Le forme del narrare [1-2] 888304794X

(Atti del VII Congresso Nazionale dell'ADI, Macerata, 24-27 settembre 2003.) L’ampiezza e la densità degli interven

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LE FORME DEL NARRARE Atti del VII Congresso Nazionale dell’ADI Macerata, 24-27 settembre 2003 a cura di Simona Costa, Marco Dondero, Laura Melosi

I

Edizioni Polistampa

Università degli Studi di Macerata Dipartimento di Ricerca Linguistica, Letteraria e Filologica

© 2004 EDIZIONI POLISTAMPA Sede legale: Via Santa Maria, 27/r 50125 Firenze - Tel. 055.233.7702 Stabilimento: Via Livorno, 8/31 - 50142 Firenze Tel. 055.7326.272 - Fax 055.7377.428 http: www.polistampa.com ISBN 88-8304-794-X

Tra il 24 e il 27 settembre 2003 si è tenuto all’Università degli studi di Macerata, presso il Dipartimento di ricerca linguistica, letteraria e filologica, il settimo Congresso dell’ADI (Associazione degli Italianisti Italiani) sul tema Le forme del narrare. Gli atti di questo ormai canonico appuntamento annuale, che si è imposto nelle nostre agende quale occasione di confronto scientifico a largo raggio ma anche di diffuso incontro amichevole, sono ora raccolti in questi due tomi. L’ampiezza e la densità degli interventi che, tra sessioni plenarie e parallele, ripercorrono l’intero arco della nostra tradizione letteraria, testimoniano l’impegno con cui è da tutti vissuta la nostra periodica scadenza congressuale: momento nazionale di riconoscimento per una comunità scientifica consapevole della continuità del proprio ruolo. Proprio nell’ottica di tale continuità, nel Congresso maceratese, mentre, con atto simbolico, venivano nominati soci onorari dell’ADI alcuni dei grandi maestri dell’Italianistica, si è voluto dare, per la prima volta, autonomo spazio ai dottorandi di ricerca. Si è inteso così aprire a un confronto tra le varie scuole di dottorato e sollecitare ulteriori verifiche al lavoro dei giovani, promuovendo l’incontro e lo scambio a più livelli generazionali. Il successo avuto dall’iniziativa, con le molte adesioni da parte dei dottorandi e la vivacità e l’entusiasmo della loro partecipazione, è certo stato uno degli spunti più gratificanti del Congresso, nella conferma così ricevuta di un confortante passaggio di testimone in itinere. E questo ci sembra tanto più positivo se rapportato al confuso e burrascoso quadro nazionale odierno, in cui, tra riformismi a getto continuo e carenza di risorse, si rischia di oscurare e deprimere un patrimonio culturale imprescindibile per la nostra identità. —5—

Più di un ringraziamento, e non certo formale, va alla Provincia di Macerata, nella figura del suo assessore alla cultura, Renato Pasqualetti, per aver contribuito alla realizzazione del Congresso e all’Università di Macerata per averne reso possibile la pubblicazione degli atti. Un riscontro a parte merita tutto il nostro Dipartimento con quanti colleghi, assegnisti, dottorandi e laureandi si sono adoperati con grande generosità per l’organizzazione e la buona riuscita del Congresso e poi per coadiuvare, anche finanziariamente, la stampa dei relativi tomi. Almeno da citare, a futura memoria, l’ausilio nella progettazione grafica portato da Andrea Di Chiara e Marcello Verdenelli e l’instancabile lavoro profuso da Carlo Vecce su tutto il versante logistico. Grazie, anche, a tutti i colleghi presenti in queste pagine per la rapidità di consegna dei loro interventi e la comprensiva disponibilità verso accelerati tempi di stampa. E grazie, infine, all’editore, alla cui appassionata alacrità si deve una pressoché miracolosa tempestività di uscita.

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I RELAZIONI

LUIGI SURDICH IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO

Ma poi che assai, or questa cosa or quella veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter le tavole e quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come alla reina piacque, andarono a mangiare: e con grandissimo e bello e riposato ordine serviti e di buone e dilicate vivande, divenuti piú lieti sú si levarono, e a’ suoni e a’ canti e a’ balli da capo si dierono infino che alla reina, per lo caldo sopravegnente, parve ora che, a cui piacesse, s’andasse a dormire. De’ quali chi v’andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle, ma quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede. (Dec. III. Introd. 14)1

Dopo aver raggiunto la seconda dimora del loro rifugio in contado, in quel giardino che altro non sembra che un Paradiso in terra («tutti cominciarono a affermare che, se Paradiso in terra si potesse fare, non sapevano conoscere che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare», Dec. III. Introd. 11), i giovani della brigata decameroniana che decidono di non andare a dormire per prendere riposo si dedicano chi al gioco chi alla lettura. Si potrebbe cogliere nelle loro scelte, comunque, un tratto di sia pur lieve e innocua trasgressione alle regole adottate dal gruppo. Perché, se ben si ricorda, la prima regina della compagnia, Pampinea, nel proporre le forme di piacere e di diletto da assecondare nelle giornate di permanenza lontano dalla città appestata, separa nettamente il gioco dalla narrazione e, all’interno delle modalità di narrazione, indica come la più conveniente quella del novellare: Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. (Dec. I. Introd. 111)

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LUIGI SURDICH

Ora, dopo che già due giornate del ludus narrativo sono state completate e dopo che una dimora più accogliente e più deliziosa della prima è stata raggiunta, al forse ristretto numero dei non dormienti viene consentita la licenza del gioco. Ma, quello che con maggiore evidenza e, insieme, problematicità, spicca, è che, proprio mentre stanno edificando il modello costitutivo ed esemplare della novellistica, i giovani della brigata (o, almeno, alcuni di loro) adottano, nella vacanza del novellare, un altro modo di passare il tempo, sempre all’interno della letteratura, che è quello della lettura del romanzo. La situazione merita di essere valutata come indicazione significativa di alcune modalità pertinenti a due distinte forme del narrare: il narrare breve che nasce dall’oralità e dalla comunicazione circolare di un gruppo, prima di istituirsi nella struttura destinata a diventare canonica, in virtù di un ascoltatore-autore (il Boccaccio, appunto) in libro2, come sta a dimostrare con chiara evidenza l’apposizione delle rubriche, utili per il lettore, ma non conosciute dai dieci giovani novellatori; e il narrare lungo, quello del romanzo, destinato alla lettura, isolata o anche in ristretta compagnia, come l’episodio di Paolo e Francesca documenta, e riservata solitamente, anche se non esclusivamente, a un pubblico femminile3. A raccogliere le novelle raccontate dai dieci giovani, a rappresentarli nella pausa di distensione della lettura di romanzi4, è quel Giovanni Boccaccio che ha condotto la precoce inclinazione, percepita fin dall’età di sette anni, all’ideare, allo scrivere, al comporre piccole fantasie5, ad effettiva vocazione di scrittore e, nell’arco cronologicamente breve di una quindicina di anni, ha predisposto per il panorama ancora in via di definizione della letteratura italiana le forme basilari del narrare: del narrare breve, naturalmente, con la strepitosa fortuna del modello decameroniano, con la novella che diventa un vero e proprio genere di esportazione in Europa, ma anche del narrare lungo. Indicativo è, in prospettiva, il destino della narrazione lunga in versi che, con il Filostrato prima e con il Teseida poi, lascia in eredità non ricusabile lo strumento metrico dell’ottava e che prefigura, in sede poematica, la congiunzione di armi e amori di cui si nutrirà il poema cavalleresco. Congiunzione di armi e amori, con prevalenza, entro un’inclinazione più sensibile allo sviluppo della dinamica dei sentimenti ed entro un’attenzione meglio disposta all’investigazione della problematica amorosa, del secondo termine del binomio. Così pertanto avviene che, nel Filostrato, quello che nelle fonti è marginale episodio che si inserisce dentro più espanse avventure d’armi, diventa materia dell’intero poema6, e che, a conclusione del Teseida, Fiammetta, alla — 10 —

IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO

quale il poeta, per mediazione delle Muse, ha inviato il libro «acciò che ella secondo il suo parere lo ‘ntitoli» (come si legge nella rubrica del primo dei due sonetti posti a conclusione), proponga come titolo «Teseida di nozze d’Emilia»7. Un titolo che è come un’avvertenza: indica infatti che, oltre le apparenze e le intenzioni epiche proclamate dall’autore, è il sostrato amoroso e sentimentale, consegnato alla dimensione elegiaca, a imporsi quale tessuto connettivo dell’opera. In effetti non viene centrato l’obiettivo di cantare nel «volgar lazio» (Tes. XII 84, 8) gli affanni di Marte e pertanto ridimensionato risulta il vanto del Boccaccio che indica il suo poema come il primo in grado di fendere le onde del mare dell’epica, «non solcate mai / davanti a te da nessun altro ingegno» (Tes. XII 85, 2-3), perché in realtà prevale la «pietosa / rima» (Tes. I 2, 1-2) dell’elegia al servizio di una commovente storia d’amore8. È però sulla narrativa lunga non in versi ma in prosa, sulla sperimentazione narrativa del Boccaccio che si risolve in chiave che diremmo di ‘romanzo’, che circoscriverò la mia attenzione. Addirittura tracce di romanzesco non sembrerebbero estranee alla più rilevante delle opere in volgare del Boccaccio postdecameroniano, al Corbaccio, entro le cui dimensioni di «umile trattato»9 Giuseppe Zaccaria, in un articolo di alcuni anni fa dal titolo Il «Corbaccio»: un’ipotesi di romanzo, ha peraltro non tanto avvertito la tessitura di una trama narrativa di stampo romanzesco, quanto piuttosto temi, motivi, situazioni, indizi, passibili di sviluppo romanzesco10. Ma, a prescindere dal Corbaccio e ripercorrendo rapidamente a ritroso il cammino dell’attività boccacciana, orientando la bussola nella direzione di ricerca di una narrativa che si fa romanzo in prosa, si incontra, scritta qualche anno prima del Decameron e nel pieno del fervore inventivo seguìto al ritorno a Firenze, dopo la giovinezza napoletana, l’Elegia di madonna Fiammetta. Il dichiarato impiego degli strumenti della narratività esibito dalla protagonista fin dal Prologo («narrando i casi miei», 1; «quali nella mente io ho sentite e sento l’angosce, cotali l’una [la memoria] profferi le parole, l’altra [la mano], più a tale officio volonterosa che forte, le scriva», 611) è pienamente motivato dalla ammissione successiva della donna di essere assidua lettrice dei «versi d’Ovidio» (III 4, 1) e di «franceschi romanzi» (VIII 7, 1). Considerando, come in questa sede conviene fare, solamente i più rilevanti riscontri riguardanti l’opzione narrativa che il Boccaccio adotta per raffigurare il dirottamento in figura d’altrui dell’alto tasso di autobiografismo e per dar di conseguenza voce alla sua eroina (con drastica recisione di tutta una serie di occasioni di analisi che il testo propone12), noteremo che il racconto di una — 11 —

LUIGI SURDICH

vicissitudine d’amore in cui l’esibizione della passione-furore è motivo non di avvilimento, ma di orgoglio, è interamente ascrivibile a una operazione di impronta letteraria, di cui, tra le molteplici componenti, vorrei isolare solo tre aspetti. Il primo è l’avvio dell’Elegia, il suo Prologo, a indicarlo: Suole a’ miseri crescere di dolersi vaghezza, quando di sé discernono o sentono compassione in alcuno. Adunque, acciò che in me, volonterosa più che altra a dolermi, di ciò per lunga usanza non menomi la cagione, ma s’avanzi, mi piace, o nobili donne, nei cuori delle quali amore più che nel mio forse felicemente dimora, narrando i casi miei, di farvi, s’io posso, pietose. (Prologo 1)

Inevitabile è il rinvio a un ben noto passo della Vita Nuova, nel capitolo di avvio dell’episodio della «donna pietosa»: Onde con ciò sia che quando li miseri veggiono di loro compassione altrui, più tosto si muovono a lacrimare, quasi come di se stessi avendo pietade, io senti’ allora cominciare li miei occhi a volere piangere.13

Nell’evidente nesso d’intertestualità che s’instaura con il libello dantesco14, non potrà non richiamare una certa attenzione il fatto che, per dare inizio al suo testo in forma sentenziosa, il Boccaccio si riconduca a quella che, per Dante, è certo una svolta carica di rischi nella dolorosa stagione succeduta alla scomparsa di Beatrice. Ma se per Dante l’amore per la «donna pietosa» resta un fatto parentetico perché, come si sa, «Contra questo avversario de la ragione si levoe uno die, quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione in me, che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei» (Vita Nuova, XXXIX, 1) e pertanto la sfida colpevole del cuore posseduto «vilmente» dal «malvagio desiderio» «contra la costanzia de la ragione» (Vita Nuova, XXXIX, 2), è destinata alla sconfitta, per Fiammetta, invece, l’amore portato dagli «occhi […] folli», dall’«appetito» (Fiamm. I 6, 7-89) non conosce superamento: quanto in Dante è episodio, in Boccaccio è trasferito ad accadimento che invade e occupa l’intero spazio della narrazione, facendosi ‘romanzo’15. Il secondo aspetto riguarda la scelta espressiva che Boccaccio adotta e che è la prosa. Un testo che si presenta fin dal titolo come ‘elegia’ e che adegua la sua fisionomia di lunga lettera alla identità delle Eroidi ovidiane, non imme— 12 —

IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO

more peraltro né della commedia elegiaca latina (e segnatamente del Pamphilus, da cui sono derivati, oltre al nome del protagonista maschile, anche frammenti testuali16), né di derivazioni dal De adversitate Fortunae di Arrigo da Settimello17, converte la misura del distico, proprio della tradizione latina, nella distensione della prosa, in sintonia con la restituzione dei testi della tradizione elegiaca nelle forme dei volgarizzamenti, come opportunamente ha ricordato Stefano Carrai nell’introdurre un volume collettaneo di studi, frutto di un convegno sulla presenza e sulla tradizione dell’elegia nella letteratura italiana. Scrive Carrai: «Nelle nuove lingue volgari la formalizzazione legata all’impiego del distico di necessità scomparve, sicché il genere elegiaco si identificò con una tonalità o un’inflessione lirica di grave infelicità e (giusta la legittimazione dei volgarizzamenti prosastici di elegie latine) finì per essere scritto addirittura in prosa, come nel caso della Fiammetta boccacciana»18. Infine, terzo e ultimo aspetto, nel congedo del libro che racconta i suoi sospiri, le sue lacrime, le sue disavventure amorose, nella conclusione, insomma, della sua elegia tradotta in prosa di romanzo patetico e sentimentale, Fiammetta, oltre alla esplicita metafora del libro-nave («come nave sanza timone e sanza vela da l’onde gittata, così t’abandona», Fiamm. IX 1, 9) che è nella convenzione letteraria19 (e che torna anche altrove nello stesso Boccaccio20), prospetta un’altra immagine di rilevante spicco: Tu [picciolo mio libretto] dèi essere contento di mostrarti simigliante al tempo mio, il quale, essendo infelicissimo, te di miseria veste, come fa me; e però non ti sia cura di alcuno ornamento, sì come gli altri sogliono avere, cioè di nobili coverte di colori varii tinte e ornate, o di pulita tonditura, o di leggiadri minii, o di gran titoli; queste cose non si convengono a’ gravi pianti, li quali tu porti, lascia e queste e li larghi spazii e li lieti inchiostri e l’impomiciate carte a’ libri felici; a te si conviene d’andare rabbuffato con isparte chiome, e macchiato e di squallore pieno, là dove io ti mando, e co’ miei infortunii negli animi di quelle che ti leggeranno destare la santa pietà. (Fiamm. IX 1, 1)

Memore di Ovidio (in particolare dei Tristia), Fiammetta proietta la soggettività e le componenti psicologiche individuali nell’oggettività antropomorfizzata di un libro, che reclama un suo pubblico: un pubblico di donne sensibili all’esemplarità della vicenda narrata e culturalmente predisposte alla lettura, anche alla lettura di una forma ‘romanzo’ nuova qual è quella che per la prima volta in volgare Boccaccio propone. Boccaccio è fortemente affascinato dalla dimensione materiale del libro-romanzo, come contenitore e come — 13 —

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‘genere’. Lo si riscontra anche facendo un passo in direzione del Filocolo, cui fra poco arriverò per una considerazione più analitica, e riflettendo su di una espressione di Biancifiore rivolta all’amato Florio al momento del distacco: «Né fia per te fatto alcuno studio che io similemente imaginando non studii, desiderando più tosto di convertirmi in libro per essere da te veduta, che stare nella mia forma da te lontana» (Filoc. II 17, 4)21. Quello che Biancifiore vagheggia, Fiammetta lo realizza, nella piena immedesimazione tra se stessa e il libro. Il libro non solo rappresenta, ma sostituisce la protagonista narrante: la letteratura, il romanzo, rivendicano il loro primato, nella persuasa accettazione del principio che sono i libri a ‘costruire’ le esperienze, a strutturarle. L’Elegia di madonna Fiammetta, indicata da Cesare Segre come uno dei possibili punti di partenza del romanzo moderno e segnalata in particolare come antecedente per il romanzo sentimentale spagnolo22; l’Elegia di madonna Fiammetta, valutata da Maria Luisa Meneghetti come eccezione nella latitanza generale del romanzo nei primi secoli della letteratura italiana («il genere destinato, in una prospettiva susseguente, ai più radiosi successi, ossia il romanzo, scompare di scena dopo l’episodio, peraltro intelligentemente novatore, della Fiammetta del Boccaccio, per riapparire, e anche abbastanza di sfuggita, solo a grande distanza di anni, coi variegati esperimenti di Enea Silvio Piccolomini, di Gasparo Visconti o di Iacopo Caviceo»23); l’Elegia di madonna Fiammetta, nell’impresa più recente (e tuttora in corso) incentrata programmaticamente sul romanzo, quella che per l’appunto si intitola Il romanzo ed è stata progettata ed è diretta da Franco Moretti per le edizioni Einaudi, trova, nei quattro volumi finora usciti, una del tutto irrilevante considerazione. Viene di sfuggita ricordata, nel primo volume, La cultura del romanzo, da Giuseppe E. Sansone all’interno della sua lettura di Tirante il Bianco, il voluminoso romanzo quattrocentesco del valenziano Joanot Martorell (a conferma dell’indicazione suggerita da Segre sulla fortuna del romanzo boccacciano nel romanzo sentimentale spagnolo)24. All’interno del secondo volume, Le forme, in un capitolo scritto da Thomas Pavel, la Fiammetta è segnalata, assieme alle Lettere portoghesi di Guilleragues (1669), come il più famoso «racconto elegiaco», inteso quale «lamento in prima persona nel quale il protagonista narra le proprie disavventure amorose»25. Infine, l’Elegia di madonna Fiammetta viene menzionata, nel terzo volume, Storia e geografia, da Piero Boitani con questa sintetica formulazione di inquadramento: «Nella Fiammetta, la medesima inclinazione all’ampliamento [il riferimento va al Filocolo] conduce dall’“eroide” ovidiana e dall’“elegia” verso il romanzo — 14 —

IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO

psicologico moderno»26. Dal quarto volume, Temi, luoghi, eroi, fresco di stampa (giugno 2003), non perviene alcuna notizia della Fiammetta. Dovessimo considerare il ruolo del romanzo trecentesco in volgare in relazione allo spazio assegnatogli ora, agli inizi del XXI secolo, dal più ambizioso progetto editoriale sul romanzo (in una visione universale, globale, va subito detto, che spazia dall’Italia, alle Americhe, alla Cina…), non potremmo non trarne che deduzioni di grande sconforto: alla luce della memoria ridotta a tre citazioni per il romanzo psicologico che è la Fiammetta; alla luce, soprattutto, di un solo rinvio, descrittivo e sintetico (quello di Boitani), al Filocolo27, cui andrebbe aggiunto, come invero insufficiente risarcimento a una considerazione estremamente limitata, l’inserimento tra le illustrazioni fuori testo, nel primo volume, della xilografia dell’edizione napoletana del romanzo, del 1478, raffigurante Boccaccio e la principessa Maria. Davvero poco, nulla, per un testo che, comunque lo si consideri e lo si valuti, costituisce la più compiuta realizzazione, per qualità letteraria, della narrativa lunga (romanzo o poema in prosa che dir si voglia28) del Trecento italiano, non sottraendosi ai limiti di una narrativa di consumo i romanzi dei Reali di Francia di Andrea da Barberino (peraltro fondamentali nella prospettiva lunga di recupero e rielaborazione per il poema cavalleresco29) e non uscendo dall’ombra di un centone per il quale l’epiteto ricorrente, in sede di giudizio critico, di ‘goffo’ va ribadito, l’Avventuroso Siciliano di Bosone da Gubbio30, dentro al quale, tuttavia, mi piace di isolare un breve passaggio: Ma Brundisbergo non dorme, ma con sollecito animo pensa la morte de.Re, e ordina con due baroni che nella corte sempre dimorano d’avelenare i.Re. Il modo per li detti tenuto fu che, veggendo i baroni che la guardia de .Re era per disusato modo, avisaro, però che.Re molto si dilettava leggere i romanzi, quale libro più gli dilettava di leggere, e quello avelenarono in quella parte ove l’uomo sovente fiate pone il dito per volgere la carta; con ciò sia cosa ch’è usanza necessaria di porsi a bocca il dito, il veleno molto sottilmente vi fu posto.31

Come a dire che il mediocre romanziere Bosone da Gubbio uno spunto, un’ipotesi romanzesca ce l’aveva. Avrebbe poi provveduto a svilupparla qualcun altro parecchi secoli dopo. Ma torno a Boccaccio, torno al Filocolo. Quel capitolo (quel necessario capitolo, credo) che a tale romanzo andava riservato in una impegnativa serie di contributi ricondotti all’etichetta unificante de Il romanzo non posso certo ora scriverlo io, ma posso abbozzarne qualche paragrafo, isolando alcuni aspetti. — 15 —

LUIGI SURDICH

Il ‘romanzo romanzesco’ di autore ha la sua fondazione e la sua rappresentatività esemplare nel Filocolo di Giovanni Boccaccio. Autore per il quale l’autoriflessione sulle proprie iniziative letterarie e sulle forme narrative costituisce una costante, il Boccaccio esalta questa sua attitudine proprio nella parte iniziale del suo testo in cui, con intenzionalità prettamente retorico-letteraria, l’inizio della storia è anche il racconto dell’inizio e quanto ha le sembianze di un «servizio alla donna amata»32 inaugura una convenzione decisiva per la compagine romanzesca: quella dell’accompagnamento della riflessione sul romanzo mentre si viene costruendo il romanzo stesso. Perché la narrazione romanzesca abbia inizio c’è bisogno, nella fictio pseudoautobiografica, che la donna amata, Maria d’Aquino, commissioni allo scrittore il lavoro da portare a realizzazione. Una spinta affettiva e un’intenzione di decoro letterario si coniugano nell’allocuzione di Maria, che induce lo scrittore a porre riparo alla «grande ingiuria» arrecata alla «memoria degli amorosi giovani», Florio e Biancifiore, la cui patetica e avventurosa storia non è stata «con debita ricordanza […] essaltata da’ versi d’alcun poeta, ma lasciata solamente ne’ fabulosi parlari degli ignoranti» (Filoc. I 1, 25). La sollecitazione della donna si fa veicolo di una disposizione polemica nei confronti di quella che potremmo dire la tradizione orale: di quella tendenza a una trasmissione del racconto mediante la voce e non la scrittura, con finalità di ascolto e non di lettura33. Per tale inflessione polemica, in verità, ancora una volta Boccaccio dimostra di non poter fare a meno dell’appoggio della memoria letteraria, dal momento che sembra recuperare un atteggiamento non infrequente nel romanzo d’oltralpe del XII secolo, come testimonia, al livello più alto, Chrétien de Troyes, laddove, a inizio dell’Erec et Enide, il poeta narratore oppone «la compiutezza della propria riuscita alle prove di certi favolatori che mutilano (alla lettera “riducono in pezzi”) e guastano il loro materiale»: «D’Erec, le fil Lac, est li contes, / Que devant rois et devant contes / Depecier et corronpre suelent / Cil qui de conter vivre vuelent»34. D’altronde tanto le parole di Chrétien quanto quelle del Boccaccio risultavano in piena ottemperanza di un precetto formulato dalla Retorica ad Herennium: «A rebus ipsis benivolum efficiemus auditorem, si nostram causam laudando extollemus, adversariorum per contemptionem deprimemus»35. Le parole di Maria d’Aquino pongono una distinzione tra una forma poetico-letteraria e una narratività povera e depressa, quella dei «fabulosi parlari degli ignoranti», da intendersi come soluzioni espressive non solo non elaborate per imperizia costruttiva e negligenza stilistica, ma anche come racconti — 16 —

IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO

privi di attendibilità per assenza di verità o, quanto meno, di verosimiglianza. Ma il discorso che la donna rivolge allo scrittore non si ferma qui. Maria non suggerisce solo la forma (la veste letteraria contro la rozzezza dei cantari popolareggianti), ma integra l’invito a porre rimedio al guasto della tradizione dando anche altre istruzioni allo scrittore, sia sulla lingua da usare, sia sul contenuto da sviluppare, nell’esortarlo a «comporre un picciolo libretto volgarmente parlando, nel quale il nascimento, lo ’nnamoramento e gli accidenti de’ detti due infino alla loro fine interamente si contenga» (Filoc. I 1, 26): quasi uno schema di base che prefigura i capitoli. L’intervento della donna, nel suo complesso, va assunto come premessa programmatica decisiva nel suggerire alcune peculiarità dello statuto di un ‘genere’. All’invito di Maria d’Aquino, Boccaccio, sulla soglia del testo, affida la responsabilità di istituire, fra se stesso e il lettore, un patto narrativo che si configura, più strettamente, come ‘patto romanzesco’. Il procedimento è delicato, sottile, e richiede una certa sottigliezza per essere descritto. Fin dall’accessus all’opera del Boccaccio che porta per titolo Filocolo troviamo, inseriti nell’opera stessa, ad essa dunque appartenenti, tanto la donna vagheggiata o amata dall’autore quanto l’autore stesso, in realtà trasferito, con questo atto di autoinclusione, al ruolo di narratore. A questo narratore viene richiesta una iniziativa di tipo letterario che consente che si stabilisca con chi è all’esterno del testo, vale a dire col lettore, un rapporto di consapevolezza inerente al fatto che si tratti di una finzione narrativamente sviluppata, in grado di coinvolgere tutti i protagonisti della realtà testuale, tutti coloro che sono dentro al testo: un ‘patto romanzesco’, per l’appunto, che nel caso specifico include al suo interno – dal momento che Maria d’Aquino e il narratore ora partecipano del romanzo e anche altrove e altrimenti torneranno a parteciparvi36 – anche una enclave autobiografica, non sanzionata, però, da un patto (come probabilmente auspicherebbe l’autore), perché il lettore sospetta che quanto l’autore ha trascritto dei suoi amori sia un travestimento romanzesco, essendo adottato un nuovo procedimento, alla luce del quale si realizza il «passaggio da una tecnica della mera fabulazione a quella di una strutturata invenzione narrativa: da narratore, l’autore si fa romanziere»37. Quella che ci parla di Maria d’Aquino e di Giovanni Boccaccio è, insomma, una finzione che entra nel quadro della finzione della storia dei due giovani innamorati, Florio e Biancifiore, e che, intersecandosi con essa, genera la struttura narrativa sanzionata dal ‘patto romanzesco’ iniziale38. A dirla altrimenti, il lettore sa che quello che sta leggendo proviene dall’esperienza dell’autore, ma — 17 —

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è al tempo stesso consapevole che tale esperienza è stata trasformata in una finzione, che si installa all’interno di un’altra finzione, cioè del ‘romanzo’, la cui gestione e la cui manovra di sovraordinamento spetta al narratore-romanziere. Nel romanzo, poi, il Boccaccio autore che diventa Boccaccio narratore concede a quest’ultimo una facoltà di considerevole rilevanza: quella di poter andare oltre i confini narrativi indicati e recintati da Maria d’Aquino. Superando le richieste dell’amata, egli estende la trama oltre il ‘lieto fine’ del ricongiungimento felice e delle conclusive nozze dei due innamorati. Su iniziativa di chi racconta viene articolato in discorso narrativo quanto nel poemetto francese Conte de Floire et Blancheflor e anche nell’anonimo Cantare di Fiorio e Biancifiore in volgare (posteriore al Filocolo39) è racchiuso in pochi versi conclusivi (nel primo caso) o in una ottava (nel secondo): E Florio ritornò di qua dal mare, ed arrivò nella dolce Toscana, e andò in Ispagna e fece bategiare lo re Felice e la madre pagana, e tutta la lor gente fè tornare a la fede catolica e cristiana; poi di Roma fu eletto imperadore: più di cento anno isté con Biancifiore.40 Tutto ciò ribadisce il protagonismo dell’autore-narratore, da integrare pertanto con quello dei protagonisti della fictio romanzesca. A conseguenza di siffatte condizioni narrative, il romanzo si configura come racconto di una doppia iniziazione: quella di Florio, la cui aventure diventa una queste, nel senso che palesa vistosi tratti di coincidenza con i meccanismi e le modulazioni di una queste religiosa, in diretta rispondenza alla sua assunzione di proporzioni e doveri di cavaliere cristiano, con conclusiva assunzione di un potere, il potere di un ‘re clemente’41; e quella dello scrittore, perché l’itinerario del romanzo è anche itinerario di crescita letteraria, con correlato spostamento del materiale narrativo dalla dislocazione degradata dei ‘fabulosi parlari’ alla realizzata rigenerazione letteraria che l’adempimento romanzesco esibisce42. Il senso di questo percorso viene reso manifesto da un rilevante scarto che, rispetto alle premesse, da ultimo la narrazione presenta. — 18 —

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A conclusione del racconto, negli ultimi capitoli del Libro Quinto43, nel momento in cui Florio, re novello, congeda i suoi fedeli, si dà notizia che la storia della vicenda di Florio e Biancifiore è stata scritta in greco dal reverendo Ilario («con ordinato stile, sì come colui che era bene informato, in greca lingue scrisse i casi del giovane re», Filoc. V 96, 37) e nelle ultime righe del libro tale informazione viene ribadita, con sottolineatura della funzione di fonte assunta dal testo di Ilario: «E a’ contradicenti le tue piacevoli cose, dà la lunga fatica di Ilario per veridico testimonio» (Filoc. V 97, 10). Certo, qualcosa sembra non tornare, essere in contraddizione con quanto si era appreso all’avvio del libro: lì come fonte Boccaccio sembrava indicare, per voce della committente Maria d’Aquino, testimonianze popolareggianti, i «fabulosi parlari», appunto; ora invece, nel congedo, rispetto a quanto osservato in obbedienza alle prescrizioni di Maria d’Aquino, resta la scrittura in volgare («del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto comandamento, che ’l tuo principio palesa», ibidem), ma risulta come capovolta la responsabilità del narratore: non più l’affidamento alle risorse personali di impostazione autonoma del discorso narrativo al fine di conferire ad esso una qualificazione letteraria, ma un riduttivo gregariato, con abbassamento del ruolo di narratore a quello di semplice ritrascrittore. Una contraddizione? Una aporia difficilmente sanabile e giustificabile? Può essere. Ma può essere anche che il richiamo in due tempi diversi (inizio e fine della narrazione) di due fonti diverse vada spiegato con l’acquisto di consapevolezza letteraria da parte di Boccaccio che, a nobilitazione della sua materia, allega, per un libro intitolato, con derivazione etimologica greca, Filocolo, l’auctoritas di un esponente della cultura greca. Ma la stranezza della indicazione bicefala della fonte sembra adeguarsi alla procedura di un libro che radicalmente innova un racconto popolare e che però, da ultimo, non al racconto popolare fa riferimento, ma trova da una parte una garanzia nell’autorità di un testo greco e dall’altra si confronta con i classici della tradizione latina (Virgilio, Lucano, Stazio, Ovidio) e col maggiore erede, in volgare, della letteratura classica, vale a dire Dante44. Un confronto, certo, affrontato con atteggiamento di esibita modestia: ma un confronto che, nel momento in cui àvoca a sé una collocazione di subordine (la semplice riconversione in volgare del testo di Ilario; la collocazione «mezzana» dello stile e del genere45), in realtà, proprio per l’eccellenza dei personaggi letterari assunti a termine di paragone, è segno di ambizione e di orgoglio. Entro questa linea interpretativa del comportamento di Boccaccio di fronte alla biforcazione delle fonti si iscrive anche l’avvertenza di una speri— 19 —

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mentazione narrativa che, in forza delle facoltà concesse da un genere non definito, fortemente elastico nei suoi confini, conduce a realizzazione tanto l’avventuroso romanzesco quanto l’impennata epica (da poema) di cui da ultimo Florio si fa portatore, sia per la conversione non solo personale ma di tutto il suo popolo, sia soprattutto per la funzione civilizzatrice che la sua azione viene ad assumere, nel momento in cui l’attualizzazione delle potenzialità innate del protagonista va ben oltre il semplice meccanismo della prova (la separazione, la tentazione, la minaccia di morte, ecc.). Evento romanzesco ed azione epica si saldano in finale confluenza. Il che potrebbe fornire un non precario pretesto di giustificazione alla definizione apparentemente incongrua, nel capitolo di conclusione (dove peraltro, altrettanto incongruamente, al libro lo scrittore si rivolge in atto di congedo con l’allocuzione: «O piccolo mio libretto», Filoc. V 97, 1), quando il narratore, al momento dell’invio del libro alla donna amata, chiama «versi» le pagine in prosa: «Ella, la quale io sempre porto figurata nell’amorosa mente, mai i tuoi versi non leggerà che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria» (Filoc. V 97, 4)46. Il Filocolo è scritto dal Boccaccio tra il 1336 e il 1338. Negli stessi anni in cui Petrarca comincia a lavorare attorno alle rime volgari, la letteratura italiana, grazie al suo più prestigioso narratore, si arricchisce della presenza di un genere nuovo, del ‘romanzo’. Un romanzo ricco, articolato, globale, un romanzo che risponde in pieno alla specificità del genere, quella di essere un «genere “totale”»47, un romanzo a volte fin troppo fittamente gremito di personaggi e situazioni, certamente movimentato e stratificato, per l’interconnessione di azione e passioni e per l’incastonamento in esso di forme appartenenti ad altri generi letterari, che vanno dalla lirica (l’ottava a rime alternate dei versi collocati sulla tomba di Giulia Topazia; le terzine di elogio madrigalesco di Fiammetta formulate da Caleon48), al dibattito sulla casistica amorosa (le «questioni d’amore»), alla prefigurazione novellistica (sempre in alcune delle «questioni d’amore»), alla dimensione storiografica, erudita, enciclopedica, scientifica (in particolare nel Libro Quinto49). Per non dire, poi, dell’utilizzazione continuativa delle più peculiari componenti romanzesche, sia contenutistiche (i palazzi, le splendide sale50, i banchetti, le feste, la corte, le prove, le tentazioni, il mare, il viaggio, il meraviglioso…), sia strutturali e formali: ad esempio le prolessi e le analessi, le anticipazioni (prevalentemente affidate ai sogni premonitori51) e le ricapitolazioni, fra cui, rilevantissima, quella conclusiva nella quale Florio racconta tutte le sue vicissitudini al padre e alla madre (V 86), emulando la convenzione della — 20 —

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narrativa francese secondo la quale «l’avventura diventa vera solo quando è riferita al re, e il re l’approva»52. Ma questo elaborato e organico prototipo di romanzo, che pure sarà diffuso attraverso un non esiguo numero di manoscritti, non costruisce la tradizione di un genere in Italia. Resta isolato (non chiusura o epilogo del romanzo di derivazione francese; non inaugurazione di un genere che attecchisca e trovi epigoni), così come a suo modo isolata resta da noi anche l’altra prova narrativa d’impronta romanzesca del Boccaccio, la Fiammetta. Eppure tanto la Fiammetta quanto il Filocolo sembrano contenere in sé, in diversa maniera, i requisiti basilari per la fondazione del romanzo. Se ben si osserva, anche a costo di schematizzare in modo drastico i problemi, i referenti fondamentali, i due grandi poli attorno ai quali, isolatamente o per commistione, trova aggregazione un genere come il romanzo sono la psicologia (i sentimenti, le emozioni, la soggettività, ecc.) e la società (la storia, la cultura, l’ideologia, ecc.). Pressoché sintomatico correlare il primo aspetto alla Fiammetta e il secondo al Filocolo (in relazione all’irrobustimento del personaggio di Florio, da innamorato a giovane re, da protagonista di una vicenda individuale a guida di una collettività). Ma la coincidenza dei due testi con i presupposti fondamentali della prassi romanzesca non si commuta in fortuna storiografica, specialmente se si guarda al Filocolo53. Mentre la Fiammetta si dispone a recuperi e rielaborazioni che convivono in parallelo con il modello lirico petrarchesco, anch’esso governato dalla proiezione letteraria dell’‘io’, più complessa è la problematica che investe il Filocolo, che poteva essere il punto di avvio del cammino del romanzo moderno. Ma il cammino si arresta subito. Certo, in prima battuta si sarebbe tentati di sottoscrivere una del tutto plausibile constatazione di Alberto Asor Rosa, il quale, nel capitolo scritto per il terzo volume della già menzionata impresa editoriale curata da Franco Moretti sul romanzo, così inizia il primo paragrafo, dall’eloquente e perentoria intitolazione-affermazione: L’Italia non è la patria del romanzo. Scrive Asor Rosa: «L’Italia non è la patria del romanzo. Il romanzo non nasce qui. E anche quando l’Italia arriva a conoscere una propria fioritura romanzesca, si può dire che non se ne costituisca mai una “tradizione”, nel senso lineare e grandioso in cui ciò avviene in quasi tutti gli altri Paesi moderni […]. Questo non significa, naturalmente, che non esistano romanzi italiani bellissimi. Ma, – si presti attenzione a questo aspetto della questione – ognuno di loro rappresenta un caso a sé, difficilmente imitabile e perciò, nella maggioranza dei casi, irripetibile»54. Se il destino del romanzo italia— 21 —

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no è quello di restare isolato, il primo romanzo della letteratura italiana, il Filocolo, è un prototipo anche per questo: anche perché racchiude nella sua presenza e nel suo proporsi il destino del romanzo italiano. Ma, cercando di andar oltre, alla ricerca di accettabili spiegazioni, perché questo accade? Assumendo il Filocolo come punto di riferimento per rendere conto dell’immediato blocco del genere letterario etichettabile come «romanzo romanzesco» (e, insieme, come «romanzo d’autore»), credo che si possano individuare almeno due motivazioni. Anzi, ci sarebbe forse anche lo spazio per una terza, che affronto subito e che si fonda su ragioni storico-sociologiche. Il romanzo, che presuppone lo svolgimento dell’avventura di un eroe-protagonista dentro una struttura unidirezionale in senso ideologico e che diventa pertanto strumento letterario confermativo o orientativo di una classe sociale totalmente egemone e di una istituzione politica omogenea e compatta (la corte angioina di Napoli, in questo senso, può essere compiutamente rappresentativa), si svuota della sua necessità entro una struttura qual è quella della civiltà comunale, che nella convivenza di diversificati e stratificati ceti sociali postula una investigazione problematica dei valori: e allora il genere letterario più pertinente risulta la sequenza di novelle, atta a proporre più e diversi casi di una realtà sfaccettata e varia. Ma entrando più direttamente nello specifico letterario, è in esso che vanno ricercate le ragioni maggiormente condizionanti e stringenti circa il mancato appuntamento con la costituzione di una tradizione del romanzo. Alla robustezza e solidità del genere fa da contrappeso la sua fragilità in sede storiografica. Si direbbe che il romanzo soccomba sotto il fuoco incrociato proveniente da due fronti avversi, tra di loro divergenti. Il primo chiama in causa il Petrarca per almeno due aspetti. Da una parte la tradizione narrativa, così come è venuta a conformarsi nel romanzo cavalleresco e cortese dell’area francese, rientra, nell’ottica petrarchesca, nell’orbita di una decadenza che si traduce in giudizio fortemente negativo. Ne sono evidente testimonianza, ad esempio, alcuni versi della terza parte del Triumphus Cupidinis (vv. 79-81): «Ecco quei che le carte empion di sogni: / Lancilotto, Tristano, e gli altri erranti, / ove conven che ’l vulgo errante agogni»55. La contestazione al romanzo bretone (che può essere assunta come contestazione generale alle ‘prose di romanzi’) fa tutt’uno con una rimozione decisa della prosa in volgare, per un verso e, per l’altro verso, con una accettazione e promozione della prosa latina in un ambito che sia o storiografico o morale, con la presenza peraltro di alcuni momenti narrativi (sempre — 22 —

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in prosa latina) studiati da Martellotti e da Raimondi, il quale, ad esempio, mette in risalto il «classicismo pittoresco antidealistico» della novelletta satirica della lettera XVIII delle Sine nomine56. Su di un altro versante, non dissociato tuttavia da quello appena descritto, l’egemonia del modello lirico acquisita dal Petrarca col suo canzoniere non solo si estende nella lunga durata di imitazione del modello, ma fa sentire i suoi effetti anche nella promozione di un ideale di ‘classicismo’ estremamente selettivo nella accettazione dei generi letterari57. E se, come ha osservato Amedeo Quondam nelle riflessioni conclusive del convegno sulla novella tenutosi a Pisa nell’autunno del 1998, «il genere narrativo» è debole, «nel panorama classicistico», al punto che la stessa novella d’impianto boccacciano si configura come «genere debole», debole ancor più è il romanzo, almeno fino a quando, al di là di alcune testimonianze cinquecentesche, riaffiorerà, nel suo percorso carsico, nel Seicento58. L’altra figura che, in aggiunta al Petrarca, determina il destino di sconfitta della narrazione lunga in prosa in Italia è il Boccaccio stesso: il Boccaccio che, col Decameron, costruisce un libro di novelle, libro di un genere imitato nella struttura, utilizzato come fonte, predisposto per l’imitazione linguistica. Si direbbe che con il Decameron il Boccaccio determini il ruolo minoritario (fino a una non breve eclissi) del genere (il romanzo) da lui stesso fondato, in volgare, e da lui stesso elevato a dignità letteraria: il genere che aveva caratterizzato il momento più impegnativo agli esordi della sua carriera di scrittore. Tra narrativa lunga e narrativa breve ha la meglio la seconda, in una competizione gestita dallo stesso autore. Senza neppure forzare troppo i termini di rappresentazione della vicenda di concorrenzialità letteraria che, nel giro di poco più di un decennio, fissa le direttrici entro cui si muoverà la narrativa in volgare, si può dire che si assiste a una sorta di cannibalizzazione a seguito della quale non solo il genere novellistico cancella il genere del romanzo, ma anche lo stesso genere novellistico incorpora in sé il romanzo o, quanto meno, aspetti del’assetto strutturale-compositivo e del repertorio tematico romanzesco. La narrativa breve (la novella), secondo quanto il Decameron attesta – proprio per la «costituzionale disponibilità della novella a fagocitare e ibridare modelli e forme eterogenee»59 e proprio per la libertà di escursione tra le misure ridotte di una novella di motto e quelle più ampie e dilatate delle novelle di peripezie e di avventure60 –, si appropria del romanzo (e del romanzesco) sotto almeno tre forme. — 23 —

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La prima è quella rappresentata dalle novelle che possono definirsi, magari con terminologia moderna, racconti lunghi, narrazioni imbastite su trame di misura e proporzioni romanzesche: le ha indicate, a suo tempo, Mario Baratto nel capitolo Dal racconto al romanzo della sua monografia decameroniana61; e novelle che puntano verso un narrare romanzesco ha segnalato più di recente anche Asor Rosa, nel suo studio sul Decameron per la Letteratura Italiana Einaudi: quelle di madonna Beritola, del conte di Anguersa, del Saladino e di messer Torello, e poi ancora quella di Alatiel e quella dello scolare e della vedova62. La seconda riguarda la riduzione novellistica di un precedente romanzesco. In questo caso abbiamo la fortuna di poter misurare le modalità del transito all’interno dell’opera del Boccaccio, dal suo romanzo al libro di novelle, dal Filocolo al Decameron. E non mi soffermerò sul recupero, nella giornata conclusiva, di due questioni d’amore per due novelle, vista la prossimità del genere (anche se poi le questioni, nel farsi novella, sono sottoposte a una non irrilevante pressione modificatrice63), ma presterò l’attenzione a un episodio che, recuperato dalla trama del Filocolo, diventa novella nel Decameron. Il Boccaccio stesso sembra come indicarne la fonte, incapsulando il titolo del suo romanzo, Filocolo, vale a dire «fatica d’amore», nella esplicazione della narratrice della novella, la V 6, a esordio del suo intervento: «Grandissime forze, piacevoli donne, son quelle d’amore, e a gran fatiche e a istrabocchevoli e non pensati pericoli gli amanti dispongono» (Dec. V 6, 3; mio il corsivo). La novella è quella di Gianni da Procida e della Restituta, che recupera, nel momento culminante, la situazione di Florio e Biancifiore condannati al rogo, con vistosissimi scarti nel passaggio dalla tessitura romanzesca a quella novellistica, riconducibili a una varia gamma di fattori: il radicale scorciamento della narrazione, l’abolizione dei lunghi monologhi dei due giovani innamorati, il ridimensionamento dell’apparato scenografico, l’abbassamento dell’enfasi e della solennità. In particolare si consideri come il decisivo intervento divino, quello di Venere, al momento della salvezza, sia sostituito, nell’elaborazione della novella, dall’ingresso di un adiuvante non mitologico e sovrannaturale, ma concretamente storico e attuale, vale a dire Ruggeri di Lauria, il quale incarna la fisionomia di un personaggio da novella (difficilmente pensabile nel quadro di un romanzo) quando, alla richiesta di Gianni da Procida di poter essere legato al rogo con la sua innamorata «non con le reni a lei voltato e ella a me», bensì in modo «che noi siamo co’ visi l’uno all’altro rivolti, acciò che, morendo io e vedendo il viso suo, io ne — 24 —

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possa andar consolato» (Dec. V 6, 34), replica, con espressione maliziosamente allusiva e al tempo stesso di prefigurazione di un esito positivo del dramma in atto, in questo modo: «Ruggeri ridendo disse: “Io farò sì che tu la vedrai ancora tanto, che ti rincrescerà”» (Dec. V 6, 35)64. La terza, infine, esalta quello che è verisimilmente il registro caratteristico della novella, la parodia, proprio in rapporto col romanzo. E, ancora una volta, questa modalità vede il Boccaccio misurarsi con il suo romanzo giovanile sotto varie prospettive: da quella situazionale che ribalta dal tragico al comico la confessione in punto di morte, con la figura del re Felice da una parte e quella di Ciappelletto dall’altra, a quella «formale, relazionale»65, alla luce della quale entrano in rapporto il personaggio di Fileno del Filocolo e di Pinuccio, uno dei giovani protagonisti della IX 6, perché in entrambi i casi i due personaggi, Fileno da una parte e Pinuccio dall’altra, parlano all’interlocutore che è il massimo danneggiato dalle parole che ascolta – Florio nel romanzo e l’oste, padre della giovane Nicolosa, nella novella – senza sapere chi sia il destinatario del loro discorso: discorso che è espressione di convinzione di essere riamato da Biancifiore per Fileno (Filoc. III 17) ed è rivelazione del raggiunto appagamento erotico per Pinuccio. Ma una più stringente misura parodica che investe l’intera struttura del romanzo (del Filocolo) è quella che mette in causa la celebre novella di Alatiel. La «comicità strutturale» di cui parla opportunamente Cesare Segre, perché si tratta di comicità sprigionata dal rovesciamento dello «schema tipico del romanzo alessandrino»66, si rafforza alla luce della direzione imboccata dalla parte conclusiva della novella, non estranea a un risultato di autoparodia, se si pensa che il modello alto di riferimento per la giovane figlia del soldano di Babilonia è la giovane figlia di Lelio e Giulia, Biancifiore. Biancifiore è colei che, in vista della separazione dall’amato, con ferma coscienza si dice lieta di non aver varcato i confini del lecito, si proclama contenta della sua «servata onestà» (Filoc. II 17, 14), ed è anche colei che sopravvive a numerose disavventure e cade in condizione di prigionia, ma con fierezza e orgoglio giunge casta alle nozze con Florio, meritando l’assenso e il plauso della dea posta a tutela della verginità, Diana67. Ma al Filocolo va ricondotto un ulteriore riscontro di comicità strutturale, quando si consideri che la ricapitolazione impostata su falsificazioni giocose e allusività anfibologiche delle proprie vicissitudini esposte da Alatiel al padre (punto culminante è: «e con gran devozione con loro insieme ho poi servito a San Cresci in Valcava, a cui le femine di quel paese voglion molto bene», Dec. II 7, 109) è esemplata sul rovescio della frequente tecnica ricapitolativa — 25 —

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e riassuntiva adottata dai personaggi del romanzo giovanile: è il caso degli interventi di Florio prima (IV 128) e di Biancifiore poi (IV 130) legati al rogo, nella scena di cui già in precedenza si è fatta menzione, ed è il caso (V 63) di quando Florio racconta al reverendo Ilario la sua storia. Col suo Decameron, insomma, Boccaccio determina il destino del suo Filocolo e, in generale, della narrazione lunga in prosa, del romanzo. Ed emblematico di questa situazione diventa il fatto, da cui sono partito, che mentre si sta costruendo e sta assumendo dunque posizione primaria il libro di novelle, qualcuno di questi protagonisti del narrare breve novellistico e della struttura che raccoglie e unisce tali forme del narrare breve, legge un romanzo. Un genere (il romanzo) che si iscrive dentro un altro (la novellistica), quasi a indicare una precisa gerarchia. La gerarchia avrà una sua lunga tenuta. Non saprà né vorrà certo modificarla il Boccaccio. Per dire di una partita conclusa, per dire che le carte che ha in mano il Boccaccio novellatore risultano vincenti su quelle del Boccaccio romanziere, per dire insomma che nel Trecento e anche per molto tempo a seguire c’è poco posto per la narrativa lunga di impianto romanzesco in prosa, sarà sufficiente estrapolare un breve passaggio del Boccaccio latino degli anni postdecameroniani. Ci si potrebbe ricondurre anche al Corbaccio e al tono sprezzante che investe la vedova perché «le sue orazioni e paternostri sono i romanzi franceschi» e perché «Legge la Canzone dello indovinello e quella di Florio e Biancifiore e simili cose assai»68. Ma più istruttivo mi sembra un capitolo, il capitolo XIX, dell’ottavo libro del De casibus virorum illustrium, che porta per titolo De Arturo Britonum rege e che così si conclude: Tabula Rotunda tot probis viris cesis omnibus deserta fractaque et in vulgi fabulam versa est. Gloria ingens regis et claritas desolatione in ignominiam et obscuritatem deleta est adeo ut possint, si velint, mortales advertere nil in orbe preter humilia posse consistere.69

Boccaccio registra il declino di un universo (quello della Tavola Rotonda e dei suoi eroi) e, parallelamente, di un genere, il genere ‘romanzo’ che quel mondo ha rappresentato. Con un procedimento invertito rispetto a quello dallo stesso Boccaccio messo in atto, nella sua giovinezza napoletana, di promozione della storia di Florio e Biancifiore alla dignità letteraria, ora la dignità letteraria è precipitata «in vulgi fabulam», con ripresa, dunque, in formulazione latina, dell’espressione «fabulosi parlari degli ignoranti». Solo che — 26 —

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ora, per poter ricostruire quel mondo in attraente dimensione romanzesca, non c’è più una Maria d’Aquino che inviti un giovane Boccaccio a cimentarsi nella promozione letteraria delle vicissitudini dei personaggi e soprattutto non c’è più un giovane Boccaccio che con entusiasmo pionieristico si voglia cimentare nel romanzo in prosa. Ora «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia»70, le «Arturi regis ambages pulcerrime»71, rivelano «come al Boccaccio interessi più la nuova testimonianza della mutabilità della Fortuna che il tema, per se stesso ricco di materia fantastica e avventurosa»72. Il ‘patto romanzesco’ non è più possibile, non è più autorizzato: e questo avviene perché, oramai, la narrativa lunga dovrà cercare altri spazi formali ed espressivi, un altro genere (il poema in versi), prima di tornare ad occupare quello ad essa più pertinente che è quello della prosa.

NOTE 1 G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, Torino, Einaudi, 1992 (le citazioni decameroniane faranno riferimento a questa edizione). 2 Si veda il libro di G. BALDISSONE, Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Firenze, Olschki, 1992, in particolare il primo capitolo, Oralità e scrittura dal «Novellino» al «Decameron», pp. 7-43. 3 Cfr. M. FEO, Leggere, «Il Ponte», LII, 1996, 9, pp. 84-85: «Si sa, scrivere è importante. Ma non è del tutto certo che lo sia anche il leggere. Scrivere è atto stabile, che guarda all’eternità, leggere è effimero. Chissà, forse leggere è persino un’attività intellettuale un po’ inferiore, che compete ai meno dotati, ai poveri o ai digiuni di sapere. Forse per questo nella presunzione maschile e nell’autocoscienza femminile in certe epoche la promozione intellettuale della donna è stata raffigurata come capacità di leggere e non di scrivere». 4 Il richiamo, sia pure di scorcio, al romanzo non dentro un libro di novelle qualunque, ma dentro il libro di novelle per eccellenza non può essere impunemente lasciato cadere o essere sottovalutato. Oltre a indicare per via diretta o per integrazione di quanto viene alluso o sottaciuto la distinzione di formazione e di ricezione tra novella e romanzo, esso trattiene tra le righe anche un giudizio storiografico, implicando una graduatoria: il «passamento di noia» (Dec. Proemio 14) assegnato alla piacevolezza ritualmente organizzata delle novelle rende subordinato e marginale il passare del tempo riservato alla lettura del romanzo. Con sintomatico parallelismo, si direbbe non casuale che le dieci giornate del narrare novellistico, promotrici del titolo Decameron, lascino in funzione vicaria il sottotitolo di diretta memoria romanzesca, «cognominato prencipe Galeotto». Alla serie di istruttive chiarificazioni circa la specificità di ricezione e circa la collocazione storiografica del romanzo, che il passaggio decameroniano preso in considerazione ci aiuta a ricavare, piacerebbe aggiungere qualche supplemento di informazione, che solo per via di ipotesi o di verosimiglianza (spe-

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ro non arbitraria né romanzesca) è legittimo dedurre. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, quali possano essere i romanzi che i giovani lettori della brigata leggono. Forse qualcuna di quelle «prose di romanzi» di cui parla Dante, quei romanzi della tradizione d’oltralpe che trattano le «ambages pulcerrime» di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda e che hanno il loro coronamento alto con la Mort le Roi Artu. Oppure (ricordiamolo, siamo a Firenze) si sarà trattato di qualche volgarizzamento. Oppure ancora (perché no?) l’interesse dei giovani si sarà orientato verso il ‘romanzo d’autore’ che, nel quadro invero molto sguarnito della letteratura in volgare fra Due e Trecento, ben poco poteva offrire se non le proposte di quell’autore che stava in ascolto delle loro performances novellistiche, le trascriveva, si disponeva a farne un libro: il Boccaccio stesso, insomma, che con la Fiammetta e prima ancora (e più ancora) col Filocolo aveva portato a realizzazione il romanzo in volgare. Non ci si avventura, poi, in una ipotesi azzardata e del tutto irricevibile se si suppone che, nella stasi del narrare novellistico di cui riferisce l’introduzione della terza giornata, siano presumibilmente gli uomini a dedicarsi al gioco di scacchi e tavole, così come accadrà a conclusione della VI giornata, quando le donne si allontanano verso la Valle delle Donne e gli uomini rimangono soli («essendosi Dioneo con gli altri giovani messo a giucare a tavole», Dec. VI Concl. 17). Mentre, allora, a dedicarsi alla lettura di romanzi dovrebbero essere le donne, che, poiché «s’allegrano preferibilmente di un parlar copioso» (F. TATEO, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 234), trovano nel romanzo il genere maggiormente conveniente alla loro predisposizione e al loro gusto. E non è detto che fra le letture da loro affrontate ci sia il Filocolo, dal momento che saranno tre donne a raccontare in seguito novelle che hanno come fonte diretta il Filocolo stesso: Pampinea narrerà la V 6, Lauretta la X 4 ed Emilia la X 5. 5 Cfr. G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, a cura di V. ZACCARIA, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. BRANCA, VII-VIII, 2, Milano, Mondadori, 1998: «nam satis memor sum, non dum ad septimum etatis annum deveneram, nec dum fictiones videram, non dum doctores aliquos adiuveram, vix prima licterarum elementa cognoveram, et ecce, ipsa impellente natura, fingendi desiderium affuit, et si nullius esset momenti, tamen aliquas fictiunculas edidi» (XV x 8). 6 Cfr. G. NATALI, L’elegia di Troiolo, in EAD., Boccaccio e le controfigure dell’autore, L’Aquila, Japadre, 1990, pp. 33-58 (precedentemente, in versione inglese col titolo A Lyrical Version: Boccaccio’s «Filostrato», nel volume The European Tragedy of Troilus, a cura di P. BOITANI, Oxford, Clarendon Press, 1989, pp. 49-73). E cfr. anche B. PORCELLI, Il «Filostrato» come elegia imperfetta, «Esperienze letterarie», XIII, 1988, 4, pp. 3-13, poi in ID., Nuovi studi su Dante e Boccaccio con analisi della «Nencia», Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1997, pp. 101-109. 7 Cfr. G. BOCCACCIO, Teseida delle nozze d’Emilia, a cura di A. LIMENTANI, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, cit., II, 1964, p. 664. 8 Sull’inclinazione ricorrente del Boccaccio per l’elegia, cfr. L. SURDICH, «Ragione» e «volontà»: Giovanni Boccaccio e la linea dell’elegia, in Studi di Filologia e Letteratura offerti a Franco Croce, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 33-63. 9 Cfr. G. BOCCACCIO, Corbaccio, par. 3, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, cit., V, 2, 1994. 10 Cfr. G. ZACCARIA, Il «Corbaccio»: un’ipotesi di romanzo, «Giornale storico della letteratura italiana», CLXVIII, 1991, 535, pp. 504-527.

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IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO 11 Il numero fa riferimento al paragrafo secondo l’edizione di G. BOCCACCIO, Elegia di Madonna Fiammetta, a cura di C. DELCORNO, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, cit., V, 2, 1994. 12 Ma si veda il fondamentale saggio di C. SEGRE, Strutture e registri nella «Fiammetta», nel libro Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli, Torino, Einaudi, 1974, pp. 87115. Per un approfondimento di alcuni aspetti che qui tocco solo di sfuggita rinvio al capitolo L’«Elegia di madonna Fiammetta»: l’eroina elegiaca e il suo libro, del mio volume La cornice di amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, ETS, 1987, pp. 155-223. Si vedano anche B. PORCELLI, I tempi e la dimensione elegiaca della «Fiammetta» del Boccaccio, «Critica letteraria», X, 1982, 34, pp. 3-14 (poi, col titolo I tempi e la dimensione elegiaca nella «Fiammetta», nel volume Dante maggiore e Boccaccio minore. Strutture e modelli, Pisa, Giardini, 1987, pp. 147159) e M. BARDI, Le voci dell’assenza. Una lettura dell’«Elegia di madonna Fiammetta», Torino, Tirrenia Stampatori, 1998. 13 Vita Nuova, XXXV, 3 (si cita dall’ed. a cura di D. DE ROBERTIS, in DANTE ALIGHIERI, Opere minori, a cura di D. DE ROBERTIS e G. CONTINI, I, 1, Milano-Napoli, Ricciardi, 1984). 14 Cfr. C. DELCORNO, Note sui dantismi nell’«Elegia di Madonna Fiammetta», «Studi sul Boccaccio», XI, 1979, pp. 251-294. 15 Per maggiori ragguagli sull’argomento, cfr. L. SURDICH, Tra Dante e Boccaccio: qualche appunto sulla «compassione», in Le passioni tra ostensione e riserbo, a cura di R. RUTELLI e L. VILLA, Pisa, ETS, 2000, pp. 35-50. 16 Su cui cfr. L. SURDICH, La cornice di amore, cit., p. 171 e p. 187. Si veda, in particolare, il sempre utile lavoro di P. NAVONE, Fiammetta tra classici e medievali: appunti sulla fortuna di letteratura ovidiana e pseudo-ovidiana nell’«Elegia», «Studi di filologia e letteratura», VI, 1984, pp. 45-64. 17 Si vedano le preziose indicazioni di M. P. MUSSINI SACCHI nella Introduzione a G. BOCCACCIO, Elegia di madonna Fiammetta, Milano, Mursia, 1987, p. 11. 18 Cfr. S. CARRAI, Prefazione a L’elegia nella tradizione poetica italiana, a cura di A. COMBONI e A. DI RICCO, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento-Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, 2003, p. VII. 19 Utili riscontri nel libro di A. PULEGA, Da Argo alla nave d’amore: contributo alla storia di una metafora, Firenze, La Nuova Italia, 1989. 20 Ne fornisco una campionatura nell’edizione da me curata di G. BOCCACCIO, Filostrato, Milano, Mursia, 1990, pp. 422-423 (in nota a IX 4, 1-2). 21 Cfr. G. BOCCACCIO, Filocolo, a cura di A. E. QUAGLIO, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, cit., I, 1967. 22 Cfr. C. SEGRE, Quello che Bachtin non ha detto. Le origini medievali del romanzo, in ID., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984, p. 62: «La data di nascita del romanzo moderno, si sa, è fissata con oscillazioni anche di secoli. Dalla datazione più bassa, coincidente col romanzo inglese del Settecento (Hegel) o in particolare col Tom Jones di Fielding (Curtius), v’è chi è risalito sino al Don Chisciotte (Heine) o all’Amadis de Gaula (Menéndez Pelayo); alcuni indicano la partenza più indietro, col Jean de Saintré (Kristeva), con la Fiammetta del Boccaccio (modello, in verità, del romanzo sentimentale spagnolo), o con la Vita Nuova di Dante, né manca chi addita i romanzi arturiani in prosa».

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LUIGI SURDICH 23 Cfr. M. L. MENEGHETTI, La tradizione francese e la narrativa lunga in Italia nel Duecento, in Manuale di letteratura italiana. Storia per Generi e Problemi, a cura di F. BRIOSCHI e C. DI GIROLAMO, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 699. 24 Per giustificare la persistenza di stereotipi della tradizione medievale, così il critico annota: «I tempi dell’Elegia di Madonna Fiammetta, quelli di Petrarca e Boccaccio, non hanno ancora sconvolto gli assetti tradizionali, sostanzialmente medievali, e il percorso “moderno” non ha ancora fatto breccia» (G. E. SANSONE, Tirante il Bianco, in Il romanzo, I, La cultura del romanzo, a cura di F. MORETTI, Torino, Einaudi, 2001, p. 622). 25 Cfr. T. PAVEL, Il romanzo alla ricerca si se stesso. Saggio di morfologia storica, in Il romanzo, cit., II, Le forme, 2002, p. 44. 26 Cfr. P. BOITANI, Romanzo, in Il romanzo, III, Storia e geografia, cit., 2002, p. 149. 27 «Sin dalle sue prime esperienze letterarie, il Boccaccio mostra per il romanzo una predilezione particolare. Nel Filocolo, ad esempio, riprende la vicenda di Florio e Biancifiore, che ormai da due secoli circolava in Europa, innestando su questa “bella favola” ricca di esotismo […] una serie numerosissima di altre storie come quelle di Idalogo, Caleon e Fileno, di “questioni d’amore”, di novelle in nuce (quelle di Tarolfo e della sepolta viva saranno riprese nel Decameron), di meditazioni e dialoghi lirici. Si tratta, insomma, di un ricamo smisurato sul plot originario secondo la tecnica da una parte dell’entrelacement e dall’altra del romanzo antico» (ibidem). 28 Il capitolo dedicato al Filocolo nella sua monografia boccacciana viene intitolato da C. MUSCETTA, Il «Filocolo»: poema in prosa storico romanzesco ed «essercizio» retorico-narrativo (in ID., Boccaccio, Bari, Laterza, 1972, pp. 23-60). E cfr. E. SANGUINETI, Lettura del Decameron, a cura di E. GRIMALDI, Salerno, Edizioni 10/17, 1989, p. 43: «Comunemente il Filocolo viene considerato un romanzo, per quanto il Boccaccio tenda piuttosto considerarlo un poema in prosa». 29 Assai pertinente l’osservazione di A. VARVARO, I romanzi nella Romania medievale, in Il romanzo, III, cit., p. 41: «Si sa che in Italia si arriverà alla fusione di materia arturiana e materia carolingia: lo schema dinastico dei Reali di Francia permette una diversa modalità di totalizzazione. Ancora nella tradizione cavalleresca siciliana di fine Ottocento (il teatro dei pupi e lu cuntu) la materia è conglobata in un universo unitario, retto da una sua cronologia e da una rete fittissima di parentele, di odi e di amori». 30 Una sintetica ed efficace rassegna della critica dall’Ottocento in avanti si legge nel paragrafo Problemi critici e storico-letterari dell’Introduzione all’edizione critica di BOSONE DA GUBBIO, L’Avventuroso Siciliano, a cura di R. GIGLIUCCI, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 19-24. Maggiore indulgenza nei confronti del romanzo manifesta Gigliucci, il quale afferma che «la temperie del romanzo non è proprio la medesima delle coeve “Fiorite”», poiché «dietro l’Avventuroso c’è un autore non proprio goffo e insulso, ma attivo in una sua propria area culturale, e a suo modo inventivo e originale nella costruzione di una struttura romanzesca che serve un complesso di materiali non così casualmente assemblati» (p. 24). 31 Cfr. BOSONE DA GUBBIO, L’Avventuroso Siciliano, cit., parr. 316-317 (pp. 120-121). 32 Cfr. E. L. GIUSTI, Dall’amore cortese alla comprensione. Il viaggio ideologico di Giovanni Boccaccio dalla «Caccia di Diana» al «Decameron», Milano, LED-Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, 1999, p. 18.

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IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO 33 Fondamentale, per questi problemi, il libro di P. ZUMTHOR, La lettera e la voce. Sulla «letteratura» medievale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1990. 34 Cfr. E. VINAVER, Il tessuto del racconto. Il «romance» nella cultura medievale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1988, p. 65, da cui è tratta anche la traduzione da Chrétien: «Di Erec figlio di Lac parla il racconto, che quanti vivono del narrare alla presenza di re e di conti sono usi frammentare e corrompere». E ancora, più avanti, Vinaver ribadisce il concetto: «Scrittori di romances come Chrétien de Troyes non fanno nulla per nascondere le proprie intenzioni, né per sottacere la superiorità della propria tecnica narrativa sulle rozze abitudini di quegli ignoranti favolatori che vanno in giro a recitar racconti devant roi et devant comtes in maniera scucita o, come avrebbe detto Chrétien, “corrotta”» (p. 145). 35 Ricavo citazione e traduzione da A. RONCAGLIA, L’«Alexandre» di Albric e la separazione fra «chanson de geste» e romanzo, in Il romanzo, a cura di M. L. MENEGHETTI, Bologna, Il Mulino, 1988, p. 216: «Fondandosi sulla realtà stessa delle cose possiamo rendere chi ascolta benevolo nei nostri confronti se, con la lode, valorizziamo la nostra causa e, col disprezzo, svalutiamo quella degli avversari». Il saggio, cui si rinvia per ulteriori riscontri, nell’ambito della letteratura d’oltralpe, delle formule di esordio dei poeti, era apparso, secondo quanto informa la nota introduttiva alla parte antologizzata nel reading curato da Maria Luisa Meneghetti, in lingua francese nel volume Chanson de geste und höfischer Roman. Heidelberger Kolloquium (30 Januar 1961), Heidelberg, Carl Winter Verlag, 1963, pp. 37-52. 36 Si pensi in particolare a quello strepitoso anacronismo, a quel «mostruoso intreccio e sovrapposizione di due epoche distanziate da un lasso di tempo che si aggira intorno agli otto secoli» che sono le «questioni d’amore» (A. ROSSI, Dante nella prospettiva del Boccaccio, «Studi danteschi», XXXVII, 1960, p. 121), ambientate in una contemporaneità trecentesca nella quale a rappresentare Maria d’Aquino e Boccaccio sono, rispettivamente, Fiammetta e Caleon, assieme ai quali però trova accoglienza Florio-Filocolo, la cui storia ha svolgimento in un arco di tempo che va dal 529 al 552 d. C. (secondo l’accertamento condotto da A. E. QUAGLIO, Tra fonti e testo del «Filocolo», «Giornale storico della letteratura italiana», CXL, 1963, pp. 334-343). 37 Cfr. E. VINAVER, Il tessuto del racconto, cit., p. 50. 38 A. PIOLETTI, La fatica d’amore. Sulla ricezione del «Floire et Blancheflor», Soveria Mannelli, Rubbettino, 1992, pp. 58-59, individua l’intreccio di tre livelli: «Inserita nella cornice d’un mondo mitologico carico di valenze simboliche disseminate in una mescidanza di sacro e profano, è quella della storia d’amore dell’autore che segna l’avvio del racconto di un’altra storia d’amore […]. Ma le due storie d’amore si manifestano già essere occasione e preludio di un’altra storia, quella della composizione del picciolo libretto». 39 Ci si attiene al criterio suggerito da D. DE ROBERTIS, Problemi di metodo nell’edizione dei cantari, in Studi e problemi di critica testuale. Atti del Convegno di studi (Bologna, 7-9 aprile 1960), Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, pp. 119-138, poi in ID., Editi e rari, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 91-109. 40 Cfr. Cantare di Fiorio e Biancifiore, ottava 135, in Cantari del Trecento, a cura di A. BALDUINO, Milano, Marzorati, 1970, p. 70. 41 Da notare che l’avventura di Florio rispecchia compiutamente quel modello generale di ‘avventura’ dell’eroe del romanzo medievale, così come lo ha fissato P. ZUMTHOR, Semio-

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logia e poetica medievale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 364-365: «l’avventura è una prova, situata in una serie di prove (non esiste aventure isolata), che permette a un “eroe” di progredire verso uno stato di perfezione esemplare tale da ristabilire l’ordine comune. […]. L’avventura si sviluppa verso, passa al di là, genera il suo proprio volume nelle tre dimensioni del tempo (la storia), dello spazio (il viaggio) e della coscienza». 42 Fra le più recenti letture organiche e complessive del romanzo boccacciano spiccano i volumi di S. GROSSVOGEL, Ambiguità and Allusion in Boccaccio’s «Filocolo», Firenze, Olschki, 1992 e di V. KIRKHAM, Fabulous Vernacular. Boccaccio’s «Filocolo» and the Art of Medieval Fiction, University of Michigan, 2001. Ma si veda anche l’ottimo contributo di B. PORCELLI, Strutture e forme narrative nel «Filocolo», «Studi sul Boccaccio», XXI, 1993, pp. 207-233 (poi nel volume Nuovi studi su Dante e Boccaccio, cit., pp. 79-99). Più discutibile l’articolo di G. PALMIERI, «Filocolo philocaptus»: lo stereotipo della melanconia amorosa nel Boccaccio, «Il Verri», XLII, 1997, 4-5, pp. 109-141. 43 Si dispiega nel Libro Quinto la parte più fortemente innovativa rispetto alle scarne indicazioni della trama dei cantari ed è in questa ultima sezione del romanzo che la fisionomia di re cristiano assunta da Florio trova il suo compimento. Sulla possibilità che il Boccaccio, per il quinto libro del Filocolo abbia potuto avere come fonte la versione spagnola della storia dei due giovani innamorati, la Crónica de Flores y Blancaflor, si veda il libro di P. E. GRIEVE, «Floire and Blancheflor» and the European Romance, Cambridge University Press, 1997; in particolare si consideri, all’interno del cap. 4, Routes of conversion: time and space, il paragrafo intitolato From pagan court to christian kingdom: «Crónica de Flores y Blancaflor» and «Il Filocolo» (pp. 138-158). 44 Cfr. Filoc. V 97, 4-6: «il cercare gli alti luoghi ti si disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran versi di Virgilio. […] E quelli del valoroso Lucano, ne’ quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia ama, il sermontino Ovidio seguiti, delle cui opere tu se’ confortatore. Né ti sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu sì come piccolo servitore molto dei reverente seguire». 45 Cfr. Filoc. V 97, 7: «A te bisogna di volare abasso, però che la bassezza t’è mezzana via». In proposito si veda il fondamentale contributo di F. BRUNI, Il «Filocolo» e lo spazio della letteratura volgare, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, II, Boccaccio e dintorni, Firenze, Olschki, 1983, pp. 1-21. 46 Per una spiegazione dell’uso del termine «versi» si veda F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 187-188 e A. PIOLETTI, La fatica d’amore, cit., pp. 133-134. In particolare quest’ultimo sottolinea come «versi» sia da intendersi «come scrittura d’arte governata da principi retorici». Sarà allora da allegare, in merito, la seguente annotazione di E. VINAVER, Il tessuto del racconto, cit., p. 48: «La Retorica poteva […] condurre a una riconfigurazione colma d’intenzione del materiale della tradizione, e chi eseguiva l’elaborazione poteva trasformarsi a tutti gli effetti in autore originale, salvo che, a differenza di certi altri autori, egli avrebbe preso cura sopra ogni altra cosa del modo in cui narrare le proprie storie e misurato la propria riuscita sul merito della significazione nuova ch’era stato capace di conferire a un corpo di eventi preesistenti». Insomma, quella messa in atto da Boccaccio è una complessa ed elaborata forma di riscrittura che ben

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appartiene alla sua autentica vocazione narrativa: per Boccaccio, infatti, come molto bene è stato detto, «scrivere significa riscrivere» (L. BATTAGLIA RICCI, Boccaccio, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 198). Il Filocolo è una esemplare testimonianza di quel particolare genio del Boccaccio che era il «genio di migliorare un’invenzione», per riprendere il titolo di un bel libro di P. BOITANI, Il genio di migliorare un’invenzione. Transizioni letterarie, Bologna, Il Mulino, 1999, da tener presente per il metodo da utilizzare quando si affronta un testo che recupera altro o altri testi precedenti e li perfeziona. 47 Così C. SEGRE, Teatro e romanzo, cit., p. 72. 48 Rispettivamente in Filoc. I 43, 3 e IV 43, 10-13. 49 Si veda in proposito il fondamentale libro di A. E. QUAGLIO, Scienza e mito nel Boccaccio, Padova, Liviana, 1967. 50 Cfr. P. ZUMTHOR, La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medio Evo, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1995, p. 90: «Le descrizioni di città, palazzi, monumenti di ogni tipo, la cui ricchezza è pari all’inverosimile immensità, sono un tema da romanzo, fin dagli inizi di questo genere letterario». 51 Scrive C. CAZALÉ BÉRARD, Il sogno dell’avventura, l’avventura del sogno. «Exempla», novella, romanzo, in Sogno e racconto. Archetipi e funzioni. Atti del Convegno di studi (Macerata, 7-9 maggio 2002), a cura di G. CINGOLANI e M. RICCINI, Firenze, Le Monnier, 2003, p. 18: «nel Filocolo Boccaccio affida ad un gran numero di sogni e di visioni (veicolanti i topoi della tradizione classica, in particolare Ovidio, e cavalleresca riconducibile ai romanzi francesi) una funzione narrativa di anticipazione o di proiezione dell’azione (personificazione mitologica di dibattiti interiori), in chiave di interpretazione provvidenziale del destino dei personaggi». Fra i sogni, il più rilevante, perché decisivo per la svolta del destino del protagonista, è quello che Filocolo racconta in IV 13, prima di accedere al giardino dove verranno dibattute le “questioni d’amore”, e che è popolato di presenze di animali simbolicamente significative (su cui si veda ora il bel contributo di V. MOUCHET, Per una ricognizione della funzione retorica del bestiario nel Boccaccio narratore, «Giornale storico della letteratura italiana», CLXXIX, 2002, 588, pp. 525-560). 52 Cfr. M. LECCO, Saggi sul romanzo del XIII secolo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003, p. 14. 53 Sulla fortuna della Fiammetta si vedano le utili indicazioni fornite da C. DELCORNO nell’Introduzione all’ed. cit. della Fiammetta, pp. 18-21 e da M. P. MUSSINI SACCHI nella sua Introduzione all’Elegia di madonna Fiammetta, cit., pp. 14-16. In particolare, per il ’400, meritano attenzione la Nicolosa bella di Gianotto Calogrosso e l’anonima Panfilia, su cui hanno di recente scritto, nel volume Il prosimetro nella letteratura italiana, a cura di A. COMBONI e A. DI RICCO, Trento, Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche, Tipolitografica Editrice, 2000, rispettivamente, P. VECCHI GALLI, Per il ‘prosimetro’ della «Nicolosa bella», pp. 143-165 e O. BESOMI, Un prosimetro in cerca d’autore, pp. 167-220. 54 Cfr. A. ASOR ROSA, La storia del «romanzo italiano»? Naturalmente, una storia «anomala», in Il romanzo, cit., III, p. 255. 55 Cfr. Triumphus Cupidinis, III 79-81, in F. PETRARCA, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. PACCA e L. PAOLINO, Introduzione di M. SANTAGATA, Milano, Mondadori, 1996. Si vedano le note alla terzina citata (pp. 149-151), per ulteriori riscontri

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sull’atteggiamento critico del Petrarca, in altri suoi scritti, nei confronti della narrativa in genere e del romanzo in particolare. 56 Cfr. G. MARTELLOTTI, Momenti narrativi del Petrarca, «Studi petrarcheschi», IV, 1951, pp. 7-33, poi raccolto nel volume Scritti petrarcheschi, a cura di M. FEO e S. RIZZO, Padova, Antenore, pp. 179-206; E. RAIMONDI, Un esercizio satirico del Petrarca, in ID., Metafora e storia. Studi su Dante e Petrarca (1970), Torino, Einaudi, 1977, pp. 189-198 (la cit. a p. 190). Ma da considerare anche alcune utili suggestioni ricavabili dall’articolo di G. TANTURLI, Il Petrarca e Firenze: due definizioni della poesia, in Il Petrarca latino e le origini dell’umanesimo. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 19-22 maggio 1991), «Quaderni petrarcheschi», IX-X, 1992-1993, pp. 143-163. 57 Osserva M. L. MENEGHETTI, Introduzione a Il romanzo, cit., p. 18, che mentre da una parte «Dante guarderà con ammirazione» «la bellezza e il fascino di quelle ambages» romanzesche, «i classicisti [le] giudicheranno molto severamente per la loro scarsa ‘naturalezza’». 58 Cfr. A. QUONDAM, «Limatura di rame»: qualche riflessione sulla novella nel sistema del classicismo, in «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Pisa, 26-28 ottobre 1998), a cura di G. ALBANESE, L. BATTAGLIA RICCI, R. BESSI, Roma, Salerno Editrice, pp. 553-554. 59 Così L. BATTAGLIA RICCI, I modelli della narrazione, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana. Atti del V Congresso nazionale dell’ADI (Roma, 26-29 settembre 2001), a cura di A. QUONDAM, I, Roma, Bulzoni, 2002, p. 31. 60 Si può ora avere un rendiconto delle parole adoperate dal Boccaccio nel Decameron novella per novella, giornata per giornata, grazie alle tabelle preparate da L. FABRIANI e inserite da A. ASOR ROSA all’interno del suo capitolo sul «Decameron» di Giovanni Boccaccio, in Letteratura italiana, diretta dallo stesso, Le opere, I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992, pp. 512-515. Per quanto riguarda la ‘peripezia’, si veda il libro di M. C. STORINI, Lo spazio dell’avventura. Peripezia e racconto nel Medioevo, Firenze, La Nuova Italia, 1997. 61 Cfr. M. BARATTO, Realtà e stile nel «Decameron», Vicenza, Neri Pozza, 1970, pp. 125-154. 62 Cfr. A. ASOR ROSA, «Decameron» di Giovanni Boccaccio, cit., pp. 519-520. 63 Cfr. B. PORCELLI, Quando un racconto entra in una macrostruttura narrativa (o ne esce), in «Favole parabole istorie», cit., pp. 55-66. 64 Un confronto più ravvicinato e dettagliato tra testo del Filocolo e novella del Decameron ho condotto nell’articolo Esempi di “generi letterari” e loro rimodellizzazione novellistica, in Autori e lettori del Boccaccio. Atti del Convegno internazionale di studi (Certaldo, 20-22 settembre 2001), a cura di M. PICONE, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002, pp. 151-154. 65 Cfr. C. SEGRE, Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, p. 230: «La comparazione ci mette spesso in presenza di affinità non contenutistiche (non c’è nulla di comune tra l’adulterio di Tristano e Isotta e il regicidio dell’Amleto), ma formali, relazionali: insomma, quello che avvicina Tristano e Amleto è il loro travestirsi da pazzi per enunciare discorsi (simbolico quello di Amleto) che li mettono in comunicazione polarizzata verso uno dei loro interlocutori». 66 Cfr. C. SEGRE, Comicità strutturale nella novella di Alatiel, in ID., Le strutture e il tempo, cit., p. 149.

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IL ‘PATTO ROMANZESCO’ NEL BOCCACCIO 67 Cfr. Filoc. IV 122, 2: «e non ch’altro iddio, ma Diana vi si vide rallegrarsi di tanto congiungimento, laudandosi, cantando santi versi, che sì lungamente l’uno all’altro avea sotto le sue leggi guardato casti». 68 Cfr. Corbaccio, cit., par. 316. 69 Cfr. G. BOCCACCIO, De casibus virorum illustrium, a cura di V. ZACCARIA, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, cit., IX, 1983 (corsivo mio), da cui si ricava anche la seguente traduzione: «La Tavola Rotonda, splendida per tanti eroi tutti uccisi, fu abbandonata e distrutta e ridotta a leggenda del volgo. La gloria grande e lo splendore del re fu, per la rovina, portata a tale ignominia ed oscurità che gli uomini – sol che lo vogliano – possono rendersi conto che nessuna cosa al mondo, all’infuori dell’umiltà, può essere durevole». 70 Purgatorio XIV 109-110. 71 De vulgari eloquentia, a cura di P. V. MENGALDO, I, x, 2, in DANTE ALIGHIERI, Opere minori, II, a cura di P. V. MENGALDO, B. NARDI, A. FRUGONI, G. BRUGNOLI, E. CECCHINI, F. MAZZONI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979. 72 Così annota il passo citato il curatore dell’ed. cit. del De casibus, V. Zaccaria, a p. 1032. E si veda anche il capitolo Storiografia e romanzo: «De Arturo Britonum rege», nel libro di D. DELCORNO BRANCA, Boccaccio e le storie di re Artù, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 69-112.

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LUISA MULAS LE FORME BREVI: LA FORMA RACCOLTA DALLE CIENTO NOVELLE ANTIKE ALLE CENTO NOVELLE AMOROSE DEI SIGNORI ACCADEMICI INCOGNITI

La novella, in quanto ‘soggetto finito’, cioè favola dotata di inizio, mezzo e fine, realizza col massimo di economicità il modello aristotelico dell’intrigo, riducendo gli episodi alla più stretta e coerente necessità logica. In questo senso essa può ben essere inclusa tra le ‘forme brevi’. Ma nella sua concreta esistenza letteraria questa forma breve ha dato luogo a testi lunghi e lunghissimi. La tendenza della novella ad aggregarsi in raccolte è, infatti, così irresistibile che, anche quando nasce ‘spicciolata’, la tradizione provvede a riunirla con organismi simili, formando almeno dei ‘dittici’1. C’è un altro paradosso: la novella, pur essendo ‘soggetto finito’, letterariamente non è in sé conclusa e autosufficiente. Essa, infatti, sembra non poter fare a meno di una struttura di sostegno che metta in scena la sua situazione comunicativa, dichiarando da chi, a chi, quando, dove, perché è stata raccontata. Il fatto che tale struttura di sostegno (diciamo pure ‘cornice’) compaia anche nelle spicciolate2 ci dice che essa non è tanto (o soltanto) uno stratagemma per legare novelle in raccolta, ma piuttosto (o anche) la risposta a un’esigenza profonda, interna: forse l’esigenza di conservare, nella separatezza della scrittura, la traccia della socialità del narrare. Mi limiterò qui a seguire questa traccia, osservando le raccolte novellistiche nella loro struttura di sostegno. Perciò escluderò dal mio discorso le raccolte di facezie e motti, che si presentano senza ‘cornice’, forse perché in esse l’atto locutivo socializzante è già nel nucleo dei singoli racconti. Ed escluderò la novella in versi, che, come il cantare, trasmette il racconto attraverso il canale diretto autore-pubblico. Nella novella in versi (e nel cantare), il cui autore si rivolge a un uditorio apostrofato come presente3, la — 37 —

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situazione narrativa si rinnova ogni volta nell’hic et nunc della lettura o della performance del cantastorie. Questo carattere strutturale risalta bene nelle novelle spicciolate in versi che abbiano anche una redazione in prosa4 e, meglio ancora, nel Decameron versificato da Vincenzo Brusantino5. Nella novella in prosa e incorniciata, invece, la narrazione non si fa mentre l’autore la scrive e il lettore la riceve: è già stata fatta (detta e ascoltata) in un luogo e in un tempo rispetto ai quali autore e lettore sono ‘fuori campo’. Il modello generale di raccolta novellistica introdotta dalla messa in scena della situazione comunicativa ha svariate attualizzazioni, schematizzabili in due tipi: l’uno, essenzialmente discorsivo, mette in scena una situazione dialogica che, a un certo punto, si apre al racconto; l’altro tipo, narrativo, è costituito da una storia, in cui ad un certo punto accade che qualcuno racconti una storia. La cornice discorsiva, in quanto priva di intreccio, è ‘aperta’; quella narrativa è ‘chiusa’6. I due tipi erano entrambi ben presenti nella nostra tradizione narrativa mediolatina. Al tipo discorsivo ‘aperto’ appartiene, per esempio, la Disciplina clericalis di Pietro Alfonso, dove un magister istruisce un discipulus avvalendosi di racconti esemplari; al tipo narrativo ‘chiuso’ appartiene il persiano Libro di Sindbad, divenuto in occidente i latini Dolopathos e Liber septem sapientium, e poi, da noi, il notissimo Libro dei sette savi o Storia di una crudele matrigna o Storia di Stefano (in ottave) o I compassionevoli avvenimenti di Erasto. Le versioni volgarizzate di questi testi circolavano ampiamente già prima del Novellino7. È dunque notevole che la nostra prima raccolta in volgare sia senza cornice. È un dato che sembra smentire, da subito, l’ipotesi di un modello generale di raccolta novellistica fondata sulla messa in scena della pratica sociale del narrare. Eppure il Novellino, pur non registrandola in una cornice, la presuppone e la prefigura esplicitamente nel Prologo. I «fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori», che riflettono come in uno specchio le parole e le opere dei «nobili e gentili», raggiungeranno il loro destinatario ultimo («i minori») ogni volta che qualcuno, dotato di «cuore nobile e intelligenzia sottile», li saprà «simigliare per lo tempo che verrà per innanzi, e argomentare e dire e raccontare in quelle parti dove avranno luogo, a prode e a piacere di coloro che non sanno e desiderano di sapere»8. Cioè, nei luoghi e nei tempi opportuni, persone dotate delle qualità morali e intellettuali necessarie a simigliare, cioè a imitare, non le azioni raccon— 38 —

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tate, ma i racconti, attiveranno un circolo novellistico argomentando, dicendo e raccontando per coloro che non sanno e desiderano di sapere. In due righe, con la brevità caratteristica della sua prosa, l’autore evoca una situazione comunicativa da cornice novellistica, non per dare forma alla raccolta, ma per prefigurarne la ricezione. Narratori e narratari non vivono nel testo del Novellino, ma lo faranno vivere in quelle parti dove avranno luogo; così come il predicatore sul pulpito e i fedeli in ascolto non stanno dentro, ma a monte e a valle delle raccolte di esempi predicabili. Disciplina clericalis, Libro dei sette savi e Novellino mettono dunque ‘in situazione’ le loro novelle, o raccontando il contesto in cui sono state raccontate, o proiettando nel futuro quello in cui lo saranno. Tutte e tre le raccolte, comunque, poggiano sulla comune certezza che nella realtà c’è sempre qualcuno che racconta e qualcuno desideroso di ascoltare. È forse l’incrinarsi di questa certezza (l’umana convivenza travolta dalla peste…) che impone a Boccaccio uno schema più complesso, in cui la funzione della ‘cornice’, da referenziale, diventa rituale e simbolica, e i piani discorsivi si stratificano e si popolano di nuovi e più numerosi protagonisti della comunicazione narrativa: da un lato, l’Autore, il Narratore di 1° grado e i Narratori delle novelle, dall’altro i lettori, tutti variamente polemici (le beghine, i dotti ‘morditori’), i Narratari esterni (le donne innamorate) e i Narratari interni (la brigata)9. La forma della cornice è nuova: è un racconto (come nel tipo Sette Savi), ma non è ‘chiuso’, non è ‘soggetto finito’. L’intreccio prende il via con la decisione dei dieci giovani di fuggire dalla città appestata, per cercare scampo nel contado e restarci fino alla cessazione del morbo10. Questa ‘apertura’ del racconto non si chiude: non sapremo mai se i dieci protagonisti siano sopravvissuti o no dopo essere tornati a Firenze mentre ancora vi imperversava la peste11. L’Autore, che ha delegato alla brigata la responsabilità narrativa delle cento novelle («intendo di raccontare cento novelle […] raccontate in diece giorni da una onesta brigata»: Proemio 13), non vuole, per coerenza, essere novellatore in proprio. Perciò lascia ‘aperte’, non finite, le due novelle di cui assume la paternità diretta: la novella-cornice e la novella con la quale risponde ai suoi detrattori nell’Introduzione alla IV giornata. Qui dice chiaramente di non voler «mescolare» le proprie novelle con quelle della «laudevole compagnia», e di voler perciò raccontare «non una novella intera […] ma parte d’una» (IV Intr. 11). Di solito questa dichiara— 39 —

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zione non viene presa molto sul serio12, e invece Boccaccio ha ragione: come la novella-cornice, anche l’apologo delle ‘papere’ non è ‘soggetto finito’ perché non dice se il figlio di Filippo Balducci si fermerà in città o tornerà sul monte Asinaio, e, nel caso, se ci tornerà da solo o con qualche ‘papera’ da imbeccare. Le due novelle ‘non intere’ raccontate dall’Autore sono opposte per misura, per personaggi e per stile, ma complementari. Entrambe narrano di una fuga dalla città a scopo di salvazione: Filippo Balducci si ritira in un eremo con suo figlio per salvargli l’anima; la brigata si ritira in contado per salvarsi il corpo. Grazie al prezioso studio di Lucia Battaglia Ricci sui cicli pittorici del Trionfo della Morte possiamo notare che questi due plot corrispondono alle due scene che si trovano contrapposte nella struttura spaziale e ideologica dell’affresco del Camposanto di Pisa: in alto a sinistra, sul monte, gli eremiti; in basso a destra, nel giardino, la brigata, sulla quale la Morte sta per abbattere la sua falce. Nell’affresco l’opposizione morale fra i due gruppi rispecchia la cultura domenicana-penitenziale, che esaltava la vita ascetica e demonizzava la vita cortese-cavalleresca13. Il Decameron supera questa prospettiva bipolare, non semplicemente ribaltandola, ma mostrando le analogie tra le due opposte scelte di vita. Le accomuna la strategia della fuga dalla città dettata da due orientamenti contrapposti, ma ugualmente massimalisti, nei confronti della Natura: Filippo Balducci pretenderebbe di negarla, soffocando nel figlio le forze naturali del «concupiscibile appetito» (IV Intr. 23); la brigata, viceversa, ne assolutizza il valore quando fa discendere la sua scelta dal diritto naturale (la «natural ragione» nella proposta di Pampinea in I Intr. 53) all’autoconservazione. L’uno e l’altra saranno costretti a ricredersi, ma con una ben diversa capacità reattiva: Filippo, pur riconoscendo «più aver di forza la natura che il suo ingegno» (IV Intr. 29), riconfermerà la propria ideologia anticittadina («e pentessi di averlo menato a Firenze»: ivi), mentre la brigata, passata attraverso la complessa esperienza del novellare, saprà tornare sui suoi passi. La brigata è come il gruppo di cavallo e cavaliere col quale Dante, nel Trattato IV del Convivio, raffigura la «giovinezza temperata e forte» dell’uomo nobile. «Come uno sciolto cavallo, quanto ch’ello sia di natura nobile, per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce», così il naturale appetito giovanile deve obbedire «a la ragione […], la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere. Lo freno usa quando elli caccia, — 40 —

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e chiamasi quello freno temperanza, la quale mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa quando elli fugge, per lui tornare a lo loco onde fuggire vuole, e questo sprone si chiama forteza, o vero magnanimitate, la quale virtute mostra lo loco dove è da fermarsi e da pugnare» (Conv. IV 26, 5-7). È questo il percorso compiuto dalla brigata nel racconto-cornice: i dieci giovani cacciano, cioè inseguono, piacere, allegrezza e sollazzo sempre trattenuti entro i limiti dell’onestà dal freno della temperanza; e fuggono dalla morte e dalla dissoluzione dell’ordine sociale finché lo sprone della fortezza o magnanimità non li fa tornare alla città, a lo loco dove è da fermarsi e da pugnare. La brigata torna dunque, bensì, «al punto di partenza», ma non si può dire che in questo ritorno non ci sia «nessuna ‘conquista’ di un altro modo di vivere»14. C’è implicita la nuova consapevolezza, acquisita col novellare, che la misura umana dell’esistenza si attinge nell’equilibrio tra Natura, Legge e Usanza, la trinità laica che, secondo il cappello della IX 9, siede a tutela del bene comune15. A questa umanistica lezione di civilitas allude l’architettura delle dieci giornate. Come nella Commedia il 100 è il risultato di 1+99 (il canto introduttivo più 33x3), così nel Decameron il sistema decadico risulta sempre da 9+1. Nove più una sono infatti le giornate, con le prime nove delimitate alle estremità dalle due a tema libero e la decima che se ne distacca impennandosi alle altezze vertiginose della magnificenza e della liberalità. Nove più una sono le novelle delle singole giornate grazie all’eccezione-Dioneo16. Le giornate I-IX formano una struttura simmetrica con baricentro nella V, quella in cui l’Amore legittimato crea il felice e difficile equilibrio tra le pulsioni naturali-individuali e l’ordine sociale, cioè tra Natura, Leggi e Usanza. Tutto intorno, a mostrare la precarietà di quell’equilibrio, la vita con i suoi fattori di incertezza e di rischio: il ribollire delle passioni, i colpi ciechi della Fortuna, le azioni e reazioni con cui l’intelligenza umana si destreggia nel mondo. Nell’elemento asimmetrico, la X giornata, un modello umano anomalo, capace di superare l’egoismo, forma naturale dell’istinto vitale, con il liberale dono di sé. È quanto farà la brigata, lasciando l’edenico giardino e tornando in città. Consapevole del suo ruolo di terzo demiurgo della nostra letteratura volgare, Boccaccio sapeva che la complessità di questa struttura fondata sui numeri danteschi cento, nove e uno, la sua altezza concettuale e artistica, — 41 —

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non potevano essere riconosciuti che da un lettore colto. E tuttavia, per salvare la coerenza interna del libro di novelle, genere tradizionalmente destinato agli illetterati, lo dona alle «vaghe donne» (Proemio 9). Ma quando, nell’Introduzione alla IV giornata, convoca le donne-Muse in sua difesa contro i suoi dotti «morditori», imbalsamati e assiderati in una cultura senza linfa vitale, cieca e sorda al mondo reale e naturale, Boccaccio mostra di voler dialogare con i cultori di letteratura alta17, con quegli umanisti che, invece, non pare che si siano mai degnati di leggere o di procurarsi una copia del suo libro (come lascia credere il censimento dei manoscritti fatto da Branca) o che, quando ne riconosceranno il valore, cercheranno di riscattarlo latinizzando le sue novelle18. Boccaccio fa la scommessa di creare un’opera leggibile da letterati e illetterati, capace di dare a ciascuno pane per i suoi denti, e artisticamente la vince, ma storicamente la perde. Le sue dichiarazioni di umiltà (per es., in IV Intr. 3, dove parla delle sue «novellette […] non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte […] e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più si possono»), malgrado la loro scoperta natura di topoi, sono state prese alla lettera, e la sua novella è stata concepita davvero come un genere solo leggero e di evasione, destinato a un pubblico indotto. Se il Decameron fosse stato letto e capito dai letterati probabilmente la letteratura italiana avrebbe avuto tutta un’altra storia. Fu letto, invece, soprattutto dai mercanti, ed ebbe un effetto modestissimo sulla successiva produzione novellistica. La sua strepitosa «fortuna extraletteraria»19, documentata da un’abbondantissima tradizione manoscritta, e la minimale tradizione manoscritta delle raccolte di Sacchetti, di Sercambi, di Sermini, ridotta (per i primi due) a un testimone unico (autografo) senza titolo e mutilo, testimoniano che l’opera di Boccaccio non riuscì a scalfire la scarsa considerazione in cui, non solo i dotti, ma anche gli stessi novellieri tenevano la novella20. Non fu il Decameron a dare lustro al genere novellistico; semmai sarà l’uso aristocratico della novella a dare prestigio socio-letterario al Decameron. Ma ciò accadrà più tardi. Per ora, e per un buon secolo dopo il Decameron, l’opinione corrente degli addetti al novellare sembra essere quella di Sacchetti, che non si capacita del successo europeo di una «materiale cosa» qual era, secondo lui, il «Cento Novelle» rispetto al «nobile […] ingegno» di «messer Giovanni Boccacci»21. — 42 —

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Basta quest’opinione a testimoniare che della complessa bellezza del capolavoro boccacciano, comparabile solo all’opera di Dante e Petrarca, ben poco si ritrova nella tradizione novellistica, e quel poco quasi desemantizzato. Il suo stesso titolo, vulgato e semplificato in Centonovelle, ci dice che il Libro22 è stato assunto come una scatola per novelle o, al più, come un monetario a dieci cassetti. Non a caso, lo schema per centurie e per decadi diviene dopo il Decameron, e resta per lungo tempo, il carattere più immediatamente rappresentativo del genere novellistico. Un carattere genetico tanto forte da essersi trasmesso anche per via ascendente, al Novellino, le cui novelle, secondo un’opinione accreditata, sarebbero diventate cento dopo e per effetto del Decameron23. La trasformazione retroattiva investe anche il titolo: il Libro di novelle e di bel parlare gientile venne anch’esso ribattezzato Centonovelle, con l’aggiunta, per distinguerlo dall’altro, dell’aggettivo antike. L’imposizione alle due raccolte di un titolo comune è significativa: ci fa intuire che esse, almeno fino al 1525, anno dell’editio princeps delle Ciento novelle antike24 dovettero apparire come gemelle, o almeno non tanto distanti quanto oggi ci appaiono. Non a caso Vincenzo Borghini le sottopose entrambe allo stesso trattamento filologico-purgativo25. Comunque sia, fino ai primi decenni del Cinquecento i due Centonovelle si divisero più o meno equamente il peso dell’influenza sulla non abbondante produzione novellistica, in un quadro complessivamente aperto alla contaminazione di questi e di altri modelli. La struttura decameroniana riappare pochi anni dopo la morte di Boccaccio nelle 25 giornate del Pecorone (1378-1385), durante le quali 50 novelle sono raccontate a vicenda da un frate e da una suora amorevolmente cortesi, simili, in quanto fini amanti, ai novellatori del Decameron, ma esatta antitesi dei religiosi boccacciani: sono casti e dal novellare ricavano «quella consolazione e quel piacere che onestamente si può avere». Rispetto ai frati e alle suore di Boccaccio e, ancor più, di Masuccio, dovettero apparire così improbabili che nelle edizioni cinquecentesche diventarono un giovane uomo e una fanciulla26. D’altra parte, lo schema senza cornice del Novellino ritorna nel novelliere di Sacchetti (1385-1400), il quale, per altro, col titolo di Trecentonovelle, sembra voler rilanciare, moltiplicandolo per tre, il Cento Novelle di Boccaccio. Anche il novelliere di Sercambi (XIV-XV sec.) si muove su una linea mista: la fuga dalla città (Lucca) appestata, che dà luogo al viaggio e al novellare, rinvia al Decameron, ma nei viaggiatori che ascoltano un narratore fisso, identi— 43 —

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ficato dal sonetto acrostico con l’Autore, si riconosce lo schema comunicativo del Novellino integrato con quello dei sermonari, come lasciano intendere la denominazione di «Exemplo» e i moraleggianti titoli latini dati alle novelle27. Anche il senese Gentile Sermini, che raccolse, intorno al 1424, le sue 40 novelle come in un «paneretto d’insalatella»28 da inviare a un amico che gliene aveva chiesto copia, per leggerle in compagnia durante un soggiorno ai bagni di Petriolo, si conformava al modello del Novellino. Lo dicono a sufficienza l’assenza di cornice narrativa e di ordine tematico, la lettera proemiale che imposta lo schema ‘io scrivo perché altri, in un circolo novellistico reale, racconti’, la definizione della raccolta con metafore vegetali (i ‘fiori’ del Novellino sono qui erbe da insalata). E per quanto molte novelle riprendano motivi e personaggi boccacciani, l’inserzione tra le novelle VI e VII della «descrizione» del «Giuoco delle pugna» attesta un interesse per il parlare e per il colore del discorso che l’autore del Novellino avrebbe condiviso. Di queste quattro raccolte, tutte toscane, solo il Pecorone ebbe una certa circolazione, manoscritta e poi a stampa29. Le altre rimasero lettera morta: fino al ’700 Sacchetti, fino all’800 Sermini, e fino ai giorni nostri Sercambi. Insomma, per oltre un secolo dopo Boccaccio, la produzione novellistica resta un modesto fenomeno carsico. Riemerge nell’ultimo quarto del Quattrocento con due raccolte di un certo successo. La prima è il Novellino di Masuccio Salernitano, che prende dal Decameron la struttura per decadi tematizzate, e dal Novellino toscano l’unicità del narratore, che si rivolge per iscritto a un’inedita brigata di cortigiani idealmente riuniti intorno alla dedicataria della raccolta, la duchessa di Calabria Ippolita Visconti d’Aragona. In tutta questa sfilata della nomenklatura aragonese, il personaggio principale del libro è quello dell’autore, che riserva a sé solo la funzione narrativa e dilaga nelle epistole di esordio e nei commenti morali e umorali intitolati all’egocentrico ‘Masuccio’30. Ben più complessa e ambigua la funzione incorniciante delle epistole del cortigiano Bandello: moltiplicano la brigata di tipo decameroniano, ma la disperdono nello spazio e nel tempo, rievocando per destinatari sempre diversi la situazione in cui ogni novella è stata raccontata in un certo luogo, tempo e circostanza. Infine (in principio nel testo) l’Autore prende atto che quei destinatari si sono dissolti, e indirizza le sue Novelle «Ai candidi e umani lettori», come in un libro pre-secentesco. Nella società cortigiana nascono anche le Porretane del bolognese Sabadino degli Arienti. La squisitezza della brigata del Decameron è riproposta fin dal — 44 —

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Prologo, negli «onesti giochi» e nei «dolci parlamenti» di una «nobile brigata», seduta su un «vago praticello», non distante da «un chiaro e limpido fonte»31. Ma la differenza è radicale: c’è un unico narratario interno, il conte Andrea Bentivoglio, al quale un gruppo di cortigiani racconta le novelle per rendere più piacevole il suo soggiorno ai bagni della Porretta; e c’è un unico destinatario esterno, il duca Ercole I d’Este, apostrofato dall’autore alla fine di ogni novella, oltre che, ovviamente, nella lettera dedicatoria. La narrazione non è prodotta, dunque, da uno per tutti, come nelle raccolte del tipo Novellino, né da tutti per tutti, come nel tipo Decameron, ma da tutti per uno: il principe. Il ‘circolo’ novellistico è diventato ‘piramide’, e la raccolta si struttura di conseguenza: la partizione per giornate, che nel Decameron sottolineava la vicendevole distribuzione delle responsabilità, qui non serve, perché uno solo comanda; perciò le sedute novellistiche, sebbene si ripetano per cinque giorni, non sono marcate, e le novelle si succedono con numerazione ordinale dalla prima alla sessantunesima. Qualcosa di simile capiterà fra poco (nella stessa corte ferrarese) anche nel poema cavalleresco: dall’uditorio collettivo dei cantari, e ancora di Boiardo, che cantava per «Signori e cavallier che ve adunati…», al destinatario unico, il cardinale Ippolito, di Ariosto. La società aristocratica si ‘rispecchia’ nella brigata non più egualitaria. E anche quando, nel Cinquecento, trionferà il modello boccacciano, le brigate non ritroveranno il perfetto egualitarismo del Decameron, ma avranno una figura preminente (per età, o per posizione sociale o culturale) come capo o guida intellettuale e morale32. I novellieri di Masuccio e di Sabadino segnano un’altra svolta nella tipologia delle raccolte: per la prima volta i narratori e i narratari che popolano la cornice sono personaggi reali, designati coi loro nomi reali. Per di più nelle Porretane essi sono, non di rado, narratori autobiografici. La novella è diventata un genere destinato all’autorappresentazione e all’autoconsumo di un’élite sociale (come il genere lirico, che produce grandi raccolte collettanee di autoconsumo). La promozione sociale che la novella ne riceve è evidente, ma il pregiudizio culturale, che aveva impedito una ricezione letterariamente ‘alta’ del Decameron, non viene rimosso, anzi, sembra accentuarsi per la novella la funzione evasiva, di «piacevole riposo» per le «umane forze afaticate […] ne le diuturne lucubrazione» dei potenti33. Una quarantina d’anni prima Poggio aveva giustificato le sue facezie con l’analoga necessità di ricreare quandoque lo spirito del dotto e del filosofo, gravato da diversi pensieri e molestie34. Ora le élites sociali si appropriano del— 45 —

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le res leves con cui si distraevano gli umanisti e ne fanno un proprio passatempo: lo provano le Facezie di Ludovico Carbone e le Buffonerie del Gonnella, raccolte per il divertimento della stessa corte ferrarese, anzi, come le Porretane, «appositamente per un principe»35. Da qui comincia un’altra storia della novella, che sfuma la propria natura di genere destinato alla formazione dei ‘minori’, com’era nel Novellino, mentre accentua quella di gioco di società per ceti privilegiati, quale sarà nel Cinquecento. E da qui comincia il riuso della cornice decameroniana: la brigata, con la sua separatezza dal mondo nello spazio privilegiato di un giardino, con i suoi valori di onestà e cortesia e intelligenza, con la sua connotazione elitaria, trova ora una nuova funzione, non etica e civile (com’era nella misconosciuta intenzione di Boccaccio), ma aristocratica ed estetica. Così, entro questi limiti, il Decameron viene percepito come un’opera ‘attuale’, capace di parlare al presente. E si spiega allora perché, dopo il regime di relativa magra editoriale che va dalla ‘Deo gratias’ agli anni Venti del Cinquecento, le stampe del Decameron abbiano un’impennata che, dalla ‘ventisettana’ dei Giunti, dura fino al 1557, anno della sua inclusione nell’Indice di Pio V36. I segni della nuova ricezione si colgono intorno al 1525, che non è solo l’anno delle Prose della volgar lingua, cioè della assunzione della lingua del Decameron a sommo esempio di dolcezza e a modello di prosa volgare, ma anche l’anno dei Ragionamenti del Firenzuola, che, sebbene incompiuti (Firenzuola scrisse solo la 1ª giornata), sono un testo chiave per capire la fortuna cinquecentesca del Decameron. Qui, «quella bella compagnia che, secondo che pone il Boccaccio, assai lieta si passò novellando il pestifero accidente»37 è presa esplicitamente a modello dai sei giovani, uomini e donne, che si ritirano per sei giorni in un locus amoenus sui colli fiorentini e decidono di trascorrere il tempo in passeggiate, conversazioni, recitazione di versi, narrazione di novelle e di bei motti. Sulla piccola comunità dialogante, governata con seriosità un po’ accademica dalla ‘regina’ Gostanza Amaretta, spira un afflato che è la vera sostanza del libro. Il titolo, ‘ragionamenti’, sintetizza il valore delle «vive lettere», che l’autore esalta nella dedica a Caterina Cibo, contrapponendo la squallida misantropia di quei letterati che, essendosi «consumati sui libri e quasi marciti entro alle lor camere», finiscono per avere «più somiglianza con qual si voglia vile animale che con uomo sempre conversato con le Muse», alla virtù in fatti e in parole di chi «per le corti di i principi e per le — 46 —

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ragunate degli uomini che molto sanno, più che per gli libri, ha trapassato tutti i suoi giorni»38. Come si vede, la cultura antipedantesca risiede nei luoghi propri dell’aristocrazia sociale e intellettuale (la corte e l’accademia), e viene elaborata e trasmessa per mezzo delle «vive lettere», cioè del dialogo, la forma letteraria che dà l’impronta alla cultura del secolo. Se il Cinquecento riscopre il Decameron e ne assume la cornice come modello di raccolta novellistica è appunto perché nella brigata boccacciana ritrova due caratteri che gliela fanno sentire ‘contemporanea’: l’elitarismo e il dialogismo. Il modello, così riletto, stravince nelle raccolte cinquecentesche, e determina un incremento mai visto prima nella produzione novellistica. Cresce la produzione in assoluto, con 22 raccolte, contro le 6 del Tre-Quattrocento. E crescono, soprattutto, le raccolte con cornice boccacciana (almeno 15, di cui 5 inedite) e con titoli che lemmatizzano gli stereotipi del genere: il numero (‘sei’ o ‘dodici’ giornate, ‘ecatommiti’), il tempo (‘giorno’, ‘giornata’, ‘notte’), la funzione ricreativa (‘diporto’, ‘trattenimento’, ‘giuoco’, ‘fuggilozio’)39. La reinterpretazione della cornice boccacciana come modello di conversazione aristocratica incide sul tono generale delle raccolte cinquecentesche producendo una sorta di rovesciamento, rispetto al Decameron, del rapporto tra testo incorniciante e testo incorniciato. Boccaccio aveva costruito un difficile e motivato equilibrio tra il realismo delle novelle e il simbolismo della cornice, tra la fortunosa casualità delle storie raccontate e la ritualità preordinata delle giornate dei novellatori. Le raccolte del Cinquecento, invece, accumulano nelle cornici effetti di realtà, che le assimilano alle più mosse situazioni discorsive del genere dialogo: personaggi reali e riconoscibili40, luoghi puntualmente individuati41, attività della brigata governate più dal caso che da un ordine prestabilito: per esempio, le perturbazioni atmosferiche, l’estrazione a sorte dei novellatori o del loro ordine narrativo, gli arrivi imprevisti che rendono instabile la brigata e irregolare la distribuzione delle novelle nelle ‘giornate’, ecc.42. L’esplosione di raccolte di questo tipo occorre nella seconda metà del secolo. Nella prima, oltre ai Ragionamenti del Firenzuola, si registrano solo le Novellae latine senza cornice di Girolamo Morlini e le incompiute e inedite Cene del Lasca (vedranno la luce nel 1756 a Parigi). Il resto viene a partire dal 1550, l’anno dei Diporti di Parabosco e delle Piacevoli notti di Straparola, e soprattutto negli anni ’70-’90. — 47 —

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La forma-cornice inventata da Boccaccio e filtrata dalla cultura delle «vive lettere» non fiorisce, insomma, nella stagione d’oro del dialogo cinquecentesco, ma quando esso, uscito dall’accademia e dalla corte (già Castiglione rimpiangeva la conversazione della corte urbinate come un virtuoso costume temporis acti), va dovunque, persino nell’orto della Pippa e della Nanna43, e quando la civiltà della conversazione è ormai diventata mito, pratica sociale tanto più celebrata quanto più in crisi (come si intravede nel dialogo di Guazzo, dove l’elogio della ‘civile conversazione’ è svolto dal medico Annibale Magnocavalli per confutare e vincere la ripugnanza che essa suscita nel malinconico cavalier Guglielmo)44. Lo sviluppo della novella viene dunque a rimorchio delle mode del secolo; il che ne conferma lo statuto letterario di genere minore e di consumo (quale resterà, mi pare, fino all’Ottocento) e spiega la marginale attenzione teoretica dedicata alla novella persino nel secolo delle ‘regole’45. Col mutamento di clima e di gusto, che già si percepisce a fine Cinquecento, il modello Decameron decade rapidamente. Nelle Duecento novelle di Celio Malespini, edite nel 1602, il «passato contagio» di Venezia e la folta brigata di 20 gentiluomini e 20 gentildonne, che si ritirano in villa ispirandosi all’esempio decameroniano, non sono che un convenzionale e pretestuoso esordio, subito dimenticato, dopo il quale le novelle si succedono senza cornice46. Poche raccolte cinquecentesche di tipo boccacciano doppiano la boa del secolo e smettono ben presto di essere ristampate: nel 1607 i Diporti di Parabosco, nel 1608 gli Hecatommiti, nel 1613 le Piacevoli notti di Straparola. La sola a resistere è il moralistico Fuggilozio, ristampato fino al 1688. Ma, dopo l’edizione del 1620, spogliato di ogni cornice, esso diventa un centone di novelline salaci e licenziose, mentre nella redazione originale la cornice suggeriva una ricezione leggera ed edificante47. Le più longeve sopravvivenze cinquecentesche appartengono alle raccolte con cornice del tipo Sette savi, cioè a racconto ‘chiuso’, romanzato, con larghe concessioni al favoloso, sia nel senso dell’avventurosa peripezia, sia nel senso della dichiarata moralità della favola: l’Erasto; l’Asino d’oro di Apuleio nella riscrittura di Firenzuola e poi in quella fortunatissima di Pompeo Vizani, Il peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo di Cristoforo Armeno, La Metamorfosi, cioè trasformatione del virtuoso di Lorenzo Selva48. Sulla stessa linea delle raccolte con cornice romanzata si dispongono, nel ’600, il Brancaleone (con racconto-cornice tra apuleiano ed esopico), la Sul— 48 —

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pizia romana trionfante di Adriano Banchieri (‘novella di trenta novelle’ la cui protagonista è una sorta di Erminia che si rifugia tra i pastori per sfuggire alla persecuzione di Domiziano), Lo Cunto di Giambattista Basile, denominato fin dalla dedica della prima edizione anche col titolo colto e boccacciano di Pentamerone, e altri testi in bilico tra raccolta novellistica e romanzo49. La cornice decameroniana contaminata col dialogo cinquecentesco persiste, ma si vede che il culto e la cultura del dialogo sono finiti. A questa fine contribuisce, probabilmente, la condanna gesuitica della conversazione mondana: nell’Antidoto di Pietro Giustinelli, che agli inizi del secolo ammonisce gli studenti a fuggire i «ragionamenti poco onesti» e a trarre profitto dalle lettere, e nei vari trattati contro la ‘pericolosa conversazione’ scritti da Giovan Domenico Ottonelli a metà secolo, i termini ragionamento e conversazione – prima evocatori di alti valori di civiltà – emanano un’aura quasi diabolica50. C’è anche un filone laico che riafferma la superiorità della parola scritta e del libro sulle ‘vive lettere’. Lo si vede affiorare già nella Fonte del diporto di Gherardo Borgogni, che esalta il «grandissimo lume, et ornamento» che viene «dal conversar che fa l’huomo co’ libri». Gli effetti di questa svolta sulla novellistica sono molteplici. Le cornici dialogiche possono subire lo stesso processo di ‘restringimento’ che, nel genere dialogo vero e proprio, porta dai dialoghi a più voci del primo e pieno Cinquecento ai dialoghi a due voci di Tasso. Così, dalle brigate numerose (persino nebulose) di Parabosco, Straparola, Cattaneo, Giraldi Cinzio, si passa ai due amici dialoganti e novellanti, all’aperto51, o nel chiuso di una camera, come nella Lucerna (1625) e nell’Antilucerna (1648) di Francesco Pona52. Nella Lucerna le presenze umane sono ulteriormente ristrette dal fatto che l’interlocutore-narratore è un oggetto, una lucerna, appunto, ed è anche, nelle sue infinite metamorfosi, protagonista di tutte le novelle. In entrambe le opere di Pona l’effetto di restringimento è esasperato dal dialogo mimetico, che nulla concede alla descrizione del luogo e del tempo del narrare, e dal fatto che, come nei dialoghi tassiani, anche in questi testi uno dei due interlocutori è l’autore stesso. Se non si ‘restringe’, il dialogo-cornice può perdere comunque la sua funzione originale, trasformandosi in una vera e propria commedia, come accade nei Trastulli della villa di Adriano Banchieri, dove novellette e altri estivi passatempi sono incorniciati dallo scenario di cartapesta di un’improbabile corte andina53. — 49 —

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Oppure, se la brigata è più somigliante a quella boccacciana (elitaria, composta di figure maschili e femminili, ritirata per un certo numero di giornate in un luogo ameno), l’intrattenimento fra dame e cavalieri di spirito può oltrepassare la misura della cornice fino a farsi testo intero, un vero talk-show in cui la novella, confusa con gli altri giochi verbali, perde il suo primato e la sua visibilità, come nelle Instabilità dell’ingegno di Anton Giulio Brignole Sale e nell’Arcadia in Brenta di Giovanni Sagredo54. Ma il vero punto di rottura con la civiltà della conversazione, e con la tradizione novellistica precedente, si tocca nelle raccolte dalle quali scompare ogni traccia della socialità del narrare e sembra emergere una crisi della socialità tout court. Se ne colgono i sintomi anche nel Corriero svaligiato di Ferrante Pallavicino, dove i quattro «Cavalieri» che sfruttano come occasione di «un delitioso trattenimento» l’avanzo delle lettere ‘svaligiate’ dallo spionaggio politico, sono parassiti dell’altrui comunicazione (una comunicazione epistolare che non arriva a destinazione)55. Ma il fenomeno appare più rilevante e più nuovo nelle raccolte senza alcuna cornice. Nessuna situazione narrativa simulata nel testo e neppure l’ipotesi di un gruppo riunito oltre il testo, com’era nell’antico Novellino: l’Autore parla direttamente ‘A chi legge’ e lo suppone solo col suo libro. La maggior parte della produzione novellistica del ’600 è di questo tipo e proviene da laici e da religiosi. I religiosi radunano in ‘giardini’, ‘prati’ e ‘selve’ racconti miracolosi e meravigliosi, curiosi ed esemplari, dei quali si dichiarano semplici ‘collettori’ per garantire con l’auctoritas delle fonti la veridicità del narrato. Se è vero che il significato originario del termine novella è quello di «racconto fatto di materia tradizionale rimessa a nuovo»56, allora si può dire che questi autori-raccoglitori ritornano (o fingono di ritornare) a un modo arcaico di produzione novellistica ed esemplaristica57. Al contrario i laici, tutti membri dell’Accademia degli Incogniti, manifestano la loro tensione innovatrice abbandonando la ‘materia tradizionale’ per trattare storie contemporanee. Per i raccoglitori religiosi è dunque facile ammassare centurie e centurie di racconti estratti dalla tradizione antica e moderna; mentre i laici producono smilzi volumetti di poche novelle: 16 in tutto sono le Novelle amorose di Giovan Francesco Loredano58, 26 le Curiosissime novelle amorose di Girolamo Brusoni59; 24, 18 e 12 ne contengono, rispettivamente, La Nave, L’Isola e Il — 50 —

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Porto di Maiolino Bisaccioni60; e furono 45 i Signori Accademici Incogniti che compirono in due anni l’impresa delle Cento novelle amorose61. Ma per tutti, religiosi e laici, con la scomparsa della cornice, si ripropone la necessità di dare forma alle raccolte adottando, distinti o mescolati, gli altri criteri costruttivi della tradizione novellistica: quello della divisione in parti (non più simulate unità temporali, come le ‘giornate’, ma partizioni para-argomentative), quello tematico, e soprattutto quello numerico. È esemplare il caso della quadrilogia di Bisaccioni, che nel primo volume, dove c’è ancora un moncone di cornice, non dà risalto alle novelle con le convenzionali marche di confine (numeri, rubriche, caratteri tipografici), mentre nei volumi seguenti, ridotta la cornice a poco più che un titolo, le novelle compaiono distribuite in parti, numerate e rubricate (nel 2°) o almeno numerate (nel 3° e nel 4°). Fra i numeri resiste, prepotente, il Cento. Nella novellistica religiosa è tutto un fiorire di ‘Centurie’, che si sommano e si moltiplicano fino a raggiungere cifre astronomiche62. E anche gli Incogniti, che pure mostrano il loro distacco dal modello boccacciano astenendosi dalla troppo facile assimilazione dell’Accademia alla ‘brigata’, si aggrappano al ‘cento’ come a un rottame della forma-raccolta naufragata nel mare della modernità.

NOTE 1 Il fenomeno è stato rilevato da M. MARTELLI, Considerazioni sulla tradizione della novella spicciolata, in La novella italiana. Atti del Convegno di studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), I, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 215-44; ID., Il «Seleuco», attribuito a Leonardo Bruni, fra storia ed elegia, in «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Pisa, 26-28 ottobre 1998), a cura di G. ALBANESE, L. BATTAGLIA RICCI, R. BESSI, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 231-255; R. BESSI, Un dittico quattrocentesco: le novelle del Bianco Alfani e di madonna Lisetta Levaldini. Testo e commento, «Interpres», XIV, 1994, pp. 7-106; L. BARTOLI, Note filologiche sulle novelle ‘spicciolate’ del Quattrocento, «Filologia e critica», XX, 1995, 1, pp. 3-43; N. MARCELLI, Appunti per l’edizione di un dittico umanistico: la latinizzazione del «Tancredi» boccacciano e la «Novella di Seleuco» di Leonardo Bruni, «Interpres», XIX, 2000, pp. 18-41. Cfr. anche V. FORMENTIN, La prosa del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. MALATO, X, La tradizione dei testi, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 553-555. 2 Nelle ‘spicciolate’ la cornice discorsiva è costituita di solito da un’epistola, che riferisce da chi e in che circostanza la novella è stata raccontata: cfr., oltre ai titoli citati alla n. 1, la

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novella di Angelica Montanini attribuita a B. Ilicino, narrata da una gentildonna senese nella cornice di un convito di nozze (in Novelle del Quattrocento, a cura di G. G. FERRERO e M. L. DOGLIO, Torino, UTET, 1975, pp. 673-689; si veda anche L. RICCÒ, Introduzione a S. BARGAGLI, La novella di Angelica Montanini, Roma, Salerno Editrice, 1991); L. DA PORTO, La Giulietta nelle due edizioni cinquecentesche, a cura di C. DE MARCHI, Firenze, Giunti, 1994. Analoghi modelli discorsivi incorniciano le ‘spicciolate’ latine: cfr. E. S. PICCOLOMINI, Historia de duobus amantibus, a cura di M. L. DOGLIO, in Novelle del Quattrocento cit., e le traduzioni umanistiche di novelle boccacciane, a cominciare dalla Griselda di Petrarca, incorniciata dall’ultima delle Seniles. 3 Ecco, per esempio, l’incipit della Storia di Campriano Contadino, in 80 ottave, più volte stampata nel ’500: «Per dar sollazzo a ciascun auditore / voglio in rima contarvi una novella / di una industria d’un lavoratore, / che si trovava solo un’asinella…» (in Novelle del Quattrocento, cit., p. 715). Cfr. anche la Storia di Ottinello e Giulia (ivi, pp. 695-710). 4 Per esempio, dal confronto tra i vari rifacimenti in prosa e in versi volgari, fioriti tra Quattro e Cinquecento, della Historia del Piccolomini: quello in prosa di Alamanno Donati, il prosimetro di Alessandro Braccesi, quello in ottave di Giovanni Paolo Verniglione: cfr. M. MASOERO, Novella in versi e prosimetro: riscritture volgari dell’«Historia de duobus amantibus» del Piccolomini, in «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, cit., pp. 330-331; N. TONELLI, L’«Historia di due amanti» di Alessandro Braccesi, ivi, pp. 337-357. 5 Su Le Cento Novelle di M. Giovan Boccaccio ridotte in ottava rima (Venezia, Marcolini, 1554) dal ferrarese Vincenzo Brusantino, cfr. D. PEROCCO, La moralità rimata: Vincenzo Brusantino riscrittore del «Decameron», in Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento, a cura di G. MAZZACURATI e M. PLAISANCE, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 293-305; R. ALHAIQUE PETTINELLI, Vicende editoriali attorno a «Le Cento novelle da Messer Vincenzo Brugiantino dette in ottava rima», ivi, pp. 307-324; EAD., Modi di ricezione dell’oralità nelle «Cento novelle» di Vincenzo Brusantino, in La novella, la voce, il libro. Dal ‘cantare’ trecentesco alla penna narratrice barocca, Napoli, Liguori, 1996, pp. 117-136. Nella riscrittura in versi le complesse mediazioni comunicative elaborate da Boccaccio si dissolvono per lasciare il campo ai modi diretti della comunicazione canterina: «Le famose novelle e i dolci amori, / gli arguti motti e l’astute persone / canto che meritar pregiati honori / ne le giornate del Decamerone […] // Lascio gli effetti e le cagioni meste / per le quali ’l Boccaccio ottenne ’l nome, / quando la cruda e abhominosa peste / Dio ne mandò per le gravose some, / e dirò coi piaceri le gran feste / chiare per tutto u ’l sol spiega le chiome, / intanto i pensier vostri alti e diversi / cedano un poco ad ascoltar miei versi». Il versificatore obbedisce alla «volontà di isolare come nucleo a sé stante ogni singola novella» (D. PEROCCO, La moralità rimata, cit., p. 296), contraendo la cornice («i singoli avvenimenti in essa raccontati vengono spesso aggregati alla decima novella o sunteggiati all’inizio della prima novella della giornata seguente»; scompaiono «il proemio, gran parte dell’introduzione e la conclusione dell’autore») e premettendo ad ogni novella un’Allegoria in prosa e un Proverbio in versi. 6 Una diversa classificazione in M. PICONE, Tre tipi di cornice novellistica: modelli orientali e tradizione narrativa medievale, «Filologia e critica», XIII, 1988, 1, pp. 3-26; ID. Preistoria della cornice del «Decameron», in Studi di italianistica in onore di Giovanni Cecchetti, a

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cura di P. CHERCHI e M. PICONE, Ravenna, Longo, 1988, pp. 91-104. Sulla novellistica predecameroniana è ancora utile, anche per i riferimenti bibliografici, E. MALATO, La nascita della novella italiana: un’alternativa letteraria borghese alla tradizione cortese, in La novella italiana, I, cit., pp. 3-45. 7 La tradizione del Libro dei Sette Savi di Roma è stata valutata «inferiore unicamente alla Bibbia nella quantità delle traduzioni o riduzioni in diverse lingue» (A. CAPPELLI, Introduzione alla sua ed. del Libro, «tratto da un codice del secolo XIV», Bologna, Romagnoli, 1865, p. X). Per una sintesi della storia della tradizione dei testi novellistici del Duecento cfr. A. D’AGOSTINO, La prosa delle origini e del Duecento, in La tradizione dei testi, cit., pp. 91-135. 8 Il Novellino, a cura di A. CONTE, Presentazione di C. SEGRE, Roma, Salerno Editrice, 2001, p. 4. 9 È impossibile richiamare qui la vasta letteratura critica sulla cornice del Decameron. Ha fatto scuola l’interpretazione di G. BÁRBERI SQUAROTTI, La ‘cornice’ del «Decameron» o il mito di Robinson, in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a Giovanni Getto nel suo ventesimo anno di insegnamento universitario, Milano, Mursia, 1970, pp. 109-158. 10 La proposta di Pampinea suona così: «io giudicherei ottimamente fatto che noi […] di questa terra uscissimo, e […] a’ nostri luoghi in contado […] ce ne andassimo a stare […] e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo, se prima da morte non siam sopragiunte, che fine il cielo riserbi a queste cose» (G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, Milano, Mondadori, 1976, I, Intr., 65-71. Da questa ed. traggo tutte le successive citazioni). 11 In IX Intr. 2 si accenna alla «soprastante pistolenzia»; ciononostante, alla fine della giornata seguente, la brigata decide, su proposta di Panfilo, di tornare in città. La discrepanza tra le «ragioni di Panfilo per riaffrontare la desolazione della città» e «quelle già sostenute da Pampinea per far percorrere alle sue compagne il cammino opposto» è stata notata come una «contraddizione» da F. FIDO, Il sorriso di Messer Torello (1977), in ID., Il regime delle simmetrie imperfette, Milano, Franco Angeli, 1988, p. 11. 12 Branca, per esempio, nota: «Veramente nulla sembra mancare alla seguente novella…». 13 L. BATTAGLIA RICCI, Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del «Trionfo della Morte», Roma, Salerno Editrice, 1987; per la ‘cultura della penitenza’ cfr. in part. i capp. II e III. 14 Le parole sono di L. Battaglia Ricci (ivi, p. 172), ma l’opinione è largamente condivisa. 15 Dice Emilia: «Amabili donne, se con sana mente sarà riguardato l’ordine delle cose, assai leggermente si conoscerà tutta la universal moltitudine delle femine dalla natura e da’ costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa e secondo la discrezione di quegli convenirsi reggere e governare […] E quando a questo le leggi, le quali il ben comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l’usanza, o costume che vogliamo dire, le cui forze son grandissime e reverende, la natura assai apertamente cel mostra […] come la natura, l’usanza e le leggi voglion […]» (IX 9, 3-6. I corsivi sono miei). 16 Se si ammette che il sistema decadico del Decameron risulti dal 9+1, appare evidente la posizione strategica (in un certo senso conclusiva) della novella nona della nona giornata sopra citata. L. SURDICH, La cornice di amore. Studi sul Boccaccio, Pisa, ETS, 1987, pp. 244-

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246, legge il passo cit. come indizio della funzione ideologica affidata da Boccaccio alla cornice: «sottoporre a un attento filtro fatto di mediazione e compensazioni le spinte più dirompenti delle narrazioni» e, nel caso specifico, ridimensionare il «pronunciato femminismo» delle novelle con il richiamo a «una gerarchia nella quale la donna è in posizione subalterna rispetto all’uomo». L’oscillazione tra filoginia e misoginia diventa chiave interpretativa di tutto l’itinerario letterario di Boccaccio in F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990. Nell’isolamento della X giornata, marcato dalla rispondenza tra la I e la IX, E. SANGUINETI (Gli ‘schemata’ del «Decameron», «Studi di Filologia e letteratura dedicati a Vincenzo Pernicone», 1975, 2 e 3, pp. 142-143) e L. SURDICH, (La cornice di amore, cit., pp. 272-273) hanno visto una conferma all’ipotesi di una struttura fondata sullo schema 7+3, già sostenuta, con argomenti genetici, da G. PADOAN (Sulla genesi e la pubblicazione del «Decameron» [1975], in ID., Il Boccaccio, le Muse, il Parnaso e l’Arno, Firenze, Olschki, 1978, pp. 93-121) e poi accolta da molti. Un’altra ipotesi numerologica, basata sullo schema 5+5 (la novella 51ª segnerebbe, con le sue implicazioni metanarrative, una sorta di ricominciamento), è stata avanzata da P. D. STEWART, La novella di Madonna Oretta e le due parti del «Decameron» [1977], in EAD., Retorica e mimica nel «Decameron» e nella commedia del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1986, pp. 19-38. Secondo A. D’ANDREA, Struttura e costruzione del «Decameron» (1975), in ID., Il nome della storia. Studi e ricerche di storia e letteratura, Napoli, Liguori, 1982, pp. 126-134, nella struttura ‘poligenetica’ e ‘sincretistica’ del Decameron lo schema 9+1, presente «all’interno di ciascuna giornata per effetto del privilegio concesso a Dioneo» (p. 131), sarebbe ‘corretto’ dallo schema 5+5 ipotizzato dalla Stewart per l’insieme delle dieci giornate. Il 5 è il numero di Fiammetta secondo V. PACCA, Il numero di Fiammetta, «Italianistica», 2000, 1, pp. 45-52. Sulla Commedia come uno dei «modelli strutturali più o meno remoti» del Decameron cfr. L. BATTAGLIA RICCI, Ragionare nel giardino, cit., pp. 27-34 e passim. 17 Ad analoghe conclusioni si può giungere dalla considerazione codicologica del ms. Berlinese Hamiltoniano: cfr. A. PETRUCCI, Il libro manoscritto, in Letteratura Italiana, diretta da A. ASOR ROSA, II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 514-515; E. CASAMASSIMA, Dentro lo scrittoio di Boccaccio. I codici della tradizione, in A. ROSSI, Il «Decameron». Pratiche testuali e interpretative, Bologna, Cappelli, 1982, p. 258; L. BATTAGLIA RICCI, Leggere e scrivere novelle tra 200 e 300, in La novella italiana, II, cit., pp. 629-655. 18 L’elenco non definitivo dei rifacimenti latini di novelle del Decameron lo dà E. MALATO, La nascita della novella, cit., p. 39. I nomi dei rifacitori sono quelli di Petrarca, Antonio Loschi, Leonardo Bruni, Fazio della Spezia, Giovanni Garzoni, Paolo Marchesio, Jacopo Bracciolini, Francesco Diedo, Francesco Zambeccari, Filippo Beroaldo, Neri Nerli, Matteo Bandello, e altri. 19 V. BRANCA, Tradizione delle opere di Giovanni Boccaccio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p. 191. Una sintesi della situazione dei mss. in V. BRANCA, Per la storia del testo del «Decameron», in Lessico critico decameroniano, a cura di R. BRAGANTINI e P. M. FORNI, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 419-438. 20 La tradizione dei novellieri trecenteschi dopo Boccaccio è sintetizzata da R. GUALDO, M. PALERMO, La prosa del Trecento, in La tradizione dei testi, cit., pp. 374-378. G. MAZZA-

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LE FORME BREVI CURATI, Dopo Boccaccio: percorsi del genere novella dal Sacchetti al Bandello, in All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. PALUMBO, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pur riconoscendo che tra XIV e XV sec. la novella «sembra retrocedere verso uno stadio precedente» il Decameron, riteneva che questo avesse indicato la «via […] della raccolta d’autore» già a Sacchetti e Sercambi con «la legittimazione che la sua fortuna estese a tutto il “genere”» (p. 82). Proprio i casi di Sacchetti e Sercambi, così poco persuasi del valore delle loro raccolte, mi sembrano poco probanti. Sembrano indicativi di timidezza dell’io autoriale anche lo pseudonimo dietro il quale si nasconde l’autore del Pecorone (si veda una proposta di identificazione in P. STOPPELLI, Malizia Barattone (Giovanni di Firenze) autore del «Pecorone», «Filologia e critica», II, 1977, pp. 1-34) e il codice adespoto delle Novelle di Sermini («il cod. Estense, il più antico che si conosca, è assolutamente anonimo. E si direbbe inoltre che l’autore non solo volesse tener celato il suo nome, ma cercasse altresì di allontanare tutti gli indizi che potessero condurre a scoprirlo»: v. la premessa del «Tipografo Editore» a Le Novelle di Gentile Sermini da Siena ora per la prima volta raccolte e pubblicate nella loro integrità, Livorno, Francesco Vigo, 1874). La successiva osservazione di Mazzacurati, che «l’auctoritas boccacciana » abbia svolto la «funzione riflessa» di conferire alla novella «una dignità letteraria e formale autonoma dai precedenti asservimenti ad altri “generi”» (ivi, p. 83), può essere condivisibile se non si ammette che quella funzione potrebbe essere stata già assolta dal Novellino. 21 F. SACCHETTI, Trecentonovelle, a cura di V. MARUCCI, Roma, Salerno Editrice, 1996, p. 3. 22 Sul senso e sull’importanza del titolo (… Libro chiamato Decameron cognominato Prencipe Galeotto…) cfr. ancora L. BATTAGLIA RICCI, Ragionare nel giardino, cit., pp. 179-198. 23 C. SEGRE, Sull’ordine delle novelle nel «Novellino», in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, I, Dal Medioevo al Petrarca, Firenze, Olschki, 1983, p. 134. 24 Edite da C. Gualteruzzi, che disse di aver cavato il testo da un codice molto antico e privo di titolo, le novelle furono stampate «in Bologna nelle case di Girolamo Benedetti». 25 Libro di novelle, et di bel parlar gentile […] di nuovo ricorrette. Con aggiunta di quattro altre nel fine. Et con una dichiaratione di alcune delle voci più antiche […], Firenze, Giunti, 1572; Il Decameron […] ricorretto in Roma et emendato secondo l’ordine del Sacro Concilio di Trento, Firenze, Giunti, 1573. La ‘rassettatura’ del Decameron è ben nota; quella del Novellino comportò l’eliminazione di 17 novelle, che Borghini sostituì con altre 18 di varia provenienza. Si noti che Borghini progettò ma non compì la stessa operazione sul Trecentonovelle di Sacchetti. 26 SER GIOVANNI, Il Pecorone, a cura di E. ESPOSITO, Ravenna, Longo, 1974. 27 G. SERCAMBI, Il novelliere, a cura di L. ROSSI, Roma, Salerno Editrice, 1974. 28 G. SERMINI, Le Novelle, cit. La metafora delle erbe da insalata designerà la raccolta novellistica ancora nel Fuggilozio (1596) di T. Costo. 29 La princeps del 1558, sulla quale sono state esemplate le stampe successive fino all’ed. Esposito, è un «adattamento-manipolazione del testo manoscritto» (E. ESPOSITO, Nota al testo dell’ed. cit., p. XXXVII). 30 MASUCCIO SALERNITANO, Il Novellino, a cura di A. MAURO, Bari, Laterza, 1940 (reprint a cura di S. S. NIGRO, ivi, 1975). 31 S. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, a cura di B. BASILE, Roma, Salerno Editrice, 1981, pp. 9-10.

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LUISA MULAS 32 Si pensi al personaggio di Gostanza Amaretta nei Ragionamenti di Firenzuola, alla vedova padrona di casa nelle Cene del Grazzini, a Flavio, il maturo gentiluomo degli Hecatommiti di Giraldi Cinzio, a Lucrezia Sforza nelle Piacevoli notti di Straparola, a Fortunato Martinengo nelle Dodici giornate di Cattaneo, ai committenti delle Novelle di Bandello. Uno speciale potere detengono anche i re e le regine delle Piacevoli e amorose notti dei novizi di Pietro Fortini (ogni re o regina della notte organizza in segreto, a sorpresa, i trattenimenti, prendendo alla sprovvista i suoi ospiti, che devono recitare versi o raccontare novelle senza una preventiva preparazione). L’egualitarismo cade, come nelle Porretane, quando le novelle si dicono a beneficio di un unico destinatario, come nel Diporto di Granucci (le 14 novelle sono raccontate ai Bagni di Lucca da una brigata di sette uomini e sette donne per alleviare le sofferenze patite nella ‘carcere’ dall’autore stesso) o nel Fuggilozio di T. Costo (si racconta per alleviare il mal di gotta del prior Ravaschiero). 33 S. DEGLI ARIENTI, Le Porretane, cit., nella ‘Lettera dedicatoria’ (p. 3). 34 P. BRACCIOLINI, Facezie, a cura di M. CICCUTO, Milano, Rizzoli, 1994, p. 108. 35 L. CARBONE, Facezie e Dialoghi de la partita soa, a cura di G. RUOZZI, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1989, p. XXI. 36 Nei 56 anni che intercorrono tra la ‘Deo gratias’ (così si usa chiamare la prima stampa del Decameron, 1470) e il 1526 si contano 25 stampe, contro le 38 stampe prodotte nei 30 anni dal ’27 al ’57: cfr. E. BOTTASSO, La prima circolazione a stampa, in La novella italiana, I, cit., pp. 247-252. 37 A. FIRENZUOLA, Ragionamenti, in ID., Opere, a cura di D. MAESTRI, Torino, UTET, 1977, p. 84. 38 Ivi, p. 76 39 Mi limito a ricordare i titoli. Rimasero inediti: S. CATTANEO, Dodici giornate (1553); P. FORTINI, Le giornate delle novelle de’ novizi e Le piacevoli ed amorose notti de’ novizi (tra il 1540 e il 1561, ora edite a cura di A. MAURIELLO, Roma, Salerno Editrice, 1988-1995); G. FORTEGUERRI, una giornata di dieci novelle; A. GRAZZINI, Le Cene (1540 circa, ora a cura di G. DAVICO BONINO, Torino, UTET, 1974). Editi: C. ARMENO, Peregrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo, 1557 (ora a cura di R. BRAGANTINI, Roma, Salerno Editrice, 2000); M. BANDELLO, Novelle, 1543-1573 (ora La prima [-quarta] parte delle novelle, a cura di D. MAESTRI, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992-1996); S. BARGAGLI, I trattenimenti, 1587 (ora a cura di L. RICCÒ, Roma, Salerno Editrice, 1989); G. BORGOGNI, La fonte del diporto, 1598; T. COSTO, Il Fuggilozio, 1596 (ora a cura di C. CALENDA, Roma, Salerno Editrice, 1989); A. DE’ MORI, Il giuoco piacevole, 1575 (ora a cura di G. SANJUST, Roma, Bulzoni, 1988); ID., Prima parte delle novelle, 1585; S. ERIZZO, Sei giornate, 1567 (ora a cura di R. BRAGANTINI, Roma, Salerno Editrice, 1977); A. FIRENZUOLA, Ragionamenti, 1525 (ed. MAESTRI cit., e in Le novelle, a cura di E. RAGNI, Roma, Salerno Editrice, 1971); ID., Prima veste dei discorsi degli animali, 1548 (edd. cit.); G. GIRALDI CINZIO, Hecatommiti, 1565 (Torino, 1853-1854); N. GRANUCCI, L’eremita, La carcere, Il diporto, 1569; ID., La piacevole notte e il lieto giorno, 1574; G. MORLINI, Novellae, 1520 (ora in Novelle e Favole, a cura di G. VILLANI, Roma, Salerno Editrice, 1983); G. PARABOSCO, I diporti, 1550 (in Novellieri minori del Cinquecento, a cura di G. GIGLI e F. NICOLINI, Bari, Laterza, 1912); L. SELVA, La metamorfosi, cioè trasformazione del virtuoso, 1582; G. F. STRAPAROLA, Le piacevoli notti, 1550-

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1553 (a cura di G. RUA, Bari, Laterza, 1927, reprint a cura di M. PASTORE STOCCHI, ivi, 1975). Oltre che alle edd. cit., rinvio a Novelle del Cinquecento, a cura di G. B. SALINARI, Torino, UTET, 1955; Novellieri del Cinquecento, a cura di M. GUGLIELMINETTI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1972; Novelle italiane. Il Cinquecento, a cura di L. BATTAGLIA RICCI, Milano, Garzanti, 1982. Per una sintesi delle questioni testuali: R. BRAGANTINI, La prosa volgare nel Cinquecento. Il teatro, in La tradizione dei testi, cit., pp. 741-754. Al modello boccacciano si rifanno anche le Cento novelle scelte da’ più nobili scrittori della lingua volgare, raccolte da F. SANSOVINO in una cornice decameroniana (fuga di una brigata dalla peste veneziana del 1556 e ritiro nella villa di Oriago) e ristampate in varie combinazioni tra il 1561 e il 1619. Dal Decameron le raccolte cinquecentesche riprendono la situazione narrativa di sospensione della vita normale, in cui il passatempo dilettevole e utile del novellare esalta la letizia o dìssipa la tristezza. La causa della sospensione della normalità può essere, come nel Decameron, una calamità (l’esilio da Milano di Ottaviano Maria Sforza nelle Piacevoli notti di Straparola, il sacco di Roma e la conseguente pestilenza negli Hecatommiti di Giraldi Cinzio, l’assedio di Siena nei Trattenimenti di Bargagli), una villeggiatura o un ‘diporto’ (i Ragionamenti in villa di Firenzuola, la pesca in ‘valle’ nei Diporti di Parabosco, la villeggiatura sul lago di Garda nelle Dodici giornate di Silvan Cattaneo, il Diporto di Granucci, il soggiorno a Posillipo del Fuggilozio di Tommaso Costo, La fonte del diporto di Gherardo Borgogni), o può essere un viaggio (la fuga per mare da Ostia a Marsiglia negli Hecatommiti), o una festività laica o religiosa (il carnevale nelle Cene del Lasca, nelle Piacevoli notti di Straparola, nel Giuoco piacevole di A. De’ Mori e nei Trattenimenti di Bargagli, le vacanze estive degli studenti padovani nelle Sei giornate di Erizzo, le Notti tra domenica e lunedì dei ‘novizi’ di Fortini). Al Decameron è riconducibile anche l’importanza che assumono le donne, come novellatrici e come organizzatrici delle attività della cornice, nella gran parte delle raccolte (Firenzuola, Lasca, Straparola, Bargagli, Fortini, Costo. Il caso del Fuggilozio di Costo è significativo: la brigata di studiosi e morigerati gentiluomini, per non far mancare il punto di vista femminile, prende come novellatrici due anziane fantesche). Nei numeri il modello Decameron ritorna col 10x10 (Hecatommiti), con brigate di 10 componenti (Lasca, Forteguerri, Fortini, Sansovino), con il numero dei giorni uguale al numero dei novellatori (6x6 in Firenzuola e in Erizzo, 8x8 in Costo). Alle novelle e alle cornici delle raccolte cinquecentesche hanno dedicato illuminanti pagine M. GUGLIELMINETTI, La cornice e il furto. Studi sulla novella del ’500, Bologna, Zanichelli, 1984; ID., Il circolo novellistico. La cornice e i modelli sociali, in La novella italiana, I, cit., pp. 83-102; M. OLSEN, Amore, virtù e potere nella novellistica rinascimentale. Argomentazione narrativa e ricezione letteraria, Napoli, Federico & Ardia, 1984; R. BRAGANTINI, Il riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l’avventura e la norma, Firenze, Olschki, 1987; ID., Fra teoria e pubblico: la forma novellistica nel Cinquecento, in La novella italiana, II, cit., pp. 445-467; M. PLAISANCE, Funzioni e tipologia della cornice, ivi, pp. 103-118; G. MAZZACURATI, Dopo Boccaccio, cit. Interessanti riflessioni in A. QUONDAM, «Limatura di rame»: qualche riflessione sulla novella nel sistema del classicismo, in «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento, cit., pp. 543-557. 40 Caso limite i Diporti di Parabosco, con tutti gli esponenti del patriziato veneziano e Speroni e Aretino ecc., ma ci sono nomi e cognomi reali anche nelle Piacevoli notti di Stra-

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parola, nelle Dodici giornate di Silvan Cattaneo, nel Fuggilozio di Costo, nelle novelle di Bandello, per le quali G. Getto ha parlato di «accumulo di realtà» (G. GETTO, Il significato del Bandello (1953), in ID., Immagini e problemi di letteratura italiana, Milano, Mursia, 1966, p. 205). 41 Per esempio tutti gli approdi degli Hecatommiti, o le chiese, vie, palazzi di Siena nelle Notti di Fortini, o Posillipo nel Fuggilozio di Costo. 42 Perturbazioni atmosferiche in Lasca, Parabosco, Giraldi Cinzio; arrivi imprevisti in Parabosco e Fortini; estrazione a sorte dei novellatori o del loro ordine narrativo in Giraldi Cinzio e Costo; distribuzione irregolare delle novelle nelle ‘giornate’ in Parabosco, Fortini, Costo, Bargagli, Cattaneo, Straparola. 43 Il Ragionamento e il Dialogo di Aretino sono, rispettivamente, del 1534 e 1536: cfr. P. ARETINO, Sei giornate, a cura di G. AQUILECCHIA, Bari, Laterza, 1969 (reprint a cura dello stesso, ivi, 1975). 44 S. GUAZZO, La civil conversazione (1574), a cura di A. QUONDAM, Ferrara, Franco Cosimo Panini, 1993. Sulla conversazione, sui suoi modelli classicisti e sulla connessa idea del ‘gentiluomo’ si dovranno tenere presenti molti altri studi di Quondam, a partire da quelli sul Cortegiano. Cito l’ultimo: Introduzione a L’arte della conversazione nelle corti del Rinascimento, a cura di F. CALITTI, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2003, pp. III-CI. 45 Sono a margine del testo che li contiene il discorso Sull’arte delle novelle, che F. Sansovino premette alle Cento novelle scelte, cit., e la piccola dissertazione ‘sul novellare’ che ‘l’accademico Sodo’ sviluppa nel Dialogo de’ giuochi (1572) di G. Bargagli (nell’ed. Venezia, Bertano, 1609, pp. 269-284); resta inedita la Lezione sopra il comporre delle novelle (1574) di F. Bonciani, ora in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. WEINBERG, III, Bari, Laterza, 1972, pp. 137-165. 46 C. MALESPINI, Duecento novelle, Venezia, Al segno d’Italia, 1609. Per la novellistica del Seicento si vedano: Novelle italiane. Il Seicento. Il Settecento, a cura di D. CONRIERI, Milano, Garzanti, 1982; lo studio di M. CAPUCCI in C. JANNACO, M. CAPUCCI, Storia letteraria d’Italia. Il Seicento, Milano, Vallardi [ma Padova, Piccin Nuova Libraria], 1986, pp. 613-627; ID., La novella del Seicento, in La novella italiana, II, cit., pp. 497-512; Q. MARINI, La prosa narrativa, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. MALATO, V, Manierismo e Barocco, Roma, Salerno Editrice, 1997, pp. 989-1056. Si legge ancora con profitto G. GETTO, La novella (1962), in ID., Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 349-378 (la ristampa, sotto il titolo Il Barocco letterario in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2000, include il saggio del 1953, La polemica sul Barocco, e una Premessa di M. Guglielminetti). 47 L’elenco e la descrizione delle edd. in M. A. CORTINI, L. MULAS, Selva di vario narrare. Schede per lo studio della narrazione breve nel Seicento, Roma, Bulzoni, 2000, cui rinvio anche per una più precisa bibliografia delle opere seicentesche che citerò d’ora in poi. 48 I Compassionevoli avvenimenti di Erasto, stampati nel 1542, vengono ristampati fino al 1662, L’Asino d’oro di Vizani dal 1607 al 1675, il Peregrinaggio di Cristoforo Armeno fino al 1628, la Metamorfosi di Selva fino al 1616. 49 Del Brancaleone, pubblicato sotto lo pseudonimo di Latrobio nel 1607 e ristampato fino al 1682, è disponibile l’ed. a cura di R. Bragantini, Roma, Salerno Editrice, 1998; del Cunto di G. B. Basile ha curato una nuova edizione e traduzione M. Rak (Milano, Garzan-

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ti, 1986); la Sulpizia di Banchieri, pubblicata sotto lo pseudonimo di Camillo Scaligeri della Fratta, si legge solo nell’ed. Bologna, Ferroni, 1668 (potrebbe non essere la prima perché l’autore morì nel 1634). 50 Sono trattati che si avvalgono della narrazione breve con funzione esemplare: P. GIUSTINELLI, Antidoto contra le compagnie cattive, parlar disonesto, comedie, rappresentazioni e libri poco onesti, Milano, Ponzio e Piccaglia, 1608 (nelle edd. successive il testo del trattato viene integrato con dieci gruppi di ‘Essempi’); G. D. OTTONELLI, Risposta al quesito: Che male sia l’andare a conversazione in casa d’una persona poco modesta, Firenze, Franceschini e Logi, 1645; ID., Della pericolosa conversazione con le donne, o poco modeste, o ritirate, o cantatrici, o accademiche, ove si risolvono molti casi di coscienza; si narrano alcune meravigliose historie antiche e moderne; e si risponde a molte obiezioni di coloro che poco stimano il pericolo di tale conversazione, ivi, 1646; ID., Alcuni buoni avvisi e casi di coscienza intorno alla pericolosa conversazione da proporsi a chi conversa poco modestamente […], ivi, 1646. 51 Per esempio, ad Urbino, durante i festeggiamenti per la nascita del principe Federico Ubaldo Giuseppe della Rovere, si svolge il dialogo di P. G. GENTILERICCIO, Della filosofia di Amore (Venezia, Deuchino, 1618); presso una fonte siedono i due interlocutori della cit. Fonte del diporto di Borgogni. 52 La Lucerna si può leggere nell’ed. a cura di G. Fulco, Roma, Salerno Editrice, 1973; dell’Antilucerna (Verona, Francesco Rossi, 1648) non esistono edd. moderne. In entrambe l’autore si nasconde sotto lo pseudonimo di Eureta Misoscolo. 53 A. BANCHIERI, I trastulli della villa, distinti in sette giornate, Bologna, Mascheroni, 1627. 54 Le Instabilità dell’ingegno (1635) si leggono nell’ed. a cura di G. Formichetti, con introduzione di C. Mutini, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1984; di L’Arcadia in Brenta, leggibile finora solo nelle edd. seicentesche (la 1ª ha false note tipografiche: Colonia, Francesco Kinchio, 1667), è in corso di stampa l’ed. curata da Quinto Marini per Salerno Editrice. Alla stessa tipologia sono ascrivibili G. A. DELLA LENGUEGLIA, Le sere dell’Adda (Milano, Filippo Ghisolfi, 1639), da dove i racconti sono scomparsi del tutto, e le due ‘carrozze’ (La carrozza da nolo, Bologna, C. Zenero, 1648, e La carrozza di ritorno, Milano, Lodovico Monza, 1650) di A. Lampognani. 55 F. PALLAVICINO, Il Corriero svaligiato, 1641 (con false note tipografiche: Villafranca, Giovanni Gibaudo). 56 P. ZUMTHOR, Semiologia e poetica medievale, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1973, p. 396. 57 Cito in forma abbreviata solo alcuni titoli, rinviando per il resto (che è tanto) a M. A. CORTINI, L. MULAS, Selva di vario narrare, cit.; G. F. ASTOLFI, Cento avvenimenti miracolosi [meravigliosi], stupendi e rari… (ordinati per deche, stampati e ristampati dal 1603 al 1675); ID., Gran specchio d’essempi… (1614, rubricati e divisi in 10 ‘distinzioni’, ognuna delle quali contiene da 100 a 200 esempi); ID., Scelta curiosa e ricca officina di varie antiche e moderne istorie… (varie stampe tra il 1602 e il 1675); C. CASALICCHIO, varie raccolte di Stimoli al santo timor e all’amor santo di Dio, ordinati per centurie, editi tra il 1670 e il 1686, ristampati fino al ’700; ID., la fortunatissima raccolta di ‘arguzie’ L’utile col dolce (5 Decadi nell’ed. 1671, 3 Centurie nel 1708, 4 Centurie nel 1716); G. B. MANNI, Centuria d’essempi dell’anime del Purgatorio…, 1679; G. B. MATTIOLI, Selva historiale di diversi essempli (1648; nel-

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la quarta impressione del 1691 arriva a contenere 4000 ‘essempi’ in 12 libri); G. S. MENOCHIO, Le stuore di varia erudizione sacra, morale e profana… (12 Centurie in 6 Parti, edite tra il 1646 e il 1654 e ristampate fino al ’700); S. PEPE, Le meraviglie operate da Dio, per intercessione del B. Gaetano Tiene… (1657, 3 Centurie); S. RAZZI, Giardino d’essempi overo fiori delle vite de’ Santi… (circa 350 racconti nella 1ª ed. del 1591, circa 600 nel 1601); L. TORELLI, Ristretto delle vite de gli uomini e delle donne illustri in santità […] diviso in sei centurie (1647); L. ZACCONI, Il verdeggiante e fiorito prato di varii essempi… (1615, quasi 700 esempi in 3 Libri). Autori-collettori sono anche tra i laici (cfr. ancora M. A. CORTINI, L. MULAS, Selva di vario narrare, cit. e il mio Dalla Favola all’Historia e ritorno, ivi). 58 Uscirono in due riprese: l’ed. Venezia, Ad instanza dell’Accademia,1643, ne contiene 7; la successiva, Venezia, Guerigli, 1651, ne aggiunge 9. 59 Anche queste in progress: le 4 uscite nella prima parte del Camerotto (Venezia, Valvasense, 1645) divennero 24 nelle Novelle amorose, Venezia, Giuliani, 1655, con l’aggiunta di 2 nelle Curiosissime novelle amorose, Venezia, Curti, 1663. 60 La quadrilogia di Bisaccioni fu compiuta in quasi trent’anni: L’Albergo. Favole tratte dal vero, Venezia, Pinelli, 1637; La Nave overo novelle amorose e politiche, Venezia, G. Vecellio e M. Leni, 1643; L’Isola overo successi favolosi, Venezia, M. Leni, 1648; Il Porto. Novelle più vere che finte, Venezia, Eredi di F. Storti, 1664. Si veda E. TADDEO, Le ‘Favole’ tratte dal vero di M. B., «Studi secenteschi», XXX, 1989, pp. 101-130. 61 Le Cento uscirono in tre parti: la prima, di 30 novelle, nell’ed. Novelle Amorose de Signori Accademici Incogniti, Venezia, Eredi del Sarzina, 1641; la seconda e la terza, rispettivamente di 30 e 40 novelle, con lo stesso titolo, nel 1643 presso i Guerigli. Col titolo Cento novelle amorose, Venezia, Guerigli, 1651. 62 Si veda la n. 57.

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GINO RUOZZI SCRITTURE AFORISTICHE E MORALITÀ NARRATIVE «La brevità è la sorella del talento», diceva Cˇechov che se ne intendeva (di brevità e di talento). Se penso a narrazioni brevi le prime che mi vengono in mente sono i romanzi ‘lampo’ di Leo Longanesi, concentrati in una riga, che sarebbero certamente piaciuti a Jules Renard e a Elias Canetti1: Vissero infelici perché costava meno. (Parliamo dell’elefante) Veterani si nasce. (Parliamo dell’elefante) La sua ombra, signora, non porta le mutande. (La sua signora)2

Ritratti e racconti fulminanti, in cui sono condensate decine di esperienze, di volti, di storie, che il lettore deve ricostruire per via intuitiva. Di solito per questi scritti di Longanesi si usa il nome di aforismi (egli ha usato anche quello di «frammenti di un diario» o, in termini di raccolta, altri diversamente esplicativi come «Il vetro rotto» e «Il dèmone quotidiano»). Longanesi è pure bravissimo in autoritratti e autobiografie di una riga: Sono un carciofino sott’odio. (Parliamo dell’elefante) Sono talmente solo, che lo specchio non mi riflette più. (La sua signora)3

che talvolta dicono l’essenza di un’esistenza molto più di vite lunghe centinaia di pagine. Le scritture brevi hanno il dono della sintesi, non quello dell’analisi. La scrittura breve vede per ‘scorci’ e ‘schegge’, ragiona per rasoiate; e il frammento che essa esprime è «un lampo, nel quale la luce espressa corrisponde pari pari alla potenzialità luminosa, è perfetto, e illumina, dirò così, tutto l’orizzonte dell’esistenza» (Arturo Onofri)4. — 61 —

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Un’altra forma breve narrativa è in certo qual modo quella dei dialoghetti, che mettono in scena una storia ‘minima’, un piccolo ed esemplare contrasto teatrale, nella tradizione accorciata dei ‘belli risposi’ e dei motti medievali («il motto è quasi l’emblema della nuova civiltà mercantile che esce dall’Autunno del Medio Evo», Pasquini5). Si pensi al teatro futurista e alle tragedie in due battute di Achille Campanile, ai dialoghetti di ispirazione leopardiana di Giorgio Manganelli. Nel dialoghetto l’ellissi narrativa è al grado massimo; si legga per esempio il seguente dialoghetto anonimo pubblicato nell’Almanacco letterario 1926 (Milano, Mondadori, 1925): Al giardino zoologico BALDINI – Per me l’animale più bello è la tigre. BARILLI – Io sono per il leone. BALDINI e BARILLI (a Cardarelli) – E tu? CARDARELLI – Io, lo sapete, sono leopardiano.

