Le parole della cura. Medicina e filosofia 9788860309280

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Le parole della cura. Medicina e filosofia
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Saggi

Dal catalogo

Umberto Curi

Giorgio Cosmacini

La scomparsa del dottore Storia e cronaca di u n ’estinzione

Luigina Mortari

Filosofia della cura

Le parole della cura Medicina e filosofia

Claudio Rugarli

Medici a metà Q uel che m anca nella relazione di cura

RaffaelloCortinaEditore

INDICE

www.raffaellocortina.it

Copertina Studio C ReE ISBN 978-88-6030-928-0 © 2017 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 2017

Stam pato da Press Grafica SRL, Gravellona Toce (VB) per conto di Raffaello Cortina Editore

Ristampe 0 1 2 3 4 5 2017 2018 2019 2020 2021

icroauzione

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Medicina

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Tra mito e storia Il sangue della M edusa L a nascita di Asclepio M edico e medicina L a medicina ippocratica L e basi dell’arte medica L a qualità dei luoghi Il paradosso della medicina

19 20 27 30 33 38 42 47

Terapia

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All’ascolto Prendersi cura e curare L a medicina come professione L a cura dell’anima M emoria e catarsi L’ “altra’’ medicina Paziente?

53 55 57 59 64 67 70

Farmaco

75

Un rimedio che avvelena Il Giorno dell’Espiazione Pharmakos Una piaga infetta Guarire intossicando Medicina, retorica e musica L a scrittura come farmaco

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INDICE

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Natura e tecnica “ Quelle terribili ultime parole” Il dono della speranza

104 108 113 113 117 119 124 126 130 133

4. Chirurgia Alle origini del lavoro della mano Uno scambio fatale L e mani e l’intelletto Medicina e chirurgia Ygyeia Physis e techne Il destino della chirurgia

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Riferimenti bibliografici

D i fatto, oggi, questo è l’errore che fanno gli uomini, ossia che alcuni cercano di es­ sere medici della saggezza o della salute, ma separatamente l ’una dall’altra. PLATONE, Carmide, 157 b

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INTRODUZIONE1

In un commento apparso nel numero dell’l l aprile 2015,2Rich­ ard Horton, direttore della rivista The Lancet (la più nota e diffu­ sa rivista di scienze biomediche a livello internazionale), lanciava un allarme destinato a suscitare clamore nella comunità scientifi­ ca dei medici. “Gran parte della letteratura medica pubblicata è sbagliata” - questo l’assunto principale della denuncia proposta senza mezzi termini dall’autore. Riferendosi ai risultati emersi in occasione di un simposio sull’attendibilità della ricerca scientifi­ ca in ambito medico, svoltosi a Londra qualche settimana prima, Horton ne sintetizzava le conclusioni con una dichiarazione tanto perentoria quanto allarmante: “Qualcosa è andato fondamental­ mente male in una fra le più grandi creazioni umane”, al punto da poter affermare che “più della metà dei saggi scientifici di argo­ mento medico potrebbe essere semplicemente falsa”. Studi incoe­ renti, analisi non valide, conflitti di interesse, oltre all’ossessione di perseguire delle tendenze dubbie, inducono a ritenere che la scienza abbia imboccato una strada buia. Nell’articolo venivano accennate le cause di una così sbalor­ ditiva, e preoccupante, distorsione degli studi in questo settore. Nessuno è realmente incentivato ad agire con correttezza, per­ ché i ricercatori sono piuttosto incoraggiati a essere produttivi e

Avvertenza Tranne che nei casi espressamente indicati, le traduzioni delle opere greche e latine sono dell’autore.

1. Stefano Martini è autore di alcuni importanti contributi su Ippocrate e la me­ dicina antica, citati nel prosieguo del presente lavoro, e soprattutto del monumen­ tale lavoro II senso dell’udito nel “Corpus Aristotelicum”, Peter Lang, International Academic Publishers, Bern 2011. A lui sono debitore per aver rivisto ed emendato nel suo insieme il testo, oltre che per alcuni preziosi suggerimenti puntuali. 2 . R. Horton, “Offline: What is medicine’s 5 sigma?”, in The Lancet, 385, p. 1380.

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INTRODUZIONE

innovativi, anziché a raggiungere risultati veri. La competizione prevale sulla collaborazione. L’interesse a ottenere finanziamenti ha la meglio sul rispetto dei protocolli di indagine. Horton con­ cludeva la sua amara analisi con una considerazione tutt’altro che esaltante: “La buona notizia è che la scienza [medica] sta comin­ ciando a prendere molto seriamente alcune fra le sue mancanze. La cattiva notizia è che nessuno è pronto a fare il primo passo per ripulire il sistema”. Per quanto autorevole, l’opinione espressa con tanta durez­ za dall’autore britannico potrebbe apparire come espressione di un’isolata - e sproporzionata - preoccupazione di un troppo se­ vero “addetto ai lavori”, il cui giudizio non sia peraltro condiviso dalla stragrande maggioranza dei membri della comunità scienti­ fica. Non è così. Basti riferirsi alla non meno inquietante valuta­ zione proposta, alcuni anni prima, da Marcia Angeli, medico ed editore, l’unica donna che sia stata per molto tempo a capo del New England Journal ofMedicine, vale a dire la più antica rivista di medicina del mondo, tuttora annoverata fra le più prestigiose. Ebbene, secondo l’autrice statunitense, “non è più possibile cre­ dere alla gran parte della ricerca clinica che viene pubblicata, o fare affidamento sul giudizio dei medici di fiducia o su linee gui­ da mediche autorevoli. Non gioisco di questa conclusione, che ho raggiunto lentamente e con riluttanza dopo i miei due decenni co­ me direttore della rivista” .3 Il quadro a cui si è finora accennato era già stato delineato in maniera estremamente puntuale e documentata in un saggio comparso nell’agosto del 2005, a opera di John P.A. Ioannidis.4 Fin dalla dichiarazione di esordio, è chiaro quale sia la tesi pro­ posta dall’autore, ampiamente argomentata mediante una trat­ tazione analitica corredata da un ricco apparato di dati quanti­ tativi: “La maggior parte dei risultati delle ricerche pubblicate è falsa”. Più in particolare, è meno verosimile che il risultato di una ricerca sia vero quando sono scarsi gli studi in quel setto­ re, quando la mole dei dati proveniente da altri studi sullo stes­

INTRODUZIONE

so tema è insufficiente, quando la preselezione dei contributi da pubblicare non è abbastanza severa. Ioannidis aggiunge altresì a questi indicatori, già in se stessi probanti, un’ulteriore conside­ razione: “La probabilità che una ricerca approdi a risultati falsi aumenta quando vi sono grandi finanziamenti, o comunque co­ spicui interessi economici in gioco” . Se ne può concludere che alcune “simulazioni possono dimostrare che, per la maggior par­ te degli studi, è più verosimile che le affermazioni di una ricerca siano false, piuttosto che vere”.5 La controversia nata intorno alla dubbia attendibilità dei risulta­ ti raggiunti mediante le ricerche in campo biomedico era destinata a riaccendersi alcuni anni più tardi, assumendo la forma di un inter­ rogativo riguardante lo statuto stesso della medicina. Procedendo ancora a ritroso, si può osservare che le premesse erano state poste in un libro comparso originariamente nel 1999,6nel quale un noto storico della scienza medica aveva affermato categoricamente che la medicina non era in grado di corrispondere alle aspettative del­ la società odierna, e che sarebbe stato dunque necessario che essa si disponesse a ridefinire i suoi limiti, proprio nel momento in cui essa aveva raggiunto capacità tecnologiche senza precedenti. Conducendo alle sue conseguenze estreme il ragionamento di Porter, altri avevano sostenuto che il processo di democratizza­ zione della conoscenza, favorito da Internet e dai social media, avrebbe inevitabilmente condotto alla fine delle professioni, così come oggi le conosciamo, inclusa quella medica. Mentre infatti le professioni sequestrano le loro conoscenze specialistiche per finalità di guadagno personale, questa forma di protezionismo sarà distrutta dalle tecnologie dell’informazione e da un vasto accesso alle conoscenze specialistiche.7Di qui l’auspicio, formu-

3. M. Angeli, “Drug companies and doctors: A story of corruption”, in The New York Review ofBooks, 56,15 gennaio 2009. 4. J.P.A. Ioannidis, “Why most published research findings are false” , in PLOS Medicine, 30 agosto 2005, disponibile all’indirizzo: http://joumals.plos.org/plosmedicine/article?id=10.1371/journal.pmed.0020124.

5. Era inevitabile che l’articolo-denuncia di Ioannidis dovesse suscitare un am­ pio dibattito, per lo più mediante interventi fortemente critici e non meno vigorose repliche da parte dello stesso Autore. Una documentazione completa della discus­ sione è reperibile all’indirizzo web citato alla nota precedente. Si vedano soprattut­ to il contributo di H. Marcovitch, “Editors, publishers, impact factors, and reprint income” , in PLOS Medicine, 7(10): el000355,2010, e l’editoriale “Increased responsibility and transparency in an era of increased visibility”, in PLOS Medicine, 7(10): el000364,26 ottobre 2010. 6. R. Porter, The Greatest Benefit to Mankind. A Medicai History ofHumanity from Antiquity to thè Present, Harper Collins, London 1999. 7. R. Susskind, D. Susskind, The Future ofthe Professioni, O xford University Press, O xford 2015. Si veda anche l’ampio dibattito svoltosi all’inizio del millen-

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INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

lato dall’Academy of Medicai Sciences, di pervenire a un “nuovo contratto sociale o patto fra medicina e società”,8principalmente motivato dalla convinzione che “spingere l’innovazione medica senza una valutazione approfondita della recettività della società a tali avanzamenti impedirebbe di realizzare pienamente il loro potenziale”.9 D ’altra parte, il riconoscimento del carattere aleatorio di molti risultati acquisiti dalle ricerche in campo biomedico, e più in gene­ rale l’esigenza di una «definizione dello statuto e dei compiti del­ la scienza medica, soprattutto per quanto riguarda i suoi rapporti con la società e le sue rapide trasformazioni, non sono acquisizioni recenti. Sia pure in termini convenzionali, si può assumere quale punto di riferimento Γ “Indirizzo presidenziale” , pronunciato da Sir Lionel Whitby, Regius Professor of Physic presso l’Università di Cambridge, in occasione del Congresso internazionale di Pato­ logia clinica, svoltosi a Londra il 16 luglio del 1951.10 “Noi sappiamo”, afferma lo studioso britannico, “che nei cam­ pi della fisiologia e della patologia, mediante un approccio scien­ tifico, è possibile stabilire con esattezza un fatto. Ma l’esperienza ci dimostra subito che il fatto isolato può essere interpretato in maniere largamente differenti, non solo per la molteplicità delle variabili in gioco, ma anche per l’estrema complessità dei sistemi che costituiscono l’organismo umano”.11All’ampiezza quantitati­ va e alla variabilità dei fattori costituenti l’oggetto dell’indagine si deve altresì aggiungere un altro aspetto fondamentale, spesso ignorato o sottovalutato, vale a dire la “fallibilità dell’osservatore”.

Da tutto ciò, e da un’attenta disamina delle modalità concrete di svolgimento della pratica clinica, Whitby deduce una conclusione estremamente esplicita: “L’errore è tutto intorno a noi e si insinua in ogni occasione. Ogni metodo è imperfetto”.12 Ancor più esplicitamente, si può sostenere che “la medicina non potrà mai diventare una scienza esatta, fino a che tutte le va­ riabili non siano state definite e fino a che non sia stato elimina­ to l’elemento personale, anche riducendo il paziente a una forma standard”.13Anziché assecondare una visione acritica della medi­ cina, si tratterebbe piuttosto di tenere ben presente il monito di Oliver Wendell Holmes, allorché sosteneva che “la scienza non è che la topografia dell’ignoranza”. Senza dimenticare, in termini generali, la sentenza di Thomas Huxley, secondo il quale “la scien­ za non è altro che buon senso allenato e organizzato”.14Insomma, ogni pretesa di esattezza e infallibilità deve essere accantonata, quando si tratti di riflettere senza pregiudizi sulle potenzialità e i limiti della medicina. Sebbene, nel corso della storia, la tendenza ad attribuire alla medicina un carattere compiutamente scientifico sia frequente­ mente ricomparsa, si può considerare ormai acquisita, almeno nella comunità scientifica, la tesi dell’irriducibilità della medici­ na alle cosiddette hard Sciences, quali la matematica o la fisica, o alla nuova generazione delle scienze novecentesche, dall’infor­ matica alla telematica. Almeno fino a quando il fulcro principale dell’indagine medica resterà la clinica, vale a dire un’attività com­ plessa, comunque non riconducibile a un procedimento stan­ dardizzato su base matematica, sarà inevitabile che la medicina conservi una fondamentale ambivalenza, nella tensione fra una base rigorosa, sostanzialmente coincidente con i risultati resi di­ sponibili dal progresso delle conoscenze propriamente scientifi­ che in campi come la fisica, la chimica e la biologia, e lo sviluppo di un’attività irrimediabilmente condizionata da una pluralità di variabili soggettive. La conclusione, ancorché provvisoria e puramente enunciativa, desumibile dagli spunti in precedenza menzionati è a questo pun-

nio, innescato da un articolo di T.A. Brennan, “Charter on medicai professionalism: Putting thè charter into practice”, in Annali o f Internai Medicine, 138, 10,20 mag­ gio 2003, p. 851. 8. Academy of Medicai Sciences, Exploring a new social contract for medicai evidence, London 2015. Una prospettiva simile era già stata delineata alcuni anni prima da J. Lubchenco, “Entering thè century of thè environment: A new social contract for Science”, in Science, 279,5350,23 gennaio 1998, pp. 491-497. 9. J. Tooke, “The Science (and art) of medicine”, in The Lancet, 387, S6-S7, 25 febbraio 2016. Sullo stesso tema erano già intervenuti D. Ofri, “The practice of med­ icine: Neither Science nor art” , in The Lancet, 367,9513, pp. 807-808 e K. Malterud, “The art and Science of clinical knowledge: Evidence beyond measures and numbers”, in The Lancet, 358, 9279, pp. 397-400. 10. L. Whitby, “The Science and art of medicine”, in The Lancet, 258, 6674, 28 luglio 1951, pp. 131-133. 11. Ibidem, p. 131.

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12. Ibidem. 13. Ibidem. 14. Ibidem, p. 132.

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INTRODUZIONE

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to intuitiva: “La medicina non è una scienza, è una pratica basata su scienze e che opera in un mondo di valori. E, in altri termini, una tecnica [...] dotata di un suo proprio sapere, conoscitivo e va­ lutativo, e che differisce dalle altre tecniche perché il suo ogget­ to è un soggetto: l’uomo” .15D ’altra parte, a un esame più attento, la stessa definizione ora riportata risulta valida soltanto in prima approssimazione, poiché include il riferimento ad alcuni concetti - “medicina”, “tecnica”, “pratica”, “scienza” , “sapere” - ciascu­ no dei quali esige di essere accuratamente chiarito anzitutto dal punto di vista etimologico e lessicale, e quindi anche sotto il pro­ filo strettamente concettuale. Di qui la scelta di porre al centro della riflessione svolta nelle pagine che seguono le parole della cura, vale a dire alcuni termini chiave, capaci di delineare nel loro insieme l’ambito, la natura, gli strumenti e le finalità di quella che convenzionalmente viene de­ finita la scienza medica. Non un semplice “dizionario”, e neppu­ re un regesto completo di terminologia tecnica. Ma piuttosto una ricognizione, deliberatamente parziale e non esaustiva, di alcuni fra i problemi fondamentali a essa sottesi. Nella descrizione di questo percorso, si risalirà più volte, e non solo occasionalmente, alle origini storico-concettuali della medici­ na, affondando spesso anche nel repertorio mitologico, letterario e filosofico del mondo classico. Con la convinzione che, a differenza di ciò che si potrebbe superficialmente pensare, la storia della me­ dicina non può essere paragonata “a una raccolta di francobolli” o a un album contenente l’illustrazione delle invenzioni più celebri, comunque prive di interesse per gli sviluppi futuri della discipli­ na.16Al contrario, un primo passo significativo nella direzione del

superamento di una concezione riduttivamente positivistica della medicina può essere compiuto da un lato valorizzandone il per­ corso storico, i successi e le sconfitte, le conquiste e i fallimenti, le promesse mantenute e le inadempienze, e dall’altro lato misuran­ dosi senza censure o rimozioni con le grandi questioni soggiacenti alle “parole” che ne definiscono il campo.

15. G . Cosmacini, Il mestiere di medico. Storia di una professione, Raffaello Cor­ tina, Milano 2000, p. XI; i corsivi sono miei. 16. “Il ruolo dello storico consiste nell’interpretare, non solamente nel documen­ tare. Se uno scienziato o un medico fanno un’affermazione, il dovere dello storico non è quello di riportare quella affermazione, ma di chiedersi se essa era vera. Gli storici non dovrebbero occuparsi soltanto dei progressi tecnici della medicina. Essi dovrebbero essere interessati alle condizioni economiche e politiche che danno for­ ma agli avanzamenti (e alle battute di arresto) di un’epoca, senza trascurare i pensieri e i sentimenti degli stessi protagonisti - scienziati, medici, infermiere, pazienti. [...] La storia della medicina dovrebbe garantire un ‘contrappeso umanistico alle prete­ se di progressi irresistibili’” (R. Horton, “Offline: The moribund body of medicai history” , in The Lancet, 384, 9940,26 luglio 2014, p. 292).

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MEDICINA

TRA MITO E STORIA

Il mito che racconta l’origine della medicina è descritto da Apollodoro, la cui versione rinvia ad altre fonti antiche.1Protago­ nista della vicenda è Asclepio, nato dalla relazione di Apollo con Coronide, figlia di Flegia, re della Tessaglia. La giovane donna, in attesa di un figlio frutto dell’unione col dio, contravvenendo alle raccomandazioni del padre, aveva scelto di rifiutare il matrimonio con Apollo, perché innamorata di Ischi, fratello di Caneo. Avver­ tito da un corvo del rifiuto di Coronide, Febo maledice l’uccello e lo trasforma da bianco in nero, per poi uccidere la donna. Men­ tre il corpo di lei brucia, il dio sottrae il bambino alle fiamme e lo conduce presso il centauro Chirone che lo alleva e gli insegna la medicina e l’arte della caccia. E da notare che la narrazione del­ le modalità della nascita di Asclepio, strappato dal grembo della madre morente, accomuna colui che sarà considerato il dio della medicina ad altre figure caratterizzate dal motivo della “nascita nella morte”, prima fra tutte Dioniso, la cui madre Semele viene incenerita dal fulmine di Zeus al settimo mese di gravidanza, men­ tre il piccolo è salvato per intervento diretto del nume olimpico.2 Secondo una variante del mito (attribuita da Pausania agli abi­ tanti di Epidauro), Flegia sarebbe giunto a Epidauro per racco­ gliere in segreto informazioni sulla ricchezza del paese e la forza 1. Vedi Apollodoro, I miti greci, a cura di P. Scarpi, tr. it. di M.G. Ciani, Mondadori, Milano 1996, III, 10,253. 2. Vedi K. Kerényi, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, tr. it. Adelphi, Milano 1992; W.F. Otto, Dioniso. Mito e culto, tr. it. il melangolo, Genova 1990.

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dell’esercito, col proposito di saccheggiarlo, giovandosi delle virtù militari dei migliori guerrieri greci al suo servizio. Nel viaggio, il re tessalo è accompagnato dalla figlia, già incinta di Apollo. Sor­ presa dalle doglie, Coronide dà alla luce un figlio, che viene subi­ to esposto sul monte Tizione, che sarebbe poi diventato famoso per le virtù medicinali delle sue piante. Mentre il neonato sta per essere raccolto da un pastore di passaggio sul monte, compare lo stesso Apollo, circonfuso di luce abbagliante, e porta con sé il pic­ colo Asclepio. In entrambe le versioni, ritorna il tema di una “doppia nasci­ ta” - la prima connessa col parto di Coronide, la seconda conse­ guente all’intervento di Apollo - quale sigillo originario di una identità che si preciserà sempre più esplicitamente nel segno del­ la duplicità.3 Tutto ciò è confermato dallo sviluppo del racconto. Affidato alle cure di Chirone, anch’egli di natura doppia, come ibrido di uomo e cavallo, raggiunta la maturità Asclepio riceve da Atena il sangue che era sgorgato dalla testa mozzata della Medusa, quando Perseo l’aveva decapitata. Unica mortale fra le tre Gorgoni, la Me­ dusa è essa stessa una potentissima icona della duplicità. Umana e animale, maschile e femminile, giovane e vecchia, bella e brut­ ta, benigna e malefica, la Gorgone è al centro di una vicenda sulla quale è impresso il segno inconfondibile dell’ambivalenza.

corrispondendo esattamente ad alcun modello preesistente, e do­ vendo perciò essere considerato come un’“invenzione greca”, il gorgoneion è stato indubbiamente creato sulla base di una forma egiziana o siriaca. Tracce di una tradizione iconografica ricondu­ cibile a Medusa, di gran lunga anteriore al Vii secolo, si ritrova­ no infatti diffuse nell’antica Europa e nel Vicino Oriente già nel paleolitico superiore, e ricompaiono poi nel periodo neolitico at­ traverso alcune figure femminili accompagnate da serpenti e uc­ celli. Si ritiene che le immagini di Arianna - donna-serpente, dea e sacerdotessa, accomunata a Coronide per la “nascita nella mor­ te” -, rinvenute nel Palazzo di Cnosso, ricalchino modelli ancora più antichi, databili intorno al 1600 a.C., recanti la raffigurazione di una divinità femminile circondata da serpenti. In questi arche­ tipi, Medusa è il simbolo della sapienza muliebre, dei cicli naturali della nascita, morte e rinascita, della creatività universale, e insie­ me dell’incessante trasformazione. Da notare che immagini simili a quelle della Medusa greca ar­ caica, comunque provviste delle medesime caratteristiche, ricor­ rono in contesti culturali e geografici fra loro molto diversi, oltre che distanti nello spazio e nel tempo. Solo per citare alcuni esem­ pi, a parte quelli relativi alla divinità egiziana Bes e a Humbaba, antagonista mesopotamico di Gilgames, basti pensare al volto che campeggia al centro del calendario di pietra azteco, nel quale è raffigurato il dio Tonatiuh ovvero, secondo quanto si è sostenuto in tempi recenti, Xochipilli-Piltzintecuhtli. Ritratto frontalmen­ te, con grandi occhi sbarrati, il naso largo, la bocca aperta in un ghigno e la lingua grossa che penzola fuori da una fila di denti di­ grignati, questo volto ricapitola in sé buona parte degli elemen­ ti iconografici presenti nella rappresentazione tradizionale della Gorgone arcaica. Per restare nell’America Centrale, numerose al­ tre figure condividono i tratti del viso posto al centro del calenda­ rio azteco, come la dea Coatlicue, Xolotl, la “stella della sera”, o il dio della pioggia Tlaloc, appartenente alla cultura preazteca della zona di Teotihuacan. Per esempio, il volto di Tlaloc, o anche quel­ lo di Cocijo, divinità della pioggia della regione di Oaxaca, si pre­ sentano frontalmente, con gli occhi sbarrati, una bocca spalancata piena di denti aguzzi, talora sporgenti, e la lingua protesa. Tutte caratteristiche tipiche della Gorgone arcaica, presenti pure in fi­ gure della regione degli Olmechi e nella zona di Chavin nell’alto

IL SANGUE DELLA MEDUSA

Nel mondo greco, l’immagine della Medusa compare origina­ riamente nel corso del VII secolo a.C., in piena età orientalizzante, quando nell’arte geometrica ellenica irrompono le forti suggestio­ ni provenienti dall’arte orientale, sia in forma di leggende, “elleniz­ zate” e adattate al già cospicuo repertorio autoctono, sia in forma di raffigurazioni mostruose e inquietanti. D ’altra parte, pur non 3. “Si può notare che [...] Asklepios non è la sorgente autonoma dell’arte medi­ ca, secondo la sua mitologia; non tanto perché è figlio di Apollon, quanto perché egli stesso l’ha appresa da Cheiron. La linea, infatti, parte da Cheiron, come nel caso di altre arti eroiche [...] di modo che la discendenza di Asklepios ne è solo una grossa diramazione” (A. Brelich, Gli eroi greci, Adelphi, Milano 2010, p. 101). Questa li­ nea è peraltro già individuata da Omero, quando attribuisce a Patroclo la capacità di curare Euripilo ferito, avendo appreso da Achille - il quale a sua volta l’avrebbe appresa da Chirone - l’arte medica (Iliade, 11, 828 sgg.).

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LE PAROLE DELLA CURA

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Perù, ma rintracciabili anche in Giappone, in Indonesia, in Nuo­ va Zelanda e in Nuova Guinea. Nei modelli greci arcaici, Medusa compare sempre con un si­ gnificato ambivalente - inizio e fine, protettrice e potenza malefica, essere umano e insieme anche animale, al confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti, e dunque anche mediatrice fra il dominio dei viventi e l’oltretomba. Ambiguo è, anzitutto, il rapporto che la lega a Atena, della quale per certi aspetti essa può essere conside­ rata il “doppio” o, alternativamente, la “faccia nascosta”. Quan­ do, a conclusione dell’impresa di Perseo (il cui buon esito sarebbe stato impossibile senza l’aiuto determinante di Atena), la dea fissa sull’egida la testa decapitata di Medusa, si ricompone un’unità fra due personaggi collegati da molti legami visibili e sotterranei. Da notare, a conferma di questo vincolo, che le più antiche immagi­ ni di Atena assomigliano in maniera impressionante alla divinità femminile-serpente-sacerdotessa di Creta, considerata la proge­ nitrice di Medusa, e che in tutte le diverse varianti iconografiche Atena è sempre associata a figure di serpenti, che compaiono co­ stantemente anche nelle raffigurazioni della Gorgone. Particolarmente evidente nelle immagini del V ii e del V i seco­ lo, dove per esempio il volto femminile appare spesso incorniciato dalla barba, e dove i tratti dichiaratamente muliebri sono contrad­ detti da una lingua che assume talvolta la forma del fallo, il tratto distintivo dell’ambivalenza permane anche quando rimmagine si ingentilisce, pur se viene diversamente rappresentata, in qualche caso attraverso riferimenti puramente simbolici. Si può anzi fin d’ora sottolineare che, nella spiccata variabilità dei dettagli, e in un’evoluzione che conduce fra l’altro al rovesciamento “estetico” fra l’aspetto mostruoso e quello seducente, ciò che resta inaltera­ to è l’intrinseca ambiguità del volto della Gorgone. “Doppia”, nel suo indissolubile rapporto con Atena, culminante con quella sorta di “fisica” identificazione, data dall’annessione della testa mozzata di Medusa all’egida della dea, essa è duplice anche e soprattutto in se stessa, come simultanea e ineliminabile compresenza di ca­ ratteristiche opposte. Quando l’immagine di Medusa assume una forma compiuta nel mondo greco, fra l’vill e il vii secolo, l’iconografia si definisce lungo due direzioni fondamentali: da un lato come iconografia “narrati­ va”, che visualizza il contenuto dei miti nei quali compare la Gor­

gone; dall’altro lato, in contrasto con la tendenza prevalente alla rappresentazione di una figura intera, come iconografia simbolica, la quale estrapola dall’immagine intera la sola testa mozzata, assun­ ta come sintesi del potere di pietrificazione attribuito alla Forcide. Nel primo caso, l’elemento che viene maggiormente sottolineato, e che ricorre costantemente, è l’aspetto composito delle Gorgoni (ali e volto terrificante), attestato soprattutto su vasi del protogeo­ metrico ateniese, secondo un’iconografia che sarà ripresa anche dalla decorazione templare (acroteri, metope, ma anche frontoni). Nella variante simbolica, gli aspetti terrificanti del volto (occhi sbarrati, bocca aperta nel ghigno, lingua pendula, talora in for­ ma fallica) vengono ulteriormente estremizzati, mentre la testa è spesso usata nella decorazione templare per ribadire il significato, che essa aveva assunto, di protezione del tempio contro i possibili nemici. A ciò si aggiunga che il gorgoneion compare anche come episema dello scudo di Atena, oltre che come decorazione dell’e­ gida di Zeus e della stessa Atena. Anche nella tradizione figurativa, come già si è accennato es­ sere accaduto in quella mitologica, interviene ben presto un’im­ portante novità, che modifica lo stereotipo originario, sebbene non muti la funzione attribuita all’immagine di Medusa. Già con Fidia, infatti, si assiste a una raffigurazione della Gorgone con le sembianze di una donna con un volto bello e seducente, anziché con le sembianze ripugnanti con le quali essa è presente nel VII e nel VI secolo. Sia pure indirettamente, l’iconografia rinascimenta­ le e barocca, nella quale viene raffigurato il contrasto fra il volto “bello” della Gorgone e l’ornamento repellente (la chioma angui­ forme) che la adorna, conferma la persistenza di una intrinseca ambivalenza nella rappresentazione di questa enigmatica figura. Dopo Fidia, Medusa “bella” è ampiamente utilizzata a fianco, o in sostituzione, di quella terrificante per tutta l’età ellenistica e romana, mentre si moltiplicano e si diversificano ulteriormente i contesti nei quali ricorre il gorgoneion, ormai stabilmente investito di una finalità apotropaica, sia in ambienti pubblici, sia nelle abita­ zioni private, dove assolve al compito di fornire il benvenuto all’o­ spite, garantendogli altresì protezione. Di particolare importanza, da questo punto di vista, è il portico del foro severiano di Leptis Magna, nel quale il volto di Medusa compare un centinaio di vol­ te, nella regolare alternanza fra il volto bello e quello terrificante,

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mentre resta invariata la funzione di salvaguardia del tempio e di coloro che si trovano in prossimità del luogo sacro.4 Il riferimento alla variante “bella” di Medusa, testimoniata da una lunga e ininterrotta tradizione, il cui inizio viene fatto coinci­ dere con una raffigurazione vascolare proveniente dalla Cirenai­ ca, datata intorno al 475 a.C.,5e poi proseguita con alcuni “pezzi” esemplari (dalla Medusa Rondanini6 fino alla Medusa Ludovisi, di età ellenistica), risulta della massima importanza per un’ade­ guata comprensione dell’enigma connesso allo sguardo di questo inquietante personaggio mitologico. Anzitutto, l’iconografia rinascimentale e barocca, nella quale viene raffigurato il contrasto fra il volto “bello” della Gorgone e l’ornamento repellente (la chioma anguiforme) che la adorna,7 conferma la persistenza di una intrinseca ambivalenza nella rap­ presentazione di questa enigmatica figura. Non si tratta, d ’altra parte, di una novità introdotta dall’arte moderna, visto che già la “Medusa Rondanini” , secondo le parole di Goethe, esprimendo “il dissidio fra la vita e la morte, fra il dolore e il piacere, esercita un fascino inesplicabile su di noi, come nessun’altra figura ambigua è in grado di fare” .8In secondo luogo, combinando le fonti lette­ rarie e quelle figurative,9 risulta evidente che il potere a essa con­

cordemente attribuito non dipende dalle sembianze con le quali è raffigurata, nel senso che persiste anche quando si attua un vero e proprio rovesciamento nelle caratteristiche “estetiche” del volto, nel passaggio dall’aspetto terrificante a quello bello.10 Riferendosi a un periodo storico molto distante da quello in cui compare originariamente l’immagine della Gorgone, è possibile trovare un’importante conferma dell’assunto ora enunciato. Assu­ mendo la Medusa come icona chiave del Romanticismo, si è cerca­ to di dimostrare che essa compendia in sé le caratteristiche salienti di un movimento che pone al centro l’irresistibile attrazione per l’orrido e l’abominevole e l’inclinazione verso un modo morbo­ so di concepire l’amore.11Viceversa, se si esaminano alcuni fra gli autori più rappresentativi dell’età romantica - da Goethe a Shel­ ley, da Pater a Swinburne -, è possibile raggiungere conclusioni per certi aspetti opposte. In particolare, commentando il dipinto di Medusa attribuito a Leonardo, sia Shelley sia Pater sostengo­ no che la suggestione di questa immagine non dipende univoca­ mente da un volto ripugnante, quanto piuttosto dalla tensione fra aspetti contrastanti, dalla “tempestosa seduzione del terrore”,12o dal “fascino della corruzione”.13Tutto ciò dimostra che la Medusa

4. Sono grato a Francesca Ghedini, storica dell’Arte antica presso l’Università di Padova, per le preziose indicazioni fornitemi in relazione alla tradizione icono­ grafica di Medusa. 5. Difatti, mentre l’attribuzione a Fidia di una Medusa dal bel volto è tuttora controversa, sembra non sussistano dubbi sull’interpretazione da fornire dell’idria nella quale compare la figura, in rosso, di Perseo, colto di profilo, che regge il capo mozzato di Medusa, anch’esso di profilo. Si noti non solo che la testa non è ritrat­ ta frontalmente, come accade sempre nel caso della Gorgone mostruosa, ma che è anche priva di tutti i caratteri che abitualmente si ritrovano nelle rappresentazioni arcaiche. Pressoché coeva a questo dipinto vascolare è una coppa attribuita a Poii­ gnoto che ritrae Perseo intento a decapitare una Medusa dormiente dal bellissimo aspetto. Secondo A.B. Cook (Zeus. A Study in Ancient Religion, voi. Ili, Cambridge University Press, Cambridge 1940, pp. 88 sgg.), è questo l’esempio più antico della “Medusa bella” . 6. Si tratta di una testa in marmo pario di grandezza naturale, primo esempio recante due ali attaccate alla testa, ritenuta essere una copia romana di un originale greco databile all’incirca al 330 a.C. (ibidem). 7. Fra i molti esempi, si vedano soprattutto le tele di Leonardo, di Caravaggio (1591-1592) e di Rubens (1617-1618). 8. J.W. Goethe, Viaggio in Italia, tr. it. Mondadori, Milano 1985, p. 167. 9. L’immagine della Medusa bella è considerata da numerosi studiosi come una sorta di “illustrazione” della dodicesima delle Pitiche di Pindaro. Si tratta, come è

noto, di un’ode composta in onore di Mida, re di Agrigento, il quale aveva vinto una competizione di flauto attorno al 490 a.C. La particolarità che avrebbe reso illustre questa prestazione è data dal fatto che, secondo la tradizione, Mida avrebbe rotto il flauto durante la gara, ma sarebbe tuttavia riuscito comunque a proseguire senza lo strumento, giovandosi dell’aiuto di Atena. Di passaggio, Pindaro si riferisce all’impre­ sa di Perseo, menzionando la “testa della bellissima Medusa” (vedi S.R. Wilk, Medusa. Solving thè Mystery ofthe Gorgon, Oxford University Press, Oxford 2000, pp. 41-42). 10. Già Giovanni di Antiochia aveva attribuito il potere di pietrificare proprio di Medusa non alla ripugnanza, ma al contrario alla bellezza del suo volto, sostenendo che: “La Gorgone era una cortigiana bellissima, il cui fascino era talmente sbalor­ ditivo da trasformare in pietra chiunque volgesse su di lei lo sguardo” (Fragmenta Historicorum Graecorum, rv, 539, fr. 1, 8). 11. Come sostiene, in un’opera ormai divenuta classica, M. Praz, “La bellezza medusea”, in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1948. 12. Shelley tende a esprimere l’intrinseca duplicità del volto della Gorgone me­ diante un ossimoro molto efficace: ‘“ Tis thè tempestuous loveliness ofterror, / For from thè serpente gleams a brazen giare / Kindled by that inextricable error, / Which makes a thrilling vapour of thè air / Become a [...] and ever-shifting mirror / O f all thè beauty and thè terror there” (P.B. Shelley, “On thè Medusa of Leonardo da Vin­ ci, in thè Fiorentine Gallery” , in Posthumous Poems ofPercy Bysshe Shelley, a cura di M.W. Shelley, John and Henry L. Hunt, London 1824, pp. 139-140; corsivi miei). 13. Sempre in riferimento al dipinto di Leonardo, Pater sottolinea che “ciò che può essere chiamato il fascino della corruzione penetra in ogni tocco la sua bellezza

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può certamente essere considerata il simbolo del movimento ro­ mantico, ma non già perché essa esprima semplicemente il gusto dell’orrido e del tenebroso, bensì perché in essa convergono - in nessun modo pacificamente risolti - aspetti contraddittori, pola­ rità non ricomponibili. Insomma, se a quanto si è fin qui osservato si aggiunge il fatto che il Romanticismo tratta la leggenda dello specchio di Perseo come il simbolo evidente dell’equivalenza fra l’eroe e la sua vitti­ ma, si può concludere che “la Medusa romantica è non solo essa stessa un Doppelganger, ma è una figura ricorrente di quell’altro tema romantico pervasivo, che è appunto il tema dello specchio”.14 Il compimento della tendenza romantica può essere individuato in una poesia moderna di Daryl Hine,15 nella quale compare un possibile amante della Gorgone, un evento altrettanto impensabile della salvazione di Satana, anch’esso immaginato nell’Ottocento: “Ella [Medusa] appare dormiente, come se stesse sognando fore­ ste pietrificate, driadi monumentali, fiori di pietra, ali di pietra, o il compagno che ella non incontrerà mai, il quale guarderà i suoi occhi e vivrà” .16 La poesia di Hine si riferisce al momento che precede immedia­ tamente il punto in cui Perseo uccide la mostruosa creatura figlia di Forci e Ceto. Essa ci dice che “l’artista conosceva soltanto un modo per raccontarci questa antica storia, mentre ora noi possia­ mo vedere quanto tutto potrebbe essere equivoco [...]. Nel poema di Hine, tutta la vita è arte, sia quella sognata in immagini di pietra, sia quella scolpita nell’oro, e se un eroe metallico può trionfare su

una Medusa della quale egli realizza la morte, ella può sognarsi immortale nel mondo pietrificato in cui sarà regina per sempre”.17 In altre parole, in tutto l’arco della tradizione letteraria e figu­ rativa occidentale - da Ovidio fino a Goethe, Shelley e Hine, da Fidia a Leonardo e Klimt - 18la caratteristica principale del volto della Gorgone non è né l’aspetto mostruoso, né quello seducente, ma il potere che esso possiede, e che appare in una certa misura indipendente da connotati meramente estetici. A ciò si aggiun­ ga che, sia pure in forme diverse, la raffigurazione di Medusa ci restituisce un’immagine essenzialmente ambigua, mai “sempli­ cemente” bella o brutta, ma sempre insieme l’una cosa e l’altra. Si può anzi rilevare che l’apparizione di Medusa dal “bel volto” non soltanto non cancella, e neppure riduce, il potere di quell’immagine, ma al contrario lo estende e lo generalizza, conferendo a essa una funzione apotropaica largamente utilizzata nel mondo greco e latino per quasi un millennio. Ciò significa che, al di là di ogni ragionevole dubbio, non è l’aspetto genericamente “mo­ struoso”, nel senso di qualcosa che suscita terrore per la sua ri­ pugnanza, il vero principio di individuazione della Gorgone, ma qualcosa di diverso e più pregnante, tale da restare inalterato, nonostante le continue metamorfosi che sconvolgono la morphe originaria di Medusa. LA NASCITA DI ASCI.F.PIO

Strappato da Apollo al rogo, sul quale brucia invece la m a­ dre Coronide, colpevole di aver preferito quale marito Ischi al

straordinariamente rifinita” (W. Pater, The Renaissance, Macmillan, London 1900, p. 106). Nello stesso testo, Pater avvicina la figura della Gorgone a quella della Gio­ conda, sostenendo che l’enigmatica donna ritratta da Leonardo “come il vampiro è morta molte volte, e ha imparato i segreti del sepolcro”. Ciò che accomunerebbe i due personaggi è il fatto che “queste donne emanano un odore di morte e di nobiltà al tempo stesso” (ibidem, p. 125). In entrambe, inoltre, si può ravvisare il nesso fra “eternai death” e “unending life”, espresso nella lotta fra “le forze oscure, animali, ctonie” , rappresentate dai serpenti, e “la pietra fredda e liscia della testa apollinea” (ibidem, pp. 203-204). 14. J.J. McGann, “The beauty of thè Medusa: A study in romantic literary iconology”, in Studies in Romanticism, 11, 1972, pp. 23. 15. D. Hine, Minutes, Atheneum, New York 1968, p. 45. 16. “ [...] As if dreaming of petrified forests, / Monumentai dryads, stone leaves, stone limbs, / Or of thè mate that she will never meet / Who will look into her eyes and live” (ibidem).

