Le iene del Circeo. Vita, morte e miracoli di un uomo di Neandertal

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Le iene del Circeo. Vita, morte e miracoli di un uomo di Neandertal

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Antonio Pennacchi

Le iene del Circeo Vita, morte e miracoli di un uomo di Neandertal

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9284-1

ad Agado Tosi, a Nando Cappelletti

Indice

A scanso d’equivoci Capitolo primo

ix

3

Capitolo secondo

29

Capitolo terzo

45

Capitolo quarto

63

Capitolo quinto

83

Capitolo sesto

97

Capitolo settimo

113

Addendum Camerata Neandertal

135

Note

195

Ringraziamenti Un particolare ringraziamento va a Dino Del Giudice, penalista di Massa, che da anni oramai legge preventivamente ogni mia cosa al fine di evitare querele. Non sempre ci riesce. Lui dice però per colpa mia. Grazie anche a Michelangelo La Rosa, Giuseppe Mancini, Carlo Miccio, Francesco Moriconi, Massimiliano Lanzidei, Franco Luberti, Stefano Gori, Enzo Paulinich, Roberto Cerisano, Gerardo Rizzo, Alessandro Paris, Daniela Novelli. Un grazie, infine, a «LiMes».

A scanso d’equivoci

Primo: Neandertal si scrive senza acca. Il nome della val­ le vicino Düsseldorf in Germania, dove nel 1856 furono rinvenuti per la prima volta i resti della omonima specie, si scriveva con l’acca solo in tedesco antico. In quello mo­ derno non più. L’acca rimane quindi solo per le diciture in latino – Homo neanderthalensis – ma per tutto il resto no. Neanderthal è sbagliato. Secondo: questo non è un libro vero, è solo un divertis­ sement o – meglio ancora – è un’incazzatura che m’era cominciata nel 1989 a Sabaudia assistendo da neofita di­ lettante a un convegno di scienziati veri. Poi nel corso degli anni – man mano che cercavo di capirne un po’ di più – l’incazzatura m’è sempre più aumentata fino a esplodere nel 2006, quasi vent’anni dopo, quando sempre a Sabaudia hanno fatto un altro convegno*: «Eh no, mo’ * Il primo convegno, The Fossil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium, si è tenuto nei giorni 19-21 ottobre 1989; il secondo convegno, Nostro fratello Neanderthal, nei giorni 21-22 ottobre 2006. ix

basta» ho detto, e mi sono messo a scriverla su «LiMes»*. Adesso è qua. Dice: «È un libro, non è un libro, è un pamphlet? E a che genere appartiene?». Non lo so. Sicuramente non è un romanzo e secondo teo­ ria e prassi della critica letteraria andrebbe forse più ascritto al genere dell’invectiva che a quello delle confutationes. Io qui difatti – o almeno fino all’Addendum – non do la spiegazione esaustiva di nessun problema escatologico, non fornisco la parola «che mondi possa aprire». Pongo solo una serie di interrogativi a certe spiegazioni che hanno for­ nito gli scienziati patentati, ma che a me non m’hanno per niente convinto. Pongo problemi. Faccio domande. Me le diano loro le risposte. Se sono capaci. a.p. * Cfr. Le iene del Circeo, in Kosovo lo Stato delle mafie, Quaderno speciale di «LiMes», 20 dicembre 2006; le successive puntate sono apparse sui numeri 1, 2, 4, 5, 6 del 2007 della stessa rivista.

Le iene del Circeo Vita, morte e miracoli di un uomo di Neandertal

Capitolo primo

Ora io capisco che appena uno sente «iene del Circeo», subito pensi a Ghira, Guido, Izzo e alle due ragazze massacrate più di trent’anni fa. Era il 1975. Una, Rosaria Lopez di 19 anni, l’ammazzarono e l’altra – oramai creduta morta anch’essa – la chiusero nel bagagliaio della macchina insieme al cadavere dell’amica. Poi se ne tornarono con tutto il carico a Roma – ai Parioli – nella Roma-bene da cui provenivano. Era notte fonda. Lasciarono la macchina in strada e poi ognuno a casa sua: «Ci vediamo domani». Donatella Colasanti di 17 anni si salvò solo perché un provvidenziale passante – uno che a quell’ora di notte andava per caso ancora in giro con il cane – sentì un flebilissimo lamento provenire dalla Fiat 127 che Guido aveva lasciato appunto parcheggiata in strada, sotto casa, con il macabro carico. Quando poi la polizia, dopo alcune ore, riuscì a risalire attraverso la macchina di Guido anche a Izzo e Andrea Ghira e si recò nella villa del Circeo, non trovò quasi più traccia del delitto, trovò tutto lucido e splendente. Mastro Lindo. Neanche più una goccia di sangue. Nel frattempo – che ti debbo dire? – c’era già capitata la madre di Ghira 3

al Circeo, a ripulire a fondo la villa con acqua, straccio e varechina. Condannati tutti e tre all’ergastolo, Angelo Izzo ha poi riammazzato nel 2005 – durante un periodo di semilibertà – la moglie e la figlia di un carissimo compagno di prigione che, visto che lui usciva, gliele aveva premurosamente affidate: «Guardamele tu, per piacere». Adesso sta di nuovo nel supercarcere di sicurezza di Velletri dove si è pure sposato; ma si lamenta, dice che lì non si trova bene. Giovanni Guido invece è tornato completamente libero nel 2009. A lui l’ergastolo – essendosi pentito e avendo la sua famiglia risarcito pecuniariamente quella dell’uccisa – era stato ridotto a trent’anni. Ma tra fughe varie, latitanze e poi indulti, alla fine ha scontato – in tutto – poco meno di 22 anni di reclusione. Andrea Ghira – il capo indiscusso del terzetto – non ha fatto un solo giorno di prigione per quel delitto. Scappato non si sa dove, ogni tanto c’era chi lo avvistava in Brasile, in Kenya, in Sudafrica o addirittura in giro per Roma; ma non c’era niente da fare, non lo riuscivano a pigliare. «Chissà chi lo protegge», diceva la gente: «I ricchi cascano sempre in piedi». Poi invece dopo tanto tempo, nel 2005, s’è saputo – o almeno pare – che era morto nel 1994. Era stato nel Tercio – la legione straniera spagnola – da cui lo avevano cacciato pochi mesi prima che morisse d’overdose. Il suo corpo starebbe nel cimitero del Tercio a Melilla – un’enclave spagnola nel Marocco settentrionale – e gli esami del Dna hanno detto che è proprio il suo: «È lui, non c’è da sbagliarsi». 4

Donatella Colasanti – la ragazza superstite che era stata stuprata e seviziata per ore e ore, e poi rinchiusa nel bagagliaio insieme al cadavere dell’amica – è morta di tumore neanche un mese dopo che il Dna aveva dato il suo responso su Ghira. È morta nel dicembre 2005 ma non s’era data pace per tutti quegli anni, s’era battuta senza posa, scriveva ai giornali, ai politici e alle televisioni, perché qualcuno si decidesse ad andarlo a cercare. Ma niente. Pareva quasi che lo Stato non lo volesse trovare. Lei invece, nel ricordo costante di ciò che era successo – tanto che ogni volta che appariva in televisione la gente diceva: «Uffa, ma è un’ossessione, è passato tanto tempo, che ce ne frega più a noi?» – deve essere vissuta solo perché lui venisse scovato. E appena lo hanno trovato e s’è saputo che quel corpo era il suo, è morta. Ma era morta davvero già quel giorno lì, nel 1975. Poi s’era solo trascinata avanti, fino proprio a quest’ultimo giorno: «Ora me ne posso andare». Anche se – prima d’andarsene – ha detto che secondo lei non era lui, non era suo quel corpo, era d’un suo cugino: è così che avrebbero fregato il Dna; e la stessa cosa dice tuttora la sorella di Rosaria Lopez, la ragazza uccisa allora. Su internet c’è anche una foto1 che sarebbe stata scattata dai carabinieri nel 1995 – un anno dopo, cioè, dalla presunta morte di Andrea Ghira nel Marocco spagnolo – che lo ritrarrebbe un po’ invecchiato e con la barba, ma tranquillamente in giro per una via di Roma2. Lui all’epoca del massacro aveva già fatto una rapina e dopo – nei primi mesi di latitanza – partecipò anche a un sequestro di persona. Era di famiglia ricca – potente – e chiunque percorre la Pontina ancora oggi da Roma verso 5

il Circeo, subito dopo l’uscita di Aprilia Sud vede sulla sinistra campeggiare l’insegna «Ghira» dello stabilimento di prefabbricati in cemento armato di famiglia. Le travi precompresse Ghira – a capriata – erano già famose negli anni Trenta. Erano stati dei precursori nel cemento armato prefabbricato, cent’anni che facevano e fanno travi. Io peraltro questo Andrea Ghira l’ho pure conosciuto quando facevo il geometra. Deve essere stato pressappoco l’anno prima del massacro, 1974 o giù di lì. Ero andato da loro un paio di volte, negli uffici di Roma, per dei preventivi per un capannone. Lui stava là, sotto gli ordini del padre che ce lo teneva a forza, e lo trattava brusco come una SS perché non capiva niente di cemento – gliel’ho detto io, a lui, che facevano travi già nel 1938 – ma sembrava una personcina ammodo, mite, gentile ed affabile, in mezzo ai tavoli da disegno. Poi dice tante volte le prime impressioni. Parlammo pure di politica una sera – mentre aspettavamo il padre – e appena il padre arrivò, lui scappò di là. La foto del 1995 però, che gira per internet e che lo ritrae per Roma, per me è lui. Come l’ho vista, l’ho riconosciuto. Poi lo Stato facesse quello che gli pare. Non sono queste comunque le iene di cui trattiamo qui, anche se il Circeo – in realtà – è sempre stato un posto che non ha mai portato tanto bene, e non solo perché sotto c’è Sabaudia con quel litorale da Guinness dei primati per gli annegamenti, ma pure in antico. Il promontorio del Circeo ha dominato da sempre le Paludi Pontine e già Strabone – geografo greco del I se6

colo avanti Cristo – lo descrive «come un’isola sul mare e sulle paludi [...]. Vi è un piccolo insediamento, un santuario di Circe e un altare di Atena; viene anche mostrata una taz­ za che, a quanto dicono, sarebbe appartenuta ad Odisseo»3. Secondo il Niese, Strabone avrebbe scritto la sua Geo­ grafia a Roma fra il 17 e il 23 d.C. a più di ottant’anni d’età. Secondo il Pais invece l’avrebbe scritta un po’ più giovane – tra i cinquanta e i sessanta – intorno al 7 a.C. e non a Roma, ma in Asia Minore per la regina del Ponto, e l’avrebbe poi rivista verso il 18 d.C.4. Noi naturalmente stiamo con il Pais, e non solo perché è quello che più retrodata, ma perché per fatti nostri già ci piace il Pais, che comunque era un ipercritico, e quando retrodata un ipercritico ci si può fidare. Però non è che faccia poi tanta differenza: sia quindi se si vuole il 7 a.C., o sia pure il 23 d.C., resta che a cavallo del I secolo al Circeo – nel tempio che già fu della Maga Circe – ti facevano ancora vedere una tazza appartenuta ad Ulisse più di mille anni prima. Un museo. E che non siano tutte fesserie te lo dimostra il fatto che resti di ceramica micenea sono stati ritrovati sia negli scavi archeologici di Casale Nuovo all’Acciarella – sulle rive del fiume Astura – sia alle Grottacce, sulla linea tirrenica di costa lì davanti, a meno di tre chilometri da Casale Nuovo5. Ergo, magari non si sarà chiamato Ulisse e non avrà vagato esattamente per tutti quei famosi venti anni e con tutti i dettagli e le disavventure che elenca una per una Omero, ma certo da queste parti i mercanti-pirati micenei ci sono di sicuro venuti, almeno a vendere vasi. Ed erano gli stessi ed identici mercanti-pirati che nello stesso perio7

do – stessa identica ditta – andavano a rompere le scatole a Troia. Come sia andata poi in effetti la storia per davvero, nessuno lo sa. Ma tu hai comunque in mano: a) la ceramica micenea trovata all’Astura; b) la tazza di Ulisse che ha visto Strabone; c) tutto quello che racconta Omero. Mo’ è ovvio che mettendo assieme questi dati tu non è che possa poi pensare di avere in mano chissaché di verità o ipotesi scientifica. E mica sono scemo. Il metodo scientifico è ben altro. Però qualche congettura – se hai un briciolo solo d’energia dentro il cranio – ti devi pure sforzare di avanzarla: «Fatti non foste a viver come bruti» dice Dante. Certo – ribadisco – non sarà tutto oro colato ciò che tramanda Omero. Lui la ingrandisce. Però intanto racconta che Ulisse al Circeo non se l’è passata esattamente tanto bene. O meglio, lui l’avrebbe passata anche benino: mangiava, beveva e copulava a più non posso con la Maga Circe alla faccia di Penelope, di cui s’era proprio scordato. Ma a tutti gli amici suoi, la Maga Circe gli ha fatto un culo così – come si suole dire – li ha trasformati in porci e ci hanno fatto le salsicce da queste parti, coi marinai d’Ulisse. Ed è qui che Circe – prima di rimandarlo via – lo spedisce agli inferi ad incontrare i morti. Ergo il Circeo – che è un promontorio-isola «di margine» col mare da una parte, ma con l’indefinibilità della palude, ossia né mare né terra, dall’altra – è anche storicamente, nella mitopoiesis, un luogo di margine fra terreno ed ultraterreno (l’oltretomba), e fra umano e non umano, in cui gli uomini possono tramutarsi ad libitum pure in porci. Col suo profilo stesso – quello che adesso si chiama 8

skyline – il Circeo non poteva non apparire già agli uomini della palude un tantinello strano, antropomorfo, con la sua figura a teschio da un versante e quella a viso di donna dall’altro, con il naso, gli occhi, la bocca e perfino il copricapo da regina asiatica. Anche oggi ai bambini si dice, indicando il monte: «Guarda la Maga Circe». È un margine che diventa identità: il monte «è» la Maga e viceversa. Ed è comunque tutta roba che attiene allo ctonio: meglio fare le corna e passare avanti – si diceva una volta – o anche scherza coi fanti e lascia stare i santi. (Adesso però è uscita una nuova teoria secondo cui i luoghi omerici andrebbero tutti spostati in Scandinavia6: Troia sarebbe stata sul Mar Baltico in Finlandia e così tutti gli altri posti, tra cui Itaca in Danimarca, la Colchide in Norvegia, Creta in Polonia e Atene in Svezia. L’Iliade e l’Odissea sarebbero successe per davvero tutte là, in un periodo in cui ci faceva un po’ più caldo. Poi, tornato il freddo e ricalati i ghiacci, quelle genti si sarebbero spostate verso il sole del Mediterraneo – in Grecia – e sarebbero i Dori. In questo grande trasloco, diciamo così, avrebbero traslocato – duplicandoli – pure i luoghi dei loro miti e dei loro racconti. Pressappoco come gli italiani che emigravano nel secolo scorso in America del Nord o in Argentina e appena si costruivano un villaggio o una città li chiamavano Roma, Venezia o Monte San Biagio. Io adesso però avrei altro da fare, dovrei seguire il discorso iniziale, non mi posso mettere appresso pure a questa nuova teoria. L’ho detta solo per dovere di cronaca. La confuteremo un’altra volta. Adesso andiamo avanti per i fatti nostri.) Il Circeo quindi domina – con la sua mole a figura di 9

teschio o di donna – tutta la regione pontina, quella piana cioè che si stende dal Mare Tirreno al grande arco montuoso costituito da Colli Albani, Monti Lepini e Monti Ausoni fino a Terracina. Questa regione – nei tempi cosiddetti storici, ovvero pressappoco gli ultimi tremila anni  – è stata più conosciuta come «Paludi Pontine», ma non è sempre stata impaludata. Tito Livio la ricorda come pianura coltivata, granaio di Roma addirittura. In tempi più lontani – nell’ultimo glaciale – era tutta asciutta ed era pure tutto asciutto il mare fino quasi all’isola di Ponza, poiché la Terra è fatta così: si muove, ed ogni giorno la sua crosta è diversa dal giorno prima. E tutta questa regione è sempre stata diffusamente abitata. L’Homo sapiens, ossia noi Cro-Magnon – anche se una volta si diceva Homo sapiens sapiens, con sapiens due volte per distinguerlo dal neandertaliano che era sapiens anche lui, però una volta sola – è arrivato in Europa intorno ai 35-38 mila anni fa. L’uomo di Neandertal però – e cioè l’Homo neanderthalensis, anche se prima si chiamava Ho­ mo sapiens neanderthalensis, ma da una ventina d’anni a questa parte, e guarda caso proprio concomitantemente a questa storia delle iene del Circeo che ci accingiamo a raccontare, la qualifica di sapiens, troppo vicina a noi, gliel’hanno tolta – c’era già da parecchio prima, almeno 130 mila anni fa. I resti ritrovati a Saccopastore – nella zona di Montesacro a Roma – sono datati 70 mila anni b.p. (by present) e il Neandertal stava pure e in forze qua, tutto attorno al Circeo. Non c’è quasi un ettaro di terra – in Agro Pontino – in cui dopo le arature non sia ancora 10

possibile ritrovare strumenti di pietra, come raschiatoi o punte per lance e pugnali7. Intorno a casa mia – a Borgo Podgora – nell’ettaro giunto per via ereditaria a mia moglie, ne abbiamo trovati circa 350, poi ci siamo stufati. Trecentocinquanta oggetti per ettaro è un numero che naturalmente fa ridere, rispetto alle migliaia e migliaia delle stazioni di Colle Parito e dei ripari in grotta del Circeo o dei Monti Lepini. Ma è un numero che è indicativo – rapportato ai settanta chilometri quadrati dell’Agro Pontino – della presenza dell’uomo primitivo da queste parti. Casa mia – l’ettaro di riferimento, da noi impropriamente denominato «Stazione Busatto»8 – sta su quella che doveva essere la riva di un paleofiume, il cosiddetto Fiume Antico delle vecchie carte divenuto poi, nel tempo, il Fosso di Cisterna. È quindi una stazione di passaggio, ci venivano a caccia, pesca e a raccogliere le bacche e le radici. Ogni tanto perdevano queste punte. Qualche volta ci si debbono pure essere fermati, poiché tra gli oggetti rinvenuti ci sono parecchi nuclei di selce semilavorati. Si costruivano probabilmente una capanna e lavoravano sul posto la selce. O forse ci venivano proprio per raccogliere i ciottoli di selce portati dal fiume. In ogni caso, in tutta l’industria litica qui raccolta si riscontra la presenza sia della cultura musteria­na9 – appartenente cioè all’uomo di Neandertal – sia auri­gnaziana10 e poi neolitica, cioè noi, l’uomo moderno. Ergo, la regione pontina è stata abitata – e forse proprio ininterrottamente – dal­l’uomo di Neandertal prima e dal Cro-Magnon poi. Le due specie però non è che si siano succedute sulla faccia dell’Europa e della Terra come ad una stazione di 11

scambio, un passaggio di staffetta, con una soluzione netta di continuità tra l’una e l’altra – «Arrivo io e te ne vai tu. O viceversa» – ma per un certo e non breve periodo (circa 10 mila anni perlomeno) convivono, nel senso che ci stanno tutti e due e l’uomo di Neandertal si estingue e poi scompare solo dopo il 27-25 mila b.p. Più di qualche studioso fino a poco tempo fa – il Coon11 su tutti – sosteneva che l’uomo neandertaliano non si fosse estinto, ma si fosse semplicemente fuso con il CroMagnon Sapiens sapiens e che intorno a noi, magari sulla metropolitana, fosse pieno ogni giorno di neandertaliani che viaggiavano, giacca e cravatta, insieme a noi. Oggi pare invece assodato che non ci sia niente da fare – si è estinto e basta – poiché esaminando il Dna ricavato da qualche osso, si sarebbe visto che non c’è stato proprio nessun contatto tra noi e loro, arrivederci e grazie. O almeno così dicono quelli del Dna. Io peraltro non vorrei avere capito male, ma all’ultimo fatidico convegno12 glielo chiesi proprio esplicitamente, subito dopo la loro relazione13, e mi risposero che i campioni di Dna antico-neandertaliano disponibili in tutto il mondo ed esaminati per l’indagine sono in tutto 13. Tredici, ripeto. Ora a me 13 – al di là che come numero porta pure jella – mi pare un po’ poco, come base di rilevamento dati per informarne una legge che abbia validità scientificouniversale su due specie composte, nel corso delle migliaia d’anni, da miliardi di individui. Ma lasciamo andare, che ce ne frega a noi? Non ci è parente il Neandertal? E non ci sia parente: amici come prima. Però qualche numeretto in più – qualche altro campioncino per farci un tantinello di 12

supplemento d’indagine – io lo considererei pure, prima di giurare o spergiurare a vanvera. Hai visto mai? Mo’ lascia stare Ghira, che alla faccia del Dna c’è una foto del 1995. Ma pure Bush chiamava a testimoni tutti i santi, che c’erano le armi di distruzione di massa in Iraq; e altro che tredici fotografie sole gli avevano fatto vedere quelli della Cia. Comunque a me non importa, non voglio stare a fare discussioni inutili: si è estinto? E si sarà estinto. Sul come però si è estinto, non è per niente chiaro. Qualcuno dice battuto da noi – eliminato dai Cro-Magnon – ma sono solo ipotesi. Qualcun altro parla di una particolare conformazione del bacino che avrebbe impedito, a lungo andare, la possibilità alle femmine di partorire a buon fine. Per qualcun altro – sempre il Coon, mi pare – a un certo punto, tra la fine dell’ultima glaciazione e l’inizio dell’interglaciale con lo scioglimento dei ghiacci, il riscaldamento dell’atmosfera e il regime pluvio-alluvionale che originerà poi anche il mito del Diluvio Universale, potrebbero avere perso il fuoco. Allora non lo sapevano ancora accendere con le pietre focaie o con i bastoncini a try`panon, e se lo tramandavano – una volta raccolte delle braci, magari da un albero colpito dal fulmine – continuamente acceso dentro i bracieri. Solo così del resto si spiega il culto di Vesta a Roma, la dea del fuoco e del focolare – «Fuoco di Vesta che fuor dal tempio irrompe», si cantava ancor non molti anni or sono in tutte le piazze d’Italia – con le vestali appunto lì, a fare la guardia vergini per tutta la vita al sacro fuoco della città, perché non si spegnesse mai. Ancora in età classica, alla vestale che una notte non ci era stata attenta e si era addormentata insieme ad un irrituale fidanzato lasciandolo spegnere – il fuoco, non il fi13

danzato – la sotterrarono giustamente viva secondo quanto comandava la legge, e non perché non fosse più vergine, ma perché far perire il fuoco era far perire la comunità. È così quindi che i neandertaliani non sarebbero più stati in grado di sopravvivere. Ma sono tutte teorie senza una prova. Chiacchiere. E ognuno che vuole, dice la sua. Comunque questi neandertaliani facevano avanti e indietro per tutto l’Agro Pontino – dal Circeo ai Monti Lepini e fino a casa mia – e cacciavano e raccoglievano bacche, e hanno lasciato tutte quelle punte di lancia e di freccia sulla terra mia; o meglio, di mia moglie. Ora è chiaro che per fare una punta così non è che sia buona una scimmia. Lì ci vuole intelligenza. E non solo intelligenza, ma anche capacità, tempi e tecniche d’apprendimento; non è che pigli una pietra, la sbatti addosso a un’altra e il gioco è fatto. Provaci tu, se sei capace. In America il Coon misurò la capacità di penetrazione di queste punte di pietra addosso al legno, confrontandole con quelle d’acciaio di età moderna. Be’, non c’è paragone: quelle di pietra penetrano di più e il nostro neandertaliano, per insegnarlo al figlio, non è che gli bastasse farglielo vedere. Glielo avrà dovuto per forza spiegare – «Mena così e cosà, bello di papà» – doveva avere per forza una forma di comunicazione evoluta, ultra-ferina. E una forma di comunicazione presuppone una forma di organizzazione sociale di tipo umano, presuppone anche un ethos ed un eidos. Qui però qualcuno dice: «La cultura materiale non è rappresentativa della cultura immateriale»14, poiché il fatto che tu trovi degli oggetti lavorati non ti rivela niente 14

15

sull’ethos e sull’eidos, ossia su quel che pensasse, su ciò in cui credesse e su come si relazionasse con gli amici e parenti suoi, l’essere vivente che quegli oggetti ha prodotto. E fin qui non ci piove anche per noi: la cultura materiale ed i semplici oggetti usati e prodotti da qualcuno non sono in grado, di per sé, di dirti quali fossero il sistema di credenze e quello valoriale-associativo a cui quel qualcuno faceva riferimento. Ma essa cultura materiale testimonia comunque che un ethos ed un eidos dovevano per forza esserci, anche se a noi ignoti e indefiniti: non so com’erano – come si suole dire – ma so che c’erano, perché ogni cultura materiale non può che testimoniare una cultura immateriale che l’ha prodotta o con cui comunque s’è dialetticamente prodotta. E pure qua non ci piove, almeno per noi. Per l’ipercriticismo di derivazione spesso nordamericana, invece no: «E chi l’ha detto? Ci vogliono le prove». «Ma gli strumenti, le punte, i bulini, i raschiatoi non sono prove? Non testimoniano tutto questo?». «No, lo strumento testimonia solo sé stesso. Il resto sono chiacchiere». Ma lo strumento qualcuno lo avrà fatto e qualcun altro – almeno suo padre – gli avrà pure insegnato a farlo, o no? No, a loro gli importa una sega, gli devi produrre le prove, portare il filmino d’epoca con quello che dice al figlio «Si fa così e cosà». Sennò non ci credono, sei tu il ciarlatano. Anzi, altro che linguaggio, loro dicono che non è nemmeno provato che il Neandertal parlasse. «E allora come ha fatto suo padre ad insegnarglielo?», chiedi tu. 16

«Per imitazione. Mica serve che parlasse. Lui faceva e quello imparava». Ora – come si sa – solo uno che non sa neanche dove stia di casa il lavoro manuale e pensa che l’intelligenza dell’universo stia tutta e solo dentro i libri, può credere che quel «lavoro manuale» sia roba da coglioni a cui, come le scimmie, basterebbe guardare e subito imparano: «Mica ci vuole spiegazione, mica ci vuole linguaggio». Ma vaffallippa va’, io ti vorrei vedere a te con mazzetta e scalpello – se nessuno ti spiega – come ti conci da solo le mani. Non ti bastano le bende di Tutankhamon. Che però l’uomo di Neandertal andasse e venisse avanti e indietro per tutto l’Agro Pontino, i Monti Lepini e il Circeo fino a casa mia – coi figli, le mogli e le suocere appresso – non è che si sia sempre saputo. Io pure non è che mi sia svegliato una mattina e abbia detto: «Sai che c’è? Mo’ vado in campagna a cerca’ le frecce». Il mio povero suocero e tutti i coloni veneti come lui, quando trovavano durante l’aratura queste pietre scheggiate, pensavano sempre: «L’è stà ’na saetta». Il fulmine. O i denti della fresa. Che ne sapevamo noi di tutta questa roba qui? A noi ce l’ha detta Alberto Carlo Blanc (o meglio, a me l’ha detta Marcello Zei, ma a Zei la disse Blanc). Se non era per lui, non sapevamo ancora un fico secco nessuno. È lui che quando c’è stata la bonifica negli anni Trenta s’è messo a girare per tutte le Paludi Pontine appresso agli operai che scavavano i canali, per vedere tante volte che cosa uscisse fuori. Tutti gli altri archeologi – specie quelli dell’antichità classica – restarono distratti. Nessuno è andato mano mano dietro agli operai. Aspettavano che 17

li chiamassero – «Abbiamo trovato qualcosa» – e allora partivano da Roma e venivano a vedere. Poi se si trattava d’una statua o un vaso o un mosaico come Il Nuotatore – che fu trovato scavando il primo tratto del Canale Mussolini – allora pigliavano e portavano a Roma. Poi Il Nuotatore se lo sono pure perso, non si sa più che fine abbia fatto e in quale fondo di magazzino stia. Comunque non hanno mai documentato niente, neanche un pezzo di carta, un disegno. E quando invece si trattava solo, secondo loro, di volgarissimi muri – pure se di età romana o preromana, e pure se consistenti, come tutto l’opus reticulatum buttato giù al Canale delle Acque Medie – dicevano agli operai: «Non vale niente, andate avanti» e via di corsa a Roma, tante volte li pigliasse la malaria. Neanche un cane appresso ai bonificatori, anche se Plinio il Vecchio – e loro che erano archeologi lo dovevano sapere – diceva che già ai suoi tempi c’erano 24 città scomparse, nell’area delle Paludi Pontine: «A Cerceis palus Pomptina est, quem locum XXIV urbium fuisse Mucianus ter consul prodidit»15. Chissà cosa deve essere venuto fuori, durante gli scavi di bonifica. Ma chi lo saprà mai più? Loro stavano a Roma. Alberto Carlo Blanc invece si mise appresso agli operai passo passo in mezzo alla fanga – dentro i canali – ed è solo così che poté fare la famosa stratigrafia della briglia di Gnif Gnaf del Canale Mussolini. È così che ha trovato l’Elephas antiquus e il mammut – sempre al Mussolini – e tutti gli altri fossili e la presenza massiccia del Musteriano in Agro Pontino, tanto da delinearne una nuova e specifica facies chiamata proprio «pontiniano» e divenire già, a 28 anni, un’autorità mondiale della paletnologia. 18

Quello peraltro – altro che Indiana Jones – aveva un fiuto che manco i cani da tartufo. Allora poi non era come adesso, che le ossa di neandertaliano te le tirano appresso. Allora ce ne erano poche e, di quelle poche, tra le più importanti ci sono proprio quelle che trovò lui. Solo nel 1929, difatti, era stato ritrovato casualmente il Saccopastore-1, come è chiamato il cranio di Neandertal proveniente dalla omonima cava di ghiaia del Nomentano, e lui subito aveva pensato: «Qua ce ne deve essere per forza qualcun altro». Dai e dai, il 16 luglio del 1935 – a 29 anni – insieme a Henri Breuil trovò lì vicino un altro cranio, il Saccopastore-2. Ma non si ritenne appagato: «Ma ti pare a te che questi stavano solo qua? Non andavano pure un po’ in giro?». Anche al Circeo era quindi convinto che ci fosse qualche cosa. Aveva già scoperto una miriade di fossili vari, di ripari in grotta, di strumenti d’ogni tipo e ogni tipo di tracce per tutta l’ex palude e la catena montuosa che la circonda. È lui che all’Arnalo dei Bufali – una grotta dei Monti Lepini a cinque chilometri da Sezze – nel 1936 riconosce il celebre dipinto schematico rupestre definito «homme à phi». Ma sul Monte Circeo fiutava proprio come un tartufo e ancora il 15 febbraio 1939 – uno o due giorni prima di sposarsi – c’era tornato a farsi un altro sopralluogo e s’era fermato da un amico suo, il Guattari, proprietario di un alberghetto. Il Guattari stava facendo dei lavori di scavo nel terreno dietro l’albergo – proprio ai piedi del monte, fra il monte e il mare – e Blanc gli disse: «Occhio, che ci può essere qualche cosa». Poi ripartì per Roma per andarsi a sposare. 19

Quelli scavarono con più circospezione e lui dieci giorni dopo – il 25 febbraio 1939, ritornando dal viaggio di nozze che aveva fatto a Napoli – quando è stato a Terracina, prima di prendere la Fettuccia per tornare a Roma 20

Posizione del cranio sul suolo di Grotta Guattari (da A.C. Blanc 1956).

ha detto alla moglie: «Fammi fare un salto a San Felice Circeo, va’». Quella avrà pure storto il muso ma – arrivati lì – si sono trovati davanti il Guattari che strillava: «Proprio ieri abbiamo trovato un teschio!». 21

Veduta da nord-est della collina della Grotta Guattari (da A.G. Segre 1949).

Il suo elettricista Bevilacqua, scavando scavando, si era imbattuto nell’ostruzione di una apertura che – una volta rimossa l’ostruzione stessa – immetteva in un cunicolo stretto stretto che però alla fine sbucava in una grotta. Da questa grotta principale si dipartivano poi due antri secondari ed in uno di questi – che il Blanc chiamò «Antro dell’Uomo» – c’era appunto un cranio. Subito Blanc si infilò con il Guattari dentro la grotta – mentre la sposa impaziente aspettava di fuori – finché vide in quella cameretta secondaria il teschio umano che «giaceva quasi al centro dell’antro, verso il fondo, assieme ad ossa di Cervidi, Suidi ed Equidi, scheggiate, tra alcune pietre disposte circolarmente [...]. Constatata immediata­ mente sul fossile la presenza di accentuati caratteri nean­ dertaliani, decisi di asportarlo, giudicando imprudente di lasciarlo ulteriormente sul posto, tanto più che numerose persone (ragazzi, donne, dipendenti del Guattari ecc.) erano 22

penetrate prima di me nella grotta e ne avevano asportato varie ossa. Non avevo con me il magnesio necessario ad una fotografia»16. Così ha preso il cranio e lo ha portato a Roma, è andato a svegliare Sergio Sergi – un mammasantissima della scienza d’epoca – a cui, dopo averlo fotografato, lo ha ufficialmente consegnato. Era il 26 febbraio del 1939 oramai, e neanche venti giorni dopo, il 15 marzo, le truppe tedesche entravano a Praga. I nembi di guerra erano già tutti all’orizzonte – il 1° settembre ci sarà l’invasione della Polonia, che darà inizio alla Seconda guerra mondiale – ma, nonostante questo, la notizia il giorno dopo fece il giro del mondo. La comu­ nità scientifica rimase folgorata. E non per il cranio in sé, poiché di resti neandertaliani ce ne erano anche altri in mezza Europa e financo a Roma – a Saccopastore, al Nomentano – dove pochi anni prima, come detto, ne erano stati trovati appunto altri due, e pure più antichi (70 mila anni b.p.). Questo di Grotta Guattari al Circeo, infatti, anche se solo di 51 mila anni b.p., oltre ad avere la regione fronto23

temporale destra fratturata presentava un allargamento artificiale del foro occipitale – il buco cioè dove la testa si attacca al collo – e soprattutto era inserito in un circolo di pietre, come mostrava il disegno a rilievo da lui fatto pubblicare. Ergo, secondo il Blanc si trattava di una chiara manifestazione di antropofagismo rituale da parte di un gruppo di neandertaliani ai piedi del Monte Circeo. Qualcuno – subito dopo la morte del legittimo proprietario – aveva artatamente allargato il buco occipitale del cranio per poterne prelevare più agevolmente il cervello e poterlo mangiare. Ma non solo. Questo qualcuno – al momento della definitiva deposizione, oppure forse anche prima – aveva disposto delle pietre tutto intorno al cranio, in modo da formare appositamente un vero e proprio «cerchio magico». Per il Blanc era impossibile che un cerchio siffatto si fosse prodotto da solo, per cause, diciamo così, naturali quali frane, alluvioni, fulmini o saette; o anche animali che, non volendo, avessero spinto delle pietre. E poi – sempre per caso e non volendo – c’era pure finito un cranio in mezzo, e con il foro occipitale allargato a misura? Era un po’ troppo per parlare di caso, secondo Blanc. L’uomo di Neandertal – Homo sapiens neanderthalen­ sis come era ancora chiamato a quel tempo – era peraltro considerato, e lo è stato a lungo, un parente molto stretto dell’Homo sapiens sapiens, cioè noi. Anzi, più che un parente è stato a lungo considerato una specie di nonno, un ramo genealogico da cui noi saremmo direttamente discesi, oppure con il quale ci saremmo fusi. Più della conformazione fisico-antropologica e della comprovata abilità tecnica – gli strumenti appunto di osso e di selce – 24

Mappa del Monte Circeo con le sue 31 grotte costiere e la Grotta Guattari (da A. Ascenzi, 1990-91).

era proprio nella sua capacità di produzione culturale-immateriale che risiedeva la presunzione di parentela stretta. C’erano già stati ritrovamenti di sepolture neandertaliane – circa una decina – in Francia tra il 1908 e il 190917 (altre sette sepolture neandertaliane sono poi state scoperte in Iraq, una in Uzbekistan e l’ultima a Kebara sul Monte Carmelo, in Israele, in cui «il corpo era stato deposto in una fossa, in posizione supina, con le mani accostate davanti al tronco. Lo scheletro appare in uno stato di conservazione particolarmente buono, ma il cranio non è stato ritrova­ to»18; qualcuno lo aveva stranamente staccato anche lì), ed il concetto di sepoltura implica già più di qualcosa, in termini di immateriale. Gli animali mica seppelliscono i loro morti. Solo gli umani lo fanno. Almeno su questo pianeta. Ma adesso – nel 1939 – questo «culto del cranio» al Circeo e quel «cerchio magico» divenivano l’anello di 25

congiunzione e la saldatura in spiritu tra lui e noi. Essi attestavano un’attività culturale assolutamente omologabile alla nostra, con ethos, eidos, organizzazione sociale, livelli comunicativi interpersonali e capacità di astrazione intellettuale, metafisica e religiosa tali da produrre appunto un culto dei morti con riti di deposizione e sepoltura. Da qui la nostra stretta parentela, talmente stretta da sfiorare l’identità, almeno in termini di software. Ancora pochi anni addietro difatti sopravvivevano – e forse da qualche parte sopravvivono tuttora – civiltà cosiddette primitive della Papuasia o dell’Amazzonia che praticavano lo stesso tipo di riti magico-religiosi. Quando moriva un anziano o valoroso parente – o anche dopo avere ucciso un fiero nemico – se ne mangiava magari tutti assieme, comunitariamente, il fegato ma soprattutto il cervello per assumere, mantenere e perpetuare all’interno del gruppo la personalità, i caratteri, il valore, l’intelligenza, la sagacia e la stessa essenza individuale (l’anima, diciamo così) del morto. Del resto ogni tanto le cronache danno ancora conto di qualcuno che pure nell’Occidente sviluppato continua a tenersi pezzi dell’amato/a in frigorifero per mangiarli poi con calma. Non è così raro. Ed anche il rito dell’eucaristia, alla fin fine non è che una sopravvivenza – la sublimazione – d’una più antica e stratificata pratica di antropofagismo magico-religioso: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, io sarò sempre fra di voi; fate questo in memoria di me». Per tutti questi motivi la scoperta fece scalpore, entrò nei manuali di storia di tutto il mondo – oltre che in quelli di paleo-etno-antropologia – e il Museo Nazionale Pigori26

ni fece del cranio il clou di tutta la sua esposizione. Ancora quando mia moglie ed io ci portammo i bambini alla fine degli anni Ottanta, aveva una teca per conto suo. O meglio, non c’era il cranio vero, c’era una sua copia, perché lui era troppo prezioso e andava conservato in cassaforte. Ma per quel facsimile di cranio c’era una teca apposita in una parete con tanto di cartelli e lui stava lì, dietro un cristallo, in mezzo al suo bel cerchio magico di pietre. Era la star del Pigorini, era ancora – in pompa magna – «il signor Cranio del Circeo» e ci venivano da tutto il mondo a vederlo e riverirlo. Mica lo sapeva lui che cosa gli stava di nuovo – tra capo e collo – per capitare.