Sia per l’aforisma racconto sia per il dialoghetto si tratta di testi brevi e brevissimi, universi autonomi, del tutto autosufficienti. Sulla ‘brevità’ e sulle sue qualità c’è una bellissima pagina di commento di Giorgio Manganelli alle favole di Esopo: Esopo ignora lo spazio: da un lato ignora il cosmo, il mondo, dall’altro la sua retorica lo vuole laconico, subito conchiuso. Il lettore di queste favole si accorge subito che non si tratta di appunti per racconti, non di riassunti, ma di testi interi, di esempi rari di una brevità completa. Ogni favola è un istante narrativo, una evocazione subito dispersa. Questa brevità ha, ovviamente, una funzione retorica: la favola non è soltanto rapida; essa non racconta una serie di punti che, al termine del movimento della mano, segnano un luogo, a sua volta subito cancellato. Le favole non sono solo brevi, sono effimere: il loro fulmineo scomparire è una garanzia; fuori da quelle poche righe non accade nulla. La rapidità è difensiva; come i suoi umili anonimi, il favolista appare e scompare, non vuol farsi cogliere, ma nemmeno ambisce alla grandezza minacciosa del fantasma; è, piuttosto, un folletto. Se dovessi inventare una ideologia generale del mondo esopico, il sospetto di un universo, direi che in esso si rappresenta il punto di vista delle divinità inferiori nei confronti degli dèi superi. […] Circola nelle favole esopiche un’aria di empietà chiotta e defilata, una svelta imprecazione da povero; ma quel che di vagamente pio vi si avverte, è di una pietà da dèi silvani, da satiri, e anonimi custodi dei termini e dei cardini.6

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Manganelli ritorna sul motivo della favola esopica e del bestiario parlando di Federigo Tozzi e della sua raccolta di prose Bestie, che egli giudica il «supremo» dei «grandi libri» dello scrittore di Siena. E scrive: Mi deprime sentir parlare di «prosa lirica» e di «prose d’arte» per questa, che è una delle invenzioni più sottili e complesse di Tozzi. I «pezzi» sono brevi, di rado più di una pagina, e la bestia non è affatto il tema, è la presenza, il fantasma che si materializza solo nelle ultime righe; non una presenza di grazia, ma una epifania demonica, colma di un orrore e di uno strazio che il breve testo faceva presentire. […] I racconti di Tozzi brulicano di bestie, e la loro presenza è sempre legata ad una incursione dell’angoscia, del terribile, del male; le bestie sono quella forma di vita che l’uomo ha deciso di poter uccidere, straziare, degradare, anneghittire, insultare; le bestie sono non tanto peccato, quanto malessere, quel profondo, decisivo malessere che governa la fantasia, la sintassi, il lessico di Tozzi. Varie forme di maledizione possono condurre a ciò che si scrive, ma, in definitiva, si scrive.7

Siamo perciò ben lontani dall’ingenuità e dalla grazia tutto sommato disincantate richiamate da Aurelio de’ Giorgi Bertola nel suo Saggio sopra la favola (1788). In Tozzi l’ingenuità e la grazia sono vere, perciò spaventose. Sono un accesso alla verità che passa necessariamente attraverso la paura (Leopardi e Nietzsche insegnano). C’è una sorta di antico e radicato pregiudizio nei confronti delle forme brevi che anche Manganelli ha cercato di vincere: che cioè esse siano preparatorie a qualche opera più importante. Nota la riserva di Vittorio De Caprariis a proposito dei Ricordi di Guicciardini. Ma anche Bestie, Cose e Persone di Tozzi sono state sovente interpretate come opere ‘in funzione di’, propedeutiche a qualche opera maggiore. Prospettiva che appunto Manganelli, raffinato e multiforme cultore di scritti brevi (si pensi in primo luogo ai fulminei miniromanzi di Centuria) ha seccamente smentito. Nella propria Estetica Hegel dedica alcuni importanti capitoli alle «forme d’arte del paragone», nelle quali include la favola, la parabola, il proverbio, l’apologo, le metamorfosi (il bestiario è una di queste)8. «Avvisi per somiglianze», li aveva chiamati Giambattista Vico parlando esplicitamente di Esopo (di cui negò però l’esistenza) nei Principi di Scienza nuova (2, 2, 3.9). Per Hegel si tratta, giustamente, di forme minori, ma significative. In particolare egli si sofferma sulla favola esopica, che secondo il filosofo si ca— 63 —

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ratterizza per la «rappresentazione di una condizione qualsiasi della natura animata e inanimata o di un evento del mondo degli animali, che non è già inventato arbitrariamente, ma è colto nella sua reale esistenza, con fedele osservazione, e viene poi raccontato in modo tale che se ne possa trarre un insegnamento generale in rapporto alla esistenza umana e, più precisamente, al suo lato pratico, alla saggezza e all’eticità dell’agire». Ancora secondo Hegel la forza delle favole è nel racconto e non nella morale, che spesso «c’entra come i cavoli a merenda, nel senso che se ne potrebbero ricavare invece insegnamenti opposti o altri migliori». La morale conclusiva, là dove è espressa, risulta quindi una specie di giustapposizione non sempre giustificata. La forza della favola, e per estensione dell’apologo e della parabola, è nel racconto in sé, non nel sintetico insegnamento morale posto alla fine. Per le parabole evangeliche è ormai provato che molte delle loro spiegazioni risalgono non a Gesù ma al catechismo della predicazione apostolica. Il mio discorso su quelle che ho chiamato scritture aforistiche e moralità narrative si basa in particolare su generi e forme di tradizione classica quali le favole, gli apologhi, i bestiari. Affini a questi possono essere gli esempi medievali, che spesso hanno la stessa finalità, anche se su un piano più specificamente didattico-religioso; le facezie umanistiche, di derivazione colta, in cui la morale passa per il riso e sovente la beffa (nella tradizione della cosiddetta novella-beffa e dello scherzo, secondo la tipologia delle forme semplici indicata da André Jolles); le parabole, che possono essere sia quelle tradizionali religiose ed evangeliche sia quelle laiche (per esempio in Ennio Flaiano; ma anche il faceto Piovano Arlotto parla per parabole: Motti e facezie del Piovano Arlotto, 34). La natura e la forma delle scritture qui prese in esame ha certamente a che fare con la celebre enumerazione proposta da Boccaccio di «cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo» (Proemio del Decameron). Secondo Emilio Pasquini i quattro termini «non si possono assolutamente considerare sinonimi». Novelle «è il termine più generico, che si richiama all’etimologia di novus e significa ‘novità, cose nuove, notizie’» e allude a una narrazione di tipo elementare basata sul motto, la bella frase, la trovata verbale (novella-motto). Favole «potrebbe richiamarsi allo stesso etimo di ‘favolello’, ‘fabliau’, ‘fablel’, cioè all’etimo di fabulare», da cui si può dedurre che «favola, molto probabilmente, ha per Boccaccio il valore di ‘racconto costruito su una beffa’» (novella-beffa). Parabola «allude al latino della ‘vulgata’ e alle parabole del Vangelo» e «all’altezza di Boccaccio sicuramente ha già una — 64 —

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sua accezione tecnica: quella di ‘storia esemplare’ […], dove più che la narrazione del fatto importa il suo valore di ammonimento» (novella-esempio). Infine Istorie ha valore di «avventura reale», «catena di eventi realistici» (novella-avventura)9. Quando nel mio discorso parlo di favole, apologhi, bestiari e altre moralità narrative indico scritture in genere assai più brevi di una novella di Boccaccio; al limite è possibile che qualcuna di queste forme sia interna alle novelle stesse del Decameron, come forma minore in esse inserita. Così come ve ne sono incluse negli Esempi di Giordano da Pisa, tipo la «favola, overo parabola» dell’Ovidio maggiore (Esempi 55: Il mito di Orfeo). Questi tipi di scrittura breve contengono di solito una morale, esplicita o implicita; più evidente nel Medioevo, nel Rinascimento, nel Settecento, assai meno nel Novecento. Si tratta in genere di narrazioni contratte, concise, essenziali, ellittiche. I nomi più diffusi per indicarle sono favole, apologhi, bestiari/bestie, cose, racconti/raccontini/racconti brevissimi, storie/storiette, parabole, caratteri (per esempio quelli novecenteschi di Mario La Cava). Esse sono scritte sia in prosa sia in versi; nel Medioevo in entrambe le forme; nel Rinascimento e nel Novecento soprattutto in prosa; nel Settecento per lo più in versi. Un’antologia ideale di moralità narrative potrebbe iniziare dai tanti bestiari del Medioevo: il Liber monstrorum, il Libellus de natura animalium, il Bestiario moralizzato di Gubbio, l’Esopo tosco-veneto, suggeriti da modelli biblici come dalle più vicine letture del Fisiologo ellenistico e del De animalibus di Alberto Magno10; il particolare bestiario d’amore di Chiaro Davanzati (successivo al Bestiaire d’amours di Richard de Fournival, scritto intorno al 1250), L’Acerba di Cecco d’Ascoli; estendendosi poi agli apologhi e alle favole del Novellino, agli esempi religiosi di Giordano da Pisa e dello Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti, ai racconti esemplari di Domenico Cavalca, agli assempri di Filippo degli Agazzari, alle prediche, agli esempi morali e agli apologhi di San Bernardino da Siena11. Salendo in area umanistica si incontrano gli apologhi di Leon Battista Alberti, di Marsilio Ficino, di Bartolomeo Scala, di Pandolfo Collenuccio; l’Esopo in distici di Francesco Del Tuppo; le favole e il bestiario di Leonardo da Vinci; le favole di Francesco Filelfo. Ci sono celebri favole interne a più ampie narrazioni in versi, come quella della «volpe e del gallo» nel Morgante di Pulci (9, 19ss) o quella della «zucca» nelle Satire di Ariosto (7, 70ss). Ricor— 65 —

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do che l’edizione aldina di Esopo è del 1505; e si divulgano sempre più le ‘facete novellette’ del Panciatantra indiano, che sono modello fondamentale per la Prima veste dei discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola (1540 ca). Il mio discorso si limita però agli scritti brevi che hanno forma autonoma e intenzionale; perciò non tanto le forme brevi inserite in contesti più ampi (racconti, poemi, romanzi ecc.) quanto gli scritti volutamente brevi nel caso poi riuniti in raccolte monoformali o pluriformali. Tra Cinque e Seicento cito le favole e le novelle esemplari di Girolamo Morlini (1520, in latino), le favole fatte a imitazione di Esopo di Ortensio Lando, le favole morali di Giovan Mario Verdizzotti (1570), gli apologhi di Matteo Buonamico (1590), Bernardino Baldi, Giulio Cesare Capaccio (1619); le favole de La politica di Esopo frigio di Emanuele Tesauro (1646). Tra quelli interni ad altre opere vanno almeno menzionati l’apologo degli «dei che combattirono contra gli rubelli giganti» e, «alzando il velo de la sacrata figura», quello biblico di Sansone che «con l’asinina mascella tolse la vita a mille Filistei» nella Cabala del Cavallo pegaseo di Giordano Bruno (1585); e le diverse favole inserite nelle Sottilissime astuzie di Bertoldo e nelle Piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce (1606 e 1608; la «Favola del gambaro e della granzella», la «Favola dei schiratoli e i topi dai fichi secchi» ecc). Nel Settecento si assiste all’esplosione di favole e apologhi in versi provocata dallo straordinario successo delle fables di La Fontaine (1668-1693; notevole anche l’influsso di quelle di Fénelon, pubblicate postume nel 1718): ne scrivono Lorenzo Pignotti, Luigi Fiacchi (Clasio), Tommaso Crudeli, Aurelio de’ Giorgi Bertola, Giovanni Gherardo De Rossi, Clemente Bondi, Giovanni Meli, Francesco Gritti, Gaetano Perego, Giancarlo Passeroni, Giambattista Roberti, Carlo Gozzi, Edoardo Calvo, Giovan Battista Casti (il suo poema Gli animali parlanti uscì a Parigi nel 1802-1803). Tante le favole, favolette e apologhi citati da Goldoni nelle proprie commedie. Tra la fine del secolo e l’inizio dell’Ottocento si aggiunge ai precedenti il fortunato modello spagnolo delle Favole morali di Samaniego e delle Favole letterarie di Tomás de Iriarte. Nello stesso tempo si intensifica il dibattito teorico sul genere, in cui si distinguono le riflessioni di Lessing (1759) e, in Italia, quelle di Muratori e di Bertola (1788; di quest’ultimo si possono ricordare anche gli apologhi in prosa pubblicati in Versi e Prose, 1776). Tra le tante dell’Ottocento si può cominciare citando le favole russe tradotte da Vincenzo Monti, Esopo da Niccolò Tommaseo, La Fontaine da Emi— 66 —

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lio De Marchi; tra quelle originali, le favole puerili di Leopardi (A favore del gatto e del cane, Il sole e la luna, L’uccello, I filosofi e il cane); le beffarde favolette morali di Olindo Guerrini, ma anche le favole di Pietro Fanfani e del ministro Terenzio Mamiani (1883). E in contemporanea lo sviluppo del genere fiaba, che è altra cosa dal nostro. Nel Novecento il genere si esprime ancora in poesia ma soprattutto in prosa: spiccano le favole in prosa di Gabriele d’Annunzio (che nelle proprie opere cita anche parecchie parabole evangeliche), di Vincenzo Cardarelli, Riccardo Bacchelli, Carlo Emilio Gadda, Pietro Pancrazi (L’esopo moderno, 1930), Umberto Saba (gli apologhi dei raccontini; e le favole e favolette presenti nelle prose aforistiche di Scorciatoie, 1946), Antonio Baldini, Nicola Lisi, Arturo Loria, Leonardo Sciascia (Favole della dittatura, 1950), Italo Cremona, Ennio Flaiano (favole «argute» e parabole), Gianni Rodari (favole al telefono), Saverio Strati, Mario Socrate. Grande attenzione al genere hanno riservato Antonio Gramsci e Concetto Marchesi (di quest’ultimo ricordo le Favole esopiche pubblicate da Formiggini nel 1930). Favole in versi hanno scritto Trilussa e Luciano Folgore; apologhi e favole in versi ha scritto Giovanni Pascoli (I due fuchi, Il cacciatore, Il marrello e la vanga, L’incenso, Il cane e la scodella, La favola del disarmo). Apologhi in prosa ha scritto Federico De Roberto; altri sono presenti nel Giornale di bordo di Ardengo Soffici; apologhi satirici sono quelli di Benedetto Croce. Scrivono apologhi Giorgio Bassani, Dino Buzzati (da quelli di poche righe a romanzi come Il deserto dei Tartari), Raffaele La Capria, Giuseppe Rosato, Mario Verdone; Apologhetti sono quelli di Giuseppe Bonaviri (1991); libro di apologhi sul modello dei dialoghi zen è Pensare il Buddha di Ferruccio Masini (1988); Adriana Zarri ha raccolto i suoi apologhi politici in Apologario. Le favole di Samarcanda (1990). Apologhi sono le Storielle tendenziose del Sacco dell’Orco di Giovanni Papini (1933), le Storiette e le Storiette tascabili di Luigi Malerba (1994), gli Orti di guerra di Edoardo Albinati (1997), le 103 storie di seduzione (e una postilla) di Vittorio Orsenigo (1998). Parabole in prosa hanno scritto Arturo Graf, Ennio Flaiano, Sergio Quinzio, Gianni Celati; parabole in versi hanno scritto Gabriele d’Annunzio (Parabola ne La Chimera) e Guido Gozzano (La parabola dell’Autunno, La parabola dei frutti). Tra i bestiari (all’estero vanno segnalati quelli di Apollinaire, Jules Renard, Marcel Roland, il Manuale di zoologia fantastica di Borges) quelli di Ugo Bernasconi, Aldo Spallicci, Fabio Tombari, Carlo Linati, Dino Buzzati, — 67 —

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Bonaventura Tecchi, Giuseppe Tonna, Gianna Manzini, Toti Scialoja, Luciano Erba, Marcello Camilucci, Ruggero Guarini, Giorgio Celli, Luigi Malerba, Alfredo Cattabiani; il più noto del secolo resta naturalmente Bestie di Federigo Tozzi (che aggiunse Cose e Persone)12. La brevità è uno dei caratteri distintivi di queste «forme d’arte del paragone». Ma quale brevità? Leon Battista Alberti, offrendo a Francesco Marescalchi i suoi cento apologhi latini, usa per ben quattro volte (senza alterazione di sinonimi) la parola «brevità», considerandola non «oscura» e al contrario piacevole. Brevità, come sosteneva Leopardi, equivale anche a varietà (Zibaldone di Pensieri, 1507-1508, 17 agosto 1821), che è altro elemento tipico delle scritture aforistiche, anche là dove la raccolta monotematica (dagli aforismi di Ippocrate a quelli di Raimondo Montecuccoli) potrebbe far pensare a una sostanziale monotonia. Dove si trovano le scritture brevi? – Dentro forme più o meno lunghe (romanzi, poemi, saggi; il racconto, da questo punto di vista, è già una scrittura in qualche modo ‘lunga’). Vi si possono trovare come incisi, digressioni, parentesi, non solo di contenuto ma anche di forma. Si tratta a volte dell’inserimento di un tassello congruo e autonomo. Per esempio le parabole nelle novelle di Boccaccio, le favole nelle prose di Svevo (specie in Una burla riuscita), gli apologhi in quelle di Pirandello (come nel saggio L’umorismo). Si può pensare anche al sistema a «scatola cinese» indicato da Marziano Guglielminetti per La prima veste dei discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola13; oppure a una composizione per cui da singoli pezzi si giunge al poema, come dichiara Casti a proposito dei suoi Animali parlanti, nati dal successo precedente dei «pochi apologhi isolati che preventivamente io aveva composti» e (sembra quasi un paradosso ma non lo è) dal fatto che «attesa la mia ottogenaria età, non ho avuto tempo di essere breve» (Prefazione a Gli animali parlanti), che conferma nell’idea che se la forma breve è ‘breve’ nella lettura non lo è altrettanto (o non lo è sempre) nella scrittura (e probabilmente nella comprensione). I Ricordi di Guicciardini sono al proposito un esempio illuminante. D’altra parte le forme sono sempre articolate e il romanzo in sé, per lo più quello degli esordi sperimentali e quello odierno, nasce proprio come forma della complessità, che significa in primo luogo forma che include altre (e tan— 68 —

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te) forme, comprese quelle di minore estensione e in apparenza divaricanti dal modello principale. – Le forme brevi si trovano in raccolte autonome e monoformali: raccolte specifiche di apologhi, favole, raccontini ecc. Dal nostro punto di vista esse assumono maggiore importanza delle precedenti perché sono quelle che fondano intenzionalmente un ‘genere’, o affini. – Le forme brevi si trovano in raccolte pluriformali, quelle che nel Novecento si chiamano genericamente aforistiche, nelle quali si possono leggere aforismi, massime, sentenze, precetti; raccontini, favole, apologhi; poesie; citazioni; saggi brevi; divertimenti, moralità varie ecc. Si vedano per esempio Il sacco dell’Orco di Giovanni Papini (1933), Siamo spiacenti di di Dino Buzzati (1960), Le sabbie immobili di Giuseppe Pontiggia (1991). Talvolta esse provengono da un contenitore naturale come il diario o il ‘quaderno di appunti’ (sul modello di Lichtenberg e di Canetti), talaltra da un contenitore artificiale, come l’album pubblicato mensilmente da Giuseppe Pontiggia sul quotidiano «Il Sole-24 Ore» (1997-2003), in parte confluito nel volume Prima persona (2002). In queste raccolte troviamo anche quella particolare modalità di relazione tra ‘forma breve’ e ‘forma lunga’ costituita dal progetto. Sull’esempio di Hawthorne e dei suoi Notebooks, di Poe e del Baudelaire dei Diari intimi, Gesualdo Bufalino inserisce negli aforismi del suo Malpensante (1987) diversi «progetti» e «ipotesi di racconto» e di «romanzo», con esposizione di minitrama: Ipotesi di racconto: Collezionista di un solo quadro, lo appende al muro d’una stanza vuota, ogni giorno va a guardarselo un’ora, lo distrugge prima di morire. Ipotesi di romanzo: carteggio di un uomo e una donna innamorati e divisi che s’inventano da lontano per iscritto il decorso possibile e multiplo del loro amore. Progetto di favola o reliquia di sogno: l’uomo aveva un mantello nero e saette di ferro in mano. Con l’altra cassava lentamente una rupe…

Diversi i progetti di racconti e di romanzi in Ennio Flaiano. Basti citarne uno, lapidario, da Diario degli errori: La storia di quei tali che stanno precipitando sorretti da una speranza.14

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Sul rapporto tra romanzo e racconto breve è intervenuto Franco Moretti nel suo Atlante del romanzo europeo. 1800-1900 (1997): «i romanzi si svolgono quasi per intero in Europa (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Ungheria) – mentre i racconti brevi e gli ‘aneddoti’ sono invece ambientati spessissimo in Medio Oriente, in India, in Cina, nelle Americhe. È una discrepanza geografica che ha – come sempre – una ragione formale: il romanzo si va specializzando nella rappresentazione del quotidiano, del familiare, e preferisce dunque un mondo vicino e ben noto; il racconto vuole invece eventi sorprendenti, ‘inauditi’ (Goethe), e li ambienta volentieri in terre lontane e un po’ favolose, dove la totale mancanza di ogni informazione reale lascia l’immaginazione padrona di inventare quel che le pare. E poi, questa deriva spaziale verso l’Oriente è anche un effetto di lungo periodo, una sorta di omaggio alla cultura araba e indiana, e alla sua grande influenza sul racconto breve europeo»15. Questo debito nei confronti della cultura orientale (che significa in primo luogo la Frigia di Esopo) è indicato da Giambattista Casti nella prefazione ai suoi Animali parlanti, riconoscendovi una specifica ragione politica: Fin dai tempi più remoti l’ingenuo scrittore e il franco filosofo si sono assai sovente trovati in caso di dover involgere nel velo dell’allegoria certe ardite verità che i riguardi adottati dalla molle società qualificano per dure e pungenti, o che l’intolleranza dell’arbitrario potere perigliose rende a quei che hanno il coraggio di proferirle apertamente. Quindi fra i popoli orientali, sopra de’ quali si è maggiormente in ogni tempo aggravato il peso de’ dispotici governi, talmente comuni divennero le parabole, gli apologhi e generalmente l’uso delle allegorie, che formò, per così dire, il gusto e il carattere del loro linguaggio.

La componente narrativa si trova fin dal principio nelle raccolte di aforismi e in quelle aforistiche (che sembrano ma non sono la stessa cosa)16; specie in quelle che fanno ricorso all’esempio e all’aneddoto. Per esempio nei Ricordi di Guicciardini, in cui l’esperienza dell’autore spesso si fa moralità attraverso il ‘racconto esemplare’ della propria esperienza. L’esempio è sia genere in sé sia forma interna di altre forme. Quindi edificante come contenuto ed edificante come forma, nel senso che sull’esempio/similitudine si appoggiano strutture maggiori, come omelie, racconti, facezie, ricordi ecc. Una straordinaria raccolta di ‘moralità’, incluse anche alcune ‘moralità narrative’, è quella delle leopardiane operette morali. Vi incontriamo tipiche — 70 —

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forme di moralità, come i dialoghi; ma anche miniracconti o anticipatóri poemetti in prosa, come l’Elogio degli uccelli e il Cantico del gallo silvestre. Le operette sono prose brevi, per lo più della misura di poche pagine, altre di una decina. Il tono è satirico e polemico: il «malpensante» Leopardi attacca i benpensanti del proprio tempo con le armi dell’ironia e del sarcasmo. Sul piano delle forme egli predilige il dialogo, sul modello dei dialoghi satirici di Luciano di Samosata ma anche, naturalmente, su quello dei dialoghi di Platone e di Plutarco; altri esempi importanti sono i dialoghi umanistici, in particolare quelli di Leon Battista Alberti, e la prosa libertina e illuministica sei-settecentesca. Alla forma principale del dialogo se ne accostano altre, quali il ritratto esemplare (Il Parini ovvero della gloria, Detti memorabili di Filippo Ottonieri) e alcuni piccoli racconti in «prosa poetica» (Elogio degli uccelli, Cantico del gallo silvestre), assai vicini alla natura della favola e dell’apologo, ai quali si può accostare pure l’introduttiva Storia del genere umano. Alcuni dialoghi sono ‘incalzanti’, fatti di rapidi botta e risposta tra gli interlocutori: il Dialogo di un folletto e di uno gnomo, il Dialogo di Malambruno e di Farfarello, soprattutto il Dialogo di un venditore di almanacchi, opportunamente situato tra due dialoghi ‘saggio’ tra i più impegnativi (il Dialogo di Plotino e di Porfirio e il conclusivo Dialogo di Tristano e di un amico); sono questi i testi più brevi. A volte al dialogo pressante si alternano discorsi più lunghi, che allentano il ritmo e offrono spazio a una riflessione più pacata. Altri dialoghi sono ‘discorsivi’, filosofici, assai più argomentativi dei precedenti: il Dialogo della Natura e di un Islandese, Il Copernico (unico dialogo in scene, teatrale), il Dialogo di Plotino e di Porfirio, il finale Dialogo di Tristano e di un amico. Li chiamerei dialoghi ‘saggio’. Vi sono dialoghi con cornice introduttiva, apologhi: come La scommessa di Prometeo (tre parti narrative introduttive più tre dialoghi); altri con apertura poetica, come il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. Vi sono poi altri testi che si avvicinano più propriamente alla natura del ‘saggio’, nel senso del ‘saggio breve’ settecentesco (col modello in Bacone). Saggi come Il Parini ovvero della gloria, che è un saggio di formazione ricalcato sui ciceroniani Laelius de amicizia o Cato Maior de senectute; e il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco (di cui si finge, come per altre operette, la traduzione da un originale antico); saggi a più capitoli, come il ‘saggio ritratto’, che è pure ‘racconto esemplare’, dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri. Saggi ‘narrativi’ possono essere definiti l’introduttiva Storia del genere umano (inizia con un evocativo e mitologico «Narrasi»), e il gruppo ‘lirico— 71 —

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narrativo’, che è un blocco compatto all’interno del libro, dell’Elogio degli uccelli e del Cantico del gallo silvestre (in parte anche dello Stratone). Saggio ‘proposta’, sul modello inglese di Swift e di Lamb, è la bizzarra Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi. Le operette leopardiane sono sì filosofiche ma indubbiamente anche narrative, sulla linea filosofico-narrativa che assumerà almeno una linea importante del pensiero filosofico del secondo Ottocento, quello poetico-filosofico (e non a caso aforistico, oracolare) di Baudelaire e di Nietzsche. Di segno contrario a quello di Benedetto Croce, di cui sono ben note le riserve su Leopardi filosofo. Il pensiero di Leopardi passa pertanto anche attraverso la costruzione di storie, favole, parabole, apologhi. Alla maniera più diretta dello Zibaldone di Pensieri (e poi dei Pensieri) egli alterna quindi quella allegorica delle Operette morali. Singolare che dopo Leopardi il termine operetta sia stato quasi esclusivamente usato per il teatro frivolo e leggero; ma la cosa, forse, non gli sarebbe dispiaciuta. Il diminutivo operetta ha infatti già in sé il senso (tragico) di opera buffa, che è in un certo senso il destino paradossale della letteratura moraleggiante e pedagogica. Un’altra caratteristica della ‘pluralità delle forme’ è costituita dall’alternanza di prosa e di poesia, che trova riscontro già nei modelli classici di Esopo (per lo più prosa) e di Fedro (poesia). Le forme brevi di cui stiamo parlando possono sovente esprimersi sia in poesia sia in prosa e nella variante mediana e al contempo totalizzante della poesia in prosa o della prosa poetica. È il destino soprattutto delle favole e degli apologhi. Alberti e Leonardo si esprimono in prosa (già qui però si alternano, per ragioni storico-letterarie, il latino di Alberti e il volgare di Leonardo). Nel Seicento Tesauro si esprime in prosa. Nel Settecento dominano i favolisti poeti e sono i tanti già citati (ma Bertola scrive pure apologhi in prosa); qui funziona il modello magistrale delle favole di La Fontaine (1668-1693) e dei suoi racconti e novelle in versi (1665-1674), queste ultime in parte desunte da Boccaccio e da Ariosto (a proposito degli «apologhi graziosissimi» di Ariosto «mescolati» nell’Orlando furioso De Sanctis aveva parlato di «piccoli capilavori»). «Le opere lunghe mi fanno paura» (Favole, epilogo del sesto libro), «le opere più corte sono sempre le migliori» (10, 14), aveva scritto La Fontaine dedicando i propri versi a La Rochefoucauld, il principe della maxime. Nel Novecento si scrive in poesia e in prosa; chi nell’una (Trilussa, Folgore), chi nell’altra (Soffici, Pancrazi, Malerba); chi nell’una e nell’altra: Loria — 72 —

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in prosa le favole, in versi il bestiario; gli apologhi di Betocchi sia in prosa sia in poesia; le favole di Raffaele Crovi «in versi e in prosa»; Ennio Flaiano scrive apologhi e parabole in prosa; epigrammi narrativi in poesia. La narratività ha da sempre fatto parte della poesia. Può sembrare improprio per la lirica pura e per l’epigramma letteralmente lapidario. Eppure di tipici ‘epigrammi narrativi’ ve ne sono parecchi tra quelli di Ennio Flaiano, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani, Franco Fortini, Eugenio Montale17. La condizione della ‘narratività’, del piacere di raccontare una storia, anche minima, si affaccia quindi pure nei generi di solito considerati antinarrativi per eccellenza, specialmente per via della loro categorica brevità, come l’epigramma e l’aforisma; o per estensioni più lunghe il saggio (non il trattato) di modello baconiano (v. la recente Filosofia in trentadue favole di Ermanno Bencivenga, 1991; i minisaggi di Giorgio Agamben, Idea della prosa, 1985, miniatura dei saggi già ‘brevi’ all’Algarotti). La nozione di brevità merita qualche ulteriore approfondimento, pratico prima che teorico. Di seguito presento perciò una piccola esemplificazione di moralità narrative che vanno da una riga alla mezza pagina di stampa (adotto queste misure un po’ empiriche e approssimative, ma penso sufficientemente chiare per tutti). 1/2 righe Mi disse una signorina: legga le lettere di Iacopo Ortis. (Aldo Palazzeschi, Spazzatura) Uno scolaro vide un poeta: e si domandò atterrito: «Ma non bastava l’Iliade?». (Carlo Emilio Gadda, Il primo libro delle Favole) Buoni a nulla, ma capaci di tutto. (Leo Longanesi, La sua signora) Il cane abbaiava alla luna. Ma l’usignolo per tutta la notte tacque di paura. (Leonardo Sciascia, Favole della dittatura) La sentenza del medico al sapone La schiuma era il male che lo consumava tutto. (Arturo Loria, Settanta favole)

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Tra l’erba Nella raccolta pace del sangue le rifiorivano, di concordanza primaverile, i sensi. (Nicola Lisi, La mano del tempo) Le donne s’innamoravano sempre di quello seduto vicino a lui. (Learco Pignagnoli, Racconti brevissimi e Racconti così brevi che più brevi non si può)18

2/3 righe Invidia Del nibbio si legge che, quando esso vede i sua figlioli nel nido esser di troppa grassezza, che per invidia egli gli becca loro le coste e tiengli sanza mangiare. (Leonardo da Vinci, Bestiario) Una Lima ed un Ferro Un Ferro roso dalla Lima strideva, dicendo: Or che farai tu a uno che nulla ti appartenga, se a me, che sono del tuo lignaggio, ti mostri così nemica? (Bernardino Baldi, Apologhi) Lo stomaco e la bocca Dice lo stomaco alla bocca: «Tu sei femmina e ti cavi molti capricci; ma, a scontarli, poi tocca a me». (Aldo Spallicci, Il volto della Fauna)19

Qualche riga Trovando la scimia uno nidio di piccioli uccelli, tutta allegra appressatasi a quelli, e quali essendo già da volare, ne poté solo pigliare il minore. Essendo piena d’allegrezza, con esso in mano se n’andò al suo ricetto; e cominciato a considerare questo uccelletto, lo cominciò a baciare; e per lo isvecerato amore, tanto lo baciò e rivolse e strinse ch’ella gli tolse la vita. È detta per quelli che, per non gastigare i figlioli, capitano male. (Leonardo da Vinci, Favole) Il cannocchiale della Speranza Un giorno la Speranza per ciaschedun mortale fece un bel cannocchiale. Questo, come è d’usanza,

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dall’un de’ lati suoi ingrandisce l’oggetto oltremisura, dall’altro lato poi mostra piccola e lungi ogni figura. Se l’uom dal primo lato il guardo gira, il ben futuro mira; guarda dall’altro lato, e vede il ben passato. (Luigi Fiacchi detto il Clasio, Favole) Il cocchio Senti che strepito di ferree ruote! Flagel continuo l’aria percote: che fia? Discacciasi la via davante al rapidissimo rumoreggiante; già mille girano pe’ capi accesi nomi di principi, duchi e marchesi: quanti occhi fissansi! Quanti piè in moto!… Gli è un cocchio a dodici posti, ma vuoto. Molti fra gli uomini più chiari io vidi di cocchio simile ritratti fidi. (Aurelio de’ Giorgi Bertola, Favole)20 Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto la birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v’era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l’aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi. Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi dette retta. Mi disse: «Parliamo d’altro». (Federigo Tozzi, Bestie) Due amanti avevano intagliato le loro iniziali sopra la corteccia di un albero. E l’albero ingrossando, faceva sempre doventare più grandi e più visibili le iniziali. Ma essi non si amavano più, e tutto il loro amore era restato su l’albero. (Federigo Tozzi, Cose)21 MADRIGALE PER UN GENERALE INGLESE Ho visto a Firenze, nei primi giorni dell’occupazione alleata, un generale inglese. Era – caso raro – a piedi e ubriaco. Era meraviglioso.

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Alto, magro, asciutto, quasi eccessivamente razziato, camminava appoggiando la malferma persona a un bastoncino dall’impugnatura, a quanto mi parve, preziosa. Ogni passante poteva diventare per lui, senza volerlo, un nemico; fargli – cosa grave per chiunque; per un inglese, e un inglese del suo rango, mortale – perdere l’equilibrio. Ma, pure in quelle condizioni, che contegno, che stile! Reggeva appena, come l’Impero inglese. Ma reggeva. (Umberto Saba, Raccontini) FAVOLETTA. Se tu fossi (cosa, per tua fortuna, impossibile) completamente sprovveduto di istinto aggressivo, e una tigre ruggente ti si avventasse contro, ti lasceresti divorare senza nemmeno capire quello che ti sta succedendo. (La inventò per me, e per la necessità di una sua dimostrazione, il dott. Weiss.) (Umberto Saba, Scorciatoie, 93)

«VOI TRIESTINI – mi diceva ieri Giacomo Debenedetti – siete veramente figli del vento. È per questo che amate tanto moralità e apologhi, favole e favolette. È perché sei nato nella città della bora che scrivi SCORCIATOIE.» Quanto piacere mi avrebbe dato un giorno questa sua favoletta! Che buon augurio ne avrei tratto per il mio amico e per me! Ma oggi… Ma dopo Maidaneck… (Umberto Saba, Scorciatoie, 26)22 Apologo – Non ho pace! udii gridare nel vortice, e pensieroso fremetti temendo un nuovo disagio. Poiché allora avevo perduto la tranquillità, ma non la pace; né avevo chiesto che cosa fosse. Cosiffatto fu il grido che l’orizzonte si aprì per contenerlo, e il turbine sfociò nel sereno: di là s’aprirono gli immancabili spettacoli di un sole intemerato. E pullularono guerre di dardi che si rimandavano le loro scaglie luminose per entro il potente effluvio della pace, che s’era sparsa e aveva perduto il nome. Fu breve il tempo fra il grido e le apparizioni: io avevo visto e udito: nulla appreso. (Carlo Betocchi, Di alcuni nonnulla) Apologo Il tempo faceva le sue riverenze all’eternità; ma lei, sogghignando, mescevagli da un colmo cratere il sonno che glie la faceva parer così viva, in quel suo nulla. (Carlo Betocchi, Poesie del sabato)

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Una gallina un po’ incerta andava in giro per l’aia brontolando: «Chi sono io? Chi sono io?». Le compagne si preoccuparono perché pensavano che fosse diventata matta, finché un giorno una le rispose: «Una cogliona». La gallina un po’ incerta da quel giorno smise di vaneggiare. (Luigi Malerba, Le galline pensierose)23

L’aforisma può essere talvolta concepito come la morale conclusiva di una storia, prelevato per estrazione dal tessuto narrativo, ed essere quindi letto come la morale senza il racconto, secondo quella tecnica del ‘taglio’ di tutti i ragionamenti precedenti e preparatori che per Bacone contraddistingueva l’aforisma (Of the Proficience and Advancement of Learning Divine and Human, 2, 17, 7). Così fa Emanuele Tesauro nei suoi Aforismi politici fondati sopra le favolette di Esopo frigio (1646), di cui segue qualche esempio. Tesauro divide l’operetta in due parti: da un lato le favole con morale finale, denominata allegoria; dall’altro e in precedenza rispetto a queste, le morali o allegorie sole, riunite sotto il nome complessivo di aforismi politici e accostate per temi (religione, prudenza, fedeltà e veracità, avarizia e cupidigia ecc.). Quando duo piccoli contrastano, il potente fa suo profitto. (favola 3) Sotto onesti sembianti si fanno inganni. (favola 26) Da certe persone più si ottiene con le male che con le buone. (favola 74)24

Nelle moralità narrative possiamo avere una morale esplicita o implicita. Il primo caso rientra nell’esempio appena fatto di Tesauro, in linea con la tradizione esopica. Esemplari i finali di Tommaso Crudeli: Voi, che in corte vivete, apprendete, apprendete: non siate troppo aperti adulatori, nemmen troppo sinceri parlatori; e se volete alfin passarla netta, una scusa o ’l silenzio sarà sempre per voi buona ricetta. (Il Leone e la Volpe, vv. 47-53)

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Lettor, tienti la favola a memoria, ché se praticherai pe’ tribunali ti passerà la favola in istoria. (La Donnola e il Gatto, vv. 78-80)25

Abbiamo però anche favole e apologhi senza morale o con morale implicita. Sono quelli preferiti da Hegel e sono di questo tipo gli apologhi di Leon Battista Alberti. O pensiamo, per venire più vicino a noi, a Tozzi, agli apologhi di Bestie, Cose, Persone; a quelli di Ferruccio Masini, contenuti sia negli Aforismi di Marburgo (1983) sia nei dialoghetti zen di Pensare il Buddha (1988); questo dei dialoghetti zen (o dei dialoghetti in generale, anche sul modello di Lichtenberg: ne faceva ampio uso Dossi, poi Soffici, fino a Manganelli ecc.) è un sottogenere piuttosto diffuso nel secondo Novecento; e anche per le Galline pensierose di Luigi Malerba (1980) Italo Calvino ha parlato di «vertigine metafisica degli apologhi “zen”». In questi testi il giudizio è di solito indiretto, velato e mediato da un piano narrativo che ha una propria autonomia e che nello stesso tempo è anche un geroglifico da interpretare («un enigma» lo definirebbe Sergio Solmi), quale è propriamente «la scena cosiddetta postmoderna» (Ferruccio Masini); del resto, afferma Ugo Bernasconi, «Tutta la natura è geroglifica. Raffigura una cosa, significa un’idea»26. Sembra di avvertire il decisivo influsso del pensiero di Bacone: «Come i geroglifici son sorti prima delle lettere, così le parabole han preceduto l’argomentazione razionale. E ancor oggi le parabole hanno, come sempre, una grande importanza; perché nessuna argomentazione è tanto evidente e nessuna similitudine è tanto verace, quanto una parabola»27. Da qui forse la predilezione per il racconto e la figurazione narrativa, più suggestivi e fantasiosi del ragionamento diretto. Il racconto è allegoria, di cosa però non è dato sempre sapere e intuire. D’altra parte anche Giordano Bruno parlava di «misterio o parabola», da essere interpretato «per metafora» (De l’infinito, universo e mondi, Dialogo 3), accostando pure altrove «favole», «raggioni in parabola», «enigmi», «misterii» (Cabala del Cavallo pegaseo, Dialogo 1). Il significato di metafora e di enigma è tra l’altro contenuto anche nell’ebraico mashal (parabola), che indica significativamente «tanto il racconto di un’allegoria quanto il governare, quasi che l’interesse per i paragoni fosse affare da uomini e strumento di potere» (Giulio Busi)28. Gianvincenzo Gravina scriveva che chi «spogliasse le favole di misteriosa significazione ed insegnamento ascoso, quegli — 78 —

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estinguerebbe lo spirito e la virtù vitale della poesia» (Della ragion poetica, lib. 2, dedica). In quest’ottica, per la contemporaneità è diventato magistrale il modello dei poemetti in prosa dello Spleen di Parigi di Baudelaire, che possono sfociare nella prospettiva demonica e infernale di Rimbaud o in quella ironicamente corrosiva di Renard. Emblematico l’invito alla brevità formulato dal protagonista Des Esseintes nel romanzo À Rebours di Huysmans (1884, 1903), che indica nel poemetto in prosa il modello prediletto: Di tutte le forme letterarie, questa del poemetto in prosa, era la forma che Des Esseintes prediligeva. In mano ad un alchimista di genio, il poemetto in prosa poteva, a suo avviso, racchiudere nel suo breve giro, sotto specie di essenza, l’efficacia del romanzo, facendo a meno delle sue lungaggini d’analisi e delle sue superfluità descrittive. Sovente Des Esseintes s’era chiesto se non fosse, per quanto arduo, possibile condensare un romanzo in poche righe, distillate al punto da contenere il succo di centinaia di pagine che vengon spese immancabilmente a dare l’ambiente, a disegnare i caratteri, a renderli persuasivi, con grande rincalzo di osservazioni e di minuti particolari. Allora le parole scelte si presterebbero così poco a sostituzioni da supplire tutte le altre; l’aggettivo, collocato in posizione così ingegnosa e definitiva da non poter essere spostato di dov’è, schiuderebbe al lettore prospettive da farlo fantasticare per settimane sul suo significato, preciso e multiplo insieme; gli darebbe il presente, gli permetterebbe di ricostruire il passato e d’indovinare l’avvenire spirituale dei personaggi, rivelati dai bagliori di quell’unico epiteto. Così concepito, compendiato così in due o tre pagine, il romanzo diverrebbe una comunione di pensiero fra un magico scrittore ed un lettore ideale; una collaborazione di spiriti consentita fra dieci creature d’elezione sparpagliate per il mondo, una gioia offerta ai raffinati e solo ad essi accessibile. Insomma il poemetto in prosa rappresentava agli occhi di Des Esseintes il succo concreto, l’osmazoma della letteratura, l’olio essenziale dell’arte. Questo nutrimento sostanziale condensato in una goccia, già si trovava in Baudelaire; come pure nei poemetti di Mallarmé ch’egli si centellinava con sì intenso godimento.29

In questa linea vedrei, pur con aspetti differenti, le scorciatoie e raccontini di Saba (1946), le favole della vita di Peter Altenberg (1908), i caratteri del Testimone auricolare di Canetti (1974), i raccontini di Thomas Bernhard, modello per molti scrittori italiani del secondo Novecento. — 79 —

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La favola e la parabola compaiono anche come citazione, ripresa, riscrittura, reinvenzione di celebri modelli. È quanto fa Vincenzo Cardarelli con le sue Favole della Genesi (e Favole indie della Genesi trascrive anche Ungaretti dal suo soggiorno brasiliano). Quella evangelica del figliol prodigo è forse la parabola più rivisitata, riscritta da Gabriele d’Annunzio, Ennio Flaiano, Sergio Quinzio. D’Annunzio ha riscritto varie parabole evangeliche (La parabola delle vergini fatue e delle vergini prudenti, «Nuova Antologia» 1897; La parabola dell’uomo ricco e del povero Lazaro, «Nuova Antologia» 1898; La parabola del figliuol prodigo, «Il Mattino» 1898), rovesciando la morale evangelica e proponendo un Vangelo secondo l’Avversario30. Si tratta di contro-parabole, dal percorso e dal finale alternativo, come avviene anche nelle versioni proposte da Flaiano e da Quinzio31. Ecco quella di Flaiano: La sera del ritorno del Figliol prodigo tutti erano stanchi, per le emozioni e il gran cibo. A tavola, sino a tardi, mangiando i resti del vitello grasso, con il solito vino che aveva acceso i discorsi e ora invitava al canto. Solo il figliol prodigo taceva. Era alla destra del padre, con le dita arrotolava palline di mollica, ogni tanto volgendosi ai commensali con un sorriso di umile bontà. Era già notte quando la festa finì. Per qualche momento l’aia risuonò dei saluti degli invitati, e di canzoni. Il figliol prodigo trovò lenzuola ruvide e fresche, il materasso rifatto e vi affondò in un sonno pieno di rimorsi che si andavano placando. Alle otto del mattino dormiva ancora e la casa era in faccende. Il padre disse che bisognava lasciarlo dormire. Nessuno gli rispose. Alle dieci si sentì la voce del figliol prodigo che chiamava dalla stanza, chiedendo la colazione e il giornale. Una giovane sguattera mormorò allora, ma non tanto a bassa voce da non essere sentita: «Ci risiamo». Il padre uscì verso la corte.

Le variazioni e le integrazioni vanno per lo più nella direzione di mettere in discussione il lieto fine evangelico per introdurre invece un finale fallimentare, in cui il male nelle sue varie versioni (in particolare quella dell’accidia) vince sul bene. E si legga, sempre in questa prospettiva, la rivisitazione parodica della parabola del seminatore dello specialista Luciano Folgore: Il buon seminatore Modernizzato il buon seminatore, volava sopra i campi in aeroplano e aperto il sacco, al rombo del motore,

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piover faceva dentro i solchi il grano. Scesero i chicchi sulla zolla agreste e nacquero le messi dell’estate, ma alcuni grani cadder sulle teste dei chiacchieroni e nacquer le patate. Da tutto ciò colui che se ne intende può dedurre con spirito sereno che il prodotto dipende poco dal seme e molto dal terreno.32

Di grande interesse è il rapporto tra sogni e parabole. Le favole e le allegorie moderne sono come ‘sogni’ (si pensi a Kafka); essi richiederebbero un interprete d’eccezione, come il patriarca biblico Giuseppe. Significativa la frequenza con cui i sogni entrano a far parte della letteratura del Novecento, non tanto come elemento romanzesco o poetico o saggistico (questo è abbastanza scontato) quanto come forma e moralità narrativa in sé, sottogenere particolare delle forme brevi e aforistiche (se ne potrebbe fare un’interessante antologia). Basti citare Renard, Valéry, Kafka, Canetti, ai quali aggiungerei Dada e i surrealisti. In Valéry la riflessione sul senso e le modalità del sogno, che occupa una parte consistente dei suoi Quaderni, prevale sul racconto dei sogni; nel Renard del diario, invece (come del resto in Kafka), il racconto prevale sulla teoria. Nella letteratura aforistica italiana del Novecento si possono citare i racconti di sogni di Ardengo Soffici, Umberto Saba, Leo Longanesi, Alberto Savinio, Sergio Solmi, Camillo Sbarbaro, Ennio Flaiano, Franco Donatoni, Sergio Quinzio, Gesualdo Bufalino, Stefano Lanuzza, Piergiorgio Bellocchio, Alfonso Berardinelli, Francesco Burdin. Due esempi, da Dalla gola del leone di Sergio Quinzio (1980) e dal Malpensante di Gesualdo Bufalino (1987): In sogno. Cammino lungo i binari attraverso tante buie gallerie. Poi vado a trovare dei conoscenti: sono piccoli borghesi ebrei, che in realtà non conosco (15 dicembre). Un sogno: porte girevoli d’un hotel e io che giro, prigioniero, con loro. Finché spezzo un vetro con un pugno e mi sveglio.33

Quinzio cerca di dare ragione della necessità di questa annotazione-narrazione: — 81 —

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Ho pensato di annotare i miei sogni quando mi sono accorto di aspettare ormai più cose dal sonno che dalla veglia. Ma, come sapeva Giobbe, il sonno e i sogni non vanno da chi li cerca come sollievo alla pena del giorno (7, 13-14). I miei sonni infatti sono scarsi, rotti, spesso vuoti, e i miei sogni sono penosi, e più spesso deboli, quasi come ciò che vivo nelle ore di veglia. Forse la stessa intenzione di annotarli guasta i sogni e allontana quello potente e dolce di cui ho consumato nostalgia e speranza (Immacolata Concezione 1975).34

Scrive Francesco Burdin in un aforisma sul sogno di Un milione di giorni (2001): I sogni potrebbero essere una quotidiana, graduale preparazione alla morte. Il loro linguaggio assurdo, frammentario, interrotto, sarà decifrato solo alla fine.35

Il sogno è una delle tante parabole (uno dei tanti geroglifici) da interpretare. Il problema è che nonostante Freud al sogno contemporaneo, come in genere alle forme brevi, manca la sicurezza interpretativa di Giuseppe. Anche per il sogno si ripresenta la caratteristica bifronte della forma breve che può essere sia forma in sé autonoma, inserita in contesti di altre forme simili (che si possono volta a volta chiamare ‘raccolte di’ o, sul piano aggettivale, ‘aforistiche’) sia come parte congrua di un discorso più ampio, principalmente poetico-narrativo e romanzesco. Questo è un aspetto che riguarda tutte le forme brevi36. Manzoni non ha mai scritto raccolte di aforismi, ma i Promessi sposi ne sono pieni e di bellissimi, per cui se ne sono ricavate, specie nell’Ottocento, ricche antologie. In questo caso l’aforisma non vive come forma autonoma ma inserito strutturalmente nel contesto romanzesco. L’Ottocento e il primo Novecento sono da questo punto di vista ricchissimi: penso ai numerosi aforismi inseriti nelle opere di Verga, Capuana, De Marchi, Tarchetti e soprattutto d’Annunzio. In modo quasi paradossale potremmo leggere la forma breve come espressione mimetica dell’universo, mondo in miniatura; e con gli attimi-forme brevi della vita costruire a pezzi e voci un dizionario frammentario dell’esistenza. Illuminante quanto si legge nella presentazione del primo Sillabario di Goffredo Parise (1972): «Questo libro è un ideale sillabario o libro di lettura sui sentimenti degli uomini. Per ogni lettera dell’alfabeto sono stati scelti uno — 82 —

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o più sentimenti dell’uomo, e illustrati in forma di esempio o di breve racconto». La narrazione ‘breve’ o ‘brevissima’ potrebbe quindi rappresentare, anche visivamente, la riassuntiva, problematica ed emblematica identificazione con la ‘brevità della vita’. Chiudo perciò con Dino Buzzati, straordinario inventore di apologhi e di paradossi. Il seguente dialoghetto, intitolato Un caso interessante, è tratto da Siamo spiacenti di (1960)37, il suo zibaldone aforistico. La ragazza disse: «A me piace la vita, sa?» «Come? Come ha detto?» «La vita mi piace, ho detto» «Ah sì? Mi spieghi, mi spieghi bene» «A me piace, ecco, e andarmene mi rincrescerebbe moltissimo» «Signorina, ci spieghi, è terribilmente interessante… Su, voi, di là, venite anche voi a sentire, la signorina qui dice che la vita le piace!».

NOTE 1 J. RENARD: «Cosa prepari? “Due o tre frasi corte, e qualche lungo sogno”» (dal Diario, 7 gennaio 1899, trad. it. di O. Vergani, Milano, Se, 1989, p. 151); E. CANETTI: «Frasi in una sola parola. Frasi interminabili» (da Il cuore segreto dell’orologio. Quaderni di appunti 1973-1985, trad. it. di G. Forti, Milano, Adelphi, 1987, p. 75). 2 L. LONGANESI, Parliamo dell’elefante. Frammenti di un diario (1947), in Scrittori italiani di aforismi, a cura di G. RUOZZI, II, Milano, Mondadori, 1996, pp. 436-437; L. LONGANESI, La sua signora. Taccuino (1957), ivi, p. 449. 3 Ivi, pp. 437 e 462. 4 A. ONOFRI, Il lampo, «La Voce», VIII, 1 (31 gennaio 1916), p. 57. Per un orientamento minimo sulla natura delle forme brevi vd. M. T. BIASON, Retoriche della brevità, Bologna, Il Mulino, 2002; La scrittura aforistica, a cura di G. CANTARUTTI, Bologna, Il Mulino, 2001; L. CELLERINO, Sentieri per capre. Percorsi e scorciatoie della prosa d’invenzione morale, L’Aquila, Japadre, 1992; La lingua scorciata: detto, motto, aforisma, a cura di G. FOLENA, «Quaderni di Retorica e Poetica», 2, 1986; W. HELMICH, Der moderne französische Aphorismus. Innovation und Gattungsreflexion, Tübingen, Niemeyer, 1991; A. JOLLES, Forme semplici (1930), in I travestimenti della letteratura. Saggi critici (1897-1932), a cura di S. CONTARINI, Milano, Bruno Mondadori, 2003; J. LAFOND, Les formes brèves de la prose et le discours discontinu, Paris, Vrin, 1984; A. MONTANDON, Les formes brèves, Paris, Hachette, 1993; G. NEUMANN, Der Aphorismus. Zur Geschichte, zu den Formen und Möglichkeiten einer literarischen Gattung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1976; C. ROSSO, La «Maxime». Saggi per una tipologia del-

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la critica (1968), Introduzione di W. HELMICH, Bologna, Il Mulino, 2001; G. RUOZZI, Forme brevi. Pensieri, massime e aforismi nel Novecento italiano, Pisa, Goliardica, 1992; Teoria e storia dell’aforisma, a cura di G. RUOZZI, Milano, Bruno Mondadori, 2004. Alla Tipologia della narrazione breve in Italia è stato dedicato il convegno di studio promosso dalla Società italiana per lo studio della modernità letteraria (MOD), Gardone Riviera, 5-7 giugno 2003. 5 E. PASQUINI, Lezioni di letteratura italiana. Strutture narrative nel «Decameron» del Boccaccio, Bologna, Esculapio, 1989, pp. 312-313. 6 G. MANGANELLI, Esopo (1981), in ID., Antologia privata, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 144-145. 7 ID., Tozzi (1987), ivi, p. 186. 8 G. W. F. HEGEL, Estetica, a cura di N. MERKER, I, Torino, Einaudi, 1976, pp. 427-446. 9 E. PASQUINI, Lezioni di letteratura italiana. Strutture narrative nel «Decameron» del Boccaccio, cit., pp. 250-251; sul tema vd. «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Pisa, 26-28 ottobre 1998), a cura di G. ALBANESE, L. BATTAGLIA RICCI, R. BESSI, Roma, Salerno Editrice, 2000. 10 Cfr. L. CHARBONNEAU-LASSAY, Il Bestiario del Cristo (1940), Roma, Arkeios, 1994, 2 voll.; F. MASPERO, Bestiario antico, Casale Monferrato, Piemme, 1997; F. ZAMBON, L’ alfabeto simbolico degli animali. I bestiari del Medioevo, Milano, Luni, 2001. 11 Cfr. C. DELCORNO, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1989. 12 Cfr. Bestiari del Novecento, a cura di E. BIAGINI e A. NOZZOLI, Roma, Bulzoni, 2001. 13 Introduzione a Novellieri del Cinquecento, a cura di M. GUGLIELMINETTI, I, MilanoNapoli, Ricciardi, 1972, p. XXI. 14 G. BUFALINO, Il Malpensante, Milano, Bompiani, 1987, pp. 79, 128, 70; E. FLAIANO, Diario degli errori (1960), in ID., Opere, I, Scritti postumi, a cura di M. CORTI e A. LONGONI, Milano, Bompiani, 1988, p. 337. 15 F. MORETTI, Atlante del romanzo europeo. 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, pp. 59-61. 16 Mi sono soffermato sulla distinzione in Forme proprie e improprie dell’aforisma nella tradizione letteraria italiana, in La scrittura aforistica, cit., pp. 164-165. 17 Cfr. Epigrammi italiani, a cura di G. RUOZZI, Torino, Einaudi, 2001. 18 A. PALAZZESCHI, Spazzatura, «Lacerba» 28 febbraio 1915 (in Scrittori italiani di aforismi, II, cit., p. 268); C. E. GADDA, Il primo libro delle Favole (1952), in ID., Saggi, giornali, favole e altri scritti, a cura di C. VELA ET AL., II, Milano, Garzanti, 1992, p. 32 (questa favola era apparsa nelle Favole per il Tesoretto, «Il Tesoretto. Almanacco delle lettere 1939», p. 223); L. LONGANESI, La sua signora. Taccuino (1957), in Scrittori italiani di aforismi, II, cit., p. 449; L. SCIASCIA, Favole della dittatura (1950), in ID., Opere 1984-1989, a cura di C. AMBROISE, Milano, Bompiani, 1991, p. 962; A. LORIA, Settanta favole, Firenze, Sansoni, 1957, p. 60; N. LISI, La mano del tempo, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 21; L. PIGNAGNOLI, Racconti così brevi che più brevi non si può, «Il Semplice», 5, 1997, p. 115. 19 L. DA VINCI, Scritti letterari, a cura di A. MARINONI, Milano, Rizzoli, 1980, p. 97; B. BALDI, Gli epigrammi inediti, gli apologhi e le ecloghe, a cura di D. CIAMPOLI, II, Lanciano, Carabba, 1914, p. 26; A. SPALLICCI, Il volto della Fauna (1969 ca.), a cura di A. CASTRONUOVO, Roma, Stampa Alternativa, 2001, p. 15.

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SCRITTURE AFORISTICHE E MORALITÀ NARRATIVE 20 L. DA VINCI, Scritti letterari, cit., p. 83; L. FIACCHI e A. DE’ GIORGI BERTOLA in Lirici del Settecento, a cura di B. MAIER, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 645, 777. 21 F. TOZZI, Opere, a cura di M. MARCHI, Introduzione di G. LUTI, Milano, Mondadori, 1993, pp. 602, 642. 22 U. SABA, Scorciatoie e raccontini (1946), Milano, Mondadori, 1963, pp. 136, 75-76, 34. 23 C. BETOCCHI, Di alcuni nonnulla. Apologhi, Sora (Fr), Edizioni dei Dioscuri, 1979, p. 24; Poesie del sabato, Milano, Mondadori, 1980, p. 103; L. MALERBA, Le galline pensierose (1980), Milano, Mondadori, 1994, p. 15. 24 E. TESAURO, La politica di Esopo frigio (1646), a cura di D. ARICÒ, Roma, Salerno Editrice, 1990, pp. 40, 30, 31; gli aforismi si possono leggere anche in Scrittori italiani di aforismi, cit., I, 1994, pp. 679-686. 25 In Lirici del Settecento, cit., pp. 216-224. 26 S. SOLMI, Ricordi su Raffaele Mattioli, in ID., Opere, I, 2, Meditazioni e ricordi, a cura di G. PACCHIANO, Milano, Adelphi, 1984, p. 290; F. MASINI, Aforismi di Marburgo, Milano, Spirali, 1983, p. 74; U. BERNASCONI, Parole alla buona gente, a cura di C. MARTIGNONI, Pistoia, Niccolai, 1987, p. 275. 27 F. BACONE, Della dignità e del progresso delle scienze, II, 13, in ID., Opere filosofiche, a cura di E. DE MAS, II, Bari, Laterza, 1965, p. 124. 28 G. BUSI, Un Salomone da favola, «Il Sole-24 Ore», 24 agosto 2003, p. 25. 29 J.-K. HUYSMANS, Controcorrente, trad. it. di C. Sbarbaro, Milano, Gentile, 1944. 30 G. D’ANNUNZIO, Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile (1924), in ID., Prose di ricerca, di lotta, di comando…, II, Milano, Mondadori, 1962, pp. 60-138. 31 E. FLAIANO, «Corriere della Sera», 1.3.1969 (poi ne La solitudine del satiro, in ID., Opere, I, Scritti postumi, cit., p. 678; una precedente versione della parabola in Diario degli errori [1964], cit. p. 348); S. QUINZIO, Dalla gola del leone, Milano, Adelphi, 1980, pp. 9192; nello stesso libro (pp. 91-97) Quinzio rivisita anche le parabole evangeliche del buon samaritano, dei vignaioli omicidi, delle dieci vergini, del tesoro, del banchetto nuziale, della pecora smarrita. 32 L. FOLGORE, Poesie scelte. Parodie, liriche, favole, epigrammi, Milano, Ceschina, 1940, p. 204. 33 S. QUINZIO, Dalla gola del leone, cit., pp. 106-107 (altri racconti di sogni alle pp. 86, 109-112, 114-116, 118-120, 122-123, 126-129); G. BUFALINO, Il Malpensante, cit., p. 98 (altri racconti o «frammenti» o «reliquie» di sogno a pp. 23, 68, 70; e altri in Bluff di parole, Milano, Bompiani, 1994, p. 80). 34 S. QUINZIO, Dalla gola del leone, cit., p. 106. 35 F. BURDIN, Un milione di giorni, Venezia, Marsilio, 2001, p. 251; v. anche A. MORANDOTTI, minime, Milano, Scheiwiller, 1979, p. 147: «Cercare spiegazioni dei sogni è lo stesso nonsenso come chiederne della realtà». 36 Sul piano concettuale, sulla qualità «bifronte» della scrittura aforistica si legga F. MASINI, Aforismi di Marburgo, cit., p. 119: «L’aforisma deve essere sfaccettato o almeno bifronte. Con un volto impone severamente il silenzio, con l’altro invita a far baldoria. Deve sfuggire alla cattura: non può essere in alcun modo irretito nell’unilateralità del concetto. È insofferente all’explanatio more geometrico, è insofferente e basta. Conserva gelosamente il suo

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margine d’ombra: è lì che nasconde la sua verità. La implicatio dell’aforisma ricorda il movimento di cui parla Musil, l’einfalten. La spudoratezza dell’aforisma è solo apparente anche se disarmante: nell’inoltrarsi nell’immediato il suo passo è ingannevole». Sul «modo bifronte» di scrutare il mondo, «proprio di tutte le grandi conoscenze», cfr. F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano, 1, 37 (Milano, Adelphi, 1982, p. 48, nella trad. it. di S. Giametta; testo originale: «mit jenem Doppelgesichte in die Welt sehend, welches alle grossen Erkenntnisse haben»); vd. inoltre R. BARTHES, La Rochefoucauld: «Riflessioni, ovvero Massime e Sentenze»: «La massima è un essere bifronte, ora tragico, ora borghese; nonostante il suo impianto austero, la sua scrittura sferzante e pura, essa è essenzialmente un discorso ambiguo, situato sulla linea di confine di due mondi. Quali mondi? Possiamo dire: quello della morte e quello del gioco» (in Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, trad. it. di R. Guidieri, Torino, Einaudi, 1982, p. 85). 37 D. BUZZATI, Siamo spiacenti di (1960), Milano, Mondadori, 1975, p. 95.

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RICCARDO BRUSCAGLI NARRARE IN VERSI 1. La narrativa italiana in versi, e quindi la narrativa italiana antica, premoderna (insomma Pulci, Boiardo, Ariosto, Tasso) da una parte sembra cadere perfettamente entro la dimensione, come è stato anche di recente ripetuto, dell’originario: e quindi scatenare la «nostalgia romantica» o addirittura «l’ossessione» dell’originario1; di «quelle cose», per dirla con Leopardi, «secolari e mondiali», fra le quali accanto a Omero e Dante compare appunto, nella pagina leopardiana, l’Ariosto2. Incombe, lo so, la citazione inevitabile dall’Estetica di Hegel da cui ogni discorso sull’epos antico, premoderno, discende: il romanzo moderno, in prosa, come «moderna epopea borghese», sostitutiva e succedanea dell’epos antico, in versi. Ma scanso Hegel, e cerco domestico rifugio dietro – addirittura – Giosue Carducci. Il quale, chiamato a salutare i «popolani premiati» della Scuola serale e festiva della Lega bolognese per l’Istruzione del Popolo, celebrando con acconce parole «l’avvenimento della plebe» come «necessità storica», di fronte alla sua platea di «operai, coloni, ortolani, lavandai […] mestieranti, artigiani […] agricoltori, giornalieri, lavoranti della campagna» proclamava solennemente l’avvento futuro di una nuova letteratura – letteratura di popolo – e guardando indietro, alle fasi storiche testé attraversate, dichiarava – anche lui – che «alla epopea successe il romanzo»3. Dunque da una parte Pulci, Boiardo, Ariosto, Tasso, i culmini della nostra narratività in versi, sembrano associati col mito delle cose «secolari e mondiali», con l’epos in versi poi sostituito dal romanzo in prosa, con la ‘poesia originaria’. Tanto che, ancora di recente, Asor Rosa ha potuto identificare, e con ragione, nella potente forza suggestiva di quella poesia una delle cause della lentezza, dello stento, del ritardo con cui la tradizione del romanzo moderno si afferma – dubitosamente si afferma – nella nostra letteratura4. — 87 —

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D’altra parte, chiunque abbia un po’ di pratica della narratività antica sa quanto si tratti di un genere di accidentata canonizzazione, un genere discreditato e marginalizzato, su cui potrebbe transitare tranquillamente tutto quello che Walter Siti ha scritto sul «romanzo sotto accusa»5. Il romanzo come invenzione arbitraria, di pura evasione fantastica, che cerca i consensi di un pubblico volgare: e allora ecco la scomunica fatale di Petrarca per «quei che le carte empion di sogni: / Lancillotto, Tristano e gli altri erranti / ove convien che ’l vulgo errante agogni” (Triumphus Cupidinis); il romanzo come genere moralmente corruttore: e qui basterà ricordare il bacio di Lancillotto che dalle pagine del libro trasmigra nella vita dei due lettori, Paolo e Francesca, trascinandoli in un turbine di passione che li condurrà alla «bufera infernal, che mai non resta»; il romanzo come «chose femelle», come genere precipuamente femminile, genere ‘bovarista’ per eccellenza: e qui cadono a piombo le passioni letterarie della vedova boccacciana del Corbaccio: […] le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi e le canzoni latine, ne’ quali ella legge di Lancellotto e di Ginevra e di Tristano e d’Isotta; e le loro prodezze e i loro amori e le giostre e i torniamenti e le semblee. E tutta si stritola quando legge Lancellotto o Tristano o alcuno altro con le loro donne nelle camere, segretamente e soli, ragunarsi, sì come colei alla quale pare vedere ciò che fanno e che volentieri, come di loro imagina, così farebbe; […]

Il romanzo come genere letterariamente inferiore: e qui è tutta la querelle cinquecentesca Ariosto/Tasso che potrebbe essere benissimo riletta come primo grande dibattito sul romanzo, in accusa o in difesa del romanzo; soprattutto in accusa: non dimentichiamo che nel fuoco della polemica il Furioso poteva venire bollato, nel Carafa, come «falso di modello», e che un difensore dell’Ariosto come il Giraldi pure non esitava a definire la materia cavalleresca usuale – «le composizioni […] finte di Orlando e Rinaldo» – come materie plebee, «che si danno a descriverle insino i ciabattai»6. Dunque, un primo, legittimo interrogativo: il premoderno italiano in versi va iscritto sotto la rubrica di una nobiltà originaria o del discredito romanzesco? Ma il discorso rischia di essere ancora un poco più complicato. Noi infatti equivochiamo comodamente sulla ‘poesia’ dell’originario, scambiandola senza dirlo con la poesia in senso tecnico, con la narratività in versi, che viene molto comodo contrapporre a quella recenziore, in prosa, al ‘romanzo’ in senso moderno. Ma il romanzesco antico è in prosa e in versi, e la riduzione — 88 —

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prosastica del moderno non spezza il legame genetico con quel romanzesco, come Huet sapeva molto bene: Un tempo, col nome di romanzo, non si indicavano soltanto quelli che erano scritti in prosa, ma più spesso ancora quelli che erano scritti in versi. Il Giraldi e il Pigna, suo allievo, nei loro trattati De’ Romanzi, si può dire che non ne riconoscano altri. E propongono il Boiardo e l’Ariosto come modelli. Ma oggi ha prevalso l’abitudine inversa, e propriamente son chiamate romanzi le Storie finte d’avventure amorose, scritte in prosa con arte, per il piacere e l’istruzione dei lettori.7

Il narrare antico in versi rappresenta dunque un insieme testuale cronologicamente identificabile (il premoderno), ma su cui non si può rovesciare anacronisticamente la nostra coscienza moderna di un romanzesco esclusivamente in prosa, sentito come totalmente sostitutivo dell’epica versificata. Il fatto è che il narrativo italiano premoderno è in versi e in prosa, e il significato di quello in versi, io credo, può essere oggi compreso meglio se non si taglia questo legame profondo fra i due insiemi testuali. Naturalmente, ho saltato un passaggio cruciale, che rischia di rendere il mio discorso più ovvio di quanto non vorrei che fosse. Il fatto che ci sia un narrativo in versi antico insieme e contemporaneo ad un narrativo in prosa antico non fa notizia. Ma diventa significativo quando le due modalità formali si sovrappongono in quanto a materia del narrare. Si sta parlando insomma della stessa materia, di Francia o più ancora di Bretagna; una materia che sarebbe ovviamente fallace voler vedere come un narrativo in versi. Quella materia, in antico, fu in versi e in prosa, ed è il profilo di scambio fra le due modalità che rende ragione dell’esistenza e delle mutazioni e dell’organizzazione formale dell’una e dell’altra. In altre parole, non si può parlare di un narrativo in versi senza dire che si sta parlando di un narrativo premoderno, originario; che questo narrativo è prevalentemente di materia cavalleresca; che questo narrativo s’intende meglio, se non esclusivamente, in un rapporto di doppia partita fittissima, di dare e avere, tra materia cavalleresca in prosa e in versi. 2. Nella lista delle ‘forme fondanti’, nei volumi einaudiani dedicati al romanzo, non c’è neanche un titolo italiano. Ne I prototipi e i generi8 ci sono le Etiopiche di Eliodoro, ci sono Le maqa-ma-t di Hamadha-nı-, ma si salta dal Conte du Graal di Chrétien (1190) al Lazarillo De Tormes (1553). Per il discorso che si sta qui facendo, non c’è né Boiardo, né Ariosto (Tasso sarebbe — 89 —

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già un altro discorso). Mi pare un abbaglio spettacolare. Tacitamente, si vuol dire che il narrare italiano antico in versi non costituisce un modello significativo, un prototipo. E invece, il romanzo in ottave italiano – forse meglio ‘all’italiana’ – inventa, alla fine del Quattrocento, un modello unico, originale e mai più ripetuto di narrazione, che dura una brevissima stagione, identificandosi di fatto soltanto con il Boiardo e, già parzialmente, con l’Ariosto (dal 1483 al 1533: cinquant’anni) ma che rappresenta il contributo più alto (insieme con la novella borghese) offerto dalla civiltà letteraria italiana alla narratività d’Occidente. Prima di arrivare a descrivere questo modello, vorrei delineare brevemente la doppia partita di genere e di forme di cui quel modello è l’esito. Fin dall’inizio, è una doppia partita apertissima. Nel Boccaccio – nel Boccaccio non novelliere – la narratività in versi non si pone affatto, nonostante lo spicco della ambiziosa iniziativa ‘epica’ del Teseida, come un’opzione dominante. Nell’ambito di una misura ‘larga’, romanzesca, o almeno non novellistica, è evidente che il sistema boccacciano si presenta altamente convertibile, dalla prosa fluviale del Filocolo alle ottave del Teseida e del Filostrato, alla prosa di nuovo della Fiammetta alle ottave del Ninfale al prosimetro di Ameto alla prosa del Corbaccio. Certo, la convertibilità del sistema corrisponde ad una assai ampia varietà di materie: non c’è un equivalente prosastico della materia ‘epico-cavalleresca’ del Teseida. Però la storia del Filocolo si legge anche in forma di cantare; Filostrato e Fiammetta svolgono materia simile e non rilutterebbero, credo, ad una comune definizione di romanzo sentimentale; entrando nel vivo dei testi, le tecniche narrative dimostrerebbero, ad un’analisi attenta, un notevole grado di permeabilità versi/prosa: soprattutto nella circostanza cruciale di rappresentazione della passione, in questi amori sempre raccontati ‘a voce alta’, attraverso tecniche di introspezione psicologica sempre risolte in allocuzioni, in orationes, a sé o ad altri, o effuse in epistole, come nel Filocolo e nel Teseida. Soprattutto, nel Boccaccio opere in versi come in prosa sono legate da un comune radicamento autobiografico che emerge soprattutto nelle parti liminari, di prefazione e di congedo, ma che forgia poi in realtà, all’interno dei testi, una persona autoriale molto simile e che di opera in opera (e, in questo caso, coinvolgendo anche il Proemio del Decameron), finisce col comporre un continuum narrativo trasversale: una sorta di vero e proprio romanzo autobiografico paratestuale. Dopo il Boccaccio l’opzione narrativo in ottave/narrativo in prosa rimane apertissima e interscambiabile. La datazione dei manoscritti cavallereschi in — 90 —

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prosa e in poesia, nel Quattrocento, è notoriamente spinosissima: però, lasciando ad altri la responsabilità di stabilire relazioni e parentele fra i vari testimoni, credo che anche osservatori comuni possano tranquillamente affermare che non c’è impresa in versi, nel XIV secolo, che possa stare a fronte dell’immensa riscrittura prosastica dei Reali di Francia di Andrea da Barberino; e non c’è autore che si accampi in questa materia, fra ultimo scorcio del Trecento e primo Quattrocento, con l’autorità, la capacità pervasiva, la ‘durata’, di Andrea da Barberino. Se una necessaria linea di studi è emersa chiaramente dal recente convegno fiorentino su Paladini carta. Il Modello cavalleresco fiorentino, è stata proprio la necessità di ricollocare Andrea al centro del Quattrocento cavalleresco (Andrea, e con lui la Toscana), prima dell’emigrazione, felice emigrazione s’intende, della paladineria verso l’ottava cortigiana estense9. E come sappiamo non si tratta solo della materia carolingia: d’altronde non è Orlando, nel Quattrocento, l’eroe più amato dai consumatori di materia cavalleresca, ma è Guerino, Guerino il Meschino, o secondo il titolo originale (che però probabilmente la imminente edizione critica di Cursietti non avrà il cuore di restaurare) il Meschino di Durazzo: il più popolare dei titoli barberiniani, così popolare da essere baldamente sopravvissuto nel gusto dei lettori fino al Novecento, nelle edizioni certo non filologiche, ma diffusissime, di Nerbini o di Salani. Rispetto all’autorità del narrativo cavalleresco in prosa, i cantari offrono a lungo un paesaggio vivo e vario, ma frammentato, sbriciolato, forse anche sotto la pressione di circostanze comunicative ‘corte’, di breve e immediato respiro (donde cantari anche di poche decine d’ottave: il Padiglione di Mambrino ventitrè, la Sala di Malagigi trentanove…)10. La svolta irreversibile avviene nell’ultimo quarto del Quattrocento. È una svolta, purtroppo, destinata a rimanere probabilmente oscurata dal collasso documentario, ovvero dalla sicura perdita della maggior parte dei titoli cavallereschi stampati in quei decenni. Ma nelle linee generali sappiamo ciò che avviene: una sistematica riscrittura in versi, in ottave, dello sterminato patrimonio manoscritto in prosa. Certo non è una direzione del tutto univoca, almeno sino alla fine del Quattrocento. Certo, ci sono casi di confine: come Lorenzo degli Obbizzi, che scrive romanzi in prosa e in ottave11 – e la cronologia, pur di spinosa determinazione, non ci assicura affatto che ‘prima’ scriva quelli in prosa e ‘poi’ quelli in ottave. Ma col Boiardo e col Pulci l’egemonia passa irreversibilmente nelle mani del narrare in versi e dell’ottava rima. A noi sembra un evento naturale, ma in realtà è una metamorfosi che avviene solo in Italia. Nel resto d’Europa il romanzo di cavalleria è — 91 —

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ancora e sempre in prosa. In Spagna, la princeps valenziana di Tirante il Bianco è del 1490, quella in castigliano del 1511; e l’Amadigi è tranquillamente del 1508. In Francia, il Quattrocento vede una estesa messa in prosa di tutto ciò che già in prosa non era, comprese le antiche chansons de geste; per una inversione di tendenza bisognerà aspettare il trionfo del gusto italiano presso la corte di Francesco I, quando il Guiron le courtois medievale (un testo del 1235) verrà messo in ottave – ottave italiane – da un italiano: Luigi Alamanni, che nel suo Girone il cortese versificherà pagina per pagina la magnifica edizione Verard del venerabile romanzo francese12. Data di stampa: 1548. Ma in Italia perfino Andrea da Barberino viene trascritto ben presto in ottave, e, fra l’altro, da uno dei performers principi del Quattrocento fiorentino come l’Altissimo (l’unica stampa superstite di questa operazione è la stampa veneziana del primo libro dei Reali, messa in luce nel 1534). In tal modo, anche l’affabile, discreta persona autoriale di Andrea viene sottoposta all’esposizione spettacolare, estroversa, esibita, della scrittura canterina: e il racconto viene caratteristicamente curvato secondo modalità allocutive, conversevoli – ma non necessariamente alleggerite rispetto alla scorrevolezza dell’originale: ché anzi l’Altissimo approfitta della sua posizione ‘in banco’, per così dire, al fine di intromettere farciture pseudoerudite, intrusioni personali, e così via. Questo emergere della persona d’autore è caratteristico del narrare in versi antico, e a mio parere è fondamentale per la formazione del modello narrativo boiardesco, e quindi del romanzo in ottave ‘all’italiana’. È un tratto che mi sembra prevalente sul recupero dell’intreccio entrelacé, che pure è di grande rilievo; secondo alcuni studiosi, di primario e assoluto rilievo. Per Praloran, ad esempio, il modello boiardesco (e poi quello ariostesco) dipende da una ripresa del modello narrativo dei grandi romanzi in prosa del Medioevo cortese. Anche di recente, nel suo Il poema in ottava, Praloran è tornato a ribadire: «Boiardo raccoglie […] la grande forma polifonica dell’intreccio dei romanzi arturiani in prosa francesi del Duecento, letti e amati alla corte estense. […] la complessità dell’intreccio, la struttura dell’entrelacement è per Boiardo uno degli elementi che strappa il genere dal suo alveo popolareggiante»13. A me pare invece che il modello romanzesco italiano tragga certo ispirazione dall’entrelacement francese, ma con innovazioni e contaminazioni decisive, che finiscono col comporre, appunto, un modello originale e integralmente nuovo. Intanto il modello entrelacé, in Francia, vale soltanto per le grandi compilazioni prosastiche. I romanzi più antichi in versi, come quelli — 92 —

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di Chrétien, hanno una condotta narrativa lineare, e in più punti sembrano francamente preoccupati di smarrire anche per poco il filo del racconto. Nel Chevalier de la Charrette, di fronte al profilarsi di un personaggio nuovo – la sorella di Méléagant, che potrebbe indurre il narratore ad una digressione –, Chrétien precisa: Je ferais tort à mon récit, Si pour l’instant j’en disais plus, Je ne veux le rendre difforme, L’altérer, lui faire violence, Je veux qu’il suive un bon, un droit chemin.14

In verità Praloran punta il dito su un passo di questo stesso Chevalier de la Charrette, dove si apre, a suo parere, una possibilità inedita per l’intera narratività europea: «È possibile pensare che quando, nel Chevalier de la Charrette di Chrétien de Troie, Lancillotto – ancora in incognito – e Galvano arrivano […] ad un crocicchio e dopo un rituale di eleganza cortese decidono di prendere ciascuno una strada differente, uno verso il ponte sospeso, l’altro verso il ponte immerso nell’acqua, si realizzi virtualmente una nuova modalità narrativa nel racconto occidentale. […] Accade che mentre la percezione del lettore si avvia lungo una linea narrativa, la sua memoria rimane viva rispetto all’altra linea: egli segue ciò che avviene davanti ai suoi occhi ma nello stesso tempo è in ansia per ciò che contemporaneamente si sviluppa lontano da sé e che il racconto lascia sospeso. Ecco perché definiamo ‘polifonica’ questa tecnica, in senso propriamente musicale: due linee implicate logicamente ma autonome nel loro sviluppo»15. Sicuramente il passo bellissimo smuove nel lettore una partecipazione emotiva peculiare; probabilmente anche perché noi portiamo con noi, inevitabilmente, la memoria suggestiva di tutti i crocicchi che, d’ora in avanti, in storie per lo più complicate e intrecciate, si apriranno di fronte a due personaggi che si separano. Che è un po’ anche quello, mi sembra, che dice Praloran. Ma in Chrétien non mi pare che si possa parlare ancora di vero e proprio entrelacement. Non a caso lo storico lavoro di Ferdinand Lot sul modello entrelacé francese si applicò al Lancelot in prosa16. Ma anche qui. Dal punto di vista dell’intreccio dei fili narrativi che fanno capo alle varie quêtes dei vari personaggi, anche la costruzione del Lancelot in prosa è semplice; non foss’altro perché il protagonismo di Lancelot è indiscusso. Il passaggio di capitolo in capitolo e gli indicatori di trapasso sono poco più che rubriche. Le — 93 —

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più ‘complesse’ essendo di questo tipo: «Mais en cet endroit, le conte ne s’occupe plus d’elle ni des enfants ni de toute leur compagnie. Il retourne au seigneur de Paerne et à Lambègue, qui s’en vont» (Chap. XIV, p. 321), e le più semplici: «Mais ici le conte la laisse pendant un court moment et retourne au roi Arthur» (Chap. XX, p. 415); «Maintenant le conte retourne aux deux enfants, qui sont, avec Lancelot leur cousin, sous la garde de la bonne Dame du Lac» (Chap. XIII, p. 287). Il vero, straordinario effetto moltiplicatore dell’intreccio dipende nel Lancelot dall’uso raffinatissimo, fuorviante, enigmatico, della tecnica dell’incognito. Lancelot si rinfrange in tanti personaggi diversi perché tutela tenacemente il suo anonimato, rifiuta il merito che gli verrebbe dall’essere riconosciuto l’eroe risolutore delle venture, cambia armi e colori (dal bianco assoluto del suo primo ingresso alla corte di Artù alle armes vermeilles o nere delle sue venture successive, donde i suoi vari soprannomi, valet aux armes blanches, Blanc chevalier, Noir chevalier…); e il narratore si guarda bene dal chiarire caso per caso, ogni volta, di che cavaliere si tratti – anche se il lettore in linea di massima, non ha, evidentemente, dubbi. Solo così si può arrivare alla grande scena di riconoscimento cortese che chiude il Lancelot du lac, – la scena che culminerà poi nel bacio famoso che avrà ragione di Paolo e Francesca – e in cui, per dieci pagine buone dell’edizione moderna17, Ginevra sottopone il cavaliere ad un incalzante interrogatorio, mettendo insieme i frammenti di una iniziazione eroica che lei, come la maggioranza dei personaggi, ha seguito sporadicamente, a pezzi e bocconi, nel cangiare illusionistico delle identità, dei disvelamenti e dei nascondimenti di Lancelot. N’etes-vous pas celui à qui Monseigneur Gauvain a envoyé les trois chevaux? […] Nest-ce pas vous qui avez porté les armes de Galehaut le dernier jour? […] Sur votre salut, etes-vous celui qu’une demoiselle amena au roi, vêtu d’une robe blanche? […] Et entre-temps m’avez-vous envoyé quelque chose? […] Quand vous etes revenu de Nohaut, avez-vous trouvé sur votre route un homme qui se réclamait de moi? […] Quel écu portiez-vous?

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Questo crea l’entrelacement arturiano: non tanto l’esistenza di tanti fili narrativi variamente intrecciati, ma il loro rinfrangersi all’infinito, con uno straordinario effetto moltiplicatore, nella percezione dei personaggi che assistono e partecipano alla storia – e anche, naturalmente, nella percezione di quel personaggio a statuto speciale che è il lettore. Nel Boiardo – nel Boiardo fondatore del romanzo all’italiana – non v’è traccia di tutto questo. Non siamo di fronte ad un intreccio sostanzialmente semplice, ma moltiplicato dalla tecnica dell’incognito. L’incognito per il Boiardo serve come intensificatore di attesa narrativa, di suspense, quando, di fronte al profilarsi di un personaggio ignoto, o non ancora riconosciuto, il narratore taglia il filo e ne riannoda un altro di quelli lasciati in sospeso: II II 51 Avanti a sé scontrarno in su quei piani Un cavalliero a piedi e tutto armato. Eran da lui ancor tanto lontani, che non l’avrebbon mai rafigurato; Ma poi dirovi a ponto questo fatto, Che nel presente più di lor non tratto.

Non credo di dovermi dilungare in una descrittiva protratta del modello romanzesco del Boiardo19. Ma mi preme sottolineare che quel modello riceve la sua forma, a mio avviso, non o non soltanto dalla ripresa dell’entrelacement arturiano, ma dalla contaminazione e dinamizzazione di quel modello con quello del racconto recitato tipico dei cantari italiani. Anche qui, non devo dilungarmi in una descrittiva della retorica dell’oralità canterina: c’è già chi l’ha fatto egregiamente a più riprese – Cristina Cabani in primo luogo19. Mi limito a rivendicare a questo romanzo ‘orale’, calato nelle convenzioni di una performance potentemente evocativa, e diretta da un’agogica travolgente, il valore di un modello fondante. La polifonia – quella che sarà poi la polifonia ariostesca, illustrata dalle metafore stupende della ‘varietà’ – è sorretta, motivata e direttamente dipende dalle circostanze della recita: che stravolgono l’allusività enigmatica del roman arturiano in una partitura narrativa continuamente interrotta, sorprendente, spettacolare, e giocano con la memoria e con la partecipazione emotiva del pubblico in una vera e propria ‘regia’ teatrale del racconto. Bisogna tornare alla celebre pagina del Pigna, in cui l’esclusività di quel modello, già del Cinquecento, viene mirabilmente descritta e rivendicata: — 95 —

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E perché d’erranti persone è tutto il poema, egli altresì errante è, in quanto che piglia e intermette infinite volte cose infinite: e sempre con arte, perché se bene l’ordine epico non osserva, non è che una sua regola non abbia: la quale è questa, […] che tralascia o quando il tempo dà che s’interponga, o quando nol dà. […] Come in sul bello di una tempesta ritirarsi, o nel tempo che due sono per menar le mani, o che una guerra si prepari, o da un luogo levar uno re a mezza strada e anche prima abbandonarlo…20

Dopo il Boiardo, nessuno ha il coraggio di riprendere questo modello integralmente. Nessuno, com’è ovvio, tranne l’Ariosto, che riprendendolo lo tematizza e ne fa, dentro il racconto, oggetto di ironico giuoco – doppio giuoco – autoriale21. Però anche l’Ariosto riprende il modello, ma ne incrina già sia pur lievemente la compattezza. Ho richiamato già altrove la disconnessione strutturale fra la chiusa e l’esordio dei canti nel Furioso22. Le chiuse replicano la convenzione orale boiardesca, non senza qualche ostentato manierismo canterino: Ma troppo è lungo ormai, signor, il canto, e forse ch’anco l’ascoltar vi grava: sì ch’io differirò l’istoria mia in altro tempo che più grata sia. (X) Non più, Signor, non più di questo canto; ch’io son già rauco, e vo’ posarmi alquanto. (XIV) Signor, non più, che giunto al fin mi veggio Di questo canto, e riposarmi io chieggio. (XXV) Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo Vi potria la mia istoria esser molesta; et io la vo’ più tosto diferire, che v’abbia per lunghezza a fastidire. (XXIII) Ma prima che le corde rallentate Al canto disugual rendano il suono, fia meglio differirlo a un’altra volta, acciò men sia noioso a chi l’ascolta. (XXIX) Ma saria forse, mentre che diletta Il mio cantar, consiglio utile e sano

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Di finirlo, più tosto che seguire Tanto, che v’annoiasse troppo il dire. (XXXIX)

Ma i proemi morali compromettono la compattezza della finzione d’oralità, scompaginando, come già sentirono i lettori antichi, il rapporto cantore-pubblico su cui si era basata l’invenzione boiardesca. Tanto che qualche lettore moderno, magari eccedendo, ha potuto affermare che nell’Orlando furioso scompare «la finzione della recita»23. Dopo, anche gli «ariostici» dichiarati evitano il modello, diciamo, ‘estense’. Credo per questioni non solo aristoteliche. Il polifonismo ariostesco aveva dilatato a dismisura la tematica della varietà, la fenomenologia dell’umano e la gamma del narrabile. È questa varietà che non è più accettabile: scrupoli di materia e di forma vanno strettissimamente insieme. E allora ecco la schidionata alla Giraldi, nell’Ercole (tante avventure, o ‘fatiche’ dell’eroe in fila), oppure la riproposta di una struttura epica decentrata (ispirata al Lucano della Farsaglia, nel Costante di Bolognetti24), ecco il caso di Bernardo Tasso e del suo Amadigi, così vividamente rappresentato da Torquato nella sua Apologia della Gerusalemme: [Bernardo] sì come colui che ottimamente intendeva l’arte poetica, e quella particolarmente insegnataci da Aristotele, deliberò di far poema d’una sola azione, e formò la favola sopra la disperazione d’Amadigi per la gelosia d’Oriana, terminando il poema con la battaglia fra Lisuarte e Cildadano; e molte dell’altre cose più riguardevoli avvenute prima, o dopo succedute, narrava negli episodi o nelle digressioni che vogliam chiamarle. Questo fu il disegno, del quale alcun maestro dell’arte no ’l poteva far miglior, né più bello. Ma finalmente, per non perder il nome di buon cortegiano, non si curò di ritener a forza quello d’ottimo poeta: e udite come. Leggeva alcuni suoi canti al principe suo padrone; e quando egli cominciò a leggere, erano le camere piene di gentiluomini ascoltatori; ma nel fine, tutti erano spariti: de la qual cosa egli prese argomento che l’unità dell’azione fosse poco dilettevole per sua natura, non per difetto d’arte che egli avesse.

Il narrativo in versi, ovvero il romanzo cavalleresco in ottave, piega ormai verso le caratteristiche dell’epos originario (che quindi curiosamente viene dopo, non prima). Non occorre neppure arrivare alla Gerusalemme. Per questo discorso, basta fermarsi al Rinaldo (1562), e dare il credito dovuto all’indirizzo «A i lettori» che fa da prefazione al poema. Nella tradizione critica, questa pagina si è guadagnata la reputazione non punto bella di «sgusciante compromesso»25, che pare alquanto immeritata. È vero che il Tasso diciot— 97 —

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tenne non vuole rimanere ostaggio né dei «troppo affezionati dell’Ariosto» né dei «severi filosofi seguaci d’Aristotele»; ma la sua opzione è chiara, sia pure ammorbidita con tutto il garbo opportuno per un esordiente che non vuole alienarsi il pubblico cortigiano, destinatario per eccellenza del poema cavalleresco. Quindi la materia sarà romanza, anzi romanzesca; ma la favola, la tecnica romanzesca, è all’antica. «Né credo che vi sarà grave che io, discostatomi alquanto dalla via de’ moderni, a quei migliori antichi più tosto mi sia voluto accostare…»; e sul cuore più infiammato del dibattito: «Io tratto d’un sol cavaliero ristringendo (per quanto i presenti tempi comportano) tutti i suoi fatti in un’azione, e con perpetuo e non interrotto filo tesso il mio poema…». Altro che «Ma perché varie fila a varie tele / uopo mi son, che tutte ordire intendo…». D’altronde, la riprova è nel testo: ogni ‘novella’, o episodio digressivo, viene raccontata a Rinaldo26; gli interventi d’autore a commento della trama evitano l’esposizione ‘ariostesca’ in sede di proemio, e si nascondono in sporadiche pieghe del testo27; anche ciò che capita agli altri personaggi deve essere visto attraverso di lui (si veda il lamento del padre di Ugone sul figlio ucciso, riportato solo in quanto ‘udito’ da Rinaldo, VII 8 e sgg.); il protagonista non viene mai perso di veduta, e anche quando la tempesta lo separa da Florindo (X 36 sgg.), la ‘tentazione’ digressiva rappresentata dalla possibilità di seguire, variando, il cammino narrativo di quest’ultimo è esclusa; Florindo è deliberatamente perduto di vista, salvo rispuntare al canto XI, nelle vesti di un cavaliere attaccato da otto nemici contemporaneamente; soccorso da Rinaldo, viene riconosciuto al trarsi dell’elmo e solo allora, in flash back, e avendo come destinatario il cavaliere protagonista, egli potrà narrare in prima persona le avventure intervenutegli nel frattempo. 3. Il regime egemonico del narrativo in versi nel Cinquecento non deve fare dimenticare che la partita col narrativo in prosa, col romanzo in prosa, non è una partita che si riapre solo col Seicento, quando la spinta propulsiva del modello di romanzo in ottave all’italiana visibilmente decade. Anche il Cinquecento è scandito dalla comparsa di veri e propri best seller romanzeschi in prosa28, disseminati nel corso di tutto quanto il secolo: 1508 Iacopo Caviceo, Il Libro del Peregrino (19 edizioni in cinquant’anni, in spagnuolo nel 1520 e in francese nel 1528); 1542 Anonimo, Compassionevoli avvenimenti di Erasto; 1547 Niccolò Franco, Filena; 1557 Giuseppe Tramezzino/Michele Membré, Peregrinaggio dei tre giovani figliuoli del re di Serendippo; 1569 Alvise Pasqua— 98 —

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ligo, Lettere amorose; 1592 Gabriele Pascoli, Cortigiano disperato; 1597 Ludovico Arrivabene, Il magno Vitei; 1598 Antonio Droghi, Leucadia. Forse non si dovrebbe parlare di romanzo seicentesco. O meglio, si dovrebbe e potrebbe parlare di romanzo seicentesco come semplice evoluzione di quello cinquecentesco in prosa… E comunque il giuoco fra prosa e poesia, fra narrativo in versi e in prosa, fra epos originario e romanzo andrebbe forse studiato e risistemato meglio, già nel Cinquecento. Mi limito a constatare una coincidenza: nel 1569 il Tasso sta pensando alla Liberata; a Venezia esce il romanzo epistolare del Pasqualigo. Testi, certo, inconfrontabili. Autori inconfrontabili. Spessore teorico, soprattutto, inconfrontabile: la Liberata ci viene incontro come il frutto più meditato, lucido e sofisticato della narratologia rinascimentale; le Lettere amorose, come un prodotto di consumo nudo d’ogni arte poetica. Eppure… Eppure il Pasqualigo scrive probabilmente il primo romanzo epistolare europeo, già dotato di una sapienza d’esecuzione narrativa sorprendente. Il libro, come si sa dopo l’appassionata, giustamente appassionata proposta di Amedeo Quondam29, si presenta come una vendetta d’innamorato; l’uomo, tradito, si vendica ‘pubblicando’, letteralmente, il carteggio amoroso intercorso con l’amante, al fine di distruggerne la reputazione. Primo ‘effetto verità’. Ma già nel corso del carteggio veniamo a sapere che le lettere della donna, meno letterata del suo amante, hanno via via subito una politura stilistica da parte di lui: pretesto, renderle irriconoscibili a eventuali occhi indiscreti sotto cui potrebbero cadere («[…] acciò che capitando esse per mala fortuna in mano di qualcuno non fossero conosciute per vostre […]»). Questa politura però non si è estesa alle ultime tredici lettere del carteggio: qui l’amante si è ancora più perfidamente vendicato della fedifraga, pubblicando le di lei missive senza correggerle: in modo da mostrare «il natural scrivere di essa» e da svergognarla, come dire, anche linguisticamente. Ed in effetti, occorre riconoscere, le ultime lettere di lei sono inquinate da sgrammaticature di sopraffina perfidia… Possiamo chiederci allora, non foss’altro che per puro gusto di paradosso: nella economia del romanzo europeo, chi ha con sé l’avvenire? La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso o le Lettere amorose del Pasqualigo? Di quale narrativo sono portatori? Qui davvero le strade del narrativo in versi e in prosa mostrano l’irreconciliabilità dei due modi di scrivere e l’impossibilità di una loro convertibilità. Adesso davvero, ormai, certe cose si possono rappresentare in poesia e certe altre in prosa. Ora, paradossalmente, il romanzo in ottave si modella artificiosamente sulla chiusura e sulla monologicità epica, e — 99 —

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il romanzo in prosa continua spericolatamente una sperimentalità romanzesca all’altro sempre più negata. Ma se il moderno romanzo comincia col Don Chisciotte, come spesso si dice, esso comincia (comincerebbe) da un gesto che sembra invece riproporre, altrove, l’antica convertibilità italiana fra versi e prosa in ambito di materia cavalleresca. Cervantes scrive un romanzo cavalleresco in prosa, ma, per restare entro le poche cose che conosco, Luis Barahona de Soto scrive un poema sulle Lacrime di Angelica (1586) e Lope de Vega scrive La bellezza di Angelica (1602). In versi, naturalmente. Dunque il sistema, in Spagna, rimane convertibile; in Italia, no. In Italia, dalla fine del Quattrocento, non si scrivono più romanzi di cavalleria in prosa. Ennesima anomalia italiana? Sotto un certo aspetto la separazione fra narrativo in versi e in prosa (fra poesia ‘originaria’ e romanzo moderno) qui da noi sembra consumarsi prima e più radicalmente che altrove. Che il moderno cominci addirittura prima, qui da noi in Italia? NOTE 1 Secondo le efficaci formule di M. FUSILLO, Fra epos e romanzo, nell’opera collettanea Il romanzo, II, Le forme, a cura di F. MORETTI, Torino, Einaudi, 2002, pp. 5 e 11. 2 Mi riferisco alla celebre pagina dello Zibaldone sulla «bellissima negligenza» degli antichi rispetto alla cautela mediocre dei moderni: «[…] pel timore di non fare cose pessime, non ci attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, […] mediocri nel genere delle buone cioè lavorate, studiate, pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici ottimamente imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà di parole, da quale soprattutto tradisce l’arte, insomma tutto, ma che non son quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c’è più Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini il Monti sono bellissimi, ma non hanno nessun difetto» (G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, in ID., Tutte le opere, a cura di F. FLORA, I, Milano, Mondadori, 1973, p. 14). 3 Si veda G. CARDUCCI, Alla Lega per l’istruzione del popolo (VIII Agosto 1873), in ID., Opere, XXV, Bologna, Zanichelli, 1938, pp. 39-52. 4 «“Novella” e “romanzo cavalleresco” sono le due forme peculiari del “narrativo italiano”. Corrispondono alla fase dell’egemonia culturale italiana in Europa e ne rappresentano al tempo stesso due tramiti poderosi. […] La forza di una grande tradizione, estremamente positiva nella sua fase ascendente e più creativa, diventa un ostacolo duro da superare, quando si entra, per i più diversi motivi, in una fase discendente. […] La genesi del romanzo italiano è ostacolata, oltre che da molte avversità ambientali, dal peso della tradizione narrativa italiana stessa, così tipicamente lontana dalle caratteristiche strutturali del “moderno”» (A. ASOR ROSA, La storia del romanzo “italiano”? Naturalmente, una storia “anomala”, nell’opera collettanea Il romanzo, III, Storia e geografia, a cura di F. MORETTI, cit., 2002, pp. 259-260).

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NARRARE IN VERSI 5 Ancora nella già citata opera einaudiana: W. SITI, Il romanzo sotto accusa, ivi, I, La cultura del romanzo, 2001, pp. 129-192. 6 Così il Giraldi nel Discorso intorno al comporre dei romanzi, in ID., Scritti critici, a cura di C. GUERRIERI CROCETTI, Mlano, Marzorati, 1973, p. 52. 7 P.-D. HUET, L’origine dei romanzi, a cura di R. CAMPAGNOLI e Y. HERSANT, Torino, Einaudi, 1977, p. 3. 8 Si veda Il romanzo, II, Le forme, cit., pp. 67-186. 9 Il convegno, i cui atti sono di imminente pubblicazione nella collana editoriale del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze, ha inteso riportare l’attenzione sui giacimenti manoscritti cavallereschi delle tre principali biblioteche fiorentine, ed è stato affiancato da una mostra di manoscritti e stampe presso la Biblioteca Riccardiana (si veda il catalogo Paladini di carta. La cavalleria figurata, a cura di G. LAZZI, Firenze, Polistampa, 2003). Gli studi sulla letteratura cavalleresca estense, incomparabilmente più ricchi negli ultimi decenni, hanno trovato appuntamenti decisivi negli Atti dei convegni boiardeschi (Il Boiardo e la critica contemporanea. Atti del Convegno di studi [Scandiano-Reggio Emilia, 25-27 aprile 1969], Firenze, Olschki, 1970; Il Boiardo e il mondo Estense nel Quattrocento. Atti del Convegno internazionale di studi [Scandiano-Modena-Reggio Emilia-Ferrara, 13-17 settembre 1994], Padova, Antenore, 1998), ariosteschi (Lingua, stile e tradizione nelle opere dell’Ariosto. Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara, 12-16 ottobre 1974, Milano, Feltrinelli, 1976; Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari, De Donato, 1977) e tassiani (Torquato Tasso e la cultura estense, 3 voll., Firenze, Olschki, 1999), nonché nella rinnovata attività filologica e bibliografica intorno al già negletto Boiardo (si veda almeno N. HARRIS, Bibliografia dell’«Orlando innamorato», Modena, Panini, 1988-1991, 2 voll., nonché l’edizione commentata del poema a cura di R. BRUSCAGLI, Torino, Einaudi 1995, e, da ultimo, l’edizione critica per cura di A. TISSONI BENVENUTI e C. MONTAGNANI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1999); oltre che, naturalmente, in una ininterrotta produzione critica e saggistica. 10 Molto utile, per un regesto dei cantari manoscritti sopravvissuti, la lista apposta da M. VILLORESI in appendice al suo La letteratura cavalleresca. Dai cicli medievali all’Ariosto, Roma, Carocci, 2000, da cui si ricava a colpo d’occhio, fra l’altro, il ruolo centrale dei giacimenti fiorentini nella conservazione e trasmissione di questo materiale. 11 E, nel caso del Tiburtino (ms. BNCF II II 32, cc.160r-182r), addirittura in terzine. La cronologia obbiziana più probabile colloca proprio il Tiburtino in prima posizione (1468), seguito dalla Storia dei quattro cavalieri di Francia, in ottave (1472-1474), dalla Istoria di Tapinello immediatamente successiva, in prosa, e dal Libro del valentissimo Arguto, in prosa (1476-1477). Per una ricostruzione della biografia e della carriera dell’autore, si veda G. LEMMA, La storia dei quattro cavalieri di Francia di Lorenzo degli Obbizzi (1472-1474). Edizione e studio critico (di prossima pubblicazione nella serie elettronica dell’University Press dell’Ateneo fiorentino); sull’Obbizzi si veda anche M. VILLORESI, La letteratura cavalleresca, cit., pp. 106-108. 12 Sull’impresa dell’Alamanni tuttora insostituibile il vecchio studio di H. HAUVETTE, Un exilé florentin à la cour de France au XVI siècle. Luigi Alemanni (1495-1550). Sa vie et son oeuvre, Paris, Hachette, 1903. Per una dimostrazione della stampa del Guiron tenuta pre-

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sente dall’Alamanni, si veda E. FINI, Invenzione e riscrittura: da «Guiron le Courtois» a «Girone il cortese» di Luigi Alemanni, di prossima pubblicazione presso la già citata collana di editoria elettronica dell’Università degli studi di Firenze. 13 M. PRALORAN, Il poema in ottava, Roma, Carocci, 2003, pp. 62-63. 14 CHRÉTIEN DE TROYES, Le chevalier de la Charrette, édition critique, traduction, présentation et notes de CH. MÉLA, Paris, Librairie Générale de France (‘Lettres Gothiques’), 1992, p. 467. 15 M. PRALORAN, Il tempo del romanzo, nell’opera collettanea Il romanzo, II, Le forme, cit., p. 237. 16 F. LOT, Etude sur le Lancelot en prose, Paris, Champion, 1918. 17 Lancelot du Lac, par F. MOSÈS, d’après l’édition d’E. KENNEDY, Préface de M. ZINK, Paris, Librairie Générale de France, 1991, pp. 879-885. 18 Ma si ricordino qui almeno gli studi di M. PRALORAN, «Meraviglioso artificio». Tecniche narrative e rappresentative nell’«Orlando innamorato», Lucca, Pacini Fazzi, 1990 e di A. FRANCESCHETTI, L’io narrante e il suo pubblico nell’«Orlando innamorato», in Il Boiardo e il mondo Estense nel Quattrocento, cit.; e si veda anche il mio Primavera arturiana, in ID., Studi cavallereschi, Firenze, SEF, 2003, pp. 3-36. 19 Vedi C. CABANI, Le forme del cantare epico-cavalleresco, Lucca, Pacini Fazzi, 1988. 20 G. B. PIGNA, I romanzi, ed. critica a cura di S. RITROVATO, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1997, pp. 48-49. 21 Si veda a questo proposito quanto scrive S. Zatti a proposito della «tematizzazione dei procedimenti formali del romanzo» (Il «Furioso» fra epos e romanzo, Lucca, Pacini Fazzi, 1990, segnatamente il cap. I, pp. 9-37). 22 Nel mio Ludovico Ariosto: l’ambiguità del romanzo, in ID., Studi cavallereschi, cit., pp. 37-54. 23 Così O. VISANI, La tecnica dell’esordio nel poema cavalleresco dai cantari all’Ariosto, «Schifanoia», III, 1987, p. 71. 24 La praticabilità di modelli classici alternativi, non virgiliani né omerici (e quindi non riconducibili alla precettistica aristotelica fondata sulle regole dell’unità) è giustamente posta in rilievo da J. E. EVERSON, The Italian Romance Epic in the Age of Humanism. The Matter of Italy and the World of Rome, Oxford, University Press, 2001. 25 Così F. FORTI, L’opera prima del Tasso (1957), in ID., Fra le carte dei poeti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, pp. 78-132. Ma anche Caretti non fu troppo generoso col Rinaldo, giudicandolo «una sorta di estemporaneo entr’acte», costretto entro la morsa ben più rilevante del Gierusalemme e del Goffredo (vd. L. CARETTI, Sul Tasso [1957], ora in ID., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1976, p. 178). 26 È il caso, per esempio, della storia di Ransaldo il Fiero (III 15-21) o di Francardo e Clarinea (III 23-49), o di Olinda (V 25-57), tutte raccontate a Rinaldo da altri personaggi del poema. 27 L’andamento è proprio quello di ‘criptoproemi’, di stile evidentemente ariostesco, ma rimossi dalla sede canonica dell’inizio di canto: si veda I 91, sul finto sdegno delle donne (Deh, quante donne son, ch’aspro rigore); oppure VI 12-3, sulla decadenza del costume militare (Deh, come in tutto or è l’antica norma).

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NARRARE IN VERSI 28 Sul romanzo cinquecentesco in prosa, si veda l’ancora insostituibile A. ALBERTAZZI, Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento, Bologna, Zanichelli, 1891, e, più di recente, il mio La novella e il romanzo, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. MALATO, IV, Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 888-902. 29 Si veda il volume collettaneo Le «carte messaggere». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1981, in cui Quondam già metteva in evidenza l’eccezionalità del libro di Pasqualigo (vd. pp. 101-117).

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GINO RIZZO IL PUNTO SUL ROMANZO SECENTESCO 1. A MO’ DI PREMESSA: QUALCHE CENNO DI STORIA DELLA CRITICA TRA OTTO E NOVECENTO Dei romanzieri secenteschi abbiamo, com’è noto, una silloge autonoma curata da Martino Capucci e pubblicata nel 19741, dopo quella di Ezio Raimondi (1960)2 comprensiva pure di alcuni trattatisti barocchi. Queste due antologie, edite a breve distanza l’una dall’altra, hanno segnato la ripresa degli studi sul romanzo secentesco, dopo un lungo periodo di oblio e di denigratori giudizi. A voler ripercorrere le indicazioni critiche sette-ottocentesche su questa fase della nostra narrativa, difatti, s’incontrano soltanto liquidatori e spediti giudizi (Baretti, Tiraboschi, Foscolo, ecc.), oppure il totale oblio-rimozione, ad esempio, nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis: una vergogna (l’esperienza romanzesca) nella vergogna (la letteratura secentesca come «mondo vuoto di motivi religiosi, patriottici e morali»), indegna, secondo il De Sanctis, di qualsiasi menzione; così che successivamente Adolfo Albertazzi, nella prefazione ai suoi Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento, per giustificare le ricerche effettuate per tale volume, avvertì l’esigenza di precisare che per «compiere la storia d’una letteratura era necessario addentrarsi pur nello studio dei tempi, i quali essa ebbe peggiori, e a conoscere di questi le note più caratteristiche e le cause della loro cattività giovava scoprire l’origine e lo sviluppo di quelle opere false che vi traviarono gusto ed ingegni»3. L’atmosfera è quella storico-positivistica, basata sui concetti di origine e sviluppo dei fenomeni letterari e diffusa verso la fine dell’Ottocento (il volume esce nel 1891); di qui i «non pochi pregi di scrupolosità erudita»4 del repertorio dell’Albertazzi, anche se le modalità di approccio al «bel tema», trattato su ‘suggerimento’ di Alessandro D’Ancona, rinviavano ad un rilevato gusto per le ‘patologie’ letterarie, osservate con — 105 —

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morboso interesse: «[…] a me piacque rallumare [i romanzi del Seicento] per l’avida curiosità di chi ricerca il segreto di una malattia o di una colpa»5. Del resto, lo stesso Albertazzi in un volume dedicato alle vicende del romanzo in Italia, nel riprendere la materia della narrativa secentesca, ribadì il giudizio negativo su di essa con rimarcate ragioni etico-politiche, semmai sottolineando le specifiche insorgenze realistiche presenti in taluni romanzi storici quale identificativa connotazione ‘italica’ nell’ambito della coeva produzione europea: «Il romanzo eroico galante deperiva sempre più; al romanzo di costumi ci eran mancate le forze; il romanzo psicologico non ci era possibile… Che fare quando la scienza fisica e la storia venivan afforzando il senso della realtà nelle menti non incolte? […] Le narrazioni […] in cui la storia sottostette non più idealizzata, o a dirittura preponderò su l’invenzione fantastica, dimostrarono che la realtà storica da noi prima che altrove s’opporrebbe e si oppose all’idealismo romanzesco. Questi romanzacci, sebbene in forma tuttavia fra ingenua e barocca, eran già molto lontani e diversi a quelli del La Calprenède e della Scudéry»6. Quasi in conseguenza di tali atteggiamenti, Maria Luisa Astaldi, dopo qualche decennio, intenta a percorrere le vicende del romanzo italiano dalle origini sino alle alte mete raggiunte dal d’Annunzio, definito «un grandissimo fenomeno nella storia delle nostre lettere»7 (siamo nell’anno XVII dell’era fascista), saltò a pie’ pari, senza alcun tentennamento, l’esperienza narrativa secentesca e indicò Pietro Chiari quale «malsano» fondatore del romanzo italiano: «A lui risale comunque la paternità del romanzo nostro; è inutile frugare gli archivi alla ricerca di più illustri antenati e di stemmi coronati»8. Un padre (il Chiari) senza alcun predecessore e «indegnissimo», secondo l’Astaldi; quel «comunque», difatti, si riferiva alla scarsa qualità dell’esperienza narrativa del Chiari, «poetastro sboccato, commediografo a getto continuo, polemista pettegolo, arrabbiato seduttore di femmine»9 e abile raffazzonatore di romanzi francesi. Ma tant’è, concludeva l’Astaldi: «L’arte attinge alle fonti più povere e sudice, si sa, per dare frutti puri e meravigliosi»10. Dei romanzieri secenteschi, invece, nessuna traccia; si era perduta ogni loro fattezza, dopo il volume dell’Albertazzi, e le scarne pagine del relativo volume vallardiano11. Neppure il disponibile atteggiamento di Benedetto Croce12 agli inizi del secolo XX aveva avuto positive risonanze. Chi volesse trovare specifiche menzioni sul romanzo secentesco nel primo cinquantennio del secolo scorso rimarrebbe deluso. Solo a partire dagli anni ’60, dopo le sillogi già citate del Raimondi e del Capucci, si è avuta una proficua messe di qualificate ricerche, — 106 —

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che hanno profondamente modificato il quadro critico-interpretativo riguardante questa produzione letteraria barocca. E allora è il caso di riprendere la questione ‘romanzieri del Seicento’, riproponendone alcuni suoi fondamentali e imprescindibili snodi alla luce delle più recenti e specifiche proposte critiche. 2. LA QUESTIONE DEL ROMANZO NEL NUOVO CANONE SECENTESCO È il problema dei problemi, ma dopo la rigida suddivisione dell’Albertazzi di impianto evoluzionistico-positivistico, secondo criteri eminentemente tematici (romanzi eroico-galanti, romanzi di costume, romanzi politici, romanzi morali, romanzi storici), la natura proteiforme e quindi restia e indisponibile a qualsiasi rigida e vincolante classificazione in ‘sottogeneri’ del romanzo secentesco è ormai convincimento unanimemente condiviso. Il romanzo fu «un agile strumento per molti usi, voracemente onnivoro»13, e quindi aperto e flessibile per diversificate scelte contenutistico-stilistiche. Riuscì difficile una sua identificativa determinazione tra storia, epopea, novella, trattatistica politica e/o comportamentale, in un momento significativo pure per la ricalibratura e/o rinnovamento di esperienze letterarie largamente consolidate ed avallate da una lunga tradizione. Anzi, fu proprio questa la sua peculiare identità, fitta di cangianti e proteiformi fattezze, in bilico fra generi diversi: una identità, insomma, avvertita come una non-identità, fluida e polimorfa, «trasversale al tract, al discurso, all’essai, al sogno allegorico, al poema, alla novella; e alla manualistica pure […]»14. L’impegno dei romanzieri a tal riguardo fu soprattutto operativo, alieno da teoretiche preoccupazioni, alle prese con una scrittura, quella narrativa di lungo respiro, nuova e perciò malleabile e modellabile in più direzioni tematico-stilistiche. Perciò, non c’è da sorprendersi per l’assenza di una specifica trattatistica, altrove invece significativamente presente e stimolante (il trattato di Pierre-Daniel Huet in Francia). Non ci fu tale urgenza in Italia, proprio per la natura pervasiva del nuovo genere. Ci furono, invece, innumerevoli avvisi ai lettori, premesse, prefazioni, presenti nei romanzi secenteschi in funzione di forme narrative, talvolta nuove ed insolite («storia favoleggiata», «panegirica storia», «poema storico», «storia poetica» ecc.); e tutti questi interventi non vanno sottovalutati o sbrigativamente liquidati con sommari giudizi: «I romanzieri lasciarono cadere qualche nota di poetica, qua e là negli ap— 107 —

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pelli ai lettori»15. Proprio questi appelli ai lettori, insistenti e ricorrenti, costituiscono la sicura testimonianza di un serrato e proficuo dibattito, diacronicamente svoltosi a partire dalla lapidaria premessa di Giovan Francesco Biondi alla sua Eromena del 1624 sino alla lunghe avvertenze di Francesco Fulvio Frugoni nella Vergine parigina del 1661 e nell’Eroina intrepida del 1673. Si sviluppò, allora, una tensione definitoria, impegnata e costante, che si dispiegò nel tempo, sostegno e spinta volta a volta delle singole esperienze narrative. Ricuciti tutti insieme, messi l’uno accanto all’altro, questi interventi d’autore offrono un quadro completo del serrato e vivace dibattito svoltosi intorno al nuovo genere del romanzo, quasi un unico grande trattato a più voci coralmente dispiegate. Naturalmente, non mancarono i punti fermi: un indubbio discrimine all’interno di tale dibattito fu segnato dalle note affermazioni di Giovan Battista Manzini, premesse al suo Cretideo, con le quali si additava il primato del romanzo nei confronti dell’istoria, dell’epopea e degli altri generi coevi, con forti urgenze di retorica normativizzante e definitoria: Questo genere di componimento, che romanzo è chiamato da’ moderni, è la più difficile (quando sia fatto a disegno dell’arte), e ’n consequenza la più stupenda e gloriosa machina che fabbrichi l’ingegno. È più nobile dell’istoria, perché operando co’ medesimi fini e adoprando i medesimi stromenti, contien poi di vantaggio tutti i meriti della poetica, la più laboriosa e nobil operazione della quale è il regolar la favola epopeica, che di tutte l’altre, come la più eroica ed esemplare, così è la più riguardevole e la più maravigliosa. Egli supera la stessa epopea, perché angustiato dagli obblighi dell’unità e delle austerità della tessitura di lei, non gode poi de’ privilegi di lei, che abilitata a tante libertà, vivezze, numeri e ornamenti poetici usa di vestirsi di que’ fiori, che in sì gran parte nascondono i difetti e le inegualità di quel sito, ov’eglino varieggiando e verdeggiando, lusingano e lussureggiano. S’egli è superiore all’istoria e all’epopea, argumentisi quel che sarà a tutte l’altre composizioni, sien drammatiche o sien liriche, che di molto e di troppo più restano inferiori a queste.16

Come si vede, si trattò di una ferma e decisa dichiarazione di fede nei confronti del nuovo genere, perentoriamente indicato come alta prova d’ingegno su una tematica intessuta di controriformistiche esigenze (l’eroe-protagonista doveva essere «perfetto in ordine di esser cristiano»); non si avvertì, nella stessa premessa, l’esigenza di un’approfondita discussione sulle ragioni statutarie del nuovo romanzo. Eppur tuttavia, all’indomani della prima e fervida stagione del romanzo in Italia (1624-1637), le affermazioni del Manzini apparvero come la prima e risoluta rivendicazione della dignità letteraria — 108 —

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del nuovo genere quale compatta ed eticizzata macchina narrativa, coesa per forza di arte e di ingegno. Ed esse vennero successivamente assunte a sicuro ed indefettibile puntello per il riconoscimento dell’autonoma e peculiare presenza del romanzo. Lo stesso Giovanni Ambrosio Marini ne risentì certamente gli echi per il suo Calloandro fedele, l’opus maximum nella produzione romanzesca dell’età barocca sul versante eroico-cavalleresco: la difesa dei diritti della libertà fantastica e conseguentemente la netta distinzione tra vero storico e vero di immaginazione costituiscono il fondamento del Calloandro, e presuppongono l’atto manziniano di fede nel valore e nel successo nella nuova macchina narrativa, avvertita come una impervia e difficile prova di fervida immaginazione e di abilità costruttiva17. D’altra parte, negli stessi anni (1653), Marcantonio Nali, nel suo appello al «gentilissimo lettore», riprendeva pari pari le affermazioni del Manzini, quasi verità ormai vulgate, senza alcun rinvio allo stesso. Sulla base di esse, egli ribadiva il valore del nuovo genere, appetibile per un pubblico più vasto, pure per l’ornato e accattivante decoro stilistico su eticizzante materia anti-lasciva. E si noti che l’avvio dell’appello era nobilitato da vistosi richiami tasseschi: Sono andati que’ secoli, ne’ quali solo gli uomini nelle profonde scienze consumati delle stampe consumano gl’inchiostri con mille acutezze. Il mondo là solo corre, ove più versa di sue dolcezze il lusinghier Parnaso. Ama fin le delizie negl’inchiostri. Dunque sì come per ingannare un egro fanciullo, bisogna addolcirli gli orli del vaso, nel cui fondo sta l’amarezza di quel medicamento che gli apporta salute, così correndo il mondo dietro il nettare della modernità, le delicatezze danno il moto al gusto dell’orecchie moderne […]. Scrivo dunque conforme al gusto moderno, dove si troverà nella lezione quel condimento che non sazia, ma che rende sempre più appetibil l’altrui svogliata curiosità. È difficile però l’incontrare il genio di tutti, tanto sono gli appetiti delicati. Questo genere di componimento che romanzo è chiamato, quando lo si fa a disegno dell’arte, è la più difficile, la più gloriosa machina che fabrichi l’ingegno umano. È più nobile dell’istoria, perché operando co’ medesimi fini ed adoperando i medesimi stromenti, supera la stessa epopea, le drammatiche composizioni, e le liriche.18

Il Nali scriveva così nel 1653, quando il romanzo aveva una tradizione ormai consolidata e riconosciuta. Ma se non bastasse il convincimento espresso dallo stesso Nali in apertura dell’intervento ora citato («Questa è l’età del romanzo») e se non bastassero le affini dichiarazioni di altri romanzieri del tempo, si può ricorrere al regesto di narratori secenteschi compilato nel 1970 da Albert N. Mancini e folto di edizioni e di ristampe proprio negli anni — 109 —

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Quaranta e Cinquanta19. A prescindere dal Calloandro del Marini, apparvero in quegli anni i romanzi di Luca Assarino, di Girolamo Brusoni, di Giovan Francesco Loredano, di Giambattista Moroni, di Ferrante Pallavicino e di tanti altri, attestanti una solerte e attiva operosità in tale settore, esplicitata pure con le dichiarazioni attestanti l’operoso impegno necessario per la composizione della nuova macchina narrativa. Guidubaldo Benamati, nel suo Principe Nigello (1640), avvertiva di aver voluto dare prova di sé, essendo stata necessaria tutta la vitale baldanza del suo ingegno «per unire tutte le parti al tutto e per far che il tutto fosse ben servito da tutte le parti»20; e subito dopo, gli faceva eco il Moroni nel suo Principe Santo (1641), affermando che la sua era stata una fatica da non credersi «se non da chi in pruova la praticava»21. Né, in questo caso, traggano in inganno le dichiarazioni di affettata modestia o di snobistico distacco da parte di taluni narratori nei confronti delle proprie opere narrative; si tratta di espressioni topicamente modellate sulla falsariga delle lapidarie affermazioni di Giovan Francesco Biondi, autore del primo romanzo italiano del secolo XVII, quasi per un avvio del ‘genere’ in sordina: «Ho infantato l’Eromena per comandamento d’una dama […]. Se sarà imperfetta, ne merito scusa, non essendo ella parto naturale, ma un aborto di pochi mesi, conceputo a caso e senza aver avuto speranza di giammai spirare»22. Insomma, un genere arduo e difficile nel nuovo canone della letteratura secentesca, apprezzato nel segno della modernità ad onta dei numerosi ed agguerriti denigratori di varia appartenenza (moralisti, classicisti, difensori dell’epica, ecc.). Lo si ribadiva pure nell’anomino dialogo intitolato l’Anima di Ferrante Pallavicino: «La composizione d’un romanzo […] l’ho sempre giudicata delle più belle che possa vedersi»23; e nel 1666, a ridosso del declino della prosa romanzesca, Antonio Lupis, un fervido cultore del genere, sollecitava l’amico Francesco Maria Carrafa a non abbandonare la stesura del romanzo intitolato il Pisandro, attribuendo proprio all’ormai cospicua e coeva esperienza narrativa il merito d’aver dirozzato i costumi contemporanei con la forza dello stile e dell’ingegno: Il discorrere alcuni che dai romanzi non si raccoglie frutto e che in quei libri si volta inutilmente il tempo, sono parole o di chi non conosce le belle lettere o di chi meritarìa una romanzina. Non s’arresti Vostra Signoria dal suo Pisandro, perché in simili lavori si conosce la sottigliezza d’un ingegno. E sono altro queste opere che preziosi intrecci dell’eloquenza, destellati sudori, soavi incanti della penna e tesori figurati? Dove cosa più gentile? Che quando si sente uno di quei concetti, viene l’u-

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dito a mettersi un fiore all’orecchio. Se il panno della virtù era divenuto sì grosso, che a pena potea portarsi per lo peso e ’l tedio che arrecava la rozzezza del dire, sostentarò che i romanzi l’hanno ridotto mercato di Pallade per una finissima Olanda […]. Con fermarsi Vostra Signoria darà gusto all’ignoranti che vorrebbero sempre ingrandito il loro imperio di asini. Credo l’appagheranno queste ragioni, e mi sottoscrivo, ecc.24

Preziosi intrecci dell’eloquenza, soavi incanti della penna, tesori figurati: sono le metafore cumulativamente snocciolate dal Lupis per significare l’alta considerazione del romanzo nel nuovo canone secentesco, con riferimento alla complessità della sua strutturazione narrativo-stilistica su risentito impegno creativo («destellati sudori»). 3. I TEMPI DEL ROMANZO E LA SUA DIFFUSIONE Di recente, Martino Capucci ha ribadito che l’atto di nascita del romanzo del secolo XVII è senz’altro segnato dall’Eromena (1624) del Biondi, mentre l’annunzio di morte è sicuramente rappresentato dal Cane di Diogene (1687-1689) di Francesco Fulvio Frugoni25. Ovviamente, si tratta di indicazioni cronologiche che valgono pur sempre come riferimenti emblematici di processi letterari in corso nell’ambito di un quadro letterario dialetticamente articolato, non come perentori segnali di improvvisi e miracolistici eventi (nascita-morte). Se si guarda, ad esempio, al momento finale dell’esperienza romanzesca, occorre aggiungere saggiamente che «intorno al 1675 la stanchezza è manifesta, come è manifesto il lento declino, che è creativo, non editoriale»26. Come dire che erano venute a mancare quelle urgenti motivazioni storico-culturali (nuovi eventi storico-culturali, nuovo pubblico-nuovo genere) che avevano sollecitato la nascita del romanzo e ne avevano accompagnato il pieno ed esplosivo sviluppo. A dire il vero, a questo proposito, Lucinda Spera qualche anno addietro ha segnalato «un corpus romanzesco, relativo prevalentemente all’ultimo trentennio del Seicento, non del tutto trascurabile»27, ed ha indicato quale significativo esemplare di quest’ultima stagione della narrativa barocca un romanzo di Giovanni Maria Versari, intitolato il Cavaliere d’onore (1673) e preceduto da un’ampia prefazione indirizzata Ai Signori lettori, riconosciuta quale «consuntivo degli sforzi sino ad allora compiuti dai romanzieri ai fini di una legittimazione teorica di tale espressione, vivificandoli però attraverso la delineazione di un orizzonte in— 111 —

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terpretativo che, lungi dal prospettare il romanzo come un’espressione ormai in declino, avrebbe potuto aprire a questo genere nuove prospettive»28. Nonostante questi preziosi avvertimenti della Spera, l’impressione che si ha, leggendo proprio la prefazione del Versari, è quella di trovarsi davanti ad una epigrafe mortuaria più che dinanzi ad una apertura verso le successive «magnifiche sorti e progressive» del romanzo. L’impianto della prefazione è stilisticamente sostenuto per talune impettite forme lessicali come «s’aggiuntassero più gravi e più morali ricordi», «s’interzassero ancora le tanto più nobili, utili e dilettevoli [prodezze] de’ veri cavalieri di Cristo», «accomunai con alcuni studiosi amici cotal mio pensiero», «non istillarsi il cervello», «se al contrario la torteggerete». E nel contempo, il periodare ipotatticamente involuto e tortuoso del tipo «non veggio che d’indi cosa di buono senza gran periglio di molto maggior mole raccogliersi possa» ecc. dà l’impressione di un paludamento retorico tutto di ‘testa’, come un corpo estraneo sovrapposto peraltro a vulgate rimasticature di segno controriformistico: i personaggi sono indicati come cavalieri di Cristo, ripieni di ardentissima carità, impegnati in spirituali e santi ragionamenti per accrescere la bellezze delle anime, ecc. D’altra parte, la classificazione dei romanzi, nella stessa premessa, in tre categorie (puro favoloso, vero fondamento, vero storico-favoleggiati accidenti), è sbrigativa e schematica, tutta in funzione delle personali scelte dell’autore (il romanzo misto di storia e di invenzione), attestate su ragioni logore e scontate: «Per tanto io quanto a quello che di primiero intento racconterrovi, sopra sodo fondamento di istorica verità farollo comparir, vestito di curiose e vaghe invenzioni, di varii e belli avvenimenti a buoni costumi profittevoli, di sentenze e morali documenti, di ornate ma brievi descrizioni, per non interromper il filo del racconto a rilascio, ma solamente per sollevar gli animi un pocolino, e porger un tantin di diletto a’ begl’ingegni, di modo che i lettori o pasciuti saranno sempre di vero, o di verosimile, ma non mai che d’onesto, d’utile e di dilettevole»29. Non s’intravede, insomma, nessuna prospettiva di vivificazione o di rinnovamento del romanzo secentesco. Sono passati pochi anni dalla lettera del Lupis, precedentemente citata, e l’entusiasmo che lì chiaramente si percepiva sembra essersi del tutto spento. Vero è, insomma, che si era ormai sulla strada dell’irreversibile declino della prosa romanzesca: apparivano ormai lontani i tempi nel corso dei quali i libri dei romanzieri si «erano veduti a sciami […] volar da per tutto, a sembianza di mosconi ronzanti, con l’ali di vetro lucenti»30, ed era ormai tempo di bilanci. Di lì a poco il Frugoni, lui sì, avrebbe tracciato nel raccon— 112 —

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to decimo (Il Tribunal della critica) del suo Cane di Diogene un lucido consuntivo della narrativa del suo tempo. Dico ‘lucido’, ed aggiungo ‘storiograficamente condivisibile’, perché nell’«esaminar e pesar i romanzi», tra i tanti «che di frasche e di fiori eran carchi, senza che se ne potesse carpir un frutto d’insegnamento o morale o politico o di altra sorte che arrecasse l’utile col diletto»31, il Frugoni, assumendo le vesti del Giudizio, indicava quali «romanzi di peso» il Calloandro del Marini e subito dopo i tre libri d’un «gentilissimo e giudicioso» romanziere veneziano, e cioè l’Eromena, La donzella desterrada, Il Coralbo di Giovan Francesco Biondi. Manca solo la menzione della trilogia di Girolamo Brusoni (La gondola a tre remi, Il carrozzino alla moda, La peota smarrita) per avere un quadro delle sicure e accertate eccellenze della produzione narrativa secentesca, pure secondo linee tematico-strutturali difformi (dal romanzo avventuroso-politico a quello eroico-galante, a quello di costume), nelle aree geografiche di accertata diffusione del genere, e cioè quella ligure e quella veneziana. Infatti, se ci eccettua Bologna32 con qualche esperienza narrativa di spicco, altrove (Roma, Napoli) non si prestò molta attenzione al nuovo genere. Nell’area ligure, invece, operarono romanzieri prestigiosi quali il Marini e il Frugoni già citati, insieme con Anton Giulio Brignole Sale, Carlo Lengueglia, Bernardo Morando e Luca Assarino33. A quest’ultimo si deve la Stratonica, un romanzo molto apprezzato dai contemporanei. Si tratta di un compatto libretto, che si legge tutto d’un fiato, teso com’è tra racconto di fatti e insistita indagine psicologica. Dopo la robusta monografia specifica di Ivo Da Col34 recentemente è stato ristampato. La vicenda è ricavata da fonti greco-latine (Giustino, Plutarco, Valerio Massimo): il re Seleuco sposa Stratonica, della quale s’innamora pure Antioco, figlio delle stesso Seleuco; quando il rispetto filiale sta spingendo Antioco a lasciarsi morire, il vecchio re salva il figlio, rinunciando nobilmente alla sposa, anch’ella innamorata del giovane figliastro. Una nuda e lineare storia, agile e compatta, ricongegnata e ricalibrata dall’Assarino, con una ‘dicitura’ breve e concisa in funzione di un moderno avvertimento dell’inesplicabile mistero che determina la sfera delle forti passioni, e quindi proiettata nella più proficua e coinvolgente direzione perseguita per tramite di quello ‘sconvolgimento gnoseologico’, risentito dalle menti secentesche più sensibili. L’abile regia narrativa dell’Assarino non fu elemento secondario per il successo della Stratonica. Ne ha già parlato il Da Col, il quale ha convincentemente sottolineato che il narratore avvertì insistentemente «l’opportunità di aprire un colloquio con — 113 —

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il lettore, al quale concedeva l’illusione di divenire l’esplicito […] narratario dell’opera»35. E i lettori della Stratonica furono numerosi, e decretarono la fortuna dell’opera, che venne più volte ristampata. Tra costoro va annoverato anche Giovan Francesco Loredano, che governò, letterariamente parlando, a Venezia, pure per alcune sue qualità caratteriali: «L’uomo aveva una intelligenza prensile e un acuto senso dell’attualità e mobilità delle idee e del gusto»36. E per questa sua disponibile personalità, egli avvertì le lusinghe di talune eterodosse esperienze ideologiche coeve (le sue venature libertine), nonché il fascino del nuovo romanzo. Egli pubblicò nel 1635 la Dianea, imperniata su vicende amorose, viste in chiave storico-politica, richiamata da espliciti rinvii a protagonisti e vicende contemporanee: Gustavo Adolfo di Svezia, il Wallenstein, nonché il vitale problema della supremazia di Venezia sul Mare Adriatico, i rapporti tra Venezia e Roma, ecc. La Dianea si apriva così alla contemporaneità ed iniziava la stagione del romanzo storico, permeato talora di problematiche di scottante attualità. Il prestigio e l’autorevolezza del Loredano incisero profondamente in tale direzione: lo si ricava dal suo epistolario37, ma soprattutto dalle numerose attenzioni elogiative di cui fu oggetto. A tal riguardo va segnalata la premessa (L’autore a chi legge) presente nel romanzo gli Accidenti di Cloramindo del vicentino Francesco Belli. Una premessa esemplare per diverse ragioni: vi si coglie, oltre all’elogio del Loredano e della sua Dianea, un interessante scorcio dell’attività degli Incogniti insieme con la forte rimarcatura della «lunga e laboriosa applicazione» necessaria per mettere in sesto la complessa, ardua e impegnativa macchina romanzesca: Quando io ebbi propensione a questo genere di comporre, mi sgomentavano alcuni romanzi usciti con grandissimo credito ed abbracciati con pari lode dal mondo, ma sopra tutti la Dianea […]. Mi faceva contrasto il pensare che simili componimenti ricercano spiriti virili, intrecciamenti ingegnosi e spiegature frizzanti. Io veniva arrestato dallo rammentare a me stesso lunga e laboriosa l’applicazione, ed appassionanti i giudizii, incerti e dubbiosi gli eventi. Mi trattennero per qualche tempo queste contradizioni, ambiguo o di rendermi loro ozioso per vinto, o di vincere gl’intopppi loro scrivendo. Prevalse, non so come, l’elezione di travagliare: avanzatomi di poco oltre l’abbozzatura del primo libro, ricorsi alla sagra Tripode e al vero Apollo, ch’è il giudizio purgatissimo del predetto Signor Gio. Francesco [Loredano], e supplicatolo del suo parere, che meco doveva esser libero e rigoroso al più alto segno, mi esortò a ridurre la materia a qualche termine proporzionato. Si aggiugne

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che tenendosi il solito dì la famosa Accademia de gli Incogniti nella nobilissima casa Loredana, genitrice e balia della medesima, e mancando per certo accidente chi per quella sera era obbligato al discorso, il sopra mentovato Signore mi chiamò d’improvviso a supplire; il che io feci col leggere i ragionamenti di Astingo alla moglie e al figliuolo, dopo gli avvisi di Ermegildo, i quali graditi, per quanto ne potei argomentare dalle dimostrazioni esteriori, e favoriti di qualche applauso, di grazia o di giustizia ch’egli si fosse, mi eccitarono ad ultimare lo impiego […].38

Quel che si può ricavare dal brano ora citato (il prestigio del Loredano, la sottolineatura della complessità della ‘macchina’ narrativa secentesca, l’attenzione dell’Accademia degli Incogniti per il romanzo) è certamente già noto, ma il quadro delineato dal Belli ci restituisce questi consolidati convincimenti nelle gradevoli forme della vivida e fresca quotidianità, raffigurata per via di militante memoria, ancora emotivamente partecipe della «lunga e laboriosa applicazione» esercitata per definire gli sviluppi narrativi («intrecciamenti ingegnosi») e le accativanti scelte stilistiche («spiccature frizzanti») del romanzo degno di essere proposto ad un consesso di colti intellettuali. Se si rammenta che il Bisaccioni considerava i coevi romanzi quale «mercanzia da sfaccendati» per lettori incolti si ha chiara l’idea del variegato pubblico attento al nuovo genere. 4. IL ROMANZO TRA STORIA ED INVENZIONE Nella premessa ora citata, il Belli affrontava il problema del rapporto fra storia ed invenzione, dibattuto dai romanzieri a partire dalla Dianea. Il letterato vicentino affermava d’aver voluto affrontare soggetti più ‘istorici’ che ‘favolosi’. Questa strada gli era sembrata decisamente più agevole, dal momento che gli era cessato in tal modo «lo impaccio di mendicare i racconti dalle finzioni […]»; a suo parere, infatti, «l’invenzione del mirabile non era fattura leggera, e il sostentarla era gran peso»39. Per tali ragioni, secondo costui, il romanzo di argomento storico poneva minori problemi rispetto a quello fantastico-avventuroso. Però, com’è noto, la diffusa attenzione dei romanzieri secenteschi per gli argomenti storici non fu determinata soltanto da tale ragione. L’istoria fu terreno ambito dagli scrittori secenteschi, che avvertirono il richiamo della politica intesa come tecnica caratterizzata da meccanismi misteriosi e indecifrabili, e pur tuttavia, paradossalmente, determinabili ed esplicabili: essa parve perciò ai romanzieri un campo vergine da indagare e — 115 —

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dissodare nelle forme del componimento misto di storia e di invenzione, secondo variabili combinatorie, privilegianti volta a volta l’uno o l’altro dei due poli. La materia poté variare nelle direzioni più disparate, dalla storia antica a quella recente e contemporanea, ma sempre offrì sollecitanti stimoli per «la svogliata curiosità» del lettore secentesco: l’attenzione per vicende geograficamente distanti e nel contempo la coinvolgente partecipazione ad esse, lo spettacolo delle grandi imprese di portata europea insieme con la loro riduzione a scene di partecipata quotidianità, il rispetto del vero accanto al piacere dell’invenzione. Insomma, ci si appassionò per il mistero della ‘grande storia’ e per il piacere del disvelamento dei suoi fascinosi ‘congegni’, tradotti pure in asseverative sentenze e indefettibili massime. Su quest’ultimo tema si aprì un appassionato confronto tra coloro che intendevano infoltire la narrazione con «osservazioni sentenziose e morali […] estratte dalla qualità della materia»40 e coloro che invece respingevano questa pervasiva e sfrenata corsa alle «moralità e alle sentenziose dottrine»41, disgregatrice della dilettevole e unitaria ‘testura’ della narrazione42. Tra questi ultimi va annoverato il messinese Scipione Errico, autore di un romanzo, Le Guerre di Parnaso, pubblicato a Venezia nel 1643. Siamo nel pieno del dibattito sul romanzo storico. Poco prima dell’Errico, l’Assarino nella premessa alla sua Almerinda, aveva affermato: «Èmmi paruto meglio il favoleggiar sulle istorie che istoriare sulle favole […]. Io non alterando parte alcuna del testo di Giustino, sono andato sovra di esso fabbricando la serie di quegli avvenimenti nei quali è verosimile che potessero incontrar Astiage e Mandane, e ho cercato di vestirgli di quella imitazione, che non solo è necessaria alla essenza della favola, ma eziandio alla qualità dei successi e dei personaggi di cui si tratta […]»43. Fu questa la strada maestra del romanzo misto di storia e d’invenzione, basato sull’innesto del verosimile nel vero, secondo un rapporto di speculare e reciproco potenziamento, volta a volta rimarcato dal narratore. Ad esempio, Maiolino Bisaccioni, nel suo Demetrio moscovita (1639), organizzò le vicende dello zar di Moscovia secondo un inderogabile principio di fedeltà assoluta agli avvenimenti storici, dilatati con i moduli della ‘istoria tragica’, dalle rimarcate scansioni narrative (scena, prologo, negozio principale, catastrofe) segnate da sviluppi lirico-drammatici accentuatamente enfatizzati (la morte di Demetrio)44. Sulla scia del Bisaccioni, però, Ferrante Pallavicino avvertì subito gli ostacoli di tali scelte: lo scrivere la verità dei ‘successi’ contemporanei era oltremodo ostico per la difficoltà di spiar «queste secretezze o il pericolo nello scuoprirle»45. Egli perciò scelse la strada delle isto— 116 —

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rie antiche o quelle delle istorie sacre, anche se per quest’ultima soluzione non mancavano le asperità: «È impresa nella quale l’esito non può essere senza biasimo, perché il descriverle con forme pure di nuda istoria, è un moltiplicar senza necessità le versioni della Bibbia, e dall’altro canto l’aggiungere ornamenti è stimato da alcuni Aristarchi un variare i sensi della Scrittura»46. Al polo opposto, l’Errico scelse la formula della ‘istoria allegorica’ o ‘favola istoriata’ per la prima parte delle sue Guerre di Parnaso: i protagonisti della nostra letteratura antica e recente (dall’Alighieri al Marino) agivano come personaggi romanzeschi, impegnati in vicende scandite dal tema dominante della guerra (sedizioni, turbolenze, maneggi politici ecc.), a imitazione – secondo lo stampatore – delle Guerre di Fiandra di Guido Bentivoglio. Insomma, il vero storico dettava i tempi all’invenzione narrativa, permeandola delle stesse scansioni e delle stesse tensioni etico-politiche (i temi dei maneggi, della dissimulazione, della falsa benignità ecc.). Vero è che le Guerre di Parnaso non ebbero fortuna: ad esempio, il ritratto del Marino, presuntuoso e avido di potere, non piacque agli ambienti veneziani (il Loredano aveva appena pubblicato un’elogiativa vita del poeta napoletano, nel 1637). Così, l’Errico dirottò subito il suo interesse verso l’attività teatrale, partecipando allo sviluppo degli spettacoli scenici nella città lagunare, soprattutto nel campo della produzione melodrammatica. Egli, peraltro, non scrisse mai la seconda parte delle Guerre di Parnaso, annunciata al momento della pubblicazione della prima: ancora nel 1669, l’Errico scrisse all’Aprosio «di aver pensiero di stampare le Guerre di Parnaso con la seconda parte»47. Ma il progetto non andò in porto per la morte dello scrittore, ma anche perché (siamo nel 1669) sarebbe risultato un frutto fuori stagione. 5. QUALCHE PROPOSTA FINALE Dopo il declino degli anni ’70 del secolo XVII, l’esperienza romanzesca fu dimenticata. La critica sette-ottocentesca ha operato quasi un rito sacrificale di testi e di autori in nome di vincolanti presupposti ideologico-culturali (arcadico-razionalistici, romantici e positivistici ecc.). È questo un altro tratto di quella identità nazionale negata, sulla quale Amedeo Quondam si è opportunamente soffermato48. Un’intera, vivace, fervida esperienza letteraria (quella del romanzo secentesco, appunto) è stata messa al bando, anzi al rogo, senza che ne sia restata alcuna traccia; «un anello mancante»49, a certi— 117 —

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ficare la indisponibilità nazionale alla narrazione romanzesca. Come può essere accaduto ciò, a discapito di una così ricca esperienza, di ampio e accertato successo presso i contemporanei? Oltre ai noti pregiudizi antisecenteschi, alcune ragioni storico-letterarie, riguardanti specificatamente la produzione letteraria in questione, possono aver determinato tali risultanze. Innanzitutto, la considerazione della produzione romanzesca del Seicento come letteratura di consumo, quasi un’esperienza artistica di livello basso. Una considerazione insorta, proprio a seguito della grande diffusione del romanzo stesso, che fu apprezzato da lettori socialmente diversi, interessati e curiosi per disparate motivazioni: il fascino dell’avventura eroico-galante, le vicende della grande storia, la compunta devozione, secondo variegate commistioni, così che il Brusoni potè affermare che nello scorrere i romanzi, «l’ingegno aveva campo di rivolgersi, passegiare ed erudire» a sua volontà, e «chi leggeva avrebbe potuto raccogliere ciò che gli sarebbe piaciuto»50. Il Versari, a conferma della diffusione del genere romanzesco, indicava come destinatari i ‘leggitori’ di «ogni grado e condizione di persone, sì dotte, come mediocri e anche idiote»51. Fu dunque un genere di successo, «un autentico mostrum editoriale: romanzi spesso sterminati, di quattrocento e più pagine fitte, in traduzione o in originale, in una sola edizione o con numerose ristampe»52. Ma non fu un genere di modeste ambizioni letterarie e stilisticamente disadorno. Il Manzini, ad esempio, difese le personali scelte narrative, rivendicandone la sostenutezza linguistico-letteraria e la larga udienza, appunto, presso i contemporanei: «Dicono che ’l mio stile non corre, che le mie cose sono fanciullaggini, che sono fumi d’ingegno, e che so io […]. Costoro condannan sempre quel che non sanno fare, vedendo le nostre cose correr per tutta Europa, stampate e ristampate in pochissimi anni […] con applauso tale ch’ha tirato quasi affatto questo secolo a mutar maniera di scrivere»53. In secondo luogo, l’assenza di un dibattito teorico, altrove concretamente identificabile in testi specifici (il trattato dell’Huet in Francia), non è affatto una condizione per il disconoscimento del valore dell’esperienza narrativa secentesca: quelle numerose prefazioni ci restituiscono tale esperienza quasi viva e presente, nel momento del confronto tra linee tematico-stilistiche diverse, declinabili nella loro sincronia-diacronia, fuori dalle rigide classificazioni tematico-geografiche, come un aperto campo di tensioni ideologico-letterarie secondo continui assestamenti e svolgimenti. Le nostre classificazioni, mosse da intendimenti didattico-esplicativi, talvolta non fanno che ingessare e ischeletrire quello che fu il dinamico, dialettico e corposo svol— 118 —

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gersi dell’esercizio narrativo secentesco. Ad esempio, il Manzini nella Vita di Santo Eustachio martire (1631) tuonò contro i romanzi eroico-avventurosi dati in pasto a lettrici appassionate e disaccorte, definendoli «libri vani», «pillole inorpellate», «machine apparenti di gran cose»54, avviando così l’importante produzione narrativa d’intendimenti devoti55, destinata a concretizzarsi in cospicui esemplari come la Maria Maddalena del Brignole Sale e il Cappuccino scozzese di Giovan Battista Rinuccini, in sintonia con una «politica culturale che […] privilegiava il romanzo per veicolare, usando lo stesso “mezzo”, un’informazione “altra” rispetto a quella che invadeva il mercato, penetrava nelle case, delatrice “di sogni e di illusioni”»56; e si andò avanti così sino ai romanzi devoti di Giuseppe Battista, oltre la metà del secolo57. Ma intanto lo stesso Manzini, successivamente, per mutate condizioni storico-culturali58, recuperava nel suo Cretideo (1637) la narrativa fantastico-avventurosa, incardinandola però su tematiche controriformistiche. Per altro verso, l’esperienza di Ferdinando Donno, con la sua Amorosa Clarice (1625), si situa alle origini del romanzo secentesco, a Venezia. Il romanzo era esemplato sulla Fiammetta del Boccaccio, ma su un piano di competitività secondo il modulo del barocco perfezionamento, non di passiva dipendenza: Clarice, come Fiammetta, raccontava in prima persona la propria infelice esperienza amorosa. Monotematicamente articolato, con un ritmo narrativo tutto interno e lentissimo, e con una scrittura smaliziata ed elegante, elaborata sul modello trecentesco, il romanzo non ebbe alcuna fortuna e fu immediatamente fagocitato dalla coeva produzione narrativa caratterizzata dal continuo e accelerato intersecarsi delle sequenze narrative59. In seguito, però, in mutati contesti storico-geografici (area ligure), l’Amorosa Clarice divenne l’archetipo di una linea narrativa attenta al mondo dell’interiorità, esemplarmente rappresentata dalla Stratonica dell’Assarino60. Insomma, la storia del nostro romanzo secentesco va necessariamente vista come un susseguirsi di esperienze tematico-stilistiche, dialetticamente intersecate e in diacronico sviluppo, la più concreta testimonianza della sua vivacità. L’aggettivo ‘nostro’, a dire il vero, fa torto alla produzione romanzesca italiana del Seicento. Quinto Marini ha perentoriamente affermato che «il romanzo barocco è soprattutto un romanzo europeo, come attestano appunto le numerose traduzioni, non solo di romanzi stranieri in italiano, ma anche di romanzi italiani in francese, tedesco, inglese, spagnolo»61. D’altronde, se è certo che il Bisaccioni avvertiva che era più onorevole – a suo dire – la fatica della traduzione di romanzi francesi piuttosto che «componere certi fra— 119 —

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cidumi per non dire fasciumi di romanzi che si sono letti a giorni addietro»62, è anche vero che il Frugoni, in sede di consuntivo nazionale, poteva porre accanto al Calloandro del Marini e ai romanzi del Biondi, un romanzo francese, e cioè l’Argenide (1621) di John Barclay, eccelso «così nell’intreccio come nello stile e nella frizzante fraseggiatura»63, evidentemente su un piano di prospettiva storiografica letteraria di impianto europeo, nell’ambito della quale quella ‘nostra’ esperienza si qualificava con esiti propri e peculiarmente identificativi. Occorre ricollocare, dunque, questi nostri romanzieri nel loro tempo, ripercorrendone tappa dopo tappa gli individuali itinerari letterari, messi a confronto con il contesto storico-culturale nel quale maturarono, soprattutto con mente sgombra da penalizzanti e fuorvianti filtri. Giovanni Getto, in un suo saggio sui romanzi veneti dell’età barocca, dopo aver acutamente definito «dottrinale ed oratoriale» la sostanza psicologica dei personaggi di quei romanzi, concludeva con disappunto: «Non si vuole certo pretendere da questi nostri romanzi l’esplorazione abissale nelle notturne profondità dell’anima di un Dostoevskij. Si vorrebbe soltanto trovare qualcosa di quella “extrême finesse d’analyse” che incantava Sainte-Beuve di fronte alla Princesse de Clèves di Madame de La Fayette»64. Non sembra proprio questa l’ottica giusta con la quale affrontare questi romanzi, che vanno valutati nella loro effettualità storico-culturale, senza fissare alcun prioritario ed intangibile parametro di valore. D’altronde, a proposito della questione posta dal Getto, va ricordato che Roberta Colombi ha recentemente individuato, proprio a partire dall’Amorosa Clarice del Donno, un’esperienza di scrittura romanzesca (Assarino, Lengueglia, Morando), attenta «al mondo dell’interiorità», alla «sfera più privata dei sentimenti»65, insomma all’analisi introspettiva, in una direzione proficua per la storia del romanzo italiano. Non c’è da aggiungere altro a tale documentata proposta, che è anche un implicito invito a ri-vedere, e a ri-leggere i nostri romanzieri barocchi, ai quali si devono significative esperienze nella storia della narrativa nazionale: la rivendicazione della dignità del genere romanzo in prosa; la consapevolezza della necessità di una coesa e irrinunciabile compattezza dell’organismo narrativo; la disponibilità al polimorfismo tematico (dall’eroico-avventuroso, allo storico-politico, al sacro); l’impostazione del rapporto storia-invenzione nelle forme più varie e difformi (dall’istoria favoleggiata alla favola istoriata); l’avvio di procedimenti di analisi introspettiva per esiti di concretezza psicologica, di sguardo sui movimenti dell’anima, ecc.; l’insorgere di raffigurazio— 120 —

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ni del costume contemporaneo (la trilogia del Brusoni) verso esiti di realismo rappresentativo; infine, l’invenzione e l’elaborazione di una lingua e di uno stile prosastici per il nuovo genere narrativo, in parallelo con il progressivo esaurirsi del genere ‘epico’ in poesia, secondo una funzionale e sperimentale fluidità, aperta al periodare boccaccianamente elaborato dell’Amorosa Clarice, attraverso l’«estremistica» prosa barocca del Frugoni, sino alla prosa fatta di «periodetti brevi, sentenziosi e pungenti» di taluni romanzieri secenteschi, preludio, secondo Benedetto Croce, dell’«agile prosa moderna»66. Un bel mannello di punti a favore della narrativa barocca, che non può non esser tenuto in considerazione nella storia del romanzo nazionale, segnata pure dalla incisiva e corposa stagione secentesca nelle sue molteplici e variegate manifestazioni. Bisogna solo analizzarle con metodo e intelligenza, perché si disvelino nelle loro spiccate ed emblematiche forme.

NOTE Cfr. Romanzieri del Seicento, a cura di M. CAPUCCI, Torino, UTET, 1974. Cfr. Trattatisti e narratori del Seicento, a cura di E. RAIMONDI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960. 3 A. ALBERTAZZI, Romanzieri e romanzi del Cinquecento e del Seicento, Bologna, Zanichelli, 1891, pp. III-IV. 4 D. CONRIERI, Il romanzo ligure dell’età barocca, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. III, IV, 1974, 3, p. 927. 5 A. ALBERTAZZI, Romanzieri e romanzi, cit., p. 381. 6 ID., Il romanzo, Milano, Vallardi, 1902, p. 108. 7 M. L. ASTALDI, Nascita e vicende del romanzo italiano, Milano, Treves, 1939, p. 116. 8 Ivi, p. 12. 9 Ivi, p. 13. 10 Ivi, p. 12. 11 Cfr. A. BELLONI, Il Seicento, Milano, Vallardi, 1899, pp. 375-379. 12 Cfr. B. CROCE, Giovan Francesco Biondi, «La Critica», XXVI, 1928, II, pp. 141-150. 13 C. JANNACO, M. CAPUCCI, Storia letteraria d’Italia. Il Seicento, Milano, Vallardi [ma Padova, Piccin Nuova Libraria], 1986, p. 630. 14 S. S. NIGRO, Il romanzo barocco della «torre», in Il romanzo, V, Lezioni, a cura di F. MORETTI, P. V. MENGALDO, E. FRANCO, Torino, Einaudi, 2003, p. 97. 15 S. S. NIGRO, La narrativa in prosa, in Manuale di letteratura italiana – Storia per generi e problemi, a cura di F. BRIOSCHI e C. DI GIROLAMO, II, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 432. 1 2

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GINO RIZZO 16 Cfr. G. B. MANZINI, Cortesissimo lettore, in ID., Il Cretideo, Venezia, Per Giacomo Sarzina, 1637. 17 Cfr. G. A. MARINI, L’autore a chi legge, in ID., Il Calloandro, Bologna, Per Carlo Zenero, 1651. 18 Cfr. M. A. NALI, Gentilissimo Lettore, in ID., La regina di Cipro, Padova, Per Sebastiano Sardi, 1652 (sono in corsivo le affermazioni del Manzini riprese dal Nali). 19 A. N. MANCINI, Il romanzo nel Seicento. Saggio di bibliografia, I e II, «Studi secenteschi», XI, 1970, pp. 205-274 e XII, 1971, pp. 443-498, con le integrazioni di M. GORI, Il romanzo italiano del Seicento. Rassegna bibliografica, «La Rassegna della Letteratura italiana», XCVII, 1993, 3, pp. 94-178 e di L. SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp. 165-216. 20 Cfr. G. BENAMATI, L’autore agli uomini curiosi, in ID., Il Principe Nigello, Venezia, Appresso i Bertani, 1640. 21 G. B. MORONI, A chi legge, in ID., Il Principe Santo, Ferrara, Per Giuseppe Gironi, 1641. 22 G. F. BIONDI, L’Eromena, Venezia, Appresso Antonio Pinelli, 1628. 23 Cfr. L’anima di Ferrante Pallavicino, in Romanzieri del Seicento, cit., p. 595. 24 A. LUPIS, Il Postiglione, Venezia, Appresso Carlo Conzatti, 1666, pp. 400-401. 25 M. CAPUCCI, La narrativa del Seicento italiano, in I Capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco. Atti del Convegno internazionale di studi (Lecce, 23-26 ottobre 2000), Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 257-259. 26 Ivi, p. 257. 27 Cfr. L. SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento, cit., p. 10. 28 Cfr. EAD., Un consuntivo tardo-secentesco sul romanzo. Gio. Maria Versari e il Cavaliere D’Honore, «Studi secenteschi», XXXV, 1994, p. 152. 29 Ivi, p. 163. 30 F. F. FRUGONI, Il Tribunal della critica, a cura di S. BOZZOLA e A. SANA, I, Parma, Guanda, 2001, p. 293. 31 Ivi, pp. 292-293. 32 Cfr. M. CAPUCCI, Il romanzo a Bologna, in «La più stupenda e gloriosa macchina». Il romanzo italiano del sec. XVII, a cura di M. SANTORO, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981, pp. 3-36. 33 Cfr. D. CONRIERI, Il romanzo ligure, cit. 34 Cfr. I. DA COL, Un romanzo del Seicento. «La Stratonica» di Luca Assarino, Firenze, Olschki, 1981. L’edizione della Stratonica è stata curata da R. Colombi (Lecce, Pensa Multi Media, 2003). 35 Ivi, p. 131. 36 C. JANNACO, M. CAPUCCI, Storia letteraria d’Italia. Il Seicento, cit., p. 642. 37 Ho consultato l’edizione delle Lettere loredaniane pubblicate a Venezia nel 1659 (Appresso i Guerigli). Sui romanzieri d’area veneziana, cfr. P. GETREVI, Dal picaro al gentiluomo. Scrittura e immaginario nel Seicento narrativo, Milano, Angeli, 1986. 38 Cfr. F. BELLI, L’autore a chi legge, in ID., Accidenti di Cloramindo, Venezia, Appresso i Bertani, 1639. Su tale opera, cfr. M. CATUCCI, Un romanzo di Francesco Belli, «Sincronie», I, 1997,

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2, pp. 217-225. Per il successivo rinvio al Bisaccioni, cfr. Novelle italiane. Il Seicento. Il Settecento, a cura di D. CONRIERI, Milano, Garzanti, 1982, p. 247. 39 Ibidem. 40 Cfr. F. PALLAVICINO, L’autore a chi vuol leggere, in ID., La rete di Vulcano, Venezia, Appresso li Guerigli, 1640. 41 Cfr. S. ERRICO, Al Padre Frate Angelico Aprosio Ventimiglia Agostiniano, in ID., Le Guerre di Parnaso, a cura di G. RIZZO, Lecce, Argo, 2004. 42 Su questa problematica, cfr. il saggio di E. RAIMONDI, Polemica intorno alla prosa barocca, in ID., Letteratura barocca – Studi sul Seicento italiano, Firenze, Olschki, 1961; inoltre, vd. pure A. MURA PORCU, Elementi di storia della lingua nei romanzi del ’600, in Una lezione sempre viva. Per Mario Baratto, dieci anni dopo, a cura di F. BRUNI, S. MAXIA, M. SANTAGATA, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 385-418, e recentemente E. BELLINI, Agostino Mascardi tra «ars poetica» e «ars historica», Milano, Vita e Pensiero, 2002 (vd. in particolare il cap. II, Prospettive letterarie nell’«Arte istorica»). 43 Cfr. la premessa di L. Assarino alla sua Almerinda (Venezia, Per Giacomo Sarzina, 1640). 44 Cfr. G. RIZZO, Tra ‘Historia’ ed ‘epopea’: sondaggi su romanzi secenteschi, in Sul romanzo secentesco. Atti dell’Incontro di studio (Lecce, 29 novembre 1985), Galatina, Congedo, 1987, pp. 101-126. Il Demetrio moscovita è stato recentemente ripubblicato da E. Taddeo (Firenze, Olschki, 1992). 45 Cfr. F. PALLAVICINO, L’auttore a chi vuol leggere, in ID., Le due Agrippine, Venezia, Appresso il Turrini, 1654. 46 Cfr. la premessa di F. Pallavicino alla sua Bersabee (Venezia, Appresso li Turrini, 1654). Su queste affermazioni del Pallavicino, e più in generale sulle sue ‘narrazioni sacre’, cfr. F. ANTONINI, La polemica sui romanzi religiosi: una lettera da Parigi di Ferrante Pallavicino, «Studi secenteschi», XXXI, 1990, pp. 29-70. 47 Cfr. l’edizione critica delle Guerre di Parnaso dell’Errico già citata. 48 Cfr. A. QUONDAM, L’identità (rin)negata, l’identità vicaria. L’Italia e gli italiani nel paradigma culturale dell’età moderna, in L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana. Atti del III Congresso nazionale dell’ADI (Lecce-Otranto, 20-22 settembre 1999), a cura di G. RIZZO, I, Galatina, Congedo, 2001, pp. 127-149. 49 A. ASOR ROSA, La narrativa italiana del Seicento, in Letteratura italiana, diretta dallo stesso, III, 2, Le forme del testo. La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 715-717. 50 L’anima di Ferrante Pallavicino, cit., p. 595. 51 G. M. VERSARI, Ai Signori Lettori, in L. SPERA, Un consuntivo, cit., p. 164. 52 A. QUONDAM, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, cit., II, Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 682-683. 53 G. B. MANZINI, Delle Lettere, vol. primo, Bologna, Presso Gio. Battista Ferroni, 1646, pp. 169-173. 54 ID., Della vita di Santo Eustachio martire, Venezia, Per Giunti e Baba, 1644, pp. 3-7. 55 Secondo un progetto ideologico-culturale condiviso anche dal fratello del Manzini, Luigi, autore pure di romanzi sacri. Cfr. G. L. BETTI, Letteratura e politica nei romanzi religiosi di Luigi Manzini, «Studi secenteschi», XXXVI, 1995, pp. 181-192.

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GINO RIZZO 56 M. MUSCARIELLO, La società del romanzo. Il romanzo spirituale barocco, Palermo, Sellerio, 1979, p. 19. Sullo stesso tema cfr. pure E. DE TROJA, Le meraviglie de la santità. Significati e strutture del romanzo religioso barocco, Padova, Liviana, 1980. 57 Cfr. G. RIZZO, Spezierie, danzatrici e giocolieri nei romanzi spirituali di Giuseppe Battista, in Confini dell’Umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. DE NICHILO, G. DISTASO, A. IURILLI, III, Roma, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 11771185. 58 Cfr. il mio Tra ‘Historia’ ed ‘epopea’, cit., pp. 101-118. 59 Cfr. la mia edizione dell’Amorosa Clarice di F. Donno, pubblicata dall’editore Congedo di Galatina nel 1979. 60 Cfr. R. COLOMBI, Lo sguardo che «s’interna». Personaggi e immaginario interiore nel romanzo italiano del Seicento, Roma, Aracne, 2002. 61 Q. MARINI, La prosa narrativa, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. MALATO, V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno Editrice, 1997, p. 1025. In particolare, per i rapporti tra il romanzo francese e quello italiano, cfr. Il romanzo barocco tra Italia e Francia, a cura di M. COLESANTI, Roma, Bulzoni, 1980. 62 Cfr. la premessa del Bisaccioni allo Sperandione di J.P. Camus (Venezia, Tomasini, 1656). 63 F. F. FRUGONI, Il Tribunal della critica, cit., p. 289. 64 G. GETTO, Il romanzo veneto nell’età barocca, in ID., Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, p. 331. 65 Cfr. R. COLOMBI, Lo sguardo che «s’interna», cit. 66 B. CROCE, Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1962, p. XXI. Sulle scelte stilistiche dei romanzieri secenteschi, dopo l’invito ad una maggiore attenzione su di esse fatto da D. Conrieri nel suo saggio Sulla collocazione storica della narrativa secentesca, in I luoghi dell’immaginario barocco. Atti del Convegno di studi (Siena, 21-23 ottobre 1999), a cura di L. STRAPPINI, Napoli, Liguori, 2001, p. 508, vd. le intelligenti osservazioni di Q. Marini nel suo saggio La prosa narrativa, cit., pp. 1050-1053.

