Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault
 8820744953, 9788820744953

Table of contents :
Copertina
Frontespizio
Copyright
Indice
Ringraziamenti
Presentazione. Attraversare Foucault
Parte prima - Critica del presente
1. Apologia di Foucault
2. Di Foucault e dei suoi commentatori
3. La morte dell’uomo
Parte seconda - Ontologia dell'attualità
4. La decapitazione del sovrano
5. Nuove categorie della politica
6. Per un’etica della resistenza
Parte terza - Oltrepassare Foucault
7. Critica e illuminismo
8. Decostruttivismo e normativismo
Conclusioni: Un politeismo a tre valori
Bibliografia
Indice dei nomi
Quarta di copertina

Citation preview

Teorie & Oggetti della Filosofia 65 Collana diretta da Roberto Esposito

Lorenzo Bernini

Le pecore e il pastore Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault

Liguori Editore

Questo volume è pubblicato con un contributo del Centro di Ricerca sulla Biopolitica BIOS (Dipartimento di Politiche pubbliche e scelte collettive POLIS - Università del Piemonte Orientale).

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (Legge n. 633/1941: http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l633_41.html). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati, anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Legge ed è soggetta all’autorizzazione scritta dell’Editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile al seguente indirizzo: http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali e marchi registrati, anche se non specificamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle relative leggi o regolamenti. Liguori Editore - I 80123 Napoli http://www.liguori.it/ © 2008 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Settembre 2008 Bernini, Lorenzo : Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault/Lorenzo Bernini Napoli : Liguori, 2008 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4598 - 1 1. Biopolitica, potere pastorale 2. Hannah Arendt, Jürgen Habermas I. Titolo Aggiornamenti: —————————————————————————————————————————— 15 14 13 12 11 10 09 08 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

Ringraziamenti

XI

Presentazione: Attraversare Foucault

1

Parte prima CRITICA DEL PRESENTE 1 Apologia di Foucault 1.1 I compiti dell’intellettuale 1.2 Realismo e resistenza 1.3 Una nuova immaginazione politica

5 5 7 10

2 Di Foucault e dei suoi commentatori 2.1 La reazione marxista negli anni sessanta e settanta 2.2 La reazione liberale negli anni ottanta 2.3 La ricezione dopo il 1994

15 15 21 28

3 La morte dell’uomo 3.1 Foucault, Althusser e Marx 3.2 Foucault, Deleuze e Nietzsche 3.3 Foucault, Lacan e Freud

35 35 56 74

Parte seconda ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ 4 La decapitazione del sovrano 4.1 Il potere repressivo del sovrano 4.2 Il dispositivo Leviatano 4.3 Guerra e politica

101 103 108 113

viii

INDICE

5 Nuove categorie della politica 5.1 Microfisica del potere: il potere produttivo delle discipline 5.2 Macrofisica del potere: biopolitica, potere pastorale, governamentalità 5.3 Totalitarismo, liberalismo, società di controllo

129 130

6 Per un’etica della resistenza 6.1 La sessualità, dispositivo biopolitico 6.2 Potere, soggettività, resistenza 6.3 Estetica del soggetto e controcondotte etiche

179 179 189 198

141 158

Parte terza OLTREPASSARE FOUCAULT 7 Critica e illuminismo 7.1 Was ist Aufklärung? 7.2 Una freccia nel cuore del presente: Foucault e Habermas

213 213 223

8 Decostruttivismo e normativismo 8.1 Verità, giustizia, libertà 8.2 Hannah Arendt e l’inumana eredità di Kant

233 233 245

Conclusioni: Un politeismo a tre valori

257

Bibliografia

263

Indice dei nomi

299

Se un uomo ha cento pecore, e una di esse si smarrisce – che ve ne pare? – non lascia egli forse le novanatanove sui monti, per andare alla ricerca di quella smarrita? E se ha la fortuna di ritrovarla, io vi dico in verità, prova più gioia di questa che non delle novantanove che non si sono smarrite. [Matteo 18, 12-13]

Ringraziamenti Questo libro è dedicato a Vera e Marzio Bernini: a loro devo molto di quello che sono. Molto devo anche a Simona Forti e Marco Geuna, soprattutto per la loro amicizia, e poi per tutto il sostegno che mi hanno offerto in questi anni di ricerca: senza il loro aiuto questo studio non sarebbe stato possibile. La mia gratitudine va, inoltre, a Roberto Esposito da cui ho imparato tanto, e che con generosità ha ospitato questo testo nella collana da lui diretta. Negli anni della mia formazione, a Milano, Torino, Modena, Parigi, Lione, Berlino, Napoli e Alessandria ho contratto numerosi debiti intellettuali e affettivi. Vorrei ringraziare, almeno: Laura Bazzicalupo, Antonella Besussi (non soltanto per avermi introdotto al pensiero di Arendt, non soltanto per ciò che le devo), Michelina Borsari, Gian Mario Bravo, Leonardo Ceppa (per la disponibilità, e per le supervisioni sul pensiero di Habermas), Gennaro Carillo, Manuela Ceretta, Sandro Chignola (per avermi suggerito che la sovranità è un dispositivo logico), Francesco De Sanctis, Giuseppe Duso (per le lunghe discussioni sui concetti politici moderni), Elisabetta Galeotti (per i consigli e gli incoraggiamenti), Vezio e Gigliola Grimaldi (per aver sempre creduto in me), Olivia Guaraldo, Giovanna Procacci (non soltanto perché le devo moltissimo), Massimo Recalcati (non soltanto per avermi introdotto al pensiero di Lacan), Federico Maria Rocca (per avermi insegnato, al di là delle teorie, che cos’è una “buona” psicoanalisi), Gian Enrico Rusconi, Michel Senellart, Gabriella Silvestrini, Davide Tarizzo, Guido e Piera Valabrega, Lidia Vallino (per la sua generosa amicizia, per tutto quello che ho appreso da lei). Il mio pensiero va anche a tutti i colleghi e gli amici con cui in questi anni ho potuto discutere ciò che ho studiato e scritto e che, con il loro contributo, hanno arricchito di senso le mie ricerche. Grazie, quindi, anche a: Manuele Angeleri, Silvia Arzola, Giorgio Barberis, Fabrizio Bassani, Roberto Bianco, Davide Bondì, Milena Bontempi, Rebecca Borraccini e Umberto Grigolini, David Boureau e Anne Zeitz, Sara Branca e Matteo Cucchiani, Alberto Castelli, Francesca Ceccoli (anche per la consulenza

xii

RINGRAZIAMENTI

grafica), Annalisa Ceron, Roberto Cicchinelli, Carlotta Cossutta (anche per la pazienza e l’attenzione con cui ha letto il mio testo prima che fosse finito), Giorgio Cuccio e Nicoletta Poidimani, Martina Di Febo, Mauro Farnesi Camellone, Federico Ferrari, Paolo Hutter e Paolo Oddi, Sara Dellantonio e Luigi Pastore, Enrico De Sanctis (per avermi insegnato la differenza tra autonomia e indipendenza, e per molto, molto altro), Carolina Gasparoli, Myriam Giargia, Chiara Lausetti, Michele Longo (per tutto ciò che condividiamo intellettualmente ed esistenzialmente, e perché rappresenta una sicurezza nella mia vita), Sabina Langer, Martina Loreggian e Sabina Zenobi (che mi hanno introdotto al pensiero femminista, e con cui ho condiviso passaggi fondamentali della mia formazione politica e personale), Enzo Manenti, Serena Marcenò, Nicola Marcucci, Cecilia Mezzano, Emanuele Ozzola, Francesca Pasquali, Alice Pelosi, Nicola Riva, Valentina Recalcati, Mara Rescio (per le discussioni sul pastorato cristiano e soprattutto per la forza del sentimento che ci unisce), Chiara Tosi, Viola Recchia, Francesca Salvarezza, Mauro Simonazzi, Lorenzo Villa, Francesca Vinattieri (l’adc!). E, naturalmente (dulcis in fundo, croce e delizia), a Giovanni Hänninen. Ringrazio inoltre la mia famiglia (che sarebbe la mia vita, senza di voi?): oltre a Vera e Marzio, anche Bruna e Francesca Bernini; Alessandra, Guido, Lorenzo e Riccardo Bernini; Alessandra e Francesco Lai; Dodo, Pedro e Raissa.

Presentazione Attraversare Foucault

1. Il pensiero di Michel Foucault è dotato di una ricchezza straordinaria. Investe numerosi ambiti disciplinari sfuggendo di fatto a ognuno di essi: è un pensiero poliedrico che si presta a usi molteplici e fornisce strumenti teorici utilizzabili tanto in ambito storico e sociologico, quanto in campo psicologico e pedagogico, quanto, ancora, nella critica artistica e letteraria, nella riflessione sulle scienze umane e nella filosofia in senso lato. È difficile delimitarne i confini: occorre piuttosto riconoscerne la complessità, e al tempo stesso denunciare la parzialità di ogni tentativo di ricondurlo sotto un’unica etichetta. È, pertanto, con la consapevolezza di compiere un atto arbitrario che, in questo lavoro, presenterò Foucault soprattutto come filosofo della politica; e anche con la consapevolezza che tale atto arbitrario avrà come esito non l’individuazione di una fisionomia nitida, ma piuttosto la realizzazione di un ritratto fluido e mobile, privo di una forma definita perché aperto alla possibilità di assumere forme differenti. 2. Questo libro non vuole rappresentare un autore oggettivandolo come un pezzo del museo della storia della filosofia politica, ma piuttosto mostrare un soggetto in azione, descrivendo i gesti che compie. Il suo intento vuole essere quello di aprire nuove strade al pensiero di Foucault, affinché possa agire su nuovi lettori e attori, e affinché essi possano agire con esso e su di esso. Questo libro vuole essere un invito ad attraversare Foucault come se fosse un campo di forze, a lasciarsi attraversare da queste forze con il coraggio di chi è disposto a trasformare se stesso e a pensare in modo nuovo, per poi tornare nel mondo, forza tra le forze, e agire in modo nuovo. Attraversare Foucault significa innanzitutto rinunciare alla pretesa della propria indipendenza, scoprirsi determinati, dipendenti appunto, da strutture di potere che avvolgono ogni individuo e che danno forma all’esistenza, alla vita, addirittura alla corporeità – in questo senso il pensiero foucaultiano è perturbante: rileva limiti e minacce alla libertà laddove non lo si aspetterebbe. E tuttavia attraversare Foucault significa anche acquisire la consapevolezza che è sempre possibile una ricerca di autonomia, che è possibile divenire liberi, non muovendosi al di fuori del potere, ma essendo immersi nei suoi



PRESENTAZIONE

flussi e nuotando controcorrente: partecipando ai giochi di sapere-potere nella squadra della resistenza. Considerare Foucault filosofo della politica significa accogliere la possibilità di pensare la politica in modo impolitico, critico e non progettuale, di prendere parte alla vita pubblica senza la pretesa di volerla governare e aspirando, molto più modestamente, ma anche molto più radicalmente, al governo di sé. 3. Nella prima parte di questo lavoro, l’atteggiamento teorico del filosofo francese sarà presentato come «realismo del governato assoluto»: attraverso il confronto con alcuni orientamenti teorici del suo tempo (il marxismo, la psicoanalisi, il liberalismo), emergerà il carattere critico e paradossale del pensiero di Foucault, teso a decostruire le presunte verità di ogni teoria politica senza elaborarne di nuove. La seconda parte, invece, esporrà i contributi positivi apportati da Foucault al pensiero politico, analizzando le nuove categorie interpretative da lui coniate (potere disciplinare, biopolitica, potere pastorale, governamentalità). La terza parte, infine, metterà in evidenza quelle che Jürgen Habermas ha definito le «contraddizioni produttive» presenti nel pensiero di Foucault. Nel tentativo non di risolverle, ma di oltrepassarle, indagherà, con lo strumento della teoria del giudizio politico di Hannah Arendt, la possibilità di modellare l’idea di giustizia non sulla forma della verità, ma su quella della bellezza.

Parte prima

CRITICA DEL PRESENTE Si è promossa la scienza negli ultimi secoli, sia perché si sperava con essa e per essa di poter comprendere nel miglior modo la bontà e la sapienza divine – tema principale, questo, nell’anima dei grandi Inglesi (come Newton) –, sia perché si credeva all’assoluta utilità della conoscenza, specialmente all’intima unità di morale, sapere e felicità – tema principale nell’anima dei grandi Francesi (come Voltaire) –, sia perché si riteneva di possedere e di amare nella scienza qualcosa di disinteressato, di pacifico, di autosufficiente, di veramente innocente cui i cattivi istinti degli uomini sarebbero del tutto estranei – tema principale nell’anima di Spinoza che si sentiva divino, in quanto uomo della conoscenza –: dunque sulla premessa di tre errori. [Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 37]

1 Apologia di Foucault

1.1 I compiti dell’intellettuale Il pensiero di Foucault è un pensiero asistematico che va ricostruito attraverso gli atti che compie sul sistema di sapere a cui appartiene, e non attraverso le verità che enuncia: come emerge da numerosi interventi degli anni settanta e ottanta, il filosofo francese rifiuta infatti il ruolo di chi ricerca e rivela verità. In un’intervista rilasciata nel giugno 1976, Foucault, dopo aver definito l’intellettuale, «nel senso politico, e non sociologico o professionale della parola», come «colui che fa uso del suo sapere, della sua competenza, del suo rapporto con la verità nell’ordine delle lotte politiche»1, individua due figure di intellettuale, e ne sceglie una come proprio modello. All’intellettuale universale, detentore (maître) di verità, che conosce ciò che è giusto secondo ragione o secondo natura, che si contrappone agli abusi di un potere ingiusto e prescrive quanto deve valere come norma universale, Foucault preferisce l’intellettuale specifico. Questi partecipa al dibattito politico del proprio tempo senza la pretesa di possedere verità ultime e universali, e con la consapevolezza che «la verità non è al di fuori del potere, né senza potere». Secondo il filosofo francese, infatti: La verità è di questo mondo; essa vi è prodotta grazie a molteplici costrizioni. E vi detiene effetti obbligati di potere2. 1 Intervista a Michel Foucault, in Microfisica del potere: Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977, p. 22, ora in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, vol. II, testo n° 192, e in Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001. In questo lavoro citerò la seconda edizione dei Dits et écrits, del 2001, in due volumi, e non la prima, del 1994, in quattro volumi. Foucault torna a riflettere sulla figura dell’intellettuale in un’intervista del 1981 di cui non rimane che un breve frammento: L’intellectuel et les pouvoirs, in «La Revue nouvelle», n° 10, 1984; ora in Dits et écrits, cit., testo n° 359; trad. it. L’intellettuale e i poteri, in Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, Genova-Milano, Marietti, 2008. 2 Intervista a Michel Foucault, cit., p. 25. Una discussione delle opinioni di Foucault sul ruolo dell’intellettuale, che tiene conto non solo delle sue riflessioni sulle relazioni che intercorrono tra potere e verità, ma anche della sua attività di intellettuale politicamente impegnato, è stata condotta anche da Edward W. Said in due saggi del 1984 e del 1986 poi raccolti in



LE

PECORE E IL PASTORE

In quest’intervista, Foucault riprende alcuni temi che ha presentato anni prima, il 2 dicembre 1970, nella sua celebre lezione inaugurale al Collège de France3, affermando che «la verità» non è solo «l’insieme delle cose vere da scoprire o da far accettare», ma anche «l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere»4. Ogni società ha la sua politica di verità, che non solo stabilisce criteri di verità, ma che designa anche chi ha diritto alla parola e quali debbano essere i canali di trasmissione dei discorsi veri: nelle società come le nostre, ad esempio, la verità prende soprattutto la forma del discorso scientifico, circola in apparati di educazione e informazione, ed è sottomessa al controllo della stampa, dei mass-media, degli organismi giudiziari e polizieschi, delle università. Compito dell’intellettuale è allora, secondo Foucault, prendere parte alle lotte politiche che percorrono la società a cui appartiene con la consapevolezza della posizione specifica che occupa negli apparati che regolano la produzione e la distribuzione del sapere, e restando ancorato ai luoghi concreti del suo lavoro, alle esperienze della sua vita: «l’abitazione, l’ospedale, il manicomio, il laboratorio, l’università, i rapporti familiari o sessuali»5. La posizione specifica di Foucault è, ad esempio, quella di un uomo omosessuale che in gioventù ha esercitato la professione di psicologo in ospedale e in prigione e ha insegnato psicologia in università, e che dal 1970 al 1984, anno della sua morte, ha ricoperto la cattedra di Storia dei sistemi di pensiero al Collège de France – istituita per lui in sostituzione di quella di Storia del pensiero filosofico che era stata di Jean Hyppolite. È quindi movendo dall’esperienza che Foucault denuncia quali effetti di potere le verità delle scienze umane abbiano nei manicomi, negli ospedali, nei tribunali, nelle prigioni, e quali ricadute esse abbiano sui comportamenti sessuali di uomini e donne. In tutti gli ambiti che attraversa – la follia, il crimine, la sessualità – la ricerca di Foucault svolge un’analisi dettagliata dei rapporti che sussistono tra forme di sapere specifiche e specifiche forme di potere, con l’intenzione di fornire a chi è governato strumenti critici utili alla resistenza contro chi governa, ma non nuove verità. Se è possibile parlare Reflections on Exile and Other Essays, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 2000, trad. it. Nel segno dell’esilio: Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 2008 (testi nn. 18 e 22), e in un ciclo di conferenze del 1993 pubblicate con il titolo Representations of the Intellectual, New York, Pantheon Books, 1994, trad. it. Dire la verità: Gli intellettuali e il potere, Milano, Feltrinelli, 1995 (soprattutto pp. 17, 25 e 98). 3 L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971, trad. it. L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 1972, ora in Il discorso, la storia, la verità, cit. 4 Intervista a Michel Foucault, cit., pp. 26-27. 5 Ivi, p. 20.

APOLOGIA

DI



FOUCAULT

di una filosofia politica di Foucault, tale filosofia va intesa allora come una pars destruens a cui non segue alcuna pars construens: la missione che Foucault assegna all’intellettuale del suo tempo non è quella di reperire fondamenti normativi per la vita in società, ma quella di sfondare il sistema di sapere della società a cui appartiene.

1.2 Realismo e resistenza In un’intervista del 19816, Foucault dichiara di considerare «molto importante» la domanda sui fondamenti del potere, ma solo quando è sottesa dall’intenzione di metterne in questione l’esercizio, e non dalla volontà di giustificarlo. Due considerazioni – una di carattere teorico e una di carattere empirico – rivelerebbero, infatti, a suo avviso, la natura pretestuosa di ogni ricerca di fondamenti universali dell’ordine politico. Innanzitutto, ogni fondamento che si può trovare per giustificare un regime dato o per istituirne uno nuovo fa sempre parte del contesto storico a cui tale regime si applica o intende applicarsi, e non può pertanto pretendere di essere riconosciuto come universale. Secondariamente, il potere non funziona a partire dal suo fondamento: è facile verificare empiricamente che alcuni poteri non fondati funzionano molto bene, mentre altri che si pretendono fondati non funzionano affatto. Questa negazione della possibilità di reperire nella verità un fondamento al potere, e al tempo stesso la volontà di analizzare il funzionamento del potere nel suo esercizio concreto, avvicinano l’atteggiamento intellettuale di Foucault a quel realismo politico che si è soliti far inaugurare a Machiavelli7. 6

Intervista rilasciata ad André Berten nel maggio 1981, filmata dal Centre Audiovisuel dell’Université Catholique de Louvain per la Scuola di criminologia della stessa università, pubblicata nel 1988 con il titolo Entretien avec Michel Foucault su «Le cahiers du GRIF», nn. 37-38 (trad. it. Intervista a Michel Foucault, in «aut-aut», n. 331, 2006). 7 Angelo Panebianco definisce il realismo politico come quella tradizione del pensiero politico, che ha inizio con Machiavelli, secondo la quale «la politica ha a che fare […] con quella particolare forma di potere (in questo distinta da altre forme di potere sociale) cui è associato il monopolio tendenziale dell’uso della forza» (voce Politica, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996, vol. VI, p. 618). Pier Paolo Portinaro individua ben prima di Machiavelli, in Tucidide, «le componenti fondamentali del realismo: una visione disincantata della storia, un’antropologia elementare ma depurata da credenze mitologiche, una concezione della politica e della dinamica di potenza» (Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 67-68). Come Panebianco, anche Portinaro riconosce nel realismo politico una delle matrici della scienza politica. A differenza di Panebianco, Portinaro apparenta al realismo politico anche Foucault – per il suo empirismo, e per il suo pensiero decostruttivo e antimetafisico (ivi, pp. 110-111) – ma non sottolinea a sufficienza la posizione



LE

PECORE E IL PASTORE

Ma se le analisi del Segretario fiorentino erano volte a suggerire al principe gli strumenti per conquistare e conservare il potere sui propri sudditi, quelle dell’intellettuale francese si pongono al servizio dei governati: Foucault contesta ogni tentativo di fondare il potere di chi governa su presunte verità universali per dare voce alle verità particolari e senza fondamento che emergono dalle esigenze di libertà dei governati. Se ciò che caratterizza il realismo politico è l’interpretazione dei fenomeni politici attraverso la categoria di potere, il realismo di chi governa o di chi vuole governare concepisce il potere politico come monopolio della forza da parte dello stato e l’azione politica come lotta per conquistare il potere supremo, la sovranità. Invece il realismo dei governati promosso da Foucault denuncia come illusoria la convinzione dell’esistenza di un monopolio del potere, e contrappone a una visione sostanzialistica del potere come “qualcosa” che si possa possedere, una visione dinamica del potere come «azione che si esercita su azioni»8. Foucault mostra che chi è governato è inserito in flussi di potere multidirezionali, che non possono essere raccolti in un’unica corrente che procede dall’alto verso il basso, dallo stato alla popolazione. Se la politica coincide con l’esercizio del potere e il potere è azione che si esercita su azioni, la società politica non si limita allo stato, ma comprende anche la società civile: il potere è dappertutto, e di potere sono fatti non solo i rapporti che siamo abituati a considerare “politici”, ma tutti i legami sociali – anche i rapporti “privati” tra gli individui e persino i rapporti che ogni individuo intrattiene con se stesso. Per i governati, si rivela allora illusoria la lotta per il potere. Le uniche lotte dotate di senso sono, invece, quelle contro i poteri: lotte di resistenza che mirano a limitare l’esercizio di poteri concreti nel corpo della società e che promuovono concrete forme di libertà e di piacere. È questo atteggiamento di realismo critico a ispirare non solo le ricerche del nostro autore in ambiti quali la psichiatria, la medicina, il sistema penale, la sessualità, l’amministrazione statale (i libri di Foucault, e i suoi corsi al Collège de France), ma anche i suoi interventi nelle questioni più scottanti dell’attualità politica del suo tempo. Ad esempio, dal febbraio 1970 al dicembre 1972 il filosofo francese anima, assieme al suo compagno Daniel Defert e al suo collega Gilles Deleuze, il Groupe d’Information sur les Pris-

eccentrica di Foucault nella tradizione realista: paradossalmente, l’empirismo foucaultiano è al tempo stesso realista e antiscientifico. 8 Come si esercita il potere?, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, p. 248, prima ed. How is Power Exercised?, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 1983, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 306.

APOLOGIA

DI

FOUCAULT



ons (G.I.P.)9 – gruppo di controinformazione e di denuncia delle condizioni carcerarie che appoggia le richieste dei detenuti e delle loro famiglie. Nel settembre 1975, invece, il nostro autore è a Madrid, con una delegazione di intellettuali, per protestare contro la condanna a morte di undici oppositori del regime di Franco; tra il settembre e il novembre 1978 è inviato speciale del «Corriere della sera» a Teheran per seguire la rivoluzione iraniana10; il 20 giugno 1979 organizza una conferenza stampa al Collège de France per chiedere ai governi europei un maggior impegno nell’accoglienza dei boat people, e nel giugno 1981 a Ginevra partecipa alla creazione del Comitato Internazionale contro la pirateria, per la difesa delle vittime di tutte le guerre11; nel settembre 1982 è in Polonia con l’organizzazione umanitaria 9

Volantini, interventi, pubblicazioni del G.I.P. sono ora raccolti nel volume Le Groupe d’Information sur les Prisons: Archives d’une lutte, 1970-1972 (documents réunis et présentés par Philippe Artières, Laurent Quéro, Michelle Zancarini-Fournel, postface de Daniel Defert), Paris, Éditions de l’IMEC, 2003. 10 I reportage di Foucault sono raccolti in Taccuino persiano, Milano, Guerini e Associati, 1998. In seguito agli eventi del “venerdì nero” (l’8 settembre 1978, il giorno in cui l’esercito iraniano, per ordine dello scià Reza Pahlavi, sparò sulla folla dei manifestanti a Teheran), Foucault maturò un atteggiamento simpatetico verso la protesta della popolazione iraniana: considerò l’ispirazione islamica della rivolta come un «tentativo di aprire nella politica anche una dimensione spirituale», di dar vita a una nuova «spiritualità politica» (Ritorno al profeta?, in Taccuino persiano, cit., p. 40, prima ed. in «Corriere della sera», vol. 103, n° 251, 22 ottobre 1978, non incluso nella raccolta Dits et écrits) cioè a una forma di vita politica e assieme religiosa alternativa tanto alla modernizzazione occidentale che lo scià voleva imporre all’Iran, quanto a quella incarnata dal marxismo sovietico a cui si ispiravano alcuni oppositori del regime. Una volta avvenuta la rivoluzione, nel 1979, Foucault condannò, invece, il governo islamico del primo ministro Mehdi Bazargan, in realtà diretto dall’ayatollah Ruhollaˉh Mosavi Khomeyni, come un dominio liberticida: cfr. Lettre ouverte à Mehdi Bazargan, in «Le Nouvel Observateur», n° 753, 14-20 aprile 1979, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 265, trad. it. Lettera aperta a Mehdi Bazargan, in Taccuino Persiano, cit.; e Inutile de se soulever?, in «Le Monde», n° 10661, 11-12 mai 1979, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 269, trad. it. Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 1998 testo n° 6. Sull’atteggiamento di Foucault nei confronti della rivoluzione iraniana si vedano anche il numero monografico della rivista «La Rose de Personne»-«La Rosa di Nessuno», Michel Foucault: L’Islam et la révolution iranienne-L’Islam e la rivoluzione iraniana, n° 1, 2005 (con articoli di Andrea Cavazzini, Manola Antonioli, David Macey, Salvo Vaccaro, Ottavio Marzocca, Pierangelo Di Vittorio, Marco Schirone, Antonella Cutro, Jean-Pierre Faye, Christias Panagiotis, Geneviève Clancy); il capitolo Rivolte spirituali e pastori al governo: Foucault in Iran, in Marzocca, Ottavio, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, manifestolibri, 2007; e il paragrafo La spiritualità politica, in Sorrentino, Vincenzo, Il pensiero politico di Foucault, Roma, Meltemi, 2008. 11 In questa occasione Foucault legge un testo – pubblicato da «Libération» tre anni dopo, a pochi giorni dalla sua scomparsa – che inneggia all’alleanza dei governati contro i governanti, alla difesa dei diritti umani non come semplici dichiarazioni d’intenti, ma come esercizi concreti di libertà: Face aux gouvernements, les droits de l’homme, in «Libération», n° 967, 30 juin-1er juillet 1984, p. 22, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 355.

10

LE

PECORE E IL PASTORE

Médicins du monde (ma gli sarà impedito di incontrare Lech Walesa). Nella sua attività teorica e nei suoi interventi politici, Foucault privilegia esperienze di frontiera che rivelano la storicità e l’arbitrarietà di ciò che la nostra società considera “naturale” o “normale”: l’esperienza della follia mette in dubbio il nostro sistema di ragione, l’esperienza del crimine interroga il nostro sistema legale, l’esperienza dell’apolidia dei profughi – di chi non ha diritti perché non ha cittadinanza – mette alla prova la nostra fede nei diritti umani. La filosofia politica di Foucault, come ho detto, è una pars destruens a cui non segue alcuna pars construens. Tuttavia l’apporto di Foucault al pensiero politico non è stato soltanto di segno negativo: nei suoi studi e nei suoi interventi il nostro autore ha, infatti, accompagnato alla sua impresa decostruttiva dei concetti filosofici, politici e giuridici classici, l’introduzione di nuove categorie interpretative che, a suo avviso, darebbero conto delle reali pratiche di potere che percorrono il mondo moderno e contemporaneo e offrirebbero, pertanto, ai governati armi teoriche efficaci per le loro lotte. Com’è noto, però, la filosofia politica di Foucault è stata oggetto di critiche feroci a causa del suo carattere anti-normativo. Molte di queste critiche colpiscono nel segno, denunciando l’arroganza di un pensiero paradossale che surrettiziamente avanza pretese di verità senza volerle giustificare (in ragione di che cosa, se non della loro verità, le nuove categorie interpretative di Foucault sarebbero più “realistiche” dei concetti utilizzati dalla filosofia politica classica?); ma altre sono la testimonianza della forza di un pensiero che ha travolto con la propria carica immaginativa la gnoseologia politica del suo tempo, suscitando reazioni difensive in chi non sa concepire la politica se non nei termini dalla verità e dell’universale.

1.3 Una nuova immaginazione politica Foucault muore cinque anni prima del 1989, quando ancora il mondo è diviso in due blocchi contrapposti – la liberaldemocrazia e il socialismo reale. Il suo pensiero politico è profondamente legato ai movimenti sociali e politici del 1968 e degli anni seguenti: a movimenti che contestano entrambi i blocchi esistenti e che, se da un lato sono debitori alla tradizione marxista, dall’altro ne rinnegano gli esiti nell’Unione Sovietica e nei regimi dell’est. Anche Foucault sconta un suo debito con Marx, ma con un Marx letto attraverso le lenti anti-scientiste dell’occhiale di Nietzsche12. È Marx, ad esempio, a 12

Il Marx cui Foucault si sente debitore non è colui che, rovesciando la dialettica hegeliana, ha inaugurato un metodo scientifico d’interpretazione storico-politica, ma è, anzi, colui

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insegnargli che le lotte per i diritti politici sono insufficienti per risolvere le disuguaglianze sociali, perché il potere percorre tutto il corpo sociale e non è confinato nell’iperuranio del diritto: al di sotto delle forme del diritto liberale può nascondersi un’“esistenza materiale” segnata da diseguaglianza e sfruttamento. In «Bisogna difendere la società», corso al Collège de France del 197613, Foucault riconosce nella teoria marxiana della lotta di classe e nei propri studi genealogici una stessa matrice teorica, che chiama «discorso storico-politico». Questo discorso contesterebbe la più classica delle tradizioni della filosofia politica moderna, il «discorso filosofico-giuridico» che legge il potere politico attraverso la categoria di sovranità. Caratteristica del discorso filosofico-giuridico è la ricerca di legittimazione del potere politico nei diritti naturali di cui sarebbe depositario l’individuo. Per il discorso storico-politico, invece, il potere politico si instaura sempre a partire dalla conquista e non esistono diritti naturali: ogni diritto è imposto da chi ha vinto o è preso da chi si oppone al vincitore. Il discorso storico-politico non cerca verità naturali su cui fondare la politica, ma utilizza le proprie verità come armi per una vittoria partigiana. Molte delle obiezioni che sono state rivolte a Foucault sono espressione di una tradizione di pensiero che potremmo accostare a quel discorso filosofico-giuridico a cui Foucault – come Marx – si contrappone: a quel pensiero politico che coincide con le teorie liberali dello stato di diritto, con la ricerca di criteri normativi e procedurali che possano fondare lo stato giusto. Ma altre obiezioni provengono da autori marxisti: anche il marxismo è infatti oggetto delle critiche di Foucault. Chi, del resto, riveste il ruolo dell’intellettuale universale più dell’intellettuale organico marxista, che porta alla luce della coscienza delle masse quelle verità di cui il proletariato sarebbe inconsapevolmente depositario? In un colloquio dell’aprile 1978 con il filosofo giapponese Takaaki (Ryumei) Yoshimoto, Foucault propone di considerare il marxismo non solo come una dottrina politica, ma anche come una modalità di potere, in virtù della relazione che in esso la verità gioca con la politica:

che ha contestato la possibilità di una scienza e di una filosofia della storia, introducendo l’idea che l’interpretazione storico-politica è un processo infinito. Cfr. Nietzsche, Freud, Marx, in «Cahiers de Royaumont» VI, Paris, Minuit, 1967, poi in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 46, trad. it. in «aut-aut», nn. 262-263, 1994, ora in Archivio Foucault 1. 19�1-1970, 19�1-1970 Milano, Feltrinelli, 1996. 13 «Il faut défendre la société», Paris, Seuil-Gallimard, 1997, trad. it. «Bisogna difendere la società», Milano, Feltrinelli, 1998.

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Il marxismo, in quanto scienza – nella misura in cui si tratta di una scienza della storia, e precisamente della storia dell’umanità – costituisce una dinamica dagli effetti coercitivi, a proposito di una determinata verità. Il suo discorso costituisce una scienza profetica che diffonde una forza coercitiva su di una certa verità, e non solo in direzione del passato, ma anche verso l’avvenire dell’umanità. In altri termini, la cosa importante è che, in relazione alla verità, la storicità e il carattere profetico funzionino come delle forze coercitive14.

In questo colloquio, alla forza coercitiva della verità marxista Foucault rimprovera di aver contribuito «all’impoverimento dell’immaginazione politica»15: pensando l’azione politica come costruzione del partito e assunzione del controllo dello stato, il marxismo avrebbe escluso dagli orizzonti dell’azione politica «innumerevoli problemi importanti che si producono nella società reale», come «quelli della medicina, della sessualità, della ragione e della follia»16. Contro il marxismo diffuso nei movimenti politici degli anni sessanta e settanta, il compito intellettuale che Foucault si propone è alimentare l’immaginazione politica facendo emergere nuovi problemi e dando voce alle lotte che si consumano nella società reale17. Nei suoi studi sulla storia della psichiatria, della medicina, del sistema penale, della sessualità, Foucault denuncia come riduttiva la lettura del potere politico come semplice epifenomeno dei rapporti di produzione, e come dominio di una classe su un’altra. Per Foucault il potere non si limita a reprimere la classe operaia, ma produce gli individui e le classi, anche la borghesia18. Per contrastare il potere non è quindi sufficiente sostituire il dominio di una classe con la dittatura di un’altra: se il potere non si annida soltanto negli apparati statali ma è diffuso in tutta la società, non è sufficiente che il proletariato assuma il controllo dello stato. Per Foucault non esiste un atto ultimo della lotta al potere, e la resistenza – per chi aspira ad essere libero, padrone di se stesso – è un compito infinito. La mancanza di progettualità del pensiero politico di Foucault deriva, quindi, anche dalla sua polemica contro il marxismo, e dalla sua 14 Metodologia per la conoscenza del mondo: Come sbarazzarsi del marxismo, in Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 247, prima ed. Sekai-ninshiki no hôhô: Marx-shugi wo dô shimatsu suruka, in «Umi», luglio 1978, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 235. 15 Ivi, p. 246. 16 Ivi, p. 249. 17 Si veda ivi, p. 265. 18 In Sorvegliare e punire, ad esempio, Foucault sostiene che le tecnologie del potere disciplinare non siano un esito dei rapporti di classe, ma piuttosto uno strumento che il capitalismo industriale in ascesa ha utilizzato per organizzare il lavoro nelle fabbriche; e ne La volontà di sapere afferma che il dispositivo di sessualità inizialmente non sia stato utilizzato per rendere più docile la classe operaia, ma sia stato applicato dalla borghesia a se stessa per dare uno stile alla propria condotta sessuale e morale in genere.

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vicinanza alle pratiche politiche spontanee, prive di programma, degli anni sessanta e settanta, sorte in contrapposizione al centralismo democratico dei partiti comunisti. E infatti, per queste pratiche si è rivelato uno strumento prezioso: per il movimento antipsichiatrico, ad esempio, per il movimento femminista, e per il movimento lesbico-gay-transgender-intersessuale. Il pensiero politico di Foucault è un pensiero realista, ma è dotato di immaginazione e creatività; contesta tanto il liberalismo quanto il marxismo, rifiuta la forma statica del programma, ed è legato a una logica di movimento. Se scaturisce dai movimenti sociali e politici degli anni sessanta e settanta, resta un prezioso strumento di analisi anche per i nuovi soggetti politici di oggi che si misurano non più con un mondo bipolare, diviso tra due superpotenze, ma con un mondo globalizzato in cui forse è ancora più difficile immaginare un’alternativa all’esistente, “un altro mondo possibile”. È un realismo politico che si pone al servizio dei governati, ho sostenuto. Ma potrei dire di più: è il realismo del governato assoluto. È il realismo di chi vuole affermare la propria libertà attraverso l’espressione del proprio dissenso rispetto a chi governa, senza per questo aspirare a prenderne il posto, perché l’unica posizione di governo a cui aspira è il governo di sé. Per queste ragioni, Foucault può essere considerato filosofo politico nel senso originario del termine, come il Socrate19 dell’Apologia di Platone, il «tafano» che il dio ha posto a fianco della polis non per offrirle verità-panacee, ma per «pungolarla» ponendole interrogativi e problemi sempre nuovi. Alle critiche dei suoi detrattori, a cui sarà dedicata buona parte del prossimo capitolo, il nostro autore potrebbe allora rispondere con le parole del suo predecessore: Non potrete trovare facilmente un altro, quale sono io, che sia stato posto dal dio a fianco della polis, come – anche se possa sembrare piuttosto ridicolo a dirsi – al fianco di un grande cavallo di razza, ma proprio per la grandezza un po’ pigro e che ha bisogno di venir pungolato da un tafano. In modo simile mi sembra che il dio mi abbia messo al fianco della polis, ossia come uno che, pungolandovi, perseguendovi e rimproverandovi ad uno ad uno, non smetta mai di starvi addosso durante tutto il giorno, dappertutto. Un altro simile a me non sarà facile che nasca, o cittadini. Perciò, se mi date retta, dovete assolvermi. [Platone, Apologia di Socrate, 30e-31a]

19 Socrate è al centro delle ultime riflessioni di Foucault sulla nozione greca di “parresia”, di cui renderò sinteticamente conto nel paragrafo 7.1 Was ist Aufklärung?. I testi in cui sono contenute queste rflessioni sono il seminario Discourse and Truth. The Problematization of Parrhesia (Evanston (Illinois), Northwester University Press, 1985, trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 1998) e il corso Le gouvernement de soi et des autres (Paris, SeuilGallimard, 2008).

2 Di Foucault e dei suoi commentatori

2.1 La reazione marxista negli anni sessanta e settanta Ne Le parole e le cose (1966), Foucault sostiene che il pensiero di Marx non determina una rottura epistemologica nella storia delle scienze storiche e sociali – come in quegli anni afferma, invece, Louis Althusser –, ma appartiene a pieno titolo allo spazio epistemologico dell’economia classica, inaugurato da Ricardo: Il marxismo è nel pensiero del XIX secolo come un pesce nell’acqua: cioè, fuori di lì cessa ovunque di respirare1.

Le reazioni dei marxisti francesi non tardano a farsi sentire: Le parole e le cose diventa un “caso”, tanto che nel film La Chinoise, che esce nell’ottobre 1967, Jean-Luc Godard rappresenta una studentessa maoista nell’atto di lanciare pomodori contro il testo di Foucault. Le polemiche si rivolgono non solo contro l’assimilazione del marxismo all’economia classica, ma anche contro il metodo d’indagine storica di Foucault. Infatti – per quanto questi, negli anni ottanta, affermerà di non essere mai stato strutturalista – alla fine degli anni sessanta Le parole e le cose rappresenta un momento centrale del dibattito teorico tra strutturalismo e marxismo in Francia. Molte delle critiche pubblicate sulle riviste comuniste dell’epoca2 fanno eco all’intervista rilasciata da Jean-Paul Sartre a Bernard Pingaud per la rivista «L’Arc» nel 19663. Secondo Sartre Le parole e le cose esprime un rifiuto della storia, e il metodo che Foucault chiama archeologico è in realtà paragonabile al metodo di un geologo. Per Sartre, infatti, un archeologo dovrebbe ricostruire il passato come frutto della praxis degli uomini nella storia, mentre Foucault, come un 1 Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1998, p. 283, prima ed. Le mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966. 2 Si vedano, ad esempio: Colombel, Jeannette, Les mots de Foucault et les choses, in «La Nouvelle Critique», avril 1967; e Milhau, Jacques, Les Mots et les choses, in «Cahiers du communisme», février 1968. 3 Jean-Paul Sartre répond, in «L’Arc», n° 30, 1966.

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geologo, si limiterebbe a descrivere il passato come una successione di strutture socio-culturali sovrapposte, senza tener conto del fatto che solo l’azione umana può fabbricare tali strutture, e determinare il passaggio dall’una all’altra. In questo modo, Foucault negherebbe la storia: Dietro la storia, ben inteso, è il marxismo a essere preso di mira. Si tratta di costruire una nuova ideologia, l’ultima barriera che la borghesia possa ancora erigere contro Marx4.

Sartre accusa Foucault di voler affossare il marxismo, l’unico metodo in grado di rendere conto del movimento storico all’interno di un ordine logico. Questa stessa critica è ripresa sulle pagine di Le Monde da Simone de Beauvoir, secondo cui il libro di Foucault – sopprimendo l’uomo, sopprimendo la praxis – fornirebbe alla coscienza borghese il suo alibi migliore5. Se questa è la reazione dei più celebri intellettuali marxisti francesi della fine degli anni sessanta, secondo quanto riporta lo stesso Foucault, non più accogliente è quella dei marxisti “di nuova generazione”, «quelli che sarebbero divenuti i “marxisti-leninisti” o anche i “maoisti” nel 1968»6: In tutta questa generazione di marxisti “anti-Pcf”, in cui prevaleva l’esaltazione e la valutazione di Marx come “soglia” di una scientificità assoluta, ci fu la reazione più intensa. Non mi perdonarono quanto avevo scritto, mi inviarono lettere ingiuriose…7

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Jean-Paul Sartre répond, in «L’Arc», n° 30, 1966, p. 86, traduzione mia. A questa provocazione così risponderà Foucault anni dopo: «Povera borghesia, se avesse avuto bisogno di me come “barriera”, avrebbe da tempo perso il potere!» (Colloqui con Foucault, a cura di Trombadori, Duccio, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 68, prima ed. Conversazione con Michel Foucault, in «Il Contributo», n° 1, 1980, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 281). 5 Intervista di Jaqueline Piatier, Simone de Beauvoir présente “Les belles images”, in «Le Monde», 23 décembre 1966. Nel romanzo Les belles images (Paris, Gallimard, 1966), Beauvoir presenta la tesi foucaultiana della “morte dell’uomo” come uno slogan sulla bocca di tutti gli snob del momento. Nell’intervista a «Le Monde» dipinge Foucault stesso come un intellettuale snob «polveroso», e definisce Le parole e le cose un libro «noioso e illeggibile». A quanto pare Foucault si offese molto: nel 1975, mentre assieme ad altri intellettuali stava raccogliendo le firme di personalità eminenti per un appello contro la condanna a morte di undici militanti antifranchisti, annuì quando venne fatto il nome di Sartre, ma pose il veto su quello di Beauvoir. Assieme a Beauvoir e Marguerite Duras, Foucault indisse invece una manifestazione a favore dell’estradizione di Klaus Croissant nel 1977. Del caso Croissant tratterò nel paragrafo 3.2 Foucault, Deleuze e Nietzsche. 6 Colloqui con Foucault, cit., p. 80. 7 Ibid.

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Chi accoglie con entusiasmo il metodo storiografico utilizzato da Foucault – non solo ne Le parole e le cose (1966), ma anche nell’Archeologia del sapere (1969) e in Sorvegliare e punire (1975) – è invece Gilles Deleuze con tre articoli sulle riviste «Le Nouvel Observateur» e «Critique»8. Se per Sartre il metodo di Foucault avvicina la sua opera a quella di un geologo, per Deleuze, Foucault è, invece, un cartografo che disegna e sovrappone mappe che rappresentano differenti «diagrammi» di potere – l’internamento dei folli, ad esempio, e quello dei delinquenti – evidenziando, in ogni mappa, i possibili punti di resistenza9. Secondo Deleuze, Sorvegliare e punire rappresenta una svolta all’interno del percorso filosofico di Foucault, il punto di passaggio dall’archeologia alla genealogia: se in precedenza le analisi del nostro autore, pur riconoscendo l’influenza delle condizioni sociali, economiche e politiche sull’elaborazione del sapere, si limitavano all’analisi di formazioni discorsive, il libro sulle prigioni rappresenta il tentativo di articolare l’analisi delle formazioni discorsive e quella delle pratiche non discorsive, nella fattispecie del diritto penale e del potere disciplinare. Il grande merito di Sorvegliare e punire, secondo Deleuze, è quello di aver fornito alla sinistra post-sessantottina una nuova concezione del potere che si sarebbe liberata definitivamente dei «postulati» della filosofia politica tradizionale10. La nuova concezione del potere elaborata da Foucault, nata dalle pratiche dei movimenti politici e sociali degli anni settanta – come quella vissuta in prima persona dagli stessi Foucault e Deleuze nel G.I.P.11 – risponderebbe alle esigenze teoriche della “nuova sinistra”. Si tratterebbe di una posta in gioco di non poco conto, di una nuova concezione politica di sinistra alternativa al marxismo:

8 L’homme, une existence douteuse, in «Le Nouvel Observateur», 1° giugno 1966; Un nouvel archiviste: Michel Foucault. L’archeologie du savoir, in «Critique», n° 274, mars 1970; Ecrivan non: un nouveau cartographe. Michel Foucault: Sourveiller et punir, in «Critique», n° 343, décembre 1975. I due articoli comparsi su «Critique» sono raccolti, assieme ad altri testi, nel libro Foucault (Paris, Minuit, 1986, trad. it. Foucault, Milano, Feltrinelli, 1987, nuova ed. it. Napoli, Cronopio, 2002; d’ora in poi farò riferimento alla prima edizione italiana). 9 Cfr. Deleuze, Gilles, Foucault, cit., p. 51. Foucault definisce se stesso «cartografo» in un’intervista del marzo 1975: Sur la sellette, in «Les Nouvelles littéraires», n° 2477, 17-23 mars 1975, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 152. 10 Deleuze rintraccia cinque postulati: il «postulato della proprietà» (secondo cui il potere sarebbe appannaggio di una classe che se ne sarebbe appropriata), quello della «localizzazione» (del potere negli apparati statali), quello della «subordinazione» (del potere istituzionale alla struttura economica), quello del «modo di azione» (per la filosofia politica tradizionale il potere si limiterebbe a una funzione repressiva: Foucault mostra invece che esso produce legami e identità sociali), quello della «legalità» (secondo cui il potere sarebbe soprattutto un complesso di leggi e divieti). 11 Si torni al paragrafo 1.2 Realismo e resistenza.

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È come se dopo Marx sorgesse finalmente qualcosa di nuovo. Come se si fosse rotta una complicità attorno allo stato. Foucault non si accontenta di dire che bisogna ripensare certe nozioni, non lo dice nemmeno, lo fa, e propone così nuove coordinate per la pratica. [...] Un’altra teoria, un’altra pratica di lotta, un’altra organizzazione strategica: ecco la posta del libro di Foucault12.

Il dibattito e le polemiche attorno ai testi di Foucault e al loro complesso rapporto con il pensiero marxiano e marxista supera ben presto i confini della Francia, assumendo una certa rilevanza anche in Italia. Foucault interpreterà alcune delle accuse mosse in Francia negli anni settanta al suo metodo archeologico e allo strutturalismo in generale come contraccolpo in occidente del processo di destalinizzazione in corso nei paesi dell’est13; in modo analogo ritengo che sia possibile interpretare le polemiche suscitate dai testi foucaultiani in Italia negli anni settanta come un episodio legato al dibattito in corso all’interno della sinistra italiana sui rapporti tra Partito comunista italiano e forze extraparlamentari negli anni immediatamente precedenti e successivi all’omicidio di Aldo Moro (1978). Nel 1977 Einaudi pubblica una raccolta di testi del filosofo francese a cura di Alessandro Fontana, Pasquale Pasquino e Giovanna Procacci – allora giovani ricercatori che partecipano ai seminari di Foucault al Collège de France – con il titolo di Microfisica del potere: Interventi politici14: la raccolta contiene anche una conversazione di Foucault con Deleuze dal titolo Gli intellettuali e il potere15. L’espressione “microfisica del potere” inizia a circolare nella sinistra extraparlamentare italiana per indicare un’analisi politica più consona a render conto della complessità del reale di quanto non lo sia il marxismo: presto diventa uno strumento di contestazione della politica del Partito comunista italiano. E 12

Deleuze, Gilles, Foucault, cit., pp. 38-39. Anche dopo la morte di Foucault, Deleuze continuerà a parlarne e a scriverne. Si veda l’intervento Qu’est-ce qu’un dispositif?, in AA.VV., Michel Foucault philosophe, Paris, Seuil, 1989, trad. it. Che cos’è un dispositivo?, in Id., Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault e altri intercessori, Verona, ombre corte, 1999; e si vedano anche le tre interviste del 1986 e il Postscritto sulle società di controllo raccolte in Pourparlers, Paris, Minuit, 1990, trad. it. Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000. 13 Si veda: Colloqui con Foucault, cit., pp. 70-73. Si veda, inoltre, l’intervista Structuralisme et etien avec G. Raulet, in «Telos», n° 55, printemps 1983, ora in Dits et poststructuralisme, entretien écrits, cit., vol. II, testo n° 330, trad. it. Strutturalismo e post-strutturalismo, in Il discorso, la storia, la verità, cit. 14 La maggior parte dei testi raccolti in Microfisica del potere sono stati riediti, assieme a L’ordine del discorso (la lezione inaugurale al Collège de France, pronunciata il 2 dicembre 1970) e ad altri interventi, in Il discorso, la storia, la verità (Torino, Einaudi, 2001). 15 Inizialmente pubblicata con il titolo Les intellectuels et le pouvoir (Entretien avec G. Deleuze) su «L’Arc», n° 49, 4 marzo 1972, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 106, e in Il discorso, la storia, la verità, cit.

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dalle fila del Partito comunista italiano Massimo Cacciari, allora deputato, reagisce con un articolo sulla rivista «aut-aut»: “Razionalità” e “Irrazionalità” nella critica del Politico in Deleuze e Foucault16. Il dibattito sui nuovi filosofi francesi è aperto: «aut-aut» dedica un numero monografico al pensiero di Foucault, dando allo stesso Foucault la possibilità di controbattere: intervengono anche Deleuze, Fontana, Pasquino, Procacci e Antonio Negri17. Ma prima dell’uscita di «aut-aut», il 19 novembre 1978, L’Espresso pubblica, senza autorizzazione, un frammento del testo di Foucault, utilizzandolo per accusare i comunisti italiani di complicità con la repressione stalinista dei gulag. Foucault reagisce a questa strumentalizzazione del suo pensiero, temendone il fraintendimento proprio nell’anno del sequestro Moro: risponde alle polemiche con una lettera a «L’Unità»18 in cui invita gli intellettuali italiani al confronto e al dialogo. Gli Editori Riuniti commissionano allora a Duccio Trombadori un libro-intervista, che, però, in un secondo tempo, rifiuteranno di pubblicare19. Le critiche mosse da Cacciari investono, in realtà, la lettura dei testi foucaultiani fornita da Deleuze. Per Cacciari, in primo luogo, Foucault nella sua critica al marxismo traviserebbe Marx, e al tempo stesso, nella critica alle teorie giuridico-istituzionali della politica, prenderebbe di mira una teoria politica di stampo metafisico-dialettico che già da tempo non esisterebbe più20. Secondariamente, nonostante le dichiarazioni di voler analizzare molteplici poteri nei loro funzionamenti concreti, Foucault finirebbe per elabo16 «aut-aut», n° 161, settembre-ottobre 1977. A partire da questo articolo Cacciari svilupperà altri testi, che pubblicherà l’anno successivo: Critica dell’“autonomia” e problema del politico, in Crisi del sapere e nuova razionalità, Bari, De Donato, 1978; e Il problema del Politico in Deleuze e Foucault (sul pensiero di “autonomia” e di “gioco”), in AA.VV., Il dispositivo Foucault, Venezia, Cluva libreria editrice cooperativa, 1977. 17 «aut-aut», Potere/sapere, nn. 167-168, settembre-dicembre 1978. L’articolo di Foucault, Precisazioni sul potere. Risposta ad alcuni critici, apre il numero monografico alle pp. 3-11, ed è seguito, alle pp. 12-29, dalla lezione tenuta il 1° febbraio 1978 al Collège de France, pubblicata con il titolo La “governamentalità” (entrambi i testi sono ora raccolti in Dits et écrits, cit. vol. II, testi nn. 238 e 239; il primo è stato ora ripubblicato anche nella raccolta Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, Genova-Milano, Marietti, 2008). L’articolo di Deleuze, alle pp. 108-114, si intitola L’ascesa del “sociale”: si tratta della prefazione al testo di Jacques Donzelot La police de familles (Paris, Minuit, 1977) ed è ora raccolto con altri scritti di Deleuze in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, cit. 18 «L’Unità», n° 285, 1° dicembre 1978, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 255. 19 L’intervista fu pubblicata su «Il Contributo», n° 1, gennaio-marzo 1980, con il titolo Conversazione con Michel Foucault. Nel 1999 è stata riedita con il titolo Colloqui con Foucault (Roma, Castelvecchi). 20 Cfr. Cacciari, Massimo, Il problema del politico in Deleuze e Foucault (sul pensiero di “autonomia” e di “gioco”), cit., p. 59.

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rare una sorta di nuova metafisica del Potere: il «mito del Panopticon»21. In terzo luogo, Foucault, e con lui Deleuze, non fornirebbe alcuna indicazione concreta su come sia possibile abbattere tale mitico Potere, e si limiterebbe a un generico appello romantico ad un’altrettanto mitica ed astratta Libertà. Nonostante le loro dichiarazioni di principio, i due filosofi francesi sarebbero incapaci di fornire strumenti teorici utilizzabili nelle reali lotte politiche: la loro lotta si consumerebbe solo sul piano astratto della teoria. L’accusa di disimpegno politico è ricorrente nella prima letteratura critica su Foucault. Se dalla sinistra francese e italiana il nostro autore è accusato di antimarxismo, nella sinistra anglosassone c’è chi addirittura gli contesta una pericolosa complicità con il neoconservatorismo di destra: in un articolo del 198222, Anthony Giddens ritrae Foucault come il rappresentante di quella generazione di intellettuali francesi che, per lo choc delle informazioni sui gulag portate in Europa occidentale da Aleksandr Solzenicyn, avrebbe spiccato un pericoloso «salto da Marx a Nietzsche». Giddens riconosce il valore dell’opera di Foucault, «forse il più importante contributo alla teoria del potere amministrativo dopo i testi classici sulla burocrazia di Max Weber»23, e tuttavia – come Sartre – obietta al filosofo francese di scrivere una storia senza soggetto, e – come Cacciari – gli contesta di parlare del potere in astratto. Foucault metterebbe in evidenza come i meccanismi di controllo e sorveglianza che caratterizzano lo stato-nazione non siano stati minimamente scalfiti negli stati del socialismo reale, e così fornirebbe strumenti importanti per denunciare il «totalitarismo di sinistra»; ma al tempo stesso, come in Marx, in Foucault mancherebbe una riflessione approfondita sullo stato. Per un eccesso di «ermeneutica del sospetto» di derivazione nietzscheana, il filosofo francese vedrebbe nello stato solo un epifenomeno del potere disciplinare, e nelle libertà borghesi solo un mascheramento dello sfruttamento capitalistico. Secondo Giddens, dopo l’esperienza del totalitarismo novecentesco è, invece, necessario intraprendere una riflessione sullo

21 Cacciari, Massimo, “Razionalità” e “Irrazionalità” nella critica del Politico in Deleuze e Foucault, cit., p. 123. 22 Giddens, Anthony, From Marx to Nietzsche? Neo-Conservatism, Foucault and Problems in Contemporary Political Theory, in Profiles and Critiques in Social Theory, London, Macmillan, 1982, anche in Smart, Barry (edited by), Michel Foucault Critical Assessments, London-New York, Routledge, 1994, vol. I. 23 Giddens, Anthony, From Marx to Nietzsche? Neo-Conservatism, Foucault and Problems in Contemporary Political Theory, in Smart, Barry (edited by), Michel Foucault Critical Assessments, cit., p. 151 (traduzione mia).

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stato di diritto anche da sinistra, recuperando il pensiero di Marx, senza lasciarsi sedurre dall’irrazionalismo di Nietzsche24. Nonostante gli auspici di Giddens, negli anni ottanta, un diverso clima culturale sposta gli assi concettuali che forniscono le coordinate dell’identità della sinistra: nel nuovo sistema di riferimento la questione dello stato di diritto assume centralità non in quanto «assenza sorprendente»25 nel pensiero di Marx, ma come tema portante delle teorie liberali.

2.2 La reazione liberale negli anni ottanta Nello stesso anno26 in cui Giddens riconosce in Foucault un innovatore delle scienze sociali paragonabile a Weber, e al tempo stesso critica Foucault richiamandosi a Marx, Richard Rorty riconosce in Foucault «il miglior interprete della parte oscura delle scienze sociali»27, ma al tempo stesso afferma che già John Dewey sarebbe andato oltre Foucault. Dewey, infatti, non si sarebbe limitato a criticare il rapporto tra scienze sociali e potere, ma avrebbe anche fornito un efficace strumento teorico, il pragmatismo, al servizio degli ideali del liberalismo: Non sembra esserci alcun particolare motivo per cui, dopo aver scaricato Marx, dobbiamo continuare a ripetere tutte quelle atrocità sul liberalismo borghese da lui insegnateci. Non c’è alcuna connessione inferenziale fra la scomparsa del soggetto trascendentale – dell’“uomo” come qualcosa dotato di una natura che la società può reprimere o capire – e la scomparsa della solidarietà umana. Il liberalismo borghese mi sembra il miglior esempio raggiunto di questa solidarietà, e il pragmatismo deweyano la sua miglior articolazione28.

«Dopo aver scaricato Marx», la critica su Foucault si concentra, quindi, sul rapporto che il suo pensiero intrattiene con il liberalismo. Utilizzando la terminologia foucaultiana, si potrebbe affermare che non si tratta più di un confronto interno al discorso storico-politico, ma di uno scontro tra questo 24

«Per quanto mi riguarda, non ho alcuna intenzione di fare un salto da Marx a Nietzsche» (ivi, p. 157). 25 Ivi, p. 154. 26 L’anno è il 1982; nel 1980 è uscita una raccolta di testi di Foucault tradotti in lingua inglese con il titolo Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings 1972-1977 (Brighton, Colin Gordon). 27 Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 207 (paragrafo 4 del cap. 11, Speranza infondata: Dewey contro Foucault); prima ed. Consequences of Pragmatism, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1982. 28 Ivi, p. 208 (corsivo mio).



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e il discorso filosofico-giuridico29. Ad alimentare tale scontro nel mondo anglosassone è anche la crescente popolarità del filosofo francese negli Stati Uniti. Nell’ottobre 1980 la polizia è addirittura costretta a intervenire nel campus di Berkeley per allontanare la folla accorsa ad ascoltarlo; nel 1982 Hubert Dreyfus e Paul Rabinow – che proprio a Berkeley hanno conosciuto Foucault – dedicano un ampio studio al suo pensiero30. Le polemiche dei liberali contro Foucault si intensificano dopo il 1984, anno della sua morte: la pubblicazione, nello stesso 1984, degli ultimi due volumi della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e La cura di sé, in cui l’attenzione di Foucault si sposta dalla politica all’etica, fornisce infatti ai critici nuovi punti di attacco. Interpretando il recupero dell’etica della cura di sé di matrice stoica, operato dal filosofo francese in questi libri, come un’irresponsabile chiusura del soggetto in se stesso, alcuni teorici liberali accusano il pensiero di Foucault di essere affetto da una forma di narcisismo: sarebbe questa patologia ad impedirgli di avanzare «una qualche valutazione positiva dello stato liberale o socialdemocratico»31. Michael Walzer, ad esempio, presenta l’atteggiamento teorico di Foucault come una forma di «sinistrismo infantile»32, che si contrappone a ogni forma di potere, senza fare le opportune distinzioni tra differenti sistemi politici. Walzer riconosce nell’anarchismo la matrice teorico-politica delle riflessioni foucaultiane, e tuttavia afferma che, per la sua aprogettualità e per la sua decostruzione delle nozioni di ragione e natura umana, Foucault non sarebbe né un buon anarchico, né un buon rivoluzionario: il suo pensiero resterebbe bloccato in un paralizzante nichilismo33. Ricordando come Fou29

Su questo argomento mi sono già soffermato nel paragrafo 1.3 Una nuova immaginazione politica. 30 Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 1982 e 19832, trad. it. La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989. Come Deleuze, Dreyfus e Rabinow sottolineano la discontinuità rappresentata da Sorvegliare e punire all’interno del percorso filosofico di Foucault: secondo i due autori americani la fase archeologica del pensiero di Foucault, quella più vicina allo strutturalismo, precedente a questo testo, si sarebbe arenata nelle stesse aporie che Foucault reperisce, ne Le parole e le cose, all’interno del sapere antropologico moderno. Foucault ringrazia Dreyfus e Rabinow nella prefazione de L’uso dei piaceri, e nel 1983 scrive un’ampia e importante postfazione per la seconda edizione del loro saggio. 31 Walzer, Michael, La politica solitaria di Michel Foucault, in L’intellettuale militante, Bologna, il Mulino, 1991, p. 259, prima ed. The Company of Critics, New York, Basic Books, 1988. Si tratta del testo di una conferenza tenuta da Walzer all’Università di Princeton nel febbraio 1982, pubblicata sulla rivista «Dissent» (n° 30, 1983) e poi inclusa anche nel volume collettaneo: Foucault: A Critical Reader (edited by Hoy, David Couzens), New York-Oxford, Basil Blackwell, 1986. 32 L’intellettuale militante, cit., p. 245. 33 Ivi, p. 258.

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cault riconosca in Hobbes uno dei capostipiti di una tradizione di pensiero politico a cui si contrappongono le sue riflessioni – il discorso filosofico-giuridico – Walzer critica il filosofo francese istituendo un paragone proprio con il teorico dello stato Leviatano: la contrapposizione di Foucault a Hobbes avverrebbe all’interno di una stessa «visione d’insieme»34. Se Hobbes difende sempre e comunque l’ordine costituito, Foucault lo criticherebbe sempre, per partito preso, come se non esistessero differenze tra lo stato di diritto e l’arcipelago gulag: Sia per Hobbes che per Foucault non fa differenza di che costituzione si tratti, né di che legge, o anche quale sia il reale funzionamento del sistema politico. In realtà, voglio dire, sono proprio queste cose a far differenza.35

La ricezione del pensiero di Foucault nel mondo anglosassone è stata indubbiamente condizionata dalle critiche di Jürgen Habermas al presunto irrazionalismo postmodernista foucaultiano36, che hanno dato origine a un’ampia letteratura di confronto tra i due autori37. Prendendo le mosse 34

Ivi, p. 247. Ivi, p. 259. 36 Si vedano i testi: Habermas, Jürgen, Una freccia scagliata al cuore del presente, in «Centauro», nn. 11-12, maggio-dicembre 1984, ed. francese Une flèche dans le coeur du temps présent, in «Critique», nn. 471-472, 1986, ed. inglese Taking Aim at the Heart of the Present, in «University Publishing», n° 13, Summer 1984, anche in Foucault: A Critical Reader, cit. (prima ed. in «Tageszeitung», 7 luglio 1984); Habermas, Jürgen, Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1985, trad. it. Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1987 (in particolare i capitoli: Smascheramento critico-razionale delle scienze umane: Michel Foucault e Le aporie di una teoria del potere). Prenderò in esame in modo più articolato le critiche di Habermas a Foucault nel paragrafo 7.2 Una freccia nel cuore del presente (Foucault e Habermas). 37 Si vedano, ad esempio: Honneth, Axel, Kritik der Macht: Reflexionsstufen einer kritischen Gesellschaftstheorie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1986, trad. it. Critica del potere: La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Bari, Dedalo 2002; Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, What is Maturity? Habermas and Foucault on «What is Enlightenment?», Enlightenment?» in Foucault: a Critical Reader, cit., 1986; Rorty, Richard, Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, trad. it. La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1989 (in particolare i capitoli La contingenza della società liberale e Ironia privata e speranza liberale); Bernstein, Richard J., The New Constellation: The Ethical-Political Horizons of Modernity/Postmodernity, Cambridge (UK), Polity Press, 1991, trad. it. La nuova costellazione: Gli orizzonti etico-politici del moderno/postmoderno, Milano, filosofico, in cui Bernstein Feltrinelli, 1994 (in particolare il capitolo Foucault. La critica come ethos filosofico prende in esame le critiche di Fraser, Taylor e Habermas); Eribon, Didier, «L’impatience de la Liberté» (Foucault et Habermas), in Michel Foucault et ses contemporains, Paris, Fayard, 1994; Ingram, David, Foucault and Habermas on the Subject of Reason, in Gutting, Gary (edited by), The Cambridge Companion to Foucault, Cambridge, Cambridge University Press, 1994 e 20052; Kelly, Michael (edited by), Critique and Power: Recasting the Foucault/Habermas Debate, Cambridge (Massachusetts)-London, MIT Press, 1994; Ashenden, Samantha e Owen, David (edited 35

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da un articolo di Nancy Fraser38, Habermas accusa Foucault di presentismo, relativismo, criptonormativismo: rifiutando di introdurre nel suo pensiero esplicite nozioni normative, Foucault non sarebbe in grado di giustificare le ragioni per cui dovremmo opporci piuttosto che sottometterci al regime di potere attuale, e inviterebbe a una resistenza unilaterale, apparentemente fine a se stessa. In nome di tale resistenza, Foucault, secondo Habermas, strumentalizzerebbe la storia, elaborando una «storiografia narcisista» che subordinerebbe «la considerazione del passato ai bisogni del presente»39, senza peraltro fornire i criteri per l’individuazione di tali bisogni. Priva di una norma, la critica totalizzante di Foucault finirebbe per rivolgersi anche contro se stessa, e si risolverebbe in quell’impresa aporetica e paradossale di demolizione della ragione illuminista e dei contenuti emancipativi della modernità a cui sarebbe riconducibile anche il nietzscheanesimo di Martin Heidegger, Georges Bataille, Theodor Wisengrund Adorno, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard. In un articolo del 198640, Richard Wolin associa la critica walzeriana di infantilismo a quella habermasiana di narcisismo. Accostando Foucault a Nietzsche, Wolin sostiene che l’atteggiamento di Foucault è come quello «di un bambino narcisista che considera repressiva qualsiasi forma di “maturità”»41. La Storia della follia nell’età classica, secondo Wolin, sarebbe segnata da un movimento regressivo, da una fuga dal progressismo illuminista verso una coscienza pre-razionale. E anche l’ultima produzione di Foucault – il suo ritorno all’etica stoica della cura di sé – sarebbe leggibile come una forma di estetismo e di dandismo immaturo, centrato sull’interesse per il sé piuttosto che per il mondo. Charles Taylor sviluppa, invece, quella che in Fraser e Habermas è la critica alla criptonormatività foucaultiana, formulandola come una critica di incoerenza. Da un lato Taylor – dall’apparente rifiuto foucaultiano dell’umanitarismo delle riforme carcerarie illuministe in Sorvegliare e punire, dalla critica foucaultiana alle teorie repressive della sessualità di Wilhelm Reich e Herbert Marcuse ne La volontà di sapere, e in generale dalla presunta ostilità by), Foucault contra Habermas, London-Thousand Oak-New Delhi, Sage Publications, 1999. Di recente, in Italia, anche Vincenzo Sorrentino, nel suo studio Il pensiero politico di Foucault, Roma, Meltemi, 2008, ha utilizzato, come farò io, le critiche Habermas come strumento per meglio comprendere lo statuto dell’interrogazione filosofica di Foucault. 38 Foucault on Modern Power: Empirical Insight and Normative Confusions, in «Praxis International», n° 1, 1981. 39 Il discorso filosofico della modernità, cit., p. 282. 40 Foucault’s Aesthetic Decisionism, in «Telos», n° 67, Spring 1986. 41 Ivi, p. 78.

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di Foucault al liberalismo – deduce che il filosofo francese rifiuterebbe ogni appello non solo al valore della verità, ma anche a quello della libertà, e, dall’altro, denuncia il fatto che egli utilizzerebbe surrettiziamente entrambe le nozioni nella sua analisi critica delle formazioni di potere della modernità42. Nel 1991, Rorty cerca di tirare le fila di questo dibattito internazionale su Foucault che ha visto come interlocutori privilegiati Habermas, Walzer e Taylor, condividendo in gran parte le opinioni di questi interpreti, ma manifestando una maggiore comprensione verso l’atteggiamento critico di Foucault. Rorty sostiene che Foucault come filosofo si è ritagliato nietzscheanamente il ruolo di «cavaliere dell’autonomia», ma che al tempo stesso «come cittadino ha cercato di favorire le stesse conseguenze politiche di un buon borghese progressista»43. Secondo Rorty non vi è alcuna contraddizione, nessuna norma nascosta, nessun narcisismo in questo: però Foucault produrrebbe talvolta cattivi risultati proiettando, come Nietzsche, «la sua personale ricerca di autonomia all’esterno, su uno spazio pubblico»44, e 42 Cfr. Taylor, Charles, Foucault on Freedom and Truth, in Foucault: A Critical Reader, cit., pp. 69 e 70; prima ed. in «Political Theory», n° 12, maggio 1984, poi in Philosophical Papers, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, vol. II. Taylor riprende queste critiche a Foucault in Sources of the Self: The Making of the Modern Identity (Cambridge-Massachusetts, Harvard University Press, 1989, trad. it. Radici dell’io: La costruzione dell’identità moderna, Milano, Feltrinelli, 1993). 43 Identità morale e autonomia privata: Il caso Foucault, in Scritti filosofici, Roma-Bari, Laterza, 1994, vol. I, p. 262 e p. 264, prima ed. Objectivity, Relativism and Truth: Philosophical Papers, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Dello stesso avviso di Rorty mi sembrano essere Edward W. Said (Reflections on Exile and Other Essays, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 2000; trad. it. Nel segno dell’esilio: Riflessioni, letture e altri saggi, Milano, Feltrinelli, 2008), secondo cui l’interesse di Foucault «nei confronti delle forme di dominazione, per quanto chiaramente pervaso da un atteggiamento critico, non era poi così dissidente e sovversivo come inizialmente parve a molti» (ed. it., p. 287), e l’amico e collega di Foucault Paul Veyne, che afferma «Come uomo, come militante, Foucault non era più sessantottino di quanto non fosse strutturalista; non credeva né in Marx né in Freud, né nella Rivoluzione, né in Mao, in privato si faceva beffe dei buoni sentimenti progressisti, e non l’ho mai visto assumere posizioni di principio sui grandi problemi quali il terzo mondo, la società di consumo, il capitalismo, l’imperialismo americano. Perché, anche in questo caso, la finitudine lascia pesantemente i suoi segni, e separa irrimediabilmente chi fa lo scienziato [savant] e chi prende partito [partisan]. Ci attende una sorpresa: Foucault si opponeva tacitamente a Raymond Aron, ma il più radicale dei due non era quello che si sarebbe potuto pensare; Aron non credeva che la separazione tra lo scienziato [savant] e il politico fosse così profonda come credeva Max Weber, che ai suoi occhi era troppo nominalista; era il supposto estremista di Vincennes che credeva che questo abisso fosse irrimediabile» (Michel Foucault: Sa pensée, sa personne, Paris, Albin Michel, 2008, pp. 177-178, traduzione mia). 44 Identità morale e autonomia privata: Il caso Foucault, in Scritti filosofici, Roma-Bari, Laterza, 1994, vol. I, p. 263.



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confondendo così due piani, quello della riflessione etico-filosofica e quello dell’azione politica. Sarebbero gli eccessi di anarchismo nietzscheano a rendere controversa l’opera di Foucault, a suscitare il gradimento dei suoi ammiratori francesi e le obiezioni dei suoi critici liberali americani45: Walzer, Taylor, Habermas e io abbiamo reazioni differenziate, ma sostanzialmente simili nei confronti di Foucault. Da una parte, c’è l’ammirazione e la gratitudine. […] Dall’altra parte, però, noi riformisti liberali pensiamo che l’opera di Foucault sia attraversata da una paralizzante ambiguità tra l’uso di “potere” come termine peggiorativo e il suo uso come termine neutro e descrittivo. Nel primo termine, per citare Taylor, «potere appartiene a un campo semantico dal quale non è possibile escludere verità e libertà». Nel secondo senso, il termine possiede tutta la vacuità di cui Nietzsche, nei suoi peggiori momenti, dota il termine Wille zur Macht. […] Entrambe le espressioni hanno grande risonanza soltanto perché sono vuote46.

Come Rorty, Habermas, Walzer e Taylor, altri commentatori mettono in luce il valore critico dell’opera foucaultiana e al tempo stesso ne denunciano l’incompletezza: con grande acume il filosofo francese metterebbe in guardia contro i pericoli insiti nelle società democratiche e liberali, ma non fornirebbe alcuna indicazione per la ricerca di soluzioni in grado di arginare tali pericoli. Già Dreyfus e Rabinow nel 1982 concludono sintomaticamente il loro studio su Foucault con una serie di interrogativi, per sottolineare il carattere problematico della relazione tra l’analitica interpretativa47 foucaultiana – rispetto alla quale manifestano, comunque, un atteggiamento più

45 A questo proposito, Maurizio Passerin d’Entrèves contesta l’«addomesticamento» operato dalla ricezione del pensiero foucaultiano negli Stati Uniti (in particolare da Dreyfus e Rabinow), invita alla prudenza chi prende alla lettera l’illuminismo professato dall’ultimo Foucault, e si schiera con Deleuze nel considerare Foucault soprattutto un erede di Nietzsche (Critica e illuminismo: Su Michel Foucault, in «Iride», n° 21, 1997, anche, con il titolo, Between Nietzsche and Kant: Michel Foucault’s Reading of “What is Enlightenment?”, in «History of Political Thought», n° 2, summer 1999). Per un’interpretazione nietzscheana di Foucault, oltre a Deleuze, si vedano i testi dedicati a Foucault dal suo collega ed amico Paul Veyne – che prenderò in esame tra poco – e si veda anche il testo di Vincent Descombes Le même et l’autre: Quarante-cinq ans de philosophie française (1933-1978) (Paris, Minuit, 1989). A proposito della doppia identità – francese-nietzscheana e americana-illuminista – di Foucault, si veda anche la recensione di Descombes della raccolta di testi critici Foucault: A Critical Reader (cit.), comparsa sulla «London Review of Books» (5 marzo 1987). 46 Rorty, Richard, Conseguenze del pragmatismo, cit., pp. 263-264. 47 Così i due autori chiamano il complesso metodo di analisi storica – unione di archeologia strutturalista e genealogia nietzscheana – che Foucault elabora negli anni settanta, dopo il fallimento del suo periodo strutturalista.

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che simpatetico – e la pratica politica concreta48. Nel 1985, in un articolo su «aut-aut»49, Remo Bodei, interrogandosi sulla ragione storica di questi dibattiti teorici, legge il pensiero foucaultiano come esempio della reazione antidialettica che dal secondo dopoguerra percorre le società avanzate (alla dialettica resterebbe, invece, ancora legato Habermas50). Secondo Bodei, la dialettica è «espressione di una fase dell’identità individuale e collettiva correlata al sorgere di macro-soggetti come lo stato o la classe»51, mentre la nuova forma di pensiero, a cui apparterrebbe anche Foucault, risponde ad altri problemi, ed è maggiormente capace di rendere conto della complessità e della ricchezza del reale, di promuovere il rispetto della diversità in tutte le sue sfaccettature, di difendere la libertà individuale. Bodei descrive con partecipazione questa nuova cultura, in confronto alla quale la dialettica appare come «una logica di guerra, una teoria da “anni di piombo”»52, ma al tempo stesso s’interroga se «non vi siano ancora popoli, individui e gruppi, che siano nella fase di costruzione dolorosa della propria identità collettiva e individuale»53 per i quali la dialettica potrebbe essere uno strumento indispensabile. Dieci anni dopo l’articolo di Bodei, nel 1995, anche Salvatore Veca fa di Foucault la figura esemplare di una corrente della filosofia politica contemporanea; anche Veca, inoltre, riconosce la parzialità del modo di pensare la politica condiviso da Foucault e invita a integrarlo con una tradizione teorica antagonista. Ma questa volta la posta in gioco non è la costruzione dell’identità, bensì l’edificazione della sfera pubblica54. Nell’approccio che Veca attribuisce «per mera convenzione espositiva»55 a Foucault, ogni ten-

48 «Esiste un qualche modo per resistere alla società disciplinare differente da quello che consiste nel comprendere in che modo essa operi e nell’ostacolarla ogni qual volta sia possibile? C’è un modo per condurre una resistenza positiva?» (La ricerca di Michel Foucault, cit., pp. 233-234). 49 Bodei, Remo, Strategie di individuazione, in «aut-aut», nn. 206-207, marzo-giugno 1985. Tre anni prima Bodei aveva scritto il saggio Politica e potere in Foucault (in Bovero, Michelangelo (a cura di), Ricerche politiche, Milano, Il Saggiatore, 1982). Riferimenti a Foucault sono frequenti anche in Scomposizioni: Forme dell’individuo moderno (Torino, Einaudi, 1987). 50 Cfr. Strategie di individuazione, cit., p. 103 e p. 104. 51 Ivi, p. 98. 52 Ivi, p. 108. 53 Ibid. 54 Veca, Salvatore, L’idea di discussione pubblica e il pendolo Kant/Foucault, in «Iride», n° 16, 1995. Su Habermas, Foucault e l’eredità dell’illuminismo, Veca è tornato in Le cose della vita. Congetture, conversazioni e lezioni personali, Milano, BUR, 2006 (testo n° 15, Filosofia, contingenza e normatività, soprattutto p. 153). 55 L’idea di discussione pubblica e il pendolo Kant/Foucault, cit., p. 535.



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tativo di costruire uno spazio pubblico che si sottragga ai giochi di potere è mera illusione, perché ogni spazio è inevitabilmente «interno» al potere56. Foucault ci metterebbe in guardia sul lato oscuro del processo di democratizzazione del potere politico, suscitando il sospetto che la soggettività dell’attore pubblico possa essere un’identità coattiva, imposta dal potere che edifica lo spazio pubblico. E tuttavia, secondo Veca, anche dopo aver appreso da Foucault quest’arte del sospetto, gli intellettuali non dovrebbero sottrarsi al compito di partecipare all’edificazione della sfera pubblica democratica, seguendo l’esempio di Kant (e di Habermas).

2.3 La ricezione dopo il 1994 Una nuova stagione della critica foucaultiana si è aperta a partire dal 1994, quando, in occasione del decimo anniversario della morte del filosofo francese, sono stati pubblicati i Dits et écrits57 – la raccolta delle interviste e degli interventi che hanno accompagnato la produzione principale del nostro autore –, ed è stata avviata la pubblicazione dei suoi corsi al Collège de France58. 56

«Il pubblico non è l’attore o il protagonista della discussione: esso ne è il prodotto» (ibid.). 57 Dits et écrits (édition étabilie sous la direction de Defert, Daniel, et Ewald, François), Paris, Gallimard, 1994, 4 voll., seconda edizione Gallimard, 2001, 2 voll. Da questa raccolta sono state tratte, in Italia, numerose traduzioni parziali: Poteri e strategie, Milano, Mimesis, 1994; Archivio Foucault 1, Milano, Feltrinelli, 1996; Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 1997; Archivio Foucault 3, Milano, Feltrinelli, 1998; Taccuino persiano, Milano, Guerini e Associati, 1998; Spazi altri, Milano, Mimesis, 2001; Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001; Biopolitica e liberalismo, Milano, Medusa, 2001; Follia e psichiatria, Milano, Cortina, 2006; Discipline, Poteri, Verità, Genova-Milano, Marietti, 2008. È stata pubblicata anche un’antologia che, alle traduzioni di testi presenti in Dits et écrits, unisce estratti di libri di Foucault: Antologia. L’impazienza della libertà, Milano, Feltrinelli, 2005. 58 Per il momento sono stati pubblicati i seguenti volumi: Résumés des cours 1970-1982, Paris, Gallimard, 1994, trad. it. I corsi al Collège de France. I Résumés, Milano, Feltrinelli, 1999; «Il faut défendre la société». Cours au Collège de France. 1975-197� 1975-197�, Paris, Seuil-Gallimard, 1997, trad. it. «Bisogna difendere la società», Milano, Feltrinelli, 1998; Les Anormaux. Cours au Collège de France. 1974-1975 1974-1975, Paris, Seuil-Gallimard, 1999, trad. it. Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Milano, Feltrinelli, 2000; L’hermeneutique du sujet. Cours au Collège de France. 1981-1982, Paris, Seuil-Gallimard, 2001, trad. it. L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), Milano, Feltrinelli, 2003; Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France. 1973-1974, Paris, Seuil-Gallimard, 2003, trad. it Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Milano, Feltrinelli, 2004; Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France. 1977-1978, Paris, Seuil-Gallimard, 2004, trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005; Naissance de la biopolitique. Cours au Collège

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Importanti spunti di riflessione sono emersi, ad esempio, da numerose interviste in cui Foucault fornisce nuovi elementi per interpretare il senso della sua ultima produzione sull’etica greca, dai corsi al Collège de France del 1982 e del 1983, L’ermeneutica del soggetto e Il governo di sé e degli altri – anch’essi dedicati all’etica greca – e dagli scritti letterari, inizialmente pubblicati, tra il 1961 e il 1972, sulle riviste «Tel quel» e «Critique»59. Già negli anni ottanta, storici del mondo antico come Pierre Hadot, Paul Veyne e Mario Vegetti, confrontandosi con le interpretazioni foucaultiane dell’etica dell’età classica e dell’età ellenistica, suggerivano che il vero interesse del filosofo francese, anche quando rivolge la sua attenzione all’antichità, resta il presente. Impegnato nella ricerca di un modello etico funzionale alle esigenze dell’attualità, Foucault, nelle sue ricognizioni storiche, avrebbe privilegiato alcuni aspetti dell’antichità (il platonismo) tralasciandone altri (l’aristotelismo), e sarebbe caduto nel facile errore di una sopravvalutazione della libertà degli antichi60. A distanza di vent’anni, dello stesso avviso restano Frédéric

de France. 1978-1979, 1978-1979 Paris, Seuil-Gallimard, 2004, trad. it. Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2005; Le gouvernement de soi et des autres. Cours au Collège de France. 1982-1983, Paris, Seuil-Gallimard, 2008. Sull’attività di insegnamento di Foucault al Collège de France si veda la raccolta di studi: Le Blanc, Guillame e Terrel, Jean (sous la direction de), Foucault au Collège de France: un itinéraire, Pessac, Presses Universitaires de Bordeaux, 2003. 59 In Italia alcuni di questi testi sono stati tradotti nella raccolta Scritti letterari (Milano, Feltrinelli, 1971). 60 Di Hadot si vedano: Réflexion sur la notion de “culture de soi”, in AA.VV., Michel Foucault philosophe, Paris, Seuil, 1989; Philosophy as a Way of Life: Spiritual Exercises from Socrates to Foucault (edited by Davidson, Arnold), Oxford-Cambridge (U.S.A)., Blackwell, 1995. Di Paul Veyne si vedano soprattutto il già citato libro Foucault, sa pensée, sa personne (Paris, Albin Michel, 2008) e i tre brevi saggi pubblicati in Italia con il titolo: Michel Foucault: La storia, il nichilismo e la morale (Verona, ombre corte, 1998): Foucault révolutionne l’histoire, in Comment on écrit l’histoire, Paris, Seuil, 1979; Le dernier Foucault et sa morale, in «Critique», nn. 471-472, 1986; Foucault et le dépassement (ou achèvement) du nihilisme, in Michel Foucault Philosophe, cit., 1989; e inoltre l’intervento È possibile una morale per Foucault?, in Rovatti, Pier Aldo (a cura di), Effetto Foucault, Milano, Feltrinelli, 1986, e la raccolta Sexe et pouvoir à Rome, Paris, Taillandier, 2005. Di Vegetti si vedano: Foucault e gli antichi, in Effetto Foucault, cit.; Desiderio e potere tra assoggettamento e soggettivazione nell’età antica, in Mariani, Alessandro (a cura di), Attraversare Foucault, Milano, Unicopli, 1997; L’ermeneutica del soggetto. Foucault, gli antichi e noi, in Scritti con la mano sinistra, Pistoia, Petit plaisance, 2007 e in Galzigna, Mario (a cura di), Foucault, oggi, Milano, Feltrinelli, 2008; e inoltre Il coltello e lo stilo, Milano, Il Saggiatore, 1979, e L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 1989. Di Arnold Davidson si vedano l’articolo Archaeology, Genealogy, Ethics, in Foucault: A Critical Reader, cit.; lo studio The Emergence of Sexuality, Cambridge-London, Harvard University Press, 2001; e l’articolo Dall’assoggettamento alla soggettivazione: Michel Foucault e la storia della sessualità, in «aut-aut», n° 331, 2006. Si veda, infine, lo studio di Giuseppe Cambiano L’antichità senza soggetti di Michel Foucault, in Il ritorno degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 1988.

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Gros, curatore de L’ermeneutica del soggetto e de Il governo di sé e degli altri 61, Jean-Claude Monod62, Mark Bevir63 e Francesco Paolo Adorno64. Oltre a sottolineare la continuità che intercorre nella produzione foucaultiana tra etica e politica, Adorno evidenzia anche come gli scritti letterari di Foucault degli anni sessanta anticipino temi che trovano sviluppo nella produzione maggiore degli anni settanta e ottanta. Analogamente Judith Revel sottolinea come la nozione di trasgressione, che Foucault elabora negli scritti letterari, costituisce un importante antecedente concettuale della categoria di resistenza degli scritti politici65, e Davide Tarizzo nella stessa nozione vede depositato il senso di una concezione del soggetto che resterebbe in ultima istanza invariata in tutta l’opera del nostro autore66. Di particolare interesse per gli studi politici si sono rivelati, però, soprattuto i corsi degli anni 1975-1979. L’attenzione della critica si è rivolta dapprima al corso del 1975-1976, «Bisogna difendere la società»67: alcuni com-

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Si veda Gros, Frédéric, Situation du cours, in L’Herméneutique du sujet, cit., trad. it. Nota del curatore, in L’ermeneutica del soggetto. Si veda inoltre: Gros, Frédéric e Lévy, Carlos (sous la direction de), Foucault et la philosophie antique: Actes du colloque international du 21-22 juin 2001, Paris, Kimé, 2003. Gros si è occupato anche dell’interpretazione foucaultiana della psichiatria vérité, e del diritto penale, è anche curatore del volume collettaneo Foucault. Le courage de la vérité Paris, PUF, 2002, e autore di: Michel Foucault, Paris, PUF, 1996; Foucault et la Folie, Paris, PUF, 1997; Création et folie. Une histoire du jugement psychiatrique, Paris, PUF, 1997; Le quatre foyers de sens de la peine, in Garapon, Antoine, Gros, Frédéric, Pech, Thierry, Et ce sera justice: Punir en démocratie, Paris, Odile Jacob, 2001. Sulla questione della giustizia penale si veda anche: Brossat, Alain, Pour en finir avec la prison, Paris, La fabrique, 2001, trad. it. Scarcerare la società, Milano, Elèuthera, 2003. Brossat è autore anche di uno studio che mette a confronto le analisi di Hannah Arendt sul totalitarismo e quelle di Foucault sul potere disciplinare: L’epreuve du désastre, Paris, Albin Michel, 1996. 62 Monod, Jean-Claude, Foucault: La Police de conduits, Paris, Michalon, 1997. 63 Bevir, Mark, Foucault and Critique: Deploying Agency against Autonomy, in «Political Theory», n° 1, 1999. 64 Adorno, Francesco Paolo, Le style du philosophe: Foucault et le dire-vrai, Paris, Kimé, 1996. 65 Revel, Judith, Foucault, le parole e i poteri: Dalla trasgressione letteraria alla resistenza politica, Roma, manifestolibri, 1996. Di Judith Revel si vedano anche: Foucault e le letteratura: Storia di una scomparsa, in Archivio Foucault 1, cit.; la voce Foucault, in Julliard, Jaques e Winock, Michel (sous la diréction de), Dictionnaire des intellectuels français, Paris, Seuil, 1996; Le vocabulaire de Foucault, Paris, Ellipses, 2002; e, infine, Expériences de la pensée. Michel Foucault, Foucault Paris, Bordas, 2005. 66 Tarizzo, Davide, La “follia” di Foucault, in Il pensiero libero: La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Milano, Cortina, 2003. 67 Si veda, ad esempio: AA.VV., Lectures de Michel Foucault, textes réunis par Zancarini, Jean-Claude, Lyon, ENS Éditions, 2000; Michel Foucault. De la guerre de races au biopouvoir, «Cités», n° 2, 2000.

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mentatori, tra cui Yves-Charles Zarka68 e Carlo Galli69, vi hanno individuato la proposta di un metodo di analisi che fa della guerra il principio d’intelligibilità non soltanto della storia70, ma anche delle relazioni politiche e sociali71: secondo questi studiosi il pensiero di Foucault sarebbe percorso da un bellicismo senza soluzioni, da un ideale di insurrezione permanente. Tenendo conto soprattutto dei due corsi successivi, Sicurezza territorio, popolazione (1977-1978) e Nascita della biopolitica (1978-1979)72, invece, altri critici – tra cui e Michel Senellart73, che di questi corsi è il curatore, e Alessandro Pandolfi74 – hanno reperito non in questo modello bellicista, ma nelle nuove categorie coniate dal filosofo francese, – biopolitica75, potere pastora68

Zarka ha espresso un giudizio severo su quella che gli è apparsa essere un’interpretazione del potere che non consente pacificazione, nell’articolo Foucault et le concept non juridique biopouvoir, n° 2, 2000; poi con il du pouvoir, in «Cités», Michel Foucault. De la guerre de races au biopouvoir titolo Foucault et le concept du pouvoir, in Figures du pouvoir. Études de philosophie politique de Machiavel à Foucault, Paris, PUF, 2001. 69 Alcune pagine di «Bisogna difendere la società» concludono l’antologia Guerra (a cura di Carlo Galli, Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 218-226), e anche Galli, nell’introduzione di questa antologia, ha proposto una lettura conflittualistica del pensiero di Foucault, paragonandolo sotto alcuni aspetti a quello di Carl Schmitt: cfr. pp. VII-XXIX, in particolare p. XXVII. 70 Sulla concezione foucaultiana della storia si vedano: Adorno, Francesco Paolo, Fiction et biopouvoir n° 2, 2000; Potte-Bonnehistoire, in «Cités», Michel Foucault. De la guerre de races au biopouvoir, ville, Mathieu, Michel Foucault. L’inquiétude de l’histoire, Paris, PUF, 2004; Napoli, Paolo, Michel Foucault. La storia come strumento di lotta, lotta in Arienzo, Alessandro e Caruso, Dario (a cura di), Conflitti, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2005. 71 Si veda, ad esempio, il simpatetico: Chevallier, Philippe, Michel Foucault. Le pouvoir et la bataille, Nantes, Éditions Plein Feux, 2004. 72 Foucault non tenne lezioni al Collège nell’anno 1976-1977. 73 Di Michel Senellart si vedano: Michel Foucault. Gouvernementalité et raison d’État d’État, in «La Pensée Politique», n° 1, 1993, trad. it. Michel Foucault. Governamentalità e ragion di Stato, in «Archivio della ragion di Stato», n° 2, 1994, e in Chignola, Sandro (a cura di), Governare la vita, Verona, ombre corte, 2006; Un auteur face à son livre. Pourquoi faire l’histoire des modes de gouvernement, in «Il pensiero politico», n° 3, 1996; Situation des cours, in Foucault, Michel, Sécurité, territoire, population cit., trad. it. Nota del curatore, in Sicurezza, territorio, popolazione, cit. 74 Cfr. Pandolfi, Alessandro, Foucault e la guerra, in «Filosofia politica», n° 3, 2002, p. 407: «Tra la fine degli anni settanta e la morte, Foucault prendeva le distanze dall’ipotesi di lavoro formulata nel corso del 1976 sulla guerra come griglia di analisi dei rapporti di potere». Sandro Chignola, invece, nel saggio L’impossibile del sovrano: Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault (in Id. (a cura di), Governare la vita, cit., 2006), su questa questione “sospende il giudizio”(cfr. pp. 46-47). 75 Sulla nozione foucaultana di biopolitica si veda, tra gli altri, lo studio di Valerio Marchetti La naissance de la biopolitique, in AA.VV., Au risque de Foucault, Paris, Centre Georges Pompidou-Centre Michel Foucault, 1997. Si veda anche l’intervista a Marchetti La biopolitica e i sogni della Ragion di Stato, in Mariani, Alessandro, Attraversare Foucault, cit. Si veda, inoltre: Cutro, Antonella, Michel Foucault, tecnica e vita. Bio-politica e filosofia del bios, Napoli, Bibliopolis, 2004. E infine le voci Biopolitique e Gouvernementalité in Revel, Judith Le vocabulaire de Foucault,

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le76, governamentalità77 – la sua vera ipotesi interpretativa: non la guerra, ma il governo fornirebbe per Foucault il principio di intelligibilità del potere. È appunto insistendo su questo punto che alcuni interpreti sono giunti a dipingere un ritratto liberale di Foucault e a fare del filosofo francese un difensore dello stato di diritto. Nel 1995, ad esempio, Jon Simons afferma che «se si distingue l’opposizone di Foucault all’umanesimo dal suo atteggiamento verso la modernità, è la liberal-democrazia radicale a costituire le condizioni di possibilità politiche appropriate per la sua estetica dell’esistenza»78; e nel 2001 Maria Bonnafous-Boucher addirittura colloca Foucault «all’interno di una tradizione e di una concezione liberale della libertà», argomentando che «se la garanzia della libertà è la libertà, bisogna che essa sia legittimamente data come garanzia giuridica»79. Se nel 1977, quando Foucault era all’apice della popolarità, Jean Baudrillard invitava a dimenticare Foucault80, nel 2002 David M. Halperin ha cit., e in Leclercq, Stéfan (sous la diréction de), Abécédaire de Michel Foucault, Mons-Paris, Sils Maria asbl-Vrin, 2004. 76 Sulla nozione foucaultana di potere pastorale, si veda in particolare: Pandolfi, Alessandro, Potere pastorale e teologia politica nel pensiero di Michel Foucault, in «Il pensiero politico», n° 2, 1999. Pandolfi è anche autore di Tre studi su Foucault, Napoli, Terzo millennio, 2000; Foucault e la guerra, cit., 2002; Natura umana, Bologna, il Mulino, 2006. 77 Sul tema della governamentalità, oltre agli studi di Senellart riportati nella nota 73, si vedano anche: Barry, Andrew, Osborne, Thomas, Rose, Nikolas (edited by) Foucault and Political Reason. Liberalism, Neoliberalism and Rationalities of Government, Chicago, University of Chicago Press, 1996; Bratich, Jack Z., Packer, Jeremy, McCarty, Cameron (edited by), Foucault, Cultural Studies, and Governmentality, Albany, State University of New York Press, 2003; i saggi racolti in Chignola, Sandro (a cura di), Governare la vita, Verona, ombre corte, 2006; Marzocca, Ottavio, Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, manifestolibri, 2007. 78 Simons, Jon, Foucault and the Political, London and New York, Routledge, 1995, p. 116, traduzione mia. 79 Bonnafous-Boucher, Maria, Un libéralisme sans liberté, Paris, L’Harmattan, 2001, p. 128, traduzione mia. Bonnafous-Boucher ha reperito analogie tra il pensiero di Foucault e quello di Friedrich August von Hayek, ma ha evidenziato anche delle differenze: se entrambi hanno condiviso un’idea negativa, tipicamente liberale, di libertà, solo Hayek tentò, infatti, di definire la libertà in relazione a un quadro costituzionale. In modo analogo, Paolo Napoli (Le arti del vero. Storia, diritto, politica in Michel Foucault, Napoli, La città del sole, 2002) ha tentato di integrare il pensiero di Foucault con l’interpretazione del diritto resa possibile dalle teorie sistemiche di Niklas Luhmann. 80 Baudrillard, Jean, Oublier Foucault, Paris, Galilée, 1977, nuova ed. fr. Galilée, 2003, trad. it. Dimenticare Foucault, Bologna, Cappelli, 1977. Si vedano anche: Greblo, Edoardo, Dimenticare Foucault?, in «aut-aut», n° 242, 1991; Soper, Kate, Forget Foucault?, in «New Formations», n° 25, 1995. Baudrillard contesta a Foucault di ricondurre l’intero spettro del reale al potere, senza indagare su che cosa il potere eserciti la sua presa. Il potere descritto da Foucault sarebbe una struttura onnicomprensiva ma priva di fondamento e di punti di applicazione. Inoltre, secondo Baudrillard la critica genealogica di Foucault investe le concezioni causa-

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sostenuto che un certo oblio di Foucault è passato in realtà attraverso un eccesso di memoria, attraverso l’invocazione rituale del suo nome da parte di chiunque si occupi di Cultural Studies81. Nello specifico, Halperin prende posizione contro coloro che, dimenticando l’intento critico dei testi di Foucault, pretendono di trovare nella sua Storia della sessualità (1976-1984) “la verità” sul sesso. Analogamente si potrebbe sostenere – come argomentano Blandine Kriegel82, Judith Revel83 e, indirettamente, anche Vincenzo Sorrentino84 – che voler fare oggi di Foucault un patrono del neoliberalismo contemporaneo equivalga a dimenticare l’ethos critico-decostruttivo che ha caratterizzato la sua impresa intellettuale. Quarant’anni di critiche mostrano come, quando si pretende da Foucault una fedeltà che egli rifiuta – al marxismo, al liberalismo –, si perde in realtà il senso della sua impresa intellettuale. Per questa ragione, nelle pagine che seguiranno, cercherò di privilegiare una lettura dell’opera del filosofo francese che riconosca il valore del tradimento che egli opera nei confronti di ogni tradizione di pensiero politico. Per fare questo, terrò conto non solo dell’attività teorica, ma anche dell’impegno politico militante

listiche e finalistiche del potere, ma non il simulacro del potere stesso: Foucault non comprenderebbe che il potere ha carattere simbolico (e quindi immediato, puntuale, reversibile) prima che politico (cioè progettuale, strategico, dialettico), e che attraverso i meccanismi psicologici della seduzione e della sfida, piuttosto che produrre verità, il potere opera simulazioni di prospettiva. La critica di Foucault finirebbe, pertanto, per essere complice dei poteri che descrive, perché, anziché denunciarne il carattere fantasmatico, rafforzerebbe l’illusione di realtà che essi mettono in scena. 81 Halperin, David M., How to Do the History of Homosexuality, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2002. Il primo capitolo, itolo, Forgetting Foucault, è stato tradotto in francese d’emploi Paris, EPEL, 2004. con il titolo Oublier Foucault. Mode d’emploi, 82 Cfr. Kriegel, Blandine, Michel Foucault aujourd’hui, Paris, Plon, 2004, p. 97. 83 Cfr. Revel, Judith, Expériences de la pensée. Michel Foucault cit., pp. 228-229. 84 Mi sembra, infatti, che alcune tesi sostenute da Vincenzo Sorrentino nel già citato Il pensiero politico di Foucault (Roma, Meltemi, 2008), possano essere contrapposte alle opinioni di Jon Simons e Maria Bonnafous-Boucher – che riconducono semplicisticamente la concezione foucaultiana della libertà al liberalismo. Fin dalle prime pagine del suo saggio, e poi nel capitolo sesto, L’impazienza della libertà, Sorrentino insiste sulla pluralità di significati che il concetto di libertà, in relazione a «differenti figure del limite» («come soglia, come ostacolo e come tratto configurante all’interno di un gioco di forze», p. 190), assume nell’opera di Foucault («trasgressione, autopoiesi radicale, perdita di sé, stilizzazione della propria esistenza», p. 9). Nella pagine dedicate all’interpretazione che Foucault opera del liberalismo, Sorrentino insiste, poi, sui toni critici con cui il filosofo francese sostiene che il liberalismo «oscilla continuamente tra la produzione, la limitazione e la distruzione della libertà» (p. 111). L’impazienza della libertà è anche il sottotitolo che Sorrentino ha scelto per la raccolta di testi di Foucault da lui curata (Foucault, Michel, Antologia: L’impazienza della libertà, Milano, Feltrinelli, 2005).

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di Foucault – nella convinzione che esso permetta di comprendere meglio le sue riflessioni. Il ruolo che il filosofo francese ha cercato di ritagliarsi all’interno dell’opinione pubblica internazionale è quello del demolitore di certezze, del provocatore che incita alla disobbedienza: il pensiero politico di Foucault fornisce strumenti critici contro i totalitarismi di destra e di sinistra, ma anche contro il dispotismo dolce delle società liberaldemocratiche, contro la manipolazione delle coscienze del potere pastorale di ogni chiesa e partito, di ogni ideologia e teoria politica. Per restituire a questo pensiero critico la pienezza del suo significato – senza commettere l’errore di costruire un sistema a partire da ricerche circostanziate che rifiutano una composizione unitaria, ed anzi sottolineando la fecondità di quelle che Habermas chiama «contraddizioni produttive» del percorso teorico foucaultiano –, rifiutando un’interpretazione che ridurrebbe il pensiero politico di Foucault alla logica di guerra che egli difenderebbe in «Bisogna difendere la società», mi soffermerò sulla funzione centrale che la nozione di governo ricopre nell’ultima produzione del nostro autore. Cercherò, inoltre, di mostrare come egli elabori, attraverso la categoria etica di cura di sé, quella proposta – quella pars construens – che il suo antiuniversalismo nietzscheano rende impossibile su un piano strettamente politico. Tra le numerose critiche che sono state rivolte al filosofo francese, prenderò in esame in particolare quelle mosse da Habermas, che molto rivelano su di esso. Tenendo conto delle obiezioni habermasiane, cercherò nella teoria del giudizio politico di Hannah Arendt strumenti concettuali che consentano di correggere i rischi di solipsismo presenti nell’etica di Foucault, tentando di conservare la radicalità critica del suo pensiero, ma anche di oltrepassarla, con l’intenzione di estendere la cura di sé alla cura del mondo, di comprendere l’una nell’altra. Prima di tutto questo, nel prossimo capitolo, indagherò i complessi rapporti che intercorrono tra la decostruzione foucaultiana delle scienze umane e il pensiero dei tre “maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche e Freud. A tal fine, analizzerò i debiti che il filosofo francese ha contratto verso tre suoi illustri contemporanei: Louis Althusser, Gilles Deleuze e Jacques Lacan.

