che gli permettono di guardare a se stesso, al mondo, al proprio-agire-nelmondo – o ad altro, a seconda dell’occasione di resa – in un modo che non è soltanto nuovo rispetto al precedente modo di agire o di vedere ma, andando ad aggiungersi a ciò che esisteva in precedenza, costituisce un accrescimento dell’essere […]. Lo studio di un tema, la comprensione di un fenomeno, la formazione di una decisione, l’esperienza di una situazione di vita, per quanto è possibile capire prima di poterle risolvere, richiedono di essere affrontate con un particolare atteggiamento (Corradi, 1993, pp. 33-34).

Permettere ai fatti di catturarci (catch), consegnarci ad essi, consente di incominciare ad apprendere, come conseguenza della sospensione dell’operare una selezione preventiva sui dati, cosa che altri-

7 Devoto G., Oli G.C. (1982), Vocabolario illustrato della lingua italiana, Milano: Selezione dal Reader’s Digest, in Gasparini (1998, p. 41). 8 L’attesa si configura come «scarto (o interstizio) ed insieme trait d’union tra presente e futuro, che può assumere la valenza della speranza – o al contrario della disperazione, così come della rassegnazione o della noia –, quella della progettualità e della programmazione o all’opposto, analogamente, dell’assenza di un progetto e dell’inerzia» (Gasparini, 1998, p. 40).

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menti avverrebbe se si mantenesse coerente il proprio frame interpretativo e narrativo: iEstr. 5.4.4 … ho dovuto praticamente… ho capito che se non lo facevo io, al posto mio non lo faceva nessuno… che dovevo ritrovare il coraggio di vivere e di organizzare la mia vita, la vita della mia famiglia, di riprenderla in mano con questa malattia inaspettata, ma che c’era a quel punto lì e che sapevo a quel punto di cosa si trattava, nessuno più mi poteva ingannare… sulla gravità della situazione, cioè non è che potevo dire no, ma fra un mese, fra un anno, magari mio figlio… qualche… qualche… fantasia, ma magari gli apriamo il negozio, piuttosto che… cioè tante ipotesi avevamo fatto, no? ma facciamo… non gli piace l’ufficio, gli apriamo un negozietto, lo… lo mandiamo a fare… tante stupidate… lo mandiamo nelle stalle a pulire… i cavalli, gli piacevano gli animali, cioè tutte cose che mio figlio che non poteva fare e non può fare tutt’ora… quindi, intendo dire, tutte queste favolette che ci facevamo e che ogni tanto me le sono fatte anche di recente, poi però capisci che non… (Elena).

L’informant comprende «che non…» stanno così le cose, che ciò che sta accadendo è unico e nuovo, e richiede repertori di azione di cui ancora non si sa nulla, se non che saranno diversi da quelli conosciuti. Si fa ricorso ad un atteggiamento rispondente aperto e capace di reggere il vuoto di senso, che ne permetta l’attraversamento nei suoi aspetti più dolorosi: iEstr. 5.4.5 … sopportare la sofferenza che infatti in questo periodo mi ricorda l’adolescenza… che mi ero dimenticata, che di nuovo trovo un periodo veramente molto difficile nella mia vita, di grossa sofferenza… e comunque, niente, mi sono tornati alla mente dei periodi dell’adolescenza in cui stavi molto male, in cui e… di nuovo sempre sul senso della vita, sul significato della vita, stavi molto male e avevi bisogno… e puntualmente non trovavi… l’ascolto… la persona… e quindi di nuovo sicuramente in questo momento ho rivissuto la mia adolescenza, anche se ho quarantadue anni, vicinissima, vicinissima, in modo molto diverso… però… e forse ho ripensato a come avevo superato l’adolescenza, cercando comunque di rimboccarmi le maniche e provare ad andare avanti e vedere che poi qualcosa sarebbe cambiato… adesso è difficile in poche parole spiegarlo… e comunque a sopportare il dolore, sopportare il dolore… (Claudia).

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139 Solo attraverso la resa-e-cattura (e, in particolare, la cattura) può riprendere l’azione, a partire dall’accettazione di una prospettiva che si intravede a mala pena, che spesso appare non solo ambigua, ma anche non particolarmente promettente e auspicabile. La «colla» della coerenza si allenta e così possono entrare nella nuova costruzione pezzi che mai ci si sarebbe sognati di intercettare/utilizzare e proprio da questo processo può nascere una nuova storia ed una nuova coerenza. Ecco, adesso ci si può chiedere «che fare?» e questa possibilità sembra nascere dall’accettazione di un non-fare, da una «nonazione temporanea» (negative capability, Lanzara, 1993) a cui segue la cattura. Dunque, «la resa è imprevedibile e qualsiasi evento può esserne l’occasione» (Corradi, 1993, p. 34); essa è la risposta in sé, e questa consiste nel mettere tra parentesi ciò che si conosce come prodotto della propria esperienza, «nell’esporsi in modo incondizionato alla conoscenza, mentre cattura è il prodotto di questo esporsi, di questa condotta» (Ibid., p. 35). La resa «può accadere o essere necessaria di fronte a qualunque interrogativo, evento, oggetto, persona: ma non viene suscitata da un interrogativo qualunque, né tutti gli interrogativi la richiederebbero. Essa è invece la risposta più adeguata alle situazioni senza precedenti, l’atteggiamento radicale che permette di superarle» (Ibidem), «[…] è la risposta più radicale alle situazioni estreme» (Corradi, 1986, p. 220). Quando si vuole produrre un cambiamento la cosa più importante, ma anche la prima in ordine di tempo, è renderlo pensabile, e per pensare qualcosa di nuovo bisogna distogliersi dal vecchio, dalle soluzioni tentate e da quanto abbaglia con la sua contemporaneità: il vero problema spesso è costituito proprio dalle soluzioni tentate ed inefficaci di cui si può restare prigionieri. Il fenomeno analizzato si presenta come collocato nella quotidianità, nell’interstizio temporale – tra l’evento inedito e la ripresa dell’azione – nel passaggio dai repertori di azione precedentemente agiti ed ormai inutili (routines) a nuovi repertori di fronteggiamento e di uscita dal problema, potendo così dare origine a qualcosa di nuovo (Arendt, 1988). Il breakdown prodotto dall’evento si configura come interruzione di una aspettativa di vita (expectation) e produce rottura delle routines e paralisi dell’azione. Il passaggio ad una posizione di attesa (waiting) segna l’inizio del fronteggiamento positivo e questo è reso possibile da una sorta di «resa» (surrender, Wolff, 1976) a ciò che non si conosce, davanti all’inanità degli atti finalizzati, permettendo così alla nuova situazione di «catturarci» (catch, Wolff, 1976)

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140 e quindi di produrre un contesto di addomesticamento9 in cui persona e contesto riprendono ad interagire. Questo passaggio è connotato dalla capacità di reggere il vuoto di senso10 generato dalla rottura della coerenza e dal dissolvimento cosmologico (Weick, 1993). Solo dopo la rinuncia ad agire (secondo i vecchi frames legati alla vecchia situazione) è possibile rimettere in moto la competenza ad agire e quindi dare origine a qualcosa di nuovo. In una situazione in cui tutte le coordinate sono perse ed in cui ciò che si conosce serve a poco davanti all’inedito, perché riprenda l’azione è necessaria una nuova «mappa»: non quella «giusta» o adeguata in sé, ma una qualunque, purché sia plausibile e credibile. Così, a partire da questa, si opera una costruzione di senso attraverso l’azione generativa (enactment), generalmente rivolta al cambiamento minimo. Che farà la ragazza del quadro? Quali saranno i suoi piani per il prossimo futuro? Probabilmente fra poco abbandonerà quel gradino così rassicurante, e si inoltrerà nella calura estiva. Ma porterà con sé il senso di quell’esitazione, che più volte si riproporrà nella vita e il cui ricordo, come in noi, potrà essere risvegliato da una giovane donna ritratta in un quadro di Hopper. Bibliografia Arendt H. (1988), Vita Activa, Bompiani, Milano. Cassano F. (1993), Partita doppia, il Mulino, Bologna. Corradi C. (1986), «Resa-e-cattura: il contributo di Kurt H. Wolff all’epistemologia dell’analisi qualitativa», Studi di Sociologia, n. 2, anno XXIV, aprile-giugno. – (1993), Lo sguardo e la conoscenza. La metodologia sociologica come visione e immaginazione, Franco Angeli, Milano.

9 Il rapporto tra le persone e i materiali disponibili nella situazione viene definito da Lanzara «conversazione riflessiva», sottolineando così l’andamento ricorsivo del processo per cui «da un lato gli attori cercano di dare forma e coerenza ai materiali, dall’altro questi ultimi danno forma alla conoscenza che gli attori via via costruiscono circa i materiali» (Lanzara, 1993, p. 95). 10 «When man is capable of being in uncertainties, Mysteries, doubts, without any irritable reaching after fact and reason» (J. Keats, 1817), «Letter to George and Tom Keats», in Baker C. (a cura di) (1962), Poems and Selected Letters of John Keats, Bantham Books, New York, citato in Lanzara (1993).

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141 De Luca E. (1998), Aceto, arcobaleno, UE Feltrinelli, Milano. Gaddis T.E. (1989), Birdman of Alcatraz: The Story of Robert Stroud, US Edition, Comstock Publishing. Gasparini G. (1998), Sociologia degli interstizi, Bruno Mondadori, Milano. Lanzara G.F. (1993), Capacità negativa, il Mulino, Bologna. Meo A. (2000), Vite in bilico, Liguori, Napoli. Perlman H. (1957), Social Casework: a Problem Solving Process, The University of Chicago Press, Chicago. Ring P.S., Van de Ven A.H. (1989), «Formal and informal dimensions of transactions», in Van de Ven A.H., Angle H.L., Poole M.S. (a cura di), Research on the Management of Innovation: The Minnesota Studies, Ballinger, New York. Simon H.A. (1958), Il comportamento amministrativo, il Mulino, Bologna. Weick K.E. (1993), «The collapse of sensemaking in organizations: the Mann Gulch disaster», Administrative Science Quaterly, 38, pp. 628-652. – (1997), Senso e significato nell’organizzazione, Cortina, Milano. Wolff K.H. (1976), Surrender and Catch. Experience and Inquiry Today, Reidel, Dordrecht-Boston.

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GLI INTERSTIZI NELLA COMUNICAZIONE CORPOREA: IL NUDO

Paolo Volontè

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Il nudo è, in senso proprio, un significato: mai solo un fatto bruto, ma già sempre carico di senso per qualcuno, per colui che è nudo come per chi vi si imbatte lungo il proprio cammino percettivo. Perciò la nudità è, da sempre, un tema centrale di ogni forma storica di cultura. Non solo. Il nudo è anche una possibilità autentica del corpo umano. Avere un corpo significa, immediatamente, o avere un corpo nudo, o un corpo rivestito. Ma se non vi fosse quest’ultimo, neanche il primo sarebbe tale. Di un sasso, di una conchiglia non diciamo che sono nudi, perché non fa parte delle loro possibilità autentiche l’essere rivestiti. Li vestiamo e denudiamo per gioco o per analogia. Non così per il corpo umano, per il quale, almeno dacché è un corpo storico1, la nudità è sempre possibile. Il corpo umano, in quanto prodotto culturale2, conosce due stati: il rivestimento e la nudità. Un terzo, un momento interstiziale tra i due, sembra non darsi. Eppure proprio su questa eventualità voglio provare a riflettere in questa sede. La comunicazione corporea contempla il fenoNelle mitologie del tempo della perfezione l’essere umano poteva anche ignorare la propria nudità. Cfr. Gen. 2, 24. 2 Uso questa espressione per sottolineare come il corpo umano, data la sua essenziale funzione comunicativa, acquisisca una dimensione sociale solo attraverso l’interpretazione che la cultura dà di esso. Ma non intendo affatto sostenere una visione costruttivistica della corporeità umana, secondo cui ciò che noi percepiamo come corpo è semplicemente il prodotto di una costruzione sociale (si veda, per esempio, Synnott, 1993). Più capace di render conto della complessità del fenomeno mi sembra invece la posizione di chi, come Shilling (1993), sostiene che la consapevolezza dell’imprescindibile dimensione sociale del corpo, pur rendendo insostenibile una concezione di tipo naturalistico, non comporta la riduzione della corporeità umana a mero costrutto culturale, tanto effimero quanto ogni altro prodotto della cultura.

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144 meno dell’interstizio? E se lo contempla, dove lo colloca? Avanzerò ragioni per pensare che proprio il corpo nudo, e non quello celato sotto una coltre di abiti, costituisca una sospensione interstiziale della comunicazione corporea. Ma non ogni nudo, bensì uno stato particolare di nudità, che è condizione d’eccezione nell’esistenza umana.

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Linguaggio degli abiti e linguaggio del corpo Perché la corporeità umana abbia un simile carattere, tale per cui la nudità diviene una sua possibilità autentica, non è facile da comprendere. Senz’altro in parte ciò è connesso con una funzione cui assolve il corpo umano, non quello della pietra: la funzione comunicativa. L’esperienza sociale del corpo è imprescindibilmente un’esperienza comunicativa, poiché il corpo animato è per sua natura espressione della volontà che lo anima. Il corpo è uno strumento di comunicazione sociale, il primo e più fondamentale. Lo stesso linguaggio verbale, a ben vedere, non ne è che un caso particolare, legato al movimento delle corde vocali. Non bisogna cadere, a questo proposito, nell’ingenuità di considerare il linguaggio corporeo un linguaggio naturale, spontaneo, «pulito» (cfr. Acquaviva, 1977, pp. 65-66), in opposizione al carattere astratto e costruito del linguaggio verbale. Come se comunicare col corpo fosse un evento che precede la civiltà, comunicare con le parole un suo prodotto. Gli studi antropologici hanno da tempo mostrato che, se si escludono alcuni casi particolari di mimica facciale, il linguaggio del corpo è un prodotto sociale che varia col variare delle culture (Polhemus, 1975, pp. 18-19). Come tutti i linguaggi, anche quello corporeo possiede un proprio codice. Che, come tutti i codici, è fatto di una norma sociale e della sua applicazione. Il linguaggio umano, insegnava de Saussure un secolo fa, funziona grazie alla composizione di due piani diversi ma complementari. Da un lato vi sono le norme che regolano l’emissione di suoni, in maniera che questa possa assumere delle configurazioni standard e quindi dei significati comprensibili per altre persone. Dal lato opposto c’è l’insieme dei fenomeni sonori che chiamiamo sillabe, parole, frasi, la concreta parlata degli individui. Nella terminologia di de Saussure (1983, pp. 17), il primo lato è quello della langue, ovvero dell’articolazione dei suoni secondo delle regole di composizione che fanno di essi una lingua. Queste non sono solo delle regole astratte, come quelle che normano un linguaggio formale (per esempio, l’aritmetica). Al contrario, si tratta qui di un lato propriamente sociale del linguaggio, nella misura in cui la re-

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145 gola grammaticale è il risvolto linguistico di una norma collettiva e indipendente dall’individuo. Una lingua non esiste mai in pura forma astratta – anche se è sempre possibile studiare la forma astratta che sottostà alla sua manifestazione storica. La lingua esiste invece unicamente come prodotto storico di una collettività che agisce per comunicare, tanto che nessuna regola astratta del linguaggio può opporre resistenza alla continua trasformazione della cultura dominante nella compagine sociale, a cui si accompagna la continua trasformazione delle norme che regolano l’interazione linguistica tra gli attori sociali. Da questo punto di vista, la lingua è senz’altro un esempio calzante di fatto sociale, come indicato da Durkheim (1979, p. 25). Il secondo lato, quello degli eventi materiali e contingenti attraverso cui il linguaggio prende letteralmente corpo in fenomeni fisici come le onde sonore o le vibrazioni di certi organi, è chiamato da de Saussure (1983, p. 28) la parole, ovvero la lingua concretizzata in una parlata specifica. Gli elementi della parole non sono parte delle regole linguistiche, allo stesso modo in cui la foggia della corona del re o lo stile architettonico della torre non sono parte delle regole degli scacchi. Sono manifestazioni accessorie. Come possiamo giocare a scacchi con un fagiolo al posto del re e una lenticchia al posto della regina, così possiamo lasciarci intendere dall’interlocutore sia che parliamo con voce acuta sia baritonale, sia con accento leccese sia toscano. Ma il fatto che la parole includa gli elementi individuali e contingenti del parlare non significa che essa sia per questo meno importante della langue nel determinare il linguaggio umano. I due aspetti, come nota de Saussure (1983, p. 29), sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda. Senza langue, la parole sarebbe inintelligibile, o si ridurrebbe a un insieme di grugniti meramente denotativi; il sistema dei suoni perderebbe la sua articolazione. Ma senza parole, la lingua non esisterebbe affatto, non avrebbe occasione di stabilirsi, né di modificarsi nel tempo. Sono le alterazioni dei suoni che avvengono in ogni concreto scambio linguistico a provocare la costante evoluzione delle regole grammaticali. La lingua è al tempo stesso lo strumento che orienta la parole e il prodotto di quest’ultima, un «libretto di istruzioni» che prende forma man mano che l’apparecchio viene utilizzato. De Saussure si riferiva esclusivamente al linguaggio verbale, poiché quello era il suo problema. Ma le sue osservazioni sono ricche di stimoli per comprendere qualsiasi altra forma di comunicazione codificata, cioè strutturata secondo regole condivise. E poiché le esperienze di comunicazione non codificata sono molto rare, e seguono un regime di eccezione, potremmo dire anzi che tutte le