17. Jf.J. McGann, “The beauty of thè M edusa... cit., p. 25. 18. E la Pallade Atena di Gustav Klimt, olio su tela del 1898, ora all’Historisches Museum der Stadt di Vienna, nella quale una figura di Medusa, assai simile a quel­ la inserita nella metopa del tempio C di Selinunte, campeggia al centro dell’egida di Atena. Ma come già aveva rilevato uno dei primi e più prestigiosi critici dell’ar­ te della Secessione (L. Havesi, Acht Jahre Sezession. Kritik-Polemik-Chronik, Mdrz 1897-Juni 1905, Wien 1906), l’ispiratore della Gorgone di Klimt è il “grande mistico di Bruxelles”, vale a dire Fernand Khnopff, il quale aveva esposto alla mostra della Secessione una maschera in gesso (Hypnos), assai simile alla Medusa Rondanini (e, dunque, alla variante “bella”), a cui era stato attribuito “l’effetto di una moderna Medusa”. Del 1895, inoltre, è anche 11 sangue di Medusa dello stesso autore belga, nel quale il volto della Gorgone appare liscio e sereno, molto vicino alla tradizione del volto bello della figlia di Forci. Sull’argomento, vedi M.G. Messina, “L’egida di Atena” , in S. Sabarsky (a cura di), Gustav Klimt, Artificio, Firenze 1991, pp. 45-54.

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dio nato a Deio, il piccolo Asclepio viene consegnato al centau­ ro Chirone, affinché da lui apprenda l’arte medica unitamente a quella della caccia. Fattosi adulto, Asclepio perfeziona l’arte al punto che non solo riesce a salvare coloro che sono ammalati, ma diventa anche capace di resuscitare i morti.19 Da Atena egli ha infatti ricevuto il sangue sgorgato dalla testa mozzata della Gorgone, dotato di proprietà ambivalenti. Quello provenien­ te dalle vene di sinistra, potentissimo veleno, può servire a far morire gli uomini; quello che sgorga dalle vene di destra può re­ suscitarli. Identico, come solo possono esserlo due gocce dello stesso liquido, quel sangue mostra tutta la sua potenza nella du­ plicità dei modi con i quali si rapporta alla morte: scongiuran­ dola o procurandola. Affidato alle cure di un personaggio doppio, metà uomo e me­ tà cavallo, Asclepio apprende i segreti di un’arte - quella medi­ ca - intrinsecamente ambivalente, perché capace insieme di sal­ vare la vita e di procurare la morte. Il potere a lui conferito è a sua volta conseguenza di un dono doppio, proveniente da quel condensato di duplicità che è la Medusa: giovane-vecchia, bella­ brutta, uomo-donna, umana-bestiale, mortale-immortale. Di qui la funzione sempre e comunque ambivalente della stessa techne medica, la quale, come peraltro qualunque altra techne, non può giovare senza insieme anche nuocere, come il pharmakon di cui essa si serve, un veleno che cura, un rimedio che intossica, un anti­ doto che uccide. Temendo che gli uomini possano imparare da Asclepio l’ar­ te di curarsi, Zeus interviene fulminandolo, e quindi suscitan­ do l’ira di Apollo. Nell’impossibilità di vendicarsi direttamente col nume olimpico, il dio delle arti e della musica scarica la sua collera sterminando i Ciclopi, i quali avevano forgiato il fulmine usato da Zeus. La catena delle colpe e delle sanzioni (atti segna­ ti anch’essi dalla duplicità degli effetti, come azioni immanca­ bilmente seguite da re-azioni) si completa con la pena inflitta a Apollo: egli dovrà trascorrere un anno intero20 al servizio di un

uomo mortale, assecondandone docilmente la volontà.21 Gene­ rato con una “doppia nascita”, frutto di un’origine nella quale la vita scaturisce dalla morte, allevato da un personaggio per metà uomo e per metà animale, collegato per una pluralità di legami a Dioniso, dio della contraddizione, Asclepio riceve in dono il sangue sgorgato dalle vene della testa mozzata di una icona della duplicità, la Gorgone Medusa. Inoltre, il sangue stesso ottenu­ to in dono è ambivalente: quello sgorgato dalle vene di sinistra è un veleno letale, capace di far morire gli uomini, mentre quel­ lo proveniente dalle vene di destra è in grado di salvarli, al pun­ to da riuscire anche a resuscitare i morti. La personalità stessa del dio della medicina e gli “strumenti” da lui impiegati nell’e­ sercizio dell’arte che si ispirerà al suo insegnamento compaio­ no dunque originariamente connotati in forme irriducibilmente ambivalenti. Nato nella morte, cresciuto in un contesto connotato dalla du­ plicità, collegato a figure irriducibilmente ambivalenti, destinatario di un dono doppio, quale è il sangue sgorgato dalla testa di una figura giovane-vecchia, bella-brutta, umana-animale, benigna-nefasta quale è Medusa, il protomedico Asclepio agisce con il potere di giovare agli uomini, al punto da riuscire a riportarli dalla morte alla vita, ma può al tempo stesso - servendosi in entrambi i casi di una goccia di sangue - condurli dalla vita alla morte. L’identità peculiare della medicina, il suo stesso statuto episte­ mologico, è già scritta nella personalità di colui che la tradizione accredita quale “primo inventore” dell’arte medica. Potentissima arte - tanto quanto potente è chi l’ha costituita, fondandola sul sangue della Gorgone - ma arte intrinsecamente e irreparabil­ mente duplice. Nel transito dal mito alla storia, dai racconti che ne descrivono la genealogia alle testimonianze scritte che docu­ mentano il lavoro dei primi medici ippocratici, la medicina con­ serva, e per certi aspetti perfino esaspera, l’ambivalenza che ne è all’origine. E che è in larga misura già scritta nei termini con i quali l’arte viene definita.

19. Racconta Igino (Fabulae, 49) che, fra gli altri, Asclepio avrebbe resuscitato Ippolito, figliastro di Fedra, e Glauco, figlio di Minosse. 20. Come sottolinea Karl Kerényi, in realtà “la penitenza durò un ‘grande anno’, vale a dire otto anni, periodo che da noi si chiamava ennaeteris, ciclo di nove anni. Solo dopo tale periodo, [Apollo] tornò definitivamente a Delfi, come ‘puro’, Phoi-

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bos, con una corona e un ramo del sacro lauro della valle di Tempe” (K. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, tr. it. il Saggiatore, Milano 1963, p. 122). 21. Una storia simile a quella riguardante il servizio di Apollo presso Admeto in Tessaglia veniva raccontata anche sul conto di Ermes (HomeriHymni, 19,32).

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L’origine del termine “medicina” è controversa. La derivazio­ ne latina da medeor allude a un significato originario di “provve­ dere”, “prendersi cura”, “rimediare” - verbi dai quali si sarebbe poi sviluppato il significato tecnico di “curare”. Più interessante l’etimologia greca, secondo la quale il termine apparterrebbe a una famiglia di verbi che indicano le attività del “darsi pensiero”, “prendersi cura”, intese come espressioni di un atteggiamento ge­ nerale del “custodire” o “proteggere”. Così, in Omero, medon è il custode, il signore, e medea sono le cure o i pensieri che occupano la mente del “protettore”. Nella forma media del verbo - vale a dire come medomai - 23 è presente un significato che in un certo modo chiarisce le modalità attraverso le quali si esercita la protezione: il ponderare, il medita­ re, il prendere in considerazione. Insomma, alla radice dei termini “medico” e “medicina” ritroviamo un’attitudine che non coincide immediatamente con un’azione, con un intervento su qualcuno, ma che piuttosto allude a una disposizione interiore, caratterizza­ ta da uno stato d’animo di interesse per l’altro. Medico è dunque colui che istituisce una relazione, connotata dalla sollecitudine per la condizione altrui. La medicina è perciò un’attività relazionale, nella quale sono coinvolti almeno due soggetti. Restando sul piano terminologico, un’indicazione non insigni­ ficante può essere desunta da un passo della commedia Rudens di Plauto. Come ha osservato Giorgio Cosmacini, infatti, il dialogo fra due personaggi può fornire qualche informazione sulla condi­ zione del medico nella Roma repubblicana. “Sei medico?” “No,

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non sono medico, ho una lettera in più.” “Sei dunque mendico?” (w. 1304-1306). Tra mendicus e medicus c’era il divario di una sola lettera, ma nella vita sociale del tempo non c’era una grande dif­ ferenza tra i due. Il medico era un uomo la cui unica risorsa con­ sisteva nell’aver cura di altri uomini, ricevendone in cambio un obolo di riconoscenza. L’episodio plautino consente semmai di sottolineare un punto, sul quale si ritornerà anche più avanti, riguardante il rapporto del medico col denaro e, più in generale, il disinteresse economico di colui che esercita l’arte medica. Ciò che peculiarmente caratteriz­ za il discendente del greco Asclepio, come del latino Esculapio, è il prendersi cura di altri, lo stare in pensiero, senza che ciò impli­ chi alcuna contropartita, senza che la “protezione” elargita trovi un corrispettivo in denaro o in altre forme. Fino al punto da far ritenere che fra un medico e un mendico vi sia solo un’impercet­ tibile lettera di differenza. Procedendo cronologicamente oltre Plauto, si può ricordare che Isidoro di Siviglia (560-636 d.C.), nella parte propriamente medica dell’opera enciclopedica intitolata Etymologiae o Origines, fa risalire l’etimologia di medicina a modus, cioè alla “giusta misu­ ra” che deve guidare chi la professa. “Per questo”, scrive Isidoro, “la medicina è chiamata seconda filosofia, poiché entrambe le di­ scipline sono complementari all’uomo”.24In tal senso si può riba­ dire ciò che aveva già detto Claudio (Galeno), medico dell’impe­ ratore Marco Aurelio e dei suoi figli, vissuto a Roma e a Pergamo fra il 130 e il 200 d.C.: “Il migliore dei medici sia anche filosofo”. Il medico deve infatti conoscere non solo il metodo logico, ma anche la teoria degli elementi costitutivi dei corpi. Senza questo controllo delle coordinate fondamentali della filosofia, il medico scade dalla condizione di iatreus a quella di pharmakeus, spac­ ciatore di farmaci. “Se ai medici è necessaria la filosofia per l’ap­ prendimento iniziale e per il successivo esercizio, è chiaro che chi è un vero medico è sempre anche filosofo. ”25 Da questa tenden-

22. La bibliografia relativa alla storia della medicina è particolarmente ricca. Fra i testi più importanti in lingua italiana, si vedano: G. Cosmacini, L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2011; G. Corbellini, Storia e teorie della salute e della malattia, Carocci, Roma 2011; G. Armocida, B. Zanobio, Storia della medicina, Masson, Milano 1997; L. Sterpellone, I grandi della medicina. Le scoperte che hanno cambiato la qualità della vita, Donzelli, Roma 2004; M. Con­ forti, G. Corbellini, V.A. Gazzaniga, Dalla cura alla scienza. Malattia, salute e società nel mondo occidentale, EncycloMedia Publishers, Milano 2011 ; J.-C. Sournia, Storia della medicina, tr. it. Dedalo, Bari 1994; W. Osler, Devoluzione della medicina mo­ derna, tr. it. Sampognaro & Pupi, Siracusa 2011; L. Premuda, Storia della medicina, CEDAM, Padova 1975 (ristampa anastatica dell’edizione dèi 1960). 23. Un significato analogo ha anche il verbo iaomai (“curare”, “sanare”), da cui iatros, “colui che cura”, e iatrike techne, “arte medica”.

24. Isidoro di Siviglia, Etymologiae, libro IV, 13.4. 25. C. Galeno, “Il miglior medico è anche filosofo”, tr. it. in Opere scelte, a cura di I. Garofalo, M. Vegetti, UTET, Torino 1978, p. 101. Su ciò si veda la recente mono­ grafia di V. Boudon-Milliot, Galeno di Pergamo. Un medico greco a Roma, tr. it. C a­ rocci, Roma 2016; vedi anche M. Vegetti, “Galeno”, in Treccani. Enciclopedia Online, disponibile all’indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/galeno/.

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ziale identificazione scaturisce anche la possibilità di individuare un criterio che consenta di distinguere il vero medico da colui che è semplicemente uno “spacciatore di farmaci”. Senza la filosofia, infatti, non è possibile esercitare bene l’arte medica, mentre è più facile lasciarsi risucchiare dalla logica del guadagno. D ’altra parte, la stretta connessione - fino al limite dell’iden­ tità - tra medicina e filosofia è affermata anche dal medico ebreo Mosè Maimonide, secondo il quale il termine stesso medeor da cui discende la medicina deriverebbe da medietas, vale a dire da quel­ la virtù del “giusto mezzo” posta da Aristotele a fondamento della sua etica. Il medico, in altre parole, come il filosofo, esercitereb­ be un’arte consistente nel rifuggire gli estremi, puntando sempre alla medietà: “La medicina maimonidea è una teoria dell’armonia e una pratica della moderazione che guida il buon medico lungo la strada maestra e mediana e che lo tiene lontano dagli opposti estremi, ambedue pericolosi, dell’interventismo farmacologicochirurgico e dell’astensionismo terapeutico”.26 E noto che la medicina professata da Galeno, ma per molti aspetti anche la disciplina alla quale viene conferito nel corso dei secoli un carattere sempre più dichiaratamente scientifico,27 di­ scende in larga misura dalle enunciazioni rintracciabili nel Corpus Hippocraticum, vale a dire in quell’insieme di scritti la cui stesu­ ra si può verosimilmente ricondurre al periodo che va dal 430 al 370 a.C. Come è stato sottolineato anche recentemente, “poche altre figure storiche sono citate dai medici con tanta approva­ zione quanto la figura di Ippocrate, considerato unanimemente il padre della medicina”.28 Questo riconoscimento non riguarda solo l’antichità classica, quando Ippocrate conquista un’autore­ volezza pressoché indiscussa già subito dopo la sua morte, ma si riscontra anche nel Rinascimento, allorché la sua opera viene ri­ scoperta come alternativa al filone dominante dell’aristotelismo. Fino al X IX e al X X secolo, visto che il nome di Ippocrate viene 26. Su tutto ciò si vedano i fondamentali contributi di G. Cosmacini (oltre a quelli già citati): Prima lezione di medicina, Laterza, Roma-Bari 2009; Elogio della materia. Per una storia ideologica della medicina, Edra, Milano 2016. 27. Si vedano al proposito le penetranti osservazioni di G. Cosmacini, La medi­ cina non è una scienza. Breve storia delle sue scienze di base, Raffaello Cortina, Mi­ lano 2008. 28. P. van der Eijk, “Hippocrates: The protean father of medicine”, in The Lancet, 359, 9325,29 giugno 2002, p. 2285.

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invocato per avvalorare quasi ogni visione o pratica nel campo della medicina. Che egli sia apprezzato soprattutto come raccoglitore di case studies, o come diligente compilatore di dettagli diagnostici; che egli venga valorizzato per il suo approccio empirico e pratico, ov­ vero per la sua fede nel potere della natura, resta il fatto assodato che “Ippocrate è una figura ambivalente, che rappresenta insieme una tradizione venerabile e un progresso rivoluzionario, la rivolta contro il sistema e al tempo stesso la salvaguardia di un’imposta­ zione nella quale le idee e la pratica della medicina riflettono la dinamica dell’ordine sociale”.29 Pur senza ignorare - e, anzi, sottolineando con forza - l’ambi­ valenza costitutiva del contributo da lui offerto, è innegabile che Ippocrate deve essere considerato un riferimento obbligato e im­ prescindibile per qualsiasi ragionamento relativo allo statuto e alle finalità della medicina. Non un semplice documento storico, né un antenato a cui tributare rispetto e ammirazione, o al quale riser­ vare una nicchia fra le polverose testimonianze di un tempo irre­ vocabilmente passato. Ma piuttosto un interlocutore privilegiato, col quale è necessario misurarsi, quando si intenda approfondire la ricerca sulle possibilità e i limiti dell’arte medica. LA MEDICINA IPPOCRATICA

A Ippocrate (Cos, circa 460 - Larissa, 377 a.C.) si è soliti riferi­ re convenzionalmente un complesso di testi - redatti fra il 430 e il 370 a.C. - i quali appartengono a loro volta a un insieme ancora più magmatico e difficilmente decifrabile di scritti tramandati con la denominazione di Corpus Hippocraticum. Senza entrare nel merito della complessa vicenda che va sotto il nome di “questione ippo­ cratica”, per i nostri scopi può essere sufficiente riferirsi a quel nu­ cleo di pensiero scientifico e di dottrina medica altamente origina­ le, relativamente compatto seppur differenziato, che si costituisce nell’ambito della scuola di Cos negli ultimi trent’anni del V secolo.30 29. Ibidem-, vedi anche “Memorial to Hippocrates”, in The Lancet, 206,5327,3 ottobre 1925, pp. 720-722. 30. Le opere “classiche” sul pensiero e la scuola di Ippocrate sono quelle di J. Schumacher, AntikeMedizin, de Gruyter, Berlin 1963; W.H. Heidel, HippocraticMed­ icine. Its Spirti andMethod, Columbia University Press, New York 1941; M. Pohlenz,

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Nelle ricerche della scuola ippocratica è possibile cogliere “al lavoro” uno stile di indagine non riducibile alla precarietà di una pratica puramente empirica, come tale destituita di validità epi­ stemologica. Il dichiarato impegno metodologico della riflessio­ ne ippocratica, l’orgogliosa consapevolezza delle peculiarità del­ la techne medica contro le approssimazioni della fisiologia della scuola di Cnido, storica competitrice della medicina ippocrati­ ca, mostrano infatti come essa intendesse sostituire nella validi­ tà teorica e nell’efficacia pratica la sapienza antica basata sulla tradizione o sulla speculazione naturalistica. Queste caratteristi­ che emergono già con evidenza nell’opera forse più impegnativa dell’intero Corpus Hippocraticum, e cioè Antica Medicina, il cui esordio sottolinea la polemica della scuola di Cos nei confronti della physiologia italica. “Quanti si sono accinti a parlare o a scrivere di medicina, fon­ dando il proprio discorso su un postulato, il caldo o il freddo o l’umido o il secco o quale altro abbiano scelto, troppo semplifi­ cando la causa originaria delle malattie e della morte degli uomini, a tutti i casi attribuendo la medesima causa, poiché si basano su uno o due postulati, costoro sono palesemente in errore su molte cose e perfino nelle loro affermazioni.”31

Ai fautori delle dottrine ioniche e italiche, Ippocrate rimpro­ vera cioè di semplificare arbitrariamente la causa delle malattie, attribuendo a tutti i casi diversi la medesima origine. Seguendo tale procedimento, essi non soltanto cadono in contraddizioni, ma soprattutto si ingannano sul conto di un’arte di fatto esistente. La medicina, infatti, mediante lo sviluppo dell’indagine e l’accu­ mularsi delle scoperte, è progredita al punto da essere in grado di sottrarre al caso tutto ciò che riguarda la cura dei malati e di pro­ cedere combinando sempre ragione ed esperienza.32Perciò, a dif­ ferenza delle “cose inesperibili e inesplicabili”, come per esempio “le cose celesti o sotterranee”, per le quali non esiste “alcun pun­ to di riferimento grazie al quale raggiungere la certezza”, per la medicina non è necessario servirsi di alcun postulato (hypothesis). Da molto tempo ormai essa dispone, infatti, di tutti gli elementi, “grazie ai quali in lungo corso di tempo sono state fatte molte ed egregie scoperte, e il resto nel futuro sarà scoperto, se qualcuno [...] porterà avanti la ricerca”.33 Dunque, non solo la medicina esiste, e non solo è provvista di rigorosa razionalità, come dimostrano i progressi che essa ha fat­ to registrare nel suo sviluppo storico e la distanza che la separa da una pratica governata dalla tyche, il caso. Essa costituisce addirit­ tura il modello di ogni altra indagine razionale della natura. Ippocrate si dichiara infatti sicuro che “una scienza in qualche modo certa della natura non possa derivare da nient’altro se non dalla medicina, e che sarà possibile acquisirla solo quando la medicina stessa sarà tutta quanta esplorata con metodo corretto”.34 La rivendicazione del carattere rigorosamente razionale della techne medica si sviluppa così su un duplice piano. Da un lato, Ippocrate polemizza aspramente con la fisiologia italica per il ruolo da essa attribuito ai postulati nella dimostrazione scientifica, limi­ tando la legittimità del riferimento alle hypothesis ai soli casi in cui non si abbia a che fare con le cose “inesperibili e inesplicabili”.

Hippokrates u n i die Begrùndung der wissenschaftlichen Medizin, de Gruyter, Berlin 1938; contributi importanti offrono anche i commenti ad alcune edizioni di opere ippocratiche, soprattutto quelli di A J . Festugière, Hippocrate. L’andenne médecine, Klincksieck, Paris 1948 e di W.H.S. Jones, Philosophy and Medicine in Ancient Greece, Johns Hopkins University, Baltimore (m d ) 1946. Per quanto riguarda infine la bi­ bliografia italiana, in un panorama complessivamente povero di contributi, spiccano i numerosi studi di M. Vegetti, al quale si devono i lavori più approfonditi e convin­ centi sulla medicina ippocratica e, più in generale, sul rapporto fra scienza e filosofia nella Grecia classica; si vedano fra gli altri, “Technai e filosofia nel peri technes pseu­ do-ippocratico”, in Atti dell’Accademia delle scienze, Torino 1964, p. 98; “Introdu­ zione”, in Ippocrate, Opere, UTET, Torino 1965, pp. 9-83; “Le scienze della natura e dell’uomo nel V secolo”, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, voi. I, Garzanti, Milano 1970, pp. 122-172; Il coltello e lo stilo, il Saggiatore, Milano 1979. Un quadro molto ricco è altresì descritto negli ottimi lavori di S. Martini, Bistu­ ri, fuoco e parola. Gli strumenti dell’arte medica ippocratica, Pellegrini, Cosenza 2007 ; “Ippocrate e l’arte medica antica”, disponibile all’indirizzo: http://www.icit.it/wpcontent/uploads/2015/07/2008_Ippocrate.pdf; “I molti modi dell’argomentare del medico”, in F. Grigenti, F. Zanin (a cura di), Logos ed episteme. Finestre di dialogo tra filosofia e scienze, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 237-287; si veda anche A. Jori, Medicina e medici nella Grecia antica, il Mulino, Bologna 1993. 31. Ippocrate, Antica medicina, tr. it. a cura di M. Vegetti, in Opere, UTET, Tori­ no 1965, p. 159. Molto importante su questi temi è poi il saggio di V. Di Benedet-

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to, “Tendenza e probabilità nell’antica medicina greca” , in Critica storica, 5, 1966 pp. 351-368. 32. “Se la medicina non esistesse affatto e nel suo ambito nulla si fosse indagato e scoperto, [...] tutti, a proposito di essa, sarebbero parimenti sprovveduti di espe­ rienza e di scienza, e dal caso sarebbe governato tutto quanto riguarda i malati” (Ippocrate, Antica medicina, cit., p. 160). 33. Ibidem, p. 161. 34. Ibidem, p. 185.

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Dall’altro lato, egli enuncia positivamente i requisiti della techne medica mostrando come essa “lavori” in condizioni date. La de­ scrizione del procedimento a cui si attiene il medico nell’esame del malato e nella formulazione della prognosi è rimasta giustamente famosa: “Nelle malattie acute occorre condurre l’indagine in que­ sto modo: in primo luogo osservare il viso del malato se è simile a quello dei sani, ma soprattutto se è simile a se stesso in condizioni normali, che questo sarebbe il caso migliore, tanto più grave inve­ ce quanto più è dissimile Se dunque all’inizio della malattia il viso si presenta in tal modo e non è ancora possibile formulare congetture sulla base degli altri sintomi, occorre chiedere al ma­ lato se ha trascorso notti insonni, se ha avuto evacuazioni molto liquide, o se avverte i morsi della fame [...]. Se egli non conferma nessuno di essi, e se non si riprende nel tempo previsto, sappi che questo è sintomo mortale”.35 Gli elementi che emergono dalla meticolosa ricognizione de­ scritta da Ippocrate tendono a configurare un procedimento che verrà gradualmente consolidandosi e arricchendosi nel successivo sviluppo storico della medicina. L’accento è posto infatti sull’os­ servazione come base di partenza dell’analisi, sul ruolo del parti­ colare come “sintomo” e sulla funzione euristica riconosciuta al tekmeiron, e cioè alla “congettura” . Grande importanza è ricono­ sciuta alYanamnesis, intesa come metodo di ricostruzione della storia passata, in funzione di una corretta comprensione del dato di osservazione (diagnosis), e in vista della formulazione della pre­ visione sull’andamento futuro della malattia (prognosis). Poiché l’affidamento alle hypotheseis non consente di tro­ vare “alcun punto di riferimento grazie al quale raggiungere la certezza”,36 occorre abbandonare il riduzionismo implicito nella fisiologia italica analizzando in forme nuove il dato dell’osserva­ zione. E da notare che, alludendo alla necessità di riferirsi in via privilegiata all’osservazione, Ippocrate si libera da riferimenti vin­ colanti alla tradizione filosofica a lui coeva o precedente. Per il me­

dico di Cos, l’osservazione implica il riferimento tAYhekaston, vale a dire al particolare, al questo qui, a questo determinato paziente, a questo sintomo, a questa specifica patologia. Questo particola­ re, questo hekaston, è assunto come semeion, come segno, indizio che consente il risalire ad altro per via inferenziale.37 Lina “corretta considerazione delle indagini mediche”, atten­ ta a registrare meticolosamente tutti i sintomi rilevabili mediante l’osservazione, consente non solo di interpretare razionalmente la molteplicità dei particolari che costituiscono la situazione presen­ te, ma permette soprattutto di formulare previsioni sugli sviluppi futuri della malattia. La prognosi viene così ad assumere, all’in­ terno del discorso ippocratico, un significato che va al di là del ri­ ferimento esclusivo alla pratica medica e configura piuttosto uno dei tratti più caratterizzanti dell’impresa scientifica in quanto tale: “Per il medico è cosa ottima praticare la previsione: prevedendo infatti e predicendo, al fianco del malato, la sua condizione presen­ te e passata e futura, e descrivendo analiticamente quanto i soffe­ renti stessi hanno tralasciato, egli conquisterà maggior fiducia di poter conoscere la situazione dei malati, sicché essi oseranno affi-

35. Ippocrate, Prognostico, tr. it. in Opere, cit., pp. 238-239. Sullo statuto episte­ mologico della medicina e sulla valutazione del cosiddetto “occhio clinico”, cui an­ che Ippocrate sembra accennare, si vedano i due volumi di AA.W., Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica, con un’introduzione di D. Antiseri, Arti Grafiche Cossidente, Roma 1978. 36. Ippocrate, Antica medicina, cit., p. 161.

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37. Per chiarire ulteriormente il significato del termine hekaston, e il ruolo che es­ so svolge nella medicina ippocratica, può essere utile riferirsi a ciò che scrive in pro­ posito Aristotele: “L’esperienza [empeiria] è conoscenza [gnosis] dei particolari [ton kath hekaston], mentre l’arte \techne\ è conoscenza degli universali [ton katholou\; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particolare: infatti il medico non gua­ risce [hyghiazei\ l’uomo se non per accidente, ma guarisce Callia o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome come questi, al quale, appunto accade di essere uomo. Dunque, se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare” (Aristotele, Metafisica, I, 1,981 a 15-24, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, p. 34). “È evidente infatti che il medico non prende in esame la salute in assoluto, ma quella dell’uomo, e an­ cora di più, forse, quella di quest’uomo qui, infatti cura [iatreuei] i singoli individui [kath hekaston] ” (Aristotele, Etica Nicomachea, 1,1097 a 11-13, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 17). Commentando questi passi, scrive P. Ricoeur: “Mentre la scienza, secondo Ari­ stotele, verte sul generale, la techne verte sul particolare e questo vale in special modo per la situazione nella quale l’arte medica interviene: la sofferenza umana. [...] Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare della situazione di cura, e innanzitutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra [...]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie a essere curata, ma ogni volta un esemplare unico del genere umano” (P. Ricoeur, Il giudizio medico, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2006, pp. 29, 31,35).

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darglisi. E potrà progettare un’eccellente terapia se avrà previsto i futuri sviluppi a partire dai mali presenti”.38 Nell’interpretazione delle peculiarità del modello delineato da Ippocrate, è possibile spingersi anche oltre, ritrovando in esso una prima, sebbene non compiutamente formalizzata, definizione di un vero e proprio paradigma scientifico, alternativo rispetto ai due schemi dominanti. Il procedimento che consiste nel muovere dai “particolari” - da quelli che il medico di Cos chiama semeia, e cioè segni - per raggiungere successivamente una congettura {tekmerion) ,39 da assoggettare poi alla verifica fattuale, contamina deliberatamente i modi dell’induzione e della deduzione, accre­ ditando una sorta di tertium genus, descrivibile nei termini di un paradigma indiziario, basato sull’abduzione. Ippocrate potrebbe così essere considerato l’iniziatore di un modello logico-episte­ mologico di tipo semeiotico o indiziario, che ricomparirà ciclica­ mente nella tradizione culturale dell’Occidente, per essere infine canonizzato attraverso la figura di Sherlock Holmes.40

rienza sensibile, Ippocrate pone a fondamento e misura dell’arte medica la convinzione dell’inesistenza di punti di riferimento per una “esatta conoscenza”. L’assunzione di limiti invalicabili per una scienza che si proponga di rendere ragione della realtà empirica, il carattere inevitabilmente approssimato e incompleto delle cono­ scenze raggiungibili per questa via conducono il medico di Cos a porre l’impossibilità della certezza non come un difetto, ma piut­ tosto come condizione della validità del sapere medico. Nell’indagine ippocratica, l’assenza di un “metodo”, o più in generale di una “misura” (metron), non può essere considerata una limitazione delle arti empiriche, rispetto a forme di conoscenza ca­ paci di oltrepassare l’ambito dell’esperienza, ma identifica, piut­ tosto, e circoscrive, il dominio di ciò che è scientificamente con­ trollabile. Come i piloti delle navi, infatti, anche i medici possono sbagliare, ma non già perché a essi sfugga una “vera sapienza” che altri, con altri “metodi”, siano in grado di raggiungere, quan­ to perché “la certezza assoluta raramente è dato vedere”. “Ai più dei medici tocca la stessa sorte [...] che ai cattivi piloti. Anch’essi, infatti, quando sbagliano governando con mare calmo, passa­ no inosservati, ma quando li coglie una grande tempesta e vento contrario, chiaramente allora a tutti si rivela che hanno perduto la nave per ignoranza ed errore. ”42 L’inattingibilità della certezza si costituisce in tal modo come principio di individuazione di un’arte che si assume “il compi­ to di descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro”,43e che perciò tende allo scopo di “giovare o non essere di danno”. Per realizzare queste finalità, è necessario “porre mente alla scienza nel suo insieme”, compiendo correttamente le azio­ ni giuste e corrette, “e quante richiedono rapidità, rapidamente, quante proprietà, propriamente, quante devono essere indolori, portarle a termine nel modo più indolore possibile; e così ogni co­ sa di tal genere deve essere adempiuta mirando al meglio”.44 Ciò significa che non è sufficiente limitarsi a descrivere correttamen­ te ciò di cui soffrono i malati, perché anche chi non fosse medico potrebbe conseguire questo risultato “se si informasse bene presso

LE BASI DELL ARTE MEDICA

“Ma non troverai misura alcuna, né numero, né peso, la quale valga come punto di riferimento per un’esatta conoscenza, se non la sensazione del corpo. Perciò il compito è di acquisire una scien­ za così esatta che permetta di sbagliare poco qua e là: e io molto loderei quel medico che poco sbagliasse; ma la certezza raramente è dato vedere.”41Muovendo dal riconoscimento dell’impossibilità di “cogliere la verità assoluta”, relativamente al mondo dell’espe­ 38. Ippocrate, Prognostico, cit., p. 237. “La prognosi era essenzialmente per Ippocrate la proiezione nel futuro del sistema di anamnesi, eziologia e diagnosi. Con essa, l’idea di previsione entrava nella scienza per diventarne una funzione essenziale [...]. Quando Ippocrate scriveva: ‘Descrivere il passato, comprendere il presente, prevedere il futuro: questo il compito’, egli non definiva soltanto il problema della medicina, ma appunto indicava per sempre il compito di qualsiasi scienza” (M. Ve­ getti, “Le scienze della natura...” , cit., p. 151). 39. “Alcmeone [...] così parlò [...]: ‘Delle cose invisibili, delle mortali, gli dèi hanno visione immediata; a noi uomini invece spetta il congetturare \tekmairesthai] ’ ” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, tr. it. Laterza, Bari 1978, voi. II, p. 348). 40. Secondo la suggestiva proposta avanzata alcuni decenni fa da C. Ginzburg, “Spie: Radici di un paradigma indiziario” , in A.G. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979. 41. Ippocrate, Antica medicina, cit., p. 170.

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42. Ibidem, p. 171. 43. “Leghein ta proghenomena, ghinoskein ta pareonta, proleghein ta esomena” (Ippocrate, Epidemie, tr. it. in Opere, cit., p. 328). 44. Ippocrate, Il regime nelle malattie acute, tr. it. in Opere, cit., pp. 266-267.

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ciascun malato su ciò che egli ha sofferto”.45 È necessario invece poter raccogliere anche altre conoscenze, rispetto a quelle riferite dal malato stesso, e soprattutto “alcune anche importanti riguar­ do all’interpretazione dei sintomi”.46 Il richiamo a integrare la mera “descrizione” delle sofferen­ ze del malato - accessibile anche a chi non sia esperto dell’arte medica - con l’interpretazione dei sintomi, possibile solo a chi si conduca secondo i principi dell’arte, è anch’esso conseguenza di quello che si potrebbe definire l’immanentismo epistemologico di Ippocrate, vale a dire la persuasione che sussistano, e siano indivi­ duabili, “strutture naturali” e “cause razionali” di tutte le malattie, e che perciò si debba sempre cercare di risalire, via interpretazio­ ne, dai sintomi alle cause che li hanno provocati. Ciò vale anche e soprattutto allorché il medico si imbatta in quella malattia che gli uomini, “per inesperienza e stupore”, ritennero in qualche modo opera divina, e cioè il cosiddetto male sacro. “Maghi e purificatori, ciarlatani e impostori [...] presero il di­ vino a riparo e pretesto della propria sprovvedutezza [...] e af­ finché la propria totale ignoranza non fosse manifesta, asseriro­ no che questo male era sacro.” In realtà, la malattia di cui si tratta “per nulla [...] è più divina delle altre malattie o più sacra, ma ha struttura naturale e cause r a z io n a liil carattere divino che a essa taluni riconoscono è prova “della difficoltà che essi hanno a com­ prenderla, mentre poi risulta negato per la facilità del metodo te­ rapeutico col quale curano.”47 Contro questa inclinazione a mascherare la propria inesperien­ za (apeiria), mediante il ricorso a cause extranaturali o divine, la polemica ippocratica si estende dalla concezione tradizionale del “male sacro” fino ad altre infermità comunemente attribuite all’in­ fluenza di fattori divini. Presso gli Sciti, per esempio, l’impotenza cui è soggetta gran parte degli uomini in età adulta è considerata frutto di una qualche offesa nei confronti della divinità. In realtà, come ogni altra malattia, anche questa “ha una struttura naturale sua propria e nessuna accade fuori della natura”.48

Descrizione analitica dei sintomi e loro “giusta e corretta” in­ terpretazione costituiscono poi le condizioni per assolvere pie­ namente il compito affidato al medico dall’arte, la quale, come si è visto, non si limita a “descrivere il passato” e a “comprendere il presente”, ma tende anche a “prevedere il futuro”. Il fondamento di tale previsione è infatti individuato da Ippocrate nella cono­ scenza approfondita - anche se mai “esatta” - dello stato in cui si trova il malato; solo colui che sappia “correttamente compie­ re le proprie valutazioni e le proprie calcolate previsioni” potrà “ottenere successo nella gran parte dei casi”.49E perciò necessa­ rio che chi si dispone a prevedere quali malati guariranno e quali periranno possieda non soltanto una “approfondita conoscenza di tutti i sintomi”, ma sia anche in grado di “valutarli commisu­ randone l’efficacia reciproca”.50 Solo in questo modo, ferma re­ stando l’impossibilità di raggiungere la “certezza assoluta”, “chi conduca la sua ricerca e la sua riflessione secondo questi canoni, prevederà in gran parte i futuri fenomeni che conseguiranno ai mutamenti” .51 Rifiuto delle ipotesi, sia come principi sia come presupposti dell’indagine; assunzione dell’anamnesi come strumento di ricostruzione di storie particolari; forte sottolineatura del valore del particolare interpretato come indizio; stretta connessione di empeiria ed episteme, di esperienza e scienza, concepiti come mo­ menti reciprocamente integrantisi; centralità della categoria della prognosi, intesa come previsione formulata a partire dall’osserva­ zione di un presente carico della storia passata - sono questi gli aspetti principali di uno stile di indagine che caratterizza l’origine storica della techne medica.