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TATIANA CRIVELLI FORME DEL ROMANZO ITALIANO DEL SETTECENTO A definire sinteticamente i tratti peculiari del libro romanzesco del Settecento italiano possono soccorrerci – se l’anacronismo si intenda come deroga veniale, inteso com’è a chiarire per analogia e non a giustificare storicamente – le parole che Giorgio Manganelli ha dedicato agli Elisir del diavolo di Hoffmann: dopo averne tracciato un pedante sommario, e schizzata una selva genealogica e una mappa su cui annotare nascite illegittime, trafugamenti, travestimenti, omicidi, adulteri, stupri e incesti; inevitabilmente dovremmo concludere che questo libro è affatto inafferrabile, refrattario all’umiliazione del riassunto […].1

Una profonda comunanza di natura strutturale permette infatti di accostare le produzioni romanzesche dell’Italia del XVIII secolo con la seriore e ben più celebre favola di Fra Medardo: di entrambe è possibile dire che non offrono, come scrive sempre Manganelli, «nuclei centrali, ma piuttosto temi, segni ricorrenti, moduli»2. Da tali «segni ricorrenti» muove anche la presente analisi, che intende ripercorrere le forme del romanzo del Settecento in Italia non tanto attraverso una descrizione delle singole manifestazioni storiche del genere, quanto piuttosto delineando alcune costanti categoriali del fenomeno. 1. La critica letteraria italiana dell’ultimo decennio ha assistito a una manifesta rinascita dell’interesse nei confronti del romanzo, in un crescendo culminato di recente nella voluminosa testimonianza dei tomi einaudiani3. Di un contesto tanto favorevole ha potuto godere, di riflesso, anche l’esperienza settecentesca nazionale: attualmente sono a nostra disposizione sia studi teorici e linguistici4, sia indagini di carattere tipologico e bibliografico relative al romanzo italiano del XVIII secolo5. Sono inoltre stati approntati strumenti — 125 —

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specificamente dedicati a singoli autori, in particolare all’abate Chiari6 e all’opera narrativa di Antonio Piazza7: tanto che, ormai, il parlare ancora di indifferenza verso questo tema costituirebbe una recriminazione piuttosto inattuale. Tuttavia, pur nella sua vitalità, gran parte della recente produzione critica dedicata al romanzo italiano del Settecento conserva in sé tracce piuttosto evidenti del tradizionale svilimento della materia. L’ingombrante eredità si palesa attraverso un recondito, quanto pervasivo disagio nei confronti dello specifico campo di indagine, per cui il romanzo italiano del XVIII secolo costituisce pur sempre un oggetto di studio da non affrontarsi senza preliminare giustificazione d’intenti, e – soprattutto – un capitolo che non trova spazio all’interno della tradizione letteraria nazionale8. Retaggio di una collaudata impostazione critica (che ebbe il suo apice nella posizione di Benedetto Croce, per cui questi testi costituirebbero tutt’al più una «vivace e sennata dipintura» degli usi e costumi della loro epoca9), ancora oggi risulta diffuso un tipo di lettura che tende a sminuire più o meno apertamente il carattere letterario di questi romanzi, relegandoli al ruolo di materiale documentario. C’è dunque del vero nell’appassionata denuncia di Carlo Madrignani, quando scrive che: Per quanto possa stupire, in una cultura carica di passione storicizzante, la verità è che ancora in pieno Novecento si è conservato come dottrina ufficiale il giudizio, vecchio di due secoli, stilato dagli oppositori settecenteschi. In effetti, l’abnormità più che al romanzo appartiene alla tradizione critica.10

Ma, al di là di ogni recriminazione, il seguire le ragioni della critica è interessante soprattutto quando ci aiuti a individuare i tratti ricorrenti più innovativi del genere; ovvero quelli su cui, sin dalle origini, essa si è appuntata. Nell’Italia del XVIII secolo la denigrazione del nuovo genere si manifestò quasi contemporaneamente al suo oggetto. In primo luogo essa fu reazione di stampo conservatore di fronte all’emergere di una forma letteraria dai tratti peculiari e potenzialmente minacciosi per l’establishment intellettuale. Richiamandosi espressamente a modelli d’oltralpe, i nuovi romanzi si proponevano infatti come opere i cui referenti culturali primari erano da collocarsi in ambiti estranei alla tradizione letteraria italiana, sia per la forma espressiva (alla novità costituita dal genere letterario si associava l’uso di una lingua dichiaratamente anti-puristica), sia per il contenuto (con protagoniste e situazioni narrative provocatorie per la morale corrente). Ma, soprattutto, essi godettero un inusitato successo di pubblico: Luca Clerici conta, ad esempio, — 126 —

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circa 130 edizioni e 200.000 copie dei 23 romanzi di Pietro Chiari che egli considera di attribuzione certa, segnalando addirittura, per le prime quattro opere dell’abate bresciano, scritte tra 1753 e 1755, 42 edizioni11. Il fastidio cagionato dall’apparire dei nuovi romanzi e dall’interazione delle loro componenti più estranee al panorama intellettuale italiano è efficacemente riassunto, già nel 176112, da Carlo Gozzi, in alcuni versi tra i più caustici della sua Marfisa bizzarra: I romanzieri dall’eroiche imprese, dalle battaglie e da’ sublimi amori più non si nominavan nel paese, perché i moderni eran usciti fuori co’ fatti de’ baron, delle marchese, che mille volte si tenean migliori per certe grazie, e così più alla mano e assai più confacenti al corpo umano. Leggeano in quei siccome entro alle mura delle vergini sacre ivan gli amanti, come fuggìan da quelle alla ventura le donzelle ivi poste, andando erranti; e vestite come uomo, alla sicura dormìan co’ maschi del fatto ignoranti, e il loro imbroglio al terminar de’ mesi, ed altri casi all’uso de’ Francesi.

Contro all’immorale ed esteticamente dubbio «uso de’ Francesi», l’intellettualità italiana si trovò in breve a difendere piuttosto una filiazione alternativa del genere del romanzo, giungendo ad opporre alle stravaganze prosastiche imputabili alla tradizione di origine orientale del racconto – così come era stata delineata da Huet nella Lettre-traité sur l’origine des romans13, il fondamentale trattato tradotto in italiano nel 1740 e molto discusso per tutta la seconda metà del secolo14 – una più aulica trafila letteraria, cronologicamente e geograficamente circoscritta in modo da culminare in un genere che costituisse un indiscusso vanto nazionale: il romanzo in versi. Così, già nel 1749, Quadrio ricordava all’Italia che: entrata nella Provenza […] e indi in Francia, la mania de’ Romanzi, si cominciò da’ Poeti a coltivare sì fatto studio, e a tessere i medesimi in modo, che alla forma, ed all’abito, potessero in aria di poemi apparire. […] Né furono gl’Italiani di ciò soddi-

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sfatti: ma volendo eglino sollevare questi Componimenti, più che potevano, a partecipare il carattere dell’Epica Poesia, cominciarono a scriverli in versi, eleggendo perciò l’Ottava Rima, come Metro a sì fatte materie conveniente, e in uno maestoso.15

Vent’anni dopo, l’abate Roberti avrebbe ancora conseguentemente opposto le altezze di un romanzo di antica e ortodossa tradizione al nuovo romanzo, corruttore e deprecabile, articolando il suo celebre trattato Del leggere libri di metafisica e divertimento su un distinguo fondamentale: Ho nominato romanzi, ma io non intendo di ricordare né Arturo né Turpino né la Tavola rotonda […]. Ho nominato romanzi, e intendo di nominar quelli appunto che oggi si stampano e oggi si leggono, e che sono d’ordinario in molte lor parti di carattere assai diverso.16

Oltre a problemi relativi alla sua classificazione ideologico-formale, poi, il nuovo genere di romanzo in prosa sollevava in termini perentori anche la questione della relazione dell’invenzione narrativa con la realtà storica, proponendo scandalosamente la priorità educativa della scrittura romanzesca17. Di fatto, come criticano i detrattori per bocca di un Chiari agli esordi della sua carriera: gli accidenti da’ Romanzieri narrati, comechè non siano impossibili, sono eglino però d’una sì difficile combinazione, che uniti insieme rado è che si vedano mai. Quindi il lavorare su tal modello le nostre idee, egli si è un fabbricare castella in aria, ed antiporre ad una virtuosa, lodevole mediocrità di facile riuscimento le inimitabili pruove d’un eroismo diretto bene spesso dal caso, e fantasticato sempre a capriccio.18

La libertà di fabbricare «castella in aria» (espressione che, non a caso, nel 1773 avrebbe costituito il titolo di una raccolta a carattere romanzesco di Antonio Piazza19) viene insomma a rappresentare una specificità del romanzo che, se i critici del genere leggono in negativo, i suoi difensori interpretano invece come un vero e proprio merito, perorando la causa della libertà dell’immaginario rispetto alla verità del fatto storico. «A buon conto» – come osserva nelle sue Lettere critiche uno dei difensori più strenui del genere romanzo, Giuseppe Antonio Costantini – «ecco una fedeltà nel Romanzo, che non v’è nella Storia. Li Storici vi promettono tutti a gara di essere veridici, e sciolti dalle passioni; ma non vi mantengono la parola. Il Romanziere vi dice sinceramente, che vi presenta una Storia inventata»20. Si— 128 —

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gnificativamente siamo qui agli antipodi di quella che sarà la posizione manzoniana della Lettre à M. Chauvet, per cui «l’essence de la poésie ne consiste pas à inventer des faits» e «tous les grands monumens de la poésie ont pour base des événemens donnés par l’histoire, ou, ce qui revient ici au même, par ce qui a été regardé une fois comme l’histoire»21. Precisamente in quanto garante di non veridicità, il romanzo è dunque veicolo di una componente di idealità assente nella narrazione storica e può proporre personaggi, intrighi, luoghi e situazioni forse poco significativi secondo i parametri della verità storica, ma certo rappresentativi di determinati valori ideologici. Richiamandosi al famoso detto voltairiano «l’histoire dit ce qu’on a fait, un bon roman ce qu’il faut faire», ecco che in questi romanzi anche gli eventi che seguono norme occasionali e logiche incomprensibili si rivelano fondamentali, poiché capaci di provocare in chi legge una sorta di straniamento della ragione, che può efficacemente rendere consapevole chi legga dell’instabilità dei destini umani (cosa, questa, per le menti illuministe almeno altrettanto significativa del disvelamento di un disegno provvidenziale per la tradizione morale cattolica). I casi dei nuovi romanzi tendono infatti a proporsi piuttosto come un repertorio esteso e aperto, non solo di casi reali ma anche, o meglio soprattutto, di inesplorate possibilità. Conseguenza diretta di questa dilatazione prospettica è l’inaugurarsi di una rappresentazione più ampia della dimensione psicologica e di quella sociale. Come bene ha mostrato J. Paul Hunter in riferimento al romanzo inglese, il romanzo settecentesco, inventando storie possibili invece di limitarsi a registrarne di vissute, regala alle vicende di un singolo individuo una determinante ampiezza cumulativa di carattere immaginifico22: From a need to record the world and represent it as it has been, the novel gets down to cases in a fashion that extends the sense of subjectivity in to a dimension of futurity by taking novelty seriously enough to consider what might be as well as what is. Casuistry helped to open psychological possibility and make it morally and theologically respectable.

Sin dall’inizio, attorno a quelle avventure «d’una sì difficile combinazione, che unite insieme rado è che si vedano mai»23 e, insomma, attorno al modo di intendere le funzioni della prosa romanzesca, si determina dunque fra gli scrittori e i loro detrattori una frattura interpretativa che non potrebbe essere più insanabile. Di fronte alla minaccia che, per i motivi di ordine strutturale sin qui elencati, il nuovo genere in prosa costituiva per la consolidata — 129 —

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espressione letteraria nazionale e per l’ordine ideologico e sociale da essa rappresentato, la quasi totalità degli intellettuali nell’Italia del Settecento fu pronta a rigettare il fenomeno e il suo successo di pubblico con toni amaramente denigratori; come quelli dell’abate Roberti, che definì il romanzo in prosa un genere contraddistinto dalla «mollezza»24 e pertanto «conveniente solo ad alquanti crocchi di femmine varie e di garzoni effeminati»25. Non stupisce pertanto che anche i secoli successivi abbiano pervicacemente tentato di arginare i tratti sovversivi che tanto spiacquero in questa scrittura, ad esempio operando una meticolosa riduzione del fenomeno in una miriade di sottocategorie, più facilmente collocabili in schemi precostituiti, ma mutevoli secondo lo spirito dell’epoca o della critica che le praticava. Così, ad esempio, Giulio Natali, nel suo pionieristico studio a proposito di quest’argomento26, distingueva tra romanzi erotici (Algarotti), satirici (Seriman), allegorici (Gozzi), erotico-avventurosi (Chiari), drammatici e passionali (Piazza), personali e fantastici (Casanova), d’avventura (Basso, Foppa ed altri), filosofici (Micheletti, Marin, Scotti), storici (Verri), epistolari (da Chiari a Foscolo), e autobiografici (da Goldoni a Maffei). Né a questa, né ad analoghe persistenti distinzioni, si vuole qui negare la qualifica di specificazioni operative utili alla ricerca, che agevolano il compito di un sondaggio ‘verticale’ del tema, permettendo di conoscere in particolare singole classi di testi o autori specifici; tuttavia, al loro proliferare va d’altro canto connessa la scarsa attenzione riservata allo studio dei «segni ricorrenti». Unita da un lato al problema della mancata conservazione dei testi (per l’usura, e per la reticenza delle biblioteche a conservarli nel loro corpus erudito), dall’altro alla difficoltà di stabilire con certezza, in una situazione editoriale particolarmente complessa, un corpus di produzioni originali italiane – l’ansia di catalogazione in schemi noti è andata a detrimento dell’individuazione di denominatori comuni della scrittura romanzesca. Ma solo un procedimento di lettura teso a mettere in luce, al di là delle singole esperienze scrittorie, i principali tratti definitori del genere, così come ricorrono con maggior frequenza nel romanzo settecentesco in Italia, permette di accostare questi testi alla complessità dei modelli di scrittura coeva delle altre nazioni, restituendoci in definitiva l’idea che, anche per il caso italiano, non di singoli exploits si trattasse, bensì di un fenomeno che godette di una propria complessità e di una propria identità originale.

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2. Le forme di scrittura tipologicamente più vicine al romanzo nell’Italia del secondo Settecento, e dunque quelle nei confronti delle quali esso necessita di distinguersi più chiaramente, sono il genere romanzo in versi, da un lato, e la novella dall’altro. Il discrimine fra queste esperienze non è soltanto di carattere formale (versi/prosa, brevità/ampiezza), ma anche ideologico. Profondamente nuovo risulta ad esempio l’utilizzo della categoria del ‘meraviglioso’. Alla funzione principale dell’irruzione di questo agente nella narrazione – che, secondo Todorov, è il «portare una modificazione nella situazione precedente, e rompere l’equilibrio (o lo squilibrio) stabilito»27, – non si adempie più, come è invece tipico per i romanzi a carattere epico, attraverso il ricorso ad oggetti o situazioni soprannaturali e a poteri magici, bensì attraverso il loro sostituto ‘realistico’: il caso. Conosciuto dagli uomini come l’arbitro di tutte le trame, il caso è l’unico, vero elemento dell’orizzonte ultraterreno che compare nelle nuove narrazioni romanzesche. Ma a differenza delle novelle, nei nuovi romanzi ciò che non è governabile dall’uomo passa al vaglio della razionalità e del didatticismo del secolo dei lumi e a protagonisti memorabili ed esemplari si sostituiscono personaggi meno caratterizzati individualmente, e spesso socialmente irrilevanti, ma le cui vicissitudini risultano tuttavia, anche grazie alla presenza di cospicue ‘istruzioni per l’uso’ (di cui dirò meglio tra breve), assolutamente significative per il pubblico a cui si rivolgono. In quanto indispensabile per promuovere gli sviluppi della narrazione la componente meravigliosa non viene certo cancellata, ma assume dei connotati che la riportano nell’ambito del possibile, anche se non del comprensibile. Mentre «il meraviglioso implica che noi siamo immersi in un mondo dalle leggi totalmente diverse da quelle in vigore nel nostro»28, il caso agisce infatti nello stesso ambito delle leggi che governano la vita umana, ed opera per lo più sotto forma di una realtà a noi ben nota. Le serie di eventi che si presentano nei romanzi di questo periodo non implicano più l’intrusione del meraviglioso/numinoso nel reale, ma offrono quasi dei cataloghi d’esperienze, in composizioni inedite dei casi della vita che diventano, così, meglio definibili e quindi gestibili da parte dei lettori e delle lettrici. Queste stesse serie di eventi accidentali costituiscono, come nel caso del romanzo hoffmanniano, la causa prima della refrattarietà del genere nei confronti del riassunto. 3. Non meno interessante per il nostro proposito di lettura si rivela poi l’analisi di elementi più strettamente formali. Tra questi si può citare innanzi— 131 —

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tutto, come uno degli elementi più peculiari, la pratica degli intertitoli. Tutti i romanzi di Pietro Chiari, ad esempio, sono divisi in più parti e queste si distinguono a loro volta in «Articoli», sempre preceduti da una sorta di breve rubrica esplicativa, che chiamerò – con Genette – intertitolo di una suddivisione tematica29. Una divisione regolare ed insistente del testo preceduta da titolazione secondaria, spesso in forma di proposizioni completive30, appare con frequenza in tutta la narrazione romanzesca di questo periodo in Italia e, indifferentemente, anche nelle opere minori o in quelle più tarde31. Questa articolazione narrativa è invece generalmente assente sia nei suoi antecedenti (ad esempio nella maggioranza degli esempi di romanzi barocchi italiana a noi noti), sia nel romanzo del XIX secolo (i Promessi Sposi offrono ad esempio una ripartizione che Genette direbbe di genere classico, e sono divisi in capitoli semplicemente numerati)32. Significativamente, quella dell’intertitolo descrittivo è infatti una pratica che tocca il suo apice nel Settecento, diventando parte costitutiva dei novels inglesi e francesi. Il modello prestigioso dei romanzi d’oltralpe parrebbe dunque il primo fattore da tenere presente per spiegare tale uso nel romanzo italiano dello stesso periodo. Nelle narrazioni omodiegetiche, inoltre – ed è il caso della maggior parte dei nuovi romanzi italiani – è proprio a questi intertitoli che si lega fortemente il problema dell’identità dell’istanza narrante. Infatti, se a tale istanza si concede di esprimersi in prima persona ecco che: questa concessione ha come effetto inevitabile di costituire l’eroe-narratore in istanza non solo narrativa, ma letteraria: come autore responsabile della costituzione del testo, della sua gestione, della sua presentazione, e cosciente della sua relazione con il pubblico. Egli non è più […] solo un personaggio che racconta la propria vita per iscritto, è un personaggio che si fa scrittore costituendo il suo racconto in forma di testo letterario, già provvisto grazie al suo intervento di una parte del suo paratesto. Tutto ciò respinge contemporaneamente l’autore reale nel ruolo fittiziamente modesto di semplice ‘editore’, o presentatore […] anche se il lettore, consapevole delle convenzioni letterarie, sa che non gli si chiede veramente di credervi.33

Gli intertitoli dunque, in particolare quelli dei racconti omodiegetici dlle narrazioni pseudo-autobiografiche, sono intesi a rafforzare implicitamente il credito di quella dicotomia inizialmente annunciata dai titoli principali delle opere secondo il paradigma largamente dominante: «memorie o avventure di X raccolte o pubblicate da Y», in cui l’autore figura, stavolta esplicitamente, come il curatore di materiale redatto da altri. — 132 —

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4. La problematica dei rapporti di identità, rispettivamente somiglianza, intercorrenti fra le istanze autoriali e narrative conduce alla fondamentale questione della natura autobiografica di questi testi. Non tutti i romanzi del secondo Settecento italiano seguono pedissequamente, secondo il paradigma chiariano delle ‘memorie’, una trafila narrativa autobiografica, ma quasi tutti adottano il modello della narrazione di vita vissuta; non tutte le narrazioni hanno come interpreti in prima persona delle donne avventurose ed emancipate, ma quasi tutte – anche quelle poche in cui la figura del narratore non sia autodiegetica – si presentano come narrazioni a focalizzazione interna, in cui il punto di vista è di norma fisso, regolato sul narratore o la narratrice che raccontano34. La finzione autobiografica che questi romanzi vogliono instaurare con il loro pubblico crea insomma effetti comparabili a quelli della vera autobiografia, genere letterario del resto estremamente diffuso nel XVIII secolo. Secondo la nota definizione offerta da Philippe Lejeune, quattro elementi fondamentali concorrono, su livelli diversi, a formare le condizioni per l’esistenza di un’autobiografia35: la forma del linguaggio (è prosa narrativa); il soggetto trattato (è una storia individuale, di una personalità); la situazione dell’istanza autoriale (la figura dell’autore/autrice – il cui nome si riferisce ad una persona reale – e quella del narratore, rispettivamente della narratrice, sono identiche); la posizione dell’istanza narrante (c’è identità tra la figura del narratore, maschile o femminile, e il personaggio principale; la narrazione è svolta da un punto di vista retrospettivo). Nel romanzo che pretende di essere un’autobiografia viene dunque a mancare il primo e fondamentale anello della catena identificativa autobiografica, cioè l’equazione identitaria fra autore e narratore. Precisamente questa mancata coincidenza – che ha come effetto finale una sorta di sbavatura nel profilo delle due impressioni sovrapposte – viene ad offrire lo spazio creativo ideale che permette agli autori di inventarsi altre identità, con esplorazioni tanto più sorprendenti se si pensa che furono esclusivamente autori di sesso maschile a mettere in scena la folla di donne protagoniste che invadono il paesaggio letterario dell’Italia del XVIII secolo. Va da sé che, invece, la seconda parte dell’equazione, quella che suppone l’identità tra istanza narrante e protagonista, rimane determinante e che, anzi, proprio su tale identità si fonda la finzione autobiografica dei romanzi settecenteschi (finzione che può perdurare efficacemente anche nel caso di scritture in terza persona, come ha ben dimostrato per il caso delle autobiografie reali ancora lo stesso Lejeune36). — 133 —

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La scelta del modello autobiografico ricade poi necessariamente, in modo più o meno diretto a seconda del grado d’applicazione, oltre che sul livello della dispositio, anche sul livello retorico dell’inventio. Le storie narrate in questi romanzi cominciano topicamente riferendosi ai primi anni della vita della loro eroina o del loro protagonista, proseguono con la narrazione degli eventi più notevoli, per concludersi infine in coincidenza temporale con il momento medesimo della scrittura. L’analessi iniziale ed il fatto che nel momento della conclusione della scrittura romanzesca il tempo della narrazione si sovrapponga al tempo del narrato (cosa che per il pubblico si replica naturalmente a livello della lettura, che a sua volta si conclude simultaneamente) contribuiscono a definire un processo che ha diversi stadi d’applicazione e che, proprio in quanto tale, sembra essere tipico della forma di questi nuovi romanzi. Un’altra conseguenza importante dell’adozione di questa tecnica di scrittura pseudo-autobiografica si riscontra infine a livello della gestione dei tempi e degli spazi della narrazione, che non possono corrispondere ad un orizzonte d’attesa storica: se la biografia elabora un elenco di date, descrive luoghi e persone più o meno in conformità con i fatti che hanno realmente avuto luogo, il romanzo autobiografico può soltanto trasportare questi luoghi e questi fatti in una dimensione non verificabile, astorica, neutrale37. 5. Altrettanto scarsamente catalogabili nelle categorie narrative della tradizione italiana, e molto più vicine invece alle figure del nascente teatro settecentesco, sono poi le protagoniste femminili che dominano le narrazioni in prosa di questi romanzi. Tale è la loro importanza nella formazione di questa nuova letteratura, che è impossibile cogliere appieno lo sviluppo del romanzo moderno nel XVIII secolo in Italia senza tenere conto dei suoi legami con la problematica di genere (dove con il termine ‘genere’ si indica l’insieme di tutte quelle caratteristiche – fisiche, psicologiche, comportamentali, conoscitive, emotive – che in una determinata cultura costituiscono i presupposti per indicare le differenze tra uomo e donna): in primo luogo, per il rapporto molto stretto che la nascita di questa narrazione ebbe con alcuni fermenti fondamentali del tessuto sociale, nel quale precisamente si era appena inserito un fervente dibattito a proposito dell’istruzione della donna38; in secondo luogo, per il suo trasformare proprio le donne in protagoniste, narratrici e, probabilmente, anche in lettrici. Non è questa la sede per addentrarsi nel complesso discorso relativo alla ricezione dei romanzi, ma andrà per lo meno sottolineato con Nancy Miller che, se la forma romanzo può dirsi ‘femmino— 134 —

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centrica’39, resta altrettanto vero, e non di secondaria importanza, il fatto che questi testi siano scritti da uomini e che le loro trame non risultino, in definitiva, né femminili «nell’impulso o nell’origine, né femministe nel loro spirito»40. Non si capisce dunque perché, ad esempio, un titolo come La giuocatrice di lotto di Chiari debba essere considerato, come ancora recentemente è stato fatto, «forse un ammiccamento ad un settore femminile di appassionate» e quel romanzo rivolgersi ad un «settore specifico di lettrici»41 più di quanto l’Uomo d’un altro mondo (Chiari) dovrebbe allora parlare ad un ipotetico quanto improbabile pubblico di saggi ritiratisi a vita solitaria su un’isola, o gli Zingani e il Romito (Piazza) ai gruppi sociali indicati dai rispettivi titoli. La convinzione che il pubblico privilegiato dei romanzi sia formato essenzialmente da donne è certo supportata più efficacemente dalla cura che, notoriamente, il secolo dei lumi dedicò alla loro istruzione. Ma non si può dimenticare che l’equazione donna-romanzo, nei termini in cui viene ripetutamente proposta, non va esente – come ci insegnano gli argomenti dei primi detrattori del genere – da un pretestuoso e pregiudizievole intento di declassamento del genere letterario. Nel bene e nel male, allora, per la nascita del romanzo moderno il ruolo della questione di genere risulta determinante. I nuovi modelli educativi e sociali che si fanno strada con l’illuminismo aprono la strada a nuove figure di donne colte e sempre più indipendenti, che entrano di buon diritto anche fra i protagonisti della narrativa; viceversa, è proprio la proposta funzionale di alcuni modelli femminili capaci di ridefinire i rapporti di genere secondo nuove forme a rendere attrattive nuove dinamiche di interazione sociale. Le donne che leggono avventure romanzesche sono, come ben sanno i detrattori settecenteschi – soprattutto ecclesiastici – inclini a giudicare la loro condizione di vita secondo parametri diversi: da qui la necessità di sorvegliare le letture femminili, dato che, come scrive nel 1760 l’anonimo estensore del manuale per La felicità del matrimonio, nel capitolo dedicato alla Lettura di Romanzi, e Novelle: «[…] fra dieci Mogli occupate in questa lettura nove saranno quelle che tradiranno il Marito con amorosi intrighi»42. Se si mira ad uno studio globale degli elementi interni ai testi, le protagoniste femminili che agiscono nei romanzi dell’epoca possono dare luogo ad una tipologia interessante, che si polarizza attorno alle sfere del privato e del pubblico. Quando si muovono attorno alla prima, cioè attorno all’ambiente privato, le protagoniste mostrano un processo di maturazione, che, partendo da una condizione d’instabilità (spesso in coincidenza con una condizione di — 135 —

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orfanezza o d’assenza di un contesto familiare adeguato) si conclude con l’acquisizione di un status non ambiguo e stabile. Al contrario, quando siano in contatto con la sfera pubblica, le medesime protagoniste sembrano violare in continuazione i precetti sociali per loro previsti, compiendo azioni moralmente dubbie, esercitando lavori sconvenenti (sono spesso scrittrici dilettanti, attrici, o ballerine), oppure invadendo i settori normalmente riservati agli uomini (ad esempio sul campo di battaglia, o conducendo una vita indipendente e viaggiando molto). La tensione che si produce tra questi due aspetti, privato e pubblico, dà occasione a numerose ambiguità e nel contempo permette al romanziere di risolvere ogni conflitto con una riflessione a proposito della non coincidenza tra l’apparenza dei ruoli pubblici e la realtà. La vera natura di queste eroine può essere capita soltanto da chi vada oltre ai luoghi comuni; e questo, ancora una volta, è invitare il proprio pubblico a fare un uso autonomo e libero della ragione. In relazione alle protagoniste femminili andrà poi infine, almeno brevemente, menzionato – rimandando per approfondimenti al complesso studio dedicato da Pierre Fauchery a questo tema43 – come i loro ruoli siano tutti, invariabilmente, connotati sessualmente e abbiano, ai due estremi, da un lato il matrimonio, come coronamento della categoria del privato e, dall’altro, la scelta di una vita indipendente, per coloro che rimangono ‘pubbliche’; con netta dominanza della prima soluzione. 6. Il fatto che i paradigmi narrativi di maggior successo siano stati sfruttati ripetutamente dai romanzieri nel corso di tutta la loro produzione – e questa reiterabilità si applica, con altre modalità, anche ai protagonisti maschili di casi avventurosi o viaggi utopici – è un aspetto già osservato dai contemporanei, che videro in questa caratteristica uno dei tratti più spiacevoli del genere, oltre che uno dei più facili a volgere in ridicolo. Tuttavia, questo piacere della ripetizione a livello strutturale, in cui l’orizzonte d’attesa dell’acquirente si muove tra la consolidata certezza di una ripetitività di fondo (determinata dal genere di appartenenza) e l’attesa di innovazioni sorprendenti (legate alla peculiarità dei casi narrati nel singolo romanzo), costituisce un tratto distintivo fondamentale, che immette a pieno titolo questo genere di scrittura nella categoria della narrativa ‘popolare’. Come fenomeno di massa, il romanzo settecentesco mette per la prima volta in gioco un pubblico che, per dirla efficacemente con le parole di Daniel Couégnas, «veut soit quelques chose de nouveau, soit quelques chose de semblable»44. — 136 —

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Alle esigenze di questo pubblico il romanzo del XVIII in Italia risponde a vari livelli: a un primo livello esibisce ricorrenze relative alla strutturazione del testo ed alle eventuali riflessioni metatestuali che lo concernono, ad esempio presentando con costanza una dichiarazione di intenti in apertura di libro, oppure utilizzando alcune tecniche di scrittura che possano coinvolgere il pubblico (come prolessi, analessi, apostrofi, reticenze, flash-back e soprattutto digressioni), oppure proponendo frequenti interventi di commento da parte della voce narrante. Ad un secondo livello mette in azione invece ricorrenze tematiche, plots che ruotano intorno a motivi stilizzati e una presenza abbastanza ripetitiva sia di aiutanti, sia di ostacoli (naufragi, malattie, rapimenti, cambiamenti improvvisi della sorte, manipolazione intenzionale o involontaria delle informazioni che dà luogo a malintesi, ecc.). Fra i motivi più frequentati occorrerà nominare almeno quello che – prendendo a prestito la terminologia proposta da Massimo Fusillo per la letteratura di altre epoche storiche – chiamerò della «partecipazione somatica»45. Esso si traduce nell’utilizzo della figura di un doppio, dello scambio di persona, del travestimento e del mascheramento, ovvero in una serie di fenomeni che tendono a mettere a fuoco il problema dell’individualità, della definizione del sé e di una ridefinizione dei ruoli, anche sessuali, in modo perfettamente consono alle esigenze sociali del momento. 7. Fra i «segni ricorrenti» che è possibile delineare come tipici del romanzo italiano del XVIII secolo si dovrà infine contare la tendenza ad introdurre nel corso della storia lunghi e frequenti inserti a carattere esplicativo e riflessivo. Capita che, in questi romanzi pieni di eventi, non capiti nulla; e ciò non smette di imbarazzare la critica moderna, che si trova confrontata con storie che sarebbe possibile ridurre in modo drastico senza modificare la sostanza del racconto. Le istanze narranti possono infatti, in ogni momento, interrompere il resoconto delle loro avventure per soffermarsi a riflettere su una situazione, considerare fatti o spiegare un punto di vista, tramite inserti non narrativi che possono toccare le materie più diverse: dai precetti educativi alla conversazione a proposito della moda, dalla descrizione delle condizioni di vita nei manicomi al piccolo trattato sul teatro. Tuttavia, lungi dall’essere parti discorsive estranee al discorso, questi particolari interludi sono sempre assunti nella struttura stessa del racconto, incorporati dalla forma romanzesca. Diversamente da noi, i romanzieri del XVIII sembrano infatti nutrire una grande fiducia nella capacità di persuasione dei loro testi e ritenere che una — 137 —

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considerazione esposta in maniera chiara e diretta possa indirizzare il comportamento del loro pubblico. È quello che, a proposito di Defoe, J. Paul Hunter ha sagacemente chiamato il metodo omiletico: «point out what is wrong, tell your audience what is right, cite an authority or provide a reason, and exhort, exhort, exhort»46. Così, ad esempio, nei Viaggi di Enrico Wanton il narratore crede bene dire ai propri lettori: Imparino dalla lettura delle mie vicende que’ padri ai quali cadranno sott’occhio questi miei scritti; imparino, dico a fare un uso più regolato dell’autorità paterna, ed a non voler condannare i loro figli ad una vita ripiena di amarezze per una ostinazione superba di far violenza ai loro spiriti.47

Ma i romanzi, mettendo alla prova la nostra tolleranza nei confronti di un didatticismo così esplicito, contengono istruzioni educative per tutti: tra l’altro le madri, spesso invitate a fornire un’educazione intelligente e rispettosa alle loro figlie48. Agli occhi del pubblico settecentesco sembrano valere senza riserve le parole di Eugenia, protagonista del piazziano L’amor tra l’armi, che in conclusione delle sue memorie asserisce la bontà di ogni storia che sappia fornire modelli comportamentali per destreggiarsi nella vita quotidiana: La presente storiella non può mai meritare il dispregio del mondo quando venga considerata come un esempio, che servir possa a far aborrire le colpe che sogliono produrre sì pessimi effetti, e ad avvertire le persone, dell’uno e dell’altro sesso, ch’un solo istante è sovente fatale alla virtù più rigorosa e più circospetta.49

8. Le tappe su cui, così succintamente, si è soffermato questo percorso fra le specificità caratterizzanti del romanzo italiano del secondo Settecento non ambiscono certo ad esaurire un discorso tanto complesso. Tuttavia, esse vorrebbero almeno indicare con la necessaria persuasività come molti dei problemi connessi alla ricezione critica di questi testi, a cui si è accennato in apertura, possano essere attribuiti, più che ad un’intrinseca carenza qualitativa della produzione romanzesca italiana, piuttosto all’inadeguatezza dei parametri critici con cui se ne è affrontato lo studio. E vorrebbero nel contempo suggerire un modo, fra i possibili, per mettere in atto una «riabilitazione dei principi del romanzo», così come auspicata da un altro romanziere e saggista contemporaneo, il Milan Kundera dei Testamenti traditi50, ovvero una riabilitazione che non equivale affatto:

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alla riesumazione di questo o quello stile rétro, né tantomeno a un ingenuo rifiuto del romanzo ottocentesco. Il senso della riabilitazione di cui parlo è più generale poiché implica una ridefinizione e un ampliamento del concetto stesso di romanzo, il rifiuto della riduzione che gli è stata imposta dall’estetica ottocentesca, l’assunzione, come base del romanzo, di tutta la sua esperienza storica.

Considerato un capitolo breve ed isolato, e pertanto irrilevante, della storia letteraria nazionale, il romanzo in prosa dell’Italia del XVIII secolo può invece essere letto come un fenomeno in coerente sintonia con la coeva esperienza narrativa europea, della quale condivide «temi, segni ricorrenti, moduli».

NOTE 1 G. MANGANELLI, Il carnevale dell’inferno (1966), in ID., La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi, 1985, pp. 76-80, a p. 76. 2 Ibidem. 3 F. MORETTI (a cura di), Il romanzo, Torino, Einaudi, 2001-2003 [I: La cultura del romanzo, II: Le forme, III: Storia e geografia, IV: Temi, luoghi, eroi, V: Lezioni]. Per questo discorso il riferimento va in particolare al tomo II (2002). 4 Fra gli studi teorici dedicati al genere romanzo nel Settecento italiano si veda in particolare il volume di S. CALABRESE, Intrecci italiani. Una teoria e una storia del romanzo (17501900), Bologna, Il Mulino, 1995, e il capitolo di I. CROTTI, Alla ricerca del codice: il romanzo italiano del Settecento, in I. CROTTI, P. M. VESCOVO, R. RICORDA, Il «mondo vivo». Aspetti del romanzo, del teatro e del giornalismo nel Settecento italiano, Padova, Il Poligrafo, 2001, pp. 9-54. Per la lingua dei romanzieri si farà invece utilmente riferimento a: G. ANTONELLI, Alle radici della letteratura di consumo. La lingua dei romanzi di Pietro Chiari e Antonio Piazza, Presentazione di L. SERIANNI, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1996. 5 Oltre alla ristampa anastatica (Manziana, Vecchiarelli, 1991) del fondamentale volume di G. B. MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai nostri romanzieri e romanzi del Settecento, coll’aggiunta di una bibliografia dei romanzi editi in Italia in quel secolo, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1903, mi sia permesso rinviare ora al mio recente volume sull’argomento, a cui questo articolo fa diretto riferimento: T. CRIVELLI, «Né Arturo, né Turpino, né la Tavola Rotonda»: romanzi del secondo Settecento italiano, Roma, Salerno Editrice, 2002, contenente anche una cospicua Appendice di carattere bibliografico (Catalogo delle opere, pp. 299-326). 6 Si vedano almeno le due più recenti monografie: L. CLERICI, Il romanzo italiano del Settecento. Il caso Chiari, Venezia, Marsilio, 1997, e C. A. MADRIGNANI, All’origine del romanzo in Italia. Il «celebre Abate Chiari», Napoli, Liguori, 2000. 7 Cfr. soprattutto la bibliografia contenuta in A. PIAZZA, L’amor tra l’armi ovvero la storia militare e amorosa d’Aspasia e di Radamisto e Eugenia ossia il momento fatale, a cura di E.

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VILLA, Genova, La Quercia, 1980, pp. LXIII-LXVII, e i due studi di A. M. MORACE, Un romanziere del Settecento: Antonio Piazza, Reggio Calabria, G. Pontari, 1999, e Il prisma dell’apparenza. La narrativa di Antonio Piazza, Napoli, Liguori, 2002. 8 Nelle 750 pagine dedicate alle Forme del romanzo nei citati volumi Einaudi, ad esempio, Pietro Chiari è menzionato in una sola nota a piè di pagina: II, p. 265, n. 42 (Franco Fido). 9 Cfr. la recensione del volume di G. B. Marchesi (Studi e ricerche…, cit.) nel corso della quale Croce giunge fino a definire queste opere in toto degli «aborti letterari»: «La Critica», I, 1903, pp. 464-467, a p. 467. 10 C. A. MADRIGNANI, All’origine del romanzo in Italia, cit., p. 8. 11 I titoli a cui si allude sono: La Filosofessa italiana, La ballerina onorata, La Cantatrice per disgrazia e La Commediante in fortuna. I dati si leggono in L. CLERICI, Il romanzo italiano del Settecento, cit., p. 19. 12 È la data di composizione dei primi dieci canti (il poema sarà invece terminato nel 1768). La citazione che segue è tratta da: C. GOZZI, La Marfisa bizzarra, I 14-15, in ID., Scritti, a cura di E. BONORA, Torino, Einaudi, 1977, pp. 98-99. 13 Pubblicata alla fine del XVII secolo, la Lettera francese è leggibile anche in traduzione italiana moderna: P.-D. HUET, Trattato sull’origine dei romanzi, a cura di R. CAMPAGNOLI e Y. HERSANT, Torino, Einaudi, 1977. 14 Se in Francia la questione si risolse abbastanza rapidamente con l’affermazione della scrittura romanzesca e con una difesa, anche teorica, di questa pratica (cfr. ad esempio le norme stabilite da Lenglet Dufresnoy, nel suo fortunato De l’usage des romans, 1734), in Italia il dibattito si sarebbe rivelato più complicato, poiché implicava temi molto cari alla tradizione letteraria del paese. Sul dibattito critico si possono consultare, oltre alle monografie citate sopra, anche gli articoli di: L. SPERA, Il dibattito sul romanzo nel Settecento: Patriarchi e il «Traité» di P. D. Huet, «La Rassegna della Letteratura italiana», 1986, 1-2, pp. 93-103; A. MOTTA, «Esiliarlo dal regno delle belle lettere»? Dibattiti sul romanzo nel Settecento italiano, in Bufere e molli aurette. Polemiche letterarie dallo Stilnovo alla «Voce», a cura di M. G. PENSA, con una Nota di S. RAMAT, Milano, Guerini, 1996, pp. 119-163, e l’ancora fondamentale E. BERTANA, Pro e contro i romanzi nel Settecento, «Giornale storico della letteratura italiana», XXXVII, 1901, pp. 339-352. 15 F. S. QUADRIO, Della storia e della ragione d’ogni poesia, IV, Bologna, Per Ferdinando Pifferi, All’insegna di Sant’Antonio, 1749, pp. 294-301. 16 G. B. ROBERTI, Del leggere libri di metafisica e di divertimento. Trattati due con prefazione sopra un libro intitolato «De la Prédication, par l’auteur du Dictionnaire philosophique aux délices 1766», V, Bologna, Stamperia del Santo Uffizio, 1769, pp. 215-303, a p. 230. 17 Sarà in particolare con gli interventi del giurista Gasparo Patriarchi – autore fra l’altro di una significativa Lettera attorno all’origine dei romanzi, pubblicata nel 1798 con le opere dell’amico Francesco Algarotti – che la polemica attorno all’utilità del romanzo e della storia troverà una più chiara definizione. 18 P. CHIARI, Lettere scelte di varie materie piacevoli, critiche, ed erudite scritte ad una Dama di qualità dall’Abbate Pietro Chiari bresciano, Venezia, Pasinelli, 1751-1752, p. 193, corsivo aggiunto.

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FORME DEL ROMANZO ITALIANO DEL SETTECENTO 19 A. PIAZZA, I castelli in aria, ovvero raccolta galante di alcuni fatti su tale argomento scritta per piacere di chi la scrisse e pubblicata per chi vorrà leggerla. Dove si lascia stampare anche delle cose che sono vere, Alla Insegna del Pregiudizio superato dalla Ragione nel declinare del secolo illuminato, s.l, s.e., s.a. [ma 1773]. Si tratta di sette novelle di argomento vario, che tuttavia lo scrittore considera un vero e proprio romanzo, come attesta chiaramente in più occasioni. Sul volume si veda ora l’analisi di A. M. MORACE, La sferza del novelliere, in ID., Il prisma dell’apparenza, cit., pp. 249-306. 20 Così nelle Lettere critiche, II, p. 33, ed. Napoli 1748, secondo il rinvio offerto in P. CHIARI, Lettere scelte di varie materie, cit., I, p. 187, da cui è tratta la citazione. Le Lettere del Costantini furono pubblicate in molte e differenti versioni, a partire già dal 1743, ma giunsero ad un’edizione completa solo con gli otto volumi delle Lettere critiche, giocose, morali, scientifiche, ed erudite alla moda ed al gusto del secolo presente apparsi a Venezia tra il 1751 e il 1756 con lo pseudonimo di Agostino Santi Pupieni. Su questa, e altre opere di Costantini, si veda l’ancora utilissimo G. NATALI, Il Settecento, in Storia letteraria d’Italia, II, Milano, Vallardi, 19363, pp. 1116-1117 e ora anche M. RUSI, Un avversario veneziano di Baretti: Giuseppe Antonio Costantini, «Quaderni Veneti», 1991, 14, pp. 77-94. 21 A. MANZONI, Lettre à M. C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, in ID., Tutte le opere, a cura di M. MARTELLI, II, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 1671-1711, a p. 1692. 22 Cfr. J. P. HUNTER, Before Novels: The Cultural Contexts of Eighteenth-Century English Fiction, New York-London, W.W. Norton & Company, 1990, da cui è tratta anche la citazione seguente (pp. 293-294). 23 P. Chiari, nel passo citato alla nota 18. 24 G. B. ROBERTI, Del leggere libri di metafisica e di divertimento, cit., p. 225: «Tuttavia io prego voi, o gentili ascoltanti, a voler osservare che, se quella [dei padri] fu l’età degli odj, questa è l’età degli amori, e, se in quella i posteri la barbarie, in questa accuseranno la mollezza». 25 Per ‘effeminatezza’ è qui da intendersi, secondo il costume polemico settecentesco, rilassatezza di costumi e leziosità. 26 Cfr. G. NATALI, Il Settecento, cit., II, pp. 1086-1095. 27 Cfr. T. TODOROV La letteratura fantastica, trad. it. di E. Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1995, p. 169. 28 Ivi, p. 175. 29 Cfr. G. GENETTE, Seuils, Paris, Édition du Seuil, 1987, al capitolo: Les intertitres, pp. 271-292. I riferimenti che seguono sono relativi alla traduzione italiana dell’opera: G. GENETTE, Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. CEDERNA, Torino, Einaudi, 1989 (di cui si vedano in particolare le pp. 290-312). 30 Ivi, p. 295, dove la definizione indica la pratica scrittoria per cui la titolazione delle singole parti costitutive del testo descrive ampiamente, oltre ad indicarne il posto relativo e la divisione, il contenuto. 31 Questa pratica di titolazione si riscontra, ad esempio, anche in un testo come la Donna che non si trova, che non ebbe una grande notorietà all’epoca (P. CHIARI, La donna che non si trova o sia le Avventure di Madama Delingh, scritte da lei medesima, e pubblicate dall’Abbate Pietro Chiari Poeta di S.A.S. il sig. Duca di Modena, Venezia, Pasinelli, 1768): con

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una sola traduzione, questo romanzo è infatti l’ultimo, insieme a La Francese in Italia, nella classifica delle opere esportate da Chiari fuori d’Italia (il dato è in L. CLERICI, Il romanzo italiano, cit., p. 29), ma anch’esso risulta simmetricamente strutturato in due volumi, ciascuno dei quali diviso in tre parti, composte rispettivamente da 10, 12, ed infine ancora 10 Articoli preceduti da titolazione. Un bell’esempio di intertitoli ampiamente descrittivi è poi fornito dal romanzo di A. PIAZZA, L’amico tradito, o sia memorie d’un mercante italiano, consacrate a Sua Eccel. il Sig. Pietro Marcello del fu Sig. Pietro Procurator, Venezia, [Savioni], 1769, dove la trama è chiaramente riassunta dalle rubriche preposte agli Articoli (ad esempio: «Articolo XVIII: Arcangelo giunge in Italia. Funeste nuove di mio figlio. Tragica azione che mi costa la perdita d’un braccio e lascia vedova Celestina. Articolo XIX: Celestina si fa moglie dello stesso Barone che tradita l’aveva. Ricupero mio figlio. Eccesso dei vizi suoi e modo con cui lo castigo» ecc.). 32 Bisognerà attendere lo sperimentalismo novecentesco perché la pratica dell’intertitolo torni a godere di una significativa rilevanza, soprattutto nelle sue applicazioni di carattere parodico (si pensi ad esempio all’uso delle rubriche in romanzi come Il Serpente di Malerba). 33 G. GENETTE, Soglie, cit., p. 297. 34 Per la terminologia narratologica il riferimento è a: G. GENETTE, Figures III, Paris, Édition du Seuil, 1972. 35 PH. LEJEUNE, Le pacte autobiographique, nouvelle édition augmentée, Paris, Édition du Seuil, 1996 (1a ed. Paris 1975). 36 Cfr. PH. LEJEUNE, Je est un autre. L’autobiographie de la littérature aux medias, Paris, Édition du Seuil, 1980. 37 È così che nascono, ad esempio, le descrizioni in versione ‘guida turistica’ dei luoghi nei romanzi di Antonio Piazza, dove – quando siano reali – le città sono rapidamente ma realisticamente evocate grazie alla descrizione, ad esempio, del monumenti più conosciuti (se si è a Vicenza si vedrà il Teatro Olimpico, a Verona l’Arena, ecc. Cfr. ad esempio A. PIAZZA, L’attrice, a cura di R. TURCHI, Napoli, Guida, 1984, pp. 36-37). 38 Per un approfondimento relativo a questo tema si vedano gli studi di L. GUERCI, La sposa obbediente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Torino, Tirrenia stampatori, 1988, e La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento: aspetti e problemi, ivi, 1987, che tratta più ampiamente del dibattito settecentesco attorno alla condizione femminile, con particolare riguardo per la tematica dell’istruzione. 39 N. K. MILLER, The Heroine’s Text. Readings in the French and English Novel (17221782), New York, Columbia University Press, 1980, p. 149. 40 Ibidem. Riferendosi ai piú importanti romanzi settecenteschi francesi e inglesi aventi nel titolo il nome di una donna, dalla Moll Flanders alla Pamela alla Clarissa ecc., Miller osserva inoltre che: «In the final analysis, moreover, despite their titles and their feminine “I”, it is not altogheter clear to me that these novels are about or for women at all». 41 C. A. MADRIGNANI, All’origine del romanzo, cit., p. 49. 42 Il testo, la cui prima edizione fu pubblicata a Milano (Agnelli, 1760) è attribuito da G. MELZI, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, o come che sia aventi relazione all’Italia, I, Milano, Pirola, 1848-1859, p. 401, all’abate Tommaso Campastri. Cito dal capitolo XV dell’edizione di Venezia, Presso Giambattista Pasquali, 1761, pp. 89-93, a p. 90.

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FORME DEL ROMANZO ITALIANO DEL SETTECENTO 43 P. FAUCHERY, La destinée féminine dans le roman européen du dix-huitième siècle (17131807). Essai de gynécomythie romanesque, Paris, Librairie Armand Colin, 1972. 44 D. COUÉGNAS, Paraletteratura, trad. it. di S. Nobili, Firenze, La Nuova Italia, 1997, p. 53 (1a ed. Paris 1992). 45 Cfr. M. FUSILLO, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Firenze, La Nuova Italia, 1998. 46 J. P. HUNTER, Before Novels, cit., p. 55. 47 Z. SERIMAN, Viaggi di Enrico Wanton (ristampa dell’ed. veneta del 1764), a cura di G. PIZZAMIGLIO, I, Milano, Marzorati, 1977, p. 40. 48 Nella Innocente perseguitata di A. PIAZZA leggiamo ad esempio (cito dall’edizione, attribuita a Chiari, di: L’innocente perseguitata o sia le avventure di Virginia de Rosis, Napoli, Appresso Andrea Migliaccio, 1776, t. I, cap. III, pp. 27-28): «Quanta viltà e superstizioni di meno ci sarebbe nel sesso mio se le Madri educassero le Figlie loro in quella guisa ch’educommi la Genitrice mia. / In tutti quegli anni ch’io convivei con essa non l’ho mai udita a ragionare di streghe, d’incantesimi, di Fantasime, di larve, o della befana, e per ciò uscendo illesa (dal pregiudizio che sogliono recare que’ tanti racconti che si fanno de’ sognati portenti di que’ spiriti immaginari) dalla piú suscettibile età mia, non ebbi dappoi timore alcuno ne’ casi che avrebbero spaventata qualche Donna volgare. / Che maledetta usanza è mai quella di tener a dovere i Fanciulli e d’ammansarli quando sono fieri e capricciosi col far ad essi temere o un sortilegio che intormentiti li rendi [sic], o una malia che li faccia consunti e svitati, o una chimera vagante che li rapisca, od un’anima vagante che vadi a dare a loro de’ pizzicotti ne’ piedi? Pieni ed ingombri la mente delle immagini ferali dipinte alla lor fantasia crescono pusillanimi e dalla forte impressione che la medesima riceve o ne rimane il sangue contaminato, o tali si serbano anche nella lor piú saggia età». 49 A. PIAZZA, L’amor tra l’armi ovvero la storia militare e amorosa d’Aspasia e di Radamisto e Eugenia ossia il momento fatale [ristampa dell’edizione veneziana del 1782], a cura di E. VILLA, Genova, La Quercia, 1980, p. 175. 50 M. KUNDERA, I testamenti traditi, trad. it. di E. Marchi, Milano, Adelphi, 1994, (1a ed. Paris 1993). La citazione che segue è tratta da p. 80.

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MARIA ANTONIETTA TERZOLI FORME DEL NARRARE IN FOSCOLO … così lo illude, e gli fa obbliare che la vita fugge affannosa, e che le tenebre eterne della morte gli si addensano intorno; e lo illude sempre con l’armonia e con l’incantesimo della parola… FOSCOLO

Il mutamento di titolo rispetto a quello annunciato sul programma (Foscolo narratore), oltre che un omaggio al titolo generale del Congresso, vuole essere un’indicazione di intenti: per segnalare subito che questa relazione intende indagare non tanto i generi narrativi praticati dal Foscolo, quanto le modalità di narrazione da lui sperimentate in forme testuali anche molto diverse. Partirò da due constatazioni preliminari: da una parte l’uso del registro narrativo in Foscolo non pare necessariamente circoscritto alle forme ad esso deputate, dall’altra l’atto del narrare è così importante da essere tematizzato e raccontato all’interno di altre opere. Foscolo pratica, come è noto, svariate forme di scrittura, con precisa coscienza anche teorica delle loro caratteristiche specifiche: dalla poesia lirica a quella satirica, dalla prosa oratoria a quella saggistica, dalla scrittura epistolare a quella erudita. Fin dai primi documenti a noi noti l’interesse del giovane letterato si applica a molteplici ambiti, come risulta da quel complesso e ambizioso documento di intenti, letture e progetti che va sotto il nome di Piano di studi. Redatto nel 1796 da un Foscolo diciottenne, il Piano di studi fornisce nel suo articolato programma un’interessante, e per noi poco ovvia, classificazione. Sotto la voce Romanzi (I e II) figurano Ariosto, Swift («La novella della Botte»), Cervantes e Pignotti nella prima serie, il Télémaque di Fénelon, l’Amelia di Fielding e la Nouvelle Héloïse nella seconda, con la postilla di una possibile aggiunta di «antichi scrittori di favole, Richardson, Arnaud, e Goethe»1. Alcuni di questi autori avranno un’influenza decisiva sulla prosa — 145 —

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narrativa di Foscolo. È certo notevole che a questa altezza cronologica manchi invece un autore come Sterne, poi carissimo allo scrittore maturo, che ne accoglierà svariate suggestioni e se ne farà addirittura traduttore e interprete nel Viaggio Sentimentale. Sul fronte delle opere cominciate o progettate, nel Piano di studi non figura nessuna voce corrispondente, che si intitoli Romanzi o Prose narrative, ma solo una sezione genericamente intitolata Prose originali, che comprende prose saggistiche (Saggio sull’Egloga, Osservazioni sulla Poesia Pastorale), commentari di argomento storico (La Repubblica) e prose narrative raggruppate sotto l’etichetta di «Racconti morali». I due titoli qui indicati, La Riconoscenza e La Solitudine, non corrispondono a nessuna opera conosciuta. Ancora tra le prose originali figurano altri due titoli per noi degni di nota: Lettere ad una fanciulla e Laura. – Lettere. Del primo non resta altra traccia né qui né nel séguito dell’opera foscoliana. Il secondo è accompagnato da una postilla («Questo libro non è interamente compiuto, ma l’autore è costretto a dargli l’ultima mano quando anche ei nol volesse»2), che ha indotto a supporlo in gran parte scritto e forse da identificare con la Storia di Lauretta menzionata nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, o addirittura con una prima forma del romanzo. Benché non corrispondano a nessuna opera nota, questi due titoli sollecitano una prima riflessione: la scrittura creativa («originale») si seleziona molto presto per Foscolo nella forma della scrittura epistolare (e forse non è un caso che l’epistolario reale dello scrittore sia tra i più belli della nostra letteratura). Anzi, se dobbiamo credere a una lettera del dicembre 1808 al Monti, fin dal 1795 il giovanissimo scrittore progettava la stesura di un altro romanzo epistolare, Olimpia, sul quale dovremo tornare, che non si può riconoscere in nessuno dei titoli appena ricordati3. È quanto dire che tra i generi narrativi possibili – romanzo, novella, favola, fiaba, apologo, ottava narrativa e così via – la preferenza è accordata precocemente a una forma che appare come la più svincolata dal codice narrativo in senso stretto, ma che d’altra parte consente di mimare una narrazione al secondo grado (raccontare qualcosa all’interno di una lettera fittizia): un modo elegante per aggirare l’impasse della tradizione romanzesca italiana e insieme per garantirsi un’estrema libertà formale e stilistica, sorretta da una grande coscienza metatestuale. Adottando il genere del romanzo epistolare, in effetti, persino le disomogeneità stilistiche e le eventuali inadeguatezze espressive potevano essere accettate dal lettore come tratto caratterizzante del personaggio che scrive, addi— 146 —

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rittura come riflesso diretto del suo stato d’animo in quel momento. Non mancherà di notarlo lo stesso Foscolo nella Notizia Bibliografica che accompagna l’edizione zurighese delle Ultime lettere di Jacopo Ortis: Il suo stile piglia improvvisamente varj colori dalla moltiplicità degli oggetti; i suoi pensieri sono disordinati: e nondimeno lo stile ha sempre uno stesso tenore mantenuto dal carattere dell’individuo; e il disordine forma un tutto che si direbbe composto armonicamente di dissonanze.4

La prima grande esperienza narrativa del Foscolo è in effetti un romanzo epistolare, il cosiddetto primo Ortis, uscito anonimo a Bologna nell’estate 1799 con data 1798. Cominciata dall’autore e rimasta interrotta per il suo improvviso rientro nelle file dell’esercito rivoluzionario, la stampa fu malamente continuata da un giurista bolognese di fama non proprio illibata, Angelo Sassoli, coinvolto qualche anno prima in una fallita congiura contro il governo pontificio in cui si era segnalato come delatore dei compagni. Questo primo Ortis torna come uno scomodo fantasma ogni volta che si parla del più noto e omonimo romanzo, il cosiddetto secondo Ortis, uscito a Milano nel 1802 e ristampato con sostanziali modifiche nel 1816 a Zurigo. Non mi è possibile ora mostrare come anche la seconda parte dell’Ortis bolognese – nonostante plurime smentite dell’autore e ricorrenti dubbi dei critici – sia sostanzialmente foscoliana, fatti salvi alcuni interventi del Sassoli. Chi scrive ha cercato di provare questa paternità in un volume che è attualmente in corso di stampa: mi sia dunque consentito rinviare a quel saggio per una puntuale dimostrazione5. Qui importa notare come questo episodio, che si colloca all’inizio della carriera dello scrittore, ne condizioni per certi aspetti molti dei successivi sviluppi. Se ogni autore è progressivamente influenzato dalle opere che scrive, lo è anche più fortemente se per qualche ragione si trova costretto a riprendere in mano, e in parte a riscrivere, una sua opera in un contesto sostanzialmente mutato. In effetti, nel momento di rimetter mano a un proprio romanzo manipolato da altri, l’autore dovrà confrontarsi di continuo con i fondamenti teorici e pratici della propria scrittura, riflettere sulle sue modalità e i suoi meccanismi: sarà costretto insomma a porsi problemi di tecnica narrativa, di riconoscimento e recupero del proprio, di presa di distanza da quanto è stato manomesso. Dovrà trovare il modo di ‘marcare’ in maniera evidente quanto è suo, per riappropriarsene e difenderlo anche in futuro da altre possibili contraffazioni, avendo imparato a proprie spese che la polisemia stessa del testo ne rende relativamente facile l’esproprio e la rein— 147 —

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terpretazione. È quanto con ogni evidenza accade al Foscolo che, dopo questo speciale esercizio di rilettura e riscrittura coatta del proprio libro, acquisisce un’estrema autocoscienza narrativa e critica, i cui risultati saranno visibili proprio nel rifacimento milanese dell’Ortis e più tardi nelle pagine della Notizia Bibliografica, mirabili per intelligenza teorica e invenzione narrativa, e poi ancora nei lavori critici degli anni inglesi. Per uscire senza troppe perdite dall’esperienza traumatica del primo Ortis, Foscolo si trova di fatto costretto a una riflessione profonda sui meccanismi di funzionamento del romanzo, che di lì a poco lo porterà a tentare persino una prova narrativa eterodossa sul modello dello Sterne. Il romanzo epistolare è in effetti, almeno fino all’Ottocento, la forma romanzesca più fortemente metatestuale, il romanzo in cui l’atto stesso dello scrivere e del raccontare viene di continuo messo in scena: il protagonista, autore delle lettere fittizie, è qualcuno che scrive e racconta vicende e storie che direttamente o indirettamente lo riguardano. In altre parole: l’autore si rappresenta in quanto personaggio-narratore che racconta qualcosa in un testo scritto (una lettera) che sarà letta almeno da un altro personaggio. In tal senso il romanzo epistolare è un libro che sembra costruirsi da solo, o anzi sembra costruirsi attraverso la lettura dell’immaginario destinatario della lettera, con il quale il lettore reale finisce con l’identificarsi in quanto lettore della medesima lettera. Nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il protagonista racconta a Lorenzo quello che succede a lui e alla donna amata (la storia principale), ma racconta anche, addirittura con forme dialogiche, storie secondarie vissute in prima persona (storia del contadinello, del contadino aggressivo, della vecchia sopravvissuta ai figli e ai nipoti, e così via) fino a farsi diligente redattore di vicende che gli vengono narrate da altri. Lo stesso Lorenzo, destinatario delle lettere, passa dal ruolo di lettore a quello di narratore quando, nelle parti digetiche, che aumentano progressivamente col procedere del libro, ‘narra’ al lettore reale l’infelice passione di Jacopo: «Tu forse, o Lettore, ti se’ fatto amico di Jacopo, e brami di sapere la storia della sua passione; onde io per narrartela, andrò quindi innanzi interrompendo la serie di queste lettere»6. Con questa dichiarazione metanarrativa Lorenzo annuncia, e di fatto autorizza, il successivo andamento diegetico del romanzo. Nell’Ortis, in effetti, tutti hanno qualcosa da narrare e da raccontare: lo mostra anche il censimento di questi lemmi nel libro, dove non risultano esclusivi di Jacopo, che anzi ne detiene pochi in questa forma («Avrei a narrarti molte altre cose; ma, a dirti il vero, ti scrivo svogliatamente», «Narrai a — 148 —

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quel generoso Italiano la storia delle mie passioni»7), ma appaiono distribuite tra molti personaggi narranti, con la conseguenza di moltiplicare i punti di vista e, paradossalmente, l’effetto di realtà: la villanella mi raccontava (ivi, p. 37), Il marito allora prese a narrarci (p. 46), Michele, il quale salì a raccendermi il fuoco, mi venia raccontando (p. 103), s’assise con me a riscaldarsi, narrandomi quest’ultimo lagrimevole anno della sua vita (p. 103), E seguì a narrarmi (p. 104), Or credi tu vero tutto ciò ch’ei narrava? (p. 107), però non ti dico, o Lettore, se non ciò ch’io vidi, o ciò che mi fu, da chi il vide, narrato (p. 123), Un vecchio sacerdote di assidua famigliarità nella casa dell’Ortis […] ci narrò (p. 131).

Il narrare del protagonista e degli altri personaggi, escluso Lorenzo, è dunque per lo più inserito in un contenitore testuale non necessariamente narrativo (la lettera): sulle possibili variazioni, o conseguenze, di questa pratica per lo stesso Foscolo dovremo tornare. Anche più degno di nota è nell’Ortis l’atto di scrivere e leggere romanzi o storie già scritte. È anzi così importante da essere più volte registrato nel libro, in una sorta di mise en abîme tematica. Lo scrittore adotta per questo due procedure, che tendono talora a sovrapporsi: da una parte inserisce scene di lettura e scambi di testi romanzeschi tra gli amanti (che sul piano metatestuale segnalano anche modelli e possibili fonti del romanzo stesso), dall’altra registra nel libro sue proprie esperienze narrative precedenti, in maniera tacita o dichiarandole espressamente come tali. In questo secondo caso non solo recupera e salva pagine altrimenti perdute, ma mette in scena il suo protagonista come autore di vere e proprie storie che preesistono al romanzo in cui vengono registrate. Per la nostra riflessione è utile partire da questo secondo caso. Fin dall’Ortis bolognese, dopo la lettera del 29 aprile, si legge la storia di Lauretta, presentata – a partire dal secondo Ortis – come incompiuto esercizio narrativo del protagonista con il titolo di Frammento della storia di Lauretta. Sono state fatte varie ipotesi sulla natura di questo inserto, che da alcuni è stato anche ricondotto a quel fantomatico Laura. – Lettere registrato nel Piano di studi8. Per il nostro discorso importa notare che l’atto della stesura di queste pagine è accuratamente descritto: — 149 —

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Teresa mi sgrida: per contentarla mi pongo a scrivere; ma sebbene incominci con la più bella vocazione che mai, non so andar innanzi per più di tre righe. Mi propongo mille argomenti, mi s’affacciano mille idee; scelgo, rigetto, poi torno a scegliere; scrivo finalmente, straccio, cancello, e perdo qualche volta una intera giornata; la mente si stanca, le dita abbandonano la penna, e mi avveggo d’avere gittato il tempo e la fatica. […] Ma pure… se potessi afferrare tutti i pensieri che mi passano per la mente! ne vo’ tratto tratto segnando su i cartoni e su i margini del mio Plutarco. – Ho cominciata la storia di Lauretta per mostrare al mondo in quella sfortunata lo specchio della fatale infelicità de’ mortali. T’includo quel po’ che ho scritto.9

Questo prototipo romanzesco di Jacopo risente da vicino, con riprese a volte quasi letterali, dell’influenza dello Sterne, in particolare della storia della povera Maria narrata nel Tristram Shandy e più tardi inserita da Foscolo nella sua versione del Viaggio Sentimentale all’interno del capitolo LXIII, con un’operazione strutturalmente simile a quella compiuta appunto fin dall’Ortis bolognese. Ma l’autorizzazione di un inserto eterogeneo era già nel Sentimental Journey, che tra due capitoli della storia principale presenta la traduzione, in stile arcaizzante, di un passo trovato per caso su carta da imballo e inserito proprio con il titolo di The Fragment. Se lo Sterne nel tessuto del suo romanzo aveva immesso materiali eterodossi e disomogenei (presentati come solo tradotti dall’autore), Foscolo, a sua volta, traducendolo rafforza proprio quegli elementi strutturali che a suo tempo lo avevano ispirato per l’Ortis. In tal senso i rapporti con lo Sterne appaiono così forti, fin dal 1798, da far sorgere qualche dubbio, o almeno suggerire qualche cautela nell’ipotizzare – come è fin qui comunemente accettato – che il Frammento della storia di Lauretta possa avere qualche parentela con quel Laura. – Lettere citato due anni prima in Piano di studi dove, tra tanta profusione di modelli e autorità, il nome dello Sterne non è mai registrato. La storia di amore contrastato che conduce Lauretta alla follia sarà conclusa all’interno della linea narrativa principale nella lettera del 25 maggio, dove Jacopo commenta la notizia appena ricevuta della morte dell’amica: con un improvviso effetto di realtà, ma anche con funzione premonitrice della sua propria vicenda. E infatti durante l’ultima visita a Venezia, Jacopo, ormai fermo nel proposito del suicidio, si reca proprio a visitare la sua tomba e prega la madre di lei di consolare la propria. La compassione richiesta al lettore reale nell’appello che apre il libro, «io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta […]. E tu, o Lettore, […] darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto», è in effetti la — 150 —

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stessa sperimentata nella finzione romanzesca dal protagonista Jacopo nei confronti dell’amica e da lui richiesta ai suoi eventuali lettori: «la povera Lauretta mi lasciò nel cuore per sempre la compassione delle sue sventure. Preziosa eredità ch’io ora dividerò con voi, uomini sventurati… con voi a’ quali non resta altro conforto che di amare la virtù e di compiangerla»10. L’importanza di questo paradigma narrativo, inserito nel romanzo con una sorta di mise en abîme, è tale che si rafforza progressivamente: nell’edizione milanese del 1802 fin dalla terza lettera è inserita una richiesta di notizie su Lauretta e nell’edizione londinese del 1817 sono addirittura stampati, in appendice al romanzo, quei capitoli del Viaggio Sentimentale e del Tristram Shandy relativi alla povera Maria, che avevano così forti rapporti narrativi e strutturali con la storia di Lauretta. Nel secondo Ortis la lettera che introduce il Frammento segue quella del 17 aprile, dove è narrata, per bocca del protagonista e di altri personaggi, la storia dello sfortunato Olivo. Nella lettera precedente è inserita un’altra storia infelice, quella di Gliceria, prematuramente scomparsa e compianta dal suo innamorato. Sono tutti destini concorrenti con quello di Jacopo o, anche, premonitori del suo: storie di un amore corrisposto ma impossibile, suggellato dalla morte. La messa in serie di queste tre storie parallele, che nell’edizione del 1798 erano collocate in lettere non contigue (XXVI: Gliceria; XXVII: Olivo; XXX: Lauretta) avviene nel momento di maggiore consapevolezza narrativa propria del secondo Ortis e rinvia all’autorizzazione strutturale degli amori infelici della quarta giornata del Decameron, con cui le storie narrate nell’Ortis intrattengono anche qualche preciso rapporto testuale. L’illustre precedente del Boccaccio autorizza e rafforza la seriazione delle storie narrate all’interno della storia principale, come altra volta mi è occorso di mostrare11. Ma la storia di Gliceria, che apre la serie, stringe anche i legami con l’altra procedura di mise en abîme narrativa adottata nell’Ortis. Il passo su Gliceria, tratto come ha segnalato Walter Binni dal Socrate delirante di Christoph Wieland letto in traduzione italiana, è isolato dalle virgolette come citazione ed è letto da Jacopo in un libretto che Teresa tiene in mano e che egli ‘apre a caso’: Ella sedeva sopra un sofà rimpetto la finestra delle colline, osservando le nuvole che passeggiavano per l’ampiezza del cielo. Vedi, mi disse, quell’azzurro profondo! Io le stava accanto muto muto con gli occhi fissi su la sua mano che tenea socchiuso un libricciuolo. – Io non so come… ma non mi avvidi che la tempesta comin-

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ciava a muggire, e il settentrione atterrava le piante più giovani. Poveri arbuscelli! esclamò Teresa. Mi scossi. S’addensavano le tenebre della notte che i lampi rendeano più negre. Diluviava… tuonava. – Poco dopo vidi le finestre chiuse, e i lumi nella stanza. Il ragazzo per far ciò ch’ei solea fare tutte le sere e temendo del mal-tempo, venne a rapirci lo spettacolo della natura adirata; e Teresa che stava sopra pensiero, non se ne accorse e lo lasciò fare. Le tolsi di mano il libro e aprendolo a caso, lessi.12

Alla fine della lettura una lacrima di Teresa, che mima quella dell’amante sulla tomba di Gliceria («una lagrima cade su l’erba che spunta su la sua sepoltura, e appaga l’ombra amorosa»), appaga l’amato, segnalando materialmente la partecipazione emotiva, la compassione trasformata nel delizioso patetico settecentesco, ma anche indicando lo stretto rapporto tra storia letta e storia vissuta: «Tacqui. – Perché non leggete? diss’ella sospirando e guardandomi. Io rileggeva: e tornando a proferir nuovamente: tal tu fiorivi un dì!… la mia voce soffocata si arresta; una lagrima di Teresa gronda su la mia mano che stringe la sua…»13. L’archetipo di questa complice lettura tra innamorati – che rivela la passione fin lì taciuta mimando nella storia principale quello che viene letto nel libro – è naturalmente l’episodio di Paolo e Francesca e della loro perigliosa lettura della storia di Lancillotto e Ginevra. Lo conferma anche, indirettamente, la contaminazione del motivo della lettura tra innamorati e della scena dantesca nell’iconografia tra fine Settecento e primo Ottocento. Un’incisione del Bartolozzi – che tra l’altro appare singolarmente vicina alla descrizione foscoliana – conservata presso la Collezione Bertarelli di Milano e datata 1814, è intitolata Sentimental Conversation (cfr. qui tav. 1). In un’altra versione, con minimi ritocchi – formato tondo invece che rettangolare, presenza di due colombe ai piedi degli innamorati – è invece intitolata Francesca da Rimini (cfr. qui tav. 2). La scena dell’Ortis si configura dunque anche come rappresentazione di un romanzo nel romanzo, in qualche modo analoga al procedimento che in pittura vede la riproduzione di altre opere all’interno dell’immagine pricipale. Di questa analogia con le arti figurative è indiretta conferma non solo la somiglianza con l’incisione del Bartolozzi (o con altre simili meno note), ma anche la forte suggestione iconografica che questa scena, come vedremo, trasmette ben oltre il libro. Nel secondo Ortis è questa – che non registra però il titolo del’opera letta – l’unica menzione di romanzi amorosi la cui storia è simile (letterariamente: è modello) a quella di Jacopo. Di altri libri letti insieme si fa solo cenno: o meglio si registra solo l’atto della lettura alla donna amata, come nella lettera che precede il Frammento della storia di Lauretta: — 152 —

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La pazza figura ch’io fo quand’ella siede lavorando, ed io leggo! M’interrompo a ogni tratto, ed ella: proseguite! Torno a leggere; dopo due carte la mia pronunzia diventa più rapida e termina borbottando in cadenza: Teresa s’affanna: leggete un po’ meglio: – io continuo; ma gli occhi miei, non so come, si sviano insensibilmente dal libro, e si trovano frattanto immobili su quell’angelico viso. Divento muto; cade il libro e si chiude; perdo il segno, né so più ritrovarlo.14

Nel primo Ortis i romanzi evocati e scambiati tra gli amanti erano invece molti di più e distribuiti in luoghi strategici della storia. Nelle pagine diegetiche alla fine della prima parte era narrata da Lorenzo un’altra importante scena di lettura: Leggendo a Teresa il Paolo e Virginia di St. Pierre si lasciò cadere il libro di mano e guardando immobile il cielo esclamò; «Onnipotente Iddio! così ti compiaci a disgiungere i cuori che creasti perché vivessero uniti? sola felicità che compensi le miserie della vita!…» Naturalmente egli favellava sempre con enfasi; ma allora la passione infiammava tutte le sue parole e il di lui stato compassionevole commovea maggiormente chi l’ascoltava. Teresa volea parlargli della sua partenza, ma intenerita da questa esclamazione non le soffrì il cuore, e si tacque. Egli raccolse il libro, e proseguì; ma giunto alla partenza di Virginia, lo chiuse istantaneamente dicendo: «Partirò anch’io…».15

La partenza di Virginia diviene qui l’antecedente della partenza di Jacopo, ma il lettore, che conosce il romanzo di Bernardin de Saint-Pierre, sa che quella partenza non avrà ritorno e si concluderà con la morte della protagonista: anche qui dunque il modello letterario evocato nella sua materialità serve a comunicare in maniera criptica la decisione funesta di Jacopo. Narrare, leggere, raccontare introducono nel romanzo una comunicazione metaforica, cifrata, per complici d’affetti che sostituisce o rafforza quella esplicita e per tutti comprensibile. Nell’ultima lettera della prima parte, indirizzata a Teresa, il congedo è segnato proprio dall’invio, sostitutivo della presenza dell’amato, di una serie ben calcolata di romanzi larmoyants: il Werther, l’Amelia di Fielding, Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre e la Clarissa del Richardson: «Tu frattanto accogli il Werther, l’Amalia, la Virginia e la Clarissa. Questi libri che sono stati compagni della nostra solitudine t’ispireranno una dolce malinconia, e ti faranno spargere sull’infelice giovane un sospiro di rimembranza»16. Di questi quattro (tre dei quali registrati nel Piano di studi), due sono romanzi epistolari (il primo e l’ultimo). Il primo è così importante che di lì a poco ne è iterato l’invio, in un’edizione di lusso postillata da Jacopo: — 153 —

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Ricevi tu pure ed accogli questo caro compagno delle nostre ore più dolci. Povero Werther! quanto sono mai simili i nostri affanni! – Le carte sono macchiate ancora delle mie lagrime, e… delle tue, Teresa! Quando talvolta vi leggerai le note da me scritte su quei margini, dirai teco stessa, ed in braccio alla tua soave melanconia: ‘L’amico del mio cuore le scrisse.’ – Ma io forse… non sarò più! e tu mesta sospirerai! Teresa, addio! il cielo è ritornato sereno […]. Oh Dio! par che tutto congiuri, e perché?… perch’io non ti riveda mai più!… mai più? purtroppo! Addio dunque, addio!17

La somiglianza delle storie è dichiarata qui esplicitamente e il valore sostitutivo, accennato nel primo invio, assume ora una connotazione anche più radicale: il libro, su cui Jacopo ha scritto e che è bagnato dalle lacrime comuni, diventa un oggetto-feticcio, che sta materialmente al posto dell’amato scomparso per sempre («io forse… non sarò più»). Aggiungiamo che l’importanza metanarrativa del Werther è tale che nel primo Ortis un esemplare del romanzo figura ancora nella scena finale, sul tavolino accanto a Jacopo morente. Ma nella progressiva presa di distanza, che caratterizza il passaggio dal primo al secondo Ortis, questo modello troppo ingombrante sarà eliminato anche materialmente dal racconto e sostituito da un altro oggetto simbolico, il ritratto dell’amata: questa fanciulletta sarà compagna de’ miei giorni, e sollievo de’ miei dolori: io le parlerò sempre del suo amico […]. Addio, soggiunse, addio eternamente; eccoti adempiuta la mia promessa – e si trasse dal seno il suo ritratto – eccoti adempiuta la mia promessa; addio per sempre […] è bagnato delle mie lagrime e delle lagrime di mia madre. – E con le sue mani lo appendeva al mio collo, e lo nascondeva nel mio petto…. io stesi le braccia, e me la strinsi al cuore, e i suoi sospiri confortavano le arse mie labbra, e già la mia bocca…. – Un pallore di morte si sparse su la sua faccia e, mentre mi respingeva, io toccandole la mano la sentii fredda, tremante, e con voce soffocata e languente mi disse…. Abbi pietà! addio.18

Le due funzioni simboliche che lo riguardavano nel primo Ortis (compagno e bagnato di lagrime) vengono sdoppiate: trasferite a uno dei personaggi («questa fanciulletta sarà compagna de’ miei giorni») e al ritratto di Teresa («bagnato delle mie lagrime»), ricevuto in dono in un appassionato congedo e non più furtivamente raccolto da terra dopo la tentata seduzione. Nel rifacimento del romanzo si passa insomma dalla rappresentazione metaforica della storia in movimento (il Werther) alla rappresentazione figurativa e stati— 154 —

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ca della protagonista (il ritratto), addirittura evocata in un’incisione collocata sul frontespizio dell’edizione zurighese19 (cfr. qui tav. 3). Scambi di romanzi e di ritratti con le donne amate non sono esclusivi della finzione romanzesca, ma si ritrovano anche nelle lettere reali del Foscolo, in particolare nel carteggio con la Fagnani Arese, che intrattiene stretti rapporti con l’Ortis e dove lo scrittore innamorato non esita a firmarsi con il nome del protagonista del suo romanzo. Il Werther è poi argomento ricorrente nel carteggio con la nobildonna milanese, anche per l’intenzione, a lungo vagheggiata, di dare al libro tedesco un’adeguata veste italiana a partire da una sua traduzione letterale (menzionata addirittura nella lettera del 16 gennaio 1802 al Goethe, che accompagna l’invio dell’edizione Mainardi dell’Ortis20). Il nodo tra Ortis, Werther e ritratto si stringe nella lettera XCVII all’Arese, dove sono fornite precise indicazioni su come la donna dovrebbe farsi rappresentare: all’esterno, senza particolari acconciature, con i capelli nel loro aspetto naturale, le braccia nude, in abito bianco e con uno scialle nero, o almeno di colore ‘patetico’: Lo bramerei in un’attitudine malinconica, pittoresco ma non romanzesco, e nel campo qualche albero di un verde fosco, come di cipresso o di quercia. […] Non ti porre sul capo né acconciature, né cenci francesi, né fiori. Lascia andare i tuoi capelli come stanno, e la natura li renderà più belli assai di quant’arte mai volesse porci il tuo perrucchiere. Il braccio ignudo, e l’abito bianco; se tu vuoi uno scialle, il colore più acconcio mi parrebbe il nero; o se risaltasse troppo sul bianco, scegline uno che sia meno violento, ma che tiri al patetico.21

Sulle ginocchia o in una mano dovrebbe tenere un libro, Ortis o Werther, con titolo riconoscibile: «Mi piacerebbe che tu avessi sulle ginocchia o in una mano un libro; il Werther, o l’Ortis, e fa’ sì che il pittore faccia delle lettere maiuscolette nelle pagine, per cui si distingua che hai uno di questi due libri». La Fagnani non sembra tener conto di tutte le prescrizioni del suo esigente amante se il ritratto di cui si parla in questa lettera è da riconoscere, come è stato ipotizzato, nell’incisione di Giovanni Boggi il cui rame è conservato in casa Arese22 (cfr. qui tav. 4). L’incisione rappresenta infatti la donna seduta in un interno e con in capo un vistoso turbante. Tuttavia, poiché il ritratto di cui si parla nella lettera è probabilmente un avorio e sembra colorato, mi pare da identificare piuttosto con una miniatura (a meno che l’incisione del Boggi non dovesse servire di base anche a questa). Ma ciò che qui — 155 —

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importa è il suggerimento, adottato anche nell’incisione, di rappresentare la donna come lettrice di romanzi, secondo una pratica non troppo diffusa in quegli anni in Italia, di gusto piuttosto francese: si pensi per esempio al ritratto della Marchesa di Pompadour rappresentata da Boucher con un libro in mano (1756; München, Alte Pinakothek), o a quello di Mme Récamier adagiata nella sua liseuse con un libro, dipinto nel 1826 da Dejuinne a partire da quello senza libro del David (1800; Paris, Musée du Louvre23). Sostituire con un libro gli oggetti più consueti dei ritratti femminili (fiori o strumenti musicali) significa naturalmente privilegiare un aspetto meno decorativo e più intellettuale della donna rappresentata. Ma all’interno del sistema narrativo foscoliano significa soprattutto identificarla, anche sul piano figurativo, con la donna romanzesca (Teresa) che condivide con Jacopo complici letture di romanzi patetici: il Werther, cancellato nella riscrittura dell’Ortis, ritrova insomma diritto di cittadinanza nell’extratesto figurativo e materiale del ritratto della Fagnani Arese. Della scena di lettura tra gli amanti descritta nella lettera ortisiana dell’11 aprile, resta la figura della donna che, seduta accanto a un tavolino, tiene un libro in mano. Il particolare tuttavia appare così significativo che, alcuni anni più tardi, un’altra donna legata al Foscolo, Quirina Mocenni Magiotti, si farà rappresentare nella stessa posizione per un ritratto conservato ora nella Biblioteca del Museo del Risorgimento di Firenze24 (cfr. qui tav. 5). Il quadro pur nella differenza stilistica e tecnica, ha però un’evidente somiglianza strutturale con l’incisione del Boggi, che la Magiotti poteva ben conoscere. Anche qui la donna siede accanto a un tavolino, su cui appoggia un braccio scoperto. L’altro braccio è adagiato sulle ginocchia e tiene nella mano un libretto, con un titolo di difficile decifrazione. Lo scialle poggiato sulle spalle della contessa è diventato qui un’ampia stola che copre in parte le ginocchia. L’immagine è perfettamente speculare a quella dell’Arese: ed è certo degno di nota che due donne così lontane per temperamento, cultura e classe sociale, così diverse nel loro rapporto con il Foscolo, si facciano però rappresentare entrambe in un ritratto dove appare centrale l’atto della lettura. Nel ritratto di Quirina c’è però un elemento distintivo molto forte: un piccolo cane che la donna accarezza con la mano sinistra. Mi pare che questo particolare, anche nel caso rappresenti un dato reale e benché si inserisca in una tradizione figurativa consolidata, possa segnalare un’ulteriore complicità foscoliana: non tanto con la disinibita signora padovana dell’Ortis (descritta nella lettera dell’11 dicembre), che pure vanta un’«adulatrice bestiuola», — 156 —

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quanto piuttosto con la Maria di Sterne, per la quale il cagnolino è una costante così forte da divenire una sorta di attributo iconografico che la contraddistingue nelle diffusissime stampe e incisioni sette-ottocentesche. Una di queste apre proprio la seconda parte del Voyage sentimental nella traduzione francese del Frénais che Foscolo conosceva25 (cfr. qui tav. 6). Il rinvio alla traduzione del Viaggio Sentimentale, a cui Foscolo lavorava a Firenze proprio nel periodo in cui frequentava Quirina, diventa così un segnale criptico di complicità affettiva e intellettuale da parte della donna rappresentata: che assume in proprio quelle modalità di comunicazione utilizzate dallo scrittore nei suoi romanzi e nelle sue lettere reali. Allo Sterne si ispira un altro esperimento narrativo foscoliano rimasto incompiuto, probabilmente degli anni 1800-1801, noto con il titolo di Sesto tomo dell’Io, che in parte confluì nel secondo Ortis. Il materiale pervenuto, nella sua estrema provvisorietà – redazioni plurime dello stesso passo, appunti compositivi e frammenti rimasti a uno stadio iniziale, parole con funzione di promemoria – consente di gettare uno sguardo nel laboratorio del narratore per sorprenderne abitudini e modalità compositive. Particolarmente preziose sono le liste di citazioni, sentenze, frasi appena accennate e poi rielaborate: utilizzate sia per il Sesto tomo sia per la riscrittura dell’Ortis, svelano modelli e letture tra le quali si segnalano i Gulliver’s Travels di Swift, Le Temple de Gnide di Montesquieu, il Voyage du jeune Anacharsis del Barthélemy26. In altre occasioni ho avuto modo di mostrare come nel Sesto tomo Foscolo tenti una rottura del codice romanzesco arrivando fino a un punto molto avanzato di sperimentazione, in singolare anticipo su tante avanguardie anche novecentesche27. L’impressione che il lettore ne ricava è spesso un effetto di sconcerto e di perdita delle proprie esatte percezioni, di una prospettiva illusoria e continuamente modificata: un po’ come accade allo spettatore di un quadro di Maurits Cornelis Escher. Il Sesto tomo si costruisce in effetti su una serie di rotture e di negazioni, in un continuo e provocante gioco di paradossi che rasentano il non sense e che non si possono interpretare secondo la logica della non contraddizione. Di questo sperimentalismo restano tracce – pur considerando le poche carte superstiti – anche nella struttura del libro, che accoglie inoltre una curiosa lettera del protagonista a una fanciulla amata, divisa in brevi capitoli numerati da 57 a 59. Anche se non è da escludere l’eventualità che qualche capitolo possa essere andato perduto (come ipotizza Fubini28), mi pare tuttavia che questa inattesa comparsa del numero 57 ri— 157 —

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entri ancora nel carattere sperimentale – rottura delle regole e costruzione di sequenze paradossali – che è un tratto distintivo di questa affascinante operetta. Non si può neppure escludere che altri capitoli, con numeri più bassi, potessero poi seguire il capitolo 59, o che fossero bianchi o mancassero del tutto, come avviene appunto nel Tristram Shandy dello Sterne. Vari elementi, oltre al recupero di qualche puntuale frammento, inducono a supporre che quest’opera abbia offerto più di una suggestione a quella foscoliana29. Qui importa soprattutto notare che il romanzo inglese rappresenta per il Foscolo del Sesto tomo un modello strutturale, un esempio illustre di rottura delle più stabili convenzioni letterarie. Il Tristram Shandy presenta capitoli anche molto brevi (addirittura di una sola riga il XXVI del nono tomo) e accoglie materiali narrativi eterogenei, procedendo per continue digressioni. Nel quarto tomo manca il capitolo XXIV e nel nono tomo i capitoli XVIII e XIX sono bianchi. Dal punto di vista tipografico, l’opera presenta una situazione quanto meno singolare: pagine interamente nere o lasciate in bianco, file di asterischi che concludono frasi e capitoli, cancellature e puntini di sospensione, uso abnorme di lineette e trattini, ricorso a caratteri diversi nella stessa pagina. Benché non sia possibile dire quale sarebbe stato l’aspetto finale del libro foscoliano, quanto ne rimane documenta un’indubbia singolarità tipografica: eccesso di puntini di sospensione, capitoli brevissimi, frasi interrotte, ricorso all’a capo improvviso e irregolare. Il nome dello Sterne consente di capire le ragioni istituzionali del fallimento del Foscolo in questo provocatorio esperimento narrativo: la rottura che l’autore inglese proponeva funzionava per differenza rispetto a una norma, a una tradizione romanzesca di cui non disponeva invece lo scrittore italiano. Ma la presenza dello Sterne consente anche di cogliere in quale direzione saranno incanalate queste tensioni: nello splendido capriccio della Notizia intorno a Didimo Chierico, «un’appendice alquanto bizzarra» per usare le parole dello stesso Foscolo30, che chiude il volume del Viaggio Sentimentale tracciando un affascinante ritratto del personaggio a cui è attribuita la traduzione. La Notizia mostra in effetti un Foscolo di grande felicità narrativa: opinioni «un po’ metafisiche», paradossi morali, sentenze enigmatiche, capricci e costumi di Didimo sono la materia di queste pagine, che affascinarono anche il Leopardi, che se ne ispirò per i Detti memorabili di Filippo Ottonieri, chiusi come la Notizia da un’epigrafe funebre. Nella Notizia affiora anche qualche tratto dello sperimentalismo del Sesto tomo: nell’uso di caratteri tipografici diversi, nella citazione di titoli in altra lingua (latino e greco), — 158 —

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nel gusto di frasi paradossali, nell’insistito scrupolo numerico che si coniuga con un paradossale ipercorrettismo filologico, nell’argomento singolare di alcune opere di Didimo31. La Notizia intorno a Didimo Chierico rappresenta un caso esemplare di contaminazione narrativa e saggistica che sembra interessare sempre di più il Foscolo, autore di efficacissime narrazioni all’interno di altri generi letterari: dalle lettere private ai saggi critici, dai commentari eruditi alle note filologiche. Come se il primo esercizio narrativo, praticato nella forma del romanzo epistolare, nella sua esasperata finzione di verità avesse aperto la possibilità che anche altri ricettori testuali accogliessero, come le lettere fittizie, svariate modalità narrative: aneddotica, esemplare, epigrafica e via dicendo. Non mi risulta che l’opera foscoliana sia mai stata censita sistematicamente da questo punto di vista: credo che una ricerca di tal genere potrebbe dare risultati significativi. Qui basterà riportare qualche frammento, come esempio dell’efficacia narrativa di un Foscolo impegnato in altri generi di scrittura. Il Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia del 1818 si segnala per ricchezza in tal senso. Alcune di queste emergenze narrative si addensano nel capitolo sull’Alfieri e in particolare nella descrizione delle ultime ore di vita, dove è narrata con grande vigore una morte affrontata con fermezza, da eroe plutarchiano, e insieme con l’elegante arroganza del gran signore: L’Alfieri, nel languore di prolungata agonia che la presenza del Caluso gli giovò a sopportare, fu visitato da ultimo da un sacerdote andato a confessarlo, e lo ricevette con affabilità che non gli era stata consueta quando era in buona salute; gli disse, «Abbiate la cortesia di passar domani; confido che la morte voglia attender ventiquattro ore». Il sacerdote ritornò il giorno dopo e l’Alfieri, adagiato nella sua sedia a sdraio, disse, «Credo ora d’aver pochi minuti di tempo»; e, voltosi all’abate, lo pregò di accompagnargli la Contessa. Non appena la vide, le stese la mano dicendo, «stringetemi, cara amica, la mano! io muoio».32

Nello stesso capitolo pochi tratti narrano con epigrafica efficacia la morte di Alessandro Pepoli, drammaturgo rivale dell’Alfieri: «morì nel 1796, prima di raggiungere i quarant’anni, d’un’affezione polmonare che si prese in una gara di corsa con un lacchè». Nel Discorso storico sul testo del Decameron (1825), è narrato con icastica forza l’auto da fé compiuto dai Fiorentini su istigazione del Savonarola e il suo tragico destino, contemplato con la trattenuta indignazione dell’intellettuale e insieme con il distacco dello storico: — 159 —

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verso la fine di quel secolo il popolo Fiorentino fu persuaso da Fra Girolamo Savonarola a fare una piramide altissima con quante pitture e statue antiche e moderne, ed arpe e liuti e stromenti d’ogni maniera poté raccogliere per le case, e codici e libri Latini e Italiani, specialmente le opere del Boccaccio; e per celebrare divotamente l’ultimo giorno del carnevale arsero la piramide su quella piazza dove nella primavera seguente al loro malfortunato predicatore toccò d’essere bruciato vivo, e le sue ceneri gittate nell’Arno.33

Ma fin dai primi anni questa vena narrativa affiora nelle pagine saggistiche del Foscolo. Si veda per esempio questo passo dedicato alle tragiche vicende dei Gracchi, che si legge in un articolo uscito sul «Genio democratico» il 9 ottobre 1798: Era egli [Tiberio] tribuno della plebe, di nobil casato, ricco, costumato, valoroso, eloquente […]. Lungo sarebbe il dire, e inutile forse, tutti gli sforzi del tribuno contro il Senato, il quale or con l’intrigo or con la forza e finalmente con l’assassinio atterrò tutte le mire di Gracco. Questo fu il primo omicidio di tumulto civile successo dopo la fondazione della Repubblica; e Tiberio, ad onta che la sua persona fosse sacrossanta, perché era egli allora tribuno della plebe, fu dal popolo concitato, o piuttosto dai sicari del Senato, ucciso e gettato nel Tevere. Caio Gracco, fratello di Tiberio minor di nov’anni, conoscendo che l’interesse più che la santità della legge animava i due partiti definì di allontanarsi dagli affari della Repubblica. Dopo l’anno decimo dell’uccisione di Tiberio vedendo in sogno, come narrano Cicerone e Plutarco, lo spettro di suo fratello che lo animava a divenire propagatore della legge agraria e di consacrare il suo sangue al bene del popolo, ei si svelse dal suo proposto, e creato anch’egli tribuno della plebe, atterrì più volte il Senato che alla libera e veemente eloquenza del secondo Gracco oppose il raggiro, fino a che questi, assalito un giorno dagli sgherri di Postumnio consolo ha dovuto soffrire la sorte di suo fratello.34

Altri lacerti narrativi o «aneddoti» (la definizione è d’autore) con funzione didattica e dimostrativa si trovano anche nelle lezioni pavesi del 1809. Nella seconda lezione della Morale letteraria, è inserito questo sapido racconto: Viveva in Italia, e vive, un uomo celebre per la sua inesauribile vena di comporre interminabili poemi, e per la sua generosità verso gli stampatori ed i letterati che lo adorano con nitide edizioni ed encomi. Quest’uomo, prescindendo dal suo poetico errore, era del rimanente degno di gratitudine per la sua liberalità, e di rispetto per la tranquilla dignità della sua vita, e di compassione per la misera infermità che gli avea rapito il lume degli occhi; raccoglieva a convito molti letterati dimoranti nella sua città, floridissima, illustre allora per un’accademia reale e per molti antichi

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personaggi che godeano d’alta fama nelle scuole italiane. Trovaimi io pure, benché giovinetto ed ultimo, ultimo fra cotanto senno; e sul finir della mensa uno de’ letterati richiese un giovine secretario dell’ospite perché recitasse alcuna poesia. Ed ei recitò versi di alcuni poeti, e tutti ascoltavano attentamente, giudicando ciascuno né significandosi l’animo, finché il recitante intuonò un sonetto, – e nell’intonarlo additò l’autore – e l’autore era l’ospite cieco. Ogni verso fu interrotto da lodi e da meraviglie, e l’adulazione sfacciata di que’ famosi letterati era tanta, che tale ascriveva il sonetto al Petrarca, tal altro al Tasso, – mentre il povero cieco, umile in tanta gloria, non osando palesarsi autore del sonetto, s’alzò pregando i suoi convitati che lo favorissero la domenica seguente in campagna.35

Altri esempi si potrebbero aggiungere: qui basti dire che in Foscolo il narrare sembra detenere una forza esplicativa e dimostrativa propria, di effetto immediato e complementare a quello della scrittura saggistica. Vorrei allora concludere il mio intervento ricordando un progetto narrativo poco noto, che mi pare tuttavia emblematico nel rafforzare l’ipotesi di una funzione conoscitiva della narrazione in Foscolo. Si tratta del romanzo epistolare Olimpia, a cui ho accennato all’inizio, che avrebbe dovuto narrare la storia di Olimpia Morata (1526-1555), umanista e damigella alla corte di Renata di Francia, fuggita da Ferrara nel 1548 con un giovane riformato tedesco, Andreas Grünthler, e morta non ancora trentenne a Heidelberg, dove era stata chiamata a insegnare greco. Questo progetto di romanzo che, se dobbiamo credere al Foscolo, risaliva additittura al 1795, è registrato in una lettera al Monti del dicembre 1808 tra i progetti di future opere: Primamente io volea scrivere un libro tra l’Eloisa e l’Anacarsis con lo stile dell’Ortis, intitolato Olimpia. Questa Olimpia fu giovinetta bella, dottissima, ed infelice. Era alla corte di Ferrara ammaestrando le principesse a’ tempi di Renata di Francia madre di Lucrezia e di quella Leonora per cui Torquato non potè mai staccarsi deliberatamente da una città dove gemeva deriso, [carcerato?] ed infermo, coronando il tiranno che lo incatenava. Renata die’ nelle novità della religione, e fu seguita da Olimpia che amava un giovane protestante col quale visse raminga e morì sciagurata ed ebbe tomba straniera.36

Questo passo è anzitutto un ulteriore esempio dell’innesto di frammenti narrativi entro altri generi di scrittura, qui in una lettera reale. La narrazione è conclusa da una frase che, nella sua efficacia lapidaria, potrebbe addirittura costituire l’epigrafe funebre della protagonista («visse raminga e morì scia— 161 —

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gurata ed ebbe tomba straniera»): quasi un’ulteriore esercizio di sintesi narrativa. Le frasi che seguono definiscono il genere del romanzo progettato, ancora epistolare ma questa volta a più voci, con registri plurimi di scrittura, uno dei quali anche femminile: «La passione comincerà, crescerà, ed infiammerà l’azione, poiché le lettere sono scritte da’ due giovani amanti, e da un terzo – che sarà forse Pierio Valeriano – o tal altro». È precisata inoltre la funzione dei possibili modelli, il Voyage du jeune Anacarsis per l’erudizione, l’Ortis per la morale, le lettere di Eloisa (non quella moderna di Rousseau, ma l’antica di Abelardo) per gli affetti: Le opinioni politiche religiose e morali, saranno discusse e applicate alle passioni […]. Con un’accorta economia di passioni, di avvenimenti, di filosofia, e di aneddoti non ti par egli che possa riescire un libro il quale partecipando della erudizione dell’Anacarsis riferita al secolo di Leone X, della morale dell’Ortis, e degli affetti dell’Eloisa – dell’antica Eloisa – sembri semplice, originale, e Italiano ed ammaestri col pianto i giovinetti e le vergini?37

Accorta economia di passioni, avvenimenti, filosofia e aneddoti: la definizione sembra emblematica dell’uso foscoliano della narrazione, e diviene anche più esplicita nella frase in cui l’autore si assume apertamente il compito di ammaestrare «col pianto i giovinetti e le vergini». La storia d’amore con la sua forza emotiva può insomma avere un’efficacia conoscitiva immediata. Subito prima era fornita un’altra importante indicazione compositiva: le lettere si fingono non semplicemente raccolte da un editore fittizio, ma tradotte da originali latini: Immaginai quindi di scrivere in lettere la storia di questi due amanti connessa agli aneddoti de’ tempi ed alla vita e caratteri degli artisti, letterati, e principi contemporanei; e di simulare le lettere tradotte dagli autografi latini, lingua famigliare tra’ letterati a’ quei giorni: giorni di Rafaele, di Michelangelo dell’Ariosto del Caro e del Machiavelli, di Renata e di Vittoria Colonna, di Leone X e della riforma de’ protestanti.

Sul modello di Montesquieu, che finge di tradurre le lettere dei suoi amici persiani, sembra in effetti innestarsi un’altra finzione, quella dell’antico manoscritto ritrovato. In Foscolo l’operazione trova, come è noto, l’alta realizzazione delle Grazie, che ancora nel 1822, nel volume dell’Outline Engravings and Descriptions of the Woburn Abbey Marbles, sono presentate come — 162 —

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traduzione di un antico inno greco ritrovato nella biblioteca di un monastero di Zante. Ma se aggiungiamo che l’Olimpia doveva essere ambientata in un periodo storico trascorso, precisamente nel Cinquecento, apparirà chiaro che il progetto foscoliano scardina dall’interno il genere a cui dovrebbe appartenere e introduce nuove istanze narrative nel tessuto del romanzo epistolare. Il romanzo non sarà in effetti mai scritto, nonostante l’entusiastico e quasi accorato assenso del Monti: «Il piano del tuo romanzo mi rapisce. Non abbandonarlo per carità. L’argomento è bellissimo, interessantissimo, e a me carissimo perché patrio, e tutto scorrente ad onore dell’italiana letteratura»38. Ma quelle esigenze eterogenee e feconde erano destinate di lì a poco a trovare, proprio in area italiana dove la narrazione romanzesca non aveva facile cittadinanza, una delle loro più alte realizzazioni nella forma del romanzo storico, firmato da un antico pupillo del Foscolo ormai maestro in proprio. Penso naturalmente al Manzoni e ai Promessi sposi, dove erudizione, funzione morale e didattica sono applicate a un romanzo ambientato nel Seicento che si finge riscritto in italiano moderno a partire da un dilavato e graffiato autografo. Nel giro di pochi anni il romanzo epistolare italiano si è trasformato in romanzo storico: l’amore aristocratico dei due sposi umanisti, raccontato nelle loro epistole latine, ha lasciato spazio a quello borghese di due artigiani che non sanno scrivere lettere, raccontato per loro da un anonimo narratore del Seicento. NOTE Cfr. Piano di studi, in U. FOSCOLO, Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. GAMBARIN, Edizione Nazionale delle Opere di UGO FOSCOLO, VI, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 1-9, in particolare p. 5. L’epigrafe del presente saggio è tratta da Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, in U. FOSCOLO, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), ed. critica a cura di E. SANTINI, EN VII, 1933 (1972 seconda ristampa xerografica), p. 7. 2 Piano di studi, cit., p. 6. 3 Cfr. lett. 707, in U. FOSCOLO, Epistolario (Luglio 1804-Dicembre 1808), a cura di P. CARLI, II, EN XV, 1952, pp. 541-545; la cit. è a p. 544: «Ma quest’opera che mi nacque nel cervello sino dal 1795 in estate, mentr’io sotto un albero lungo la Brenta riposava del mio viaggio pedestre da Venezia a Padova, quest’opera che ho vagheggiata sempre e allattata, per così dire, nel secreto del mio ingegno, dovea riserbarsi a’ tempi tranquilli». 4 Ultime lettere di Jacopo Ortis (1816) e Notizia Bibliografica, testo stabilito e annotato da M. A. TERZOLI, in U. FOSCOLO, Opere, II, Prose e saggi, ed. diretta da F. GAVAZZENI, Torino, Einaudi, 1995, pp. 3-209 e 745-850; la cit. è a p. 164. 1

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MARIA ANTONIETTA TERZOLI 5 M. A. TERZOLI, «Ortis» bolognese tra politica e censura. Storia di un giallo editoriale di fine Settecento, Roma, Salerno Editrice, 2004 (in corso di stampa). 6 Ultime lettere (1816), cit., p. 71. Sui meccanismi di funzionamento del romanzo epistolare resta esemplare il saggio di J. ROUSSET, Una forma letteraria: il romanzo epistolare, in ID., Forma e significato. Le strutture letterarie da Corneille a Claudel, Introduzione e traduzione di F. GIACONE, Torino, Einaudi, 1976, pp. 81-120. Mio il corsivo: così nel séguito salvo indicazione contraria. 7 Ultime lettere (1816), cit., pp. 23 e 96. 8 Sulla Storia di Lauretta e sul suo discusso statuto si veda V. ROSSI, Sull’«Ortis» del Foscolo, «Giornale storico della letteratura italiana», XXXV, 1917, 205, pp. 35-85, in particolare pp. 57-64; ID., La formazione e il valore estetico dell’Ortis, in Studi su Ugo Foscolo editi a cura dell’Università di Pavia nel primo centenario della morte, Torino, Chiantore, 1927, pp. 425-432; C. F. GOFFIS, «Ortis» e «Protoortis», in ID., Studi foscoliani, Firenze, La Nuova Italia, 1942, pp. 84-97; ID., Nota per «Laura, lettere», in ID., Nuovi studi foscoliani, Firenze, La Nuova Italia, 1958, pp. 141-166; P. FASANO, Laura e Lauretta, in ID., Stratigrafie foscoliane, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 15-51 (dove è anche una rapida rassegna della bibliografia precedente). 9 L’edizione milanese delle Ultime lettere (1802) si legge in U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, ed. critica a cura di G. GAMBARIN, EN IV, 1955 (1970 prima ristampa), pp. 131-290; la cit. è alle pp. 183-184. Del Gambarin si veda l’Introduzione, pp. IX-LXXXIV; in particolare le pp. XIII-XIV relative al Frammento. 10 Ivi, pp. 135 e 189. 11 Mi sia consentito rinviare a M. A. TERZOLI, «Casi infelici» nell’«Ortis». Le vite parallele di Gliceria, Olivo e Lauretta, «Filologia e critica», XIV, 1989, 2, pp. 165-188. 12 Ultime lettere (1802), cit., pp. 176-177 (correggo il refuso «delle natura»). La topica apertura ‘a caso’ rinvia forse anche a un preciso luogo pariniano: «Or tu il libro gentil con lenta mano / Togli, e non senza sbadigliare un poco / Aprilo a caso o pur là dove il parta / Tra l’uno e l’altro foglio indice nastro» (Mattino II, 611-614; cito da G. PARINI, Il Giorno, ed. critica a cura di D. ISELLA, II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, p. 29). Per il rapporto con il Socrate delirante, si veda W. BINNI, Il «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis», in ID., Ugo Foscolo. Storia e poesia, Torino, Einaudi, 1982, pp. 121-145. 13 Ultime lettere (1802), cit., p. 177; il corsivo è dell’autore. 14 Ivi, p. 183. 15 L’edizione bolognese delle Ultime lettere (1798) si legge in U. FOSCOLO, Ultime lettere di Jacopo Ortis, cit., EN IV, pp. 1-129; la cit. è alle pp. 70-71. 16 Ivi, p. 72. Così interpreterei il titolo abbreviato «la Virginia», piuttosto che pensare alla tragedia alfieriana, troppo eterogenea rispetto agli altri titoli citati. 17 Ivi, p. 87. Non credo che in questo iterato invio si debba vedere necessariamente un errore di costruzione narrativa, come sostiene M. MARTELLI, La parte del Sassoli, «Studi di Filologia italiana», XXVIII, 1970, pp. 177-251, in particolare pp. 196-197. 18 Ultime lettere (1802), cit., p. 276. 19 Il frontespizio è riprodotto in U. FOSCOLO, Opere, II, Prose e saggi, cit., p. 5. 20 Cfr. lett. 86, in ID., Epistolario (Ottobre 1794-Giugno 1804), a cura di P. CARLI, I, EN XIV, 1970, pp. 129-132.

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FORME DEL NARRARE IN FOSCOLO 21 Lett. 249 (XCVII), in Epistolario, cit., I, pp. 362-365; la cit. è a p. 363; così la successiva. 22 Cfr. U. FOSCOLO, Lacrime d’amore. Lettere a Antonietta Fagnani Arese, a cura e con note di G. PACCHIANO, con un saggio di E. SANGUINETI, Milano, Serra e Riva, 1981, pp. 270-273; in particolare p. 273 (in copertina è riprodotta la Sentimental Conversation del Bartolozzi). L’incisione del Boggi è riprodotta in G. ACCHIAPPATI, Foscolo a Milano, Milano, Strenna dell’Istituto Gaetano Pini, 1971 (copertina e tav. XVIII). 23 Per quest’ultimo si veda M. PRAZ, La dama sul sofà, in ID., Gusto neoclassico, Milano, Rizzoli, 1974, pp. 300-305; la tav. 56 riproduce la litografia di A. Lecomte del quadro di F. L. Dejuinne. In Italia i ritratti femminili con libro sembrano più frequenti nella pittura del Cinquecento; tre esempi sono riprodotti in A. NUOVO, E. SANDAL, Il libro nell’Italia del Rinascimento, Brescia, Grafo, 1998, pp. 153-156: Ritratto di giovinetta con libro (Firenze, Galleria degli Uffizi) e Ritratto di Laura Battiferri (Firenze, Palazzo Vecchio) del Bronzino; Ritratto di donna seduta con un libro (Bergamo, Accademia Carrara) di Giovan Battista Moroni. 24 Il ritratto (anonimo) è pubblicato in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. CECCHI e N. SAPEGNO, VII, L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1969, tav. dopo la p. 144. 25 Voyage sentimental en France, par M. STERNE, Sous le nom d’Yorick, Traduit de l’Anglois par M. FRÉNAIS, Paris, s.d. 26 Il Sesto tomo si legge in U. FOSCOLO, Prose varie d’arte, a cura di M. FUBINI, EN V, 1951 (prima ristampa anastatica 1979), pp. 1-27; e U. FOSCOLO, Il sesto tomo dell’Io, ed. critica e commentata a cura di V. DI BENEDETTO, Torino, Einaudi, 1991, pp. 1-71 (alle pp. 54-70 si leggono le liste di citazioni). Per i rapporti tra il Sesto tomo e l’Ortis, si veda C. F. GOFFIS, Il «Romanzo autobiografico» di U. Foscolo e il II «Ortis», in ID, Studi foscoliani, cit., pp. 181-201; M. FUBINI, Diogene e Psiche (Note sul «Sesto tomo dell’Io»), in ID., Ortis e Didimo. Ricerche e interpretazioni foscoliane, Milano, Feltrinelli, 1963 (poi anastatica Firenze, La Nuova Italia, 1978), pp. 87-136. 27 Cfr. M. A. TERZOLI, Foscolo, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 40-50; EAD., Esperimenti autobiografici foscoliani, in «In quella parte del libro de la mia memoria». Verità e finzioni dell’‘io’ autobiografico, a cura di F. BRUNI, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 249-264; in particolare pp. 253-264. Da qui derivano le osservazioni che seguono relative al Sesto tomo. 28 Cfr. M. FUBINI, Introduzione, in U. FOSCOLO, Prose varie, cit., pp. XIII-CXVIII; in particolare p. XIX. 29 Si veda in proposito G. RABIZZANI, Sternismo foscoliano prima della traduzione, in ID., Sterne in Italia. Riflessi nostrani dell’umorismo sentimentale, Prefazione di O. GORI, Roma, Formìggini, 1920, pp. 40-53, in particolare pp. 47-53; V. DI BENEDETTO, Introduzione, in U. FOSCOLO, Il sesto tomo dell’Io, cit., pp. IX-LVII, in particolare pp. XXXIX-XLI. 30 La definizione è nella lett. 1264, a Giovan Paolo Schulthesius del 21 gennaio 1813, in U. FOSCOLO, Epistolario (1812-1813), a cura di P. CARLI, IV, EN XVII, 1954, p. 206. 31 La Notizia (testo stabilito e annotato da G. LAVEZZI) si legge in U. FOSCOLO, Opere, II, Prose e saggi, cit., pp. 344-353 e pp. 905-911. La versione della Notizia stampata a Zurigo nel 1816 in appendice all’Ipercalisse, si legge in U. FOSCOLO, Prose varie, cit., pp. 173-186. 32 U. FOSCOLO, Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia, in ID., Saggi di letteratura italiana, ed. critica a cura di C. FOLIGNO, EN XI, parte II, 1958, pp. 491-555 (in in-

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glese Essay on the present Literature of Italy, pp. 399-490); la cit. è a p. 514; la successiva a p. 522. 33 U. FOSCOLO, Discorso storico sul testo del «Decameron», in ID., Saggi e discorsi critici, ed. critica a cura di C. FOLIGNO, EN X, 1953, pp. 301-375; la cit. è alle pp. 310-311. 34 Cfr. ID., Scritti letterari e politici, cit., pp. 129-149; la cit. è alle pp. 145-146. 35 Cfr. ID., Della morale letteraria. Lezione seconda, in ID., Lezioni, articoli di critica, cit., pp. 117-38; la cit. è a p. 133. Nella stessa pagina si legge: «Simili aneddoti non si trovano scritti ne’ libri; ma la lezione che somministrano si può abbondantemente raccogliere vivendo tra gli uomini». 36 Lett. 707, cit., pp. 542-543; la successiva è a p. 543; cfr. anche sopra nota 3. Un accenno all’Olimpia in M. FUBINI, Ugo Foscolo, Firenze, La Nuova Italia, 1962 (anastatica 1978), p. 56. 37 Lett. 707, cit., pp. 543-544; la successiva è a p. 543. 38 Lett. 717, del dicembre 1808, in Epistolario, II, cit., p. 561.

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ILARIA CROTTI OMBRE DEL GIALLO. IL POLIZIESCO, LA LETTERATURA ITALIANA, LA MODERNITÀ Un dato mi pare ormai appurato; che non si possa fare a meno di rilevare come in questi ultimi decenni posti tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nuovo la letteratura italiana, ma non solo, abbia intrecciato legami cogenti col cosiddetto poliziesco: rapporti che, del resto, variano, obbedendo a una gamma modale molto articolata, se si screziano via via dalla velata allusione, alla citazione più o meno esplicita, fino ad esperire un rapporto manifesto di correlazione-dipendenza. Si tratta di un fenomeno talmente evidente nella sua invasività da suscitare interrogativi mirati, per tentare di rispondere ai quali sembra necessario appellarsi a qualche breve premessa. A partire dai decenni immediatamente post-unitari, infatti, prima di tutto grazie all’apporto del movimento scapigliato, il quale, da parte sua, provvide a filtrare e, insieme, rielaborandoli, immettere nel panorama letterario italiano una densa duplice serie di quelli che Todorov ha opportunamente chiamato ‘temi dell’io’ e ‘temi del tu’1, circolanti nella letteratura fantastica europea già dagli anni Trenta del XIX secolo – mi riferisco a determinate novelle tarchettiane, ad esempio a Le leggende del castello nero o Uno spirito in un lampone2, che risultano molto percorse dal fattore poliziesco – successivamente mediante il contributo offerto dalla lezione prima naturalista poi decadente – alludo, nell’intento di selezionare qualche prova, a certa produzione di Capuana e De Roberto, e ancora di De Marchi e Fogazzaro3 – lo scenario letterario fu fittamente investito da una sequenza di ‘effetti’ (‘effetto’ Poe, ‘effetto’ Stevenson, ‘effetto’ Hoffmann, e via dicendo); essi4, sotto l’onda d’urto fomentata da detti eventi, proprio per gli impatti che produssero, apportarono decise virate ad alcune già prefissate rotte della navigazione letteraria nazionale, facendo intravedere sotto le tracciate mappe di superficie inabissate sinopie. — 167 —

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Ad una certa altezza, insomma, lo spazio dinamico di forze attivato dal polo poliziesco, soprattutto se intendiamo – come risolverei di proporre – tale terreno non tanto in senso restrittivo, declinandolo cioè all’interno di un ambiente tipologico contrassegnato da un mero discrimine paraletterario, dotato di proprie geografie e storie spostate nel ‘consumo’5, bensì in un’accezione necessariamente più vasta, allegorica, insomma, la quale sia in grado di andare al di là di una pretta sfera, appunto, di genere, per proiettarsi in una regione definibile in senso lato come retorica, tende ad avocare a sé un complesso di prospettive e problematiche di primario interesse per la modernità, tanto da suggerire, addirittura, un rapporto irrefutabile con il destino della narrativa del XX secolo. Mi pare, così, che, una volta accantonata la veste paraletteraria – canone che va un po’ stretto a questo insieme, mentre, nello stesso tempo, tende a irrigidirne le prospettive – proprio facendo ricorso a un’area concettuale come quella di campo6, nel suo connettere angolazioni legate al contesto con ottiche che focalizzano invece il testo letterario, si possa dare conto di un corpus talmente articolato da partecipare e, nello stesso tempo, rifuggire da rigide catalogazioni. Il problema, insomma, non sarebbe tanto quello di demarcare con una linea possibilmente recisa i territori che delimitano la letteratura presumibilmente alta, in ipotesi contaminata o sedotta in varia misura da temi e figure, tecniche e strutture, sensi e personaggi vicini o tipici del poliziesco, dalle plaghe che lambiscono la produzione più di consumo, appartenente al genere, così come venuto via via storicamente a configurarsi, magari nel proposito di dirimere certi ‘tormentoni’ estivi, di taglio giornalistico (del tipo: la produzione di Camilleri appartiene all’una o all’altra sfera? E per quale ragione?). Semmai, si tratterebbe di capire perché, a partire da quel ‘grande’ codice che è la Bibbia fino a un roman philosophique come la voltaireana Zadig ou la destinée. Histoire orientale (1747), attraverso testi quali le Mille e una notte, le Storie di Erodoto, l’Eneide virgiliana, l’Amleto shakespeareano e i Casi del giudice Bao, esistano – come ha rilevato Oreste Del Buono – dei cosiddetti ‘padri fondatori’7; i quali, da parte loro, hanno postulato archetipi che, a loro volta, hanno dato origine ad alcuni snodi focali per la sorte del campo, gettando le fondamenta, sia argomentative che tematiche, di una serie di raccordi problematici che precedono, insomma, di gran lunga la nascita di un precipuo genere poliziesco canonico8. Genere che in Italia, come noto, ottiene i primi autoctoni riscontri solo fra le due guerre, in quel 1931 – l’anno — 168 —

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de Il Sette Bello di Alessandro Varaldo – di poco successivo alla nascita della celebre, anche in senso cromatico, collana mondadoriana de «I Libri Gialli» (1929), per articolarsi successivamente in una fitta trama molto mossa ed elaborata, di cui ha fornito di recente ragguagli il volume di Luca Crovi, Tutti i colori del giallo9. Il poliziesco lungo il Novecento ha percorso un viaggio complesso, divenendo un modulo carico di significati, dotato di forme peculiari che si sono calate in precisi assi portanti. Le tappe più emblematiche del suo tragitto, se si riducesse il percorso in schema, le potremmo rintracciare in certo Pirandello, in particolare in quello dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore (nel 1915 in rivista e nel 1925 in volume), indi nel Bontempelli de La famiglia del fabbro (1931)10, nel Comisso de Il delitto di Fausto Diamante (1933), nel Moravia de Le ambizioni sbagliate (1935), nel Soldati de La verità sul caso Motta (1941), nel Piovene de La Gazzetta Nera (1943), nell’Emanuelli de La congiura dei sentimenti (1943), nel Pasticciaccio (1957, ma in prima versione, tra il ’46 e il ’47 su «Letteratura») gaddiano, ovviamente, a metà degli anni Quaranta, che segna un punto cardine del percorso, nel Flaiano di Tempo di uccidere (1947); e ancora, in termini lampanti, in tutta l’eloquente produzione sciasciana, per non tacere degli anni Sessanta di un Luigi Malerba (mi riferisco, in particolare, a prove quali Il serpente e Salto mortale, datate rispettivamente 1966 e 1968), dei Settanta di Piero Chiara, con I giovedì della signora Giulia (1970) e La stanza del vescovo (1976), fino a Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco11, che inaugura gli anni Ottanta e, insieme, apre tutta una fitta stagione ‘gialla’ esplosa e, allo stesso tempo, implosa, definibile come postmoderna12. Ciò è potuto accadere per il fatto che proprio tale campo, lungo il circuito ininterrotto che conduce dall’autore al testo e al lettore, e viceversa, è stato selezionato quale esemplare terreno di gioco e, nel medesimo tempo, in quanto spazio epifanico. Esso, infatti, si è rivelato per eccellenza in grado di svolgere, rielaborandole sotto mentite spoglie, alcune funzioni di vitale rilievo per la modernità. Innanzitutto, esprimere interrogativi, anche di vastissima portata, non gravandoli di apparati tortuosi ed ardui; indi, senza aspirare ad approdare a una verità univoca e assoluta13, attivare un andamento interpretativo declinato in procedure, piuttosto che statico-deduttive, dinamico-abduttive, basate come sono su un paradigma indiziario14; condurre, poi, una serie di quêtes aperte, perseguitate da un fattore determinante per la modernità, come il caso15, anche leggibili in senso allegorico, atte a venire decodificate a diversi livelli, nel — 169 —

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momento in cui le funzione relative alla detection possono risultare pertinenti ad ambiti distinti; ciò dal momento che l’oggetto da inseguire dispone della facoltà di esorbitare dallo specifico e restrittivo circuito evocato (ricerca e svelamento dell’identità dell’assassino). Inoltre, ancora, inseguire le sagome interscambiabili di quel miraggio rappresentato dal personaggio-uomo, si presenti esso mascherato sotto le spoglie multiple di colpevole, di vittima o di detective, nel coglierne, insomma, le possibili derive, come, nel medesimo tempo, le eventuali co-esistenze. Infine, interrogarsi circa le grandi domande e i temi più cogenti che la letteratura, fin dai suoi esordi, si è posta, tenendo attivi, almeno sullo sfondo e prevalentemente in controluce, nuclei problematici e orizzonti ideologici molto percorsi dalla cultura giudaico-cristiana, variamente articolati rispetto a determinate prospettive: quelle focalizzate su nodi imprescindibili, che contemplano tappe quali condizione edenica originaria, indi colpa, infine punizione-catarsi16. Inoltre, mi pare emblematico come il poliziesco affronti, pur ricorrendo a propri peculiari strumenti, flessi secondo modalità anche dimesse o spostate di segno, due grandi giurisdizioni. L’una afferirebbe alla sfera del tragico; un’entità, almeno in senso classicamente ‘alto’, andata dispersa – come la lezione di Steiner ha dimostrato – la quale si sarebbe trovata via via a subire continue ricodificazioni; trapassi che, da parte loro, hanno provveduto a traslitterarne le valenze sotto spoglie altre, trascinandola a defluire in svariati rivoli generici, intrattenenti rapporti simbiotici in particolare con una forma specifica, quella rappresentata, appunto, dal romanzo17. L’altra, molto connessa alla precedente, dal momento che ne rappresenta una delle possibili icone, ha assistito all’elaborazione, più o meno compiuta, di specifici temi, relativi alla morte, al lutto e, più in generale, al senso di perdita, procedendo a un sistematico lavoro di spostamento di senso, ad una loro focalizzazione, insomma, deviata, ma per questo non immemore dell’orizzonte ideologico cui afferiscono18. Si pensi, proprio per il valore archetipico che detiene, all’atteggiamento totalmente distaccato che l’eroe-detective di Doyle, Holmes appunto, ad esempio in A Study in Scarlet (1887), assume davanti alla morte in generale e, in particolare, al corpo in scena, sia esso di sesso maschile o femminile, in quel forzato deviare lo sguardo dalla pertinenza tragica del messaggio luttuoso per focalizzare, invece, spoglie disumanizzate, da sottoporre a loro volta a un’analisi che con acribia ami soffermarsi soprattutto sui minimi dettagli: un oggetto tramutatosi in astratto pretesto, insomma, impotente nel suscitare sentimenti, atto a ribadire unicamente, in — 170 —

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modo solipsistico, il pervicace desiderio dell’interprete di tracce di dimostrare come la propria intelligenza induttiva possa superare nello stesso tempo caso e destino19, per trasformare entrambi in puro gioco20. Una deriva, quest’ultima, che, come è possibile rilevare di continuo, rintracciandola nei sempre più adeguati e aggiornati prodotti comminatici dai mass media, ha comportato un inesorabile spostamento dei limiti della soglia del visibile, dove proprio l’ostentazione del profilo del cadavere in scena si è progressivamente trasformata nel prescrittivo divieto di coglierne la tragica umanità. È anche per detti tratti che Holmes, e insieme a lui, una fitta schiera di seguaci, copie e fotocopie, può aspirare a divenire epifania di un personaggio per eccellenza borghese che intende sconfiggere (o, almeno, tentare di tenere a bada) con le armi private e solitarie della propria raziocinante perspicacia il disordine, sia sociale che economico, che invade lo scenario del reale, la precarietà che lo mina alla radice; come, del resto, già l’analisi gramsciana aveva colto con pronta sagacia21. D’altro canto, se spostiamo la barra in direzione dell’istanza dell’assassino, ecco emergere con netta evidenza la sagoma di un prototipo AdamoCaino declinato nelle cadenze di un dolo antico, già colpevole ab origine, insomma. Sarà all’altezza delle Confessions rousseauiane che quel personaggio, assillato da una smania illimitata (perché quasi divinizzata) di autodenuncia, pare scosso dal desiderio inesausto di mettere a nudo i propri limiti, esibendosi in performances atte a offrire massimo risalto alle aporie che lo contraddistinguono22. E si tratterà di un percorso che, attraversato il XVIII secolo, lungo il seguente, facendo tappa obbligata nel Dostoevskij di Delitto e castigo (1866), porterà alla creazione di una tipologia di personaggio costretto a prendere coscienza della propria specificità identitaria svelandone, prima di tutto a se stesso, la molteplice quanto sfaccettata natura non univoca. Se nei decenni immediatamente post-unitari la narrativa italiana risulta invasa da svariate tipologie di assassini, i cui contorni, ovviamente, hanno proiettato le loro ombre lunghe anche in direzione allegorica, ciò si verifica proprio per il fatto che sulle piattaforme di superficie del personaggio sono potuti emergere territori rimasti in precedenza parzialmente inabissati, indicibili, inconfessabili. Una funzione determinante hanno svolto in questo ambito, come è noto, alcuni prototipi esemplari, offerti dalla narrativa prima naturalista poi decadente, d’altronde anticipati di alcuni decenni dal dequinseyano Murder Considered as One of the Fine Arts (1827)23. — 171 —

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Per limitarmi a citare un caso paradigmatico, si pensi, così, all’episodio, narrato in À rebours (1884) da un personaggio focale, in questo senso, come des Esseintes; il quale, una volta autoreclusosi in una pur dorata dimora-galera, tra le cui stanze lavorare con acribia a recuperare dall’ingombro magazzino della propria memoria, riportandoli in luce, alcuni frammenti salienti di vita ‘diurna’, si cimenta a narrare punto per punto un brano che ha come soggetto un’educazione sentimentale rovesciata di segno: si tratta del passo riguardante il mirato progetto di corruzione tentato ai danni di Auguste Langlois. Conducendolo, infatti, a visitare la maison di madame Laure, il duca Jean si prefigge di far sorgere nel proletario e innocente giovinetto appetiti che, una volta rimasti inappagati, lo indurrebbero poi a intraprendere la carriera del libertinaggio e dell’assassinio; così si medita: la vérité c’est que je tâche simplement de préparer un assassin. Suis bien, en effet, mon raisonnement. Ce garçon est vierge et a atteint l’âge où le sang bouillonne; il pourrait courir après les fillettes de son quartier, demeurer honnête, tout en s’amusant, avoir, en somme, sa petite part du monotone bonheur réservé aux pauvres. Au contraire, en l’amenant ici, au milieu d’un luxe qu’il ne soupçonnait même pas et qui se gravera forcément dans sa mémoire; en lui offrant, tous les quinze jours, une telle aubaine, il prendra l’habitude de ces jouissances que ses moyens lui interdisent ; admettons qu’il faille trois mois pour qu’elles lui soient devenues absolument nécessaires – et, en les espaçant comme je le fais, je ne risque pas de le rassasier; – eh bien, au bout de ces trois mois, je supprime la petite rente que je vais te verser d’avance pour cette bonne action, et alors il volera, afin de séjourner ici; il fera les cent dix-neuf coups, pour se rouler sur ce divan et sous ce gaz! En poussant les choses à l’extrême, il tuera, je l’espère, le monsieur qui apparaîtra mal à propos tandis qu’il tentera de forcer son secrétaire; – alors, mon but sera atteint, j’aurai contribué, dans la mesure de mes ressources, à créer un gredin, un ennemi de plus pour cette hideuse société qui nous rançonne.24

Il duca Jean, insomma, si muoverebbe ad un livello altro, più astratto e progettuale, rispetto alla triade canonica, composta dalle maschere dell’assassino, della vittima e del detective, dal momento che opera motivato da una precisa istanza di regia, animata dal proposito di organizzare la scena del delitto, partecipandovi di riflesso, da voyeur, insomma; e, proprio in quanto indiretto mandante, egli riesce a saldare alcuni snodi focali che si aggrovigliano e, insieme, si inabissano e si occultano nel poliziesco. Raccordi che appartengono sia ad una dimensione privata che ad una collettiva, calati come sono e in ardue relazioni interpersonali, segnate anche da un erotismo deviato, e in insanabili conflitti di classe. — 172 —

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Il testo, così, fa affiorare tutte le implicazioni, di natura anche sociale ed ideologica, che soggiacciono alla progettata partenogenesi di un possibile assassino, e, di conseguenza, ai legami speculari che – come notava già Foucault in Microfisica del potere, soffermandosi ad analizzare fenomeni che acquistano piena evidenza intorno agli anni Quaranta del XIX secolo – porrebbero in stretta relazione l’eroe criminale con la classe borghese, per un verso, con la polizia, per un altro25. Accanto all’emergere di dette regioni, che il pensiero freudiano provvederà di lì a poco a sondare mediante propri criteri e strumenti26, un altro evento, per certi aspetti parallelo al precedente, viene a segnare con nettezza uno scenario siffatto: il profilarsi sull’orizzonte epistemologico di un metodo, cui si già è fatto cenno, definibile come indiziario, situabile intorno alla seconda metà del XIX secolo27. Ebbene, nel limitarmi ad addurre un solo (ma paradigmatico) esempio di ambito italiano, proprio in un prototipo sensibilissimo, in quel personaggiospugna – perché capace di far confluire su di sé movenze naturalistiche, per poi rifonderle in direzione decadente – che è, alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo, Sperelli, si rintracciano segni precisi che, rimandando a un’identità prometeica, tra le cui innumerevoli pieghe può allignare anche il patologico, si dispongono a ricodificarne il profilo; e non a caso si tratta di una sagoma coeva a un esteta come Holmes: colui che – lo si tenga presente – possiede lunghe dita bianche, predilige, per concentrarsi, l’ascolto di musica tedesca e fa uso di cocaina. I doppi versanti identificati, così, potrebbero disegnare per un verso la silhoutte di un assassino, per un altro quella di un detective, segugio indefesso sguinzagliato sulle tracce delle proprie multiple menzogne-colpe, esibite in modo compulsivo. Si veda, in particolare, là dove Andrea, a seguito della frequentazione della macabra-erotica «biblioteca arcana» del marchese (non a caso) di Mount Edgcumbe, si trova costretto a guardare e, insieme, mettere a nudo inconfessabili miraggi criminali, che in lui non vanno disgiunti da pulsioni erotiche: istinti belluini di cui il personaggio sarà in grado di ricostruire analiticamente dinamiche e movenze, per ritualizzarle poi sul corpo sacrificale di Maria. Infatti, all’altezza dell’explicit, l’«armario segreto»28 che gli si spalanca dinanzi ai sensi, proprio nel racchiudere in metonimia le spoglie della dimora perduta della Ferres, diverrà un contenitore-cornice speculare a quello, altrettanto funebre, che si sarà costretti a traghettare, come al seguito di un feretro, «fin dentro la casa»29: — 173 —

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Andrea trasalì: tutto il sangue gli fece velo agli occhi, gli accese la fronte, gli mise negli orecchi un rombo, come se una vertigine improvvisa stesse per coglierlo. Un’insurrezione di brutalità lo sconvolse; gli attraversò lo spirito, nella luce d’un lampo, una visione oscena; gli passò nel cervello oscuramente un pensier criminoso; l’agitò per un attimo non so che smania sanguinaria. In mezzo al turbamento portato in lui da quei libri, da quelle figure, dalle parole di quell’uomo, risaliva su dalle cieche profondità dell’essere lo stesso impeto istintivo che già egli aveva provato un giorno, sul campo delle corse, dopo la vittoria contro il Rùtolo, tra le esalazioni acri del cavallo fumante. Il fantasma d’un delitto d’amore lo tentò e si dileguò, rapidissimo, nella luce d’un lampo: uccidere quell’uomo, prendere quella donna per violenza, appagare così la terribile cupidigia carnale, poi uccidersi.30

Un brano in cui le patologie di un soggetto per molti versi già novecentesco si trovano epifanizzate con estrema, forse eccedente, evidenza31. D’altro canto, ciò che accomuna l’Andrea dannunziano al modello francese, tra le diffuse affinità eventualmente ravvisabili32, si presenta anche un’impronta che mi pare, nell’ottica del discorso che cerco di condurre, cogente; si tratta di un’esasperata attenzione mirante a cogliere dettagli, nel collezionare-collazionare minuti particolari, nell’assemblare oggetti non pertinenti, fagocitando in modo bulimico, insomma, quelli che Freud, da parte sua, nel saggio dal titolo Il Mosè di Michelangelo (1913), osservando la peculiare posizione che detiene la mano destra rispetto alle due tavole, sulla scorta del pensiero indiziario di un Morelli, espressamente citato, aveva indicato come ‘rimasugli’ e ‘rifiuti’ («Io credo che il suo metodo sia strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica. Anche questa è avvezza a indovinare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti, al rimasuglio – ai “rifiuti” dell’osservazione»33). Non mi pare privo di significato, del resto, che l’avvenimento distintivo della regione che si cerca di mettere a fuoco, enucleabile a più livelli, pertinenti via via al discrimine tematico, ai ritmi ondulatori-sussultori dell’intreccio e alla sfera relativa al paradigmatico, tenda a rapprendersi intorno a un evento di morte: un tracciato semantico-tematico che – come si rilevava – Il Piacere percorrerà fino a un epilogo estremo. Appunto detto accadimento, infatti, nel poliziesco risulta declinato sulle cadenze di una sistematica rimozione, sottoposto com’è ad una curiosa torsione, sotto l’effetto della quale esso si trova trasformato in pretesto e contraffatto in gioco. Il lutto, reso invisibile, o, parimenti, collocato a tal punto in primo piano da rivelarsi trasparente, non pertinente, insignificante, si ri— 174 —

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codifica sotto le spoglie di una sfida che, insomma, intende contendere il terreno al disordine e al caos riposti proprio nella dimensione dell’intreccio; nello spazio che gli pertiene – come ha teorizzato Brooks34 – tra le pieghe dell’inconfessato e assillante desiderio, di cui è pervaso, di giungere alla fine, si anniderebbe l’ostinata pulsione a pervenire ad un esito ultimo. In particolare una forma, l’interrogativa, costituisce uno dei nuclei motori del campo, in quel suo organizzarsi intorno a strategie retoriche determinate; una figura, infatti, che si presenta in termini ineludibili già a partire dal primo libro di Pentateuco, Genesi – come si accennava, uno dei codici da ritenersi archetipici del poliziesco – quando, interrogato dal Signore circa la sorte di Abele, Caino, una volta compiuto il fratricidio, commette il peccato ulteriore di negarsi alla risposta, e non solo, di trascinare l’argomentazione verso una deviazione sospetta, fino a formularla artatamente come una domanda retorica di secondo grado («Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?»35). La colpa di Caino, quindi, in quanto menzogna espressa mediante il linguaggio in una situazione comunicativa mimetica, afferirebbe anche a un piano argomentativo, dal momento che, enunciata da una voce di colpevole, rimanderebbe a un mittente onnisciente una domanda prettamente retorica, ritenuta a sua volta già indiziata, giungendo a sfidare, così, in termini radicali l’onnipotenza ascritta al paterno, nel proposito di valicarne la portata36. Il punto interrogativo, insomma, lungo il sinuoso e ambiguo percorso, sia logico che retorico, che evoca, rappresenta il segno d’interpunzione che, attraversando a grandi campate la cultura occidentale, disegna sulla pagina la grafia di un’inchiesta sempre intrapresa con pervicacia e mai risolta in termini compiuti – come simboleggia e, insieme, narra, non solo a un livello letterale ma anche in allegoria, proprio la prosa di Kafka37 – continuamente alla ricerca sia di spiegazione e di senso come di un assetto regolato, afferente a uno spazio anche linguistico, da inseguire in utopia. Se la narrativa moderna ha provveduto ad elaborare quel segno interpuntivo fino quasi a indurlo a scomparire dall’evidenza affiorante dalla superficie sintattica, inabissandolo, piuttosto, nelle proprie profondità, ciò è potuto avvenire perché avrebbe optato per un radicale spostamento-riposizionamento, ottenendo l’esito di introiettarne la portata all’interno di distinti generi e precipue forme. Essa, insomma, ha proiettato quel punto fermo tanto singolare, anomalo proprio nel suo prospettare un’apertura responsiva ulteriore invece di preoccuparsi di segnalare un termine chiuso, in un registro che, fagocitandolo in una dimen— 175 —

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sione meramente grafica, procura di dislocarne strategicamente le valenze tra le pieghe del discorso. Quando Sciascia, in uno dei suoi primi, e lucidissimi, interventi dedicati all’argomento, Letteratura del ‘giallo’, apparso su «Letteratura» (1953, 3, pp. 65-67)38, aveva tracciato alcune linee, non solo formali, afferenti al campo, ponendo in rilievo come vi allignassero determinate interferenze con la prosa degli Hemingway, Faulkner e Cain, in particolare, offrendo peculiare risalto allo spiccato gusto del gioco che accomunerebbe i rispettivi ambiti, aveva puntualmente citato, quali maestri indiscussi, figure come Poe, innanzitutto, indi Melville, Stevenson e Conrad. Chi nelle celeberrime pagine di Philosophy of Composition (1846)39 aveva teorizzato il primato della forma breve, colta in quanto imprescindibile dismisura atta a creare effetto poetico, infatti, era stato anche colui che aveva colto alcune linee metodologicamente cogenti, capaci di valicare un livello meramente analitico, delegato a interpretare criticamente propri componimenti poetici, per approdare a uno, invece, più impegnato a rivisitare quei medesimi criteri per proiettarli poi nella sfera tipologica del personaggio: testimonia un iter siffatto proprio un Dupin40. E si tratta di un’analisi teorica cui, da parte sua, Sˇklovskij, pur adottando una metodologia prettamente formale, si dimostrerà molto attento, come provano saggi di notevole risalto, nell’ottica del mio discorso, dedicati a La novella dei misteri e a Il romanzo dei misteri41, nel focalizzare le dinamiche che intercorrono tra forma breve e romanzo d’avventura, per un verso, intreccio e tecniche compositive, per un altro. Quella tracciata da Sciascia si profila come una mappa dotata di esemplare portata, imprescindibile per aggirarsi con pertinenza tra i vuoti e i pieni, i meandri e le false piste di un insieme che tende a guadare di continuo le rigide divisioni interposte tra letteratura cosiddetta alta e produzione di consumo; entrambe, infatti, pur inseguendo strategie comunicative difformi e disegni significanti diversi, ciascuna a suo modo, collaborano a tracciare una sorta di tanto implicito e sotteso quanto evidente diagramma. Proprio intorno a quella sprofondata ma emblematica icona disegnata dal punto interrogativo Sciascia ha condotto un’analisi di lunga gittata, a partire, insomma, da Il giorno della civetta (Torino, Einaudi, 1961) fino agli esiti limpidi ed icastici offerti da Una storia semplice (Milano, Adelphi, 1989)42; dal momento che per la scrittura del siciliano inquisire a largo raggio sia gli inquisiti come gli inquisitori rappresenta anche una delle opportunità più — 176 —

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straordinarie per ricodificare di continuo i parametri di chi osserva la scena, offrendoli al lettore secondo angolature sempre variate ma anche insistentemente iterate. Sotto le ‘mentite’ spoglie offerte dalla quête lanciata sul terreno di gioco ecco, allora, profilarsi un’allegoria capace di fornire una lancinante quanto ardua interpretazione del Mondo e, simultaneamente, di coloro che, interrogandolo, tentano di leggerlo; o, viceversa, di quelli che, scandagliandolo per altri fini, intendono oscurarne la visibilità43. Il percorso ‘poliziesco’ attraversato da Sciascia appare, infatti, in tutta la sua paradigmaticità una volta che lo si osservi dal punto di vista offerto dagli esiti ultimi, dove la decantazione delle figure dei personaggi, per un verso, e dei ritmi della trama, per un altro, sembra giunta a una soglia di rarefatta e, insieme, acuminata limpidezza44. La ‘semplicità’ di quella ‘storia’, che reca in esergo un omaggio al Justiz (1985) dell’apprezzatissimo Friedrich Dürrenmatt45 – nel momento in cui ciò che si intende sottolineare sembra proprio il testardo proposito (quasi gramsciano) di iterare nel tempo un atto di volontà dinanzi a un irrimediabile e radicale pessimismo della ragione – si costruisce, infatti, tutta intorno a un punto fermo. Un punto, tuttavia, paradossalmente menzognero, dal momento che non rappresenta l’ultima volontà dell’autore-vittima, bensì un intervento postumo dovuto alla mano dell’assassino; a esemplare dimostrazione di come solo la forma interrogativa, in quanto modulo sintatticamente aperto, appaia detentrice di un messaggio capace di dischiudere il discorso alla ricerca della verità. La morte di un diplomatico in pensione, tale Giorgio Roccella, tornato inaspettatamente dopo ben quindici anni di assenza, al villino in abbandono del paese natale, Monterosso, situato in contrada Cotugno, per perirvi il 18 marzo 1989, si presta a interpretazioni discordi. Se la storia ‘semplice’, quella di superficie, insomma, proietta l’ombra nitida di un banale suicidio, una celata sinopia, invece, pare affiorare tra le pieghe di tanta ovvia e ostentata linearità. Una storia seconda, ‘intricata’, infatti, narra di un assassinio mascherato da suicidio, di una dimora apparentemente trascurata ma, per segnali inequivocabili (l’attivazione inaspettata di una linea telefonica, catenacci nuovi «che chiudevano le porte dei magazzini o stalle che circondavano la casa come un fortilizio da western americano», SS, p. 739), frequentata e sfruttata dai soliti noti per fini illeciti. Tuttavia, prima di essere raggiunto dal suo assassino la vittima aveva avvisato telefonicamente il commissariato di polizia lasciando al brigadiere in servizio un messaggio ambiguo, in cui chiedeva aiuto e, nel medesimo tempo, — 177 —

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esprimeva il desiderio di mostrare qualche cosa di strano che, a sorpresa, aveva reperito in casa. A questo punto il messaggio originario, di natura orale, pare intraprendere un suo percorso tortuoso, che lo vede convertito in discorso riportato («“Un tale che, dice» – riferisce il brigadiere al commissario – «ha da farci vedere urgentemente una cosa che si è trovata in casa”», SS, p. 734). Proprio intorno a quella «cosa» imprecisata si avvia un processo indiziario46 che appunto il brigadiere, aiutato in questo dal professore Carmelo Franzò, figura in codice di un’istanza autoriale in stretta relazione con quella del Lagandara, procedendo per piccoli tasselli, sarà destinato a riempire via via di significato, provvedendo a ricoprire di inchiostro uno spazio rimasto bianco e vuoto sulla pagina. Nella prima descrizione della scena del delitto fornita dal brigadiere, infatti, quel vuoto, quel punto di domanda sembra già avviato a colmarsi: Ma c’era, a cancellare nel brigadiere l’immediata impressione del suicidio, un particolare: la mano destra del morto, che avrebbe dovuto penzolare a filo della pistola caduta, stava invece sul piano della scrivania, a fermare un foglio su cui si leggeva: «Ho trovato». Quel punto dopo la parola «trovato» nella mente del brigadiere si accese come un flash, svolse, rapida e sfuggente, la scena di un omicidio dietro quella, non molto accuratamente costruita, del suicidio. L’uomo aveva cominciato a scrivere «Ho trovato», così come in questura aveva detto di aver trovato in casa qualcosa che non si aspettava di trovare. E stava per scrivere di quel che aveva trovato, ormai dubitando che la polizia arrivasse e forse cominciando, nella solitudine, nel silenzio, ad aver paura. Ma avevano bussato alla porta. «La polizia» pensò; ed era invece l’assassino. (SS, p. 736)

A questo punto, ecco schierarsi su fronti opposti non solo due linee d’indagine, ma anche due spiegamenti interpretativi difformi; l’uno, rappresentato da Antonio Lagandara, il brigadiere-detective – una limpida microstoria biografica ne illumina il profilo, dando conto delle aspirazioni che animano quel figlio di potatore, mosso da un «atavico istinto contadino» (SS, p. 758), intuito che poi, nel momento cruciale, davanti al fuoco ‘amico’ del commissario, lo porterà a salvarsi dalla morte, a conseguire una laurea in legge (SS, p. 748) – risulta, infatti, in radicale conflitto con le posizioni assunte dal commissario, invece gerarchicamente superiore al suo antagonista, e pure laureato. Ma i segni delle divergenze che danno vita ai rapporti intercorrenti tra i personaggi si allargano ad onde concentriche, coinvolgendo tutte le coppie dei presunti o reali indagatori; quindi lo stesso commissario di fronte al colonnel— 178 —

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lo dei carabinieri, ancora, il questore rispetto al brigadiere, dipoi, quasi di prammatica, il colonnello dinanzi al questore. Il microcosmo conflittuale che invade la piccola ribalta di Monterosso, allora, animata dai minuscoli e variopinti pupi che si agitano sul suo palcoscenico di carta, in una vicenda talmente ovvia da parere quasi obsoleta, anzi, autentica proprio perché artefatta, rimandando puntualmente a precise istituzioni e ai loro relativi potentati, possiede la forza provocatoria di renderne eloquente e icastica la terribile linearità. La frammentarietà e la mancanza di coerenza che sembra presentare la vicenda profonda, bollata, infatti, dal commissario come ‘romanzo’47 parrebbe confutata, allora, disegnata quasi sulle tracce di un chiasmo, dalla coerenza lampante che contrassegna invece la superficie emersa degli eventi. Quella imprecisata cosa che galleggia quasi incorporea sulla superficie dei discorsi, infatti, sarà poi destinata a precipitare in un sedimento concreto, lungo un percorso intravisto nella luce più autentica solo dal brigadiere (e, invece, pervicacemente sepolto e negato dal suo antagonista). Il Lagandara porrà, così, a fuoco immagini inusitate, rimandanti a un ente proteiforme che, proprio nelle diverse performances che elabora, rileva un quoziente eminentemente scenico: oggetto che nelle mani di un grande ‘illusionista’ della scrittura, quale è Sciascia, si trasforma appunto in un quadro-tappeto: un’icona, insomma, dotata di icastiche valenze simboliche, dal momento che raffigura e, insieme, contiene cifre rimandanti tout court alla composizione artistica; la quale, allora, viene allegoricamente rappresentata sia nello spazio del suo farsi come lungo i diversi processi fruitivi che in ipotesi dischiude48. Tuttavia, appunto quel quadro-tappeto, composto dai molti fili che ne compongono la trama e l’ordito – persuasive istanze narrative di un intreccio duplice, se possiede il dono di presentare accanto a quello diritto un sottotesto fruibile al rovescio – diviene in grado di citare non solo la specifica e contingente verità occulta che circonda la morte di un Roccella, ma anche, per analogia, ogni vicenda poliziesca eventualmente possibile, postulando un dominio in cui accanto agli ‘esistenti’ abitano anche i ‘possibili’ narrativi49. Ed è per motivi connessi a detta prospettiva che il campo del poliziesco (come, del resto, quello investente il fantastico50) si dimostra di singolare interesse, proprio per la capacità che dispiega di mettere a nudo ed additare, epifanizzandoli metanarrativamente51, non solo i peculiari tempi percettivi ma anche i principi costruttivi medesimi che presiedono al racconto. L’interrogatorio che il questore rivolge a un personaggio depistante, come l’uomo della Volvo – occhio esterno alla peripezia che, tuttavia, nell’incro— 179 —

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ciarla per puro caso, in serendipità52, acquisisce competenze atte a leggerne le sottese dinamiche, restando così avviluppato nelle sue spire malefiche – mostra in filigrana una sezione solo trasversale della verità. Questi, infatti, a sua insaputa, ha assistito a un singolo fotogramma della vicenda, in apparenza irrelato rispetto alla sequenza complessiva, quando nell’ufficio del capostazione ha potuto scorgere tre figure en travesti, mentre stavano arrotolando quello che gli era parso un tappeto; e, appunto relazionando circa questo scomposto frammento, egli addita quasi in controluce proprio il peculiare volto inabissato che contrassegna la verità: un’effigie che si staglierà con nettezza solo all’altezza delle ultime righe del testo, nel momento in cui i sembianti di padre Cricco e del presunto capostazione si sovrapporranno davanti ai suoi occhi, costringendolo a una strategica fuga. Nel medesimo tempo, lungo le fasi dell’interrogatorio – leggibile quale citazione per eccellenza stereotipata di quête – nell’offrire ragguagli concernenti la cosa-tappeto-quadro53, proprio questo personaggio ‘minore’ sembra idoneo a tradurre per metafora un ulteriore livello del discorso: uno strato inerente non già alla trama contingente del romanzo, bensì, in direzione teorica, alle dinamiche più d’insieme che presiedono ad ogni discorso narrativo, appunto nel loro ricodificare di continuo le molte verità che si annidano nell’esistenza: «Quanto era largo il tappeto?» «Ma non so… Forse un metro e mezzo». «Come fa ad affermare che era un tappeto?» domandò il colonnello. «Non affermo niente: mi era parso un tappeto». «Lo descriva». «Stavano arrotolandolo, mi parve, a rovescio: tela grezza, ruvida…» «Ma il rovescio di un tappeto non è così. È possibile stessero invece arrotolando un dipinto?» «È possibile» disse l’uomo. (SS, p. 749)

Che uno dei temi più percorsi, anche se opportunamente mascherati, contrassegnanti il romanzo, abbia attinenza non solo con la scrittura ma anche con gli impliciti sfondi fallaci che in essa si anniderebbero, capaci di distruggerne l’ipotetica verità ove la lectio originaria venisse distorta dall’interprete, lo si evince proprio focalizzando alcuni dettagli (et pour cause). Infatti, la prova narrativa affascina anche perché appare disseminata da interni richiami che rinviano a un tutto fittamente interrelato, costruito intorno a — 180 —

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un’area semantica in prevalenza relativa al cartaceo e al librario, connesso per alcuni aspetti al tema dello scrivere. Ecco, allora, un racconto costellato di segnali inequivocabili, e in apparenza neutri – prove che si modellano rispetto a modesti temi liceali d’italiano, per un verso, o stereotipati verbali di polizia, per un altro – i quali, una volta posizionati all’interno di uno scenario geografico ben preciso, evocano sullo sfondo ansie legate all’arduo scoglio rappresentato dalla scrittura. Cosi, anche per il brigadiere, personaggio ricco di valenze autoriali, come già si notava, lungo il percorso che porta dalla mera visione diretta del fenomeno alla sua traduzione in parola scritta, l’attività selettiva, evocata anche da una metaforicità piscatoria, diviene fattore prioritario: Dati quegli ordini, e continuando a dire all’agente che era rimasto con lui di non toccar nulla, il brigadiere cominciò a fare il suo lavoro di osservazione, in funzione del rapporto scritto che gli toccava poi fare: compito piuttosto ingrato sempre, i suoi anni di scuola e le sue non frequenti letture non bastando a metterlo in confidenza con l’italiano. Ma, curiosamente, il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie: nonostante il liceo, l’università e le tante letture. (SS, p. 736)

Accanto a materiali di siffatto tenore documentario (verbali, atti, rapporti, resoconti), solo apparentemente di grado zero, del resto, come si è potuto osservare, ne sopravvengono altri di diverso livello. Che cosa raffigurerebbero, infatti, quegli straordinari pacchetti di lettere, abbandonate e giacenti in una cassapanca nel polveroso sottotetto – e proprio la polvere depositatasi sulla perturbante cassa diverrà, sul piano inclinato di un’assenza che ‘sta per’ una significativa presenza, una traccia indiziaria di primario rilievo per risolvere il dilemma – inviate al bisnonno e al nonno (guarda caso) da Garibaldi prima, e da Pirandello poi, la cui ricerca rappresenta, come confidato all’amico professore54, la motivazione prima che avrebbe spinto il diplomatico al viaggio di ritorno e all’esplorazione di quella inquietante sezione della casa in rovina? Esse, venendo ad attivare, così, un percorso obbligato, rivelatosi per colui che ritorna fatale, individuano uno strato più complesso del tema. Infatti, quelle lettere stanno a rappresentare un estremo quoziente residuale: le radici più profonde che legano la famiglia della vittima, anch’essa — 181 —

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andata dispersa e scossa da una crisi profonda, sia alla storia che alla cultura siciliana; il tentativo di ricomporne il messaggio in limine mortis acquisisce, così, un intenso significato, dal momento che ‘significa’ l’intenzione di recuperare non solo un centro focale, ma anche un senso retrospettivo più compiuto da offrire a tutta l’esistenza trascorsa. La cifra di abbandono che contrassegna le preziose lettere, d’altronde, viene a contaminare altro materiale; ad esempio, di irrilevante interesse (quindi degno di attenzione) quel coacervo di libri che occhieggiano inusitati tra gli scaffali vuoti di librerie fantasma, e all’interno di una casa lasciata in un così inquietante disarmo, priva com’è di lettori: La stanza, intorno, aveva scaffali quasi tutti vuoti di libreria. I libri che restavano erano annate rilegate di riviste giuridiche, manuali di agronomia, fascicoli di una rivista che s’intitolava «Natura e arte». C’erano poi, uno sull’altro, alcuni volumi che dovevano essere antichi, sul cui dorso il brigadiere lesse Calepinus. Lui aveva sempre creduto che il calepino fosse un libretto da tenere in tasca, un taccuino, un prontuario: gli sembrò curioso che quel nome a dei libricini venisse da quei libri che ognuno pesava dieci chili almeno. (SS, pp. 737-738)

Costituito, appunto, da una congerie tanto difforme e indecifrabile – straordinario, pertanto, nel giocare tra le dismisure irrelate del grande e del piccolo, il porre tra le mani del brigadiere i ponderosi volumi (implicitamente non consultabili) di un antico vocabolario di latino del XV secolo – quel rimasuglio appare del tutto privo di finalità precise, perché veicolo di un sapere, in quanto arcaico ed, insieme, enciclopedico, in totale disarmo. Esso, nell’incongrua erudizione che veicolerebbero, pare citare diligentemente, infatti, un mondo che sfugge ad ogni catalogazione, governato dal caos, all’unisono cartaceo e folle, insomma, che proprio nella scompaginata biblioteca di due catalogatori dell’impossibile come Bouvard e Pécuchet rinviene un antecedente emblematico: il pedante, per un verso, e il manualistico, dall’altro, in quanto frantumi dispersi di un sapere che un tempo si presentava composto in modo finalistico e organico, assurgono a cifra paradossale di una totalità sistematica andata ormai perduta55. Infine, per cercare di catalogare ulteriormente questo labirinto di carta, ecco il fronteggiarsi ultimo del commissario e del brigadiere in un esemplare duello frontale all’ultimo sangue, degno del più canonico degli western; sparatoria che si svolge, tuttavia, tra quinte arredate da due scrivanie in un in— 182 —

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terno prettamente novecentesco, tra le pareti, cioè, di un commissariato di polizia, un duellante nascosto dietro incartamenti d’ufficio, l’altro trincerato tra lievi fogli di giornale56. Il finale regolamento di conti, dominato com’è da toni prettamente donchisciotteschi, dove sarà ancora una volta il non laureato, intuite le mosse dell’altro, ad avere la meglio sul colpevole antagonista, prelude a quello successivo, in cui, sottoposti i ruoli a un’ulteriore torsione, il medesimo brigadiere diverrà a sua volta imputato, opportunamente prosciolto da ogni accusa dalla triade composta dal magistrato, dal questore e dal colonnello; dal momento che così facendo essa provvede anche ad elaborare un’autoassoluzione. Lo spazio demandato alla carta, in questo caso, sarà, allora, di natura diversa rispetto ai precedenti. Prescindendo dal quoziente informativo di cui le due tipologie cartacee potrebbero essere latrici – fattori certo non eccelsi, dal momento che afferiscono ad ambiti non contraddistinti per un indice elevato di letterarietà – sembra proprio quella fragile e polverosa materia che le compone ad ergersi, per paradosso, quale solido paravento e, insieme, debole scudo delle mosse e contromosse intraprese dai due sfidanti: uno schermo che si trasforma, così, da mero arnese funzionale alla resa parodica di una singola, anche se magistrale, scena a vero e proprio correlativo oggettivo, evocatore di un nodo problematico più composito. Esso, nel travalicare il caso specifico rappresentato da detto romanzo – si ricordi, prova estrema e di chiusura, posta com’è a suggello di tutto un pregresso tragitto creativo-investigativo – investirebbe, appunto, una prospettiva necessariamente più ampia, concernente lo statuto di finzione che permea ogni testo letterario, divenendone, così, metafora. Che nel testo si trovino calati molti rimandi e omaggi obliqui alla figura di Pirandello, ritenuto da Sciascia, come è noto, una sorta di imprescindibile figura paterna – un’istanza attentamente sondata già a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, grazie al contributo Pirandello e il pirandellismo (Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1953)57, – quindi, tout court, latrice di un esemplare modello di scrittura radicato nella realtà creativa siciliana e, nel medesimo tempo, capace di traslitterarne la cifra in un orizzonte metaforico necessariamente più vasto58, mi sembra un dato di per sé eloquente, già da solo in grado di rafforzare la mia ipotesi di lettura. Non si dimentichi, d’altronde, che l’agrigentino fu, pur inseguendo propri peculiari disegni narrativi, frequentatore di luoghi letterari intrattenenti rapporti cogenti col campo del poliziesco59. — 183 —

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A partire dal cognome del diplomatico in disarmo, che pare riproporre, pur apportando una lieve variazione, appunto, quello del Giustino Roncella di Suo marito (1911)60, la vittima, viva, d’altro canto, solo da (e perché) morta, lanciante da un suo aldilà una sequenza di micidiali sfide (simile in questo alla larva di un Mattia Pascal), traccheggia in una serie di identità ricostruite unicamente attraverso le focalizzazioni esterne, e postume, tanto difformi quanto multiple, fornite dagli ‘altri’, dai sopravissuti del ‘cruciverba’, insomma; cioè via via dal brigadiere, dall’amico professore, dal commissario, dal colonnello, dal questore, dal magistrato, dalla moglie, dal figlio e, infine, dal padre Cricco, ognuno dei quali, da parte sua, si impegna a fornire un’inquadratura obliqua, angolata e irrisolta dell’ipotetica sagoma ‘vera’ del morto: una postura sghemba che obbliga sia l’oggetto che il soggetto che lo guarda ad adottare prospettive focalizzanti che paiono ispirarsi alle mosse diagonali del pezzo del cavallo sul riquadro della scacchiera61. Per detti motivi il Roccella, assassinato proprio nello spazio domestico a lui più familiare e, insieme, perturbante62, corredato com’è da inequivocabili segni di un reimpiego defunzionalizzante e di morte63, si presenta come un personaggio quasi schizzato in forma di punto di domanda. Se il messaggio interrotto, abbandonato dalla vittima a un suo destino inesorabilmente segnato da un’ermeneutica di segno negativo, faceva naufragare, portandolo alla deriva, un sintagma – appunto quella voce verbale «Ho trovato» – che presupponeva un complemento oggetto, cioè uno spazio idoneo a delimitare un’area semantica, definendone i contorni e, nello stesso momento, circoscrivendone il contesto, quel punto fermo, quasi per paradosso, apposto in modo proditorio dall’assassino, che dovrebbe contribuire a serrare le fila dell’inchiesta, giunge invece a dilatare il contenuto del messaggio, fino a rapprenderlo in un’accezione quasi metafisica: esso rileva in controluce un inesorabile punto di domanda. Quel ricciolo capriccioso e istigatore disegnato dal punto interrogativo, danzante come un’ipotesi inesplosa sul terreno minato del letterario, continua a provocare esplosioni ed implosioni di emblematica portata. Percorso in ogni senso, sull’onda di un successo che pare non dare tregua (al lettore come al critico64), esso, se ha dato origine a episodi di sfrenato consumo, nel medesimo tempo, ha fornito prove dotate senza dubbio di respiro più ampio: fenomeni, entrambi, che, anche lungo le reciproche proiezioni e i rispettivi andirivieni, meritano di essere vagliati, comunque, con attenzione, procedendo per distinzioni che sappiano valutare caso per caso, dal momento che, — 184 —

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nell’insieme, si presentano quali rivelatrici riprove di una più complessa fluttuazione, investente proprio il destino del romanzo all’inizio di questo nuovo millennio. Se, come già notava Roger Caillois, il genere, per antonomasia dominio della licenza, non conosce né limiti né, tanto meno, leggi, il poliziesco, da parte sua, assillato da regole e prescrizioni65, sorto, per certi versi, come spazio contraddittore dell’endemica tendenza all’anarchia che perseguita la forma-madre, sempre in maggior misura è venuto assumendo, man mano che si andava inoltrando nella seconda metà del Novecento, proprio interpolandosi, insomma, con dismisure per l’appunto caratterizzanti la letteratura, tratti, pigli, immagini e scenari che, confutando l’originario assetto regolato, adottato per scelta, si sono via via trovati a misurarsi con lo scomposto disordine che impera in quella. In altri termini, privo di un asse sintagmatico rigido e indebolito il sistema paradigmatico stereotipo e ripetitivo, esso pare partecipare delle zone d’ombra, delle opacità, dell’intransitività che costituiscono i caratteri più precipui della stessa letterarietà. Se non si mette a fuoco questo passaggio, che insieme al dominio poliziesco vede coinvolte anche prospettive di pertinenza del genere letterario, si può, infatti, incorrere nel pericolo di isolare in modo eccessivo la presunta metafisica purezza del giallo classico rispetto alle dinamiche più aperte e ‘contaminate’ che stanno attraversando le attuali rivisitazioni 66. D’altronde, l’ondeggiamento che si rilevava mi pare che confermi ben altri accertamenti, offrendo testimonianza di tutta una serie di derive vissute sul cosiddetto asse dell’‘impegno’ (e uso di proposito un termine sia storicamente che ideologicamente datato), avviatesi verso lidi che, negli ultimi decenni del Novecento, hanno di fatto favorito un certo ‘riciclaggio’ (più o meno ecologico) di temi, motivi, personaggi, intrecci e forme in plaghe apparentemente più neutre; trasparenti solo in superficie, infatti, dal momento che in detto ambito si rintraccia, inabissato – come avevano già acutamente compreso via via Gramsci, Brecht, Eisenstein e, ancora, ma l’elenco potrebbe essere ben più esteso, Caillois e Hobsbawm67 – molto materiale residuale strettamente implicato in vicende dai contorni ideologicamente necessitati. Emblematica, così, mi pare, seguendo idealmente detta direttrice, la perspicace scelta operata da «MicroMega», nell’ambito del primo numero del 2002, che ha comportato, negli intensi dialoghi a più voci, investenti questioni di scottante attualità, corsi tra narratori di poliziesco, quali Lucarelli, Camilleri e Tabucchi, e, via via, figure come Antonio Di Pietro, Carla Del — 185 —

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Ponte e Francesco Saverio Borrelli, la ‘messa in racconto’ di temi come le inchieste di Mani Pulite, gli anni di Tangentopoli, la riforma della giustizia e le implicazioni politiche che una problematica di siffatto tenore ha suscitato (e continua a sollevare); ciò nella convinzione che un discorso narrativo quale il poliziesco, talmente contrassegnato da caratteri peculiari, non possa esimersi dall’analizzare la contemporaneità, anzi, si presenti come il luogo in cui diviene possibile esperirne una lettura allegorica e, insieme, una proiezione artistica68. Da Fruttero e Lucentini a Pontiggia, da Tabucchi69 a Macchiavelli, da Bufalino a Lucarelli, da Carloni a Veraldi, da Piersanti a Stancanelli, da Marzaduri a Faletti, da Grimaldi a Vallorani, da Carlotto70 a Quatrano, fino al Canfora di Convertire Casaubon (Milano, Adelphi, 2002), dove anche la filologia – una disciplina che intrattiene liaisons dangereuses con paradigmi conoscitivi e procedimenti analitici che con insistenza vanno in traccia di segni – il fenomeno, appunto invasivo, come si diceva, non cessa di stupire, sia per la varietà delle ricerche intraprese, sia per l’inesausta capacità che dimostra di rintracciare nell’ambito del romanzo, soprattutto (ma non solo) in quello di misura breve, sempre nuove vie da percorrere. Esso lavora, inoltre, sul filo del rasoio del recupero e del rifacimento, della parodia e della citazione, tenendo inevitabilmente attivi i diversi filtri come i supernutriti moduli che i media, da parte loro, provvedono ad elargire a gettito incessante. Nella lucida consapevolezza che l’orrore non trasvola più le nebbiose brughiere nordiche o le infere metropoli nordamericane, ma si epifanizza, come già teorizzato, del resto, nel freudiano Das Unheimliche (1919), vicino a noi, in uno spazio geografico del quotidiano e del familiare invadente un territorio ambiguo, molto segnato da fattori di prossimità71. Arduo, insomma, fornire un quadro tipologicamente come formalmente compiuto, dal momento che il poliziesco ha colonizzato non solo territori tematicamente limitrofi ma anche plaghe molto lontane, sia tra loro che in assoluto, spazianti dal regno della cucina72 come attesta, da parte sua, la raccolta di racconti Ricette per un delitto (Lecco, Periplo Edizioni, 1995) di Danila Comastri Montanari73 ai territori del Levante, per cui si veda la recente prova di Giuseppe Genna, Non toccare la pelle del drago (Mondadori, 2003); fino a raggiungere le drammatiche voragini dei drammi carsici: lo palesa, facendo immigrare un commissario-investigatore meridionale, certo Proteo Laurenti, il romanzo di Veit Heinichen, I morti del Carso (Roma, Edizioni e/o, 2003). — 186 —

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A rendere il quadro ancora più mosso, mi pare che valga la pena di ricordare come in questi ultimi decenni siano prepotentemente salite alla ribalta molte autrici di rilievo74.Tra le più recenti menziono almeno Paola Alberti e il suo Il delitto si addice a Eva. Con un omaggio ad Agata Christie (Milano, Jaca Book, 2002), che ricama in paziente ed estrema precisione, algido ma feroce puntiglio una sequenza di diciassette raccontini; dove la lancinante forma breve, in omaggio a uno dei tratti formali che più contraddistinguono il settore, come teorizzato da Poe, per un verso, e Sˇklovskij per un altro, già lo si precisava, coniuga la densità della trama a una sapiente e stringata misura stilistica. Così, giunto a questo stadio tanto tecnicamente rarefatto, il racconto poliziesco si esibisce privo dell’istanza depositaria della quête, del detective, insomma, dal momento che chi manipola le fila della trama risulta essere proprio l’intelligentissimo e impunito assassino-narratore: una donna; la quale, allora, nel prospettare in modi sghembi vicende che vedono consumarsi nel privato conflitti di ben più vasta portata paradigmatica, assurge a figura centrale del discorso. Anche l’estate scorsa [2003], come le precedenti, si è regolarmente arroventata di ‘gialli’, via via screziati in sfumature, tonalità e gradazioni molto diverse. Proprio in luglio, così, per limitarmi a offrire un esiguo ritaglio del panorama editoriale, troviamo saldamente posizionati nei fatidici top ten stagionali un Andrea Camilleri con Il giro di boa (Sellerio), un Carlo Lucarelli con Il lato sinistro del cuore (Einaudi), in cui lo scrittore parmense raccoglie, quasi in omaggio metaletterario all’area, un insieme di prove segnate dal fattore brevità75, un Georges Simenon con La camera azzurra (Adelphi), un Niccolò Ammaniti con Io non ho paura (Einaudi). Se il fenomeno vede interessate case editrici di disuguale entità, dalle minuscole alle solite note, dalle sperimentali alle più prestigiose, giungendo a saturare capillarmente ogni possibile fetta di mercato, mi pare che in particolare la Sellerio abbia offerto, almeno nei mesi estivi, un nutrito numero di proposte che sottendono senza dubbio un mirato progetto editoriale; accanto a Il giro di boa di Camilleri, come già si è precisato, ecco Serpenti nel Paradiso di Alicia Giménez-Bartlett, Treno 8017 di Alessandro Perissinotto, I detective selvaggi di Roberto Bolaño, fino all’intelligente repêchage de Il mistero di Cinecittà (1941), dovuto alla penna di uno dei giallisti italiani più intellettualmente dotati, Augusto De Angelis. E, ancora, «ogni giovedì, il colpevole è in edicola», come annunciava la campagna pubblicitaria appositamente lanciata da «Il Sole-24 Ore» per la se— 187 —

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rie degli otto «Grandi financial thriller», disponibile a partire dal 17 luglio 2003, con l’uscita (gratuita) di Zero Coupon di Paul Erdman, per chiudersi il 4 settembre con La scalata di Stephen Frey Né si dimentichi la rubrica, intitolata Gialleggiando, che occhieggia con una certa regolarità sul supplemento domenicale de «Il Sole-24 Ore», sempre attenta a vagliare un panorama molto nutrito, dove, tra le prove più recenti, compaiono segnalate quelle, puntualmente italiane, di Anna Brera (L’ultima ceretta, Garzanti), Stefano Scansani (Orapronobis, Diabasis), Luigi Guicciardi (Un nido di vipere per il commissario Cataldo, Piemme), Margherita Oggero (Una piccola bestia ferita, Mondadori)76. Dinanzi a un pullulare così inesausto di prove e controprove non ci si può che porre una teoria di domande, rovesciando, così, il segno a trivella che quell’arcuato punto interrogativo traccia in direzioni che rielaborino radicalmente sia i fattori connessi alla detection sia quelli da essa derivanti. Allora, chi è Montalbano? E dov’è Vigata? Vigata, ovunque… e Montalbano? C’est moi. NOTE 1 I primi, generati da un principio specifico, definibile come rimessa in discussione del confine tra spirito e materia, nel dare vita a diversi temi fondamentali (una causalità particolare, il pandeterminismo, la moltiplicazione della personalità, la soppressione della frontiera fra soggetto e oggetto, la trasformazione del tempo e dello spazio), concernerebbero la strutturazione del rapporto tra l’uomo e il mondo – in termini freudiani, il sistema percezione-coscienza – e potrebbero ulteriormente denominarsi ‘temi dello sguardo’. I secondi, quelli del ‘tu’, definibili come ‘temi del discorso’, in quanto implicano una relazione dinamica con altri soggetti, rimandano al desiderio sessuale e alle sue derive estreme. Alcuni temi compresi in tale duplice rete, pur obbedendo a una diversa sequenzialità, compaiono anche nell’ambito del polo generico individuabile come poliziesco. Lo studioso affronta, inoltre, altri aspetti comuni ai due campi, in particolare riferendosi alle indicazioni, ritenute cogenti, che riguardano il ruolo attribuito dal testo al lettore, per un verso, e, per un altro, la convenzione che prefigura una temporalità precipua, definita esitativa, irreversibile e accentuata, molto prossima a quella presente nel witz. Cfr. T. TODOROV, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970 (trad. it. di E. Klersy Imberciadori, Milano, Garzanti, 1977). Il teorico si era precedentemente interessato del policier, quando ancora applicava un metodo narratologico, nel saggio Typologie du roman policier («Paragone», dicembre 1966, pp. 314), con alcune distinzioni opportune a definire il roman à suspense come forma sincretica per un verso del roman à énigme, per un altro del roman noir. Molte indicazioni atte a selezionare il lessico critico che circonda il modo-genere fantastico, specie in relazione allo spazio del realistico e alle modalità che attivano il paradigma esitativo, fornendo parametri me-

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todologici utili a interpretare anche il poliziesco, il quale partecipa ad alcuni requisiti limitrofi, in L. LUGNANI, Per una delimitazione del «genere», in La narrazione fantastica, a cura di R. CESERANI ET AL., Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 37-73. 2 Le novelle, insieme ad altri racconti, cioè I fatali, La lettera U, Un osso di morto, apparvero in volume presso Treves (I. U. TARCHETTI, Racconti fantastici, Milano 1869). 3 Ho sondato alcuni aspetti di questo polimorfo territorio letterario, implicato con le forme, i modelli e i significati offerti dal poliziesco, colto anche in accezione paraletteraria, in: I. CROTTI, La «detection» della scrittura. Modello poliziesco ed attualizzazioni allotropiche nel romanzo del Novecento, Padova, Antenore, 1982 (cfr., in particolare, il capitolo Implicazioni naturalistiche: De Marchi, Invernizio, De Roberto, Capuana, Moravia, Fogazzaro, Pirandello, pp. 82-123). Su questa linea, si vedano anche miei interventi successivi: Strutture del romanzo poliziesco nella produzione di Dino Buzzati, in EAD., Tre voci sospette. Buzzati, Piovene, Parise, Milano, Mursia, 1994, pp. 44-55; Indizi e tracce nella narrativa del primo Piovene, ivi, pp. 5996; ‘Il commissario Pepe’ e il genere poliziesco, in Ugo Facco De Lagarda 1896-1982. La vocazione inquieta di uno scrittore veneziano. Atti del Convegno di studi (Venezia, 7-8 novembre 1997), a cura di A. SCARSELLA, «Miscellanea Marciana», vol. XIV, 1999, pp. 167-178. 4 Ricordo solo uno dei possibili ‘effetti’: quello esercitato da Poe nell’ambito della produzione scapigliata. Cfr. S. ROSSI, E. A. Poe e la Scapigliatura lombarda, «Studi americani», 1959, 5, pp. 119-139; C. APOLLONIO, La presenza di E. A. Poe in alcuni scapigliati lombardi, «Otto/Novecento», 1981, 1, pp. 107-140. 5 Tra i molti quadri d’insieme dedicati al campo poliziesco rinvio almeno a: A. DEL MONTE, Breve storia del romanzo poliziesco, Bari, Laterza, 1962; T. NARCEJAC, Il romanzo poliziesco, trad. it. di L. Nanni, Milano, Garzanti, 1975 (Éditions Denoël/Gonthier, 1975); S. BENVENUTI, G. RIZZONI, Il romanzo giallo. Storia, autori e personaggi, Milano, Mondadori, 1979; Il punto su: il romanzo poliziesco, a cura di G. PETRONIO, Roma-Bari, Laterza, 1985; Y. REUTER, Il romanzo poliziesco, a cura di F. SORRENTINO, Prefazione di A. CAMILLERI, Roma, Armando, 1998 (Paris, 1997). Di Petronio, da sempre molto attento a letture specie sociologiche del poliziesco, segnalo l’ultimo contributo: Sulle tracce del giallo (Roma, Gamberetti, 2000). 6 Per una lucida disamina del concetto in Bourdieu, dove la prospettiva sociologica si infittisce di uno spessore simbolico, cfr. A. BOSCHETTI, La nozione di campo, in EAD., La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu con un inedito e altri scritti, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 48-65. 7 Si veda l’illuminante libretto dove si antologizzano, a partire da Genesi, i testi citati: I padri fondatori. La Bibbia, Erodoto, Virgilio, Le mille e una notte, Shakespeare, Bao Gong an, Voltaire, a cura di O. DEL BUONO, Torino, Einaudi, 1991. 8 Anche un fine analista del fenomeno come Sciascia, del resto, aveva sottolineato il ruolo primario svolto dal codice biblico, facendo esplicito riferimento a un investigatore archetipico come Daniele, per un verso, e alle proiezioni metafisiche che scelte siffatte determinarono nella ideazione della sagoma di un padre Brown, in Chesterton: cfr. L. SCIASCIA, Breve storia del romanzo poliziesco, in ID., Opere 1971-1983, a cura di C. AMBROISE, Milano, Bompiani, 1989, pp. 1182, 1196. Il contributo, sintesi di due precedenti interventi, apparsi su «Epoca» rispettivamente il 20 e il 27 settembre 1975, confluì poi nella silloge di saggi dal titolo Cruciverba (Torino, Einaudi, 1983).