Capitolo secondo

Nel 1989, io di tutte queste cose sapevo ancora poco o niente. Ero un operaio che lavorava in fabbrica e che durante il tempo libero, la cassa integrazione ed altre fortunate coincidenze s’era messo a scrivere romanzi – che nessuno pubblicava – e a studicchiare per conto suo. Avendo poi trovato due cocci, un muro, tre mattoni e quattro punte di pietra sulla terra di mia moglie e su quelle intorno, m’ero piazzato per un po’ di tempo in biblioteca comunale a cercare di capirci qualcosa ed ero poi andato in cerca – per saperne di più, ma anche per fargli vedere ciò che avevo trovato – degli archeologi. Dio ne scampi e liberi. Ma è a causa loro che all’età di quarant’anni – per non dargliela vinta – io quell’anno mi sono andato a iscrivere all’università e mi sono poi laureato. Era il 1989 ripeto, quasi trent’anni che era morto Blanc – 1960 – e cinquanta esatti da quando lui aveva scoperto il cranio del Circeo. Per festeggiare questo cinquantenario, le massime autorità scientifiche italiane, l’università eccetera organizzarono a Sabaudia dal 19 al 21 ottobre – nella caserma della ex Milizia Forestale – il grande convegno 29

internazionale di studi The Fossil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium (L’uomo fossile del Monte Circeo: cinquant’anni di studi sui Neandertal nel Lazio). Io passavo di là quasi per caso. Se non c’era la cassa integrazione non ci andavo. Ma non mi sono perso una parola. C’erano i maggiori studiosi di tutto il mondo, c’era pure la traduzione simultanea e non me ne è scappato uno. Com’è come non è, a un certo punto si presentò alla ribalta un americano, Tim D. White di Berkeley, a dire che lui e un amico suo – Nicolas Toth dell’Indiana – avevano studiato accuratamente il cranio in oggetto1, ed erano arrivati alla sconvolgente conclusione che allo stato delle cose non c’era nessunissima prova che le modificazioni prodotte sul reperto fossero in qualche modo imputabili ad attività umana («not implicate hominid activity»2). Anzi, a Grotta Guattari, 51 mila anni prima, quel cranio ce lo aveva portato una volgarissima iena. Loro ci avrebbero visto con il laser delle tracce – dei graffi – compatibili («consistent with»3) con quelli lasciati dai denti di detto carnivoro. Poi la grotta si sarebbe chiusa per un qualche smottamento – cause naturali comunque – e la situazione sarebbe rimasta inalterata fino al ritrovamento del 1939: «Ma sicuramente è la iena», disse White, «l’ultimo essere vivente che ha visto e toccato questo cranio più di cinquantamila anni fa»4. Il loro convincimento peraltro – diceva anche – era indiscutibilmente suffragato dall’analisi dei reperti fossili animali, provenienti dal paleosuolo e dai vari strati della grotta. Questa stessa analisi era stata fatta da un’altra americana, Mary Stiner dell’università di Albuquerque, che 30

ci aveva elaborato sopra la sua tesi di dottorato5. Fu lei che definì propriamente la Grotta Guattari come «tana di iene», animale che – oltre a cibarsene – farebbe per sua natura e software, raccolta e collezione di ossa esattamente come il cane che avevo una volta io, che si scavava le buche per nascondercele. Strumenti litici attestanti la frequentazione umana del sito stavano, difatti, solo negli strati più inferiori – quelli depositatisi molto più a ritroso nel tempo – ma poi, fino appunto alla deposizione del cranio e alla chiusura della grotta, tutte le ossa che stavano lì, ce le avevano portate le iene, punto e basta. Ergo – diceva White – quelle iene ci hanno portato pure il cranio: «La prossima volta che volete venire a parlare di cannibalismo rituale», disse a noi italiani, «cercate di farlo in maniera un po’ più seria, scientifica e rigorosa» («We suggest that other claims of ritualistic behavior in preanatomically modern hominid populations be assessed in a systematic, rigorous manner»6). Manca poco e ci prende pure a scappellotti. S’alzò subito la canizza. O meglio, non s’alzò proprio la canizza che mi sarei aspettato io: «Mo’ senti tu i nostri come se lo mangiano». Macché. S’incazzarono solo i vecchi. Il prof. Antonio Ascenzi dell’Accademia dei Lincei – anatomo e paleopatologo di fama mondiale, già scopritore del cranio di Ceprano e amico e collaboratore di Blanc – disse: «Non mi risulta che le iene o la natura si divertano a fare dei circoli di pietre per metterci dentro i crani». Anzi, lui irrise proprio White, ricordandogli che una volta – in uno di quegli incidenti che pure capitano di tanto in tanto 31

in ogni laboratorio che si rispetti – il cranio era caduto e rotolato per terra: «Magari nessuno glielo ha detto, e lei ha preso questi graffi per quelli della iena». Non fece un passo indietro, anzi, si arroccò sulla tesi del cannibalismo rituale sostenendo – pure tra qualche segno di dissenso degli ultras della iena – che la stessa estinzione dei neandertaliani potesse essere dovuta all’antropofagismo, e non, naturalmente, perché si fossero mangiati l’un l’altro, ma perché con tale pratica si sarebbero progressivamente contagiati tutti quanti di una subdola forma di encefalomielite, come riscontrato peraltro in una tribù di cannibali di Papua. Una specie di mucca pazza. Tutte queste considerazioni del prof. Ascenzi non compaiono però ora nel testo a stampa degli Atti di quel convegno7, ma io le ho sentite bene dalla tribuna – come ho sentito bene Marcello Zei, allievo di Blanc, e Aldo G. Segre, suo amico, specie nelle discussioni che fecero seguito alla relazione della Stiner – e le ho trascritte perché non avevo nient’altro da fare in quel periodo, stando appunto, diciamo, in cassa integrazione. Poi le ho messe da parte e nel 2006 – quando mi hanno fatto rincazzare – mi sono per fortuna ritornate buone. Mi ero già sfastidiato anche allora però, nell’89, perché a me questo White che arrivava fresco fresco dall’America a sputazzarci in testa – e a sputazzare su una nostra gloria patria come Alberto Carlo Blanc – non m’era tanto piaciuto, anche se lui era già noto come una vera autorità, avendo legato il suo nome alla classificazione dell’Austra­ lopithecus afarensis (meglio conosciuto come Lucy), ma avendolo anche legato alla rottura clamorosa tra il suo 32

scopritore, Donald C. Johanson, e l’équipe dei Leakey che gli avevano spianato la strada8. Soprattutto, però, non m’erano piaciuti i giovani leoni della paleontologia italiana. È vero che in Italia siamo abituati da secoli che appena arriva uno da fuori – specie se americano – subito tutti a fare l’inchino. Ma lì mancava poco gli facessero i cori – «Alè-oò, alè-oò» – a lui e alla iena. Roba da chiodi. Tanto che mi arruolai pure io – che non era mestiere mio, che non ne sapevo granché e non me ne importava neanche niente – a fare canizza insieme alla vecchia guardia: «E come vi permettete? Giù le mani da Carlo Alberto Blanc». La questione difatti non è se sia stata la iena anziché un uomo o un ominide – come preferisce chiamarlo White – ad allargare quel buco di cranio per mangiarne il cervello. Che me ne fregava a me? La questione è che quel cranio – con il buco allargato – tu lo hai trovato dentro un cerchio di pietre. È a questo che mi devi dare la risposta: all’«insieme», non a un singolo componente dell’«insieme», tralasciando tutto il resto. Chi ce le ha messe, allora, quelle pietre là intorno? White – per quel che lo riguardava – se l’era sbrigativamente cavata dicendo: «Ah, io del cerchio di pietre non parlo perché per me non esiste nessunissimo cerchio» («The circle of stones [...] is not a circle at all. It is an irregu­ lar cluster of stones that is not diagnostically man-made»9). Ma le facce e i risolini di tutti i fans suoi e della iena – durante la pausa del convegno – non lasciavano adito a dubbi. Nessuno peraltro si sbilanciò d’un dito dalla tribuna – anzi, dalla tribuna era un continuo sminuire: «Ma dov’è il 33

problema? Non c’è proprio nessun problema» – ma appena tornavano in platea, le tirate di gomito facevano fumo. Dice: «Vabbe’, ma che ragionamenti sono? È chiaro che quando ammazzi un Rex Nemorensis10 come Blanc (pure se Blanc in realtà era già morto da un pezzo), è sempre meglio tentare di salvare capra e cavoli. E mica siamo micchi». Certo, non fa una piega: qui si trattava di schierarsi con le truppe d’occupazione americane senza dover per questo andare a scoperchiare i nostri cimiteri, con il rischio di far incazzare e inimicarsi i pochi vecchi ancora vivi ma che pure ancora contavano nel mondo accademico. La gente – come si suole dire – mica cià scritto Giocondo in fronte. In ogni caso, quello che sembrava unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso del partito italiano della iena era il prof. Giacomo Giacobini dell’università di Torino, che non faceva appunto che cadere dalle nuvole: «Ma quale cerchio? Non c’è nessun cerchio, non c’è mai stato». Era un anatomopatologo – o roba di questo tipo – sulla quarantina, alto, capelli scuri e fluenti, piglio sicuro, efficiente ed efficace. E diceva esattamente come White – ma con molte più parole, facendone l’esegesi e rispiegandolo più e più volte al volgo – che quel cerchio in primo luogo non somigliava poi tanto a un cerchio e che, soprattutto, della roba così se ne trova quanta ne vuoi in natura, mica è detto che ci voglia per forza la mano dell’uomo; può essersi benissimo formato da solo per cause naturali, e sempre per cause naturali c’è finito dentro il teschio, tra le pietre, magari trasportato dall’acqua nel corso d’una alluvione. 34

Detta così – e detta come la diceva lui però, col tono tranquillo e la faccia sicura di chi sta proclamando la più evidente verità – uno che fosse passato di lì senza sapere di cosa si stesse parlando, davvero avrebbe detto: «Ma chi lo ha detto che è un cerchio? Ma voi siete proprio matti. Ma roba così, sai quanta se ne trova per la strada?». In verità però, e non avendo per tutta la loro vita fatto altro che scavare, tutti gli archeologi che erano lì (c’era, tra gli altri, anche la Annalisa Zarattini11) sapevano – e quelli di una certa età lo dicevano pure, anche se lontano dal podio – che un cerchio di pietre siffatto non si trova in natura: «Io non l’ho mai trovato», dicevano tutti. Per quel che riguardava me, invece, il mio mestiere non era – e non è – il paleontologo o paleoantropologo. Io, lì, ero solo un dilettante. Il mio mestiere vero però – che è poi anche l’unico che abbia sempre saputo fare con una certa qual precisione, fin da piccolino – è sempre stato il rompicoglioni e quindi li ho messi in croce con questa storia del cerchio: «Chi ce le ha messe allora, intorno al cranio, quelle pietre? È stato Blanc?». Una persecuzione (per la verità, gli Atti di quel convegno12 non rendono anche qui – riportando due soli assalti – piena giustizia al mio vigore giovanile. Ma gli Atti, si sa, sono sempre così, tendono a stemperare). Giacobini però non ci fu verso di prenderlo in castagna, sgusciava come un’anguilla – un trapezista sul filo – non avrebbe parlato neanche a Guantanamo: «Ma quale cerchio? Non c’è nessun cerchio». Ma White no. White l’ho stretto all’angolo e all’ultimo assalto in francese durante una pausa – «Ma allora, secondo lei, quel 35

cerchio di pietre lo ha fatto Blanc?» – White ha risposto anche lui in francese, ma senza tentennamenti e con un sorrisino di sguincio: «C’est un problème d’histoire irreso­ lu» (È un problema storico irrisolto), e chi vuole capire capisce. Non «il problema non esiste» quindi, bensì «il problema è irrisolto», cioè sta ancora là, secondo quel sorriso: non ha trovato risposta. O meglio: l’avrebbe trovata ma è meglio non dirla. Ora però – lasciando pure perdere i sorrisi, perché i sorrisi di per sé non fanno scienza – quello che conta è il «C’est un problème d’histoire irresolu», un mistero non risolto, almeno da lui, perché anche per lui, evidentemente, quel cerchio è incompatibile con la iena. Cerchio e iena fanno a cazzotti. Per me comunque la questione era finita lì, nel 1989. Il convegno s’era chiuso con una specie di pareggio, coi vecchi che continuavano a tifare per Blanc e per il cannibalismo – anche se non più come certezza scientifica oramai, ma solo come ipotesi o congettura – e i giovani per la iena. Due tesi come tante, amen. Certo a me rodeva per le questioni di metodo, per le incongruenze, i non detti, le aporie; ma mica facevo il paleontologo ripeto, mica era mestiere mio. Andassero quindi dove meglio volevano, sia loro che le iene che l’uomo di Neandertal. Che me ne fregava a me di tutti e tre? E per diciassette anni mi sono fatto i fatti miei. Quando è stato però l’anno 2006 – diciassette anni dopo, ai primi di ottobre – e ho letto sul giornale che facevano un nuovo convegno, m’è preso un colpo: «Eh, ma allora no». 36

Si riunivano di nuovo, questa volta, per festeggiare il 150° anniversario della scoperta in Germania dei primi resti fossili dell’uomo di Neandertal – il compleanno, insomma – ma nel comunicato stampa si faceva esplicito e dettagliato riferimento a quel precedente convegno del 1989 in cui, secondo loro, era stata «dimostrata, da par­ te di alcuni studiosi americani, la tesi sull’origine animale dell’allargamento del forame occipitale del cranio neander­ thaliano del Circeo. Venne così rivista la teoria della cere­ brofagia rituale (asportazione del cervello per riti magici) dell’illustre paletnologo A. Carlo Blanc, del quale proprio quest’anno ricorre il centenario della nascita»13. «Oh porca paletta», ho detto io: «Cent’anni di Blanc, centocinquanta di Neandertal e diciassette di iena tutti assieme? Che ti venga la peronospora della vite: tu mica puoi mettere la iena e Blanc sullo stesso piano. Li festeggi tutti e due?». Non si può fare, perché se quel cranio ce lo ha portato la iena, allora le pietre ce le ha messe Blanc: non si scappa, o Dio o Mammona dice pure il Vangelo, non tutti e due assieme. Tutti e due insieme – il vero e il falso, il diavolo e l’acqua santa – ce li può mettere un politico o un romanziere, non uno scienziato. Comunque ci sono riandato (dice: «Ma non hai proprio niente da fare?». Ahò, io sono così: quando mi piglia, mi piglia). Era il 21 e 22 ottobre 2006 a Sabaudia. White non c’era e non c’era nemmeno la Annalisa Zarattini, un’altra partigiana nostra del Fnl anti-iene che era adesso soprintendente in Calabria14. C’era però Giacobini – il líder maximo del partito italiano della iena – e ha tenuto lui la relazione introduttiva15 dicendo, in pratica, che l’altra 37

volta il convegno aveva stabilito una volta per tutte che era stata la iena, che il cannibalismo rituale neandertaliano era solo un mito destituito d’ogni fondamento scientifico e che Blanc, poverino, s’era sbagliato ma non era colpa sua, era colpa del tempo, perché a quel tempo era facile credere ancora ai miti e lui s’era fatto ingannare da quella specie di cerchio, che poi non era un cerchio vero perché lui – Giacobini – di cerchi fatti così, naturali, ne aveva visti almeno altri quattro o cinque nella stessa Grotta Guattari. Io mi sono alzato e ho detto sostanzialmente, ma con i calmi e dovuti modi educatissimi che mi contraddistinguono da sempre: «Ma che stai a di’? Il convegno dell’altra volta mica è andato come dici tu, che avrebbe stabilito, deciso, neanche una voce in contrario? Ci furono discussioni a non finire. Il convegno non stabilì niente. C’era una tesi, quella della iena, e ce n’era un’altra, quella di Blanc e del cannibalismo, sostenuta in particolare da Ascenzi e da altri». Lui, Giacobini: «Ah, io non mi ricordo». «Ma mi ricordo io però: Ascenzi si faceva reggere!». E lui, il professor Giacobini, che ha risposto? Ha risposto: «Vabbe’, ma non fa niente. Quello che conta è che da allora a adesso tutta la comunità scientifica è oramai unanime e concorde che è stata la iena». Tu hai capito? Mo’ lascia perdere che nel frattempo la vecchia guardia è morta – è morto Ascenzi, è morto Zei, Radmilli, eccetera – quello che conta, secondo loro, è che oramai i vivi sono tutti d’accordo. Ma ti pare, a te, che la scienza si possa fare a votazione? Un domani che trovo i voti e raggiungo la maggioranza, la Terra – se voglio – 38

non è più rotonda ma piatta? Proprio come ai congressi di sezione del Psi quando ero giovane, che chi aveva più tessere vinceva? Ma non solo. Dopo che al convegno del 1989 (il primo) era mancato poco che ci uscissero le coltellate – Zei non ci dormì la notte, o almeno così disse16; gli si accorciò la vita a quelli là – tu te ne esci adesso che quella volta invece sarebbe stata secondo te una specie di pranzo di nozze, con lo stuolo degli invitati che si abbracciavano e ridevano cantando tutti insieme in coro intorno alla sposa: «Viva la iena»? Ma per piacere, va’. Vedi dove devi andare. Comunque, fatto sta, a questo nuovo convegno del 2006 tutta la platea – specie i giovani studenti ed i ricercatori di novella acquisizione – era oramai tutta gente superconvinta della iena. Guai ad andargli a parlare di cannibalismo rituale o antropofagismo magico-religioso. Ti ridevano appresso. Ti pigliavano per matto. E infatti lì il matto l’ho fatto solo io; c’è stato in verità anche un altro che non conoscevo ma che poi è uscito fuori che era un geologo – il prof. Roberto Mortari, uno scienziato vero, non un dilettante come me – che pure lui sosteneva che un cerchio di pietre siffatto non si trova da solo in natura. Ma fatta eccezione per questo Mortari e me, non c’era un solo giovane che osasse parlare o pensare anti-iena. Anzi, ci guardavano proprio come fossimo gli scemi del villaggio. Del resto siamo seri: ma se qualcuno di loro si fosse presentato all’università a parlare di cannibalismo, e quando glielo davano un dottorato? Eri buono tu a laurearti o a diventare ricercatore. Ti cacciavano con la scopa. Lì oramai erano diciassette anni che pure i muri ripetevano 39

tutti i giorni che la iena è verità scientifica e che l’aveva conclamata come tale – senza nessunissima discordanza, neanche una sola voce contro – proprio quel cavolo di convegno in cui, invece, la gente s’era scannata e non ci aveva più dormito la notte. Però, come si sa, a furia di ripetere all’infinito – come La vispa Teresa – un’opinione anche sbagliata, spesso alla fine questa opinione diventa verità. La cosiddetta doxa si muta in aletheia. Dice: «Ma questa non è scienza». Ho capito, ma che ci posso fare? Al Museo Pigorini – roba appunto che uno dice: «Non ci posso credere» – hanno sbaraccato tutto quanto. Mica c’è più la nicchia apposita – la parete vetrata – con tanto di cartelloni e Cerchio di Pietre con Cranio del Circeo già gloria mondiale del museo nazionale nostro che avevo fatto vedere a suo tempo ai miei figli. L’hanno levata, e il cranio lo hanno sbattuto in un angoletto – «Vaffangoogle, va’» – insieme a tanti altri crani qualunque, senza manco più le sue belle pietre attorno. Le pietre le hanno proprio nascoste – se ne vergognavano evidentemente: «Chissà che dicono sennò gli americani» – ma non le hanno buttate come pure a un certo punto avevo creduto, le hanno chiuse in magazzino. Ma di cannibalismo rituale neanche più una parola al Pigorini – «Manco ai cani!» – anche se questo ha comportato un vero e proprio declassamento del museo, altro che la Juve quando andò in serie B. Prima – in tutto il mondo – tu eri «Il Museo del Cranio del Circeo». Adesso chi sei? Il museo destocazzo. E nella didascalia, che pure sta appesa al muro in quell’angoletto in cui oramai seminascosto giace il povero cranio nostro nean­dertaliano 40

del Circeo – o meglio, il suo calco – insieme a tanti altri anonimi e poveracci crani come lui, c’è scritto: «Nuovi studi dettagliati sui fossili Guattari-1 e Guattari-2 [hanno] dimostrato, data l’assenza di interventi umani sul reperto, l’inconsistenza delle ipotesi di cannibalismo rituale avanza­ te al tempo della sua scoperta. La paleosuperficie, rimasta intatta per oltre 50.000 anni, costituisce un documento uni­ co ed eccezionale dall’aspetto estremamente suggestivo». È questa didascalia però – ancora più dell’articolo di White – che rende esplicito il carattere di congettura e di assoluta, al momento, indimostratezza scientifica della teoria della iena. Non si fa difatti alcun riferimento a presunti segni lasciati sul cranio dai denti del carnivoro. Anche in White, peraltro, non era esattamente a questi segni che ci si attaccava. Lui difatti diceva che ce ne sono sì, alcuni, che «potrebbero anche essere di iena» («are consistent with carnivore damage [...]. It is possible that this endocranial damage was also carnivore induced»17), ma che soprattutto non ci sono i segni di manipolazione e/o attività umana o ominide su quel cranio: «All traces of ho­ minid modification to the cranium are recent [...] shows no evidence for hominid modification»18. Ovvero, non è tanto la presenza o meno di segni eventuali di iena, ma quanto l’assenza di segni umani a certificare – secondo loro – la presenza della iena, giusto quanto recita appunto il Museo Pigorini: «data l’assenza di interventi umani sul reperto». Lui – il museo – i segni di iena che avrebbe visto White manco li prende in considerazione (ma anche White del resto dice espressamente che l’evidenza ienica non è poi a prova di bomba: «The evidence for carnivore modification 41

to the cranium is strong, but not unequivocal»19). Per il museo ciò che conta – ma pure per White – è che White non ci ha visto i segni «di interventi umani». Io adesso non lo so quello che ha visto o non ha visto White. Lui dice che ha guardato con il laser e che c’erano dei segni che gli sembravano di iena. Io – per come sono fatto io – mi sentirei pure di dire che non vedo perché gli dovrei credere. Lui non crede a Blanc e io debbo credere a lui? E chi sei, il pastorello di Lourdes? Per me può avere visto quello che gli pare, ma se fossi un paleontologo, e soprattutto un paleontologo serio, mi ci rimetterei io a scrutare con il laser, con l’elettrosincrotrone e pure con la palla di vetro del mago Otelma per vedere per davvero quello che ci ha visto lui lì sopra. Perché gli debbo credere sulla parola? Vaglielo a chiedere ai Leakey se gli credono. (In realtà, un paio d’anni dopo ci si sono rimessi ben bene anche quattro italiani20, finendo per non escludere del tutto – pur ritenendola improbabile – l’ipotesi del cannibalismo: «L’assenza della prova non costituisce, di per sé, la prova dell’assenza di intervento intenzionale»21. Loro, difatti, avevano registrato anch’essi «l’assenza di mi­ croconfigurazioni riferibili a manipolazione intenzionale»22 – e la cosa valeva anche per la frattura della regione fronto-temporale destra, che Blanc aveva attribui­to ad azione sicuramente volontaria e che per loro invece poteva addebitarsi pure a cause naturali quali cedimenti delle pareti ossee durante la giacitura del cranio – ma d’altra parte avevano pure contestualmente certificato che «la presenza di tracce di attività di questi carnivori [le iene, NdP] è stata ricercata con particolare attenzione, senza che tuttavia siano 42

stati riscontrati segni di denti o altre evidenze di intervento animale»23 sul cranio. Match nullo quindi. Verdetto di parità. Diverso sarebbe stato – dicono loro24 – se come prova indiretta dell’intervento umano si fosse potuto accettare il «cerchio di pietre»; nel qual caso allora non solo avrebbe ripreso pieno credito la cerebrofagia rituale, ma anche la frattura della regione fronto-temporale si sarebbe potuta ricondurre, giusto quanto diceva a suo tempo Blanc, ad un’azione violenta come causa della morte del soggetto. Ma il cerchio – e soprattutto la sua autenticità – è sub iudice e quindi non conta. Che ci vuoi fare?) Sia però come sia, qui quello che conta è proprio ciò che White – ma anche, con tutto il rispetto, gli italiani dopo di lui – dice di non averci visto su quel cranio, e cioè i segni di attività umana od ominide che ci dovevano stare e invece non ci stanno. Dice: «Vabbe’, ma lui che c’era andato a cercare lì sopra: Maria per Roma, per caso?». Ah, non lo so.

Capitolo terzo

Prima di mettersi a ponzare con tutti i crismi sul cranio neandertaliano nostro del Circeo, il nordamericano Tim D. White era andato preventivamente a guardarsi la collezione di crani conservata all’università La Sapienza di Roma. Queste cento capocce sono di epoca moderna – vecchie al massimo di uno o due secoli – ma provengono tutte dalle tribù antropofaghe della Melanesia; erano «trophy crania», come dicono gli istruiti. La stessa cosa peraltro aveva fatto a suo tempo anche Blanc1, ma improvvidamente secondo White, perché lui, Blanc, li aveva voluti usare – a torto – come dimostrazione per via comparativa del rito antropofagico del Circeo. Al momento – però – a noi di ciò che pensasse Blanc di questa collezione non ce ne frega niente, e tanto meno ci frega delle sue comparazioni. A noi interessano solo, da un lato: il cranio, il foro e il cerchio di pietre che ha visto Blanc; dall’altro lato i segni che ha visto o non ha visto White sul cranio nostro neandertaliano. White, studiando accuratamente quelli della Melanesia, avrebbe appurato che mostravano ancora – tutti – i segni 45

di pulitura, spianatura, levigatura, lustratura, lucidatura o quello che vuoi tu: «Prolonged handling and curations of these trophy crania have led to the specimen exhibiting a continuum of degree of polish (smoothing of bone surfa­ ces)»2, poiché quelli erano difatti crani che, nella Melanesia di età moderna, dopo la avvenuta decollazione e il rituale pasto, gli oramai legittimi nuovi proprietari erano soliti esporre gloriosamente dentro casa come trofei. Settantasette di questi crani su 100, inoltre, conservavano nelle regioni fronto-parietali i segni della scalfittura ed incisione derivanti dall’azione dello scotennamento («defleshing and scalping activities»3). In 46 su 100 l’allargamento del foro occipitale per l’estrazione del cervello aveva lasciato all’interno del cranio frammenti (flakes) di osso derivati dall’azione di rottura4. Su molti («many»), infine, era possibile osservare pitture a disegno geometrico di colore rosso, bianco o nero («black, red, or white pigments»5). Firmato: White. È per tutti questi motivi quindi che – non avendo potu­ to riscontrare nessunissima di queste condizioni sul cranio del Circeo («no evidence of polish, no cut or scraping ­marks, no peeling [...], no adhering flave»6) – sarebbe secondo loro scientificamente dimostrato che non è stato l’uomo di Neandertal ad allargare quel buco ma, pertanto, molto più probabilmente una iena: «does not implicate hominid activity, but is rather more likely attributable to carnivore action»7. Bene, tu adesso mi devi dire se per questo po’ po’ d’argomentazione, uno si può mettere a smontare un museo. Ma quello andava preso a fischi, altro che a fargli la ola 46

come a Francesco Totti: «Torna in panchina, va’». Tu mi devi dire come fai a presentarti su un cranio di 51 mila anni fa e pretendere di volerci trovare – come segno di Zorro – lo stesso imprinting della Melanesia del secolo scorso. Ma un po’ di conti con gli anni non te li sai proprio fare? Gli ipercritici – la new archaeology, quelli che spaccano il capello in quattro e che analizzano all’elettrosincrotrone la struttura subatomica della singola molecola di qualunque manufatto, senza però volersi mai azzardare a mettere il manufatto stesso in relazione non solo con il resto del creato ma proprio con la persona che lo ha prodotto e realizzato – questi contestano normalmente la correttezza e legittimità del metodo comparativo se lo usi tu, pro domo neandertaliana: «Tu non puoi da uno strumento inferire una cultura, perché tu così cadi preda della maligna analogia, quando quel che conta è solo la distinzione». E poi si presentano loro a fare le comparazioni adversus? A favore no – «Non si può usare il metodo comparativo» – contro invece sì? Allora diventa buono e giusto? E tra adesso e 51 mila anni fa? Ma vaffallippa va’, ma che ti dice la capoccia? È chiaro che su quei crani della Melanesia tu hai trovato la levigatura: quelli se li lucidavano tutti i giorni con la pietra pomice. Dice: «Ma ci ho trovato pure i segni dello scotennamento». E vorrei vedere. Il melanesiano se li doveva tenere dentro la capanna quei teschi, perché appena arrivava un ospite gli doveva poter dire: «Guardi qua, l’altro mese me ne sono pappato un altro». Status symbol. Ma chi ti ha detto che anche il neandertaliano dovesse fare la stessa cosa? 47

Quello è andato nella grotta, s’è mangiato il cervello – prima o dopo d’entrare non lo so, e nemmeno so se era da solo o in compagnia, e se il cranio era d’un nemico o d’un parente – ha fatto il cerchio di pietre, ci ha messo il cranio dentro (non so se ha pure detto le preghiere, cantato, ballato, fatto una canna), dopodiché ha sbarrato l’ingresso, ha buttato la chiave e se ne è andato. Lì dentro non ci è più entrato. Non so se ogni tanto ci tornasse davanti a ridirgli le preghiere e a portarci i fiori o i ragazzini in processione come alla tomba di padre Pio, però lì dentro non ci è entrato più. Ergo: quel cranio non lo aveva staccato per farne un trofeo da esibire agli amici, ma per riporlo «religiosamente» nel profondo della terra; anzi, «nel profondo della montagna» per esattezza. Lo ha tumulato. Nascosto. Riposto dentro una grotta. In un sepolcro. Perché avrebbe dovuto lucidargli la capoccia e dipingerla coi fiorellini rossi come vorresti tu? Mica lo doveva tenere sul comò. Dice: «Ma non ci stanno i segni dello scotennamento». Embè? E perché – se io per la religione o cultura mia debbo solo mangiare il cervello a uno e poi seppellirne il cranio – io gli dovrei per forza levare prima lo scalpo? Io gli cavo da sotto la coccia il cervello e me lo mangio tranquillo tranquillo lasciandogli pure tutti quanti i capelli. Che te ne frega a te? Che fai, il barbiere? Che bisogno ho io di levargli i capelli e fargli le pitture sopra, se non me lo debbo portare appresso come un trofeo, ma lo lascerò appunto invece là dentro per omnia saecula saeculorum? E che mi significa poi, a me, che tu in 46 crani su 100 hai trovato «adhering flave» e in quello mio del Circeo invece no? Innanzitutto le hai trovate solo in 46; gli altri 54 – la 48

maggioranza – stanno a pari e patta con il mio. E poi che ne sai di quali fossero le mie tecniche? Magari ero più bravo del melanesiano a spaccare crani, lasciavo meno segni – o segni diversi che tu non sai ancora riconoscere – e soprattutto non lasciavo flakes d’osso; pulivo tutto, mangiavo tutto quanto. Che ne sai di com’erano le tecniche di 51 mila anni fa? O è come la Melanesia oppure – per te – non è mai stato? Che razza di comparazioni fai? Ma tu allora davvero andavi cercando il segno di Zorro che avevi deciso preventivamente tu nella tua testa. Ma quello al Circeo non lo potevi trovare. Quello sta solo a Hollywood. Insieme al sergente Garcia. Ma è come se io ti portassi un bidè – che tu in America non lo hai mai visto – e tu dopo lo andassi a comparare con una doccia: «No, ho scientificamente provato che questa cosa che in Agro Pontino chiamate bidè, non può venire usata dall’uomo e quindi deve appartenere per forza a un’altra specie animale, forse la iena, perché noi in America ci laviamo con la doccia». Ma che me ne frega a me di come tu ti lavi in America? Portamelo tu, a questo punto, il filmino di una iena che si fa il bidè. E dopo io ti credo. Esattamente come Ascenzi che avrebbe proprio voluto vedere una iena che si divertiva «a fare dei circoli di pietre per metterci dentro i crani»8. Dice: «Vabbe’, però quella rimane una tana di iene». Embè? E che significa? Certo che era una tana di iene, e chi lo nega? La Stiner9 aveva analizzato uno per uno i reperti fossili animali provenienti dai vari strati. Lo scavo in realtà – e la relativa stratigrafia – era stato fatto nel 1950 da Blanc, Segre, Radmilli ed altri10, e aveva interessato una trincea che, percorrendo tutta la grotta fino all’Antro 49

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dell’Uomo, finiva per occuparne non più del 25 per cento, restando tuttora gran parte della superficie, quindi, stratigraficamente inesplorata. La Stiner ha però tirato fuori dai magazzini tutti i fossili archiviati da Blanc e soci e li ha studiati uno per uno con gli strumenti più moderni, che nel 1950 naturalmente non c’erano. Ora lasciamo perdere che sembrano essersi volatilizzate le ossa di ippopotamo che pure c’erano nel 195011. Qui dell’ippopotamo non ce ne frega niente. Chissà che fine ha fatto, in giro per i magazzini. Resta però che tutte le rotture presenti nelle ossa animali – dal bue primigenio al cervo, al rinoceronte, al cavallo, all’elefante antico, eccetera – che erano state attribuite nel 1950 all’azione di macellazione e taglio dei primitivi cacciatori, risultano in realtà, alla microscopia elettronica a scansione, derivate dall’azione di un carnivoro, la iena appunto. E fin qui non c’è niente da dire. Ergo, per un certo periodo – circa 70 mila anni fa, come attestato dal materiale litico presente in quantità negli strati più profondi – l’uomo ha frequentato la grotta come abitazione o riparo saltuario, ma poi l’ha abbandonata ed è divenuta tana di iene; le quali hanno continuato ininterrottamente, fino alla chiusura, a portarci ossa che mano mano si depositavano, stratificandosi, su tutto quello che c’era sotto. In paleosuperficie, o quanto meno sulla superficie nominata come tale, ci sono solamente: a) ossa portate da iene; b) questo cranio col cerchio di pietre; c) quasi nessun segno umano, solo «pochissimi strumen­ ti litici»12. 51

Industria musteriana in quantità – ritrovata negli anni Cinquanta da Radmilli – è invece presente all’esterno della grotta. All’esterno però, ripeto. Il ragionamento loro è quindi che – se quella era una tana di iene e l’uomo non la frequentava più da migliaia d’anni – è evidente che pure quel cranio, come tutte le altre ossa che già ci si erano riposate, pure quel cranio non ce lo può avere portato che la iena: lo ha trovato in giro e se lo è venuta a rosicare con comodo a casa. Poi c’è stata una frana che ha occluso gli accessi e non ci è più potuta entrare neanche lei: «Tutto qua», dicono gli ienofili. Ora però si dà il caso che la Stiner non finisse di parlare che saltassimo subito in due o tre a dire: «Ma scusi, lei come fa a sostenere che sia stata una frana e proprio così all’improvviso a chiudere la grotta? La iena porta il cranio, lo mette dentro un cerchio di pietre e poi cade la frana? Come fa a escludere che la grotta possa essere stata chiusa dall’uomo?». «Sì, la cosa in effetti non si può escludere del tutto», dovette ammettere la Stiner. E allora anche Aldo G. Segre – grande geologo, già amico e sodale di Blanc – scese in campo, di fronte a questa ammissione. E gli brillavano gli occhi – o almeno fu nostra impressione – mentre collegava, anche se in via ipotetica, questa possibile occlusione volontaria della grotta da parte di uomini al precedente rito di deposizione craniale e la chiamava, sardonicamente, «sepoltura», e chiedeva lui a lei cosa ne pensasse (pure di questo, però, negli Atti non c’è traccia; chissà perché gli Atti scritti dei convegni debbono per forza togliere lo 52

smalto alla registrazione dal vivo). Intervenne pure la moglie di Segre, Eugenia Naldini. Radmilli invece al convegno del 1989 non c’era ma a Giacobini disse, un paio d’anni dopo, in un’altra occasione: «Anche allorché la cavità era divenuta poco praticabile e scomoda per il riempimento, voglio ricordare che la zona venne frequentata a lungo dai cacciatori neandertaliani co­ me mi è stato possibile accertare con lo scavo fatto all’ester­ no (negli anni Cinquanta, NdP), nel detrito di falda, dove resti ossei di animali e industria si rinvengono in tutta la formazione. Non vedo pertanto il motivo perché l’uomo non possa essere penetrato per l’espletazione di un rito»13. Sia però ben chiaro che lì, in sito, l’azione di frane è più che evidente; ma sono passati pure 51 mila anni da quando ci è capitato quel cranio. E in 51 mila anni sai quante frane ci possono essere state? Vai a decidere tu quella buona: se il giorno stesso o un anno, cento, mille anni dopo. Come fai a dire che appena è uscita la iena – col cervello ancora in bocca – zàcchete, è caduta la frana? E chi c’era, il Tg5? Quello che però è certo è che – deposto quel cranio – la grotta si è chiusa e per 51 mila anni, fino appunto al 24 febbraio 1939, non ci è entrato più nessuno, né iene e né cristiani. Questo è un dato di fatto, poiché il cranio non sta – o meglio, non stava nel 1939 – dentro uno strato, assieme ad altri reperti depositatisi nello stesso periodo suo. Lui sta sopra, in cima a tutto. Fa strato a sé. È l’ultimo oggetto introdotto nella grotta dopo una serie ininterrotta di deposizioni succedutesi per migliaia d’anni. Per migliaia d’anni quindi, dall’uomo o dalla iena, lì è stata portata 53

Dettaglio stratigrafico del sito «Antro dell’Uomo». R, calcare di base (da A.G. Segre 1949).

Veduta frontale del sito della Grotta Guattari: A, scarichi di cava e di costruzione; B, sito della piccola casa distrutta e in seguito sostituita da grandi immobili; C, ingresso scavato durante i lavori nella cava (1938); in, probabile ingresso naturale ostruito da frane antiche; D, parte anteriore del taglio della cava, sezione parziale del cono-scarpata che ha chiuso l’ingresso della grotta; F, roccia della collina; G, suolo dell’Olocene (da A.G. Segre 1949).

roba che si è accumulata l’una sull’altra e poi solo alla fine, 51 mila anni fa, è stato portato il teschio. Dopo di lui più niente, si è chiusa la grotta: non ci sta nient’altro attorno o sopra a lui ed al suo cerchio di pietre, solo le concrezioni calcaree coralliformi prodottesi in questi ultimissimi 51 mila anni. A te non pare un po’ strano – sempre per ricitare Ascenzi14 – che una iena all’improvviso, dopo migliaia e migliaia d’anni che s’è portata solo animali, un giorno finalmente si porta a casa un cranio umano, gli allarga il foro occipitale per mangiarsi il cervello esattamente come fanno anche i cannibali (e fin qua non ci sarebbe ancora molto di strano), ma poi ci fa un cerchio di pietre intorno, ci lascia cadere il cranio dentro e in quel preciso medesimo istante scatta la frana e viene giù tutto il Circeo come nell’Isola misteriosa di Jules Verne? E chi era, Capitan Nemo quella iena? Non ti pare che ci sia pure qualche casualità di troppo, per potersi parlare solo di casualità? Io però, con questo, non è che abbia tutte e solo certezze in testa e pure a me ogni tanto viene qualche dubbio – «Hai visto mai?» – soprattutto andando a Grotta Guattari e rendendomi conto de visu delle difficoltà dell’accesso. Oggi ci entri abbastanza agevolmente poiché lo fai nella trincea «Blanc-Segre» del 1950. Epperò vedi bene le tracce dei sedimenti alluvionali che già prima della chiusura abbassavano sensibilmente la luce – ossia l’altezza – dei cunicoli d’accesso. E allora pensi che magari davvero non potesse trattarsi d’altro che d’una tana di iene perché gli uomini – per entrarci – avrebbero potuto farlo solo carpo55

ni, strisciando quasi. Forse l’hanno abbandonata – dopo quel primo e più antico periodo di frequentazione 70 mila anni b.p. – proprio in seguito a questo sollevamento del piano d’accesso, dovuto ad altre frane, depositi o alluvioni. Comunque, guardandolo, dici pure tu, certe volte, insieme a loro: «Chi glielo faceva fare a strisciare fino qua? Io non ci sarei venuto, è chiaro che l’hanno lasciata completamente alle iene questa grotta». Ora però si dà il caso che – fermo restando che oramai non fosse divenuta nient’altro che una tana di iene – sono loro stessi, Giacobini e soci, a dire che qualche cristiano (nel senso di uomo od ominide) lì dentro pure ci è entrato, mica solo la iena. O meglio, probabilmente Giacobini voleva dire il contrario, voleva escludere la presenza e frequentazione umana – o sminuirla, rispetto a quella della iena – scrivendo: «D’altra parte, pochissimi strumenti litici sono stati raccolti sulla paleosuperficie»15. Io a dire il vero non ho capito bene se questi «pochis­ simi strumenti litici» li abbia trovati lui, Giacobini, o li abbia già trovati a suo tempo Blanc16 e, soprattutto, quanti essi siano con esattezza. Michelangelo La Rosa della Fondazione Marcello Zei dice «tre o quattro». Giacobini in un altro testo scrive: «It must be stressed that stone implements were extremely scarce (estremamente scarsi, NdP) on the paleosurface»17 ma aggiunge poi, contestualmente, che nella campagna di ricognizione del 1989 «only one flint implement (a sidescraper) was observed on the ground (main chamber)»18. Prima è al plurale e poi al singolare: «uno strumento solo – un raschiatoio – è sta­ 56

to osservato sulla superficie della camera principale». Ora è chiaro che se in quella grotta ci fosse stato un cazzabubu solo, a nessuno sarebbe venuto in mente di dire «pochissimi» o «estremamente scarsi», diceva «uno solo» e basta. Se hai detto «pochissimi» è perché sono comunque più di uno. Fermo restando quindi che ci piacerebbe pure sapere quanti siano in tutto questi strumenti, non vorremmo che alla fine uscisse fuori – se quell’unico e solo stava nella camera principale – che tutti gli altri stessero proprio dentro l’Antro dell’Uomo. Ma sai le risate che mi faccio? Mi spiego meglio. Fermo restando che la quasi contestuale frequentazione dello stesso sito da parte sia di umani che di carnivori (iene) è comunque già attestata in letteratura19, fossero quattro, tre, due – o anche uno solo – questi «pochissimi strumenti litici» di Grotta Guattari sono il vero segno di Zorro che andava cercando White. E invece lo ha trovato Giacobini, perché stanno sulla stessa paleosuperficie in cui sta il cranio. Non nel sedimento. Attestano quindi che hic et nunc – nella stessa facies temporale in cui nella grotta oramai divenuta «tana di iene» viene deposto il cranio – hic et nunc in quella stessa grotta sono entrati dei cristiani (a meno che anche gli strumenti litici non vengano fabbricati o trasportati da iene. Che ne sai? Magari a Hollywood può pure essere). E che ci sono andati a fare allora quei cristiani – anche in uno, due, tre, quattro o quanti fossero, magari per una volta sola e strisciando pure nel cunicolo – in una tana di iene? Questo me lo devi dire tu. Io, per quanto mi riguarda, una volta che, essendomi morto per qualunque ragione un amico o parente saggio e 57

valoroso, avessi deciso di volerne onorare la memoria – e soprattutto perpetuare attraverso l’ingestione del cervello la comunione con lui e la sua benigna immanenza su di me, sui miei luoghi e sulla mia famiglia e tribù – il cranio dopo, secondo te, dove lo vado a seppellire? Me lo tengo in giro per la caverna di casa, dove abito normalmente io con la mia famiglia, con il rischio che mi vada perso insieme ai rifiuti o che mi ci giochino a palla i ragazzini? Ma tu sei scemo. Io lo vado a seppellire in un posto nascosto dove non ci va nessuno – una tana di iene per esempio – dove sia difficile entrare e che sta proprio sotto il Monte Circeo, che già per conto suo ha una forma magica a cranio. Quindi chiudo l’accesso e arrivederci e grazie: le iene si andassero a cercare un’altra tana, che me ne frega a me? Poi, più frane arrivano e meglio è. Può anche essere, però, che magari non ho chiuso subito, che per un po’ di tempo ho lasciato aperto e ci tornavo di tanto in tanto a riverirlo, a mangiare i miei pasti lì insieme a lui come facevano gli etruschi – ma anche i calabresi e i perugini a Latina quando ero piccolo io – e magari nel frattempo qualche iena, ricapitata lì per caso, gli ha dato pure qualche morso (quei graffi «consistent with»?), e magari ho chiuso dopo. E andando e rivenendo – o magari tutti in una botta sola; chissà quanti eravamo quella volta che lo abbiamo deposto – strisciando nel cunicolo o saltellando nella grotta, mi sono caduti quegli strumenti. Oppure ce li ho lasciati apposta, vai a sapere. Io adesso non voglio dire (come peraltro ha detto pure qualcun altro però, prima di me) che tutti quelli ritrovati a suo tempo da Radmilli fuori della grotta – nel detrito di 58

falda – stiano ad attestare che lì, per chissà quanto tempo, hanno continuato a venire e riunircisi le frotte di pellegrini neandertaliani da tutto l’Agro Pontino, esattamente come i pellegrini dei giorni nostri a San Giovanni Rotondo davanti alla tomba di padre Pio. Non ho le prove per sostenere che quello sotto il Circeo fosse un vero e proprio santuario, e che quel cranio appartenesse a un santo o a un eroe che faceva i miracoli, proteggeva la tribù in caccia o in battaglia e sanasse gli storpi. Però la gente ha continuato a lungo ad andarci lì intorno – ha continuato a frotte – e questo è un fatto. E quei sia pur pochi strumenti che hai trovato tu dentro la grotta, quelli sono proprio una «carta d’identità» bollata dal notaio, e bisogna che ti ci metti pure tu l’anima in pace. Amen. Anche con questo, però, le mie non divengono – di fatto – verità scientifiche. Sono solo ipotesi, congetture: neanche divinatio, solo fantasia. Ma sei tu, a questo punto, che mi devi spiegare per quale motivo quelli là – quelli che hanno perso o lasciato gli strumenti – sono entrati strisciando dentro una tana di iene e, «oplà!», ci stava pure un cranio. Spiegamelo tu, se sei capace. Tocca a te. Ma in ogni caso tu non puoi rifiutare l’evidenza di una qualche relazione – o quanto meno non la puoi escludere – tra quel cranio, quel buco di cranio, quel cerchio di pietre e quegli «strumenti litici» perché qui, quello che conta, non è chi ci sia stato di più e più a lungo, ma chi ci è stato per ultimo dentro quella grotta. Non so se è chiaro. Stanno là questi «strumenti» – nella stessa e identica facies – proprio come il segno di Zorro di quella attività antropica che tu dicevi di non avere visto sul cranio. Se 59

non stava sul cranio gli stava però intorno – contestuale – esattamente come il «cerchio magico» di pietre (a meno che anche quegli «strumenti» – per te – non ce li abbia messi Blanc. Ma ne poteva mettere di più. Abboccavamo meglio). La questione ritorna quindi ineludibilmente a quel «cerchio magico-religioso» fatto con le pietre, che stava attorno al cranio. Se il cranio lo ha portato la iena, quel cerchio è un falso e non si discute, almeno per noi. Per Giacobini invece no. Lui continua a dire che la questione non esiste, perché di cerchi così «se ne possono indi­ viduare almeno altri cinque esaminando la fotogrammetria della paleosuperficie di Grotta Guattari»20. In realtà tutti sanno che se uno si fissa con gli occhi per terra – o su qualunque altra superficie – individuando un punto a caso come centro del suo sguardo, poi riesce a trovarci intorno tutti i cerchi che vuole. Ma questa è un’illusione ottica, immaginazione – «voler vedere le cose» – e pure io, se mi fisso, sento le voci che mi chiamano proprio come Giovanna d’Arco. C’è gente che è riuscita a dimostrare – mi dicono – che le misure delle cabine telefoniche di una volta (altezza, larghezza, profondità) erano in stretta relazione armonica con quelle di non so quale costellazione astrale. Ergo, c’era la mano degli extraterrestri. Ora io non metto naturalmente in dubbio che esistano gli extraterrestri, ma che tu mi vuoi venire a dimostrare che le mie cabine telefoniche le hanno progettate gli extraterrestri o che dove guardo guardo, io posso trovare un cerchio di pietre tale e quale a quello di Grotta Guattari, be’, mi dispiace, ma neanche un uomo di Neandertal ci 60

crederebbe. Anzi, sai le botte che ti dava? Altro che cerebrofagia ti faceva, rituale o meno. Mo’ lasciamo perdere che anche Roberto Mortari – quello che era intervenuto pure lui addosso a Giacobini21 a Sabaudia nel 2006, e che era uno scienziato che insegnava proprio Geotecnica alla Sapienza di Roma (è quello che, secondo alcuni, avrebbe previsto in anticipo il disastro di New Orleans, ma lui dice di no e secondo il suo libro I ritmi segreti dell’universo22 il peggio deve ancora venire, e saranno casi amari pure per la nostra Fiumicino) e quindi si presuppone che il suolo, le pietre e la Terra le conosca un tantino meglio di me – anche Mortari diceva esattamente come gli archeologi sentiti nel 1989, che «un cerchio siffatto non si dà da solo in natura». Anzi, con Mortari ho proprio insistito: «Ma professo’, è sicuro sicuro?». «Nella maniera più assoluta!», s’è pure incazzato alla fine: «E quante volte glielo debbo dire?». Una cosa è quindi un effetto ottico-casuale e un’altra è un cerchio di pietre disposte appositamente da mano umana attorno ad un cranio. È anche vero peraltro che – oltre che da fossili – gran parte della superficie di Grotta Guattari è ricoperta da pietre di varia grandezza che, grazie al declivio leggermente discendente man mano che si procede verso l’interno della grotta, debbono essere via via cadute per frane e rotolamenti soprattutto dall’ingresso. La cosa sorprendente è, però, che tutto questo manto di pietre – che secondo Giacobini originerebbe almeno altri cinque cerchi virtuali che noi non siamo comunque riusciti a riconoscere – questo manto di pietre ricopre sì la parte centrale della grot61

ta, quella dell’accesso, ma scompare letteralmente proprio nell’Antro dell’Uomo. Lì i sassi, pure in tutte le loro frane ed eventuali rotolamenti, non ci sono proprio riusciti ad arrivare: è tutto liscio lì – limo consolidato – altro che cerchi virtuali. Le uniche pietre lì – su quel tappeto di paleolimo – erano proprio quelle disposte a cerchio attorno al cranio.