45. Ibidem, p. 269. 46. Ibidem. 47. Ippocrate, Male sacro, tr. it. in Opere, cit., pp. 298-299; corsivi miei. 48. “Ouden aneu physios ghinetai” (Ippocrate, he arie, le acque, i luoghi, tr. it. in Opere, cit., p. 224). La spiegazione congetturale della causa della malattia fornita da

Ippocrate, pur nel suo ingenuo e per certi aspetti primitivo naturalismo, testimonia tuttavia lo sforzo di individuare l’origine dell’impotenza nelle consuetudini di vita e nelle particolari condizioni ambientali della popolazione scita: “A causa del cavalca­ re sono colpiti da gonfiore alle articolazioni, perché lasciano sempre pendere i piedi giù dai cavalli: poi, quelli che si aggravano diventano zoppi e si piagano alle anche. E si curano loro stessi in questo modo. Quando comincia la malattia, recidono le vene dietro gli orecchi. E dopo che sia fluito il sangue, li coglie il sonno per la debolezza e si addormentano. Più tardi si risvegliano, alcuni guariti, altri no. A me dunque pare che proprio in questa cura si distrugga il seme. Vi sono infatti presso l’orecchio vene che, a tagliarle, si rende sterile chi ha subito l’incisione” (ibidem). 49. Ippocrate, Prognostico, cit., p. 255. 50. Ibidem. 51. Ippocrate, Le arie..., cit., p. 214.

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Ma forse ancor più importante, rispetto ai pur non trascurabi­ li dettagli tecnici, è la definizione ippocratica della iatrike techne, la valorizzazione delle sue potenzialità, e insieme la ricognizione dei suoi limiti. Emerge qui un’ambivalenza di fondo, che accom­ pagna e sottende il modo di concepire la medicina, e che imprime su di essa il marchio di un’ineliminabile duplicità. Da un lato, in­ fatti, l’autore del Corpus si dimostra ben consapevole dei confini insuperabili che impediscono alla medicina di essere annoverata fra le epistemai in senso proprio. D ’altra parte, a questo esplicito riconoscimento fa riscontro l’orgogliosa rivendicazione del carat­ tere non meramente casuale del procedere del medico, la netta dif­ ferenza rispetto a una pratica ispirata unicamente all’esperienza. Anche storicamente, attraverso il percorso indicato dal suo fon­ datore, la medicina prende corpo in questo metaxy, in questo spa­ zio intermedio fra l’irraggiungibile “certezza assoluta” della mate­ matica e l’esercizio meramente empirico di chi proceda apo tyches, semplicemente “a caso”. Partecipando in qualche misura dell’uno e dell’altro procedimento, trovandosi dunque al confine fra il ri­ gore de\Yepisteme e la casualità della tyche, fin dalle sue origini la medicina ricomprende in sé questa fondamentale duplicità. Co­ me il suo mitico fondatore, come il pedagogo che lo aveva alle­ vato, come il sangue della Medusa da lui ricevuto in dono, come il potere connesso con l’utilizzazione di quel liquido, la medicina reca in sé - nel suo statuto, nella sua vocazione, nel suo concreto esercizio - le tracce incancellabili di una costitutiva ambivalenza.

regione. Agendo in questo modo, si sarà in grado di “riconoscere le malattie endemiche e di individuare la natura di quelle comuni. E così non ci si troverà in difficoltà nella cura delle malattie e non si commetteranno errori: difficoltà ed errori sono più probabili quando si valutano i singoli casi senza una previa conoscenza dei dati di cui si è detto”.53 Per formulare previsioni corrette sulla salute degli abitanti, e compiere le scelte terapeutiche appropriate, il medico itinerante54 dovrà dunque esaminare con attenzione una pluralità di fattori ambientali diversi - l’orientamento e l’esposizione della città, il cli­ ma, il regime delle acque, la situazione dei venti - ai quali occorre aggiungere una diversa tipologia di fattori, i quali esibiscono un carattere più propriamente culturale, in quanto collegati soprat­ tutto al modo di vita degli abitanti.55 L’assunto che è alla base di questa ricognizione, finalizzata a porre il medico nelle condizioni di possedere un'“ottima valuta­ zione dei singoli casi”, tale da consentirgli di “ottenere la guari­ gione” e di conquistare “successi non piccoli nell’arte medica”,56è che sussista una correlazione descrivibile in termini perfettamente razionali fra lo stato di salute di ogni singolo individuo e tutto ciò che attiene al luogo nel quale egli vive. Il termine che compare co­ me “medio” fra l’univocità delle condizioni ambientali e sociali, da una parte, e la molteplicità delle manifestazioni patologiche, dall’altra parte, è la “costituzione” (physis) anatomo-fisiologica di ciascun individuo, e più specificamente le forme o “classi” (eide) di questa costituzione.57 Non si tratta di una mera coincidenza, né solo di corrisponden­ ze fortuite, ma di una sorta di isomorfismo strutturale, dal quale è possibile far discendere alcune conseguenze di ordine generale, il cui rilievo oltrepassa il singolo caso clinico. Difatti, “dove si hanno

LA QUALITÀ DEI LUOGHI

“Quando si arriva in una città di cui non si ha esperienza, si de­ ve fare attenzione alla sua posizione, a come è orientata rispetto ai venti e al sorgere del sole. L’orientamento a settentrione o a mez­ zogiorno, a levante o a occidente comportano influssi diversi. L’e­ same dovrà essere il più possibile preciso, ed estendersi alla qua­ lità delle acque. ”52Di conseguenza, è necessario indagare a fondo intorno a tutto ciò che è connesso con il luogo specifico, nel quale ci si trovi a operare, analizzando la situazione riguardo alle acque, alla terra e al regime di vita a cui si attengono gli abitanti di quella 52. Ippocrate, Le arie..., cit., p. 200.

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53. Ibidem. 54. Grande medico e chirurgo itinerante (periodeuta) fu Democede di Crotone (vi sec. a.C.); il suo esempio fu poi seguito anche dallo stesso Ippocrate. 55. “Quanto al modo di vita degli abitanti [ten diaitian ton anthropon] si deve vedere cosa preferiscono: se bevono molto, mangiano spesso e sono pigri, oppure se fanno molti esercizi fisici, amano la fatica, mangiano molto e bevono poco” (ibidem). 56. Ibidem, pp. 200-201. 57. Vedi M. Vegetti, “Introduzione”, cit., pp. 191-192. Lo stesso Vegetti sottolinea che questa tesi “non è del tutto nuova nella medicina e nel pensiero antico” , e cita, a sostegno di tale affermazione, Erodoto (Le Storie, 1,142 e II, 77) oltre ad alcu­ ni accenni in Alcmeone e Filistione (p. 192).

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mutamenti di stagione frequenti e diversi l’uno dall’altro, trove­ rai che anche l’aspetto ita eidea], i caratteri ita ethea] e le nature itasphysias] sono differenziati al massimo”.58 Arie, acque, luoghi - la physis nel suo insieme - esercitano un’influenza decisiva nel­ la determinazione delle differenze riscontrabili fra individui che vivono in luoghi diversi. Tutto ciò consente di concludere che “in generale, l’aspetto e i costumi degli uomini sono conformi alla na­ tura del territorio”.59 D ’altra parte, la tesi sostenuta dall’autore ippocratico non si li­ mita a formulare indicazioni riguardanti la tipologia in senso lato “igienico-sanitaria” delle varie località. Sia pure indirettamente, le indicazioni fornite si ricollegano, infatti, alle analisi e alle valuta­ zioni comparative elaborate da quanti avevano in passato intrapre­ so la fondazione di nuove poleis, dopo avere attentamente consi­ derato i fattori ambientali nella prospettiva della futura prosperità dei centri urbani ai quali dar vita. In particolare, “la creazione delle colonie era divenuta, con il passare dei secoli, un’esperienza sempre più complessa e sofisticata, tale da sollecitare l’interesse e perfino l’attivo coinvolgimento di alcuni fra gli intellettuali più rappresentativi del mondo greco. Si pensi [...] alla fondazione di Turii: iniziativa cui presero parte filosofi come Protagora e archi­ tetti-urbanisti quali Ippodamo di Mileto”.60 In altre parole, la correlazione stabilita nel trattatello ippocra­ tico fra le caratteristiche ambientali, climatiche e culturali dei di­ versi luoghi, da un lato, e la natura, i costumi e lo stato di salute degli abitanti, dall’altro, esprimeva una convinzione ampiamente diffusa e condivisa anche al di fuori dell’ambito della ricerca pro­ priamente medica, secondo la quale la spazialità non solo non è meramente neutrale ma, al contrario, è sempre qualitativamente e funzionalmente differenziata. Lo si assuma in forma determini­ stica (come è effettivamente accaduto, soprattutto nella tradizio­ ne culturale successiva a Ippocrate, e in particolare fra Sette- e Ottocento), ovvero venga inteso senza postulare una rigida cor­ rispondenza fra dati lato sensu ambientali e aspetti pertinenti alla

costituzione antropologica e culturale degli individui, resta il fat­ to che lo spazio appare originariamente connotato secondo signi­ ficati che largamente trascendono la pura e semplice oggettività fisico-geometrica. Il luogo, in conseguenza della sua morfologia e delle sue carat­ teristiche strutturali, non è mero “ricettacolo” inerte di ciò che in esso staticamente si colloca, ma possiede piuttosto specifiche qua­ lità differenziali, le quali influenzano in maniera determinante le condizioni delle forme di vita, umana, animale o vegetale. Ove in­ tervengano modificazioni rilevanti nella configurazione dei diversi luoghi, in seguito a eventi naturali o per effetto di manomissioni artificiali, è lecito attendersi che esse si riflettano anche nello stato e nei comportamenti delle specie viventi. L’ambiente, insomma, non è semplicemente un “dato”, ma agisce invece come fattore decisivo per la vita dei singoli individui e delle comunità. Tutto ciò trova un’ulteriore e significativa conferma già nella seconda parte del De aeribus, là dove l’autore illustra le differen­ ze esistenti fra l’Europa e l’Asia, presentate rispettivamente come mondo della libertà e della democrazia, e come terra di una ser­ vile subordinazione a un monarca. Ebbene, la persistenza e la ri­ correnza di sistemi politici democratici in Europa deriverebbero dalla straordinaria diversificazione dell’indole degli abitanti eu­ ropei, intesa a sua volta come effetto dell’estrema variabilità dei processi meteorologici che interessano la regione.61 La diversità implicherebbe, infatti, tensione e dunque anche - sia pure virtual­ mente - quel conflitto che, secondo l’autore ippocratico, costitui­ sce il principio di individuazione della democrazia, quale sistema caratterizzato dalla costante mediazione fra interessi distinti e so­ vente antagonistici. Per converso, la maggiore omogeneità climatica, orografica e ambientale delle regioni asiatiche dovrebbe essere considerata all’origine del minor tasso di differenziazione fra gli abitanti di quei luoghi, e dunque anche della prevalenza di sistemi politici, quali quelli dispotici, che presuppongono abitanti più facilmente

58. Ippocrate, Le arie. .., cit., p. 228. 59. Ibidem. 60. Come sottolinea, in un ottimo saggio sul trattato ippocratico, A. Jori, “L’acqua di Ippocrate. Physis e ordine politico in Arie acque luoghi” , in O. Longo, P. Scarpi (a cura di), Letture d’acqua, voi. 3: Homo Edens, CLEUP, Padova 1994, p. 175.

61. “Io considero gli abitanti dell’Europa più ardimentosi di quelli dell’Asia. La costante uniformità implica indolenza, mentre il mutamento implica sforzi, per il corpo e per l’anima; dalla tranquillità e dall’indolenza riceve impulso la viltà, dalla fatica e dai travagli nascono gli atti di valore. Per questo dunque gli abitanti dell’E u­ ropa sono più combattivi” (Ippocrate, Le arie. .., cit., p. 226).

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inclini ad accettare condizioni di subordinazione politica.6263In ter­ mini generali, si può dunque concludere che “le istituzioni politi­ che influiscono sul valore in misura non trascurabile”.65 Qualunque credito si voglia accordare a spiegazioni come quella ora richiamata,64un punto emerge tuttavia con molta forza dal trattatello ippocratico, e più in generale da una cultura, quale è quella greca arcaica e poi classica, orientata a riconoscere la pregnanza di significati e valori connessi con la spazialità. Per quanto possano apparire indifferenziati o poveri di specificazioni idonee a diversifi­ carli, e per quanto essi possano sembrare in ogni caso riconducibili a meri parametri di tipo geometrico, i luoghi possiedono al contra­ rio talune peculiarità che sono del tutto irriducibili a determinazio­ ni puramente quantitative. Ciascun luogo non è solo una porzione di uno spazio genericamente inteso. Piuttosto, esso condensa in se stesso alcune qualità, tali da renderlo inconfondibile e non inter­ cambiabile con altri luoghi solo apparentemente simili. Come è con­ fermato dal processo che conduce all’identificazione del luogo del sacro, nel quale l’operazione di delimitazione spaziale - mediante il taglio di cui dice il temno di temenos —65 trasforma la quantità in qualità, conferendo a una parte spazialmente circoscritta il carattere di luogo idoneo ad accogliere la manifestazione del divino. Archetipo della teoria secondo la quale le condizioni ambientali determinano in modo regolare, costante, prevedibile e necessario

la forma fisica dell’uomo, le sue condizioni normali e patologiche, la sua forma mentale, e perfino le istituzioni politiche alle quali egli dà vita, nel mondo greco classico il De aeribus ippocratico segna la definitiva affermazione di una concezione dello spazio destina­ ta a essere successivamente ripresa e sviluppata anche al di fuori dell’originario contesto medico-scientifico.66 Si tratta di interpre­ tare in forma qualitativa e differenziata, anziché quantitativa e indeterminata, la questione riguardante la spazialità, assumendo che i luoghi non siano tutti uguali, né equivalenti sotto il profilo della loro “potenza” , ma che, al contrario, le diversità ravvisabili fra essi si riflettano in corrispondenti differenze rilevabili nell’in­ fluenza che essi sono in grado di esercitare sugli uomini e sulla stes­ sa organizzazione sociale. Ne consegue che qualunque intervento effettuato in un determinato spazio, allo scopo di modificarne la qualità specifica, si riflette in un mutamento delle “proprietà” da esso possedute, sicché è possibile immaginare di conferire deter­ minate funzioni a luoghi che ne sarebbero stati originariamente sprovvisti, mediante opportuni adattamenti dell’ambiente fisico o architettonico.

62. “D ° ve si è soggetti a re, si è necessariamente assai vili [...]. Gli animi sono ridotti in schiavitù e rifiutano di correre rischi, di propria iniziativa e spontaneamen­ te, per la potenza di un altro” (ibidem). Questo giudizio è ripreso e approfondito da Aristotele: Chi non è, per natura, di se stesso, ma di un altro [...], anche se è uomo, è schiavo per natura; e appartiene a un altro chi è oggetto di proprietà” (Aristotele, Politica, 1254 a 14 sgg.). Si veda, su tutto ciò, L. Bottin, “Introduzione”, in Ippocrate, Arie acque luoghi, tr. it. Marsilio, Venezia 1986, pp. 9-53. 63. Ippocrate, Le arie..., cit., p. 226. Per un più ampio approfondimento di que­ sta tematica nel trattato ippocratico, si veda A. Jori, “L’acqua di I p p o c r a t e . c i t . , pp. 178 sgg. e note 31-44. 64. Come sottolinea L. Bottin (Reciprocità e redistribuzione nell’antica Grecia, CLESP, Padova 1979, pp. 77 sgg.), già Aristotele (Politica, 1327 b 23-33) aveva cor­ retto il giudizio ippocratico, rilevando che “gli Asiatici sono intelligenti e dotati di capacità tecniche”. 65. Letim ologia che connette “tem pio” e “tem po”, sulla base del comune ri­ ferimento a quel “taglio” (in greco, temno) che individuerebbe lo spazio sacro del temenos come distinto e separato rispetto allo spazio profano, mentre il tempo si costituirebbe come taglio rispetto alla totalità dell’eternità, è tuttora largamente accreditata fra gli studiosi: vedi G. Semerano, Le origini della cultura europea, voi. II, Olschki, Firenze 2000, p. 586.

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IL PARADOSSO DELLA MEDICINA

Di Ippocrate, oltre all’amplissima raccolta di scritti a noi perve­ nuti sotto il titolo del Corpus che da lui prende il nome, ci è giunta anche una sentenza, spesso citata, che ben sintetizza la peculiarità dell’arte di cui egli ha posto le basi: “La vita è breve, l’arte è vasta, l’occasione è fugace, l’esperimento è pericoloso [peira sphalere], il giudizio è incerto” (Aforismi, 1,1). Sia pure nei termini schematici di quello che oggi potremmo definire uno slogan, il detto ippocra­ tico richiama alcuni tratti caratterizzanti della iatrike techne, sui quali conviene conclusivamente riflettere. A cominciare dall’aspet­ to fra tutti più importante, vale a dire la definizione della medicina come techne - come ciò che, per la polisemia del termine greco, si presenta come arte e insieme come tecnologia. Arte, per il ruolo ineliminabile che taluni requisiti irriducibil­ mente soggettivi - dall’“occhio clinico” fino alla previsione sull’an66. N e ricostruisce i passaggi salienti L. Bottin nella sua “Introduzione , cit., pp. 16-53.

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damento futuro della malattia - giocano nel suo esercizio concreto. Tecnologia, non solo per l’impiego sistematico di una strumenta­ zione sempre più perfezionata, ma anche per la sua attitudine co­ stitutivamente manipolatrice, per la vocazione a modificare, e non soltanto a studiare, il paziente che si ha di fronte. Da notare che l’ambivalenza del significato del termine impie­ gato per designare la medicina si riflette anche nella, o meglio in­ timamente corrisponde alla, duplicità della funzione medica. Ippocrate e i suoi seguaci muovono certamente dall’osservazione empirica, raccolgono indizi e sintomi, istituiscono correlazioni col clima e con la morfologia dei territori, formulano congetture sulle cause razionali delle diverse malattie, ma non si limitano a questo. Il compito che essi si assumono non si esaurisce con l’osservazione e lo studio, con l’indicazione di ipotesi o la constatazione di alcu­ ne interessanti analogie. Lo studio è funzionale a un intervento, è la premessa necessaria per un’azione, esercitata sul corpo vivo di chi sia affetto da qualche patologia. Ma quelle ora citate non sono le sole ambivalenze riscontrabili nella medicina descritta da Ippocrate. Correlato a esse, ma ancora più importante, è un connotato che è pertinente allo statuto stes­ so della medicina, già a partire dalla sua origine storica e dalla sua genealogia mitica. In quanto protesa a intervenire sulla condizione dei corpi (ma anche delle “anime”), attraverso una modificazio­ ne del loro andamento “naturale”, la medicina rappresenta in se stessa una sfida indirizzata alla physis, a ciò che ciascuno di noi è in conseguenza della sua nascita. La medicina è in se stessa e di per se stessa espressione dell’indisponibilità ad accogliere il compiersi di processi che riguardino gli organismi umani, assecondando lo sforzo a rettificare a loro vantaggio ciò che altrimenti seguirebbe un andamento giudicato anomalo. Questa attitudine generale può essere colta con molta chiarez­ za attraverso una distinzione che è concettualmente alla base della pratica medica, vale a dire la differenza tra fisiologia e patologia. L’assunto implicito in tale distinzione è che fisiologico - e cioè, conforme alla physis - sia non ciò che si sviluppa spontaneamen­ te, come effetto e conseguenza di processi “naturali”, ma piutto­ sto ciò che corrisponde a un concetto di “salute” astrattamente definito, come adeguatezza a un modello universale costruito ar­ tificialmente.

Il compito assegnato alla medicina, fin dai suoi esordi, coincide dunque con il tentativo di ricondurre sistematicamente il patolo­ gico al fisiologico, dove tuttavia la physis a cui il fisiologico si rife­ risce non è la natura nella sua libera estrinsecazione, ma è invece una nozione di salute convenzionalmente stabilita. Per dirla in al­ tri termini, ciò a cui è rivolta la medicina, e non accidentalmente, ma per la sua intima e più propria “vocazione”, non è il riferimen­ to alla natura e alle sue dinamiche come norma in base alla quale stabilire ciò che, discostandosi da essa, debba essere considerato patologico, quanto piuttosto la definizione tutta artificiale di uno standard di salute, al quale sottomettere la condizione dell’orga­ nismo, anche a costo di modificarne la tendenza naturale. In que­ sta prospettiva, la patologia non consisterà nell’allontanarsi dalla condizione naturale, ma nell’assecondarla senza praticare inter­ venti che la correggano, uniformandola allo schema astratto di un organismo sano.67 Di conseguenza, il lavoro del medico non consisterà nell’intervenire per riabilitare le “leggi” della physis,6* ma al contrario per 67. “La techne può soltanto venire incontro alla physis, può favorire più o meno il risanamento, ma, come techne, non potrà mai sostituirsi alla physis e diventare, al suo posto, Γarche della salute come tale. Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale divenisse un artefatto producibile ‘tecnicamente’; ma se ciò avvenisse, in quello stes­ so momento non ci sarebbe più salute, né nascita e motte” (M. Heidegger, “Sull’es­ senza e sul concetto della physis", tr. it. in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 211). 68. Questo dovrebbe essere il compito della medicina, secondo quanto afferma­ no, pur da prospettive diverse, autori come Gadamer e Jonas: “Il carattere peculiare dell’arte medica dipende dal suo specifico compito che consiste nel ripristinare una condizione naturale, e così si differenzia dalle altre arti che si occupano propriamen­ te della produzione di quanto è artificiale. [...] Qui si manifesta il carattere peculia­ re dell’abilità medica: essa non ‘fabbrica’ o ‘produce’, ma contribuisce a ristabilire la salute del malato. [...] L’essenza della medicina consiste invece nel fatto che la sua capacità di produrre è in realtà una capacità di ristabilire. Per questo motivo il sapere e l’attività del medico comportano una peculiare modificazione di ciò che in questa sede si definisce ‘arte’. Si può certo dire che il medico produce la salute con gli strumenti della sua arte, ma questa è un’espressione inesatta. La scienza medica è l’unica in fondo a non proflurre nulla, ma a dover fare i conti espressamente con la prodigiosa capacità della vita di ristabilirsi ed equilibrarsi da sola. Il compito pe­ culiare del medico consiste proprio nell’aiutare a conseguire il ristabilimento del­ la salute. [...] In fin dei conti resta inteso che il lavoro del medico non consiste nel produrre qualcosa. Egli può contribuire attraverso determinati rimedi al ripristino della salute. [...] Il concetto di cura non implica infatti la fabbricazione, o la produ­ zione, di qualcosa, anche se in rapporto al malato si parla di produrre nuovamente, nel senso di ristabilire. [...] Il fine dell’arte medica è guarire, e la guarigione non è in potere del medico, bensì della natura. Il medico sa bene di essere solo autorizzato

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piegare la physis ai parametri che le convenzioni in auge nella co­ munità scientifica di quell’epoca, o le sempre rilanciate pretese della società, considereranno quali indicatori di uno stato di buo­ na “salute” . Lo spazio specifico della medicina si dischiude dun­ que nello scambio fra norma e devianza, fra natura e artificio, fra fisiologico e patologico. Gli esiti più recenti della pratica e della ricerca biomedica, spes­ so considerati alla stregua di scandalose anomalie, rispetto agli orientamenti “normali” della scienza medica, sono viceversa già tutti potenzialmente inscritti nelle sue origini e nella sua destina­ zione iniziale. Portando alle conseguenze più estreme, ma anche più coerenti e compiute, il principio ispiratore che è alla base del­ la iatrike techne, non si tratterà più di limitarsi a ristabilire una presunta “normalità” originaria. La medicina punterà piuttosto a costituire, del tutto ex novo, una condizione che sia conforme a esigenze e domande sempre più assillanti, tendenti a ottenere una dilatazione del concetto stesso di benessere del corpo. Per impie­ gare un lessico bellico (non poi così inadeguato come si potrebbe credere a prima vista), compito della medicina non sarà più quel­ lo puramente “difensivo” di rispondere agli attacchi di forme pa­ tologiche diverse che minaccino la salute del corpo, ma piuttosto quello di muovere all’offensiva, modificando quell’equilibrio, in vista di un mai compiutamente raggiunto ideale di bellezza o di buona salute. La figura che meglio di ogni altra riassume in sé questo para­ dosso della medicina, il tendenziale capovolgimento della relazio­ ne fra regola ed eccezione come suo più appropriato principio di individuazione, è Prometeo. Insofferente della genetica inferiori­ tà degli uomini, rispetto alle altre specie viventi; timoroso che lo spietato intento vendicativo del nuovo signore dell’Olimpo possa condurre all’estinzione dell’umanità; implacabile odiatore della

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morte, vista come esito ineludibile della vita umana, il Titano non esita a macchiarsi di una colpa sacrilega, pur di assecondare la sua philanthropia. Affronterà spavaldo un atroce supplizio, destinato a perpetuarsi quanto la sua vita immortale, pur di offrire una pro­ spettiva di salvezza. Il dono da lui elargito, frutto della violazione della sfera di attri­ buzione degli dei, è quello della tecnica - anzi, per la precisione, di pasai technai, di tutte le “tecniche”,69fra le quali dunque, e non in una collocazione marginale, anche la iatrike techne. Ma per quanti benefici possano scaturire dall’impiego delle molte tecniche rese disponibili dall’intervento filantropico di Prometeo, per quanto mirabolanti possano essere i progressi e gli avanzamenti connessi con lo sviluppo tecnologico, la sentenza espressa compendiosa­ mente nel verso 514 della tragedia eschilea dedicata al Titano ri­ belle resta a suggellare i limiti invalicabili dei doni prometeici: “La techne è infinitamente più debole del destino”.70 In quanto techne - in una certa misura, in quanto forma più compiuta e rappresentativa di techne - la medicina condivide le potenzialità straordinarie, ma insieme anche le “catene”, che ac­ compagnano il dono prometeico: il suo non poter “curare”, se non nel contempo “trans-curando”, il suo ineluttabile soccombere di fronte al confine della morte, il suo illudere di una salvezza com­ piuta, che resta sempre e irreparabilmente al di là dell’orizzonte. Come ogni altro dono, anche quello elargito da Prometeo ai mortali è intrinsecamente e indissolubilmente doron-dolos,71 un regalo che è insieme anche un inganno, un beneficio, certo, ma anche un’esca, per catturare gli uomini, legandoli alla vita, come se essa non dovesse avere mai termine. Come ogni pharmakon, l’intervento prometeico giova in quanto avvelena, redime perché

a collaborare con la natura” (11.-0. Gadamer, Oove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994, pp. 26, 29, 40-42, 136, 138). “Evidentemente l’arte medica assume in quest’ambito una posizione particolare, indicata dall espressione arte di guarire’, poiché guarire non significa creare una cosa ma ripristinare uno stato e que­ sto stesso stato, per quanto ci si avvalga dell’arte per ottenerlo, non è artificiale ma è proprio quello naturale o il più vicino possibile a quello naturale. Difatti, 1 intero rapporto dell’arte medica con il suo oggetto costituisce tra le arti un caso a sé (H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio di responsabilità, tr. it. Einaudi, Torino 1997, p. 109).

69. Come si legge appunto nel Prometeo incatenato di Eschilo: “Pasai technai brotosin ek Prometheos” (“Tutte le tecniche provengono agli uomini da Prome­ teo”), v. 506. 70. La figura di Prometeo accompagna le mie ricerche ormai da molti anni. Su di essa, oltre a numerosi spunti contenuti in altri miei scritti, rinvio a Via di qua. Impa­ rare a morire, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Endiadi. Figure della duplicità, Raf­ faello Cortina, Milano 2015; ha porta stretta. Come diventare maggiorenni, Bollati Boringhieri, Torino 2015. 71. Per l’ambivalenza del concetto stesso di “dono”, soprattutto in rapporto al mito di Prometeo, si vedano i fondamentali saggi di J.-P.Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, tr. it. Einaudi, Torino 1978; J.-P.Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tra­ gedia nell’antica Grecia, tr. it. Einaudi, Torino 1976.

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condanna, salva in quanto illude di una compiuta salvezza, che re­ sta viceversa inattingibile. Come ogni pharmakon, anche questo è insieme veleno e antidoto, tossico letale e medicamento potentis­ simo, senza che mai sia possibile districare l’uno dall’altro, “cura­ re” senza “ammorbare”. La liberazione degli uomini, procurata dal sacrilegio del Titano ribelle, avviene appunto attraverso l’im­ posizione di nuove catene, semplicemente sostituendo alla para­ lizzante visione della morte l’inganno di una vita definitivamente affrancata dalla prospettiva della fine.

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ALL’ASCOLTO

“Servizio” - questo il significato originario del termine greco therapeia. E dunque è letteralmente “servitore” colui che svolga la funzione del therapon. Nell 'Iliade, Patroclo, Automedonte, Alcimo sono presentati come therapontes rispetto a Achille, perché sono appunto al suo “servizio”, perché lo “assistono”, agendo quali attendenti del grande guerriero. Di qui anche il comporta­ mento al quale essi dovranno attenersi. In quattro luoghi distinti del poema, riferendosi specificamente a Patroclo, Omero impiega la stessa formula: “philo epepeitheth etatro" (“obbedì all’amico”). La therapeia implica Vobbedienza. Non si può assolvere ai compiti previsti per il therapon, se non ponendosi totalmente al servizio del proprio “assistito”, e dunque prestandogli obbedienza. E poiché Yob-audire, da cui deriva l’obbedienza, vuol dire eminentemente “porsi all’ascolto”, colui che si assume la therapeia nei confronti di un altro si pone totalmente al suo servizio ascoltandolo. Da notare che la relazione intercorrente fra Achille e Patroclo, e in particolare il fatto che questi compaia nel poema omerico co­ me therapon di quello, non scaturisce da una inferiorità dell’uno rispetto all’altro, né da un obbligo connesso a un’eventuale dispa­ rità di condizione sociale. Al contrario, fra i due, è Achille il più giovane, mentre Patroclo porta già nel nome - “la gloria” (kleos) del “padre” [pater) - le tracce dell’appartenenza a una nobile stir­ pe. Ne consegue che il suo comportamento come therapon, il suo porsi al servizio dell’amico, è il risultato di una libera scelta, esen­ te da ogni forma di coercizione o di predeterminata subalternità. 52

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TERAPIA

Una conferma indiretta della peculiarità del rapporto esistente fra i due personaggi può essere individuata nelle vicende descrit­ te ndTlliade. Quando Patroclo scende in battaglia, indossando l’armatura di Achille, si manifesta in tutta evidenza come il “dop­ pio” dell’amico. A sua volta, il ritorno alle armi del Pelide è mo­ tivato unicamente dal desiderio di vendicare il compagno caduto in battaglia. In altre parole, si assiste a uno scambio di ruoli, nel senso che dopo essere stato amorevolmente e fedelmente “servi­ to” dall’amico, una volta che questi è stato ucciso, è Achille a di­ ventare il titolare della therapeia verso Patroclo, nella forma di un omaggio postumo alla sua memoria tramite l’uccisione di Ettore. Questa reciprocità della relazione “terapeutica” è ribadita anche da una fonte figurativa. La scena dipinta sulla kylix a figure nere di Sosias mostra infatti un episodio precedente alla guerra iliaca, nel quale compaiono entrambi gli amici. Ferito nella battaglia del Caicus (rappresentata in uno dei frontoni del tempio di Atena Alea a Tegea: Pausania, Guida della Grecia, Vili, 45,3), Patroclo è soc­ corso da Achille che gli presta le sue cure. La testimonianza iconografica ora citata mette in evidenza due punti fondamentali. Il primo, a cui già si è accennato, è la possibi­ lità di un’alternanza nello svolgimento del “servizio”. La therapeia non è legata a un ruolo fisso, ma dipende dalla funzione concreta che, nella situazione data, è svolta da chi scelga di esercitarla. Più importante il secondo punto. Si potrebbe riassumerlo schematica­ mente in una formula: Patroclo non è therapon di Achille perché lo cura, né questi lo è di Patroclo perché gli somministra qualche farmaco. Al contrario, la cura è una conseguenza - di per sé non necessaria e comunque avventizia - del fatto che, alternativamen­ te, l’uno è al “servizio” dell’altro. Il soccorso “tecnico” è l’applica­ zione di un’attitudine più generale, la quale non si risolve dunque nel prestare cure, perché include una molteplicità di altre espres­ sioni, accomunate dalla volontà di essere al servizio. Ma vi è un secondo significato originario del termine greco therapeia al quale è opportuno riferirsi. Ne troviamo traccia in alcuni passi dei dialoghi platonici, e specificamente nella Politela (427 a), e nelle Leggi (716), là dove il sostantivo è accompagna­ to dal genitivo plurale theon. Come facilmente si può evincere dal contesto, ciò a cui Platone qui allude parlando di therapeia theon è il “culto degli dei”. Evidenziando la connessione logica

sussistente fra le due accezioni, si potrebbe dire che l’atteggia­ mento di servizio nei confronti di un altro, quando si esprima nei confronti degli dei, assume la forma del vero e proprio culto, di un’attenzione riguardosa talmente spiccata da coincidere con la venerazione dovuta alla divinità. In entrambi i casi, tuttavia, la therapeia non indica affatto uno specifico “trattamento” , ma si riferisce piuttosto a ciò che è concettualmente “a monte” di ogni possibile intervento.1 È therapon non colui che effettua talune specifiche prestazioni, le quali potrebbero anche non implicare alcun particolare coinvol­ gimento emotivo, bensì colui che assume una disposizione com­ plessiva, mettendosi al servizio dell’altro, non traducendo neces­ sariamente questa disposizione in interventi concreti. Per riferirsi ancora alla figura di Patroclo, egli è incarnazione genuina della figura del therapon di Achille non perché “faccia” qualcosa su di lui, ma perché si dispone a ob-audirlo. Da ciò risulta che il signifi­ cato moderno del termine “terapia”, intesa come “studio e attua­ zione concreta dei mezzi e dei metodi per combattere le malattie” {Enciclopedia Treccani), corrisponde a un’accezione secondaria, derivata e comunque minoritaria, tale da poter essere addirittu­ ra considerata l’opposto del significato originario del sostantivo.

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PRENDERSI CURA E CURARE

Un contesto di significati molto simile si ritrova anche in re­ lazione al termine latino che corrisponde quasi letteralmente al­ la parola greca therapeia. Difatti, cura sta a indicare anzitutto la “sollecitudine”, la “premura” , l’“interesse” per qualcuno o (più raramente) per qualcosa, senza che necessariamente questa dispo­ sizione affettiva e/o emotiva debba necessariamente concretizzarsi in qualche atto definito. Avere cura nei confronti di qualcuno vuol dire per prima cosa “stare in pensiero”, “prendere a cuore”, essere “preoccupati” per lui. Se ne trova conferma nel fatto che il termine correlativo alla cura è neglegentia, che indica un atteggiamento di disinteresse o di indifferenza, proprio di chi “non abbia riguardi”. In questo senso andrebbe inteso anche il noto broccardo, secondo 1. Per un approfondimento ulteriore, si veda il bel saggio di S. Grimaudo, “O b­ bedienza e persuasione: Due modelli della relazione medico-paziente nella Grecia antica” , in Hormos. Ricerche di Storia Antica, 6,2014, pp. 35-47.

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il quale “de minimis non curat praetor”, dove ciò che la sentenza intende dire è che l’autorità costituita, esemplificata dal praetor, “non si preoccupa” delle piccole cose. Anche nel caso del verbo, l’accezione prevalente, coincidente con il “prendersi pensiero”, è ribadita dal verbo simmetricamente opposto, poiché trans-curare, vuol dire appunto “non occuparsi” o “non avere interesse”. Una traccia non irrilevante di questa accezione originaria si ri­ trova peraltro anche in alcune lingue moderne. In inglese, to care about vuol dire “sentire interesse, ansietà o dispiacere” (Oxford Dictionary), senza riguardo ai possibili modi concreti nei quali può tradursi questo atteggiamento, come è confermato dall’uso preva­ lentemente intransitivo e “assoluto” dell’espressione I care (“mi interessa”, “mi riguarda”, “mi sta a cuore”). La lingua inglese consente altresì di chiarire ulteriormente il si­ gnificato dei termini greci impiegati per indicare quelle che si po­ trebbero genericamente chiamare le azioni terapeutiche. Mentre, infatti, come già si è visto, la therapeia conserva l’accezione ori­ ginaria di “servizio”, non ulteriormente specificato, la iatrike ri­ guarda specificatamente l’attività esercitata dai medici per curare le affezioni del corpo. Si può dire che a questa distinzione corri­ sponda approssimativamente nella lingua inglese quella fra to care e to cure. Con una precisazione fondamentale. Sempre facendo riferimento al lessico britannico, il verbo che direttamente discende da - e che dunque corrisponde a - il bino­ mio greco-latino therapeia-cura non è to cure, ma piuttosto to care. Chi si assume la cura in senso latino di un altro, e perciò per lui “sta in pensiero”, non necessariamente traduce questa sua attitu­ dine, riassumibile nell’espressione I care, nelle pratiche concrete indicate col verbo to cure. Insomma, si può dire “7 care”, senza ne­ cessariamente dire “I cure”, anche e soprattutto perché l’esercizio concreto insito nel to cure non dispensa affatto dal continuare a dire I care, come espressione di un’intima preoccupazione. Ancora più interessante è il termine tedesco Sorge (abitualmen­ te tradotto con l’italiano “cura”), soprattutto se ci si riferisce al significato col quale compare in particolare in Essere e tempo di Martin Heidegger, dove esso sta a indicare la determinazione on­ tologica fondamentale dell’Esserci, vale a dire il fatto che l’Esserci è sempre “proteso verso qualcosa”, ed è in quanto tale espressione del “movimento” che è proprio della vita umana.