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ILARIA CROTTI 9 Cfr. L. CROVI, Tutti i colori del giallo. Il giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco a Camilleri, Venezia, Marsilio, 2002. Il volume presenta, inoltre, una Bibliografia essenziale, cui rinvio (pp. 347-349). Mi limito in questa sede a rimandare ad alcuni contributi dedicati alle scuole italiane: Buon sangue italiano. Delitti e detectives del thrilling nostrano, a cura di R. CROVI, schede critiche di M. TROPEA, Milano, Rusconi, 1977; G. BEZZOLA, Preistoria e storia del giallo all’italiana, in Pubblico 1977. Rassegna annuale di fatti letterari, a cura di V. SPINAZZOLA, Milano, Il Saggiatore, 1977, pp. 103-125; L. RAMBELLI, Storia del «giallo» italiano, Milano, Garzanti, 1979; E. GUAGNINI, L’“importazione” di un genere: il “giallo” italiano tra gli anni Trenta e gli inizi degli anni Quaranta. Appunti e problemi, in “Trivialliteratur?”. Letterature di massa e di consumo, a cura di G. PETRONIO e U. SCHULZ-BUSCHHAUS, Trieste, Lint, 1979, pp. 435-458; R. RAFFAELLI, Il genere poliziesco in Italia prima del 1929. Le collane a carattere poliziesco, «Problemi», 1982, 65, pp. 230-241; S. TANI, The Doomed Detective. The Contribution of the Detective Novel to Postmodern American and Italian Fiction. Literary Structures, Carbondale, Southern Illinois University Press, 1984; A. PIETROPAOLI, Ai confini del giallo. Teoria e analisi della narrativa gialla ed esogialla, Napoli, ESI, 1986; G. PETRONIO ET AL., Il giallo degli anni Trenta, Trieste, Lint, 1988; G. PADOVANI, L’officina del mistero. Nuove frontiere della narrativa poliziesca italiana, Enna, Papiro, 1989; B. BINI, Il poliziesco, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, Storia e geografia, III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 999-1026; Le figure del delitto. Il libro poliziesco in Italia dalle origini a oggi, a cura di R. CREMANTE, Casalecchio di Reno, Edizioni Grafis, 1989; L’almanacco del delitto. I racconti polizieschi del «Cerchio verde», a cura di G. PADOVANI e R. VERDIRAME, Palermo, Sellerio, 1990; G. TELLINI, Un “giallo” della nuova Italia (1990), in ID., L’arte della prosa. Alfieri, Leopardi, Tommaseo e altri, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 263-281; M. CARLONI, L’Italia in Giallo. Geografia e storia del giallo italiano contemporaneo, Reggio Emilia, Edizioni Diabasis, 1994; R. PAGETTO, “La Domenica del Corriere” e il giallo 19201940, «Problemi», 2001, 119-120, pp. 67-100. 10 Tra il giugno e luglio 1931 a puntate sulla «Nuova Antologia» – stessa data della prima prova di Varaldo – e in volume nel 1932. Cfr., in proposito, I. CROTTI, La «detection» della scrittura, cit. pp. 134-138. 11 Le Postille a «Il nome della rosa», sul n. 49 di «Alfabeta» nel giugno 1983, servono sì a comprendere una ‘postuma’ intenctio auctoris, ma anche ad avviare un bilancio delle motivazioni metafisico-semiologiche proprie della narrativa poliziesca degli anni Ottanta. Mi limito qui a selezionare gli apporti di S. TANI, The Doomed Detective. The Contribution of the Detective Novel to Postmodern American and Italian Fiction. Literary Structures, cit., pp. 6875; Saggi su «Il nome della rosa», a cura di R. GIOVANNOLI, Milano, Bompiani, 1985; A. PIETROPAOLI, Ai confini del giallo. Teoria e analisi della narrativa gialla ed esogialla, cit., pp. 102163; ID., Evoluzione e rivoluzione del romanzo poliziesco. Giallo, giallo ocra e giallo infinito, in Il romanzo poliziesco italiano da Gadda al Gruppo 13, «Narrativa», a cura di M. H. CASPAR, 1992, 2, pp. 7-52; C. CLERICI, Sulle tracce del giallo ne «Il nome della rosa», in Nuove tendenze della letteratura italiana, «Narrativa», a cura M. H. CASPAR, 1996, 10, pp. 101-118. 12 Cfr. R. CESERANI, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997; si veda in particolare il denso capitolo: Il postmoderno in Italia (pp. 146-208). 13 Cfr. U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990, p. 85.

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OMBRE DEL GIALLO 14 Per un’analisi semiologia di detto paradigma si veda Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, a cura di U. ECO e TH. A. SEBEOK, trad. it. di G. Proni, Milano Bompiani, 1983 (Bloomington 1983). Cfr. inoltre, per un sondaggio del processo abduttivo in Doyle e in Simenon, M. A. BONFANTINI, La semiosi e l’abduzione, Milano, Bompiani, 1987; in particolare alle pp. 59-63, 117-136. Per i tempi e i modi di organizzazione nel corso del XIX secolo dello spirito scientista e specie di una disciplina come la semeiotica, cfr. C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Miti Emblemi Spie. Morfologia e storia, Torino, Einaudi, 1986, pp. 158-209 (già in Crisi della ragione, a cura di A. GARGANI, Torino, Einaudi, 1979, pp. 59-106). Per le ricadute del paradigma nell’ambito della fisiognomica – scienza ben legata al poliziesco, come dimostra il caso Lombroso –, cfr. la densa sintesi di L. RODLER, Il corpo specchio dell’anima. Teoria e storia della fisiognomica, Milano, Bruno Mondadori, 2000. Per una rielaborazione in direzione ermeneutica degli assunti di Ginzburg, cfr. M. LAVAGETTO, Analizzare, in Il testo letterario. Istruzioni per l’uso, a cura di M. LAVAGETTO, RomaBari, Laterza, 19992, pp. 177-216. 15 Importante, a questo proposito, E. KÖHLER, Il romanzo e il caso. Da Stendhal a Camus, trad. it. di G. Di Battista, Bologna, Il Mulino, 1990 (München 1973). 16 In Postille a «Il nome della rosa», questo retaggio ideologico e filosofico viene allusivamente enucleato: cfr. U. ECO, Postille a «Il nome della rosa», Milano, Bompiani, 1984, pp. 31-32. 17 Cfr. G. STEINER, Le mitologie del moderno, in ID., Morte della tragedia, trad. it. di G. Scudder, Milano, Garzanti, 1965, pp. 235-269 (ed. or. 1961) Per una linea, afferente alla prima diramazione del romanzo barocco di prove, dove la peculiare funzione del delitto riemergerebbe negli esiti della narrativa gotica e nera e nel cui bagaglio, sia formale che tematico, si radicano alcuni caratteri del poliziesco, cfr. M. BACHTIN, Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo, in ID., L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, a cura di C. STRADA JANOVICˇ, Torino, Einaudi, 1988, pp. 199-200; Moskva, 1979). 18 Cfr. W. FUCHS, Le immagini della morte nella società moderna, trad. it. di G. Dore, Torino, Einaudi, 1972 (Frankfurt am Main, 1969). 19 Pagine importanti sulla ‘semiotica’ del destino sono in W. BENJAMIN, Destino e carattere, in ID., Angelus Novus. Saggi e letture, trad. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962, pp. 29-30; Suhrkamp Verlag, 1955. 20 Mi limito a rimandare al Freud di Der Dichter und das Phantasieren (1907) e di Dostojewski und die Vatertötung (1927), dove, alla luce dei testi di Dostoevskij e Stefan Zweig, si interpretano le connessioni che, mosse dalla coazione a ripetere, proiettano l’assassinio e il senso di colpa sugli scenari evocati dal gioco e dall’onanismo (cfr. S. FREUD, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, trad. it. di S. Daniele, E. Luserna, C. L. Musatti et al., Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 47-59, 321-343). Da ricordare anche la ricerca condotta da Curi – con saggi quali Il sogno, la crudeltà, il gioco («Il Verri», 1968, 29, pp. 18-30), o Poetica del nuovo terrore («Il Verri», 1970, 32, pp. 104-113) – su termini come crudeltà, gioco e letteratura: angolature connesse in senso lato al campo del poliziesco. 21 Nell’intervento Sul romanzo poliziesco, confluito in Letteratura e vita nazionale (Torino, Einaudi, 1950) Gramsci aveva posto in stretta correlazione la «troppo avventurosità della vita quotidiana» che «colpisce sempre più le classi medie e intellettuali», taylorizzate al-

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l’eccesso, con il loro desiderio di una vicenda altra, da esperire anche nella lettura del romanzo popolare e poliziesco (riedizione einaudiana1966, p. 119). 22 Da parte sua Zambrano, proprio riferendosi al ginevrino, ne illumina il profilo nel segno di un destino di autodenuncia votato a un’estrema visibilità: cfr. M. ZAMBRANO, La confessione come genere letterario, Introduzione di C. FERRUCCI, trad. it. di E. Nobili, Milano, Bruno Mondadori, 1997, pp. 83-84; ed. or. 1943. 23 Se la prima parte del testo data 1827, mentre la seconda una dozzina d’anni dopo, il celebre Poscritto fu aggiunto solo all’altezza del 1854. 24 Rimando al romanzo di Huysmans nella seconda edizione rivista e ampliata apparsa presso Gallimard: Texte présenté établi et annoté par M. FUMAROLI (Paris 2001; cito da pp. 165-166). 25 Cfr. M. FOUCAULT, Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. FONTANA e P. PASQUINO, trad. it. di G. Procacci e P. Pasquino, Torino, Einaudi, 19772, pp. 127-128. 26 Sulle analogie metodologiche che ricorrono tra Freud, Doyle e uno storico dell’arte come Giovanni Morelli, maestro, appunto del ‘morellismo’, è lucidamente intervenuto C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit. 27 Il rimando è ancora a C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit. 28 Cito Il Piacere (Milano, Treves, 1889) dall’edizione nei «Meridiani»: G. D’ANNUNZIO, Prose di romanzi, ed. diretta da E. RAIMONDI, a cura di A. ANDREOLI e N. LORENZINI, I, Milano, Mondadori, 1988, p. 319. 29 Ivi, p. 358. 30 Ivi, pp. 323-324. 31 Cfr. G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, presentazione di E. MONTALE, Milano, Garzanti, 1998; analisi magistrale, apparsa nel 1971, delle ‘bruttezze’ e delle ‘alterità’ proprie del personaggio nel romanzo moderno. 32 Per le affinità e, insieme, le differenze che intercorrono tra i due prototipi estetizzanti si veda G. TOSI, Les sources françaises de l’esthetisme d’Andrea Sperelli, «Italianistica», VII, 1978, 1, pp. 20-44. Una visione d’insieme, dai modelli naturalisti fino alle suggestioni wagneriane, in ID., Incontri di D’Annunzio con la cultura francese (1879-1894), «Quaderni del Vittoriale», 1981, 26, pp. 5-63. 33 S. FREUD, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, cit., p. 198. Per le forme che assume la patologia del dettaglio nell’isteria, nella paranoia e nella nevrosi ossessiva, e per i risvolti retorici che l’opzione prospetterebbe quando declinata sui ritmi della scrittura, cfr. N. SCHOR, Le détail chez Freud, «Littérature», 1980, 37, pp. 3-14. Per ulteriori approfondimenti, si veda l’intero fascicolo della rivista, monograficamente dedicato a Le détail et son inconscient. Di particolare rilievo, F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 19942. 34 Cfr. P. BROOKS, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (trad. it. di D. Fink, Torino, Einaudi, 1995; ed. or. 1984) per una disamina del concetto di intreccio reinterpretato anche alla luce della lezione freudiana di Al di là del principio di piacere (1920). 35 Genesi 4, 9. Cito da La Sacra Bibbia, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1992, p. 4.

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OMBRE DEL GIALLO 36 «La violenza mitica nella sua forma esemplare è semplice manifestazione degli dèi» – nota in termini rimasti esemplari Benjamin, sondando i territori solcati dalla ferocia del destino; dove proprio la figura prometeica del delinquente si manifesta in una sua dimensione eroica (cfr. W. BENJAMIN, Per la critica della violenza, in ID., Angelus Novus. Saggi e letture, cit., p. 22). 37 Rinvio solo a una delle letture che Steiner ha compiuto di Der Prozess, cogliendo proprio nel retaggio biblico e talmudico il codice fondativo che contrassegna il romanzo: G. STEINER, Una nota sul Processo di Kafka (1992), in ID., Nessuna passione spenta. Saggi 19781996, trad. it. di C. Béguin, Milano, Garzanti, 1997, ed. or. 1996 (cfr. in particolare, p. 162). 38 Per il significato che assume in Italia nel secondo dopoguerra, con il progressivo declino del giallo classico e il prevalere di tipologie più sensibili alla suspense che alla detection, l’attenzione di Sciascia per questa produzione, cfr. L. RAMBELLI, Acculturazione di un genere letterario: il detective, l’analista italiano, «Lingua e Stile», X, 1975, 1, pp. 97-124. 39 Il saggio apparve sul «Graham’s Magazin» nell’aprile 1846. Per la traduzione italiana, accanto ad altri contributi, tra cui l’importante The Poetic Principle (1850), cfr. E. A. POE, Filosofia della composizione e altri saggi, a cura di L. KOCH, Napoli, Guida, 1986. 40 Per l’analogia tra «la notomizzazione della composizione poetica», esemplata sul Corvo, e il «metodo che Dupin dichiara nelle prime pagine dei Delitti della rue Morgue», cfr. L. SCIASCIA, Breve storia del romanzo poliziesco, cit., pp. 1186-1187. ˇKLOVSKIJ, Teoria della prosa, trad. it. di C. G. de Michelis e R. Oliva, Torino, 41 Cfr. V. S Einaudi, 1976, pp. 144-207 (ed. or. 1925). 42 Cito il romanzo da L. SCIASCIA, Una storia semplice, in ID., Opere 1984-1989, a cura di C. AMBROISE, Milano, Bompiani, 2002 (adotto, per brevità, la sigla SS). Accanto ai contributi già citati, tra i saggi critici più inerenti al poliziesco ricodificato secondo la lezione sciasciana, cfr. S. TANI, The Doomed Detective. The Contribution of the Detective Novel to Postmodern American and Italian Fiction. Literary Structures, cit., pp. 52-62, 76-91; F. GIOVIALE, Il contesto e la morte: il «giallo» come assoluto, «Letteratura Italiana Contemporanea», 1991, 33, pp. 225-235 (poi in ID., L’arcaico futuro. Itinerari epico-lirici, Catania, Maimone, 1992, pp. 207-220); L. QUARTERMAINE, Gli enigmi di Sciascia: parole e silenzi, in Il romanzo poliziesco italiano da Gadda al Gruppo 13, cit., pp. 119-129; A. DI GRADO, Sciascia, il cinema e (fra l’altro) l’Europa: (bianco e) nero su nero, ora in ID., «Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta…». Per Sciascia, dieci anni dopo, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia, 1999, pp. 65-74; G. TRAINA, Il poliziesco e la coscienza, in ID., In un destino di verità. Ipotesi su Sciascia, Milano, La Vita Felice, 1999, pp. 87-121. Ottimo l’inquadramento critico d’insieme di G. TRAINA, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999. 43 Per i cogenti legami della ricerca di Sciascia con una sfera paradigmaticamente ideologica, tanto da trasformarla in «un gesto di attivazione dell’extra-letterario», mi permetto di rimandare a I. CROTTI, Sciascia, l’«invention» del politico, in EAD., La «detection» della scrittura, cit., pp. 148-153. Per la valorizzazione di tale versante ideologico, cfr., inoltre, A. PIETROPAOLI, Sciascia e il «canestro di vipere», in ID., Ai confini del giallo. Teoria e analisi della narrativa gialla ed esogialla, cit.; ID., Il giallo «contestuale» di Leonardo Sciascia, in Nuove tendenze della letteratura italiana, «Narrativa», cit., pp. 5-39, indi «Strumenti critici», XII, n. 2, maggio 1997, pp. 221-259; C. AMBROISE, Sciascia: lo storiografo e il giallo, in Il romanzo poliziesco italiano da Gadda al Gruppo 13, cit., pp. 131-139.

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ILARIA CROTTI 44 Degno di rilievo che Una storia semplice sia stata inserita dal «Corriere della Sera», in data 15 aprile 2003, nella collana «I Grandi Romanzi Italiani», mentre l’uscita della settimana precedente – a costituire una sequenza che non mi sembra neutra – era data dal Camilleri di La mossa del cavallo. 45 La citazione, infatti, recita: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». Dürrenmatt, da parte sua, attingendo proprio ai canoni del poliziesco ma rielaborandoli in direzione esistenzialista e, insieme, parodica, ha ideato alcuni indiscussi capolavori, come Der Richter und sein Henker (1952) e Das Versprechen. Requiem auf den Kriminalroman (1958). Cfr. M. CHU, Sciascia e Dürrenmatt: il giallo e l’epistemologia, in Sciascia, scrittore europeo. Atti del Convegno internazionale di studi (Ascona, 29 marzo-2 aprile 1993), a cura di M. PICONE, P. DE MARCHI, T. CRIVELLI, Basel-Boston-Berlin, Birkhäuser Verlag, 1994, pp. 103-118. Ha preso in esame le differenti funzioni che le epigrafi detengono in Poe, sul versante duplice del poliziesco e del fantastico, un contributo di M. DI FAZIO, Le epigrafi nel racconto a «enigma». Edgar Allan Poe, in EAD., Dal titolo all’indice. Forme di presentazione del testo letterario, Parma, Nuova Pratiche Editrice, 1994, pp. 75-91. 46 Modalità affini sono reperibili in un racconto di Dino Buzzati, Una cosa che comincia per elle, apparso nel gennaio 1939, su«La Lettura», indi nella silloge I sette messaggeri (Milano, Mondadori, 1942). 47 «“Non facciamo romanzi”» (SS, p. 743) – si esclama. Il riferimento al genere, del resto, scandisce anche altrove la durata testuale (si confronti, ad esempio, p. 753). Per il rapporto che lega l’incoerenza e la discontinuità del reale alle forme di autenticazione messe in cantiere dal fantastico, cfr. E. SCARANO, I modi dell’autenticazione (in La narrazione fantastica, cit., pp. 355-396). 48 Proprio un manufatto come il tappeto, nei ritmi paralleli che lo correlano per un verso al linguaggio e alla lettura, per un altro alla narrativa (quindi, tout court, alla vita stessa), diviene focale in alcune importanti note di Campo (C. CAMPO, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987; in particolare cfr. pp. 62-64). Anche il paradigma interpretativo prescelto da Ginzburg nella propria ricerca si appella a un’area lessicale e semantica affine: cfr. C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit., p. 184. Già all’altezza degli anni Venti, Sˇklovskij, aveva fatto ricorso a un’immagine simile, pur non spingendosi fino a strutturarla come un vero e proprio paradigma: cfr. V. SˇKLOVSKIJ, Teoria della prosa, cit., p. 3. 49Per un riesame teorico dei ‘possibili’ del testo si vedano U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani, 1990; M. CHARLES, Introduzione allo studio dei testi, trad. it. di F. Bertoni, Milano, RCS Libri, 2000 (Paris 1995). 50 Cfr. T. TODOROV, Introduction à la littérature fantastique, cit., p. 95. 51 Per un’analisi delle dinamiche metanarrative investenti le diverse istanze di narratore, personaggio ed autore reale nella trilogia composta da The Murders in the Rue Morgue, The Mystery of Marie Roget e The Purloined Letter, letta sui versanti del fantastico, del realistico e del poliziesco, cfr. U. RUBEO, «The mystery of Monsieur Dupin»: il fantastico nei racconti del raziocinio, in I piaceri dell’immaginazione. Studio sul fantastico, a cura di B. PISAPIA, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 167-192. 52 Cfr. R. K. MERTON, E. G. BARBER, Viaggi e avventure della Serendipity. Saggio di se-

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mantica sociologica e sociologia della scienza, trad. it. di M. L. Bassi, Bologna, Il Mulino, 2002. 53 Per le valenze ambiguamente plurivoche intorno al lessema ‘quadro’ in questa estrema prova sciasciana, cfr. A. CINQUEGRANI, Il cavaliere e l’eroe tragico: Sciascia e Bufalino attraverso Nietzsche, «Critica letteraria», XXXI, 2003, 119, pp. 309-327 (in particolare alle pp. 326-327). 54 Nella sua deposizione in commissariato, Franzò stesso dà conto puntualmente di detta motivazione: cfr. SS, p. 743. 55 Per una densa analisi della dimensione del frammentario, cfr. H. BLUMENBERG, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, a cura e con introduzione di R. BODEI, trad. it. di B. Argenton, Bologna, Il Mulino, 1984 (Frankfurt, 1981). In particolare, si veda il capitolo «Il mondo deve essere reso romantico» (pp. 241-275). Magistrale, per il campo metaforico cui ci si riferisce, lo storico contributo di E. R. CURTIUS, Il libro come simbolo (1942), in ID., Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. ANTONELLI, Firenze, La Nuova Italia, 1992, pp. 335-385; Bern, 1948. 56 Una problematica messa a fuoco del significato che, per l’uomo del XIX secolo, riveste l’intérieur, anche nei suoi rapporti cogenti col poliziesco («Abitare significa lasciare impronte, ed esse acquistano, nell’intérieur, un rilievo particolare»), cfr. W. BENJAMIN, Parigi. La capitale del XIX secolo, in ID., Angelus Novus. Saggi e letture, cit., pp. 140-154: 148. 57 Dove comparivano anche alcune lettere inedite del drammaturgo ad Adriano Thilgher poi non riprodotte nell’ambito dell’edizione Bompiani (cfr. L. SCIASCIA, Pirandello e il pirandellismo, in ID., Opere 1984-1989, cit., pp. 999-1039). 58 Interpreta alla luce di un legame ambivalente il rapporto Sciascia-Pirandello, P. PUPPA, Sciascia versus Pirandello, in Sciascia, scrittore europeo, cit., pp. 93-101. 59 Cfr. I. CROTTI, Implicazioni naturalistiche: De Marchi, Invernizio, De Roberto, Capuana, Moravia, Fogazzaro, Pirandello, cit. (in particolare alle pp. 118-123). Per i tratti polizieschi della novellistica pirandelliana, in relazione anche a prove sciasciane, cfr. E. BACCHERETI, Indagine preliminare sul delitto d’autore (Stevenson, Svevo, Pirandello, Gadda, Sciascia), «La Rassegna della Letteratura italiana», XCVIII, 1994, 1-2, pp. 149-167. 60 Il «chisciottismo letterario» del Giustino-Sancio pirandelliano, messo a fuoco da Sciascia nel suo Pirandello e il pirandellismo (cit., pp. 1038-1039), può trovare alcune rispondenze nel duello all’ultimo sangue che, come già notato, fa una sua puntuale comparsa proprio all’altezza di Una storia semplice. ˇKLOVSKIJ, La Mossa del Cavallo. Libro di articoli (trad. it. di M. Olsuf ’eva, 61 Cfr. V. S Bari, De Donato-Leonardo da Vinci, 1967; Mosca-Berlino, 1923). 62 Ho cercato di leggere sotto detta luce unheimlich proprio il Mattia Pascal, dislocandolo tra le dinamiche perturbanti che si intrecciano tra casa abbandonata e irrimediabilmente perduta e le derive del viaggio, in un recente contributo, cui rinvio, dal titolo In viaggio con Mattia (Pascal): da Miragno a Roma, andata e ritorno («La Rassegna della Letteratura italiana», CVI, 2002, 1, pp. 76-95). 63 Come si presentano gli inquietanti arredi accatastati nel sottotetto; forme cave che paiono rimandare a una spazialità ingombra e, insieme, vuota, deposito carico di simboli luttuosi: cfr. SS, pp. 738-739.

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ILARIA CROTTI 64 Tra i primi contributi italiani rivolti a sondare il paraletterario, mi limito a citare: La paraletteratura. Il melodramma, il romanzo popolare, il fotoromanzo, il romanzo poliziesco, il fumetto, diretta da N. ARNAUD, F. LACASSIN, J. TORTEL, trad. it. di M. Pisaturo, Napoli, Liguori, 1977 (Paris, 1970; si vedano in particolare gli interventi di Michele Rak, Jean Tortel e Charles Grivel); G. ZACCARIA, Il romanzo d’appendice. Aspetti della narrativa «popolare» nei secoli XIX e XX, Torino, Paravia, 1977; «Trivialliteratur?». Letterature di massa e di consumo, cit.; Letteratura di massa, letteratura di consumo. Guida storica e critica, a cura di G. PETRONIO, Bari, Laterza, 1979. Oltre, ovviamente, ai rilevanti interventi di Umberto Eco, con Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, Milano, Bompiani, 1978, preceduto da Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa (ivi, 1964). Per un’utile sintesi dei diversi approcci critici dedicati a questo settore rimando al lineare quadro tracciato dal recente A. RONDINI, Se il critico legge i gialli, in ID., Sociologia della letteratura, Milano, Bruno Mondadori, 2002, pp. 164-175. 65 Cfr. R. CAILLOIS, Il romanzo poliziesco, in ID., La forza del romanzo, trad. it. di A. Zaccaria, Palermo, Sellerio, 1980, pp. 63-113, Paris 1974; e Borges, da parte sua: «In questa nostra epoca, così caotica, c’è una cosa che, umilmente, ha conservato le virtù classiche: il racconto poliziesco. Non è possibile concepire un racconto poliziesco senza principio, parte centrale e fine» (J. L. BORGES, Il racconto poliziesco, in ID., Oral, trad. it di A. Morino, Roma, Editori Riuniti, 1981, p. 59; Buenos Aires, 1979). Per una lucida rassegna dei molti schemi e degli altrettanto articolati sistemi che il poliziesco ha cercato di darsi fin dai suoi esordi – ricordo, in particolare, quello in quattro fasi proposto dal Freeman di The Art of the Detective Story (1924) – si veda T. NARCEJAC, Il romanzo poliziesco, cit., pp. 39-47. 66 Ha ragione quindi Antonio D’Orrico a elogiare una collana come «I Bassotti» dell’editore Polillo (cfr. A. D’ORRICO, Il segreto dei gialli antichi? Non si montavano mai la testa, «Sette», supplemento del «Corriere della Sera», 22 maggio 2003, 21, p. 163) che, in una veste grafica ineccepibile, ripropone alcuni indiscussi capolavori editi nella prima metà del secolo scorso. Attenzione, tuttavia, a non eccedere in uno sguardo forse troppo attento a mitizzare, cristallizzandola, la purezza di un presunto canone d’antan, dal momento che anche detto campo si presenta come un organismo vivo, quindi intensamente dinamico sia sul versante del mittente che su quello del destinatario. 67 Articolatamente rappresentativa la scelta curata da Renzo Cremante e Loris Rambelli che antologizzano alcuni tra i più autorevoli degli apporti sia critici che teorici sull’argomento: La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco, Parma, Pratiche, 1980. Mi limito a rimandare a due figure significative, come Kracauer e Caillos, che hanno interpretato il fenomeno poliziesco alla luce di un metodo sociologico non disgiunto da interessi anche filosofici e antropologici. Cfr. S. KRACAUER, Sociologia del romanzo poliziesco, in ID., Saggi di sociologia critica. Sociologia come scienza.Sociologia del romanzo poliziesco, trad. it. di U. Bavay, A. Gargano e C. Serra Borneto, Bari, De Donato, 1974; Frankfurt am Main 1971, e R. CAILLOIS, Il romanzo poliziesco, cit. Un’attenta rilettura del contributo di Kracauer, scritto nella prima metà degli anni Venti del Novecento, pronta a coglierne anche le affinità col pensiero sia kierkegaardiano che heideggeriano è condotta in L. RAMBELLI, Il filosofo e i Detectivromanen, «Lingua e Stile», XI, 1976, 1, pp. 141-150. 68 Cfr. A. TABUCCHI, F. S. BORRELLI, Sulla giustizia e dintorni; C. LUCARELLI, A. DI PIE-

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OMBRE DEL GIALLO TRO, Dieci anni dopo; A. CAMILLERI, C. DEL PONTE, La realtà oltre la fantasia, «MicroMega», 2002, 1, pp. 25-74, 75-96, 97-122. 69 Per cui si veda almeno, dedicata com’è al ‘giallo d’autore’, l’articolata recensione di Vittorio Coletti a La testa perduta di Damasceno Monteiro (Milano, Feltrinelli, 1997) in «L’Indice dei libri del mese», 1997, 5, p. 21. 70 Il peculiare poliziesco di Carlotto ha meritato la sensibile attenzione critica di Chemotti: cfr. S. CHEMOTTI, Massimo Carlotto: tra autobiografia, «reportage» e «noir», in EAD., Il «limes» e la casa degli specchi. La nuova narrativa veneta, Presentazione di C. DE MICHELIS, Padova, Il Poligrafo, 1999, pp. 101-118; EAD., Massimo Carlotto e il noir mediterraneo, in EAD., La terra in tasca. Esperienze di scrittura nel Veneto contemporaneo, Postfazione di G. PULLINI, ivi, 2003, pp. 263-270. 71 Per la posizione focale dell’area emiliano-romagnola, sia in quanto scenario di trame noir sia quale laboratorio socialmente atto a favorire la presenza di scrittori del poliziesco e del thriller, si veda la recensione di Lucarelli al libro einaudiano di Eraldo BALDINI, Bambini, ragni e altri predatori (cfr. C. LUCARELLI, Una tela di ragno in riva al Po. Adesso il vero orrore abita qui, «Corriere della Sera», 7 luglio 2003, p. 27); ma, prima di lui, cfr. L. MACCHIAVELLI, Il romanzo poliziesco in Emilia-Romagna. Il Gruppo 13, in Il romanzo poliziesco italiano da Gadda al Gruppo 13, cit., pp. 87-93. La mappatura si configura comunque sfaccettata, come dimostra quell’inquietante Veneto multietnico di Carlotto, mentre il caso Cacopardo – ricordo la sua ultima prova, La mano del Pomarancio (Milano, Mondadori, 2003) e l’interesse dimostratogli da Pacchiano in Spariscono quadri e cadaveri, «Il Sole-24 ore», 22 giugno 2003, p. 32 – accanto a Camilleri e Piazzese, sembrano offrire testimonianza di tutt’altra geografia, percorsa da una solarità mediterranea (siciliana, in particolare) e venata da un’infera e tragica meridianità. 72 ‘Nutrita’ dagli apporti di Camilleri e Carlotto, Simenon e Stout, Vazquez Montalban e Fois, Nocentini e Dahl (ma non solo) la vivace rassegna fornita da Monica PISTOLATO in Il giallo e la cucina («Il biblionauta», 2002, 9, pp. 8-9). 73 Sulla produzione di Comastri Montanari, che spazia dal giallo culinario a quello di ambientazione antichistica, cfr. L. CROVI, Tutti i colori del giallo, cit., pp. 171-173, 202-205. 74 Per un’attenta sintesi che prende il via dagli anni Novanta del XIX secolo di Serao, Invernizio e Bazzocchi per concludersi con il 2001 di Zucchiati Schäal, cfr. ivi, pp. 28-31, 195217. Un quadro molto vivace delle ultime tendenze europee è in “Polars” or Women’s Detective Fiction («Feminist Europa. Review of Books», vol. II, 2002, 1, pp. 6-39). Sui caratteri che contraddistinguono gli esordi della tipologia cfr. M. DI FAZIO, La donna omicida. Narrativa italiana fra Ottocento e Novecento [1987], in EAD., Interrogare la finzione. Testi narrativi ed esperienze di lettura, Roma, Edizioni Associate Editrice Internazionale, 2002, pp. 96-117. 75 Sempre Lucarelli, assieme a Massimo Picozzi, con Serial killer (Mondadori) nei mesi estivi guidava anche la classifica della saggistica. Poco convincenti le attenzioni di dubbio gusto a un settore affine, come il noir d’attualità, che ancora Lucarelli, sull’onda di un successo televisivo, abilmente sfrutta in diverse direzioni massmediatiche (cfr. C. LUCARELLI, Il successo della «nera»: mistero, morbosità, paura, «L’Europeo», n. 4, luglio 2003, pp. 15-18). 76 Cfr. M. CASTELLI, Il prete che fece perdere la testa alla Madonna, «Il Sole-24 ore», 13 luglio 2003. In quella stessa pagina, una giallista di pregio e ben radicata all’interno della com-

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pagine editoriale come Laura Grimaldi – ricordo il suo denso Il giallo e il nero. Scrivere suspense (Parma, Pratiche, 1986) – recensiva Chiamata in giudizio di Steve Martini (Longanesi), mentre Giuseppe Scaraffia si occupava della traduzione di un classico del noir come Rififi (Sonzogno), autore Auguste Le Breton. Ancora Castelli aveva offerto, invece, un panorama più internazionale, animato da figure quali Ben Pastor e David Ellis, Charlotte Link ed Åke Edwardson, Christopher Reich e François Muratet, fino al colombiano Rogelio Iriarte, a dare conto, come se ce ne fosse ancora bisogno, dei molti volti e delle altrettanto plurimorfe tipologie che aleggiano intorno al campo, in un Gialleggiando precedente (cfr. ID., Roma, città in nero, «Il Sole-24 ore», 15 giugno 2003). Uno scandito omaggio, questa volta focalizzato sullo spazio francese e i suoi esiti editoriali italiani, sempre Grimaldi aveva tributato al nouveau polar e ai messaggi molto politicizzati di cui la specifica tipologia sarebbe latrice (cfr. L. GRIMALDI, L’ondata anomala di neo-noir, «Il Sole-24 ore», 1 giugno 2003, p. 35). Da segnalare come di uno dei capiscuola del noir situazionista, marcatamente interessato a problematiche di denuncia sociale, Jean-Patrick Manchette, Einaudi abbia riproposto nella collana «Stile Libero» alcuni romanzi, l’ultimo dei quali Un mucchio di cadaveri (cfr. C. MEDAIL, Nero Manchette, il Maigret a sangue freddo, «Corriere della Sera», 3 luglio 2003, p. 33). Guarda a un quadro internazionale anche l’articolo di A. BELTRAME, Gialli di tutti i colori, «Grazia», 9 settembre 2003, 36, pp. 79-80.

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CARLA RICCARDI MANIFESTI NARRATIVI NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO Quando finalmente il romanzo storico apre la strada al romanzo italiano moderno, e quando si esaurisce la spinta propulsiva dei Promessi Sposi sugli epigoni del genere, ecco che il problema di una moderna narrativa si ripropone a tutti i livelli: tematico, strutturale, formale. La condanna manzoniana, sancita proprio a metà secolo dal discorso Del romanzo storico, non sembra avere un peso determinante, perché troppo avanzata teoricamente, troppo in anticipo sui tempi, così come lo era stata la Lettre à M. Chauvet (1820-’22), non mero pamphlet contro le unità della tragédie classique, ma testo fondante di una nuova teoria della letteratura. Anche questo non compreso, se Carlo Tenca, pubblicando nella «Rivista Europea», nel febbraio 1846, l’indagine Delle condizioni dell’odierna letteratura in Italia, scrive: Pur troppo le quistioni letterarie non hanno progredito d’un passo da trenta anni in qua. Noi combattiamo ancora contro le unità aristoteliche, come se la causa delle libertà drammatiche non fosse vinta da un pezzo; noi disputiamo sul concetto della poesia moderna, come se non fosse bastato il dire che la poesia deve esprimere il sentimento generale d’un epoca; noi domandiamo ancora qual forma debba avere il romanzo storico, dopoché il grande esempio dei Promessi Sposi ci aperse la via più bella e più vera da seguire. E quasiché non bastassero queste dispute a sconfortare gl’ingegni, noi combattiamo e ci affanniamo ad ogni momento per trovare la lingua più propria ad esprimere i nostri concetti.

Tuttavia lo scritto del Tenca è il riflesso interno del disagio non solo italiano, ma europeo, se è vero, almeno per il critico romantico, che tutte le letterature devono procedere in parallelo: manca una filosofia portante tale da orientare il pensiero, da guidare la società, i comportamenti e, più in parti— 199 —

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colare, la produzione letteraria. La crisi è generale; dunque investe anche la letteratura, i cui problemi non sono solo di stile e di lingua. È ancora Tenca a sottolinearlo: Altre e più immediate cagioni d’inerzia pesano sulla nostra letteratura, e si vorrebbe anzitutto cercarle nella condizione morale della nostra società. Il concetto letterario non può andare scompagnato dallo spirito pubblico, e dove questo è debole ed incerto, anche la letteratura si snerva ed immiserisce. Nella storia sono le ragioni della grandezza e del decadimento delle lettere. Chi seguisse passo passo lo svolgimento del pensiero italiano nelle opere de’ suoi grandi scrittori, da Dante a Manzoni, incontrerebbe questo perpetuo avvicendarsi di decadenza e di risorgimento, secondo che lo spirito pubblico fu più o meno elevato e grande.1

Tenca ha perfetta coscienza che i cambiamenti avvenuti nella società tra Sette e Ottocento hanno favorito l’accesso alla cultura, uscita infine dalle corti e dalle accademie, di una moltitudine di persone, che si possono definire popolo, un «popolo immenso» del quale il letterato deve farsi interprete e, quasi, profeta. Questo immenso popolo intravisto da Tenca in una sorta di «fiumana» della cultura è, certo, da ridimensionare in un, non ampio, pubblico aristocratico-borghese, quel pubblico che sarà il destinatario dei romanzi e dei racconti dell’Italia unita. Il che non toglie merito al generoso, ma prematuro, tentativo di Tenca di individuare una platea più vasta, socialmente variegata e complessa, in grado anche di orientare le scelte degli autori. Nella visione progressista di Tenca la critica dovrà individuare il pubblico, gli scrittori dovranno cogliere l’ansia di rinnovamento, dovranno far progredire la parte più viva del romanzo, soprattutto sul piano della realtà degli uomini, e risolvere la crisi aderendo all’elemento popolare. In questa problematica si inserisce pienamente e fattivamente Nievo, dapprima con le analisi consegnate agli Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia del 1854, poi dal ’55 con i testi del Novelliere campagnuolo. Gli Studi si situano sulla linea di Tenca: la letteratura non disgiunta dalla società, l’orizzonte europeo in stretta connessione con le problematiche e le strutture letterarie italiane – il tutto semmai più spinto sul versante civile e popolare –, la consapevolezza di aver ormai superato il romanticismo, elemento questo molto importante soprattutto perché il nuovo è volutamente innestato su una vasta e qualificata tradizione. C’è, infatti, la volontà creativa più che teorica che Nievo esprime attraversando la letteratura civilmente impegnata, da Parini a Porta (con un’attenzione speciale al dialetto come lin— 200 —

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gua poetica nazionale2), Manzoni, Berchet, e ricercando il rinnovamento dei contenuti prima che della lingua e della forma. Anche se queste saranno comunque centrali nelle scelte per il Novelliere, dove confluiscono le esperienze italiane con quelle europee del realismo delle scene provinciali e di campagna di Balzac – fortunatissimo e tradotto in Italia a partire già dagli anni Trenta (si pensi a Le médecin de campagne 1833, Le curé de village 1839, Les paysans 1844) –, e del roman châmpetre di Georges Sand degli anni Quaranta (1846 La mare au diable, La petite Fadette 1848, François le champi 1850). Né manca la suggestione della novellistica di Turgenev o del racconto a veglia di Pusˇkin e Gogol’, che si diffondono attraverso le traduzioni francesi degli anni Cinquanta, seguite più tardi – a partire, tranne pochissime eccezioni, dagli anni Ottanta – da quelle italiane3. Su tutto, poi, continua ad aleggiare lo spirito sterniano, che tanta parte aveva già avuto sulla prosa italiana dall’Ortis ai Promessi Sposi4 . Nella linea rusticale i temi sono le condizioni delle campagne e dei contadini, temi non nuovissimi neppure in Italia, se si pensa al Carcano, ma più ancora alla Percoto o alla Codemo e a tutta la pubblicistica rusticale e alle indagini di Stefano Jacini, Cesare Correnti, dello stesso Tenca. Il tutto profondamente rinnovato però proprio dalla teoria propositiva e creativa di Nievo. La formula che riassume l’atteggiamento nieviano può essere dunque: novità nella tradizione. E la prima applicazione è nella novellacornice La nostra famiglia di campagna del 18555 : lo scrittore vi espone l’ideologia che presiede la composizione della stessa e di quelle che seguiranno, così come la materia, realizzando pure uno specimen dello stile o degli stili che saranno adottati. Anzitutto si rivolge al lettore con quel tratto tipico del narratore settecentesco, che anche Manzoni aveva conservato, piegandolo però ai suoi fini di narratore demiurgo: Voglio rappresentarti, o ingenuo lettore, per ischizzi e profili quella parte più pura dell’umana famiglia che vive nei campi.

Un tratto che qui mira a più scopi: anzitutto agganciare la tradizione orale tipica dell’antico novellare e riesumata nelle chiacchiere delle veglie contadine (tipico racconto a veglia, nella stalla, sarà quello di Carlone in Il milione del bifolco, sottotitolo Novella campagnuola), rispolverando il piacere del racconto «che è il piacere della finzione in sé e per sé, ma è anche piacere del narratore che ascolta la propria parola»6, che vede riflessa la propria esperien— 201 —

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za nella reazione e nel giudizio di chi ascolta. Poi instaurare uno scambio con il pubblico, persuaderlo e forse avviarlo, in un rapporto di complicità ideologica, a operare concretamente nella società: così come il narratore che lavora «di braccia» e non si limita a passeggiare nei campi «un’orettina pei freschi della sera». Narrare è uno strumento non facile da usare, ma straordinario per conoscere e far conoscere. Ma chi è il lettore virtuale di Nievo? È un rappresentante della classe borghese-aristocratica, proprietaria terriera e cittadina che deve rivedere la calunnia sul mondo contadino: Né di codesta tua spensierata opulenza cerco farti carico per ora, sibbene innamorarti di coloro che allenano per te, e de’ quali in onta al diuturno consorzio conosci ben poco indole, mente, e costumi; o se li conosci, non te ne dai per inteso, e seguiti a trattarli come mandra da bastone. Ma quando io t’abbia sincerato della cosa, e dimostratoti splendidamente quanto a te sovrastino per bontà d’animo e rettitudine di coscienza quelle genti che gridi maestre di malizia, scioperate e imbestialite, allora non potrai più adagiarti all’ombra di simili calunnie, lasciando le cose rovinare alla peggio per quei poveretti. (Novelliere campagnuolo 3)

Perché dunque l’allocuzione all’«ingenuo» e più innanzi «paziente lettore»? Da quanto sopra non parrebbe tale; lo scrittore vuole scuoterlo dalla pigrizia mentale inveterata, ma anche accattivarselo, perché è preoccupato delle reazioni di questi che dovrà diventare a sua volta diffusore delle idee innovatrici. Nievo è consapevole della problematica comunicativa per cui nel circuito della comunicazione letteraria, autore-testo-lettore, la parte più debole, sfocata, indeterminata è l’ultima, sfuggente e anonima. Egli cerca in qualche modo di individuarne degli stati d’animo, delle reazioni al racconto da parte del lettore: sia esso ingenuo, sprovveduto o colto, paziente, amico, stizzito, tenero, gentile, incredulo, benigno. Forse è una donna di «pietosa gentilezza e di candida fede». Allo scrittore manca il rapporto diretto della tradizione orale, manca il riscontro immediato di ciò che gli preme: presentare il mondo campagnolo da un diverso punto di vista: un colpo di spugna deve cancellare l’antico pregiudizio, un occhio nuovo, ingenuo, paziente deve seguire l’itinerario proposto. Un itinerario sul campo, in presa diretta, non teorico per «sfoderare la dottoreria d’uno scrittore di gala», un itinerario che il lettore sia messo in grado di percorrere, non come «quel pubblico pedante dagli occhiali verdognoli, che compera i libri, o più sovente li toglie a prestito, per averne quel diletto che i fanciullini prendono dai passerotti spiumandoli vivi». — 202 —

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Inizia così il viaggio: quasi superfluo segnalare ancora il modello sterniano o la suggestione del viaggio-dialogo filosofico, volterriano e diderotiano – dunque una forte componente culturale settecentesca, ma anche della più antica tradizione novellistica dell’itinerario attraverso luoghi significativi e dell’incontro con personaggi narratori che permettono una sorta di narrazione ad infilzamento7 – con un compagno ideale, «sollazzevole e disposto con mente […] serena alla vita»: dai colli di Solferino, dopo aver traversato le bellezze del lago di Garda, alla pianura padana (mantovana in particolare). Mentre i due lasciano la «bella montagna della speranza», cadono una descrizione e un addio fatti di echi foscoliano-manzoniani, adattati alla prosa semplice che è l’obiettivo dello scrittore e sdrammatizzati dal tono ironico con cui è comunicato l’incidente: Addio, bella montagna della speranza! Grazie a te, che nei giorni sereni palesandoti fino a noi ci sei guida nel pensiero alle ridenti costiere di Liguria, e alle operose valli di Piemonte, e alla gentile Toscana, e alle agguerrite Romagne, e alle Puglie ondeggianti di messi, e alle incantevoli baie di Napoli, e alle fiere Calabrie, e al triplice paradiso di Sicilia! Addio, simulacro de’ nostri destini, che corri la vita a ritroso, e dalle nevi dell’Alpi ti digradi fino al Vesuvio ed al mare, per risorgere folgoreggiando sul trono dell’Etna! Avevamo finito appena d’alternare quest’inno, quando nel precipizio d’una discesa si sfasciò senza misericordia una ruota del biroccino. (Novelliere campagnuolo 6)

Ancora un capitoletto, il V, di riflessioni sulla propria «maniera di scrivere», senza pretese, «un intrattenimento di ciarle», «un dialogo in confidenza», non uno scritto strutturato secondo i canoni e ben tornito; il paragone è con «un dipintore d’imposte» e con «una armata di tangheri»8, che ricorda le brigate e i distaccamenti che Rovani nel suo tableau centenario dovrà congiungere per serrare i ranghi in vista della battaglia decisiva, ovvero della complessa orchestrazione dei rapporti tra i fittissimi «drappelli di personaggi»9. Ecco, dunque, i capitoletti come tante tappe di un percorso fatto di momenti saggistici e di sequenze narrative, continuamente mescolati, perché gli incidenti (il primo è appunto la ruota che si spezza), gli incontri, alla maniera del Don Chisciotte e del Tristram Shandy, sono occasioni fortunate o sfortunate che determinano la narrazione, il dialogo, la riflessione, ovvero raccontini e commenti correlati, e fanno nascere naturalmente la scrittura a frammento, lo stile digressivo e umoristico. — 203 —

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Si tratta di «schizzi e profili» della «nostra famiglia di campagna», dipinture morali come nel sottotitolo, che conferma l’altro segmento del DNA novellistico, oltre quello dell’oralità: la vocazione esemplare, educativa o, forse meglio, dimostrativa della vera realtà del mondo rurale diretta a un lettore come si è visto ben individuato, il proprietario terriero. Subito, ad esempio, l’incontro col vecchio suscita una serie di capitoli dall’VIII all’XI realizzati come un’allocuzione continuata al lettore: dietro ci sono non solo i già citati Studi, ma anche le inchieste come quella di Stefano Jacini La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia del 1854, gli almanacchi popolari curati dal Tenca, da Cesare Correnti (Il nipote del Vesta-Verde), da Giovanni Cantoni (L’amico del contadino) che diffondono questo tipo di problematica, cercando di non confinarla nelle scritture di genere puramente pedagogico ed educativo. La nostra famiglia di campagna è, insomma, un vero e proprio racconto programmatico, un manifesto di una personale teoria della narrazione, forse il primo consapevolmente tale, e si colloca come un momento nodale nell’evoluzione della novella ottocentesca, dando corpo letterario alla polemica sociale, discussa a partire dagli anni Quaranta, recuperando la finalità etica, l’impegno civile. Nievo scrive e pubblica le sue novelle dal ’55 al ’59 o al ’60, se vogliamo annoverare nel genere Il barone di Nicastro (romanzo breve o racconto lungo, come del resto Il Varmo); tra il ’55 e il ’58 è impegnato nella stesura del suo grande romanzo, romanzo aperto, fondamentale per la prosa narrativa moderna (innegabile il suo influsso su Dossi10), che interpreta con acutezza gli avvenimenti degli ultimi vent’anni del Settecento, soprattutto il tragico, per la Serenissima, 1797, fino alle soglie dell’Unità. Il punto di vista interno, quello dell’ottuagenario Carlino Altoviti, cambia completamente il taglio e l’interpretazione della storia rispetto alla mente che contempla dall’alto e che sceglie e coordina azioni e personaggi, reali e d’invenzione: in un breve giro di anni il modello manzoniano è ribaltato. Carlino è protagonista-narratore, vicinissimo ai molti narratori dei romanzi europei che dicono ‘io’ e mescolano le loro avventure private alla grande storia; Carlino ricostruisce in base alla storiografia della prima metà dell’80011 circa ottant’anni di Venezia e d’Italia, «un tempo assai memorabile», dall’ottica di chi, vissuto «a cavalcione di questi due secoli», vi è stato personalmente coinvolto e, quindi, esprime per gradi i suoi giudizi secondo la sua individuale evoluzione intellettuale, psicologica, morale, li sottopone a verifica conti— 204 —

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nua, dimostrando una capacità interpretativa, un’intelligenza della storia più fine delle sue fonti storiografiche; e ciò, nonostante l’autosottovalutazione del suo metodo di scrittura: a sbalzi e come suggerivano l’estro e la memoria venni scrivendo queste note. (Confessioni 5)

Né mancano le canoniche scuse per come si è praticata «la malagevole arte dello scrivere», così come la consapevolezza che alle aporie dello stile suppliranno «la chiarezza delle idee, la semplicità dei sentimenti, e la verità della storia» (Confessioni 5), altro tratto tipico del romanzo settecentesco, che, diario, cronaca, epistolario, sempre insiste sull’autenticità del documento, sull’attinenza totale alla realtà dei fatti: e il narratore ufficiale se ne fa garante presso il pubblico. Pubblico che Nievo non trascura cercandone la complicità, la consonanza di sentimenti come nelle novelle: «la simpatia dei buoni lettori mi terrà vece di gloria» (ibidem)12. Quanto alla «mancanza di retorica» bisognerà sottolineare l’importanza delle scelte linguistiche più vicine, relativamente al modello più impositivo, alla Ventisettana che alla redazione definitiva del ’40: meno rigore fiorentino e più ‘colore’ regionale, non macchia o folklore, come sarà nei testi novellistici dannunziani, ma regionalismo vivo, fresco, fuso; e non solo venezianofriulano, forse meglio interregionalismo tra «Veneto lagunare ed euganeo e della Lombardia», come puntualizza Marcella Gorra, seguita da Mengaldo, Romagnoli, Casini, sempre in corto circuito con il romanzo manzoniano e con i molti modelli narrativi francesi o del dramma romantico di Byron e di Goethe e in rapporto-distacco – o rovesciamento – con le sue fonti storiche dalla prosa «arcaizzante, sostenuta e artificiosa»13. Dunque un romanzo anche linguisticamente, stilisticamente aperto la cui norma è il pluralismo non solo tematico, dei tempi, degli spazi, ma anche delle voci e dei toni. Negli stessi anni (1856) Rovani inizia nelle appendici della «Gazzetta di Milano» la pubblicazione, che si concluderà il 31 dicembre 186314, di Cento anni con la Sinfonia del Romanzo, ribattezzata, nell’edizione definitiva, Preludio. Ancora, dunque, un amplissimo periodo storico che contiene la storia determinante della nuova Italia dal 1750 al 1849, da Milano a Venezia, di nuovo al centro dell’azione come nelle Confessioni. E, se per singolare coincidenza il testimone è un nonagenario, forse ciò è indizio di un bisogno di ripensare con mente matura proprio quella storia determinante e di ricostruir— 205 —

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la tramite un’operazione letteraria. È chiaro, comunque, che i due libri sono passaggi decisivi per il genere romanzo in generale, per il romanzo storico in particolare. È Rovani a sottolineare la caduta di prestigio della narrativa storica, dopo la palinodia manzoniana, e a deprecare in forma ironica l’eccesso di produzione, soprattutto in Inghilterra e in Francia, osservando, per altro, che tutti leggono romanzi, anche coloro che vi lanciano pesanti anatemi. Ne conclude che il genere non è da disprezzare, perché è veicolatore di idee nuove, di riforme civili e sociali, riassume in sé tutti i generi: «è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia, è critica, è satira, è discussione» (Cento anni 60). È un grande e pieghevole contenitore, che nel caso del «rossiniano»15 Rovani conterrà un secolo di storia e di storie, vita pubblica e privata, arte, società «fatti e costumi e accidenti» non ancora indagati in nessun libro, il tutto ruotante intorno a un’azione unica, «essendosi dovuto rompere le dighe dell’unità di tempo nel modo il più rivoluzionario» e non volendo trasgredire il «campo sacro e inviolabile dell’unità d’azione», consacrata appunto da Manzoni (Cento anni 61-62). Il nodo drammatico, un processo criminale, permette di far sì che gli attori siano intere famiglie, il cui destino si svolgerà da quel fatto per generazioni, permettendo di osservare «gli svolgimenti graduali di tutte le parti che costituiscono la civiltà di un paese». Ecco quel che può contenere un romanzo: non solo tutti i generi, ma tutti i racconti in un grande ciclo esaustivo. Un’idea quasi balzachiana, anche se da Balzac diacronico, per così dire, che studia storia e società attraversando tempo e spazio e non vivisezionando le specie sociali; e, se tra i vari romanzieri citati da Rovani, Balzac non c’è, tuttavia Rovani potrebbe averlo letto, se si pensa che molti romanzi della Comédie humaine sono sul mercato librario milanese in traduzioni italiane a partire dagli anni Trenta16. Dunque alle soglie dei fatidici Sessanta il terreno novellistico più fecondo è quello sociale e i romanzi più importanti sono romanzi storici, che pesano fortemente su due scrittori postunitari, Dossi e Verga, fondatori di due filoni antitetici, ambedue rinnovatori, all’interno, però, della tradizione italiana e europea, fecondissimi in direzioni diverse per la moderna prosa narrativa italiana. Le Confessioni escono nel 1867, Cento anni nel ’64 e poi nell’edizione rivista dall’autore nel ’68-’69, ma già nel ’68 il multitematico e polifonico contenitore produce un libro nuovissimo, L’altrieri di Carlo Dossi, «quasi autobiografia»17 del bambino e dell’adolescente, campita in tre sezioni basate — 206 —

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sui «dolci ricordi», e due anni dopo, 1870, la seconda «quasi-autobiografia» Vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi, che contiene il libro scritto per amore e sotto pseudonimo in un’amplificazione della struttura romanzo + racconto, multiforme quanto ai generi scelti, sperimentata nell’Altrieri. Anche chi scrive è multiforme: Alberto Pisani, poeta, epistolografo, poi narratore col nom de plume Guido Etelredi, tante identità che portano a Carlo Dossi, scrittore, che, usando i suoi vari «ii», si svela e si occulta, si riflette nei suoi personaggi e si rifrange nel narratore che interviene, scoprendo i meccanismi della diegesi, e interloquisce con il pubblico, attivandone il giudizio, assecondandolo o contrastandolo, che gioca dialogando con gli amici, suoi sostituti, alter ego diversi, che compensano tutto ciò di cui «io mancavo»18 . Gli amici sono il pubblico a cui si rivolge il letterato che scrive per pochi, sia esso Carlo Dossi o Alberto Pisani nascosto dallo pseudonimo: sotto ogni identità lo scrittore distilla e condensa un solo tema, se stesso, pur all’interno di varie realtà e nella veste di molti personaggi. «L’io del Dossi vale per io, io sol’io»: è il ritratto, nel confronto con Manzoni e Rovani, del narratore narciso, autoreferenziale nella Nota azzurra 227119. Tale attitudine è stata studiata da molti critici20, così come è stato indagato lo stile umoristico, parodico, digressivo, a frammenti, derivato da una fantasmagorica miscela di fonti, da Rabelais a Cervantes, da Montaigne a Jean Paul, passando per Sterne, Swift, Smollett, Fielding, Poe, Dickens, per non citare i padri italiani che passeremo in rassegna tra poco. A quegli interpreti rimandiamo per occuparci, invece, del rapporto che lega le diverse parti della Vita di Alberto Pisani e di un modello importante, usato e parodiato insieme. Nel famoso Capitolo quarto, premesso, sconvolgendo l’ordine, al primo, vera introduzione programmatica al libro, l’autore si esorta a fare «tonnina» di un cumulo «d’ipocrisia e di scienziata idiotaggine», contenute in «spaventosi volumi in ramatine» nello studio freddo e muffito a pianterreno, e a riparare in un altro studio: luminoso, elegante, dal tavolo sgombro di carte e cartacce, illeggiadrito da una rosa e da un calamaio ornato da due Amorini mariuoli ed allegri, pronto insieme alla penna d’argento e a un «fogliuzzo di lucida carta» ad accogliere «novelline idee». Qui sono allineati i libri «vivi, vivissimi», «tutti con il millesimo dell’ottocento»: oltre ai classici, non appesantiti da eruditi commenti, ecco i testi della letteratura italiana scelti e disposti da Alberto, nel «palchetto di mezzo», gli auctores che lo indirizzano e lo vegliano nella vita e nella scrittura. Tolto «di rango» Parini, ecco l’Ortis, Al— 207 —

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fieri, I Promessi – si noti «circolo chiuso», quasi a dichiarare finita quell’esperienza irripetibile – poi Boccaccio, che «intoppa» e viene lasciato cadere; e la decimazione prosegue21. Infine vengono ridisposti i superstiti: dopo aver accostato a contrasto Aleardi e Carducci, Rovani e Gorini, accompagnati da giudizi altamente positivi, Alberto si ferma sulla Vita Nuova, «mignone libruccio», sempre incontrato con un «tremito di simpatia». È il primo libro d’amore e di raffinata scrittura della letteratura italiana, amore giovane adolescenziale che si narra e si teorizza mentre si compie, non si ricorda da vecchi ottuagenari, come Carlino o «il vecchio quasi novantenne» Giocondo Bruni, e, se si ricorda, si ricorda esibendosi nello scrivere, per cui il ricordo diventa esercizio di scrittura. Ma qual è l’effetto del prosimetrum dantesco? Alberto è «dolcemente sorpreso da quella eròtica malinconia sotto la quale l’adolescente Allighieri si coricava angosciato, in lagrime «come un pargoletto battuto»; è commosso tanto che i suoi pensieri si fondono con le parole di Dante, e, una volta ispirati, proseguono da soli. Dunque queste sono le letture ispiratrici, ma poi «bisogna pensare col proprio cervello», non senza passare dal cuore naturalmente gentile: «i pensieri, passati a ingèntilirsi nel cuore, dèvono saltellare allegri giù dalle dita» lungo la penna d’argento sul foglio lucido e nuovo. E allora, prima di scrivere, Alberto pensa e immagina un amore ideale, tra lo stilnovistico e il tardoromantico di gusto preraffaellita con una «semidiafana amante»; convegni nella luce incerta della notte per un «amore perfetto, un fascio di desideri ardentissimi, di cui si sfuggisse l’adempimento»: non c’è scopo in tale amore, non unione legittima, né passione fuori dalle regole, nulla di reale o di carnale, perché «scopo raggiunto, amore finito». È un amore fatto non per la folla, «il marame», ma per «i gentilissimi, e pochi, che sospirano inutilmente il loro secondo ed ùltimo tomo» (Alberto Pisani 88). Il mistero dell’amore, la coscienza di un allargamento sociale anche nei sentimenti, che ne provoca una trivializzazione, sono temi tipicamente ottocenteschi che ritroveremo pari pari nell’antagonista Verga, che, dopo numerosi ritratti, o meglio autoritratti, dell’artista da giovane – anche questi quasi autobiografie – e grazie al ‘sacrificio’ consumato in Eva da Enrico Lanti, si farà scienziato del cuore umano, delineando nel corso degli anni Settanta un grandioso progetto novellistico e romanzesco. Il progetto amoroso di Alberto è, invece, tutto individuale e coincide con il progetto letterario: non per nulla egli è tra «i gentilissimi, e pochi» che sospirano un amore definitivo e totale, che si incarni in un «secondo ed ultimo — 208 —

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tomo». Tutta la vita dell’adolescente, «un brunettino dal viso tanto quanto soffrente, magro, e di un vent’anni e coda», è un esercizio di scrittura amorosa: bambino, cresciuto alle storie della nonna, pensa di poterne «mèttere insieme egli pure», e inizia a misurare dei versi e compone la famosa «oda» per il compleanno di donna Giacinta. Dal successo familiare nasce un diluvio poetico: poemi sul gusto dell’Ariosto, tragedie alfieriane, poi versi al chiaro di luna leopardiano, infine ritmi pastorellanti e arcadici. Ma la rivelazione, avuta dai versi di una cartella del lotto, della necessità di coniugare poesia e amore anche nella vita, lo decide ad altra e più prosaica ricerca. Di chi innamorarsi nel suo ambiente domestico di dodicenne? La maestra, la giovane cuoca «se anche amori» (per altro subito finiti per vari e poco nobili motivi) non sono di quel sospirato «barattolo». A chi rivolgersi? Ecco la signorina Balotta, «pivella quattordicenne, dal pellucido viso», se non semidiafano, tuttavia «quasi di madreperla», certo incontrata più volte insieme al padre capitano in pensione, stagionatissimo e con parrucchino rossastro. Insomma niente di romanticamente stilnovistico, ma Alberto si fa epistolografo e le indirizza un fantastico «viglietto», in cui procede ad angelicare anzitutto la ragazzina, coniugando le suggestioni dantesche (lo sguardo e il sorriso beatificanti) a richiami mitologici, a disperazioni tra Ortis e Leopardi e, infine, al generoso coraggio degli eroi delle favole prospettando alla bella la fuga «per serica scala»: per dove? Con un tocco di modernità, verso le Americhe! Segue la divertentissima scena tra il Balotta e donna Giacinta, nonché il rimprovero di questa che decide Alberto a non più amare e a consegnare tale decisione a una disperatissima canzone. Ma subito sarà la volta di Camilla, e di nuovi pianti e di furie alle battute pungenti della nonna e alle risa soffocate dell’interessata; poi ai tempi del liceo a fronte delle vanterie amorose dei compagni, Alberto, definito nella stessa pagina «caràttere rococò», «gotico amico», prende a frequentare le sante, le regine, le dee delle pinacoteche, purtroppo «senza fragranza di carne». Egli sospira un amore, ma «nessuna gentile» lo pensa. Restato solo, morta la nonna, inizia a fare un po’ di conti morali e si scopre «un pigio di vizi», si guarda allo specchio e si vede «senza talento», «senza dottrina!… Cattivo… E brutto!» Ciò che sembra una situazione di solitudine e infelicità senza rimedio è, invece, l’avvio di un doppio itinerario etico e amoroso. Il Capitolo quinto, collegato al quarto dal sobbalzo della maniglia (ma è il servitore, Paolino, che porta un pacco di libri «classici», non la sospirata fanciulla), è di nuovo una riflessione, fitta di contraddizioni, sulla scrittura e — 209 —

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sulla vita con una conclusione certa: «un’opera somma prodùssene altre», ma, tolto lo studio, ciò che occorre è «Amore», purtroppo ancora da trovare. E dove? Entrando nella vita, mischiandosi alla folla. Alberto Pisani, bersaglio per circa due pagine delle ironiche esortazioni di Carlo Dossi («Poetino mio…», «Tu miri troppo…», Alberto Pisani 126) e, insieme, specchio in cui riflettere la propria immagine abbigliata alla moda e il proprio aspetto – signorile a Milano e da studente disinvolto e sfacciato a Pavia22 –, si reca al circo. Nasce il primo raccontino La cassierina, la «cosuccia», oggetto della pietà generosa di Alberto. Quasi a ricompensa di un gesto ispirato alla nuova incipiente moralità, ecco nei palchi apparire la donna gentile, Claudia, e fiorire il suo sorriso salvifico («un sorriso di quelli, che, venendo dal cuore, rimbeltempiscono i bimbi, ed accontentano i poveretti», Alberto Pisani 134). E nello stesso tempo si rinsalda il circuito narrativo canonico tra letteratura e vita o meglio tra narrazione e finzione di vita o di autobiografia, modelli ancora Don Chisciotte, Shandy e Pickwick. L’idealizzazione è subito smentita dal racconto della storia di Claudia (di nuovo una storia inserita), racconto fatto dal marchese Andalò in termini tanto volgari, che il narratore ufficiale sente di dover «stacciare» per le gentili lettrici, ma non tanto da negarsi la possibilità di dare, all’inizio del capitolo successivo, un’altra versione («Lettori miei; conterò intanto una storia», Alberto Pisani 143) ovvero un nuovo racconto degli amori di Claudia e Guido Salis, La provvidenza, a dimostrazione dell’elevazione dei modelli all’ennesima potenza: storia e contro-storia. Ma perché turbare quella piena felicità? E con quali mezzi, vista la propria scarsa avvenenza? Scartata la vita, dunque, non resta che un «perfetto amore» spirituale: «Un mezzo? Scrivere un libro; giùgnersi a lei in ispirito». Ed è la Vita Nuova a fornire il modello della scrittura per amore, della scrittura che racconta la vicenda artistico-amorosa di Alberto e la commenta e che produce, scartati «vecchi suoi cenci» in versi e in prosa, i frammenti del romanzo Le due morali. L’amato libro dantesco domina, tra i molti modelli dichiarati dall’autore o svelati dalla critica, la Vita di Alberto Pisani, fin dal titolo, non così ovvio sia pur per una «quasi-autobiografia»: è una auctoritas ribadita per giunta nella Desinenza in A. Ma se la «quasi-autobiografia» ha in certo modo il ruolo di cornice, che funzione hanno i raccontini? forse la stessa delle liriche della Vita Nuova? Si parta (capitolo duodecimo) dalla premessa programmatica, consegnata al frammento che, secondo il canone dossiano posto alla fine, porta il titolo del romanzo, Le due morali, una vera dichiarazione d’intenti, interrotta dal — 210 —

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refuso «Mac» che introduce una disamina impietosa del libro, una sorta di autostroncatura, dunque autocommento ribaltato, non esegesi puntuale e spirante autostima come quella dantesca: «Ve’! un periodare contorto… male assonante… a stroppiature d’idee; qui odore di costolette bruciate; lì, di camino; più in là, un organetto sfiatato; poi una mosca noiosa… In conclusione lanciò in aria il volume» (Alberto Pisani 215-217). Insomma, una piena e canonica sottovalutazione della propria opera, ma con indicazioni di lettura sulla varietà dei temi e dello stile, sull’originalità ideologica, che non bastano però a non far «frignare» «il nostro bimbo-in-cilindro» sul suo insuccesso anche in letteratura. Ma, ripreso il libro, ecco l’ultimo raccontino letto con l’occhio al sentimento, Le caramelle, con la scenetta tra i bimbi e il gretto bottegaio, che il protagonista tenta di gestire generosamente: riconfortano Alberto, «note di un’armonia allarga-stòmaco-e-cuore», in un confronto quasi tra esposizione teorica e realizzazione creativa. Ma Le due morali, posto così dopo la maggior parte dei raccontini, è il commento etico a questi: le due morali sono l’una «l’officiale», frigida, dogmatica, dunque convenzionale e ipocrita, l’altra è quella «pedina», della ragione, del buon senso, che giudica la varietà della vita e non s’impanca a «jus quiritàrium», e può giudicare anche ciò che appare «diabolicus casus», l’adulterio, il suicidio, finanche l’omicidio. E un omicidio-suicidio sarà proprio l’esito finale di Alberto, sul corpo di Claudia morta, dopo averla ‘uccisa’ una seconda volta per gelosia, quando, parendogli di ascoltarne un nuovo battito, vede il medaglione che gli ricorda che essa comunque «rivivrà per un altro». La conclusione da racconto nero, alla Poe, come è stato più volte notato, appare sconvolgente, inaspettata, come del resto la morte improvvisa e inspiegata di Claudia, proprio quando il romanzo, che ad essa è piaciuto, sembra compiersi, pur nell’inquietudine di Alberto, sempre impacciato nella vita: «Altro è scriver romanzi; altro farne» (Alberto Pisani 236). Ma se esaminiamo i raccontini, e, in particolare quelli di argomento amoroso, vediamo presentarsi altri modelli: questi si concludono quasi sempre, tranne forse La maestrina d’inglese, con un nulla di fatto, un’insoddisfazione, una delusione, una rinuncia o una morte; agiscono cioè da superficie riflettente della storia di Alberto. Proprio come nell’Ortis le storie di Olivo, di Lauretta e del tenente, che rispecchiano la situazione di Jacopo e Teresa, l’esito possibile di una loro unione o anticipano la fine di Jacopo; quella che si direbbe una mise en abîme, tipica dei molti testi che precedono l’Ortis, ovvero i romanzi epistolari settecenteschi e, soprattutto, il Werther. — 211 —

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Le due morali è scritto anche per giustificare la folle gelosia e l’atto violento di Alberto: Guido Etelredi è un moralista originale, un moralista a rovescio, tant’è che la marchesa Oleari (Capitolo decimoquarto), una «vecchiaccia», una delle damazze dossiane, lo attacca: il libro, «una sudiceria», l’autore «un libertino, un poco di buono»; così che a Claudia, sua interlocutrice, tocca difenderlo, con ribaltamento dei ruoli tradizionali, «da Paladino». I raccontini costruiscono, insomma, un nuovo mondo morale, un diverso orizzonte etico, opposto sia al «borghesume ottuso e triviale»23, di corta, cortissima vista e di grettezza «gnocca», sia alla decaduta aristocrazia che domina in società solo grazie al fresco denaro di chi non ha «fatt’altro che trasportare l’insegna dalla bottega al calesso» (Alberto Pisani 135). Lo scrittore con i suoi vari «ii» e i suoi alter ego uniti da «cor gentile» e dall’aspirazione a un amore virtuoso, non banale, che indirizzi e riempia la loro vita e la loro letteratura, offre con i raccontini un nuovo decalogo etico in generale e, in particolare, amoroso, anticonformista, se non addirittura trasgressivo, non ipocrita e non accomodante, sulla linea di un ‘buon senso’ laico, illuministico. Virtù e vizi si incarnano in molti personaggi con molte e cercate contraddizioni perché «ogni qualunque cosa ha due manichi» (Alberto Pisani 72): quale è la morale? Quella di Guido Salis, che fugge «superbo», o quella di Claudia, generosa; quale la storia felice? Quella di Guido e Claudia, «a chiaroscuri e d’amore», o quella di Alberto «morta di affetti e di un monotono grigio»? Ecco, dunque, la rassegna: un’estrema paura (della morte) nel Mago, la speranza-illusione delle portinaie nel Lotto, il desiderio di amore paterno e la delusione che provoca un istinto omicida, «un reato pietoso» bloccato in extremis in Prima e dopo, insoddisfazione amorosa in Insoddisfazione (lui ricco, lei povera fanciulla nell’«osteria mezzo perduta tra i monti»); nella Maestrina d’inglese il terribile egoismo, o «suismo», paterno che non impedirà un amore vero realizzato fuori del matrimonio (morale: amore possibile fuori dal vincolo legittimatore); lezione di gentilezza o atto di carità in La corba; desiderio d’amore e di vita della «slisa fanciulla» Ida e compassione interessata in Una fanciulla che muore; amore incestuoso, impossibile e combattuto, non consumato e che porta a un matrimonio senza amore in Odio amoroso. Come definire in ultima istanza l’Alberto Pisani? Un romanzo dentro la «quasi-autobiografia» di Carlo Dossi o del protagonista, scrittore fittizio? Una Vita Nuova tutta in prosa, dove i raccontini condensano, come nelle liriche del prosimetrum, la visione del mondo, dell’amore, l’idea etica di Dos— 212 —

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si, mentre l’autobiografia è il commento-cornice realizzato con l’analisi della psiche e degli atti mancati del protagonista-narratore? Quello che è certo è che il modello strutturale di base, oltre ai romanzi più recenti citati sopra, è la Vita Nuova, già sfruttato «in chiave tra preraffaellita e crepuscolare» (Isella in Opere XXVI) nell’Altrieri, finalizzato qui alla realizzazione perfetta di un meccanismo complesso in cui si vuole chiudere un’esperienza: valga il giudizio della Nota azzurra 1693: «Il mio “Altrieri” è il romanzo del bimbo – l’“Alberto Pisani” il romanzo dell’adolescente – I “Ritratti umani” – quello del giovane. Manca ancor l’uomo ed il vecchio». I raccontini saranno poi liberati dalla cornice, come per dare loro una tradizione autonoma, slegata dalla cornice – come l’hanno avuta i testi poetici del libro dantesco – sia pure sotto la comune origine da Goccie d’inchiostro (1880). Dalla pseudo-autobiografia, dai racconti, dai frammenti del romanzo di Guido, a dispetto quasi della sfida antirealistica, esce anche, a tratti, un preciso ritratto fisico e morale della società postunitaria degli anni Settanta: dalle colline e dalle campagne pavesi, con gli intermezzi lacustri e montani, alla città, Milano, che s’avvia a diventare la vera capitale, una Milano borghese e aristocratica, bigotta e trasgressiva nello stesso tempo, ma anche proletaria e sofferente, spesso una Milano notturna. C’è ricerca su una realtà in evoluzione (o in involuzione?) che l’aristocratico e conservatore Dossi compie con mezzi antitradizionali, fuori dai canoni consolidati e, soprattutto, senza nessuna nostalgia per il tempo andato. Nella sequenza di chiusura del Capitolo sesto, mentre il vagabondaggio amoroso di Alberto al chiaro di luna verso le case della donna amata volge alla fine, si materializza, a contrasto con il sentimento stilnovistico del protagonista, la città intenta al «mercato di Priapo»: Già, il bujo, pesa su quegli intavolati, più che campi dell’arte, ruffiani dei vizi; e le torme di lupe dalla voce ràuca, che il dopopranzo batterono i marciapiedi infranciosando i cervelli mezzo intontiti dal cibo, son covigliate e tripudiano; già quasi tutti serrati, son quei caffè, ove dei còsi, torti di gambe come di ànimo, spàrsero effìgi di pezzi di carne con l’indirizzo dietro; e la timidetta fanciulla, che poco innanzi valzava sotto gli occhi di mamma con qualche bel cavaliere, dorme, immaginando di lui, ignara di che gli servì or 1a città va prendendo una sospettosa aria; quella di una ragazza, che, con gli orecchi attesi alla porta, legga un volume senza nome di tipi. Ve’, un barbisino di quindici anni, il cappello negli occhi, che rade il muro di un vicolo. Egli potè fuggire da casa, e, mentre il vecchio suo padre lo sogna in preghiere, egli… Va o viene? È troppo allegro; va… E quel bambino, tristo, stracciato, su ‘na scalea, che aspetta? Pare venda fiammiferi… Fiammiferi solo?

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Intanto dei broughams dalle tendine calate fanno a precipizio, chè il Diavol li porta, la strada. E intanto una carrozza si arresta m una via tortuosa che fiancheggia la Corte. La sentinella rintana. Lo sportello si apre; ed ecco un alto signore, il quale offre la mano a una donna incappucciata e dal vestito che fruscia. Tò! quel signore non rièscemi nuovo; mi par d’averlo ammirato ad una mostra di truppe, in tanto di fanfarona divisa, sputacchiata di principesche decorazioni… E la bella sua moglie gli passa dinanzi: egli le fa un ampio inchino, e, come la vede sparire in una pìccola porta – porta alle grandi fortune – tutto orgoglioso di ben meritar quelle insegne che incugìnan col re, rimonta nella carrozza. Un’ora! Uomini inferajolati, a viso da campana e martello, ne pedònano ancora, tossendo; o ne vengono incontro soffiandosi il naso. Aumentano dalle finestre i pst pst… alcune vie, da cima a fondo, pispigliano. Nabucco imbestia; la città è in frégola. (Vita di Alberto Pisani 141-142)

La descrizione della Milano notturna, saldamente in mano allo scrittore Carlo Dossi, scopre panorami e figure cittadine che, più di un decennio dopo, suggeriranno a Verga la novella-proemio di Per le vie, Il bastione di Monforte, strettamente collegata alla novella-epilogo delle Rusticane, una coppia di testi nodali per lo sviluppo ideologico della narrativa verista. Unico punto di contatto tematico tra due scrittori che neppure si sfiorano: l’aristocratico lombardo e il ben nato (quasi barone) siciliano rappresentano, negli anni Settanta, i due poli d’Italia, i due estremi destinati a non incontrarsi. Se lo fanno è con disprezzo, sia pure con una punta di sospetto: la Nota azzurra 1474 («De Amicis, Verga, Bersezio, Farina e simili non sono autori (cioè, nulla aggiungono al patrimonio letterario del nostro paese) ma semplici scrittori») che accomuna in un viperino giudizio Verga, De Amicis, Bersezio, Farina esprimerebbe una cecità critica incredibile nel sensibilissimo Dossi, se non la riconoscessimo come una dossiana perfidia, una tagliente sentenza, che condanna senza appello il diverso, senza tener conto della qualità, ma anche come una sottovalutazione pressoché dovuta verso chi aveva intrapreso una grande rivoluzione narrativa sia a livello strutturale sia stilistico, confrontandosi, quasi unico, con la lezione manzoniana. Quando Verga scrive a Capuana, a proposito della scelta tra dialetto e italiano, «Vedi se il Porta, ch’è il Porta, vale il Parini fuori di Milano. Il colore e il sapore locale sì […] ma pel resto i polmoni larghi»24, pensa certamente anche a Manzoni, come ci pensa e molto quando scrive Nedda, la fase di rilettura più intensa e fruttuosa dei Promessi Sposi, oltre che di Balzac. La soluzione espressionistica di — 214 —

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Dossi è quella portiana, chiusa sul passato, destinata a un pubblico di pochi felici, raffinatissimi intenditori, a scelti ed esigenti palati. Il silenzio assoluto di Verga su Dossi ripaga di uguale e pesante moneta un giudizio che, consegnato alla privatissima «selva di pensieri», gli era certamente ignoto. Non gli era ignoto, non gli poteva essere ignoto l’autore, a lui così presente nella vita culturale di Milano nel ventennio ’70-’90, così come amico di tanti scapigliati (e infatti proprio alla Colonia Felice si apre nel 1874, anno di pubblicazione del libro e secondo anno di soggiorno milanese, certo per ragioni tematiche, la sua biblioteca25) così attento a cogliere i dati della realtà della «città più città d’Italia». Qui sta la differenza tra i due: la realtà a Dossi non interessa, la vita vissuta, il fatto umano, il fait divers, il vero, insomma, gli fanno evidentemente orrore, ove non servano a incidere dei grotteschi, a esercitare il suo humour acre, ad accarezzare narcisisticamente le sue nostalgie. Si pensi che, anzi, arriva ad affermare che «il campo sia dei medici che dei letterati è la bugia, la quale non può avere spaccio se non sotto una bella forma» (Nota azzurra 4837), mentre è quasi inutile ricordare la sua intolleranza per i grandi progetti narrativi, espressi in organiche prefazioni, debitamente seguite dai testi che le realizzano, tipicamente naturalistes e veristi. Il fatto che Verga, a conclusione della parabola verista, arrivi proprio alla parodia, al grottesco (alludiamo alle dissacrazioni di quelle straordinarie e quasi ignorate novelle di Don Candeloro e C. i, vere letture in controluce dei grandi temi verghiani) non li accomuna comunque, perché per Verga grottesco significa maschera, teatro, pre-pirandelliano gioco delle parti. Se il reale o meglio «il fenomeno psicologico» sfugge a Verga che si era illuso di poterlo studiare rigorosamente, «con scrupolo scientifico» (tanto da parlare nell’Amante di Gramigna, nella lettera al Farina premessa al racconto, di «conquiste che facciamo delle verità psicologiche») e ora deve constatarne, invece, la multiforme e ingannevole natura, Dossi lo sfugge, lo evita o tenta, al più, di esorcizzarlo, imprigionandone le emanazioni più concrete come le più impalpabili. Ecco, dunque, il collezionismo antiquario, con il senso di morte che lo ispira, ma anche il tentativo di salvare per il personale godimento, per narcisistica contemplazione della catastrofe inevitabile che comporta il meccanismo di evoluzione o distruzione della vita reale, oggetti e sentimenti indispensabili a un delicato e forse impossibile equilibrio; ecco, la passione del catalogo, linguistico e non, di fermare, di bloccare sulla carta ciò che è vivo e mutevole, ecco il tentativo di fissare il passato familiare, di alli— 215 —

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nearlo in una galleria di ritratti da studiare per poter definire il proprio io o i propri diversi «ii»; ed ecco, infine, il recupero terapeutico della propria infanzia e adolescenza. Forse l’unico contatto, sia pur nell’inevitabile diversità, è proprio Milano notturna. Il bastione di Monforte, scritto e pubblicato nel 1882, è un vagabondaggio visivo e mentale dello scrittore che osserva dal vano di una finestra la vita che si svolge sui bastioni in ventiquattro ore, tra giorno e notte. Inizia in sordina come una descrizione paesistica, in cui si inseriscono via via varie figurine, quasi a macchia, in una sequenza suddivisa in vari momenti, corrispondenti alla lunga serie di frasi paratattiche. Ma la presenza di motivi, già accennati nella novella programmatica Di là del mare, la coppia di innamorati, il suono dell’organetto, il treno, insieme con il rumore dei carri, mette a fuoco le linee portanti della visione del mondo 1881-1887 di Verga: l’illusione amorosa giovanile, il suono sempre uguale e tedioso della vita; il movimento incessante, ma anche la fuga verso i luoghi del ricordo e della nostalgia. Proprio il fischio del treno interrompe l’osservazione e fa scattare il ricordo del passato, delle «belle passeggiate», delle «voci allegre», del chiaro di luna nelle sere al paese lontano: di tutto ciò la «sola cosa viva» è la lettera che giunge da lontano, dal sole. Restano «desolate ore d’attesa», le stesse che vive la figura della donna dolente che ogni giorno torna ad aspettare sul bastione fino alla sera. Il tramonto segna la delusione delle attese, delle speranze. È l’ora in cui si materializza anche, in un’imprudenza autobiografica, il fantasma dell’artista da giovane, già incarnato in Pietro Brusio, in Giorgio La Ferlita, sdoppiato in Enrico Lanti, nascosto sotto la vagabonda giovinezza di Paolo di Primavera. Ora sembra venire incontro allo scrittore maturo, mettendogli davanti «i suoi sogni di giovinezza e i suoi bauli sconquassati, pieni solo di scartafacci», compagni – e si noti l’insistenza – del «vagabondare dietro un sogno». Ora le illusioni di amore, di successo, sono cadute e i ricordi risvegliati dalla città «troppo vasta», la città in cui quelle illusioni si sono dissolte, provocano una dolente nostalgia per l’idillio perduto, ma anche la consapevolezza di una realtà mascherata da indagare non più con gli strumenti dell’analisi psicologica, mettendo sul tavolo dell’anatomista i fatti e i sentimenti e sezionandoli scoprirne i rapporti di causa-effetto, ma con quelli ancor più acuminati ed eticamente impegnati dell’ironia e, meglio, del grottesco. Alla rievocazione delle notti estive, delle lune fredde del Natale, delle albe livide, dei meriggi foschi del paese lontano che ricorda la sequenza iniziale di Jeli il — 216 —

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pastore, segue non solo la visione del carro funebre, quasi la morte fosse l’unico fatto vero, non deludente della vita, ma anche lo sguardo reso sospettoso dall’esperienza, teso a scoprire «se mai il drappo funebre dei morti non nasconda il contrabbando dei vivi». Siamo lontanissimi dalla lettera-manifesto dell’Amante di Gramigna; sono passati solo due anni, ma la delusione per il «fiasco pieno e completo» dei Malavoglia ha lasciato un pesantissimo segno, così come l’intermezzo decisivo delle Rusticane con la loro indagine sulla vera realtà siciliana, che non ha più permesso il recupero dell’idillio. Ecco, allora, la scrittura verista trasformarsi, attraverso una concentrazione visiva più intensa e più soggettiva, adottare il segno che deforma, la sintassi parattaticamente concitata, quasi in una sorta di espressionismo descrittivo di cui un esempio è la scena culminante del ballo in Al veglione, terza novella di Per le vie (1883): I palchi cominciavano a vuotarsi, e dagli usci spalancati intanto si vedeva la folla irrompere di nuovo in platea come un fiume, coi volti accesi, i capelli arruffati, le vesti discinte, le maglie cascanti, le cravatte per traverso, i cappelli ammaccati, strillando, annaspando, pigiandosi, urlando, in mezzo al suono disperato dei tromboni, ai colpi di gran cassa; e un tanfo, una caldura, una frenesia che saliva da ogni parte, un polverìo che velava ogni cosa, denso, come una nebbia, sulla galoppa che girava in tondo a guisa di un turbine, e da un canto, in mezzo a un cerchio di signori in cravatta bianca, pallidi, intenti, ansiosi, che facevano largo per vedere, una coppia più sfrenata delle altre, cogli occhi schizzanti fuori della maschera come pezzi di carbone acceso, i denti bianchi, ghignando, il viso smorto, la testa accovacciata, gli omeri che scappavano dal busto, le gambe nude che s’intrecciavano, con molli contorcimenti dei fianchi. E in seconda fila lassù, la bella sposina dal viso di ragazza, tutta bianca, ritta dinanzi al parapetto, che spalancava gli occhi curiosi, indugiando, mentre suo marito le poneva la mantiglia sulle spalle, e trasaliva al contatto dei guanti di lui.26

E qui può cadere un nuovo confronto tra i due estremi di scrittura, perché Al veglione è anche la Scena nona dell’Atto Secondo della Desinenza in A (Ritratti umani) che precede la raccolta verghiana di un quinquennio. Anche qui è «l’època delle màschere» in un «tempio dell’arte», dove alla grande lirica subentrano le polche, all’orchestra la banda, alle divine del canto «tutte le alte e basse puttane della città». Ma se il segno stilistico del pezzo di Verga è il dinamismo esasperato, quello di Dossi è la «linea ondeggiante di Hogarth», richiamata per legare la donna «mezzo svestita» alla curva del palco: nella sce— 217 —

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na carnevalesca le figure sono fissate in un disegno preciso, fermo in una linea sinuosa, hogarthiana appunto, che le irrigidisce come in preziose stampe incornicianti ritratti, in cui la parola, il grido o l’urlo dell’orgia, dell’ubriachezza fanno da didascalia. Né manca il quadro conclusivo della serie, l’altra faccia della squallida festa, non meno squallida, ma forse più patetica, i fanciulli che piangono per il freddo e la fame in attesa delle madri: La variopinta turba rinsàccasi fracassosamente nell’amplìssima sala. Si rinfòllano i palchi e stuona la banda con più accanimento di prima. […] Sparge a nembi Cupido le avvelenate sue frecce e il pòlline aleggia della tisi e del tifo. Vedi donne seminude e briache dar la scalata ai palchetti, gridando da ossesse; vedi gruppi di gente, o piuttosto di otri di vino, saltacchiare ad urtoni, credendo forse ballare, illusi di divertirsi. «La festa si mette bene» sorrìdon dai palchi le dame e carèzzan con l’occhio gli scàndali della platèa; poi, esclamando «¡che porcherìa!» con una smorfia di compiacenza adoràbile, scompàjono a riparare il pudore tra le adùltere ombre dei camerini. ¡O speziali, pestate, spalmate, mescete! ¡Fondete, armajoli, affilate! Non si òdono più se non grida. Ùrlasi, quasi il teatro bruciasse. Ma, quantunque di spìrito se ne sia molto ingojato, non ne brilla una goccia. Ed ecco una donna, mezzo svestita in scarlatto, piantarsi sul parapetto di un palco nella linea ondeggiante di Hògarth, e protendendo la mano alla folla, con una voce che tutto sorpassa strillare: «¡Onorèvoli!» – Un fischio universale. Il pùbblico non vuol saperne di onore. E allora: – Tutti vigliacchi! – sbràita il débardeur, corregèndosi; e fa l’atto ribaldo che immortalò la Spartana. – ¡Viva la Firisella! – applàude la folla. E il tumulto si eleva. […] Né c’è più lingua che obedisca a cocchiere. L’allegria si fa litigiosa. Uno se la piglia con l’altro del malèssere proprio; scàmbiansi ingiurie e indirizzi, suònano schiaffi e copponi. Senonchè l’uva, già premuta dal piede, vèndicasene sottrèndolo. Vinti e vincenti, questurini e briffalde, tòmbolano a catafascio e una volta sul suolo divèntano suolo; quanto ancor pòssono fanno, cioè s’addormèntano. E allora le oneste signore de’ palchi, cui nulla più avanza a vedere, riavvòlgonsi nei loro scialli, dicendo; «fu il miglior dei veglioni.» ¿Ma e chi mai, di tutti coloro che uscìvano dal teatro pieni di pellicce e di lue, si accorse, sotto l’atrio di strada, di una cenciosa tosetta con un bàmbolo in braccio e un ragazzino per mano, bubbolanti pel freddo e frignanti per fame? – ¿e chi mai, se si accorse, non rispose un insulto alla pòvera bimba, che singhizzando chiedéa: c’è la mia mamma là dentro? Mia mamma è la Firisella – (La desinenza in A 810-11).

Per capire, invece, come si sviluppa il nuovo segno verghiano ci è parso utile e stimolante cercare, su temi analoghi, un parallelo con la pittura euro— 218 —

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pea contemporanea e primonovecentesca: dal trasognato idillio, dalla festosa leggerezza di un Moulin de la Galette (1876) di Renoir si passa, nel giro di un ventennio, alla linea dura, forte, al colore carico, violento, al dinamismo scatenato di certe scene di danza di Ernst Ludwig Kirchner: la Coppia di ballerini del 1914, in cui la divaricazione delle gambe in primissimo piano rovescia il corpo della danzatrice e lo spezza in due, tanto che la testa, col viso pesantemente truccato, rivolta al pavimento sembra staccata dal resto. O la Ballerina con gonna alzata del 1909, sempre di Kirchner, dal volto triangolare contorto, con capigliatura sconvolta, bocca ghignante, spalle e braccia che emergono dalla gonna-vestito enorme, nera che occupa tutto il quadro, quasi disarticolate rispetto a gambe e piedi ridotti a due moncherini. La figura è disposta diagonalmente, un braccio piegato con il gomito a punta e l’altro disteso a rialzare l’enorme gonna dagli orli ondeggianti per il ritmo frenetico della danza. Alle spalle e a lato della testa figure stilizzate si muovono vorticosamente. Il soggetto è molto frequentato da Kirchner (si veda per esempio Danze al palazzo del ghiaccio 1912), ma anche in tutto il primo decennio del ’900. Ma si pensi anche a un famosissimo Munch, La danza della vita (18991900), modello di riferimento dell’espressionismo tedesco, alle linee sinuose che favoriscono la compenetrazione dei ballerini, soprattutto la coppia in secondo piano a destra del quadro: l’uomo ‘accovacciando’ la testa nella spalla della donna, la spinge all’indietro, e nel movimento erotico strabuzza gli occhi e allarga la bocca in un sorriso voglioso. Si pensi anche alla forte polemica antiurbana di Per le vie: i personaggi sono tutti dei perduti senza possibilità di riscatto, nonostante i velleitarismi del vetturino Bigio in In piazza della Scala27, che si spengono nella constatazione amara della propria ineluttabile emarginazione. Da una parte in Galleria negli interni confortevoli e impenetrabili le classi alte, spesso borghesi arricchiti dal volto squallido e volgare, dall’altra, quando si spengono le luci del Cova, del caffè Martini, dei club, nel buio e nel freddo i miserabili: la donna che vende il caffè, i «poveri diavoli» che dormono «nel vano di una porta, raggomitolati in un soprabito cencioso», le Adeline, le Gilde, le Santine che sono scese dalle carrozze degli amanti danarosi nella via crucis della prostituzione da strada. Come non pensare ai pittori di Die Brucke, ai loro paesaggi cittadini stravolti (Dresda 1908 o Berlino 1913 di Kirchner) o animati dai personaggi delle strade, dei ritrovi: per esempio, scegliendo tra i quadri pre-Prima Guerra Mondiale, Cinque donne nella strada 1913, Cinque cocottes 1914, Cocottes sul Kurfürstendamm 1914, Al caffè in giardino 1914, le figure dolenti di Erich Heckel (Due uomini al ta— 219 —

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volo 1913, Stanca 1913), di Karl Schmidt-Rottluff, il Paesaggio apocalittico (1913) di una città che sembra esplodere di Ludwig Meidner28. È chiaro che non c’è alcun contatto, nessuna neppur lontanamente immaginabile intertestualità; venti e più anni separano le novelle milanesi di Verga da Die Brucke, ma è interessante notare che si tratta di un fenomeno simile di evoluzione da verismo ad antiverismo, tra l’altro all’interno della produzione dello stesso scrittore, e da impressionismo ad espressionismo. Già la concentrazione degli impressionisti sull’immagine colta dall’occhio comporta uno slittamento dalla realtà oggettiva alla ricezione-interpretazione soggettiva, che negli espressionisti giungerà alla creazione di una nuova realtà attraverso simboli soprattutto visivi. Così nella produzione del medesimo scrittore assistiamo al modificarsi della concezione della realtà e, di conseguenza, della rappresentazione di questa: la «realtà non esiste» griderà uno dei personaggi dell’ultima raccolta di novelle, il farmacista don Erasmo nel Peccato di donna Santa, esiste solo il ripetitivo e grottesco spettacolo umano, provocato da ragioni economiche, idea già in nuce nella prefazione scartata dei Malavoglia, che determina l’ottica delle Rusticane e culminerà nel ghigno e nel disprezzo doloroso del puparo don Candeloro. Per le vie è ben lontano da quella qualità bozzettistica, quasi di maniera – ovvero alla maniera dei misteri o dei ventri delle città secondo la tendenza sviluppatasi in Europa intorno agli anni Trenta e in Italia dopo l’Unità, quando si afferma anche il concetto di metropoli – riscontrata dalla critica contemporanea e anche novecentesca. I racconti sono inseriti in una rete ideologica e morale, formano il romanzo di Milano, della «città più città d’Italia» studiata attraverso i contrasti: ed è la conclusione di Di là del mare che mette a fuoco l’«immensa città nebbiosa e triste», animata dal «viavai affollato e frettoloso», dal «frastuono incessante», dalla «febbre dell’immensa attività generale, affannosa e inesorabile», quasi come il «solenne e immutabile» paesaggio dell’Etna, dai «cocchi sfarzosi», dagli uomini, finalmente, «che passavano nel fango, fra due assi coperte d’affissi, dinanzi alle vetrine scintillanti di gemme, accanto alle stamberghe che schieravano in fila teschi umani e scarpe vecchie». È tappa fondamentale di una nuova concezione del mondo, quasi il passaggio definitivo dall’idillio patetico di Nedda e nostalgico del primo abbozzo di Jeli al mondo-teatro, all’uomo-maschera dei racconti di Don Candeloro. E di qui il passo verso la disgregazione del personaggio e dei suoi rapporti oggettivi con la realtà sarà brevissimo, ma a compierlo e a portarlo alle estreme conseguenze, fino alla scelta tragica, non sarà Verga, ma Pirandello. — 220 —

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NOTE Cfr. «Rivista Europea», febbraio 1846, pp. 206-227. I dialetti hanno per Nievo «effetti buoni, ove si consideri la maggiore originalità che ne desumono le diverse regioni della penisola, e il grande vantaggio che insensibilmente perverrà alla lingua scritta dalla fusione che di questi immensi materiali parlati si verrà operando sotto la pressura unificatrice del tempo». Cfr. Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia, in I. NIEVO, Scritti giornalistici, a cura di U. M. OLIVIERI, Palermo, Sellerio, 1996, p. 80. Non c’è un uso folklorico o bozzettistico del dialetto (ed è una prima lezione per la stagione del reale), ma si direbbe politico o più appropriatamente civile; il dialetto è certamente altro dalla lingua letteraria scritta, così come città e campagna sono due mondi diversi, visti nella loro realtà; dunque non con il filtro della polemica, senza condanne morali o pietosa filantropia; il problema è trovare un terreno di scambio per il rinnovamento in letteratura, ma anche per il rinnovamento civile nazionale 3 È straordinario il fervore editoriale intorno ad autori come la Sand, Balzac, Hugo, Sue dagli anni Trenta (in cui si registra la massima frequenza di traduzioni) ai primi anni Cinquanta. Negli anni Trenta a Milano è quasi una gara tra editori librai come Stella, tipografi librai come Truffi, Nervetti, Carrara, Manini, tipografi come Pirotta, Bonfanti, gara a cui negli anni Quaranta si aggiungono Borroni e Scotti, successori di Vincenzo Ferrario. Stella nella collana «Piccola biblioteca di gabinetto» pubblica nel 1834 Eugenia Grandet e nel ’37 Le illusioni perdute, mentre nel ’39 fa uscire nella «Biblioteca di amena letteratura» La famiglia Mauprat della Sand; Truffi affolla di titoli due collane: «Romanzi racconti, novelle» (Balzac, Scene della vita di provincia e Il medico di campagna 1834) e, titolo programmatico di un’apertura vastissima, «Romanzi e curiosità storiche di tutte le nazioni» (Balzac: Scene di vita parigina 1835, La ricerca dell’assoluto 1839, Sand: Andrea 1836, in simultanea con Pirotta, Hugo, Bug-Jargal). Hugo, almeno per la produzione degli anni Trenta, esce in prevalenza dalla tipografia Bonfanti (Han d’Islanda 1835, in contemporanea con Truffi, Ruy Blas 1838, Le ore estreme di un condannato a morte 1835), mentre la Sand dal tipografo libraio Bravetta. Nervetti dispone di una collana «Magazzino teatrale», dove pubblica nel ’37 il Teatro completo di Hugo e nel ’40 Cosima, dramma della Sand. Negli anni Quaranta prevale l’ampia collezione di Borroni-Scotti, «Florilegio romantico», in cui escono Balzac, II curato del villaggio 1841 e 1843 in nuova traduzione, Don Gigadasa 1842; Sue: Il palazzo Lambert 1845, L’ ebreo errante e I sette peccati capitali 1848, nel 1855 La Certosa di Parma di Stendhal. Nella stessa collana appare un titolo di Dickens, che avrà molta diffusione negli anni Settanta-Ottanta, Le apparizioni di Natale 1852. Sue è un autore molto presente nel catalogo di Ferrario: La Salamandra 1835, Una perdizione e la data del 21 febbraio 1851, Commedie sociali 1854, I misteri del popolo con data [1856]. Negli anni Cinquanta continua la fortuna della Sand (che sarà costante anche nel ventennio successivo), rinvigorita dall’interesse per la letteratura campagnola: nel 1853 presso la Società editrice di Torino escono nella collana «Letture amene ed istruttive» La palude del diavolo e La piccola Fadette. Si pensi che, al contrario, Madame Bovary sarà tradotto solo nel 1881 (Milano, Treves), ma del resto le traduzioni di Flaubert si infittiranno nel primo decennio del Novecento. Si è visto il caso non infrequente anche di edizioni simultanee dello stesso romanzo come era già successo per i li1 2

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bri di Walter Scott o per la Storia d’Italia del Botta, ovviamente in traduzioni affidate a specialisti diversi. Tra questi non mancano nomi molto noti: ad esempio Gaetano Barbieri, traduttore anche di Scott, e Giambattista Bazzoni. Quanto ai russi sono le traduzioni francesi a diffonderli dapprima in Italia: editori parigini come Hachette, Hetzel, valendosi di traduttori tra cui prevalgono i nomi di Louis Viardot e di Ernest Charrière, fanno uscire le opere più importanti. Da una rapida rilevazione sulle edizioni francesi diffuse in Italia (tra parentesi quadre indichiamo la data della princeps russa) risulta che di Gogol’ sono presenti Nouvelles russes [dal 1831 al 1846] nel 1845 (Paris, Paulin-G. Gratiot), Nouvelles choisies e Taras Boulba nel 1853 e Les âmes mortes [1842] nel 1859 da Hachette, Les veillées du hameau (Le manteau e Les âmes mortes) nel 1887 (Paris, Gautier), mentre in Italia esce nel 1877 Taràs Bul’ba a Milano presso l’Editrice Lombarda e tutti gli altri titoli a partire dai primi del Novecento con una forte densità intorno agli anni Quaranta-Cinquanta. Di Turgenev escono da Hachette Mémoires d’un seigneur Russe [1852] nel 1855 e Scènes de la vie Russe [dal 1844 al 1852] nel 1858, Une nichée de gentilhommes [1859] s.d.; da Hetzel Fumée [1867] nel ’68, Un Bulgare à la veille nel 1886 e Terres vierges [1877] s.d.; in Italia Acque di primavera [1872] nel 1876, Faust. Novella e Il nichilismo nel ’79 presso l’Editrice Lombarda, Il primo amore. Assia [1860] nel ’76 a Firenze da Bettini, Racconti russi nel 1884 e Fumo nel 1889 da Treves, Novelle moscovite a Milano da Sonzogno nel 1895; anche per Turgenev l’interesse degli editori aumenta nel Novecento soprattutto per titoli come Padri e figli, Un nido di nobili, Rudin. Di Pusˇkin escono da Hachette La fille du capitaine [1836] nel 1854, Poémes dramatiques [1821-31] nel ’62; in Italia già nel 1856: a Firenze da Le Monnier Racconti poetici, nel ’58 Eugenio Oneghin [1831] (Nizza, Caisson), Boris Godunov [1831] nell’83 da Sonzogno, nel ’99 tradotti da Domenico Ciampoli Drammi, poemi, leggende dall’Istituto Editoriale Italiano di Milano, preceduti da due stampe senza data; dagli anni Dieci del ’900 anche per Pusˇkin si registra un grande fervore editoriale, soprattutto per il Boris Godunov (grazie anche alla riduzione lirica di Musorgskij, rappresentata per la prima volta a Mosca nel 1874), La figlia del capitano, La donna di picche, l’Oneghin (anche per questi titoli molta fama è dovuta alle riduzioni liriche di Cˇajkovskij: rappresentazioni a Pietroburgo 1890 e 1877). 4 Si veda Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, saggi di G. MAZZACURATI, C. BERTONI, M. PALUMBO, L. TOSCHI, U. M. OLIVIERI, E. MASSARESE, G. MAFFEI, M. MUSCARIELLO, A. SACCONE, Pisa, Nistri-Lischi, 1990. 5 Pubblicata nel giornale «La Lucciola» di Mantova, Gazzettino del contado in 37 puntate, dal 21 maggio al 25 dicembre 1855, con il sottotitolo Dipinture morali, poi Dipinture di costume. I capitoletti, cinquanta, venivano inviati man mano che Nievo li scriveva. Cfr. I. NIEVO, Novelliere campagnuolo, a cura di I. DE LUCA, Torino, Einaudi, 1956, pp. 3-61, da cui sono tratte le citazioni; si vedano anche le edizioni a cura di A. NOZZOLI, Milano, Mursia, 1994 e di F. PORTINARI, Milano, Mondadori, 1994. 6 La citazione è dai paragrafi dedicati alle menzogne di Odisseo da M. LAVAGETTO, La cicatrice di Montaigne, Torino, Einaudi, 1992, p. 12. 7 Il termine è usato da V. S ˇklovskij nel saggio La struttura della novella e del romanzo (in Teoria della prosa, trad. it. Torino, Einaudi, 1976). 8 L’intera descrizione-giustificazione di uno stile semplice, alla buona, riprende la fine del cap. I dedicata a rinsaldare il rapporto di complicità con il lettore: «Tra noi, abbilo bene a

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mente, lo stampato è per sola comodità; anzi possiamo far conto addirittura d’essere due buoni e vecchi amici, seduti a discorrerla de’ loro negozi sotto la folta ombra d’un gelso, o se ti garba meglio, lì sullo spiano della spezieria» (p. 3), dando conto anche della struttura ad infilzamento: «Bisogna che tu pigli in santa pace questa mia maniera di scrivere, o amico lettore: giacché non per nulla ad un intrattenimento di ciarle, meglio che ad una lettura t’invitai fin da principio; e così come in un dialogo in confidenza, io n’andrò via svolazzando di palo in frasca, persuaso che tu bonariamente terrai dietro al filo di seta dove ho costretta la gamba. Per me tutte le azioni nostre naturali prendono sostanza e modo dalla principale e tipica della vita; e come in questa vai le spesse volte a diritta ed a sinistra, finché riesci ove non ti saresti mai immaginato, così credo debba naturalmente avvenire nella scrittura, alla quale adagiandosi, non possiamo noi far la rassegna di tutti i pensieri che poi verremo colorando, come farebbe delle tornite assicelle un dipintore d’imposte; ma sibbene ci dipartiamo dal primo, ed essendo così materia viva e bollente e moltiplicandosene perciò il numero, e variandone le specie all’infinito, si corre loro dietro per ogni dove; finché, se la mente non è affatto pazza e disordinata (il che spero non sia ancora della mia) il giro naturale li riconduca al sentiero più spedito» (p. 7). 9 G. ROVANI, Cento anni, a cura di S. TAMIOZZO GOLDMANN, Milano, Rizzoli, 2001, p. 1093. 10 Lo osserva Dante Isella nella Prefazione alle Note azzurre: «Impossibile è invece […] poter negare l’efficacia, sul Dossi, delle Confessioni del Nievo: che egli peraltro non cita mai, neppure una volta, nelle sue Note azzurre, ma che, uscite nel ’67, dovevano essere, per un giovane avido di novità, l’attesissimo vient de paraître delle lettere italiane. La ricordanza degli amori infantili della Pisana e di Carlino Altoviti, l’evocazione autobiografica e nostalgica del mondo di Fratta (ma anche l’acume psicologico e la finezza d’ironia, insieme a certo sapore dialettale della pagina che trovavano nell’inconsueto lettore una predisposizione congeniale) furono un incontro poco meno che folgorante. Qui le date collimano alla perfezione. Il Dossi, che sullo scorcio di quell’anno e agli inizi del successivo lavorava ad un nuovo «romanzo», ne sospende ad un tratto la stesura, condotta avanti per quasi cinquecento pagine, e mette mano «sotto la cappa del vasto camino» all’arruffato filo dei suoi «dolci ricordi». Si veda C. DOSSI, Note azzurre, a cura di D. ISELLA, Milano, Adelphi, 19882, pp. X-XI. 11 Si vedano le introduzioni di M. GORRA a I. NIEVO, Le confessioni di un italiano, Milano, Mondadori, 1981, pp. XXXVII-VIII e di S. CASINI all’edizione commentata, uscita presso la Fondazione Pietro Bembo (Parma, Guanda, 1999). 12 Modello in ciò l’Ortis, di cui continua ad agire l’esortazione, contenuta nell’avviso di Lorenzo «Al Lettore», al cumpati, al ‘sentire insieme’: «E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto», cfr. U. FOSCOLO, Opere, II, Prose e saggi, ed. diretta da F. GAVAZZENI, con la collaborazione di G. LAVEZZI, E. LOMBARDI e M. A. TERZOLI, Torino, Einaudi, 1995, p. 9. 13 Cfr. le introduzioni di S. ROMAGNOLI (I. NIEVO, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952 – da cui sono tratte le citazioni –; Le confessioni di un italiano, Venezia, Marsilio, 1990 e 1998), GORRA, p. XVI, CASINI, pp. CXIV-XIX e i saggi di P. V. MENGALDO, L’epistolario di Nievo. Analisi linguistica, Bologna, Il Mulino, 1987 e Appunti di lettura sulle «Confessioni

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di un italiano» di Ippolito Nievo, «Rivista di Letteratura italiana», II, 3. 14 Tra il ’59 e il ’64 il romanzo è stampato in cinque volumi, mentre l’edizione definitiva esce negli anni 1868-’69 presso lo Stabilimento Redaelli dei Fratelli Rechiedei in due volumi illustrati. Si veda G. ROVANI, Cento anni, cit., p. 8 dell’Introduzione e la Nota al testo a cura di S. TAMIOZZO GOLDMANN. 15 È Dossi a definirlo cosi nell’Alberto Pisani, vedi C. DOSSI, Opere, a cura di D. ISELLA, Milano, Adelphi, 1995, p. 86, da cui sono tratte anche tutte le altre citazioni. 16 Si veda la nota 3. 17 La definizione cade nella Prefazione a I ritratti umani, cfr. C. DOSSI, Opere, cit., p. 903. 18 Soprattutto con Luigi Perelli, per es. nel cap. IV: «Gigio, vuoi che ti tenga la scala? Bùttami abbasso quel taratapàm…» (84); «Possedéa Gigi tutto ciò di cui io mancavo; bello aspetto, buon senso, pronta e smagliante parola, una audacia che, senza mai confòndersi colla sfacciatàggine, rovesciava d’assalto qualsìasi diffidenza, un’onestà sovratutto, abbigliata di allegria, che, quanti cuori toccava, avvinceva. In mè, invece, il pensiero, benché pigro e lambiccato, profondo, una dottrina fatta di pazienza e fatica […] oltracciò, molta malinconia, e in ùtili dosi, cattivèria e mattìa», da Ritratti umani. Etichetta al «Campionario», in Opere 908. 19 «Il noi di Manzoni vale io e il lettore – il noi di Rovani vale io e ancor io – chè ei vale per due – l’io del Dossi vale per io sol’io. – In altre parole il primo s’industria a insinuare in altrui le proprie opinioni – il secondo le impone – il terzo le tiene per sé». Cfr. C. DOSSI, Note azzurre, cit. 20 Si vedano le prefazioni di Isella all’edizione delle Opere, più volte citata, dove in bibliografia sono riportate le molte edizioni curate dallo stesso studioso, oltre ai saggi di A. SACCONE, Carlo Dossi. La scrittura del margine, Napoli, Liguori, 1995 e di G. ROSA, La narrativa degli scapigliati, Bari, Laterza, 1997. 21 La biblioteca di Alberto Pisani merita qualche indugio soprattutto per le esclusioni. Tralasciando lo spostamento di Parini, la domanda più immediatamente interessante, per le scelta successiva del Dante stilnovista, è: perché Boccaccio «intoppa»? Che cosa disturba l’esigente lettore-scrittore? Sono molte le ipotesi possibili considerando solo il libro maggiore. Cerchiamo di abbozzarne qualcuna anticipando una possibile futura riflessione globale. Il Decameron è una grande costruzione razionale, geometrica, orchestrata secondo un ordine numerico (dieci giornate, dieci narratori, dieci novelle per giornata), secondo una scansione del tempo fittizio della cornice e dei tempi narrativi. È il libro che, raccogliendo novelle, vuole essere romanzo totale di un’epoca, di una società: la cornice ordina la realtà, quella sconvolta dalla peste e quella quotidiana di un dinamico mondo mercantile, nel momento in cui favorisce il distacco dell’autore dalla materia e inibisce qualsiasi autobiografismo (se si escludono i tre momenti fondamentali, critico-teorici tuttavia, dell’Introduzione, Conclusione e Introduzione alla Quarta giornata); la letterarietà dei testi dà forma al caos nel momento in cui dà dignità di scrittura, eleva il materiale novellistico della tradizione, seppur rovesciandone il più delle volte l’interpretazione secondo un procedimento parodico ormai ampiamente studiato. Nel Decameron, schematizzando, si può dire che c’è tutta una società che si autorappresenta, mentre nel libro che Dossi sceglie come preferito («mignone libruccio») c’è un grande «io» che realizza la sua espansione letteraria poetando e riflettendo, creando e

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MANIFESTI NARRATIVI NELLA SECONDA METÀ DELL’OTTOCENTO

teorizzando. L’interpretazione tradizionale, durata per buona parte del Novecento, e non comunque da rigettare in toto, vedeva il Decameron seguire una linea ascensionale dall’abisso del vizio e del peccato (che tuttavia viene scambiato per religioso pentimento) a un massimo di virtù. Dossi non ama la linea retta, ma la linea «serpentina» di ascendenza hogarthiana: anche se l’uso che egli fa di Hogarth è certo strumentale; c’è un contatto per la tendenza ad andare contro gli schemi tradizionali nella pittura di carattere, di situazioni e di ambienti penetrati nelle psicologie individuali e di gruppo, definiti da un disegno fluido, mosso da un cromatismo guizzante di luce. C’è spregiudicatezza nella capacità di cogliere i comportamenti umani, di sintetizzare i modi espressivi, i gesti e gli atteggiamenti di personaggi di diversi strati sociali, filtrandoli attraverso la categoria del grottesco. E questo rimanda all’intento etico di divulgare i principi di onestà, integrità della morale borghese, classe in ascesa alla fine del Settecento inglese, classe individuata come corrotta nel fine Ottocento italiano di Dossi. La linea sinuosa di Dossi insidia il racconto tradizionale, ne sconvolge le strutture, l’ordine; è una linea che spezza, devia, tralascia, svaria, riprende, una linea che presuppone una miscela di generi letterari diversi, che è antinaturalistica, che serve a una struttura spiazzante, che metta in difficoltà il lettore, ma insieme lo coinvolga nella ricerca del narratore, aldel senso del testo. La novella boccacciana è in massima parte costruita secondo il punto di svolta. Nei raccontini c’è invece accumulo, variazione, rispecchiamento, duplicazione, non c’è mai una fabula che si realizzi e si risolva in un intreccio canonico: che la storia di Claudia Salis sia narrata diversamente nel ‘romanzo’ della vita di Alberto, prima dall’amico Andalò, poi dallo scrittore ufficiale (introdotta com’è dalla didascalia «Lettori miei; conterò intanto una storia» 143) e, infine, nel raccontino La provvidenza è già una fondamentale prova. Il racconto di Dossi procede per sbalzi, frammenti, commenti e intrusioni del narratore, per non parlare del gioco espressionistico tra livelli lessicali diversi. Le due morali è una storia con «molte lacune», sono pezzi di una storia da ricostruire con l’immaginazione, da cui la strofetta con cui si dileggia il lettore: «Se imàgini cos’è / c’è un gràppolo per te» (149). Le due morali è il titolo del penultimo frammento, ed è l’inizio del libro (il titolo di questo è appunto Le due morali) che Alberto legge nella copia fresca di stampa e che appare come la presa di posizione etica di Carlo Dossi. Tornando alle interpretazioni del Decameron le letture più recenti della novella X, 10 individuano nella storia di Gualtieri e Griselda la trasgressione totale dei precetti dell’amore cortese; per di più Dioneo, introducendola, raccomanda di non seguire quel modello di comportamento sottolineando la «matta bestialità» del marchese di Saluzzo. Dunque si può dire che dopo la parodia dell’exemplum, il testo conclusivo del libro si presenti addirittura come un anti-exemplum. Si allude ai processi di trasformazione – sul piano del significato e del significante – a cui Boccaccio sottopone la narrativa breve medievale per portarla a dignità letteraria (si vedano gli studi di M. PICONE, L’invenzione della novella italiana.Tradizione e innovazione e di L. ROSSI, Ironia e parodia nel «Decameron», in La novella italiana. Atti del Convegno di studi [Caprarola 19-24 settembre 1988], Roma, Salerno Editrice, 1989, di F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, di L. SURDICH, La rimodellizzazione novellistica dei generi letterari e di W. HAUG, La problematica dei generi nelle novelle di Boccaccio: la prospettiva di un medievista, in Autori e lettori di Boccaccio. Atti del Convegno internazionale di studi [Certaldo 20-22 settembre 2001], a cura di M. PICONE, Firenze, Franco Cesati Editore,

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2002), operazione che sarebbe accompagnata e forse resa possibile da un «disimpegno etico» (Picone) e certamente da una deliberata esclusione di una morale esplicita ricavabile dalle singole novelle: ciò si può interpretare in chiave di trasgressione ai precetti religiosi, attivissimi anche nella morale laica del tempo, soprattutto nei confronti dell’universo femminile a cui il libro è dedicato, perché sia una sorta di bibbia dell’amore (insegnamento dei comportamenti, alleviamento delle sofferenze d’amore). Le soluzioni proposte dalle novelle sono le più varie in accordo con il genere prevalentemente ludico della narrazione collocata nell’ambito della letteratura mezzana (da tenersi non «nella chiesa», né «nelle scuole de’ filosofanti», ma «ne’ giardini e in luogo di sollazzo») e non intendono «far presa […] sulle regole del vivere civile» (Bruni 263, ma si veda tutto il capitolo quarto Sui principi compositivi del «Decameron»). 22 «Quando sono a Milano, in cilindro, in marsina, guantato, con un sentore di muschio, leggo «La Perseveranza», fumo cigaretti di carta ed esclamo «sapristi» Mi vedeste invece a Pavìa, oh mi vedeste quando fò lo studente… con tanto di cappellaccio e mantello! Allora pipo, giuro «per Cristo e Marìa!» do del tu a chiùnque, e grido «viva Mazzini! E Garibaldi! E il suo inno!» (Opere 127). 23 L. GUALDO, La villa d’Ostellio, in Racconti lombardi dell’ultimo ’800, a cura di G. FERRATA, Milano, Bompiani, 1949, p. 67. 24 Carteggio Verga-Capuana, a cura di G. RAYA, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1984, lettera 508. 25 Cfr. C. DOSSI, ad vocem, in Biblioteca di Giovanni Verga. Catalogo, a cura di C. LANZA, S. GIARRATANA, C. REITANO, Introduzione di S. S. NIGRO, Catania, Edigraf, 1995. 26 Cfr. G. VERGA, Tutte le novelle, a cura di C. RICCARDI, Milano, Mondadori, 1996, pp. 373-374. 27 Ivi, p. 367. 28 Si veda il Catalogo della mostra Espressionismo tedesco: arte e novità (Venezia 1997), Milano, Bompiani, 1997.

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FRANCESCO CASETTI IL MECCANISMO DELLA VITA: PIRANDELLO, LA MACCHINA E IL CINEMA «Una mano che gira la manovella». Così si sente Serafino Gubbio, di professione operatore presso la casa cinematografica Cosmograph, e voce narrante dei Quaderni scritti da Pirandello negli anni ’10 del Novecento1. «Una mano che gira la manovella»: e cioè una persona ridotta ormai ad una semplice appendice di una macchina, la cinepresa, di cui si ritrova ad essere al servizio, anziché esserne il gestore (destino peraltro comune a tutti i dispositivi meccanici, «questi mostri, che dovevano rimaner strumenti, e che sono invece divenuti, per forza, i nostri padroni»). La macchina a cui Serafino è legato è in apparenza una «macchinetta»: e tuttavia la sua azione è in qualche modo devastante. Innanzitutto sembra ingurgitare quanto le passa davanti, fino a cambiargli forma: «La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce la ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi»2. Poi la «macchinetta» separa dal mondo vero chi entra nel suo raggio, e lo trasporta in una sorta di altrove: gli attori, strappati dalla comunione diretta con il pubblico, «qua si sentono come in esilio. In esilio non solo dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una espressione, che guizza e scompare»3. Divorare, separare: l’effetto finale è quello di uno svuotamento. Il corpo filmato «è sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare soltanto un’immagine muta che tremola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco di illusione su uno squallido pezzo di tela»4. E, in parallelo, — 227 —

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chi è al servizio della cinepresa perde ogni sentimento: la qualità che si chiede ad un operatore «è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina»; una impassibilità che alla fine lo fa essere simile ad una cosa («io no, ero una cosa: ecco, forse quella che mi stava su le ginocchia, avviluppata in una tela nera», e cioè la pellicola); di più, che lo fa diventare proprio eguale a una macchina («finii d’esser Gubbio e diventai una mano»)5. Se la «macchinetta» fa questo, non bisogna pensare che essa sia sola. Il mondo è ormai popolato di dispositivi meccanici che assoggettano chi dovrebbero servire, e che insieme ingoiano vita e la riducono a parvenza. Pirandello ce ne offre alcuni esempi folgoranti: il cannocchiale dell’astronomo Zeme («Lei crede che quello sia il suo strumento? Non è vero. Quello è il suo Dio e lei lo venera»); la monotype che ha sostituito le vecchie stampatrici («una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri»); e soprattutto la pianola meccanica con cui l’uomo dal violino dovrebbe suonare, e che rappresenta la negazione stessa della libertà e della creatività (tanto è vero che il musicista, costretto con il suo strumento ad «accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell’altra macchina lì» letteralmente si perde)6. Del resto il mondo stesso è diventato un «fragoroso e vertiginoso meccanismo […] che di giorno in giorno sempre più si còmplica e s’accèlera»: un meccanismo che offre una serie di forti stimoli, ma che nel contempo cattura e travolge. Proprio in apertura del romanzo, l’ironica descrizione del «congegno» della vita moderna ce ne dà una prova: «Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là. – No, caro, grazie, non posso! – Ah sí, davvero? Beato te! Debbo scappare… – Alle undici, la colazione – Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…»7. In questo quadro tutti rischiano di diventare dei «pagliaccetti», mossi da «una molla a mantice sul petto», e a cui, tramite un bottone, si possono far aprire e chiudere le braccia a piacimento; in altre parole, tutti sono costretti a rinunciare al proprio vero io, per diventare dei burattini chiamati a recitare una parte che è una pallida ‘metafora’ di sé8 . Dunque il cinema non costituisce un’eccezione. In un mondo di macchine, in un mondo ridotto a macchina, il cinema obbedisce ad una legge generale. Semmai, esso porta allo scoperto i paradossi di questa situazione. Per un verso infatti rende ancora più drammatico lo svuotamento della vita, dato che fa sembrare perfettamente vere, grazie alla riproduzione fotografica, quelle che sono delle pure e semplici rappresentazioni, per lo più false. Coloro — 228 —

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che lavorano alla Cosmograph possono anche mettere in scena le vicende più approssimate e improbabili; la macchinetta, con perfidia, «darà apparenza di realtà a tutte le loro finzioni»9. Per un altro verso però il cinema apre anche dei capitoli nuovi. In particolare, forse non riuscirà mai a fare quello che ha fatto il pittore Giorgio Mirelli nei suoi ritratti di Varia Nestorof, e cioè rivelare la personalità profonda di chi ci circonda (sulla tela Varia è proprio lei, mentre sullo schermo è un’altra che lei non riconosce né conosce…)10; insomma, forse il cinema non riuscirà mai, riscattando i propri limiti, a restituirci la pienezza di quanto viene ripreso; tuttavia, con il suo sguardo, esso può arrivare a mettere a nudo la sottile logica che sta alla base del «congegno» del mondo moderno. Il cinema infatti può farsi testimone di questa logica; in particolare può mostrarci la assoluta casualità che ormai domina la nostra esistenza, e attraverso questa via renderci consapevoli di quello di cui non ci accorgiamo. Basta che, sfruttando la sua impassibilità, lo si utilizzi per cogliere «la vita così come vien viene, senza scelta e senza alcun proposito» ecco che allora esso giungerà a «presentar agli uomini il buffo spettacolo dei loro atti impensati, la vista immediata delle loro passioni, della loro vita così com’è. Di questa vita senza requie, che non conclude»11. Sullo schermo, nonostante tutto, vediamo quel che siamo diventati. Ma il cinema può fare anche di più: può infatti incarnare esso stesso la logica del «congegno» in cui siamo presi; in particolare, può offrirci una visione delle cose per così dire dal punto di vista di un meccanismo. Basta lasciare che la cinepresa si muova come sa fare: ecco che allora si riveleranno nuove prospettive attraverso cui afferrare il mondo; prospettive pronte a loro volta a riproporsi nella pratica quotidiana. Una famosa pagina del romanzo, nella quale la descrizione di una automobile che sorpassa una carrozzella è condotta contrapponendo due camera car piazzate sui due veicoli, con un abbozzo di ‘montaggio alternato’, ci offre una splendida dimostrazione di come il cinema possa mobilitare un nuovo tipo di sguardo ‘meccanico’, e nello stesso tempo farlo diventare patrimonio comune. «Un lieve sterzo. C’è una carrozzella che corre davanti – Pò, pòpòòò, pòòò. Che? La tromba dell’automobile la tira indietro? Ma sì! Ecco pare che la faccia proprio andare indietro, comicamente. Le tre signore dell’automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzío di veli variopinti; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla con il suo trotterello stracco, séguita a dare indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare nel — 229 —

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lungo viale fuor di porta. Scompare? No: che! È scomparsa l’automobile. La carrozzella invece, eccola qua, che va avanti ancora, pian piano, col trotterello stracco, uguale, del suo cavalluccio sfiancato. E tutto il viale par che rivenga avanti, pian piano con essa. Avete inventato le macchine? E ora godetevi questa e consimili sensazioni di leggiadra vertigine»12. Sullo schermo, oltre che vedere come il «congegno» del mondo ci ha ridotti, possiamo anche vedere come questo «congegno» ci consenta e insieme ci chieda di guardare. Dunque il cinema sottrae la vita, la trasforma, la svuota; ma nel contempo riesce sia a rivelarcene il meccanismo, sia ad adottarne lo sguardo. Ci ingoia, ci manda in esilio, ci rende insensibili; ma nel contempo ci aiuta a capire noi stessi e ci offre nuove «leggiadre vertigini». È una macchina che deprime e che esalta, che deruba e che incrementa, che assoggetta e che aiuta. Come del resto tutte le macchine: la cui natura ambigua, in questi e in altri campi, è ben presente al dibattito novecentesco. Si tratta di una ambiguità radicale, che emerge soprattutto su due versanti. Proverò a ripercorrerli rapidamente, richiamando sia pur alla lontana due libri assai diversi tra loro, ma entrambi del tutto sintomatici del dibattito a cui ho fatto cenno: rispettivamente Lettere dal lago di Como di Romano Guardini, una descrizione quasi in diretta del declino del vecchio mondo di fronte all’invasione tecnologica, e Tecnica e cultura di Lewis Mumford, un’ampia e fortunata storia del processo che porta alla ‘civiltà delle macchine’13. Innanzitutto, le macchine ci aiutano a sottomettere la natura, ma nello stesso tempo e in molti modi ce ne allontanano. I dispositivi tecnologici moderni possiedono una grande efficacia: grazie ad essi l’azione dell’uomo raggiunge dei traguardi prima impensabili. Tuttavia, proprio per garantire una tale efficacia, questi dispositivi tendono anche a sciogliere i loro legami con l’ambiente circostante. Il loro funzionamento non dipende più dalla presenza di risorse naturali in loco: essi non sono più mossi dall’acqua o dal vento, ma usano combustibili come il carbone o il gas, o energie come l’elettricità, che sono accumulabili e trasportabili anche a distanza, e che dunque consentono di operare in ogni condizione. Parallelamente, essi tendono a fare da filtro rispetto al mondo esterno: la loro estrema diffusione fa sì che i momenti in cui si interviene direttamente, di persona, sulle cose, si fanno sempre più rari, a profitto di un lavoro che viene loro sempre più largamente delegato. Ne deriva un vero e proprio iato: questi dispositivi non operano più a ridosso, o in sintonia, con la natura, ma sopra e contro di essa. La tecnologia diventa allora qualcosa che esercita un contrasto e una sottrazione; se è vero che ci aiuta a — 230 —

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sottomettere il mondo, è anche vero che fa di questa sottomissione un atto insieme indifferente e brutale, assai simile alla spogliazione, alla rapina. In secondo luogo le macchine ci aprono nuovi orizzonti, materiali e mentali, ma nello stesso tempo condizionano sia il nostro modo di agire che il nostro modo di pensare. I dispositivi tecnologici moderni ci aiutano a capire meglio la realtà, non solo perché la loro messa a punto comporta una serie di saperi sempre più raffinati, ma anche perché la loro applicazione allarga l’orizzonte delle cose con cui dobbiamo fare i conti. Tuttavia, proprio in quanto meccanismi complessi e sofisticati, essi fanno emergere anche una loro logica, e nel farla emergere, finiscono anche con l’imporla. Basta pensare ai mezzi di trasporto e ai mezzi di comunicazione14 che tanta parte hanno nella modernizzazione ottocentesca. Il treno permette di raggiungere con facilità posti anche lontani, e dunque amplia il nostro ambito di manovra; nel contempo però cambia il senso tanto dello spazio (il mondo è compresso), quanto del tempo (siamo vincolati ad un orario). Alla stessa maniera il telegrafo consente di contattare chiunque senza spostarsi, e dunque amplia il quadro dei nostri interlocutori; nel contempo però cambia il senso tanto dei rapporti interpersonali (non occorre essere faccia a faccia), quanto del linguaggio (ogni parola costa). Diciamo: i dispositivi tecnologici mutano la nostra mentalità; poiché il loro funzionamento deve rispondere soprattutto di un’efficienza, e questa efficienza comporta che la materia su cui si lavora e l’apporto dell’uomo siano ridotti a entità calcolabili, misurabili, ne deriva che essi tendono a farci percepire il mondo come un universo regolato, come a sua volta una macchina. La tecnologia colonizza allora il nostro stesso spirito: ci offre una visione del mondo di cui essa è la fonte; e una visione che fa del mondo una realtà simile ad essa. Assoggettamento ed eclisse della natura; arricchimento e colonizzazione della cultura: l’ambiguità della macchina è evidente. Aggiungo che questo gioco di contrasti si fa chiaro quando con la rivoluzione industriale agli utensili si sostituiscono i macchinari, dispositivi ormai largamente autonomi; così come si fa ancor più acuto quando tra la fine dell’Otto e l’avvio del Novecento i macchinari arrivano a comporre dei macrosistemi tecnici, dispositivi, oltre che autonomi, anche largamente integrati15: in questi due passaggi la dipendenza dal mondo circostante si allenta ulteriormente; le ragioni della tecnologia sembrano farsi ancora più forti. Romano Guardini può allora dolorosamente constatare: «il mondo dell’umanità legato alla natura, il mondo della natura compenetrato di umanità, è in procinto di tramontare»16. Di — 231 —

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fronte all’emergere di un mondo che sembra farsi esso stesso macchina, la presenza della natura e dell’uomo non appare tuttavia del tutto perduta: come sottolinea Mumford, essa riaffiora, sia pur in forma sporadica e incerta, in tutti quei momenti in cui si manifesta un «riorientamento verso la vita delle forme di pensiero e di attività»; in particolare là dove la realtà viene vista di nuovo come un insieme organico, e in parallelo là dove si accetta di rinunciare agli eccessi nella produzione e nel consumo. In questi casi la macchina può ridiventare una alleata fedele17. Ritorniamo allora al cinema, e alle pagine di Pirandello. La cinepresa, nel suo allontanarci dalla vita e insieme nel suo farcela afferrare di nuovo e in modo nuovo, si pone come spia delle dialettiche che attraversano la ‘civiltà delle macchine’. La sua ambiguità non è un limite: anzi, è la sua forza. Ritroviamo questo concetto, sia pur in una forma meno articolata, quindici anni dopo I quaderni di Serafino Gubbio, in un curioso libro italiano attraversato da un qualche accento ‘mumfordiano’ e dal sintomatico titolo Il cinema e le arti meccaniche18. Per Eugenio Giovannetti il cinema è doppiamente debitore della tecnica: lo è nel momento creativo, in cui l’artista si trova a manovrare un dispositivo meccanico; e lo è nel momento della diffusione dell’opera, in cui interviene la possibilità di moltiplicare meccanicamente le copie. Questa doppia dipendenza non costituisce tuttavia necessariamente una limitazione. Poiché ogni dispositivo meccanico è predisposto per certe operazioni piuttosto che per altre, l’artista cinematografico può capire quali «simpatie e antipatie invincibili» il suo mezzo possiede, e dunque può utilizzarne proficuamente sia le virtù che i difetti: in questo modo scaverà meglio dentro le pieghe del reale, e di un reale dalle mille facce cangianti, fino a farci «intravedere nell’effimero l’immortale, nel mutevole l’immutevole»19. Parallelamente, se è vero che la diffusione delle opere, basata su una «enorme facilità di riproduzione» delle copie, porta ad una «enorme volgarizzazione», è anche vero che essa consente di costituire «un’unica immensa democrazia artistica»: in questo modo si possono raggiungere tutti i ceti («allo spettacolo cinematografico voi trovate il principe e il ciabattino, l’universitario e l’analfabeta»), con delle icone che tutti possono riconoscere e con cui tutti possono identificarsi (il cavaliere errante reincarnato nel cowboy, la venere capitolina diventata ormai ‘bambola jolie’, il giovane sportivo raffigurato da Douglas Fairbanks, ecc.)20. Dunque obbedienza ad una macchina ma anche capacità di superarne le deficienze; volgarizzazione, ma anche democrazia. L’importante, aggiunge Giovannetti, è che il cinema sappia testimoniare il — 232 —

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bisogno ormai diffuso che la ‘meccanicità’ si confronti e confluisca in una visione organica della vita; e che contemporaneamente l’‘energia’ espressa dalla macchina faccia i conti e rispetti la ragione. Allora il cinema potrà volgere la sua natura tecnologica in un fatto pienamente positivo: potrà parlarci di noi e del nostro tempo come nessun altro sa fare. Giovannetti rovescia in ottimismo quello che in Pirandello sembrava beffardo pessimismo: entrambi tuttavia prendono partito dall’ambiguità delle macchine, e disegnano una dinamica aperta che ondeggia tra la perdita e il guadagno, tra il tradimento della vita e il suo recupero. Su questo sfondo, è possibile allora avanzare tre domande, che potrebbero servirci da guida nell’esplorare la natura meccanica dell’occhio cinematografico. In primo luogo, quale tipo di visione nasce da questo occhio meccanico? Quanta distanza c’è tra quello che vediamo sullo schermo e il mondo che stava davanti alla cinepresa? In secondo luogo, quali aspetti di questo mondo l’occhio meccanico finisce inevitabilmente per privilegiare? La macchina non rende meccanica anche la realtà riprodotta? Infine, quanto l’occhio meccanico riesce a farsi occhio umano? Macchina e natura, al cinema, possono trovare una riconciliazione? L’analisi filmica potrà cercare di rispondere a queste domande: la loro formulazione però non può che nascere all’incrocio della pagina e dello schermo. NOTE * Desidero ringraziare il collega Giuseppe Langella per la cortesia con cui ha voluto discutere del tema trattato in questo intervento: gli sono debitore di parecchie osservazioni 1 L. PIRANDELLO, Si gira, uscito a puntate nel 1915 sulla «Nuova Antologia»; uscito in volume con lo stesso titolo da Treves, Milano, 1916; e infine pubblicato con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore da Bemporad, Firenze, 1925. Qui cito dall’edizione Oscar Mondadori, Milano, 1980. 2 Per questa e le citazioni precedenti cfr. ivi, pp. 5 e 6. 3 Ivi, p. 55. 4 Ivi, pp. 55-56. 5 Per le citazioni cfr., rispettivamente, ivi, pp. 5, 72 e ancora p. 72. 6 Per gli esempi, cfr. ivi, pp. 59, 16 e 17. 7 L’espressione «meccanismo della vita» ricorre molte volte nel romanzo: la prima volta, ivi, p. 4, qui citata. Per l’eccitazione che danno le macchine, si veda almeno la descrizione delle attrici della Cosmograph sull’automobile: «il meccanismo le inebria e suscita in loro una così sfrenata vivacità»; ivi, p. 40. La descrizione del «congegno esterno, vorrei dire meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie» è a p. 3.

