Le origini del calcolo infinitesimale nell’era moderna. Con scritti di Newton, Leibniz, Torricelli

Table of contents :
Cover......Page 1
Introduzione......Page 7
Prefazione......Page 24
Capitolo primo Archimede......Page 29
Capitolo secondo Commentatori e continuatori di Archimede......Page 36
Capitolo terzo Il metodo degli indivisibili......Page 42
Capitolo quarto Nuovi risultati di calcolo integrale......Page 54
Capitolo quinto Il problema delle tangenti e la derivata......Page 72
Capitolo sesto Velocità e derivata. Il teorema d'inversione......Page 81
Capitolo settimo Isaac Newton......Page 98
Capitolo ottavo Gottfried Wilhelm Leibniz......Page 109
Capitolo nono Considerazioni generali......Page 118
Appendice......Page 125
Isaac Newton: Sulla quadratura delle curve (1704)......Page 126
Evangelista Torricelli SPirali infinite......Page 179
Bibliografia......Page 231
Indice......Page 235

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GUIDO CASTELNUOVO

LE ORIGINI DEL CALCOLO INFINITESIMALE NELL'ERA MODERNA CON SCRITTI DI NEWTON, LEIBNIZ, TORRICELLI

FEL TRINELLI

Guido Castelnuovo LE ORIGINI DEL CALCOLO INFINITESIMALE NELL'ERA MODERNA Questo saggio del Castelnuovo sulle origini del calcolo infinitesimale nell'era moderna esce a breve distanza dal volume di Rufini: IL "METODO" DI ARCHIMEDE E LE ORIGINI DEL CALCOLO INFINITESIMALE NELL'ANTICHITA'. L'autore si è proposto di indagare le origini e gli sviluppi delle due operazioni di integrazione e di derivazione e di mostrare come il calcolo infinitesimale sorga quando sia stabilito il legame tra di esse, analizzando l'opera di Galilei, di Cavalieri e di Torricelli, di Leibniz, di Pierre Fermat, di Cartesio, Pascal, Huygens, Newton, ecc. A questa nuova edizione è aggiunta la traduzione - ad opera di Ettore Carruccio - del saggio di Torricelli: DE INFINITIS SPIRALI BUS. L. 2500

Copertina di An;a Storclt

Biblioteca Scientifica Feltrinelli

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Lo scritto di Evangelista Torricelli "Spirali infinite," tratto dai "Quaderni di storia e critica della scienza" (nO 3, 1955), è stato qui riprodotto per gentile concessione della Domus Galilaeana di Pisa

La presente edizione è stata curata da Umberto Forti con note di Alba Rossi Dell'Acqua [A.D.A.]

Prima edizione: 1938 Copyright by

© Nicola Zanichelli Editore Bologna Prima edizione nella "Biblioteca Scientifica Feltrinelli": ottobre 1962 per gentile concessione di Nicola Zanichelli Editore Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

GUIDO CASTELNUOVO

LE ORIGINI DEL CALCOLO INFINITESIMALE NELL' ERA MODERNA CON SCRITTI DI NEWTON, LEIBNIZ, TORRICELLI

prefazione di Umberto Forti

FEL TRINELLI

Introduzione

*

La storia della matematica in Italia. L'opera di G. Castelnuovo

La storia della matematica, anche se in forma erudita - e senza coscienza del nesso profondo che unisce la storia alla scienza, intesa come rapporto non mai concluso e definito fra la mente e il mondo ebbe fra noi benemeriti cultori anche nel secolo passato. Il veronese Pietro Cossali (1748-1815) e il lucchese P. Franchini (1768-1837) furono i primi ad intraprendere tali studi nell'età dell'illuminismo, e le loro opere parlarono di quella che Mascheroni diceva "la taciturna algebra." Cresceva infatti, acuta, la curiosità di conoscere i segreti di questo rinnovato strumento del sapere che conduceva, con Newton, a rigorose e affascinanti visioni dell'universo; e l'Algarotti ne scriveva per le dame, mentre anche le fronti immacolate di lesbie graziose si corrugavano attente. Sicché, sviluppando l'ironico cenno del Parini ( ... e il calcolo, la massa I E l'inversa ragion sonino ancora I Sulla bocca amorosa), il Bondi calcava la mano: Tu stessa, Algebra, invan di lettere e di cifre Vesti i calcoli tuoi; qui ciascun osa Chiamarti a nome sconosciuto, e i primi Termini non intesi, e uditi a caso Da dotto labbro, le non sempre assai Memori lingue balbettando vanno.

L'emiliano G. B. Venturi (1742-1822), noto studioso di Leonardo e di Galileo, prosegui questo indirizzo, e ilfiorentino Guglielmo Libri (1802-1869) ci dette una importante Histoire cles Sdences mathématiques en Italie, in quattro volumi (Parigi 1838-41) ricca di documenti inediti.

* Assumendo la cura della presente edizione, ho creduto opportuno aggiungervi questa introduzione dedicata agli studi di storia della matematica in Italia, ed alla eminente figura dell' Autore di questo volume, mancato nel 1952. 7

Erano gli anni in cui anche il romagnolo Silvestro Gherardi (18021879) si occupava dei progressi dell'algebra, e dei " cartelli di matematica disfida" nel suo scritto Per la storia della Facoltà di matematica (2 voli. Parigi, 1758), molto ampliata nella nuova edizione postuma (1792-1802). In Francia C. Bossut pubblicò (Parigi, 1784, 1802, ecc.) un popolare Essai sur l'histoire générale des mathématiques, che ebbe l'onore della traduzione in varie lingue, anche in italiano (Milano, 1802). L'Inghilterra non era assente del tutto (J. Fenn, A History of Mathematics, Dublino 1768); la Germania aveva il bibliofilo A. G. Kaestner (Geschichte der Mathematik, Gottinga, 1796-1800) e l'erudito]' C. Heilbronner (Historia Matheseos Universale, ecc., Lipsia). Cosi, sulla metà dello scorso secolo, la ricerca storiografica poteva vantare precedenti non trascurabili, specie in Francia, e anche in Italia: cosa notevole, in tanta decadenza della cultura nostra. Su questo terreno fecondo, nella seconda metà del secolo, sorsero le opere veramelfte imponenti di Baldassarre Boncompagni (Roma, 18211894), e di Paul Tannery (1843-1904), per tacere di Antonio Favaro (Padova, 1847-1922) che dedicò quasi per intero a Galileo le sue monumentali ricerche. Questo orientamento monografico era certo ispirato a personale vocazione, ma pur risentiva dell'atmosfera che si respirava negli ambienti colti di un paese sorto appena ad unità, dopo superate caparbie opposizioni, anatemi e scomuniche, e che si sentiva ancor minacciato dai gretti indirizzi clericali e fideistici che ne avevano ostacolato l'ascesa. Evocare l'ombra di quello spirito magno, e il ricordo dell'oppressione sPirituale che aveva segnato il crollo della grande cultura italiana nell'età che fu sua, era opera meritoria, e fu infine coronata dalla monumentale edizione delle opere di Galileo. Il Boncompagni, ci dette invece i venti volumi in quarto del suo Bullettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche e fisiche (1868-87), la prima rivista del genere, ove fu anche pubblicata larga messe di antichi documenti inediti,. ed inoltre vari studi sulla matematica nel medioevo, e la edizione delle opere di Leonardo Fibonacci. Solo piti tardi si ebbero analoghe pubblicazioni all'estero per opera

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di Cantor (dal 1877), dello svedese G. Enestrom (Bibliotheca Mathematica, 1884-1915), di Gino Loria (Bollettino di bibliografia e storia delle matematiche, 1898-1917), per limitarci ai periodici i cui inizi risalgono al secolo passato. Felice Casorati (1835-1890) scrisse un notevole saggio che citeremo piti tardi. E non vanno dimenticati i vastissimi lavori bio-bibliografici di P. Riccardi (Biblioteca matematica italiana, dalle origini della stampa ai primi anni del secolo XIX, Modena 1893 e 1928. Ed anche: Saggio di una biblioteca matematica italiana del secolo XIX, Bologna 1890). Ancora alla storia dell' algebra si dedicava intanto il tedesco G. H. F. Nesselman (1811-1881), dotto intendente delle lingue araba e sanscrita,. e lo seguirono poi - con piti amPio raggio di interessi - i suoi compatrioti M. Cantor (1829-1920), S. Giinter (1848-1932), H. Hankel (1839-1873), F. Hultsch (1833-1906), e il belga Quetelet (1796-1874), e i danesi H. G. Zeuthen (1839-1920), J. L. Heiberg (1854-1928), A. A. Bjornobo (1874-1911), il quale studiò il medioevo latino continuando, in questo campo, l'opera ben piti vasta di M. Curtze (1837-1903). Fama in parte meritata, ebbe il trattato in dodici volumi di M. Marie (Histoire des sciences mathématiques et physiques, Parigi, 1883-88), anche se alquanto scadenti sono i primi volumi (Antichità). Degno prodotto di questa stagione feconda fu la grande Storia delle Matematiche fino al XVIII secolo del già ricordato Moritz Cantor (Vorlesungen iiber Geschichte der Mathematik, 4 volumi, Lipsia, 1880-1908). Un'opera che se oggi non può piti considerarsi soddisfacente - specie per l'antichità e il medioevo, e per la scienza orientale - rappresentò allora una monumentale summa del sapere, con notevoli contributi originali. Gustavo Enestrom fu implacabile nel denunciarne ogni manchevolezza dalle pagine della sua Bibliotheca Mathematica (specie nei quattordici volumi della terza serie), e questo suscitò ostilità e amarezze. Ma, naturalmente, il punto di vista dei posteri è del tutto diverso, e le osservazioni dello storico svedese - con piti precise messe a punto - non fanno che accrescere il valore dell' opera di Cantor, a cui non mancò mai, del resto, stima universale. Occorre ricordare che il quarto volume non è dovuto a Cantor - il quale scrisse solo 9

un breve epilogo - ma a vari collaboratori,fra cui ricordiamo: G. Vivanti (Calcolo infinitesimale), E. Netto (Analisi combinatoria),. G. Loria (Prospettiva e Geometria descrittiva), F. Cajori (Aritmetica e Algebra). Cosi siamo giunti a dire dei primi decenni del nostro secolo: il periodo in cui va posta l'opera storica del Castelnuovo, la quale include i volumi Spazio e tempo secondo le vedute di A. Einstein (prevalentemente divulgativo; Bologna, 1923), e Le origini del calcolo infinitesi male nell'era moderna (Bologna, 1938), che ora presentiamo di nuovo. Sotto molti aspetti Boncompagni ebbe uno spirito gemello, durante questo periodo, in Aldo Mieli (Roma 1879-1950): anch'egli si distinse per vastità di opere e di iniziative editoriali: fondò e diresse, fra l'altro, l'Archivio di Storia della scienza (1919), divenuto poi, dal 1948, Archives internationales d'Histoire des Sciences. Infine anche Mieli - oh gran bontà dei cavalieri antiqui! - non esitò a sacrificare sull'altare della scienza le cospicue ricchezze avite. PiU sfortunato del suo concittadino, dopo un lungo periodo di esilio politico, si spense a Florida (Buenos Aires) nella piti squallida miseria. Sebbene si possa citare piti di un suo scritto contenente ricerche di storia della matematica (Manuale di Storia della Scienza, Roma, 1925; Histoire des Sciences: Antiquité, in collaborazione con Pierre Brunet, Parigi, 1935; La Science arabe et son role dans l'évolution scientifique mondiale, Leida, 1938: Panorama general de Historia de la Ciencia, 1945-46) tuttavia, l'opera del Mieli - diversamente da quella del Boncompagni - è indirizzata alla scienza in genere. Sempre preciso, informato, equilibrato nel giudiZio, egli poteva essere di esempio ad ogni studioso. Grande importanza ebbero fra noi, in questo periodo, gli studi di F. Enriques e di E. Bortolotti (e di altri che ad essi si collegano, come A. Agostini ed E. Rufini) di cui abbiamo detto in opere pubblicate recentemente. 1 l V. Federigo Enriques matematico e filosofo in appendice a NEWTON, Principii matematici di Filosofia Naturale, con note storiche di F. Enriques e U. Forti, di prossima pubblicazione Feltrinelli, Milano. Ed anche: Il rinascimento matematico italiano

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Bortolotti dedicò lunghi e meditati lavori all'opera matematica di Torricelli, e agli algebristi italiani del '500; mentre gli studi dell' Enriques riguardano soprattutto la matematica greca, anche nei suoi aspetti piti spiccatamente filosofici (relatività del moto, evoluzione dei concetti fondamentali, ecc.). Alla matematica greca si volse pure il mantovano Gino Loria (1862-1954, con la sua opera Le scienze esatte nell'antica Grecia, Modena Accad. d. Scienze, 1893-1902; la edizione definitiva apparve a Milano, 1914). Allo stesso argomento egli si dedicò anche nelle successive, importanti pubblicazioni: una vasta Storia delle Matematiche (2a edizione definitiva: Milano, 1950),· ed inoltre: Storia della geometria descrittiva dalle origini sino ai giorni nostri (Milano, 1921); Curve piane speciali, algebriche e trascendenti (Milano, 1930, 2 volI.); Guida alla storia delle matematiche (edizione definitiva, Milano, 1946); Pagine di Storia della Scienza, ecc. Non propriamente storica fu l'opera del Peano (1858-1932) ma tuttavia il suo nome deve essere ricordato anche in questi cenni, giacché " si può dire che non c'è pagina da lui scritta che non si vorrebbe leggere, ora per la genialità dell'invenzione, ora per la novità della trattazione, ora per la preziosa notizia storica o filologica." 2 Ricche di osservazioni e di rivendicazioni originali sono anche le molte monografie di Giovanni Vacca (1872-1953). Finalmente un editore le raccoglierà in volume, 3 e ad esso potrà ricorrere chi desidera un'informazione esauriente. In certo senso analoga fu la fortuna del cremonese Giovanni Vailati (1863-1906), i cui saggi vennero per la prima volta raccolti in volume, a cura di Enriques, solo dopo la sua scomparsa (Firenze, Seeber 1911). Egli però si occupò prevalentemente di storia della fisica, o delle scienze in genere, e sempre nel quadro di un approfondimento filosofico. nella cultura europea, e l'opera di E. Bortolotti, da noi premesso alla nuova edizione di R. BOMBELLI, Opera su l'Algebra, di prossima pubblicazione nella Biblioteca Scientifica Feltrinelli, Milano. E infine: E. RUFINI, Il metodo dei problemi meccanici, e Le origini del calcolo inftniterimale nell'antichità, Biblioteca Scientifica Feltrinelli,

Milano, 1961. 2 MARIO GLIOZZI, recensione alle Opere scelte (3 voli.) del Peano, in "Eco della Scuola Nuova," gennaio 1958. 3 G. V ACCA, Scritti scelti, di prossima pubblicazione nella Biblioteca Scientifica Feltrinelli, Milano.