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146 forme di comunicazione ordinaria tra attori sociali comportano una dimensione normativa e una applicativa, una langue incarnata in una parole. Ciò vale, in ogni caso, per il linguaggio corporeo. Ma attenzione: su che cosa sia il linguaggio del corpo è necessario intendersi. Comunicare col corpo significa trasformarlo, allo stesso modo in cui comunicare con le parole significa trasformare e articolare la voce. Tuttavia, in un sistema percettivo che si serve non solo del tatto, ma anche e soprattutto della vista, le trasformazioni possibili di un corpo non riguardano soltanto le sue dimensioni, né solo la sua posizione e l’articolazione delle membra tra loro. Al contrario, esse includono anche, e con pari dignità, le modificazioni del suo rivestimento. Un corpo visibile è anche un corpo mascherabile, che può essere celato, in tutto o in parte, ovvero trasformato alla vista. Il rivestimento, e quindi l’abbigliamento, è parte intrinseca del codice della comunicazione corporea. Questo punto è importante. Non c’è movimento, non c’è postura, non c’è atto di comunicazione corporea che non sia mediato da qualche forma di rivestimento culturale del corpo: un pezzo di stoffa, un pendaglio metallico, una decorazione dipinta o incisa. È da qui che scaturisce, per il corpo umano quale mezzo di comunicazione, la possibilità autentica della nudità. Poiché è strumento di comunicazione, il corpo giammai semplicemente è, ma è già sempre in un certo modo: in una certa postura, in una determinata fase motoria, abbigliato in qualche maniera3. Insomma, il linguaggio corporeo è in se stesso un linguaggio vestimentario. E come tutti i linguaggi, anche quello corporeo-vestimentario vive della dialettica tra langue e parole, secondo un’osservazione che risale a un saggio di Roland Barthes del 1957 (cfr. Barthes, 1998, pp. 66-68). Esso funziona grazie all’applicazione individuale di un sistema di regole socialmente condivise. Barthes identificava nel «costume» la langue del linguaggio vestimentario, indotto senz’altro a ciò dalla dimensione fondamentalmente sociale del costume, che può essere letto come codificazione e istituzionalizzazione delle più diffuse scelte individuali di abbigliamento. Non dobbiamo però trascurare il fatto che, preso in questa accezione, nell’epoca della riproducibilità tecnica il costume finisce per coincidere con ciò che abitualmente chiamiamo moda. Contrariamente a quanto spesso si ritiene, la moda non è, allora, altro dal costume, ma l’aspetto particolare

Spesso nella letteratura sul linguaggio corporeo la funzione dell’abito compare solo in riferimento all’aspetto generale della persona, come se i singoli gesti fossero svincolati dal loro contesto vestimentario (cfr. per es. Argyle, 1975). 3

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147 che quest’ultimo acquisisce nella società industriale4. La parole vestimentaria coincideva invece per Barthes con l’abbigliamento, il modo personale in cui il costume di moda viene indossato dal singolo in quanto soggetto individuale. L’abbigliamento è, in questa prospettiva, l’attualizzazione sul singolo dell’istituzione generale del costume. Come nel caso del linguaggio verbale, non si deve irrigidire troppo questo schema, pensando che l’esistenza di regole condivise (del tipo: metti la cravatta se vuoi mostrare cura nell’abito) equivalga all’esistenza di regole sancite (del tipo: se non metti la cravatta dimostri di non avere cura nell’abito). Qui come in ogni altro ambito sociale le regole sono piuttosto precetti per l’orientamento della pratica all’accordo reciproco. E il concreto atto linguistico vive della dialettica tra la regola e la sua applicazione. Si consideri nuovamente il linguaggio verbale. La langue, quale apparato normativo del processo comunicativo, ne costituisce un presupposto ineliminabile. Ma proprio in quanto apparato normativo, essa è anche un irrigidimento del linguaggio, poiché detta al comportamento delle condizioni costrittive. La norma è la condizione per comunicare, ma può essere un ostacolo alla migliore comunicazione, in particolare quando chi parla non padroneggia perfettamente le regole del gioco. Può accadere allora di essere piuttosto «giocati» dal linguaggio, per esempio quando, per uscire da una situazione difficile, ci si affida a proverbi, detti, frasi fatte. Il linguaggio allora non è più al servizio della cosa stessa (della Sache, nel senso condiviso da Weber, 1997, p. 81, e da Husserl, 2003, p. 43), ma pone il parlante al proprio servizio. La comunicazione migliore si ha quando la langue è padroneggiata a tal punto che la parole se ne può rendere indipendente – senza mai liberarsene, è chiaro –, allontanandosi dalla regola per poi riavvicinarsi a piacimento. Quando ciò accade, la lingua svolge appieno la propria funzione di «strumento per», senza assoggettare la parole alle proprie esigenze. Alcune vette della letteratura (penso a Gadda, penso a Joyce) devono proprio a questa abilità il loro fascino. Nella comunicazione corporeo-vestimentaria accade qualcosa di simile, di cui il meccanismo della moda è la manifestazione esteriore. Anche qui la regola può prevaricare sulla propria applicazione da parte dell’individuo. Si hanno allora le fashion victims, coloro che non sono in grado di personalizzare le regole della moda in funzione del proprio messaggio e della propria esigenza espressiva, ma assoggettano queste a quelle, diventandone così, appunto, delle vittime. 4 John Carl Flügel distingueva a questo proposito tra «costume ‘fisso’» e «costume ‘di moda’» (Flügel, 1992, pp. 158-159).

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148 Quando ciò accade, la moda trionfa, e l’attore è ridotto a «maschera». Ma se l’individuo è padrone del mezzo espressivo, allora la moda trascende nell’eleganza, nel gusto raffinato e discreto, nell’uso disinvolto dell’abbigliamento, grazie a cui il corpo comunica senza farsi notare. L’offerta di forme di abbigliamento del corpo da parte del sistema industriale diviene qualcosa di analogo all’offerta di forme verbali da parte del vocabolario e della grammatica, e il loro impiego da parte del pubblico segue logiche di libertà espressiva. La persona è allora padrona del mezzo e capace di creare il proprio «discorso» contaminando liberamente capi di abbigliamento di provenienze varie, in un processo che è stato chiamato di cross dressing (Ricci, 2001, p. 222), e sfuggendo così alle tendenze standardizzanti della produzione industriale (la vecchia trappola del total look). Il corpo svestito e il corpo rivestito Il rivestimento è dunque parte integrante del corpo come mezzo di comunicazione. E quando il corpo è nudo? Se il corpo – quel corpo che comunica solo attraverso il proprio rivestimento – può essere denudato, dovremo forse concludere che può essere in questo modo zittito, oscurato? Il corpo nudo, allora, non sarebbe un mezzo di comunicazione. Mi sembra molto improbabile. Devo allora precisare: il corpo umano comunica solo attraverso il proprio rivestimento, vuoi per donazione, vuoi per privazione. Intendo dire che il rivestimento del corpo è una sua condizione essenziale sia quando c’è, sia quando non c’è. Anche il corpo svestito parla attraverso il proprio rivestimento – per via privativa. Il corpo nudo che suscita pudore, oppure vergogna, scandalo o eccitazione, può far questo proprio e solo perché è un corpo cui manca il rivestimento. Un certo stato del rivestimento, l’assenza, è ciò che lo rende significante in quel particolare modo. Infatti lo chiamiamo un corpo svestito. Il punto è che in questa particolare situazione è sempre la coppia indivisibile (il «sinolo») corpo-vestito a mediare la comunicazione, solo che essa viene a trovarsi in una condizione estrema rispetto allo spettro delle sue possibilità. Ma se il corpo svestito è un corpo che comunica per via privativa, esso comunica attraverso il medesimo codice del corpo vestito, il codice del costume di moda incarnato nell’abbigliamento. Da questo punto di vista, esso si comporta in maniera analoga ai silenzi nel corso di una melodia. Questi parlano attraverso il medesimo codice attraverso cui parlano i suoni, che è un codice musicale. Solo, per via privativa. Nonostante siano chiamati pause, i momenti di silenzio in una melodia non sono interruzioni della melodia

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149 stessa, ma ne sono parte integrante. Allo stesso modo della comunicazione orale, quella corporea avviene (per mezzo del codice linguistico dell’abbigliamento) grazie a un sapiente dosaggio dei pieni e dei vuoti (dei suoni e delle pause), ovvero del corpo vestito e svestito. La gonna lunga o corta, la maglietta con o senza maniche, la vita alta o bassa dei pantaloni abbinata a top più o meno corti, bottoni allacciati o slacciati, scollature, spacchi, trasparenze sono gli strumenti attraverso cui lo svestito si combina con il rivestito per articolare adeguatamente il linguaggio corporeo-vestimentario. Se tutto ciò pare plausibile, bisogna trarne la conseguenza che, allora, la nudità del sinolo corpo-vestito non risponde alla categoria dell’interstizio, come non vi risponde il silenzio entro l’unità della melodia. Le pause musicali sono tanto poco degli interstizi quanto poco lo sono le singole note. Certo, si tratta sempre di momenti che «stanno in mezzo» fra due altri. Ma dei caratteri fondamentali della categoria di interstizio, così come sono stati messi a fuoco da Gasparini (2002, pp. 8-9), non condividono né la discontinuità né la marginalità. Una pausa musicale non crea una cesura tra due suoni, ma li collega in maniera essenziale affinché essi siano quei due suoni, e la melodia quella melodia. Se la pausa fosse più lunga o più corta, cambierebbe anche la percezione dei suoni tra cui essa sta. Essa non è quindi per nulla marginale, ma fondamentale al costituirsi della melodia stessa. La medesima cosa vale per il nudo e il rivestito nel linguaggio corporeo-vestimentario. La lunghezza dello spacco, l’ampiezza della scollatura, l’altezza del collo di una camicia non sono cesure o marginalità nel flusso della comunicazione, ma elementi altrettanto essenziali quanto il gesto, il colore, il tessuto. Interpretando il nudo come una proprietà del sinolo corpo-vestito, e quindi come «corpo svestito», l’ho ridotto alla condizione di uno stato particolare del corpo abbigliato, considerato come un’unità comunicativa. Ma allora non esiste un nudo «non svestito», un nudo originario (se così si può dire), la pura nudità, appunto? Il corpo nudo non è forse più «naturale» del corpo rivestito? Il corpo dell’essere umano non è forse prima di tutto nudo, e solo successivamente, e per motivi contingenti, abbigliato? Queste domande scaturiscono da una visione essenzialistica e naturalistica del corpo, che a mio parere sconta una certa ingenuità di fondo. Già Hegel (1963, pp. 977-982), discutendo dell’arte greca, notava che il nudo in sé non è significante. I vestiti, diceva, hanno la funzione di sottrarre allo sguardo ciò che, essendo meramente sensibile, è senza significato. E in questo modo riconosceva che solo l’abito fa «parlare» il corpo, lo rende mezzo di comunicazione, gli offre l’opportunità di significare. In verità, la sua osservazione andava in tutt’altra direzione da quel-

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150 la che sto seguendo qui, poiché mirava a ribadire l’antica concezione cartesiana, secondo la quale il corpo senz’anima è pura res extensa, materia inanimata. Ma l’osservazione è senz’altro pertinente, tanto da far scuola. Dopo di lui, molti sono tornati sul tema5. Per cogliere la tesi di Hegel in tutta la sua fecondità, dobbiamo a mio avviso intenderne il risvolto fenomenologico. Dobbiamo partire cioè dalla constatazione che il nudo naturale non è un dato esperienziale del mondo sociale, ossia non appartiene all’orizzonte di esperienza del soggetto che vive in una collettività. È una pura astrazione, una costruzione ideale, che non fa realmente parte della relazione sociale. Il nudo è umano, è sociale, solo quando non è nudo, ma svestito. Altrimenti non ha significato – nemmeno quello di «corpo nudo». Un corpo nudo, naturalmente nudo, non parla, perché è privato del suo codice6. E ciò che non parla è socialmente un nulla, ovvero sparisce dall’orizzonte del comportamento collettivo. Perfino le istituzioni più potenti necessitano, per esercitare il proprio potere coercitivo sull’azione del singolo, di essere da lui direttamente o indirettamente percepite. Così un corpo nudo acquisisce presenza sociale solo quando è percepito come nudo, ed è percepito come nudo solo quando denota un’assenza di rivestimento, uno stato di privazione nel flusso del proprio linguaggio vestimentario. Questo è come dire che per essere visibile socialmente il corpo deve «denaturalizzarsi» (Stella, 1996, pp. 177-178). Si ripensi alla descrizione del processo di civilizzazione dataci da Elias (1988). L’esistenza sociale dell’individuo necessita dell’erezione di un «muro» a divisione della sfera privata da quella pubblica, della sfera dell’animalità organica da quella della convivenza civile. Ma questo, che nella sua forma attuale è l’esito di un processo relativamente recente (Elias ne fa risalire l’origine, come è noto, alla nascita della civiltà di corte), sottintende una condizione fondamentale della relazione sociale come relazione comunicativa. È la denaturalizzazione che fa del corpo un testo e lo rende significante per l’altro. È la civilizzazione che rende il corpo visibile socialmente. Il corpo nudo naturale non può essere sociale in alcun modo. Se è naturale, non è visibile socialmente. Se è visibile socialmente, è perché si è denaturalizzato.

Nella sociologia del corpo e della moda, e nella semiotica dell’abbigliamento, l’idea che il corpo nudo «naturale» sia qualcosa di insignificante è già stata sviluppata da vari autori. Si vedano in particolare Calefato (1986), Wilson (1992), Lemoine-Luccioni (2002). 6 Dello stesso parere mi sembra essere anche Galimberti (2002, pp. 196212). 5

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Non voglio quindi semplicemente dire che storicamente non si dà società che non abbia elaborato una qualche forma di «vestizione» del corpo. Ho già sostenuto in principio questa tesi, che trova un autorevole sostegno per esempio in Lévi-Strauss, per il quale il nudo è addirittura l’anticulturale (Lévi-Strauss, 1974, p. 362). Ma credo che questo ci obblighi a essere più radicali. Il nudo (il nudo naturale) è piuttosto l’anti-umano. Un mondo senza cultura è un mondo senza significati, e quindi senza senso. E un mondo senza senso è un mondo che non è ancora stato abitato dall’umanità, a tutti gli effetti disumano. Come l’idea di una Natura vergine travalica le possibilità dell’esperienza umana (Latour, 2000), così l’idea di un corpo naturale. Là dove vi fosse un corpo puramente nudo, esso non sarebbe umano; e là dove vi è un corpo umano senza rivestimenti, non può che trattarsi di un corpo svestito, tutt’al più totalmente svestito.

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Il nudo interstiziale Il corpo svestito e quello rivestito sono dunque due emisferi complementari dell’unica geografia della comunicazione sociale corporeo-vestimentaria. Meglio, essi sono due tipi ideali del linguaggio corporeo, che come tali hanno effetto solo nella reciproca commistione, nonché nell’equilibrio che la cultura locale impone, e rispetto ai quali il nudo naturale costituisce un’idealizzazione astratta, priva di applicazione nei fenomeni dell’esperienza. Ma proprio a partire da questa considerazione si fa strada nuovamente la questione degli interstizi. Apparentemente, essa è stata definitivamente liquidata. Ho sostenuto finora tre tesi: che il linguaggio corporeo è per sua stessa natura anche vestimentario; che lo svestito è un momento costitutivo del linguaggio corporeo-vestimentario; che il nudo naturale non è un elemento della comunicazione sociale. Se tutto ciò è vero, la categoria degli interstizi sembra estranea al fenomeno sociale della comunicazione corporea. Sembra infatti non esistere alcun momento o spazio sociale fuggevole in cui la corporeità improvvisamente non parli più, non abbia più significato, e il codice dell’abbigliamento finalmente taccia. La comunicazione corporea assomiglia a un basso continuo dell’esistenza umana, come una melodia che non ha mai fine. Forse il linguaggio corporeo non conosce alcun interstizio, alcuna fenditura in cui il corpo resti sospeso, né svestito né rivestito, e nondimeno significante. O forse, invece, non è così. In fondo, la stessa idea di un nudo naturale, pur restando un’idealizzazione, mira a descrivere un fenomeno reale, che chiede di essere compreso. Se in condizioni di vita

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152 quotidiana il nudo naturale non esiste, vi sono però dei momenti, dei «luoghi» d’esperienza in cui il corpo umano sembra improvvisamente ritrovare la sua nudità silente. Si consideri a questo proposito il caso, ampiamente trattato in letteratura7, del nudo nell’arte: il David di Michelangelo, per esempio. La persona rappresentata senza veli non è più un interlocutore per noi, non partecipa più attivamente al comune commercio del senso, attraverso il quale i significati – i prodotti della cultura – prendono via via corpo o evaporano nell’etere della cultura consumata e dimenticata. La persona è qui invece trasfigurata in un simbolo; non è più essere umano, ma o divinità, o pura forma. Il nudo artistico non costituisce allora un’espressione del linguaggio corporeo, un evento di comunicazione. Esso si giustifica come nudo, non come svestito. È un momento di sospensione della capacità comunicativa del corpo come tale. Quando questa sospensione per qualche motivo fallisce, quando il corpo continua a comunicare, allora fallisce anche l’effetto artistico. Non siamo più al cospetto di un nudo, ma di uno svestito, come a volte accade per le «croste» dell’arte da boulevard. All’origine di questo fenomeno culturale sta la diversa funzione svolta dal nudo artistico e da quello «volgare» nella produzione di significati. Nel nudo riuscito il corpo non è più strumento di comunicazione, vale a dire causa attiva di significazione. Esso è invece oggetto di fruizione estetica, e cioè causa passiva della produzione di costellazioni di significato. Non si propone più come mezzo di comunicazione, ma solo come oggetto di uno sguardo donatore di senso. In quanto tale, permane nella sfera del senso, e continua in tal modo a essere socialmente visibile. Ma sospende la comunicazione corporea, poiché non vi prende parte. Si colloca in uno spazio interstiziale, in cui il corpo, pur essendo senza veli, non è svestito; e non essendo svestito (né rivestito), non si colloca nell’atto della comunicazione. Qualcosa di analogo avviene in un’altra sfera molto dibattuta, quella della medicina, dove pure vi è la pretesa di avere a che fare col corpo naturale dell’essere umano. Ma a ben vedere si tratta di una naturalità apparente, che è stata denaturalizzata dallo stesso sguardo scientifico. Il quale, ben lungi dal riprodurre ciò che si dà in Natura, costruisce un proprio mondo razionalizzato, matematizzato (Husserl, 1961, pp. 51-88), reso asettico nelle condizioni di laboratorio (Knorr-Cetina, 1981, pp. 3-4). Si pensi in particolar modo al caso di un intervento chirurgico (Blum, 2003). Durante l’operazione