Capitolo quarto

Arrivati a questo punto della discussione – discussione che, però, a convegno 2006 concluso, io avevo cominciato a proseguire dalle pagine di «LiMes», pubblicando a puntate i capitoli che precedono – il prof. Giacobini, divenuto nel frattempo segretario generale dell’International Association for the Study of Human Paleontology, mandò pure lui nel marzo 2007 una lettera a «LiMes», che la pubblicò per ampi stralci1. In questa lettera non è però che si aggiungesse qualcosa di nuovo a quanto già detto – una nuova prova, un’altra argomentazione – ma lo si ribadiva e basta (come, peraltro, in pubblicazioni anche più recenti2), riaffermando sostanzialmente: a) che ai tempi di Blanc, con le conoscenze e le tecniche che c’erano, era pure lecito ipotizzare a Grotta Guattari un cannibalismo rituale; b) che però da allora ad oggi c’erano state innovazioni metodologiche, rivelatesi vere strategie epistemologiche, che avevano reso «‘scientifica’ la disciplina, rendendone ‘falsificabili’ (nel senso di Karl Popper) le ipotesi di lavoro. Anche i paleoantropologi si convinsero del fatto che un’in­ 63

terpretazione può essere sostenuta solo se esistono precisi elementi per farlo e se è possibile confutare quelli che le sono contrari. Le idee elaborate e sostenute in modo diverso sono non-scienza, cioè miti scientifici»3; c) che «Il famoso ‘cerchio di pietre’, che pare rappresen­ tare il cavallo di battaglia del passionale signor Pennacchi, non merita purtroppo l’attenzione che egli gli attribuisce»4; d) che l’intera teoria del cannibalismo rituale al Circeo è «un’ipotesi che, sulla scorta dei dati disponibili e di moderne metodologie di indagine, lo stesso Alberto Carlo Blanc – su questo non ho alcun dubbio – non sosterrebbe più»5. Ora non sarò certo io – che per l’appunto ancora credo qualche volta ai miti – a poter escludere che il prof. Giacobini sia in tale relazione medianica con Blanc da «non avere dubbi» su quello che lo stesso Alberto Carlo Blanc farebbe o non farebbe se fosse ancora vivo. È lui che esclude ai miti – e quindi ai medium – il valore di scienza, mica io. Io non escludo niente a questo mondo. Solo che lui però – anche se adesso si professa sicuro al di là di «alcun dubbio» di ciò che farebbe Blanc se risuscitasse da morto – è proprio colui il quale in altra circostanza6 deve avere avanzato seri dubbi su ciò che Blanc avesse effettivamente fatto o meno da vivo: «Nulla di preciso può essere detto a proposito del ‘cerchio di pietre’ [...]. Esso in­ fatti non è più esaminabile in quanto l’area corrispondente venne scavata nel 1939 [...]. La posizione del cranio nean­ dertaliano all’interno del cerchio si basa sulle affermazioni dello scopritore, A. Guattari, che tuttavia aveva rimosso e ricollocato il cranio stesso prima della visita di Blanc. Il no­ 64

to disegno che mostra l’associazione tra cranio e cerchio di pietre venne ricavato da una fotografia effettuata da Blanc pochi giorni dopo la scoperta. Nel disegno, il ‘cerchio di pietre’ appare più distinto che non nella fotografia, rispetto alle pietre sparse sul suolo circostante»7, poiché «vi erano altre pietre fuori e dentro di esso»8. Io capisco che uno che non è del mestiere dica, leggendo queste cose: «Ah, ma allora chissà che hanno disegnato quelli là» e come minimo pensi che il disegno sia stato taroccato, rispetto alla fotografia originale. Giacobini quindi non disse formalmente che Blanc aveva commesso un falso, anche se Radmilli però – Antonio Mario Radmilli (1922-1998), che adesso è morto, ma che è stato pure lui un grande padre della protostoria italiana, un’autorità scientifica mondiale, presidente dell’Unione Internazionale delle Scienze Preistoriche e Protostoriche – si dovette essere arrabbiato parecchio con lui, per rispondergli: «Non è giustificabile, tenuto conto della serietà e della grande preparazione scientifica del Blanc nel campo della preistoria, sostenere che l’ovale in cui era presente il cranio era dovuto al fatto che il Blanc aveva tolto tutte le altre pietre»9. Giacobini non dice quindi che quel «cerchio di pietre» lo ha fatto Blanc. Lo avesse detto, me la sarei messa io l’anima in pace, poiché per quello che ne sapevo nel 1989, a me poteva pure stare bene la iena. Chi gli diceva niente? Che me ne fregava a me? A me quello che mi mandò ai pazzi fu l’aporia, la pretesa di far salire all’onore degli altari la iena, senza però spedire contestualmente agli inferi il cerchio e chi lo aveva 65

eventualmente fatto. Un colpo al cerchio e uno alla botte – alla faccia di Blanc – quando era stato proprio Blanc, invece, a dare immediatamente conto delle compromissioni che pure erano digià intervenute. Lui arriva sul sito il giorno dopo la scoperta e comunica diligentemente nel referto a Sergi di avere deciso di asportare il cranio «giudicando imprudente di lasciarlo ulterior­ mente sul posto, tanto più che numerose persone (ragazzi, donne, dipendenti del Guattari ecc.) erano penetrate prima di me nella grotta e ne avevano asportato varie ossa. Non avevo con me il magnesio necessario ad una fotografia»10. È lui stesso che dice pure: «Memore delle mie racco­ mandazioni (quelle che aveva fatto al Guattari una decina di giorni prima, NdP) e conscio dell’importanza del trova­ mento, il Guattari lasciò il cranio sul posto, dove io stesso dovevo poi ritrovarlo poche ore più tardi [...] tra alcune pietre disposte circolarmente. Quando io lo vidi, il cranio giaceva sulla sua calotta con la base rivolta in alto. Ma il Guattari mi disse che lo aveva preso tra le mani e che non escludeva di averlo rimesso al posto in posizione diversa da quella in cui originariamente si trovava, ché anzi si ricor­ dava di aver visto in primo luogo la rotondità della calotta. Questa affermazione e la natura e distribuzione delle con­ crezioni calcaree aderenti al cranio mi fanno ritenere che esso riposasse con la parte occipitale in alto»11. Ergo, il Guattari dichiara al Blanc (dopo che, si presuppone, questi lo ha tempestato di domande, poiché era Blanc, mica un pincopallino qualunque; era uno che aveva messo in croce tutti gli operai della bonifica, quando stavano scavando il Canale Mussolini; era peggio di Der66

A - Posizione del cranio dentro il cerchio di pietre secondo la ricostruzione di Blanc. B - Posizione del cranio secondo i più recenti studi (da PipernoScichilone 1991).

rick, peggio del tenente Colombo) il Guattari dichiara di avere toccato solo il cranio, non le pietre, e che forse s’è sbagliato a rimetterlo «come» stava prima, non «dove». Ciò nonostante, Blanc che fa? Blanc non fa disegnare il cranio come «avrebbe» dovuto stare secondo ragione, viste le concrezioni e il processo di ricostruzione mentale del Guattari (in realtà, secondo gli ultimi studi sulle concrezioni sembrerebbe che il cranio giacesse «in posizio­ ne obliqua, appoggiato sul lato sinistro, con la base rivolta verso l’alto e la faccia inclinata in avanti»12). No, Blanc giustamente fa disegnare il cranio «come stava» quando lo ha visto lui. Stop. Questa è scienza, compa’: «Io ho visto questo e testimonio questo». Lui era in viaggio di nozze. Non aveva niente appresso, né magnesio né attrezzature archeo-speleologiche, e quando arriva lì, c’era già entrata tutta San Felice Circeo dentro la grotta – «numerose persone (ragazzi, donne, di­ 67

pendenti del Guattari ecc.)» – a toccare tutto quanto e a raccogliere souvenir, tanto che due giorni dopo, il 28 febbraio 1939, quando Blanc ci torna insieme al padre, che era pure lui professore di geochimica, e insieme a Sergio Sergi si rimette ad andare in cerca della gente finché non trova la cuoca dell’albergo, Maddalena Palombi, che tira fuori (da sotto il grembiule, secondo una leggenda di paese) una mandibola neandertaliana che ha preso pure lei quel giorno dentro la grotta nei pressi del teschio13. E quindi è chiaro che il 26 – «giudicando imprudente di lasciarlo ulteriormente sul posto»14 – la prima cosa che fa è portare il cranio in salvo a Roma: «il rischio di lasciarlo sul posto era, ripeto, troppo grande. Decisi anche di non toccare le ossa e le pietre frammezzo alle quali esso giace­ va, e raccolsi solo una piccola scapola di cervide, che era in suo contatto. Raccomandai al Guattari di chiudere l’accesso della grotta e di non lasciarvi più entrare nessuno. Giunto a Roma, procedei immediatamente a fotografare il cranio e lo consegnai la sera stessa al prof. S. Sergi, Direttore dell’Isti­ tuto di Antropologia della R. Università di Roma»15. Sul momento quindi porta solo il cranio a Roma, e le pietre le lascia là. È in un secondo tempo che verrà scavato e portato via anche il cerchio di pietre. Noi allo stato non conosciamo le reali condizioni – ossia se, come, dove e quando; se a Roma o se di nuovo nella grotta e, soprattutto, le fonti a cui Giacobini attinge ma non cita – in cui viene scattata la fotografia o elaborato il rilievo. Secondo Giacobini il disegno «venne ricavato da una fotografia effettuata da Blanc pochi giorni dopo la scoperta»16 e – soprattutto – guardando la fotografia emer68

gerebbe «che il ‘cerchio’ era in realtà meno netto di quanto appaia sul disegno, nel senso che vi erano altre pietre fuori e dentro di esso»17. Il che vuol dire – se le parole hanno ancora un senso – che nel passaggio da fotografia a disegno qualcuno ha spostato e/o sottratto un po’ di pietre. Non si scappa. Non è che possa significare qualcos’altro. Ora è chiaro che questa ricostruzione – fatte salve l’attendibilità e veridicità stessa delle fonti che l’avrebbero consentita – pone più di qualche problema. Se essa è vera, getta una grave ombra su Blanc – ma anche su Sergi e su chiunque altro che, pure a conoscenza dei fatti, li avrebbe avallati – perché ci pone dinanzi ad una oggettiva alterazione del dato. Se io faccio l’archeologo e pubblico in un mio articolo un disegno, dicendo che quello è il rilievo esatto di ciò che io ho visto in situ e ci metto sotto la mia firma, quella è come la firma del notaio e tu mi devi credere per forza. Se poi invece quel disegno è falso o taroccato e tu quindi non mi credi, allora vuol dire che mi credi un notaio falso – un falsario – o quanto meno un cazzaro che non sa fare il suo mestiere. È chiaro difatti che in tutta la estemporaneità della scoperta e della situazione complessiva – le nozze; il va e vieni dei sanfeliciani nella grotta; la cuoca; torna a Roma; ritorna a San Felice dopo qualche giorno – deve essersi prodotta una serie graduale di irrimediabili compromissioni dello statu quo ante (anche se non esiste un solo sito archeologico a questo mondo che non ne abbia subite di simili), ma da questo a ritenere che, di conseguenza, l’azione di uno specialista debba essere necessitatamente approssimata e superficiale, ce ne corre. 69

In realtà, uno che abbia fatto questo mestiere – o che sappia anche lontanamente come si fa – sa che un archeo­ logo deve saper disegnare e fare un rilievo dal vero: fa parte del suo mestiere, altrimenti non sarebbe in grado di documentarlo. Non solo nel 1939 quindi, ma anche nelle pubblicazioni odierne – ivi comprese quelle di Giacobini18 – è lasciato spesso più spazio al disegno che alla fotografia, proprio perché il disegno «documenta» meglio. Si presuppone quindi che se io sono un archeologo e pure bravino, capitato all’improvviso in una situazione come quella – senza attrezzature appresso, dentro una grotta buia, al lume solo di una pila o di una candela – intanto mi faccio raccontare per benino tutto quanto, poi mi faccio portare un quaderno e una matita e disegno alla bell’e meglio la situazione come sta, affinché me la possa ricordare dopo. Io non so se lui abbia avuto a disposizione dell’inchiostro di china ed un pennino per poter contrassegnare in una sbrigativa catalogazione pietra per pietra e reperto per reperto dell’insieme in oggetto, ma è sulla base di quel disegnino che ho schizzato in grotta la prima volta, che io poi fondo tutto il resto del mio lavoro. È lui che fa fede, il primo «schizzo» – oltre alla mia memoria che, a 33 anni come aveva Blanc, si presuppone ancora viva e vegeta – per tutto il lavoro che verrà dopo. Le successive ispezioni, rilievi, fotografie, asporti e tutto quello che ti pare, non saranno che attività sussidiarie e complementari al processo di definitiva redazione di quella prima immagine che io ho avuto sul sito. È solo di quell’immagine che posso essere sicuro, poiché se pure è vero che ho detto al Guattari: «Non far entrare più nessuno», che ne so io di cosa è successo dopo 70

per davvero? Io rispondo di quella, e quella testimonio con la redazione definitiva che vado a pubblicare mettendoci la firma. Così funzionano queste cose. Se poi lui invece nel disegno ci ha messo o fatto mettere quello che non c’era e ci ha tolto quello che al contrario c’era, allora sì che è un altro paio di maniche ed altro che ombra, sarebbe proprio un’eclissi su Blanc. Ma bisogna vedere le fonti – bisogna cioè vedere, a te, chi te lo ha detto – perché se è invece questa ricostruzione a non rispondere al vero o ad essere capziosa, allora è da qualche altra parte che finisce per gettarsi l’ombra. Poi si può giurare pure quanto si vuole, su quello che farebbe o non farebbe Blanc se tornasse in vita. Sulle questioni di metodo e documentazione degli scavi, inoltre, sorgono anche ulteriori domande. Giacobini difatti, nel sostenere l’endogenesi non solo di quel cerchio, ma di ben altri cinque che starebbero nello stesso sito («Il ‘cerchio’ esiste, ma se ne possono indivi­ duare almeno altri cinque esaminando la fotogrammetria della paleosuperficie di Grotta Guattari»19), fa esplicito riferimento ad una «paleosuperficie» da lui specificatamente individuata, rilevata e studiata nel corso dell’analisi tafonomica20 della grotta. Anzi, me lo ribadisce proprio personalmente nella lettera succitata: «Controlli, il Pennacchi, una pianta della paleosuperficie di grotta Guattari, e si potrà divertire a identificar[li]»21. Dice: «Vabbe’, ma che cos’è una paleosuperficie? E soprattutto che cos’è un’analisi tafonomica?». La tafonomia è lo studio della «transizione, in tutti i suoi aspetti, dei resti animali dalla biosfera alla litosfera»22, 71

il quadro complessivo, cioè, in cui si è dato il processo di fossilizzazione, ovvero il passaggio di questi resti dal cosiddetto regno organico-animale a quello minerale. «Di interesse per la tafonomia sono, in altre parole, gli eventi occorsi tra la morte dell’animale e la fossilizzazione dei suoi resti (o, secondo un concetto più estensivo, il momento in cui essi vengono studiati) e l’influenza di questi eventi sulle informazioni che i reperti possono fornire»23. La paleosuperficie – lo dice la parola – è una superficie che è tale dall’antichità (paleo). Un paleosuolo, per esempio, è quello strato particolare che si è determinato in una certa fase storica attraverso la continuata azione di frequentazione e calpestìo. Tu lo puoi ritrovare quasi integro ed intatto, in molti casi, scavando e rimuovendo mano mano tutti gli altri strati accumulatiglisi sopra per azioni naturali quali frane, crolli, eruzioni o sedimenti alluvionali vari – ma anche azioni umane quali depositi o rifiuti di successive frequentazioni – dopo che il sito era stato abbandonato o quella fase interrotta. Una pa­leosuperficie invece – per definizione – non può stare sotto un altro strato. Sarà «paleo» – e quindi si sarà formata in antico – ma in quanto «superficie» non può che essere l’ultima fase di tutto l’accumulo, l’ultimissima faccia. Ergo, per un certo periodo s’è depositata roba ma poi, per un periodo altrettanto lungo se non di più, non s’è depositato e modificato più niente: tu arrivi là e quella è la superficie esattamente come stava tantissimo tempo fa. Ora invece che è successo? È successo che il prof. Giacobini fa costante riferimento24 ad una paleosuperficie da lui studiata tafonomicamente come tale tra il 1989 e il 72

1991 a Grotta Guattari – «Paleosuperficie di qua, paleo­ superficie di là» – ed è su questa base che poi pianta le bandierine sul Monte delle Iene. Ma quale paleosuperficie è stata studiata in effetto? Lì dentro c’erano entrati cani e porci, e non solo nei due giorni prima che ci entrasse Blanc – tutto San Felice Circeo perlomeno, col parroco in testa come in processione un altro po’, e chiunque passava raccoglieva ossa e spostava sassi – ma anche per tutti i cinquant’anni che si sono susseguiti dopo. Lo stesso prof. Amilcare Bietti nel 1989 – illustrando la fotogrammetria e il calco in poliuretano che erano stati appena fatti della superficie della grotta – disse che il valore scientifico era però pressoché pari allo zero. Le uniche valenze erano di carattere esclusivamente testimoniale o turistico-documentario, essendo oramai andate irrimediabilmente perse e compromesse le condizioni originarie. E questa compromissione, secondo Bietti, era dovuta molto più alle frequentazioni intervenute dal 1939 ad oggi – con migliaia e migliaia di turisti e scolaresche tumultuosamente avvicendatesi per cinquant’anni nella grotta, toccando e spostando tutto quanto a piacimento – che alla cuoca, ai sanfeliciani e al personale dell’albergo nei primi giorni della discoperta. Bene, io adesso vorrei capire come si fa a sostenere nell’anno di grazia 2006 – e ribadirlo nel 200925 – che quella che si è studiata lì nel 1989 era la paleosuperficie e che quindi fa testo e prova scientifica. Ma quella è la paleosuperficie di Mariacazzetta in realtà, una cosa che non sta né in cielo né in terra, ma solo nei mondi della fantasia. 73

Mappa fotogrammetrica della cosiddetta «paleosuperficie» di Grotta Guattari (da Piperno-Scichilone 1991). Da notare come il cerchio di pietre contenente il cranio – evidenziato in alto a sinistra – stia assolutamente isolato e per conto suo, sul limo consolidato, rispetto a tutti gli altri contesti «pietrosi».

La «paleosuperficie» vera di quella grotta l’ha vista il Bevilacqua – l’elettricista – e forse il Guattari. Poi basta. Già quando è arrivato Blanc non era più «paleo». Che cosa può essere stato visto nel 1989? Solo una neo-superficie – modificata e compromessa di recente, e pertanto «neo» – che si vuole però assumere come «paleo». Ma non è così che funzionano le cose, nella scienza e nel mondo. Su tutti i manuali dello scavo stratigrafico26 (che non a caso l’archeologia ha letteralmente mutuato proprio dalla geologia) c’è scritto che lo strato «compromesso» – quello cioè in cui non è più possibile distinguere le modificazioni intervenute in età recente da quelle più antiche – lo butti e basta; oppure ti tieni qualcosa ma giusto per bellezza, senza potergli dare alcuna valenza scientifica. Tu non puoi, per esempio, prendere lo strato superficiale di un sito archeologico in campagna – quello in cui i cocci ed i resti si mischiano all’humus percorso su e giù ogni anno dall’aratro – e dire che è un paleosuolo o peggio ancora una paleosuperficie. La gente ti ride appresso. A Metodo­ logia e tecnica degli scavi ti menano proprio. Appare quindi un po’ difficile poter sostenere con qualche ragione che quella che c’è adesso a Grotta Guattari – o che c’era nel 1989 – è una paleosuperficie e, pertanto, in base allo studio tafonomico che se ne sarebbe fatto è oramai scientificamente dimostrato a tutti gli effetti che quel cranio ce lo ha portato la iena e che, soprattutto, lì ci stavano almeno altri cinque cerchi uguali a quello. Eh, no. Qui scientificamente non è dimostrato un bel niente. Questi presunti cinque cerchi – che io comunque non ho visto perché «eventuali» e su scala assai diversa, ossia nell’ordine 76

dei metri e non dei centimetri, come invece l’evidentemente «artificiale» cerchio nostro – questi sì, possono pure essere stati fatti dai ragazzini delle medie durante i cinquant’anni di gite scolastiche. È come se andando oggi lì vicino, alla villa di Ghira al Circeo dopo che c’è passata in trent’anni chissà quanta gente – e soprattutto dopo che c’era già passata la madre il giorno appresso, a ripulire tutto quanto con lo straccio e la varechina – io venissi a dire in tribunale che quella che ho visto adesso, trent’anni dopo e dopo tutti quei passaggi, è la stessa paleoscena del delitto che si era lasciato alle spalle Ghira quando, uscendo, aveva richiuso la porta. Ma sai quanti anni di galera mi dà il giudice a me? Dice: «Vabbe’, ma tu allora sostieni proprio che quel cranio testimoni, al di là d’ogni possibile dubbio sia di vivi che di morti, un rito di sepoltura e di antropofagismo magico-religioso?». Frena: io non ho detto questo. Io vent’anni fa – al primo convegno di Sabaudia – non ero proprio per niente sicuro che quel cranio testimoniasse di per sé un rito di sepoltura e di cannibalismo religioso. Io stavo alla pari – fifty fifty – 50 su Blanc e 50 sulla iena e, come scrittore di romanzi, mi divertiva assai di più la iena, con l’idea di quest’altro che arrivava 51 mila anni dopo, in viaggio di nozze, e diceva: «Sai che c’è? Mo’ ci metto pure quattro pietre attorno, ci costruisco sopra una bella teoria e ci campo di rendita per tutta la vita». Sai che romanzo mi veniva? Altro che Indiana Jones. Ci campavo io di rendita. La questione però era che lì, per l’appunto, lo scrittore di romanzi – quello che in teoria doveva lavorare di fanta­sia – 77

ero io, mentre loro erano gli scienziati. E se uno scienziato ha davvero scoperto che lì è stata in toto una iena, be’, ha pure il dovere di dire che Blanc ha taroccato le carte. Non può, come Ponzio Pilato, buttare la pietra e nascondere la mano. Invece no. Quelli, nello stesso convegno in cui sancivano la iena e cominciavano a pensare di andare a smontare il Museo Pigorini, quelli, nello stesso momento (nel 1989), andavano a Grotta Guattari ad attaccare una lapide di un metro e mezzo di marmo, poco prima dell’ingresso, a imperitura memoria, affetto e gratitudine a Sergio Sergi e Alberto Carlo Blanc. È questo che mi diede fastidio. Altro che romanzi. Certo permangono aree di dubbio e di incertezza. Nessuno ha il filmino o la prova provata né dei neandertaliani 78

che si mangiano il cervello e di Blanc che poi entra e vede – «Oooh!» – il cerchio di pietre, né della iena che ci mette dentro il teschio e subito dopo s’abbatte la frana. Due ipotesi alla pari per me – ripeto – almeno agli inizi, nel 1989, quando ci fu il primo convegno. «Nessuno saprà mai con assoluta certezza cosa è successo per davvero dentro quella grotta», m’ero detto fra me e me, «né 51 mila anni fa, né quando ci è entrato Blanc nel 1939. Tutte le ipotesi sono ugualmente lecite. Ognuno creda a quella che gli pare». Dopo però, man mano che andavo avanti a studiarla e vagliavo i punti uno per uno – gli indizi, le prove, gli argomenti – mi nasceva dentro un nuovo convincimento. Certo esiste pure la possibilità che sia stata una iena e neanche si può escludere, in linea di principio, che possano essersi verificate tante altre improbabilissime coincidenze, quali la caduta immediata di una frana e l’arrivo di un archeologo – 51 mila anni dopo – che pure se già all’apice della notorietà internazionale decide di allargare, stringere o rimuovere delle pietre; tutto può succedere a questo mondo. Ma è bene ripetere che non ne esiste una prova una. Esistono solo congetture ed un indizio solo, ovvero i due o tre microscopicissimi segni «compatibili con una iena» che White avrebbe visto sul cranio. Questi segni però (dato per scontato che esistano davvero – anche se Borgognini Tarli & C. dicono di no27 – e siano pure davvero di iena) possono essersi prodotti anche dopo la deposizione del cranio da parte degli «ominidi», come li chiama White, dentro il cerchio di pietre. Che ne sai che una iena non sia passata di lì a babbo morto – quando quelli magari avevano già celebrato il rito e se ne 79

erano tornati a casa, lasciando lì il cranio nel bel mezzo del cerchio: «Tanto chi lo tocca?» – e la iena non abbia trovato sto coso e si sia messa pure lei a rosicarselo un altro po’? E comunque è solo un indizio, non una prova. Ergo, per me al momento la teoria della iena non solo non è stata sufficientemente dimostrata, ma appare anzi assai avventata ed aleatoria sul piano statistico-scientifico. Improbabilissima. Essa difatti prende in esame – e per di più in maniera non esaustiva – un solo elemento tra tutti quelli che pure compongono un più complesso «insieme», tralasciando completamente gli altri. Non credo che funzioni così né a Calcolo delle probabilità e nemmeno a Teoria dei giochi. L’ipotesi del cannibalismo magico-religioso, invece, appare tuttora suffragata da una mole di indizi ed evenienze assai più importante. A suo favore non c’è solo l’allargamento del forame occipitale (che potrebbe farsi, in teoria, anche per via di iena). Qui ci sono anche l’inserimento in un cerchio «magico» di pietre e la chiusura contestuale – o paracontestuale, e quindi di origine evidentemente «volontaria» – della grotta. Anche questi non sarebbero che indizi. O meglio: il «cerchio» di per sé costituirebbe una prova, ma una volta che qualcuno pure sostiene che il cerchio non ci sia – o che sia taroccato – è inutile stare ad insistere. Solo indizi quindi; più indizi della iena, ma sempre indizi. Qui in aggiunta c’è però il rinvenimento sulla stessa fa­ cies di alcuni strumenti litici – o almeno «only one»28 – ad opera del Giacobini stesso. E questo non è più un indizio, è una prova: la prova provata che lì dentro – insieme al 80

cranio morto – c’è entrato per forza almeno anche un cristiano vivo. Mo’ mettila come ti pare, ma me la devi spiegare, perché se no non si capisce – mettendo in relazione questa prova con tutti gli altri indizi – come la comunità scientifica e il Museo Nazionale Pigorini si siano sbrigati a squalificare per sempre l’ipotesi cannibalico-religiosa, manco l’avesse fatta Moggi comprandosi una partita. C’è un altro «insieme» poi – oltre al «cranio-grotta-cer­ chio» – che non pare al momento essere stato sufficientemente valutato, ed è l’insieme «grotta-monte-Agro Pontino». Certo non tutte le congetture e comparazioni avanzate da Blanc ai tempi suoi – quali i cacciatori di teste Dayak, i melanesiani, o il ciclo delle Maschere e delle Società segrete29 – sono ancora oggi a prova di bomba. Ma erano appunto congetture, mentre con evenienze quali il Circeo e l’Agro Pontino tu devi continuare a fare i conti e – soprattutto – devi continuare a farli con la teoria da lui proposta. Che i melanesiani o i cacciatori di teste Dayak non destinassero il cranio a sepoltura e che i neandertaliani invece non lo manipolassero – come avrebbe voluto White – nello stesso e identico modo loro, non significa niente. Non è di per sé una controprova a favore della iena, anzi, perché il fatto che i melanesiani o i Dayak ne mangiassero il cervello attribuendo al rito potenzialità magico-religiose, dimostra che la cosa è comunque possibile e non si può quindi del tutto escludere, poiché s’è comunque data, almeno tra i Dayak e in Melanesia. Perché non potrebbe essersi data anche qui, 51 mila anni prima? 81

Dice: «Ma la storia e la scienza non si fanno coi potrebbe». Ah certo, non si discute. Qui stiamo solo nel campo delle ipotesi. Però si tratta di valutare – di queste ipotesi – le relazioni in primo luogo con l’insieme degli indizi e delle prove, ed in secondo luogo con il quadro complessivo di riferimento, sul piano storico, temporale, tecnico-culturale e geografico-fisico. Geopolitico quindi, oltre che «litico».

Capitolo quinto

Io non è che adesso voglia dire che l’assidua e continuata frequentazione di quel sito – da cui l’industria litica rilevata in forte quantità all’esterno di Grotta Guattari, proprio davanti all’ingresso – testimoni ipso facto il carattere sacro e religioso della frequentazione stessa, quasi si trattasse proprio di una sorta di santuario regionale. Nessuno ha le prove per dimostrarlo. Ma vista l’eloquenza di quel quadro complessivo di riferimento – l’insieme «grotta-monte-Agro Pontino» – nessuno ha nemmeno le prove per poterlo escludere con la sbrigativa asserzione che tali ipotesi possano avanzarsi «solo quando tutte le altre possibili alternative [...] siano state scartate»1. E chi lo ha detto? La magistratura? Quello che è certo è che non si può pensare all’«uomo del Circeo» come a un uomo che stava solo sul Monte Circeo. Che ci sarebbe stato a fare lì sopra, il fungo a primavera? Perché doveva stare solo sulla montagna, quando aveva tutta questa pianura a disposizione, densa – allora – di foreste e praterie piene della meglio selvaggina da cacciare? 83

E difatti essa pianura è tuttora piena dei suoi strumenti litici, poiché l’«uomo del Circeo» non è che l’espressione – una sorta di voce solitaria che s’ode dal passato – di una vera e propria «nazione» neandertaliana che per millenni ha vissuto e dominato interamente quello che oggi chiamiamo Agro Pontino. Poi s’è dispersa e lui solo ne rimane. Senza di lui non sapremmo nemmeno che è esistita. Ma questo territorio è stato da quella «nazione» percorso ed abitato per lungo e per largo, per millenni appunto, fino a tutte ed anche oltre le sue propaggini montuose e confini naturali – dal Mar Tirreno fino alla catena dei Monti Albani-Lepini-Ausoni, e dal Basso Tevere fino a Terracina – in quello che in realtà è un unico bacino geografico denominato Agro Romano-Pontino2. I resti fossili difatti – e le evenienze neandertaliane – arrivano sia a Saccopastore-Roma a nordovest, sia al di là dei Monti Lepini stessi a nordest, già nella valle del Liri con il cosiddetto «uomo di Ceprano»3. Ora si dà il caso che questo territorio sia lo stesso che 48 mila anni dopo – ossia tra il I e il II millennio a.C. – darà vita, con il nome di Latium Vetus, alla prima realtà statuale su base etnico-nazionale ed extra-cittadina di tutto il continente europeo. «Latium Antiquum a Tiberi Cerceios servatum est» – dal Tevere al Circeo – dice Plinio4. La Lega Latina è difatti la prima forma di Stato – anche se federale – che con le sue istituzioni e diritto comuni produrrà gradualmente lo Stato moderno di derivazione occidentale come noi oggi lo conosciamo (la prima Lega Latina naturalmente, quella che quando Roma ancora non esisteva – forse neanche quella cosiddetta di Evandro, 84

sul solo Campidoglio – già aveva come centro Alba Longa e che per riaffermare di anno in anno i patti federativi, vedeva i rappresentanti di tutti i popoli e città dell’area riunirsi a celebrare assieme i riti, mangiandone poi comunitariamente la carne delle vittime appena sacrificate: «cum iis carnem in monte Albano soliti accipere populi Al­ benses»5). Questo è il primo Stato su base nazionale che si veda in Occidente, poiché la pòlis greca non riuscì mai ad andare al di là delle mura cittadine. Un tebano ad Atene fu sempre uno straniero – un meteco senza diritti – a differenza della Lega Latina, vera e propria federazione con istituzioni, leggi, diritti e doveri comuni. Tutti gli altri Stati – poi – saranno figli suoi, poiché è da qui che più avanti nascerà, prendendo il volo, il diritto e l’egemonia di Roma con tutto ciò che storicamente ne consegue. Dice: «Ma che c’entrano mo’ i Latini? Ci sono cinquantamila anni di distanza con l’uomo di Neandertal, ma sai quante soluzioni di continuità ci debbono per forza essere state?». Certo. E mica sono scemo. Mica penserai davvero che venga qui a predicare che noi Latini siamo i figli dei neandertaliani (io poi sono veneto-ferrarese per parte di madre, mentre papà era perugino). Lo so pure io che se ci stanno cinquantamila anni di differenza, le due cose non possono avere nulla da spartire. O meglio: sul piano genetico e su quello storico-fattuale è più che evidente che non abbiano niente da spartire. Ma su quello geografico no. Il teatro è lo stesso e qualche cosa deve pure significare. Dice: «Ma questo è determinismo storico-geografico». Embe’? Non sono sempre state le condizioni esterne a determinare le modifiche e gli adattamenti umani? Anzi, 85

non solo quelli umani, ma di tutta la vita in genere, almeno secondo Darwin? L’uomo del Circeo è una «nazione» perché non stava solo sul Circeo (che ci sarebbe stato a fare?), ma stava disseminato, guarda caso, lungo lo stesso ed identico territorio che 48 mila anni dopo – corograficamente circoscritto nell’istesso et identico modo – determinerà la formazione della «nazione Latina». E questo è un fatto. Si tratta di un bacino «chiuso», ed anche quella neandertaliana è una «nazione» poiché – nello stesso bacino ma in un diverso ambito temporale – finisce per sviluppare una cultura «propria» materiale-immateriale. Questa cultura è testimoniata da una specifica lavora­ zione degli utensili, definita «pontiniano» appunto, scoperta ed individuata come tale da Blanc in quanto variante «dell’industria musteriana su ciottolo che si afferma nell’area pontina [...]. Industrie simili al Pontiniano si ritrovano in zone costiere più o meno vicine al Lazio me­ ridionale, ma spesso si tratta di similitudini apparenti»6. Ergo, come avevano imparato a lavorarla qui la loro roba, i Neandertal non l’hanno lavorata da nessunissima altra parte. È chiaro che sempre musteriano era – di derivazione Quina7 – ma oramai è un «musteriano a parte» fatto da un gruppo a parte, una «nazione» che, avendo una tecnologia specifica, deve possedere pure una cultura specifica di trasmissione del know-how. Ed anche questo è un fatto. Ora lasciamo perdere che per gli ipercritici della new archeology non è nemmeno provato che il neandertaliano parlasse. Anzi, era una specie di scimmione per loro, faceva solo «U-ùh» e basta. Non aveva linguaggio. 86

Per me invece parlava: «Sul linguaggio del Neandertal si è discusso molto. Secondo alcuni, non possedeva un ap­ parato vocale adatto per esprimersi. Una recente scoperta in Israele, a Kebara, ha portato in proposito un elemento nuovo: il ritrovamento dell’osso ioide, che è un ossicino si­ tuato tra la base della lingua e la laringe, e che rappresenta il punto di allaccio di ben undici muscoli. Secondo Yoch Rak e Bernard Vandermeersch, questo ossicino è quasi identico nella forma e nelle dimensioni a quello degli uomini at­ tuali: le basi morfologiche del linguaggio, essi ritengono, erano quindi già sviluppate all’epoca del Neandertal. C’è, del resto, un equivoco che nasce spesso a proposito del lin­ guaggio: l’apparato vocale infatti è solo l’‘altoparlante’, il linguaggio è in realtà il prodotto del cervello»8 e lui – il Neandertal – è uno che convive e compete ad armi pari con noi Cro-Magnon, o Homo sapiens che dir si voglia, per diverse migliaia d’anni. E quindi pure a cervello pari. O almeno quasi pari. Lui è arrivato prima. Noi dopo. Poi lui scompare. Ma per un certo periodo – tra i 38 e i 27 mila anni fa – sulla faccia della terra, almeno in Europa, ci stiamo assieme, sia lui che noi. I resti ossei delle prime evenienze Cro-Magnon sul continente europeo – in Bulgaria per esattezza – forniscono una datazione di 42-43 mila anni fa. Ripartendo da lì, arriviamo in Europa centrale – Italia settentrionale compresa – tra i 38 e i 37 mila anni b.p. L’uomo di Neandertal invece – che già c’era da un pezzo – scompare definitivamente 27-28 mila anni fa. Gli ultimi suoi resti si trovano in Portogallo e Andalusia, quasi che – sotto la nostra continua avanzata da est – alla ricerca 87

di una sua Valtellina si sia mano mano ridotto ad ovest, fino all’ultimo bagnasciuga dell’Atlantico. Poi non gli è proprio rimasto più dove andare. È vero che siamo noi – i Cro-Magnon, con le culture aurignaziane, epigravettiane, eccetera – a introdurre nuove e più avanzate tecniche di lavorazione degli utensili, sia su pietra che su osso. E siamo anche noi a reificare per primi i concetti di rappresentazione, di arte e di decorazione. Sono nostri i primi graffiti rupestri, come sono nostri i primi monili, strumenti ed oggetti decorati, che testimoniando la capacità di passaggio dal puro mondo dell’istinto – freddo, caldo, mangiare, bere, procacciarsi il cibo – a quello del concetto e dell’astrazione, inducono spesso a parlare di una nostra unicità nel creato. È qui, per alcuni, che si comincerebbe a manifestare l’«anima» – il pnèuma – che ci renderebbe «simili a Dio» e diversi da tutte le altre bestie: scimmie, zebre, leopardi, gorilla, ominidi vari. Ora però si dà il caso che siano stati rinvenuti – o almeno così diceva Annamaria Ronchitelli dell’università di Siena a Sabaudia nel 20069 – oggetti decorati per uso ornamentale anche accanto a focolari di siti neandertaliani. Oggetti in osso, pietra, corallo, conchiglie incise o traforate, e perfino un flauto d’osso, un osso cavo con dei buchi fatti apposta per suonare. La musica quindi, oltreché l’arte figurativa. È vero che questi siti – in particolare Castelcivita nel Cilento (SA) e Uluzzo e Grotta del Cavallo a Nardò, in provincia di Lecce – appartengono all’ultimissima generazione neandertaliana, datata circa trentamila anni fa e già coeva al Cro-Magnon. Però ci sono. E se quindi è pure in88

dubitabile, secondo la comunità scientifica, che l’avvento su larga scala della astrazione rappresentativo-decorativa si debba a noi Cro-Magnon attraverso la cultura aurignaziana (così detta da Aurignac, in Francia, dove per la prima volta venne ritrovata), essi testimoniano comunque – al di là del loro oggettivo carattere di relativa e tarda episodicità – una similare capacità di comportamenti, simbolismo ed astrazione anche da parte dei neandertaliani. I primi esempi di questo «made in Neandertal evoluto» – quali denti forati da utilizzare come pendaglio – si riscontrano nel cosiddetto «castelperroniano» di Cueva Morin in Spagna, datato circa 37 mila anni b.p. (è sempre opportuno però tenere presente che gli attuali sistemi di datazione comportano, su questo ordine di grandezze, un’approssimazione in più o in meno di circa 7 mila anni; con una forbice complessiva quindi di 14 mila, che non sono poi pochi. Sistemi più avanzati e precisi potrebbero pure, in futuro, riservare sorprese). Questo castelperroniano si chiama così da Châtelperron in Francia ed è una delle culture di transizione tra il musteriano dei neandertaliani e l’aurignaziano dei CroMagnon; dove però – si badi bene – per transizione non si intende, almeno fino ad oggi, un processo in senso evolutivo, bensì solo la successione cronologico-stratigrafica. È cioè la facies che sta di mezzo, tra i due strati. Sotto difatti – al livello più basso, ossia il primo che in ordine di tempo si era stratificato – si trova il musteriano-neandertaliano. Poi fra i due – prima che inizi l’ultimo, cioè il più in alto, ossia quello più vicino a noi in ordine di tempo, l’aurignaziano dei Cro-Magnon – si trova il castelperroniano. 89