3 La morte dell’uomo

3.1 Foucault, Althusser e Marx Paul-Michel Foucault nasce a Poitiers il 15 ottobre 19261. Suo padre PaulAndré è un affermato chirurgo, suo nonno Paul un medico, figlio a sua volta di un medico. Anche la madre Anne Malapert è figlia di un chirurgo e, secondo i progetti dei suoi genitori, chirurgo avrebbe dovuto diventare anche Paul-Michel. È quindi sfidando la tradizione familiare che, già verso la fine degli anni trenta, Foucault, adolescente, decide di dedicarsi agli studi umanistici (inizialmente appassionato di storia, sceglierà più tardi di dedicarsi alla filosofia). Sono però i suoi genitori a stabilire in quali istituzioni potrà coltivare i suoi interessi. Andrà a Parigi: alla Sorbonne, all’École Normale Supérieure. Nel 1943-1944, mentre ancora è in corso la guerra (nel giugno 1944, poco prima della sua liberazione, Poitiers subirà dei bombardamenti), Foucault segue il corso preparatorio per l’esame d’ammissione alla Normale presso il liceo Henri IV di Poitiers. Ma nell’ottobre 1945, poco dopo la fine del conflitto, non supera le prove d’ingresso. Si trasferisce allora a Parigi e si iscrive al corso preparatorio presso il prestigioso liceo Henri IV: il suo professore di filosofia è Jean Hyppolite2, l’autore della prima traduzione francese della Fenomenologia dello spirito di Hegel3, che da subito riconosce e valorizza il suo talento, e che sarà una presenza costante negli anni della sua forma1

Per ricostruire la biografia di Foucault in questo capitolo ho attinto soprattutto agli studi di Didier Eribon Michel Foucault (192�-1984), Paris, Flammarion, 1989, trad. it. Michel Foucault, Milano, Leonardo, 1991 e Michel Foucault et ses contemporains, Paris, Fayard, 1994. 2 Nato nel 1907, Jean Hyppolite frequentò la Normale con Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Raymond Aron, e negli anni trenta potè seguire le celebri lezioni di Alexandre Kojève su Hegel. Morì nel 1968. Per comprendere il clima culturale in cui si è formato Foucault, profondamente intriso di hegelismo e di marxismo, di Hyppolite possono essere utili i seguenti studi: Genèse et structure de la “Phenomenologie de l’esprit” de Hegel, Paris, Aubier, 1946, trad. it. Genesi e struttura della fenomenologia dello spirito di Hegel, Firenze, La Nuova Italia, 1972; Études sur Marx et Hegel, Paris, Rivière, 1955, trad. it. Saggi su Marx e Hegel, Milano, Bompiani, 1963; Logique et existence: Essai sur la logique de Hegel, Paris, PUF, 1961; Figures de la pensée Philosophique: Écrits de Jean Hyppolite (1931-19�8), Paris, PUF, 1971. 3 Paris, Aubier, vol. I 1939, vol. II 1941.

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zione4. Nel luglio 1946, all’età di vent’anni, Foucault è finalmente ammesso all’École Normale Supérieure di rue d’Ulm. Qui conosce Louis Althusser. Althusser, che ha undici anni più di Foucault, è entrato alla Normale nel 1939, ma è stato presto richiamato alle armi. Dopo cinque anni in un campo di concentramento nazista, durante i quali, da fervente cattolico qual era, è diventato comunista, torna alla Normale nel 1945. Nel 1948 ottiene l’abilitazione all’insegnamento di filosofia (l’agrégation) discutendo una dissertazione su “La nozione di contenuto nella filosofia di Hegel” che ha composto sotto la guida di Gaston Bachelard. È subito nominato assistente di filosofia alla Normale (caïman, come dicono gli studenti: incaricato di preparare i candidati all’esame di abilitazione) e si iscrive al Partito comunista francese. Il 1948 è anche l’anno in cui Foucault ottiene la licence di filosofia alla Sorbona, ma non per questo lascia la Normale: studierà ancora per qualche anno sotto la guida di Althusser. Sarà questi a condurlo, assieme ad altri studenti, in visita all’ospedale Sainte-Anne, dove il nostro autore entrerà in contatto con le correnti riformatrici del pensiero psichiatrico. Nel 1949 – cioè nell’anno in cui Maurice Merleau-Ponty diventa professore di psicologia alla Sorbona: qui tiene il suo celebre corso su “Scienze umane e fenomenologia”, mentre presso gli studenti della Normale diffonde il pensiero di Ferdinand de Saussure – Foucault ottiene anche la licence di psicologia, istituita nel 1947. Nel 1950, invece, Foucault è respinto all’esame per l’agrégation di filosofia. Lo supera nel 1951 e nello stesso anno, su richiesta di Althusser, tiene un corso di psicologia alla Normale. Contemporaneamente lavora come tirocinante al Sainte-Anne e nel laboratorio di elettroencefalografia della prigione di Fresnes. Nel 1952 ottiene il diploma

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Nel gennaio 1969, poco dopo la morte di Hyppolite, Foucault tenne un discorso commemorativo presso l’École Normale Supérieure, in cui ricordò con commozione gli insegnamenti di Hyppolite sulla Fenomenologia dello spirito al corso preparatorio per la Normale, e riconobbe i propri debiti verso i suoi studi su Hegel, Marx e Freud (Commentaire parlé sur la Verneinung de Freud (1954), ora in Figures de la pensée Philosophique, cit.). L’intervento si concluse con queste parole: «Tutti quelli che sono, oggi, i nostri problemi – quelli che occupano noi, i suoi allievi di un tempo, ma anche i suoi discepoli più recenti – è stato lui a suscitarli e a definirli per tutti noi. [...] All’indomani della guerra, egli ci insegnava a pensare i rapporti tra la violenza e il discorso; appena ieri ci insegnava a pensare i rapporti tra la logica e l’esistenza; ancora poco fa ci ha proposto di pensare i rapporti tra il contenuto del sapere e la necessità formale. Ci ha insegnato, infine, che il pensiero filosofico è una pratica incessante; che costituisce un certo modo di mettere in opera ciò che non è filosofia, restandogli però sempre il più vicino possibile, laddove esso si annoda all’esistenza. Con lui, dovremmo sempre rammentarci che “se grigia è la teoria, verde è l’albero d’oro della vita”» (Jean Hyppolite. 1907-19�8, in Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001, pp. 9-10, prima ed. in «Revue de métaphisique et de morale», n° 2, 1969, ora in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, vol. I, testo n° 67).

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di psicopatologia all’Institut de Psychologie di Parigi, e inizia a lavorare con Jacqueline Verdeaux (un tempo assistente del padre di Foucault a Poitiers) alla traduzione di un breve testo di Ludwig Binswanger, lo psichiatra svizzero iniziatore della Daseinsanalyse, la psichiatria esistenziale: il testo s’intitola Sogno ed esistenza (1930), e sarà pubblicato due anni dopo con una lunga introduzione di Foucault5. Nel 1954 Foucault pubblica anche Malattia mentale e personalità6, un breve testo commissionatogli da Althusser per una collana destinata agli studenti. Un rapporto importante, quello tra Foucault e Althusser, che va oltre una semplice relazione assistente-studente: Althusser sostiene quel giovane fragile e tormentato che è allora Foucault nei momenti difficili – la bocciatura all’agrégation nel 1950, ad esempio –, dissuadendolo però dal farsi ricoverare al Sainte-Anne, dal ripetere quell’infelice esperienza che lui stesso aveva dovuto attraversare nel 1947. Ed è sotto l’influenza di Althusser che Foucault nel 1950 aderisce al Partito comunista francese, che poi abbandonerà nel 19537. Nel 1978, Foucault – intervistato da Duccio Trombadori – attribuirà più che altro alla giovane età e al clima culturale del tempo la sua adesione al Partito comunista, e insisterà sull’insolita sovrapposizione cronologica di tale esperienza con la lettura di Nietzsche, vissuta come ricerca di una filosofia alternativa all’hegelismo dominante nelle università e all’esistenzialismo sartriano che permeava la cultura di sinistra del tempo: Si era alla ricerca di altre vie intellettuali proprio per giungere là dove sembrava prendesse corpo, o esistesse già, qualcosa di totalmente “altro”: e cioè il comunismo. È stato così che senza conoscere bene Marx, rifiutando l’hegelismo, provando disagio per i limiti dell’esistenzialismo, io decisi di aderire al Partito comunista francese. Si era nel 1950: essere, allora, “comunista nietzscheano”! Una cosa davvero al limite della “vivibilità”! E, se vogliamo, anch’io lo sapevo che era un pochino ridicolo, forse8. 5

Introduction, in Binswanger, Ludwig, Le Rêve et l’Existence, Paris, Desclée de Brouwer, 1954, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 1, trad. it. Introduzione a Binswanger, Ludwig, Sogno ed esistenza, Milano, SE, 1993, ora anche Il sogno, Milano, Cortina, 2003. 6 Maladie mentale et personnalité, Paris, PUF, 1954, trad. it. Malattia mentale e personalità, in «Scibbolet. Rivista di psicanalisi», n° 1, 1994, pp. 232-254; n° 2, 1995, pp. 303-326; n° 3, 1996, pp. 298-323. 7 «Frequentavo molto in quel periodo Louis Althusser, che militava nel Pcf. Era stato un po’ sotto la sua influenza che avevo deciso di aderire. E quando sono uscito dal Partito, da parte sua non ci sono stati anatemi, né a causa di ciò ha voluto rompere i rapporti con me» (Colloqui con Foucault, a cura di Trombadori, Duccio, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 50, prima ed. Conversazione con Michel Foucault, in «Il Contributo», n° 1, 1980, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 281). 8 Ivi, pp. 47-48.

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Nel 1978, col senno di poi, sarà facile per Foucault minimizzare il proprio passato da comunista9: si tratta, in realtà, di un’importante esperienza di formazione in cui, assieme alla militanza nel partito, è in gioco l’adesione alla dottrina marxista. Se, infatti, nell’introduzione al testo di Binswanger, Foucault sembra collocarsi in una posizione simpatetica nei confronti dell’analisi esistenziale dello psichiatra svizzero, Malattia mentale e personalità gravita decisamente nell’orbita dell’ortodossia marxista. In questo testo, infatti, dopo essersi soffermato sull’analisi esistenziale e sui progressi che essa rappresenterebbe per la psichiatria, Foucault tesse le lodi della riflessologia di Ivan Pavlov. Come ricorda Didier Eribon, si tratta di un «segnale politico»: per il Partito comunista francese, Pavlov in quegli anni era l’esempio di una «scienza psicologica materialista», contrapposta alla “borghese” psicoanalisi10. In linea con la psichiatria marxista del tempo, in Malattia mentale e personalità, Foucault accusa la psicoanalisi di psicologismo: di un eccesso di intimismo che condurrebbe a sottovalutare il ruolo svolto dall’ambiente sociale nello sviluppo psichico individuale. A suo avviso, invece, Pavlov avrebbe dimostrato come alla base del disagio psichico si collochi l’alienazione del soggetto, e come la guarigione comporti sempre la creazione di nuovi rapporti con l’ambiente e di nuove relazioni umane. Quando, nel 1962, le Presses Universitaires de France gli chiederanno di pubblicare una seconda edizione di questo libro, Foucault non si riconoscerà più nel capitolo su Pavlov e lo espungerà dal testo. Riscriverà interamente la seconda parte, e cambierà il titolo dell’intero saggio in Malattia mentale e psicologia11. Molte cose saranno accadute, nel frattempo: sono anni in cui la Francia è impegnata in un’attività di ricostruzione delle sue relazioni culturali con il resto dell’Europa, e per un promettente giovane intellettuale disposto a viaggiare non mancano opportunità di lavoro interessanti. A partire dall’autunno del 1955 Foucault ricopre il posto di direttore dell’Istituto francese di Uppsala (e già in dicembre invita Hyppolite a tenere delle conferenze sull’eredità di Hegel e Kierkegaard nella filosofia francese), nell’ottobre del 1958 è a Varsavia, per aprire all’interno dell’Università un centro di civiltà francese, un anno dopo ad Amburgo, per dirigere l’Istituto francese. Nell’ot-

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Cfr. ivi, pp. 48-49. Si veda: Eribon, Didier, Michel Foucault, cit., ed. it., p. 102. Eribon segnala che l’editoriale del primo numero della rivista «La Raison. Cahiers de psychopatologie scientifique», fondata da psicologi marxisti, pubblicato nel 1951, elogiava il «notevole lavoro di Pavlov e dei suoi seguaci» (ibid.). 11 Maladie mentale et psychologie, Paris, PUF, 1962, trad. it. Malattia mentale e psicologia, Milano, Cortina, 1997. 10

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tobre 1960, invece, è nominato associato di psicologia presso l’università di Clermont-Ferrand. Intanto, il 1° giugno 1958 De Gaulle è diventato capo del governo, il 28 settembre dello stesso anno un referendum ha instaurato in Francia la V Repubblica. Il 14 settembre 1959 è morto il padre di Foucault. Nell’ottobre 1960, il nostro autore conosce Daniel Defert, allora studente di filosofia, che sarà suo compagno dal 1963 alla sua morte. Ma soprattutto, il 20 maggio 1961, egli discute le sue tesi di dottorato: la traduzione dell’Antropologia pragmatica di Kant (1798), corredata di una lunga introduzione12 (tesi secondaria, con relatore Jean Hyppolite), e Storia della follia nell’età classica (tesi principale, i cui relatori sono Georges Canguilhem e Daniel Lagache). Quest’ultimo lavoro diventa un libro13, e la seconda parte di Malattia mentale e psicologia non ne è che un riassunto. Rispetto ai testi precedenti, Storia della follia rappresenta un’importante svolta: le analisi che vi si trovano si sottraggono all’ambito della teoria psicologica, per elevarsi a un piano meta-psicologico. Foucault non parteggia più per questa o quella corrente di pensiero psicologico – la psichiatria esistenziale o la riflessologia pavloviana –, ma tratteggia una storia della psicologia nelle sue relazioni con la medicina, intraprendendo una ricerca di epistemologia delle scienze umane, che proseguirà negli anni successivi. Dovrà trascorrere ancora del tempo, prima che Foucault decida di sistematizzare il metodo delle proprie ricerche: nel 1968, alcuni allievi maoisti di Althusser alla Normale di rue d’Ulm, riuniti in un Cercle d’epistemologie, invieranno un questionario a Foucault, che pubblicheranno, assieme alle risposte, nei loro «Cahiers pour l’analyse»14 – vede così la luce quella che diventerà la prima parte de L’archeologia del sapere (1969)15. Tuttavia, già nella prima edizione di Storia della follia è presente quell’approccio alla storia del pensiero che si ritroverà in opere successive – la Nascita della clinica (1963)16, Le parole

La traduzione uscì tre anni dopo, ma senza l’introduzione di Foucault: Kant, Immanuel, Anthropologie du point de vue pragmatique, Paris, Vrin, 1964; l’introduzione è stata invece pubblicata nella nuova edizione (Paris, Vrin, 2008), alle pp. 11-79. 13 Folie et Déraison. Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Plon, 1961, trad. it. Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1963. Il secondo capitolo della seconda parte di questo libro, stranamente omesso nella traduzione italiana, è stato tradotto, con il titolo Il folle nel giardino della specie, in «aut-aut», n° 323, 2004. 14 Questions à Michel Foucault, e Réponses au Cercle d’épistémologie, in «Cahiers pour l’analyse», n° 9, luglio 1968, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 59. 15 L’Archéologie du savoir, Paris, PUF, 1969, trad. it. L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli, 1971. 16 Naissance de la clinique, Paris, PUF, 1963, trad. it. Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1969. 12

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e le cose (1966)17, e appunto, L’archeologia del sapere –, quell’approccio inviso ai marxisti sartriani, che accomuna Foucault allo strutturalismo e che al tempo stesso lo colloca all’interno di una tradizione epistemologica francese che gli preesiste. Per “strutturalismo” si intende quel composito movimento filosofico e al tempo stesso critico-letterario che negli anni sessanta si contrappone all’umanesimo della cultura francese degli anni quaranta-cinquanta: estendendo alle altre scienze umane il metodo dello strutturalismo linguistico di Ferdinad de Saussure, antropologi (Claude Lévi-Strauss), psicoanalisti (Jacques Lacan), critici letterari (Roland Barthes), storici delle religioni (Georges Dumézil) e filosofi (Althusser e Foucault, appunto) cercano in quegli anni di sostituire, nella comprensione degli eventi umani, al primato della coscienza, della soggettività, della storia, quello della “struttura”, indagando le società a partire non dalle individualità che le abitano, ma dalle relazioni sistemiche che le costituiscono. Caratteristico del programma scientifico del primo strutturalismo è il tentativo di comprendere i fenomeni umani andando al di là della loro particolarità, ricercando ciò che accomuna culture differenti prescindendo dalle possibili derivazioni storiche di una cultura dalle altre. Metodologicamente, lo strutturalismo di Saussure, Lévi-Strauss e Lacan predilige quindi l’analisi sincronica a quella diacronica, e tenta di cogliere connessioni e leggi universali attraverso lo studio di sistemi (linguistici, sociali, epistemici...) particolari18. Lo “strutturalismo” di Foucault, invece, non ricerca strutture atemporali e universali, valide per spiegare fenomeni socio-culturali in ogni tempo e in ogni luogo, ma indaga le condizioni di possibilità storicamente determinate che permettono a tali fenomeni di venire alla luce. Per Foucault, il percorso della conoscenza e della coscienza umane nella storia non obbedisce a invarianti universali, né presenta una scansione omogenea e lineare, ma prosegue per salti e cesure strutturali: nel tempo si succedono sistemi di razionalità differenti – che ne Le parole e le cose il nostro autore chiama «campi epistemologici» o semplicemente «epistemai»19 –, 17

Les mots et les choses, Paris, Gallimard, 1966, trad. it. Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1967. 18 Per una più dettagliata introduzione allo strutturalismo si rimanda a Remotti, Francesco, voce Strutturalismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia italiana, 1998, vol. VIII, e alla bibliografia lì riportata. 19 Così Foucault presenta il contenuto de Le parole e le cose nella prefazione: «Non verranno quindi descritte conoscenze nel loro progresso verso un’obbiettività in cui la nostra scienza odierna potrebbe da ultimo riconoscersi; ciò che vorremmo mettere in luce, è il campo epistemologico, l’episteme in cui le conoscenze, considerate all’infuori di ogni criterio di riferimento al loro valore razionale o alle loro forme oggettive, affondano la loro positività manifestando

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ognuno dei quali è dotato di regole proprie che permettono di far apparire determinati oggetti del sapere e non altri. Se è lecito parlare di un metodo strutturalista foucaultiano, occorre quindi precisare che si tratta di uno strutturalismo storico, simile al metodo applicato allo studio delle religioni da Georges Dumézil20 (pensatore che Foucault conobbe a Uppsala, e a cui rimase legato da un’amicizia filiale per tutta la vita21). Anche altri paragoni sono possibili, al fine di collocare i primi testi di Foucault nella cultura filosofica degli anni sessanta. Il metodo che il nostro autore applica alla storia delle scienze umane potrebbe essere ad esempio confrontato con quello utilizzato in quegli anni dallo statunitense Thomas Kuhn22 nell’ambito della storia delle scienze fisiche, in polemica con il falsificazionismo di Karl Popper. Ma Foucault è soprattutto debitore alle opere di storia del pensiero scientifico del suo relatore di tesi Georges

in tal modo una storia che non coincide con quella della loro perfezione crescente, ma è piuttosto la storia delle loro condizioni di possibilità […]. Più che d’una storia nel senso tradizionale del termine, si tratta di una “archeologia”». In nota, Foucault anticipa il progetto dell’Archeologia del sapere: «I problemi di metodo posti da una tale “archeologia” saranno esaminati in una prossima opera» (Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1998, p. 12). 20 Nel 1948, dopo aver insegnato a Istanbul, Uppsala, e all’École des hautes études, Georges Dumézil (1898-1986) ottenne la cattedra di Civiltà indoeuropea al Collège de France. Il metodo di analisi applicato da Dumezil allo studio delle religioni riconosce nelle strutture dei miti di una società elementi riconducibili all’ideologia dominante nella stessa società. Di Dumézil si vedano, ad esempio: Les dieux des Germaines, Paris, PUF, 1959, trad. it. Gli dei dei Germani, Milano, Adelphi, 1988; Idées romaines, Paris, Gallimard, 1969, trad. it. Idee romane, Genova, il melangolo, 1987; Mithe et épopée, tre volumi: 1. L’idéologie des trois fonctions dans les épopées indo-européennes, Paris, Gallimard, 1968, 2. Types épiques indo-européens: un héros, un sorcier, un roi, Paris, Gallimard, 1971, 3. Histoires romaines, Paris, Gallimard, 1973; trad. it. Mito e epopea, Torino, Einaudi, 1982. 21 In numerosi interventi, Foucault stesso riconosce i propri debiti verso Dumezil; in un’intervista del 1967, in particolare, attraverso il metodo di Dumézil Foucault illustra il proprio metodo: Sur les façon d’écrire l’histoire, in «Le Lettres Françaises», n° 1187, 15-21 giugno 1967, ora in Dits et écrits, vol. I, testo n° 48, trad. it. Sui modi di scrivere la storia, in Archivio Foucault 1. 19�1-1970, Milano, Feltrinelli, 1996. Si veda, inoltre, la lezione del 26 gennaio 1983 (in Le gouvernement de soi et des autres, Paris, Seuil-Gallimard, 2008) in cui Foucault riprende le analisi sviluppate da Dumézil sul mito di Apollo (in Apollon sonore et autres essais. Vingt-cinq esquisses de mytologie, Paris, Gallimard, 1982). 22 The Structure of Scientific Revolutions (Chicago, The University of Chicago Press, 1962, trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1978) uscì nel 1962. Nel 1977, in Essential Tension (Chicago, The University of Chicago Press, 1977, trad. it. La tensione essenziale, Torino, Einaudi, 1985, ora in La tensione essenziale e altri saggi, Torino, Einaudi, 2006), Kuhn difese la sua epistemologia discontinuista dalle accuse di irrazionalismo e relativismo. Per sommi capi, si potrebbe considerare il termine foucaultiano “campo epistemologico” come sinonimo del termine “paradigma scientifico” utilizzato da Kuhn in questi testi.

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Canguilhem23, e alle riflessioni epistemologiche del relatore di Althusser Gaston Bachelard24 (dal dicembre 1955 Canguilhem ricopriva in Sorbona la cattedra di Storia e filosofia delle scienze che era stata di Bachelard)25. Era stato Bachelard a introdurre quel concetto di rottura (coupure) epistemologica, senza il quale il metodo di analisi storica di Foucault non sarebbe stato possibile. Secondo Bachelard, la successione storica di differenti sistemi di razionalità solo retrospettivamente può apparire come il progresso continuo 23 Di Georges Canguilhem (1904-1995) si vedano, ad esempio: Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le patologique, Paris, Les belles lettres, 1950; La connaissance de la vie, Paris, Hachelle, 1952, trad. it. La conoscenza della vita, Bologna, il Mulino, 1976; La formation du concept de réflexe au XVII et XVIII siècle, Paris, PUF, 1955; Le normal et le pathologique, Paris, PUF, 1966, trad. it. Il normale e il patologico, Guaraldi, Firenze, 1975, nuova ed. it. Torino, Einaudi, 1998. Su Foucault e Canguilhem si vedano gli studi di Michele Cammelli La “razza” fra scienza e allevamento, in «Filosofia politica», n° 3, 2003; e Da Comte a Foucault atraverso Canguilhem, in «Filosofia politica», n° 1, 2006. Su Canguilhem si vedano, inoltre: Dagognet, Francois, Canguilhem: Philosophe de la vie, le Plessis-Robinson, Essonne, 1997; Le Blanc, Guillaume, Canguilhem et le normes, Paris, PUF, 1998. 24 Di Gaston Bachelard (1884-1962) si vedano, ad esempio: La formation de l’esprit scientifique, Paris, Vrin, 1938, trad. it. La formazione dello spirito scientifico, Milano, Cortina, 1995; Le nouvel esprit scientifique, Paris, PUF, 1946, trad. it. Il nuovo spirito scientifico, Bari, Laterza, 1951; e la raccolta, in italiano, Epistemologia: Antologia di scritti epistemologici, Roma-Bari, Laterza, 1975. Per una recente introduzione italiana al pensiero di Bachelard si veda: Bonicalzi, Francesca, Leggere Bachelard, Milano, Jaca Book, 2007. Si vedano, inoltre: Gil, Didier, Bachelard et la culture scientifique, Paris, PUF, 1993; Onfray, Michel, Hommage à Bachelard, Paris, Regard, 1998. 25 Nel 1978 fu lo stesso Foucault a riconoscere questi debiti teorici: si veda Colloqui con Foucault, cit., pp. 57-58. Nel 1978 Foucault scrisse anche la prefazione all’edizione inglese di Il normale e il patologico di Canguilhem (Introduction by Michel Foucault, in Canguilhem, Georges, On the Normal and the Pathological, Boston, Reidel, 1978; ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 219). A Canguilhem è dedicato anche l’ultimo articolo che Foucault completò nel 1984, poco prima di morire: il nostro autore avrebbe voluto redigere un testo nuovo per il numero speciale che la «Revue de métaphysique et de morale» aveva deciso di dedicare a Canguilhem ma, sfiancato dalla malattia, riuscì soltanto a modificare la prefazione del 1978. Nella prefazione del 1978 e nell’articolo del 1985 Foucault presenta il suo maestro con queste parole: «Quest’uomo, la cui opera è austera, deliberatamente circoscritta e accuratamente incentrata su un ambito particolare della storia delle scienze, la quale, in ogni caso, non figura come una disciplina spettacolare, è stato in qualche modo presente in dibattiti in cui si è ben guardato dal comparire. Ma, se si cancella Canguilhem, si comprende ben poco di una serie di discussioni avvenute tra i marxisti francesi; non si capisce neppure quello che vi è di specifico in sociologi come Bourdieu, Castel, Passeron e che li contradistingue così fortemente nel campo della sociologia; si perde tutta una parte del lavoro teorico compiuto dagli psicoanalisti e, in particolare, dai lacaniani. Di più: in tutto il dibattito di idee che ha preceduto o seguito il movimento del 1968 è facile riconoscere il posto di coloro che, da vicino o da lontano, erano stati formati da Canguilhem» (La vita: l’esperienza e la scienza, 1978-1985 Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 317-318, prima ed. La vie: in Archivio Foucault 3. 1978-1985, l’expérience et la science, in «Revue de métaphysique et de morale», n°1, 1985 (Canguilhem); ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 361).

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di una ragione universale: in realtà ogni salto strutturale non è spiegabile deterministicamente, ma è causato da fattori molteplici, in parte interni alle singole discipline scientifiche, in parte esterni e in apparenza estranei ad esse (ad esempio mutamenti intervenuti nell’immaginario collettivo). Canguilhem ha applicato il metodo di Bachelard alla storia della medicina, e ha mostrato come nel XVIII secolo il sapere medico abbia modificato il proprio statuto epistemologico. Secondo le ricostruzioni di Canguilhem, infatti, in quel secolo fisiologia e biologia hanno iniziato a elaborare criteri di normalità da applicare agli esseri viventi, postulando un’equivalenza tra normalità e media statistica: la medicina si è poi appropriata di questi criteri, e ha iniziato a giudicare della salute degli esseri umani in base a essi. In questo modo alle percezioni soggettive del malato, come punto di avvio delle pratiche mediche, sono venute a sostituirsi le verità oggettive della malattia. La Storia della follia, la Nascita della clinica, Le parole e le cose, e L’Archeologia del sapere sono i testi di Foucault che rivelano maggiormente i suoi debiti verso Canguilhem e che al tempo stesso risultano più vicini allo strutturalismo. Tra questi libri è però rilevabile una significativa differenza metodologica. Nella Nascita della clinica, e soprattutto ne Le parole e le cose e ne L’Archeologia del sapere, l’analisi svolta da Foucault si muove quasi interamente sul piano delle pratiche discorsive che prende in esame, facendo quasi totalmente astrazione dal contesto sociale che le circonda. Nella Storia della follia, invece, come avverrà in seguito in Sorvegliare e punire (1975)26 e ne La volontà di sapere (1976)27, l’evoluzione dei saperi presi in esame è letta in relazione con mutamenti storici, culturali, economici, istituzionali e politici più ampi: le pratiche discorsive sono colte nelle relazioni che intrattengono con le pratiche non discorsive. Ma se, alla metà degli anni settanta, sarà una complessa nozione di potere – nietzscheanamente intesa – a occupare il centro della riflessione del filosofo francese, nella Storia della follia gli unici poteri in grado di incidere sullo sviluppo della medicina e della psichiatria sembrano essere quelli del re e dell’economia. Il potere del re è quello di Luigi XIV, che il 16 giugno 1676 prescrisse la realizzazione di un Hôpital général in ogni città della Francia. A Parigi in pochi mesi vi fu rinchiuso l’uno per cento della popolazione, tra mendicanti, poveri, ribelli, criminali, libertini, malati venerei, folli: secondo Foucault, è all’interno di queste istituzioni, che inizialmente avevano ben poco a che 26 Surveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975, trad. it. Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976. 27 La volonté de savoir ir. Histoire istoire de la sexualité I, I Paris, Gallimard, 1976, trad. it. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Milano, Feltrinelli, 1978.

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fare con la medicina, ma rispondevano semmai a istanze d’ordine, che, attraverso misure di controllo sociale e di stigmatizzazione morale, nacque un secolo più tardi il pensiero psichiatrico moderno28. Nella ricostruzione di Foucault, lo stesso Luigi XIV sembra però obbedire, in questa sua decisione tanto importante per la storia della medicina, al potere dell’economia: L’età classica utilizza l’internamento in un modo equivoco e per fargli rappresentare una doppia parte: riassorbire la disoccupazione, o almeno cancellarne le conseguenze sociali più vistose, e controllare le tariffe quando rischiano di diventare troppo elevate29.

Anche il processo attraverso il quale, dopo la rivoluzione francese, il medico-filosofo illuminista Philippe Pinel (1745-1826)30 – agendo, senza saperlo, di concerto con il commerciante filantropo inglese William Tuke (1732-1822)31 – “liberò” i folli, separandoli, in quanto malati da curare e non individui pericolosi da tenere in catene, dagli altri ospiti dell’Hôpital général, secondo Foucault ha a che fare con motivi di ordine economico più che medico-umanitario. La massiccia industrializzazione, secondo il nostro autore, imponeva una nuova coscienza della povertà: non più percepita come vizio, essa risultò costituire una ricchezza per la nazione – i poveri, infatti, accettavano di lavorare a bassi salari. È per questa ragione che il grande internamento si sarebbe rivelato un grande errore: occorreva separare i poveri dai folli e dai criminali, e furono la nascente psichiatria positivista e un riformato sistema penale a compiere questa separazione. 28

«L’Hôpital général non è legato a nessuna idea medica. Esso è un’istanza dell’ordine, dell’ordine monarchico e borghese che si organizza in Francia in questa stessa epoca» (Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1994, p. 56). 29 Ivi, p. 74. Foucault, però, subito dopo, precisa che per lungo tempo, nel ’600 e nel ’700, i risultati economici dell’internamento non furono quelli desiderati: a suo avviso, il lavoro obbligatorio praticato all’interno degli istituti d’internamento di tutta Europa non aveva realmente valore economico, bensì morale. In questa insistenza sul valore morale del lavoro non è difficile cogliere echi weberiani. 30 Pinel è considerato il fondatore della psichiatria moderna. Medico all’ospedale di Bicêtre dal 1793 al 1795, e dal 1795 fino alla sua morte medico capo alla Salpêtrière, egli introdusse in psichiatria il presupposto della guaribilità, e al tempo stesso contestò le interpretazioni organiciste della malattia mentale: per Pinel questa ha origine da uno squilibrio delle passioni, non da una lesione del corpo. Attribuendo all’asilo una funzione di cura e di studio della malattia mentale, e non semplicemente di reclusione, egli affermò il principio del rispetto della dignità umana del malato mentale. 31 Quacchero, membro della Society of Friends, Tuke raccolse fondi per l’apertura della casa di cura di York nel 1796. In questa istituzione vide la luce in Inghilterra il moderno trattamento della follia come malattia mentale: i degenti vi erano assistiti umanamente, in un ambiente silenzioso e sereno, e occupati in attività lavorative.

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Tra i due poteri, quello del re e quello dell’economia, nella Storia della follia è, quindi, senza ombra di dubbio, il secondo ad agire con maggior forza, condizionando lo sviluppo della medicina e della psichiatria, e anche le scelte del re. Per quanto Foucault abbia ormai rinnegato quello spirito di ortodossia comunista che anni prima lo aveva spinto a tessere l’elogio del materialismo di Pavlov, e per quanto siano innegabili influenze della sociologia weberiana in molti passi della Storia della follia, è evidente che tale opera è maturata in un clima culturale permeato di marxismo. Nelle sue analisi, Foucault sembra utilizzare ad esempio la nozione marxista di determinazione in ultima istanza della sovrastruttura – ideologica, giuridica, politica, culturale – da parte della struttura economica: nozione su cui, in quegli anni, insiste soprattutto Althusser. Non sorprende, pertanto, che il caimano di rue d’Ulm commenti entusiasticamente il testo di Foucault nel seminario sullo strutturalismo tenuto alla Normale durante l’anno scolastico 1962-1963 e nel seminario dedicato a Il Capitale di Marx del 1964-1965, e che lo citi anche nel saggio introduttivo di Leggere «Il Capitale»32 – raccolta degli interventi di Althusser e dei suoi allievi nel secondo seminario. In queste lezioni e in questo libro, Althusser prende decisamente le distanze dall’umanesimo marxista francese del primo dopoguerra. Hyppolite aveva insistito sulla derivazione del pensiero marxiano da quello hegeliano e Sartre aveva proposto un’interpretazione di Marx che attribuiva grande importanza all’umanesimo delle sue opere giovanili, in particolare dei Manoscritti economico-filosofici del 1844: entrambi intendevano mettere in evidenza, nel pensiero del filosofo di Treviri, la centralità del tema della libertà creativa della prassi umana nella storia, e contrastare le interpretazioni deterministiche incapaci di cogliere il carattere dialettico del materialismo marxiano. Entrambi intendevano, insomma, proteggere l’eredità di Marx dalle pericolose derive liberticide del marxismo staliniano. Althusser, che nel 1948 si era abilitato con una dissertazione su Hegel, negli anni sessanta applica alla

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Althusser, Louis, Balibar, Etienne, Establet, Roger, Macherey, Pierre, Rancière, Jacques, Lire «Le Capital», Paris, Maspero, 1965, 2 voll. La seconda ed., tascabile, fu pubblicata sempre dall’editore Maspero nel 1968, e raccoglieva soltanto i testi di Althusser (1° vol.) e Balibar (2° vol.), ampiamente rivisti. Questa edizione fu tradotta in italiano: Leggere «Il Capitale», Milano, Feltrinelli, 1968. Nel 1973 uscirono per Maspero altri due volumi tascabili, rispettivamente costituiti dai testi di Rancière (3° vol.), e di Macherey ed Establet (4° vol.). I saggi di Rancière ed Establet non presentavano modifiche rispetto alla prima edizione, quello di Macherey subì invece significative revisioni. Nel 1996 è uscita una terza edizione, curata da Etienne Balibar e Pierre Bravo Gala, contenente i cinque interventi della seconda edizione: Lire le Capital, Paris, PUF, 1996. Citerò, più avanti, dalla traduzione italiana di quest’ultima edizione: Leggere il Capitale, Milano, Mimesis, 2006.

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storia della filosofia il metodo discontinuista del suo maestro Bachelard e sostiene, invece, che Il Capitale rappresenta il momento inaugurale di un nuovo sapere storico, economico e sociale: a suo avviso esso costituisce una rottura epistemologica, sia rispetto alla dialettica hegeliana, sia rispetto all’economia classica, sia rispetto alle opere giovanili di Marx, non solo perché introduce un nuovo metodo scientifico – la combinazione di materialismo storico e di materialismo dialettico –, ma anche e soprattutto perché dà forma a un nuovo oggetto d’indagine: il sistema di produzione33. Per il primato accordato a quest’ultimo – inteso come struttura economica impersonale che, collocandosi come sfondo di strutture politiche e ideologiche relativamente autonome da essa, determina, seppur «in ultima istanza», le scelte degli attori sociali – il marxismo è, per Althusser una scienza antiumanista e antistoricista: Il marxismo è nello stesso tempo, e in virtù dell’unica rottura epistemologica che lo fonda, un antiumanismo e un antistoricismo. A rigore dovrei dire un a-umanismo e un a-storicismo; impiego dunque coscientemente, per dare loro tutto il peso di una dichiarazione di rottura che, lungi dall’essere evidente è, al contrario, assai difficile da compiere, questa doppia formula negativa (antiumanismo e antistoricismo) al posto di una semplice forma privativa, perché questa ingiunzione non è eccessiva per respingere l’assalto umanistico e storicistico che in certi ambienti non cessa, da quarant’anni, di minacciare il marxismo34.

Nel saggio introduttivo di Leggere «Il Capitale»35, Foucault, assieme a Canguilhem e Bachelard, ma anche a Jacques Lacan36, ad Alexandre Koyré37 e a Jean Cavaillés38, è presentato come esempio di una nuova concezione 33

«Proporsi di pensare la determinazione degli elementi di un tutto tramite la struttura del tutto, significava porsi un problema assolutamente nuovo nel più grande imbarazzo teorico, perché non si disponeva di alcun concetto filosofico elaborato per risolverlo. Il solo teorico che abbia avuto l’audacia incredibile di porre questo problema e di abbozzarne una prima soluzione è Spinoza. Ma la storia l’aveva, lo sappiamo, sepolto nelle profondità della notte. È soltanto attraverso Marx, che tuttavia lo conosceva male, che cominciamo a malapena a intravedere i tratti di questo volto calpestato» (Leggere il Capitale, cit., p. 257). 34 Ivi, p. 202, corsivo nel testo. 35 Si vedano le note n° 1 e n° 19, pp. 19 e 42 dell’ultima edizione italiana di Leggere il Capitale. 36 Di Lacan, più precisamente dei debiti di Foucault verso Lacan, tratterò nel paragrafo 3.3 Foucault, Lacan e Freud. 37 Di Alexandre Koyré, Althusser, nel 1965, poteva aver letto: Etudes galiléens, Paris, Hermann, 1939, trad. it. Studi galileiani, Torino, Einaudi, 1976; Du mond clus à l’univers infini, Paris, PUF, 1962 (prima ed. From the Closed World to the Infinite Universe, Baltimore, The John Hopkins Press, 1957), trad. it. Dal mondo chiuso all’universo infinito, Milano, Feltrinelli, 1970; La révolution astronomique: Copernic, Kepler, Borelli, Paris, Hermann, 1961, trad. it. La rivoluzione astronomica: Copernico, Keplero, Borelli, Milano, Feltrinelli, 1961. 38 Di Jean Cavaillés, Althusser nel 1965 poteva aver letto: Méthode axiomatique et formalisme:

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epistemologica che si sottrae al continuismo, al teleologismo e alla fiducia nel progresso infinito della ragione che avrebbero nell’idealismo hegeliano, e ancor prima nell’illuminismo, le loro matrici, e nell’umanesimo di Sartre uno dei loro esiti39. È questa epistemologia storica che Althusser vuole utilizzare per mostrare la portata della rivoluzione scientifica operata da Marx, nella convinzione che il valore euristico delle teorie rivoluzionarie non consista tanto nel vedere qualcosa che restava opaco allo sguardo delle teorie precedenti, quanto nel far apparire nuovi oggetti di conoscenza40. Con Althusser, in questi anni e anche negli anni successivi, Foucault condivide in effetti la critica alla concezione continuistica, illuminista-idealista della storia della conoscenza e, più in generale, della storia dell’umanità. Intervistato nel marzo 1968 a proposito delle severe critiche di Sartre, Foucault spiega che il suo metodo di indagine storica si pone in contrapposizione con «il mito della storia per filosofi»41 e con la filosofia intesa come «impresa di totalizzazione dell’esperienza umana»42: Foucault studia la storia non costruendo grandi sistemi astratti, ma analizzando eventi e fenomeni concreti in modo puntuale. Alla storia dei filosofi il nostro autore contrappone la storia degli storici, in particolare degli storici delle «Annales», sensibili alla vita quotidiana della gente comune più che ai grandi sconvolgimenti della politica: in questa intervista, a Hegel e Sartre contrappone Marc Bloch e Le problème du fondement des mathématiques, Paris, Hermann, 1938; Transfini et continu, Paris, Hermann, 1947; Philosophie mathématique, Paris, Hermann, 1962. 39 «Questo umanesimo storicista può servire, ad esempio, quale garanzia teorica a certi intellettuali borghesi o piccolo-borghesi, che si pongono il problema, e a volte in termini autenticamente drammatici, di sapere se essi sono effettivamente membri attivi di una storia che procede – come essi sanno o temono – a loro insaputa. Forse questo è il problema più importante di Sartre» (Leggere il Capitale, cit., p. 150). Se nel 1965 Althusser accusa Sartre di essere un filosofo borghese, un anno dopo sarà Sartre a definire Foucault «l’ultimo bastione della borghesia» (si veda il paragrafo 2.1 di questo lavoro, La reazione marxista negli anni sessanta e settanta). 40 Si veda Leggere il Capitale, cit., p. 27 e p. 43. Althusser si riferisce in particolare a Storia della follia e a Nascita della clinica di Foucault, e al testo di Canguilhem La formation du concept de réflexe au XVII et XVIII siècle. 41 Foucault risponde a Sartre, in Archivio Foucault 1, cit., p. 195, prima ed. Foucault répond à Sartre, in «La Quinzaine littéraire», n° 46, 1-15 marzo 1968, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 55. Nel numero successivo della stessa rivista, Foucault prenderà le distanze da questa intervista con una lettera, affermando che vi sono stati inclusi alcuni passaggi non concordati, e renderà omaggio a Sartre: «Penso che l’immensa opera di Sartre, e la sua azione politica segneranno un’epoca»: Une mise a point de Michel Foucault, in Dits et écrits, vol. I, testo n° 56, p. 697, prima ed. in «La Quinzaine littéraire», n° 47, 15-31 marzo 1968, traduzione mia). Contro «la storia dei filosofi», Foucault parlerà anche nel ’78, nell’intervista a Duccio Trombadori. Si veda: Colloqui con Foucault, cit., p. 93. 42 Foucault risponde a Sartre, cit., p. 194.

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Lucien Febvre43. Con Althusser, Foucault condivide inoltre la polemica antiumanista, che nel 1966 si traduce nella celebre tesi della “morte dell’uomo” contenuta ne Le parole e le cose44. Tuttavia, proprio quest’ultimo libro segna una rottura – che non potrà più essere sanata – tra Foucault e Althusser: esempio di come uno stesso paradigma teorico, in questo caso la stessa epistemologia strutturalista-discontinuista, possa costituire un terreno di dibattito e anche di scontro, fornendo argomenti utilizzabili per fini argomentativi e politici differenti. Se il caimano di rue d’Ulm, in Leggere «Il Capitale», vede in Marx l’attore di una rivoluzione scientifica epocale, il suo ex allievo, la volpe – Fuchs, così era soprannominato Foucault durante gli anni della Normale – ne Le parole e le cose dedica a Marx poche pagine, nel paragrafo su David Ricardo. Lungi dal rappresentare una rottura epistemologica, secondo Foucault il pensiero marxiano non è che una delle possibilità prodotte da quella episteme storico-antropologica che si diffonde nell’occidente europeo a partire dalla fine del XVIII secolo, e che impone d’interpretare la realtà a partire da verità profonde, come la natura umana, le leggi dello sviluppo storico, il sistema di produzione45. Secondo Foucault sarebbe stato Ricardo, e non Marx, a portare a maturazione questa nuova episteme nell’ambito della teoria economica. Se fino ad Adam Smith, l’analisi delle ricchezze utilizzava le nozioni di commercio e di scambio, in Ricardo i concetti-chiave per l’analisi del valore sono lavoro e produzione. Queste categorie avrebbero reso possibile «l’articolazione dell’economia sulla storia», e quindi il pensiero di un «tempo storico continuo»46. Secondo Foucault, nell’episteme storico-antropologica che sottende le analisi economiche ricardiane, la storia non consente all’uomo di superare

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Cfr. ivi, p. 196. «Annales d’histoire économique et sociale» è la rivista storica fondata nel 1929 da Marc Bloch (1886-1944) e Lucien Febvre (1878-1956), animatori di quella che avrebbe poi preso il nome di École des Annales, una delle più importanti correnti storiche francesi del XX secolo. 44 Che prenderò in esame nel paragrafo 3.2 Foucault, Deleuze e Nietzsche. 45 «La cultura europea s’inventa una profondità dove sarà questione non più delle identità, dei caratteri distintivi, delle tavole permanenti con tutti i loro percorsi e tracciati possibili, ma delle grandi forze nascoste, sviluppatesi a partire dal loro nucleo primitivo e inaccessibile, dell’origine, della causalità, della storia. [...] Se ci si mise a studiare il costo della produzione, e se non fu più utilizzata la situazione ideale e primitiva del baratto per analizzare la formazione del valore, ciò accadde perché, al livello archeologico, la produzione, in quanto figura fondamentale nello spazio del sapere, si sostituì allo scambio, facendo apparire da un lato nuovi oggetti conoscibili (come il capitale) e prescrivendo dall’altro nuovi concetti e nuovi metodi (come l’analisi delle forme di produzione)» (Le parole e le cose, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 272-273). 46 Ivi, p. 277.

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i propri limiti, di rinnovare creativamente se stesso, e anzi progressivamente conduce gli esseri umani a realizzare la propria natura, a diventare ciò che essi da sempre sono. La fine della storia come compimento della natura umana, secondo Foucault, può però avvenire in due modi differenti: o la storia raggiunge «ciò verso cui ha sempre proceduto», come nella celebre tesi ricardiana dello «stato stazionario»47 o, al contrario, «essa arriva a un punto d’inversione dove può fissarsi solo nella misura in cui sopprima ciò che era stata incessantemente fino a tale punto»48. La seconda soluzione è quella teorizzata da Marx: in questo caso la storia giungerebbe ai propri limiti non per un rapporto necessario tra lo sviluppo della popolazione e la rarità delle risorse, ma attraverso la presa di coscienza della classe operaia sfruttata. Nel pensiero marxiano, ciò che ai borghesi può sembrare “naturale”, iscritto nell’ordine delle cose, agli occhi dei proletari appare come il risultato di un’alienazione storicamente determinata, che può e deve essere superata attraverso un processo di riappropriazione di sé: «Per questo essi sono i soli che potranno recuperare, al fine di restaurarla, [la] verità dell’essenza umana49». Nella prospettiva epistemologica tratteggiata da Le parole e le cose, quindi, il marxismo non è quella scienza economica-sociale rivoluzionaria che vorrebbe Althusser, ma è completamente inserito nell’episteme a cui appartiene anche l’economia borghese. Il marxismo, per Foucault, non svela alcuna verità nuova, ma partecipa totalmente a un sistema di verità che gli preesiste: Se [il marxismo] si oppone alle teorie “borghesi” dell’economia, e se in tale opposizione progetta contro esse un rovesciamento radicale della storia, tale conflitto e tale progetto hanno per condizioni di possibilità non già la ripresa in mano della storia intera, ma un evento che tutta l’archeologia può situare con precisione e che ha ordinato simultaneamente, entro un’identica modalità, l’economia borghese e l’economia rivoluzionaria del XIX secolo. I loro dibattiti possono agitare finché vogliono talune onde e tracciare rughe sulla superficie: sono tempeste solo per vasche di bambini50.

Ne Le parole e le cose, il paragrafo su Ricardo è, quindi, un affondo teorico diretto contro Althusser – che, tuttavia, non viene nominato. La 47

Cfr. ivi, p. 280. Ivi, p. 281. 49 Ivi, p. 283. 50 Ivi, pp. 283-284. Con l’espressione metaforica «tempeste solo per vasche di bambini», Foucault allude forse al bassin des Ernests, una fontanella situata nel cortile della Normale di rue d’Ulm. 48

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posta in gioco non è solo di ordine teorico-interpretativo – il pensiero di Marx inaugura una nuova episteme o resta legato più di quanto si vorrebbe all’economia classica? –, ma investe anche direttamente l’ambito della pratica, ponendo il problema politico della verità. Ciò che Foucault contesta ad Althusser, alla sua insistenza sullo statuto di scientificità de Il Capitale, è di considerare il testo marxiano non come uno strumento teorico tra gli altri per orientarsi nel presente, ma come il depositario di verità assolute sulla natura e sulla storia umane – seppur travestite da verità su quella struttura che è il sistema di produzione51. Questa critica ad Altuhsser getta una luce chiarificatrice sulle polemiche che hanno investito l’opera di Foucault negli anni sessanta e settanta. Ciò che viene rimproverato al nostro autore dalla sinistra francese, attraverso l’accusa di negazione della storia, è, in realtà, di essere fuoriuscito da una ben precisa Weltanshauung: di essersi sottratto a quel sistema di verità condiviso da chi fa professione di marxismo, da chi vede in Marx il profeta di una rivelazione astorica e universale. Foucault non nega la storia, né l’importanza storica del pensiero marxiano52: però si oppone all’idea che per fare la storia occorra conoscerne scientificamente le presunte

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Sostiene, ad esempio, Althusser in Leggere «Il Capitale»: «Dobbiamo [...] rifiutare di equiparare più o meno indirettamente la teoria marxista della storia al modello empirista di una “ipotesi” aleatoria, di cui bisognerebbe aver atteso la verifica, attraverso la pratica politica della storia, per poter affermare la “verità”. [...] È la pratica teorica di Marx a essere il criterio della “verità” delle conoscenze prodotte da Marx; ed è perché si trattava proprio di conoscenza e non di ipotesi aleatoria, che esse hanno dato i noti risultati in cui non sono solo i successi, ma anche le stesse sconfitte a costituire “esperienze” pertinenti per la riflessione della teoria su se stessa e sul suo sviluppo interno» (Leggere il Capitale, cit., pp. 62-63). A parole come queste, nel ’78 Foucault risponderà che occorre liberarsi dal marxismo: «Naturalmente, essere liberi nei confronti del marxismo non significa [...] cercare di rivelare, ricorrendo ad esempio a un metodo come quello di Althusser, in che modo l’autentica parola del profeta Marx sarebbe stata travisata e tradita» (Metodologia della conoscenza del mondo: Come sbarazzarsi del marxismo, in Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001, p. 260, prima ed. Sekaininshiki no hôhô: Marx-shugi wo dô shimatsu suruka, in «Umi», luglio 1978, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 235). 52 Lo dimostra, ad esempio, un testo in cui – con una certa ambiguità spiegabile forse con il tentativo di difendersi dall’accusa di aver misconosciuto l’importanza di Marx – Foucault interpreta lo stesso pensiero marxiano come un evento storico che ha aperto nuove possibilità per pensare la politica, seppur all’interno dello «spazio epistemologico» dell’economia classica: «Qualunque sia l’importanza delle modifiche apportate alle analisi di Ricardo da parte di Marx non credo che le sue analisi economiche sfuggano allo spazio epistemologico instaurato da Ricardo. Invece, si può supporre che Marx abbia introdotto nella coscienza storica e politica una radicale frattura e che la teoria marxista della società abbia veramente inaugurato un campo epistemologico completamente nuovo» (Sui modi di scrivere la storia, in Archivio Foucault 1, cit., p.155, prima ed. Sur les façons d’écrire l’histoire, in «Le Lettres Françaises», n° 1187, 15-21 giugno 1967, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. I., testo n° 48).

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leggi, e che per rendere liberi gli uomini e le donne occorra farne oggetti di sapere, conoscerne scientificamente la natura. Negare statuto di scientificità al marxismo, e a qualsiasi altra teoria politica, significa sottolineare come nell’ambito del pensiero e dell’azione non sia mai detta l’ultima parola, come sia sempre possibile pensare ed agire creativamente, in un modo imprevisto, non riconducibile ad alcuna verità preesistente53. Negare statuto di scientificità al marxismo significa anche negare la necessità di una rivoluzione che passi attraverso la presa del potere statale da parte dei Partiti comunisti: ulteriori innovazioni possono essere introdotte nel lessico della teoria politica, e nuove possibilità di lotta possono aprirsi di nuovo, anche dopo Marx e il marxismo. Se Le parole e le cose, o almeno il paragrafo dedicato a Ricardo e a Marx, può essere letto come una risposta a Leggere «Il Capitale», la nuova analitica del potere di Sorvegliare e punire e de La volontà di sapere sembra avere un obiettivo polemico preciso nella teoria althusseriana degli apparati ideologici di stato. Nel saggio Ideologia ed apparati ideologici di stato (1970)54, Althusser si propone di rinnovare la teoria marxiana – esposta in Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte – secondo la quale lo stato sarebbe essenzialmente «una “macchina” di repressione, che permette alle classi dominanti […] di assicurare il loro dominio sulla classe operaia per sottometterla al processo di estorsione del plus-valore (cioè allo sfruttamento capitalistico)»55. Se in Leggere «Il Capitale», Althusser considerava Antonio Gramsci come un esempio di interpretazione umanistica del marxismo, nel saggio Ideologia ed apparati ideologici di stato, invece, è proprio alle riflessioni di Gramsci sul ruolo dell’intellettuale56 che Althusser ricorre per fornire un’interpretazione meno deterministica del marxismo, che attribuisce alla sfera culturale (e quindi anche alla politica e al diritto) una maggiore autonomia dalla struttura economica. Seguendo Gramsci, Althusser riconosce l’esistenza, accanto all’apparato repressivo di stato – composto da istituzioni differenti, quali la polizia, i tribunali, le prigioni, l’esercito, il governo, l’amministrazione – anche di apparati ideologici di stato (AIS): «L’AIS religioso (il sistema delle diverse chiese); l’AIS scolastico 53 «A cambiare è l’idea che un pensiero politico non possa essere politicamente corretto se non è scientificamente rigoroso» (Foucault risponde a Sartre, in Archivio Foucault 1, cit., p. 196). 54 Idéologie et Appareils Idéologiques d’État, in «La Pensée», n° 151, giugno 1970, trad. it. Ideologia ed apparati ideologici di stato, in «Critica marxista», n° 5, 1970, parzialmente tradotto anche in Scuola, potere e ideologia, a cura di Marzio Barbagli, Bologna, il Mulino, 1972. 55 Ideologia ed apparati ideologici di stato, in Scuola, potere e ideologia, cit., p. 21. 56 Di Gramsci, Althusser in questo testo cita: Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (Torino, Einaudi, 1949, p. 9), Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno (Torino, Einaudi, 1949, pp. 128-132), e le Lettere dal carcere (Torino, Einaudi, 1947, p. 137).

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(il sistema delle diverse “scuole” pubbliche e private); l’AIS famigliare; l’AIS politico (il sistema politico, con i diversi partiti); l’AIS giuridico; l’AIS sindacale; l’AIS dell’informazione (stampa, radio-televisione, ecc.); l’AIS culturale (lettere, belle arti, sport, ecc.)»57. Lo stato, con i suoi apparati, nella rinnovata prospettiva marxista di Althusser, appartiene sì all’ordine della sovrastruttura, ma svolge non solo la funzione di reprimere la classe operaia, ma anche quella di riprodurre i rapporti di produzione esistenti – e quindi agisce sulla stessa struttura economica di cui è emanazione. Se l’apparato repressivo di stato prevalentemente «funziona con la violenza», gli AIS prevalentemente «funzionano con l’ideologia»58. È bene precisare, però, che l’ideologia appare ad Althusser non come un falso sapere che produce falsa coscienza, ma come un aspetto imprescindibile del sociale: se è vero che nelle società capitaliste gli AIS formano forza lavoro qualificata in modo da renderla funzionale a garantire l’ideologia dominante e a mantenere lo status quo, è anche vero che in ogni società gli individui formano la propria coscienza attraverso l’ideologia. Questo significa che, per Althusser, la soggettività emerge sempre dall’intersoggettività, l’identità dall’ideologia intesa come insieme dei saperi e delle credenze socialmente condivisi. Dal riconoscimento della duplice funzione (repressiva e ideologica) dello stato, Althusser trae, poi, indicazioni per l’azione politica. Se, secondo Marx, «tutte le lotte politiche delle classi ruotano intorno allo stato [...]: intorno al possesso, cioè alla presa e alla conservazione del potere di stato, da parte di una certa classe o di un’alleanza di classi o frazioni di classi», e secondo Marx e Lenin «il proletariato deve impadronirsi del potere di stato per distruggere l’apparato di stato borghese esistente e, in una prima fase, sostituirlo con un apparato di stato molto diverso, proletario, e avviare successivamente, nelle fasi successive, un processo radicale, quello della distruzione dello stato»59, per Gramsci e Althusser in questa lotta per la presa dello stato non bisogna dimenticare la fondamentale funzione degli AIS: Nessuna classe può detenere il potere di stato in modo duraturo senza esercitare allo stesso tempo la sua egemonia sugli e negli apparati ideologici di stato. […] Gli apparati ideologi di stato possono essere non soltanto la posta, ma anche il luogo della lotta delle classi, e spesso di forme aspre della lotta delle classi60.

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Ideologia ed apparati ideologici di stato, cit., p. 26. Ivi, p. 27. 59 Ivi, p. 24. 60 Ivi, p. 28, corsivi nel testo. 58

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Alla teoria althusseriana degli apparati di stato, in Sorvegliare e punire, Foucault contrappone un’analisi storica empirica – non orientata preventivamente dalle categorie del marxismo, seppur attenta al ruolo determinante dell’economia sulle altre sfere dell’agire umano –, volta a indagare forme di potere che non si esauriscono nell’azione ideologica e repressiva dello stato sulla società, ma che percorrono la società stessa dandole forma, producendola in tutti i suoi aspetti. L’analisi di Foucault si rivolge alle lotte molteplici e disperse che si consumano nelle società moderne e contemporanee, che non possono essere assorbite in un progetto di egemonia, né riassunte in un piano storico unitario teleologicamente orientato verso la dittatura del proletariato prima, e verso un’utopistica dissoluzione dello stato poi. Se la teoria dell’azione produttiva del potere elaborata da Foucault61 può essere accostata alla riflessione di Althusser sull’azione produttiva dell’ideologia, l’analisi di Foucault fornisce strumenti critici utili non a chi mira a conquistare posizioni di potere – un ruolo negli apparati di stato – ma a chi desidera soltanto garantirsi il massimo di libertà possibile nella propria vita quotidiana. Così afferma il filosofo francese in un’intervista del 1976, a proposito di Sorvegliare e punire: Se si vogliono cogliere i meccanismi di potere nella loro complessità e nei loro particolari, non ci si può limitare all’analisi dei soli apparati di stato. Ci sarebbe da evitare uno schematismo – schematismo che d’altronde non si trova in Marx –, che consiste nel localizzare il potere nell’apparato di stato e nel fare di esso lo strumento privilegiato, capitale, più importante, quasi unico, del potere di una classe su un’altra. Nei fatti, il potere va molto più lontano nel suo esercizio, passa attraverso canali molto più sottili, è molto più ambiguo perché ciascuno è in fondo titolare d’un certo potere e, in questa misura, lo trasmette. Il potere non ha come sola funzione di riprodurre i rapporti di produzione. Le maglie della dominazione e i circuiti dello sfruttamento interferiscono, s’incrociano e si sostengono, ma non coincidono62.

Come mostrerò più avanti, Sorvegliare e punire descrive le società contemporanee come società panoptiche, percorse in ogni loro sfera da quelle complesse pratiche di potere a cui Foucault dà il nome di discipline, schematizzabili mediante quella figura ideale di potere che è l’architettura del Panopticon progettata da Jeremy Bentham. Del Panopticon (1791), nel 1977 61

Che prenderò in esame nel paragrafo 3.3 Foucault, Lacan e Freud e nel capitolo 5 Nuove categorie della politica. 62 Domande a Michel Foucault sulla geografia, in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, pp. 155-156, ora in Il discorso, la storia, la verità, cit., prima ed. Questions à Michel Foucault sur la géographie, in «Herodote», n°1, 1976, ora anche in Dits et écrits, cit., vol II, testo n° 169.

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Foucault cura anche un’edizione critica, assieme a Michelle Perrot. Nella conversazione tra Foucault, Perrot e Jean-Pierre Barou, posta a prefazione dell’edizione francese (e anche italiana) del testo benthamiano, il nostro autore chiede retoricamente: Se i prigionieri facessero funzionare il dispositivo panoptico e risiedessero nella torre, credete forse che sarebbe meglio così che con i sorveglianti?63

A nulla servirebbe se i governati occupassero i posti di potere dei governanti, se si impadronissero di tutti i posti strategici degli apparati di stato: la storia mostra che ben di rado le rivoluzioni dei partiti comunisti hanno accresciuto le libertà individuali, e molto più spesso hanno sostituito una classe di potere a un’altra. Il compito che Foucault si prefigge, in quanto intellettuale militante, non è allora di agire negli apparati ideologici di stato per realizzare l’egemonia culturale della scienza marxista sulle masse, ma di fare da cassa di risonananza alle voci degli oppressi – dei malati mentali, ad esempio, o dei carcerati, dei profughi e degli immigrati clandestini – che spontaneamente si levano dalla società. Nel 1953 Foucault abbandona il Partito comunista francese, a partire dalla metà degli anni sessanta si allontana definitivamente anche dal marxismo. Althusser, suo maestro di un tempo, se ne rincrescerà in numerose lettere private64, ma pubblicamente non prenderà mai posizione contro i testi di Foucault. I due filosofi non riprenderanno un dialogo pubblico neppure in seguito agli ultimi sviluppi del pensiero di Althusser, che alla fine degli anni settanta rivedrà ulteriormente le proprie posizioni, criticando l’insufficienza della teoria marxiana del valore-lavoro e denunciando la mancanza, in Marx, di una teoria dell’immaginario e del simbolico65. 63 L’occhio del potere. Conversazione con Michel Foucault, in Bentham, Jeremy, Panopticon, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, Venezia, Marsilio, 1983, p. 30, prima ed. L’oeil du pouvoir, in Le Panoptique, Paris, Belfond, 1977, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 195. 64 Conservate nell’archivio dell’IMEC (Institut mémoires de l’édition contemporaine) a Parigi. Alcune di queste lettere sono prese in esame da Eribon (Eribon, Didier, Le passé dure longtemps (Foucault et Althusser), in Michel Foucault et ses contemporains, Paris, Fayard, 1994). 65 Si veda ad esempio il testo dell’intervento di Althusser al convegno organizzato a Venezia dalla rivista «il manifesto» nel novembre 1977, in cui il filosofo si compiace della «crisi del marxismo»: Enfin la crise du marxisme, in Pouvoir et opposition dans le sociétés post-revolutionnaires, Paris, Seuil, 1977, ora in Solitude de Machiavel et autres textes, Paris, PUF, 1998, trad. it. Finalmente qualcosa di vitale si libera dalla crisi e nella crisi del marxismo, in il manifesto, quaderno n° 8, Potere e opposizione nelle società rivoluzionarie. Una discussione della sinistra, Roma, Alfani, 1978. E si veda anche il saggio, quasi certamente incompiuto, del 1978 Marx dans ses limites, in Althusser, Louis, Écrits philosophiques et politiques, Paris, Stock/Imec, 1994; trad. it. Marx nei suoi limiti, Milano, Mimesis, 2004. A proposito dell’ultima fase del pensiero di Althusser si veda

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Tuttavia, tra il caimano e la volpe stima e amicizia non verranno mai meno: le divergenze teoriche non intaccheranno mai i rapporti personali, che anzi si rinsalderanno di fronte ai dolori della vita e della morte. La mattina del 16 novembre 1980, nella camera del suo appartamento di rue d’Ulm, Althusser, in preda a un attacco di follia, strangola la moglie Hélène; Foucault gli resterà vicino fino all’ultimo, e andrà più volte a fargli visita, negli ospedali psichiatrici di Sainte-Anne e di Soisy-sur-Seine e, dopo il 1983, nel nuovo appartamento di Althusser a Parigi. Foucault morirà il 26 giugno 1984. «Encore un juste qui disparaît», scriverà quel giorno Althusser alla filosofa messicana Fernanda Navarro66.

anche la prefazione all’edizione italiana di Marx nei suoi limiti del curatore Fabio Raimondi L’impensabile politica di Althusser. Per una ricostruzione del percorso teorico di Althusser si veda: Moulier-Boutang, Yann, Louis Althusser: Une biographie, Paris, Grasset, 1992 e 20022. Si veda, inoltre: Balibar, Etienne, Écrits pour Althusser, Paris, La Decouverte, 1991, trad. it. Per Althusser, Roma, manifestolibri, 1991. E, tra i testi italiani: Giacometti, Maria, Illuminati, Augusto, Porcaro, Mimmo, Preve, Costanzo, Turchetto, Maria, La cognizione della crisi: Saggi sul marxismo di Louis Althusser, Milano, FrancoAngeli, 1986. 66 Althusser sopravvive a Foucault di sei anni, trascorsi tra crisi ricorrenti e frequenti ricoveri. Muore il 22 ottobre 1990. Il nome di Foucault ricorre più volte nei suoi scritti autobiografici (L’avenir dure longtemps, suivi des Faits, Paris, Stock, 1992, trad. it. L’avvenire dura a lungo. Autobiografia, seguito da I Fatti, Parma, Guanda, 1992). Ad esempio Althusser ricorda con affetto e gratitudine, come esempi di “amicizia”, le conversazioni con Foucault all’istituto psichiatrico di Soysi-sur-Seine: «Foucault venne due volte a farmi visita, e ricordo che per due volte parlammo di tutto ciò che accadeva nel mondo intellettuale – come facevo in pratica con tutti i miei amici –, dei personaggi che lo popolavano, dei loro progetti, delle loro opere e dei loro conflitti, della situazione politica. Ero allora assolutamente “normale”, perfettamente al corrente di tutto, mi tornavano le idee, talvolta rilanciavo con malizia la palla a Foucault, il quale si convinse che stessi molto bene. Tornò a farmi visita un’altra volta e mi trovò in compagnia di padre Breton. Allora s’instaurò tra i due, sotto la mia egida e la mia mediazione, uno straordinario scambio di idee e di esperienze che non potrò mai dimenticare. Foucault parlava delle sue ricerche sui “valori” del cristianesimo del IV secolo, e fece questa importante osservazione: se la chiesa aveva posto sempre in alto l’amore, aveva però sempre diffidato vivamente dell’amicizia, che invece i filosofi classici e in primo luogo Epicuro mettevano al centro della loro etica concreta. Naturalmente lui, omosessuale, non poteva non accostare il rigetto dell’amicizia da parte della chiesa al rigetto, vale a dire (altra ambivalenza) alla predilezione, dell’omosessualità da parte di tutti gli apparati della chiesa e della vita monastica. Fu allora che, in modo soprendente, padre Breton intervenne, non per dargli dei riferimenti teologici, ma par metterlo a parte della sua esperienza personale...» (ivi, pp. 284-285). «E io stavo lì, fra loro due, ascoltavo Foucault e padre Breton, prendevo parte alla conversazione che non aveva più nulla a vedere con l’ospedale e la sua fortezza; ben lontano dalla mia angoscia di reclusione e di protezione. Capitava lo stesso con tutti i miei amici, cosa che mi consentiva di vivere in ispirito e in conversazione fuori dalla famosa “sicurezza” carceraria, di fatto nel mondo esterno» (ivi, p. 286).

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3.2 Foucault, Deleuze e Nietzsche Nonostante le divergenze teoriche e politiche, un fondamentale elemento di vicinanza tra Althusser e Foucault, oltre naturalmente all’amicizia che li unisce, è rappresentato dalla comune polemica contro l’umanesimo. Tale polemica, ne Le parole e le cose, prende la forma di una critica archeologica delle scienze umane. In questo testo, l’analisi dell’episteme rinascimentale (XVI-XVII sec.) basata secondo Foucault sulla somiglianza, di quella classica (XVII-XVIII sec.) fondata sulla rappresentazione, e di quella moderna (a partire dalla fine del XVIII sec.) dominata dalla storia e dall’antropologia, è infatti finalizzata e demolire le pretese di verità delle cosiddette scienze umane. La tesi del nostro autore è che l’uomo, inteso come oggetto di conoscenza scientifica, sia un’«invenzione recente», appartenente a quella formazione di sapere che ancora domina la contemporaneità, ma che inizierebbe a mostrare segni di cedimento: L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima. Se tali disposizioni dovessero sparire come sono apparse, se, a seguito di qualche evento di cui possiamo tutt’al più presentire la possibilità ma di cui non conosciamo per ora né la forma né la promessa, precipitassero, come al volgersi del XVIII secolo accadde per il suolo del pensiero classico, possiamo senz’altro scommettere che l’uomo sarebbe cancellato, come sull’orlo del mare un volto di sabbia67.

Secondo Foucault, le scienze umane68 diventano possibili solo alla fine del XVIII secolo, quando si consuma quella rottura epistemologica che determina il passaggio dalla storia naturale, dalla teoria delle ricchezze e dalla grammatica generale dell’età classica, alla biologia, all’economia politica e alla filologia dell’età moderna. Per l’episteme classica, che ha come figura filosofica emblematica Descartes, tra parole e cose, tra linguaggio ed essere, vi era un rapporto di rappresentazione diretta. L’uomo non costituiva la fonte trascendentale della significazione, ma compariva semmai come luogo della chiarificazione dell’ordine del mondo creato da Dio: soggetto conoscente, perfettamente capace di elaborare un metodo (le «idee chiare e distinte» di Descartes) per riprodurre l’ordine oggettivo del mondo. L’uomo,

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Le parole e le cose, cit., p. 414. Ne Le parole e le cose Foucault prende in esame, in particolare, la storia della biologia, dell’economia, e soprattuto della sociologia, della psicologia e dell’analisi linguistica, ma estende le sue conclusioni alle «scienze umane» in senso lato. 68

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nell’episteme classica, era quindi osservatore e traduttore: spiegava, ma non creava, e non c’era posto per lui nel quadro che osservava69. Secondo Foucault, occorre attendere la fine del XVIII secolo perché si apra un campo epistemologico fertile per le scienze umane: è allora che viene meno la fiducia nel rispecchiamento delle cose del mondo nelle parole umane, e la relazione di rappresentazione diventa problema70. In filosofia, è Kant a segnare l’avvento della nuova episteme, elaborando una «filosofia critica» cui Foucault dà il nome di «analitica della finitudine»: nella filosofia kantiana comparirebbe per la prima volta quello strano «allotropo empiricotrascendentale»71 che è l’uomo, al tempo stesso oggetto e soggetto del proprio conoscere. Nella nuova episteme, quando riscontra i limiti della propria conoscenza, l’uomo pensa che essi non gli sono imposti dalla sua posizione nell’universo, ma che è egli stesso – con le sue facoltà conoscitive – a imporli alla realtà. Paradossalmente, indagando i propri limiti l’uomo può avanzare la pretesa di una conoscenza totale e illimitata, che muove dalla conoscenza di se stesso. Nello schema delineato da Le parole e le cose: 1) vita, lavoro, linguaggio sono le nuove «empiricità», i nuovi oggetti di studio resi possibili dall’episteme moderna; 2) la biologia di Georges Cuvier, l’economia di David Ricardo, la filologia di Franz Bopp sono le nuove scienze ad essa correlate; 3) l’antropologia e la storia sono i modi di funzionamento di tali scienze. 4) Psicologia, sociologia e analisi linguistica, infine, sono i saperi che, proseguendo le direttive dell’analitica della finitudine kantiana, si propongono – attraverso lo studio dell’uomo nelle sue determinazioni storiche – d’indagare il fondamento ultimo della conoscenza umana, di ogni scienza vera. Esse reclamano anche per se stesse statuto di scientificità, ma Foucault lo nega loro: Le “scienze dell’uomo” fanno parte dell’episteme moderna come la chimica o la medicina o un’altra scienza; o ancora come la grammatica e la storia naturale facevano parte dell’episteme classica. Ma dire che appartengono al campo epistemologico significa soltanto che vi fondano la loro positività, che 69

Le parole e le cose inizia con una celebre descrizione del quadro di Velazquez Las Meninas, di cui Foucault fa l’emblema della concezione classica della rappresentazione: questo dipinto, a suo avviso, esprimerebbe l’impossibilità di rappresentare l’attività della rappresentazione. Secondo Foucault, infatti, l’episteme classica può ordinare in un quadro le sue rappresentazioni, ma non può rappresentare l’atto della rappresentazione stessa: per questo in essa non vi è posto per il soggetto, per l’uomo. Si veda Le parole e le cose, cit., pp. 17-30. 70 «La soglia dal classicismo alla modernità (ma poco importano le parole in quanto tali: diciamo dalla nostra preistoria a ciò che ancora ci è contemporaneo) venne definitivamente varcata allorché le parole cessarono d’intrecciarsi alle rappresentazioni e di quadrettare spontaneamente la conoscenza delle cose» (ivi, p. 328). 71 Ivi, p. 343.

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trovano in questo la loro condizione d’esistenza, che non sono quindi soltanto illusioni, chimere pseudo-scientifiche, motivate al livello delle opinioni, degli interessi, delle credenze, che non sono ciò che taluni chiamano bizzarramente “ideologia”. Ma ciò non comporta che siano delle scienze72.

Secondo Foucault, non si dà scienza dell’uomo: non si possono reperire né costituire verità universali sul suo conto, né sulla sua evoluzione nella storia – le verità delle scienze umane sono piuttosto verità particolari, indissolubilmente ancorate a un campo epistemologico ormai in crisi. Alle pretese di scientificità di psicologia, sociologia e analisi linguistica, Foucault contrappone i risultati di tre contro-scienze, che ne sono le corrispondenti strutturaliste: la psicoanalisi (che è in realtà la psicanalisi di Lacan), l’etnologia (di Lévi-Strauss) e la linguistica strutturalista (di Saussure). Sarebbero queste discipline a portare l’annuncio della morte dell’uomo, a far emergere i limiti delle scienze umane. La psicoanalisi si sottrarrebbe a ogni antropologia intesa come teoria generale dell’uomo, in quanto sapere del particolare, «invincibilmente legato a una pratica, alla strozzatura del rapporto tra due individui l’uno dei quali ascolta il linguaggio dell’altro»73; l’etnologia contesterebbe, invece, la necessità di ricondurre ogni sapere sull’umanità a una dimensione storica, studiando in ogni cultura «piuttosto le invarianti di struttura che la successione degli eventi»74; la linguistica, infine, fornirebbe a psicoanalisi ed etnologia il loro modello formale attraverso l’«emergere della struttura (in quanto rapporto invariante in un insieme di elementi)»75. Su un piano più specificamente filosofico, invece, all’analitica della finitudine di matrice kantiana, Foucault contrappone il pensiero di Nietzsche: la proclamazione della morte di Dio e l’annuncio dell’avvento del super-uomo suonano alle orecchie di Foucault come la presa di coscienza che l’uomo è già morto, destinato a scomparire. Secondo il nostro autore, è stato quindi Nietzsche e non Marx a segnare una rottura epistemologica, ad aprire nuove possibilità al pensiero: Nietzsche ritrovò il punto in cui uomo e Dio si appartengono a vicenda, in cui la morte del secondo è sinonimo della scomparsa del primo, e in cui la promessa del superuomo significa anzitutto l’imminenza della morte dell’uomo. Col che Nietzsche, proponendoci tale futuro come scadenza e insieme come compito, fissa la soglia a partire dalla quale la filosofia contemporanea può ricominciare a pensare76.

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Ivi, pp. 390-391. Ivi, p. 402. 74 Ivi, p. 403. 75 Ivi, p. 408, corsivo mio. 76 Ivi, p. 368. 73

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Foucault varca quindi la soglia di Nietzsche, lasciandosi alle spalle Marx: come abbandonare la terra ferma per navigare su un mare ignoto, verso orizzonti nuovi. Se Althusser resta a riva, è Gilles Deleuze77 ad accompagnare Foucault in quest’avventura teorica. I due, quasi coetanei (Deleuze del 1925, Foucault del 1926) si conoscono nel 1962, l’anno in cui Deleuze pubblica Nietzsche e la filosofia78. Foucault ha spesso raccontato di aver superato il panorama intellettuale hegeliano e marxista in cui si era svolta la sua formazione grazie a Nietzsche; in alcune interviste sostiene di essere giunto a Nietzsche attraverso Georges Bataille, Pierre Klossowski e Maurice Blanchot79, in altre attraverso Martin Heidegger80. Secondo la testimonianza 77

Sulla filosofia di Deleuze si vedano, ad esempio: Badiou, Alain, Deleuze: Le clameur de l’être, Paris, Hachette, 1997, trad. it. Deleuze: Il clamore dell’essere, Torino, Einaudi, 2004; Dosse, Francois, Gilles Deleuze et Félix Guattari: Biographie croisée, Paris, La Deouverte, 2007; Bogue, Ronald, Deleuze and Guattari, London, Routledge, 1989; Patton, Paul (edited by), Deleuze: A Critical Reader, Oxford, Blackwell, 1996; Patton, Paul, Deleuze and the Political, London-New York, Routledge, 2000; Goodchild, Philip, Deleuze and Guattari: An Introduction to the Politics of Desire, London, Sage, 2006; Vaccaro, Gian Battista, Deleuze e il pensiero del molteplice, Milano, FrancoAngeli, 1990; Di Marco, Chiara, Deleuze e il pensiero nomade, Milano, FrancoAngeli, 1995; Guareschi, Massimiliano, Gilles Deleuze popfilosofo, Milano, Shake, 2001; Bazzanella, Emiliano, Il ritornello: La questione del senso in Deleuze e Guattari, Milano, Mimesis, 2005. 78 Nietzsche et la philosophie, Paris, PUF, 1962, trad. it. Nietzsche e la filosofia, Milano, Feltrinelli, 1992. 79 Si veda, ad esempio, Colloqui con Foucault (1978), cit., p. 44: «Se l’hegelismo si presentava come il modo di pensare razionalmente il tragico, vissuto dalla generazione immediatamente precedente la nostra, e che ancora incombeva, fuori dall’università andava per la maggiore Sartre, con la sua filosofia del soggetto. Punto di incrocio tra le due correnti Merleau-Ponty, che sviluppava il discorso esistenziale all’interno di un campo come quello dell’intelligibilità del mondo, del reale. È in rapporto a questo panorama intellettuale, se vuole, che è maturata la mia scelta: non diventare un professore di filosofia, e d’altra parte cercare qualcosa di totalmente diverso dall’esistenzialismo. Ecco dunque l’incontro con Bataille, Blanchot, e tramite loro, la lettura di Nietzsche». 80 Si veda, ad esempio, l’ultima intervista che Foucault potè rilasciare (ad André Scala, un giovane filosofo amico di Deleuze) il 29 maggio 1984, e che fu pubblicata il 28 giugno 1984, tre giorni dopo la morte di Foucault: Le retour de la morale, in «Les Nouvelles littéraires», n° 2937, 28 giugno-5 luglio 1984, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 354, trad. it. Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, cit. Alle pp. 268-269 dell’edizione italiana si legge: «Heidegger è sempre stato, per me, il filosofo fondamentale. Ho cominciato leggendo Hegel, poi Marx e mi sono messo a leggere Heidegger nel ’51 o nel ’52; e nel ’53, o nel ’52, non mi ricordo più, ho letto Nietzsche. Conservo ancora gli appunti che avevo preso mentre leggevo Heidegger – ne ho delle montagne! –, e sono molto più importanti di quelli che avevo preso su Hegel o su Marx. Tutto il mio divenire filosofico è stato determinato dalla lettura di Heidegger. Ma riconosco che l’ha spuntata Nietzsche. Non conosco a sufficienza Heidegger, praticamente non conosco né Essere e tempo, né le cose che sono state pubblicate recentemente. La mia conoscenza di Nietzsche è sicuramente migliore di quella che ho di Heidegger; nondimeno, sono le due esperienze fondamentali che ho fatto. Probabilmente,

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del suo compagno di studi alla Normale Maurice Pinguet81, egli avrebbe “scoperto” Nietzsche nell’estate del 1953, sulle spiagge di Civitavecchia. Certo è che la lettura dello studio di Deleuze influenzerà fortemente, dopo il 1962, l’interpretazione foucaultiana del pensiero del filosofo tedesco, determinandone un’inversione di rotta: tanto che il Nietzsche de Le parole e le cose demolisce a colpi di martello ogni ragion d’essere del Nietzsche della Storia della follia. Infatti, se il Nietzsche della Storia della follia – che assomiglia molto al Nietzsche tragico e irrazionalista caro a Bataille, Klossowski e Blanchot – alle verità della ragione contrappone le verità della sragione, il Nietzsche de Le parole e le cose – in cui non è difficile riconoscere il Nietzsche genealogista di Deleuze – opera una critica radicale della stessa idea di verità82. Col passare del tempo, Nietzsche non sarà l’unico autore rispetto al quale il giudizio di Foucault subirà uno slittamento: se ne Le parole e le cose Kant è all’origine di scienze umane di cui viene annunciato il tramonto, alla fine degli anni settanta Foucault si presenterà come erede dell’Aufklärung kantiana. Da “comunista nietzscheano” negli anni cinquanta, a “illuminista nietzscheano-kantiano” negli anni ottanta, il nostro autore sembra essere un amante del paradosso, dell’ossimoro filosofico, quasi volesse dimostrare la possibilità di sintesi in apparenza impossibili. Tenere assieme Kant e Nietzsche, ad esempio: niente di più improbabile; oppure niente di più facile, se al fianco di Foucault per quindici anni, dal 1962 al 1977, si coglie la presenza di Deleuze. Nello studio del 1962, infatti, Deleuze presenta Nietzsche come colui che porta a compimento, e al tempo stesso rovescia, il progetto della filosofia critica di Kant83, e nel 1963 è proprio a La filosofia critica di Kant84 che Deleuze dedica un breve saggio.

se non avessi letto Heidegger, non avrei letto Nietzsche». 81 Sulla rivista «Le Débat» (n° 41, settembre-ottobre 1986). 82 Sulle diverse recezioni del pensiero di Nietzsche nel Novecento si veda, ad esempio, lo sudio di Maurizo Ferraris Nietzsche e la filosofia del Novecento, Milano, Bompiani, 1989. Sulla recezione francese, si veda, inoltre: Campioni, Giuliano, Les lectures françaises de Nietzsche, Paris, PUF, 2001. 83 «Nietzsche con la genealogia della morale, ha voluto riscrivere la Critica della ragione pura. […] Alla fin fine Nietzsche sta a Kant come Marx sta a Hegel: egli vuole rimettere la critica sui suoi piedi, come Marx nei confronti della dialettica. Ma l’analogia, anziché avvicinare Marx a Nietzsche, li separa ancor più profondamente, in quanto la dialettica è nata dalla critica kantiana. Non vi sarebbe mai stato bisogno di rimettere la dialettica sui suoi piedi, né vi sarebbe stato in alcun modo bisogno “di fare dialettica” se la critica, sin dall’inizio, non fosse stata a testa in giù» (Deleuze, Gilles, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 116-117). 84 Deleuze, Gilles, La philosophie critique de Kant, Paris, PUF, 1963, trad. it. La filosofia critica di Kant, Bologna, Cappelli 1979, nuova ed. it. Napoli, Cronopio, 1997.

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Prima di Foucault, è stato quindi Deleuze ad affermare che non Marx, ma Nietzsche rappresenta il momento inaugurale di un nuovo modo di pensare, antidialettico, antiumanistico e antistoricista, che rende possibile una presa di distanza dalle scienze umane85. Se Marx ha operato il rovesciamento della dialettica hegeliana, Nietzsche sarebbe autore di una mossa più radicale: avrebbe intrapreso la decostruzione delle premesse stesse della dialettica, svelando ciò che restava invisibile alla critica kantiana. Svelando cioè che prima e dopo la verità, al di qua e al di là di essa, stanno le forze. Secondo Deleuze «la critica di Kant ha come suo unico obiettivo quello di giustificare, incominciando proprio col credere in ciò che critica»86: il filosofo critico per Kant è infatti un giudice alla ricerca di criteri per separare le false conoscenze, la falsa morale e la falsa religione dalla verità in cui preventivamente crede. Nietzsche, invece, introduce la figura del filosofo legislatore, che proclama nuovi valori, istituisce nuove conoscenze e contesta la neutralità della nozione stessa di verità. Secondo Deleuze, Nietzsche non risolve, ma sradica e supera i problemi posti da Kant, sollevando la questione della genesi della ragione e dell’intelletto, attraverso un procedimento di drammatizzazione della verità: chi pronuncia le verità in cui crediamo? Chi le vuole? Quali forze e volontà le determinano? Non c’è verità che, prima di essere una verità, non sia la realizzazione di un senso o di un valore. La verità come concetto è affatto indeterminata e tutto dipende dal valore e dal senso di ciò che pensiamo: […] allora la verità di un pensiero deve essere interpretata e valutata in base alle forze o alla potenza che lo inducono a pensare una cosa piuttosto che un’altra87.

Quando, nel suo libro su Nietzsche, sostiene che la novità filosofica della genealogia nietzscheana consiste nell’aver esteso la critica, che Kant applicava ai giudizi apofantici88, all’ambito del senso e del valore, Deleuze guarda 85

«È un triste bilancio quello che le scienze offrono a Nietzsche: predominano ovunque concetti passivi, reattivi, negativi, nonché lo sforzo di interpretare i fenomeni a partire dalle forze reattive. Avevamo avuto modo di vederlo già per la fisica e per la biologia, ma via via che ci si addentra nelle scienze dell’uomo si assiste a un’evoluzione dell’interpretazione reattiva e negativa dei fenomeni: “l’utilità”, “l’adattamento”, “la consuetudine” e anche “l’oblio” fungono da concetti esplicativi. Sia nelle scienze dell’uomo che nelle scienze della natura, si rivela ovunque l’ignoranza delle origini e della genealogia delle forze» (Deleuze, Gilles, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 101). 86 Ivi, p. 118. 87 Ivi, p. 132. 88 Nella logica di Aristotele, tra gli enunciati verbali dotati di senso, quelli che possono essere detti veri o falsi prendono il nome di apofantici, e si distinguono dagli enunciati espressivi (come, ad esempio, la preghiera) per cui non possono essere dati criteri di verità.



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soprattutto al Kant della Critica della ragion pura – lo stesso Kant che Foucault ne Le parole e le cose porrà all’origine del pensiero antropologico. Nel libro su Kant, invece, Deleuze si soffermerà soprattutto sul Kant della Critica del giudizio e degli scritti di filosofia della storia – lo stesso Kant di cui Foucault negli anni ottanta si dichiarerà erede – e sembrerà voler fare di questo Kant il filosofo che, precorrendo Nietzsche, ha affermato la subordinazione dell’interesse speculativo all’interesse pratico, della verità alla volontà89. Se il Nietzsche di Deleuze è al tempo stesso colui che compie e che supera il pensiero di Kant eccedendone i limiti, è da quell’improbabile punto teorico determinato dall’intersezione di criticismo kantiano e genealogia nietzscheana che scaturisce il pensiero di Foucault. Se è possibile rintracciare un programma filosofico unitario nel percorso del nostro autore, esso si pone infatti sotto il segno di Kant – nonostante il ruolo che ne Le parole e le cose al filosofo di Königsberg viene fatto giocare. Come Kant, Foucault ricerca le condizioni di possibilità, gli a priori della conoscenza umana. Tali a priori non sono però, per lui, forme pure della coscienza immutabili, universali e necessarie, ma sono condizioni storicamente determinate che si succedono nella storia attraverso salti epistemici. Questa prospettiva discontinuista vanifica ogni ricerca di criteri assoluti di verità, senza però negare per partito preso, attraverso un relativismo pregiudiziale, ogni legittimità alla ricerca di verità. L’indicazione metodologica di Foucault è chiara: così come non è possibile presupporre un’evoluzione continua e lineare della storia e ogni nesso di continuità deve essere dimostrato, analogamente l’esistenza di valori o verità universali non è dimostrabile, mentre è sempre possibile esibire i nessi strutturali tra le diverse verità, scientifiche e morali, prodotte all’interno di una particolare episteme. Nei testi degli anni sessanta, questa ricerca di a priori storici si arresta alla superficie delle formazioni discorsive, e prende il nome di archeologia (Un’archeologia di uno sguardo medico e Un’archeologia delle scienze umane sono i sottotitoli de La nascita della clinica e de Le parole e le cose). La teoria dell’enunciato, esposta ne L’archeologia del sapere (il cui sottotitolo recita, invece, Una metodologia per la storia della cultura)90 è, appunto, un metodo di ricerca delle condizioni di 89 «Occorre dunque pensare che il giudizio riflettente in generale rende possibile il passaggio dalla facoltà di conoscere alla facoltà di desiderare, dall’interesse speculativo all’interesse pratico, e prepara la subordinazione del primo al secondo, mentre la finalità rende possibile il passaggio dalla natura alla libertà ovvero prepara la realizzazione della libertà nella natura» (Deleuze, Gilles, La filosofia critica di Kant, Napoli, Cronopio, 1997, pp. 112-113). 90 Nell’Archeologia del sapere, Foucault afferma che l’oggetto di studio delle sue ricerche è l’enunciato (énoncé). Con questo termine egli indica le «proposizioni serie», che appartengono ai saperi ufficiali di un’epoca, e che in tale epoca avanzano pretese di verità. Su tali pretese l’archeologo sospende il giudizio, per restituire una descrizione empirica degli enunciati

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possibilità del sapere attraverso l’analisi dei criteri di razionalità interni alle discipline teoriche: l’archeologia sospende il giudizio sulla verità degli enunciati presi in esame, per ricostruire i rapporti che essi intrattengono con gli altri elementi del sistema di sapere in cui sono inseriti, ricostruendo i modi di funzionamento delle diverse epistemai – la somiglianza nel Rinascimento, la rappresentazione nell’età classica, l’articolazione di storia e antropologia nell’età moderna. Negli anni settanta, in Sorvegliare e punire e ne La volontà di sapere, l’eredità kantiana presente nel pensiero di Foucault si innesta invece più decisamente sul programma di ricerca di Nietzsche – o almeno, del Nietzsche di Deleuze. È allora che l’archeologia si pone al servizio della genealogia, e Foucault, riconoscendo, come Nietzsche, il ruolo di primo piano esercitato dalle forze nel determinanare la produzione di sapere in una società data, intraprende un’indagine dell’articolazione tra pratiche discorsive e pratiche non discorsive. A queste forze, Foucault dà il nome di potere: categoria che riveste una molteplicità di significati, che si riferisce non solo agli apparati di stato e alla sfera più propriamente politica, ma più in generale a tutte le istituzioni (giuridiche, penitenziarie, religiose, scolastiche, mediche) e le formazioni sociali (anche la famiglia e le consuetudini etiche di una comunità) che determinano o influenzano il comportamento dei singoli e le relazioni tra i soggetti. La genealogia foucaultiana non dissolve la verità nel potere, ma studia le complesse articolazioni di sapere e potere, rifiutando semplificazioni e riduzionismi pregiudiziali (ad esempio la riduzione della sovrastruttura ideologica alla struttura economica) nell’analisi dei nessi causali tra i fenomeni esaminati: la struttura politica e sociale di una società data crea le condizioni per la produzione di determinate verità e queste, a loro volta, hanno effetti di ritorno su tale struttura, consolidandola o modificandola91. Questo cambiamento di prospettiva teorica, da un’analisi situata solo sul piano del sapere all’esame di come le pratiche discorsive si articolano a quelle non discorsive, segna la fine della fase strutturalista del pensiero foucaultiano. Si tratta, in parte, di una ripresa del programma di ricerca iniziato nella Storia

nella loro positività, nella loro singolarità, e nei rapporti con il loro contesto, il «campo associato», costituito da altri enunciati. L’enunciato indica una funzione di contenuto, e non la proposizione logica nel suo aspetto formale. Inoltre, come sottolinea Deleuze, esso non appartiene al soggetto che lo pronuncia, né da esso, o dall’oggetto che denota, deriva il suo senso: l’enunciato appartiene piuttosto al mormorio anonimo e serio del «si parla» (cfr. Deleuze, Gilles, Un nuovo archivista, in Foucault, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 28, prima ed. Foucault, Paris, Minuit, 1986). 91 Per le definizioni di “archeologia” e “genealogia” si veda: Illuminismo e critica, Roma, Aufklärung) Donzelli, 1997, pp. 54-56 e pp. 57-59, prima ed. Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), in «Bulletin de la Société française de philosophie», Paris, 1990.

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della follia, ma in parte – se applichiamo il metodo genealogico al pensiero dello stesso Foucault – risulta anche essere l’esito di esperienze vissute da Foucault assieme al suo compagno d’avventure Deleuze: gli sconvolgimenti politici del 1968 e la militanza politica nel G.I.P. Dopo aver discusso la tesi di dottorato nel 1961, Foucault lavora alla Nascita della clinica, che egli stesso presenta come proseguimento della ricerca iniziata con Storia della follia, e al saggio sul romanziere e poeta Raymond Roussel92: entrambi i testi usciranno nel 1963. Nello stesso anno, entra con Roland Barthes nel comitato di redazione della rivista «Critique», fondata da Bataille nel 1946. Intanto, nel 1962, è nominato professore di psicologia presso l’università di Clermont-Ferrand: nello stesso anno conosce Deleuze. Questi recensisce entusiasticamente i libri di Foucault, su «Critique» e su altre riviste93, presentandoli come l’alba di un nuovo pensiero di sinistra – «finalmente qualcosa di nuovo dopo Marx». Foucault non sarà meno generoso: nel 1969 recensirà Differenza e ripetizione94 su «Le Nouvel Observateur»95, e nel 1970, su «Critique»96, Differenza e ripetizione e Logica del senso97. Commentando questi libri sosterrà: «Forse un giorno il secolo sarà deleuziano». Nel 1977, infine, uscirà la prima edizione inglese dell’Anti-Edipo (testo composto da Deleuze assieme allo psicoanalista Félix Guattari, in cui, come mostrerò più avanti, sono numerosi i riferimenti alla Storia della follia): la prefazione è di Foucault, che lo presenta come un libro-evento98. L’amicizia filosofica si consolida negli anni sessanta, sotto il segno di Nietzsche: nel luglio 1964, Foucault partecipa al convegno filosofico internazionale su Nietzsche organizzato da Deleuze a Royaumont – a cui 92

Raymond Roussel, Paris, Gallimard, 1963, trad. it. Raymond Roussel, Bologna, Cappelli, 1978. 93 Deleuze recensisce il testo su Roussel sulla rivista «Arts» (Raymond Roussel ou l’horreur du vide, in «Arts», 23 ottobre 1963), Le parole e le cose su «Le Nouvel Observateur», L’archeologia del sapere e Sorvegliare e punire su «Critique» (per i riferimenti bibliografici, e per un’analisi di queste recensioni, si torni al paragrafo 2.1 La reazione marxista negli anni sessanta e settanta). 94 Deleuze, Gilles, Différence et Répétition, Paris, PUF, 1969, trad. it. Differenza e Ripetizione, Bologna, il Mulino, 1972. 95 Ariane s’est pendue, in «Le Nouvel Observateur», 31 marzo 1969, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 64. 96 Theatrum philosophicum, in «Critique», n° 282, novembre 1970, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 80, trad it. in Deleuze, Gilles, Differenza e ripetizione, cit. 97 Deleuze, Gilles, Logique du sens, Paris, Minuit, 1969, trad. it. Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 1975. 98 Preface, in Deleuze, Gilles e Guattari, Félix, Anti-Œdipus: Capitalism and Schizophrenia, New York, Viking Press, 1977, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 189. L’edizione francese del testo di Deleuze e Guattari è del 1972: L’Anti-Œdipe, Paris, Minuit, trad. it. L’anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1995.

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prendono parte, tra gli altri, illustri interpreti di Nietzsche della generazione precedente, come Karl Löwith, Jean Wahl e Pierre Klossowski. Al convegno, Foucault anticipa la sua teoria delle epistemai, ma con alcune significative semplificazioni e differenze rispetto alla formulazione definitiva che essa troverà ne Le parole e le cose. Nel libro del 1966, Marx sarà presentato come un esponente del pensiero moderno, mentre Nietzsche e Freud saranno considerati iniziatori di un nuovo modo di pensare che rompe con la modernità. Nell’intervento del 1964, al contrario, il nome di Marx non è contrapposto, ma associato a quelli di Nietzsche e Freud99: i tre autori sono presentati come gli iniziatori di una tecnica d’interpretazione ancora viva nel presente, che Foucault confronta direttamente con le tecniche di interpretazione del Rinascimento (senza i passaggi intermedi della rappresentazione nell’età classica e di storia e antropologia nell’età moderna). Il giudizio che ne Le parole e le cose sarà espresso su Marx, è qui applicato a un non ben precisato «marxismo»: Foucault accusa infatti i sedicenti eredi di Marx di voler restaurare, con il loro dogmatico riduzionismo, proprio quel modo del pensiero, basato sulla credenza in un ordine originario dei segni, che Marx avrebbe contribuito a demolire100. Per il Foucault di questo testo, infatti, nel XVI secolo interpretare significava dar conto della somiglianza delle cose 99

In quegli anni, è stato Paul Ricoeur (1913-2005) a unire i nomi di Nietzsche, Freud e Marx, e a fare dei tre autori gli iniziatori di quella che definisce la «scuola del sospetto», ovvero di una tradizione filosofica critica volta a smascherare il dogmatismo della filosofia moderna della coscienza. Il saggio su Freud in cui Ricoeur espone questa tesi uscirà nel 1965 (De l’interpretation. Essai sur Sigmund Freud, Paris, Seuil, 1965, trad. it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Milano, Il Saggiatore, 1966, nuova ed. it. Genova, il melangolo, 1991), ma fin dai primi anni sessanta i suoi frequentatissimi corsi alla Sorbona vertono su filosofia e psicoanalisi, e le sue idee hanno grande diffusione negli ambienti filosofici parigini. Anche Althusser in Leggere il Capitale fa riferimento ai tre autori, presentandoli come coloro a cui si deve «la scoperta e la comprensione del senso dei gesti più “semplici” dell’esistenza: vedere, ascoltare, parlare, leggere» (Leggere il Capitale, cit., p. 19). 100 «La morte dell’interpretazione è credere che esistano segni, segni che esistono primariamente, originariamente, realmente, come contrassegni coerenti, pertinenti e sistematici. La vita dell’interpretazione è al contrario credere che ci siano solo interpretazioni. Mi sembra necessario avere ben chiara questa cosa che troppi nostri contemporanei dimenticano, e cioè che l’ermeneutica e la semiologia sono due nemiche feroci. In realtà, un’ermeneutica che si ripiega su una semiologia crede all’assoluta esistenza dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni per far regnare il terrore dell’indice, e sospettare il linguaggio. È lì che noi riconosciamo il marxismo dopo Marx. Al contrario, un’ermeneutica che si avvolge su se stessa entra nell’ambito dei linguaggi che non smettono di implicarsi essi stessi, questa regione vicina alla follia e al puro linguaggio. Lì noi riconosciamo Nietzsche» (Nietzsche, Freud, Marx, in Archivio Foucault 1, cit., pp. 145-146, corsivi miei, prima ed. in «Cahiers de Royamont», vol. VI, Paris, Minuit, 1967, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 46, prima trad. italiana, in «aut-aut», nn. 262-263, 1994).



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del mondo, ma a partire dal XIX secolo, con Nietzsche, Freud e Marx, l’interpretazione è diventata un’interrogazione critica infinita che investe non solo ciò che viene interpretato, ma anche il soggetto che interpreta. Ad accomunare i tre autori sarebbe il rifiuto dell’origine, il principio secondo cui «non c’è niente di assolutamente primario da interpretare, perchè, in fondo, tutto è già interpretazione, ogni segno in se stesso non è la cosa che si offre all’interpretazione ma l’interpretazione di altri segni»101: L’idea che l’interpretazione preceda il segno implica che il segno non sia un essere semplice e benevolo, come era ancora nel XVI secolo quando la sovrabbondanza dei segni, il fatto che le cose si somigliassero, dimostrava semplicemente la benevolenza di Dio e separava con un velo trasparente solo il segno dal significato. Al contrario, dopo il XIX secolo, dopo Freud, Marx e Nietzsche, mi sembra che il segno diventi malevolo; intendo dire che nel segno c’è già un modo ambiguo e un po’ bieco di “voler male” di “malevolere”. E questo in quanto il segno è già un’interpretazione che non si dà come tale. I segni sono interpretazioni che tentano di giustificarsi, e non il contrario. Il segno, acquisendo questa nuova funzione di copertura dell’interpretazione, perde il suo essere di significante che possedeva ancora all’epoca del Rinascimento; è come se il suo spessore si aprisse e quindi tutti i concetti negativi, che fino ad allora erano rimasti estranei alla teoria del segno, possono precipitare nell’apertura. La teoria del segno conosceva solo il momento trasparente e appena negativo del velo. Adesso potrà organizzarsi all’interno del segno tutto un gioco di concetti negativi, di contraddizioni, di opposizioni, insomma, l’insieme di questo gioco di forze reattive così ben analizzato da Deleuze nel suo libro su Nietzsche102.