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Ivi, p. 100. Ivi, p. 46. 10 I sei ritratti di Varia Nestoroff che Giorgio Mirelli ha dipinto realizzano infatti «l’assunzione di quel suo corpo ad una vita prodigiosa, in una luce di cui ella neppure in sogno avrebbe potuto immaginare di essere illuminata e riscaldata, in un trasparente, trionfale accordo con una natura attorno» (ivi, p. 138). Per contro, il cinema offre un ritratto di Varia che non ha alcuna capacità di rivelazione: «Resta ella stessa sbalordita e quasi atterrita da la propria immagine sullo schermo, così alterata e scomposta. Vede lì una, che è lei, ma che ella non conosce. Vorrebbe non riconoscersi in quella. Ma almeno conoscerla» (ivi, p. 33). 11 Ivi, rispettivamente, pp. 78 e 79. Le osservazioni sono accompagnate da una proposta: quella di filmare «gli atti della vita come si fanno impensatamente quando si vive e non si sa che una macchinetta di nascosto li stia a sorprendere»: una sorta di candid camera che consente appunto di far emergere le forme della vita contemporanea. Con un intento quasi pedagogico: «Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Veder come si vive sarebbe uno spettacolo ben buffo!». 12 Ivi, p. 40. 13 R. GUARDINI, Lettere dal Lago di Como. La tecnica e l’uomo, Brescia, Morcelliana, 2001; L. MUMFORD, Technics and Civilisation, New York, Harcourt, Brace and Co., 1934 (trad. it. Tecnica e cultura, Milano, Il Saggiatore, 1961). 14 Per quanto oggi la cosa possa sembrare curiosa, alla fine dell’Ottocento i due ambiti appaiono ancora strettamente associati, quasi che il trasferimento dei corpi e il trasferimento dell’informazione costituiscano due azioni equivalenti. Si vedano al proposito le osservazioni di Peppino Ortoleva nella sua Prefazione all’edizione italiana di C. MARVIN, When Old Technologies Were New, New York, Oxford University press, 1988 (trad. it. Quando le vecchie tecnologie erano nuove, Torino, UTET, 1984), in particolare alla p. XXVII e sgg. 15 Per la differenza tra utensile e macchinario, si veda L. MUMFORD, Technics and Civilisation, cit., p. 26, e soprattutto A. GRAS, Grandeur et dépendance, Paris, PUF, 1993 (trad. it. Nella rete tecnologica, Torino, UTET, 1997). Sull’idea di macrosistema tecnico, che rappresenterebbe la terza fase della storia delle tecniche umane, dopo quella dell’utensile e quella del macchinario, si veda A. GRAS, Grandeur et dépendance, cit., e le interessanti osservazioni nell’Introduzione di M. Nacci e P. Ortoleva all’edizione italiana del libro; si veda inoltre I. BROWN, B. JOERGES, Techniques du quotidien et macrosystèmes techniques, in A. GRAS, B. JOERGES, V. SCARDIGLI (eds.), Sociologie des techniques de la vie quotidienne, Paris, L’Harmattan, 1992. 16 R. GUARDINI, Lettere dal Lago di Como. La tecnica e l’uomo, cit., p. 13. 17 È il tema sviluppato da Mumford, soprattutto nel suo ultimo capitolo. La citazione è a p. 435 di Tecnica e cultura, cit. 18 E. GIOVANNETTI, Il cinema e le arti meccaniche, Palermo, Sandron, 1930. 19 Ivi, pp. 23 e 27. 20 Ivi, pp. 25 e 60. Giovannetti descrive in modo assai suggestivo la galleria dei personaggi che il cinema sta mettendo a punto: ricordo, oltre alle figure qui citate, le analisi di Jannings, di Buster Keaton, di Harold Lloyd, di Ridolini, e infine quella di Brigida (sic) Helm, condotta tutta sul tema della civiltà delle macchine. 8

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GIULIO FERRONI VICENDE DEL NARRARE BREVE NEL NOVECENTO 1. Ogni considerazione sulla vita della forma narrativa breve nel mondo moderno deve fare i conti con la presenza del romanzo, con il rilievo centrale che il romanzo ha ottenuto nel quadro delle forme letterarie. Per ciò che riguarda la letteratura italiana, si può rilevare subito che la forma breve è esente dalle uggiose consuete lamentazioni che toccano proprio il romanzo, la sua presunta «assenza» dalla nostra tradizione: lamentazioni ingiustificate come tutte le recriminazioni a posteriori, come tutto ciò che sa di vittimismo storico o di confronto con modelli considerati «normali», la non coincidenza con i quali costituirebbe un difetto o una mancanza (in questo solco di banalità pseudostoriche possiamo peraltro trovare perfino chi ci viene a dire che in Italia sarebbe mancata una vera drammaturgia: mentre altri per fortuna ci dicono che essa è la patria del teatro e delle più varie forme teatrali…). Nessuno certo ardirebbe sostenere una parallela assenza della forma narrativa breve: troppo evidente è il fatto che la storia della nostra letteratura offre alcuni dei massimi capolavori del genere, in un percorso che ha le sue punte più assolute nel Decameron e nelle pirandelliane Novelle per un anno. Chi volesse comunque confrontare la presunta assenza del romanzo con la grande espansione della forma breve, potrebbe avventurosamente arguire che lo spirito italiano rifugge dal senso dell’organicità, tende ad affidarsi a punti di vista parziali, ama petrarchescamente raccogliere e raccogliersi per sparsa fragmenta. Ma niente è più falso di questa visione ‘frammentaria’ dell’ethos italico (come false, del resto, sono tutte le generalizzazioni storiche): basta pensarci un po’ e ricordare che c’è pure la Commedia dantesca, e che lo stesso Decameron si svolge entro una rigorosissima costruzione; e che frutto di grande architettura è un «romanzo» (proprio così designato) come l’Orlando furioso, per non parlare poi de I Promessi Sposi. Del resto, se si guarda al «romanzo» nell’accezione originaria del termine e si riconosce che il «romanzo» — 235 —

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rinascimentale, rispetto a quello «cortese» medievale, ha già dei tratti «moderni», si può pure notare che la stessa forma «moderna» del romanzo in prosa nasce proprio dalla follia di un lettore di quei romanzi di cui l’italiano Orlando furioso costituisce l’esempio supremo. In questo quadro, fatte tutte le verifiche, resta davvero sorprendente e scandaloso lo scarsissimo spazio che al romanzo italiano è dato nei recenti cinque volumi della «grande opera» Einaudi dedicata al Romanzo… Tralasciando comunque tali questioni, cercherò qui di svolgere una breve riflessione sul racconto italiano del Novecento attraverso i tre punti seguenti: 1) lo statuto teorico del racconto; 2) la sua storia nel corso del XX secolo; 3) un’esemplificazione su una struttura particolare (la compressione del tempo). 2. Se è sempre difficile delimitare il campo o distinguere lo spazio di un genere letterario, tale difficoltà è particolarmente forte nel caso della forma narrativa breve: nell’insieme essa rifugge da ogni codificazione, o meglio prospetta varie codificazioni diverse o sovrapposizioni tra codici diversi. Per la sua stessa natura essa ci invita a prescindere da quell’ossessione maniacale dei codici e della codificazione che ha gravato sulla teoria letteraria tra gli anni ’70 e ’80 (e da cui sembra che ci si sia liberati, salvo il persistere di attardate vulgate scolastiche). Se il romanzo stesso viene indicato come il genere che può conglobare in sé tutti i generi possibili, che si costruisce sull’ininterrotta interferenza di discorsi «altri», nella forma breve si può riconoscere l’embrione stesso del romanzo: il suo raccontare può muoversi, come quello del romanzo, in tutte le direzioni possibili, con il solo limite, mai certo e mai rigidamente fissato, dell’estensione. Nel racconto possiamo identificare la forma iniziale, variamente dilatabile, della narratività: da un nucleo minimo, circoscritto in spazi e tempi ridottissimi o quasi nulli, al più vorticoso sovrapporsi di situazioni e di eventi. Studiando ogni tipo di forma narrativa (dalla fiaba al romanzo), strutturalismo e semiologia hanno fissato l’attenzione sui nuclei originari del raccontare, sulle sue strutture costanti, ma proprio a partire dalla forma breve, distinguendo e misurando le invarianti e le unità minime di ogni narrare a partire dal sezionamento delle forme più elementari (fiaba e racconto popolare) e poi movendo verso una sempre maggiore ampiezza e complessità. Dai formalisti russi in poi, la narratologia si è sviluppata attraverso una sorta di dilatazione dei dati individuati nell’analisi delle forme brevi, in cui si è creduto di riconoscere appunto la narratività allo stato puro, come riconducen— 236 —

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do qualsiasi raccontare ad un solo racconto archetipico, assoluto e originario (il sogno del modello assoluto, del «grande modello» e del «grande gioco», giace spesso sotto le forme più tecnicistiche della narratologia, come del resto sotto certe attuali pretese di critica «informatica»). Nell’estrema molteplicità e apertura della forma narrativa breve, i canoni storici hanno assegnato un posto centrale alla novella, il cui nome in partenza si definisce attraverso la novitas (e sarebbe interessante seguire il passaggio dalla novitas della nostra novella a quello dei più tardi inglese novel e spagnolo novela, che invece designano quello che noi chiamiamo romanzo). In questa sua posizione centrale la novella comporta una relativa codificazione, il che non esclude le modificazioni più eterogenee e un suo prolungarsi anche in contesti comunicativi assolutamente diversi da quello originario (si pensi solo al fatto che Novelle si designano anche quelle di Pirandello, ormai tanto lontane dal modello decameroniano). Intorno alla novella (prima di essa, spesso da essa indipendentemente, talvolta sovrapponendosi ed intrecciandosi ad essa) si ha il vario sviluppo di forme diversamente articolate e di diversa estensione: fiaba, favola, apologo, facezia, exemplum, aforisma, parabola, ecc. Dalla novella si dipartono e si distinguono (spesso più per il contesto comunicativo che per la struttura) racconti di varia estensione, dal raccontino di poche battute al racconto lungo, sconfinante talora (ma le distinzioni sono soggettive e casuali) nel romanzo breve: e si dà il caso, frequente, dell’inserzione di racconti, novelle, forme brevi, entro le forme lunghe del romanzo o del poema narrativo. La narrazione di un romanzo (perlopiù per bocca di uno dei personaggi) può essere infatti interrotta dalla narrazione di un’altra storia interna più ridotta, solo per il gusto di raccontare o di interrompere l’azione centrale. Non mi riferisco qui alle analessi che riguardano vicende precedenti nella stessa fabula (tipo quelle celebri dei libri IX-XII dell’Odissea e II-III dell’Eneide), ma ai casi, frequenti ad esempio in «romanzi» cavallereschi come l’Innamorato o il Furioso, in cui un personaggio della vicenda di base racconta una novella o una storia del tutto «altra»: casi in cui vengono ad aprirsi spazi narrativi separati dalla fabula (anche se talvolta possono assumere il valore di specchi simbolici, di commenti, variazioni tematiche, mises en abîme rispetto ai dati della stessa fabula). Di particolare interesse, nello studio delle forme narrative brevi, è la considerazione dei diversi livelli di compressione o dilatazione degli eventi narrati, cioè del rapporto tra tempo del discorso e tempo della storia, tra l’esten— 237 —

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sione della narrazione (che può condurre dal racconto di poche righe, racconto/aforisma o racconto/riassunto, al racconto lungo o romanzo breve che dir si voglia) e l’estensione temporale delle vicende. Si potrebbe in proposito riconoscere tutta una gamma di possibilità, da frammenti più o meno estesi di discorsi-situazione (riferiti ad un tempo brevissimo o quasi nullo) a percorsi vastissimi che in poco spazio possono concentrare svolgimenti addirittura epocali. Gli amanti delle schematizzazioni e delle tipologie potrebbero qui suggerire tutta una serie di categorie e combinazioni: io mi limiterò a ricordare soltanto che in generale: 1) il racconto può concentrarsi su una situazione minima, semplice scambio di battute o descrizione di uno o più personaggi, e può chiudersi in un solo momento temporale e in un unico spazio/ambiente; 2) il racconto può seguire movimenti e/o vicende di un solo personaggio, in uno spazio e in un tempo più o meno ampi; 3) al contrario può chiamare in causa più personaggi e situazioni, più luoghi, fino ad una varietà estrema di avventure e filoni narrativi; 4) il racconto può toccare un’intera vita, in tutti i suoi momenti, con o senza tutto ciò che le sta intorno; 5) può estendersi a più vite o generazioni, fino a toccare in raccourci una storia lunghissima, magari l’intera storia dell’umanità o del cosmo; 6) la possibilità di muoversi tra i due ambiti estremi del realismo più rigido e del fantastico più inafferrabile dà luogo a diversi trattamenti del tempo, a diversi tipi di rapporto tra tempo del discorso e tempo della storia (e si tenga presente che proprio sulla forma narrativa breve si è basato il forte sviluppo del fantastico e del «nero» nell’età romantica). Entro queste diverse disposizioni dei tempi, il racconto si fa riconoscere per una sorta di ritmo continuato: la sua estensione più o meno ampia viene come a fissarsi in un «fiato» unico, in un’ipotesi di leggibilità continuata e senza interruzioni. In esso si inscrive, esplicita o nascosta, una spinta a «precipitare», a raggiungere la fine in modo più diretto e meno problematico di quanto accada in altri generi e forme, a tendere ad una chiusura (di ciò può essere presa come metafora l’introduzione di Gadda ai testi «brevi» de Il castello di Udine, Tendo al mio fine). Più rapida è così la connessione tra cominciare e finire: nel circuito breve e nel passaggio rapido che conduce dall’inizio alla fine, la forma narrativa breve sembra offrire una sorta di uscita da quell’ansia del cominciare e del finire che più nettamente grava sullo scrittore di romanzi. In termini suggestivi ne rende conto Italo Calvino nell’incompiuta lezione su Cominciare e finire:

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Forse è questa ansia per il problema del cominciare e del finire che ha fatto di me più uno scrittore di short stories che di romanzi, quasi non riuscissi mai a convincermi che il mondo ipotizzato dalla mia narrazione è un mondo a sé stante, autonomo, autosufficiente, in cui ci si può installare definitivamente o almeno per tempi lunghi. Invece mi prende continuamente il bisogno di prenderlo dal di fuori, questo mondo ipotetico, come uno dei tanti mondi possibili, un’isola in un arcipelago, un corpo celeste in una galassia.1

In questa sua natura «insulare», il racconto si pone spesso come banco di prova dei più diversi generi e sottogeneri narrativi, di ogni sorta di struttura più ampia: come una delle forme più disponibili e aperte per prove, sperimentazioni, assaggi, rapidi spunti narrativi. La sua elettiva apertura verso schemi indeterminati e flessibili lo ha portato nel Novecento alle scelte più varie, servendosi della misura canonica dell’elzeviro giornalistico, tracciando scorci rapidi e sintetici, o dilatandosi verso misure eterogenee, fino a ritrovare il passo avvolgente della novella antica o quello più disteso, più tendenzialmente organico, del romanzo breve. 3. Ma quando si stabilizza il racconto in senso «moderno»? Al modello «novella» (particolarmente forte in Italia, per il rilievo della tradizione decameroniana e bandelliana) succede a un certo punto un racconto rivolto non più ad un ideale ambito aristocratico o patrizio, ma ad un pubblico indifferenziato e indeterminato, fatto soprattutto di lettori della stampa periodica. Essenziali in tal senso i presupposti settecenteschi, con la presenza di racconti di vario genere nei giornali, sul modello inglese (da noi ripreso con particolare efficacia nei periodici di Gasparo Gozzi), e poi i vari intrecci tra realismo e fantastico, gli svolgimenti verso l’Unheimliche che si danno nel passaggio al nuovo secolo, da Hoffmann a Poe a Gogol’, e ancora la varia produzione francese, che si svolge verso il naturalismo, ma che sembra offrire una sorta di archetipo assoluto, di modello inarrivabile con i Trois contes di Flaubert, tre racconti che fissano tre grandi strade, che resteranno perlopiù separate, quella di tipo più direttamente «naturalistico», di «umile» materia contemporanea (Un coeur simple), quella di tipo storico-estetizzante di materia classicadecadente (Herodiade), quella di tipo leggendario di materia medievale (La legende de Saint Julien l’hospitalier). Da un settore particolare della produzione francese riceve suggestioni non trascurabili il Novelliere campagnolo di Nievo, mentre poi dalla Scapigliatura al Verismo i racconti italiani (che molto spesso mantengono la designazione tradizionale di «novelle») toccano tut— 239 —

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ti gli orizzonti del grande racconto europeo: anche con notevoli casi di scambio tra letteratura e teatro, che sembrano ricollegarsi all’antico rapporto novella-commedia e che troveranno un esito davvero essenziale nell’attività di Pirandello. Pirandello d’altra parte, nel progressivo accumularsi dei suoi racconti dagli anni ’90 dell’Ottocento agli anni ’30 del Novecento, tra le pubblicazioni sui quotidiani, le varie raccolte parziali, la progettazione del corpus delle Novelle per un anno, offre un autentico corrispettivo italiano ai monumentali edifici di Maupassant e Cˇ echov, con una ricca serie di passaggi tra comico, umoristico, tragico, lirico, realistico, fantastico. Nel primo Novecento il dominio del modello «lirico», la tensione verso il frammento e la scarsa stima di cui gode la forma del romanzo danno un nuovo impulso alla forma breve: tra suggestioni di Poèmes en prose e di Illuminations, tra frammenti, frantumi, trucioli e briciole di vario tipo si diffondono molteplici scaglie cariche di possibilità narrative. L’io con le sue variegate contraddizioni, la tensione morale, le velleità di protagonismo intellettuale si affidano a microrganismi in cui è spesso implicita una aurorale narratività (e si pensi a certi micidiali racconti/aforismi/bozzetti di uno che pure non trascurava il romanzo, come Federigo Tozzi, che arriva a fondere soggettività e oggettività in un nesso che sprigiona lampi di allucinazione). Nel passaggio delle avanguardie e nel rifiuto di ogni «cattedrale», la forma breve vede brillare nuove illuminazioni comiche che avranno un particolare esito nei «buffi» palazzeschiani. E qualche legame non marginale con le avanguardie avrà tutta la vastissima letteratura comico-umoristica tra le due guerre, orientata in senso molto diverso dall’«umorismo» pirandelliano e caratterizzata da un confronto con le nuove forme comunicative, dal cinema, al varietà, ai rotocalchi, alla radio (Campanile e Zavattini ne sono, in modi diversi, gli esponenti capitali). La vitalità del racconto negli anni ’30 trova una ragione essenziale in questo rapporto col comico, in particolare col comico filmico e con la comica cinematografica: e meriterebbero più attenzione di quanta di solito non accada le prove di Brancati, popolate da una vera e propria folla di non eroi, segnate da un’attenzione privilegiata ai racconti di Gogol’ (ma da studiare su ampio raggio sarebbe tutta la presenza di Gogol’ nella nostra narrativa degli anni ’30). Suggestioni di tutt’altro tipo agiscono sul folgorante inizio di Moravia, Inverno di malato (risalente al 1930): e si dovrà constatare che Moravia, pur autore di molti racconti di brevi dimensioni, troverà la sua misura più resistente in una forma intermedia di romanzo breve (da La provinciale ad Agostino); — 240 —

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mentre una particolare ripresa di «realismo» conduce ai racconti di Alvaro, e poi di Vittorini e Pavese, e una tensione lirica e memoriale dà grandi risultati nei racconti di Bilenchi, il cui vertice sarà costituito dalla trilogia Gli anni impossibili, definitivamente fissata nel 1984. Un crocevia fondamentale, che ha il suo centro proprio negli anni ’30, ma vari sviluppi successivi, è poi quello riconducibile ad una matrice genericamente surrealistica (su di un asse Savinio-Landolfi-Delfini), in cui il rifiuto del romanzo come forma costituita comporta una ricerca di decentramento, di lateralità della narrazione, in atto anche nei tentativi romanzeschi, ma espressa al meglio proprio nella forma breve. Per Alberto Savinio il racconto è una sorta di termine medio, tra il suo essere «greco» e il suo essere «nordico», classico e moderno: manifesta al meglio la sua disposizione a sovrapporre la dimensione classica e solare a quella avanguardistica e settentrionale. Tutto ciò è del resto evidenziato da uno dei nomi fittizi che egli si attribuisce, Nivasio Dolcemare, nome che mette insieme la rigidità di un paesaggio nivale e la dolcezza di un mare meridionale: i suoi stessi romanzi sembrano porsi del resto come insiemi di racconti, frutto di una disgregazione attiva, che riesce a fondere con enigmatica leggerezza tensione costruttiva e senso della fine, della morte di Dio. In Tommaso Landolfi il racconto indica le strade enigmatiche, eterogenee, insidiose, della negatività dell’esperienza, nell’ossessione della sua casualità, della casualità stessa del narrare: dove il fantastico, in un orizzonte «russo» (per cui è determinante la presenza di Gogol’ e di Dostoevskij), registra la lacerazione, la minaccia e lo scacco senza scampo. In Antonio Delfini è la stessa immaginazione «provinciale» ad accendersi e ad espandersi in una tensione all’assoluto, che continuamente si ironizza, si degrada, si autoaggredisce, esibisce la propria condizione materiale: e i racconti riuniti ne Il ricordo della Basca trovano una singolare proiezione nella bellissima Introduzione del 1956, vero racconto dei racconti, in cui la più appassionata tensione all’invenzione si dà come sfida alla realtà, tentativo di un suo rabbioso e impossibile recupero; in quella luce ogni racconto si proietta ad illuminare esperienze perdute, a dar vita (ma una vita che sa di non riuscire a darsi) a possibilità mai realizzate. Carlo Emilio Gadda, si sa, è autore di una serie di romanzi impossibili: cerca il romanzo, ma incontra il racconto, nella sua parzialità, come esito di una paradossale aspirazione ad abbracciare tutta la realtà, a non perderne nessun aspetto. Nel tendere al suo fine verifica l’effettualità della frantumazione, corrispettivo e residuo di una scrittura che, nell’atto di voler dar voce alla realtà, — 241 —

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scopre che è la realtà stessa ad essere frantumata, «barocca». E basta pensare alla storia compositiva ed editoriale de La cognizione del dolore, alla sua articolazione in tratti, alla sua natura di romanzo che sorge da una interposizione di racconti. Da tutti i punti di vista siamo su di un fronte opposto a quello del narrare breve e delicato di Saba, della sua predilezione per il racconto-aforisma, per Scorciatoie e raccontini, che tendono ad illuminare squarci laterali di realtà, piccole combinazioni dell’esistere, dietro le quali vibrano segreti e immedicabili angosce, desideri impossibili di verità e di conciliazione. Il panorama si infittisce sempre più nell’ultimo dopoguerra, con esperienze che si muovono in tutte le direzioni e chiamano in causa quasi tutti i maggiori narratori in attività, da Bassani a Buzzati, da Primo Levi a Sciascia, da Fenoglio a Parise, da Pasolini a Testori, da Malerba a Meneghello. E non vanno trascurati i racconti in apparenza marginali, ma perfetti nella loro discrezione, di poeti come Montale, Caproni e Zanzotto. Più ridotto appare il contributo delle donne, anche se non mancano racconti notevoli di Elsa Morante e di Anna Maria Ortese, di Lalla Romano, di Gina Lagorio, di Francesca Sanvitale: ma è come se le donne, che ormai hanno conquistato in pieno lo spazio della letteratura, e in particolare della narrativa, tendano preferibilmente verso il romanzo, aspirino con più determinazione ad organismi più ampi, a mondi più complessi, a più articolati simulacri di vita. Un posto centrale, in questa molteplicità di esperienze, tocca naturalmente a Italo Calvino, di cui si è già ricordata l’autodesignazione come scrittore di short stories. Tra tutti gli scrittori italiani del secondo Novecento egli è certamente quello che, in tutta la sua attività, ha saputo integrare nel modo più conseguente modelli teorici e realizzazioni narrative, provando, attraverso il racconto, tutte le strade essenziali della cultura di quegli anni: dal neorealismo di Ultimo viene il corvo alle comiche di Marcovaldo, al racconto problematico e politico-filosofico (fino a La giornata di uno scrutatore), alla archeofantascienza delle Cosmicomiche, alla pura combinatoria «strutturalistica» del Castello dei destini incrociati, all’inserzione di microframmenti narrativi in organismi più vasti (risultanti alla fine proprio dall’insieme di racconti frantumati: tale è Se una notte d’inverno un viaggiatore), alla scomposizione analitica delle sensazioni e al racconto/osservazione, tra Palomar e i progettati racconti sui cinque sensi. All’apertura sperimentale dei racconti di Calvino, al loro inquieto seguire i diversi volti e tendenze della cultura contemporanea, fa da riscontro l’uso che della forma breve fa Giorgio Manganelli, alternandola alla forma oppo— 242 —

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sta e convergente del monologo avvolgente ed illimitato: il racconto è per lui uno strumento di messa a punto del più esasperato artificio, che cattura la inarrestabile voce monologante entro modelli chiusi, costruiti in modo tale da contestare continuamente e ripetitivamente le condizioni stesse di ogni narrare (esemplari a tal proposito le raccolte Centuria e A & B, mentre un atipico capolavoro è il Discorso sulla difficoltà di comunicare con i morti). Avvicinandoci alla fine del Novecento, il racconto sembra confermare e prolungare la sua vitalità; molti scrittori delle «nuove» generazioni danno il meglio di sé proprio nei racconti (o, al massimo, nel romanzo breve): basta ricordare la nuova misura che, dopo le non eccezionali prove «comiche» dei primi anni, raggiunge Gianni Celati nei racconti rivolti a scrutare una realtà che rivela il suo significato e il suo valore nel proprio essere «ai margini» (Narratori delle pianure); o la tesa negatività dei personaggi di Antonio Debenedetti, attento a illuminare zone in ombra, deformazioni, storture, deviazioni esistenziali; o il malinconico e colorato pirandellismo rivestito di letterario esotismo di Antonio Tabucchi, esploratore di sorprese, sfasature, sospensioni; o i congegni perfetti e levigatissimi, puntualmente problematici, del Daniele Del Giudice di Mania. Se si procede oltre, verso autori nati dopo il 1950, si può notare che lo scrittore che ha avuto la ventura di essere considerato una sorta di icona/profeta delle giovani generazioni, Pier Vittorio Tondelli, ha dato il meglio di sé proprio nel suo primo libro, che era un libro di racconti (per motivi editoriali presentato incongruamente come romanzo), Altri libertini (1980), ingenuo e insieme smaliziato attraversamento di un paesaggio post-moderno, di una provincia tutta «italiana» proiettata verso un’allucinata omologazione, allegramente e cupamente votata al proprio suicidio. E dopo Tondelli, con scelte e strade diverse, Paola Capriolo, la Tamaro migliore, ancora «crudele» (quella di Per voce sola, 1991), Michele Mari (con uno dei libri migliori di questi anni, Euridice aveva un cane, 1993), e Silvia Ballestra, Dario Voltolini, Niccolò Ammaniti, Andrea Carraro, Mauro Covacich, Giulio Mozzi, Giuseppe Culicchia, ecc. In anni recentissimi gli editori sembrano più disposti che in passato a pubblicare libri di racconti, sembrano addirittura aver superato quella diffidenza che li spingeva a preferire soltanto romanzi o presunti tali e a ridurre al minimo la pubblicazione dei racconti (e si vedano anche antologie a più mani, laboratori per gruppi di narratori più o meno giovani, dalla famigerata Gioventù cannibale, del 1996, a quella curata da Benedetta Centovalli Patrie impure. Italia, autoritratto a più voci, maggio 2003). — 243 —

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Questa così forte presenza del racconto sembra indicare che il narrare del presente può ormai dirsi solo in modi parziali, laterali, frammentari: è proprio del nostro orizzonte, del confuso mondo «globale», che il narrabile si dia in scaglie, non sappia più raggiungere risultati rilevanti attraverso forme ampie e articolate, non riesca più a specchiarsi autenticamente nella vastità e nella complessità del reale. In questo contesto appaiono singolari mostri «fuori tempo» i numerosi romanzoni sesquipedali che pure si pubblicano: e paradossalmente «fuori tempo» è proprio il romanziere che più si vuole in, quell’Umberto Eco i cui chilometrici malloppi non sono altro che il corrispettivo di un narcisistico delirio di fagocitazione, del vano desiderio di divorare un mondo che sempre più sfugge, quanto più si crede di catalogarlo in personali enciclopedie. La suggestione enciclopedica può, semmai, dar luogo a risultati essenziali proprio quando si risolve in libri di racconti collegati tra loro in organismi seriali, su ciascuno dei quali si fissano immagini di intere esistenze: racconti come brevi romanzi su singoli eroi, biografie superconcentrate e assolutamente non esemplari, riferite ad esistenze di dimessa normalità o di paradossale irregolarità, dove il modello «antico» della vita (Cornelio Nepote, Plutarco) si svolge in scorci di congelata evidenza. La serialità dà un rilievo particolarissimo a quelli che forse sono i risultati più essenziali del narrare breve negli anni a noi più vicini: le Vite di uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia (1993) e le Vite brevi di idioti di Ermanno Cavazzoni (1994). 4. Il concentrarsi del tempo nello spazio breve del racconto comporta, come si è detto, molteplici possibilità: il rapporto tra tempo della storia e tempo del discorso può raggiungere valori altissimi, riavvolgendo e comprimendo nella ridotta misura del discorso del racconto un lungo tempo storico e biografico, un’intera esistenza, in vertiginosi raccourcis. Dal modello molto diffuso del racconto concentrato su di un solo personaggio, su un momento essenziale della sua vita o sul suo percorso vitale, si può passare a singolari compressioni dello stesso tempo della storia (tempo raccontato), in termini tali che il tempo del discorso (tempo del racconto) sembri attirare entro la propria brevità, deformare e schiacciare dentro di sé, in modo allucinato, il percorso di un’intera vita umana. Esempi eccezionali di questo tipo di compressione (per cui nella storia il tempo di una vita viene riassunto e vissuto/rivissuto in un giorno solo, avvicinandosi al tempo di svolgimento del racconto) sono costituiti da due racconti italiani scritti a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, Una giornata di Luigi Pirandello e Casa “la Vita” di Alberto Savinio. — 244 —

VICENDE DEL NARRARE BREVE NEL NOVECENTO

La novella pirandelliana sembra voler arrivare a comprimere entro di sé, in uno scorcio di eccezionale tensione, non soltanto la vita del personaggio fittizio che parla in prima persona, ma l’intero percorso delle Novelle per un anno, della vita dell’autore, della macchina di tortura che è stata la sua opera. Essa apparve sul «Corriere della Sera» del 24 settembre 1935, prima di essere collocata alla fine della raccolta postuma che reca il suo stesso titolo, Una giornata. Il discorso in prima persona si svolge come in un’autobiografia condensata, prendendo avvio da due brevi periodi in forma nominale, che sembrano escludere ogni azione da parte del soggetto, che poi, nel corso del racconto, viene come costretto e trascinato ad un’azione che appare sempre involontaria, determinata da altri. È l’espulsione da una condizione di sonno e di incoscienza: l’essere buttato fuori dal treno nella notte figura la casualità della nascita, di un ingresso nel mondo sentito come una caduta; e si sa che questa stessa immagine della caduta si trova anche in un breve testo autobiografico scritto da Pirandello poco prima della morte, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra: «Sono caduto, non so di dove né come né perché, caduto un giorno (ma che è il tempo, e perché non prima e non dopo?), caduto in un’arida campagna». Partendo da questa incomprensibile caduta nel fondo della notte, la novella segue le varie fasi di un ingresso nella vita concentrato in una sola giornata, in cui il personaggio ripercorre in una sintesi allucinata la propria intera esistenza, ne ritrova presenze e situazioni avvertendone l’estraneità, riconoscendole come qualcosa di dimenticato e di perduto (e del resto egli ha dimenticato anche da dove sia partito e quali siano ragioni e destinazione del viaggio). Il buio iniziale è solo angosciosamente illuminato da uno «spettrale lanternino cieco» che sparisce dentro la stazione; ma poi ai barlumi dell’alba, che si sovrappongono a un «fanale ancora acceso» sulla piazza della stazione, il personaggio si incammina in una città, atterrito anche dall’eco dei propri passi: nella progressiva immersione nella vita cittadina si riconosce angosciosamente tutta la sicura e indifferente normalità con cui chi la attraversa vive una situazione che invece, come avverte in sé il protagonista, non è affatto normale. Lo stupore del personaggio che procede in quella realtà ignota è rafforzato dal fatto che per tutti gli altri quella realtà sembra del tutto ovvia e naturale, che tutti sono «persuasi a fare come fanno»: e allora anche per lui scatta la necessità di apparire «persuaso», di mostrare di comportarsi come gli altri. A questo punto si affaccia la scoperta di aver lavorato, nonostante la sensazione di non saper fare nulla, e di essere riconosciuto da quelli che lo salutano; nello «strano impaccio» per — 245 —

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l’abito che porta, egli si fruga addosso e scopre un portafoglio dove trova prima di tutto quelle che appaiono due immagini laceranti di qualcosa di perduto: una «piccola immagine sacra», segno di una fede ingenua e infantile poi dimenticata, e una fotografia con una «bellissima giovane», segno di un amore e di una giovinezza che il tempo ha forse dissolto e consumato. Dopo che il portafoglio ha rivelato il legame con il mondo economico (un grosso biglietto di banca molto consunto), la fame spinge l’uomo in una trattoria, dove si accorge di essere ben conosciuto, trattato come un «ospite di riguardo»; e, dato che il grosso biglietto con cui vuole pagare è fuori corso, viene condotto alla banca, dove è ben ricevuto e dove in cambio del biglietto gli viene dato addirittura un libretto di assegni. Ormai entrato nella propria identità, si accorge di avere un’automobile con un’autista e una casa, dove esitante si reca e dove trova la stessa donna della fotografia che lo accoglie. Ma, passata la notte, ella è svanita e la casa assume un «odore di vita appassita», con un senso di assoluta estraneità: guardandosi allo specchio, il personaggio si scopre ormai vecchio. Appaiono poi in rapida successione i figli e i figli dei figli: infine, avvertendo che ai figli spuntano già i capelli bianchi e sentendo ormai di non potersi più muovere dal posto in cui è stato fatto sedere, resta a guardare i suoi figli stessi, vecchi anch’essi. Tutta la vita, sintetizzata così in questo scorcio vertiginoso, si presenta come un sogno, come un continuo affacciarsi di presenze, di rapporti, di legami incomprensibili, implacabile costrizione ad assumere un abito e un ruolo, come un rapido perdersi di tutto: la novella sconvolge completamente i consueti rapporti temporali e spaziali, condensa in sé l’angoscia del crescere della vita su se stessa e del suo disfarsi, di una identità in cui mai è possibile riconoscersi, dalla quale ci si sente sempre espropriati, sottratti a se stessi. Tutto precipita verso la rapidità della fine: è la voce stessa che parla in prima persona, soggetto dell’enunciazione, a sentire dentro di sé il raccorciarsi del passato, il suo convergere in un punto finale, nella presa d’atto della trasformazione di se stesso e di coloro che sono intorno. Il volume Casa “la Vita” di Alberto Savinio, pubblicato nel «terribile» 1943, si presenta come un libro di racconti sulla morte, strettamente legato, come indica lo stesso autore nella Prefazione, al precedente Narrate, uomini, la vostra storia, in cui le vite di alcuni personaggi storici erano narrate dal punto di vista della morte, nella convinzione che «nella vita di “quegli” uomini la cosa più importante è la morte» (veri e propri racconti sull’«originalità del morire»). Un’originale struttura collega tra loro i sedici racconti di — 246 —

VICENDE DEL NARRARE BREVE NEL NOVECENTO

Casa “la Vita”, accompagnati anche da otto disegni dell’autore: nove Occhi (testi in corsivo in genere brevissimi) si affacciano a «guardare» i racconti stessi, che si succedono in un crescendo che culmina ne Il signor Münster e in quello finale, che dà il titolo a tutto il volume, Casa “la Vita”. Il signor Münster presenta un caso di morte come smembramento, osservato dallo stesso protagonista, in un gioco di scambi e di evanescenze, amplificato da una Postilla a “Il signor Münster”, in cui si dà una folgorante negazione di ogni «futuro» («Che vano gioco aspettarsi dal futuro qualcosa di futuro!… Vedere come una marcia in avanti ciò che veramente è una marcia indietro. Credere che avanziamo quando il nostro illusorio avanzare è in verità un “fabbricare passato”»). Ma il racconto eponimo Casa “la Vita” ci interessa qui in modo particolare, proprio perché comprime in una giornata, quella di una gita sul lago Maggiore, gran parte della vita del protagonista Aniceto, nel percorso dai venti ai sessant’anni e alla morte. E alla morte egli approda come ad una navigazione, alla conquista di una definitiva verità dell’umano, data dal perdersi, dallo sparire nel «mare dell’eternità». Il percorso inizia con Aniceto ventenne che parte in treno (ancora, come in Pirandello) da Milano, prosegue in battello visitando il lago Maggiore, e poi raggiunge una casa da cui proviene un suono di violino; gran parte del racconto si svolge dentro il quadro spaziale della casa che, come del resto suggerisce lo stesso titolo, rappresenta la vita: una casa in cui ci sono i segni di una festa appena conclusa, per la quale il protagonista formula molto presto un’analogia navale, assomigliandola a «un transatlantico di notte in mezzo all’oceano, le fiancate rigate di luci». Nella casa e nel suo giardino deserti, che Aniceto attraversa pieno di ansia e di dubbio, sono compresenti segni di momenti diversi della giornata, stili diversi di mobili, frammenti e tracce di «altre» esistenze, di presenze sospese: egli insegue le tracce inquietanti di persone amate, è attirato dal suono di un violino lento e crudele, raggiunge una stanza che trova deserta col violino sospeso «all’altezza della spalla di un uomo che non c’è» (corsivo di Savinio), poi fugge in giù per una scala di servizio, in fondo alla quale, guardandosi allo specchio, come nella novella di Pirandello, si scopre sessantenne («Se stamattina, quando è partito da Milano, lui aveva vent’anni e sua madre sessanta, ora che lui stesso ne ha sessanta…»). Il racconto è seguito da una Variante di “Casa la Vita”, variante giocosa, che ironizza l’inquietudine «pirandelliana» del testo precedente, conducendo ugualmente Aniceto in fondo alle scale, sulla nave della morte, ma prolungandosi brevemente con l’annuncio dell’arrivo di un nuovo personaggio, Ruggero, «continuazione fisica — 247 —

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di Aniceto», immagine positiva di figlio, molto diversa da quella angosciosa dei «vecchi figliuoli» che chiudevano Una giornata di Pirandello. Nel condurre con tale velocità, nella rapidità di un tempo compresso, a fulminanti conclusioni sotto il segno della morte, questi racconti inscrivono dentro di sé l’insufficienza della vita: e fanno venire in mente il chiudersi di quell’originalissima serie di racconti/descrizioni/riflessioni epistemologiche che è il Palomar di Calvino, che approda a un testo intitolato Come imparare ad essere morto, che termina al momento in cui il signor Palomar decide di descrivere il tempo: Decide che si metterà a descrivere ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto. In quel momento muore.2

Che è ancora un modo di comprimere il tempo, di farlo guizzare tutto in un istante e per sempre svanire. NOTE 1 I. CALVINO, Saggi 1945-1985, a cura di M. BARENGHI, I, Milano, Mondadori, 1995, pp. 750-751 (Cominciare e finire, Appendice a Lezioni americane). 2 ID., Romanzi e racconti, ed. diretta da C. MILANINI, a cura di M. BARENGHI e B. FALCETTO, II, Milano, Mondadori, 1992, p. 135.

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II COMUNICAZIONI

NICOLA LONGO ROMA RACCONTATA NELLA COMMEDIA DI DANTE

INFERNO La prima occorrenza del termine Roma nella Divina Commedia si trova nelle parole con cui Virgilio si presenta a Dante: Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, e vissi a Roma sotto ’l buon Augusto nel tempo de li dèi falsi e bugiardi. (Inf., I, 70-72)

Qui la città viene definita attraverso i nomi delle due prime autorità con cui si identifica il potere imperiale. Sebbene nell’anno di nascita di Virgilio, Giulio Cesare avesse solo trent’anni, egli è colui al quale Dio stesso ha affidato il compito di avviare il processo di fondazione dell’impero in quanto autorità preposta a guidare gli uomini lungo le strade della città terrena. Ottaviano Augusto, per primo, assumerà su di sé tutti i poteri politici previsti dalla Repubblica romana, avviandola verso la dissoluzione nel principato. In questo caso, l’immagine di Roma si trova al punto di svolta, fra la condizione di città che si prepara a ricevere la Rivelazione e quella di città sede della religione pagana. La seconda definizione di Roma collega, com’è inevitabile nell’età di Dante e come avverrà quasi sempre nella sua opera, la città alla sede papale. Ripercorrendo la storia dalla fondazione di Roma (Inf., II, 16-24), Dante richiama il progetto di Dio che sceglie Enea come capostipite di quel popolo che avrebbe fondato la città e quindi l’impero: Roma, luogo santo perché sede del successore di Pietro, il più grande degli Apostoli. La continuità storica provvidenziale, fra Troia e Roma è vista in chiave di nascita e sviluppo della funzione salvifica della Chiesa. — 251 —

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Anche nel discorso di Ulisse che narra la storia della caduta di Troia (sulla scorta del secondo libro dell’Eneide) si legge: l’agguato del caval che fe’ la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. (Inf., XXVI, 59-60)

Qui l’inganno del cavallo è definito come causa del varco, solo in parte metaforico, da cui, secondo il disegno divino, poté uscire Enea, con Ascanio ed Anchise, per dare origine alla stirpe romana. Ancora una volta il pensiero politico di Dante coincide con la sua riflessione teologica. Nella mente di Dio, Enea e Pietro sono gli strumenti attraverso i quali sarà fondata Roma e resa città santa: non c’è salvezza eterna senza Roma. Si ricordi il rapido riferimento al carattere santo della città di Roma che si trova nelle parole dell’affettuosa profezia di Brunetto Latini (Inf., XV, 73-77). La sementa santa di Brunetto coincide con de’ Romani il gentil seme di cui si parla nel canto di Ulisse (Inf., XXVI, 60). Dante ricostruisce il legame con la memoria leggendaria1 che voleva Firenze fondata dai Romani (dopo la distruzione di Fiesole, punita per aver dato asilo a Catilina) e quindi popolata dai rozzi fiesolani sopravvissuti e dai virtuosi romani che vollero rimanervi. Dante sarebbe una delle poche piante che ancora nascono da quel santo seme venuto da Roma: come Roma rientra nel progetto salvifico dell’umanità, anche il poeta, discendente dalla stirpe romana, è riconosciuto come colui che ha il privilegio di compiere il viaggio nell’al di là per indicare all’umanità il proprio destino di pena e di salvezza che l’attende. Un altro riferimento a Roma si ha a proposito del Veglio di Creta (Inf., XIV, 103-105). La statua, posta nell’antro dell’isola egea, magnifica rielaborazione di elementi biblici e classici, rappresenta l’umanità carica di peccati e perciò vecchia e in lacrime; la sua storia si svolge attraverso le quattro età dell’oro, dell’argento, del rame e del ferro e poggia nel presente di terracotta. Una storia che, cominciata dall’oriente (la egiziana Damietta), è rivolta verso Roma da cui riceve luce in quanto sede dell’impero e del papato. Nella Commedia si trova la descrizione di un luogo romano che ha fatto pensare al ricordo della città legato ad un soggiorno romano di Dante che deve eventualmente risalire all’anno del primo Giubileo. Dante ci offre qui (Inf., XVIII, 28-33) l’immagine della grande folla del popolo cristiano che, lungo il ponte di San Pietro, diviso in due file ordinate secondo il senso di — 252 —

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marcia, si reca verso la Basilica di San Pietro o ne ritorna avendo la fronte verso Monte Giordano. È questa una lieve collina su cui sorge palazzo Orsini Taverna. Nel medioevo era detto Monte di Giovanni Ronzone. Dal 1286 vi si insediarono gli Orsini, che stavano nella zona del teatro di Pompeo a Campo de’ Fiori (dove, nel XV secolo, fu edificato il Palazzo Orsini Pio Righetti). A Monte Giordano, nel 1341, abitava Giordano Orsini, nominato da Cola di Rienzo comandante dell’esercito comunale, da questo personaggio deriverà il toponimo. Si legge che il Cardinale Ippolito d’Este vi ospitò, nel febbraio 1578, Torquato Tasso. Il canto dei Simoniaci contiene una serie di immagini poetiche che esprimono l’alta eticità dell’impegno intellettuale di Dante. Il discorso con cui si presenta Niccolò III Orsini, espone, in versi esplicitamente accusatori, la condizione immorale della corte di Roma (Inf., XIX, 67-78; 82-87); e con tali versi Dante esprime la condanna all’inferno per Bonifacio VIII che raggiungerà Nicolò III e per il guascone Clemente V de Goth che lo seguirà nella medesima pena. Poi si ricorda la cupidigia del papa Orsini a vantaggio della propria famiglia, e si evidenzia il tradimento con cui il papa francese sottoporrà la Chiesa di Cristo a Filippo il Bello, in cambio della nomina papale. Uno dei luoghi più celebri dell’espressione antipapale (e perciò antiromana) di Dante, è quello in cui, in questo stesso canto, il discorso si organizza sulla scorta di un chiaro riferimento ad un versetto dell’Apocalisse giovannea in cui è scritto: «e la donna che vedesti è la città, quella grande, quella che ha regno sui re della terra» (17, 18). Dante adopera il brano biblico per argomentare sulla degenerazione di Roma cristiana e papale, prostituita ai re della terra, rivolgendosi direttamente al pontefice simoniaco. In questa rilettura del passo, il poeta, allontanandosi dall’esegesi patristica, interpreta le acque come i popoli dominati dall’impero romano; la prostituta come la Roma cristiana, corrotta, che fa di sé meretricio con i potenti; i re con cui la città si prostituisce rappresentano un secondo riferimento a Filippo il Bello di Francia a cui il papa ha sottomesso la Chiesa; le sette teste della donna sono i sette colli della città eterna; le dieci corna sono i dieci re dei regni barbarici disposti a sottomettersi all’autorità papale; il marito è il pontefice. Il riferimento alla donazione di Costantino (convertito, secondo la leggenda, da papa Silvestro che, col battesimo, lo aveva salvato dalla lebbra) da Dante ritenuta autentica, con cui l’imperatore trasferiva al vescovo di Roma il potere sulla città, sta ad indicare, nell’etica dantesca, come il principio di ogni male e peccato risieda nel venir meno al precetto della povertà. La — 253 —

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corruzione della Chiesa comincia quando essa si trova ad amministrare una ricchezza, attraverso istituzioni statuali e organi di gestione amministrativa. Vale persino per la Chiesa di Cristo ciò che, secondo il profetismo della Commedia, vale per ogni persona: la cupidigia è all’origine del male degli uomini2. Ancora nella processione del Paradiso terrestre, parlando della Chiesa, dopo la diffusione della religione maomettana, Dante dice: Quel che rimase, come da gramigna vivace terra, da la piuma, offerta forse con intenzion sana e benigna si ricoperse, […] (Pg., XXXII, 136-139)

volendo intendere che, forse, l’intenzione con cui Costantino operò, attraverso la donazione, non era del tutto malvagia ma aveva lo scopo di proteggere la comunità dei cristiani in un momento di debolezza (tanto che Costantino troverà posto fra gli spiriti giusti: «Sotto buona intenzion che fé mal frutto, Per cedere al pastor si fece greco»3). Nel canto dei consiglieri fraudolenti (Inf., XXVII, 85-99) si leggono le parole con cui Guido da Montefeltro narra la vicenda dell’inganno da lui suggerito, e messo in atto da Bonifacio VIII, contro i suoi nemici personali, adoperando empiamente le prerogative dei successori di Pietro. Si tratta della storia ben documentata, relativa al consiglio con cui Guido da Montefeltro consentì al papa di conquistare col tradimento il castello di Palestrina («Lunga promessa con l’attender corto Ti farà triunfar ne l’alto seggio»4). Qui la vicenda della contesa fra Caetani e Colonna, vede contrapposte due schiere di cristiani ed è usata, a testimonianza di un potere politico che si confonde col potere religioso: Roma è la sentina di tutti i vizi che si riassumono nella cupidigia. Tale peccato, dal punto di vista delle cose sacre, è simonia, il peggiore di tutti i mali: Roma non può che essere peggiore di Babilonia. Anche in questo brano torna, nelle parole del peccatore, il ricordo della leggenda5 dell’imperatore Costantino che fece chiamare papa Silvestro dal Soratte, perché lo guarisse dalla lebbra, cosa che avvenne dopo la conversione e il battesimo. Nel descrivere la gigantesca mole del corpo di Nembrot6, il gigante della tradizione patristica che nel testo biblico è ricordato come un robustus vena— 254 —

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tor (Genesi, 10, 8-9), fondatore della zikurrat di Babele, Dante paragona la grandezza del suo capo a quella della Pigna collocata nel cortile antistante la basilica di San Pietro (ora visibile nel cortile vaticano della Pigna) e che misura circa 4 metri di altezza (Inf., XXXI, 58-80). È molto probabile che questa pigna si trovasse, anticamente, nelle terme di Agrippa (64-12 a.C.) nei pressi del Pantheon. Rovine di un rifacimento serviano di queste terme sono ancora visibili in via dell’Arco della Ciambella, posta di fronte a via della Pigna (entrambe traverse di via dei Cestari) che, conduce a piazza della Pigna dove c’è la chiesa di San Giovanni della Pigna. PURGATORIO Nell’invettiva che il poeta rivolge ai due imperatori che precedettero l’elezione di Arrigo VII, li si accusa d’aver trascurato i loro doveri verso l’Italia e verso Roma (Pg., VI, 112-114). Il tono biblico, con l’esplicita citazione di Geremia7, che caratterizza l’intero appello ad Alberto I d’Austria, sottolinea il valore spirituale, politico ed etico, della concezione dantesca del potere imperiale. L’imperatore dovrebbe considerare Roma come città propria, come Roma dovrebbe sentire suo l’imperatore. In tale scambio di fedeltà coniugale, consiste il retto procedere del rapporto fra la sede e la funzione: non si è imperatore se non a Roma, come l’urbe non è la stessa se non è sede imperiale. Il ricordo di un luogo mitico di Roma si trova nei versi di Pg., IX, 133138. Tornano qui due eventi della storia romana. Il primo si riferisce alla vicenda di Tarpea, uccisa dai Sabini dopo aver consentito loro l’accesso al Campidoglio. Da allora la rupe capitolina porta il suo nome e da un fianco scosceso si eseguirono le condanne a morte dei traditori della patria8. Il secondo richiamo stabilisce un paragone fra il rumore della porta del purgatorio che cigola sui cardini e il rumore della porta del tempio di Saturno, prodotto quando Cesare, nel marzo del 49, entrato in Roma con le armi, allontanato L. Cecilio Metello, uno dei tribuni, che vi si opponeva, la fece aprire per impadronirsi del tesoro cittadino. «Roma fu più povera di Cesare», dice Lucano nella Farsaglia9. Nella prima cornice del Purgatorio, fra gli esempi di umiltà, Dante narra la leggenda della conversione di Traiano ad opera di papa Gregorio, commosso dalla semplicità con cui l’imperatore aveva corrisposto alla richiesta di giustizia di una povera vedovella Pg., X, 73-78. L’episodio (Dione Cassio, — 255 —

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XIX, 5) era molto conosciuto e diffuso nel medioevo in testi enciclopedici, scritti moralistici e raccolte di novelle (Speculum istoriale di Vincenzo di Beauvais, XI, 46 e XXIII, 22; Fiore e vita di filosofi, XXV, I9; Novellino, LXIX) ma anche in opere di scultura. Fra queste si ricorda il bassorilievo di un arco trionfale posto davanti al Pantheon e chiamato della Pietà, demolito da Alessandro VII Chigi10. Nella terza cornice del Purgatorio, Dante si trova, in un’atmosfera di fitta nebbia. Qui, fra gli iracondi, egli incontra Marco Lombardo11 che espone la fondamentale concezione etico-politica del poeta, spiegando la causa della corruzione umana. Dopo aver trattato del libero arbitrio quale presupposto della responsabilità morale dell’individuo (Pg., XVI, 75-76 e 106-114), Marco Lombardo afferma la necessità della distinzione del potere temporale dal potere spirituale, perché l’uomo possa realizzare il proprio destino terreno e ultraterreno, spiegando come Roma, attraverso Augusto, aveva predisposto il mondo ad accogliere la Buona Novella. Tale condizione di pace si fondava sulla coesistenza di due autorità preposte alla guida dell’umanità lungo la via etico-politica del bene terreno e lungo la via teologico religiosa del bene spirituale12. Sicché è la volontà di Dio che stabilisce (come s’è visto in Inf., II, 20-21) la fondazione della città di Roma e la disposizione del suo popolo a renderla domina gentium, perché tutto il mondo potesse accogliere la Parola di Cristo. Torna l’idea di Roma città provvidenziale e la sua identificazione con il potere spirituale del Papa. Dalle degenerazioni di quest’ultimo, che ha voluto impadronirsi dell’autorità imperiale col risultato di annullarla, dalla confusione dei due poteri, empiamente uniti nelle mani del solo pontefice, discende la corruzione del mondo, risultato di questa unione innaturale, contraria alla volontà divina13. Nel discorso di presentazione che farà di sé Publio Papinio Stazio15, si trovano quei versi (Pg., XXI, 88-90) in cui si ricorda come Roma, centro assoluto della vita dell’impero, ne attirava a sé le menti migliori, senza distinzione e senza pregiudizi. È chiaro che nella mente di Dante, la grandezza del poeta Stazio non avrebbe potuto guadagnarsi la gloria dell’incoronazione poetica ove non avesse avuto l’opportunità di essere chiamato a Roma. Nel corso della processione simbolica che Dante narra, sullo sfondo del Paradiso terrestre, assistiamo al procedere del carro trionfale, simbolo della Chiesa di Cristo. Si muove su due ruote (il Vecchio ed il Nuovo Testamento), è trascinato dal grifone (metà aquila e metà leone, simbolo della natura umana e divina di Cristo) e non trova alcun termine di paragone per grandezza e — 256 —

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bellezza. Dice Dante (Pg., XXIX, 115-117) che Roma non onorò né Scipione l’Africano né Augusto, con un carro trionfale di tale fattura, ma lo stesso carro del Sole, guidato da Apollo, apparirebbe povera cosa rispetto al carro trionfale della Chiesa. Qui Roma è invocata in quanto la tradizione le attribuiva la capacità di produrre manifestazioni trionfali di incommensurabile efficacia che risultano essere poca cosa, rispetto alle meraviglie del Paradiso terrestre. Dove Dante accoglie la predizione, espressa da Beatrice, circa il suo destino ultraterreno (Pg., XXXII, 100-102), Roma è assimilata alla città di Dio, al Regno dei Santi e dei Beati, al Paradiso; essa, equivale a Gerusalemme. Cristo è cives della città celeste esattamente come lo è di Gerusalemme come lo è di Roma. Beatrice preannuncia al poeta la salvezza eterna che lo renderà cittadino di quella città il cui capo è Cristo. Nel canto successivo (Pg., XXXIII, 37-45), ancora un riferimento indiretto alla città di Roma. Nel discorso metaforico di Dante il potere imperiale, rappresentato dalle penne lasciate sul carro, fino ad ora in balia della Chiesa di Roma, non rimarrà senza un successore, perché il poeta, da Profeta, vede vicino il tempo in cui una guida, inviata da Dio stesso, ucciderà sia la ladra sia il gigante che con lei pecca ed eliminarà la corruzione della chiesa. PARADISO Si tralascia l’analisi del canto VI del Paradiso, in cui è espressa l’idea di Roma come realtà terrena, di cui Dio si serve per manifestarsi nella storia. Tutto ciò che di grande Roma ha saputo fare, è stato determinato da un preciso progetto provvidenziale: Roma è la nuova Gerusalemme che non sa riconoscere la grazia attribuitale da Dio e perciò, continuamente degenera, mostrandosi degna dell’antica Babilonia. Il primo luogo in cui si trova citata Roma nel Paradiso, è nel discorso di Folchetto da Marsiglia (Pd., IX, 127-142). Attraverso il personaggio del poeta d’amore, divenuto predicatore di crociate e guida della guerra contro gli Albigesi, Dante profetizza ancora la prossima liberazione della Chiesa (e quindi di Roma) dall’adultero, cioè dal traditore che ha occupato i luoghi in cui sono stati sepolti i martiri. Non si può trascurare come il riferimento a Roma, colta qui nei luoghi resi sacri dai cimiteri cristiani, a cominciare dalla tomba di Pietro in Vaticano, discenda da un discorso severissimo relativo a Firenze, definita pianta di — 257 —

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Lucifero per aver prodotto e diffuso nel mondo il fiorino, emblema del denaro, causa di perdizione del gregge per colpa del pastore diventato lupo, per avidità15. Il richiamo al Vaticano, luogo della sepoltura di Pietro, e alle catacombe si collega alla pratica degli uomini di chiesa che, messi da parte i libri sacri, studiano i testi di diritto canonico per trarne ispirazione e consigli per conseguire la ricchezza, senza pensare alla povertà, all’umiltà e all’ubbidienza che ispirarono il consenso di Maria all’annuncio di Gabriele. Ancora, nel Paradiso, ritorna il legame fra Firenze e Roma, ricordata nel discorso di Cacciaguida mediante la metonimia di Monte Mario (Pd., XV, 109-111). Nelle parole dell’avo, Dante pone l’idea di Roma di un tempo in cui ancora non era stata superata da Firenze nella magnificenza dei suoi edifici. La quale Roma, come sarà stata superata nello splendore, così lo sarà nella decadenza morale. Evidentemente nel pensiero dantesco l’immagine di Roma, viene continuamente associata alla riflessione sulla storia di ascesa e di decadenza di Firenze, collegata alla corruzione ed al degrado etico-politico che accompagna l’una e l’altra città. Ancora una definizione di Roma, passata quasi in proverbio, si trova nella profezia di Cacciaguida (Pd., XVII, 49-51). Roma è il luogo in cui si vende Cristo: Dante collega la sorte della Chiesa a quella propria: la condanna all’esilio è la conseguenza della corruzione di Roma. Il legame è lo stesso che identifica Dante fra i fiorentini di origine romana e cacciati dalla città ad opera dei discendenti di coloro che vennero dalle campagne di Fiesole. Con questo spirito, il poeta invoca l’intervento divino che ripeta il gesto di Cristo che cacciava i mercanti dal tempio di Gerusalemme (Pd., XVIII, 118-123). Qui il rinvio a Roma è del tutto indiretto perché Dante intende stabilire, mi pare, un collegamento fra il tempio di Gerusalemme e la costruzione della Chiesa dei credenti in Cristo (edificata per merito dei miracoli compiuti dai martiri e dal loro sacrificio). Dal primo luogo Cristo compì l’atto di scacciare i mercanti16 che ne offendevano la sacralità; dall’altro luogo, che storicamente s’identifica con il pontefice e con la curia romana, Dante chiede che vengano allontanati i nuovi farisei, i preti simoniaci. Anche San Pietro Damiano, nel discorso con cui si presenta al poeta, fa riferimento (Pd., XXI, 124-135) a quanto i costumi degli uomini di chiesa si siano corrotti, rispetto alle origini del cristianesimo ed anche al cristianesimo dei suoi tempi. A Pietro Damiano si chiede con insistenza di ricevere il cappello cardinalizio che ora è agognato con cupidigia e degenera sempre di più passando da — 258 —

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persona indegna ad altra ancora più indegna. Pietro e Paolo si attennero al precetto di Cristo della povertà. Oggi gli uomini di Chiesa sono grassi e pasciuti. Anche questa è un’immagine indiretta ma assai significativa della vita della corte romana: pochi e troppo nutriti chierici privilegiati e molti servi a loro servizio. Nel rispondere a San Pietro che lo esamina sulla fede, Dante adopera una perifrasi per riferirsi a San Paolo e dice: […] come ’l verace stilo ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo, fede è […] (Pd., XXIV, 61-64)

Paolo è colui che con Pietro, fratello nella fede, operò per condurre Roma lungo il giusto cammino. La città si identifica con la sua missione di salvezza universale a cui è chiamata dal sacrificio degli Apostoli e dei martiri. Altro luogo della terza Cantica in cui si ricorda Roma è quello del feroce discorso di San Pietro (Pd., XXVII) contro la città dei papi, luogo di corruzione della Chiesa. Roma è, nelle parole accorate e sdegnate di Pietro, «il luogo mio il luogo mio il luogo mio»: nulla ha mai espresso meglio il legame fra un’entità terrena ed il suo significato profetico; Roma è la città che appartiene spiritualmente a Pietro. Nelle parole dell’Apostolo, la sede papale risulta vedova in quanto occupata abusivamente da chi non ne ha l’investitura spirituale. La città non perde la sacra funzione di guida a Dio, anche se il pastore degenere è indegno della missione che dovrebbe svolgere, soddisfacendo ed appagando in tal modo Lucifero perché la Chiesa si trova in mano dei nemici di Cristo, intenti a gestire con strumenti umani il potere temporale, dimentichi della loro missione salvifica (Pd., XXVII, 40-66). Roma, s’identifica con la Chiesa, resa santa dal sangue dei testimoni della fede: Lino e Cleto sono i primi due, martiri e santi, successori di Pietro. Essa ha deviato dal suo scopo: è divenuta causa di separazione del popolo di Dio; ha innalzato la croce a vessillo di partiti schierati su fronti nemici e che combattono fra loro. Eppure Dante, attraverso Pietro, manifesta la fede nel vicino intervento della Provvidenza che verrà in soccorso della Chiesa, ripristinandone la sacra funzione di testimone della Salvezza e di Maestra della Fede. Giunto il Pellegrino nella candida rosa, in cui le anime dei beati, con gli angeli, contemplano Dio, esprime tutt’intera la sua meraviglia, che è insieme — 259 —

NICOLA LONGO

atto di grazie e di lode. Entro questo discorso, il suo stupore viene paragonato a quello delle genti che, provenendo dalle terre lontane del nord Europa, si trovano a Roma davanti alla grandezza monumentale degli edifici o a quella delle loro rovine, e guardano stupefatti la magnificenza del Laterano, prima sede degli imperatori e poi residenza dei papi. La meraviglia che suscita la città, in uomini che nulla di simile avevano mai visto, è enormemente inferiore a quella che prende il Pellegrino dinnanzi a Dio. Tanto più che egli ha compiuto l’infinita via che va dal tempo all’eternità, da Firenze, corrotta, alla comunità di santi e di beati. Colui a cui è impedito di tornare nella sua città, si trova, per grazia di Dio, a poter accedere, vivo, nella città di Dio. La domanda commossa del pellegrino croato davanti alla miracolosa impronta del volto di Cristo nel lino di Veronica (Pd., XXXI, 103-108), in San Pietro, ci introduce al tema di Roma quale meta non di un pellegrinaggio qualunque ma di quello speciale del primo anno santo del 1300. Ancora al romeo, Dante paragona se stesso, giunto alla meta del viaggio ultraterreno (Pd., XXXI, 43-45). Nell’ecclesiologia dantesca il Giubileo s’inscrive all’interno di quella richiesta di perdono e di remissione dei peccati che già nel pellegrinaggio tradizionale aveva trovato la via della risposta. Alla confessio oris, contritio cordis e remissio operis17, si deve pensare che il cristiano del medioevo intendeva far corrispondere, attraverso il viaggio, un rapporto materiale con la santità, con i luoghi della sepoltura dei martiri o con gli oggetti resi sacri dal contatto con Cristo o con i santi. Il culto delle reliquie si unisce alla forte richiesta d’espiazione che, a sua volta, si collega con l’attesa escatologica della seconda parusia (il riferimento al profetismo gioachimita sembra qui del tutto coerente). Così, impedito ai cristiani di conseguire l’indulgenza plenaria attraverso la partecipazione alla crociata o il viaggio in Terra Santa, dopo la conquista islamica di San Giovanni d’Acri del 1291, il flusso dei pellegrini si diresse verso Roma18. Sicché «proprio Bonifacio, nel giro di pochi mesi, tra il dicembre e il febbraio [del 1300], aveva dovuto arrendersi alla richiesta dei fedeli che affluivano a Roma […] travolgevano ogni consuetudine, sì da rendere inevitabile la regolamentazione di un fatto religioso»19. Roma, per il suo passato di città di Pietro e Paolo e dei martiri, contiene in sé una gran quantità di reliquie, oltre agli straordinari tesori delle catacombe, e può, quindi, assumere il ruolo della Terra Santa e tale rimarrà a lungo nella immaginazione dei cristiani, almeno fino all’età della Riforma.

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ROMA RACCONTATA NELLA COMMEDIA DI DANTE

NOTE 1 «favoleggiava […] d’i Troiani, di Fiesole e di Roma», dirà Cacciaguida in Pd., XV, 125126. Il medesimo rapporto fra Roma, Fiesole e Firenze, si trova in Convivio, I, III, 4 («figlia di Roma, Fiorenza»); in Epistole, VII, 24-26 («Firenze che affila i corni della rivolta contro Roma che la fece a sua immagine e somiglianza»); e in G. VILLANI, Cronaca, I, 38. 2 «La cupidigia del denaro è, infatti, la radice di tutti i mali» (1 Timoteo, 6, 10). 3 Pd., XX, 56-57. 4 XXVII, 110-111. 5 Questa leggenda è ricordata da Brunetto Latini nel Tresor, I, 87. 6 Sulla presenza di questo personaggio nella Commedia, mi permetto di rinviare al mio saggio L’«exemplum» fra retorica medievale e testo biblico nel «Purgatorio», in Memoria biblica nell’opera di Dante, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 57-98, alle pp. 65-66. 7 «Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua Domina gentium princeps provinciarum Facta est sub tributo» [Come siede solitaria La città già sì popolosa. È divenuta quale una vedova La grande fra le nazioni. La signora delle province È divenuta una tributaria!], si legge, a proposito di Gerusalemme, nelle Lamentazioni di Geremia, 1, 1. 8 TITO LIVIO, Ab urbe condita, I, 11. 9 III, 168: «pauperiorque fuit tunc primum Caesare Roma». 10 Si veda I. BARSALLI BELLI, L’aspetto urbano di Roma ai tempi di Dante, alla voce Roma, in Enciclopedia dantesca, IV, p. 1016. 11 Saggio uomo di corte di integerrima moralità: Novellino (XLIV) e G. VILLANI, Cronica (VII, CXXI). 12 Il rinvio è al De monarchia, III, XV, 7-10. 13 In Convivio, IV, V, 6 si legge: «E tutto questo fu in uno temporale che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che assai è manifesto la divina elezione del romano imperio, per lo nascimento de la santa cittade, che far contemporaneo a la radice de la progenie di Maria». 14 Nato a Napoli fra il 45 ed il 50 d.C. e morto non oltre il 96; confuso da Dante con Lucio Stazio Ursulo, nato a Tolosa, maestro di retorica vissuto ai tempi di Nerone. 15 «Vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci» (Matteo, 7, 15). 16 «Sta scritto: La casa mia sarà chiamata casa di preghiera; ma voi ne avete fatta spelonca di ladri» (Matteo, 21, 12). 17 TOMMASO, Summa teologica, III, q. 90, a. 2. 18 Nella Vita Nuova c’è un riferimento ai romei: «Dopo questa tribulazione avvenne, in quello tempo che molta gente va per vedere quella imagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo della sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente, che alquanti peregrini passavano per una via la quale è quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna» (XL, 1). 19 R. MANSELLI, La religiosità giubilare del 1300, in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1997, p. 663.

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FILIPPO GRAZZINI NASTAGIO, FEDERIGO E LA DONNA CHE DICE DI NO. UNA STRUTTURA NARRATIVA E DUE SOLUZIONI NELLA GIORNATA V DEL DECAMERON Basta una lettura rapida a far cogliere tra le novelle 8 e 9 della giornata quinta del Decameron affinità di ordine tematico e affabulativo, del resto suggerite con chiarezza da Fiammetta che – quando prende a dire la novella di Federigo degli Alberighi – definisce quella storia «simile in parte alla precedente», riferendosi al caso di Nastagio degli Onesti. Guardando più attentamente, però, anche margini di distinzione possono essere scorti in queste due storie d’amore dissipante e a lungo non ricambiato. Le vicende di Nastagio e di Federigo sono costruite sul disegno comune di una caduta morale e finanziaria, resa più rovinosa a ogni tentativo di corteggiamento, rispettivamente, della Traversari e di Giovanna; fino a che, al fondo virtuale o reale della sventura, le sorti si risollevano di colpo e imprevedibilmente. In tale struttura è riconoscibile una delle due costanti individuate a suo tempo da Claude Bremond nella sua ricerca intorno a una classificabilità degli universi del racconto1. Si tratta del tipo generale del processo di peggioramento, che volge in negativo la logica della potenzialità di miglioramento di una condizione data e del tentativo di sua attuazione; tale tratto universale si specifica nello schema del peggioramento a sacca: ogni sforzo di modifica in positivo di uno stato di cose da parte di un agente risulta all’opposto in un’accentuazione progressiva di malessere2. Se l’impianto delle due novelle è il medesimo, non per questo, quando la degradazione dei due protagonisti raggiunge il punto-limite, Nastagio e Federigo agiscono in modo uguale; e se le due storie vanno in parallelo, si osservano pur sempre spunti specifici modellati in sequenze che tra l’uno e l’altro testo non sono sovrapponibili con precisione assoluta. Se ne trae un significato plurimo degli avvenimenti affabulati e, più sottilmente, s’intende come anche nello spazio limitato di due — 263 —

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novelle contigue il Decameron genera un campo di tensioni ideologico-letterario, fa interagire espressioni culturali di un mondo ove convivono paradigmi di civiltà cortese tramontata e valori mercatanteschi. Volendo ricorrere, per una definizione della coppia novellistica, al titolo di una raccolta di saggi sul capolavoro del Boccaccio, potremmo insomma parlare di «regime delle simmetrie imperfette»3. In una prima sequenza di entrambe le storie l’innamorato, ora Nastagio ora Federigo, «giostra, armeggia, fa feste e dona, e il suo senza alcun ritegno spende»4 per conquistare rispettivamente la Traversari e Giovanna: invano. Si convince alla fine a lasciare la città ove abita, l’uno Ravenna l’altro Firenze, per «scemare l’amore e le spese». Nastagio si ferma peraltro nella vicinissima Chiassi, dove seguita a fare «la più bella vita e la più magnifica», mentre Federigo si ritira nel «poderetto piccolo» di Campi che solo gli rimane. Un’ampia macrosequenza centrale, nel primo caso dal paragrafo 13 al 43 su 44 totali, nell’altro dal 9 al 38 su 43, con sue interne segmentazioni, sviluppa l’una e l’altra fabula fino all’acme drammatico e al conclusivo consenso dato dalle due donne ai giovani. L’ultimo tratto, di nuovo sulla scena di città, formalizza col matrimonio l’intesa affettiva, suggellata da una moralità a uso tanto delle donne quanto di uomini dissipatori come l’Alberighi. Costretto dagli insuccessi, gli stessi patiti da Federigo a Firenze, fuori da Ravenna, Nastagio ha però il cuore e la mente dolorosamente volti alla sua «crudel donna» (§ 13) anche a Chiassi. Una bellissima mattina di maggio l’innamorato che, respinto, «più volte» aveva provato il «disidero d’uccidersi» (§ 7) porta i suoi passi, solo e perduto nel suo pensiero dominante, nel folto della pineta. Gli si presenta qui una scena infernale di caccia data a una «bellissima giovane ignuda» da un cavaliere e da due fieri mastini. Guido degli Anastagi espone poi al concittadino e discendente la perturbante visione. Con il contrappasso della caccia egli espia in eterno la colpa del suicidio commesso per causa di una donna disdegnosa come la Traversari verso Nastagio, sprezzante del suo innamorato anche da morto ma a sua volta scomparsa di lì a poco, non pentita della propria malvagità. Nella foresta di Chiassi sono così rivelate al giovane degli Onesti le conseguenze dell’ultimo peggioramento possibile, dell’atto di autoannullamento finale che Nastagio ha contemplato a Ravenna5; così che dall’esempio di una tragica perdita del senso cristianamente sacrale della vita egli tragga la persuasione a proteggersi dal suo amour fou. Parliamo di esempio perché è alla letteratura devota ed esemplare che appartengono gli antecedenti del Boccaccio in questo passo della novella. La fa— 264 —

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bula di Nastagio deve in generale a Dante: quello infernale dove, in XIII, 109-129, proprio in una selva di suicidi gli scialacquatori sono inseguiti e sbranati da «nere cagne, bramose e correnti»; e quello dell’Eden, dove il viator s’inoltra al canto XXVIII nella «divina foresta spessa e viva» (v. 2), paragonata alla «pineta in su ’l lito di Chiassi» (v. 20), tanto profondamente da perdere la cognizione spaziale, quasi al modo del giovane degli Onesti. Ma il motivo specifico della caccia d’amore infernale viene alla storia decameroniana da Vincenzo di Beauvais e, prima di lui, da Elinando. Appare invece problematica una derivazione diretta di V 8 dallo Specchio di vera penitenza, dove fra Jacopo Passavanti, seguendo molto da vicino Elinando, narra della caccia tragica di un cavaliere a una donna, apparsa allo stupefatto carbonaio di Niversa: la datazione dello Specchio è infatti posteriore al Centonovelle; il Boccaccio poté peraltro ascoltare direttamente le prediche del frate. L’incertezza tuttavia non tocca l’ordine delle nostre considerazioni. Prima della fabula di Nastagio, il tòpos della caccia è funzione di un monito: la passione porta in perdizione, e di un esortazione al sacrificio dell’eros. In Passavanti, che è come a dire in Elinando, l’umile carbonaio e il suo conte apprendono dal cavaliere soprannaturale, Giuffredi, che la pena inflitta a lui e alla sua nemica dama Beatrice consegue al loro amore proibito, inclusivo di assassinio del marito, Berlinghieri cavaliere del conte di Niversa, da parte della donna, vogliosa del solo amante. La storia decameroniana racchiude, secondo l’opinione comune a studiosi di grande autorevolezza, un capovolgimento di senso della visione6. Giova a intendere quest’ardita inversione del modo di assorbire un insegnamento il fatto che il tòpos della caccia infernale non è l’unico dato accolto nella novella boccacciana dagli avantesti. La donna perseguitata nell’Aldilà da Guido degli Anastagi per inappellabile giustizia divina appartenne in vita alla tipologia delle negativae, le odiose che non ricambiarono l’amore a esse portato dagli uomini; le negativae appaiono, avvilite e mortificate, nel corteggio del dio d’amore cavalcante immaginato in un passo del De amore. Nella visione avuta dal personaggio decameroniano è dannata, sulla suggestione di Andrea Cappellano, una donna che non ha commesso il fatto, non si è data a Guido degli Anastagi; mentre la Beatrice del Passavanti espia la colpa dell’adulterio, un amore (di troppo) consumato. Restato «tra pietoso e pauroso» dopo lo spettacolo raccapricciante, Nastagio – a suo modo reinterprete e abile strumentalizzatore degli exempla – si convince «questa cosa dovergli molto poter valere». Se per lui la visione infernale poteva avere una valenza dissuasiva, su altri – all’inverso – agirà propositi— 265 —

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vamente: un monito a cessare di non amare. Accogliere l’offerta sentimentale, ricambiare l’eros, evita a una donna colpe proprie e altrui. La riflessione dell’innamorato si traduce in azione: invitata tutta la buona società ravennate in pineta (il Boccaccio si è già riservato di far tenere al personaggio uno stile di vita magnifico anche sotto le tende di Chiassi), il degli Onesti fa in modo che la visione si ripeta davanti a tutti, con in prima fila la Traversari. Questa intende bene il minaccioso messaggio e a sua volta opera un’inversione di senso: nel suo atteggiamento, ora tutto in favore dello spasimante7. Se prestiamo un poco di attenzione, del resto, alle circostanze in cui Nastagio viene a contatto del soprannaturale e lo interpreta in modo così personale, ci possiamo convincere che il contesto ambientale in cui la visione si produce priva il fatto della sua natura infernale, portandolo piuttosto in una dimensione a tratti fiabesca – maraviglia quasi più che orrore. Non è notte (§ 13), la notte da incubo del carbonaio di Niversa, anzi è passata la quinta ora di un giorno (§ 14) bellissimo di maggio, mese dell’amore; nella foresta, spazio letterario della fantasia e dell’eccezionale, il personaggio s’addentra come portato dal sogno: il lettore, condizionato dall’avantesto dantesco, immagina le piante, i fiori, le erbe in tutta la loro bellezza (la bellezza dell’Eden). Questa non può essere la cornice di un quadro d’infelicità, dove l’amore è condannato: nel trattato di Andrea Cappellano la cavalcata del dio col suo seguito, che al contrario esalta l’amore ed espone le negativae al disprezzo, si presentava improvvisa a un cavaliere inoltratosi in una selva nelle ore del giorno e nel pieno della bella stagione8. Al di là del fatto in sé, dell’intuizione di Nastagio a suo modo ammirevole e comunque risolutiva, è possibile comprendere qualcosa del meccanismo mentale genialmente approntato nella novella? Interrogarsi sul come e non solo sul che appare non ozioso, data l’eccezionalità dell’intervento manipolatorio boccacciano su un istituto della cultura medievale cristiana, l’exemplum, dalla finalità rilevante quale l’orientamento dei costumi collettivi. S egre9 ha ricostruito comparativamente le modalità delle visioni avute dai protagonisti, sia in Elinando (sempre attraverso Passavanti), sia nel Decameron. Entrambe sono in due tempi: in ciascuna novella l’iterarsi dell’apparizione con astanti diversi nel secondo momento rispetto al primo è significativa. Nello scrittore sacro la visione consiste in un messaggio destinato nel secondo momento al conte di Niversa; che inizialmente essa si presenti al solo carbonaio (e il senso non ne sia illustrato) indica il manifestarsi del soprannaturale a tutti, ma la sua intelligibilità esclusiva da parte di chi sta in alto nella — 266 —

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scala dell’autorità. Dopo avere esposto il suo pietosissimo caso, Giuffredi chiede al conte in grazia preghiere per ridurre il tempo della sua espiazione: di un messaggio del genere, con il suo scopo pratico e specifico, il mittente è appunto il cavaliere. Ma la comunicazione può anche avere una funzione esemplare, universale. In tal senso il mittente primo, anteriore a Giuffredi, è Dio. Le affinità sociali e di mentalità con l’infelice cavaliere predispongono il conte a fungere da destinatario in grado d’intendere il messaggio; queste affinità con Giuffredi potrebbero d’altro canto facilitare le caduta proprio del conte nello stesso peccato del cavaliere, ed è dunque bene che il monito sia rivolto a lui, il signore di Niversa, e con chiarezza. Mero tramite tra l’apparizione e il suo signore, il carbonaio che non saprebbe capire il senso del perturbante spettacolo è del resto – nel suo candore – provvisto a sufficienza di fede e di timor di Dio. Fedele al modello, Boccaccio rinuncia alla visione unica (per ipotesi Nastagio e la Traversari potevano trovarsi insieme di fronte alla caccia infernale, apparsa una volta sola, ed elaborarne il senso congiuntamente) in favore di un’apparizione in due fasi. Al suo primo manifestarsi la visione si presenta direttamente a Nastagio, che subito apprendiamo essere in rapporti di familiarità con Guido degli Anastagi e subito è edotto del senso dell’orrenda azione di cui è spettatore. Nastagio diventa poi, lui pure, elemento di contatto tra la visione e un destinatario ultimo e di speciale riguardo: la sdegnosa Traversari. Ma più conta osservare come Guido degli Anastagi è il mittente del messaggio soltanto in superficie: nel profondo il mittente è chi in tutto (condizione affettiva, estrazione cittadina, identità onomastica) gli assomiglia: Nastagio stesso. In questa luce l’epifania del soprannaturale mostra i tratti di una proiezione dell’interiorità, non di un fenomeno oggettivo10; nella sequenza dell’entrata in pineta, fino alle prime immagini della giovane accorrente e terrorizzata (§§ 13-15), il Boccaccio rende con efficacia lo stato di rapimento mentale dell’innamorato: «entrato in pensiero della sua crudel donna», isolatosi «per più poter pensare a suo piacere», «piede innanzi piè se medesimo trasportò pensando infino nella pigneta» ecc. Non più accolta in modo passivo e acritico, la materia dell’exemplum diviene dunque costruzione personale. Il secondo tempo della visione, allora, è una messinscena, della quale Nastagio cura con talento registico tutti i dettagli11. Come il giovane ravennate a Chiassi Federigo si trova di fronte, nel frangente di maggiore intensità emotiva della sua novella, a una virtualità di autoannullamento, che può condurlo al fondo della disgrazia. Si tratta pro— 267 —

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priamente non della soppressione di sé, ma del sacrificio di un falcone; è evidente, tuttavia, che nell’animale si sommano una valenza simbolica: la distinzione sociale del padrone, esercitato in un genere aristocratico di caccia, e un’utilità pratica: l’uccello è ormai l’unico mezzo di sostentamento per l’Alberighi, che «strettissimamente vive» della sua poca terra e «quando può uccellando». Ha così una plausibilità l’equivalenza tra l’eventuale tirata di collo del volatile e il darsi morte del padrone. Nella caccia infernale di Guido degli Anastagi alla sua negativa Nastagio aveva visto, anzi era riuscito a vedere, le conseguenze del proprio eventuale suicidio. All’Alberighi non è dato di, e non sa, vedere oltre la propria possibile morte, e non riesce a evitare la caduta al fondo dell’abisso12. Di contro al protagonista della novella precedente, il rovesciamento di tendenza della sua vicenda sentimentale – fino al sommo della gioia con l’unione alla donna amata – dipende da forze esterne, l’apprezzamento da parte di Giovanna della sua magnanimità e le circostanze personali in cui la donna si viene a trovare. E mentre dal male al bene la storia di Nastagio trascorre senza colpo ferire, quasi per mera inversione di segno algebrico, Federigo raggiunge il suo oggetto d’amore al termine di un percorso tortuoso e non senza il dolore di una perdita. Che l’eroe di V 9 non padroneggi gli eventi come invece Nastagio sembra indicare, almeno in certa misura, l’impostazione della diegesi boccacciana. Si considerino sotto un aspetto comune le sequenze in serie (§§ 9-20) di seguito al ritiro del protagonista in campagna. Il marito di Giovanna si ammala; fa testamento; muore; in estate la vedova va a villeggiare a Campi, in un possedimento confinante con quello dell’Alberighi; il figlio della donna, attratto dal volo del falcone, prende ad avere dimestichezza con Federigo; anche il ragazzo si ammala; la madre, comprendendo che il dono dell’animale risolleverebbe il morale del figlio abbattuto, si presenta a casa dell’innamorato di un tempo, invitandosi informalmente a desinare e preparandosi a fare la sua impegnativa richiesta. Nessuno di questi fatti dipende dalla volontà operativa del protagonista; laddove Nastagio muoveva, per così dire, incontro alla visione e ne sapeva trarre la chiave per uscire dalla crisi. Il dettato della novella 9 non si distingue, comunque, da quello della precedente nella stessa giornata V soltanto per l’inazione di Federigo, del resto impedito da un’indigenza ben più grave di quella del giovane degli Onesti. Ora la costruzione boccacciana è nell’insieme più ricca, mossa, intesa a una illustrazione del confronto di sentimenti che la peripezia pone tra Giovanna e il suo devoto. Dove il rapporto tra un innamorato e una negativa non si ca— 268 —

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povolge istantaneamente, succede (§§ 20-23) che sulla soglia della povera dimora di Federigo la donna e il suo ospite si scambino parole costumatissime. L’una dichiara di sentirsi in obbligo col suo fedele negletto, l’altro risponde di essere appagato dal solo fatto di avere amato una donna di tanto valore: il codice sentimentale di dame e cavalieri non potrebbe essere osservato con più zelo. Succede anche che la sequenza successiva (§§ 24-27) rappresenti con drammatica efficacia la ricerca di qualcosa da imbandire condotta per casa, «oltre modo angoscioso», dall’Alberighi; egli dai lettori meriterebbe piena compassione, non fosse per il suo ostinato rifiuto di principio, ancora in base a regole di condotta che sarebbero giustificatamente violabili, di un aiuto dall’esterno («non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere»). Immolato alla fine il falcone, Federigo lo porta in tavola, per poi ascoltare la vergognosa richiesta fattagli dalla madre del piccolo malato e, tra le lacrime, doverle rivelare di non poterla più compiacere. Il patetismo della scena, conviviale come quella della seconda visione in pineta della novella di Nastagio ma non direttamente determinante il mutato atteggiamento della donna per l’innamorato13, è accresciuto dall’ostentazione di penne, piedi e becco dell’uccello da parte dell’improvvido padrone di casa alla commensale. I segni di contraddizione stessi mostrati dal suo scioglimento sono espressione della problematicità della relazione amorosa rappresentata in V 9. Ignaro dell’omaggio che Giovanna gli chiederà, ma non prima di aver desinato, in ossequio alle norme di comportamento; dissennato nel voler spendere la sua ultima ricchezza in una circostanza di troppo modesto rilievo; responsabile indiretto della morte del bambino conseguente all’equivoco, Federigo fa sì breccia in Giovanna, ad alta voce portata a biasimarlo e nell’intimo ammirata di lui: ma a che prezzo. Sola, ricchissima e ancora giovane, la donna si risposa soltanto per l’insistenza dei fratelli. L’Alberighi ha toccato la coscienza morale assai più che il cuore di madonna; è scelto per stima, non per passione; nel modo di questa elezione consiste il costo della lezione che la vita gli ha impartito. Dal disgraziato desinare al consenso nuziale dato da Giovanna a Federigo trascorre del tempo; si consideri in confronto l’istantaneità dell’inversione di atteggiamento della Traversari – ben avvertita dalla visione del suo possibile destino di negativa – verso il suo innamorato: la donna si offre a Nastagio la sera stessa (§ 41). Branca ha riconosciuto in V 8 un caso d’ironizzazione letteraria, tecnica boccacciana efficace nel dare un nuovo significato alla narrativa del tempo; Segre, oltre a interpretare la novella in chiave di parodia del— 269 —

FILIPPO GRAZZINI

l’exemplum, ha collocato la rapidità del reorientamento sentimentale della Traversari nella sfera del comico: sfera tanto più ampia in quanto vi rientrano anche tutte le altre donne di Ravenna, «che – conclude il Boccaccio – sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano»14. Non riconducibile alla categoria del comico, la novella di Federigo ha piuttosto un’ispirazione elegiaca. Ancora: nell’insieme di elementi che misurano lo spessore di una storia come quella della novella 9, dove i termini della relazione tra i protagonisti sono simili ma non identici a quelli – posti tendenzialmente in assoluto – tra Nastagio e la sua negativa, rientra lo stato civile di Giovanna. La Traversari è non altro che giovane e bella, Giovanna è moglie e soprattutto madre. Bruni15 ha osservato che l’esistenza di un figlio pone gravemente in forse la possibilità dello sviluppo di una storia d’amor cortese-romantico, dove la passione travolge le barriere dell’etica comune; infatti per Federigo, quando il racconto finisce con la vittoria di valori e modelli di comportamento borghesi, ma non del tutto indiscussa, il matrimonio è tutt’uno col farsi «miglior massaio». E ci può essere dell’altro. Il bambino è agente narrativo indispensabile a ristabilire a Campi il contatto tra lui e lei interrotto a Firenze; ed è ragione della finale grande agiatezza della madre sua erede (il marito testando l’aveva posta solo seconda in linea di successione), agiatezza decisiva per la scelta dell’indigente e meritevole Alberighi come nuovo compagno. Nell’insieme il personaggio del bambino introduce un elemento di realismo. Tale dato, va riconosciuto, richiederebbe una riflessione adeguata16. Il semplice riferimento a un possibile oggetto di elaborazione critica accentua comunque l’impressione di ricchezza di motivi nella novella di Federigo: entro la quale un segno della verità della vita si trova a confliggere con l’idealismo di chi, campione di gentilezza, sacrifica un falcone. Uscendo ormai dal vivo della scrittura (scelte d’impostazione e realizzazioni) della novella nona della quinta giornata decameroniana, sarà da concludere che Federigo è almeno in parte vittima involontaria di un eccesso di fedeltà etico-culturale al mondo della cortesia. La sua indefettibilità cavalleresca è finalmente premiata; ma a un tempo la sua dannosa rigidezza, che il Boccaccio ha voluto porre adiacente e alternativa alla disponibilità di Nastagio alla trasgressione intellettuale davanti a un exemplum, indica mancanza di duttilità davanti ai diversi casi dell’esistenza. Per chi ritenga di particolare interesse la possibilità di collegare determinate specificità strutturali della narrativa breve a valenze ideologico-letterarie, appare notevole che tra il giovane degli Onesti e l’Alberighi la divergenza nel modo di definirsi in rapporto a — 270 —

NASTAGIO, FEDERIGO E LA DONNA CHE DICE DI NO

un dato di cultura, e per analogia a un paradigma di civiltà, si determini nel punto cruciale dell’ultima caduta possibile o della resurrezione: un punto individuabile sia in V 8 sia in V 9, per quella loro affinità di schema che qui si è cercato di illustrare. NOTE 1 C. BREMOND, La logica dei possibili narrativi, in R. BARTHES ET AL., L’analisi del racconto, trad. it. Milano, Bompiani, 19804, pp. 99-122. 2 Ivi, pp. 99-105. 3 Cfr. F. FIDO, Il regime delle simmetrie imperfette. Studi sul «Decameron», Milano, Franco Angeli, 1988. Un contributo recente su novelle a coppia all’interno del capolavoro boccacciano viene da B. PORCELLI, Abbinamenti di novelle nel «Decameron», «Italianistica», XXIX, 2000, 2, pp. 205-208 (tratta di IV 6 e 7, VII 3 e 10). 4 Dec. V 9, § 6: seguiamo il testo curato da Vittore Branca, Torino, Einaudi, nuova ed. 1992, p. 683. 5 Cfr. C. SEGRE, La novella di Nastagio degli Onesti (Dec. V VIII): i due tempi della visione, in ID., Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979, p. 90: «nella visione si hanno gli sviluppi possibili della situazione di Nastagio: se a Nastagio era venuta voglia di uccidersi, Guido si è effettivamente ucciso»; e cfr. F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 304, n. 16. 6 Cfr. C. SEGRE, La novella di Nastagio degli Onesti, cit., e F. BRUNI, Boccaccio, cit.; e vd. già, in tema di scarto e innovatività della vicenda di Nastagio rispetto ai suoi antecedenti, V. BRANCA, Boccaccio medievale e nuovi studi sul «Decameron», Firenze, Sansoni, 19969, pp. 180-182; tra gli altri nomi adducibili bastino G. CONTINI, Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1970, p. 758, n. 1, e C. SALINARI nel suo commento decameroniano, Bari, Laterza, 1963, pp. 410-411, n. 11. 7 Degno d’attenzione, nella ratio dell’intervento decameroniano sui suoi modelli testuali, anche un altro elemento. Sintonizzato su Andrea Cappellano, non sul Passavanti, il Boccaccio fa di Guido degli Anastagi e della sua perseguitata non degli espianti in Purgatorio, come è degli amanti nell’exemplum di Niversa, ma dei dannati in eterno: nel De amore la pena delle negativae, pur non precisamente prospettata quale condizione ultraterrena dei disperati secondo la dottrina cristiana, era considerata non inferiore alle pene dell’Inferno, e senza fine. Segre (La novella di Nastagio degli Onesti, cit., pp. 95-96) ha rilevato come la riproposizione dell’exemplum, svuotato del senso tradizionale, nella novella V 8 consiglia – per la sua spregiudicatezza – una disseminazione nel testo, oltre che di suggerimenti di una sua fruibilità essenzialmente ludica, di segni di una sua riconducibilità entro i confini di un ethos regolare: in questo senso si può intendere la scelta di una pena infernale per il cavaliere suicida e per la donna causa della sua perdizione. 8 Cfr. C. GRABHER, Particolari influssi di Andrea Cappellano sul Boccaccio, «Annali della Facoltà di Lettere e Magistero dell’Università di Cagliari», XXI, 1953, II, pp. 75-76.

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FILIPPO GRAZZINI

La novella di Nastagio degli Onesti, cit., in particolare pp. 88-89. Un mero accenno in proposito si trova in L. BIAGINI, L. LAPINI, M. B. TORTORIZIO, Sulla giornata V del «Decameron», «Studi sul Boccaccio», VII, 1973, p. 172: «la visione […] è così conforme al fantasticare di Nastagio, che appare come una trasposizione allucinata del suo sentimento». 11 C. SEGRE, La novella di Nastagio degli Onesti, cit., p. 90; F. BRUNI, Boccaccio, cit., p. 305. 12 C. SEGRE, La novella di Nastagio degli Onesti, cit., p. 94, n. 2: quella della dissipazione totale è «una strada percorsa sino in fondo da Federigo degli Alberighi». Così la visione che pure nella novella 9 l’innamorato presenta alla donna (altra affinità situazionale tra i due testi), quando Federigo mostra a Giovanna zampe penne e becco del falcone imbandito, rappresenta sensibilmente uno sviluppo che l’Alberighi non ha potuto e saputo mantenere allo stato della possibilità. 13 Per le valenze del banchetto, situazione boccacciana ricorrente nel Decameron e fuori, cfr. L. SANGUINETI WHITE, La scena conviviale e la sua funzione nel mondo del Boccaccio, Firenze, Olschki, 1983. 14 V. BRANCA, Ironizzazione letteraria come rinnovamento di tradizioni, in ID., Boccaccio medievale, cit., pp. 335-346; C. SEGRE, La novella di Nastagio degli Onesti, cit., p. 93. 15 Cfr. Boccaccio, cit., pp. 343-345. 16 Non del tutto a caso il Bruni dedica nel cap. V del suo Boccaccio, cit., un paragrafo intero, il sesto, a La questione del realismo e la novella di Federigo degli Alberighi, pp. 333-345; vi si è fatto riferimento nella nota precedente. 9

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FLORA DI LEGAMI NEL TEMPO CHE MUTA: UN NOVELLIERE DEL PRIMO QUATTROCENTO 1. Tra la fine del Trecento e i primi decenni del secolo successivo, il codice della novella registra significative modificazioni che investono, in primo luogo, il piano strutturale del sistema narrativo, in forme in cui si deposita una sostanziale dialettica, di ripresa e distacco, nei confronti del prestigioso corpus del Decameron. Le opere dei primi decenni del Quattrocento ci vengono incontro come luoghi di una mappa letteraria in corso di definizione, bilicata fra autorevolezza dei modelli trecenteschi e gusto umanistico della sperimentazione, e il Libro del Sermini occupa, in tale cartografia, un posto non secondario. Tra l’assetto organico ed elegante del Decameron e quello mobile e brioso del Sacchetti, lo schema rigoroso del Novelliere del Sercambi o l’altro eterogeneo e complesso del Paradiso degli Alberti, il Novelliere in esame sembra postulare una figurazione novellistica non convenzionale, segnato da modalità di grande interesse per l’evoluzione del genere, e tuttavia periferico e quasi dimenticato. Eppure non mancano motivi e caratteri sufficienti non solo ad attrarre ma anzi a suscitare curiosità per un autore misconosciuto e per un’opera fertile di esperimenti e giochi narrativi, che offre una tessera in più al movimentato snodo quattrocentesco fra letteratissimi esiti e forme legate all’oralità popolaresca. Dense e fitte sono ancora le ombre che gravano sull’opera di Gentile Sermini1. A cominciare dalla identità stessa di chi scrive, la cui firma potrebbe essere un elegante nome de plume. Due i codici manoscritti che ospitano le novelle – il Marciano e l’Estense, l’uno del XVI secolo e l’altro del XV – e soltanto nel codice appartenuto ad Apostolo Zeno è presente il nome dell’autore, mentre l’altro è anonimo, il che rende più difficile una sicura identificazione. Inoltre non può sfuggire al lettore l’attenzione con cui l’autore sfoca un personale profilo riconoscibile. Nella lettera proemiale l’autore si ri— 273 —

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volge ad un carissimo fratello e una seconda epistola, entro cui si dispone un sogno-visione, è indirizzata ad un amico di cui si indicano solo le iniziali in lingua greca, alfa e lamda. Chi scrive suggerisce cenni autobiografici in qualità di personaggio – oltre che voce narrante – nella novella XII, si fa presenza intradiegetica in altri racconti, come testimone (Il gioco delle pugna), ma lascia con prudenza che il proprio ritratto rimanga defilato. Un fare scrittorio che richiama alla mente il gesto della mano con cui Landolfi, in una celebre fotografia premessa a La biere du pecheur, presenta un volto totalmente schermato dalla mano aperta in primo piano. Non una negazione di sé troviamo nel senese, ma una sottrazione di elementi precisi attraverso i quali ricostruire con più determinazione il profilo dell’autore. Il Libro in esame, con le scarse notizie di cui disponiamo intorno all’autore, potrebbe costituire un ottimo esemplare di ‘macchina testuale’ di cui seguire congegni e funzionamento secondo diaframmi semiotici. Eppure proprio un testo del genere ci induce a considerare l’importanza dell’autore in quanto responsabile di un preciso statuto narrativo. Per quanto attiene le prose del novellatore senese, per trovare risposte ad interrogativi relativi alle scelte poetiche, al rapporto con i modelli precedenti o all’intenzione letteraria che lo sostiene, non abbiamo altro che il testo. È tra le pagine che possiamo individuare l’intenzionalità di un progetto messo in opera, cercare la garanzia di caratteri e timbri specifici che rendono il testo significante in sé e significativo in un sistema diacronico di correlazioni entro un genere mobile quale la novella. Tuttavia la messa in forma di modificazioni strutturali e linguistiche non può non chiamare in causa un autore di cui ci piacerebbe avere maggiore chiarezza, in quanto figura da cui discendono non solo temi e forme, ma un’idea di libro di novelle in ibrida oscillazione fra tradizione e novità, che reca al suo interno una particolare densità letteraria. Un primo dato certo è la scelta – tutt’altro che usuale – di una proposta chiaroscurata di identità. Che questa scelta si stringa ad un testo irriverente e spregiudicato, per i temi erotici di tante novelle e per certe libertà licenziose, forse non è senza significato. Ma anche poco credibile se collocata in un’età che amava gli azzardi e i pastiches e non considerava scandalose composizioni salaci e libertine. Si possono solo avanzare alcune riflessioni sulla base delle indicazioni testuali. In primo luogo si può rilevare che la scelta dell’epistola, quale proemio e cornice del novelliere, è un elemento a favore dell’ipotesi di appartenenza dello scrittore ai circoli degli umanisti, o quanto meno di una buona sintonia con il nuovo referente culturale. — 274 —

UN NOVELLIERE DEL PRIMO QUATTROCENTO

Intenso era l’esercizio epistolare in scrittori quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini o Leon Battista Alberti, pronti ad affidare alle lettere affetti, passioni intellettuali, progetti, pensieri e affabulazioni, insomma il nucleo della propria fisionomia umana ed artistica. Ma questi sono, per lo più, scrittori inclini alla gravitas, là dove il narratore senese predilige timbri ludici ed irriverenti. Poggio Bracciolini, che pure amava frequentare le strade del comico, sceglie sul piano espressivo della prosa, la forma breve della facetia, del motto arguto, mentre con le novelle del Sermini ci troviamo dinnanzi a uno scrittore che ha il gusto del narrare in forme ampie e articolate ed esclude novelle di motto. 2. La raccolta di novelle serminiane mantiene ancora, e non solo per un tributo alla consuetudine e al prestigio del Decameron, l’intento di un impianto unitario. L’autore propone la sua opera come Libro, ma di fatto, sulla base di nuove spinte culturali e inventive, il testo si mostra corroso al suo interno da movimenti di narratio extensa (in linea col genere della spicciolata) e da procedimenti teatrali, che finiscono col modificare i caratteri d’origine della novella, di compattezza lineare. L’autore, adottando la misura lunga, già presente in alcune novelle del libro boccacciano, accentua e rende visibile uno spostamento retorico delle funzioni implicite al novellare: alla delectatio con fini didattici sostituisce il diletto e il piacere della lettura, svincolato da principi etici e religiosi2. Emerge inoltre una mobilità formale che si nutre di materiali eterogenei, alti e bassi; una narratività pronta ad inglobare spinte diegetiche di diversa origine e con una forte aderenza al reale nella sua varietà. La scrittura si muove verso la prosa di romanzo sia per l’espansione dell’intreccio sia per una disposizione al racconto dei particolari e per il piacere di perdersi, quasi, in segmenti e vicende che si intrecciano e muovono senza particolare attenzione alla brevitas della novella. Sembra di potere individuare nei segmenti di una prosa al confine del romanzesco e con un andamento non rettilineo, taluni dei caratteri del discontinuo e della strutturale mobilità che, secondo Bachtin3, si pongono all’origine del romanzo moderno. La forma del libro è quella già moderna di una raccolta di racconti giustificati, sul piano macrostrutturale, dalla volontà di un narrante in dialogo amicale con un destinatario, e su quello interno da una validità di forme autosufficienti. Chi narra svolge anche la funzione di testimone della verosimiglianza dell’atto affabulatorio e della godibile accoglienza delle novelle presso un pubblico di ascoltatori e lettori. Proprio in un sistema aperto come — 275 —

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questo, il rapporto con il mondo è finalizzato a motivazioni di diletto che spingono nella direzione del valore autonomo del racconto. Come il piano del discorso porta in luce una certa oscillazione fra spinta novellistica e scansioni teatrali, così le storie narrate si muovono tra forza dell’intreccio e protagonismo dei personaggi in una combinazione di tessere che prelude certo fare narrativo moderno. Interessante, poi, la valorizzazione del volgare come forma d’espressione giornaliera, di un parlato differente a seconda delle classi sociali e delle città d’appartenenza che rincalza l’idea, forte in chi scrive, del vario e mutevole dell’esistente. Nella trasformazione del genere in corso sul finire del Trecento e il primo quarto del secolo successivo, il libro del narratore senese presenta una specificità interessante: uno spostamento ideativo e retorico nella direzione del romanzesco, in cui si colgono i tratti del personaggio moderno, interagente col reale ma consapevole di sé; dell’oltranza espressiva e della progressiva autonomia dei racconti. Il tutto affidato ad un intrattenimento affabulatorio e amicale che diminuisce le distanze fra narratore e narratario, fra atto della narrazione e materia narrata. È illuminante verificare l’impasto di un ordo narrationis che adotta ancora la funzione, sia pure ridotta, di una cornice, ma scarta l’articolazione delle novelle per griglie tematiche o per via di un asse riconoscibile in cicli, e sceglie l’accumulazione non preordinata, modificando i confini canonici delle raccolte di novelle. È per via di tale forma che diventa interessante seguire la tipologia di un novelliere del primo Quattrocento, il cui carattere è una medietas formale e linguistica, tesa a porre in rilievo un fare sperimentale che si situa all’inizio di un processo formale di ripensamento del modello decameroniano e che ha il suo perno nella scelta dell’epistola in funzione narrativa. Forma che avrà i suoi esiti più maturi nel Novellino di Masuccio Salernitano e poi, in età rinascimentale, nelle Novelle del Bandello. Sermini elabora un impianto novellistico capace di fondere l’idea del sistema a cornice del Boccaccio con una qualità del narrante in posizione di rilievo, come voce da cui discendono tutte le narrazioni. Espediente già presente nel Sacchetti, in cui troviamo «personaggio e voce narrante senza intermediari, al centro tra il materiale delle novelle e il pubblico cui queste s’indirizzano»4, ma nel senese diversamente formalizzato. Non è infatti la dichiarazione dal basso di uno scrittore ‘discolo e rozzo’ che raccoglie, sul filo della memoria, storie ed aneddoti di un tempo già trascorso. La memoria, da funzione testimoniale in Sacchetti, acquisisce una precisa valenza ideativa — 276 —

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quale zona di fertili contatti tra esperienza e finzione narrativa. Esemplare in tal senso una dichiarazione del narrante nella prima novella: «Se de le cose preterite non apparissero scritture, non è dubbio che di esse memorie perfette nella mente de’ presenti, fussero: e perché non passi senza alcuna memoria, una piacevole novelletta nuovamente a mie orecchie venuta, mi piace narrarvi»5. Vi si giustifica tanto l’aderenza al vero quanto la dimensione favolistica. Si tratta di una rivendicazione dotta e ludica della centralità di chi scrive, depositario della memoria orale e convinto altresì della funzione vitale della parola scritta e della pagina che la trasmette. Atteggiamento in cui sentiamo spirare i venti di una umanistica fondazione dell’individuo, della sua relazione operativa col mondo e dell’attività inventiva come esercizio di libera individualità. Non è senza significato in tal senso il fatto che la dichiarazione delle intenzioni poetiche e programmatiche della scrittura sia affidata ad un modulo, l’epistola, di fondamentale rilievo in un orizzonte di saperi con alto tasso di soggettività come quello della cultura umanistica. Come se si volesse da parte dell’autore sottolineare la trasformazione in atto di un modello – quello boccacciano – da cui pure, per altri elementi, rivela un preciso rapporto filogenetico. Se per un verso non sfugge l’intento trasgressivo del narrante che annoda, con maestria, l’eleganza dell’epistola al comico delle novelle, non si può peraltro dimenticare che era ancora il libro del certaldese, se letto con occhi attenti, a suggerire percorsi non convenzionali, sul metro del ‘privilegio di Dioneo’6. La presenza di una voce narrante unitaria, vero collante della varietà delle novelle, adombra inoltre una moderna funzione registica, quella di un operatore ora esterno ora interno alla storia narrata con palesi effetti di tipo teatrale di particolare risalto nello sviluppo del genere. La dimensione scenografica, implicita già nel diaframma dialogico tra narratore e narratario, oltre che tra personaggi, permette all’autore di calettare quotidiano ed immaginazione con particolare attenzione al piacere intellettuale del vario. Onde il senso della metamorfosi pronto ad essere formalizzato come tema letterario qualificante una nuova cultura. Un poliedrico avvicendarsi di personaggi, eventi, ambienti per raccontare di una attenzione umanistica all’operatività dell’intelligenza, un’inclinazione sentita per le mutazioni nei loro risvolti sociali, culturali ed epistemici, nonché un gusto letterario per la fabulazione che non chiede più un sistema definito in cui distendersi ma si fonda su un’accumulazione valida in sé del materiale narrativo al limite dell’autonomia del— 277 —

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la spicciolata. E si trattava di voci, sguardi, impostazioni che, nel ribadire la fondatezza logica dell’uomo, incrementavano varietà e mobilità del reale rappresentato. Una concordia discors idonea a suggerire col molteplice dei casi e delle forme la interezza eterogenea dell’esistente. Le novelle serminiane costituiscono una tappa rilevante della trasformazione del codice novellistico, dei rapporti di filiazione scoperta o cifrata col Boccaccio, del movimento narrativo che da armonico si fa più sfrangiato nell’intreccio, segnato da scelte espressivistiche e da una sintassi aperta al parlato. È nella rappresentazione dei discorsi, nell’attenzione al fortuito, al movimento indisciplinato dell’esistenza che l’autore costruisce il nastro di fondo su cui far scorrere storie romanzesche, tra comico e fantastico. Già Rossella Bessi, nell’analizzare la situazione linguistica della novella tardo-trecentesca e quattrocentesca («Quale l’incidenza di quella prosa [Boccaccio] nella pratica quotidiana degli scrittori e in particolare degli scrittori di novelle?»), collocava il Libro del Sermini insieme al Paradiso degli Alberti in un orizzonte di distacco dal modello boccacciano, da una struttura organica a favore di un novellare orientato verso l’autonomia del singolo racconto che si concretava, negli stessi anni, nella forma della ‘spicciolata’7. La varietà dei materiali letterari del Libro del senese indica, in un quadro narratologico, un momento di ricerca e di contatto con altre forme di narratività (lettere, autobiografie, resoconti mimetici, sogni allegorici), la cui assunzione comportava fratture o ampliamenti rispetto alla tradizione, ma andava incontro alle attese di un pubblico medio borghese. Sul piano del linguaggio, poi, la scelta di una lingua mista, popolaresca e media, nutrita di luoghi correnti e di prestiti letterari, fa di questo testo una sorta di riserva di forme tradizionali e ricerche individuali segnate da un forte gusto del pastiche. Di questa trasformazione strutturale e stilistica, con le inevitabili oscillazioni fra incertezze e originalità è documento prezioso il libro in esame. Il quale – per il periodo di composizione, 1424 – si pone a monte di un processo evolutivo destinato a fecondi sviluppi nel Novellino di Masuccio Salernitano e nelle Novelle del Bandello. 3. Il Novelliere del Sermini ha la struttura del prosimetro, un misto di prose e versi, ma disposto in modi rovesciati rispetto alla tradizione volgare duetrecentesca. Non sono le prose che svolgono funzione connettiva rispetto ai versi, bensì sono questi ultimi delegati a modalità esplicative, gnomiche, commentative o discorsive rispetto alle novelle concluse. Le ragioni di un fare insolito e spesso acerbo a livello di esiti poetici tutti a ridosso delle Rime — 278 —

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del Saviozzo, come puntualmente evidenziato da Pasquini8, sono probabilmente da rintracciare nelle intenzioni che sorreggono la raccolta in esame: un impianto dialogico con l’amico e destinatario della raccolta, convocato nel proemio, che ritorna saltuariamente nei versi a rinsaldare un progetto di scrittura conversazione non sempre evidente. Anzi sospesa dal procedere delle narrazioni e riaffiorante in versi dedicati ad amici e sodali di cui nulla si sa, o nelle sequenze finali di alcune narrazioni. La raccolta si compone di quaranta novelle di cui l’ultima incompiuta e la loro organizzazione si sottrae a griglie tematiche organicamente disposte, o a ricorrenze di personaggi che formino piccoli cicli narrativi, come in Sacchetti, e propone un casuale avvicendarsi di storie, ad infilzamento per dirla con Sˇklovskij9, in cui il collegamento è dato dal narrante in rapporto con il lettore. Lo scrittore senese, pur debitore della tradizione realistica toscana per temi e figure, si sottrae del tutto alla linea della novella di motto. Predilige il versante della beffa e dell’avventura, emerge un’attenzione all’intreccio che si dispone in trame lunghe e variate. La fattualità del narrato è legata a doppio nodo col motivo del destino e col vitalismo intelligente dei protagonisti. La messa in forma dell’esperienza diviene momento di una soggettività nuova. Il fortuito, d’altronde, come territorio del non definito consente di esplorare i lati in ombra del contingente, mette in opera un’idea di avventura che si attua, non più in zone di epos o leggendario, ma nei territori del naturale, dell’urbano, del giornaliero. Fili variopinti con cui comporre trame annodate sul mutevole e sul diletto.Tramite l’imprevisto, il caso si misura con la dimensione umanistica della prova quale esperienza di contrasto e possibile superamento degli ostacoli. Ed è l’avventura che esplorando il campo del reale, ci ricorda Rohde10, rimette in gioco il divenire dell’uomo e amplia i confini dei possibili narrativi, secondo la notazione di Bremond11. Se l’intreccio diviene il momento organico del racconto e l’avventura il cardine metaretorico della prassi narrativa, il fattore che attiva l’universo del discontinuo, l’effetto immediato sul lettore è quello di un ampliarsi del possibile e godibile, sulla base di una rilevante inflessione ludica del narrare. L’autore è sicuramente attratto dalla multiformità del reale, da vicende e destini che gli consentono di sviluppare trame romanzesche che possano rendere l’idea di una complessa varietà con la quale interagiscono figure che recano in sé i segni del nuovo. Il modello di personaggio cui vanno le simpatie del narrante è un giovane arguto, intraprendente, capace di sovvertire a proprio vantaggio le occasioni avverse dell’esistente, controllare il mutevole. Vi è — 279 —

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una netta predilezione per l’intelligenza del fare. Sia entro registri avventurosi, in cui il superamento dell’ostacolo iniziale si stringe alla virtù mentale dei protagonisti, sia nelle novelle di beffa, in cui la narrazione si sofferma con diletto sulla sapienza architettonica della burla, seguendone da vicino movenze e colpi di scena, più che sugli esiti delle stesse. L’ambito più propizio ad avventure e beffe è la città con i suoi quartieri e palazzi, o al più una campagna stretta con più nodi alla vita urbana. D’altronde è proprio del romanzo moderno il suo configurare, fra strade o piazze di città, il cronòtopo12 in cui si congiungono le spinte del caso e le capacità del singolo, idee ed esperienza. Spazi ove giocano un ruolo preminente le maschere di cambiamento del destino e di chi sa utilizzarlo; l’amante astuto, il beffatore e il viandante, prossimo a diventare picaro. Ad ogni modo l’esperienza è il momento cinetico della forma romanzesca in costruzione, alle soglie del moderno, ciò che impedisce la stasi e sul piano retorico nega le attese e i confini riconosciuti di un genere e impronta una ricerca del nuovo come necessità culturale ed espressiva. Sul piano tematico il motivo più ricorrente, nel corpus novellistico, è quello del desiderio/impulso dell’eros. Una buona parte delle novelle narrano di intrighi d’amore, con punte vistose di licenziosità, di avventure erotiche di falsi religiosi, di scambi di persona a sfondo erotico, di amicizia omosessuale. Seguono storie di memoria cortese, una novella a carattere autobiografico, alcune al cui centro si trova il motivo della satira contro il villano, o contro un frate goloso, altre di beffa e una che tematizza la metamorfosi come avventura della mente e dei sensi. Colpisce il reiterato soffermarsi dell’autore su una topica amorosa che non risparmia i dettagli corporei, sia pure con fare spigliato e divertito. Al punto da indurre il sospetto che l’interesse del novellatore, oltre una spregiudicata attenzione al basso-materico, sia volto ad un linguaggio disinibito, ricco di immagini salaci attinte a repertori letterari naturalistici, di caccia o di guerra, in funzione maliziosa. Una scrittura che inglobi i particolari più minuti entro una simbologia amorosa che rinvia a certa tradizione allegorica e realistica, tra Roman de la rose e fabliaux. Un gioco scoronante o alla burchia proprio di certa lirica d’amore coeva verso le astrazioni metaforiche che gode nell’evidenziare il risvolto fisico e sensuale di sentimenti e passioni. La frequenza di un discorso erotico disinibito che precorre talune forme dell’Aretino è uno degli elementi che ha contribuito alla scarsa diffusione del novelliere serminiano. Il comico, specie se linguisticamente azzardato, comporta una destituzione di autorità e di modelli più radicale delle stesse mutazioni di struttura. — 280 —

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Accostandoci al testo del Sermini, ciò che risalta, a livello di organizzazione testuale, e attira l’attenzione di chi legge, per la novità morfologica, è una introduzione – in forma d’epistola – che avanza con andamento allusivo ed ammiccante, come esercizio di una scrittura amabile e colloquiale, incardinata ad un presente in corso, al disordine dell’esperienza e all’assunzione, entro il piano letterario, del vario e del difforme. Una forma esemplare se non di furto13 – ché siamo storicamente lontani dalle questioni normative dei modelli, proprie del pieno Rinascimento – certo di riduzione minimale della cornice di matrice boccacciana e di fondazione del valore paradigmatico della lettera come modalità dialogica con destinatari selezionati sulla base di un allusivo patto di complicità. Non può non destare interesse il fatto che l’opera del senese si ponga cronologicamente come il primo novelliere in cui si trova l’istituzione di un’epistola come cornice mondana e borghese, artificio che tanto sviluppo avrà nel secolo successivo come modalità flessibile e aperta a diversi usi. La confabulatio, istanza propria della civiltà umanistica, assurge a statuto letterario qualificante non solo il genere di provenienza, ma altre forme letterarie come trattati, dialoghi e novelle. E nel Sermini si presenta come modulo in grado di contenere la segmentazione delle novelle proposte e innovare il codice aprendolo a significative potenzialità discorsive in direzione dialogica e autobiografica. Si pensi non solo alle soluzioni di Masuccio e Bandello, ma ai modi variegati che assumerà la correlazione di lettera e novella, testimoniata dalle Lettere del Bruni, o ai segmenti narrativi presenti nelle Lettere del Machiavelli, o alle memorie di viaggio del Vettori14. Scelta retorica significativa di quello sperimentalismo, peculiare del tempo in questione, che induceva alcuni intellettuali a calettare, in modi originali, la funzione Petrarca entro un genere, la novella, con forte dominanza del Boccaccio, come modello di scrittura e struttura15. Il testo conferma l’attrazione per una forma classica con la quale gli umanisti andavano mescidando prestigio letterario e contemporaneità, gravitas di temi e stili e iocunditas comica a seconda del pubblico dei destinatari. Che poi nel libro in esame la correlazione del letterario con la presenza spregiudicata del quotidiano nella sua eterogeneità, sia frutto di un intento retorico di antifrasi, ci viene confermato dallo scrittore all’interno della missiva. Nella quale non è difficile notare il sottostante mixage di modelli e ancor più il modo di procedere: non di imitazione, o citazione, ma di innovazione affidata ad uno sguardo libero ed irriverente che pratica una personale parti— 281 —

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ta doppia di colto e popolare, allusivo e realistico, con sapiente dosaggio di timbri. Qui comincia la lettera dell’autore di questo libro scritta e mandata a un suo caro fratello al Bagno a Petriolo con le infrascritte novelle. Diletto e caro Fratello. Ricevetti una tua lettera contenente, che trovandoti tu al bagno a Petriolo, sentisti ed in rima ed in prosa dire alcune cosette di mio, le quali per tua cortesia dicesti che piacquero; ed in essa mi preghi, che di quelle, quando lo possa, ti mandi la copia. Di che, non avendole in scrittura per ordine, ma per scartabelli e squarciafogli, quali per le casse e quali altrove, diedimi a ritrovarle. E sì come colui che una sua insalatella vuole a uno suo amico mandare, preso il paneruzzo e ’l coltellino, l’orticello suo tutto ricerca e come l’erbe trova così nel paneretto le mette senza alcuno assortimento mescolatamente; non altramente a me è convenuto di fare. Però adunque mi pare che questo meritamente non libro, ma un paneretto d’insalatella si debbi chiamare, e però questo nome li pongo: nel quale senza l’altrui niente toccare, tutte sono erbe di nostro orto ricolte. E però non ti sia meraviglia se senza ordine, quali in prosa e quali in diverse rime, è questa insalatella meschiata; chè quale prima trovavo, così l’una dopo l’altra nel paneretto metteva. […]16

Un’epistola dedicatoria, ancorché indefinita, è luogo di intensa significanza, «in cui le due istanze produttrici, soggetto e oggetto, lettera e scrittura si delimitano reciprocamente»17. ‘Soglia’ paratestuale il cui necessario attraversamento propone al lettore il modo in cui orientarsi in una raccolta di novelle poste sotto le insegne del non-ordinato e del comico, tramate con i fili del realismo e della trasgressione per intensificare il piacere della lettura. Il narrante smaschera le finzioni di gravitas appellandosi all’autorità del naturale e garantisce al testo in costruzione un margine di letterarietà, lavorata su una poetica del diletto e su effetti di seduzione affabulatoria, correlati a un orizzonte d’attesa di festevole intrattenimento. Si avverte nella dichiarazione proemiale come una saturazione d’impianti organici, di simmetrie eleganti a fronte di un intento sperimentale. Non si può che prendere atto di una trasformazione di cornice, alla maniera del Decameron, che tuttavia pone in chiaro un sottile gioco di richiami e riprese del modello che si intende innovare. In primo luogo resta ben salda la funzione di contenitore e struttura collante e la dichiarazione, in essa distribuita, di intenti e finalità letterarie, sulla scorta di un fare già indicato da Boccaccio nel suo Proemio. Da non sottovalutare inoltre, nella lettera introduttiva del novellatore senese, una ripre— 282 —

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sa non casuale – riteniamo – di un’immagine, «paneruzzo ed insalatella», che discende dal Decameron, I 1, «l’insalatella d’erbucce», già metafora, in quel contesto, di trasgressioni di tipo etico in relazione alla storia di ser Ciappelletto e di tipo retorico per quanto attiene un narrare fuori dai modelli. Un’altra vicinanza si scopre poco dopo nella difesa, da parte del narrante, del proprio fare, che ci riporta alla Quarta giornata e ad una consapevole scelta del comico come area di intenti antinormativi. Sfumato quindi ma ineludibile il dialogo con il prestigioso modello trecentesco rispetto al quale, tuttavia, il narratore senese pone una voluta differenza strutturale e stilistica, fondata sul disordine e sul vario, in polemica contro sintesi idealizzanti o edificazioni morali. Sermini non cerca simmetrie, mette in opera deformazioni e mutazioni di stili esistenti e riconoscibili per ribaltarli o spostare le funzioni precedenti. Il rapporto fra ordine e disordine che dalle immagini esterne trapassa alla struttura del libro consente all’autore di veicolare una nuova idea del sapere, del pubblico e della funzione narrativa. Lo scrittore si presenta subito e apertamente come antiretorico. Propone un libro che avanza come raccolta asistematica di storie e mistione di tessere diverse. I materiali su cui si fonda, dalla conversazione al carnet autobiografico, dal fabliau alla visione allegorica, dalla cronaca al leggendario e al commento in versi, vivono di una loro specificità, con esiti più o meno riusciti, e di una forma di non finito (anzi non ri-finito) che implica un lavorio in fieri. Lo statuto del comico è terreno d’elezione entro cui articolare un cangiante ventaglio di umanità e racconti. Inoltre autorizza ribaltamenti con cui dichiarare vizi e debolezze dell’agire umano. E istinti e pulsioni erotiche lo scrittore senese convoglia in un linguaggio, che nel dichiarare senza orpelli i risvolti materici dell’esistenza, si fa scandaloso nel momento in cui nomina una realtà nascosta con un fare irriverente, dietro cui si avverte, tuttavia, come un’ansia di svelare gli inganni delle cose e delle parole. La sua adesione al vario e molteplice evita soluzioni rassicuranti, sceglie una sorta di nudità effettuale, mai dimentica del fine delle narrazioni, che è di piacevole intrattenimento di amici e sodali, in un luogo di svago e di festevoli incontri. Quale, con tali presupposti, il rapporto tra realtà e finzione? Non di immediatezza mimetica come sembrerebbe a prima vista, ma di rielaborazione di materiali narrativi che raccontino una nuova visione dei rapporti umani, della fortuna, della virtù e di una scrittura ludica messa in atto dal narratore. La ricerca di indipendenza attiene sia il piano dei contenuti sia quello del discorso. — 283 —

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È possibile, poi, avanzare l’ipotesi che la scomparsa dei novellatori indichi una progressiva lontananza da un sistema di oralità legato a più voci verso un fare che accentua l’aspetto autoriale della novella? L’oralità è ancora presente, ma diversamente articolata: rifluisce e si dispone in un assetto dialogico mimetico con le voci del parlato anche gergale, ma in funzione di coro o di comparse teatrali. Ed è ancora la posizione rilevata del narrante ad avvicinare il proprio ruolo, all’interno delle fabulae, a quello di un regista che coordina e commenta. Sintomatico in tal senso che la forma di stile più ricorrente sia il dialogo, la parola in azione, il più vicino ad un intento mimetico del reale e ad un punto di vista che si compiace di rimarcare l’eccezionalità depositata nel contingente, nonché l’oscuro di desideri spesso occultati nel quotidiano. Significativo anche il gesto simbolico del raccogliere un materiale vario entro un paniere che è cifra metaforica del libro, e ancora di più la presentazione di un materiale narrativo che avanza «per scartabelli e squarciafogli». Ma quale il disordine cui allude l’autore della lettera proemiale? Quello dell’esistente o quello della scrittura che lo rappresenta? Del primo sicuramente, ma anche del secondo: per quel tanto di trasgressivo che può veicolare l’immagine di «scartabelli e squarciafogli», per una voluta sottrazione di labor limae. L’elogio del casuale e vario assume il timbro di una dichiarazione ludica a favore della libertà stilistica e supporta un novelliere ironicamente assimilato ad un canestro non di fiori ma di erbe, prese alla rinfusa e mescolate in modo estemporaneo. Ma non si dimentichi che una scrittura del disordine porta al suo interno e cerca di proporre un nuovo statuto di diversa mobilità delle funzioni precedenti, il che si traduce in oltranza ideativa ed espressiva. Se poi volessimo rintracciare il senso di un’economia narrativa unitaria e spezzata, tradizionale e trasgressiva, dovremmo tornare – giusta l’osservazione di Bragantini18 – alla cornice e al suo rapporto con le singole novelle. E questo, ne siamo convinti, va individuato nella funzione dilettevole/dilettosa della narrazione. Quale, allora, il senso di un diletto che avanza spesso come gioco, senza annullare tuttavia punte di malinconia, affondi risentiti, soste riflessive? Crediamo che l’intento sia il sottolineare con leggerezza, spesso con divertimento, la provvisorietà e mutevolezza del mondo; casi tristi o ridenti non sono durevoli. Il gioco evidenzia una sorta di teatro del mondo come struttura e metafora del reale. Accanto al verisimile si affianca l’ampio diaframma del possibile. Vi è spesso in Sermini una svagatezza irridente, — 284 —

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commista a umori acri, che è come uno spazio di libertà ove si sperimenta l’altro lato delle cose, una divertita polemica contro gli obblighi della serietà delle azioni e del linguaggio. È in una baldanzosa e giovanile irriverenza che risiede uno dei tratti salienti e specifici di questa scrittura. Un fare pronto a declinare il narrato nei modi della colloquialità e a contaminarsi con i registri realistici dell’eros e comici del teatro. È nella flessibilità di tale prosa, pronta raccordare la letterarietà con il mutevole del quotidiano e dei suoi linguaggi, che si può individuare un significativo anello di congiunzione con le innovazioni più mature del discorso novellistico nella seconda metà del secolo.

NOTE 1 Delle novelle del senese Gentile Sermini si ha una prima edizione integrale a cura di F. VIGO, Le novelle di Gentile Sermini da Siena, ora per la prima volta raccolte e pubblicate nella loro integrità, Livorno, Vigo, 1874. A questa edizione fa riferimento la successiva, G. SERMINI, Novelle, prefazione e bibliografia di A. COLINI, Lanciano, Carabba editore, 1911. Una pubblicazione più recente è G. SERMINI, Novelle, a cura di G. VETTORI, Roma, Avanzini e Torraca, 1968. Una novella, la XXXV, Bindaccino da Fiesole, si trova in Novelle italiane, a cura di E. SOMARÉ, I, Milano, Il Primato Editoriale, 1921. Si ha poi una scelta antologica di prose serminiane in Novelle del Quattrocento, a cura di G. FATINI, Torino, UTET, 1929; in Prosatori volgari del ’400, a cura di C. VARESE, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955 e in Novelle del Quattrocento, a cura di A. BORLENGHI, Milano, Rizzoli, 1962. Il profilo critico più recente e puntuale è quello curato da E. PASQUINI in Letteratura popolareggiante comica e gioiosa, lirica minore e narrativa in volgare del Quattrocento, in specie il paragrafo 15, Gentile Sermini, in Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. MALATO, III, Il Quattrocento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 881-884. 2 Per quanto concerne caratteri e sviluppo della novella si veda E. MALATO, La nascita della novella italiana, in La novella italiana. Atti del Convegno di studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), I, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 3-45. In proposito C. SEGRE, Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974; ID., La novella e i generi letterari, in La novella italiana, cit., pp. 47-57 e ID., Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985. 3 M. BACHTIN, Estetica e romanzo, trad. it. Torino, Einaudi, 1979. 4 A. TARTARO, La prosa narrativa antica, in Letteratura Italiana, diretta da A. ASOR ROSA, III, 2, Le forme del testo. La prosa, Torino, Einaudi, 1984, p. 682. 5 Si cita dall’edizione Carabba 1911 delle Novelle, p. 11. 6 Cfr. G. MAZZACURATI, All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. PALUMBO, Firenze, La Nuova Italia, 1996. 7 R. BESSI, Il modello boccacciano nella spicciolata tra fine Trecento e tardo Quattrocento, in

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Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani tra Trecento e Seicento, a cura di G. M. ANSELMI, Roma, Carocci, 1998, pp. 107-123. 8 E. PASQUINI, Variazioni di Gentile Sermini sulle rime del Saviozzo da Siena, «Studi di filologia italiana», XXI, 1963, pp. 129-200. ˇKLOVSKIJ, Teoria della prosa, trad. it. Torino, Einaudi, 1976, p. 139. 9 V. S 10 E. ROHDE, Der griechische Roman und seine Vorläufer, Leipzig, Breitkopf und Härtel, 1914, pp. 179-192. 11 C. BREMOND, La logica dei possibili narrativi, in R. BARTHES ET AL., L’analisi del racconto, trad. it. Milano, Bompiani, 1969, pp. 97-122. 12 M. BACHTIN, Estetica e romanzo, cit., pp. 390-397. 13 M. GUGLIELMINETTI, La cornice e il furto, Bologna, Zanichelli, 1984. 14 Per i segmenti novellistici del Viaggio in Alamagna del Vettori si veda R. BRAGANTINI, Alcune economie della narrazione cinquecentesca, in Dal primato allo scacco, cit., pp. 159-162. 15 E. PASQUINI, Le botteghe della poesia, Bologna, Il Mulino, 1991, in particolare i capp. V e VI, pp. 245-351. 16 G. SERMINI, Novelle, cit., p. 9. 17 G. GENETTE, Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. CEDERNA, Torino, Einaudi, 1989, p. 417. 18 R. BRAGANTINI, Alcune economie della narrazione cinquecentesca, in Dal primato allo scacco, cit., pp. 153-170. Cfr. anche ID., Il riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l’avventura e la norma, Firenze, Olschki, 1987.

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FRANCESCO D’EPISCOPO TECNICHE DI TRAVESTIMENTO NEL NOVELLINO DI MASUCCIO SALERNITANO Oltremodo fitta, e stranamente trascurata dalla critica, è la sequenza di travestimenti che affolla il Novellino di Masuccio Salernitano. Il travestimento di uomo in donna1 e viceversa2 funge spesso da sale della beffa, condendo salacemente una vicenda generalmente finalizzata al raggiungimento di un obiettivo erotico. In questo meccanismo narratologico, che rientra nella prospettiva teatrale della simulazione e della sorpresa, a Masuccio particolarmente familiare, come del resto a tutto il milieu rinascimentale napoletano3, si esercita la perizia degli attanti della novella, manovrati abilmente da un regista estremamente acuto ed attento agli esiti narrativi e teatrali che la vicenda riesce a sprigionare, in un rapporto di compartecipazione, peraltro pienamente dichiarato4. Lo scrittore che ride mentre racconta rappresenta il sintomo più evidente di quella ri-creazione della realtà che la novella masucciana, proposta come «istoria»5, come fatto vero, intende evidenziare, ma è anche, e soprattutto, il segno di quella interpretazione intima, affabilmente colloquiale, si sarebbe tentati di dire con il Pontano «sermocinale»6, della situazione scenica e narrativa. Il travestimento, allora, da fatto apparentemente marginale assurge a sostanza del gioco raccontativo e rappresentativo, elevandosi a privilegiato canone letterario destinato a trasfondersi in quello più propriamente teatrale, come, del resto, il destino del Novellino a più riprese confermerà7. Nel breve spazio di una comunicazione sarà sufficiente, per ora, soffermarsi su una formidabile accoppiata narrativa che, come non casualmente accade nel Novellino8, si incastra intimamente nel doppio gioco che il narratore e i suoi personaggi portano avanti con una esemplarità esplosiva, fungendo quasi da manifesto programmatico di quel travestimento che si diluirà nel corso dell’intera opera con esiti inediti ed imprevisti9. — 287 —

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Il movente che regge la macchina narrativa fondata sul travestimento è la gelosia, la quale stimola fortemente il narratore e i suoi personaggi a misurarsi con situazioni apparentemente impossibili, la cui soluzione finale è il risultato di una ingegnosa costruzione dell’intreccio e dell’intrigo, con passaggi, generalmente guidati, manovrati da una intensa complicità tra i personaggi intenti a costruire la beffa. Nella tipologia della novella masucciana c’è sempre un cavaliere, al quale vengono riconosciute le più alte doti di bellezza e liberalità, che riesce, grazie alla preziosa complicità dei suoi collaboratori, a superare oggettive difficoltà per portare a compimento il suo stratagemma. La scommessa, la sfida nei confronti degli ostacoli da aggirare costituisce la esilarante trama di un racconto che, come privilegia l’eccesso, così ama di continuo sperimentare soluzioni estreme. Il ruolo della donna, in queste novelle, è di accesa disponibilità a condividere la sorte possessiva dell’amante, quasi premio delle fatiche e dei ragionamenti che egli ha dovuto provare a inventare per raggiungere l’oggetto delle sue brame. L’esordio della novella XI è, in tal senso, esemplare: Quantunque, speciosissimo principe, per molti poeti se discriva la gelosia essere una amorosa passione, da suavi, dolci e soverchie fiamme d’amore causata, nondimeno per li contrarii effetti che de continuo se ne vedeno, iudico tal morbo esser pena intollerabile a comportare, e con gravissimo affanno e de mente e de corpo sustenuta; onde son sì duri e acerbi a gustare gli frutti, che tal venenosa pianta produce, e la sua amaritudine sì aspra e fiera, che raro o mai si trovò alcuno da quello oppresso, che, estimandosi evitar le furie de Cariddi, non ruinasse tra le voragine de la baiante Scilla; sì come per la seguente novella intenderai de una nuova manera di gelosia e strana cautela per un insensato geloso adoperata, lo quale credendosi la moglie guardare non solo dagli vagheggiamenti degli amanti, ma de non farla in abito femineo da nessun vedere, gli avvenne che lui medesmo si fu cagione gli fosse un giorno quasi in sul viso da uno cavaliero carnalmente cognosciuta.10

Il protagonista è «un legiadro e nobile cavaliero, per nome detto misser Ambrosio de l’Andriani, giovane ricco, bello e costumato»11, il quale, vivendo a Milano durante il ducato di Filippo Maria de’ Visconti e sentendo magnificare il regno di Alfonso d’Aragona (la novella è dedicata «A lo illustrissimo principe Don Frederico d’Aragona regio secundogenito»12), preso da curiosità, decise di scendere a Napoli, per poter verificare di persona quanto gli veniva raccontato. «E postisi milli fiorini in borsa, e de cavalli, de famigli e digni vestimenti guarnitosi»13, intraprese il lungo viaggio, il quale confermò — 288 —

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in pieno il magnifico racconto, tanto da indurre il cavaliere a protrarre la sua permanenza in città finché i mezzi economici glielo avessero consentito. Questa decisione fu fortemente favorita dall’attrazione fatale esercitata sul cavaliere milanese dalle donne napoletane, le quali, «a suo iudicio, erano più de presenzia, de grazia e de donnesco valore fornite, che de soverchia bellezza copiose»14. Frequentando alcuni gentiluomini di Capuana, si imbatte con «un nobile giovane»15, di cui diventa compagno d’amore e d’avventura, Tomaso Caracciolo, il quale, conoscendo l’ardore amoroso dell’amico, gli prospetta una situazione quanto mai allettante ed ardua: raggiungere una «giovanetta»16, moglie di un calzolaio, ritenuta, con evidente iperbole, la più bella donna in Italia. L’impedimento principale all’intrapresa, tale da renderla, secondo le parole del giovane narratore, «quasi impossibile»17, è il fatto che il marito, posseduto da una «inaudita gelosia»18, onde evitare favorevoli occasioni di approccio in sua assenza, la porta sempre con sé, ovunque egli vada, «in omo travestita»19. I due compagni ordiscono la trama ed operano un vero e proprio accerchiamento affaristico del calzolaio, il quale, sollecitato dalla magnificenza economica del cavaliere milanese, abbassa la guardia, favorendo una rischiosa familiarità, lasciandosi invitare a pranzo e, in un momento di grave distrazione, abbandonando la moglie, che altro non attendeva, in balìa del bramoso e ingegnoso cavaliere. La stranezza estrema del travestimento viene quindi punita, con puntuale legge di contrappasso, con un altro enorme eccesso, la beffa, ordita dal cavaliere con il complice ed ilare sostegno maschile esterno. Il godimento finale è, agli occhi di Masuccio20, la giusta punizione a una smodata passione, la gelosia, la quale viene ripagata di pari moneta. Ma è soprattutto l’eccesso del travestimento a favorire lo scatenamento di una punizione estremamente sottile, pari al sotterfugio che le mentite spoglie suggerivano. Questo rapido ragionamento conferma la perfetta corrispondenza narratologica che nella trama della novella viene a determinarsi tra presupposti simulatori e smascheramento della finzione, con esiti sorprendentemente calibrati, in nome di una giustizia del piacere al cui altare Masuccio consacra il suo ingegno beffardo e irriverente. Strettamente congiunta a questa novella, come Masuccio ha modo di annunciare nel commento finale, cantuccio prezioso per svelare le sue intenzioni ma anche alcune sue ambiguità, è la seguente: La ricevuta beffa de Ioan Tornese, per travestir la moglie de femina in omo, me tira a tal principiato ordine un altro sottilissimo inganno racontare, da un nostro sa-

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lernitano ad un oste gelosissimo de la moglie adoperato, né più differente dal racontato caso, che d’esser l’amante de omo in femina travestito. Al quale essendo ogn’altra via de adempire el suo desiderato proponimento interdetta, adoperò per tal modo el suo mirabile ingegno, che ’l marito medesmo a giacere in un letto con la ben custodita moglie lo condusse; dove per niun tempo di ciò accorgendosi, non fu dal dolore costretto a riceverne morte, si come il misero Ioanni, qual dopo la vergogna la propria vita ne perdio.21

La novella XII si apre con un inno programmatico alla «sottilità de intelletto e isvigliazione de ingegno»22 che il «signore Amore»23 riesce a suscitare «a la maggior parte di quelli che, ferventemente amando, seguono l’orme de sua vittoriosa insegna»24 e con lo svelamento della tecnica di complicità che si viene ad instaurare tra amante e moglie fedifraga del geloso marito, «onde si può cavar sentenzia che, dove il provedimento d’alcun sagace amante insiemi con la pravità de la deliberata donna se unisce, niuno umano sapere o accorgimento potrebbe a quello riparare»25. L’obiettivo storico si sposta, questa volta, da Napoli a Salerno, sotto il pontificato di Martino V, fiorente di traffici e commerci. Il personaggio destinato alla beffa è «un bon omo d’Amalfi, chiamato Trofone»26, il quale si trasferisce con la moglie, «de assai bellezza fornita»27, e con la famiglia in città, dove prende albergo nel seggio del Campo e ancora nel tenimento di Porta Nova. Un gentiluomo salernitano, particolarmente in vista, si innamora della bellissima donna e si adopera, anch’egli, a raggiungere lo scopo grazie alla complicità, questa volta, di una sua vecchia domestica, la quale si fa tramite sapiente dell’amore del giovane, creando nella donna curiosità, suggestione, ma soprattutto piena disponibilità ad accogliere le profferte dell’amante. A questo punto riappare l’allegra brigata napoletana dei gentiluomini di Capuana, che fanno da nobile cerniera tra le due novelle, e scatta lo stratagemma con il travestimento non solo del giovane salernitano in donna vedova «con pappafico e cappello»28, ma anche di due ragazzi in fanciulle. Il gentiluomo, travestito da vedova, viene fatto passare per «la figliola del conte de Sinopoli, novamente per morte del quondam misser Gorello Caracciolo suo marito inviduata»29 (si noti l’enfasi della presentazione), per la quale si richiede un trattamento di particolare favore, facendola dormire, accompagnata dalle due ragazze, con una donna di compagnia. Al marito oste viene la paradossale idea di ospitare la vedova a casa sua e di farla dormire con sua moglie. L’inganno è tratto e l’andamento erotico del racconto lo sancisce in progress, nello stile più autentico del narratore. — 290 —

TECNICHE DI TRAVESTIMENTO NEL NOVELLINO

La civile intelligenza dell’amante nobile stride con la «soverchia bestiagine»30 dell’oste plebeo, ignorante e impacciato, confermando in pieno le teorie sociologiche ciclicamente formulate sul Novellino di Masuccio31. Il travestimento rappresenta il meccanismo privilegiato di questa sociologia della beffa, dell’inganno, perpetrato sempre dai nobili ai danni dei plebei, in ossequio a quell’ottica cortigiana di cui Masuccio celebra e conferma i fasti. Il travestimento valorizza le potenzialità di un intreccio che, grazie a questo straordinario meccanismo, riesce a raggiungere i suoi esiti più intensi e imprevisti. Il mascheramento, come nella più congrua interpretazione rinascimentale, aiuta a smascherare le passioni più primitive, che si inscrivono pienamente nel cerchio magico e magnifico del dio Amore. Amore, scoccando la freccia del desiderio, si vendica sacralmente di tutto quell’apparato di finzioni che sedimenta in un corpo sociale asfittico, protetto da malsane passioni, quali la gelosia. Travestirsi significa, allora, attaccare la società con i suoi strumenti preferiti, l’apparenza prima di tutto, anticipando in pieno il machiavellismo delle forme, struttura portante di un Rinascimento che a Napoli si configura come meraviglia e sorpresa. Anche per questa ragione, il passo dalla narrativa al teatro è breve e il travestimento deve intendersi come la miscela esilarante ed esemplare di una sceneggiatura, ricca di passato ma anche avida di futuro, come le farse cavajole tra breve documenteranno32. La teatralizzazione dei modelli narrativi33 sarà l’essenza di un Rinascimento meridionale che nel piacere della meraviglia celebrerà i suoi trionfi più durevoli, nello spirito di una invenzione che, prima di ogni altro luogo, preluderà ad un’anima meticcia e barocca.

NOTE Cfr. la novella XII. Cfr. le novelle XI, XXXV, XXXIX. 3 Cfr. F. D’EPISCOPO, Masuccio e Pontano: i giuochi del linguaggio, «Filologia e critica», XVI, 1991, 1, pp. 74-90. 4 Nel commento finale della novella XII, Masuccio così annuncia il carattere esilarante della seguente: «e trapassando più avanti, dirò de un altro notevole inganno in persona de un nostro straticò marchisano adoperato per un giovane salernitano; e fu la burla sì faceta e bella, ch’io medesmo, scrivendola, de ridere non me posso per alcun modo contenire; de la quale, quanti sono oggi nella nostra cità, me ne ponno rendere verissimo testimonio», MASUCCIO SALERNITANO, Il Novellino, a cura di S. S. NIGRO, Bari, Laterza, 1975, p. 122. 1 2

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FRANCESCO D’EPISCOPO 5 Nel prologo alle sue novelle, l’autore tiene subito a puntualizzare che esse sono «per autentiche istorie approbate, negli moderni e antiqui tempi tra venute», ivi, p. 3. 6 Si veda la n. 3. 7 Criticamente rilevato è il trapasso della tipologia e della casistica masucciane nel genere cinquecentesco delle vicine farse cavajole. Cfr. Le farse cavajole, a cura di A. MANGO, Roma, Bulzoni, 1973. 8 Si veda l’emblematica, beffarda sequenza delle novelle II e III, che trabocca poi persino nella IV. 9 Si veda la n. 2. 10 MASUCCIO SALERNITANO, Il Novellino, cit., p. 104. 11 Ivi, p. 105. 12 Ivi, p. 104. 13 Ivi, p. 105. 14 Ibidem. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Ibidem. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 106. 20 Si ricordi la citazione della n. 10. 21 MASUCCIO SALERNITANO, Il Novellino, cit., p. 113. 22 Ivi, p. 114. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 118. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 121. 31Cfr. D. BOILLET, L’usage circonspect de la «beffa» dans le «Novellino» de Masuccio Salernitano, in Formes et significations de la «beffa» dans la littérature italienne de la Renaissance, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1975, pp. 65-169. 32 Si veda la n. 7. 33 Cfr. F. D’EPISCOPO, Radici rinascimentali di Pulcinella, in Pulcinella, una maschera tra gli specchi, a cura di F. C. GRECO, Napoli, ESI, 1990, pp. 113-124.

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RAFFAELE GIRARDI ITINERARI E TIPOLOGIE DELL’APOLOGO UMANISTICO-RINASCIMENTALE: PRELIMINARI PER UNA INDAGINE In sede di provvisoria definizione, partirò, con l’obbiettivo minimo di una prima rubrica di lavoro, da due scarne accezioni con cui il termine «apologo» è codificato nel lessico moderno. La prima: «racconto allegorico con fini morali e di ammaestramento» (G.D.L.I.). La seconda, una variante meno cauta, che dà più fiducia alla vulgata classicistica: «breve racconto con fini educativi, in cui vengono introdotti a parlare animali o cose inanimate» (ZINGARELLI). In entrambe è inesorabilmente oscurato un dato, che dopo Propp ci è in realtà già sufficientemente familiare: il suo essere una forma di narrazione breve, che come ogni genere, direbbe Bachtin, «vive del presente ma ricorda sempre il suo passato»1, reinterpretandolo (aggiungiamo noi) in una fenomenologia complessa e metamorfica, nella quale l’intertestualità è fattore costitutivo, ossia una realtà assai ramificata di rapporti con alcune strutture arcaiche del racconto; strutture le cui radici si perdono nella trama fitta dell’intera tradizione narrativa. Si deve ancora ripartire dalle vecchie e benemerite indagini che oltre mezzo secolo fa Carlo Filosa, sulla scia degli utili contributi già offerti dalla scuola ‘storica’, condensò nel volume vallardiano La favola (1952) per una ripresa dell’inchiesta sul cosiddetto (da Filosa) «genere esopico» e per la possibile ridefinizione di una poetica storica2. Fu definito allora, «indifferentemente», apologo o favola3, ma fu riconosciuto «possibile e legittimo vedere una magari sottile differenza» (Proemio, p. XII). Qui si preferirà di norma rimuovere quella intercambiabilità, parlando di «apologo», per un’esigenza di distinzione fra particolare (apologo) e generale (favola: si pensi all’accezione generalissima e teoricamente essenziale usata da Boccaccio nelle Genealogie deorum gentilium). Essa riceve, credo, una convalida in progress da un lunga serie di — 293 —

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indicazioni metatestuali e di testimonianze teoriche, che partono da Boccaccio e arrivano a fine Cinquecento. Tema centrale di questi ‘preliminari’ è proprio l’epifania in progress di questa differenza. Scheda 1. Più di recente, un interessante capitolo della Letteratura italiana Einaudi4 proponeva con elegante duttilità un’organica rassegna di modelli cosiddetti «moralistici», scritture essenzialmente etico-filosofiche, la cui «continuità retorica» sarebbe assicurata dal comune «effetto d’ironia» (p. 1017). Quella «specifica tradizione» tracciava una sorta di grande arteria, che da Cicerone, attraverso Luciano ed Alberti, giungeva a Leopardi, unificandosi nella formula centrale, molto elastica e «prudente», di «prosa d’invenzione morale»: un contenitore assai suggestivo ed ellittico, familiare in vero a molti autori e testi che più avanti ci capiterà di chiamare in causa con l’intento di ricollocarli su percorsi e tipologie assai più determinati. Sotto una diversa e comune insegna: quella dell’apologo. Nell’ultimo ventennio una sensibile ripresa d’interesse per le forme del racconto breve ha ridato smalto alla prospettiva di un’indagine più paziente, fatta di più puntuali riscontri testuali, su quella che Jolles definì la tradizione delle «forme semplici»5, riaprendo il confronto su alcune delicate questioni terminologiche. Favole parabole istorie, recitava il titolo di un recente convegno, che riapriva, lungo questa più circostanziata e analitica prospettiva di scavo, la discussione aperta un decennio prima da un convegno fratello su La novella italiana6, partendo dal riconsiderare in una qualificatissima gamma di termini storicamente emblematici un insieme assai significativo di connesioni problematiche riguardanti la complessa transizione del racconto di matrice boccacciana verso la stagione rinascimentale. In questa cornice, un discorso specifico di storia delle forme e di poetica storica sull’apologo mi pare che ancora sia da fare. Scheda 2. Nella prospettiva di un’aggiornata caratterizzazione morfologica della forma-apologo, è bene partire da un’indicazione dottrinaria della Retorica di Aristotele, che ha finito per avere, nel tempo, valore fondativo nella definizione dei caratteri e della funzione dell’apologo in generale, ossia in rapporto alla sua costante di discorso ‘esemplare’. Nella dottrina aristotelica dell’argomentazione l’exemplum, bipartito in «fatti» e «invenzioni», sul versante delle «invenzioni» dà luogo ai tipi della «parabola» e della «favola» (quest’ultimo nelle due forme della favola esopica e della favola libica) (Rethorica — 294 —

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II, 20, 1393a-1393b): due strumenti della comunicazione ‘pubblica’ destinati ad elevare la forza persuasiva del discorso. Aristotele fa due esempi: la favola del cavallo e del cervo, raccontata da Stesicoro agli abitanti di Imera, e la favola della volpe e del riccio, usata dallo stesso Esopo in un suo discorso a favore di un demagogo. Due esempi caratterizzati entrambi, in riferimento al valore fondante del canone esopiano, da una serie di costanti morfologiche che da ora in poi s’iscrivono nel profilo più o meno stabile del genere: 1) il carattere immaginario, l’irrealtà storica, del suo esilissimo plot; 2) il protagonismo animale come asse paradigmatico, che nei corpora organici della tradizione esopica ed orientale rappresenta una dominante tematica piuttosto che un elemento esclusivo; 3) la qualità atopica e acronica del racconto, il suo spazio-tempo ‘vuoto’: l’azzeramento insomma di quella componente narratologica che con felice metafora è stata definita il «fabbisogno scenografico»7; 4) Il rapporto analogico fra la trama elementare della fabella e il mondo reale, esplicitato in un epilogo di carattere gnomico, che pone in stretta relazione il contenuto esemplare della fabula col contesto situazionale (per Aristotele era, al più alto livello, quello della trattazione filosofica). Si aggiunga una costante di funzione: l’occasione pubblica della performance oratoria e in un senso più laterale (quello che molto interesserà le scritture umanistiche) l’idoneità di valore etico che l’inserto favolistico si guadagna nella «civile conversazione». Scheda 3. Su questo archetipo, basato su una interpretazione prettamente retorica della teoria della favola, si costruirà un percorso specifico. Non sarà il solo. Esso giungerà al capolinea nel maturo Cinquecento: la Retorica (Venezia, G. Giolito, 1559) di Bartolomeo Cavalcanti è infatti l’ultima rilettura di quella ortodossia. Nel trattato cavalcantiano sembra culminare il capzioso dogmatismo di un’epoca e di una generazione di letterati inclini a normalizzare sul terreno della lingua e della filologia una cogente disciplina per un mercato culturale sempre più complesso, accordando la varietà delle sue forme e dei suoi modelli all’unità teorica del ‘sistema’ aristotelico: con esigue aperture di credito teorico, in vero, proprio verso le forme narrative, a giudicare dal carattere assai tardivo e dalla rarità dei contributi specifici, che si limitano, credo, alle due Lezioni di Francesco Bonciani Sopra la novella (1574) e Della prosopopea (1578). Proprio in nome di un tale bisogno normativo, il carattere specifico dell’apologo è in sostanza identificato, nonostante il già cospicuo e assai diversificato cammino da esso compiuto nei secoli XIV e XV, — 295 —

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nella «favola a guisa d’Esopo». Per Cavalcanti, che pure è il solo ad accordare una preferenza agli apologhi originali su quelli riscritti («qui non tacerò che Aristotele vuole che noi stessi facciamo l’apologo et la parabola […], si come le cose fatte da noi et per la novità piacciono et meritano maggiore lode che l’usare le fatte da altri»: p. 121), l’apologo, pur parlando in figura, come le favole dei poeti, si distingue nella sua forma classica dalla «similitudine più oscura e più rimota» della poesia, essendo destinata ad esercitare, con la sua elementare morfologia, una più semplice funzione gnomica e di potenziamento, in quanto exemplum, del discorso convincente: è insomma rimarcata una insuperabile distanza fra l’esemplarità figurale dell’apologo, che è strumento di comunicazione orale per i semplici, codificabile esclusivamente nell’ambito del discorso persuasivo, e il più complesso parlar figurato della favola propriamente poetica. A una posizione speculare approderà, qualche anno più avanti, Scipione Ammirato nel Dedalione: «Sono molti uomini, Dedalione, peggior che fanciulli, i quali a pena con altro che con novelle puoi ritrar al bene, le quali novelle chiamano molti parabole o apolaghi»8. Scheda 4. Fra questi due poli della tradizione retorica, c’è di mezzo, in realtà, un travaglio d’idee autoriflessive sulle forme della narrazione che in naturale sintonia con l’imponente processo di laicizzazione della prassi dell’exemplum e con l’universale fortuna del modello narrativo boccaccesco, consente in realtà di riapprodare alla vicenda delle forme narrative umanistico-rinascimentali e alla stessa prassi del racconto breve lungo itinerari assai differenti e più complessi, che ridefiniscono progressivamente confini sempre più autonomi dell’inventio poetica rispetto al tradizionale magistero della retorica. La cultura latina aveva in vero già trovato nel De oratore di Cicerone nuovi spazi di elaborazione riguardanti assai da vicino le pratiche del racconto e un’articolata ontologia e precettistica del riso. Inglobando fra le tipologie del risum lo scherzo (iocum) e le battute di spirito (facetiae) come efficaci strumenti dell’argomentazione coinvolgente e persuasiva (De oratore II 216 e 235 sgg.), la dottrina ciceroniana aveva finito per rappresentare anche fuori dai confini dell’arte oratoria un riferimento essenziale per la definizione dei modelli comici, indicando in particolare nelle tipologie della facezia basata sui dicta e di quella basata sui facta (II 242) due vie di sviluppo dello stesso racconto breve. Risulterà in effetti decisivo che nella dottrina ciceroniana la forma aneddotica specifica delle narrationes apologorum (II 264) sia inserita nell’ambito dei facta di pertinenza comica, sia pure con i rigori di una me— 296 —

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dietà precettistica assai attenta a inibire nell’uso del risum gli estremi della mordacitas, ossia il risum contro la malvagità dei potenti (insignis improbitas), e quello che prende di mira i più deboli (miseria insignis) (II 237). Quintiliano, inoltre, aveva associato exemplum e parabola al pÉrÉdeigma dei Greci, ossia all’ambito delle prove inserite ‘dall’esterno’ nel tema del discorso, ridislocando fra le tipologie dell’exemplum sia le poeticae fabulae sia le fabellae esopiche, che egli considerava due forme deboli del discorso pubblico, strumenti comunicativi poveri di adfirmatio, ossia di forza probatoria (Inst. or. V 11, 17-19): strumenti (soprattutto l’ultimo, la favola esopica, una forma contigua, nella sua destinazione umile ed ‘educativa’ a quella delle fabulae nutricularum: I 9, 2), adatti in primo luogo ai ragazzi per gli esercizi di parafrasi e di racconto. Era un esito tutto sommato aderente a un modello elastico di comunicazione persuasiva, che legittimava l’uso di materiali narrativi assai semplici come quelli delle fabellae, adatte a trasmettere saperi elementari, verità immediatamente fruibili per un pubblico ingenuo (i rustici e gli imperiti: V 11, 19). Quintiliano fa un esempio assai calzante (da ora in poi il più citato nella letteratura esemplaristica), l’apologo sulla rivolta delle parti del corpo umano contro il ventre (ivi), che Menenio Agrippa narra alla plebe di Roma, per convincerla, nel corso della guerra ‘sociale’, a interrompere la secessione aventiniana e a riappacificarsi col senato: apologo già presente nel corpus esopiano e poi riusato da Livio (Hist. II 33). Ma già in Orazio, che pure Quintiliano cita, il genere si nobilita, lasciando i demanî della pura oralità, per essere impiegato nella più celebre delle Epistolae oraziane (a Mecenate), dove si racconta in modo succinto la favola della volpe e del leone (I 1, 72-75). Scheda 5. Il diagramma assai mosso dei livelli di consenso (o di renitenza) via via espressi, lungo la complessa evoluzione della tradizione narrativa europea, nei confronti di questo paradigma della urbanitas è uno degli indicatori più significativi della straordinaria vitalità che contrassegna in generale la fenomenologia dell’apologo, sia sul versante (assai fluttuante e proteiforme e comunque a forte vocazione didattica) della raccolta autonoma9 sia su quello più sommerso (e più ricco come oggetto d’analisi) del micro-testo ‘inserito’. Un discorso a parte meriterebbe la vasta congerie delle indicazioni dottrinarie offerte dalla lunga tradizione dei trattati medioevali. Parlo di una trafila prevalentemente patristica, che dovrebbe partire, ad esempio, per ciò che ci riguarda, dal corpus agostiniano e dalle Etymologiae di Isidoro fino almeno — 297 —

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alle opere di Tommaso d’Aquino, con le quali i testimoni più consapevoli della grande stagione protoumanistica, primi fra tutti Petrarca e Boccaccio, instaureranno un confronto assai stringente e impegnativo. Occorre intanto rilevare, nella fase di consolidamento della novella boccaccesca, il rapporto assolutamente decisivo che s’instaura fra una laica ristrutturazione delle forme narrative a destinazione esemplare, nel cui perimetro prevalentemente toscano (quello delle scritture di ‘ricordi’, dei ‘libri di famiglia’ e dell’Esopo toscano, esaminato in profondità da Vittore Branca) c’è una incessante proliferazione delle forme brevi, e la ripresa, ad un livello avanzatissimo, dell’elaborazione in sede di poetica. Il contributo di Boccaccio rappresenta, come si sa, un passaggio cruciale, che offre, io credo, una complessiva ridefinizione dei nuovi orizzonti del racconto: una prima soglia, fra le tante, della modernità letteraria, che sarà percepita come tale dagli stessi produttori nella grande stagione dell’autoriflessione umanistico-rinascimentale. Uno dei tratti distintivi di quella stagione fondativa, ossia, come si è detto di recente, l’«endemica disponibilità dei testi narrativi […] a modellarsi su strutture sempre diverse»10, sembrava ricevere una vistosa conferma proprio dall’eclettica «interscambiabilità» dei termini usati da Boccaccio nel presentare i testi della sequenza decameroniana («intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dir le vogliamo»: Dec., Proemio 13). Di quel proemio si è già molto discusso: l’interscambio delle tipologie designa una sofisticatissima vocazione a codificare in una summa laica una molteplicità di procedure narrative, tesaurizzando nell’economia nuova del ‘libro’, con un polimorfismo aperto e insieme organico, tutta la gamma delle forme retorico-stilistiche disponibili all’economia della fabulatio, nel senso assai ampio e pluriprospettico che Boccaccio s’incaricherà di approfondire nelle Genealogie deorum gentilium. È un polimorfismo che, a partire dall’originario legame che s’istituisce fra le forme dell’inventio narrativa e i miti e le forme archetipiche dell’immaginario umano, non solo finisce per determinare sulla scena delle forme narrative una provvidenziale caduta di paratie epistemologiche fra mito, «istoria» e favola (fissando nuove relazioni dinamiche fra funzione del delectare e prerogativa etico-formativa della comunicazione novellistica), ma anche delinea un ambito nuovo ed autonomo di pertinenze formali, all’interno del quale la fabula stabilisce una salutare distanza dai dominî della filosofia e della retorica. Un elemento in tal senso nuovo delle Genealogie è intanto nel fatto che Boccaccio teorizzi originalmente il comune fondamento ontologico e la so— 298 —

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stanziale identità di favola e poesia, riesaminando dall’interno la vulgata teologica11. La favola, ossia il racconto, in quanto locutio, è per Boccaccio una struttura poetica che come tale, ossia come un modo della poesia, condivide con la poesia l’essere il prodotto di un fervore immaginativo che si dà una forma (exquisita locutio), facendosi così sostanza comunicabile sia attraverso l’oralità sia attraverso la scrittura («Poesis enim, quam negligentes abiciunt et ignari, est fervor quidam exquisite inveniendi atque dicendi, seu scribendi, quod inveneris»: Gen. XIV VII). Boccaccio si spinge a definire un paritario allineamento di tipologie pertinenti: il racconto nel quale «animalia bruta aut etiam insensata inter se loquentia inducimus» (destinato a ‘formare’ da ora in poi il modello di riferimento per una ricchissima tradizione che definiremo del ‘racconto in forma di prosopopea’), il racconto mitologico, quello storico, la parabola (XIV IX) e finanche il tipo più arcaico e domestico di narrazione fantastica, ossia le fiabe («fabellae Orci, seu Fatarum, vel Lammiarum»: XIV X). Fabulae, del resto, sono definite da Boccaccio, in una lettera a Francescuolo da Brossano (Epist., XXIV 41), le novelle del suo Decameron. La fabulatio insomma è sostanzialmente invenzione narrativa la cui funzione ‘distensiva’ (il «recreare animos fatigatos»: XIV IX) si esercita propriamente in una dimensione di socialità, che è quella delle iocosae confabulationes12. In questo molecolare processo di avvicinamento della favola (intesa come messaggio allegorico-morale) agli orizzonti della finzione, non è difficile cogliere il profondo significato antropologico e la straordinaria dilatazione di confini che Boccaccio introduce nella concezione e nella pratica del narrare. Aggirata con grande acume dottrinario da parte di Boccaccio la vasta congerie di pregiudiziali filosofiche di matrice teologica, caduto il discrimine degli stili (il basso e l’alto della tradizione retorica: una polarità che designa anche distanze epistemologiche e divario di punti di vista fra mondo popolarecarnevalesco e mondo aulico), la stessa osmosi fra oralità e scrittura ricolloca i codici del risum e lo stesso perimetro delle tipologie comico-favolistiche, compreso, come vedremo, l’apologo, sulla scena dinamica, tutta orizzontale e socialmente polimorfica, di una nuova inventio narrativa. Scheda 6. Eppure, in attesa che una tale effervescenza di idee e di esperienze conduca, nei demanî delle culture di corte, alla piena valorizzazione delle risorse offerte dalla prosa volgare, la stagione alta dell’autoriflessione e in ugual misura e rilievo la stessa concreta esperienza delle scritture narrative (in esse compresa la sperimentazione in latino della forma-apologo), coincide, è stato — 299 —

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detto, con una «lunga e puntigliosa vicenda di rettifiche e variazioni umanistiche del modello boccacciano»13. Un primo test di altissimo livello è offerto da uno scrittore bilingue: Leon Battista Alberti. Le Intercoenales albertiane, insieme al Liber facetiarum di Bracciolini, rappresentano un primo grande specimen di forme narrative nuove, costruite in regime d’ibridazione e di corposa reinvenzione morfologica. Il termine «apologo» fa il suo primo vero esordio proprio con Alberti, ed è già semanticamente assai mobile. La favola albertiana è strutturalmente ‘leggera’ (soprattutto nell’autonoma raccoltina Apologi centum, per la sistematica caduta del topico epilogo gnomico-didattico) e insieme dilatata nelle misure, soprattutto nella più sofisticata serie di prosopopee ‘naturalistiche’ (Gallus, Floree, Lapides e Hedera), inserite nell’architettura complessa delle Intercoenales. Un gioco di sottile metamorfosi tende a far dissolvere in una brevitas di più sofisticato conio, elegante e insieme incisiva nei suoi intenti etico-politici, l’originaria funzione pedagogico-elementare dell’apologo classico, per un impegno costruttivo rivolto a rappresentare nel conflitto fra i linguaggi sconosciuti del ‘basso’ (l’autonoma ratio animalesca) e i codici caduchi e mutevoli della ragione umana una funzionalità critica e problematica del raccontare, un abito intellettuale già aperto alle istanze di una convivialità assai più esigente ed esclusiva. Il linguaggio surreale dell’apologo albertiano rappresenta il primo grande modello ‘aperto’. Esso spianerà la strada alle tipologie modernissime della favola mitico-allegorica e dell’apologo politico, nonché al tema narrativo-utopistico della follia, che supporterà nel corso del Cinquecento nuove strategie di apologatio fantastica. Su questo percorso s’incontreranno Erasmo, Agnolo Firenzuola, Niccolò Franco, Anton Francesco Doni e tantissimi altri. È inutile ricordare, guardando verso un ambito contiguo della tradizione del racconto breve, l’analogo (e prolifico) ruolo di genere ‘inserito’ con cui già si caratterizzava la facezia all’interno dei corpora novellistici due-trecenteschi, dall’anonimo Novellino al Decameron. È una fenomenologia simbiotica che nel corso del Quattrocento continuerà ad attraversare lungo percorsi complanari la grande stagione delle raccolte autonome, prima fra tutte quella del fortunatissimo e strutturalmente organico Liber braccioliniano, nel quale i microtesti ‘esopici’ (facezie LXXIX, C, CLXIII, CCXL e CCLIII) continuano a convivere, sotto la comune insegna di una confabulatio dissacrante e ‘lucianea’, con la facezia vera e propria, indicando ancora una volta nella sfera di pertinenza del termine «facezia» una indistinzione tipica della tradizione boccaccesca. — 300 —

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Scheda 7. Ma lungo questi itinerari di fine Quattrocento un discorso a parte è da fare sul fecondo intreccio fra riflessione metaletteraria e momento creativo. Un primo campione d’analisi: le cosiddette (dal loro editore moderno) Operette morali di Pandolfo Collenuccio14, ossia, tornando al titolo dei due codici collenucciani collazionati da Saviotti, Apologi quattuor, stampati alla spicciolata negli ultimi anni del secolo XV e nei primi del XVI, poi in edizione unica (Argentorati, in aed. M. Schurerii, 1511), tipologicamente affini alle operette collenucciane in volgare, Filotimo e Specchio di Esopo. Negli Apologi l’allegoria miticamente quadripartita dei grandi valori civili e della tecnica (Agenoria, Misopenes, Alithia e Bombarda) è resa in una particolare forma di dialogo misto, che poggia su una struttura collocutiva complessa, assai distante ormai dalle misure e dalla diegesi minima della favola esopiana, prossimo piuttosto alle forme e alle misure del repertorio satirico lucianeo. Su questa strada opererà anche Celio Calcagnini nei suoi Apologi latini (in Opera aliquot, Basileae 1544). È un modello di scrittura meditativa che, seguendo la scia dell’esperimento albertiano, sarà un riferimento essenziale per la prosa ‘morale’ di Leopardi. L’autoriflessione di Collenuccio è, nel suo genere, fra le più interessanti. Nel suo Specchio di Esopo è assai evidente l’intenzione di ricalcare le strategie metaletterarie dei dialoghi lucianei, commutando in una prosopopea comica dell’apologo quello che per Luciano era, per esempio nel Bisaccusatus, la personificazione del Dialogo e il suo riscatto dalla filosofia. I personaggi dello Specchio (Esopo, Plauto, Luciano) sono i modelli primari del linguaggio comico: con essi l’apologo moderno instaura un rapporto essenziale di contaminazione, rimarcando l’originale funzione conoscitiva e salvifica (il «purgare e brunire gli specchi»: Op. mor., p. 98) che esso svolge rispetto al discorso filosofico nello stesso senso usato da Boccaccio nelle Genealogie: Esopo […] è filosofo, ma non come li altri che con sillogismi e longhe narrationi e difficili mostrano a li omini la via della virtù […]; ha trovato una nova via breve et espedita, per la quale pigliando argumento di cose umili e naturali, con dolci esempli dimostra quello che a li omini sia utile. (p. 96)

Nel primo trentennio del Cinquecento un diverso e più perentorio bisogno di chiarificazione normativa segna, in realtà, la grande stagione ‘cortigiana’. Giovanni Pontano ne è il primo grande interprete col De sermone. Per Pontano, alla struttura antropologica del risum s’impone una «faceti dicendi — 301 —

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regula», che è poi una più imperiosa affermazione della ciceroniana urbanitas, rivolta, con tutta la sofisticata estroversione di cui la inventio pontaniana è pur capace (come si vede nell’Asinus), a ricondurre le indicazioni teoriche di Boccaccio sulla fabula nell’alveo di una retorica decorosa, che conosce anche modi ‘mimici’ e teatrali di comunicazione, sapendoli proteggere dall’ombra assillante della degenerazione ‘agreste’ (i lasciva et contumeliosa dicta: ed. Lupi e Risicato, V III). Nel modello antropologico del Cortegiano, in armonia con questa istanza di controllo della cultura classicistica, l’«animal risibile», l’istanza comica della comunicazione umana, che muove a narrare di «quelle cose che hanno in sé disconvenienza» e il fascino di una «certa deformità» (Cort. II XLVI), con tutto il corredo delle forme più accreditate della parola di spirito, dei sales conviviali (fra i quali, forse non a caso, non c’è posto per l’apologo), è ricondotta all’aristocratico decoro di una «grazia» discorsiva, che, conoscendo perfettamente «termine e misura» del narrare senza fatica (Cort. II XLIX), esorcizza nei suoi modi suadenti lo spettro di una «bestialità», ossia «quel modo che fanno i «pazzi e gli imbriachi e i sciocchi ed inetti e medesimamente i buffoni», che, per «aver rispetto a […] potenti» (II XLVI), va relegata nel contado; una «bestialità» che dalla piazza e dal contado insidia il sogno di perfezione del «cortegiano». Scheda 8. Sul finire del secolo XV, alla chiusura della stagione umanistica più creativa, la svolta netta verso prodotti in volgare di molto più immediata presa popolare non smentisce l’accentuata tendenza delle sillogi narrative verso morfologie d’impianto assai diversificate, che increspano progressivamente le razionali misure della novella boccaccesca a cornice. Un segno vistoso di questa svolta è nella fortuna notevole di una tipologia comico-popolare ben rappresentata dalla raccolta Motti e facezie del piovano Arlotto, una ‘biografia’ per tessere aneddotiche, che impone un suo originale statuto al rapporto fra favola e cronaca, racconto e ‘diceria’ orale. Accanto a isolati apologhi, che riarticolano e dilatano spunti rintracciabili nel repertorio tematico del Panciatantra (cfr., per es., nell’ed. Folena, la facezia 32) o nell’altrettanto noto registro della raccolta arabo-persiana Kalîlah e Dimnah (facezia 96: la novelletta dei topi e delle gatte viene raccontata all’interno di un più largo contesto narrativo-realistico come caso esemplare che fa leggere su basi eticamente più solide un caso dell’attualità fiorentina), la raccolta arlottiana ospita testi talora arricchiti da sintetici richiami al contenuto esemplare di antiche favole animali; richiami quasi sempre disciolti nella trama di un racconto dotato di un — 302 —

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preciso cronotopo, come nelle facezie 59 e 70; ma anche tipi di più sapida sostanza fantastica, come l’apologo (più volte ripreso nella letteratura europea del Cinquecento) dei «dieci valenti e savii astronomi diventati matti» (facezia 94), solo un esempio, fra i tanti possibili. È un raccontino fantastico ‘inserito’, che funge da organismo narrativo portante all’interno di una piccola cornice di racconto realistico-faceto e che in questa versione arlottiana fa, per quel che mi risulta, il suo primo esordio nella tradizione narrativa italiana: un modello di apologo atipico, che conviene considerare, in uno scandaglio più vasto e analitico, fra i calchi più suggestivi e fecondi di una specifica tipologia surreale. Essa condivide con l’altro filone del racconto mitico-allegorico, esemplificato dalla tipologia platonica e plutarchea della ‘favola circea’ (un best seller nella prosa morale del Rinascimento, insieme alla ‘favola del piacere’, anch’essa proveniente dal grande repertorio platonico e destinata, attraverso le riscritture di Ficino, di Gelli, di Doni e di Parini, al grande laboratorio leopardiano, tanto per limitarci alle stazioni preclare di un processo di rifacimento praticamente sconfinato e incessante), l’abbandono della dimensione esclusivamente animale (un elemento che apre strade del tutto nuove all’apologo cinquecentesco) e l’invenzione di esperienze e visioni eccentriche del mondo, filtrate da una singolare freschezza immaginativa. Esperienze e visioni capaci di grandi preannunci sul terreno del fantastico moderno. Scheda 9. La vicenda dell’apologo cinquecentesco è un processo incessante di diversificazione morfologica, che rilancia innanzitutto la prassi del microtesto inserito nell’opera in versi. L’esempio paradigmatico della tecnica ariostesca e l’eccezionale campione d’analisi offerto dagli inserti favolistici delle Satire (I 247-261, III 109-153, III 208-231, IV 205-207, VII 70-87) è solo un punto di ripartenza, che postula un’ampia ricognizione su una pratica intratestuale da scrutinare a partire almeno dalle parentesi favolistiche di Burchiello e Pulci (lascio da parte, per ora, gli esempi del Petrarca latino e degli altri trecentisti) e da riprendere nel caso (coevo all’esperimento ariostesco) di Berni, e poi di Alamanni e di Tansillo, non dimenticando naturalmente, sullo sfondo, la persistente fortuna delle raccolte organiche (quelle di Pavesi, di Verdizzotti, di Capaccio e di altri) allestite in regime di ‘riscrittura’, vivendo cioè di rendita minimale (e stilisticamente degradata) sui corpora di Esopo e dei favolisti quattrocenteschi. Ma è sul versante della prosa che si consumano le pratiche di riarticolazione strutturale più complesse. Un modello di diversificazione generica è — 303 —

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per esempio quello che crea semplicemente discontinuità di rubrica nel corpus novellistico con l’inserimento di apologhi autonomi nella sequenza delle novelle realistiche, come succede, per esempio, sul versante umanistico, nelle Novellae di Girolamo Morlini, in particolare nell’ottavo racconto, De filio qui matrem offetabit, che è in realtà un apologo in virtù di una totale assenza di coordinate spazio-temporali e segnali d’identità. Nei Mondi di Doni invece l’apologo può essere un sotto-racconto assorbito nel tessuto del racconto principale, quello cronotopicamente caratterizzato (naturalmente nei modi originali del surrealismo doniano); per non dire della complessa architettura con cui è modellata la doniana Filosofia morale, un anomalo e divulgativo «ammaestramento universale», nel quale una lunga serie di apologhi s’incastona in funzione ‘esemplare’ all’altezza del tema etico-comportamentale corrispondente. Oppure, come accade nei Dialoghi piacevoli di Niccolò Franco, una sorta di apologo impuro di sapore lucianeo, una parodia allegorico-animalesca del potere, diventa l’asse centrale di una svagata drammaturgia a sfondo mitico-allegorico. Alla distanza, questa naïveté dell’atto immaginativo, che coinvolge direttamente le forme dell’apologatio, conduce le pratiche del racconto a configurare una nuova misura percettiva del reale, che appartiene a un più complessivo processo di ridefinizione epistemologica. È un passaggio di fase che non a caso deve molto all’esperienza di Erasmo. Nella scrittura erasmiana l’allegoria animale e la narrazione/personificazione delle cose inanimate (due strutture essenziali dell’apologo cinquecentesco) si prestano a un forte rilancio dei codici parodistici e satirici: sono forme narrativo-dialogiche a vario titolo organiche al grande paradigma della pluralità e del dialogo con altri mondi. Ne è interessata una vasta area di scritture ‘anticlassicistiche’ e non: Lando, Firenzuola, Pino, Gelli, Speroni. Tutti modelli meritevoli di scrutinio in una possibile rubrica analitica dell’apologatio moderna. Quel loro comune paradigma si struttura pur sempre, nella gran parte dei casi, sul terreno dei linguaggi comici e del fantastico. E in questi modi riaffiorerà, alla fine di un lungo ciclo, nelle utopie di due grandi (grandi anche nell’uso dell’apologo), Bruno e Campanella, altre due voci essenziali di un possibile scandaglio, che segnano un passaggio cruciale nella storia della narrazione moderna.