7 Oltre al classico studio di Kenneth Clark (1956), si possono vedere per es. Nead (1992) e McDonald (2001).

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153 il corpo nudo, anestetizzato, cessa di essere un soggetto della comunicazione. Una sua parte viene scissa simbolicamente dal resto, spogliata della sua identità sociale e personale attraverso l’artificio del telo verde con una finestra nel mezzo, per poter essere poi tagliata fisicamente, operata sotto la guida di uno sguardo scientifico, impersonale, sine ira et studio. Essa è osservata, manipolata, compresa da qualcuno, ma non può parlare, né può ribellarsi, attivarsi, negoziare la definizione della situazione. Se lo fa, l’operazione fallisce. Nell’uno e nell’altro caso abbiamo a che fare con un tipo particolare di nudità, un fenomeno marginale, fuggevole, inconsistente che se ne sta compresso, nell’esperienza umana, negli interstizi concessigli dall’imperialismo del corpo svestito e di quello rivestito. Da soggetto attivo, il corpo si fa qui soggetto passivo della relazione sociale. Da attore si fa oggetto di scena. È quel momento di sospensione unilaterale della relazione sociale in cui il corpo improvvisamente si astrae dal proprio codice e diviene qualcosa di autonomo, di veramente nudo. Non perché ridotto in condizioni di natura, ma perché sospeso dalla capacità e dal diritto di comunicare. Spoglio del proprio codice. Questa è la vera nudità. Perciò il nudo s’incontra solo in situazioni di sospensione della comunicazione intersoggettiva. E per questo esso è in senso proprio un interstizio nel flusso ininterrotto del linguaggio corporeo. L’arte e la chirurgia sono realizzazioni tra le più alte dell’ingegno umano. Ecco dunque che, con un mirabile ribaltamento, gli interstizi – le «piccole cose» – si rivelano essere tra le più alte e nobili. E, viceversa, ciò che è grande e complesso nell’organizzazione sociale, il prodotto di una storia secolare di modernizzazione e progresso (quali sono l’arte e la scienza), diviene marginale, liminale, un momento di sospensione e insignificanza nel flusso di quella inarrestabile comunicazione interpersonale che costituisce il mondo vitale di ciascuno. Ma allora l’alto e il basso, il grande e il piccolo, il centro e la periferia invertono ogni volta la loro posizione, a seconda della prospettiva da cui si guarda, scompaginando così le tranquille routine del pensiero. Che cosa in tutto ciò è centro, che cosa periferia? Forse il caso del nudo interstiziale è un invito a ripensare queste sedimentate categorie interpretative. Bibliografia Acquaviva S.S. (1977), In principio era il corpo, Borla, Roma. Argyle M. (1975), «The syntaxes of body communication», in The body as a medium of expression, a cura di Benthall J., Polhemus T., Allen Lane, London, pp. 143-161.

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154 Barthes R. (1998), «Storia e sociologia del vestito», in Scritti. Società, testo, comunicazione, Einaudi, Torino, pp. 60-74. Blum V.L. (2003), Flesh wounds: The culture of cosmetic surgery, University of California Press, Berkeley. Calefato P. (1986), Il corpo rivestito, Edizioni dal Sud, Bari. Clark K. (1956), The nude. A study of ideal art, John Murray, London. de Saussure F. (1983), Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari. Durkheim E. (1979), Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, Edizioni di Comunità, Milano. Elias N. (1988), Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna. Flügel J.C. (1992), Psicologia dell’abbigliamento, Franco Angeli, Milano. Galimberti U. (2002), Il corpo, Feltrinelli, Milano. Gasparini G. (2002), Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma. Hegel G.W.F. (1963), Estetica, Feltrinelli, Milano. Husserl E. (1961), La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, Milano. – (2003), Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Libro primo, nuova edizione a cura di Costa V., Einaudi, Torino. Knorr-Cetina K. (1981), The manufacture of knowledge. An essay on the constructivist and contextual nature of science, Pergamon Press, Oxford. Latour B. (2000), Politiche della natura, Cortina, Milano. Lemoine-Luccioni E. (2002), Psicoanalisi della moda, Bruno Mondadori, Milano. Lévi-Strauss C. (1974), L’uomo nudo, Il Saggiatore, Milano. McDonald H. (2001), Erotic ambiguities. The female nude in art, Routledge, London-New York. Nead L. (1992), The female nude: Art, obscenity and sexuality, Routledge, London-New York. Polhemus T. (1975), «Social bodies», in The body as a medium of expression, a cura di J. Benthall e T. Polhemus, Allen Lane, London, pp. 13-35. Ricci L. (2001), «Moda: tra identità, cultura e mercato», in Communifashion. Sulla moda, della comunicazione, a cura di Abruzzese A., Barile N., Luca Sassella Editore, Roma, pp. 197-236. Shilling C. (1993), The body and social theory, Sage, London. Stella R. (1996), Prendere corpo. L’evoluzione del paradigma corporeo in sociologia, Franco Angeli, Milano. Synnott A. (1993), The body social, Routledge, London. Weber M. (1997), La scienza come professione, Rusconi, Milano. Wilson E. (1992), «Fashion and the postmodern body», in Chic thrills. A fashion reader, a cura di Ash J., Wilson E., Pandora Press, London, pp. 3-16.

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LA

POESIA DI

MONTALE

E GLI INTERSTIZI

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Claudio Scarpati

La poesia del Novecento ha recuperato e ha dato vita a un nuovo catalogo di oggetti. Oggetti che erano stati tenuti a distanza dalla tradizione illustre della nostra letteratura sono risultati degni di entrare nel suo universo. Queste esperienze hanno inizio con Pascoli che registra nei suoi versi il gracidare delle rane e con i cosidetti «crepuscolari» che si aggirano tra pappagalli impagliati e scatole senza confetti. Da allora l’incontro tra l’alto e il basso, l’urto tra pensieri grandi e frammenti minimi del vivere ha penetrato profondamente la nostra poesia. La protagonista di una lirica di Mario Luzi «sposta con solennità la mano tra il volante e il cambio», Vittorio Sereni percorre l’autostrada della Cisa «di tunnel in tunnel, di abbagliamento in cecità», dal finestrino stende la mano verso «una spalla d’aria». Un verso di Zanzotto suona: «Chi e che cerececè d’augel distinguo». Tra i nostri poeti Eugenio Montale è stato il più attento a comprendere nella sua scrittura gli elementi apparentemente atoni, sordi e insignificanti, le parti grigie dell’esperienza e del linguaggio. Già lungo le prime raccolte sono stati ammessi nel tessuto della poesia lo «scalcinato muro», il «bambino a cui fugge il pallone tra le case», gli «occhiali di tartaruga» della moglie, lo «zampettio di talpe» nella limonaia, il «pesce prete» e «il pesce rondine», le «chiatte di minatori dal gran carico / semisommerse», e poi lo «smeriglio di vetro calpestato» di Piccolo testamento e il «crac di noci schiacciate» del Sogno del prigioniero. Ma fu nella seconda fase della sua poesia, quella che inizia con il 1970, che Montale mutò il suo registro dando luogo a una poesia parlata, che volle avvicinarsi alla prosa senza cadere nella prosa. La poesia che Montale scrisse negli ultimi dieci anni della sua vita si avvicinò al genere della satira, da intendere come viaggio perplesso e distaccato intorno agli affanni e alle debolezze degli uomini. Ne nacque un discorrere ininterrotto, vasto e dilagante (la massa delle poesie degli ultimi anni è doppia rispetto a quella scrit-

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ta fino all’età di sessant’anni) in cui la sua ricerca scese nelle zone inerti del vivere, negli spazi laterali, nelle anse dimenticate. Una poesia che ben si accorda con questa nostra ricerca intorno agli interstizi, alle aree neutre che si creano nel decorso vitale. Diritto di precedenza in questa breve evocazione ha una poesia degli ultimi anni Sessanta dedicata alla «storia»: La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive. [...] La storia gratta il fondo come una rete a strascico con qualche strappo e più di un pesce sfugge. Qualche volta s’incontra l’ectoplasma d’uno scampato e non sembra particolarmente felice. Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato. Gli altri, nel sacco, si credono più liberi di lui. (Montale, 1984, p. 324).

Possiamo dire che Montale amò introdursi negli interstizi della storia, negli strappi della sua rete a strascico. Quando scrive questi versi Montale è senatore a vita dal 1967; da anni si è riconosciuto in lui forse il più grande poeta del secolo. Si può dire che in questa sua tarda poesia Montale vada alla ricerca dei sottopassaggi e delle buche con cui il vecchio, in abito dimesso, possa sottrarsi, lungo la strada dell’ironia, dal peso della sua immagine pubblica. Sembra anche che voglia segnalare il suo distacco e la sua difficoltà di capire un mondo mutato. Mentre s’accresce l’isolamento della vecchiaia, la memoria si piega su eventi minimi, su episodi irrilevanti, veri interstizi dell’esistere: L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe, il cornetto di latta arrugginito ch’era sempre con noi. Pareva un’indecenza portare tra i similori e gli stucchi un tale orrore. Dev’essere al Danieli che ho scordato di riporlo in valigia o nel sacchetto. Hedia la cameriera lo buttò certo nel Canalazzo. E come avrei potuto scrivere che cercassero quel pezzaccio di latta? C’era un prestigio (il nostro) da salvare

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157 e Hedia, la fedele, l’aveva fatto. (Ibid., p. 307).

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I versi sopra citati fanno parte di un blocco di poesie dedicate alla moglie Drusilla dopo la sua scomparsa. Drusilla aveva il nomignolo di «mosca» per via dei suoi spessi occhiali. Nella sua rievocazione Montale si serve di un lessico familiare che accompagna il ricordo di lei con il richiamo alle circostanze minute della loro vita comune. Ciò che è interessa in questo gruppo di poesie è il passaggio improvviso dall’atonia alla commozione. Il passaggio è sempre protetto dall’ombra dell’ironia che fascia il dettato perché non vada disperso ciò che è personale, segreto, ciò che non può essere detto in forma esplicita e diretta: Caro piccolo insetto che chiamavano mosca non so perché, stasera quasi al buio mentre leggevo il Deuteroisaia sei ricomparsa accanto a me, ma non avevi occhiali, non potevi vedermi né potevo io senza quel luccichìo riconoscere te nella foschia. (Ibid., p. 289).

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Ci si potrebbe domandare, mentre leggiamo questi testi, qual è l’itinerario che ha inizio dalle piccole cose. La ricerca sociologica, che si discute in altri contributi del volume, non riguarda solo gli spazi inerti, le zone opache, il tempo perduto, ma anche l’inatteso, il dono, la sorpresa. Questo passaggio è caratteristico anche nell’ultima poesia di Montale. Nella superficie dell’insignificanza si possono aprire improvvisamente squarci problematici, domande radicali: Prima del viaggio si scrutano gli orari, le coincidenze, le soste, le pernottazioni e le prenotazioni (di camere con bagno o doccia, a un letto o due o addirittura un flat); si consultano le guide Hachette e quelle dei musei, si cambiano valute, si dividono franchi da escudos, rubli da copechi; prima del viaggio s’informa qualche amico o parente, si controllano valige e passaporti, si completa il corredo, si acquista un supplemento

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158 di lamette da barba, eventualmente si dà un’occhiata al testamento, pura scaramanzia perché i disastri aerei in percentuale sono nulla; prima del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che il saggio non si muova e che il piacere di ritornare costi uno sproposito. E poi si parte e tutto è OK: e tutto è per il meglio e inutile. E ora che ne sarà del mio viaggio? Troppo accuratamente l’ho studiato senza saperne nulla. Un imprevisto è la sola speranza. Ma mi dicono ch’è una stoltezza dirselo. (Ibid., p. 390).

Come si può vedere, la domanda bruciante nasce sotto l’accumulo delle operazioni ovvie, scontate. Il grande viaggio, l’ultimo viaggio, emerge alla fine dei preparativi rituali per un viaggio fra tanti. Le azioni neutre aprono le porte all’interrogazione ultima e grave che si ritaglia semplice e severa a interrompere la consuetudine ripetitiva. Simone Weil scriveva: «Considerare sempre le piccole cose come prefigurazione delle grandi» (Weil, 1991, p. 184). Ora, questo mi sembra il contributo che dall’ultimo Montale viene alla nostra ricerca. Se lo scandaglio poetico si immerge nelle penombre di un parlare a mezza voce, rilevando il peso della banalità quotidiana, la sequenza dei movimenti che non portano da nessuna parte, delle situazioni in cui il gesto umano ricade su se stesso; se tutto questo avviene, è perché dal fondo qualcosa si sollevi dal grigiore, qualcosa torni a balenare: un’intuizione, una possibilità, una verità conquistata. Al 1979, due anni prima della morte del poeta, risale una poesia enigmatica, dal titolo Ho tanta fede in te, dedicata forse alla donna che era stata la musa ispiratrice degli anni Trenta e la cui traccia non si è ancora estinta nella memoria del poeta. Quasi certamente questa poesia ha per oggetto la morte ormai prossima, l’incenerimento. Ma un lampo l’attraversa nella conclusione. Un lampo che fa balenare un riscatto ultimo, un’inversione, un improvviso scaturire di vita: So che oltre il visibile e il tangibile non è vita possibile, ma l’oltrevita è forse l’altra faccia della morte che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.

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[...] Ho tanta fede che mi brucia; certo chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere senz’accorgersi ch’era una rinascita. (Montale, 1984, p. 712).

I poeti sono gli unici che oggi parlano di vita e di morte. Proprio perché di ritorno dai meandri dell’insignificante, il poeta può rompere la crosta del discorso perplesso e disilluso e aprire un varco alle ipotesi che si ritenevano escluse. La ricerca si può così rovesciare: negli interstizi dell’insignificante può apparire il significato. La strada lunga che si è percorsa non è stata inutile: quando le vie brevi sono interrotte, bisogna ritentare lungo sentieri tortuosi e malagevoli. Solo alla fine sapremo se il lungo viaggio valeva la pena che è costato. Bibliografia Montale E. (1984), Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, I Meridiani, Mondadori, Milano. Weil S. (1991), Quaderni, I , Adelphi, Milano.

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IL

CONSUMO INTERSTIZIALE DI TELEVISIONE

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Piermarco Aroldi

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Premessa: tempo, spazio e consumo televisivo È stato spesso osservato come l’unità di misura del consumo televisivo sia il tempo. A differenza di molti altri media, infatti, l’offerta televisiva non si articola in prodotti culturali dotati di una loro oggettualità (come nel caso dell’editoria tradizionale o della discografia, dove il consumo è quantificabile in copie vendute) né in circuiti distributivi il cui accesso sia vincolato dall’acquisto di un biglietto (come il cinema o la musica dal vivo); i dati quantitativi relativi al numero di abbonamenti1, al possesso dell’apparecchio2 o al numero di telespettatori3 sono indicatori di un’audience potenziale che ha estensione quasi pari alla popolazione nazionale, ma dicono molto poco dei reali comportamenti di consumo dei diversi pubblici che si articolano, giorno per giorno, davanti al piccolo schermo. La natura domestica, di flusso e apparentemente gratuita della tecnologia televisiva (soprattutto di quella generalista) tende ad assimilarla a un servizio sempre disponibile al consumo che, di fatto, è misurato soprattutto in base al tempo che si dedica al mezzo. Molto più significativi sono, da questo punto di vista, i dati relativi al tempo mediamente dedicato ogni giorno alla televisione come attività primaria o secondaria: come è stato più volte osservato, sia in prospettiva amministrativa, sia in sedi di ricerca istitu16.000.000, pari all’80% delle famiglie italiane, stando ai dati Rai. Il 95,8% delle famiglie italiane possiede almeno un apparecchio secondo il Censis. 3 Secondo l’Istat il 93% della popolazione maggiore di tre anni guarda abitualmente la Tv; Auditel registra 45.000.000 di spettatori in un giorno medio, considerando, però, spettatore ogni persona che consumi almeno un minuto di televisione. 1 2

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162 zionale, infatti, la Tv costituisce la terza attività quotidiana dopo il sonno e il lavoro, ma anche in questo caso per conoscere realmente i comportamenti di consumo dei suoi pubblici è necessario dotarsi di strumenti più raffinati. A partire dagli anni Ottanta, la ricerca sull’audience televisiva ha progressivamente adottato una metodologia qualitativa, di tipo etnografico, fondata su tecniche di rilevazione quali l’osservazione partecipante e l’intervista biografica, che hanno permesso di acquisire dati utili a una descrizione più dettagliata della fenomenologia del consumo televisivo. Un tratto caratterizzante questa fenomenologia potrebbe essere riassunto così: a fronte di una sostanziale continuità spaziale che raccoglie il consumo di televisione entro l’unità domestica (seppure disarticolandolo e riarticolandolo intorno ai molti apparecchi che popolano le diverse stanze delle nostre case, con quanto ne consegue in termini di ridefinizione delle geometrie relazionali interne alla famiglia), la discontinuità temporale frammenta il flusso costante dell’offerta in una moltitudine di microatti di consumo dalle durate variabili, in competizione con altre attività che si sovrappongono o si elidono a vicenda, e che spesso dipendono, in modo imprevedibile, dalla contingenza quotidiana. Nel quadro di questa complessità temporale, la categoria degli interstizi può rappresentare uno strumento concettuale utile non solo a descrivere meglio il fenomeno, ma anche a suggerire qualche spunto interpretativo; le prossime pagine intendono dunque verificare questa ipotesi nel tentativo di evidenziare la dimensione interstiziale di parte del consumo televisivo. Stili di visione e interstizi Facendo riferimento alla categoria degli interstizi intendo isolare, all’interno della fenomenologia del consumo televisivo, quelle forme e quelle modalità di visione che possano essere descritte nei termini di una pratica che sta fra altre attività dal punto di vista temporale, qualificandosi così come un «interstizio di primo livello» (Gasparini, 1998, 2002), come la sosta4 o l’attesa.