Anche in occasione del convegno internazionale di Royaumont, Foucault non perde quindi occasione per ribadire la sua stima per Deleuze. Nel 1966, Foucault e Deleuze accettano di curare assieme l’edizione francese delle opere complete di Nietzsche, che esce nel 1967 con un’introduzione a quattro mani103. Dall’autunno 1966, dopo l’uscita de Le parole e le cose, Fou101

Ivi, p. 143. Ivi, pp. 144-145. 103 Introduction générale, alle Œuvres complètes di Friedrich Nietzsche, Paris, Gallimard, 1967, ora in Dits et écrits, vol. I, testo n° 45. L’edizione francese è una traduzione dell’edizione tedesca curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, il cui primo volume è stato pubblicato nel 1964. La breve introduzione di Deleuze e Foucault è volta soprattuto a illustrare il senso e i meriti del lavoro svolto da Colli e Montinari: basandosi sui manoscritti conservati nel Nietzsche-Archiv di Weimar, i due studiosi hanno emendato i testi di Nietzsche dalle falsificazioni apportate da sua sorella Elisabeth per farne un precursore del nazionalsocialismo. Foucault presenta la traduzione nell’intervista Michel Foucault et Gilles Deleuze veulent rendre à Nietzsche son vrai visage, in «Le figaro littéraire», n° 1065, 15 settembre 1966, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 41. 102

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cault è a Tunisi, dove per la prima volta gli hanno offerto una cattedra di filosofia e non di psicologia. Nel marzo 1967 torna per un breve periodo a Parigi, ed espone la sua teoria delle epistemai a un seminario presso la cattedra di sociologia della Sorbona, ricoperta da Raymond Aron – un seminario con Aron: l’ennesima conferma della rottura ormai consumata con il marxismo althusseriano104. Quando scoppiano gli scontri a Parigi, dal 3 al 13 maggio 1968, e la Sorbona viene occupata dagli studenti, Foucault è bloccato a Tunisi, dove già a marzo ha assistito a violente agitazioni studentesche: riesce a tornare a Parigi solo a fine mese, e partecipa alle ultime manifestazioni e assemblee105. A settembre, su sua richiesta, è reintegrato amministrativamente all’università di Nanterre, che gli ha offerto una cattedra di psicologia; ma a dicembre è nominato professore di filosofia dall’università sperimentale di Vincennes, fortemente voluta dal ministro della pubblica istruzione Edgar Faure. Nel 1969 – anno di pubblicazione dell’Archeologia del sapere – partecipa agli scontri tra gli studenti di Vincennes e la polizia, e all’occupazione dell’università. Nel gennaio 1970 il nuovo ministro della pubblica istruzione Olivier Guichard nega il valore legale della laurea conferita a Vincennes, sostenendo che troppi corsi sono dedicati alla politica e ispirati al marxismo; ma per Foucault si aprono nuove possibilità d’insegnamento. Nel novembre 1969, infatti, l’assemblea dei professori del Collège de France approva la trasformazione della cattedra di Storia del pensiero filosofico, che era stata di Hyppolite (scomparso il 27 ottobre 1968) in cattedra di Storia dei sistemi di pensiero, e istituisce un nuovo insegnamento di Sociologia della civiltà moderna: le due cattedre sono pensate, rispettivamente, per Foucault e per Aron. Nel 1970, escono le Opere complete di Bataille, introdotte da Foucault106, e il 2

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Profondo conoscitore di Marx, nel secondo dopoguerra Raymond Aron (1905-1983) è stato il grande critico liberale del marxismo francese, il grande oppositore di Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty – di cui fu compagno di studi alla Normale, assieme a Georges Canguilhem e a Jean Hyppolite. Già nel 1944, su «La France Libre», Aron utilizzò la nozione di religione secolare per definire l’ideologia comunista (L’avenir des religions séculières, in «La France Libre», giugno e luglio 1944). Tale nozione ricorre in tutta la produzione del sociologo francese, in particolare ne L’opium des intellectuels (Paris, Calman-Lèvy, 1955, trad. it. L’oppio degli intellettuali, Bologna, Cappelli, 1958), e in Démocratie et totalitarisme (Paris, Gallimard, 1965, trad. it. Teoria dei regimi politici, Milano, Comunità, 1973). 105 A questo proposito si veda: Colloqui con Foucault, a cura di Trombadori, Duccio, cit., pp. 95-101. 106 Si veda: Présentation, in Bataille, George, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1970, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 74. Bataille era morto nel 1962, e Foucault aveva scritto per lui un omaggio su «Critique»: Préface à la transgression, in «Critique», nn. 195-196, agostosettembre 1963, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 13, trad. it. Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, Milano, Feltrinelli, 1971.



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dicembre dello stesso anno il nostro autore tiene la sua lezione inaugurale al Collège de France, che sarà pubblicata con il titolo L’ordine del discorso. In questa lezione Foucault afferma che il suo metodo di ricerca sarà critico e genealogico107, teso quindi non a ricostruire grandi piani di sviluppo della storia, ma a far emergere i fenomeni umani nella loro discontinuità e singolarità. Nel momento della sua consacrazione in una delle più prestigiose istituzioni universitarie di Francia, Foucault pone quindi il suo progetto di ricerca in continuità non solo con il pensiero di Nietzsche e Deleuze, ma anche con l’opera dei suoi maestri Dumézil e Canguilhem108. Non è difficile cogliere nelle parole di Foucault l’intenzione di ribadire polemicamente la sua distanza dal marxismo e dall’hegelismo della cultura francese in cui si è formato, e tuttavia, paradossalmente, è soprattutto verso Hyppolite che Foucault dichiara la sua gratitudine: Penso che il mio debito vada, in grandissima parte, a Jean Hyppolite. So bene che la sua opera è posta, agli occhi di molti, sotto il segno di Hegel, e che tutta la nostra epoca, o con la logica o con la epistemologia, o con Marx o con Nietzsche, cerca di sottrarsi a Hegel; e quel che ho cercato di dire poco fa sul discorso è ben poco fedele al logos hegeliano. Ma sfuggire realmente 107 «Le analisi che mi propongo di condurre si dispongono secondo due insiemi. Da una parte l’insieme “critico” che mette in opera il principio del rovesciamento: cercare di individuare le forme dell’esclusione, della limitazione, dell’appropriazione di cui parlavo poc’anzi; mostrare come si sono elaborate, in risposta a quali bisogni, come si sono modificate e spostate, quale costrizione hanno effettivamente esercitato, in che misura sono state aggirate. D’altra parte, l’insieme “genealogico” che mette in opera gli altri tre principi: come si sono formate, attraverso, a dispetto o coll’appoggio di tali sistemi di costrizione, delle serie di discorsi; quale è stata la norma specifica di ciascuna, e quali sono state le loro condizioni di apparizione, di crescita, di variazione». «La critica analizza non solo i processi di rarefazione, ma anche quelli, inoltre, di raggruppamento e di unificazione dei discorsi; la genealogia studia la loro formazione dispersa, discontinua e regolare insieme. A dire il vero, questi due compiti non sono mai del tutto separabili» (L’ordine del discorso, in Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 33 e 35, prima ed. L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971, prima ed. it. Torino, Einaudi, 1972). 108 «Le ricerche di cui ho tentato di presentarvi il disegno, non avrei potute intraprenderle, lo so bene, se non avessi avuto l’ausilio di modelli e di sostegni. Credo di dover molto a Georges Dumézil, poiché fu lui a incitarmi al lavoro a un’età in cui credevo ancora che scrivere fosse un piacere. Ma devo anche molto alla sua opera [...]; lui mi insegnò a rintracciare, da un discorso all’altro, col gioco dei confronti, il sistema delle correlazioni funzionali; lui mi insegnò come descrivere le trasformazioni d’un discorso e i rapporti con l’istituzione. Se ho voluto applicare un simile metodo a tutt’altri discorsi che non fossero narrazioni leggendarie e mitiche, è perché l’idea mi è stata fornita dai lavori degli storici della scienza, e soprattutto di Georges Canguilhem, che avevo davanti agli occhi; devo a lui di aver capito [...] che si poteva, che si doveva, fare la storia della scienza come di un insieme, coerente e trasformabile a un tempo, di modelli teorici e di strumenti concettuali» (ivi, pp. 37-38).

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a Hegel presuppone che si valuti esattamente quanto costi staccarsi da lui; presuppone che si sappia sino a dove Hegel, insidiosamente forse, si sia accostato a noi, presuppone che si sappia, in ciò che ci permette di pensare contro Hegel, quel che è ancora hegeliano; e di misurare in cosa il nostro ricorso contro di lui sia ancora, forse, un’astuzia ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile e altrove. Ora, se siamo in più d’uno a essere in debito nei confronti di Hyppolite, è perché instancabilmente egli ha percorso per noi e prima di noi il cammino con il quale ci si scosta da Hegel, ci si distanzia, e con il quale ci si trova ricondotti a lui ma in altro modo, poi di nuovo costretti ad abbandonarlo109.

In memoria di Hyppolite, nel 1971 Foucault cura anche un volume collettaneo, Hommage à Jean Hyppolite. Nel suo intervento, intitolato Nietzsche, la genealogia, la storia, Foucault torna sul concetto di genealogia e nuovamente evidenzia come il metodo di Nietzsche si opponga alle filosofie della storia che reperiscono nelle vicende umane continuità e finalismo e che ricercano al di sotto di esse un principio di spiegazione unitario – una legge, una verità, o un’origine: La genealogia non si oppone alla storia come la vista altera e profonda del filosofo allo sguardo di talpa del dotto; s’oppone al contrario al dispiegamento metastorico dei significati ideali e delle indefinite teleologie. Si oppone alla ricerca dell’“origine”110.

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Ivi, p. 38. L’ambiguità dei rapporti che il pensiero Foucault, e in generale la filosofia francese del secondo Novecento, intrattengono con Hegel è brillantemente messa in luce da Judith Butler in Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, New York, Columbia University Press, 1987 e 19992. Sui debiti di Foucault verso la teoria della soggettività di Hegel si veda, inoltre: Fimiani, Mariapaola, La vita filosofica: Foucault e Hegel, in Bazzicalupo, Laura ed Esposito, Roberto (a cura di), Politica della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003. 110 Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità, cit., pp. 43-44, prima ed. it. in Microfisica del potere, cit., prima ed. Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in AA.VV., Hommage à Jean Hyppolite, Paris, PUF, 1971, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 84. Buona parte del testo è dedicata a un’analisi di alcuni termini, solo in apparenza sinonimi, utilizzati da Nietzsche in diverse sue opere (Il viandante e la sua ombra, La gaia scienza, Al di là del bene e del male, Genealogia della morale): secondo Foucault, la genealogia nietzscheana è un’indagine storica che non ricerca mai la Urkunft (l’origine, «l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura, la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile ed anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo», p. 45) dei fenomeni che prende in esame, ma piuttosto la Herkunft (la provenienza, la «stirpe», l’«appartenenza a un gruppo – quello del sangue, quello della tradizione, quello che si crea tra persone della stessa altezza o della stessa bassezza», p. 47) o la Entstehung (l’emergenza, «il momento della nascita, il principio e la legge singolare di un’apparizione», p. 50). L’analisi della provenienza differisce dalla ricerca delle cause perché non individua mai l’origine di un fenomeno in un altro singolo fenomeno, ma rende conto della sua derivazione da una «proliferazione di eventi»; l’analisi

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Gli esiti della genealogia, una volta abbandonata la nozione di origine, sono per Foucault la distruzione parodistica della realtà, dell’identità e della verità: allo sguardo del genealogista tutto appare molteplice, soggetto a forze instabili e mutevoli. Nel campo di forze mobile e precario in cui si trova, il genealogista è disposto a rischiare: se Hegel aspirava un sapere neutrale e assoluto, Nietzsche non nasconde la parzialità del suo sapere. La genealogia «non teme di essere un sapere prospettico»: Gli storici cercano nella misura del possibile di eliminare ciò che può tradire, nel loro sapere, il luogo da dove guardano, il momento in cui sono, il partito che prendono, l’indicibile della loro passione. Il senso storico, come Nietzsche l’intende, sa di essere in prospettiva, e non rifiuta il sistema della propria ingiustizia. Guarda sotto un certo angolo, e col deliberato proposito d’apprezzare, di dire sì o no, di seguire tutte le tracce del veleno, di trovare il miglior antidoto111.

A partire dai primi anni settanta, anche Foucault non si preoccupa di celare la natura prospettica del suo sapere, che per lungo tempo si alimenterà del confronto con problemi di attualità. È allora che l’amicizia tra Foucault e Deleuze, nata da affinità filosofiche, si consolida anche sul terreno della politica. Nel febbraio 1971, in seguito a uno sciopero della fame di alcuni militanti maoisti imprigionati per i fatti del sessantotto, Defert e Foucault fondano il Groupe d’Information sur les Prisons (G.I.P.)112, con sede in

dell’emergenza investe invece sempre lo «stato delle forze» da cui un fenomeno si produce: «l’emergenza è [...] l’entrata in scena delle forze; è la loro irruzione, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul palco, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è propria» (p. 51), essa «non è il risultato necessario di quel che, per tanto tempo, era stato preparato in anticipo; è la scena dove le forze si mettono a rischio e s’affrontano, dove accade che esse trionfino, ma dove le si può catturare» (p. 59). 111 Ivi, p. 57. A Nietzsche è dedicato anche buona parte del primo corso tenuto da Foucault al Collège de France, La volontà di sapere, di cui, mentre scrivo, ancora si attende l’edizione critica (che, a differenza di quanto è accaduto per i corsi finora pubblicati, sarà stabilita soltanto in base agli appunti di Foucault, dal momento che del corso non sono state conservate registrazioni audio). In questo corso, Nietzsche è presentato come colui che ha rivelato che «la conoscenza è un’“invenzione” dietro la quale si ha qualcosa di completamente diverso da essa: un gioco di istinti, di impulsi, di desideri, di paura, di volontà di appropriazione», e che «se si dà come conoscenza della verità, ciò dipende dal fatto che produce la verità attraverso il gioco di una falsificazione primaria e sempre rinnovata che stabilisce una diRésumés, Milano, stinzione tra vero e falso» (La volontà di sapere, in I corsi al Collège de France. I Résumés Feltrinelli, 1999, pp. 16-17 prima ed. La volonté de savoir, in «Annuaire du Collège de France, 71e année 1970-1971», 1971, ora in Résumés des cours 1970-1982, Paris, Gallimard, 1994, e in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 101). 112 Come già ho avuto modo di segnalare, i testi prodotti dal G.I.P. sono ora raccolti nel

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casa di Foucault, al n° 285 di rue de Vaugirard: il gruppo si prefigge di costituire una commissione d’inchiesta sulle condizioni carcerarie in Francia, per rivelare all’opinione pubblica ciò che è «intollerabile» nella vita dei prigionieri. Deleuze è uno dei primi intellettuali ad aderire113. Oltre a promuovere manifestazioni per ampliare l’eco delle rivolte di detenuti che imperversano negli istituti penitenziari di tutta la Francia, i militanti del G.I.P. introducono clandestinamente dei questionari nelle prigioni e in meno di due anni producono quattro opuscoli di denuncia114; ma già nel dicembre 1972 il gruppo si scioglie115. In quegli anni, Foucault e Deleuze lavorano

volume Le Groupe d’Information sur les prisons. Archives d’une lutte, 1970-1972 (documents réunis et préséntés par Philippe Artières, Laurent Quéro et Michelle Zancarini-Fournel, postface de Daniel Defert), Paris, Éditions de l’IMEC, 2003. 113 Deleuze si avvicina al gruppo dopo che lo avevano fatto Jean-Marie Domenach, direttore della rivista cattolica «Esprit» e lo storico Pierre Vidal-Naquet, e contemporaneamente ad altri colleghi di Vincennes (Jean-Claude Passeron, Jean Gattégno, Robert Castel, Jacques Rancière, Jacques Donzelot), e al giornalista Claude Muriac. Al gruppo sarà vicino anche Jean Genet e, in alcune occasioni, persino Sartre. 114 Il primo, Enquête dans vingt prisons (Paris, Champ Libre, 1971), curato e introdotto da Foucault, è un resoconto dell’inchiesta sulle condizioni carcerarie; il secondo, Le G.I.P. enquête dans un prison modèle: Fleury-Mérogis (Paris, Champ Libre, 1971), realizzato da Jacques-Alain Miller e François Régnault, si occupa della prigione modello di Fleury-Mérogis; il terzo, Cahiers de rivendication sortis des prisons (Paris, Gallimard, 1972), redatto da Hélène Cixous e Jean Gattégno, illustra l’evoluzione del movimento dei detenuti, dalla sommossa spontanea alla rivendicazione politica; il quarto, Suicides dans les prisons en 1972 (Paris, Gallimard, 1973), è un’inchiesta sui suicidi in carcere, presentata da Deleuze. 115 Così racconta Eribon: «Il G.I.P. riscontra un successo formidabile: un po’ ovunque in Francia si costituiscono dei comitati. Se l’iniziativa nasce per lo più in ambito maoista, tuttavia l’eco supera largamente i circoli “gauchisti”: avvocati, medici, religiosi partecipano a questo movimento che riunisce in modo informale due o tremila persone. Ma questo successo durerà poco. Fedele al principio di partenza, Foucault vuole lasciare la parola ai detenuti e agli ex-detenuti. Nel mese di dicembre 1972, il Comitato di Azione dei Prigionieri pubblica il primo opuscolo. Anima del C.A.P. è principalmente Serge Livrozet, che ha trascorso molti anni in prigione a Melun. Per il suo libro-testimonianza, De la prison à la révolte [Paris, Mercure de France, 1973], Foucault scrive la prefazione [anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 116]. [...] Il C.A.P. non tarderà a rivendicare la propria totale indipendenza dai suoi prestigiosi padrini. Serge Livrozet replica molto duramente a un’intervista che Foucault pubblica anonima su «Liberation», su delinquenza e illegalità. “Gli specialisti dell’analisi ci hanno scocciato” tuona Livrozet il 19 febbraio 1974. “Non ho bisogno di nessuno per prendere la parola e spiegare chi sono” [Livrozet, Serge, Le droit à la parole, in «Libération», 19 febbraio 1974]. [...] Amarezza e senso di sconfitta sono certamente i sentimenti che deve aver provato Foucault dopo l’autoscioglimento del G.I.P. “Michel aveva l’impressione che tutto quanto fosse stato inutile” dice Gilles Deleuze in un’intervista pubblicata nel 1986 [Deleuze, Gilles, Foucault and the Prison, in «History of Present», n° 2, primavera 1986]. Deleuze sottolinea anche l’importanza che ebbe per Foucault questa “avventura”, questa “esperienza” che sperimentava una nuova concezione dell’impegno intellettuale: un’azione non più condotta



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fianco a fianco anche alla commissione d’inchiesta sull’affare Jaubert116 e nel comitato Djellali117. Nel 1972 pubblicano una lunga conversazione sul ruolo degli intellettuali118: con pieno accordo contrappongono all’intellettuale organico, o universale, alla Sartre – che pretende di ergersi a giudice della storia, di interpretarla e di fornire risposte universali a tutti i problemi del presente –, una nuova figura di intellettuale, l’intellettuale specifico, il cui impegno si esercita a partire da lotte puntuali e circostanziate, a seconda della sua collocazione nelle strutture di sapere e potere di una società data, senza pretese di universalità. Nel 1976, quando Foucault al Collége de France tiene il corso «Bisogna difendere la società», i rapporti con Deleuze sono ancora ottimi, tanto che nella prima lezione rende omaggio all’Anti-Edipo. All’inizio del 1975 è uscito Sorvegliare e punire, maturato attraverso l’esperienza nel G.I.P., e alla fine del 1976 viene pubblicata anche La volontà di sapere. Nel 1977 si consuma la rottura tra Foucault e Deleuze: una rottura che ha la sua origine nelle difficili vicende della sinistra extraparlamentare degli anni settanta. Dopo lo scioglimento del G.I.P., l’impegno di Foucault in azioni di controinformazione e di denuncia non viene meno: ad esempio, nel settembre 1975 – come già ho avuto modo di ricordare119 – egli redige un manifesto contro la condanna a morte di in nome di valori superiori, bensì nata dall’interesse per le realtà dimenticate. Mostrare l’intollerabile, ciò che rende davvero tale una situazione intollerabile. Ma il G.I.P., aggiunge Deleuze, fu anche un modo di “produrre degli enunciati”. Questo è il motivo per cui ai suoi occhi, contrariamente a quello che può averne pensato lo stesso Foucault, il G.I.P. fu un successo: “Ora ci sono nuovi tipi di enunciato sulla prigione, sostenuti naturalmente da detenuti ma talvolta da non detenuti, che prima sarebbero stati impensabili”» (Eribon, Didier, Michel Foucault, cit., pp. 275-277). 116 Il 29 maggio 1971 il giornalista Alain Jaubert sale su un furgone della polizia per accompagnare un manifestante ferito e poi arrestato durante scontri di piazza. In seguito a quest’episodio, anche Jaubert viene accusato di aver aggredito un agente di polizia: per sostenerlo, Foucault costituisce una commissione d’inchiesta assieme all’avvocato della Lega dei diritti dell’uomo Denis Langlois. 117 Il comitato si istituisce nel quartiere parigino della Goutte-d’or, densamente popolato da immigrati nordafricani. Il 27 ottobre 1971, nel quartiere, il guardiano di un palazzo ha ucciso il quindicenne algerino Djellali Ben Ali: gli immigrati si infiammano, gridando vendetta contro quello che percepiscono come un crimine razzista. 118 Les intellectuels et le pouvoir, in «L’Arc», n° 49, secondo trimestre 1972, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 106, trad. it. Gli intellettuali e il potere, in Microfisica del potere, cit., ora in Il discorso, la storia, la verità, cit. Foucault riprende gli argomenti affrontati con Deleuze nell’intervista rilasciata ad Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino nel giugno 1976, posta a prefazione della Microfisica del potere, di cui ho esposto i contenuti nel paragrafo 1.1 I compiti dell’intellettuale (Intervista a Michel Foucault, ora in Il discorso, la storia, la verità, cit., e anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 192). 119 Nel paragrafo 1.2 Realismo e resistenza.

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undici oppositori al regime di Franco, e con Yves Montand e altri intellettuali organizza una conferenza stampa a Madrid per presentarlo – verranno espulsi dalla Spagna, accompagnati alla frontiera su una camionetta della polizia. Nel 1977, Foucault si adopera, invece, contro l’estradizione di Klaus Croissant, l’avvocato dei militanti della R.A.F. (Rote Armee Fraktion) di Andreas Baader. Sospettato in Germania di aver fornito aiuto materiale ai suoi clienti, Croissant ha chiesto asilo politico in Francia, ma gli viene negato. Foucault interviene in sua difesa su settimanali e quotidiani120, il 16 novembre, il giorno dell’espulsione, organizza un presidio simbolico davanti alla prigione della Santé (la polizia interviene energicamente, e Foucault riporta una frattura alle costole), e il 18 novembre, assieme a Sartre, Simone de Beauvoir e Marguerite Duras, indice una seconda manifestazione di protesta. Anche Deleuze si attiva in difesa di Croissant: con Félix Guattari firma documenti che attaccano il governo della Germania occidentale dipingendolo come un regime di polizia, e che quasi giustificano l’azione della “banda Baader”. Foucault, invece, ha sempre condannato il terrorismo – prendendo le distanze, ad esempio, anche dai toni troppo violenti della manifestazione per il caso Djellali –, e i suoi interventi contro l’estradizione di Croissant sono una difesa dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e un appello contro tutto ciò che minaccia lo stato di diritto. Lungi dal costituire un’apologia dei terroristi, gli interventi di Foucault assumono il punto di vista di quello che ho chiamato il governato assoluto: del «perpetuo dissidente» che reclama la massima libertà possibile, ma non aspira a rovesciare con la violenza il regime esistente per assumere posti di potere in un regime nuovo: La concezione tradizionale situava “il politico” dal lato della lotta contro i governanti e i loro avversari; la concezione attuale, nata dall’esistenza dei regimi totalitari, è imperniata su un personaggio che non è tanto il “futuro governante”, ma il “perpetuo dissidente” – intendo dire colui che è in disaccordo globale con il sistema in cui vive, che esprime questo disaccordo con i mezzi che sono a sua disposizione e che è perseguitato per questi fatti; essa pertanto non è più imperniata sul diritto a prendere il potere, ma sul diritto a vivere, a

120 Questi i titoli degli interventi di Foucault: Va-t-on extrader Klaus Croissant?, in «Le Nouvel Observateur», n° 269, 14-20 novembre 1977, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 210; Désormais, la sécurité est au-dessus des lois, in «Le Matin», n° 225, 18 novembre 1977, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 211; Michel Foucault: La sécurité et l’État, in «Tribune socialiste», 24-30 novembre 1977, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 213; Lettre à quelques leaders de la gauche, in «Le Nouvel Observateur», n° 681, 28 novembre-4 dicembre 1977, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 214.

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essere liberi, a viaggiare, a non essere perseguitati – insomma, sulla legittima difesa nei confronti dei governanti121.

Una diversa valutazione non solo e non tanto del caso Croissant, quanto, in generale, del terrorismo degli anni settanta: questa la ragione della rottura dell’amicizia intellettuale e politica di Deleuze e Foucault. Come racconta Eribon, «non ci fu nulla di esplicito, nessun litigio, nessuna spiegazione. La complicità tra loro cessò, tutto qui»122. Da questo momento, non si incontrano più: «ciascuno dei due [continua] a leggere i libri e gli articoli dell’altro, ma questo, ormai, è l’unico contatto fra loro»123. Una rottura che ferisce entrambi: in punto di morte, nel giugno 1984, Foucault vorrrebbe riconciliarsi con Deleuze, ma questi non fa in tempo a fargli visita in ospedale. Tuttavia Defert chiederà a Deleuze di parlare al funerale: e Deleuze leggerà una pagina dell’introduzione de L’uso dei piaceri (1984), sul senso della filosofia intesa come ricerca, e sulla necessità di accettare la possibilità dell’errore124. Due anni dopo, nel 1986, Deleuze raccoglierà le proprie recensioni delle opere dell’amico scomparso in un libro ammirato e intenso, intitolato semplicemente con il suo nome, Foucault125. Lo dedicherà a Defert.

3.3 Foucault, Lacan e Freud Negli anni settanta Foucault, assieme a Deleuze, è stato quindi uno degli animatori di un vasto movimento di denuncia delle condizioni carcerarie, che ha avuto risonanza non solo in Francia ma nell’intera Europa. Il nome di Foucault è stato spesso associato anche al movimento antipsichiatrico, e 121 Va-t-on extrader Klaus Croissant?, in Dits et écrits, cit., vol. II, p. 362 e p. 364, traduzione e corsivi miei. 122 Eribon, Didier, Michel Foucault, cit., p. 307. 123 Ivi, p. 308. 124 «Il motivo che mi ha spinto era molto semplice. Spero, anzi, che agli occhi di qualcuno, possa apparire sufficiente di per sé. È la curiosità; la sola specie di curiosità, comunque, che meriti d’esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quella che consente di smarrire le proprie certezze. A che varrebbe tanto accanimento nel sapere se non dovesse assicurare che l’acquisizione di conoscenze, e non, in un certo modo e quanto è possibile, la messa in crisi di colui che conosce? Vi sono momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere» (L’uso dei piaceri, Milano, Feltrinelli, 1991, pp. 13-14, prima ed. it. Feltrinelli 1984, prima ed. L’usage des plaisirs, Paris, Gallimard, 1984). 125 Deleuze, Gilles, Foucault, Paris, Minuit, 1986, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1987.

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la Storia della follia, dove la psichiatria è interpretata come espressione delle esigenze di controllo e normalizzazione delle società moderne, ne è diventato un testo di riferimento fondamentale. Ma in realtà il nostro autore non ha mai militato nel movimento antipsichiatrico, e all’antipsichiatria Foucault ha, anzi, mosso alcune significative critiche durante il corso al Collège de France del 1973-1974. Negli anni settanta Foucault elabora infatti una critica al sapere psicologico più radicale di quanto non sia l’antipsichiatria, una critica alla ragion psichiatrica che si estende a una critica della ragion psicoanalitica, e che infine si risolve nella decostruzione della nozione di repressione – centrale per l’antipsichiatria. Con i maggiori esponenti del pensiero antipsichiatrico – Ronald David Laing126, David Cooper127, Franco Basaglia128 – Foucault, negli anni della sua formazione, condivide, tuttavia, un’importante esperienza teorica: la lettura di Ludwig Binswanger. È, infatti, attraverso una rielaborazione della psichiatria fenomenologica, la Daseinsanalyse di Binswanger, che Laing, Cooper e Basaglia, seguendo percorsi teorici differenti, giungono ad affermare con radicalità la dignità umana dei malati psichiatrici e l’inumanità dei manicomi: a invocare rispetto per i primi, e a denunciare il carattere repressivo dei secondi129. Oltre alla psichiatria fenomenologica, l’altra matrice teorica 126

Di Ronald David Laing si vedano, ad esempio: The Divided Self: A Study on Sanity and Madness, London, Tavistock Publications, 1960, trad. it. L’io diviso: Studio di psichiatria esistenziale, Torino, Einaudi, 1969; The Politics of the Family and Other Essays, New York, Pantheon Books, 1971, trad. it. La politica della famiglia, Milano, Feltrinelli, 1968. 127 Di David Cooper si vedano, ad esempio: The Death of the Family, New York, Pantheon Books, 1970, trad. it. La morte della famiglia, Torino, Einaudi, 1972; Psychiatry and Anti-psichiatry, New York, Ballantine Books, 1971, trad. it. Psichiatria e antipsichiatria, Roma, Armando, 1972; Language of Madness, London, Allen Lane, 1978, trad. it. Il linguaggio della follia, follia Milano, Feltrinelli, 1979. Laing e Cooper hanno pubblicato assieme Reason and Violence: A Decade of Sartre’s Philosophy, 1950-19�0 (with a foreword by Jean-Paul Sartre), New York, Vintage Books, 1971, trad. it. Ragione e violenza (con una presentazione di Jean-Paul Sartre), Roma, Armando, 1978. 128 Di Franco Basaglia si vedano, ad esempio: L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968; La maggioranza deviante (con Franca Ongaro Basaglia), Torino, Einaudi, 1971; Che cos’è la psichiatria?, Torino, Einaudi, 1973; Scritti (due volumi), Torino, Einaudi, 1981-1982. 129 Per la Daseinsanalyse il delirio psicotico esprime una visione del mondo che può essere compresa attraverso un’immedesimazione del terapeuta nel malato. Il pensiero antipsichiatrico denuncia invece che la psichiatria ha tentato per lungo tempo di sottrarre ogni senso alla follia: di mettere a tacere, di escludere, di recludere, di reprimere i folli in quanto pericolosi devianti rispetto a un modo di vita “normale”, “giusto”, “produttivo”, quello della società borghese capitalista. Nella prospettiva dell’antipsichiatria occorre allora criticare e riformare il sistema politico e sociale (la cultura dominante, la famiglia, le istituzioni mediche e psichiatriche, e in generale gli apparati repressivi dello stato) per risolvere quelle forme di alienazione che investono tutti, ma che sui malati mentali hanno i loro effetti più gravi. Nelle sue versioni



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del pensiero antipsichiatrico è costituita dalla psicoanalisi: entrambi i saperi tentano di cogliere i significati della malattia mentale, attraverso l’immedesimazione del terapeuta nel malato in un caso, e attraverso l’interpretazione dei suoi sintomi nell’altro. Nell’introduzione del 1954 alla traduzione di Sogno ed esistenza di Binswanger, il giovane Foucault è però interessato non ad associare, ma anzi a contrapporre fenomenologia esistenziale e psicoanalisi, Husserl e Freud130, e a reperire nella Daseinsanalyse di Binswanger un metodo di interpretazione dei sogni antagonista rispetto al metodo freudiano. Il senso del sogno si coglie infatti per Binswanger non analizzandone separatamente le immagini e decifrandole come se rispondessero a un preciso sistema di segni (così, secondo Foucault, procederebbe Freud nell’Interpretazione dei sogni), ma solo facendo attenzione all’intera struttura della facoltà immaginativa del soggetto sognante. Portando alle estreme conseguenze il pensiero di Binswanger, e forse anche forzandolo usando come grimaldello alcune tesi di Bachelard sull’immaginazione131, Foucault si spinge a sostenere che nel sogno «si annuncia significativamente» la struttura dell’intera esistenza umana132. Il sogno rappresenterebbe infatti per Foucault non soltanto «una modalità», ma «la condizione prima di possibilità» dell’immaginazione133, più radicali il movimento antipsichiartico si è spinto addirittura ad affermare che la scissione schizofrenica non è che l’esasperazione di quella perdita di sé che è caratteristica delle società contemporanee. 130 «Dal confronto tra Husserl e Freud nasceva una doppia problematica; era necessario un metodo di interpretazione che ricostituisse nella loro pienezza gli atti espressivi. Il cammino dell’ermeneutica non doveva fermarsi ai procedimenti di scrittura ai quali si era limitata la psicoanalisi; essa doveve giungere al momento decisivo in cui l’espressione stessa si oggettiva nelle strutture stesse dell’indicazione; più che di una verifica, aveva bisogno di un fondamento. Questo momento fondamentale in cui si annodano i significati è quello che Binswanger si è sforzato di mettere in luce in Sogno ed esistenza» (Il sogno, Milano, Cortina, 2003 p. 24). 131 «Bachelard ha mille volte ragione quando mostra l’immaginazione all’opera nell’intimità stessa della percezione e il lavoro segreto che trasforma l’oggetto che si percepisce in oggetto che si contempla: “si capiscono le figure grazie alla loro trasfigurazione”, ed è a questo punto che al di là delle norme della verità oggettiva “s’impone il realismo dell’irrealtà”» (ivi, p. 85. Le citazioni sono tratte dal libro: Bachelard, Gaston, L’air et les songes: Essai sur l’imagination du mouvement, Paris, Corti, 1943, trad. it. Psicanalisi dell’aria: L’ascesa e la caduta. Sognare di volare, Como, Red, 1988). 132 «Il tema di questo articolo pubblicato nel 1930 – il primo dei testi di Binswanger che appartiene alla Daseinsanalyse – non è tanto il sogno e l’esistenza, quanto l’esistenza così come appare a se stessa e come la si può decifrare nel sogno: l’esistenza nel modo di essere del sogno nel quale si annuncia significativamente» (Il sogno, cit., p. 5). 133 «Bisogna rovesciare le prospettive familiari. Considerato nel suo senso rigoroso, il sogno non indica come propri elementi costitutivi un’immagine arcaica, una fantasticheria, un mito ereditario; non ne fa la sua materia prima ed essi stessi non rappresentano il suo significato ultimo. Piuttosto, è al sogno che rimanda implicitamente ogni atto di immaginazione. Il

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intesa come facoltà che consente al soggetto di incontrare la realtà134. Attraverso la lettura di Binswanger, Foucault, pagando forse il prezzo di una certa ingenerosità verso Freud (di cui comunque non manca di riconoscere «il genio»135), prende quindi le distanze dalle derive scientiste e riduzioniste della psicoanalisi e in generale condanna ogni tentativo di oggettivare la soggettività umana136, di indagarla come un fenomeno naturale sottraendola al suo senso più pieno. Attribuendo centralità alla facoltà immaginativa, Foucault intende infatti sostenere che il rapporto tra soggetto e mondo è intenzionale e quindi libero, e che di conseguenza il senso dell’esistenza non può essere colto attraverso gli schemi della ricerca causale. Negli anni successivi, Foucault abbandonerà il metodo dell’analisi esistenziale, ma in questo suo testo giovanile è possibile cogliere non poche anticipazioni degli sviluppi successivi della sua epistemologia delle scienze umane. Nella critica foucaultiana, sia quando essa si situerà al livello dell’analisi archeologica, sia quando essa prenderà la forma del racconto genealogico, la psicoanalisi manterrà un ruolo centrale, ma verrà interpretata da Foucault in modi differenti. L’atteggiamento del nostro autore rispetto a Freud sarà però sempre caratterizzato dall’ambiguità già presente nell’introduzione del 1954, da un misto di ammirazione e condanna. Freud apparirà sempre a Foucault come colui che ha messo in luce la possibilità di interpretare l’umano in modo nuovo rispetto alle filosofie della coscienza di matrice cartesiana e kantiana (Binswanger non avrebbe potuto sviluppare la sua ermeneutica del sogno se prima non avesse letto Freud), ma che poi è ricaduto nei limiti dello scientismo che caratterizza quelle stesse filosofie.

sogno non è una modalità dell’immaginazione, ne è la condizione prima di possibilità» (ivi, p. 77). 134 «Immaginare non è tanto un atteggiamento che rigaurda l’altro e che lo guarda come una quasi-presenza su un fondo essenziale di assenza. È piuttosto guardare se stessi come senso assoluto del proprio mondo, guardarsi come movimento di una libertà che si fa mondo e alla fine si radica in esso come nel proprio destino» (ivi, p. 81). 135 «Il genio di Freud [...] ha colto chiaramente che il senso del sogno non era da ricercare a livello del contenuto delle immagini; meglio di chiunque altro ha capito che la fantasmagoria del sogno nascondeva ben più di quanto non mostrasse e che era il frutto di un compromesso pieno di contraddizioni. Solo che il compromesso non avviene tra il rimosso e la censura, tra le pulsioni istintive e il materiale percettivo, ma tra il movimento autentico dell’immaginario e la sua adulterazione nell’immagine. Se il senso del sogno sta sempre al di là delle immagini che la coscienza vigile raccoglie, non è perché esse ricoprono dei significati nascosti, ma perché la coscienza vigile non può raggiungerlo che in modo mediato e perché tra l’immagine vigile e l’immaginazione onirica c’è lo stesso abisso che separa la quasi-presenza in un mondo costituito e l’esserci originario che si costituisce» (ivi, pp. 89-90). 136 Cfr. ivi, p. 56.



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I rapporti tra psicoanalisi e cultura francese, del resto, non sono mai stati facili137. La dottrina freudiana è stata assimilata in Francia attraverso rielaborazioni successive: negli anni cinquanta, autore di una di queste rielaborazioni è lo psichiatra Jacques Lacan138 che nel 1953 fonda – per scissione dalla Société Psychanalytique de Paris – la Société Française de Psychanalyse. Motivo della scissione è la polemica di Lacan contro un’istituzione modellata a immagine dell’università, in cui la psicoanalisi viene insegnata come un corpus di nozioni, tradendone l’originario spirito di ricerca e sperimentazione. L’intenzione dichiarata da Lacan è quella del «ritorno a Freud», che si traduce nell’insistenza sulla scoperta freudiana dell’inconscio, interpretata come scoperta dell’irriducibilità del soggetto alla propria autocoscienza: la psicanalisi strutturalista lacaniana fa di Freud il decostruttore della centralità dell’io cartesianamente inteso come soggetto autotrasparente. Rifacendosi alla linguistica di Saussure, Lacan sostiene che il soggetto emerge «come un sintomo» da strutture che gli preesistono, che lo costituiscono e lo determinano attraverso leggi che egli non padroneggia e a cui, al contrario, è irriducibilmente assoggettato. Queste strutture sono il linguaggio e l’inconscio, tra cui intercorre una stretta solidarietà perché anche l’inconscio, per Lacan, è strutturato come un linguaggio (si manifesta infatti attraverso figure retoriche, quali metafore, metonimie, ecc.). Non è possibile pertanto affermare propriamente che l’uomo «parla»: piuttosto l’uomo «è parlato»

137 Sulla storia dell’assimilazione della psicoanalisi in Francia si vedano: Vegetti Finzi, Silvia, La difficile assimilazione della psicoanalisi in Francia, in Ead. Storia della psicoanalisi: autori, opere teorie (1885-1985), Milano, Mondadori, 1986, ultima ed. Mondadori 2006; Roudinesco, Elisabeth, Histoire de la psychanalyse en France, Paris, Seuil, 1986, Fayard, 19942; Bourdin, Dominique, La psychanalyse de Freud à aujourd’hui: Histoire, concepts, pratiques, Paris, Bréal, 2000, trad. it. Cento anni di psicoanalisi: da Freud ai giorni nostri, Bari, Dedalo, 2007. 138 Laureatosi nel 1932 in psichiatria, Lacan (1901-1981) fu introdotto alla psicoanalisi dall’allievo di Freud Rudolph Loewenstein, mentre fu soprattutto per l’influenza di Alexandre Koyré e Alexandre Kojève che la sua ricerca si rivolse anche verso la filosofia (in particolare di Hegel, Husserl, Heidegger). Nel 1966 Lacan raccolse i suoi principali testi nella raccolta Écrits (Paris, Seuil, 1966, trad. it. Scritti, Torino, Einaudi, 1974, nuova ed. Milano, Fabbri, 2007); dagli anni settanta è stata avviata anche la pubblicazione dei suoi celebri seminari del mercoledì. Tra gli studi sul pensiero di Lacan si vedano: Roudinesco, Elisabeth, Jacques Lacan: Esquisse d’une vie, histoire d’un systeme de pensée, Paris, Fayard, 1993, trad. it. Jacques Lacan: profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Milano, Cortina, 1995; Tarizzo, Davide, Il desiderio dell’interpretazione: Lacan e la questione dell’essere, Napoli, La città del sole, 1998; Di Ciaccia, Antonio e Recalcati, Massimo, Jacques Lacan, Milano, Bruno Mondadori, 2000; Tarizzo, Davide, Introduzione a Lacan, Roma-Bari, Laterza, 2003; Gueguen Pierre-Gilles, Il dialogo di Lacan e Foucault, in Biagi-Chai, Francesca e Recalcati, Massimo (a cura di), Lacan e il rovescio della filosofia: Da Platone a Deleuze, Milano, FrancoAngeli, 2006.

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dal linguaggio e dall’inconscio. Ed è questa sua natura di parlato che lo rende suscettibile di essere curato dalla parola dello psicoanalista. Foucault non conosce direttamente Lacan: quando è tirocinante di psicologia al Sainte Anne nei primi anni cinquanta, per un soffio perde i seminari che Lacan condurrà nello stesso ospedale a partire dal novembre del 1953. Riferimenti a Lacan sono tuttavia già presenti nell’introduzione a Sogno ed esistenza di Binswanger139. Su Lacan, inoltre, scrive Althusser verso la metà degli anni sessanta (nel 1963 Lacan è nominato professore alla Normale), facendone l’emblema di una nuovo sapere antiumanista che attribuisce centralità al ruolo della legge (e quindi della struttura culturale) nella formazione della personalità individuale140. È quindi all’interpretazione althusseriana di Lacan che Foucault si richiama ne Le parole e le cose, quando presenta la psicoanalisi come una contro-scienza che oltrepassa i limiti dell’episteme moderna contestando le verità antropologiche delle scienze umane. Ed è sempre a Lacan che Foucault si riferisce, direttamente o indirettamente, nelle interviste in cui riconosce i propri debiti verso la decostruzione dell’idea di soggetto operata dalla psicoanalisi141. 139

Nell’introduzione del 1954, Foucault afferma che Freud ha riconosciuto al sogno lo statuto della parola, ma non del linguaggio, e che ha quindi sviluppato soltanto una semantica del sogno, mentre Binswanger ne ha elaborato una grammatica e una morfologia (cfr. Il sogno, cit., pp. 10 e 22). In questo testo Lacan è presentato, in contrapposizione a Melanie Klein, come fautore di un’interpretazione della psicoanalisi che, per mettere in evidenza la centralità del linguaggio, avrebbe misconosciuto la centralità dell’immagine: «Senza dubbio Melanie Klein ha fatto il massimo per descrivere la genesi del senso attraverso la sola attività dell’immagine. E Lacan, da parte sua, ha fatto tutto quello che era possibile per mostrare nell’Imago il punto in cui si irrigidisce la dialettica significativa del linguaggio e dove essa si lascia incantare dall’interlocutore che si è creato. Ma mentre per la prima il senso è la mobilità dell’immagine, è come la scia della sua traiettoria, per il secondo l’Imago non è altro che parola ermetica, un attimo di silenzio. Nel campo d’esplorazione della psicoanalisi, non è stata trovata unità tra una psicologia dell’immagine che segna il dominio della presenza e una psicologia del senso che definisce il campo della possibilità del linguaggio. La psicoanalisi non è mai riuscita a far parlare le immagini» (ivi, pp. 14-15). 140 Si veda: Althusser, Louis, Écrits sur la psychanalyse, Édition Stock/IMEC, 1993, trad. it. Sulla psicoanalisi. Freud e Lacan Lacan, Milano, Cortina, 1994. Si veda in particolare il testo Freud et Lacan (tradotto anche su «aut-aut», n° 141, maggio-giugno 1974, e nella raccolta Freud e Lacan, Roma, Editori Riuniti, 1977, prima ed. su «La nouvelle Critique», nn. 161-162, dicembre 1964-gennaio 1965). Riferimenti a Lacan erano già presenti in Leggere «Il Capitale» (cit., p. 19) dove Althusser, in una nota, riconosce allo «sforzo teorico [...] intransigente e lucido di Jacques Lacan» il merito di aver «stravolto la nostra lettura di Freud». Sulla lettura althusseriana della psicoanalisi si veda, ad esempio: D’Alessandro, Paolo (a cura di), Louis Althusser: Ermeneutica filosofica e interpretazione psicoanalitica, Milano, Marcos y Marcos, 1993. 141 Già in un’intervista del 1961 (La folie n’existe que dans une société, in «Le Monde», n° 5135, 22 luglio 1961, ora in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 5, p. 196), a proposito della Storia della follia, Foucault riconosce di essere stato influenzato dalla psicoanalisi, in particolare da

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Diversi, invece, sono i ruoli che Foucault fa giocare alla psicoanalisi nella Storia della follia e ne La volontà di sapere: ruoli diversi a cui corrispondono attori (o meglio autori) diversi. Nella Storia della follia, infatti, il termine “psicoanalisi” indica il pensiero di Freud a cavallo tra Ottocento e Novecento – e non di Lacan nel contesto delle polemiche tra strutturalismo e umanesimo –, mentre ne La volontà di sapere, esso denota solo in parte il pensiero di Freud: soprattutto indica l’interpretazione datane in chiave marxista da Wilhelm Reich ed Herbert Marcuse, e in seconda istanza anche il pensiero lacaniano. Se, secondo Lacan e Althusser, Freud ha rivoluzionato il pensiero psicologico dissolvendo il soggetto nella triplice esteriorità del linguaggio, dell’inconscio e della legge, al contrario per il Foucault de La volontà di sapere, nel sapere psicoanalitico è rintracciabile la presenza di quel mito dell’interiorità del soggetto che avrebbe avuto origine nelle pratiche della confessione cristiana142. A questo punto del percorso filosofico foucaultiano, la psicoanalisi non costituisce più uno dei punti di appoggio privilegiati dell’impresa archeologica, e diventa piuttosto un oggetto, per non dire un obbiettivo polemico, dell’indagine genealogica. Nella Storia della follia Foucault descrive l’internamento dei folli nel XVII secolo come un’operazione di repressione e di esclusione della diversità, che avrebbe in seguito reso possibile la percezione moderna della follia come malattia mentale. Ma descrive anche come, prima del grande internamento – prima dell’editto del 16 giugno 1676 con cui Luigi XIV prescrisse l’istituzione degli Hôpitaux généraux – la follia abitasse l’Europa sotto sembianze quella «seconda esistenza» che alla psicoanalisi ha dato Lacan. Il 22 febbraio 1969, nella celebre conferenza al Collège de France Qu’est-ce qu’un auteur?, Foucault rielabora la sua teoria della morte dell’uomo dissolvendo quell’uomo che è l’autore in una funzione della struttura linguistico-discorsiva. Quando, nel corso della conferenza, Foucault fa riferimento alla possibilità di un «ritorno» a Marx e Freud, considerandoli degli «instauratori di discorsività», sta probabilmente rendendo omaggio ad Althusser e Lacan (Cfr. Che cos’è un autore, in Scritti letterari, cit., pp. 15-16, prima ed. Qu’est-ce qu’un auteur?, in «Bulletin de la Société française de philosophie», n° 3, luglio-settembre 1969, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 69). Nel 1978, nell’intervista a Trombadori, Foucault riconosce di nuovo i suoi debiti verso Lacan (Colloqui con Foucault, cit., p. 61). Nel 1981, in occasione della scomparsa di Lacan, Foucault ricorda l’influenza innovatrice del pensiero lacaniano nella cultura francese degli anni cinquanta e sessanta in un’intervista al «Corriere della sera» (Lacan, il “liberatore” della psicoanalisi, in «Corriere della sera», n° 212, 11 settembre 1981, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 299). 142 Già Lacan, in due conferenze tenute a Bruxelles in 9 e il 19 marzo 1960, insiste sulla centralità che il desiderio assume tanto nella religione cattolica quanto nella psicoanalisi. Si veda Lacan, Jacques, Discorso ai cattolici, in Id., Dei nomi del padre seguito da Il trionfo della religione, Torino, Einaudi, 2006, ed fr. in Id., Le triomphe de la religion précédé de Discours aux catholiques, Paris, Seuil, 2005.

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diverse dalla malattia. Secondo la ricostruzione di Foucault, durante il Rinascimento i pazzi non venivano reclusi, ma al contrario messi in mostra: allontanati da ogni centro abitato per peregrinare di villaggio in villaggio, esclusi dal consesso umano ma lasciati circolare per esibire la loro follia. Nei saperi rinascimentali, nella cultura e nelle arti, Foucault riconosce due differenti rappresentazioni della follia. Da un lato essa era utilizzata nella letteratura, con intento di satira morale, come simbolo dei vizi umani (ad esempio, in Erasmo da Rotterdam). Dall’altro lato era celebrata nella pittura come testimonianza delle forze oscure del regno di Satana, come anticipazione dell’apocalisse, come segno dell’esistenza di una dimensione irrappresentabile: del caos che sempre minaccia ogni ordine religioso, morale e sociale (ad esempio nei dipinti di Hieronymus Bosch e di Pieter Brueghel). Secondo Foucault, è stata la rappresentazione letteraria della follia come condizione umana, come errore ed eccesso contrapposti alla ragione – la rappresentazione che si ritrova in Erasmo e che è stata poi codificata da Descartes – ad avere la meglio nella cultura occidentale e a svilupparsi, dopo il grande internamento, e poi con la nascita della psichiatria positivista, nella medicalizzazione della follia come malattia mentale143: con un atto arbitrario, la ragione classica avrebbe occultato, messo a tacere l’altra follia, testimone di forze apocalittiche. E tuttavia questa non sarebbe mai scomparsa del tutto, e avrebbe continuato a incrinare le certezze della ragione, a minacciarle, a testimoniare la possibilità sempre presente del disordine. A dare voce a questa follia, a perpetuarne la memoria nella cultura dell’occidente moderno, ogni volta con tonalità diverse, sarebbero stati i quadri di Francisco Goya e di Vincent van Gogh, i versi di Friedrich

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«Il Medioevo, il Rinascimento avevano sentito in ogni zona fragile del mondo la minaccia dell’insensato; essi l’avevano temuto e invocato sotto la sottile superficie delle apparenze; le loro sere e le loro notti ne erano state ossessionate; gli avevano prestato tutti i bestiari e tutte le apocalissi della loro immaginazione. Ma, proprio per il fatto di essere così presente e così incalzante, il mondo dell’insensato era percepito più difficilmente; esso era sentito, afferrato, riconosciuto ancor prima di essere là; era sognato e prolungato indefinitamente nei paesaggi della percezione. L’internamento distacca e isola la sragione da quei paesaggi in cui era sempre presente e al tempo stesso evitata. [...] A partire dal XVII secolo, la sragione non è più la grande ossessione del mondo; essa cessa anche d’essere la dimensione naturale delle avventure della ragione. Prende la dimensione di un fatto umano, di una spontanea varietà nel campo delle specie sociali. Ciò che un tempo era rischio inevitabile delle cose e del linguaggio dell’uomo, della sua sragione e della sua terra, prende ora aspetto di personaggio. Meglio, di personaggi. Gli uomini di sragione sono tipi riconosciuti e isolati della società: c’è il dissoluto, il dissipatore, l’omosessuale, il mago, il suicida, il libertino. La sragione comincia a essere misurata secondo una certa distanza in rapporto alla norma sociale» (Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 105-106).



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Hölderlin, le poesie e il teatro di Antonin Artaud, i romanzi del marchese de Sade e di Gérard de Nerval, e soprattutto la filosofia di Nietzsche144 (del Nietzsche “irrazionalista” caro ai surrealisti, come ho già avuto modo di precisare). È soprattutto di questa esperienza tragica della follia che Foucault, nel 1961, vuole ricostruire la storia: è essa che vuole far rivivere, come opzione sempre presente, come riserva di resistenza contro ogni normalizzazione sociale, come testimonianza vivente della possibilità di contestare ogni presunta verità sull’uomo imposta dalla ragione medico-psichiatrica. È la voce di questa follia che anch’egli, dopo Nietzsche, vuole far risuonare attraverso le pagine del proprio libro. Nel contesto di questa contrapposizione tra follia tragica e follia medicalizzata, alla psicoanalisi di Freud – alla psicoanalisi di Freud, non alla psicanalisi di Lacan – Foucault fa giocare un ruolo ambiguo. Secondo Foucault, la medicina positivista non conosce la follia nella sua verità tragica, ma semmai mette a punto gli strumenti per dominarla: la psichiatria degli esordi si configura più come una pratica di controllo sociale che come un sapere scientifico. E infatti, in seguito, Freud avrebbe reso esplicito il funzionamento della cura della follia in atto già con Pinel, teorizzando che la componente determinante del trattamento della malattia mentale è la relazione medicopaziente, e che la funzione svolta dallo psichiatra, o dallo psicoanalista, in questa relazione, appartiene più all’ordine dell’autorità morale che a quello della competenza scientifica. Ma, al tempo stesso, Freud avrebbe il merito di aver fatto parlare i folli: di aver dato voce alla follia, cui la psichiatria positivista imponeva il silenzio. In questo senso, la psicoanalisi avrebbe contestato la repressione dei folli per i fini della normalizzazione sociale, rappresentando un’istanza critica nel sapere psicologico contemporaneo. Freud, come Nietzsche, rappresenterebbe un’apertura verso la comprensione dell’arbitrarietà del nostro ordine sociale, e dei nostri saperi: Bisogna essere giusti con Freud. [...] Freud riprendeva la follia al livello del suo linguaggio, ricostituiva uno degli elementi essenziali di un’esperienza ridotta al silenzio dal positivismo; egli non aggiungeva alla lista delle cure psicologiche della follia un’addizione maggiore; egli restituiva, nel pensiero medico, la possibilità di un dialogo con la sragione. Freud ha demistificato tutte le altre strutture dell’asilo: ha abolito il silenzio e lo sguardo, ha cancellato l’autoriconoscersi della follia, effettuantesi nello specchio del suo stesso spettacolo, ha fatto tacere le istanze della condanna. Ma in compenso ha sfruttato la struttura che avvolge il personaggio medico; 144

Si veda: Storia della follia nell’età classica, cit., pp. 452-453, p. 437 e p. 455.

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ha ingrandito le sue virtù di taumaturgo, preparando uno statuto quasi divino alla sua onnipotenza145.

Nel 1962, un anno dopo l’uscita della Storia della follia, Foucault pubblica la seconda edizione di Malattia mentale e personalità, il libretto che gli era stato commissionato nel 1954 da Althusser: ne riscrive completamente la seconda parte – quella che, nella prima versione, conteneva il capitolo su Pavlov – sostituendola con un riassunto della Storia della follia. Il nuovo titolo, Malattia mentale e psicologia, è indicativo della distanza che separa le due edizioni: la sostituzione del termine “personalità” con “psicologia” rivela come Foucault – attraverso la sua tesi di dottorato – abbia modificato il proprio oggetto di indagine: da una natura umana (personalità) che può essere alienata da se stessa a causa di una società repressiva, a una follia intesa come possibilità dell’esistenza umana alternativa alla ragione, alienata dallo sguardo del sapere psichiatrico e dalle istituzioni di una società repressiva che la costituiscono come malattia. Nelle conclusioni, è evidente la vicinanza di questo lavoro con la prima edizione della Storia della follia: tornano i nomi di Nietzsche, Nerval e Artaud, a cui si aggiunge quello di Roussel, testimoni di una sragione che mette sotto scacco il presunto sapere scientifico della psicologia146. 145 Ivi, p. 282 e p. 437, corsivo mio. Nel novembre 1991, nel corso del IX colloque della Société internationale d’histoire de la psychiatrie et de la psychanalise, a Parigi, Jacques Derrida ha ripreso questa esortazione di Foucault a essere giusti con Freud, attribuendo alla psicoanalisi una funzione inaugurale della contemporaneità a cui anche il pensiero foucaultiano appartiene: secondo Derrida, Freud svolge la funzione di un usciere che chiude un’epoca del pensiero per aprirne un’altra a cui ancora «noi» apparteniamo. A proposito di Storia della follia, Derrida chiede retoricamente: «Il progetto di Foucault sarebbe stato possibile senza la psicoanalisi di cui è il contemporaneo e di cui parla poco e soprattutto in modo così equivoco e ambivalente nel libro?» (Derrida, Jacques, «Essere giusti con Freud», Milano, Cortina, 1998, p. 32, prima ed. «Être juste avec Freud», in Penser la folie, Paris, Galilée, 1992). Ventotto anni prima, Derrida aveva contestato l’interpretazione che la Storia della follia fornisce del pensiero di Descartes: questi non avrebbe estromesso preventivamente la follia dal cogito, come afferma Foucault. Al contrario, per Descartes, il principio del «cogito, ergo sum» varrebbe anche nel caso in cui il soggetto pensante fosse folle. (Si veda: Derrida, Jacques Cogito et histoire de la folie, in «Revue de metaphysique et de morale», nn. 3-4, 1963, ora in L’écriture et la différance, Paris, Seuil, 1967, trad. it. La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971). Alle obiezioni di Derrida, Foucault rispose accusandolo di complicità con la metafisica: il suo misconoscimento del gesto compiuto da Descartes nel suo testo, sarebbe un esempio di negazione del carattere di evento che può avere il pensiero. (Si veda: Mon corps, ce papier, ce feu, in «Paideia», n° 9, 1971, poi raccolto nell’edizione del 1972 di Storia della follia e tradotto anche nell’edizione italiana, con il titolo Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 102). 146 «Se il successo del ricorso alla psicoanalisi coincide con la scoperta della “verità” della

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Rispetto a questi libri, una novità è invece rappresentata dalla seconda edizione della Storia della follia, del 1972147: Foucault sopprime infatti la prima prefazione, prendendo in parte le distanze dall’interpretazione – per certi versi ingenua – della follia come forza apocalittica che caratterizza l’edizione del 1961148. Nella nuova e breve prefazione del 1972 si legge: Mi piacerebbe che un libro, almeno dalla parte di chi l’ha scritto, non fosse nient’altro che le frasi con cui è fatto; che non si doppiasse in quel primo simulacro di se stesso che è una prefazione, e che non pretendesse di imporre la propria legge a tutti coloro che negli anni a venire potranno essere formati da lui. [...] Questo è il motivo per cui alla richiesta che mi è stata fatta di scrivere per questo titolo di nuovo edito una nuova prefazione, non ho potuto rispondere se non una cosa: sopprimiamo allora la precedente. L’onestà sarà questa. Non cerchiamo né di giustificare questo vecchio libro né di reinscriverlo nell’oggi; la serie di avvenimenti cui appartiene e che sono la sua vera legge, è tutt’altro che conclusa. [...] “Ma avete fatto una prefazione.” “Almeno è breve”149.

Un modo elegante, questa “prefazione-non prefazione”, per far capire ai lettori che, dopo più di dieci anni, Foucault non si riconosce più nel suo vecchio libro, e soprattutto nella sua prefazione. In alcune interviste degli anni successivi, Foucault sarà più esplicito:

nevrosi, questa verità è disvelata esclusivamente entro i limiti del nuovo dramma psicologico in cui la psicoanalisi la investe». «C’è una buona ragione per cui la psicologia non potrà mai dominare la follia: perché il nostro mondo ha reso possibile la psicologia solo dopo aver dominato la follia, dopo averla anzitempo esclusa dal dramma. E quando ricompare, come nei lampi e negli urli di Nerval e di Artaud, di Nietzsche e di Roussel, la psicologia tace, resta senza parole di fronte a quel linguaggio che dà alle proprie il senso di quella lacerazione tragica e di quella libertà di cui già la sola esistenza degli “psicologi” sanziona per l’uomo contemporaneo il pesante oblio» (Malattia mentale e psicologia, Milano, Cortina, 1997, pp. 99 e 101). 147 Histoire de la folie à l’âge classique, Paris, Gallimard, 1972, trad. it. Storia nella follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1976. 148 La prefazione alla prima edizione è raccolta in Dits et écrits (cit., vol. I, testo n° 187), e in Archivio Foucault 1 (cit., testo n° 1). Qui si legge, ad esempio: «Fare la storia della follia vorrà dire: fare uno studio strutturale dell’insieme storico (nozioni, istituzioni, misure giuridiche e poliziesche, concetti scientifici) che tiene prigioniera una follia il cui stato selvaggio non può mai essere reso in sé; ma, a scapito di questa inaccessibile purezza primitiva, lo studio strutturale deve risalire alla decisione che lega e separa al tempo stesso ragione e follia; deve cercare di scoprire lo scambio perpetuo, l’oscura radice comune, l’originario scontro che conferisce senso tanto all’unità quanto all’opposizione del senso e del non-senso» (Archivio Foucault 1, cit., p. 54). 149 Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1994, p. 8.

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La nozione di repressione, a sua volta, è più infida [della nozione di ideologia150] o in ogni caso ho avuto molta maggiore difficoltà a sbarazzarmene nella misura in cui, in effetti, sembra quadrare così bene con tutta una serie di fenomeni che dipendono dagli effetti di potere. Quando ho scritto la Storia della follia mi servivo almeno implicitamente di questa nozione: credo che supponessi allora una specie di follia viva, volubile e ansiosa che la meccanica del potere e della psichiatria sarebbe riuscita a reprimere e a ridurre al silenzio. Mi sembra oggi ch’essa sia del tutto inadeguata a render conto di quel che c’è appunto di produttivo nel potere151.

Negli undici anni che separano le due edizioni della Storia della follia, Foucault ha attraversato il suo periodo strutturalista, e ne Le parole e le cose ha presentato la psicanalisi lacaniana come una contro-scienza. Ma soprattutto, in questi anni, ha assimilato la lezione del Nietzsche di Deleuze, secondo cui dietro a ogni verità si cela una forza. In tale prospettiva, perde senso ogni tentativo di contrapporre alle presunte verità della ragione moderna le verità, altrettanto presunte, della follia medievale-rinascimentale. Foucault sceglie allora, per sé, un lavoro diverso: indagare le strutture di potere che rendono possibile la produzione del sapere psichiatrico e psicoanalitico. Non solo ricercare quali istituzioni ne hanno condizionato la nascita, ma anche quali effetti tale sapere ha avuto sull’edificazione dell’immagine che l’uomo moderno ha costruito di se stesso, e sulla deontologia e la politica che a tale immagine corrispondono. Il recupero della genealogia nietzscheana vanifica, quindi, il tentativo, operato da Foucault nel 1961, di presentare se stesso come il nuovo profeta attraverso cui parla la voce di una follia originaria, e di presentare Nietzsche come il più illustre dei suoi predecessori. In un’ottica genealogica, niente di originario è dato: tutto è semmai prodotto dalle forze, dai saperi e dai poteri che agiscono in un tempo e in uno spazio determinati. Non ha quindi più senso parlare di un follia che rumoreggia in profondità, al di sotto dello scorrere della storia, perché non esiste follia, e non esiste profondità, se non in relazione a strutture di potere e di sapere in grado di nominarle, di costituirle, di plasmarle. Questo spostamento di prospettiva è evidente nel corso di Foucault al Collège de France del 1973-1974, che sintomaticamente ha per titolo Il

150 Anche la nozione di “ideologia” non è compatibile con il pensiero di Foucault. Piuttosto che distinguere tra conoscenza vera e conoscenza ideologica, Foucault indaga i nessi tra sapere e potere. Piuttosto che contrapporre verità e ideologia, egli analizza gli effetti politici dei sistemi di conoscenze storicamente determinati. 151 Intervista a Michel Foucault, in Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 179, prima ed. in Microfisica del potere, cit., ora anche in Dits et écrits, cit., testo n° 192.



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potere psichiatrico152, in cui maturano molti dei temi che Foucault svilupperà in Sorvegliare e punire e ne La volontà di sapere. Per quanto, nelle prime lezioni, Foucault faccia esplicitamente riferimento alla Storia della follia, il piano di realtà su cui questo corso si sviluppa è la superficie delle pratiche psichiatriche, intese appunto come pratiche di potere: un piano che esclude la possibilità del ricorso a una verità profonda della follia153. Le verità prodotte sulla malattia mentale, a partire dal XIX secolo, estorte agli stessi folli dopo aver attribuito loro l’identità di malati, in questo corso sono piuttosto interpretate in funzione del potere morale che gli psichiatri, tutori dell’ordine sociale, esercitano sugli psichiatrizzati. Nella relazione medico-paziente, le verità della scienza medica sono gli strumenti con cui lo psichiatra giustifica il proprio potere sul paziente. Attraverso l’esempio dell’isteria, Foucault mostra come in questo intreccio di potere-sapere non sia, però, esclusa la possibiltà, per i folli, di mettere in scacco la psichiatria proprio recitando fino in fondo il ruolo dei malati. Secondo la ricostruzione di Foucault, nella Salpetrière di Jean-Martin Charcot154 le isteriche per lo più simulavano la propria isteria, con la complicità degli infermieri e del personale paramedico155. Con la loro 152

Le pouvoir psychiatrique. Cours au Collège de France 1973-1974, Paris, Seuil-Gallimard, 2003, trad. it. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-1974, Milano, Feltrinelli, 2004. 153 Nella prima lezione del corso (7 novembre 1973), Foucault elenca tre «spostamenti» operati da questo corso rispetto alla Storia della follia. 1) Il libro si è occupato essenzialmente delle «rappresentazioni» storiche della follia, mentre il corso affronta il tema della follia attraverso un’«analitica» delle relazioni di potere in cui essa si trova storicamente coinvolta. 2) Lo studio del potere nel corso oltrepassa i limiti dell’analisi delle istituzioni in cui esso viene esercitato. A questa analisi, invece, si è limitato il libro. 3) L’azione del potere psichiatrico nel corso viene analizzata in tutte le sue componenti «microfisiche», mentre nel libro questo stesso potere è stato presentato soltanto nella forma della violenza. (Si vedano le pp. 24-28 dell’edizione italiana). La nozione di «microfisica del potere» sarà ripresa e sviluppata da Foucault in Sorvegliare e punire. 154 Charcot (1825-1893), neuropatologo francese, è considerato il padre della neurofisiologia clinica. La proto-psichiatria di Charcot si rivolse soprattutto allo studio dell’isteria, che egli interpretò come disturbo di origine biologica legato sprattutto alla fisiologia femminile: eventi come la gravidanza, il parto, la menopausa, sconvolgendo l’organismo femminile, secondo Charcot potevano determinare l’insorgenza di disturbi psichici. I rari casi di isteria maschile, invece, a suo parere erano riconducibili a eventi traumatici della sfera sociale-lavorativa. Nonostante il biologismo delle sue teorie, a partire dal 1878 Charcot si dedicò anche allo studio dell’ipnosi, e fondò la scuola di ipnosi clinica della Salpetrière, a Parigi: le sue ricerche in tale ambito possono essere considerate un contributo fondamentale allo sviluppo della psicoanalisi. Nel 1885 il giovane Freud, da poco specializzatosi in neuropatologia presso l’Università di Vienna, ottenne una borsa di studio per poterne seguire le lezioni. 155 «Non si deve […] dimenticare che Charcot non ha praticamente mai esaminato una sola di queste isteriche, e che tutte le sue osservazioni, alterate dalla simulazione, gli venivano in realtà riferite dall’esterno, a opera di un personale incaricato di irreggimentare le malate, che intratteneva con loro gradi di complicità più o meno elevati, e che con loro erigeva così

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rappresentazione scenica, esse mettevano in discussione la possibilità stessa che la nascente psichiatria potesse detenere, come pretendeva, la verità della loro follia, e che quindi la potesse governare. In confronto alle “performance” delle isteriche, la messa in discussione del potere-sapere psichiatrico operata dalla psicoanalisi appare a Foucault ben meno radicale. In questo corso, come già nella Storia della follia, la psicoanalisi viene interpretata, infatti, come una forma di «depsichiatrizzazione» (quindi di “demanicomializzazione”) della follia che lascia però inalterato, e che anzi perpetua in forma rafforzata, il potere morale del medico sul paziente: La psicoanalisi può essere dunque storicamente decifrata come [una] forma della depsichiatrizzazione provocata dal trauma Charcot: arretramento al di fuori dello spazio manicomiale onde cancellare gli effetti paradossali del sovra-potere psichiatrico; ma, al contempo, anche ricostruzione del potere medico, in quanto produttore di verità, all’interno di uno spazio appositamente predisposto in modo che tale produzione risulti comunque sempre adeguata a tale potere156.

Allo spazio psichiatrico istituzionale del manicomio, la psicoanalisi sostituisce lo spazio emotivo del transfert, stringendo ancor più il paziente al medico, in una relazione di potere-sapere sempre più vincolante157. Ancora legata, seppur polemicamente, all’istituzione psichiatrica sarebbe invece l’anti-psichiatria. A questa Foucault attribuisce i meriti di denunciare «i rapporti di dominazione che sono peculiari della relazione istituzionale» e di condurre una «lotta con, nella e contro l’istituzione»158. Ma al tempo stesso, in questo corso, nell’antipsichiatria il nostro autore reperisce anche il limite di non aver messo in discussione il rapporto tra follia, verità, sapere medico e potere psichiatrico, di non aver posto il «problema dell’eventuale affrancamento della follia da quella forma di potere-sapere rappresentato dalla conoscenza»159. Secondo Foucault, nel resistere alla psichiatria le istequel mondo della simulazione grazie al quale veniva organizzata la resistenza a un potere psichiatrico che alla Salpetrière, nel 1880, era per l’appunto incarnato da un personaggio che oltretutto non era neppure uno psichiatra ma un neurologo» (Il potere psichiatrico, cit., p. 133). 156 Ivi, p. 293. 157 «La nozione di transfert, inteso come processo essenziale della cura, è un modo per pensare concettualmente tale adeguazione nella forma della conoscenza; il fatto di versare del denaro costituisce, a sua volta, la contropartita monetaria del transfert, ovvero è un modo per garantirla nella realtà, un modo per impedire che la produzione della verità divenga un contropotere capace di intrappolare, annullare, rovesciare, il potere del medico» (ibid.). 158 Ivi, p. 294. 159 Ivi, p. 296.



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riche di Charcot erano quindi ben più radicali non solo di Freud, ma anche di Laing, Cooper o Basaglia160. A partire da questo momento, la critica foucaultiana della psichiatria, della psicoanalisi, delle scienze umane in genere, oltrepassando i limiti dell’antipsichiatria, si prefiggerà lo scopo di denunciare come ogni verità che questi saperi enunciano sugli esseri umani sia un effetto di potere e al tempo stesso abbia effetti di potere. All’analisi di quello che Foucault chiama «potere disciplinare» sarà dedicato Sorvegliare e punire, ma già in Il potere psichiatrico, il nostro autore, riprendendo la conclusione de Le parole e le cose, ma attribuendole un senso nuovo, afferma: Quel che nel XIX e XX secolo verrà chiamato l’Uomo, non è altro che quella sorta di immagine che resta dell’oscillazione tra l’individuo giuridico, che è stato, appunto, lo strumento attraverso cui nel suo discorso la borghesia ha rivendicato il potere, e l’individuo disciplinare, che è il risultato della tecnologia impiegata da questa stessa borghesia per costituire l’individuo nel campo delle forze produttive e politiche. È da questa oscillazione tra l’individuo giuridico, strumento ideologico della rivendicazione del potere, e l’individuo disciplinare, strumento reale del suo esercizio fisico, dunque dall’oscillazione tra il potere che si rivendica e il potere che si esercita, che sono nate l’illusione e la realtà a cui si dà il nome di Uomo161.

Intanto, nel 1972 – l’anno precedente il corso su Il pensiero psichiatrico, in cui è stata pubblicata anche la seconda edizione della Storia della follia –, è uscito anche L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari. In questo testo, i due autori iniziano quell’offensiva nei confronti della psicoanalisi che concluderanno otto anni più tardi nel capitolo su L’uomo dei lupi di Mille piani162. Una delle 160 «La psicoanalisi può essere interpretata come il primo grande arretramento della psichiatria, il momento in cui il potere della psichiatria si è visto imporre di forza la questione della verità e della menzogna nei sintomi. Il problema che si pone ora è quello di sapere se, di fronte a questa prima disfatta, la psicoanalisi non abbia per caso risposto istituendo una prima linea di difesa. Comunque sia, non è a Freud che dovremmo ascrivere il merito di aver reso possibile la prima forma di depsichiatrizzazione. È a tutta questa truppa di simulatori e di simulatrici che dobbiamo l’avvento di questa prima depsichiatrizzazione. Sono loro infatti ad aver suscitato il momento inaugurale che ha fatto vacillare il potere psichiatrico sulla questione della verità. Sono loro ad aver messo in trappola, con le loro menzogne, un potere psichiatrico il quale, onde poter fungere da agente della realtà, pretendeva di essere il detentore della verità e rifiutava di porre, all’interno della pratica e della terapeutica psichiatrica, la questione di ciò che vi è di vero nella follia» (ivi, p. 134). 161 Ivi, p. 67. 162 1914 – Uno solo o molti lupi?, in Rizoma. Millepiani. Capitalismo e schizofrenia sez. 1, Milano, Castelvecchi, 1997, prima ed. Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Minuit, 1980. L’uomo dei lupi è il resoconto di un caso clinico, redatto da Freud nel 1914 con l’intento di fornire un’illustrazione probante della teoria dell’origine infantile delle nevrosi dell’età adulta

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prime operazioni di tale offensiva consiste nel rendere omaggio alla Storia della follia: Deleuze e Guattari riconoscono a Foucault il merito di aver messo in luce il legame tra la psicoanalisi e le strutture repressive della società borghese occidentale163. Secondo Deleuze e Guattari, l’antropologia della psicoanalisi, considerando l’uomo essenzialmente come soggetto del desiderio, e interpretando il desiderio come esito della triangolazione edipica, attribuirebbe carattere di struttura ontologica universale alla famiglia borghese; in questo modo contribuirebbe a rafforzare e a riprodurre la società occidentale, e a reprimere la potenziale forza rivoluzionaria del desiderio. Oltre a Foucault, tra coloro che avrebbero preparato il terreno alla loro rielaborazione-decostruzione della psicoanalisi, i due autori attribuiscono un ruolo di primo piano al freudomarxismo di Wilhelm Reich164 ed Herbert Marcuse165 – alle loro teorie della liberazione sessuale. Lo psicoanalista austriaco e il filosofo tedesco avrebbero il merito di aver posto per la prima volta la questione politica della liberazione del desiderio dalle strutture repressive della società capitalistica, associando le potenzialità di liberazione presenti nelle teorie freudiane agli intenti rivoluzionari del marxismo. Se per Freud la repressione e la sublimazione delle pulsioni sessuali è necessaria affinché ai singoli sia possibile la vita in società – in questo consisterebbe l’inelut-

– uno dei principi basilari della psicoanalisi. Si tratta del caso di un bambino dell’età di un anno e mezzo che ha assistito al coito a tergo dei genitori («la scena primaria»), e che, una volta diventato adulto, ha poi trasformato questa scena traumatica nel sogno di un branco di lupi che lo fissano da un albero attraverso una finestra spalancatasi all’improvviso. (Si veda: Freud, Sigmund, Casi clinici 7. L’uomo dei lupi, Torino, Bollati Boringhieri, 1977). Deleuze e Guattari, con feroce ironia, fanno di questo caso clinico l’esempio di come Freud riduca la complessità della realtà psichica alle semplificazioni della teoria psicoanalitica, la molteplicità dell’inconscio all’unità di un’identità che troverebbe la propria origine nel rapporto con i genitori, nella triangolazione edipica. 163 Cfr. Deleuze, Gilles e Guattari, Félix, L’anti-Edipo, Torino, Einaudi, 2002, pp. 102103. 164 Wilhelm Reich (1897-1957) espone la sua dottrina della rivoluzione sessuale nei seguenti testi: Die Sexualität im Kulturkampf, Kopenhagen, Sexpol Verlag, 1936, ed. inglese The Sexual Revolution, New York, Orgone Institut Press, 1945, trad. it. La rivoluzione sessuale, Milano, Feltrinelli, 1963; The Function of the Orgasm (translated from the German manuscript Die Funktion des Orgasmus), London, Panther, 1968, trad. it. La funzione dell’orgasmo, Milano, Sugarco, 1979. 165 Tra i testi di Herbert Marcuse (1898-1979), quelli più utili a comprendere la sua critica sociale e la sua teoria della liberazione sessuale mi sembrano essere: Eros and Civilisation, New York, Vintage Books, 1955, trad. it. Eros e civiltà, Torino, Einaudi, 1964; One Dimensional Man, London, Routlege and Kegan, 1964, trad. it. L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1964; An Essay on Liberation, Boston, Beacon Press, 1969, trad. it. Saggio sulla liberazione, Torino, Einaudi, 1973.

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tabilità de Il disagio della civiltà166 –, questi autori denunciano l’arbitrarietà della repressione sessuale nelle società capitalistiche, dove istinti e desideri vengono piegati alle esigenze della produzione economica. Reich nega la necessità sociale della repressione e afferma, al contrario, che l’abbattimento degli apparati repressivi della società borghese e l’espressione spontanea delle pulsioni sessuali condurrebbero alla felicità più piena, a una società liberata e pacificata. Marcuse associa il concetto reichiano di repressione a quello marxiano di alienazione, denunciando il «principio di prestazione» (il lavoro fine a se stesso) che informerebbe tutti i rapporti umani nelle società capitaliste, spogliandoli di senso. Al regime capitalista, Marcuse contrappone l’ideale di una società sottratta all’obbligo del lavoro, in cui uomini e donne possano riappropriarsi del loro patrimonio istintuale; e se per Reich la sessualità liberata ha la forma della sessualità adulta, genitale e riproduttiva, Marcuse auspica il recupero della sessualità infantile, anarchica, polimorfa, non concentrata sulla genitalità, ma diffusa su tutta la superficie dei corpi. Secondo Deleuze e Guattari, il limite di Reich e Marcuse sarebbe, però, quello di restare ancorati a una concezione tradizionale del desiderio come pulsione originaria, profonda, connaturata agli uomini e alle donne, e poi repressa per esigenze sociali: concezione che non esprimerebbe totalmente le potenzialità rivoluzionarie del desiderio. Sono queste potenzialità che Deleuze e Guattari si propongono di mettere in luce, contrapponendo alla psicoanalisi la loro «schizoanalisi», incentrata sulla nozione di «macchina desiderante». La psicoanalisi tradizionale, secondo Deleuze e Guattari, circoscriverebbe il desiderio nei limiti angusti – e quindi controllabili – della sessualità, ancorandolo a strutture immutabili (la seconda topica freudiana Es-Io-Superio, l’organizzazione familiare con i diversi codici della madre e del padre, l’inconscio e il linguaggio), mutilandolo per limitarne le capacità trasformative, rendendolo esprimibile attraverso le parole, e quindi confessabile. Il principale obiettivo polemico de L’anti-Edipo, in questo caso, è evidente: il lacanismo – più che il pensiero di Lacan –, con la sua insistenza sulla castrazione, sulla fissità della struttura, sulla funzione della legge nella determinazione del desiderio, con la sua teoria dell’«inconscio strutturato come un linguaggio». Ma Deleuze e Guattari – come l’anno successivo farà Foucault – non risparmiano obiezioni neppure all’antipsichiatria. A loro avviso il movimento antipsichiatrico, limitando le proprie critiche alle istituzioni psichiatriche senza estenderle al familismo della psicoanalisi, resterebbe compromesso con quest’ultima e con la sua concezione del desiderio. 166

1971.

Si veda: Freud, Sigmund, Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri,

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Al desiderio edipico, che nasce dalla legge, dal divieto paterno di amare la madre, L’anti-Edipo contrappone invece la concezione «macchinica» di un desiderio indeterminabile, imprevedibile, anarchico, non riconducibile ad alcuna norma, ma anzi felicemente schizofrenico, che non si limita a ripetere coattivamente all’infinito la tragedia della scena primaria, ma è capace di inventare nuovi drammi e nuove commedie, svincolandosi dalle proprie origini per creare al di sopra di esse mondi nuovi. Tale desiderio non è represso dal sistema di produzione, ma ne fa parte come macchina, o fabbrica, desiderante: non si piega al principio di una realtà repressiva, ma costruisce realtà nuove e liberate. Ed è di nuovo a Foucault – questa volta al Foucault de Le parole e le cose – che Deleuze e Guattari fanno ricorso per ricollocare il desiderio così inteso nella struttura produttiva – non al di sotto o al di sopra di essa –, e per ricostruire di Freud una fisionomia diversa da quella fornita dal lacanismo. A loro avviso Freud, lungi dall’essere soltanto colui che ha iscritto la legge (la repressione) nel desiderio, è anche colui che ha aperto la via alla liberazione del desiderio riconoscendone l’irrappresentabilità167. Nel 1976, come ho anticipato nello scorso paragrafo, durante il suo corso al Collège de France, Foucault rende omaggio alla capacità innovativa de L’anti-Edipo, all’evento che esso ha rappresentato nella cultura politica della nuova sinistra francese168. Lo stesso anno esce La volontà di sapere, il primo 167 «Foucault ha profondamente mostrato quale rottura introducesse l’irruzione della produzione nel mondo della rappresentazione. La produzione può essere produzione del lavoro o del desiderio, può essere sociale o desiderante, fa appello a forze che non si lasciano più contenere nella rappresentazione, a flussi e tagli che la perforano, che la attraversano da ogni parte. [...] Così come Ricardo fonda l’economia politica o sociale scoprendo il lavoro quantitativo all’origine di ogni valore rappresentabile, Freud fonda l’economia desiderante scoprendo la libido quantitativa all’origine di ogni rappresentazione degli oggetti e dei fini del desiderio. Freud scopre la natura soggettiva o l’essenza astratta del desiderio, come Ricardo scopre la natura soggettiva o l’essenza astratta del lavoro, al di là di ogni rappresentazione che li ricondurrebbe a oggetti, scopi e anche fonti particolari» (Deleuze, Gilles, e Guattari, Félix, L’anti-Edipo, cit., pp. 340-341). 168 «Quello che abbiamo vissuto è stato un periodo caratterizzato da quella che si potrebbe chiamare l’efficacia delle offensive disperse e discontinue. Ho in mente molte cose. Penso, per esempio, alla strana efficacia, quando si è trattato di ostacolare il funzionamento dell’istituzione psichiatrica, del discorso, dei discorsi localizzati dell’antipsichiatria [...]. Penso anche alla strana efficacia degli attacchi che sono stati rivolti contro quella che potremmo chiamare la morale e la gerarchia sessuale tradizionale, attacchi che non si riferivano se non vagamente e alla lontana, in ogni caso in modo molto sincero, a Reich o a Marcuse. Penso ancora all’efficacia degli attacchi contro l’apparato giudiziario e penale, alcuni dei quali si connettevano molto da lontano alla nozione generale (e d’altronde assai dubbia) di giustizia di classe e altri si ricollegavano in modo di poco più preciso, in fondo, a una tematica anarchica. Penso infine, e più precisamente, all’efficacia di qualcosa – non oso neppure dire di



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volume della Storia della sessualità. In questo breve testo Foucault prosegue il lavoro di decostruzione della psicoanalisi intrapreso da Deleuze e Guattari, portando a maggior radicalità le loro critiche, estendendole a quella che chiama «ipotesi repressiva» – al freudomarxismo di Reich e Marcuse. Se L’anti-Edipo contestava alla psicoanalisi una visione semplificatrice del desiderio, Foucault denuncia le complicità di tale visione con una concezione limitativa del potere. Ne La volontà di sapere, attraverso la contestazione del freudomarxismo, Foucault fa i conti con uno degli assunti dominanti – e in apparenza uno dei più trasgressivi e sovversivi – della nuova sinistra postsessantottina, quello secondo cui la disalienazione politica deve accompagnarsi alla liberazione della sessualità repressa, al recupero da parte del soggetto sfruttato e oppresso della totalità del proprio sé, della propria natura negata. Lo scopo che Foucault si prefigge non è negare che la sessualità sia repressa, ma affermare che essa, prima di essere repressa, è prodotta, e che le due operazioni – produzione e repressione – fanno parte di uno stesso congegno. Se per Deleuze e Guattari il desiderio è una macchina, per Foucault la sessualità è un dispositivo del biopotere moderno: è un complesso di pratiche e di saperi attraverso cui il potere prende in carico la vita degli individui, governandone le funzioni riproduttive e vincolando i loro comportamenti morali e sessuali alla decifrazione dei loro desideri, all’estrazione di un verità dalla profondità del loro animo. Se ne Le parole e le cose Foucault affermava che l’uomo è un’invenzione recente, ne La volontà di sapere mostra come l’interiorità dell’uomo, e in particolare quella forma di interiorità che la psicoanalisi chiama sessualità, sia anch’essa un artificio, un costrutto, un dispositivo appunto: non un dato naturale, non un corredo istintuale di ogni uomo e ogni donna che la società borghese avrebbe represso per incanalare le energie sessuali nei compiti della produzione economica capitalistica. Sarebbe sostanzialmente soltanto a partire dalle pratiche cristiane della confessione e della direzione di coscienza, legate al potere pastorale esercitato dai sacerdoti sulle comunità dei fedeli, e non prima, che gli uomini e le donne occidentali avrebbero imparato a pensare se stessi come dotati di desideri profondi da interrogare, da decifrare, da interpretare e da confessare di fronte a un’autorità. Una volta messo a punto, il dispositivo di sessualità avrebbe subito revisioni e innovazioni, e le sue ingiunzioni normative avrebbero conosciuto tre formulazioni

un libro – come L’anti-Edipo, che non era e non si riferiva praticamente a quasi nient’altro che alla sua stessa prodigiosa inventività teorica; libro, o piuttosto cosa, avvenimento che è riuscito a rendere rauco, sin nella sua pratica più quotidiana, il mormorio purtuttavia così a lungo ininterrotto che è passato dal divano alla poltrona» («Bisogna difendere la società», cit., pp. 14-15).

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successive: 1) esaminare i propri atti e pensieri, trovare al di sotto di essi la verità nascosta dei propri desideri, riconoscervi il peccato, ed espiarlo con opere e preghiere (confessione cristiana); 2) interpretare i propri sintomi nevrotici, ricostruirne l’origine nel desiderio edipico, e curarli attraverso la relazione analitica e il transfert (psicoanalisi); 3) prendere coscienza del proprio sfruttamento e della propria frustrazione, riconoscere al di sotto di essi i propri veri desideri sessuali, e liberarli attraverso la ribellione e la rivoluzione (freudomarxismo). Quando scrive La volontà di sapere, Foucault ha già avviato l’analisi delle formazioni di potere che attraversano le società dell’occidente moderno, prendendo in esame quello che chiama potere disciplinare, in Sorvegliare e punire. Questo testo rappresenta una svolta nella rappresentazione foucaultiana del potere: se nella Storia della follia l’azione del potere, negli Hôpitaux généraux del XVII secolo, si esprime soprattutto nell’isolamento, nell’occultamento, nella rimozione della follia, e se ne L’ordine del discorso «il discorso è nell’ordine delle leggi», e queste leggi, «in una società come la nostra»169 agiscono principalmente attraverso procedure d’esclusione che Foucault chiama «interdetto», «partizione», «rigetto», a partire da Sorvegliare e punire Foucault «cambia opinione»170 e, utilizzando gli strumenti teorici della genealogia nietzscheana, mette in luce le funzioni produttive del potere. Nelle ricostruzioni genealogiche di Foucault, il potere non si limita a reprimere entità che gli preesistono (la follia, la natura umana, la sessualità), ma, determinando la produzione del sapere, produce anche tali entità (le diverse concezioni della follia e della normalità umane che si susseguono nella storia, le stesse nozioni di natura umana e di sessualità). In Sorvegliare e punire, il nostro autore ha mostrato come il potere disciplinare agisca sul corpo degli individui per plasmarne i comportamenti esterni e modelli il mondo secondo architetture funzionali ai suoi scopi; ne La volontà di sapere esamina come il dispositivo di sessualità produca l’interiorità degli uomini e delle donne, e rivela – come dirà De169 L’ordine del discorso, in Il discorso, la storia, la verità, cit., p. 12, prima ed. it. Torino, Einaudi, 1972, prima ed. L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971. 170 «Su questo punto [la concezione repressiva del potere] ho cambiato opinione. L’ho cambiata a partire da uno studio preciso che ho tentato di fare, che ho cercato di rendere il più puntuale possibile, sulla prigione e sui sistemi di sorveglianza e di punizione nelle società occidentali» (Sessualità e potere, in Archivio Foucault 3, cit., p. 129, prima ed. Sei to Kenryoku, in «Gendai-shiso», luglio 1978, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 233). Sono molte le interviste in cui Foucault afferma di aver abbandonato nel corso del tempo la sua iniziale adesione a un’interpretazione repressiva del potere; si veda, ad esempio, anche la già citata Intervista a Michel Foucault del 1976 (in Il discorso, la storia, la verità, cit.) e l’intervista del 1978 Le gay savoir (in Le Bitoux, Jean, Entretiens sur la question gay, H&O, Béziers, 2005; trad it. Il gay sapere, in «aut-aut», n° 331, 2006).

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leuze – che in realtà «il dentro è un fuori ripiegato»: una piega realizzata dalle forze, dai poteri171. Restando, invece, ancorato a una «ipotesi repressiva», il freudomarxismo non solo non sarebbe in grado di rendere conto dell’azione del potere politico e sociale nelle società moderne e contemporanee, ma ne occulterebbe il reale funzionamento, e quindi ne sarebbe complice, rendendolo più accettabile, e impedendo ai soggetti investiti dal potere di elaborare contro di esso strategie efficaci di resistenza. In questa critica, al freudomarxismo – ne La volontà di sapere è esplicito il riferimento a Reich172, non a Marcuse173 – Foucault associa anche la psicoanalisi, in particolare nella rielaborazione di Lacan – anch’egli non esplicitamente nominato – e soprattutto dei lacanisti, con la sua insistenza sulla funzione della legge nella costituzione del desiderio. Tra il freudomarxismo e la psicoanalisi così intesa sussistono cospicue differenze nell’interpretazione dell’origine e della dinamica dei desideri, ma le due teorie condividerebbero una stessa concezione, «stranamente limitativa», del potere: Sotto il tema generale che il potere reprime il sesso, come sotto l’idea della legge costitutiva del desiderio, si ritrova l’immagine della stessa meccanica del potere. Essa è definita in modo stranamente limitativo. Innanzitutto perché sarebbe un potere povero nelle sue risorse, economo nei suoi procedimenti, monotono nelle tattiche che usa, incapace d’invenzione e in un certo senso condannato a ripetersi sempre. In secondo luogo perché è un potere che non avrebbe praticamente altro che la potenza del “no”; incapace di produrre alcunché, atto solo a porre limiti, sarebbe essenzialmente anti-energia; il paradosso della sua efficacia sarebbe di non potere nulla, se non far sì che ciò che sottomette non possa a sua volta fare niente, se non quel che gli si permette di fare. E infine perché è un potere il cui modello sarebbe essenzialmente giuridico, centrato sul solo enunciato della legge e sul solo funzionamento del divieto. Tutti i modi di dominio, di sottomissione, di assoggettamento si ridurrebbero in fin dei conti all’effetto di obbedienza174. 171 «La piega del fuori costituisce un sé, e il fuori stesso costituisce un dentro coestensivo. Bisognava passare attraverso l’intreccio stratico-strategico per giungere alla piega ontologica. Si tratta proprio di tre dimensioni irriducibili e che però si implicano costantemente: sapere, potere, sé» (Deleuze, Gilles, Foucault, cit., p. 115). 172 «Così si è formata fra le due guerre mondiali e intorno a Reich la critica storico-politica della repressione sessuale. Il valore di questa critica e dei suoi effetti nella realtà è stato considerevole. Ma la possibilità stessa del suo successo era legata al fatto che si dispiegava sempre all’interno del dispositivo di sessualità, e non al di fuori o contro di esso» (La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 117). 173 Il nome di Marcuse viene, invece, associato esplicitamente a quelli di Freud e Reich nella già citata conferenza del 1978 Sessualità e potere (p. 128). 174 La volontà di sapere, cit., p. 76, corsivo mio.

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Nonostante queste critiche, come già nella Storia della Follia, anche ne La volontà di sapere Foucault si guarda bene dall’esprimere, sulla psicoanalisi, giudizi unilaterali: di nuovo riesce a «essere giusto con Freud», e anche con Lacan e con Reich. Alla psicoanalisi, proprio in virtù della dialettica legge-desiderio che essa elabora, Foucault riconosce infatti il merito di aver arginato – anche se all’interno del dispositivo di sessualità, e non al di fuori di esso – il biologismo della psichiatria ottocentesca, premessa dell’eugenismo nazista: di aver contrastato la così detta teoria della degenerescenza, che attribuiva carattere genetico, ereditario, a tutte le perversioni sessuali e a tutti i comportamenti antisociali175. La psicoanalisi, secondo Foucault, sarebbe costitutivamente anti-fascista. Al freudomarxismo, invece, il nostro autore riconosce il merito di aver prodotto cambiamenti positivi nell’etica sessuale degli anni settanta, di aver contribuito al miglioramento delle condizioni di vita delle donne e degli uomini, di aver offerto loro la possibilità di essere più liberi – anche se all’interno del dispositivo di sessualità, e non al di fuori di esso. La polemica di Foucault contro l’«ipotesi repressiva» non si prefigge il fine di sottrarre dignità teorica alla critica sociale di Reich o Marcuse, né di contestare l’efficacia della psicoanalisi nella cura del disagio psichico. Nel contesto politico degli anni settanta, essa ha come obbiettivo la decostruzione del mito di una rivoluzione definitiva e palingenetica, in grado di restituire all’uomo la sua vera natura, la sua unità originaria, la piena realizzazione delle proprie pulsioni e dei propri desideri. Come ha affermato Walzer, Foucault non è un bravo anarchico, né un buon rivoluzionario176. In Sorvegliare e punire, Foucault ha mostrato come il potere non si annidi negli apparati di stato, ma percorra l’intera società e dia forma a tutte le relazioni umane: questo significa che non basta abbattere lo stato per liberarsi definitivamente del potere. Ne La volontà di sapere, invece, decostruisce il mito di una liberazione sessuale rivoluzionaria, capace di ricondurre ogni individuo a quelle verità del proprio sé che le istituzioni dello

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«È l’onore politico della psicoanalisi – per lo meno di quel che ha potuto avere di più coerente – d’aver sospettato (e questo fin dalla sua nascita, cioè dalla sua rottura con la neuropsichiatria della degenerescenza) che poteva esserci qualcosa di irrimediabilmente proliferante in questi meccanismi di potere che pretendevano controllare e gestire il quotidiano della sessualità: di qui lo sforzo freudiano (probabilmente in reazione alla grande ascesa del razzismo che avveniva nello stesso periodo) per dare come principio alla sessualità la legge – la legge dell’alleanza, della consanguineità proibita, del Padre-Sovrano, cioè per convocare intorno al desiderio tutto il vecchio ordine del potere. La psicoanalisi deve a questo di essere stata – tranne qualche eccezione e per l’essenziale – in opposizione teorica e pratica con il fascismo» (ivi, p. 133; sulla teoria della degenerescenza si veda p. 105). 176 Si torni al paragrafo 2.2 di questo lavoro, La reazione liberale negli anni ottanta.



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stato borghese – anche la famiglia – occulterebbero. Se la felicità è possibile agli uomini e alle donne su questa terra – e non all’uomo astratto nell’empireo delle scienze umane –, Foucault sostiene che essa dovrà sempre fare i conti con relazioni di potere, e alimentarsi di queste: che essa non può consistere nel definitivo recupero di una natura o di una verità segrete, sepolte nelle profondità del sé, ma semmai nell’azione creativa, nell’invenzione di qualcosa di nuovo sulla superficie dei corpi e del mondo, tra gli individui e non al loro interno. Questo è il senso dell’etica della cura di sé, che Foucault prenderà in esame nei suoi ultimi testi, L’uso dei piaceri e La cura di sé, e che proporrà come risposta alle nuove esigenze etiche dei movimenti politici delle società contemporanee: un’etica elaborata dal mondo greco, cronologicamente anteriore alla nascita del dispositivo di sessualità, e quindi utilizzabile come strumento per resistergli. Un’etica che pone come fine non l’espressione di un sé indipendente dal potere, ma la produzione di un sé autonomo, che cerca di governare se stesso pur essendo consapevole dell’ineludibilità della propria dipendenza da tutte le forze a cui è assoggettato. Questo è a mio avviso ciò che Foucault intende dire quando, nelle ultime pagine de La volontà di sapere, con parole enigmatiche afferma che «contro il dispositivo di sessualità, il punto d’appoggio del contrattacco non deve essere il sesso-desiderio, ma i corpi e i piaceri»177. Prima di prendere in esame la proposta etica di Foucault, occorre però proseguire nell’analisi della sua opera decostruttiva. Oltre al marxismo e al freudomarxismo, nel suo lavoro di demolizione delle verità consolidate, il nostro autore prende di mira il pensiero politico classico della modernità: la teoria contrattualistica della sovranità. Come ora mostrerò, secondo Foucault la concezione repressiva del potere che permea tale teoria è modellata sulla figura del monarca medievale. Quando, ne La volontà di sapere, Foucault si interroga sulle ragioni della persistenza, nel pensiero politico, della visione che limita il potere alla sua funzione repressiva, trova infatti una risposta di ordine storico: In fondo, malgrado le differenze di epoche e di obbiettivi, la rappresentazione del potere è sempre stata ossessionata dalla monarchia. Nel pensiero e nell’analisi politica non si è ancora tagliata la testa al re. Di qui l’importanza che viene ancora data nella teoria del potere al problema del diritto e della violenza, della legge e dell’illegalità, della volontà e della libertà, e soprattutto dello stato e della sovranità (anche se non è più interrogata nella persona del sovrano ma in quella di un essere collettivo). Pensare il potere a partire da 177

La volontà di sapere, cit., p. 140.

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questi problemi significa pensarlo a partire da una forma storica particolare alle nostre società: la monarchia giuridica. Particolare e nonostante tutto transitoria178.

La concezione repressiva del potere è, quindi, per Foucault, un’ossessione che deriva dalla storia; per liberarsi da essa e per pensare la politica in modo nuovo, dopo aver ucciso l’uomo, occorre, a suo avviso, decapitare il sovrano.

178 Ivi, p. 79. Foucault riprende questo assunto dialogando, nel 1976, con Alessandro Fontana e Pasquale Pasquino: «La teoria politica è rimasta ossessionata dal personaggio del sovrano. [...] Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa al re: non lo si è ancora fatto, nella teoria politica» (Intervista a Michel Foucault, in Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001, p. 181, prima ed. in Microfisica del potere, cit., ora anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 192).

Parte seconda ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ

Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare. Anzitutto, se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con un’emozione, di qualunque tipo essa sia, viene trasformato in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna. Questo tipo di cose angosciose costituirebbero appunto il perturbante, e non ha importanza sapere se ciò che ora è perturbante era fonte di angoscia fin dalle origini o era invece latore di un altro effetto. Secondariamente, se questa è realmente la natura segreta del perturbante, allora comprendiamo perché l’uso linguistico consente al Heimlich [familiare] di trapassare nel suo contrario, l’Unheimlich [perturbante]: infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, ma è invece un che di familiare alla vita fin dai tempi antichissimi e a essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione. Unheimlich è ciò che un giorno fu heimlich [patrio], familiare. E il prefisso negativo “un” è il contassegno della rimozione. [Sigmund Freud, Il perturbante]

4 La decapitazione del sovrano

Secondo Walzer, il pensiero politico di Foucault non sarebbe altro che il ribaltamento del contrattualismo hobbesiano1: Hobbes e Foucault riprodurrebbero infatti, per quanto con strumenti ottici differenti, lo stesso scenario di potere. Foucault, insomma, riuscirebbe a “vedere”, seppur rovesciandolo, o deformandolo, soltanto l’oggetto delle sue critiche. In questo capitolo, e nei due successivi, cercherò, invece, di mostrare come il gesto filosofico di Foucault non consista soltanto nel rovesciare le teorie classiche della filosofia politica, ma anche nel tentativo di oltrepassarle. Foucault non si limita a posizionare uno specchio concavo di fronte al pensiero hobbesiano; piuttosto, costruisce una lente capace di captare differenti frequenze luminose del politico. Attraverso la nozione di dispositivo di sessualità, il nostro autore intende offrire un’alternativa al freudomarxismo; analogamente, con l’introduzione delle categorie di potere disciplinare, potere pastorale, biopolitica, governamentalità, e anche con il recupero dell’etica stoica della cura di sé, egli propone un’analisi della politica di tipo nuovo, diversa dal contrattualismo classico e dalla sua teoria della sovranità2. 1

Si torni al paragrafo 2.2 La reazione liberale degli anni ottanta. La critica di Foucault alla teoria contrattualistica della sovranità è diventata un riferimento ricorrente nella riflessione filosofica contemporanea sullo stato. Tra gli studi italiani si vedano, ad esempio, i lavori di Pier Paolo Portinaro: Stato, Bologna, il Mulino, 1999 (soprattutto pp. 75 ss); voce Sovranità, in Esposito, Roberto e Galli, Carlo (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Roma-Bari, Laterza, 2000; Stato: Un tentativo di riabilitazione, in Guaraldo, Olivia e Tedoldi, Leonida, Lo stato dello Stato: Riflessioni sul potere politico nell’era globale, Verona, ombre corte, 2005. In quest’ultimo volume si veda anche l’intervento di Olivia Guaraldo: Passaggi di stato: Ordine e violenza nell’epoca globale. Sull’analisi del pensiero hobbesiano svolta da Foucault, tra i lavori italiani, si vedano, invece: Chignola, Sandro, L’impossibile del sovrano: Governamentalità e liberalismo in Michel Foucault, in Id. (a cura di), Governare la vita, Verona, ombre corte, 2006; De Cristofaro, Ernesto, Sovranità in frammenti. La semantica del potere in Michel Foucault e Niklas Luhmann, Verona, ombre corte, 2007. Mi permetto, infine, di rimandare anche ai miei studi: Bernini, Lorenzo, La ghigliottina liottina di Foucault: Una decostruzione della sovranità, sovranità in Simonetta, Stefano (a cura di), Potere sovrano: Simboli, limiti, abusi, Bologna, il Mulino, 2003; e Id., Le logiche del potere. Sovranità e biopolitica in Hobbes e Foucault, in Chignola, Sandro e Duso, Giuseppe (a cura di), Storia dei concetti, Storia del pensiero politico. Saggi di ricerca, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006. 2

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Foucault oltrepassa i limiti del giusnaturalismo e del contrattualismo, ne mina le fondamenta contestandone l’ontologia: la decostruzione della teoria della sovranità procede, infatti, nel suo pensiero, di pari passo con la decostruzione della nozione di diritti umani (nell’accezione di diritti naturali) che ne costituisce il sostrato. È infatti sostanzializzando il diritto, vale a dire attribuendo agli individui diritti che appartengono loro in virtù della loro natura – del loro essere uomini – che il contrattualismo classico, e anche il costituzionalismo e il liberalismo moderni che da esso derivano, giustificano il potere statale come istanza sovrana che non riconosce alcuna autorità al di sopra di sé, come Leviatano originato dalla cessione di tali diritti al sovrano mediante un contratto stipulato tra individui. Per colmare il vuoto prodotto dalla decostruzione della teoria della sovranità, del marxismo e del freudomarxismo, Foucault propone una concezione artificialistica degli uomini e delle donne secondo cui nessun diritto, come nessuna sessualità originaria, appartiene all’individuo in virtù della sua natura umana. Secondo questa concezione, nessun potere di nessuno stato può essere giustificato in senso assoluto dal diritto naturale, e all’interno di ogni comunità umana, ogni diritto, per essere effettivo, deve essere rivendicato, conquistato, agito – e non semplicemente affermato sulla carta. Con la teoria classica della sovranità, marxismo e freudomarxismo condividerebbero, secondo Foucault, uno stesso schema teorico, una stessa visione antropologica, e soprattutto una stessa, “limitativa”, concezione repressiva del potere, secondo cui questo assumerebbe o reprimerebbe diritti (o pulsioni) che gli preesisterebbero. Nella prospettiva artificialistica di Foucault, invece, ben poco preesiste al potere: se è il potere-sapere a produrre la sessualità degli individui, analogamente i diritti umani, civili e politici sorgono artificialmente solo all’interno di una complessa dialettica potere(-sapere)-resistenza. Per queste ragioni, nel pensiero del filosofo francese, decapitazione del sovrano e uccisione dell’uomo sono due operazioni sottese da una stessa razionalità decostruttiva. Sono due esiti di uno stesso atto, con cui Foucault vuole emancipare il pensiero politico da teorie che limitano le concrete libertà creative degli uomini e delle donne impedendo di tematizzarle, nel momento stesso in cui affermano in astratto la libertà dell’uomo – pensata nella forma della “libera” stipulazione del contratto sociale o della “liberazione” della sessualità originaria. Non a caso Walzer puntualizza come la teoria classica della sovranità sia un riferimento per Foucault: questi riconosce la centralità di tale teoria nel pensiero e nella pratica della politica in età moderna, nel momento stesso in cui ne fa il proprio obiettivo polemico privilegiato. Ma, al tempo stesso, la filosofia di Foucault disvela ciò che la sovranità non dice sul potere moderno: in questo consiste il suo carattere perturbante. La filosofia di

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Foucault ci fa sentire minacciati laddove ci sentivamo al sicuro, mette in crisi la nostra familiare rappresentazione del potere (la sovranità) mostrando quanto essa tace e quanto essa nasconde: i fasti del sovrano occultano, con il loro abbacinante splendore, poteri che agiscono microfisicamente sui nostri comportamenti apparentemente più insignificanti e sui nostri più intimi moti dell’animo, e poteri che governano macrofisicamente le nostre vite di membri della specie umana. Disvelando il rimosso (i poteri da cui dipendono quelle soggettività individuali che il pensiero politico moderno ci ha abituato a pensare indipendenti da ogni potere), la filosofia di Foucault provoca turbamento. Ma questo turbamento, che potrebbe avere come esito l’inattività della disperazione, nel pensiero del filosofo francese apre invece nuove speranze di libertà.