Facies di mezzo, fase di transizione caratterizzata a volte anche da livelli stratigrafici diversi – interstratificati – di occupazioni successive di Neandertal e umani10. Attenzione, però. Anche questo castelperroniano non è da tutti unanimemente considerato di origine musterianoneandertaliana. Per gli ipercritici più cattivi, difatti, potrebbe anche trattarsi d’una sorta di proto-aurignaziano già dovuta ai Cro-Magnon stessi: «E perché dovrebbe per forza essere l’ultima espressione ‘evoluta’ di quelli che stavano sotto, i più antichi, che erano notoriamente dei coglioni e non può essere invece la primitiva ed arcaica espressione di quelli che sono arrivati dopo, cioè noi, notoriamente più intelligenti?», dicono loro. Non già quindi il «canto del cigno» della evoluzione neandertaliana, bensì solo il primo vagito di quella gloriosa nostra cromagnoniana. Resta comunque – e questo è un fatto, a dispetto pure degli ipercritici – che François Lévêque nel 1979 trovò a Saint-Césaire in Francia, proprio negli strati castelperroniani, i resti incompleti di uno scheletro di Neandertal datato 35 mila anni, che associano quindi, al di là d’ogni possibile dubbio, questa specie a questa cultura: il castelperroniano è neandertaliano e basta (dice: «Vabbe’, ma che ne sai? Magari quell’ominide poteva essere stato ammazzato e portato fin lì da un Cro-Magnon». Certo. E come no? Anzi, è stato Blanc). Anche in alcuni dei siti italiani citati da Ronchitelli11, gli oggetti ornamentali – che sono appunto di fattura castelperroniana – giacerebbero tra le precedenti fasi musteriane e le successive fasi aurignaziane o proto-aurignaziane, 90

al punto che non sarebbe nemmeno possibile escludere del tutto una loro appartenenza a queste ultime. Il ragionamento, cioè, è che abbandonati oramai i siti da parte dei precedenti inquilini neandertaliani, questi siti siano poi stati rioccupati magari pure subito dai Cro-Magnon, e così i primi resti del subentrante non avrebbero potuto non mischiarsi – facendo unico strato – con gli ultimi resti del neandertaliano sotto sfratto. Solo che però c’è un caso che taglia la testa al toro, o meglio al cavallo, trattandosi appunto della Grotta del Cavallo, lo stesso sito in cui c’erano le conchiglie incise e poi forate per farsene monili. Alla Grotta del Cavallo non ci sono dubbi: questo è neandertaliano e basta per la Ronchitelli. Andato via lui, l’appartamento è rimasto sfitto (poi è certo, aspetta un altro po’ e vedrai se prima o dopo si presenta qualcuno, magari un americano di passaggio, a dire pure qua: «Ma che state a di’? Questo è Cro-Magnon. Anzi, è stata la iena a bucare le conchiglie per mettersi le collanine»). La Ronchitelli, in realtà, più che le questioni di attribuzione su cui non nutriva alcunissimo dubbio, si poneva il problema se la produzione di questi oggetti decorativi testimoniasse, in sé, una capacità cosiddetta endogena di creazione ed astrazione da parte del Neandertal – di tipo quindi anche evolutivo – o se fossero semplici processi imitativi del tipo: «Lo hanno visto fare ai Cro-Magnon e lo hanno fatto pure loro». Ora – a parte il fatto che per alcuni studiosi12 l’indipendenza evolutiva dei Neandertal rispetto agli umani moderni, con piena capacità di pensiero simbolico, sem91

brerebbe un fatto accertato e fuori discussione – a noi, sinceramente, questo dilemma non pare poi così angoscioso. Che ce ne frega a noi, eventualmente, di come sono arrivati a farlo? L’importante è che lo abbiano fatto. Mica era necessario arrivarci per forza per primi o da soli, mica era la Milano-Sanremo o la Parigi-Roubaix. In etnoantropologia questi fenomeni attengono al cosiddetto «diffusionismo culturale»: io vado da una parte, vedo le cose che fanno lì e poi – tornato a casa – le rifaccio pure io insegnandole agli amici miei. O – viceversa – viene uno da fuori, noi guardiamo quello che fa lui, eccetera eccetera. È così per esempio che nasce la floricoltura del Salento – proprio vicino a Uluzzo e alla Grotta del Cavallo – con tutti i leccesi che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento andavano a lavorare in Liguria e poi, tornati in Puglia, installavano le serre e coltivavano i fiori pure loro. Anche i cinesi e i giapponesi mica avevano il capitalismo e la tecnologia nostra; si compravano i transistor nostri, li copiavano, e poi – mano mano – hanno imparato a farli meglio di noi. Mo’ stanno avanti a noi. Ma tu adesso con questo non vorrai mica venire a dire che non essendoci arrivati da soli – e avendolo copiato da noi che ci eravamo arrivati prima – i leccesi, i cinesi e i giapponesi sono subumani e in ogni caso inferiori a noi nella scala evolutiva? Fammi vedere una iena che – guardando noi che abbiamo inventato la ruota – si costruisce un carretto e ci va in giro per l’autostrada. Fammela vedere e poi ti do ragione. (Vicino a Uluzzo e alla Grotta del Cavallo però – a meno di otto chilometri – c’è anche un borgo di fondazione di età fascista: Villaggio Resta, con la chiesa e le 92

palazzine in stile para-razionalista. Secondo alcune fonti orali – confermate poi da quelle a stampa13 – all’inizio si sarebbe chiamato Borgo Starace; o meglio, Borgo Salvatore Starace in memoria del fratello, non intestato proprio a lui Achille, anche se poi la gente non è che si mettesse a dire per esteso: «Borgo Salvatore Starace». La gente diceva «Borgo Starace» e basta, e così tutti pensavano a lui – l’Achille – che era di queste parti, Gallipoli, e stava sempre qua perché era amico di questo grande proprietario che si chiamava Resta. Poi si sa come vanno le cose. Starace – Achille – è caduto in disgrazia dalla mattina alla sera proprio come un neandertaliano qualunque. Nessuno lo poteva più vedere, oramai, all’interno del regime. Lo misero ai margini. Lo schivavano tutti. Manco nella Rsi lo hanno voluto e il 28 aprile 1945, in giro per Milano piena di gente armata che cercava ancora a tutto spiano i fascisti rimasti sopra i tetti o dentro le cantine, i partigiani lo hanno visto che faceva il footing in tuta e scarpe da ginnastica come tutti gli altri giorni normali. Lui era fissato con l’esercizio ginnico e nel fascio nessuno lo aveva potuto più vedere proprio perché aveva costretto con la forza tutti quanti – pure i gerarchetti anziani con tanto di affanno e di pancera – a continuare a fare all’infinito i salti dentro il cerchio di fuoco, sennò non eri un buon fascista. Comunque i partigiani il 28 aprile lo hanno visto in tuta da ginnastica che correva in giro per Milano e gli hanno detto: «’Ndo’ vai de corsa? Vie’ qua e di’ forte abbasso il Duce». «No, manco per niente: viva sempre il Duce!» e quelli lo hanno messo al muro e fucilato, e poi hanno appiccato pure lui a piazzale Loreto e quella è stata l’ultima 93

volta che s’è ritrovato assieme a tutti i camerati suoi. Dice: «Ma questa è mancanza di pietas». No, questa è storia. La pietas, per quel che mi riguarda, c’è anche per lui. Ma intanto però – subito dopo che era stato messo ai margini dal regime – i camerati ed amici del paese s’erano sbrigati a levare il suo nome da Borgo Starace, anche se non era proprio il suo ma del fratello, e a mettergli quello del padrone, «Villaggio Resta», e questo gli è rimasto. Chissà se è vera. Comunque le fonti dicono così e a me è così che l’hanno raccontata e in ogni caso, se uno pensa che vicino a Uluzzo c’è Villaggio Resta, ma che in Agro Pontino ci stanno Latina, Pontinia e Sabaudia, fondate pure loro dal fascio – e Sabaudia sta proprio sotto al Circeo e pure Izzo, Guido e Ghira erano fascisti – uno davvero si mette a dare pure lui i numeri sulle cosiddette leggi della «continuità insediativa».) Ferma restando però – a questo punto – l’assoluta nean­dertalità della Grotta del Cavallo, io metterei sub iu­ dice tutti gli altri siti misti musteriano-aurignaziani. E chi ti ha detto – a meno che non si siano trovate anche ossa di Homo sapiens – che addirittura quell’aurignaziano o proto-aurignaziano che sia, debba per forza essere «made in Cro-Magnon»? Se io neandertaliano ho copiato le conchiglie, i monili, gli amuleti e i coralli, posso pure avere copiato le eventuali nuove tecniche di lavorazione degli strumenti. O no? Ora peraltro si dà pure il caso che in Israele, sia nella grotta di Skhul sul Monte Carmelo, sia in quella di Qafzeh presso Nazareth, siano state trovate diverse sepolture (una quindicina) di Homo sapiens proto-Cro-Magnon in 94

livelli ed industria musteriana. Ergo, per un certo periodo – almeno in Israele – questi vivono e convivono a strettissimo contatto di gomito. La grotta di Kebara – dove c’è la sepoltura neandertaliana de-collata – sta sullo stesso Monte Carmelo della grotta Skhul, quella cromagnoniana; tanto che Bernard Vandermeersch dice: «Le scoperte effettuate nel Vicino Oriente hanno però dimostrato che anche Homo sapiens sapiens ha partecipato allo sviluppo del Musteriano»14. Ha partecipato al suo «sviluppo» però, non alla sua nascita. Il musteriano c’era prima di lui – da centomila anni almeno – e lui lo vede, impara e apprende dal Neandertal. È l’Homo sapiens sapiens quindi – prima di venire in Europa e di cominciare per davvero a far vedere tutte le mirabilie di cui è pure capace – che va a scuola di musteriano dai neandertaliani del Monte Carmelo nel Vicino Oriente. È lì difatti – dopo una lunga ma non definitiva, almeno per quella volta, separazione – che i due s’erano rincontrati.

Capitolo sesto

Neandertal e Cro-Magnon s’erano lasciati tanto tempo prima in Africa – nel cuore dell’Africa – essendo tutti e due discendenti dello stesso ed unico progenitore, l’uomo di Heidelberg o Homo heidelberghensis (detto così, naturalmente, non perché sia nato lì. Lì ad Heidelberg vennero trovati per la prima volta i suoi resti, ma a nascere era nato in Africa). È lui – Heidelberg – l’Adamo africano da cui discendiamo sia noi che il Neandertal. Noi all’inizio stavamo tutti là – sia lui che noi, ancora uguali – in Africa, ed eravamo tutti figli di Heidelberg. A un certo punto però – circa seicentomila anni fa – com’è come non è, un gruppo di questi figli di Heidelberg si sposta dall’Africa e passando per l’Asia Minore, e poi per il Caucaso, passin passino arriva in Europa e si disperde man mano per tutto questo continente, che fino ad allora non aveva mai visto nessun essere umano, né d’un tipo né d’un altro. Col passare del tempo – tra i 600 e i 200 mila anni fa – questi Heidelberg che erano venuti a popolare l’Europa, man mano si evolvono e diventano Neanderthalensis; 97

prima «precoci» o «proto-Neandertal» come il Saccopastore, poi via via sempre più «Neandertal classici» come quello nostro del Circeo. L’Heidelberg che rimane in Africa, invece, anche lui man mano si evolve per conto suo e diventa Cro-Magnon, Homo sapiens, noi. Ma si evolve molto più tardi del Neandertal, tra i 200 e i 180 mila anni fa. È il Neandertal quindi – volendo – il figlio primogenito di Heidelberg-Adamo. Noi siamo eredi del secondo – il fratello minore – e secondo gli studiosi il Neandertal era bianco e noi neri, perché eravamo rimasti tutte quelle migliaia d’anni al sole dell’Africa. Lui invece – essendosene venuto in Europa, al freddo per giunta delle epoche glaciali – oltre che bianco di pelle s’era fatto forse pure biondo con gli occhi azzurri. Noi – che eravamo neri neri – ci siamo risbiancati solo dopo, parecchio dopo d’essere arrivati qui pure noi. A un certo punto difatti – poi dice che la gente non sta mai a casa sua – si erano rimescolate di nuovo le carte. Pure questo Cro-Magnon figlio di Heidelberg – anche lui nato ma restato in Africa e che aveva tutta l’Africa a sua disposizione – s’era stufato di stare a casa sua e pure a lui gli era venuta voglia di venire in Europa. Rifacendo la stessa strada peraltro. E rifacendo la stessa strada – guarda un po’ – mentre andava faticosamente in cerca di una via per arrivare finalmente in Europa proprio tale e quale ai cosiddetti extracomunitari dei giorni nostri, s’era rincontrato in Palestina con i gruppi di Neandertal che, figli non per niente pure loro dello stesso padre HeidelbergAdamo (poi dice che uno nasce sotto il segno del traslo98

co), essendosi spostati 600 mila anni prima in Europa ed essendosi lì evoluti in Neandertal, mo’ s’erano stufati pure loro di restare lì in Europa ed erano ripartiti all’incontrario. Per l’intanto, una parte era già tornata in Palestina e poi chissà. E lì, in Palestina, si sono rincontrati – come Hansel e Gretel – Neandertal e Cro-Magnon. I fratelli scomparsi. E per qualche migliaietto d’anni, in Palestina, hanno vissuto assieme. Poi quello che è successo dopo è storia abbastanza nota: i Cro-Magnon hanno ricominciato a muoversi verso l’Europa e man mano – per i Neandertal – arrivederci e grazie. Requiescant in pace. Ora io non so se davvero noi Cro-Magnon fossimo più svegli. Certo siamo noi che facciamo l’aurignaziano, le decorazioni, le collane, la pittura rupestre eccetera eccetera: l’«anima» e la «civiltà». Ma il musteriano lo impariamo da lui. A scheggiare la pietra in quel modo, lo vediamo fare a lui. E comunque anche lui – alla fine – s’è messo a fare monili e collane come noi. Certo aveva le ossa un tantinello più grosse delle nostre, stando in un clima glaciale e dovendosi difendere meglio dal freddo. Ma la corporatura di un Neandertal non doveva essere poi molto diversa da quella di un lappone o di un eskimese di oggi. E nel Vicino Oriente abbiamo convissuto assieme, gomito a gomito e lavorando nello stesso modo – il loro, per la precisione – gli utensili. Anche se per poco. Giusto qualche migliaio d’anni. Nessuno sa come poi si sia estinto e che fine abbia fatto l’uomo di Neandertal. Le teorie – dicevamo all’inizio  – sono diverse. C’è chi pensa a un’estinzione per cause naturali quali malattie, virus, difficoltà di parto, perdita 99

del fuoco, diffusione epidemica per via antropofagica di encefalomieliti, eccetera. Fino a qualche tempo fa – come già detto – si pensava pure che non si fosse estinto e che ci fosse stata una sorta di fusione, mescolamento e permanenza della specie Neanderthalensis nella nostra Cro-Magnon-Homo sapiens (tesi già del Coon e oggi unanimemente osteggiata – soprattutto a colpi di 13 Dna – ma per la quale pure, revisionisticamente, noi continuiamo a tifare, così come tifiamo maggicamente Roma solo per partito preso, ma fino alla fine della fine). L’ipotesi più accreditata resta però quella della mattanza da parte nostra; li avremmo fatti fuori noi i Neandertal – noi Cro-Magnon – fino all’ultimo individuo, pare. Dalla Palestina saremmo risaliti su su per il Caucaso, tale e quale a come avevano fatto loro qualche centinaio di migliaia d’anni prima. E man mano che avanzavamo noi, guarda caso sparivano loro – e questo è un fatto – fino all’estremo ridotto sulle coste dell’Atlantico. Poi più niente. E c’è qualcuno che – non mi ricordo più chi – è a questa mattanza che fa risalire il mito di Caino e Abele. Dice: «Ma dietro a Caino e Abele non c’era la lotta tra agricoltori e pastori?». Certo. Abele fu pastore di pecore – dice la Bibbia – Caino invece agricoltore. Ed il Signore guardò benignamente Abele ed i suoi doni; ma non degnò d’uno sguardo quelli di Caino. Caino allora si incazzò come una bestia, ed il suo volto era furente: «Fuit autem Abel pastor ovium, et Cain agricola [...] et respexit Dominus ad Abel, et ad munera eius. Ad Cain vero, et ad munera illius non respexit: iratusque est Cain vehementer, et concidit vultus eius»1. Ma le due cose non è 100

che si escludano a vicenda, si giustappongono piuttosto, poiché la codificazione di un mito – dal suo primo sorgere nella tradizione orale fino a quella definitivamente scritta – avviene per stratificazioni successive. Ogni generazione, con i suoi cantastorie, ci aggiunge e toglie del suo, contestualizzando e magari riattualizzando il nucleo fondante e più antico del mito – in questo caso il conflitto tra due fratelli, figli dello stesso padre – con il conflitto più recente di età neolitica tra la pastorizia nomade e l’agricoltura sedentaria. Anche il racconto biblico del Diluvio Universale – che trova corrispondenze peraltro in quasi tutto il mondo, anche extra-ebraico, da Gilgamesh fino alle culture amerindie – viene spesso fatto risalire alla fine dell’epoca glaciale. Lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento della temperatura terrestre debbono avere determinato piovosità tali da non potersi non fissare in un ricordo perenne, trasmessosi poi oralmente da una generazione all’altra – proprio come noi, per esempio, con la neve del 1956 – fino appunto a fermarsi nella tradizione scritta. Certo la cosa non ha alcuna dimostrabilità scientifica. Nessuno può dimostrare che la narrazione biblica del Diluvio tragga spunto dalla fine dell’epoca glaciale, e a maggior ragione nessuno può neanche dimostrare che dietro al mito di Caino e Abele ci sia la caccia che abbiamo dato – per tutto il Caucaso e tutta l’Europa fino alle ultime sue spiagge, sul bagnasciuga appunto, in mezzo ai primi flutti dell’ocea­ no Atlantico – al «Nostro fratello Neanderthal» (come era intitolato il convegno di Sabaudia del 20062). Non c’è nessuna prova scientifica. Solo la coincidenza di un racconto 101

biblico – il primo uomo, Adamo, che mette al mondo dei figli perché lo eternino nella progenie, ma quelli la prima cosa che fanno è ammazzarsi l’un l’altro sterminandogliene sul nascere un intero ramo – con la caccia che pure abbiamo dato, se è vera la causa di estinzione più accreditata in sede scientifica, fino all’ultimo uomo dei Neandertal. È stato il primo genocidio della storia3. Anzi, il genocidio come «Inizio della Storia». E come può quindi non essersi tramandato nel racconto orale – di generazione in generazione, meglio e al pari del Diluvio – fino ad essere registrato nella Bibbia come «Caino e Abele»? Dice: «Ma non c’è prova». Ho capito che non c’è prova, è solo una congettura. Però è una congettura affascinante – mitopoietica – soprattutto ove si consideri che il mito, la Bibbia, nasce proprio lì, nel Vicino Oriente, in Palestina, dove tutti e due abbiamo convissuto per migliaia d’anni, confondendo i nostri passi e i nostri utensili e apprendendo noi da lui la cultura musteriana e dove, a un certo punto, abbiamo cominciato ad ucciderlo. Poi non ci siamo più fermati. Fino all’ultimo sangue. (Singolare è che nello stesso posto, cinquantamila anni dopo e lui scomparso da un pezzo, continuiamo a fare – arabo-israeliani – le stesse cose.) Resta però che in Palestina con l’uomo di Neandertal ci abbiamo vissuto assieme. Andavamo a scuola da lui, si può dire. E lui aveva una «cultura» non solo materiale ma anche immateriale: seppelliva i morti, aveva l’osso ioide e poi in Europa s’è messo le collane, e non poteva non avere quindi anche i suoi «miti». 102

Qui invece – in Agro Pontino – s’è costruito anche una cultura «regionale», il pontiniano appunto. E stava in un territorio circoscritto. Lo stesso territorio che per Theodor Mommsen – con la netta de-limitazione e relativa marginalità, rispetto alla dorsale appennica – 48 mila anni dopo determina le condizioni perché i Latini divengano una «nazione». Per lui, per Mommsen, i Latini erano tutto ciò che rimaneva della primissima immigrazione indoeuropea in Italia – la prima ondata – che, soppiantata poi in tutto il resto della penisola dalle ondate successive, s’era ristretta nel Lazio come ultimo fortino, protetta da quei confini. Una specie di «Ridotto in Valtellina» anche per loro. Ridotto che però questa volta ha funzionato, determinando – con la sua specifica geografia fisica – il loro formarsi in «nazione», primo Stato nazionale di tutto l’Occidente4. Dice: «Vabbe’, ma mo’ te ne esci pure con Mommsen?». Ahò, e loro se ne uscissero con White. È chiaro che pure Mommsen è datato – è datata anche la Bibbia – almeno in alcune sue singole questioni. Ma l’impianto generale e le intuizioni di massima no. Quelle restano. Mica le cancella il primo che passa. Io non voglio dire, poi, che quando Plinio il Vecchio fa l’elenco di tutti i popoli che prima dei Latini avrebbero abitato questi luoghi – «Aborigines, Pelasgi, Arcadi, Siculi, Aurunci, Rutuli, et ultra Cerceios Volsci, Osci, Ausones»5 – tra gli Aborigeni, i Pelasgi e gli Arcadi, metta magari pure quelli che noi chiamiamo Neandertaliani. Sono passati 48 mila anni quando lui scrive, nessuno lo può dire. Però nemmeno si può escludere del tutto. Kunta Kinte non torna in Africa – o meglio, un suo lontano pronipote6 – 103

più di 150 anni dopo e sente, da un cantastorie, raccontare del suo rapimento? E noi – che pure abbiamo perso l’arte della tradizione orale – noi non stiamo appunto ancora a parlare della neve del ’56? E tu ti meraviglieresti se un lontano ricordo di quei fatti fosse arrivato anche a Plinio e ai Prischi Latini? Ma tu allora non hai idea di cosa è la tradizione orale. (In ogni caso gli Aborigeni, per gli antichi, non erano niente di più dei primi uomini che avessero abitato una certa terra – autoctoni, cioè auto-ctoni, nati dalla terra stessa – ed è quindi almeno etimologicamente fuori dubbio che, anche se non propriamente nati dalla terra stessa, gli Aborigeni europei, i primi che abbiano abitato questa terra, e quindi giustappunto i pliniani Aborigeni laziali, siano proprio i Neandertaliani. O no? In fin dei conti, anche sul «nato dalla terra stessa» è d’accordo con loro pure la Bibbia. Dio infatti fa tutte le cose solo col pensiero, o meglio con la parola, il Verbo: «In principio erat Verbum [...] et deus erat Verbum»7, ossia in principio era il Verbo e il Verbo era Dio. E Dio disse: «Fiat lux. Et facta est lux», e la luce fu8, e così per tutto il resto. Lui nomina le cose, le piante, gli animali e quelle sono. Ma per l’uomo no. «Formavit igitur Dominus Deus hominem de limo terrae»9: lo fa, lo plasma col fango della terra.) Plinio dice: «A Tiberi Cerceios» – dal Tevere al Circeo – «Latium Antiquum [...] servatum est»10. Ora si dà il caso che il Lazio antico – il Latium Vetus – non vada poi in effetti «dal Tevere al Circeo», ma finisca un po’ più in là, ad Anxur-Terracina, all’estrema propaggine di Monte Leano della catena Albani-Lepini-Ausoni. 104

E dal Tevere a Terracina sono 96 chilometri, mentre fino al Circeo sono solo 88. Ben 8 chilometri di meno. Perché quelli invece – i Latini – dicono: «Al Circeo»? Perché non dicono: «A Terracina»? (Dice: «Perché era volsca?». Ma tu sei scemo. Anxur-Terracina diviene volsca solo tra la fine del VI e gli inizi del V secolo avanti Cristo.) A chi li lasciano quegli otto chilometri in più? Li lasciano al mito, ecco a chi li lasciano, poiché chiunque per caso vada sui Colli Albani e si affacci ad una qualunque delle terrazze che da Lanuvio, gradualmente, si inerpicano su su oltre Velletri fino alla cima del Monte Artemisio – dove annualmente i popoli del Lazio antico si riunivano per le Feriae Latinae a mangiare dopo i sacrifici la carne assieme, «carnem [...] soliti accipere»11, per rinnovare un anno dopo l’altro, sacralmente, i patti federativi – non può non vedere, mitopoieticamente incombente come un gigantesco cuppolone de San Pietro sulla intera piana dell’Agro Romano-Pontino, dal mare, la solitaria ed assoluta presenza del Monte Circeo. Vacci anche tu, e poi vedi se non lo vedi. Lui sta da solo là – con quella forma umana – a sovrastare di qua dai vulcani d’Alba l’intero Latium Vetus. Cosa vuoi quindi che gli fregasse agli antichi Latini di dire «Terracina», quando dai Monti Albani s’affacciavano a guardare per lungo e per largo le terre della loro nazione? Quelli dicevano: «A Tiberi Cerceios»12, «Dal Tevere al Circeo». Che gliene fregava di tutti gli altri chilometri in più, fino a Terracina? È chiaro che c’erano anche quelli e c’era pure Terracina, ma il Terminus sacro per i Latini – il dio che presiede ai confini, il mito e la mitopoiesis – è il 105

«cuppolone» del Circeo. Vai sui Colli Albani, affacciati, e lo capisci subito. E non per niente è lì che secondo la tradizione va a sbarcare Ulisse-Odisseo, è lì che ha il suo dominio la Maga Circe ed è lì – oserei dire – che Ghira, Guido e Izzo vanno ad ammazzare la gente, perché al sacro, al sacer in antico, non è legato solo il fausto, il fas. Ma anche e spesso di più il nefas, il nefasto. E allora tu mi devi dire perché questo sputo di montagna, che è sembrata tanto sacra agli antichi Latini e che ancora sembra tanto sacra pure a quelli di oggi – e non solo così nefandamente come a Ghira-Guido-Izzo, ma proprio a tutti i romani di oggi, che pur d’arrivarci si mettono ore e ore in fila, incolonnati a passo d’uomo sulla Pontina, a farsi fare anche la multa dall’autovelox le poche volte che la trovano sgombra – perché non deve essere sembrata sacra, o almeno mitica e mitopoietica pure al Neandertaliano? Solo a noi, eh? Lui no, lui è stupido. Seppelliva i morti, si metteva le collane, elaborava culture regionali sino a divenire oggettivamente «nazione» e non poteva avere una cosmogonia – per quanto arcaica e primitiva – un apparato mitologico anche lui, una religio? No, lui no. E se – guarda caso – certi morti se li andava a seppellire proprio lì sotto, chiudendo la grotta dopo avergli fatto intorno un cerchio di pietre ed averne celebrato l’eucaristia, no: «È stata la iena». E sono pure casuali tutti quegli strumenti litici davanti alla grotta: «Ma quale tomba di una specie di santo, chi te lo ha detto a te, che venivano lì a pregare? Quelli passavano di lì tutti per caso, e per caso 106

perdevano gli strumenti». Ma io ti vorrei vedere a te, il giorno che scavando sotto San Pietro a Roma trovano un teschio in mezzo a un cerchio di pietre – o nella fattispecie a una croce – e tu ti presenti a dire che è stata una iena e che la croce è casuale come sono casuali tutti quei pellegrini polacchi che stanno lì sulla piazza. Ma sai le botte che ti danno – a te – i polacchi? «Situazioni uguali conducono dappertutto ad istituzioni uguali», afferma Mommsen13. Dice: «Vabbe’, ma sotto al Circeo mica ci sta davvero il corpo di san Pietro». Certo. Ma manco a San Pietro a Roma però, almeno fino a adesso. La tradizione infatti dice di sì, ma a trovarlo non lo hanno mai trovato. Vallo a cercare tu, se sei capace. La questione comunque non sta nel corpo di san Pietro esattamente lui – il primo papa – con la tomba, il piazzale e la basilica propriamente sua, ma di tutto ciò che più in generale si definisce come materiale-immateriale, apparati culturali e mitologici, ethos ed eidos, religio, nazione, rappresentazioni simboliche e tutta questa roba qui. E in ogni caso – anche se non c’era proprio san Pietro, sotto o sopra il Circeo con tanto di basilica – c’erano però il tempio di Atena e della Maga Circe, e financo una tazza «appartenuta a Odisseo»14. Il monumento più importante di tutto il paese di San Felice Circeo è tuttora la fortezza dei Templari, una delle roccaforti più massicce del Lazio. Io purtroppo non sono un patito dei Templari e non ne conosco quindi a puntino tutta la storia ed il ruolo strategico che – in questa storia ed in quella più complessiva della ricerca del Sacro Graal 107

– possa avere giocato il Circeo; anche perché i Templari non ci si fermano a lungo15. Pare però – tu guarda certe volte il caso – che questo benedetto Sacro Graal non fosse altro, pure lui, che una «tazza». Vuoi vedere che magari, fra i Templari, c’è stato qualcuno che per un certo tempo s’è pensato che potesse trattarsi della stessa identica «tazza» – proprio quella, sempre lei – da Odisseo-Maga Circe a Gesù Cristo? Ora è chiaro che qui stiamo nel campo delle congetture più astruse e romanzesche e non in quello della scienza. Su questo non si discute. Onestà intellettuale vuole inoltre ch’io confessi che questa suggestione non è peraltro interamente mia, essendo già stata, in parte, più autorevolmente espressa dal Gregorovius: «Così i Templari divennero proprietari del Promontorio, dove ancora durava la leggenda di Circe, la figlia del Sole, e dove era mostrata la coppa di Ulisse, il ‘graal’ di questo antico monte incantato»16. Congettura per congettura, però, io credo che vadano pure sottolineate queste strane e ripetute associazioni – nel corso del tempo – tra crani, graal e coppe per bere. Si noti difatti: a) che i Templari avevano sulla bandiera un teschio; b) che Gesù viene ucciso sul monte Golgota o Calvario, che nelle rispettive lingue, ossia Golgotha in aramaico e Calvaria in latino, significano esattamente cranio; c) che il Monte Circeo, oltre a custodire nelle sue viscere quel famoso cranio di Neandertal, ha esso stesso l’aspetto d’un cranio; d) che quel cranio custodito nelle viscere del Circeo ha 108

il forame occipitale allargato, tanto da non far escludere allo stesso Blanc che «esso sia servito di recipiente o coppa, per pratiche magico-religiose»17; e) che è comunque più che attestato l’adattamento ed uso dei crani come tazze da bere, vedi per esempio il famoso: «Bevi, Rosmunda, dal teschio di tuo padre» (che seppure parodia giovanile di Achille Campanile18, trae però spunto dai fatti veri del 527 d.C., quando Alboino re dei Longobardi – dopo avere ucciso e sconfitto in battaglia Cunimondo re dei Gepiti, come racconta Paolo Diacono – prese in sposa Rosmunda figlia di Cunimondo, ed una sera a cena si mise a bere il vino in una coppa ottenuta dal cranio del suocero, obbligando a bere anche Rosmunda. Lì per lì la poverina bevve, ma poi si mise d’accordo con Elmichi, cavaliere del marito, se lo fece amante, ed insieme ammazzorno Alboino19. Poi lei si fece amante anche di Longino, l’esarca di Ravenna, e tentò d’avvelenare Elmichi, che però – accortosi d’aver bevuto in una coppa avvelenata – obbligò Rosmunda a bere pure lei, e arrivederci e grazie a tutti e due. Mo’ però se quest’ultima coppa era anche lei un cranio, un graal o un normale bicchiere, Paolo Diacono lo lascia in sospeso). E in ogni caso è ancora lì – al Circeo – che Izzo, Guido e Ghira vanno ad ammazzare la gente. Dice: «E che c’entra? Ma che sei scemo? E mica si può fare storia con il Graal, i Templari, Ulisse e la Maga Circe e tutte le superstizioni magico-religiose di questo tipo. Mica ci crederai per davvero?». Assolutamente no. Forse. Figuriamoci. Ma il punto non è questo. Che te ne frega difatti a te o alla Storia di ciò a 109

cui credo o non credo io? Il punto è che ci credano o ci credessero quelli là. È questo ciò che conta. Vallo a chiedere ai polacchi, se non ci credi tu. Qui non si tratta cioè di vedere se ciò che «dicono» i miti corrisponde al vero o al falso. Qui si tratta di prendere atto che i miti «esistono» e che – al di là del fatto che «dicano» il vero o il falso – in quanto esistono, «agiscono». Poi, per quanto mi riguarda, io, per non saper né leggere né scrivere, tutte le volte che passo davanti alla Madonnina della Santa Croce a cento metri da casa mia, all’angolo della Via del Pozzo, io – specie se non c’è nessuno che mi veda – mi faccio il segno della croce. Hai visto mai? Male in ogni caso non mi può fare. Mica mi mena la Madonnina. Anzi, da oggi in poi tutte le volte che debbo andare al Circeo – pochine spero, perché tra Circeo e Sabaudia per me, che ne so, c’è un’aura che non m’ispira – passando per Grotta Guattari da oggi in poi mi faccio il segno della croce pure là. Ma tu davvero hai visto mai? Quello era il Genius dell’Agro Pontino. Non sarà vero e non ci credo, ma sia col sacro che col nefasto – scrive Croce – non si scherza. Guarda Ghira, Guido e Izzo. Dice: «Ma ancora con questa storia di Ghira e company? Ma tu che vuoi dire, per caso, che se invece del Circeo venivano a Foceverde, non ammazzavano?». No, anzi. Avendo piuttosto – nel profondo di sé – già deciso d’ammazzare, quelli apposta andarono al Circeo20. Arrivati a questo punto però, io mi rendo pure conto che con Rosmunda e con il Graal siamo andati un po’ più in là. 110

Forse era davvero meglio che con questa storia ci avessi fatto un romanzo. C’erano tutti gli elementi – dal cranio sotto la grotta a Ulisse e ai Templari, da Caino e Abele fino agli Indiana Jones che si affrettano chi a mettere e chi a levare le pietre – per fare i bozzi anche a Dan Brown. E invece mi sono intestardito a voler restare sul puro piano di quelle che si chiamano controconfutazioni scientifiche, col rischio – in corso d’opera – di miscelare assieme delle robe che non si azzeccavano tra loro e, alla fine, sparare magari pure qualche puttanata. Non credo, ma non si può mai sapere: le cantonate le pigliano tutti a questo mondo. Mi dimostrassero eventualmente dov’è che ho sbagliato, e chiedo subito scusa. Per il momento, però, a me sembra che il discorso resti tutto in piedi, poiché io non ho fatto altro – come un ragazzino – che prendere semplicemente in mano i tasselli di un puzzle che già stavano sul tavolo e rimetterli poi in fila neanche fossero numerati. Questi pezzi di puzzle erano: 1) la grotta chiusa sotto il monte; 2) il cranio con il foro allargato; 3) il cerchio di pietre; 4) gli strumenti in situ, nella grotta chiusa; 5) gli strumenti fuori della grotta; 6) il pontiniano; 7) l’Agro Romano-Pontino nelle sue relazioni con il Monte Circeo; 8) quel poco che si sa di materiale-immateriale sull’uomo di Neandertal (musteriano, sepolture, osso ioide, monili e oggetti decorati); 111

9) il Monte Carmelo in Palestina e le relazioni con il Cro-Magnon. Mo’ sei tu scienziato che con gli stessi pezzi mi devi far vedere un disegno diverso, perché sei tu che me li hai messi in mano via via che li buttavi – «Tie’, stanno là, a noi non ci servono più» – per tenerti stretto ed aggrappato a due soli graffi «compatibili», secondo White, con la iena. Io comunque non facevo il paleontologo, io lavoravo in Fulgorcavi. Che ne potevo sapere di una cosa chiamata «pontiniano»? Sono loro che me lo hanno detto, i libri loro. E se non erano anche loro a dirmi che esisteva solo qui, quando mi sarebbe venuto in mente di parlare di «nazione»? Mo’ è colpa mia se l’uomo di Neandertal non se ne restava solo sul Circeo – come preferirebbe qualcuno – e veniva invece a rompere i coglioni fino a casa mia, a cinquanta e passa chilometri da lì? Poi due più due fa quattro, non è che ti sbagli, è buono – ripeto – pure un ragazzino. Io ho solo raccattato i pezzi e montati assieme. Ho preso una cantonata? Me la facessero vedere. Dice: «Vabbe’, ma com’è che a loro gli era venuto un disegno diverso?». E che ne so. Forse non sono capaci a fare i puzzle. «E perché si sono incaponiti con la iena?». Ah, be’, mica sono il mago Otelma. «Je n’enseigne rien, je raconte», dice Montaigne. Io non insegno e non spiego niente, io racconto e basta.