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Roberto Bonola (1874-1911) ci dette (Kolozvar, 1902) un intelligente Index Operum ad geometriam absolutam spectantium, in occasione del centenario della nascita di Giovanni Bo!Jai,. ed inoltre un notevole studio sulle geometrie non-euclidee (La geometria noneuclidea. Esposizione storico-critica del suo sviluppo, Bologna, 1906) tradotto, e piu volte ristampato, in tedesco e in inglese. 4 Con l'opera di Ludovico Grymonat (Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, Torino, 1947,. Studi per un nuovo razionalismo, Torino, 1945) si è ormai sulle soglie della seconda metà del secolo,. un periodo che sorpassa il nostro panorama, e nel quale andrebbero collocati valenti studiosi come Umberto Cassina, Ettore Carruccio, Attilio Fraiese. I limiti di questi cenni ci impediscono anche di rivolgerei agli stranieri che operarono in questa prima metà del secolo, sia pure ai piu importanti (Sarton, Heath, Cajori, Klein, Sergescu, Smith, ... oltre a quelli precedentemente ricordati, come Cantor, Zeuthen e Tannery). L'attività degli storiograft è stata naturalmente molto maggiore negli ultimi decenni, tanto che si potrebbero facilmente ricordare oltre venti riviste dedicate a questo argomento. 5 Non cosi numerose come si desidererebbe - lo abbiamo visto - le opere sulla storia dell'analisi e del calcolo inftnitesimale. Un matematico di grande statura (Felice Casorati, 1835-90) dedicò le prime 150 pagine della sua Teorica delle funzioni di variabile complessa (Pavia, 1868) ad uno studio storico, che va dalle • Ricordiamo anche Alpinolo Natucci da Camaiore (1883-vivente) alunno del Bianchi, del Dini e di altri eminenti maestri. Egli ha consacrato la sua erudizione - ed un suo singolare gusto volto con intelletto d'amore anche alle cose minute - alla Storia del Concetto di numero (Torino, 1923, pp. 474 in 4°), allo Sviluppo Storico dell' Aritmetica Generale e dell'Algebra (Pellerano, Napoli, 1952). Ha scritto su Leonardo, Tartaglia, Baliani, Torricelli, Loria, Cartesio, Libri, Veronese, Poincaré, Ricci-Curbastro. Di lui ricordiamo inoltre Come si insegnava l'algebra nel sec. XVI, in "Period. d. Matem.," 1932; I cosiddetti paradossi di Zenone, in "AnaIysis," 1947; Importanza della storia de!!a scienza, in "Archimede," 1957; Origine della teoria de!!e funzioni ellittiche, in "Atti Accad. Ligure Sco e Lett.," 1952; Origine del calcolo funzionale in Italia, Soc. Mat. Calabr., 1953; Origines des académies scientifiques, in "Scientia," 1954; Saggio storico su!!a teoria delle funzioni, in " Giorn. Mat. di BattagIini," 1959; Come è sorto il principio d'inerzia, in " Archimede," 1953. 6 M. GLIOZZI, Bibliografia di Storia delle Scienze nel 1940-50, in " Humanitas," 1952.

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origini fino al 1865. Un altro scritto ugualmente importante, ma altrettanto, e forse anche piti spesso dimenticato, è la storia del Concetto di infinitesimo di G. Vivanti (Torino). Seguono in ordine di tempo, gli importanti saggi del Bortolotti contenuti in Studi e ricerche sulla storia della matematica in Italia nei secoli XVI e XVII (Bologna, 1928) e lo scritto di E. Rufini su Le origini dell'analisi infinitesimale nell' antichità. 6 Recentemente (1939; 2 a edizione definitiva: Wakefield Massachusetts, 1949) Cari Boyer ci ha dato una pregevole ed ampia Discussione storica e critica sulla derivata e l'integrale (in The Concepts oE Calculus, pp. 346) contenente anche una esauriente bibliografia ove sono citati numerosi articoli e ricerche particolari. Nella prefazione alla seconda edizione l'autore nota che l'opera del Castelnuovo apparve quasi contemporaneamente alla sua, e rimanda ad essa "per ulteriori particolari sul periodo moderno, dovuti alla penna di un geometra illustre." Corre circa un ventennio fra gli scritti del Bortolotti e del Rufini, e quello del Geymonat precedentemente ricordato. Opera assai notevole, quest'ultima, per l'inquadratura filosofica, per l'approfondimento dei concetti, e delle teorie fondamentali, che tiene ampio conto della moderna critica dei principii, da Frege, a Peano, a Russell, Brouwer, Carnap ... L'opera del Castelnuovo è nel mezzo di questo intervallo ventennaIe.

* Guido Castelnuovo (1865-1952) era nato a Venezia, figlio del noto romanziere Enrico; e dall'educazione familiare aveva forse tratto quella sua tipica apertura umanistica che non si esprime tanto nella varietà di interessi, quanto piuttosto, nella comPiutezza della forma: quella limPida sobrietà di linguaggio, quella chiarezza, quel garbo letterario cosi spontanei in lui. È di.ffìcile dimenticare il suo volto magro, serio, incorniciato da una lunga barba, che ricordava immagini sorgenti dal fondo aureo di un mo• Pubblicato assieme ad una traduzione del Metodo di Archimede (Bologna, 1926) ed ora nuovamente edito nella Biblioteca Scientifica Feltrinelli, Milano, 1961.

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saico bizantino. Ma, in realtà, lo sfondo, il piti delle volte era una grande lavagna su cui la sua mano leggera evocava complicate figure della geometria proiettiva, mentre la voce ci richiamava sovente alla" bellezza" delle teorie: che non tutti possono sentire, egli doveva aggiungere qualche volta di fronte alla massa di studenti - non tutti sceltissimi, per verità- della romana" scuola di applicazione d'ingegneria," negli anni che seguirono la prima gue"a mondiale. Questo era tutto il suo rimprovero: serio certamente, ma espresso da un spirito non soggetto, credo, ai turbamenti che nascono dalle comuni vicende della vita, incapace di vero risentimento, o d'ira. Imperturbabile, ed anche indimenticabile per i moltissimi alunni suoi (egli insegnava anche calcolo delle probabilità a futuri assicuratori o bancari) i quali spontaneamente gli ponevano affetto. E cosi, nei giorni di Roma città aperta, mentre i nazisti imbestiavano nella persecuzione razziale, piti di un cuore fu in ansia per l'eminente geometra che - indifferente al pericolo come il suo lontano confratello - percorreva assorto le vie cittadine, ed era riconosciuto subito, naturalmente, da molti: uomini magari con i capelli bianchi, che avevano seguito i suoi corsi. Vi fu panico un giorno quando egli sostò nell'atrio di una banca, dove numerosi erano gli impiegati che da lui avevano appreso la legge di Bernoulli, o la teoria degli scarti. Tutti temevano una cattura e una tragica fine. Un' altra volta un agente, messo forse in sospetto dal suo lungo vagabondare, lo segui per curiosità o per dovere di ujJicio. Ma non c'era segreto alcuno in quella passeggiata, se non forse qualche mistero della geometria superiore. Giunto di nuovo al punto di partenza, l'agente si fece animo, e si avvicinò al Professore: era un ex studente, che da tempo aveva dovuto abbandonare la scuola. Cercando di non dare troppo nel/'occhio, con fare rispettoso, e con evidente premura, avverti il maestro del pericolo grave che correva, per via di quel suo aspetto cosi noto, e cosi poco rispondente agli ideali estetici del professor Rosenberg. Episodi da nulla, che non avrei voluto ricordare, anche perché si collegano a tragiche vicende. Ma essi provano nel modo piti toccante quale sicuro affetto egli suscitasse in chi lo conosceva: quale fosse 14

la intangibile serenità del suo animo di giusto, l'irrilevanza che - in fondo - avevano per lui molte cose, nonostante l'amarezza del volto. Scolaro di un geometra insigne quale fu Giuseppe Veronese (18541917), Castelnuovo si era laureato a Padova, ancor giovanissimo, nel 1886. Era passato poi a Torino, e aveva subito l'influenza di un eminente studioso: Corrado Segre (1863-1924) che, assieme al francese Emilio Picard (1856-1941), rappresentava già la seconda generazione di cultori di un nuovo ramo delle matematiche: la cosiddetta geometria algebrica. Dello sviluppo di questi studi diremo in un prossimo volume, 7 ove accenneremo anche all'atmosfera in cui si svolse l'opera del Castelnuovo: la rinascita culturale italiana che segue l'unità nazionale, dallo scorcio del secolo passato. Di tale rinascita - giova ripeterlo qui, per una pi'; esatta veduta di insieme - le ricerche matematiche rappresentano proprio il punto culminante, per la loro originalità, e per la grande influenza che ebbero sugli studiosi di ogni paese. Rimandiamo al volume citato per qualche chiarimento, e per un cenno sulla evoluzione della geometria algebrica. Qui ci limitiamo a ricordare che l'opera del Castelnuovo verte su quelle trasformazioni di figure che sono dette " trasformazioni biunivoche algebriche" o anche " trasformazioni birazionali" perché, tradotte in linguaggio algebrico, danno luogo a funzioni razionali (una espressione algebrica si dice razionale se non contiene estrazioni di radici). Alcuni eminenti studiosi si erano occupati di tali questioni, nei decenni precedenti (da Noether, a Clebsch, al Bertini, e agli altri di cui si è detto sopra), ma solo per merito del Castelnuovo e dell' Enriques sorse quel solido insieme di conclusioni e di indirizzi che ha indotto gli studiosi a salutare la nascita di una nuova e feconda scuola. Lo stesso Castelnuovo ricordò le ricerche compiute assieme all'Enriques - nel 1893, e negli anni immediatamente seguenti - passeggiando senza meta per le vie silenziose della Roma umbertina: "in quelle conversazioni fu costruita la teoria delle superficie algebriche secondo l'indirizzo italiano ... Lo strumento era l'algebra classica, ma cosi felicemente guidata dall'intuizione geometrica, da sembrare 7 NEWTON, Principii matematici di Filosofia Naturale con note storiche di F. Enriques e U. Forti. Appendice; Fetlerigo Enriques matematico e filosofo, di prossima pubblicazione Feltrinelli, Milano.

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quasi trasfigurata: l'algebra di cui non appariva lo sviluppo algoritmico, bens! il contenuto qualitativo, o numerativo, che interpretato abilmente conduce in modo semplice e sorprendente a risultati fondamentali." Alcuni di tali risultati sono dovuti all'Enriques, 8 altri al Castelnuovo: la loro fraterna ed esemplare collaborazione non conobbe ombre. L'uno e l'altro indicarono vie importanti, e vi segnarono tappe fondamentali. Ad esempio il nome del Castelnuovo è legato - per comune consenso degli studiosi - ai cosiddetti teoremi della " razionalità delle involuzioni piane" (1893), e della " caratterizzazione delle superficie razionali" (1894),. e suoi sono altri ancora sulle superficie che, tagliate con i piani dello spazio, danno luogo a curve che presentano particolari caratteristiche. Allo stesso Castelnuovo spetta il merito di aver scoperto i primi importanti esempi di superficie considerate come irregolari per una sostanziale diversità di comportamento rispetto a quello che era allora conosciuto e ritenuto normale: e sul significato di tale irregolarità egli ha poi lungamente indagato, da diversi punti di vista, portando contributi ed orientamenti importanti. Molti dei piti notevoli scritti matematici del Castelnuovo furono raccolti nel volume Memorie scelte (Bologna, 1937). Si debbono poi ricordare i suoi ottimi trattati (Lezioni eli geometria analitica e proiettiva, 1a ed. Roma, 1903),. Calcolo delle probabilità, varie edizioni dal 1929 al 1948, Bologna). Vi è infine il suo pregevole scritto sulla relatività, che già abbiamo ricordato. Non si tratta evidentemente, di un' opera di grande mole: la profondità di alcune memorie, anche brevi, è compenso su.fftciente, ed inoltre scrupolo, precisione, e comPiutezza pongono un raro e invidiabile sigillo su queste pagine. Tale l'uomo, che condusse vita riservata, aliena dal frastuono dei vistosi riconoscimenti. Naturalmente fu membro attivo delle maggiori accademie scientifiche del mondo. Come tutti i nostri grandi matematici egli venne ufficialmente ignorato fra noi durante il ventennio, quando una cultura fatua e appariscente - magari in feluca e spadino - poteva fare miglior gioco. Esponenti come Levi Civita, Ricci Curbastro, Volterra, Peano, 8

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V. nota 7.

Enriques, la cui opera 9 rappresentava complessivamente il massimo raggiungimento espresso dalla cultura nostra in quel periodo - e che erano altrettante luci di conoscenza matematica per l'Europa - avversavano tutti, naturalmente, un regime incivile, di grossolana violenza e sopraffazione. Ciò che essi potevano offrire era soltanto un discredito sicuro e lungimirante. Per questo si preferi barare anche sulla loro opera, contando sulla limitata diffusione della cultura - specie di quella scientifica - in un paese ancora essenzialmente rurale e depresso. Siamo noi, oggi, a scontarne le conseguenze. Dopo la liberazione, Castelnuovo resse il Consiglio Nazionale delle Ricerche, fu presidente dei Lincei, primo senatore a vita della Repubblica, e nei consessi di varie Accademie europee onorò il paese, e portò una mentalità aperta alla comprensione fra i popoli. Giunto ormai all'estremo della vita, si rivolgeva all'assemblea della Società europea di cultura - della quale era presidente - invitandola a ricercare con ogni sforzo "un primo terreno di intesa, un dominio culturale comune." E una volta trovatolo, aggiungeva" bisognerà sforzarsi di estenderlo sempre piti, in modo da raggiungere anche quelle regioni del sapere ove la diversità delle oPinioni non impedisce la mutua comprensione." L'interesse suscitato da tante applicazioni della scienza, tende a produrre oggi una piti equilibrata visione della cultura, nella quale anche la ricerca fisica e matematica prendono il posto che spetta loro. U manesimo della scienza, o della tecnica, sono ormai espressioni comuni, che non indicano piti un indirizzo culturale accettato e propugnato solo da pochi. Rileggiamo dunque - anche se con ritardo - questo chiaro e conciso saggio del Castelnuovo, che vo"ei si trovasse anche sul banco dello studente liceale. Molto ajjine, negli scopi, all'opera di poco posteriore del Boyer, esso si propone di indagare le origini e gli svilupPi delle due operazioni di integrazione e di derivazione e di far vedere come il calcolo infinitesimale sorga quando sia stabilito il legame fra di esse. La tesi conclusiva è quella del primato di Newton: " il primo che 9

Per un cenno su tale opera v. Appendice citata alla nota 7.