4.1 Il potere repressivo del sovrano Secondo Foucault, il concetto di sovranità ha costituito una sorta di ossessione per il pensiero politico, e lo ha trattenuto in una concezione anacronistica del potere inadeguata a rendere conto delle forme che esso ha assunto nel mondo contemporaneo. Pur essendo associata allo sviluppo dello stato moderno (al suo prendere forma dalla disgregazione di papato e impero, alle sue ricerche di compromesso tra corona e parlamenti, alle sue evoluzioni dalla monarchia alla democrazia), la categoria di sovranità, potestas superiorem non recognoscens, ha infatti un’origine medievale3 e, secondo Foucault, di questa origine porta segni indelebili. Ponendo una discutibile equivalenza tra concezione giuridica e concezione repressiva del potere4, il

3 Sul concetto di sovranità, oltre alla già citata voce enciclopedica di Pier Paolo Portinaro, si veda almeno: Quaglioni, Diego, La sovranità, Roma-Bari, Laterza, 2004. Quaglioni, seguendo una lunga tradizione storiografica, insiste sulla discontinuità radicale che separa l’ordine statale moderno dall’ordine feudale: a differenza del sovrano moderno, «il sovrano medievale è il vertice di un processo di potere in cui l’esercizio del potere stesso, fondamentalmente, consiste nel dire il diritto, non nel creare il diritto» (p. 24). Anche Foucault, del resto, segue questa interpretazione discontinuista quando dal piano dell’analisi della rappresentazione del potere nelle dottrine politiche passa al piano dell’analisi dell’esercizio concreto del potere nelle istituzioni politiche. E anche Foucault, inoltre, nel corso del 1977-1978, Sicurezza, territorio, popolazione (che prenderò in esame nel prossimo capitolo) insiste sul passaggio dalla concezione cosmologica-teologica del diritto tipica dell’ordine giuridico medievale alla concezione artificialistica del diritto tipica dello stato moderno. 4 Si potrebbe obiettare a Foucault che anche leggi e diritti hanno una funzione produttiva: essi determinano infatti lo status giuridico dei soggetti che abitano una comunità politica, e quindi producono quei soggetti che sono le persone giuridiche.

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nostro autore sostiene che la rappresentazione della sovranità nel pensiero politico moderno, secondo cui i poteri dello stato si ridurrebbero alla sola funzione giuridico-repressiva, resta modellata sulla figura del monarca medievale. Paradossalmente, quindi, Foucault sostiene che proprio nella società medievale – caratterizzata dall’assenza di un centro, o dalla molteplicità di centri, del potere – si è dato quel modo di esercitare il potere politico che ha svolto una funzione idealtipica per la teoria che ha accompagnato l’imporsi dell’assolutismo moderno5. Questa ossessione per la sovranità, e per la rappresentazione limitativa del potere che le è associata, non sarebbe casuale, ma risponderebbe a precise finalità ideologiche: la teoria della sovranità avrebbe fornito al pensiero politico uno strumento di persuasione retorica utilizzabile per legittimare tanto istituzioni già esistenti quanto azioni rivoluzionarie volte a edificarne di nuove. Ponendo – come il Nietzsche di Deleuze – la domanda relativa a chi pronuncia le verità in cui crediamo, a quali forze le producono, Foucault mette in evidenza che il linguaggio giuridico della sovranità è stato in origine elaborato dai sostenitori del potere monarchico per giustificarlo e celebrarlo. Così egli ne descrive la genesi ne La volontà di sapere: Probabilmente nello sviluppo delle grandi istituzioni monarchiche era in gioco ben altro che un puro e semplice edificio giuridico. Ma questo fu il linguaggio del potere, questa la rappresentazione che ha dato di sé e di cui tutta la teoria del diritto pubblico costruita nel Medioevo o ricostruita a partire dal diritto romano ha portato testimonianza. [...] A partire dal Medioevo, nelle società occidentali, l’esercizio del potere si è formulato sempre nei termini del diritto. [...] Le monarchie occidentali si sono edificate come sistemi di diritto, si sono pensate attraverso teorie del diritto e hanno fatto funzionare i loro meccanismi di potere nella forma del diritto6.

Alla teoria della sovranità, al linguaggio delle monarchie assolute e degli stati nazionali, sarebbero poi rimasti legati anche i loro oppositori. Prima il costituzionalismo liberale e democratico, poi il socialismo e il comunismo 5

«Finché è durata la società di tipo feudale, i problemi che la teoria della sovranità tentava di affrontare, e ai quali si riferiva, coprivano effettivamente la meccanica generale del potere, il modo in cui esso si esercitava fino ai livelli più bassi, a partire da quelli più alti. In altri termini, il rapporto di sovranità, che lo si intenda in senso lato o ristretto, ricopriva la totalità del corpo sociale. E, effettivamente, il modo in cui il potere si esercitava poteva essere trascritto, almeno per l’essenziale, nei termini della relazione sovrano-suddito» («Bisogna difendere la società», Milano, Feltrinelli, 1998, p. 38, prima ed. «Il faut défendre la société», Paris, Seuil-Gallimard, 1997). 6 La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 78, corsivo mio, prima ed. La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976.

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– secondo Foucault – avrebbero continuato a pensare il potere e l’azione politica nei termini del diritto, della legge e della repressione: il diritto alla rivoluzione e all’autogoverno secondo leggi giuste, il diritto a rovesciare un regime iniquo (e repressivo) e a prendere il potere, il diritto di élites illuminate ad autonominarsi rappresentanti della volontà (sovrana) popolare7. Anche le dottrine più radicali del pensiero politico moderno, anche quelle che si dissero più innovative e che si proposero di fondare un “mondo nuovo” sulle rovine di uno vecchio, per Foucault risultano quindi fortemente ancorate a teorie giustificative dell’azione politica tipiche del passato. Del resto lo stesso Foucault, in un primo tempo, ha, in un certo senso, condiviso quella concezione repressiva del potere che ha poi associato alla teoria della sovranità. Nella Storia della follia, infatti, è il monarca il principale attore della politica: facendosi interprete delle esigenze di un sistema economico in ascesa, Luigi XIV fa rinchiudere gli individui malati, disoccupati o inetti al lavoro, separandoli dalla popolazione attiva, occultandone e reprimendone la “follia”. In un secondo tempo, invece, – come già ho avuto modo di sostenere – Foucault abbandona questa ipotesi repressiva e matura un’originale concezione produttiva del potere. È allora che, in Sorvegliare e punire, egli tratteggia il suo ritratto del potere monarchico nel Medioevo e nell’età classica, con l’intento di fare emergere l’inadeguatezza della teoria della sovranità, modellata sulla figura del monarca medievale, a descrivere le funzioni produttive che il potere statale ha acquisito nelle società occidentali a partire dalla fine del Settecento. In Sorvegliare e punire Foucault ricostruisce la storia del sistema penale moderno, rintracciando gli elementi di continuità e quelli di differenza che intercorrono tra il sistema carcerario ancora vigente e due sistemi precedenti: il supplizio, praticato in Europa fino al XVIII secolo, e i progetti di riforma penale elaborati da pensatori e uomini politici dell’età dei Lumi più o meno noti8 e mai completamente realizzati. Secondo la sua ricostruzione, il rispetto dei diritti umani è solo una delle ragioni che ispirano i progetti dei riformatori illuministi, e che conducono, a partire dalla fine del XVIII secolo, alla condanna della crudeltà delle torture e dei supplizi, all’abolizione delle esecuzioni pubbliche, e all’istituzione delle prigioni moderne. La più importante posta in gioco sarebbe, invece, la razionalizzazione della gestione della popolazione.

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Cfr. ivi, p. 79. L’elenco dei “riformatori” presi in esame da Foucault comprende: Cesare Beccaria, Voltaire, Pierre-Louis Lacretelle, Jean-Paul Marat, Jacques-Pierre Brissot de Warville, JosephMichel-Antoine Servan, Charles-Marguerite Mercier Dupaty, Adrien-Jean-François Duport, Emmanuel Pastoret, Guy-Jean-Baptiste Target, Nicolas Bergasse. 8

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L’evoluzione del sistema penale non sarebbe quindi che un aspetto di un più ampio processo di riorganizzazione del potere nelle società occidentali, del passaggio dal potere politico del monarca-sovrano sul suo territorio al potere capillare di quelle che il nostro autore chiama discipline sui singoli individui e sull’intera società. Il rapporto che, in Sorvegliare e punire, Foucault istituisce tra il sistema penale e il paradigma generale di potere di una data epoca storica, è simile a quello che, ne Le parole e le cose, egli ha rintracciato tra una singola scienza e la corrispondente episteme. Quando descrive la tortura e il supplizio, quando ne ricostruisce le procedure, restituendone la logica, la razionalità, Foucault non sta semplicemente descrivendo tortura e supplizio ma, attraverso di essi, sta effettuando un’analisi del potere della sovranità dall’età feudale fino al Sei-Settecento. Secondo il nostro autore si tratta, tutto sommato, di un potere poco efficace, tanto sfarzoso nelle sue manifestazioni quanto debole nei suoi mezzi e discontinuo nel suo esercizio: bisognoso di essere continuamente affermato attraverso ritualizzazioni e teatralizzazioni successive proprio perché sempre in pericolo. Tale potere non si esercita sugli individui – se non saltuariamente, attraverso la richiesta occasionale di corvée e la punizione di chi è colto a trasgredire la legge –, ma sul territorio che essi abitano, mediante la riscossione di tributi e tasse. Foucault ne schematizza il funzionamento in due parole: «prelevamento» e «violenza»9. L’esecuzione pubblica con le sue atrocità è, quindi, uno dei grandi rituali del potere sovrano, con cui esso afferma la propria forza di fronte al popolo-spettatore: la crudeltà dei supplizi non risponde alla logica dell’equilibrio e della corrispondenza razionale tra violazione della legge e pena, ma vuole essere una manifestazione della dismisura, della potenza, dell’ira e della vendetta del monarca, uno sfoggio del diritto di vita e di morte che egli detiene sui suoi sudditi. Essendo la legge espressione della volontà del sovrano, l’intervento punitivo non si presenta soltanto come un atto di arbitraggio tra due avversari, ma anche sempre come reazione diretta di una parte offesa. Foucault sostiene che il pubblico sia un elemento fondamentale del supplizio: non solo suo bersaglio e suo oggetto tanto quanto il corpo del condannato, ma anche uno dei suoi soggetti. Il pubblico, infatti, interagisce con l’esecuzione: insulta i colpevoli, se ne prende gioco, ne commenta le sofferenze, oppure solidarizza con loro. Neppure nel momento in cui fa sfoggio solenne della propria forza, pertanto, il potere sovrano è completamente al sicuro: i casi di sommosse popolari durante le esecuzioni sono frequenti, ed 9

Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1993, p. 238, prima ed. Sourveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975.

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è per questo che il supplizio si celebra con tutto un contorno di cavalieri di guardia, ufficiali di polizia e soldati10. Spesso il criminale beneficia della spontanea simpatia del popolo, che nella sua sfida alla legge riconosce le proprie. Foucault descrive l’Ancien Régime come un sistema politico-sociale in cui l’«illegalismo» è molto diffuso – tanto che dall’infrazione della legge talvolta dipende la stessa sopravvivenza degli strati popolari più poveri. Nell’Ancien Régime molti disobeddiscono al sovrano, ma pochissimi tra i colpevoli vengono scoperti e puniti11. Secondo Foucault, è contro questo stato di cose – contro le lacune del potere del sovrano, più che contro la sua crudeltà – che insorgono i riformatori illuministi, esprimendo l’esigenza di una razionalizzazione del governo degli individui e della popolazione che cominci con un potenziamento dell’efficacia del sistema penale12. A suo parere, dietro ai progetti dei riformatori è all’opera tutta una trasformazione politica e sociale in cui sono in gioco variabili differenti: nuove esigenze economiche, sviluppo demografico, intolleranza della classe borghese in ascesa verso ogni violazione del diritto di proprietà. È tutto questo a mettere in luce le inefficienze del vecchio potere sovrano e a richiedere la sua sostituzione con procedure di potere capaci di prendere in carico i corpi e le vite dei singoli fin nei minimi dettagli e delle popolazioni nel loro insieme, con poteri meno appariscenti ma più efficaci, capillarmente diffusi ma difficilmente individuabili, tanto più forti quanto più invisibili. Se occorre, secondo Foucault, liberare il pensiero dall’«ossessione» della sovranità, se occorre «decapitare il sovrano nella teoria politica», è proprio per divenire capaci di riconoscere questi nuovi poteri, innanzitutto desi10 «Il supplizio non ristabiliva la giustizia, riattivava il potere. Nel secolo XVII, e ancora all’inizio del XVIII, esso non era dunque, con tutto il suo spettacolo di terrore, il residuo non ancora cancellato di un’altra età. I suoi accanimenti, il suo splendore, la violenza corporale, un gioco smisurato di forze, un cerimoniale accurato, in breve tutto il suo apparato, si iscriveva nel funzionamento politico della penalità. Possiamo capire, partendo di qui, alcuni dei caratteri della liturgia dei supplizi. E prima di tutto, l’importanza di un rituale che doveva ostentare il suo fasto in pubblico» (ivi, p. 54, corsivo mio; cfr. anche pp. 64-65). 11 Cfr. ivi, p. 90. 12 «Lungo tutto il secolo XVIII, all’interno e all’esterno dell’apparato giudiziario, nella pratica penale quotidiana come nella critica alle istituzioni, viene formandosi una nuova strategia per l’esercizio del potere di castigare. E la “riforma” propriamente detta, quale viene o formulata nelle teorie del diritto o schematizzata nei progetti, è la ripresa politica o filosofica di questa strategia, con i suoi obiettivi primari: fare della punizione o della repressione degli illegalismi una funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per punire con maggiore universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il potere di punire» (ivi, p. 89; cfr. anche p. 69 e pp. 86-87).

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gnandoli con nomi nuovi: «discipline», ad esempio, e anche «biopoteri». Restando ancorati all’immagine del monarca medievale, riducendo l’azione della sovranità alle sole funzioni della produzione di leggi, della repressione e del prelievo13, contrattualismo e costituzionalismo, liberalismo e marxismo si renderebbero, invece, complici di queste nuove forme di potere: contribuirebbero a occultarle e quindi a potenziarle, lasciandole agire indisturbate – neppure nominate.

4.2 Il dispositivo Leviatano Molti dei temi presenti in Sorvegliare e punire sono ripresi, sviluppati, chiariti in «Bisogna difendere la società». È soprattutto in questo corso al Collège de France che Foucault espone la sua critica della teoria contrattualistica della sovranità, che in parte riprenderà ne La volontà di sapere. È importante notare fin da subito come tale critica non si traduce mai in affermazione dell’inadeguatezza di ogni analisi giuridica della politica: già nel corso del 1975-1976, e poi nei due corsi successivi (Sicurezza, territorio, popolazione e Nascita della biopolitica) Foucault sostiene che il diritto è una componente fondamentale dell’esercizio del potere nelle società contemporanee, tanto quanto le discipline e la biopolitica. Nella lezione del 14 gennaio 1976, Foucault afferma ad esempio: Un diritto di sovranità e una meccanica della disciplina: è fra questi due limiti, credo, che si realizza l’esercizio del potere. Ma questi due limiti sono così eterogenei che non si possono mai ridurre l’uno all’altro. Il potere si esercita, nelle società moderne attraverso, a partire e nel gioco stesso dell’eterogeneità fra un diritto pubblico della sovranità e una meccanica polimorfa delle discipline14.

In un intervento del 1988, Deleuze presenterà l’opera di Foucault come «un’analisi dei “dispositivi” concreti», e definirà il “dispositivo” come «un groviglio, un insieme multilineare [...] composto da linee di diversa natura»15. Secondo il Foucault presentato da Deleuze, a determinare la struttura 13

Cfr. anche La volontà di sapere, cit., pp. 120-121. «Bisogna difendere la società», cit., p. 40. 15 Deleuze, Gilles, Che cos’è un dispositivo?, in Id., Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault e altri intercessori, Verona, ombre corte, 1999, p. 64, prima ed. Qu’est-ce qu’un dispositif?, in AA.VV., Michel Foucault philosophe, Paris, Seuil, 1989. Sul significato che Foucault attribuisce al termine “dispositivo” si veda l’intervista Le jeu de Michel Foucault, in «Ornicar? Bulletin périodique du champ freudien», n° 10, juillet 1977, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 206, trad. it. 14

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di un dispositivo, tra le «variabili» che lo compongono, sono soprattutto i «vettori» di potere, le «curve» di sapere e le «tangenti» di soggettività. Riprendendo le parole di Deleuze, si può affermare che la struttura politica della modernità appare a Foucault come un dispositivo complesso, dove sovranità, discipline e biopoteri si trovano intrecciati, con i saperi che sono loro correlati, in una matassa difficilmente districabile. Ma anche la sovranità presa singolarmente, allo sguardo di Foucault appare come un dispositivo teorico: essa è infatti costituita da variabili concettuali (individuo-soggetto, uguaglianza, volontà, diritti, contratto, legittimazione, sovranità) il cui senso è depositato in un gioco di reciproci rimandi, senza che sia possibile un riferimento a realtà fondative esterne. Secondo Foucault, la teoria della sovranità è un dispositivo circolare: essa è «un ciclo, il ciclo che va dal soggetto al soggetto, mostrando in che modo il soggetto – inteso come individuo dotato per natura di diritti, capacità, ecc. – possa e debba diventare soggetto, ma inteso questa volta come elemento assoggettato all’interno di un rapporto di potere»16. Il soggetto individuale portatore di diritti è assieme un elemento, un presupposto e un prodotto della sovranità; anzi, secondo Foucault, nel dispositivo politico della modernità, il ruolo del dispositivo teorico della sovranità sembra proprio essere quello di rendere impensabile l’esercizio delle discipline e dei biopoteri, cioè di quei poteri che producono dall’esterno della sovranità quei soggetti docili, obbedienti, razionali – disciplinati, appunto –, e quelle popolazioni governabili che sono necessari all’esercizio del potere sovrano. Sono tre le ragioni che, secondo quanto Foucault sostiene nella lezione del 21 gennaio 197617, rendono impossibile esprimere l’azione produttiva dei poteri che percorrono le società moderne con il lessico della sovranità. Innanzitutto, la teoria della sovranità unisce una concezione repressiva del potere alla credenza nell’esistenza di una soggettività umana precedente l’esistenza del potere. Com’è noto, infatti, secondo lo schema contrattualista gli individui rinunciano ai loro diritti per istituire il sovrano, soggetto giuridico collettivo che riassume le loro volontà, e a cui volontariamente, e quindi liberaIl giuoco di Michel Foucault, in AA.VV., Ornicar? Prospettive della Psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1978. Afferma ad esempio Foucault: «Ciò che tento di trovare sotto questo nome è, innanzi tutto, un insieme decisamente eterogeneo, che comprende discorsi, istituzioni, sistemazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali, filantropiche, in breve: tanto il detto, quanto il non detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo stesso è la rete che si può stabilire tra questi elementi» (Dits et écrits, cit., vol. II, p. 299, traduzione mia). 16 «Bisogna difendere la società», cit., p. 43. 17 Cfr. ivi, pp. 43-44.

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mente, essi decidono di assoggettarsi: per Foucault in tale schema il rapporto tra soggettività e potere è letto nei termini dell’assoggettamento (degli individui al sovrano), e non nei termini della soggettivazione (della costruzione delle soggettività – tanto di quelle degli individui, quanto di quella della sovranità – ad opera del potere). In secondo luogo, la teoria della sovranità avrebbe tra i propri presupposti quello dell’unità del potere. Essa considera, infatti, la sovranità come una e indivisibile, dotata di un’unica volontà e soprattutto di un’unica forma: quella del potere giuridico-politico dello stato. Presupporre questa unità, secondo Foucault, impedisce di percepire tutta una molteplicità di poteri che non sono localizzati negli apparati statali, e che sono, invece, diffusi su tutto il corpo sociale. La terza ragione è che lo scopo della teoria della sovranità è la legittimazione razionale del potere politico: anche quando le dottrine politiche liberali affermano la necessità della separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, secondo Foucault esse affermano comunque l’unità originaria di questi poteri, la loro comune origine in uno stesso principio di legittimità. Tutto questo fa sì che la teoria della sovranità, secondo Foucault, sia di ostacolo a un’analisi realistica, critica e non legittimante del potere nel suo effettivo funzionamento. Ho già ricordato che alla teoria della sovranità, secondo Foucault, sarebbe imparentato non solo il liberalismo, ma anche il marxismo; in particolare lo sarebbero quelle varianti del marxismo rappresentate da un lato dal freudomarxismo, e dall’altro dalla teoria althusseriana degli apparati ideologici di stato. Nella lezione del 21 gennaio 1976, Foucault fa riferimento esplicito al primo18, e allude al secondo utilizzando la scuola – proprio la scuola, che per Althusser è l’apparato ideologico di maggior importanza nello stato moderno, così come la chiesa lo era nell’Ancien régime19 – come esempio di un’istituzione il cui funzionamento sarebbe legato a una molteplicità di discipline capillarmente diffuse nelle società moderne, più che all’unità del potere statale20. Nella lezione del 4 febbraio 1976, la decostruzione della teoria della sovranità è operata soprattutto attraverso l’analisi del testo che, nella storia del pensiero politico, è considerato esserne l’archetipo: il Leviatano di Thomas Hobbes. Con una lettura spregiudicata e originale21, Foucault mette in luce 18

Cfr. ivi, p. 44. Cfr. Althusser, Louis, Ideologia ed apparati ideologici di Stato, in Barbagli, Marzio (a cura di), Scuola, potere, ideologia, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 34-35, prima ed. Idéologie et appareils idéologiques d’État, in «La Pensée», n° 151, 1970. 20 Cfr. «Bisogna difendere la società», cit., pp. 44-45. 21 L’originalità di Foucault emerge fin dalla sua scelta di misurarsi non con quello che la storiografia francese ha per lungo tempo considerato il testo classico sulla sovranità, Le six livres de la Republique di Jean Bodin, ma con il Leviathan di Thomas Hobbes. Il fatto che Fou19

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come, al di là delle apparenze, lo scopo teorico dell’opera hobbesiana consista nell’eliminazione della guerra dalla genesi della sovranità statale. Infatti, il bellum omnium contra omnes che secondo Hobbes caratterizza la condizione umana prima dell’instaurazione dello stato, secondo Foucault rappresenta non relazioni di guerra, ma di diplomazia. La descrizione hobbesiana dello stato di natura si caratterizza, infatti, non per lo squilibrio delle forze degli individui, ma per la loro sostanziale equivalenza: il forte sa di non essere mai abbastanza forte da avere la vittoria garantita e da potersi permettere di non «stare in guardia», il debole sa comunque di essere «abbastanza prossimo al più forte per ritenersi sufficientemente forte da non essere costretto a cedere»22. Per Foucault questo significa che la guerra di tutti contro tutti descritta da Hobbes non appartiene all’ordine degli scontri tra forze reali, ma a quello delle rappresentazioni: lo stato di natura hobbesiano non è un reale stato di guerra, ma – appunto – una condizione in cui vige una sorta di «diplomazia infinita»23. E questo gioco di rappresentazioni, nota Foucault, non è destinato a venir meno con l’instaurazione dello stato, di cui al contrario costituisce un sottofondo sempre presente. Per Hobbes non la guerra, ma lo «stato di guerra» è la matrice della sovranità: non la sua origine storica, ma ciò che sempre lavora sotto la sua superficie, «una sorta di fondo permanente che non può non funzionare, con le sue astuzie elaborate e le sue doppiezze, non appena cessa di venir garantita la sicurezza»24. Come è noto, nella teoria di Hobbes la sovranità si costituisce affinché cessi lo stato di guerra: gli individui accordano alla persona del sovrano – poco importa se sia un singolo o un’assemblea più o meno numerosa – il diritto di rappresentarli totalmente, in cambio della protezione delle proprie vite. Questa è la genesi, attraverso un patto, di quella che Hobbes chiama sovranità di istituzione. Foucault insiste sul fatto che il testo hobbesiano comprende, inoltre, una trattazione della sovranità per acquisizione, conquistata attraverso la vittoria in guerra e paragonabile al dominio dispotico che un padrone esercita sui suoi servi, e un’analisi del dominio paterno, cioè del potere esercitato dai genitori, in particolare dalla madre, sui figli nei primi anni di vita. Il dominio paterno, secondo Hobbes, si giustifica sulla necessità: l’esistenza cault non si confronti con l’amplissima letteratura prodotta sull’opera hobbesiana, testimonia dell’interesse eminentemente teorico, e non storiografico, che orienta la sua interpretazione: portando alla luce ciò che la teoria hobbesiana avrebbe occultato, Foucault intende indicare ciò che tutte le intepretazioni giuridiche della politica, anche quelle a lui contemporanee, non riuscirebbero a vedere del funzionamento effettivo del potere nelle società moderne. 22 «Bisogna difendere la società», cit., p. 81. Cfr. Leviatano, cap. XIII. 23 Cfr. «Bisogna difendere la società», cit., pp. 81-82. 24 Ivi, p. 83.

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del bambino dipende totalmente dalle cure della madre e, provvedendo a lui, ella ha al tempo stesso il potere di trascurarlo, di abbandonarlo, di farlo morire – per queste ragioni il figlio le deve assoluta obbedienza25. Foucault mette in evidenza come, nella teoria hobbesiana, necessità e istinto di sopravvivenza giustifichino anche la sovranità per acquisizione. Nel caso non di un ipotetico «stato di guerra», ma di una guerra reale tra due nazioni in armi, dei due eserciti, uno vince, l’altro perde; se vogliono aver salva la vita, i sudditi dello stato sconfitto sono costretti a riconoscere la sovranità dello stato conquistatore, a promettergli obbedienza come i servi la promettono al padrone. Così Foucault commenta il testo hobbesiano: A partire dal momento in cui i vinti hanno scelto la vita e l’obbedienza, hanno proprio per questo ricostruito una sovranità, hanno trasformato i vincitori nei propri rappresentanti, hanno restaurato un sovrano al posto di quello abbattuto dalla guerra. Non è dunque la disfatta – in maniera brutale e al di fuori del diritto – a fondare una società di dominazione, di schiavitù, di servitù, ma ciò che è accaduto nella disfatta, ciò che si produce addirittura dopo la battaglia, dopo la disfatta, e in un certo modo indipendentemente da essa. A far entrare nell’ordine della sovranità, e in un regime giuridico che è quello del potere assoluto, è proprio qualcosa come la paura, la rinuncia alla paura, la rinuncia ai rischi della vita. La volontà di scegliere la vita piuttosto che la morte fonda una sovranità che è giuridicamente altrettanto fondata e legittima di quella costituita in base al modo dell’istituzione e del reciproco accordo26.

Da un lato, quindi, Foucault, raccogliendo l’eredità di Nietzsche27, sottolinea come, nel pensiero hobbesiano, la sovranità nasca sempre dalla volontà dei deboli, dalla loro paura. Ma da un altro lato, Foucault sostiene che il cuore dell’argomentazione di Hobbes consiste nel costruire un’analogia tra la dipendenza del figlio dalla madre e la sottomissione del vinto al vincitore, e nel ricondurre entrambi questi rapporti alla forma del patto stipulato dalle 25

Cfr. Leviatano, cap. XX. «Bisogna difendere la società», cit., p. 85, corsivi miei. 27 Si ricordino, in particolare, le inquietanti invettive di Nietzsche contro la morale da schiavi della cultura giudaico-cristiana. Si veda, ad esempio, Nietzsche, Friedrich, Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1996, pp. 24-25: «Atteniamoci ai dati di fatto: il popolo ha vinto – ovvero “gli schiavi” o “la plebe” o “il gregge”, chiamateli come vi piace – e se questo è avvenuto per mezzo degli Ebrei, ebbene mai un popolo ha avuto una missione più grande nella storia del mondo. “I signori” sono liquidati, la morale dell’uomo comune ha vinto. Si può considerare, al tempo stesso, questa vittoria come un avvelenamento del sangue (ha mescolato tra loro le razze) – nulla da eccepire; indubbiamente però questa intossicazione ha avuto buon esito. La “redenzione” del genere umano (dai “signori”) è sulla migliore delle strade; tutto si giudaizza o si cristianizza o si plebeizza a vista d’occhio». 26

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libere volontà degli individui. In questo modo, l’origine della sovranità di acquisizione è ricondotta a quella della sovranità di istituzione e la conquista assume una funzione fondativa e legittimante tanto quanto l’accordo: Che si tratti di un accordo o di una battaglia o di un rapporto come quello tra genitori e figli, ritroviamo pur sempre la stessa serie: volontà, paura e sovranità. E poco importa che questa serie sia scatenata da un calcolo implicito, da un rapporto di violenza, da un fatto di natura; poco importa che si tratti della paura che produce una diplomazia infinita o della paura provocata da un coltello alla gola o del grido di un bambino. In tutti i casi la sovranità è fondata. In fondo, è come se Hobbes, lungi dall’essere il teorico dei rapporti tra la guerra e il potere politico, avesse voluto eliminare la guerra in quanto realtà storica, è come se avesse voluto eliminarla dalla genesi della sovranità28.

Esaminato sotto la lente del pensiero di Foucault, il Leviatano si rivela essere un dispositivo retorico che pretende di fondare razionalmente il potere sovrano dello stato sull’atto volontario della stipulazione di un patto, occultando i rapporti di forza che determinano l’obbedienza di chi è governato a chi governa. Hobbes avrebbe tentato, in particolare, di nascondere il ruolo costituente giocato dalla guerra e dalla conquista nella nascita degli stati europei moderni. Spogliato della sua retorica, tale tentativo appare a Foucault come una precisa mossa teorica nella scacchiera del pensiero politico dell’Inghilterra del Seicento. Infatti, all’interno di un campo di forze storicamente determinato, di quella forza che è il contrattualismo hobbesiano, la fisica nietzscheana di Foucault non solo rintraccia il versore (lo scopo: l’eliminazione della guerra nella genesi della sovranità), ma ricerca anche il punto di applicazione (l’avversario teorico). Così, il nostro autore giunge a ricostruire una tradizione di pensiero che percorre la modernità in senso opposto rispetto al contrattualismo e al giusnaturalismo, reperendo le matrici del potere politico non nella sovranità e nei diritti, ma nella guerra e nella conquista.

4.3 Guerra e politica Nella prima lezione di «Bisogna difendere la società», datata 7 gennaio 1976, Foucault sottolinea la centralità, nel proprio progetto genealogico, di quell’operazione che consiste nel riportare alla luce i «saperi assoggettati», cioè quei saperi che non rientrano nell’«ordine del discorso» perché considerati 28

«Bisogna difendere la società», cit., p. 86, corsivo mio. Cfr. Leviatano, cap. XX.

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troppo confusi e non adeguatamente formalizzati, troppo ingenui e non sufficientemente scientifici per meritare di essere tramandati nella storia del pensiero29 e studiati nelle università30. Coerentemente con tale progetto, nelle lezioni successive Foucault ricostruisce una tradizione dimenticata dai manuali di dottrine politiche, riportando alla luce alcune teorie secentesche contro cui a suo avviso è stato scritto il Leviatano, e cercando poi nei secoli successivi dottrine che di tali teorie avrebbero ripetuto alcuni schemi concettuali. La scelta di metodo che orienta l’attività didattica di Foucault al Collège de France nell’anno accademico 1975-1976 privilegia, pertanto, la ricostruzione di tradizioni di lunga durata alternative ai processi di razionalizzazione della modernità, piuttosto che la messa in evidenza delle discontinuità che segnano il divenire storico dell’occidente. Sotto questo aspetto, «Bisogna difendere la società» risulta essere più vicino alla Storia della follia di quanto non lo sia a Le parole e le cose o a Sorvegliare e punire. Come ho anticipato nello scorso paragrafo, Foucault sostiene che Hobbes, rintracciando nel patto l’origine di ogni sovranità, volesse negare l’importanza rivestita dalla conquista nell’origine dello stato inglese. Secondo il filosofo francese, infatti, il vero atto fondativo dello stato inglese fu la vittoria di Guglielmo il Conquistatore nella battaglia di Hastings del 1066, con cui ebbe inizio la dominazione dei Normanni sui Sassoni. A quello che chiama «discorso filosofico-giuridico», cioè al contrattualismo di Hobbes, il nostro autore contrappone una strategia teorica cronologicamente antecedente, il «discorso storico-politico», che utilizza la storia reale – fatta di guerre e di conquiste – nell’analisi della genesi del potere politico: Il nemico – o piuttosto il discorso nemico contro il quale si rivolge Hobbes – è quello che si poteva intendere nelle lotte civili che a quell’epoca laceravano lo stato in Inghilterra. Era un discorso a due voci. L’una diceva: “Noi siamo i conquistatori e voi i vinti. Noi siamo forse degli stranieri, ma voi siete dei servi”. A ciò l’altra voce rispondeva: “Siamo forse stati conquistati ma non lo resteremo. Noi siamo a casa nostra e voi ne uscirete”. Hobbes ha scongiurato questo discorso della lotta e della guerra civile permanente ricollocando il contratto dietro ogni guerra e ogni conquista e salvando così la teoria dello stato. Di conseguenza, la filosofia del diritto ha in seguito assegnato a Hobbes, come ricompensa, il titolo senatoriale di padre della filosofia politica. Quando il

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Cfr. «Bisoga difendere la società», cit., pp. 16-17. Nella lezione del 25 febbraio 1976, Foucault sottolinea il ruolo ricoperto dall’università nell’organizzazione e nella selezione dei saperi nelle società moderne e contemporanee. Cfr. ivi, p. 160. 30

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Campidoglio dello stato si è trovato minacciato, un’oca ha risvegliato i filosofi che dormivano. Era Hobbes31.

Più avanti32 mostrerò che Foucault considera la teoria marxista della lotta di classe come una riformulazione ottocentesca del discorso storicopolitico. Tuttavia, per il filosofo francese altri aspetti della dottrina marxista permettono di accostarla alla concezione giuridica liberale del potere – erede del discorso filosofico-giuridico hobbesiano. Marxismo e liberalismo non solo condividerebbero la stessa concezione repressiva del potere, ma avrebbero in comune anche un certo «economicismo»: se per il marxismo il potere politico, in quanto elemento sovrastrutturale, è funzione dell’apparato economico, per la concezione giuridica classica potere e diritto sono beni che è possibile cedere o alienare nel contratto per costituire la sovranità politica33. Il discorso storico-politico, invece, contraddice ogni visione economica del potere, perché analizza il potere come un rapporto di forza: il potere è una relazione tra soggetti che esiste solo in atto, nei concreti rapporti tra gli esseri umani, pertanto non può essere barattato come un bene. Tale discorso, che Foucault chiama anche «ipotesi di Nietzsche»34, può essere riassunto in un aforisma, che è il rovesciamento della celebre tesi di Clausewitz, secondo cui «la guerra è una semplice continuazione della politica con altri mezzi»35. L’ipotesi di Nietzsche consiste, infatti, nella massima «il potere è la guerra, la guerra continuata con altri mezzi»36: secondo questa ipotesi il potere politico, attraverso le sue leggi, perpetua cioè, anche nella pace, la guerra da cui ha avuto origine, sancendo i privilegi di chi ha vinto su chi è stato sconfitto. Caratteristica fondamentale del discorso storico-politico è la sua natura strategica: esso risponde alla stessa logica bellica che enuncia, e si iscrive all’interno di un conflitto in atto. Il discorso storico-politico è, infatti, un discorso partigiano: incapace di un punto di vista “filosofico”, universale e assoluto, afferma verità prospettiche e reclama i diritti di una parte, senza pretendere di rappresentare la totalità. Esito di una lotta per il potere, è esso 31

Ivi, p. 88, corsivo mio. È stato lo stesso Hobbes a paragonarsi alle oche del Campidoglio nella lettera dedicatoria con cui si apre il Leviatano. 32 Nel paragrafo 5.3, Totalitarismo, liberalismo, società di controllo. 33 Cfr. «Bisogna difendere la società», cit., p. 21. 34 Ivi, p. 23. 35 Carl von Clausewitz, Della guerra, Torino, Einaudi, 2000, pp. 38-39; prima ed. Vom Kriege, in Hinterlassene Werke, Berlin, 1832. La guerra è una semplice continuazione della politica con altri mezzi è il titolo del paragrafo n° 24, del primo capitolo del primo libro dell’opera di Clausewitz. Su Clausewitz (1780-1831), tra gli studi italiani, si veda almeno quello di Gian Enrico Rusconi, Clausewitz, il prussiano: La politica della guerra nell’equilibrio europeo, Torino, Einaudi, 1999. 36 «Bisogna difendere la società», cit., p. 22, corsivo mio.

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stesso uno strumento per proseguire tale lotta: quando afferma una verità, è per utilizzarla come un’arma nella battaglia delle idee37. Si potrebbe forse riconoscere la presenza di questa strategia discorsiva già nel mondo antico, nella sofistica38, ma in «Bisogna difendere la società» Foucault preferisce trovare per la “sua” tradizione un’origine moderna (più vicina alla data di pubblicazione del Leviatano: il 1651): nella lezione del 4 febbraio 1976, il nostro autore afferma che il discorso storico-politico nasce in Inghilterra tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, attorno al tema della «guerra delle razze»39. In questa espressione, il termine “razze” non ha la denotazione biologica che assumerà nel pensiero positivista e nel nazismo, ma indica le popolazioni in lotta per il governo dell’Inghilterra: i Sassoni e i Normanni. Secondo le ricostruzioni di Foucault, alla fine del Cinquecento e all’inizio del Seicento il discorso storico-politico è utilizzato da tutte le parti coinvolte nel conflitto politico in Inghilterra40 (lo stesso accadrà, in seguito, al discorso filosofico-giuridico, utilizzato in Europa tanto dall’assolutismo quanto dal costituzionalismo). Per sostenere questa tesi, il nostro autore prende in esame testi in favore della monarchia, come quelli

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Cfr. ivi, pp. 50-51. Anche questa interpretazione del discorso filosofico-politico è debitrice ad alcune tesi di Nietzsche sulla verità che, del resto, hanno segnato l’attività didattica di Foucault al Collège de France fin dal primo corso, La volontà di sapere, dell’anno accademico 1970-1971. Si torni, a questo proposito, alla nota 111 del terzo capitolo. 38 Troviamo ad esempio testimonianza di un pensiero accostabile alle tesi di quella che Foucault chiama tradizione storico-politica nelle posizioni sofistiche presentate nella Repubblica di Platone. Afferma infatti Trasimaco, interrogato da Socrate a proposito della giustizia: «Questo è dunque, eccellente amico, ciò che io sostengo sia giusto nello stesso modo in tutte le città – l’utile del potere costituito. Ma è poi questo a essere forte, sicché ne segue per chi ragioni correttamente che dovunque giusto è lo stesso: l’utile del più forte» (La Repubblica I, 338 e – 339 a). Sulla figura di Trasimaco nel dialogo platonico si veda: Vegetti, Mario, Trasimaco, in La Repubblica, Libro I, Napoli, Bibliopolis, 1998. Di Vegetti si veda anche Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Roma-Bari, Laterza, 1999. 39 «Se Clausewitz ha potuto dire un giorno, un secolo dopo Boulainvilliers e pertanto due secoli dopo gli storici inglesi, che la guerra era la politica continuata con altri mezzi, è perché vi era stato qualcuno, nel XVII secolo e alla svolta tra XVII e XVIII secolo, che aveva già potuto analizzare, descrivere e mostrare la politica come guerra continuata con altri mezzi» («Bisogna difendere la società», cit., p. 145). 40 Cfr. ivi, p. 90. Lo storico Frank Lessay ha contestato questa interpretazione fornita da Foucault presentandola come una forzatura (come un «trompe-l’oeil»): a suo avviso gli scontri politici del Seicento inglese non sarebbero stati vissuti dalle parti in lotta come conflitti etnici o razziali: «Esaltazione di una nazione – la nazione sassone – a detrimento delle altre? Niente lo stabilisce in maniera probante. Niente, per di più, permette di assimilare questa nazione a una razza i cui membri avrebbero guerreggiato per due secoli contro un’altra razza, straniera e dominatrice» (Lessay, Frank, Joug normand et guerre des races: De l’effet de vérité au trompe-l’oeil, in «Cités», n° 2, 2000, p. 67, traduzione mia).

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di Adam Blackwood41, opere contro il Norman joke di parlamentaristi quali Edward Coke42 e John Selden43, pamphlet radicali dei levellers, in particolare di John Lilburne44, e dei diggers. Da un lato, i sostenitori degli Stuart giustificavano l’assolutismo monarchico facendo valere il diritto di conquista dei Normanni; da un altro, i parlamentaristi si richiamavano a una mitica legge sassone precedente il giogo normanno, secondo la quale il popolo eleggeva i propri capi e riconosceva al re pieni poteri solo in caso di guerra, elaborando quella che Foucault chiama un’«utopia fondatrice»45; da un altro lato ancora levellers e diggers rifiutavano ogni richiamo alla legge e incitavano il 41 Adam Blackwood (1539-1613), nato in Scozia, studiò all’Università di Parigi, dove in seguito insegnò filosofia. Fu nominato giudice del parlamento di Poitiers. Nelle sue lezioni, Foucault si limita per lo più a fare i nomi degli autori che prende in esame, senza riportare i titoli delle opere a cui fa riferimento. Blackwood fu autore di Adversus Georgii Buchanani dialogum, de jure regni apud Scotos, pro regibus apologia, s.l., 1581. 42 Edward Coke (1552-1634), giurista e deputato alla House of Commons, strenuo difensore delle prerogative del Parlamento contro l’assolutismo di Giacomo I e di Carlo I, contribuì nel 1628 alla stesura della Petition of Rights, con cui il Parlamento chiedeva una limitazione dei diritti della monarchia. Il nome di Coke è citato due volte nel Leviatano (cap. XV, par. 4 e cap. XXVI, par. 11), e contro Coke Hobbes scrisse, nel 1666, il libro polemico Dialogo tra un filosofo e uno studioso di diritto comune d’Inghilterra. Coke è autore di: A Book of Entries, London, 1614, Commentaries upon Littleton, London, 1628, A Treatise of Bail and Mainprize, London, 1637, e soprattutto degli Institutes of the Laws of England, IV voll., London, 1628-1644. 43 John Selden (1584-1654), giurista e deputato alla House of Commons, fu tra i più intransigenti accusatori di George Villiers, primo duca di Buckingham, favorito e consigliere di Giacomo I e Carlo I. Tra le opere di Selden, Foucault fa probabilmente riferimento a: Jani Anglorum facies altera, Londini, 1610; Analecton Anglo-Britannicon libri duo, Francofurti, 1615. 44 Anche quando prende in esame il pensiero di levellers e diggers, Foucault lo fa con intenti “teorici” e non storiografici: non si preoccupa pertanto di discutere l’enorme letteratura che è stata prodotta sulla Rivoluzione inglese e in particolare sui levellers e i diggers, né si premura di fornire i titoli dei testi a cui fa riferimento. La maggior parte dei pamphlet dei levellers sono stati raccolti da William Haller e Godfrey Davies in The Levellers Tracts 1�47-1�53, New York, Columbia University Press, 1944; altri loro documenti sono stati poi pubblicati, a cura di Andrew Sharp, in The English Levellers, Cambridge, Cambridge University Press, 1998. John Lilburne (1614?-1657), colonnello nell’esercito di Cromwell, è autore di numerosi testi, tra cui, ad esempio, Regall Tyrannie Discovered, London, 1947, Begin. Englands New Chains discovered, London, 1949, A Discourse betwixt Lieut. Col. John Lilburn, close prisoner in the Tower of London, and Mr. Hugh Peters, London, 1949. I curatori di «Bisogna difendere la società», Mauro Bertani e Alessandro Fontana, segnalano l’importanza, per le lezioni di Foucault, soprattutto del testo di Lilburne The Just Mans Justification, London, 1646. I pamphlet più noti dei diggers, che Foucault potrebbe aver letto, sono due manifesti anonimi: Light Shining in Buckinghamshire, s.l., 1648 e More Light Shining in Buckinghamshire, s.l., 1649. Figura di spicco del movimento dei diggers fu Gerrard Winstanley (1609-1676) la cui produzione è stata raccolta da George H. Sabine in The Works of Gerrard Winstanley, with an appendix of documents relating to the Digger Movement, Ithaca, Cornell University Press, 1941. 45 Cfr. «Bisogna difendere la società», cit., pp. 94-95.

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popolo inglese alla rivolta, a proseguire la guerra mai terminata dei Sassoni contro i Normanni. In questi inviti alla lotta, il tema della guerra delle razze viene sviluppato fino alle sue ultime conseguenze: non come richiamo a un diritto perduto ma come negazione del diritto. Infatti, talvolta, nei testi dei diggers presi in esame da Foucault, l’equivalenza tra legge e guerra è estesa dalle leggi normanne alle leggi sassoni; viene così sconfessato anche il mito fondativo che si ritrova in Coke e Selden. Secondo la lettura del nostro autore, in questi pamphlet ogni potere deriva da una forma di dominazione e la libertà consiste non nel recupero di un diritto originario, ma nella rivolta contro l’ordine politico in atto. Foucault sottolinea, però, che si tratta di posizioni teoriche estreme, che nell’Inghilterra del Seicento non danno luogo ad alcuna «pratica politica coerente»46. Dopo aver preso in esame come il tema della guerra tra Sassoni e Normanni abbia fornito la griglia concettuale attraverso cui sono state giustificate le lotte politiche dell’Inghilterra del Seicento, nelle lezioni dell’11, del 18 e del 25 febbraio 1976 Foucault prende in esame una costellazione di miti e di racconti storici che ha svolto una funzione analoga in Francia a partire dal Medioevo. Il primo racconto di questa tradizione francese preso in esame da Foucault, diffuso già in età medievale, faceva discendere i Francesi in modo diretto dai Franchi e descriveva i Franchi come discendenti di un gruppo di Troiani che avrebbero abbandonato Troia in fiamme e, sotto la guida del re Francus, figlio di Priamo, dopo lunghe peregrinazioni avrebbero fondato la loro patria nell’odierno territorio francese47. Questo racconto “dimenticava”, quindi, tanto i fatti della conquista romana della Gallia quanto le invasioni dei Franchi nelle Gallia romana: secondo il nostro autore, non si trattava di errori storiografici, ma di amnesie ad hoc. Sostenendo che i Franchi, come i Romani, discendono da Troia, era infatti possibile legittimare l’assolutismo del re di Francia ponendo un’analogia tra il suo potere e quello dell’imperatore di Roma: una volta cancellata la memoria della dominazione romana, veniva meno la ragione storica per cui la Francia avrebbe dovuto restare sottomessa all’Impero. Contro questo mito assolutista, un mito antagonista esposto da François Hotman48 nella 46

Cfr. ivi, p. 97. In «Bisogna difendere la società», Foucault non cita fonti precise di questo mito. Come ricordano Mauro Bertani e Alessandro Fontana, curatori dell’edizione del corso, la leggenda è presente in molta della letteratura storica francese, dalla Historia Francorum, cronaca dello pseudo Frédégaire (727) – in realtà composta da diversi autori anonimi –, fino alla Franciade, poema epico di Pierre Ronsard (1572). 48 François Hotman (1524-1590), giurista calvinista, abbandonò la Francia dopo la notte di S. Bartolomeo (1572), e insegnò diritto romano in varie università europee. Antiassolutista 47

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Franco-Gallia (1573) affermava invece che i Franchi non fossero dei Troiani ma dei Germani, al pari dei Galli: invadendo la Gallia, sconfiggendo i Romani, avrebbero liberato i Galli, popolo fratello, dall’invasione straniera. Secondo questo racconto, Galli e Franchi rappresenterebbero un’unica nazione, le cui leggi sono quelle della società aristocratica germanica, e non dell’assolutismo imperiale romano. Foucault mostra come il mito della Franco-Gallia sia stato ripreso a partire dalla fine del Cinquecento da autori sia protestanti sia cattolici49, con l’intento di limitare l’assolutismo regale. Ciò su cui egli insiste, a proposito di questi racconti sull’origine della Francia, è il loro carattere storico: non in una ragione o in un diritto astorici, non nella natura o nella volontà di Dio, ma nel fatto dell’invasione o delle migrazioni delle razze questi racconti cercano una giustificazione di questa o quella forma di governo, evidenziandone il carattere storico e quindi contingente. Queste, per Foucault, sono le ragioni per cui essi si situano in un orizzonte concettuale inconciliabile con quello del contrattualismo: Nella stessa epoca in cui Grotius, Pufendorf, Coke, Hobbes, cercavano nei diritti naturali le regole di costituzione di uno stato giusto, cominciava anche, in contrappunto e in opposizione, un’enorme indagine storica sull’origine e sulla validità dei diritti effettivamente esercitati, sempre a partire da un fatto storico50.

Se i primi miti fondativi francesi, nel medioevo e nel rinascimento, affermano l’unità della nazione francese (la parentela tra Franchi e Galli), la continuità del presente con l’origine, il carattere dualistico della guerra delle razze erompe con tutta la sua forza nel primo Settecento, nei testi dello storico Henri de Boulainvilliers, portavoce della reazione nobiliare contro l’assolutismo di Luigi XIV51 – testi che ispireranno in seguito altri storici, e oppositore della monarchia dei Valois, propose la redazione di un nuovo codice di leggi francese che non si limitasse all’applicazione del diritto romano. 49 Foucault nomina, ad esempio, Jean de Serres (1540-1598), autore di Mémoires de la troisième guerre civile, et des derniers troubles de la France, Paris, 1570 e di Inventaire général de l’histoire de France, Paris, 1597. 50 «Bisogna difendere la società», cit., p. 110. 51 Boulainvilliers, Henri, Mémoire pour la noblesse de France contre les Ducs et Pairs, s.l., 1717; Mémoires présentés à Monseigneur le duc d’Orléans, régent de France. Contenant les moyens de rendre ce royaume très puissant, et d’augmenter considérablement les revenus du roi & du peuple, par le comte de Boulainvilliers, Le Haye et Amsterdam, 1727; État de la France dans lequel on voit tout ce qui regarde le gouvernement ecclésiastique, le militaire, la justice, les finances, le commerce, les manufactures, le nombre des habitans, et en général tout ce qui peut faire connoître à fond cette monarchie. Extrait des mémoires dressés par les intendants du royaume, par ordre du roi Louis XIV à la sollicitation de Monseigneur le duc de Bourgogne, père de Luis XV et présent régnant. Avec des Mémoires historiques sur l’ancien gouvernement

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quali Louis-Gabriel du Buat-Nançay52, e François de Montlosier53. Secondo l’interpretazione di Foucault54, nei suoi libri, destinati a istruire l’erede al de cette monarchie jusqu’à Hugues Capet, par M. le comte de Boulainvilliers, London, 1727, 2 voll.; État de la France, contenant XIV lettres sur les anciens Parlements de France, avec l’histoire de ce royaume depuis le commencement de la monarchie jusqu’à Charles VIII. On y a joint des Mémoires présentes à M. le duc d’Orléans, London, 1728, 3° vol.; Continuation des mémoires de littérature et d’histoire, Paris, 1730. Henri de Boulainvilliers (1658-1722), conte di Saint-Saire, fu filosofo oltre che storico, e tradusse in francese l’Etica di Spinoza. Foucault racconta come alcune opere storiche di Boulainvilliers furono composte con il preciso intento di istruire il duca di Borgogna, nipote di Luigi XIV. Il re ordinò ai suoi intendenti di presentare rapporti dettagliati sullo stato – economico, sociale, demografico… – della Francia, Boulainvilliers fu incaricato di farne un riassunto, e lo corredò di una lunga presentazione che era un saggio sull’antico governo di Francia. Nacquero così i tre volumi dell’État de France. Su Boulainvilliers, tra gli studi italiani, si veda almeno quello di Diego Venturino Le ragoni della tradizione: Nobiltà e mondo moderno in Boulainvilliers, 1�58-1722, Torino, Le Lettere, 1993. 52 Du Buat-Nançay, Louis-Gabriel, Les Origines ou l’Ancien Gouvernement de la France, de l’Italie, de l’Allemagne, Paris, 1757; Histoire ancienne des peuples de l’Europe, Paris, 1772; Éléments de la politique, ou Recherche sur les vrais principes de l’économie sociale, London 1773; Les Maximes du gouvernement monarchique pour servir de suite aux Éléments de la politique, London 1778; Remarques d’un Français, ou Examen impartial du livre de M. Necker sur les finances, Genève, 1785. Louis Gabriel conte di Buat-Nançay (1732-1787) fu ambasciatore di Francia a Monaco, oltre che storico ed erudito. 53 François-Dominique de Reynaud conte di Montlosier, De la monarchie française depuis son établissement jusqu’à nos jours, Paris, 3 voll., 1814-1815; Mémoires de M. le Cte de Montlosier sur la Révolution française, le Consulat, l’Empire, la Restauration et les principaux événements qui l’ont suivie, Paris, 1830. Deputato della nobiltà, nel 1789 Montloisier (1755-1838) lasciò la Francia, per tornarvi dopo il colpo di stato del 18 brumaio 1799. Militò nella polizia segreta dell’Impero e animò l’opposizione nobiliare e gallicana contro Carlo X. Nel 1832 entrò nella camera dei pari. 54 A Boulainvilliers, e alla rielaborazione delle sue tesi da parte di Buat-Nançai, ha dedicato ampio spazio anche Hannah Arendt nel sesto capitolo de L’imperialismo (seconda parte de Le origini del totalitarismo), intitolato Le teorie razziali prima dell’imperialismo. Nella nota 7 è nominato anche Hotman. Questa e altre analogie (di cui darò brevemente conto nel paragrafo 5.3 Totalitarismo, liberalismo, società di controllo) inducono a pensare che Foucault potrebbe avere letto il testo di Arendt (che però non cita mai). La traduzione francese della terza parte di The Origins of Totalitarianism, Le système totalitarie (in italiano Il totalitarismo) esce nel 1972, quella della prima (Sur l’antisémitisme, in italiano L’antisemitismo) nel 1973. La traduzione della seconda parte (L’impérialisme) uscirà soltanto nel 1982, ma Foucault potrebbe averla letta prima in inglese. Cfr. The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt Brace & Co., 1951, trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1967, nuova ed. it. Torino, Einaudi, 2004. Hannah Arendt (1906-1975), filosofa ebrea tedesca, allieva di Heidegger e Jaspers, con l’avvento del nazismo si rifugiò dapprima in Francia, poi (nel 1941) negli Stati Uniti, dove continuò a vivere anche dopo la fine della guerra. Il suo nome è legato soprattutto a The Origins of Totalitarianism, cit., e inoltre a The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958, trad. it. Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964, e a Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963, trad. it. La Banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964. Per comprendere il senso delle teorie dell’azione e del giudizio

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trono sull’arte del governo, Boulainvilliers contrappone polemicamente al sapere amministrativo degli intendenti di Luigi XIV sul territorio e sulla popolazione francesi («studio generale della situazione, dell’economia, delle istituzioni, dei costumi della Francia»55, «sapere dello stato sullo stato»56), un sapere storico: per ben governare il re deve conoscere la storia di Francia, e in particolare la storia della nobiltà francese. Tale sapere intrattiene con il diritto rapporti analoghi a quelli che Foucault riconosceva nei testi più politico di Arendt, che costituiranno riferimenti filosofici fondamentali per l’ultimo capitolo di questo lavoro, di Arendt si vedano anche: Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten. Gedanken zu Lessing, Hamburg, Hauswedell, 1960, München, Piper, 1960, con il titolo On Humanity in Dark Times. Thoughts about Lessing, Lessing anche in Men in Dark Times, New York, Harcourt, Brace & World, 1968, trad. it. L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing Lessing, Milano, Cortina, 2006; Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, Thought New York, The Viking Press, 1961, trad. it. Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970, Milano, Garzanti, 1991; On Revolution, New York, Viking Press, 1963, trad. it. Sulla rivoluzione, Milano, Comunità, 1965; On Violence, New York, Harcourt Brace & Co., 1970, trad. it. Sulla violenza, Milano, Mondadori, 1971, Parma, Guanda, 1996; Civil Disobedience, in «The New Yorker», 12 settembre 1970; anche in Crises of the Republic, New York, Harcourt, Brace and Co., 1972, trad. it. La disobbedienza civile, in La disobbedienza civile e altri saggi, Milano, Giuffré, 1985; The Life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York, 1978, trad. it. La vita della Mente, il Mulino, Bologna, 1987; Lectures on Kant’s Political Philosophy, Chicago, The University of Chicago Press, 1982, trad. it. Teoria del giudizio politico, Genova, il melangolo, 1990. Sulla filosofia politica di Arendt si vedano invece, tra gli altri, i seguenti studi: Canovan, Margaret, The Political Thought of Hannah Arendt, New York, Harcourt Brace & Co., 1974; Young-Bruehl, Elisabeth, Hannah Arendt: For Love of the World, New Haven, Yale University Press, 1982, trad. it. Hannah Arendt 190�-1975. Per amore del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; Esposito, Roberto (a cura di), La Pluralità irrappresentabile: Il pensiero politico di Hannah Arendt, Urbino, Quattro Venti, 1987; Parise, Eugenia (a cura di), La politica tra natalità e mortalità: Hannah Arendt, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993; Canovan, Margaret, Hannah Arendt: A Reinterpretation of Her Political Thought, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1992; Flores d’Arcais, Paolo, Hannah Arendt: Esistenza e libertà, Roma, Donzelli, 1995, poi in Id., Hannah Arendt: Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi, 2006; Boella, Laura, Hannah Arendt: Pensare politicamente, agire politicamente, Milano, Feltrinelli, 1995 e 20052; Bazzicalupo, Laura, Hannah Arendt. La storia per la politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995; Benhabib, Seyla, The Reluctant Modernism of Hannah Arendt, London-Thousand Oaks, 1996; Forti, Simona, Vita della mente e tempo della polis: Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, FrancoAngeli, 1996, nuova ed. Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, Bruno Mondadori, 2006; Besussi, Antonella, L’arte dei confini: Hannah Arendt e lo spazio pubblico, in «Rassegna italiana di sociologia», n° 2, 1997; Ead. La visibilità tra somiglianza e distinzione, in «Iride», n° 25, 1998; Forti, Simona (a cura di), Hannah Arendt, Milano, Bruno Mondadori, 1999; Parise, Eugenia, La politica dopo Auschwitz: Rileggendo Hannah Arendt, Napoli, Liguori, 2000; Guaraldo, Olivia, Politica e racconto: Trame arendtiane della modernità, Roma, Meltemi, 2003; Young-Bruehl, Elisabeth, Why Arendt Matters, New Haven, Yale University Press, 2006; Fistetti, Francesco e Recchia Luciani, Francesca R. (a cura di), Hannah Arendt: Filosofia e totalitarismo, Genova, il melangolo, 2007. 55 «Bisogna difendere la società», cit., p. 112. 56 Ivi, p. 113.

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estremi di levellers e diggers: investe il diritto non per fornirne una giustificazione attraverso una razionalità universale o un mito di fondazione, ma anzi per imporne una visione parziale e prospettica: Contro [il] sapere dei cancellieri la nobiltà vuol far valere un’altra forma di sapere, la storia. Una storia che avrà come caratteristica il fatto di svolgersi all’esterno rispetto al diritto, dietro il diritto, negli interstizi del diritto; una storia che non sarà semplicemente, come era stata fino a quel momento, lo svolgimento drammatizzato, figurato, del diritto pubblico57. Il sapere della storia tenterà, al contrario, di riprendere il diritto pubblico alla radice, di risituare le istituzioni del diritto pubblico all’interno di una rete, più antica, di altri impegni più profondi, più solenni, più essenziali. Contro il sapere del cancelliere, in cui il re non potrà incontrare che l’elogio del suo assolutismo […], si tratterà di far valere un fondo di equità storica. Dietro la storia del diritto, si dovranno ridestare impegni non scritti, fedeltà che non hanno lasciato testimonianze. Si dovrà cercare di riattivare delle tesi dimenticate e il sangue versato dalla nobiltà per il re. Si farà inoltre apparire l’edificio stesso del diritto – persino nelle istituzioni più consolidate, negli ordinamenti più espliciti e meglio riconosciuti – come il risultato di tutta una serie di iniquità, di ingiustizie, di abusi, di spossessamenti, di tradimenti, di infedeltà, commessi tanto dal potere reale, che ha rinnegato i propri impegni nei confronti della nobiltà, quanto dai legulei, i quali hanno sempre esercitato dei soprusi e delle usurpazioni sul potere della nobiltà, e nello stesso tempo, forse senza rendersene ben conto, anche sul potere reale. La storia del diritto sarà dunque la denuncia dei tradimenti, di tutti i tradimenti che si sono innestati su altri tradimenti58.

Secondo Foucault, lo scopo dei racconti di Boulainvilliers sarebbe, ancora prima di esortare la nobiltà francese a reagire contro l’assolutismo di Luigi XIV, di invitarla a una presa di coscienza. Alle verità tecniche del sapere burocratico-amministrativo, Boulainvilliers contrapporrebbe una verità storica prospettica, che Foucault a sua volta contrappone alla verità astorica universale della teoria della sovranità59. Nei testi di Boulainvilliers, la storia 57

Questa, secondo Foucault, era la funzione della storia raccontata da Hotman: «Credo si possa comprendere quest’elisione di Roma dal racconto troiano solo a condizione di rinunciare a considerare questo racconto delle origini come una sorta di tentativo di storia ancora condizionata da vecchie credenze. Mi sembra piuttosto che si tratti di un discorso che ha una funzione precisa, che consiste non tanto nel raccontare il passato e le origini, quanto nell’enunciare il diritto, il diritto del potere. Ciò significa che si tratta, in fondo, di una lezione di diritto pubblico» (ivi, p. 102). 58 Ivi, p. 115. 59 Foucault prende in esame anche i testi di alcuni autori che, in risposta a Boulainvilliers, hanno fornito interpretazioni differenti della storia francese utilizzando la stessa strategia del

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diventa un calcolo di forze, una fisica del potere. Fare storia, per Boulainvilliers significa, infatti, cercare la risposta a una domanda fondamentale: attraverso quali processi mutano i rapporti di forza nel tempo? Come possono i soggetti della storia diventare forti oppure deboli, vincere o essere sconfitti? Per Boulainvilliers la forza del popolo franco, conquistatore della Gallia romana, risiedeva nella libertà della sua aristocrazia guerriera, che non era garantita da un sistema di diritto, ma dall’esercizio della ferocia60. suo discorso. Ad esempio, secondo Jean-Baptiste Dubos (Histoire critique de l’établissement de la monarchie française dans les Gaules, Paris, 1734) e Jacob-Nicolas Moreau (Leçons de morale, de politique et de droit public, puisées dans l’histoire de notre monarchie, Versailles, 1773; Exposé historique des administrations populaires aux plus anciennes époques de notre monarchie, Paris, 1789; Exposition et défense de notre constitution monarchique françoise, précédées de l’Histoire de toutes nos assemblées nationales, Paris, 1789) non vi sarebbe mai stata una vera invasione dei Franchi, ma piuttosto un’immigrazione: non solo la nobiltà guerriera, ma una piccola popolazione franca si sarebbe trasferita in Gallia, dove sarebbe stata accolta amichevolmente, ricevendo i diritti di cittadinanza previsti dal codice romano. Gabriel Bonnot de Mably (Observations sur l’histoire de France, Genève, 1765, 2 voll.), invece, sostiene che dopo l’invasione franca in Gallia non si sarebbe instaurato un regime aristocratico, ma una democrazia: il feudalesimo ne sarebbe poi derivato attraverso un processo che avrebbe portato non alla contrapposizione, ma al contrario all’alleanza tra Carlo Magno e la nobiltà. Louis Feudrix de Bréquigny (Diplomata, chartae, epistolae et alia documenta ad res Francicas spectantia, Paris, 1791; Ordonnances des rois de France de la troisième race, t. IX, Paris, 1769, e t. XII, 1776) e Jean-François de Chapsal (Discours historiques sur la féodalité et l’allodialité, suivis de dissertations sur le franc-aleu des Coutumes d’Auvergne, de Bourbonnais, du Berry, de Champagne, Paris, 1789), invece, avanzano la tesi secondo cui, nonostante l’assolutismo dell’Impero romano prima e le invasioni franche poi, le vecchie libertà galliche sarebbero sopravvissute nelle città: «Abbiamo dunque a che fare – com’è evidente – con una tesi che, assai più di quelle precedenti, e anche più della stessa tesi di Mably, potrà diventare la tesi del terzo stato, perché è la prima volta che la storia delle città, la storia delle istituzioni urbane, la storia della ricchezza e dei suoi effetti politici, potranno essere articolate all’interno dell’analisi storica» («Bisogna difendere la società», cit., pp. 177-178). 60 Secondo il racconto di Boulainvilliers, ricostruito da Foucault, per governare la Gallia, i Romani avrebbero disarmato e umiliato politicamente ed economicamente la nobiltà guerriera gallica che aveva opposto loro resistenza, e l’avrebbero sostituita con una nuova classe nobiliare artificiale, abile non nelle armi, ma nell’amministrazione. La successiva vittoria dei Franchi sui Romani in Gallia sarebbe pertanto spiegabile con la loro superiorità guerriera: avendo disarmato l’aristocrazia gallica, per difendersi i Romani fecero ricorso a mercenari, che niente poterono contro la furia distruttrice dell’aristocrazia franca. Boulainvilliers descrive i primi tempi dell’occupazione franca della Gallia come un’epoca felice: sconfitti i Romani, i Franchi imposero ai Galli un regime feudale. La nobiltà franca si dedicava solo alla guerra e i Galli, disarmati, coltivavano la terra e pagavano ai Franchi tributi in natura – mai così gravosi come erano quelli chiesti dai Romani per mantenere un esercito di mercenari. Gradualmente, però, Clodoveo avrebbe cercato di rendere permanente il proprio potere di capo militare, trasformandolo in una monarchia assoluta: avrebbe allora aumentato i tributi per stipendiare anch’egli un esercito mercenario con cui tenere testa alla nobiltà franca, e contro di essa si sarebbe alleato con la chiesa – nella cui gerarchia era confluita l’antica aristocrazia gallica.

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Una tale libertà, al contrario dei diritti naturali di cui parla il discorso filosofico-giuridico, non può essere ceduta in un contratto, o barattata in cambio di protezione o sicurezza: è una libertà violenta e pericolosa, che non può essere posseduta ma deve essere agita. È la libertà del barbaro conquistatore, che nella lezione del 3 marzo 1976 Foucault contrappone ai diritti naturali del selvaggio rousseauiano, o dell’individuo nello stato di natura descritto da Hobbes. Attraverso la contrapposizione che Foucault istituisce tra selvaggio e barbaro – tra la “paura naturale” del primo, generatrice di contratti, e il feroce coraggio del secondo, che trova espressione nella guerra61 – si rivelano i profondi legami che intercorrono tra la “decapitazione del sovrano” e l’affermazione della “morte dell’uomo”, tra la decostruzione delle verità del contrattualismo e la critica genealogica delle scienze umane. Il soggetto della storia, secondo il discorso storico-politico, non è il selvaggio della tradizione giusnaturalista: non è un uomo di cui si possa analizzare la natura (i diritti naturali, le pulsioni o i desideri) per pronunciare sul suo conto delle verità definitive. È invece il barbaro: uomo artificiale e non naturale, che agisce sempre nella storia e nella società e afferma la propria libertà rovesciando a proprio vantaggio i rapporti di potere che gli preesistono. Il barbaro è «l’uomo del saccheggio e dell’incendio, è l’uomo della dominazione»62: è soggetto privo di natura, e come tale non può diventare oggetto delle scienze umane. Egli non è dotato di una profondità a cui si possa attingere per spiegare il suo comportamento, o di diritti originari con cui si possa giustificare il suo potere, ma cavalca la superficie della storia, e la sua esistenza si svolge tutta nei rapporti con altri soggetti – che sono rapporti di potere, di guerra e di dominio, ma anche di libertà. Se il selvaggio del discorso filosofico-giuridico è l’uomo del diritto, il barbaro è l’uomo della libertà: di una libertà intesa non come una “dotazione naturale” che si possiede per nascita e che si può cedere con un atto di volontà, ma come un’azione che cambia i rapporti tra i soggetti. Tale libertà esiste solo come risposta a rapporti di potere già dati, solo in relazione a una “civiltà” storicamente determinata, e coincide con l’invasione, con la ribellione, o – se si sovrappone la figura del barbaro a quella del governato – con la resistenza. Il selvaggio del dispositivo-Leviatano per paura cede i propri diritti allo scopo di edificare il potere sovrano: il barbaro dello storicismo politico coraggiosamente e ferocemente agisce la propria libertà ribellandosi a ogni formazione di potere esistente, senza riconoscere l’autorità, e a fortiori la sovranità, di nessuno.

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Cfr. «Bisogna difendere la società», cit., pp. 168-170. Ivi, p. 170.

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I toni di simpatia e di elogio con cui Foucault descrive la fierezza e la ferocia del barbaro, e in generale la partecipazione con cui ricostruisce la tradizione storico-politica, potrebbero indurre a pensare che anche il pensiero del filosofo francese intenda iscriversi in tale tradizione. Quest’interpretazione si trova, ad esempio, in uno studio di Yves-Charles Zarka63: se per Walzer il pensiero foucaultiano non è altro che un ribaltamento speculare delle tesi hobbesiane, Zarka, commentando «Bisogna difendere la società», contro Foucault prende le difese del concetto giuridico di potere del contrattualismo. A suo avviso, questo renderebbe pensabile una regolazione razionale dei conflitti che sarebbe invece preclusa dalla concezione bellicista del potere che Foucault condividerebbe con la tradizione storico-politica. Ma Foucault condivide effettivamente tale concezione? Il suo pensiero può essere davvero condensato nella massima che ribalta la tesi di Clausewitz? Il suo invito alla resistenza, negli anni settanta, deve essere allora letto come un incitamento alla guerra civile o al terrorismo? Per rispondere a queste domande, occorre ricordare che le pagine di «Bisogna difendere la società» sono la trascrizione di lezioni orali, che Foucault non aveva intenzione di dare alle stampe e di cui non ha mai potuto operare una revisione: alla luce dell’impegno politico-intellettuale di Foucault, i passi in cui egli sembra appropriarsi della logica bellicista che descrive64 possono essere interpretati come frutto dell’entusiasmo momentaneo di un relatore di fronte al suo pubblico. Con determinazione, infatti, e senza nessuna esitazione, Foucault ha sempre condannato il terrorismo65, e lungi dal ricercare nella violenza la soluzione dei conflitti politici, ha dato il proprio appoggio a lotte politiche finalizzate ad ampliare i diritti di chi è governato.

63 Zarka, Yves-Charles, Foucault et le concept du pouvoir, in Figures du pouvoir: Études de philosophie politique de Machiavel à Foucault, Paris, PUF, 2001; prima ed. Foucault et le concept non juridique du pouvoir, in «Cités», n° 2, 2000. Si veda il paragrafo 2.3 La critica dopo il ’94. 64 Così ad esempio afferma Foucault, nella lezione del 4 febbraio 1976: «L’operazione di Hobbes è consistita nel predisporre tutte le possibilità del discorso filosofico-giuridico, anche le più estreme, per far tacere questo discorso dello storicismo politico. Ebbene, di questo discorso dello storicismo politico io vorrei fare la storia e tessere l’elogio» («Bisogna difendere la società», cit., pp. 98-99, corsivo mio). Nella prima lezione, del 7 gennaio, Foucault illustra invece il proprio metodo genealogico attraverso un linguaggio bellico: «Si è così venuta delineando quella che si potrebbe chiamare una genealogia, o piuttosto delle ricerche genealogiche molteplici: riscoperta meticolosa delle lotte e insieme memoria bruta degli scontri. [...] Chiamiamo dunque “genealogia”, se volete, l’accoppiamento delle conoscenze erudite e delle memorie locali: accoppiamento che permette la costituzione di un sapere storico delle lotte e l’utilizzazione di questo sapere all’interno di queste tattiche attuali» (ivi, p. 17). 65 Si torni al paragrafo 3.2 Foucault, Deleuze e Nietzsche.

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Significativamente, nella seconda lezione di «Bisogna difendere la società», del 21 gennaio 1976, Foucault, quando, dopo aver illustrato il suo metodo, presenta i contenuti del corso, si esprime in forma interrogativa: Ritengo che in luogo del triplice preliminare della legge, dell’unità e del soggetto – che fa della sovranità la fonte del potere e il fondamento delle istituzioni – sia necessario assumere il triplice punto di vista delle tecniche, dell’eterogeneità delle tecniche e dei loro effetti di assoggettamento, che fanno dei procedimenti di dominazione la trama effettiva delle relazioni di potere e dei grandi apparati di potere. Il tema generale potrebbe allora essere enunciato così: si tratta di analizzare la fabbricazione dei soggetti piuttosto che la genesi del sovrano. Ma se è chiaro che a costituire la via di accesso all’analisi del potere dovrebbero essere i rapporti di dominazione, com’è allora possibile sviluppare questa analisi? Se è vero che a dover essere studiata non è la sovranità bensì la dominazione, o meglio le dominazioni, gli operatori di dominazione, come si procede allo studio dei rapporti di dominazione? In cosa un rapporto di dominazione può essere ricondotto e assimilato alla nozione di rapporto di forza? In cosa e come il rapporto di forza può essere ricondotto a un rapporto di guerra? Ecco dunque il tipo di questione che vorrei esaminare in via preliminare quest’anno: la guerra può effettivamente valere come analisi dei rapporti di potere e come matrice delle tecniche di dominazione?66

Se si considera il percorso teorico di Foucault nella sua interezza, emerge chiaramente che la risposta del filosofo francese all’ultima domanda qui formulata è negativa. Nel 1983, ad esempio, Foucault prenderà le distanze dal discorso storico-politico affermando: L’esercizio del potere consiste nel guidare la possibilità di condotta, e nel regolare le possibili conseguenze. Fondamentalmente, il potere appartiene meno all’ordine dell’affrontamento fra due avversari o all’obbligo di qualcuno verso qualcun altro, che all’ordine del governo67. 66

«Bisogna difendere la società», cit., pp. 45-46, corsivo mio. In «Bisogna difendere la società» Foucault non definisce i termini “potere” e “dominazione”, e talvolta sembra utilizzarli come sinonimi. In un’intervista rilasciata il 20 gennaio 1984, pochi mesi prima della sua scomparsa, definirà invece il dominio come una relazione di potere irrigidita, bloccata, in cui chi agisce il potere riesce a determinare in modo quasi assoluto le azioni di chi lo subisce, non lasciandogli quasi alcuno spazio di libertà. Foucault sosterrà allora che contro il dominio (non contro il potere) la resistenza non può che assumere la forma della lotta di liberazione: cfr. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 275, prima ed. L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in «Concordia. Revista internacional de filosofia», n° 6, luglio-dicembre 1984, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 356. 67 Come si esercita il potere?, in Dreyfus, Hubert, e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, p. 249; prima ed. How is Power Exercised?, in Michel Foucault:

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Già in Sorvegliare e punire (1975), del resto, il nostro autore ha avviato l’analisi della «fabbricazione» e del «governo» dei soggetti nella modernità attraverso la nozione di disciplina. Nell’ultima lezione di «Bisogna difendere la società» (1975-1976), a questa nozione aggiunge quella di biopolitica, che sarà poi ripresa nel libro La volontà di sapere (1976) e nei corsi Sicurezza, territorio, popolazione (1977-1978) e Nascita della biopolitica (1978-1979). L’obiettivo della critica foucaultiana alla teoria della sovranità non è, quindi, incitare alla lotta armata, ma è sostenere l’inadeguatezza del solo diritto come strumento di resistenza alle forme di potere che percorrono le società contemporanee. L’ultimo Foucault reperirà nell’etica le risorse con cui il soggetto può rispondere al governo disciplinare e biopolitico: in particolare, troverà nell’etica stoica della cura di sé un modello di libertà creativa, costruttiva, che non si limita, come sembra limitarsi la morale del barbaro, alla conquista o alla distruzione di ciò che è dato. Nel percorso teorico di Foucault, il capovolgimento della tesi di Clausewitz ha, invece, un significato meramente decostruttivo, e non propositivo: è un affondo contro la teoria contrattualista della sovranità, contro la concezione repressiva del potere che a questa è associata e contro la dottrina dei diritti naturali che ne è il fondamento. Le ricostruzioni di «Bisogna difendere la società» offrono l’esempio di una tradizione alternativa a quel «discorso filosofico-giuridico» della sovranità che le teorie liberali hanno ereditato da Hobbes, ma, a mio avviso, esse non mirano a reperire in questa tradizione una “verità più vera” di quella contenuta in quel discorso. Ne La volontà di sapere, il nostro autore rimprovera, anzi, a quello sviluppo del discorso storico-politico che a suo avviso è la teoria marxista della lotta di classe, di cercare ancora la giustificazione dell’azione rivoluzionaria in un diritto fondamentale – non più inteso come diritto di natura, ma come utopia del compimento della storia. Questo rimprovero può essere esteso a tutta la tradizione del discorso storico-politico, con l’eccezione di Boulainvilliers: poco importa se tale utopia storica è proiettata nel futuro, come la società senza classi del marxismo, o situata in un mitico passato storico, quello dei Sassoni o dei Germani. Il merito di Boulainvilliers è invece, secondo Foucault, quello di aver liberato il discorso storico-politico dalla nozione di diritti fondamentali, sviluppando fino alle estreme conseguenze intuizioni già presenti in levellers e diggers: per Boulainvilliers, l’unico diritto di cui sia possibile fare esperienza – al di là delle falsificazioni della teoria della sovranità – è il diritto positivo, che non appartiene al singolo in virtù della

Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 1983; anche in Dits et écrits, cit., vol II, testo n° 306.

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sua umanità, ma è l’esito di un preciso rapporto di forze68. Utilizzando la terminologia del Weber di Economia e società, si può dire che il Boulainvilliers di Foucault riconduce l’Herrschaft alla Macht, il potere legittimo a quello di fatto: il potere non è mai giustificabile in ultima istanza, contiene sempre dei pericoli, comporta sempre delle ingiustizie che talvolta la legge sancisce. Si potrebbe allora concludere che, di fronte a questo quadro, il compito del governato consapevole dell’artificialità dei propri diritti è, in prima istanza, di difendere i diritti conquistati; in seconda istanza, è di adoperarsi per costruire per sé e per gli altri nuove garanzie – non tentando di sospendere il diritto per impadronirsi del potere, ma utilizzando anche il diritto come strumento di libertà69.

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A dire il vero questa stessa tesi, così formulata, potrebbe essere senza difficoltà attribuita anche a Hobbes, che tuttavia vi perviene attraverso un percorso differente e con tutt’altre finalità e intenzioni. 69 A questo proposito, anche Ottavio Marzocca (Perché il governo: Il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, manifestolibri, 2007, p. 50) sostiene che «Foucault non sottovaluta il problema dei diritti dell’uomo. Piuttosto, egli pensa che questi diritti non siano mai garantiti effettivamente per il solo fatto che esistono delle istituzioni sovranamente deputate a farlo». Già Paolo Napoli (Le arti del vero: Storia, diritto e politica in Michel Foucault, Napoli, La città del sole, 2002, pp. 383-384) aveva osservato: «[Foucault] non ci dice perché, una volta che esistono, le norme vanno anche accettate. Questa reticenza lascia invece il posto a intuizioni folgoranti sul tema opposto, quello dell’“apertura”, dei presupposti effettivi e non trascendentali che consentono di creare ed esercitare dei diritti. La loro genesi non deriva dallo schema di una norma e non preesiste neppure come inconfutabile evidenza antropologica o naturale. La possibilità della storia è la regola dei nuovi diritti, la loro convalida discende dall’equilibrio dei rapporti di forza che li fondano. Prima delle cose ultime, quando tutto è in gioco e la combinazione degli eventi è ancora intatta: a ciò guarda il Foucault “filosofo del diritto”. Ma non per riabilitare l’idea pandettistica di una volontà individuale autonoma e sovrana. Un nuovo diritto emerge perchè si pongono materialmente le condizioni per affermarlo, in un processo che sin dall’inizio è sociale e non si volge, come pretenderebbero le vecchie e nuove “robinsonate” del contrattualismo, a partire da quell’atomo di libertà che ogni individuo rappresenta».

5 Nuove categorie della politica

Negli anni successivi al 1976 Foucault afferma, quindi, risolutamente, che per comprendere i rapporti di potere occorre utilizzare come modello interpretativo non la guerra, ma il governo – categoria con cui, come egli stesso precisa, non intende indicare «le forme legittimamente costituite di assoggettamento politico o economico», bensì «i modi di azione» che agiscono «sulle possibilità di azione di altri individui»1. Nel percorso filosofico di Foucault, l’indagine dei modi di governo degli individui nel mondo moderno ha, del resto, origini remote: essa è inaugurata, infatti, già dall’analisi del “governo dei folli” operata nella Storia della follia (1961). Negli anni settanta, il filosofo francese sviluppa poi questa sua ricerca attraverso quella che chiama microfisica del potere2: studio del potere nella sua funzione di «fabbricazione dei soggetti» – di fabbricazione tanto dalla “corporeità” quanto dell’“interiorità” dei singoli. È allora (nei corsi Il potere psichiatrico e Gli anormali, e nel libro Sorvegliare e punire) che egli utilizza il concetto di potere disciplinare. In un secondo momento, attraverso l’introduzione delle categorie di biopolitica (nel corso «Bisogna difendere la società» e nel libro La volontà di sapere, del 1976) e di governamentalità (nel corso Sicurezza, territorio, popolazione, del 1978) a questa microfisica Foucault affianca un’analisi che, senza perdere di vista l’importanza del dettaglio e l’azione del potere sugli individui, prende in esame il potere amministrativo dello stato sulla società nel suo insieme, sull’intera popolazione intesa come specie vivente. Dopo la microfisica del potere, si potrebbe dire, Foucault elabora allora una macrofisica del potere3. 1

Come si esercita il potere?, in Dreyfus, Hubert, e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989, p. 249, prima ed. How is Power Exercised?, in Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 1983, anche in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, vol. II, testo n° 306. 2 Il termine «microfisica del potere» compare all’inizio della terza parte di Sorvegliare e punire, intitolata Disciplina, ma è stato utilizzato da Foucault già nelle prime lezioni del corso del 1973-1974, Il potere psichiatrico. 3 Nel corso del 1973-1974, Il potere psichiatrico, Foucault utilizza la nozione di macrofisica detrattivamente, per indicare l’analisi del potere operata dalle teorie della sovranità (cfr. Il potere psichiatrico, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 37, prima ed. Le pouvoir psychiatrique, Paris, Seuil-

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In questo capitolo prenderò in esame le categorie elaborate da Foucault con l’intento di proporre un’interpretazione della politica differente da quella offerta dalla teoria della sovranità. Analizzerò dapprima la microfisica foucaultiana del potere, poi la macrofisica e infine le originali letture che, utilizzando queste categorie, il filosofo francese fornisce tanto del totalitarismo quanto del liberalismo del Novecento.

5.1 Microfisica del potere: il potere produttivo delle discipline Nel pensiero foucaultiano la decostruzione del «discorso filosofico-giuridico» della sovranità è propedeutica all’introduzione di una strategia interpretativa che, nello studio dei fenomeni del potere, alle categorie giuridiche di legge e diritto affianca la nozione – mutuata non dalle teorie giuridiche, ma dalle scienze umane – di norma. Nelle teorie giuridiche, la norma (giuridica) è un enunciato che distingue ciò che è lecito da ciò che è illecito; la norma delle scienze umane che Foucault pone al centro delle sue analisi funziona, invece, secondo la contrapposizione di normale e anormale. Già Georges Canguilhem, in Il normale e il patologico4, sosteneva la mancanza di oggettività di ogni definizione di patologia. Per Canguilhem non esistono, in biologia e in medicina, criteri oggettivi e universali per distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è: la normalità è definibile soltanto in relazione all’adattamento di un organismo all’ambiente in cui vive, mentre la patologia è l’incapacità di adattamento, l’assunzione di comportamenti non funzionali alla sopravvivenza in un contesto dato. Proseguendo l’opera di Canguilhem, nei suoi libri e nei suoi corsi Foucault analizza lo sviluppo delle scienze umane – non solo della biologia e della medicina, ma anche della psichiatria, della psicologia, della psicoanalisi, della pedagogia, della criminologia, della sociologia… – ponendolo in relazione all’evoluzione dei rapporti di potere nelle società moderne Gallimard, 2003). In Sorvegliare e punire, la stessa nozione indica, invece, le politiche generali dello stato sulla popolazione e sul territorio, ma non lo studio di queste operato dallo stesso Foucault. Cfr. Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1993, p. 175, prima ed. it. 1976, prima ed. Sourveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975. 4 Canguilhem, Georges, Le normal et le pathologique, Paris, PUF, 1966, trad. it. Il normale e il patologico, Guaraldi, Firenze, 1975. Per comprendere l’importanza di questo testo per la storia dei saperi psicologici, si veda: Actualité de Georges Canguilhem: Le normal et le pathologique. Actes du Xe Colloque de la Société internationale d’histoire de la psychiatrie et de la psychanalyse, (4 décembre 1993) organisé par François Bing, Jean-Fraçois Braunstein, Elisabeth Roudinesco, Le Plessis-Robinson, Institut Synthélabo pour le progrès de la connaissance, 1998. Si veda, inoltre: Le Blanc, Guillaume, Canguilhem et le normes, Paris, PUF, 1998.

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ed esibendo il carattere storico, culturale e sociale dei criteri di normalità da esse elaborati. Nel percorso del pensiero foucaultiano, in concomitanza con il passaggio dalla concezione repressiva alla concezione produttiva del potere, anche la tematizzazione della dialettica normalità-anormalità subisce un aumento di complessità. In un primo tempo, Foucault sostiene che la norma stabilisce linee di demarcazione nette e definite, costruisce steccati invalicabili tra il normale e l’anormale, per isolare quest’ultimo dal corpo sociale; in un secondo tempo, invece, che essa costituisce l’anormalità come minaccia sempre presente per la normalità, come sospetto da cui nessuno è al sicuro. Se nella Storia della follia l’anormalità dei folli è repressa, esclusa, rimossa, rinchiusa, affinché la normalità degli individui razionali non ne sia contaminata, in Sorvegliare e punire e ne La volontà di sapere, l’anormalità dei criminali e dei perversi è «prodotta» come nucleo presente anche negli individui normali, come appiglio che permette la sorveglianza, il controllo, il governo di questi e di quelli. Tra la Storia della follia e Sorvegliare e punire può essere situato il corso del 1973-1974, Il potere psichiatrico, in cui Foucault, pur continuando l’indagine della storia dei manicomi, considera la psichiatria come l’espressione di un dispositivo di potere che investe non gli ospiti di istituzioni isolate, ma l’intera società. Nella Storia della follia5, Foucault descrive come l’imprigionamento della follia trovi un suo antecedente in un’altra esclusione: quella della lebbra. Nel XVII secolo, in Francia i folli sono rinchiusi – assieme ai libertini, ai vagabondi, ai poveri, ai ribelli – negli Hôpitaux généraux: queste istituzioni “caritatevoli”, dove gli anormali vengono “nutriti” e “assistiti”, sorgono spesso tra le stesse mura dei lebbrosari medievali. Come un tempo la lebbra, la follia diviene un’infezione da contenere in istituzioni isolate: per preservare ordine e moralità nel corpo sociale, si creano luoghi deputati a reprimere il disordine. Secondo Foucault, il decreto politico con cui Luigi XIV, il 16 giugno 1676, ha dato avvio al grande internamento, trentacinque anni prima era stato anticipato da un decreto filosofico: la prima delle Meditazioni di Descartes. Secondo il Descartes di Foucault, il soggetto filosofico deve dubitare che i sensi possano indurlo in errore, ma non può spingersi fino ad ipotizzare di inventare o modificare la realtà come fanno i folli, perché «chi

5 Nel paragrafo 3.1 Foucault, Althusser e Marx ho già mostrato come, per il Foucault della Storia della follia, il «potere (repressivo) del re» è «determinato in ultima istanza» dal «potere dell’economia»; nel paragrafo 3.3 Foucault, Lacan e Freud ho messo in evidenza come la follia rappresenti, sempre e solo agli occhi del Foucault di questo libro (che in seguito cambierà opinione), una forza tragica e apocalittica che, pur essendo stata repressa dalla razionalità occidentale, continua a vivere al di sotto di essa.

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ragiona non può essere folle», e sarebbe «stravagante»6 pensare il contrario7. Secondo il Descartes di Foucault, nelle meditazioni di un filosofo non può esservi alcuno spazio per la follia. È, quindi, in un altrove simbolico e concreto che, secondo quanto affermato nella Storia della follia, in età moderna la follia diviene oggetto che si offre allo sguardo della medicina. E, infatti, è all’interno degli Hôpitaux généraux – istituzioni che inizialmente non hanno nulla a che vedere con la scienza medica, e molto a che fare con esigenze d’ordine – che in età rivoluzionaria Pinel, distinguendo i folli dai criminali, 6 «Se i suoi [della follia] pericoli non compromettono né il cammino né l’essenziale della verità, ciò non deriva dal fatto che una certa cosa, perfino nel pensiero di un folle, non può essere falsa; ma dal fatto che io che penso non posso essere folle. Quando io credo di avere un corpo, sono sicuro di possedere una verità più solida di colui che si immagina di avere un corpo di vetro? Certamente, perché “essi sono dei folli, e io non sembrerei meno stravagante di loro se mi regolassi sul loro esempio”». «Se l’uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato» (Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 52 e 53, prima ed. Histoire de la Folie à l’àge classique, Paris, Plon, 1961). Questo il passo della prima meditazione preso in esame da Foucault: «Ma – si dirà – è senz’altro vero che talora i sensi ingannano, per esempio su quel che sia troppo piccolo o troppo distante; ma non perciò si può dubitare di molto altro di cui pure si è informati dai sensi, come, per esempio, che ora io sto qui, seduto accanto al fuoco, con adosso una vestaglia da inverno, maneggio questo foglio di carta su cui vado scrivendo, e così via. E per nessuna ragione si potrebbe mai negare che esistano davvero le mie mani, e tutt’intero questo corpo che è mio, a meno che io non mi consideri simile a certi pazzi che hanno il cervello così sconvolto dai pesanti vapori della bile da sostenere fermamente di essere dei re, mentre sono dei poveracci, o di avere indosso vesti di porpora, mentre sono nudi, o di avere una testa di argilla, o di essere delle zucchine, o fatti di vetro. Ma essi sono dei folli, e io non sembrerei meno stravagante [nec minus ipse demens viderer] di loro, se mi regolassi sul loro esempio» (Descartes, René, Meditazioni metafisiche, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 29, corsivo mio, traduzione leggermente modificata). 7 In una celebre conferenza del 1963, Derrida contesta l’interpretazione foucaultiana del testo di Descartes negando che, nell’economia del dubbio della prima delle Meditazioni metafisiche, tra follia da un lato, e sogno ed errore sensoriale dall’altro sussista l’asimmetria che vi trova Foucault. L’esclusione, in un primo momento, della possibilità della follia, avrebbe soltanto una funzione retorica – la funzione di escludere un’ipotesi che al lettore sembrerebbe di primo acchito inverosimile, “stravagante”. Ma, in un secondo momento, Descartes evocherebbe la possibilità di una follia ancor più radicale: la follia totale rappresentata dal demone maligno: «Il ricorso all’ipotesi del demone maligno finirà per rendere presente, convocare la possibilità di una follia totale, di un impazzimento totale che io non sono in grado di dominare perché mi è inflitto – per ipotesi – e non ne sono più responsabile» (Derrida, Jacques, Cogito e storia della follia, in La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1990 (prima ed. it. Einaudi, 1971), p. 66, prima ed. Cogito et histoire de la folie, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n° 3 e n° 4, 1963, poi in L’écriture et la différence, Paris, Seuil, 1967). Foucault risponde a Derrida otto anni più tardi, accusandolo di essere complice di quella metafisica che egli dichiara di voler decostruire: a proposito di questa discussione, e delle obiezioni che Derrida muoverà a Foucault nel 1991 – questa volta a proposito dell’interpretazione del ruolo di Freud nella storia del pensiero psicologico – si torni alla nota 145 del terzo capitolo.

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e “liberandoli” dalle catene, segna l’atto di nascita della psichiatria. Questa preleva verità dallo spettacolo che l’asilo offre al suo sguardo, e in base a esse stabilisce criteri di normalità che sono criteri di separazione: l’anormalità, eccesso e turbamento nel funzionamento della natura umana, deve essere ospitata in luoghi a essa idonei, dove sia possibile curarla e studiarla. L’analisi della reciproca dipendenza di scienza medica e istituzioni mediche prosegue nella Nascita della clinica dove si estende dalla psichiatria alla medicina in genere, attraverso l’esame della nascita dell’ospedale moderno – luogo di cura per i malati e assieme di formazione e di ricerca per i medici. La novità di Sorvegliare e punire, anticipata nel corso Il potere psichiatrico, risiede nella perdita del carattere di alterità radicale di istituzioni quali l’ospedale e il manicomio: non più considerati luoghi isolati, altri, deputati alla rimozione dell’anormalità, essi sono reinterpretati come elementi di un ben più vasto universo concentrazionario, in cui l’anormalità non è rimossa e repressa, ma anzi è prodotta assieme alla normalità. Se nella Storia della follia lo schema di funzionamento del potere normalizzatore della psichiatria è mutuato dall’isolamento della lebbra nel Medioevo, in Sorvegliare e punire il modello ordinatore delle società disciplinari è fornito dalla città appestata, dove la distinzione tra sani e malati non è che un atto preliminare di una più estesa operazione di gestione della popolazione: nel Seicento, in caso di peste, l’azione dell’amministrazione urbana non si limita alla rimozione dei nuclei d’infezione e alla messa al confine degli individui malati, ma esercita un controllo meticoloso, un esame continuo di ogni cittadino, annotandone le condizioni di salute giorno per giorno. Nella città appestata, ognuno ha un ruolo e un posto assegnati, e tutti sono vincolati alla loro funzione, tanto i sorveglianti, quanto i sorvegliati8. Il sottotitolo di Sorvegliare e punire è Nascita della prigione, ma in questo libro Foucault non racconta la storia di una singola istituzione. La tesi di Foucault è che se, al volgere del XIX secolo, la prigione diventa «la forma essenziale del castigo»9, anche a dispetto di quelli che erano stati i progetti

8 «Il lebbroso è preso in una pratica del rigetto, dell’esilio-clausura; lo si lascia perdervisi come in una massa che poco importa differenziare; gli appestati vengono afferrati in un meticoloso incasellamento tattico, in cui le differenziazioni individuali sono gli effetti costrittivi di un potere che si moltiplica, si articola, si suddivide. La grande reclusione da una parte; il buon addestramento dall’altra. La lebbra e la sua separazione; la peste e le sue ripartizioni. L’una è marchiata; l’altra, analizzata e ripartita. Esiliare il lebbroso e arrestare la peste non comportano lo stesso sogno politico. L’uno è quello di una comunità pura, l’altro quello di una società disciplinata» (Sorvegliare e punire, cit., p. 217). 9 Ivi, p. 124.

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dei riformatori illuministi10, è perché essa è un prodotto – solo uno dei prodotti – di una forma di potere che determina la fisionomia delle società occidentali di quel tempo. A ciò che sono gli istituti penitenziari in campo penale, corrispondono altre istituzioni in altri ambiti: ospedali e manicomi, scuole e collegi, fabbriche e caserme. La ragione che determina in Foucault la scelta del sottotitolo, è che la prigione porta a intensità massima le procedure che si trovano nelle altre istituzioni disciplinari, implicando una presa in carico totale, degli aspetti dell’esistenza (l’educazione, la salute fisica e mentale, il lavoro…) degli individui che ospita tra le proprie mura. Se il modello urbanistico della società disciplinare è offerto dalla città appestata, lo schema architettonico ideale dell’istituzione disciplinare, su cui Foucault si sofferma tanto in Il potere psichiatrico11 quanto in Sorvegliare e punire12, è offerto dal Panopticon di Jeremy Bentham13, edificio progettato per consentire l’esercizio di un controllo capillare, continuo, sicuro, e infatti utilizzato come modello per molti istituti carcerari: Il principio è noto: alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, e in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del contro luce, si possono cogliere dalla torre, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo panoptico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di riconoscere immediatamente. Insomma, il principio della segreta viene rovesciato; o piuttosto delle sue tre funzioni – rinchiudere, privare della luce, nascondere – non si mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. 10 A proposito dei progetti di riforma penale nell’età illuminista, si torni al paragrafo 4.1 Il potere repressivo del sovrano. 11 Cfr. Il potere psichiatrico, cit., pp. 78-84. 12 Cfr. Sorvegliare e punire, cit., pp. 218-219. 13 Il filosofo utilitarista inglese Jeremy Bentham (1748-1832) fu anche giurista e uomo politico, di idee liberali e filantropiche. Propugnò, tra l’altro, riforme del diritto penale ispirate alla idee di Cesare Beccaria. Il suo Panopticon (1791), progetto di un istituto carcerario ideale, fu utilizzato come modello della prima prigione cellulare a Millbank. Del Panopticon Foucault, assieme a Michelle Perrot, ha curato un’edizione critica: la conversazione tra Foucault, Perrot e Jeanne-Pierre Barou, posta a prefazione del libro di Bentham, è presente anche nell’edizione italiana: L’oeil du Pouvoir, in Le Panoptique, Paris, Bellfond, 1977, anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 195, trad. it. L’occhio del potere, in Panopticon, Venezia, Marsilio, 1983.

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La piena luce e lo sguardo di un sorvegliante captano più di quanto facesse l’ombra che, alla fine, proteggeva. La visibilità è una trappola14.

Il sogno del Panopticon è quello di un potere onnipervasivo, capace di avvolgere i singoli in ogni momento della giornata, di regolarne i comportamenti, di dirigerne i movimenti: il potere panottico si esercita con la sicurezza di un “automatismo”, non conosce soluzione di continuità né nello spazio né nel tempo, rende superflue le ritualità del vecchio potere della sovranità. Secondo il nostro autore, questo sogno non è utopico, privo di fondamento storico e di appigli alla realtà, ma vagheggia la realizzazione più piena del potere disciplinare che già si è sovrapposto all’esercizio della sovranità nel tempo in cui Bentham scrive. Nella seconda lezione del corso Il potere psichiatrico, datata 14 novembre 1973, per descrivere il prevalere, nelle società europee del XVIII secolo, del potere disciplinare sul potere sovrano, Foucault riporta la «scena» della follia del re inglese Giorgio III15, raccontata da Pinel nel Traité médico-philosophique (1800). Nel 1788 Giorgio III, in preda alla mania, è preso in cura dal medico Francis Willis16, che gli riserva lo stesso trattamento di qualsiasi altro alienato: allontanato dalla famiglia e dal suo seguito, spogliato dei suoi abiti, il re è rinchiuso in solitudine in una stanza con le pareti e il pavimento rivestite di materassi, e trattato con fermezza e severità. Anche il potere del sovrano è costretto, pertanto, a capitolare davanti a quel potere disciplinare 14

Sorvegliare e punire, cit., p. 218. Bentham diede al suo libro forma epistolare. Nella prima lettera, intitolata Idea del principio d’ispezione, datata «Cracovia, Russia bianca, 1787», si legge: «Poco importa se lo scopo dell’edificio è diverso o anche opposto: sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, istruire quelli che vogliono entrare nei vari settori dell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni: in una parola sia che si tratti delle prigioni a vita, della camera della morte, o di prigioni d’isolamento prima del processo, o penitenziari, o case di correzione, o case di lavoro, o fabbriche, o manicomi, o ospedali, o scuole. È ovvio che, in tutti questi esempi, lo scopo dell’edificio sarà tanto più perfettamente raggiunto se gli individui che devono essere controllati saranno il più assiduamente possibile sotto gli occhi delle persone che devono controllarli. L’ideale, se questo è lo scopo da raggiungere, esigerebbe che ogni individuo fosse in ogni istante in questa condizione. Essendo questo impossibile, il meglio che si possa auspicare è che in ogni istante, avendo motivo di credersi sorvegliato, e non avendo i mezzi di assicurarsi il contrario, creda di esserlo» (Panopticon, cit., pp. 35-37). 15 Giorgio III (1738-1820), re di Gran Bretagna e d’Irlanda, a partire dal 1765 fino alla morte, ebbe numerose crisi nervose, intervallate da periodi di lucidità. 16 Sir Francis Willis (1718-1807), proprietario di un istituto per alienati nel Lincolnshire, il 5 dicembre 1788 fu chiamato dal Parlamento a far parte di una Commissione creata per deliberare attorno alle condizioni di salute del re. Secondo il racconto di Pinel, si occupò di Giorgio III in prima persona, e ne ottenne la guarigione nel marzo 1789.