4 Il marketing tv parla, non a caso, di permanenza su un certo programma o canale per un certo tempo: se si può passare da un canale all’altro (lo zapping come passaggio metaforico nello spazio), la visione implica un sostare,

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163 A questo scopo il primo passo consiste nel ricordare i tre stili di visione (Lindlof, 1987, Lull, 1990) che sono stati identificati dalla ricerca etnografica sul consumo familiare di Tv e che hanno assunto le «etichette» di monitoring (monitoraggio), focused viewing (visione focalizzata) e idling. Il monitoraggio è forse lo stile più diffuso: si guarda la tv facendo altro, per esempio, i lavori domestici o i compiti, dedicandole attenzione parziale e saltuaria. Qui non c’è interstizio: due attività si sovrappongono, si elidono, s’intersecano. Il passaggio continuo da una all’altra è in realtà un variare dell’intensità dedicata ad entrambe, senza cesure o demarcazioni di confine sensibili, non solo all’osservatore esterno ma forse anche al soggetto. Probabilmente può rientrare in questo stile di visione anche la pratica di lasciare sempre acceso l’apparecchio per fornire un rumore di sottofondo, un brusio di voci amiche che tengono compagnia senza richiedere che si presti loro tempo o attenzione; in questo caso è il passaggio da una stanza all’altra che costituisce la soglia (spaziale e non temporale), ma – in linea con una lettura ambientale del fenomeno (Lull, 1980) – si tratta più di un modellamento in continuità del contesto fisico che della istituzione di veri e propri margini e cesure che autorizzino a parlare di interstizio. Il consumo televisivo può, invece, essere definito interstiziale nei restanti due stili, ma secondo due logiche differenti, una delle quali mi sembra più appropriata dell’altra: la visione focalizzata, caratterizzata da un’attenzione costante, si presenta, infatti, come un’attività vera e propria al pari di altre; se sta tra due attività, ci sta come ogni altra attività è inserita in una sequenza di azioni, scelte, operazioni e gesti quotidiani. Guardare un film in tv dopo cena e prima di andare a letto non è, dunque, propriamente interstiziale, tanto è vero che si inserisce in una programmazione, implica a volte progettazione (andare da Blockbuster, consultare la guida tv ecc.). Ovviamente la visione focalizzata può sempre tradursi in uno degli altri due atteggiamenti, scivolando nel monitoraggio a causa di un allentamento dell’attenzione o all’insorgere di urgenze contingenti, o degenerando nell’idling per una sorta di ritrazione della motivazione e dell’intenzionalità del soggetto; può, anche, essere frutto di entrambi, come consolidamento in attività vera e propria di una precedente condizione caratterizzata da attività concorrenti e simultanee o da assenza di intenzionalità di visione. Sotto certi almeno per quel tempo convenzionale che fa di ciascuno di noi uno «spettatore».

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164 aspetti può avere natura di soglia (tra la veglia e il sonno, per esempio, la coscienza e l’incoscienza, l’attività e il riposo, la sera e la notte, il reale e l’immaginario), ma più come un territorio da attraversare con maggiore o minore determinazione che come una vera e propria «terra di nessuno». A sua volta questa attività avrà delle soglie che la separano da quella che la precede e da quella che la segue. L’interstizio sarà da cercare lì, allora, per esempio nel passaggio simbolico (a volte più spaziale che temporale) tra una stanza e l’altra della casa, da un luogo all’altro della stessa stanza, con quanto di significato ogni luogo e ogni stanza si portano dietro in termini relazionali e valoriali. O nell’inafferrabile momento in cui si precipita dalla visione dello schermo a quella onirica del sonno. Il terzo stile di visione si definisce, come abbiamo visto precedentemente, idling, termine difficilmente traducibile: l’edizione italiana di Lull, 1990 (2003) lo rende con l’aggettivo futile, ma idle significa più ampiamente inattivo, disoccupato, ozioso, fannullone, indolente, vano, inutile; il verbo corrisponde a oziare, bighellonare ma anche girare a vuoto (proprio di un meccanismo che non ingrana), sprecare e sciupare il tempo5; Lull ne parla come di una situazione in cui «il coinvolgimento con la televisione è scarso, poiché la persona sta solo trascorrendo il tempo tra altre attività, e il ‘guardare’ la televisione è così una distrazione momentanea» (Ibid., 1990, p. 243; corsivo mio). L’idling è, dunque, per definizione interstiziale; può a sua volta manifestarsi nelle forme dello zapping (passaggio anche spaziale da un canale all’altro, da un flusso all’altro, paralleli e compresenti) o della permanenza casuale e rassegnata su «quello che c’è in Tv»; può arredare l’attesa (Gasparini, 1994, 1998) aspettando che inizi un programma oggetto di un progetto di visione focalizzata (il tg, la partita, il film…) o che venga il momento per compiere un’altra attività (mangiare, andare a letto, uscire di casa); può essere la degenerazione di un ascolto focalizzato e frustrato (legato alla sensazione di noia, alla delusione, al gap introdotto dalla pausa pubblicitaria) o l’imposizione di una sosta all’attività concorrente (ascolto intermittente, piccolo break rispetto alle faccende domestiche che si portano avanti contemporaneamente ecc.). Ma soprattutto può caratterizzare il consumo televisivo cui si ricorre per interrompere un’attività vera e propria anche quando non è prevista una pausa, come nel caso di 5 È forse possibile intravedere qui anche la seconda accezione di interstizio, quella di «secondo livello» che ha a che fare con i fenomeni marginali della vita sociale come il gioco, la perdita o la stoltezza (Gasparini, 2002).

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165 una sosta inserita ad arte durante lo studio pomeridiano, per allentare la fatica dello sforzo intellettuale prolungato6. Insomma, l’idling sembra uno stile di visione che facilmente occupa un interstizio, o perché in grado di accompagnare un’attesa rendendola meno gravosa, o perché può imporre una sosta.

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Interstizi e aspettative sociali di durata Con quali criteri scegliamo l’attività (o non attività) con cui arredare l’attesa? Con quali criteri scegliamo l’attività da interpolare in uno sforzo continuativo? Certamente agiscono dei criteri economici (basso costo dell’attività prescelta), pratici (la sua facile accessibilità, la compatibilità ambientale), etici/igienici (non nocività o nocività inferiore rispetto ad altre attività possibili), estetici (la sua piacevolezza). Già sotto tutti questi aspetti, è stato osservato, la televisione costituisce un’attività estremamente vantaggiosa: è (apparentemente) gratuita, ce n’è in abbondanza, è sempre accessibile senza uscire di casa, fa meno male di una sigaretta o di un caffè, è piacevole senza essere impegnativa. Ma, dato che stiamo affrontando un fenomeno caratterizzato da una condizione temporale, è anche sul versante del tempo che dobbiamo indagare: che arredi un’attesa o che imponga una pausa, che sia originario o degenerato da altri stili, l’idling (o comunque il consumo interstiziale) deve fare i conti con alcune questioni tipicamente temporali; tra i parametri di Zerubavel (1981), prima di tutti la durata. Proprio per questo motivo, può forse essere utile far interagire due «quasi concetti» come le aspettative sociali di durata (ASD) di Merton e la nozione di «interstizio». Come è noto, Merton definisce le ASD come «previsioni di durata temporale elaborate collettivamente o socialmente prescritte, inerenti a strutture sociali di diverso tipo» in grado di influenzare il comportamento sociale rivolto al futuro (Merton, 1984, p 176); non si tratterà qui di durate strutturali o istituzio-

6 Cfr. in proposito gli studi di Kubey e Csikszentmihalyi (Kubey, 1986, Kubey e Csikszentmihalyi, 1990) e, per l’Italia, di Delle Fave, Massimini, Borri Gaspardin (1993); da questi ultimi, in particolare, emerge con chiarezza l’abitudine di ricorrere alla televisione in quei momenti della giornata durante i quali la qualità dell’esperienza soggettiva è poco soddisfacente, proprio a introdurre una pausa «rigenerativa» rispetto ad attività intellettualmente impegnative come lo studio.

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166 nalizzate7, né di durate previste collettivamente8, quanto, piuttosto, di una forma di quelle durate predeterminate che «si riscontrano nei vari tipi di rapporti interpersonali e sociali» (Ibidem). Nell’ambito delle interazioni quotidiane, quanto durerà un’attesa o quanto far durare una pausa è frutto di ASD: processi di sincronizzazione sociale, aspettative tratte dall’esperienza, limiti di decenza, vincoli imposti dalla negoziazione familiare e così via contribuiscono tutti a definire la previsione di tali durate. La durata di questi interstizi quotidiani è dunque spesso socialmente limitata; come riempire segmenti temporali esigui intercalati tra un’attività e l’altra nel quadro di routine giornaliere spesso affannose? L’ideale è un’attività a basso investimento temporale, ritualizzabile in abitudini cristallizzate e potenzialmente sempre reversibile, o almeno dotata a sua volta di una durata estensibile o comprimibile a piacere. Cioè di un’attività la cui ASD sia meno vincolante di quella che governa la pausa o l’attesa interstiziale. Ecco che, anche dal punto di vista temporale, il flusso televisivo (Williams, 1974) si dimostra la risorsa ottimale: la sua disponibilità continua e la programmazione ricorsiva dei suoi palinsesti ne fanno una non-attività (idling, appunto) ritualizzabile e, nello stesso tempo, elastica. La sua microframmentazione testuale e, contemporaneamente, la sua fluidità (spot, promo, clip ma anche segmenti brevi di testi più ampi) garantiscono la possibilità di entrare e di uscire dalla programmazione in qualunque momento traendone comunque una soddisfazione (un piacere), e dunque di adattarne il consumo entro limiti eterodefiniti. La ASD indefinita della Tv (variabile da zero a infinito, sulla base di convenzioni di genere precise ma riducibile di fatto a qualunque frammento temporale si abbia a disposizione) la costituisce come il riempitivo ideale, vantaggioso in termini di economia dell’esperienza, di interstizi a durata (almeno inizialmente) limitata e talvolta definita da altri.

7 Quelle, cioè, «prescritte e sostenute dall’autorità e dal potere delle strutture in cui si trovano inserite» come i tempi di permanenza nelle organizzazioni o negli ambienti di formazione (Merton, 1984, p. 186). 8 Quelle, relativamente più incerte, «che influenzano il comportamento di coloro che sono socialmente legati» ad avvenimenti o movimenti collettivi (Ibidem).

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Due osservazioni per concludere La metafora del flusso suggerisce, a sua volta, l’acqua come immagine pertinente per descrivere il consumo di televisione; come l’acqua, infatti, tende a infiltrarsi in ogni interstizio accessibile, così fa la Tv: è pervasiva (più che invasiva), filtra attraverso le crepe, le fessure, le fratture minime della quotidianità. Percola, gocciola, si allarga come macchie di umidità sulle pareti delle nostre giornate. Fuor di metafora, ciò significa che se è vero che la Tv si inserisce facilmente nelle pieghe quotidiane tra un’attività e l’altra, altrettanto facilmente preme, poi, per allargare questi interstizi, espandendoli oltre la misura prevista. Se il consumo di televisione, come ricorda Silverstone (1999), è prima di tutto consumo di tempo (e la Tv è, alla lettera, passatempo, intrattenimento), non ci stupirà osservare come essa sia in grado di dilatarsi, occupando spazi (o, meglio, tempi) progressivamente maggiori. Questa osservazione, tra l’altro, può aiutare a spiegare fenomeni come la sistematica tendenza a sottostimare – in prospettiva autovalutativa – il tempo che dedichiamo ogni giorno alla televisione. Dal punto di vista che interessa in queste pagine è, però, un’altra la considerazione con cui vorrei chiudere. In una domanda, se, con de Certeau (2001), volessimo vedere nell’interstizio un luogo tattico, nel quale si può svolgere l’azione espressiva del soggetto capace di piegare alle ragioni personali i momenti di debolezza delle strategie istituzionali (e sempre che questa lettura regga un’analisi teorica un po’ più approfondita), come dovremmo valutare la capacità dell’apparato televisione di occupare non solo la vita quotidiana, ma anche i suoi interstizi, le pause e le attese che ritmano e interrompono le routine giornaliere di produzione e riproduzione? Dovremmo forse invertire le parti e la relativa connotazione del loro agire, come se, anziché essere i soggetti a operare «di contrabbando», giocando sulle faglie temporali che rivelano i punti di debolezza delle strategie (spaziali) con cui si esercita il potere, fosse l’istituzione Tv a rivelarsi capace di agire tatticamente, mimetizzandosi, occupando anche gli interstizi della vita quotidiana ed erodendo i pochi tempi-spazi di possibile resistenza dei soggetti ? E, d’altra parte, questa lettura non sarebbe coerente con altri fenomeni analoghi, caratterizzati dalla capacità delle istituzioni, soprattutto economiche, di andare a caccia di pubblici al di fuori dei propri territori tradizionali, quasi fossero dei bracconieri autorizzati? Cosa sono il guerrilla marketing, il marketing esperienziale o il marketing di nicchia se non il tentativo di colonizzare in profondità anche gli interstizi del mondo vitale? Cosa rappresenta l’installazione di schermi televisivi/pubblicitari lungo le banchine

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168 della metropolitana, volti allo sfruttamento economico anche del (minimo) tempo dell’attesa, se non questa ansia di non lasciare alcuno spazio/tempo impermeabile ai flussi della comunicazione? Se così fosse, e se questa dovesse rivelarsi una tendenza crescente della società del controllo, dovremmo allora segnalare nella stessa nozione di interstizio una possibile dimensione critica, un eventuale luogo di debolezza, di cedimento o di rottura della progettualità e della creatività del soggetto, un nuovo territorio di conquista; e, paradossalmente, proporne la tutela.

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Bibliografia de Certeau M. (1980), L’invenzione del quotidiano, tr. it. Edizioni Lavoro, Roma 2001. Delle Fave A., Massimini F., Borri Gaspardin M. (1993), «Televisione e qualità dell’esperienza quotidiana», Ikon, 26, pp. 81-110. Gasparini G. (1994), La dimensione sociale del tempo, Franco Angeli, Milano. – (1998), Sociologia degli interstizi. Viaggio, attesa, silenzio, sorpresa, dono, Bruno Mondadori, Milano. – (2002), Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma. Kubey R. (1986), «Television Use in Everyday Life: Coping with Unstructured Time», Journal of Communications, 36, pp. 108-123. Kubey R., Csikszentmihalyi M. (1990), Television and the Quality of Life. How Viewing Shapes Everyday Experience, Erlbaum, Hillsdale. Lindlof T. (a cura di) (1987), Natural Audiences. Qualitative reasearch of Media Uses and Effects, Norwood, Ablex. Lull J. (1980), «The social uses of television», Human Communication Research, 6, 3, pp. 197-209. – (1990), In famiglia, davanti alla Tv, tr. it. Meltemi, Roma, 2003. Merton R.K. (1984), «Le aspettative sociali di durata: studio di un caso di formazione di un concetto in sociologia», in Tabboni S. (a cura di) Tempo e società, Franco Angeli, Milano 1988. Silverstone R. (1999), Perché studiare i media?, tr. it. il Mulino, Bologna 2002. Williams R. (1974), Televisione, tecnologia e forma culturale e altri scritti sulla Tv, tr. it. Editori Riuniti, Roma 2000. Zerubavel E. (1981), Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, tr. it. il Mulino, Bologna 1985.

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PASSAGGI

E SOSTE NEL FILM COLAZIONE DA TIFFANY DI BLAKE EDWARDS

Concetta Cammarata e Miriam Visalli*

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I don’t want to own anything until I find a place where me and things go together. I’m not sure where that is, but I know what it’s like. It’s like Tiffany’s. Holly Golightly

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Tra gli interstizi Imperfettamente aderente al testo (e contesto) originale, la versione doppiata in italiano del discorso sopracitato di Miss Golightly – «non voglio possedere nulla finché non avrò trovato un posto che mi vada a genio» – ottunde l’accezione di pertinenza tra Holly e le cose: «where me and things go together» sottintende, infatti, uno spaziotempo interstiziale che intercorre tra Holly e le cose, tra Holly e gli oggetti del mondo. Colazione da Tiffany è una piccola storia, ben descritta nelle poche righe dell’abbozzo del racconto di Paul Varjak: «there was once a very lovely, very frightened girl. She lived alone except for a nameless cat». È la storia di uno dei «piccoli esseri umani analizzati da Blake Edwards» (Anchisi, in Bruno, 1997), inscritta in una monumentale Grande Mela, una New York dei grandi parchi, dei metalli splendenti dell’insegna di Tiffany & Co. in cui, nell’incipit del film, si riflettono i palazzi imponenti e solenni, nel silenzio di un’alba tersa, dai colori vividi e intensi della fotografia di Franz Planer1.