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C. I.

ebbe forse (fin dal 1665-66) una chiara visione dell'anello che congiunge il calcolo differenziale al calcolo integrale" e portò cosi" a compimento l'edifizio dell'analisi infinitesimale." Ma i non pochi risultati classici conseguiti da Leibniz sono posti in luce, assieme ai piti fecondi simboli e algoritmi da lui introdotti, e le pagine sul filosofo-matematico di Lipsia si chiudono con un passo che potrebbe altrettanto bene riferirsi alla vocazione che animava l'autore di questo libretto, come scrittore e docente: " Inferiore senza dubbio al Newton come matematico, il Leibniz lo supera nelle qualità comunicative. Mentre il primo era avaro delle sue scoperte, e quando doveva comunicarle non faceva nessuno sforzo (almeno negli scritti di carattere infinitesimale) per interessare e guidare il lettore, il Leibniz, come maestro ejjicace, si diffonde in chiarimenti e, quel che piti vale, cerca sempre di illuminare dall'alto i problemi che prende in esame. L'avvenire gli ha dato ragione." Ma non Leibniz e Newton soltanto furono gli " inventori" del calcolo infinitesimale: i nuovi algoritmi furono frutto dell' opera paziente di molte generazioni, come ormai tutti sanno. E, ciò nonostante, per decenni arse la grande contesa: sostenendo i continentali che l'alloro della scoperta dovesse cingere la fronte del filosofo tedesco, mentre gli insulari ripetevano che merito ben piti grande spettava all'immortale autore della teoria della gravitazione. Ma per quanto alla disputa partecipassero ardentemente dotti, e alti prelati, e consigli accademici, e ambasciatori - tanto quasi da trasformarla in una questione politica - tuttavia oggi sappiamo che le opere di quei due pensatori furono in gran parte indipendenti, ma tuttavia ajjìni, perché fiorite su di un terreno comune. E questo era offerto dalle fiorenti scuole italiana e francese, che si riallacciavano ai precedenti classici, rappresentati dall'opera di Zenone, Eudosso, Democrito, Archimede. Dalla metà del cinquecento, fino a circa il 1634, per ottant'anni, la scuola italiana è la sola che si occupi di questioni infinitesimali attraverso le opere di Luca Valerio, del Cavalieri, del Cataldi, del Mengoli, del Torrice/li. Sotto molti aspetti essa può dirsi piti intimamente legata alla tradizione geometrica degli antichi, ma - specie negli ultimi rappresentanti - si ispira alle nuove ricerche nel campo della dinamica, a partire da Galileo. Questi, infatti, giovandosi del diagramma di 18

Gresme, e partendo dalla nota equazione del moto accelerato v = at, 1 giunge alla formula dello spazio (S = 2 at2) seguendo un procedimento geometrico che equivale alla nostra integrazione. Nel 1634 Pierre de Fermat introdusse per primo l'operazione algebrica di derivazione per determinare i massimi e i minimi di una curva, e da quell'anno si può dire che abbia inizio la attività della scuola francese (Cartesio, Fermat, Roberval, Pascal, e l'olandese H1fYghens) ispirata già ai nuovi orizzonti della geometria analitica, e improntata a notazioni algebriche. Solo verso la metà del Seicento, innestando fra loro le due ricche tradizioni continentali - ma in piti congeniale rapporto con quella italiana - sorge la nuova scuola inglese (Wallis, Gregory, Barrow, e il suo scolaro, Newton ... ) cui tocca il merito di aver riunito in un insieme organico le sparse membra, riguadagnando, e facendo brillare in tutta la loro importanza, le scoperte del Torricelli, del Fermat (massimi fra i precursori), e di altri. Spettò infine ai due grandi rivali il compito di elevare fino agli ultimi fastigi il nuovo edificio sviluppando gli strumenti di un metodo universale, il quale colpisce con un tocco quasi magico ardue questioni di geometria, di algebra, di meccanica, che si ponevano da tempo, o che caratterizzano, d'ora in avanti, i nuovi orizzonti della scienza. Anche se nella dimostrazione si era fermato ai primi valori di n, Cavalieri era pervenuto (1639) alla formula fondamentale del calcolo integrale che noi oggi (valendoci dei preziosi simboli introdotti da Leibniz) esprimiamo scrivendo che

I

t" an+l xdx"=--n+1 o formula già nota a Fermat ed a Roberval, che la avevano raggiunta (1636) indipendentemente l'uno dall' altro, seguendo un procedimento archimedeo. Fermat aveva esteso questo risultato alcuni anni dopo (ne rese nota la dimostrazione solo nel 1657) anche al caso in cui il numero n fosse una frazione positiva. È dubbio se Torricelli sia giunto precedentemente (1646) ad una 19

conclusione cosi importante, ma è certo invece che al matematico faentino spetta (dal 1641) il merito grande di avere esteso la formula al caso di n negativo (ma diverso da - 1). Due lettere del Cavalieri al Torricelli (17 dicembre 1641, e 7 gennaio 1642; purtroppo quelle del Torricelli mancano) provano che già allora il matematico faentino aveva scoperto che un solido di lunghezza infinita può tuttavia avere un volume perfettamente determinato e finito.

,, ,, ,, ,

y

,

I \

--- ----------------~------4-~r+----------------x ij , ___ -- - ------. ...,' Il "..-'------

--

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a

Il,/,

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I

I

I

I

I I

,, , I

I

Si trattava del suo " solido iperbolico infinitamente lungo," di quella specie di oricalco, ottenuto facendo motare un ramo di iperbole equilatera, attorno ad uno dei propri asintoti. Era una conclusione" infinitamente ammirabile," "veramente meravigliosa e stravagante" uno di quei fatti che, contrastando alle opinioni universalmente ammesse, alla intuizione e quasi alla logica comune, agiscono come uno stimolo potente per una svolta del pensiero scientifico, sPingendo alla ricerca: mi riesce " infinitamente ammirabile quel solido iperbolico infinitamente lungo, ed uguale ad un corpo quanto

20

a tutte e tre le dimensioni finito," scriveva Cavalieri al suo discepolo, ricevuta notizia della scoperta, "ed avendolo io comunicato ad alcuni miei scolari filosofi, hanno confessato paregli veramente meraviglioso e stravagante che ciò possa veramente essere ... Insomma io dissi al Rev.mo P. e D. Benedetto [Castelli] che passò di qua che poteva ormai lasciare da banda F. Bonaventura, e solo celebrare l'unico valore del sig. Torricelli, e ben vado continuamente conoscendo d'aver detto il vero a tanti contrassegni, ch'ella mi dà del suo valore." Era il giudiZio di uno spirito magno, pronto a riconoscere con entusiasmo il valore di uno scolaro che ormai, con la sua luce, offuscava quella del maestro: ché veramente l'iniziativa della ricerca passava a Torricelli, per giungere - con lui - a risultati decisivi. II metodo di ricercaI o (che egli espone in Opera geometrica, Firenze, 1644) si vale degli inclivisibili curvi - in linguaggio moderno si direbbe di coordinate cilindriche, - ed equivale sostanzialmente a quello che nella nostra comune simbolica è il calcolo dell'integrale (improprio)

1 ove a indica l'ascissa di un qualsiasi punto A, di coor(linate a, appartenente al ramo di iperbole che giace nel primo quadrante. a A partire da questo risultato, Torricelli si spinge poi, come abbiamo detto, fino alla conclusione piu generale che oggi concisamente esprimiamo con la relazione: et:)

I

x-ndx

=

_1_ n-l

1

estensione di quella precedente, che riguarda il caso particolare n = 2. Ma piu ancora: nella grande raccolta di manoscritti Discepoli di Galileo esistente alla Nazionale di Firenze, i volumi dedicati a Torricelli (XXI-XXXIV) contengono molti inediti, pubblicati poi quasi completamente a cura di Loria e Vassura (Faenza, 1919). lO

Riassunto dal Castelnuovo, p. 58.

21

Fra tali inediti particolarmente importanti le memorie De infinitis hyperbolis, De infinitis parabolis, De infinitis spiralibus, la cui composizione risale al 1645 circa. Sono gli scritti della estrema maturità, di cui Torricelli si gloriava giustamente come delle sue massime scoperte,' " Queste quadrature le stimo per baie, rispetto alla soddisfazione che ho di quelle maniere mie, che sono comuni anco alI' f!yperbole e ad altri problemi massimi, e danno nel medesimo tempo le tangenti e i centri" (lettera a M. Ricci, maggio 1646). " Ora l' ho trovata universalissima, e tutte le suddette cose~ siccome anco la dottrina delle infinite parabole, sono una cosa sola, ma dijJicilissima a darvi dentro" (a B. Cavalieri, maggio 1646). Si tratta spesso di esposizioni ancora frammentarie e disordinate, ma dai frammenti Pro confirmanda prima Galilei et sequentem nostra (Pp. 259, ediz. faentina), e da altri che seguono (alle pp. 309-10-13-377 della citata edizione) si vede che Torricelli - continuando il pensiero del Maestro - è riuscito a stabilire il carattere inverso dei due problemi di quadratura e di tangente, cioè il teorema fondamentale (teorema di inversione) del calcolo infinitesimale,' ciò che noi esprimiamo dicendo che l'integrale indefinito, conside-

rato come funzione dell'estremo superiore, ha per derivata la funzione sotto il segno di integrazione. II merito di avere interpretato questi passi di Torricelli spetta ad E. Bortolotti (Archiv. di Storo d. Scienza, 1924. Periodico di Matem., gennaio 1928) la cui opera è stata continuata da A. Agostini ed E. Carruccio. Ben a ragione Bqyer rimanda al Castelnuovo per molti particolari concernenti lo sviluppo del calcolo in questo periodo, specie nell'ambito della scuola italiana. Il nostro geometra infatti ha familiarità con i testi - dal Valerio, al Mengoli, al Viviani - , e si vale inoltre delle ricerche a cui abbiamo in parte accennato, compiute proprio in quegli anni da Bortolotti, Agostini, Enestrifm, Vacca. n Castelnuovo giudica che, pur avendo notato che le due dette operazioni geometriche sono inverse l'una dell'altra, Torricelli non riuscf a fare di questa scoperta fondamentale la base di un nuovo calcolo. Ignoriamo ciò che avrebbe potuto fare se non fosse mancato in cosi giovane 11

22

Vedi Il rinascimento matematico italiano nella cultura europea ... citato in nota 1.

età (1647) lasciando cenni manoscritti, editi solo di recente, su questa sua scoperta. Certo è, però, che per trarre da essa le conseguenze piu importanti non basta sapere che costruire una tangente e valutare un' area sono operazioni inverse. Occorre anche aver chiaro in mente che la valutazione di un'area si comPie calcolando un integrale, e che per costruire una tangente si calcola, invece, una derivata. Torricelli sapeva bene la prima cosa, come studioso di Archimede, ma non la seconda perché egli probabilmente ignorava l'opera del Fermat (De maximis et minimi s, 1634) il cui manoscritto"era noto a pochi studiosi. Per trarre tutte le conseguenze dalla sua grande scoperttr; avrebbe dovuto avere - come Fermat - ed i suoi continuatori da Huyghens in poi - una regola di calcolo che permettesse di stabilire la derivata di varie funzioni, e riconoscere poi che - in base al teorema di inversione - una tabella di derivate, letta in verso opposto, ne fornisce una di integrali. La memoria del Fermat era nota, in coPie manoscritte, ad alcuni studiosi, come abbiamo detto (fu stampata solo nel 1679). Non è da escludere che anche le nuove vedute del Torricelli sulla inversione potessero essere 0lgetto di conversazione - specie nell'ambiente italiano - per circoli ristretti, fra uomini dotati di vera cultura e spirito matematico, sensibili all'atmosfera di progresso, alla problematica intricata e imbarazzante che costituisce il preludio dei grandi progressi matematici. !sacco Barrow apparteneva alla generazione seguente : 'aveva diciassette anni quando Torricelli si spense. Qualche tempo dopo (1655-59) visitò molti paesi d'Europa, e sostò a lungo in Italia, ove la raffinata cultura dei discepoli di Galileo - specie l'opera di Torricelli - fece su di INi una profonda impressione, e lasciò Nna traccia evidente nei suoi scritti posteriori. 12 Nel 1663 fu chiamato per primo ad occupare la cattedra lucasiana13 di Cambridge, che egli volle cedere pochi anni dopo (1669) al suo grande scolaro. Durante quel periodo tenne lezioni famose,14 dalle quali appare che egli aveva nuovamente guadagnato in modo personale V. in questo volume a pp. 90 e 93. Dal nome di Enrico Lucas che, morendo, lasciò una somma per l'istituzione di una cattedra di matematica. 14 Tradotte in inglese da ].M. Child (The geometrica! Lectures of I.B., Londra, 1916). 12 13

23

(e gli storici pensavano anche de/ tutto indipendente, ma di ciò è lecito dubitare) tanto le nuove vedute del Fermat, come quelle di Torrice/li. Eppure anche Barrow, che a differenza di Torricelli conosceva il procedimento algebrico di derivazione, non seppe procedere oltre. Era ancora troppo geometra, ancora troppo improntato di classicità, e forse invano il suo alunno famoso lo sollecitava verso i nuovi orizzonti, promessi ad una piti spregiudicata e moderna generazione. u. Forti

24

Prefazione

Uno dei periodi piu interessanti per la storia della matematica è il secolo durante il quale si son gettate le basi del calcolo infinitesimale; secolo che si inizia verso la fine del '500 con i primi tentativi di proseguire l'opera di Archimede e si chiude con la redazione degli scritti di Newton e Leibniz. Ogni storico delle scienze esatte dedica molte pagine a quel periodo; ma se vuole coscienziosamente riferire intorno a tutte le questioni sui soggetti piu vari che si sono agitate in quell'epoca, egli non riesce a concentrare l'attenzione del lettore sui progressi che lentamente, e pur senza incertezze, vanno compiendo i metodi infinitesimali. In questo breve saggio storico ho voluto parlare esclusivamente dei detti metodi. Mi son proposto di far vedere nel modo piu chiaro come la nuova scienza sia sorta quando le antiche, geniali concezioni di Archimede furono fecondate con le nuove dottrine, dell'algebra e della geometria analitica da un lato, della dinamica (o meglio cinematica) dall'altro lato. Certo per indagare le prime origini del calcolo infinitesimale bisognerebbe spingersi oltre Archimede e risalire fino a quell'epoca della geometria greca (verso il 400 a.c.) ove si svolse la critica costruttiva che ha fornito le basi agli Elementi di Euclide. Ma a tale compito provvede un altro volume di questa collezione, dovuto a un mio compianto discepolo, l volume che trova la continuazione nel mio. Ho provveduto tuttavia col primo capitolo del presente scritto a far si che il lettore trovi in esso tutti gli elementi di cui ha bisogno. 1 E. RUFINI, Il'' Metodo" di Archimede e le origini del calcolo infinitesimale nell'antichità, Feltrinelli, 1961.