Capitolo settimo

A me – a dire la verità – all’inizio m’era pure venuto il sospetto che si trattasse del solito caso di noi italiani, che appena arriva uno dall’America e dice «Ho fatto una pensata», subito esplodiamo in coro: «E come no? Ciài ragione tu». Veltroni ci fece un congresso dell’ex Pci con lo slogan a tutto campo «I care», roba che i compagni poi, in fabbrica, di notte facevano la fila a chiedere: «Ma che cazzo vòr di’ st’Icàre?». Poi dice perché adesso votano per Berlusconi. Senza americani peraltro non si va da nessuna parte. Quelli sono il centro dell’impero e senza di loro – senza i loro convegni, le loro riviste – come la fai la ricerca scientifica? Così noi abbiamo assunto tutti i loro modelli culturali e formativi. È «la specializzazione perversa: so tutto di una cosa sola e niente di tutto il resto»1. Ora – anche da noi – «fare scienza» pare significhi solo sezionare all’infinito il più piccolo particolare senza mai azzardarsi a metterlo in relazione con il generale. Dissezioniamo e basta. La ricomposizione è peccato mortale. E mo’ ci mettevamo a dare sulla voce a un americano? Ma tu sei matto: se loro 113

dicono iena, l’unica è dire iena più forte di loro. O almeno così immaginavo all’inizio. È stato il prof. Mortari – il geologo – che m’ha messo un’altra pulce nell’orecchio: «Si sforzi. Può essere che non ci arriva?». «Eh?» facevo io. E gli ripetevo: «Be’, i modelli formativo-culturali, i finanziamenti». «Sì, sì», faceva lui, «ma c’è dell’altro, si sforzi... Allora?». «Boh», gli rifacevo io. «Aargh! Da dove viene tutta questa storia?». «Dall’America». «Bravo. E cos’altro viene dall’America?». «...la Coca-Cola?». «Ma quale Coca-Cola!? Il teo-con!». «Eeeeh?». «Il teo-con!», s’è riarrabbiato lui: «Il creazionismo, l’antievoluzionismo, l’attacco a Darwin». «Aaaah!», ho assentito subito, ma dentro di me pensavo «Ma che stai a di’?», anche se per fortuna m’è venuto in mente un mio professore, un vero genio della paleografia, che all’esame di Cronologia e cronografia – quando a un certo punto, non so come, il discorso cadde sugli extraterrestri – mi disse: «Ma perché, scusi, secondo lei, e si vada a rileggere le Scritture, a Sodoma e Gomorra cos’è stato, non è stata un’esplosione nucleare?», e solo per non avergli detto subito di sì e per avere fatto la faccia stupita mi ero giocato la lode. Mi diede trenta e basta: «L’avevo fatta più intelligente». È per questo – ricordando quel fatto – che ho detto 114

subito di sì a Mortari: «Ma certo, professo’!». Capirai, per me l’importante era che m’avesse assicurato che «un cer­ chio siffatto non si trova da solo in natura». Poi poteva dire quello che voleva, io lo seguivo pure in capo al mondo. Riflettendoci, però, m’è poi sembrato evidente che se uno per caso avesse a dover difendere l’unicità della crea­ zione da parte di Dio – «Ha fatto tutto Lui, a Sua immagine e somiglianza» – non è che possa poi accettare di punto in bianco che in mezzo ai piedi, a un certo punto, gli sbuchi all’improvviso un’altra specie di uomo diversa da lui ma dotata come lui di tutti i sentimenti. E che avrebbe fatto allora questo Dio, ne avrebbe fatti due? Non sono più io, quindi, l’unico e solo, fornito di anima direttamente dalla casa madre? L’anima è diventata un optional che possono avere tutti? Ma questa è «evoluzione». E se c’è stata evoluzione, l’intervento di Dio che fine fa? Qual è il momento – lo stadio, l’anello – in cui Dio cala dall’alto e ci dà il soffio: «Inspiravit in faciem eius spi­ raculum vitae, et factus est homo in animam viventem»2? Poiché se l’anima stava anche nel Neandertaliano – e noi Cro-Magnon pertanto non siamo che uno dei tanti anelli di una catena evolutiva – allora l’anima stava pure nell’Heidelberg, nell’Habilis, nell’Afarensis e su su fino alla scimmia e forse pure a tutti gli altri animali. Sai che casino gli si viene a creare a uno che fosse un rigido «crea­ zionista»? L’unica per lui – l’eventuale creazionista che vuole mantenere il punto – è dimostrare a tutti i costi che il Neandertaliano non capiva niente: «Miti e pensiero religioso? Ma se neanche parlava, era un ominide, uno scim115

panzè e le poche cose che ha fatto, ammesso pure che le abbia fatte, le ha copiate da noi o ce le ha proprio rubate». Certo rimarrebbe da spiegare perché – se ci era tanto inferiore – gli abbiamo dato la caccia fino all’ultimo sangue. Che fastidio ci dava? Lo potevamo addestrare e ce lo tenevamo come cane. Adesso ci tornava pure utile per i trapianti. Comunque a me è qui che m’è rivenuto in mente un’altra volta quel mio professore di Cronologia e cronografia: «Ancora nel 1650 l’arcivescovo di Armagh, James Ussher, calcolava in base al Vecchio Testamento che la data di crea­ zione della terra fosse il 4004 a.C. John Lightfoot, allora professore al St. Catherine College di Cambridge, precisò ulteriormente tale data dichiarando che la creazione era avvenuta il 23 ottobre 4004 a.C., alle nove del mattino»3. Il mio professore, poi, diceva che ancora a fine Ottocento – quando cominciarono ad uscire i fossili e a prendere corpo la geologia come studio e datazione delle stratificazioni – i preti sostenessero: «Mbe’ che c’è? Ma scusate, se Dio è creatore con un solo sguardo, con un solo stesso sguardo può avere creato tutta la terra esattamente così come sta, pure coi fossili che sembrerebbero avere milioni di anni; ma è Lui che li ha fatti apposta così, già vecchi, per mettere alla prova la nostra fede; e li ha fatti tutti assieme, nello stesso momento, nel 4004 a.C. alle nove del mattino». Con un pochino più di fede, però, uno – volendo – potrebbe pure dire che la creazione è avvenuta ieri e l’uomo di Neandertal non è proprio mai esistito: Dio lo ha creato ieri mattina così come sta, un cranio fossile con il buco 116

allargato e stop. Anzi, lo ha creato direttamente nei magazzini del Museo Pigorini e anche il prof. Giacobini ed io non ci siamo mai visti in vita nostra: Dio ci ha creati ieri e ci ha messo però nella testa, come alla Microsoft, alcuni ricordi comuni di due fantasmatici convegni a Sabaudia. Anzi, pure Sabaudia manco esiste e manco esiste pure Giacobini: Dio ha creato solo me, e sono io che sto illusoriamente credendo che esista tutto il resto e, così facendo, sono io che lo sto creando; non sono difatti «a Sua immagine e somiglianza»? Altro che Second Life. Dice: «Ma questo è Borges». No, queste sono le cazzate che ci raccontavamo Dario Evangelista ed io da ragazzi di notte quando facevamo avanti e indietro fino all’alba dal Bar Dante al Bar del Gobbo al Bar Poeta – gli unici bar notturni aperti ininterrottamente allora a Latina, non chiudevano mai, nemmeno a Pasqua e Natale; adesso chiudono alle otto della sera pure loro e, anzi, il Bar Poeta è chiuso del tutto, pure se è proprietà del Comune – con la pantera della Mobile che ogni tanto ci affiancava e il maresciallo Polidori, affacciato al finestrino, con quella voce bassa da mastino ci diceva: «Ma annàtevene a dormi’, ve possin’ammazzà». Manco il maresciallo Polidori però – che a Latina era più considerato del tenente Sheridan – sarebbe mai venuto a capo del falso di Piltdown. Dice: «E che c’entra mo’ il falso di Piltdown?» Ahò, quello è il falso più importante della storia. Fino ad allora, fino a tutta la prima metà del Novecento il centro delle scienze storico-naturali non stava mica in Francia o tanto meno in Usa, stava in Inghilterra – in Gran 117

Bretagna – che era la patria, giustamente, di Darwin e di tutta la sua scuola. Un certo giorno del 1912 però, l’archeologo dilettante Charles Dawson, che di mestiere vero faceva l’avvocato, si era presentato al professor Smith Woodward del British Museum a dirgli che in una cava di ghiaia a Piltdown – a una trentina di chilometri a sud di Londra, nel Sussex – stavano affiorando resti fossili a tutta callara. Più gli operai scavavano questa ghiaia – o sabbia che fosse – e più sgorgavano i fossili. Woodward chiama subito un po’ d’allievi, qualche altro amico suo e via di corsa tutti quanti appresso a Dawson per la strada di Piltdown. Arrivati lì, tutti dietro agli operai a cercare e rovistare di qua e di là, mentre quelli scavano la sabbia – o ghiaia che fosse – per i fatti loro. Com’è come non è – «Ullallàh!» – a un certo punto il professor Woodward e l’avvocato Dawson trovano proprio loro due, in mezzo alla ghiaia, un teschio umano con un osso mandibolare. Woodward religiosamente lo raccatta e torna di corsa a Londra a farlo vedere a sir Arthur Keith, che era insieme a lui – anzi, sir Keith un po’ di più – la massima autorità mondiale della disciplina. Tutti e due giustamente darwiniani atei e materialisti, dopo avere appena riguardato il teschio fanno squillare tutte le fanfare dell’Impero britannico: «Ecco l’anello mancante! Finalmente lo abbiamo trovato». Il cranio era difatti di tipo assolutamente umano e con una capacità cerebrale addirittura molto sviluppata, mentre la mandibola era invece ancora identica a quelle delle scimmie antropomorfe, eccetto per i denti molari 118

che erano di tipo umano anch’essi, mostrando le superfici di masticazione meravigliosamente piatte. Un mix quindi di uomo e di scimmia che dimostrava una volta per tutte l’esattezza delle teorie di Darwin. Era l’anello finora «mancante», che testimoniava al di là d’ogni dubbio, oramai, la fase di passaggio della catena evolutiva dalla scimmia all’uomo: prima eravamo scimmie, poi ci eravamo man mano evoluti in «uomo di Piltdown» – mezzo uomo e mezzo scimmia – e poi finalmente in «uomo e basta». Gli scavi successivi portarono anche alla luce altri svariati fossili animali – tra cui un molare di elefante preistorico – che attestavano una datazione antichissima di tutto l’insieme ad almeno 500 mila anni b.p. A quei tempi non c’erano ancora i sistemi di datazione al fluoro, al carbonio radioattivo eccetera, che sono arrivati dopo. Allora era «l’insieme» che datava i reperti; ossia se tu trovavi un oggetto di datazione incerta nello stesso strato in cui giacevano altri oggetti della cui datazione eri però più che sicuro – sapevi cioè con precisione, almeno di questi, di che epoca erano – anche l’oggetto fino ad allora «incerto» assumeva d’autorità, come datazione, la stessa epoca degli oggetti già certificati (oggi naturalmente non è più così, non è cioè l’insieme dello strato che data i singoli reperti, ma è il reperto più recente – ossia la roba più nuova che s’è depositata, al di là di quanta altra vecchia ce ne sia – che data l’intero strato. Per capirci: io posso pure trovare in una buca un vaso antico con un mucchio di monete antichissime dentro, ma se assieme c’è un Rolex è evidente che quel vaso – seppure antico – non può essere stato interrato che un po’ più di recente). 119

A 500 mila anni b.p. fu comunque datato – in forza degli altri reperti rinvenuti nello scavo – l’«uomo di Piltdown». Mezzo milione d’anni fa. E così relegò in un angolo, come falso o chincaglieria, qualunque altra cosa fosse stata scoperta prima e – soprattutto – venisse scoperta anche dopo. Raymond Dart trovava «il bambino di Taung» in Africa o Davidson Black il sinantropo in Asia? Se li dovevano sbattere, perché se no Woodward e sir Keith glieli tiravano appresso: «Non concordano con Piltdown, non fanno scienza». Per quasi quarant’anni. L’inghippo venne fuori solo nel 19494 quando si presentò un altro dilettante – Alvan Marston, un dentista questa volta – pure lui inglese. Questo Marston era stato preso a male parole dagli specialisti di professione per un cranio che aveva trovato lui, e che era stato però sottoposto ai test di datazione al fluoro, introdotti da poco: «Troppo nuovo sto cranio rispetto a Piltdown» gli avevano detto. «Pussa via». Lui allora s’era fatto rodere (non c’è niente di peggio a questo mondo d’un dilettante che si fa rodere. Quello è uno che non ha niente da perdere, e contestualmente invece ha tutto il tempo che vuole per starti alle costole e cucinarti nel silenzio la sua vendetta), e tanto fece e tanto brigò che alla fine riuscì a far fare gli stessi test al fluoro anche al cranio di Piltdown. Sorpresa! Sia il cranio che la mandibola risultarono avere non più di 500 anni di età. Risalivano al massimo al XIV-XV secolo dopo Cristo. Altro che i 500 mila b.p. che avevano sempre detto Woodward e sir Keith. Erano dell’altroieri, non della più remota paleoantichità. 120

Ma questo non era tutto, c’era pure dell’altro. Il cranio cioè – anche se fresco fresco come un uovo di giornata, appena uscito, come si suole dire, da un ano di gallina – era sì, sicuramente umano. Ma la mandibola no. La mandibola era di un orangutan e qualcuno li aveva apposta «appiccicati» assieme per poi deporli premeditatamente tra le ghiaie di Piltdown. Il lavoretto non era stato fatto male, operando ben bene di lima sui molari per renderli piatti proprio come quelli umani. Non per niente se n’era accorto Marston, che se come archeologo era un dilettante, come dentista era pane suo. In ogni caso, quel figlio di buona donna che aveva limato i denti e accroccato il tutto, aveva pure magistralmente fatto saltare un pezzettino dell’articolazione che lega la mandibola al cranio, rendendo il delitto quasi perfetto. Adesso però – dopo che se ne era finalmente accorto Marston – i graffi della lima sopra i denti riuscirono a vederli tutti quanti. Era il 1949 e il prof. Woodward – per sua fortuna – era già morto. Quando però andarono a dirlo a sir Keith – oramai anche lui un po’ in là con gli anni – pare che sir Arthur Keith abbia detto solamente: «Mi ci vorrà un po’ di tempo per abituarmi». Poi si mise a letto e di lì a breve se ne dipartì: «Arrivederci e grazie, me ne vado all’altro mondo». Anche l’intera scuola inglese però – che era sempre stata giustamente la prima fin dai tempi di Darwin – non gli sopravvisse a lungo: sopraffatta dall’ineluttabile onta, dovette ammainare la bandiera e passare lo scettro di questi studi a francesi ed americani. 121

Dice: «Ma come avevano fatto quelli, a suo tempo, ad abboccare? Non erano dei superscienziati, il meglio che c’era sulla terra?». Compa’, è la natura umana. Quando tu ti metti lì che vuoi trovare per forza e ad ogni costo una cosa, poi, quando finalmente credi d’averla trovata – fosse pure una iena che sta a fabbricare la cupola di San Pietro, a scrivere la Divina Commedia o a correre in Formula 1 – be’, a te non ti sposta nemmeno Cristo: devi prendere per forza la murata in faccia. Come a Livorno per esempio – qualche anno fa – con le «teste di Modigliani». Tutti dicevano che Modigliani – da giovane – avesse buttato tre «teste» nel canale perché non gli erano venute bene: «Stanno là, basta che riscaviamo e le troviamo». Allora tre ragazzi hanno preso dei blocchi di pietra, si sono messi con il Black & Decker, hanno fatto tre specie di teste e le hanno buttate dentro l’acqua di notte proprio mentre – per la prima volta dopo secoli – il Comune aveva finalmente deciso di ripulire i canali. Così due giorni dopo le teste sono state trovate e tutti i maggiori storici dell’arte – su tutti i giornali e le televisioni di tutto il mondo – a magnificare: «È Modigliani, è Modigliani!». Gli hanno dovuto far vedere la cassetta quelli là – la cassetta registrata mentre le facevano con il Black & Decker le teste – se no ancora ci credevano. Ancora stavano – per gli storici dell’arte – dentro i musei sul palco d’onore. «Gli Dei», dicono gli antichi, «rendono anche ciechi coloro che da sé stessi hanno già deciso di perdersi». Ma con questo non voglio dire: può anche essere – che ne sai? – che magari erano pure più belle 122

di quelle vere che aveva fatto e poi buttato Modigliani. Valle a trova’. Dice: «Vabbe’, ma almeno s’è saputo chi era stato l’autore del falso di Piltdown?». No, con sicurezza no. Era passato troppo tempo – 1912-1949 – dalla consumazione del delitto alla sua scoperta, perché qualcuno potesse ragionevolmente pensare di riuscire a prendere l’assassino e costringerlo a confessare. Pure il maresciallo Polidori diceva che – 99 volte su 100 – o ci riesci entro le prime 48 ore o non ci riesci più. L’assassinio rimane per sempre impunito. Comunque, i sospetti maggiori si addensarono all’inizio su Dawson, l’avvocato archeologo dilettante che per primo – «Ahò, ce stanno certi fossili a Piltdown» – era andato al British Museum a chiamare Woodward, ce lo aveva accompagnato e poi, insieme a lui, aveva pure trovato il cranio. Il povero avvocato però – e anche questo fu immediatamente chiaro a tutti – non solo non possedeva le sufficienti cognizioni tecnico-scientifiche, ma nemmeno avrebbe potuto avere accesso a quel minimo di opportunità che erano pure necessarie alla bisogna. Gli ulteriori esami dimostrarono – per esempio – che il dente di elefante antico proveniva da uno scavo in Tunisia. Come avrebbe fatto l’avvocato Dawson a procurarselo? Era solo un attore inconsapevole quindi l’avvocato o – al più – un complice secondario. Ma l’assassino doveva per forza essere qualcuno del ramo. Si fecero allora i nomi di due grandi professoroni, due vere personalità del mondo accademico (Grafton Elliot Smith e William Sollas), che avevano più di qualche mo123

tivo di rivalsa sia contro Woodward che contro sir Keith. Mo’ non è qui il caso di stare a fare considerazioni sulla cosiddetta giungla accademico-universitaria. C’è un professore inglese – David Lodge – che ha scritto una serie di romanzi di successo, ironico-satirici, sulle lotte all’ultimo sangue che si svolgerebbero diuturnamente tra i corridoi delle università e le sale d’aspetto degli aeroporti e dei convegni di studio internazionali. Stanno sempre sugli aerei – dice lui5 – a inseguirsi l’un l’altro, di convegno in convegno, coi kriss malesi avvelenati dentro le valigie. In ogni caso, se i responsabili fossero davvero stati Smith e Sollas – i due accademici – la beffa si sarebbe dovuta disvelare subito, o almeno a breve termine, per poter andare a segno ed ottenere l’effetto voluto, cioè colpire i destinatari coprendoli di ridicolo e assaporare finalmente il dolce gusto della vendetta. E se no che l’avevano fatta a fare? Per farla dormire quarant’anni e svegliarsi solo quando erano morti tutti? Non scherziamo, neanche il peggiore – nel senso di imbranato – accademico inglese di un libro di Lodge arriverebbe a tanto. Anche Sollas e Smith vennero quindi esclusi e – per farla breve – non si è mai saputo con certezza chi fosse il colpevole. Resterà per sempre sconosciuto. Neanche il maresciallo Polidori ci sarebbe riuscito. Il solo Louis Leakey però – almeno lui – un’idea abbastanza precisa ce l’aveva. Leakey difatti (1903-1972) è lo scopritore di Homo habilis e di Australopithecus robustus e – ai suoi esordi – di pesci in faccia ne aveva ricevuti anche lui parecchi da Woodward e da sir Keith. Richard Leakey invece, il figlio (1944), è quello che i pesci in faccia 124

ritiene di averli avuti da White – il guru americano nostro della iena – e dai suoi amici Johanson etc.6. Louis Leakey comunque era convinto che l’autore del falso di Piltdown fosse il teologo, paleontologo e antropologo gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin (18811955). Questa tesi peraltro venne poi ripresa nel 1980 sul «Natural History»7 anche dal più accreditato dei divulgatori scientifici, lo storico della scienza, zoologo e geologo statunitense Stephen Jay Gould (1941-2002), che invece ne era proprio sicuro: per lui era Teilhard e non si discute (Gould però non data la scoperta dell’inghippo al 1949, ma al 1953, quando Oakley, Weiner e Le Gros Clark – che erano tra quelli messi in allerta e «torturati» dal nostro Marston, il dentista – misero il crisma ufficiale sulla faccenda8. Del resto provaci tu ancora oggi, da dilettante, a fare una scoperta. La tua scoperta non vale, non esiste, e comincia a «fare scienza» solo dopo che ci mette il bollo l’accademia. Le possono sparare solo loro le cazzate). Teilhard de Chardin in ogni caso – poco più che trentenne – c’era pure lui quel giorno del 1912 nella cava di Piltdown insieme all’avvocato Dawson e al povero Wood­ ward del British Museum, quando fecero la sensazionale scoperta. Lui chiaramente non era mai stato inserito nel novero dei sospettati – «Che stai a scherzare? Quel sant’uomo di Teilhard de Chardin?» – ma Leakey ne era così sicuro che si rifiutò perfino di partecipare, nel 1971, ad un simposio a lui dedicato9. A differenza del povero e sprovveduto avvocato inglese Dawson, Teilhard de Chardin avrebbe avuto non solo le necessarie conoscenze scientifiche, ma soprattutto le op125

portunità pratiche, tra cui – e non ultime – certe frequentazioni nordafricane, esattamente come nordafricana si era rivelata la provenienza del dente di elefante preistorico che, ricordiamo, era stato proprio l’asso di bastoni per datare tutto l’insieme a 500 mila anni prima. Veniva da lì quel dente, dalla Tunisia, e – guarda caso – quel famoso giorno del 1912 a Piltdown era stato così «fortunosamente» ritrovato proprio da lui, da Teilhard de Chardin. Gli altri non se ne erano neanche accorti10. Se era per loro, stava ancora là. Ora io non so se sia stato per davvero Teilhard de Chardin, ma certo Leakey lo pensava e Gould ci avrebbe giurato11. Tutti però sanno – o almeno tutte le enciclopedie recitano – chi è Teilhard de Chardin, un pozzo di scienza che fu anche in forte odore di eresia presso le autorità religiose, le quali gli permisero, in vita, di pubblicare solo i lavori a carattere esclusivamente scientifico. Tutte le maggiori opere teologico-filosofiche – tese a conciliare scienza, evoluzionismo e cattolicesimo, in una visione in cui ogni evento non sarebbe che la progressiva realizzazione del progetto divino, progetto evidentemente non terminato con la creazione o la comparsa dell’uomo sulla terra, «ma destinato a proseguire in una noogenesi» – gliele fecero pubblicare solo post mortem12. Ma sempre prete era – nonostante i dubbi dei suoi superiori – e soprattutto gesuita. Non so se mi spiego. E uno «scherzo da prete» come quello di Piltdown non s’è più visto in tutta la storia della scienza. Quella non fu una normale «beffa» – tesa a farsi solo quattro risate o a prendersi anche una sia pur crudele vendetta nei confronti di un nemico personale e ben spe126

cificato – se no usciva subito come a Livorno, non usciva a scoppio ritardato di quarant’anni. A Livorno, con le teste di Modigliani, quelli non riuscirono a trattenersi più di quattro giorni, prima di far vedere a tutto il mondo la videocassetta: «Ecco qua come v’abbiamo preso per i fondelli». Quarant’anni no, quarant’anni ci vuole un disegno più perverso; più lungimirante, ma più perverso. Ovvero quello di uno che – magari – continua comunque a credere e a voler difendere a tutti i costi una «creazione» originale e predeterminata da parte del «suo» Dio. Ora io non so, ripeto, se a Piltdown sia stato davvero Teilhard de Chardin. Leakey e Gould dicevano di sì e Gould sostiene – a parziale attenuante di Teilhard, che comunque all’epoca era solo un seminarista di 31 anni – che avesse voluto fare uno scherzo e che poi però, quando tutti hanno abboccato, non abbia più avuto il coraggio di rivelarsi. In ogni caso un vecchio compagno mio stalinista della Fulgorcavi – Aldo Camparisoda – ogni tanto di notte, sullo Shaw 150, sosteneva pure lui che «le forze della reazione sono come il drago dalle cento teste: sono preti e controrivoluzionari, ne sanno una più del diavolo e ti fregano anche quando credi che stiano dalla parte tua, anzi, di più» (ce l’aveva con i preti-operai e con i cattolici del dissenso, specie quelli di Lotta Continua che poi, se vedi la fine che hanno fatto, non è che avesse neanche tutti i torti), «quelli studiano apposta per fregare la gente, uno normale di noi non ce la può fare con loro, per fregare un prete ci vuole solo un frate», e nello specifico è bene chiarire che «preti» sono solo i normali sacerdoti secolari sottoposti alla giurisdizione dei rispettivi vescovi, mentre 127

tutti quelli inseriti nelle congregazioni come appunto i gesuiti, questi sì che sono tutti a pieno titolo «frati». Sia come sia, io non so come siano andate effettivamente le cose a Piltdown – se scherzo o beffa o quello che ti pare; ad opera di singoli, di gruppi, di preti, di bonzi, di frati, di iene o di extraterrestri – ma quella fu la catastrofe apocalittica che si abbatté sull’intera scuola inglese di materialisti-atei-evoluzionisti-darwiniani. Questa scuola uscì irrimediabilmente dal teatro scientifico, sepolta per sempre dallo scherno e dal discredito. E questo è un fatto – un «fatto storico» – a cui si aggiunge il non marginale corollario che di quella tragica sepoltura si giovasse, oltre alla nascente scuola statunitense, quella più propriamente francese. Resta però che non si sa con certezza chi è stato. Solo «scherzo da prete» quindi o – come si dice – «Todo mo­ do para buscar la voluntad de Dios», al fine di riaffermare l’unicità della «creazione»? Senza contare lo scorno inglese e il vantaggio alla Francia: «Mon Dieu et ma patrie»? Dice: «Vabbe’, ma questo che c’entra con le iene del Circeo?». Ah, non lo so. È un’associazione che m’era venuta in mente. Dice: «Ma tu per caso pensi che quel ‘cerchio di pietre’ fosse un falso come il cranio di Piltdown?». Assolutamente no. Scherziamo? Io sto con il cranio, non con la iena. E poi cosa vuoi che ne sappia io? Mica sono uno scienziato. Io eventualmente voglio solo dire – come diceva una volta il Camparisoda – che le forze della reazione sono capaci di tutto: «Lì non parla, qui non piove, là è CroMagnon, qua bisogna vedere» e quand’è la fine se lo so128

no mangiato tutto come un carciofo, foglia dopo foglia, quel poveraccio di Neandertal. Todo modo, appunto. Ed è Kissinger del resto – mica quello stalinista del Camparisoda – a sostenere che i neo-con, i neoconservatori, sono «trockisti all’incontrario»13. Figurati i teo-con. Quelli altro che iena. Quelli pur di non ammetterti che il Neandertal avesse un’anima, sono capaci di dirti che quel cranio lo ha trapanato un elefante. Il prof. Giacobini, però, afferma testualmente che «nel­ la lettura del nostro più antico passato – come in molte altre vicende conoscitive – si affrontano due mondi con aspira­ zioni contrapposte: quello delle persone affascinate dal mi­ stero e dal mito, che a tutti i costi vogliono forzare i dati in uno schema preconcetto, e quello di coloro che aspirano a spiegazioni razionali e che, più semplicemente, desiderano capire. Il progresso delle conoscenze in campo scientifico si deve al secondo gruppo di persone, che sempre ha dovuto lottare contro il primo, e le recenti prese di posizione contro la teoria dell’evoluzione sono esemplificative a proposito. Se il combattivo signor Pennacchi, come traspare dal suo scritto, è alla ricerca di cattivi modelli americani ripresi nel nostro paese, rivolga lì la sua attenzione e ne trarrà appaga­ mento»14. Dal che si deduce che anche un’eventuale motivazione anti-evoluzionista è dichiaratamente messa fuori gioco. Il giallo quindi resta aperto. Esattamente come a Piltdown. Anzi, qui quasi quasi il gioco del re di Prussia lo starei facendo io, portando acqua ai mulini di chi, «affascinato dal mistero e dal mito, a tutti i costi vuole forzare i dati in uno schema preconcetto». 129

Ora lasciamo perdere chi è che forza cosa e a quale mondo appartengano gli uni o appartengano gli altri. Anche sul mito però ci sarebbe da dire che qui la gente non sembra nemmeno sfiorata dall’idea che il mito è comunque un fatto storico, ossia storicamente determinato15. È un «dato». E come tutti i «dati», il mito può e deve essere per ciò stesso sia oggetto che strumento di «scienza». I miti ci stanno, la gente più o meno ci crede e li agisce, e fanno quindi parte del reale. Neanche Popper lo potrebbe negare. Io comunque non m’ero messo qui a voler dimostrare a tutti i costi la verità scientifica dell’episodio di cannibalismo rituale al Circeo – o meglio, sotto il Circeo – 51 mila anni fa da parte degli uomini di Neandertal. Che me ne fregava a me? Mito? Scienza? Facessero come gli pare. Io qui volevo soltanto dimostrare che è la loro confutazione per viam ienae di quel mito a manifestare più di qualche falla sul piano scientifico. Dove sono le prove? A me paiono di più le controprove. Dice: «Il mito»? A me pare più un mito la iena – sul piano delle prove scientifiche – che il cannibalismo magico-religioso e non so perché si siano fissati con questa storia. Ma se non ho – come non ho – nessunissimo motivo per dubitare della sincerità del filo-evoluzionismo loro e dei loro referenti americani, nemmeno ce l’ho per dubitare della mia. Vorrà dire che qui qualcuno s’è fatto un autogol. Niente di male, pure Totti certe volte sbaglia i rigori. Ma a me non pare d’essere stato io, io ho tirato solo nella porta giusta, io non ho fatto che «il dentista». 130

Dice: «Ma non è che magari hai preso qualche cantonata?». Ahò, e me la facessero rivedere alla moviola. In ogni caso non è possibile – quand’anche la iena fosse – tenere coerentemente sugli altari, senza scomunicarne almeno uno, sia Blanc che la iena. Non si può. In termini scientifici quel connubio sì, che ha davvero la stessa attendibilità di un cranio di Piltdown. Ed era dal 1989 che, su queste cose, li stavo ad aspettare. Ventun’anni. Manco il Conte di Montecristo. Latina, 26 luglio 2010

Addendum

Camerata Neandertal

1. Tutta la parte che precede era stata da me consegnata in casa editrice a Roma nel pomeriggio di lunedì 26 luglio 2010: «Ecco qua, ho finito, andate in stampa». «Menomale va’», hanno fatto quelli, «non ci speravamo più». Baci e abbracci, arrivederci e grazie. Rimonta sul taxi, vai a stazione Termini, sali sul treno e torna a casa. La mattina dopo – 27 luglio 2010 – sono andato tranquillo tranquillo all’Istituto di Fisiokinesiterapia di via Umberto I a Latina a fare l’ultima seduta di ginnastica posturale. Vai nello spogliatoio, levati il busto ortopedico, stenditi sul lettino e comincia a farti torturare da questa figlia di coloni veneti – Romina Franzin – dalle apparenze dolcissime ma di una risoluzione da SS. Un po’ arrabbiata peraltro, perché ero arrivato in ritardo. Fatto sta, mentre mi sposta da una parte e dall’altra, mi comprime lo sterno e per poco non mi stacca pure la 135

capoccia, ecco che arriva Finestra e arriva proprio mentre sto cercando di spiegare alla Franzin che non è per cattiveria che arrivo sempre tardi, ma è solo perché lavoro di notte. «Ma perché», fa Finestra, «hai già ricominciato a lavorare?». «Sì». «E che cosa stai scrivendo adesso, un altro romanzo?». «No, una cosetta sul cranio del Circeo, non so se lei sa di che si tratta, è roba dell’uomo di Neandertal...». «E come non lo so?» fa lui: «Io l’ho visto». «Ah, davvero l’ha visto?» rimango sorpreso io, non avendo mai sospettato che si potesse interessare anche di paleontologia: «E quand’è che è andato al Museo Pigorini?». «Ma quale museo e museo? Io l’ho visto lì sul posto, dentro la grotta del Guattari». «Ma che sta a di’, Federa’?» sono scattato su quel lettino come una molla, dritto in piedi manco m’avesse fatto il miracolo Santa Maria Goretti: «Lei lo ha proprio visto lì?». «Sì», tranquillo tranquillo lui: «Io l’ho visto dentro la grotta subito dopo che l’aveva trovato un amico mio elettricista... come si chiamava... Bastiano mi pare (in realtà il Bevilacqua si chiamava Damiano1, NdP). Poi il giorno dopo l’hanno portato via». Io non ci volevo credere: «Ma davvero, Federa’?». «Davvero». «Porca puttana», pensavo pure: «Il problema storico è finalmente risolto!»2. Adesso sì che potevo sapere con 136

esattezza cosa avesse visto o meno Blanc quando era entrato nella grotta. Avevo il testimone oculare. Ajmone Finestra ha 89 anni, essendo nato nel 1921. È stato senatore della Repubblica per due legislature3 e sindaco di Latina dal 1993 al 2002. Io l’ho conosciuto nel 1964, quando avevo quattordici anni e m’ero andato a iscrivere alla Giovane Italia, un’organizzazione studentesca del Msi, il Movimento sociale italiano. Lui era il segretario provinciale del partito, aveva 43 anni e tutti noi lo chiamavamo rispettosamente Federale proprio come si usava una volta, ai tempi ancora del fascio. Quando parlava, diceva sempre «ecco è vero», un intercalare continuo, ma era stato un eroe di guerra – o almeno eroe secondo noi – decorato con due medaglie al valor militare e quattro o cinque croci di guerra italiane o tedesche4. Aveva combattuto prima in Jugoslavia, come ufficiale dei bersaglieri al comando però di una banda di cetnici – i serbi che stavano con noi – contro la guerriglia delle formazioni partigiane di Tito. Aveva poi difeso Zara e la Dalmazia quando, nel 1943, le cose s’erano messe male per noi italiani. Dopo l’8 settembre aveva aderito alla Rsi e aveva continuato a combattere in un battaglione «M» della guardia nazionale repubblicana, il «Venezia Giulia». Prima comandante di plotone, poi di compagnia e poi – muori uno, muori l’altro – comandante f.f., ossia facente funzioni, di battaglione (questa storia è raccontata in Palude5). Dopo il 25 aprile del 1945 s’era arreso col suo reparto agli americani, che lo avevano confinato nel Fascist crimi­ 137

nal camp di Coltano. Pare che quasi ogni giorno ci fossero, alla direzione del campo, le delegazioni di due diversi comuni del Nord che lo reclamavano per poterselo portare via e fucilare come criminale di guerra. Pare pure che se lo litigassero fra di loro: «È mio, è mio!». «No, no, lo dobbiamo fucilare noi». In realtà, poi, nei vari processi6 riuscì a sfangarsela. Tra i suoi giudici ci fu anche un giovanotto che si chiamava Oscar Luigi Scalfaro, che poi è diventato presidente della Repubblica italiana ma che ai quei tempi qualche condanna a morte l’ha rifilata pure lui: «Non ci ho potuto fare niente, la pena di morte era prevista dalla legge», disse in una intervista di qualche anno fa, «e la legge è legge, il giudice la applica e basta. Non si transige». Finestra si salvò perché risultò determinante la testimonianza di Carlo Caracciolo, poi editore dell’«Espresso» e di «Repubblica». Caracciolo era stato partigiano. Finestra invece era stato quello che – al comando del suo battaglione – aveva consentito alla Rsi di riprendersi la repubblica partigiana dell’Ossola. Aveva fatto arrampicare di notte i suoi uomini su di un costone pericolosissimo: «O vi arrampicate tutti dietro a me, ecco è vero, e domani mattina ce la vediamo con i partigiani», gli aveva detto, «oppure riscendo giù, ecco è vero, e vi sparo io finché non salite». Fatto sta che salirono tutti in silenzio e la mattina dopo, sul far dell’alba, i partigiani se li videro sbucare come diavoli assatanati. Finita la battaglia, i comandanti superiori di Finestra volevano che mettesse al muro i prigionieri catturati nell’azione. Lui neanche per idea: «I prigionieri sono miei, ecco è vero, e ci faccio quello che pare a me». 138

Arrivano i tedeschi, però, e gli ordinano anche loro di fucilarli subito o – in subordine – di affidarli direttamente a loro: «Consegnaceli e ci pensiamo noi». A brutto muso. E lui a brutto muso – almeno così dice – ha messo mano alla pistola e ha detto ai suoi di stare pronti. «Io i prigionieri non li consegno a nessuno», ha detto ai tedeschi: «I prigionieri li ho fatti io e sono miei secondo le leggi di guerra, ecco è vero, e ci faccio quello che mi pare a me». I tedeschi hanno fatto dietrofront – come pure gli ufficiali superiori della Rsi – e lui s’è organizzato per conto suo uno scambio di tutti i prigionieri coi comandi delle bande partigiane, e non ha torto un capello a nessuno. E così andò anche con Caracciolo, che non era però stato catturato in combattimento. Arrivati difatti in un paese – Boneto, sopra il lago d’Orta – per un blitz sul far dell’alba, i soldati di Finestra lo trovarono già sgomberato in silenzio durante la notte dai partigiani. Mentre stavano lì, tranquilli tranquilli per il pae­se, vedono uscire da una porta a neanche un paio di metri da loro – tutto assonnato e stiracchiante – un ragazzotto alto e magro con il fucile a tracolla. Finestra gli punta il dito contro e gli chiede se è un partigiano. E quello: «Sì, sono il Principe Caracciolo di Castagneto». Subito i fasci di Finestra lo gonfiano di botte e cominciano a spintonarlo per metterlo al muro. Finestra: «No! Non lo toccate». Quelli niente, lo volevano fucilare all’istante: «Sono gli ordini del comando! I partigiani catturati armi alla mano vanno immediatamente giustiziati». «Armi alla mano però! Non a tracolla» e così Finestra, con le buone o le cattive, riuscì a levarglielo lui dalle mani 139

e lo salvò, trattando poi coi comandi partigiani un altro scambio di prigionieri. Pare che il commissario politico della 2a divisione «Garibaldi», Pippo Coppo, andasse dicendo in giro: «Se piglio Finestra lo fucilo. Però prima gli do l’onore delle armi». Comunque – quando poi ci fu il processo – il principe Caracciolo andò a testimoniare e Finestra venne assolto, perché sicuramente ha sparato e combattuto fino all’ultimo, ma a faccia a faccia con il nemico, senza mai torturare o fucilare nessuno. «Ero un soldato» dice lui, e una volta che in consiglio comunale – tanti anni dopo, nel 1996 o ’97, quando era oramai sindaco di Latina – s’alzò Ruggero Mantovani consigliere di Rifondazione comunista, giovane avvocato coi capelli lunghi, trotzkista proprio, che al microfono disse davanti a tutta l’assemblea: «Sindaco, io vorrei che fosse chiaro a lei e a tutti i consiglieri, che io adesso sto qui a parlare con lei in questo consiglio comunale tranquillamente o quasi, solo perché c’è la democrazia e la repubblica democratica nata dalla Resistenza, ma vorrei che fosse chiaro a lei e a tutti quanti che in altre circostanze, e se queste circostanze dovessero un giorno ritornare, io non avrei un attimo di esitazione a spararle tranquillamente addosso», tutto il consiglio comunale s’ammutolì. Maggioranza e opposizione. Tutti zitti che non si sentiva volare una mosca. «Ma questo è matto, ma come si permette?», pensavano dentro di sé tutti quanti: «E adesso che succede? Come usciamo da questa situazione?». E tutti zitti. Solo Finestra s’alzò di scatto dal suo scranno, dietro il bancone da sindaco, e si mise a strillare: «Bravo! Bravo! 140