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NOTE M. BACHTIN, Dostoevskij, trad. it. Torino, Einaudi, 1968, p. 139. Ma un essenziale punto di riferimento (critico e bibliografico) è già nelle indagini di V. BRANCA, sintetizzate nella fondamentale sua Introduzione e nella Nota al testo dell’Esopo toscano, Venezia, Marsilio, 1989. 3 Così anche nell’Enciclopedia italiana, dove la voce «apologo» rimanda a «favola», assai ben curata da Vittorio Santoli. 4 L. CELLERINO, Prosa d’invenzione morale, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, III, 2, Le forme del testo. La prosa, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1011-1039. 5 Cfr. A. JOLLES, Einfache Formen, Tubingen, M. Niemer, 1930, trad. it. Le forme semplici, Milano, Mursia, 1980. 6 «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Pisa, 26-28 ottobre 1998), a cura di G. ALBANESE, L. BATTAGLIA RICCI, R. BESSI, Roma, Salerno Editrice, 2000; e La novella italiana. Atti del Convegno di studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), Roma, Salerno Editrice, 1989, 2 voll., preziosi anche per la grande e aggiornatissima messe dei loro dati bibliografici. 7 Cfr. G. MAZZACURATI, All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. PALUMBO, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 3. 8 SCIPIONE AMMIRATO, Il Dedalione o vero del poeta, in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a cura di B. WEINBERG, II, Bari, Laterza, 1970, p. 495. 9 La raccolta di apologhi, sia latini sia volgari, è una tipologia che tocca forse l’apice della sua diffusione con lo sviluppo dell’editoria a stampa, nel mezzo secolo a cavallo fra ’400 e ’500. Qualche dato di spicco, riguardante l’editoria italiana: la notevole fortuna (poi anche europea) dell’edizione riccamente illustrata dell’Esopo volgare di Francesco Del Tuppo, del 1485; le due popolari sillogi di Hecathomythia di Lorenzo Bevilacqua (Venezia, 1495 e Fano, 1505); la stampa unificata degli Apologi di Pandolfo Collenuccio (Argentorati, in aed. M. Schurerii, 1521) e la sua replica italiana (Romae, L. Vicentinum, 1526); l’ed. princeps delle Fabulae di Girolamo Morlini (Napoli, 1520). Una editoria umanistica che insomma continua a dettar legge per i testi a forte vocazione pedagogica. 10 Cfr. L. BATTAGLIA RICCI, I modelli della narrazione, in Il Canone e la Biblioteca. Costruzioni e decostruzioni della tradizione letteraria italiana. Atti del V Congresso nazionale dell’ADI (Roma, 26-29 settembre 2001), a cura di A. QUONDAM, I, Roma, Bulzoni, 2002. 11 La definizione della fabula, attribuita dal certaldese a «non nulli» («Fabula est exemplaris seu demonstrativa sub figmento locutio, cuius amoto cortice, patet intentio fabulantis»: Genealogie XIV VII), da rapportare alla posizione di Isidoro (Etym. I 40, 6), andrebbe riconsiderata in relazione al grande rilievo che per Boccaccio ha il tema del cortex, che è il luogo primario dell’inventio, non il suo mero travestimento retorico. D’altra parte, il cap. X di Gen. XIV («stultum credere poetas nil sensisse sub cortice fabularum») sapientemente rimuove, con argomenti che chiamano in causa lo stesso inimitabile parlar «favoloso» dei grandi poeti, l’idea della funzione esclusivamente tecnica e retorica delle favole. Ma cfr., su questi temi, il saggio ancora fondamentale di F. TATEO, Poesia e favola nella poetica del Boccaccio, in ID., Retorica e poetica fra Medioevo e Rinascimento, Bari, Adriatica, 1960. 1 2

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RAFFAELE GIRARDI 12 Il riscatto della favola dai dominî dell’allegorismo medioevale è un tema che andrebbe approfondito sullo sfondo, per esempio, delle idee di Isidoro sull’allegoria come alieniloquium (Etymologiae I 37, 22). 13 Cfr. G. ALBANESE, Da Petrarca a Piccolomini: codificazione della novella umanistica, in «Favole parabole istorie», cit., pp. 268-269. 14 Operette morali, poesie latine e volgari, a cura di A. SAVIOTTI, Bari, Laterza, 1929.

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GIAN MARIO ANSELMI NARRARE STORIOGRAFICO: QUALCHE SPUNTO DA MACHIAVELLI Il Benveniste, in un importante contributo, ha potuto distinguere due diversi tipi di enunciazione, quello della storia e quello del discorso, ai quali corrisponderebbero serie diverse di tempi verbali, fra i quali l’aoristo sarebbe la forma tipica dell’enunciazione storico-narrativa, il presente di quella del discorso1. Afferma più esattamente il Benveniste: «Basta che l’autore resti fedele al suo proposito di storico e bandisca tutto ciò che è estraneo alla narrazione degli avvenimenti (discorsi, riflessioni, paragoni). A dire la verità, allora non vi è più neppure narratore. Gli avvenimenti sono enunciati come si sono prodotti nel loro apparire all’orizzonte della storia. Nessuno parla: gli avvenimenti sembrano raccontarsi da soli. Il tempo fondamentale è l’aoristo, che è il tempo dell’avvenimento al di fuori della persona di un narratore»2. È il tempo definito, in altre parole, da Barthes «asseverativo/espositivo», capace di creare, intorno al narrare storico, una sensazione di neutralità, di oggettività, di fittizia estraneità dello storico dalla storia che egli stesso narra3. Se questa è l’ossatura del narrare storiografico, ogni elemento che la violi, ovvero l’intrusione del presente, l’intrusione del discorso in tutte le sue forme (discorsi diretti e indiretti, riflessioni, paragoni appunto), deve rispondere a una precisa funzione e deve avere un senso che occorre precisare. Certo il discorso introduce direttamente nell’esposizione l’ideologia in quanto tale, violando lo statuto narrativo neutro fondato sull’aoristo e mostrando perciò stesso le forze soggettive in campo, con le ideologie su cui si fondano, siano esse quelle a cui si rifà lo stesso storico siano quelle che lo storico, anche senza condividerle, intende comunque porre in evidenza. L’intrusione del discorso nel narrare storico può avere anche una funzione che va di là da quella strettamente ideologica: può essere il modo per attualizzare certi eventi e mostrarne così la lunga durata, il peso perdurante lungo decenni o seco— 307 —

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li, seppure attraverso una valutazione (uno ‘scorcio’ espositivo) certo sempre ricollegabile a una complessiva opzione ideologica operata dallo storico. Nel caso di Machiavelli esemplare è la chiusa del capitolo 23 del primo libro delle Istorie fiorentine, sul potere temporale dei Papi: Ma con questi pensieri si morì, e fu il primo de’ papi che apertamente mostrasse la propria ambizione e che disegnasse, sotto colore di fare grande la Chiesa, onorare e beneficare i suoi. E come da questi tempi indietro non si è mai fatta menzione di nipoti o di parenti di alcuno pontefice, così per lo avvenire ne fia piena la istoria, tanto che noi ci condurremo a’ figliuoli; né manca altro a tentare a’ pontefici se non che, come eglino hanno disegnato infino a’ tempi nostri di lasciargli principi, così per lo avvenire pensino di lasciare loro il papato ereditario. Bene è vero che, per infino a qui, i principati ordinati da loro hanno avuta poca vita, perché il più delle volte i pontefici, per vivere poco tempo, o e’ non forniscono di piantare le piante loro, o se pure le piantano, le lasciono con sì poche e deboli barbe, che al primo vento, quando è mancata quella virtù che le sostiene, si fiaccano.4

Un analogo ‘scorcio’ espositivo era stato già effettuato, sempre nel primo libro, verso fine del terzo capitolo: Di modo che tutte le guerre che dopo questi tempi furono da’ barbari fatte in Italia, furono in maggior parte dai pontefici causate, e tutti e’ barbari che quella inondorono furono il più delle volte da quegli chiamati. Il qual modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi; il che ha tenuto e tiene la Italia disunita e inferma. Pertanto, nel descrivere le cose seguite da questi tempi a’ nostri, non si dimostrerà più la rovina dello imperio, che è tutto in terra, ma lo augumento de’ pontefici e di quegli altri principati che di poi la Italia infino alla venuta di Carlo VIII governorono. E vedrassi come i papi, prima con le censure, di poi con quelle e con l’armi insieme, mescolate con le indulgenzie, erano terribili e venerandi; e come, per avere usato male l’uno e l’altro, l’uno hanno al tutto perduto, dell’altro stanno a discrezione d’altri.5

L’intrusione del ‘presente’ ovvero della diretta valutazione dello storico a partire da tutto un processo che trascende l’episodio specifico da cui ha preso le mosse l’analisi è certo un modo efficacissimo per lumeggiare le continuità che attraversano un iter cronologico molto ampio, ma anche per chiarire senza equivoci la posizione interpretativa stessa dell’autore, che nelle vicende dello stato pontificio, ad esempio, individua alcune storiche ‘costanti’ come limiti gravi per l’assetto politico generale dell’intera penisola. Non — 308 —

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casualmente questi ‘scorci’ vengono proposti da Machiavelli con maggiore frequenza nei primi libri delle Istorie, quando, in altre parole, l’esposizione di un passato ormai lontano, non si configura come ricerca archeologica, ma va invece continuamente vagliato alla luce degli esiti prodotti nelle epoche successive6. Altro ruolo – più complesso – svolgono i discorsi veri e propri, diretti e indiretti, fatti pronunciare da Machiavelli a vari personaggi lungo le sue Istorie: in genere proprio questo aspetto dell’opera di Machiavelli è stato indicato come il più ossequioso ai tradizionali canoni della storiografia classica ed umanistica, quello in cui, fra l’altro, maggiormente egli sembra adoperare gli strumenti della classica orationis ratio7. Ma già il Richardson, analizzando attentamente i discorsi presenti nelle Istorie, nel momento in cui ‘censiva’ tutti i debiti che Machiavelli aveva rispetto alla tecnica oratoria umanistica, ammoniva anche il lettore a valutarne l’uso al tutto nuovo intrapreso da Machiavelli, portatore di una pienezza politica e ideologica inedita nella oratoria e nella storiografia umanistica8, e prossima, semmai, ai grandi maestri della storiografia classica, Tucidide, innanzitutto, ma anche Sallustio e Livio9. Tenendo presente le considerazioni che prima svolgevamo, possiamo affermare che in Machiavelli l’uso del discorso, diretto o indiretto, è sempre un uso esplicativo di tipo ideologico: è il suo modo di mostrare le posizioni ideologiche in campo. Di qui il rifarsi alle tecniche oratorie correnti, in quanto strumento per eccellenza del dibattito politico-ideologico e veicolo essenziale dell’argomentazione ‘di parte’, elemento insostituibile in un processo di ricostruzione dialettica della verità. Machiavelli fa parlare il Ciompo e l’oligarca, i Medici ed i loro oppositori: non tanto secondo la tecnica tucididea delle antitesi nette e delle verità contrapposte spesso in insolubile astratto, dilemma quanto secondo serie di interventi che, innestati nel cuore delle vicende narrate, traggono da esse il senso e ad esse riconducono il lettore, veri e propri ‘fermi’ ideologici e interpretativi delle fasi più significative del processo storico10. Di fronte al quale, e proprio per il tramite dei discorsi, Machiavelli non persegue un atteggiamento di neutralità fittizia, bensì una consapevole indicazione politica, coerente con tutta la sua precedente indagine. La scoperta di certe leggi oggettive della politica e della storia si configura in lui come il primo motore per una battaglia di rinnovamento che non rifiuta il terreno ideologico ma anzi su esso si confronta senza timori o pudori e pur nella consapevolezza di lavorare per il suo superamento11. — 309 —

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Così si sviluppa l’implicita polemica antimedicea, già notata da tanti critici, presente nelle Istorie e che nasce non tanto da una astratta opzione libertaria e repubblicana da parte di Machiavelli quanto dall’inadeguatezza, storica e politica insieme, che egli individua nella risposta medicea alla profondissima crisi di Firenze e dell’Italia12. Non a caso i discorsi delle Istorie poco si curano di definire una qualche caratterizzazione psicologica dei parlanti, come invece si era andato affermando nella precedente storiografia, almeno nel quadro dei ‘tipi’ tramandati dalla retorica classica13. Ogni ‘personalizzazione’, rischiando di inficiare la portata generale delle posizioni ideologiche che andavano esplicate, viene da Machiavelli rifiutata e viene preferita invece una rigorosa esposizione ‘a tesi’ che nulla concede al gusto esornativo del ‘tipico’ e del ‘carattere’ (da lui recuperato a livello narrativo e con una efficacia di gran lunga superiore a quella che era possibile perseguire nei discorsi seguendo i canoni di certa retorica) e che reca piuttosto con sé una grande carica etica. I discorsi, la temporalità del presente sono, in definitiva, il segno di una ricca articolazione dell’analisi storica di Machiavelli: in un contesto interpretativo generale tutto volto a individuare l’oggettività dei processi storici e il superamento della parzialità ideologica nella loro valutazione, i discorsi, strettamente sempre da Machiavelli collegati a quei processi, servono a porre in evidenza le posizioni ideologiche come posizioni parziali ma legittime, in una libera dialettica, dei soggetti di fronte proprio all’oggettivo ‘muoversi’ della natura e della storia. Simbolo, in qualche modo, della potenzialità d’analisi e della volontà operativa dei soggetti, della loro effettiva capacità di incidere su una Realtà che lascia comunque sempre un margine di spazio alla Virtù14. Questa ricchezza d’articolazione del Machiavelli storico, questa sua capacità di recuperare anche i canoni più vecchi e consolidati a una nuova dimensione trovano una conferma ulteriore se dai problemi più generali della dispositio rerum, dei tempi narrativi, dell’impalcatura, insomma, sulla quale è costruita l’opera, passiamo al livello dell’ordo verborum, delle sequenze più ristrette sulle quali si impernia la singola pagina, il singolo periodo. Va ribadito che proprio questo, dell’elocutio, era l’aspetto che più stava a cuore alla trattatistica quattrocentesca, se ancora Pontano poteva instaurare un’equivalenza tra poesia, storia e pittura, indicando come aspetto qualificante dello stile storico quello di saper giocare, con maestria analoga a quella dei poeti e dei pittori, su «toni» e «colori», «luci» e «ombre»15. — 310 —

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Machiavelli certo non rifiuta di misurarsi sul terreno stilistico-espressivo consegnatogli da una così ricca tradizione ma, ancora una volta, ne muta profondamente termini e funzione: ad esempio, nella costruzione di singole scene il riferimento pittorico è tutt’altro che da escludersi in Machiavelli. Esso agisce in lui non tanto però a livello ‘coloristico-cromatico’ quanto piuttosto a livello di definizione prospettica dell’azione, di gestualità solenne, di affresco narrativo, nel quale i singoli particolari siano sì sufficientemente caratterizzati ma in modo da non violare l’unitarietà del quadro d’insieme, dell’azione centrale16. Un ruolo di primo piano è insomma giocato dall’opposizione ‘stasi/movimento’ più che da quella ‘luci/ombre’, nell’ambito di una scelta tesa a marcare l’elemento narrativo rispetto al cromatico e del resto legata, in pittura, ad una ricca tradizione toscana di ascendenza giottesca17. La caratterizzazione stessa dei protagonisti, degli eroi della storia è affidata soprattutto al loro modo di affrontare e risolvere le situazioni e non a uno psicologismo astratto e di maniera (anche se le notazioni psicologiche – il caso di Lorenzo il Magnifico vale per tutti – non mancano in Machiavelli e sono spesso di grande efficacia e profondità): a Machiavelli non interessa una storia prosopografica, ma una storia nella quale i soggetti abbiano il loro giusto rilievo; il che vuol dire un rilievo non assoluto ma commisurato ai processi indipendenti ed esterni rispetto alla volontà dei singoli. Intendiamoci, Machiavelli non rinuncia nelle Istorie all’eroe: egli sa che in determinate circostanze storiche sono richieste doti straordinarie per i protagonisti politici e militari, le cui capacità soggettive devono potersi dislocare a un livello tale che consenta di fronteggiare fino in fondo le avverse congiunture e imporre una diversa dinamica al processo storico. L’eroe, quindi (Teodorico, Castruccio, lo Sforza, Capponi), diviene il centro di riferimento politico essenziale per intere generazioni, senza dubbio il modello esemplare: ma non in quanto superuomo, dominatore assoluto di una massa cieca e imbelle, bensì in quanto perfetto stratega della ragione, interprete della capacità tutta umana di sapersi commisurare al reale per poterlo percorrere fino al limite conoscibile. Solo da questo progetto razionale (che non esclude la forza, ma una forza sottomessa alla ragione: il Centauro!) trae senso e vigore il rapporto con i sottoposti, con i sudditi, il consenso dei quali si ottiene, sì, anche per Machiavelli come già per il Cortesi, attraverso la solennità delle parole e dei gesti (vera e propria retorica complessiva del ‘porgersi’ agli altri) ma una solennità in tanto efficace in quanto commisurata dalla pienezza politica e strategica del disegno che ne è sotteso18. — 311 —

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Non v’è dubbio perciò che Machiavelli tenga presente, nella delineazione dei suoi personaggi, siano essi Teodorico o il Duca d’Atene, lo Sforza o Cosimo, i fondamenti retorici della ‘biografia esemplare’ di classica ascendenza e che tanta fortuna avevano conosciuto lungo l’Umanesimo: Mardison, facendo perno essenzialmente sulla Ciropedia di Senofonte, li ha ampiamente illustrati né fa bisogno qui soffermarvisi19. Occorre invece sottolineare come, in Machiavelli, la ripresa di certi moduli retorici ed espositivi dia agio, nel caso delle ‘biografie’ come in quello dei ‘discorsi’, di variare in modo chiaro e netto, differenziato dal restante contesto narrativo, il ruolo e il peso dei soggetti (o delle ideologie che li mobilitano) di fronte alla storia e alla natura. Ai cui processi oggettivi compete invece uno stile più ‘asseverativo’ che ‘epidittico-dimostrativo’. Né è da escludere, nella delineazione di certi personaggi, un intento ‘polibiano’ di pragmatismo: pragmatismo che non esaurisce in se stesso il senso complessivo della storia (com’era avvenuto in molta storiografia umanistica), ma che è il conseguente risultato, la corretta indicazione operativa che lo studio della storia stessa e dei suoi protagonisti può fornire, per il presente, al ‘nuovo’ Principe20. Di qui l’importanza del recupero, in tale contesto, di un certo apparato retorico aulico: come già da altri, e con grande chiarezza, è stato mostrato per il Vico e per la sua autobiografia21, l’aulicità presunta diviene in realtà funzione persuasiva indispensabile per la delineazione di un esemplare processo soggettivo, sia esso quello del sapiente come quello del Principe. Se il dispiegamento massimo della retorica e delle sue articolazioni è perciò riscontrabile nelle parti delle Istorie più propriamente legate al ruolo dei soggetti (attraverso i discorsi, le massime, le delineazioni biografiche), tale dispiegamento appare invece più contenuto nella restante parte narrativa dell’opera: dove, all’interno dei singoli periodi, preme far rilevare a Machiavelli, più d’ogni altra cosa, come ha già notato il Montevecchi, la rigorosità dei nessi consequenziali22. Secondo questa finalità è costruito il suo periodare storico: in esso ritroviamo perciò quel gusto dell’antitesi che già Raimondi e Chiappelli, fra gli altri, additavano come elemento portante di tutta la prosa machiavelliana23. Ampio spazio è occupato da chiasmi, contrapposizioni dilemmatiche, sequenze ironiche, da tutte quelle figure, insomma, che inducono con forza il lettore ad affrontare il problema del rapporto ‘intenzione/effetto’ e della sua concreta risoluzione (attraverso scelte ora libere ora coatte) come problema centrale della storia: ciò su cui spesso Machiavelli si appunta è infatti lo ‘scar— 312 —

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to’ tra i piani predeterminati dai soggetti e la loro effettiva attuazione nella prassi. Segno ora dei limiti operativi dei soggetti stessi ora dei limiti oggettivi e invalicabili posti dalla realtà storica e politica in quanto tale. NOTE 1 E. BENVENISTE, Le relazioni di tempo nel verbo francese, in ID., Problemi di linguistica generale, trad. it. di M. V. Giuliani, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 283-300. Ma sarà opportuno ricordare, su questi problemi, di H. WEINRICH, Tempus, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1978. 2 Ivi, p. 287. 3 In Historical discorse, in Introduction to Structuralisme, a cura d M. CANE, New York, Horcourt, 1972, pp. 145-155. 4 Edizione a cura di F. GAETA, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 113. 5 Ivi, p. 30. 6 Si veda, ad esempio, come, sempre nel primo libro, Machiavelli chiude il capitolo di digressione su Venezia e la sua storia: «E mentre vissono in questa forma il nome loro in mare era terribile, e dentro in Italia venerando; di modo che di tutte le controversie che nascevano il più delle volte erano arbitri; come intervenne nelle differenze nate intra i collegati per conto di quelle terre che tra loro si avevano divise: che, rimessa la causa ne’ Viniziani, rimase a’ Visconti Bergamo e Brescia. Ma avendo loro con il tempo occupata Padova, Vicenza e Trevigi, e dipoi Verona, Bergamo e Brescia, e nel Reame e in Romagna molte città, cacciati dalla cupidità del dominare vennono in tanta opinione di potenza che non solamente a’ principi italiani, ma ai re oltramontani erano in terrore: onde, congiurati quegli contro di loro, in un giorno fu tolto loro quello stato che si avevono in molti anni con infinito spendio guadagnato; e benchè ne abbino in questi nostri ultimi tempi riacquistato parte, non avendo riacquistata nè la reputazione nè le forze, a discrezione d’altri, come tutti gli altri principi italiani, vivono», ivi, pp. 122-123. 7 È stato ribadito da un po’ tutti gli studiosi dell’opera storica di Machiavelli, da Villari a Fiorini, da Chabod a Gaeta, a Montevecchi, a Dionisotti, alla Cabrini. 8 In Notes on Machiavelli’s sources…, «Italian studies», 1971, pp. 24-28. È quanto, del resto, notava Raimondi a proposito del Machiavelli «segretario» e «diplomatico» dello stato fiorentino: «Così, per quanto nutrito della grande tradizione diplomatica di Firenze, egli non poteva condividerne la mentalità e anche se parlava lo stesso linguaggio, ripetendo formule e massime quasi rituali, ne capovolgeva in realtà i valori, ne contestava tenacemente i termini, opponendo allo stile mediocre della saggezza e del moralismo quello, appassionato e insieme freddo, di una brutalità polemica che si compiaceva, proprio perché il suo fine era un altro, di sbigottire, di fare scandalo», E. RAIMONDI, Politica e Commedia, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 147. 9 Rinviamo ai contributi di Mazzarino, Mazza, Canfora, La Penna. E per l’aspetto retorico-stilistico soprattutto a LEEMAN (Orationis Ratio, Bologna, Il Mulino, 1974). Non è da escludere che Machiavelli avesse potuto tenere presente, per questi problemi storiografici,

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GIAN MARIO ANSELMI

l’opuscolo di Dionigi su Tucidide. L’intera opera di Dionigi aveva conosciuto una notevole fortuna verso la fine del ’400, in virtù anche di traduzioni latine. 10 Si veda, ad esempio, come nel quarto libro Machiavelli, traendo spunto dal Cavalcanti, faccia del discorso, diretto e indiretto, il momento di analisi e di verifica del processo di vivace dibattito politico e di crisi delle istituzioni che porterà all’ascesa definitiva di Cosimo. 11 In questo senso un punto di riferimento importante era stato certo rappresentato dal Valla e dal suo particolare modo di rifondazione del sapere filosofico e scientifico. 12 Già Machiavelli, del resto, aveva indicato al Giannotti in che termini e in che luoghi, legati essenzialmente ai discorsi, andava ricercata nelle Istorie la sua «opposizione» al regime mediceo (cfr. Lettere inedite di Donato Giannotti, a cura di L. A. FERRAI, «Atti del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», VI, 1884-1885, III). In questa direzione è importante tutta la seconda parte, dal quinto all’ottavo libro, nella quale operano analisi già in parte presenti nel Discursus Florentinarum Rerum. 13 Si vedano gli studi di STRUEVER. 14 È una ‘retorica’ ben diversa da quella, imbelle e falsa, che Machiavelli aveva visto dilagare nelle corti italiane e contro la quale alza la sua voce nella notissima pagina finale dell’Arte della Guerra. 15 Si veda in particolare l’Actius. 16 Si vedano, ad esempio, nel sesto libro, gli episodi della congiura del Porcari (cap. 23) e del tradimento del Gambacorti (cap. 30) e nell’ottavo libro, il capitolo culminante della congiura dei Pazzi (cap. 6). Oppure certi capitoli ‘militari’, efficacissimi per equilibrio prospettico e capacità di ‘visualizzazione’, come quelli, nel secondo libro, sulle fortunate imprese di Castruccio e, nei libro quinto e sesto, quelli sulle imprese del Piccinino e dello Sforza. 17 Da confrontare, su questi problemi, di P. FRANCASTEL, Studi di Sociologia dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1976, soprattutto le pp. 53 e sgg. Ma già importanti considerazioni in F. ANTAL, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino, Einaudi, 1960. 18 Si veda, nel De cardinalatu del Cortesi, il nono capitolo del secondo libro, quello conosciuto come De sermone, nella parte finale (pp. XCVII e sgg.): come debba instaurarsi un perfetto equilibrio tra parola, gesto, «procedere», giusta le indicazioni di Aristotele e Cicerone. 19 The Enduring Monument, Chapel Hill, 1962. Da ricordare sempre i fondamentali lavori di LEO e di MISCH. 20 Si veda, sul rapporto tra «mitologia storica» e programma politico del Principe e dei Discorsi, di E. RAIMONDI, Il politico e il centauro, in ID., Politica e Commedia, cit., pp. 265286. 21 Mi riferisco al volume di A. BATTISTINI, La degnità della retorica (studi su G.B. Vico), Pisa, Pacini, 1975, pp. 15-50. 22 Machiavelli, Milano, Mursia, 1972, pp. 115 e sgg. 23 Si veda anche nelle opere già in precedenza citate.

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CARMELO SPALANCA «GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE DI ANTON FRANCESCO GRAZZINI 1. Dopo il giudizio di Francesco De Sanctis, secondo cui Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, pur avendo la stoffa di un grande scrittore comico, non è sorretto dal culto e dalla serietà dell’arte1, la critica italiana del ’900 ha sottolineato la vena giocosa dell’autore e ha rintracciato il fulcro della sua problematica nell’edonismo accademico-conviviale2. Si tratta di una tesi che è stata ripresa e sviluppata nella seconda metà del secolo da Riccardo Bruscagli. In un saggio, che funge da introduzione all’edizione delle Cene, lo studioso mette in rilievo il legame del Grazzini con la tradizione letteraria toscana, dal Trecento al Quattrocento, e ritiene che la sua musa sia municipale, dal momento che le coordinate temporali e spaziali dell’opera sono inabili a superare le mura della città3. Più recentemente, si è assistito ad un salto di qualità. Illustrando la novella, la fiaba e il romanzo del XVI secolo, il Guglielminetti ha sottolineato la complessità della produzione grazziniana e ha posto in risalto la tendenza dello scrittore a slargare l’orizzonte narrativo, sicché trascorre dalle novelle comiche alle novelle tragiche sino a sfiorare la dimensione grottesca4. Siamo in presenza di una tesi che fa emergere l’originalità del Lasca e che non si può non condividere; bisogna fare, però, una precisazione: il passaggio dalla sfera comica alla sfera tragica non esprime soltanto il gusto sperimentale dell’autore, ma rivela il mutamento del panorama contemporaneo; non esalta semplicemente la dimensione letteraria dell’opera, tesa ad emulare il modello boccacciano, bensì riflette un’inquieta condizione esistenziale. Nelle Cene, infatti, il Grazzini fa sì che al «gusto burlesco» subentri l’«umor malinconico»: egli non si limita a descrivere il compiacimento dei personaggi nell’organizzazione della beffa, ma coglie i riflessi della beffa nell’animo della vittima. Si profila allora un universo cupo, in cui le figure umane si muovono spesso come manichini distorti, scarnificati, condannati a svanire. — 315 —

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Il Lasca dipinge un mondo a fosche tinte e tale scelta sancisce il suo distacco dal modello del Boccaccio. Ne è consapevole l’autore stesso, se è vero che nell’Introduzione alle Cene elabora un discorso abbastanza complesso. Dopo avere reso omaggio al Decameron e a colui che l’ha composto, definito eloquentemente San Giovanni Boccadoro, il Nostro sottolinea la necessità di recitare novelle nuove, inventate dai membri della brigata. Pur non essendo più «belle», più «gioconde» e più «sentenziose» di quelle scritte dal Boccaccio, esse avranno almeno il pregio di essere non tanto «viste» né tanto meno «udite», e per la «novità» e «varietà» dei temi potranno recare per una volta non poco piacere e contento5. Occorre precisare, inoltre, che nella stessa introduzione il Grazzini immagina che le novelle siano raccontate nell’arco di tempo compreso fra il 1540 e il 15506, in quel periodo cioè in cui la civiltà rinascimentale volge ormai al tramonto e la sua armonica visione della vita si sgretola per l’insorgere di una nuova problematica. È il periodo in cui l’ottimistica teoria del Principe sembra cadere nel vuoto, mentre la rigorosa indagine del Guicciardini sugli avvenimenti della Storia d’Italia lascia intravedere l’intervento della Fortuna nelle vicende umane7. Allo slancio espansivo dei primi del secolo si sostituisce una visione più cauta ed angusta della realtà, che svilisce gradualmente l’efficacia delle forze individuali e prospetta la possibilità di un mondo retto da insondabili princìpi. Così il Cellini può ancora ribadire nella Vita la fiducia rinascimentale nella ‘Virtù’, ma non può escludere dal suo orizzonte narrativo la presenza del caso, di quell’elemento fortuito e irrazionale capace d’imprimere un ritmo imprevedibile all’azione8. A questo clima di transizione appunto è da ricondurre il Lasca. La sua problematica, infatti, non si restringe all’edonismo della prima metà del secolo, alla predilezione per i personaggi buffi, bensì riflette l’inquietudine determinatasi a Firenze in seguito all’instaurarsi del principato mediceo, il crollo della libertà repubblicana e l’affermarsi di un potere sempre più autoritario9. 2. Basti considerare le novelle comiche, quelle novelle cioè in cui confluiscono i caratteri fondamentali delle opere coeve: lo spirito burlesco delle Rime e lo schietto edonismo delle Commedie10. Fedele alla tematica della tradizione toscana, il Grazzini sembra incarnare gli ideali edonistici della civiltà rinascimentale; in effetti, sotto il tono brillante e sollazzevole non è difficile scorgere i segni di un progressivo inaridimento ideologico11. L’atmosfera chiusa ed opprimente della Firenze granducale, infatti, fa sì che s’inaridiscano i germi del passato e che la schiettezza dei personaggi sia corrosa da una sottile pati— 316 —

«GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE na letteraria; il Lasca non si preoccupa più di interpretare i sentimenti del popolo, ma osserva le sue vicende con ironico distacco12. Scompare così la schietta umanità dei personaggi decameroniani e le loro imprese scadono spesso nel bozzettismo caricaturale. Esemplare a questo proposito il caso del prete da San Felice a Ema che, per amore di una popolana, si traveste da contadino e in seguito alla sua avarizia è costretto a lasciare precipitosamente la casa della donna13. Decisa a vendicarsi, la donna finge che le faccia visita un fratello, provoca nel prete una grande paura e lo costringe a gettarsi senza alcuna esitazione dalla finestra. Il soggetto, che è offerto probabilmente dalla celebre novella del Decameron in cui sono illustrate le vicende del prete da Varlungo e di monna Belcolore (VIII 2)14, costituisce un’ottima occasione per individuare i sentimenti dei protagonisti e per sottolineare le peculiarità idiomatiche del mondo contadino. In realtà, il Grazzini si limita ad enucleare gli aspetti caricaturali della vicenda e riconduce in una sfera tipicamente cittadina la gioconda festività del racconto boccacciano. Si profila in tal modo l’adesione a quel canone dell’«urbanità», che intorno alla metà del secolo si è tradotto nella categoria della «fiorentinità»15. È naturale, anzi, che nella novella decima della seconda Cena, nella novella cioè della Pippa e di Nencio dell’Ulivello, il bozzettismo caricaturale sia inficiato dal minuzioso descrittivismo della prosa contemporanea16. Basti pensare alla scena in cui Beco, il marito della Pippa, ritenendo di essere stato tradito, ritorna a casa furente e mette tutto a soqquadro17. Se confrontiamo questa novella con quella di argomento analogo del Firenzuola, un fatto balza evidente: il Nostro non è in grado di delineare un ritratto a tutto tondo dei personaggi e, soprattutto, d’imprimere al racconto quell’efficacia rappresentativa che costituisce una caratteristica essenziale della novella firenzuoliana18. Di più: il linguaggio, disdegnando gli stessi neologismi che rappresentavano – per così dire – gli ultimi bagliori della novella rusticale, si adagia pigramente nelle raffinate volute del fiorentino letterario. Si assiste così alla decadenza del «personaggio» decameroniano e alla risoluzione della sua personalità nello schematismo dell’azione19. Era quasi inevitabile: in una società dominata dalla volontà dispotica del principe i personaggi rinunciano ad ogni impulso vitale ed assumono una fisionomia sempre più evanescente. Non c’è più il tipico protagonista delle novelle boccacciane: le figure, come si nota nella stessa novella di Geri Chiaramontesi beffato dallo Scheggia, il Monaco e il Pilucca, perdono ogni contorno umano e scado— 317 —

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no nella fissità delle maschere. Degno di nota a questo proposito l’episodio in cui Geri accetta dagli amici la scommessa di fare il pazzo, brandisce la roncola contro gli operai che lavorano nella bottega di Ceccherino, si oppone strenuamente ai collaboratori dello zio Agnolo accorsi per bloccarlo20. Pur essendo perfettamente consapevole del fatto che Geri non sia pazzo, lo Scheggia si adopera affinché gli altri lo considerino tale e si rallegra della sua disavventura. Il Lasca è scettico sulle virtù dei suoi personaggi, prende le distanze da loro e il distacco ne fa risaltare l’aridità; si assiste ormai al tramonto del personaggio tradizionale e alla crisi di quegli ideali che hanno costituito il sostrato della civiltà rinascimentale. 3. Ciò non significa naturalmente che il Grazzini rimanga estraneo ai problemi del suo tempo. Il bisogno di slargare l’orizzonte narrativo lo spinge – come abbiamo accennato – ad accogliere altri temi ed a proiettare su di essi una nuova dimensione della realtà. Esauritasi la fede nei valori rinascimentali, infatti, è inevitabile che il mondo grazziniano non si restringa all’esperienza degli Umidi, a quella cerchia che prediligeva le beffe più o meno cruente, ma sottolinei il senso d’incertezza e di smarrimento provocato intorno alla metà del XVI secolo dal mutamento del panorama contemporaneo21. È una nuova sensibilità, che affiora in seno alla società fiorentina e che affonda le radici nell’irrigidirsi delle direttive politiche. Così, se da una parte si assiste all’affievolirsi delle energie individuali, dall’altra si nota, nell’ambito della cultura accademica, un orientamento rigidamente moralistico. Fedele al principio aristotelico della funzione catartica dell’arte, l’intellettuale fiorentino assiste alla confluenza di due elementi caratteristici della cultura controriformistica: l’influsso sempre più frequente della «Fortuna» sulle vicende umane e l’infiltrarsi di un gusto scenografico nella rappresentazione della pena. Scompare il classico equilibrio del Rinascimento ed emerge – come ha osservato acutamente il Weise – la cupa inquietudine del Manierismo22. Siamo davvero ad una svolta: da questo momento in poi la prospettiva muta sensibilmente. Particolarmente significativa al riguardo la novella settima della prima Cena, dove è descritta la beffa ordita da prete Piero da Siena ad un chierico fiorentino e il contraccambio dato dal chierico al prete. Non è improbabile che il Grazzini si ricolleghi per l’illustrazione del tema al Trecentonovelle di Franco Sacchetti, alla novella in cui alcuni giovani legano di notte i piedi di un’orsa alle funi delle campane di una chiesa, le fanno suonare fragorosamente e costringono la gente ad uscire fuori di casa per timo— 318 —

«GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE re del fuoco23; bisogna precisare, però, che lo scrittore conferisce all’episodio un’impronta drammatica. A differenza del Sacchetti, il quale imprime allo svolgimento dei fatti un timbro scherzoso, il Nostro fa sì che il protagonista della novella – prete Piero – leghi alle funi delle campane il corpo di una fanciulla disseppellito dall’avello della chiesa e che il corpo della ragazza morta colpisca alle tempie il chierico nel momento in cui sta per suonare le campane, procurandogli un grande dolore e costringendolo ad una fuga disperata. Il protagonista è ben lieto di beffare il chierico, ma la sua gioia non dura a lungo; deciso a vendicarsi dell’offesa, il chierico elabora un progetto raffinato per dargli il contraccambio. Approfittando del fatto che il prete ha la porta socchiusa e dorme pesantemente, egli deposita il cadavere della fanciulla accanto a lui e attende pazientemente i risvolti della vicenda. Si profila una situazione drammatica, il cui esito è abbastanza prevedibile. Svegliatosi nelle prime ore del mattino e colpito con la sua mano il viso della ragazza, prete Piero fugge dalla stanza, scende precipitosamente le scale e stramazza al suolo. Il Lasca illustra una problematica molto importante: il tema del contraccambio; non si limita a descrivere – come ha fatto nelle novelle precedenti – la beffa ordita da un personaggio ai danni di un altro personaggio, ma mette in rilievo le contromisure prese dalla vittima per vendicare l’offesa; anzi, in questa circostanza si assiste ad un fenomeno sorprendente: la vittima assume gradualmente le sembianze del carnefice. Sfruttando il trambusto determinatosi nell’occasione della caduta, il chierico riconduce il cadavere della fanciulla nell’avello e impedisce al prete di dimostrare la genesi del suo male, induce i soccorritori a considerarlo un visionario e contribuisce in maniera determinante alla sua disperazione. Siamo ad una fase cruciale del racconto; il chierico procura all’antagonista un duplice danno: fisico e psichico. È un processo, che si accentua di lì a poco, quando prete Piero confessa pubblicamente di avere ordito una beffa ai danni del chierico e chiede umilmente perdono. Il chierico lo smentisce clamorosamente, osservando che egli deve chiedere perdono soltanto a Dio, perché nel corso della notte non gli ha recato alcun danno o procurato alcuna paura. Il chierico si sforza in tutti i modi di dimostrare alla gente che il prete è un visionario e la strategia da lui adottata ne acuisce la disperazione. Avendo constatato che il corpo della ragazza non è stato disseppellito dall’avello, prete Piero è corroso da un dolore e da un dispetto così intensi da maturare l’idea del suicidio24. Il Grazzini organizza la novella secondo uno schema per cui dal comico si passa progressivamente al tragico; al gusto burlesco della parte iniziale subentra il desiderio — 319 —

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di vendetta da parte della vittima e il desiderio di vendetta è così radicato nel suo animo da provocare nell’avversario esiti tragici. Non è arbitrario osservare che il racconto riflette una fase cruciale della civiltà contemporanea: la fase in cui il Rinascimento cede il luogo al Manierismo, il gusto accademico-conviviale è soppiantato dalla predilezione per le atmosfere cupe e angosciate. È una svolta epocale, avvertita perfettamente dallo scrittore e testimoniata eloquentemente dalle novelle tragiche. Esse non solo si fondano su un solido impianto strutturale, ma costituiscono un’importante testimonianza del mutamento di gusto intorno alla metà del secolo. All’atmosfera giocosa del periodo precedente si sostituisce ormai una spiccata tendenza per le situazioni drammatiche, e tali situazioni rispecchiano spesso una dolorosa visione della realtà25. Occorre fare, però, una precisazione. Questa acuta sensibilità non sempre riesce ad incanalarsi in un organico sistema; il Lasca si lascia irretire talvolta dai rigidi canoni della Poetica aristotelica e risolve gli spunti drammatici in una rappresentazione scenografica26. Così, se nella novella quinta della seconda Cena si ha un momento di grande tensione nella scena in cui il protagonista – Currado – scopre la tresca della moglie Tiberia attraverso il rinvenimento di un cappelletto alla greca di drappo rosso lasciato nella sua camera dall’amante, la vendetta finale riproduce l’atmosfera cupa dell’Orbecche giraldiana27. Alla sapienza psicologica della prima parte subentra il gusto orroroso e raccapricciante della cultura controriformistica. In tali condizioni di tensione narrativa il rischio dell’assurdità è non solo contenuto ma, secondo la felice definizione del Guglielminetti, addirittura previsto come formula di scioglimento: la novella si conclude effettivamente con la visione di due corpi mutilati che ancora si fanno i gesti dell’amore, in una contaminazione di elementi opposti – amore e morte – che è sintomo certo di gusto retorico e manieristico28. È evidente allora che il Grazzini raggiunge gli esiti più suggestivi quando infrange i moduli della narrativa contemporanea e immette nelle strutture del racconto una notevole forza drammatica. Emblematica la novella di Fazio Orafo, in cui si stacca dalla raffinata cornice della narrativa giraldiana e pone al centro del racconto il doloroso caso di un’umile famiglia: non affronta più, cioè, la novella aristocratica di stampo giraldiano, ma proietta sulla scena una dolorosa coscienza della realtà contemporanea29. Sembra, anzi, che il tono fondamentale della novella sia ispirato dalla cupa atmosfera della Firenze medicea, da quella mentalità che non ripone ormai molta fiducia nella ‘Virtù’ dell’uomo e affida le sue azioni all’arbitrio della ‘Fortuna’30. Non è strano, — 320 —

«GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE infatti, che fin dagli inizi un’atmosfera di mistero e di incubo gravi sull’assassinio dell’usuraio Guglielmo Grimaldi, e che le fasi del delitto siano contrassegnate dalla balenante antitesi fra il «buio» della notte e il «gran fuoco» della bottega dell’orafo31. Emerge in questo episodio un gusto chiaroscurale, che sembra mutuato dalla pittura contemporanea, da Bronzino a Beccafumi fino a Rosso Fiorentino, e che ha un efficace riscontro nella parte centrale della novella, dove il contrasto fra il benessere della famiglia di Fazio e l’intervento funesto della Fortuna sembra modellato sul canone aristotelico della «peripezia», su quel principio che muta all’improvviso lo svolgimento dell’azione e spinge il protagonista verso la «catastrofe»32. Bisogna riconoscere, tuttavia, che il Lasca non sempre riesce a superare lo schema aristotelico, e che la sua intuizione drammatica è corrosa gradualmente dal gusto teatrale caratteristico della cultura contemporanea33. È evidente infatti che la scena finale, in cui la moglie di Fazio, la Pippa, tradita dal marito, uccide i figliuoli e se stessa, è scenograficamente suggestiva ma poeticamente poco convincente; si ha l’impressione che il classico mito di Medea sia filtrato alla luce di un gusto tipicamente giraldiano per l’orrido e il truculento34. Non molto felice è il tentativo grazziniano di conferire dignità artistica e valore paradigmatico al doloroso caso di un’umile famiglia: l’iniziale verve drammatica sembra incrinarsi alla luce degli schemi aristotelici e modellarsi sulle stesse note raccapriccianti dell’aristocratica novella di Currado. In entrambi i casi non è difficile scorgere la presenza del Giraldi Cinthio, di colui cioè che risolve la catarsi dalle passioni in una rappresentazione scenografica35. Il Lasca non si propone di creare una novella autenticamente borghese, i cui personaggi riflettano un’umanità ben diversa dalla frigidezza degli eroi classici, ma si sforza di modellare la vicenda di un’umile famiglia sugli stessi canoni dell’aristocratica cultura di corte36. Da ciò appunto la novità soltanto apparente del «protagonista» borghese e il precipitare dell’azione verso la cupa atmosfera della tragedia classicheggiante; il dissolversi dell’intuizione drammatica della realtà e l’affiorare del gusto teatrale tipico della cultura controriformistica. 4. Per questa ragione, i risultati più probanti sono raggiunti dal Grazzini in quelle novelle in cui le passioni non sono ricalcate sui modelli letterari, ma agiscono all’interno dell’individuo, incidendo sulla sua personalità e disancorandola dal mondo circostante. Si crea così un rapporto, che non ubbidisce naturalmente all’estro o al capriccio dell’ispirazione ariostesca; al contrario, rivela i segni di una sensibilità inquieta. La rappresentazione fantastica, — 321 —

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infatti, non costituisce un momento di evasione, bensì il riflesso di un ambiente alienante. I personaggi, sospesi come sono fra il sogno e la realtà, si ergono a simboli di una sconvolta condizione esistenziale37. Esemplare a questo proposito la novella di Brancazio Malespini, quella novella cioè in cui il protagonista scambia le zucche per uomini e non sa decifrare i confini fra la luce e le ombre. Si profila un’atmosfera cupa, che si accentua nella fase in cui è illustrato l’incontro di Brancazio con la Biliorsa, un personaggio da lui intravisto nel cuore della notte vicino al patibolo. Desideroso di scoprirne l’identità, egli si avvicina, si accascia al suolo per la paura ed è trascinato dalla Biliorsa ai piedi del patibolo per essere impiccato. Il Lasca evoca sapientemente l’atmosfera notturna e la sua bravura raggiunge il vertice di lì a poco, nel momento in cui al buio della notte subentra la luce del giorno ed essa fa emergere in maniera eloquente il dramma del protagonista. Sollecitato probabilmente dal padre, un medico si rende conto che Brancazio è ancora in vita, compie ogni sforzo per farlo rinvenire, tuttavia l’incontro con la Biliorsa provoca in lui una tale paura da subire una metamorfosi, sicché assume un aspetto strano e deforme38. Il protagonista avverte le forze misteriose del male, testimoniate dal fatto che la Biliorsa prende le sembianze del diavolo, e riflette sulla enigmaticità dell’esistenza, sul fatto che un negromante o uno stregone abbia trasformato gli uomini in zucche o le zucche in uomini. Siamo al culmine di un lungo processo, che esprime non solo la fondamentale coerenza artistica della novella39, ma anche l’inquietudine esistenziale del narratore. Sembra di rintracciare il cosiddetto moralismo del Doni, quella concezione che, sotto una rappresentazione estrosa e bizzarra, nasconde un velo di meditazione e di tristezza40. Non è strano allora che nella celebre novella di Falananna le grottesche vicende del protagonista abbiano un risvolto umano e che il suo singolare sogno dell’al di là si concluda tragicamente. In effetti, il Grazzini solleva il suo «eroe» in un’atmosfera surreale e proietta sulla scena un senso di cupa inquietudine; la sua attenzione non è assorbita dalla descrizione minuziosa dei fatti, bensì sottopone i fatti stessi ad un’ottica deformante. Così, fin dalle battute iniziali il ritratto del protagonista è delineato in modo da alterarne i lineamenti e farne risaltare l’estrema stupidità. Falananna, quando la moglie va a letto con il Berna, non solo non si accorge della tresca, ma addirittura scambia la «beatitudine amorosa» della consorte per un indizio di malessere. Il racconto assume un timbro paradossale, il personaggio osserva gli avvenimenti – come ha rilevato acutamente il Bárberi Squarotti – da un’angolazio— 322 —

«GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE ne rovesciata, e questo procedimento rende verosimile la stessa aspirazione del protagonista all’al di là e il desiderio di assistere al suo funerale41. Si verifica un processo simile a quello del Cellini quando, descrivendo nella Vita la pazzia del castellano, sospende il racconto sul filo di un allucinante metaforismo42. Dal reale si passa al fantastico, e in questo sovramondo il ritratto di Falananna si dispiega in tutta la sua complessità; ma il momento di maggior tensione è raggiunto forse quando egli, sollevandosi dalla bara, rimane angosciosamente sospeso fra il sogno e la realtà. È un senso di cupa inquietudine, che dal protagonista si trasmette gradualmente ai circostanti e fa sì che dall’ambiente concreto dell’inizio si ascenda verso un’atmosfera allucinata. Sembra quasi di rintracciare le novelle «tragiche» del Bandello, quelle novelle cioè in cui il fortuito e l’irrazionale imprimono un ritmo imprevedibile all’azione e creano intorno ai personaggi un clima surreale43. Così, non è strano che questo procedimento confluisca nell’episodio della morte di Falananna e lo faccia oscillare tra il reale e il fantastico. Alla scena iniziale, collocata nell’ambiente tipicamente fiorentino del Lungarno, subentra la surrealistica descrizione della caduta nel fiume e del fatto che il corpo del protagonista è colpito dalle fiamme provocate da un esperto di fuochi d’artificio che in quel momento sta compiendo degli esperimenti lungo le sponde del fiume; finché il racconto si decanta di ogni scoria figurativa ed esprime nella stravolta immagine di Falananna una drammatica condizione esistenziale44. Dopo avere descritto il dolore e lo strazio di Falananna, al punto che le sue grida si sentono fino a Peretola, il Lasca sottolinea la morte del protagonista; indi, mette in rilievo l’inutile tentativo della gente di prestargli soccorso, dal momento che l’acqua da essa utilizzata alimenta il fuoco, e il ruolo decisivo svolto nella circostanza dal fiammingo, perché egli adopera l’olio d’oliva che spegne progressivamente le fiamme; infine, rappresenta la metamorfosi di Falananna: il protagonista perde le sembianze umane e diventa un ceppo di pero verde, abbronzato e arsiccio. È evidente che la più grande aspirazione dello scrittore è quella di trasferire l’elemento reale in un’atmosfera fantastica e di imprimere a questo sovramondo il sigillo di un’inquieta condizione umana. Non a caso: il mondo degli uomini, ordinato e razionale, va corrodendosi; si perde, come è stato acutamente detto, il senso della continuità narrabile della vita sociale, per lasciare il posto all’evento straordinario o alla generica legalità45. Emblematica a questo proposito la novella di maestro Manente, quella novella, cioè, in cui il Grazzini svuota il protagonista di ogni autonomia e affida il suo destino al— 323 —

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l’arbitrio del principe. Sembra che il vero protagonista sia il principe stesso e che la sua vittima rappresenti simbolicamente la crisi della società contemporanea46. Non si può escludere che il Nostro si ricolleghi per l’illustrazione di tale problematica – il tema della beffa – al Decameron del Boccaccio, alla novella di Ferondo, dove il protagonista è sequestrato, condotto in prigione e convinto di essere nel mondo dell’al di là; è più probabile, però, che egli sia influenzato da un episodio più vicino e più familiare: la prigionia dell’amico Giovanni Fantini detto il Coglietta. Degna di nota al riguardo la canzone inviata al duca Cosimo per rappresentare la dolorosa condizione dell’amico, sospeso fra il sogno e la realtà, il desiderio di uscire dal carcere e la consapevolezza della sua infelice situazione47. Il Lasca riflette sul dramma del Coglietta, si mostra scettico sulla possibilità della sua liberazione, e lo scetticismo lo spinge a compiere una trasfigurazione artistica dell’episodio, proiettando l’evento nel secolo precedente, conferendo il ruolo del beffatore – l’organizzatore della beffa – al personaggio di Lorenzo il Magnifico, facendo indossare i panni della vittima a maestro Manente. Fin dalle battute iniziali della novella lo scrittore tende a delineare un’atmosfera cupa attraverso l’illustrazione di due episodi fondamentali: il sequestro del protagonista da parte di due uomini mascherati e la sua prigionia nel palazzo del Magnifico. Maestro Manente sprofonda nell’angoscia e il suo dramma raggiunge una notevole intensità nella scena in cui è invitato dai suoi carcerieri a pranzare: incapace di intuire le loro intenzioni, egli oscilla fra la gioia e il dolore, la speranza di un lauto pasto e la paura di essere ucciso48. È una scena che è ripresa e sviluppata poco dopo, allorché il protagonista viene trasferito dalla città al contado, dal palazzo di Lorenzo all’eremo di Camaldoli; anzi, in questa circostanza la situazione diventa più drammatica: ligi agli ordini del Magnifico, gli staffieri non esitano ad ammanettare maestro Manente durante il trasferimento. Siamo in presenza di una situazione dolorosa, che lascia del tutto indifferente il guardiano del convento: costui accoglie lietamente gli staffieri ed invita i conversi ad eseguire scrupolosamente gli ordini del Magnifico. Non è difficile rintracciare nella descrizione dell’episodio il giudizio dello scrittore sui rapporti fra il potere temporale e il potere spirituale: in una società dominata dalla volontà dispotica del principe il potere temporale non può non conculcare il potere spirituale. Si profila una situazione delicata, comprovata dal fatto che Lorenzo, allontanatosi da Firenze per alcuni mesi, abbandona maestro Manente al suo destino e si ricorda della sua vicenda per caso, imbattendosi in un frate che svolge la sua attività nell’eremo di Camaldoli. — 324 —

«GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE Da questo momento in poi gli eventi mutano notevolmente: scortato dai conversi del convento, il protagonista è condotto in un bosco, si slega dalle vitalbe che lo legano ad un albero ed osserva con occhi incantati il cielo stellato. Ma la felicità non dura: essendo ritornato dopo un lungo cammino a Firenze, maestro Manente non è riconosciuto dagli amici e dai familiari; anzi, essendosi sparsa nella città la voce che sia stato sepolto nella chiesa di Santa Maria Novella, molte persone ritengono che maestro Manente sia il fantasma di se stesso. Si determina una situazione drammatica, che si stempera soltanto grazie all’intervento del Burchiello: fra i suoi concittadini costui è l’unico che riconosca maestro Manente, si rende conto che la beffa ordita ai suoi danni è opera del Magnifico e compie ogni sforzo per ristabilire la verità dei fatti. È evidente allora la tendenza del Lasca a filtrare gli avvenimenti del passato alla luce del presente; egli sembra rievocare un episodio del secolo precedente, in realtà sfrutta la vicenda descritta per rappresentare la società del suo tempo. Non è difficile infatti osservare che la beffa ordita da Lorenzo il Magnifico ai danni di maestro Manente adombra il rigido indirizzo impresso da Cosimo I alla politica medicea49, mentre lo smarrimento della vittima durante le varie fasi del suo peregrinare riflette l’inquietudine della Firenze granducale50. Si assiste nell’ambito della narrativa ad una svolta radicale: d’ora in poi i personaggi non avranno alcuna autonomia e rinunceranno ad ogni prospettiva; il loro prototipo sarà appunto quel maestro Manente che, nella perenne incapacità di una scelta, esprimerà il volto alienante dell’assolutismo. Ne consegue un fatto molto importante: il Grazzini non è per nulla un intellettuale sradicato, fuori della storia; egli aderisce alle vicende del suo tempo e l’adesione è così profonda da determinare l’ostracismo della sua opera. Essendo inviso ai personaggi più autorevoli del tempo, il suo capolavoro, Le Cene, non riceve dalle autorità ecclesiastiche l’autorizzazione alla pubblicazione e l’autore è destinato inesorabilmente all’oblio51. NOTE F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di N. GALLO e N. SAPEGNO, I, Torino, Einaudi, 1958, pp. 472-478. 2 È significativa a questo proposito l’opinione di Bruno Porcelli, secondo cui la nota più schietta dell’opera del Lasca è rappresentata dalla rappresentazione di un mondo in cui le disquisizioni letterarie non sono disgiunte dai lieti conversari e dalle laute cene (B. PORCELLI, La novella e la narrativa, in La Letteratura Italiana. Storia e testi, diretta da C. MUSCETTA, IV, 2, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla Controriforma, Bari, Laterza, 1973, p. 170). 1

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CARMELO SPALANCA 3 R. BRUSCAGLI, Introduzione a A. F. GRAZZINI, Le Cene, Roma, Salerno Editrice, 1976, pp. IX-XXXV. 4 M. GUGLIELMINETTI, La novella, la fiaba, il romanzo, in Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da G. BÁRBERI SQUAROTTI, III, Manierismo e Barocco, di M. GUGLIELMINETTI, Torino, UTET, 1990, pp. 423-426. 5 Sul distacco del Grazzini dal modello decameroniano si veda M. COTTINO-JONES, «L’invenzione e il modo» de «Le Cene» del Lasca, in EAD., Il dir novellando: modello e deviazioni, Roma, Salerno Editrice, 1994, pp. 85-100. 6 Una conferma di tale data può essere fornita dal fatto che il Lasca, indirizzando prima del 1549 una lettera a Masaccio di Calorigna, lo invita a sottoporre al padre Stradino tre delle novelle più significative della raccolta (su questo argomento cfr. F. BRUNI, Sistemi critici e strutture narrative, Napoli, Liguori, 1969, pp. 161-165). 7 Su questa problematica si veda F. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini, trad. it. Torino, Einaudi, 1970. 8 Su questo aspetto della personalità celliniana cfr. B. MAIER, Introduzione a B. CELLINI, Opere, Milano, Rizzoli, 1968, pp. 18-22. 9 E. BONORA, A. F. Grazzini, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. CECCHI e N. SAPEGNO, IV, Il Cinquecento, Milano, Garzanti, 1966, p. 316. Sulle vicende politiche del tempo si veda inoltre R. VON ALBERTINI, Firenze dalla repubblica al principato, trad. it. Torino, Einaudi, 1970. 10 Nota a questo proposito Robert J. Rodini: «In it we find a synthesis of the burlesque spirit of the poetry and the visual and linguistic humour of his theatre» (R. J. RODINI, A. F. Grazzini Poet, Dramatist and Novelliere, Madison, The University of Wisconsin Press, 1970, p. 146). 11 Per questo giudizio cfr. F. BRUNI, Sistemi critici e strutture narrative, cit., pp. 103-104. 12 Su questa tendenza della letteratura cinquecentesca si veda U. BOSCO, Rinascimento non classicistico, in ID., Saggi sul Rinascimento italiano, Firenze, Le Monnier, 1970. 13 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., p. 93. 14 G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, II, Firenze, Le Monnier, 1952, pp. 307-316. Per il problema delle fonti si veda inoltre L. DI FRANCIA, Novellistica, I, Milano, Vallardi, 1924, pp. 621-636. 15 Numerosi sono i componimenti delle Rime in cui il Lasca si fa promotore della lingua fiorentina: basti ricordare le ottave A’ riformatori della lingua toscana, o la sonettessa in lode dell’Orazione di Leonardo Salviati (A. F. GRAZZINI, Le rime burlesche edite e inedite, a cura di C. VERZONE, Firenze, Sansoni, 1882, pp. 360-364 e 115-116). 16 Sulla tendenza descrittiva e raziocinante della prosa cinquecentesca si veda almeno la Storia fiorentina del Varchi (B. VARCHI, Opere, I, Trieste, Sez. letterario-artistica del Lloyd austriaco, 1858, p. 10). 17 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., p. 321. 18 A. FIRENZUOLA, Opere, a cura di A. SERONI, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 607-615. 19 Per questo giudizio si veda G. BÁRBERI SQUAROTTI, Struttura e tecnica delle novelle del Grazzini, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVIII, 1961, p. 504. 20 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., I 3, p. 45.

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«GUSTO BURLESCO» E «UMOR MALINCONICO» NELLE CENE 21 Sulla crisi della società fiorentina intorno alla metà del secolo cfr. G. TOFFANIN, Il Cinquecento, Milano, Vallardi, 19657, pp. 524-526; A. D’ADDARIO, Aspetti della Controriforma a Firenze, Roma, s.e., 1972, pp. 38-40. 22 Su questo fenomeno si veda G. WEISE, Il Manierismo. Bilancio critico del problema stilistico e culturale, Firenze, Olschki, 1971. 23 F. SACCHETTI, Il Trecentonovelle, a cura di E. FACCIOLI, Torino, Einaudi, 1970, pp. 605-608. 24 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., pp. 102-103. 25 Non è infrequente rintracciare nell’opera del Lasca considerazioni pessimistiche. Basti pensare alla madrigalessa in cui si sofferma sulla brevità della vita e sottolinea l’impotenza dell’uomo di fronte alla morte (A. F. GRAZZINI, Rime burlesche, cit., pp. 260-261). 26 È probabile che il Grazzini conoscesse direttamente la Poetica, se è vero che nel 1551 il Segni ne aveva fatto una traduzione in volgare (cfr. Rettorica et Poetica d’Aristotile tradotte di greco in lingua volgare da Bernardo Segni, Venezia MDLI). 27 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., p. 250. 28 M. GUGLIELMINETTI, La novella, la fiaba, il romanzo, cit., p. 424. 29 Lo scrittore è convinto che «nelle umili e basse case, così come ne i superbi palagi e sotto i dorati tetti, il furore tragico ancora alberga» (A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., I 5, p. 59). 30 Emblematica di questo clima di sfiducia e di smarrimento la lettera a Bartolommeo Bettini del 1547, dove è descritta con note assai fosche la furia devastatrice dell’Arno e il vano tentativo dell’uomo di sottrarsi al corso impetuoso delle sue acque (A. F. GRAZZINI, Scritti scelti, a cura di R. FORNACIARI, Firenze, Sansoni, 1911, pp. 161-167). 31 ID., Le Cene, cit., pp. 60-61. 32 ARISTOTELE, Poetica, a cura di M. VALGIMIGLI, Bari, Laterza, 1916, pp. 37-40. 33 Su questo argomento cfr. il saggio di C. MARGUERON, La tragédie italienne au XVI siècle: théorie et pratique, nel vol. misc. Le Théatre tragique, Paris, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1970, pp. 133-144 e il volume di C. MUSUMARRA, La poesia tragica italiana nel Rinascimento, Firenze, Olschki, 1972. 34 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., p. 78. 35 È noto che il Giraldi, per realizzare il principio della pietà e del terrore, è disposto a rendere «palesi» i casi terribili e compassionevoli (G. B. GIRALDI CINTHIO, Discorso intorno al comporre delle comedie e delle tragedie, in ID., Scritti estetici, parte seconda, Milano, Daelli, 1864, pp. 38 e 97). 36 Significativo a questo proposito il ‘vanto’ finale di aver composto una novella in grado di emulare e superare gli stessi modelli classici: «Ceda Tebe e Siracusa, Argo, Micena e Atene, ceda Troia e Roma alla infelice e sfortunata Pisa» (A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., p. 78). 37 Su questo orientamento della problematica grazziniana si veda anzitutto il capitolo XIV delle Rime, in cui la descrizione della metamorfosi della donna amata s’inarca improvvisamente in un’immagine bizzarra (A. F. GRAZZINI, Rime burlesche, cit., p. 504). Non bisogna dimenticare inoltre il ritratto dell’abate di Badia quando, rinchiuso in una stanza buia dal Tasso legnaiolo, rimane in uno stato di angosciosa sospensione (ID., Le Cene, cit., p. 110). 38 ID., Le Cene, cit., I 9, pp. 120-121.

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CARMELO SPALANCA 39 Sulla poeticità di questa novella cfr. G. B. SALINARI, Introduzione a Novelle del Cinquecento, I, Torino, UTET, 1955, p. 37; E. BONORA, A. F. Grazzini, cit., p. 317. 40 A. F. DONI, I Marmi, a cura di E. CHIORBOLI, II, Bari, Laterza, 1928, pp. 69-70 e 205-211. 41 G. BÁRBERI SQUAROTTI, Struttura e tecnica delle novelle del Grazzini, cit., pp. 511-512. 42 B. CELLINI, La Vita, a cura di E. CARRARA, II, Torino, UTET, 1927, pp. 17-24. Sulla presenza dell’elemento onirico e surrealistico nell’opera celliniana cfr. B. MAIER, Umanità e stile di B. Cellini scrittore, Milano, Trevisini, 1952, pp. 111-131. 43 Basti ricordare il «caso» di Antonio Perillo che, dopo aver raggiunto faticosamente la ricchezza e la felicità, è ucciso all’improvviso da un fulmine (M. BANDELLO, Tutte le Opere, a cura di F. FLORA, I, Milano, Mondadori, 1934, pp. 150-154). 44 A. F. GRAZZINI, Le Cene, cit., II 2, p. 182. 45 G. BÁRBERI SQUAROTTI, Problemi di tecnica narrativa cinquecentesca: lo Straparola, «Sigma», 1965, 5, p. 108. 46 Ha osservato giustamente il Plaisance : «La beffa, qui apparaissait dans les nouvelles précédentes d’une façon à la fois terrifiante et allusive, est ici étirée jusqu’à coincider avec tout un système socio-politique» (M. PLAISANCE, La structure de la «beffa» dans les «Cene» d’A. F. Grazzini, in Formes et significations de la «beffa» dans la littérature italienne de la Renaissance, études réunies par A. ROCHON, Paris, Université de la Sorbonne Nouvelle, 1972, p. 81). 47 A. F. GRAZZINI, Rime burlesche, cit., p. 139. 48 ID., Le Cene, cit., III 10, pp. 333-334. 49 Assai significativo a questo proposito l’ammonimento del Burchiello a maestro Manente: «I príncipi son príncipi, e fanno di cosí fatte cose spesso a’ nostri pari, quando vogliamo stare con esso loro a tu per tu» (ivi, pp. 359-360). 50 È interessante al riguardo l’opinione espressa dalla gente sul duca Cosimo: «Il Duca si disduca e s’induca quando vuole» (per questa testimonianza cfr. M. PLAISANCE, La structure de la «beffa» dans les «Cene» d’A. F. Grazzini, cit., p. 81). 51 Ha osservato a questo proposito il Bruscagli: «È impressionante la forza dell’emarginazione di cui egli fu vittima […] il suo novelliere è certo incompiuto, ma né più né meno di molti altri che conobbero in questi decenni l’onore del torchio. Invece le Cene rimasero inedite, e furono disseppellite soltanto dalla curiosità linguistica degli eruditi del Settecento» (R. BRUSCAGLI, La novella e il romanzo, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. MALATO, IV, Il primo Cinquecento, Roma, Salerno Editrice, 1996, pp. 855-856).

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ISABELLA NARDI ‘VARIAZIONI’ DALLA NOVELLA ALLA FIABA: LE PIACEVOLI NOTTI, NOTTE I, FAVOLA IV Nelle Piacevoli notti di Gianfrancesco Straparola1, è presente in modo esemplare un gioco di scambio tra il piano della letteratura colta e della letteratura popolare e in senso più lato tra testo orale e testo scritto, come allegoricamente sintetizzato dallo pseudonimo a oxymoron «Orfeo dalla Carta» con cui l’autore si presenta nella Lettera dedicatoria alle «piacevoli e amorose donne». Se prendiamo a campione la Quarta novella della Notte I questa doppia dipendenza letteraria, artistica e popolare, appare evidente già nella macrostruttura del racconto, sintetizzata nella didascalia: «Tebaldo, principe di Salerno, vuole Doralice, unica sua figliuola, per moglie; la quale, perseguitata dal padre, capita in Inghilterra e Genese la piglia per moglie, e con lei ha doi figliuoli che da Tebaldo furono uccisi; di che Genese re si vendicò». L’autore introduce immediatamente il riferimento a due modelli distinti: l’oralità della fiaba (serbatoio di analoghi tentativi di incesto, catalogati dal Thompson nel suo repertorio tematico sotto il tipo 510b, nonché registro di luoghi e situazioni sub-storiche, secondo la felice definizione di Mazzacurati2) e il modello letterario del Decameron, con una precisa citazione dalla novella prima della IV giornata che vede in scena un analogo principe di Salerno, legato anch’egli all’unica figlia da un amore possessivo(anche se non esplicitamente incestuoso). Nel corso della ‘favola’ di Tebaldo e Doralice3, tale dipendenza dal modello comporta una serie di riprese testuali, che in alcuni casi si configurano come vere e proprie citazioni : «ma molto meglio a Tebaldo sarebbe stato, se quella avuta non avesse» / Tancredi «e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse»4. Sempre dal Decameron, ma dalla X, 10 (Griselda), è ricavata la citazione sulla pazienza d’animo della regina: «La reina, che per l’addietro molte altre cose aveva miseramente sostenute, conoscendo la innocenza sua, con paziente animo la grandezza del supplicio sof— 329 —

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ferse» / «la donna […] come l’altre ingiurie della fortuna aveva sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere»5 e «la donna con paziente animo l’ascoltò»6. Il prototipo Griselda7 si riconosce anche in quello «spogliare ignuda» la regina e nel motivo dei due neonati uccisi (o supposti tali, nel caso di Griselda). E ancora da un’altra novella, la decima della IV giornata (l’amante «addoppiato» chiuso nell’arca «la quale con tutto lui due usurari se ne portano a casa») deriva lo ‘spostamento’ di un personaggio nascosto all’interno di un arredo casalingo (l’arca e l’armadio). Peraltro, dove l’imprinting del Decameron agisce in modo quasi plateale è nella architettura retorica del racconto, articolato in esordio, narrazione / favola, epilogo (che nello Straparola consiste nell’esposizione e nella spiegazione di un enigma: in questo caso, coerentemente con il tema della favola, si tratta del nibbio, «un animal sì vile, / che ’nvidia e odio porta al proprio seme»). Il prologo, che fornisce le motivazioni degli avvenimenti narrati, intendendo dare ad essi un ampio respiro di exemplum universale è abilmente modellato sull’ornato boccacciano: attingendo sia nell’ambito delle figure logiche (con la personificazione di amore come «un potente signore» che, in modo antifrastico «regge e governa senza spada») sia nell’ambito delle figure retoriche, Straparola costruisce un solenne proemio di ritmo ipotattico, aperto dalla doppia interrogativa indiretta organizzata in anafora («quanta sia la potenza d’amore, quanto li stimoli della corruttibile carne») e fregiato di ben due clausole metriche (l’endecasillabo mediano «per esperienza provato non l’abbia» e la clausola finale del doppio settenario «che raccontarvi intendo / potrete comprendere». Del resto, l’elocutio dell’intera ‘favola’ è orecchiata sul grande archetipo trecentesco, da cui Straparola deriva la ‘maniera’ dei periodi ipotattici, complessi, anche di ampio respiro («Ma egli desideroso di adempire la volontà della morta moglie ecc.»8), la raffinatezza delle clausole metriche («che raccontarvi intendo / potrete comprendere»9; «quanto ella gli aveva commesso»10; «a tutte a fatto diede ripulsa»; «la minacciò di farla / vituperosamente morire»11), il virtuosismo degli iperbati (posposizione del verbo (par. 5, 8,) e delle antifrasi («giovene d’anni ma vecchia di senno»). Quello che non c’è più è, invece, l’integrazione dei particolari narrativi al motivo base, che Segre indica come una caratteristica centrale del registro stilistico boccacciano («I particolari – non dunque secondari – hanno intanto per il Boccaccio la funzione di dare consistenza realistica alle persone e ai luoghi della fantasia […]. Ma i particolari costituiscono anche, per il Boccaccio, quelle frazioni di realtà che, riflettendosi con varia angolazione nella coscienza dei — 330 —

‘VARIAZIONI’ DALLA NOVELLA ALLA FIABA personaggi, possono divenire determinanti nel succedersi delle loro risoluzioni»12). Infatti, quel diagramma degli avvenimenti che Boccaccio traccia rendendo conto anche dei mutamenti ‘entropici’ che si verificano nel quadro operativo in seguito ad un atto, una parola, un gesto imprevisti, è invece definito da Straparola sulla base di dati fissi, oggettivamente considerati (caratteri dei personaggi sempre immutati, ostacoli oggettivi, soluzione prevedibile) che rimandano alla rigidità della fiaba. Nel racconto della vicenda di Tebaldo e Doralice, la natura ibrida del testo è inoltre confermata anche dalla convivenza di un’etica dell’evento13 (cosa succede a Doralice) con un’etica dell’avvenimento (che cosa fa il principe Tebaldo): questo apre il testo a una doppia possibilità di ‘esecuzione’, una lettura ‘ingenua’ che privilegia l’evento e una lettura colta che privilegia l’avvenimento, come dire una lettura che afferra e comprende i lati tragici di un racconto desacralizzante e un’altra che punta sull’immagine conclusiva di un mondo che soddisfa tutti i requisiti della cosiddetta morale ingenua. Da questa doppia disposizione del narrare deriva una forma doppia, che tiene conto del realismo della ‘novella’ e del ‘meraviglioso’ della fiaba. Straparola, dunque, sceglie sì di imitare, ancora una volta, il grande modello boccacciano, appoggiandosi a due novelle tragiche come quella di Tancredi e Ghismonda (IV, 1) con ampi riferimenti anche a quella, celeberrima, di Griselda (X, 10), volte a evocare un mondo crudo e violento, ma in questa ‘grammatica’ decameroniana cala un tema (quello del tentativo di incesto da parte del padre sulla figlia vanificato da interventi magici) diffuso nella tradizione orale14, in cui il tragico di volta in volta è evocato e cancellato per sfociare in una conclusione corrispondente al sentimento ingenuo della giustizia. La divaricazione dal modello ‘alto’, con conseguente trasposizione del racconto nello stile della fiaba, si consuma, appunto, tra la terza sequenza e l’epilogo: in questo luogo il narratore travalica il motivo dell’innocenza riconosciuta, suggello delle novelle della II, della III, della V e della X giornata del Decameron, non esente peraltro, nel Boccaccio, da ironici capovolgimenti (si pensi al caso di Alatiel, II, 7), e, come avviene nelle fiabe, insiste, quasi con macabro godimento infantile, nella enumerazione di tutti gli atti punitivi del re Genese contro il malvagio principe Tebaldo: in uno scenario completamente avulso dal tempo storico e dalla geografia fisica, il re dall’Inghilterra manda a Salerno un «potentissimo esercito» che «non stette molto tempo che fé della città conquisto, e Tebaldo, con torte funi i piedi e le mani strettamente legate, in Inghilterra fu prigione condotto». In Inghilterra Tebaldo è processato, torturato con dei tratti di corda, come Mar— 331 —

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tellino15 ed infine condannato a quella morte per squartamento cui è condannato Gano di Magonza nel canto XXVIII del Morgante del Pulci16, brano di cui si riproduce anche il dettaglio del dare in pasto le carni ai cani. Su questa successione di eventi macabri e sanguinolenti (più che sanguinosi), osservati nella loro surrealtà, senza spessore e consistenza corporea, o sofferenza fisica, si innesta, come previsto dalla grammatica della fiaba, il rassicurante lieto fine: «E così il tristo e scelerato Tebaldo miseramente finì la vita sua, e il re e la reina Doralice per molti anni felicemente si goderono insieme, lasciando figliuoli dopo la morte loro»17. Inserendosi nella spaccatura culturale cinquecentesca tra letteratura colta e letteratura popolare, Straparola raccoglie e preserva, dunque, in una nuova forma di letteratura, debitrice alla tradizione colta, ma disponibile ad una lettura di massa, molti dei tratti della produzione orale della fiaba, inventando così, in questa confluenza di una forma semplice e una forma artistica18, una sorta di prodotto di sostituzione19. Questa opera di rivitalizzazione di una tradizione archetipica si lega a una scelta cruciale, che allontana quasi indefinitamente molti dei testi delle Notti dal modello Decameron: il patto di sospensione dell’incredulità20: scrive Jolles che, a differenza della novella toscana basata su un patto di verosimiglianza, le novelle delle Piacevoli notti «non danno più l’impressione di essere realmente accadute né tentano di suscitare questa impressione nel lettore […]. Al contrario, sono fatte di un altro tipo di sostanza, nella quale riconosciamo al primo colpo ciò che siamo abituati a chiamare fiaba»21. Se leggiamo in quest’ottica la favola di Tancredi e Doralice possiamo evidenziarne facilmente i caratteri che la accomunano alla fiaba, intesa – come fa appunto Jolles – come un racconto che «non mira più a descrivere un evento significativo e particolare, ma saltando di episodio in episodio, finisce per illustrare un avvenimento completo che solo alla fine si chiude su se stesso in un certo modo; e in secondo luogo non vuole più rappresentare il fatto in maniera da suscitare l’impressione di un avvenimento reale, ma al contrario opera ininterrottamente con le categorie del meraviglioso»22. Spostando il racconto all’interno di simili «categorie del meraviglioso», Straparola lo appoggia su due elementi strutturali specificamente fiabeschi: l’oggetto magico («un certo liquore di tanta virtù che chiunque ne prendeva un cucchiaro, ancor che picciolo, molto tempo senza altro cibo viveva»23) e lo spazio24 abnorme, dilatato e insieme compresso (si veda ad esempio la distanza Salerno-Inghilterra, superata rapidamente nel viaggio della balia). Questo spazio è solo enunciato e non de— 332 —

‘VARIAZIONI’ DALLA NOVELLA ALLA FIABA scritto («il mercante genovese levato da Salerno con la nave carica di preciose merci, pervenne all’isola di Britannia, oggidì chiamata Inghilterra»25; «Tebaldo si rallegrò, e verso l’Inghilterra prese il cammino; e aggiunto, ed entrato nella città regale»26); e quando occorrono degli elementi che lo circoscrivano, essi sono scarnificati nel solo sostantivo («Li serventi preserlo sopra le spalle e in piazza lo portarono. Avvenne che in quel punto aggiunse in piazza un leale e ricco mercatante genovese»27; «era un’ampia pianura»; «la spiaggia dell’isola»; «le mura del palagio»). Si realizza così quanto Beccaria nota in generale a proposito dello spazio della fiaba: «la riva del mare, la caccia o il re che va alla guerra sono presenze-eventi che hanno un significato soltanto sul piano delle avventure che interessano i protagonisti, e sono prive la caccia di un significato descrittivo, la rive dal mare di una determinazione naturalistica, la guerra di un significato politico»28: non si tratta, insomma, di una guerra tra il re d’Inghilterra e il principe di Salerno, ma di una vicenda familiare. Viceversa, anche uno spazio densamente arredato può essere fiabesco, purché gli oggetti in esso contenuti siano enfatizzati nel numero e nella qualità: così avviene per la camera di Genese che Doralice nascostamente «apparecchiava» «scoppandola, distendendo il letto, acconciando i capoletti e ponendoli sopra una coltra lavorata a certi compassi di perle grossissime con due guanzali ornati a maraviglia [come nel letto predisposto dal Saladino in Decameron, X, 9, 76]. Appresso questo, la bella giovane pose sopra il vago letto rose, viole e altri odoriferi fiori mescolati insieme con uccelletti cipriani [come in Decameron,VIII, 10, 24] e altri odori che piacevolmente olivano»29. Come la nozione di spazio, anche la nozione di tempo e di durata è distorta in una dimensione domestica e quotidiana. Emblematico in tale senso l’arco cronologico del viaggio della balia da Salerno all’Inghilterra: «di Salerno una mattina per tempo se ne partì e tanto dì e notte sola cavalcò, ch’al regno d’Inghilterra aggiunse», ove le espressioni «una mattina», «un dì», «un giorno» più che collocare l’avventura in un tempo determinato, hanno lo scopo di azionare un meccanismo di attesa riferito ad eventi estranei alla realtà o comunque abnormi. In altri momenti, invece, come nella scena della punizione della regina, sotterrata viva30, il tempo sembra non scorrere, non c’è il reale della quotidianità, non ci si concentra sull’attimo o sul passare delle ore. «È un tempo emozionale e non reale – scrive Beccaria – È intenso in senso avventuroso, senza determinazione cronologica»31: quello che conta è avere tempo per fuggire, per inseguire, essere in un certo posto al mo— 333 —

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mento giusto (o sbagliato). Questa extra-temporalità, con le sue varie forme di attuazione, è un’importante caratteristica di tutte le Piacevoli notti e certo un elemento di forte differenziazione rispetto al Decameron e alla sua «conquista della realtà»32: il «mondo della vita osservata e della vita narrata» è lontanissimo, ormai inarrivabile. In questo spazio-tempo privo di ogni ancoraggio al reale storico (tempo sub-storico lo definisce il Mazzacurati33), l’interesse del narratore si concentra sulla successione dei colpi di scena dell’intreccio, sui travestimenti (Tebaldo si traveste da mercante e poi da astrologo nella stessa sequenza), sulle agnizioni e non sui protagonisti in sé: le azioni da essi compiute o subite non lasciano un segno sulla maggior parte dei personaggi34, che, come Doralice, vivono il gioco della sorte «con un’impassibilità burattinesca», senza alcun visibile incremento d’esperienza, che aiuti a decifrare o simbolicamente o realisticamente il senso del loro destino. La società costituita da questi personaggi è statica: non c’è posto tra di essi per un Cisti fornaio, perché solo un verdetto imprevedibile della sorte può mutare l’appartenenza di classe di un personaggio35. Anzi, per meglio dire, questa è una società senza determinazione di classe: la balia e il principe dialogano alla pari; Doralice si muove nelle stanze della reggia come in un interno borghese36; il re Genese agisce, parla, si muove in un ambiente ricondotto a dimensioni casalinghe, domestiche e, subito dopo, riunisce un esercito e combatte contro Tebaldo. Lo stesso Tebaldo, in cui si fondono insidia familiare e autorità crudele, suscita solo un’illusione prospettica di titanismo negativo alla Ser Ciappelletto, sconfitto com’è per due volte dal comune senso di giustizia della balia. È appunto questo personaggio della nutrice, l’unico a conservare un carattere articolato, per la sua capacità di esercitare un dominio sulla realtà e di reagire con determinazione agli avvenimenti, combinando saggezza e magia. Essa interviene due volte nella trama e in entrambe dà una svolta decisiva all’intreccio, salvando la sua pupilla, Doralice. Proprio la creazione del personaggio della balia, un personaggio quasi manzoniano che come Agnese «tutta pensosa a ritrovare il rimedio che alla figliuola di salute fosse, saltava ora in un pensiero ora nell’altro, né trovava modo col quale assicurar la potesse, perciò che il fuggire ecc.»37, indica la distanza tra fiaba letteraria e fiaba popolare: se, infatti, come afferma Beccaria38, la fiaba è un oggetto narrativo chiuso e concluso con intrecci e situazioni di tipo assai limitato, oltre che lineare, la fiaba di Straparola è ‘fiaba letteraria’ in quanto oggetto narrativo aperto e complesso, in cui il sovrastare del codice è continuamente insidiato dall’inven— 334 —

‘VARIAZIONI’ DALLA NOVELLA ALLA FIABA zione, in cui i rapporti bidimensionali soggetto-oggetto, uomo-mondo si integrano con scelte formali personali e qualificanti. Da tutto questo si evince che, laddove la fiaba/archetipo (diciamo Maria di legno, raccolta da Calvino nelle Fiabe italiane o la «moderna fiaba calabrese» di cui parla il Di Francia39) è un oggetto narrativo chiuso all’interno del codice che sovrasta l’inventiva del singolo esecutore, con un intreccio assai limitato40, oltre che lineare, la ‘favola’ di Tebaldo e Doralice, campione significativo di tutte Le piacevoli notti, si mostra al lettore-ascoltatore come un testo discontinuo, in continuo movimento tra l’archetipo-Boccaccio e la policentrica tradizione orale: Straparola, se da un lato fissa il proprio testo in una forma definita, dall’altro, nel siglarlo con lo pseudonimo di Orfeo, indica la volontà di mantenere aperto anche il canale dell’oralità, presupponendo non solo un pubblico di lettori, ma anche di spettatori41. Il significante tende qui a varcare i margini di quello che viene scritto sulla pagina, a diffondersi nella materia teatrale non registrata come tale, ma tuttavia presente in seno al testo, sotto l’aspetto di una volontà di ‘dizione’, nel senso in cui il termine potrebbe riferirsi a una «retorica della voce e a una grammatica dei movimenti del corpo»42: la vocalità e la gestualità del testo (quelli che Zumthor chiama i valori della performance) si impongono in modo esplicito nei momenti salienti della fabula, cioè laddove si evidenziano le distorsioni del rapporto padre/figlia: Doralice che vede l’anello della madre e «quello nel dito si mise e, voltatasi al padre, disse: – Vedete, padre mio, come l’anello della madre mia mi si conviene al dito?»43, Tebaldo che «comandò con mano [e non a parole] che indi levato fusse [l’armadio]»44 e, nel passaggio da Salerno all’Inghilterra, Tebaldo che pone «per ordine alle mura del palagio le gioie e lavorieri tra’ quai erano fusi e rocche» e comincia a gridare «“– Fusi e rocche, donne!”»45 e soprattutto il colloquio padre/figlia che, sorprendentemente dal punto di vista dell’intreccio (infatti Tebaldo è camuffato da mercante) inserisce i vocativi «Padre mio» e «figliuola mia», disposti a chiasmo, in un sintetico scambio di battute, quasi una strizzata d’occhio per gli ascoltatori, un richiamo all’essenza della fabula al di là delle contorsioni dell’intreccio46. E ancora Tebaldo che «accostatosi all’orecchio del re, secretamente»47 gli parla e il re che «d’ira e di furore acceso» icasticamente «contro la regina si volge»48 per finire con la messa in scena dell’incontro risolutivo tra il il re e la balia: la balia sale le scale del palazzo, arriva nella sala delle udienze si inginocchia, il re la abbraccia e la fa alzare in piedi e se la mette seduta accanto e a quel punto la balia denuncia tutto complotto contro Doralice49. — 335 —

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Dopo due secoli dalla prima diffusione del Decameron, l’ormai tradizionale imitazione della forma artistica della novella confluisce, dunque, nel testo di Straparola con l’uso della forma semplice della fiaba. Non a caso Beccaria può fare delle Piacevoli notti «un caso classico» di osmosi tra letteratura colta e fiaba, considerando questo testo l’esempio «di un’arte narrativa, di un genere frutto di un grande dialogo fra scrittura e oralità, tra colto e popolare»50. Questo nuovo genere51 è la fiaba, che la critica tende concordemente a definire come un episodio della storia letteraria, connotato da una intensa ma breve fortuna: in realtà, per come si definisce nel modello campione (I, 4), la ‘favola’ di Straparola, collegandosi da un lato con il Filocolo e dall’altro con il Pentamerone, potrebbe a buon diritto inserirsi in quel cronotopo del Prufungsroman che Bachtin designa come una delle grandi linee di sviluppo del romanzo europeo52. NOTE 1 G. STRAPAROLA, Le piacevoli notti, a cura di D. PIROVANO, Roma, Salerno Editrice, 2000: le citazioni sono tratte da questa edizione, che verrà indicata con la sigla T. 2 G. MAZZACURATI, La narrativa di G. Straparola e l’ideologia del fiabesco, in ID., All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. PALUMBO, Firenze, La Nuova Italia, 1996. 3 Un segno di osmosi tra cultura popolare e cultura cortigiana è già nel nome Doralice dato alla protagonista. Come si sa, Doralice è, infatti, un personaggio dell’Orlando furioso e nonostante le due Doralici abbiano solo il nome in comune, si può vedere anche in questa scelta onomastica il meccanismo di organizzazione della cultura fiabesca (popolare) attraverso i modelli avventurosi dell’epica (cortigiana). 4 G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, Torino, Einaudi, 1992, p. 472: tutte le citazioni saranno fatte da questa edizione, che verrà indicata con la sigla DEC. 5 DEC, p. 1242. 6 Ivi, p. 1241. 7 Il legame imitativo tra la favola di Doralice e la novella di Griselda, che, come è noto, Petrarca aveva scelto di tradurre in latino proprio per la sua ‘altezza’ retorica e morale, può avere, a mio parere, una certa rilevanza per la storia di questo genere letterario (cfr. Seniles, XVII, 3). 8 T, p. 63. 9 T, p. 62. 10 T, p. 63. 11 T, p. 65. 12 C. SEGRE, Boccaccio: narrazione e realtà, in ID., Lingua, stile e società, nuova ed. ampliata, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 311.

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‘VARIAZIONI’ DALLA NOVELLA ALLA FIABA 13 Cfr. quanto scrive a tale proposito A. JOLLES, Forme semplici, in ID., I travestimenti della letteratura. Saggi critici e teorici (1897-1932), a cura di S. CONTARINI, Milano, Edizioni Bruno Mondadori, 2003. 14 Come si deduce dalle molte versioni trascritte nei repertori ottocenteschi e presenti anche nel repertorio di Thompson al tipo 510b. 15 DEC, p. 137. 16 L. PULCI, Morgante, XXVIII, 14-15, 1 (Torino, UTET, 1984, p. 75, n. 4). 17 T, p. 75. 18 A. JOLLES, Forme semplici, cit., p. 426. 19 Afferma Zumthor: «la letteratura di massa […] prodotto di sostituzione (al di là delle spaccature culturali successive del XV, XVI, XVIII secolo) di una antica poesia vocale, ha raccolto e preservato molti dei suoi tratti; funzionalmente prende il suo posto, prolungandola» (P. ZUMTHOR, La lettera e la voce. Sulla «letteratura» medievale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1990, p. 386). 20 Beccaria scrive a proposito della fiaba in generale: «Il sistema semantico della fiaba coinvolge narratore e ascoltatore in un’esperienza che abolisce la dialettica vero-falso, l’avvicinamento o il distanziarsi della realtà fattuale» (G. L. BECCARIA, Variazioni dell’identico: elogio della fiaba, in ID., Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 2001, p. 313). 21 «La novella riporta un fatto o un evento in modo tale che esso generi nel lettore l’impressione di essere realmente avvenuto, e in una forma che attribuisce più importanza all’avvenimento in sé che al carattere psicologico dei personaggi»: sono eccezioni, per Jolles, nel Decameron, la X, 9, X, 5 e X, 4 (ma si veda anche Griselda nella X), cfr. A. JOLLES, La fiaba nella letteratura occidentale moderna, in ID., I travestimenti della letteratura, cit., p. 125. Per Jolles, peraltro, le fiabe di Straparola sono più vicine alla forma artistica che alla forma semplice perché se riguardo al contenuto assomigliano molto alle fiabe di magia, «per quel che riguarda la forma, esse si allontanano in qualche misura dalle nostre comuni favole: luogo, tempo e personaggi sono infatti descritti chiaramente». E ancora: «Tutto risulta più personale e meno decontestualizzato rispetto allo stile consueto della fiaba, e da questo punto di vista la narrazione sembra anzi più vicina alla novella» (ivi, p. 125). E proprio su questo, fra l’altro, Jolles fonda la differenza con la successiva esperienza letteraria della fiaba di Basile: «ciò che in Straparola appare ancora in rapporto con la scrittura, vale a dire la dimensione reale e concreta delle novelle, diventa più vago in Basile» (ivi, p. 126). 22 ID., Forme semplici, cit.,p. 423. 23 T, p. 65. 24 A proposito del rapporto spazio/tempo nella favola Zumthor parla di «messa in scena di un susseguirsi di eventi, [che] condensa in un tempo di lettura – di ascolto – piuttosto corto un tempo narrativo lungo» (P. ZUMTHOR, La lettera e la voce, cit., p. 373). 25 T, p. 30. 26 T, p. 32. 27 T, p. 30. 28 G. L. BECCARIA, Variazioni dell’identico: elogio della fiaba, cit., p. 319. 29 T, pp. 67-68. 30 T, p. 73.

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G. L. BECCARIA, Variazioni dell’identico: elogio della fiaba, cit., p. 319. C. SEGRE, Boccaccio: narrazione e realtà, cit., p. 303 e p. 314. 33 G. MAZZACURATI, La narrativa di G. Straparola e l’ideologia del fiabesco, cit., p. 169. 34 Riguardo al romanzo greco, «romanzo d’avventure e di prove», Bachtin nota che «in esso tra i due momenti del tempo biografico [inizio e fine dell’avventura] si ha un purissimo iato che non lascia alcuna traccia nella vita dei protagonisti e nei loro caratteri» (M. BACHTIN, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in ID., Estetica e romanzo, trad. it. Torino, Einaudi, 1979, p. 237). 35 Cfr. M. GUGLIELMINETTI, Introduzione a Novellieri del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1972, p. XL. 36 Mazzacurati individua in questa novella uno di quegli «sporadici nuclei borghesi, incapaci di inserire a medio livello un loro filtro di ideologie tipiche, di costume, […] proclivi perciò a mimetizzarsi e identificarsi nei miti tipici delle due classi tra cui si trovavano compressi» (G. MAZZACURATI, La narrativa di G. Straparola e l’ideologia del fiabesco, cit., p. 156). Macchia trova un’analoga dimensione borghese nella descrizione degli interni (in particolare della camera di Genese) che «serve a riequilibrare una serie di avventure fuori del verosimile e riportarla alla misura di una festosità borghese e regale» (G. MACCHIA, Prefazione a G. STRAPAROLA, Le piacevoli notti, Milano, Bompiani, 1943, p. XI). 37 T, pp. 65-66. 38 G. L. BECCARIA, Variazioni dell’identico: elogio della fiaba, cit., p. 326. 39 L. DI FRANCIA, Novellistica, I, Milano, Vallardi, 1924, p. 719. Il Di Francia, la cui Novellistica è definita da Guglielminetti un «monumento» del metodo di indagine applicato dagli studiosi otto-novecenteschi alla narrativa del Cinquecento, considerata un insieme di riscritture di testi tradizionali (M. GUGLIELMINETTI, Introduzione a Novellieri del Cinquecento, cit., p. IX), indica anche altre fonti per la fiaba di Tebaldo e Doralice: da un lato «il gruppo di leggende derivate dal testo latino di Bartolomeo Fazio», dall’altro «narrazioni d’ogni paese, dalla Manekine alla Cronica universale di Jansen Enikel, dalla catalana Historia del rey de Hongria ad una novella francese del secolo XV «De Alexandre roy de Hongrie, qui voulut espouser sa fille», dalla Historia de la regina Oliva, in ottave, alle relative sacre rappresentazioni» (ibidem). 40 Beccaria così definisce la fiaba, in Variazioni dell’identico: elogio della fiaba: «La fiaba è un oggetto narrativo chiuso e concluso. Intrecci e situazioni di tipo assai limitato, oltre che lineare. Il lettore-ascoltatore partecipa a questo quieto sovrastare del codice sull’invenzione» (cit., p. 326). 41 Beccaria sottolinea l’importanza dell’esecuzione, trasportata nella scrittura e individua resti di oralità nelle ridondanze esecutive, interiezioni, deittici che rimandano alla situazione dell’enunciazione, e formule che servono ad acuire l’attenzione. Da questo il critico desume la mancanza di una vera autonomia testuale della fiaba, perché appunto essa vive di una commistione di codici (verbale, gestuale ecc), ivi, pp. 288-289. 42 P. ZUMTHOR, La lettera e la voce, cit., p. 370. 43 T, p. 63. 44 T, p. 66. 45 T, p. 70. 31

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‘VARIAZIONI’ DALLA NOVELLA ALLA FIABA T, p. 71. T, p. 72. 48 T, p. 73. 49 T, p. 74. 50 G. L. BECCARIA, Variazioni dell’identico: elogio della fiaba, cit., p. 318. 51 Cfr. A. JOLLES, La fiaba nella letteratura occidentale moderna, cit. 52 M. BACHTIN, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, cit., p. 253; e ancora a p. 254: «Particolarmente duratura nelle storia del romanzo si è dimostrata l’idea compositivoorganizzatrice della prova. Noi la incontriamo nel romanzo cavalleresco medievale, sia iniziale che, in particolare, tardo. Essa in notevole misura organizza l’Amadigi e i Palmerini. Del suo significato nel romanzo barocco abbiamo già detto. Qui questa idea si arricchisce di un determinato contenuto ideologico […]. Dopo il barocco, il significato organizzativo dell’idea della prova decresce bruscamente. Ma essa non muore e si conserva come una delle idee organizzative del romanzo in tutte le epoche successive». Si veda anche I. CALVINO, Sulla fiaba, a cura di M. LAVAGETTO, Torino, Einaudi, 1988, p. 36 e pp. 46-47. 46

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ELISABETTA MENETTI IL CASO DI NASTAGIO DEGLI ONESTI NELLE NOVELLE DI MATTEO BANDELLO Fin dalla fondazione del genere novellistico l’antinomia tra il potere seduttivo dell’immaginazione, che si nutre di finzioni, e la rappresentazione della storia, che ricerca il vero, si traduce in un problema critico di non facile soluzione1. Giovanni Boccaccio, che nel Decameron aveva ceduto alle sirene dell’invenzione fantastica con il ‘volo’ magico di messer Torello o con le apparizioni infernali della novella di Nastagio e che nel Proemio, fornendo un elenco formale dei generi narrativi medievali, aveva espresso in esso anche il mutevole grado di verità della finzione letteraria tra novella, favola, parabola e istoria, nel momento in cui si trovava a predisporre nel libro XIV delle Genealogie una definizione teorica e a compiere una scelta, faceva prevalere un orientamento più severo, dove certi precetti e certe imposizioni riconducevano alle analoghe riflessioni dell’amico e maestro Francesco Petrarca2. Tra le possibili rappresentazioni del mondo, Boccaccio intravedeva il gioco illusorio dell’invenzione letteraria, di cui rimaneva fiero difensore: «Concedo fabulosos, id est fabularum compositores, esse poetas. Ne hoc ignominiosum existimo, nisi uti formasse phylosopho silogismum» (Genealogie XIV, IX)3. Fondando la sua indagine sul rapporto tra verità e invenzione, egli si muoveva all’interno di un paradigma teorico e concettuale già definito da Orazio, da Cicerone (De invenzione, I, 19 27), dalla Rhetorica ad Herennium (I, VIII 13) e da Quintiliano (Institutio oratoria, IV, II, 31), mentre della classica tassonomia dei generi (fabula, historia e argumentum) proponeva una nuova articolazione quadripartita. Alla terza tipologia più simile alla storia che alla favola («potius hystorie quam fabule similis est»), ma che si serve e si nutre del potere illusorio dell’immaginazione, egli associava le invenzioni dei poeti epici (Virgilio, Omero), dei poeti comici (Plauto e Terenzio) e anche le — 341 —

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parabole e gli esempi delle Sacre Scritture. Questa terza tipologia narrativa, molto simile all’argumentum, più vicina alla storia che alla favola, contiene i caratteri della verosimiglianza perché i fatti raccontati se nella realtà non sono accaduti (e, quindi, non sono veri) sono probabili e quindi potrebbero anche accadere, essendo «fatti comuni» («et hec si de facto non fuerint, cum communia sint, esse potuere vel possent»)4. Dal canto suo Petrarca, nella Sen. XVII, 4 che precede la traduzione della novella di Griselda (De insigni obedientia et fide uxoria), impiegava la medesima terminologia nell’affrontare il problema del rapporto tra verità e finzione. Anche se il poeta preferiva definire la novella di Griselda fabula e non historia, poiché non sapeva dire se il soggetto fosse reale o inventato («nescio an res veras an fictas que iam non historie sed fabelle sunt ob hoc unum»), cercava con la sua traduzione di individuare tra le historie e le fabelle lo spazio necessario ad una narratio probabilis5. Se per un verso il criterio della verosimiglianza narrativa pare non essere determinante – almeno fino a Tasso – per buona parte della produzione narrativa europea (si pensi ai libri di cavalleria o ai romanzi pastorali), diventa invece questione decisiva per chi scrive novelle o ‘istorie’, che della realtà quotidiana devono essere lo specchio il più possibile fedele, o probabile6. La poetica di Bandello nasce tra quei testi e appartiene ad essi: lo scrittore lombardo si appropria in particolare delle parole di Boccaccio e di Petrarca, cercando una soluzione per le sue istorie, vere o probabili o mirabili. Impadronendosi del linguaggio critico fondato dai suoi maestri, egli affronta il tema controverso della verità storica di una finzione letteraria e della probabilità o impossibilità del racconto vero, falso o simile al vero. L’interesse per lo studio e l’approfondimento di questo tema è tale, che proprio dall’intersezione di quelle opere fa germogliare il suo esordio narrativo: la traduzione in latino della novella decameroniana di Tito e Gisippo (Decameron X, 8)7. Nella lettera all’amico Filippo Saulo, che funge da prefazione alla traduzione, nel dividere la narrazione tra i due generi-portanti, fabula e historia, Bandello si lascia qualche margine di manovra, quando aggiunge in modo frettoloso una considerazione che sembra voler lasciare la res in un alone indeterminato: «Res autem vel vera vel ficta fuerit, haud in magno ponendo est discrimine»8. Nella pedissequa ortodossia dimostrata nei confronti del testo petrarchesco, Bandello su una questione decisiva avverte che non è necessario opporre verità e finzione: non è così importante stabilire se le cose raccontate siano vere o siano inventate. Ed è una riflessione che lo porta lonta— 342 —

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no da Petrarca, il quale aveva attribuito agli exempla della tradizione classica la virtù della verosimiglianza, cercando di plasmare la novella boccacciana secondo la forma del genere figurale, storico ed esemplare, che tanta fortuna ha avuto nella narrativa umanistica tre-quattrocentesca9. Nelle Novelle i due dittici che, dopo l’esercizio della traduzione umanistica della novella di Tito e Gisippo, esprimono in modo chiaro la poetica di Bandello sono il II, 59 e il II, 35, tra i quali per quanto concerne la data di composizione probabilmente trascorre qualche anno: dal 1525 circa (II, 59) a dopo il 1542 (II, 35). Nastagio degli Onesti compare alla fine della Seconda Parte nella dedica della cinquantanovesima novella, indirizzata a messer Lorenzo Zaffardo. L’apparizione nell’immaginario bandelliano della novella più visionaria del Decameron solleva questioni interpretative di importanza centrale per la definizione della poetica del nostro narratore. Mentre ricorda la pineta di Classe, egli richiama il problema teorico della verosimiglianza con la novella-visione degli spettri-amanti, senza nascondere il fascino e il coinvolgimento che tale immaginario poteva ancora suscitare. Con la lettura pubblica del Decameron e della novella di Nastagio egli solleva un tema di importanza centrale nella poetica narrativa rinascimentale, quando ripete il discrimine tra i lemmi critici di favola e di istoria, che riconducono con sicurezza ai padri fondatori della teoria narrativa medievale e umanistica. Passare attraverso la novella di Nastagio significa affrontare la questione della verosimiglianza, come lo stesso Castelvetro non mancherà anni dopo di sottolineare nella sua Poetica, quando individuerà nelle novelle boccacciane di messer Torello, di messer Ansaldo e di Nastagio degli Onesti i limiti non consentiti ad una narrazione verosimile10. Ma per Bandello tali limiti sono ancora tutti da verificare. E nell’incertezza teorica tra ciò che è vero o è realmente accaduto e ciò che è possibile o potrebbe accadere, con consapevolezza critica egli apre il suo immaginario narrativo al mirabile, allo straordinario, allo ‘strano’ e persino all’inverosimile. La consueta organizzazione del racconto a due livelli, nella dedica e nella novella, assume in questo dittico una pienezza singolare per la scelta dell’ambientazione (la pineta ravennate di Classe), per le questioni teoriche sollevate, per la natura ludica e dissacrante che vi è sottesa. La stessa forma del dittico narrativo consente a Bandello di stabilire relazioni e antitesi tra i temi narrativi; come l’abbinamento tra la lettura cortigiana della novella di Nastagio degli Onesti nella lettera di dedica e la narrazione nello spazio de— 343 —

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dicato alla novella di una delle istorie più erotiche e audaci di tutto il novelliere bandelliano. Nel gioco letterario tra sé e l’archetipo narrativo lo scrittore richiama altre istorie vere e mirabili, scegliendo di rileggere all’interno della sua opera, nella lettera di dedica – e, quindi, nella zona deputata alla riflessione metanarrativa – una novella del Decameron non realistica, ma fantastica e ambientata in una scena sovrannaturale con l’intenzione di proporre una riflessione sui temi fondanti dell’invenzione letteraria. La pineta di Classe, luogo reale in cui si trovano a cavalcare Bandello e i suoi amici, si trasforma in un luogo della memoria. La visione di due spettri infernali si estende dalle pagine del Decameron alla sfera del reale, creando una sorta di miraggio. Bandello torna nella pineta di Classe e richiama quegli spettri, recuperando a suo modo le suggestioni dantesche e boccacciane di un immaginario cavalleresco ormai al tramonto. La presenza del modello letterario affiora nel mondo reale, sovrapponendosi ad esso: dopo aver cavalcato nella pineta verso «Cervia, ove il sale in gran copia si fa» e dopo aver visto come i romagnoli traggono i pinoli «fuori delle durissime pigne» e, ancora, gli «armenti quasi selvaggi» e le «testuggini terrestri», il gruppo di Bandello entra nella scenografia naturale del Decameron. La nuova brigata si trova in un «bellissimo pratello» dove l’erba è «minutissima e verde»; il luogo è «bellissimo» e ameno11. La stessa cavalcata nella pineta, che richiama alla memoria il caso di Nastagio, è a sua volta reminiscenza di altri testi ed eco di altre occasioni letterarie, come la nota ripresa del Boiardo nella novella di Tisbina o il poemetto in ottave di Francesco Lancillotti, L’Innamoramento di Calisto e Giulia, stampato a Firenze nel 150612. In serata, raggiunta Classe, lo scrittore e i suoi amici trovano la tavola imbandita e un nuovo personaggio (l’ospite, Pandolfo di Mino) apre i giochi, condotti tra cibo e letteratura, con una citazione letteraria, che i lettori più avveduti ormai si aspettano. Ma la citazione è sbagliata. Pandolfo, rivolgendosi a Carlo Villanova, il futuro narratore, racconta che i ravennati sono convinti della veridicità della novella di Nastagio. Tuttavia nel riassumere la trama egli scambia una donna per un’altra: i ravennati, dice, credono che questo sia «il luogo ove Nastagio degli Onesti, amando la Traversara, quando qui si ridusse, vide il crudele strazio che di lei fu fatto da messer Guido degli Anastagi e da’ suoi fierissimi cani». Ovviamente tutti i lettori del Decameron ricordano che nella novella ottava della quinta giornata la donna straziata non è dei Traversari, bensì l’anonima destinataria dell’amore di Guido. — 344 —

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Tutti gli invitati ridono, non già per l’errore grossolano, ma per «la sciocchezza del volgo che le favole talora riputa istorie». Subito dopo messer Carlo chiede che la novella di Nastagio venga letta a tutti i convitati e Bandello, presenza silenziosa della brigata di cortigiani, non manca, alla fine, di annotare la reazione degli ascoltatori: «Ella nel vero attristò gli animi di molti come se vera stata fosse ed eglino si fossero a lo strazio trovati presenti». Una novella visionaria che sembra vera («come se vera stata fosse»), secondo l’abile commistione tra gli elementi del meraviglioso e il realismo dei particolari, cifra del capolavoro boccacciano. Una novella visionaria che suscita compassione («Ella nel vero attristò gli animi di molti»), che coinvolge e attrae i lettori (e ascoltatori) nella sua sfera altra, surreale, fantastica («come se… si fossero a lo strazio trovati presenti») e che, infine, suscita i sentimenti richiesti da ogni narrazione esemplare13. Anche la favola può convincere e commuovere, purché sembri verosimile14. Proprio in questo paradosso narratologico ritroviamo un nesso teorico fondamentale della poetica bandelliana: le istorie che egli intende raccontare devono essere vere e mirabili, entro una sorta di cono d’ombra, rappresentato dalla verosimiglianza. La commozione, poi, viene subito frenata, suscitando in tutti i presenti una reazione opposta, ossia il desiderio di ridere, di rallegrarsi e di passare il tempo con una piacevole novella. In questo secondo passaggio, in cui i cortigiani vestono i panni decameroniani, si rileva ancora una volta una forzatura interpretativa della novella decameroniana, che consente al nostro autore di riprodurre lo schema di alternanza narrativa, propria del capolavoro trecentesco. Come si ricorderà, quella di Nastagio è una novella amorosa a lieto fine, anche se la narratrice (Filomena) non nasconde le due antitetiche componenti del racconto («mi piace dirvi una novella non meno di compassione piena che dilettevole»). La stessa tristezza della brigata bandelliana a fine lettura non coincide con le più allegre conclusioni tratte a margine del racconto dalla stessa Filomena, la quale ricorda come le donne ravennati, per paura di essere così punite, da quel momento fossero diventate «più arrendevoli a’ piaceri degli uomini» (Decameron, V, 8, 44). Al centro della rievocazione bandelliana resta la caccia infernale tra i due spettri, non il lieto fine; vi è lo strazio, la compassione e non il diletto di un esito felice, persino scanzonato nelle ultime riflessioni della narratrice. La ‘favola verosimile’ e l’apparizione realistica degli spettri acquistano una rilevanza centrale nell’immaginario bandelliano, prendendo il sopravvento sul corretto svolgimento della vicenda pre-matrimoniale di Nastagio. — 345 —

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Questo spostamento di contenuto (da novella ambivalente ma nella sostanza a lieto fine, a novella che suscita solo sentimenti di tristezza) dipende da un lato dalla natura complessa della novella decameroniana, dall’altro dal fraintendimento iniziale: lo scambio della Traversari con la donna amata da Guido degli Anastagi, questa sì, straziata dai cani. Il caso di Nastagio, dunque, nella memoria delle Novelle di Bandello è sicuramente assai infelice! La forzatura interpretativa consente al narratore bandelliano, Carlo Villanova, di raccontare per alternanza una novella piacevole e che suscita grandi risate: la novella o la istoria del tedesco «sempliciotto». Una novella comica, grottesca, esclusivamente incentrata sulla sessualità prorompente del giovane. Una istoria irriverente, che ha come argomento dominante il «guardiano degli orti» del protagonista, per dirla col Bandello. Il narratore, introducendo la novella, incorre oramai inevitabilmente nello stesso errore del suo amico e ospite, Pandolfo di Mino: Poi che io, per farvi legger l’artificiosa novella del Boccaccio de lo strazio fatto de la giovane dei Traversari sono stato cagione di contristarvi, a ciò che debita penitenza ne faccia e con medicina contraria curi la vostra malinconia, forza m’è di farvi ridere.

E come Boccaccio nella «artificiosa» novella di Nastagio aveva rovesciato il modello dell’al di là tradizionale e del mito classico, giocando a sua volta con il modello dantesco e ricollocando su nuove gerarchie morali «la lieta religione d’amore», così Bandello, ripercorrendo la strada del maestro, propone a sua volta il rovesciamento di quel modello15. Ma in questo dittico bandelliano la carica dissacrante propria del genere carnevalesco risulta ancora più forte, più incisiva, più sorprendente. Il narratore lombardo nell’evocazione realistica e concretissima degli elementi del basso-corporeo del tedesco sempliciotto propone – come giocosa alternativa alla lettura della novella di Nastagio – un contro-modello o un antimodello, che è del tutto al di fuori dai canoni di moralità e di decoro, richiamati altrove nel novelliere. Bandello accosta alla nobile figura di Nastagio quella bassa e semplice del suo personaggio caricaturale; il che significa sovrapporre in questo caso le rarefazioni intellettuali dell’amore cortese con i più concreti fatti materiali, propri di ogni attrazione sessuale. Le linee portanti del disegno narratologico di Bandello si chiariscono ancora meglio alla luce della dedica alla trentacinquesima novella della Seconda parte, in cui esse sono esposte con chiarezza. In questa novella viene rac— 346 —

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contata l’incredibile vicenda di un «gentiluomo navarrese» che sposa una donna, senza sapere che è al contempo sua figlia e sua sorella. La storia del duplice incesto (della madre con il figlio nella prima parte e, nella seconda parte, del figlio con la donna amata, che è sorella e figlia), narrata da Maria di Navarra a Bassens, è più letteraria che reale, essendo già comparsa tra le novelle di Masuccio, di Girolamo Morlini, di Giovanni Brevio e di Margherita di Navarra (Heptaméron, III, 30)16. Tuttavia il problema resta quello della veridicità di questo fatto, giudicato da tutti i presenti «stupendissimo e miserabile». Proprio per affrontare questo nodo teorico, che tiene insieme tutta la teoria narrativa medievale e umanistica, Bandello scrive nell’incipit della dedica: Spesse fiate sogliono avvenire casi così strani che, quando poi sono narrati, par che più tosto favole si dicano che istorie e non di meno son pur avvenuti e son veri. Per questo io credo che nascesse quel volgato proverbio: che «il vero che ha faccia di menzogna non si deverebbe dire». Ma dicasi ciò che si vuole, ch’io sono di parer contrario, e parmi che chiunque prende piacer a scriver i varii accidenti che talora accader si veggiono, quando alcuno gliene vien detto da persona degna di fede, ancor che paia una favola, che per questo non deve restar di scriverlo, perciò che, seconda la regola aristotelica, ogni volta che il caso è possibile deve essere ammesso. Per questo io che per preghiere di chi comandar mi poteva mi sono messo a scriver tutti quegli accidenti e casi che mi paiono degni di memoria e dai quali si può cavar utile o piacere, non resto d’affaticar la penna, ancora che le cose che mi vengono dette paiono difficili ad essere credute.

In queste poche righe Bandello riassume tutta la sua poetica tra Boccaccio e Petrarca, con la legittimazione di Aristotele. Alle classificazioni teoriche antiche, medievali e umanistiche, che insieme con il De sermone di Pontano gli erano servite per ridefinire i contorni della propria poetica, egli aggiunge il ragionamento aristotelico sulla probabilità di un evento narrato, sicuro di poter individuare nuove categorie operative per un immaginario che si muove tra invenzione e realtà, fondato su un falso probabile che sia simile ad un vero, realmente accaduto. La storia è ricca di casi ‘strani’ e imprevedibili, inverosimili (favole secondo il vocabolario petrarchesco) accaduti nella realtà e veri. E nonostante la citazione dantesca, offerta in forma di proverbio (Inf., XVI, 124-126), Bandello afferma con decisione di essere di «parere contrario» a coloro che giudicano alcune istorie (quelle più inverosimili) solo della favole. Di conse— 347 —

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guenza un fatto accaduto, «ancor che paia una favola», deve essere raccontato, soprattutto se è riportato da «persona degna di fede». E su questo è Aristotele a guidare con sicurezza Bandello: «ogni volta che il caso è possibile deve essere ammesso». Come si sa, secondo lo Stagirita il poeta descrive le cose come possono accadere: «cioè le cose le quali siano possibili secondo le leggi della verisimiglianza e della necessità». In altre parole «è credibile ciò che è possibile» (Poetica, 9, 5, 15). Bandello si avventura, pertanto, sul terreno insidioso del possibile o dei possibili narrabili, fino a raggiungere i confini del verosimile, travalicando a volte la regola aristotelica per spingersi oltre, per cercare nel mondo i fatti strani, mirabili, stupefacenti. Egli non vuole ricomporre un solo disegno narrativo, formato da esempi storici, antichi o recenti e da racconti esemplari, come quello letterario dell’amicizia tra Tito e Gisippo. Dalla lezione del Boccaccio narratore (e in particolare dalla novella di Nastagio degli Onesti) e del Boccaccio critico (nella difesa dell’invenzione letteraria) trae probabilmente il convincimento che è natura dei poeti essere fabulosi e che l’incanto di ogni narrazione consiste nel tenere in equilibrio, ma uniti e amalgamati, i due elementi opposti di essa: la historia e la fabula. Secondo un percorso non molto diverso da quello segnato in Spagna dal Lazarillo alle opere di Cervantes, nelle Novelle una più ampia tassonomia narrativa viene riportata alla luce, ridando forza e vigore a quelle fabelle, vere e mirabili, realmente accadute o solo inventate, false e insieme probabili, che racchiudono l’immaginario narrativo e la vita di un’intera epoca.

NOTE 1 Andrea Battistini, commentando un passo dell’Adone (X, 139) nella sua riflessione sulla storia e la rielaborazione di esso in ambito letterario scrive che «si compie con largo anticipo sui nostri formalisti la distinzione tra storia e récit, tra la sequenza effettiva e disadorna dei fatti e la loro rielaborazione narrativa, arricchita di elementi amplificanti» (A. BATTISTINI, Verità storica e sua iperbole letteraria, in Confini dell’umanesimo letterario. Studi in onore di Francesco Tateo, a cura di M. DE NICHILO, G. DISTASO, A. IURILLI, II, Roma, Roma nel Rinascimento, 2003, pp. 101-114, a p. 105). Sull’ambiguità tra veritas e fictio nella narrativa bandelliana: G. MAZZACURATI, La narrazione policentrica di Matteo Bandello, in ID., All’ombra di Dioneo. Tipologie e percorsi della novella da Boccaccio a Bandello, a cura di M. PALUMBO, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 197. Fondamentale per comprendere l’importanza ermeneutica del concetto di verosimiglianza nella novella cinquecentesca: R. BRAGANTINI, Il

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riso sotto il velame. La novella cinquecentesca tra l’avventura e la norma, Firenze, Olschki, 1987, p. 167 e p. 187. 2 Su questo argomento si rimanda al recente volume curato da G. ALBANESE, L. BATTAGLIA RICCI, R. BESSI: «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Pisa, 26-28 ottobre 1998), Roma, Salerno Editrice, 2000. Si veda anche: R. BESSI, La «Griselda» del Petrarca, in La novella italiana. Atti del Convegno di studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), II, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 83-102; G. ALBANESE, Fortuna umanistica della Griselda, in Il Petrarca latino e le origini dell’Umanesimo, «Quaderni petrarcheschi», X, 1992-1993, pp. 571-627; EAD., La novella di Griselda: «De insigni obedientia et fide uxoria», in Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, a cura di M. GUGLIELMINETTI, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994, Addenda 3, pp. XIX e XX; F. PETRARCA, De insigni obedientia et fide uxoria. Il Codice Riccardiano 991, a cura di G. ALBANESE, ivi, 1998, pp. 7-35; G. ALBANESE, Per la storia della fondazione del genere novella tra volgare e latino. Edizioni di testi e problemi critici, in La novellistica volgare e latina fra Trecento e Cinquecento. Risultati e prospettive di una ricerca interuniversitaria. Atti del Seminario di studi (Firenze, 3 giugno 1998), a cura di R. BESSI, «Medioevo e Rinascimento», Centro italiano di studi dell’alto medioevo, Spoleto, 1998, pp. 263-284; R. BESSI, Il modello boccacciano nella spicciolata toscana tra fine Trecento e tardo Quattrocento, in Dal primato allo scacco. I modelli narrativi italiani tra Trecento e Seicento, a cura di G. M. ANSELMI, Roma, Carocci, 1998, pp. 107-123; G. ALBANESE, Da Petrarca a Piccolomini: codificazione della novella umanistica, in «Favole parabole istorie», cit., pp. 257308; R. BESSI, ‘Bonaccorso di Lapo Giovanni’: novella o pamphlet?, ivi, pp. 163-187. Gli studi di Rossella Bessi sono stati recentemente ripubblicati: R. BESSI, Umanesimo volgare. Studi di letteratura fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 2004. Per quanto riguarda il complicato destino del genere novellistico, soprattutto nel rapporto tra il Boccaccio e i suoi epigoni: A. MAURIELLO, Dalla novella ‘spicciolata’ al ‘romanzo’. I percorsi della novellistica fiorentina nel secolo XVI, Napoli, Liguori, 2001. 3 Le citazioni delle Genealogie sono prese da G. BOCCACCIO, Genealogie deorum gentilium, a cura di V. ZACCARIA, in ID., Tutte le opere, a cura di V. BRANCA, VII-VIII, Milano, Mondadori, 1998. 4 Sulla poetica di Boccaccio si vedano: G. MAZZACURATI, Rappresentazione, in Lessico critico decameroniano, a cura di R. BRAGANTINI e P. M. FORNI, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 269-299; P. M. FORNI, Realtà/verità, ivi, pp. 249-268; L. BATTAGLIA RICCI, Boccaccio, Roma, Salerno Editrice, 2000, p. 195; EAD., Novellistica, omiletica, trattatistica nel primo ’300, in «Favole parabole istorie», cit., in particolare le pp. 51-52; S. SARTESCHI, Valenze lessicali di «novella», «favola», «istoria» nella cultura volgare fino a Boccaccio, ivi, pp. 85108 e in particolare p. 94 e p. 107. Sull’ambiguità tra il principio di realtà e il meraviglioso: L. SURDICH, Boccaccio, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 254-255. Infine, sulla dimensione fantastica e non realistica del Decameron, mi permetto di rinviare a E. MENETTI, Il Decameron fantastico, Bologna, CLUEB, 1994. 5 Sulla corretta interpretazione di questi passi e sulla teoria narrativa tra Boccaccio e Petrarca fondamentali sono le già citate riflessioni di G. ALBANESE, Da Petrarca a Piccolomini: codificazione della novella umanistica, cit., p. 264; EAD., La corrispondenza tra Petrarca e Boc-

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caccio, in Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca. Atti del Convegno di studi (Gargnano del Garda, 2-5 ottobre 2002), a cura di C. BERRA, Milano, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, 2003, pp. 39-84. Le citazioni del testo petrarchesco sono tratte da: G. BOCCACCIO, F. PETRARCA, Griselda, a cura di L. C. ROSSI, Palermo, Sellerio, 1991. 6 Tutte queste riflessioni hanno come punto di riferimento l’imprescindibile studio di Auerbach sul realismo nella letteratura occidentale: E. AUERBACH, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it. Torino, Einaudi, 1956, 2 voll. (in particolare per questo argomento si veda I, pp. 152-153). Francisco Rico si è soffermato più volte sul tema a partire dalle origini del romanzo picaresco fino alle opere di Cervantes, guardando all’influenza dell’umanesimo: F. RICO, Romanzo picaresco e storia del romanzo, in Dal primato allo scacco, cit., pp. 13-30; ID., Le armi del Don Chisciotte, in Mappe della letteratura europea e mediterranea. Dalle origini al Don Chisciotte, a cura di G. M. ANSELMI, I, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 346-366; ID., Letture. I prototipi e i generi (Lazarillo de Tormes), in Il romanzo, II, Le forme, a cura di F. MORETTI, Torino, Einaudi, 2002, pp. 89-95; ID., Don Chisciotte della Mancia, ovvero la storia del romanzo, in Il romanzo, V, Lezioni, a cura di F. MORETTI, P. V. MENGALDO, E. FRANCO, Torino, Einaudi, 2003, pp. 83-96. Sul tema dell’opposizione tra verità e finzione nella poetica del Don Chisciotte: E. C. RILEY, La teoria del romanzo in Cervantes, Bologna, Il Mulino, 1988, in particolare le pp. 255-305. 7 M. BANDELLO, Titi Romani Aegisippique Atheniensis amicorum historia in latinum versa per F. Mattahaeum Bandellum Castronovensem […], Milano, Gottardus De Ponte, 1509. Si veda: MATTHAEI BANDELLI, Opera latina inedita vel rara, a cura di C. GODI, Padova, Antenore, 1983. 8 Ivi, p. 189. 9 Per un’analisi più puntuale cfr: E. MENETTI, Bandello e i confini delle ‘istorie’, «Filologia e critica», XXIV, 1999, 2, pp. 165-185 e EAD., Storie mirabili. Le novelle di Matteo Bandello, di prossima pubblicazione. 10 L. CASTELVETRO, Poetica di Aristotele, a cura di W. ROMANI, II, Bari, Laterza, 1979, pp. 192 sgg. Su questo si veda: M. J. VEGA RAMOS, La teoria de la novella en el siglo XVI. La poetica neoaristotelica ante el Decameron, Salamanca, Johannes Cromberger, 1993; N. ORDINE, Teoria della novella e del riso nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 1996. 11 La prima (seconda, terza) parte de le novelle del Bandello. In Lucca, per il Busdrago, 1554; La quarta parte de le novelle del Bandello, nuovamente composte nè per l’adietro date in luce. In Lione, appresso Alessandro Marsilii, 1573. Le citazioni e le datazioni proposte saranno tratte d’ora in avanti dalla recente edizione delle Novelle curata da D. Maestri, utile per il commento e per gli approfondimenti storici e biografici dei personaggi: M. BANDELLO, La prima parte de le novelle, a cura di D. MAESTRI, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992; sempre a cura dello stesso: La seconda parte de le novelle, ivi, 1993; La terza parte de le novelle, ivi, 1995; La quarta parte de le novelle, ivi, 1996. Per La prima, La seconda, La terza parte de le Novelle il curatore afferma di essersi attenuto all’edizione Lucca, Busdrago, 1554 e per La quarta parte de le Novelle all’edizione postuma (Lione, Marsilii, 1573). Importante resta ancora l’edizione curata da Flora: M. BANDELLO, Tutte le opere, Milano, Mondadori, 1934-1935.

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IL CASO DI NASTAGIO DEGLI ONESTI 12 Cfr. M. PARMA, Fortuna spicciolata del «Decameron» fra Tre e Cinquecento. Per un catalogo delle traduzioni latine e delle riscritture italiane volgari, «Studi sul Boccaccio», XXXI, 2003, pp. 203-270, in particolare p. 251. 13 Si veda su questi argomenti il recente studio: Letteratura in forma di sermone. I rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli XIII-XVI. Atti del Seminario di studi (Bologna, 1517 novembre 2001), a cura di G. AUZZAS, G. BAFFETTI, C. DELCORNO, Firenze, Olschki, 2003. 14 Giorgio Bárberi Squarotti assume una prospettiva diversa. Secondo lo studioso, con questa dedica Bandello vuole affermare l’importanza della realtà storica della pineta contro quella immaginaria della novella boccacciana, mentre la lettura della novella di Nastagio si risolve in un completo fallimento: ID., La novella in corte, in Matteo Bandello novelliere europeo. Atti del Convegno internazionale di studi (Tortona, 7-9 novembre 1980), a cura di U. ROZZO, Tortona, Cassa di Risparmio di Tortona, 1982, p. 42. 15 Per comprendere questa seconda rivoluzione può tornare utile richiamare Michail Bachtin e la nota chiave di lettura bachtiniana data da Carlo Muscetta di questa novella decameroniana: C. MUSCETTA, Boccaccio, Bari, Laterza, 1989, p. 242. Per la novella di Nastagio si veda in particolare: V. BRANCA, L’Atteone del Boccaccio fra allegoria cristiana, evemerismo trasfigurante, narrativa esemplare, visualizzazione rinascimentale, «Studi sul Boccaccio», XXIV, 1996, pp. 193-208; M. ROSSI, I dipinti-Introduzione: la novella di Sandro e Nastagio, in Boccaccio visualizzato. Narrare per parole e per immagini fra Medioevo e Rinascimento, a cura di V. BRANCA, Torino, Einaudi, 1999; F. LINCIO, Un capitolo della fortuna della novella di Nastagio degli Onesti (Decameron V, 8) nell’«Innamoramento di Calisto e Giulia» di Francesco Lancillotti, «Lettere italiane», LIV, 2002, 4, pp. 599-615. 16 D. ORTOLANI, Una liberazione impossibile. A proposito del ‘realismo’ nelle Novelle di Matteo Bandello, «L’immagine riflessa», VI, 1983, pp. 59-152, in particolare pp. 101-107.

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GIULIA DELL’AQUILA DA UNA CONTROVERSIA LINGUISTICA UN CONFRONTO LETTERARIO: LA NOVELLA DELLA DONNA DI GUASCOGNA (DECAMERON, I, 9) E LA NOVELLA DI MELINA (HECATOMMITHI, INTRODUZIONE, X) Uno de’ più dotti e avveduti ingegni, che abbia avuto la città di Firenze, fu Bartolomeo Cavalcanti, e come ch’egli scrivesse in volgare la sua Retorica, e insegnasse agli altri di ben parlare, non si servì egli però mai delle boccaccievoli frasi, né meno cercò di persuadere gli altri, che le dovessero usare.1

Così dichiarava Alessandro Tassoni in un passo del Libro IX dei Pensieri diversi: l’osservazione offriva un saggio di come il letterato modenese nel primo Seicento ebbe a risolvere, in più casi, il difficile rapporto con l’autorità non solo trecentesca: «Io, che come dagli altri miei scritti si può molto ben giudicare, ho sempre stimati e onorati gli antichi, ma non mi sono affezionato giammai all’autorità d’alcuno di loro più di quello, che la ragione m’abbia persuaso […]»2. Gli anni passati «nelle Rime del Petrarca principe de’ lirici» a «segna[re] quello che da imitar non [gli] parve»3 furono certamente per l’autore della Secchia rapita un’intensa palestra in cui poté allenare il proprio giudizio critico, dimostrandosi spesso poco incline al plauso incondizionato. Non meraviglia che anche Paolo Beni, per molti aspetti allineato sulle stesse posizioni moderniste tassoniane, abbia pensato all’autore della fortunata Retorica cinquecentesca (1559) nell’intitolare la propria difesa dell’Anticrusca dall’attacco degli Accademici e del Pescetti in particolare4. Il Cavalcanti è il titolo dell’operetta pubblicata nel 1614 dal Beni5, a due anni dalla pubblicazione della prima edizione del Vocabolario6 e dell’Anticrusca7. Nella sua polemica anticruscante e modernista, tuttavia, il Beni, come il Tassoni, non tiene nella debita attenzione l’esemplarità del Boccaccio che è presente nella Retorica cavalcantiana in misura significativa. Il discrimine che separa l’opera del Cavalcanti dalle altre opere di retorica di quegli anni – il Dialogo — 353 —

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della retorica dello Speroni del 1542, l’Arte oratoria del Sansovino del 1546, i Ragionamenti della lingua toscana del Tomitano del 1545 – è nell’attenzione che il repubblicano fiorentino presta agli autori classici: se nelle opere appena citate la poesia italiana e in particolare quella del Petrarca costituiscono uno dei referenti principali per illustrare non solo le figure stilistiche ma anche la costruzione tecnica dell’orazione stessa, il Cavalcanti «distende e particolarizza» per mezzo di esempi per lo più classici8, modelli innanzitutto Aristotele, Cicerone, Quintiliano, la Rhetorica ad Herennium, Ermogene, Demetrio di Falero, Temistio, fino alla retorica quattrocentesca di Giorgio Trapezunzio, non dichiarata come fonte9. Attento alle esigenze retoriche degli italiani il Cavalcanti ricorre tuttavia anche a qualche esempio stilistico della tradizione più vicina, e guarda sovente alla prosa del Boccaccio: esemplifica il genere ‘invettiva’ con il Corbaccio o Labirinto d’Amore, stralcia spesso l’Elegia di Madonna Fiammetta per dimostrare usi linguistici e retorici10, ma ancora attinge alla Lettera consolatoria a Messer Pino de Rossi, o alla novella di Tito e Gisippo (Decameron, X, 8)11. Crocevia obbligato, dunque, il Boccaccio, un modello di prosa resistente nei secoli, anche in tempi di discussione delle autorità e nelle alterne vicende della sua fortuna di novellatore ed umanista. L’attenzione del Petrarca al registro ora comico ora tragico12 ed in particolare all’indimenticabile Griselda, la cui novella il poeta volle tradurre in latino13, non preservano, come è noto, il Decameron tra Tre e Quattrocento dal silenzio, dalle citazioni marginali e spesso neppure esplicite del novelliere e delle opere in volgare. La consacrazione bembiana è, tuttavia, preceduta da una serie di traduzioni in latino, e nelle lingue d’oltralpe, segnale di una attenzione costante e di una maggiore dimestichezza col testo, sottoposto anche ad esperimenti di parafrasi rimata, come è quello compiuto nel Certame coronaris (1441) da Francesco da Bonanno Malecarni sulla novella di Nastagio. Tutti approcci che preludono alla devozione/feticismo cinquecenteschi per lo scrittore in volgare: non pochi sono gli autori che guarderanno alle cento novelle e alla cornice non più solo dalla Toscana ma dall’Italia intera14. La presenza soverchiante del Boccaccio nel Cinquecento, in coincidenza con le importanti imprese filologiche del Borghini e di altri letterati e con il controllo della Chiesa controriformista, determina un certo distanziamento sul piano linguistico, anche nel reiterato richiamo alla struttura: ne sarebbe riprova la novella degli Hecatommithi che il Beni nel Cavalcanti volle opporre ad una del Decameron, rivelando nella scelta dell’autore contrapposto la — 354 —

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comunanza con esso di alcune nozioni poetiche essenziali15. Al Beni, una presenza costante tra gli antiboccaccisti più intransigenti, andranno tuttavia aggiunti anche i più moderati, inclini a riconoscere il valore del prosatore trecentesco ma attenti a cogliere ogni scarto dalla norma – come Galileo che rinnega la lettura di quella «storiaccia» dallo «stil ladro» che è il Corbaccio16 – ma ugualmente orientati a preferire i moderni in quanto più evoluti17. Uomo di punta, dunque, il Beni di questo antiboccaccismo convinto: già nell’Anticrusca si era abbandonato ad una feroce critica del Boccaccio preferendogli un autore sempre toscano ma moderno, il senese Claudio Tolomei18, assente non a caso nella prima edizione del Vocabolario ed incluso nella successiva, del 1623. Un tentativo, questo, di coinvolgere il polo senese del dissenso antifiorentino, e che troverà nel Dittionario toscano del Politi e poi nel Vocabolario cateriniano del Gigli due significative espressioni19. Intento a demolire i pilastri portanti della lessicografia cruscante20 – ovvero quel primato assegnato alla ‘naturalezza’ del fiorentino, visibile finanche nelle scritture contabili – il Beni nel Cavalcanti riprende la disamina del Decameron sotto vari profili, principalmente quello linguistico, sempre attraverso la prassi comparativa, assai consueta nello stile del critico. Un confronto a più termini precede il paragone tra il Decameron e gli Hecatommithi: sul banco di prova è posto il ritratto morale di un personaggio, un classico dunque della retorica annalistica, e gli autori messi a confronto sono Sallustio, Livio, Boccaccio e Guicciardini. Di Sallustio il Beni riporta due descrizioni, una di Catilina ed una di Giugurta, di Livio è ripresa la descrizione di Annibale, del Guicciardini è riportata una descrizione di Alessandro VI, ed infine del Boccaccio è presa in esame la descrizione che in apertura di opera il Certaldese fa di ser Ciappelletto. L’antinomia Ciappelletto/Griselda – rimarcata dalle posizioni ‘forti’ in cui i due personaggi si trovano all’interno della centuria – sembrerebbe essere stata colta già dal critico secentesco: se per nobilitare il Decameron il Petrarca guardò alla fedele moglie, il Beni per screditare il primato di quella prosa punta sulla eccessiva amoralità dello scellerato notaio. Il riporto dell’incipit della prima novella è così commentato dall’autore del Cavalcanti: Hor chi non vede che mentre si sforza di amplificar cotanto le sceleraggini di ser Ciappelletto, non solamente si diparte dal verisimile, ma ostenta puerilmente l’artificio, abbondando soprattutto di parole, e scoprendosi affettato oltra modo? Per lasciar che molto licentioso et imprudente si mostra facendo che Panfilo alla presenza di honeste fanciulle così sozzamente ragioni.21

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Non sarà sfuggita l’iniquità del confronto: i ritratti degli storici citati evidenziano i mores più o meno corrotti di personaggi realmente esistiti, diversamente da quanto fa il certaldese, raccontando i facta e i dicta memorabilia di un personaggio partorito dalla propria fantasia, sebbene ispirato al pratese Cepparello Dietaiuti. Un paragone, dunque, che tende ad inficiare quella pretesa ‘documentaria’ del Decameron che poggiava sulla veritas, «intesa non più nel senso di valore assoluto, universalmente esemplare e inalterabile, come era stato dell’exemplum, ma come ‘storicizzazione’ dei personaggi e degli eventi narrati»22: un parametro irrinunciabile nella formula boccacciana, come lo stesso autore implicitamente dichiarava nella celeberrima dedica alle donne, augurandosi che esse – attraverso quelle «novelle, o favole o parabole o istorie» – potessero «cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare»23. Inverosimiglianza, affettazione, licenziosità: questi in breve i tre pesanti capi d’accusa che il critico rivolge alla centuria, non discostandosi di molto da quanto detto dagli altri antiboccaccisti, tra i quali il Tassoni. Pur nell’ammirazione per le novelle decameroniane, l’autore dei Pensieri diversi definisce ‘affettato nobile’ lo stile boccacciano, e lo distingue dall’‘affettato plebeo’ del Villani. A rimarcare l’inadeguatezza della prosa decameroniana in ogni altro ambito che non sia quello della finzione il Beni riporta e sottoscrive la dichiarazione tassoniana: come Giovanni Villani fu inventore d’una maniera di scrivere affettato plebeo, così il Boccaccio per lo più [rappresentò] una maniera di scrivere affettato nobile, e […] il suo stile malagevolmente si [può] usar da chi non tratta cose leggieri, e romanzi, e novelle come fa egli, il che apparisce non solamente nella Fiammetta, e nel Filocolo suo ma anche in buona parte del suo Decamerone.24

Al confronto con le pagine della storiografia segue la comparazione tra la novella della donna di Guascogna e del re di Cipro (Decameron, I, 10) e quella della cortigiana padovana Melina e del giovane ferrarese Licio (Hecatommithi, Introduzione, X). Anche in questo accostamento un dato si offre macroscopicamente all’attenzione: la inversa proporzionalità tra la lunghezza del testo e le incongruenze di lingua e stile. Se, infatti, la novella decameroniana, la più breve della raccolta, contiene secondo il Beni ben 30 ‘gravi’ errori, presenti già nella rubrica (cioè in quella microcellula narrativa che dovrebbe obbligatoriamente indirizzare il lettore alla buona comprensione del testo25), la novella di Melina, che è come quasi tutte quelle degli Hecatommi— 356 —

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thi di dimensioni molto più estese, si offre agli occhi del critico «non solamente purgata di stile, et insieme chiara e senza affettazione […] ma ancora dolce, piacevole, affettuosa, honesta, maravigliosa», e soprattutto appare – coerentemente con la scrupolosa attenzione del Giraldi tragediografo alle esigenze del pubblico più moderno – «artificiosa e degna di nobile autore», «per tener’il lettor sospeso con incredibil’aspettatione»26. Anche il requisito della brevitas, dal Boccaccio ripreso dai canoni tradizionali della narratio brevis e «inteso come connotato qualitativo, non più quantitativo»27 sembra, dunque, al Beni non aver sempre sortito nel Decameron effetti degni di lode: alla linearità del racconto che, breve o lungo che fosse, avrebbe dovuto secondo il Boccaccio fare ammenda al «peccato della fortuna»28, e che marcava il territorio novellistico29, il Beni preferisce le lunghe digressioni che dilatano le fabulae degli Hecatommithi, e che definiscono i confini del ‘romanzesco’. La dimensione dell’oralità, anche nei decisivi sviluppi oratori, accomuna le due novelle: nella nona novella della prima giornata Elissa racconta la storia di una donna che viene «oltraggiata» da alcuni «scelerati uomini» di ritorno da un pellegrinaggio in Terra Santa, compiuto durante il regno di Guido di Lusignano (già re di Gerusalemme), primo re di Cipro dal 1192 al 1194. Il desiderio di vendetta della donna trova un ostacolo nella fama del sovrano: le viene detto che «la fatica si perderebbe» dal momento che il re è persona molto indolente. Col proposito di «voler mordere la miseria del detto re» la donna, pertanto, si fa ricevere dal sovrano dichiarandogli umilmente la propria ammirazione per la sua enorme tolleranza e capacità di sopportazione di tutti i peggiori soprusi. Le parole sortiscono l’effetto voluto: Elissa racconta, infatti, che il re «infino allora stato tardo e pigro», «quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ingiuria fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo persecutore divenne di ciascuno che contro all’honore della sua corona alcuna cosa commettesse da indi innanzi»30. Un caso interessante, questo, del rapporto tra cronaca e novella e dell’uso delle fonti storiche: di Guido di Lusignano (di cui questo aneddoto era già stato narrato nel Novellino), le cronache non riportano mutazioni nella condotta, e quel breve intrattenimento si offre come unica possibilità di riscatto per il re. Non interessa, in questa sede, l’esame delle incongruenze stilistiche e linguistiche che il Beni riscontrò nel testo, cui volle significativamente far seguire una riscrittura della novella «in più temperato e facile stile», ma il confronto con la novella di Melina e di Licio negli Hecatommithi: un abbina— 357 —

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mento che diviene corollario di quanto sostenuto dal Beni circa l’eccentricità decameroniana e la sua inadeguatezza a titolo di esempio. Collocata in una posizione non trascurabile all’interno dell’intera opera – fa parte infatti dell’Introduzione in cui si «dimostra che solo, fra gli amori umani, è quiete in quello il quale è fra marito e moglie, e che ne’ disonesti non può essere riposo»31 – la novella costituisce una vera e propria perla finale nel diadema dell’Introduzione dal momento che il matrimonio tra Melina e Licio non si celebra non per ulteriori peripezie ma per la monacazione della donna. Licio, infatti, dopo aver ripetutamente sollecitato dall’amata la ricompensa che lei ha concesso ad altri amanti, accondiscende alla richiesta della giovane donna e l’aiuta ad entrare in un monastero di clausura fornendola di una cospicua dote. La novella, dunque, non soltanto offre un esempio di moralità, come nell’intentio dell’opera, ma costituisce un caso di redenzione e purificazione attraverso i lunghi monologhi dei due dialoganti32: Melina giunge alla salvezza dell’anima ripercorrendo minuziosamente la propria travagliata e peccaminosa esistenza. L’abilità oratoria è dunque impiegata nelle due novelle per ottenere scopi opposti: nel caso decameroniano per spronare alla vendetta, nel caso giraldiano per raggiungere la sospirata pace. I tre difetti esemplificati dal Beni nella descrizione di ser Ciappelletto (inverosimiglianza, affettazione e licenziosità) sembrerebbero, secondo il critico, assenti negli Hecatommithi, ed in specie in questa novella che il Beni sceglie per un motivo ben preciso tra tutte quelle che compongono l’opera. È infatti «la prima che […] s’incontra accompagnata di rime»: in tal modo «mentre il Boccacci va interponendo sue canzonette, possa il Giraldi paragonarsi al Boccaccio in tutto ciò che ad altri fosse in piacere»33. La precisazione offre l’opportunità per approfondire un altro aspetto che il Beni ritiene assolutamente inaccettabile del novelliere trecentesco, e cioè l’alternanza di ballate e canzoni alle novelle. Un ingrediente, quello delle canzoni, presente anche negli Hecatommithi: «paradigma di artificio e di insincerità»34, la ballata è certamente «il più artificiale e oggettivo dei generi medievali», ed è presente nel Decameron solo ad uso decorativo e non diegetico, come dimostra il fatto che «quelle trascritte da Boccaccio siano solo alcune delle ballate effettivamente recitate dalla brigata»35. Una specificità, questa, che le differenzia da quelle contenute negli Hecatommithi: la congruenza tra la storia di Melina e il tema della canzone che chiude l’Introduzione trova conferma nel riporto dei versi da parte del Beni, che l’ha ritenuta inscindibile dal testo del racconto. — 358 —

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Non poche volte il critico ritorna sul poco decoro e sulla trascuratezza espressiva che sarebbero derivate al Decameron proprio da certe ambientazioni: in tal senso il Giraldi che, pur non escludendo atmosfere scabrose e passioni torbide, evita, come è noto, la satira contro monaci e frati, si sarebbe rivelato più attento alle esigenze di un’arte che deve essere anche utile – cristianamente parlando – oltre che dilettevole. Eppure sappiamo bene che anche quelle realtà conventuali corrotte si offrivano come occasione di fedele mimesi dell’esistenza: lo avrebbero tenuto a mente gli Accademici addetti alla compilazione del Vocabolario includendo nelle tavole lessicografiche anche i passi più incriminati del Decameron, in omaggio alla naturalezza espressiva di quella lingua e a dispetto delle prescrizioni inquisitoriali36. Il consenso accordato al ferrarese Giraldi è, tuttavia, accompagnato da una precisazione volta a sottolineare la mediocrità del Decameron: il Beni dichiara che «pur tra i moderni non è il Giraldi il più eccellente scrittore, anzi nel verso li ha molti che l’avanzano di non poco e nella prosa (come non è de’ più moderni) chi l’agguaglia e supera in qualche parte»37. Non è risparmiata qualche annotazione più severa: la novella di Melina potrebbe offendere infatti in qualche misura il lettore più raffinato per il frequente uso del «che» anche nelle pagine iniziali, in genere sottoposte ad un maggiore controllo stilistico, laddove, ricorda Serianni, «nel Decameron è abituale in casi del genere la variatio (che – il quale)»38: una riprova di come la novellistica cinquecentesca, anche in casi di evidente richiamo strutturale, si sia in parte emancipata dai moduli espressivi del novelliere boccacciano39. Disposto a riconoscere i limiti della prosa giraldiana il Beni aggiunge che seppur presente «qualch’altra minutia simile» – come «alcune parolette Boccacciane» e «talhor nella tessitura delle voci un non so che di languido», offensivo per l’orecchio «che […] ama suon più virile»40 – essa più che «portar’alcuna offesa» potrebbe arrecare ulteriore «maraviglioso gusto e diletto». E richiamandosi alla nozione di progresso naturale anche nelle lingue: non esser da maravigliarsi che il Giraldi come quegli che scrisse novelle, in ciò come anco in qualche parola ritenesse alquanto del Boccacciano, sicome più di lui e nel numero e nelle frasi, fece il Casa con qualch’altro Autore, tutto che nel resto sian limati e tersi. Basti assai che i moderni in progresso di tempo si son’andati sempre più discostando dal Boccaccio, finché in questo secolo han fiorito scrittori dolcissimi e scarchi in tutto anzi nemici dell’affettato Certaldesco stile e che se pur’alcun di poi in questo secolo si è dato ad imitar lo stil del Boccaccio, ne è stato di commun grido da’ Segretarij (quello che ad altri non è avvenuto) motteggiato e ripreso.41

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Alla ‘stranezza’ della lingua di Elissa, più adatta a un «sottil Dialettico o Filosofo» che ad una fanciulla, Beni non contrappone il parlato di Lucio che narra la storia di Melina e di Licio: anche qui, come nell’opera intera42, si coglie una certa uniformità fono-morfologica tra personaggi e novellatori, quand’anche si tratti, come nel caso in esame, di figure di estrazione umile: quel «decreto d’ostracismo»43 emanato dal Bembo e dal Bargagli contro le voci più plebee del Decameron ha effetto anche sulle scelte del Giraldi, offrendosi ancora una volta come occasione di riferimento al modello boccacciano44. E ancora, a lasciare il Beni perplesso è il richiamo ritenuto superfluo a Goffredo di Buglione, chiamato in causa solo a fini indicativi nella cronologia di inquadramento della vicenda. Come può il pio e valoroso capitano, che incarna agli occhi del Beni l’ideale dell’eroe cristiano, ritrovarsi pura comparsa tra le righe di una breve novelletta, quando le sue virtù gli hanno fatto meritare le fatiche estenuanti del Tasso e gli hanno procurato l’invidia di quanti ora non accettano che il poema che lo celebra sia lemmatizzato nel Vocabolario45? Severissimo, dunque, il giudizio beniano: la novella della donna di Guascogna varrebbe solo per il motto «acuto e pungente» che la protagonista pronuncia davanti al re di Cipro: «poi così buon portator ne se’»46. E lo stesso, continua il Beni, «avv[errebbe] di molt’altre novelle, nelle quali solamente il motto e non altro vi è di buono», «come in quella il cui motto è Non ti manda a me ma ad Arno sopra il qual motto si tesse una non breve novella», che è poi quella di Cisti fornaio (VI, 2). L’amenità che contraddistingue le novelle decameroniane è per il Beni piuttosto da intendersi un limite. Meglio le atmosfere orride assai frequenti negli Hecatommithi, in cui non è raro che si pianga: una concessione esclusiva al genere ‘novella’ se si tiene presente che le sue teorie poetiche non prevedono lacrime per l’eroe, ma al massimo per i personaggi secondari47. Se, dunque, questa comparazione aveva l’obiettivo di far risaltare la distanza tra il Boccaccio e il Giraldi non si può dire che le argomentazioni del Beni siano state del tutto esaurienti ed estranee al risentimento per la clamorosa esclusione del Tasso dal Vocabolario, episodio da cui hanno origine gli interessi linguistici nel critico secentesco. Troppe sono, infatti, le coincidenze messe in luce dalla critica nel corso degli anni ed evidentemente rimaste estranee al giudizio del Beni. Pure bisognerà riconoscere un sottile criterio nella scelta: a differenza del Tassoni che nell’esprimere la propria preferenza per i moderni contrappone lo stile del Villani a quello del Guicciardini ri— 360 —

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manendo in uno stesso ambito geo-linguistico, il Beni mette a confronto il novelliere principe nella tradizione toscana (collocato dagli Accademici della Crusca in testa all’elenco degli autori citati) con un novelliere più lontano da quella tradizione, ignorato, infatti, tra i «moderni citati in difetto degli antichi». Non è un caso che il Beni escluda altri termini di confronto come i Ragionamenti del Firenzuola, un esempio ugualmente moderno di novella in cui si tenta la sintesi della tradizione naturalistico-boccacciana con le teorie amorose neoplatoniche-bembesche. Ad escludere un confronto del genere, evidentemente, dovette esserci nel Beni la consapevolezza che il Firenzuola, ammirato da puristi e cruscanti per le sue doti di prosatore elegante, capace di armonizzare modi illustri e forme popolaresche, colore arcaico e moderna spigliatezza, non avrebbe potuto affatto incarnare, almeno nelle pagine di un’operetta, l’anti-Boccaccio, come invece ai suoi occhi il Giraldi appariva. NOTE 1 A. TASSONI, Prose politiche e morali, a cura di G. ROSSI, Bari, Laterza, 1930, Libro IX (Cose poetiche, istoriche e varie), Quisito XV (Se trecento anni sono meglio si scrivesse in volgare italiano o nell’età presente), p. 289. 2 Ivi, Quisito XI (Se Omero nell’«Iliade» sia quel sovrano poeta, che i greci si dànno a credere), p. 242. 3 Ibidem. Il frutto della lettura petrarchesca del Tassoni è nelle Considerazioni sopra le rime del Petrarca, scritte tra il 1602 e il 1603 e stampate nel 1609. 4 O. PESCETTI, Risposta all’Anticrusca, Verona, 1613. 5 P. BENI, Il Cavalcanti overo la difesa dell’Anticrusca di Michelangelo Fonte, Padova, Bolzetta, 1614. Tutte le citazioni dal Cavalcanti sono tratte da P. BENI, Il Cavalcanti overo la difesa dell’Anticrusca di Michelangelo Fonte, trascrizione del testo e saggio critico a cura di G. DELL’AQUILA, Bari, Cacucci Editore, 2000. Per le vicende biografiche e l’attività svolta da Paolo Beni il rinvio è innanzitutto alla monografia di P. B. DIFFLEY dal titolo Paolo Beni. A Biographical and Critical Study (Oxford, Clarendon Press, 1988), completa di una ricognizione delle opere manoscritte e a stampa del Beni e di una esauriente rassegna della critica. Dello stesso autore segnalo pure A note on Paolo Beni’s Birthplace, «Studi secenteschi», XXIV, 1983, pp. 51-55. Si consultino anche: G. MAZZACURATI, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Società Grafica Romana, 1966, pp. 494-501; M. L. DOGLIO, ad vocem, in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. BRANCA, I, Torino, UTET, 1973, pp. 273-278. M. DELL’AQUILA, La polemica anticruscante di Paolo Beni, Bari, Adriatica 1970; ID., «Il Cavalcanti» di Paolo Beni, «Italianistica», XXIII, 1994, 2-3, pp. 333-359. 6 Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, presso la Tipografia Giovanni Alberti, 1612.

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GIULIA DELL’AQUILA 7 P. BENI, L’Anticrusca overo il Paragone dell’Italiana lingua, nel qual si mostra chiaramente che l’antica sia inculta e rozza e la moderna regolata e gentile. In casa et a spese dell’Autore, Padova, Giovanni Battista Martini, 1612. Si cita dalla trascrizione della prima parte curata da G. PAPARELLI, Paolo Beni e l’«Anticrusca», Napoli, Liguori, 1964. 8 Le cifre fornite da C. ROAF sono eloquenti: su un totale di circa 690 esempi, 610 sono attinti infatti dalla letteratura greca e latina. Cfr. ID., L’«elocuzione» nella «Retorica» di Bartolomeo Cavalcanti, in La critica stilistica e il barocco letterario. Atti del II Congresso internazionale di studi italiani, a cura dell’Associazione Internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 316-321. 9 Ivi, p. 317. 10 Si veda, ad esempio, a proposito della «condizionale con l’assoluta» (nella Fiammetta «Se chi porta invidia è più misero che colui a chi la porta, io sono di tutti i predetti più misera», libro III, p. 97), o della «sorite, o acervo» («Fiammetta parlando della sua bellezza», libro III, p. 102). 11 Un altro autore spesso presente nelle pagine della Retorica cavalcantiana è Machiavelli con le Istorie fiorentine: trascurata, invece, risulta la poesia di Dante e Petrarca. 12 F. PETRARCA, Seniles, XVII, 3, 1373. 13 Sulla traduzione petrarchesca della novella di Griselda si veda R. BESSI, La Griselda del Petrarca, in La novella italiana. Atti del Convegno studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), II, Roma, Salerno Editrice, 1989, pp. 711-726. 14 Solo per citarne alcuni si pensi a S. Bernardino da Siena, al Pulci, al Boiardo, al Sannazaro, all’Ariosto dei Suppositi, e di qualche episodio dell’Orlando, e al Bembo stesso negli Asolani. 15 Nei suoi Discorsi intorno al comporre dei romanzi, delle commedie e delle tragedie (1544) vi sono espressi alcuni concetti che saranno poi caratteristici della letteratura più tarda come la teoria della mescolanza dei generi e degli stili, sostenuta dal Guarini, la spregiudicatezza nei confronti degli antichi modelli e delle regole (da osservarsi ma sempre a tempo e luogo) poi tipicamente secentesca. Negli Hecatommithi (composti già nel 1541 ma editi nel 1565) è evidente la funzione moralistica ed edificante delle novelle, la scrupolosa osservanza del decoro e soprattutto l’ammirazione del ‘maraviglioso artificio’. Il Giraldi tende ad un linguaggio medio anche se nobile, piano, senza rilievo, privo di qualsiasi coloritura drammatica e di qualsiasi abbandono lirico. 16 La copia del Corbaccio nell’edizione veneziana è stata ritrovata, come è noto, da Giorgio Varanini nella Biblioteca dell’Arcivescovato di Pisa. Cfr. G. VARANINI, Galileo critico e prosatore. Note e ricerche, Verona, Fiorini & Ghidini, 1967. 17 Naturalmente non mancarono le polemiche: a difendere il Boccaccio furono il Bocchi, il Pescetti, il Fioretti (che dichiarava una novella del Decameron superiore a tutto Luciano, Petronio e Apuleio), ed infine il Villani tra altri. Cfr. oltre alla bibliografia citata anche V. BRANCA, in Dizionario critico della letteratura italiana, cit., ad vocem Boccaccio Giovanni, pp. 348-365. 18 P. BENI, L’Anticrusca, cit., pp. 44-45. 19 Il Dittionario toscano di Adriano Politi fu pubblicato nello stesso 1614: dal Vocabolario del 1612 riprendeva la struttura generale, la scelta delle parole lemmatizzate e la disposizio-

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ne interna delle voci ma «espunge[va] le citazioni degli autori, e cioè proprio il patrimonio sul quale gli Accademici basavano la loro autorità» (V. DELLA VALLE, La lessicografia, in Storia della lingua italiana, a cura di L. SERIANNI e P. TRIFONE, I, I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1993, p. 52). Risale invece al 1717 la pubblicazione del Vocabolario cateriniano, compilato da Girolamo Gigli e «concepito come un elenco di voci tratte dagli scritti di Santa Caterina da Siena, polemicamente contrapposto al Vocabolario della Crusca che, pur avendo citato la santa senese nell’elenco degli autori premesso nell’edizione del 1691, non aveva poi registrato voci cateriniane» (ivi, p. 53). 20 È da tenere a mente, tuttavia, che lo stesso Salviati negli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone (II, XII), pur nell’ammirazione per il novelliere trecentesco, riconosceva che «gl’iperbati, e gli stravolgimenti della natural tela del favellare, sieno in quell’opera contra la forma dello scrivere, che s’usava da’ buoni in quel tempo». Lo ricorda F. BRUNI in Caratterizzazione geolinguistica e caratterizzazione stilistica in alcune novelle del «Decameron», in La novella italiana, I, cit., p. 666. Si veda pure A. STUSSI, Scelte linguistiche e connotati regionali nella novella italiana, ivi, pp. 191-214. 21 P. BENI, Il Cavalcanti, cit., p. 62. 22 E. MALATO, La nascita della novella italiana, in La novella italiana, I, cit., p. 24. Si vedano anche M. MIGLIO, La novella come fonte storica. Cronaca e novella dal Compagni al «Pecorone», ivi, pp. 173-190, e A. VÀRVARO, Tra cronaca e novella, ivi, pp. 155-171. 23 G. BOCCACCIO, Decameron, a cura di V. BRANCA, Torino, Einaudi, 1992, Proemio, I, p. 9. 24 Distinzione riportata naturalmente dal Beni nel Cavalcanti, cit., p. 57. 25 Sulle rubriche decameroniane si veda il recente A. MILANESE, Affinità e contraddizioni tra rubriche e novelle del «Decameron», «Studi sul Boccaccio», XXIII, 1995, pp. 89-111. 26 P. BENI, Il Cavalcanti, cit., p. 73. 27 E. MALATO, La nascita della novella italiana, cit., p. 23. 28 G. BOCCACCIO, Decameron, cit., Proemio, p. 8. 29 E. MALATO, La nascita della novella italiana, cit., p. 23. 30 P. BENI, Il Cavalcanti, cit., p. 76. 31 G. B. GIRALDI CINZIO, Gli Ecatommiti ovvero cento novelle, Firenze, Tipografia Borghi e Compagni, 1833, p. 1760. 32 Sull’uso della retorica negli Hecatommithi cfr. G. PATRIZI, Giraldi Cinzio e la complicazione del racconto. Note per una lettura degli Hecatommithi, in La novella italiana, II, cit., pp. 885-899. 33 P. BENI, Il Cavalcanti, cit., p. 62. 34 C. GIUNTA, Versi a un destinatario. Saggio sulla poesia italiana del Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 373. 35 Ivi, p. 375. 36 M. DURANTE, Il «Decameron» dentro la prima Crusca, «Studi sul Boccaccio», XXX, 2002, pp. 169-192. 37 P. BENI, Il Cavalcanti, cit., p. 73. 38 L. SERIANNI, La prosa, in Storia della lingua italiana, cit., p. 495. 39 Ivi, p. 493.

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GIULIA DELL’AQUILA 40Alle espressioni «dicendo bene diceste, nobile gente, nobile sangue, un nobile atto, infedele huomo, pigliare cosa alcuna» il Beni preferisce «ben diceste, nobil gente, fede l’huomo, pigliar’alcuna cosa e simili», P. BENI, Il Cavalcanti, cit., p. 78. 41 Ibidem. 42 E. TESTA, Simulazione di parlato. Fenomeni dell’oralità nelle novelle del Quattro-Cinquecento, Firenze, Accademia della Crusca, 1991, p. 102. 43 Ivi, p. 103. 44 Peraltro nel Decameron anche le caratterizzazioni locali sono assai rare rispetto al numero di novelle, per via di una tendenza alla patinatura uniformante visibile in tutta l’opera. Cfr. F. BRUNI, Boccaccio. L’invenzione della letteratura mezzana, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 370. 45 Il Boccaccio usa per il nome ‘Goffredo’ sempre la forma francesizzata ‘Gottifré’. 46 Sull’uso del motto come «soluzione catarticamente verbale e modernamente antidogmatica di situazioni che dal motto possono anche essere capovolte», cfr. C. SEGRE, La novella e i generi letterari, in La novella italiana, I, cit., pp. 47-57. 47 P. BENI, Comparatione di Torquato Tasso con Homero e Virgilio insieme con la difesa dell’Ariosto paragonato ad Homero, in Padova, Per Battista Martini, 1607, in sette discorsi, poi con l’aggiunta di altri tre discorsi nel 1612.