25

Di ciascuno degli uomini maggiori che contribuirono alla grandiosa costruzione ho tracciato in poche parole la vita. Ho voluto tuttavia sorvolare sulla parte meno nobile dell'attività di alcuni tra essi, che si manifesta con le aspre polemiche e i violenti reclami di priorità. In un'epoca di intenso lavoro in cui le questioni erano nell'aria, non sorprende che le stesse idee si siano presentate quasi contemporaneamente a matematici di scuole e paesi diversi. D'altra parte le discussioni sulla priorità presentano un vero interesse scientifico soltanto quando servono a smascherare un plagiario, il quale non possa vantare altri titoli di merito all'infuori dello scritto incriminato, o quando riescono a trarre dall'oblio chi si è visto rapire da altri piu abili le proprie scoperte. Ora gli uomini maggiori di cui qui dovremo discorrere hanno un'aureola cosi luminosa, che la rivendicazione all'uno di essi di un risultato attribuito ad un altro non potrebbe alterare in modo sensibile lo splendore di quella luce. Il lettore che sia curioso anche di questa parte meno elevata della vita scientifica del secolo XVII ne troverà notizie in ogni storia della matematica. Ivi potrà leggere anche i nomi di matematici di minor levatura che hanno portato qualche contributo alla costruzione del calcolo infinitesimale, nomi sui quali abbiamo sorvolato, allo scopo di non far perdere la visione dell'insieme attraverso una minuziosa analisi dei particolari. In vista dello stesso scopo abbiamo taciuto di alcune applicazioni geometriche o meccaniche del calcolo, lo studio delle quali non ci pareva aver contribuito in modo sostanziale alla costruzione della teoria. Abbiamo creduto far cosa grata al lettore di questo volume riportando in Appendice le traduzioni di due classici scritti di L Newton e di G.c. Leibniz, a partire dai quali comincia quello che si potrebbe chiamare il periodo di maturità del calcolo infinitesimale. Debbo queste traduzioni ad un mio antico discepolo, prof. Ettore Carruccio, che qui ringrazio cordialmente per la cura con cui le ha condotte. Voglio pure esprimere la

26

mia riconoscenza al prof. Giovanni Vacca, il cui nome è universalmente noto ai cultori di storia della matematica, per i preziosi consigli di cui mi fu largo durante la redazione di questo scritto.2 G. Castelnuovo Roma, ottobre 1937

2 Nel comporre questo saggio storico mi san valso, oltre che delle opere originali di cui discorro, di alcune tra le piti pregiate storie delle matematiche del periodo in esame, tra le quali cito in particolare, per le notizie che vi ho attinto, le seguenti: H. G. ZEUTHEN, Geschichte der Mathematik im XVII Jahrhundert, Leipzig, Teubner, 1903. M. CANTOR, Vorlesungen iiber Geschichte der Mathematik, voli. II e III, 2 ed. Leipzig, Teubner, 1900. G. LORIA, Storia delle Matematiche, val. II, Torino, S.T.E.N., 1931.

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Capitolo primo

Archimede

Chi volesse risalire alle origini dei metodi infinitesimali dovrebbe arrivare a quel periodo della filosofia greca, ove si son gettate le basi logiche della geometria (verso il 400 a.c.). Non voglio dare una estensione cosi grande a questo scritto. Ma non posso d'altra parte passare in silenzio il nome di Archimede il quale, come il lettore potrà giudicare dalle pagine seguenti, ha già chiarissima l'idea di integrale definito, idea ripresa pili tardi e sviluppata dagli scienziati del Rinascimento. Dal riavvicinamento tra la indagine antica e la moderna vedrà con ammirazione il lettore come possa l'opera del genio rimanere incompresa per 18 secoli, e dare in seguito la pili splendida fioritura appena trovi il terreno propizio per svilupparsi. Archimede, il maggiore scienziato della Grecia - matematico, fisico, fondatore della statica razionale - uno degli spiriti pili alti di tutti i tempi, nacque a Siracusa verso il 287 a.c. e vi mori l'anno 212. Si occupò principalmente (per quanto risulta dalle opere a noi pervenute) della determinazione di aree, volumi, baricentri di coniche, di quadriche rotonde, e di figure con esse formate. La ricchezza di risorse, l'eleganza dei metodi, il rigore delle dimostrazioni rendono quegli scritti modelli insuperabili di ricerca geometrica. Non occorre però che io mi dilunghi su di essi perché in un pregevole volume di questa collezione Il'' Metodo" di Archimede e le origini del calcolo inftnitesimale nell'antichità - dovuto a un mio compianto discepolo Enrico Rufini, l il lettore troverà le notizie che egli può desiderare. 1

V. nota 1 della Prefazione.

29

Qui mi limito ad indicare, in linguaggio odierno, sopra due o tre esempi, quei procedimenti di Archimede che hanno esercitato maggiore influenza sui matematici dell'era moderna.

Segmento di paraboloide rotondo compreso tra il vertice ed un piano perpendicolare all'asse. - Si divida l'asse AD = a in n parti uguali di lunghezza

!...- = n

h e per i punti di divisione si conducano,

sul piano del disegno, corde della parabola meridiana perpendicolari all'asse [v. fig. 1]. Mediante parallele all'asse tracciate A

V

~.

/

\

1/

S,M

. x

1\ 1\

V E~ G

------

K

1\

F

H~ D

NG

z Fig. 1

per gli estremi di quelle corde, si vengono a formare due serie2 di rettangoli tutti di altezza h ed aventi le dette corde come basi: i rettangoli della prima serie EC,3 ... contengono nell'interno archi della parabola, mentre i rettangoli della seconda serie, GN, ... sono interni alla curva. Facendo ruotare la figura intorno all'asse, quei rettangoli generano due scaloidi, composti di cilindri coassiali; uno scaloide è circoscritto, l'altro è inscritto nel paraboloide rotondo. Il volume V del paraboloide è compreso fra i volumi Sn' sn dei due scaloidi: sn < V < Sn' O successioni. [A.D.A.] Il Castelnuovo è solito indicare il rettangolo mediante gli estremi di una sua diagonale e cioè EC invece di BEFC e GN invece di MGHN. [A.D.A.] 2

3

30

Se Z =

è l'equazione della parabola meridiana e quindi l'equazione del paraboloide,4 le basi dei detti cilindri sono cerchi di aree 1th, 21th, ... , n1th. Quindi gli scaloidi iscritti e circoscritti hanno i volumi

Z=

X2

+f

X2

[+ 2 + ... + (1)] n=1t

21

Sn=1t h

S

2

n

=

1th [1

+ 2 + ... + n] = 1t

la loro differenza, -

n

1t

n (n

(n-l)n h2 n-l 2 2 =1t~a,

+ 1) 2

h

n

2

=

+1

1t - -

2n

2

a ;

a2 (uguale al maggiore di quei cilindri)

può rendersi arbitrariamente piccola scegliendo n abbastanza grande. Al crescere di n le due espressioni S n' S n tendono al limite ; a2 , che è il volume del segmento di paraboloide;

~

esso è dunque uguale, come dice Archimede, a

del volume

del cono avente la stessa altezza a e la stessa base 1ta del segmento nominato. Con la scrittura moderna a

v

=

1t

J

(X2

O

a

+ f) dz

=

1t

Jzdz

=

;

a2•

O

Secondo la definizione odierna, l'integrale è il limite comune delle due somme, che abbiamo indicato con sn ed Sn' ottenute dividendo l'intervallo d'integrazione in n parti di lunghezza h = ~, ecc. Il processo di Archimede consiste adunn que nel calcolare quell'integrale seguendo la via diretta indicata dalla definizione di esso. Si badi che la dimostrazione di Archimede differisce da quella su esposta per particolari insignificanti, salvo in un punto. Archimede, come i geometri greci, non introduce il concetto • L'equazione traduce in simboli algebrici proprietà note ad Archimede.

31

di limite, ma raggiunge lo stesso risultato mediante il processo di esaustione che, nel caso presente, si applica cosi. Sia, se è

~

possibile, V diverso da

< ~

sia ad esempio V

del volume del cono, cioè da

V -

sn
_a 2 •

per costruzione, è sn < V, mentre S = n 2 dunque, ecc.

2'

n

Segmento di ellissoide o iperboloide (a due falde) rotondo. - Se la curva segnata nella figura di pagina 30 rappresenta un arco di ellisse (non superiore ad una semiellisse) o iperbole X2

=

2pZ + mz2,

è

X2+ f= 2pZ+ mz2 l'equazione dell'ellissoide rotondo (m < O) o dell'iperboloide rotondo (m > O). Allora, con le stesse notazioni di pocanzi, lo scaloide circoscritto ha il volume

+ 2 + ... + n) + mh W+ 2 + ... + n

Sn =

7th2

[2p (1

=

7th2

[pn (n + 1) + mh n (n +

_ -

7ta

2 [

2

n+ 1

p -- + ma n

2)]

1~(2n + 1)

(n+ 1)(2n+ 1)] 62 n

=

]

'

mentre il volume sn dello scaloide iscritto differisce da quello di 7ta 2

S n - sn = -(2p+ ma); n la differenza può rendersi piccola a piacere al crescere di n.

32

Il volume del solido richiesto è il limite comune di Sn ed

S n:

ma ) . v= 1ta2 ( p+ -3-

È questo il valore dell'integrale

1t

f

(2pZ +

mz

2)

dZ·

o Rispetto al procedimento precedente si presenta, come nuovo, il calcolo dell'integrale

f

Z2dZ,

o che Archimede riguarda (a parte il1inguaggio) come limite per n -+ 00 della somma -

2 a (a -2 n n

+2

a2 n

2 -2

+ ... + n

a2 n

2 - 2) •

Il calcolo si riduce dunque a stabilire la formola che dà la somma dei quadrati dei primi n numeri interi. Egli aveva già precedentemente incontrato la stessa formola per valutare una area limitata da un arco di spirale e da due raggi; le coordinate allora erano polari, ma l'integrale si presentava sotto la stessa forma. È possibile, del resto, che egli abbia per la prima volta trovato i1limite della somma precedente paragonando la espressione del volume di una piramide o di un cono, dedotto mediante il metodo degli scaloidi, con la espressione che Euclide ricava per altra via. A chi voglia confrontare i procedimenti di Archimede con i moderni si presentano alcune osservazioni.

a) Archimede, come tutti i geometri della Grecia, ragiona esclusivamente su curve o superficie di cui egli possiede la costruzione o definizione precisa. Il processo di quadratut·a che egli impiega ha una portata molto maggiore dell'uso che ne 33 3 -

C. I.

fa, ma di questa portata egli non parla ed anzi in ciascuno dei problemi da lui trattati egli riprende dall'inizio il procedimento.

b) Anche il metodo di esaustione, che sostituisce il moderno passaggio al limite, avrebbe potuto esser giustificato una volta per tutte, mentre Archimede lo applica caso per caso. Va notato inoltre che quel metodo, a differenza del processo di limite, non è un metodo analitico di ricerca che conduca alla scoperta, ma fornisce solo il mezzo di dimostrare - per assurdo - un risultato che si suppone già noto. Archimede afferma sin dal principio che l'area, o il volume V, della figura in esame uguaglia l'area, o il volume V', di una figura già nota. Per giustificare l'enunciato Archimede costruisce un processo che serva ad approssimare V, e, valendosi di questo processo, fa vedere che non può essere né V < V', né V > V'. Si tratta dunque di una dimostrazione a trappola, per adoperare la frase che Schopenhauer applicava, con intento critico, alle dimostrazioni di Euclide. 5

c) V'è infine da notare -

ed è questa la osservazione piu

f a

importante - che il calcolo dell'integrale f(x) dx come limite, per n -+ 00, della espressione o

poteva riuscire ad Archimede solo per le funzioni piu elementari, per le quali la somma tra parentesi può trasformarsi in una espressione relativamente semplice; egli effettivamente adopera soltanto le funzioni x, X2 e sen x. Nella prima metà del secolo XVII mediante quel procedimento, o procedimenti consimili, 5 Si ricordi inoltre che per i geometri greci le aree o i volumi non sono definiti secondo l'uso moderno come limiti di successioni opportune di aree o volumi noti. L'area o il volume è per essi una grandezza che non ha bisogno di esser definita; in base all'intuizione o a postulati si afferma che quella grandezza è maggiore o rispettivamente minore di altre grandezze che vengono costruite sulla figura.

34

si riesce a calcolare, come vedremo,

f xrt. dx, con

IX

razionale.

Occorre però arrivare alla seconda metà del detto secolo per eseguire una integrazione riguardandola come operazione inversa della derivazione. Come ha potuto Archimede scoprire quei riposti teoremi che egli con tanto ingegno, ma talora in modo laborioso, riesce a dimostrare? Egli stesso ci indica la via in uno scritto Il Metodo che si credeva perduto, ma che fortunatamente lo Heiberg ha scoperto nel 1906 in una biblioteca di Costantinopoli. Il lettore che di quello scritto volesse aver notizia non ha che da consultare il volume del Rufini, citato a pagina 25 dove Il Metodo è tradotto e commentato. Qui daremo solo una idea della via indicata da Archimede, per un confronto che dovremo fare nel seguito. Si tratti ad esempio di determinare l'area di una figura piana S. Archimede pensa la figura come costituita da una serie di fili pesanti, paralleli tra loro. Immagina poi nel piano una leva PQ, il cui fulcro sia un punto conveniente O di PQ, e fa vedere che se quei fili venissero trasportati parallelamente ed applicati in P, essi col loro peso farebbero equilibrio ad un'altra figura S', di area nota, avente il baricentro in Q. Dalla legge di equilibrio della leva che egli, nella sua prima opera, aveva scoperto o dimostrato, Archimede ricava il peso applicato in P, e quindi l'area S. La parte euristica del procedimento, per le nostre abitudini mentali d'oggi, sta nell'aver sostituito la serie di rettangoli approssimanti S, di cui Archimede avrebbe fatto uso in una dimostrazione rigorosa, mediante una serie di fili paralleli che costituiscono, per dir cosi, dei rettangoli infinitesimi.