Per quanto inevitabilmente cursoria, questa ricognizione etimologico-linguistica lascia emergere con chiarezza un punto fondamentale. Alle origini della tradizione culturale dell’Occiden­ te, le parole che designano la “cura” alludono a una condizione soggettiva - quella di chi “si preoccupa”, e dunque si pone al “ser­ vizio” - e non a un contenuto determinato nel quale si oggettiverebbe tale “preoccupazione”. Anche quando il soggetto di cui si parla assume una configurazione in qualche modo tecnica, come avviene nel caso del medico, ciò che i termini antichi sottolineano in lui non è la messa in campo di atti specifici, bensì la presenza di una “preoccupazione” per colui che egli dovrebbe assistere. Patroclo è genuinamente therapon di Achille non perché faccia concretamente delle cose per lui, ma perché è in pensiero per l’a­ mico, perché gli obbedisce, e cioè lo ascolta. Analogamente, per essere fedele al mandato di Asclepio, il medico ippocratico dovrà essere mosso da premura e sollecitudine nei confronti di colui che gli è stato affidato, indipendentemente dal fatto che questa attitu­ dine debba tradursi nella somministrazione di farmaci o in altre pratiche terapeutiche. L’idea di fondo soggiacente a questo modo di concepire la cura è che il “servizio” più importante che possia­ mo rendere agli altri è “preoccuparci” per loro, avere a cuore la loro condizione, provare interesse per ciò che a loro accade. Dunque la cura non coincide affatto, e comunque non si esauri­ sce, con la burocratica adesione ai protocolli definiti per il medico, il quale, assumendosi l’onere di un servizio che prevede una dispo­ nibilità virtualmente illimitata, non può illudersi di scaricarne il peso attraverso la formulazione di una diagnosi o la prescrizione di medicinali. A rigore, potrà dirsi autentico terapeuta colui che manifesti il suo pieno coinvolgimento (emotivo, affettivo e intel­ lettuale) nella condizione di colui del quale si è posto al servizio, anche senza “fare” concretamente nulla, e non chi si limiti ad ap­ plicare, con totale distacco emozionale, le linee guida astrattamen­ te fissate dai custodi della scienza medica.

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LA MEDICINA COME PROFESSIONE

Col passare dei secoli si assiste a una trasformazione radicale nel significato dei termini, quale riflesso di un altrettanto profondo mutamento di ciò a cui questi termini si riferiscono, in direzione di

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una spiccata tecnicizzazione. Da un lato, infatti, titolare pressoché esclusivo della “cura” diventa il medico, unica figura legittimata a svolgere il ruolo del therapon. Io posso bensì “essere in pensiero” per il mio amico, o il mio familiare; ma se voglio “curarlo” devo affidare questo compito al medico. La therapeia non designa più una condizione di totale dispo­ nibilità, tanto intensa nella sua specifica qualità, quanto indeter­ minata nei suoi contenuti, ma assume invece il significato di un dispositivo tecnico il cui esercizio è riservato ad alcune figure so­ ciali ben individuate e caratterizzate in senso professionale.2 In secondo luogo, in connessione con questa “professionalizzazione”, la “cura” perde ogni connotazione “affettiva” , eviene piut­ tosto a indicare un complesso di pratiche che hanno quale loro oggetto il paziente. Come si vedrà più ampiamente in seguito, a sua volta il destinatario della therapeia perde gradualmente una sua precisa identità, e tende a essere assorbito nell’anonimato del numero di letto occupato o nell’astrattezza della malattia da cui è affetto. Curare non è più - come in precedenza - un verbo che allude allo stato d’animo del terapeuta verso il suo assistito, ma segnala la molteplicità di azioni che il primo svolge sul secondo. D a verbo intransitivo, riferito all’attitudine di chi “stia in pensiero” , diventa un verbo transitivo, riguardante gli atti concreti effettuati su colui che sia “oggetto” della cura. Il passaggio può essere descritto co­ me transito dal to care al to cure. Il culmine di questo processo si raggiunge in concomitanza con la produzione industriale di mas­ sa, e poi in maniera sempre più accentuata nel corso degli ultimi decenni. La “cura” non ha più alcun rapporto con la disposizione d’animo del terapeuta. Al contrario, questi scarica sulla “cura” , intesa come somministrazione di farmaci e come ogni altro inter­ vento di manipolazione del paziente, ogni sua residua “preoccu­ pazione” . Anche perché - ma non solo per questo - materialmente impossibilitato a stare in pensiero contemporaneamente per molte

centinaia di individui, il medico trasferisce e oggettiva la sua sol­ lecitudine in una pluralità di atti concreti, inevitabilmente neutri dal punto di vista affettivo, la cui efficacia dipende dunque esclu­ sivamente da un’incidenza misurabile in termini quantitativi, dal successo che essi realizzano soprattutto dal punto di vista della scomparsa, o della diminuzione, della sintomatologia morbosa. Si verifica dunque un vero e proprio capovolgimento rispetto all’impostazione originaria. Il terapeuta - non importa se del cor­ po (qual è il medico generico), o deH’“anima” (come vorrebbe essere lo psicologo) - non è colui che, mosso da premura, “obbe­ disce” al suo assistito ma, all’opposto, colui che a questi impone di assoggettarsi a una “cura”, ormai totalmente spersonalizzata e tradotta nei costituenti chimici di un farmaco. E tanto più valen­ te sarà quel terapeuta che saprà svolgere la sua funzione tecnica nella forma più a-patica, evitando quel coinvolgimento emotivo/ affettivo che potrebbe offuscare o compromettere la sua capacità di “curare” . Fino al paradosso del medico perfetto - immune da ogni coinvolgimento personale, ignaro dell’identità e della storia del paziente, e proprio per questo in grado di “curarlo” secondo protocolli astratti universalmente convalidati, e dunque di prin­ cipio efficaci per qualunque paziente, a prescindere da peculiari­ tà individuali. Non è nota l’origine del termine greco therapon. Si sa, tuttavia, che il suo significato richiama il latino comes - “colui che accorre accanto”, “che sta vicino”, “che assiste”, magari senza “fare” nulla di preciso. Al culmine di un lungo percorso storico-concettuale, il rovesciamento è totale. E la terapia potrà perfino consistere nel dettare al telefono, o nel trasmettere per via informatica, i nomi impronunciabili di alcuni farmaci, senza alcun contatto fisico col paziente.

2. “L’espressione therapeia non implica affatto che i medici dominino la loro ar­ te nel momento in cui trattano il malato. Ciò che viene suggerito è piuttosto la su­ bordinazione e la distanza nel rapporto con il paziente. Il dottore è colui che ‘non ha nulla da dire’, ma dal quale ci aspettiamo un servizio di soccorso. Per parte sua il medico sa di doverci dare questo aiuto e si aspetta la collaborazione del paziente” (H.-G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, cit., pp. 137-138).

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LA CURA DELL’ANIMA

“Nel tempo in cui si era dedicato alla poesia, egli [Antifonte so­ fista] aveva stabilito un’arte \techne] per guarire i dolori, analoga a quella che i medici applicano alle malattie. A Corinto, vicino al­ la piazza principale, egli aprì un locale con un’insegna nella quale dichiarava di poter trattare il dolore morale per mezzo delle pa­ role \logoi\ : si informava delle cause delle sofferenze e consolava i 59

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suoi malati. ”3Da altre fonti, apprendiamo inoltre che, per definire i principi della sua arte - la techne alypias, l’arte di liberare l’ani­ mo dal dolore - , Antifonte aveva tratto spunto dalla melete thanatou o meditatio mortis di Anassagora, vale a dire da un “esercizio” (questo è, infatti, il significato di melete) che consisteva nell’avere di continuo in mente tutti i mali ai quali l’uomo può andare in­ contro, in modo da non trovarli nuovi o inattesi, se mai si fossero verificati nella realtà. La “tecnica” consisteva, insomma, nell’abituarsi al dolore, anticipando col pensiero e con l’immaginazione situazioni di sofferenza, fisica o psichica, e con ciò preparandosi gradualmente ad affrontare eventi negativi. Da notare che, come esplicitamente risulta dal testo in prece­ denza citato, nel quale essa è paragonata alla medicina, e i pazien­ ti con dolori nell’anima ai malati nel corpo, a questa pratica tera­ peutica, evidentemente anticipatrice della moderna psicoanalisi,4 il sofista aveva conferito lo statuto epistemologico di una vera e propria techne, vale a dire di un corpus di conoscenze teoriche e di regole di condotta stabile e ben strutturato, e quindi tale da po­ ter essere insegnato e appreso. Il paragone con la medicina, in una fase storica che è presso­ ché coeva alla copiosa trattatistica della scuola ippocratica, lascia intendere che nella techne alypias si potessero riconoscere le me­ desime caratteristiche dell’arte teorizzata e praticata dai medici di Cos. Si trattava, dunque, di qualcosa che, pur non potendo at­ tingere alla “certezza assoluta”, propria delle discipline matema­ tiche, non procedeva tuttavia apo tyches, semplicemente “a caso”, ma si svolgeva piuttosto secondo precetti e procedure rigorosa­ mente definite.5 Secondo le notizie contenute nelle fonti a cui prima si è accen­ nato, e inoltre anche alla luce di alcuni importanti passaggi tratti da

alcune tragedie di Euripide,6l’arte per liberare l’animo dagli affan­ ni agiva in due modi distinti. Da un lato, essa tendeva a confortare dalle sofferenze presenti, ricorrendo a quella forma di consolazio­ ne che è insita nel provare eleos ephobos, “pietà” e “terrore”, va­ le a dire le stesse passioni che - secondo quanto scrive Aristotele nella Poetica - sono alla base della catarsi tragica. Dall’altro lato, essa mirava a preparare contro i mali futuri, rappresentandoli an­ ticipatamente alla mente, in modo da assuefarvi l’animo, premu­ nendolo da emozioni improvvise. Nel primo caso, l’effetto consolatorio era raggiunto stimolando la pietà verso se stessi, fino al piacere liberatorio del pianto, e poi universalizzando tale pietà attraverso l’esempio altrui. Nel secon­ do caso, la praemeditatio futurorum malorum consentiva di “prea­ bitare nelle cose, e cioè preimmaginare e prefigurare seco se stes­ si ciò che deve accadere e, quasi fosse accaduto, farci poco a poco l’abitudine” J Ciò perché - come si legge nel prosieguo del brano ora citato - tutto ciò che è nuovo e a cui non si è esercitati ci sconvolge, mentre quando col tempo “e con l’esercizio la cosa è divenuta abi­ tuale, o non provoca alcuna emozione, o questa è di breve durata” .8 Per entrare almeno parzialmente più nel dettaglio, si può osser­ vare che, fra i numerosi passi significativi, per quanto riguarda un uso “tecnico” dell’arte teorizzata da Antifonte, il brano più impor­ tante è quello che si trova in un frammento del Teseo di Euripide, in cui è altresì adombrata nella figura del “sapiente”, dal quale si apprende quale condotta seguire di fronte al dolore, la personalità di Anassagora. “Da un sapiente io l’appresi, e la mia mente a ogni evento esporre e a ogni cura ebbi per uso, a me stesso l’esilio dalla mia patria comminando, e morti immature e quant’altre vie per­ corre la sventura nel mondo, affinché un giorno se alcuno dei mali che nel mio pensiero raffigurar solevo mi colpisse, non mi giun­ gesse nuovo, e doloroso più del dovuto io ne sentissi il morso.”9

3. Pseudo Plutarco, Vite dei dieci oratori (Diels Vs. 6 l.c. A6). 4. “Antifonte aveva aperto a Corinto quello che possiamo considerare il primo gabinetto di psicanalisi, la esercitava, come una delle tante branche delDArte medi­ ca’, a curare quelli che ‘soffrivano dolori nell’animo’. Perseguendo fini terapeutici e non etici, egli non aveva naturalmente nessuna difficoltà a consigliare l’uso del vino e della venere” (C. Diano, “L e virtù cardinali neWIppolito di Euripide”, in Studi e saggi di filosofia antica, Antenore, Padova 1973, p. 348). 5. Per un approfondimento ulteriore, rinvio a U. Curi, Il mantello e la scarpa. Fi­ losofia e scienza tra Fiatone e Einstein, Il Poligrafo, Padova 1998, pp. 75-89).

6. Una raccolta di documenti rilevanti per la conoscenza della techne alypias si trova in appendice al fondamentale saggio di C. Diano, “Euripide auteur de la catharsis tragique”, in Studi e saggi..., cit., pp. 287-319, che ho tenuto costantemente presente nella stesura di questo paragrafo. 7. Galeno, IV, 7,392 M; se ne veda la traduzione in Anassagora, Testimonianze e frammenti, a cura di D. Lanza, La Nuova Italia, Firenze 1966, p. 41. 8. Ibidem-, corsivo mio. 9. Cito dalla traduzione contenuta in C. Diano, “La catarsi tragica”, in Saggezza e poetiche degli antichi, Neri Pozza, Venezia 1968, pp. 213-271.

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L’opinione concorde degli autori (lo Pseudo Plutarco, Galeno e Cicerone) che ci hanno tramandato questo testo è che, con l’e­ spressione “un sapiente” si intendesse alludere alla figura di Anas­ sagora, mentre sotto il nome di Teseo si celava presumibilmente un personaggio storico, vale a dire Pericle. A entrambi la tradizione antica attribuisce un atteggiamento di completa imperturbabilità di fronte alla morte prematura dei loro figli, quale risultato di un assiduo esercizio della techne alypias, nella forma della praemeditatiofuturorum malorum. Secondo Galeno, annunziata a Anassagora la morte del figlio, “egli non mutò volto e disse: ‘Sapevo di averlo generato mortale’”. Quanto a Pericle, secondo la testimonianza di Protagora, “in otto giorni soltanto egli vide morire i suoi figli, i quali erano nel fiore degli anni e della bellezza. Ma egli sopportò la loro dipartita senza dare segni di dolore, poiché egli si prendeva cura della serenità dell’anima, cosa che era per lui di grande van­ taggio nella vita di tutti i giorni, assicurandogli un destino facile e l’assenza di ogni pena”.10 Una testimonianza indiretta, ma non meno significativa, della funzione riconosciuta alla techne alypias può essere individuata nella caricatura con la quale, nell’Alcesti (w. 779 sgg.), Euripide richiama quelli che evidentemente dovevano ormai essere luoghi comuni della polemica contro le pretese liberatorie dell’arte pro­ fessata da Antifonte. “Nessuno dei mortali sa se il giorno che ver­ rà domani sarà vivo. L’evento non è cosa che si mostri alla vista, e non puoi dire quale via prenda. E non solo la scienza non ce lo insegna, ma neppure un’arte abbiamo, che riesca a premunircene” (corsivo mio). Accenti simili si ritrovano anche nell’Edipo re di So­ focle: “Che ha da temere un uomo, quando vede che ogni cosa è in potere dell’evento e che di nulla vi è prescienza certa? Il meglio è che uno viva alla ventura, così come può vivere” (w. 977-979). Per tornare al frammento del Teseo euripideo, unitamente a nu­ merosi altri documenti pressoché coevi, esso dimostra senza om­ bra di dubbio che, almeno dalla seconda metà del V secolo a.C., presso i circoli culturali attici era largamente diffusa (e talora an­ che osteggiata o derisa) una disciplina di autocondizionamento tendente a sconfiggere il dolore, facendo leva sulla pietà per se

stessi, e sulla sym-patheia nei confronti degli altri, ovvero vivendo “senza soffrire” (apathos) travagli non realmente accaduti, con lo scopo di “anticipare” nella mente possibili sciagure future. Prati­ cata e teorizzata originariamente già da Anassagora, nella forma di una melete, di un esercizio quotidiano, tendente ad assuefare la mente ai possibili mali futuri, essa assume uno statuto epistemo­ logico più definito con Antifonte, il quale consolida questa disci­ plina nella forma di una vera e propria “arte” - la techne alypias, appunto - con la quale egli assiste e cura quanti soffrono dolori nell’animo, allo stesso modo (e col medesimo grado approssima­ tivo di “certezza”), col quale la medicina della scuola di Cos trat­ tava coloro che erano malati nel corpo. Questa disciplina di autocondizionamento, che rappresenta per molti aspetti una delle forme più significative della epimeleia eautou, vale a dire di un insieme di pratiche che hanno avuto una grandissima importanza nell’epoca classica e nella tarda antichità,11 e che attraverso la figura di Antifonte trova un suo preciso statuto come techne alypias, si esprimeva soprattutto, come già si è accen­ nato, in due direttive di condotta, distinte ma spesso impiegate in maniera complementare. Da un lato la catarsi, raggiunta attraverso rimmedesimazione con la condizione di coloro che subiscono pe­ ne o sofferenze analoghe a quelle da noi subite, eppure molto più pesanti, cosa che giova a relativizzare il nostro dolore, e con ciò a renderlo più facilmente sopportabile.12Un esempio illuminante di

10. Su dò , vedi C. Diano, “Francesco Robortello interprete della catarsi” , in Stu­ di e saggi..., cit., pp. 321-330.

11. All’analisi delle diverse pratiche che concorrevano a formare la cura sui, in­ tesa non come un esercizio occasionale, ma come una direttiva generale di condot­ ta, improntata a “prendersi cura di se stessi”, sono dedicati alcuni fondamentali la­ vori di M. Foucault, frutto delle lezioni tenute al Collège de France nel 1984: vedi L’ermeneutica del soggetto, tr. it. in I Corsi al Collège de France. I Résumés, Feltrinel­ li, Milano 1999, pp. 105-141, e Tecnologie del sé, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1992. La riflessione in margine ai saggi foucaultiani ha influito molto nella stesura del presente capitolo. 12. Una situazione analoga è descritta in un frammento attribuito a Democri­ to: “La tranquillità delPanimo [eutbymie] ci è procurata dalla misura nei godimenti e dalla moderazione in generale nella vita: il troppo e il poco son facili a mutare e quindi a produrre grandi turbamenti nell’animo. E quegli animi che sono sempre sballottati tra gli estremi opposti non sono ben fermi né tranquilli. Si deve, dunque, rivolger la mente alle cose possibili e contentarci di quello che si ha, poco curandoci delle persone che vediamo invidiate e ammirate e senza tener sempre il pensiero die­ tro a loro; e si deve guardare, piuttosto, alla vita che conducono quelli che son cari­ chi di guai, riflettendo seriamente a quel che essi sopportano, e allora quel tanto che possediamo presentemente ci apparirà grande e invidiabile, e non ci accadrà più di

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questa forma di “cura” si ritrova in un frammento di Timocle (fr. 6 K): “Uno è povero, ma quando apprende che Telefo è stato più pitocco di lui, la povertà la sopporta più facilmente. Un altro ha un ticchio matto, vede YAlcmeone. Un altro ha male agli occhi, ma i Fineidi erano ciechi. A un tale è morto un figlio, gli dà conforto Niobe. Questo è zoppo, assiste al Filottete... Basta pensare che non c’è malanno che non sia toccato ad altri in misura maggiore, perché ognuno le sue disgrazie le pianga di meno”.13 Diversa, ma spesso anche complementare, rispetto alla prima direttiva terapeutica ora richiamata, è la “premeditazione dei mali futuri”. La sua origine si può far risalire a quella melete thanatou, a quel “prendersi cura della morte”, intesa non come saltuario pen­ siero della morte, ma come melete, come esercizio metodico e co­ stante, risalente al “sapiente” Anassagora, praticato anche dal suo grande allievo Pericle, e poi in qualche modo ereditato dallo stesso Socrate, che ne fa esplicita professione in carcere, nell’approssimarsi dell’ora della morte. Non si tratterà di dimenticare l’essenza della condizione umana, il suo costitutivo essere per la morte. Al contrario, soltanto fissando lo sguardo sull’esito che ci attende, fi­ no al punto da assuefarsi a esso, si potrà eludere o ridurre il dolore che sempre accompagna la vita dell’uomo.

soffrire in cuor nostro per il desiderio di beni maggiori. Difatti, se uno ammira i ric­ chi e tutti quelli che dagli altri uomini son stimati fortunati e a ogni momento il suo pensiero è rivolto a loro, sarà costretto a cacciarsi continuamente in cerca del nuovo e persino a desiderare di compiere qualche azione irrimediabile, una di quelle azio­ ni che son proibite dalle leggi. Perciò bisogna non cercare tutto quel che vediamo, ma contentarci di quel che abbiamo noi, paragonando la nostra vita con quella di coloro che si trovano in condizioni peggiori, e stimarci fortunati pensando quanto sopportano essi e quanto migliore del loro è il nostro stato. E se tu effettivamente ti atterrai a questo modo di considerare le cose, vivrai con animo veramente tranquillo e respingerai da te durante la vita non poche funeste ispiratrici, come l’invidia, l’am­ bizione e la malevolenza” (Democrito, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni [la sezione degli Atomisti è stata curata da V.E. Alfieri], Laterza, Bari 1969, p. 744). 13. Timocle, fr, 6 K; cit. in C. Diano, “La catarsi tragica” , cit., p. 242-243.

de di “prendersi cura di se stesso”, di praticare sistematicamen­ te Yepimeleia eautou, di sviluppare una serie di pratiche volte a sopportare i funesti satelliti della morte - la fame, la malattia, la vecchiaia - quando, insomma, sceglie di assumersi per intero la responsabilità della propria condizione, senza più lasciare che al­ tri, fossero anche gli dei, decidano della sua sorte, allora si veri­ fica un radicale mutamento di orientamento nell’atteggiamento verso la morte. Non si tratterà più di far finta che essa non vi sia, che essa non attenda immancabilmente ciascuno di noi, lasciandosi distrarre da “cieche speranze”. Al contrario, il compito principale consisterà nell’avere costantemente presente l’esito che incombe, finalizzan­ do a esso, al “senso” che esso può imprimere, tutta la nostra vita. Diventato Prometeo a se stesso, l’uomo non volterà più le spalle alla realtà della morte, fuggendo nella direzione opposta, né si adfiderà più all’intervento salvifico di un ribelle sacrilego, ma costrui­ rà con le proprie mani, e soprattutto con la propria intelligenza, una techne che gli consentirà di affrontare impavidamente, e senza sofferenza, la prospettiva della morte. La forma più compiuta di titanismo, di un titanismo perfetta­ mente immanentizzato, va individuata proprio nella techne alypias, nella pretesa di “farcela da soli”, nello sforzo di potersi misurare da pari a pari con la morte, reggendone lo sguardo funesto, prov­ visti delle armi della catarsi e della melete thanatou. Se quello di Prometeo era stato un sacrilegio, per la violazione delle timai delle divinità, e se dunque maledetti fin dall’origine era­ no i doni da lui arrecati ai mortali, la techne da lui a essi elargita, questa techne appare ancora più luciferina, per l’aperta sfida che essa rivolge alla morte e alle sue “sinistre comparse”, per il rifiuto a riconoscere l’ineluttabilità della morte. Maledetta - e, inoltre, in definitiva impotente, perché “molto più debole della necessità” è la techne frutto del titanismo di un ribelle. Ma ancor più male­ detta - e almeno altrettanto impotente - è la techne costruita da un uomo che deliberatamente rinuncia a ogni dono divino, a ogni mediazione salvifica, proponendosi come salvatore di se stesso. Un ultimo punto, a questo riguardo, va sottolineato. Nello sfor­ zo di predisporre una strategia capace di sconfiggere la morte, al di fuori di ogni concessione divina, l’arte elaborata da Antifonte riproduce almeno un aspetto presente nell’uso della memoria co-

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MEMORIA E CATARSI

La techne alypias esprime la scelta di non voler più distogliere lo sguardo dalla morte, accettandone anzi la sfida, fissando l’oc­ chio sulla mostruosa maschera di Gorgo. Quando l’uomo deci-

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me strumento per sopportare i mali. In entrambi i casi, infatti - si tratti di mnemosyne, owero della melete thanatou, si tratti, cioè, di affidarsi alla memoria o a quella forma di premeditazione delle future sventure che è 1’“ esercitarsi a morire” -, il modo median­ te il quale si cerca di sfuggire alla morte consiste nel tentativo di cancellare il tempo. La funzione catartica e salvifica della memoria, la sua capaci­ tà di agire come “oblio dei mali”, dipende dal fatto che essa ci mette in contatto con una realtà, nella quale domina una dimen­ sione “aionica”, “sempre-essente” del tempo, sicché il passato a cui essa si rivolge non è ciò che “non è più” , e dunque non una non-realtà, o un non-essere, ma rappresenta al contrario la radice e il fondamento della realtà attuale. Allo stesso modo, la “prefi­ gurazione” e “preabitazione” nelle cose future, in cui si risolve la melete thanatou, in quanto anticipa nella mente, come se fossero attualmente presenti, gli avvenimenti futuri, toglie loro il caratte­ re di eventi non ancora accaduti, riportandoli alla viva attualità del presente. Passato e futuro, vale a dire le dimensioni che testi­ moniano il trans-correre del tempo, che segnalano la processualità inarrestabile e irreversibile del tempo come chronos, e dunque anche l’inevitabile caducità delle cose umane, il loro essere intrin­ secamente predisposte alla morte, vengono così cancellati, attra­ verso il congelamento del fluire temporale in un presente scevro da ogni mutamento. Ma un ragionamento del tutto analogo (pur se apparentemen­ te meno immediato) può essere fatto anche a proposito di quella che potrebbe essere considerata alla stregua di una terza tecnica escogitata per affrontare i mali e la morte, vale a dire la catarsi con­ nessa alla capacità di provare eleos e phobos di fronte alle disgra­ zie altrui. Qui non è più il passato (come accade con la memoria), né il futuro (come avviene con la melete), a essere in qualche mo­ do abolito, ma lo stesso presente, in quanto concepito appunto in forma spazializzata, come una terza dimensione del tempo, come qualcosa che incessantemente passa - dal futuro al passato, e che dunque evoca costantemente il non-essere, come ciò da cui sorge il presente e come ciò verso cui esso è orientato. Questa accezione crono-logica del presente, in quanto condivide col passato e col futuro l’essere “figura” del tempus edax, del tempo come potenza instabile e distruttiva, che avvicina gli uomini all’ora della morte,

viene sostituita, mediante la catarsi, con un modo di concepire il presente che è altrettanto senza tempo del modo in cui memoria e premeditazione consentono di vivere il passato e il futuro. Mnemosyne, melete, katharsis - le strategie praticate o esco­ gitate allo scopo di sopportare la sofferenza, “curare” il dolore e affrontare la morte - convergono dunque, e si integrano vicen­ devolmente, nel comune tentativo di abolire il tempo. Il massimo del titanismo, e del sacrilegio a esso connesso, consiste proprio in questo tentativo di cancellare ciò che costituisce la caratteristica essenziale della condizione umana. Nello sforzo di espungere il tempo dalla vita dell’uomo, si può individuare il vertice di una ve­ ra e propria tecnologia antitanatologica, escogitata agli albori della cultura occidentale. Paradigma di ogni altro progetto di affranca­ mento dalla morte, memoria, premeditazione e catarsi intendereb­ bero offrire la possibilità di uscire da quel corso del tempo, vorace e spietato, il cui esito inevitabile è la morte.14

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L ALTRA” MEDICINA

Vi è un aspetto, relativo alle origini storiche della medicina, che non è legato a circostanze contingenti, destinate a essere definiti­ vamente superate mediante i continui progressi dell’arte medica, ma che invece ne accompagna e scandisce pressoché ogni tappa, e che dunque appartiene al suo stesso statuto. L’attività di Ippocrate e di coloro che erano chiamati Asclepiadi si sviluppa su un du­ plice piano. Da un lato vi è l’impegno a dimostrare che la iatrike techne non ha nulla a che vedere con il comportamento meramente casuale (apo tyches) dei praticoni sprovvisti di conoscenze, perché invece, pur non pretendendo di raggiungere la certezza assoluta, essa può esibire procedure rigorose, fondate sull’osservazione e sul ragionamento. Ma dall’altro lato, la medicina della scuola di Cos è coinvolta in una serrata competizione con gli esponenti della me­ dicina di Cnido e con i physiologoi, protesi a costruire una scienza (più ancora che un’arte) fondata su una struttura logico-argomen­ tativa rigidamente deduttiva. È nota, da questo punto di vista, la polemica di Ippocrate contro coloro che tendevano a privilegiare il riferimento ad alcune hypotheseis di carattere generale, rispetto 14. Ho sviluppato più ampiamente questi temi nel mio Via di qua, cit..

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alla considerazione del particolare “caso” clinico. Si può dire, in­ somma, che la medicina sorga ospitando in se stessa, o almeno fron­ teggiando, un approccio che si propone come alternativo alla sua stessa identità logico-epistemologica. La medicina nasce dovendo costantemente misurarsi con un orizzonte concettuale che si de­ finisce per differenza, e talora in forme accentuatamente ostili. A conferma della relativa “anomalia” della scienza medica, rispetto ad altre scienze, essa fin dall’inizio deve combattere con la sua ne­ gazione - o almeno con impostazioni che definiscono la loro pe­ culiare identità attraverso una relazione antagonistica, rispetto alla medicina “ufficiale”. Mentre, insomma, la fisica classica galileiano­ newtoniana (per citare un caso esemplare per molte altre situazio­ ni simili), una volta liberatasi dall’ingombrante tutela di opzioni metafisiche, non troverà competitori che la sfidino sul suo stesso terreno, la medicina è sempre per così dire “assediata” da forme alternative, le quali rivendicano abitualmente la stessa - o talora una maggiore - legittimità della medicina tradizionale. La medici­ na è incalzata dall’altro da sé come l’ombra che una figura proietta. Fra le molte, e diverse, configurazioni assunte da questo duali­ smo (medicina occidentale - medicina orientale; medicina allopa­ tica - medicina omeopatica; medicina tradizionale - medicina olistica ecc.), una particolare attenzione esige il riferimento a quella che si è convenuto ormai, dentro e fuori la comunità scientifica, di chiamare “medicina narrativa”. La definizione canonica che abi­ tualmente ne vien proposta si deve a Rita Charon: “La Medicina Narrativa fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia. [Inoltre] aiuta medici, in­ fermieri, operatori sociali e terapisti [...] a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo di queste capacità [di attenzione, rifles­ sione, rappresentazione e affiliazione] con i pazienti e i colleghi”.15 A torto o a ragione, la rivale della medicina narrativa, già a cominciare dagli acronimi abitualmente impiegati per designa­ re entrambe, è la Evidence-Based Medicine.16 Ciò a cui si allude con questa definizione è una disciplina basata sulle “prove di ef-

Acacia” (e dunque EBM ), in quanto tale diversa, e tendenzialmen­ te concorrenziale, rispetto alla Narrative-Based Medicine ( n b m ), espressione con la quale si indica una medicina fondata sulla nar­ razione. Al di là del confronto sulla terminologia, pur interessante, con Evidence-Based Medicine si intende “l’utilizzo coscienzioso, esplicito e giudizioso delle migliori prove disponibili, nel corso del processo decisionale riguardante l’assistenza al malato”.17Suc­ cessivamente, l ’EBM è stata in certa misura ridefinita come “l’in­ tegrazione delle prove derivanti dalla migliore ricerca clinica con l’esperienza clinica e i valori dei pazienti”.18 Come si sarà notato, il riferimento all’“efficacia” dei metodi e delle tecniche di cura ricorre, in forme diverse, sia nella definizio­ ne proposta per la NBM, sia per quella che riguarda la EBM, a con­ ferma delle numerose affinità intercorrenti fra i due paradigmi, per lo più minimizzate nello sforzo di esaltarne le differenze. Una prima e fondamentale caratteristica della NBM può dirsi con ciò acquisita, nel senso che essa non intende costituirsi come alterna­ tiva globale, rispetto all’approccio tradizionale, ma punta piut­ tosto ad arricchirlo e a integrarlo, attraverso una più accentuata valorizzazione degli attori che compaiono nella relazione di cura. La narrazione della patologia del paziente al medico viene quin­ di considerata al pari dei segni e dei sintomi clinici della malat­ tia stessa. Comunicare il proprio stato di malattia, istituendo per quanto possibile una relazione empatica, aiuta il paziente a pren­ dere decisioni più consapevoli, a relazionarsi con gli altri, a con­ dividere testimonianze che potranno essere utili ad altri medici o pazienti. Questa disciplina arricchisce la cura attraverso l’atten­ zione e l’utilizzo anche in fase terapeutica dei racconti dei pazien­ ti, della famiglia e del personale sanitario, dando il giusto peso ai diversi punti di vista dei soggetti. Nei casi più drammatici questi aspetti assumono un’importanza imprescindibile. Si potrebbero approfondire in maniera più analitica i tratti ca­ ratterizzanti della NBM, anche giovandosi dell’ormai ricca biblio-

15. Si veda la sezione “About Narrative Medicine” sul sito www.narrativemedicine.org, di cui R. Charon è executive director. 16. Esauriente la trattazione contenuta in G. Corbellini, EBM. Medicina basata sull’evoluzione, Laterza, Roma-Bari 2007, a cui si rimanda una volta per tutte.

17. Vedi D .L. Sackett, W.M.C. Rosenberg, J.A. Muir Gray, R.B. Haynes,W.S. Richardson, “Evidence based medicine: What it is and what it isn’t”, in British Me­ dicai Journal, 312,1996, pp. 71-72. 18. D .L. Sackett, S.E. Straus, W.S. Richardson, P. Glasziou, R.B. Haynes, Evi­ dence Based Medicine. How to Fradice and Teach EBM, seconda edizione, Churchill Livingstone, London, 2000, pp. 5-7.

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grafia disponibile. Ma più che sui pur rilevanti dettagli tecnici che dividono o accomunano i due paradigmi fin qui considerati, un aspetto su tutti dell’impostazione originariamente proposta da Ri­ ta Charon esige di essere adeguatamente valorizzato. Alleggerito dei dettagli più controversi, sotto il profilo strettamente tecnico, e insieme anche affrancato da un’inappropriata enfasi “alternativistica” , ricorrente spesso nelle posizioni recenti di alcuni auto­ ri convertitisi alla NBM, ciò che è essenziale in questo approccio - ma che almeno di principio dovrebbe essere riconosciuto come tale anche nella EBM - è il richiamo a ripensare il rapporto fra gli operatori sanitari (medici, infermieri, personale di supporto) e il paziente in una maniera “personalizzata”, invertendo la tendenza sempre più diffusa ad assumere in forma aziendalistica la funzio­ ne dell’istituzione sanitaria. Non si tratta, dunque, di sostituire ai tradizionali protocolli di cura della medicina basata sull’efficacia una terapia alternativa, fondata sulla “parola”, ma di riformulare nel suo complesso la relazione col paziente in modo che esso di­ venti - o ritorni a essere - il vero baricentro del rapporto di cura. Da questo punto di vista, la NBM, almeno nelle sue espressioni meno “estremistiche” e più costruttive, e se depurata da velleità ideologiche generali, può svolgere un ruolo decisivo per quanto riguarda le finalità della disciplina medica e alcune fra le nozioni che ne sono alla base. A cominciare dal concetto di “paziente”.

que confermato. Paziente richiama un’attitudine eminentemente passiva, come comportamento di risposta rispetto a qualcosa che ha la forza - o l’autorità - di imporsi, obbligando alla pazienza. Si comprende immediatamente come l’uso generalizzato di questo termine nella descrizione delle relazioni di cura contribui­ sca in maniera non trascurabile a condizionarne l’orientamento. Da un lato, infatti, esso concorre a una cristallizzazione di ruoli - il medico versus il paziente - di per sé non necessaria e spesso anche controproducente. Dall’altro lato, non vi è dubbio che l’impiego di un termine già fortemente connotato dal punto di vista gerar­ chico sposta obiettivamente l’asse del rapporto dalla parte del medico, istituendo una marcata asimmetria fra le due parti della relazione. Per riferirsi nuovamente all’accezione originaria di ter­ mini come therapeia e cura, è evidente che al “servizio” dell’altro non potrà che essere colui che patisce, e che occupa dunque una posizione subordinata. L’introduzione e la diffusione del termine “paziente” , per alludere alla persona che ha bisogno di “cura”, risulta perciò funzionale a quel più generale processo di trasfor­ mazione di ruoli e di significati che ha finito per rovesciare quel “porsi al servizio” che dovrebbe essere il compito della therapeia. Il quadro ora abbozzato certamente non migliora ove si sosti­ tuisca il termine “paziente” con quello in uso per un lungo perio­ do di tempo, e ancor oggi ben lontano dall’essere stato cancellato, quale è il termine “malato”. Quale che ne sia la più verosimile eti­ mologia, malato deriva certamente da male, affonda la sua origine in un termine fortemente connotato in senso negativo. Può trat­ tarsi di male-habitus (“colui che sta male”), ovvero di male-aptus (“male adatto”, “inetto”), o ancora di una problematica derivazio­ ne diretta dal greco malakos (“molle”, “debole”), resta comunque assodato che attribuire questa parola a uno dei due soggetti della relazione di cura vuol dire connotarlo già in partenza in forma ac­ centuatamente negativa.19 Il “malato” è portatore di un “male”. È egli stesso, in qualche modo, un male. Con tutte le intuitive conseguenze implicite nell’a­ vere a che fare con un soggetto che reca un inconfondibile stigma

PAZIENTE?

Colui che sopporta, che subisce, che tollera, che soffre - que­ sto il significato originario del termine “paziente” . La derivazione latina - patior, da cui l’aggettivo participiale patiens - non lascia adito ad ambiguità. Paziente è chi sia oggetto di qualcosa che lo fa soffrire, rispetto a cui egli è in una posizione subordinata. Quan­ do il termine viene impiegato all’interno di una relazione, serve a designare chi sia subalterno ad altri. Difatti, se il “subire” , a cui la parola rimanda, implica che vi sia qualcuno che agisce, si de­ ve intendere che il paziente debba “sopportare” l’azione di altri. Anche là dove il termine viene ad assumere un’accezione deriva­ ta, in quanto descrive l’atteggiamento - la “pazienza” - di colui che debba tollerare particolari sofferenze, un punto resta comun­ 70

19. D a notare che in greco - per esempio, in Ippocrate - malato è kamnon-ontos, dal verbo kamnein (“soffrire” , “essere ammalato” , “essere sofferente”) o noseonontos, dal verbo nosein (“essere ammalato” ). Nessun riferimento alla “passività” , dunque, ma piuttosto una sottolineatura della condizione di sofferenza.