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che è il potere psichiatrico: per il tempo della sua malattia, Giorgio III, spogliato delle sue insegne regali, diventa un corpo da sottomettere alla ragione medica17. Nel corso del 1973-197418, Foucault reperisce l’origine di questo nuovo potere incurante dei privilegi della monarchia nei regolamenti delle comunità religiose medievali; un anno dopo, in Sorvegliare e punire, descrive come le discipline si siano diffuse nelle società occidentali a partire dal XVI secolo, e le presenta come il lato oscuro del processo di democratizzazione del potere politico in età moderna19. Secondo la descrizione di Foucault, le discipline fabbricano l’individuo moderno (nella forma del cittadino rispettoso delle leggi, ma anche dello studente sottomesso, dell’operaio docile, del soldato valoroso,…) attraverso un meticoloso addestramento finalizzato non a reprimerne le forze, ma al contrario a moltiplicarle, a renderle produttive. Esse agiscono sul corpo dei singoli, ne scompongono i movimenti in piccole unità prive di significato per ricomporli su larga scala (si pensi alla parata militare, o alla catena di montaggio), organizzano la scansione del tempo della vita di ognuno per massimizzarne l’utilizzazione (tempo della formazione, del tirocinio, del mestiere), modellano lo spazio costruendo architetture funzionali all’educazione, alla produzione, alla sorveglianza, alla correzione, alla punizione. Le discipline sono tecnologie del materiale umano: nel loro esercizio la pratica si intreccia alla teoria, il potere al sapere. Sviluppando quanto affermato sul manicomio nella Storia della follia, in Sorvegliare e punire Foucault presenta infatti le istituzioni disciplinari come luoghi in cui non solo si formano, si addestrano, si correggono gli individui, ma anche dove li si osserva, li si classifica, li si suddivide; dove si preleva sapere dai loro corpi, per stabilire e imporre sugli stessi corpi criteri di normalità. Al loro interno hanno origine, secondo Foucault, la medicina, la psicologia, la pedagogia, la psichiatria, la criminologia moderne20. Oggetto di studio di queste scienze umane non 17

«Ecco allora che, al posto dello scettro, della corona, della spada, che avrebbero dovuto rendere visibile e sensibile a tutti gli spettatori la potenza universale del re che comanda sul suo regno, al posto di queste insegne del potere, non ci sono altro che i “materassi” che lo imprigionano e lo riducono, là dove egli si trova, a quello che egli è, vale a dire al suo solo corpo» (Il potere psichiatrico, cit., p. 31). 18 Cfr. ivi, lezione del 28 novembre 1973. 19 Cfr. Sorvegliare e punire, cit., pp. 241-242. 20 Cfr. ivi, p. 244. Già a p. 27 Foucault aveva scritto: «Attraverso l’analisi della dolcezza penale come tecnica del potere, si potrebbe capire, in uno stesso tempo, come l’uomo, l’anima, l’individuo, normale o anormale, sono venuti a porsi accanto al delitto come oggetti dell’intervento penale; e per quale via un modo specifico di assoggettamento ha potuto dare origine all’uomo come oggetto di studio per un discorso “scientifico”. Ma non ho la pretesa si essere il primo ad aver lavorato in questa direzione». In nota Foucault associa il proprio

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è però l’individuo eccezionale, il genio o l’eroe, bensì l’individuo comune, e ancor di più il deviante. Il potere delle discipline, assieme al sapere delle scienze umane, determina quello che Foucault presenta come «il rovesciamento dell’asse politico dell’individualizzazione»: In altre società – di cui il regime feudale non è che un esempio – possiamo dire che l’individualizzazione è massimale dalla parte dove si esercita la sovranità e negli strati superiori del potere. Più vi si è detentori di potenza o di privilegio, più vi si è marcati come individui attraverso rituali, discorsi, rappresentazioni plastiche. [...] In un regime disciplinare, al contrario, l’individualizzazione è discendente: [...] il bambino è più individualizzato dell’adulto, il malato più dell’uomo sano, il pazzo e il delinquente più del normale e del non-delinquente. È verso i primi, in ogni caso, che si rivolgono i meccanismi individualizzanti; e quando si vuole individualizzare l’adulto sano, normale, legalitario è sempre chiedendogli ciò che c’è ancora in lui del bambino, da quale segreta follia egli è abitato, quale crimine fondamentale ha voluto commettere. Tutte le scienze, analisi o pratiche con radice “psico-”, trovano posto in questo rovesciamento storico dei procedimenti di individualizzazione21.

lavoro a quello di Deleuze e Guattari, ma anche a quelli di Robert Castel e Pierre Nora: «In ogni modo, non saprei misurare attraverso riferimenti o citazioni ciò che questo libro deve a G. Deleuze ed al lavoro che egli ha fatto con F. Guattari. Ugualmente, avrei dovuto anche citare, in molte pagine, Psychanalysme di R. Castel, e dire quanto ero debitore a P. Nora» (ibid.). Il testo citato da Foucault è del 1973: Castel, Robert, Le Psychanalysme: L’ordre psychanalytique et le pouvoir, Paris, Maspero, 1973, trad. it. Lo psicanalismo: Psicanalisi e potere, Torino, Einaudi, 1975. Castel, negli anni sessanta è stato collaboratore di Pierre Bourdieu, e ha poi sviluppato, sotto l’influenza di Foucault, una sociologia critica della psichiatria e della psicoanalisi. I suoi debiti teorici verso Foucault sono testimoniati anche dalla sua produzione successiva: L’ordre psychiatrique: L’âge d’or de l’aliénisme, Paris, Minuit, 1976; La gestion des risques: De l’antipsychiatrie à l’après-psychanalyse, Paris, Minuit, 1981; Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi: Entrietens sur la construction de l’individu moderne, Paris, Fayard, 2001. Pierre Nora, assieme a Jacques Le Goff, è considerato uno dei massimi rappresentanti della terza generazione della École des Annales. Già autore di Le français d’Algérie (Paris, Julliard, 1961), nel 1974 Nora ha curato, assieme a Le Goff, l’importante volume Faire de l’histoire (Paris, Gallimard, 1974, trad. it. Fare storia, Torino, Einaudi, 1981). Nel 1984 è poi uscito, sotto la sua direzione, Les lieux de memoire (Paris, Gallimard, 1984). Nora è stato anche direttore di due importanti collane dell’editore Gallimard, la Bibliothèque des sciences humaines e la Bibliothèque des histoires: in quest’ultima collana sono usciti anche la seconda edizione della Storia della Follia, Sorvegliare e punire e i tre volumi della Storia della sessualità. 21 Sorvegliare e punire, cit., p. 211. In Il potere psichiatrico, nella lezione del 28 novembre 1973, a proposito del proliferare di saperi e di pratiche il cui nome inizia con il prefisso “psico-”, Foucault parla di “funzione-Psy”: «Dicendo “funzione”, non intendo riferirmi solamente al discorso, ma anche all’istituzione, e allo stesso individuo psicologico. Mi chiedo, infatti, se non sia per l’appunto questa funzione degli psicologi, degli psicoterapeuti, dei criminologi, degli psicoanalisti, ecc., ovvero quella di fungere, per l’appunto, da agenti dell’organizzazione del dispositivo disciplinare» (Il potere psichiatrico, cit., p. 90).

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Ne La volontà di sapere Foucault prenderà in esame come la produzione dell’individuo perverso sia un fattore di normalizzazione della sessualità di tutti gli individui; in Sorvegliare e punire, invece, si sofferma sull’individualizzazione del delinquente e sulla correlativa diffusione dei controlli della polizia sull’intera popolazione. L’incapacità di correggere e di estinguere la devianza, secondo l’interpretazione del nostro autore, non rappresenta lo scacco della giustizia penale moderna, ed è anzi funzionale all’amministrazione della giustizia penale e alla diffusione dei poteri disciplinari in tutto il corpo sociale: compito delle carceri non è la repressione, ma la produzione della delinquenza22. L’esistenza di una delinquenza localizzata, separata dal resto della società, permette infatti di creare una rete di informatori e delatori ricattabili, elementi di raccordo tra criminalità e polizia, ma soprattutto giustifica la presenza di quest’ultima di fronte alla popolazione libera, rendendone accettabili i controlli, la sorveglianza, le schedature23. Foucault ricostruisce come la fabbricazione della delinquenza avvenga attraverso l’elaborazione di curricula criminali24 e l’istituzione di un legame di causalità tra personalità deviante e infrazione della legge. Per la psichiatria criminale e per la criminologia, la causa di un’azione contro la legge non sta infatti nella libera scelta dell’individuo, ma in un ineliminabile tratto della sua personalità. A un atto criminale ne seguiranno necessariamente altri – la recidiva è congenita – perché la delinquenza è una categoria che non si applica alle azioni, ma all’identità di un soggetto25. Sorvegliare e punire esce nel gennaio del 1975; lo stesso mese Foucault inizia un corso al Collège de France, intitolato Gli anormali. In queste lezioni egli elabora una genealogia del coinvolgimento della psichiatria nelle pratiche giudiziarie, e mette in evidenza come, nell’amministrazione della giustizia,

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Cfr. Sorvegliare e punire, cit., parte IV, cap. II, Illegalismi e delinquenza, pp. 282-323. Cfr. ivi, p. 310. 24 La carriera del delinquente inizia presto, e attraversa differenti apparati carcerari: orfanotrofi, riformatori, prigioni. Bambini, ragazzi, giovani, adulti vengono schedati, classificati, marchiati indelebilmente con segni che ne influenzano il successivo sviluppo, e ne condizionano le azioni future. 25 «Sotto il nome di crimini e di delitti, è vero, si giudicano sempre oggetti giuridici definiti dal codice, ma, nello stesso tempo, si giudicano istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell’ambiente o dell’eredità; si puniscono delle aggressioni, ma attraverso queste delle aggressività; degli stupri, ma nello stesso tempo delle perversioni; degli assassinî che sono anche pulsioni e desideri. […] La perizia psichiatrica, ma in linea più generale l’antropologia criminale e il discorso, sempre ripetuto, della criminologia, esprimono qui una delle loro funzioni specifiche: inscrivendo solennemente le infrazioni nel campo degli oggetti suscettibili di conoscenza scientifica, dare ai meccanismi della punizione legale una presa giustificabile non più semplicemente dalle infrazioni, ma dagli individui; non più da ciò che hanno fatto, ma da ciò che sono, possono essere, saranno» (Sorvegliare e punire, cit., pp. 20-21). 23

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normatività delle scienze umane e normatività giuridica siano distinte, ma anche intrecciate. Proseguendo la ricerca intrapresa nel seminario del 197226 – che ha avuto come esito la pubblicazione del dossier Rivière27 – Foucault prende in esame alcune perizie richieste dalla giustizia francese a psichiatri illustri nel corso dell’Ottocento, ma anche del Novecento, mettendone in luce gli aspetti più grotteschi. Secondo l’articolo 64 del codice penale francese, introdotto nel 1810, non sussiste crimine se non si riscontra capacità di intendere e di volere in chi lo ha commesso; ma secondo il filosofo francese la funzione effettiva della perizia non è tanto di stabilire se il presunto colpevole sia un soggetto responsabile delle proprie azioni, ma di duplicare l’atto criminale – il bersaglio dichiarato della giustizia penale – in un’identità criminale che ne sarebbe la causa28: del presunto reo devono essere valutate non solo la colpevolezza (o l’innocenza), ma anche l’anormalità (o la normalità). La genealogia tracciata da Foucault ricostruisce come la figura dell’individuo pericoloso, del delinquente anormale, oggetto di perizia psichiatrica nell’Ottocento e nel Novecento, si sia costituita a partire da altre tre figure antecedenti, che fino al XIX secolo hanno avuto storie distinte, legate a differenti saperi e istituzioni: il mostro umano29, l’incorreggibile30 e l’onani26 Ogni anno al Collège de France, parallelamente al corso, Foucault teneva anche un seminario avanzato. 27 Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma sœur et mon frère, Paris, Gallimard, 1973, trad. it. Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello, Torino, Einaudi, 1976 (nuova ed. 2000). Il libro contiene il dossier relativo al caso di Pierre Rivière: perizie medico-legali, articoli di giornali dell’epoca, le memorie dello stesso Rivière. Questi era un giovane contadino normanno che, nel 1835, uccise madre, sorella e fratello «al fine di liberare il padre dalle vessazioni della madre». Il dossier è commentato da brevi saggi dello stesso Foucault e dei suoi allievi al seminario di quell’anno (Jeanne-Pierre Peter, Jeanne Favret, Patricia Moulin, Blandine Barret-Kriegel, Philippe Riot, Robert Castel, Alessandro Fontana). 28 Cfr., ad esempio, Gli anormali, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 27 e p. 33. 29 Quella di mostro umano è una nozione che Foucault riconduce all’ambito giuridico-biologico: a partire dal medioevo fino al secolo XIX si applica a quegli individui, oggetti di studio della teratologia, che perturbano le regolarità giuridiche perché violano le leggi biologiche: «la mostruosità esiste solo laddove il disordine della legge naturale viene a toccare, travolgere, mettere in allarme il diritto, che si tratti del diritto civile, del diritto canonico, del diritto religioso» (Gli anormali, cit., p. 64). L’esistenza di mostri umani suscitava, ad esempio, interrogativi come i seguenti: con chi dovrebbe sposarsi un ermafrodita? con un uomo o con una donna? È possibile che solo uno tra due gemelli siamesi abbia commesso un delitto? e se merita la condanna capitale, che cosa occorre fare? Un bambino con sembianze di animale è umano o animale? Deve essere battezzato oppure no? 30 A dire il vero, nonostante nella presentazione e nel riassunto del corso Foucault attribuisca alle tre figure uguale importanza, nelle lezioni il ritratto dell’incorreggibile è appena abbozzato (cfr. Gli anormali, cit., pp. 59-69). Questa figura – di cui si occupa la psicofisiologia – fa la propria comparsa tra il XVI e il XVII secolo, in relazione non agli imperativi della legge, ma

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sta31. Buona parte de Gli anormali, è dedicata alla presentazione di queste figure, attraverso l’esame di un vasto apparato documentario. In relazione al terzo di questi personaggi, in questo corso Foucault, anticipando quanto poi affermerà ne La volontà di sapere, denuncia l’insufficienza del freudomarxismo. L’effetto delle “crociate contro la masturbazione” non è, per il nostro autore, la repressione di un “naturale istinto onanista”, ma piuttosto, l’imposizione di una nuova norma familiare governata dal principio di salute: Avviata con clamore in Inghilterra negli anni intorno al 1710 con la pubblicazione di Onania e proseguita in Germania, tale crociata si scatenerà in Francia intorno al 1760 con il libro di Tissot. La sua ragion d’essere è enigmatica, ma i suoi effetti innumerevoli. L’una e gli altri possono essere determinati solo prendendo in considerazione alcuni dei tratti essenziali di questa campagna. Non sarebbe sufficiente, infatti, vedere in essa – magari in una prospettiva vicina a quella di Reich, che ha ispirato recentemente i lavori di van Ussel – soltanto un processo di repressione legato alle nuove esigenze dell’industrializzazione: corpo produttivo contro corpo del piacere. [...] La crociata contro la masturbazione riflette la trasformazione della famiglia ristretta (genitori, figli) in un nuovo apparato di sapere-potere. La messa in discussione della sessualità del bambino, e di tutte le anomalie di cui sarebbe responsabile, è stato uno dei procedimenti di costituzione di questo nuovo dispositivo. La piccola famiglia incestuosa che caratterizza le nostre società, il minuscolo spazio familiare in cui noi cresciamo e viviamo si è formato appunto qui 32.

alle tecniche disciplinari: incorreggibile è chi resiste all’addestramento delle discipline nelle scuole, nelle fabbriche, nelle caserme. Ogni istituzione disciplinare ha i suoi incorreggibili, e nuove istituzioni sono create per ospitarli: «nascite tecnico-istituzionali della cecità, del sordomutismo, degli imbecilli, dei ritardati, dei nervosi, degli squilibrati» (ivi, p. 289). 31 L’onanista, il bambino masturbatore, è, infine, presentato come un personaggio plasmato dalle teorie della sessualità del XVIII secolo, che ha, però, la sua preistoria nella precettistica per la direzione di coscienza della pastorale cristiana post-tridentina. Nel XVIII secolo viene elaborata una vera e propria “pedagogia della masturbazione” per impedire ai fanciulli di dedicarsi al “piacere proibito”, in cui si riconosce la causa di diverse patologie. 32 Gli anormali, cit., pp. 289-291. È il medico svizzero Samuel Tissot (1728-1797), autore di L’Onanisme, ou Dissertation physique sur les maladies produites par la masturbation (Lousanne, 1760, traduzione dal latino del saggio Tentamen de morbis ex manustupratione, originariamente pubblicato come appendice del libro di Tissot Dissertatio de febribus biliosis, seu Historia epidemiae biliosae Lausannensis, Lousannae, 1758) ad attribuire a un certo “dottor Bekker” il testo Onania or the Heinous Sin of Self-Pollution and All its Frightful Consequences in Both Sexes Considered, with Spiritual and Physical Advise to Those Who Have Already Injur’d Themselves by this Abominable Practice, London, 1716 (?). Il vero autore di Onania è invece, probabilmente, il medico inglese John Marten (1692-1737), il cui nome è legato anche al trattato sulle malattie veneree A Treatise of All the Degrees and Sumptoms of the Venereal Diseases, la cui terza edizione, pubblicata a Londra, è forse databile 1708. L’olandese Jos van Ussel, ispirato in realtà più a Marcuse che a Reich, è autore

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Se un facile marxismo potrebbe interpretare il potere disciplinare come una sovrastruttura determinata dalle esigenze del capitalismo industriale, Foucault presenta l’organizzazione disciplinare come una condizione della pianificazione del lavoro di fabbrica, uno strumento preesistente, poi utilizzato per l’addestramento e il controllo della forza lavoro33. Secondo la ricostruzione del filosofo francese, le discipline, nate all’interno di comunità religiose, si diffondono nelle fabbriche, come nelle scuole e negli eserciti, per processi di imitazione e di osmosi: pervadono la società in modo “spontaneo”, non programmato da alcun macrosoggetto della storia. Solo in un secondo tempo, gradualmente – con un processo che in seguito il nostro autore chiamerà governamentalizzazione – le istituzioni disciplinari saranno sottomesse alla razionalità generale dello stato, diventando suoi apparati. Per cogliere questo processo, l’analisi di Foucault è però costretta a rivolgersi a un diverso ordine di grandezza, operando quel passaggio dalla microfisica alla macrofisica del potere di cui renderò conto nelle prossime pagine.

5.2 Macrofisica del potere: biopolitica, potere pastorale, governamentalità L’ultimo progetto teorico di Foucault, purtroppo rimasto incompiuto, era dedicato alla ricostruzione della Storia della sessualità in occidente. Per il filosofo francese la “sessualità”, lungi dall’essere un dato naturale e sempre uguale a se stesso, è, infatti, un dispositivo di sapere-potere soggetto a mutamento storico. Secondo le sue analisi, a partire dai secoli XVIII-XIX, il dispositivo di sessualità si traduce, ad esempio, in politiche sanitarie volte alla medicalizzazione della famiglia e al controllo psico-fisico della salute dei nascituri: esso svolge pertanto una funzione di raccordo tra i singoli indidi Geschiedenis van het seksuele probleem (Meppel, Boom, 1968), testo tradotto prima in tedesco nel 1970 (Sexualunterdrückung: Geschichte der Sexualfeindschaft, Reinbek bei Hamburg, Rowohlt), poi in italiano nel 1971 (La repressione sessuale, Milano, Bompiani, 1971) e infine in francese nel 1972 (Histoire de la répression sexuelle, Paris, Laffont, 1972). La tesi di van Ussel è che le campagne contro la masturbazione nel XVIII secolo possano essere spiegate in relazione all’ascesa della società capitalista: la sessualità sarebbe stata repressa per trasformare i corpi da strumenti di piacere a strumenti di produzione economica. 33 «La disciplina è il procedimento tecnico unitario per mezzo del quale la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come forza “politica”, e massimalizzata come forza utile. La crescita di un’economia capitalistica ha richiesto la modalità specifica del potere disciplinare, di cui le formule generali, i processi di assoggettamento delle forze e dei corpi, l’“anatomia politica” in una parola, possono venir messe in opera attraverso regimi politici, apparati o istituzioni molto diverse fra loro» (Sorvegliare e punire, cit., p. 241).

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vidui (i genitori, i figli) e la totalità della specie umana. Nell’economia del discorso de La volontà di sapere, l’analisi del dispositivo di sessualità determina pertanto il passaggio dalla dimensione micro alla dimensione macro: dall’analisi dell’azione del potere delle discipline, della confessione e delle scienze umane sul corpo e sull’interiorità dei singoli individui, all’analisi dell’azione del potere dell’amministrazione statale, attraverso la medicina e altre scienze umane, sul corpo dell’intera società. Questo passaggio avviene attraverso l’introduzione di una nuova categoria: quella di biopolitica. L’interesse di Foucault per quei fenomeni che ne La volontà di sapere indica con questa categoria, risale almeno al 1963, anno di pubblicazione della Nascita della clinica. In questo libro, Foucault racconta un momento cruciale della storia della scienza: tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, l’osservazione dei cadaveri e la sperimentazione empirica negli ospedali soppiantano il sapere astratto delle università di medicina. Secondo il nostro autore, l’uomo europeo diviene allora oggetto dello sguardo della medicina moderna. Nasce così la clinica, intesa da Foucault al tempo stesso come teoria, come pratica e come regolamentazione architettonica e giuridica dell’ospedale. Nel testo del 1963, lo sguardo di Foucault mette a fuoco soprattutto quanto avviene nei singoli ospedali: l’evoluzione del sapere medico appare legata essenzialmente alla ristrutturazione di una singola istituzione. Tale ristrutturazione è, però, intrecciata con istanze di potere più ampie, su cui il nostro autore si sofferma con maggiore enfasi nella seconda edizione della Nascita della clinica (1972)34. Foucault ricorda che nel 1776, in Francia, 34

Per un’analisi dettagliata delle differenze tra la prima e la seconda edizione della Nascita della clinica cfr.: Bernauer, James William, Michel Foucault’s Force of Flight: Toward an Ethics for Thought, New Jersey-London, Atlantic Highlands-Humanity Press, 1993, pp. 188-192; Bertani, Mauro, Dopo la Nascita della clinica, postfazione alla Nascita della clinica, Torino, Einaudi, 1998, pp. 227-254. Il 1972 è l’anno in cui esce anche la seconda edizione della Storia della follia, ma mentre in questo caso le differenze tra le due edizioni sono evidenti (una nuova prefazione, due nuove appendici), nel caso della Nascita della clinica aggiunte e revisioni sono disseminate in tutto il testo, e quindi risultano più difficilmente reperibili. Come scrive Bertani (ivi, p. 228): «Buona parte degli innesti effettuati nell’edizione del 1972 rispondono all’esigenza di ricodificare le regole metodologiche e i principi teorici invocati nella Nascita della clinica alla luce della batteria concettuale messa a punto nell’Archeologia del sapere. Di qui viene, ad esempio, il tentativo che Foucault compie di indicare la “formazione discorsiva” – nella Nascita della clinica, dirà, delimitata ancora un po’ alla cieca – la cui “unità complessa” verrà descritta come eccedente la sola teoria scientifica della malattia, delle sue forme, della sua eziologia, della terapeutica, e reperita in un insieme enunciativo “insieme teorico e pratico, descrittivo e istituzionale, analitico e regolamentare”. Della medicina clinica vengono allora indicati, come costitutivi a tutti gli effetti del suo regime di positività, non solo le conoscenze relative al funzionamento del corpo umano, ai suoi correlati anatomo-fisiologici e alle sue alterazioni e perturbazioni attuali e virtuali, ma anche tutta una serie di elementi – “riflessioni politiche,

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fu istituita la Società reale di medicina, centro nazionale di ricerca finalizzato allo studio e alla gestione delle malattie epidemiche35. Da quel momento, in Francia, la gestione della medicina non è più compito dei singoli ospedali, a farsene carico è l’amministrazione statale. Da quel momento, la medicina non si occupa più soltanto dei singoli corpi individuali, ma si rivolge all’intero corpo sociale. Negli anni settanta, la ricerca di Foucault procede nella direzione inaugurata dalla seconda edizione della Nascita della clinica, e, attraverso la categoria di biopolitica, mette in evidenza come l’evoluzione delle discipline mediche nel Settecento e nell’Ottocento sia al tempo stesso esito e causa di una strategia globale di gestione della società da parte del potere amministrativo dello stato. Nel corso del 1973-1974, Il potere psichiatrico, il concetto di “biopolitica” non compare ancora: Foucault lo utilizza per la prima volta in due conferenze tenute nell’ottobre 1974 presso l’Istituto di Medicina sociale dell’Università di Stato di Rio de Janeiro36, per poi darne programmi di riforma, misure legislative, regolamenti amministrativi, considerazioni morali” – che fanno del “discorso clinico” qualcosa di diverso da una scienza [...] per la quale hanno corso i criteri di riconoscimento e demarcazione del vero e del falso». 35 Nel 1968 Foucault afferma: «Se c’è stato effettivamente un legame tra la pratica politica e il discorso medico, non è, mi pare, perché questa pratica abbia mutato prima di tutto la coscienza degli uomini, il loro modo di percepire le cose o di concepire il mondo, poi in fin dei conti la forma della loro coscienza e il contenuto del loro sapere; non è neppure perché questa pratica si sia riflettuta prima, in modo più o meno chiaro e sistematico, in concetti, nozioni o temi che sono stati, in seguito, importati nella medicina; è perché, più direttamente, la pratica politica ha trasformato non il senso, né la forma del discorso, ma le sue condizioni d’emersione, d’inserzione e di funzionamento; essa ha trasformato il modo d’esistenza del discorso medico» (Réponse à une question, in «Esprit», n° 361, mai 1968, pp. 867-868, anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 58, traduzione di Alessandro Fontana, in Introduzione alla Nascita della clinica, cit., p. XXIV). 36 Crisis de un modelo en la medicina? e El nacimiento de la medicina social, in «Revista centroamericana de Ciencias de la Salud», n° 3, 1976 e n° 6, 1977, tradd. itt. Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina? e La nascita della medicina sociale in Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 1997, testi nn. 8 e 9, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testi nn. 170 e 196. In Bíos: Biopolitica e filosofia (Torino, Einaudi, 2004) Roberto Esposito mostra come il termine “biopolitica” fosse presente anche in testi poco noti della trattatistica politica dell’inizio del Novecento (presi in esame nel primo capitolo, intitolato L’enigma della biopolitica), ma a Foucault riconosce il merito di aver “riqualificato” il concetto (p. 3), inaugurando una nuova fase del dibattito filosoficopolitico contemporaneo. Foucault, che dal 1955 al 1958 fu direttore dell’istituto francese di Uppsala (cfr. il paragrafo 3.1, Foucault, Althusser e Marx) potrebbe aver conosciuto i libri dello svedese Rudolf Kjellén: Stormakterna: Konturer kring samtidens storpolitik (Stockholm, Geber, 1905, 19112, 19143), in cui probabilmente per la prima volta nella soria del pensiero compare il termine “biopolitica” (cfr. p. 67 dell’edizione del 1911), e Politiska handböcker: Staten som lifsform (Stockholm, Geber, 1916). A partire dagli anni novanta, il concetto di biopolitica ha conosciuto una grande fortuna: numerosi studiosi hanno trovato in esso un punto di raccordo

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un’elaborazione compiuta nell’ultima lezione di «Bisogna difendere la società» e nell’ultimo capitolo de La volontà di sapere (1976). Delle due formulazioni, la prima è più ampia, ricca di dettagli, come si addice a una lezione davanti a un pubblico, la seconda più sintetica e incisiva, come si addice allo stile di un libro. Non vi sono divergenze interpretative, semmai diverse accentuazioni. «Bisogna difendere la società» si dilunga maggiormente nella definizione e nella descrizione della biopolitica, e nella contrapposizione della presa produttiva che essa esercita sulla vita della popolazione all’azione negativa del potere sovrano sulla vita dei suoi sudditi. La volontà di sapere insiste, invece, maggiormente sulla centralità, tra i biopoteri, del dispositivo di sessualità, e sul rapporto di questo con lo sviluppo del sistema economico capitalista. Nell’anno accademico 1976-1977, Foucault non tiene lezioni al Collège de France. I corsi dei due anni successivi, Sicurezza, territorio, popolazione (19771978) e Nascita della biopolitica (1978-1979), proseguiranno le ricerche avviate nel libro del 197637.

tra la riflessione di Foucault sul potere e quella di Hannah Arendt sui campi di sterminio, e al tempo stesso una categoria interpretativa che permette meglio di altre di comprendere la natura della politica nell’attualità. Una meritata fama ha avuto il saggio di Giorgio Agamben Homo sacer: Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, in cui Foucault e Arendt sono letti assieme a Walter Benjamin e Carl Schmitt. Ma prima ancora occorre ricordare: Haraway, Donna J., The Biopolitics of Postmodern Bodies, in «Differences», n° 1, 1989, trad. it. Biopolitica dei corpi postmoderni, in Ead. Manifesto cyborg. Donne, biotecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995; Fehér, Ferenc e Heller, Agnes, Biopolitcs, Wien, European Center, 1994. E in seguito: Shiva, Vandana, e Moser, Ingunn (edited by), Biopolitics, Bloominghton, Indiana U.P., 1995; Heller, Agnes, Puntscher Riekmann, Sonja, Biopolitics. The Politics of the Body, Race and Nature, Wien, European Center, 1996; Brossat, Alain, L’épreuve du désastre: le XXe siècle et le camps, Paris, Albin Michel, 1996; Hottois, Gilbert, Essais de philosophie bioétique et biopolitique, Paris, Vrin, 1999; Dal Lago, Alessandro, Non-persone, Milano, Feltrinelli, 1999; Esposito, Roberto, Immunitas: Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002; Brossat, Alain, La démocratie immunitaire, Paris, La dispute, 2003; Perticari, Paolo, Biopolitica minore, Roma, manifestolibri, 2003; Bazzicalupo, Laura, Esposito, Roberto (a cura di), Politica della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003; Esposito, Roberto, Bíos: Biopolitica e filosofia, cit.; Amato, Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Milano, Mimesis, 2004; Bazzicalupo, Laura, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 2006. Fondamentali riferimenti alla biopolitica sono presenti anche nei saggi di Antonio Negri e Michael Hardt: Impero: Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002 e Moltitudine: Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli, 2004; e nello studio di Remo Bodei Destini personali: L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002. Si veda, infine, l’antologia a cura di Antonella Cutro, Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, Verona, ombre corte, 2005. 37 Nonostante il titolo del secondo corso, le lezioni di questi anni non sviluppano però tanto una storia della biopolitica, quanto una genealogia di quella che Foucault chiama governamentalità liberale: delle teorie e delle pratiche del liberismo economico e del liberalismo politico.

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Sia nel corso, sia nel libro del 1976, le pratiche della biopolitica sono presentate, dunque, per differenza dal potere della sovranità, simbolizzato da quello che è tradizionalmente considerato un suo attributo fondamentale: il diritto di vita e di morte del sovrano sui sudditi. Ne La volontà di sapere, Foucault ricorda come Pufendorf distingue due modi di tale diritto: il sovrano esercita sui sudditi un diritto di vita e di morte indiretto quando esige che essi partecipino alle guerre ch’egli ritiene necessarie per la sopravvivenza dello stato e la conservazione del proprio potere politico, mentre esercita tale diritto in forma diretta quando uccide i sudditi rei di aver disobbedito alle sue leggi. Hobbes, poi, ipotizza un’origine (una giustificazione) di tale diritto: esso sarebbe «la trasposizione operata a favore del principe del diritto che ciascuno possiederebbe nello stato di natura di difendere la propria vita al prezzo della morte degli altri»38. Ciò che Foucault vuole mettere in luce è il carattere «dissimmetrico»39, «squilibrato»40 di questa prerogativa del potere sovrano, così come è presentata nelle sue formulazioni classiche: il fatto che il diritto di vita e di morte, il potere del sovrano sulla vita dei sudditi, non si esercita in realtà «che a partire dal momento in cui il sovrano può uccidere»41, condannare a morte: Il diritto che si formula come “di vita o di morte” è nei fatti il diritto di far morire o di lasciar vivere. Dopo tutto, era simbolizzato dalla spada. E forse bisogna ricollegare questa forma giuridica a un tipo storico di società in cui il potere si esercitava essenzialmente come istanza di prelievo, meccanismo di sottrazione, diritto di appropriarsi di una parte delle ricchezze, estorsione di prodotti, di beni, di servizi, di lavoro e di sangue, imposti ai sudditi. Il potere era innanzitutto diritto di prendere: sulle cose, il tempo, i corpi e infine la vita; fino a culminare nel privilegio d’impadronirsene per sopprimerla42.

Già in Sorvegliare e punire, come ormai è noto, Foucault sostiene che, a partire dal XVII secolo, nelle società occidentali al potere di prelievo del sovrano si somma il potere di produzione delle discipline che amplifica le forze degli individui addestrandone i corpi; a questo, nel corso e nel libro del 1976, aggiunge che, un secolo più tardi, alle discipline si è sovrapposta un’altra forma di potere che all’azione negativa esercitata del sovrano sulla vita dei sudditi sostituisce un’azione positiva: «si potrebbe dire che al vecchio 38

La volontà di sapere, cit., pp. 119-120. Ivi, p. 120. 40 «Bisogna difendere la società», Milano, Feltrinelli, 1998, p. 270, prima ed. «Il faut défendre la société», Paris, Seuil-Gallimard, 1997. 41 Ibid. 42 La volontà di sapere, cit., p. 120. 39

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diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte»43. Come il potere delle discipline, anche la biopolitica è condizione di possibilità per l’emergere di nuovi oggetti di conoscenza e di nuove forme di sapere. Il correlato della biopolitica non è l’individuo contraente del patto sociale, né il corpo individuale plasmato dalle discipline, ma la popolazione, la massa degli individui intesa biologicamente come specie umana44. La biopolitica, come Foucault la descrive, si occupa di grandi numeri, di fenomeni globali, di eventi aleatori imprevedibili nei dettagli ma che presentano delle costanti quando sono considerati in senso generale e per intervalli di tempo sufficientemente lunghi: la biopolitica, assieme alle scienze mediche, utilizza i metodi della statistica. Il flusso della biopolitica scorre attraverso i grandi canali degli apparati amministrativi dello stato, per diffondersi capillarmente nella società: il suo sviluppo ha a che fare con l’emergere di nuovi problemi, legati alla crescita demografica e all’industrializzazione, che richiedono un governo al tempo stesso dettagliato e particolareggiato di cui il vecchio potere della sovranità era incapace45. In «Bisogna difendere la società», Foucault distingue tre principali ambiti d’intervento della biopolitica. Innanzitutto, essa agisce attraverso l’amministrazione dell’igiene pubblica, ovvero attraverso la medicalizzazione della popolazione e la gestione dei problemi «della riproduzione, della natalità e della morbilità»46. Già nella Nascita della clinica Foucault ha mostrato come, dal XVIII secolo, lo stato si sia organizzato per far fronte alle epidemie, malattie episodiche che colpiscono la popolazione come catastrofi; ora egli sottolinea come, nello 43

Ivi, p. 122. «La teoria del diritto, in fondo, non conosceva altro che l’individuo e la società: l’individuo contraente e il corpo sociale costituito attraverso il contratto volontario o implicito degli individui. Da parte loro, le discipline avevano a che fare praticamente solo con l’individuo e con il suo corpo. In questa nuova tecnologia di potere, invece, non si ha propriamente a che fare con la società (o comunque con il corpo sociale definito dai giuristi), e neppure con l’individuo-corpo. Ciò che appare è un nuovo corpo, un corpo molteplice, un corpo con una quantità, seppur non infinita, comunque innumerevole di teste. Si tratta della nozione di “popolazione”. La biopolitica ha a che fare con la popolazione: ha a che fare con la popolazione in quanto problema al contempo scientifico e politico, come problema biologico e come problema di potere. La popolazione così intesa credo appaia proprio in questo momento» («Bisogna difendere la società», cit., pp. 211-212). Sul significato del concetto di “popolazione” in Foucault si veda lo studio: Pandolfi, Alessandro, La “natura” della popolazione, in Chignola, Sandro (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Verona, ombre corte, 2006. 45 «Alla vecchia meccanica del potere sovrano sfuggivano troppe cose, sia dal basso che dall’alto, sia al livello del dettaglio che al livello della massa» («Bisogna difendere la società», cit., p. 215). 46 Ivi, p. 210. 44

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stesso periodo, lo stato abbia gradualmente iniziato a occuparsi anche delle malattie endemiche, «fattori permanenti [...] di sottrazione delle forze, di diminuzione del tempo del lavoro, di riduzione delle energie»47. In seconda istanza, la biopolitica si applica, a partire dal XIX secolo, ai «problemi degli incidenti, degli infortuni, delle infermità; a quelli delle diverse anomalie; a quelli della vecchiaia»48 in quanto fattori più o meno accidentali, e comunque permanenti, di indebolimento della capacità produttiva della popolazione: la biopolitica, secondo Foucault, è la matrice del welfare state. Il terzo grande asse d’intervento è, infine, legato alla gestione e alla pianificazione dell’ambiente naturale e dell’«ambiente che in qualche modo ha degli effetti di ritorno sulla popolazione, come ambiente che è stato da essa creato»49: ne sono esempi la bonifica delle paludi in quanto cause di malattia, gli studi e gli interventi dell’urbanistica sulla città, la ripianificazione delle campagne. Foucault insiste sulle finalità economiche della biopolitica (garantire la salute della popolazione per assicurare la ricchezza, la produttività, della nazione), ma al tempo stesso ne La volontà di sapere (ripetendo l’operazione svolta a proposito del potere disciplinare in Sorvegliare e punire) prende preventivamente le distanze dall’interpretazione secondo cui la biopolitica potrebbe essere considerata come una sovrastruttura, un’emanazione della struttura economica. Rovesciando lo schema marxista, Foucault afferma che medicalizzazione della popolazione e addestramento dei corpi sono stati non solo e non tanto strumenti, quanto soprattutto condizioni di possibilità dello sviluppo del capitalismo50. Come mostrerò meglio nel prossimo paragrafo, l’introduzione del concetto di biopolitica determina in Foucault un cambio di prospettiva rispetto ad alcune tesi sostenute in Sorvegliare e punire: nel corso del 1975-1976, e poi nei due corsi successivi, le società occidentali contemporanee non sono più presentate come società disciplinari o panoptiche, ma sono descritte come società di sicurezza o di controllo. La biopolitica ha, infatti, un carattere oblativo: essa «difende la società», gestisce la popolazione attraverso la protezione e la cura degli individui. Secondo le ricostruzioni di Foucault, la biopolitica avrebbe ereditato la preoccupazione della chiesa cattolica per la salvezza dell’anima dei suoi fedeli, trasferendola sulla salute del corpo e sul benessere economico: essa avrebbe ereditato cioè, in forma secolarizzata, le funzioni di quello che il filosofo francese chiama potere pastorale. La scienza 47 48 49 50

Ibid. Ibid. Ivi, p. 211. Cfr. La volontà di sapere, cit., pp. 124-125.

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sociale ha spesso presentato la secolarizzazione come fattore determinante della costituzione della modernità: Foucault, come Max Weber, mostra che il processo di modernizzazione intrattiene con la religione rapporti assai complessi. Weber ha sostenuto, contro Marx, che l’etica protestante sia stato uno dei fattori che hanno contribuito alla nascita del capitalismo, evidenziando come il protestantesimo ebbe in Europa l’effetto di diffondere sull’intero corpo sociale quel “rapporto a sé” coltivato un tempo soltanto nelle comunità monastiche51. Procedendo lungo la stessa linea interpretativa, Foucault afferma che nella storia occidentale la secolarizzazione dei contenuti della vita morale sia stata accompagnata dalla generalizzazione di alcune strategie di soggettivazione elaborate dalla cristianità – cattolica e protestante. Il passaggio alla modernità delle società occidentali sarebbe quindi un processo ambivalente, segnato, paradossalmente, tanto dall’indebolimento quanto dal rafforzamento dell’influenza esercitata dall’etica cristiana sulle condotte degli individui e delle comunità52. Già in una conferenza del maggio 1973, tenuta alla Pontificia Università cattolica di Rio de Janeiro53, Foucault fa riferimento all’origine religiosa delle discipline, su cui insiste di nuovo qualche mese dopo, durante il corso Il potere psichiatrico54. Due anni più tardi, in Sorvegliare e punire la suddivisione in celle e il modo di vita dei monasteri sono presentati come precedenti storici dell’organizzazione dello spazio e del tempo delle istituzioni disciplinari; molti sono poi i riferimenti alla pastorale della Controriforma ne La volontà di sapere. Il tema del potere pastorale viene però pienamente sviluppato soltanto nel corso Sicurezza, territorio, popolazione55, in due conferenze tenute nell’aprile 1978 a Tokyo, Sessualità e potere56 e La filosofia analitica della poli51 Sul pensiero di Max Weber, e in particolare sulla sua analisi del protestantesimo, si vedano, almeno, gli studi di Gianfranco Poggi: Calvinismo e spirito del capitalismo: Contesti della tesi di Weber, Bologna, il Mulino, 1984; e Incontro con Max Weber, Bologna, il Mulino, 2004. 52 Un confronto tra le interpretazioni della modernità fornite da Foucault e da Weber, e una ricostruzione dei debiti del primo verso il secondo si trova, ad esempio, nei saggi: Owen, David, Maturity and Modernity: Nietzsche, Weber, Foucault and the Ambivalence of Reason, LondonNew York, Routledge, 1994; Szakolczai, Arpád, Max Weber and Michel Foucault. Parallel LifeWorks, London, Routledge, 1998. 53 A vertade e as formas juridicas, in «Cadernos da P.U.C.», n° 16, 1974, anche in Dits et écrits, cit., vol. I, testo n° 139, trad. it. La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2, cit., testo n° 4. 54 Cit., lezione del 28 novembre 1973. 55 All’analisi del potere pastorale sono dedicate le lezioni dell’8, del 15 e del 22 febbraio 1978, in Sicurezza, territorio, popolazione, cit. 56 Conferenza all’università di Tokyo del 20 aprile 1978: prima ed. Sei to Kenryoku, in «Gendai-shiso», luglio 1978, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 233, trad. it. Sessualità e potere, in Archivio Foucault 3, Milano, Feltrinelli, 1998, testo n° 5.

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tica57, e in un seminario tenuto nell’ottobre 1979 alla Stanford University, «Omnes et singulatim»58. Foucault sintetizza infine le sue riflessioni su questo argomento nella postfazione che scrive nel 1982 per lo studio che Dreyfus e Rabinow hanno dedicato al suo pensiero59. Si tratta di un tema originale e derivato al tempo stesso, che Foucault elabora a partire da un’intuizione nietzscheana. Nel pensiero di Nietzsche, il «prete asceta» è colui che muta la direzione del risentimento dei fedeli: vincolando ogni singola pecora fedele a una verità che può emergere solo attraverso la sua mediazione, il «prete asceta» la lega a sé, e contemporaneamente all’intero gregge60. Analoga è l’azione del potere pastorale descritto da Foucault: azione totalizzante, governo della popolazione, e individualizzante, governo dei singoli, al tempo stesso. Il pastore – è questo che caratterizza il suo potere – veglia sul gregge prendendosi cura dei singoli capi ad uno ad uno: così ne plasma le interiorità, e assieme crea la comunità. Nel 1982 Foucault descrive nei seguenti termini il potere pastorale che lo stato moderno avrebbe ereditato dalla cristianità: Questa forma di potere è rivolta verso la salvezza (a differenza del potere politico), è oblativa (in opposizione al principio di sovranità); è individualizzante (in opposizione al potere legale); è coestensiva a tutta quanta la vita e la pervade interamente; è legata a una produzione di verità – la verità dell’in57

Conferenza tenuta il 27 aprile 1978 all’Asahi Kodo, centro di conferenze di Tokyo: prima ed. Gendai no Kenryoku wo tou, in «Asahi Jaanaru», 2 giugno 1978, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 232, trad. it. La filosofia analitica della politica, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 4. 58 Seminario in due lezioni alla Stanford University, tenuto il 10 e il 16 ottobre 1979: prima ed. «Omnes et singulatim»: Towards a Criticism of Political Reason, in McMurrin, Sterling (edited by), The Tanner Lectures on Human Values, Salt Lake City, The University of Utah Press, 1981, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 291, trad. it. Omnes et singulatim: Verso una critica della ragione politica, in Biopolitica e liberalismo, Milano, Medusa, 2001. 59 Why Study Power: The Question of the Subject, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 1982, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 306, trad. it. Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in La ricerca di Michel Foucault, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989. 60 Nella Genealogia della morale, Nietzsche descrive il rapporto del «prete asceta» con i fedeli con queste parole: «“Io soffro: qualcuno deve averne colpa” – così pensa ogni pecora malaticcia. Ma il suo pastore, il prete asceta, le risponde: “Bene così, la mia pecora! Qualcuno deve averne la colpa: ma sei tu stessa questo qualcuno, sei unicamente tu ad averne la colpa – sei unicamente tu ad aver colpa di te stessa! ”… Questo è abbastanza temerario, abbastanza falso: ma se non altro una cosa in tal modo è raggiunta, in tal modo come si è detto la direzione del ressentiment… è mutata» (Nietzsche, Friedrich, Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1996, p. 122). Per una ricognizione dell’interpretazione foucaultiana del potere pastorale che tenga conto dei debiti contratti dal filosofo francese verso Nietzsche, di veda: Pandolfi, Alessandro, Potere pastorale e teologia politica nel pensiero di Michel Foucault, in «Il pensiero politico», n° 2, 1999 (soprattutto pp. 230-232).

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dividuo stesso. […] Intorno al XVIII secolo, ha avuto luogo un importante fenomeno; vi è stata una nuova distribuzione, una nuova organizzazione di questo tipo di potere individualizzante. Non credo che si debba considerare lo stato moderno come un’entità che si è sviluppata al di sopra degli individui, ignorando ciò che essi sono e addirittura la loro stessa esistenza; ma al contrario, come una struttura estremamente complessa, in cui gli individui possono essere integrati, alla condizione che a questa individualità venga attribuita una forma nuova, e che essa venga sottomessa a un insieme di modelli specifici. In un certo senso, è possibile considerare lo stato come una matrice moderna dell’individualizzazione, o come una nuova forma di potere pastorale61.

Per contrapporsi a chi spiega il funzionamento dello stato moderno attraverso la sola categoria della sovranità statale, Foucault prende in considerazione le funzioni pastorali dello stato. Al sovrano che regna sul proprio territorio e chiede ai sudditi prestazioni occasionali di diversa entità, fino al sacrificio della loro vita per la propria salvezza, il filosofo francese sovrappone il pastore che governa la popolazione vegliando sui singoli ininterrottamente per tutta la durata delle loro vite, e che è disposto a sacrificare la propria vita per la loro salvezza. Questo potere sacrificale, accondiscendente e comprensivo, è in grado di rendere docili gli animi e di perpetuare l’obbedienza. Venendo in contatto con le verità del proprio sé – prima attraverso la confessione, poi attraverso la scienze umane –, gli individui non possono che desiderare il proprio bene, che solo il pastore sa indicare loro: in questo modo la salvezza di ognuno, in nome della quale il pastore è disposto all’estremo sacrificio di sé, diventa obbligatoria, e l’obbedienza al pastore diventa assoluta, un fine in sé62. Tanto le lezioni del 15 e del 22 febbraio 1978 (del corso Sicurezza, territorio, popolazione), quanto la prima lezione del seminario del 1979 a Stanford presentano il potere pastorale come una novità apportata nel mondo occidentale dal cristianesimo. Foucault sostiene, infatti, che Greci e Romani non erano soliti, per simbolizzare il potere politico, utilizzare la metafora del pastore, che era invece diffusa nella letteratura politica delle società

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Perché studiare il potere: la questione del soggetto, cit., p. 243. «In fondo, nell’antichità greca e romana, l’idea di pretendere da qualcuno un’ubbidienza totale, assoluta e incondizionata nei confronti di qualcun altro era impensabile. […] Nel cristianesimo il merito assoluto sta proprio nel fatto di essere ubbidienti. L’ubbidienza deve condurre allo stato di ubbidienza. Restare ubbidienti è la condizione fondamentale di tutte le altre virtù. Essere ubbidienti nei confronti di chi? Nei confronti del pastore» (Sessualità e potere, cit., p. 124). 62

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orientali antiche: in Egitto, Assiria63, Giudea64. Alcuni testi pitagorici, però, la contenevano, ed è forse per questo, ipotizza il nostro autore, che Platone nel Politico65 discute a lungo se il pastore sia o meno una figura adeguata a rappresentare chi guida la polis. La risposta è negativa. Per Platone, nell’età dell’oro l’umanità era guidata da un pastore, che era Crono, «la divinità in persona»66: ma allora non esisteva attività politica67. In quei tempi difficili che sono il presente dell’umanità, in cui la politica è diventata necessaria, il contadino, il medico, il maestro di ginnastica, il pedagogo sono paragonabili a pastori, ma non il politico: quelli, infatti, e non lui, nutrono, curano, istruiscono i cittadini. Secondo Platone, il politico è piuttosto paragonabile a un tessitore: egli non si trova «al di sopra del gregge, così come gli dei erano al di sopra dell’umanità»68 e il suo compito, all’interno della polis di cui è parte, è quello di assicurarne l’unità intrecciando armonicamente i differenti temperamenti dei cittadini69. A introdurre la tematica pastorale in 63 Nell’Iliade e nell’Odissea «pastore dei popoli» è in realtà un epiteto utilizzato di frequente per indicare il monarca, in special modo Agamennone; secondo Foucault si tratta semplicemente di una «denominazione rituale» che accomuna i poemi omerici a tutta la letteratura indoeuropea e assira arcaica. Cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 106. 64 «In linea di massima, possiamo dire che la metafora del gregge è assente dai grandi testi politici greci e romani. Le cose stanno diversamente nel caso delle società orientali antiche, in Egitto, in Assiria, in Giudea. Il faraone d’Egitto era un pastore. Il giorno della sua incoronazione riceveva ritualmente il bastone del pastore; quello di “pastore degli uomini” era uno dei titoli del monarca di Babilonia. Ma anche Dio era un pastore che conduceva gli uomini al loro pascolo e provvedeva al loro nutrimento. Un inno egizio invocava Ra in questo modo: “O Ra che vegli quando tutti gli uomini dormono, Tu che cerchi ciò che è buono per il tuo Armento…” [...] Ma, come sappiamo, furono gli Ebrei che svilupparono e amplificarono il tema pastorale – con, nondimeno, una caratteristica molto singolare: Dio, e solo Dio, è il pastore del suo popolo. C’è una sola eccezione positiva: David, come fondatore della monarchia, è il solo ad essere invocato con il nome di pastore. Dio gli ha affidato la missione di radunare un gregge» (Omnes et singulatim, cit., pp. 112-113; i riferimenti sono all’inno ad Amon-Ra, del 1430 a.C., e al Salmo LXXVIII, 70-72). 65 Foucault ricorda come, oltre che nel Politico, la metafora del pastore è presente anche nel Crizia (per indicare il governo degli dei sugli uomini dell’età dell’oro), nella Repubblica (con riferimento alla tradizione pitagorica) e nelle Leggi (per indicare i funzionari, e non i “politici” in senso proprio). Cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 108-109. 66 Così Platone descrive l’età di Crono: «Dio in persona era il pastore e sorvegliante, come oggi gli uomini, poiché sono un genere di viventi diverso dagli altri e più divino, pascolano le altre specie animali a loro inferiori. Quando egli era pastore non esistevano poleis…» (Politico, 271 E - 272 A). 67 «La politica inizia pertanto quando finisce questa prima epoca felice in cui il mondo ruota nel senso giusto. Quando il mondo comincia a ruotare all’incontrario, la divinità si ritira e giungono i tempi difficili» (Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 113). 68 Ibid. 69 Cfr. Politico, 305 E e 310 E-311 A.

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occidente, traendola dalla tradizione ebraica per darle un senso nuovo, fu la letteratura cristiana dei primi secoli: Foucault nomina Giovanni Crisostomo, Cipriano, Ambrogio, Girolamo, Cassiano, Benedetto e sottolinea come Gregorio di Nazianzo abbia per primo definito l’arte di governare gli uomini mediante il pastorato come «arte delle arti», «scienza delle scienze» – epiteti tradizionalmente riservati alla filosofia70. Se, nella cultura ebraica, il titolo di pastore è attribuibile quasi esclusivamente a Dio, in questi autori è la guida spirituale della comunità cristiana a meritarlo, esercitando il proprio potere attraverso l’esame e la direzione di coscienza. Da questo momento in poi, la storia del potere pastorale si intreccia con quella della confessione, a cui Foucault ha già dedicato molte pagine ne La volontà di sapere, e che riprende sinteticamente nella lezione del 1° marzo 1978. Nelle lezioni successive di Sicurezza, territorio, popolazione, nella seconda lezione del seminario di Stanford, e nel corso del 1978-1979, Nascita della biopolitica, Foucault racconta poi come il potere pastorale, dopo essersi sviluppato all’interno delle comunità monastiche medievali, abbia conosciuto una seconda esistenza e una maggiore diffusione con la nascita e lo sviluppo dello stato moderno. Nella postfazione del 1982 espone sinteticamente questa estensione del potere pastorale sulle società moderne come un processo di secolarizzazione dei contenuti (dalla salvezza ultraterrena alla sicurezza e al benessere su questa terra), di moltiplicazione delle agenzie pastorali pubbliche e private (polizia, sanità, associazioni di assistenza...) e dei funzionari-pastori (poliziotti, medici, psichiatri, educatori...), di proliferazione dei saperi pastorali rivolti alla popolazione e agli individui (statistica, economia, medicina...)71.

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«Questa espressione va intesa non solo come principio fondamentale, bensì nel suo taglio polemico, perché prima di Gregorio di Nazianzo, che cos’erano l’ars artium, la technè technôn, l’epistemè epistemôn? Erano la filosofia. Infatti, ben prima del XVII e XVIII secolo, l’ars artium, che nell’occidente cristiano prese il posto della filosofia, non era un’altra filosofia, e neppure la teologia, bensì la pastorale. Era l’arte con cui si insegnava a governare gli altri, e si insegnava agli altri a farsi governare. Questo gioco del governo degli uni da parte degli altri, del governo quotidiano, del governo pastorale, è stato considerato per quindici secoli come la scienza per eccellenza, l’arte di tutte le arti, il sapere di tutti i saperi» (Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 118). Cfr. Gregorio di Nazianzo, Tutte le orazioni, Bompiani, Milano, 2000, p. 19. 71 «Una delle conseguenze è stata che il potere pastorale, il quale per più di un millennio era stato legato a una particolare istituzione religiosa, si diffuse improvvisamente all’intero corpo sociale, trovando sostegno in una moltitudine di istituzioni. E al posto di un potere pastorale e di un potere politico, più o meno legati tra di loro, più o meno antagonisti, si vide lo sviluppo di una tattica individualizzante che caratterizzava una serie di poteri: quelli della famiglia, della medicina, della psichiatria, dell’educazione, dei padroni» (Perché studiare il potere: la questione del soggetto, cit., p. 242).

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Nella lezione del 1° febbraio 197872, per indicare il volto assunto dal potere pastorale nel mondo moderno Foucault conia un neologismo: governamentalità. Con questa categoria, egli fa riferimento tanto al potere amministrativo dello stato, quanto al processo storico della sua costituzione: Con la parola “governamentalità” intendo tre cose: [Primo] l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale di sapere, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale. Secondo, per “governamentalità” intendo la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di questo tipo di potere, che chiamiamo “governo”, su tutti gli altri – sovranità, disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato, di una serie di apparati specifici di governo e, [dall’altro,] di una serie di saperi. Infine, per “governamentalità” bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo, mediante il quale lo stato di giustizia del Medioevo, divenuto stato amministrativo nel corso del XV e XVI sec., si è trovato gradualmente “governamentalizzato”73.

Attraverso un processo di progressiva «governamentalizzazione», secondo la ricostruzione di Foucault, lo «stato di giustizia» dell’età feudale si sarebbe progressivamente evoluto in «stato di governo», il cui funzionamento sarebbe caratterizzato da una razionalità economica e dalla gestione della popolazione mediante dispositivi di sicurezza74. Nella teoria politica, a questo processo si sarebbe accompagnato, dal XVI al XVIII secolo, lo sviluppo di un nuovo genere letterario: fioriscono, infatti, trattati che non hanno più la forma di «consigli al principe», come quelli di certa letteratura politica medievale e rinascimentale, ma che sviluppano il tema dell’arte di governare. Come esempio di questa nuova letteratura, Foucault prende in esame il testo di Guillaume de La Perrière75 Le Miroir politique (1555) diretto 72 Già pubblicata con il titolo La “governamentalità”, in «aut-aut», nn. 167-168, settembredicembre 1978, ora anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 239, e in Sicurezza, territorio, popolazione, cit. 73 Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 88. 74 Cfr. ivi, p. 89. 75 Nato a Tolosa, Guillaume de La Perrière (1499-1565?) fu poeta, storico e scrittore politico. Il titolo completo del testo che Foucault prende in esame è Le Miroir politique, contenant diverses manieres de gouverner & policer les republiques, qui sont, & ont esté par cy devant, Paris, 1567. Il testo ebbe una prima edizione con un titolo differente: Le miroir politique: oeuvre non moins utile que nécessaire à tous monarches, roys, princes, seigneurs, magistrats, et autres surintendants et gouverneurs de Républiques, Lyon, 1555. Su La Perrière si vedano almeno, in italiano, gli studi di Enzo Sciacca: Forme di governo e forma della società nel Miroir Politique di Guillaume de La Perrière, in

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contro Il Principe di Machiavelli. Quest’ultimo testo, in questa lezione, è interpretato attraverso lo sguardo della letteratura anti-machiavelliana dei secoli XVI e XVII, e quindi associato da Foucault alla teoria della sovranità per «il rapporto di singolarità esteriorità e trascendenza» che il principe machiavelliano intratterrebbe con il suo principato76. Secondo Foucault, il testo di La Perrière dimostra, invece, l’emergenza, fin dal XVI secolo, di un pensiero che riconosce la complessità delle funzioni del governo politico e le relazioni profonde che intercorrono tra stato e società civile, tra vita politica della collettività e vita privata dei cittadini. Se nel Principe di Machiavelli la “sovranità” ha un fine “circolare”, il mantenimento di sé stessa – il Segretario fiorentino intende, infatti, insegnare al principe come conquistare e come mantenere il potere –, La Perrière riconosce, invece, come fini del potere politico non l’obbedienza dei sudditi, ma la sicurezza, la salute, la prosperità e la ricchezza della popolazione. Egli è pertanto, secondo Foucault, uno dei primi teorici della governamentalità moderna77. Nelle lezioni conclusive del corso Sicurezza, territorio, popolazione, tenute con cadenza settimanale dall’8 marzo al 5 aprile 1978, riassunte nella seconda lezione del seminario del 1979 a Stanford, Foucault prende in esame testi successivi a Le Miroir politique, che considera ulteriori esempi di teorizzazione politica non assimilabile alla teoria della sovranità, e quindi testimonianze del processo di governamentalizzazione dello stato moderno. Si tratta di due «Il pensiero politico», XXII, 1989; Governo e società nel pensiero politico di Guillaume La Perrière, in Id., Principati e repubbliche: Machiavelli, le forme politiche e il pensiero francese del Cinquecento, Firenze, centro editoriale toscano, 2005. 76 Cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 73. Lo stesso Foucault esprime dubbi su questa interpretazione del pensiero di Machiavelli: «Prendiamo allora questa letteratura [...]. Che cosa ci troviamo? Certo, non manca la rappresentazione negativa e vuota di Machiavelli, che viene presentato in maniera avversa per giustificare ciò che si ha da dire. Ma in che modo questo principe, più o meno ricostruito, viene caratterizzato dalla letteratura – non affronto ovviamente il problema di sapere in che misura corrisponda al Principe di Machiavelli –, questo principe contro il quale ci si batte e si vuole sostenere qualcosa?» (ibid., corsivo mio). 77 «Il fine della sovranità è circolare, perché rinvia all’esercizio stesso della sovranità. Il bene è l’obbedienza alla legge e perciò il bene che la sovranità persegue è l’obbedienza degli uomini alla sovranità. Circolarità essenziale che, qualunque sia la struttura teorica, la giustificazione morale o gli effetti pratici, non è poi così distante da quanto affermava Machiavelli [...]. Nella nuova definizione di La Perrière, nel suo tentativo di definire il governo, credo invece che si possa intravedere un nuovo tipo di finalità. Egli definisce il governo come una maniera retta di disporre le cose per indirizzarle non verso la forma del “bene comune”, come dicevano i giuristi, ma verso un “fine conveniente” per ognuna delle cose da governare. E ciò implica immediatamente una pluralità di fini specifici. Per esempio, il governo dovrà adoperarsi per produrre più ricchezza possibile, per fornire agli individui sufficienti mezzi di sussistenza, o addirittura tutti i mezzi di sussistenza possibili, in maniera da permettere alla popolazione di moltiplicarsi» (ivi, p. 80).

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insiemi di dottrine: le teorie tardo cinquecentesche e secentesche della ragion di stato di Giovanni Botero (Della Ragione di stato, 1589), Giovanni Antonio Palazzo (Discorso del governo e della ragione vera di Stato, 1604-1606) e Bogislaus Philipp von Chemnitz (Dissertatio de ratione status in imperio nostro Romano-Germanico, 1640?)78, e la Polizeiwissenschaft sviluppata nel Settecento da Johann Heinrich Gottlob von Justi (Grundsätze der Policey-Wissenschaft, 1756), Johan Peter Willebrandt (Abrégé de la police, accompagné de réflexions sur l’accroissement des villes, 1765), Peter Carl Wilhelm von Hohenthal (Liber de politia, adspersis observationibus de causarum politiae et justitiae differentiis, 1776)79, a cui Foucault associa anche il Traité de la police (1705-1738) di Nicolas de La Mare80, cronologicamente anteriore, a testimonianza del fatto che il problema della polizia non è stato, nel Settecento, una specificità tedesca. Riprendendo alcune tesi del classico studio di Friedrich Meinecke del 192481, Foucault insiste sul fatto che le dottrine della ragion di stato, ponendo la questione della razionalità del governo, «rompono» con le tradizionali ricerche sulla legittimità e la giustiza del potere politico82: l’arte del governo è razionale 78 Giovanni Botero (1544-1617) studiò nel collegio romano dei Gesuiti, divenne sacerdote nel 1572, e lasciò l’ordine dei Gesuiti nel 1579. Fu segretario della curia vescovile di Milano, e precettore dei figli di Emanuele I a Torino. Giovanni Antonio Palazzo visse a Napoli alla fine del XVI secolo; fu segretario di Fabrizio di Sangro, signore di Vietri. Bogislaus Philipp von Chemnitz (1605-1678), ufficiale nell’esercito svedese dal 1830, nel 1644 fu nominato storico di corte dalla regina Cristina. I testi di questi autori erano rivolti contro il pensiero di Machiavelli, e sostenevano la necessità di un compromesso tra politica e morale. 79 La Polizeiwissenschaft costituiva una materia d’insegnamento universitario di scienza dell’amministrazione (o cameralistica), con cui venivano formati i funzionari prussiani. Joan Heinrich Gottlob von Justi (1717-1771), segretario privato, avvocato e consigliere presso la duchessa di Sassonia, dal 1751 insegnò retorica e cameralistica a Vienna. Johan Peter Willebrandt (1719-1789?), fu Polizeidirektor a Lubecca, ma si dimise da tale incarico e negli ultimi anni della vita si ritirò a vita privata. Peter Carl Wilhelm von Hohenthal (1754-1825) nel 1800 divenne presidente della Corte d’appello di Dresda, nel 1807 Konferenzminister nella stessa città. 80 Nicolas de La Mare (1639-1723), decano dei commissari dello chatelet sotto il regno di Luigi XIV. 81 Meinecke, Friedrich, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, Berlin, Oldenburg, 1924, trad. it. L’idea della Ragion di Stato nella storia moderna, Firenze, Sansoni, 1970. Friedrich Meinecke (1862-1954), uno dei maggiori storici tedeschi della sua generazione, nel 1934 fu costretto ad abbandonare la presidenza della Commissione storica del Reich, che ricopriva dal 1928, per pressione dei nazionalsocialisti; e un anno dopo dovette interrompere la pubblicazione della «Historische Zeitschrift». Dopo il 1945 divenne un simbolo del rinnovamento delle scienze storiche tedesche, e nel 1948 fu nominato rettore dell’appena fondata Freie Universität Berlin. 82 «L’arte del governare è razionale, se la riflessione la induce a osservare la natura di ciò che viene governato – in questo caso, lo stato. Ora, formulare una tale banalità significa rompere con una tradizione al tempo stesso cristiana e giudiziaria, una tradizione che esigeva che il governo fosse essenzialmente giusto» (Omnes et singulatim, cit., p. 132).

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non quando segue leggi divine o naturali, ma quando persegue la potenza dello stato. Le dottrine della ragion di stato, secondo il filosofo francese, quando affrontano il problema delle relazioni internazionali danno vita ad articolate riflessioni sugli apparati diplomatici e militari, nella sfera economica si traducono nelle dottrine mercantilistiche83 e, per quanto riguarda la politica interna, si declinano, infine, nelle teorie dello stato di polizia84. La Polizeiwissenschaft è, infatti, il tentativo di analizzare i processi di crescita della popolazione e di intervenire su di essi al fine di realizzare e mantenere la potenza dello stato: nei manuali settecenteschi di Polizeiwissenschaft, il termine “polizia” indica non «un’istituzione o un meccanismo che funziona all’interno dello stato, ma una tecnica di governo propria dello stato»85. Oggetto di questa tecnica è la totalità della vita sociale di una nazione: la religione, la moralità, la salute, l’alimentazione, l’ambiente, la sicurezza dalle calamità naturali e dagli infortuni, la gestione del tempo libero, l’amministrazione della giustizia. In particolare il testo di von Justi, che secondo Foucault rappresenta la formulazione più avanzata della Polizeiwissenschaft, distingue tra le funzioni della Politik e quelle della Polizei: le prime sono quelle che si

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Foucault effettua un confronto tra le dottrine mercantilistiche e quelle fisiocratiche riguardo alla politica dei grani all’inizio di Sicurezza, territorio, popolazione, il 18 e il 25 gennaio 1978, e lo riprende poi nell’ultima lezione dello stesso corso, il 5 aprile 1978 e all’inizio di Nascita della biopolitica, nelle lezioni del 10, del 17 e del 24 gennaio 1979. 84 Come suggerisce il curatore di Sicurezza, territorio, popolazione Michel Senellart, oltre agli studi di Meinecke, Foucault avrebbe potuto conoscere il testo di Pierangelo Schiera, divenuto ormai classico anch’esso, Il cameralismo e l’assolutismo tedesco: Dall’arte di governo alle scienze dello stato, Milano, Giuffré, 1968. La pubblicazione sulla rivista «aut-aut», nn. 167-168, 1978, di un estratto della lezione di Foucault del 1° febbraio 1978, con il titolo La “governamentalità”, ha contribuito alla rinascita dell’interesse per le Polizeiwissenschaften e per le teorie della ragion di stato. Già in quel numero di «aut-aut» comparvero tre articoli di giovani ricercatori italiani vicini a Foucault (Fontana, Alessandro, Dall’oggetto “polizia” al piano di guerra; Pasquino, Pasquale, Theatrum politicum. La genealogia del capitale – la “polizia” e lo stato di prosperità; Procacci, Giovanna, L’economia sociale e il governo della miseria); nei decenni successivi le pubblicazioni sull’argomento hanno avuto una vera e propria proliferazione. Si vedano, a titolo di esempi: Stolleis, Michael, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland: Reichspublizistik und Policeywissenschaft 1�00-1800, Beck, München, 1988; Senellart, Michel, Machiavélisme et raison d’état: XVIIe et XVIIe siècle, Paris, PUF, 1989; Scattola, Merio, La nascita delle scienze dello stato: August Ludwig Schlozer (1735-1809) e le discipline politiche del Settecento tedesco, Milano, FrancoAngeli, 1994; Senellart, Michel, Les arts de gouverner: Du régimén medieval au concept de gouvernement, Paris, Seuil, 1995; Borrelli, Gianfranco (a cura di), Prudenza civile, bene comune, guerra giusta: Percorsi della ragion di Stato tra Seicento e Settecento, Napoli, Archivio della ragion di Stato-Adarte, 1999; Scattola, Merio, Dalla virtù alla scienza: La fondazione e la trasformazione della disciplina politica nell’età moderna, Milano, FrancoAngeli, 2003; Napoli, Paolo, Naissance de la police moderne: Pouvoir, normes, société, Paris, La Decouverte, 2003. 85 Omnes et singulatim, cit., p. 135.

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possono ritrovare anche nelle formulazioni classiche delle teorie sulla sovranità, le seconde sono le funzioni specifiche della governamentalità biopolitica dello stato moderno: [Von Justi] definisce perfettamente ciò che io considero il fine della moderna arte del governo o della razionalità dello stato: sviluppare gli elementi costitutivi della vita degli individui in modo che il loro sviluppo rafforzi anche la potenza dello stato. Von Justi stabilisce poi una distinzione tra questo compito, che egli definisce Polizei – come i suoi contemporanei –, e la Politik, die Politik. Die Politik è sostanzialmente un compito negativo. Essa consiste, per lo stato, nel combattere i nemici interni ed esterni. La Polizei, invece, è un compito positivo: consiste nel favorire, al tempo stesso, la vita dei cittadini e la forza dello stato. Arriviamo così al punto essenziale: von Justi insiste ben più di quanto non faccia de La Mare su una nozione che avrebbe assunto un’importanza crescente nel corso del XVIII secolo – la popolazione. La popolazione viene intesa da lui come un gruppo di individui viventi le cui caratteristiche sono quelle di tutti gli individui che appartengono a una stessa specie e vivono fianco a fianco86.

Non nelle teorie astratte del pensiero giuridico e della filosofia politica, ma nella pratica politica e nei saperi a essa più vicini occorre ricercare indizi che permettano di costruire ipotesi sul modo di funzionamento del potere statale nelle società moderne: questo il principio metodologico che ha orientato le ricerche di Foucault nella seconda metà degli anni settanta. Lo studio delle teorie della ragion di stato, delle scienze camerali, della Polizeiwissenschaft confermano nel filosofo francese l’insoddisfazione per il lessico classico della filosofia politica, e lo inducono a coniare nuove categorie interpretative, quali quelle di biopolitica, potere pastorale, governamentalità. Nelle ricognizioni storiche del nostro autore, tali categorie sono applicate soprattutto a un arco di tempo che va dall’âge classique (il XVII secolo, per la cultura francese) fino all’Ottocento. L’intenzione di Foucault è, tuttavia, quella di elaborare una «storia del presente»87, di analizzare il passato per illuminare l’attualità: nel prossimo paragrafo, analizzerò come l’aggiornamento del vocabolario politico operato da Foucault gli abbia permesso una lettura originale anche dei fenomeni politici che hanno caratterizzato la storia del Novecento. 86

Ivi, p. 142. «È di questa prigione, con tutti gli interventi del potere politico sul corpo che essa riunisce nella sua architettura chiusa, che io vorrei fare la storia. Per puro anacronismo? No, se intendiamo con questo fare la storia del passato in termini del presente. Sì, se intendiamo con questo fare la storia del presente» (Sorvegliare e punire, cit., p. 34, corsivo mio). 87

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5.3 Totalitarismo, liberalismo, società di controllo Ne L’imperialismo, seconda parte de Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt rintraccia nel colonialismo una delle matrici di quelle politiche razziste che sarebbero poi state sviluppate dal regime nazista. L’organizzazione burocratica dei territori coloniali, il dominio sulle popolazioni autoctone, l’apartheid, avrebbero costituito un campo di prova per quelle che sarebbero poi diventate le più brutali politiche del nazismo: deportazioni di massa, campi di concentramento, sterminio delle “razze inferiori”88. Nell’opera di Foucault manca, invece, una riflessione sistematica sul totalitarismo e sui campi di sterminio: non mancano però, nei libri, nei corsi, in alcuni interventi del filosofo francese, spunti di riflessione su questi argomenti. Talvolta Foucault dichiara addirittura che, se il fenomeno del potere occupa una posizione centrale nella sua riflessione, è perchè la sua generazione è stata segnata da quelle «malattie del potere» che sono fascismo e stalinismo89. Ciò che permette di riconoscere in Foucault un punto di vista non distante da quello di Arendt90 è che anch’egli, pur considerando il totalitarismo un fenomeno 88

«Dei due principali strumenti politici del dominio imperialista, l’uno, il razzismo, venne scoperto in Sudafrica mentre l’altro, la burocrazia, mosse i suoi primi passi in Algeria, in Egitto, e in India. Il razzismo era in sostanza la fuga in un’irresponsabilità dove non poteva più esistere nulla di umano; la burocrazia derivava la sua coscienza della responsabilità dalla convinzione di governare popoli inferiori, che aveva in certo qual modo il dovere di proteggere, ma per i quali non valevano le leggi del popolo dominante da essa rappresentato» (Arendt, Hannah, Le origini del totalitarismo. Parte seconda: l’imperialismo, Milano, Bompiani, 1978, p. 289; prima ed. The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt, Brace and Co, 1951). 89 In un’intervista del 1977 Foucault presenta gli abusi di potere dei regimi fascisti e stalinisti come lo scandalo per cui «tutti quelli della mia generazione, e io non sono che uno di loro, hanno infine tentato di comprendere questo fenomeno del potere» (Pouvoir et savoir, in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 216, pp. 401-402, prima ed. Kenryoku to chi, in «Umi», 1977). Nel 1982, a proposito delle ragioni per cui ha iniziato a interrogare il fenomeno del potere, egli afferma invece: «Per noi non si tratta solamente di una questione teorica, ma di qualcosa che è parte della nostra esperienza. Vorrei menzionare solo due “forme patologiche” – quelle due “malattie del potere” – che sono il fascismo e lo stalinismo. Una delle numerose ragioni che fanno sì che esse risultino, per noi, a tal punto sconcertanti ed enigmatiche, consiste nel fatto che, nonostante la loro singolarità storica, esse non sono assolutamente originali. Il fascismo e lo stalinismo hanno utilizzato ed esteso dei meccanismi già presenti nella maggior parte delle altre società. Non solo: nonostante la loro follia interna, essi hanno, in larga misura, fatto ricorso a idee e dispositivi della nostra razionalità politica» (Perché studiare il potere: la questione del soggetto, cit., p. 238). Sull’interpretazione foucaultiana del totalitarismo, mi permetto di segnalare il mio: Bernini, Lorenzo, Il dispositivo totalitario, in Recalcati, Massimo (a cura di), Forme contemporanee di totalitarismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 90 Foucault non cita mai Arendt, ma potrebbe aver letto il suo testo: si torni alla nota 54 del capitolo quarto. Un’interpretazione del totalitarismo novecentesco attraverso categorie mutuate sia da Arendt, sia da Foucault, è stata operata nei già citati testi: Agamben, Giorgio,

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non apparentabile alle altre forme di dominio che lo hanno preceduto nella storia dell’umanità, ne rintraccia l’origine non solo nella follia paranoica e nei deliri di onnipotenza di Hitler o Stalin, ma anche e soprattutto in tecnologie di potere preesistenti, e presenti, in gradi e forme differenti, anche nelle società liberali anteriori e successive ai regimi totalitari. Utilizzando una metafora biopolitica, il punto di vista di Arendt e Foucault si potrebbe riassumere come segue: se il totalitarismo è una patologia del potere, il virus totalitario ha potuto infettare quell’organismo che è il dispositivo politico della modernità solo perché le cellule che lo costituiscono si sono rivelate a esso permeabili. Nel 1976, nell’ultima lezione di «Bisogna difendere la società» (17 marzo) e nell’ultimo capitolo de La volontà di sapere, utilizzando la categoria di biopolitica, il filosofo francese offre una nuova lettura del totalitarismo. In un primo momento egli si sofferma sul quello che chiama il «razzismo di stato» del regime nazista, e spiega che esso è stato il prodotto della reiscrizione, nella biopolitica, del vecchio diritto sovrano di uccidere. La nozione biologica di razza, mutuata dall’evoluzionismo di Darwin, è stata utilizzata dal regime nazista per operare distinzioni tra razze superiori e inferiori, tra razze amiche e nemiche: solo le prime hanno il diritto di sopravvivere, mentre le seconde devono morire. Così spiega Foucault al suo pubblico al Collège de France: Il razzismo è un modo per stabilire una cesura, che sarà di tipo biologico, all’interno di un ambito che si presenta appunto come un ambito biologico. E tutto questo permetterà al potere di trattare una popolazione come una mescolanza di razze o – più esattamente – di trattare e suddividere la specie di cui si è fatto carico nei sottogruppi che, a rigore, costituiranno le razze. È questa dunque la prima funzione del razzismo: frammentare, istituire delle cesure all’interno di quel continuum biologico che il biopotere per l’appunto investe. La seconda funzione del razzismo sarà, d’altro canto, quella di permettere di stabilire una relazione positiva del tipo: “più ucciderai, più farai morire”, o: “più lascerai morire, più, per ciò stesso, tu vivrai”91. Homo sacer: Il potere sovrano e la nuda vita, cit. e Brossat, Alain, L’épreuve du désastre: Le XXe siècle et les camps, cit. Sulla categoria di totalitarismo si veda, tra gli altri, lo studio di Simona Forti Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Su Arendt e Foucault, di Simona Forti si vedano anche: Introduzione: Paesaggi arendtiani, in Ead., Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, Bruno Mondadori, 20062, nonché Hannah Arendt oggi: Ripensarne l’eredità tra il femminismo e Foucault, in Fistetti, Francesco e Recchia Luciani, Francesca R. (a cura di), Hannah Arendt: Filosofia e totalitarismo, Genova, il melangolo, 2007. Si veda, inoltre: Daddabbo, Leonardo, Inizi: Foucault e Arendt, Bari, Graphis, 2003. 91 «Bisogna difendere la società», cit., pp. 220. Si vedano anche le pp. 221-222, e le pp. 132133 de La volontà di sapere, cit., e si confrontino con queste parole di Hitler: «Se si parla di

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Dal momento in cui la biopolitica si innesta sulla sovranità, chi minaccia, dall’esterno con la guerra o la concorrenza, o dall’interno mettendo in discussione le esigenze normative della società, la “salute” dello stato, è considerato non più soltanto un nemico politico, ma anche un nemico biologico, che con la sua sola esistenza rappresenta un rischio per la sicurezza della popolazione. A questo proposito, diversamente da quanto farà tre anni dopo nel corso sulla Nascita della biopolitica, in «Bisogna difendere la società» Foucault, come Arendt, mette in evidenza le analogie che possono essere reperite tra nazismo e stalinismo, piuttosto che le differenze che sussistono trai due regimi. L’interesse di Foucault sembra, anzi, essere volto soprattutto alla critica dello stalinismo, e in generale al confronto con la tradizione marxista. Per Foucault, infatti, non solo nelle pratiche politiche dello stalinismo, ma già all’interno della teoria marxista della lotta di classe e delle teorie socialiste dell’Ottocento92, vige la logica binaria del vecchio discorso storico-politico della lotta delle razze93. Poco importa se non è utilizzato direttamente un lessico biologista come nelle teorie naziste: la società è comunque ritratta come separata in due “razze” in competizione, proletari e borghesi, e la sopravvivenza dell’una è posta in una relazione di proporzionalità diretta con l’estinzione dell’altra. Non solo il socialismo non avrebbe criticato le pratiche biopolitiche, ma se ne sarebbe pienamente appropriato, sviluppando un razzismo non etnico, ma evoluzionista, che «negli stati socialisti come l’Unione Sovietica» avrebbe operato a pieno regime «a proposito dei malati mentali, dei criminali, degli avversari politici, e così via»94. Nel nazismo, il nemico biologico è considerato una minaccia per la purezza della razza; nello stalinismo, e in generale negli stati del socialismo reale,

un’alta missione dello stato, non bisogna dimenticare che l’alta missione si trova soprattutto nella nazione, alla quale lo stato deve solo rendere possibile, con la forza organica della propria esistenza, il libero sviluppo. E se ci chiediamo come debba essere configurato lo stato di cui noi Tedeschi abbiamo bisogno, dobbiamo prima renderci ben chiaro quali uomini lo stato debba comprendere e a quale scopo debba servire. Purtroppo, la nostra nazione tedesca non è più fondata su un nucleo razziale unitario. Il processo di fusione dei diversi elementi originari non è tanto progredito, però, che si possa parlare di una nuova razza da esso formata. All’opposto! Le intossicazioni del sangue offerte dal corpo della nostra nazione, specialmente dopo la guerra dei Trent’anni, decomposero non solo il sangue tedesco, ma anche l’anima tedesca. […] Accanto a uomini nordici si trovano uomini orientali; accanto a orientali, dinarici; accanto a costoro, uomini occidentali, e, fra tutti, miscele umane. Ciò è di grave danno…» (Hitler, Adolf, La mia battaglia, Milano, Bompiani 1941, pp. 32-34; prima trad. it., Bompiani, 1934). 92 Cfr. «Bisogna difendere la società», cit., pp. 226-227. 93 Si torni al paragrafo 4.3 Guerra e politica. 94 «Bisogna difendere la società», cit., p. 226

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un blocco nell’evoluzione verso una società senza classi. Ma in entrambi i regimi, secondo Foucault, opera la stessa logica razzista. Attraverso questa analisi del razzismo di stato, tredici anni prima del crollo del Muro di Berlino, Foucault prende, quindi, nettamente, le distanze dal blocco socialista. È importante però comprendere che il suo intento non è di schierarsi con l’occidente liberale: nella sua ricerca sulle strutture di potere-sapere che hanno reso possibile la nascita dei regimi totalitari, egli non risparmia, infatti, critiche severe alla tradizione politica liberale. Come d’abitudine, anche nel momento in cui si confronta con il fenomeno del liberalismo, Foucault non segue interpretazioni consolidate, ma fornisce letture originali. Il filosofo francese, ad esempio, non cerca l’origine del pensiero liberale nel contrattualismo di Locke o nella teoria della separazione dei poteri di Montesquieu, né condivide con una certa storiografia francese la “celebrazione” del pensiero liberale di autori post-rivoluzionari quali Constant e Tocqueville. Egli si interroga, piuttosto, sull’«arte di governo» liberale, e apre un campo di ricerca innovativo insistendo sulla duplice origine del liberalismo nel pastorato cristiano e nelle dottrine economiche fisiocratiche. Se in «Bisogna difendere la società», Foucault afferma addirittura che anche «lo stato moderno, lo stato capitalista» è «segnato dal razzismo»95, nei corsi degli anni successivi, egli, pur ponendo l’accento non più su ciò che avvicina, ma su ciò che separa regime nazista, regime sovietico e liberaldemocrazie novecentesche, giunge a reperire nel pastorato cristiano la loro comune origine. Come si ricorderà, ne La volontà di sapere Foucault ha sostenuto che, nonostante le sue velleità rivoluzionare, il freudomarxismo contiene eredità di quella concezione cristiana e borghese del sesso rispetto alla quale esso vorrebbe rappresentare la “liberazione”96; analogamente, in 95 «Il nazismo ha solamente spinto sino al parossismo il gioco tra il diritto sovrano di uccidere e i meccanismi del biopotere. Ma questo gioco è iscritto effettivamente nel funzionamento di tutti gli stati. Di tutti gli stati moderni, di tutti gli stati capitalisti? Ebbene, non ne sono sicuro. È evidente che a questo proposito occorrerebbe un’altra dimostrazione, ma per quello che mi riguarda, io credo che lo stato socialista, il socialismo, sia altrettanto segnato dal razzismo quanto lo è il funzionamento dello stato moderno, dello stato capitalista. A fronte del razzismo di stato […] si è costituito un social-razzismo che, per apparire, non ha atteso la formazione degli stati socialisti» (ivi, p. 225). 96 Il giudizio di Foucault sulla funzione politica della psicoanalisi non si limita a questa critica al freudomarxismo, ma contiene anche un importante riconoscimento: se la psicoanalisi resta ancorata alla prospettiva confessionale tipica del potere pastorale (lo psicoanalista ha sostituito il prete), se essa può essere utilizzata con funzione di normalizzazione delle condotte sessuali, al tempo stesso, secondo il filosofo francese, le va attribuito il merito di avere offerto un’alternativa alle teorie biologiste del sesso dell’età positivista, confluite nell’eugenismo razzista. La storia della psicoanalisi, fino al freudomarxismo di Reich e Marcuse, per Foucault

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Sicurezza, territorio, popolazione e nella Nascita della biopolitica egli afferma che, nonostante gli appelli alla limitazione del governo e i richiami al principio della laicità dello stato, il liberalismo ha una delle sue matrici nel potere pastorale. Per Foucault, l’eredità cristiana presente nella tradizione liberale non si limita alla teoria delle leggi di natura, riedizione delle leggi divine, ma è rintracciabile anche in quelle pratiche di controllo e di sicurezza che sono indispensabili al funzionamento delle società liberali. Già in Sorvegliare e punire Foucault presenta le discipline come una delle condizioni di possibilità per l’emergenza dello stato di diritto liberaldemocratico e del regime parlamentare rappresentativo. Il non intervento diretto del potere politico nell’ambito privato richiede, infatti, un controllo sociale costante e silenzioso dei comportamenti individuali; inoltre, all’uguaglianza formale dei cittadini nell’empireo del diritto sono necessarie gerarchie e disuguaglianze nel tessuto materiale della società. Secondo le ricostruzioni di Foucault, a partire dall’età illuminista, queste esigenze sarebbero state, appunto, soddisfatte dal diffondersi delle tecnologie disciplinari: «i “Lumi” che hanno scoperto le libertà, hanno anche inventato le discipline»97, indispensabili al mantenimento dell’ordine democratico, e alla formazione dei cittadini all’obbedienza e all’esercizio del voto. Il tema delle relazioni tra liberalismo e discipline è affrontato anche in un’intervista del marzo 1975, di poco successiva alla pubblicazione di Sorvegliare e punire. Qui Foucault insiste su come l’addestramento sociale necessario all’edificazione e al mantenimento di un sistema democratico sia accuratamente selettivo: volto a plasmare individualità differenti per differenti funzioni sociali, e indirizzato, quindi, ad alimentare e mantenere le distinzioni tra classi sociali98. Lo stesso scheappartiene alla storia del dispositivo di sessualità: ciò nondimeno, essa rappresenta un alto momento teorico di resistenza alla biopolitica nella sua deriva totalitaria. Si torni, a questo proposito, al paragrafo 3.3 Foucault, Lacan e Freud, in particolare alla nota 175. 97 Foucault introduce questa affermazione con queste parole: «Se, in modo formale, il regime rappresentativo permette che direttamente o indirettamente, con o senza sostituzioni, la volontà di tutti formi l’istanza fondamentale della sovranità, le discipline forniscono, alla base, la garanzia della sottomissione delle forze e dei corpi. Le discipline reali e corporali hanno costituito il sottosuolo delle libertà formali e giuridiche. Il contratto poteva ben essere postulato, come fondamento ideale del diritto e del potere politico; il panoptismo costituiva il procedimento tecnico, universalmente diffuso, della coercizione. Esso non ha cessato di operare in profondità nelle strutture giuridiche della società, per far funzionare i meccanismi effettivi del potere contro il quadro formale che questo si era dato» (Sorvegliare e punire, cit., p. 242). 98 «Affinché un certo liberalismo borghese sia stato possibile a livello delle istituzioni, è stato necessario, a livello di quelli che chiamo i micropoteri, un investimento molto più serrato degli individui, è stato necessario organizzare l’inquadramento [quadrillage] dei corpi e dei comportamenti. La disciplina è l’altro lato della democrazia» (Sur la sellette, in Dits et écrits,

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ma si ritrova ne La volontà di sapere dove il nostro autore insiste sull’origine borghese di una certa disciplina della sessualità, che solo successivamente, e con modalità diverse, sarebbe stata trasferita dalle famiglie borghesi alle famiglie delle classi lavoratrici. Nei corsi degli anni 1977-1979, invece, il liberalismo e la nozione di società civile che ne è il correlato sono messi in relazione non con il potere disciplinare, ma con il potere pastorale e con la governamentalità biopolitica. Qui Foucault sostiene che la concezione liberale della società civile come sfera prepolitica di libertà non permette di cogliere l’azione capillare delle discipline e dei biopoteri che percorrono le società moderne: a suo avviso la libertà di cui i cittadini godrebbero nella società civile non è originaria come la si vorrebbe presentare, ma è prodotta dal potere governamentale dello stato. Le ricostruzioni storiche di Foucault seguono, anche in questi corsi, la periodizzazione, presente nei suoi libri fin dalla Storia della follia, ch’egli ha tematizzato in modo sistematico ne Le parole e le cose: essa però non è più declinata – come allora – in senso archeologico, ma si trova reinterpretata in prospettiva genealogica99. Secondo le ricostruzioni di Foucault, a un Medioevo e a un Rinascimento in cui «un buon governo, un regno ben ordinato, faceva parte di un ordine del mondo, che era voluto da Dio»100 e in cui «l’arte del re sarà eccellente nella misura in cui imiterà la natura, farà cioè come Dio»101, succede, alla fine del XVI secolo, l’età classica, in cui si assiste alla «degovernamentalizzazione del cosmo»102. Il pensiero politico attribuisce, allora, allo stato una razionalità artificiale, una ragione che gli è propria e che deve guidarne lo sviluppo all’interno di un sistema vol. I, testo n° 152, pp. 1589-1590, traduzione mia, prima ed. «Les Nouvelles littéraires», n° 2477, 17-23 marzo 1975). 99 La grande quantità di testi che Foucault prende in esame nelle sue lezioni è analizzata non «all’interno di un’archeologia del sapere» ma «in una genealogia delle tecnologie di potere». Spiega Foucault: «Si potrebbe allora rendere conto di come funziona il testo non in ragione delle regole di formazione dei concetti, bensì degli obiettivi, delle strategie in cui si inscrive e dei protocolli di azione politica che suggerisce» (Sicurezza, territorio, popolazione cit., p. 38). 100 Ivi, p. 253. 101 Ivi, p. 170. 102 Ivi, p. 173. Nella stessa lezione, poco prima, Foucault spiega: «Uno dei grandi effetti dell’astronomia di Copernico e di Keplero, della fisica di Galileo, della storia naturale di John Ray, della grammatica di Port Royal e di tutte queste pratiche discorsive e scientifiche – sto parlando di uno degli innumerevoli effetti di questi scienze – è stato quello di mostrare che, in definitiva, Dio governa il mondo attraverso leggi generali, immutabili, universali, semplici e intelligibili. [...] Ma che cosa significa che Dio governa il mondo attraverso leggi generali, immutabili, universali, semplici e intelligibili? Significa che Dio non lo “governa”» (ivi, pp. 171-172).

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di stati103. Alla fine del XVIII secolo (e quindi con la Rivoluzione francese), anche questo paradigma entra in crisi. Con l’avvento della piena modernità gli succede un nuovo modo di pensiero, caratterizzato da una naturalità antropologica che non ha più nulla a che vedere con la «vecchia cosmoteologia»104; è allora che alla ragione artificiale dello stato, come principio ordinatore della politica, subentra la naturalità della società105. Le peripezie della governamentalità raccontate da Foucault iniziano con il diffondersi del governo pastorale delle anime nella Chiesa cattolica. Dal XVI secolo, come conseguenza della Riforma, da un lato si assiste a un’intensificazione del pastorato religioso, da parte cattolica come da parte protestante, ma da un altro «a uno sviluppo della conduzione degli uomini al di fuori delle autorità ecclesiastiche»106: cioè al passaggio «dalla pastorale delle anime al governo politico degli uomini»107. Tale passaggio accade in concomitanza con l’avvento dell’età classica e di un nuovo modo di pensare: come si è visto, nella ricostruzione di Foucault, la letteratura sulla ragion di stato e sullo stato di polizia del XVI e del XVII secolo è, infatti, espressione della ricerca di una razionalità specifica della politica, che non obbedisca più né a un ordine naturale, né a fini ultraterreni, ma solo all’imperativo della potenza dello stato. Secondo Foucault, il liberalismo come forma della «governamentalità moderna e contemporanea»108 (e non come dottrina politica) nasce nelle teorie fisiocratiche del XVIII secolo (e non nelle teorie filosofico-giuridiche del contratto) come tentativo di limitare gli eccessi del mercantilismo e dello stato di polizia attraverso la formulazione del principio del laisser-faire (e non con l’affermazione dell’esistenza di diritti individuali inalienabili). Come strumento della ragion di stato, e non come sua negazione, tale principio impone l’«autolimitazione della ragione di governo»109 attraverso l’economia politica: per realizzare la salute, la potenza, lo “splen103 Come già ho avuto modo di suggerire (si torni alla nota 3 del quarto capitolo) se in Sorvegliare e punire, La volontà di sapere e «Bisogna difendere la società» Foucault sostiene che l’immagine della sovranità nelle filosofie (e nelle dottrine) politiche moderne è modellata sulla figura del monarca medievale, in questi stessi testi e in Sicurezza, territorio, popolazione, il nostro autore insiste invece sulle profonde discontinità che separano la razionalità delle pratiche di governo messe a punto dallo stato moderno dalla logica che regolava l’esercizio del potere politico nel sistema feudale. 104 Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 254. 105 «La società come campo specifico di naturalità propria dell’uomo farà comparire, come interfaccia dello stato, quella che si chiamerà società civile» (ibid.). 106 Ibid. 107 Ivi, p. 165. 108 Ivi, p. 253. 109 Nascita della biopolitica, cit., p. 31.

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dore” della nazione, anziché sviluppare al massimo la logica artificiale dello stato ed imporla alla realtà, occorre limitare tale logica in nome delle leggi dell’economia e della statistica. Il mercato deve seguire il proprio corso, la popolazione deve essere assecondata nel suo “naturale” sviluppo, perché un eccessivo interventismo rischia di avere effetti paradossali, di soffocare quei processi che vorrebbe alimentare110. Nel XVIII secolo Adam Smith111, con la tesi della “mano invisibile”, afferma la necessità di un governo che non intervenga nel mercato, che limiti le sue funzioni a garantire che il gioco economico si svolga secondo le proprie regole. Ma è a due scuole del XX secolo, l’ordoliberalismo tedesco della Scuola di Friburgo112 e il neoliberalismo americano della Scuola di Chicago113 che Foucault, compiendo un salto di duecento anni dopo un breve accenno all’utilitarismo inglese114, affida il compito di proferire l’ultima parola sulla governamentalità liberale, di svelarne l’effettivo modo di funzionamento. Nella ricostruzione di Foucault, queste “scuole” hanno come obiettivo polemico comune il pensiero di John Maynard Keynes, e come principio ispiratore comune le teorie del neomarginalismo austriaco e di autori ad esso legati, come Ludwig Einrich von Mises e Friedrich August von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974. Prendendo in esame innanzitutto i pensatori della Scuola di Friburgo, Foucault fa riferimento ai contributi di Walter Eucken (1891-1950), Franz Böhm (1895-1977), Alfred Müller-Armack (1901-1978), e ricorda tra i loro ispiratori Wilhelm Röpke (1899-1966) e Alexander Rustow (1885-1963). Secondo questi autori, il capitalismo non è semplicemente una realtà economica, ma è un «insieme economico-istituzionale»115: il suo sviluppo, lungi dall’essere “spontaneo”, richiede l’intervento della politica. A loro avviso, per quanto possa sorprendere, l’idea regolatrice dello stato di diritto liberale non deve essere quindi il non-interventismo, ma al contrario un iper-interventismo. Campo d’azione delle politiche liberali non è però il mercato, ma ciò che ne costituisce la 110 Queste tesi sono riprese in un’intervista del 1982: Spazio, sapere e potere, in Biopolitica e liberalismo, cit., p. 175, prima ed. Space, Knowledge and Power, in «Skyline», marzo 1982, poi in The Foucault Reader, a cura di Rabinow, Paul, New York, Pantheon Books, 1984, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 310. 111 Sulla teoria della “mano invisibile” di Adam Smith si veda la Lezione del 28 marzo 1979 in Nascita della biopolitica. 112 All’ordoliberalismo tedesco della scuola di Friburgo sono dedicate le lezioni del 31 gennaio, del 7, del 14, del 21 febbraio e del 7 marzo 1979, in Nascita della biopolitica. 113 Foucault dedica al neoliberalismo americano della scuola di Chicago le lezioni del 14 e del 21 marzo 1979, in Nascita della biopolitica. 114 Nella Lezione del 17 gennaio 1979, in Nascita della biopolitica. 115 Nascita della biopolitica, cit., p. 140.

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condizione di possibilità: lo stato deve vigilare sulla società civile, garantirle sicurezza, in modo che in essa possano svilupparsi le varietà e le disuguaglianze necessarie alla concorrenza. Il «minimo di interventismo economico» può essere realizzato soltanto dal «massimo di interventismo giuridico»116. Per garantire la libertà di commercio occorre, ad esempio, limitare l’egemonia delle grandi potenze economiche con trattati internazionali o con la guerra, garantire l’esistenza di un mercato interno con legislazioni antimonopolio e con politiche sociali atte a formare lavoratori in salute, competenti e qualificati. A questi devono, poi, essere garantite libertà di azione e sicurezza attraverso procedure di controllo sociale e attraverso le garanzie dell’apparato giudiziario117. Alle politiche keynesiane ispirate agli obiettivi della piena occupazione e dell’estinzione della povertà, il neoliberalismo del secondo dopoguerra contrappone interventi sociali ispirati al principio di sussidiarietà: poiché un certo tasso di disoccupazione, di povertà, e anche di criminalità è funzionale allo sviluppo economico, lo stato si fa direttamente carico non dell’intera popolazione, ma solo di coloro che vivono sotto una soglia di povertà giudicata statisticamente disfunzionale118. Tra i neoliberali americani, Foucault menziona, invece, i fondatori della Scuola di Chicago Milton Friedman (1912-2006, premio Nobel per l’economia nel 1976) e George Joseph Stigler (1911-1991, premio Nobel per l’economia nel 1982), e inoltre Theodor William Schultz (1902-1998, premio Nobel per l’economia nel 1979), Jacob Mincer (1922-2006) e Gary Stanley Becker (1930, premio Nobel per l’economia nel 1992). La Scuola di Chicago definisce l’economia come «scienza del comportamento umano»119: l’homo oeconomicus che ne è oggetto di studio non è inteso però hobbesianamente come soggetto del commercio e del contratto, ma come soggetto dell’investimento, come imprenditore di se stesso, come il proprio capitale umano120. Tale soggetto, ben lontano dall’essere un dato di natura, deve essere prodotto attraverso politiche sociali e interventi biopolitici. Il capitale umano di un individuo deriva, infatti, non solo dalle sue caratteristiche genetiche, ma anche da “investimenti educativi” di cui sono esempio l’istruzione scolastica, la formazione professionale, il livello di cultura dei suoi genitori, il tempo che essi hanno trascorso con lui nell’infanzia, gli stimoli culturali e le cure mediche che egli ha ricevuto da bambino... 116

Ivi, p. 141. Si veda la Lezione del 24 gennaio 1979, in Nascita della biopolitica. 118 Si vedano le lezioni del 7 e del 21 marzo 1979, in Nascita della biopolitica. 119 Nascita della biopolitica, cit., p. 183. 120 Foucault prende in esame la teoria del capitale umano elaborata dalla Scuola di Chicago nella Lezione del 14 marzo 1979, in Nascita della biopolitica, cit. (si veda, in particolare, p. 186). 117

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La tesi che Foucault vuole dimostrare attraverso queste sue analisi è che il liberalismo, inteso «come la nuova arte di governare che si è formata nel XVIII secolo, racchiude in sé, nel suo stesso cuore, un rapporto di produzione/distruzione con la libertà»121. Il nostro autore insiste, cioè, sul fatto che il liberalismo non si limita a “lasciar fare”, a rispettare la libertà: esso, invece, produce, gestisce, consuma, distrugge le libertà di cui ha bisogno, e così facendo plasma una forma di vita: Se utilizzo la parola “liberale”, è soprattutto perché la pratica di governo che sta per instaurarsi non si accontenta di rispettare questa o quella libertà, di garantire questa o quella libertà. Fa molto di più, consuma libertà. È consumatrice di libertà nella misura in cui non può funzionare veramente se non là dove vi sono delle libertà: libertà del mercato, libertà del venditore e dell’acquirente, libero esercizio del diritto di proprietà, libertà di discussione, eventualmente libertà d’espressione ecc. La nuova ragione di governo ha dunque bisogno di libertà, la nuova arte di governo consuma libertà. Se consuma libertà è obbligata anche a produrne, e se la produce è obbligata anche a organizzarla122.

Secondo il filosofo francese, il mercato, la popolazione, la società civile e il soggetto imprenditore di sé stesso che la abita123 non sono pertanto realtà naturali che le politiche liberali lasciano essere, ma sono realtà transazionali124 che la governamentalità liberale pone in essere. Se ne Le parole e le cose, “l’uomo” era un prodotto dell’episteme moderna, ora esso appare a Foucault come il prodotto del dispositivo moderno di potere-sapere125: L’uomo, così com’è stato pensato dalle scienze cosiddette umane del XIX secolo e recepito come tale dall’umanesimo del XIX secolo, non è altro che una figura della popolazione126. 121

Nascita della biopolitica, cit., p. 66. Ivi, p. 65. 123 Alla nozione di società civile, analizzata a partire dall’opera di Adam Ferguson, è dedicata l’ultima lezione di Nascita della biopolitica, del 4 aprile 1979. 124 «La società civile è come la follia, o come la sessualità. Fa parte di quelle che chiamerei delle realtà di transazione. È proprio all’interno del gioco e delle relazioni di potere, e di ciò che costantemente sfugge loro, in un certo senso nell’interfaccia fra governati e governanti, che nascono quelle figure transazionali e transitorie che, per il fatto di non essere esistite da sempre, non per questo sono meno reali, e che si possono chiamare, di volta in volta, società civile, follia, e così via» (Nascita della biopolitica, cit., p. 242). 125 «La posta in gioco di tutte queste indagini sulla follia, sulla malattia, sulla delinquenza, sulla sessualità e su ciò di cui vi sto parlando, consiste nel mostrare in che modo l’accoppiamento serie di pratiche-regime di verità formi un dispositivo di sapere-potere che imprime effettivamente nel reale ciò che non esiste e lo sottomette legittimamente alla distinzione tra vero e falso» (ivi, p. 31). 126 Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 69. 122

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Questa è quindi la conseguenza della riformulazione genealogica della tesi esposta ne Le parole e le cose: “l’uomo” appare ora a Foucault non più soltanto come il correlato oggettuale di un modo di pensare, ma come uno strumento epistemico, e al tempo stesso un effetto materiale, della governamentalità moderna. Un altro mutamento di prospettiva riguarda la valutazione che Foucault fornisce del proprio presente. Dopo aver sostenuto, in Sorvegliare e punire (1975), che l’età delle discipline si estende fino alla contemporaneità – e che le società attuali sono «macchine panoptiche»127 –, nei corsi del 1977-1979 mette in evidenza come, con il tramonto dello stato di polizia, sia fallito anche il sogno di una società totalmente disciplinata, e i poteri disciplinari, senza scomparire, siano divenuti strumenti delle politiche regolative dei biopoteri e del liberalismo. Le società liberali non sono, infatti, società disciplinari: Foucault le descrive adesso come società di sicurezza, o come società di controllo, in cui le funzioni pastorali del potere statale prevalgono sulle modalità di potere della sovranità e delle discipline. Compito dello stato liberale è proteggere la popolazione da malattie, infortuni e pericoli intervenendo solo quando questi impediscono che la società e il mercato seguano il proprio corso naturale, “normale”, verso la salute e la prosperità. Per Foucault, se lo schema di funzionamento della sovranità può essere simbolizzato dall’esclusione della lebbra, e quello delle discipline dai regolamenti imposti alle città appestate, un esempio di dispositivo di sicurezza è dato dalle politiche di inoculazione attuate in Europa a partire dal Settecento per prevenire il vaiolo. Volte a modificare il destino biologico della specie, tali politiche rispondono a criteri statistici e probabilistici e al calcolo costi-benefici: chi sono le vittime del vaiolo? quale fascia di età si ammala più frequentemente? quali sono le conseguenze sulla salute, e in quanti casi sopraggiunge la morte? quali sono i rischi dell’inoculazione? in quale percentuale essa risulta efficace?128 Un altro esempio a cui Foucault ricorre è quello della gestione del crimine: nella prima lezione di Sicurezza, territorio, popolazione, dell’11 gennaio 1978, riprendendo le ricerche avviate 127

«La nostra società non è quella dello spettacolo, ma della sorveglianza; sotto la superficie delle immagini, si investono i corpi in profondità; dietro la grande astrazione dello scambio, si persegue l’addestramento minuzioso e concreto delle forze utili; i circuiti della comunicazione sono i supporti di un cumulo e di una centralizzazione del potere; la bella totalità dell’individuo non è amputata, repressa, alterata dal nostro ordine sociale, ma l’individuo vi è accuratamente fabbricato, secondo tutta una tattica di forze e di corpi. Noi siamo assai meno greci di quanto non crediamo. Noi non siamo né sulle gradinate né sulla scena, ma in una macchina panoptica, investiti dai suoi effetti di potere che noi stessi ritrasmettiamo perché ne siamo un ingranaggio» (Sorvegliare e punire, cit., corsivo mio, p. 236). 128 Cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 20-21.