*L’articolo

è stato progettato in comune dalle due autrici. In particolare, Miriam Visalli ha scritto il primo paragrafo e Concetta Cammarata il secondo. 1 Nel trailer originale del film (B. Edwards, Usa, 1961) viene introdotta la storia ambientata «in the glittery shimmer of New York».

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170 Nella grandiosità del patinato macrocosmo metropolitano si inserisce il microcosmo di Holly, intessuto di interstizi spaziali e temporali2. La ricerca di una piccola felicità da parte di Holly, come agognato traguardo, soggiace alla fitta trama di mancanze/assenze, nuovamente asservibili alla dicotomia grande/piccolo, ma anche generale/particolare (o interstiziale). Uno dei principali dettagli mancanti del film è identificabile nella chiave del portone del palazzo in cui Holly e Paul abitano. L’oggetto chiave3 (smarrito da Holly e dimenticato da Paul), ma più precisamente la sua mancanza, innesca l’incontro tra i due personaggi nonché il racconto. Oltre a questa sua primaria funzione narrativa la chiave mancante rappresenta l’accesso negato verso alcune performanze, filtrate, a loro volta, da oggetti emblematici. – Il gatto senza nome4 così come l’appartamento solo parzialmente ammobiliato rivelano la mancanza di stabilità nella vita di Holly a favore di un vivere alla giornata, peculiare di un certo randagismo (cfr. nota 4). Se è vero, infatti, che «il gatto è un lembo del passato» (Ponzi, in Bruno 1997), è altresì attendibile considerarlo come un alter ego di Holly nel suo presente: la componente domestica del gatto è l’aplomb ricercato di Holly Golightly, cosmopolita alla moda, ormai in contrasto seppure stridente con Lula Mae Barnes, la «selvaggia malnutrita» e moglie quattordicenne di Doc, il veterinario che l’aveva accolta presso la sua fattoria. 2 L’analisi prosegue seguendo le suggestioni legate all’interstizio secondo il testo di Gasparini (2002). 3 Oltre a rimandare inequivocabilmente allo spazio interstiziale della serratura, la chiave suggerisce, proprio in virtù del suo contesto d’arrivo, una certa similitudine tra Holly e Alice nel paese delle meraviglie. Alice riesce a passare attraverso la serratura, dopo aver ingerito il liquido magico che la rimpicciolisce, e quindi a soverchiare la primaria funzione della chiave, non sostituendola né emulandola, ma assumendo lo status di mutaforme. Holly, pur non possedendo alcun oggetto magico, riesce a oltrepassare le simboliche soglie mutando abitudini, tratti caratteristici e umorali per ciascuna contingenza. 4 Nella versione italiana Holly si riferisce al gatto denominandolo «povero amore senza nome». Il testo originale, «poor slob without a name», rimanda, secondo una più accorta pertinenza, al campo semantico di stray, wanderer (randagio), come anticipazione del dialogo tra Holly e Doc alla stazione dei pullman a proposito della propensione di quest’ultimo a «trascinare» a casa animali selvatici feriti e bisognosi di cure, come nel caso di Holly stessa e di suo fratello Fred.

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– La decontestualizzazione degli oggetti d’uso nell’appartamento di Holly e, più in generale, la frequente percezione di commistione5 – a prima vista – ingiustificata, rimandano a una manifesta inclinazione al disordine come classicamente inteso, opposto all’ordine. Emblematico, a questo proposito, il telefono riposto nella valigia, trasformata in uno spazio acustico che attutisca il suono, un interstizio al riparo dalla comunicazione. Nella categoria del disordine si possono invece collocare i bagagli mai completamente disfatti, o meglio, solo parzialmente riempiti, nonostante sia trascorso un anno dal trasferimento di Holly a New York. Sempre in procinto di varcare frontiere, intraprendere nuovi viaggi, Holly enuncia, con il suo disordine, una mancanza di radici che trae origine dalla mancanza di stabilità – sopra citata – da cui il fondo di insoddisfazione generativo del perenne movimento assunto da Holly come status (Vaccino, 1979). Il disordine di Holly si evince già dall’incipit del film: soggetta a una sovversione cronobiologica la vediamo, infatti, ritirarsi all’alba e concedersi il meritato riposo costretta a indossare tappi per le orecchie e mascherina per gli occhi – due oggetti emblematici al riguardo – per sfuggire alle molestie dei rumori e della luce del giorno. – L’appartamento di Paul Varjak è perfettamente sovrapposto – architettonicamente – a quello di Holly e rivela d’essere soggetto agli stessi dettami del disordine. Nonostante appaia ordinato, la sua asetticità è facilmente riconducibile al gusto estetico della ricca signora Parenson, arredatrice – questa la sua identità asserita – di Paul. Più che ordinato, dunque, l’appartamento del giovane scrittore si delinea come privo di coinvolgimento emotivo. La mancanza di personalità dell’appartamento rivela del suo inquilino la stessa stringa di mancanze subite da Holly6. Scrittore di scarsa fortuna, Paul possiede una macchina da scrivere, ma priva del nastro per l’inchiostro, priva della sua

5 Mi riferisco, in particolare, alla variegata, bizzarra umanità invitata alle feste che Holly accoglie nel suo appartamento, così descritta da Roberto Vaccino: «piccole gemme ironiche: signori con bende sugli occhi, indossatrici snellissime che citano Shaw e la Dickinson […]». 6 Accomunati dalla stessa «professione» Holly e Paul devono le loro «fortune economiche» a stravaganti Pigmalione. Audrey Hepburn anticipa qui, cinematograficamente, il personaggio di Eliza Doolittle, la rozza fioraia trasformata in dama dell’alta società dal professor Higgins, il vero Pigmalione di Gorge Cukor (My Fair Lady, USA, 1964).

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172 anima, della sua funzione deputata, proprio come uno scrittore cui manchi (o abbia sopito) la capacità creativa. – Nei due appartamenti ritroviamo, oggettivata, la grande mancanza che accomuna i due inquilini: è la mancanza della vagheggiata libertà. Nell’appartamento di Holly vediamo, infatti, una gabbia dorata in cui campeggia Polly7, un pappagallo impagliato. A casa di Paul la gabbia è una tenda di corde, ma che pare metallica, che separa la stanza da letto dallo studio. Entrambi imprigionati in un percorso circolare, cercano la fuga dai loro appartamenti e negli appartamenti stessi, attraversandoli, sostandovi come in una sorta di non-luogo, un interstizio spaziale e temporale, come «personaggi a disagio nel posto che occupano, sognano un opportuno dimenticatoio» (Ponzi, in Bruno 1997). Come precedentemente accennato, la chiave mancante innesca il processo narrativo attraverso una serie di passaggi e soste interstiziali, inscritte in una più ampia dinamica di interno/esterno, come vi si inserisce il percorso dei personaggi. Si prenderanno in considerazione sei dei luoghi attraversati, tre interni – il vano compreso fra le due porte d’ingresso, i due appartamenti di Holly e Paul – cui corrispondono tre luoghi esterni – il grande magazzino, Tiffany, la biblioteca. Ciascuno di essi assume la valenza di luogo interstiziale inserito in un iter generativo degli oggetti, cui si lega quello dei personaggi e delle loro azioni secondo le due accezioni suggerite da Gasparini (2002, p. 7): «la prima, in senso proprio, concerne appunto uno ‘stare fra’ in termini spaziali, temporali o anche comunicazionali, come ad esempio nel caso del viaggio, dell’attesa, del silenzio (interstizi di primo livello); la seconda, in senso lato, allude al carattere di eccezione rispetto alla norma, all’intersizialità in quanto marginalità e scarsa visibilità di un fenomeno o realtà sociale, come nei casi illustrati a suo tempo della sorpresa e del dono (interstizi di secondo livello)» (Gasparini, 1998, pp. 171-174). Il primo dei luoghi in questione è lo spazio compreso tra il portone principale e la porta che consente l’ingresso sulle scale che conducono agli appartamenti. Si tratta di una sorta di intercapedine, un interstizio di primo livello, e legato al concetto di passaggio in una accezione di carattere temporale. Quel luogo del transito che separa la città dall’abitazione si riveste di una doppia connotazione: è limen, 7 Cinica banalità nel nome scelto per il pappagallo imbalsamato: Polly, in cui – facilmente – si intrecciano i nomi dei protagonisti (Pol: Paul e Olly: Holly).

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173 soglia transitabile, ma – più spesso – è limes, inteso come limite il cui valico risulta arduo o impraticabile. A Holly, infatti, occorre sempre la mediazione di una seconda persona che le permetta di oltrepassare il portone d’ingresso, non possedendone lei le chiavi. È in questo modo che quel luogo di passaggio, quella soglia-ostacolo, si carica dell’ulteriore accezione di frontiera che rappresenta «il punto nevralgico, reale non meno che simbolico, della fase interstiziale, di quella transizione tra due mondi» (Gasparini, 2002, pp. 24-25) che Holly e Paul hanno intrapreso. La frontiera è anche il luogo del controllo dell’identità. A presidiare quel luogo di verifica ritroviamo, nel film, una sorta di cantoniere8. Il guardiano in questione, la sentinella è Yunioshi, l’inquilino – fotografo – giapponese dell’ultimo piano. È a Yunioshi che Holly si rivolge, suonando al suo citofono in orari improbabili. Ed è Yunioshi ad accoglierla, a ogni rientro, pronunciando il suo nome, per meglio dire tuonando un adirato «Miss Gorightly», sempre visibilmente collerico ed esasperato dall’abitudine di Holly di smarrire la chiave del portone. È indicativo che – nella versione originale in lingua inglese – Yunioshi pronunci realmente in modo errato il cognome di Holly, quasi a voler accentuare il carattere artefatto della giovane donna9. Così come è singolare che il guardiano-Yunioshi sia di nazionalità straniera, fattore che, se da un lato rimanda alla già citata commistione di alterità (vedi nota 5), dall’altro enfatizza l’idea di terra straniera, di «oltre» al di là del confine. Discostandosi dall’accezione di interstizio di primo livello sino a qui descritta, ci si occuperà dello stesso spazio – il vano tra le due porte – non più come luogo di passaggio, bensì come luogo della sosta. Secondo Gasparini la sosta è in evidente rotta di collisione con la velocità: è l’interruzione di ritmi veloci che tendono ad abolire gli interstizi temporali. Seguendo questo iter, il luogo qui preso in esame acquisisce l’accezione di interstizio di secondo livello, pur rimanendo indissolubilmente intrecciato – nel processo di significazione dell’attesa – all’accezione interstiziale di primo livello. Holly e Paul sostano nel vano tra le due porte in più di una occasione. Esso

8 Definibile «cantoniere» in quanto il personaggio in questione richiede a Holly di pagare un pedaggio. Le chiede, infatti, sistematicamente – come si evince dai dialoghi – di poter realizzare un servizio fotografico la cui modella dovrà essere proprio Holly. 9 Come accennato nella nota 3, Holly assume lo status di mutaforme. A seconda del suo interlocutore Holly muta anche nome: è Miss Gorighly, come nella contingenza che la lega a Yunioshi, Miss Golightly naturalizzata newyorkese, o ancora Lula Mae Barnes secondo Doc.

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174 è il luogo in cui vengono parzialmente risolte alcune delle mancanze precedentemente descritte, sempre tramite l’utilizzo o la descrizione di alcuni oggetti emblematici. Primo fra questi, la buca delle lettere che, investita di molteplici utilizzi, modifica sia il valore di passaggio mutandolo in sosta, sia l’azione del passante, divenuto utente empirico10. La buca delle lettere, nel corso del film, non è quasi mai citata – verbalmente o visivamente – nel suo preciso scopo funzionale. Holly la utilizza, piuttosto, come contenitore: vi conserva il necessario per il maquillage che utilizza prima di uscire, per completare la sua maschera sociale; vi ripone il nastro per la macchina da scrivere di Paul, corredato di un biglietto di scuse e di invito «per un drink». Lo spazio tra le due porte diventa così non solo il luogo della sosta, ma anche del dono e della corrispondenza (il nastro per l’inchiostro e il biglietto), vale a dire dei casi legati ai fenomeni interstiziali di secondo livello. La lettera e il dono rappresentano un momento analogo: l’una come l’altro sono la messa in atto della «esigenza individuale di porre in essere una comunicazione con un’altra persona» e presuppongono un interstizio che è insieme spaziale, la distanza tra mittente/emittente e destinatario/ricevente, nonché temporale, ossia l’attesa della risposta (Gasparini, 2002). È quest’ultimo – quello dell’attesa – l’aspetto maggiormente legato alla circostanza esaminata nel film: chi scrive una lettera o offre un dono si aspetta qualcosa da chi riceve, pone in essere un’attesa nel senso di aspettativa e l’incertezza della risposta costituisce l’ulteriore interstizio. L’aspettativa di Holly sarà duplicemente – e su più livelli – appagata: Paul corrisponderà la sorpresa donandole il suo primo romanzo (Nove vite di Paul Varjak, che Holly riporrà nella sua libreria – in cui non vi sono libri – come complemento d’arredo) e, grazie al nastro ricevuto in regalo, scriverà nuovi racconti, ritrovando l’impulso creativo perduto che gli permetterà di interrompere la relazione con la signora Parenson e riacquistare l’agognata indipendenza. Il biglietto di Holly, dunque, rappresenta una forma di comunicazione differente che, associato al dono, consente una ulteriore e analoga forma comunicativa rinvenibile nei nuovi racconti di Paul. Oltrepassata la soglia di cui fino a ora discusso, il percorso dei personaggi prosegue – nelle due direzioni – da una parte verso gli appartamenti già precedentemente descritti, dall’altra verso la città 10 Secondo Michela Deni «l’Utente empirico è chiunque usa effettivamente l’oggetto e può farlo anche con scopi che, apparentemente o meno, non hanno niente a che fare con l’oggetto stesso (usare una sedia come tavolino, una scarpa come martello ecc.)».

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175 e, nella fattispecie, verso i tre luoghi paradigmatici della dinamica interno/esterno, quali Tiffany, la biblioteca e il grande magazzino. Il recarsi presso i tre luoghi citati da parte dei due personaggi rappresenta la fruizione di un gioco ideato da Holly: ognuno di loro dovrà compiere un gesto, un’azione mai realizzati in precedenza. Tiffany è il luogo rappresentativo di Holly: «io vado pazza per Tiffany […]. Quel silenzio, quell’aria solenne… lì non può accaderti niente di brutto. Se io trovassi un posto a questo mondo che mi facesse sentire come da Tiffany, comprerei dei mobili e darei al gatto un nome». Vi si reca con Paul – secondo la regola del gioco – che non è mai stato nel negozio di gioielli per eccellenza in cui farà incidere l’anello che donerà ad Holly, trovato come sorpresa in una scatola di Cracker Jack11. Analogamente, la biblioteca rappresenta il luogo caratterizzante Paul. Holly, durante questa sua prima visita in biblioteca, ricerca nello schedario il libro di Paul stupita ed entusiasta, come rovistando in una scatola di giocattoli, a testimonianza della mal celata scarsa familiarità nei confronti del luogo di Paul. La terza tappa è il grande magazzino, il luogo della prova: entrambi dovranno rubare un oggetto (le due maschere di cane e gatto dalle fattezze «cartoonesche»), per non perdere l’allenamento nella pratica del piccolo furto, come Holly, o per osservare la regola del gioco, come nel caso di Paul. Il tragitto cittadino intrapreso da Holly e Paul, dunque, rappresenta una sorta di percorso ludico attraverso le tappe di un gioco e, pertanto, un ulteriore fenomeno interstiziale. A questo proposito e dalla definizione di homo ludens tratteggiata da Huizinga12, Gasparini osserva che «l’esplorazione del giocare appare giustificata e legittimata in un contesto di analisi dei fenomeni interstiziali, dal carattere marginale ed eccezionale del gioco rispetto alle logiche di razionalità e di serietà dominanti nella società» (Gasparini, 2002, p. 70). Così, gli oggetti emblematici dei tre luoghi esplorati rimandano a una più ampia correlazione ai fenomeni interstiziali: le mascherine rubate nel grande magazzino sono oggetti tipicamente ludici; il libro consultato in biblioteca rimanda al momento del dono dello stesso libro da parte di Paul a Holly; infine l’anello, con la sua duplice pertinenza all’ambito del dono (è l’a-

11 Pop corn glassato, storico snack nella cui confezione (tutt’ora) vi è in regalo una piccola sorpresa. 12 «Per Huizinga il gioco può essere definito come un’attività libera che esula dalla vita ordinaria, circoscritta entro certi limiti di tempo e di spazio, dotata di una propria finalità e accompagnata da sensazioni di tensione e gioia» (Gasparini, 2002, Huizinga, 1953).