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MICHELA SACCO MESSINEO ALL’OMBRA DI TALIA. I RAGGUAGLI DI UN «MODERNO MENANTE», TRAIANO BOCCALINI Prima di esprimersi in un genere ben codificato dal linguaggio specialistico1, la forma della riflessione critica su temi ideologico-culturali oltre che specificamente letterari aveva trovato espressione sotto le vesti più varie. Fin dagli inizi della scrittura in volgare, diversi generi quali la lirica, il poema allegorico, non meno che le cosiddette enciclopedie del sapere se ne erano fatto carico2. Gli esempi che se ne possono offrire sono vari e numerosi più delle opere costruite direttamente come trattati di riflessione critica, che pure non mancano fin dai primi secoli3, per approdare poi nel Seicento a quel diffuso gusto dei «ragguagli» in cui la forma del saggio critico si presenta in una veste particolarmente originale. È questo un genere che, nell’operazione intellettuale di Traiano Boccalini4, si propone di interpretare la società del presente e la sua cultura in modo nuovo, secondo forme e scelte orientate verso una lettura appassionatamente critica del proprio tempo. È ciò che avviene del resto, periodicamente, di fronte a periodi difficili di crisi culturale che richiedono forme inedite di interpretazione della realtà. La saggistica tenta e continua a tentare strade non battute, in una volontà di scoperta, di verifica empirica, anche quando sarà ampiamente definita, come nel Novecento5, quale genere codificato. Alcuni degli esempi che si presentano numerosi, soprattutto nel nostro tempo, possono aiutarci a definire per affinità il significato dell’operazione boccaliniana. In questo senso ci soccorre, fra le altre, una manifestazione di critica eretica, discorsiva e satirica come quella che conduce Alberto Arbasino in alcune sue opere in cui l’indagine viene raccontata, procede in forme extravaganti e poco classificabili all’interno di una struttura che si nutre dell’apporto di suggestioni narrative non — 365 —

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meno che di esiti teatrali. Un modo tutto particolare di racconto, dunque, per una disamina del conformismo sociale e culturale, delle scelte ideologiche di quella che è l’Italia di Arbasino, un’Italia «sbagliata», un «paese senza», per usare l’espressione con cui l’autore titola uno dei suoi libri6. Egli procede per analogia o per contrapposizione – e lo fa con «garbo» e con quella «sprezzatura elegante» propria di certi modelli secenteschi – dando vita, nell’operare una sistematica dissacrazione critica della nostra cultura, a una sorta di teatro del mondo. Ne viene fuori una forma di racconto i cui confini sono indefinibili perché, col suo sguardo ironico di polemista, lo scrittore tende a rinviare a un modello altro di società e di cultura rispetto al presente7. Anche l’Italia barocca si può definire una sorta di «paese senza», in cui il ceto intellettuale e politico si rivela inadeguato ai suoi compiti, privo com’è – con la decadenza della civiltà rinascimentale – di un mandato sociale e storico, di una legittimazione pubblica8. Allora, per proporre ciò che è moralmente necessario fare, il critico d’età secentesca si fa storico delle idee e delle forme simboliche e sociali di vita, osservandole da una prospettiva che privilegia l’approccio parodistico, straniato9. E non esita, infatti, a tirarsi fuori dalle mode, dal gusto comune, dalle opinioni più ampiamente condivise in funzione di una verifica, da una prospettiva repubblicano-aristocratica, delle proprie ipotesi ideologiche e morali. In questa ottica il modello politico esemplare gli appare il regime veneziano mentre il bersaglio principale è la Spagna, che ritiene responsabile della condizione in cui versa la società italiana. Nel disegnare la condizione del suo tempo come un’età estremamente difficile e complessa, egli sostiene con forza la necessità delle «buone lettere» perché facciano da guida e indichino una via per superare la crisi ideologica e morale del paese, in una salda fede nel valore conoscitivo della grande letteratura, come strumento demistificatore dell’assolutismo e della ideologia controriformistica. Il capovolgimento continuo dei luoghi comuni e dei valori condivisi ha, allora, una funzione di rottura dell’esistente, in vista di una società diversa. Come in altre situazioni di decadimento, l’intellettuale interviene, dunque, con funzione demistificatrice o di sostegno, rimediando in parte al franare delle regole e dei codici tradizionali. In una impegnata dimensione analitica e critica della civiltà, tenta di guardare a una cultura produttrice e banditrice di valori10, che è ormai invece stancamente allineata col potere, integrata nel mondo. E lo fa in forme provocatorie, ricorrendo a una qualche veste letteraria che utilizzi la forza conoscitiva della immaginazione, come avviene nella struttura — 366 —

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inventiva dei Ragguagli11, in cui risultano mescolati, secondo una significativa novità formale, almeno due dei generi letterari più consolidati. Insieme all’utilizzazione dei modelli della trattatistica, questo tipo di prosa si serve, infatti, dei moduli finzionali propri del racconto, dando voce a figure umane, le più varie, tratte dalla storia antica e moderna, non meno che dalla società del proprio tempo. L’inserimento di diverse dramatis personae12, uomini politici e cortigiani, poeti e storici, consente una struttura internamente dialogica13, di gusto polimorfo, dalla forte energia argomentativa e dalla peculiare comicità strutturale nell’ambientazione di personaggi reali, che si muovono nel regno fantastico di Parnaso. Tra storia e favola si confondono i confini che nella teoria della narrativa fino a Castelvetro risultavano ben delimitati. Lo scrittore è consapevole della modernità inerente alla forma prescelta, della «nuova invenzione» – come la definisce – che gli consente, da «moderno menante», di confrontarsi «sotto metafore e sotto scherzi di favole» con «materie politiche importanti e scelti precetti morali», secondo una procedura formale attenta all’artificio della costruzione, a quello che egli considera l’elemento fondante delle opere letterarie14. Esemplata sulla struttura del processo giudiziario, questa forma a più voci ammicca a un pubblico di fruitori-lettori chiamati a partecipare il più attivamente possibile al gioco interno di contrapposizioni, distinzioni, differenziazioni, proponendosi come opera chiusa e aperta insieme. Mentre prospetta, infatti, come metodicamente praticabile l’approdo a un giudizio critico, si offre però nello stesso tempo ad altre e diverse elaborazioni intellettuali, nel gioco di significati ambigui15 o di figurazioni fantastiche16 – in una ottica dialogica che esalta il momento del confronto come il più atto a uscire da una concezione isolata della pratica intellettuale e a farsi verifica empiricamente continua del mondo –. In questo senso può richiamare la satira menippea, quel genere che Frye considera capace di trattare idee astratte o teorie e di combinare variamente fantasia e moralità, «dar forma al mondo mutevole, ambiguo e complesso dell’esperienza non idealizzata»17. Il saggista è insieme «divulgatore, pamphlettista, aforista, con la vocazione del demolitore di idoli» con cui inaugura un impietoso gioco della torre attraverso gli occhiali della satira che inforca. Da una prospettiva antidogmatica, scettica, ironica ed eretica, in una alternanza e fusione continua di parodia e scherzo, di umorismo e grottesco, di satira e ironia, la figurazione del reale si accompagna alla massima, al gusto di condensare in una affermazione sentenziosa il significato di ciò che si è rap— 367 —

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presentato18. D’altro canto, la scelta della forma narrativa rende questa saggistica una infinita conversazione, una chiacchierata arguta, puntigliosa, divagante e insieme impegnata, che così punta a diventare il mezzo divulgativo di un sapere liberatorio, dal gusto concreto e spregiudicato. Vi è infatti un abbassamento del compito dello scrittore, che si inventa un’altra identità, da narratore a reporter, in un ruolo che vuole apparire neutrale e che costituisce, comunque, una finzione dentro la finzione. Il saggista è, dunque, una figura di spettatore ironico, secondo un modello prevalente nel giornalismo inglese del secolo successivo19, un commentatore che tende a ristabilire la verità liberando i concetti e le definizioni da errori, pregiudizi, mitologie e, insieme, a polemizzare servendosi anche degli autori antichi per descrivere o denunciare il presente. Caricatura, invettiva, battuta, punzecchiatura allusiva, declamazione parodistica20, demistificazione impietosa, comicità scanzonata e irriverente sono le modulazioni prevalenti, con un sostrato insieme concettuale e fantastico, che ha nei modi del vivere e del pensare, nel conformismo sociale e culturale e soprattutto nelle scelte ideologiche del «paese senza», che è l’Italia barocca, il suo oggetto di riferimento. Il riso funziona come una sorta di richiamo al superamento delle disfunzioni; svolge un ruolo dialettico rispetto alla prospettiva seria che vi si cela; è l’equivalente dell’utile-dulci; l’uno non funziona senza l’altro, ma entrambi cooperano alla rappresentazione equilibrata delle cose del mondo, alla necessità di porre in una posizione di primaria centralità l’etica del comportamento. L’opera risulta costruita sul filo di una messa in guardia contro i mali del tempo, individuati con insistenza per un indifferibile intervento sul piano del costume, della politica e della civiltà, attraverso l’ottica di una letteratura capace di farsi svelatrice dei luoghi comuni e delle doppiezze di una società in crisi. La sede fuori della realtà in cui è ambientata non è, allora, quella cornice vuota, come l’aveva definita il De Sanctis, dove inserire «pensieri, stizze, frizzi, allusioni e allegorie, senz’altra unità o centro che il… ghiribizzo» dell’autore21. Considerata espressione di una società priva di ideali civili e politici, portata a privilegiare la forma sul contenuto e a costruire mondi fantastici, si sarebbe impoverita «in sentenze, esortazioni, sermoni, prediche, declamazioni e generalità retoriche, tanto più biliosa quanto meno artistica»22. L’attenzione agli aspetti stilistici e strutturali dell’opera era approdata, dunque, nel critico romantico, a un giudizio negativo sul carattere giocoso dell’opera secentesca quale indizio di rassegnazione, scelta di un’arte disim— 368 —

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pegnata, senza che si tenesse nel giusto conto la portata polemica della elezione di una sede fuori della realtà quale luogo utopico dove ogni cosa potesse ritornare al suo posto, trovare la sua verità. Nella costruzione boccaliniana infatti il Parnaso, retto da Apollo, è una sorta di città-stato, con un impianto architettonico di strade, piazze, uffici, strade, grandi palazzi – che può evocare l’idea urbanistica dello Scamozzi23 – in cui abitano figure di ogni specie, umane e animali, astratte e reali. Poeti antichi e moderni, saggi di ogni tempo, storici, medici, filosofi, politici, ne animano il luogo, dove si celebrano feste, conviti, adunanze e dove si discute di temi politici e morali, con la partecipazione di figure allegoriche personificate, come governi e regni, e con una folla di poeti, scrittori, letterati di ogni tempo. A questi ultimi è affidato il compito delicato e privilegiato di fornire quei segnali culturali che il potere politico non riesce a dare – secondo una prospettiva anticipatrice della meditazione alfieriana sul rapporto intellettuali-potere24 – e insieme di farsi strumento svelatore dei luoghi comuni e delle doppiezze di una società in crisi. Una forma, quella dei Ragguagli, propria di una letteratura morale, dunque, che sottolinea il negativo per poi consentire una ripresa positiva, un nuovo inizio. Una forma scelta, quindi, in funzione del messaggio impegnato che lo scrittore invia ai contemporanei per prendere le distanze da un mondo che egli guarda senza riconoscervisi, proponendo una sede fuori dei confini del reale, il regno di Apollo, un luogo da cui può ribaltare ciò che non va, dove può configurare, sia pure in modo trasposto, un modello esemplare di società così come dovrebbe funzionare. Allora si attaglia perfettamente ai contenuti questa ambientazione cui approda il nostro menante come sede della ritrovata civiltà di un popolo, in una operazione di forte tensione polemica che, travestita di forme giocose e argute, rende più incisivo l’effetto critico, nell’abbondanza di metafore allusive e di prospettive parodisticamente angolate. Ad esempio, lo sguardo insoddisfatto contro i prodotti letterari del suo tempo porta Boccalini a immaginare la punizione, in Parnaso, di un maturo letterato che ha osato apprezzare la attuale poesia italiana, dimostrando una capacità di giudizio intollerabile in età matura: «nei giovani per l’età loro quelle cose si tolleravano, che severamente erano punite ne’ vecchi»25. E la scarsa considerazione peraltro nei confronti delle manifestazioni letterarie, la trascuratezza in cui viene tenuto l’alloro poetico26 vengono stigmatizzate attraverso l’uso della metafora: «Gli agricoltori della poesia nella primavera dell’età loro hanno veduto i cam— 369 —

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pi far bellissima mostra […] ma gli infelici videro le fatiche loro risolversi tutte in fronde e in fiori di maniera tale che […] si trovano […] senza aver da mangiare. Ond’è che simil sorte d’agricoltura, come mercatanzia più bella che utile, si va tralasciando»27. Con il loro linguaggio traslato questi Ragguagli manifestano gli umori e la sensibilità di un’epoca, si fanno specchio deformato dei vizi del secolo. Puntano i loro strali satirici su particolari forme di comportamento, come l’ipocrisia, la presunzione, la bacchettoneria, la malevolenza, la lascivia. Uno dei bersagli preferiti è la cattiva poesia come nelle satire di Rosa, Abati, Menzini, che si rifanno ai modelli del Caporali e del Boccalini28. All’interno di questo tema, le accuse di plagio e di «viltà di stile» si mescolano a quelle d’immoralità, «d’avarizia […] ingratitudine»29, d’ignoranza, d’albagia, di adulazione e d’altro30. Ma l’invettiva, alleggerita dallo sguardo ironico31 dello scrittore, consente una rinnovata riflessione sui numerosi personaggi accolti in Parnaso che, calati in un mondo immaginario, trovano proprio nella loro dimensione di irrealtà le modalità di un impatto demistificatore. L’enunciazione critica trasposta e indiretta, anche attraverso il ruolo di «moderno menante» dello scrittore, si evidenzia, talvolta, in un parlare antifrastico, nella contraddizione fra ciò che si dice e ciò che si vuole intendere, tal’altra nell’ambiguità della rappresentazione, come nel significativo esempio in cui Giusto Lipsio, criticando Tacito, dice delle sue opere: «più che si leggono, meno si intendono»; ma subito dopo parrebbe attribuire tale giudizio solo ai propri limiti di «semplice grammatico». Infatti si scusa del suo errore con lo storico latino in persona, confessandogli: «i tuoi Annali e le tue Istorie non sono lezione da semplice grammatico come sono io»32. È un ragguaglio, questo, da cui non ricaviamo – se non collegandoci ad altri momenti dell’opera – il punto di vista dell’autore, che è lasciato alla comprensione dei lettori, al loro coinvolgimento33 nel decrittare le maschere della finzione letteraria. Siamo così di fronte a una operazione satirica velata da quella sorta di «allegoria ironica» che la retorica considera un espediente tra i più felici «per sostenere in modo velato posizioni critiche»34. Questo fine gioco intellettuale respinge l’asetticità del trattato e prevede invece al suo interno una specie di dialogo implicito col pubblico, una interdiscorsività, una continua strizzatina d’occhio perché il lettore colga le intenzioni dell’autore. A proposito del celebre episodio relativo al Machiavelli, presentato come colui che era stato sorpreso «in una mandra di pecore, alle quali s’ingegnava di accomodare in bocca i denti posticci di cane»35, Hendrix — 370 —

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si sofferma a lungo sulla struttura della trama narrativa del racconto, esemplare nel riprodurre la costruzione di altri ragguagli, laddove «una situazione viene interrotta da un evento curioso, che provoca lo sconvolgimento della situazione iniziale»36, con un procedimento dunque, da coup de théâtre. Infatti, mentre l’autore del Principe, che si è appassionatamente difeso dalle accuse di immoralità per le sue idee politiche, sta per essere assolto, viene scoperto mentre tenta di rendere feroce un gregge di pecore e, di conseguenza, condannato: «evento imprevisto, alquanto insolito e perciò tendenzialmente comico»37, completato, peraltro, da un finale inaspettato. Boccalini ottiene, in questo modo, di potere affrontare, con la concisione della brevità, temi contemporanei diversi e vari, contenuti intellettuali impegnativi e di proporli nei termini ambigui e imprecisi propri dell’opera creativa, in cui il mondo fantastico adombra, in un continuo rimando, quello reale. In questa operazione, si serve di figure storiche e di personaggi mitologici ma immette anche la presenza di esemplari del mondo animale, secondo l’accreditata tradizione del racconto classico. Significativo, ad esempio, il ragguaglio LXXXVIII, che precede quello nel quale è protagonista Machiavelli e con cui è strettamente collegato in quanto le pecore, protagoniste del racconto, chiedono di essere dotate di denti affilati e corna aguzze per difendersi38. Vera e propria favola classica, che evoca modelli fedriani ed esopiani nell’accostamento fra mondo degli uomini e degli animali. Boccalini punta, dunque, sulla tradizione quando questa serve a veicolare la sua visione delle cose, coerentemente peraltro con la tendenza a privilegiare il ruolo delle grandi opere classiche rispetto alla politica, cioè appellandosi alle buone lettere39. E direi che appunto questo raccogliere «movenze e tradizioni formali diverse» indica l’esigenza di un rinnovamento, la necessità di proporre, di volta in volta, forme che possano essere le più incisive per il fine che egli si propone. Allora, ricorrere per un verso alla favola classica, per un altro alla poesia comica e satirica, al gusto bernesco, valersi «di forme proverbiali e di riboboli, di forme e di locuzioni epigrammatiche, di metafore e di paragoni, di formule concentrate e insieme ripetute e incalzanti», il «bisogno di accumulo, di ripetizione, la evidenziazione di una parola e di una frase, e l’uso delle allegorie, delle metafore figurate e recitanti nell’opera»40, sono esigenze ascrivibili a una operazione di impronta letteraria, a una forma di pensiero in grado di rispondere alla varietà e complessità delle questioni. Dunque, la «grande mascherata del Parnaso»41 non fa che rappresentare questo mondo delle apparenze dietro cui cercare la realtà, risolvere come in — 371 —

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un tribunale i problemi posti, accostando e commisurando personaggi diversi per svelare la mediocrità di alcuni, il loro falso valore e i fallaci giudizi critici, in una complicità col pubblico che si vuole più attivo nella vita sociale e che quindi si tende a scuotere per fargli guardare la realtà con occhi più acuti. Utilizzando simboli figurati, peculiari del gusto barocco, Boccalini si serve di una costruzione confacente all’impresa secentesca nell’accostare a immagini concrete sentenze e massime, che costituiscono nel loro insieme la struttura propria dell’emblema, tutto l’armamentario retorico proprio del tempo, dal «fondaco dei politici» agli oggetti che vi sono venduti, come occhiali, compassi, occhi altrui, ferri di cavadenti, dando vita a uno sfarzo linguistico appropriato alla varietà delle situazioni rappresentate42. La sua opera diviene, in tal modo, un teatro del mondo, con attori di tutte le epoche, in cui la rinunzia alla coerenza temporale sollecita anzitutto uno sguardo penetrante, capace di orientare nella quantità di materiali non nuovi ma sapientemente rivisitati. In questa dislocazione culta e sofisticata si risolve lo sperimentalismo formale e linguistico di questo insolito pastiche, in un’età in cui è la meraviglia il fine della poesia. Questa poetica propria del suo tempo porta lo scrittore ad introdurre nel brogliaccio che sono i suoi Ragguagli trovate e invenzioni continuamente rinnovantesi, che riescono a rendere inedito il punto di vista sulle cose rappresentate, in funzione di un esito salutare e istruttivo. Allora, nel genere utilizzato si realizza il tentativo più caratteristico, quello di una struttura che, sotto l’avallo finzionale, si fa operazione critica della società e della cultura. Infatti, all’interno di esso il campo non è immediatamente delimitato a specifiche questioni letterarie, ma anzi si dà spazio preponderante a un dibattito intellettuale sul costume, la morale e il potere. La forma del saggio sembra così tornare alle origini, riprendere tutta la sua energia retorica, giudiziaria, teatrale. Mentre, nel piacere della finzione, i giudizi sulla scrittura e sugli scrittori assumono la levità del racconto proprio del moderno reporter, adombrano al contempo un lontano modello di riferimento non dichiarato, costituito da Aristofane e mediato peraltro attraverso le forme lucianee43. Con le Rane il commediografo greco, nel porre a confronto Eschilo e Euripide nello scenario dell’oltretomba pagano, si era posto come autore di quel «gesto fondatore» con il quale veniva messa in scena, per la prima volta, la critica letteraria, era posta in azione l’abilità della scrittura44 come la più idonea a interpretare il mondo attraverso la creazione artistica45. — 372 —

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In questa direzione muove Boccalini, che si appella alla letteratura perché faccia da guida e indichi una via degna di essere seguita. E lo fa da letterato, utilizzando nella sua opera la categoria dell’immaginazione quando ambienta nel luogo proprio dell’invenzione letteraria, la sede dei poeti, i suoi Ragguagli, un genere di cui rivendica la paternità: Delle cose politiche e morali seriamente hanno scritto molti begl’ingegni italiani, e bene; con gli scherzi e con le piacevolezze, niuno ch’io sappia. Questa piazza come vota, questa materia come nuova mi son forzato di occupare e di trattar, con quella felicità che dirà il mondo.46

Affiancando, infatti, la solidità della informazione al gusto dell’aneddotica, con quel particolare tono di intervento satirico che poi sarà proprio della «frusta» barettiana, sottolinea attraverso l’ambientazione nel regno più alto dell’arte la centralità del ruolo della cultura e delle opere da essa espresse. E, insieme, manifesta la necessità di una forma indiretta di intervento grazie all’avallo della finzione letteraria, per cui la storia è interpretata sul filo degli espedienti narrativi. Aldilà del preminente interesse per temi che affondano nella realtà politica e sociale contemporanea, è la felice struttura dei ragguagli, la sua forma particolare, nella mistione di utile e dolce, di aneddoto e riflessione seria, di trattato e racconto, a creare in Boccalini, che si fa cronista per il pubblico contemporaneo, il successo dell’opera47. Questi elementi, dominati da una curiositas tipicamente barocca per tutto ciò che colpisce l’immaginazione, agiscono di volta in volta sotto la sorveglianza di una riflessione, che non si lascia dominare da impressioni improvvise ma risponde a un progetto preciso: trattar materie alte e servirsi di concetti bassi; parlar di uno e intender di un altro; scoprirsi e non volere essere veduto; dir de’sali e non inciampar nelle insipidezze; punger con la satira e non morder con la maldicenza; scherzare e dir daddovero; trattar cose politiche e non offender chi domina; nelle persone degli uomini inerti riprender i vizi de’ vivi; con modesto artificio ne’ tempi passati censurare le corruttele del secolo presente e in un medesimo soggetto far quella gran forza di Ercole, quell’ultima gagliardia dell’ingegno umano, che altrui acquista la vera corona della lode, di mischiar l’utile col dolce.48

In questo progetto intervengono diversi modelli retorici, in una contaminazione delle forme della commedia, del discorso allegorico, dell’apologo, della satira, dell’epigramma; e, assieme ad esse, sono contenuti i modi con — 373 —

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cui attuare questa prosa, varia nelle forme e impegnata nella sua essenza profonda. Dietro a ogni argomento c’è sempre, infatti, una forte tensione etica, che accomuna i diversi temi dell’opera insieme a un esplicito voler mettere al corrente, informare in modo puntuale e preciso, in cui si cela tutta la personale passione dell’autore, l’elemento di soggettività presente nell’opera. Per ottenere i risultati che si propone nella sua veste di fustigatore dei costumi, Boccalini dichiara di volere utilizzare il passato, le figure dei grandi, per criticare i vivi. Infatti, quando, nel ragguaglio LXXVI, molti letterati protestano contro il potere che gli antichi scrittori, a loro dire, viziosi e immorali, esercitano sui moderni, vengono respinti nelle pretese di indipendenza che avanzano, quali «grammaticucci morti di fame […] ipodidàscali disfatti», come essi stessi ammettono di essere rispetto ai maggiori, che soli hanno il diritto di «riformare» senza essere «riformati»49. I classici mettono dunque in discussione il presente, misurano quello che si è e ci impongono di prendere coscienza di ciò che si è diventati. L’angolo di osservazione non è tracciato, in questi casi, partendo dalla cultura del tempo dell’autore, ma è spesso la grande letteratura del passato il modello di riferimento che impone di prendere coscienza del presente. C’è dunque una prospettiva di gusto classico nei giudizi propriamente letterari, nutriti di una concezione severa ed elevata della professione intellettuale che, insoddisfatta degli scenari quali si offrono, sembra ripetere, nei toni insistenti sul difficile rapporto fra intellettuali e potere, il profilo dell’«uomo di Lettere» del Bartoli50 mentre contribuisce a tessere una composizione finemente articolata, in cui l’argomentazione è segnata da pause aneddotiche. Queste, nella forma di veri e propri racconti e scenette, servono a esemplificare un’immagine della società migliore di quella reale, in un esercizio di intelligenza che offre rappresentazioni concrete del mondo per poi approdare a un giudizio che si chiude nella sentenza quale espressione suggellata, forma concisa e insieme concettosa del significato di ciò che è stato appena raccontato. Così, il piacere del racconto assume una valenza pedagogica, una indicazione comportamentale. La struttura retorica ricorrente è fatta, dunque, di immagini e di riflessione in cui l’una è convertibile nelle altre e viceversa; e, attraverso questo procedimento, si contribuisce a distribuire il materiale dotandolo di senso. Il primo permette di mettere in scena efficacemente il suo significato, il secondo di trasformarlo in procedimento intellettualistico, in conoscenza non em— 374 —

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pirica ma esemplare. L’immagine sensibile rinvia all’immagine morale. Imagerie e parola concorrono alla rappresentazione di un mondo altro che, segnalando i veleni del presente, rinvii a una diversa società civile. Figura delle aspirazioni di questo intellettuale barocco, che vuol ridare senso e significato al suo tempo, quest’opera si costruisce per emblemi tanto che, nell’insieme, tutta la sua struttura potrebbe rappresentarsi nelle forme di una impresa secentesca, come trasposizione in sequenze diluite di una ricorrente allegoria: la raffigurazione del Parnaso sarebbe caratterizzata dalla presenza centrale di Talia quale fustigatrice dei vizi del secolo e attraversata da un motto che dichiari come le buone lettere trasformino in Arghi gli intelletti ciechi. Il montaggio per tranches separate, per quadri apparentemente autonomi gli uni dagli altri, di fatto dà vita, allora, a un’opera compatta nei suoi intenti e nella sua costruzione, a un brogliaccio fitto di riferimenti interni che, nella frammentazione, tendono a costruire alcuni precisi percorsi e a offrire nel loro insieme un ben meditato intento, combattere con l’ausilio della letteratura l’ignoranza, la stupidità, l’ipocrisia. Inforcare occhiali acuti, capaci di orientare nella varietà di materiali non nuovi ma abilmente ridisposti, significa di fatto riuscire a distinguere il positivo dal negativo, i valori dai disvalori. Nel trasgredire il senso comune, nel contrastarne le opinioni più diffuse e ormai logore in nome di una diversa prospettiva, di una ridefinizione del ruolo intellettuale sotto nuova luce, questo genere si colloca in bilico fra specialismo e dilettantismo, costituendo un’originale proposta per un diverso orizzonte etico ed estetico. Non mero pamphlet, dunque, ma testo fondante della nostra critica letteraria, che merita di trovare in una storia delle forme saggistiche il suo posto. In quello, appunto, satirico, come espressione però non tanto, e comunque non solo, di «ingegno ardito, spirito vivo, talento maledico» manifestato attraverso «sali acuti, facezie graziose e motti pronti», ma soprattutto come scelta di scrittura determinata e condizionata dall’età nella quale si nasce: «perché nei secoli grandemente corrotti sopramodo feconde sono le vene de’ poeti maldicenti»51. Il «paese senza» davanti a cui si trova Boccalini, l’età «moderna, tanto peggiorata, infurbita, intristita», suggeriscono allo scrittore una analisi dall’interno di una rete di artifici retorici ispirati alla musa Talia, in cui il dispositivo retorico, dalla fitta tessitura parodistica, non risulti fine a se stesso ma diventi stimolo alla riflessione e all’approfondimento. È questa una modalità di approccio rivolta a interpretare il mondo, non solo in funzione di una persuasione morale, ma di una sperimentazione laica della verità, di una ana— 375 —

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lisi disincantata del reale, che troverà rinnovata fortuna nella scrittura di altri «menanti» calati nella più recente modernità. NOTE 1 A. ASOR ROSA, Metodo e non metodo (nella critica letteraria), in Letteratura italiana, diretta dallo stesso, IV, L’interpretazione, Torino, Einaudi, 1983, p. 6. Cfr., inoltre, il mio La forma del saggio critico. Modalità e parabola nel Novecento, in Studi d’Italianistica per Paolo Mario Sipala, Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2002, pp. 476 e sgg. 2 Cfr. G. GETTO, La preistoria della storia letteraria, in ID., Storia delle storie letterarie, nuova ed. riveduta, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 1-30. 3 Ivi, pp. 4-23. 4 Sull’amplissima fortuna critica di questo autore rimando all’ampio e intelligente lavoro di H. HENDRIX, Traiano Boccalini fra erudizione e polemica. Ricerche sulla fortuna e bibliografia critica, Firenze, Olschki, 1995. Cfr., per un profilo dell’autore, C. JANNACO, Traiano Boccalini, in I minori, II, Milano, Marzorati, 1961, pp. 1471-1487 e F. CROCE, I critici moderati barocchi, «La Rassegna della Letteratura italiana», LIX, 1955. 5 Cfr. A. BERARDINELLI, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Venezia, Marsilio, 2002. 6 A. ARBASINO, Un paese senza, Milano, Garzanti, 19902. Cfr. V. GORRESIO, L’Italia sbagliata degli anni 70, «La Stampa», 8 marzo 1980. 7 Cfr., ad esempio, A. ARBASINO, Un paese senza, cit., pp. 35, 120, 262 e sgg. 8 Cfr. M. ROSA, La Chiesa e gli stati regionali nell’età dell’assolutismo, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, I, Il letterato e le istituzioni, Torino, Einaudi, 1982, pp. 317 e sgg. e pp. 324 e sgg. 9 Cfr. L. FIRPO, Allegoria e satira in Parnaso, «Belfagor», 1946, 1, pp. 673-699. 10 N. ROCCHI, I sogni di un Parnaso onesto. Vitalità dei Ragguagli di Traiano Boccalini, Milano, Gastaldi, 1954. 11 T. BOCCALINI, De’ Ragguagli di Parnaso (1612-1613), in ID., Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I e II a cura di G. RUA, III a cura di L. FIRPO, Bari, Laterza, 1910-1948. 12 Cfr., per i tanti personaggi storici, maggiori e minori, che popolano l’opera del Boccalini, i Ragguagli: V, pp. 21 e sgg., XXVIII, pp. 86 e sgg., XXXV, pp. 112 e sgg. (ivi, I). 13 Cfr., su questo tema, M. BACHTIN, La parola nel romanzo, in ID., Estetica e romanzo, trad. it. Torino, Einaudi, 1979, pp. 67-230. 14 Cfr. Ragguaglio XXXV, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., pp. 123-124. 15 Cfr. Ragguaglio XIV, ivi, pp. 50-51. Cfr. Ambiguità del comico, Palermo, Sellerio, 1983. 16 Cfr. Ragguaglio IX, ivi, p. 35. 17 N. FRYE, Anatomia della critica, trad. it. Torino, Einaudi, 1969, p. 311. 18 Cfr., su questo tema, M. T. BIASON, La massima o il «saper dire», Palermo, Sellerio, 1990.

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ALL’OMBRA DI TALIA 19 Cfr. R. M. COLOMBO, Lo «Spectator» e i giornali veneziani del Settecento, Bari, Adriatica, 1966. 20 Sulla parodia cfr. M. A. ROSE, Parody: ancient, modern, and post-modern, Cambridge, University Press, 1990. 21 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, a cura di N. GALLO, II, Torino, Einaudi, 1971, p. 712. 22 Ibidem. 23 Cfr. V. SCAMOZZI, Idea dell’architettura universale, Venezia 1615, p. 164. 24 Cfr. V. ALFIERI, Del principe e delle lettere, in ID., Opere. Scritti politici e morali, a cura di P. CAZZANI, I, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, pp. 113-254. 25 Ragguaglio VII, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., p. 33. 26 Ragguaglio LXXXII, ivi, pp. 299-301. 27 Ragguaglio IX, ivi, p. 35. 28 Dal Boccalini si diffonderà la moda del genere dei Ragguagli, che diventeranno talvolta anche Sogni o Viaggi o Guerre o Liti. Fra i tanti che se ne potrebbero citare, ci limitiamo a soli due esempi, uno in area veneziana, I sogni di Parnaso di Girolamo Brusoni, s.l. e s.d. (cfr. in proposito, M. DI GIOVANNA, Giano Bifronte nello specchio del presente, Palermo, Palumbo, 2003, pp. 18-21 e p. 109. Per i Ragguagli dello stesso autore, cfr. M. DI GIOVANNA, La trilogia mondana di Girolamo Brusoni, Palermo, Palumbo, 1996, pp. 176-178 ) e uno in area siciliana, cfr. S. ERRICO, Le rivolte di Parnaso (1626), ora in G. SANTANGELO, Scipione Errico. Critico e poeta del Seicento, Palermo, Manfredi, 1970, pp. 104-210; ID., Le liti di Pindo, Messina, Bianco, 1634; ID., Le guerre di Parnaso, Venezia, 1643. Cfr. il mio Poesia e cultura nell’età barocca, in Storia della Sicilia, IV, Napoli, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, 1980, pp. 429-467. 29 Ragguaglio XXVII, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., pp. 8385. 30 Cfr. C. VARESE, Traiano Boccalini, Padova, Liviana, 1958. 31 Cfr. W. BOOTH, A rhetoric of irony, Chicago, University of Chicago Press, 1974 e M. MIZZAU, L’ironia, Milano, Feltrinelli, 1984. 32 Cfr. Ragguaglio XIV, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., pp. 50-51. 33 Cfr. H. HENDRIX, Traiano Boccalini fra erudizione e polemica, cit., p. 238. 34 Cfr. La voce «ironia» in H. LAUSBERG, Elementi di retorica, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1975, p. 128. 35 Cfr. Ragguaglio LXXXIX, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., pp. 326-328. 36 H. HENDRIX, Traiano Boccalini fra erudizione e polemica, cit., p. 240. 37 C. VARESE, Traiano Boccalini, cit., p. 119. 38 Cfr. Ragguaglio LXXXVIII, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., pp. 323-325. Su questo tema, cfr. C. VARESE, Traiano Boccalini, cit., pp. 100 e sgg. 39 C. VARESE, Traiano Boccalini, cit., p. 119. 40 ID., Linguaggio e struttura, ivi, p. 42. Sulla retorica nel Seicento, cfr. A. BATTISTINI, Retoriche del barocco, in I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del Barocco. Atti del Convegno

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internazionale di studi (Lecce, 23-26 ottobre 2000), Roma, Salerno Editrice, 2002, pp. 71110. 41 C. VARESE, Traiano Boccalini, cit., p. 33. 42 Cfr. Ragguaglio I, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., pp. 9-14. 43 Sul modello di Luciano nelle letterature moderne, cfr. J. BOMPAIRE, Lucien écrivain. Imitation et creation, Paris, De Boccard, 1958. 44 «…la poesia sarà pesata sulla bilancia», cfr. ARISTOFANE, Rane, trad. di R. Cantarella, Siracusa, Inda Sicilia, 2002, p. 59. 45 Ivi, pp. 61-104. 46 T. BOCCALINI, Dedica al Cardinal Cattaneo in ID., Ragguagli di Parnaso e scritti minori, II, cit., p. 4. 47 H. HENDRIX, Traiano Boccalini fra erudizione e polemica, cit., pp. 56 e sgg. 48 T. BOCCALINI, Dedica al Cardinal Cattaneo, cit., p. 4. 49 Ragguaglio LXXVI, ivi, I, p. 256. 50 Fin dalle prime pagine, il Bartoli denunzia come «le Corti divengano templi, in cui si adorino le teste delle scimmie, onorandosi i buffoni, mentre se ne cacciano i letterati», cfr. D. BARTOLI, L’uomo di lettere difeso ed emendato, Milano, Edizioni Paoline, 1960, p. 24. 51 Ragguaglio LX, in T. BOCCALINI, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, I, cit., p. 214.

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VALERIA GIANNANTONIO IL GENERE MISTO DELL’AMOROSA CLARICE DI FERDINANDO DONNO: L’ENUNCIAZIONE MIMETICA E I MODELLI 1. L’ATIPICITÀ DEL ROMANZO COME RIQUALIFICAZIONE DEL GENERE L’atipicità e la presunta inattualità nei confronti del romanzo barocco dell’Amorosa Clarice, l’opera di Ferdinando Donno seconda nel genere narrativo dopo l’Eromena del Biondi del 1624, sono state da sempre collegate, almeno negli scarsi interventi critici sull’opera in questione, alla definizione dei confini e dell’«area» romanzesca nel secolo XVII, significativamente compromessi con la trattatistica moraleggiante, l’agiografia, la biografia, la storia, l’epopea. L’equivoca configurazione dell’Amorosa Clarice come romanzo moralistico o religioso, amoroso o autobiografico, psicologico ha reso nonostante tutto più che convinto Gino Rizzo che il testo narrativo del Donno non sia «ascrivibile in particolare a nessuno dei gruppi indicati»1, giungendo a risolvere pertanto in modo perentorio l’annosa questione dei rapporti del romanzo con i generi limitrofi dell’epopea cavalleresca, della letteratura greca e romanza, della commedia, con una relazione di negatività, più che di positività nei riguardi dei modelli. Né tanto meno, accogliendo la definizione anglosassone del genere romance, come quello che «con linguaggio nobile ed elevato descrive ciò che non accade, ciò che probabilmente non accadrà mai […] forma poetica ed epica, e dovremmo chiamarla “mitica”»2, si potrebbe ricondurre la prova narrativa del Donno, per il carattere e il tono realistici dell’intimismo autobiografico, ad un esempio di novel, scandendo così l’itinerario verso il romanzo moderno, che muove appunto dal romance alla novel. In realtà la specificità dell’Amorosa Clarice come unicum nella nostra tradizione narrativa si lega strettamente alle relazioni con gli altri generi, ma non tanto in un semplice e documentato rapporto di prestiti e derivazioni da — 379 —

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archetipi preesistenti, quanto piuttosto in margine all’indicazione di una più profonda preoccupazione normativa, entro l’esclusivo rigorismo dei due principi di imitazione e invenzione, descrizione e rappresentazione, verosimile e finzione, al centro della poetica di età manieristica e barocca di area soprattutto napoletana. Più che per l’applicazione diretta di norme e più che per l’eredità di particolari congegni narrativi, il romanzo del Donno si impone nei confronti della tradizione per uno scambio dialettico di forme e moduli stilistici improntati a principi di regolarità classica e attualizzati nel contesto dell’esemplarità barocca. Sostituita all’effetto mimetico della pittura e della scultura, la parola diventa nel Donno lo statuto gnoseologico di fissazione del reale, nella visività naturalistica, più che letteraria, della trasposizione metaforica, in un’azione contemporaneizzata tramite il codice gestuale, scenico, vestimentario, oltre che verbale. La contaminazione dei generi diventa, pertanto, nel romanzo del manduriano, da elemento strutturale, dato di riqualificazione della ricodificazione dell’opera narrativa, pertinente non solo alla natura sincretica di un genere nato dall’incontro tra epica cavalleresca e romanzo greco, commedia e letteratura romanza, ma anche e soprattutto al convenzionalismo complesso di regole minuziose e ben precise. In tale contesto i rinvii alla tradizione letteraria contano, ancor più e ancor prima che come modificazioni e implicazioni genetiche del romanzo, come forma di verifica della plausibilità di un metodo di lettura contaminato con altri generi, in un processo di teatralizzazione del romanzo o, all’inverso, di romanzizzazione del dramma. La distinzione proposta da Claudio Varese tra romanzi che mascherano la realtà e quelli che la smascherano, tra il convenzionalismo astratto dell’idillio e il realismo della rappresentazione3 vale, nell’Amorosa Clarice, come proposta dell’integrazione del genere teatro e della prosa narrativa, non solo in relazione alla trama specifica, ma anche al convenzionalismo di topoi, e in cui il realismo non attecchisce solo alla contemporaneizzazione autobiografica della vicenda, ma alla configurazione tutta naturalistica dell’intreccio, all’attualizzazione della storia ridotta in mimesi di azione. Ogni dato del passato, eventualmente alluso o retrospettivamente ricostruito, viene ricondotto nel romanzo al presente dell’enunciazione autobiografica e della modalità teatrale del monologo, in una spettacolarizzazione e non narrativizzazione degli eventi, che la dice lunga, più che sul realismo esteriore del contenuto, sulla naturalezza del modo di esposizione in una messinscena dell’intrigo in forme mimetiche e dialogiche. Affidata alla finalità performativa, più che comunicativa del testo, l’indagine psicologica — 380 —

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aderisce, nell’Amorosa Clarice, ai modi dell’enunciazione mimetica, più che diegetica, in cui le digressioni letterarie e le lungaggini sentimentali acquistano le movenze di veri e propri inserti narrativi, piegati a esigenze spettacolari. Incastonati nel corpo della fabula come vere e proprie parentesi introspettive, i monologhi si configurano come pause rappresentative, più che riflessive, aperte alla contaminazione con la poesia del paesaggio e alle soluzioni empiriche delle referenzialità autobiografiche, dilatando gli spazi del testo destinati alla storia che, secondo uno dei modi caratteristici dell’esposizione teatrale, procedono per accelerazione delle sequenze narrative e per rapidi colpi di scena. In tale contesto il contenuto, più di pensieri e di apporti descrittivi, che di fatti realmente accaduti, non ci sembra tanto che prevalga, come vuole Rocco Paternostro4 sull’intreccio, definendo l’atipicità strutturale del romanzo, ma segue piuttosto i modi dell’enunciazione mimetica propria dell’intrigo. La contemporaneizzazione mimetica di inserti narrativi equivalenti al presente segna infatti, e nei suoi aspetti più vistosi, il divario di questo romanzo dalle prove narrative più o meno contemporanee nell’anticonvenzionalismo della tipizzazione astratta mediato dal formalismo di un classicismo antidogmatico e naturalista, proprio della poetica napoletana tra manierismo e barocco. L’innesto della tradizione romanzesca e di quella teatrale avviene nel romanzo in questione in margine alla estenuazione patetica e alla rielaborazione degli schemi fissi della topica erudita, secondo una familiarizzazione non parodistica, ma realistica della categoria dell’intrigo e del mitologico, in un mondo di affetti ordinari e non eccezionali. E se il codice verbale, veicolante in particolar modo il messaggio dell’autore, vi risultava preminente, la sua integrazione con gli altri codici, gestuale, vestimentario, spaziale, fonico, temporale, implicava complicazioni di livelli, in cui un ruolo centrale acquistavano le reminiscenze e l’impreziosimento di tutta una tradizione teatrale. Meno attratto, come il Boccaccio della Fiammetta, dalla passione ribelle a fatale, e più ispirato dalle caute analisi sentimentali, il Donno piegò i modelli a una teatralizzazione lirico-evocativa, più che estetico-edonistica, consona al patetismo sentimentale di un’arte rappresentativa, più che descrittiva. Ed è proprio nel quadro dell’adeguamento spettacolare della vicenda che meglio può comprendersi non solo il divario strutturale rispetto al contemporaneo romanzo d’intrigo e di avventura, ma anche il cammino inverso dalla storia al travestimento teatrale, dall’erudizione alla libertà stilistica di un testo non nato per il romanzo e poi riadattato in opera comica, ma nato per il teatro e — 381 —

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quindi trasposto in prosa. E se «la drammatizzazione del romanzo è l’anello più importante nel processo di approfondimento della sua specificità come genere»5, essa si rivela funzionale non a una degenerazione o a un allontanamento dalla tradizione, ma alla radicale trasformazione del romanzo galante e post-cavalleresco. 2. IL BINOMIO «UT PICTURA POESIS» La codificazione in norma di atteggiamenti e tendenze marginali rispetto alla letteratura indica la specificità del romanzo del Donno, che reinterpreta la tradizione nell’innesto su coordinate di una regolarità del tutto in linea con le istanze teatrali della cultura figurativa contemporanea. I modelli filtrano, nell’Amorosa Clarice, nel prelievo dei temi e in una intonazione spesso coerente con l’ambientazione bucolica dei paesaggi e con l’aulicità delle situazioni sentimentali della narrativa boccacciana, ma più specificamente arcadico-pastorale di area napoletana, che i richiami all’epos classico e umanistico-rinascimentale innervano su un tessuto di medietà espressiva compreso tra realtà e finzione, verità e sogno. Pur se sviluppato secondo lo schema dell’azione tipico dell’epica, in cui i motivi che allontanano l’eroina dalla mèta finale, l’amore cioè di Lelio, risultano sostanzialmente regressivi, il dramma di Clarice riflette nella trasposizione dialogica e monologica del dramma la problematicità dell’individuo al cospetto della scomparsa degli idali epico-cavallereschi. Quello di Clarice è un dramma, più che personale, epocale, in cui il tramonto delle idealità passate coincide non più, come per il romanzo d’avventura, con la rivendicazione dello spirito sulla carne, ma con un nichilismo autodistruttivo, che porta con sé i germi della dissacrazione naturalistica, che investe i princìpi cardine dell’epica cavalleresca, l’amore e la religione. Non la mortificazione della carne verso lo spirituale, ma la complessità di un umanesimo problematico e integrale è al centro del romanzo, che esce dalla tipizzazione artificiale del protagonismo epico, per sposare i temi impietosi della severa autoanalisi del mimetismo drammatico. Secondo tale ottica non solo il passato assoluto dell’epica si trasforma in movimento temporale oggettivo di contemporaneizzazione storica, ma il Donno realizza un tipo di romanzo di intonazione e coloritura antidilliche nell’eroicizzazione storica, e non manierata e tipizzata, nel dinamismo inte— 382 —

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riore di una vicenda sentimentale, e non nella staticità esteriore di un ripetuto schema narrativo. Lo scacco di Clarice corrisponde alla coloritura antidillica di temi, soggetti e citazioni letterarie con effetti di drammatizzazione che la dicono lunga sulla natura dell’imitazione e sulla tecnica del prelievo, condotti secondo schemi di rimescolamento e di reinterpretazione della trama. Allineato al principio di ‘verosimiglianza’, più che di verità, giudicato in conformità all’arricchimento episodico e alla varietà, e non più uniformità, della trama, il nuovo principio di imitazione veniva scardinando il vecchio all’interno di una pluralità di referenze culturali, assunte a emblema di una evoluzione culturale e a suggello di un’età sensibilmente in crisi. Così topoi della letteratura anche romanzesca tradizionali o schemi narrativi consueti, come l’amore non corrisposto, il contrasto città-campagna, la virtù sconfitta, il contrasto buoni-cattivi, appaiono deformati nel romanzo del Donno in chiave, se non parodistica, e dunque plebea, almeno antiletteraria, vòlti come sono a segnare il cammino accidentato e sfortunato della protagonista. Gli stessi inserti paesaggistici, le pause descrittive relative alla rappresentazione della campagna o della marina, più che configurarsi come pause liriche inerenti a momenti di onirico abbandono, come elementi di contrasto col tono teso e animato generale del romanzo, risultano piuttosto esercitazioni di stile, espressione di un atteggiamento mentale e intellettuale, di una disposizione cerebrale e di un gusto cerimonioso, che interpretano i modelli come sfoggio esteriore di cultura. La prosecuzione dei temi boccacciani, e poi rinascimentali, della lieta brigata, delle cacce, degli amori, degli ozi di villa, che ritorneranno mezzo secolo più avanti nelle grazie arcadiche del Sagredo, si innesta sul mutamento di una sensibilità poetica, che ravviva le innumerevoli attinenze erudite, adeguandole a nuove attitudini normative. La descrizione della vita rurale, delle sane occupazioni campestri e degli allegri divertimenti delle rustiche genti, nel secondo libro, o quella delle imprese e dei sollazzi marini della compagnia, della pesca notturna, nel quarto e nel sesto libro, inserisce al concetto tipicamente barocco di «imitazione con accrescimento», in cui la «tecnica del rampino» mariniana si combina con una buona imitazione, altrettanto degna quanto una buona invenzione. Anteriore di due anni rispetto alla polemica sull’Adone, iniziata appunto nel 1627 con l’Occhiale dello Stigliani, il romanzo del Donno segna, nonostante la sua marginalità, un capitolo importante nella storia della cultura e nella riqualificazione del genere narrativo come esperienza sincretica di risulta— 383 —

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ti, sullo sfondo del dibattito assai vivo a Napoli tra il concetto di imitazione e quello di invenzione. Nel vivo delle dispute letterarie, gli statuti dei ‘generi’ nuovi della nostra letteratura andavano riconsiderati in margine a una più congrua applicazione dei princìpi tradizionali dell’arte poetica, secondo il duplice registro dell’invenzione avventurosa e dell’imitazione intimistica o del ripiegamento psicologico, con anticipazioni evidenti rispetto ai futuri risultati del melodramma e del patetismo sentimentale dell’Arcadia. Il «meraviglioso artificio» dell’ornamento in più, il superamento abile del modello, erano ottenuti mediante una serrata competizione con gli antichi, in una gara che assai spesso si risolveva in puro spettacolo di forme e in rappresentazione fantasmagorica di arguzie combinatorie, in cui i confini tra la retorica e il patetismo apparivano sempre più labili. La fondazione della letterarietà che, coerentemente ai risultati poetici coevi avviene «attraverso i soli modelli retorici […] al di là (o al di qua) di ogni significato extralinguistico possibile»6, risulta nel romanzo del Donno pertinente a quella discriminazione individuata dallo stesso Conte nel Barocco, tra l’«imitare» e l’«usurpare»7, nella polverizzazione del concetto di imitazione in procedimento esteriore di approccio ai modelli. Slittando la retorica nel campo dell’elocutio, lo stesso principio di imitazione, più che risultare pertinente al contenuto, diveniva esercizio di maniera, ai limiti tra espansione concettista della poesia lirica e modelli narrativi corrispondenti al procedimento drammatico. Gli è, infatti, che proprio negli anni in cui l’attacco al genere del romanzo era ancorato a questioni di stile e di legittimità teorica (si vedano le riserve di Agostino Mascardi nelle Prose volgari del 1620 o di Benedetto Fioretti nei cinque volumi editi tra il 1620 e il 1639 dei Proginnasmi poetici), il Donno pubblicò un romanzo che della mistione dei generi o della fusione degli stili fece il proprio punto di forza, indicando per tali vie un percorso rivoluzionario di scrittura. Contro la crisi della retorica nel Cinquecento8 il romanzo del Donno rivelò la propria atipicità in ordine a una prosa rappresentativa di una fase di passaggio e di assestamento della poetica manieristica e barocca. Così elementi della poesia idillica, lirica, epica, e del dramma filtrano nella compagine di un testo nuovo non quanto a contenuti, ma quanto a impianto strutturale, impostato su una compromissione tra antico e moderno. Oltre che come punto di riferimento per una modernizzazione del genere, entro canoni di libertà compositiva, i modelli contarono nel Donno e, più in generale, nell’esperienza peraltro e a lungo ritenuta marginale del roman— 384 —

IL GENERE MISTO DELL’AMOROSA CLARICE

zo napoletano per il condizionamento di una tradizione. Il modello dell’epica, ripreso e variato, veniva invero scalzato, poi, nell’Amorosa Clarice dall’innesto della tradizione proprio su quei generi della poesia lirica, idillica e del dramma, sui quali maggiormente aveva influito l’irrigidimento normativo del secolo. E su livelli di cauta innovazione e di medietas si mantenne il Donno non solo appunto nei confronti del rapporto natura-arte, mimesi-artificio, quanto nei riguardi di un moderatismo stilistico, frutto di una relazione ambigua con i modelli dell’epica. Pur riprendendo gli schemi regressivi della trama dell’epica, il livello alto della destinazione sociale, il Donno complicò tali schemi con i modi del mimetismo drammatico, e trasferì il tono alto dello stile verso un nuovo tipo di «stile purgato» e piuttosto reso, come già ha ben visto Gino Rizzo, entro «una minore tensione formale», rivendicante «una specifica e autobiografica compromissione»9. Si trattava di uno stile medio, vicino a un naturalismo classicistico che faceva leva sugli elementi della luce e del colore e sull’immagine del teatro, incline a una ricerca di materie pittoriche e spettacolari, più e oltre che al filtro dell’evasione intellettuale. In tale ottica la stessa varietà degli inserti poetici, le lungaggini dei monologhi, le divagazioni astratte di pensiero e di sentimento, erano indizio di una nuova attenzione per la struttura del romanzo, in margine a una «regolistica che ne codificasse le difformità»10. Tradotta nei termini dell’individualità dello stile, la vecchia formula dell’«ut pictura poesis» veniva risolta nell’idea di una «rappresentazione» che riteneva dell’antico e del popolare, del figurativo e del descrittivo, e che viveva lo stacco rispetto alla tradizione con caratteri non di eccentricità, ma di accomodamento nei confronti dell’antico e del nuovo. L’autobiografismo, in tale ricodificazione del genere, assumeva pertanto il tono personale dell’istituzionalizzazione normativa, definendosi come elemento concreto di rifondazione oggettiva dei riferimenti colti. Momento di verifica della plausibilità di un nuovo genere, e non di attestazione erudita di un percorso esclusivamente letterario, l’Amorosa Clarice appare il risultato di una formazione, se non direttamente, almeno per vie traverse, influenzata dal contrasto tra il formalismo del contenuto e l’istituzionalizzazione mentale della forma, segno di una civiltà straordinariamente sincretica nei suoi apporti e nei suoi risvolti culturali.

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VALERIA GIANNANTONIO

NOTE * Il saggio rappresenta la prima parte di uno studio più ampio in corso di elaborazione. 1 G. RIZZO, Tra «istoria» ed «epopea»: sondaggi su romanzi secenteschi, in Sul romanzo secentesco, a cura dello stesso, Galatina, Congedo, 1987, pp. 101-126: p. 105. 2 R. WELLECK, A. WARREN, Teoria della letteratura, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1956, pp. 295-296 e N. FRYE, Anatomia della critica, trad. it. Torino, Einaudi, 1969, p. 412. 3 C. VARESE, Teoria, prosa, poesia, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. CECCHI e N. SAPEGNO, V, Il Seicento, Milano, Garzanti, 1967, pp. 521-928: p. 623. 4 R. PATERNOSTRO, L’«Amorosa Clarice» o dell’inattualità di un romanzo barocco, in I luoghi dell’immaginario poetico, a cura di L. STRAPPINI, Napoli, Liguori, 2001, pp. 513-535: p. 518. 5 E. M. MELETINSKIJ, Introduzione alla poetica storica dell’epos e del romanzo, trad. it. Bologna, Il Mulino, 1993, p. 396. 6 G. CONTE, La metafora barocca. Saggio sulle poetiche del Seicento, Milano, Mursia, 1972, p. 87. 7 Ibidem. 8 Sull’argomento cfr. almeno B. CROCE, Francesco Patrizio e la critica della retorica antica, in ID., Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Bari, Laterza, 1910, pp. 297-308; E. GARIN, Discussioni sulla retorica, in ID., Medioevo e Rinascimento, Bari, Laterza, 1954, pp. 124-149; C. VASOLI, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo. «Invenzione» e «metodo» nella cultura del XV e XVI secolo, Milano, Feltrinelli, 1968. 9 F. DONNO, Opere, a cura di G. RIZZO, Lecce, Milella, 1979, p. 25. 10 L. SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 2000, p. 46.

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ROSARIA AMENDOLARA LE SCIENZE DELLA POLITICA IN FORMA DI NARRAZIONE: IL MONTE DI ARETEA Il romanzo Il Monte di Aretea di Giovan Battista Micheletti1 fu edito a L’Aquila nel 1793. Di impostazione scientifico-pedagogica, intendeva porsi al crocevia delle innovazioni culturali e scientifiche dell’Illuminismo settecentesco, secondo l’ancor valido modello allegorico-didattico della tradizione classica latina e italiana. Esplicito riferimento erano le Aventures de Télémaque di Fénelon, scritte nel 1699 per preparare il duca di Borgogna ad una guida politica fondata sulla moderazione, sulla giustizia e sull’umanità. Il testo di Fénelon era stato interpretato come opposizione al potere di Luigi XIV che invece avrebbe fatto perno sull’ostentazione del lusso e della ricchezza. Nessuna intenzione satirica o polemica invece è dato di rinvenire nell’opera del Micheletti, che si compagina di otto libri in forma di dialogo preceduti da una lettera dedicatoria. Il romanzo è concepito come il viaggio di Nargeno – pseudonimo di Francesco I, figlio di Ferdinando IV di Borbone, re delle Due Sicilie, e Carolina d’Austria – e Aquilio al fine di presentare al principe ereditario di Sicilia una serie di consigli ed un sapere minimo sì da affrontare con coscienza e dottrina l’importante ruolo politico. Aquilio sarà la guida che accompagnerà Nargeno nel «sofferto» e «penoso» cammino in salita lungo i pendii del Monte di Aretea, per l’acquisizione delle virtù necessarie a tutti gli uomini, e in particolare a coloro che «erano destinati allo scettro»2. Il Micheletti dunque scopre tutt’intera la sua professione di conservatorismo cui rimarrà fedele per tutto il corso del lavoro; e nello stesso tempo fa professione di opposizione a quanti, in quegli anni di rapido rimescolamento di idee, avevano d’oltralpe proclamato l’origine del potere legato al consenso popolare. La narrazione si apre con una scena da cornice del Decameron, eterno modello di narrazione, del quale vengono sottolineati i momenti arcadici: un’at— 387 —

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mosfera serena accoglie l’arrivo di Nargeno ed Aquilio sulle cime del «fortunato soggiorno», quando «era tramontato appena il brillante Astro del giorno»3: «un delizioso boschetto era formato da alcuni alberi di alloro, e di ulivi posti in un vago disordine, ed i quali colle loro giovani foglie mantenevano quivi un’amena frescura, il suolo ricoperto di erba verdeggiante, […] un limpido ruscello di acqua lucida, e pura, che mormorando soavemente scendea a secondare quelle piante felici, ed a spruzzare co’ suoi zampilli l’erba, ed i fiori»4. Una natura incorrotta arcadica e neoclassica attende dunque Nargeno e Aquilio sulla sommità del Monte, una natura pacata che riflette lo stato d’animo ora rasserenato dei due viaggiatori, dissipatesi intorno a loro le nebbie del timore e dell’angoscia. Immerso in questa cornice di intatta bellezza e di felice tranquillità, l’estatico incontro di Nargeno e Aquilio con Aretea, la diva immortale, la bellezza della quale «la lingua dei deboli Mortali, non giugne neppure ad abbozzarne rozzamente l’imagine». La sua figura, che simboleggia la Virtù ornata di straordinaria bellezza e di filosofica saggezza, presenta le sembianze di una donna dalla «lunga chioma di color d’oro», «neri erano i suoi occhi, che tramandavano uno sguardo dolce e pietoso», «le sue guance erano sparse di color di rosa, e della bianchezza del giglio, e le sue labbra di un bel tinto di porpora, che muovea sempre con un soave sorriso, quando sciogliea a parlar la sua lingua. Ricopriva il suo petto un bianco velo ristretto in nodo sotto l’angusta, e filata cintura, ove si riuniva una candida gonna fino ai piedi, e dietro degli omeri un bel manto a color celeste, le di cui spaziose pieghe raccolte in gruppo, le accresceano la sua grazia, e maestà naturale»5, forme e colori d’un quadro di Watteau che consegnavano con linee e aspetti nuovi le pur riconoscibili donne allegoriche di Boezio, di Dante e di Petrarca. Come per costoro tutto ha un significato, tutto è un simbolo nella descrizione di Aretea: il di lei sguardo e l’abbigliamento dicono purezza, il «bel manto» simboleggia la retorica che ricopre le forme divine, e le «spaziose pieghe raccolte in gruppo» significano le scienze che dalla retorica procedono. Descrizione della figura femminile e allegoria convergono ad attualizzare e dunque a rendere facilmente comunicabile un tòpos che l’uso aveva consumato. «Tutto – continua l’autore – vi era semplice in Aretea, e questa semplicità istessa trascurata, e modesta, le dava una nobiltà, un vigore, che costringeva a rispetto, ed a meraviglia insieme […]. Quella sua fronte sicura, ove si vedea scintillare un’astro, che si facea il regolatore de’ cuori altrui, quella sua ferma voce, quel suo sguardo celeste, scopriva in lei la sua grand’alma»6. Sulla fronte di Aretea brillava una luce, probabilmente la Fede, che regolava gli — 388 —

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affetti e le azioni degli uomini, unitamente alla Filosofia, che muove alla ricerca del vero e della virtù7. La purezza e la semplicità delle linee servono a disegnare la donna, sicché già pare leggervi i tratti della foscoliana Teresa o della goethiana Carlotta. La bellezza di Aretea dunque deriva da una commistione di semplicità e di rigore che spingono Nargeno sulla strada della conoscenza e dell’elevazione. Questa donna dalla cui fama Nargeno era rimasto affascinato sin da piccolo («io non ancora avea compiti i due lustri della mia infanzia, che già […], cominciai, o Aretea, a sentir nominare il tuo Monte») e dalla cui beltà ora viene conquistato, pur non osando «sollevare il suo sguardo profano», era «un sacro oggetto», «una cosa» della quale non esiste una pari sulla terra. L’intento del Micheletti è quello di conferire un tono alto e solenne al romanzo mercé da un lato l’utilizzo della donna allegorizzata – retaggio della tradizione classica – e dall’altro l’affidamento ad Aretea del compito di istruire Nargeno; il modello è ancora quello classico di Boezio, di Dante, di Francesco da Barberino e così via, cui era connessa, diremmo naturalmente, l’allegoria. Primo esito di questa scelta è che il mondo di Aretea è la rappresentazione simbolica del mondo reale in cui essi vivono: su quel Monte bene e male, onesto e disonesto si concreteranno in oggetti, figure ed eventi sì da permettere la narrazione di un percorso che conserva la dinamica complessa del cammino dantesco e della navigazione di Enea. Salutato l’arrivo dei viandanti Nargeno e Aquilio, Aretea invita i due a ristorarsi con un vino che emana «un odore di ambrosia divina», latte «di bianchezza eguale alla neve» e «scelti frutti» e a trascorrere poi la notte in una grotta che costituirà il loro albergo durante il soggiorno sul Monte. Essa era (in una sorta di capovolgimento dell’episodio omerico) «come lavorata a basso rilievo con […] alcuni spiragli, che […] ammettevano pochi raggi della Luna, che l’illuminavano internamente». A un lato della stessa «in un’altra apertura […] la quale conducea ad una piccola stanza, […] sopra alcuni freschi rami di aranci erano stesi due velli assai bianchi di lanuto montone», dove Nargeno e Aquilio si adageranno per intraprendere all’indomani, sotto la guida della divina Maestra, il difficile cammino di acquisizione della virtù morale, ossia l’aristotelico e laico abito ad adoperare in modo retto la ragione, che fa l’uomo «savio, buono, e virtuoso», e della virtù intellettuale, che mira alla «ricerca del vero» e rende l’uomo «sapiente, dotto, ed erudito»8. I moduli arcadici trovano una nuova funzionalizzazione: non evasione dalla realtà, ma apparato allo stesso tempo scenico e allegorico di un plot co— 389 —

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noscitivo tutto volto alla comprensione e alla gestione della realtà e della storia. Sicché lo storicismo si fa strada nell’atmosfera arcadica, ancora dominante in romanzi come lo Jacopo Ortis sino ad occupare tutto il piano narrativo nella Bassvilliana del Monti, gravata della cupezza di un evento storico come la Rivoluzione francese. Insomma il Micheletti, sull’esempio del Télémaque, mirava al confezionamento di un’opera che spiegasse la scienza politica per il tramite dei moduli narrativi e ideologici che gli venivano offerti da un neoclassicismo armonico ed equilibrato. All’interno di questa cornice arcadica il Micheletti poteva convogliare lo studio e l’analisi della politica che erano il prodotto di quell’Illuminismo italiano che trovava nei Genovesi e nei Pagano gli esemplari più alti e in Alfieri un esempio di grande vigore e passione. Tal che se i singoli elementi sono riconducibili a precisi filoni, alla pedagogia storica, all’Illuminismo, all’Arcadia, la loro fusione genera nei lettori moderni motivi di interesse che non sarebbe probo tralasciare. Qui si può già anticipare che lo stato politico ideale del Micheletti nel Monte di Aretea è la monarchia, in cui la felicità e il benessere di tutto lo Stato discendono dall’alto e si raggiungono grazie all’uso costante da parte del sovrano di etica e di ragione. Ragione che – è sempre Boezio che insegna –, come quella di tutti i mortali, è un riflesso della Ragione eterna: «la sua mano [di Dio] fu larga a prò dell’Uomo col ricolmarlo di quanto lo potea render felice; ma per godere della felicità, dovea far che la sua ragione fosse andata di accordo, con quella Ragione eterna, da cui era emanata la sua»9. Essa pertanto non coinciderà mai con la Sapienza divina, ma potrà svilupparsi e migliorarsi mediante lo studio delle varie scienze (filosofia, storia, geografia, fisica, matematica, nautica) e dovrà agire sotto l’egida dell’etica. Il rischio dell’ideologismo volterriano e laico viene così evitato in grazia di una simbiosi irrinunciabile di razionalità e religione. Prima di introdurre il reale giovinetto sulla strada della conoscenza che porta gli uomini alla felicità duratura – la quale gli verrà svelata attraverso racconti e visioni che illustreranno il contrasto tra il bene e il male, in modo da offrirgli la possibilità di riflettere e di capire dove sia la verità – Aretea chiede a Nargeno di narrarle come si è svolto il viaggio sino a lei. Egli inizia la storia della sua impresa ricordando che intorno ai quindici anni, un giorno s’inoltrò in un bosco intorno alla città di Napoli preso dal gravoso pensiero circa il modo di «superare l’erta, e scoscesa rocca» di Aretea che ai pochi coraggiosi assicura al ritorno «un seggio glorioso nel Tempio dell’Eternità» perché in grado di rendere felici le Nazioni ad essi sottomesse. Qui incontrò Aquilio che, per — 390 —

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ordine di Aretea, andava in cerca di lui per aiutarlo nell’ascesa: conta l’evidente modello dantesco. Riconosciutolo come il designato dalla diva, Aquilio lo incitò ad intraprendere il viaggio, pur mettendolo in guardia sulle «pene» e sui «travagli» che avrebbe dovuto soffrire, soprattutto all’arrivo dinanzi al «fatal Bivio». Giunti a questo punto il principe solo, senza il consiglio della fidata guida, avrebbe dovuto eleggere la giusta via che conduce ad Aretea, la scelta errata avrebbe significato la fine del viaggio. Il modello dantesco viene superato dal permanere del libero arbitrio: Aquilio è guida sapiente, in buona misura provvidenziale, ma rispettosa delle scelte di Nargeno, responsabile così della propria educazione e della propria sorte. Al modello dantesco subentra quello virgiliano in un’alternanza che sarà costante in tutto il racconto. Quello del bivio, se narrativamente riprende il momento in cui Enea deve decidere tra Didone e Roma, è dal punto di vista contenutistico una riscrittura dell’aneddoto morale di Ercole al bivio, raccontato dal sofista Prodico di Ceo ne Le stagioni dell’anno e tramandatoci da Senofonte nei Memorabilia Socratis. Nargeno, come Ercole di fronte alle due donne che gli additano due opposti tipi di vita, appressatosi alle due strade, rappresentanti l’una il Piacere e l’altra la Virtù, opta per quest’ultima. Nargeno viene abbagliato dalla vista seducente della strada di sinistra: «tutto invitava al piacere, ed alla mollezza». In una cornice incantata di prati fioriti e di vaghi uccelletti, dove «gl’istrumenti villerecci erano ignoti», «ove la Natura offriva tutto da se stessa, e donde era sbandita ogni fatica», «Uomini, e Donne, Giovini, e Vecchi» si davano «in preda del contento, del riso, dell’amore, e della gioja», tra «allegri brindisi», «canzonette amorose» e «intrecciate danze con moti lascivi»10. Come quegli uomini stolti e semplici, Nargeno sta per essere ingannato dalle apparenze, da quelle «ombre vane», l’amore, la ricchezza, gli onori, che i mortali inseguono per tutta la vita – si noti l’eco di Filosofia di Boezio e di quella «notte ch’io passai con tanta pietà» di Dante –. Fino a che, accortosi del pericolo che sta per correre, con coraggio fugge da quel sentiero e si mette su quello di destra. Qui, in uno sfondo da Inferno dantesco ove regnano «un tetro silenzio» e «un’oscurità funesta», squarciati solo da orrendi lampi e fulmini, e ove «non vegetavano ne erba, ne piante», ma solo «vi si vedevano degli aridi sterpi, e cespugli intralciati di bronchi, e di spine», così Nargeno descrive il suo nuovo stato d’animo: «io mi sentiva colà più libero, più padrone di me stesso, ed una gioja interna, senza alcuno amaro, ma sincera, e verace, mi facea riguardare con meno ritrosia, l’orrore, che naturalmente ispirava l’asprezza del Monte»11. — 391 —

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Sciolto il dissidio interiore che lo lasciava esitante, Nargeno dirige dunque Aquilio verso la salita che porta ad Aretea, il quale fedele compagno, con il medesimo piglio, sicuro e affettuoso, del maestro Virgilio verso il pellegrino Dante, conduce il suo principe «ad un piccol poggio»12 dove si fermano per osservare lo scenario di corruzione che si sono lasciati alle spalle. La scena è di derivazione dantesca: «così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a rietro a rimirar lo passo / che non lasciò giammai persona viva». Narrazione e allegoria concorrono quindi in ogni singolo evento e in ogni singola figura a delineare sempre meglio il carattere etico e pedagogico del Monte di Aretea, che si allarga poco alla volta verso una prospettiva più ampia: l’opera che nasce e che si sviluppa intorno all’esperienza personale e dunque circoscritta del principe ereditario Nargeno-Francesco I assume un valore più universale, giacché esempi e osservazioni storiche di Aretea si scoprono valide universalmente e in eterno, estendibili ad un uditorio, quello dei sovrani e dei mortali tutti di qualsiasi nazione della terra, che va oltre i confini del Regno delle Due Sicilie. Messisi sulla «retta via», Nargeno e Aquilio, dopo aver superato nuovi ostacoli, giungono finalmente sulla cima del Monte, immagine dalla quale, come s’è visto, prende avvio il romanzo. Il Micheletti conclude così la narrazione del viaggio dei protagonisti per dare la parola ora alla diva celeste che, raccontata in breve la storia del suo esilio sul Monte che coincide con la storia dell’umanità degenerata a partire dal primo delitto, quello di Adamo ed Eva, offrirà a Nargeno tre exempla il cui effetto non verrà mai commentato subito per dargli il tempo di esercitare nel giudizio il libero arbitrio. L’ammaestramento di Aretea ai due giovani procede in una mescolanza di elementi culturali i più disparati: tra classicismo e riferimenti biblici, tra illuminismo e preromanticismo, tra filosofia economica e letteratura, tra Fénelon e Ossian. In tutto questo è eminente la nozione di storia come magistra vitae secondo l’insegnamento di Polibio, Cicerone e Machiavelli; essa è la sapienza laica: i comportamenti corretti del sovrano (dai quali dipende la pubblica felicità, l’avanzamento economico e sociale della nazione) sono dettati esclusivamente da lei, dalla saggezza filosofica tutta illuministica. Sicché Il Monte di Aretea più che espressione di un’idea di storia intesa come progresso si fa portatore di una storia maestra di morale e di politica da cui può derivare il trionfo dell’etica e delle teorie politiche ed economiche, influenzate dalla dottrina fisiocratica di un Genovesi, di un Filangieri e altri. Individuata quale migliore forma di governo la monarchia, «la copia… che più si avvicina al suo originale» divino, la prima lezione di Aretea sui do— 392 —

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veri regali porta Nargeno e Aquilio ad allontanarsi un poco dal Monte, verso una valle attraversata da un fiume: «Tutto era quivi nell’abbandono, tutte le piante inselvatichite, ed il suolo ingombrato da erbe inutili, o nocive, da roveti, e da cespugli»13. Discesi attraverso un dirupo, essi si trovano di fronte ad uno spettacolo che li riempie di stupore: sul fondo del letto del fiume «tanti ammassi resi già di una mole rozza, ed informe, e che erano stati anch’essi frammenti delle statue, che dall’alto della Valle, si vedeano gittate in giuso, e nel cadere rotte in più pezzi, erano finalmente consumate dalle acque del fiume», perdendo «ogni umano vestigio»14. Responsabile di quella visione orrenda è Aretea, che abbozza di ogni sovrano una statua i cui tratti vengono ultimati o lasciati incompleti al termine della loro vita mortale, quando ella è in grado di giudicare se il loro operato sia stato caratterizzato dalla virtù o meno. Le statue, mutile, che giacciono sul fondo del fiume, rappresentano «coloro che […] furono inutili nel Mondo, così le medesime – spiega Aretea – sono anche inutili da me riputate, e gittate giù da quella Valle, chiamata perciò la Valle dell’Obblivione»15. Il passo richiama alla mente una scena descritta dall’Ariosto nell’Orlando furioso, in cui un Vecchio, giunto sulla sponda del fiume Lete, vi getta i nomi degli uomini, mentre «corvi ed avidi avoltori»16, gli adulatori e i buffoni di corte, «portano in bocca qualche giorno il nome»17 per poi dimenticarsene. Solo alcune di quelle vite vengono consegnate all’eternità grazie ai cigni, i poeti, che li salvano dall’oblio. Alla stessa maniera nel Micheletti le acque del fiume sono metafora del tempo che quelle statue «va consumando a grado a grado […]. Così avviene nel Mondo di questi Regnanti; appena, dopo morti, resta de’ loro nomi qualche rimembranza nella memoria degli Uomini, e di altri affatto si estingue»18. Così riavutosi dall’imbarazzo provocato dalla veduta della valle, che ammonisce a non cadere nel medesimo «vergognoso letargo»19 di quei re infingardi, i quali hanno trascorso «gli anni migliori di loro vita in seno dell’ozio, e de’ piaceri»20, Nargeno e Aquilio si avviano nella grotta per attendere l’alba del nuovo giorno. Il Micheletti coglie l’occasione per mutare il tono della narrazione spesso rigida e prescrittiva di Aretea, mirante ad istruire il futuro sovrano. Lo spunto gli viene offerto da uno dei motivi poetici tra i più sfruttati dalla tradizione letteraria, sul quale costruisce una similitudine: l’aurora che copre di rinnovata luce l’orizzonte. Come il sole «riscalda, ed illumina col suo calore, e colla sua luce il più piccolo insetto nascosto sotto l’erba, e dove non arriva co’ suoi raggi diretti, opera colla riflessione di essi dappertutto, non rimanendo— 393 —

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vi angolo della Terra, dove a penetrare non giunga»21, analogamente il Regnante deve «estendere le sue beneficenze, dal più grande, sino all’ultimo de’ suoi Sudditi, e tutto illustrare co’ suoi raggi benefici l’intero Regno, senza lasciarne parte, benchè minima nell’oscurità, e nell’abbandono». Aretea insomma si serve della poesia dell’elemento paesaggistico per esemplificare, in forma narrativa più distesa e meno austera, le bellezze e i piaceri di cui può godere uno stato illuminato dalla virtù del suo sovrano, che provveda al bene del singolo individuo. Aretea, tuttavia, solerte maestra di verità, e perciò non amante degli indugi, deve condurre avanti il percorso di conoscenza di Nargeno che non può svolgersi, come in Dante nel regno ultraterreno e come nella brigata dei dieci giovani nel Decameron, se non attraverso un nuovo spostamento: quello verso l’Antro dei Malvagi e dei Tiranni. A fare da scena uno sfondo romantico, di gusto ossianico: «cespugli di rovi, e di spine», alberi di cipresso, «l’aria compressa, e pesante», il «sibilo de’ rettili velenosi», il «lugubre canto dei gufi, delle civette, e dei pipistrelli». Unico elemento in contrasto un Fonte detto «del piacere», le cui acque, esalanti «un puzzo assi grave», bevute dovevano trasformarsi in motivo di «disgustosa amarezza»22. A quelle acque accosta avidamente le labbra l’assetato Nargeno prima di entrare nella spelonca, all’ingresso della quale, come a guardia, ci sono due tetre figure «insensate»: uno scheletro raffigurante la Morte nell’atto di recidere il filo della vita e un carnefice che regge un teschio umano insanguinato23. All’interno della grotta immagini raccapriccianti e crudeli di re e conquistatori, che esercitarono il loro potere in forma di onori e di vizio, fanno da padroni, «esecrabili trofei» dominano la scena che si svolge sotto gli occhi inorriditi di Nargeno e Aquilio, un elenco interminabile di strumenti di guerra, di tortura e di morte sembra rendere senza fine le colpe spietate di quei malfattori. Il tutto è raccontato dal Micheletti con una rapidità incalzante che testimonia quasi dell’incapacità dell’autore, e per lui di Aretea, di contenere il giudizio di condanna che grava sui loro nomi e sulla loro memoria. Fino a quando Nargeno, impressionato da tanto dolore, chiede ad Aretea di ritornare al Monte. Il silenzioso paesaggio lunare si fa protagonista dell’episodio successivo: non più dunque mero scenario che accompagna la descrizione degli eventi, ma esso stesso motore di eventi. Allorché la «Nemica del giorno» diffonde le tenebre sulla terra «allora escono dalla solitaria, e tacita Reggia del sonno a mille gruppi i Sogni, che ai Mortali interrompono i sonni»24. Sicché, rientra— 394 —

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to nella grotta, Nargeno viene assalito e funestato da questi sogni che hanno assunto «la figura mostruosa, ed orribile delle passioni, dalle quali furono agitati viventi i Tiranni», la Discordia, il Furore, l’Empietà, la Disperazione ecc. Causa delle tormentose visioni notturne, spiega Aretea, è l’acqua che egli ha bevuto alla Fonte del piacere. «Il piacere è stato lo scoglio più fatale che ha precipitati quei Re disgraziati nel baratro della Tirannide», perciò la presenza del Fonte lì vicino è di ammonimento ai mortali delle pene che patiscono i tiranni nell’Antro, alla stessa maniera in cui il pellegrino Dante vede le pene, fissate nella legge del contrappasso, che vengono inflitte ai dannati dell’Inferno, o la donna amata da Nastagio degli Onesti assiste alla fine di colei che è inseguita dai cani nella nota novella decameroniana. Accompagnato da una luce che si fa viepiù fulgente e da un affinamento della viva grazia di Aretea, continua il percorso intellettuale, di sapere politico e scientifico, di Nargeno, che coincide con il percorso narrato, e che si conclude con il cammino al Tempio dell’Eternità: il locus amœnus che, come la campagna della cornice del Decameron e come la spiaggetta del Purgatorio, rinfranca i due pellegrini al termine del lungo e travagliato viaggio in salita, tra luoghi cupi e desolati. Una natura fertile e semplice circonda la struttura, statue disposte «sul cornicione esteriore del Tempio» rappresentano le scienze e le arti che i buoni sovrani devono apprendere e promuovere, la fisica, la medicina, la poesia, l’eloquenza, la pittura, la scultura, l’architettura. All’interno le statue di quei re coraggiosi e magnanimi, che Aretea mostra a Nargeno senza rivelarne il nome, ma le cui figure, ritratte nelle «loro attitudini tutte portate alla pietà, alla clemenza, alla liberalità»25, e le cui azioni leggendarie parlano al futuro re di Sicilia di immortalità e di gloria con un’evidenza plastica. Essi hanno «imitato» «il loro Divino modello» svolgendo «le funzioni, che Iddio gli avea affidate sopra la Terra». Al centro dell’attenzione, dunque, la sintesi realizzata dal Micheletti tra i più notevoli, e tutti fortemente sentiti, motivi culturali che confluiscono nel particolare momento storico da lui vissuto: dalla bellezza arcadica e neoclassica di Aretea e della natura al sapere scientifico simboleggiato dalle statue esterne, dalla fiducia in un ordine politico prodotto dalla virtù etica e filosofica del sovrano all’idea di un ordine politico, civile, economico predeterminato da Dio. Sopra tutti stimolano la curiosità di Nargeno e lo commuovono due simulacri: quelli dei nonni, paterno e materno, Carlo III, re di Napoli e di Spagna, e Maria Teresa d’Austria, «sublimi» modelli di virtù. Usciti dal Tempio, Aretea annuncia ai suoi discepoli l’ormai prossima partenza. All’indomani il momento del sa— 395 —

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luto è solenne e dignitoso: calde lacrime di «affetto» e di «gratitudine» segnano il volto di Nargeno, in cui ritorna la tristezza di Dante nel momento del doloroso addio all’amato maestro Virgilio26. Ma per colui che è stato prescelto da Aretea per compiere un itinerario di conoscenza, come era stato per Enea, per Dante e per san Paolo, non è più possibile alcun ritardo. Avvolti in una nube, sì che nessuno possa vederli e possano parlare senza essere intesi, motivo già presente in Virgilio nell’episodio dell’incontro di Enea con la madre Venere che gli permette di avvicinarsi a Cartagine27, Nargeno e Aquilio su consiglio di Aretea si dirigono verso la conclusione di questo cammino, che è apprendimento dei «semi di saviezza» politica. Si introducono nelle regge di re – tre ne visitano che rispecchiano i tre esempi di governo, negligente malvagio e virtuoso, mostrati da Aretea in forma allegorico-simbolica – e nelle case di pastori per osservare da vicino, nella pratica quotidiana dell’attività politica pubblica ed economica quanto la celeste diva ha loro insegnato. La fictio poetica del viaggio attraverso la Valle dell’Obblivione, l’Antro dei Malvagi e il Tempio dell’Eternità assume per Nargeno, novello pellegrino in un mondo non propriamente terreno, una valenza pedagogica. L’itinerario conoscitivo di Nargeno non porta all’acquisizione di una scienza teoretica, semmai di una scienza etica, filosofica, storica, geografica sul cui complesso si fonda l’ordine politico, civile, economico che non potrà essere determinato da altro, né modificato, se non dal libero arbitrio di ciascun sovrano. Indubbiamente l’operazione del Micheletti è riferibile ad una pluralità di modelli che univano pedagogia e narrazione, e qui serve citare Fénelon e più in prospettiva Dante. È possibile anche riferirsi alla tradizione delle moralizzazioni di opere narrative come l’Eneide di Bernardo Silvestre e le Metamorfosi di Ovidio su cui doveva poi innestarsi l’interpretazione filosofica e naturalistica della mitologia greco-latina. Tuttavia non ci sembra corretto etichettare il Monte di Aretea semplicisticamente come un’opera arretrata e volta al passato. È certo un’opera dalla ideologia fortemente caratterizzata dalla conservazione, ma va inquadrata nella dialettica tra conservazione e innovazione, che è di tutti i momenti storici. In particolare nello stesso periodo in cui il Micheletti pubblica la sua opera, Ugo Foscolo dichiarava conclusa la stagione della poesia appassionata e cercava nella Chioma di Berenice i precetti ed i valori politici che Callimaco era riuscito a trasfondere in quell’opera di alta poesia, ed era disponibile a collocare il poeta nei confini della mediazione tra potere politico e popolo. Gli idéologues che avevano preparato la Rivoluzione francese tornavano sui loro passi alla ricerca di una letteratura che fosse ac— 396 —

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cessibile per essere facilmente messa in pratica. In sostanza il decennio che va appunto dalla Rivoluzione francese al 1802, data di pubblicazione de Le Génie du Christianisme di Chateaubriand, elaborava nuove forme di comunicazione letteraria all’interno delle quali va inquadrata questa scienza politica di Giovan Battista Micheletti in forma di narrazione. E da questo punto di vista il Micheletti faceva opera in qualche misura nuova come nuova sarà tutta la ricerca preromantica e romantica di modalità comunicative inedite. Anche al proposito lo scrittore aquilano era in buona compagnia, quando si tenga conto del dilagare della metaforica, mitologica e non, presente in un’opera storica come la Bassvilliana di Monti e con più leggerezza nel Giorno di Parini. Va da sé che la narrazione de Il Monte di Aretea risente della volontà didattica del Micheletti e finisce per essere carente di una vera e propria peripezia. Il suo è un viaggio marcatamente conoscitivo nel quale valgono le descrizioni paesaggistiche, le albe e i tramonti, dell’estetica arcadica. E tuttavia non ci pare onesto trascurare una sperimentazione in cui la narrazione assolve a funzioni altre dal diletto settecentesco: più tardi la didassi troverà, semplificandosi e riducendosi a idee generali come l’amore e la patria, modi di più intima osmosi con la narrativa: alludiamo a quella risorgimentale e manzoniana. NOTE 1 Di famiglia patrizia, nacque a L’Aquila nel 1762 e ivi morì nel 1833. Dedicatosi agli studi di filosofia e di scienze mostrò nei suoi scritti propensione alla ricerca dell’utile sociale più che al fasto letterario. Oltre all’opera in questione, tra le altre prove letterarie si ricordano un’Apologia de’ Santi Padri contro Barbeyrac, e, anonime, Visione mirabile di tre Italiani, Avvertimenti politici alle future generazioni di Europa, Riflessioni a Sovrani e Governi sulla Polizia, su Dazii Doganali, sulle Coscrizioni. Ispirate ad un romanticismo in cui assai evidente è il peso della storia, pubblicò due volumi di Lettere solitarie. Compose infine tre volumi di Tragedie alcune delle quali di argomento nuovo, altre che ripetono temi dell’Alfieri, la qual cosa «apportò» alle sue «prevenzione ed ostacolo», e ancora un poema sulla peste d’Israele e una scelta di poesie e di prose, in «Giornale abruzzese di scienze lettere ed arti», IV, 1839, XI, pp. 38-43. 2 Il Monte di Aretea, I, L’Aquila, G. M. Grossi, 1793, p. 5. Riporteremo le citazioni senza apportare alcuna modifica rispetto a questa edizione. 3 Ivi, p. 1. 4 Ivi, p. 2. 5 Ivi, p. 4. 6 Ibidem. 7 Cfr. Dante, Convivio, III, III, 11. 8 Il Monte di Aretea, II, cit., p. 26.

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Ivi, p. 19. Ivi, p. 10, e cfr. sgg. 11 Ivi, p. 13. 12 Ivi, p. 14. 13 Ivi, p. 51. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 52. 16 XXXV, 13, vv. 2-3. 17 XXXV, 21, v. 7. 18 Il Monte di Aretea, II, cit., p. 52. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 53. 21 Ivi, III, p. 54. 22 Ivi, V, p. 110. 23 Cfr. ivi, p. 111. 24 Ivi, p. 119. 25 Ivi, VII, p. 174. 26 Purg. XXX, 49-51. 27 Eneide, I, 411-14. 9

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LUIGI MARSEGLIA LE FORME DELLA DIEGÈSI NEL «CONCILIATORE»: LA FAVOLA DELLE API DI MANDEVILLE Un aspetto di grande rilevanza quale specimen di una diegèsi ancorata a mezz’aria tra la classica resa dell’arguzia moralistica affidata alla favola e la tenuta ermetica di un linguaggio cui si affida l’ironia dissacratoria perfino dell’imperativo etico è data dal trattamento a cui «Il Conciliatore» (Romagnosi o Pellegrino Rossi) assoggetta la Favola delle api di Mandeville. L’argomento è noto. «Niuno – avverte l’autore delle Osservazioni morali prefate alla favola – si avvisò forse di fare del vizio più solenne apoteosi quanto il Mandeville nella celebre sua favola delle api». Poi il narratore affaccia l’intento dichiarato, attenuato dalla formula dell’excusatio non petita («non dispiacerà ai nostri leggitori che…»), di discutere dopo molti anni «una dottrina funesta alla morale dei popoli». Si tratta di dissacrare l’assunto cinico della vicenda delle api secondo cui «la società gode felicità in mezzo ai vizi». Al centro della discussione – è ben noto – è tutta la polemica settecentesca sul lusso alimentata anche dalla filosofia dei libertini, fortemente critici sulla morale corrente, certo lontani dai concetti di vizio e di virtù nelle loro accezioni più accettate. La narrazione prende le mosse nel tradizionale tono fabulatorio. Manca la formula incipitaria della favola: «c’era una volta», ma l’avvio del racconto è perentorio e indica una situazione di fatto asserita apoditticamente come punto di avvio e di riferimento per il susseguirsi delle fasi della narratio. Come nella favola e nell’apologo il rinvio allegorico si gioca sulla personificazione. Le api hanno i loro re con le loro leggi e fin qui tutto s’inscrive entro una logica delle funzioni oggettivamente presente in uno stato di natura. Poi nel corpo sociale compaiono medici, sarti, commercianti, mezzani di amore, giocatori e via dicendo e la finzione investe un mondo non più animale. Il racconto assume sempre più la struttura della favola anche nella dispositio e procede, nelle prime due parti in cui è possibile dividere la progressio, — 399 —

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lungo una linea di misurato equilibrio tra ordo naturalis relativo alla successione degli eventi narrati e ordo artificialis che si avvale degli scarti nel tessuto narrativo, delle figurae e della translatio. La prima di queste parti conferma l’impianto fabulatorio anche nella composizione e nel susseguirsi delle unità logiche. Indicata e affermata una situazione di fatto: «in mezzo però a tanti vizj e disordini la nazione godeva di una felice prosperità», poi la voce narrante enuncia subito un principio che spiega le ragioni a sostegno della prima affermazione col tono sentenzioso che spesso regola e connota l’affabulazione didascalica: «imperocché i vizj dei privati – spiega infatti la voce narrante – contribuivano alla felicità pubblica». Nel farsi del racconto le inversioni nella successio di causa ed effetto variano l’uniformità discorsiva della prosa ma, al di là della narrazione consequenziale di condizioni e, in misura minore, di fatti, il reticolo delle allusioni e dei traslati è contenuto e facilmente percettibile. Diversa invece è la connotazione ironica della seconda parte che si apre sull’inversione di rotta del popolo delle api corrotte, paradossalmente aperte all’invocazione della giustizia e dell’onestà: «Buon Dio! – esse invocano – Accordateci solo la probità». Si tratta di un uso sapiente dell’ironia spesso aperta al cinismo del paradosso finemente attuato nella singolarità dei rinvii simbolici. La chiosa dell’autore all’invocazione sopra riportata è che «Mercurio rideva ad una preghiera così sfrontata, e gli altri Dei stupivano che queste api disprezzassero ciò che tanto amavano». Il sorriso di Mercurio, protettore dei ladri, segna la distanza dell’autenticità di un disvalore assunto a valore (la disonestà), dalla falsa normalità assegnata da un accettato codice morale alla brama di onestà delle api corrotte, paradossalmente stigmatizzata come disvalore. È autentico insomma lo scandalo avvertito da Mercurio e falsa e insulsa la richiesta delle api. Su questo terreno si accende la plausibilità della disfatta di una società felice, finché fondata sull’eversione della norma morale e infelice invece sotto la cappa del contentamento e dell’onestà. C’è però un terzo livello nella favola ed è quello del narratore (Romagnosi) impegnato a recuperare un significato altro, diverso dalla conclusione di Mandeville. La diegèsi qui si organizza nelle forme della confutatio con una pratica dell’espediente ironico più ancorata a schemi consolidati ma sufficientemente aperti a un’idea del racconto collocata tra l’ascendenza retorica dell’ironia e la qualità filosofica della sua distanza, aperta insomma alla finezza dell’arguzia socratica, anch’essa intesa a dedurre, ad argomentare e concludere. Lo strumento è quello dell’immutatio dissimulatoria. Il narratore — 400 —

LE FORME DELLA DIEGÈSI NEL «CONCILIATORE» parte dall’assunto, per lui certo, della necessità della norma morale poi ne mette in dubbio la validità e simula invece incertezza attraverso una serie di domande. Il filosofo olandese – osserva Romagnosi – fece con questa favola una viva pittura dello stato, nel quale purtroppo si trovano le umane società. Ma che esse non possano ordinarsi altrimenti, e che anzi non possano esser felici senza delitti, senza inganni e senza vizj, ella è questa conclusione assai stravagante. Il vizio non può essere elemento di felicità, perché questa si fonda sulla morale, e non vi è morale senza virtù.1

Questa è la posizione di Romagnosi ancorata alla norma di una morale fondata sulla virtù. Alla possibile obiezione di astrattezza di un simile assunto, giacché poi la realtà parla da sé e dimostra che l’assenza del vizio sconvolge l’ordine sociale, Romagnosi oppone il principio che l’economia delle nazioni si fonda sulla disuguaglianza della ricchezza e che «l’unico rimedio di questo male apparente» è dato dalla circolazione della ricchezza. Poi la narratio si articola in una serie di interrogative retoriche in una sorta di ideale dialogo in cui le risposte sono incerte ma prevedibili: […] ma sarà poi essenziale che il vizio e il depravato costume e il delitto e la frode sieno il principio motore della medesima, e non lo potranno essere più efficacemente l’innocente amore della fatica, la virtù e la beneficenza? Affinché dunque una nazione pervenga al suo perfezionamento nelle arti e nelle scienze e nella morale, e affinché venga dai popoli rispettata ed onorata sarà necessario che il ministro tradisca l’interesse pubblico in un intrigo diplomatico? Sarà necessario che le prigioni sieno piene di ladri e di assassini? Sarà necessario che i mercatanti sieno falsarj, e che le arti e il commercio sieno in mano degli scellerati?2

L’imprescindibilità della norma morale chiude la confutazione nella clausola finale: Riceva dunque l’uomo i primi omaggi della natura, e lungi dal renderlo simile a quelle pietre che neppur gettano la scintilla dal fuoco nativo, come vorrebbero questi ultimi, o dal circondarlo di falsi splendori, come vorrebbe il Mandeville, sia adorno e fulgente di quella luce purissima e celeste, che la stessa natura gli suscita nel cuore e nella mente.3

Il tono esortativo e sentenzioso della chiusa riconferma il discrimen dei modi d’impiego dell’ironia. L’impianto retorico-argomentativo delle prime — 401 —

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due parti differisce, come s’è detto, da quello dell’ultima parte. Il discorso ironico nell’esposizione della favola è lontano dalla stretta configurazione retorica. Esso è invece strumento d’intelligenza atto a chiarire i significati della storia e le dinamiche della vita sociale. L’ironia è il segno dello scarto del pensiero che distingue la verità assoluta dal contingente e induce al riso. Nell’uso che ne fa la favola del «Conciliatore», essa evoca la «buffonerie trascendentale» di cui parla August Wilhelm Schlegel. Dentro questa pratica del buffo vive «all’interno la tonalità che tutto sovrasta e si eleva infinitamente su tutto ciò che è determinato […]; all’esterno, nell’esecuzione, la maniera mimica di un comune buon buffo italiano». Questo riconoscimento in positivo della qualità della finzione buffonesca all’esprit italien questa volta viene da uno scaltrito lettore di Pulci, di Ariosto, di Berni e poi dei Gozzi. E se le opzioni tematiche, i rinvii simbolico-allegorici, gli accordi, i toni e gli espedienti retorico-stilistici della comunicazione segnano in qualche modo le forme della narrazione, gli scarti o i trapassi tra un genere letterario e l’altro in quella fase dell’Ottocento, le pagine del «Conciliatore» relative all’inventio di un nuovo terreno dell’epica ne spiegano a un tempo amori e disamori. Mandeville, dunque, assunto quale bersaglio polemico da Romagnosi, attento all’integrità morale di una società immaginata nella prospettiva etica dello stato liberale, e l’attenzione rivolta all’America e alla rivoluzione hanno altre implicazioni. In Francia e in Europa, passato il furore rivoluzionario, dalla morte di Fouché a quella di Robespierre, la cronaca rivoluzionaria registra il degradarsi degli eventi e sono sempre più plausibili la distanza dall’eccesso e il giudizio di condanna. August Wilhelm Schlegel, madame de Staël e Ludovico di Breme che ne raccoglie il messaggio, si rifugiano nell’utopia dell’unità della vita morale assumendo in positivo la storia delle repubbliche antiche. Nella recensione alle Considerazioni sopra i principali avvenimenti della rivoluzione francese di madame de Staël, Ludovico di Breme ne cita l’esordio con funzionale perspicuità: La rivoluzione della Francia è una tra le grandiose epoche sociali. Quelli che la considerano come un fortuito avvenimento, non volsero mai gli sguardi al passato, né all’avvenire; scambiano essi gli attori col dramma, e onde compiacere le loro passioncelle, imputano agli uomini dei giorni loro ciò che i secoli erano venuti preparando.4

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LE FORME DELLA DIEGÈSI NEL «CONCILIATORE» La rivoluzione francese è certo uno dei momenti più importanti della storia moderna, evento non dovuto al caso ma esito della continuità di presente e di passato. E il passato per i rivoluzionari è anche la classicità delle repubbliche antiche assunte in tutto il loro esser positivo antidoto alle tragiche volute della storia. A.W. Schlegel in un frammento celebre (Ath., 424) legge in modo ambivalente l’esperienza della rivoluzione francese. Essa gli appare «un terremoto quasi universale, una smisurata inondazione del mondo politico oppure come l’archetipo delle rivoluzioni, come la rivoluzione tout-court» e fin qui prevale la sintonia con i giudizi correnti. L’altro aspetto configura invece la rivoluzione «come il più terribile grottesco dell’epoca in cui i suoi più profondi pregiudizi e le sue più violente vendette si sono mescolate in un orribile caos, si sono intrecciati nel modo più eccentrico possibile in una mostruosa tragicommedia dell’umanità»5. È in realtà il senso profondo dell’impossibilità del più grande evento dei tempi moderni a proporsi come soggetto di epos agli occhi dei romantici. E in quanto alla storia americana, certo più flessibile all’esigenze di un’epica moderna – in La démocratie en Amérique Toqueville ventidue anni dopo evoca anche questo aspetto – è pur vero ch’essa, come tale, non attinge le forme della poesia. L’ironia, qualora debba svolgere la sua azione corrosiva, indulge al paradosso e libera il corso alla riflessione come nella favola di Mandeville. Una sorta di ossessiva mania di autopotenziarsi – ha ragione Benjamin – vanifica e distrugge la tensione poetica e la converte nella critica. Non c’è più spazio per l’epica tanslatio usata nei modi classici. Il respiro di un’epica nuova lo rende ora solo Goethe ma in termini affatto diversi. Tra i nuovi generi la diegèsi è ormai quella della favola, del saggio, del romanzo. NOTE 1 G. D. ROMAGNOSI, Favola delle api ovvero i furfanti divenuti onesti, «Il Conciliatore», I, 20 (8 novembre 1818), ora nell’edizione completa a cura di V. BRANCA, I, Firenze, Le Monnier, 19653, p. 320. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 321. 4 «Il Conciliatore», I, 7 (24 settembre 1818), ivi, p. 114. 5 A. W. SCHLEGEL, Frammenti critici e poetici, trad. it. Torino, Einaudi, 1998, pp. 84-85.

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LAURA MELOSI ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO 1. È un «curioso capitolo di storia culturale ottocentesca», come l’ha definito Sebastiano Timpanaro1, quello dell’epigrafia in lingua italiana, distinta in quanto tale dall’epigrafia greco-latina, una pratica che si afferma e si dispiega in tutto il suo potenziale retorico e letterario proprio nel corso del secolo XIX. Non che antecedentemente non sia possibile documentare l’esercizio dell’iscrizione in volgare, attestato anzi fin dal secolo XII, ben rappresentato nel Cinquecento dalle prove frequenti di illustri letterati quali Bembo, Varchi, Giovio, Vasari, Speroni, e poi da secentisti maggiori e minori di cui mette conto ricordare almeno Bartoli e Tesauro, fino ad arrivare a Vico e Fantoni nel Settecento. Ma resta il fatto che nell’Ottocento quella pratica che fino ad allora aveva avuto carattere episodico si istituzionalizza. Ci fu un tempo, tra il 1820 e il 1830, nel quale la composizione di epigrafi in volgare parve assurgere alla «gravità d’un affare di stato» e importare meriti o demeriti politici per l’indizio di liberalismo che in piena Restaurazione arrivò a gravare sui sostenitori delle iscrizioni in lingua italiana. Lo ricorda Carducci, in un articolo apparso sulla «Cronaca bizantina» nel 1881, lamentando la progressiva invasione «a passi di minuetto» del campo della letteratura da parte dell’epigrafia, disciplina che «pei romani e pe’ nostri de’ secoli classici né meno era contata tra le specie e le forme della prosa letteraria», e che invece nel volgere del secolo XIX aveva visto crescere a dismisura la propria importanza e dilagare nelle occasioni commemorative pubbliche e private. Tanto che si era addirittura arrivati a concepire iscrizioni non per essere incise ma declamate (il che è una contraddizione in termini etimologici), e gli «smammolamenti» di Luigi Muzzi, le «vesciche» di Pietro Contrucci, gli «spasmi» di Carlo Leoni erano potuti apparire «miracoli nuovi di affetti, di concetti, di forza»2. L’unico che Carducci – epigrafista a sua volta – salva dal— 405 —

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la condanna in blocco degli «epigrafai» italianizzanti è Giordani, e non sorprende da parte dell’ex ‘amico pedante’3. In effetti, al di là delle questioni di primogenitura e di primato estetico che vedono opposto l’affermato scrittore piacentino al prolifico erudito pratese Muzzi4, la lezione di Giordani resta fondamentale nella storia del genere per la consapevolezza ideologico-linguistica che le è sottesa e per l’originalità stilistica della sua messa in pratica. La rivendicazione della pertinenza e dell’opportunità dell’italiano nell’espressione lapidaria, di contro al latino di cui essa era stata quasi totale appannaggio fino a quell’epoca, rientra fra le battaglie condotte da Giordani a favore di una cultura progressiva e antiaccademica, capace di farsi strumento di emancipazione culturale e civile. E dall’alto della sua autorità – o come è stato detto della sua ‘dittatura’ letteraria5 – Giordani fu sicuramente molto più efficace di chiunque altro nell’imporre la nuova tendenza. 2. Tale tendenza si afferma a partire dalla fioritura di collezioni antologiche e di raccolte d’autore compilate per fornire modelli d’uso ad apprendisti scrittori di epigrafi; fioritura alla quale si accompagna una discreta produzione di dissertazioni e trattati in materia di epigrafia che svolgono la funzione di grammaticalizzare un uso proliferante su base prettamente empirica6. È da questi trattati che si possono ricavare i caratteri di un genere formalmente ambiguo, troppo spesso apparentato in maniera semplicistica con l’epigramma in virtù di un’analoga comunicatività sintetica e del fatto che la prosa epigrafica, organizzata per frasettine e membretti, sembra sconfinare nel verso. Ma va preliminarmente precisato che mentre l’epigramma risponde alle leggi del metro, del verso, della rima, l’epigrafe di preferenza se ne astiene7, mentre è semmai tenuta all’osservanza del ritmo, come fattore di armonia, e soprattutto alla strutturazione iconica del componimento entro il perimetro lapideo. Ritmo e visualità sopperiscono pertanto al fattore metrico e collaborano in maniera sinergica alla riuscita letteraria di un testo che per esser tale deve acquisire la sua forma nella pietra, nel metallo o quantomeno nella simulazione della carta. Questo principio dello statuto epigrafico è unanimemente attestato dagli autori normativi, come il padre barnabita Raffaele Notari, che nel 1842 pubblica a Parma un Trattato dell’epigrafia latina e italiana8, o come Gianfrancesco Rambelli, già della cerchia di Giordani, che nel decennio seguente stampa a Bologna un nuovo trattato, questa volta dedicato alla sola epigrafia ita— 406 —

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liana9. Le divergenze si incontrano, semmai, nell’ambito della classificazione tipologica delle iscrizioni, dove ciascun teorico inventa un proprio sistema di ordinamento della materia. Notari, per esempio, delinea una sorta di stemma inscriptionum organizzato in 3 rami generali che danno luogo a 6 classi di epigrafi (I. per la materia in cui sono incise: 1. lapidarie, 2. numismatiche; II. per lo scopo a cui tendono: 1. permanenti, 2. temporanee; III. per le qualità dello stile: 1. prosaiche, 2. poetiche), a loro volta articolabili in 7 specie individuate secondo l’argomento (storiche, onorarie, elogistiche, statuarie, sacre, officiose, funebri). Il sistema di Rambelli, invece, si sviluppa in 9 classi determinate dal tipo di commemorazione e suddivise in base al tema specifico delle singole occasioni (1. sacre: dedicazioni, donarii, voti, monumenti sacri, iscrizioni temporanee; 2. istoriche: fasti pubblici, particolari, temporari, per opere pubbliche, per opere private, indicazioni, incisioni statuarie; 3. onorarie: permanenti, temporanee, gratulatorie, di circostanza, 4. elogistiche; 5. funebri: sepolcrali per uomini, per donne, per fanciulli, per fanciulle, comuni, cenotafiche, temporali per funerali, elogi per tubi sepolcrali; 6. leggende per medaglie; 7. infamatorie e giocose; 8. titoli di uso privato; 9. iscrizioni: poetiche, ovvero epigrammi, tradotte, per bruti)10. La campionatura per classi è introdotta da un’ampia riflessione sulla tecnica compositiva delle iscrizioni, dove vengono messe a fuoco le qualità stilistiche da cui la scrittura epigrafica non può prescindere, ovverosia chiarezza, semplicità, affetto, armonia, sentenze, con note su ortografia e abbreviazioni. Rambelli illustra poi le parti in cui di norma deve essere distribuito il testo dell’iscrizione, introducendo i concetti di antefisso, narrazione e clausola11. L’antefisso costituisce l’esordio testuale e può esser reso in forma di invocazione o dedica. Funziona come una sorta di intitolazione alla quale è demandato il compito di definire la natura del supporto, che sia un monumento o altro. Alla clausola finale è invece riservato il compito di suscitare considerazioni di tipo etico-filosofico a scopo suasorio o didattico. Peraltro, a dispetto, di tanta schematicità precettiva, nella pratica dell’elaborazione epigrafica spesso i campi non risultano delimitati con altrettanta precisione, le loro competenze tendono anzi a confondersi e non è affatto detto che antefisso e clausola compaiano sempre e contemporaneamente in un testo. Ciò da cui, in ogni caso, non è possibile prescindere è il corpo centrale della narrazione, ultimo elemento della tripartizione indicata da Rambelli e apparentemente quello meno problematico. E invece è proprio sul significato per nulla scontato di questo termine che occorre riflettere per definire nei suoi aspetti assolutamente peculiari – e magari paradigmatici — 407 —

LAURA MELOSI

nei confronti di altre «scritture brevi» – la ‘funzione narrativa’ del genere epigrafico. 3. Se è vero che la finalità delle iscrizioni è quella di segnalare qualcosa di memorabile all’attenzione di chi legge, è anche vero che le modalità con cui ciò avviene privilegiano il dato referenziale su quello evenemenziale. Nella maggioranza dei casi il nucleo diegetico dell’epigrafe resta infatti collegato ad un unico fatto e attorno ad esso si dispongono elementi testuali di tipo descrittivo. Siamo, insomma, ancora al di qua della consapevolezza post-genettiana che per racconto debba intendersi – fra le tre accezioni possibili – la successione di avvenimenti reali o fittizi che formano l’oggetto del discorso12; anzi nella prospettiva ‘larga’ dei trattatisti ottocenteschi si considera esperienza narrativa anche la segnalazione di un singolo avvenimento. L’elaborazione articolata della sintassi epigrafica non deve trarre in inganno al riguardo: A

CLEMENTINA DEGLI ANTONI

ANGELO FABRONI

GENTILISSIMO SPIRITO

TOSCANO

LEGGIADRO ORNAMENTO DI FELSINA

DI PIÙ REGIONI EUROPEE

PER AMABILITÀ DI MANIERE

VISITATORE ERUDITO

E SQUISITO ARTIFICIO DI CANTO

SCRITTORE

RAPITRICE DE’ CUORI

DI LETTERATE EFFEMERIDI

UN AMMIRATORE

D’ITALI CLASSICI

DELLE SUAVI MODULAZIONI

DOTTO ELOGISTA

INEBRIATO DI SUBLIME DILETTO

DELLA PISANA UNIVERSITÀ

E INTERPRETE

GRAVISSIMO STORICO

DE’ VOTI UNANIMI DEGLI ASCOLTANTI

D’ILLUSTRI ITALIANI

PUBLICI SALUTI

PLUTARCO LATINO

DI MERITISSIMO PLAUSO OFFERISCE

SUO NOME VIVRÀ SEMPRE

IN TE SORRIDE E PARLA E CANTA AMORE

NELLE BOCCHE DEI SAGGI

E PIÙ RATTE CON TE CI FUGGON L’ORE

Sono due esempi di iscrizioni onorarie, in ciascuna delle quali l’impressione è di un racconto biografico che illustra le virtù e i meriti dell’onorato, ma in realtà quella che viene dettata è una sequenza di tipo descrittivo-elogiativo, esemplata sul modello classico del ritratto storico che anche nella — 408 —

ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO

pratica degli epigrafisti latini sfruttava a pieno la figura retorica dell’enumerazione. L’epigrafe in lode della «cantatrice» bolognese si deve all’estro e all’ammirazione di Muzzi13, mentre quella a Fabroni è opera dell’assai meno noto conte Domenico Brunoni, dottore in medicina e socio corrispondente dell’Ateneo di Forlì che nel 1831 dette ai torchi del tipografo Marsigli di Bologna un saggio della sua poco pregevole abilità epigrafica14. Poco pregevole perché la nota di fondo della breve raccolta resta una monotona uniformità che rende omologhe le diverse classi di iscrizioni in cui egli si cimenta – sepolcrali, elogiative, infamatorie – e questo limite di esecuzione si coglie senza attenuanti andando a leggere la seguente iscrizione a Nerone15, illuminante in quanto fin troppo affine alla precedente al Fabroni nonostante lo spirito della lettera in questo caso sia opposto: CLAUDIO NERONE O ANIMA VILE E FEROCE DI SCELLERATEZZE ABBOMINEVOLE ESEMPIO DI ROMA DEL CRISTIANESIMO DEL GENERE UMANO MOSTRO E TIRANNO BARBARO MATRICIDA ANCHE NELLE BOCCHE DEGL’EMPII VIVRÀ ESECRATO IL TUO NOME

Stile nominale e sintassi coordinata asindetica denunciano che si è di fronte a successioni descrittive di natura mono-evenemenziale, ed è questo l’andamento tipico di tante iscrizioni dettate dai Brunoni di turno16, che seguono alla lettera la precettistica in uso: «Le iscrizioni onorarie s’incominciano d’ordinario col nome del personaggio in dativo, o colle parole Ad onore, Alla memoria, e il nome dell’onorato in genitivo: dopo il nome si esprimono le sue dignità e cariche, quindi quanto forma la gloria particolare per cui è meritato di lapide; indi si chiude con epiteti che ne mostrino le virtù i meriti e le geste, che già si espressero superiormente»17. Non sfugge alla regola neppure Carlo Pepoli che celebra le itale glorie della letteratura e dell’arte in una serie di iscrizioni elogiative dedicate a Monti, Savioli, Giordani, Leopar— 409 —

LAURA MELOSI

di, Raffaello, Correggio, Leonardo18, destinate ad essere apposte ad altrettante immagini dei singoli personaggi: GIACOMO LEOPARDI NELLE GRECHE LATINE ITALIANE LETTERE DOTTISSIMO NELLA FILOSOFIA NELLA PROSA NELLA POESIA SCRITTORE PRECLARISSIMO SI APRIVA NOVELLA SCABROSA VIA SU CUI STAMPÒ SOLITARIO GRANDE ORMA VISSE MESTA VITA RECANATI GLI PARVE MATRIGNA ITALIA GLI FU DONNA EUROPA GLI DONÒ CORONE SAPIENZA GLI DAVA IMMORTALITÀ

VINCENZO MONTI FILOLOGO ACUTO E POETA MAGNO VERSÒ L’OMERICA ILIADE NELLO ITALICO IDIOMA GIGANTEGGIÒ NELLE SATIRICHE LIRICHE TRAGICHE POESIE ONORÒ LA TERRA DI ALFONSINE VI NASCENDO E CON FAMA CHE NON ATTEMPA ONORA L’ITALIA E L’EUROPA

4. Nella generale medietas di una produzione epigrafica di questo tipo, spiccano casi a maggior gradiente di narratività. Melchiorre Missirini è autore di un’epigrafe a Michelangelo19 che ben illustra la tecnica compositiva delle iscrizioni elogistiche, le quali, rispetto alle onorarie, devono proporre in aggiunta ai dati anagrafici, alle cariche e al merito specifico che comporta la dedica di un’epigrafe anche altri elementi della biografia del personaggio di chiara fama omaggiato. «Amano gli elogi stile elegante, ma succoso e stretto – raccomanda l’ottimo trattatista –, e d’una esposizione non tanto continuata, ma più presto spezzata e divisa a membretti»20: così la celebrazione di Mi— 410 —

ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO

chelangelo dà luogo ad una mini-biografia di particolare intensità, per via della condensazione retorica a cui la scrittura epigrafica scorciata sottopone i fatti raccontati: MICHELANGELO BUONARROTI ELOGIO SUBLIME DELL’UMANA SPECIE IN CHE SI UNIRONO QUANTI PREGI BASTANO AD ILLUSTRARE PIÙ GENERAZIONI IL GENIO SI TRASFUSE NELL’ANIMA SUA L’AGITÒ, L’INFIAMMÒ E LA TRASPORTÒ A PORTENTI DI NUOVA MARAVIGLIA EREDE DELLO SPIRITO DI DANTE NE INDUSSE NELL’ARTI LA FORZA E LA TERRIBILITÀ CONSCIO DELLA SUA POTENZA SI SPEDÌ DALLE VIE DELL’ALTRUI IMITAZIONE E IN TUTTO VOLLE ESSERE ORIGINALE ARBITRIO AD ESSO SOLO CONCESSO SI LANCIÒ AL DI LÀ D’OGNI TERMINE E L’ARTE DA UNO SCOGLIO INACCESSIBILE SIGNOREGGIÒ CREATORE DELLE DIFFICOLTÀ PER LA GLORIA DI SUPERARLE SI POSE A CIMENTI AD OGNI ALTRO SUPERIORI E RISPOSE ALLA PROFANAZIONE DE’ PEDANTI CO’ MIRACOLI DELLA SISTINA COL MOSÈ E COLLA CUPOLA VATICANA SOMMO IN QUATTRO ARTI DELL’ISPIRAZIONE GAREGGIÒ SOLO CON SE MEDESIMO DALLA SUA AUDACIA RIFUGGIRONO LE GRAZIE L’ARTE SBIGOTTITA SI RITRASSE ED EGLI USURPATE LE SOMMITÀ DELL’UMANO INGEGNO RIMASE UN NOME CHE ESPRIME UNA INTELLIGENZA DIVINA

Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma ci limitiamo a segnalarne solo un paio, significativi per l’identità degli elogiati e per l’autorevolezza di cui ai loro tempi godettero gli epigrafisti elogiatori (rispettivamente Carlo Leoni e Pietro Contrucci21): — 411 —

LAURA MELOSI

GALILEI AQUILA DIVINATRICE SORPRESE AFFERRÒ NATURA NEI VERGINI PENETRALI A NOVA FILOSOFIA RIGENERANDO EUROPA TROPPO DIVINO ALLA TERRA CORSE I CIELI GLI ABISSI DI DIO INTUÌ RIVELÒ N’EBBE CARCERE O SOMMO FINIRÀ TUA GLORIA QUANDO SPENTO IL SOLE E L’ORBE SCARDINATO CESSERÀ L’ETEREA DANZA CHE TU SCOPRIVI

VITTORIO ALFIERI DESTATO ALLA GLORIA DALLE URNE DEI GRANDI POTENTE DEL GENIO FORTE DEL VOLERE SDEGNOSO AI VIVI SOLLECITO DEI FUTURI PER ARDUE VIE GIUNTO A VERGINE META LA CORONA TRAGICA POSE SULLA FRONTE ALL’ITALIA O TU CUI AMORE E RIVERENZA CONDUCE OVE EI S’ISPIRÒ SE ALLA VISTA DE QUEI SIMULACRI NON SENTI BATTERE IL CUORE DISPERA

Più rari sono i casi di narrazione pluri-evenemenziale nelle epigrafi funerarie, collocate sul sepolcro a riferire dell’episodio traumatico del trapasso segnalando i dati anagrafici e attardandosi sulla pura descrizione esornativa dell’estinto (descrizione quasi mai del tutto sincera: come dicono proverbialmente i francesi, menteur comme une épitaphe), in una successione anche in questo caso prefissata dalla trattatistica del genere e che vuole indicati nell’ordine: identità dello scomparso, età, compianto della famiglia, citazioni dai Vangeli o dai Salmi, e magari l’aggiunta agli anni vissuti di un — 412 —

ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO

«soli» o un «non più» che toccano «soavemente il cuore», e ci fanno vedere «la doglia che ne ebbero i congiunti nel doversene dipartire»22. Si danno, peraltro, anche eccezioni di un più articolato indugio biografico nel testo dell’iscrizione sepolcrale, anche in termini di intreccio pseudo-romanzesco quando la vita del personaggio compianto lo autorizzi, come accade in questo epitaffio per la tomba dell’esule mazziniano Salvatore Ferretti, fondatore di un importante istituto d’accoglienza e istruzione dell’infanzia abbandonata, sepolto alla sua morte nel cimitero fiorentino protestante detto ‘degli Inglesi’: SALVATORE FERRETTI 15 SETTEMBRE 1817

NACQUE IN FIRENZE IL

DA OPEROSA E SANTA CARITÀ ISPIRATO NEL SOCCORRERE AI MISERI SPESE LA VITA NELLA OSPITALE INGHILTERRA DOVE VENT ’ANNI DIMORÒ PRESO DA DESIDERIO DELLA PATRIA DILETTA RACCOLSE IN ASILI I FANCIULLI DA SNATURATI GENITORI VENDUTI LE FIGLIE DEGLI INFELICI CHE IN ESILIO LANGUIVANO CACCIATI DALL’ITALIA DIVISA IN OPERA DI TANTA MISERICORDIA DA PIE PERSONE LARGAMENTE SOCCORSO E DOPO CHE A LIBERTÀ L’ITALIA RISORSE TORNATO IN FIRENZE APRÌ FRA ORFANE CASA DI RIFUGIO E DI EDUCAZIONE QUI ARRIVATO DALLA FEDE IN CRISTO SALVATORE DALL’AFFETTO DEI SUOI E DEGLI AMICI CONFORTATO MORÌ

14 MAGGIO 1874

5. Fanno gruppo a sé, dal punto di vista della formalizzazione retorica, le epigrafi a struttura allocutiva o dialogata, nelle quali la léxis si sposta, parzialmente o interamente, dal terreno della diegesi a quello della mimesi. Un esempio di allocuzione, fra i molti che se ne contano in particolare nella classe delle epigrafi funerarie, è offerto da questa lapide di Giuseppe Manuzzi23: — 413 —

LAURA MELOSI ANIME PIETOSE CHE LEGGETE IN QUESTA PIETRA DITE PAROLE DI SUFFRAGIO A PRO DI FERDINANDO POLLINI CARISSIMA E VIRTUOSA PERSONA TOLTO AGLI AMPLESSI DI TERESA CAZZANIGA DOPO SOLI CINQUE MESI DI SOAVISSIMO MATRIMONIO IL XIII DI AGOSTO DEL MDXXXIV

Si veda anche la seguente, che si legge nel Cimitero Maggiore di Torino24, un dittico che offre al compianto del visitatore pietoso un lamentevole caso di funerea imitatio patris: COME IL TUO BUON GENITORE ERI PIO E SOAVE AVEVI FEDE INCORROTTA E SICURO GIUDICIO ALTO INTELLETTO E NOBIL CUORE.

COME IL TUO BUON GENITORE NEL FIOR DELLA GIOVINEZZA TI DIPARTISTI RADDOPPIANDO UN INFORTUNIO CHE TU UNICO AL MONDO AVEVI POTER D’ALLEVIARE FIGLIO!… OH COME MI SENTO SOLA!

FELICE MARCHESE DI S. TOMMASO MORÌ IL XXIII DI GENNAJO MDCCCXLIII D’ANNI XXXII MESI V GIORNI XIX

Totale, invece, lo spostamento mimetico nell’epigrafe dettata da Giordani per un’erma che il cavaliere pistoiese Niccolò Puccini aveva dedicato a Cleopatra nel giardino monumentale della sua villa di Scornio, un esempio di parco patriottico risorgimentale che godette di vasta notorietà presso i contemporanei e che alcuni illustri autori contribuirono ad arricchire con proprie iscrizioni (tra le altre una assai famosa di Leopardi a Raffaello25). Il testo giordaniano è il seguente: CLE. TU CHE MEDITANDO PASSEGGI QUESTO BOSCO DOVE ME POSE NON INUTIL MEMORIA IL CAV. NICOLÒ PUCCINI RICONOSCI CLEOPATRA ULTIMA DÈ LÀGIDI

-PAS. PER GODIMENTO BREVE ED INFAUSTO DI REGNO E DI LIBIDINI LASCIASTI FAMA NON BELLA QUANTO MEGLIO È VITA DI VIRTÙ CON CIVILE FORTUNA

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ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO

Giordani riprende qui un procedimento narrativo attestato fin dalla classicità, ovvero la forma dell’epigramma dialogato, apposto talora a statue che sembrano animarsi al passaggio del visitatore e interloquire con lui: proprio come fa Cleopatra, alla quale il passante risponde con una battuta nella quale è condensato il senso di tutta l’operazione celebrativa pucciniana. 6. Mai scontato nelle soluzioni espressive, dotato di una capacità inventiva che ha pochi eguali fra gli epigrafisti suoi contemporanei, di Giordani si veda anche quest’altra epigrafe, appartenente alla classe dei fasti pubblici che venivano generalmente composti senza interruzione di righe, come se si trattasse di prosa narrativa, o al più divisi in tante iscrizioni quanti erano i fatti citati. Ad essa restano, tra l’altro, collegate le circostanze dell’espulsione dell’autore dal Granducato di Toscana nel 1830, poiché era stata dettata per la base di una colonna in marmo da collocare fuori porta San Gallo, a Firenze, nel luogo esatto in cui Leopoldo II, di ritorno da Vienna nell’ottobre di quell’anno, avrebbe dovuto incontrare il popolo in festa. C’era il fondato timore che il granduca potesse riportare dai colloqui con l’imperatore istruzioni per un irrigidimento del governo in Toscana (cosa che puntualmente avvenne), e per questo i dignitari di corte Capponi, Rinuccini, Ridolfi avevano pensato ad un’accoglienza in grande stile. Ma questa iscrizione non fu mai scolpita, perché i festeggiamenti vennero sospesi, e se ne può solo leggere il testo nella raccolta delle epigrafi giordaniane26: SIN QUI VENNE LA CITTÀ INCONTRO AL SUO AMATO SIGNORE, LEOPOLDO II, RITORNANTE DALLA GERMANIA NELL’OTTOBRE DEL MDCCCXXX. E DEGNA FESTA GLI FECE, E MOLTO LO RINGRAZIÒ: PERCHÉ IN VI ANNI DI REGNO, RISPETTÒ LA LIBERTÀ CIVILE, ACCREBBE LA PUBBLICA PROSPERITÀ: ALLEVIÒ DI UN QUARTO LA GRAVEZZA DE’ TERRENI: COMPIÈ I PENSIERI DELL’AVO MAGNANIMI E GIUSTI AL COMMERCIO, LIBERANDO I MACELLI DAL PRIVILEGIO; E DALL’IMPORTUNO DIVIETO IL FERRO LAVORATO DEGLI STRANIERI. FINÌ L’OPERA LODATA DEL PADRE IN VALDICHIANA. COMINCIÒ GLORIOSAMENTE OPERA DI GRANDE E DI BUON PRINCIPE NELLA MAREMMA GROSSETANA: CONDUSSE IN CLX GIORNI PER V MIGLIA DI CANALE NUOVO L’OMBRONE. ORDINÒ AMPIA STRADA PER CONGIUNGERE LE MAREMME DI PISA E DI GROSSETO; IMPRESE DI CONGIUNGERE TOSCANA AL MARE ADRIANO. ALLE GENTILI FANCIULLE CON LARGHEZZA REGIA E PATERNO AMORE PROCURÒ EDUCAZIONE PIÙ DEGNA DEL SECOLO. E NELLA SCIENTIFICA SPEDIZIONE DI EGITTO SOCIÒ IL NOME ITALIANO ALLA GLORIA DI FRANCIA.

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LAURA MELOSI

A confronto quest’altra di Muzzi: NEL XVII DI LUGLIO MDCCCXXX PRIMO ANNIVERSARIO FAU. FEL. DELLA LEGAZIONE APOSTOLICA DI TOMMASO

BERNETTI CARD.

SEMPRE COMMENDABILE

PERCHÉ DE’ PROPRI COMODI OBLIATORE; DE’ PUBLICI MIRABILMENTE SOLLECITO SMISURATA CONGERIE DI GHIACCI NIVALI SU MIGLIA CCCC D’ARGINI TOLTA, SERBÒ INDENNI LE N. PIANURE. DISPENSIERI D’OGNI SOCCORSO DEPUTATI AI MENDICI ORRIDISSIMO INVERNO MENO ASPRO FECE. NELL’OSPIZIO DELLA INDUSTRIA LAVORO PERENNE DISPOSE. FONDÒ RICOVERO DI MISERIA A BUDRIO. LO APPRESTA IN LOIANO. A INESTIMABILE PRO DELLA GIUSTIZIA TRASLOCATE LE CARCERI FÈ PIENO IL VOTO DE’ SAVI.

LA

POLIZIA TUTTE

ORE

VIGILE

E

PRONTA

RESE.

LO

UFFICIO

DEI

SOPRAINTENDENTI DEL RENO, LA RAGIONERIA, IL CATASTO DI LOCO IDONEO PROVVIDE. A LE COMUNITATIVE CONTRADE ORDINE AMPLITUDINE DIEDE. A LE MURA DELLA CITTÀ PIÙ FACILE TRANSITO E DECORO ACQUISTÒ. VIE SUBURBANE IN BELLA E UTILE FORMA RIDUSSE. RAVVIVÒ E PROMOSSE MANIFATTURE. STATUÌ OGNI DOVE PROFICUE DISCIPLINE. VETUSTI ABUSI MAGNANIMO SPENSE. LE SORGENTI DI PROSPERITÀ ACCREBBE. LA MISERIA E IL DELITTO DIMINUÌ. TENNE PARI IL PUBLICO ERARIO. PER TALI FASTI LA FORTUNATA BOLOGNA E SUA PROVINCIA AL PRESIDE E PADRE INCOMPARABILE MANDA GRAZIE PERPETUE, E A LA SAPIENZA OPEROSA A LA MODESTA VIRTÙ BENEMERITA IN TUTTI I CUORI MONUMENTO ETERNO DI GRATITUDINE PONE.

Le epigrafi storiche, lo si vede bene, costituiscono per loro stessa natura l’ambito privilegiato per il reperimento di nuclei diegetici nel senso genettiano del termine sopra ricordato, nonostante la vocazione al racconto debba anche qui misurarsi con gli ostacoli espressivi posti dall’esigenza di sintesi, meno opprimente nei fasti, tirannica nelle altre tipologie. In considerazione

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ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO

di ciò, sembra particolarmente riuscita questa iscrizione filellenica dettata da Contrucci per onorare le imprese di un’eroe della causa greca27: AL TERRORE DEI MUSULMANI

COSTANTINO CANARIS EROE INFATICABILE INVITTO SU FRAGILE BARCA CON L’INCENDIO DELLE NAVI TURCHE VENDICÒ LE STRAGI DI SCIO DI PSARA OPERATA LA LIBERTÀ DELLA GRECIA DEPONEVA NEL TEMPIO GLI ALLORI MODESTO SI RIDUCEVA AI PATRI LARI NULLA VOLENDO ALLE ALTE IMPRESE MERCEDE AMBIZIOSI E CUPIDI APPRENDETE VIRTÙ E MODERANZA

L’antefisso definisce i termini della dedica, la clausola ha contenuto didattico e parenetico e la narrazione contempla una successione di avvenimenti reali che sono poi alcuni degli episodi della lotta di liberazione della Grecia dal dominio turco. La diegesi svolge dunque una vicenda non solo biografica, ma anche storica, utilizzando tra l’altro quell’imperfetto narrativo che, come ha notato Contini, nello stile ‘poetico’ del linguaggio epigrafico non intende esprimere una durata ma definire un evento, alla maniera di un passato remoto28. La strada aperta nella prima metà del secolo da iscrizioni di questo genere verrà largamente e intensamente battuta nella metà successiva, allorché lo spirito risorgimentale si profonderà nella celebrazione degli episodi di eroismo e martirio che portarono alla formazione dello stato nazionale. È una tendenza che si consolida con il passare del tempo e che fornisce campioni epigrafici talora di eccezionale rilevanza narrativa:

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LAURA MELOSI QUESTO È IL PONTE DI MILAZZO O TU CHE NEI SECOLI DEI SECOLI T ’ARRESTI E GUARDI È IL LUOGO DOVE IL

20 LUGLIO DEL MDCCCLX

FU SANGUE E MORTE E STRAGE E PERICOLO ESTREMO DELL’ITALIA APPENA RISORTA QUI TORNANDO DA UNA CARICA VITTORIOSA LO SQUADRONE DEI REGI USSERI SI AVVENTÒ AL GALOPPO CONTRO UNA CAMICIA ROSSA A PIEDI QUASI SOLA E IL LORO CAPITANO GIULIANI CALÒ FULMINEO LA SCIABOLA SU QUEL CAPO DALLE LUNGHE CIOCCHE BIONDE L’UOMO ROSSO PARÒ E UCCISE ALTRI UCCISE MISSORI ALTRI UCCISE STATELLA GUIDE E CARABINIERI ACCORSERO AD UCCIDERE CHÉ COLUI QUASI SOLO ERA IL DITTATORE, ERA GARIBALDI, ERA L’ITALIA O VITA FIGLIA DEL SANGUE! QUI I NEMICI AL TEMPO DELLE ARMI SI RICONOBBERO FRATELLI SI AMMIRARONO CADENDO E SI AMARONO CADUTI E DALLA CONSANGUINEA PUNTAGLIA NACQUE L’ESERCITO UNO E GRANDE CHE VEGLIA CONCORDE SULL’ALPI COMUNI E LUNGO IL MARE NOSTRO IL COMUNE DI MILAZZO NEL CINQUANTESIMO GIORNO ANNIVERSARIO POSE

Fu Giovanni Pascoli, giusto allo scoccare del Novecento, a dettare questa iscrizione di taglio ‘romanzesco’29, a conferma del fatto che la storia dell’epigrafia italiana nel secondo Ottocento conosce esiti diversi da quelli indicati per la prima parte del secolo, da tracciare e valutare dalla specola dei mutamenti politico-culturali, e non secondariamente estetici, che segnano il passaggio dall’età della Restaurazione all’Unità. Dunque alle soglie del fatidico 1848 converrà che anche noi qui ci arrestiamo.

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ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO

NOTE 1 S. TIMPANARO, Le idee di Pietro Giordani, in ID., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 57, n. 30. 2 G. CARDUCCI, Epigrafi, epigrafisti, epigrafai, «Cronaca bizantina», 18 ottobre 1881; poi in ID., Confessioni e battaglie, serie seconda, Bologna, Zanichelli, 1902, pp. 127-136 (alle pp. 129 e 130). 3 Cfr. S. FERMI, Pietro Giordani e gli «Amici Pedanti», in ID., Saggi giordaniani, Piacenza, Del Maino, 1915, pp. 1-32; S. TIMPANARO, Giordani, Carducci e Chiarini, in ID., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, cit., pp. 119-132; R. TISSONI, Giordani e Carducci, in Pietro Giordani nel II centenario della nascita. Atti del Convegno di studi (Piacenza, 16-18 marzo 1974), Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza, 1974, pp. 323-351; P. TREVES, Il «mito giordaniano» degli Amici Pedanti, ivi, pp. 305-321; G. LUTI, Firenze e la Toscana. 1. Carducci e gli «Amici pedanti», in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, Storia e geografia, III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp. 463-466. 4 Scriveva Giordani ad Antonio Papadopoli il 12 giugno 1827: «Ma che sono mai quaranta, o poco più, iscrizioni che io sinora ho fatte, rimpetto alle più di trecento del Muzzi? le conosci tu? E nelle gazzette di Roma egli già fece dirsi (o si disse) inventore e autore di questo genere; e che Perticari e io l’abbiam seguitato. Tra i gran sapienti che gridano impossibile far iscrizioni italiane, e i gran teologi, che gridano esser contro la religione cristiana il farne, e il Muzzi che se ne grida inventore ed esempio, anche questo mestieruzzo è fortunato», Epistolario di Pietro Giordani edito per Antonio Gussalli compilatore della vita che lo precede, V, Milano, Borroni e Scotti, 1854, p. 431. Sulla questione (che vide, tra l’altro, inserirsi fra i due contendenti il comasco Giovan Battista Giovio, autore all’inizio del secolo di 70 iscrizioni militari in lingua italiana), intervennero F. ORIOLI, Intorno l’epigrafi italiane e l’arte di comporle, in Iscrizioni italiane di autori diversi con un discorso del prof. Francesco Orioli, Bologna, per le stampe de’ Sassi, 1826, pp. 2-43; G. SILVESTRI, Intorno alle iscrizioni di Luigi Muzzi e alla epigrafia italiana in generale, Prato, Vannini, 1827; C. GUASTI, Giuseppe Silvestri l’amico della studiosa gioventù, I, Prato, Ranieri Guasti, 1874, R. PAPI, Luigi Muzzi principe dell’epigrafia italiana, Prato, Edizioni dell’Azienda Autonoma di Turismo, 1966. Imprescindibili, in generale, gli studi sull’argomento di Piero Treves. Su Giordani epigrafista si vedano: C. GAZZOLA, Della epigrafia: lettera al chiar.mo Canonico Lateranense Don Luigi Dalla Noce piacentino, «Strenna piacentina per l’anno 1845», Piacenza, Del Maino, 1844, pp. 9-24, D. CAMPOROTA, Lettere e articoli sull’epigrafia nostrana, Castrovillari, s.e., 1901, A. FORATTI, Pietro Giordani epigrafista, Padova, F.lli Gallina, 1905, G. FERRETTI, Pietro Giordani epigrafista: nuovi appunti, «Rassegna nazionale», XXXVIII, 1917, 1, pp. 37-45, N. VACCALLUZZO, Il Giordani epigrafista in tre lettere inedite, «Glossa perenne», 1919, 2, pp. 1-12. Piace ricordare qui il giudizio di Binni sulle iscrizioni giordaniane: «brevi moti di tenerezza rappresi da un controllo di pudore e di essenzialità stilistica» (W. BINNI, Pietro Giordani, in Scrittori d’Italia, a cura dello stesso, III, Firenze, La Nuova Italia, 1946, p. 71).

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LAURA MELOSI 5 Cfr. I. DELLA GIOVANNA, Pietro Giordani e la sua dittatura letteraria, Milano, Dumolard, 1882. 6 «Le novità, benché utili ed innocenti, trovano sempre grandi opposizioni; e ciò è pure avvenuto all’italiana epigrafia, quantunque più paia di quello che siasi cosa nuova […] l’uomo prudente ed amante della vera gloria italiana dee non già condannarne l’uso, ma bensì procurare di correggerlo […]. A questo nobile scopo mirarono il Montanari, il Gironi, il Mariani, il Malvica, l’Orioli, il Rossi, il Silvestri, il […] Galvani e vari altri. Ma le loro dissertazioni, per lo più stampate in questo o in quel giornale (fra i quali citerò a cagion d’onore la Biblioteca italiana e l’Arcadico di Roma) o premesse a questa o a quella scelta d’epigrafi, furono troppo alte e generali, e però insufficienti ai bisogni dei meno pratichi, pei quali si ricerca più minuto insegnamento» (R. NOTARI, Prefazione a ID., Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, Parma, Ferrari, 1842, pp. VII-VIII). 7 È vero, altresì, che la suddivisione per classi contempla anche le iscrizioni poetiche, verso le quali, tuttavia, i trattatisti mostrano non poca diffidenza, dovendo il terreno della poesia aprirsi a dati ‘tecnici’ (nomi, cognomi, età anagrafiche ed altro) che meglio si prestano ad essere illustrati in prosa (cfr. ivi, pp. 13-20: p. 16). 8 R. NOTARI, Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, cit., ristampa Torino, Mariotti, 1856. 9 G. RAMBELLI, Trattato di epigrafia italiana, Bologna, Società Tipografica Bolognese, 1853. 10 Un ricco formulario di incipit e di definizioni appropriate ai casi più vari arricchisce il trattato di Rambelli e fu probabilmente tale appendice d’uso a decretarne la fortuna, visto che ne venne stampata a Parma una seconda edizione accresciuta nel 1862. 11 G. RAMBELLI, Trattato di epigrafia italiana, cit., pp. 7-8. 12 Cfr. G. GENETTE, Figure III. Discorso del racconto, trad. it. Torino, Einaudi, 1976, p. 74. 13 G. RAMBELLI, Trattato di epigrafia italiana, cit., p. 99. 14 D. BRUNONI, Saggio di epigrafia italiana, Bologna, Marsigli, 1831. L’epigrafe al Fabroni è la XXII a p. 14. 15 Ivi, p. 40, Appendice. 16 Si segnalano, fra le altre, le seguenti raccolte: E. ADORNI, Saggio d’iscrizioni, Milano, Tip. Bonfanti, 1846; G. BRAMBILLA, Florilegio epigrafico, Como, C. Franchi, 1868, T. LANDONI, Iscrizioni originali e tradotte, Prefazione di A. PANZACCHI, Ravenna, David, 1881. 17 G. RAMBELLI, Trattato di epigrafia italiana, cit., p. 76. 18 Ivi, pp. 110-115. 19 Ivi, p. 109. 20 Ivi, p. 104. 21 A. PADOVAN, Epigrafia italiana moderna, Milano, Hoepli, 1913, rispettivamente a p. 23 e p. 5. 22 R. NOTARI, Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, cit., p. 165. 23 G. RAMBELLI, Trattato di epigrafia italiana, cit., p. 137. 24 A. PADOVAN, Epigrafia italiana moderna, cit., p. 118.

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ASPETTI NARRATIVI DELL’EPIGRAFIA ITALIANA NEL PRIMO OTTOCENTO 25

RAFFAELLO D’URBINO PRINCIPE DE’ PITTORI E MIRACOLO D’INGEGNO INVENTORE DI BELLEZZE INEFFABILI FELICE PER LA GLORIA IN CHE VISSE PIÙ FELICE PER L’AMORE IN CHE ARSE FELICISSIMO PER LA MORTE OTTENUTA NEL FIORE DEGLI ANNI NICCOLÒ PUCCINI QUESTI LAURI QUESTI FIORI SOSPIRANDO PER LA MEMORIA DI TANTA FELICITÀ MDCCCXXXII

Sull’iscrizione leopardiana si veda E. PERUZZI, Raffaello d’Urbino, in ID., Studi leopardiani, II, Firenze, Olschki, 1987, pp. 139-156; sulla sua interpretazione in relazione alla coeva scrittura di Amore e morte e del Dialogo di Tristano e di un amico cfr. F. CERAGIOLI, I canti fiorentini di Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki, 1981, pp. 150-153. Per quel che riguarda il senso dell’operazione patriottico-commemorativa di Puccini si vedano: G. BONACCHI GAZZARRINI, Puccini e Leopardi, in Niccolò Puccini. Un intellettuale pistoiese nell’Europa del primo Ottocento. Atti del Convegno di studi (Pistoia, 3-4 dicembre 1999), a cura di E. BORETTI, C. D’AFFLITTO, C. VIVOLI, Firenze, Edifir, 2001, pp. 201-222; L. DIAFANI, Leopardi, Niccolò Puccini e «Raffaele d’Urbino», in Leopardi a Firenze. Atti del Convegno di studi (Firenze, 36 giugno 1998), a cura di L. MELOSI, Firenze, Olschki, 2002, pp. 489-500. Mi sia consentito anche il rinvio al capitolo L’amicizia con Niccolò Puccini dalle lettere, nel mio In toga e in camicia. Scritti e carteggi di Pietro Giordani, Lucca, Pacini Fazzi Editore, 2002, pp. 157-193. 26 Scritti editi e postumi di Pietro Giordani pubblicati da Antonio Gussalli, VI, Milano, Sanvito, 1858, p. 219. Non a caso l’epigrafe giordaniana è riportata fra gli esempi di fasti pubblici, o generali, sia da Notari nel suo Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, cit. (che suppone trattarsi di una imitazione del celebratissimo monumento di Ancirano, vd. pp. 2425), sia da Rambelli nel Trattato di epigrafia italiana, cit., pp. 55-56. 27 A. PADOVAN, Epigrafia italiana moderna, cit., p. 10. 28 Cfr. G. CONTINI, Letteratura italiana del Risorgimento, I, Firenze, Sansoni, 1986, p. 322. Sull’indicazione di Contini torna L. BLASUCCI, Genesi e costruzione di «A Silvia», in ID., Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, p. 143. 29 A. PADOVAN, Epigrafia italiana moderna, cit., p. 87.

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MARIA DI GIOVANNA LE TRE FIAMME. SUL PROLOGO DI NEDDA È noto come, nelle lettere alla famiglia o ad amici scrittori, il Verga non solo drasticamente ridimensioni lo spessore artistico di Nedda, che sarebbe il frettoloso frutto di un occasionale e non forte impegno letterario, ma neghi ogni suo profondo investimento emotivo in quel momento inventivo1. Scrive Asor Rosa: «Questa carica autodenigratoria, insolita in un autore come Verga, apparentemente modesto ma anche molto fermo nel difendere le ragioni del proprio lavoro e della propria opera, si spiega soltanto pensando che a Verga in quel momento l’esperimento siciliano dovesse parere qualcosa di episodico e di passeggero, dopo il quale tornare alle predilette avventure borghesi»2. E ciò è senz’altro vero se restiamo su un piano di coscienza letteraria. Se invece ci spostiamo sul versante dei meccanismi profondi della psiche, proprio nell’accanimento mostrato dallo scrittore nello svilire, a vari livelli, la portata del recente evento creativo, sentiamo operante anche un oscuro impulso che tende all’occultamento di una materia intima calata nel testo, che fortemente lo coinvolge e proprio per questo è fonte di un sotterraneo imbarazzo, tanto che la sua rilevanza può penetrare nello spazio coscienziale – direbbe Freud – a condizione di farsi negare. Tale reiterato atteggiamento, riscontrabile nell’epistolario nei mesi successivi alla stesura, lascia dunque intuire necessità autocensorie su materiali invisi a un introiettato Discorso dell’Ordine o non rispondenti alla progettata gestione della propria immagine pubblica. Siamo indotti così ad osservare attentamente proprio quegli spazi testuali che in Nedda ospitano maggiormente affioramenti di contraddittorie dinamiche interiori dell’autore, e, dunque, soprattutto quella sezione della novella che precede la storia dell’infelice varannisa e la presenta quale improvviso recupero memoriale sul filo di un’associazione di immagini; momento introduttivo la cui qualità autobiografica, certo, non poteva sfuggire alla critica ma che si presta ad ulteriori ap— 423 —

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profondimenti, in primo luogo relativamente alle forme della scrittura, che diversamente – rispetto ad altri testi – organizzano quel mito personale verghiano, così ricorrente, che ruota attorno all’abbandono colpevole del luogo d’origine e della famiglia e al ‘ritorno’. Ora, certo, tale esordio muove da un genere letterario ben precisabile, e cioè certa prosa d’arte in bilico tra modi brillantemente conversevoli e affondi intimistici3. Esso inoltre assolve a una funzione di ‘servizio’, procurando peraltro un’apertura più suggestiva al patetico racconto d’ambiente rusticano. Ma, se guardiamo con una lente d’ingrandimento al di sotto dell’elegante divagazione4, rintracciamo inizialmente una struttura che potrebbe richiamare l’immagine di una autobiografia sottoposta a un processo estremo di concentrazione. Curiosamente, in scala vertiginosamente ridotta, ed anche in una versione molto anomala, sono infatti presenti tratti previsti dallo statuto di un genere – quello della autobiografia vera e propria – che, certo, agli studiosi appare ormai sempre più evanescente e mobile nel tempo, ma che tuttavia è spesso utile richiamare per un primo orientamento tra le varie forme del dir di sé. E, dunque, dicevamo – senza reali intenzioni definitorie, bensì per un intrigante e stimolante riferimento – di una microautobiografia nella quale, pur in assenza di una distensione narrativa, lo scorrimento temporale – qualità essenziale, richiesta da quel codice – sia comunque assicurato; e nella quale poi sia esasperata, oltre ogni misura, un’attitudine consueta nell’io autoinvestigante, in quell’ambito letterario, e cioè la selezione delle esperienze vissute nell’arco della propria esistenza, sicché un unico dettaglio, inerente alla reattività della sensibilità in una particolare circostanza (lo star dinanzi a un focolare o il ricordarne l’esperienza) assuma un senso dilatato, esprimendo il complesso rapporto del soggetto con se stesso e il mondo in un dato momento della vita; dettaglio, poi, replicato, a formare – lungo i sentieri del tempo – una catena di immagini pregnanti, rinviante segretamente allo sviluppo per fasi di una personalità, in una visione retrospettiva (e ciò dovrebbe essere l’oggetto primario in una autobiografia). Ridotta, insomma, ai minimi termini, in misure microscopiche, la mascherata storia della conflittuale e contraddittoria costruzione dell’identità dell’io narrante si offre, attraversata da una corrente ermeneutica, che sembra però disperdersi – quanto a lucidità – man mano che si approssima allo stadio temporale del presente (anche questa tensione alla comprensione pertiene alla mappa del genere). È un percorso le cui tappe si raggrumano in immagini-simbolo; mentre le motivazioni del passaggio da una fase all’altra dell’esistenza sono contenute — 424 —

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in potenza, come vedremo, da termini o sintagmi ad alto spessore di senso latente, allusivi a bisogni, desideri inespressi, fastidi, carenze identitarie, vuoti psicologici, che aspirano ad essere colmati e presuppongono pertanto il cambiamento. Lo scorrimento temporale, disegnato dal lavorìo della mente (che inizialmente è volontario, producendosi solo alla fine il flash che illumina una zona buia della memoria), non è però segmentato da indicazioni cronologiche precise. Inoltre quel movimento a un certo punto s’arresta per ospitare un’altra delle forme dello scrivere di sé, che è l’autoritratto (e cioè la compiaciuta autopresentazione dell’io narrante nei panni del raffinato e ipersensibile uomo di mondo, in voluttuoso abbandono dinanzi al caminetto). Anche nelle misure ridottissime del prologo, insomma, le siepi divisorie, fissate dai codici delle scritture dell’io, si dimostrano alquanto permeabili. Naturalmente l’immissione dello schema dell’autoritratto, segnalata da un forte indicatore (il passaggio brusco al presente indicativo: «Io lascio il mio corpo […]»5), non solo rende meno omogenea la struttura dell’introduzione, ma è una spia che è opportuno decifrare; è, come vedremo, in rapporto a una sensazione d’approdo, che risuona inautentica perché contraddetta da alcune tessere del testo, e che pure il narratore vuole accreditare; è in relazione, cioè, a un compiaciuto pur se inquieto autoriconoscimento da parte di un io che si contempla e che per il momento non vuole indirizzarsi a una nuova messa in discussione e appare poi infatti non in grado di cogliere il valore della rêverie verso i ricordi passati, verso le radici, che poi consente il raccordo con la storia dell’umile protagonista. Ma riprendiamo il filo del discorso. Se, per comodità, abbiamo utilizzato, in relazione proprio all’esordio, la formula dell’anomala ‘autobiografia in miniatura’, dobbiamo segnalare che si tratta di una autobiografia ‘negata’, oltre che cifrata, depositaria di un senso, con probabilità involontariamente sfuggito, che l’autore riconosce in una zona subliminare e copre – riservandola vagamente a sé e non agli altri – nel momento stesso in cui si abbandona al flusso affabulatorio. Certo, con il richiamo all’Etna, e quindi a precedenti stagioni della vita passate in Sicilia, il Verga avvicina abbastanza a sé l’anonimo narratore che nella parte proemiale utilizza la prima persona, tanto che si sfiora l’identità autore-io narrante. E, dunque, lo scrittore rinunzia a quel tipo di schermatura che – in Una peccatrice e in altri romanzi già pubblicati o in elaborazione – con variegate soluzioni si serve della distanza tra il personaggio più vistosamente autobiografico e la voce narrante6. Ma, se ‘patto au— 425 —

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tobiografico’ con i suoi lettori il Verga intende stipulare, esso è minimale, limitato all’offerta di qualche tessera del suo orizzonte d’osservazione in anni lontani o di qualche atteggiamento presente. Per il resto c’è il tentativo di comunicare una ‘irrilevanza’ di quei frammenti memoriali facilmente attribuibili al suo privato o di quella messa a punto delle sue esigenze interiori del momento. Ancor prima che si manifesti a posteriori nell’epistolario, una strategia volta a ridurre l’ambito dell’autosvelamento è operante nel testo con vari mezzi: da certi toni leggeri, ora sorridenti ora svagati, al procedere in libertà, come in un vagabondaggio della mente (e non in un sicuro bilancio), al trasferimento delle sensazioni, degli umori, della condizione del soggetto, alla qualità delle cose circostanti (sicché ciò che si acquista in intensità allusiva si perde in concretezza oggettiva), etc. Per il lettore, poi, è predisposto un altro piano di fruizione, che pure è responsabile del particolare taglio delle pagine introduttive: la mondana immagine dell’io narrante trasmessa dall’autopresentazione crea immedesimazione nei destinatari e li predispone alla ‘giusta’ sollecitudine verso gli umili, in una chiave ovviamente paternalistica, con un indiretto richiamo moralistico. Dice bene Spinazzola: «Di quale lettore si tratti, lo chiarisce fin troppo bene il prologo, che appunto per questo ha importanza strutturale. Parlando in prima persona […], l’autore si rivolge a coloro che, come lui, apprezzano la “voluttuosa pigrizia del caminetto”: e li invita a seguirlo nei vagabondaggi interiori attraverso cui perlustra esperienze di vita totalmente difformi da quella della placida abitudinarietà borghese»7. Il Verga, certo, ha copertamente costruito il suddetto effetto, evitando una interpretazione ‘bieca’ di quel taglio topico d’apertura. Ma, benché celata, la ‘nobile’ finalità può aver funzionato da schermo. Protetto da una velata funzione pedagogica, l’autore di Nedda ha osato avviare un dialogo con i fantasmi passati e presenti del suo mondo interiore. Il prologo presenta una tripartizione, enfatizzata dal ricorrere dell’elemento iconografico della fiamma, forse per un bisogno segreto di mettere ordine nell’impasto contraddittorio della propria vita intima e segnare un confine alle ombre di un passato che, vischiose e ricattatorie ma anche imprescindibili in una ricerca d’identità, attraversano le barriere della rimozione. L’effetto è anche quello di una certa armonia compositiva – per la suggestione di una immagine (la fiamma) che si ripete sempre però diversa, per un apparente disegno circolare (passato, presente, passato) – nonostante tale organizzazione in tre sequenze entri in qualche modo in attrito, sul piano strut— 426 —

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turale, con la bipartizione segnalata dallo stacco che inserisce l’impianto dell’autoritratto spiazzando quello dell’autobiografia. C’è la distinzione di un ‘prima’ e di un ‘dopo’, e quest’ultimo tende a riassorbire al suo interno l’associazione mentale che riapre i cancelli di un nascosto deposito memoriale, accomunandola a un insieme di fantasticherie assaporate in un momento di morbido abbandono e non attribuendole la funzione di segnalare una rinnovata ricerca d’identità. L’autocontemplazione blocca la riflessione sul divenire, comunicando un senso di stasi. E tuttavia quel movimento verso il passato ne produce un altro, invisibile, in avanti verso una nuova metamorfosi, non riconosciuto dal soggetto. Conseguenza di una costruzione del testo che, in vari modi, come vedremo, enfatizza la «fiamma gigantesca» della fattoria del Pino e non tanto (o non solo) di un’illusione ottica del lettore. C’è, dunque, una sovrapposizione di uno schema tripartito su un altro bipartito; con un duplice contraddittorio effetto: il movimento inarrestabile pur se sotterraneo di un travaglio esistenziale che mira all’autenticità dell’essere; la prevalente immobilità di una coscienza che per un’autoconferma prima rievoca il percorso compiuto per un’iniziazione mondana e poi fronteggia da posizioni ormai salde le involontarie insorgenze memoriali che lo riportano a storie e luoghi di un conosciuto lontano passato. Si rintraccia anche sul piano della macrostruttura (sia pure nella dimensione ridotta che ha il prologo) un sistema oppositivo che, questo sì costante, domina poi nelle microstrutture. Tutti i vettori di senso si collocano, infatti, in campi semantici contrapposti, evidenziando una oscillazione incoerente, via via tra fedeltà al «focolare domestico» e insofferenza, poi tra sensazioni presenti ora di appagata pienezza e ora di smarrimento e disagio, e infine tra deminutio e viceversa valore dell’emersione involontaria di un ricordo remoto. Tutti gli anfratti del testo, in effetti, rinviano a una interiore conflittualità, diversa nel tempo, che il tono da conversazione disinvolta tiene a bada. E, ovviamente, l’incertezza della costruzione organizzata come scansione di blocchi ruotanti intorno all’immagine di una fiamma ma anche come contrapposizione di due momenti (le prime tensioni adolescenziali e l’edonistico vivere) è omologa a una condizione di un soggetto che non appare disposto a riconsiderare le scelte di vita compiute ma nello stesso tempo percepisce senza ammetterlo un bisogno di ritrovare una parte di sé rinnegata. Data la qualità allusiva del prologo ci disporremo ora a ricercarne il senso latente compiendo per certi versi il cammino opposto a quello seguito dal Verga, il quale cerca appunto di non scoprirsi troppo. L’attacco, che presen— 427 —

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ta il punto di partenza, remoto nel tempo, di un itinerario di crescita, rivela una inconsapevole resistenza a quell’innesto di memoria. Come se dal rievocato spazio familiare di anni ormai lontani venisse un pericoloso effetto di ‘risucchio’8. L’immagine del «focolare domestico» è dunque raffreddata e resa inerte: «Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde»9. È associata ai sani affetti ma è aggredita al contempo da una certa ironia e fronteggiata quasi a ricercare appunto la ‘giusta’ distanza. Il sintagma «figura rettorica», mentre vuol apparentemente operare un riconoscimento delle potenzialità di estensione metaforica, sembra però voler togliere all’oggetto, il focolare appunto, la sua vitalità concreta. L’omaggio alla sacralità dei legami familiari («gli affetti più miti e sereni») è poi, con esibita disinvoltura, immesso in un contesto scherzoso che tuttavia non cancella certo un più inquieto rifiuto: il termine «incorniciarvi» opera infatti un ironico effetto di museificazione che sprigiona però un sapore di stantìo e di morto, appena poi alleggerito da un successivo paragone che sfrutta una icona romantica già a rischio di distaccato sorriso («come il raggio di luna per baciare le chiome bionde»). Nel successivo passo si accentua l’atteggiamento difensivo. Il soggetto esibisce un suo retrodatato distacco: «ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico»10. E il polo negativo dell’ambivalente sentimento con cui è percepito quello spazio domestico si arricchisce di nuove connotazioni: «Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani, o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda»11. Il campo semantico positivo si restringe, tanto che lo stesso aggettivo che intende riaffermare il rapporto stretto, importante («necessario»), è tallonato dall’avverbio «troppo». Mentre l’oggetto-simbolo si carica, in crescendo, di significati (allusivamente, poi, riferibili all’intero mondo familiare) che si dispongono in un ventaglio che va dalla noia («uggioso») al controllo autoritario («dispotico»), al soffocamento, pernicioso ad un grado massimo («tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda»); tutte connotazioni che fanno già comprendere come il successivo progetto di vita richieda il superamento di quelle condizioni e l’espansione di fermenti vitali che l’angusto ed opprimente ambiente d’origine contrasta. Ora, l’impressione che si ricava da questo primo tempo del processo di crescita della personalità dell’io narrante – a noi pare – è che la scarnificazio— 428 —

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ne, consequenziale in un affondo introspettivo così concentrato, riduca a uno solo i fattori a monte della metamorfosi che poi viene esibita; e che alla riprogettazione di sé, verificabile nelle battute successive del prologo, non conducano i voli sublimi della mente verso alte mete, talora richiamati in certi romanzi autobiografici del Verga e in alcune lettere al Capuana, e neppure quegli obiettivi di conquista di un decoroso posto sociale e della correlata convenienza economica, con cui nelle lettere alla famiglia il giovane Verga difende la sua scelta dell’allontanamento. Nel ricordo dell’alter ego, in Nedda, è in piena evidenza solo l’adolescenziale bisogno di evasione da un ambiente limitato e castrante; tanto che ci si può chiedere se l’imbarazzo dello scrittore, rivelato dall’apparente ‘disamore’ per quel suo parto letterario, sia determinato dal grumo di verità imprigionato dalla nuova maschera o dall’avvertimento di un tradimento operato dalla scrittura nei riguardi della complessità di una scelta. Se persistiamo ad applicare modalità di decodificazione che estendano il senso delle affermazioni contenute nell’attacco introduttivo, si illuminano improvvisamente scorci di una intrapresa quête d’identità e s’indovina come certe tappe fondamentali di un cammino esistenziale vengano rivissute dal soggetto rievocante, in una propensione mitopoietica. Nelle frasi di collegamento che, per contrasto, riconsiderano il passaggio dal sentire di anni più lontani, nello spazio domestico riscaldato dal «focolare», alle complicate sensazioni dell’uomo di mondo, assaporate nell’elegante ambiente rischiarato dal «caminetto», l’adolescenziale profilo interiore è marcato dal tratto della ‘mancanza’ («Non conoscevo», «non comprendevo», «non avevo»), quale attributo di un occhio ‘ingenuo’, non ancora «assuefatto», che non ha mezzi per afferrare la realtà, la quale appunto sfugge e appare oltretutto ostile («scoppietta dispettoso», «brontola fiammeggiando»): Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza.12

La fase successiva dell’esistenza è, dunque, segnata dall’‘acquisto’, sul piano dell’esperienza e sul piano dell’espansione vitale. Il soggetto ‘vede’ ciò che — 429 —

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prima gli sfuggiva, e perciò sa immettersi in un mondo che non solo lo spinge alla scoperta di una sorta di vita corporea, aperta a sensazioni di felicità epidermica («voluttà di sentirsi inondare dal riberbero della fiamma»), ma si presenta, almeno in un primo momento, positivamente connotato da caratteri opposti a quelli del monotono e scontato spazio familiare: il nuovo ambiente è pertanto collegato a singolare imprevedibilità («bizzarri disegni»), movimento e luce che vince sul buio («scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti»), estrosa bellezza («fantastiche figure»), molteplicità («mille gradazioni»). Una scheggia, già improntata ad ambivalenza, tuttavia, disturba già, pur in forma attenuata quel sotterraneo accenno alla sperimentazione di un rapporto con l’esterno: l’imprevedibile ‘doppiezza’ attribuita alla fiamma, che può presentare anche qualità contrarie alla riservatezza («con sfacciata petulanza»), è segnale di un segreto disagio in un approccio con una realtà tanto diversa da quella d’origine. La nuova vita è d’altro canto ingresso in uno spazio ‘altro’: «Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto»13. È ‘rivelazione’ (non a caso l’accedervi è definito in termini pertinenti alla sfera della ritualità sacrale: «mi fui iniziato ai misteri»); è ‘compromissione’ («mi innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto») che determina abiura del Codice della tradizione e dei suoi valori, nei quali non vi può essere posto per gli edonistici atteggiamenti e la colpevole inerzia. Il prologo, tuttavia, si offre come un tessuto nel quale i vari fili veicolano sensi contrastanti, alcuni dei quali mettono in forse l’autenticità del volto con cui lo scrittore vuol presentarsi al suo consueto pubblico. L’autoritratto è così, sin dalle prime battute, attraversato da una frattura. L’abbandono a un’esistenza nel segno della libertà sembra comportare inevitabilmente un forte senso di colpa, un’autocensura, un’autopunizione che blocca, immobilizza il soggetto. E il corpo è staccato, reificato, privato della sua consistenza: «Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascierei un abito […]»14. È un doppio inerte, colpito da una sottaciuta condanna. Ed anche ‘deresponsabilizzato’, dinanzi all’azione della «fiamma» e delle «faville» («abbandonando alla fiamma la cura»; «incaricando le faville») nel momento in cui alla momentanea impressione di raggelamento provocato dal paragone dell’«abito» si sostituiscono la sensazione di un intenso flusso vitale e un’onda di suggestioni-desideri:

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[…] abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente i miei pensieri.15

È veicolata insomma un’immagine antinomica di sé, tra irrigidimento autocensorio, svuotamento e viceversa voluttuosa corporalità, pienezza della vita fisica – in bilico tra giovanile impeto («far circolare più caldo il mio sangue», «far battere più rapido il mio cuore») e languido abbandono alle piacevoli sensazioni – cui si accompagna una esuberanza dell’immaginazione. E veramente in certi momenti le parole risuonano come tetti di ipogei che, battuti, lasciano intuire il vuoto dei cunicoli, la cui esplorazione certo è rischiosa per il critico, ma anche suggestiva. E così le «faville» sembrano farsi carico di bisogni di fuga e assaporate insorgenze di privatissime ribellioni: «fuggenti», infatti, «folleggiano come farfalle innamorate»; e l’io rivela contraddittoriamente una vigile disponibilità alle esperienze («farmi tenere gli occhi aperti») e uno svagato e disimpegnato vagabondaggio della mente («far errare del pari i miei pensieri»). Ricerchiamo ancora al di sotto della superficie testuale le risonanze profonde di una storia intima che l’autore ha tangenzialmente sfiorato, e con tocco agglomerante. Il narratore, infatti, sembra dire ancora molto poco, dipingendosi in un momento di pausa, del tutto secondario; ma il complesso dei segni approda a un ritratto morale, segnato da incoerenza e sfilacciamento della personalità, che può anche aver contribuito all’apparente disamore verghiano per Nedda. Lo specchio della scrittura coglie in effetti il rischio di uno sfaldamento dell’identità mentre registra i molteplici volti di un io che lo sguardo introspettivo non riesce a ricomporre in coerente tenuta. Il giovanile irrequieto vitalismo può così rovesciarsi nel suo contrario, la senescenza torbida di un animo malato; la ricerca di una via più rispondente ai propri bisogni può approdare a perdita di sé: Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi, che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei soffi di dolce e d’amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate, vedete l’altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate, sorridendo, senza muovere un dito, o fare un passo, l’effetto di mille sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe la vostra fronte.16

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Il soggetto, che a prima vista sembrava dominare la realtà e se stesso, a un certo punto del testo pare non averne più la capacità: «per gettarvi a vostra insaputa». E l’ambivalenza tocca anche l’elemento iconografico del ‘vedere’: si passa così dagli «occhi aperti» agli «occhi socchiusi», sintagma che peraltro intensifica una impressione di debolezza del fisico e della volontà, variamente offerta, anche in modi allusivi: «Col sigaro semispento», «le molle fuggendovi dalle dita allentate», «senza muovere un dito, o fare un passo». Il movimento irrequieto della mente («pensiero che svolazza vagabondo») può raggiungere imprevedibili e lontani approdi («percorrere vertiginose distanze», «sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute»); ma, in assenza di volontà e di un progetto consapevole, nasconde rischi di scissione e di dispersione: «vi lascia per correre lontano», «l’altra parte di voi andar lontano». Tale stato è vissuto con sentimento ambivalente, che percepisce l’inestricabile compresenza di appagamento e scontento («soffi di dolce e d’amaro»). Al piacere vagamente torbido («attrattive indefinibili», «provate, sorridendo, senza muovere un dito […]») si unisce la sensazione che al fondo di quel movimento impazzito, che in modo vago sperimenta sul piano dell’immaginario molteplici relazioni con l’alterità ed anche potenziali modelli d’identità personale, ci sia un’esperienza autodistruttiva: «che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbe di righe la vostra fronte». Quel presentimento di malsana senilità interiore è seguita da uno stacco che spalanca improvvisamente – come è noto – un presunto spazio della memoria, riemerso per un involontario meccanismo associativo: «E in una di coteste peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo vicina forse, mi fece rivedere un’altra fiamma gigantesca che avevo visto ardere nell’immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell’Etna»17. La terza fiamma, dunque. È un momento del testo che quasi inevitabilmente si presta ad essere percepito dal lettore in una chiave che non è quella predisposta dal Verga, il quale apparentemente non vorrebbe caricare quel recupero di lontani ricordi del valore di ulteriore stadio in una ricerca d’identità. Il risveglio di immagini della Sicilia sedimentate nella memoria è presentato come una delle tante «peregrinazioni vagabonde dello spirito». E inoltre il tempo al passato («mi fece rivedere») pare volere escludere che quella esperienza sia un indicatore di un cambiamento di rotta: il viaggio della memoria non corrisponderebbe ad atteggiamenti che modifichino il quadro della condizione interiore del soggetto, che sarebbe così sempre quella tracciata nell’autoritratto. Ma se si è spesso indotti a leggere in quel passaggio un — 432 —

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profondo bisogno di ricomposizione interiore, ciò avviene non solo perché al lettore sono noti i successivi approdi verghiani, ma perché il testo offre un tessuto contraddittorio. Pertanto a suggerire quanto importante sia, sul piano della ricerca d’identità, quella materia siciliana, valgono le stesse accentuate dimensioni della «fiamma gigantesca»; immagine inserita in un contesto in cui anche le indicazioni topografiche sembrano cooperare a un effetto di grandiosa energia (e anche l’«immenso focolare», per il potere di suggestione delle parole, sembra ricevere un incremento – con illusorio segreto tramite – dalla prossimità dell’Etna). E non è irrilevante il nuovo riferirsi alla facoltà del ‘vedere’ («mi fece rivedere»), che dice di un rapporto pieno con l’oggetto del ricordo, dopo l’impressione di assopimento della reattività e di debole relazionarsi con il multiforme scenario delle fantasticherie, che l’immagine degli «occhi socchiusi» aveva comunicato. I ricordi, insomma, non si fanno strada stentatamente, ma urgono. Non pesi inerti, ma vita. La sensazione è dunque che il soggetto stia reintegrando, per un più compiuto ritrovarsi, quella parte di sé lasciata accanto alla prima fiamma e che un nuovo equilibrio si cominci ad intravedere. È peraltro un ritorno ideale, senza i risvolti punitivo-penitenziali che accompagnano il rientro reale di alcuni personaggi verghiani, colpevoli del peccato dell’allontanamento. La struttura complessiva del prologo disegna comunque un movimento solo apparentemente circolare. Il recupero memoriale segue una traiettoria che non conduce al «focolare domestico» dell’attacco, al proprio privato spazio familiare, ma comporta una deviazione che si indirizza verso un mondo più ampio, verso figure socialmente ‘altre’. È uno slittamento ‘salvifico’ che evita l’attraversamento tangibile del terreno di una ‘colpevole’ conflittualità. Inoltre la fiamma che fa emergere dal buio Nedda ha caratteristiche tali da focalizzare inevitabilmente l’attenzione dei fruitori e così far sfumare nella lontananza le altre due fiamme, e con esse quel cantuccio privato e troppo imbarazzante che l’autore, incautamente (per il suo riserbo), ha aperto. Si preparano insomma processi inventivi nei quali troppo riconoscibili proiezioni autobiografiche s’inabissino come fiumi carsici e per vie oblique raggiungano, non più evidenti, certe intense figure dell’esclusione e della sconfitta sociale ed esistenziale. A quel clinamen dovremo la grande arte del Verga, quando però si modificherà pienamente ai suoi occhi il ruolo dell’intellettuale e dello scrittore e nuove sollecitazioni culturali e letterarie lo porteranno ad elaborare originali strumenti espressivi, consoni alla poetica dell’impersonalità. — 433 —

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NOTE 1 Si vedano particolarmente alcuni messaggi epistolari (dal 18 giugno al 7 luglio 1974) in G. VERGA, Lettere sparse, a cura di G. FINOCCHIARO CHIMIRRI, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 63-68. 2 A. ASOR ROSA, I Malavoglia, in Letteratura italiana, diretta dallo stesso, Le opere, III, Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, p. 737. E Bigazzi aveva osservato che Verga, nel periodo vicino alla composizione del bozzetto, «giudicava Nedda “un lavoretto fatto senza pretese”, “una cosettina da nulla”, addirittura “una vera miseria”, certo perché doveva apparirgli un prodotto tardivo della vecchia narrativa rusticana in cui si erano cimentate ambedue le ‘scuole’ del Risorgimento, la democratica e la cattolico-liberale» (R. BIGAZZI, Su Verga novelliere, Pisa, Nistri-Lischi, 1975, p. 1). 3 Cfr. G. DEBENEDETTI, Verga e il naturalismo. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1976, p. 386. 4 Per motivi di spazio non citiamo all’inizio il preambolo di Nedda nella sua interezza – come sarebbe stato utile per il lettore – in quanto poi lo si può trovare a frammenti nel corso della seconda parte del presente lavoro. 5 G. VERGA, Nedda, in ID., Tutte le novelle, Introduzione, testo e note a cura di C. RICCARDI, Milano, Mondadori, 1979, p. 5. Inizialmente invece il preambolo si era aperto con l’imperfetto indicativo: «Il focolare domestico era sempre […]» (ibidem). 6 Si può capire la sensazione di ‘nudità’ in un autore che peraltro in una lettera a Capuana afferma di non ritenere congeniale agli italiani il genere che maggiormente ospita l’esibizione della propria storia individuale: «ma tu capisci quanto l’autobiografia ripugni al nostro gusto italiano» (Lettera del 30 aprile 1881, in G. VERGA, Lettere a Luigi Capuana, a cura di G. RAYA, Firenze, Le Monnier, 1975, p. 175). 7 V. SPINAZZOLA, La verità dell’essere. «Nedda», «Rosso Malpelo», «La roba», «Belfagor», XXVII, 1972, 1, ora in ID., Verismo e positivismo, Milano, Garzanti, 1977, pp. 43-44. 8 Chi ha più sentito la presenza di sensi profondi nel prologo di Nedda è stato Debenedetti («Siamo in un momento in cui vien fuori la “vita simbolica” di Verga»: G. DEBENEDETTI, Verga e il naturalismo, cit., p. 389), anche se il critico focalizza nella sua analisi soprattutto la resistenza dello scrittore siciliano dinanzi a una materia così diversa da quella mondana che gli era consueta: «C’è un’altra precauzione involontaria del Verga: precisamente una di quelle paure piene di corpo, che colgono un uomo di fronte a una svolta del proprio destino. Quasi l’istinto di rifiutarsi. E lo troviamo nelle prime righe del preambolo […]» (ivi, p. 387). 9 G. VERGA, Nedda, cit., p. 5. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 Ibidem. 14 Ibidem (il corsivo è nostro). 15 Ibidem. 16 Ivi, pp. 5-6. 17 Ivi, p. 6.