Così si fa! Anch’io farei lo stesso con te! Se è pace è pace, se è guerra è guerra e che diamine, così si fa tra uomini» e corse ad abbracciarlo. E da quella volta in poi, ancora adesso, se tu gli chiedi qual è il migliore consigliere comunale con cui ha avuto a che fare – maggioranza o opposizione, amico o avversario – in tanti anni di politica, lui ti dice senza esitare: «Ruggero Mantovani!». E pure Mantovani – che ti debbo dire? – se tu gli parli di Finestra, adesso gli vuole bene. Comunque quella volta, grazie anche alla testimonianza di Caracciolo – che pur raccontandola diversamente7 è rimasto in contatto con lui fino a due anni fa, quando poi è scomparso – non poterono condannarlo a morte. In due processi venne assolto e in uno condannato a 16 anni «per collaborazionismo con i tedeschi». Il presidente del tribunale gli riconobbe le attenuanti «per atti di valore». Si fece qualche annetto e nel 1949 uscì fuori con l’amnistia «Togliatti». Tornò a casa a Littoria. Che adesso però si chiamava Latina. Quando l’ho conosciuto io nel 1964 era professore di ginnastica al magistrale – aveva fatto l’Accademia della Farnesina sotto il fascio, che sarebbe stata una specie di Isef di adesso – e però s’era anche aperto un Istituto di fisiokinesiterapia e riabilitazione. Appena tornato dalla guerra difatti – o meglio, da Regina Coeli, che era stata l’ultima tappa – se ne era andato in Austria e in Inghilterra a fare dei corsi superiori di specializzazione in kinesiterapia, che era una cosa che ancora quasi non si conosceva in Italia. Certe tecniche le ha proprio introdotte lui qua da noi. Comunque faceva il professore di educazione fisica, 141

aggiustava le ossa e i muscoli con la kinesiterapia ed era il segretario della federazione provinciale del Msi di Latina. Il Federale. Io sono stato il suo segretario provinciale giovanile fino al 1967. Mi portava in palmo di mano, all’inizio. Poi invece m’ha espulso. M’ha cacciato. Adesso dice che lo ha fatto controvoglia, che lui non voleva e che lo avrebbero obbligato Almirante o Michelini, o non so chi. Ma non è vero. M’ha cacciato lui. E solo perché ero andato a fare insieme a mio fratello una dimostrazione antiamericana ai giardinetti, quando venne a suonare la banda della VI Flotta. Ci presentammo lì coi cartelli – io, il povero Gianni e Giulio Ferrari – con scritto «Johnson=Hitler» e «Peace for Vietnam». La polizia ci portò subito dentro e lui mi espulse (dice: «Ma se tu eri fascista, perché sei andato a fare una manifestazione antiamericana per il Vietnam?». Ahò, quella era Latina: con la storia della bonifica, del Duce e delle terre levate ai ricchi e date ai poveri, un po’ di confusione tra destra e sinistra l’abbiamo sempre fatta. Pure lui, il Federale, diceva d’essere un fascista di sinistra ed antiamericano: «Io agli americani gli ho proprio sparato addosso, ecco è vero». Mo’ che vuoi da me? Comunque questa storia sta tutta nel Fasciocomunista8. Oppure – che ne sai? – io già dentro di me mi preparavo per Tim White e le sue iene). Comunque m’ha cacciato e non è vero che sono stati Almirante o Michelini – che il segretario nazionale quella volta era proprio Michelini – ma è stato proprio lui, che mi cacciò pure, ipso facto, dalla squadra di rugby. Mo’ – se 142

mi consenti – passi pure per il Msi, ma che vuoi che ne sapessero Almirante e Michelini della squadra di rugby? Adesso lui dice che si pente come un cane. Lo ha pure messo per iscritto: «A distanza di anni l’allora Segretario Federale, nel riflettere sugli errori del passato, prova, ancor oggi, un sentimento di rammarico per l’allontanamento del segretario provinciale giovanile per il semplice fatto che ne condivideva sentimenti e giudizi»9. Ogni volta che mi vede, dice: «Il peggior errore della mia vita! Se non t’avessi cacciato, adesso ci staresti tu al posto di Fini». Adesso però lo dice, mica allora. Allora era incazzato come una bestia. Io che devo dire? Per fortuna che m’ha cacciato. Che ne sai, se no, come andavano a finire le cose? Magari se non mi cacciava, ancora stavo là. Invece i primi tempi m’è dispiaciuto, mi consideravo sempre fascista. Ma era il 1967. Avevo 17 anni. E l’anno dopo è stato il 1968. Lui là in Federazione non mi ci voleva più e da quest’altra parte invece c’erano quelli di sinistra, il movimento studentesco che – ripeto: era il 1968 – faceva casino. E se tu permetti io sono andato dove facevano casino. Il movimento studentesco. E poi l’Unione dei comunisti italiani marxisti-leninisti, cioè quelli di «Servire il popolo», quelli cattivi, maoisti e stalinisti. E poi da lì tutta la trafila mia: il Psi, il sindacato, la fabbrica, il Pci, la Cgil, fino all’ultima espulsione pure dalla Cgil – qui però non fu Finestra, fu Cofferati – e allora finalmente una pietra sopra sia sulla politica attiva che sul sindacato, dimodoché, non avendo più nessun posto dove andare a fare casino, mi sono messo a scrivere libri e ad andare all’università. Vedi quindi? Se non era per Finestra che mi cacciava, facile che io non 143

scrivevo una riga sola in vita mia e che – soprattutto – né Giacobini né Tim White si sarebbero mai trovati tra i piedi questa gatta da pelare (secondo me comunque non fu quello il motivo vero, quello fu solo l’elemento scatenante. Era già da un pezzo infatti che i rapporti s’erano raffreddati. Noi all’inizio – come Gruppo giovanile – facevamo quello che diceva lui, era lui il Federale e io, prima di fare qualunque cosa, gliene parlavo un po’, gliela sottoponevo. Poi man mano ho cominciato a fare di testa mia. Non gliele dicevo più prima le cose, gliele facevo trovare già fatte. E lui sformava. È questo che gli deve essere andato di traverso: «E che Federale sono?». Chissà, magari se gliel’avessi detto prima, magari ci veniva pure lui a fare la manifestazione insieme a me e Gianni contro la banda della VI Flotta. Gli fregava assai anche a lui, di Almirante e Michelini). Comunque nel 1968 stavo a sinistra e un giorno – era di pomeriggio – in piazza San Marco incontro Nando Cappelletti e Antonio Presutti. Nando aveva un anno meno di me, era secco, smilzo. La tessera della Giovane Italia e del Msi gliele avevo fatte io, ero il suo segretario e ci volevamo pure bene, eravamo ancora amici. Però lui non era stato espulso – e neanche Antonio Presutti – ed era ancora nel Msi e fascista. Così ci mettiamo a chiacchierare, ma una parola tira l’altra e cominciamo a litigare. Io adesso non mi vorrei sbagliare, ma il primo deve essere stato proprio Nando, perché era anche fumino. Comunque via a cazzotti tutti e due. Antonio Presutti tentava di dividerci, ma lo faceva tenendo più me che Nando, e quindi io ho tirato qualche cazzotto pure a lui. Fatto sta, proprio in quel 144

momento passa Finestra in macchina. Era un Fiat 1100/D colore grigio-topo. Passa, ci vede e si ferma di botto. Ancora mi ricordo la macchina bloccata in mezzo alla strada davanti all’Opera Balilla con lo sportello aperto. Lui scende e senza neanche richiudere lo sportello – proprio lo sportello aperto in mezzo alla strada – si butta addosso pure lui a tirare cazzotti. A me, ovviamente. E strillava: «Provocatore! Provocatore!». Subito s’è fatto un mucchio di gente lì attorno mentre noi, ossia lui, Nando Cappelletti ed io – con Antonio Presutti che continuava a volerci dividere e pacificare, ma reggendo sempre però, chissà perché, soprattutto me – continuavamo a cazzottarci. Poi la gente è aumentata e ci hanno diviso, e tutti – soprattutto gli adulti – facevano a lui, a Finestra: «Ma Professore...!» perché era, ripeto, professore di educazione fisica. Lui non ti dico. Gli si leggeva in faccia che si stava vergognando come un cane lì in mezzo, e allora provava a spiegare a tutta quella gente, indicando me con il dito: «Ma è lui, è lui, è sempre lui, ecco è vero! Io lo conosco, credetemi, è un violento, ecco è vero, è un provocatore...». Ma la gente insisteva: «Professore!». E lui è uscito proprio ai pazzi e mentre lo tenevano s’è rimesso a strillare: «Guardate, guardate: ride pure! ecco è vero», perché io difatti ridevo. A dire la verità ridevo già da prima – giuro – mentre facevamo a cazzotti. Avevo cominciato a ridere quando già con la coda dell’occhio l’avevo visto saltare fuori dalla macchina e lasciare lo sportello aperto (che lui poi ci tene145

va alla macchina sua) e ho continuato pure cazzottando, perché cosa vuoi, lì è questione di tecnica, quando stai in combattimento i colpi partono in automatico, non è che fa differenza se ridi o se piangi. E a me, giuro, quella volta mi veniva da ridere. Sarà stato lo sportello. E quando poi s’è messo a strillare «Lo conosco, lo conosco, è un violento e un provocatore» con la gente che continuava a dirgli «Ma professo’!», e più la gente gli diceva «Professo’!», e più lui schiumava rabbia – mi si sarebbe mangiato – io allora sono proprio scoppiato a ridere ancora più forte e ho detto ridendo alla gente che mi teneva, e a tutto il pubblico che oramai aveva riempito per intero la strada, dall’Opera Balilla fino all’angolo della chiesa: «Ma quale provocatore? Io sono uno solo, loro sono in tre, e il provocatore e violento sarei io? Sono loro che sono fascisti e che m’hanno aggredito!». Non ti dico Finestra. Lo hanno dovuto portare via a forza. E poi hanno portato via anche me. Era il 1968 e non ci siamo più parlati. Né con lui né con Nando Cappelletti. Per quasi trent’anni. Non ci si salutava nemmeno se capitava d’incrociarsi per caso sotto i portici. Uno si voltava di qua e l’altro di là: tu non esisti, non ti conosco. Per anni e anni. Poi nel 1995 scrivo Palude10, e il personaggio del Federale è chiaramente ispirato a lui. Io quello del resto avevo conosciuto e frequentato di Federale. Me ne andavo ad inventare un altro? Fatto sta, prima che uscisse Palude ero pure un po’ preoccupato, perché non è che ci fossi andato leggero di satira o d’ironia (e difatti dopo Palude lui ha smesso d’incanto di dire sempre «ecco è vero». Non lo di146

ce più). Pensavo che mi querelasse, o che magari qualche giovane fascistello mi potesse pure aggredire. Fatto sta, passa un mese passa due dall’uscita di Palude e m’arriva a casa con la posta una busta intestata del Comune di Latina con un bigliettino dentro: «Caro Antonio, è proprio vero che dalla conoscenza, dall’esperienza e dal sacrificio nasce lo spirito; uno spirito il tuo ironico, sno­ bistico, beffardo, affascinante... Bravo! Auguroni, Ajmone Finestra»11. Quando lo legge mia moglie, sbotta subito: «Eh, ma questo allora è più sportivo di te» (mia moglie però non è che faccia molto testo, perché ogni volta che litigo con qualcuno, lei sta sempre e regolarmente dalla parte di quell’altro. Mai una volta dalla mia). Comunque ci riappacifichiamo. Baci e abbracci. Soprattutto con Nando Cappelletti. Nando era proprio commosso – e mi commossi anch’io – quando andai in Comune a trovarli. Io naturalmente continuai a dargli qualche taccherellata sui giornali quando capitava, però oramai ci eravamo riappacificati: io di sinistra e loro fasci, ma senza più acredine. Poi nel 2000-2001 scoppia il casino del nuovo piano regolatore che Finestra – a capo di una giunta An e Forza Italia – aveva affidato all’architetto bolognese Cervellati, storicamente vicino all’ex Pci (anche l’Assessorato alla cultura Finestra lo aveva già dato a un uomo di sinistra, l’architetto Tetro. Lui è così, se s’innamora di una cosa, gli frega assai se è di destra o di sinistra). Al momento di votarlo in consiglio comunale però, tutti s’erano fatti venire i mali di pancia, soprattutto quelli di Forza Italia – da 147

sempre legati al mondo del mattone – ma pure gli altri, gli An suoi e la sinistra ufficiale. Io mi sono schierato con lui e Cervellati (questa storia invece la racconta il film Latina Littoria12), perché era manifestamente una battaglia contro la speculazione edilizia. Battaglia che naturalmente perdemmo. Chi li fermava quelli là? Li fermavamo io, Finestra e Nando Cappelletti? Nando si dimise subito. Finestra arrivò alla fine del mandato nel 2002 e la giunta Zaccheo di An-Forza Italia – che gli subentrò – si fece bocciare il piano dalla Regione per microquestioni procedurali senza neanche fare la scena di opporsi. Arrivederci e grazie. E a Latina è tuttora in vigore il vecchio piano regolatore Piccinato, tanto caro alla speculazione. Viva il partito – questo sì trasversale – di calce e mattone. Comunque noi è lì che ci siamo rivoluti bene. Finestra sarà un fascista, sarà antipatico e sarà quello che ti pare, ma è l’unico sindaco in tutta la storia democratica della città – dal 1945 fino a oggi – che si è battuto contro la speculazione edilizia. Ha perso per colpa dei suoi di An e soprattutto per Forza Italia – ma anche della sinistra – però ci si è battuto fino alla fine del suo mandato. Nando poi ci si è battuto fino all’ultimo dei suoi giorni. Era il 6 settembre dell’anno scorso, 2009. Dopo mangiato, s’è andato a mettere sul letto e Mara, la moglie, a fare i piatti. Finito, è andata di là anche lei e lui era morto. In chiesa – a San Marco di Latina, che era piena zeppa – l’orazione funebre gliel’ha fatta Finestra. Era stravolto. Solo a vederlo sulle scale m’ero preoccupato. Sembrava invecchiato d’altri 89 anni e il figlio, Paolo, tentava di sor148

reggerlo, ma lui niente, voleva reggersi dritto e sicuro da solo. Al microfono ne ha dette di cotte e di crude contro l’amministrazione comunale e il degrado della bonifica e della città. Ce l’aveva proprio con quelli di An. Le uniche cose di cui ha parlato bene eravamo io e Nando. Parlava solo di noi, accomunandoci nei ricordi fin da quando eravamo giovani, e confondendosi pure nei ricordi, qualche volta, tra l’uno e l’altro. Era stravolto Finestra. Ogni tanto tartagliava, ridiceva «ecco è vero», oppure gli mancava la parola, ma poi si riprendeva e ripartiva, e ogni tanto ripartiva con le cose auliche e i ricordi suoi di quando era giovane lui: «I ragazzi di Salò! L’onore d’Italia! I caduti per la Patria». E io ridevo. Ridevo e piangevo seduto su quel banco in San Marco di Latina. A un certo punto s’è messa a ridere tutta la chiesa – a piangere e ridere – e secondo me rideva pure Nando dentro la cassa, quando Finestra gli ha detto: «Nando! Tu che hai affrontato tante battaglie insieme a me, tu che avresti voluto affrontare pure la morte a viso aperto, sei stato invece ghermito a tradimento da un destino cinico e baro. A te la morte t’ha aggredito alle spalle, ecco è vero». All’uscita dalla chiesa – mentre Nando oramai stava sul carro funebre – sono andato ad abbracciarlo sulla scalinata. Finestra. Lo sorreggevano il figlio e Antonio Ragonese. Io ridendo e piangendo gli ho detto: «Federa’! Però al funerale mio non lo deve dire I ragazzi di Salò e Il destino cinico e baro. I ragazzi di Salò proprio no, eh?» e Ragonese e il figlio ridevano anche loro. «No, no!» e rideva pure lui: «Te lo prometto: a te I ragazzi di Salò non te lo dico». Non è che m’abbia detto: 149

«No, Antonio, sei tu che devi parlare al funerale mio». No, lui m’ha detto: «Stai tranquillo che non te lo dico». A quasi novant’anni lui – l’anno scorso – e 59 io. Ed era stravolto, ripeto. Io dissi al figlio: «Riportalo a casa. Non lo portare al cimitero» e al cimitero poi – quando hanno tumulato Nando – anch’io vicino a Ferdinando Parisella l’ho salutato per l’ultima volta col braccio levato. Il saluto romano. Non per me, ma per lui, perché era un mio compagno e ci avrebbe tenuto. Nando Cappelletti aveva 58 anni, un figlio di 24 ed una di 16, e i genitori anziani. Aveva un’agenzia di pubblicità. Era un grafico e pure bravo. Sono suoi i manifesti di quando facevano i Campi Hobbit nazionali. Ma sono suoi pure i manifesti di quando facemmo noi a Latina con l’Anonima Scrittori13 – contro la giunta An, Udc e Forza Italia di Zaccheo – l’Invettiva contro i traditori della boni­ fica14. Non solo li fece lui e a spese sue quei manifesti, ma poi ce li andammo ad attaccare tutti assieme di notte noi comunistacci di Anonima Scrittori – ma c’era pure qualcuno del nascente Pd, Giorgio De Marchis – e i fascisti di Nando Cappelletti. Fascisti di Latina, che ti posso fare? Fasciocomunisti delle bonifiche. Nando aveva il cuore a destra – e su questo non si discute – ma il cervello e tutti gli umori del corpo a sinistra. Era per i lavoratori e la giustizia sociale, era democratico, aperto, laico, liberale sull’immigrazione e sui diritti civili e ha fatto fino all’ultimo – contro An, Udc e Forza Italia, contro ogni speculazione – la battaglia per un nuovo piano regolatore. Stava con La Destra, adesso. Era il segretario comunale. Dice: «Ma era fasciocomunista e stava con La Destra di 150

Storace?». Compa’, e che ti posso fare io? Sono le aporie italiane. Del resto te l’ho detto prima, che se il cervello stava a sinistra il cuore però restava tutto a destra. Questi nel recinto della sinistra non ce li porti manco col trattore (ammesso che qualcuno ce li voglia). Comunque così stanno i fatti. Dice: «Vabbe’, ma che c’entra tutto questo con il cranio del Circeo?». Aspetta, no? E mica è finita. 2. Contrariamente a quanto m’ero pensato io ma pure tutta l’altra gente al funerale di Nando Cappelletti – ossia: «Povero Finestra, e quando si ripiglia più? Fra qualche giorno si muore pure lui», perché era affranto, ecce homo, essendogli proprio morto un figlio – Finestra dopo un po’ s’è ripreso. E ai primi freschi – metà d’ottobre – ha ricominciato ad andare tutte le mattine in Istituto ad aggiustare le ossa e le muscolature della gente. Sempre fresco, aitante e scattante. «Porca puttana» ho detto io, «questo davvero mi viene a fare l’orazione funebre anche a me». Io intanto andavo avanti con la scrittura di Canale Mus­ solini15. Ai primi di dicembre – mentre proprio lo stavo terminando – muore mio fratello Gianni. S’era arrampicato sopra una scala – una scala a libretto alta, e su su fino in cima, perché il soffitto di casa sua era alto e lui ci si era fatto fare dei ripostigli – per prendere l’albero e mettersi a fare l’albero di Natale. Aveva 64 anni ed è venuto giù 151

con tutta la scala. Non so se l’albero abbia fatto in tempo a prenderlo o meno. Io comunque glielo avevo detto qualche anno fa a casa sua, quando lo avevo visto arrampicarsi su quella scala: «Non lo fare più, Gianni, tu ti ci ammazzi: quelle scale sono pericolose, fanno più morti le scale a libretto che i killer della camorra». Niente da fare. «Sei tu che porti jella», ha detto poi mia moglie: «Quella volta gliel’hai proprio tirata». Ma quale tirata? Io lo avevo solo avvertito. È lui – sto stronzo – che ha continuato ad arrampicarcisi. Così è caduto. S’è fatto una settimana d’ospedale, sembrava che andasse tutto bene e se la sarebbe sfangata solo con qualche costola rotta, ma poi un’emorragia interna una notte ed è morto. Noi eravamo sette fratelli – tre maschi e quattro femmine – e tra me e lui c’erano cinque anni di differenza. Lui più grande, io più piccolo. Lui era il cocco di mamma, il preferito. Io no. Il nostro era un rapporto conflittuale – sempre in competizione – e da giovani ci menavamo ai giardini; andavamo là per non farci vedere da mamma. Ma tra me e lui c’era un rapporto quasi gemellare. Pensavamo nello stesso modo, si può dire. Avevamo le stesse e identiche visioni. Poi ognuno agiva in maniera diversa – era diversa cioè la decisione o sintesi, l’azione – ma l’analisi era la stessa. Non c’è pensiero o intuizione mia che non risenta delle sue o che io non debba in qualche modo anche a lui. E così lui rispetto a me. Alla fine e dopo tanti anni, sono tantissime le cose di cui nessuno dei due era più in grado di dire se l’idea iniziale fosse stata dell’uno o dell’altro. O meglio, questo problema – ossia l’effettiva paternità 152

intellettuale d’ogni idea – ero solo io che me lo ponevo, mica lui. A lui gli fregava assai: mio o suo, era tutto suo. Nel Fasciocomunista (in cui proprio a Gianni era ispirato il personaggio di Manrico) racconto di quella volta che ero tornato a casa dal seminario e mia madre aveva svuotato uno dei due cassetti di Gianni dicendo a me: «Ecco, questo è il cassetto tuo». Ripeto: noi eravamo sette, più mia madre e mio padre che fanno nove, non è che ci fosse più d’un cassetto a testa, a disposizione, dentro quella casa; lì come ti voltavi, sbattevi addosso a qualcheduno. Be’, lui appena sparita mia madre, venne a battermi con la mano sulla schiena: «M’hai fregato il cassetto mio, eh? Ma sempre mio rimane, mettitelo bene in testa». E così è sempre stato. Per sempre. Lui era più grande? E tutto quello che avevo o che facevo io era suo, era stato tolto a lui, e io dovevo correre appena chiamava. E io correvo pure, mannaggia a me. È lui che m’ha fatto fare la manifestazione contro gli americani, per cui poi Finestra m’ha cacciato dal Msi. È lui che m’ha fatto diventare comunista di Servire il Po­ polo, è lui che m’ha fatto entrare nella Volante Rossa. E poi – quando ci ripensava lui – ci dovevo ripensare pure io, secondo lui. Dicono adesso gli amici suoi: «Ma ti voleva bene. Eri il fratello a cui voleva più bene». Ma certo, e chi lo discute? Io pure gli volevo bene. Sapessi tu il bene che gli volevo io. Ma io gli volevo bene da fratello a fratello, da pari a pari, mannaggia a lui. Lui invece mi voleva bene come Venerdì. Lui Robinson e io Venerdì. Che non gli voleva bene – per 153

caso – Robinson Crusoe a Venerdì? Ogni tanto mi riviene in sogno e mi dice pure lui: «Anto’, ma io ti volevo bene». «E menomale», gli ridico ogni notte io. Comunque Gianni è morto – requiescat in pace – e io ho continuato a lavorare a Canale Mussolini. Sotto le feste di Natale il libro era finito. E io il giorno di Natale mi sono riammalato con la schiena. Non mi potevo più muovere. Dolori lombari, ma soprattutto alla gamba. E ogni giorno che passava era peggio. Dolori alla gamba destra che non la potevo proprio muovere. Dolori da «agò un can che me magna», come si dice in veneto, una specie di cane che ti morde da dentro. Bene, a farla breve, immobilità totale. Oramai quando mi dovevo muovere da casa lo potevo fare solo con la carrozzella. Punture, Voltaren, Muscoril, niente da fare. Cortisone idem. Vai alla risonanza magnetica. M’era uscita una nuova ernia del disco dove ero stato già operato quindici anni fa, nel 1995. Quella volta me ne avevano fatte due, in L4-L5 e L5-S1. Adesso era riuscita in L4-L5 e premeva sulla radice del nervo sciatico – era quello il «can che me magnava» – però il radiologo aveva detto subito, appena uscita la risonanza: «La faccia vedere a un neurochirurgo, ma credo che sia difficile che la possano operare, perché si è prodotta oramai anche la schiacciatura dei tre anelli. Se la toccano, lei rischia la paralisi». «Andiamo bene», ho detto io. Mo’, dentro di me, io era da subito – da Natale – che andavo pensando: «Bisogna che trovo quel neurochirurgo», un fascista, uno di Latina, che però non mi ricordavo come si chiamasse. Lo avevo incrociato un paio di volte a 154

dei convegni, o a delle riunioni di storia o presentazioni di libri. Stava insieme ad alcuni fasci e poi uscendo ci si fermava tutti a chiacchierare. «Tu che fai?» gli avevo chiesto una volta, così, giusto per sapere chi avevi di fronte. «Il primario di neurochirurgia ospedaliero». «Ah, sì? E dove?» «A Latina». «A Latina?» avevo fatto io, perché non sapevo nemmeno che avessero aperto un reparto di neurochirurgia a Latina. Io l’altra volta le ernie me le ero fatte in ortopedia, a mazzetta e scalpello, come si suole dire. Comunque, fatto sta: «Prima o poi avrò bisogno di te» gli avevo detto. «Be’, meglio di no» aveva risposto lui. Ma io avevo detto così per dire – per buttare le mani avanti, come forma di esorcismo – e non m’ero fatto dare né il nome né il cognome né il numero di telefono. Sai com’è, oramai di fascisti ne conoscevo pure troppi, non è che mi mancassero o me ne servisse per forza almeno un altro come amico. Di fasci a Latina – come si sa – ce n’è da rivendere. E invece questo che mi serviva proprio – che mi serviva come il pane – non me l’ero segnato. «Chissà come cazzo si chiama quel neurochirurgo fascio», non facevo che ripetermi tutti i giorni da Natale. E via a cercare tutti gli amici fasci per farmi dare il suo numero. Ma nessuno ce lo aveva. Anzi, nessuno quasi lo conosceva. Fatto sta, tornato dalla risonanza magnetica – e non riuscendo a trovare quel neurochirurgo fascio – ho chiamato la mia sorella rifondarola che m’ha portato dai compagni. Dottori compagni. E loro m’hanno indirizzato dal primario di neurochirurgia universitario (c’è un casino all’ospe155

dale di Latina, tra primari ospedalieri e universitari, che manco il «Col Moschin» riuscirebbe a risolverlo) che ha guardato la risonanza, mi ha visitato, si è riguardato tutti i Cd della risonanza al computer e poi ha detto: «Quest’ernia non si può operare. Essendo lei già stato operato quindici anni fa, adesso qui ci stanno le aderenze, se tocco là si rispacca qua, gli anelli sono già schiacciati e quindi non si può operare. Però stia tranquillo che gliela sfiammiamo con il cortisone quest’ernia. Si sfiamma, si riduce e lei in quindici giorni sta meglio di prima. Che bisogno c’è d’operare? Lei già dopo la prima settimana sta bene al 50 per cento, e alla seconda arrivederci e grazie». Io tutto contento ritorno a casa, ma passa il tempo ed è peggio di prima. Cortisone a rotta di collo, cortisone tutti i giorni. Ma se volevo mettere il naso fuori e fare due passi, li dovevo fare solo sulla sedia a rotelle. Ora però – a dire la verità – io questa malattia non è che l’avessi presa male, all’inizio. Ero allegro, sereno, tranquillo: «Passerà, chi se ne frega». Anzi, sulla sedia a rotelle mi divertivo pure. Quando mi portavano in giro quelli dell’Anonima Scrittori – con il plaid a quadretti sulle gambe e il bastone poggiato sopra – mi parevo proprio il Numero 1 di Alan Ford. Sulle strisce pedonali alzavo pure il bastone e strillavo alle macchine: «State indietro! Non lo vedete che sono invalido?». Di fronte a ogni barriera architettonica – su e giù per i marciapiedi di Latina – urlavo: «Eccolo qua il comune di Latina! Mo’ ve lo faccio io un libro bianco sulle barriere architettoniche». E se qualcuno non ci dava la precedenza – sui marciapiedi, ai bar, 156

dovunque sia – erano beati affari suoi, sempre brandendo e minacciando col bastone. Una volta, a un autogrill sulla Pontina tornando da Roma, dopo Pomezia, era tutto pieno di gente e io strillavo per farmi largo: «Ma che educazione v’hanno insegnato? Non lo vedete che sono invalido?». La gente faceva certe facce. Guardavano tutti compassionevoli mia moglie e gli amici che mi portavano, e tu gli leggevi proprio sulla faccia, che stavano pensando tutti quanti: «Poracci quelli là, a combattere con questo». Dice: «Sì, vabbe’. Tu però facevi così e te la pigliavi a ridere, solo perché sapevi che era passeggera e prima o poi ti ci saresti alzato da quella carrozzella. T’avrei voluto vedere se ci dovevi stare tutta la vita, se poi ridevi». Ah, non si discute; anche se io ho visto ridere un sacco di gente che pure ci sta da una vita sulla sedia a rotelle. Il problema non è dove stai, ma come ci stai, evidentemente. «L’uomo è forte» diceva Corrado Alvaro16, e in ogni condizione l’essere umano riesce a cogliere – se vuole – la gioia e la vitalità di stare al mondo. Io quindi non ero preoccupato molto e nemmeno me l’ero presa, neanche m’incazzavo troppo con il dolore. Anzi, io ero pure quasi contento: «Menomale va’, mi sono salvato. Me la cavo solo con la schiena», perché anche se ci fossi dovuto stare tutta la vita sulla carrozzella, a me – secondo me – m’era andata più che bene. Io sul piatto ci avevo messo la pelle. A me non c’è stato un libro solo – di quelli scritti con la pancia però, non quelli «di testa» e basta, scritti col cervello – che non abbia poi pagato con il soma. 157

Mammut17 lo pagai con due ernie del disco, quelle del ’95. Palude con il primo infarto e con la resezione gastrica. Il fasciocomunista col secondo infarto e tre bypass a cuore aperto, e l’Invettiva contro i traditori della bonifica18 con la frattura d’una vertebra (era il 2007, caddi sul palco dopo un comizio mentre pigliavo in braccio il candidato a sindaco dell’Ulivo, un friulano di novanta chili che m’aveva opposto resistenza ed eravamo caduti tutti e due, io sotto però – con lui in braccio – sopra una base dell’orchestra, e mi sono spaccato la vertebra. Ma lì fu tutta colpa dei cugini Lanzidei, quelli dell’Anonima Scrittori, che furono loro da sotto il palco, proprio Graziano mi pare, a dirmi: «Dai, dai, fa’ come Benigni», anche se adesso dicono di no, dicono che ho fatto tutto io, anzi, loro non volevano, mi strillavano «No, no, non lo fare!». Roba comunque che poi – quando andarono a casa mia alle due di notte a dirlo ai miei – mio figlio neanche gli voleva credere. Li ha portati fuori, lontano dalla madre e dalla sorella, e gli ha chiesto piano piano, senza farsi sentire da loro: «Ditemi la verità, a me me lo potete dire: chi è che gli ha menato?». «Ma no, Gia’!» facevano i Lanzidei, perché si chiama Gianni anche mio figlio, poi dice che non gli volevo bene: «Te lo giuriamo, non gli ha menato nessuno, è caduto da solo sul palco». «Non mi fate incazzare!» s’è messo allora a strillare mio figlio Gianni: «Ditemi con chi s’è messo a litigare stavolta, sto scemo. Chi è che gli ha menato?»). Ora però si dà il caso che è proprio con le Invettive che è cominciata la storia delle percezioni extrasensoriali. O meglio, io le percezioni ce le ho sempre avute, ma solo ogni tanto. Mentre scrivevo Il fasciocomunista, per esem158

pio, una notte ho sentito padre Cavalli al mio fianco, che m’entrava e mi metteva una mano sulla testa. Oppure mio padre qualche volta, o mio cognato, mio suocero. Ma solo ogni tanto – ripeto – sentivo all’improvviso qualche mio morto, e poi per anni ed anni non sentivo più niente. Pure da ragazzo, qualche volta. Poi con le Invettive è diventata un’ira di Dio. A questo punto però io posso pure capire che qualcuno magari dica: «Ma tu sei matto! Prima fai tutta una cosa aristotelico-popperiana, con tanto di note per criticare il metodo scientifico e la scientificità degli altri, e poi te ne esci con gli spiriti? Ma vaffallippa va’, tu non solo credi, ma parli pure coi fantasmi?». Be’, intanto non è che ci parli proprio: li «sento», ed è diverso. Poi – se mi permetti – non è che io scenda dalla montagna, lo so pure io che non bisogna credere ai fantasmi. Forse. Io resto un materialista marxista, e su questo non si discute. Non credo all’esistenza d’un Dio omnia guber­ nans, ritengo più probabile il Caso o – al limite – il Dio di Spinoza, Deus sive natura. Come stanno le cose all’altro mondo – e se un altro mondo esiste davvero – io non lo so. Sto in questo e vivo in questo. Stop. E cerco di viverci il più degnamente possibile. So anch’io, quindi, che quelle che comunemente si definiscono «percezioni extrasensoriali» possono essere – come ritengono tanti studiosi atei e materialisti – nient’altro che produzioni del nostro cervello. Non è cioè il morto che viene da te, ma sei tu che ti credi che lui venga. Fai tutto 159

tu da solo nella testa tua. Anche se però è forse il caso di rilevare che pur avendo fatto tutto da te, non è che questo comporti per te chissà quale differenza. Tu la percezione ce l’hai e te la vivi – sia che sia davvero il morto, sia che sia tu stesso – come se fosse vera, con tutto quel che comporta in termini di reazioni emotive e stress psicofisico. In ogni caso però – e senza voler andare a scomodare il Dio omnia gubernans o quello che ti pare a te – rimane il fatto che l’universo è curvo, che la distinzione tra passato, presente e futuro è, secondo Einstein, una pura assurdità e che, soprattutto, secondo le equazioni derivate dalle teo­ rie einsteiniane (e qui stiamo in termini di scienza pura, mica di mito o di religio) le dimensioni dell’universo non sono limitate a quelle quattro che conosciamo noi (altezza, lunghezza/larghezza, profondità e tempo), ma vanno da un minimo di 11 a un massimo di 26. Ergo, che cosa ne sai quindi tu di come stanno le cose di là? L’universo non è solo questo che conosci tu. C’è come minimo sette volte altro. Come si può quindi escludere che il «Sé» che anima il tuo corpo nelle quattro dimensioni di questo universo, quando esce dal tuo corpo non si distrugga ipso facto, ma passi semplicemente in qualcun’altra di quelle altre dimensioni? Motivo per cui, tu fai come ti pare: la prima parte delle Iene risponde a quelli là sul piano del solo universo a quattro dimensioni (e quelli rispondessero a quelle, se sono capaci). La seconda – e ti giuro che mi viene da ridere pure a me, solo a dirlo – ci aggiunge l’eventualità di qualche dimensione in più. Mica è colpa mia, è colpa di Einstein. Io resto agnostico. 160

Siano quindi puri frutti del mio cervello, o siano davvero i morti che vengono da me, questa cosa a me m’era sempre successa. Ma di tanto in tanto, ripeto. È con l’In­ vettiva contro i traditori della bonifica che la cosa s’è fatta preoccupante. Subito la mattina stessa che Ivana (mia moglie) m’aveva chiamato perché la ruspa del Comune stava buttando giù i muretti in pietra viva del ponte di bonifica costruito dall’Opera combattenti sulla strada davanti casa nostra, subito tutti i morti maschi della mia famiglia m’erano stati addosso. O meglio, all’inizio – mentre stavo davanti alla ruspa a litigare con gli operai e col padrone dell’impresa: «Dovete passare prima sul mio corpo» – mi sentivo solo pieno d’euforia e tutto contento di rifare le lotte, i picchetti e i casini di quando ero giovane. I sit-in. Mi pareva proprio d’essere tornato insieme a tutti quelli della Fulgorcavi ad assaltare la centrale nucleare (cfr. Mammut). È stato quando se ne sono andati – quando le truppe del barbaro invasore hanno ripiegato, con l’assessore al telefono che diceva «Tanto ritorneremo» e i fotografi e la stampa pure se ne erano andati, e a me però già m’era saltata in mente l’idea di fargli delle Invettive in piazza e i comizi sopra una sedia, e già quasi ero rientrato nel cortile di casa mia – che dietro di me mi sono sentito tutti i miei morti, e per la prima volta in vita mia ho sentito mio padre, dietro e dentro di me, contento finalmente appieno di me. M’aveva sempre voluto bene in vita, ma contento no, proprio contento del tutto di me – senza riserve – non era stato mai. Fin da quando gli ero tornato a casa all’improv161

viso dal seminario – che lui mi voleva prete – era sempre andata peggio: «Ma eri così buono da piccolo», diceva. Anche negli ultimi anni – quando per fortuna avevamo recuperato il rapporto e sapevamo oramai tutti e due di volerci bene e lui mi stimava ed aveva anche fiducia in me – non è che fosse proprio del tutto contento, c’era sempre qualcosa che non gli andava: «Tu sei buono solo a far chiudere le fabbriche» diceva, perché stavo coi sindacati. Quel giorno dei muretti del ponte e della ruspa invece, appena rientrato nel cancello di casa mia subito me lo sono sentito a fianco, e poi dentro, a dirmi: «Vai, figlio mio, adesso sì che sono contento di te, vai con tutte le tue forze, ci siamo io e tutti i tuoi morti dietro di te». E subito li ho sentiti tutti, dentro di me. E c’erano gli zii maschi da parte di madre – da zio Paolo-Cesio a zio Gelindo-Iseo a zio Pericle-Emilio – e quelli paterni, da nonno Evariste a zio Italo Pennacchi, zio Ulisse, zio Dante, mio cugino Unildo, zio Elvio, ed anche tutti gli zii acquisiti, quelli che avevano sposato le mie zie: zio Giovanni Zecchini, zio Italo Odorico, zio Tiglio, zio Cesare Bompan, zio Torello, zio Attilio Chiacchiarini. E poi quelli dalla parte di Ivana: il mio povero suocero, mio cognato, zio Leo e perfino il nonno Busatto, che io non ho mai conosciuto perché era morto parecchio prima che arrivassi nella sua famiglia. Be’, c’era pure lui – io l’ho sentito – io ho sentito il nonno Busatto dietro e dentro di me, incazzato anche lui: «Vai figlio, vai con tutte le tue forze!». Poi Ivana m’ha spiegato che era su quel ponte, seduto su quel muretto, appoggiato al suo bastone, che il nonno Busatto – cavaliere di Vittorio Veneto, combattente della 162

prima guerra mondiale, oggettivamente resistente qua, sul suo podere, a fianco all’alleato germanico nella seconda, contro l’invasore angloamericano sbarcato ad Anzio e attestato oramai al di là del Canale e lui, quando i tedeschi, di qua, gli imposero di sfollare: «Gefahr! Pericolo, Kamerad!», lui ugualmente non se ne voleva andare, voleva restare sul suo podere e alla fine cedette e se ne andò solo quando un cecchino americano gli ferì la figlia, zia Clara – su quel ponte il nonno Busatto negli anni passava le ore fumando il sigaro al sole nei giorni d’inverno, e ascoltando i filò nelle sere d’estate. Era il suo ponte, quel ponte. E adesso il cavaliere di Vittorio Veneto Ardolino Busatto non veniva a dar manforte al suo progenero? «Vade retro, Satana! Non passa lo straniero». Sentivo proprio il Piave mormorare quel giorno – il Canale Mussolini – e c’erano gli zii acquisiti anche dalla parte di Ivana, c’era zio Ugo Tonazzi. Tutti i maschi ripeto, solo e soltanto i maschi – i miei cugini Umberto, Alfio, Giacomo, zio Angelo-Adelchi, zio Ultimo, zio Temistocle e tutti tutti gli altri – neanche una femmina. Dice: «Ma perché solo i maschi e nemmeno una femmina?». E che ti posso fare? Il mio analista Giorgio Villa che è anche antropologo e ha fatto ricerca sul campo con gli sciamani della Siberia e del Nepal19 (n.b.: la trasposizione in dialetto veneto del nome di Giorgio Villa è ovviamente Zorzo, da cui Zorzi Vila) dice che si tratti del Kul Deuˉta, lo spirito dei Padri, la divinità clanica nepalese. Kul vuol dire difatti ancestrale in sanscrito, e lo sciamano lo evoca nelle riunioni tribali. È il Consiglio degli anziani che stan163

no nell’aldilà – almeno in Nepal – ed incarna lo spirito di tutti gli antenati che per via patrilineare diretta trovano il loro medium con la comunità dei viventi nella figura dello sciamano. La stessa cosa avviene – cambiando naturalmente nome e modalità rituali, ma conservando la medesima essenza di Kul Deūta, ossia divinità ancestrale e spirito degli antenati – in tutte le società arcaiche o cosiddette primitive, dai clan della Scozia alle tribù siberiane, amazzoniche o pellirosse del Nordamerica, e nell’antica Roma si chiamavano Penates. In ogni caso, tu capisci bene che stiamo parlando di roba di tanti anni fa – arcaica – mica dell’altro giorno. E mica c’era il femminismo quella volta, e al Consiglio degli anziani ci andavano solo i maschi. Che ti ci posso fare io? E da me sono venuti solo loro. Le femmine – da mia madre fino a tutte le nonne e le mie zie – non se ne è vista una. Dice: «Ma allora sei maschilista». No. Eventualmente sono maschilisti i morti, non io. Io che vuoi che dicessi a mio zio Giovanni Zecchini: «No, a te non ti voglio, vammi a pigliare zia Angela»? Del resto siamo seri: al Consiglio degli anziani – ma pure in guerra – nei tempi antichi ci andavano solo i maschi, anche se poi sempre a casa dalle femmine dovevano tornare. Vedi un po’ tu quindi chi è che decideva per davvero. Che gli raccontavano, se no? Anche a me peraltro – su quel ponte davanti alla ruspa – chi mi ci ha mandato, secondo te: ci sono andato da solo? È lei, è Ivana, che m’ha chiamato: «Vieni un po’ a vedere che cosa stanno a fare!». E vedessi tu come strillava lei intanto, davanti alla ruspa, prima che arrivassi io. E appena arrivato è corsa dentro, a chiamare lei al telefono «LatinaOggi» e gli altri giornali, 164

e ad urlare al figlio: «Vai a dare una mano a tuo padre, prima che magari lo menino». «Che cazzo di genitori mi dovevano capitare a me!?», faceva lui. E comunque da quel giorno e per tutte le due Invettive in piazza e fin che non mi sono rotto la vertebra – tre mesi – io tutti i giorni, o meglio tutte le notti, sentivo qualche morto. Ivana non ci credeva (non ci crede tuttora, dice: «Sono proiezioni tue. Sei tu che ti fai da solo i film in testa»). Rideva. Si sedeva, quando glielo raccontavo la mattina che lei s’alzava e mi trovava nello studio ancora stravolto. Si sedeva in cucina e rideva: «Ma fammi capire: dimmi che t’hanno detto stavolta, dimmi le parole precise». «Ma Iva’, ma i morti mica ti parlano come io e te. Mica hanno la voce». «E che t’hanno fatto allora, i segni?». «Ma mica li vedi da qui a là! Non li vedi con i sensi (se no non si chiamerebbero percezioni extrasensoriali), non è che li tocchi, li annusi o li vedi con gli occhi. Li senti dentro di te». «Fammi capire bene» insisteva lei e rideva: «Come fai a dire che sono i morti? Come fai a saperlo?». E io riprovavo a spiegarglielo. Tu non è che li senti fisicamente (a parte quella volta di padre Cavalli che sentii proprio la mano sulla testa e un’altra volta mio padre toccarmi la spalla. Sempre a destra). All’improvviso «sento» questa presenza avvicinarsi all’altezza della spalla – da dietro, tra la spalla e il collo – e poi entrarmi dentro, dall’orecchio quasi, o da quella parte 165

del cervello. E poi subito crisi di pianto, ma non pianto di dolore, bensì di commozione, di condivisione felice. Felice ma squassante. E lei, sempre ridendo: «Va bene, ma fammi capire: da che parte hai detto che ti entrano? Sempre da destra? Sempre da destra t’arrivano?». «Sì. Sempre dalla parte destra». «E allora sono i parenti tuoi, non sono i miei», perché i parenti suoi erano comunisti. Sono solo i miei – secondo lei – che erano un po’ fascisti. Anzi, s’incazzò pure perché dicevo d’avere sentito suo nonno: «Che c’entri tu con mio nonno? Ma mo’ ti pare davvero che mio nonno viene da te e non viene da me? Ma se avrà qualcosa da dire verrà da me, no? Perché deve venire da te? Digli che venisse da me!». Comunque, fatto sta, io alla fine ero uno straccio. Le due Invettive erano state da morire. Pure quando stavo in fabbrica – alle assemblee – ogni volta finivo fradicio di sudore (questa cosa la spiegano bene Freud ed Elias Canetti20). Adesso tu immagina che succede se all’assemblea partecipano non solo i vivi ma pure i morti. Filippo Cosignani mi telefonò la notte, per dirmi: «Anto’, avevi ragione tu. Mentre parlavi su quella sedia, li ho sentiti pure io tutti i morti nostri in piazza del Popolo stasera. Ancora ho i brividi». R.F. invece se lo videro arrivare in libreria bianco come un lenzuolo e Piermario il libraio – che era rimasto a bottega – si mise paura e gli chiese: «Che hai fatto? Che t’è successo?». «Niente, niente... C’erano gli Spiriti! in piazza». 166

In ogni caso io alla fine, dopo tre mesi di questa solfa, ero uno straccio. Del resto non è che tutti quei pianti e quei morti che andavano e venivano dallo studio mio manco fosse stazione Termini, mi potessero fare tanto bene. Temevo oramai da un momento all’altro di fare il terzo infarto. Le pile d’ogni uomo difatti non sono inesauribili e secondo Giorgio Villa21 anche gli sciamani non è che di norma campino a lungo (dice: «Vabbe’, ma che ti frega? Dopo non ci sono le altre dimensioni?». Ho capito, ma io non è che abbia poi tutta questa fretta. E soprattutto questa sicurezza). È per questo che quando mi sono ritrovato steso al buio sotto le lenzuola in una cameretta d’ospedale con i dottori intorno che mi dicevano «Frattura amielica in L2! Stia fermo immobile! Non si muova neanche dentro il letto per almeno venti giorni!» ho tirato un sospiro di sollievo: «Aaah!». Una vertebra – intanto – è sempre meglio di un infarto: «Che vuoi che sia? Il prezzo è giusto». Pure Giacobbe del resto – nella Bibbia – quando passa la notte nel deserto a combattere e lottare con l’Angelo del Signore, poi la mattina si ritrova storpio per sempre per una botta ricevuta all’anca. È il prezzo da pagare, dice Elie Wiesel22 – sia che ci credi sia che non ci credi – quando hai avuto in qualche modo a che fare con l’oltremondo. In ogni caso feci «Aaah!» ripeto – un sospiro di sollievo – perché fu proprio tale e quale a quella volta che da militare mi misero la camicia di forza per portarmi alla neuro dopo che avevo dato i numeri: «Menomale va’,» pensai, «adesso posso pure smettere di fare il matto»23. 167