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in Sorvegliare e punire, Foucault evidenzia le differenze che intercorrono tra 1) funzionamento binario della legge e spettacolarizzazione della punizione caratteristiche del potere sovrano, 2) sorveglianza capillare della società e tecnologie di addestramento e rieducazione dei corpi tipiche delle discipline, e 3) dispositivi di sicurezza in uso nelle società liberali: La prima modalità, la conoscete, consiste nello stabilire una legge e nel fissare una punizione di chi la viola. È il sistema del codice legale basato sulla divisione binaria tra permesso e divieto e sull’abbinamento, proprio del codice, tra un tipo di azione proibita e un tipo di punizione. È il meccanismo legale o giuridico. Il secondo meccanismo – la legge inserita in dispositivi di sorveglianza e di correzione –, inutile tornarci sopra, è il meccanismo disciplinare, caratterizzato dalla comparsa di un terzo personaggio all’interno del sistema binario del codice: il colpevole. Allo stesso tempo, oltre all’atto legislativo che stabilisce la legge e all’atto giudiziario che punisce il colpevole, compare una serie di tecniche adiacenti di tipo poliziesco, medico e psicologico proprie della sorveglianza, della diagnosi, dell’eventuale trasformazione degli individui, ecc. Di questo abbiamo già discusso. La terza forma è quella che caratterizzerebbe non più il codice legale e il meccanismo disciplinare, ma il dispositivo di sicurezza, quell’insieme cioè di fenomeni che vorrei studiare ora. Per dirla in maniera generale, il dispositivo di sicurezza inserirà innanzitutto il fenomeno in questione, il furto, all’interno di una serie di eventi probabili. In secondo luogo, inserirà anche le reazioni del potere a tale fenomeno in un calcolo dei costi. Infine, invece di instaurare una divisione binaria tra ciò che è permesso e ciò che è vietato, determinerà una media considerata ottimale e poi fisserà i limiti dell’accettabile, oltre i quali il fenomeno non dovrà più accadere129.

Nella lezione del 25 gennaio 1978, per segnare la differenza tra stato di polizia e società di sicurezza, Foucault ricorre alla distinzione tra normazione disciplinare e normalizzazione biopolitica: la tematizzazione della dialettica normalità-anormalità, presente da sempre nella riflessione del nostro autore, subisce così un’ulteriore complicazione. L’obiettivo della letteratura sulla ragion di stato è la realizzazione di una comunità totalmente e capillarmente disciplinata, dove tutto è controllato e gestito dalla volontà del sovrano, dallo stato e dai suoi apparati: la strategia a cui obbediscono le politiche disciplinari dello stato di polizia è la normazione, volta all’imposizione della norma attraverso la correzione o l’estinzione dell’anormalità. Nelle politiche di normazione una norma astratta è applicata alla realtà, e la realtà è piegata affinché realizzi la norma: «La norma […] detiene un carattere originariamente prescrittivo da cui discende la possibilità stessa di determi129

Ivi, pp. 16-17.

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nare ciò che è normale e anormale»130. I meccanismi di sicurezza che sono il correlato della politiche liberali seguono invece lo schema della normalizzazione: il governo deve assecondare lo svolgimento dei processi economici e dei comportamenti umani, secondo criteri statistici reperiti attraverso analisi empiriche differenziali (che cosa è normale per la tale fascia di età, in tale area del territorio, nelle città e nelle campagne…), in base ai quali un certo grado di anormalità risulta essere naturalmente funzionale all’equilibrio dell’insieme131. La normalizzazione securitaria tipica delle politiche liberali richiede un controllo diffuso, continuo e discreto della società che consenta, solo nei casi in cui è necessario, interventi statali mirati, ad hoc. L’esempio di politica di normalizzazione a cui Foucault ricorre in questa lezione di Sicurezza, territorio, popolazione è di nuovo quello dell’inoculazione del vaiolo132; in Nascita della biopolitica il filosofo francese prende invece in esame le politiche sociali neoliberali ispirate al principio di sussidiarietà, come la distribuzione di un salario di disoccupazione alla fascia di popolazione considerata “normalmente” estranea al mercato del lavoro133, e le politiche di “riduzione del danno” che prevedono la distribuzione controllata di eroina ai tossicodipendenti considerati irrecuperabili134. 130

Ivi, p. 51. «Nelle discipline, si partiva da una norma e alla luce dell’inquadramento da essa fornito si perveniva a distinguere il normale dall’anormale. Qui, invece, si perviene a distinguere il normale dall’anormale, delle differenti curve di normalità, e l’operazione di normalizzazione consiste nel far giocare tra loro queste differenti distribuzioni di normalità, in modo che le più sfavorevoli siano ricondotte al livello delle più favorevoli. Un sistema che parte dal normale e si serve di alcune distribuzioni considerate, per così dire, più normali, o in ogni caso più favorevoli delle altre. Saranno queste distribuzioni a servire da norma. La norma è un gioco all’interno di normalità differenziali. Viene prima il normale; la norma è dedotta, si fissa e diviene operativa in seguito a questo studio delle normalità. Direi pertanto che non si tratta più di una normazione, ma di una normalizzazione in senso stretto» (ivi, pp. 55-56). 132 «Come opera […] il dispositivo che si organizza attorno all’inoculazione-vaccinazione? Non punta affatto alla divisione tra malati e non malati, ma prende in considerazione l’insieme di malati e non malati, cioè tutta la popolazione, senza discontinuità e rotture, per vedere qual è il suo coefficiente di morbilità e di mortalità probabili e ciò che per una data popolazione è normale attendersi in termini di contagio della malattia e morte conseguente. In questo modo viene accertato – e le statistiche del XVIII secolo concordano tutte su questo punto – che il tasso di mortalità normale per il vaiolo era di 1 su 7,782. Si perviene così al’idea di una morbilità e di una mortalità “normali”» (ivi, p. 55). 133 Cfr. Lezione del 7 marzo 1979. 134 Cfr. Lezione del 21 marzo 1979. Alla fine di questa lezione, Foucault accenna a una differenza riscontrabile tra la razionalità della normalizzazione biopolitica e la logica delle politiche neoliberali: queste ultime interverrebbero più sull’ambiente che sugli individui. Ad esempio salario di disoccupazione e distribuzione controllata di eroina sono politiche che agiscono sull’ambiente nel senso che facilitano le condizioni di accesso ai beni di prima 131

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Per quanto Foucault non lo affermi esplicitamente, si potrebbe sostenere che, da quanto emerge dalle sue lezioni, il concetto di «società di sicurezza» appartiene alla stessa area semantica di cui fanno parte le nozioni di «governamentalità» e di «biopolitica», cioè alla macrodimensione del governo della popolazione, mentre la categoria di «società di controllo» fa riferimento alla dimensione micro, alle ricadute delle politiche securitarie sulla vita dei singoli individui. Perché la società sia sicura, occorre che i singoli siano continuamente sotto controllo, e questo controllo, secondo Foucault, nelle società liberali è esercitato pastoralmente, benevolmente. Esso richiede quindi la diffusione di una «cultura del pericolo» che faccia sentire gli individui minacciati in ogni momento della loro vita (dalle malattie, dagli infortuni, dalla delinquenza135) e quindi bisognosi di protezione, ma comporta anche l’estinzione degli aspetti più brutali e violenti delle prime discipline (l’educazione così come era impartita nei collegi dei gesuiti nel Seicento, le condizioni di lavoro dei primi operai del Settecento, le condizioni di vita nella carceri più antiche). Se nel panottismo di Bentham «le procedure di controllo, di costrizione e di coercizione» costituiscono «una sorta di contro-

necessità e alla droga a chi, senza queste politiche, non avrebbe i mezzi economici per acquistare ciò di cui ha bisogno. Foucault promette di riprendere l’argomento nelle lezioni successive, ma non lo farà: «Come vedete (ma su questo punto tornerò più avanti), all’orizzonte di un’analisi di questo genere ciò che emerge non è affatto l’ideale o il progetto di una società esaustivamente disciplinare, in cui la rete legale, che rinserra e imprigiona gli individui, sarebbe sostituita e prolungata dall’interno da meccanismi che potremmo chiamare normativi. Non si tratta nemmeno di una società in cui è necessario il meccanismo della normalizzazione generale e dell’esclusione del non normalizzabile. All’orizzonte di tutto ciò vediamo profilarsi, piuttosto, l’immagine, l’idea o il tema-programma di una società in cui dovrebbe verificarsi l’ottimizzazione dei sistemi di differenza, in cui dovrebbe essere lasciato campo libero ai processi di oscillazione, in cui ci dovrebbe essere una tolleranza accordata agli individui e alle pratiche minoritarie, in cui dovrebbe essere esercitata un’azione non sui giocatori coinvolti nel gioco ma sulle regole del gioco, e in cui, per finire, dovrebbe essere effettuato un intervento non nella forma dell’assoggettamento interno degli individui, ma nella forma di un intervento di tipo ambientale. La prossima volta cercherò di sviluppare un po’ tutte queste cose» (Nascita della biopolitica, cit., pp. 214-215). 135 «Si potrebbe dire che la massima del liberalismo è “vivere pericolosamente”. “Vivere pericolosamente” significa che gli individui sono posti continuamente in condizione di pericolo, o piuttosto sono indotti a percepire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro futuro, come gravidi di pericolo. Ed è proprio questa sorta di stimolo del pericolo, io credo, a rappresentare una delle implicazioni più importanti del liberalismo. Non a caso si afferma, nel XIX secolo, tutta un’educazione del pericolo che è molto diversa dalle grandi minacce dell’Apocalisse – la peste, la morte, la guerra ecc. –, di cui si era alimentata l’immaginazione politica e cosmologica del Medioevo, e ancora del XVII secolo. Spariscono i cavalieri dell’Apocalisse, e al loro posto appaiono, entrano in scena, irrompono i pericoli quotidiani» (ivi, p. 68).

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partita e di contrappeso delle libertà»136, l’arte di governo liberale mette a punto «meccanismi che hanno la funzione di produrre, ispirare e accrescere le libertà, introducendo un sovrappiù di libertà mediante un sovrappiù di controllo e di intervento»137. Foucault, pur dedicando due anni di didattica allo studio dei dispositivi di sicurezza e di controllo, non elabora una sociologia delle società di sicurezza e di controllo del suo tempo. A riprendere il concetto di «società di controllo» sarà invece il vecchio compagno di avventure e di lotte di Foucault, Deleuze, in un articolo del 1990. Lo utilizzerà per descrivere un nuovo modello di società, che starebbe soppiantando quelle realtà di passaggio che sono spesso indicate come società post-moderne e post-fordiste. Per Deleuze le società di controllo saranno, dal punto di vista degli apparati di potere, società post-disciplinari: le istituzioni disciplinari si dissolveranno totalmente, per lasciare spazio a un controllo diffuso su tutto il tessuto sociale – non concentrato in istituzioni particolari – e sull’intero arco della vita degli individui, senza soluzione di continuità – ad esempio senza più differenze tra tempo della formazione e tempo del lavoro138. Nelle società di controllo previste da Deleuze, scuola e università saranno quasi interamente soppiantate da una formazione permanente, l’ospedale dal day-hospital e dall’assistenza domiciliare, il carcere dagli arresti domiciliari e da dispositivi di sorveglianza elettronici (come bracciali o collari che segnalano la posizione del condannato via satellite), il capitalismo di produzione muoverà una massa di denaro risibile in confronto ai movimenti del capitale commerciale e finanziario, e infine la fabbrica, con la classe operaia che le era correlata, sarà definitivamente sostituita da un’impresa sempre più caratterizzata dalla flessibilità, dove ogni lavoratore sarà in concorrenza con ogni altro, 136

Ivi, p. 69. Ibid. Poco dopo Foucault aggiunge: «Il controllo non funge più, in questo caso, da contrappeso necessario alla libertà, come nel panottismo di cui vi ho appena parlato; diventa piuttosto il principio motore della libertà» (ivi, pp. 69-70). 138 Deleuze trova già nel suo presente delle tracce di una transizione in atto: «Siamo in una crisi generalizzata di tutti gli ambienti di internamento, carcere, ospedale, fabbrica, scuola, famiglia. La famiglia è un “interno” in crisi come ogni altro interno, scolastico, professionale, ecc. I ministri competenti non fanno che annunciare delle riforme ritenute necessarie. Riformare la scuola, riformare l’industria, l’ospedale, l’esercito, il carcere; ciascuno sa però che queste istituzioni sono finite, sono a più o meno breve scadenza. Si tratta unicamente di gestire la loro agonia e di tenere occupata la gente fino all’insediamento delle nuove forze che bussano alla porta. Sono le società di controllo che stanno sostituendo le società disciplinari» (Deleuze, Gilles, Poscritto sulle società di controllo, in Pourparler, Macerata, Quodlibet, 2000, p. 235; prima ed. in «L’autre journal», n° 1, maggio 1990; anche in Pourparlers, Paris, Minuit, 1990). 137

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e i salari saranno personalizzati così da rendere insensate rivendicazioni collettive, «di classe». Nel pensiero di Foucault manca, invece, un riferimento al futuro che verrà: il suo pensiero è volto alla comprensione di campi di forze presenti qui ed ora, attraverso l’analisi del passato. In questa analisi, pur movendo da un’interpretazione discontinuista della storia, Foucault mette in evidenza che le forme politiche che si sono susseguite nella modernità sono composte da una stessa “materia”. Sovranità, norme giuridiche e cultura dei diritti, discipline, biopoteri e norme scientifiche, tecniche di sicurezza e di controllo sono ingranaggi che, articolandosi diversamente, hanno dato vita a macchine politiche differenti: dall’assolutismo allo stato di polizia, dal totalitarismo nazista e stalinista al liberalismo. Foucault utilizza il nome delle lotte partigiane di liberazione contro i fascismi, «resistenza»139, per indicare anche le lotte contro il dispotismo dolce delle liberaldemocrazie; il suo intento non è, però, invitare il suo pubblico alla lotta armata contro i governi liberali come se essi equivalessero a delle dittature. In «Bisogna difendere la società» Foucault accenna alla presenza di dinamiche razziste non solo nel nazismo e nello stalinismo, ma anche nello «stato capitalista»; se tale corso prende in esame l’ipotesi secondo cui il potere, e quindi anche la resistenza al potere, è tout court assimilabile alla guerra, è, però, solo per scartarla. In seguito, nella Nascita della biopolitica, Foucault denuncia come «fobia di stato» e come «critica inflazionista»140 quell’operazione intellettuale che consiste nel porre un’equivalenza tra stato assistenziale e stato di polizia, stato fascista e stato totalitario141, svalutando «il meno attraverso il più», «il meglio attraverso 139

Naturalmente, «resistenza» è anche il termine con cui le dottrine filosofico-giuridiche, almeno fin dall’età medievale, designano il diritto di opposizione a un regime ingiusto (a questo proposito si veda, ad esempio, lo studio: Zancarini, Jean-Claude, Le droit de Résistance. XIIe-XXe siècle, Paris, ENS, 2000). Durante la seconda guerra mondiale, è sull’esempio francese che il termine è venuto a indicare anche i movimenti clandestini che si opposero in armi, in Europa e in Asia, alle potenze dell’alleanza Roma-Berlino-Tokio (cfr. Galli della Loggia, Ernesto, Resistenza, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. 10). 140 Cfr. Nascita della biopolitica, cit., Lezione del 31 gennaio 1979 (sopratutto pp. 73-74), Lezione del 7 febbraio e Lezione del 7 marzo 1979 (soprattutto pp. 154-157). Pochi giorni dopo la morte di Foucault, un breve estratto della lezione del 31 gennaio 1979, intitolato La phobie d’État è comparso su «Libération» (n° 967, 30 juin-1er juillet 1984, p. 21). L’articolo non è stato però inculso nei Dits et écrits (lo è stato invece il testo pronunciato da Foucault durante una conferenza stampa del 1981, pubblicato nello stesso numero di «Libération» a p. 22: Face aux Gouvernements, les droits de l’homme, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 355). 141 «Il primo elemento che mi sembra attraversi effettivamente la tematica generale della fobia dello stato, dunque, è la potenza intrinseca dello stato rispetto al suo oggetto-bersaglio costituito dalla società civile. Il secondo elemento che ritroviamo costantemente nei temi generali della fobia di stato è l’idea che esista una parentela, una sorta di continuità gene-

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il peggio»142. Foucault reperisce l’origine di questa posizione nel pensiero neoliberale, secondo cui lo stato sarebbe dotato di un’endogena «potenza di espansione»143 che lo spingerebbe a colonizzare la società civile, e secondo cui ogni provvedimento dello stato sociale (con l’eccezione di quelli ispirati al principio di sussidiarietà) conterrebbe in sé il pericolo di una deriva totalitaria. Al tempo stesso, criticando questa opinione, il filosofo francese prende anche le distanze da un atteggiamento diffuso nei movimenti di sinistra degli anni settanta, che proprio Deleuze ha mostrato di condividere in occasione del caso Croissant (1977)144: l’atteggiamento secondo cui, nel presente, in ogni episodio di irrigidimento giudiziario sarebbe possibile ravvisare il sintomo di una tendenza alla fascistizzazione intrinseca allo stato liberale145. In questa contestazione della critica inflazionistica dello stato, non è azzardato ipotizzare che Foucault sia mosso da un’attenzione all’attualità, e soprattutto da un senso di responsabilità verso il suo pubblico. Il significato implicito in queste lezioni di Foucault può essere, infatti, racchiuso in un sillogismo proposizionale: se a forme differenti di potere è opportuno rispondere con differenti azioni di resistenza, e se lo stato fascista è radicalmente diverso dallo stato liberale, la lotta armata contro lo stato, utilizzata nelle guerre di liberazione dal nazifascismo, risulterà inappropriata per condurre una resistenza efficace contro le politiche sociali dei governi neoliberali. Contro la fobia inflazionistica dello stato, nelle lezioni del 7 febbraio e del 7 marzo 1979, Foucault sostiene che furono gli ordoliberali tedeschi, per contrastare ogni intervento dello stato sul mercato, a presentare il nazismo tica, di implicazione evolutiva tra diverse forme di stato – lo stato amministrativo, lo stato assistenziale, lo stato burocratico, lo stato fascista, lo stato totalitario – considerate tutte, a seconda del tipo di analisi, come i rami successivi di un solo e identico albero che cresce in modo continuo e unitario, ovvero il grande albero dello stato. Queste due concezioni, vicine tra loro e che si sostengono reciprocamente […] mi sembra costituiscano una specie di luogo comune critico che si ritrova oggi molto di frequente. Ora, a mio avviso, questi temi mettono in circolazione un certo valore critico, una certa moneta critica, che potremmo definire inflazionistica» (Nascita della biopolitica, cit., p. 155). 142 Ivi, p. 156. 143 Ivi, p. 154. 144 Si torni al paragrafo 3.2 Foucault, Deleuze e Nietzsche. Foucault allude probabilmente al caso Croissant nella lezione del 21 febbraio 1979, quando chiede al suo pubblico: «Cosa si intende per Rechtsstaat, per stato di diritto, di cui avrete senz’altro sentito parlare spesso, se non altro leggendo i giornali l’anno scorso?» (Nascita della biopolitica, cit., p. 141). 145 «Immaginiamo che in un sistema come il nostro un poveretto infranga la vetrina di un cinema, sia giudicato da un tribunale e venga condannato in maniera un po’ troppo severa: ci sarà sempre qualcuno che dirà che una simile condanna è il segno della fascistizazione dello stato, come se prima di ogni stato fascista non ci fossero state condanne di questo genere, e anche peggio» (ivi, p. 156).

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come caratterizzato da una crescita indefinita dello stato che sarebbe stata esito della pianificazione economica. Foucault non esita a giudicare queste teorizzazioni «forzature» finalizzate a «liquidare, in un’unica critica»146 la politica economica dell’Unione Sovietica e l’interventismo economico delle politiche keynesiane degli Stati Uniti, identificando la prima con il “male assoluto” incarnato dal nazismo, e presentando il secondo come una tappa intermedia verso lo stesso esito. Contro l’interpretazione che accomuna nazismo e stalinismo in un totalitarismo inteso come «accrescimento indefinito di un potere di stato», rivedendo in parte le proprie precedenti convinzioni, in queste lezioni Foucault sostiene che il nazismo coincise, al contrario, con un deperimento della sovranità statale, con la moltiplicazione dei centri di potere147, con la subordinazione dello stato al partito148. Con queste tesi, egli sposa un’interpretazione che lo avvicina non solo ad Arendt, ma anche a Franz Neumann: il regime nazista non fu il trionfo dello stato Leviatano, il regno dell’ordine, ma assomigliò piuttosto al dominio di Behemoth, fu il regno del caos149. Contro le forzature neoliberali, Foucault sottolinea quindi 146

Ivi, p. 107. «Il nazismo coincide con il declino dello stato per varie ragioni. Questo appare, in primo luogo, nella stessa struttura giuridica della Germania nazionalsocialista, poiché, com’è noto, lo stato nazionalsocialista aveva perso lo statuto di personalità giuridica, in quanto poteva essere definito, in linea di diritto, esclusivamente come lo strumento di qualcosa che era il vero e proprio fondamento del diritto, vale a dire il popolo, il Volk. Il principio del diritto e, al tempo stesso, l’obiettivo ultimo di ogni organizzazione, di ogni istituzione giuridica, stato compreso, è il Volk nella sua organizzazione in quanto comunità, il popolo come Gemeinschaft. […] In secondo luogo, nel nazismo lo stato risulta screditato, in un certo senso, dall’interno, poiché, come sapete, nel nazismo il principio di funzionamento interno degli apparati, di tutti gli apparati, non era una gerarchia di tipo amministrativo, con il particolare rapporto tra autorità e responsabilità, caratteristico dell’amministrazione europea dal XIX secolo in poi. Il suo principio di funzionamento era, invece, quello del Führertum, il principio della conduzione, della guida, a cui dovevano corrispondere la fedeltà e l’obbedienza; il che significa che, nella forma stessa della struttura dello stato, non si doveva conservare nulla della comunicazione verticale, dal basso in alto e dall’alto in basso, tra i vari elementi della Gemeinschaft, del Volk. In terzo luogo, infine, l’esistenza del partito e di tutto l’insieme legislativo che regolava i rapporti tra l’apparato amministrativo e il partito, faceva ricadere l’essenziale dell’autorità sul partito, a scapito dello stato» (ivi, p. 103). 148 Cfr. ivi, p. 158. 149 Leviatano e Behemoth sono due mostri biblici che compaiono nel Libro di Giobbe. Hobbes fa del Leviatano il simbolo dello stato, del Behemoth il simbolo della dissoluzione dello stato, della guerra civile e dell’anarchia. Hobbes intitola Behemoth la sua analisi della guerra civile inglese (scritta attorno al 1670, e pubblicata per la prima volta nel 1679), Franz Neumann (1900-1954) la sua analisi del nazionalsocialismo (Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, New York, Oxford University Press, 1942, trad. it. Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano, Bruno Mondadori, 1999, prima ed. it. Milano, Feltrinelli, 1977). Come Foucault in queste lezioni, Neumann evidenzia la moltiplicazione dei centri 147

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le differenze che sussistono tra stato assistenziale e stato totalitario150; contro le forzature di alcuni movimenti della nuova sinistra ribadisce che nella governamentalità liberale a essere in gioco non è un rafforzamento, ma al contrario un indebolimento del potere statale: A essere attualmente in questione nella nostra realtà non è tanto l’accrescimento dello stato e della ragion di stato, quanto piuttosto la sua attenuazione, che vediamo comparire nelle nostre società del XX secolo sotto due forme: la prima, rappresentata appunto dalla diminuzione della governamentalità dello stato attraverso l’accrescimento della governamentalità di partito; la seconda, costituita dall’altra forma di indebolimento che possiamo constatare in regimi come il nostro, in cui si tenta di ricercare una governamentalità liberale. […] Dicendo tutto ciò, non intendo formulare alcun giudizio di valore. Parlando di governamentalità liberale, e usando il termine “liberale”, non intendo affatto sacralizzare o conferire fin da subito un particolare valore a quel determinato tipo di governamentalità. Ma non voglio nemmeno dire che non sia legittimo, eventualmente, detestare lo stato. Credo, tuttavia, che si debba evitare di immaginare che, nel momento in cui si denuncia la statalizzazione o la fascistizzazione, o l’instaurazione di una violenza statale, e così via, si stia descrivendo un processo reale, attuale, che ci riguarda direttamente. Tutti coloro che partecipano alla grande fobia dello stato, che almeno sappiano che stanno andando nel senso della corrente e che, in effetti, un po’ dappertutto e da anni, si annuncia una reale diminuzione dello stato, della statalizzazione e della governamentalità statalizzante e statalizzata151.

Se nella lezione del 21 febbraio 1979 il nostro autore si sofferma sulle teorie neoliberali dello stato di diritto (Rechtsstaat), non è quindi per tesserne l’elogio, ma per presentarle come espressione dell’arte di governo che caratterizzerebbe l’attualità: un’arte specifica, contrapposta a quella dello stato di polizia o del fascismo, che prevede per i cittadini «possibilità concrete, istituzionalizzate ed efficaci, di ricorso contro la potenza pubblica»152. Esito dello stato di diritto e della sua difesa dell’individuo dalle ingerenze del potere statale nelle politiche neoliberali, sarebbe, per Foucault, non solo la di potere caratteristica del regime nazista; inoltre egli sottolinea la confusione concettuale presente nell’ideologia nazista e nei suoi slogan, e le contraddizioni della politica economica della Germania di quegli anni. Nell’interpretazione di Neumann, se è vero, come affermano gli autori neoliberali, che il regime nazista introdusse elementi di economia pianificata, è anche vero che esso lasciò intatti gli interessi del grande capitale. 150 «Lo stato assistenziale, lo stato del benessere, non ha la stessa forma né, mi sembra, la stessa matrice, la stessa origine dello stato totalitario, dello stato nazista, fascista o stalinista» (Nascita della biopolitica, cit., p. 158). 151 Ibid. 152 Ivi, p. 143.

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valorizzazione della libertà d’impresa, ma anche la fabbricazione dell’individualità liberale, del soggetto imprenditore di se stesso che è il suo proprio capitale. Secondo il nostro autore, nello stato di diritto, al depotenziamento della sovranità è associato il potenziamento di altre modalità di governo: a proliferare sono non solo i meccanismi di sicurezza e di controllo, ma anche le istituzioni giudiziarie e le istanze di arbitrato, necessarie per risolvere gli inevitabili conflitti che sorgono tra soggetti che si riconoscono portatori di interessi contrapposti153. Per Foucault, quindi, la governamentalità liberale obbedisce a una precisa idea di umanità e impone una specifica forma di vita. Essa è una riedizione del potere pastorale, e si attua mediante interventi sociali che limitano il potere dello stato in nome della libertà del mercato. Le pratiche di resistenza al neoliberalismo, per chi vorrà attuarle, mancheranno quindi il loro obbiettivo se assumeranno la logica della sovranità traducendosi in lotta per la presa del potere statale, o in guerra allo stato; esse dovranno invece muovere dalla comprensione della realtà dello stato di diritto, e far uso delle tutele giuriche che esso offre (gli interventi di Foucault in occasione del caso Croissant, sono, in fondo, una difesa dello stato di diritto). Ma soprattutto tali pratiche dovranno comprendere un’interrogazione critica dei processi di soggettivazione liberali, e promuovere la sperimentazione di nuovi modi di vita. Se gli ultimi studi di Foucault, come mostrerò nel prossimo capitolo, si rivolgono all’etica, non è pertanto un segno dell’estinzione dell’interesse politico del filosofo francese, ma piuttosto una conseguenza della radicalizzazione delle sue analisi dei fenomeni politici.

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«Nella società liberale in cui il vero soggetto economico non è l’uomo dello scambio, né il consumatore o il produttore, ma l’impresa, e in un regime economico e sociale in cui l’impresa non è semplicemente un’istituzione, ma un modo di comportarsi nel campo economico [...], vedete bene come, in questa società d’impresa, più la legge lascerà agli individui la possibilità di comportarsi come vogliono nella forma della libera impresa, più si svilupperanno nella società forme molteplici e dinamiche peculiari dell’unità “impresa”, e più, nello stesso tempo, le superfici di frizione tra queste diverse unità si moltiplicheranno e si estenderanno, e più aumenteranno le occasioni di conflitto e di litigio. [...] Moltiplicate le imprese si moltiplicheranno le frizioni, gli effetti ambientali e, di conseguenza, [...] si moltiplicheranno inevitabilmente i giudici. La progressiva riduzione dei funzionari, o meglio la fine della burocratizzazione dell’azione economica che i piani comportavano, unita alla demoltiplicazione della dinamica delle imprese, rende al contempo necessario avere delle istanze giudiziarie o in ogni caso delle istanze di arbitrato sempre più numerose» (ivi, pp. 148-149).

6 Per un’etica della resistenza

6.1 La sessualità, dispositivo biopolitico La volontà di sapere, come Foucault spiega nella prefazione all’edizione italiana, è il primo volume, introduttivo, di un’opera più ampia, la Storia della sessualità, il cui disegno nel 1976 non è ancora del tutto delineato1. Nella quarta nota del saggio il filosofo francese annuncia un secondo volume, dedicato alla pastorale cristiana della carne, Les aveux de la chair, di cui attualmente resta un vasto abbozzo inedito2. Nel maggio e nel giugno 1984, poco prima 1

Così recitano le primissime righe della prefazione all’edizione italiana: «Questo volume apre una serie di studi che non pretendono essere continui, né esaustivi; si tratterà di qualche sondaggio in un territorio complesso. I volumi successivi sono indicati solo a titolo provvisorio. Il mio sogno sarebbe un lavoro di lungo respiro, capace di correggersi man mano che si sviluppa, aperto alle reazioni che suscita, alle congiunture che gli toccherà d’incontrare, e forse a ipotesi nuove. Lo vorrei un lavoro disperso e mutevole» (La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 7, prima ed. it. 1978, prima ed. La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976). 2 Cfr. ivi, nota 4, p. 22. Del progetto di questo testo si ha testimonianza anche nella conversazione con Foucault, tenutasi a Berkeley nell’aprile 1983, che Hubert Dreyfus e Paul Rabinow hanno pubblicato in appendice alla seconda edizione del loro studio su Foucault (Afterword (1983): On the Genealogy of Ethics: An Overview of Work in Progress, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago, The University of Chicago Press, 19832, prima ed. 1982; ora in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, testo n° 326; trad. it. Postfazione 2: Sulla genealogia dell’etica: Compendio di un work in progress, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault: Analitica della verità e storia del presente, Firenze, Ponte alle Grazie, 1989). I due studiosi americani, nella loro postfazione, riassumono così il progetto editoriale della Storia della sessualità: «Il secondo e il terzo volume della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e Les aveux de la chair gettano le basi per una complessa genealogia del soggetto moderno. Un terzo libro, Le souci de soi, complementare alla Storia della sessualità, si presenta come un’analisi della grande attenzione che il mondo antico rivolgeva alla cura di sé, mostrando la varie fasi attraverso le quali le tecniche di dominio di sé si sono sviluppate» (Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 282). Alla morte di Foucault, nel 1984, i suoi manoscritti sono stati affidati al suo compagno Daniel Defert. I diritti e la proprietà morale appartengono, però, a Denys Foucault e Francine Fruchaud, fratello e sorella del nostro autore. Le decisioni editoriali vengono prese in comune, nel rispetto della volontà testamentaria di Foucault, che vieta publicazioni postume («Pas de publication

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della morte del nostro autore, escono, invece, L’uso dei piaceri e La cura di sé 3 che prendono in esame l’etica sessuale degli antichi Greci e Romani4. Nonostante le aggiunte e i parziali cambiamenti che Foucault apporterà al suo progetto iniziale, La volontà di sapere conserva, nelle linee generali, il suo carattere d’introduzione ai due volumi successivi, costituendo un quadro di riferimento generale in cui collocarli. È utile, però, leggere L’uso dei piaceri e La cura di sé alla luce non solo de La volontà di sapere, ma anche di Sorvegliare e punire e dei corsi al Collège de France degli ultimi anni settanta e dei primi anni ottanta: alcune costanti metodologiche riscontrabili nelle ultime riflessioni del filosofo francese permettono, infatti, di coglierne più a fondo il senso. In questi libri e in queste lezioni, l’analisi dei giochi di verità caratteristici di diverse età della storia dell’occidente è condotta sempre in relazione all’analisi dei giochi di potere a cui la produzione di verità è legata. L’intento di Foucault è di operare una critica del dispositivo di sapere-potere del suo tempo attraverso l’esposizione di differenti modi di pensare e di praticare la politica; le sue ricognizioni storiche vanno sempre lette come fasi di una «storia del presente»5, come genealogie che, mostrando ciò che gli uomini e le donne sono diventati a causa della governamentalità moderna, aprono loro la possibilità di divenire altri. Se negli ultimi studi di Foucault la sessualità è presentata come dimensione privilegiata di costituzione dell’individualità, posthume»). Nell’intervista rilasciata a Guillaume Bellon, e pubblicata sulla rivista on line «Revue Recto/Verso» («Je crois au temps...» Daniel Defert légataire des manuscrits de Michel Foucault, in «Revue Recto/Verso», n° 1, juin 2007, www.revuerectoverso.com), Defert precisa che L’uso dei piaceri era stato inizialmente pensato da Foucault come una prefazione a La cura di sé, e riguardo alla mancata diffusione del «quarto tomo della Storia della sessualità, Les aveux de la chair», spiega che esso «rientra assolutamente nella categoria delle pubblicazioni postume». Poi aggiunge: «I Dits et écrits non vi rientrano, perchè abbiamo incluso nella raccolta soltanto i testi che erano già stati pubblicati o che erano in corso di pubblicazione al momento della morte; per quanto riguarda i corsi, essi avevano avuto una forma di pubblicità orale. Les aveux de la chair è un altro problema» (traduzione mia). 3 L’usage des plaisirs, Paris, Gallimard, 1984, trad it. L’uso dei piaceri, Milano, Feltrinelli, 1984; Le souci de soi, Paris, Gallimard, 1984, trad. it. La cura di sé, Milano, Feltrinelli, 1985. 4 Foucault rende conto delle modifiche apportate, col tempo, al primo progetto della Storia della sessualità, nell’introduzione a L’uso dei piaceri, concludendo con queste parole: «Quanto a coloro per i quali crearsi problemi, cominciare e ricominciare, cercare, sbagliare, riprendere tutto da cima a fondo, e trovare ancora il modo di esitare a ogni passo, coloro, insomma, per i quali lavorare in modo problematico e in un continuo travaglio intellettuale, equivale a una posizione dimissionaria, be’, non siamo, chiaramente, dello stesso pianeta» (L’uso dei piaceri, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 13). Nel 1984, Foucault – nonostante le sue condizioni di salute oramai precarie – dichiara di essere comunque intenzionato a proseguire la sua opera con un libro sulla confessione cristiana (cfr. ivi, p. 17). 5 Cfr. Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1993, p. 34 (prima ed. it 1976, prima ed. Sourveiller et punir, Paris, Gallimard, 1975). E si torni alla nota 87 del quinto capitolo.

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ad esempio, non è solo per effetto di un’evidenza sociologica, ma anche e soprattutto per la necessità di un confronto con la psicoanalisi, determinata dal ruolo centrale assunto dal freudomarxismo nella cultura politica dei movimenti degli anni settanta. Nella prima metà degli anni settanta, ricostruendo la storia della psichiatria e della prigione, Foucault mostra come il potere delle discipline, nato nei monasteri medievali per poi diffondersi in numerose istituzioni (collegi, ospedali, prigioni...) a partire dal XVI secolo, si applichi ai corpi degli individui e li addestri come oggetti manipolabili, rendendoli al tempo stesso oggetti di studio per le scienze umane. Se in un primo momento il nostro autore sostiene che l’età delle discipline si estende fino alla contemporaneità, nella seconda metà degli anni settanta egli afferma che, a partire dal XVIII secolo, poteri e saperi disciplinari sono divenuti strumenti della biopolitica, il cui correlato epistemico è una riformulazione statistica delle scienze umane. La tesi difesa da Foucault è, allora, che la razionalità governamentale complessiva del dispositivo politico della tarda modernità, da cui sarebbe percorso anche il neoliberalismo del secondo dopoguerra, ha origine in un potere pastorale di origine cristiana, che al governo macrofisico dell’intera società unisce il governo microfisico dei singoli individui. Ne La volontà di sapere Foucault indaga come questo potere pastorale provveda al governo non solo della corporeità, ma anche dell’interiorità degli individui, considerati questa volta come soggetti parlanti, produttori di verità sul proprio sé. Come afferma Deleuze6, Foucault tratteggia in questo saggio cartografie sorprendenti: mostra che il «dentro» è un «fuori ripiegato», e che quella piega del rapporto del sé con sé che una lunga tradizione ci ha abituati a chiamare “anima”, “interiorità”, oppure “inconscio”, non è connaturata al singolo, ma è prodotta da saperi e poteri che gli preesistono, e che lo avvolgono fin dal suo venire al mondo. Sorprendente per l’opinione pubblica della nuova sinistra degli anni settanta, La volontà di sapere lo è fin dalle prime pagine: Foucault vi contesta l’opinione secondo cui la sessualità avrebbe subito il massimo della repressione durante l’età vittoriana, e sarebbe poi stata liberata da Freud7. Se, secondo la vulgata freudomarxista del tempo, sarebbero state le esigenze produttive del sistema industriale a rendere necessaria la sublimazione delle «energie sessuali» della classe lavoratrice in «forza produttiva»8, Foucault 6 Cfr. Deleuze, Gilles, I piegamenti o il dentro del pensiero (soggettivazione), in Foucault, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 96-123, prima ed. Paris, Minuit, 1986. 7 Cfr. La volontà di sapere, cit., pp. 9-10. 8 «Questo discorso sulla moderna repressione del sesso regge bene, probabilmente perché è

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contesta la possibilità di stabilire una relazione causale tra l’ascesa del capitalismo e la repressione del sesso. A quella che chiama «la grande predica» della liberazione sessuale9, a quei discorsi «in cui il sesso, la rivelazione della verità, il rovesciamento della legge del mondo, l’annuncio di un’altra era e la promessa di una certa felicità sono legati insieme»10, Foucault contrappone la tesi secondo cui la relazione che lega potere e sesso nelle società occidentali moderne non è principalmente la repressione. Censure, divieti, proibizioni, occultamenti rientrerebbero piuttosto in una strategia più ampia, il cui esito sarebbe non la repressione, ma la produzione delle sessualità (sia della norma sessuale, sia delle correlative anormalità). Dando un’ulteriore prova di aver abbandonato l’essenzialismo della Storia della follia per un radicale nominalismo, il nostro autore sostiene che la posizione della sessualità rispetto al potere non è di esteriorità o irriducibilità, ma anzi di stretta compenetrazione, collaborazione, sinergia. La sessualità, secondo Foucault, è un dispositivo biopolitico: un intreccio complesso di relazioni di potere, di modi d’azione, di pratiche teoriche che determinano l’individuo nei suoi rapporti con sé stesso, con chi lo governa, con la popolazione a cui appartiene, con la società che lo circonda, con la vita dell’intera specie umana. Albero motore di questo dispositivo è la confessione, e il sesso – inteso religiosamente come tentazione o peccato, biologicamente come funzione riproduttiva o istinto, o psicologicamente come principio di piacere o desiderio – lungi dall’essergli contrapposto come la natura alla cultura, gli è invece correlato11. facile farlo. Una grossa cauzione storica e politica lo protegge; facendo nascere l’epoca della repressione nel XVII secolo, dopo centinaia d’anni all’aria aperta e di libera espressione, la si porta a coincidere con lo sviluppo del capitalismo: farebbe corpo con l’ordine borghese. La piccola cronaca del sesso e delle sue vessazioni si traspone immediatamente nella storia cerimoniosa dei modi di produzione; la sua futilità svanisce. [...] Il sesso e i suoi effetti non sono forse facilmente decifrabili; così ricollocata, invece, la loro repressione si analizza agevolmente. E la causa del sesso – della sua libertà, ma anche della conoscenza che se ne acquisisce e del diritto che si ha di parlarne – si trova con piena legittimità legata all’onore di una causa politica: anche il sesso s’inscrive nell’avvenire» (ivi, p. 11). 9 «Una grande predica sessuale – che ha avuto i suoi teologi sottili e le sue voci popolari – ha attraversato la nostra società da qualche decina d’anni; ha fustigato il vecchio ordine, denunciato le ipocrisie, cantato il diritto dell’immediato e del reale; ha fatto sognare un’altra città» (ivi, p. 13). 10 Ibid. 11 «L’idea “del sesso” permette di eludere quel che fa il “potere” del potere: permette di pensarlo solo come legge e divieto. Il sesso, quest’istanza che sembra dominarci, questo segreto che ci appare sottostante a tutto ciò che siamo, questo punto che ci affascina per il potere che manifesta e per il senso che nasconde, al quale domandiamo di rivelarci quel che siamo e di liberare quel che ci definisce, il sesso non è probabilmente che un punto ideale, reso necessario dal dispositivo di sessualità e dal suo funzionamento» (ivi, p. 138).

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Se in Sorvegliare e punire Foucault descrive le società occidentali come macchine panottiche, dominate dallo sguardo silenzioso dei poteri disciplinari, ne La volontà di sapere le ritrae come il campo della confessione generalizzata, come comunità percorse da un brusio diffuso e incessante, diretto con discrezione dal potere pastorale. Scopo della confessione è prelevare verità dal sesso degli individui: se altre culture hanno interrogato il sesso per trarne piacere, l’occidente ne ha fatto una questione di verità, sviluppando non un’ars erotica, ma una scientia sexualis: La nostra civiltà, almeno a un primo approccio, non ha un’ars erotica; al contrario, è la sola, probabilmente, a praticare una scientia sexualis. O piuttosto, ad aver sviluppato, nel corso dei secoli, per dire la verità sul sesso, delle procedure finalizzate nell’essenziale a una forma di potere-sapere rigorosamente opposta all’arte delle iniziazioni e al segreto magistrale: la confessione. [...] L’individuo si è per molto tempo autenticato in riferimento agli altri e attraverso la manifestazione del suo legame con essi (famiglia, rapporto di vassallaggio, protezione); in seguito lo si è autenticato attraverso il discorso di verità che era capace o obbligato a fare su se stesso. La confessione della verità si è iscritta nel seno delle procedure d’individualizzazione da parte del potere12.

Il mondo occidentale non sarebbe quindi il luogo in cui il sesso è stato posto sotto silenzio, ma al contrario quello che ha prodotto la maggiore incitazione a parlare del sesso, a interrogarlo, a interpretarlo. Il sesso è l’oggetto privilegiato della confessione, ciò che maggiormente deve essere rivelato, perché più segreto (ciò che maggiormente deve essere confessato, perché più inconfessabile); anzi, secondo Foucault, esso è costituito come segreto dal dispositivo di sessualità affinché possa essere confessato13. Attraverso la confessione del sesso, e quindi attraverso il rapporto con un con12 Ivi, pp. 53-54. Ne La volontà di sapere, per fornire esempi di culture che hanno elaborato un’ars erotica, Foucault nomina, accanto alle società orientali (Cina, Giappone, India), anche l’antica Roma. Questo è uno dei punti su cui, proseguendo nella ricerca, Foucault cambierà opinione: «Uno dei numerosi punti su cui avevo torto in quel libro [La volontà di sapere] era costituito da ciò che vi ho affermato a proposito di questa ars erotica. Avrei dovuto contrapporre la nostra scienza del sesso a un’altra pratica contraria a essa, presente nella nostra cultura. I Greci e i Romani non avevano alcuna ars erotica che potesse essere confrontata con l’ars erotica cinese (o almeno non era una cosa molto importante nella loro cultura). Essi avevano una techne tou bion in cui l’economia del piacere giocava un grande ruolo. In questa “arte della vita”, la nozione secondo la quale occorreva esercitare una perfetta padronanza su se stessi, è rapidamente diventata il problema principale. E l’ermeneutica cristiana di sé ha costituito una nuova elaborazione di questa techne» (Sulla genealogia dell’etica, cit., p. 263). 13 «Quel che è caratteristico delle società moderne non è che abbiano condannato il sesso a restare nell’ombra, ma che siano condannate a parlarne sempre, facendolo passare per il segreto» (La volontà di sapere, cit., pp. 35-36).

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fessore-precettore (prete, maestro, istitutore, giudice, psichiatra, psicologo o psicoanalista), l’individuo occidentale conosce se stesso: solo attraverso la mediazione di un pastore la verità del sesso può emergere dalle profondità dell’io, rivelando quanto di più segreto e d’importante si cela nell’interiorità di ogni essere umano14. Di questa incitazione al discorso sul sesso, ne La volontà di sapere Foucault racconta la storia. Secondo la sua ricostruzione, l’abitudine a confessare tutto sul sesso si sviluppa in età medievale, assieme alle discipline, come tecnica di direzione di coscienza all’interno delle comunità monastiche, ed estende progressivamente il proprio raggio d’azione: nasce come pratica elitaria, e nel tempo diviene pratica di massa. Il quarto Concilio Laterano (1215) rende la confessione obbligatoria per tutti i fedeli. Dopo il Concilio di Trento (1545-1563), la pastorale cattolica accresce il dominio della confessione: da questo momento in poi non solo gli atti, ma i pensieri più reconditi, i desideri più profondi, le fantasie più segrete devono essere confessati. Dal XVIII secolo, infine, di questa ingiunzione al discorso nata nella confessione cristiana, si appropriano le discipline e i biopoteri: si sviluppa così un’incitazione politica, economica, medica, pedagogica (e non più solo religiosa e morale) a confessare il sesso. Nel XIX secolo sono molti i centri in cui si parla di sesso: biologia, medicina, psichiatria, psicologia, giustizia penale, pedagogia, demografia elaborano tutta una serie di controlli sociali rivolti alle coppie, ai genitori, ai figli. Secondo Foucault, quindi, il processo che ha investito la sessualità in età moderna non è stata un’omertà crescente ma, al contrario, un’«esplosione discorsiva». Non si tratta però di un solo discorso, ma di discorsi molteplici organizzati attorno a nuclei diversi e dispersi: i discorsi sul sesso si sono progressivamente moltiplicati e differenziati, non contro il potere e fuori di esso, ma come esercizi di potere15.

14 «La verità non risiede soltanto nel soggetto che, confessando, la porterebbe alla luce nella sua pienezza; si costituisce attraverso un doppio gioco: presente ma incompleta, cieca a se stessa in colui che parla, può completarsi solo in chi la raccoglie. [...] Colui che ascolta non sarà solo il padrone del perdono, il giudice che condanna o assolve; sarà il padrone della verità. La sua funzione è ermeneutica. Rispetto alla confessione il suo potere non è soltanto di esigerla, prima che sia fatta, o di decidere, dopo che è stata proferita, ma di costituire, attraverso di essa e la sua decifrazione, un discorso di verità» (ivi, p. 62). 15 «Il Medioevo aveva organizzato intorno al tema della carne e della pratica della penitenza un discorso abbastanza saldamente unitario. Nel corso degli ultimi secoli, questa relativa unità è stata scomposta, dispersa, moltiplicata in un’esplosione di discorsività distinte che hanno preso forma all’interno della demografia, della biologia, della medicina, della psichiatria, della psicologia, della morale, della pedagogia, della critica politica» (ivi, p. 34).

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L’esito di questa «incitazione regolata e polimorfa ai discorsi»16 sul sesso, secondo Foucault non è l’imposizione di una “norma” sessuale (la coppia eterosessuale feconda, che assicura la riproduzione di forza-lavoro), attraverso la repressione delle anormalità sessuali. Se in Sorvegliare e punire e nel corso su Gli anormali, il nostro autore sostiene che il potere carcerario non serve a ridurre, ma anzi a produrre la delinquenza, analogamente, ne La volontà di sapere afferma che il dispositivo di sessualità non riduce, ma produce le perversioni. All’interno della storia di tale dispositivo, Foucault riconosce due momenti topici. Il primo, potremmo dire con Deleuze, corrisponde alla «piega» della sessualità nell’interiorità e ha il Concilio di Trento come evento simbolico: prescrivendo di confessare non solo e non tanto gli atti (ciò che si fa, che si agisce), ma soprattutto i desideri sessuali (ciò che si pensa, si fantastica, si desidera: ciò da cui si viene agiti), la pastorale sancisce che il controllo sul sesso non riguarda primariamente le relazioni tra le persone – come nel caso dello stupro, dell’adulterio o dei rapporti prematrimoniali –, ma piuttosto il rapporto di ognuno con sé stesso, con le verità profonde della propria anima. Il secondo punto di svolta, che coincide con l’appropriazione del dispositivo di sessualità da parte delle scienze umane, è segnato dalla cristallizzazione della sessualità in identità sessuali. A partire dal XVII secolo, gradualmente, muta l’ambito di appartenenza della trasgressione sessuale: essa non contravviene più soltanto la norma giuridica (le prescrizioni della pastorale, il diritto canonico, o la legge civile), ma anche la norma naturale. Questo spostamento genera due nuove categorie, il contro-natura e la perversione, che non si legano a un atto singolo, ma che etichettano indelebilmente alcuni individui per tutta la vita: Non senza lentezze ed equivoci leggi naturali del matrimonio e regole immanenti alla sessualità cominciano a iscriversi su due registri distinti. Si delinea un mondo della perversione che è secante rispetto a quello dell’infrazione legale o morale, ma non ne è soltanto una varietà. Tutto un piccolo popolo nasce, diverso dai vecchi libertini nonostante qualche relazione di parentela. Dalla fine del XVIII secolo fino al nostro, corrono negli interstizi della società, perseguitati ma non sempre dalle leggi, rinchiusi spesso ma non sempre nelle prigioni, malati forse, ma scandalose, pericolose vittime, preda d’uno strano male che porta anche il nome di vizio e talvolta di delitto. Bambini troppo svegli, ragazzette precoci, domestici ed educatori equivoci, mariti crudeli o maniaci, collezionisti solitari, passeggiatori dagli strani impulsi; essi popolano i consigli di disciplina, le case di correzione, le colonie penitenziarie, i tribunali e i manicomi; portano dai medici la loro infamia e dai giudici la loro

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malattia. È l’innumerevole famiglia dei perversi, che sono vicini ai delinquenti e si apparentano ai pazzi17.

Foucault prende in esame differenti identità perverse: la donna isterica, il bambino masturbatore, il feticista; ma il caso esemplare, in cui la formazione artificiale dell’identità perversa emerge con maggior evidenza, è quello dell’omosessuale: Questa nuova caccia alle sessualità periferiche comporta un’incorporazione delle perversioni ed una specificazione nuova degli individui. La sodomia – quella degli antichi diritti civile o canonico – era un tipo particolare di atti vietati; il loro autore ne era soltanto il soggetto giuridico. L’omosessuale del XIX secolo, invece, è diventato un personaggio: un passato, una storia, e un’infanzia, un carattere, una forma di vita; una morfologia anche, con un’anatomia indiscreta e forse una fisiologia misteriosa. [...] Non bisogna dimenticare che la categoria psicologica, psichiatrica, e medica dell’omosessualità si è costituita il giorno in cui – il famoso articolo di Westphal del 1870 sulle “sensazioni sessuali contrarie”18 può essere considerato come data di nascita – è stata caratterizzata piuttosto attraverso una certa qualità della sensibilità sessuale, una certa maniera d’invertire in se stessi l’elemento maschile e quello femminile, che attraverso un tipo di relazioni sessuali. L’omosessualità è apparsa come una delle figure della sessualità quando è stata ricondotta dalla pratica della sodomia a una specie di androginia interiore, un ermafroditismo dell’anima. Il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie19.

Soltanto dalla metà del XIX secolo, quindi, secondo Foucault, l’omosessualità ha cessato di essere un problema di atti ai quali il soggetto può decidere se abbandonarsi o no, ed è diventata una questione di desideri, di fantasie, di personalità che richiede tutto un lavoro di comprensione e di decifrazione che il soggetto può condurre nel confessionale con il prete-pastore, sul lettino con l’analista, o attraverso un silenzioso dialogo con se stesso. Questo lavoro coinvolge non solo gli omosessuali, ma anche gli eterosessuali: anch’essi sono costretti a confessare i loro desideri omosessuali, a riconoscerli per allontanarli da sé e per accedere così all’identità eterosessuale20. Come 17

Ivi, pp. 39-40. Foucault si riferisce all’articolo Die Konträre Sexualempfindung, in «Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten», n° 1, 1870. Neurologo e psichiatra tedesco, Karl Friedrich Westphal (1833-1890) ha lasciato il suo nome a una forma ereditaria di paralisi, la malattia di Westphal. 19 La volontà di sapere, cit., pp. 42-43. 20 Le poche parole che Foucault dedica alla costruzione dell’identità omosessuale ne La volontà di sapere, assieme alla prefazione da lui scritta nel 1980 alla traduzione inglese delle me18

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ormai è noto, nella ricostruzione di Foucault, le perversioni non sono, infatti, ostacoli che il potere deve abbattere per costruire una società ordinata, ma morie di un ermafrodito vissuto nell’Ottocento (Introduction to Herculine Barbin, Being the Recently Discovered Memoirs of a Nineteenth Century French Hermaphrodite, New York, Pantheon Books, 1980, poi, con il titolo Le vrai sexe, in «Arcadie», n° 323, novembre 1980, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testi nn. 276 e 287, trad. it. Il vero sesso, in «Aperture. Punti di vista a tema», n° 3, 1997, ora anche in Discipline, Poteri, Verità. Detti e scritti 1970-1984, Genova-Milano, Marietti, 2008), e ai pochi articoli in cui Foucault discute, in termini teorici, politici, ma anche personali, il tema dell’omosessualità (si vedano: De l’amitié comme mode de vie, in «Gai pied», n° 25, 1981, ora in Dits et écrits cit., vol. II, testo n° 293, trad. it. Dell’amicizia come modo di vita, in «Aperture. Punti di vista a tema», n° 3, 1997, ora anche in Discipline, Poteri, Verità, cit.; Michel Foucault, an Interview: Sex, Power and the Politics of Identity, in «The Advocate», n° 400, 7 august 1984, ora in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 358, trad. it. in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 20; Le gay savoir (intervista del luglio 1978), in Le Bitoux, Jean, Entretiens sur la question gay, H&O, Béziers, 2005, trad it. Il gay sapere, in «aut-aut», n° 331, 2006) hanno inaugurato una lunga serie di studi dedicati alla costruzione medica e sociale dell’identità sessuale, che negli anni novanta hanno avuto a loro volta un interessante sviluppo nelle teorie queer, volte a contestare la naturalità e la fissità delle identità sessuali e a evidenziare la comune genesi delle identità omosessuali, transessuali ed eterosessuali nei giochi di potere e di sapere del dispositivo moderno della sessualità. L’aggettivo inglese «queer», rivolto agli uomini omosessuali come epiteto dispregiativo, è stato utilizzato per la prima volta per designare le teorie decostruzioniste dell’identità sessuale da Teresa de Lauretis in una conferenza tenuta all’Università di Santa Cruz (California) nel 1990: Queer Theory: Lesbian and Gay Sexualities. An Introduction, in «Differences», n° 3, 1991. Oltre ai testi di de Lauretis, tra cui Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999, uno dei più interessanti sviluppi della teoria foucaultina della sessualità è senza dubbio costituito dall’opera di Judith Butler, di cui ricordo qui almeno: Gender Trouble, London-New York, Routledge, 1990 e 19992, trad. it. Scambi di genere, Firenze, Sansoni, 2004; The Psychic Life of Power, Stanford, Stanford University Press, 1997, trad. it. La vita psichica del potere, Roma, Meltemi, 2005; Undoing Gender, LondonNew York, Routledge, 2004, trad. it. La disfatta del genere, Roma, Meltemi, 2006. Tra i saggi che, riprendendo il pensiero di Foucault, hanno sviluppato, in ambito culturale anglosassone, una teoria critica gay-lesbica, ricordo inoltre: Sedgwick, Eve Kosofsky, Epistemology of the Closet, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1990; Blasius, Mark, Gay and Lesbian Politics: Sexuality and the Emergence of a New Ethic, Philadelphia, Temple University Press, 1994; Bersani, Leo, Homos, Cambridge (Massachusetts)-London, Harward University Press, 1995; Halperin, David M., Saint Foucault: Towards a Gay Hagiography, New York-Oxford, Oxford University Press, 1995; Id., How to do the History of Homosexuality, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2002. Tra i testi italiani che hanno proseguito queste ricerche, ricordo inoltre: Zanotti, Paolo, Il gay. Dove si racconta come è stata inventata l’identità omosessuale, Roma, Fazi, 2005; Vitelli, Roberto, Bottone, Mario, Sisci, Nicola, Valerio, Paolo, L’identità transessuale tra storia e clinica, in Rigliano, Paolo e Graglia, Margherita, Gay e lesbiche in psicoterapia, Milano, Cortina, 2006. Mi permetto, inoltre, di segnalare i miei articoli: Bernini, Lorenzo, Contro la liberazione sessuale, per un libero uso dei piaceri. Pensieri in movimento, in Pedote, Paolo e Poidimani, Nicoletta (a cura di), We will survive! Lesbiche, gay, trans in Italia, Milano, Mimesis, 2007; Id., La decostruzione filosofica del binarismo sessuale. Dal freudomarxismo alle teorie transgender, in Inghilleri, Marco e Ruspini, Elisabetta (a cura di), Transessualità e scienze sociali. Identità di genere nella postmodernità, Napoli, Liguori, 2008, poi ampliato e riedito come Maschio e femmina Dio li creò!? Una critica transmodernista del binarismo sessuale, in «Polemos», n° 2, 2008.

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supporti su cui il potere appoggia per avanzare, per penetrare capillarmente nella società, nella famiglia, tutt’intorno e “dentro” l’individuo (non importa se “perverso” o “normale”) per controllarlo. Questo è valido anche nel caso della psicopedagogia della masturbazione dell’Ottocento, che Foucault ha già analizzato nel corso su Gli anormali21, e a cui dedica alcune pagine anche ne La volontà di sapere22. La posta in gioco delle crociate contro la masturbazione, secondo il nostro autore, non è l’estinzione dell’autoerotismo, ma l’estensione del controllo normalizzatore della medicina e dei saperi psicologici sulle famiglie: la sessualità degli adulti, degli educatori ma soprattutto dei genitori, è messa in questione a partire dalla problematizzazione di quella dei bambini23. In contraddizione con i luoghi comuni del freudomarxismo, Foucault sottolinea inoltre come le tecniche più rigorose di controllo sessuale siano sperimentate inizialmente sulle famiglie privilegiate (i cui figli sono istruiti da precettori o nei collegi, e sottoposti a controlli medici), e non sulla classe lavoratrice24: a lungo le classi popolari sfuggono al dispositivo di sessualità, fino a quando, nel corso dell’Ottocento, non vengono organizzate campagne per la moralizzazione delle famiglie operaie e rurali, segno dello sviluppo governamentale dell’amministrazione statale, che progressivamente produrrà politiche d’igiene pubblica, di medicalizzazione e di scolarizzazione delle popolazioni. Allora il dispositivo di sessualità assumerà connotati non solo pastorali, ma più propriamente biopolitici, e si troverà sussunto all’interno di un più ampio dispositivo governamentale di fronte al quale, secondo l’ultimo Foucault, una resistenza che voglia essere efficace dovrà declinarsi in senso non bellico, ma etico. 21

Cfr. il paragrafo 5.1 Microfisica del potere: il potere produttivo delle discipline. Cfr. La volontà di sapere, cit., pp. 41 e ss. 23 Cfr. ivi, p. 88. 24 «È la borghesia che ha cominciato a considerare il proprio sesso come una cosa importante, un fragile tesoro, un segreto la cui conoscenza era indispensabile. Non bisogna dimenticare che il personaggio che per primo è stato investito dal dispositivo di sessualità, uno dei primi a esser “sessualizzato”, fu la donna “oziosa”, ai limiti del “mondo”, dove doveva sempre figurare come valore, e della famiglia in cui le si assegnava una parte nuova di obblighi di sposa e di madre: così è apparsa la donna “nervosa”, la donna affetta da “vapori”; qui ha trovato il suo punto d’innesto l’isterizzazione della donna. Quanto all’adolescente che sperpera in piaceri segreti la sua futura sostanza, il bambino onanista che ha tanto preoccupato i medici e gli educatori dalla fine del XVIII fino alla fine del XIX secolo, non era il bambino del popolo, il futuro operaio al quale si sarebbero dovute insegnare le discipline del corpo; era il collegiale, il bambino circondato da domestici, da precettori e governanti, e che rischiava di compromettere non tanto una forza fisica, ma delle capacità intellettuali, un dovere morale e l’obbligo di conservare alla sua famiglia e alla sua classe una discendenza sana» (ivi, pp. 107-108). 22

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6.2 Potere, soggettività, resistenza Se L’archeologia del sapere può essere considerato il testo metodologico in cui Foucault cerca di tirare le somme sulla prima fase, archeologica, del suo pensiero, manca, invece, una riflessione sistematica del filosofo francese sull’ultima fase, genealogica, del suo percorso teorico. Foucault non ha mai scritto un libro sul potere, ma ha effettuato studi circostanziati su forme di potere specifiche che investono ambiti differenti dell’esperienza umana: la follia e la malattia, il delitto e i comportamenti sessuali, il governo delle individualità e l’amministrazione della popolazione. È la natura del metodo genealogico, che comporta il rifiuto di generalizzazioni semplificatrici, a impedire di trarre da questi studi una “teoria” del potere. Nonostante ciò, negli ultimi libri di Foucault, e nelle lezioni, nelle interviste, negli interventi, nei saggi brevi che ne hanno accompagnato la produzione, è possibile reperire un filo rosso che, senza ridurre a unità i vari testi, li tiene assieme. All’origine delle molteplici ricognizioni storiche del filosofo francese sul potere è possibile riconoscere un’intenzione costante: alla volontà di sapere delle scienze umane e delle teorie politiche, al loro tentativo di stabilire verità ultime sulle cui basi edificare norme universali per la convivenza degli uomini e delle donne, Foucault contrappone un’ostinata, pervicace volontà di resistere. È la resistenza, o ancora meglio, è la ricerca della libertà attraverso la resistenza, a orientare l’ultima fase del pensiero del nostro autore. Non a caso, tale fase è caratterizzata anche dall’engagement di Foucault, dalla sua partecipazione di intellettuale alle discussioni più urgenti dell’attualità politica e sociale: dal suo contributo critico all’opinione pubblica del suo tempo. Nella prospettiva del discorso storico-politico, e della teoria marxista della lotta di classe che Foucault prende in esame in «Bisogna difendere la società», resistere significa costruire un fronte compatto contro il sistema di potere in atto, al fine di rovesciarlo, di sostituirlo una volta per tutte con un nuovo ordinamento politico. Come ho già ripetuto più volte, Foucault non condivide questa visione guerriera della resistenza. La sua prospettiva d’azione politica è, invece, post-rivoluzionaria, ed esclude la possibilità di istituire un “regno dei fini” su questa terra attraverso il rovesciamento violento dei rapporti di forza esistenti. La microfisica e la macrofisica elaborate da Foucault non permettono del resto l’individuazione di un luogo del potere che sia possibile occupare ultimativamente. Il potere non è qualcosa che si possiede, che si può cedere, acquistare o conquistare: esiste solo nel suo esercizio, come modo di relazione tra soggetti25. Esso non si 25

«Ora, lo studio di questa microfisica suppone che il potere che vi si esercita non sia concepito come una proprietà, ma come una strategia, che i suoi effetti di dominazione non

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localizza «nelle relazioni fra lo stato e i cittadini o alla frontiera delle classi»26, ma percorre la società attraverso molteplici vie, concentrandosi in numerose istituzioni disperse nel tessuto sociale, dando forma ai rapporti interpersonali, accerchiando i corpi dei singoli individui e penetrando nelle loro personalità, e al tempo stesso incanalandosi negli ampi flussi della politica amministrativa dello stato sul corpo della popolazione. In Sorvegliare e punire Foucault afferma che a un potere così costituito, a questo potere composto da infiniti poteri, si contrappongono infinite forme di resistenza, diffuse e localizzate, talvolta puntuali, che solo in particolari momenti della storia moderna sono riuscite a trovare una sintesi unitaria dando vita a movimenti rivoluzionari27. Ne La volontà di sapere, egli precisa, poi, che la posizione occupata da queste molteplici resistenze non è di esteriorità rispetto al potere. Tra potere e resistenza sussiste, anzi, un rapporto di coimplicazione: la resistenza non può darsi senza il potere a cui si contrappone, ma anche il potere non può darsi in quanto potere in assenza di possibilità di resistenza: [I rapporti di potere] non possono esistere che in funzione di una molteplicità di punti di resistenza, i quali svolgono, nelle relazioni di potere, il ruolo di avversario, di bersaglio, d’appoggio, di sporgenza per una presa. Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere. Non c’è dunque rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto. Ma delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie, improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per definizione, non possono esistere che nel campo strategico delle relazioni di potere, ma questo non vuol dire che ne siano solo la conseguenza, il segno in negativo, che costituisce, rispetto alla dominazione essenziale, un rovescio in fin dei conti sempre passivo, destinato indefinitamente alla sconfitta. Le resistenze non dipendono da un qualche principio eterogeneo; ma non sono nemmeno illusione o promessa necessariamente delusa. Sono l’altro termine delle relazioni di potere, vi s’iscrivono come ciò che sta irriducibilmente di fronte a loro. Sono dunque, anch’esse, distribuite in modo irregolare28. siano attribuiti a un’“appropriazione”, ma a disposizioni, manovre, tattiche, funzionamenti, che si decifri in esso piuttosto una rete di relazioni sempre tese, sempre in attività, che non un privilegio che si potrebbe detenere, che gli si dia per modello la battaglia perpetua, piuttosto che il contratto operante una cessione o la conquista che si impadronisce di un dominio. Bisogna insomma ammettere che questo potere lo si eserciti piuttosto che non lo si possieda, che non sia “privilegio” acquisito o conservato dalla classe dominante, ma effetto d’insieme delle sue posizioni strategiche – effetto che manifesta e talvolta riflette la posizione di quelli che sono dominati» (Sorvegliare e punire, cit., p. 30). 26 Ibid. 27 Cfr. ivi, pp. 30-31. 28 La volontà di sapere, cit., p. 85.

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Per quanto possa stupire, quando, agli inizi degli anni ottanta, Hubert Dreyfus e Paul Rabinow iniziano a stendere il loro studio sul pensiero di Foucault, egli, nei colloqui avuti con loro, riconosce di non aver sviluppato una riflessione organica sul significato che il termine “potere” assume nei suoi testi29. Per soddisfare l’esigenza di chiarificazione sollevata dai due studiosi americani, il filosofo francese stende una postfazione per la prima edizione del loro saggio, pubblicata nel 1982. Qui, oltre a fornire una definizione di “potere”, il nostro autore sviluppa anche una riflessione più estesa sui temi della soggettività e della resistenza. La postfazione è divisa in due articoli, intitolati Perché studiare il potere: la questione del soggetto e Come si esercita il potere? 30. Nel secondo di essi, Foucault precisa che, nelle sue opere, il potere non deve essere considerato una categoria metafisica od ontologica, ma piuttosto una nozione euristica, che consente di indagare empiricamente, in realtà storiche specifiche, come effettivamente funzionano le relazioni politiche, sociali, interpersonali tra i soggetti31. Secondo Foucault, il potere «mette in gioco le relazioni tra gli individui (o tra i gruppi)»32: esso non deve pertanto essere confuso con la tecnica, che è la capacità umana di agire sulle cose, né – e questo è un passaggio importante per il confronto tra Foucault e Habermas che affronterò nei prossimi capitoli – con le relazioni comunicative. Operando questa distinzione, Foucault non esclude che la manipolazione del mondo e la trasmissione di significati possano essere subordinati a scopi di potere, ma precisa che non sempre lo sono. Sono quindi possibili interazioni finalizzate all’intesa, alla comprensione reciproca, che non veicolino rapporti

29 «Nelle discussioni avute con lui, Foucault ha convenuto che il suo concetto di potere risulta eccessivamente vago, anche se importante. Egli ha generosamente accettato di rimediare a ciò, proponendoci di includere in questo libro un saggio sul potere fino ad ora rimasto inedito. Gliene siamo estremamente riconoscenti» (Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 10). 30 Ora raccolti anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 306. 31 «Per dirla chiaramente, ritengo che avviare l’analisi con un “come” significa suggerire che il potere, come tale, non esiste. Come minimo, si dovrebbe chiedere quali contenuti si hanno in mente quando si fa uso di questo termine, onnicomprensivo e reificante; si potrebbe sospettare che ci si lasci sfuggire una configurazione estremamente complessa di diverse realtà, quando si segna il passo davanti alla duplice domanda: che cos’è il potere? da dove proviene il potere? La semplice domanda: che cosa avviene?, sebbene piatta ed empirica, una volta che sia stata esaminata attentamente, mostra di non avere il compito di far passare in modo surrettizio una metafisica o una ontologia del potere, ma di consentire piuttosto un’interrogazione critica sulle tematiche del potere» (Come si esercita il potere?, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 245). 32 Ivi, p. 246.

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di potere: di fianco alle volontà di sapere, e di potere-resistenza, c’è posto anche per una volontà di intesa33. Per Foucault, la specificità delle relazioni di potere, ciò che le differenzia dalle abilità tecniche e dalla trasmissione di significati, è che esse consistono in «azioni che agiscono su azioni»: il potere sussiste tra i soggetti nel momento in cui essi si influenzano vicendevolmente, condizionando l’uno il comportamento dell’altro. Secondo questa definizione, i soggetti tra cui si stabiliscono relazioni di potere hanno come attributo fondamentale la libertà: solo se un soggetto è libero di obbedire o di disobbedire, infatti, è possibile operare al fine di determinare le sue azioni. Per questa sua caratteristica, secondo il nostro autore, il potere non appartiene all’ordine del consenso – inteso come rinuncia alla propria libertà e cessione dei propri diritti attraverso la delega –, e non coincide con la violenza – con l’esercizio della forza che annulla le libertà altrui non lasciando altra possibilità di scelta oltre l’obbedienza34. È questa la ragione per cui l’ultimo Foucault respinge l’idea che il potere possa essere analizzato attraverso un paradigma interpretativo modellato sulla guerra. A suo avviso, la specificità del potere non 33

È lo stesso Foucault, in questo testo, a operare un riferimento esplicito ad Habermas. Scrive, infatti: «Ciò non significa tuttavia che si tratti di tre ambiti separati. Né che ci sia da un lato il campo delle cose, della tecnica finalizzata, del lavoro e della trasformazione del reale; dall’altro quello dei segni, della comunicazione, della reciprocità e della produzione di significati; e infine quello del controllo, dei mezzi di costrizione, della diseguaglianza e dell’azione degli uomini sugli uomini. Si tratta di tre tipi di relazioni che di fatto si sovrappongono sempre le une sulle altre, si sostengono reciprocamente e si usano come mezzi per un fine». E, in nota, aggiunge: «Quando Habermas distingue tra dominio, comunicazione e attività finalizzata, non penso che egli veda in essi tre ambiti separati ma piuttosto tre trascendentali» (ibid.). Vincenzo Sorrentino (Il pensiero politico di Foucault, Roma, Meltemi, 2008), contestando l’opinione di Axel Honneth secondo cui Foucault ignorerebbe il ruolo costitutivo dei processi di intesa rispetto alle relazioni sociali (Cfr. Honneth, Axel, Kritik der Macht: Reflexionsstufen einer kritischen Gesellschaftstheorie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1986, trad. it. Critica del potere: La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Bari, Dedalo, 2002) dà particolare risalto a questi passaggi (cfr. Sorrentino, Vincenzo, Il pensiero politico di Foucault, cit., pp. 257-259), tanto da giungere quasi a interpretare le ultime riflessioni di Foucault sul concetto greco di parresia come una risposta del filosofo francese alla teoria habermasiana dell’etica del discorso: «Ciò che maggiormante interessa Foucault è il dialogo quale componente della parresia: più precisamente, il dialogo concepito non solo come una procedura in vista dell’intesa (parresia democratica), ma anche e soprattutto come parte di un’arte dell’esistenza, ossia di una pratica volta a dare uno stile alla propria vita (parresia filosofica). È nell’intersecarsi di etica e politica che si apre lo spazio del dialogo» (ivi, pp. 274-275). 34 «Ovviamente la messa in gioco delle relazioni di potere non esclude l’uso della violenza, non più di quanto lo escluda l’acquisizione del consenso; senza dubbio l’esercizio del potere non può avvenire senza l’uno o l’altra; anzi, spesso ricorre contemporaneamente ad entrambi. Ma anche se il consenso o la violenza ne sono gli strumenti o i risultati, essi non costituiscono il principio, o la natura fondamentale del potere» (Come si esercita il potere?, cit., p. 248).

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può essere colta né utilizzando categorie belliche, né adoperando categorie giuridiche: il concetto di “potere” ha, piuttosto, un sinonimo in quello di “governo”35. Affermare che il potere-governo si esercita solo su soggetti liberi, significa sostenere che l’esercizio del potere apre necessariamente la possibilità della resistenza, ovvero la possibilità, per tali soggetti, non di sottrarsi alla situazione di potere in cui si trovano, né semplicemente di rovesciarla, ma di modificarla: Nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c’è la resistenza della volontà e l’intransigenza della libertà. Piuttosto che parlare di una libertà essenziale, sarebbe più opportuno parlare di un “agonismo”, di un rapporto che è al contempo di incitamento reciproco e di lotta; più che di un affrontamento faccia a faccia che paralizza entrambe le parti, si dovrebbe parlare di una provocazione permanente36.

Foucault mette in guardia da un possibile errore metodologico: non bisogna considerare il potere come una “sovrastruttura” localizzata al di sopra delle relazioni sociali, che potrebbe essere un giorno demolita definitivamente. Il potere, inteso come mutuo condizionamento dei comportamenti, è anzi precisamente ciò in cui consistono i legami sociali: il potere non è al di sopra della società, ma è dappertutto nella società, e proprio per questo – come Foucault afferma in un’intervista del 198237 – esiste sempre la possibilità di resistere. Infatti, se il potere è necessario all’esistenza di ogni società, non è necessaria la forma che il potere prende in una società data38. Nel secondo saggio della postfazione al testo di Dreyfus e Rabinow, 35

«Governare, in questo senso, significa strutturare il campo di azione possibile degli altri. La relazione specifica del potere non dovrebbe dunque essere cercata dal lato della violenza e della lotta, né dal lato del legame volontario (questi possono essere, soltanto degli strumenti di potere), ma piuttosto nell’area di quel singolare modo d’azione, né bellico, né giuridico, che è il governo» (ivi, p. 249). 36 Ibid., corsivi miei. 37 Si tratta di un’intervista rilasciata nel giugno 1982, ma poi pubblicata nell’agosto 1984 sulla rivista «The Advocate». Qui Foucault afferma: «Non possiamo metterci al di fuori della situazione [del potere], e in nessun posto possiamo essere liberi da ogni rapporto di potere. Ma possiamo sempre trasformare la situazione. Non ho mai voluto dire che siamo sempre in trappola, ma, al contrario, che siamo sempre liberi. Insomma, che esiste sempre la possibilità di trasformare le cose» (Michel Foucault, un’intervista: Il sesso, il potere e la politica dell’identità, in Archivio Foucault 3, cit., p. 300, prima ed. Michel Foucault, an Interview: Sex, Power and the Politics of Identity, cit.). 38 «Dire infatti che non può esistere una società senza relazioni di potere non equivale a dire che le relazioni che si sono istituite risultano necessarie, e nemmeno, in ogni caso, che il potere costituisce una fatalità irraggiungibile nel cuore della società» (Come si esercita il potere?, cit., p. 250).

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Come si esercita il potere?, quasi traendo una prescrizione metodologica dal suo percorso teorico dallo studio del potere disciplinare a quello della biopolitica, Foucault sostiene che un luogo privilegiato per analizzare le relazioni di potere sia costituito dalle singole istituzioni (carceri, manicomi, ospedali, collegi, scuole)39, e che solo in seconda istanza tale analisi debba rivolgersi allo stato considerato come organismo unitario che le ha «governamentalizzate»40. Nel primo saggio della postfazione, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, invece, il filosofo francese individua nel fatto stesso della resistenza il punto di partenza per avviare l’analisi del potere: laddove la struttura del potere è messa in questione, laddove emergono i suoi punti di fragilità, è possibile cogliere l’arbitrarietà delle presunte verità che ne costituiscono le fondamenta e operarne la critica. La resistenza, in questo senso, può essere utilizzata «come un catalizzatore chimico che permetta di mettere in evidenza le relazioni di potere, di localizzare la loro posizione, di scoprire i loro punti di applicazione e i metodi utilizzati»41. Ad esempio, secondo Foucault, ciò che accomuna le lotte della nuova sinistra degli anni sessanta e settanta – «l’opposizione al potere esercitato dagli uomini sulle donne, dai genitori sui figli, dalla psichiatria sul malato di mente, dalla medicina sulla popolazione, dall’amministrazione sul modo in cui la gente vive»42 – e che può consentire di comprendere la natura dei poteri che agiscono nell’attualità, è la messa in questione dello «statuto dell’individuo» nel vigente «governo dell’individualizzazione»43. Secondo il filosofo francese, queste lotte non cercano una soluzione dei conflitti del presente nel futuro, «vale a dire in una liberazione, in una rivoluzione, nella fine della lotta di classe», ma agiscono nell’attualità di cui sono parte. Si tratta di lotte «immediate», «anarchiche»44, che nella dimensione del qui ed ora «oppongono una resistenza agli effetti di potere che sono connessi al sapere, alla competenza e alla qualificazione», e rappresentano «un rifiuto dell’inquisizione scientifica o amministrativa che determina la nostra identità»45. La ricerca di una libera costruzione di

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Cfr. ibid. Cfr. ivi, p. 252. 41 Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Dreyfus, Hubert e Rabinow, Paul, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 239. 42 Ivi, p. 240. 43 Ibid. 44 Ibid. Molti dei temi di questo saggio erano stati formulati da Foucault già in una conferenza del 1978 a Tokyo: Gendai no kenryoku wo tou, in «Asashi Jaanaru», 2 giugno 1978, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 534, trad. it. La filosofia analitica della politica, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 4. 45 Perché studiare il potere, cit., p. 240. 40

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identità e di un’elaborazione di nuovi stili di vita, che si esprime in queste lotte, è, insomma, il segno della presenza di un potere pastorale che provvede a una messa in forma della vita umana attraverso l’imposizione di identità coattive. Queste lotte, per il nostro autore, esprimono il tentativo di resistere alla modalità di soggettivazione che è il correlato di ciò che è diventato lo stato moderno: a quel governo della popolazione e delle individualità che utilizza procedure disciplinari e biopolitiche, meccanismi di controllo e politiche di sicurezza – e che si serve delle verità normalizzanti delle scienze umane e dell’economia46. Già in un articolo del 1979, a proposito delle rivoluzione iraniana, Foucault ha sostenuto che attraverso la rivolta «la soggettività si introduce nella storia e le trasmette il suo soffio vitale»47; in questo testo del 1982, nel momento in cui riconosce nella resistenza al potere pastorale contemporaneo il «catalizzatore» che ha innescato la sua riflessione critica, egli interpreta retrospettivamente tutto il suo percorso teorico, rileggendolo sotto la cifra della ricerca sulla soggettività. Egli afferma, allora, che in tutti i suoi studi, da quelli archeologici degli anni sessanta, fino a quelli genealogici degli anni settanta e dei primi anni ottanta, l’oggetto d’indagine centrale è stato non il potere, ma il soggetto, e che la riflessione sul potere non è stata che una conseguenza necessaria dell’analisi dell’«oggettivazione del soggetto»48. Questa omogeneità non avrebbe impedito, tuttavia, a Foucault 46 «Riassumendo, il principale obiettivo di queste lotte non è tanto di attaccare “questa o quella” istituzione di potere, o gruppi, o élite, o classi, quanto piuttosto una forma o una tecnica di potere. Questa forma di potere viene esercitata sulla vita quotidiana immediata e classifica gli individui in categorie, li marca attraverso la loro propria individualità, li fissa alla loro identità, impone loro una legge di verità che essi devono riconoscere e che gli altri devono riconoscere in loro. È un tipo di potere che trasforma gli individui in soggetti. Ci sono due significati della parola soggetto: soggetto a qualcun altro, attraverso il controllo e la dipendenza, e soggetto vincolato alla propria identità dalla coscienza o dalla conoscenza di sé. In entrambi i significati viene suggerita una forma di potere che soggioga o assoggetta» (ivi, p. 241). 47 Cfr. Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 6, p. 135, prima ed. Inutile de se soulever?, in «Le Monde», n° 10661, 11-12 maggio 1979, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 269). 48 «Non è il potere a costituire il tema generale delle mie ricerche, ma il soggetto. È vero che sono stato indotto ad interessarmi direttamente alle questioni del potere. Ben presto mi è apparso chiaro che appena il soggetto umano è catturato all’interno di rapporti di produzione e di relazioni di significato, è nella stessa misura catturato all’interno di rapporti di potere che sono molto complessi. Ora, mi è sembrato che [...] per quanto riguarda le relazioni di potere non avessimo strumenti di analisi a disposizione e che facessimo ricorso a dei modi di pensare il potere basati esclusivamente su modelli giuridici: che cosa legittima il potere? Oppure che facessimo ricorso a dei modi di pensare il potere basati su dei modelli istituzionali: che cosa è lo stato? Era pertanto necessario allargare le dimensioni di una possibile

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di operare variazioni sul tema: nei testi del filosofo francese – è lui stesso ad ammetterlo – il termine “soggetto” si colloca, infatti, in differenti aree semantiche. Ne Le parole e le cose, ad esempio, all’interno di una ricerca di tipo epistemologico, il “soggetto” si configura come “oggetto” di studio delle scienze umane. Nell’analisi filosofico-politica della Storia della follia, di Sorvegliare e punire e di alcune parti de La volontà di sapere, “soggetto” indica l’“oggetto”, corporeo e simbolico, manipolato dalle tecniche disciplinari, dalle pratiche confessionali, dalla governamentalità biopolitica, secondo i criteri di normalità stabiliti dalle scienze umane. In altre parti de La volontà di sapere, e negli altri due volumi della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e La cura di sé, infine, utilizzato in una riflessione filosofica di tipo etico, “soggetto” indica l’ideatore e l’attore di un progetto di vita personale, colui che edifica creativamente i propri rapporti con sé e con gli altri49. In un’intervista del maggio 1984, rilasciata a Rabinow, Foucault associa questi tre modi di concepire il soggetto a tre operazioni distinte: la decostruzione delle scienze umane (finalizzata a liberare il pensiero dalla forza coattiva della verità), l’analisi del funzionamento del potere (intenzionata a fare affiorare nuove letture della politica), l’esame dei modi storici del rapporto a sé (condotto allo scopo di suggerire la possibilità di edificare creativamente nuove forme di etica, nuovi modi di esistenza): Per certi aspetti, si potrebbe dire che cerco di analizzare le relazioni tra scienza, politica e etica. Ma non credo che sarebbe una rappresentazione del tutto esatta del lavoro che voglio fare. Non vorrei restare su questo livello; cerco, piuttosto, di vedere come i processi abbiano potuto interferire tra di loro nella costituzione di un ambito scientifico, di una struttura politica, di una pratica morale50.

definizione del potere se si voleva utilizzare questa definizione per studiare l’oggettivazione del soggetto» (Perché studiare il potere, cit., pp. 237-238). 49 Cfr. ivi, p. 237. 50 Polemica, politica e problematizzazioni, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 15, p. 244; prima ed. Polemics, Politics and Problematizations, in Rabinow, Paul (a cura di), The Foucault Reader, New York, Pantheon Books, 1984; anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 342. Poco dopo, Foucault aggiunge: «In questi tre ambiti – quello della follia, quello della delinquenza e quello della sessualità – ho pertanto privilegiato ogni volta un aspetto particolare: la costituzione di un’oggettività, la formazione di una politica e di un governo di sé, l’elaborazione di un’etica e di una pratica di se stessi. Ma ogni volta, ho anche cercato di mostrare il posto occupato dalle altre due componenti necessarie per la costituzione di un campo d’esperienza. Si tratta, in fondo, di diversi esempi in cui sono implicati i tre elementi fondamentali di ogni esperienza: un gioco di verità, delle relazioni di potere, delle forme di rapporto con sé e con gli altri. E se, in un certo modo, ognuno di questi esempi privilegia uno di questi tre aspetti – poiché l’esperienza della follia si è recentemente organizzata soprattutto come un

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Foucault, quindi, nei suoi ultimi anni di vita, rappresenta la sua ricerca filosofica con un tracciato tridimensionale, disegnato in riferimento a tre assi: scienza, politica, etica. Nella sua terminologia, l’asse della scienza indica le coordinate della verità, quello della politica le coordinate del potere, quello dell’etica le coordinate del rapporto a sé. Nello studio delle curve del dispositivo politico della modernità, queste coordinate non possono essere dedotte da una funzione matematica, ma devono essere determinate in base a rilevamenti empirici – la loro aleatorietà deriva dalla libertà che caratterizza la condizione umana. Infatti, se sapere e potere si producono a vicenda, e se entrambi determinano il rapporto dei soggetti con il proprio sé, ogni mossa di potere-sapere si compie sempre all’interno di un gioco dialettico con la resistenza. La critica mossa a Foucault da Sartre e dai sartriani negli anni sessanta51, di voler costruire una storia strutturalista in cui non ci sarebbe spazio per la praxis, per l’azione libera e creativa degli uomini e delle donne, sicuramente non può essere estesa all’ultima fase del pensiero di Foucault. Qui, anzi, troviamo una forte affermazione della libertà degli individui, che può realizzarsi attraverso un esercizio etico-critico del sé sul sé che il filosofo francese apprende dall’etica stoica della cura di sé, e che associa all’Aufklärung di Kant. La soggettività che Foucault pone al centro della propria riflessione, non è, naturalmente, la soggettività oggettivata dai saperi sull’uomo, né quella assoggettata alla sovranità politica: al contrario è quella soggettività che emerge dalla resistenza a ogni oggettivazione e assoggettamento. In alternativa tanto alle teorie rivoluzionarie marxiste o freudomarxiste, quanto all’antropologia economicista del liberalismo, la forma di resistenza che Foucault contrappone alla governamentalità contemporanea, è quella di un’estetica dell’esistenza che ha come fine l’edificazione non di nuovi modi di potere, di forme più tollerabili di governo, ma del governo di se stessi: essere padroni di sé, «costruire la propria vita come se fosse un’opera d’arte», cioè dando a sé stessi le proprie regole di condotta – divenire autonomi, quindi, accettando di non essere indipendenti, e riconoscendo, anzi, di dipendere dai poteri e dai saperi che ci costituiscono.

campo di sapere, quella del crimine come un ambito di intervento politico, mentre quella della sessualità si è definita come un luogo etico –, ho voluto mostrare, ogni volta, come gli altri due elementi fossero presenti, quale fosse il loro ruolo e come ognuno di essi fosse influenzato dalle trasformazioni degli altri due» (ivi, pp. 245-246). 51 Si torni al paragrafo 2.1 La reazione marxista negli anni sessanta e settanta.

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6.3 Estetica del soggetto e controcondotte etiche Gli ultimi volumi della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e La cura di sé sono dedicati allo studio dell’etica sessuale nella Grecia classica del IV secolo a.C. e nel mondo romano ed ellenistico dei secoli I e II d.C. Fin dagli anni ottanta, illustri storici dell’antichità come Pierre Hadot, Paul Veyne52 e Mario Vegetti, hanno messo in luce i limiti delle ricostruzioni che Foucault opera in questi libri, criticando l’uso selettivo e strumentale dei testi antichi operato dal filosofo francese. Nei suoi ultimi studi, Foucault risulta in effetti preoccupato più di intervenire in modo incisivo sull’attualità che di ricostruire con precisione il passato: nello sforzo di esibire la possibilità di un’etica sessuale diversa da quella prescritta dal dispositivo di sessualità, egli dà rilevanza solo a certe fonti, trascurandone altre. Il risultato è una sopravvalutazione della libertà degli antichi, che assorbe l’intera antichità all’interno di un’interpretazione estetizzante del pensiero socratico-platonico e della sua eredità in età ellenistica, e che tiene poco conto dello sforzo di razionalizzazione e “naturalizzazzione” della conoscenza morale che si può cogliere nel pensiero antico, dai frammenti di Parmenide ad alcuni dialoghi dello stesso Platone, da alcuni passi di Aristotele a un certo stoicismo53. 52

Pierre Hadot (1922-), studioso dell’età ellenistica, e Paul Veyne (1930-), specialista della Roma antica, sono stati entrambi colleghi di Foucault al Collège de France. Nella prefazione di L’uso dei piaceri (cit., p. 13), Foucault indica i lavori di Pierre Hadot, assieme a quelli di Peter Brown, come fonti delle sue ricerche, e ringrazia sentitamente Paul Veyne («sarebbe difficile circoscrivere la sua influenza su queste pagine»). Peter Brown (1935-), studioso della tarda antichità, ha insegnato a Berkeley, oltre che a Londra e a Princeton. Di Pierre Hadot, Foucault aveva probabilmente letto: Exercises spirituels et philosophie antique, Paris, Études augustiniennes, 1981, trad. it. Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi, 1988. Di Paul Veyne, Foucault aveva probabilmente presenti: Le pain et le cirque, Paris, Seuil, 1976, trad. it. Il pane e il circo, Bologna, il Mulino, 1984; L’élégie érotique romaine: l’amour, la poesie et l’occident, Paris, Seuil, 1983, trad. it. L’amore, la poesia e l’occidente, Bologna, il Mulino, 1985. E di Peter Brown: The World of Late Antiquity: From Marcus Aurelius to Muhammad, New York, Harcourt Brace Jovanovich, London, Tames and Hudson, 1971, trad. it. Il mondo tardo antico: Da Marco Aurelio a Maometto, Torino, Einaudi, 1974; Religion and Society in the Age of Saint Augustine, London, Faber & Faber, 1972, trad. it. Religione e società nell’età di Sant’Agostino, Torino, Einaudi, 1974; Society and the Holy in Late Antiquity, Berkeley, University of California Press, 1982. Influenzato dalle ricerche di Hadot e dello stesso Foucault, nel 1988 Brown ha pubblicato: The Body and Society: Men, Women and Sexual Renunciation in Early Christianity, New York, Columbia University Press, 1988. Anche Veyne ha compiuto studi sulla sessualità degli antichi romani, e li ha raccolti nel volume Sexe et pouvoir à Rome, Paris, Taillandier, 2005. 53 Nella nota 60 del secondo capitolo, ho già riportato i titoli di alcuni saggi in cui Pierre Hadot, Paul Veyne, Mario Vegetti e Giuseppe Cambiano commentano criticamente la lettura che Foucault opera dell’antichità. Valgano qui, come esempio, le severe parole di Vegetti a proposito dell’interpretazione parziale e paradossale che Foucault fornisce dello stoicismo

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Di questi volumi di Foucault, e degli ultimi suoi corsi al Collège de France, non potrò che offrire un’esposizione sommaria: sospendendo il giudizio sulla plausibilità della ricostruzione dell’antichità offerta dal filosofo francese, metterò piuttosto in rilievo il significato che tale ricostruzione assume una volta che sia messa in relazione con l’analisi che egli ha operato del dispositivo politico della modernità. Già altri interpreti, prima di me, hanno del resto insistito sul fatto che il senso delle ultime ricerche di Foucault va cercato nel tentativo di esibire un modello di soggettivazione non riconducibile a quello borghese-liberale, che permetta di pensare e di praticare la libertà in forme che eccedono il regime dell’individuazione del potere pastorale neoliberale54. Occorre chiarire fin da subito che le differenze più rilevanti che il nostro autore reperisce tra l’etica sessuale antica e quella moderna non riguardano

nel corso al Collège de France dell’anno accademico 1981-1982: «Questa rivisitazione [dello stoicismo] conduceva forse Foucault in un ulteriore paradosso. L’etica stoica si giustificava sulla base di una fondazione antropologica – l’originaria bontà della natura umana – e della simultanea assunzione di un ordine destinale del mondo provvidenziamente garantito. Questo può apparire suggestivo in un mondo come il nostro, che abita nel deserto prodotto dal collasso delle idee di anima e di città, dunque del progresso della ragione nel tempo storico. Tuttavia i presupposti stoici possono apparire ancora più onerosi sul piano teorico di quelli che essi sono chiamati a rimpiazzare. L’idea stessa di un compito di liberazione appare contraddittoria a quella di accettazione del destino; la concezione dell’interazione sociale come in se stessa patogena, rispetto alla natura buona, rende impossibile contrapporre la società ai poteri della razionalità politica; infine, l’arte di vivere [...] è intrinsecamente connessa con un’arte del morire, nella figura di una derealizzazione del tempo dell’esistenza storica rapportato all’immutabile presente dell’ordine fatale. Tutto ciò può essere accettabile nel quadro di un anarchismo disperato (non esente dalla traccia di Nietzsche) ma difficilmente riportabile al senso di un pensiero che vuole ancora essere politico, e più precisamente di critica militante alla politica, com’è pur sempre quello di Foucault» (Vegetti, Mario, L’ermeneutica del soggetto. Foucault, gli antichi e noi, in Scritti con la mano sinistra, Pistoia, Petite plaisance, 2007, p. 136). 54 Scrive, ad esempio, Sandro Chignola (L’impossibile del sovrano, in Id. (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979), Verona, ombre corte, 2006) a proposito del «governo liberale»: «Se i greci non ne hanno l’idea, è perché essi hanno un’altra idea del processo che costituisce la “soggettività”. Non dovrebbe sorprendere che gli ultimi corsi di Michel Foucault si rivolgano alla tarda antichità, per comprendere, di quel processo di soggettivazione, l’inusitata verità» (p. 65). Anche Ottavio Marzocca (Omnes et singulatim. Ascesa e declino di un doppio vincolo, in Id., Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, manifestolibri, 2007) sostiene che «è importante cogliere il collegamento tra “goveramentalità” e “cura di sé”» (p. 192), tenendo presente «ciò che Foucault dice» di quell’homo oeconomicus che il neoliberalismo propone «come incarnazione pressoché esaustiva delle possibilità di essere libero dell’uomo contemporaneo»: «questi – secondo lui – non è affatto il depositario di una libertà irriducibile, ma è piuttosto il paradigma dell’individuo meglio governabile da parte di un governo che debba far valere le ragioni della società stando attento anche a limitarsi di fronte all’indipendenza dell’economia» (pp. 196-197).

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il «codice morale». I precetti e i divieti che tanto la cultura greca quanto la cultura romana applicano ai comportamenti sessuali non gli appaiono, infatti, molto diversi da quelli che si ritrovano nella morale cristiana del medioevo e della prima modernità. In entrambi i casi, ad esempio, dispersione del seme ed effeminatezza degli uomini sono valutati negativamente, fedeltà coniugale e astinenza sessuale positivamente. Anche tra l’uso dei piaceri (chresis aphrodision) praticato nel mondo greco classico e la cura di sé (hepimeleia heautou, cura sui ) teorizzata dallo stoicismo in età ellenistica non si trovano, secondo Foucault, elementi di differenza a livello del codice: se la seconda, rispetto al primo, risulta caratterizzata da una maggiore austerità, non è a causa di un incremento dei divieti, ma piuttosto per l’intensificazione del lavoro ascetico che il saggio deve compiere su se stesso. Nel terzo capitolo de L’uso dei piaceri, intitolato Morale e pratica di sé 55, Foucault riconosce quattro dimensioni distinte dei sistemi morali, che, utilizzando in maniera originale quattro termini della tradizione filosofica, chiama rispettivamente ontologia, deontologia, ascetica e teleologia. 1) Per il nostro autore, l’«ontologia» di un sistema morale è costituita da quegli aspetti della vita del soggetto che vengono investiti dal giudizio morale. Nella morale sessuale cristiana, a suo avviso, l’ontologia è costituita dalla carne-desiderio (che va riconosciuta, interpretata, espiata), in quella freudomarxista, che in un certo senso ne è il rovesciamento speculare, dalla sessualità (nella forma del desiderio che deve essere liberato), in quella antica, dagli aphrodisia (in latino venerea): le cose di Afrodite, cioè gli atti che danno piacere, considerati nella loro evidenza “superficiale”, e non come portatori di significati “profondi”. Se l’atto sessuale nella pastorale cristiana è un male in sé e nella “predica” freudomarxista è un bene in sé, nell’etica pagana esso è intrinsecamente tendente alla dismisura: va quindi moderato, ma non abolito. 2) Con «deontologia» Foucault indica qui, invece, il «modo di assoggettamento», cioè il modo in cui gli individui sono determinati a riconoscere i propri obblighi morali. La morale cristiana, e per il nostro autore anche quella dei movimenti degli anni settanta, sono centrate sul codice. Il loro modo di assoggettamento è, cioè, di tipo giuridico: i precetti morali sono leggi universali, divine o naturali, cui tutti devono piegarsi. La morale antica invece è centrata sulle pratiche di sé, sull’uso dei piaceri: è una scelta libera e non obbligata, non è affare di tutti, e il suo modo d’assoggettamento è di tipo estetico. Solo il saggio, infatti, solo chi vuole una vita bella, chi vuole essere un buon esempio per gli altri e lasciare un buon ricordo di sé alla posterità deve moderare il proprio uso dei piaceri, in modo 55

L’uso dei piaceri, cit., pp. 30-37.

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che essi corrispondano ai suoi bisogni (e non li eccedano), siano collocati nel tempo opportuno (della vita, dell’anno, della giornata), siano adeguati al suo status (l’esercizio sessuale che si adatta all’uomo libero e adulto è solo quello attivo-penetrativo). 3) Nel vocabolario etico foucaultiano, il termine «ascetica» designa invece l’esercizio (askesis), il lavoro su di sé che è necessario come mezzo per il costituirsi del soggetto morale. Nelle pratiche di purificazione del cristianesimo e della rivoluzione sessuale, l’ascesi è di tipo ermeneutico: decifrazione dei propri desideri per sopprimerli ed espiarli, oppure per liberarli recuperandoli dalla rimozione. Nella morale antica, invece, l’ascesi consiste nell’esercizio stesso della virtù, cioè nella continenza (enkrateia): in una lotta contro se stessi tesa a limitare una ricerca di piaceri che per sua natura tenderebbe all’eccesso. Tale esercizio non implica la soppressione dei desideri: essi vanno però assecondati solo quando effettivamente si vuole assecondarli, e quando è il momento giusto di dare soddisfazione a quei bisogni che si confanno al proprio status sociale. 4) Con «teleologia», infine, il nostro autore intende il modello finale di soggettività: che genere di soggetto si deve o si vuole diventare attraverso l’esercizio della moralità. I fini della morale sessuale cristiana sono la purezza e la salvezza dell’anima, il fine della rivoluzione sessuale è il recupero della sessualità repressa. Il fine della morale sessuale antica è, invece, la temperanza (sophrosune): la padronanza di sé, l’esercizio dei propri piaceri secondo autonomia e non secondo coazione. L’uomo temperante non è puro, ma è libero, e la libertà che gli deriva dalla padronanza di sé implica un rapporto asimmetrico con gli altri: soltanto chi sa governare se stesso, infatti, soltanto chi è virile e attivo, è in grado di governare anche gli altri (le donne, gli schiavi, gli altri uomini liberi). Naturalmente la temperanza implica un rapporto con la verità, con il logos: la ragione deve imporre la propria sovranità sui desideri. Tuttavia, secondo Foucault, nel mondo antico questo rapporto con la verità non si traduce in un’ermeneutica del desiderio finalizzata alla purificazione e all’obbedienza a precetti universali, ma in un’estetica dell’esistenza: nell’elaborazione di uno stile di vita personale armonioso e ordinato, meritevole di essere ricordato dalla posterità perché bello. Nell’etica antica, e in particolare nell’etica stoica della cura di sé come viene presentata da Epitteto (nelle Diatribe), Seneca (nel De ira, nelle Lettere) e Marco Aurelio (nei Ricordi), Foucault trova, quindi, un esempio di soggettivazione differente da quello correlato a quel dispositivo della biopolitica moderna che è la sessualità. Prendersi cura di sé stessi, per gli antichi, non significa, come nella confessione cristiana, scoprire verità sepolte nel proprio io, fare emergere da esse il peccato che segna la condizione umana, esercitare un giudizio sulla propria natura in base a un codice morale già

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dato. Né significa, come per i teorici freudomarxisti della rivoluzione sessuale, indagare tali verità per dedurre da esse la propria linea di condotta, liberando i propri desideri repressi. Al contrario, significa prendere in esame i propri comportamenti del passato per scoprire gli errori commessi e non ripeterli più, imparare ad agire autonomamente senza lasciarsi soggiogare dalle passioni, diventare padroni di se stessi, cioè compiere scelte etiche. Il sostrato ontologico di questo esame di sé non sono i desideri provenienti dall’interiorità, ma gli atti, i comportamenti sessuali e amorosi colti nella loro esteriorità. Il modo del rapporto a sé non è conoscitivo-scientifico, ma estetico; e se la padronanza di sé a cui aspira il saggio stoico comporta innanzitutto lo svincolarsi del soggetto dalle forme di comportamento eterodirette, dalla schiavitù indotta da altri uomini o dalle proprie passioni, lo scopo finale che il saggio stoico si prefigge non è la liberazione, ma la libertà56. Anzi, la cura 56

In una delle ultime interviste rilasciate nel 1984, Foucault esprime la sua diffidenza verso il concetto di “liberazione”, e la sua preferenza per quello di libertà: «Sono sempre stato un po’ diffidente nei confronti del tema generale della liberazione, nella misura in cui, se non lo si tratta con qualche precauzione e all’interno di certi limiti, rischia di riportare all’idea che esiste una natura o un fondo umano che, in seguito ad alcuni processi storici, economici e sociali, si è trovato mascherato, alienato o imprigionato in alcuni meccanismi, in certi meccanismi di repressione. In base a quest’ipotesi, basterebbe far saltare i chiavistelli repressivi perché l’uomo si riconcili con se stesso, ritrovi la sua natura o riprenda contatto con la sua origine e restauri un rapporto pieno e positivo con se stesso. Credo che questo tema non possa essere accettato così, senza verifica. Non voglio dire che la liberazione, o questa o quella forma di liberazione, non esistano: quando un popolo colonizzato cerca di liberarsi dal suo colonizzatore si tratta certamente di una pratica di liberazione, in senso stretto. Ma sappiamo benissimo che in simili casi, peraltro precisi, la pratica di liberazione non basta a definire le pratiche di libertà che saranno successivamente necessarie affinché quel popolo, quella società e quegli individui possano definire per se stessi le forme ammissibili e accettabili della loro esistenza e della società politica. È per questo motivo che insisto più sulle pratiche di libertà che sui processi di liberazione, i quali, lo ripeto, hanno un loro posto, ma non mi sembra che possano definire da soli tutte le forme pratiche di libertà» (L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 19, pp. 274-275, corsivo mio, prima ed. L’éthique de souci de soi comme pratique de la liberté, in «Concordia. Revista internacional de Filosofia», n° 6, luglio-dicembre 1984, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 356). Come ho già anticipato (nella nota 66 del quarto capitolo), in questa intervista Foucault distingue il potere dal dominio: «Quando un individuo o un gruppo sociale giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilità del movimento – con strumenti che possono essere economici, politici o militari – ci si trova di fronte a quello che può essere definito uno stato di dominio. È certo che, in un simile stato, le pratiche di libertà non esistono, o sono molto circoscritte e limitate» (ivi, p. 275). Foucault riserva alle lotte di liberazione, pertanto, la funzione di abbattere i regimi di dominio, e di rendere possibile la libertà: intesa come liberazione dal dominio, e non come liberazione della natura umana, la liberazione è talvolta condizione storica necessaria delle pratiche di libertà. Oltre all’oppressione dei regimi coloniali, come esempio di stato di dominio Foucault riporta anche la condizione femminile nei secoli XVIII e XIX (cfr. ivi, p. 285).