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di forte negatività. Come è ovvio, nessun rapporto paritetico potrà sussistere, se uno dei poli è caratterizzato già nel suo nome come “male”, destinato dunque a essere strutturalmente subalterno nei confronti di chi da quel male sia immune. Per un periodo di tempo fortunatamente breve, in concomi­ tanza con la trasformazione in senso aziendalistico delle strutture sanitarie, alle precedenti denominazioni è stata sostituita - senza tuttavia mai imporsi - la parola “cliente”. Anche in questo caso, l’etimologia ci aiuta a comprendere meglio sfumature di significato altrimenti sfuggenti. Cliente deriverebbe dal latino cluo, a sua vol­ ta proveniente dal quasi identico greco klyo. Il significato è chiaro: poiché cluo vuol dire “mi metto all’ascolto”, “do retta”, “obbedi­ sco”, “cliente” è colui che per l’appunto obbedisce, nella duplice ac­ cezione di chi ob-audit, e dunque “ascolta”, e obbedisce, e dunque si sottomette alla volontà altrui. Ma vi è un’ulteriore implicazione strettamente connessa a quella che potremmo definire la storia lin­ guistica del termine. Nella generalità delle fonti antiche che ci sono pervenute, cliens compare prevalentemente, in maniera esplicita o indiretta, in uno schema binario, come termine correlativo del patronus. Si racconta, infatti, che allo scopo di rinsaldare la solidarietà fra patrizi e plebei, lo stesso Romolo introducesse la clientela, me­ diante la quale ciascun plebeo potesse contare sull’intercessione, l’aiuto, la protezione di un patrizio, chiamato appunto a svolgere la funzione del patrono. A sua volta, il cliens era tenuto a un obbli­ go di obbedienza e sottomissione, rispetto al patrizio che se ne era assunto il patrocinio. Poiché tra le funzioni in cui si esprimeva il patronato vi era anche la rappresentanza in atti civili, in tempi suc­ cessivi è entrata nell’uso la consuetudine di definire cliente colui che si fa rappresentare da un avvocato in atti giudiziari. La deduzione da queste sommarie precisazioni di carattere lin­ guistico è evidente. Se nella relazione di cura uno dei due soggetti è chiamato “cliente”, si sottintende che egli debba assumere nei confronti del medico l’atteggiamento del cliens. Dovrà ascoltarlo, dovrà obbedirgli, dovrà essere a lui sottoposto.20 Per converso, il 20. Come già Aristotele auspicava che dovesse avvenire: “ [i malati] ascoltano con attenzione le cose che dicono i medici, ma non fanno nulla di quello che viene loro prescritto” (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 3,1105 b 15-16). “ [...] Non possono guarire vivendo senza controllo e non dando retta ai medi­ ci” (ibidem, III, 7,1114 a 15-16).

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medico sa che potrà esigere dal suo “cliente” la massima dispo­ nibilità all’ascolto e la più totale subalternità, ogni ipotesi di rap­ porto paritetico essendo esclusa di principio. In questo contesto, si può comprendere quanto possa rivelarsi importante la scelta del termine con il quale indicare chi richieda la cura di un medico. E si comprende anche per quali motivi, met­ tendo mano al Codice deontologico approvato nel 2006, l’Ordine dei Medici avesse deciso, in una prima fase, di introdurre, unita­ mente ad altre varianti, l’espressione “persona assistita”. Da un lato, la scelta del termine “persona”, vale a dire di una parola mediante la quale si designa un soggetto titolare di identi­ tà etica, sociale e civile, evitava l’indeterminazione di termini solo apparentemente simili, come quelli in precedenza citati. Dall’al­ tro lato, il participio passato “assistita” era funzionale a evidenzia­ re il carattere transitorio, e comunque non sostanzialistico, della condizione in cui quella “persona” era venuta a trovarsi. Ora bi­ sognosa di assistenza, ma non “portatrice” in se stessa di un male. È noto tuttavia che, anche a seguito dell’insorgere di controver­ sie, frutto di rigidità precostituite, nella versione definitiva, appro­ vata nel 2014, il Codice deontologico reca entrambe le accezioni: si usa “paziente”, quando si alluda a un soggetto nella relazione di cura, e “persona assistita” in ogni altro caso.21Una mediazione, dunque, come sempre accade quando si sia in presenza di com­ promessi, che non risolve in maniera soddisfacente il problema. Ma se non altro un passo avanti, in direzione del riconoscimento della piena dignità morale e civile della persona che chiede la cura di un medico. Senza mai dimenticare ciò che si è scritto in apertu­ ra del presente capitolo. Senza cioè mai dimenticare che therapeia vuol dire “servizio” .

21. Il testo del nuovo Codice deontologico, approvato il 16 maggio 2014, è con­ sultabile all’indirizzo: http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegatol2368.pdf.

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UN RIMEDIO CHE AVVELENA

“Nello stato attuale delle nostre conoscenze, la questione re­ lativa all’etimologia del termine ‘farmaco’ resta insolubile.”1Pur condividendo la perentoria affermazione di Chantraine, alcune ipotesi, quanto meno verosimili, meritano di essere ricordate. La prima di esse individua una base “pharma”, corrispondente all’accadico barum, che significherebbe “incantamento”, “formula ma­ gica”, o anche “stregone”, “indovino”.2Dove l’accezione origina­ ria sottolinea il carattere “magico”, e dunque “extra-ordinario”, di ciò che è indicato col termine, pur lasciando indeterminata la specificazione della qualità della formula, nel senso che non vie­ ne precisato se la potenza del pharma sia benigna o malefica, po­ sitiva o negativa. Converge sostanzialmente con l’ipotesi appena formulata anche la seconda congettura di carattere etimologico. Il termine greco (pharmakon), sul quale sono modellati anche i termini corrispon­ denti nelle lingue moderne, deriverebbe dall’egiziano Mak, o dal coptico Fahri, avendo quale significato quello di “rimedio” che tuttavia, in certe dosi, agisce come veleno.3 Come si è visto, entrambe le ipotesi coincidono nel sottolinea­ re due punti essenziali: anzitutto, l’ineliminabile ambivalenza di 1. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, 2 voli., Klincksieck, Paris 1968-1980; vedi anche La formation de noms en grec ancien, E. Champion, Paris 1933. 2. G . Semerano, Le origini della cultura europea, voi. 2, cit., p. 303. 3. Vedi www.etimo.it.

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ciò che viene designato come “farmaco”, sostanza che può agire sia come rimedio sia come veleno. In secondo luogo, l’importanza decisiva del dosaggio per determinare l’una o l’altra funzione. Con una sottolineatura fondamentale: mentre è assodata la capa­ cità del farmaco di alterare - in qualunque modo ciò accada - la condizione dell’organismo che lo assume, è impossibile separare nettamente l’effetto terapeutico da quello intossicante. Di conse­ guenza, non è concepibile farmaco, se non come medicina che av­ velena, o (il che è lo stesso) come veleno che cura, senza che mai si dia un effetto univoco, senza che possa essere sciolta la connes­ sione fra il tossico e l’antidoto. Di questa originaria e insuperabile duplicità - già “scritta” nell’originaria identificazione del farmaco con le due gocce di san­ gue scaturite dalla decapitazione della Gorgone Medusa - si trova esplicito riconoscimento in un passaggio dell’opera del medico e filosofo Paracelso (Einsiedeln, 1493 - Salisburgo, 1541), conside­ rato il più significativo rappresentante del naturalismo tedesco, quando scrive: “ Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit” (“Tutto è veleno, e non vi è nulla di ciò che esiste che sia senza veleno”). Aggiungendo poi una precisazione a cui già si è accennato: “Dosis sola facit, ut venenum non fit” (“Solo la dose fa sì che non diventi veleno”).4 Non si tratta semplicemente, come invece abitualmente si vor­ rebbe far credere, adoperando l’eufemistica espressione di “effetti collaterali” , di eventualità più o meno probabili, di conseguenze accidentali e fortuite, rispetto alla presunta univocità dell’impie­ go del farmaco. Al contrario, non esiste farmaco che non sia insie­ me veleno e antidoto, tossico e rimedio. Può essere l’una cosa - il medicamento che “cura” - solo se è al tempo stesso anche l’altra, senza che mai sia possibile scindere nettamente l’azione benefica da quella negativa. Diversamente, si può giungere ad affermare che se il farmaco non fa (anche) male, non fa niente. Il sogno di un pharmakon portatore di soli effetti benigni, e dunque immune da ogni duplicità, si ritrova ben rappresentato nel

mito antico di Panacea. Figlia di Asclepio e di Epione (secondo altri, di Lampezia), la fanciulla aveva cinque fratelli, i quali com­ paiono come personaggi comunque collegati, con diverse modali­ tà, all’arte medica. Oltre a Egle (considerata la madre delle Grazie) e Macaone (ucciso da Euripilo nell’assedio di Troia), all’ambito della iatrike si possono infatti ricondurre sia Igea, concepita come personificazione della salute, sia Iaso, simbolo del processo della guarigione, sia infine il medico Podalirio. Per suo conto, Panacea, il cui nome deriva dal greco panakeomai (rispettivamente “tutto” e “curare”), era ritenuta la per­ sonificazione di una capacità di guarigione illimitata, conseguita mediante l’uso di alcune piante. Tracce di questo mito si possono ritrovare nella lingua latina, dove per esempio alla pianta denomi­ nata Heracleum sphondylium, detto anche panace, erano attribuite virtù magiche per la guarigione di alcune malattie. Ne riferisce estesamente Plinio il Vecchio, nella parte della sua Storia naturale dedicata alle piante medicinali: “Il panace, con il suo stesso nome, promette di essere rimedio contro tutte le ma­ lattie [...]. Per questa ragione Asclepio chiamò sua figlia col no­ me di Panacea”.5Ma il fatto stesso che del potere di guarire, sen­ za contemporaneamente avvelenare, fosse accreditata una figura appartenente al repertorio della mitologia classica è di per sé una prova, pur se indiretta, dell’irriducibile ambivalenza del farmaco - del suo non potere essere appunto una pan-acea.

4. Paracelso, Responsio ad quasdam accusationes & calumnias suorum aemulomm et obtrectatorum. Defensio III. Oescriptionis & designationis nouorum Receptorum, in Opera omnia medico-chemico-chirurgica, Genève 1658, p. 254. Su ciò si veda W. Pagel, Paracelsus. An lntroduction to Philosophical Mediane in thè Era o f thè Renaissance, Karger, Basel 1958; P. Meier, Paracelso. Medico e profeta, tr. it. Salerno, Roma 2000.

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IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE

“Aronne poserà entrambe le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di esso tutte le colpe degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del ca­ pro: poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Così il capro porterà sopra di sé tutte le loro colpe in una regione remota, ed egli invierà il capro nel deserto.”6 In questi termini, in uno dei libri più antichi della Bibbia ebraica, viene descritto il comportamento indicato per il “Giorno dell’E5. Plinio il Vecchio, Naturalis bistorta, XXV, 30. Una descrizione analoga è presen­ te anche in Pausania, Guida della Grecia, a cura di D. Musti, L. Beschi, tr. it. Mon­ dadori, Milano 1990,1,34. 6. Lv 16,21-22.

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spiazione” (Yom Kippur). Non si tratta di un evento isolato, ma di quella che è esplicitamente definita come una “legge peren­ ne” : “Nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, vi umilie­ rete, vi asterrete da qualunque lavoro [...] perché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati”.7 Il “meccanismo” logico che è alla base della cerimonia descrit­ ta nel Levitico è chiaro. Per poter guarire il popolo di Israele dalla malattia che lo ha contaminato, sarà necessario “riversare sulla te­ sta di un capro” tutte le colpe, tutte le trasgressioni, tutti i peccati, per poi allontanare il capro, inviandolo nel deserto. Il risanamento di quell’organismo in grande, che è costituito dal popolo di Israe­ le, potrà essere ottenuto solo svuotandolo dalle impurità che lo hanno ammorbato, e trasferendole all’esterno. Il mezzo attraver­ so il quale realizzare questa purificazione sarà un capro, che verrà caricato di ogni negatività, e poi espulso dalla comunità. Affinché il capro possa funzionare come rimedio, capace di ripristinare la purezza originaria offuscata dal peccato, si dovrà agire in modo da raccogliere e poi concentrare su di esso qualunque colpa sia stata commessa, in modo che l’espulsione del capro possa coincidere con l’espiazione di tutti i peccati.8 Sono evidenti i presupposti insiti in questa pratica, concepita non come comportamento straordinario, ma come “legge peren­ ne” , alla quale dunque obbedire secondo cadenze regolarmente definite. Si presume infatti che la malattia di un organismo - qua­ li che ne siano le “dimensioni”, si tratti di una persona o di una collettività - dipenda da una presenza negativa che si annida al suo interno. La guarigione potrà essere raggiunta attraverso una sequenza rigorosamente definita di comportamenti: individua­ zione delle diverse espressioni del “male”, trasferimento su un animale sulla cui testa è stata raccolta la negatività, infine allon­ tanamento e/o sacrificio dell’animale stesso. Poiché non si può impedire che il male penetri all’interno di un organismo, deter­

minandone la malattia, si può tuttavia agire per risanarlo, espel­ lendo l’ospite indesiderato.9 PHARMAKOS

Un rituale pressoché identico, presumibilmente di derivazione orientale, è attestato anche nel mondo greco arcaico. Si tramanda infatti che ogni anno la comunità ateniese scegliesse uno dei suoi membri marginali, affetto da deformazioni fisiche o psichiche, e 10 mettesse al bando, accompagnandolo in processione alle porte della città, affinché con la sua espulsione venisse trasferito all’e­ sterno l’insieme delle contaminazioni presenti nel gruppo sociale. 11 personaggio - di per sé innocente, in quanto non responsabile personalmente di alcuna colpa specifica - al quale veniva affida­ ta la funzione purificatrice si chiamavapharmakos.10Egli “doveva attirare su di sé tutta la violenza malefica per trasformarla, con la propria morte, in violenza benefica”.11A un’usanza analoga, la cui prima testimonianza letteraria è in Ipponatte,12 si riferisce anche il poeta Callimaco (fr. 90),13 il quale accenna alla consuetudine di scegliere un individuo per la sua bruttezza, nutrirlo a spese della città, e poi, in un giorno stabilito, espellerlo a frustate. Una varian­ te di questi racconti riferisce che a Atene, in occasione delle feste

7. Lv 16,29-30. Su questo capitolo del Levitico, si veda G. Deiana, Il Giorno dell’E ­ spiazione. Il kippur nella tradizione biblica, numero monografico di Supplementi al­ la Rivista Biblica, 30, EDB, Bologna 1994. Oltre che nel Levitico, una descrizione del mito si trova anche nella Mishnah (Yoma, cap. 6) e nel Talmud (Yoma, fogli 66-67). 8. L. Monloubou, F.M. Du Buit, Dizionario Biblico storico-critico, tr. it. Boria, Roma 1987, p. 183.

9. Per un’ampia ricognizione della presenza di questo tema in contesti religiosi diversi, si vedano le intense pagine di J.G . Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, tr. it. Newton Compton, Roma 1992, pp. 602-651. 10. Intorno a questa figura, ricorrente con alcune varianti in numerosi documenti diversi della Grecia arcaica e classica, i lavori più importanti (oltre a quelli citati nel­ le note successive) si devono a W. Burkert, Structure and History in Greek MythologyandRitual, University of California Press, Berkeley 1979, pp. 59-77; J. Bremmer, “Scapegoat rituals in Ancient Greece”, in HarvardStudies in ClassicalPhilology, 87, 1983, pp. 299-320; J.P. Guepin, The Tragic Paradox. Myth and Ritual in Greek Tragedy, Hekkert, Amsterdam 1968. Ma il lavoro recente più ampio e illuminante sul “modello pharmakos” si deve a T.M. Compton, Victim ofthe Muses. Poet as Scape­ goat, Warrior and Hero in Greco-Roman and Indo-European Myth and History, in Hellenic Studies Series, 11, Center for Flellenic Studies, Washington (d c ), disponi­ bile all’indirizzo: http://nrs.harvard.edU/urn-3:hul.ebook:CHS_Compton.Victim_ of_the_Muses.2006, con ricchissima bibliografia. 11. J.-P. Vernant, Duomo greco, tr. it. Laterza, Roma-Bari2005, p. 148. 12. Frr. 5-10 W, su cui si veda l’esauriente trattazione di T.M. Compton, Victim o f thè M uses..., cit., parte I, cap. IV. 13. Vedi A. Cameron, Callimachus and His Critics, Princeton University Press, Princeton 1995.

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in onore di Apollo (al cui rapporto con la medicina si è già accen­ nato in precedenza),14venivano scelte due persone di aspetto ri­ pugnante, un uomo e una donna, adornate con collane di fichi e infine cacciate fuori dalle mura della città. L’idea soggiacente era evidentemente quella della necessità di ripulire la città prima di procedere alla raccolta del grano. Da notare che nella figura del pharmakos finiscono per conver­ gere il reietto e il salvatore, ciò che i Greci chiamavano miasma, e cioè la piaga infetta, la macchia, la contaminazione, e ciò che al tempo stesso poteva servire a guarire dall’infezione. L’idea di fon­ do, ricorrente anche in altri contesti religiosi del Mediterraneo e del Vicino Oriente, era che per salvaguardare - o ripristinare - la buona salute di una collettività fosse necessario qualcuno che si caricasse ogni negatività.15Fatte le debite precisazioni, e senza tra­ scurare le differenze, la figura stessa del Cristo, l’Agnello di Dio che cancella i peccati del mondo, può essere assimilata al model­ lo farmacologico.16 Secondo un’interpretazione autorevole, il rituale greco del pharmakos rappresenta il culmine di una molteplicità di riti di con­ tatto e di separazione aventi la funzione di istituire un’opposizione polare fra ciò che è sano e attivo, da un lato, e ciò che viceversa è vittima e passivo dall’altro. L’indiscutibile effetto di questa proce­ dura è la salvezza della comunità dal male e dall’ansia, che vengono

espulsi con l’allontanamento della vittima sacrificale.17In età clas­ sica, una testimonianza riguardante il rito del pharmakos si ritro­ va in due passi dei Cavalieri di Aristofane, dove si ricorda la con­ suetudine di nutrire la vittima designata a spese della cittadinanza (di qui il termine demosious, col quale veniva indicato),18e dove si adopera il sostantivo pharmakos come sinonimo di “maledetto”.19 La scelta del personaggio al quale attribuire questo ruolo - l’in­ carnazione del male che occorre allontanare per la salvezza della città - cadeva per lo più su un criminale, o uno schiavo o un indi­ viduo deforme o raccapricciante, in ogni caso un emarginato dalla società. Secondo Plutarco, a Coronea veniva scelto uno schiavo, a Colofone “il più deforme di tutti”, e a Atene “il più sgradevole e disgraziato per natura”.20 A Atene, inoltre, vi era un pharmakos per gli uomini e uno per le donne.21 Da notare che, in numerose occorrenze, la figura impiegata per il rituale era chiamata katharma (“rifiuto”, “sozzura”), termine ricorrente anche nei trattati ippo­ cratici e derivante dal verbo kathairo, che diventa perikathairo per indicare una purificazione radicale. Nel giorno stabilito per la loro espulsione dalla città, i pharmakoi venivano abbigliati con vestimenti sacri e adornati in vari modi, a testimonianza del fatto che il personaggio destinato al sacrificio si proponeva anche con un aspetto positivo, sacro, e non solo come pura negatività, come è confermato dalla sua appartenenza alla sfera della possessione divina, a cui sovrintende Dioniso.22 Una questione ancora in larga misura aperta è quella che riguar­ da la sorte dei pharmakoi dopo l’espulsione. Secondo alcune fonti, essi sarebbero stati immolati dopo l’estromissione dalla città, men­ tre altre testimonianze sembrano indicare il carattere puramente

14. La festa si chiamava Targelie e prendeva il nome dal grano non ancora matu­ ro (thargelia) che, cotto in una pentola, veniva portato in processione come offerta al dio. L a processione aveva luogo il secondo giorno della festa (il 7 maggio), mentre nel giorno precedente si svolgeva il rito dell’espulsione del pharmakos. A proposito del rapporto di Apollo con la medicina, si può osservare che “Apollo, dio per eccel­ lenza mantico, è anche, sin dall’inizio della documentazione, dio medico (e l’intima unità delle due funzioni si esprime nell’epiteto iatromantisY (A. Brelich, G li eroi greci, cit., p. 99; vedi anche Eschilo, Eumetiidi, 62). 15. Come risulterebbe anche dall’etimologia del termine proposta da E. Boisacq (.Oictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1916) ripresa da J. Derrida: “Pharmakorr. incantesimo, filtro, droga, rimedio, veleno. Pharmakos·. mago, strego­ ne, avvelenatore; colui che si immola in espiazione delle colpe di una città [...], da cui scellerato. Pharmasso [...] in modo chepharmakon avrebbe significato ‘ciò che riguarda un colpo demoniaco o che è usato come mezzo curativo contro tale colpo’, data la credenza popolare molto diffusa che delle malattie sono causate da colpi del demonio e guarite nello stesso m odo” (La farmacia di Platone, con un saggio intro­ duttivo di S. Petrosino, tr. it. Jaca Book, Milano 1985, pp. 114-115). 16. Su tutto ciò, resta fondamentale il contributo di W. Burkert, Homo necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, tr. it. Boringhieri, Torino 1981.

17. Vedi W. Burkert, Structure and History..., cit., p. 67. 18. Aristofane, Cavalieri, a cura di G. Mastromarco, tr. it. UTET, Torino 1983, v. 1137, p. 301. 19. Ibidem, v. 1405, p. 321; vedi T.M. Compton, Victim oftheM uses..., cit., par­ te I, cap. 14. 20. Questa espressione - “para ten physeos epibebouleuomenous” - si ritrova nel­ le Rane di Aristofane, v. 742. 21. Fozio, Biblioteca, 279. 22. “Dal Salto degli amanti, una bianca scogliera all’estremità dell’isola di Leucade, gli abitanti scaraventavano ogni anno in mare un criminale come capro espia­ torio. Per attutirne la caduta, gli legavano addosso uccelli vivi e penne e, al di sotto, una flottiglia di piccole imbarcazioni lo aspettava per ripescarlo e portarlo fuori dai confini dell’isola” (J.G. Frazer, Il ramo d’oro, cit., pp. 643-644).

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simbolico della morte degli espulsi, perché l’effetto purificatorio sarebbe stato raggiunto con la cerimonia culminante con la cac­ ciata dalla città, senza bisogno dunque di un completamento me­ diante sacrificio cruento.23 Una fra le molte varianti del modello tradizionale del pharmakos è quella nella quale la vittima sacrificale è un re oppure un eroe, anziché un anonimo reietto dalla società. La storia di Codro, re dell’Attica, per esempio ricalca la struttura logica del rito farma­ cologico, pur riguardando un personaggio agli antipodi delle figu­ re abitualmente scelte per la cerimonia di purificazione. Quando i Dori assediano l’Attica, Codro riceve dall’oracolo un responso, secondo il quale i Dori non sarebbero riusciti a conquistare l’At­ tica, se lo avessero ucciso. Allora Codro si traveste da schiavo, si mescola ai nemici e agisce in modo da essere ucciso. Scoperto ciò che era accaduto, i Dori rinunciano all’invasione dell’Attica (in una variante, il re muore in battaglia).24 In questa vicenda, per­ sistono alcuni elementi strutturali del rito purificatorio che ha al centro la figura del pharmakos. Ritroviamo, infatti, la situazione di difficoltà della città, la discesa dell’uomo più importante al livello sociale più umile, l’allontanamento volontario dalla sua terra e in­ fine la sua morte, che salva la patria dal disastro.25 Qui è possibile individuare la quintessenza della cerimonia in­ centrata sul rito farmacologico: “Origine della differenza e della divisione, il pharmakos rappresenta il male introiettato e progetta­ to. Benefico in quanto guarisce - di conseguenza venerato, circon­ dato di cure - , malefico in quanto incarna la potenza del male - e

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di conseguenza temuto, circondato di precauzioni. Fonte di ansia e di tranquillità. Sacro e maledetto. La congiunzione, la coincidentia oppositorum si disfa continuamente col passaggio, la decisione, la crisi. L’espulsione del male e della follia riporta la sophrosyne” ,26 La grande varietà delle forme con le quali si presenta il phar­ makos, in Grecia, a Roma e anche in altri contesti del Vicino Oriente,27e la ricorrenza di riti di purificazione comunque impron­ tati al meccanismo dell’espulsione salvifica della negatività, lungo un arco di tempo che dall’età omerica raggiunge l’Atene classica, stanno a dimostrare quanto fosse diffusa e radicata una vera e pro­ pria struttura logica. Si potrebbe descriverla grossolanamente nei seguenti termini. Se un organismo - un singolo individuo o una collettività - è colpito da quella che si può genericamente definire una “malattia”, si deve presumere che essa dipenda dalla presen­ za di qualcosa che ne abbia alterato l’armonia e il buon funziona­ mento. Per ottenere il “risanamento”, il ripristino dell’originaria condizione di equilibrio, è necessario raccogliere ciò che è causa dell’infezione, trasferendolo all’esterno. Il pharmakos assomma dunque in sé una polarità di aspetti, perché da un lato è il miasma, la piaga infetta, ciò che è causa dello squilibrio, e dall’altro agi­ sce come soter, come salvatore, come tramite per la guarigione.28 Ma ciò che più conta sottolineare è che il tratto di gran lunga più caratteristico di questa figura è per l’appunto l’ambivalenza, la convergenza di bene e male, l’impossibilità di distinguere e separa­ re le due “facce”, con le quali esso si presenta. Di più: il vero e pro­ prio principio di individuazione del pharmakos, quale conseguen­ za della sua intrinseca duplicità, non è solo l’indissolubilità delle due funzioni, ma piuttosto il fatto che l’una può essere esercitata solo in quanto agisca l’altra. Può infatti guarire, il pharmakos, ma solo in quanto intossichi. E soter perché è miasma. Può essere rime­ dio allo squilibrio dell’organismo, solo perché ne è la causa. L’es­ senza del comportamento farmacologico consiste precisamente nella coincidenza, e nella inscindibilità, fra due funzioni opposte.

23. Come sostiene, fra gli altri, G. Murray, The Rise o f thè Greek Epic, Clarendon Press, Oxford 1934. 24. Vedi Pausania, Guida della Grecia, cit., 1, 32,4-6; Cicerone, Tusculanae Disputationes, 1.48.116; Erodoto, 7, 134-144; A. Brelich, Guerre, agoni e culti nella Grecia Arcaica, Habelt, Bonn 1961. 25. Una vicenda molto simile a quella di Codro è al centro della tragedia Eraclidi di Euripide, dove la giovane Macaria si immola volontariamente perché l’ora­ colo ha sentenziato che soltanto il sacrificio di una giovane vita avrebbe consentito agli Eraclidi la vittoria nella battaglia che si sarebbe svolta il giorno dopo (vedi E. O ’Connor-Visser, Aspects o f Human Sacrifice in thè Tragedies of Euripidei, Griiner Publishing Company, Amsterdam 1987). La “teoria del pharmakos” è stata appli­ cata anche all’ambito della politica: vedi D. Ogden, The Crooked Kings o f Anctent Greece, Bristol Classical Press, London 1997. Sulla figura del pharmakos, in Grecia e a Roma, resta imprescindibile l’imponente lavoro di T.M. Compton, Victim o f thè Muses, più volte già citato.

26. J. Derrida, ha farmacia..., cit., p. 116. 27. VediJ.E. Harrison, Themis. Uno studio sulle origini sociali della religione gre­ ca, tr. it. La Città del Sole, Napoli 1996, p. 249; M. NUsson, History o f Greek Religion, Clarendon Press, Oxford 1925, pp. 27 sgg. 28. Su questi temi, restano fondamentali i volumi di R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. Adelphi, Milano 1980, e II capro espiatorio, tr. it. Adelphi, Milano 1987.

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Alla luce di queste considerazioni, si può allora comprendere per quali motivi, attinenti aU’originario significato della “fami­ glia” di termini modellati sulla radice pharma-, l’impiego di pharmaka nell’ambito dell’arte medica implichi fin dall’inizio un in­ tervento ineliminabilmente duplice. Per quali motivi, insomma, il pharmakon - come il pharmakos - non possa giovare, se non al tempo stesso avvelenando.

29. Come sottolinea giustamente T.M. Compton (Victim ofthe M uses..., cit.), Androgeo è una figura per lo più trascurata dagli studiosi, i quali abitualmente si concentrano sul meccanismo del rituale, più che sui personaggi che secondo le fon­ ti ne sono stati protagonisti. Figlio del re Minosse e di Pasifae, celebre per le sue straordinarie qualità di atleta, vittorioso ai giochi panatenaici, modello di vigore giovanile e di virtù agonistiche, e quindi certamente molto diverso dai pharmakoi deformi e squallidi nutriti a spese della collettività a Atene, Androgeo sarebbe stato ucciso dai suoi competitori, gelosi della sua superiore prestanza atletica. D a notare che Passassimo sarebbe stato commesso durante il viaggio di Androgeo verso Tebe, dove egli avrebbe voluto partecipare ai giochi funebri in onore del padre di Edipo. Secondo un’importante variante del mito, il giovane avrebbe trovato la morte nel duello ingaggiato col toro di Maratona. L’assassinio di Androgeo, avvenuto nel ter­ ritorio di Atene, aveva provocato la disgrazia della città, colpita da pestilenza, guer­ ra e carestia (le tre piaghe tradizionalmente associate al rito del pharmakos). Inter­ rogato l’oracolo sulle modalità per liberarsi dalla maledizione, gli Ateniesi vengono a sapere che saranno tenuti a rendere soddisfazione a Minosse, padre di Androgeo, col tributo di sette giovani fanciulle e di sette giovani maschi, che dovranno essere vittime del Minotauro. Rispetto al modello tradizionale del pharmakos, si può no­ tare che nel caso di Androgeo le piaghe che ammorbano la città sono successive, e non precedenti, rispetto all’espulsione/morte della vittima designata, mentre i gio­ vanetti dati in pasto al Minotauro funzionano come capri espiatori della vergogna che ha colpito la città a seguito dell’uccisione “anticipata” di Androgeo -pharmakos (vedi anche J. Fontenrose, “The athlete as hero”, in California Studies in Classical Antiquity, 1,1968, pp. 73-104). 30. Come già accennato, infatti, Androgeo sarebbe stato ucciso lungo il tragitto verso i giochi di Tebe, tenuti proprio in onore di Laio, padre di Edipo (Apollodoro, I miti greci, cit., Ili, 15,7; Diodoro Siculo, Biblioteca storica, IV, 60,5).

è protagonista Edipo ha origini che risalgono ben oltre l’età clas­ sica, e si collocano nell’area della civiltà egeo-anatolica che prece­ de la cultura ellenica. Nella cultura greca, le primissime notizie su Edipo si trovano in due luoghi dell’Iliade: un accenno nella descri­ zione della gara di pugilato ai giochi funebri in onore di Patroclo (libro X X IIl), e nel libro XI, dove si parla della sorte di Edipo do­ po la rivelazione dell’incesto, riferendo altresì del suicidio della madre-moglie, qui chiamata Epicasta. L’origine propriamente ellenica del mito scaturisce dall’inne­ sto nel nucleo mitico originario, costituito dalla combinazione parricidio-incesto, di alcuni nuclei secondari derivati, quali l’e­ sposizione del neonato, la lotta con la Sfinge, le vicende relative al trono di Tebe. Le stratificazioni mitiche successive a quella ori­ ginaria si spiegano con la necessità di fornire un’interpretazione accettabile del binomio parricidio-incesto, una volta che i mu­ tamenti intervenuti nel quadro sociale e familiare, col passaggio dalla primitiva civiltà mediterranea a quella ellenica, ne avevano offuscato il significato rituale collegato con i cicli della coltiva­ zione agricola. La coppia parricidio-incesto presuppone, infatti, un preciso rituale (dove il rito non è altro che la celebrazione del mito) evocante l’uccisione del dio vecchio per mano del dio gio­ vane (spesso suo figlio) che si sostituisce a lui nella funzione di sposo della dea. Il significato di questo rituale, che si ripeteva annualmente in corrispondenza col ciclo vegetativo, va cercato nella necessità di rinnovare e potenziare le virtù generatrici dello sposo della deamadre, identificata con la Terra, mediante l’apporto di giovani energie fecondatrici. Tracce di questa concezione originaria si ri­ trovano nella Teogonia di Esiodo, dove Crono, il cui simbolo è quello di un falcetto, di evidente origine agricola, evira (il verbo impiegato dal poeta per indicare la castrazione - emese, “ha mietu­ to” - è anch’esso di chiara derivazione agricola) il padre Urano e si unisce alla madre Gaia (la Terra) per generare una numerosa prole. In età classica, l’interpretazione del mito è principalmente im­ postata sul tema degli oracoli, nel senso che l’altrimenti incredibile (per la mentalità olimpica) vicenda di Edipo è vista come conse­ guenza dell’ineluttabile attuazione di un oracolo. In questo mo­ do, tanto l’uccisione del padre, quanto il connubio con la madre, compiuti dal bambino esposto fattosi adulto, avvengono senza che

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Figura eminentemente farmacologica - per molti aspetti simi­ le al re Codro, da altri punti di vista assimilabile a Androgeo,29 al quale è legato anche da una circostanza non insignificante - 30 è Edipo, figlio di Laio e Giocasta, nativo di Tebe, ma divenuto an­ che legittimo successore sul trono di Corinto. Prima di essere utilizzato da Sofocle come “trama” delle trage­ die dedicate alla saga dei discendenti di Labdaco, il mythos di cui

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Edipo riconosca i suoi genitori, quale effetto dell’inesorabilità dei decreti del fato preannunciato dall’oracolo. All’originaria spiegazione del mito, nella quale parricidio e in­ cesto corrispondono a esigenze di rivitalizzazione della fertilità della terra, si sostituisce in tal modo l’assunzione di Edipo come simbolo della condizione umana, soggetta a un destino imperscru­ tabile e insieme inviolabile. I nuclei mitici successivi - il concorso nuziale, l’eroe che vince il mostro, l’ordalia, le nozze regali - sono funzionali alla reinterpretazione in chiave oracolare e ribadiscono il carattere di “razionalizzazione” del mito primitivo.31In partico­ lare, l’episodio della Sfinge, mostro alato di natura mista umana e bestiale, ci riporta al mito locale beotico: appunto in una grotta della Beozia dimorava quella Phix, demone oracolare, che l’eti­ mologia popolare doveva trasformare, per accostamento a sphingo (“strangolo”, “soffoco”), nella Sphings?2 Secondo l’interpretazione del mito edipico proposta da Vladi­ mir Propp, la Sfinge eserciterebbe lo stesso ruolo della principessa nella fiaba, nel senso che Edipo priva la Sfinge della sua forza allo stesso modo con cui nella fiaba ne è privata la principessa-maga, vale a dire mediante l’unione matrimoniale.33 Una conferma di questa interpretazione verrebbe dallo scolio delle Fenicie nel qua­ le il mostro altro non sarebbe che una figlia bastarda di Laio. In un’altra variante del mito, nota da Pausania, la Sfinge - che fosse o meno figlia di Laio - proponeva un enigma che solo i discendenti legittimi del re avrebbero potuto risolvere; e mentre i figli illegit­ timi di Laio morivano nel tentativo di risolverlo, solo Edipo, in quanto discendente legittimo, riusciva a venirne a capo. Dal punto di vista generale, si può osservare che l’itinerario di Edipo manifesta la stessa struttura morfologica e il medesimo ca­ rattere della figura dell’eroe culturale: natura per qualche aspetto

sovrumana, imperfezioni fisiche, anormalità sessuale congiunta a ipersessualità, intelligenza straordinaria, violenza sanguinaria, follia, trasgressione di ogni limite, anche nel senso della illegali­ tà, nozze memorabili, infine successo che implica inevitabilmen­ te la caduta. Fra i tratti distintivi dell’eroe greco è da segnalare anche la mo­ struosità fisica, non come indizio di una “imperfezione”, ma come segno dell’appartenenza dell’eroe all’alterità precosmica-anticosmica. Dal punto di vista fenomenologico, tale deformità può ma­ nifestarsi come statura eccessivamente alta o bassa, teriomorfismo, androginismo, acefalia o policefalia. Fra tutte, l’imperfezione più ricorrente nella mitologia greca è quella relativa ai piedi, da cui si evince il carattere culturale, e non semplicemente naturale o acci­ dentale, della mutilazione imposta a Edipo. A questo paradigma dell’eroe culturale fa riscontro, inoltre, il costante intervento della natura nei passaggi decisivi della storia, a cominciare dall’esposizione iniziale, che accomuna Edipo ad altre figure di bambini esposti destinati a svolgere il ruolo di eroi fonda­ tori, da Mosè a Ciro, da Romolo a Gregorio Magno.34Il passaggio dell’eroe fondatore/distruttore nella natura selvaggia segnala lo scarto fra la vecchia civiltà, che egli ha il compito di distruggere, e il nuovo ordine di cui egli pone le fondamenta. L’esposizione, per il rampollo di una dinastia regnante, svolge altresì una fun­ zione di iniziazione alla regalità, mediante l’acquisizione di talune competenze specifiche (nel caso di Edipo, anche nel campo della mantica), capaci di renderlo idoneo alla successione. Da un lato, insomma, l’esposizione è intesa a escludere il neonato dalla linea dinastica legittima; dall’altro essa finisce per abilitare l’esposto alla successione che si vorrebbe precludergli. Rispetto ad altre figure di eroi culturali, un tratto peculiare del mitico sovrano di Tebe è

31. Per un’analisi più dettagliata del significato originario del binomio parricidioincesto, vedi L. Gernet, Antropologia della Grecia antica, tr. it. Mondadori, Milano 1983; M. Delcourt, Stérilités mystérieuses et naissances maléfiques dans l’antiquité classique, Paris 1938; F. Héritier, “Incesto”, in Enciclopedia, VII, Einaudi, Torino 1979, p. 255. Per questa ricostruzione del mito di Edipo, seguo il percorso traccia­ to da O. Longo nella sua introduzione “Nel segno di Edipo” , in Sofocle, Edipo re, a cura di O. Longo, tr. it. CLEUP, Padova 1989, pp. 9-30. 32. Vedi O. Longo, “Nel segno di Edipo” , cit., p. 17. 33. Vedi V.J. Propp, Morfologia della fiaba, a cura di G .L. Bravo, tr. it. Einaudi, Torino 1966.

34. Sull’interpretazione del mito di Edipo e la sua connessione col repertorio mitologico greco e mediterraneo si vedano soprattutto i fondamentali lavori di M. Delcourt, Oedipe ou la legende du conquérant, Liège-Paris 1944; E Dirlmeier, Il mi­ to di Edipo, tr. it. il melangolo, Genova 1987 ; B.M.W. Knox, Oedipus at Thebes, Ya­ le University Press, New Haven-London 1966; G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero, tr. it. Rosenberg & Sellier, Torino 1974; E. Rohde, Psyche, tr. it. Laterza, Roma-Bari 1982; J.-P. Vernant, Mito e società nella Grecia antica, tr. it. Einaudi, To­ rino 1981; Mito e pensiero presso i Greci, tr. it. Einaudi, Torino 1984; K. Kerényi, La mitologia dei Greci, tr. it. Astrolabio, Roma 1951;P. Nilsson, Geschichte der Griechischen Religion, Verlag C.H. Beck, Miinchen 1967.