3. Noi però eravamo rimasti che stavo sulla sedia a rotelle, e tutto era cominciato con Canale Mussolini. Dice: «Sì vabbe’, ma le Iene?». Ecco, appunto. Mo’ ci arrivo. Ora è ovvio che io me li aspettassi già per conto mio un po’ di guai con questo nuovo libro. Se gli altri li avevo pagati a pronta cassa e con quelle tariffe – chi con la schiena, chi con un infarto eccetera – figùrati questo pensavo, che è il libro per cui sono venuto al mondo. Dice: «Ma sei scemo? E che sarà mai un libro? Ma mo’ uno può venire a dire che la sua vita è significata tutta solo da un libro?», come obiettano appunto certi critici. Io peraltro non so cos’è che dia o meno il segno alle vite dei suddetti critici cosiddetti letterari. Alla mia gliel’ha dato Canale Mussoli­ ni. Poi, per le loro, facessero come gli pare. Bello o brutto che sia – come ho scritto pure, mi sa, da qualche altra parte – io era dall’età di sette anni che sapevo di dover fissare e fermare sulla carta questa storia. Era da quand’ero ragazzino che stavo da zio Gelindo-Iseo sull’Appia a Borgo Carso, che sentivo e sapevo – proprio come un bambino sente di dover saltare o correre, o mettersi a cantare, fischiare o strillare – che io dovevo scrivere la storia del mio podere, della nostra famiglia e dell’Agro Pontino. Quella era la mia missione, il mio compito in questa vita. Compito – sia chiaro – che non è che mi fossi assegnato da solo, ma che «sentivo» mi fosse stato assegnato proprio da quella terra, dalle zolle, dal fieno che raccoglievo con zio Gelindo, dalle vacche, dagli alberi, dagli eucalypti soprattutto, e da tutti i miei parenti. Soprattutto 168

quelli che non erano più tornati dalle guerre. Sì, è stato un obbligo – un dovere, una corvée – che mi sono sentito gravare sulle spalle fin da ragazzino, quando tra i sei e i sette anni lì, tra le vacche e il fieno di zio Gelindo-Iseo, mia cugina Maria m’ha insegnato a leggere e scrivere, e ai primi di settembre del 1956 m’ha accompagnato a dare gli esami di prima elementare da privatista a Borgo Carso. Ma è una corvée a cui m’ero sempre sottratto – era una corvée dolorosa, come dice la stessa traduzione dal francese: «lavoro pesante e ingrato; comandata; in diritto feuda­ le: prestazioni gratuite dovute al signore» – perché io non mi diverto a scrivere, io non scrivo per scelta, scrivo per obbligo, per dovere. E quindi m’ero sottratto a lungo. Ci ho messo 57 anni per esperirla. A un certo punto pensavo pure di non riuscire più a farlo: «Vuoi vedere che non lo scrivo più questo libro, e muoio prima d’averlo fatto?». E mi sentivo in colpa: «Mi toccherà rinascere un’altra volta, per farlo», quando invece nella prossima vita vorrei nascere monaco e tacere. Ho parlato troppo in questa, e battagliato troppo. Monaco e tacere. Comunque, arrivati a questo punto della vita, una sera mi sono messo sotto e ho cominciato. E in quattro e quattr’otto l’ho finito. Ma un lavoro da matti. Quello che non avevo fatto in 57 anni, l’ho fatto in tre mesi: dal 13 luglio al 12 ottobre del 2009. Ma tre mesi da morire. Sedici, diciassette, diciotto ore e anche più di lavoro al giorno. E sempre con la paura di non fare in tempo, di non arrivare. Se avessi pensato che con la cocaina avrei potuto accelerare e fare prima – che non c’è niente di peggio della cocaina per chi ha problemi di cuore: è morte sicura – mi sarei 169

fatto pure di cocaina, mi fregava assai oramai di morire, dovevo finirlo. Era, come si dice, la corsa della vita, quella per cui – da quando sei nato – t’alleni tutti i giorni. Sei nato apposta. E con tutti i morti dietro, che premevano perché arrivassi. Se le percezioni extrasensoriali erano finite dopo la rottura della vertebra con le Invettive – da allora a luglio del 2009, difatti, neanche più una – appena ho cominciato a scrivere Canale Mussolini è stata un’ira di Dio. Sembrava un porto di mare il mio studio – lo stretto di Messina – con tutti i morti che andavano e venivano in traghetto. Oramai m’ero trasferito lì. Neanche andavo più a dormire sopra, in camera da letto. Ivana diceva: «Eh, io sono una vedova bianca». Non avevo più orari. Notte e giorno? Niente. Come mi veniva sonno al computer, mi buttavo sul divano lì davanti alla scrivania. E come mi risvegliavo, via di nuovo al computer. Settimane intere senza neanche spogliarmi. Ogni tanto Ivana diceva: «Lavati, che puzzi». E questi morti che andavano e venivano. Tutti quanti. Tutti quelli che in alto, sopra le librerie, stanno schierati in fotografia – i miei parenti, i parenti di Ivana, i miei compagni – e tutti quelli che pure non ci sono. Ora uno, ora l’altro. A seconda di ciò che andavo scrivendo. Arrivavano dalla destra – sulla spalla – vicino l’orecchio. E m’entravano dentro. E io giù a piangere e continuare a scrivere. Pagine intere di Canale Mussolini ho scritto piangendo. E pagine e pagine intere – si può dire – ho scritto sotto dettatura dei morti. Dice: «Ma tu sei scemo, questa è isteria. Perché non ti fai vedere da un analista?». Amico mio, sono quattordici anni che ci vado ed ogni tanto gli dico pure: «Ma io non 170

vedo miglioramenti, dotto’! Non è che sto solo buttando soldi qui con lei?». «Cosa?» risponde lui ogni volta: «Ma lei non ha idea di com’era, quando è arrivato qui». Mo’ va’ a sapere se è vero o se è solo per i soldi. Comunque vai col vento. Il 12 ottobre termino la prima stesura (600 pagine) e poi via di nuovo con le revisioni e riscritture, che è un lavoraccio pure questo; non più d’estrazione del materiale dalle viscere, ma di raffinamento e rilavorazione. Ore e ore su una pagina per farla venire come Cristo comanda, sempre – ripeto – con la paura di non fare in tempo e con l’ossessione del prezzo da pagare dopo: «Chissà che mi succede appena è finito». Adesso poi – oltre ai morti – ci si erano messi anche gli editor di Mondadori a fare avanti e indietro per lo studio mio come fosse Fiumicino. Roba davvero che, certe volte, mi veniva a me di dire ai morti: «Ma pigliatevi sti due24, mortacci loro». A Natale abbiamo finito: «Pronto per la stampa». Ai primi di dicembre, però, era morto Gianni mio fratello. Era stato tutta l’estate a telefonarmi in continuazione: «Allora, a che punto stai? Quando me lo fai leggere?». «Quando è finito». «Ma come, quando è finito? Mandami intanto quello che hai scritto». «Neanche per idea. Te lo leggi solo quando è stampato». Non hai idea tu, di quello che diceva lui per telefono. Lo voleva vedere prima, in corso d’opera. E io niente: «Manco se t’ammazzi» (che poi infatti s’è ammazzato con 171

quella scala, mannaggia a lui e all’albero di Natale). Pretendeva di vederlo prima. E io no: «Non te lo do». «Ma perché?». «Perché sennò mi rubi le storie». Peggio che andare di notte. Cominciava a strillare da quel telefono, che alla fine glielo dovevo sbattere in faccia. Lui diceva che erano storie «nostre», storie di famiglia, e voleva – diciamo così – sovrintendere e collaborare. «Ma allora scrivitelo tu», gli rispondevo io: «Che bisogno hai di vedere il mio? Ognuno si fa il suo e poi vediamo qual è meglio». «Ma io non lo voglio fare!» faceva lui: «Lo fai tu, ma io ti voglio solo dare dei consigli». «No, tu vuoi comandare, Gia’» e gli abbassavo il telefono. Non ti dico poi quello che ha fatto quando è venuto a sapere l’arco temporale in cui si chiude la vicenda di Canale Mussolini (1904-1944): «Ma come, lo fai finire nel 1944, l’anno prima che nasca io, proprio per non farmi nascere? Ma è il 1945 l’anno di svolta, l’anno in cui nasciamo io, Emilio e Gianni Bompan (nostri cugini). Nell’altro (Il fasciocomunista) mi hai fatto morire, e in questo non mi fai nemmeno nascere? Ma allora aveva ragione mamma: tu sei cattivo d’animo». «A Gia’», gli ho detto: «Ma io mo’ secondo te sono venuto al mondo solo per scrivere libri che parlino di te? Ma vaffallippa va’, mica è colpa mia se gli americani sono sbarcati ad Anzio nel ’44 e non nel 1945. Un’altra volta digli di sbarcare dopo». Se l’è legata al dito ed è andato in giro a dirlo a tutti 172

quanti, pure ai colleghi suoi. E questi qua – quando poi lui è morto – sono andati a scriverlo pure sui giornali25. Ma il peggio è stato il giovedì che stava ancora in ospedale. Era caduto dalla scala sabato 5 dicembre e sembrava che tutto andasse bene – giusto qualche costola rotta, tale e quale al povero zio Tiglio che nel 1958 o ’59 cadde dal carro del fieno a Borgo Montenero e lo portarono a Sabaudia all’ospedale con una costola rotta, e i dottori gli dicevano: «Si alzi, non faccia tante storie, lei, solamente, non ha voglia di lavorare», e invece la costola gli aveva perforato il polmone e lui è morto – migliorava di giorno in giorno, ma poi invece la notte del sabato successivo, il 12, s’è aggravato, emorragia interna, e domenica 13 dicembre 2009 mio fratello s’è morto (ed è stato il giorno del funerale, portando la cassa, che m’è venuta la folgorazione in mente ed ho pensato: «Vuoi vedere che mi riesce un’altra ernia del disco?». Ma che potevo fare? Era mio fratello. Mi levavo e lo lasciavo cadere?). Comunque il giovedì che era in ospedale stava ancora bene. E quell’assassino di nostro fratello Fernando – il più grande, quello che nel Fasciocomunista è Otello – è andato a trovarlo e gli ha detto che a lui invece glielo avevo fatto leggere: «A me è dall’inizio che mi manda tutti i pezzi man mano che li scrive. Vedessi che forte», mentre Gianni sul letto smaniava, «ci ha messo pure quella volta che mamma, con me in braccio, passava le munizioni al soldato tedesco». «Ma perché, tu ci stai?» faceva Gianni. «Io sì» e Fernando rideva. 173

«A me allora mi ha voluto proprio escludere!», pare facesse sconsolato Gianni. «Infame» ho detto poi a Fernando quando me lo ha raccontato: «Sei un infame». «Ma che cazzo vuoi che ne sapessi io,» rideva di nuovo lui, «che quello stronzo poi moriva? Se lo sapevo non glielo dicevo». A me comunque nessuno mi leva dalla testa che quello s’è buttato dalla scala e s’è ammazzato perché non gli ho fatto leggere il libro. Così mi tiene in scacco e in colpa fin che campo. E intanto m’ha costretto comunque a dedicarglielo. L’ho dovuto dedicare per forza a lui. Come facevo a tenerlo fuori? Tu apri il libro, adesso, e prima di tutti viene lui. Tu hai capito che m’ha fatto? Ha trovato ugualmente il modo di mettere il sigillo suo sulla roba mia. È ancora il cassetto suo, per lui. E addirittura due scene che nella stesura iniziale – e soprattutto nella realtà storica vera – era Accio a farle, gliele ho dovute far fare a lui, a Manrico. E che facevo, mettevo in buona luce Accio quando Manrico era appena morto? Ecco come m’ha fregato un’altra volta. Anzi, è riuscito a infilarsi pure in questo, pure nelle Iene. Ma quando glielo facevo, se prima non moriva? Quello s’è buttato apposta. Comunque, fatto sta, io il giorno di Natale, 25 dicembre 2009, che avevo appena finito il libro e seppellito mio fratello, ho ricominciato con il mal di schiena e poi subito i dolori alla gamba, il can che me magna, ma – come ho detto prima – lì per lì non me la sono presa, ero felice e contento: «Che me ne frega a me? La schiena, la gamba, la sedia a rotelle? Che vuoi che sia in confronto alla morte? 174

(che pure avevo messo in conto). Se lo pago così, lo pago a buon prezzo Canale Mussolini, ci si può anche stare» e mi sono rimesso tranquillo tranquillo sul mio letto. O meglio, non proprio sul mio letto in camera di sopra insieme con mia moglie, ma sempre sul lettino nello studio, perché adesso le scale non le potevo più fare per via della gamba. Sempre lì insomma, dentro lo studio: da luglio 2009 (prima per poter scrivere e lavorare a pienissimo regime, poi per le gambe, le scale e la schiena) fino a tutto adesso venerdì 1° ottobre 2010 – più di un anno – che sto scrivendo queste cose. Roba che il giorno che mi ripresento su da mia moglie, quella mi dice: «E lei chi è? Vada via subito o chiamo mio marito». Mi paio l’abate Faria – altro che Montecristo – chiuso serrato in questo cazzo di studio. Una di queste sere mi scavo un tunnel. Comunque ero felice e tranquillo. Tranquillo per modo di dire, ovviamente, perché mentre stavo sul letto con la gamba dolorante stesa sempre in alto sui cuscini e qualche libro in mano, tutti questi cavolo di morti continuavano ogni tanto, ora l’uno ora l’altro, ad uscire dalle fotografie sopra i muri ed entrarmi dentro. E via giù a piangere. Soprattutto mio fratello Gianni, che mi veniva pure in sogno. Fatto sta, andavo avanti con il cortisone – e la bocca tutta screpolata; mi pareva d’averci la carta vetrata numero 5 in bocca – sicuro e tranquillo di ciò che aveva detto il primario universitario: «In quindici giorni le passa». E intanto passavo di quindici in quindici e ancora quindici e quindici giorni: mesi e mesi a cortisone. Senza che passasse niente. 175

Poi un giorno all’improvviso mi telefona Finestra: «Ho saputo che stai male» e io gli racconto tutto. E lui: «Ma non può essere! Ti mando Savino (ecco come si chiamava quel tanghero!) ti mando Savino che è un neurochirurgo bravissimo. È fascista come me, però è bravissimo». Io gli ho detto no: «No, Federa’! Mi sarebbe piaciuto, ma oramai sto in parola col primario universitario. Non posso usargli questa scortesia, non starebbe bene». «Ma pensa a stare bene tu piuttosto», ha detto il Federale: «Se ci ripensi, sto qua». E io invece no: duro sul mio letto, con questo tourbillon di morti, di riso, di pianti e di cortisoni. Poi un giorno – proprio mentre smadonnavo dentro il letto con quel can che mordeva mordeva – Finestra è piombato a casa mia. S’era fatto portare da Latina a Borgo Podgora da Filippo Cosignani. Io appena l’ho visto arrivare (Finestra, non Cosignani), tutto arzillo all’età sua di 89 anni compiuti e io invece un rudere dentro il letto – l’abate Faria agli ultimi sgoccioli – gli ho detto «Federa’!», ed è stata la prima e unica volta in vita mia che gli ho dato del tu: «Federa’, mettimi le mani sulla testa e dimmi: Antonio, alzati e cammina!». Lui non lo voleva fare. Prima diceva solo «No, no» con la testa, poi proprio: «Ma che ti salta in mente? Sii uomo! Non ti ho mai visto così». Io insistevo – «Mettimi le mani sulla testa, Federa’!» – finché Filippo Cosignani ha detto pure lui: «No, no, Antonio! Ma stai a scherzare? Queste cose in Italia le può fare solo Berlusconi». 176

Finestra allora s’è risentito subito: «Eh no!», scattando in piedi, «Allora lo faccio io!». Così m’ha messo le mani sulla testa – me le ha imposte, come si dice in gergo – e ha proclamato: «Antonio, alzati e cammina. Alzati e cammina, ho detto!». Poi se ne è andato. Ma senza che avesse funzionato. «Bisogna che gli mandi Savino» ha ridetto a Cosignani. Io intanto però avevo fatto tilt – m’ero stufato di stare male – e il giorno dopo, Sabato Santo vigilia di Pasqua, ho chiamato due sciammannati dell’Anonima Scrittori e mi sono fatto gentilmente portare con la carrozzella in San Marco a Latina da don Mario, che avevo conosciuto sotto Natale per la messa d’ottavario di Gianni (lui però aveva conosciuto da giovane sia mio padre che i nostri parenti, e se lo ricordava benissimo alla Corale). Don Mario stava a confessare in mezzo alla chiesa, tra dove stava una volta la balaustra e la cappellina con l’altare alla Madonna, proprio sotto la statua di San Marco, dove c’è scritto: «Pax tibi Marce evangelista meus. Tuam custodi civitatem». Don Mario m’ha visto sulla carrozzella e ha detto: «Che hai fatto?». «Eh!» e gli ho raccontato tutto, soprattutto dei morti che andavano e venivano. E lui ha fatto: «Eh, no!». E io a lui: «Pensaci tu, don Ma’, che sei un pastore». «E sono un pastore sì!» m’ha risposto don Mario, e s’è alzato in piedi e m’ha fatto l’esorcismo. Alto, ieratico, con la voce possente ha detto: «Angeli ed Arcangeli! Anime Sante del Paradiso! Tornate tutti subito alla destra del 177

Padre e lasciate stare quest’uomo, che ha ancora la sua vita da vivere!». Poi m’ha detto a me: «Adesso però vai subito a casa e fai sparire dal tuo studio tutte le foto e i ricordini dei morti. Mettili tutti quanti dentro uno scatolone e via in cantina o in garage». «Ma don Ma’, pure mamma?» ho fatto io. «Pure mamma». «...Pure Gianni...?». «Prima di tutti tuo fratello Gianni!» s’è messo a strillare don Mario. E allora è lì che mi si è accesa la lampadina e finalmente ho capito. Secondo tutti gli studi antropologici sulle società cosiddette primitive – ma secondo pure Giorgio Villa (cfr. supra) – le anime dei morti non è che abbandonato il corpo corrano subito nell’aldilà, nell’Unità della Luce o nelle dimensioni successive. Per un po’ di tempo – circa un anno, in quasi tutte le culture – restano in una dimensione di mezzo, di margine: metà qua e metà là, con un piede ancora nel corpo, diciamo, e l’altro nella luce. Ma sono sole ancora, non partecipano dell’Unità, della Comunione dei Morti. E in quanto sole soffrono di solitudine, di saudade, struggimento, tristezza di un ricordo o di un’attesa felice, e soprattutto non vorrebbero più restare sole in questo stato. Motivo per cui cercano di portarsi appresso qualcuno che gli faccia compagnia. Non si dice anche nei proverbi popolari che «un morto tira l’altro»? Per un sacco di tempo, magari, non è morto nessuno in una famiglia, e poi all’improvviso non si mettono a morire tutti quanti, 178

a ruota? Via l’uno, via l’altro? È stato il primo che s’è chiamato gli altri, e poi tutti gli altri appresso. Dice: «Ma tu davvero credi a queste fesserie?». No, ci mancherebbe altro, ma scherzi? Certo che non ci credo. Come ovviamente non credo nemmeno agli esorcismi. Mo’, secondo te, mi metto a credere a don Mario? Ma siamo seri! Però non si sa mai, compa’. Che ne so io di come stanno davvero le cose nelle altre dimensioni? Questa è come la storia delle luci e delle ombre nella caverna di Platone. È certo quindi che non ci credo, ma tu permetti che – quando sto con l’acqua alla gola – io per non saper né leggere né scrivere mi metto pure a credere a tutti quelli che dicono di saperlo? Che mi costa, a me? Hai visto mai? Nella filosofia scettica si chiama «epoché», sospensione del giudizio. In ogni caso è ovvio che se quel disgraziato sta ancora nei cieli di mezzo e si sente solo soletto e ha bisogno di un po’ di compagnia – di qualcuno che gli stia a fianco – secondo te a chi andava a pigliare: a mio fratello Fernando o ad Angelo della signora Zoe che era il meglio amico suo? Ma neanche per idea. Quello si voleva tirare appresso a tutti i costi Venerdì. Così mi sono fatto riportare a casa di corsa. Ivana ha preparato da cucinare per i due portantini dell’Anonima – Lorenzo «Sensi» Magnarelli e Graziano «Torquemada» Lanzidei, quello del «Fai come Benigni!» – e poi li ho messi nello studio, mentre io da basso sovrintendevo dalla carrozzella, a tirare giù tutti i morti dai muri. Senza pietà per nessuno. Padre, madre, nonni, zii. E fratello per primo. 179

Fatto uno scatolone e portati tutti sopra, Ivana li ha nascosti bene bene sotto il tetto, su in solaio. Per sicurezza ho fatto togliere anche Santa Maria Goretti. Non si sa mai. Prima o poi – più in là, quando è passata la buriana – li ripiglio e ritiro fuori. Promesso. Sul ripiano però d’una libreria era rimasta in bella vista la foto d’una iena che m’aveva mandato qualche anno fa incorniciata – sapendo appunto che lavoravo alle Iene – Dino Del Giudice. Lorenzo «Sensi» Magnarelli, un matematico che studia la muscolatura dei robot, l’ha guardata e ha detto: «Maestro,» – mi chiamano Maestro per prendermi per i fondelli – «ma non è che è questa che porta jella?». «Porca puttana» ho fatto io. Gliel’ho fatta tirare giù insieme a un altro paio di libri di un ex amico mio un tantino portasfiga, siamo andati fuori in giardino – io sempre sulla carrozzella – e gli abbiamo dato fuoco. Di notte. Dino Del Giudice mi scuserà, ma «aut malo aut necessa­ rio facinore»26 (è tutto da vedere se l’azione fu malvagia o semplicemente necessaria), dice Tito Livio. Per essere però ancora più sicuro, mi sono fatto tirare in piedi e sorreggere da loro, e stringendo i denti per il dolore – solo io naturalmente, non anche loro – tutti e tre insieme ci siamo messi a danzare e saltellare attorno al fuoco: «Tie’, tie’! Portajella vaffanculo!» e sputazzate e corna e riti voodoo. Dice: «Ma tu ci credi?». No che non ci credo, come te lo debbo dire? Però non si sa mai, ripeto. Io ti vorrei vedere a te, su una sedia a rotelle. Se andavo avanti un altro po’, io mi facevo portare a Lourdes. 180

Era Pasqua oramai – la notte di Pasqua – e da Natale a Pasqua era durata ormai quella storia. Dopo un paio di giorni non si presenta a casa mia quel Savino, Stefano Savino, il primario di neurochirurgia ospedaliero di Latina? «Mi manda Finestra. Sa, io sono un po’ fascio». «Che me ne frega a me?» ho pensato io, e lui s’è messo a guardare la risonanza magnetica, poi m’ha visitato, ha acceso il computer e s’è ripassato i dischetti lì sopra. Quindi ha detto: «È messa male, gli altri anelli premono, si sono schiacciati. Però io sono bravo e la opero. Le faccio un intervento alla Xa Mas». «Questo è scemo» ho pensato io. Però che avevo da perdere? Gli ho detto: «Fa’ quello che ti pare. Ammazzami o raddrizzami». «La raddrizzo, la raddrizzo! Xa Mas le ho detto». «Aridaje» ho fatto io. Comunque m’ha operato. M’ha levato l’ernia e m’ha raddrizzato la colonna. Tre sbarre di titanio mi ci ha messo dentro, con gli spessori tra gli anelli e altri sei bulloni di titanio nelle vertebre. Robocop m’ha fatto. Il giorno dopo ero già in piedi. Certo traballavo un po’, però ero in piedi e ogni dolore alla gamba era sparito. M’ha operato il 23 aprile del 2010 e siamo diventati amici. Dice: «Vedi un po’!?». Certo. Vedi un po’: dopo neanche una settimana che m’aveva fatto il miracolo a me (che ovunque vado e racconto di queste sbarre e bulloni di titanio nella schiena, tutti poi mi chiedono affascinati: «E dov’è che t’hanno operato?». «A Latina». «...a Latina?». 181

Manco fosse la montagna del sapone), per far posto agli universitari lo hanno cacciato con tutta l’équipe dal suo reparto. Che aveva creato lui, tra l’altro. Ex novo. Adesso sta aggregato – una sorta d’extracomunitario – in ortopedia. Altro che «Col Moschin», manco la Xa Mas ce la farebbe con gli universitari. Giusto – forse – il battaglione «M» di Finestra. O l’Armata Rossa d’una volta. Stefano Savino ha 60 anni. È del 1950 come me. Ha cominciato a operare giovanissimo, a 24 anni, al San Filippo Neri a Roma. Nel 1974 o ’75 operava spesso insieme a un altro amico suo, fascio come lui. Operavano i cervelli. Prima aprivano la calotta – è ovvio – e poi operavano il cervello. Quando era andata bene e il paziente erano sicuri che si sarebbe ripreso come un fringuello, prima di richiudergli la calotta gli si chinavano sopra e gli dicevano, dentro il cervello: «Vota e fai votare Movimento sociale italiano!». Poi richiudevano la calotta e vai col tango. Una volta li ha visti – o li ha sentiti – un infermiere della Cgil e gli ha fatto un esposto per «lavaggio del cervello». Giustamente, dico io. Chissà che m’ha detto a me, quando m’ha operato. Dice: «Ma no, ma a te era la schiena». Ho capito, ma nella schiena c’è il midollo spinale. Che ne sai tu che non abbia orecchie anche il midollo? E poi, secondo te, uno che parla coi cervelli dentro le calotte aperte, non è capace di parlare alla bisogna pure con i midolli? Vallo a sapere tu, quello che m’ha detto. Io comunque questa storia dei lavaggi di cervello al San Filippo Neri mi pare proprio – anzi, ci giurerei – di averla letta sui giornali a quel tempo. In ogni caso ero in piedi. 182

Dovevo portare un busto per almeno 40 giorni e poi cominciare a fare le terapie riabilitative, la ginnastica posturale. Intanto, però, c’era Canale Mussolini che s’era messo a fare il suo dovere: «Io t’ho sfornato, adesso vedi tu» gli avevo detto. E lui s’era messo a correre. E io appresso a lui – alle presentazioni e al premio Strega – fin che il 1° luglio ha vinto lo Strega, e poi ancora presentazioni sempre più a rotta di collo pure per il Campiello. E io di qua e di là per tutta Italia col mio busto e il mio bastone. Chi ce lo aveva il tempo – ma pure la voglia – di andare a fare le terapie riabilitative? La notte poi – quando non stavo in giro e stavo a casa – via di nuovo a lavorare tutta la notte sulle Iene. Fin che una mattina non m’ha ritelefonato all’improvviso Finestra: «E allora? Quand’è che vieni a fare le terapie? Cosa stai ad aspettare?». Così ci sono andato. Solo un paio di volte a settimana però, a mozzichi e bocconi tra una presentazione e l’altra (una volta che finalmente un tuo libro vende, uno ha pure il dovere di stargli appresso. Mica sti treni passano tutti i giorni). Tra una seduta oggi e un’altra la settimana prossima quindi, s’è fatta la fine di luglio – il 27, ultima seduta – e la Romina Franzin mi stava redarguendo di nuovo per il ritardo. E io a dirle: «Lavoro di notte». E in quel momento arriva Finestra: «Ah! Ma hai già ricominciato a lavorare?». «Sì». «E che stai a scrivere?». «Il cranio del Circeo». «Ah! Io l’ho visto». «Come? L’ha visto?». «L’ho visto». «Prima di Blanc?». «Prima di Blanc». Tranquillo tranquillo. Sono saltato su quel lettino manco avessi preso la scossa: «Mi racconti tutto, Federa’, per filo e per segno sen183

za saltare una sola parola» e poi nel pomeriggio mi sono andato a cercare Stefano Savino – il neurochirurgo – e Daniela Novelli, e abbiamo registrato l’intervista27. Bene, Finestra nel 1939 aveva 18 anni (nella registrazione dice «diciassette o diciotto») ed era al primo anno di accademia alla Farnesina. Stava in licenza a Colonia Elena – cioè poco più in là di Torre Olevola, parecchio prima di Borgo Montenero, a neanche due chilometri dall’alberghetto del Guattari – dove il padre, un impiegato dell’Opera nazionale combattenti, sovrintendeva al locale centro di smistamento della Motomeccanica, la società dell’Opera che gestiva i mezzi meccanizzati per la bonifica e i movimenti terra. Pure mio padre aveva lavorato con la Motomeccanica, ma a Littoria, sulle Pavesi. Il padre di Finestra, invece, quella volta stava a Colonia Elena e il figlio era in licenza lì, e se è arzillo e intraprendente adesso a 89 anni, figurati a diciassette o diciotto. Deve essere stato un rompicoglioni di prima categoria. Fatto sta che s’era fatto amico di questo elettricista, Damiano Bevilacqua, della Società romana di elettricità – Sre si chiamava allora, come c’era scritto pure sulle cabine – ma che però tutti, anche mio padre e mia madre, nel linguaggio corrente chiamavano «la Laziale». E ci era diventato amico perché questo Bevilacqua stava sempre a Colonia Elena, visto che lì c’era la cabina e la centrale di derivazione dell’energia elettrica. E il giorno che ha trovato il cranio e poi è tornato alla centrale, glielo ha detto. Lui ha chiesto: «Posso andare a vedere?». E quell’altro: «Vai!». Lui è montato in bicicletta ed è andato. Si è infilato nel cunicolo, è arrivato nella grotta e ha visto il cranio. Ora 184

dice che non è che si fossero accorti subito che fosse così antico quel cranio. Era un cranio e basta per loro. Un cranio grosso. E stava in mezzo a un cerchio di pietre. O meglio: «Non mi ricordo se era un cerchio o un semicer­ chio»28 dice. Io ho insistito perché mi spiegasse con un po’ più di precisione come fossero davvero messe queste cavolo di pietre, ma lui ha ribadito: «Non ricordo bene se erano a cerchio, o credo a ferro di cavallo, a semicerchio»29. Su quale fosse l’esatta posizione del cranio però – se con la base in alto o in basso, oppure posto di lato – non ricorda, ricorda solo che «era grosso». L’attenzione evidentemente non gli si è soffermata sulla posizione. Quello che ha destato di più la sua attenzione – fino appunto a ricordarselo con nettezza settantuno anni dopo – è il cranio e il «cerchio o semicerchio di pietre». Questa testimonianza di Ajmone Finestra concorda sostanzialmente con quella tramandata dall’elettricista di Roccagorga Damiano Bevilacqua (1908-1991) ai propri figli, intervistati nel 1994 da Sabino Vona30 (dice: «E da dove salta fuori questa? Perché non ce l’hai detta prima?». Perché non la sapevo. Me l’ha detta Daniela Novelli quando sono andato a chiamarla insieme a Stefano Savino per registrare l’intervista a Finestra. Prima non la sapevo. È lei che me lo ha detto e m’ha prestato il libro di Vona). Ci sono ovviamente anche alcune discordanze tipiche d’ogni tradizione orale. Nei ricordi di Finestra, per esempio, il rinvenimento – che secondo le fonti scritte avvenne mentre si stava effettuando uno scavo – è dovuto al fatto che Bevilacqua stava impiantando un «palo della luce». Secondo il ricordo dei figli, invece, Guattari gli aveva chie185

sto «di mettere una lampada in una grotta, che si trovava a poche decine di metri dall’albergo»31. Lui per fissarla alla parete usò chiodi speciali ed un martello «robusto». Sotto i colpi, la parete crollò e «si aprì un varco che lasciava pas­ sare appena una persona»32. Il racconto dei figli, inoltre, anticipa l’arrivo di Blanc, che sarebbe stato sul posto già quel giorno stesso: Bevilacqua trova il cranio, esce dalla grotta, va da Guattari che è in compagnia di Blanc, gli dice la notizia e Blanc va a vedere. Qui è chiaro che c’è un errore mnemomico, perché sennò Blanc si sarebbe portato via il cranio quel giorno stesso e non avrebbe più fatto entrare nessuno nella grotta. Quello che conta, però, è che anche nel racconto tramandato dai figli, «al centro di una serie di pietre poste in forma vagamente ovale, (Bevilacqua) vide un cranio umano (...) Blanc capì subito di trovarsi di fronte a un ritrovamento eccezionale. Rivolto a nostro padre gli chiese: ‘Hai forse toccato il cranio? Lo hai spostato? Hai portato via qualcosa?’. ‘Ho sollevato solo il cranio, e l’ho rimesso dove stava’, rispose lui»33. I figli inoltre aggiungono che quando la sera – tornato a Roccagorga – Bevilacqua raccontò il fatto alla moglie, questa voleva tornare indietro insieme a lui a riprendersi il cranio nella grotta, infilarlo in un cesto e portarselo a casa: «Doppo tàteno fa i cunti co nosco»34 (dopo debbono fare i conti con noi), pensando di poterne ricavare chissà quale ricompensa. Bevilacqua evidentemente non se l’è sentita, ma ciò che emerge dal racconto complessivo dei figli è comunque un sentimento di forte frustrazione familiare, quasi che allo scopritore non fosse stato riconosciuto il giusto ruolo ma fosse stato anzi sostanzialmente defraudato. In ogni ca186

so, il fatto che la moglie volesse andarsi a riprendere il cranio con un canestro dimostra che il cranio – quella notte – è rimasto là nella grotta. Non c’era quindi Blanc quel giorno a San Felice. C’è venuto il giorno dopo. E s’è portato via il teschio. «Nostro padre restò molto amareggiato da quella vicenda»35, concludono Dino e Marcello Bevilacqua. Finestra dice peraltro di non avere visto nessuna folla dentro o attorno la grotta, non c’era nessun altro quando è entrato lui: «Giusto quelli dell’albergo, forse» (mentre forse è proprio lui, quel «ragazzi» di cui parla Blanc; cfr. p. 66). Ma ciò di cui Finestra è sicuro è che «le pietre erano sta­ te messe!»36, non era un cerchio naturale, era intenzionale per lui, fatto apposta, ad arte. È per questo che ha colpito la sua attenzione, ed è evidente a questo punto che quel cerchio non lo ha fatto Blanc – che non ha messo, tolto o spostato una sola pietra – per il semplicissimo fatto che Bevilacqua e almeno Ajmone Finestra (ma chissà quanti altri testimoni, gli scienziati avrebbero potuto trovare ancora in giro vivi per San Felice Circeo – nel 1989 – se se li fossero andati a cercare37) lo hanno visto il giorno prima che lui arrivasse. Blanc ancora stava a Napoli – in viaggio di nozze – quando loro entravano ed uscivano dalla grotta. Stupefatti – almeno Finestra – quasi più dal cerchio che dal cranio. Anzi, più che un cerchio «un semicerchio, o un ferro di cavallo», ed è in questo dettaglio di difformità del cerchio – presente anche nella «ovalità» tramandata dal Bevilacqua – che si evidenziano non solo la causa e la ragione della saldezza del ricordo, ma soprattutto la sua veridicità, confermata appunto dalla «incompletezza» del 187

cerchio raffigurato nel disegno pubblicato poi da Blanc. Uno conferma l’altro, quindi. Stop. Quel cerchio lo hanno fatto gli uomini di Neandertal. Questa storia finisce qua. Non c’è più niente da dire. Dice però: «E c’era bisogno di fare tutto questo giro, di andare a scomodare i vivi e i morti, di partire da Adamo ed Eva e dalla lunga notte del fascismo, per raccontarci in quattro e quattr’otto che Finestra da ragazzo è andato in bicicletta a Grotta Guattari, s’è infilato dentro e ha visto il cranio in mezzo a un cerchio di pietre? E non lo potevi dire in due paginette?». Sì, ma dopo tu non mi credevi. Te ne uscivi fuori come Paolo Forte e tutti gli altri amici miei, che appena gliel’ho raccontata hanno detto: «Ma vaffallippa va’! Tu ti sei messo d’accordo con Finestra! Può essere che non t’abbia mai detto niente prima, sennò? All’improvviso ve ne uscite con questa cosa?». Ecco, è per questo che mi sono dovuto mettere a raccontare per filo e per segno tutto il gioco delle più assurde casualità che stanno dietro a questo Addendum. Io Finestra lo conosco da 45 anni. Per alcuni periodi l’ho frequentato a lungo. Ha svolto oggettivamente su di me anche un ruolo di tipo paterno-putativo. Abbiamo pure litigato. Ma abbiamo sempre e solo parlato di politica, di fascismo, di guerre, di tedeschi e americani, di bonifiche e Agro Pontino, di Stalin, di Hitler e di quello che ti pare a te, ma mai e poi mai di paleontologia o di crani del Circeo. Quello m’ha insegnato Giovinezza, Battaglioni del Duce e Camerata Richard benvenuto. Ma mi poteva mai venire in mente che avesse avuto a che fare anche coi neandertaliani? 188

Dice: «Ma lui com’è che non te l’ha mai detto?». E perché me lo doveva dire? Lui pensava oramai che m’interessassero solo il comunismo e la dittatura del proletariato, Bandiera rossa e l’Internazionale. Che vuoi che gliene fregasse poi a lui? Mica stava a pensare tutti i giorni al Neandertal, che non è stata la cosa più importante della sua vita. È stato uno dei tantissimi accidenti di nessunissima vitale rilevanza che pure capitano a un essere umano. Le cose più importanti della sua vita sono state le guerre, il fascismo, i camerati, le battaglie che ha fatto e quelle che ancora farà, secondo lui. Secondo me non lo ha mai detto neanche a Nando Cappelletti. Cosa vuoi che gli dicesse, all’improvviso: «Camerata Cappelletti! Lo sai che una volta da giovane, ecco è vero, ho avuto a che fare con l’uomo di Neandertal?». Col rischio che Nando magari gli rispondesse: «Che cazzo me ne frega a me, Federa’? Qui stiamo a parlare di piano regolatore e lei se ne esce con la paleontologia? Mo’ ci mancava solo il camerata Neandertal. E dove lo ha conosciuto, a Salò? Stava pure lui nei battaglioni “M”?». È così che dopo quarantacinque anni che conosco Finestra e più di venti che corro appresso al Neandertal, solo il 27 luglio del 2010 ho saputo che s’erano incontrati. Ma pure io – del resto – mica vado in giro a chiedere a tutti quanti: «Che hai visto pure tu, per caso, il cranio del Circeo?». Gli amici miei di Latina però – soprattutto Paolo Forte, che fu a suo tempo segretario provinciale di Lotta Continua – continuano a dire: «Sì, vabbe’. Però come può essere che proprio a te e Finestra capitino sempre queste 189

cose? In mezzo a tanta gente che ci sta a questo mondo, perché proprio a lui, che ha fatto tante guerre, il fascista, il senatore, il sindaco, doveva pure succedere di vedere il cranio del Circeo e poi proprio a te, sessant’anni dopo, doveva succedere di metterti a studiarlo? Ma che, solo voi due ci state a questo mondo?». E che ci posso fare io? Mica è colpa mia se Finestra è stato – nel bene e nel male – un protagonista del tempo suo. E se uno è protagonista, è ovvio che ogni cosa importante che è avvenuta nel suo tempo, non possa non avere visto anche lui – in un modo o nell’altro – lì nei pressi. Se no che protagonista era? Se no era una comparsa e basta. Se sei un protagonista, ci devi stare per forza in mezzo a tutti i casi importanti del tempo tuo, ed ogni tempo – ma anche questo è un dato di fatto che pure un matematicoinformatico come Paolo Forte non può non accettare tra gli assiomi fondanti d’ogni calcolo probabilistico – ed ogni tempo, bello o brutto che sia, ha i suoi protagonisti. Non c’è nessun tempo che non ne abbia, e a noi – a Finestra e me – ci è toccato di fare al paese nostro i protagonisti dei tempi nostri. Che volete mo’ da noi? La rivelazione però è uscita fuori solo all’ultimo – in extremis – all’ultimissima seduta di ginnastica posturale e per pura casualità. Se non ci fossi andato – «Tanto è l’ultima, che ci vado a fare?» – o se fossi arrivato puntuale e non fossi invece arrivato in ritardo e la Franzin non m’avesse redarguito e io non avessi detto «Lavoro di notte» e proprio in quel momento non fosse arrivato lui, be’, tutto il gioco delle casualità che chissà quale potenza del cosmo aveva dispiegato fino a quel momento in campo, 190

se ne sarebbe andato a farsi fottere: lui, Finestra, per la sua strada col suo segreto in corpo, e io (ma pure White, Giacobini e tutta la comunità scientifica) senza saperne per sempre più niente. Ma questa seduta nel suo Istituto c’ero andato a farla solo perché ero stato operato. Ed ero stato operato solo perché Finestra lo aveva voluto – mi ci aveva costretto a forza, mandandomi quel Savino – e m’ero dovuto operare perché prima m’ero ammalato, e m’ero ammalato perché era morto mio fratello Gianni. È portando la sua bara che avevo sentito e m’ero preannunciato – e pertanto indotto e provocato – l’uscita di quest’altra ernia del disco. Ma m’ero anche ammalato – se mi si permette – per Canale Mussolini, sia per la fatica di farlo sia per il prezzo per finirlo, e sia soprattutto per la folla di morti che durante e dopo Canale Mussolini andavano e venivano dallo studio mio. L’abate Faria in preda alle visioni. Ed ero stato operato da Stefano Savino che è per antonomasia «l’uomo che apre i crani» – altro che le iene del Circeo – e manipola e parla coi cervelli, e gli fa anche il lavaggio. E questo Stefano Savino è uscito fuori alla fine che era anche il marito, pure se separato, di Annalisa Zarattini, la sovrintendente protostorica del Lazio meridionale – la sovrintendente proprio di Grotta Guattari, per intenderci – la paleontologa che stava già al convegno di Sabaudia del 198938 (dove è cominciata tutta questa storia) e stava già dalla parte nostra, dalla parte del movimento di resistenza anti-iene. Ma anche questo è uscito fuori solo alla fine, dopo che m’aveva operato ed eravamo diventati amici e dopo che gli avevo detto sia di questo libro sia che 191

Finestra aveva visto il cranio. «Ah,» aveva fatto allora lui «ma io sono il marito, anche se ex, della Zarattini!». «E che aspetti a dirmelo?». «E che ne sapevo io?». E certo, lui sa solo di cervelli e di Xa Mas. Io che ti debbo dire? Io più guardo e riguardo tutto il gioco delle casualità che hanno portato a questa seconda parte – l’Ad­ dendum – e più mi viene da ridere. La Zarattini dice: «Qui è l’uomo di Neandertal che ci vuole dire qualche cosa». Tu dirai: «Ma non ci crederai davvero?». No. Ma che scherziamo? Anzi, che ne so? A me mi viene solo da ridere. Io non sono uno che va in cerca del magico-religioso. Mica sono io che chiamo i morti. Sono loro che vengono da me. Anche il Neandertal, probabilmente. Ma io li caccio pure e per il momento li ho chiusi tutti in soffitta, perché io voglio restare con i piedi ben fissi in questo reale, in questa dimensione: è questo il reale in cui sto. E quindi mi viene da ridere e basta. Registro i fatti – i puri fatti – e vado avanti. Poi però se questa concatenazione di casi ed accidenti – uno più assurdo ed improbabile dell’altro, ma che però si sono realmente dati e con precisione cronometrica si sono incastonati l’uno dopo l’altro come neanche in una reazione atomica – tu la dai da analizzare a un evoliano o a un qabbalista, chissà che cosa è capace di tirarti fuori. Bisogna proprio che chieda a Gianfranco De Turris. Io però non ci credo – non sono mica superstizioso – e il sospetto che quel cranio sia davvero il Sacro Graal non mi sfiora nemmeno il cervello. 192

L’importante è che abbiamo appurato che non è stata una iena. Furono i neandertaliani. Le problème d’histoire est resolu: il problema storico di White39 è finalmente risolto. Ho un testimone oculare. Tu pensa a Tim White e Giacobini adesso: pure Finestra gli doveva capitare sulle strade loro? Altro che il «mito». Poi dice che uno non si compra un cornetto e si va a far benedire. E questo è quanto. Stasera torno in camera da letto al piano di sopra. Scappo da questa cella oramai. Speriamo che mia moglie mi riprenda. Latina, 1° ottobre 2010

Note

Capitolo primo www.namir.it/vittime/ghira.htm Sull’intera questione cfr. F. Sciarelli con G. Rinaldi, Tre bravi ragazzi. Gli assassini del Circeo, i retroscena di un’inchiesta lunga 30 anni, Milano 2006. 3 Strabone, Geografia, V, 3, 6, trad. it. Geografia. L’Italia, introduzione, traduzione e note di A.M. Biraschi, Milano 1988. 4 Cfr. A.M. Biraschi, Introduzione, in Strabone, Geografia. L’Italia cit., p. 14. 5 Cfr. C. Giardino, Il villaggio dell’età del bronzo di Casale Nuovo: la­ vorazione di rame e piombo in un sito con ceramica di tipo egeo, in Atti del convegno «Astura, Satricum, Pometia, un itinerario alle origini di Latina», Latina 2006, pp. 26-49. Cfr. anche P. Attema, La produzione del sale del Lazio protostorico, recenti scavi dell’Istituto archeologico di Groningen tra Nettuno e Torre Astura, ivi, pp. 50-71. 6 Cfr. F. Vinci, Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’«Odissea» e dell’«Iliade», Roma 2003. 7 Cfr. M. La Rosa, M. Zei, Nuove stazioni paleolitiche di superficie nel territorio pontino, progetto di ricerca 1976; Regione Lazio, Ente Provinciale per il Turismo di Latina, Al di là della preistoria, Latina 1980; M. Zei, Preistoria del territorio pontino, Latina 1982; L. Zaccheo, I Monti Lepini. Viaggio attraverso un paradiso incontaminato, Roma 1985; P. Ansuini, M. La Rosa, M. Zei, Open air Mousterian sites in central-south coastal Latium, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium», «Quaternaria Nova», 1, 1990-91, p. 479; H. Kamermans, S.H. Loving, A. Voorrips, C.W. Koot, The Agro Pontino Survey Project, Amsterdam 1991; S. Loving, H. Kamermans, A. Voorrips, Mousterian industry from the Amsterdam University survey of the Agro Pon­ 1 2

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tino, in The Fossil Man of Monte Circeo, cit.; M. La Rosa, Alla scoperta dei primi abitanti dell’Agro Pontino. Nuovi ritrovamenti nella valle del Fiume Astura, in Atti del convegno «Astura, Satricum, Pometia» cit., pp. 11-25; M. La Rosa, D. Aureli, Il Pontiniano: vecchie e nuove ricerche (in memoria di A.C. Blanc), relazione al convegno Nostro fratello Neanderthal, Sabaudia, 21-22 ottobre 2006. 8 Sulla strada Santa Croce, presso l’ex podere Onc n. 586, anche se – come diceva Zei – per poter parlare di «stazione» ci vogliono migliaia e migliaia di oggetti. 9 Dalla località di Le Moustier, in Dordogna, nella Francia Sudoccidentale. 10 Da Aurignac, nella Haute-Garonne, in Francia. 11 Cfr. C.S. Coon, Storia dell’uomo, Milano 1970 (ed. or. 1954-1962). 12 Nostro fratello Neanderthal, Sabaudia, 21-22 ottobre 2006. 13 Cfr. le relazioni al convegno Nostro fratello Neanderthal, cit.: G. Barbuiani, D. Caramelli, Non furono nostri antenati: il contributo del DNA antico; D. Frayer, M.H. Wolpoff, J.D. Hawks, Neanderthals and moderns – related or the same?; I. Tattersall, Neanderthal, Homo sapiens and the pro­ blem of species in paleoanthropology. Cfr. però anche T. Higham, C. Bronk Ramsey, I. Karavanic´, F.H. Smith, E. Trinkaus, Revised direct radiocarbon dating of the Vindija G1 upper paleolithic Neandertals, in «Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America» (da qui in avanti PNAS), 17 gennaio 2006, vol. 103, n. 3, pp. 553-557. 14 Cfr. comunicazione di Stefano Grimaldi a nome di A. Bietti, S. Grimaldi, E. Spinapolice, F. Negrino, E. Cristiani, D. Ruggeri, E. Cancellieri, Le Grotte del Monte Circeo e non solo. Riflessioni sul comportamento umano nel Pleistocene Superiore, in Nostro fratello Neanderthal, cit. Ma cfr. contra anche S.S. Hall, Gli ultimi Neandertal, in «National Geographic Italia», ottobre 2008, pp. 2-27. 15 Plinio, Naturalis Historia, III, 59 (alcuni codici, però, scrivono 23 città). 16 A.C. Blanc, L’uomo fossile del Monte Circeo: un cranio neandertaliano nella Grotta Guattari a San Felice Circeo, in «Rivista di Antropologia», vol. XXXII, Roma 1939. 17 Cfr. B. Vandermeersch, Le sepolture musteriane, in I cacciatori nean­ dertaliani, a cura di G. Giacobini e F. D’Errico, Milano 1986, pp. 112-116. 18 Ivi, p. 115.