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di sé, così come viene concepita dallo stoicismo, secondo Foucault coincide con la libertà57, intesa non come status che può essere conquistato, ma come esercizio infinito di costruzione di sé, paragonabile alla creazione artistica. Quando Dreyfus e Rabinow preparano una seconda edizione del loro saggio su Foucault, nel 1983, alle due postfazioni del filosofo francese ne aggiungono una terza, trascrizione di conversazioni svoltesi a Berkeley nell’aprile 1983. In questa postfazione, Foucault rivela il senso politico delle sue ultime ricerche. Secondo le sue stesse parole, queste non vanno lette sotto il segno della nostalgia per un passato remoto, ma al contrario come un’interrogazione rivolta al presente. Naturalmente, a ricoprire interesse per l’attualità non sono i contenuti dell’etica antica (Foucault ricorda qui, ad esempio, che la morale sessuale dei Greci era ad uso e consumo di una società maschilista e schiavista, e non esita a definirla «disgustosa»58), ma è la sua forma. Secondo il nostro autore, l’estetica dell’esistenza degli antichi è un’etica del particolare: prima dell’avvento dei comandamenti della morale cristana, dei criteri universali di normalità delle scienza umane, delle soluzioni generalizzanti delle teorie politiche moderne (ad esempio del marxismo e del freudomarxismo), l’etica della cura di sé fa valere il principio della scelta personale59. Per queste ragioni, essa potrebbe essere di qualche interesse per 57

«I Greci problematizzavano la loro libertà, e la libertà dell’individuo, come un problema etico. Ma etico nel senso in cui potevano intenderlo i Greci: l’ethos era il modo di essere e il modo di comportarsi. Era un modo d’essere del soggetto e un certo modo di fare, visibile per gli altri. L’ethos di qualcuno si deduce dal suo modo di vestirsi, dal suo modo di fare, da come cammina, dalla calma con cui reagisce agli avvenimenti, ecc. Per loro è questa la forma concreta della libertà, è così che problematizzavano la loro libertà. L’uomo che ha un bell’ethos, che può essere ammirato e portato ad esempio, pratica la libertà in un certo modo. [...] Penso che, nella misura in cui, per i Greci, la libertà significa la non-schiavitù – una definizione della libertà comunque molto diversa dalla nostra – il problema è del tutto politico. È politico nella misura in cui la non-schiavitù nei confronti degli altri è una condizione: uno schiavo non ha etica. La libertà è dunque in sé politica. Essa ha inoltre un modello politico, nella misura in cui essere liberi significa non essere schiavi di se stessi e dei propri appetiti, il che implica che si stabilisca con se stessi un certo rapporto di dominio, di padronanza, che si chiamava arché, potere, comando» (ivi, pp. 278-279). 58 «L’etica greca del piacere è legata a una società virile, all’esclusione dell’altro, a un’ossessione della penetrazione, e a una specie di minaccia di essere privati della propria energia. Tutto ciò è molto disgustoso» (Foucault, Michel, Sulla genealogia dell’etica, cit., pp. 261-262). 59 «Non penso che si possa trovare qualcosa come una normalizzazione, ad esempio, nell’etica stoica. La ragione risiede nel fatto, credo, che l’obiettivo principale di questo tipo di etica era di ordine estetico. In primo luogo, questo tipo di etica era solamente un problema di scelta personale. In secondo luogo, era riservato a poche persone all’interno della popolazione; non si trattava di prescrivere un modello di comportamento valido per tutti. Era una scelta personale che concerneva una piccola élite. La ragione per compiere questa scelta era dettata dalla volontà di vivere una vita bella, e di lasciare agli altri il ricordo di

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i movimenti politici delle società avanzate, disillusi dalle soluzioni universali delle grandi narrazioni politiche: Ciò di cui i Greci erano preoccupati, il loro tema dominante, consiste nella costituzione di un tipo di etica che fosse un’estetica dell’esistenza. Ebbene, mi chiedo se il nostro problema oggi non sia in qualche modo simile al loro, dal momento che la maggior parte di noi non crede più che l’etica possa essere fondata sulla religione, e dato che non vogliamo un sistema legale che interferisca con la nostra vita privata, morale e personale. I recenti movimenti di liberazione soffrono per il fatto di non riuscire a trovare un principio sul quale fondare l’elaborazione di una nuova etica. Essi hanno bisogno di un’etica, ma non riescono a trovare altra etica se non quella che si fonda sulla cosiddetta conoscenza scientifica di ciò che è il sé, di ciò che è il desiderio, di ciò che è l’inconscio, e così via. Sono colpito da tale similarità di problemi60.

«Tale similarità di problemi» non deve però far dimenticare le differenze: in nessun modo l’etica antica può rispondere alle domande morali sollevate dai movimenti del presente. Secondo Foucault, sarebbe, infatti, vano cercare nel passato soluzioni ai problemi dell’attualità61; piuttosto occorre vigilare sull’attualità, e ricostruire la storia del presente per cogliere la specificità dei problemi che si è chiamati ad affrontare. In questa conversazione con Dreyfus e Rabinow, il filosofo francese definisce il proprio atteggiamento intellettuale «iperattivismo pessimistico»: atteggiamento secondo cui il potere non è un male, ma contiene sempre pericoli da cui occorre difendersi attraverso un’attività indefessa di vigilanza e resistenza. Il potere è una variabile ineliminabile dal dispositivo che lo comprende assieme al sapere e alle soggettività (non si dà società senza potere, non si danno soggettività e saperi se non all’interno di una società), ma la resistenza – attraverso cui si esprime l’autonomia delle soggettività – è sempre possibile: a chi vuole essere libero, occorre allora vigilare sul presente, riconoscere in esso i pericoli più urgenti, cercare di comprendere quale forma di resistenza potrà essere più efficace: Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, che non è esattamente la stessa cosa. Se tutto è pericoloso, una bella esistenza. Non penso che si possa dire che questo tipo di etica consistesse in un tentativo di normalizzare la popolazione» (ivi, p. 258). 60 Ivi, p. 259. 61 «Non sono alla ricerca di un’alternativa; non si può trovare la soluzione di un problema nella soluzione di un altro problema sollevato in un’altra epoca da altri. Vede, ciò che voglio fare non è la storia delle soluzioni, ed è questa la ragione per cui non accetto la parola “alternativa”. Mi piacerebbe fare la genealogia dei problemi, delle problematiche» (ibid.).

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allora abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico-politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo maggiore62.

Uno dei pericoli maggiori che Foucault individua nel suo presente è l’indebolimento dell’autonomia delle soggettività, causato da una normalizzazione pastorale – individualizzante e totalizzante al tempo stesso – che agisce tanto attraverso le biopolitiche dello stato, quanto attraverso le “libertà” del mercato. Di fronte a un pericolo di questo tipo, le soluzioni tradizionali delle teorie politiche universalistiche rivelano la loro inadeguatezza: occorre allora escogitare modalità di resistenza nuove e varie. Una resistenza che voglia essere adeguata alle sfide del presente, non può infatti assumere la forma della lotta per la presa del potere63, ma deve utilizzare strumenti differenti, e occupare campi diversificati, che ricoprano tutta la gamma delle dimensioni possibili, dal macro, al micro, fino a raggiungere le più intime pieghe del rapporto a sé: Il compito della filosofia come analisi critica del nostro mondo è qualcosa che è diventato sempre più importante. Forse il più rilevante di tutti i problemi filosofici è il problema del presente, e di ciò che siamo in questo preciso 62 Ivi, pp. 259-260. Anche nell’intervista del 1984, precedentemente citata (nota 56), Foucault afferma che il potere non debba essere considerato «un male» e che, piuttosto, occorra prendere in esame quali pericoli le forme esistenti di potere comportino: un sistema di potere è pericoloso quando tende a «irrigidirsi», a trasformarsi in un regime di dominio. Foucault utilizza come esempi le relazioni erotico-sentimentali e l’istruzione scolastica: «Il potere non è il male. Il potere significa giochi strategici. Sappiamo bene che il potere non è il male! Prendiamo, per esempio, le relazioni sessuali o d’amore: esercitare il potere sull’altro, in una specie di gioco strategico aperto, in cui le cose potranno essere ribaltate, non è il male; fa parte dell’amore, della passione, del piacere sessuale. Prendiamo anche una cosa che è stata oggetto di critiche spesso giustificate: l’istituzione scolastica. Non vedo che cosa ci sia di male nella pratica per cui, in un dato gioco di verità, qualcuno che ne sa più di un altro dice a quest’ultimo quello che bisogna fare, insegna, gli trasmette un sapere, gli comunica delle tecniche; il problema è, invece, sapere come in queste pratiche – in cui il potere non può non esistere e in cui non è cattivo in sé – sia possibile evitare gli effetti di dominio che fanno sì che un bambino possa essere sottomesso all’autorità arbitraria e inutile di un maestro, uno studente possa essere lasciato alla mercé di un professore autoritario, ecc. Credo che questo problema vada posto in termini di regole di diritto, di tecniche razionali di governo e di ethos, di pratica di sé e di libertà» (L’etica della cura di sé come pratica della libertà, cit., pp. 291-292). 63 Si ricordino, a questo proposito, le parole di Remo Bodei già riportate nel secondo capitolo di questo lavoro. Secondo Bodei (Strategie di individuazione, in «aut-aut», nn. 206-207, marzo-giugno 1985) la filosofia di Foucault risponde all’esigenza di promuovere e difendere la libertà individuale nelle società avanzate, tenendo conto della loro complessità e reagendo contro le semplificazioni e le generalizzazioni operate dal pensiero dialettico.

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momento. Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di “doppio legame” politico, costituito dalla individualizzazione e dalla totalizzazione simultanee delle strutture del potere moderno. La conclusione potrebbe essere che il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto di liberare l’individuo dallo stato e dalle sue istituzioni, quanto di liberare noi stessi sia dallo stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo stato. Occorre promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli64.

Sarebbe, però, vano cercare negli ultimi libri di Foucault la proposta di un nuovo codice morale adeguato al presente: la cura di sé è soltanto l’esempio di un modo di soggettivazione diverso «da quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli» – un esempio che si aggiunge a molti altri, presenti nella produzione di Foucault fin dai suoi inizi. Se la Storia della sessualità racconta come il dispositivo di sessualità, nella forma dell’ermeneutica cristiana della carne, abbia finito per sostituirsi all’esperienza erotica antica, già la Storia della follia descriveva come il modello moderno di razionalità abbia reinterpretato come irrazionalità, errore e malattia un’esperienza della follia che apparteneva a un regime di verità incommensurabile a quello che si è imposto nell’età classica. Nella lezione al Collège de France del 12 dicembre 1973, invece, Foucault riconosce l’attivazione di una soggettività resistente nella teatralizzazione dell’isteria: paradossalmente, le isteriche della Salpetrière sarebbero riuscite a mettere in scacco il potere psichiatrico di Charcot non attraverso il rifiuto, ma attraverso l’assunzione parodistica del regime di verità da lui imposto. Anche nel personaggio del «barbaro» del discorso storico-politico, ritratto da Foucault in «Bisogna difendere la società», nella lezione del 3 marzo 1976, è possibile trovare un esempio di soggettività politica che si contrappone a quella rappresentata dal «selvaggio» del discorso filosofico-giuridico. È, però, soltanto nelle lezioni del 1° e dell’8 marzo 1978, nel corso Sicurezza, territorio, popolazione che queste figure trovano una categoria che possa comprenderle, assieme ad altre, nella loro eterogeneità: qui Foucault racconta come, nella chiesa cattolica, il governo pastorale delle anime si sia imposto su quelle che il nostro autore chiama «controcondotte», e poi utilizza questo concetto per designare altri possibili esempi di resistenza etica.

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Perché studiare il potere, cit., p. 244.

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Con il termine «condotta», precisa Foucault in queste lezioni, egli intende tanto l’attività del condurre, quanto il lasciarsi condurre, la disponibilità all’obbedienza necessaria all’esercizio del potere pastorale65; con «controcondotta» egli indica, invece, la «lotta contro i procedimenti impiegati per condurre gli altri»66 e, in particolare, con «controcondotte antipastorali», quei movimenti religiosi dissidenti che da sempre hanno messo in discussione l’autorità della chiesa di Roma, e che sono culminate nella protesta di Lutero: Sono movimenti che si danno come obiettivo un’altra condotta, nel senso che vogliono essere condotti in altro modo, da altri conduttori, da altri pastori, per raggiungere altri obiettivi e altre forme di salvezza, con altre procedure e altri metodi. Ma sono anche movimenti che cercano di sfuggire alla condotta altrui, che cercano di definire per ciascuno la maniera di condursi67.

Foucault individua nel Medioevo cinque forme principali di controcondotte antipastorali: 1) la prima forma è l’ascetismo, esercizio spirituale dell’individuo su se stesso «nel quale l’autorità di un altro, la presenza di un altro e lo sguardo di un altro sono, se non impossibili, quanto meno non necessari»68. 2) La seconda è costituita dalla comunità: i taboriti, i catari e i valdesi, ad esempio, rifiutano «il dimorfismo preti-laici»69 tipico dell’organizzazione della chiesa di Roma, eleggendo i propri pastori con mandato 65

Cfr. Sicurezza, territorio, popolazione, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 143-144, prima ed. Sécurité, territoire, population, Paris, Seuil-Gallimard, 2004. 66 Ivi, p. 151. Foucault spiega di preferire il termine «controcondotta» all’espressione «rivolta di condotta», «perché la parola “rivolta” è al contempo troppo precisa e troppo forte per designare delle forme di resistenza che sono molto più diffuse e dolci» (ivi, p. 149). «Disobbedienza» e «cattiva condotta» («inconduite») gli sembrano invece concetti inappropriati perché negativi, e quindi incapaci di rendere conto del carattere produttivo, creativo di quelle che chiama «controcondotte» (cfr. ivi, pp. 150-151). Infine, Foucault scarta anche la parola «dissidenza» per non correre il rischio della «sostantificazione»: «Da “dissidenza” deriva “dissidente”, o viceversa, non importa, in ogni caso la dissidenza viene praticata da colui che è dissidente, e non credo che questo genere di sostantificazione sia utile. Temo addirittura che sia dannoso, perché non ha molto senso sostenere, per esempio, che un folle o un delinquente siano dei dissidenti. Avremmo un processo di santificazione e di eroizzazione che non mi sembra molto pertinente. Invece, la parola “controcondotta” dà la possibilità di analizzare – senza dover necessariamente sacralizzare qualcuno come dissidente – le componenti del modo di agire effettivo nel campo generale della politica o dei rapporti di potere, consente di individuare la componente di controcondotta facilmente rinvenibile nei delinquenti, nei folli e nei malati» (ivi, p. 151). 67 Ivi, pp. 144-145. 68 Ivi, p. 154. 69 Ivi, p. 159.

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limitato nel tempo, o rendendo inutile la figura del pastore attraverso la dottrina della predestinazione alla salvezza70. 3) La terza forma è, invece, la mistica «ovvero il privilegio di un’esperienza che sfugge per definizione al potere pastorale»71, e che pertanto rende privi di senso sia l’insegnamento della verità, sia l’esame di coscienza operati dal pastore. 4) La quarta forma è la lettura diretta della Scrittura, «testo che parla da solo senza bisogno della mediazione pastorale»72. 5) Infine, la quinta forma è la credenza escatologica: i tempi stanno per compiersi, Dio sta per tornare sulla terra a riunire il proprio gregge – «sarà lui il vero pastore»73. Nella ricostruzione di Foucault, le controcondotte antipastorali, con le loro differenti strategie, non costituiscono però soltanto delle alternative al potere pastorale cristiano: rappresentano anche gli ostacoli che sono stati necessari al suo sviluppo, le occasioni che ne hanno permesso la crescita e la diffusione. Infatti, in seguito alla protesta di Lutero, «la più grande rivolta di condotta che l’occidente cristiano abbia conosciuto»74, tanto la chiese protestanti, quanto la controriforma cattolica hanno recuperato all’interno del pastorato religioso molte delle strategie di soggettivazione messe in atto dalle controcondotte antipastorali75. Il disordine delle controcondotte antipastorali è stato quindi, secondo Foucault, la condizione di possibilità dell’azione ordinante del governo pastorale delle anime: in assenza di peccato e di eresie, il potere pastorale della chiesa sui fedeli non avrebbe avuto infatti ragion d’essere, sarebbe risultato ingiustificato e quindi superfluo76. In seguito all’assunzione di funzioni pastorali da parte dello stato moderno, secondo Foucault, si è aperto un nuovo campo per le controcondotte: a suo avviso tutti i grandi momenti rivoluzionari della storia moderna sono stati, infatti, anche laboratori di controcondotte. A questo proposito il nostro 70 «Dal momento in cui qualcuno è già eletto, l’efficacia del prete ai fini della sua salvezza è di fatto annullata. L’eletto non ha più bisogno dell’intervento di un pastore che lo guidi sulla via della salvezza, perché ha già percorso questa via. All’opposto, chi non è eletto, non lo sarà mai, e quindi nemmeno lui avrà bisogno dell’efficacia del pastore» (ivi, p. 159). 71 Ivi, p. 161. 72 Ivi, p. 162. 73 Ibid. 74 Ivi, p. 146. 75 «La spiritualità, le forme intense di devozione, il ricorso alla Scrittura, la riqualificazione almeno parziale dell’ascetismo e della mistica: tutto ciò ha fatto parte dell’opera di recupero della controcondotta all’interno del pastorato religioso organizzato sia nelle chiese protestanti, sia nella Controriforma» (ivi, p. 166). 76 «Il pastorato cristiano, quindi, in occidente come in oriente, si è sviluppato contro tutto ciò che, retrospettivamente, possiamo chiamare disordine. Si stabilisce pertanto una correlazione originaria e fondatrice tra la condotta e la controcondotta» (ivi, p. 146).

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autore ricorda, ad esempio, che la rivoluzione inglese del XVII secolo fu anche una guerra religiosa, che nella Rivoluzione francese giocarono un ruolo di fondamentale importanza quelle “comunità” che erano i circoli politici, e nella rivoluzione russa del 1917 lo giocarono quelle pratiche di socializzazione che erano i consigli operai77. Ma anche in questi casi le controcondotte hanno finito per essere riassorbite da nuove forme di pastorato: ad esempio, Foucault sostiene che nell’Unione Sovietica e nei regimi dell’est del suo tempo, il partito unico svolge funzioni pastorali, rispetto alle quali la dissidenza rappresenta una nuova forma di controcondotta78. In Sicurezza, territorio, popolazione e nella Nascita della biopolitica, presentando anche la governamentalità neoliberale come un nuovo sembiante del potere pastorale, Foucault sembra indicare la necessità, per chi voglia opporle resistenza, di iniziare dall’elaborazione di controcondotte etiche alternative alla forma di vita liberale, analoghe a ciò che rappresenta la dissidenza nei regimi socialisti. Ne La volontà di sapere, interpretando l’incitazione freudomarxista alla liberazione sessuale come una nuova “predica”, sottolinea come essa non possa rappresentare, come vorrebbe, un appello alla costruzione autonoma del sé, ma sia solo un riflesso del dispositivo biopolitico di sessualità, un ribaltamento speculare del modo di soggettivazione prodotto dalle pratiche confessionali cattoliche. Nella prefazione a L’uso dei piaceri, Foucault sembra invece interpretare come un esempio di radicale controcondotta antipastorale la vita filosofica: non tanto quella dei saggi greci e romani – che precede l’avvento del pastorato –, quanto la filosofia critica moderna, e in particolare la sua filosofia critica, il suo lavoro di intellettuale militante che qui presenta come «un’ascesi, un esercizio di sé, nel pensiero»:

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Cfr. ivi, p. 166. «Ciò che si chiama “dissidenza” nei paesi dell’est e in Unione Sovietica, indica proprio una complessa forma di resistenza e di rifiuto politici, certamente, ma anche il rifiuto di una società in cui l’autorità politica, il partito politico, incaricato di definire sia l’economia sia le strutture della sovranità specifiche del paese, svolge anche il compito di condurre gli individui nella vita quotidiana attraverso un gioco di obbedienza generalizzata che assume la forma del terrore. [...] Si potrebbe del resto parlare della pastoralizzazione del potere in Unione Sovietica. Burocratizzazione del partito, questo è sicuro. Anche pastoralizzazione del partito, mentre la dissidenza e le lotte politiche accomunate sotto questo nome hanno una dimensione essenziale, fondamentale, che è il rifiuto della condotta. “Non vogliamo questa salvezza, non vogliamo essere salvati da queste persone e con simili mezzi. [...] Non vogliamo questa pastorale dell’obbedienza. Non vogliamo questa verità. Non vogliamo essere presi in questo sistema di verità. Non vogliamo essere presi in questo sistema di osservazione e di esame perpetuo che ci giudica senza sosta, che ci dice ciò che siamo nel profondo di noi stessi, sani o malati, folli o non folli ecc.”» (ivi, pp. 150-151). 78

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La “prova” – che va intesa come prova modificatrice di sé nel gioco della verità e non come appropriazione semplificatrice di altri scopi di comunicazione – è il corpo vivo della filosofia, se questa è ancor oggi ciò che era un tempo, vale a dire un’“ascesi”, un esercizio di sé, nel pensiero. Gli studi che seguono, come altri che avevo intrapreso precedentemente, sono studi di “storia” per il campo che investono e i riferimenti che assumono, ma non sono lavori di “storico”. Il che non significa che riassumono o sintetizzano il lavoro fatto eventualmente da altri; sono – se si vogliono considerare dal punto di vista della loro “pragmatica” – il protocollo di un esercizio che è stato lungo, brancolante, e che ha avuto spesso bisogno di ricominciare da capo e di correggersi. Un esercizio filosofico: la posta consisteva nel sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e permettergli di pensare altrimenti79.

Se, nell’aprile 1983, conversando con Dreyfus e Rabinow, Foucault definisce «iperattivismo pessimistico» l’atteggiamento ispiratore dei suoi studi, poco prima, nella lezione del 5 gennaio 1983, con cui si apre il corso Il governo di sé e degli altri, colloca il proprio lavoro filosofico all’interno di una tradizione che chiama «ontologia dell’attualità». Foucault non è nuovo di quel mestiere che consiste nell’“inventare” tradizioni teoriche e nell’iscrivervi il proprio pensiero: un mestiere che pratica anche in questo caso. In Nietzsche, ad esempio, e in Baudelaire, e addirittura anche in quell’Hegel e in quel Kant da cui in passato aveva preso decisamente le distanze, egli individua, infatti, altrettanti anticipatori del proprio ethos filosofico. L’illuminismo critico foucaultiano, la sua ontologia dell’attualità, saranno argomento del prossimo capitolo, che vaglierà le posizioni del filosofo francese attraverso le critiche a lui rivolte da un altro illustre erede dell’illuminismo: Jürgen Habermas. 79

L’uso dei piaceri, cit., p. 14. Nella lezione del 16 febbraio 1983, nel corso Il governo di sé e degli altri, Foucault aveva formulato una tesi analoga sulla funzione etico-politica della filosofia commentando la Lettera VII di Platone: «Il reale [pragma] della filosofia non si incontra, non si riconosce, non si effettua se non nella stessa pratica della filosofia. Il reale della filosofia è la sua pratica. Per essere precisi, il reale della filosofia, e questa è la seconda conseguenza che occorre trarre, non è la sua pratica come pratica del logos. Questo significa che non sarà la pratica della filosofia come discorso, e non sarà nemmeno la pratica della filosofia come dialogo. Sarà la pratica della filosofia come “pratiche”, al plurale, sarà la pratica della filosofia nelle sue pratiche, nei suoi esercizi. E, terza conseguenza indubbiamente capitale, su che cosa vertono questi esercizi, di che cosa è in questione in queste pratiche? Ebbene, si tratta semplicemente del soggetto stesso. Questo significa che è nel rapporto a sé, nel lavoro di sé su sé, nel lavoro su se stessi, in questo modo di attività di sé su sé che il reale della filosofia sarà manifestato e attestato. Ciò in cui la filosofia incontra il suo reale è la pratica della filosofia, intesa come l’insieme delle pratiche attraverso cui il soggetto ha un rapporto con se stesso, elabora se stesso, lavora su sé. Il lavoro di sé su sé, questo è il reale della filosofia» (Le gouvernement de soi et des autres, Paris, Seuil-Gallimard, 2008, pp. 223-224, traduzione mia).

Parte terza

OLTREPASSARE FOUCAULT Che tu venga dal cielo o dall’inferno, che cosa importa, o Bellezza? Mostro enorme, spaventoso, ingenuo! Se il tuo occhio, il tuo sorriso, il tuo piede mi aprono la porta di un Infinito che amo e non ho mai conosciuto? Da Satana o da Dio, che cosa importa? Angelo o sirena, che cosa importa, se tu – fata dagli occhi di velluto, ritmo, profumo, luce, o mia unica regina! – rendi meno schifoso l’universo e meno pesante ogni momento? [Charles Baudelaire, Inno alla bellezza]

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Critica e illuminismo

7.1 Was ist Aufklärung? Il corso di Foucault al Collège de France del 1981-1982 ha per titolo L’ermeneutica del soggetto: è dedicato all’analisi dell’etica della cura di sé, dall’apparire del problema nell’Alcibiade di Platone, alla sua ripresa e articolazione in Epicuro, Seneca, Plutarco, Epitteto e Marco Aurelio, e può essere pertanto considerato un “lavoro preparatorio” per i due volumi della Storia della sessualità che Foucault pubblicherà nel 1984. In questo corso Foucault evidenzia come, negli autori che prende in esame, la «cura» venga spesso a coincidere con una «conversione» o un «ritorno» a sé1, espressioni che ne rivelano la funzione critica. La cura di sé comporta, infatti, una preliminare presa di distanza da ciò che nel soggetto è determinato da poteri esterni: solo dopo aver operato una critica di sé è possibile ricostruire liberamente se stessi. Negli autori che Foucault prende in esame, questa seconda operazione non segue regole stabilite da un codice morale universale, ma coincide con il massimo di autonomia possibile: prendersi cura di sé significa dare a se stessi le proprie regole, edificare la propria vita come un’opera d’arte. Questa estetica dell’esistenza, secondo il filosofo francese, sarebbe stata per lo più dimenticata durante il Medioevo a causa del diffondersi della morale universale del cristianesimo, ma sarebbe poi stata recuperata da alcuni autori dell’età moderna, a partire dal XVI secolo. Nella lezione del 17 febbraio 1982 Foucault interpreta, infatti, il pensiero di Montaigne come un tentativo di rielaborare un’estetica dell’esistenza in chiave moderna, e sostiene che questo tentativo nel XIX secolo sia stato riattivato da Stirner,

1 «La pratica di sé deve permettere di disfarsi di tutte le cattive abitudini, di tutte le false opinioni che si possono ricevere dalla folla o dai cattivi maestri, ma anche dai genitori o dall’ambiente circostante. “Disimparare” (de-discere) è uno dei compiti importanti della cultura di sé» (L’ermeneutica del soggetto, in I corsi al Collège de France. I Résumés, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 110, prima ed. L’herméneutique du sujet, in Annuaire du Collège de France, 82e année, 1981-1982, ora in Résumé des cours 1970-1982, Paris, Gallimard, 1994, e in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, vol. II, testo n° 323).

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Schopenhauer, Nietzsche e Baudelaire2. Questi autori rappresentano per Foucault non tanto degli esempi da imitare, quanto dei segni che indicano al tempo stesso la difficoltà e la necessità di formulare un’etica della scelta personale adeguata alla modernità: E nella serie di tentativi e di sforzi, più o meno bloccati e chiusi su se stessi, per restaurare un’etica del sé, così come nel movimento che, ai giorni nostri, fa sì che ci riferiamo continuamente a tale etica del sé, ma senza però mai conferirle alcun contenuto, penso vi sia forse da sospettare qualcosa come una sorta d’impossibilità, e precisamente l’impossibilità di costituire, oggi, un’etica del sé. Eppure, proprio la costituzione di una tale etica è un compito urgente, fondamentale, politicamente indispensabile, se è vero che, dopotutto, non esiste un altro punto, originario e finale, di resistenza al potere politico, che non stia nel rapporto di sé con sé. In altri termini, quel che voglio dire è che se consideriamo la questione del potere, del potere politico, e la ricollochiamo all’interno della questione più generale della governamentalità – intesa, quest’ultima, come un campo strategico di relazioni di potere, nel senso più ampio del termine, e non solo nell’accezione politica – e se inoltre concepiamo tale governamentalità come un campo strategico di relazioni di potere, con tutto quello che di mobile, trasformabile, reversibile, esse comportano, in questo caso ritengo che la riflessione su tale nozione debba necessariamente allora passare, sia da un punto di vista teorico, sia da un punto di vista pratico, attraverso l’elemento costituito da un soggetto che è definito, per l’appunto, dal rapporto di sé con sé. Mentre infatti la teoria del potere politico concepito come istituzione fa riferimento, abitualmente, a una concezione giuridica del soggetto di diritto, mi sembra che l’analisi della governamentalità – ovvero l’analisi del potere inteso come insieme di relazioni reversibili – debba invece far riferimento a un’etica del soggetto definito dal rapporto di sé con sé. Il che significa, molto semplicemente, che all’interno del tipo di analisi che tento di proporvi, ormai da un certo tempo, risulta evidente che la serie formata da relazioni di potere – governamentalità – governo di sé e degli altri – rapporto di sé con sé, costituisce una catena, una trama, e ritengo che sia proprio attorno a tali nozioni che diventa necessario tentare di articolare la questione della politica a quella dell’etica3.

In queste parole si compone il senso di tutto il percorso teorico di Foucault: dopo aver «ucciso l’uomo» (decostruendo le verità delle scienze umane), dopo aver «decapitato il sovrano» (decostruendo le verità delle teorie politiche), dopo aver offerto la possibilità di «pensare altrimenti» la politica attraverso un lessico rinnovato, ora il filosofo francese propone una 2

Cfr. L’ermeneutica del soggetto, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 221, prima ed. L’herméneutique du sujet, Paris, Seuil-Gallimard, 2001.. 3 Ivi, p. 222, corsivi miei.

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concezione del soggetto alternativa tanto ai saperi antropologici, quanto alle teorie liberali, recuperandola dall’antichità classica. Gli ultimi due corsi al Collège de France del filosofo francese, degli anni 1982-1983 e 1983-1984, rispettivamente intitolati Il governo di sé e degli altri e Il governo di sé e degli altri: il coraggio della verità4, e il seminario in sei lezioni tenuto a Berkeley nell’autunno 19835, sono dedicati alla nozione greca di parresia, che si può tradurre con espressioni come “dire il vero”, “libertà di parola”, “franchezza nel dire la verità”. Attraverso l’analisi di tale concetto, Foucault indaga il rapporto che il mondo greco antico istituisce tra soggettività e verità non da un punto di vista epistemico, ma da un punto di vista etico-politico6. Come si costituisce il 4

Di cui, mentre scrivo, è stato pubblicato soltanto Le gouvernement de soi et des autres (19821983), Paris, Seuil-Gallimard, 2008. Le registrazioni del corso del 1983-1984 sono conservate presso il “Fonds Michel Foucault” della biblioteca dell’Institut Mémoire et de l’Édition Contemporaine (I.M.E.C.) di Parigi, catalogate con il codice C (69). Per un’analisi di quest’ultimo corso si veda: Flynn, Thomas R., Foucault as Parrhesiast: His Last Course at the Collège de France (1984), in Bernauer, James W., Rassmussen, David (edited by), The Final Foucault, Cambridge (Massachusetts), The MIT Press, 1988. 5 Discourse and Truth. The Problematization of Parrhesia, Parrhesia Evanston (Illinois), Northwestern University Press, 1985, trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Roma, Donzelli, 1996 e 19982. Sul significato politico che le ultime riflessioni di Foucault sulla parresia greca possono assumere alla luce del suo intero percorso teorico, si veda anche l’introduzione di Remo Bodei all’edizione italiana di questo seminario (in particolare p. XIX: «In un mondo in cui i biopoteri cercano di controllare la vita sin nelle sue fibre più intime e in cui rischia di deteriorarsi la struttura portante delle precedenti forme di individualità, questo libro ripropone – senza pretese di ammaestramento moralistico – esempi di coraggio e di determinazione nel dire il vero, progetti cioè per eventuali desideri di dare dignità e forma coerente alla propria esperienza, così da essere all’occorrenza meglio attrezzati nell’attraversamento del deserto del presente»); e inoltre l’ultimo capitolo dello studio di Vincenzo Sorrentino Il pensiero politico di Foucault, Roma, Meltemi, 2008. 6 Con queste parole Foucault conclude il seminario di Berkeley: «Ciò che volevo mostrare era che se la filosofia greca ha sollevato il problema della verità dal punto di vista dei criteri che presiedono ad affermazioni vere e a un giudizio corretto, la stessa filosofia greca ha sollevato anche la questione della verità dal punto di vista del dire la verità come attività. Ha sollevato questioni del tipo: chi è in grado di dire la verità? Quali sono i requisiti morali, etici, spirituali che abilitano qualcuno a presentarsi e a essere considerato come un dicitore di verità? E su quali argomenti è importante dire la verità? Sul mondo? Sulla natura? Sulla città? Sui costumi? Sull’uomo? Quali sono le conseguenze del dire la verità? Quali sono gli effetti positivi per la città, per i governanti, per gli individui? E infine: qual è il rapporto tra l’attività del dire la verità e l’esercizio del potere? Può il dire la verità coincidere con l’esercizio del potere, o queste attività devono essere considerate completamente indipendenti e tenute distinte? E si possono separare, o l’una implica l’altra? Queste quattro domande sul dire la verità come attività – chi è in grado di dire la verità, su cosa, con quali conseguenze, con quali rapporti col potere – sembrano essere emerse come problema filosofico verso la fine del V secolo, attorno a Socrate, specialmente attraverso le sue discussioni coi sofisti, a proposito della politica, della retorica, dell’etica» (Discorso e verità nella Grecia antica, cit., 19982, pp. 111-112).

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rapporto tra soggetto parlante, sfera pubblica e verità? Quali sono le virtù richieste a chi pronuncia verità in pubblico? Parresiastes è colui che sfida il potere con la propria parola, denunciando, in nome della giustizia e della libertà, le falsità che chi detiene il potere spaccia per verità. La parresia, per Foucault, è quindi il nome del coraggio dell’intellettuale che si pone al servizio della collettività (dei governati), ma mai del potere (dei governanti): di un intellettuale la cui figura è modellata sull’esempio di Socrate, o dei filosofi cinici. La parresia è il nome della critica. Uno degli obiettivi delle ultime lezioni di Foucault consiste, infatti, nel «costruire una genealogia dell’atteggiamento critico nella filosofia occidentale»7, e quindi anche una genealogia del suo stesso pensiero critico. Nel corso di questa ricostruzione egli riscopre, tra i rami tortuosi del proprio albero genealogico, anche l’effigie di Kant, e tuttavia non dimentica il giudizio che sul filosofo tedesco ha espresso ne Le parole e le cose. Come ora mostrerò, il nostro autore pone infatti Kant all’origine di due differenti tradizioni teoriche, o meglio di due differenti ethos filosofici, e solo rispetto ad uno di essi riconosce un proprio debito teorico. Già nella conferenza tenuta da Foucault il 27 maggio 1978 alla Sorbona, davanti al pubblico delle Société Française de Philosophie, Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), Foucault presenta la critica come un’«arte»: «l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo»8, «l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata»9. Di fronte alla governamentalità pastorale moderna, quest’arte si sarebbe sviluppata in ambito religioso, giuridico, scientifico come critica del principio di autorità – e quindi, si potrebbe aggiungere, come matrice di quelle che pochi mesi prima, nel corso Sicurezza, territorio, popolazione, Foucault ha chiamato «controcondotte». Secondo Foucault, questa critica non coincide con ciò che Kant chiama «Kritik» nelle sue opere maggiori – cioè la filosofia trascendentale, l’analisi delle condizioni di possibilità e dei limiti della conoscenza umana – ma con ciò che Kant definisce «Aufklärung» nell’articolo pubblicato nel dicembre 1784 sulla «Berlinische Monatsschrift», intitolato, appunto, Was ist Aufklärung?. La celebre definizione kantiana dell’illuminismo come «uscita dalla minorità» e «uso libero e coraggioso del proprio intelletto»10, e l’in7

Ivi, p. 112. Illuminismo e critica, Roma, Donzelli, 1997, pp. 37-38; prima ed. Qu’est-ce que la critique? (Critique et Aufklärung), in «Bullettin de la Société Française de Philosophie», n° 2, avril-juin 1990. 9 Ivi, p. 40. 10 «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla man8

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vito di Kant a liberare il pensiero dal potere di quei tutori che pretendono di far valere universalmente le proprie verità (direttori spirituali, medici o funzionari della burocrazia statale)11, sono interpretate da Foucault come un appello pubblico al disassoggettamento dal governo pastorale e alla libera costruzione intellettuale di sé12. La Kritik kantiana, secondo Foucault, ha dato avvio, invece, a una differente tradizione dell’illuminismo, ispirata non dalla «volontà di non essere governati», ma piuttosto dalla volontà di sapere: essa ha condotto alla ricerca dei fondamenti di una conoscenza vera, e quindi all’analisi dei limiti della ragione umana. A questa tradizione, di cui in questa conferenza riconosce in Jürgen Habermas un illustre esponente13, Foucault contrappone il proprio metodo: scegliere come punto di partenza non il problema del rapporto tra ragione e verità, ma quello delle relazioni tra potere e resistenza, analizzare in modo empirico i rapporti tra potere e sapere senza ricorrere ad alcun fondamento presunto assoluto, ma restando al livello delle singolarità storiche14. Il 10 ottobre 1979, per presentare il proprio seminario sul potere pastorale all’Università di Berkeley, Foucault riprende queste riflessioni sui possibili esiti dell’Illuminismo: in questo caso non nomina Habermas, ma «alcuni membri della Scuola di Francoforte», per sottolineare le differenze del proprio metodo dal loro. Qui Foucault dichiara che sarebbe sterile «processare la ragione» contrapponendole qualcosa di ugualmente astratto come

canza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo. La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni!» (Kant, Immanuel, Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, UTET, 1956, p. 141). 11 «Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione» (ibid.). 12 «Quel che Kant descriveva come Aufklärung è esattamente ciò che intendevo descrivere come critica, ossia quell’atteggiamento critico che è un tratto specifico dell’occidente a partire, credo, da ciò che è stato storicamente il grande processo di governamentalizzazione della società» (Illuminismo e critica, cit., p. 41). 13 «Si tratta di una procedura che ha goduto di grande diffusione e che potremmo definire una ricerca sulla legittimità dei modi storici del conoscere. È comunque in tal senso che alcuni filosofi del XVIII secolo o anche Dilthey, Habermas, ecc. l’hanno intesa» (ivi, p. 52). 14 Cfr. ivi, p. 57.

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la «non-ragione»15, e che per questo motivo egli ha scelto come oggetto delle proprie analisi luoghi e momenti in cui forme concrete di razionalità sono state messe in discussione da soggetti che si sono ribellati a regimi di potere-sapere realmente esistenti. Nella lezione del 5 gennaio 1983, la prima del corso Il governo di sé e degli altri, il rapporto che Foucault istituisce tra l’Aufklärung e la propria pratica filosofica emerge con maggior chiarezza. Qui la domanda kantiana Was ist Aufklärung? assume per Foucault il significato di un’interrogazione filosofica sull’attualità, che investe innanzitutto il ruolo dell’intellettuale che interviene nell’opinione pubblica del suo tempo. Rispondendo a questa domanda, Kant non intenderebbe tanto riflettere sulla propria adesione all’Illuminismo inteso come dottrina filosofica; egli tenterebbe, piuttosto, di istituire un rapporto tra la sua situazione specifica (il suo sé di intellettuale, la sua collocazione di studioso nel sistema del sapere) e la possibilità di costruire un soggetto collettivo (un «noi») spettatore e insieme attore delle trasformazioni politiche del suo tempo16. Secondo Foucault, la riflessione 15

«Il legame tra la razionalizzazione e gli abusi del potere politico è evidente. E non è necessario attendere la burocrazia o i campi di concentramento per riconoscere l’esistenza di tali relazioni. Ma il problema è cosa fare di un dato così evidente. Dobbiamo “processare” la ragione? A mio avviso, non ci sarebbe nulla di più sterile. Innanzitutto perché non è questione né di colpa né di innocenza in questo campo. E poi perché non ha senso invocare la “ragione” come entità opposta alla non-ragione. Infine perché un processo del genere ci intrappolerebbe, obbligandoci a svolgere il ruolo, arbitrario e noioso, del razionalista o dell’irrazionalista. Dobbiamo esaminare a fondo questa specie di razionalismo che sembra essere specifico della nostra cultura moderna e che risale all’Illuminismo? Questa, credo, è la soluzione adottata da alcuni membri della Scuola di Francoforte. Non è mia intenzione aprire una discussione sulle loro opere – esse sono tra le più importanti e preziose. Da parte mia, suggerirei un altro modo di studiare i rapporti tra la razionalizzazione e il potere» (Omnes et singulatim, in Biopolitica e liberalismo, cit., p. 110, prima ed. in McMurrin, Samuel (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, University of Utah Press, Salt Lake City, 1981, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 291). Con queste affermazioni Foucault prende le distanze anche da alcune tesi della Storia della follia: in quel testo, il filosofo francese contrapponeva infatti alla ragione cartesiana un’esperienza della follia tragica e quindi irrazionale (cfr. il paragrafo 3.3 Foucault, Lacan, Freud). 16 «Se si vuole considerare la filosofia come una forma di pratica discorsiva con una sua propria storia, mi sembra che, con questo testo sulla Aufklärung, la filosofia – e penso di non forzare troppo le cose dicendo che si tratta della prima volta – problematizzi la sua attualità discorsiva: attualità che viene interrogata come evento, come un evento di cui essa deve dire il senso, il valore, la singolarità filosofica e in cui deve trovare anche la sua propria ragion d’essere e il fondamento di ciò che dice. E, in questo modo, si vede come, per il filosofo, il problema della sua appartenenza a questo presente non riguardi assolutamente più il problema della sua appartenenza a una dottrina o a una tradizione; non riguardi più, semplicemente, il problema della sua appartenenza a una comunità umana in generale, ma significhi porre il problema della sua appartenenza a un certo “noi”, a un noi che si riferisce a un insieme culturale caratteristico della sua propria attualità» (Che cos’è l’Illuminismo? (estratto del corso

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kantiana sull’Auklärung inaugurerebbe così un nuovo modo di interrogare la modernità: un rapporto «sagittale» e non «longitudinale» con l’attualità (in cui non è difficile vedere un’anticipazione della riflessione di Foucault sul ruolo dell’«intellettuale specifico»17): In modo molto schematico, si può dire che la cultura classica aveva posto il problema della modernità secondo un asse bipolare, quello dell’antichità e quello della modernità: esso era stato formulato nei termini di un’autorità da accettare o da rifiutare (quale autorità accettare, quale modello seguire?) o nella forma (d’altronde strettamente legata alla precedente) di una valutazione comparata: gli antichi sono superiori ai moderni? Viviamo in un periodo di decadenza, ecc.? Si vede emergere un nuovo modo di porre il problema della modernità, non più in rapporto longitudinale con gli antichi, ma in quello che potrebbe essere chiamato un rapporto “sagittale” con la propria attualità. Il discorso deve riprendere in considerazione la sua attualità, per ritrovare il proprio luogo peculiare, per dirne il senso e, infine, per specificare il modo in cui esso è in grado di agire all’interno di questa attualità. Qual è la mia attualità? Qual è il senso di questa attualità? E che cosa faccio quando parlo di questa attualità? Ecco in che cosa consiste, secondo me, la nuova interrogazione sulla modernità18.

In questa lezione, Foucault legge l’articolo di Kant sull’Aufklärung del 1784 assieme a un testo del 1798 in cui il filosofo tedesco affronta uno spinoso problema della sua attualità politica: la Rivoluzione francese. Si tratta della seconda parte del libro dedicato al Conflitto delle facoltà, in cui Kant cerca una risposta alla domanda Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio. In questo testo, non nel “fatto” della Rivoluzione, ma nella partecipazione entusiastica dell’opinione pubblica europea agli eventi francesi, Kant reperisce il “segno” che – da un punto di vista pragmatico, non “scientifico” – attesta il progresso dell’umanità verso il meglio. Se vi è progresso, è perché l’umanità sa di essere artefice del proprio destino e perché aspira all’autogoverno: cioè, osserva Foucault, perché l’umanità aspi-

del 5 gennaio 1983 al Collège de France), in Archivio Foucault 3. 1978-1985, Milano, Feltrinelli, 1998, testo n° 17, p. 254, prima ed. Qu’est-ce que les Lumières?, in «Magazine littéraire», n° 207, maggio 1984, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 351. La lezione è stata ora pubblicata integralmente in Le gouvernement de soi et des autres, cit., alle pp. 3-39). 17 Si torni al paragrafo 1.1 I compiti dell’intellettuale, in cui ho preso in esame l’Intervista a Michel Foucault, in Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977, ora in Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001, e in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 192. 18 Foucault, Michel, Che cos’è l’Illuminismo?, cit., p. 255.

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ra all’Aufklärung, al libero uso di sé che deriva dal libero uso delle proprie facoltà intellettuali19. Per questo Foucault giunge a parlare di Kant in un corso dedicato alla parresia greca: l’Aufklärung kantiana (l’Aufklärung: vale a dire non la totalità del pensiero di Kant) gli appare una riattivazione dell’ethos critico del parresiastes. Come già ne Le parole e le cose, e nella conferenza Illuminismo e critica, in questa lezione Foucault attribuisce a Kant anche l’inizio di una tradizione filosofica volta non al disassoggetamento delle individualità dai poteri e dai saperi (dalle verità) che agiscono nel presente, ma alla ricerca di criteri che permettano di individuare verità normative (e normalizzatrici) su cui edificare non solo il sapere, ma anche la vita in società. Kant avrebbe quindi aperto un bivio nella modernità, la possibilità di percorrerla attraverso cammini teorici differenti: uno ha per meta la verità, l’altro la libertà. Di fronte a tale alternativa, la scelta di Foucault è netta: l’Aufklärung, non la filosofia trascendentale, l’ontologia dell’attualità, non l’analitica della verità: Mi sembra che Kant abbia fondato due grandi tradizioni critiche in cui si è divisa la filosofia moderna. Nella sua grande opera critica Kant ha fondato quella tradizione della filosofia che pone il problema delle condizioni in cui è possibile una conoscenza vera e, a partire da ciò, un intero indirizzo della filosofia moderna si è presentato e si è sviluppato, sin dal secolo XIX, come analitica della verità. Ma, nella filosofia moderna e contemporanea, esiste un altro tipo di problema, un altro modo dell’interrogazione critica. Quello che vediamo nascere proprio con la questione dell’Aufklärung nel testo sulla rivoluzione; quest’altra analisi critica si domanda: “Che cos’è la nostra attualità? Qual è il campo attuale delle esperienze possibili?” Non si tratta di un’analitica della verità, ma di quella che potrebbe essere definita un’ontologia del presente, un’ontologia di noi stessi, e mi sembra che la scelta filosofica con cui, oggi, dobbiamo confrontarci sia la seguente: optare per una filosofia critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure 19

«L’entusiasmo per la rivoluzione è, secondo Kant, il segno di una disposizione morale dell’umanità; questa disposizione si manifesta permanentemente in due modi: innanzitutto, nel diritto di tutti i popoli a darsi la costituzione politica che loro conviene e, inoltre, nel principio, conforme al diritto e alla morale, di una costituzione politica in grado di evitare, in virtù dei suoi stessi principi, ogni guerra offensiva. Ora, l’entusiasmo per la rivoluzione esprime proprio la disposizione che porta l’umanità verso una simile costituzione. […] Sappiamo anche che sono questi due elementi, la costituzione politica scelta volontariamente dagli uomini e una costituzione politica che eviti la guerra, che costituiscono il processo stesso dell’Aufklärung, vale a dire che è la rivoluzione che continua e porta a compimento il processo dell’Aufklärung, ed è in questa misura che l’Aufklärung e la rivoluzione rappresentano degli eventi che non possono più essere dimenticati» (ivi, pp. 258-259; cfr. Kant, Immanuel, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., pp. 218-220).

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optare per un pensiero critico che avrà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità: è questa forma di filosofia che, da Hegel alla Scuola di Francoforte, passando per Nietzsche e Max Weber, ha fondato una forma di riflessione all’interno della quale ho cercato di lavorare20.

Ontologia dell’attualità, ontologia di noi stessi: questi i nomi con cui l’ultimo Foucault indica il suo modo di filosofare. Egli sceglie, inoltre, per il suo atteggiamento intellettuale, illustri predecessori: Socrate, Kant, Hegel, Nietzsche, Weber. Ambiguo resta il giudizio sulla Scuola di Francoforte, da cui Foucault prende le distanze nel 1979 – forse in riferimento alla Dialettica dell’Illuminismo (1947) di Max Horkheimer e Theodor Wiesengrund Adorno, e alla Dialettica negativa (1966) di Adorno21 – per poi recuperarla alla tradizione di cui sente di far parte quattro anni dopo. Nel corso al Collège de France del 1982, a questi filosofi Foucault aveva accostato altri filosofi – Montaigne, Stirner, Schopenhauer –, e un poeta: Baudelaire22. In «What is Enlightenment?», articolo pubblicato in inglese nel 1984, scritto a partire da una rielaborazione della lezione su Kant del 1983, la figura di Baudelaire torna, e viene maggiormente valorizzata. Nel dandysmo del poeta francese, Foucault coglie ora lo stesso atteggiamento, lo stesso ethos della modernità che a suo avviso caratterizza l’Aufklärung di Kant: la presa di distanza da ciò che si è – da ciò che il potere pastorale fa essere – e il tentativo di “divenire altri”, di costruire se stessi come un’opera d’arte, secondo regole liberamente scelte. Questo accostamento tra Illuminismo e dandysmo può aiutare a capire meglio il rapporto che Foucault istituisce tra l’Aufklärung di Kant e l’etica stoica della cura di sé23: solo attraverso un lavoro critico 20

Che cos’è l’Illuminismo?, cit., pp. 260-261. Si torni alla nota 15. 22 Baudelaire è un punto di riferimento costante per la riflessione novecentesca sulla modernità. Ad esempio, il poeta francese, il cui nome è già presente nelle opere di Max Weber (in particolare nella conferenza del 1917 La scienza come professione, in La scienza come professione, la politica come professione, Torino, Comunità, 2001) occupa una posizione di primo piano nel pensiero di Walter Benjamin (si vedano i saggi su Baudelaire contenuti nel vol. VII (Scritti 1938-1940) delle Opere complete, Torino, Einaudi, 2006, e nelle raccolte: Angelus novus: Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 2007, trad. parziale da Schriften, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1955; e I passages di Parigi, Torino, Einaudi, 2007, prima ed. Das Passagen Werk, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1982). Sulla concezione della modernità di Baudelaire insiste anche Marshall Berman nella sua polemica contro il post-modernismo, categoria in cui l’autore non include Foucault, ma piuttosto la “moda” di un certo “foucaultismo” (All that is Solid Melts into Air: The Experience of Modernity, New York, Simon & Schuster, 1982, trad. it. L’esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1985). 23 «Pensando al testo di Kant, mi chiedo se non si possa considerare la modernità come un atteggiamento invece che come un periodo della storia. Con atteggiamento intendo un 21



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del sé sul sé è possibile uscire da quello «stato di minorità» intellettuale in cui il potere pastorale, nelle sue molteplici forme tutorie, mantiene i soggetti. Foucault si riferisce soprattutto a due saggi di Baudelaire: il Salon del 184� (1846), omaggio alla pittura di Eugène Delacroix, e Il pittore della vita moderna (1863)24, dedicato a Constantin Guys. In questi testi, attraverso una riflessione sulla pittura, Baudelaire distingue la modernità dalla moda: l’atteggiamento moderno, secondo il poeta, non consiste in un’adesione al presente (alla «moda»), neppure a ciò che nel presente c’è di nuovo rispetto al passato, ma in una presa di distanza dal presente, nel tentativo di cogliere e di produrre quanto di «eterno» o «eroico» è possibile nell’attualità. Secondo il Baudelaire di Foucault, moderna è l’arte quando non si limita a riprodurre il presente, ma quando lo trasfigura affermando in tal modo la propria libertà. E sommamente moderna è l’arte quando tale trasfigurazione è applicata dall’artista al proprio sé: l’individuo moderno per eccellenza, secondo Baudelaire, è il dandy, che cerca di reinventare se stesso in modo originale, di autodeterminare se stesso in contrapposizione alle costrizioni sociali25. Ad accomunare dandysmo, Aufklärung e cura di sé, sarebbero quindi il rifiuto di quelle verità universali che impongono agli individui una linea di condotta standardizzata, e la libera ricerca di modi di vita personali. Questi atteggiamenti orientano anche l’ontologia critica foucaultiana, nei suoi molteplici significati: analisi e pratica dei «limiti» del presente26, decostruzione modo di relazione con l’attualità; una scelta deliberata compiuta da alcuni; infine, un modo di pensare e di sentire, anche un modo di agire e di comportarsi che sottolinea un’appartenenza e, al tempo stesso, si presenta come un compito. Probabilmente, un po’ come quello che i Greci chiamavano un ethos» (Che cos’è l’illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 13, p. 223, prima ed. «What is Enlightenment?», in Rabinow, Paul (a cura di), The Foucault Reader, New York, Pantheon Books, 1984, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 339). 24 Baudelaire, Charles, Salon de 184� e Le peintre de la vie moderne, in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1961, trad it. Salon del 184� e Il pittore della vita moderna, in Poesie e prose, Milano, Mondadori, 1973. 25 «Per Baudelaire, la modernità non è semplicemente una forma di rapporto con il presente; è anche un tipo di rapporto che bisogna stabilire con se stessi. L’atteggiamento deliberatamente moderno è legato a un indispensabile ascetismo. Essere moderno non significa accettare se stessi per quel che si è nel flusso dei momenti che passano; significa assumere se stessi come oggetto di un’elaborazione complessa e ostica: quel che Baudelaire chiama, secondo il vocabolario dell’epoca, il “dandysmo”» (Che cos’è l’Illuminismo? (What is Enlightenment?), cit., p. 225). Scrive ad esempio Baudelaire, a proposito del pittore Constantin Guys: «Egli cerca quel qualche cosa che mi si consentirà di chiamare la modernità; giacché non si trova una parola migliore per esprimere l’idea in questione. Si tratta, per lui, di liberare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nello storico, di cavare l’eterno dal transitorio» (Baudelaire, Charles, Il pittore della vita moderna, in Poesie e prose, cit., p. 944). 26 «Questo ethos filosofico può essere caratterizzato come un atteggiamento limite. Non si tratta di un atteggiamento di rigetto. Dobbiamo sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro;

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delle teorie politiche, rifiuto di progetti di emancipazione universale che implicano il ricorso a verità normalizzatrici: Non bisogna considerare l’ontologia critica di noi stessi come una teoria o una dottrina, e nemmeno come un corpo permanente di sapere che si accumula; bisogna concepirla come un atteggiamento, un ethos, una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile. [...] Non so se oggi si debba dire che il lavoro critico implica ancora la fede nell’Illuminismo; credo che comporti sempre il lavoro sui nostri limiti, vale a dire un travaglio paziente che dà forma all’impazienza della libertà27.

L’ossimoro di questa paziente impazienza, di questa volontà di libertà che basta a se stessa e rifiuta sia la ricerca di fondamenti razionali, sia l’elaborazione di un progetto universale in grado di realizzarla, ha suscitato non poche obiezioni. Particolare risonanza hanno avuto le critiche di un illustre erede dell’Illuminismo, Jürgen Habermas, che nel corso degli anni ottanta ha ingaggiato un’accesa polemica con Foucault. All’analisi di queste critiche sarà dedicato il prossimo paragrafo28.

7.2 Una freccia nel cuore del presente: Foucault e Habermas Quello tra Foucault e Habermas è un incontro mancato: i due filosofi hanno modo di discutere direttamente in una sola occasione, e il loro “confronto”, oltre che in pochi riferimenti espliciti al pensiero di Habermas contenuti nei lavori di Foucault, è depositato in alcuni testi che Habermas pubblica quando Foucault non è più in vita. Nell’autunno del 1981, a Berkeley, Foucault riceve la proposta di partecipare a un seminario permanente sul tema della “modernità” insieme con Habermas, ma di tale seminario non avrà luogo neppure una sessione. Foucault e Habermas s’incontrano invece nel marzo 1983, quando Habermas è invitato da Paul Veyne a tenere una serie di conferenze al Collège de France. In tale occasione, si racconta, i due filosofi, tradendo un certo imbarazzo, discutono più del cinema tedesco dobbiamo stare sulle frontiere. La critica è proprio l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi» (Che cos’è l’Illuminismo? (What is Enlightenment?), cit., p. 228). 27 Ivi, p. 232. 28 Nel paragrafo 2.2, La reazione liberale negli anni ottanta, ho già dato conto, seppur sommariamente, della risonanza che hanno avuto le critiche di Habermas al pensiero di Foucault. Una breve bibliografia sull’argomento è contenuta nella nota 37 del secondo capitolo.

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e della situazione politica francese che di filosofia29. Alla morte di Foucault, nell’estate del 1984, Habermas rende omaggio al collega scomparso con un articolo dai toni commossi30, in cui lo ritrae come uno «studioso rigoroso e riservato» e al tempo stesso come un «intellettuale vitale e vulnerabile»31. In questo articolo, egli prende in esame la lezione di Foucault sull’Aufklärung di Kant, pubblicata pochi mesi prima, esprimendo un sentimento di «sorpresa»32 per la scelta del filosofo francese di collocare se stesso all’interno di una tradizione di cui Kant sarebbe l’iniziatore. Habermas ricorda come ne Le parole e le cose Kant è dipinto come colui che «con la sua analitica della finitudine ha dischiuso l’epoca del pensiero antropologico e delle scienze umane»33, e si stupisce del fatto che nella lezione del 1983 egli appaia invece come «il primo filosofo che, come un arciere, scaglia il dardo al cuore di un presente condensato nell’attualità e, in tal modo, inaugura il discorso del moderno»34. Secondo Habermas, inoltre, nella sua lezione su Kant Foucault esalterebbe quella stessa soggettività che nei suoi testi precedenti considerava un prodotto del potere. In questo articolo, Habermas finisce con l’essere ingeneroso persino con Kant, sostenendo che anch’egli sarebbe caduto in contraddizione nel momento in cui ha interpretato l’entusiasmo rivoluzionario «come un segno storico di tale portata da fare affiorare nel mondo del fenomenico un impianto intelligibile del genere umano». In realtà la natura di tale segno non è per Kant di carattere fenomenico, né deontolo-

29

Cfr. Eribon, Didier, Michel Foucault et ses contemporains, Paris, Fayard, 1994, pp. 291-

292. 30

«Anche da lontano, la morte di quest’uomo di soli cinquantasette anni viene colta come un evento la cui stessa intempestività pone in evidenza la violenza e la crudeltà del tempo: il potere della fatticità che travalica insensatamente e senza trionfo il senso faticosamente composto di ogni vita umana» (Habermas, Jürgen, Una freccia scagliata al cuore del presente, in «Centauro», n° 4, maggio-dicembre 1984, p. 237, anche in «Critique», n° 471-472, 1986, prima ed. in «Tageszeitung», n° 8, 7 luglio 1984). 31 «Ho conosciuto Foucault solo l’anno scorso, e forse non l’ho capito bene. Quel che posso testimoniare è soltanto ciò che di lui mi ha impressionato: quella tensione, appunto, tra la riservatezza scientifica – ai limiti del distacco – dello studioso rigoroso, votato all’oggettività, e la vitalità politica dell’intellettuale vulnerabile, soggettivamente irritabile, moralmente suscettibile, che gli consentiva di sfuggire alle categorie usuali. Immagino che Foucault abbia rovistato gli archivi con l’energia tenace e puntigliosa di un detective intento a seguire ogni traccia e ogni indizio» (ibid.). 32 «Nella risposta kantiana alla domanda “Che cos’è l’Illuminismo?”, Foucault vede sorgere un’“ontologia dell’attualità” che – attraverso Hegel, Nietzsche e Max Weber – conduce a Horkheimer e Adorno. Ed è certo sorprendente che Foucault, nell’ultima fase della lezione, iscriva se stesso in questa tradizione» (ivi, p. 238, corsivo mio). 33 Ivi, p. 241. 34 Ivi, p. 239.

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gico. Secondo Kant, l’entusiasmo rivoluzionario non può essere considerato una garanzia del progresso dell’umanità né dal punto di vista della scienza storica, né da quello della morale. Infatti, adoperarsi per il raggiungimento della costituzione repubblicana e per la pace perpetua per Kant è un dovere morale, ma nulla potrà mai garantire con certezza che l’umanità adempirà i propri doveri. Le “profezie” di Kant si collocano piuttosto su una dimensione pragmatica – non a caso lo scritto Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio è datato 1798, come quella Antropologia pragmatica35 che Foucault ha tradotto in francese negli anni del suo dottorato di ricerca36. Secondo Kant, e secondo Foucault, è lecito sperare nel «progresso» verso il meglio quando l’opinione pubblica internazionale dimostra che l’umanità può fare libero uso delle proprie facoltà intellettuali – perché è allora che una soggettività creativa irrompe nella storia. Kant vede tale entusiasmo sprigionarsi nella partecipazione dell’opinione pubblica europea agli eventi della Rivoluzione francese, Foucault poteva vederlo nell’effervescenza politica americana ed europea del 1968 e degli anni settanta, e nella rivoluzione iraniana del 1978197937; ma nessuno dei due filosofi, nel testimoniare di questo entusiasmo, e nel prendervi parte, contraddice la propria critica della conoscenza, né la propria consapevolezza dei limiti delle scienze umane e storiche. A mio avviso, pertanto, Habermas non coglie nel segno nella sua ricerca di una contraddizione interna alle riflessioni di Foucault sulla modernità. 35 Con queste parole inizia lo scritto di Kant: «1. Che cosa si vuol qui sapere? – Si vuole un frammento della storia dell’umanità e propriamente non del passato, ma dell’avvenire, cioè che predica il futuro. Questa storia, se non è condotta secondo le leggi naturali note (come le eclissi del sole e della luna), è chiamata divinatoria e quindi naturale; ma se non può altrimenti aversi che per comunicazione e per estensione sovrannaturale della prospettiva nel futuro, allora deve dirsi augurale (profetica). D’altra parte quando si pone la questione se la razza umana (in generale) progredisca costantemente verso il meglio, si tratta non della storia naturale dell’uomo (se cioè nell’avvenire sorgeranno nuove razze umane), ma della storia del costume considerata non nel concetto di specie (“singulorum”), ma nel concetto della totalità degli uomini uniti sulla terra in società e distribuiti in popoli diversi. 2. Come si può sapere questo? – Come narrazione storica divinatoria di ciò che riserva l’avvenire, cioè come un’esposizione a priori possibile dei fatti che devono succedere. Ma come è possibile una storia a priori? Risposta: se chi predice fa e organizza egli stesso i fatti che preannunzia» (Kant, Immanuel, Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, cit., p. 213). 36 Nel saggio Foucault e Kant (Napoli, La città del sole, 1997), Mariapaola Fimiani sostiene che è possibile rintracciare un’importante premessa delle riflessioni dell’ultimo Foucault sulla soggettività proprio nella sua tesi secondaria di dottorato del 1961, che consiste nella traduzione dell’Antropologia pragmatica di Kant corredata di un’introduzione che non è stata inclusa nei Dits et écrits, e che è stata pubblicata assieme al testo di Kant soltanto nel 2008, alle pp. 11-79 dell’edizione: Kant, Immanuel, Anthropologie du point de vue pragmatique, precedé par Foucault, Michel, Introduction à l’Anthropologie, Paris, Vrin, 2008. 37 A questo proposito si torni alla nota 10 del primo capitolo.



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Tuttavia in questo articolo è proprio operando un paragone tra le presunte contraddizioni di Foucault e di Kant che Habermas muove la sua obiezione fondamentale al collega francese da poco scomparso: Nel circolo dei filosofi della mia generazione votati alla diagnosi del tempo, Foucault spicca come colui che ha saputo sollecitare nel modo più efficace lo spirito dell’epoca: non da ultimo grazie alla serietà della sua perseveranza in contraddizioni produttive. Solo un pensiero complesso è in grado di provocare contraddizioni istruttive. Istruttiva è, appunto, la contraddizione nella quale si trovò impigliato Kant, allorché spiegò l’entusiasmo rivoluzionario come un segno storico di tale portata da fare affiorare nel mondo del fenomenico un impianto intelligibile del genere umano. E parimenti istruttiva è la contraddizione in cui s’impiglia Foucault, quando pone la sua critica del potere in tale contraddizione con l’analitica della verità, per cui quella si vede sfuggire quei parametri normativi che dovrebbe mutuare da questa. Forse, è stata proprio la forza di questa contraddizione a recuperare Foucault – in questo suo ultimo testo – a quel circuito di discorso del moderno che egli pure voleva infrangere38.

Ciò che Habermas lamenta è la mancanza, nell’opera di Foucault, di un orizzonte normativo in grado di fornire fondamento razionale alla filosofia critica e di giustificare al contempo un progetto di emancipazione universale che offra un’alternativa all’esistente. Habermas contesta, cioè, la scelta operata da Foucault di praticare la filosofia nella forma dell’ontologia dell’attualità e il suo rifiuto di partecipare all’impresa dell’analitica della verità. Questa critica, che coglie il senso dell’«iperattivismo pessimistico» di Foucault, del suo ruolo di intellettuale critico, parresiastes decostruttore di verità, non deriva più, quindi, dalla ricerca di contraddizioni interne all’opera del filosofo francese, ma scaturisce dalla contrapposizione di due differenti atteggiamenti intellettuali: Habermas parteggia per una filosofia politica che non rinunci ai suoi compiti normativi, e di questa rinuncia accusa Foucault. Questa stessa critica è ripresa e sviluppata in Il discorso filosofico della modernità, testo pubblicato nel 1985, che riunisce dodici lezioni di Habermas dei primi anni ottanta39. Nell’attività didattica condotta in questi anni, il 38 Habermas, Jürgen, Una freccia scagliata al cuore del presente, cit., pp. 241-242, corsivi miei. 39 Si tratta, in particolare, delle quattro lezioni tenute da Habermas al Collège de France nel marzo 1983, e di altre otto lezioni proposte all’interno del suo corso all’Università di Francoforte nel 1983 e nel 1984, e in seminari tenuti alla Cornell University e al Boston College nel 1984. Su questa fase della riflessione di Habermas, si vedano, almeno: Petrucciani, Stefano, Habermas tra moderno e postmoderno, in «La rivista trimestrale», nn. 3-4, 1987; Honneth, Axel, Das Andere der Gerechtigkeit: Habermas und die ethische Herausforderung der Postmoderne, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», n° 2, 1994, trad. it. in «Fenomenologia e

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filosofo tedesco sviluppa soprattutto una polemica contro il post-modernismo, che, secondo la sua definizione, è quella corrente del pensiero filosofico che, a partire dagli anni settanta, muove da un recupero del pensiero di Nietzsche e di Heidegger per contestare l’idea moderna-illuminista di ragione e vanificare così la fiducia in un possibile progresso razionale dell’umanità verso un futuro di emancipazione, di libertà e di pace. Per quanto si sia detto sempre estraneo alla prospettiva post-modernista40, nella polemica di Habermas Foucault assume un ruolo di centrale importanza: a lui sono dedicate la nona, la decima e parte dell’undicesima lezione raccolte nel libro del filosofo tedesco, come se il suo pensiero – dopo quelli di Nietzsche, Heidegger, Bataille, Adorno e Derrida – fosse l’ultimo baluardo da abbattere per poter riedificare il progetto della modernità inteso come «prospettiva di una prassi autocosciente, nella quale l’autodeterminazione solidale di tutti dovrebbe potersi collegare con l’autentica realizzazione di ciascun singolo»41. In questo testo, come nel saggio scritto in occasione della scomparsa di Foucault, la ricostruzione habermasiana dell’opera del filosofo francese contiene, a mio avviso, alcuni fraintendimenti42. Habermas interpreta la società», n° 1, 1995; Passerin d’Entreves, Maurizio, Benhabib, Seyla (edited by), Habermas and the Unfinished Project of Modernity. Critical Essays on «The Philosophical Discourse of Modernity», Modernity» Cambridge, Polity Press, 1995. 40 Nel saggio sull’Aufklärung kantiana pubblicato nel 1984, Foucault considera l’Illuminismo un atteggiamento filosofico, e non un’epoca successiva a un’età “pre-moderna” e precedente un’età “post-moderna”. In un’intervista della primavera del 1983, interrogato proprio sulle critiche di Habermas, Foucault sostiene di non conoscere il dibattito sul post-modernismo, addirittura di non sapere a quali problemi faccia riferimento la nozione di “post-modernismo”: «In primo luogo, non ho mai molto ben capito quale fosse il senso che veniva attribuito, in Francia, alla parola modernità. In Baudelaire la cosa è chiara ma, in seguito, mi sembra che se ne sia perso un po’ il senso. Inoltre, non so quale sia il senso che i tedeschi attribuiscono alla modernità. So che gli americani hanno in progetto una sorta di seminario con Habermas a cui dovrei prendere parte anch’io, e so che Habermas ha proposto come tema quello della modernità. Mi sento un po’ in imbarazzo, perché non riesco a capire molto bene che cosa ciò significhi, e neppure riesco a comprendere quale sia il tipo di problema che viene preso di mira attraverso questa parola – poco importa il nome, possiamo sempre utilizzare un’etichetta arbitraria – o che si ritiene sia comune a quelli che vengono qualificati come post-moderni. E mentre riesco a scorgere, dietro ciò che è stato chiamato strutturalismo, l’esistenza di un problema effettivo, quello del soggetto e del suo rimaneggiamento, altrettanto non mi riesce di riconoscere, in coloro che sono definiti post-moderni o post-strutturalisti, quale sia il tipo di problemi che sarebbe comune a tutti loro» (Strutturalismo e post-strutturalismo, in Il discorso, la storia, la verità, Torino, Einaudi, 2001, prima ed. Structuralism and Post-Structuralism, in «Telos», vol. XVI, n° 55, primavera 1983, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 330). 41 Habermas, Jürgen, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 337, prima ed. Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag, 1985. 42 Quando scrive queste pagine, Habermas non può conoscere le ultime riflessioni del filosofo francese sulla soggettività e sul potere, anche se in più di una nota rimanda al testo



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storiografia genealogica di Foucault come un sapere che pretende per sé uno statuto di scientificità superiore a quello delle scienze umane e delle scienze storiche che vuole decostruire43. Tale sapere sarebbe volto a contestare la visione lineare della storia come corso unitario diretto verso il progresso e l’uso della storia come giustificazione del presente, tipici della modernità a partire da Hegel; l’esito di tale contestazione sarebbe una «concezione della storia come di un caleidoscopico mutamento di figure privo di senso, di universi di discorso che non hanno fra loro nulla in comune, salvo l’unica destinazione di essere protuberanze di potere»44. Foucault riuscirebbe nel suo intento di denunciare il legame che sussiste tra le verità delle scienze umane e storiche e i meccanismi di normalizzazione di poteri disciplinari e dei biopoteri, ma il suo concetto di potere risulterebbe «aporetico», rivestirebbe un «irritante doppio ruolo»45: concetto empirico e trascendentale al tempo stesso, esso sarebbe in realtà un prodotto di quel soggettivismo umanista che Foucault vorrebbe contestare46: Potere è ciò con cui il soggetto influisce su oggetti in azioni ricche di successo; in ciò, il successo dell’azione dipende dalla verità dei giudizi che entrano nel piano d’azione; il potere resta dipendente dalla verità in merito al criterio del successo dell’azione. Foucault capovolge di colpo questa dipendenza del potere dalla verità in una dipendenza della verità dal potere. Di conseguenza il potere fondante non necessita più di essere vincolato alle competenze di soggetti agenti e giudicanti – la potenza diventa priva di soggetto. Nessuno si sottrae tuttavia alle costrizioni di tipo strategico-concettuale della filosofia soggettiva per il semplice fatto di effettuare su quei concetti fondamentali delle operazioni di capovolgimento. Foucault non può far sparire tutte quelle aporie, che rinfaccia alla filosofia del soggetto, in un concetto di potere preso a prestito dalla stessa filosofia soggettiva. Così non desta sorpresa che le stesse aporie emergano nuovamente in una storiografia proclamata come antiscienza, che poggia su un simile principio paradossale47.

In realtà la definizione che Foucault sceglie per la propria nozione di potere non ha a che fare con la manipolazione tecnica degli oggetti del mondo, ma con l’influenza che l’azione di un soggetto può esercitare su quella di un altro. Foucault, inoltre, non «fonda» la verità sul potere ma analizza di Dreyfus e Rabinow su Foucault che contiene due importanti saggi di Foucault su questi argomenti. 43 Cfr. Habermas, Jürgen, Il discorso filosofico della modernità, cit., pp. 251 ss. 44 Ivi, p. 281. 45 Ibid. 46 Cfr. ivi, p. 297 e pp. 278 ss. 47 Ivi, pp. 278-279.

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i legami che intercorrono tra produzione di sapere e relazioni di potere. Il carattere paradossale dell’impresa filosofica di Foucault non consiste nel fatto che egli rivendichi per la sua opera decostruttrice della verità un valore scientifico, ma al contrario, nel fatto che egli utilizza la nozione di verità in senso antiscientifico, nominalistico e scettico: dal punto di vista che Foucault sceglie per i suoi studi, la verità è in prima istanza ciò che un determinato sistema di sapere-potere nomina come tale, e in seconda istanza è un’arma retorica che può essere usata per sostenere o per contestare tale sistema. Tale è anche la verità dell’opera di Foucault: la sua «storiografia genealogica» è un sapere prospettico che non ha alcuna ambizione di scientificità, che fornisce nuove ipotesi interpretative al servizio di chi al potere vuole contrappone la propria resistenza. Il suo concetto di potere non è pertanto trascendentale, ma semmai euristico: fornisce un’ipotesi, un punto di vista possibile per indagare le relazioni umane. È, appunto, questo carattere partigiano che Habermas contesta. A suo avviso la storiografia genealogica di Foucault avrebbe le stesse caratteristiche che il filosofo francese reperisce nella storiografia classica e nelle scienze umane: anziché preoccuparsi della verità degli eventi storici, indagherebbe il passato solo al fine di fornire linee di orientamento per il presente48, anziché rispettare gli imperativi di obiettività e di neutralità, si costituirebbe come un sapere parziale e fazioso49. Presentismo, relativismo, criptonormativismo: questi sarebbero i tratti caratterizzanti della paradossale «teoria del potere» di Foucault: La sua teoria vuole elevarsi al di sopra di quelle pseudoscienze a una rigorosa oggettività, e in ciò si avvolge tanto più disperatamente nelle insidie di una storiografia presentistica, che si vede costretta all’autosmentita relativistica e non può fornire nessuna informazione sui fondamenti normativi della sua retorica. All’oggettivismo dell’autoimpossessamento corrisponde qui un sog-

48 «Foucault non può sfuggire alla costrizione d’una suddivisione epocale implicitamente riferita al presente. Si tratti della storia della follia, di quelle della sessualità o delle pene, le formazioni di potere del Medioevo, del Rinascimento, dell’età classica rinviano sempre a quel potere disciplinare, a quella biopolitica, che Foucault considera il destino del nostro presente» (ivi, p. 281). «Lo smascheramento delle illusioni obiettivistiche di ogni volontà di sapere porta a un accordo con una storiografia narcisista che si allinea sulla posizione dello storico, e strumentalizza la considerazione del passato ai bisogni del presente» (ivi, p. 282, corsivo nel testo). 49 «La genealogia mentre riconosce la propria origine dall’alleanza del sapere erudito con quello squalificato, trova soltanto confermato che le pretese di verità di controdiscorsi non contano di più o di meno dei discorsi aventi potere – anche esse non sono nient’altro che gli effetti di potere che si manifestano» (ivi, pp. 284-285).

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gettivismo dell’oblio di sé. Presentismo, relativismo e criptonormativismo sono conseguenze del tentativo di trattenere nel concetto fondamentale del potere il momento trascendentale delle operazioni produttive e di scacciare tuttavia, da tale concetto, ogni soggettività. Questo concetto del potere non libera i genealogisti della coazione di autotematizzazioni contraddittorie50.

A mio avviso in parte Habermas ha ragione, e tale ragione gli sarebbe riconosciuta dallo stesso Foucault: la «storiografia genealogica», o ancor meglio sarebbe dire l’«ontologia dell’attualità», è una forma di presentismo. Essa è volta, infatti, alla critica dal presente, ed è finalizzata alla trasformazione dell’attualità. Ma in parte Habermas ha anche torto: il pensiero foucaultiano non è relativista, né criptonormativo. Sicuramente esso non può pretendere per sé uno statuto di scientificità superiore a quello delle scienze umane e storiche che decostruisce, tuttavia non nasconde il principio che lo ispira. Se, come Hannah Arendt, attribuiamo alla parola «principio» il duplice significato di «valore» e di «cominciamento»51, non è difficile individuare quale sia il principio da cui scaturisce l’opera di Foucault. A costituire la norma (non giuridica, né scientifica, ma etica) delle sue analisi presentiste è una libertà impaziente, intransigente, assoluta, che non deve essere giustificata attraverso l’indicazione dei fini che si prefigge, perché è fine a se stessa. Habermas riprende una critica formulta da Nancy Fraser: rinunciando a criteri normativi – cioè rinunciando a indicare lo scopo, l’esito finale delle pratiche di libertà che difende – Foucault non saprebbe rispondere a domande come: «che cosa c’è di sbagliato nel regime di potere/conoscenza presente?», «perché dovremmo opporci ad esso?», «perché sarebbe preferibile resistere al potere, anziché sottomettersi ad esso?»52. Foucault non solo non risponde a queste domande, ma rifiuta di porle. Come un giornalista, egli si limita a indagare il presente, e in quest’indagine la resistenza gli appare innanzitutto come un fatto che svela l’arbitrarietà dei poteri 50

Ivi, p. 297. «Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare (come indica la parola greca archein, “incominciare”, “condurre”, e anche “governare”), mettere in movimento qualcosa (che è il significato originale del latino agere). Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l’iniziativa, sono pronti all’azione. […] Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima» (Arendt, Hannah, Vita activa, Milano, Bompiani, 1996, pp. 128-129, corsivo mio, prima ed. The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958). 52 Habermas, Jürgen, Il discorso filosofico della modernità, cit., pp. 286-287. Le citazioni di Fraser sono tratte da: Fraser, Nancy, Foucault on Modern Power: Empirical Insights and Normative Confusions, in «Praxis International», vol. I, 1981, p. 283. 51

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in atto e l’infondatezza delle presunte verità che li giustificano. Quello di Foucault è un atteggiamento realistico ma non oggettivo né neutrale: è un atteggiamento partecipe, entusiastico di fronte allo spettacolo della libertà. L’iperattivismo pessimistico di Foucault esclude tuttavia la possibilità di una ricerca normativa, se per “ricerca normativa” si intende un’indagine tesa a fornire criteri razionali fondativi dell’ordine politico giusto: per Foucault non esistono soluzioni definitive ai mali del presente, perché qualsiasi soluzione comporta dei pericoli. Tutto l’itinerario filosofico di Habermas, al contrario, è volto a ricercare una soluzione teorica in grado di completare il progetto della modernità, e può essere sintetizzato come un tentativo di legittimare la democrazia partecipativa attraverso quella libertà di discussione pubblica che solo lo stato di diritto rende possibile. Non stupisce, pertanto, che un passo della lezione di Foucault su Kant sembra voler liquidare, senza neppure nominarla, l’impresa teorica di Habermas come un’operazione nostalgica e anacronistica tesa a riportare in vita l’età illuminista tradendone l’ethos critico53. In un’intervista del 1984, invece, il nostro autore reperisce sbrigativamente in un eccesso di ottimismo ciò che allontanerebbe la posizione di Habermas dalla sua: per Foucault nelle società contemporanee non vi sarebbe spazio per la comunicazione pubblica aliena da giochi di potere a cui Habermas aspira54. A mio avviso, ciò che separa radicalmente i due filosofi, non permettendo loro

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«Abbandoniamo alla sua pietà chi vuole conservare viva e intatta l’eredità dell’Aufklärung. Questa pietà è, certamente, il più commovente dei tradimenti. Non si tratta di preservare i resti dell’Aufklärung, bisogna avere presente e custodire il problema stesso di questo evento e del suo senso (il problema della storicità del pensiero dell’universale) come ciò che deve essere pensato» (Che cos’è l’Illuminismo (Qu’est-ce que les Lumières?), cit., p. 260). 54 «Quello che fa Habermas mi interessa molto, so che lui non è per niente d’accordo con quello che dico – io sono un po’ più d’accordo con quello che dice lui –, ma vi è qualcosa che, per me, resta problematico: quando attribuisce un posto così importante e, soprattutto, una funzione che definirei “utopica” alle relazioni comunicative. Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di verità potranno circolare senza ostacoli, senza vincoli e senza effetti coercitivi appartenga all’ordine dell’utopia. Significa proprio non vedere che le relazioni di potere non sono qualcosa di cattivo in sé, da cui bisogna affrancarsi; credo che non possa esistere una società senza relazioni di potere, se queste vengono intese come strategie attraverso cui gli individui cercano di condurre la condotta degli altri. Il problema non è, dunque, di cercare di dissolverle nell’utopia di una comunicazione perfettamente trasparente, ma di darsi delle regole di diritto, delle tecniche di gestione e anche una morale, un ethos, la pratica di sé, che consentano, in questi giochi di potere, di giocare con il minimo possibile di dominio» (L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., testo n° 19, p. 91, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 356, prima ed. L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in «Concordia. Revista internacional de filosofia», n° 6, 1984).

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di comprendersi fino in fondo, è il modo in cui essi interpretano il proprio ruolo di intellettuali che intervengono nel discorso pubblico del proprio tempo. Foucault sceglie per sé il punto di vista critico, decostruttivo del governato assoluto, che sa di essere preso in giochi di potere rispetto ai quali non potrà mai raggiungere una totale indipendenza, e che tuttavia in tali giochi cerca di mantenere una posizione laterale, di massima autonomia possibile. Il punto di vista di Habermas, invece, è quello del cittadino democratico, che partecipa ai giochi di potere da cui dipendono le decisioni politiche di chi lo governa. Entrambe le posizioni rivelano dei limiti, e anche dei pericoli. Negli anni ottanta Habermas, non conoscendo le ultime riflessioni di Foucault, lo accusa frettolosamente di non lasciare spazio alla soggettività55; il rischio maggiore insito nell’ultimo pensiero foucaultiano è invece, a mio avviso, l’eccessivo soggettivismo, l’isolamento diffidente e ipercritico del singolo anche quando è inserito in movimenti collettivi, anche quando si entusiasma del proprio essere parte della vita pubblica del proprio mondo. Il pericolo insito nell’atteggiamento di Foucault è la rinuncia a una piena cittadinanza, l’auto-condanna a una continua diffidenza verso il vivere sociale: la sua proposta etica è infatti una soluzione valida solo per individualità dissenzienti eccezionali, e quindi solitarie – nuove incarnazioni del saggio stoico, dell’oltreuomo nietzscheano o del dandy baudelaireano. Il tentativo habermasiano di proseguire il progetto della modernità salva da questo senso di altezzosa solitudine, permettendo di coltivare la fiducia nella possibilità di raggiungere il consenso universale attraverso una discussione razionale potenzialmente aperta a tutti. Tuttavia Habermas non tiene sufficientemente conto del fatto che, nella vita politica, ogni discussione collettiva termina nel momento in cui occorre che sia presa una decisione, e che qualsiasi decisione di chi governa, seppur raggiunta democraticamente, può comportare un sacrificio di libertà che chi è governato può giudicare troppo gravoso. Se vi fosse anche un solo dissenziente a protestare contro quelli che sente come abusi del potere, Foucault non solo sarebbe testimone attento di questo fatto di resistenza: farebbe risuonare la propria voce assieme a quella del ribelle. Habermas non rifiuterebbe di prestarle ascolto, ma probabilmente non riuscirebbe a udirla neppure.

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Cfr. Habermas, Jürgen, Il discorso filosofico della modernità, cit., pp. 296-297.

8 Decostruttivismo e normativismo

8.1 Verità, giustizia, libertà Negli anni ottanta, all’atteggiamento critico di Foucault, volto alla decostruzione di tutte le verità normative che hanno effetti di potere sulle condotte degli individui, Habermas contrappone un metodo critico che, al fine di reperire criteri normativi che possano fondare l’ordine politico giusto, discioglie la verità di un’asserzione morale nell’intesa intersoggettiva e riconduce la legittimità di una decisone politica alla procedura democratica1. Nonostante questa fondamentale differenza di esiti, è possibile cogliere alcuni punti di contatto tra i percorsi teorici dei due autori2, a partire da quell’adesione giovanile al marxismo che entrambi condividono con molti altri intellettuali della loro generazione3. 1

Sulla filosofia politica di Habermas (1929-) esiste un’amplissima letteratura critica. Per comprendere le diverse fasi del percorso teorico del filosofo tedesco, possono essere utili, in particolare: White, Stephen K. (edited by), The Cambridge Companion to Habermas, CambridgeNew York, Cambridge University Press, 1995; Bouchindomme, Christian, Rochlitz, Rainer (sous la direction de), Habermas: La raison, la critique, Paris, Les Édition du Cerf, 1996; e, inoltre, tra gli studi italiani, Privitera, Walter, Il luogo della critica: Per leggere Habermas, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, e Petrucciani, Stefano, Introduzione a Habermas, Roma-Bari, Laterza, 2000. 2 Per un confronto tra i percorsi teorici di Habermas e Foucault più esaustivo di quello che seguirà nelle prossime pagine, volto a evidenziare non solo le differenze, ma anche le analogie tra i due autori, simpatetico verso Habermas almeno tanto quanto il mio lo sarà verso Foucault, si vedano: Cusset, Yves, Haber, Stéphane (sous la direction de), Habermas et Foucault: Parcours croisés, confrontations critiques, Paris, CNRS édition, 2006; Haber, Stéphane, Critique de l’anti-naturalisme. Études sur Foucault, Butler et Habermas, Paris, PUF, 2006 (entrambi i testi offrono esaurienti bibliografie). Uno studio, ormai classico, teso a denunciare l’insufficienza dell’analisi del legame sociale in entrambi gli autori è, invece: Honneth, Axel, Kritik der Macht: Reflexionsstufen einer kritischen Gesellschaftstheorie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1986, trad. it. Critica del potere: La teoria della società in Adorno, Foucault e Habermas, Bari, Dedalo, 2002. 3 Se nel 1954, in Malattia mentale e personalità, per rendere omaggio al materialismo marxista, Foucault tesse l’elogio di Pavlov, nel 1957, nella rassegna di Habermas Literaturbericht zur philosophischen Diskussion um Marx und den Marxismus (in «Philosophische Rundschau», n° 3-4, 1957, trad. it. Sulla discussione filosofica intorno a Marx e al marxismo, in Dialettica della razionalizzazione, Milano, Unicopli, 1983),, il termine «rivoluzione» ricorre un centinaio di volte. Il giovane Habermas si discosta però dal marxismo, anticipando temi della sua produzione matura,

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Se nelle prossime pagine ripercorrerò sinteticamente l’itinerario teorico di Habermas, non sarà però con l’intenzione di cercare una mediazione tra due modi di intendere la filosofia tanto diversi, bensì nel tentativo di utilizzare alcuni strumenti teorici messi a punto da Habermas, e anche da Hannah Arendt, per oltrepassare quei limiti del pensiero di Foucault che le critiche del filosofo tedesco mi sembrano mettere in luce. Molti dei temi fondamentali della filosofia di Habermas sono già presenti, in nuce, nella sua tesi di abilitazione, pubblicata nel 1962: Storia e critica dell’opinione pubblica4. Con il termine «Öffentlichkeit», opinione pubblica o meglio sfera pubblica, in questo testo Habermas indica la discussione di un pubblico libero su questioni di interesse comune. A suo avviso, la sfera pubblica così intesa è un prodotto della cultura illuminista che trova nello scritto di Kant sull’Aufklärung il suo manifesto. Ciò che caratterizza la sfera pubblica è che vi si partecipa in qualità di privati cittadini, dismettendo le identità di ceto o di classe, attraverso l’argomentazione razionale: in questa discussione ad avere la meglio non sono l’autorità o il prestigio di chi parla, ma è la «cogenza non coattiva dell’argomento migliore». Secondo le ricostruzioni del filosofo tedesco, grazie al diffondersi della stampa, dal XVIII secolo la sfera pubblica diviene, in occidente, un fondamentale fattore di democratizzazione. Con l’avvento del suffragio universale e con lo sviluppo dei mass-media, essa conosce poi nuove potenzialità di consolidamento e di estensione, ma anche nuovi pericoli, determinati dalla pubblicità commerciale e dalla propaganda politica. Tutta la riflessione successiva di Habermas insisterà sulla necessità di rivitalizzare la sfera pubblica, che a suo avviso nell’Ottocento e nel Novecento è diventata sempre più luogo della manipolazione del gusto e del consenso e sempre meno sede della libera discussione. Se nella prima edizione di Storia e critica dell’opinione pubblica le democrazie occidentali sembrano avviate verso un futuro fosco che poco spazio lascerà alla libertà di pensiero e all’esercizio della critica, nel corso del tempo il filosofo tedesco abbandonerà il pessimismo della tesi di abilitazione e sosterrà che la ragione moderna è provvista di anticorpi sufficienti a far fronte alle patologie della

quando affida il superamento dell’alienazione dei soggetti nelle società moderne soprattutto alla loro capacità dialogica.. 4 Habermas, Jürgen, Strukturwandel der Öffentlichkeit: Untersuchungen zu einer Kategorie der bürgerlichen Gesellschaft, Neuwied/Berlin, Luchtehand, 1962, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 19902, trad. it. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari, Laterza, 1971 e 20012.

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modernità5. La monumentale opera di Habermas del 1992, Fatti e Norme6 può essere letta come una difesa dello stato di diritto liberaldemocratico: questo rappresenta, infatti, secondo il filosofo tedesco, l’unico regime in grado di garantire, anche nelle società di consumo contemporanee, un’opinione pubblica libera e non manipolata. A fornire fondamento teorico a questa convinzione è quella riflessione sulla razionalità moderna a cui, nel 1981, Habermas ha dato il nome di Teoria dell’agire comunicativo. Com’è noto, nel libro che porta questo titolo7, riformulando alcune tesi di Max Weber, Habermas distingue due tipi di razionalità che si traducono in due modalità di azione: l’azione strumentale e l’azione comunicativa. Habermas definisce strumentali quelle azioni che obbediscono a una razionalità tecnica, e che risultano, pertanto, razionali quando permettono di raggiungere uno scopo prefissato. Le azioni comunicative seguono, invece, criteri di razionalità differenti: esse sono razionali quando consentono l’intesa tra i soggetti coinvolti. Il fine dell’agire comunicativo non è, infatti, il perseguimento di un successo egoistico o di un fine esterno all’azione che lo realizza, ma è l’accordo dei partecipanti alla discussione che si acquisisce attraverso la discussione stessa8. Se l’agire strumentale si alimenta di conoscenze ogget5 Indicativa del mutato atteggiamento di Habermas è la prefazione alla seconda edizione di Storia e critica dell’opinione pubblica, del 1990, com’è attestato, tra gli altri, dagli studi contenuti in: Calhoun, Craig (edited by), Habermas and the Public Sphere, Cambridge-London, MIT Press, 1992; e dall’articolo: Ceppa, Leonardo, La revisione di Habermas, in «Teoria politica», n° 2, 2002. 6 Habermas, Jürgen, Faktizität und Geltung: Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1992, trad. it. Fatti e norme: Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini e Associati, 1996. Sulla difesa habermasiana della liberaldemocrazia e dello stato di diritto contenuta in questo testo si vedano, tra gli studi italiani: Ferrara, Alessandro, Democrazia e giustizia nelle società complesse: Per una lettura di Habermas, in «Filosofia e questioni pubbliche», n° 1, 1996; Ceppa, Leonardo, Pluralismo etico e universalismo morale in Habermas, in «Teoria politica», n° 2, 1997; Petrucciani, Stefano, Morale, diritto e democrazia nella teoria politica di Habermas, in «La cultura», n° 1, 1999; Sozio, Maurizio, Pubblicità e diritto in Jürgen Habermas, Bari, Adriatica, 2002; Abignente, Angelo, Legittimazione, discorso, diritto: Il proceduralismo di Jürgen Habermas, Napoli, Editoriale Scientifica, 2003; Maltese, Pietro, La teoria del discorso come pedagogia: Uno studio su Fatti e norme di Jürgen Habermas, Roma, Aracne, 2007. 7 Habermas, Jürgen, Theorie des kommunikativen Handelns, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1981, 2 voll., trad. it. Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, il Mulino, 1986, 2 voll. Per degli approfondimenti sull’etica discorsiva di Habermas possono essere utili, tra gli studi italiani: Fistetti, Francesco, Jürgen Habermas: Comunicazione, prassi e società, Milano, FrancoAngeli, 1985; Ostinelli, Marcello e Pedroni, Virginio (a cura di), Fondazione critica della comunicazione: Studi su Jürgen Habermas, Milano, FrancoAngeli, 1992; Giovagnoli, Raffaella, Habermas: Agire comunicativo e Lebenswelt, Roma, Carocci, 2000. 8 Habermas distingue tra «comprensione» e «intesa»: «Comprensione (Verständigung) significa

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tive, tecniche e scientifiche, l’agire comunicativo non può seguire regole certe, e ha come unico criterio normativo l’accordo intersoggettivo della comunità dei parlanti. Esso ha come orizzonte di riferimento non il mondo delle cose, ma quello che, seguendo Edmund Husserl9, Habermas chiama Lebenswelt: il mondo della vita, la sfera della riproduzione simbolica della realtà sociale. In questo mondo, il rapporto dei soggetti con le cose, i fatti, con gli altri soggetti e con se stessi, è mediato da saperi mobili che provengono dalla cultura e dalla tradizione ma che possono essere rinnovati attraverso l’interazione linguistica volta all’intesa. Ciò che caratterizza l’età moderna, secondo Habermas, è la razionalizzazione del mondo della vita, che coincide con l’illuminismo kantianamente inteso come uso pubblico della ragione: come dispiegarsi della razionalità comunicativa attraverso la critica del principio di autorità tipico della religione10.

la concordanza dei partecipanti alla comunicazione sulla validità di un’espressione; intesa (Einverständnis) significa il riconoscimento intersoggettivo della pretesa di validità avanzata per essa dal parlante» (Habermas, Jürgen, Teoria dell’agire comunicativo, cit., p. 707). 9 In Husserl Lebenswelt indica l’ambito del «precategoriale», in cui l’esistenza umana è regolata dalle consuetudini e dalle pratiche di vita quotidiana, e non dalle concettualizzazioni delle scienze. Si veda: Husserl, Edmund, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die Transzendentale Phänomenologie, Den Haag, Nijhoff, 1954, trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, Il Saggiatore, 1961, nuova ed. Milano, Net, 2002. 10 Nelle sue ultime riflessioni sull’attualità, Habermas ha aggiornato la sua riflessione sui rapporti tra ragione, fede e democrazia, sostenendo che la contemporaneità può essere designata come età post-secolare. Secondo le sue analisi, la crescente importanza assunta dalle questioni religiose nelle attuali società multiculturali in seguito al declino delle ideologie dopo il 9 novembre 1989, ai processi della globalizzazione e agli eventi che hanno fatto seguito all’11 settembre 2001, testimonierebbe l’esaurimento del progetto moderno-illuminista della secolarizzazione della vita politica. Habermas continua a difendere l’autonomia dello stato liberale da ogni tradizione religiosa e metafisica, e tuttavia sostiene ora la necessità del reciproco ascolto e del dialogo tra ragione e fede nella sfera pubblica democratica. A suo avviso lo stato liberale deve guardarsi dal cercare legittimazione nei valori religiosi, e tuttavia non può non tener conto del fatto che, di fronte al nichilismo che pervade le società di consumo contemporanee, la fede può fornire risorse di senso a cui appellarsi per rafforzare quel sentimento di solidarietà sociale che è necessario al buon funzionamento delle democrazie. Queste riflessioni, già presenti nei testi raccolti in Die Zukunft der menschlichen Natur: Auf dem Weg zu einer liberalen Eugenik? (Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2001, trad. it. Il futuro della natura umana: I rischi di una genetica liberale, Torino, Einaudi, 2002), sono state sviluppate dal filosofo tedesco nel confronto con Joseph Ratzinger promosso nel gennaio 2004 dall’Accademia cattolica di Monaco di Baviera (Habermas, Jürgen e Ratzinger, Joseph, Dialektik der Säkularisierung: Über Vernunft und Religion, Bonn, Bundeszentrale für politische Bildung, 2005 e Freiburg, Herder, 2005, trad. it. Etica, ragione e stato liberale, Brescia, Morcelliana, 2004 e Ragione e fede in dialogo, Venezia, Marsilio, 2005) e poi nel libro Zwischen Naturalismus und Religion: Philosophische Aufsätze (Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2005, trad. it. parziale Tra scienza e fede, Roma-Bari, Laterza, 2006 e 20082).

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Caratteristici della modernità – qui di nuovo Habermas segue Weber – sono però anche due sistemi autonomi dal mondo della vita: l’impresa capitalistica e lo stato burocratico centralizzato. In questi ambiti l’agire dei soggetti è orientato al successo, e non finalizzato all’intesa, coordinato attraverso i due media del denaro e del potere amministrativo. La principale patologia della modernità, secondo Habermas, è la colonizzazione del mondo della vita da parte dell’agire strumentale. Essa ha luogo quando le logiche monetarie e burocratiche invadono le relazioni vitali: gli individui stabiliscono allora rapporti con la realtà materiale, sociale, intersoggettiva e personale mediati sempre più dal denaro e dalla burocrazia, e non dal dialogo razionale con i propri simili. Dagli anni ottanta, l’impresa teorica del filosofo tedesco è volta a riscattare il mondo della vita dall’agire strumentale attraverso una rivitalizzazione dell’agire comunicativo, ed è nel corso di questa impresa che egli, indagando le condizioni di possibilità dell’intesa e del consenso, affronta il problema politico della verità11. La questione della verità è messa a tema, in particolare, in sette saggi scritti da Habermas tra il 1996 e il 1998, e raccolti nel 1999 sotto il titolo di Verità e giustificazione12. Nucleo centrale della teoria gnoseologica di Habermas è la dissoluzione dell’io trascendentale kantiano, depositario delle condizioni di possibilità della conoscenza, nell’intersoggettività comunicativa13. Fin dagli anni settanta Habermas ha preso infatti le distanze da quelle forme di «filosofia della coscienza» che risolvono i problemi gnoseologici ed epistemologici nell’analisi di presunte facoltà conoscitive dell’uomo, assunte come realtà astoriche e universali. Secondo Habermas ogni verità, scientifica o morale, è tale solo in relazione al contesto in cui viene prodotta: chiunque avanzi pretese di verità è tenuto a confrontarsi con le opinioni degli altri soggetti che appartengono alla sua comunità scientifica, e in generale al suo ambiente storico-culturale. A determinare la conoscenza non sono, quindi, soltanto facoltà conoscitive innate, o evolutivamente conquistate, dell’uma-

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Problema che Habermas aveva già affrontato, fin dagli anni sessanta, in un lungo lavoro di cui uno dei risultati più significativi è: Erkenntnis und Interesse, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1968 e 19732, trad. it. Conoscenza e interesse, Bari, Laterza, 1970 e Roma-Bari, Laterza, 19832. 12 Habermas, Jürgen, Wahrheit und Rechtfertigung: Philosophische Aufsätze, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1999, trad. it. Verità e giustificazione, Roma-Bari, Laterza, 2001. 13 «Con la detrascendentalizzazione si modifica il concetto stesso di trascendentale. La coscienza trascendentale perde la grandezza “oltremondana”, domiciliata nell’ambito dell’intelligibile; è scesa in terra nella figura de-sublimata della prassi comunicativa quotidiana. Il mondo profano della vita ha occupato il luogo oltremondano del noumeno» (Habermas, Jürgen, Verità e giustificazione, cit., p. 21).