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176 nello che Paul desidera regalare ad Holly) e della sorpresa (è la sorpresa della scatola di Cracker Jack). Proprio quest’ultimo oggetto emblematico suggerisce la riflessione conclusiva. L’anello compare, per la prima volta, nel settimo luogo del film, o per meglio dire, nel suo non-luogo: il parco. Insieme al suo oggetto correlato, la panchina, il parco corrisponde – secondo Gasparini – a una valorizzazione della sosta in quanto fenomeno interstiziale, atto a simboleggiare l’esperienza del sostare. In una New York che, peraltro, già pare immobile, Paul e Doc si incontrano nel parco, sedendo uno accanto all’altro, su una panchina. È il momento del dono della sorpresa: Doc regala a Paul la sorpresa contenuta nella confezione di Cracker Jack, l’anello che farà incidere – per Holly – da Tiffany, simbolo del percorso circolare intrapreso da Holly che, fuggendo dalla sua vita passata, dalla sua vita attuale, dalla gabbia che i legami rappresentano, genera un vano tentativo di fuggire da se stessa, dal momento che è già imprigionata nella temuta gabbia da lei stessa edificata. L’anello, infatti, oggettualizza il dialogo avvenuto nel parco e successivamente ripreso dallo stesso Paul, in taxi, quando Holly è decisa a intraprendere comunque il viaggio in Brasile, nel finale del film: «you know what’s wrong with you, MISS WHOEVER-YOU-ARE?13 You’re a chicken [...] You call yourself a free spirit, a wild thing. You’re terrified somebody’s going to stick you in a cage [...] You’re already in that cage. You built it yourself... It’s wherever you go. Because no matter where you run, you end up running into yourself». Un finale che, come spiega Roberto Vaccino parafrasando Northrop Frye, «non è semplice riconciliazione, nè ritorno all’equilibrio di partenza». La novella di Truman Capote, da cui l’adattamento cinematografico di Edwards, si conclude con la partenza di Holly per il Brasile. Comunemente associato alla libertà personale, al desiderio di conoscere l’inesplorato, il viaggio rappresenta una ulteriore esperienza interstiziale nell’essere riconducibile allo schema – elaborato da Van Gennep (1981) – delle tre fasi dei riti di passaggio quali separazione, transizione e reintegrazione. La fase centrale, la transizione – la più interstiziale in quanto legata all’attraversamento (anche materiale) di una soglia – costituisce certamente la fase che, con maggiore aderenza, caratterizza Holly Golightly.

13 Assente nella versione doppiata in italiano, l’espressione «Signorina Chiunque Tu Sia» rimanda alle molteplici identità assunte e costantemente cercate da Holly.

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La fase intermedia del viaggio rappresenta, nella sua peculiarità transitoria, il superamento di un confine, diegeticamente reso nel film dalle porte descritte nel paragrafo precedente: «Tra due stati, tra due universi, tra il conosciuto e lo sconosciuto, tra la luce ed il buio, tra il possesso e la privazione, sta la porta, ad accennare un mistero che nell’aldilà o nell’altro viene celato. Simbolo e momento del rito iniziatico che segna o prelude, la porta invita a superare quel mistero che essa stessa indica»14. La porta, dunque, come recinto divide spazio ed esperienza, si configura nella transizione che sottintende una trasformazione in atto, stato transitorio, appunto, nel caso di Holly che – come accennato in nota 3 – assume lo status di mutaforme, fino a trasfigurare se stessa in «oggetto ludico», come specificato nel paragrafo che segue.

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Giochi a colazione. Da Tiffany L’epifania filmica di Audrey Hepburn nella prima sequenza di Colazione da Tiffany non tarda a svelare il bluff sottile che configura l’ambiguità del suo personaggio. Se Holly si offre all’apparenza come una ragazza di alta classe, nel lungo abito nero a tubino rigorosamente firmato Hubert de Givenchy15, la sua colazione al sacco, consumata con ironia contemplativa davanti alla vetrina/specchio di Tiffany & Co, riconduce immediatamente alla dimensione infantile e istintiva della giovane donna, oltre a introdurre in modo elegantemente didascalico l’opposizione fra le grandi cose, ascrivibili alla solennità della New York metropolitana e le piccole cose, simboleggiate dall’insolito contrasto estetico della protagonista. «Ciò che gli piace del soggetto – ammette Roberto Vaccino a proposito del regista Blake Edwards – è […] la complessità del segno Holly, quel fondo di insoddisfazione che la rimette sempre in movimento e la lascia in continua transizione. […] Nella ragazza inadattabile, fragile, incapace di chiarirsi agli altri e a se stessa

Chevalier J., Gheerbrant A., Dictionnaire des symboles, in Caprettini (1975). Roberto Campari analizza l’immagine della Hepburn: «[…] a Hollywood capiscono, alla Paramount, che la strada della nuova star va strettamente collegata all’alta moda, non a quella di una costumista pur brava come Edith Head, che aveva disegnato i vestiti di Sabrina, ma proprio all’alta moda francese nella persona di Hubert de Givenchy (d’ora in poi stilista di tutti i film dell’attrice)». (Campari, 1985, p. 198). 14

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178 Edwards ritrova la concretezza del contrasto tra il sogno e l’esperienza, quell’aculeo di marginalità che gli interessa e che riemerge sempre» (Vaccino, 1979, pp. 46-47). Proprio in un equilibrio equidistante (e a volte instabile) tra il sogno e l’esperienza va a collocarsi la dimensione spontanea del «gioco», che diventa un’ideale chiave di lettura del percorso filmico di Holly Golightly, negli snodi progressivi tra mondo apparente e universo intimo. Se nella lingua italiana il senso del gioco ha più che altro accezione ludico/categoriale, il francese jouer e l’inglese to play rimandano anche all’atto della recitazione, e accolgono nel personaggio di Holly tutte le sfaccettature mimetiche che la Hepburn gli sa conferire. Interprete e personaggio diventano inscindibili, rendendo esclusiva l’intensità delle loro reciproche interrelazioni. «Il viso di Audrey Hepburn – precisa Roland Barthes – […] è individualizzato non solo nella sua tematica particolare (donna-bambina, donna-gatta) ma anche dalla sua persona, da una specificazione quasi unica del viso, che non ha più nulla di essenziale ma è costituito da una complessità infinita delle funzioni morfologiche. Come linguaggio, la singolarità della Garbo era di ordine concettuale, quella di Audrey Hepburn è di ordine sostanziale. Il viso della Garbo è Idea, quello della Hepburn è Evento» (Barthes, 1962, p. 62). L’idealità cinematografica, che attraverso l’evento Hepburn concretizza in immagine il personaggio di Truman Capote, più che in una corrispondenza analogica va ricercata nelle pieghe sottili, nelle digressioni comportamentali, nel desiderio d’evasione che caratterizzano la protagonista. Il Doc del romanzo, il marito-padre abbandonato, fornisce involontariamente una giustificazione del «punto di fuga» dal libro al film, nel momento in cui ammette: «L’adoravamo, tutti quanti. Non doveva alzare un dito, se non per mangiare una fetta di torta. Se non per pettinarsi o per mandare a comprare le riviste. Dovevamo avere centinaia di dollari di giornali in casa. E, se volete il mio parere, è stato proprio questo il guaio. Guardare le foto delle dive» (Capote, 1959, p. 82). Diffrazione speculare, seduzione del doppio, e sintesi interpretativa. La provinciale Lula Mae Barnes si emancipa in Holly Golightly per materializzarsi in una Audrey Hepburn che riesce a restituire il personaggio al suo desiderio di fondo, giocandone, appunto, il ruolo nella mise en abîme tra bimba capricciosa e ragazza copertina. In Holly/Audrey la bambina e l’icona convivono autonomamente, e rispondono in maniera armonica a una dialettica oggettiva che le connota distintamente.

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Le cose di Holly/bambina appaiono decontestualizzate poeticamente nella loro funzione, e vanno a costellare un universo privo di regole: il latte viene bevuto in una coppa di champagne, così come lo champagne nella tazza del latte, i tappi per le orecchie hanno il decoro di un paio d’orecchini, il divano è inserito in una vasca da bagno, i belletti sono riposti nella buca delle lettere, il telefono nella valigia, accordandosi al suo stato perenne di fretta, di smemoratezza e di incoerenza. Le cose di Holly/icona appartengono al modello di un’attrice che trasforma fretta, smemoratezza e incoerenza in grazia coreografica. La star conferma la sua ascendenza mitica, espressa in una solennità miniaturizzata, il personaggio, sganciandosi da essa, rientra nella dimensione dell’inquietudine, ed è agito nella linea di confine tra ciò che appare e ciò che si nasconde nell’ineffabilità malinconica della frivolezza. Il meccanismo drammaturgico di Edwards rispetto alla sua protagonista sembra il pre-testo, l’anticipazione filmico/ludica dell’allora emergente mondo di Barbie16. Holly si sottopone con molto

16 La prima Barbie fu creata da Mattel nel 1959. La data di nascita ufficiale è il 9 marzo. La sua storia però era iniziata due anni prima: infatti nel 1957 Ruth Handler, una dei fondatori di Mattel, ebbe l’idea di una bambola che fosse il simbolo della purezza e dell’innocenza, e le diede il nome. Barbie si ispirava al personaggio di un fumetto che dal 1952 veniva pubblicato in Germania. Si chiamava Lilli, era disegnata da O.M. Hausser e rappresentava una ragazza troppo disinvolta ed emancipata. In Germania venivano prodotte anche delle bambole che rappresentavano Lilli, e fu proprio durante un suo viaggio in Germania che Ruth Handler conobbe Lilli. Ne acquistò tre esemplari e, una volta tornata in America, rielaborò la bambola per creare la ingenua e innocente che noi conosciamo, l’opposto della originaria Lilli. Ruth e Elliot Handler diedero così inizio alla lunga storia di Barbie, che giunge fino ai giorni nostri. La prima bambina che giocò con Barbie fu Barbara, la figlia di Ruth e Elliot, dalla quale la bambola prese il nome. Le dimensioni di Barbie corrispondevano ad 1/6 di quelle di una persona, ma alcune delle sue proporzioni sono state aggiustate per facilitare la produzione dei suoi vestiti. Il nome completo di Barbie è Barbara Millicent Roberts. Nel 1961 la Mattel creò Ken, l’amico-fidanzato, per soddisfare le richieste di chi vedeva in Barbie una ragazza troppo sola, che non rientrava nel modo di essere delle donne americane di allora. Ken fu chiamato con il nome dell’altro figlio di Ruth e Elliot Handler. Il cognome di Ken è Carson. Il primo cambiamento importante nell’aspetto di Barbie avvenne nel 1967, quando furono aggiunte le ciglia e il movimento rotatorio del busto. Questo fu il primo di una serie di meccanismi che sono stati aggiunti ai vari tipi di per permetterle di

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180 compiacimento a numerosi cambi d’abito, ama camuffare sé e le cose, ama giocare mentre agisce, magnificando la sua leggerezza fisica e psicologica. Ogni tassello narrativo trova nel gioco una motivazione attendibile, segnando un punto di rottura nella fabula elaborata sulle variazioni della commedia sentimentale. Il meccanismo ludico costante consente a Holly di giustificare est-eticamente le sue azioni, scaturite in forma spontanea dalle fantasie di bambina; il meccanismo della messa in scena consente alla sua interprete di ostentare l’immagine della sophisticated lady nell’ingigantimento ironico e autoriflessivo del glamour altoborghese degli anni Sessanta. Holly gioca alla sfida con il vicino di casa, gioca in società nell’allegro party dato per gli amici, gioca al lavoro con Sally Tomato, gioca a fare la moglie/madre in Texas, gioca mentre ruba nei grandi magazzini, gioca a sposare un miliardario, gioca a fare la maglia, gioca a cucinare, o a cambiare l’arredo del suo piccolo appartamento modulato sui criteri di una casa smontabile, dinamica e sempre provvisoria. L’unico luogo in cui non gioca è Tiffany. Tiffany si configura nei suoi confronti in modo unico. Ella infatti, più che il desiderio concreto del possesso, cerca nella mitica maison della Fifth Avenue una dimensione astratta del proprio benessere psicofisico. Si muove tra le vetrine splendenti come un pesciolino rosso (lo stesso colore del suo soprabito) che non prova il desiderio di entrare in un acquario meraviglioso, forse perché avverte inconsciamente che la profondità marina è un’altra cosa… L’unica persona con cui non gioca è Paul. Paul gode nei confronti di Holly di un’esclusività sentimentale che cresce a ritmo di climax classico. Quando, a causa del dolore per la morte del fratello Fred, il gioco non potrà più assolvere alla funzione di rifugio e protezione, Holly imploderà nell’amore. L’anellino che Paul fa incidere per lei è quella piccola cosa che racchiude il senso completo della storia. Poiché non è citato nel romanzo, diventa importante nella referenzialità peculiare al film. «svolgere» attività sempre diverse. Nel 1971 cambiò ancora di più: fino ad allora veniva rappresentata con gli occhi rivolti di lato ed in basso, e questo le dava un aspetto sottomesso che bilanciava le forme procaci e provocanti. «Malibù» fu la prima con lo sguardo diretto in avanti! (Cfr. www.joynet.it).

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Esempio spicciolo di fusione tra il vero e il falso17, la piccola sorpresa del pacchetto di croccantini diventa il simbolo della casualità incisiva che gioca sul destino di Holly. Trovato da Doc e carpito da Paul, si esprime attraverso le parole del gioielliere di Tiffany come «[…] una cosa che dà un senso di fiducia, […] di continuità fra il passato e il presente». Il piccolo oggetto rimanda alla peculiarità semantica dell’inappartenenza, o dell’appartenenza casuale, sempre camuffata dall’apparenza. Imprigionato in una scatola di Cracker Jack, evade involontariamente dal macrocosmo consumistico della quantità e del bisogno ed entra per caso (e forse per fortuna) nel macrocosmo consumistico della qualità e del lusso. Se l’accordo della forma lo conduce legittimamente nel luogo ideale del film, la sua sostanza lo porta a materializzarsi nella natura snaturandosi nella materia, riconfermando i livelli dicotomici di armonico/distonico propri all’isotopia semiosostanziale della vanità e dell’identità, i cui plusvalori aggiunti sono sempre regolati da una convenzione. L’espediente che lega Holly all’anello innesca nella storia un meccanismo che situa a un livello più profondo la trasformazione del personaggio, proprio perché l’imprimatur di Tiffany lo conduce metaforicamente dalla sregolatezza alla sicurezza. Questa casuale liaison potenzia l’intensità della sequenza introduttiva, conferendo a Holly una sorta di «agnizione» con il suo luogo ideale, e rimarcando ancora la sua apparizione mitica, inscritta nell’indimenticabile disarmonia tra l’abito e il gesto. La prima Barbie della serie «Celebrity Dolls»18, che raffigura proprio Holly, universalmente inconfondibile nel suo tubino nero, i guanti e la stola bianca, è un esempio significativo di riproducibilità che esalta la materia attraverso la forma.

Tra le piccole cose che incidono sui destini individuali, interessanti a tal proposito sembrano le analogie «a tiro incrociato» con due racconti di Maupassant, in cui la poetica dell’accessorio discrimina sulle alternanze classiche di vero/falso, realtà/apparenza: se nel racconto La collana M.me Loisel rovina il suo futuro per ripagare una collana prestatale da un’amica e poi perduta, poiché la credeva di diamanti veri, al contrario, nel racconto I gioielli M.me Lantin compra gioielli autentici spacciandoli per falsi, offrendo involontariamente al marito, alla sua morte, una ricca eredità (Maupassant, 1968). 18 Cfr. www.ilmaestro.it. 17

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182 Il volto/evento di Audrey Hepburn, concedendosi alle necessità di bambola, ne nobilita la sostanza, e fonda una moderna commistione mitica. «La plastica – precisa ancora Barthes – è l’idea stessa della sua infinita trasformazione è […] una materia miracolosa: il miracolo è sempre una conversione brusca della natura […] il sogno dell’uomo davanti alle proliferazioni della materia, davanti ai legami che egli coglie tra il singolare dell’origine e il plurale degli effetti» (Barthes, 1962, pp. 153-154). Raffigurata proprio sullo sfondo giocattolo della luminosa vetrina di Tiffany, Barbie/Holly/Audrey si diverte paradossalmente a giocare sull’identità e, purtroppo, sulla vanità (dell’esistenza), chiudendo il cerchio (anzi l’anello) della sua propensione alla miniatura, che restituisce la «seduzione dell’impostura» allo splendore del piccolo «simulacro».19 Se le contraddizioni del personaggio rivivono nella pellicola, l’immagine della star ama assumere altre forme, servendosi ancora della burla del gioco, in cui si specchia Holly bambina, e della seduzione del mito, in cui si ri-specchia, infinitamente, Holly icona, che senza snaturare il senso dell’ironia, continua a giocare… e a recitare, nella divinità tascabile del giocattolo di sé. Lula Mae Barnes riscrive, così, se stessa fino a recodificarsi in Holly Golightly, descrivendosi con una sorta di «realismo ingenuo» (Caprettini, 1992, p. 137) che percorre la decontestualizzazione dei suoi oggetti (emblematici) d’uso. La trasformazione di Holly (o la fase intermedia della transizione secondo Van Gennep) passa attraverso la sosta dell’interstizio ludico, in una sospensione (ma non regressione) infantile del gioco delle identità. Ospite ed eremita allo stesso tempo20, Holly lascia, però, dietro di sé una porta aperta, quella del taxi nel finale del film, la porta che separa «il mio dall’altrui», atta a simboleggiare l’ulteriore fase del viaggio, quale il confronto con l’alterità.

Cfr. su questo tema Baudrillard (1980). Mi riferisco, qui, alle due infrazioni atte a negare la logica dei rapporti tra l’interno e l’esterno quali l’ospitalità e la reclusione volontaria: «tutt’e due sembrano contemplare un intervento del soggetto: il padrone di casa decide di ospitare, l’eremita decide di rifiutare l’esterno» (Caprettini, 1992, pp. 17-23). Holly sembra rientrare perfettamente nella logica della dinamica qui descritta, anzi, nella sua illogicità, oscillante tra personalità-identità diverse, pur occupando sempre una precisa posizione di pertinenza nei confronti del sistema dell’esterno o dell’interno. 19 20

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183 Bibliografia

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AA.VV.