35

Capitolo secondo

Commentatori e continuatori di Archimede

Maurolico, Commandino, L. Valerio

Pochi decenni dopo la morte di Archimede comincia la decadenza della geometria greca. Ancora per qualche tempo si riesce faticosamente a comprendere e commentare gli scritti del siracusano, ma nessuna aggiunta essenziale viene portata ai risultati di lui durante gli ultimi secoli dell'era antica e il medio evo. La stessa perfezione delle sue opere può aver scoraggiato quei pochi cultori della matematica, in Europa o presso gli arabi, che erano ancora in grado di capirle. La fama di Archimede tuttavia si trasmette attraverso i secoli, grazie agli elogi che scrittori greci e romani fanno delle sue scoperte scientifiche e delle sue invenzioni nel campo della tecnica. Alla grande rinomanza di lui forse dobbiamo se la maggior parte dei suoi scritti ci pervenne senza gravi alterazioni, e se nel Rinascimento, al risvegliarsi dello spirito di ricerca e dell'amore per ogni opera d'arte o di scienza dell'antichità classica, si siano compiute parecchie traduzioni in latino di quegli scritti. Alcune delle dette traduzioni risalgono alla seconda metà del secolo XV, altre al secolo successivo. Tra queste ultime basterà ricordare quella di Nicolò Tartaglia stampata a Venezia tra il 1542 e il 1565, quella di Federico Commandino pubblicata pure a Venezia nel 1558, e quella forse anteriore di Francesco Maurolico che fu divulgata però piu di un secolo dopo, nel 1685. Il Commandino (1509-1575) non si limita ad arricchire di commenti la traduzione, ma si impadronisce cosi bene dei metodi del Siracusano da proseguirne le ricerche. Nella prefazione al Liber de Centro gravitatis solidorum (Bononiae, 1565)

36

egli osserva che Archimede tratta dei baricentri delle figure piane, ma non delle solide che pili interessano, per le quali egli ci dà solo alcuni enunciati. In realtà Archimede aveva anche indicato le dimostrazioni nel Metodo che Commandino non poteva conoscere, e probabilmente in un'altra opera che non è pervenuta a noi. Sta il fatto che il Commandino, con procedimenti ispirati ai metodi di Archimede, riesce a determinare il baricentro di vari solidi e in particolare di un segmento di paraboloide rotondo. Pare che in questa ricerca egli sia stato preceduto di qualche anno dal Maurolico (1494-1575), ma per varie vicende lo scritto di questo geometra fu pubblicato solo nel 1685, come capitolo aggiunto alla traduzione da lui fatta di alcune opere di Archimede. Degli stessi problemi si era occupato anche Galileo in un lavoro giovanile (pare del 1585) allo scopo - dice egli stesso di riparare a qualche imperfezione che aveva rilevato nel libro del C01Ìl1nandino, e con la intenzione di estendere in seguito le proprie ricerche. "Ma incontrandosi dopo alcun tempo col libro del Sig. Luca Valerio, massimo geometra, e, veduto come egli risolve tutta questa materia senza nulla lasciar indietro, non seguitò pili avanti..." Cosi dice Salviati, parlando di Galileo alla fine del Dialogo IV delle Nuove Scienze. In appendice al Dialogo fu appunto pubblicata, nella edizione nazionale delle Opere di Galileo, la ricerca sotto il titolo Theoremata circa centrum gravitatis solidomm. Con l'opera di Luca Valerio De centro gravitatis solidomm (1604), pur ispirata ai metodi archimedei, penetrano nella geometria le tendenze dei tempi nuovi. L. Valerio (1552-1618) insegnò per molti anni al Collegio Romano, fu accolto tra i primi Lincei, ma abbandonò l'Accademia nel 1616 quando la dottrina copernicana, ivi sostenuta da Galileo, fu condannata dalla Chiesa. Cercò di introdurre nella geometria le idee generali di cui una scienza pili giovane, l'algebra, aveva sin d'allora dimostrato i pregi. In queste larghe vedute forse, pili ancora che nei nuovi risultati conseguiti, sta il merito principale dell' opera del Valerio. Due esempi basteranno a convincere il lettore.

37

Archimede, come dicemmo, d'accordo con gli altri geometri greci, considera soltanto curve (coniche, spirali ...) di cui la costruzione o la definizione è già nota. L. Valerio, forse per la prima volta nella geometria, introduce il concetto di curva arbitraria. Egli allude naturalmente ad una curva intuitiva, ed aggiunge solo la restrizione che la curva sia ascendente (o discendente) sia cioè, come diremmo oggi, inunagine di una funzioney = f(x), crescente (o decrescente) in un intervallo, ad esempio tra Oed a(y> O). Il Valerio vuole, imitando Archimede, valutare l'area compresa fra la curva, l'asse x e le due ordinate estreme x = O, x = a. Perciò egli divide l'intervallo O- a in n parti uguali, conduce fra i punti di divisione le ordinate e considera i rettangoli che hanno per base l'intervallino

!!...- e per altezza l'ordinata nell'estremo sinistro o nell'estremo n

destro di esso. Con questi rettangolini egli forma, nel solito modo, due figure, l'una sn' iscritta, l'altra Sn' circoscritta. L'area è compresa fra sn ed Sn' ed è il limite comune, per n -+ 00, di sn ed S n, perché la differenza S n -

a

n = -n f(a) può rendersi pic-

S

cola a piacere. È in sostanza il procedimento che Archimede applicava a curve particolari e che il Valerio estende ad ogni curva (continua) monotona, cioè sempre crescente o decrescente. La ragione di questa restrizione, che troveremo rispettata ancora per vari decenni, sembra esser la seguente. Se la curva, in luogo di esser monotona, si componesse di parecchi archi (in numero finito), gli uni crescenti gli altri decrescenti, occorrerebbe, per applicare il processo di Archimede, operare separataa

mente sui detti archi, o scegliere in ogni intervallino -

n

l' ordi-

nata massima e la minima, come si fa nella definizione moderna di integrale (secondo Cauchy); e tutto ciò porterebbe a complicazioni che il Valerio ha voluto evitare. L'altro esempio riguarda un gruppo di proposizioni con le quali si inizia il secondo libro dell'opera del Valerio. Gli enun38

ciati originali, alquanto oscuri, ci fanno vedere quanta difficoltà si incontrasse ad esporre col linguaggio statico di Euclide ed Archimede proprietà in cui entrano grandezze variabili, e come il progresso della matematica richiedesse l'uso di locuzioni piu flessibili, non ancora adottate all' epoca del nostro autore, ma suggerite pochi decenni dopo dalla dinamica di Galileo e dalla geometria analitica di Descartes. Col linguaggio moderno, quelle proposizioni di L. Valerio enunciano proprietà dell'operazione di limite. La piu semplice dice in sostanza che se due grandezze An' B n al crescere di n tendono rispettivamente ai limiti A e B, e se quelle grandezze, pur variando, conservano un rapporto costante, lo stesso rapporto passa fra A e B; inA limA somma da B n = k per ogni n, segue lim B n = k. n

n

Valendosi di questi principi generali e seguendo nelle sue dimostrazioni il perfetto rigore archimedeo, riesce il Valerio a determinare volumi e baricentri di solidi compresi fra piani paralleli e superficie del 20 ordine. Egli cosi risolve problemi che né Archimede né i suoi traduttori sopra nominati avevano affrontato. Galileo che, non ostante i dissensi sulla dottrina copernicana, aveva del Valerio altissima stima, riferisce parzialmente per bocca di uno dei personaggi del Dialogo Discorsi e dissertazioni matematiche intorno a due nuove scienze (Giornata prima) una elegante determinazione del volume di un emisfero, dovuta a colui che, con frase alquanto iperbolica, egli chiama "nuovo Archimede dell'età nostra." Riferiamo brevemente il procedimento ben noto del Valerio. Si consideri un emisfero di centro O e raggio r ed il cilindro ad esso circoscritto, compreso fra il piano AB dell'equatore e il piano CD tangente all'emisfero nel polo P; si costruisca poi il cono proiettante dal centro O la base del cilindro, che sta in questo secondo piano. Allora si vede subito [v. fig. 2] che un piano EF, parallelo alle basi, condotto a distanza x dal centro O, sega il cilindro, l'emisfero ed il cono lungo tre cerchi di area 1tr2, 1t (r2 - X2) e 1tX2• Dunque, per ogni valore

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di x ;:;; r, l'area dell'anello, o corona circolare, compreso tra il cilindro e l'emisfero, uguaglia l'area 1tX2 del. cerchio sezione col cono. Di qua deduce il Valerio (con un procedimento equivalente alla nostra integrazione) che il volume del solido (scodella) ottenuto togliendo dal cilindro l'emisfero è uguale al volume del cono; donde si ricava subito il volume dell'emisfero.

o

A.-------__r-------~

E f-"..---/----+-----"'-"-f----i F

c

p

D

Fig. 2

A Galileo però -- o al personaggio Salviati che per lui interloquisce nel Dialogo citato -- piu di questo risultato interessa l'osservazione preliminare, già enunciata, secondo la quale, sopra il piano mobile EF, l'area della corona circolare compresa fra il cilindro e l'emisfero uguaglia l'area 1tX2 del cerchio sezione del cono. Facciamo tendere x a zero, il piano verrà a coincidere col piano AB dell'equatore, la corona circolare diverrà il perimetro dell' equatore e la sezione del cono si ridurrà al vertice. Parrebbe adunque, osserva il Salviati, che una circonferenza di raggio arbitrariamente grande potesse esser equivalente ad un punto. Questo paradosso (dipendente, secondo il nostro linguaggio, dal fatto che l'altezza, o spessore, della corona è un inftnitesimo del secondo ordine rispetto al raggio x della sezione del cono, preso come inftnitesimo principale) dà agli interlocutori del Dialogo occasione ad un dibattito sull'infinito e l'infinitesimo e sulle cautele necessarie per estendere ad essi proprietà valide al finito. "Queste son di quelle difficoltà," dice il Salviati, " che derivano dal discorrere che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno agli infiniti, dandogli quegli attributi 40

che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente, perché stimo che quegli attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino agli infiniti, de i quali non si può dire uno esser maggiore o minore o eguale all'altro." Da questo e da molti altri passi del celebre Dialogo appare quanto a lungo abbia meditato Galileo sui paradossi dell'infinito nell'epoca in cui il Dialogo fu scritto (pare fra il 1620 e il 16301). A tali riflessioni lo inducevano forse anche i nuovi indirizzi meno rigorosi che andava prendendo l'analisi infinitesimale dopo la morte di L. Valerio. Non consta però, come poi diremo, quale fosse il giudizio di Galileo su questi nuovi indirizzi ed in particolare sul metodo degli indivisibili di B. Cavalieri, di cui ora dovremo parlare.

1

li Dialogo fu pubblicato soltanto nel 1638.

41

Capitolo terzo

Il metodo degli indivisibili

Kepler, Cavalieri, Torrice/Ii In un secolo di fervente ricerca, quale è il XVII, ove la scoperta di nuovi territori nel campo della scienza interessava ben piu che la sicurezza delle vie di accesso, era naturale si cercassero dei metodi piu rapidi e facili, anche se meno solidi di quelli archimedei, per risolvere i problemi che la teoria e le applicazioni ponevano. Il processo di esaustione, che, nella sua perfezione formale, rappresentava l'aspetto matematico della critica del continuo presso i greci, è spesso lasciato nell' ombra durante quel secolo, e viene sostituito con procedimenti piu intuitivi; solo nei due secoli successivi si costituisce l'odierna teoria dei limiti, la quale, in forma piu agile, soddisfa alle stesse esigenze logiche che Eudosso, Euclide ed Archimede imponevano ad ogni ragionamento matematico. La prima opera, a noi nota, ove si abbandonino i metodi archimedei per la determinazione di aree e volumi, è dovuta al grande astronomo Johannis Kepler (1571-1630). Racconta il Kepler nella prefazione alla sua Nova Stereometria Doliorum (1615) che avendo egli ripreso moglie nel 1613 e dovendo, da buon capo di famiglia, curare la provvista del vino in un anno di abbondante vendemmia, acquistò varie botti, la cui capacità fu misurata col procedimento empirico allora usato in Austria, che consisteva nel dedurre il volume dalla lunghezza di un certo diametro valutato introducendo una bacchetta nella botte. Poco persuaso dell'esattezza raggiunta, il Kepler intraprese una ricerca geometrica che ben presto si ampliò, oltrepassando di gran lunga lo scopo primitivo. Nella prima parte dell'opera, che egli chiama Stereometria

42

Archimedea e Supplementum ad Archimedem, egli ritrova, con procedimenti che oggi diremmo di geometria intuitiva, risultati ben noti di Euclide ed Archimede: l'area del cerchio, ad esempio, può riguardarsi come somma di infiniti triangoli aventi il vertice nel centro e la base sopra una corda infinitesima della circonferenza, donde segue che il cerchio è equivalente ad un triangolo avente il raggio per altezza ed il perimetro per base; il volume di una sfera è la somma di infiniti coni o piramidi aventi il vertice nel centro e la base sopra un elemento di superficie, donde il rapporto ben noto tra volume e superficie, ecc. Passa poi Kepler a determinare i volumi di corpi generati dalla rotazione di un segmento di cerchio o conica intorno ad una retta del suo piano. Ad esempio egli divide il toro (superficie anulare), mediante innumerevoli piani passanti per l'asse, in fette sottilissime, ciascuna delle quali è assimilabile ad un cilindro retto avente per base un cerchio meridiano del toro e per altezza la distanza fra i centri dei cerchi limitanti la fetta; si sceglie questa distanza perché è la media aritmetica tra le distanze minima e massima di punti corrispondenti di questi cerchi; segue che .il toro è equivalente ad un cilindro avente per base il cerchio meridiano e l'altezza uguale alla circonferenza descritta dal centro del detto cerchio nella rotazione intorno all'asse. Il risultato rientra come caso particolare in un noto teorema che fu dato da GuIdino 25 anni dopo, ma che si trova pure enunciato in un passo, probabilmente interpolato da qualche ignoto copista, di uno dei codici manoscritti delle Collezioni di Pappo. Un procedimento molto ingegnoso permette al Kepler di determinare il volume generato da un segmento di cerchio fatto rotare intorno ad una retta del suo piano parallela alla corda che limita il segmento; o almeno di trasformare il detto volume in quello tagliato entro un cilindro circolare retto da un conveniente piano obliquo rispetto all'asse. Il Kepler raggiunge lo scopo spezzando l'area del segmento di cerchio in sottilissime striscie, mediante corde parallele alla corda con la quale termina il segmento, ed osservando che ciascuna di queste 43

striscioline genera nella rotazione una corona cilindrica (compresa tra due cilindri coassiali) che è equivalente ad un prisma facilmente costruibile. Questa prima parte dell'opera di Kepler, oltre a varie determinazioni di volumi, non tutte esatte, contiene teoremi molto interessanti sulle coniche e loro sistemi che qui non si riportano non avendo rapporti col nostro argomento. La seconda parte, col titolo Stereometria dolii austriaci in specie, discute il problema che ha dato origine all'opera. Dopo aver stabilito quali solidi di rotazione, particolarmente semplici, pili si avvicinino alla forma delle botti allora in uso, il Kepler affronta questioni di tipo isoperimetrico, ed arriva ad una notevole conclusione: " Ispirati da un buon genio, che certamente era geometra, i costruttori di botti han dato ad esse precisamente la forma che assicura la massima capacità in corrispondenza al valore del diametro misurato. E poiché, nell'intorno del massimo, le variazioni sono insensibili, i piccoli scarti accidentali non esercitano influenza apprezzabile sulla capacità, la cui misura sbrigativa è in conseguenza sufficientemente esatta." L'ultimo periodo contiene una osservazione che non fu rilevata allora, ma che due decenni pili tardi divenne, per merito di Fermat, la base della teoria dei massimi e minimi. I metodi seguiti da Kepler sono troppo personali e troppo diversi da problema a problema, per aver trovato imitatori. D'altra parte chi avesse tentato di applicarli sarebbe facilmente incorso in errori, che egli riesce nella maggior parte dei casi, ma non sempre, ad evitare grazie a quel finissimo intuito che lo ha pure cosi mirabilmente guidato nella scoperta delle celebri leggi sul moto dei pianeti. Il fatto però che un uomo di tanta rinomanza, come il Kepler, abbia saputo svincolarsi dai rigidi procedimenti dei greci e tentare pili agili vie deve aver incoraggiato i geometri del suo tempo ad introdurre nuovi mezzi di ricerca e ad affrontare le critiche degli ortodossi che a Kepler stesso non furono risparmiate. Al nostro Cavalieri spetta il merito di aver indicato un procedimento organico per determinare o paragonare aree e vo-