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che l’esposizione è accompagnata da una mutilazione, vale a dire la perforazione delle caviglie, realizzata fissandogli ai piedi degli anelli d’oro.35 Ebbene, mentre l’abbandono del neonato nella natura sel­ vaggia può essere spiegato con l’esigenza di impedirne la suc­ cessione al trono, la mutilazione sembra corrispondere a un atto di ferocia gratuita, non avendo alcuna diretta relazione con le fi­ nalità alle quali era invece destinata l’esposizione. In realtà, nel­ le credenze dell’antichità classica, l’anello ha un significato ben preciso, equivalente a quello di un nodo inestricabile, capace di fissare, legare o, più esattamente, di im-pedire·. Edipo deve esse­ re “bloccato” in un possibile cammino di ritorno verso il padre, sicché lo si colpisce nel luogo di im-pedimento per eccellenza, vale a dire i piedi. Tenendo presente la parte del corpo in cui so­ no fissati gli anelli - i piedi, appunto - la mutilazione sortisce il risultato specifico di “bloccare” o “trattenere”, come risulta dal verbo greco empodixo e dal suo corrispondente latino impedio (il contrario è ex-peditus). Ma il carattere comunque non necessario della mutilazione, per il raggiungimento di scopi che avrebbero potuto essere sod­ disfatti col ricorso all’esposizione, e il fatto che il neonato Edipo sia l’unico, nella folta schiera (ne sono stati contati circa 120) di eroi fondatori esposti, a subire anche una mutilazione, rendono più plausibile l’interpretazione di questo aspetto del mito in chia­ ve psicoanalitica, anche per la connessione tra la perforazione dei piedi, che interviene all’inizio della vicenda, e l’autoaccecamento con cui essa si chiude. Nel mito, i piedi, così come gli occhi, sono simboli degli organi genitali, sicché tanto la mutilazione ai piedi quanto l’accecamento si presentano come figure della castrazione, nel primo caso con lo scopo di evitare la consumazione dell’incesto, nel secondo per punirne il colpevole. Da notare che nell 'Edipo re, per indicare i rapporti sessuali del protagonista con la moglie-madre, Sofocle impiega ricorrentemente i termini desunti dal lessico agricolo, ri­ collegandosi con ciò, sia pure indirettamente, a quell’emese (“ha

mietuto”) usato da Esiodo per indicare l’evirazione di Urano da parte di Crono.36 GUARIRE INTOSSICANDO

Assumendo il racconto relativo alla nascita e all’esposizione di Edipo come antefatto, che verrà richiamato a più riprese nel cor­ so del dramma, Sofocle mette in scena - attraverso una mirabile “consecuzione di casi”37 rigorosamente costruiti secondo le rego­ le della drammaturgia - una vera e propria cerimonia rituale, che vede nel figlio di Laio il pharmakos, in grado di salvare la città. La vicenda, nei suoi tratti generali, è nota. La rappresentazione inizia con la descrizione delle sofferenze e dei lutti che hanno col­ pito la città di Tebe, afflitta da una pestilenza che sta decimando la popolazione. Non resta insensibile, di fronte alle lacrime dei suoi concittadini, il re Edipo, asceso al trono dopo la morte del prece­ dente sovrano Laio, ucciso lontano da Tebe in circostanze ancora in gran parte misteriose. Udito il responso dell’oracolo - “a Tebe si annida un miasma, una ‘piaga infetta’, la cui presenza occulta nella città è la causa della pestilenza” -, Edipo annuncia la sua in­ tenzione di condurre personalmente l’indagine, volta a scoprire il “colpevole nascosto”. Non avrà pace, il re, fino a che non avrà snidato l’assassino e lo avrà espulso dalla città. Solo con questo duplice movimento, solo accertando l’identità del reo e poi estromettendolo dalla città, solo dunque applicando scrupolosamente lo schema implicito nel rituale farmacologico, la città potrà essere liberata dall’infezione. Tutta la prima parte della tragedia - fino al turning point, costituito dall’arrivo di un anghelos (“messaggero”) proveniente da Corinto e recante la notizia della

35. Questo dettaglio si desume da una fra le numerose (circa una dozzina, fra cui quelle attribuite a Acheo, a Filocle, Nicomaco, Senocle ecc.) drammatizzazioni del mito in età attica, vale a dire quella contenuta nelle fenicie di Euripide, w. 35-37; sull’argomento vedi M. Scriabine, Au carrefour de Tbèbes, Gallimard, Paris 1977.

36. Per la rilettura e l’interpretazione del mito di Edipo fin qui abbozzata, oltre ai testi citati nelle note precedenti, si rinvia una volta per tutte agli importanti saggi contenuti nel fondamentale volume di G. Gentili e R. Pretagostini (a cura di), Edi­ po. Il teatro greco e la cultura europea, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1986. Si vedano, inoltre, il lavoro di D. Comparetti, Edipo e la mitologia comparata, Nistri, Pisa 1867, e il saggio di G. Paduano, “Edipo e altre favole di alienazione”, in G. Ferroni (a cura di), La semiotica e il doppio teatrale, Liguori, Napoli 1981, pp. 285-306; G. Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Einaudi, Torino 1991. 37. Systasis ton pragmaton - “connessione di fatti”: in questi termini, Aristote­ le definisce la “trama” (desis) dei componimenti drammatici, siano essi tragedie o commedie, nella Poetica.

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morte naturale del presunto padre di Edipo - è dedicata all’inda­ gine poliziesca volta a stabilire l’identità del colpevole. Una volta che si sia avviato lo “scioglimento” (lysis) del “nodo” (desti) tragico, una volta che la responsabilità di Edipo, parricida e incestuoso, sia emersa senza più margini di dubbio, resterà una sola strada obbligata. Il miasma dovrà essere allontanato dalla cit­ tà, affinché essa possa essere risanata. Solo espellendo colui che si è macchiato di due orrendi delitti, uccidendo il padre e seminando il grembo della madre, vi potrà essere la fuoriuscita della comu­ nità dei tebani dalla pestilenza che ne ha così a lungo minacciato la sopravvivenza. La guarigione della città coincide con l’esilio al quale volontariamente si assoggetta Edipo. Quello stesso “piedi gonfi”, che vent’anni prima aveva liberato Tebe dal macabro tri­ buto di vite umane preteso dalla Sfinge, ora restituirà una buona salute alla sua polis, facendo oblazione di se stesso. Ora che colui che era “quasi uguale agli dei” si è manifestato come colui che è “uguale a nulla”. Ora che il signore potentissimo, infallibile solu­ tore di enigmi, salvatore della città, ha manifestato l’altra faccia, quella dell’ultimo fra gli uomini, enigma egli stesso, appestatore della città - ora che tutto ciò si è compiuto, l’unica via di riscatto, l’unica possibilità di guarigione, consiste nell’espellere l’infezione, per ripristinare l’ordine violato. Edipo potrebbe tentare di giustificarsi, adducendo alcune at­ tenuanti. La colpa (hamartia) di cui egli è responsabile scaturisce originariamente da un’errata interpretazione dell’oracolo, o co­ munque dalla sfasatura fra la domanda posta (“Quali sono i miei genitori?”) e la risposta (“Ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre”). Mentre, infatti, il protagonista della tragedia riconosce che “Febo ricusò di rispondere alle mie domande”,38 egli si com­ porta come se il responso non contenesse margini di ambiguità. Perciò sceglie di non ritornare a Corinto (città nella quale abitava­ no coloro che egli credeva fossero i suoi genitori), e di proseguire la strada verso Tebe (città a lui sconosciuta, nella quale abitavano i suoi veri genitori). Con questa decisione, essenzialmente fonda­ ta su un’interpretazione abusiva dell’oracolo, ma insieme detta­

ta dal genuino desiderio di non diventare parricida e incestuoso, egli va inconsapevolmente incontro proprio al destino dal quale intendeva fuggire. In realtà, l’oracolo realmente non ha nulla di nuovo da indica­ re se non ciò che è già implicito nella domanda. La risposta di­ pende dalla domanda. Il grado di validità della risposta dipende dal grado di validità della domanda. Invano, Giocasta cerca di ri­ velargli la strategia del gioco dell’oracolo (“Ascoltami ed impara che non c’è niente, niente sulla terra connesso con profeti e pro­ fezie”). Cionondimeno, Edipo continua la sua ricerca, assogget­ tando l’ambiguità di per sé irresolubile del responso oracolare al­ la logica della non contraddizione. Pur affermando di non volersi appiattire passivamente sulle indicazioni provenienti dalla Pizia, egli si comporta come chi sia convinto del fatto che l’oracolo gli trasmetta, attraverso un segno, una conoscenza o una verità total­ mente autentica.39 Il segno impresso sull’intera vicenda drammatica dall’irridu­ cibile ambiguità dell’oracolo si riflette nella struttura fortemente antinomica di tutta la tragedia.401 “rovesciamenti” (peripeteiai) non soltanto intervengono a scandire il vero e proprio “punto di catastrofe” del racconto - coincidendo, come lo stesso Aristote­ le aveva sottolineato, con l’altra forma della metabole, vale a dire il riconoscimento (anagnorisis) - ma accompagnano lo sviluppo dell’azione sia dal punto di vista narrativo sia sotto il profilo lin­ guistico. A questo proposito, è stato osservato che nella tragedia di Sofocle il fenomeno già descritto da Aristotele come homonymia, vale a dire la ricorrenza di espressioni a doppio senso, è riscontrabile in più di cinquanta occasioni, mentre la media in

38. Sofocle, Edipo re, v. 788, a cura di F. Ferrari, tr. it. Rizzoli, Milano 1989, p. 219 (ma si tenga presente anche la suggestiva traduzione italiana curata da E. Sanguineti, Zanichelli, Bologna 1980, oltre a quella di M. Valgimigli, Comitato Spetta­ coli Edizioni, Vicenza 1980).

39. Come rileva F. Tonelli, La caduta della Sfinge. E enigma della tragedia di Edipo, Longo, Ravenna 1984, pp. 26-28. Sul tema degli oracoli, si vedano inoltre J. Fontenrose, The Delphic Oracle, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1978; U. Hòlscher, “Paradox, simile, and gnomic utterancein Eraclitus”, in A.P.D. Mourelatos (a cura di), The Pre-Socratics, Princeton University Press, New York 1974, pp. 233 sgg.; J. Barnes, ThePresocraticPhilosophers, voi. I, Routledge, London 1979, pp. 80 sgg.; sul rapporto uomo-dio in Sofocle vedi W. Bròcker, Der Gott des Sophokles, Klostermann, Frankfurt am Main 1971; A. Lesky, H. Diller, W. Schadewaldt (a cura di), Gottheit undMensch in der Tragedie des Sophokles, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1963. 40. È questa la tesi di fondo argomentata nel libro di J.-P. Vernant e P. VidalNaquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, cit.

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cui esso può essere registrato in altri componimenti tragici attici è inferiore della metà. La simultanea compresenza di aspetti contrastanti è indizio di una intrinseca duplicità, più ancora che di una generica ambigui­ tà, del protagonista. Edipo appare straniero a Tebe, pur essendo­ ne in realtà nativo, e viceversa appare nativo di Corinto, benché ne fosse straniero; decifratore di enigmi, e nel contempo egli stes­ so enigma indecifrabile; giustiziere e criminale; chiaroveggente e cieco; pharmakos e miasma della città; celebre, primo degli umani, migliore dei mortali, provvisto di potere, intelligenza, onori, ric­ chezza, si ritrova l’ultimo, il più sventurato, il peggiore degli uo­ mini, una macchia, capace di ispirare solo orrore ai propri simili In una certa misura, la sintesi di questo carattere insuperabilmente antinomico può essere individuata nel verso 31, dove Edipo è de­ finito “uguale agli dei” (isoumenos theoisi) e nel verso 1107 —an­ che lessicalmente simmetrico - nel quale egli è “isa kai to meden”, “uguale al nulla”. Questa costitutiva - e ineliminabile - ambivalenza di Edipo è altresì ulteriormente confermata dal ruolo che egli gioca nello scacchiere delle relazioni familiari. Progenie e insieme assassino di suo padre, figlio e sposo di sua madre, da lui indotta a concepire un marito da un marito e figli da un figlio, padre e fratello dei suoi figli, i quali sono a loro volta nipoti e figli della stessa donna, fratelli e figli dello stesso uomo, Edipo è l’incarnazione dell’impossibilità di essere soltanto uno, ed è altresì “agente” di duplicità per coloro con i quali istituisce rapporti. Fino a quando giunge a scoprire in se stesso,41nel suo nome, la chiave di volta del suo tragico destino: Edipo oida-pous, colui-che-sa-intorno-ai-piedi, il sapientissimo si­ gnore di Tebe, l’infallibile solutore di enigmi, l’uomo più potente della terra, quasi simile al dio, e Edipo oidos-pous, il piedi-gonfi, il

bambino maledetto esposto sul Citerone, l’assassino del padre e il “conseminatore” (homosporos)42della madre, il miserabile uguale a nulla sono la stessa persona.43 Nel momento in cui il detective scopre di essere egli stesso l’as­ sassino che tanto aveva cercato, accumulando gradualmente prove sempre più schiaccianti, l’inchiesta giudiziaria avviata per scova­ re il “colpevole nascosto”, responsabile della pestilenza che ave­ va colpito la città, giunge al suo compimento. Il miasma e il soter, la piaga infetta e il salvatore, sono la stessa persona. Ciò che cre­ devamo di dover cercare fuori di noi, lo ritroviamo in noi stessi. Quella frase, solennemente pronunciata dal protagonista all’ini­ zio del dramma - ego phano -, non voleva dire soltanto: “Io farò chiarezza”. Ma, a conferma dell’irresolubile duplicità di tutto ciò che attiene a Edipo, ora si capisce che voleva anche dire: “Io mi manifesterò” (come assassino). Quella sorta di piattaforma girevole, costituita dalle triplai amaxitai, dal crocicchio nel quale Edipo si imbatte, dopo aver ricevuto il responso dell’oracolo, si è rivelata fatale. Giunto a quel trivio, il giovane assume una decisione - presumibilmente sofferta e comunque tutt’altro che agevole. Egli decide di non ri­ tornare nella reggia di Corinto, presso la quale aveva trascorso anni sereni, all’ombra dell’amore di coloro che lo avevano accol­ to dopo la sua esposizione sul monte Citerone. Incrollabilmente convinto di aver “capito” ciò che il dio intendeva comunicargli attraverso la sentenza oracolare, incapace di cogliere la sfasatura fra la domanda posta e la risposta ricevuta, col proposito di sfug­ gire alla prospettiva di macchiarsi di parricidio e incesto, Edipo sceglie di avviarsi proprio verso la città nella quale vivono i suoi

41. Fondamentale, in questo abbozzo di interpretazione, è il verso 132 della tra­ gedia, dove un’ennesima espressione a doppio senso (ego phano) indica l’impegno del protagonista a svelare personalmente la verità, e nel contempo il fatto che tale verità coincida con se stesso. K. Reinhardt (Sophocles, Blackwell, Oxford 1979, pp. 94-134) osserva che illusione e verità sono le due forze opposte alle quali l’uomo è incatenato e contro le quali si dibatte, mentre T. Reiss (Tragedy and Truth. Studies in thè Development o f a Renaissance and Neoclassical Discourse, Yale University Press, New Haven 1980) sottolinea che, a differenza degli dei, i quali conoscono fin dall’i­ nizio della vicenda la struttura logica nella quale è racchiuso Edipo, questi deve pas­ sare dall’ignoranza alla conoscenza attraverso Vanagnorisis.

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42. Si tratta di un altro termine di derivazione agricola per indicare il rapporto incestuoso di Edipo (vedi Sofocle, Edipo re, v. 459; sull’argomento, si veda anche M. Stella, “Edipo o la verifica dei poteri”, in Sofocle, Edipo re, tr. it. Carocci, Roma 2010, pp. 9-48). 43. La duplicità segna in maniera indelebile l’intero tragitto seguito da Edipo an­ che per quanto riguarda gli avvenimenti principali che scandiscono la sua vicenda. In due occasioni, alTinizio e alla fine della storia, ritroviamo la stessa montagna (il Citerone), dove per volere del padre egli è esposto appena nato, e dove poi chiede di essere ricondotto a morire. Due volte, e sempre con conseguenze decisive, tanto Laio, quanto Edipo, si rivolgono all’oracolo di Delfi. L’unico, fatale, incontro tra padre e figlio si verifica allorché entrambi, provenendo da direzioni diverse, si rivolgono alla Pizia, l’uno per avere notizie dell’altro. Da Tebe esce Laio, incamminandosi in dire­ zione di Delfi. Da Delfi procede verso Tebe Edipo per evitare di uccidere il padre.

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veri genitori. Ignaro del fatto che quel semplice gesto, quella pic­ cola “deviazione” lo condurranno al duello mortale col padre e alle nozze con la madre. Volendo evitare di macchiarsi di crimini orrendi, egli intraprende il cammino che farà di lui un assassino e un incestuoso. L’epilogo della tragedia, dopo il suicidio della madre Giocasta e l’autoaccecamento del protagonista, vede Edipo avviarsi a uscire esule dalla città, sorretto dalle figlie. Al termine di questa dolorosa vicenda, dopo le prove terribili che ha dovuto affron­ tare, Tebe non potrà più rivendicare orgogliosamente di essere l’“ombelico del mondo”, la polis fra tutte più prospera e potente. La città intera e i suoi abitanti hanno dovuto attraversare un’e­ sperienza carica di sofferenze, sperimentando quanto in profon­ dità possa insinuarsi il male all’interno di una comunità. Per re­ cuperare la salute perduta, per guarire dall’infezione, essi hanno dovuto sacrificare colui che pure in passato era stato il salvatore della città. Il pharmakos esce di scena, portando con sé, nella sua andatura appesantita e traballante, tutto il peso della negatività che aveva ammorbato la sua città. Porta con sé - in sé, su di sé - una verità ulteriore, anche rispet­ to ad altre figure farmacologiche. Porta la piena consapevolezza, la vivente testimonianza, dell’impossibilità di essere soltanto uno. In nessun altro personaggio è così evidente la simultanea com­ presenza di aspetti solo apparentemente contraddittori, in realtà complementari nella loro mutua opposizione. Bambino maledetto e signore potentissimo, “piedi gonfi” e “sapiente sui piedi”, assas­ sino e benefattore, Edipo sa che non è possibile giovare alla città, se non contaminandola. Sa che non si può essere sovrano legitti­ mo e benigno, senza al contempo essere malefico tiranno usurpa­ tore. Sa, soprattutto, che - come accade inevitabilmente per ogni altro farmaco - il suo proporsi come rimedio per i mali che afflig­ gono la polis implica che egli labbia intossicata. Perché tutto ciò che riguarda la condizione umana non può che essere costitutiva­ mente ambivalente.44 44. La riflessione sulla figura di Edipo mi accompagna pressoché ininterrotta­ mente da oltre vent’anni. Se ne trova traccia in alcuni miei testi recenti: Eenigma di Edipo (con M. Treu), Il Poligrafo, Padova 1997; La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Straniero, Raffaello Cortina, Milano 2010; La porta stretta, cit.; Endiadi, cit.

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MEDICINA, RETORICA E MUSICA

Per i Greci, la salute - del corpo, ma anche dell’anima - coin­ cide con l’equilibrio ordinato tra facoltà e poteri diversi. Perciò il compito della medicina consiste nel determinare o favorire un corretto rapporto di forze sia all’interno del corpo, fra i diversi umori e le qualità che in esso sono presenti, sia all’esterno, fra l’or­ ganismo e l’ambiente. La dieta e gli esercizi, per esempio, hanno 10 scopo di ristabilire una opportuna gerarchia, garantendo l’ar­ monia fra l’interno e l’esterno, fra le forze e i poteri che agiscono dentro e fuori di noi. Da questo punto di vista, si può dire che la medicina, la quale tende ad apportare sanità e forza al corpo, assomiglia alla retorica, 11 cui scopo è quello di infondere persuasione e virtù all’anima. Ciò che accomuna queste discipline è il fatto che, affinché esse siano esercitate in maniera appropriata, è necessario che in entrambi i casi sia ben conosciuta la natura (physis) di ciò a cui esse si appli­ cano, vale a dire rispettivamente del corpo e dell’anima. In altre parole, se vogliamo intervenire con la competenza ne­ cessaria, e non solo empiricamente, sul corpo o sull’anima, se vo­ gliamo esercitare in termini scientifici la medicina e la retorica, dobbiamo conoscere in maniera approfondita la struttura e il fun­ zionamento di ciò che corpo e anima sono per natura, vale a dire come conseguenza della loro nascita. Colui che agisca, prescri­ vendo farmaci o imponendo diete, senza avere una conoscenza approfondita dell’organismo, della sua morfologia e della sua fi­ siologia, non sarebbe veramente un medico, ma semplicemente un praticone. D ’altra parte, per essere davvero all’altezza del compito, il me­ dico non potrà limitarsi alle competenze relative alla natura del corpo; egli dovrà piuttosto tener conto anche dell’anima, perché tra psyche e soma sussiste una relazione indissolubile. Così come non si devono curare gli occhi, senza curare anche la testa, né la testa senza il corpo, per la stessa ragione non si può pretendere di risanare il corpo senza prendersi carico anche dell’anima.45 Insomma, se è correttamente concepita e praticata, la medicina presuppone un approccio olistico (dal greco holon, “intero”), vale 45. Vedi Platone, Fedro, 270 b-d.

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a dire un modo di “trattare” il paziente come una totalità, anziché come un insieme di parti separate. Il buon medico dovrà dunque conoscere in maniera approfondita la natura, e cioè il modo in cui le cose sono costituite per effetto della loro nascita. E non potrà ave­ re competenze soltanto sulla natura del corpo, ma anche su quella dell’anima, e dunque anche sui rapporti intercorrenti fra l’uno e l’al­ tra. In termini generali, ciò significa che il medico può essere consi­ derato un tecnico della natura, un esperto del processo che ha con­ dotto le cose a essere quello che sono, un conoscitore dell’intima costituzione del corpo e dell’anima e delle relazioni fra esse sussi­ stenti. Quando parla un medico, dobbiamo dunque attenderci che parli qualcuno che sa qual è la natura delle cose a cui egli si riferisce. Medico è dunque colui che conosca la physis del corpo, e cioè chi sia a conoscenza del modo in cui esso è costituito, in conse­ guenza del processo che lo ha generato, e dunque della propria nascita. D ’altra parte, non basta, per distinguersi dal mero prati­ cone, che il medico conosca la natura del corpo, e neppure che - viste le indissolubili connessioni tra i due - egli abbia competen­ ze che riguardano la relazione tra il corpo e l’anima. È necessario infatti che egli tenga sempre presente ciò a cui entrambi possono essere ricondotti, vale a dire la physis tou holou, la natura del tut­ to. Se si indaga, insomma, la physis - si tratti della psyche ovvero del soma - e si intende dire intorno a essa qualcosa che sia degno di logos, non si può prescindere dall’interrogarsi sulla “natura del tutto”. L’approccio caratteristico del medico consisterà dunque nel riportare costantemente all’orizzonte concettuale della totali­ tà le singole questioni particolari. Nessuna analisi adeguata potrà essere compiuta, se non riconducendo al contesto complessivo di cui è parte il problema in esame. Come già si è visto, secondo una pluralità di fonti indipenden­ ti, la tesi dell’inscindibilità fra la natura del corpo e la natura del tutto può farsi risalire fino a Ippocrate, il fondatore della medici­ na. Lo stesso assunto si ritrova anche nelle parole con le quali il medico Erissimaco esordisce nel suo discorso a casa di Agatone, prendendo le mosse proprio da un’impegnativa affermazione ri­ guardante la physis ton somaton, la “natura dei corpi”.46Essi por­ tano in sé, sostiene infatti Erissimaco, un “duplice amore”, l’uno

che si trova nella parte sana del corpo, l’altro nella parte malata, sicché se “il più gran medico” può essere considerato colui che è capace di “distinguere l’amore bello da quello brutto”, addirittu­ ra un “professionista perfetto” sarà chi riesca a tramutarli, “sì che al posto di un amore s’acquisti l’altro”. Da questo punto di vista, l’arte medica può essere accomu­ nata alla musica, poiché entrambe condividerebbero l’essere erotikon epistemai, “scienze di moti d’amore”, l’una relativamen­ te al corpo,47l’altra “quanto all’armonia e al ritmo”,48e quindi rela­ tivamente all’anima. Perciò Eros deve essere considerato alla stre­ gua di una forza presente nell’intera physis, un principio operante in ogni processo organico, nella forma specifica della presenza si­ multanea, e della conciliazione armonica, fra coppie oppositive, come il caldo e il freddo, il dolce e l’amaro.

46. Platone, Simposio, 185 a sgg.

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Per essere un buon medico, sarà dunque necessario conoscere la natura del tutto. Sia pure argomentata in modi differenti, que­ sta tesi ritorna sia nel Simposio sia nel Fedro, vale a dire proprio nei due dialoghi dedicati alla trattazione di “cosa sia l’eros e quali siano le sue opere”. Si potrebbe anche aggiungere che la risposta forse più convincente alla domanda “ti esti eros” , quale risulta dal discorso di Aristofane nel Simposio, individua nell’amore una for­ za di risanamento, il tramite per recuperare un’integrità altrimenti perduta, un rimedio alla ferita inferta originariamente agli uomi­ ni, quando essi furono ridotti a meri symbola, a semplici “metà” di un intero.49All’amore è riconosciuto il carattere di pharmakon, poiché esso è in grado di “guarire” la nostra difettività, ripristi­ nando l’unità dell’intero. D ’altra parte, nel dialogo che conclude la riflessione sviluppa­ ta nel Fedro il riferimento alla nozione di pharmakon compare più volte, e non accidentalmente, in connessione con la ricerca riguar47. Ibidem, 186 c 5. 48. Ibidem, 187 c 5. 49. Sul rapporto amore-conoscenza, con particolare riferimento a Platone, rin­ vio ai miei scritti: La cognizione dell’amore. Eros e filosofia, Feltrinelli, Milano 1997; Miti d’amore. Filosofia dell’eros, Bompiani, Milano 2009; Passione, Raffaello Corti­ na, Milano 2011.

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dante il ruolo della scrittura, in rapporto allo statuto stesso della filosofia. Ciò a cui si allude è uno dei passi più noti dell’intero cor­ pus platonico, dal quale è possibile trarre indicazioni decisive an­ che relativamente alla stessa concezione del rapporto fra oralità e scrittura. Da notare, inoltre, ancora allo scopo di inquadrare que­ ste intense pagine platoniche, che in esse sono esposti, a distanza di poche righe l’uno dall’altro, due miti che sono “assolutamente originali”, nel senso che non ci sono pervenuti da altre fonti, che non sia appunto il Fedro.50 “Socrate - Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimora­ va uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chia­ mato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, \_d\ del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’al­ fabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egi­ ziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava [e] negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. [...] Quando giunsero all’alfabeto: ‘Questa scienza, o re - disse Theuth - ren­ derà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina [pharmakon] per la sapienza e la memoria’. E il re rispose: Ό ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a] in­ ventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuo­ ri, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricet­ ta Ypharmakon\ per la memoria \mnemes\ ma per richiamare alla mente [ypomneseos]’.”51

Lo sviluppo ulteriore del ragionamento ne rende più chiare le premesse e le conclusioni. Non solo la scrittura non sarà di ausilio alla memoria - intesa come esercizio attivo di ricerca della veri­ tà - ma essa potrà giovare solo al tentativo che si potrebbe defini­ re mnemotecnico, di pura e semplice fissazione di parole. Inoltre, essa potrà indurre gravi e perfino irreparabili distorsioni, facendo credere che sia sufficiente, per potersi dire sapienti, essere “im­ bottiti di opinioni” {doxosophoi). Ne consegue che “chi crede di poter tramandare un’arte affidan­ dola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve es­ ser pieno duna grande ingenuità [...] se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto [...]. Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discor­ so arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no”.52 All’inganno perpetrato dalla scrittura, maestra di opinione, e non di verità, Socrate oppone una ben diversa forma di scrittu­ ra - quella che “è scritta nell’anima di chi impara” . Dissolto l’e­ quivoco di un’arte nociva e dolosa, ribadita l’incommensurabile differenza fra la verità e l’opinione, alla filosofia resta il compito di “scrivere nell’anima”, senza lasciarsi ammaliare dal canto delle cicale,53 o dalle lusinghe di un’arte subdola. Emerge in questo passaggio cruciale un tratto intrinsecamente caratterizzante, quanto al tempo stesso misconosciuto, del phar­ makon. Non si tratta soltanto di una irriducibile duplicità negli effetti conseguenti al suo uso, tale per cui esso non può essere al­ tro che rimedio che avvelena, antidoto che intossica.54 La critica

50. Come sottolinea J. Derrida, L a farm aàa..., cit., p. 49, riprendendo P. Frutiger, Les Mythes de Platon, Alcan, Paris 1930, p. 233. 51. Platone, Fedro, tr. it. in Opere, voi. I, Laterza, Bari 1967,274 c - 275 b, p. 790.

52. Ibidem, 275 d-e, pp. 790-792. 53. E l’altro mito - oltre a quello di Theuth - raccontato da Platone nel Fedro. 54. “A proposito della parola pharmakon, apparirà meglio [...] quella polise­ mia regolata che ha permesso, per distorsione, indeterminazione e sovradetermi-

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platonica alla pretesa farmacologica della scrittura evidenzia un punto decisivo: questo pharmakon non è soltanto ambivalente, non è solo qualcosa che guarisce avvelenando. Esso porta con sé, quale ulteriore e perfino peggiore contraccolpo negativo, l’ingan­ no. Esso dissimula la propria duale natura, e più in generale oc­ culta ciò che è comunque ineliminabile dalla condizione umana, per proporsi come mezzo terapeutico univoco, immune da ogni implicazione indesiderata. Di qui l’esito solo apparentemente paradossale del ragiona­ mento platonico. Per bocca di Thamus, il filosofo svela l’equivo­ co insito nell’arte inventata da Theuth. Essa non solo non risolve compiutamente il problema della memoria, ma contribuisce in maniera determinante a disattivarla, sostituendo a essa quel sem­ plice esercizio tecnico che è il richiamare alla memoria. Deve es­ sere “pieno di ingenuità” colui che ritenga che da quel farmaco che è la scrittura si possa ricavare “qualcosa di chiaro e di saldo” (saphes kai bebaios).55 Mentre dovrebbe essere evidente che esso può solo “rinfrescare la memoria”.56 Da tutto ciò consegue un parallelismo illuminante, allo scopo di comprendere quale sia il genuino carattere del pharmakon·. “Alla vera medicina, fondata sulla scienza, sono opposti infatti, in un sol tratto, la pratica empirica, l’operazione con ricette imparate a me­ moria, la conoscenza libresca e l’uso cieco di droghe”.57 La scrit­ tura viene così associata al pharmakon perché con esso condivide insieme la duplicità e il potenziale inganno.

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nazione, ma senza controsenso, di tradurre la stessa parola con ‘rimedio’, ‘veleno’, ‘droga’, ‘filtro’ ecc. Si vedrà anche fino a che punto l’unità plastica di questo con­ cetto, o piuttosto la sua regola e la strana logica che lo collega al suo significante, siano state disperse, mascherate, obliterate, colpite da una relativa illeggibilità a causa dell’imprudenza o dell’empirismo dei traduttori, certo, ma anzitutto a cau­ sa della formidabile e irriducibile difficoltà della traduzione” (J. Derrida, La far­ macia..., cit., p. 53). 55. Platone, Fedro, cit., 275 c, p. 792. 56. Ibidem. 57. J. Derrida, La farmacia..., cit., p. 54. Ma un giudizio analogo troviamo già in Galeno: “Sul fatto che ai medici abbisogni la filosofia per adoperar bene l’arte non credo abbia bisogno di dimostrazione chi ha visto spesso che gli avidi di ricchezze sono spacciatori di droghe [pharmakeis\ non medici e usano l’arte per fini opposti a quelli a cui è destinata per natura” (Galeno, Il miglior medico è anche filosofo, tr. it. in Opere scelte, cit., p. 63).

Ma ciò che finora è emerso, a proposito della natura άά pharma­ kon, pur essendo indubbiamente rilevante, non esaurisce affatto la complessa problematica che a esso soggiace. Vi è anzi il rischio che l’enfasi sul suo carattere irriducibilmente ambivalente - sul suo essere insieme il tossico e l’antidoto -, pur sottolineandone certamente un aspetto tutt’altro che secondario, possa tuttavia fa­ vorirne una lettura unilaterale, e perfino distorta. Insistendo sulla sua inevitabile duplicità, si può aprire la strada a un’interpretazio­ ne riduttiva e infine fuorviarne, quale è quella compendiata nell’e­ spressione tecnica degli “effetti collaterali” . In maniera esplicita o indiretta, questa espressione lascia infatti intendere che, accanto all’effetto principale e dominante - quello benefico - il pharmakon porti con sé - ma in maniera del tutto estrinseca e accidentale anche alcuni effetti “secondari” (così sono infatti spesso definiti gli esiti avversi), i quali sopravvengono a limitare, o a offuscare, ma in maniera del tutto parziale, l’azione “curativa” del farmaco, senza tuttavia poterne cancellare il predominante aspetto positivo. Le conseguenze insite in un simile approccio sono intuitive. Non il farmaco in sé, ma talune avventizie ripercussioni connesse col suo uso possono talora comportare conseguenze negative. In linea di tendenza, si dovrà lavorare a minimizzare tali conseguen­ ze, “liberando” le potenzialità del farmaco, consentendo che esso esprima appieno - non degradata o mascherata da ciò che è mera­ mente “collaterale” - tutta l’energia risanatrice di cui esso dispone. Da questi equivoci, largamente diffusi, e non sempre in manie­ ra innocente, può “immunizzare” (e qui il lessico medico appa­ re del tutto appropriato) la riflessione platonica sulla nozione di pharmakon, riletta alla luce della penetrante analisi proposta da Derrida. Oltre a ciò che già si è osservato, vi sono infatti almeno altri due motivi che inducono a diffidare del farmaco, non già per effetto di un pregiudizio in senso lato antitecnologico, ma per ben più importanti ragioni attinenti alla sua stessa natura. Anzitutto, la connessione non occasionale fra l’effetto benefico e la modalità - dolorosa - attraverso la quale l’effetto è raggiun­ to. Così, nel Protagora, pur sottolineandone gli effetti positivi, e dunque pur annoverandoli fra le cose “buone” (agatha), Platone ricorda che i pharmaka sono anche fonte di dolore (amara). Per

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questa ragione, troppo spesso dimenticata da coloro che sono in­ vece propensi a esaltarne incondizionatamente le proprietà bene­ fiche, il pharmakon va piuttosto considerato come “un doloroso godimento”, qualcosa che “partecipa insieme del bene e del ma­ le, del gradevole e dello sgradevole. O piuttosto è nel suo insieme che si delineano queste opposizioni”.58 Ma il necessario approfondimento delle caratteristiche costi­ tutive del farmaco, per quanto abbia raggiunto indubbiamente alcune conclusioni significative, non può dirsi ancora compiuto. Il passo ulteriore, per molti aspetti definitivo, è quello che ci con­ duce nel cuore di uno degli ultimi scritti di Platone, forse il più denso e insieme più problematico. La trattazione prende avvio da una premessa, considerata dal filosofo alla stregua di un assunto di per sé evidente, riguardante una sorta di classificazione delle varie forme di movimenti. Fra essi, deve essere considerato il migliore “quello che nasce in sé ed è mosso da se stesso”, perché assomi­ glia al movimento dell’intelligenza e dell’universo tutto, mentre peggiore è quello che è causato da altri, e infine davvero pessimo è quello che a opera di altri muove il corpo solo da qualche parte, mentre esso giace o riposa. Da tutto ciò risulta che “di tutte le purificazioni e ricomposizio­ ni del corpo, quella migliore si ottiene mediante la ginnastica, la seconda mediante i dondolìi che si verificano sulle navi e sui mez­ zi di trasporto che non comportano fatica”.59Già si intuisce quale possa essere il giudizio platonico a proposito della terza forma di movimento. “La terza specie di movimento - sottolinea il filoso­ fo - è utile da chi vi sia costretto da forte necessità; se no, non si deve accettare da chi abbia senno, ed è quella curativa mediante la purgazione farmaceutica [pharmakeutikes katharseos] ”. Alla puri­ ficazione farmaceutica si deve dunque fare ricorso soltanto in ca­ si di assoluta necessità, perché “le malattie che non portano gravi pericoli, non si devono irritare con medicine [pharmakeiais] ” .60 Non si tratta - è bene precisarlo - di una mera raccomandazio­ ne a evitare l’uso e l’abuso di farmaci, quando essi non appaiano strettamente indispensabili. Certamente, anche questa dimensione affiora dal passo del Timeo, quasi a voler anticipatamente censu­

rare un’attitudine più generale, fortemente avversata dal filosofo, contrario a ogni eccesso nella cura del corpo, così come dell’ani­ ma. Il fondamento del ragionamento platonico è di altro genere e riconduce a una più generale riflessione sulla physis, e più in par­ ticolare sulla relazione fra naturale e artificiale. Attraverso un’ar­ gomentazione logicamente ben strutturata. “Ogni corso di malattie”, sostiene il filosofo, “somiglia in qual­ che modo alla natura degli animali: perché non solo la costituzio­ ne di questi porta con sé prestabilito il tempo della vita per tutti gli individui della specie, ma anche ogni singolo animale nascen­ do riceve un periodo di vita determinato dal destino, salvo i casi della necessità. [...] E lo stesso è della costituzione delle malattie: pertanto, se uno contro il tempo destinato le guasta con medicine [pharmakeiais], da piccole sogliono diventare grandi, e da poche molte. E perciò conviene governarle tutte con vitto regolato [...] e non già irritare con medicine un male difficile.”61 Condivisibile o meno che sia, in tutto o in parte, l’impostazio­ ne platonica è chiara. Come vi è un “destino” che stabilisce già dall’origine quale debba essere la durata della vita di una specie, o di un singolo individuo appartenente a una specie, così lo stato di salute di ciascun animale è in qualche modo già “scritto” . In­ tervenire con pharmakeiai, pretendendo di alterare il corso na­ turale della vita a ciascuno assegnata, può sortire solo effetti ne­ gativi, irritando le malattie che dovessero essere sopraggiunte. I pharmaka sono dunque espressione della negligenza di ciò che la natura impone. Essi sono manifestazioni di una hybris protesa a prevalere nei confronti della natura. Nella tensione risorgente fra physis e techne, il farmaco segna il massimo sforzo - intrinseca­ mente sacrilego - della tecnica a imporsi sulla natura.62Insomma,

58. J. Derrida, ha farmacia..., cit., p. 82. 59. Platone, Timeo, tr. it. in Opere, cit., voi. il, 89 a, p. 552. 60. Ibidem-, corsivi miei. 102

61. Ibidem. 62. Illuminante il commento di J. Derrida al passo del Timeo ora citato: “Si sarà notato che: 1. La nocività del pharmakon viene accusata nel momento preciso in cui tutto il contesto sembra autorizzare la sua traduzione con ‘medicina’ piuttosto che con veleno. 2. La malattia naturale del vivente è definita nella sua essenza come al­ lergia, reazione contro l’aggressione di un elemento estraneo [...]. 3. Come la salute è auto-noma e auto-matica, così la malattia ‘normale’ manifesta la sua autarchia op­ ponendosi alle aggressioni farmaceutiche delle reazioni metastatiche che spostano la sede del male, magari rafforzandone e moltiplicandone i punti di resistenza [...]. 4. Questo schema implica che il vivente sia finito (e anche il suo male)” (J. Derrida, ha farmacia..., cit., p. 84).