(1973), Blake Edwards. Da «I giorni del vino e delle rose» a «Il caso Carey»: antologia critica, Centro Studi Cinematografici, Torino. Barthes R. (1957), Miti d’oggi, tr. it. di Lonzi L., Lerici, Milano 1962. Baudrillard J. (1980), Simulacri e impostura, Cappelli, Bologna. Bruno E. (a cura di) (1997), Blake Edwards: l’occhio composto, Le Mani, Recco. Campari R. (1985), Miti e stelle del cinema, Laterza, Roma-Bari. Capote T. (1959), Breakfast at Tiffany’s, tr. it. di Tasso B., Garzanti, Milano. Caprettini G.P. (1975), La «Porta». Valenze mitiche e funzioni narrative, Giappichelli Editore, Torino. – (1990), Lo sguardo di Giano. Indagini sul racconto, Edizioni dell’Orso, Alessandria. – (1992), Simboli al bivio, Sellerio Editore, Palermo. Deni M. (2002), Oggetti in azione. Semiotica degli oggetti: dalla teoria all’analisi, Franco Angeli, Milano. Gasparini G. (1998), Sociologia degli interstizi. Viaggio, attesa, silenzio, sorpresa, dono, Bruno Mondadori, Milano. – (2002), Interstizi: una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma. Huizinga J. (1953), Homo ludens, Einaudi, Torino. Maupassant G. de (1968), Racconti e novelle, Einaudi, Torino. Vaccino R. (1979), Blake Edwards, La Nuova Italia, Firenze. Van Gennep A. (1981), I riti di passaggio, Bompiani, Milano. Riferimenti web: www.joynet.it www.ilmaestro.it www2.ice.usp.ac.jp/wklinger/film/scripts/tiffany-s.txt

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I

RESI: ONTOLOGIA DELLA MERCE TEMPORANEAMENTE SOSPESA

Giampaolo Azzoni

Introduzione

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Nell’ormai ricca letteratura (sociologica, filosofica, semiotica…) dedicata al tema degli oggetti, mi sembra che non sia stato ancora indagato un fenomeno che rappresenta un caso particolarmente evidente di interstizialità. Mi riferisco alla situazione in cui un oggetto è reso perché non voluto. I resi sono oggetti restituiti, ma anche, in quanto non voluti, sono oggetti vinti (nel termine «reso» sono compresenti i sensi di «restituito» e di «arreso», «vinto»). L’oggetto reso, perché non voluto, può essere metafora di tutto ciò che non è riuscito (come azioni o vicende umane), allo stesso modo in cui l’odradek, lo strano oggetto immaginato da Kafka in un suo racconto, è metafora dello stesso Kafka (1920). Cioè, l’oggetto reso, perché non voluto, può essere metafora di quell’interstizio «di secondo livello» che è costituito dal perdere, fallire, riportare insuccesso (cfr. Gasparini, 2002, p. 79). Ma il fallimento dell’oggetto reso è interessante anche e soprattutto in quanto tale (indipendentemente dalla sua eventuale valenza metaforica), poiché, nel suo costituirsi come intervallo significativo, può assumere connotazioni positive e, in particolare, rivelatrici dell’essere proprio di quel particolare oggetto che è reso. La scena e l’ipotesi Chiunque frequenti i supermercati avrà qualche volta notato, nei pressi della cassa in cui sta per pagare, degli strani piccoli raggruppamenti di merci solitamente collocate in un ripiano di fortuna. Merci che non hanno nulla in comune se non il fatto di condividere uno spazio provvisorio. Si tratta di prodotti che sono stati resi poco prima dell’acquisto e non sono stati ancora rimessi sugli scaffali: un cliente pensava di acquistarli ma, arrivato alla cassa, ha

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186 cambiato idea (perché magari il conto superava già la cifra di cui disponeva)1. Per i resi si può parlare di oggetti sospesi: né offerti al pubblico entro le categorizzazioni della merceologia o del marketing, né scelti per il consumo entro un sistema di preferenze personali. Al fine di connotarli, soccorre l’immagine di una scultura dell’artista Sarah Sze dove oggetti quotidiani d’ogni tipo, raccolti apparentemente senza alcun criterio, pendono dal soffitto entro leggeri contenitori trasparenti2. L’ipotesi del presente contributo è che il reso rappresenti un interstizio in cui la merce ritorni ad essere cosa (res). Il reso, cioè, è la situazione (pericolosa, ma epifanica) in cui si può dare una qualche Gelassenheit (Heidegger, 1944-1945), un tranquillo lasciar essere, degli oggetti utilizzabili. In tale prospettiva, la relazione tra Gelassenheit e cose si può chiamare, come scrive Silvia Benso, «etica»: Things [...] impose an imperative which comes close to an ethical demand. They request an act of love – ethics – which lets things be as things (Benso, 2000, p. 123).

Il reso è il caso in cui può attuarsi in un modo esemplare (cioè dipendente strettamente dal concreto esercizio di una libertà del soggetto) l’etica che lascia le cose nel loro essere. Resi dovuti e resi non-dovuti Il reso di cui io parlo è il reso non-dovuto: riguarda oggetti che non si aveva il dovere di rendere. Il fallimento dell’oggetto è tale proprio perché l’oggetto viene reso anche se si poteva non farlo. Dal reso non-dovuto va distinto il reso dovuto in cui si rende perché si ha il dovere di rendere e, quindi, non si ha alcun fallimento dell’oggetto ma, anzi, la sua riconferma valoriale attraverso la sua restituzione (vissuta, da parte di chi rende, come un dovere) e la sua correlativa accettazione (che il ricevente vive come il soddisfacimento di un proprio diritto). Nei casi di reso dovuto si restituisce a causa della richiesta di un altro soggetto: è il soggetto che chiede la restituzione. Nei casi di 1 Un riferimento ad una scena simile è contenuto in Maria Pia Pozzato (2002, p. 122). 2 Cfr. Schefer, Sans (1999).

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187 reso non-dovuto si restituisce a causa dell’oggetto stesso: è l’oggetto che viene reso. Fenomenologia dei resi dovuti

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L’albergatore ci restituisce i bagagli che gli avevamo lasciato in deposito; la biblioteca ci sollecita la restituzione di un libro che avevamo preso in prestito; l’agenzia di autonoleggio ci chiede di restituire l’automobile locata. Si tratta di resi dovuti e, correlativamente, pretesi. Ampia è la fenomenologia dei resi dovuti che il diritto civile ha limpidamente distinto in alcune tipiche figure negoziali. Senza alcuna pretesa di completezza, ricordo i seguenti casi:

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(i.) il depositario ha il dovere di restituire al depositante la cosa che ha ricevuto in custodia3; (ii) il comodatario ha il dovere di restituire al comodante la cosa di cui poteva gratuitamente servirsi4;

3 Secondo l’art. 1766 del Codice civile italiano, «Il deposito è il contratto col quale una parte riceve dall’altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura». Il dovere del depositario di restituire è non solo uno dei doveri la cui esplicita tematizzazione è tra le più antiche (l’attuale disciplina è sostanzialmente la medesima che vi era già in diritto romano), ma occupa anche un posto di rilievo nella filosofia morale in quanto è stato analizzato da Kant e ripreso da Hegel nella sua critica allo stesso Kant (cfr. Azzoni, 1998, pp. 59-84). Relativamente al fenomeno (pertinente per il tema dei resi) dei «vuoti a rendere», viene qualificato come deposito irregolare il contratto di fornitura di bevande nella parte in cui si prevede che il depositario possa servirsi dei contenitori e sia tenuto a restituire contenitori della stessa specie e qualità anche se non i medesimi depositati (Pretura di Macerata, 4 aprile 1997; in: «Il Foro italiano», 120 (1997), parte prima, colonne 2012-2013). Mentre deve essere qualificato come vendita in funzione di garanzia (sottoposta a condizione risolutiva potestativa «ex parte emptoris») il materialmente affine contratto di trasferimento della proprietà di recipienti vuoti da parte del produttore di bibite ai rivenditori, allorché questi ultimi abbiano versato una cauzione ed abbiano la facoltà di restituire i recipienti medesimi ripetendo l’importo della cauzione precedentemente versata (Cassazione civile, Sezione II, 18 giugno 1986, n. 4066; in: «La nuova giurisprudenza civile commentata», 3 (1987), parte prima, pp. 237-241, con nota di Angela Scudella). Sulla qualificazione giuridica dei «vuoti a rendere», cfr. Pardolesi (1983). 4 Secondo l’art. 1803, primo comma, del Codice civile italiano, «Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o

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188 (iii) l’usufruttuario ha il dovere di restituire al proprietario le cose che formavano oggetto del suo diritto5; (iv) il conduttore ha il dovere di restituire al locatore la cosa locata6; (v) chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata ha il dovere di restituirla7. In tutti questi casi si ha il dovere di restituire un oggetto esattamente in quanto esso vale e altri ne ha diritto.

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Fenomenologia dei resi non-dovuti Il reso non-dovuto è l’esercizio non di un dovere, ma di una facoltà di rendere. Si rende un oggetto che si poteva continuare a possedere perché si ritiene quell’oggetto non meritevole di essere posseduto. Il reso non-dovuto è un oggetto che ha fallito nella relazione con chi lo possiede. Ma questo fallimento può essere la condizione di un ritorno dell’oggetto a sé stesso in quanto definisce una situazione interstiziale, collocata tra la restituzione e la decisione di chi riceve l’oggetto restituito. La restituzione di un oggetto non-dovuto va infatti distinta dall’abbandono dell’oggetto: la restituzione è relazionale (e in quanto tale conserva alla cosa lo statuto di res), mentre l’abbandono è almeno intenzionalmente un atto privo di destinatari. Un esempio di reso non-dovuto è quello dell’edicolante che restituisce i giornali non venduti all’editore o al distributore (le c.d. «rese»): quei giornali sono, dal punto di vista dell’edicolante, merci senza valore, oggetti ormai scaduti. Giuridicamente tale restituzioimmobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta». Ad esempio, in tema di resi, si inserisce all’interno di un contratto di comodato il dovere di restituire la bombola di gas una volta cessato il rapporto di fornitura: infatti, nell’attività di distribuzione di gas liquido in bombole, vanno distinti due negozi, l’uno di compravendita del gas e l’altro di comodato delle bombole, che restano in proprietà dell’impresa produttrice (Tribunale di Napoli, 7 febbraio 2001; in: «Giurisprudenza di merito», 33 (2001), pp. 1316-1317). 5 Secondo l’art. 1001, primo comma, del Codice civile italiano, «L’usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell’usufrutto». 6 Secondo l’art. 1590, primo comma, del Codice civile italiano, «Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta». 7 Secondo l’art. 2037, primo comma, del Codice civile italiano, «Chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata è tenuto a restituirla».

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ne si inserisce nel c.d. «contratto estimatorio» secondo cui chi ha ricevuto certe merci è liberato dal pagarne il prezzo se le restituisce entro un termine stabilito8. Altri esempi di resi non-dovuti riguardano la vendita. Così nella «vendita con riserva di gradimento» si può restituire la cosa che non risulti gradita9, o nella «vendita a prova» si può restituire la cosa per cui non risultino provate le qualità pattuite10, o, infine, nella «vendita a campione» si possono restituire le cose difformi dal campione11. Più in generale, il compratore può restituire la cosa che non abbia le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l’uso a cui è destinata12. La sospensione del reso Come ho detto, il reso non-dovuto è in una situazione di pericolosa, ma epifanica sospensione. Sospensione pericolosa perché, con la restituzione non-dovuta, il reso è «in between»13 tra la precedente caSecondo l’art. 1556 del Codice civile italiano, «Con il contratto estimatorio una parte consegna una o più cose mobili all’altra e questa si obbliga a pagare il prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine stabilito». L’espressione «contratto estimatorio» non è frequente nella pratica degli affari; ad essa si preferiscono le espressioni «in conto deposito», «in sospeso», «pagamento a merce rivenduta» (cfr. Giannattasio, 1962, p. 87). 9 Secondo l’art. 1520, primo comma, del Codice civile italiano, «Quando si vendono cose con riserva di gradimento da parte del compratore, la vendita non si perfeziona fino a che il gradimento non sia comunicato al venditore». 10 Secondo l’art. 1521, primo comma, del Codice civile italiano, «La vendita a prova si presume fatta sotto la condizione sospensiva che la cosa abbia le qualità pattuite o sia idonea all’uso a cui è destinata». 11 Secondo l’art. 1522, primo comma, del Codice civile italiano, «Se la vendita è fatta su campione, s’intende che questo deve servire come esclusivo paragone per la qualità della merce, e in tal caso qualsiasi difformità attribuisce al compratore il diritto alla risoluzione del contratto». 12 Secondo l’art. 1497, primo comma, del Codice civile italiano, «Quando la cosa venduta non ha le qualità promesse ovvero quelle essenziali per l’uso a cui è destinata, il compratore ha diritto di ottenere la risoluzione del contratto». Cfr. art. 1519 quater, per la vendita di beni di consumo. 13 Il termine inglese ‘in-between’ è utilizzato da Giovanni Gasparini per esprimere una delle caratteristiche essenziali dell’interstizialità: l’essere in mezzo (cfr. Gasparini, 2002, p. 8).

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190 tegorizzazione e le possibili nuove collocazioni entro cui, oltre alla rimessa sul mercato o all’immediato uso/riuso, vi sono l’abbandono e la distruzione. Sospensione epifanica perché il reso appare nella sua immediata onticità: il reso è pura res: res, cioè oggetto in relazione, ma che entra nella relazione con il possessore a partire dalle sue caratteristiche iletiche (pre-morfiche). In questo senso, l’accettazione di un reso non-dovuto ha sempre un iniziale momento di Gelassenheit, un tranquillo lasciar essere della cosa. Questa Gelassenheit è bene rappresentata dall’installazione Wirtshaftswerke che Joseph Beuys allestì nel 1980 presso il Museum van Hedendaagse Kunst (ora: S.M.A.K.) di Gent in occasione della mostra L’arte in Europa dopo il ’68 (e, poi, in molti altri grandi musei internazionali)14. Beuys scelse dei prodotti alimentari confezionati e li dispose su essenziali ripiani di metallo. Si trattava di prodotti che erano stati sottratti alla dimensione del mercato e scelti in virtù della loro intrinseca capacità di soddisfare bisogni umani fondamentali – come lo stesso Beuys aveva sperimentato quando, durante la seconda guerra mondiale, il suo aereo fu abbattuto ed egli fu salvato da nomadi della Crimea. Per rafforzare il carattere iletico delle merci esposte, Beuys utilizzò prevalentemente prodotti della DDR il cui package era privo di qualsiasi richiamo commerciale e limitato alla descrizione di dati oggettivi del contenuto: tipologia, peso, scadenza. In questa tensione denotativa, Beuys partecipava dello stesso spirito, in parte nostalgico, che sarebbe stato dello scrittore austriaco Peter Handke verso le merci della ex Jugoslavia (dove, nel ricordo di Handke, il pane era designato semplicemente come ‘pane’ e il latte semplicemente come ‘latte’, senza l’impiego di alcun brand). Un esito solo apparentemente opposto a quello di Beuys è rappresentato dalla pressoché coeva esposizione dei pulitori Hoover da parte di Jeff Koons in opere quali The New (1980-1981) e New Hoover Deluxe Shampoo Polishers (1980-1986). Qui abbiamo quasi una sacra rappresentazione dell’elettrodomestico e i marchi aziendali divengono altrettanti attributi di un moderno feticcio. Ma è proprio questa ierofania a sottrarre l’oggetto al mercato a cui era destinato (così come alle sue funzioni tecniche iniziali) e a isolarne le intrinseche caratteristiche materiali ed estetiche. Come scrive Max Hollein (nel contributo che egli dedica a Jeff Koons all’interno del fondamentale libro Shopping pubblicato presso Hatje Kantz nel 2002): 14

Cfr. AA.VV. (1980).

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191 The presentation in all its perfection and focus drains the objects of their actual economic value, but establishes them as materialised manifestations of longing, aims and existence15.

Chiusa

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La sospensione del reso non-dovuto offre la possibilità (che è responsabilità per il soggetto a cui si restituisce) di «lasciare che la cosa riposi [auf sich beruhen lassen] nel suo esser-cosa [in seinem Dingsein]» senza «i preconcetti e gli abusi [Vor-und Übergriffe] propri delle maniere abituali di considerare la cosa» (Heidegger, 1950, p. 20). Il reso non-dovuto chiede a colui che lo riceve la «Bewahrung» (Ibid., p. 55) (ossia la salvaguardia della verità) della cosa resa. Il reso non-dovuto e la sospensione in cui esso si colloca interpellano non solo la nostra cura verso l’ambiente, ma anche, e primariamente, le nostre capacità estetiche (il modo con cui sentiamo l’oggetto) e artistiche (le tecniche attraverso cui diamo una seconda vita all’oggetto). Forse in questi compiti che l’oggetto ci affida v’è quella missione profondamente umana nei confronti del mondo delle piccole cose che Rainer Maria Rilke così presentava nella IX delle Elegie duinesi: «[...] Sind wir vielleicht hier, um zu sagen: Haus, Brücke, Brunnen, Tor, Krug, Obstbaum, Fenster, höchstens: Säule, Turm, ... [...]».

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«[...] Forse noi siamo qui per dire: casa, ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra, al più: colonna, torre, ... [...]»16.