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lumi che rispondeva alle richieste dei suoi contemporanei. Bonaventura Cavalieri nacque a Milano nel 1598 (a quanto si crede) e mori a Bologna nel 1647. Entrato nell'ordine dei Gesuiti, fu mandato a Pisa dove studiò matematica con Benedetto Castelli, allievo di Galileo; egli stesso si proclama discepolo del sommo Pisano. Nel 1629 fu chiamato alla cattedra matematica dell'Università di Bologna, che occupò fino alla morte. Il metodo degli indivisibili, a lui dovuto, fu frutto di lunghe meditazioni; ne parla già in una lettera a Galileo del dicembre 1621, seguita da parecchie altre con le quali lo informa dei suoi progressi e ne chiede il giudizio. Dal contesto delle successive lettere sembra che Galileo non si sia pronunziato; in ogni modo ignoriamo le risposte e solo sappiamo che anche Galileo ebbe per un momento l'intenzione di trattare quel soggetto, ma non vien detto con quale indirizzo. L'opera del Cavalieri Geometria indivisibilibus continuorum fu pubblicata nel 1635 in una prima edizione e, con variazioni ed aggiunte, in una seconda edizione del 1653, dopo la morte dell'autore. Lo stesso argomento, insieme alla risposta alle critiche mossegli dal GuIdino, viene trattato nell'altra opera del Cavalieri Exercitationes geometricae sex (1647). L'idea direttrice del Cavalieri consiste nel riguardare un'area piana come costituita dalle infinite corde intercettate entro l'area da un sistema di rette parallele; ciascuna di quelle corde, pensata come un rettangolo di spessore infinitesimo, è l'elemento indivisibile. Abbiamo già osservato a pagina 34-35 che anche Archimede, esponendo un metodo euristico per quadrare un'area in un' opera che il Cavalieri non poteva conoscere, riguarda il peso dell'area come somma dei pesi di una serie di fili paralleli; e verosimilmente procedimenti consimili risalgono a una epoca della geometria greca anteriore alla critica costruttiva di Eudosso. Questa osservazione non toglie l'originalità di Cavalieri; essa però ci fa vedere che l'idea dell'indivisibile, o infini/esimo attuale, pur essendo nota ai geometri greci dell'epoca d'oro (Euclide, Archimede, Apollonio), non fu accolta come mezzo di dimostrazione; essa fu pure bandita dalla scuola cri45

tica moderna del calcolo infinitesimale. A dir vero anche il Cavalieri nega di ricorrere all'infinitesimo attuale e sostiene che egli si vale di una infinità discreta di indivisibili di una figura per paragonarli con una analoga infinità di una seconda figura. Ma l'oscurità del suo linguaggio e certe espressioni poco felici da lui adoperate potevano prestarsi, e si son prestate, alla interpretazione che egli voleva respingere. Comunque è doveroso riconoscere che le applicazioni che egli fa degli indivisibili sono perfettamente corrette. Egli si vale di questi per stabilire un principio che giustamente porta il suo nome: "se due aree piane tagliate da un sistema di rette parallele intercettano, sopra ognuna di queste, due corde uguali, le due aree sono uguali; se le corde corrispondenti hanno un rapporto costante, lo stesso rapporto passa fra le aree." Con la nostra rappresentazione cartesiana, nell'ipotesi semplificatrice che ciascuna delle due aree sia limitata, oltre che dalle rette x = a, x = b, da due sole curve, e precisamente la prima area dalle curve y = 11 (x), Y = h (x), e la seconda area dalle curve y = Cf>1 (x), Y = Cf>2 (x), il principio di Cavalieri afferma che dalla uguaglianza delle corde

h (x) -

(1)

11 (x)

=

Cf>2 (x) - Cf>1 (x),

valida per ogni x compreso fra a e b, segue l'uguaglianza delle aree b

(2)

f a

b

[f2 (x)- 11 (x)] dx

=

f

[Cf>2 (x) -

Cf>l (x)] dx.

a

Con la nostra scrittura il passaggio dalla (1) alla (2) è evidente; ciò dipende dal fatto che la difficoltà geometrica in cui poteva essersi imbattuto il Cavalieri è già superata quando si sia introdotto e giustificato con le debite 1) che l'ultima formola vale pure per n frazionario negativo (n o:/=- - 1). Ma in questo ri57

sultato egli è stato preceduto da E. Torricelli che tra il 1641 e il 1644 si è occupato della quadra tura delle infinite iperboli xPyq = 1, e della cubatura del solido generato dalla rotazione della curva intorno ad uno dei suoi asintoti. Già nel 1641 (come risulta da una lettera al Cavalieri) il Torricelli aveva scoperto un fatto nuovo e molto notevole che vivamente lo sorprese. Si tratta di una proprietà della comune iperbole equilatera xy = 1 e del solido generato da un ramo della curva fatto rotare intorno ad uno degli asintoti. Sul ramo della curva giacente nel primo quadrante si prenda un 1 punto qualsiasi A, di coordinate a, - , e si consideri l'area a compresa fra l'asse x, il tratto di curva illimitato AX e l'ordinata AB. Quest'area ha misura infinita; ma il solido che essa genera rotando intorno all'asintoto x, sebbene esteso all'infinito, ha un volume finito, dato, a meno del fattore 7t, dall'integrale improprio p)

P 2R 1

q

PIR2

--->-> P 1Q2 P P 2Ql 60

Da queste disuguaglianze, che il Torricelli stabilisce con fatica, ma che oggi si verificano agevolmente coi mezzi forniti dalla geometria analitica e dall'algebra, segue che se P2 tende a Pl' i due rapporti di aree hanno lo stesso limite

!L. p

Quindi le

aree dei quadrangoli curvilinei P 1R 1R 2P2 e P1QIQ2P2 (riguardate come somme di rettangoli infinitesimi iscritti o circoscritti) stanno nel rapporto di q a p. E di qua si ricava facilmente la formola

p lR 1R 2P26 = --q- (area R 2Q2 - area R1Ql)'

q-p

. con l a nostra notazlOne, . OSSia, posto n = -P,

q

X,

XI

fYdX = f x-ndx = _ n1+ 1 (x2- n+1- x 1- n+1). Si ottiene cosi l'integrale di una potenza di x a esponente negativo (::;i: - 1), intero o fratto. Se n> 1, facendo tendere x 2 all'infinito, si ricava il risultato, inatteso in quell' epoca, che un' area illimitata ha misura finita:

f OO

x-ndx = _X....=l_-n_+,.-l n-l

X,

Cosi il Torricelli riesce a vedere che l'integrale improprio è convergente per n > 1, mentre dimostra che è divergente per n 1) e costruendo i rettangoli iscritti compresi fra ordinate successive, osserva che tutti questi rettangoli hanno l'area 1 -

6

1 x

,donde segue

per l'area compresa fra la curva,

Area del quadrangolo curvilineo. [A.D.A.]

61

l'asse x e le ordinate nei punti x x' glianza

=

1 e x

xr la disugua-

f~ > r(l- : } l

quell'area tende dunque all'infinito al crescere di r. Questi ultimi risultati di Torricelli 7 furono da lui comunicati per lettera fra il 1646 e il 1647 a vari matematici (Cavalieri, Mersenne, Roberval, ... ). Egli si proponeva di raccoglierli in una memoria De infiniti! hyperbolis, quando la morte lo colse, dopo breve malattia, nell'ottobre del 1647. Gli appunti disordinati che egli aveva lasciato furono riprodotti nel voI. I (parte 2a) delle Opere pubblicate a Faenza nel 1919. Ad Ettore Bortolotti spetta il merito di aver ricostruito, su quegli appunti, gli enunciati e le dimostrazioni che abbiamo sopra riassunto. 8 Abbiamo già detto che B. Pascal negli ultimi anni della sua vita si è occupato di questioni riguardanti il calcolo integrale. Vi fu condotto quando volle risolvere problemi di quadratura e cubatura inerenti ad una celebre curva, la cicloide da lui chiamata rouletle. La cicloide, curva descritta da un punto di una circonferenza che rotola senza strisciare sopra una retta (base), aveva già attirato l'attenzione di Galileo fin dagli anni giovanili. Egli, molto piu tardi, propose al Torricelli il problema 7 Che l'area del trapezoide compreso fra due ordinate, la curva e l'asintoto si esprima mediante il logaritmo

f:: ",

=

logx.

l

non viene detto né dal Torricelli né dal Fermat che ha trattato le stesse questioni. Il risultato era contenuto implicitamente nella definizione di logaritmo data da J. Neper nel 1614, il quale vi arrivò mediante considerazioni che, trascritte con i nostri simboli, conducono al detto integrale (v. p. 73, nota). Il legame fra logaritmi ed aree iperboliche è stato rilevato in modo indiretto da Gregorio da S. Vincenzo nel 1647 ed esplicitamente da Nicolò Mercatore nel 1667. 8 V. tre articoli di E. Bortolotti nell' Archivio di Storia della S Gienza, volI. V, VI (1925) ed inoltre il recentissimo scritto dello stesso autore: Il metodo inftnitesimale nell'opera geometrica di E. Torricelli, Atti del 10 Congresso dell'Unione Matematica Italiana, 1937.

62

della quadratura della cicloide, senza sapere che esso, come dicemmo Cv. p. 50) era stato risolto, fra il 1634 e il 1635, dal Roberval e successivamente dal Descartes e dal Fermat. Lo stesso Roberval valutò il volume del solido generato facendo rotare la cicloide intorno all'asse di simmetria o intorno alla base; mentre nel 1638 il Descartes e presso a poco nella stessa epoca il Fermat e il Roberval indicarono, per vie diverse, il modo di costruire la tangente alla curva in un punto. Nel 1658 il Pascal bandi un concorso a premio sul tema: "area compresa fra un arco di cicloide e una retta parallela alla base, volumi dei solidi rotondi generati da quest'area e relativi baricentri." Non soddisfatto delle risposte ricevute, pubblicò egli stesso le soluzioni che possedeva. A noi però non interessano tanto queste soluzioni, quanto alcuni teoremi di carattere piu generale che il Pascal dimostra e che costituiscono i primi esempi di integrazione per parti o per sostituzione. Il fatto però che egli si vale sistematicamente del linguaggio e del metodo degli indivisibili e che rifugge dal ricorrere alle notazioni algebriche, che già da 20 anni il Descartes e il Fermat avevano adottato, rende molto penosa la lettura dei suoi scritti, e fa capire quale immenso progresso si sia compiuto con la moderna notazione del calcolo differenziale e integrale introdotta dal Leibniz due decenni piu tardi. Qui, soltanto allo scopo di far capire il procedimento del Pascal ed anche di dare un esempio della intuizione geometrica del matematico francese, cerchiamo di stabilire colle nostre notazioni il primo dei suoi teoremi. Consideriamo l'area (triligne) compresa fra i due assi e la curvay = f(x) che congiunge i punti (a, O) e (O, b), e proponiamoci di calcolare l'integrale a

1= fxydx. O

Se immaginiamo diviso l'intervallo O- a sull'asse x in n parti uguali di lunghezza h, e per i punti di divisione condu63

ciamo le ordinate Yo = f(O), Y1 = f(h), ''', Y n - 1 = f[(n-l) h], vediamo che l'integrale è approssimato dalla somma

=

n-l

n-l

i=O

i=l

h [ ~ hyi + ~ hyi +

... + hyn-l].

Ora il primo termine entro parentesi approssima l'area del triligne, il secondo l'area compresa fra la curva, l'ordinata Y1 e l'asse x, ecc. Se lasciamo il triligne al suo posto, applichiamo y

x y

o

a

x

Fig. 7

alla seconda area la traslazione h parallelamente all'asse cartesiano Z, portiamo similmente la terza area sul piano Z = 2h, e cosi via, otteniamo uno scaloide iscritto nel solido che Pascal chiama onglet, e che si ottiene tagliando il cilindro verticale che ha per base il triligne, mediante il piano x = Z condotto per l'assey con la inclinazione di 45° [v. fig. 7]. L'integrale I ci dà dunque il volume dell' onglet. Ora questo volume si può valutar altrimenti, tagliandolo con piani verticali paralleli all'asse x. Uno generico di questi sega l'onglet secondo un triangolo X2

rettangolo isoscele di cateto x ed area

2'

se x è l'ascissa

del punto della curva per cui il piano è condotto. Dunque

64

2

quel volume si trova integrando

~

qy per i valori di y

com-

presi fra O e b. Resta cosi dimostrata l'uguaglianza a

fyxdx

=

~

O

b

f

X2

qy,

O

che traduce, nel caso particolare esaminato, la formola d'integrazione per parti; (si noti che il prodotto x2y è nullo nei due estremi del cammino d'integrazione). Accanto a varie altre formole dello stesso tipo, che il Pascal dimostra una per una - in alcune di esse figura come una delle variabili l'arco della curva - egli calcola, con metodi analoghi, integrali di funzioni trigonometriche, quali ad esempio

fsen xdx, fsen xcos xdx, fx sen xdx, ... T

T

per i primi valori dell'intero r, ed anche integrali di irrazionali quadratici quali

f va

2-

X2

dx, f

X2

Va2 -

X2

dx, ...