Capitolo secondo 1 Cfr. N. Toth, T.D. White, Assessing the ritual cannibalism hypotesis at grotta Guattari, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo:

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Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium», «Quaternaria Nova», 1, 1990-91, pp. 213-222. 2 Ivi, p. 219. 3 Ivi, p. 216. 4 Questo non è scritto negli Atti, ma lo disse dalla tribuna. 5 M. Stiner, A taphonomic perspective on the origins of the faunal assem­ blages of Grotta Guattari (Levels 0 through 7), relazione al convegno The Fos­ sil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium. 6 Toth, White, Assessing the ritual cannibalism hypotesis at grotta Guat­ tari cit., p. 220. 7 Cfr. A. Ascenzi, A short account of the discovery of the Mount Circeo Neandertal cranium, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo» cit., pp. 69-80. 8 Cfr. D.C. Johanson, M.A. Edey, Lucy. Le origini dell’umanità, Milano 1988 (ed. or. 1981). 9 Toth, White, Assessing the ritual cannibalism hypotesis at grotta Guat­ tari cit., p. 220. 10 Cfr. J.G. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino 1990 (ed. or. 1890). 11 Cfr. M. Ruffo, A. Zarattini, The Grotta delle Capre (Goat Cave) at San Felice Circeo: further investigations, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo» cit., pp. 241-266. 12 Cfr. Discussione, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Cir­ ceo» cit., pp. 441-450. 13 Cfr. San Felice. Nostro fratello Neanderthal, in «Parvapolis», 5 luglio 2006. 14 Cfr. supra, nota 11. 15 Cfr. G. Giacobini, Neanderthal e non solo: 150 anni di storia della paleoantropologia, relazione al convegno Nostro fratello Neanderthal, Sabaudia, 21-22 ottobre 2006. 16 Oltre alla mia, cfr. la testimonianza di Nello Ialongo, ex sindaco di Sabaudia. 17 Toth, White, Assessing the ritual cannibalism hypotesis at grotta Guat­ tari cit., pp. 216-217. 18 Ivi, p. 216. 19 Ivi, p. 220. 20 S. Borgognini Tarli, A. Ganci, P. Francalacci, E. Repetto, L’allarga­ mento del foro occipitale in Circeo 1. Riesame e discussione di un reperto problematico, in Il cranio neandertaliano Circeo 1. Studi e documenti, a cura di M. Piperno, G. Scichilone, Roma 1991, pp. 423-455. 21 Ivi, p. 449. 22 Ivi, p. 427. 23 Ibid. 24 Ivi, infra.

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Capitolo terzo Cfr. A.C. Blanc, Il sacro presso i primitivi, Roma 1945, pp. 150-152. N. Toth, T.D. White, Assessing the ritual cannibalism hypotesis at grotta Guattari, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium», «Quaternaria Nova», 1, 1990-91, p. 218. 3 Ibid. 4 Ivi, p. 219. 5 Ibid. 6 Ibid. 7 Ibid. 8 Cfr. supra, cap. II. 9 M. Stiner, A taphonomic perspective on the origins of the faunal assem­ blages of Grotta Guattari (Levels 0 through 7), relazione al convegno The Fos­ sil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium. 10 Cfr. A.G. Segre, Geomorphologie et stratigraphie de la Grotte Guat­ tari au Mont Circé (Latina), in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo» cit., p. 97. 11 Cfr. M. Zei, Siti all’aperto musteriani nel Lazio costiero centro-meri­ dionale cit., p. 35. 12 G. Giacobini, Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non antropiche, in Atti della XXX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 1993, p. 38. 13 A.M. Radmilli, Discussione, in Giacobini, Formazione e riconoscimen­ to delle paleosuperfici non antropiche cit., p. 52. 14 Vedi supra, cap. II, nota 7. 15 Giacobini, Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non an­ tropiche cit. 16 L’eventuale ritrovamento da parte di Blanc non andrebbe comunque collocato durante le prime visite in grotta, ma magari qualche anno dopo: «Even Blanc (1939) stated that during his first visits to the cave he could not find any stone implements» (M. Piperno, G. Giacobini, A taphonomic study of the paleosurface of Guattari Cave (Monte Circeo, Latina, Italy), in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo» cit., p. 144). 17 Ibid. 18 Ibid. 19 Cfr. P. Mellars, B. Gravina, C. Bronk Ramsey, Confirmation of Nean­ derthal/Modern human interstratification at the Châtelperronian-type site, in PNAS, 27 febbraio 2007, vol. 104, n. 9, pp. 3657-3662. 20 G. Giacobini, Discussione, in Id., Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non antropiche cit., p. 52. 21 Cfr. supra. 1 2

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R. Mortari, I ritmi segreti dell’universo, Roma 1999.

Capitolo quarto 1 Cfr. «LiMes», 2, 2007, pp. 313-314: «LETTERA. Dal professor Giacomo Giacobini, segretario generale dell’International Association for the Study of Human Paleontology, riceviamo e volentieri pubblichiamo, in riferimento al testo di Antonio Pennacchi Le iene del Circeo–2, apparso nell’ultimo numero». Quello che segue è il testo integrale della lettera ricevuta da «LiMes»: «Torino, 15 marzo 2007 Egregio Direttore, leggo sul n. 1/2007 della rivista da lei diretta un articolo a firma Antonio Pennacchi, intitolato Le iene del Circeo–2. Poiché nell’articolo si fa riferimento ripetutamente al mio nome e, in modo molto critico, alla mia attività scientifica (oltre che a quella di alcuni colleghi stimati nel mondo della paleoantropologia), Le chiedo di pubblicare sul prossimo numero il testo di questa lettera. Lo stile con cui è scritto l’articolo mi suggerisce comunque di evitare con ogni cura il coinvolgimento in una discussione che non intendo proseguire al di là di queste righe. Desidero solo richiamare l’attenzione su alcune questioni di carattere generale, dividendo la materia in due parti. La prima parte riguarda il suddetto stile (si fa per dire) dell’articolo, che trovo sorprendente per l’ampio uso di termini che a me sembrano grossolani e tra i quali spiace annoverare non solo ‘incazzare’ e ‘rompicoglioni’ ma, apparendo poco tutto ciò, ‘andassero a fare in culo’, ‘cazzo’ e ‘puttana miseria’. Non conoscendo, al di fuori di questa prima esperienza, la Sua rivista, signor Direttore, non so a quale linguaggio siano avvezzi i suoi lettori. Lo stile comunque mi stupisce, vista la composizione del Consiglio Scientifico e di quello Redazionale e visto il Gruppo Editoriale che pubblica la rivista. Poiché lo stile è già di per sé indicativo della qualità dello scritto, non mi ritengo offeso. Se non fosse per un passo in cui l’Autore, riferendosi al mio intervento in un convegno, commenta: ‘Sembrava Sgarbi’. Che cosa abbia ispirato tale animosità allo stizzito signor Pennacchi non è dato di sapere, così come non si conoscono le ragioni che lo spingono a intervenire in una questione che pare ormai risolta da tempo. Apparendo comunque sostanzialmente irrilevante tutto ciò, vorrei passare alla seconda parte, più degna di attenzione, sottolineando i punti che seguono. – Il cranio neandertaliano scoperto a Grotta Guattari (Monte Circeo) nel 1939 fu interpretato da Alberto Carlo Blanc come testimonianza di

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un cannibalismo rituale. Tenendo conto delle conoscenze dell’epoca e di ipotesi sul comportamento dei neandertaliani allora largamente accettate dalla comunità scientifica, l’interpretazione proposta da Blanc era senza alcun dubbio, in quegli anni, la più logica. – L’ipotesi che i neandertaliani e, più in generale, gli uomini paleolitici avessero praticato il culto dei crani iniziò a perdere consenso nella comunità scientifica già prima degli anni Settanta. – Alcuni settori della ricerca paleoantropologica iniziarono a manifestare, nel corso degli anni Settanta, un rinnovamento metodologico. Nel campo dello studio dei fossili umani, l’analisi cladistica ne è un brillante esempio. Nel campo dell’interpretazione delle modalità d’accumulo e modificazione dei resti ossei (umani e faunistici), lo studio tafonomico è un esempio altrettanto importante. Questi rinnovamenti metodologici – che si rivelarono vere strategie epistemologiche – resero ‘scientifica’ la disciplina, rendendone ‘falsificabili’ (nel senso di Karl Popper) le ipotesi di lavoro. Anche i paleoantropologi si convinsero del fatto che un’interpretazione può essere sostenuta solo se esistono precisi elementi per farlo e se è possibile confutare quelli che le sono contrari. Le idee elaborate e sostenute in modo diverso sono nonscienza, cioè miti scientifici. – L’identificazione della iena come agente responsabile dell’accumulo e modificazione dei resti ossei sulla paleosuperficie di grotta Guattari trova riscontro non solo nei lavori citati dal poco informato signor Pennacchi, ma anche in quelli di altri Autori. La paleosuperficie di grotta Guattari ha tutte le caratteristiche delle tane di iena (abbondanza di resti di iena e di loro escrementi fossilizzati, ossa con tipiche rosicature e fratture, composizione caratteristica del campione faunistico). Inoltre, nessuna traccia di azione umana può essere dimostrata sulle più di 600 ossa disperse sul suolo, e il cranio neandertaliano appare danneggiato in modo analogo ai crani umani che talvolta le iene attuali recuperano da cimiteri e portano nelle loro tane. È vero che, quando parte di questi risultati furono presentati nel convegno di Sabaudia 1989, alcuni dei presenti (pochissimi) espressero un dissenso, ma la massa dei dati pubblicati in seguito risultò molto convincente. L’esacerbato signor Pennacchi non deve quindi stupirsi se alcuni partecipanti (come il compianto professor Antonio Ascenzi) in quell’occasione fecero osservazioni che poi non scrissero negli atti del convegno. Non conosco oggi persone che, all’interno della comunità scientifica, sostengano ancora l’idea del cannibalismo rituale nel caso di Grotta Guattari. – Il famoso ‘cerchio di pietre’, che pare rappresentare il cavallo di battaglia del passionale signor Pennacchi, non merita purtroppo l’attenzione che egli gli attribuisce. Controlli, il Pennacchi, una pianta della paleosuperficie di grotta Guattari, e si potrà divertire a identificare tutta una serie di ‘cerchi di pietre’. La storia dell’archeologia, preistorica e non, è ricca

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di esempi di ‘cerchi di pietre’, più o meno precisi e più o meno naturali, a cui sono state attribuite le funzioni più disparate (si veda, a provocatorio commento di questo, la figura a pagina 94 del volume Life history of a fossil di Pat Shipman, Harvard University Press, 1981). Comprendo quanto questi dati possano risultare fastidiosi all’incredulo ed emotivo signor Pennacchi. Ciononostante, al suo posto stimerei generoso non aggiungere a quanto già pubblicato l’annunciata terza puntata. La spinta che egli sente dentro di sé potrebbe utilmente essere tacitata, e ciò porterebbe ad alcuni benefici. Innanzitutto, eviterebbe di proseguire una polemica che appare priva di significato. Inoltre, non contribuirebbe a far riesumare un’ipotesi che, sulla scorta dei dati disponibili e di moderne metodologie di indagine, lo stesso Alberto Carlo Blanc – su questo non ho alcun dubbio – non sosterrebbe più. Infine, libererebbe un ragionamento scientifico da una componente emotiva che di scientifico nulla ha. Ci rifletta l’irruento signor Pennacchi, e rifletta sul fatto che nella lettura del nostro più antico passato – come in molte altre vicende conoscitive – si affrontano due mondi con aspirazioni contrapposte: quello delle persone affascinate dal mistero e dal mito, che a tutti i costi vogliono forzare i dati in uno schema preconcetto, e quello di coloro che aspirano a spiegazioni razionali e che, più semplicemente, desiderano capire. Il progresso delle conoscenze in campo scientifico si deve al secondo gruppo di persone, che sempre ha dovuto lottare contro il primo, e le recenti prese di posizione contro la teoria dell’evoluzione sono esemplificative a proposito. Se il combattivo signor Pennacchi, come traspare dal suo scritto, è alla ricerca di cattivi modelli americani ripresi nel nostro paese, rivolga lì la sua attenzione e ne trarrà appagamento. Scrivere questa lettera, signor Direttore, non è stato un piacere. Le rivolgo comunque un cordiale saluto, anche a nome delle (altre) iene. Firmato: Giacomo Giacobini, Segretario Generale International Association for the Study oh Human Paleontology». (Nella presente edizione Laterza il riferimento a Sgarbi – per quanto assolutamente non offensivo secondo me – è stato tolto. Similmente, è stato tolto pure qualche «cazzo» e «puttana della miseria»; con grave pregiudizio dello stile, ma che ci vuoi fare? Ubi maior minor cessat. NdP.) 2 Cfr. G. Giacobini, I Neandertaliani e il cannibalismo. Un secolo di dibattito, in La lunga storia di Neandertal. Biologia e comportamento, a cura di F. Facchini e M.G. Belcastro, Milano 2009. 3 Cfr. «LiMes», 2, 2007, p. 313. 4 Ivi, p. 314. 5 Ibid. 6 XXX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protosto­ ria, Venosa ed Isernia, 26-29 ottobre 1991. 7 G. Giacobini, Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non

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antropiche, in Atti della XXX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 1993, pp. 39-41. 8 G. Giacobini, Discussione, in Id., Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non antropiche cit., p. 52, che integralmente recita: «Il famoso disegno pubblicato da Blanc è stato fatto sulla base di una fotografia, in quan­ to il ‘cerchio’ era stato asportato in occasione dei primi scavi. Osservando la fotografia, si nota che il ‘cerchio’ era in realtà meno netto di quanto appaia sul disegno, nel senso che vi erano altre pietre fuori e dentro di esso». 9 A.M. Radmilli, Discussione, in Giacobini, Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non antropiche cit., p. 51. 10 A.C. Blanc, L’uomo fossile del Monte Circeo: un cranio neandertaliano nella Grotta Guattari a San Felice Circeo, in «Rivista di Antropologia», vol. XXXII, Roma 1939. 11 Ibid. 12 S. Borgognini Tarli, A. Ganci, P. Francalacci, E. Repetto, L’allarga­ mento del foro occipitale in Circeo 1. Riesame e discussione di un reperto problematico, in Il cranio neandertaliano Circeo 1. Studi e documenti, a cura di M. Piperno e G. Scichilone, Roma 1991, p. 424. Cfr. anche G. Giacobini, M. Piperno, Considerazioni tafonomiche sul cranio neandertaliano Circeo 1. Morfologia di superficie del cranio umano in relazione alle caratteristiche di conservazione dei resti faunistici della paleosuperficie, in Il cranio neanderta­ liano Circeo 1. Studi e documenti, cit. 13 Cfr. A. Ascenzi, A short account of the discovery of the Mount Circeo Neandertal cranium, in Atti del convegno «The Fossil Man of Monte Circeo: Fifty Years of Studies on the Neandertals in Latium», «Quaternaria Nova», 1, 1990-91, p. 78. La mandibola in oggetto risultò però appartenere a un individuo più giovane di quello del cranio. Un’altra mandibola, appartenente ad un terzo individuo, venne invece ritrovata da Lacchei e dallo stesso Ascenzi nel 1950 all’esterno della grotta, «nella breccia ossifera situata a ridosso dell’accesso» (cfr. A. Ascenzi, Sergio Sergi. Discorso commemorativo pronunciato dal Linceo Antonio Ascenzi nella seduta ordinaria del 9 marzo 1974, Roma 1974). 14 Blanc, L’uomo fossile del Monte Circeo cit. 15 Ibid. 16 Giacobini, Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non an­ tropiche cit. 17 Giacobini, Discussione cit. 18 Cfr. I cacciatori neandertaliani, a cura di G. Giacobini e F. D’Errico, Milano 1986; ma cfr. anche Giacobini, Piperno, Considerazioni tafonomi­ che sul cranio neandertaliano Circeo 1 cit. 19 Cfr. Giacobini, Discussione cit., p. 52. 20 Cfr. M. Piperno, G. Giacobini, A taphonomic study of the paleosurface of Guattari Cave (Monte Circeo, Latina, Italy), in Atti del convegno «The

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Fossil Man of Monte Circeo» cit.; Giacobini, Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non antropiche cit. 21 Cfr. «LiMes», 2, 2007, ora supra, cap. IV, nota 1. 22 Da Efremov, ora in: Giacobini, Discussione cit., p. 29. 23 Giacobini, Discussione cit. 24 Cfr. Piperno, Giacobini, A taphonomic study of the paleosurface of Guattari Cave cit.; Giacobini, Piperno, Considerazioni tafonomiche sul cranio neandertaliano Circeo 1 cit.; Giacobini, Discussione cit.; Id., Nean­ derthal e non solo: 150 anni di storia della paleoantropologia, relazione al convegno Nostro fratello Neanderthal, Sabaudia, 21-22 ottobre 2006. 25 Cfr. Giacobini, I Neandertaliani e il cannibalismo cit., p. 138. 26 Cfr. E.C. Harris, Principi di stratigrafia archeologica, Roma 1989 (ed. or. 1975); P. Barker, Tecniche dello scavo archeologico, Milano 1991 (ed. or. 1977); A. Carandini, Storie dalla terra. Manuale dello scavo archeologico, Bari 1981. 27 Cfr. Borgognini Tarli, Ganci, Francalacci, Repetto, L’allargamento del foro occipitale in Circeo 1 cit. 28 Cfr. supra, ma anche Piperno, Giacobini, A taphonomic study of the paleosurface of Guattari Cave cit., p. 144. 29 Cfr. A.C. Blanc, Il sacro presso i primitivi, Roma 1945; Id., Origine e sviluppo dei popoli cacciatori e raccoglitori, Roma 1956; Id., Some evidence for the ideologies of early man, in The Social Life of Early Man, a cura di S.L. Washburn, New York 1961.

Capitolo quinto 1 Cfr. G. Giacobini, Discussione, in Id., Formazione e riconoscimento delle paleosuperfici non antropiche, in Atti della XXX Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze 1993, p. 51. 2 Gli impaludamenti e la riduzione complessiva a saltus delle terre al di qua dell’Astura e fino al Circeo-Terracina difatti – che caratterizzano la sostanziale differenza tra l’Agro Romano e le ex Paludi Pontine, con limen proprio sul fiume Astura, su cui sta Satricum – risalgono solo ad epoca cosiddetta storica ossia recente, rispetto ai tempi di cui stiamo parlando. 3 Su una più corretta cronologia dell’«uomo di Ceprano», però, cfr. ora G. Manzi, D. Magri, S. Milli, M.R. Palombo, V. Margari, V. Celiberti, Mario Barbieri, Maurizio Barbieri, R.T. Melis, M. Rubini, M. Ruffo, B. Saracino, P.C. Tzedakis, A. Zarattini, I. Biddittu, The new chronology of the Ceprano calvarium (Italy), in «Journal of Human Evolution», giugno 2010. 4 Plinio, Naturalis Historia, III, 56. 5 Ivi, III, 69. 6 M. Zei, Preistoria del territorio pontino, Latina 1982, p. 77.

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7 Cfr. Ibid.: «Il Pontiniano viene fatto derivare dalla famiglia delle indu­ strie charentiane, in particolare di tipo Quina». 8 P. Angela, Il cugino del Circeo, in «la Repubblica», 20 ottobre 1989. 9 Cfr. P. Boscato, P. Gambassini, A. Ronchitelli, Gli ultimi Neanderthal e l’avvento dell’uomo moderno: la situazione in Italia meridionale, relazione al convegno Nostro fratello Neanderthal, Sabaudia, 21-22 ottobre 2006. Sulla questione cfr. però anche la relazione di Erik Trinkaus a nome di J. Zilhão, D.E. Angelucci, E. Badal-García, F. D’Errico, F. Daniel, L. Dayet, K. Douka, T.F.G. Higham, M.J. Martínez-Sánchez, R. Montes-Bernárdez, S. MurciaMascarós, C. Pérez-Sirvent, C. Roldán-García, M. Vanhaeren, V. Villaverde, R. Wood, J. Zapata, Symbolic use of marine shells and mineral pigments by Iberian Neandertals, in PNAS, 19 gennaio 2010, vol. 107, n. 3, pp. 1023-1028. 10 Cfr. P. Mellars, B. Gravina, C. Bronk Ramsey, Confirmation of Nean­ derthal/Modern human interstratification at the Châtelperronian-type site, in PNAS, 27 febbraio 2007, vol. 104, n. 9, pp. 3657-3662. 11 Cfr. supra, nota 9. 12 Cfr. la relazione di Erik Trinkaus a nome di J. Zilhão, F. D’Errico, J-G. Bordes, A. Lenoble, J-P. Texier, J.P. Rigaud, Analysis of Aurignacian interstratification at the Châtelperronian-type site and implications for the behavioral modernity of Neandertals, in PNAS, 15 agosto 2006, vol. 103, n. 33, pp. 12643-12648. Ma cfr. anche E. Trinkaus, European early Modern Humans and the fate of the Neandertals, in PNAS, 1 maggio 2007, vol. 104, n. 18, pp. 7367-7372, che difende pure l’idea di modesti livelli di assimilazione di Neandertal nelle popolazioni dei primi umani moderni. 13 Cfr. F. Canali, V.C. Galati, Tra Adriatico e Ionio (1924-1942), in P. Culotta, G. Gresleri, Gl. Gresleri, Città di fondazione e plantatio ecclesiae, Bologna 2007 (anche se spesso gli altri – come qualche volta in questo libro – pur bevendo alla tua fonte non ti citano mai. Anzi, più bevono e meno ti citano. E certe volte bevono, ma copiano anche male). 14 B. Vandermeersch, Le sepolture musteriane, in I cacciatori neanderta­ liani, a cura di G. Giacobini e F. D’Errico, Milano 1986, p. 112.

Capitolo sesto Genesi, 4, 2-5. Cfr. Nostro fratello Neanderthal, convegno di Sabaudia, 21-22 ottobre 2006. 3 Cfr. E. Wiesel, Caino e Abele: il primo genocidio, in Id., Personaggi bibli­ ci attraverso il Midrash, Firenze 2007 (ed. or. 1975), pp. 37-59 (anche se lui parla esclusivamente di Caino e Abele senza fare riferimenti al Nean­dertal). 4 Cfr. T. Mommsen, Storia di Roma, Varese 1971 (ed. or. 1854-56), vol. I, pp. 49-62. 5 Plinio, Naturalis Historia, III, 56. 1 2

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Cfr. A. Haley, Radici, Milano 1977 (ed. or. 1974). Giovanni, 1, 1. 8 Genesi, 1, 3. 9 Ivi, 2, 7. 10 Plinio, Naturalis Historia, III, 56. 11 Plinio, Naturalis Historia, III, 69. Ma cfr. anche Catone, fr. 58, che recita: «Lucun Dianium in Nemore Aricino Egerius Laevius Tusculanus de­ dicavit dictator Latinus, hi populi communiter: Tusculanus, Aricinus, Lanu­ vinus, Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometius, Ardeatis Rutulus». 12 Plinio, Naturalis Historia, III, 56. 13 Mommsen, Storia di Roma cit., p. 43, nota. 14 Cfr. supra, Strabone, Geografia, V, 3, 6, trad. it. Geografia. L’Italia, introduzione, traduzione e note di A.M. Biraschi, Milano 1988. 15 Cfr. T. Lanzuisi, Il Circeo nella leggenda e nella Storia, Roma 1992 (ed. or. 1973), pp. 241 sgg.; ma cfr. anche G. Capponi, Il promontorio Circeo illustrato con la storia, Velletri 1856. 16 F. Gregorovius, Passeggiate per l’Italia, Roma 1968 (ed. or. 1874-77), p. 252. 17 A.C. Blanc, Il sacro presso i primitivi, Roma 1945, cit. ora in S. Borgognini Tarli, A. Ganci, P. Francalacci, E. Repetto, L’allargamento del foro occipitale in Circeo 1. Riesame e discussione di un reperto problematico, in Il cranio neandertaliano Circeo 1. Studi e documenti, a cura di M. Piperno e G. Scichilone, Roma 1991, p. 448. 18 A. Campanile, Autoritratto, commedia trasmessa alla radio nel 1960 e pubblicata in «Ridotto», rassegna mensile di teatro, il 3 marzo 1984. 19 Cfr. Paolo Diacono, Historia Longobardorum, Lib. II. 20 Questa intuizione non è mia, ma di Massimiliano Lanzidei che me l’ha suggerita. 6

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Capitolo settimo S. Bartezzaghi, «la Repubblica», 25 ottobre 2007. Genesi, 2, 7. 3 R.E. Leakey, Preistoria, in Enciclopedia delle civiltà antiche, a cura di A. Cotterell, Roma 1981 (ed. or. 1980), p. 9. 4 Per S.J. Gould invece – vedi infra – il disvelamento ci sarebbe stato nel 1953. 5 Cfr. su tutti D. Lodge, Il professore va al congresso, Milano 2007 (ed. or. 1984). 6 Cfr. D.C. Johanson, M.A. Edey, Lucy. Le origini dell’umanità, Milano 1988 (ed. or. 1981). Su tutta la più specifica questione di Piltdown, invece, cfr. anche ivi, pp. 47-93. 7 S.J. Gould, The Piltdown conspiracy, in «Natural History», agosto 1 2

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1980, ora Teilhard e Piltdown, in Id., Quando i cavalli avevano le dita, Milano 2008 (I ed. it. 1999), pp. 201-252. 8 Cfr. Gould, Quando i cavalli avevano le dita cit., p. 208. 9 Cfr. Johanson, Edey, Lucy. Le origini dell’umanità cit., p. 78. 10 Cfr. ivi, p. 50. 11 Cfr. Gould, Quando i cavalli avevano le dita cit. 12 Cfr. P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, 1955; La comparsa dell’uomo, 1956; L’ambiente divino, 1957. 13 Cfr. «la Repubblica», 28 giugno 2007. 14 Cfr. supra, cap. IV, nota 1, la lettera del prof. G. Giacobini a «LiMes», 2, 2007. 15 Ovviamente non il mito metastorico come vorrebbe Evola, poiché metastorico è eventualmente il «bisogno» di mito nell’uomo e non la sua «costruzione», che avviene tutta nella storia e ad opera dell’uomo stesso.

Camerata Neandertal 1 Cfr. S. Vona, Da Artena a Formia. Itinerari d’arte e cultura. Musei e paesaggi, Latina 2004, pp. 132-134. 2 Cfr. supra, p. 36. 3 VIII e IX legislatura. 4 Più specificatamente, ad Ajmone Finestra furono conferite dal regio esercito italiano una medaglia di bronzo al valor militare e tre croci di guerra – una al valore e due al merito – prima dell’8 settembre 1943. Dopo, ebbe la croce di ferro di 2a classe tedesca, una medaglia d’argento al valor militare della Rsi e la proposta per la croce di ferro di 1a classe tedesca che non fece però più in tempo ad arrivare. Queste – ovviamente – dopo il 25 aprile 1945 gli furono tutte tolte. 5 A. Pennacchi, Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti (1995), Roma 20002. 6 Ne subì tre: a Forlì, Novara e Torino (per questa ed altre precisazioni, si ringrazia il suo biografo Stefano Gori). 7 In una intervista al «Corriere della sera» del 30 marzo 2008, Carlo Caracciolo dichiarava a Paolo Conti: «Quando comprai la tenuta a Cisterna di Latina scoprii che il sindaco era l’uomo della Repubblica Sociale che nel 1945 mi aveva condannato a morte. Mi disse a Fondotoce, dopo l’arresto sul Lago d’Orta da parte della X a Mas: ‘Ora pulisci i cessi, domattina ti fucilia­ mo’. E io: ‘Se mi fucilate, io i cessi non vado a pulirli. Possiamo quindi trat­ tare sull’eventuale non fucilazione’. Non pulii i cessi e fui portato a Baveno, mi tennero quindici giorni e a Novara mi scambiarono con altri prigionieri. Eravamo ormai nel marzo 1945. E con l’Ajmone Finestra sindaco di Latina come finì? Con un invito a cena a casa. Il tempo passa. Succede così». Ora – a

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parte il fatto che non si trattava di Xa Mas, bensì di battaglioni «M» della Guardia repubblicana – Finestra sostiene che il «Pulisci i cessi, visto che sei principe, e domani ti fuciliamo» fosse solo un escamotage per far sbollire la rabbia dei suoi. Nella sostanza, Caracciolo non fu fucilato; fu scambiato con altri prigionieri; andò poi a testimoniare a favore di Finestra e ancora qualche anno fa ci andò a cena assieme. A casa. Con le mogli. 8 A. Pennacchi, Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, Milano 2003. 9 A. Finestra, Grazie Littoria. Storia del Movimento Sociale Italiano pon­ tino, Latina 2007, p. 183. Dello stesso autore cfr. anche: È passata senza fer­ marsi (romanzo), Roma 1952; Ad ogni costo. Storie di pionieri e combattenti, Latina 1982; Dal fronte jugoslavo alla val d’Ossola. Cronache di guerriglia e guerra civile (1941-1945), Milano 1995. 10 Cfr. supra, nota 5. 11 Lettera di Ajmone Finestra, 23 febbraio 1996. 12 Latina/Littoria, una città, regia di G. Pannone, Fandango, 2001. 13 www.anonimascrittori.it. 14 Cfr. Invettiva contro i traditori della bonifica (Dvd), montaggio di E. Paulinich, Anonima Scrittori e Amici di Eucalipto, 2007. 15 A. Pennacchi, Canale Mussolini, Milano 2010. 16 C. Alvaro, L’uomo è forte, Milano 1938. 17 A. Pennacchi, Mammut, Roma 1994. 18 Di Invettive ne facemmo due: la prima il 10 febbraio 2007, che riversammo e montammo poi in Dvd (cfr. Invettiva contro i traditori della bonifica cit.); la seconda invece, che è ancora da riversare, il 22 aprile 2007 (cfr. A. Pennacchi, Invettiva contro i traditori della Città Fondata, performance organizzata da Anonima Scrittori e Amici di Eucalipto in piazza del Popolo a Latina). 19 Cfr. G. Villa, Delirio e fine del mondo, Napoli 1987; Id., L’oblio del pharmakon: psicologia e antropologia dell’uso e dell’abuso delle droghe, Roma 1988; Id. (in coll. con R. Mastromattei e F. Giannattasio), La terra reale: dèi, spiriti, uomini in Nepal, Roma 1988; Id. (in coll. con A. Grispini e G. Di Cesare), Violenza e psicosi, Roma 1998. 20 Cfr. S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Torino 1975 (I ed. 1921); E. Canetti, Massa e potere, Milano 1972 (I ed. 1960). Quando si stabilisce un particolare feeling tra oratore e folla – sia essa una massa grande o piccola, migliaia di persone o anche una decina sola – tra lui e la folla si crea un’identità, un unicum a senso alternato di energia psichica: l’energia dell’oratore passa in quella della massa e quella della massa passa e converge tutta nella sua. L’oratore finisce così per caricarsi dell’intera sommatoria delle energie psichiche di ogni singolo individuo che compone la massa e per questo alla fine è uno straccio: perché mentre parla ce le ha tutte addosso, niente lo può fermare, si sente indistruttibile ed onnipoten-

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te. Ma appena la musica finisce e le energie degli altri se ne vanno, il suo corpo si ritrova solo e squassato – ebete ed inadatto conduttore di tutto quel carico – fino al punto, a volte, di cedere del tutto. (Quando venne Luciano Lama a Latina, nel 1975, stavo negli edili, Fillea-Cgil. Il servizio d’ordine toccò a noi e mi ricordo come fosse ieri quanto fosse forte e carismatico – proprio un Giudice o un Profeta della Bibbia – Luciano Lama. Voce calda e possente, piglio ieratico. Tutta la piazza e pure noi sul palco intorno a lui eravamo tutti presi da lui. E lui forte e sicuro. Potente. Fino alla fine del comizio. Ma finito di parlare, e appena giù dall’ultimo scalino del palco, s’afflosciò come una statuina di cera. Pallido, smorto, esangue. Lo sorreggemmo io e Noberto Siracusa della Filca-Cisl, lo proteggemmo come un bambino e tiravamo spintoni e cazzotti – e con noi spingevano e cazzottavano tutti gli altri edili – per salvarlo dalla folla, da tutti quelli che volevano toccarlo, toccarlo anche solo con la mano come un Santo, un santo proletario, e continuare ad attingere da lui la forza che oramai non aveva più, profusa tutta sul palco. E lui non capiva, era assente. Guardava e non capiva. Faceva segno di sì, sorrideva. Ma il suo Sé non c’era più, dentro di lui. S’affidava a noi, a me e Noberto, che mai l’abbiamo amato come in quel momento, a reggerlo ognuno con un braccio sotto le spalle sue, e con l’altro a menare cazzotti. Grande Luciano Lama. Riposi in pace.) 21 Cfr. supra, nota 19. 22 Cfr. E. Wiesel, Personaggi biblici attraverso il Midrash, Firenze 2007 (ed. or. 1975). 23 Lì però la cosa più divertente fu proprio quando arrivammo alla neuro – all’ospedale militare di Torino – e mi portarono dentro una cameretta con le pareti tutte imbottite e due lettini con le corde e le reticelle. C’era un altro già lì – un altro ricoverato – che appena ci vide arrivare con me dentro la camicia di forza, subito si mise stretto stretto a capo del lettino suo. Quelli mi levarono la camicia di forza e arrivederci e grazie. Io mi sedetti tranquillo sul letto mio e lui, poco dopo, da lontano cominciò a chiedermi: «Di che corpo sei?». «Fanteria. E tu?». «Pubblica sicurezza. Polizia... Ma tu che hai fatto? Perché t’hanno portato qua?». «No, niente», gli risposi io: «Ho dato i numeri al campo (stavamo alle manovre sul Quarzino) e ho buttato all’aria un po’ di tavoli del refettorio. Poi volevo menare al capitano, ma mi si è messo davanti il tenente Visconti ed altri quattro o cinque a reggermi. Ora che me li sono scansati e divincolati, e loro si sono messi in salvo a distanza di sicurezza, il capitano non c’era più, se n’era andato. Così mi sono sfogato a pugni e capocciate addosso a un albero, finché m’hanno fatto tre o quattro punture di Luminal e messo la camicia di forza». «Ah!», disse quello: «Ma allora tu sei matto davvero». «Boh!», feci io: «E tu invece che hai fatto?».

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«Ma no, niente, io niente, è tutto un errore, sono due giorni che sto qua, ma mo’ vedrai che arrivano e mi riportano subito via. A me è un errore, a te chissà quanto ti tengono». «Va bene, ma che hai fatto?». «Niente, t’ho detto... Camminavo per conto mio, fuori servizio. Era caldo, c’era il sole, era pomeriggio. A un certo punto ho visto che a una finestra chiusa a un primo piano, dietro un balcone, s’alzava una serranda. E allora gli ho sparato». «Come? Gli hai sparato?». «E certo che gli ho sparato. Ho scaricato tutto il caricatore». «Ma tu li conoscevi? Avevi dei sospetti?». «No, mai visti prima, era la prima volta che passavo di là. Ma quando ho visto la serranda che s’alzava all’improvviso, ho detto subito eh no, mica mi freghi. E gli ho sparato». Fece una faccia – poverino – quando il giorno dopo a me mi mandarono subito via, in licenza di convalescenza, e a lui invece se lo tennero ancora lì. «Ma come?» diceva proprio con gli occhi: «Ma allora siete proprio tutti scemi qui dentro?». 24 Federica Manzon e Mario de Laurentiis. 25 Cfr. su tutti: «Il Foglio Quotidiano», 15 dicembre 2009. 26 Livio, XXIV, 39, 7. 27 Cfr. Intervista ad Ajmone Finestra, www.laterza.it/pennacchi_intervista. 28 Ibid. 29 Ibid. 30 Cfr. S. Vona, Il giallo della Grotta Guattari, ora in Id., Da Artena a Formia cit., pp. 132-134. 31 Ivi, p. 132. 32 Ivi, p. 133. 33 Ivi, pp. 133-134. 34 Ivi, p. 134. 35 Ibid. 36 Intervista ad Ajmone Finestra cit. 37 Sabino Vona in nota al suo libro aggiunge pure che «Il 24 settembre 1999, in una conferenza tenuta a Roccagorga, il professor Marcello Zei, allie­ vo di Blanc e studioso di grande valore, riferì che aveva parlato per l’ultima volta con Damiano (Bevilacqua) nella primavera del 1991. Damiano era ma­ lato. Gli disse soltanto che aveva preso in mano il cranio, lo aveva rimesso nella stessa posizione, e che non aveva portato via niente» (Vona, Da Artena a Formia cit., p. 134 nota). 38 Cfr. pp. 35 sgg. 39 Cfr. supra, p. 36.

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