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si conferma, ulteriormente corroborata e motivata, l’impossibi­ lità di un’accezione univocamente positiva del farmaco. Intrin­ secamente ambivalente nella sua genesi (le gocce di sangue della Gorgone), nel suo proprio statuto, negli effetti che è in grado di determinare, esso è anche espressione di un tentativo - inevita­ bilmente destinato al fallimento - di intervenire modificando la costituzione degli esseri viventi e il loro destino. A esso si dovrà dunque fare ricorso unicamente in casi di genuina necessità, evi­ tando in altre evenienze di irritare le malattie, senza alcuna pos­ sibilità di modificarne l’andamento naturale. “QUELLE TERRIBILI ULTIME PAROLE”

Socrate ha già ricevuto e congedato la moglie e i figli. Si è poi in­ trattenuto con i discepoli, discutendo a lungo con loro della natura dell’anima e dell’immortalità a essa riservata. Successivamente si è appartato, assistito dal solo Critone, per lavarsi, purificando in tal modo il suo corpo. Al suo ritorno nella cella, nella quale era stato rinchiuso durante i giorni intercorsi fra la sentenza di condanna e l’ora suprema che è frattanto sopraggiunta, egli stesso chiede che gli venga portata senza indugi la cicuta che dovrà trangugiare. Do­ po aver ascoltato attentamente le istruzioni che avrebbe dovuto seguire affinché la pozione facesse rapidamente il suo effetto, in un crescendo di commozione dei discepoli presenti, Socrate pren­ de la coppa fra le mani.63 A questo punto, l’andamento drammaturgico, e insieme la rigo­ rosa concatenazione degli eventi e dei pensieri, sembra subire uno scarto improvviso, una sorta di deviazione inattesa, giudicata da molti interpreti nei termini di una inopinata caduta di tensione, ov­ vero di una digressione non necessaria e incoerente. All’incaricato che gli consegna la coppa, infatti, Socrate domanda se sia possibile libare agli dei con la bevanda che gli è stata somministrata. Di qui le due mosse immediatamente successive, le quali suggellano - e non soltanto dal punto di vista narrativo - la fine dell’“uomo più buono, più saggio e più giusto”.64

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La prima di esse è una “preghiera rivolta agli dei” (euchesthai... tois theois), affinché l’imminente “trasferimento in un’altra dimo­ ra” (come suona letteralmente il termine metoikesin impiegato da Platone) avvenga sotto il segno della “buona sorte” (eutyche). La seconda comprende la ultimissime parole pronunciate da Socra­ te, già sdraiato sul letto, già per metà raggiunto dal freddo della morte, e dunque letteralmente per metà vivo e per metà morto,65A Critone, al discepolo più fedele, all’ultimo a rassegnarsi alla per­ dita del maestro, a colui che lo ha aiutato a purificare il corpo, So­ crate rivolge un’estrema raccomandazione: “Siamo debitori di un gallo ad Asclepio. Pagatelo, non dimenticatevene” .66 Da Nietzsche, il quale definì questo estremo commiato con sar­ casmo sferzante (“Queste ridicole e terribili ‘ultime parole’ signi­ ficano, per chi ha orecchie, Ό Critone, la vita è una malattia’”),67 fino ai nostri giorni il monito socratico è stato sottoposto alle in­ terpretazioni più diverse e discordanti, secondo la tendenza pre­ valente ad accreditare letture “cristologiche” della figura di So­ crate. Queste parole - davvero terribili, e nient’affatto ridicole, a dispetto dell’ironia nietzscheana - possono essere comprese sol­ tanto se da un lato esse sono collegate alla personalità della divini­ tà, alla quale avrebbe dovuto essere dedicato il sacrificio del gallo, e dall’altro alla pozione con la quale, immediatamente prima, So­ crate avrebbe voluto libare agli dei. Per quanto riguarda il primo punto, di Asclepio sappiamo ciò che racconta Apollodoro nella sua Biblioteca.68Generato mediante una sorta di “doppia nascita” (come Dioniso, il dio della contrad­ dizione, Ximmortale che muore, al quale anche per altri aspetti egli può essere assimilato),69 allevato da una figura “doppia”, quale è il centauro Chirone, da lui avviato alla conoscenza dell’arte della cac­ cia e della medicina, Asclepio “perfezionò la sua techne al punto che non solo riusciva a salvare i malati, ma resuscitava anche i morti” ™

63. Questa è, in estrema sintesi, la narrazione che troviamo nel dialogo intitolato Fedone, cit., voi. II, 59 c - 61 b, pp. 102-104. 64. Come suonano le ultimissime parole del dialogo: “Aristou kaiallosphronimotatou kai dikaiotatou” (Platone, Fedone, tr. it. in Opere, cit., voi. Il, 118 a, 16-17, p. 185).

65. “Ormai, quasi tutta la regione addominale del suo corpo era diventata fred­ d a ...” (ibidem, 118 a, 5-6, p. 154). 66. Ibidem, 118 a, 7-8. 67. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli, M. Montinari, voi. V, tomo II, Adelphi, Milano 1965, par. 340. 68. Apollodoro, I miti greci, cit., ili, 10,118-119. 69. Per un approfondimento, in chiave filosofica, della figura di Dioniso e della duplicità della quale egli è simbolo, rinvio a U. Curi, Endiadi, cit., pp. 81 sgg. 70. Apollodoro, I miti greci, cit., Ili, 10,118-119.

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Di questa straordinaria capacità il figlio di Apollo e Coronide era entrato in possesso dal momento in cui “aveva ricevuto da Atena il sangue che era sgorgato dalle vene della Gorgone, e lui usava quello delle vene di sinistra per far morire gli uomini, quello delle vene di destra per salvarli, e in questo modo poteva anche far resuscitare i morti” .71Solo Asclepio è in grado di anegheirein tous apothanountas, perché (come ricorda anche Euripide nelYAlcesti, 124-129), soltan­ to il figlio di Apollo ha ricevuto in dono il sangue della Gorgone, e dunque soltanto lui è in grado di servire gli uomini mediante la therapeia. Salvo che questo servizio, questa therapeia, è costitutiva­ mente duplice, conferisce la vita ma, insieme, può dare la morte. Il potere del fondatore della medicina, dunque, la sua dynamis, ciò che fin dall’origine caratterizza la therapeia, consiste in un’a­ zione - quella di anegheirein tous apothanountas - che non è uni­ voca, ma duplice: duplice come la nascita di Asclepio, come il suo pedagogo, come la Gorgone, come gli effetti derivanti dal sangue di lei. Di qui la funzione sempre e comunque doppia della stessa techne medica, la quale (come, peraltro, qualsiasi altra techne) non può giovare senza insieme anche nuocere, non può pretendere di garantire agli uomini una compiuta salvezza, ma solo un rimedio che tuttavia al tempo stesso intossica, secondo il significato irre­ solubilmente doppio del termine pharmakon. Le ultime parole, l’estremo monito, di un Socrate già morto per metà, allo stesso tempo vivo e morto, sono dunque indirizza­ te a una divinità doppia, nata da una duplice nascita, simbolo di una techne capace di restituire la vita, ma insieme anche di dare la morte. A questa divinità, Socrate dichiara di “essere debitore” anzi che siamo debitoriJ2 Ma non è tutto. Come è noto, la pozione somministrata a So­ crate per provocarne la morte, la bevanda con la quale egli avreb­ be voluto libare agli dei, e che in ogni caso gli fornisce l’occasio­ ne per pronunciare “una preghiera”, affinché il “trasferimento in un’altra dimora” (metoikesin) avvenga sotto il segno della buona sorte, è un veleno potentissimo, ottenuto dalla cicuta. Una bevan­

da mortale, dunque, è quella con la quale Socrate vorrebbe ren­ dere grazie agli dei. Se non che, il termine costantemente impiegato nel Fedone per indicare questa pozione è pharmakon, vale a dire un termine che non significa affatto univocamente “veleno”, ma che invece vuol dire - insieme e indissolubilmente - veleno e antidoto, tossico e ri­ medio, droga letale e medicina salvifica. Ebbene, un pharmakon, e dunque una bevanda la cui dynamis è doppia, la cui valenza è duplice, è ciò che beve Socrate per “trasferirsi ad altra dimora”. E allo stesso modo doppia è anche la divinità - Asclepio - della quale egli dichiara di essere debitore, e alla quale chiede, perciò, che sia immolato un gallo.73La morte del filosofo, e la discussione intorno alla morte che precede il compiersi dell’evento, si realiz­ za in un contesto fortemente segnato da riferimenti al sigillo del­ la duplicità. Anche rispetto ad altri testi platonici riguardanti la nozione di pharmakon, il Fedone rappresenta un momento di perfino più intensa riflessione. Non soltanto perché è fin dall’inizio evidente l’ambivalenza di ciò che a Socrate viene somministrato - un vele­ no che guarisce - ma perché in questo passaggio tale ambivalenza viene spinta fino al suo cimento più radicale ed estremo - il con­ fronto con la morte. Quando entra il carceriere - “che gentile per­ sona! ” , confida Socrate ai suoi discepoli. “Per tutto questo tempo egli veniva spesso a trovarmi, e talvolta s’indugiava a conversare meco, ed era uomo eccellente; e vedete ora come sinceramente mi piange?” - 74recando la cicuta, il filosofo non accenna ad alcun turbamento, né asseconda il richiamo di Critone a temporeggia­ re, a cercare di differire quanto più è possibile l’ora suprema. Al contrario, il filosofo non vede motivi che possano indurlo a riman­ dare ciò che egli anzi accoglie “con vera letizia”,75 trangugiando d’un fiato la pozione. Socrate sa che il contenuto della coppa che ora tiene nelle sue mani non è, non può essere, soltanto un veleno. Sa che anche la

71. Ibidem, 120. Sulla figura di Asclepio, in relazione al tema della morte di So­ crate, si vedano le belle pagine di A. Tagliapietra, Il velo di Alcesti. La filosofia e il teatro della morte, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 205 sgg. 72. “ Opheilomen” è, infatti, plurale, e indica una condizione “stabile”, non tran­ sitoria, di debito contratto nei confronti di qualcuno.

73. Duplice, inoltre, è lo stesso animale indicato per il sacrificio, visto che, se­ condo la tradizione, segnando il confine fra la notte e il giorno, il gallo indichereb­ be appunto queU’incerta area di frontiera, nella quale insieme convivono il giorno e la notte. 74. Platone, Fedone, cit., voi. I, 116 d, p. 183. 75. Ibidem, 117 b ,p . 184.

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cicuta, come ogni altro pharmakon, è agente di morte, ma è insie­ me e ineliminabilmente tramite per una nuova vita. Anzi, sa che essa può agire come veleno, solo perché è anche un farmaco che guarisce. Sa che vita e morte non sono effetti alternativi e mutualmente escludentisi, ma si implicano a vicenda. E che ciò che egli deve ora affrontare, attraverso l’azione del pharmakon, è sempli­ cemente un trasloco, verso una “casa” migliore e più ospitale, ri­ spetto a quella dalla quale egli si accinge a partire. Se la filosofia “altro non è che prepararsi a morire”, e se a sua volta questa melete thanatou coincide col “filosofare rettamente”, il miglior esercizio che si possa fare per prepararsi a morire coin­ cide appunto col riconoscere, mediante una filosofia rettamente (■orthe) intesa, la costitutiva e ineliminabile duplicità della condi­ zione umana, vale a dire proprio quella “scoperta”, raggiunta a conclusione dell’inchiesta avviata per rendersi ragione dell’oracolo della Pizia (“Socrate è il più sapiente fra i mortali”), che accompa­ gna Socrate quale protagonista dei dialoghi platonici daWApologia fino ai dialoghi della maturità. Il “debito” verso Asclepio è conseguenza della constatazione di questa ambivalenza: ciò che Socrate sente sopraggiungere, e che già per metà lo possiede, come effetto del veleno-rimedio, è qual­ cosa che segna una fine, ma può rappresentare anche un inizio, è il culmine estremo di una malattia, ma anche l’indizio di una guari­ gione, è certamente la conclusione del soggiorno in questa dimora, ma può essere anche - per usare le stesse parole di Socrate - una metoikesis, un “passaggio”, un semplice, e decisivo, “trasferimen­ to a un’altra dimora”.76 IL DONO DELLA SPERANZA

“ To poion euron tesde pharmakon nosou?” - “Quale farmaco hai inventato per questa malattia?” Così si legge in uno dei pas­ saggi più intensi della tragedia dedicata alla sorte del Titano ribel­ le.77Al protagonista, inchiodato alle rupi di una “montagna senza gioia”, il Coro domanda in quale modo, mediante quale “grande dono”, egli sia riuscito a strappare l’umanità alla prospettiva di 76. Per un approfondimento ulteriore di questa tematica, rinvio al mio Via di qua, cit., pp. 116-152. 77. Eschilo, Prometeo incatenato, v. 249.

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una precoce estinzione. Un farmaco, donato da un personaggio di stirpe divina, è dunque necessario per garantire agli uomini la sopravvivenza. Da soli, senza aiuti provenienti dall’“esterno” , e soprattutto senza l’ausilio di un farmaco, gli uomini non ce la po­ trebbero fare. Davvero un megas ophelema, un “grande regalo”, è quello arrecato agli uomini da Prometeo. Non un’elargizione marginale, inessenziale, ma qualcosa senza cui la vita stessa non sarebbe concepibile. E torniamo allora alla domanda del Coro. “ Quale farmaco ” è stato inventato dal Titano per tentare di sconfiggere la morte? Sgombriamo il campo dai ricorrenti equivoci che hanno via via deformato il racconto dell’antropogenesi descritta da Eschilo. Come già si è visto, inventore di “tutte le tecniche” è Prometeo. Ma il conferimento agli uomini di un sapere politecnico, pur es­ sendo utile per procacciarsi nutrimento e indumenti, e per ap­ propriarsi di altre risorse analoghe, fallisce sul punto decisivo, quello che riguarda il rapporto con la morte. Per sottrarre gli uomini al loro altrimenti ineluttabile destino, per evitare che essi trascorrano una vita breve come semplici “larve di sogni” (oneiraion morphaisi) è necessario davvero un “grande dono”. Prima che esso fosse concesso, nella consapevolezza di essere mortali, gli uomini si limitavano a guardare fisso il giorno della morte, e dunque di fatto nulla facevano per poter sopravvivere. Si inseri­ sce qui l’intervento salvifico del Titano ribelle: egli agisce in mo­ do da “impedire agli uomini di prevedere la loro sorte mortale”.79 Questo e non altro è dunque il megas ophelema. Aver distolto gli uomini dal guardare fisso il giorno della loro morte. Un pharma­ kon, uno straordinario pharmakon, proveniente dall’iniziativa philanthropica di Prometeo, è quello che ha consentito agli uomini di evitare l’estinzione. Ma si ritorna qui all’interrogativo. Quale pharmakon può ave­ re avuto il potere di ottenere un risultato tanto decisivo? Quale “rimedio” ha conseguito lo scopo vanamente perseguito con l’im­ piego di “tutte le tecniche”? Che cosa può avere, almeno per un po’ di tempo, “liberato i mortali dal dover scendere nell’Ade”?80 Nessuna acritica apologetica delle sorti magnifiche e progressive

,7S

78. Ibidem, w. 448-449. 79. Ibidem, v. 248. 80. Ibidem, v. 236.

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è qui al lavoro. Nessun ingenuo ottimismo tecnologico risuona nelle parole di Prometeo. Il suo “titanismo” è fatto di altra sostan­ za. Per quanto utili e necessarie, “tutte le tecniche” falliscono, se chiamate alla prova suprema, quella di impedire la cancellazione del genere umano. Un farmaco - un “semplice” farmaco - apparentemente privo di ogni potenzialità terapeutica, e invece investito di una capacità straordinaria: far “dimenticare” agli uomini la loro condizione di mortali. Basta questo. Basta che essi “chiudano gli occhi”, anziché fissare il loro sguardo sul giorno fatale che tutti li attende. Typhlas elpidas, “cieche speranze”81- questo è il vero grande dono di Pro­ meteo. Speranze cieche. Più giusto è dire: speranze che accecano. Anziché indugiare a contemplare la propria sorte mortale. Anzi­ ché attendere passivamente il compiersi di un destino ineluttabi­ le, mediante il grande dono di Prometeo gli uomini potranno fi­ nalmente recuperare la possibilità di una vita limitata, ma attiva, operosa, dinamica, creativa. Elpis, la speranza, ottiene ciò che le tecniche non erano riuscite a garantire. Farmaco potentissimo, letteralmente farmaco “salvavita”, quel­ lo donato da Prometeo. Nonostante la sua apparente evanescen­ za, alla prova dell’efficacia la speranza si rivela ben più risolutiva della tecnica. Con l’uso delle tecniche gli uomini restano “larve di sogno”. Mediante elpis, essi guadagnano l’altrimenti irraggiungi­ bile possibilità di sopravvivere. Ma il dono di Prometeo, quella elpis salvifica, resta comunque un pharmakon - un rimedio che avvelena, un tossico che guari­ sce. E dunque, per quanto decisivo e insostituibile sia l’aiuto che esso conferisce al genere umano, vi dovrà essere una controparti­ ta, anche in questo caso si dovrà poter cogliere l’“altra faccia” del dono, il dolos che è inseparabile dal doron. La vicenda di Prometeo, così come emerge dalla caligine di un mito troppo spesso frainteso, può così assurgere a emblema del­ lo statuto del farmaco - delle sue grandi potenzialità, e dei suoi limiti. Ci insegna, quella vicenda, che qualunque dono è sempre e comunque accompagnato da una perdita, che qualunque pro­ gresso è insieme anche un ripiombare all’indietro, che non esiste un farmaco inoffensivo, che non si dà - in alcuna forma - una pa-

nacea immune da controindicazioni. Ci ricorda soprattutto che, peculiare della condizione umana, ciò che ne rappresenta il più caratterizzante principio di individuazione è appunto l’impasto inestricabile di bene e male, di positivo e negativo, di godimento e dolore. Ci ricorda che ciò che ci salva - la speranza - insieme ci condanna, perché chiarisce senza appello che nessuna compiuta salvezza è veramente possibile. Quel personaggio incatenato sulle rupi di una montagna sco­ scesa, sofferente per amore (verso gli uomini), prigioniero del suo stesso slancio liberatore, con lo strazio di un’aquila che periodi­ camente gli divora il fegato, può essere tuttora un monito, o se si preferisce un antidoto al titanismo del farmaco. Può permetterci di giovarci dell’aiuto che esso è in grado di fornirci, senza per questo soggiacere all’idolatrica concezione di una definitiva liberazione dalla sofferenza e dalla malattia.82

82. Rinvio ancora una volta a Endiadi, cit., parte seconda e Via di qua, cit., pp. 74-115.

81. Ibidem, v. 250.

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ALLE ORIGINI DEL LAVORO DELLA MANO

Semplice e immediata l’etimologia. Dal greco cheir-ergon (ri­ spettivamente, “mano” e “opera”, “lavoro”), chirurgo è colui che opera con la mano, il cui lavoro consiste nell’usare la mano. Qual­ che dettaglio in più si ottiene risalendo alla radice sanscrita. Infat­ ti, in -ghar si chiarisce che quel “prendere”, come attività specifica della mano, è connotato specificamente dalla forza che accompa­ gna quella attività, sicché si può dire che ciò che fa la mano, più che un generico e innocuo “prendere”, è un “impadronirsi”. Ne consegue che nel “lavoro” con la mano si avverte la presenza di una forza, o comunque l’imposizione di un potere. Ma il sostantivo greco cheir risuona certamente nel nome di un personaggio fra i più emblematici della mitologia greca, al quale in tempi successivi alluderanno anche Dante e Newton, per elo­ giarne la saggezza e l’equilibrio, il primo, e per attribuire a lui (con argomentazioni peraltro deboli) la scoperta delle costellazioni, il secondo. La sua nascita è segnata dal sigillo della duplicità. Per sedurre la ninfa Filira (dal grecophilyre, “tiglio”, pianta alla quale era riconosciuto un effetto terapeutico sedativo), il titano Crono si trasforma in cavallo. Il figlio nato da questa unione - Chirone, appunto - è caratterizzato da una doppia natura (umana e anima­ le) e dall’immortalità ereditata dal padre, mentre la discendenza dalla madre accenna a una sia pur tenue relazione con l’uso di piante medicinali. Come altre figure di eroi culturali che subisco­ no l’esposizione dopo la nascita (Romolo, Mosè, Edipo ecc.), an­ che Chirone viene allontanato dalla madre subito dopo il parto. 113

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Nelle Fabulae, Igino accredita una distinzione apparentemente di scarsa importanza, sulla quale si ritornerà più ampiamente in seguito. Fedele al suo nome, Chirone - scrive il mitografo latino avrebbe “inventato” la chirurgia, servendosi di erbe officinali e al­ tri strumenti tecnici, mentre Asclepio avrebbe avuto il merito di dare avvio alla medicina.1Questa notizia confermerebbe ciò che già Pindaro aveva affermato, sostenendo che Asclepio non avesse alcuna abilità chirurgica e si limitasse perciò a curare le ferite e le ulcere superficiali, per lo più effetto di colpi di frecce o di lance, applicando dunque i suoi rimedi esclusivamente a ferite di origine esterna. Mentre verrebbe confermata la sua attitudine a esercitare la medicina, ereditata dal padre Apollo, noto con i nomi di Akesios o Iatros, e cioè il “guaritore”, colui che restituisce la salute.2 L’esiguità e la genericità dei dati desumibili dalle fonti citate invitano ovviamente a essere molto prudenti nel trarre da esse in­ dicazioni di carattere generale. Tuttavia, pur astenendosi da defi­ nizioni apodittiche, è possibile osservare che lo scenario delle ori­ gini delineato in questi documenti contempla una suddivisione netta di ambiti e di metodiche fra la medicina e la chirurgia. Già evidente nella differenza fra le due linee genealogiche (CronoChirone/Apollo-Asclepio), e fra le capacità delle quali ciascuno dei due è accreditato (rispettivamente, la cura mediante il “lavoro

della mano”, o la ricerca della guarigione tramite la somministra­ zione di farmaci), Chirone è non solo chirurgo, ma anche - e per certi aspetti principalmente - maestro e educatore di un gran nu­ mero di personaggi della mitologia greca, da Achille a Atteone, da Alcone a Aristeo, da Eracle a Giasone, fino allo stesso Asclepio. Mentre la figura del padre della medicina appare più legata alla capacità, appresa dallo stesso Chirone, di usare in maniera diver­ sificata, e con finalità differenti, le gocce di sangue scaturite dalla testa mozzata della Gorgone Medusa. D ’altra parte, una distinzione cosi netta - tale da far dire ap­ punto a Pindaro che Asclepio era totalmente inabile per quanto riguarda la chirurgia - fa emergere un problema che riaffiorerà, in forme e con modalità diverse, lungo tutto il corso della tra­ dizione culturale dellOccidente, e che riguarda specificamente il rapporto tra medicina e chirurgia. Per dirla in grande sintesi: fra le origini mitiche a cui si è fin qui accennato e il XXI secolo, si è assistito a frequenti capovolgimenti di rapporti. Pressoché inconciliabili fra loro, se esemplificate nelle figure paradigmati­ che di Asclepio e Chirone, medicina e chirurgia trovano invece un’importante convergenza nei trattati ippocratici,3*lo , nei quali la necessità che alla base del “lavoro della mano” vi siano cono­ scenze adeguate, evidentemente di carattere medico-fisiologico, è dichiarata. Con l’inizio dell’età - e della scienza - moderna, si riapre la divaricazione fra l’una e l’altra. Il chirurgo - ovve­ ro, per dirla col termine più usato nelle fasce sociali più umi­ li, storpiando il termine latino chirurgus, il “cerusico” - è un praticone, talora addirittura un barbiere, pronto a operare con disinvoltura perfino eccessiva e mediante strumenti rozzi e ap­ prossimativi, incidendo e mutilando, scavando e congiungen­ do lembi, spesso senza alcuna adeguata conoscenza di caratte­ re anatomico. Mentre la medicina assume sempre più a proprio

1. “Si dice che Chirone fosse figlio di Saturno e di Filtra, e che abbia superato non solo gli altri ciclopi ma anche gli uomini in giustizia. Si pensa che abbia allevato sia Esculapio sia Achille. Dunque per pietà e diligenza fu considerato tra gli astri” (Igino, Miti, tr. it. Adelphi, Milano 2000, p. 98). 2. Euripide riferisce che Apollo insegnava le virtù terapeutiche e l’applicazione clinica dei rimedi, conservando la tradizione nelle famose Tavole Orfiche su cui era­ no scritti rimedi misteriosi e formule magiche che erano conservate sul monte Panageo in Tracia (vedi Alcesti, w. 965-967). Ma accenni analoghi si trovano già nel libro V deìYIltade, nel quale è esaltata la virtù guaritrice di Peone, a cui ricorre Ares ferito da Diomede. Per Apollo si intonavano i Peani, inni corali diretti a Apollo guarito­ re, per tenere lontano malattie ed epidemie. Il nome peana deriverebbe dal nome di Peone, con il quale spesso viene confuso Apollo stesso. Che la medicina fosse in un certo senso un’arte “di famiglia” è confermato dal fatto che Diana, sorella di Apol­ lo, è spesso identificata con la Luna. Per questa ragione, ella è spesso considerata la responsabile delle malattie che colpiscono le donne, ma è anche colei che presiede ai parti. Secondo Pausania, a lei si consacrò un tempio a Atmonet e un altro a Eubea, nei quali veniva adorata come divinità protettrice della medicina. Fu adorata anche con il nome di Diana Artemisia, perché secondo Apuleio (De viribus herbarum, 13) scoprì le virtù terapeutiche dell’Artemisia e insegnò a Chirone il suo uso. Secondo altre testimonianze, la dea preposta al parto sarebbe stata invece Illizia (vedi Apollodoro, I miti greci, cit., Ili, 14, 7).

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3. “Vi sono in effetti medici dappoco, altri molto superiori: ora, se la medicina non esistesse affatto e nel suo ambito nulla si fosse indagato né scoperto, ciò non sarebbe possibile, ma tutti, a proposito di essa, sarebbero parimenti sprovveduti di esperienza e di scienza, e dal caso \tyché\ sarebbe governato tutto quanto riguarda i malati. Ora però non è così, e, come in tutte le altre arti i professionisti differisco­ no molto fra loro per abilità manuale e per valore intellettuale \kata cheira kaikata gnomen\, lo stesso avviene anche nella medicina” (Ippocrate, Antica medicina, cit.). 4. Vedi P.-L. Choukroun, Selci, barbieri e nano-robot. La sorprendente storia del­ la chirurgia, dall’età della pietra alle frontiere delfuturo, tr. it. Gremese, Roma 2014.

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CHIRURGIA

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fondamento le scienze naturali, che conoscono in questa fase un imponente sviluppo. Questa divaricazione si attenua gradualmente nel corso dell’Ot­ tocento, anche in conseguenza di due eventi storici decisivi, quali l’introduzione di tecniche di anestesia5e l’uso di procedure di ste­ rilizzazione degli strumenti e degli ambienti in cui vengono prati­ cati gli interventi. A partire dalla fine dell’Ottocento, e poi via via nel corso degli anni successivi, i rapporti diventano sempre più stretti, fino a far considerare inconcepibile l’esecuzione di qua­ lunque operazione chirurgica, se non da parte di chi sia anzitutto provvisto di una solida formazione di carattere medico generale. A ciò si aggiunga che la continua evoluzione delle terapie basate sui farmaci e quella, parallela, delle risorse strumentali determina­ no frequenti variazioni di competenza. Per esempio, cardiopatie che un tempo erano oggetto esclusivamente di cure mediche oggi sono di dominio chirurgico, così come processi flogistici che un tempo richiedevano il bisturi oggi vengono risolti con mezzi me­ dicamentosi.6 Asclepio e Chirone, insomma, appaiono in questa prospettiva come due aspetti inseparabili e complementari di una medesima disciplina medico-chirurgica.7567 5. Per lungo tempo le attività dell’erborista e del chimico rimasero associate nell’immaginario collettivo alla stregoneria e alle pratiche diaboliche. I primi passi concreti vennero compiuti nell’Ottocento: prima con la scoperta del protossido di azoto, gas in possesso di proprietà calmanti ed esilaranti, da parte di Joseph Prie­ stley, poi con la sua sporadica applicazione in campo odontoiatrico, in particolare da parte di Horace Wells, il quale nel 1846 si estrasse un dente senza provare alcun dolore. Due anni più tardi, William Morton, allievo di Wells, concepì e costruì un macchinario per anestesia e riuscì a convincere un noto chirurgo del Massachusetts, tale John Warren Jackson, ausarlo. Jackson eseguì due interventi con successo e l’a­ nestesia, improvvisamente, prese quota. Arrivò anche il cloroformio e con esso, so­ lo un anno dopo, nel 1847, fu eseguito il primo parto indolore: la punizione di Èva era eliminata, con grande biasimo dei benpensanti. Il biasimo durò poco però - e per fortuna -, perché solo cinque anni dopo, nel 1852, la regina Vittoria, capo del­ la Chiesa anglicana, chiese per sé il parto indolore: tabù sdoganato e nascita dell’e­ spressione “il parto della regina” a indicare il parto indolore. 6. Vedi A.P. Forrest, D.C. Carter, I.B. Macleod, Principles and Practice o/Surgery, Churchill Livingstone, Edinburgh 1987. 7. Per una ricostruzione dell’evoluzione storica della chirurgia, restano fondamentali i lavori di G. Cosmacini. Si veda, in particolare, La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Laterza, Roma-Bari 2003. Utili anche i contributi di H. Ellis, A History ofSurgery, Cambridge University Press, Cambridge 2002; E. Contieri, Storia della chirurgia, Idelson, Napoli 1990; I.M. Rutkow, Storia illustrata della chirurgia, Antonio Delfino, Roma 1996. Per quanto riguarda la chirurgia estetica, intesa come

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UNO SCAMBIO FATALE

Oltre che per quanto riguarda la natura doppia, perché ibrida, del suo inventore, e per i rapporti fra medicina e chirurgia, il rife­ rimento alle origini mitiche del “lavoro della mano” può risultare significativo anche per un altro ordine di considerazioni. A differenza degli altri centauri, noti per la propensione alla rissa e allo stupro, e più in generale per il carattere indocile e vio­ lento, Chirone era dotato di un animo generoso e nobile, pronto ad accorrere in aiuto di chiunque si trovasse in difficoltà. Egli è considerato tra i centauri il più saggio e il più giusto, perché non rifiutò mai il suo aiuto a chiunque ne facesse richiesta, come quan­ do prestò soccorso a Peleo, o quando aiutò Achille nel curare la ferita che Patroclo aveva subito. Alcune considerazioni significative sono suggerite dalle circo­ stanze della sua morte. Sopraggiunto per sostenere Eracle, in lot­ ta contro alcuni centauri, Chirone viene accidentalmente ferito da una freccia intrisa del veleno (pharmakon) tratto dal sangue dell’Idra di Lerna, scagliata accidentalmente dall’amico. Nono­ stante le cure prestate dallo stesso Eracle, la ferita si rivela ben presto insanabile, mentre il dolore che essa provoca è insoppor­ tabile. D ’altra parte, la natura semidivina di Chirone gli conferisce l’immortalità, e con essa anche l’immutabilità della sofferenza. Di qui una decisione apparentemente sorprendente: il centauro cede a Prometeo l’immortalità, e può dunque beneficiare del sollievo connesso con la morte. L’episodio a cui si è ora accennato rinforza ulteriormente la ca­ ratteristica più importante del personaggio eponimo della chirur­ gia. Generato da un atto di amore strappato con la forza, figlio di un dio e di una mortale, duplice nella sua natura di mezzo uomo e mezzo cavallo, Chirone è duplice anche per ciò che riguarda la sua morte. Essa è infatti risultato di un atto ostile di un amico, cau­ sata dal veleno-rimedio (pharmakon), di cui è imbevuta la freccia, frutto di uno scambio con chi, come Prometeo, si era visto privato da Zeus del dono dell’immortalità. Chirone è dunque - letteral­ mente —Γimmortale che muore, e condivide con ciò la sorte della tentativo di creazione di una nuova physis, si vedano: E. Haiken, L’invidia di Venere. Storia della chirurgia estetica, tr. it. Odoya, Bologna 2011; R. Chigi, Per piacere. Sto­ ria culturale della chirurgia estetica, il Mulino, Bologna 2008.

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figura divina che nell’Olimpo greco rappresenta l’“altra faccia” di Apollo, e cioè Dioniso, l’unico nume destinato a morire (anzi: a una doppia morte). Più importante, anche ai fini di una migliore comprensione del peculiare statuto del “lavoro della mano”, è ciò che è implicito nella rinuncia alla prerogativa dell’immortalità. Si può notare, anzitutto, che l’opzione esercitata da Chirone non si esaurisce con lo scambio attuato con Prometeo. Secondo quanto è attestato dall’hypothesis della tragedia (perduta) intitolata Prometeo liberato, che unitamen­ te al Prometeo incatenato e al Prometeo portatore difuoco costituiva una trilogia dedicata alla figura del Titano ribelle, al protagonista è riservata una sorte analoga a quella del centauro. Inchiodato a una rupe, esposto al pasto di un’aquila che ogni tre giorni gli divora il fegato, Prometeo deve subire un’atroce sofferenza perenne, quale conseguenza dell’immortalità a lui consegnata da Chirone. Di qui l’invocazione contenuta nell’unico frammento perve­ nutoci del dramma eschileo: “Amore mortis terminum anquirens mali” (“Cerco nell’amore per la morte un termine per la mia sofferenza”).8Diventato immortale, Prometeo deve affrontare una sofferenza che è eterna. Meglio dunque sarebbe per lui essere mor­ tale, perché la morte segnerebbe anche la fine del suo strazio. Il grande “odiatore” della morte, sanzionato con una pena severissi­ ma per aver cercato di strappare il genere umano dalla prospettiva di una precoce estinzione, giunge ora a rovesciare il suo atteggia­ mento: dall’odio verso la morte alla posizione che emerge dall’e­ sito del Prometeo liberato - amore mortis. Il monito che è sotteso alla vicenda “incrociata” del Titano e del Centauro è trasparente: non sempre la vita è da considerare preferibile, rispetto alla mor­ te. Si può non solo “accettare” la morte. Si può anche giungere ad amarla —come terminum mali,9 D ’altra parte, la vicenda dello scambio con Prometeo lascia emergere anche alcune caratteristiche salienti dell’arte inventata da Chirone. Soccombendo per le conseguenze di una ferita, pur avendo beneficiato delle cure di Eracle, si può dire che il Centau­ ro abbia collaudato su se stesso i limiti del “lavoro della mano”,

l’impossibilità di trovare in esso un rimedio infallibile, capace di cancellare definitivamente l’infermità e il dolore. Per quanto salu­ tari possano rivelarsi gli effetti della chirurgia, per quanto il lavoro della mano sia in grado di recare un parziale sollievo, nessuna com­ piuta salvezza può essere raggiunta attraverso di esso. Perfino un personaggio semidivino come Chirone dovrà alla fine rassegnarsi a riconoscere i limiti invalicabili dell’arte a cui egli sovrintende. La chirurgia nasce incorporando questo limite: lavora con la mano per modificare, spesso radicalmente, la configurazione as­ sunta dalla physis di un individuo. Giunge a sfidare la morte, la­ sciando intravedere uno scenario in cui quel lavoro possa perfino allontanare, o cancellare, l’esito che tutti ci attende. Arriva a un passo dall’immortalità. Ma, nel momento supremo, anche il chi­ rurgo Chirone dovrà arrendersi e infine cedere di fronte all’ineso­ rabilità del destino che accomuna i mortali. LE MANI E L’INTELLETTO

8. Eschilo, fr. 140, cit. in Cicerone, Tusculanae disputationes, II, 10, 23 sgg. 9. Per un approfondimento di questi temi, anche in riferimento al Prometeo li­ berato eschileo, rinvio al mio Via di qua, cit., capitolo IV.