Egli insomma riesce a costruire la parte elementare del calcolo integrale; ma i procedimenti faticosi che egli segue avrebbero ben presto arrestato le ricerche in questo campo se, venti anni dopo, Newton e Leibniz non avessero indicato la via agevole che conduce rapidamente a risultati ben piu generali di quelli. Contemporaneo a Fermat e Pasca! è il matematico John Wallis col quale si inizia la partecipazione della scuola inglese alla ricerche infinitesimali, a cui i geometri italiani prima e poi i francesi avevano portato tanti contributi. Ben presto con Isacco Newton l'Inghilterra prenderà il primo posto in questo campo. Il Wallis nacque nel 1616 e si rivelò anzitutto eccezionale calcolatore. Lo studio dei matematici antichi, della 65 5 -

C. I.

geometria di Descartes e delle opere di Torricelli lo spinse a coltivare quella parte della matematica che maggiormente attira"a l'interesse degli scienziati del suo tempo. Nominato professore a Oxford nel 1649, pubblicò pochi anni dopo (1655) l'Arithmetica inftnitorum di cui ora parleremo; risolse nel 1659 alcune delle questioni sulla cicloide proposte dal Pascal e scrisse di algebra e di meccanica. Mori nel 1703. La parte principale dell' Arithmetica inftnitorum è dedicata al calcolo di integrali, in particolare integrali definiti con limiti numerici, alcuni dei quali erano già stati trovati dal Fermat, e dal Pascal; però le opere di questi due francesi furono pubblicate dopo quella del Wallis. Il Wallis, come il Pascal, ricorre al metodo degli indivisibili ma, mentre i procedimenti di Pascal son rigorosi, o almeno si riducon tali senza fatica, il Wallis si lascia ordinariamente guidare da considerazioni di analogia, dalla fiducia nella persistenza formale delle leggi operative e dal principio di continuità. Quando egli si accorse che una certa uguaglianza fra un integrale definito e una espressione aritmetica vale per i primi valori di un determinato carattere, afferma che altrettanto succederà per ogni valore di quel carattere. Egli insomma adopera coscientemente, anche nell' esposizione, il metodo euristico che lo ha condotto alla scoperta; è convinto d'altra parte che i geometri greci abbiano trovato per vie consimili molte proprietà delle quali poi hanno costruito le dimostrazioni. Il suo grande intuito lo salva dagli errori che altri, meno dotati, avrebbero facilmente commesso. Al risultato piu notevole, rimasto nella scienza col suo nome, il Wallis arriva, nell'opera citata, partendo dallo studio dell'espressione che con le nostre notazioni si scrive cosi: l

In

=

f(x- x2)n t[y, O

e che noi, con semplici cambiamenti di variabile, porremo 66

nella forma piu comoda

1t

l

In = 2!n

f

(1 -

2

ft dy =

f

2!n

sen2n +1 'P d'P'

O

O

L'esponente n è, in un primo tempo, un numero intero positivo; allora il calcolo dell'integrale si compie facilmente sia come fa il Wallis, sviluppando la potenza del binomio, almeno per i primi valori di n, e integrando termine a termine; sia, come facciamo noi piu rapidamente, integrando per parti. Si trova cosi

2 ·4... (2n) 3 ·5 ... (2n + 1)

2n 2n

+1

. 22 (n-1) I

. n-l

Ma, in un secondo tempo, il Wallis dà ad n valori del tipo

2m+ 1 . .. 2 per m Intero; la relaz10ne ncorrente che lega In ad sussiste ancora (egli lo ammette e noi riusciamo a dimostrarlo) e gli permette di calcolare I2m+l quando sia noto Il '

In_1

-2

"""2

o, come egli dice, interpo/are le I ad indice frazionario tra quelle ad indice intero. Ora questo integrale Il misura l'area 2

di un semicerchio di raggio cosi che per

~

1 n= 0, -2' 1,

22n I n = 1'

1 7t 22'

2 3'

e vale quindi

~.

Egli trova

3

2'

2, ...

1·3

7t

--z-:-4 2'

2·4 ~'

Ora, per capire il procedimento, alquanto oscuro, che il Wallis segue per arrivare alla sua celebre formola, si immaginino segnati nel piano i punti che hanno per ascissa i valori di n e per ordinata i corrispondenti valori di 22n In' Si verifica subito che i punti di posto dispari sono i vertici di una poligonaIe decrescente e presentante la convessità verso il basso, e 67

che altrettanto succede per i punti di posto pari. Il Wallis ammette che le stesse proprietà abbia la poligonale avente per vertici successivi tutti i punti segnati. Che la prima di queste proprietà sia vera (ordinate decrescenti) noi oggi deduciamo facilmente dal fatto che la funzione da integrare (1 - ft, decresce al crescere di n quando O QP 1 • Se invece x < Xl' con lo stesso ragionamento si trova QR < QP 1 • Ciò dimostra che la retta PT, la quale ha in comune il punto P con la curva OP I PP2 , lascia questa da una stessa banda ed è quindi tangente ad essa. P,

x

M y

Fig. 13

Anche il Barrow però (come vent'anni prima il Torricelli) non sa trarre da questo fondamentale teorema tutte le conseguenze in esso racchiuse, perché non sostituisce all'ente geometrico tangente, l'ente analitico corrispondente derivata, al quale accenna soltanto nel passo sopra riportato. Sorvoliamo, per non tediare il lettore, sopra varie proposizioni successive, le quali equivalgono con la scrittura moderna a trasformazioni integrali e darebbero, quando si derivassero i due membri, formole di calcolo differenziale. Tuttavia per dimostrare quanto il Barrow si inoltri nella tratta-

94

:lÌone del calcolo integrale, rileviamo che nelle ultime lezioni egli pone e risolve vari problemi che portano alla integrazione di una equazione differenziale. Si tratta ordinariamente di costruire una curva le cui tangenti soddisfino a una determinata condizione (problema inverso delle tangenti). Si voglia ad esempio la curva la cui sottotangente nel punto (x,y) sia uguale all'ordinata Y = f(x) di una curva data. Noi scriveremmo cosi l'equazione del problema:

y

S = -=f(x). t y' Il Barrow, coi suoi procedimenti geometrici, riesce in sostanza a separare le variabili e ad integrare l'equazione ottenendo un risultato equivalente a questo:

Jy = J x

y

dy

c

dx f(x) ,

o

ove c è una costante arbitraria positiva. Il risultato è naturalmente presentato sotto forma geometrica; il primo integrale,

. log y ch e nOI.scrIveremmo , ,e per Barrow l' area compresa c fra un'iperbole equilatera, un asintoto e due parallele all'altro asintoto, mentre il secondo integrale esprime un' area relativa alla curva

A proposito di quest'ultimo integrale è degno di nota il fatto che, mentre fra i predecessori di Barrow il problema dell'integrazione si proponeva ordinariamente il calcolo di una area, qui l'area limitata da un'ordinata variabile, sta a rappresentare una funzione nota; e, precisamente, non l'area della curva 1 data Y = f(x), ma di una trasformata di questa: Y 1 = f(x)' Osserveremo ancora che, come già fu detto, altri geome-

95

tri da Descartes in poi si erano occupati del problema inverso delle tangenti, ma nessuno, prima di Barrow si era spinto cosi avanti su questa via. Da quel che abbiamo riferito e da quel che abbiamo accennato avrà visto il lettore che queste Lezioni di Barrow sono ricche di risultati, in buona parte nuovi, i quali trascritti coi nostri simboli esprimono proprietà della derivazione o della integrazione. Ma questi risultati sono esposti in una forma geometrica cosi oscura ed involuta da apparire artificiosi, se non incomprensibili, a chi non compia quel lavoro di trascrizione. Vien fatto quindi di domandarsi quale influenza possano aver esercitato le Lezioni di Barrow sullo sviluppo del calcolo infinitesimale in un periodo in cui l'algoritmo del calcolo non era ancora noto. lo credo che se al Barrow non fosse capitata la immensa fortuna di aver accolto Isaac Newton tra i suoi discepoli, l'opera di lui sarebbe rimasta ignorata ed incompresa fino al giorno in cui qualche matematico formatosi alla scuola di Fermat e Pascal non si fosse procurato la chiave necessaria per interpretare quella lingua arcaica. Che il giovane Newton abbia imparato i fondamenti del calcolo alla scuola del Barrow nulla prova, perché ad un discepolo di genio, anche le oscurità del maestro possono dare incitamento alla ricerca; d'altra parte, come presto vedremo, due o tre anni dopo di aver ascoltato quelle lezioni, il Newton si è già in buona parte liberato dalle forme antiquate predilette dal suo maestro. Trovo poi pienamente comprensibile l'atteggiamento di G. G. Leibniz nei riguardi del Barrow, atteggiamento che da taluno gli fu, a torto, rimproverato. Dal carteggio di Leibniz risulta che egli possedeva il libro di Barrow dal 1673; ma anche vent'anni dopo scriveva di non avervi" tiré aucun secours pour mes méthodes," mentre dice di essersi valso, al principio delle sue ricerche infinitesimali, degli scritti di Cavalieri, di Gregorio da S. Vincenzo e dei matematici francesi. Sembra però che, dopo essere venuto meglio in possesso dei metodi costituenti l'analisi infinitesimale, egli si sia accorto che taluni dei 96

suoi risultati erano contenuti, sotto altra forma, nelle Lezioni di Barrow. Con 1. Barrow ha termine la schiera dei precursori. Sono ormai raccolti tutti i materiali con i quali un architetto di genio potrà costruire l'edifizio della nuova scienza. L'impresa non era facile tuttavia ed occorse l'intervento di due dei maggiori spiriti che abbiano onorato il genere umano, 1. Newton e G. G. Leibniz, per costruire un tutto organico con materiali sconnessi, e per dimostrare quale potenza avesse il nuovo strumento di analisi nella risoluzione di problemi posti dalla matematica e dalla fisica, che avevano sino allora sfidato l'abilità dei ricercatori. Dei due indirizzi che abbiamo messo in rilievo negli ultimi due capitoli, il Newton si accosta maggiormente all'indirizzo cinematico che, partendo da Galileo e Torricelli, si manifesta in forma piu geometrica nelle Lezioni di Barrow. Strettamente legato alla scuola francese il Leibniz partecipa alla corrente che trae origine dalla geometria analitica e trova in Descartes, Fermat e Pascal i maggiori rappresentanti. Queste due diverse tendenze si rivelano nei modi formalmente diversi, sebbene equivalenti in sostanza, secondo i quali il calcolo infinitesimale si presenta nelle trattazioni di Newton e di Leibniz; delle quali ora dobbiamo discorrere.

97 7 -

c. lo

Capitolo settimo

Isaac Newton

Isaac Newton, con le sue scoperte, con i metodi matematici d'indagine, con i principi filosofici dai quali si lascia guidare, ha ispirato per due secoli le ricerche nel campo della fisica teorica. Se negli ultimi decenni lo studio dell;atomo ha costretto a rivedere in qualche punto le basi della scienza, si è cercato di allontanarsi il meno possibile dalla fisica newtoniana, come se questa rappresentasse ancora il pili solido terreno di appoggio. Ma per giudicare tutta la grandezza dell'opera del Newton occorrerebbe commentare il suo capolavoro, i Philosophiae naturalis Principia, ciò che qui non faremo, sia perché un libro di questa collezione è dedicato ai Principia, l sia perché i Principia, sebbene costruiti probabilmente dall'autore con i mezzi dell'analisi infinitesinale, furono poi da lui tradotti in termini geometrici. Lasceremo anche da parte, perché estranee all'argomento di questo Saggio storico, le Lectiones opticae e, tra le opere matematiche, l'Arithmetica universalis, trattato d'algebra, e la Enumeratio linearum tertii ordini. Parleremo invece di tre opere che, sebbene di piccola estensione, hanno un'importanza essenziale nello sviluppo dell'analisi moderna. Premettiamo qualche notizia sulla vita. 1. Newton nacque in un villaggio (Woolsthorpe) della Contea di Lincoln il 25 dicembre 1642. La madre, che era rimasta vedova poco prima, si risposò ed affidò il ragazzo alle cure della nonna, per riprenderlo poi con sé alla seconda vedovanza nel 1656. L'amore agli studi, che egli dimostrava sin d'allora, indusse la famiglia ad inviarlo a Cambridge, dove fu ammesso 1 I. NEWTON, Principii di Filosofia Naturale, con note critiche a cura di F. Enriques e V. Forti, di prossima pubblicazione Feltrinelli, Milano.