15 Hollein (2002, p. 204). L’epifania dell’oggetto quotidiano quale ierofania è presente, fin dal titolo, nella serie fotografica Sacred Objects di David Byrne. Occorre segnalare che la sacralizzazione dell’oggetto quotidiano è fenomeno diverso e, per alcuni versi, opposto a quello delle cosiddette «merci di culto». 16 Rilke (1923). Come scrive Giorgio Agamben (1977, p. 47), «[i]n Rilke […] si ritrova la stessa nostalgia del valore d’uso che caratterizza la critica di Marx alla merce».

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192 Bibliografia

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AA.VV.

(1980), Kunst in Europa na ’68, Het Museum, Gent. Agamben G. (1977), Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Einaudi, Torino. Azzoni G. (1998) Filosofia dell’atto giuridico in Immanuel Kant, Cedam, Padova. Benso S. (2000), The Face of Things. A Different Side of Ethics, State University of New York Press, Albany. Byrne D. (1994), Sacred Objects - Sleepless Nights, Stills Gallery, Edinburgh. Gasparini G. (2002) Interstizi. Una sociologia della vita quotidiana, Carocci, Roma. Giannattasio C. (1962), «Contratto estimatorio», in Enciclopedia del diritto, Giuffrè, Milano, vol. X, pp. 87-95. Heidegger M. (1944-1945), «Per indicare il luogo dell’abbandono. Da un colloquio sul pensare lungo un sentiero tra i campi», in Id., L’abbandono, tr. it. Il Melangolo, Genova 2002, pp. 45-77. – (1950), Sentieri interrotti, tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 1968. Hollein M. (2002), «The Glamour of Things», in Grunenberg C., Hollein M. (a cura di), Shopping. A Century of Art and Consumer Culture, Hatje Cantz, Ostfildern-Ruit (Deutschland), pp. 202219. Kafka F. (1920), «Die Sorge des Hausvaters» [La preoccupazione del padre di famiglia], in Ein Landarzt. Kleine Erzählungen [Un medico condotto. Piccoli racconti], Leipzig/München, Kurt Wolff. Pardolesi R. (1983), «Vuoti a rendere e deposito cauzionale», Giurisprudenza italiana, 135, Parte prima, Sezione seconda, colonne 765-770. Pozzato M.P. (2002), «La spesa al supermercato», in Landowski E., Marrone G. (a cura di), La società degli oggetti. Problemi di interoggettività, Meltemi, Roma, pp. 117-127. Rilke R.M. (1923), Elegie duinesi, tr. it. Einaudi, Torino 1978. Schefer J.-L., Sans J. (1999), Sarah Sze, Fondation Cartier pour l’art contemporain, Paris; Actes Sud, Arles.

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TEORIA

ECONOMICA E COMPORTAMENTI EFFETTIVI: IL CASO DELL’EURO

Pierpaolo Varri

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La teoria della scelta razionale Dal punto di vista della teoria economica della scelta razionale, con la quale gli economisti cercano di spiegare il comportamento del consumatore, l’introduzione dell’euro in sostituzione della vecchia lira come unità di misura per esprimere i prezzi è ancor meno di una «piccola cosa» di poco conto, è una circostanza del tutto irrilevante! Sulla base di preferenze che gli economisti considerano date esogenamente, e dunque non ritengono di dover spiegare, la teoria mostra che ciò che conta nelle decisioni di consumo sono i prezzi relativi delle merci ed il reddito reale. Un ipotetico consumatore razionale, che si suppone interessato a conseguire la massima soddisfazione, acquisterà quelle quantità di merci che comportano il livellamento dei saggi marginali di sostituzione fra le merci con i loro prezzi relativi. Ciò comporta la totale irrilevanza non soltanto della unità di misura in cui sono espressi i prezzi (dollari, euro, lire o altro), ma anche l’irrilevanza del livello assoluto dei prezzi: l’eventuale raddoppio o dimezzamento dei prezzi, se è accompagnato dal raddoppio o dal dimezzamento dei redditi, non modifica le quantità acquistate delle merci. Nel gergo tecnico degli economisti si afferma che le funzioni di domanda individuali sono omogenee di grado zero. Se così non fosse, gli economisti direbbero che i consumatori soffrono di illusione monetaria: sarebbero cioè incapaci di effettuare correttamente i loro calcoli che non devono basarsi sui prezzi nominali ma sui prezzi relativi. Ed i prezzi relativi sono palesemente indipendenti tanto dall’unità di misura in cui sono espressi i prezzi che dal loro livello nominale. Le cronache di questi primi anni di transazioni espresse in euro, il dibattito molto acceso sul livello dell’inflazione dei prezzi dopo l’introduzione dell’euro e la nostra stessa esperienza personale ci portano a constatare che gli effetti reali dell’introduzione dell’euro non sono stati irrilevanti, si impongono alla nostra atten-

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194 zione e dunque richiedono, per essere compresi, di andare oltre la spiegazione offerta dal modello base.

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Una spiegazione più articolata del comportamento dei consumatori Le considerazioni introduttive precedenti ci portano a ritenere che, sebbene logicamente coerente, la teoria statica del comportamento del consumatore non tenga conto di aspetti importanti nella spiegazione del comportamento effettivo dei consumatori. È stato suggerito da alcuni autori che, per rendere più rilevante la nostra analisi del comportamento del consumatore, sarebbe auspicabile integrare il criterio di razionalità statica della teoria tradizionale tenendo conto del fatto che il consumo effettivo è un processo che avviene nel tempo ed è dunque il risultato di un processo dinamico cumulativo di apprendimento (Pasinetti, 1984, pp. 79 sgg, Zamagni, 1986). Le informazioni di cui i consumatori dovrebbero disporre per poter decidere i loro consumi secondo la teoria statica tradizionale sono enormemente ampie e richiederebbero capacità di elaborazione di cui normalmente i consumatori non dispongono. Concependo il consumo come il risultato di un processo dinamico di apprendimento cumulativo le informazioni rilevanti sono meno ampie, ma soprattutto diverse: riguardano la capacità di apprendere per esperienza da un processo che procede per tentativi ed errori. Questo processo è il risultato di comportamenti ripetitivi ed imitativi, ma anche di scelte innovative che derivano dalla sperimentazione di nuovi schemi di consumo in un processo dinamico in cui diventano essenziali la memoria e le capacità cognitive degli individui. Una visione di questo tipo evita le difficoltà che conseguono dal fatto di dover supporre l’esistenza del principio della riducibilità di tutti i bisogni ad un unico ed indifferenziato bisogno di utilità. Dunque consente di tener conto della esistenza di una scala dei bisogni che si traduce nella esistenza di preferenze lessicografiche, e rende perciò difficoltosi la costruzione delle curve di indifferenza ed il calcolo dei saggi marginali di sostituzione. Nel contesto più realistico che stiamo ora considerando, entrano anche i prezzi nominali che, insieme alle quantità e alla qualità dei beni consumati, costituiscono la memoria storica del consumatore, lo stock di competenze cui fa ricorso, talvolta anche inconsciamente, ogni volta che deve affrontare una decisione di consumo o di acquisto. In questo contesto, il passaggio dalla lira all’euro cessa di essere una irrilevante «piccola cosa» per diventare un evento che richiede di modificare tutti i riferimenti sui quali si sono basati i com-

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195 portamenti di consumo precedenti. Il passaggio all’euro costringe a convertire la memoria storica espressa in lire in una nuova memoria definita in euro. Si tratta di un’operazione che non può essere effettuata in astratto sull’insieme dei dati ma richiede piuttosto un aggiornamento caso per caso della situazione, che procede nel tempo. Nella fase di transizione sono coinvolte entrambe le unità di conto. I dati espressi in lire diventano gradualmente meno rilevanti e sono destinati ad essere dimenticati ma, per un certo tempo, continuano ad avere una importante funzione di riscontro, consentendoci di valutare la plausibilità dei nuovi dati espressi in euro. In questa nuova situazione cresce significativamente la probabilità di commettere errori, e se l’insieme di questi errori diventa consistente potremmo percepire una significativa riduzione dei nostri livelli di soddisfazione e benessere. Gli economisti da tempo hanno notato che il modo con il quale i consumatori reagiscono alle variazioni dei prezzi dei beni non è univoco. L’elasticità della domanda rispetto al prezzo esprime con precisione la variazione della quantità domandata di un bene a seguito della variazione del prezzo. Per i beni a domanda rigida la quantità domandata si mostra quasi costante al variare del prezzo; per i beni a domanda elastica viceversa la quantità domandata reagisce significativamente alle eventuali variazioni del prezzo. Il concetto di elasticità ci induce dunque a ritenere che, nel caso dei beni a domanda rigida, il consumatore abbia meno interesse a verificare che il passaggio al nuovo prezzo, denominato in euro, sia per lui neutrale perché, comunque, manterrebbe quasi costante il suo livello di consumo. Ciò è probabilmente sufficiente a consentire una certa lievitazione dei prezzi. Nel caso di beni a domanda elastica si può ritenere che il riscontro dei consumatori sia più attento e dunque che i prezzi siano più stabili. Come è noto tendono ad essere riconosciuti come beni a domanda rigida i beni di prima necessità, le piccole cose al cui acquisto dedichiamo una piccola parte del nostro reddito. Sono al contrario considerati beni a domanda elastica i beni di lusso e quelli per i quali la spesa rappresenta una quota consistente del reddito. In effetti è proprio sulla prima categoria di merci che sembra essersi manifestata finora la maggiore incidenza del rincaro dei prezzi nel passaggio all’euro. Trattandosi di beni frequentemente oggetto di acquisto da parte dei consumatori ne deriva come conseguenza la percezione di un tasso di inflazione superiore a quello reale medio. Il dato medio infatti tiene conto anche delle variazioni dei prezzi dei beni a domanda elastica che sarebbero minori.

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Le limitazioni cognitive È stato per me motivo di sorpresa constatare come un’operazione aritmetica elementare come quella di dividere i vecchi prezzi espressi in lire per 1936,27 per trasformarli in euro faccia emergere serie limitazioni cognitive nella nostra capacità di percepire correttamente il valore delle merci. Se supponiamo che i consumatori imparino a consumare nel corso del tempo, diventa molto importante la memoria delle decisioni di consumo precedenti, la memoria delle gerarchie di valori che abbiamo lentamente accumulato e sono entrate a far parte del nostro patrimonio di esperienza e conoscenza come consumatori, patrimonio dal quale dipende la nostra capacità di continuare ad acquistare i beni che desideriamo con ragionevole sicurezza e serenità; senza commettere errori e cioè senza doverci pentire in seguito delle scelte fatte. Possiamo facilmente renderci conto, anche individualmente, che la nostra capacità di ricordare i prezzi si esprime in numeri, più o meno approssimati, ai quali tuttavia è ora molto più difficile attribuire il significato corretto. Si trattava di migliaia di vecchie lire o di unità di nuovi euro? Il rapporto di 2 a 1 non consente molto spesso di dare certezza ai nostri ricordi e dunque ci priva di un elemento di conoscenza di grandissima importanza per decidere i nostri acquisti consapevolmente. Ma le difficoltà non dipendono soltanto dai limiti della nostra memoria. Gli psicologi cognitivi, i sociologi e gli economisti sperimentali da tempo illustrano gli errori e i paradossi che dipendono dal nostro modo imperfetto di percepire i numeri, e quindi i prezzi, e più in generale le informazioni economiche, inducendoci a compiere scelte palesemente erronee e apparentemente non razionali. Gli errori di percezione e le limitazioni cognitive dei consumatori sono d’altra parte ben noti a chi si occupa di comunicazione pubblicitaria, di marketing o di distribuzione commerciale ed è diventato professionalmente molto abile nell’usare questi limiti a vantaggio di chi vende prodotti e addirittura riesce molto spesso ad ampliare gli effetti degli errori di percezione e delle limitazioni cognitive in misura a volte sorprendente. In un recente volumetto P. Legrenzi (2001) mette in evidenza e cerca di spiegare, secondo le categorie usate dagli psicologi cognitivi, molti apparenti paradossi connessi all’introduzione dell’euro nella nostra vita quotidiana. Da un punto di vista economico mi sembra particolarmente interessante quella che viene definita la compressione della scala di misura dei prezzi dovuta al passaggio dalle lire agli euro. Si è molto discusso degli effetti sull’inflazione, per la verità molto limitati, pro-

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vocati dagli arrotondamenti che devono necessariamente essere introdotti come conseguenza della scelta di fissare la parità tra lira ed euro al suo livello teorico di 1936,27 lire per un euro. Si è invece quasi del tutto ignorato, ritenendolo trascurabile, il rilievo della scelta di fissare il livello nominale dell’euro molto al di sopra del livello nominale delle unità di misura dei prezzi di fatto adottate in precedenza in molti paesi. Nel caso dell’Italia, che è analogo a quello di numerosi altri paesi europei, ciò porta a percepire una generale sottovalutazione della misura dei valori. La scelta di un metro troppo lungo rappresenta un ostacolo nella misurazione di distanze brevi. L’introduzione di un euro ad elevato valore nominale ha provocato una compressione della scala di misura dei prezzi che richiede un uso dei decimali e dei centesimi con una frequenza certamente superiore a quella che risultava abituale in precedenza. Salari, stipendi e pensioni espressi in euro ci appaiono numericamente dimezzati, e ciò ci fa sentire più poveri, mentre la percezione che i prezzi espressi in euro siano aritmeticamente più bassi di quelli espressi in lire ci fa sentire più ricchi e dunque accresce la nostra propensione al consumo e ci induce ad acquistare merci, il cui valore, espresso in euro, ci appare più conveniente, mentre la sua espressione in lire ci sembrerebbe costosa inducendoci a rinunciare all’acquisto. La lista dei paradossi, delle irrazionalità, degli aneddoti, delle esperienze personali e collettive connessi all’introduzione dell’euro che appaiono privi di base razionale e che, tuttavia, portano alla nostra attenzione distorsioni che non dovrebbero sussistere, è ampia e variegata e dovrebbe indurci a riflettere.

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Conclusioni Quali conclusioni si possono trarre dalle considerazioni precedenti? Non sembra saggio considerare trascurabile il problema e cercare di ignorarlo come molti hanno pensato di poter fare. Gli economisti hanno concentrato la loro attenzione sulle enormi implicazioni macroeconomiche dell’introduzione dell’euro: la rinuncia alla sovranità monetaria e cioè al controllo della quantità di moneta offerta, del livello dei tassi di interesse e del tasso di cambio ha contribuito a distogliere l’attenzione dalle conseguenze dell’introduzione dell’euro sul comportamento dei consumatori che, come abbiamo visto, è stata considerata in linea di principio una piccola cosa trascurabile. In realtà, come abbiamo cercato di mostrare in queste brevi note, le conseguenze si stanno dimostrando piuttosto rilevanti. Mi

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198 sembra importante che gli economisti non perdano l’importante occasione di questo grande esperimento naturale, come lo definisce Legrenzi, per rivedere le loro convinzioni e le loro teorie. Per essere più rilevanti, esse avrebbero bisogno di avere per protagonista un homo oeconomicus più conscio delle sue limitazioni cognitive e più umile nella sua aspirazione alla razionalità.

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Bibliografia Legrenzi P. (2001), L’euro in tasca, la lira nella mente, il Mulino, Bologna. Pasinetti L. (1984), Dinamica strutturale e sviluppo economico, un’indagine teorica sui mutamenti nella ricchezza, UTET, Torino. Zamagni S. (1986), «La teoria del consumatore nell’ultimo quarto di secolo», Economia Politica n. 3, pp. 406-466.

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NOTA

SUGLI AUTORI

Piermarco Aroldi insegna Sociologia delle comunicazioni di massa, Sociologia dei processi culturali e Teorie e tecniche delle comunicazioni di massa nell’Università Cattolica di Piacenza. Documento acquistato da () il 2024/02/18.

Giampaolo Azzoni insegna Teoria generale del diritto, Deontologia della comunicazione e Biodiritto nell’Università di Pavia. Laura Balbo insegna Modelli di politiche sociali nell’Università di Padova. Concetta Cammarata è dottoranda in Discipline del Cinema e del Teatro presso l’Università di Torino. Alessandro Cavalli insegna Sociologia nell’ Università di Pavia. Luigi Colaianni è dottore di ricerca in Servizio sociale e insegna Metodi e tecniche del servizio sociale nella Libera Università «Maria SS. Assunta» di Roma. Antonio De Simone insegna Discipline filosofiche e sociologiche nell’Università di Urbino.

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Giovanni Gasparini insegna Sociologia e Sociologia economica nell’Università Cattolica di Milano. Fabio Introini è dottore di ricerca in Sociologia e Metodologia della ricerca sociale presso l’Università Cattolica di Milano. Cristina Pasqualini è ricercatrice presso il Centro di Ricerca sull’Antropologia e l’Epistemologia della Complessità dell’Università di Bergamo. Francesca Rigotti insegna Dottrine politiche nell’Università della Svizzera italiana (Lugano).

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200 Giovanna Salvioni insegna Antropologia culturale nell’Università Cattolica di Milano. Claudio Scarpati insegna Letteratura italiana nell’Università Cattolica di Milano. Enrico Maria Tacchi insegna Sociologia dell’ambiente e del territorio nell’Università Cattolica di Brescia.

Documento acquistato da () il 2024/02/18.

Pierpaolo Varri insegna Economia politica nell’Università Cattolica di Milano. Miriam Visalli è dottoranda in Discipline del Cinema e del Teatro presso l’Università di Torino. Paolo Volontè insegna Teorie del mutamento sociale e Teorie dei Media e dei consumi culturali presso la Libera Università di Bolzano.

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