Fra le numerose ricostruzioni del processo dell’antropogenesi presenti nelle fonti antiche greco-romane, colpisce la presenza ri­ corrente di un assunto, riguardante il confronto fra il genere uma­ no e le altre specie viventi. Al di là delle differenze, talora molto accentuate, tra le varie versioni, un punto è ribadito in maniera pressoché costante. Soprattutto a paragone con gli altri animali, gli nomini in origine sono inadatti alla sopravvivenza. Inetto a so­ pravvivere, senza l’apporto risolutivo di aiuti “straordinari”, pro­ venienti dall’esterno, il cucciolo di uomo è il vivente più esposto alla possibilità di una precoce estinzione, perché mancante dei mezzi di cui dispongono invece altre specie biologiche. È ciò che racconta, per esempio, Platone nel dialogo dedicato a Protagora, in cui si descrivono le tre successive “ondate”, necessa­ rie per conferire agli uomini la possibilità di sfuggire a un destino funesto. Il corredo “naturale”, col quale nasce ciascun uomo, in conseguenza dell’insipiente distribuzione di qualità attuata dallo sciocco Epimeteo, lo condannerebbe a una morte prematura. Ma neppure la seconda ondata, quella che è caratterizzata dall’inter­ vento di Prometeo, col conferimento agli uomini delle risorse con­ nesse con il fuoco e il sapere tecnico, pur risultando certamente utile per la soddisfazione di alcuni bisogni elementari, è tuttavia

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sufficiente a garantire la sopravvivenza, essendo essi privi della capacità di proteggersi efficacemente dagli assalti delle fiere. Si ri­ vela allora indispensabile una terza ondata, contrassegnata dall’i­ niziativa diretta dello stesso Zeus, il quale interviene attivando un percorso che condurrà gli uomini a impadronirsi dell’arte politi­ ca e, con essa, dell’arte bellica necessaria per sconfiggere le bestie feroci, conquistando dunque la sopravvivenza. Al di là del rivestimento mitico, il nucleo concettuale di questi racconti è riassumibile nei seguenti termini. Diffusa e ampiamente condivisa è la convinzione dell’originaria inferiorità genetica del genere umano, la specie biologica che alla nascita è meno provve­ duta di ogni altra. Lasciati a se stessi, gli uomini si estinguerebbe­ ro. Essi non hanno, infatti, né corazza né artigli, né pelo folto né zanne, né mole possente né velocità - in una parola, nessuna delle qualità di cui altre specie animali sono dotate e che consentono a esse la sopravvivenza. Sarebbe dunque “giusto” - almeno dal punto di vista di una giustizia ancorata a parametri di efficienza biologica - che gli uomini soccombessero. A salvarli, sia pure solo parzialmente, e comunque non definitivamente, è qualcosa che è in grado di trasformare la loro misera condizione, rovesciando la relazione gerarchica con le altre specie viventi. Qualcosa che sia capace di superare i limiti della loro natura originaria, consegnan­ do a essi il primato rispetto agli altri. Come si è visto in precedenza, nel racconto antropogenetico che ha come protagonista Prometeo, questo rovesciamento avviene per così dire dall’esterno, nel senso che la salvezza del genere umano è conseguenza di un “grande dono” elargito dal Titano ribelle, spinto al sacrilegio dalla sua filantropia. Ma vi sono altre narrazioni in cui lo scarto, il mutamento di stato, la conquista della sopravvivenza dipendono da un dato, talora apparentemente poco rilevante, che rende gli uomini idonei a evitare l’estinzione. A differenza di quan­ to si potrebbe immaginare, non si tratta di qualche attribuzione straordinaria, né di un potere fuori dal comune. A fare la differen­ za è quello che sembra essere un trascurabile dettaglio. “Fra tutti gli animali, il più intelligente è l’uomo perché ha le mani.”10 Così si legge in un frammento pervenutoci dell’opera di

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Anassagora (v secolo a.C.). Ciò che ha dunque permesso all’uo­ mo di sopravanzare gli altri animali è l’uso delle mani. A differen­ za dell’animale che riesce a resistere alle avversità naturali con la forza, o altre qualità “fisiche”, connesse con l’istinto, l’uomo cer­ ca di risolvere i problemi servendosi dell’intelligenza e agendo di conseguenza. In questa prospettiva, le mani possono essere con­ siderate lo strumento della ragione. Ci si può spingere ad affer­ mare che l’uso delle mani è all’origine di una vera e propria teoria del progresso umano, culminante con la diffusione e lo sviluppo esponenziale delle tecnologie. Alle origini, l’uomo è ignaro di tutto, vedendo non vede, uden­ do non ode, e si muove come capita, confondendo ogni cosa.11Ma, per la “molteplicità del suo ingegno”,12facendo tesoro dell’espe­ rienza, con l’aiuto delle “mani”, dal più sprovveduto che egli è tra gli animali, diventa “col tempo” il più forte, al punto da dover esclamare di fronte a lui: “Una cosa tremenda!”. “Molte sono le cose tremende, ma la cosa più tremenda è l’uomo’ , canta Sofocle,13 e qualcosa di simile già si trova in Eschilo14 quando afferma che l’uomo “dall’intelligenza sovrana” , a tutto “trova espediente” e ha “nelle arti una sapienza che va oltre le sue stesse speranze”.15 Da un lato, insomma, l’uso delle mani segna l’avvio del processo di civilizzazione, imponendo il sigillo dell’uomo sugli avanzamen­ ti più significativi delle conoscenze e delle tecniche. Dall’altro la mano costituisce di per sé la prima e più importante risorsa tec­ nologica, capace di rovesciare il rapporto gerarchico sussistente in ambito biologico fra gli uomini e gli animali. Per primo il filo-

10. Anassagora, ir. 4; vedi M.L. Silvestre, Anassagora nella storiografia filosofica, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1989. “Così, in generale, maestro di ogni cosa agli uo-

mini fu l’uso stesso, rendendo familiare l’apprendimento di ciascuna abilità a questo essere ben dotato e che ha come cooperatrici per ogni occorrenza le mani (cheirasl e la ragione e la versatilità della mente” (Democrito, fr. 165, in Diodoro Siculo, Bi­ blioteca storica, l, 8,7). 11. Come si legge nel Prometeo incatenato di Eschilo, w. 447 sgg. (su cui si veda anche il mio Endiadi, cit.). 12. Euripide, fr. 27. 13. Antigone, v. 442. 14. Prometeo incatenato, v. 458 (per un ulteriore approfondimento, rinvio ancora al mio Via di qua, cit., pp. 74-115). 15. Commentando i passi ora citati, scrive C. Diano: “Intelligenza e tempo sono i due fattori primi del progresso, il tempo che fornisce via via l’esperienza, e l’intel­ ligenza che l’accumula in sapienza e con l’aiuto delle mani la trasforma in arte (Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici, con un’introduzione di M. Cacciari, Bol­ lati Boringhieri, Torino 2007, p. 84).

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sofo di Clazomene sottolinea dunque la funzione non puramente “fisica” delle mani, nel cui uso coglie al contempo il tramite e l’e­ spressione più compiuta dell’intelligenza. “Anassagora afferma che l’uomo è il più intelligente degli ani­ mali grazie all’avere mani; è invece ragionevole dire che ha otte­ nuto le mani perché è il più intelligente. Le mani sono infatti stru­ menti e organi e il disegno invariabile della natura nel distribuire gli organi consiste nel dare all’animale quanto sia in grado di usa­ re [...]. Dobbiamo concludere che l’uomo non deve la sua intel­ ligenza superiore alle mani, ma le mani alla sua intelligenza supe­ riore. A colui dunque che è in grado di impadronirsi del maggior numero di tecniche la natura ha dato, con la mano, lo strumento in grado di utilizzare il più gran numero di altri strumenti. [...] La mano sembra in effetti essere non un solo strumento, ma molti strumenti al tempo stesso, è infatti, per così dire, strumento pri­ ma degli strumenti.”16 Pur dissentendo esplicitamente da Anassagora, per quanto ri­ guarda il rapporto fra le mani e l’intelligenza, dove l’uso delle mani è la conseguenza, e non la causa, dell’intelligenza, Aristotele non è meno convinto della funzione decisiva che le mani svolgono co­ me strumenti, e insieme come moltiplicatori delle potenzialità di ogni altro strumento. Ma a dispetto delle due prospettive opposte, Aristotele e il pensatore di Clazomene sono d’accordo nell’affermare che esiste un nesso molto preciso tra mano e intelletto, e che il possesso della mano sancisce la superiorità dell’uomo rispetto agli altri viventi.17 Ma la controversia non doveva finire qui. Oltre a un’allusione abbastanza esplicita contenuta nel De rerum natura di Lucrezio,18

Cicerone partecipa al dibattito procedendo oltre le secche della contrapposizione fra i due filosofi greci.19L’importanza delle osser­ vazioni ciceroniane dipende soprattutto dallo sforzo di argomen­ tare - senza dunque limitarsi a enunciare - la superiorità delle ma­ ni, indicando insieme le modalità concrete mediante le quali esse sono “ministre per le arti”. A ciò si aggiunga un rilievo di grande interesse, vale a dire l’accento posto sulla “contrazione e l’esten­ sione delle dita”, quale elemento di differenziazione rispetto agli arti di altri animali.20

16. Aristotele, Parti degli animali, a cura di M. Vegetti, tr. it. in Opere, voi. 5, Laterza, Roma-Bari 1990, p . 127 (IV, 10, 687 a8-b5). 17. Vedi C. Pogliano, “Homo hapticus·. Sulla mano umana, da Aristotele a Dar­ win” , in L. Calabi, (a cura di), Il futuro di Darwin. Duomo, UTET, Torino 2010, pp. 45-76. 18. “E qui vorrei che evitassi prudentemente un errore, / e rifuggissi con somma cura il vezzo di credere / che le lucenti pupille degli occhi furon create / proprio per farci vedere, e che reggendosi sui / piedi si possono in alto piegare le cosce e i pol­ pacci / proprio perché ci si dia modo di far lunghi i passi, / e che alle braccia, saldate coi poderosi avambracci, / delle due parti si diedero come ministre le mani / perché potessero compiere gli atti ragionevoli al vivere” (Lucrezio, La natura, a cura di L. Canali, tr. it. Rizzoli, Milano 1994, p. 291, IV, w. 823-831).

19. “Con quanta proprietà sono in grado di adempiere le loro funzioni e di quan­ te arti sono ministre le mani che la natura ci ha dato! L a contrazione e l’estensione delle dita, resa agevole dalla morbidezza dei collegamenti e delle articolazioni si esplica, comunque si muovano, senza la minima fatica. Appunto per questo la ma­ no è adatta a dipingere, a modellare, a scolpire e a trar suoni dalle corde e dai flauti mediante l’appìicazione delle dita. Ma oltre a queste attività aventi per scopo il di­ letto dell’uomo ci sono anche quelle che provvedono alle sue necessità: intendo qui riferirmi alla coltivazione dei campi, alla costruzione delle case, alla fabbricazione dei vestiti, siano essi tessuti o cuciti e a tutta in genere la lavorazione del bronzo e del ferro. Orbene, è stato proprio applicando le mani dei lavoratori alle scoperte del pensiero e alle osservazioni dei sensi che siamo riusciti a raggiungere tutti i risultati che ci hanno permesso di vivere al riparo, ricoperti di vesti e al sicuro da insidie, di possedere città, muri, case, templi” (Cicerone, Sulla natura degli dei, a cura di U. Pizzani, tr. it. Mondadori, Milano 1997, p. 122; vedi anche Galeno, Dutilità delle parti, tr. it. in Opere scelte, cit., pp. 322-323: “All’uomo - questo animale è intelli­ gente infatti e, solo fra quelli sulla terra, divino - in luogo di tutte insieme le armi difensive [la natura] diede le mani, strumento necessario a tutte le arti, non meno strumento di pace che di guerra. [...]. L’uomo, invece [rispetto agli altri animali], come nel corpo è privo d ’armi, così è spoglio di arti [naturali]. Per questo in com­ penso della nudità del corpo si ebbe le mani, e in compenso della mancanza di arti dell’anima si ebbe la ragione, servendosi delle quali arma e difende il corpo varia­ mente, e orna l’anima di tutte le arti. [...] Ma poiché era meglio che si servisse di tutte le armi e di tutte le arti, perciò non gli fu dato nulla di congenito. Ben dunque diceva Aristotele che la mano è come uno strumento preposto agli strumenti [...]. Infatti, [... ] la mano pur non essendo nessuno dei particolari strumenti, è uno stru­ mento che vien prima di tutti, perché per natura tutti li accoglie bene [...]. L’uomo, dunque, solo di tutti gli animali avendo un’arte preposta alle arti nell’anima, logica­ mente acquistò nel corpo uno strumento preposto agli strumenti” . Sull’argomento, vedi A. Olivieri (a cura di), “AH’incrocio dei saperi: L a mano”, in Atti del Conve­ gno di Studi, Padova 29-30 settembre 2000, con la collaborazione di M. Rinaldi e M. Rippa Bonati, CLEUP, Padova 2004. 20. Tradizionalmente, gli antropologi hanno distinto la mano degli esseri umani da quella delle scimmie antropomorfe in base a una serie di caratteristiche morfolo­ giche considerate vantaggiose per due prese della mano: la presa di precisione che ci permette per esempio di tenere in mano una penna e scrivere, e quella più ampia e decisa che ci permette di afferrare un martello e di utilizzarlo applicando una forza notevole. Fino al 2015, si era ritenuto che i primi utensili in pietra (per fabbricare i quali è necessario presupporre la presenza del pollice opponibile) apparissero nel-

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MEDICINA E CHIRURGIA

Dal dibattito a cui si è ora accennato emerge,21 fra gli altri, un punto di grande importanza. Le mani sono “lo strumento degli strumenti”, perché, oltre a funzionare esse stesse come strumenti, consentono di costruire altri strumenti. A ciò si aggiunga il fatto che 1 attività caratteristica dell’uomo, quella che lo differenzia da ogni altro animale - vale a dire il lavoro, inteso non come mero dispendio energetico fine a se stesso, ma come attività consapevo­ le orientata a un fine —si può svolgere eminentemente mediante l’uso delle mani.22 In qualunque relazione gerarchica lo si voglia proporre, il rap­ porto fra mani e intelletto si manifesta insomma come il peculiare criterio che permette di distinguere l’uomo da altri viventi, ed è al­ tresì alla base di quel processo di incivilimento che è testimoniato dalla vicenda plurimillenaria del genere umano. In questo quadro, la chirurgia - in quanto è per antonomasia il lavoro della mano assurge a paradigma di qualcosa che eccede gli stessi termini “tec­ nici , con i quali essa e stata per lo più pensata. Assodato che ogni attività finalistica svolta dall’uomo scaturisce dalla combinazione fra mani e intelletto - assodato, dunque, che ogni attività specifi­ camente umana è quindi chirurgica —, la chirurgia è l’espressione più compiuta e coerente, e al tempo stesso il modello, di ogni altra forma di concreta realizzazione dell’intreccio fra mani e intelletto. le registrazioni fossili non prima di 2,6 milioni di anni fa. Eppure Australopithecus africanus aveva una mano con pollice opponibile, proprio come gli esseri umani mo­ derni, ed era quindi capace di una presa forte e precisa già 3,2 milioni di anni fa. A dimostrarlo è un reperto descritto sulle pagine della rivista Science da M. Skinner dell’Università del Kent a Canterbury, nel Regno Unito, e colleghi di una collaborazione internazionale: si tratta della prima prova fossile che negli australopitechi la possibilità di utilizzare utensili era già presente, almeno mezzo milione di anni prima che ne iniziasse la produzione (su ciò si veda II pollice opponibile degli australopitechi”, in Le Scienze, 23 gennaio 2015, disponibile airindirizzo: http://www.lescienze.it/news/2015/01/23/news/pollice_opponibile_australopitechi-2454297/, presso il quale sono altresì accessibili ulteriori indicazioni bibliografiche). 21. Su cui si veda il bel saggio di L. Mori, “Mano e seconda natura di Homo: In­ tuizioni filosofiche”, disponibile all’indirizzo: https://www.academia.edu/5563168/ Mano_e_seconda_natura_di_Homo._Intuizioni_filosofiche_The_Hand_and_the_ second_nature_of_Homo._Philosophical_Insights. 22. Su questi temi, sono preziose le osservazioni di C. Sini, “Da Aristotele a Giordano Bruno: L anima, la mano e l ’intelletto ”, disponibili all’indirizzo: http:// www.oilproject.org/lezione/da-aristotele-a-giordano-bruno-lanima-la-mano-e-lintelletto-2683.html.

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Chirurgo non è dunque colui che si limiti a tradurre l’esigenza della cura in una mani-polazione - di per sé, priva di “intelletto” del corpo del paziente. Chirurgo non è semplicemente colui che usi le mani, lasciando ad altri il compito di adoperare l’intelletto. Al contrario, chirurgo è solo colui che esalti le potenzialità che scaturiscono dalla combinazione fra due attribuzioni specifiche dell’essere umano, quali le mani e l’intelletto. Questo è, dunque, nella sua essenza, il lavoro della mano\ massima valorizzazione del­ la “manualità” implicita nell’intelletto o del contenuto intellettivo insito nell’impiego delle mani. In questa prospettiva, la chirurgia si presenta non come “altra cosa”, o come mera “applicazione pratica”, come tale estrinseca e facoltativa, rispetto alla medicina. Essa ne costituisce piuttosto il destino. A rigore, conducendo alle sue conseguenze più coerenti il ragionamento, si dovrebbe dire che l’arte medica, nella sua forma matura, non può che essere intrinsecamente chirurgica, nel senso che solo attraverso questo suo “compimento” essa può pienamen­ te esaltare il nesso mani-intelletto, e quindi la sua stessa vocazione. E la medicina - la medicina non chirurgica, quella che cura senza l’aiuto del lavoro della mano - si giustificherebbe dunque solo in quanto grado propedeutico e difettivo, in vista del suo pieno com­ pimento nella chirurgia. D ’altra parte, il “lavoro” che si realizza mediante quella forma particolare di uso delle mani rappresentato dalla chirurgia è, pro­ prio in quanto lavoro, attività eminentemente finalistica. Già lo si è accennato. A differenza degli animali, gli uomini non si limita­ no a un “fare” indistinto e indeterminato. Ciò che peculiarmen­ te caratterizza questa poiesis è il fatto che si tratta di un produrre orientato a un fine, un fare finalizzato a un obiettivo chiaramente individuato.23 Se ciò vale per ogni tipo di lavoro, è intuitivo che 23. Lo ricorda K. Marx in un celebre passo del Libro I del Capitale·. “Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavora­ tore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cam­ biamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo

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valga ancora di più per quella forma di lavoro in cui raggiunge la sua “perfezione” il nesso mani-intelletto. Si pone qui un interrogativo, capace di illuminare un aspetto decisivo della chirurgia, finora rimasto nell’ombra, o soltanto la­ teralmente sfiorato. Per dirla in termini schematici: qual è lo sco­ po del “lavoro della mano” - visto che in esso si condensa anche la finalità generale della medicina? Se, per potersi definire “lavo­ ro” , una qualsiasi attività deve essere orientata a uno scopo, qual è quello a cui tende il lavoro che esalta le potenzialità della mano, anche indipendentemente dal fatto che tale scopo venga effetti­ vamente raggiunto? Sulle prime, la risposta sembra essere intuitiva, e comunque immune da particolari complicazioni. La medicina e il suo com­ pimento chirurgico sono finalizzate all’obiettivo della salute - a tutelarla, rispetto a possibili minacce o insulti, ovvero a recupe­ rarla, ove essa sia stata compromessa. La salute sarebbe dunque la risposta all’interrogativo riguardante lo scopo a cui sono orientate medicina e chirurgia. YGYEIA

Fra i personaggi della mitologia greca la cui specifica identi­ tà resta in larga misura indefinita, vi è certamente anche quello di Ygyeia (Igea). Di lei si sa che è figlia di Asclepio e di Epione (o Lampezia), e sorella di Panacea. A lei erano dedicati numero­ si templi, il più noto dei quali, situato in prossimità della città di Egio, era conosciuto per la presenza di una fonte di acqua mine­ rale, alla quale erano attribuite virtù benefiche. Le notizie e le testimonianze relative a Igea sono complessiva­ mente scarse, al punto da legittimare l’ipotesi formulata da Martin Nilsson, secondo il quale in origine il nome Ygyeia sarebbe stato semplicemente uno degli epiteti riferiti a Atena, vista in questo caso come divinità guaritrice. Solo in una seconda fase, e comun­ que non prima dell inizio del V secolo, il nome sarebbe servito a del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. E questa subordinazione non è un atto singolo e isolato. Oltre lo sforzo degli organi che lavorano, è necessaria per tutta la durata del lavoro, la volontà conform e allo scopo , che si estrinseca come attenzione (Il capitale. C ritica d e ll’econom ia p o litica , libro I, terza sezione, cap. V, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1970, p. 196).

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indicare una divinità autonoma, ricondotta alla famiglia di Ascle­ pio, sul modello di quanto è avvenuto per Peitho, originariamen­ te conosciuta come mero epiteto di Afrodite. Ciò comfermerebbe il carattere “minore” e comunque subalterno di questa figura, rispetto ad altri personaggi dominanti nella simbologia medica, come Asclepio e Chirone. Qualche elemento ulteriore sulla sua personalità può essere de­ sunto dalle molte rappresentazioni che ci sono pervenute, come statue o pitture vascolari. Nella maggior parte di queste testimo­ nianze figurative, soprattutto in quelle più antiche, Igea compare come una giovane donna, vestita da sacerdotessa, recante in mano una tazza piena di orzo con un serpente avvinghiato al suo braccio. La presenza ricorrente del serpente allude evidentemente al pharmakon, visto che medicamenti e pozioni erano sovente ricavati dal veleno dei serpenti. In termini generali, salvo alcune eccezioni ri­ salenti ai secoli successivi al V o ad alcune testimonianze di età ro­ mana, il tratto dominante di Igea è quello di apparire come “una giovinetta fragile e dipendente da una personalità maggiore , quale è quella del padre Asclepio. Per ritornare all’interrogativo da cui abbiamo preso le mosse, la narrazione mitologica relativa al personaggio eponimo della sa­ lute ci restituisce una figura che, per la sua evanescenza e subal­ ternità, rispetto ad altre figure dominanti, non sembra potersi co­ stituire come quel “fine”, al quale orientare il lavoro della mano. Al contrario, pur senza sopravvalutare ciò che sembra emergere dal contesto mitico, esso ci restituisce un’immagine sbiadita della salute, comunque non tale da costituirsi come finalità delle attivi­ tà raffigurate in Asclepio e Chirone. Per individuare allora il fine dell’attività descritta col termine chirurgia è necessario dunque cercare altrove. Ygyeia —la salute —è certamente parte della fa­ miglia”, ma non l’obiettivo a cui tende l’arte medica nella sua più compiuta forma cheir-urgica. D ’altra parte, a differenza di ciò che si potrebbe pensare, a con­ clusioni non troppo dissimili da quella ora enunciata si perviene quale esito di un percorso ben lontano dalla mitologia, quale è 24. E. Paribeni, “Igea” , in E ncicloped ia d e ll’arte a n tica , Istituto Enciclopedia Treccani, Roma 1961, disponibile all’indirizzo·, http://www.treccani.it/enciclopedia/igea_(Enciclopedia-delT-Arte- Antica)/.

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quello che emerge dal dibattito contemporaneo sul concetto di salute, al quale hanno partecipato alcune eminenti personalità nel campo della ricerca medica. Come è ormai largamente acquisito, il punto di partenza della riflessione è costituito dalla problema­ tizzazione del concetto stesso di salute, mediante il netto supera­ mento dell’accezione positivistica. La salute - si afferma pressoché unanimemente - non può es­ sere definita come “assenza di malattie”. E ciò perché da un lato si tratterebbe di una definizione negativa, meramente residuale (mentre ciò che si cerca è una definizione in positivo), e dall’altro perché il confine fra ciò che è malattia e ciò che non lo è presup­ pone precisamente il riferimento a quella nozione di salute, che si vorrebbe cercare di chiarire. Il passo storicamente successivo è non meno noto. Nel 1946 l’Organizzazione Mondiale della Sanità formula un concetto di salute, secondo la seguente definizione, che è ancor oggi alla base della dicitura ufficiale: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di ma­ lattia o di infermità”. Come si può facilmente intuire, pur caratte­ rizzandosi per lo sforzo di procedere oltre i limiti della definizione negativo-residuale, la formula prevista dall’OMS non è in grado di superare le difficoltà già segnalate. I motivi principali sono eviden­ ti. Alludendo a uno stato di “completo benessere”, si finisce infatti per indicare un modello astratto e sostanzialmente irrealizzabile, giungendo così al paradosso di dover riconoscere che, non poten­ dosi affermare per nessun essere vivente lo stato di “completo be­ nessere”, siamo tutti in modi diversi ammalati. A ciò si aggiunga che l’identificazione della salute col benessere implicherebbe che ogni situazione di parziale o totale malessere debba essere consi­ derata espressione di una condizione patologica, mentre invece si può dimostrare che non sussiste una correlazione biunivoca fra benessere e salute (e fra malessere e malattia). Risultati non pienamente convincenti emergono inoltre an­ che dai principi affermati nella cosiddetta “Carta di Ottawa”, vale a dire nel documento approvato in occasione della prima Conferenza internazionale per la promozione della salute, svol­ tasi nella città canadese nel 1986, nella quale si afferma fra l’al­ tro che “grazie a un buon livello di salute l’individuo e il grup­ po devono essere in grado di identificare e sviluppare le proprie

aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare l’ambiente e adattarvisi”. La salute è in questo modo identificata con l’espan­ sione oltre i confini del soggetto che ne gode, diventando con ciò un mezzo propulsore di ulteriori positivi interventi. Allo stes­ so tempo, quindi, la capacità di adattamento all’ambiente viene considerata un elemento indicatore di un buono stato di salute. Pur cercando di superare i macroscopici limiti insiti nella defini­ zione dell’OMS, anche la Carta di Ottawa conferma la difficoltà di formulare una definizione positiva di salute, evitando semplici tautologie (“la salute è star bene”), o circoli logici insostenibili. In tempi recenti, il dibattito è stato riaperto da un editoriale pubblicato sul Lancet nel 2009, nel quale apertamente si prende­ vano le distanze dalla definizione dell’OMS, indicando congiuntamente un differente punto di riferimento. Secondo il prestigioso periodico in lingua inglese, si tratterebbe di adottare la formula­ zione contenuta nel libro di Georges Canguilhem,25 consistente nel rifiutare l’idea che esistano normali o anormali stati di salute. Ciò perché, secondo lo studioso francese, la salute non è qual­ cosa che possa essere definita in termini statistici o meccanicisti­ ci, poiché si tratta piuttosto della capacità di adattarsi al proprio ambiente. La salute non sarebbe, insomma, un’entità fissa, in quanto cam­ bierebbe per ogni individuo, a seconda delle circostanze. Ne con­ segue che la salute non è definita dal medico, ma dalla persona, conformemente ai suoi bisogni funzionali, mentre al medico spet­ terebbe il compito di aiutare l’individuo ad adattarsi al proprio ambiente fisico e sociale. L’editorialista concludeva il ragionamen­ to con un’affermazione destinata a rilanciare la discussione: “La salute è un’idea elusiva e al tempo stesso fortemente motivante. Rimpiazzando la perfezione [di cui si parla nella definizione del 1946] con l’adattamento, noi ci avviciniamo a un programma per la medicina più caritatevole, confortante e creativo - un program­ ma al quale tutti noi possiamo contribuire”.26

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25. G . Canguilhem, Il normale e il patologico, tr. it. Einaudi, Torino 1998. 26. “What is health? The ability to adapt” , in The Lancet, 373, 9666, 7 marzo 2009, p. 781. Particolarmente ricco il dibattito sollecitato dalla pubblicazione dell’e­ ditoriale. Fra l’aprile del 2009 (all’indomani dunque della comparsa dell’articolo) e il gennaio del 2017, si possono contare ben 4834 contributi, più o meno direttamente riconducibili a questa fonte. Temi analoghi sono stati successivamente ripresi anche

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La varietà delle posizioni emerse, nel contesto di un dibatti­ to particolarmente ampio, lascia intendere quanto sia arbitrario tentare di condensare in qualche formula riassuntiva le risposte fornite all’interrogativo proposto nel titolo del Lancet. Mentre, infatti, risultano complessivamente evidenti i limiti delle defini­ zioni via via proposte, risulta sempre più arduo azzardare una pars construens, capace di eliminare le difficoltà affiorate nei tentativi finora compiuti. In termini generalissimi, si potrebbe tuttavia os­ servare che l’area di consenso e di condivisione rispetto ad alcune definizioni cresce quanto più astratta e indeterminata - e, dunque, al limite, poco significativa, se non del tutto inutilizzabile - è l’ac­ cezione proposta, mentre i dissensi si moltiplicano in presenza di definizioni maggiormente stringenti. In ogni caso, si può dire che l’allusione implicita nella vicenda mitica in precedenza delineata resta confermata. La salute resta una nozione sostanzialmente elusiva, comunque inidonea a co­ stituirsi quale finalità di quel lavoro della mano che congiunge le mani e l’intelletto, e che esprime la peculiare identità dell’uomo, rispetto ad altri viventi. Se vogliamo comprendere quale sia il telos, lo scopo, a cui è rivolta l’attività descritta col termine chirur­ gia, dobbiamo guardare altrove. Dobbiamo cercare di capire che cosa ne costituisca davvero il principio di individuazione, in cui convergano essenza e destino.

mediante una nutrita serie di saggi e articoli comparsi nel New England Journal of Medicine, a partire dal saggio di D.R. Hopkins, “Disease eradication”, in New Eng­ land Journal o f Medicine, 368,2013, pp. 54-63.

tale, essa presupporrebbe che l’organismo per il quale è richiesto l’intervento sia stato colpito da una lesione o comunque sia affetto da una patologia che ne ha modificato la morfologia. A questa indesiderata e nociva alterazione, la chirurgia dovreb­ be appunto porre rimedio, ripristinando la condizione “naturale”, riconducendo per quanto possibile l’organismo allo stato di equi­ librio originario. Il risultato può essere conseguito in vari modi; eliminando, sostituendo, integrando, ma in ogni caso ciò che si tratta di fare è mettere in campo un’attività nella quale strumen­ tazione e conoscenze specializzate - in altre parole, ciò che si po­ trebbe sinteticamente definire col termine greco techne - sono finalizzate a reintegrare uno stato che la malattia ha deformato. Secondo questa concezione della chirurgia, fin qui rozzamente de­ scritta, si potrebbe affermare che essa può essere considerata come quella techne che è essenzialmente rivolta a riportare alla physis, è quell’attività il cui scopo è quello di compiere a ritroso il processo che l’organismo ha subito a seguito di una malattia. La chirurgia sarebbe dunque techne a servizio della physis - di ciò che ciascu­ no di noi è per nascita. Quella fin qui esaminata non è, d’altra parte, l’accezione che corrisponda con maggiore aderenza allo statuto autentico della chirurgia, a quella che si potrebbe chiamare la sua più intima “vo­ cazione”. Come “lavoro della mano” per antonomasia, come com­ binazione di mano e intelletto, specificamente caratterizzante la specie umana, come attività finalistica nella quale la medicina stes­ sa trova il suo più coerente compimento, la chirurgia non si limita affatto a questo. Non è mero rimedio, che sottintenda un’attitudi­ ne meramente riparativa. Non è rivolta per così dire “all’indietro”, a ripristinare un ordine che sarebbe stato alterato. Non è techne al servizio della physis. Tutt’altro. Immanente nella chirurgia, nel suo più genuino statuto, è una finalità che non è assimilabile a una funzione puramente strumen­ tale, che procede ben al di là di ogni relazione ancillare, rispetto alla medicina. Se assunta nella sua accezione più rigorosa, la chi­ rurgia non può neppure essere valutata in rapporto all’obiettivo della salute, in qualunque modo questa possa essere definita. Quel lavoro della mano tende ad altro. La vocazione che è insita nella chirurgia, la dynamis che la caratterizza specificamente, eccede lo stesso ambito circoscritto della salute.

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PHYSIS E TECHNE

Nell’opinione comune (ma anche, e non secondariamente, nel­ la convinzione di molti addetti), la chirurgia è essenzialmente un rimedio. Più precisamente, almeno agli inizi della sua lunga storia, essa è quel tipo di rimedio a cui si accede quando altre strategie curative non siano in grado di garantire l’efficacia richiesta. Ma anche quando l’opzione chirurgica venga praticata non per l’im­ possibilità di percorrere soluzioni medico-farmacologiche tradi­ zionali, bensì perché ritenuta in assoluto preferibile, la chirurgia sembrerebbe comunque essere caratterizzata dal tentativo di re­ staurare ciò che è stato, in modi diversi, danneggiato. In quanto

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Ritorna qui un aspetto a cui, nell’esordio di questo capitolo, si era solo accennato. Cheir- si diceva - non è solo la mano, conside­ rata per così dire in forma neutra, come arto di per sè non dissimile da altri organi. Cheir è la mano che prende, che afferra, che stringe, che si impone. Il “lavoro” di una “mano” così concepita, secondo quanto suggerisce la stessa etimologia, non è un lavoro “dolce”, non è remissivo, non è subordinato. E un lavoro che esprime tutta la volontà di potenza di una mano che, congiunta con l’intelletto, è in grado di segnare lo scarto fra mondo umano e realtà animale. E una mano in cui è racchiusa una forza che non può acquietarsi nella restaurazione di un ordine che sia stato vulnerato. Per cercare di rendere più puntuale il ragionamento, si può di­ re che, se intesa nella pregnanza concettuale che è connessa con la sua stessa identità linguistica, la chirurgia non si limita affatto a correggere anomalie, allo scopo di riportare alla norma. Non at­ tribuisce alla mano il compito di rimuovere quanto sia difforme, rispetto alla regola originaria. A ben altro quel lavoro e la potenza implicita in quel lavoro sono in realtà finalizzati. Se ci si riferisce alla sua essenza, a quella che si potrebbe defi­ nire come la sua genuina vocazione, la chirurgia non è soltanto di­ sciplina “applicativa”, non è principalmente orientata a ristabilire la “normalità”, non è techne al servizio della physis, ma è piuttosto quella techne che punta a produrre una nuova physis. Non “rime­ dia”, non “ripara”, non “restaura” - crea. Non “aggiusta” isolate e circoscritte de-formazioni. Produce piuttosto nuove forme. Non riporta a una normalità precedente, ma letteralmente inventa una nuova norma. Anche se limitazioni tecniche contingenti ne condi­ zionano tuttora una piena realizzazione, la volontà di potenza che è immanente in quella mano tende a instaurare una nuova natura, piuttosto che accontentarsi di correggerla. Da questo punto di vista, si può giungere ad affermare che, se colta nella sua identità profonda, più che nelle sue espressio­ ni concrete effettive, la chirurgia non può tollerare che persista­ no im-perfezioni. Essa deve intervenire, non già per ripristinare una norma originaria, ma per generare una nuova e più compiu­ ta normalità. Anche se nella situazione di fatto, quale quotidianamente si concretizza nelle strutture sanitarie, la chirurgia continua a essere prevalentemente riparativa, continua cioè a muoversi nei confini

segnati dallo sforzo per ristabilire la naturale condizione origina­ ria, non è questo il suo principio di individuazione. Il lavoro della mano non può subire il limite che è insito nella physis. La tensione verso una piena affermazione della sua potenza la spinge incessan­ temente a superare vincoli contingenti, la induce a concepire la stessa physis come un ostacolo al suo pieno compimento. Essere fedeli a ciò che è scritto - già a livello linguistico - nella chirurgia vuol dire non costringerla nel recinto della “natura”, ma piutto­ sto consentirle di liberarsi dall’obbligo della restaurazione, con­ cependo la natura non come un dato da riprodurre, ma come un progetto da realizzare. Si comprende allora, in questa prospettiva, per quali motivi profondi si possa affermare che ogni chirurgia, quale che ne sia la forma particolare, è nella sua essenza chirurgia plastica. Perché ciò verso cui è proiettata è appunto plasmare una nuova realtà, crea­ re una nuova natura, istituire una nuova normalità. Perché il suo principio identitario non è l’adeguazione a una forma precostitui­ ta, ma l’invenzione di una diversa morfologia.

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IL DESTINO DELLA CHIRURGIA

Affiora qui una contraddizione insanabile. Da un lato, in quan­ to compimento della medicina, espressione suprema della con­ giunzione tra mani e intelletto, segno tangibile della superiorità della specie umana, la chirurgia non può che tendere a sbarazzar­ si di ogni vincolo, portando alle conseguenze più estreme il suo progetto di creazione di una nuova physis. Al tempo stesso, nel perseguire questo obiettivo, essa lascia intravedere il carattere in­ trinsecamente idolatrico di questo progetto, il fatto che esso segni l’aprirsi di una crisi radicale, rovesciando i termini del rapporto fra physis e techne. Non è in gioco, su questo piano, l’oziosa disputa moralistica relativa al necessario “contenimento” delle potenzia­ lità pressoché illimitate dell’attività chirurgica. Nulla è di princi­ pio in grado di arrestare la piena manifestazione di una volontà di potenza insofferente di ogni condizionamento. Tutto ciò che è realisticamente possibile è, anche a proposito della chirurgia, prendere coscienza di un’ambivalenza insuperabile: fra la pura e semplice riparazione e la vera e propria creazione-, fra la riabilita­ zione di una normalità preesistente e l’instaurazione di una nuo-

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va normalità; fra ciò che si è per nascita e ciò che si può diventare per effetto della techne. Come si ricorderà, nella narrazione mitica si accenna a un epi­ sodio, del quale non si sono, finora esplorate fino in fondo le im­ plicazioni. Al culmine delle sofferenze indotte dalla freccia acci­ dentalmente scagliata da Eracle, preso atto dell’impossibilità di guarire, Chirone cede a Prometeo la propria immortalità, acqui­ sendo dal Titano la possibilità di morire, e dunque di porre fine ai propri patimenti. Le fonti tacciono su altri dettagli connessi con lo scambio. Ma si può immaginare che, oltre alla possibilità di morire, l’eponimo della chirurgia abbia mutuato anche la missione - un sacrilegio compiuto con Γintento di salvare il genere umano - per la quale il Titano era stato assoggettato a un atroce supplizio. Con lo scam­ bio, Chirone si carica insomma della stessa sorte ambivalente che aveva caratterizzato Prometeo: quella di spingere la filantropia fino al punto di eliminare la morte dall’orizzonte umano, ma al prezzo di macchiarsi di una colpa imperdonabile, invadendo la sfera di attribuzione propria delle divinità. Il titanismo: questa appare essere l’allettante promessa e insie­ me la minaccia incombente nelle espressioni più avanzate del la­ voro della mano. Andare oltre i limiti dell’umano, quali sono stati delineati dalla physis, per inaugurare una dimensione postumana, nella quale la techne chirurgica si sottragga alla subalternità ri­ spetto alla “natura”, creando una nuova physis, immune dalle im­ perfezioni della physis originaria. I controversi approdi delle più recenti tecniche chirurgiche, mediante le quali nulla sembra esse­ re precluso sul piano della produzione di una nuova morfologia, parlano di questo titanismo, identificano uno scenario nel quale la volontà di potenza della mano possa esprimersi nella forma più compiuta, al di fuori di ogni remora. Nella prospettiva che si è delineata, con tutte le contraddizio­ ni e le tensioni che la caratterizzano, un punto deve considerarsi acquisito. Nessun avanzamento significativo, nessun progresso sul piano scientifico e tecnologico, nessun autentico giovamen­ to potranno provenire dagli sviluppi dell’arte medica, se essi non saranno costantemente accompagnati dalla consapevolezza dell’irriducibile duplicità di tutto ciò che riguarda la condizio­ ne umana.

Il medico - il medico che, come il buon nocchiero, sa condur­ re la nave non solo quando il mare è calmo, ma anche quando infuria la tempesta - 27 non dovrà mai dimenticare quanto con­ sigliava Ippocrate: “Il compito è di acquisire una scienza così esatta che permetta di sbagliare poco qua e là. E io molto lode­ rei quel medico che poco sbagliasse. Ma la certezza raramente è dato vedere”.28

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27. Il paragone è in Platone, Repubblica, 488 a-e; Politica, 298 d-e - 302 a; Alcibiade, 135. 28. Ippocrate, Antica medicina, cit., p. 170.

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