98

al Trinity College nel 1660; ebbe ivi come professore di matematica il Barrow dal 1663 al 1665. L'epidemia di peste che infieri in buona parte dell'Inghilterra nell'estate del 1665 e nell'anno successivo, costrinse il Newton a ritornare alla casa materna. Pare che gli anni tra il 1665 e il 1670 siano stati i piu fecondi della sua vita. A quel periodo infatti egli fa risalire le ricerche di analisi infinitesimale; e nello stesso periodo sembra egli abbia avuto l'idea di ricondurre le leggi di Kepler all'unico principio dell'attrazione universale. Ma mancano dati precisi perché, come poi diremo, le opere di Newton furono pubblicate molto tempo dopo la loro redazione, talune dopo la morte dell'autore. 1129 ottobre 1669 il Newton fu chiamato a succedere al suo maestro Barrow nella cattedra di professore lucasiano a Cambridge; vi rimase oltre vent'anni. Il suo nome, già grande per le ricerche di matematica e di ottica, acquistò fama universale in seguito alla pubblicazione dei Principi di filosofia naturale (1686-87). Nel febbraio del 1687 fu scelto dall'Università di Cambridge come difensore dei suoi diritti storici minacciati da Re Giacomo II; rappresentò l'Università al Parlamento per parecchi anni, senza rivelare attitudini politiche. Nel 1693 fu nominato ispettore della Zecca di Londra, della quale divenne direttore nel 1697. Mori il 20 marzo 1727 e fu sepolto nell'Abbazia di Westminster a Londra, ove un' epigrafe ricorda che Sibi gratulentur Mortales tale tantumque existisse Humani Generis Decus Abbiamo già detto che le opere di Newton furono pubblicate con notevole ritardo. Sia per desiderio di raggiungere un piu perfetto rigore, sia per evitare critiche penose al suo carattere timido e riservato, o (com'era abitudine di quei tempi) per non fornire ad altri i procedimenti di indagine che gli servivano a risolvere nuovi problemi, sia perché, durante la redazione dei Principia, egli riguardava i risultati matematici 99

come semplici mezzi per risolvere l'enigma dei moti planetari, non diede alle stampe i suoi lavori se non a malincuore. Dei tre opuscoli, riguardanti in special modo l'analisi infinitesimale, tutti compiuti, a quanto pare, prima del 1670, il Tractatus de quadratura curvarum fu pubblicato nel 1704, l'opera De ana(ysi per aequationes numero terminorum infinitas nel 1711, e il Methodus ftuxionum et serierum infinitarum apparve, come opera postuma, nel 1736. Gli stessi Principi di filosofia naturale, che soli basterebbero a dare al loro autore gloria immortale, furono pubblicati in seguito alle pressioni dell'amico Halley, che si recò dal Newton con incarico della Royal Society di Londra, e si assunse le spese di stampa. Dei tre scritti di argomento analitico sopra ricordati il secondo, brevissimo, tratta delle serie di potenze e di alcune operazioni su di esse. Le serie di potenze dall'epoca di Newton in poi hanno sempre costituito uno strumento fondamentale dell'analisi, ma in quel momento presentavano un interesse speciale perché offrivano il mezzo di estendere il concetto di funzione. 2 Per Descartes y dipendeva geometricamente dalla x solo quando si poteva calcolare il valore di y mediante effettive operazioni algebriche (razionali o estrazioni di radici) da eseguirsi sulla x. Non era dunque presa in considerazione a quel tempo la funzione log x; solo si adoperavano tavole numeriche di logaritmi. Pochi anni dopo, il logaritmo viene rappresentato come area di un trapezoide legato all'iperbole equilatera; a questa interpretazione geometrica avrebbe dovuto condur ~ubito la definizione data da Neper (1614) (v. p. 62) che consiste sostanzialmente nella uguaglianza x

log x

=

f---;:;-. dx

l

Le serie di potenze, riguardate come estensioni di polinomi, 2 Ricordiamo che la parola funzione si trova per la prima volta in un lavoro di Leibniz del 1692, De linea ex lineis numero injinitis...

100

davano il modo per rappresentare e calcolare nuove funzioni non accolte sino allora nell'analisi. La funzione logaritmica fu la prima. Nicolò Mercatore (Kaufmann 3) pubblicò nel 1668 un'opera Logarithmotechnia, nella quale partendo dalla nota formola

1 2 3 - - = l - x + x - x + ... l+x ed integrando termine a termine, ottiene la serie logaritmica

f x

log (1

+ x) =

o

dx X2 = x- l+x 2

x3

x4

+ -3 - -4 + ...

Ad uno sviluppo equivalente a questo era pervenuto nello stesso anno James Gregory, 4 il quale ottenne pure in modo consimile il classico sviluppo in serie di arctg x. Questi risultati non riuscivano però nuovi a Newton, il quale, in quell'epoca, aveva già approfondito la teoria delle serie, senza nulla pubblicare. 5 Egli anzitutto era riuscito ad estendere la formola che dà la potenza di un binomio (1 xy al caso di un esponente r frazionario, positivo o negativo. Pare che egli sia arrivato alla serie binomiale seguendo il metodo induttivo che ghi J. Wallis aveva applicato in casi analoghi con tanta abilità, ma che poi abbia meglio stabilito il risultato, sia applicando alle espressioni algebriche il processo di estrazione della radice da un numero che si adopera nell'aritmetica, sia ricorrendo al metodo delle approssimazioni successive (o dei coefficienti indeterminati) che gli permette anzi di risolvere il problema piu generale che consiste nel calcolare una radice di una equazione algebrica i cui coefficienti contengano ra-

+

3 Nato nell'Holstein, vissuto, dopo il compimento degli studi in Inghilterra e poi in Francia (1620-1687); da non confondere col geografo e cartografo Gherardo. • Scozzese (1638-1675), fu a Padova dal 1664 al 1667, professore all'Università di St. Andrews nel 1668, e poi di Edimburgo (1674). 5 Ciò ricaviamo dalle notizie contenute in una lettera diretta nel 1676 da Newton a Oldenhurg, che era incaricato di trasmetterla al Leibniz.

101

zionalmente un parametro. Cosi egli sa scrivere, ad esempio, lo sviluppo

1.3 x 4

X2

1

(1-x2rT= 1 + -+-2

2!

--+ 2

1.3.5

2

3!

x6

2:3+""

e da questo deduce per integrazione la nuova serie 6 x

arcsenx=

f o

1 ·3 ·5

x7

+~~7+'" Pur non disponendo di criteri generali di convergenza, il Newton indaga, caso per caso, se il resto della serie vada diminuendo abbastanza rapidamente coll'aumentare del numero dei termini che si conservano. Egli, d'altra parte, sempre applicando il metodo di approssimazioni successive, riesce ad invertire una serie, cioè a passare da una serie di potenze assegnata Y = ao

+ a1x + a2x + ... 2

ad una nuova serie esprimente la x per la y:

x= bo + b1y+ b2f+ ... , ed approfitta di questo metodo per invertire le serie che aveva ottenuto mediante integrazione. Cosi, partendo dalla serie 10garitmica, egli ottiene quella serie che piti tardi (da Eulero) fu chiamata esponenziale

f

y3

ell =l+y+ 21+31+ ... 7 ; 6 Per Newton, che adopera sempre la nomenclatura geometrica, è questa la lunghezza dell' arco del cerchio y = vi 1 - x', compreso fra i punti di ascissa O ed x. Osservazioni simili valgono per le formale seguenti. 7 0, come si scrive pia brevemente, y' y' OC! yn eli = 1 y -2 -3 = eli = ~ - l ' [A.D.A.] . .' n ... O n '

+ +

102

+

+ ...

mentre dalla serie che dà y = arcsen x egli ricava y3

seny=y-3T e similmente

y2

cosy= 1

+

--+ 2!

y5

8

5!

y4

9

4!

Nello stesso opuscolo di 26 pagine ove sono contenuti tutti questi ed altri fondamentali risultati, si accenna pure al Metodo diretto ed inverso delle flussioni, cioè alle operazioni che oggi chiamiamo derivazione ed integrazione. Di questo metodo, che egli afferma di aver costruito fino dagli anni 1665-66, parleremo ora tenendo presenti le altre due opere analitiche del Newton. (Tractatus de quadratura curvarum e Methodus fluxionum ... ) che ad esso sono particolarmente dedicate. IO La ragione del nome flussione adottato dal Newton sta nel modo come egli concepisce le quantità variabili, che egli chiama fluenti, cioè variabili allo scorrere del tempo. Egli parte da due o piu variabili x, y, z, ... , cosi legate che ad ogni valore di una di esse corrispondano determinati valori per le altre - come ad esempio le coordinate di un punto descrivente una traiettoria - ed introduce un parametro t, di cui x, y, Z, ... siano funzioni. Il parametro dà una misura del tempo, ma il Newton ha cura di avvertire che si tratta di un tempo convenzionale, e che, quando si prescinda dalle applicazioni, la misura del tempo è largamente arbitraria. Una stessa di quelle vay3 8

sen y =y -

-3' .

y2 • cos y = 1- 2f

y5

et)

y2n+l

+ -5'. = n-O ~ (-l)n ( - 2 1)1· + n. y'

et)

+ 4T =n~

y2n (_1)" (2n)!·

[A.D.A.]

[A.D.A.]

lO Anche nei P hi/osophiae natura/is Principia si trovano alcuni lemmi che riguardano questioni infinitesimali (nozione di limite, area compresa tra una curva e rette, considerata come limite di somme di rettangoli iscritti e circoscritti ... ). Particolarmente notevole è il lemma II del Libro II ove il Newton dà per la prima volta (1686) alle stampe le regole per trovare le flussioni delle funzioni piti semplici. Il nome di flussione non vi è però ancora adoperato, sebbene quello stesso nome egli avesse nascosto (dieci anni prima) in un anagramma contenuto in una lettera destinata a Leibniz (v. p. 110).

103

riabili, la x ad esempio, può essere assunta come parametro (cioè variabile indipendente), e ciò fa il Newton quando gli convenga. Fissata la misura t del tempo, ad ogni istante corrisponde una velocità di variazione di ciascuna delle fluenti x, y, Z. Queste velocità, che egli chiama flussioni, e denota con X, Z, ... sono, nel linguaggio e nella scrittura attuale (dovuta a Leibniz), i coeffìcienti differenziali, o derivate,

y,

4Y

dx

di' di'

dZ dt'

Le derivate seconde sono indicate con x,j, ecc.; naturalmente se x è preso come variabile indipendente, si ha = 1, = O. Ecco ora come il Newton determina le flussioni. Si abbiano ad esempio due variabili legate da una equazione, che il Newton suppone algebrica, j(x,y) = O.

x

+

x

+

Al posto di x, y si pongano i binomi x xo,y yo, dove x,y sono le flussioni incognite, delle quali resterà determinato solo il rapporto, finché non si precisi il parametro t, ed o è un infinitesimo che sostituisce il nostro dt. Si sviluppi j(x xo, y yo) = 0, tenendo conto che il punto (x,y) appartiene alla curva j (n,y) = 0, e che quindi la parte dello sviluppo indipendente da o sparisce; si divida ciò che rimane per o e si annulli poi o. Con la nostra scrittura il risultato è naturalmente

+

+

df·

dj.

4Y Y

dx x+

11

= 0,

'1 j . = -d 4Y .12 E' la regola d'1 ded ond e Sl" rlcava 1 rapporto -

x

11



x

df(x,y) • 4f(x,y) O dx +Y dy =.

x

[A.D.A.]

12 Le flussioni sono, per Newton determinate a meno di un zionalità. Ciò dipende dall' arbitrio nella scelta del parametro t, ' d'I t, ed essen d o , , un nuovo parametro t ' funzlOne Sostituire eccetera .. ,

104

fattore di proporpotendosi ad esso dx = -d' tb: dt' -d -d ' t t t

rivazione delle funzioni implicite, che il Barrow dà per suggerimento dell'amico Newton allo scopo di determinare la tangente alla curva f (x, y) = O (v. p. 93), e che in casi particolari era già applicata da Fermat (v. p. 80). Il Newton prende pure in esame la ipotesi che si abbiano n (n > 2) variabili legate da n-l equazioni. A questo problema egli riconduce anche il caso di una sola equazione con due variabili contenente radicale. Si supponga ad esempio che lay sia data da un' espressione razionale nella x e in un radicale di un polinomio in x; egli uguaglia il radicale ad una nuova variabile Z' ed ottiene cosi due equazioni razionali in x, y, Z; applica poi il procedimento sopra indicato ed arriva a due equazioni lineari ed omogenee in x, y, Z. Pili difficile e interessante è il metodo inverso delle flussioni, o problema delle quadrature. Il Newton dimostra anzitutto che se si parte da un'area limitata da una curva nota, dall'asse delle ascisse e da due ordinate, di cui una variabile, la flussione, o derivata, dell'area rispetto all'ascissa è l'ordinata variabile. Di qua egli deduce che la ricerca dell'area equivale alla ricerca di una funzione di cui la derivata è già nota (ricerca della funzione primitiva secondo il linguaggio moderno); nella deduzione viene tacitamente ammesso che la detta funzione rimanga determinata (a meno di una costante arbitraria) dalla conoscenza della derivata. Con queste considerazioni il Newton viene a stabilire nettamente, in modo analogo a quello che oggi si segue, il carattere inverso delle operazioni di derivazione e di integrazione che avevano già intravvisto, in forma meno chiara, Torricelli e Barrow. Rispetto a questi due geometri egli ha poi il vantaggio di poter sfruttare, nella ricerca dell'integrale, i procedimenti di derivazione, o calcolo delle flussioni, che ha precedentemente esposto. Con tal mezzo egli fa compiere un passo gigantesco al calcolo integrale. Egli procede cosiP Suppone anzitutto di conoscere l'in13 Si veda per maggiori particolari la traduzione del Traetatus ... , riprodotta nell' Appedice a questo volume.

105

tegrale F (x) che si va cercando ed ammette che esso possa scriversi sotto forma di prodotto

dove gli esponenti (J., ~, '(, ... sono numeri razionali, POSitIVI o negativi, e dove R, S, ... sono polinomi, od anche serie, ordinati secondo le potenze crescenti di xn con n intero, positivo; esponenti e coefficienti sono per ora indeterminati. Applicando il metodo delle flussioni egli si procura la derivata di F (x) (rispetto alla variabile x) e paragona questa derivata F' (x) con la funzione assegnata f (x) di cui vien richiesto l'integrale; egli suppone anche la f (x) scritta sotto forma di prodotto come la F. Se si potrà disporre dei coefficienti ed esponenti indeterminati della F in modo da soddisfare la identità

F' (x) = f(x), la F sarà la funzione primitiva richiesta; con la nostra scrittura sarà dunque

F(x) =

f f(x) dx.

Come dicevamo, il Newton fa astrazione dalla costante arbitraria e non parla di altre eventuali soluzioni; ordinariamente egli assume quella particolare soluzione F (x) che si annulla nella origine. H Questo procedimento lo conduce in particolare a costruire una classe abbastanza ampia di funzioni algebriche f(x), aventi integrali algebrici. Ma per quanta abilità egli impieghi nella preparazione della f(x) come prodotto di potenze intere o 14 È da notare però che quando Newton tratta della integrazione di particolari equazioni differenziali, dice esplicitamente che ogni fluente (funzione) dedotta dalla sua prima flussione (derivata) può esser accresciuta o diminuita di una costante arbitraria; se la fluente è dedotta dalla seconda flussione, essa può essere alterata da una qualsiasi espressione di cui la seconda flussione sia nulla; ecc.

106

fratte di polinomi, e nei calcoli sopra accennati, egli non può per questa via esaurire la questione di caratterizzare le funzioni algebriche che hanno integrali algebrici. Egli non conduce nemmeno a termine il problema dell'integrazione delle funzioni razionali, quozienti di due polinomi; dice però che è necessario trovare le radici del polinomio denominatore ed aggiunge che se questo ha qualche radice semplice, la quadratura è impossibile; va sottinteso nel campo algebrico, poiché egli evita sistematicamente i logaritmi. Altri tentativi son diretti ad esprimere, quando sia possibile, l'integrale di un differenziale algebrico del tipo sopra considerato, mediante la somma di una funzione algebrica e di un numero finito di integrali di funzioni algebriche di tipi piti semplici che egli rappresenta mediante aree limitate da un arco di conica e da rette. Una parte considerevole del Methodus ftuxionum è dedicata al problema della integrazione delle equazioni differenziali, anche di ordine superiore al primo. Egli riesce a ridurre alle quadrature alcune delle piti semplici - ad esempio una equazione della forma f(y