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nità, ma anche le pratiche di vita dei soggetti uniti in società. Nella prospettiva pragmatista di Habermas14 è, quindi, indifendibile una nozione della conoscenza come «specchio della natura»: come Karl Popper, Habermas afferma che la conoscenza procede per «congetture e confutazioni», attraverso l’esperienza di errori che mettono in discussione ciò che, all’interno di pratiche consolidate e di saperi giudicati validi dalla comunità scientifica, viene considerato verità15. In un primo momento, Habermas ha condiviso la concezione epistemica della verità come «affermabilità in condizioni ideali» difesa da Charles Sanders Peirce, secondo cui un’affermazione può essere legittimamente considerata vera quando potrebbe resistere a tutti i tentativi di invalidazione in una situazione epistemica ideale. In particolare, nella versione elaborata da Habermas dagli anni settanta fino a Fatti e norme, l’affermabilità ideale si definisce per via procedurale, come rispetto delle condizioni della prassi argomentativa razionale. Ma in Verità e giustificazione, a tale concezione Habermas riconosce un limite: essa privilegia il confronto di coerenza tra proposizioni scientifiche rispetto al rapporto delle stesse proposizioni con l’esperienza di una realtà intersoggettivamente condivisa. In questo libro, Habermas mette quindi in discussione la propria precedente concezione «epistemica» della verità come procedura, e la sostituisce con una concezione «non-epistemica». Quest’ultima muove dalla constatazione dell’esistenza di un legame indissolubile tra i saperi sviluppati in una data situazione storica e i problemi che emergono nel corrispondente contesto sociale, e da tale constatazione deriva che non si può mai escludere che in una differente situazione gli argomenti che nel presente riteniamo convincenti possano perdere la loro forza argomentativa. Le pratiche di vita, a cui appartengono anche le pratiche della ricerca scientifica, costituiscono ora per Habermas il punto di partenza e il punto di riferimento di ogni sapere: nell’ambito della conoscenza ogni progresso deriva dalla necessità

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Cfr. Aboulafia, Mitchell (edited by), Habermas and Pragmatism, London-New York, Routledge, 2002. 15 «Lo “specchio della natura” – la rappresentazione della realtà – è il modello errato del conoscere, perché la relazione a due membri di immagine e riproduzione – e la relazione statica tra asserzione e stato di cose – chiude in dissolvenza la dinamica dell’accrescimento del sapere mediante soluzione di problemi e giustificazione. Le conoscenze risultano, nella dimensione spaziale, dalla rielaborazione di delusioni nella frequentazione intelligente di un ambiente a rischio, nella dimensione sociale dalla giustificazione di soluzioni di problemi di fronte alle obiezioni di altri partecipanti all’argomentazione, e in quella temporale da processi di apprendimento che si nutrono della revisione dei propri errori» (Habermas, Jürgen, Verità e giustificazione, cit., p. 31).

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di ristabilire una nozione di sfondo parzialmente turbata dall’emergere di nuovi problemi che mettono in crisi saperi consolidati16. La teoria «non-epistemica» della verità di Habermas presenta forti analogie con l’epistemologia di Thomas Kuhn, ma anche con lo “strutturalismo” foucaultiano (e con la critica della filosofia trascendentale di Kant che a esso si accompagna). Si ricorderà come Foucault, riprendendo il pensiero di Gaston Bachelard, teorizzi l’esistenza di un legame tra la produzione di verità e quelli che chiama campi epistemici: nella fase archeologica del pensiero foucaultiano, questi si configuravano semplicemente come strutture di sapere (equivalenti ai «paradigmi scientifici» di Kuhn), ma, alla luce degli sviluppi genealogici del suo percorso teorico, essi assumono i connotati di strutture socio-culturali, definite anche dalle relazioni di potere vigenti in un dato gruppo umano. Il compito che Foucault assume in quanto intellettuale, e che al tempo stesso affida al suo attore politico, il governato, sembra essere principalmente quello di mettere in crisi il campo epistemico presente, di far vacillare le verità consolidate allo scopo di resistere ai poteri che sono loro legati – questo è il senso tanto dell’annuncio della morte dell’uomo, quanto dell’invito alla decapitazione del sovrano. L’intellettuale e il cittadino a cui si rivolge Habermas, invece, con maggior senso di responsabilità, anche quando contribuiscono alla messa in crisi di un paradigma scientifico dato, si adoperano poi per un suo riaggiustamento o per l’edificazione di un nuovo paradigma. Ciò che accomuna il governato foucaultiano al cittadino habermasiano, in ambito gnoseologico, è la consapevolezza che ogni traguardo nella sfera della conoscenza è sempre provvisorio, e che il compito della critica è infinito; anche questo accordo possibile tra i due autori tende però a sfumare se dalla teoria della conoscenza ci spostiamo alla teoria morale. L’ultimo Habermas è infatti disposto a rinunciare alla nozione epistemica di verità in ambito gnoseologico, ma non in ambito deontologico. In Verità e giustificazione egli sostiene infatti la tesi, in apparenza paradossale, secondo cui la nozione di giustezza normativa (o verità morale) è “meno debole” della nozione di verità scientifica17. La giustezza, infatti, a differenza della verità, 16 «Non esiste un accesso immediato, non filtrato discorsivamente, alle condizioni di verità delle convinzioni empiriche. Oggetto di discussione diventa soltanto la verità di opinioni divenute vacillanti – di opinioni che sono state espulse dal modo di indubitabilità delle certezze operative funzionanti» (ivi, p. 46). 17 «L’orientamento sulla verità assume ruoli diversi nei contesti dell’agire e del discorso. In vista di questa differenza, io distinguo tra la verità di un’asserzione e la sua affermabilità razionale (anche in condizioni pressoché ideali) in maniera più netta di quanto si sia fatto finora, e sottopongo la forma epistemica del concetto di verità a una revisione che da tempo era dovuta. In retrospettiva, mi rendo conto che il concetto discorsivo della verità è dovuto

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secondo Habermas non ha connotazione ontologica: la sua mancanza di riferimento a oggetti del mondo fa sì che essa si risolva nell’affermabilità razionale in condizioni ideali. Nella prospettiva difesa dal filosofo tedesco, data l’impossibilità di riferimenti oggettivi, le garanzie affinché le pretese di validità morale possano aspirare a una forza vincolante «analoga alla verità» sono offerte soltanto dalla razionalità di una discussione morale in cui siano potenzialmente inclusi tutti gli interessati: Il concetto di “giustezza normativa” si dissolve nell’affermabilità razionale in condizioni ideali; gli manca la connotazione ontologica del riferimento a oggetti dei quali affermiamo stati di fatto. Al posto della resistenza di oggetti sui quali noi ci logoriamo nel mondo della vita subentra qui l’opposizione di controparti sociali i cui orientamenti di valore entrano in conflitto con i nostri. Questa soggettività di uno spirito altrui è in un certo senso fatta di materia più morbida dell’oggettività di un mondo che riserva sorprese. Se le pretese di validità morale debbono nondimeno attingere la loro forza vincolante a un’assolutezza analoga alla verità, l’orientamento sull’ininterrotta inclusione di pretese e persone deve poter compensare la mancanza di riferimento al mondo oggettivo18.

Secondo Habermas, se l’intersoggettività conoscitiva mantiene sempre un legame con l’oggettività del mondo della vita, seppur nel senso pragmatico di un’oggettività esperita e condivisa, non assoluta, la morale non può che essere considerata in senso costruttivistico, come progetto ideale collettivo la cui realtà è garantita soltanto dal consenso dei soggetti morali19. Come già

a una sovrageneralizzazione del caso particolare della validità di norme e giudizi morali. È vero che una nozione costruttivistica del dovere morale esige una nozione epistemica di giustezza normativa. Ma il concetto di verità dell’asserzione non può venire assimilato a questo senso di accettabilità razionale in condizioni pressoché ideali, se vogliamo rendere giustizia a intuizioni realistiche. Ciò mi induce […] a distinguere più nettamente fra “verità” e “giustezza”» (ivi, pp. 11-12). 18 Ivi, p. 50. 19 «Sullo sfondo di contrasto del concetto non epistemico di verità, il concetto epistemico di giustezza è quello che per primo mette nella giusta luce l’aspetto costruttivistico dell’etica discorsiva. I soggetti capaci di linguaggio e di azione giudicano azioni e conflitti rilevanti in vista di un universo di ben ordinati rapporti interpersonali che è da realizzare e che essi stessi progettano. Essi, peraltro, argomentano da un punto di vista morale di cui non dispongono in quanto partecipanti all’argomentazione, e che in questo senso limita la loro prassi giustificativa. Non possono costruire il “regno dei fini” a loro piacimento, ma lo progettano come un universo che sono loro i primi a dover realizzare. Al senso della giustezza normativa mancano connotazioni ontologiche, perché i giudizi morali si regolano secondo un mondo sociale sia pure non liberamente scelto, però progettato idealmente, e che senza la collaborazione degli stessi soggetti agenti moralmente non diventa reale» (ivi, pp. 50-51).

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in Fatti e norme, anche in Verità e giustificazione Habermas sostiene che nelle società moderne soltanto il sistema di diritto liberaldemocratico, garante di un libero esercizio dell’opinione pubblica, permette a questo progetto ideale di tradursi, almeno parzialmente, in realtà. Nell’ultima produzione di Foucault, possiamo trovare una riflessione sull’etica che confuta il concetto epistemico di giustezza normativa con cui Habermas intende giustificare l’obbedienza dei cittadini ai propri governi democratici. Infatti, se per Habermas il concetto di giustezza normativa manca della «connotazione ontologica del riferimento a oggetti dei quali affermiamo stati di fatto», ne L’uso dei piaceri Foucault sostiene, al contrario, che un sistema morale non si riduce al proprio codice di divieti e permessi, ma si caratterizza anche per la sua ontologia. Con questa categoria, il filosofo francese designa quella porzione di realtà che un determinato sistema morale riconosce come sostanza etica, come materia su cui gli individui devono lavorare per costituirsi come soggetti morali20. Per essere più precisi, secondo la gnoseologia scettica e nominalista che sottende gli studi di Foucault, ogni sistema morale, come ogni campo epistemico, non solo ha riferimenti diretti all’oggettività del mondo, ma determina l’emergere di “oggetti” nel mondo che non sarebbero riconoscibili all’interno di altri sistemi morali. I libri di Foucault mostrano, insomma, come il sistema morale vigente in una data società, lungi dall’essere svincolato dalla realtà, collabori alla costruzione intersoggettiva di un mondo sociale che richiede di essere normato, fornendo la materia su cui deve esercitarsi il diritto. Ad esempio, la Storia della follia mostra come la follia si costituisca come oggetto di cui si occupano la medicina e il diritto soltanto a partire dal XVIII secolo, e Sorvegliare e punire come la delinquenza intesa come personalità criminale deviante, anormale, acquisti piena realtà nella psichiatria e nella criminologia, nel sistema penitenziario e nei codici giuridici soltanto a partire dal XIX. Secondo Foucault, lungi dall’essere privi di connotazioni ontologiche, morale e diritto, al pari della scienza e del sapere, producono realtà. Con questa tesi il filosofo francese demolisce la concezione epistemica della giustezza normativa, dimostrando che la condizione concreta in cui vengono pronunciati giudizi morali è molto diversa dalle condizioni ideali a cui pensa Habermas. Per Foucault, infatti, il giudizio morale implica un riferimento imprescindibile a quelle che, nel 20 Si torni al paragrafo 6.3 Estetica del soggetto e controcondotte etiche. Come si ricorderà, ne L’uso dei piaceri Foucault sostiene che l’ontologia della morale sessuale antica è costituita da aphrodisia, cioè da atti e comportamenti sessuali osservabili dall’esterno, mentre l’ontologia della morale sessuale moderna è costituita da desideri sessuali provenienti dall’interiorità, dalla profondità dell’anima o della psiche, che diventano conoscibili soltanto grazie all’interpretazione di un’autorità pastorale.

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corso Nascita della biopolitica, chiama realtà transazionali, il cui statuto di esistenza, determinato appunto dalle transazioni intersoggettive, è sicuramente differente da quello dei fenomeni fisici studiati dalle scienze, ma che non per questo devono essere considerate «meno reali» di questi ultimi21. Il tentativo di giustificazione razionale dello stato di diritto attraverso la nozione epistemica di giustezza normativa è, poi, suscettibile di un’ulteriore critica che, anche senza far ricorso a queste riflessioni metaetiche di Foucault, può fare emergere le debolezze interne della teoria habermasiana. Se, in tale teoria, la legittimazione dello stato di diritto poggia su un concetto epistemico di verità morale, che cosa fonda a sua volta la cogenza normativa di tale verità? Concesso che la liberaldemocrazia sia l’ordine politico più giusto, che cosa rende obbligatoria per i cittadini l’obbedienza alle leggi dello stato di diritto? Habermas pone a Foucault questi interrogativi: «Perché dovremmo resistere al dominio, anziché sottometterci ad esso? Come si giustifica la volontà di libertà?». Seguendo il suo stesso esempio, ad Habermas potremmo allora chiedere: «Perché dovremmo essere morali? Come si giustifica la volontà di giustizia?». Queste domande non hanno risposta, né in Foucault, né in Habermas. Infatti, anche tutto l’impianto normativo dell’ultimo Habermas, almeno questo è ciò che ora cercherò di dimostrare, in ultima istanza si fonda su un atto volitivo, e un atto volitivo – si tratti della volontà di libertà o della volontà di giustizia – non ha bisogno di giustificazioni, perché è un principio ingiustificabile. Non stupisce che il 28 giugno 2001, nella Christian Wolff Vorlesung tenuta all’Università di Marburgo22, Habermas, per affrontare alcuni problemi di bioetica, muova da un recupero dell’imperativo categorico kantiano nelle sue due formulazioni, «di fine» e «di legge». Prescrivendo di «trattare sempre l’umanità, anche come un fine, mai soltanto come un mezzo», l’imperativo categorico vieta, secondo Habermas, la manipolazione del pa21

Nel corso Nascita della biopolitica, Foucault utilizza i termini «realtà di transazione» e «figure transazionali» per designare quegli enti quali la follia, la sessualità o la società civile, che esistono solo nelle transazioni tra i soggetti, in quanto prodotti delle relazioni umane, e in particolare delle relazioni di potere, e precisa che tali realtà, «per il fatto di non essere esistite da sempre, non per questo sono meno reali» (Nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 242). A questo proposito si torni alla nota 124 del cap. 5. 22 La conferenza è raccolta assieme ad altri interventi nel libro Die Zukunft der menschlichen Natur, cit., trad. it. Il futuro della natura umana, cit. Una testimonianza del dibattito suscitato in Italia da questo testo è Bioetica dal vivo: Discussione (a cura di Laura Boella). Interventi di Pietro Benedetti, Edoardo Boncinelli, Giovanni Boniolo, Giulio Giorello, Edoardo Greblo, Alberto E. Panerai, Gian Enrico Rusconi, in «aut-aut», n° 318, 2003. Si veda, soprattuto, alle pp. 52-64, l’intervento di Gian Enrico Rusconi; e si veda, inoltre: Ceppa, Leonardo, Naturalismo e normativismo in Habermas, in «Teoria politica», n° 2, 2004.

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trimonio genetico embrionale a fini migliorativi: a suo avviso, considerare l’altro come un fine significa anche permettergli di considerarsi «l’autore di una condotta di vita orientata su pretese proprie», e non su scelte operate da genitori e ingegneri genetici prima della sua nascita23. Prescrivendo di «agire in modo che la propria volontà possa valere sempre come principio di una legislazione universale», secondo Habermas l’imperativo categorico stabilisce, inoltre, il dovere dei soggetti morali di entrare a far parte di una comunità che, attraverso il discorso razionale, si adoperi per «scoprire o sviluppare [...] le norme che – relativamente a una materia che necessita di regolamentazione – meritino la fondata approvazione di tutti»24. Nella stessa conferenza, Habermas opera una distinzione tra morale ed etica. Secondo le sue definizioni, all’ambito normativo della prima pertengono questioni relative al problema della convivenza giusta che presuppongono una soluzione di tipo universale, mentre la seconda si configura come la sfera in cui ogni individuo è chiamato ad affrontare scelte relative al problema della vita buona o ben vissuta25. Tra moralità ed eticità sussiste, secondo il filosofo tedesco, un rapporto circolare. Filogeneticamente, vale a dire secondo il punto di vista della storia dell’umanità, la moralità precede le scelte etiche dei singoli: è la cultura a cui si appartiene che “abitua” a giudicare secondo i parametri del giusto e dell’ingiusto; invece ontogeneticamente, cioè nelle storie di vita individuali, è un impulso etico a determinare l’adesione a una comunità morale26. Secondo Habermas, questo impulso è legato a quella 23

Habermas, Jürgen, Il futuro della natura umana, cit., p. 57. Ibid. 25 «Chiamo questioni morali quelle che si riferiscono a una convivenza giusta. Quando nel loro agire le persone entrano in conflitto tra loro, allora le questioni morali stanno ad indicare il bisogno normativo di “dare una regola” alle interazioni sociali. Sussiste la ragionevole aspettativa che questi conflitti possano, in linea di principio, essere razionalmente decisi nell’eguale interesse di ciascuno. Per contro, una siffatta aspettativa di accettabilità non sussiste quando la descrizione del conflitto e la giustificazione delle norme relative dipendono, da parte loro, dal privilegiamento di una certa maniera di vita e da una certa autocomprensione esistenziale (ossia dal sistema simbolico con cui un singolo cittadino, o un gruppo di cittadini, interpreta e sorregge la propria identità). Questi conflitti riguardano lo sfondo e concernono questioni che io chiamo etiche» (ivi, p. 41). 26 «Si tratta dello stesso impulso cui possiamo storicamente ricondurre il passaggio allo stadio post-tradizionale della coscienza morale – un passaggio che si ripete sul piano ontogenetico. Dopo che le immagini metafisiche e religiose del mondo persero il loro aspetto universalmente vincolante, noi (o la maggior parte di noi) non siamo diventati affatto cinici freddi o relativisti indifferenti. Pur convertendoci a un tollerante pluralismo ideologico, ci siamo sempre attenuti al codice binario del giudizio morale: o giusto o sbagliato (abbiamo voluto attenerci). Abbiamo convertito le pratiche del mondo della vita e della comunità politica armonizzandole sui postulati della morale tradizionale e dei diritti umani, in quanto questi 24

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che chiama «autocomprensione etica della specie», cioè al nostro sentimento di appartenenza alla specie umana: Il fatto che noi dovremmo agire moralmente è cosa implicita alla struttura deontologica della morale in quanto tale. Ma perché mai dovremmo anche volere essere morali, nel momento in cui l’ingegneria genetica scalza silenziosamente la nostra identità come esseri appartenenti alla specie umana? Una valutazione complessiva della morale non è a sua volta un giudizio morale, bensì un giudizio etico, e più precisamente un giudizio etico-della-specie. Senza l’emozione dei sentimenti morali di obbligazione e colpa, rimprovero e perdono, senza la libertà del rispetto morale, senza la felicità dell’aiuto solidale e lo sconforto del fallimento morale, senza la “gentilezza” di un procedimento incivilito nel trattamento di conflitti e contrasti, noi dovremmo sentire come intollerabile questo universo abitato dagli uomini (o almeno questo è ciò che ancora oggi noi crediamo). Non varrebbe più la pena di vivere in una sorta di vuoto morale, in una forma-di-vita in cui nemmeno il cinismo morale sarebbe più immaginabile. In questo giudizio si esprime semplicemente l’impulso a preferire un’esistenza che sia degna dell’uomo rispetto alla freddezza di forme-di-vita impermeabili agli scrupoli morali27.

Anche dopo aver letto queste parole possiamo continuare a interrogare Habermas. Secondo il filosofo tedesco, se non vogliamo perdere il sentimento etico della nostra appartenenza all’umanità, dobbiamo voler essere morali, e credere in una nozione epistemica di giustezza normativa. Ma perché mai dovremmo volere essere umani? Perché essere umani dovrebbe essere preferibile a essere inumani? Che cosa giustifica il desiderio di umanità? Esiste sempre una domanda ultima a cui Habermas, come Foucault e come chiunque altro, non potrà rispondere: ogni discussione, pubblica o privata, per realizzarsi in un atto pratico richiede una decisione che trascende le argomentazioni razionali che la giustificano. E infatti Habermas non si ferma di fronte a questo abisso morale: con ostinato coraggio Habermas sceglie sempre di proseguire il progetto incompiuto della modernità, con le difficoltà e i paradossi che questa decisione comporta. Coraggioso, oltre che impaziente, è però anche il pensiero libertario di Foucault che, invece, nietzscheanamente si appropria degli abissi che incontra. In un mondo in cui Dio è morto, e con lui il sovrano e l’uomo, l’unico principio a cui affidarsi per Foucault è la libertà che si risolve in una vertiginosa responsabilità. L’etica della cura di sé dissolve, infatti, la ca-

postulati mettono a disposizione dell’esistenza umana una base comune in grado di andare al di là delle differenze ideologiche» (ivi, p. 74). 27 Ivi, p. 73, corsivi miei.

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tegoricità dell’obbligazione morale nel rischio di una libera scelta estetica: soltanto il soggetto interessato può giudicare quale linea di condotta renda bella la sua vita, e quindi ciascuno è solo di fronte all’urgenza delle proprie decisioni etiche. Se non vogliamo rassegnarci a questo senso di solitudine, dobbiamo quindi oltrepassare Foucault: possiamo ad esempio resistere al potere seduttivo del suo pensiero, pur accogliendone la radicalità critica, e prendere a modello il coraggio di Habermas. Nessuna argomentazione razionale può obbligarci a essere morali; tuttavia possiamo liberamente decidere di essere morali, oppure possiamo riconoscere di essere agiti da una spinta esistenziale, estetica ed emotiva, che ci impedisce di non essere morali. Se un mondo senza obbligazioni morali ci sembra intollerabile28 e un mondo umanizzato ci sembra più bello, allora possiamo includere la giustizia come un fine e come un dovere all’interno del nostro particolare progetto di vita, della nostra individuale idea di bene. Del resto, come insegnano Kant e Arendt, la bellezza implica sempre la presenza degli altri: non si dà bellezza se non attraverso la ricerca di un’intesa collettiva sul bello.

8.2 Hannah Arendt e l’inumana eredità di Kant In tutta la sua produzione, Hannah Arendt29 opera una strenua difesa della libertà e assieme una critica radicale di ciò che, nelle società moderne, rende

28 In un intervento dei primi anni settanta, ai tempi della sua militanza nel G.I.P., anche Foucault ricorre alla categoria di intollerabile per “giustificare” i propri interventi nella sfera pubblica a favore dei carcerati, dei malati psichiatrici, di tutti coloro che, in quanto portatori di una presunta anormalità, si vedono negato l’accesso a una piena umanità: «Lo sciopero della fame [dei carcerati] il gennaio scorso ha costretto la stampa a parlare. Approfittiamo della breccia: che l’intollerabile, imposto dalla forza e dal silenzio, smetta di essere accettato. La nostra inchiesta non è fatta per accumulare conoscenze, ma per accrescere la nostra intolleranza e farne un’intolleranza attiva. Diventiamo intolleranti a proposito delle prigioni, della giustizia, del sistema ospedaliero, della pratica psichiatrica, del servizio militare, ecc.» (Sur les prisons, in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, vol. I, testo n° 87, p. 1044, traduzione e corsivo miei, prima ed. in «J’accuse», n° 3, 15 marzo 1971). 29 Per una bibliografia parziale relativa alle opere di Arendt e alla letteratura critica sul suo pensiero, si torni alla nota 54 del capitolo quarto. Sull’interpretazione che Arendt fornisce del pensiero kantiano, e sulla sua teoria del giudizio politico, si vedano, in particolare i saggi raccolti in Kaplan, Gisela T. e Kessler, Clive S. (edited by), Hannah Arendt: Thinking, Judging, Freedom, Sidney, Allen & Unwin, 1989, e nella prima sezione, intitolata La teoria politica del giudizio, di Fistetti, Francesco e Recchia Luciani, Francesca R. (a cura di), Hannah Arendt: Filosofia e totalitarismo, Genova, il melangolo, 2007; e inoltre lo studio: Forti, Simona, Vita della mente e tempo della polis: Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, FrancoAngeli, 1996, nuova ed. Hannah Arendt tra filosofia e politica, Milano, Bruno Mondadori, 2006.

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la libertà impensabile e impraticabile. Si potrebbe, ad esempio, accostare la critica che Foucault rivolge alle scienze umane ne Le parole e le cose (1966) alle invettive che Arendt pronuncia contro le scienze economiche, sociali e statistiche in Vita activa (1958)30. Secondo Arendt e secondo Foucault, non solo il progetto di un sapere sull’umano dotato di scientificità non è possibile: soprattutto esso non è auspicabile, perché le verità di tale sapere ridurrebbero l’azione a comportamento, la libertà ad automatismo. Tutto ciò che gli uomini e le donne compiono, diverrebbe un epifenomeno della natura umana, e la creatività non sarebbe più pensabile come carattere costitutivo della condizione umana. Se Foucault difende la libertà per lo più con le sole armi della critica, Arendt, allieva di Heidegger, si addentra invece in una regione del pensiero in cui l’antropologia diviene ontologia, e opera un’analisi dell’esistenza che, a mio avviso, può essere utilizzata per indagare alcune ipotesi sull’umano che Foucault – affezionato com’è a uno stile argomentativo meramente decostruttivo – non osa mai formulare, ma che potrebbero essere considerate come premesse implicite della sua filosofia. Arendt sostiene perentoriamente ciò che si legge tra le righe dei testi di Foucault: cioè che attraverso l’azione e il discorso i soggetti hanno sempre la possibilità di trasgredire presunte leggi biologiche e storiche, e di disattendere le aspettative che le scienze oggettivanti avanzano sul loro conto. Ogni essere umano si trova gettato nel mondo con un patrimonio genetico che non ha scelto, in un tempo, in uno spazio e in una cultura (in un mondo della vita, direbbero Husserl e Habermas) che non ha scelto; ma secondo Arendt nessuno è obbligato a essere ciò che si trova ad essere, perché ogni individuo è dotato di libertà. In Vita activa Arendt afferma che attraverso l’azione il soggetto può prendere le distanze anche dalla propria 30 «È il conformismo stesso, e cioè l’assunto che gli uomini “si comportano” e non agiscono gli uni rispetto agli altri, che si trova alla radice della moderna scienza economica, la cui nascita coincise con il sorgere della società e che, insieme con il suo principale strumento tecnico, la statistica, divenne la scienza sociale per eccellenza. [...] Le leggi della statistica sono valide solo quando si applicano a grandi numeri o a lunghi periodi, e i singoli atti o eventi possono apparire statisticamente solo come deviazioni o eccezioni. La giustificazione della statistica si basa sul fatto che gesta ed eventi si verificano di rado nella vita quotidiana e nella storia. Tuttavia, il significato delle relazioni quotidiane si rivela non nella vita quotidiana ma nei gesti rari, così come il significato di un periodo storico si mostra solo nei pochi eventi che lo illuminano. L’applicazione della legge dei grandi numeri o dei lunghi periodi alla politica o alla storia non significa nient’altro che la deliberata obliterazione della loro vera sostanza, ed è vano cercare un senso nella politica o un significato nella storia quando tutto ciò che non sia comportamento quotidiano o tendenza automatica è stato scartato come irrilevante» (Arendt, Hannah, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1996, p. 31, prima ed. The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958).).

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natura, dal proprio che cosa (ciò che un soggetto è «senza alcuna attività da parte propria»), per esprimere il proprio chi, «l’unicità della propria identità personale»31. Quella che Arendt chiama «azione», e che Foucault chiama invece «resistenza», non è causata e non ha alcun fine al di fuori di sé: non è volta all’espressione di verità sepolte nelle profondità dell’io, né al perseguimento di interessi egoistici, non obbedisce a una ragione orientata al successo e piuttosto risponde a una volontà performativa. Per Arendt lo scopo dell’azione è l’azione stessa, la rivelazione del chi di fronte a un pubblico che gli attribuisca riconoscimento e ne perpetui la memoria. L’azione richiede quindi la presenza degli altri, perché agli altri si rivolge: per questa ragione, secondo la filosofa, «nessun’altra attività umana esige il discorso nella stessa misura dell’azione»32. Per il ruolo che attribuisce alla comunicazione, la teoria dell’azione di Arendt ha rappresentato un’importante fonte d’ispirazione per Habermas. Il nome di Arendt ricorre in numerosi testi del filosofo tedesco33, ma in 31

«Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano, mentre le loro identità fisiche appaiono senza alcuna attività da parte loro nella forma unica del corpo e nel suono della voce. Questo rivelarsi del “chi” qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” – le sue qualità e capacità, i suoi talenti, i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti – è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia. Si può nascondere “chi si è” solo nel completo silenzio e nella perfetta passività, ma la rivelazione dell’identità quasi mai è realizzata da un proposito intenzionale, come se si possedesse questo “chi” e si potesse disporne allo stesso modo in cui si possiedono le sue qualità e si può disporne. Al contrario è più che probabile che il “chi”, che appare in modo così chiaro e inconfondibile agli occhi degli altri, rimanga nascosto alla persona stessa, come il daimoˉ n della tradizione greca che accompagna ogni uomo per tutta la sua vita, sempre presente dietro le sue spalle e quindi solo visibile a quelli con cui ha rapporti» (ivi, pp. 130-131). 32 Ivi, p. 130. 33 Ad Arendt Habermas si richiama ancora in Il futuro della natura umana (cit., cfr. pp. 37 e 59), e in Fatti e norme (cit., cfr. p. 175), ma il suo nome è presente nella produzione habermasiana fin dai suoi inizi. Già nel 1963, in Theorie und Praxis: Sozialphilosophische Studien (Neuwied/Berlin, Luchterhand, 1963 e 19712, trad. it. in Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, il Mulino, 1973), Habermas riprende da Vita activa la distinzione delle attività umane in lavoro (soddisfacimento delle necessità biologiche), opera (produzione di un mondo artificiale fatto per durare) e azione: le prime due forme di attività obbediscono secondo Habermas a una razionalità tecnico-strumentale, la terza alla razionalità comunicativa. Sui debiti di Habermas verso il pensiero arendtiano si vedano, ad esempio: Luban, David, On Habermas on Arendt and Power, in «Philosophy and Social Criticism», n° 1, 1979; Ferry, JeanMarc, Habermas critique de Hannah Arendt, in «Esprit», n° 6, 1980; Benhabib, Seyla, Modelle des öffentliche Raums: Hannah Arendt, die Liberale Tradition, und Jürgen Habermas, in «Soziale Welt» n° 42, 1991, poi con il titolo Models of Public Space: Hannah Arendt, the Liberal Tradition and Jürgen Habermas, in Ead., Situating the Self: Gender, Community and Postmodernism in Contemporary Ethics, Cambridge, Polity Press, 1992.

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particolare a lei sono dedicati due articoli: il primo del 196634, il secondo del 197635. Il soggetto dell’agire comunicativo di Habermas, secondo quanto egli stesso afferma in questi articoli, è lo stesso soggetto dell’azione-discorso di Arendt. Per questo soggetto, l’esercizio della libertà è reso possibile da un’«autocritica che mira al superamento della pseudonatura, cioè di limiti percettivi e coazioni ad agire inconsapevolmente motivati da pseudoapriori»36: questo soggetto non si lascia determinare dal proprio che cosa, e anzi ne prende le distanze per partecipare con altri soggetti a una discussione volta all’intesa. Il soggetto dell’agire comunicativo – malgrado la cattiva opinione che Habermas nutre del suo collega francese – viene allora a coincidere anche con il soggetto delle controcondotte etiche di Foucault, che rifiuta ogni identità coattiva imposta da vecchi e nuovi poteri pastorali. Del resto, in un mondo della vita colonizzato dalla razionalità strumentale dell’economia e della burocrazia, lo stesso agire comunicativo non si configura forse come una controcondotta etica? Il governato foucaultiano, in nome di un principio di intransigente di libertà, traduce lo spirito dell’Aufklärung kantiana in resistenza contro ogni possibile dominio della verità (scientifica o morale), ponendo un’equivalenza tra universalizzazione e normalizzazione delle condotte. Al contrario il cittadino habermasiano limita la propria critica alle verità tecnico-scientifiche, a cui nega diritto di cittadinanza nella sfera pubblica, e conserva una concezione epistemica della verità morale ispirata all’universalismo dell’imperativo categorico di Kant. Nelle pagine che seguiranno, che concluderanno questo lavoro, vorrei allora tentare di conciliare la volontà di libertà personale del governato foucaultiano con la volontà di giustizia universale del cittadino habermasiano. Come strumento di mediazione utilizzerò la teoria del giudizio di Kant, nell’interpretazione che ne dà Arendt37. 34 Habermas, Jürgen, Die Geschichte von den Zwei Revolutionen, in «Merkur», XX, 1966, n° 218, poi in Kultur und Kritik, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1973, ora in Philosophishe-politische Profile, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1981, trad. it. Hannah Arendt 1. La storia delle due rivoluzioni (19��), in Profili politico-filosofici, Milano, Guerini e Associati, 2000. 35 Habermas, Jürgen, Hannah Arendt Begriff der Macht, in «Merkur», XXX, 1976, n° 341, ora in Philosophishe-politische Profile, cit., trad. it. La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, in «Comunità», XXXV, 1981, n° 183, ora Hannah Arendt 2. Il concetto di potere (197�), in Profili politico-filosofici, cit. 36 Habermas, Jürgen, Il discorso filosofico della modernità, cit., p. 302. 37 Altri commentatori italiani, prima di me, hanno reinterpretato la proposta etica di Foucault cercando di sottrarla alla dimensione del mero individualismo. Ottavio Marzocca (Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, Roma, manifestolibri, 2007, p. 204), ad esempio, insiste sul fatto che Foucault «distingue chiaramente la cura di sé dall’individualismo, poiché la prima non è espressione né di una valorizzazione assoluta dell’indipendenza dell’individuo,

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Se il 28 giugno 2001, nella Christian Wolff Vorlesung tenuta all’Università di Marburgo38, Habermas è ricorso all’imperativo categorico kantiano per difendere una nozione razionale di umanità, Arendt, nel discorso pronunciato il 28 settembre 1959 in occasione del conferimento del premio Lessing della Libera Città anseatica di Amburgo, dell’imperativo categorico kantiano aveva denunciato al contrario l’inumanità: Kant ammise che non ci può essere verità assoluta per l’uomo, almeno non in senso teoretico. Egli sarebbe stato certamente disposto a sacrificare la verità alla possibilità della libertà umana; perché se possedessimo la verità, non potremmo essere liberi. Difficilmente, però, sarebbe stato d’accordo con Lessing sul fatto che la verità, se esistesse, potrebbe essere sacrificata all’umanità senza esitazione, alla possibilità dell’amicizia e del dialogo tra gli uomini. Kant riteneva infatti che esistesse un assoluto, il dovere dell’imperativo categorico posto sopra gli uomini, decisivo in tutte le questioni umane, e che non può essere trasgredito nemmeno per amore dell’umanità in qualunque senso la si intenda. I critici dell’etica kantiana hanno spesso denunciato questa tesi come disumana e implacabile. In realtà, la disumanità non è relativa all’istanza dell’imperativo categorico che oltrepasserebbe la possibilità di una natura umana troppo debole, ma semplicemente al fatto di essere postulato come un assoluto e di introdurre pertanto nell’ambito umano – che per essenza consiste di relazioni – qualcosa che contrasta con la sua fondamentale relatività. [...] Come se Kant, che tanto inesorabilmente aveva fissato i limiti cognitivi dell’uomo, non avesse potuto evitare di pensare che nell’azione l’uomo può comportarsi come un dio. Lessing, in ogni modo, si è rallegrato di ciò che – almeno da Parmenide a Platone – ha gettato i filosofi nella disperazione: del fatto che la verità, non appena enunciata, si trasforma immediatamente in un’opinione tra le altre, viene contestata, riformulata, portata a essere nient’altro che un oggetto di conversazione come tanti. La grandezza di Lessing non consiste soltanto nell’intuizione teorica che non può esserci una verità unica nel mondo umano, né di un privilegiamento della vita privata. Essa è, piuttosto, un’“arte dell’esistenza” che non può non assumere il rapporto con se stessi come condizione primaria». Ma soprattutto Vincenzo Sorrentino (Il pensiero politico di Foucault, Roma, Meltemi, 2008, p. 274) evidenzia, come farò anch’io, il fatto che nell’estetica dell’esistenza che Foucault apprende dal mondo antico, una vita è bella quando assume carattere esemplare, cioè quando viene riconosciuta bella dagli altri: «se leggiamo l’attenzione che l’ultimo Foucault presta al tema del dialogo alla luce di quanto detto in merito alla correlazione tra il farsi esempio del parresiasta e i rapporti di riconoscimento da parte di altri, vediamo delinearsi le coordinate teoriche per una riflessione sulla rilevanza della costituzione dialogica del sé in rapporto al darsi dell’atteggiamento critico. Sotto questo profilo, mi sembra che egli offra alcuni elementi utili per un’indagine volta a individuare i possibili punti di intersezione tra la genealogia e le teorie del riconoscimento e della strutturazione dialogica del sé». 38 Poi pubblicata nella raccolta Il futuro della natura umana, cit. Cfr. il paragrafo precedente.

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ma nella sua gioia per il fatto che non ne esiste nessuna e che quindi il dialogo infinito degli uomini tra di loro possa continuare incessantemente finché esisteranno gli uomini. Un’unica verità assoluta, se fosse esistita, avrebbe significato la fine di tutte le controversie in cui questo padre e maestro di tutte le polemiche in lingua tedesca si trovava così a suo agio e in cui prese sempre partito in modo totalmente chiaro e definito. Ciò avrebbe significato decretare la fine dell’umanità39.

La superiore «umanità» di Lessing rispetto a Kant, secondo Arendt, risiederebbe nella sua capacità di rallegrarsi dell’impossibilità, per il genere umano, di formulare verità assolute, tanto in ambito scientifico, quanto in ambito morale e politico. Di fronte a una verità morale assoluta come l’imperativo categorico, sostiene infatti la filosofa, si potrebbe soltanto obbedire, e non vi sarebbe spazio per quella libera discussione che conferisce all’umanità il suo valore specifico. Con Lessing, ma anche con quel «nichilista sereno» che è Foucault40, Arendt condivide quindi una concezione agonistica secondo cui la libertà si alimenta del conflitto tra opinioni e della resistenza alla verità. Ma a differenza di Foucault, Arendt condivide con Habermas la speranza nella possibilità, per gli uomini e le donne riuniti in comunità, di edificare un ordine politico governato da un potere rispettoso della dignità di tutti, in cui viga il libero scambio delle molteplici opinioni, e non la dittatura totalitaria di un’unica verità. Ad Arendt possiamo, allora, chiedere: in assenza di una verità morale, che cosa può garantire l’accordo intersoggettivo necessario a costituire tale comunità? Foucault, come si è visto, riconosce nel pensiero di Kant l’origine di due differenti tradizioni filosofiche, che chiama analitica della verità e ontologia dell’attualità: il filosofo francese denuncia i pericoli della prima, qualora applichi la sua ricerca di criteri di verità a quella realtà non oggettivabile che è l’essere umano, ma raccoglie l’eredità della seconda. Analogamente, la critica che Arendt muove alla teoria morale dell’imperativo categorico, 39 Arendt, Hannah, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, Milano, Cortina, 2006, pp. 8992, corsivi miei, prima ed. Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten. Gedanken zu Lessing, Hamburg, Hauswedell, 1960, München, Piper, 1960, con il titolo On Humanity in Dark Times. Thoughts about Lessing, anche in Men in Dark Times, New York, Harcourt, Brace & World, 1968. 40 Di Foucault afferma il collega e amico Paul Veyne: «Quello che vorrei predicare – e si predica sempre quello che tutti sanno – è che si esce dal nichilismo quando lo si pensa in maniera serena, fino in fondo (ci sarebbe molto da dire su questa serenità nietzscheana, questa Heiterkeit che si percepisce nei due ultimi libri, così equanimi, di Foucault). Del nichilismo si può dire la stessa cosa del versante Nord delle Alpi: si può uscirne solo “dall’alto”» (Veyne, Paul, Foucault e il superamento (o compimento) del nichilismo, in Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, Verona, ombre corte, 1998, p. 82, prima ed. Foucault et le dépassement (ou achèvement) du nihilisme, Paris, Seuil, 1989).

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non le impedisce, nell’ultima fase del suo pensiero, di dare una valutazione positiva della filosofia politica di Kant. Se nel 1965, in un seminario alla Cornell University, intitolato Da Machiavelli a Marx41, Arendt individuava nell’imperativo categorico il nucleo centrale della filosofia politica di Kant (solo ubbidendo all’imperativo categorico l’uomo sarebbe per Kant anche buon cittadino), nei suoi ultimi lavori, degli anni settanta, la filosofa distingue nettamente, nella filosofia di Kant, tra pensiero morale e pensiero politico, e afferma che, per comprendere la filosofia politica kantiana, occorre tenere presenti non solo la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica, ma anche la Critica del giudizio42. Kant occupa un ruolo centrale nell’ultimo libro 41

From Machiavelli to Marx, Washington, Library of Congress, Manuscripts Division, The Papers of Hannah Arendt, Box 39. 42 Come si ricorderà (cfr. il paragrafo 3.2, Foucault, Deleuze e Nietzsche) anche Deleuze nel 1963 si è confrontato con la teoria del giudizio di Kant nel testo La philosophie critique de Kant (Paris, PUF, 1963, trad. it. La filosofia critica di Kant, Bologna, Cappelli, 1979, Napoli, Cronopio, 1997). In ambito francese, sullo stesso argomento ha poi riflettuto soprattutto JeanFrançois Lyotard (1924-1998) in Le Différend (Paris, Minuit, 1983, trad. it. Il dissidio, Milano, Feltrinelli, 1985), in L’enthousiasme. La critique kantienne de l’histoire (Paris, Galilée, 1986, trad. it. L’entusiasmo. La critica kantiana della storia, Milano, Guerini e Associati, 1989), e in alcuni saggi scritti tra la seconda metà degli anni ottanta e la prima degli anni novanta, tradotti in italiano nella raccolta Anima minima. Sul bello e il sublime (Parma, Nuova Pratiche Editrice, 1995). Nell’aprile 1988 Lyotard è intervenuto al convegno Hannah Arendt. Politique et pensée, organizzato dal Collège international de philosophie con la collaborazione del Goethe Institut. Il suo intervento, Le Survivant, pubblicato dapprima nel libro collettaneo Ontologie et politique. Actes du Colloque Hannah Arendt (a cura di Abensour, Miguel, Buci-Glucksmann, Christine, Cassin, Barbara, Paris, Tierce, 1989), è stato poi incluso nella raccolta di testi di Lyotard Lectures d’enfance (Paris, Galilée, 1991, trad. it. Letture d’infanzia, Milano, Anabasi, 1993), e tradotto in italiano anche nell’antologia di testi Hannah Arendt (a cura di Forti, Simona, cit.). Lyotard, a differenza di Arendt, per formulare una teoria del giudizio politico a partire dall’estetica di Kant, si rivolge non tanto all’analitica del bello, quanto all’analitica del sublime. Il sentimento degli esseri umani di fronte a universali quali la storia, il progresso, la giustizia è, a suo avviso, paragonabile a quel sentimento estetico che Kant definisce sublime, attraverso cui l’essere umano, di fronte alle forze della natura, prende coscienza assieme della sua inferiorità fisica e della sua superiorità morale. Dieci anni dopo, in Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica (Milano, Feltrinelli, 1999, prima ed. Reflective Authenticity. Rethinking the Project of Modernity, London, Routledge, 1998), Alessandro Ferrara ha riflettuto sulla Critica del giudizio con la dichiarata intenzione di proporre un approccio universalistico alle teorie normative in contrapposizione al decostruttivismo della filosofia post-strutturalista francese (Ferrara fa esplicito riferimento a non solo a Lyotard, ma anche a Foucault). La riflessione di Ferrara ha più di un debito con la teoria dell’agire comunicativo di Habermas, di cui però riconosce anche i limiti: «La fondazione consensuale o comunicativa della validità – secondo cui la validità di una proposizione o di una norma deriva dal consenso razionale degli attori implicati se ottenuto in condizioni ideali specificate dalla teoria – oscilla impotente fra i due opposti pericoli del rendere il consenso “validante” troppo vicino alle condizioni reali, ma empiriche e distorte, della comunicazione, e lo svincolarlo da quelle stesse condizioni al

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di Arendt, pubblicato incompiuto nel 1978, tre anni dopo la scomparsa della filosofa: La vita della mente43. Il progetto di tale opera comprendeva tre parti, dedicate rispettivamente alle attività del Pensiero, della Volontà e del Giudizio. Arendt fece in tempo a ultimare soltanto le prime due, ma possiamo conoscere approssimativamente quelli che avrebbero dovuto essere i contenuti dell’ultima parte dal seminario tenuto da Arendt presso la New School for Social Research di New York nell’autunno del 1970, pubblicato nel 198244. In queste lezioni, Kant è presentato, in contrapposizione a Hegel, come colui che ha liberato il pensiero filosofico dalla metafisica, mettendo in luce l’impossibilità, per la ragione umana, di raggiungere verità ultime riguardo a questioni quali Dio, l’immortalità, la libertà, la finalità del mondo e della storia. Estendendo questa critica antimetafisica anche all’ambito morale, Arendt in questo seminario prosegue l’opera di Kant oltre Kant, con l’intento di elaborare una Teoria del giudizio politico45 che sappia fare a meno di criteri normativi universali, di verità morali pericolose per la libertà e quindi «inumane». Oltre alla Critica del giudizio, le opere a cui Arendt fa riferimento nell’intento di ricostruire la “filosofia politica” di Kant sono le stesse che Foucault utilizzerà nel 1983 per dare conto dei propri debiti verso Kant: Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo e Se il genere umano sia in constante progresso verso il meglio. Arendt osserva che nel pensiero di Hegel è il filosofo («l’intellettuale universale», direbbe Foucault) a giudicare del progresso storico, assumendo il ruolo di autocoscienza di quello spirito assoluto che è il vero autore della storia; nella filosofia di Kant, invece, autrice della storia è un’umanità plurale, di uomini e donne in carne e ossa, e a giudicarne il progresso è il pubblico illuminato, capace di fare «libero uso del proprio intelletto» (quell’uso dell’intelletto che Habermas chiama «Öffentlichkeit»). Sono gli spettatori di questo pubblico ad entusiasmarsi, ad esempio, per l’evento della Rivoluzione francese: prezzo però di legarlo a un dialogo in condizioni talmente idealizzate che è difficile riconoscervi i connotati degli attori concreti, i quali si trovano di fronte al dilemma da cui è sorta la necessità di testare la proposizione o la norma» (Autenticità riflessiva, cit., p. 43). Ferrara ha sviluppato, poi, le sue riflessioni sul tema del giudizio anche nel saggio Il paradigma del giudizio nella filosofia politica contemporanea, in Bazzicalupo, Laura, Esposito, Roberto, Politica della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003, e nel libro La forza dell’esempio: Il paradigma del giudizio, Milano, Feltrinelli, 2008. 43 The Life of the Mind, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1978, trad. it. La vita della Mente, Bologna, il Mulino, 1987. 44 Lectures ectures on Kant’s Political Philosophy, Philosophy Chicago, The University of Chicago Press, 1982, trad. it. Teoria del giudizio politico, Genova, il melangolo, 1990. 45 Questo il titolo scelto per la traduzione italiana della lezioni di Arendt sulla filosofia politica di Kant.

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La storia, potremmo dire, è qualcosa di immanente al genere umano. L’essenza dell’uomo non può essere determinata. E alla tipica domanda kantiana “Perché mai esistono gli uomini?”, la risposta suona: “Non è possibile rispondere”. Infatti il valore dell’esistenza dell’uomo può manifestarsi solo nella totalità e mai ad un singolo uomo o a una generazione di uomini, poiché il processo stesso è indeterminabile. Pertanto: al centro della filosofia morale kantiana sta l’individuo; al centro della sua filosofia della storia (o meglio, della natura) il progresso incessante del genere umano o dell’umanità. (Dunque: storia in una prospettiva universale). Il punto universale di osservazione è occupato dallo spettatore, che è un “cittadino del mondo” o, meglio, uno “spettatore del mondo”. È lui che ha un’idea del tutto e stabilisce se in un evento singolo, particolare, si dà progresso46.

Il pubblico descritto da Arendt assomiglia più al pubblico di governati a cui si rivolge Foucault che al pubblico di cittadini cha ha in mente Habermas47; però gli spettatori che costituiscono questo pubblico, a differenza dei governati foucaultiani, per formare la propria opinione politica, per giudicare degli eventi storici, si pongono il problema dell’universale48, interrogandosi su totalità quali l’umanità, la storia, il progresso, la giustizia, il bene politico, l’ordine politico giusto. Per Kant queste totalità non sono però mai date nell’esperienza, non sono mai conoscibili con i mezzi della scienza: sono idee. 46

Arendt, Hannah, Teoria del giudizio politico, cit., pp. 89-90, corsivo mio. «Se vi chiedete dove sia e chi sia questo pubblico che originariamente conferisce pubblicità all’azione intenzionale, apparirà subito chiaro che nel caso kantiano non ci si riferisce a un pubblico di persone che agisca come governo o che ad esso prenda parte. Il pubblico a cui pensa è naturalmente il pubblico dei lettori. Ciò che conta è il valore della sua opinione e non il peso dei suoi voti elettorali» (ivi, p. 93). 48 Persino Foucault, di fronte alla rivoluzione iraniana del 1978-1979, si lascia sfuggire un enigmatico appello all’universale. In questo appello si può forse scorgere il sintomo della volontà di giustizia che, nonostante Foucault non lo ammetta, accompagna sempre la sua volontà di libertà: «Intellettuale lo sono. Se mi si domandasse come io vedo ciò che faccio, ebbene, allo stratega che dice: “Che importanza ha quella morte, quel grido di dolore, quella sollevazione rispetto alla necessità dell’insieme e che mi importa, viceversa, di un principio generale nella nostra situazione particolare?” Ebbene, io risponderei: mi è indifferente che lo stratega sia un politico, uno storico, un rivoluzionario, un partigiano dello scià o dell’ayatollah. La mia morale teorica è opposta. È “antistrategica”: essere rispettosi quando una singolarità si solleva, intransigenti appena il potere viola l’universale. Scelta semplice, opera ardua: perché bisogna spiare, un po’ al di sotto della storia, ciò che la spezza e la agita e, contemporaneamente, vigilare, un po’ a ridosso della politica, su quello che la deve limitare incondizionatamente. In fondo, è il mio lavoro: non sono né il primo né l’unico a farlo. Ma sono io ad averlo scelto» (Sollevarsi è inutile?, in Archivio Foucault 3, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 135-136, corsivo mio, prima ed. Inutile de se soulever?, in «Le Monde» n° 10.661, 11-12 maggio 1979, anche in Dits et écrits, cit., vol. II, testo n° 269). 47

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Nella Critica della ragion pura, le idee della ragione sono definite come concetti universali cui non corrispondono nel mondo sensibile oggetti particolari: anima, mondo, Dio. Nella Critica del giudizio, anche la bellezza è presentata come un’idea: ma al contrario dell’idea di ragione, l’idea estetica è definita come una rappresentazione particolare a cui non corrisponde un concetto universale. Secondo Kant, all’artista è possibile realizzare un oggetto bello, allo spettatore è possibile affermare «questo oggetto è bello», ma a entrambi è impossibile fornire una definizione universale di bellezza. L’idea estetica, secondo Kant, «dà occasione di pensare molto, senza che un concetto possa risultarle adeguato». Essa tende infatti «al di là dei limiti dell’esperienza», e in questa tensione raggiunge soltanto «un’apparenza di realtà oggettiva»49. Al giudizio estetico è preclusa, pertanto, la possibilità di un’oggettiva universalità, e tuttavia esso avanza pretese di universalità: quando qualcuno afferma «questo oggetto è bello», non intende semplicemente «questo oggetto è bello per me» – come se si trattasse di un piacere sensibile individuale –, ma «tutti dovrebbero concordare con me: questo oggetto è bello». Quel «pensare molto» che caratterizza il giudizio estetico, non è quindi un’attività solitaria, ma implica sempre la presenza ideale di altri, di cui si richiede il consenso. Kant chiama il giudizio estetico giudizio riflettente, per distinguerlo dal giudizio determinante delle scienze: quest’ultimo unifica dati empirici sotto leggi che hanno caratteri oggettivi di universalità e necessità, e, anche qualora sia formulato da un singolo individuo in solitudine, deve essere ritenuto vero da ogni essere razionale. Il giudizio riflettente, invece, può soltanto aspirare a un’universalità intersoggettiva, fondata su quello che Kant chiama senso comune50: a un’universalità che 49 Cfr. Kant, Immanuel, Critica del giudizio, §49 Delle facoltà dell’animo che costituiscono il genio, Torino, TEA, 1995, p. 287. 50 «Per sensus communis però si deve intendere l’idea d’una comunanza di senso, vale a dire, d’una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tiene conto (a priori) del modo di rappresentazione d’ogni altro, per appoggiare, per così dire, il proprio giudizio alla ragione umana nel suo complesso, evitando la facile illusione di prendere per oggettive delle condizioni soggettive, con danno per il giudizio. Questo avviene accostando il proprio giudizio non tanto ai giudizi che gli altri di fatto danno, quanto piuttosto a quelli puramente possibili, e ponendosi al posto di ciascuno di loro, solo astraendo dalle accidentali limitazioni inerenti al nostro individuale giudizio; il che si ottiene lasciando il più possibile da parte ciò che nella situazione rappresentativa è materia, cioè sensazione, e concentrandosi unicamente sulle proprietà formali della propria rappresentazione e del proprio stato rappresentativo. Ora, questa operazione di riflessione sembrerà forse troppo artificiosa perché la si possa attribuire a una facoltà che chiamiamo senso comune; ma questo solo quando viene espressa in formule astratte; in se stesso non v’è nulla di più naturale del prescindere dalle attrattive e dall’emozione, quando si cerca un giudizio che deve servire da regola universale» (ivi, §40. Del gusto considerato come una specie di sensus communis, pp. 267-268).

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presuppone la presenza di una comunità umana, e che al tempo stesso la costituisce, ponendo ogni individuo in potenziale dialogo con ogni altro. Tale universalità – o forse si potrebbe meglio dire “universalizzabilità”: aspirazione all’universale, potenzialità di universale – non si esprime attraverso l’affermazione di leggi (verità) universali che obbligano al consenso, ma attraverso la richiesta di un libero assenso, rivolta potenzialmente a ogni altro essere umano. Si tratta di un’universa(lizzabi)lità senza legalità, non necessitante e quindi libera. Nelle sue lezioni sulla filosofia politica di Kant, Arendt mette in evidenza come il pubblico degli spettatori che costituisce la comunità dell’Aufklärung kantiana, nel valutare se un evento storico sia o meno portatore di progresso per l’umanità, esercitino una facoltà non dissimile dal giudizio riflettente: come gli eventi estetici, anche quelli politici sfuggono alla determinazione del giudizio scientifico, e possono essere soltanto giudicati caso per caso, non tramite l’applicazione di criteri universali di giustizia validi in ogni tempo e in ogni luogo e quindi già dati, ma in base all’aspirazione ideale a una comunità universale giusta da costruire insieme qui e ora. Secondo la filosofa, dovrebbe essere, appunto, tale aspirazione a orientare le scelte dei governanti e il giudizio dei governati in un ordinamento democratico. Pertanto, se Foucault sembra voler proporre ai governati un’etica che fa proprio un modello estetico, Arendt sembra voler proporre a tutti gli attori politici di applicare ai contenuti morali della politica la forma del giudizio riflettente. Questa estetizzazione della politica mi sembra costituire una possibilità per oltrepassare la posizione di Foucault nella direzione indicata dalle critiche che Habermas ha mosso al suo pensiero. Essa può, infatti, consentire al governato di iniziare un dialogo con gli altri governati e con i propri governanti: può consentirgli di entrare a far parte di una comunità politica ideale che abbia come principio la libertà, come valore la giustizia, come metodo il confronto critico di opinioni, come strumento l’esercizio del giudizio e non la ricerca della verità. Fatta salva la definizione kantiana dell’idea di bellezza, la libera edificazione di una vita bella a cui invita l’etica foucaultiana della cura di sé non può, del resto, non includere un sentimento di ideale comunicazione con l’altro da sé, di ideale aspirazione all’universalità: se vuole lasciare un buon esempio alla posterità, il saggio stoico, primo soggetto della cura di sé, non può non porsi il problema di come gli altri – tutti gli altri – giudicheranno le sue scelte di vita. Analogamente il governato foucaultiano, che del saggio stoico vuole essere erede, nella sua ricerca di libertà e bellezza, non può dimenticare che non «l’uomo al singolare», ma gli uomini e le donne, «nella loro pluralità infinita», «vivono sulla terra e

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abitano il mondo»51. Da soli si può forse contemplare la verità, ma di sicuro non si può realizzare la bellezza.

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Scrive Arendt, contrapponendo «l’umanità» dell’etica discorsiva di Lessing all’«inumanità» dell’imperativo categorico kantiano: «Poiché Lessing era un uomo integralmente politico, sostenne che la verità non può esistere se non là dove può essere umanizzata dal discorso, là dove ciascuno dice, non ciò che gli viene in mente in quel momento, ma ciò che gli “sembra verità”. Un dire di questo genere è tuttavia quasi impossibile nella solitudine; esso è legato a uno spazio a più voci, in cui l’annuncio di ciò che sembra verità lega e insieme separa gli uomini, creando di fatto quelle distanze tra le persone che, insieme, formano il mondo. Ogni verità situata fuori da questo spazio, sia che apporti agli uomini felicità o infelicità, è inumana nel senso letterale del termine, e non perché potrebbe levare gli uomini gli uni contro gli altri e separarli. Al contrario, perché potrebbe avere come conseguenza che tutti si accordino improvvisamente su un’unica opinione, di modo che dalla molteplicità delle opinioni ne risulti una sola, come se non gli uomini nella loro pluralità infinita, ma l’uomo al singolare, una specie e i suoi rappresentanti, abitasse la terra. Se ciò accadesse, il mondo, che si forma solo nell’intervallo tra gli uomini nella loro pluralità, scomparirebbe dalla faccia della terra» (Arendt, Hannah, L’umanità nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, cit., pp. 98-99, corsivi miei). Già nell’introduzione di Vita activa, la filosofa affermava: «L’azione, la sola attività che metta in rapporto diretto gli uomini senza la mediazione di cose materiali, corrisponde alla condizione umana della pluralità, al fatto che gli uomini, e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo» (Arendt, Hannah, Vita activa, cit., p. 7).

Conclusioni Un politeismo a tre valori

Nella celebre conferenza La scienza come professione (1917), Max Weber, richiamandosi a Mill, Nietzsche, Baudelaire, si sofferma sul carattere tragico dell’esistenza del soggetto moderno, destinato a vivere in un mondo secolarizzato e quindi privo di quei riferimenti morali assoluti che, prima dell’avvento della modernità, in occidente erano garantiti dalla religione cristiana. Secondo Weber, la condizione morale del soggetto moderno è più vicina a quella degli antichi Greci che a quella degli Europei medievali: L’impossibilità di presentare “scientificamente” una presa di posizione pratica – eccetto nel caso della discussione dei mezzi in vista di uno scopo presupposto come già dato – deriva da motivi [...] profondi. Essa è priva di senso in linea di principio per il fatto che i diversi ordini di valori che esistono al mondo stanno tra loro in una lotta inconciliabile. Il vecchio Mill – la cui filosofia non intendo peraltro elogiare, ma che su questo punto ha ragione – dice in qualche luogo: partendo dalla pura esperienza si perviene al politeismo. Ciò è formulato in maniera superficiale e suona come un paradosso, tuttavia contiene qualche verità. Se non di altro, almeno di questo oggi siamo certi: che qualcosa può essere sacro non soltanto senza essere bello, ma perché e in quanto non è bello (potrete trovarne prova nel cap. 53 del Libro di Isaia e nel Salmo 21) e che qualcosa può essere bello non soltanto senza essere buono ma per il fatto che tale non è: lo sappiamo a partire da Nietzsche, e già prima lo potete trovare illustrato nei Fleurs du mal, come Baudelaire ha chiamato il suo volume di poesie; ed è infine una verità della vita quotidiana che qualcosa può essere vero sebbene e in quanto non sia bello né sacro né buono. Ma questi sono soltanto gli esempi più elementari di tale lotta tra gli dèi dei diversi ordinamenti e valori. [...] Avviene come nel mondo antico, non ancora sottratto all’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, ma soltanto in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad Apollo, e soprattutto ognuno agli dèi della propria città, così è ancor oggi, che ci siamo disincantati e spogliati della veste mitica, ma intimamente vera, di quell’atteggiamento. Su questi dèi e nelle loro lotta domina il destino, non certo la “scienza”. È possibile solamente comprendere che cosa sia il divino nell’uno e nell’altro ordinamento1. 1

Weber, Max, La scienza come professione, in La scienza come professione, la politica come professione, Torino, Comunità, 2001, pp. 29-30.

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Secondo Weber sociologi, storici e filosofi, quando seguono onestamente il metodo della scienza, riguardo ai principi e ai valori che devono ispirare la condotta umana e la vita politica non possono che tacere: la razionalità illuminista ha demolito la fiducia nell’esistenza di pastori detentori di verità morali ultime, mediatori tra la trascendenza e l’umanità. Il destino del soggetto moderno è quindi di decidere da solo della propria etica personale, e il mondo moderno, in cui Dio è morto, al pari dell’antichità classica è un mondo politeista, in cui ognuno è chiamato a scegliere quale dio adorare2. Nel confronto tra Foucault e Habermas, la necessità di questa scelta tragica tra differenti valori investe anche le scelte di metodo che la filosofia contemporanea è chiamata a operare. Weber dà per scontato che un intellettuale onesto non possa che aspirare all’obiettività della scienza; nel dibattito tra Foucault e Habermas, invece, lo stesso metodo scientifico assume lo statuto di un valore su cui chi fa filosofia è obbligato a operare una scelta. Senza indugi, Foucault opta per un pensiero partigiano, e con la serenità del nichilismo nietzscheano volentieri sacrifica il valore della verità a quello della libertà. Così facendo, egli rinuncia, però, anche al valore del consenso democratico, facendosi paladino del dissenso e del disordine3. Al contrario Habermas, per salvaguardare l’idea del consenso necessaria a una comunità politica democratica ben ordinata, difende una «concezione epistemica» della verità morale. Se Foucault contrappone la libertà alla verità, Habermas fa della libertà – nella forma della libera discussione razionale tra soggetti – il metodo per la ricerca delle verità morali che devono ispirare il diritto e guidare l’azione politica. Foucault gli risponde, allora, che la filosofia critica non è un metodo, ma un ethos: essa consiste, a suo avviso, nella «volontà di non essere governati in questo modo e a questo prezzo». Habermas accusa Foucault di non fornire i criteri normativi che sarebbero necessari per fondare la sua impresa teorica. Secondo Habermas, Foucault non saprebbe infatti rispondere alla domanda «perché dovremmo 2

«La vita, in quanto poggia su se stessa e deve essere compresa in base a se stessa, conosce soltanto l’eterna lotta reciproca di quegli dèi – cioè, fuor di metafora, l’inconciliabilità e quindi l’insolubilità della lotta tra i punti di vista ultimi possibili in generale di fronte alla vita, vale a dire la necessità di decidere tra di essi» (ivi, p. 34). 3 L’unica concessione che Foucault accorda al valore democratico del consenso, in un’intervista del 1983, è l’affermazione secondo cui «non bisogna essere per la consensualità, ma contro la non-consensualità» (Politica ed etica, in Biopolitica e liberalismo, Milano, Medusa, 2001, p. 202, prima ed. Politic and Ethics: An Interview, in The Foucault Reader, a cura di Rabinow, Paul, New York, Pantheon Books, 1984, anche in Dits et écrits, Paris, Gallimard, 2001, vol. II, testo n° 341).

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non voler essere governati in questo modo?». In realtà, non si trovano in Foucault delle risposte a questa domanda solo se il «perché» in essa contenuto è inteso in senso finalistico. Foucault non sa, infatti, indicare il fine della sua critica, non sa progettare una forma di governo che conterrebbe meno pericoli della liberaldemocrazia presente. Però il filosofo francese è in grado di fornire una risposta a questi «perché» se li si intepretano in senso causale e ipotetico: secondo lui dobbiamo resistere al potere, se vogliamo essere liberi. Foucault condivide fino in fondo, radicalmente e con serenità, la consapevolezza weberiana – e nietzscheana – del tragico: per lui è infatti una decisione, una scelta, una volontà, la volontà di libertà, ad essere causa della resistenza. In Foucault, tale volontà si traduce nella ricerca etica di uno stile di vita bello perché autonomo, in cui il soggetto è padrone di se stesso e non sottoposto al dominio altrui. Habermas non si accontenta della soluzione proposta da Foucault, perché paventa la possibilità di etiche personali prive di implicazioni morali, tali, cioè, da eludere, nella personale cura di sé, la questione della convivenza giusta con l’altro (la cura degli altri, la cura del mondo). Se Habermas non rinuncia al valore della verità, è perché cerca di preservare in questo modo il senso morale che caratterizza l’umanità. La verità gli appare come l’unica possibilità per gettare un ponte tra il sé e l’altro da sé. Anche l’opera habermasiana scaturisce quindi da una decisione non negoziabile: da una volontà di moralità, da una volontà di preservare il senso del dovere verso l’altro – il senso della giustizia. Due volontà tanto diverse non possono che condurre ad esiti diversi. Foucault non soltanto è diffidente, come Habermas, verso quella declinazione del progetto politico della modernità che è il marxismo: Foucault rivolge questo sentimento di diffidenza verso tutte le soluzioni politiche, condannando il soggetto politico a cui si rivolge, che io ho chiamato il «governato assoluto», a una solitudine insanabile. Con sguardo investigativo, come un giornalista, Foucault esamina la realtà sociale, alla ricerca di ogni voce di resistenza contro i poteri che percorrono il presente. A tali voci unisce la propria, per farle risuonare con forza maggiore; ma a queste voci non è capace di offrire consolazione, perché non è capace di suggerire alcuna alternativa alla condizione che esse patiscono. Ciò che salva dalla solitudine il soggetto politico di Habermas, che io ho chiamato il «cittadino consapevole», è invece la fiducia nelle capacità razionali dell’umanità. Il filosofo tedesco nutre speranza nella possibilità di soluzioni politiche universali, in cui la libertà del singolo possa armonizzarsi con le esigenze della collettività senza ricorrere né a sovrani né a pastori. Ma se tale speranza potesse avere solo realizzazione parziale, e un’ipotetica soluzione quasi-universale risultasse lesiva della libertà di uno sparuto gruppo

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di persone, o anche soltanto di un individuo, Habermas sarebbe capace di ascoltare la loro voce? Chi scrive ritiene che la teorizzazione weberiana del politeismo dei valori fornisca un’indicazione metodologica preziosa, che però non deve essere assolutizzata. Soprattutto, non bisogna commettere l’errore di ricondurre il politeismo al monoteismo: è lecito sacrificare tanto a Dioniso quanto ad Apollo, senza essere costretti a sacrificare l’uno all’altro. Avere consapevolezza del carattere tragico della condizione dell’individuo moderno non impedisce di cercare mediazioni tra istanze valoriali differenti, qualora le si considerino ugualmente buone – presupporre un’impossibilità di mediazione, sarebbe una forma di ingiustificato dogmatismo. Habermas e Foucault forniscono l’esempio di due modi possibili di interpretare il ruolo dell’intellettuale nell’attualità. Una lettura non rigida dell’insegnamento di Weber permette di sottolineare che queste due incarnazioni della figura dell’intellettuale sono, appunto entrambe possibili, e non necessariamente inconciliabili. Possibile è quindi anche tentare una mediazione tra la volontà di libertà espressa da Foucault e la volontà di giustizia espressa da Habermas. Ma su quali basi? Che cosa può fornire, se non una sintesi di due attitudini intellettuali così distanti, almeno la facoltà di alternarle in differenti momenti del vivere politico? Cos’altro, oltre la verità di cui Foucault denuncia i pericoli, può essere in grado di produrre consenso democratico, di costruirlo intersoggettivamente? Se il principio dell’etica foucaultiana della cura di sé è la libertà, la sua idea ispiratrice è la bellezza: il saggio stoico si prende cura di sé per lasciare ai posteri l’esempio di una vita bella, caratterizzata dalla libertà e dalla resistenza a tutte le forme di servitù. Ma è possibile considerare bella una vita che non sia anche morale? Che non sia volta anche all’ascolto e al rispetto dell’altro, alla ricerca di mediazioni con l’altro? Nel mio lavoro ho proposto di estendere all’ambito morale e politico quel processo di estetizzazione che Foucault riserva all’etica; a tal fine ho utilizzato la Teoria del giudizio politico elaborata da Arendt. La filosofa afferma che in Kant – nume tutelare tanto di Foucault, quanto di Habermas – il giudizio che i partecipanti all’opinione pubblica applicano alle vicende della storia e della politica non ha la struttura determinante del giudizio scientifico, ma quella riflettente del giudizio estetico. Secondo Kant, la bellezza è un’idea la cui universalità è data sempre soltanto in potenza, sempre soltanto nella ricerca di un consenso intersoggettivo – per questo si potrebbe parlare di “universalizzabilità”. Si può dire «è bello» solo di un caso concreto, senza che una legge universale già data giustifichi questo giudizio secondo i canoni di una razionalità scientifica; ma al tempo stesso, ogni volta che qualcuno afferma «questo è bello», lo fa

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aspirando al libero assenso di ogni altro soggetto sul proprio giudizio. Per Kant, se il giudizio di verità della scienza può essere espresso in solitudine, al giudizio di gusto della critica estetica sono necessarie l’esistenza degli altri e la comune ricerca di consenso. Ciò che Arendt sembra voler suggerire è la possibilità di modellare l’idea di giustizia non sulla forma della verità, ma su quella della bellezza. Ciò che questo mio lavoro vuole suggerire è la possibilità di un politeismo a tre valori, in cui uno di essi ha la funzione di raccordo tra gli altri due: in cui la bellezza, e non la verità, offre la possibilità di traghettare ideali nel mare tragico dell’esistenza umana, dall’altare etico (e politico) della libertà individuale, a quello morale (e politico) di una giustizia universa(lizzabi)le.

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1.3 Articoli, interventi, interviste, lezioni La folie n’existe que dans une société, in «Le Monde», n° 5135, 22 juillet 1961; ora in Dits et écrits, testo n° 5; trad. it. in Follia e psichiatria, testo n° 3.

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3.3 Su Michel Foucault: Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1985; trad it. Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari, oma-Bari, Laterza, 1987 (capp. 9-12). Une flèche dans le cœur du temps présent, in «Critique», nn. 471-472, 1986; trad. it. Una freccia scagliata al cuore del presente, in «Centauro», nn. 11-12, maggio-dicembre 1984.

4. Opere di Hannah Arendt consultate The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt Brace & Co., 1951; trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano, Comunità, 1967; nuova ed. it. Torino, Einaudi, 2004. The Human Condition, Chicago, The University of Chicago Press, 1958; trad. it. Vita activa, Milano, Bompiani, 1964. 64. Von der Menschlichkeit in finsteren Zeiten: Gedanken zu Lessing, Hamburg, Hauswedell e München, Piper, 1960; poi, con il titolo, On Humanity in Dark Times: Thoughts about Lessing, in Men in Dark Times, New York, Harcourt Brace & World, 1968; trad. it. L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, Milano, Cortina, 2006. Between Past and Future. Six Exercises in Political Thought, New York, The Viking Press, 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Firenze, Vallecchi, 1970, Milano, Garzanti, 19912. Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963; trad. it. La Banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1964. On Revolution, New York, Viking Press, 1963; trad. it. Sulla Rivoluzione, Milano, Comunità, 1983. On Violence, New York, Harcourt Brace & Co., 1970; trad. it. Sulla violenza, Milano, Mondadori, 1971, Parma, Guanda, 1996. Civil Disobedience, in «The New Yorker», 12th September 1970; anche in Crises of



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5.3 Contributi contemporanei e studi critici 5.3.1 Studi critici su Jürgen Habermas Abignente A., Legittimazione, discorso, diritto: Il proceduralismo di Jürgen Habermas, Napoli, Editoriale Scientifica, 2003. Aboulafia M. (edited by), Habermas and Pragmatism, London-New York, Routledge, 2002. Agazzi E., La ricostruzione del materialismo storico proposta da Jürgen Habermas, in «Fenomenologia e società», n° 4, 1984.



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5.3.3 Sul concetto di “biopolitica” 5.3.3.1 Numeri monografici di riviste «Millepiani», Biopolitica e territorio, n° 9, 1996. «Multitude», Biopolitique et biopouvoir, n° 1, 2000. «aut-aut», Politica senza luogo, biopolitica, cittadinanza e globalizzazione, n° 298, 2000. «Filosofia politica», Ghenos/razza, n° 3, 2003. «Multitude», Philosophie de la biologie, n° 16, 2004. «Filosofia politica», Biopolitica, n° 1, 2006.

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5.3.3.2 Studi e saggi Agamben G., Homo sacer: Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995. Amato P. (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Milano, Mimesis, 2004. Bazzicalupo L. ed Esposito R. (a cura di), Politica della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003. Bazzicalupo L., Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 2006. Bodei R., Destini personali: L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002. Brossat A., L’épreuve du désastre: Le XXème siècle et les champs, Paris, Albin Michel, 1996. Brossat A., La démocratie immunitaire, Paris, La dispute, 2003. Cutro A. (a cura di), Biopolitica. Storia e attualità di un concetto (con testi di Roberts M., Starobinski A., Morin E., Wiegele T., Thorson T.L., Somit A. e Peterson S.A., Foucault M., Agamben G., Rancière J., Latour B., Haraway D.J., Rabinow P., Fehér F. e Heller A., Hardt M. e Negri A., Esposito R.), Verona, ombre corte, 2005. Dal Lago A., Non-persone, Milano, Feltrinelli, 1999. Esposito R., Bíos: Biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi, 2004. Esposito, R., Immunitas: Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002. Fehér F. and Heller A., Biopolitics, Wien, European Centre, 1994. Geyer Ch. (a cura di), Biopolitik, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2001. Haraway D.J., The Biopolitics of Postmodern Bodies, in «Differences», n° 1, 1989; trad. it. Biopolitica dei corpi postmoderni, in Ead. Manifesto cyborg. Donne, biotecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995. Hardt M. e Negri A., Impero: Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002. Hardt M. e Negri A., Moltitudine: Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Milano, Rizzoli, 2004. Heller A. and Puntscher Riekmann S., Biopolitics. The Politics of the Body, Race and Nature, Wien, European Centre, 1996. Hottois, Gilbert, Essais de philosophie bioétique et biopolitique, Paris, Vrin, 1999. storpolitik, Stokholm, Geber, 1905, Kjellén R., Stormakterna. Konturer kring samtidens storpolitik 19112, 19143. Kjellén R., Staten som livsform, Stokholm, Geber, 1916. Perticari P., Biopolitica minore, Roma, manifestolibri, 2003. Peterson S.A. e Somit A. (edited by), Research in Biopolitics, Jai Press, Greenwich, Connecticut, voll. 1-8, 1991-2001. Shiva V. e Moser I. (edited by), Biopolitics, Bloominghton, Indiana U.P., 1995.



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5.3.4 Altri contributi contemporanei Badiou A., Deleuze: Le clameur de l’être, Paris, Hachette, 1997; trad. it. Deleuze: Il clamore dell’essere, Torino, Einaudi, 2004. Balibar E., Écrits pour Althusser, Paris, La Decouverte, 1991; trad. it. Per Althusser, Roma, manifestolibri, 1991. Bazzanella E., Il ritornello: La questione del senso in Deleuze e Guattari, Milano, Mimesis, 2005. Boella L. (a cura di), Bioetica dal vivo: Discussione, in «aut-aut», n° 318, 2003. Bogue R., Deleuze and Guattari, London, Routledge, 1989. Bonicalzi F., Leggere Bachelard, Milano, Jaca Book, 2007. Borrelli G. (a cura di), Prudenza civile, bene comune, guerra giusta: Percorsi della ragion di Stato tra Seicento e Settecento, Napoli, Archivio della ragion di Stato-Adarte, 1999. Bourdin D., La psychanalyse de Freud à aujourd’hui: Histoire, concepts, pratiques, Paris, Bréal, 2000; trad. it. Cento anni di psicoanalisi: Da Freud ai giorni nostri, Bari, Dedalo, 2007. Campioni G., Les lectures françaises de Nietzsche, Paris, Puf, 2001. Chignola S., Aspetti della ricezione della Begriffsgeschichte in Italia, in Chignola S. e Duso G., (a cura di), Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell’Europa, Milano, FrancoAngeli, 2005. D’Alessandro P. (a cura di), Louis Althusser: Ermeneutica filosofica e interpretazione psicoanalitica, Milano, Marcos y Marcos, 1993. Dagognet F., Canguilhem: Philosophe de la vie, le Plessis-Robinson, Essonne, 1997. Di Ciaccia A. e Recalcati M., Jacques Lacan, Milano, Bruno Mondadori, 2000. Di Marco C., Deleuze e il pensiero nomade, Milano, FrancoAngeli, 1995. Dosse F., Gilles Deleuze et Félix Guattari: Biographie croisée, Paris, La Découverte, 2007. Duso G. (a cura di), Filosofia politica e pratica del pensiero, Milano, FrancoAngeli, 1988. Duso G., La logica del potere, Roma-Bari, Laterza, 1999. Ferrara A., Reflective Authenticity. Rethinking the Project of Modernity, Routledge, London, 1998; trad. it. Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Milano, Feltrinelli, 1999. Ferrara A., Il paradigma del giudizio nella filosofia politica contemporanea, in Bazzicalupo L., Esposito R., Politica della vita, Roma-Bari, Laterza, 2003. Ferrara A., La forza dell’esempio: Il paradigma del giudizio, Milano, Feltrinelli, 2008. Ferraris M., Nietzsche e la filosofia del Novecento, Milano, Bompiani, 1989. Forti S., Il totalitarismo, Roma-Bari, Laterza, 2001. Giacometti M., Illuminati A., Porcaro M., Preve C., Turchetto M., La cognizione della crisi: Saggi sul marxismo di Louis Althusser, Milano, FrancoAngeli, 1986.

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Indice dei nomi Abensour M., 251n. Abignente A., 235n. Aboulafia M., 238n. Adorno F.P., 30 e n., 31n. Adorno T.W., 24, 221, 224n., 227 Afrodite, 257 Agamben G., 144n., 158n. Agamennone, 151n. Althusser H., 55 Althusser L., 15, 34-37 e n., 39-40, 42, 45-56 e nn., 59, 65n., 79-80 e nn., 83, 110 e n. Amato P., 144n. Ambrogio, santo, 152 Antonioli M., 9n. Apollo, 41n., 257, 260 Arendt H., 2, 30n., 34, 120n., 121n., 144n., 158-160 e nn., 175, 230 e n., 234, 245253 e nn., 255, 256n., 260-261 Arienzo A., 31n. Aristotele, 61n., 198 Aron R., 25n., 35n., 67 e n. Artaud A., 82-83, 84n. Artière Ph., 9n., 71n. Ashenden S., 23n. Baader A., 73 Bachelard G., 36, 42-43 e n., 46, 76 e n., 239 Badiou A., 59n. Balibar E., 45n., 55n. Barbagli M., 51n., 110n. Barou J.-P., 54, 134n. Barry A., 32n. Barthes R., 40, 64 Basaglia F., 75 e n., 88 Bataille G., 24, 59-60 e n., 64, 67 e n., 227 Baudelaire Ch., 210-211, 214, 221-222 e nn., 227n., 257 Baudrillard J., 32 e n. Bazargan M., 9n. Bazzanella E., 59n. Bazzicalupo L., 69n., 121n., 144n., 252n. Beauvoir S., 16 e n., 35n., 73 Beccaria C., 105n., 134

Becker G.S., 166 Bekker, 140n. Bellon G., 180n. Benedetti P., 242n. Benedetto, santo, 152 Benhabib S., 121n., 227n., 247n. Benjamin W., 144n., 221n. Bentham J., 53, 54n., 134-135 e nn., 171 Bergasse N., 105n. Berman M., 221n. Barnauer J.W., 142n., 215n. Bernini L., 101n., 158n., 187n. Bernstein R.J., 23n. Bertani M., 117n., 118, 142n. Bersani L., 187n. Berten A., 7n. Besussi A., 121n. Bevir M., 30 e n. Biagi-Chai F., 78n. Bing F., 130n. Binswanger L., 37-38 e n., 75-77 e n., 79 e n. Blackwood A., 117 e n. Blanchot M., 59-60 e n. Blasius M., 187n. Bloch M., 47, 48n. Bodei R., 27 e n., 144n., 205n., 215n. Bodin J., 110n. Boella L., 121n., 242n. Bogue R., 59n. Böhm F., 165 Boncinelli E., 242n. Bonicalzi F., 42n. Boniolo G., 242n. Bonnafous-Boucher M., 32 e n., 33n. Bopp F., 57 Borrelli G., 156n. Bosh H., 81 Botero G., 155 e n. Bottone M., 187n. Bouchindomme C., 233n. Boulainvilliers H., 116n., 119 e n., 120n., 121-123 e n., 127-128 Bourdieu P., 42n., 137n. Bourdin D., 78n.

300 Bovero M., 27n. Bratich J.Z., 32n. Braunstein J.-F., 130n. Bravo Gala P., 45n. Bréquigny L.F., 123n. Breton, 55n. Brissot de Warville J.-P., 105n. Brossat A., 30n., 144n., 159n. Brown P., 198 e n. Brueghel P., 81 Buci-Glucksmann C., 251n. Butler J., 69n., 187n. Cacciari M., 19-20 e nn. Calhoun C., 235n. Cambiano G., 29n., 198n. Cammelli M., 42n. Campioni G., 60n. Canguilhem G., 39, 42-43 e n., 46, 47n., 67n., 68 e n., 130 e n. Canovan M., 121n. Carlo I Stuart, re d’Inghilterra, 117nn. Carlo X, re di Francia,120n. Carlo Emanuele I di Savoia, 155n. Carlo Magno, 123n. Caruso D., 31n. Cassiano, santo, 152 Cassin B., 251n. Castel R., 42n., 71n., 137n., 139n. Cavaillés J., 46 e n. Cavazzini A., 9n. Ceppa L., 235n., 242n. Chapsal J.-F., 123n. Charcot J.-M., 86-88 e n., 206 Chemnitz B.Ph. von., 155 e n. Chevallier P., 31n. Chignola S., 31n., 32n., 101n., 146n., 199n. Cipriano, vescovo di Cartagine, 152 Cixous H., 71n. Clancy G., 9n. Clausewitz C., 115 e n., 116n., 125, 127 Clodoveo, re dei Franchi, 124n. Coke E., 117-119 e n. Colli G., 66n. Colombel J., 15n. Constant B., 161 Cooper D., 75 e n., 88 Copernico N., 163n Croissant K., 16n., 73-74, 174 e n., 177 Cromwell O., 117n. Crono, 151, 151n. Cusset Y., 233n.

INDICE

DEI NOMI

Cutro A., 9n., 31n., 144n. Cuvier G., 57 D’Alessandro P., 79n. Daddabbo L., 159n. Dagognet F., 42n. Dal Lago A., 144n. Darwin Ch., 159 e n. David, 151n. Davidson A., 29n. Davies G., 117n. De Cristofaro E., 101n. Defert D., 8, 9n., 28n., 39, 70, 71n., 74, 179n., 180n. De Gaulle C., 39 Delacroix E., 222 De Lauretis T., 187n. Deleuze G., 8, 17-20 e nn., 26n., 34, 56, 5964 e nn., 66 e n., 68, 70-71 e n., 73-74 e n., 85, 88-92 e nn., 94 e n., 104, 108 e n., 109, 137n., 172 e n., 174, 181 e n., 185, 251n. Derrida J., 24, 83n., 132n., 227 Descartes R., 56, 81, 83n., 131-132 e n. Descombes V., 26n. Dewey J., 21 Di Caccia A., 78n. Dilthey W, 217n. Di Marco C., 59n. Dioniso, 260 Di Vittorio P., 9n. Djellali B.A., 72-73 e n. Domenach, J.-M., 71n. Donzelot J., 19n., 71n. Dosse F., 59n. Dreyfus H., 8n., 22 e n., 23n., 26 e n., 126n., 129n., 149 e n., 179n., 191 e n., 193, 203204, 210, 228n. Dubos J.-B., 123n. Du Buat-Nançay L.-G., 120 e n. Dumézil G., 40-41, 41n., 68 e n. Duport A.-J.-F., 105n. Duras M., 16n., 73 Duso G., 101n. Epicuro, 55n., 213 Epitteto, 201, 213 Erasmo da Rotterdam, 81 Eribon D., 23n., 35n., 38 e n., 54n., 71n., 74 e n., 224n. Esposito R., 69n., 101n., 121n., 143n., 144n., 252n. Establet R., 45n.

INDICE

301

DEI NOMI

Eucken W., 165 Ewald F., 28n. Fabrizio di Sangro, 155n. Faure E., 67 Favret J., 139n. Faye J.-P., 9n. Febvre L., 48 e n. Fehér F., 144n. Ferguson A., 167n. Ferrara A., 235n., 251n., 252n. Ferraris M., 60n. Ferry J.M., 247n. Fimiani M., 69n., 225n. Fistetti F., 121n., 159n., 235n., 245n. Flores d’Arcais P., 121n. Flynn T.R., 215n. Fontana A., 18-19, 72n., 97n., 117n., 118, 139n., 143n., 156n. Forti S., 121n., 159n., 245n., 251n. Foucault D., 179n. (Foucault) Fruschaud F., 179n. Foucault P., 35 Foucault P.A., 35 Franco F., 9, 73 Francus, 118 Fraser N., 23n., 24, 230 e n. Frédégaire, pseudo, 118n. Freud S., 25n., 34, 36n., 65 e n., 66, 74, 76 e n., 77-78 e nn., 79n., 80 e n., 82-83 e n., 88 e n., 89 e n., 90n., 91 e n., 94n., 95, 99, 181 Friedman M., 166 Galilei G., 163n. Galli C., 31 e n., 101n. Galli della Loggia E., 173n. Galzigna M., 29n. Garaglia M., 187n. Garapon A., 30n. Gattégno J., 71n. Genet J., 71n. Giacometti M., 55n. Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra, 117n. Giddens A., 20-21 e n. Gil D., 42n. Giobbe, 175n. Giorello G., 242n. Giorgio III di Hannover, re di Gran Bretagna e Irlanda, 135-136 e n. Giovagnoli R., 235n. Giovanni Crisostomo, santo, 152

Girolamo, santo, 152 Godard J.-L., 15 Goodchild Ph., 59n. Goya F., 81 Gramsci A., 51-52 e n. Greblo E., 32n., 242 Gregorio di Nazianzo, santo 152 e n. Gros F., 30 e n. Grozio U., 119 Guaraldo O., 101n., 121n. Guareschi M., 59n. Guattari F., 64 e n., 88-92 e nn., 137n. Gueguen P.-G., 78n. Guglielmo I, il Conquistatore, 114 Guichard O., 67 Gutting G., 23n. Guys C., 222 e n. Habermas J., 2, 23-28 e nn., 34, 191, 192n., 210, 217 e n., 223-227 e nn., 228n., 229250 e nn., 251n., 252-253, 255n., 258260 Haber S., 233n. Hadot, 29 e n., 198 e n. Haller W., 117n. Halperlin D.M., 32-33 e nn., 187n. Haraway D.J., 144n. Hardt M., 144n. Hayek F.A. von., 32n., 165 Hegel G.W.F., 35-36 e n., 38, 45, 47, 59n., 60n., 68-70 e n., 78n., 210, 221, 224n., 228, 252 Heidegger M., 24, 59 e n., 60n., 78n., 120n., 227, 246 Heller A., 144n. Hitler A., 159 e n., 160n. Hobbes T., 23, 101, 110-115 e nn., 117n., 119, 124, 125n., 127, 128n., 145, 175n. Hohenthal P.C.W. von., 155 e n. Hölderlin F., 82 Honneth A., 23 e n., 192n., 226n., 233n. Horkheimer M., 221, 224n. Hotman F., 118 e n., 120n., 122n. Hottois G., 144n. Hoy D.C., 22n. Husserl E., 76 e n., 78n., 236 e n., 246 Hyppolite J., 6, 35 e n., 36n., 38-39, 45, 67 e n., 68-69 Illuminati A., 55n. Inghilleri M., 187n. Ingram D., 23n.

30

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DEI NOMI

Isaia, 257

Lyotard J.-F., 24, 251n.

Jaspers K., 120n. Jaubert A., 72 e n. Julliard J., 30n. Justi J.H.G. von., 155-157 e n.

Mably G.B., 123n. Macey D., 9n. Macherey P., 45n. Machiavelli N., 7 e n., 154 e n., 155n., 251 e n. Malapert A., 35 Maltese P., 235n. Mao Zedong, 25n. Marat J.-P., 105n. Marchetti V., 31n. Marco Aurelio, imperatore, 201, 213 Marcuse H., 24, 80, 89-90 e n., 91n., 92, 94-95 e n., 140n., 161n. Mariani A., 29n., 31n. Marten J., 140n. Marzocca O., 9n., 32n., 128n., 199n., 248n. Marx K., 10-11 e n., 15-16, 18-21 e n., 25n., 34-35, 36n., 37, 45, 46 e n., 47-54 e nn., 58-59 e n., 60n., 61, 64-66 e n., 67n., 68, 80n., 148, 251 e n. Matteo, evangelista, IX McCarty C., 32n. McMurrin S., 149n., 218n. Meinecke F., 155 e n., 156n. Mercier Dupaty Ch.-M., 105n. Merleau-Ponty M., 36, 59n., 67n. Milhau J., 15n. Miller J.-A., 71n. Mill J.S., 257 Mincer J., 166 Mises L.E. von., 165 Monod J.-C., 30 e n. Montaigne M. de, 213, 221 Montand Y., 73 Montesquieu Ch.-L., 161 Montinari M., 66n. Montloisier F., 120 e n. Moreau J.-N., 123n. Moro A., 18-19 Moser I., 144n. Moulin P., 139n Moulier-Boutang Y., 55n. Müller-Armack A., 165 Muriac C., 71n.

Kant I., 28, 39 e n., 57, 60 e n., 61-62, 197, 210, 216-221 e nn., 224-226 e n., 231, 234, 239, 245, 248-255 e nn., 260-261 Kaplan G.T., 245n. Kelly M., 23n. Keplero G., 163n. Kessler C.S., 245n. Keynes J.M., 165 Khomeyni R.M., 9n. Kierkegaard S., 38 Kjellén R., 143n. Klein M., 79n. Klossowski P., 59-60, 65 Kojève A., 35n., 78n. Koyré A., 46 e n., 78n. Kriegel B., 33 e n., 139n. Kuhn T., 41 e n., 239 Lacan J., 34, 40, 46 e n., 58, 74, 78-80 e nn., 82, 90, 94-95 Lacretelle P.-L., 105n. Lagache D., 39 Laing R.D., 75 e n., 88 La Mare N. de, 155 e n., 157 Langlois D., 72n. La Perrière G., 153-154 e nn. Le Bitoux J., 93n., 187n. Le Blanc G., 29n., 42n., 130n. Leclercq S., 32n. Le Goff J., 137n. Lenin, pseud. Vladimir Ilyich Ulyanov, 52 Lessay F., 116n., 117n. Lessing G.E., 249-250 e n., 256n. Lévi-Strauss C., 40, 58 Lévy C., 30n. Lilburne J., 117 e n. Livrozet S., 71n. Locke J., 161 Loewenstein R., 78n. Löwith K., 65 Luban D., 247n. Luhmann N., 32n. Luigi XIV, re di Francia, 43-44, 80, 105, 119, 120n., 121, 123, 131 Lutero M., 207-208

Napoli P., 31n., 32n., 128n., 156n. Navarro F., 55 Negri A. (Toni), 19, 144n. Nerval G., 82-83, 84n.

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303

DEI NOMI

Neumann F., 175 e n., 176n. Newton I., 3 Nietzsche E., 66n. Nietzsche F., 3, 10, 20-21 e n., 24-25, 26n., 34, 37, 56, 58-66 e nn., 68-70 e nn., 8283, 84n., 85, 104, 112 e n., 115, 116n., 149 e n., 199n., 210, 214, 221, 224n., 227, 257 Nora P., 137n. Onfray M., 42n. Ongaro Basaglia F., 75n. Osborne T., 32n. Ostinelli M., 235n. Owen D., 23n., 148n. Packer J., 32n. Pahlavi R., scià di Persia, 9n. Palazzo G.A., 155 e n. Panagiotis C., 9n. Pandolfi A., 31 e n., 32n., 146n., 149n. Panebianco A., 7n. Panerai A.E., 242n. Parise E., 121n. Parmenide, 198, 249 Pasquino P., 18-19, 72n., 97n., 156n. Passerin d’Entrèves M., 26n., 227n. Passeron J.-C., 42n., 71 Pastoret E., 105n. Patton P., 59n. Pavlov I., 38 e n., 45, 83, 233n. Pech T., 30n. Pedote P., 187n. Pedroni V., 235n. Peirce Ch.S., 238 Perrot M., 54 e n., 134n. Perticari P., 144n. Peter J.-P., 139n. Petrucciani S., 226n., 233n., 235n. Piatier J., 16n. Pinel Ph., 44 e n., 82, 132, 135 e n. Pingaud B., 15 Pinguet M., 60 Platone, 13, 116n., 151 e n., 198, 210n., 213, 249 Plutarco, 213 Poggi G., 148n. Poidimani N., 187n. Popper K., 41, 238 Porcaro M., 55n. Portinaro P.P., 7n., 101n., 103n. Potte-Bonneville M., 31n.

Preve C., 55n. Priamo, 118 Privitera W., 233n. Procacci G., 18-19, 156n. Pufendorf S., 119, 145 Puntscher untscher Riekmann S., 144n. Quaglioni D., 103n. Quéro L., 9n., 71n. Ra, 151n. Rabinow P., 8n., 22 e n., 23n., 26 e n., 126n., 129n., 149 e n., 165n., 179n., 191 e n., 193, 196 e n., 203-204, 210, 222n., 228n., 258n. Raimondi F., 55n. Rancière J., 45n., 71n. Rassmussen D., 215n. Ratzinger J., papa Benedetto XVI, 236n. Raulet G., 18n. Ray J., 163n. Recalcati M., 78n., 158n. Recchia Luciani F.R., 121n., 159n., 245n. Régnault F., 71n. Reich W., 24, 80, 89-90 e n., 91n., 92, 94-95 e n., 140 e n., 161n. Remotti F., 40 Revel J., 30 e n., 31n., 33 e n. Ricardo D., 15, 48-49, 50n., 51, 57, 91n. Ricoeur P., 65n. Rigliano P., 187n. Riot Ph., 139n. Rivière P., 139 e n. Rochlitz R., 233n. Ronsard P., 118n. Röpke W., 165 Rorty R., 21 e n., 23n., 25-26 e nn. Rose N., 32n. Roudinesco E., 78n., 130n. Roussel R., 64 e n., 83, 84n. Rovatti P.A., 29n. Rusconi G.E., 115n., 242n. Ruspini E., 187n. Rustow A., 165 Sabine G.H., 117n. Sade D.-A.-F. de, 82 Said E.W., 5n., 25n. Sartre J.-P., 15-16 e n., 20, 35n., 45, 47 e n., 59n., 67n., 71n., 73, 75n., 197 Saussure F. de, 36, 40, 58, 78 Scala A., 59n.

304 Scattola M., 156n. Schiera P., 156n. Schirone M., 9n. Schmitt C., 31n., 144n. Schopenhauer A., 214, 221 Schultz T.W., 166 Sciacca E., 153n. Sedgwick E.K., 187n. Selden J., 117-118 e n. Seneca, 201, 213 Senellart M., 31 e n., 156n. Serres J., 119n. Servan M.-A., 105n. Sharp A., 117n. Shiva V., 144n. Simonetta S., 101n. Simons J., 32 e n., 33n. Sisci N., 187n. Smart B., 20 Smith A., 48, 165 e n. Socrate, 13 e n., 116n., 215n., 216, 221 Solzenicyn A., 20 Soper K., 32n. Sorrentino V., 9n., 24n., 33 e n., 192n., 215n., 249n. Sozio M., 235n. Spinoza B., 3, 46n., 120n. Stalin J., 159 e n. Stigler G.J., 166 Stirner M., 213, 221 Stolleis M., 156n. Szakolczai A., 148n. Target G.-J.-B., 105n. Tarizzo D., 30 e n., 78n. Taylor C., 23n., 24-26 e n. Tedoldi L., 101n. Terrel J., 29n. Tissot S., 140 e n. Tocqueville A. de, 161 Trasimaco, 116n. Trombadori D., 16n., 19, 37 e n., 47n., 67n., 80n. Tucidide, 7n. Tuke W., 44 e n.

INDICE

DEI NOMI

Turchetto M., 55n. Vaccaro G.B., 59n. Vaccaro S., 9n. Valerio P., 187n. Van Gogh V., 81 Van Ussel J., 140, 140n., 141n. Veca S., 27-28 e n. Vegetti Finzi S., 78n. Vegetti M., 29 e n., 116n., 198 e n., 199n. Velazquez D., 57n. Venturino D., 120n. Verdeaux J., 37 Veyne P., 25n., 26n., 29 e n., 198 e n., 223, 250n. Vidal-Naquet P., 71n. Villiers J., 117n. Vitelli R., 187n. Voltaire, pseud. François-Marie Arouet, 3, 105n. Wahl J., 65 Walesa L., 10 Walzer M., 22-23 e n., 25-26, 95, 101-102, 125 Weber M., 20-21, 25n., 128, 148 e n., 221 e n., 224n., 235, 237, 257 e n., 258, 260 Westphal K.F., 186 e n. White S.K., 233n. Willebrandt J.P., 155 e n. Willis F., 135 e n. Winock M., 30n. Winstanley G., 117n. Wolff C., 242, 249 Wolin R., 24 Yoshimoto T. (Ryumei), 11 Young-Bruehl E., 121n. Zancarini-Fournel M., 9n., 71n. Zancarini J.-C., 30n., 173n. Zanotti P., 187n. Zarka Y.-C., 31 e n., 125 e n.

Teorie & Oggetti della Filosofia Collana diretta da Roberto Esposito

F. Châtelet, Attraverso Marx W. Tommasi, La natura e la macchina. Hegel sull’economia e le scienze W. Rathenau, Lo Stato nuovo e altri saggi (a cura di R. Racinaro) R. Esposito, La politica e la storia. Machiavelli e Vico R. Genovese, Dell’ideologia inconsapevole. Studio attraverso Schopenhauer, Nietzsche, Adorno A. Gurland, O. Kirchheimer, H. Marcuse, F. Pollock, Tecnologia e potere nelle società post-liberali (a cura di G. Marramao) M. Bertaggia, M. Cacciari, G. Franck, G. Pasqualotto, Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzschiana del tempo M. Horkheimer, Kant: la Critica del Giudizio (a cura di N. Pirillo) B. De Giovanni, R. Esposito, G. Zarone, Divenire della ragione moderna. Cartesio, Spinoza, Vico G. M. Cazzaniga, Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo B. Gravagnuolo, Dialettica come destino. Hegel e lo spirito del Cristianesimo V. Dini, G. Stabile, Saggezza e prudenza. Studi per la ricostruzione di un’antropologia in prima età moderna M. Palumbo, Gli orizzonti della verità. Saggio su Guicciardini B. Accarino, Mercanti ed eroi. La crisi del contrattualismo tra Weber e Luhmann G. Bataille, A. Kojève, J. Wahl, E. Weil, R. Queneau, Sulla fine della storia (a cura di M. Ciampa e F. Di Stefano) C. Formenti, Prometeo e Hermes. Colpa e origine nell’immaginario tardo-moderno M. Cacciari, M. Donà, B. Gasparotti, Le forme del fare H. G. Gadamer, J. Habermas, L’eredità di Hegel (a cura di R. Racinaro) M. Vozza, Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel A. Mazzarella (a cura di), Percorsi della “Voce” R. Genovese, C. Benedetti, P. Garbolino, Modi di attribuzione. Filosofia e teoria dei sistemi (a cura di R. Genovese) A. Illuminati, Racconti morali. Crisi e riabilitazione della filosofia pratica E. Greblo. La tradizione del futuro. Saggio su Walter Benjamin Aa.Vv., Simone Weil. La provocazione della verità E. Agazzi, Dopo Francoforte. Dopo la metafisica. J. Habermas, K. O. Apel, H. G. Gadamer A. Giannatiempo Quinzio, L’estetico in Kierkegaard Autori vari, Figure del paradosso. Filosofia e teoria dei sistemi 2 (a cura di R. Genovese) U. Fadini, Configurazioni antropologiche. Esperienze e metamorfosi della soggettività moderna D. Taranto, Studi sulla protostoria del concetto di interesse. Da Commynes a Nicole (1524-1�75) V. Romitelli, Storiografia, cronologia, politica G. Compagno, L’identità del nemico. Drieu La Rochelle e il pensiero della collaborazione Diotima, Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità L. A. Manfreda, Aporie del simbolo. Saggio su Otto Weininger

A. Mazzarella, I dolci inganni. Leopardi, gli errori e le illusioni Diotima, La sapienza di partire da sé F. C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche W. Tommasi, Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile N. Boccara, Il buon uso delle passioni. Hume filosofo morale: una biblioteca possibile Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana R. Caporali, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza F. S. Festa, Politica e/o Teologia. Saggi di filosofia politica G. M. Barbuto, Ambivalenze del Moderno. De Sanctis e le tradizioni politiche italiane F. Sorge, Passioni e farmaci. Per un’etica della depressione: le passioni dell’uomo tra neuroscienze ed anima F. Fimiani, Poetiche e genealogie. Claudel, Valéry, Nietzsche G. Borrello, Il lavoro e la Grazia. Un percorso attraverso il pensiero di Simone Weil E. Parise, La politica dopo Auschwitz. Rileggendo Hannah Arendt A. Martone, Un’etica del nulla. Libertà, esistenza, politica R. Panattoni, Appartenenza ed eschaton. La Lettera ai Romani di San Paolo e la questione “teologicopolitica” C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel linguaggio L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 191�-1927 G. M. Barbuto, La politica dopo la tempesta. Ordine e crisi nel pensiero di Francesco Guicciardini Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione S. Zuliani, Michel Leiris. Lo spazio dell’arte G. Solla, L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio G. Barberis, Il Regno della Libertà. Diritto, Politica e Storia nel pensiero di Alexandre Kojève W. Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività femminile Diotima, La magica forza del negativo R. Caporali, La tenerezza e la barbarie. Studi su Vico L. Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano Diotima, L’ombra della madre W. Tommasi, María Zambrano. La passione della figlia G. M. Barbuto, Antinomie della politica. Saggio su Machiavelli A. De Simone, Intersoggettività e norma. La società postdeontica e i suoi critici L. Bernini, Le pecore e il pastore. Critica, politica, etica nel pensiero di Michel Foucault