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MARIA DI VENUTA LE NOVELLE POSTUME DI FEDERICO DE ROBERTO Una pubblicazione postuma e, per due di essi, l’incompiutezza accomunano i tre racconti derobertiani di cui traccerò una rapida analisi. Fino a qualche anno fa erano gli unici esemplari narrativi, escludendo L’Imperio, pubblicati dopo la morte dell’autore avvenuta, il 26 luglio 1927, in una Catania che sembrò venire fuori dall’indifferenza e dal torpore con cui lo aveva seguito da vivo per tributargli magnifici onori funebri, e, di contro, nel disinteresse quasi unanime della comunità letteraria italiana distratta dalla morte di Matilde Serao1; oggi, grazie all’attenta verifica dei suoi manoscritti conservati presso la Società di Storia Patria di Catania, altri due racconti sono stati pubblicati2. Nella vetrina è il primo a essere dato alle stampe, il 20 ottobre 1927, in «Due lire di novelle», preceduto da una vibrata presentazione-ricordo di Alfio Berretta: «parole devote di un discepolo verso il Maestro» che denunciano la scarsa conoscenza di De Roberto presso i giovani, che parlano con tristezza della penombra «in cui pareva essersi rifugiato» e che aveva finito con l’aduggiare la sua ricca produzione, che sottolineano infine come sia stato l’ultimo «a dipartirsi» della triade siciliana, accomunandolo così a Capuana e Verga ma lasciandone intuire la diversità, perché «forse più giovane dei due compagni, risentì il tormento spirituale che i tempi nòvi portavano»3. Storia di un tormento è la breve novella di cui è stato impossibile stabilire il tempo della stesura in base a notizie obiettive ma che, per le modalità narrative, sembra mettere in atto alcune indicazioni della prefazione a L’Albero della Scienza (1890)4 e, per la delineazione del protagonista, rinviare all’inettitudine di Ermanno Raeli e al «manierismo dell’introspezione» di Teresa nell’Illusione5; la fabula poi è così inconsistente che la descrizione degli stati d’animo del personaggio finisce col renderla irrilevante. Un uomo abbandonato dalla donna amata, l’immagine ritrovata in un dipinto esposto — 435 —

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nella vetrina di un ottico, il ritratto fatto comprare («Corse a trovare un amico, gli indicò di che si trattasse, inventò una scusa qualunque per giustificarsi se non andava lui e si fece comprare il ritratto») e mai più guardato («Lo chiuse fra le pagine d’un libro prediletto, in mezzo alle viole, e non l’ha più rivisto»)6 sono i motivi dinamici che senza la preponderante presenza di quelli statici a stento riempirebbero una paginetta. A dare corpo alla novella sono l’analisi del ricordo di lei che si affievolisce e il tormento che ne deriva, la descrizione del corteggiamento visivo della donna in effigie e della straniante sensazione di averla viva e palpitante davanti, il resoconto dell’indecisione torturante sull’acquisto, la ricostruzione della delusione cocente per la sparizione del dipinto dalla vetrina e del violento attacco di gelosia per averlo visto in mano a un probabile acquirente. Quest’uomo senza nome e senza volto, che «tutti i giorni, nell’uscir di casa e nel tornarvi» passa davanti all’oggetto del suo desiderio senza decidere che cosa desideri veramente, è un fratello ideale di Ermanno Raeli, come lui immaturo e inetto; va come un automa per le strade di una città anonima, ma identificabile con Catania per la «sua montagna fumante», non sa agire ma è capace di pensare. E assale il dubbio che dietro le sue introspezioni e irresolutezze ci siano quelle del suo autore. La mancanza di una conclusione accomuna e segna profondamente gli altri due racconti. Per L’ebbrezza è stato possibile ricostruire la tormentata genesi e perciò, sulla scorta di quanto scritto dall’autore stesso, posso affermare che l’ideazione prevedeva la scrittura di una novella; nessuna notizia aiuta in proposito per L’Arcipelago della Fortuna che esce col sottotitolo Pagine inedite da un romanzo incompiuto di Federico De Roberto il 1 luglio 1928 su «La fiera letteraria», dove una breve nota informativa della redazione chiarisce come la parte pubblicata sia il primo capitolo di tre finiti di un romanzo incompiuto che «dal gran numero di appunti, frammenti, elenchi di personaggi, indicazioni di luoghi, ecc., […] voleva riuscire una satira della vita e del costume contemporanei, trasportati in un paese immaginario»7. Era veramente così cospicuo il materiale da fare ipotizzare una forma lunga del narrare? Pensava lo scrittore a un romanzo o piuttosto non stava cimentandosi in una prova preparatoria per una narrazione più impegnativa8? Fu scritto negli anni Novanta o in quelli che precedettero la morte? Nessuna risposta viene dalle carte derobertiane, e su questo racconto «non finito», più che nell’Ebbrezza, pesa la mancanza del «senso» dato dalla conclusione. L’incipit, affidato a un narratore onnisciente, proietta il lettore in un tempo fuori del tempo, come è giusto per una narrazione che sarà caratterizzata — 436 —

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da una forte connotazione utopistica, e in uno spazio che, al di là dell’accurata descrizione pseudogeografica, è assolutamente immaginario. L’Argonauta, nave il cui nome sembra rinviare con allusivo gioco ironico ai cercatori del Vello d’oro, naviga da «più tempo molto speditamente, favorita dai venti, attentamente diretta e vigilata dagli esperti nocchieri» nel Grande Oceano; inquietante vascello fantasma, è ormai lontanissima dai continenti quando a bordo, improvvisa, misteriosa, letale, scoppia un’epidemia. Le Nuove Baleari, un «arcipelago composto di una dozzina di isole, varie di grandezza e di conformazione», di cui il narratore si affretta a riassumere oscure vicende storiche di sopraffazioni coloniali (per primi le avevano conquistate gli spagnoli e poi gli olandesi), di progressivo sfruttamento e d’ineluttabile degrado, offrono l’unica possibilità di approdo per la nave e i suoi sfortunati passeggeri in cerca di salvezza. Uno di loro, il professore Andròscopo, che, di lì a poco, diventerà appassionato narratore in prima persona degli strani costumi degli abitanti della «metropoli dell’arcipelago», sa, «per averlo letto nei giornali e nei libri», che potranno trovarvi «i presidii della scienza» necessari ad aiutarli; inoltre, viaggiatore «per istruzione e diletto» (pratica questa forse sognata e mai realizzata dal ‘casalingo’, suo malgrado, De Roberto) è a conoscenza dei profondi cambiamenti operati nell’arcipelago da «un singolare avventuriero» arrivato lì molti anni prima e impadronitosi del potere. Il 28 settembre di un anno imprecisato il nostro ‘osservatore di uomini’ annota nel suo diario che la nave, issando la bandiera gialla del contagio, si è fermata nella baia di Anankòpoli. La suspense generata dallo stupore di non essere costretti a osservare un’ovvia quarantena e di ottenere subito, sani e malati, il permesso di scendere a terra, segna l’inizio dell’avventura isolana. Il perché di tale disinvoltura non sarà dato sapere, vista l’incompiutezza del romanzo, ma, alla luce di quanto gli abitanti risulteranno fiduciosi nella sorte, si potrebbe ipotizzare un’indifferenza suprema anche nei confronti della malattia e della morte. L’incredulità per un simile comportamento, il timore di lasciare la nave, la decisione infine presa malvolentieri di trasferirsi in un albergo sono gli unici momenti vivaci del racconto che, da questo momento in poi, si svilupperà in un lungo e pedante dialogo, tra Androscòpo e un indigeno, rivolto a spiegare una singolarissima prassi elettorale: le elezioni nell’arcipelago sono affidate alla sorte; non solo quella dei deputati a cui assisterà il nostro stranito viaggiatore, ma qualunque carica elettiva viene demandata dai cittadini a un’estrazione di bussolotti da «una capace urna di cristallo». — 437 —

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Le pazienti spiegazioni dell’isolano, le sue delucidazioni sul funzionamento del sistema elettorale, la sua profonda convinzione che bisogna affidarsi «ai decreti del destino», a cui nessuno di loro «si sognerebbe di ribellarsi», servono a De Roberto a riproporre il tema della sorte, ma ancora meglio gli permettono di introdurre un altro tema, quello della vita parlamentare italiana sul finire del secolo, che fortemente gli urgeva e che pure tanta difficoltà gli comportava se L’Imperio, il suo romanzo parlamentare, pensato come «libro terribile» negli effetti, si rivelò tormentoso nella gestazione e mai degno, vivo lui, di essere dato alle stampe. L’utopico modello elettorale dell’arcipelago e l’ottusa felicità che esso sembra regalare agli abitanti delle isole sono solo pretesti per far tratteggiare, con malcelata ironia, dall’interlocutore del professore, che conosce benissimo le modalità e, soprattutto, le magagne del sistema parlamentare dei paesi democratici, un caustico e impietoso resoconto di una campagna elettorale, che è un’agile sintesi delle pagine conclusive dei Viceré dedicate all’avventura politica di Consalvo Uzeda. L’analisi prosegue, puntuale, critica e inesorabile: allo scomposto agitarsi della vigilia, fanno seguito l’incertezza del risultato, l’ansia greve che attanaglia i candidati in attesa del responso delle urne, e il ritratto di quei vincitori che, nella maggior parte dei casi, disattenderanno miserevolmente gli impegni presi con i loro elettori. «L’antiparlamentarismo eversore» dei Viceré 9, riproposto e delineato con note di scorato pessimismo nell’Imperio, è qui sfumato, sia per l’ammiccante ironia con cui si descrive la vita parlamentare, sia per l’improbabile alternativa offerta dal sistema dell’immaginario paese. Si potrà pure, seguendo Gramsci, inserire L’Arcipelago della Fortuna nell’elenco dei libri utopici e definirlo «letteratura […] di carattere retrivo e forcaiolo»10, ma la notazione più interessante, perché riconduce il discorso all’ambito storico e politico vicino al nostro autore, mi pare quella di Di Grado che scrive: «quello che qui appare come un’utopia forcaiola era già stato il programma espresso nel Memorandum del ’94 dai radicali di Palermo, cui De Roberto era idealmente legato dalla comune fede positivistica e in questo caso, forse, anche dal riferimento – tipico dell’ideologia “sicilianista” – alle antiche formule delle autonomie comunali»11. L’incompiutezza del testo non permette, del resto, di valutarne lo spessore narrativo, così che il frammento resta un esempio minimo nella casistica dei romanzi parlamentari che, pur non riuscendo a porsi come genere a sé, numerosi proliferarono nell’ultimo trentennio del XIX secolo. — 438 —

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La crociera del Tritone nel Mediterraneo occidentale durava da oltre sei mesi: l’agile e gagliardo incrociatore aveva fatto la spola dalla Spezia alla Goletta, dalla Goletta a Barcellona, da Barcellona a Malta, da Malta a Marsiglia, da Marsiglia a Gibilterra, e via dicendo: sulla cartina che il comandante Ardani preparava per corredarne la relazione destinata al Ministero, le linee segnanti le rotte si aggrovigliavano come il filo d’una matassa con la quale un gatto avesse ruzzato.12

Con un altro viaggio di mare esordisce L’ebbrezza, racconto incompiuto pubblicato il 15 e il 22 gennaio del 1928 sempre su «La fiera letteraria», ma la cui composizione s’intreccia, è il caso di dire, con la stesura de La bella morte, altra novella di mare, del 1909, di Un sogno del 1910, de La messa di nozze del 1911 e del suo adattamento teatrale, La strada maestra. Scrivendo a Pia Vigada, il 17 settembre 1910, De Roberto annunzia che L’ebbrezza avrebbe dovuto far parte, completandola, di una raccolta di novelle; nelle missive del 25 e 27 giugno del 1912 scrive che ha ripreso il testo e lo ha di nuovo accantonato per problemi di salute13; infine, il 29 settembre dello stesso anno, da Zafferana confida alla donna: «Non ho purtroppo bisogno di aggiungerti che mi è stato impossibile riprendere finora qualunque lavoro, e che la novella dell’Ebbrezza è allo stesso punto di prima e che nessuno dei disegni teatrali è stato tracciato sulla carta»14. Sono gli anni del secondo sperimentalismo derobertiano e L’ebbrezza ben si situa in quest’ambito, a partire dalla descrizione del protagonista, dallo scandaglio psicologico della sua personalità, dall’invenzione della sua vicenda esistenziale. A livello tematico torna, supportato da precise e dettagliate descrizioni della vita di bordo, il tema del viaggio marino che grande fascino esercitò sul terragno De Roberto come dimostrano le profonde suggestioni suscitate in lui dai suoi spostamenti sui piroscafi che collegavano il Nord e il Sud e affidate alle lettere a Renata Ribera, il viaggio nel Pireo progettato con entusiasmo nel 1897 e mai fatto, e infine l’interesse con cui si era documentato sulle tecniche marinaresche con l’amico comandante Ferretti per scrivere La bella morte15. Certo, non meno importanti, nell’economia della narrazione, sono le escursioni del protagonista sulle isole greche, proprio perché la terra diventa metafora del disfacimento, della caduta di ogni illusione, della morte, di contro al mare che è metafora della vita, dell’azione, di una forte, anche se repressa, carica sessuale. A parte l’eccitazione del comando, è una vita grigia quella del capitano e piena d’ombre rischiarate appena, e per brevi baluginii, dalla lettura di una — 439 —

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piccola e provvida raccolta di libri che un saggio amico, «artista solitario e sdegnoso»16, ha voluto fargli recapitare a bordo in previsione di una sua missione nel mar Egeo, dono «reso inapprezzabile dallo squisito senso dell’opportunità, dall’intuito del godimento col quale sarebbe stato accolto». Godimento, ecco la parola chiave che, antifrasticamente, guida il lettore alla scoperta dell’uomo e gli permette di comprendere come questo quarantenne («pieno di brame e cupido di appagarle, [che] aveva pur fatto altre cose in quei lontani giorni [della gioventù], e dato parte di sé agli intimi affetti, e studiato sui libri e vissuto nella vita [e che] ora, da comandante, scemata con gli anni la vivacità dei desiderii e l’impazienza delle aspettazioni, venuti meno molti legami familiari, ed accresciuti ed aggravati gli obblighi professionali, il mondo si era ristretto per lui al suo bastimento») sia sostanzialmente un adulto mai cresciuto, votatosi a una inspiegabile castità «saggia e profittevole alla salute del corpo, alla tranquillità dello spirito, all’autorità dell’ufficio». Godere della lettura, godere della vita di mare ha significato non godere di rapporti umani e sociali, ha significato rinunciare a ogni contatto con l’altro sesso, murarsi in una realtà arida e squallidamente tranquilla. La nave e il suo equipaggio sono per Ardani il nido-prigione che per De Roberto furono Catania e il rapporto con la famiglia. L’uomo di mare e di carta è così simile a quello di terra, che ci viene incontro da molte lettere17, da non poterne disconoscere la marcata caratteristica autobiografica. D’altra parte l’esistenza del comandante è il duplicato della vita sul Tritone dove tutti i giorni sono uguali e la navigazione «si veniva svolgendo senza notevoli incidenti, e il libro di bordo non annotava altro che lo stato del cielo e del mare, la velocità della nave e del vento, gl’incontri dei legni mercantili e dei militari». L’avvistamento, «nella mattina di un giorno nuvoloso», di una boa, l’infantile eccitazione che prende i marinai18, i maldestri tiri effettuati per affondarla, il suo inabissamento costituiscono, pure in questo racconto, l’unica sequenza movimentata e tutta la scena sembra creata ad arte per oscurare la comparsa della Nereide, «la bianca goletta», misteriosa e sensuale come la donna che ospita e che Ardani incontrerà realmente, dopo averne oscuramente vagheggiato e ipotizzato l’esistenza; femminea imbarcazione che, da questo punto, inizierà un sottile e perverso gioco amatorio con «il nero incrociatore». Appare leggera, si allontana, vezzosamente salutando con la sua bandiera americana, riappare di nuovo nel porto di Ermopoli, appena in tempo per vedere salpare il capitano e la sua nave, ne incrocia la rotta «nella — 440 —

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maretta del Canal d’oro». A partire da questo incontro il rimando a una, non più tanto mascherata, sfera sessuale s’impone al lettore attento. E le valenze simboliche diventano sempre più leggibili: la Nereide, «investita dall’ultima luce del sole prossimo a tramontare dietro l’Imetto, […] tutta rosea, d’un roseo delicato e carnale sul cupo azzurro delle onde, contro l’orizzonte offuscato dai primi veli della sera» è donna, è sirena ammaliatrice; il cupo incrociatore, che continua a solcare i mari senza uno scopo chiaro e preciso, è l’uomo che lo comanda, che non ha saputo o voluto vivere e a cui non rimane che «il ricordo di quegli strani incontri tante volte rinnovati, […] impresso nella memoria con un senso di vuoto, di solitudine, di nostalgia». L’incontro con la Nereide serve però a svelare come Ardani, uomo senza affetti e irriducibilmente casto, nasconda insospettate speranze «d’una gran gioia, d’un evento inaudito che avrebbe avvolto in una gran luce d’oro e di fiamma l’ora del suo tramonto». Singolare è poi il recupero del mondo classico e dei suoi miti che avviene in due fasi successive. Una prima volta grazie alla lettura dei libri sulla Grecia, che gli ricrea nell’immaginazione un mondo sfavillante, popolato di eroi e dei, e che, proustiana madeleine, lo proietta dalla solitudine della cabina nel suo passato di giovane studente. La seconda volta durante le escursioni a terra quando, miseramente caduto il diaframma della scrittura, aggirandosi tra le rovine di quella splendida civiltà, Ardani ritorna a essere il decadente alter ego di De Roberto che scrive, dopo quelle eccezionali dei romanzi, un’altra pagina sul disfacimento dell’uomo e delle cose, sulla morte «vendicatrice della vita». In un felice intarsio di passato e presente, di grandi civiltà ricordate e di grigia vita quotidiana, Ardani scopre le carte del suo autore nel momento in cui, con un vertiginoso zoom, focalizza la vera essenza del problema sul rimpianto dolorosamente nostalgico della giovinezza perduta e l’inesorabile convincimento di essere giunto alla fine. Egli non rimpiangeva tanto l’èra dei miti se pure nobile e splendida, quanto gli anni felici nei quali egli stesso aveva cominciato a intenderne l’intimo senso; la morta gioventù di un mondo, se pure giocondo ed amabile, non gli avrebbe ispirato un dolore tanto nostalgico, se egli non avesse perduta la propria. «Per sempre!…».

Non a caso l’incontro con la misteriosa passeggera della goletta avviene sullo sfondo apocalittico degli scavi di Mesovonno, cupo paesaggio di morte nel quale avanza, «alta e flessuosa», il viso nascosto da un cappello, un velo e — 441 —

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grandissimi occhiali da sole, Mistress Jameson della Nereide. Ma non sarà, forse, questa mondana, ciarliera, americana la prefigurazione della morte stessa19? Ci sono nel dialogo tra i due, rimasto bruscamente interrotto dal definitivo abbandono della scrittura, due frasi, mutuate dal nostro scettico autore dal linguaggio cristiano cattolico, che sembrano rinviare a un termine ultimo. Alla fine dell’impervia via che l’ha condotta a incontrarsi con Ardani la donna esclama: «Ma è una vista così interessante!… Come dite, voi?… Bisogna guadagnarselo il paradiso!», e l’uomo di rimando, pensando al mondo che si è lasciato dietro: «Laggiù – e additò la via per la quale erano venuti – era piuttosto l’inferno». Il suo, ma ancora di più quello del «gentiluomo» Federico De Roberto.

NOTE 1 C. A. MADRIGNANI ricostruisce dettagliatamente l’atmosfera e le celebrazioni catanesi post mortem nella Cronologia (pp. LXXX-LXXXI) di F. DE ROBERTO, Romanzi Novelle e Saggi, Milano, Mondadori, 1984. 2 F. DE ROBERTO, Adriana un racconto inedito e altri «studi di donna», Introduzione di R. CASTELLI, Postfazione di A. DI GRADO, Catania, Giuseppe Maimone editore, 1998; ID., L’erede, a cura di R. CASTELLI, Catania, Il Girasole edizioni, 2001. 3 F. DE ROBERTO, Nella vetrina, «Due lire di novelle», III, 1927, 19-20, p. 869. 4 Scrive De Roberto nella prefazione a L’Albero della Scienza: «le presenti novelle sono condotte con quel metodo d’arte che attribuisce la maggiore importanza al mondo interiore dell’anima, che ne narra le vicende, che ne studia i fenomeni, che ne spiega le azioni e le reazioni. A questo metodo corrisponde necessariamente un particolar genere di contenuto. Siccome non è possibile guardare il cervello della gente né scorgere in altro modo quel che vi accade, la psicologia si riduce, per lo scrittore, a immaginare ciò che egli stesso proverebbe quando fosse al posto dei suoi personaggi» (cito da F. DE ROBERTO, Romanzi Novelle e Saggi, cit., p. 1643). 5 N. TEDESCO, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Palermo, Sellerio, 1981, dedica un capitolo al tema dell’inettitudine nell’Ermanno Raeli e pagine fondamentali all’introspezione e «alle strutture psicologistiche» dell’Illusione. 6 Nella vetrina, cit., p. 874. 7 Tra i manoscritti catanesi non c’è traccia di questo materiale, né del testo del racconto. F. DE ROBERTO, L’Arcipelago della Fortuna. Pagine inedite da un romanzo incompiuto di Federico De Roberto, «La Fiera letteraria», IV, 1 luglio 1928, p. 5. Tutte le citazioni seguenti della novella rinviano a questo numero de «La fiera letteraria». 8 A. DI GRADO, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, Catania, Biblioteca della Fondazione Verga, 1998, p. 401, definisce i due frammenti «cartoni preparatori o frammenti residuati da più complesse prove narrative».

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LE NOVELLE POSTUME DI FEDERICO DE ROBERTO 9 N. TEDESCO, La norma del negativo, cit., p. 143, parla, proprio a proposito dell’Arcipelago della fortuna, della natura «fondamentalmente reazionaria dell’antiparlamentarismo derobertiano» e di come nei Viceré l’antiparlamentarismo veicoli una «critica spietata al trasformismo delle classi dirigenti meridionali». 10 A. GRAMSCI, Quaderni del carcere, a cura di V. GERRATANA, III, Torino, Einaudi, 1977, p. 2291. 11 A. DI GRADO, La vita, le carte, cit., pp. 402-403. 12 F. DE ROBERTO, L’Ebbrezza, novella postuma di Federico De Roberto, «La Fiera letteraria», IV, 15 gennaio 1928, p. 3. Tutte le citazioni seguenti della novella rinviano a questo numero de «La fiera letteraria» e a quello del 22 gennaio 1928, pp. 5-6. Presso la Società di Storia Patria di Catania esistono due redazioni manoscritte della novella. 13 L’epistolario De Roberto-Vigada è conservato presso la Biblioteca regionale universitaria di Catania con la segnatura M.S.U. 257. D2. Trascrivo di seguito i brani delle lettere: «Così, per il volume, abbiamo già pronta La messa di nozze, Un sogno, Nora o le spie e La bella morte: un’altra novellina ancora, e il libro sarà bell’è fatto, non so ancora quale argomento tratterò, dei tre o quattro che mi frullano per il capo; forse sceglierò quello pensato durante la conversazione col comandante dell’Iride: la novella porterebbe per titolo L’ebbrezza» (lettera del 17 settembre 1910, M.S.U. 257. D2, 142 cr); «Ti do la notizia che aspettavi con desiderio: mi sono rimesso al lavoro. Ho ripreso la novella dell’Ebbrezza, che vogliono presto per la Lettura. Ho ripreso anche La strada maestra» (lettera del 25 giugno 1912, M.S.U. 257. D2, 81 av); «Oggi, cioè stamani, sono tra due: non so se mettermi a scrivere intorno alla novella, oppure se scrivere a te. Che cosa preferisci? Non lo so, ma so ciò che preferisco io, e senz’altro mi metto ad aprirti ancora una volta l’anima mia. Tanto più che sono gli ultimi giorni, e poi per un lungo mese non sarà più possibile scambiarsi una sola parola. Allora ci sarà tempo a riprendere l’Ebbrezza, se la salute me lo consentirà» (lettera del 27 giugno 1912, M.S.U. 257. D2, 82 ar). 14 M.S.U. 257. D , 127 ar. 2 15 Cfr. l’epistolario De Roberto-Ribera conservato presso la Biblioteca regionale universitaria di Catania con la segnatura M.S.U. 257. D; la lettera del 21 febbraio 1909, in F. DE ROBERTO, Lettere a donna Marianna degli Asmundo, a cura di S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Catania, Tringale editore, 1978, p. 177 e la lettera del 9 luglio 1897, in A. NAVARRIA, Federico De Roberto. La vita e l’opera, Catania, Giannotta, 1974, pp. 320-321. Nel 1920 De Roberto pubblica, nella piccola raccolta Ironie, La tempesta ancora una novella ambientata su una nave in viaggio per l’Argentina. 16 Per questo personaggio cfr. quanto scritto da R. CASTELLI, L’arcipelago della revêrie: Tomasi, De Roberto e il silenzio delle sirene, in Lucio Piccolo Giuseppe Tomasi. Le ragioni della poesia, le ragioni della prosa, a cura di N. TEDESCO, Palermo, Flaccovio, 1999, p. 104. 17 Cfr. le Lettere a donna Marianna degli Asmundo, cit. 18 A. DI GRADO, La vita, le carte, cit., p. 401, parla di «un’esperienza di regressione collettiva nell’infanzia». 19 R. CASTELLI, L’arcipelago della revêrie, cit., p. 110, giustamente, collega la donna derobertiana all’immagine, velata e candida, che si fa incontro all’Arthur Gordon Pym di Poe a conclusione del suo viaggio.

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RITA VERDIRAME UNO SPACCATO DELLA NARRATIVA E DELLA DRAMMATURGIA BREVE NEL MENSILE «LA LETTURA»: ENRICO SERRETTA Fra il dicembre 1979 e il settembre 1980 Oreste Del Buono diede vita a un esperimento volto a riproporre potenziandola quella funzione di incontro e scambio tra il mondo dei neoacculturati e gli esponenti più accorti della cultura ufficiale, svolta molti decenni prima dal mensile «La Lettura»; come nel passato – all’alba del Novecento e per tutti gli anni Trenta – anche nell’ultimo ventennio del secolo la rivista si manifestava infatti come la palestra più adatta ad esercitare il ruolo di «intermediazione critica di massa» delineato da Del Buono e come un duttile strumento per chi volesse attivare il circolo virtuoso tra la trasmissione e l’innovazione culturale1. Il programma della nuova serie riprendeva infatti sostanzialmente, a ottant’anni di distanza dalla prima apparizione, l’idea originaria da cui la testata era scaturita. La pubblicazione, dunque, era nota; aveva goduto di una buona diffusione presso i lettori italiani della prima metà del Novecento (nel 1906 aveva raggiunto la tiratura di ottantamila copie, enorme per un periodico letterario); si allogava – secondo Prezzolini – nel circuito delle riviste «che vanno», era anzi «la più antica e quotata fra esse», esponendo «un certo tono di serietà, di intellettualità, di decenza»2, e poteva contare (virtù non trascurabile) su una precisione tipografica, una cura nell’impaginazione, una calibrata armonia tra scrittura e illustrazione e su una fluidità di stile che le avevano meritato la qualifica, sempre prezzoliniana, di promulgatrice di una «coltura piacevole», e la definizione di stampa «amena» coniata dal mondadoriano Dizionario Universale della Letteratura contemporanea. Si era più volte spenta e riaccesa nel corso del secolo; indizio, tale reiterata reincarnazione, di una vitalità di cui è opportuno segnalare brevemente le tappe e indicare le ragioni, strettamente connesse alla strategia culturale e di mercato di altri organi sus— 445 —

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sidiari della grande famiglia editoriale del «Corriere della Sera», che nel 1900 festeggiava il suo venticinquennale inviando il neonato mensile in omaggio agli abbonati, dal mese di gennaio 1901 fino al 1910, data in cui «La Lettura» uscì indipendentemente in edicola. Filiazione del quotidiano milanese – patrocinata dal lungimirante Luigi Albertini, come l’ebdomadario ‘nazional-popolare’ «La Domenica del Corriere», varato nel 1898, il «Romanzo mensile», collana di narrativa pubblicata dall’aprile 19033 e «Il Corriere dei Piccoli» (1908) – «La Lettura» ricopre un periodo cronologico che si snoda tra l’età giolittiana e gli anni dell’ultimo conflitto, proponendosi come contenitore filosofico-scientifico-letterario; accetta e discute infatti le teorie dal positivismo all’idealismo, le scoperte della scienza e della tecnica, nonché le poetiche, le correnti, la produzione di protagonisti e comprimari di un cinquantennio di vita italiana, dal verismo al teatro di Pirandello, dal dannunzianesimo alla narrativa più leggera e mondana, adeguandosi al medesimo scopo della terza pagina giornalistica: presentare alla maggior quantità possibile di fruitori le idee del più attuale dibattito culturale e soprattutto una narrativa dilettevole ma di firme selezionate, e «istruire i lettori senza costringerli a leggere troppo, e senza annoiarli»4. Aggiornare, insomma, informare senza sottovalutare le legittime istanze di svago e ricreazione del destinatario e stimolarne la curiosità intellettuale non all’interno di una struttura variegata come quella del foglio giornaliero, bensì tramite una pubblicazione autonoma rispondente a un progetto unitario. Essa aveva visto la luce quando la società editrice del «Corriere della Sera» di Albertini (socio gerente, direttore politico e gestore amministrativo del giornale) e di Benigno Crespi, rafforzata mediante l’apporto dei capitali industriali di Ernesto De Angeli e Giovanni Battista Pirelli, godeva dell’accresciuto afflusso pubblicitario e raccoglieva i frutti della felice assunzione del modello organizzativo anglosassone, voluta proprio da Albertini. Se il «Corriere» si ammodernava, «La Lettura» in quanto sua diretta emanazione ricalcava l’impostazione dei magazines inglesi, incrociando e formando in tal modo il gusto comune, come evidenziava Renato Serra: «i magazines: venuti su negli ultimi anni, tipo “Lettura”, “Secolo XX”, “Varietas”, “Noi e il mondo”, stanno alla letteratura press’a poco come il cinematografo al teatro […] stampano novelle, versi e di solito primizie». Naturalmente sulle loro colonne si prospettava «quello che piace più al pubblico, quel che lo può interessare; e poiché qualche volta al pubblico piaccion anche le cose belle, ce n’è […] A ogni modo, carattere: l’attualità […] le fotografie, gli aneddoti; im— 446 —

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magini rapide»5. Nel sistema combinato di saperi e divulgazione costituito dalla simbiosi tra il quotidiano di cronaca e politica e la rivista illustrata di cultura, ideologie e costume, la testata milanese era destinata ad emergere appunto per la sua formula modernamente democratica ed eclettica, mista e non selettiva, che come s’è detto funzionò per un consistente arco di tempo, serbandosi fedele alle linee-guida tracciate dal suo primo direttore, Giuseppe Giacosa, nell’articolo che spiegava peculiarità e finalità e schizzava il profilo della pubblicazione. La quale doveva essere a un tempo una «grande rivista», una «rivista spicciola» e una «rivista delle riviste», comunque sempre e rigorosamente estranea a «esercitazioni formali e a controversie letterarie» e aliena da ogni «oscurità artistica»6. Questo disegno prevedeva l’ospitalità di nomi autorevoli e la valorizzazione di collaborazioni eccellenti, ma che tenessero conto delle preferenze del lettore borghese. Il mensile si collocava pertanto in una fascia di consumo bipolare, avendo tutti i numeri per soddisfare sia chi, pur digiuno di lettere, era allettato dalla piacevolezza del prodotto e dall’accurata confezione con cui esso veniva offerto, sia chi, colto e pronto a recepire le novità, era attratto dall’erudizione profusa e dalle proposte pregevoli che trovava nelle sue pagine; in quest’ottica essa era e rimase perfettamente coerente con le intenzioni programmatiche del suo ideatore, per il quale «La Lettura» doveva essere «una sorella maggiore [della «Domenica del Corriere»], ma non troppo diversa negli intendimenti e nello scopo: divertire e istruire il pubblico». La sua aspirazione? «Rivolgersi al gran pubblico: agli uomini di studio co’ suoi articoli originali, come a tutti coloro che leggono per svago, per ricreazione, per impiegare utilmente qualche ora»7. Alla morte di Giacosa, nel 1906, l’eredità della dirigenza fu consegnata a Renato Simoni che conservò il posto fino al 1923; a lui seguì per undici anni il giornalista e critico teatrale fiorentino della squadra del «Corriere» Mario Ferrigni, indi il testimone passò allo stesso direttore del quotidiano, Aldo Borelli (affiancato dal redattore principale Emilio Radius), che smorzò i toni un po’ frivoli applicati dal predecessore in nome di una sobrietà più consona alla durezza dei tempi; poi a Piovene, quindi redattori, gerenti, responsabili e direttori si susseguirono. Dopo la pausa, con il numero di marzo 1945, «La Lettura» fu stampata solo saltuariamente dall’agosto ’45 all’ottobre dell’anno seguente, però con differente veste, formato dissimile, nuova numerazione, diretta da Filippo Sacchi; una lunga cesura sopraggiunse dopo tre numeri speciali (ottobre del 1948, 1950 e 1952); infine dopo un quarto di secolo, nel ’77, se ne affidò la rinascita a Mario Spagnol e conclu— 447 —

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sivamente – si trattò però di una prova effimera – si verificò il già ricordato tentativo di Del Buono. Mutamenti grafici e iconografici, evoluzioni tematiche, aperture a generi posti ai confini dell’invenzione puramente letteraria – per esempio si registra via via una crescente disponibilità verso prose a struttura drammatica, con dialoghi incalzanti, e testi di saggistica – non alterano la fisionomia complessiva della «Lettura» e non intaccano la sua persistente mozione per una circolazione allargata e mediamente interclassista, che risalta dal confronto tra le dichiarazioni dei vari scrittori e giornalisti succedutisi al suo timone. Se Giacosa ribadiva infatti la necessità che la sua creatura si uniformasse all’orizzonte di attesa di un utente fornito di accresciute «cognizioni», suggerendo «universalità dei soggetti» e «gran varietà di argomenti» (anche scientificoantropologici, in sintonia con la radice positivistica della sua formazione) e assecondando quel desiderio di nitidezza espressiva8 e di brevità dei testi, che era peraltro correlato all’ormai consolidato metodo di lettura ‘privata’ e ‘silenziosa’, ‘estensiva’ e ‘desultiva’9, anche gli altri responsabili procedettero lungo le medesime coordinate. Essi alimentarono cioè stabilmente, almeno fino a tutti gli anni Trenta, la volontà dei padri fondatori di coinvolgere i lettori in modo ‘intelligente’ ma non pedante, ovviamente non contravvenendo ai dettami del regime che imponevano di coniugare impegno politico, rispetto dei principi fondamentali della civiltà italiana e adesione ai codici culturali della tradizione. «La Lettura» accolse la sfida e, senza disubbidire a queste direttive, si prodigò per assicurarsi larghi margini di libertà e per mantenere ben saldi «i suoi compiti di divulgazione», naturalmente accordati con l’irrinunciabile «compito morale e formativo delle nuove generazioni»10. Così la testata poté rimanere in equilibrio, evitando il pericolo di incappare nelle maglie della censura e contemporaneamente sfuggendo alla compromissione aperta con il fascismo, puntando più che sull’omologazione politica sul consenso e sull’apprezzamento dei suoi lettori. Paradigmatica di tale orientamento verso la promozione di un consumo letterario di qualità ed esemplare della poetica («Sole condizioni: la chiarezza, la moralità, la decenza», si raccomandava agli scrittori dilettanti che volessero partecipare al concorso letterario bandito nel primo numero del periodico11) che ne improntò le scelte artistico-letterarie, è la presenza nella rivista di un narratore, commediografo, pubblicista siciliano, fautore di iniziative artistico-culturali, che sembra assommare nella sua opera le caratteristiche ricercate dal pubblico italiano dei decenni Venti e Trenta: Enrico Serretta, nome — 448 —

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oggi quasi sconosciuto ma che in quel giro d’anni rappresentava il modello del letterato di successo12. È una firma che più e meglio di quelle di collaboratori più celebri (da De Amicis alla Negri a De Roberto e D’Annunzio, da Rosso di San Secondo a Pirandello) illumina sul ruolo di livre de chevet che «La Lettura» perseguiva e svolgeva presso la classe media italiana, a cui si porgeva come un medium polimorfo, attuale e privo di pregiudizi accademici e puristici. Nel 1921, data del suo debutto sulla rivista mondadoriana, Serretta era già autore teatrale affermato, reduce da una serie ininterrotta di trionfi: nel 1919 era entrata nel cartellone della compagnia Di Lorenzo-Falconi la commedia L’amico e la ventura, considerata da Praga «una delle migliori fra le tenui commedie comiche venute alla ribalta in questi ultimi tempi»13; nel 1921 al teatro Manzoni di Milano entusiastici gli applausi per Cocottina per bene, portata in scena dalla troupe Galli-Guasti, e nel 1923 era stata la volta di Un signore senza pace, interpretata dalla compagnia Gandusio al Kursaal Diana del capoluogo lombardo, una briosa «caricatura della vita intensa», ovvero di quei miti del modernismo e del vitalismo che con accenti ben più mordaci e spiazzanti erano stati denunciati da Massimo Bontempelli tre anni prima, e a cui il siciliano applicò una epidermica ma azzeccata satira cogliendo un «successone pieno ed intero»14. La reazione positiva delle platee fu in quegli anni tale da catalizzare sui copioni di Serretta l’attenzione di Ettore Petrolini che fra il 1928 e il 1930 interpretò il malinconico Lo sfratto e la «lieve, scherzosa, ottimistica» schermaglia «di parole e di furberie» (così scrissero i giornali dell’epoca) Tutto s’accomoda. L’autore possedeva perciò tutti i numeri per piacere ai lettori del mensile, a cui somministrò la sua ricetta preferita, ammannita con gli sperimentati ingredienti del blando moralismo, della pittura amabilmente ironica dei difetti d’una middle class metropolitana mediamente scolarizzata, assetata di mondanità, snob e affannosamente volta all’acquisizione di identità culturale e di exempla comportamentali (non mancava tra l’altro in questi scritti il calco a fini satirici di alcuni tic linguistici dell’epoca, quali l’eccessivo ricorso a termini del gergo burocratico, l’abuso di francesismi nel linguaggio settoriale della moda e della conversazione salottiera, l’insistenza sugli anglismi per definire oggetti, accessori, suppellettili e consuetudini di vita contemporanei15), con l’immancabile condimento di un epilogo rassicurante. Palermitano trapiantato a Milano (dove morì), inserito dal 1912 nel gruppo del «Corriere», in seguito redattore dell’«Ambrosiano» e dell’«Illustrazione Italiana», collegato all’industria editoriale lombarda – fu consulente, tra — 449 —

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l’altro, della casa Vitagliano16 gestita dall’amico conterraneo Enrico Cavacchioli – Serretta fu ospite della rivista per diciassette anni, dal 1921 fino al 1938, e qui siglò testi di genere disparato e intermedio17, dalle novelle agli atti unici, dal pezzo etnografico all’articolo umoristico, alla notazione di costume18. Anche sotto questo riguardo l’autore, con la sua feconda poliedricità, aderiva esattamente alle aspettative del team mondadoriano; non altrimenti corrispondeva agli appelli per uno stile sì divertente e brillante, ma giammai pittoresco e artefatto come era quello di molti scrittori di gran notorietà, che egli stesso stigmatizzava: «tutto ciò che nel libro appariva sovrabbondante, rettorico, appiccicato e superfluo si chiamava colore. Era appunto l’epoca in cui il colore trionfava anche nel giornale. I direttori volevano colore in cronaca e in politica estera»19. Al contrario Serretta si imponeva una disciplina linguistica e formale che, esulando dalla ricercatezza e dalle astrusità dello sperimentalismo avanguardistico, si concentrava sull’«essenza delle cose […] una prosa scarna, nervosa, incisiva che dalla assoluta semplicità invece che una minore efficacia deriva una singolare potenza»20. Piacevolezza, predilezione per il paradosso estroso e per i moduli d’una sociabilità un po’ logora ma sempre ben accolta, limpidezza stilistica, medietà linguistica non priva di pregnanza lessicale e sfumature ‘alte’, e sensibilità di fronte a generi di larga godibilità come l’operetta e il teatro di varietà, erano requisiti tali da garantire a questo «tipico rappresentante della letteratura gaia»21 la fedeltà del pubblico e la committenza dei responsabili della testata milanese. D’altra parte, quanto Serretta fosse lontano dal coltivare un atteggiamento di aristocratico ed elitario disdegno per la letteratura e il teatro popolari e fosse invece disponibile ad accettare le inevitabili metamorfosi, a cui le forme tradizionali non potevano sottrarsi nell’era della tecnologia e dell’avvento dei mezzi di comunicazione di massa, è testimoniato dalle sue esplicite prese di posizione sui radiodrammi; argomento particolarmente avvertito in quegli anni e che condizionò anche le relazioni tra la SIAE e l’ente italiano delle audizioni EIAR. Serretta, che il 21 giugno 1925 era stato eletto membro della SIA (Sindacato Italiano Artisti), entrò nell’agone esaminando difficoltà e divisando soluzioni drasticamente finalizzate all’immediata fruibilità dei testi radiofonici da parte d’un destinatario che adesso non era soltanto quello canonico di lettori e spettatori, bensì una massa amorfa e del tutto indifferenziata di ascoltatori che bisognava sollecitare e conquistare. È singolare l’acume con cui lo scrittore isolò i problemi principali e fornì la casistica degli interventi a suo parere indispensabili per realizzare la trasmissio— 450 —

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ne radiofonica di pièces; dalle sue analisi risalenti agli anni Venti e Trenta non si discosteranno difatti gli studiosi dell’ultimo Novecento22, i quali elencheranno le identiche tattiche variantistiche individuate dal palermitano: «sostituire la messa in scena, dirò così, “visiva” con una nuovissima messa in scena “auditiva” creando un repertorio drammatico particolarissimo nel quale l’elemento “rumore” servisse [..] ad illustrare l’azione, l’ambiente e le espressioni dei personaggi»; inoltre egli consigliava che in repertorio entrassero soltanto le sceneggiature passibili di esser private con poco danno del dato «“spettacolo”, e in esse mutare in “battute” le “didascalie” sui movimenti degli attori e i mutamenti d’espressione dei loro volti». E ancora, Serretta ritornava sul leitmotiv della brevità e della semplicità, del buon gusto e dell’equilibrio nell’esercizio dell’immaginazione, scandendo i paragrafi del vangelo della gradevolezza e della fruizione non defatigante, avallato da ogni autore che volesse essere in voga sia nel campo della narrativa sia sulle tavole del palcoscenico. E allora, opere «brevi per non costringere la fantasia degli ascoltatori ad un soverchio lavoro; semplici per poter essere gustate soltanto attraverso il dialogo» al microfono23. Pienamente combacianti con questo concetto di letteratura risultano i brani composti dal palermitano per «La Lettura», tra cui scegliamo a titolo esemplificativo una delle numerose commedie in un atto, L’ottavo servizo da tè (1924)24, e una delle pochissime novelle da lui affidate ai redattori della rivista, Orazio salvato dalle acque (1925). L’introduzione nel periodico degli atti unici teatrali (vincolati a una durata fissa e ristretta) fu, da un lato, la risposta a una precisa richiesta di diversificazione del mercato delle lettere, dall’altro il tentativo – sottolinea Elisabetta Camerlo – «di dar vita ad una forma letteraria parzialmente distaccata dalla sua origine e obbediente piuttosto alle esigenze della rivista […]. Risulta evidente, negli stessi autori, la coscienza di una destinazione a una fruizione non-teatrale» di tali pièces (pp. 72-73), e fors’anche la loro consapevolezza delle limitazioni a cui s’assoggettavano, che erano tali da snaturare l’essenza drammaturgica, la specifità e le cadenze spettacolari, e da generare esangui frutti scenici, significativamente classificati con discrezione dai sottoscrittori medesimi come «commediole», «scenette», «intermezzi», «azioncelle», «moralità»… Il primo testo di Serretta può essere definito infatti una situazione scenica più che una pièce vera e propria. L’ambiente è un interno domestico dove si svolge la cerimonia religiosa nuziale di Maria e Paolino, partecipanti il padre e — 451 —

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la madre della sposa, la cameriera, il cugino Umberto e la sorella di Maria, la ventinovenne Linda; è questa a ordire una burla per sfuggire alla larvata compassione dei parenti e degli invitati che la commiserano perché non ha mai trovato un pretendente: chiede al cugino, scapolo impenitente, di fingersi innamorato di lei e di annunciare il loro fidanzamento. Tutto sembra procedere senza intoppi fino al momento in cui con una mossa a sorpresa la sposina confessa che la sorella si strugge d’amore già da molti mesi per Umberto e che l’annuncio del fidanzamento tra i due non la coglie impreparata. Alla rivelazione, il cuore del giovanotto s’infiamma, da finto promesso sposo egli si trasforma in reale corteggiatore di Linda e il sipario cala su un amore che sboccia. L’esiguità della trama, la rapidità dei passaggi, la scioltezza stilistica, la superficialità priva di complicazioni psicologiche (talvolta ai limiti dell’arbitrarietà) con cui i personaggi sono appena sbozzati, lo scioglimento della vicenda nel codificato lieto fine determinato dal coup de théâtre, la propensione per un’arguzia mai graffiante, mostrano quanto l’autore attingesse alle più facili e disimpegnate opere del teatro francese tra Otto e Novecento, alle spassose pochades e agli improbabili eventi risolutivi dell’intreccio che permettevano agli spettatori qualche ora di distrazione di fronte a uno spettacolo ‘digestivo’. Si comprendono, a questo punto, il favore di questi ultimi come anche il risentito giudizio di coloro che – in questo caso Gobetti – disapprovavano il drammaturgo per essersi ridotto «a guardare la vita di provincia con gli occhi vogliosi delle belle attrici»25. Tuttavia, la severa opinione gobettiana non trovava riscontro in altri recensori, sedotti dall’innegabile ritmo che marca gran parte del teatro di Serretta, a cui Ferrigni, che lo chiama nella squadra della «Lettura», riconosce una vena forse un po’ «tenue, ma graziosa». Ancora «di grazia e di garbo» parlava Marco Praga, per il quale il rischio di scadimento nella «buffoneria» connesso a questa scrittura d’intrattenimento era distante dal palermitano, che dava prova d’essere rispetto ai colleghi un poco più originale e «un po’ meno leggero»26. Sostenuto da queste doti, era fatale che Serretta approdasse al genere «domestico» per eccellenza, il «più vicino ai modi di comunicare di sempre e di tutti», il mezzo «più agevole e più sciolto d’accostare la letteratura»27, ovvero al racconto; meglio, al racconto breve e alla novellistica28. Tra le novelle – il genere di gran lunga più attestato nel mensile – Orazio salvato dalle acque esibisce elementi contenutistici e contrassegni formali che la pongono nell’ambito della narrativa sentimentale: un giovane candido, timido e provinciale, impiegato postale nei battelli in servizio sul lago di — 452 —

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Como, vede ogni giorno durante la traversata nei pressi di Bellagio una fanciulla splendida e spensierata che lo saluta ilare e spesso lo addita ai compagni, ricchi, eleganti, dediti ai divertimenti e agli sport. Si illude, l’ingenuo travet, di aver colpito la ragazza fino a quando uno sprazzo di conversazione colto nascostamente non gli svela la verità: egli è solamente vittima di uno scherzo feroce e dell’insensibilità di quel gruppo di damerini e di capricciose giovinette. La disperazione lo coglie, il suicidio gli sembra essere l’unica via di fuga dalla disillusione, quando una camerierina gli fa provare le dolcezze di un’emozione meno futile. La narrazione, nonostante sia magnetizzata intorno al nucleo ‘serio’ del biasimo per i luoghi comuni e per le abitudini disdicevolmente egotistiche del ceto privilegiato dei benestanti, nonostante denunci la fatuità dei riti di una collettività sorda ad altre esigenze che non siano quelle del denaro e dell’effimero divertimento, è pur sempre sviluppata con le modalità sorridenti del divertissement comico-patetico, che svuotano di ogni carica contestativa la storia, rafforzandone piuttosto la valenza di quadretto sociale ‘dal vero’, da descrivere dettagliatamente – non escluse le sfumature paesaggistiche – e da contemplare con bonomia, forse un po’ troppo convenzionale, comunque certamente conforme all’impostazione generale del foglio ospitante, deciso a incontrare il mondo contemporaneo nei suoi aspetti fugaci, ma anche nei suoi sogni e pulsioni di evasione dalla realtà. Censurando l’arrivismo, l’arroganza e la vanità e lodando la riservatezza e la discrezione, il palermitano si dice convinto di adempiere al proprio dovere di intellettuale e scrittore, polemico nei confronti di quegli artisti «sciagurati» che sposano «la teoria della sfrontatezza, del dongiovannismo, dell’impetuoso assalto», teoria «buona per le novelle che si leggono in ferrovia»29. Un’ultima ma non irrilevante considerazione riguarda gli illustratori delle prose sottoscritte da Serretta sul mensile: si tratta, nell’ordine, di Riccardo Salvadori, Luigi Ricchetti, Adolfo Perone, insieme con Enrico Sacchetti e Mario Vellani Marchi (forse i due più dotati di spirito grottesco e scanzonato), Ambrogio Lombardi, Giorgio Tabet. Erano disegnatori di calibro, intenti a svolgere una mansione didascalica di focalizzazione iconografica dei nessi cruciali dell’azione di volta in volta narrata, che le figurazioni spiegavano e amplificavano. Erano maestri dell’incisione e della matita, scrupolosamente realistici e portatori d’una pratica maturata come illustratori di libri per ragazzi, copertine di periodici popolari e romanzi in dispense, dove le visualizzazioni costituivano una ghiotta esca per gli acquirenti e un ineli— 453 —

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minabile ausilio per la volgarizzazione di opere ‘difficili’ e di classici letterariamente complessi. È questo un ulteriore tassello da aggiungere all’impeccabile dosaggio di letteratura, testi informativi, fotografie e note critiche accostati secondo un progetto funzionale, che fece della «Lettura» una incisiva icona della società italiana del primo Novecento e un appuntamento fisso per quel «tipico lettore borghese» in cui l’ansia di aggiornamento culturale s’accompagnava al «desiderio di nobilitarsi esteticamente»30. NOTE 1 Cfr. G. MISANO, Un’occasione di ‘lettura’ e di riflessione. «La Lettura» nuova serie. Dicembre 1979-Settembre 1980, in Critica e Società di massa. Atti del Convegno di studi (Trieste, febbraio 1982), Trieste, Lint, 1983, pp. 329-345. 2 Cfr. G. PREZZOLINI, La coltura italiana, Milano, Il Corbaccio, 19302 (dopo l’edizione fiorentina La Voce, 1923). 3 Il mensile fu subito salutato da un successo non dissimile da quello che accompagnava il settimanale e la quasi coetanea rivista, della quale riprendeva l’aspetto grafico ricco di disegni e illustrazioni e la linea editoriale, tesa all’offerta di testi inediti di autori che godevano dell’assenso dei lettori coevi, curiosi e favorevoli a postulati letterari insoliti. Inizialmente ogni numero raccoglieva integralmente i singoli romanzi apparsi in precedenza a puntate sulla «Domenica» e sul «Corriere»; in seguito opere originali di scrittori che spesso erano anche collaboratori del foglio milanese e della «Lettura», come per esempio si verificò nel caso di Rosso di San Secondo che, introdotto nel circolo culturale di via Solferino, vi frequentava con una certa assiduità Alberto Albertini, Renato Simoni, Giuseppe Antonio Borgese e, in un secondo tempo, Aldo Borelli. Dall’uscita fino al 1910, consulente nella scelta dei romanzi mensili fu il letterato, drammaturgo e giornalista Gerolamo Rovetta; via via la cernita fu affidata ai responsabili succedutisi nella direzione della rivista: Silvio Spaventa Filippi, che conservò l’incarico dal 1903 fino alla morte, nel 1931, ed Eligio Possenti, direttore dal 1932 al 1946. Divenuto quindicinale dal numero del primo agosto 1945 (proprio nel momento di crisi della «Lettura»), con il titolo di «Romanzo per tutti», poi mutato nel ’56 in «I romanzi del Corriere», il mensile si spense in quello stesso anno. Il «Romanzo mensile» anticipò di mezzo secolo i tascabili in edizione popolare accessibile a un vasto settore dei lettori. Era dunque una tribuna pensata per l’utenza allargata cui l’industria delle lettere guardava con profetico interesse. Per le notizie sul «Corriere» e sui periodici che l’affiancarono, cfr. G. LICATA, Storia del «Corriere della Sera», Milano, Rizzoli, 1976. 4 Ivi, p. 93. 5 E. CAMERLO, «La Lettura», 1901-1945. Storia e indici, Bologna, CLUEB, 1992, pp. 910; il volume ripercorre puntualmente la lunga vicenda della rivista e fornisce una ricca documentazione, una schedatura accurata e un’acuta prefazione che esplora i motivi della persistente fortuna di cui essa godette.

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G. GIACOSA, Ai lettori, «La Lettura», I, 1901, 1, pp. 1-5. La presentazione di Albertini si legge sulla «Domenica del Corriere», 6 dicembre 1900. 8 L’assunto spiega l’esclusione di personaggi eccellenti ma stravaganti rispetto ai binari entro i quali la pubblicazione si muoveva: tra i futuristi manca l’oltranzista Marinetti, tace del tutto Svevo, autore non ancora conosciuto dal gran pubblico, ed è esiliato il troppo audace Pitigrilli. 9 Imprescindibile per la comprensione di tali fenomeni è il capitolo di A. PETRUCCI, Leggere per leggere: un avvenire per la lettura, all’interno del generale affresco sull’evoluzione dell’atto del leggere dipinto in Storia della lettura, a cura di G. CAVALLO e R. CHARTIER, RomaBari, Laterza, 1995. 10 La lettera di Borelli è riportata da E. CAMERLO, «La Lettura», 1901-1945, cit., p. 47. 11 Il bando con le norme di partecipazione si legge a p. VIII, in appendice; la giuria era composta da Giuseppe Giacosa, Gerolamo Rovetta e Francesco Novati. 12 Vissuto tra il 1881 e il 1939, l’autore siciliano ha lasciato una nutrita messe di commedie, anche dialettali (Angelo Musco interpretò Cu m’u fici fari e Malantrinu, rispettivamente del 1915 e del 1917, e nel 1929 Serretta stilò la prefazione per l’edizione bolognese di Cappelli della farsa dell’attore, Cerca che trovi…), svariati articoli teatrali (tra l’altro, riconobbe precocemente il genio di De Filippo) e una fitta bibliografia drammaturgica e narrativa che non è stata però mai riproposta dopo la sua morte; sintomo manifesto dell’appartenenza di questa produzione a una stagione ormai conclusa della nostra storia letteraria. In effetti le sue opere risultano interessanti in quanto documentano lo sforzo di sganciare la scrittura letteraria dalle remore di un regionalismo naturalistico ormai datato e attardato, ma ancora frequentato negli anni Venti, perché si sottraggono alle tentazioni estetizzanti e si orientano verso la raffigurazione né complice né compiaciuta del mondo borghese. 13 M. PRAGA, Cronache teatrali 1920, Milano, Treves, 1921. 14 ID., Cronache teatrali 1923, Milano, Treves, 1924. Proprio nello stesso anno il commediografo siciliano riunì molti dei suoi lavori nei due tomi di Teatro da ridere, Milano, Sonzogno. 15 Il procedimento, tra il pastiche e la messa in rilevo del lessico straniero in uso nel bel mondo, è testimoniato in particolare dalla novella Oh, che care signore!, satira delle sciocche protagoniste della ‘haute’ apparsa dapprima su «Ardita», II, 1920, 2, poi nel volume che porta lo stesso titolo lavorato dai torchi di Vitagliano, Milano, 1923. 16 Che editava romanzi dalle copertine coloratissime, leggeri e spumeggianti senza «problemi spirituali da prospettare, dibattere e risolvere» e pertanto era una sede congeniale all’inclinazione di Serretta, recalcitrante per temperamento ad «affrontare temi difficili. Aveva della vita una visione allegramente cordiale», cfr. G. GAGLIANO, Enrico Serretta uomo e scrittore, «Giornale di Sicilia», 8 marzo 1960. 17 Nel suddetto genere bisogna includere le biografie, come la vita dell’attrice prediletta dal siciliano, Tina Di Lorenzo, Milano, Modernissima, 1920, nella collana «Uomini del giorno». 18 La collaborazione di Serretta iniziò e continuò particolarmente con atti unici: È arrivato il Ministro…, XXI, 1921, 5, pp. 341-346, L’ottavo servizo da tè, XXIV, 1924, 4, pp. 369-376, Il vecchio, XXV, 1925, 3, pp. 181-186. Dopo la novella Orazio salvato dalle acque, XXV, 1925, 11, pp. 851-856, ripresero le commedie con Un buon partito ai bagni di mare, 6

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XXVII, 1927, 8, pp. 568-576, La stella, XXVIII, 1928, 7, pp. 489-498; indi, il racconto Il clown, XXVIII, 1928, 12, pp. 913-918, e gli atti unici Tutto s’accomoda, XXIX, 1929, 6, pp. 407-414, Il carro di Tespi, XXX, 1930, 10, pp. 895-903, Il pasto delle belve, XXXVI, 1936, 4, pp. 304-311, Mezz’ora d’automobile, XXXVII, 1937, 2, pp. 136-144, Dammi il braccio mia piccina…, XXXVIII, 1938, 2, pp. 121-128; inframezzati da notazioni di folklore e da cronache di costume: Il Natale in Sicilia, XXIV, 1924, 12, pp. 889-893, Arte sarda che rifiorisce, XXX, 1930, 3, pp. 229-233, Le feste di Palermo per Santa Rosalia, XXXII, 1932, 8, pp. 657-660, Pedoni, ma pedoni modello, XXXVII, 1937, 9, pp. 841-845, Diario di un uomo fortunato, XXXVIII, 1938, 7, pp. 641-647, Fortuna dello scopone, XXXVIII, 1938, 11, pp. 213-218. 19 E. SERRETTA, Impressioni della guerra fatta a vent’anni, «Illustrazione italiana», 10 gennaio 1937. 20 Ibidem. 21 Lo definì G. GAGLIANO, Enrico Serretta uomo e scrittore, cit. 22 Cfr. P. D. GIOVANELLI, La società teatrale in Italia fra Otto e Novecento. Lettere ad Alfredo Testoni, I, Roma, Bulzoni, 1984, p. 936. 23 E. SERRETTA, La commedia e la radio, «Comoedia», XII, 1930, 5; il suo sceneggiato radiofonico Interruzione di corrente, inserito in una tarda collettanea di suoi scritti, Quasi tutto amore, impressa dalla casa milanese Ceschina nel 1935, è rivelativo della diversa – e corretta – impostazione data dall’autore alle commedie da trasmettere; qui infatti le indicazioni didascaliche si limitano quasi esclusivamente alla ‘rumoristica’ degli oggetti costituenti l’apparente scenografia, cosicché la ricreazione di ambienti e atmosfere è affidata a un’abile riproduzione sonora e fonica. 24 Messo in scena in un secondo momento a Milano dalla compagnia del teatro Arcimboldi (insieme con l’atto unico Il commesso del notaio), il copione parve al benevolo Praga «una graziosissima cosetta piena di garbo e ricca di spirito». 25 Cfr. P. GOBETTI, Scritti di critica teatrale, in ID., Opere, III, Torino, Einaudi, 1974. 26 Cfr. nell’ordine delle citazioni, M. FERRIGNI, Cronache Teatrali 1930, Milano-Roma, Treves, 1932 (che dello scrittore si era occupato in precedenza negli Annali del teatro italiano 1902-1920, I, Milano, Industrie Grafiche Amedeo Nicola, 1923; lo stesso anno delle recensioni – di cui alcune sul siciliano – di A. TILGHER, Studi sul teatro contemporaneo, Roma, Libreria di Scienze e Lettere), e M. PRAGA, Cronache teatrali 1922, Milano, Treves, 1923. Il giudizio su Serretta è complessivamente positivo anche per R. SIMONI, Trent’anni di cronaca drammatica, I, Torino, Società Editrice Torinese, 1951. Cfr. inoltre, per un excursus della drammaturgia di quegli anni, almeno F. M. MARTINI, Cronache del teatro di prosa, Roma, Sapientia, 1928, e il volume La vita dello spettacolo in Italia nel decennio 1924-1933, a cura di D. ALFIERI, Bologna, Stabilimenti Poligrafici Riuniti, 1935, specialmente per le operette di cui Serretta fu acclamato creatore (da La fidanzata di Milù, del 1923, a Quartetto vagabondo, Un signore senza pace e La voglia color di rosa del biennio 1924-1925). 27 Cfr. l’antologia I maestri del racconto italiano, a cura di E. PAGLIARANI e W. PEDULLÀ, Milano, Rizzoli, 1964. 28 Novelle di Serretta sono sparse su vari fogli letterari, tra cui il quindicinale mondadoriano diretto da Alessandro Varaldo «Novella» (vd. Il baule di Bianchina, III, 1921, 15), per

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il quale era stata scelta la nicchia della letteratura contemporanea prodotta dai «migliori scrittori italiani», e che perciò era qualificato da una stretta ‘specializzazione’ narrativa che lo distingueva dalle più eterogenee consorelle. 29 E. SERRETTA, Elogio dei timidi, in ID., Mariella e altre cose simili e diverse, Milano, Ceschina, 1930. La riprensione per la violenza privata e storica (con qualche sporadico riferimento alla guerra, per lui «sconvolgimento diabolico» e irreparabile «morte della giovinezza») traspare di nuovo nella raccolta Quasi tutto amore; tuttavia, al di là della drammaticità dei temi, nel siciliano predominano le tonalità di un generico e convenzionale appello ai buoni sentimenti. D’altronde Serretta aveva profuso un conformismo di fondo in ordine alle ‘sacre’ istituzioni della famiglia e del matrimonio anche nei primi pur spigliati racconti della sua carriera, Oh dolci baci…, Milano, Mondadori, 1924, che sembrerebbero esternare una più risentita condanna del perbenismo e dell’ipocrita etica borghese. Eguale disposizione lo aveva accompagnato nell’invenzione di un catalogo di scontati tipi umani, per i quali aveva vergato l’umoristico vademecum Cento temi svolti per signore, signorine, uomini di mondo, borghesi e militari, Milano, Ceschina, 1929. 30 Cfr. V. SPINAZZOLA, Scrittori, lettori e editori nella Milano fra le due guerre, in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre (1920-1940). Atti del Convegno di studi (Milano, 19-21 febbraio 1981), Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1983.

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DONATELLA ALESI DI MANIERA E DAL VERO. FORME DEL NARRARE NELLA STAMPA PERIODICA DI PRIMO NOVECENTO Nel notissimo bilancio dello stato delle lettere italiane alla vigilia della guerra, Renato Serra ci offre alcune importanti considerazioni sulle conseguenze del rapporto non pacifico tra letteratura e giornalismo: con dovizia di particolari preziosi, documenta e descrive la trasformazione progressiva del sistema integrato di prodotti-produttori-destinatari, che sembra cancellare le tradizionali differenze tra generi alti e bassi. Richiama l’attenzione del lettore, probabilmente preoccupato quanto l’autore della degenerazione in atto, su una novità di non scarso rilievo: il trionfo della prosa narrativa in tutte le sue infinite variazioni di generi e forme e la riduzione della novella e del romanzo al tipo unico del testo letterario da giornale. La denuncia allarmata e lucida – ma non isolata – di Serra propone una serie di varianti della prosa novecentesca, non escluse le prose dei bozzetti, degli scherzi e delle fantasie di ascendenza scapigliata e verista disseminate tra le pagine di giornali e riviste: la novella per la quinta colonna del quotidiano – articolo corrente, à tout faire –; la novella per il magazine – rapidità e novità – o per la rivista seria – articolo soigné –; il romanzo da pubblicare a puntate; e il romanzo che si stampa addirittura in volume – articolo pesante; da esposizione piuttosto che da vendita.1

Approfitteremo di questo prezioso catalogo, degno di un bibliotecario e critico militante d’eccezione, per ragionare sull’evoluzione delle forme del narrare a partire dall’incontro tra stampa e letteratura che, a differenza del giudizio serriano, giudichiamo fortunato. Il discorso in questa sede si limiterà a due sole tipologie di scrittura – la novella e la narrazione di viaggio – presenti in abbondanza nella rivista illustrata «La donna», nata a Torino alla fine del 1904 come supplemento dei quotidiani «La stampa» e «La tribuna» e destinata ad una longevità non rara nel panorama dei giornali per le donne del primo Novecento2. — 459 —

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Liquidate le incertezze terminologiche che hanno segnato ab origine la storia del genere3, il successo della novella su rivista all’inizio del Novecento è il risultato di diversi fattori a cominciare dal carattere di forma sempre ancorata alla verità degli eventi e delle occasioni di vita o dei frammenti di destino narrati con esiti felici o infelici, ma sempre risolti nello spazio del testo, coniugando brevità, varietà e piacere, nel processo più generale dello sgretolamento della «visione del mondo provvidenziale» e della conseguente fine delle grandi narrazioni ereditate dal Romanticismo4. Nella forma breve della novella, dunque, addomesticata in quella sorta di cantiere di lavoro con molti addetti che è la rivista illustrata, riconosciamo i caratteri della contemporanea short story anglosassone, in cui trasmigra una delle prerogative morfologiche del romanzo, ovvero la rilevanza assegnata ai singoli episodi di vita e il loro «carattere fatale» di tranche de vie5. A partire da questo scenario, è possibile ricostruire le linee principali della politica editoriale e le possibili trasgressioni. Il tema dell’amore e della passione che vince ogni cosa è sempre quello maggiormente trattato per soddisfare il gusto delle lettrici dei ceti medi di concedersi una breve fuga nel sogno d’amore e nei suoi drammi di carta e di evadere legittimamente dalla quotidianità, accettando l’ambivalenza di messaggi morali e letterari volutamente ambigui, anche per effetto del contesto giornalistico di pubblicazione6. Sul peso effettivo o immaginario della presenza dell’altro nella vita personale e nelle scelte, su ciò che l’amore significa nella vita di ogni donna, si gioca l’ampio spettro delle risposte infinite e varie che le autrici propongono alle lettrici, talvolta con sfumature pedagogiche e comunque prescrittive. Ai fini del nostro discorso, noteremo che l’estrema versatilità della forma breve offre ulteriori spunti di riflessione, a cominciare dalla riappropriazione del personaggiodonna, non più sezionato in tante funzioni prodotte dalle proiezioni del desiderio maschile e dalle sue dicotomie (sesso-amore, matrimonio-infedeltà, cuore-cervello, ecc.), ma proposto in una ideale unità, vera e propria figura di sapere femminile totale, specialmente quando la vicenda narrativa si concentra sulla parabola umana delle adolescenti e delle giovani che si affacciano sulla scena della vita7. La riappropriazione di cui parliamo si traduce nell’analisi dei dubbi e dell’indeterminatezza delle scelte delle protagoniste delle novelle messe a confronto con le madri, le sorelle o le zie nubili, visibili incarnazioni dei ruoli femminili ridotti a destini immutabili nella società borghese della terza Italia. Ecco allora che le tematiche dell’amore e del sentimento acquistano una connotazione più dialettica alla luce del rapporto tra i sessi e delle relazioni tra — 460 —

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generazioni, specie in considerazione del dibattito positivista sugli effetti della dicotomia cuore-cervello nella vita delle donne8. Il dato emergente è l’adattabilità della forma breve all’analisi introspettiva tipica del romanzo di formazione, forse non ancora morto come vorrebbe Franco Moretti nel suo classico lavoro, ma destinata a trasmigrare in forme diverse9, soprattutto nel momento in cui, come ha scritto autorevolmente la storica Paola Di Cori, la società liberale «anziché chiedere solo controllo dei sentimenti, ha allargato a dismisura la capacità di analizzarli e di legittimarli», rendendo infinitamente dolorosa la possibilità di convivenza di cervello e cuore10. Lo fa con la giusta pretesa di dare informazione e fare formazione attraverso l’apparato testuale del giornale illustrato, trasformato in potente e moderna macchina di emozioni e fantasie alimentate dall’irrinunciabile dialogo tra le autrici e le lettrici, su cui si è soffermata Antonia Arslan11. Alcuni esempi eccentrici proposti da «La donna» possono illuminare meglio questo discorso: tra i tanti racconti firmati da scrittori, spicca per qualità dissonante un racconto di Federigo Tozzi. È uno scrittore finalmente salito alla ribalta del successo letterario quello che pubblica la novella Una donna nel 1919 sulla rivista, da poco trasferitasi nella capitale12. Lo scrittore senese sceglie un racconto breve dedicato alla fine di una donna rimasta vedova e destinata al manicomio: rispetto alla media dei testi scelti, il suo appare dissonante per la spietata osservazione della discesa agli inferi della protagonista. Il suo personale giro di vite, prodotto dalla «paura degli altri» che Luigi Baldacci, con felice sintesi, riconosceva alla parabola esistenziale dei personaggi tozziani per quel progressivo ritrarsi nel proprio guscio13, spinge la donna a sottrarre vita vissuta alla propria esistenza deprivata dalla morte del compagno. Evitando la tentazione della fuga nel femminile, Tozzi mette in scena un episodio di scivolamento nella follia e di inesorabile arretramento nel «niente»14, senza possibilità di attenuazione, sfruttando al massimo le potenzialità di concentrazione narrativa su un destino individuale che rappresenta la quintessenza della forma novellistica. Di quella tensione è fatta la novella pirandelliana perché isola il personaggio sottraendogli la tenerezza dei sentimenti e piegandolo ad una «necessità fatale» che attrasse lo scrittore senese15. È l’indeterminatezza lo stato d’animo di Vittoria, la giovane protagonista di un racconto di Grazia Deledda, una quasi innominabile «terra incognita di sé» che, sulle note di una fisarmonica, comincia ad osservare l’astorico paesaggio montano16. Divisa tra l’unione sicura e senza sorprese con il ricco promesso sposo e il rapporto trasgressivo con il fratellastro conosciuto per — 461 —

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strada e in assenza di mediazione familiare, Vittoria è colei che «vede da sé il suo male e il suo bene», come le ricorda la madre pronunciando con tono ostile e severo le parole del padre defunto17. Come molti dei personaggi femminili ritratti nelle pagine de «La donna», anche questa ragazza ha un rapporto distaccato con la propria madre, che incarna naturalmente le ragioni della sicurezza dell’ordine patriarcale. È certamente «mater imperiosa e absoluta», secondo la definizione di Giovanna Piano18, ma non sappiamo, però, quanto ‘addomesticata’ perché nel tempo brevissimo della sua apparizione si fa contemporaneamente portatrice delle norme del sistema patriarcale, quando ripete fedelmente le parole del padre, e messaggera di liberazione, dal momento che il loro contenuto di verità diviene il punto culminante della narrazione e mette in moto il processo di meditazione interiore della figlia. Innegabilmente, il telos matrimoniale è inscritto nel cammino della ragazza, ma la sospensione finale del giudizio, che disegna una condizione interiore di attesa e comprensione riassumibile nella domanda ‘che cosa vuole una donna’, suggerisce contraddittorie, e perciò positive, soluzioni. In questo caso, l’illustrazione di un famoso ed esperto disegnatore come Giovanni Manca accompagna benignamente il focus della novella, concentrando l’occhio delle lettrici proprio sulla disposizione all’ascolto della figuretta femminile nella grandiosità del paesaggio naturale. La voce narrante extradiegetica, qui opportunamente introdotta anche per segnalare l’impossibile identificazione autobiografica con un personaggio socialmente e culturalmente inferiore, non impedisce l’avvicinamento al lavorio interiore di Vittoria, grazie all’uso sinestetico dei suoni musicali, che favoriscono un vero e proprio corpo a corpo tra la parola letteraria e la nota19: Ma la nota acuta insisteva: «vieni, vieni!» e Vittoria vedeva avanzarsi il bel giovane amante e lo aspettava vibrando tutta anche lei, ma non sapeva di che, se di desiderio o di pena: non sapeva che cosa voleva da lui; più che il bacio, più che la voluttà e l’oblio, ella voleva qualche cosa che era al di là del bacio, della voluttà e dell’oblio. Che cosa non sapeva; ma ne soffriva e ne gioiva, e la voce del piccolo strumento spandeva questo grido nostalgico per tutte le terre d’intorno, per tutta l’isola, echeggiando nel cuore di tutte le donne sedute sul limitare delle loro porte, fondendosi col crepuscolo, dolce, inafferrabile, struggente come il crepuscolo stesso.20

In quell’atmosfera ammantata «di un alone fantastico, di luminosità diffusa», per usare le parole di Natalino Sapegno, matura l’istante che deve mutare la vita della giovane Vittoria, quello in cui tutte le passioni restano so— 462 —

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spese e la voce narrante si accosta allo sguardo della protagonista21. Nello spazio del racconto breve, la rinunzia alla centralità della trama e dell’evento culminante, con la conseguente prevalenza della conclusione aperta o sospesa della narrazione, già utilizzata negli stessi anni dalla Deledda nelle novelle pubblicate sulla terza pagina del «Corriere della sera», nel contesto della rivista femminile acquista un’ulteriore forza necessaria perché quella soluzione tecnica dimostra di essere un principio ‘conveniente’ per illuminare la verità del desiderio del personaggio-donna. Al tempo stesso, questa prova conferma la tendenza a piegare la forma breve alla narrazione di un episodio di vita, che la scrittrice sarda sviluppa massimamente nei testi destinati alle pagine del quotidiano milanese22. Quel che più conta, ad ogni modo, è l’attitudine a situare la maturazione della coscienza femminile in relazione con la sfera d’influenza e di azione degli altri, a partire dalla scelta del personaggio-donna: la lettrice è sottoposta ad uno sbilanciamento verso i comportamenti, gli stati d’animo, le opinioni della protagonista femminile, che, come ha scritto Luisa Villa, rompono l’universo monologico della narrativa romantica e naturalista e trasformano le novelle in scene di vita vissuta a cui tutti possono partecipare23. Da qui deriva, seconda la nota anglista, l’accusa di soggettivismo narrativo che ha ipotecato per lungo tempo la fortuna critica della produzione delle scrittrici vittoriane e – aggiungiamo noi – delle italiane tra i due secoli. Il personaggio femminile, ben lontano dalla paralisi maschile della volontà, assume la funzione simbolica di tracciato di lettura: la bildung delle donne incarna un sapere totale di esperienza e relazioni, messo in scena in una sequenza di stadi e tappe, che designano in modi differenti la sua parabola storica, ma anche le contraddizioni esistenti tra figure di età diverse e, perciò, appartenenti a generazioni diverse24. Con la fortuna delle corrispondenze di viaggio pubblicate sui giornali all’inizio del Novecento, e segnatamente su una rivista illustrata come «La donna», ci troviamo di fronte ad un passaggio ulteriore nel processo di trasformazione di un genere editoriale per il felice incontro tra contesto di pubblicazione, funzione autoriale e orizzonte d’attesa delle destinatarie. Le mete dei viaggi raccontati nei giornali possono essere più insolite rispetto al modello ottocentesco, così come le protagoniste non sono più solamente le viaggiatrici di professione e di necessità, antiche e moderne, ma le giornaliste e le scrittrici in movimento per ragioni di lavoro. Non stupisce pertanto la varietà delle firme e, soprattutto, l’ampiezza dei testi riconducibili a questo genere, o per lo meno ascrivibili ad un’area di pertinenza identificabile con un co— 463 —

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dice dai confini manipolati come processo determinante di costituzione della letteratura giornalistica e della ridefinizione dei settori specializzati della stampa stessa a partire dal differente peso specifico attribuito di volta in volta agli ambiti semantici dei testi pubblicati25. Nelle pagine del periodico femminile, gli articoli identificabili con il genere della letteratura odeporica coprono uno spettro molto ampio, costituito in massima parte dai racconti di viaggi in terre lontane, che hanno per oggetto e scopo l’annotazione delle impressioni visive di paesaggi e figure, dello stesso respiro delle corrispondenze del Cecchi viaggiatore analizzato da Gianfranco Contini26. A questa categoria possono essere ricondotte anche le corrispondenze da paesi stranieri, che descrivono avvenimenti considerati significativi, e, in ultima analisi, la grande quantità degli articoli che raccontano le visite agli istituti in cui si svolge l’attività sociale femminile e le cronache delle esposizioni d’arte, una sorta di reportage di contenuto politico, sociale e culturale d’interesse più esplicitamente italiano. In questo contesto risalta ancor più l’esempio eccentrico delle notissime prose indiane di Guido Gozzano, alcune delle quali trovarono ne «La donna» la loro prima pubblicazione tra il 1915 e il 1916, in pieno clima di guerra. Le tre prose L’olocausto di Cawmpore, Giaipur: la città rosea (nell’Oriente favoloso) e Da Ceilan a Madura furono proposte nella sezione intitolata Impressioni e ricordi di viaggio27. Molto tempo è passato tra il viaggio e la pubblicazione dei testi: probabilmente, come ha notato Marziano Guglielminetti, pesarono le cattive condizioni di salute della madre e il peggioramento della situazione economica della famiglia nella decisione di intensificare le collaborazioni giornalistiche ben pagate, specie in prosa28. Tuttavia non dovrà essere dimenticato il personale bisogno di sperimentazione di una forma di scrittura e di un genere in fase di trasformazione, conseguenza evidente, e notata da Gozzano stesso, dei cambiamenti del viaggio nell’epoca della nascita delle prime forme di turismo di massa. Le lettrici della rivista torinese si trovano di fronte a tre testi che operano uno scarto forte rispetto ad altri esempi precedentemente pubblicati: non solamente perché, come pure sarebbe normale rilevare, nel mezzo di una guerra nel cuore dell’Europa, essi aprono uno squarcio ‘inverosimile’ su paesaggi, usi e costumi, ma anche per l’ambigua operazione parodica, più difficilmente rilevabile ad una lettura affrettata come quella scandita dall’uscita quindicinale del periodico. Le prose indiane di Gozzano, infatti, nella loro qualità di libere rievocazioni memoriali, si dispongono su una lunghezza d’onda di— 464 —

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versa da quella degli articoli a cui sono abituate le lettrici della rivista. Il contesto della loro prima pubblicazione valorizza la loro qualità profondamente e autenticamente visiva e soprattutto, come ebbe a rilevare il loro più acuto lettore, Edoardo Sanguineti, la capacità di proporre un vero e proprio catalogo di oggetti, animali, piante, figure, atmosfere, dal quale emana «un solo, perpetuo, privilegiato profumo: un odore di morte»29. Quanto più pesante si fa l’accumulazione delle cose viste o lette nei libri, tanto più stridente appare l’effetto di choc prodotto dall’accostamento inatteso di stili e forme orientali e occidentali, tale da trasformare il paesaggio in un’enciclopedia vivente di tempi diversi e di spazi estremi: l’India gozzaniana si trasforma, nelle pagine di una rivista illustrata per donne, nell’omologo orientale del salotto piemontese di Nonna Speranza, indefinibile anacronismo degno delle guide turistiche. Occorre subito aggiungere, però, che l’effetto duplice e ambiguo dell’intreccio sapiente di fascinazione e distacco che l’io narrante del viaggiatore e la memoria dello scrittore dosano, disseminando nel testo una serie copiosa di spie linguistiche e sintattiche riconducibili alla qualità ostensiva della scrittura narrativa del viaggio, è esplicitamente destinato alle donne che acquistano e leggono la rivista. Quella presunta forma malata di esotismo, di gusto e desiderio del diverso, che deve essere infranto o, per lo meno, riconosciuto nella sua totale e definitiva consistenza commerciale, per Gozzano è l’equivalente estetico di un tratto caratteriale del ‘femminile’. Sappiamo, grazie alle indagini sanguinetiane, quanto quel mito sia un personalissimo debito del poeta torinese al proprio giovanile apprendistato intellettuale decadente: quello che si era definito, durante il viaggio, un «pellegrino dall’alba al tramonto»30 non è un viaggiatore ingenuo e tanto meno un letterato digiuno degli esiti della tradizione dell’esotismo europeo. Anche per questo non può cessare di essere l’intellettuale che, insieme ad un’intera generazione di poeti e critici, ha preso atto della crisi di tutta una civiltà letteraria e del suo conseguente sradicamento e che pertanto utilizza le pagine della stampa femminile per prendersi gioco di essa. Nel caso del rapporto tra Gozzano e una rivista-magazine, più che di camuffamento, dovremo parlare di autentico smascheramento di un ruolo e di un genere, proprio perché animato dalla coscienza della crisi ormai lucidamente assunta quale ubi consistam di un personale progetto letterario in cui il pubblico femminile è chiamato al ruolo passivo di spettatore e accettato solo in quella posizione subordinata.

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NOTE R. SERRA, Le lettere, a cura di U. PIRROTTI, Ravenna, Longo, 1989, p. 156. D. ALESI, «La donna» 1904-1915. Un progetto giornalistico femminile di primo Novecento, «Italia contemporanea», 2001, 222, pp. 43-63. 3 E. MALATO, La nascita della novella italiana, in La novella italiana. Atti del Convegno di studi (Caprarola, 19-24 settembre 1988), I, Roma, Salerno Editrice, 1989, p. 45. 4 P. DE MEIJER, La prosa narrativa moderna, in ID., A. TARTARO, A. ASOR ROSA, La narrativa italiana dalle origini ai nostri giorni, Torino, Einaudi, 1997, p. 211. Della stessa opinione è anche E. GUAGNINI, Il racconto breve italiano del Novecento, in La Nouvelle Romane (Italia-France-España), a cura di J. A. HERNÁNDEZ, M. GOZMAN, R. RINALDI, AmsterdamAtlanta, Rodopi, 1993, pp. 115-117 – utile anche per l’ottima ricostruzione del dibattito storiografico sul genere. 5 F. MORETTI, «Un’inutile nostalgia di me stesso». La crisi del romanzo di formazione europeo, 1898-1914, in ID., Il romanzo di formazione, nuova edizione, Torino, Einaudi, 1999, p. 263. Vi accenna anche Gilberto Finzi descrivendo la trasformazione poetica dell’ideologia del destino umano nei testi scapigliati e veristi (cfr. Introduzione a Novelle italiane. L’Ottocento, a cura di G. FINZI, Milano, Garzanti, 1985, p. XXV). 6 S. FRANCHINI, Moda e catechismo civile nei giornali delle signore italiane, in Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di S. SOLDANI e G. TURI, I, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 375. 7 G. BONACCHI, M. DE GIORGIO, Destino, carattere, politica. La letteratura maestra di vita. Storia e romanzo, «Memoria», 1982, 4, p. 34. 8 P. DI CORI, Come controllare i sentimenti. Tra scienza delle emozioni e identità di genere, ivi, 1981, 1, pp. 26-29. 9 F. MORETTI, Prefazione, in ID., Il romanzo di formazione, cit., p. XV. La Società Italiana delle Letterate (SIL) ha discusso le linee di questa interpretazione durante il terzo seminario estivo, di cui ho dato conto in un articolo pubblicato su «Leggendaria» (In cammino per volontà di sapere, 2002, pp. 33-34). 10 P. DI CORI, Controllare i sentimenti, cit., p. 30. 11 A. ARSLAN, Una storia tutta da scrivere: l’educazione dei sentimenti e la scrittura femminile ottocentesca italiana, «Adultità», 1998, 8, p. 189. 12 F. TOZZI, Una donna, «La donna», 25 ottobre 1919; poi in ID., Le novelle, a cura di G. TOZZI, II, Firenze, Vallecchi, 1988, pp. 835-839; ora in ID., Opere, a cura di M. MARCHI, Introduzione di G. LUTI, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1100-1104. Una seconda novella, Contadini, verrà pubblicata postuma per iniziativa della moglie Emma Palagi nel 1921. 13 L. BALDACCI, Movimenti determinati da cause ignote, in F. TOZZI, Le novelle, I, cit., p. XXIX. 14 Ibidem. 15 F. TOZZI, Luigi Pirandello, «Rassegna italiana», 15 gennaio 1919; ora in ID., Opere, cit., p. 1316. 16 All’intelligente e precorritrice sensibilità critica di Elaine Showalter dobbiamo la ridefinizione dell’esplorazione della psicologia femminile sperimentata dalle scrittrici post-vittoriane, nelle loro esemplari short stories, nei termini di un viaggio di parole nel cuore del de1 2

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siderio femminile, là dove nessuno scrittore si è mai spinto (cfr. Introduction, in Daughters of decadence. Women writers of the Fin de Siècle, ed. by E. SHOWALTER, New Brunswick, NJ, Rutgers University Press, 1993, p. XII). 17 G. DELEDDA, La fisarmonica, «La donna», 1912, 182, p. 25. 18 G. PIANO, Onora la madre. Autorità femminile nella narrativa di Grazia Deledda, Torino, Rosenberg & Sellier, 1998, p. 103. 19 Roberto Favaro ha recentemente richiamato l’attenzione sulla natura simbolista del rapporto tra musica e narrazione nel romanzo deleddiano Canne al vento nel bel libro La musica nel romanzo italiano del ’900 (Lucca, Ricordi, 2003). 20 G. DELEDDA, La fisarmonica, cit., p. 25. 21 N. SAPEGNO, Prefazione, in G. DELEDDA, Romanzi e novelle, Milano, Mondadori, 1971 (1997), p. XVII. L’eccezionalità del momento illuminato dalle parole della novella è confermato, per contrario, da quanto Marina Zancan ha notato a proposito dell’operazione di «progressivi sdoppiamenti» che la Deledda ha creato per esprimere, attraverso la plurivocità dei personaggi-donna, la propria complessa identità di scrittrice e il mondo delle passioni proiettate nelle figure distanti dalla voce dell’io narrante (cfr. La «donna nuova»: la scrittura e il modello in Grazia Deledda, in Metafora e biografia nell’opera di Grazia Deledda, a cura di A. PELLEGRINO, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990, p. 97). 22 P. ZAMBON, La collaborazione di Grazia Deledda al «Corriere della Sera», in EAD., Letteratura e stampa nel secondo Ottocento, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 1993, pp. 177-178. 23 L. VILLA, Le forme del nuovo. Donne, decadenza, modernità e la short story inglese di fine secolo, «Quaderni del Dipartimento di lingue e letterature straniere moderne, Università di Genova», 1995, 7, p. 124. 24 G. BONACCHI, M. DE GIORGIO, Destino, carattere, politica. La letteratura maestra di vita. Storia e romanzo, cit., p. 36. 25 D. ALESI, Fuori di casa: narrazioni di primo Novecento fra racconto di sé e resoconto di viaggio, in Le fuorilegge del testo, a cura di I. VIVAN, Bari, Adriatica, 2002, pp. 87-94. 26 G. CONTINI, Emilio Cecchi, o della natura (dal «Kipling» a «Messico») (1932), in ID., Esercizi di lettura sopra autori con un’appendice su testi non contemporanei, Torino, Einaudi, 1974, p. 98. 27 G. GOZZANO, L’olocausto di Cawmpore, agosto 1915, pp. 12-13; Giaipur: la città rosea (nell’Oriente favoloso), agosto 1916, pp. 10-12; Da Ceilan a Madura, settembre 1916, pp. 810. Le altre comparvero su «La Stampa», «La lettura» e «Bianco rosso verde» e furono raccolte in volume da Giuseppe Borgese nel 1917. Aldina D’Aquino Creazzo ha analizzato le varianti contenute in tutte le edizioni a stampa delle prose ed ha ricostruito l’intera vicenda editoriale nell’Introduzione a G. GOZZANO, Verso la cuna del mondo: lettere dall’India, Firenze, Olschki, 1984, pp. XXI-XXXII. 28 M. GUGLIELMINETTI, Introduzione a Gozzano, Bari-Roma, Laterza, 1993, p. 180. 29 E. SANGUINETI, Guido Gozzano. Indagini e letture, Torino, Einaudi, 1966, p. 153. Letture più recenti sono state offerte da R. CARNERO, Guido Gozzano esotico (Anzio, De Rubeis, 1996), e C. DELLA COLETTA, The white lies of Guido Gozzano’s second-hand India, «Rivista di studi italiani», 2000, 1, pp. 86-115. 30 G. Gozzano ad A. Guglielminetti, Kandy, 8 aprile 1912, in Lettere d’amore, a cura di S. ASCIAMPENER, Milano, Garzanti, 1951, p. 174.

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ROBERTO SALSANO TRACCE NARRATIVE NELLA DIDASCALIA PIRANDELLIANA DI LUMIE DI SICILIA L’individuazione di tracce narrative nel modo come Pirandello concepisce e struttura le didascalie drammatiche è un mezzo di particolare incidenza metodologica e funzionale per penetrare in certi nuclei fondanti della sua poetica. Questo tipo di ricerca sulle prime pièces del drammaturgo comporta un’eventualità singolarmente propizia di risultati emblematici poiché si dispone ad isolare quei rilievi strutturali che evidenziano il rapporto fra narrativa e teatro visualizzandoli su testi in cui si verifica il passaggio, storicamente decisivo nella biografia pirandelliana, da un genere all’altro. La parziale specificità narrativa della didascalia, e non solo quella iniziale di pièce, privilegiata dal De Castris1, può implicitamente confermare, sul piano microstrutturale, ciò che avviene in ambito macrostrutturale nel contesto integrale dell’«atto unico», accennando, come in una specie di mise en abîme, a certi modi di obiettivazione estetica propri di una poetica letteraria veristica che ancora occupa la prospettiva di Pirandello nello stadio aurorale della sua produzione teatrale, modi di obiettivazione, però, non privi di eventuali scarti differenziali dallo statuto stesso del racconto verista i quali proprio la didascalia dovrebbe essere atta a documentare, forte del proprio ruolo istituzionale rivolto allo spettacolo e alla problematicità del suo connettersi con l’idea drammaturgica e la soggettività narrativa. La prospettiva analitica e critica che si valorizza, in tal genere di studio, consente, fra l’altro, di contestualizzare il potenziale ideologico e letterario della nascita della drammaturgia pirandelliana, individuato talvolta dalla critica piuttosto nella diacronia, quasi fatalmente condizionata, dello svolgimento ideativo e letterario da certe premesse verso certe conseguenze2, alla specifica economia dell’atto drammaturgico traguardata, senza offuscare la visibilità delle valenze formative che ne hanno stimolato la costituzione, nei suoi rapporti più interni, nelle tracce ove — 469 —

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può ritrovarsi il senso nuovo e autonomo che la teatralità può conferire fin anche a ciò che sembra maggiormente ripetere un’esperienza letterariamente già data. Un primum pirandelliano è certo Lumie di Sicilia, il testo più evidentemente indicatore di una convergenza fra preistoria narrativa ed esordio del drammaturgo. Altre primizie teatrali sono certamente meno indicative al riguardo: La morsa con la sua tematica fondata sul triangolo marito-moglieamante, o Cecè con la sua impostazione comico-giocosa, non accentrano quella tematica veristica con i suoi contenuti sociali e antropologici che il soggetto di Lumie di Sicilia implica facendosi tramite, esemplarmente, d’un più integrale convogliarsi della poetica nelle strutture del teatro. La riproduzione in gran parte fedele dell’impostazione novellistica non deve stornare dall’intento di rilevare il segno significativo ed artisticamente notabile tanto delle differenze in apparenza modeste fra testo letterario ed Atto quanto delle omologie fra l’uno e l’altro, soprattutto se differenze e analogie vengono focalizzate nella sfera di un’analisi delle didascalie che diventa analisi di uno spazio elaborativo il quale può gettar luce sulla inaugurazione di un orizzonte poetico valido non solo a medio termine, cioè per una prima fase della storia pirandelliana, ma anche a più lungo termine, nel segno, soprattutto, dell’epifania. Il tasso ‘epifanico’ di una realtà ‘altra’, tra fenomenica e metafisica, improvvisamente scoperta nelle pieghe medesime del genere umile e popolare è un connotato storico-poetico che non va eluso dall’analisi critica, pur se è rinvenibile come una potenzialità del testo fra altre di diverso crisma, e si allinea ad altre facce dello stesso dramma, a ciò che, specificamente, può risultare verismo mistificato da patetismo, trionfante soprattutto nell’edizione più tarda che si fregia di una conclusione tipicamente larmoyante, o grottesco avviato mediante quegli addentellati di un espressionismo (tendente al comico nell’adattamento scenico-dialettale del dramma fornito per il Martoglio) che reclama, a detta di Nino Borsellino, lo spazio, tipico, dell’«istrione»3. La svolta epifanica, comunque, come gli scarti grotteschi, attualizza il problema della forma drammatica, della sua dinamica epica e immaginativa. Ciò che è sotteso all’enunciato didascalico, e cioè l’angolatura scenica della concezione drammatica, trova un primo referente di epicità nella retorizzazione dell’enunciato stesso. Il cumulo verbale amplificante, attuato spesso con aggettivi asindeticamente legati più o meno in forma tra di gradazione e di climax, o la ripetizione di parola in forma anaforica sono modi, fra gli al— 470 —

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tri, di assicurare una tensione persuasiva di discorso alla didascalia, e cioè una struttura che, in quanto media i dati, impronta di componenti non meramente descrittive l’istruttoria per la scena. Per il primo caso si veda come su Micuccio si soffermi una notazione pirandelliana ritraendolo «avvilito, confuso, oppresso». Di contro alla scarna indicazione fornita dal testo narrativo nel luogo della novella dove viene impedito al giovane di dirigersi verso Teresina: – Dorina, la signora! – strillò il cameriere infilandosi in fretta e in furia la marsina, mentre correva ad aprire; ma vedendo che Micuccio stava per seguirlo, s’arrestò di botto per intimargli: Voi state qua; prima lasciate che la avverta.4

si apre uno squarcio rappresentativo che possiamo dire sia sottolineato e commentato dal drammaturgo attraverso spiccati mezzi di espressività emozionale, ravvivanti modi non incompatibili con una narrativa realistico-psicologica: FERDINANDO Voi rimanete qua! Devo prima avvertire la signora.

(Ferdinando, via. Micuccio resta avvilito, confuso, oppresso da un angoscioso presentimento).5

Un’altra volta, poi, la struttura ternaria connota la scrittura pirandelliana, questa volta in puntuale replica del corrispondente luogo novellistico, quando la didascalia presenta il personaggio come «silenzioso, avvilito, assorto», con un ritorno, fra l’altro, di moduli espressivi, che potrebbe rivelare una certa unitarietà di patina stilistica come riflesso di una coscienza elaborativa, non solo informativa, di tutto l’impianto didascalico: Agita più volte le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non mi va più, non posso. Sta ancora un pezzo silenzioso, avvilito, assorto nella visione or ora avuta, poi mormora:

Quanto all’anafora, ne spicca una, «tanto», «tanta», di stringata evidenziazione fra raziocinante e patetica, a significare «stupore» e «commozione»: DORINA (senza fermarsi) Gli invitati! Via. Micuccio guarda di nuovo. La vista gli si annebbia. È tanto lo stupore, tanta la commozione, che non s’accorge egli stesso che gli occhi gli si sono riempiti di lagrime. Li

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chiude, e si restringe in sé, quasi per resistere all’ansietà e allo strazio che gli cagiona una squillante risata: Sina Marnis ride così, di là. Dorina rientra con le altre due ceste di fiori.

Sul «tanto» dello stupore e sul «tanto» della commozione punta il drammaturgo empiendo l’espressione della nota di riflessi in cui si specchiano evocazione e dimostrazione, nell’ambito di un ritmo di linguaggio tendenzialmente letterario confermato dal reiterarsi dell’artificio della ripetizione del termine ridere per cui la «squillante risata» è ripresa da «Sina Marnis ride così» ove un monologo si innesta nella descrizione e documenta una mobilità di registri, caratteristica che informa tanta prosa pirandelliana. I parametri epici, tuttavia, non si esauriscono nel dato di una tensione di discorso logico e, insieme, emotivo, arieggiante a moduli stilistici e letterari, innervato nella presentazione narrativa di stati d’animo, gesti, situazioni, in accordo, per quanto generico, con un lungo corso dialogico-persuasorio della più tipica scrittura pirandelliana. Sul piano macrostrutturale l’Atto assume una qualificazione teoricamente ineccepibile di teatro epico là dove si passa dall’evocazione della difficile vita pregressa del protagonista Micuccio, condotta nella novella mediante inflessioni di indiretto libero, all’attualizzazione di quel passato nel presente del dialogo. È certo però che il medium epico interseca più capillarmente e quindi, se si vuole, più profondamente, la configurazione drammatica là dove, definendosi nel rapporto fra autore e scena contestualizzato dalla didascalia, mostra a livello di sottotesto del dramma i modi stessi della sua componente epica. Già proprio nella novella, all’inizio, si delinea il rilievo strutturale d’una forma-didascalia: i caratteri del campagnolo Micuccio osservato dal cameriere sono preceduti dai due punti, a significare un preciso riporto di dati che facilmente, con qualche leggera modifica, figurano nell’Atto unico. Ed è la poetica naturalistica, in particolare l’indicazione esplicita sociologica del tipo del campagnolo, a mediare la forma didascalica come denominatore comune della forma-novella e della forma-dramma anche se l’evidenza di segnali di natura sociale solo dalla novella isolati e marcati, puntualizzati dall’indicazione: «il cameriere stimò innanzi tutto conveniente ritirare il lei e riprendere il voi», sottolinea un rapporto di classe troppo teorizzato e analizzato per ritrovar posto nella nota per la scena la quale viene a risentire, per questa mancanza, d’una qualche diminuzione del potenziale critico e ideologico, diminuzione propria anche di altri testi tipici del verismo, come Cavalleria rusticana, che passano dalla narrativa al teatro, tuttavia, nel caso di Lumie di Si— 472 —

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cilia, favorita dalle specificità testuali e contestuali limitative proprie del genere didascalia. Ma al di là di verifiche su dettagli, si può dire in complesso che in Lumie di Sicilia la didascalia occupa il posto di una traslazione degli elementi narrativi presenti nella novella derivandone due polarità di ordine tematico e rappresentativo che filtrano i connotati ideologici e storico-sociali d’una presa di coscienza sulla realtà e le sue contraddizioni: l’urgenza di stati d’animo in evoluzione; l’evento della visione e del comprendere e giudicare attraverso la visione. In certi fondamentali nodi drammaturgici si può misurare l’adeguatezza della didascalia a rispettare i parametri psicologico-esistenziali della vicenda e nello stesso tempo a configurarne la componente visionaria mediante la capacità dell’indicato (dalla didascalia) piano spettacolare di integrare quel processo da fatto ad evento che già la narrativa auspicava mediante la caratura esistenziale, ed ontologico-metafisica, di una rivelazione dell’essere agli occhi del personaggio estatico ma che, sulla scena, acquista la sua integrale consistenza, tra fatto e trasfigurazione, sul discrimine fra ente ed essere, identità e differenza. La didascalia, garantendo nella accentuata concretezza dell’impersonalità scenica (la scena che si svela al personaggio e la scena che si svela allo spettatore, entrambe, comunque, riscattanti l’impersonalità nel sottile medium di una fenomenologia esistenziale implicita nel vedere) la prosecuzione di quel trasfigurarsi del fatto in termini epifanici che la narrazione aveva avuto tutto l’agio di illuminare mediante l’io narrante, già esprime la tendenza originaria del teatro pirandelliano a non concepirsi come pura replica della novellistica, ma come incremento creativo d’una ricerca artistica e intellettuale. La sfera psicologica è naturalmente più consona allo statuto della narrazione, la visione più pertinente alla visibilità del teatro, ma sia la psicologia che la visualità si saldano nel potere che ha la didascalia di Lumie di Sicilia di rendere, attraverso l’immagine, sia la fisionomia del personaggio, turbato e smarrito, sia l’atto d’un suo vedere nella duplicità incrociata del guardare e del guardato. Ed è tanto vero che la didascalia è assecondata a teatralizzare il narrato dal motivo del guardare e dal rilievo del suo correlato, cioè il guardato, in una relazione di intenzionalità tra soggetto e oggetto che si staglia come fenomenologia esistenziale e come, simbolicamente, metafisica dell’‘evento’, che nel momento centrale della pièce, il momento in cui si rende visibile Sina Marnis, la fidanzata di paese diventata attrice mondana e trasformatasi in qualcosa di assolutamente altro agli occhi del paesano, uno — 473 —

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straordinario sviluppo della didascalia svolge il passo novellistico corrispondente con puntualità e organicità di dettagli e di svolgimento in una prospettiva che è condensazione insieme di sceneggiatura e di racconto. Nella novella: Micuccio stese la mano per prendere la bottiglia: ma, in quella, la bussola della sala si riaprì; un fruscio di seta, tra passi frettolosi, uno sbarbaglio, quasi la camera si fosse d’un tratto violentemente illuminata, per accecarlo. Teresina… E la voce gli morì sulle labbra, dallo stupore. Ah che regina! Col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, egli restò a contemplarla, istupidito. Come mai ella… così? Nudo il seno, nude le spalle, le braccia nude…tutta fulgente di gemme e di stoffe… Non la vedeva, non la vedeva più come una persona viva e vera davanti a sé. Che gli diceva? Non la voce, né gli occhi, né il riso: nulla, nulla più riconosceva di lei, in quell’apparizione di sogno.

A questa traccia corrisponde nella didascalia, senza alcuna riduzione, ma con uno spiccato dispiegamento scenico sia del piano psicologico, sia del piano visivo situati nel modello, un intrecciato organizzarsi di elementi drammatici: Sina tutta frusciante di seta, parata splendidamente di gemme, nudo il seno, nude le spalle, le braccia, si presenta frettolosa e pare che la cameretta d’un tratto s’illumini violentemente. MICUCCIO (che aveva steso la mano al bicchiere, resta col volto in fiamme, gli occhi sbarrati, la bocca aperta, abbarbagliato e istupidito, a mirare, come innanzi a un’apparizione di sogno; balbetta) Teresina…

La didascalia dell’Atto unico addensa i tempi al presente poiché il passato è solo un dettaglio subordinato all’attualità: «che aveva steso la mano al bicchiere»; sostituisce il fruscìo con la visione dinamica del frusciare: «tutta frusciante»; trasferisce frontalmente, alla donna: «nudo il seno, nude le spalle», «parata splendidamente di gemme», l’immagine che la novella fa oggetto della riflessione di Micuccio; circoscrive a un’atmosfera scenica: «pare che la cameretta d’un tratto s’illumini violentemente», l’impressione intima del giovane stupito. Nel testo narrativo c’è, poi, un’allusione esplicita al senso eticosimbolico informante l’orizzonte immaginativo aperto dalla visione: «vedeva, ora, in quel bujo, l’abisso che s’era aperto fra loro due», allusione che non — 474 —

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trova luogo nel testo teatrale il quale postula, al di là d’ogni necessità di spiegazione, un’autosufficienza di senso implicita nella visione così come s’impone col suo quoziente di ‘svelamento’ conoscitivo, ricezione esistenziale, suggestione psicologica. Ma se la didascalia focalizzando un limite comune fra reale oggettivato e reale immaginario che può essere parallelo al trait-d’union fra letteratura o narrativa da una parte, teatro dall’altra, può saldare agevolmente il modulo narrativo con quello scenografico dei propri enunciati quando si illustra la visione in atto del personaggio, altre didascalie presentano qualcosa che solo la narrativa o ben più specificamente la narrativa può offrire, il riferimento cioè ad un’affettività colta dall’intimo, qualcosa che sfugge alla stessa visibilità. Quando Pirandello, trasferendo un’indicazione della novella già nel primo concepimento del dramma cioè nell’edizione dell’11 della commedia, cita nella didascalia le lumie tratte fuori dalla bocca d’un sacchetto, come «freschi frutti fragranti», non allude al dettaglio spaziale, ma alla sensazione olfattiva. L’indicazione della freschezza e della fragranza non esprime un suggerimento semplicemente tecnico-scenico, ma attesta un’eccedenza di funzione della didascalia, l’allusione percettiva e valutativa di un narratore, quella stessa che si replica, al di là della didascalia, nell’oggettività dialogica di battute le quali confermano in atto l’attributo dell’esaltata fragranza. E tuttavia anche queste lumie rientrano nel tratteggio d’una loro fisicizzata visibilità. In sintonia con quanto detto nella novella, un momento estremo di risoluzione decisionale nato dall’intimo si proietta, anzi si corrobora affettivamente, nel visibile estetico, nel bello apparire delle belle lumie, in una bellezza che la didascalia, sempre nell’edizione dell’11, e poi nella definitiva, non manca di segnalare, in anticipazione, nell’edizione dell’11, rispetto alla bellezza proclamata, da zia Marta, dalla battuta dialogica (Le lumìe, le nostre belle lumìe!), indiziando come una partecipazione, al dramma, dell’autore stesso: Così dicendo riprende la valigetta e il sacchetto e s’avvia per uscire; ma gli viene in mente che lì, dentro il sacchetto, ci sono le belle lumìe, ch’egli aveva portato a Teresina dal paese.

Il personaggio, lo spettatore, gli stessi coprotagonisti della pièce, Teresina, zia Marta, o, infine, i mondani corteggiatori della paesana venduta all’immoralismo cittadino e borghese, ruotano intorno ad entità, le lumie, solo — 475 —

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parzialmente reificabili in oggetti, anche se evidentemente circoscritte nella loro cosalità inconfondibile, e dunque per un verso immerse in un connotato veristico, per un altro verso in qualche modo epifaniche, recanti un simbolismo intenso e aspro nel coniugare l’allegoria etica con l’avvenenza di un’apparizione luminosa suscitatrice di commozione e contemplazione. Le lumie sembrano già, nella coscienza di una bellezza che tende a idealità rivelata, presentire un Pirandello futuro, votato allo stupefacente dell’‘oltre’, come in modo più eclatante e teatrale una prospettiva fantastica e visionaria di ‘oltre’ aleggia nella sceneggiatura di quel momento centrale della pièce in cui appare Sina Marnis sebbene in quest’ultimo caso l’epifania è rovesciata, l’inferno e l’abisso si spalancano e la luce della verità non appartiene allo splendore delle mitiche lumie ma alla mostruosità che disinganna. Comunque, la notazione sulle «belle lumìe» è almeno un indizio, fra altri, di come Pirandello può fondere, attraverso la prescrizione dell’effetto teatrale, i presupposti oggettuali di una pittoresca ‘natura morta’ con una valutazione e trasvalutazione dell’oggetto. La pratica narrativa alla quale Pirandello si è esercitato fino alle soglie del suo apprendistato drammaturgico, mediante la ‘non finitezza’ etica e immaginativa che lo statuto del racconto è in grado di propiziare attraverso le allusioni dirette del discorso e della sua riflessività, ha profondamente insinuato un andare oltre la cosa e la sua mortificata entità sotto un impulso che, non essendo solo legato alle leggi del ‘genere’, ma piuttosto a una dialettica dentro gli schemi dell’oggettivismo veristico, induce a un teatro aperto e creativo. NOTE A. LEONE DE CASTRIS, Dalla narrativa al teatro: la nascita del personaggio, in ID., Storia di Pirandello, Bari, Laterza, 1978, p. 113. 2 Cfr. ivi. 3 N. BORSELLINO, Tra narrativa e teatro: lo spazio dell’istrione, in Gli atti unici di Pirandello, a cura di S. MILIOTO, Agrigento, Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, 1978, pp. 9-20. 4 L. PIRANDELLO, Novelle per un anno, a cura di M. COSTANZO, Premessa di G. MACCHIA, II, 2, Milano, Mondadori, 1987, p. 909. Si cita, in seguito, da questa edizione. 5 ID., Maschere nude, a cura di A. D’AMICO, Premessa di G. MACCHIA, I, Milano, Mondadori, 1986, p. 59. Si cita, in seguito, da questa edizione. I passi citati corrispondono, salvo indicazione in contrario, all’edizione del 1911. 1

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BEATRICE STASI LA TRAMA SIGNIFICA? PER UNA LETTURA DEI QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE 1. RACCONTARE, RAGIONARE Tipico del narrare pirandelliano è il prevalere dei discorsi sui fatti, delle parole sulle azioni: come se il plot fosse solo un moderno exemplum per illustrare problemi, pensieri, psicologie. Questa incontenibile propensione a raziocinare sembra peraltro non potersi esprimere se non attraverso una altrettanto incontenibile propensione a raccontare-esemplificare, illustrare, spesso sostituire il ragionamento con la rappresentazione concreta di un qualche fatto o fatterello, di modo che, alla fine, la narrazione, che sembrava ridotta a una funzione meramente strumentale e subordinata, torna in realtà a imporsi come protagonista sull’apparente preponderanza delle disquisizioni ideologiche. La critica sulla narrativa pirandelliana si è dedicata prevalentemente a un’analisi dei temi, trascurando in genere lo sviluppo diegetico, tanto da incorrere a volte in alcune sviste, non sempre insignificanti, nei riassunti delle trame ai quali si trovava costretta da noiose esigenze espositive1. Così, i Quaderni di Serafino Gubbio sono stati per lo più letti come un romanzo sul cinema2, sull’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica3. La subordinazione del racconto alle idee sembra ulteriormente legittimata dalla stessa pacchiana melodrammaticità della situazione narrativa evocata. Pure quella trama, per quanto «da romanzaccio», è stata ideata da Pirandello per illustrare o introdurre narrativamente alcuni dei temi più impegnativi della sua meditazione. Quelli sono, insomma, i personaggi che Pirandello ha scelto: li ha scelti per smontarli e smascherarli, ma la decostruzione della narrativa naturalistica sperimentata dal Pirandello romanziere non incrina minimamente la sua fiducia di affabulatore nella possibilità di una costruzione fittizia in grado di rivelare — 477 —

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la verità del reale, anche quando – come nei Quaderni, ma anche altrove – questa rivelazione coincide con la denuncia della trivialità del suo strumento (la trama romanzesca) e dell’inspiegabilità del suo oggetto (la realtà stessa). 2. LE METAFORE DEI PERSONAGGI Il processo di smontaggio degli stereotipi narrativi prende le mosse da una definizione dei personaggi come «metafore di se stessi»4: così li definisce il narratore Serafino Gubbio usando la prima persona plurale, con l’effetto di sottolineare la propria omodiegeticità rispetto al racconto, il suo essere personaggio in mezzo ai personaggi e, dunque, metafora in mezzo alle altre metafore. La metafora di Serafino era stata scelta, infatti, come primo titolo del romanzo: quel Si gira che gli resta appiccicato, nomignolo e destino, tic e marchio d’identificazione. Nel secondo e definitivo titolo, invece, l’accento cade sulle due funzioni fondamentali del personaggio: i quaderni e il mestiere tecnico dell’operatore, la scrittura e il cinema, l’arte creativa e la produzione seriale della macchina. Inevitabile, a questo punto, la tentazione di vedere nel Gubbio operatore la maschera e nel Gubbio scrittore il volto, nell’impassibilità del primo la finzione e nella compassione del secondo la sincerità, interpretando l’ambiguità del personaggio alla luce dell’ideologia dell’autore: una soluzione, però, la cui stessa coerenza risulta poco congruente tra le antinomie strutturali dell’universo concettuale pirandelliano, dove – per ripetere una metafora abusata – non ci sono maschere e volti, ma solo maschere nude. Chi sia veramente Serafino Gubbio – come pure chi siano veramente Varia Nestoroff o Aldo Nuti o Duccella o Carlo Ferro – non è dato sapere: solo che, nel caso di questo personaggio, non poter rispondere a questa domanda vuol dire non poter decidere circa l’attendibilità del suo racconto, dei quaderni che scrive, di quella stessa attitudine di spettatore distaccato, cronista imparziale, operatore alienato che esibisce fin dalle prime righe. 3. TEMPO DEL NARRARE E TEMPO DEL NARRATO La scarsa attendibilità del narratore Gubbio sembra confermata anche dallo statuto costituzionalmente ambiguo del narrato, che oscilla tra la forma memoriale e quella diaristica, in un rapporto contraddittorio e irrisolto con — 478 —

LA TRAMA SIGNIFICA?

la temporalità del vissuto5. Quando il racconto comincia, comincia al passato remoto («Non posso levarmi dalla mente l’uomo incontrato un anno fa, la sera stessa che arrivai a Roma. Di novembre, sera rigidissima»6), evocando esplicitamente una distanza temporale tra i fatti e l’atto narrativo che consegna quest’ultimo al tempo successivo alla tragedia e al mutismo da choc di Serafino. Questa esigenza di distaccare il narrato, di storicizzarlo, fa incorrere il narratore in alcune sviste nella cronologia interna del suo racconto, facendogli gonfiare la frattura temporale per enfatizzare la frattura psicologica che stacca il narratore dal suo narrato e il personaggio dal suo vissuto, isolandolo in un definitivo «silenzio di cosa». In realtà, all’interno di questa cornice che non si chiude (l’anno di distanza evocato all’inizio non coincide con gli otto mesi effettivi in cui si sviluppano tanto l’azione quanto il racconto), il racconto costeggia fedelmente gli eventi, alternando sviluppi diegetici, dialoghi e digressioni filosofiche, in un disordine espositivo che si presenta anch’esso come segnale voluto di una contemporaneità diaristica delle parole rispetto ai fatti, dei quaderni rispetto al loro oggetto: «Permettete un momento. Vado a vedere la tigre. Dirò, seguiterò a dire, riprenderò il filo del discorso più tardi…» (p. 574). 4. L’ANTEFATTO: L’IDILLIO E IL DRAMMA L’allacciamento al presente avviene dopo una rievocazione degli antefatti nella villetta di campagna dei Mirelli, pateticamente intonata su un nostalgico esclamativo. La voce di Serafino tradisce una partecipazione emotiva non priva di precisi riferimenti alla propria persona e al proprio ruolo: la nostalgia non è dunque il tono del Gubbio narratore che pronuncia il rimpianto altrui per un altrui paradiso irrimediabilmente perduto, ma il sentimento del Gubbio personaggio che quel rimpianto vive chiaramente – anche se discretamente – in prima persona. Solo che il personaggio Gubbio, giovane professore privato di latino e greco di Giorgio Mirelli, non ci fornisce i motivi per un rimpianto così accorato, per una rievocazione così partecipe: il suo ruolo nella villetta di campagna è altrettanto defilato e subordinato quanto quello del Serafino operatore all’interno della Kosmograph. Anche nella successiva rapida presentazione della propria vita il narratore non fornisce nessuna spiegazione della partecipe commozione tradita dal suo — 479 —

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ricordo di casa Mirelli. Il tecnico Serafino Gubbio si presenta fondamentalmente come un creativo fallito che, dopo aver condotto per «parecchi anni […] una vita da scapigliato con giovani artisti», trova nel mestiere meccanico dell’operatore un’occupazione remunerata e una dolorosa parodia della creatività perduta: Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla. (p. 521)

Ben diverso, invece, il destino del creativo riuscito, Giorgio Mirelli, che partendo da un analogo distacco dalla realtà arriva a levitare nella sfera dell’arte, finendo col diventare per il personaggio Serafino Gubbio più che un amico o un ex-allievo, una figura frustrante e mitica, l’artista che egli stesso avrebbe voluto essere. L’analogia che è possibile cogliere tra il suicidio di Giorgio per Varia, la donna amata che ha saputo ispirargli i suoi capolavori, e il suicidio del poeta innamorato di Ilse e da lei ispirato nell’antefatto dei Giganti della montagna, permette di sottrarre questo evento al repertorio dei più truci luoghi comuni da feuilleton, per elevarlo al rango tragico di destino, consumazione ineluttabile di un sacrificio sull’altare dell’arte7. Giorgio Mirelli muore, Serafino Gubbio finisce col fare l’operatore cinematografico: se nel passato poetico dell’antefatto c’è ancora posto per il fato tragico dell’artista, nel prosaico presente del diario lo stesso fato può realizzarsi solo nella versione bassa e grottesca della caricatura, realizzando quella compresenza di tragedia e parodia evocata dal Pirandello saggista per spiegare la farsa trascendentale di Federico Schlegel, «goffa ombra d’ogni gesto tragico»8. Serafino come goffa ombra di Giorgio: basterebbe questo per spiegare la natura del coinvolgimento emotivo da parte del narratore nella storia, se la presenza di una giovane figura femminile, della vermiglia Duccella, non inducesse a ipotizzare anche un coinvolgimento di natura amorosa9. Ipotesi che trova una conferma nell’acidità con la quale viene presentato l’arrivo nella «dolce casa di campagna» del baronello Aldo Nuti, «un signorino, un bel signorino tutto profumato, col panciotto di velluto, i guanti canarini scamosciati, la caramella all’occhio destro e lo stemma baronale nel fazzoletto e nel portafogli» (p. 547), dove la stessa particolareggiata accuratezza della descrizione, lo stesso indugio sugli eleganti indizi di benessere del nuovo arrivato dicono molto sulla psicologia del Gubbio personaggio. — 480 —

LA TRAMA SIGNIFICA?

Ben diverso il modo in cui viene presentata quella che, per la vieta tradizione del tipo letterario, sembrerebbe la responsabile del dramma: Varia Nestoroff, la maliarda mangia-uomini. Gubbio, l’operatore spassionato, il tecnico del distacco, finisce sempre col privilegiare nel suo racconto la prospettiva più favorevole possibile – date le circostanze – a Varia. Tanto che, se la morale della favola nella plurivocalità teatrale di Ciascuno a suo modo è l’impossibilità incontrovertibile di stabilire la verità psicologica dei personaggi e dei comportamenti, la presenza nel romanzo di una voce monologante che, di là dalla sua dichiarata neutralità, gestisce il racconto, finisce con lo scegliere, in maniera discreta ma nitida, una versione dei fatti che, se non assolve completamente Varia, quanto meno impone al lettore di compatirla, di considerarla vittima – sia pure di se stessa. Peraltro, anche l’atteggiamento di Gubbio verso Varia sembra dettato unicamente da un interesse distaccato e compassionevole, mentre si continua a presentare come definitivamente tramontata ogni possibilità di una sua diretta partecipazione emotiva. Eppure, dopo aver rievocato la tragica morte di Giorgio, nel momento in cui l’antefatto si chiude per lasciare spazio al resoconto diaristico del presente, lo spettatore Gubbio si lascia sfuggire una previsione sul futuro in cui si attribuisce un ruolo tutt’altro che esterno e passivo nella conclusione della drammatica vicenda: «Non so perché, mi dice il cuore che, girando la manovella di questa macchinetta di presa, io sono destinato a fare anche la vostra vendetta e del vostro povero Giorgio, cara Duccella, cara nonna Rosa!» (p. 565). 5. SERAFINO GUBBIO NARRATORE E SERAFINO GUBBIO OPERATORE Tanto più rilievo acquista questa conclusione del secondo quaderno se si ricorda che la vendetta era già stata evocata all’inizio del primo da Serafino Gubbio operatore per giustificare la propria scrittura, per spiegarne le motivazioni: «Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella» (p. 525). Se il Gubbio scrittore indica nella vendetta la motivazione più intima e intensa del suo scrivere, il Gubbio operatore arriva profeticamente a individuare in essa l’effetto ultimo del suo impersonale e irresponsabile operare: — 481 —

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per vie diverse, il ruolo del compassato operatore e quello del compassionevole scrittore finiscono col coincidere in quello, mascherato, del vendicatore. Il romanzo, è noto, si chiude con la morte di due personaggi e la condanna al silenzio di un terzo. Il ruolo di Serafino in questo finale si presenta, congruentemente con la metafora di se stesso costruita dal narratore, come quello di uno spettatore che assiste alla nemesi che si abbatte sui due colpevoli, del tecnico che la riprende, non dell’attore che vi partecipa, né tanto meno del regista che la mette in scena. In realtà, se non ci si lascia annebbiare la vista dalla cortina di parole rovesciata da questo narratore pirandelliano – verboso come tanti suoi simili – e si considerano i fatti, gli atti, le opere e omissioni in cui si realizza la sua apparentemente secondaria presenza scenica, si potrà osservare che il ruolo del personaggio Serafino Gubbio per tutto l’arco del narrato è tutt’altro che passivo e che la sua sfera d’azione non è sicuramente limitata solo a quella dello sguardo e della mano che gira la manovella, come tante volte egli stesso ripete. Che, per esempio, Serafino Gubbio sia per lo meno anche un orecchio è infatti un dato difficilmente contestabile, se si considerano tutti gli episodi in cui personaggi più o meno principali lo selezionano come confidente. E che, addirittura, sia anche un cuore è lui stesso ad ammetterlo, nonostante il suo tanto sbandierato distacco, per lo meno a partire dal momento in cui riconosce di essersi innamorato di Luisetta, la giovane figlia di Cavalena che Aldo Nuti nel delirio della febbre confonde col fantasma di Duccella (ma è solo lui a confonderla? è lecito a questo punto chiedersi, considerata anche la somiglianza fonetica tra i due nomi). Serafino Gubbio è poi anche un paio di gambe e un uomo pieno di iniziative, in quanto è l’unico che, per cercare di sbloccare la situazione, va a cercare Duccella con la speranza di ricondurla da Nuti «per lei, prima di tutto; poi per lui, e infine – perché no? – anche per me» (p. 683), secondo quanto egli stesso ammette, con la speranza cioè di liberare Luisetta dal suo ruolo di fantasma, staccandola così dal rivale Nuti. La funzione di «sfogo» che poi lo stesso Serafino riconosce alla propria scrittura ci garantisce la possibilità di ritrovare nei suoi quaderni, oltre a discorsi sui massimi sistemi, l’espressione dei suoi sentimenti più teneri – quelli che dichiara in continuazione di aver soppresso – come dei suoi più tenaci livori: basti pensare al modo in cui il narratore perseguita il personaggio Aldo Nuti, con dei ritratti in cui l’apparente compassione, tanto spesso esibita dal Gubbio filosofo morale, non arriva a nascondere l’antipatia umorale10. — 482 —

LA TRAMA SIGNIFICA?

Se Gubbio narratore sceglie di privilegiare la versione dei fatti più favorevole possibile a Varia, pur non essendone innamorato, un’analisi dei sentimenti e del comportamento del Serafino Gubbio personaggio induce a credere che, a presentargli come più verosimile quella versione, non sia certo il suo tanto esibito distacco di operatore, né la sua altrettanto esplicita compassione di narratore, ma un sentimento acre e rancoroso nei confronti di un Aldo Nuti doppiamente rivale: in quanto fidanzato della Duccella probabilmente amata da Serafino nel passato, e in quanto oggetto dell’amore della Luisetta sicuramente amata da Serafino nel presente. 6. LA COLPA E LA COSCIENZA Ah, se ognuno di noi potesse per un momento staccar da sé quella metafora di se stesso, che inevitabilmente dalle nostre finzioni innumerevoli, coscienti e incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci: si accorgerebbe subito che questo lui è un altro, un altro che non ha nulla o ben poco da vedere con lui; e che il vero lui è quello che grida, dentro, la colpa: l’intimo essere, condannato spesso per tutta intera la vita a restarci ignoto! (p. 641).

Anche in questo passo il personaggio al quale Serafino Gubbio narratore allude nel parlare di finzioni, coscienza e colpa, è il capro espiatorio del dramma, Aldo Nuti: ma, come ho già avuto modo di osservare, l’uso della prima persona plurale coinvolge esplicitamente anche il narratore omodiegetico, sia pure nella prospettiva di un discorso generale sulla condizione umana. Che anche Serafino Gubbio sia una metafora di se stesso è un dato ormai acquisito. Che invece possa essere riferito a lui anche quel cenno a una colpa nascosta, a un io inconfessabile «condannato per tutta intera la vita a restarci ignoto» è un’ipotesi ancora da verificare. L’idea di un delitto inconsapevole, nascosto persino alla coscienza del suo responsabile, si affaccia più volte nei discorsi messi in bocca ai personaggi del romanzo, al punto che perfino Carlo Ferro, con «quel suo nero testone villoso e burbanzoso di caprone», arriva a dimostrare una sorprendente finezza psicologica nel discettare intorno all’argomento, per accusare in questo senso il regista della compagnia, Cocò Polacco. Niente, in realtà, nello svolgimento del romanzo, interviene per dimostrare che Carlo Ferro abbia ragione. Si potrebbe dunque prendere questo exploit di penetrazione psicologica esposto «con tanta chiarezza e tanta efficacia — 483 —

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dialettica» da un personaggio «di mente angusta e di animo volgare» (p. 622) come l’ennesima manifestazione di un prevalere della vocazione argomentativa e filosofica sulla componente narrativa, della quale non viene salvata in questo caso nemmeno la più elementare verosimiglianza psicologica. In questa prospettiva, l’autore Pirandello non avrebbe esitato a scegliere un personaggio come Carlo Ferro quale improbabile portavoce delle complesse problematiche morali tipiche della sua scrittura, per agganciarle alla trama con la pretestuosità poco convincente delle accuse a Cocò Polacco. Ma se, secondo le dichiarazioni programmatiche rilasciate all’inizio, si vuole provare a rovesciare il rapporto tra elucubrazioni e trama, per leggere una buona volta le prime in funzione della seconda, si deve a questo punto ipotizzare che quelle accuse al regista, così marchianamente sballate, come pure gli altri cenni, presenti nel romanzo, a un colpevole inconsapevole, siano comunque funzionali allo sviluppo narrativo, seminino cioè indizi relativi alla sua soluzione. Possano, insomma, essere riferiti a qualcun altro. 7. IL DELIRIO E LA RIVELAZIONE Aldo Nuti si ammala. Febbre cerebrale. Delira. Il delirio del malato ha l’effetto di rivelare il delirio latente dei sani, illuminando quegli angoli bui della coscienza tanto spesso evocati – come si è visto – nel corso del romanzo: […] i frammenti d’una vita rimasta occulta, perché non potemmo o non volemmo rifletterla in noi al lume della ragione; atti ambigui, menzogne vergognose, cupi livori, delitti meditati all’ombra di noi stessi fino agli ultimi particolari, e ricordi obliati e desiderii inconfessati, irrompono in tumulto, con furia diabolica, ruggendo come belve. (p. 657).

Che il «noi» utilizzato qui da Gubbio non sia un soggetto grammaticale generale e generico, ma includa per davvero anche l’io del narratore in prima persona lo dimostra la presenza, tra gli effetti collaterali di quel delirio altrui, di una sospensione dell’atto narrativo da parte del sé («Ho interrotto per parecchi giorni queste mie note»): sospensione, cioè, di quel tentativo di sistemare gli eventi, di raccontarli e dunque interpretarli – spiegarli – che la loro messa per iscritto comporta. Se lo spettacolo della follia incrina la fiducia nella possibilità di conoscere se stessi e il mondo, la scrittura come strumento di controllo del vissuto finisce inevitabilmente con l’essere coinvolta in questa crisi. — 484 —

LA TRAMA SIGNIFICA?

Pur ribadendo la propria passività rispetto agli eventi, il proprio, pur sofferto, non intervento, Serafino deve finalmente riconoscere di essere coinvolto nella storia non dalla generica e filosofica caritas finora esibita, ma dall’egoismo interessato ed esclusivo dell’eros. L’interruzione della scrittura diventa allora l’effetto inevitabile, il sintomo sicuro di una diversa percezione della realtà, di se stesso e degli altri: se finora il narratore Gubbio aveva scelto di scrivere la vita, ora si trova a volerla (o doverla) vivere. 8. IL NARRATORE IPOCRITA Esteriormente, anche dopo questa rivelazione, nel comportamento di Serafino Gubbio non è cambiato nulla: il suo ruolo sembra restare quello secondario del cronista o, tutt’al più, del confidente. A permettergli di svolgere questa funzione è la sua capacità di suscitare una fiducia che sembra però attribuirgli una innocuità molto vicina all’inettitudine, per non dire all’impotenza sessuale: Pare che non si possa fare a meno di commettere il male, per essere stimati uomini. Per conto mio, io so bene, benissimo d’essere uomo: male, n’ho commesso, e tanto! Ma sembra che gli altri non se ne vogliano accorgere. E questo mi fa rabbia. Mi fa rabbia perché, costretto a prendermi quella patente d’incapacità – che è, che non è – mi trovo addosso, talvolta, imposta dalla soperchieria altrui, una bellissima cappa d’ipocrisia. E quante volte sbuffo, sotto questa cappa! Non mai tante volte, certo, come di questi giorni! (p. 677)

La pena dantesca degli ipocriti raffigura iperbolicamente la sofferenza prodotta dal peso della maschera sul volto, soprattutto «di questi giorni»: dopo, cioè, la rivelazione delle proprie pulsioni profonde. La foga esclamativa con la quale Serafino rivendica il male («e tanto!») da lui commesso, proprio perché sembra confutata da una lettura ingenua degli eventi, suggerisce l’opportunità di una lettura sospettosa, in grado di cogliere nei suoi «atti ambigui», dietro le sue «menzogne vergognose», attraverso i suoi «desideri inconfessati», gli indizi, per l’appunto, di quel delitto meditato all’ombra di se stesso.

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BEATRICE STASI

9. DELITTO E CASTIGO Lettura sospettosa che, in questa sede, si applicherà solo alla scena madre del delitto, quella in cui Aldo Nuti spara a Varia Nestoroff e si lascia sbranare dalla tigre. La tragedia si realizza sul set grazie a Serafino, che con meravigliosa tempestività rimuove dalla propria coscienza la percezione di un indizio inoppugnabile delle intenzioni omicide del Nuti: […] notai che il Nuti prima s’inginocchiò nel punto segnato per il suo appostamento, poi si alzò e andò a scostare un po’ in una parte del gabbione le fronde, come per aprirvi uno spiraglio. Io solo avrei potuto domandargli: «Perché?» Ma la disposizione d’animo stabilitasi tra noi non ammetteva che ci scambiassimo in quel punto neppure una parola. Quell’atto poi poteva essere da me interpretato in più modi, che m’avrebbero tenuto incerto in un momento che la certezza più sicura e precisa m’era necessaria. E allora fu per me come se il Nuti non si fosse proprio mosso; non solo non pensai più a quel suo atto, ma fu proprio come se io non lo avessi affatto notato. (p. 732)

Comportandosi da perfetto operatore, recidendo con precisione chirurgica dalla coscienza tutto ciò che potrebbe disturbare il suo lavoro, Serafino finisce in realtà col rendere possibile la tragedia che finge invece di riprendere solamente, recita cioè un ruolo da protagonista nel dramma al quale sembra soltanto assistere. «Lui solo» avrebbe potuto intervenire, ma non lo fa, adducendo, come poco credibile motivazione per la rimozione messa in atto e descritta con lucidità sospetta, il suo lavoro di operatore, l’alibi utilizzato lungo tutta la trama per occultare il suo ruolo effettivo di regista, le sue responsabilità nel «delitto meditato all’ombra di se stesso». Girare, ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’una macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro me. Sta bene. Nessuno intanto potrà negare ch’io non abbia ora raggiunto la mia perfezione. Come operatore, io sono ora, veramente, perfetto. (p. 729)

Alla fine del libro, Serafino torna a parlare di vendetta, come aveva fatto all’inizio: il discorso ideologico generale sulle macchine e la vita, sulla paradossale servitù dell’uomo alle sue invenzioni, reperisce ovviamente le moti— 486 —

LA TRAMA SIGNIFICA?

vazioni di questa vendetta su un piano ideologico generale, ma un lettore attento non avrà dimenticato che, quando in precedenza Serafino aveva profetizzato il proprio ruolo di vendicatore, lo aveva esplicitamente riferito alla fabula, al triste destino di Duccella e nonna Rosa, alla morte di Giorgio Mirelli, l’artista. Considerato che l’effetto più appariscente di questa vendetta motivata sul piano ideologico è la morte realizzata sul piano narrativo dei due principali responsabili di quel dramma del passato, è difficile non cogliere l’ambiguità strutturale di questo come di tanti altri discorsi teorici del nostro narratore, che pronunciano, senza dubbio, delle tesi tipicamente pirandelliane, rappresentative, cioè, del pensiero dell’autore, ma al tempo stesso se ne servono per occultare le reali motivazioni psicologiche del personaggio Serafino, passando così dallo statuto di divagazioni o iperfetazioni speculative a quello di cortina fumogena, imprescindibile strumento della strategia narrativa, reticente e verbosa, del nostro narratore. Il carattere intenzionale della vendetta stessa, sottolineato dalla particolare formulazione utilizzata dal narratore («la vendetta che ho voluto compiere…»), contribuisce a rendere meno pressante la motivazione filosofica argomentata rispetto all’evidenza dell’inconfessato movente personale rivelato dalla trama. Che poi la scrittura, evocata all’inizio del libro come strumento di un’altra vendetta consumata dal nostro operatore contro la disumana impassibilità richiesta dal suo mestiere, valvola di sfogo per la dolorosa urgenza del superfluo sentimentale, divenga alla fine del libro l’unico canale di comunicazione lasciato all’operatore Gubbio, chiuso definitivamente nel suo patologico silenzio, conferma l’ipotesi che quel silenzio rappresenti in realtà il compimento definitivo di una nemesi regolata dalla legge ironica del contrappasso: «Una penna e un pezzo di carta: non mi resta più altro mezzo per comunicare con gli uomini» (p. 729). L’ipotesi di una colpevolezza di Serafino, una volta verificata, non può non suggerire un’interpretazione del suo mutismo come castigo meritato del suo uso distorto della parola, dei suoi colpevoli silenzi che tanto efficaci sono risultati nell’accompagnare discretamente la morte sul set. Perfino la rinuncia alla sorprendente offerta amorosa di Luisetta serve a dichiarare il carattere inutilmente postumo della sua muta sopravvivenza, della sua condizione di fu Serafino Gubbio, di operatore impassibile solo in apparenza superstite rispetto a un dramma del quale è stato in realtà l’assoluto protagonista: No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto

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e impassibile – a far l’operatore. La scena è pronta? – Attenti, si gira… (p. 735)

Scrittura letteraria o riproduzione cinematografica, l’interpretazione artistica del reale può realizzarsi, per Pirandello, solo nella condizione postuma di chi è sopravvissuto (ha rinunciato) a se stesso e alle proprie passioni: di là dalle polemiche contingenti contro la preoccupante concorrenza della tecnica, la muta segregazione dalla vita che rende perfetto Serafino Gubbio operatore è la condizione che rende necessaria anche la scrittura del Serafino Gubbio narratore. Caricatura grottesca del modello di scrittore impersonale proposto dalle poetiche naturalistiche, l’operatore «solo, muto e impassibile» espia la sua retorica nel suo silenzio. NOTE 1 Perfino un critico attento e sensibile come Giacomo Debenedetti, nelle sue peraltro memorabili lezioni dedicate ai Quaderni di Serafino Gubbio, incorre in imprecisioni di questo tipo, quando presenta l’interessamento sentimentale di Luisetta per Serafino e il rifiuto opposto da quest’ultimo come antecedenti al trauma che ha reso muto l’operatore, compromettendo in questo modo la coerenza psicologica e comportamentale di entrambi i personaggi e la comprensione stessa del finale del romanzo (G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 19813, pp. 256-280, in particolare pp. 271-273); più recentemente anche Giorgio Bárberi Squarotti descrive il personaggio di Luisetta in maniera quanto meno poco condivisibile, come una ragazza «che vorrebbe far carriera nel cinema anche al prezzo di qualche concessione al regista Polacco» (G. BÁRBERI SQUAROTTI, La sfida di Serafino Gubbio operatore, «Studi novecenteschi», 2001, 61, pp. 83-110, p. 94). 2 Indicativo il titolo del XIX Convegno del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, che riconosce nel cinema il tratto distintivo più rilevante del romanzo: «Si gira». Il romanzo cinematografico di Pirandello, Agrigento, Edizioni del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, 1987 (con scritti di F. ANGELINI, S. COSTA, F. LANZA, E. LAURETTA, P. PUPPA). Tra i numerosi interventi dedicati al romanzo in questione, quelli che hanno privilegiato, a volte fin dal titolo, una simile chiave di lettura, pur non limitandosi solo a quella, rappresentano la maggioranza: R. TESSARI, Serafino Gubbio tra la macchina e la tigre, in ID., Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo Novecento italiano, Milano, Mursia, 1973, pp. 321337; M. RICCIARDI, Creazione artistica e prodotto di consumo: per un’analisi del «Si gira», «Lavoro critico», 1975, 2, pp. 65-97; F. ANGELINI, Serafino Gubbio, la tigre e la vocazione teatrale di Pirandello, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, II, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 855-882 (ora in EAD., Serafino e la tigre. Pirandello tra scrittura, teatro e cinema, Venezia, Marsilio, 1990, pp. 9-36); EAD., «Si gira…»: l’ideologia della macchina in Pirandel-

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LA TRAMA SIGNIFICA?

lo, in Il romanzo di Pirandello, a cura di E. LAURETTA, Palermo, Palumbo, 1976, pp. 143160; G. PETRONIO, Pirandello e il cinema, in Pirandello e il cinema, a cura di E. LAURETTA, Agrigento, Edizioni del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, 1978, pp. 31-50; G. MAZZACURATI, Il doppio mondo di Serafino Gubbio, in ID., Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 241-267; R. CAVALLUZZI, Cinema e romanzo nei «Quaderni di Serafino Gubbio operatore», in ID., Metamorfosi del romanzo, Bari, Adriatica, 1988, pp. 105130; G. QUERCI, La macchina e la maschera. Per una rilettura di «Serafino Gubbio operatore», «Segni e comprensione», V, 1991, 13, pp. 42-53 (ora in EAD., Pirandello e l’inconsistenza dell’oggettività, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 77-94); G. BÁRBERI SQUAROTTI, La sfida di Serafino Gubbio operatore, cit. 3 Sulla relazione intertestuale esistente tra il romanzo pirandelliano e il celebre saggio di Walter Benjamin si sofferma in particolare Raffaele Cavalluzzi nel già citato capitolo Cinema e romanzo nei «Quaderni di Serafino Gubbio operatore» del suo volume Metamorfosi del romanzo; una lunga nota all’argomento dedica anche Mario Ricciardi nel citato Creazione artistica…(pp. 74-75). 4 La definizione, come è noto, viene ripresa dal saggio di G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima, Bari, Laterza, 1905, anche se la sua reiterazione nell’opera dello scrittore, dal saggio sull’Umorismo al Fu Mattia Pascal fino al passo qui citato dei Quaderni, è riuscita a farne una formula tipicamente pirandelliana. 5 Osservazioni interessanti sulla temporalità del testo si ritrovano nel saggio di M. A. GRIGNANI, Sintassi di un’impassibilità novecentesca, in EAD., Retoriche pirandelliane, Napoli, Liguori, 1993, pp. 61-82, pp. 74-79. Meno condivisibile la ricostruzione della cronologia interna della storia proposta da Umberto Artioli nel suo L’«itinerarium» di Serafino Gubbio: motivi e struttura di una rielaborazione pirandelliana, «Rivista di studi pirandelliani», s. III, [1988], 1, pp. 9-30, in particolare p. 19, n. 27; ora in ID., L’officina segreta di Pirandello, Bari, Laterza, 1989, che in questo come in altri casi forza la lettera del testo per dimostrare l’esistenza di un preciso rapporto intertestuale tra il romanzo pirandelliano e l’Itinerarium mentis in Deum di Bonaventura da Bagnoregio. 6 L. PIRANDELLO, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in ID., Tutti i romanzi, a cura di G. MACCHIA, con la collaborazione di M. COSTANZO, II, Milano, Mondadori, 19908, p. 525. D’ora in poi i rimandi alle pagine (sempre, ovviamente, di questa edizione) saranno inseriti tra parentesi alla fine delle singole citazioni. 7 Per una lettura in questo senso dei Giganti, mi sia permesso un rinvio al mio Il sacerdote scettico: Pirandello mitografo, in Mito e esperienza letteraria, a cura di F. CURI e N. LORENZINI, Bologna, Pendragon, 1995, pp. 277-318. 8 L. PIRANDELLO, Ironia, in ID., Saggi, poesie, scritti vari, Milano, Mondadori, 19652, p. 993. 9 Lo ipotizza, prima di noi, Giovanna Querci: «Morta è ormai la Duccella che Serafino Gubbio conosceva e che forse aveva amato» (G. QUERCI, La macchina e la maschera…, cit., p. 47). 10 Per un’analisi più puntuale del modo in cui viene presentato questo personaggio – ma anche di tutto il romanzo – mi permetto di rinviare al mio La trama dei «Quaderni di Serafino Gubbio operatore», «Per leggere», IV, 2004, 6, pp. 79-123.

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BRUNO PORCELLI PER UNA LETTURA SIMBOLICA DELLA NOVELLA PIRANDELLIANA LA LEVATA DEL SOLE Crediamo opportuno premettere all’analisi uno schema riassuntivo del testo nella redazione in due parti (I e II) pubblicata nel 19261 e ristampata nelle raccolte mondadoriane delle Novelle per un anno. I. È notte inoltrata. In un interno domestico non localizzato un uomo, di cui non si conosce la provenienza (sociale, cittadina, regionale), nauseato dalla vita vissuta troppo edonisticamente e privo di prospettive per l’insopportabile presenza di una moglie soffocante e per una grossa perdita di gioco appena subita, decide di uccidersi con un colpo di rivoltella. Mentre pensa alla lettera di commiato da scrivere, sente crescere improvviso il desiderio, lui che ha sempre cercato di godere dei piaceri della vita, di veder nascere il sole sulla campagna, rimandando così il suicidio alla fine dello spettacolo. Assieme al presente degli accadimenti narrati, reso coi tempi grammaticali dell’imperfetto e del perfetto, sono presentati con flash-back, nel tempo grammaticale del piuccheperfetto, momenti anteriori2: il più importante dei quali è l’occasione che aveva fatto incontrare il protagonista con la donna da lui poi sposata3. In un viaggio in Germania «nelle amene contrade del Reno», infatti, e precisamente nella vecchia Colonia cattolica, egli era stato scherzosamente tentato con una piuma, durante i tripudi dell’ultima notte di Carnevale, da un gruppo di tre giovani sconosciute ingioiellate e provocanti. Accettando il loro scherzo e restituendo ad una delle tre la piuma, da accompagnarsi, «al patto convenuto nella tradizione carnevalesca», con un bacio o un buffetto sul naso, era rimasto fatalmente intrappolato. II. Il protagonista è uscito di casa per osservare la levata del sole: mancano tre ore o forse più al momento aspettato. Il presente degli accadimenti narrati è ora prevalentemente reso col perfetto. Nell’attraversare le ultime vie cittadine egli incontra un repellente, quasi bestiale, raccoglitore di cicche — 491 —

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dall’andatura traballante, che gli propone un incontro con qualche femmina di malaffare. Oltrepassate le ultime case della città cloaca e giunto al punto in cui la strada sbocca nei campi, si arresta smarrito. Guarda in alto al cielo palpitante di stelle e percepisce la differenza fra il silenzio, la pace, l’«attonita, smemorata quiete» della natura e la guerra, l’«intrigo di tristi passioni», la «noja acre e smaniosa» della città. Si addentra nella campagna procedendo verso destra lungo un fosso, e verso l’alto quando monta sul ciglio della via che costeggia il fosso. Dopo aver camminato a lungo (è quasi l’ora del sorgere del sole), si siede per terra in attesa dell’evento. Esauritasi la novità e poi la tensione del procedere, comincia a considerare pazzia quella faticosa camminata nel freddo e nell’umido della notte, che ora avverte popolata di presenze e rumori sempre più paurosi e inquietanti (gli alberi, i grilli, le foglie, un cane, un gallo): Gli alberi, sfrondati dalle prime ventate d’autunno, gli sorgevano innanzi come fantasmi dai gesti pieni di mistero. Per la prima volta li vedeva così e ne sentiva una pena indefinibile. Di nuovo si fermò perplesso, quasi oppresso di pauroso stupore. Tese l’orecchio a quel canto [dei grilli], con tutta l’anima sospesa: percepì allora anche il fruscio vago delle ultime foglie, il brulichio confuso della vasta campagna nella notte, e provò un’ansia strana, una costernazione angosciosa di tutto quell’ignoto indistinto, che formicolava nel silenzio. Un cane abbajò, poco lontano. – Eh, no… se non è permesso… Morire, sì, ma con le gambe sane. – Che è stato? Sbarrò gli occhi, e la notte nera gli si spalancò tutt’intorno nella paurosa solitudine. Il sangue gli sfrizzava per tutte le vene. Si trovò in preda a una vivissima agitazione. Un gallo, un gallo aveva cantato lontano, in qualche parte… ah ecco, e ora un altro da più lontano gli rispondeva… laggiù, nella fitta oscurità. – Perbacco, un gallo… che paura!4

Alla percezione euforica delle luci segue pertanto la percezione disforica dei rumori. Tutto ciò ridà spazio prima al buon senso, che gli fa considerare «Pazzia, sì, quella scampagnata notturna poco allegra» e più comoda la soluzione del suicidio in casa («Avrebbe fatto meglio a uccidersi in casa, comodamente…»); e poi ad un vero e proprio attaccamento alla vita, per cui prova una sorta di piacere sensuale nell’accarezzare la terra «come si accarezza una femmina passandole una mano su i capelli». Sinché il sole sorge senza — 492 —

PER UNA LETTURA SIMBOLICA DI LA LEVATA DEL SOLE

che lui se ne accorga perché dorme profondissimamente col capo appoggiato ad un masso. Si tratta in apparenza di una mera storia di disperazione e nausea della vita, favorite dall’insofferenza nei confronti della moglie e dal peso dei debiti di gioco. Nella vicenda, che essenzialmente è di un tipo non inusuale nella narrativa borghese fra Otto e Novecento, il suicidio non si attua per una serie di resistenze e dilazioni più o meno consapevoli, come il desiderio di assistere alla levata del sole, la percezione dell’armonia luminosa, la paura di presenze inquietanti, la fatica fisica, il fastidio del freddo e dell’umido… Molti elementi presentati non esauriscono però il loro significato in una interpretazione esclusivamente realistica. Tanto insistiti e talvolta immotivati essi appaiono da indurre a verificare la possibilità di inquadrarli in un secondo tipo di lettura. Essi si addensano soprattutto nella prima parte, che presenta la disperazione, la distruzione morale dell’uomo, col connesso flashback dell’incontro a Colonia con la donna che lui ha poi sposato, quasi che l’autore intenda esibire sin dall’inizio i dati più adattabili ad un’interpretazione non realistica. E sono, innanzi tutto, l’interno notturno in cui un lumetto velato e singhiozzante fa risaltare ombre in movimento ma non oggetti; secondariamente, la presenza dell’altro abitatore del luogo, la moglie, il cui richiamo rauco e raschioso – Gosto! Gosto! – giunge «dalle stanze inferiori della casa» come se lei comunicasse «da sottoterra»; in terzo luogo, la figura stessa del protagonista, che «così bianco di cera, così tutto parato di gala» ha le sembianze di un morto: E intanto, così bianco di cera, così tutto parato di gala, in marsina, con quello sparato lucido, e così tutto guizzi di riso nella faccia da morto…

Ci troviamo pertanto in cospetto di quella riconoscibilità del «modo simbolico» che Eco ha basato sul «fuori posto», sull’ «eccedente», sull’«inesplicabilmente insistito»: «L’attenzione al modo simbolico nasce dall’aver rivelato che qualcosa nel testo c’è, fa senso, oppure avrebbe potuto non esserci, e ci si chiede perché ci sia»5. L’interno descritto, privo di localizzazione che non sia quella ipogea, ma anche di ambientazione cronologica oltre quella notturna, si profila come un simbolico luogo di dannazione in cui un cadaverico personaggio è nelle grinfie di una berciante figura diabolica. Questo modo espressivo non risulterebbe isolato nel corpus delle novelle pirandelliane. Esemplificando in maniera — 493 —

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assai compendiosa, citiamo due novelle che possono collocarsi ai poli delle possibilità del simbolico: da una parte La morta e la viva, di impianto eminentemente realistico, che ammette però una lettura simbolica per excerpta; dall’altra La casa dell’agonia, priva di ogni denotazione temporale, locale, onomastica, che autorizza una interpretazione esclusivamente simbolica. Anche altri punti della Levata del sole fanno ricorso nell’incipit ad espressioni e atmosfere ‘infernali’: il lumetto […] a ogni singhiozzo faceva sobbalzar l’ombra di tutti gli oggetti della camera, come per mandarli al diavolo… [i giocatori che gli hanno vinto le ultime migliaia di lire] bisognava vedere con che grazia in quelle facce da rapina gliel’avevano sgranfignate.

E mandare al diavolo e sgranfignare sono espressioni figurate che per Todorov potrebbero realizzare il senso proprio6. Pirandello stesso autorizza una sorta di doppia interpretazione. «Chi sa che altro poteva parere», si dice del personaggio dalla «faccia da morto»: – se non un morto! – è indotto a rispondere il lettore, facendo così cadere la possibilità di un’interpretazione realistica della storia. Ma subito dopo l’aspetto cadaverico è ricondotto alla più rassicurante ragione della meditazione del suicidio. Il protagonista è un uomo finito che attende di ammazzarsi, come testimonia «una piccola rivoltella dal manico di madreperla» collocata a portata di mano. C’è da dire a scanso di equivoci che la possibilità di due interpretazioni parallele è canonica del racconto fantastico, ma che La levata del sole non è un racconto fantastico. Non vi è rispettata la regola di Tomasˇevskij e Todorov che prevede la difficoltà di un’uscita realistica7, perché il testo pirandelliano riconduce alla fine, in maniera inequivocabile, alla prosaica quotidianità della vita: l’uomo «dormiva profondissimamente, facendo, con tutto il petto, strepitoso mantice al sonno». Vi mancano inoltre i motivi consueti o addirittura essenziali del fantastico, come gli interni in abbandono, il sogno, il quadro vivente, il morto revenant, l’oggetto mediatore, la testimonianza del personaggio narratore, la dichiarazione dell’incapacità a spiegare i fatti8: tutti presenti in un’altra novella pirandelliana, Effetti d’un sogno interrotto9. Procedendo pertanto sul piano della lettura simbolica, prendiamo in esame altri elementi della prima parte del testo. Chi è la femmina infernale, — 494 —

PER UNA LETTURA SIMBOLICA DI LA LEVATA DEL SOLE

«quella strega ritinta», che ha sposato un uomo per imprigionarlo ed opprimerlo rovesciando il senso dell’operazione di Belfagor, venuto sulla terra a sposare una donna da cui sarà sopraffatto10? È la tedesca Aennchen (Annetta, Annina) dal nome gentile, incontrata, come sappiamo, a Colonia l’ultima notte di carnevale. Ella scalpita come puledra selvaggia nel sabba generale della vecchia città cattolica in compagnia di due giovani amiche con cui forma una vera mesnie Hellequin (e di Alichino-Anichino ella ricalca il nome), sfrenata e tentatrice. Vale forse la pena di ricordare che fra Otto e Novecento gli studi storico-filologici sulla figura di Alichino conobbero in Europa un grande fervore, e non solo per stimolo dell’episodio dantesco dei barattieri11: A un tratto, s’era sentito vellicare dietro l’orecchio da una piuma di pavone. Maledetta atavica scimmiesca destrezza! Di primo lancio, aveva ghermito quella piuma tentatrice e, nel voltarsi di scatto, trionfante (stupido!), s’era visto davanti tre donne, tre giovani che ridevano, gridavano, scalpitando come puledre selvagge e agitandogli davanti agli occhi le mani dalle innumerevoli dita inanellate, sfavillanti. A quale delle tre apparteneva la piuma? Nessuna aveva voluto dirlo.

Nella domanda conclusiva del brano citato appare abbastanza chiaro che la giovinetta unisce alle caratteristiche di un Alichino sfrenato e tentatore quelle dell’essere diabolico che pone indovinelli. Passiamo alla parte II della novella. Caratteristiche infernali ha pure il repellente ciccaiolo incontrato durante la sortita notturna, che cerca di trattenere il protagonista, nonostante questi gli abbia pagato con l’offerta del sigaro una sorta di riscatto, promettendogli un incontro d’amore facile nella città cloaca. La nuova figura ha «gli occhi scerpellati, invetrati di lagrime dal freddo» (c’è un’eco delle «’nvetriate lacrime» della Tolomea dantesca?), e procede con un lume che lascia «dietro un’ombra traballante, quasi di bestia che non si reggesse bene su la gambe». Il traballare sembra effetto non dell’oscillare del lume, ma della deambulazione difettosa del personaggio. Che sarebbe pertanto corruttore, raccoglitore di rifiuti (il sigaro deve essere ridotto cicca prima di far parte della raccolta), zoppo. Ognuno sa che queste sono altre caratteristiche essenziali del diavolo e che l’ultima in particolare è propria della cultura demotica sia germanica (hinkende Teufel) sia siciliana (lo zuppiddu)12. Pirandello, del resto, attribuisce al diavolo la zoppaggine anche in un’altra novella. Cito da I due giganti:

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M’invitavano a respirare da presso la fragrante freschezza dei capelli e delle carni, e dicevano ch’io farneticavo a immaginare che uno dei piedini di lei zoppicasse. Dove? Quando? O che era forse il diavolo? Perché non andavo a invitarla a danzare? Avrei subito veduto che i suoi piedini, altro che zoppicare! volavano…

Nell’ambiente infernale e nell’interpretazione simbolica rientra anche la nominazione del protagonista della Levata del sole: Gosto Bombichi. Al momento della presentazione nome e cognome non trovano motivazioni culturali, regionali, caratteriali…, e appaiono, per usare una dizione di Philippe Hamon, «blanc sémantique»13, anzi addirittura possibile fonte di decezione14, se è vero che il non certo raffinato ipocoristico Gosto contrasta alquanto con l’abito da sera indossato dal personaggio. Solo a lettura avanzata emergono le ragioni simboliche di quella scelta. «Gosto! Gosto!», chiama da sottoterra Aennchen, e Gest è in tedesco l’abbreviazione normalmente usata nelle epigrafi funerarie per gestorben, ‘morto’. Si può ipotizzare anche una suggestione di ghost, ‘fantasma’ in inglese, lingua di cui Pirandello dimostra in parecchi suoi testi una buona conoscenza. Aennchen è a guardia dunque di un morto o di un fantasma. Che poi Gosto risponda al duplice richiamo, senza però farsi sentire, con un duplice «Crepa! Crepa!» è dovuto al gusto ironico e dissacratore di Pirandello che non gli consente un’adesione totale al piano simbolico del racconto. Un altro forte distacco ironico lo si nota a proposito del procedere impedito. Nel fuggire dalla città cloaca Gosto Bombichi scivola con una gamba (una sola!) nell’acqua lurida del fosso. L’inzuppatura lo costringe a procedere, almeno all’inizio, con grande difficoltà, quasi fosse difficile liberarsi dalla condizione infernale. Il suo piede non è zoppo, ma zuppo. Il richiamo alla figura del ciccaiolo è però chiaro; tanto più che un analogo richiamo si pone anche a proposito del lessema gamba: quasi di bestia che non si reggesse bene su le gambe (è la descrizione del ciccaiolo). Morire, sì; ma con le gambe sane (è la preoccupazione di Gosto che teme il morso dei cani).

Rivolgiamo ora l’attenzione al cognome del protagonista, Bombichi. Anch’esso può appartenere all’onomastica allusiva se interpretato sulla base della conoscenza del tedesco, essendo coniato con ogni probabilità sull’aggettivo bombig (‘fantastico’, ‘eccezionale’) presente nell’uso quotidiano ai primi del Novecento come derivato da Bombe. Alluderebbe pertanto al carattere non realistico di Gosto e della sua storia. — 496 —

PER UNA LETTURA SIMBOLICA DI LA LEVATA DEL SOLE

Nella prima redazione del 190115 la novella presentava in minor misura le caratteristiche del racconto simbolico: minore spazio si dava all’origine sotterranea di Aennchen e all’aspetto mortuario di Gosto; non si accennava alla possibilità di una duplice interpretazione; le connotazioni negative erano attribuite alla città più che alla casa, col risultato di costruire un’opposizione città-campagna canonica, diremmo, in molta narrativa coeva, più che un’opposizione chiuso-aperto, prigionia-liberazione come nel testo definitivo. La redazione del 1901 aveva, infatti, in una certa misura, i requisiti realistici della storia borghese: lei era stata cantante di caffè-concerto, figura usuale nel secondo Ottocento; lui era un bresciano agente di cambio (la professione rendeva più drammatica la perdita al gioco), di nome Augusto (si giustificava così l’ipocoristico Gosto), trasferitosi da due anni in Sicilia (questo particolare rovesciava il cliché dell’isolano in continente caro alla narrativa siciliana). La Sicilia, pertanto, con Le Madoníe offriva uno scenario non ancora indeterminato all’azione: Andò a lungo, a lungo, sempre internandosi di traverso. La campagna dechinava leggermente. Lontano lontano, in fondo al cielo, si disegnava nera nell’albor siderale una lunga giogaia di monti, le Madoníe.

Gli elementi realistici sono ancor più importanti nel pre-testo della novella, che possiamo individuare in una serie di lettere appartenenti al periodo renano16, nelle quali lo studente Pirandello raccontava alla famiglia come vissute in prima persona alcune delle vicende che entreranno in seguito a far parte della Levata del sole. Così Aennchen è la versione in negativo della dolce creatura di Bonn, Jenny, alla quale il giovane siciliano dedica la Pasqua di Gea; l’incontro nel sabba carnevalesco di Colonia è simile a quello con Jenny descritto nella lettera del 20 gennaio 189017; la libertà delle donne tedesche presentata nella prima parte della novella è quella stessa che aveva fortemente colpito lo studente Pirandello e di cui sono testimonianza le lettere del 17 novembre 1889, del 20 gennaio e 25 marzo 189018. Si aggiunga che il proposito di veder sorgere il sole prima di togliersi la vita è attribuito al patrigno di Jenny in una novella del 1896, Natale sul Reno; nella quale è protagonista una dolce Jenny, e il patrigno effettivamente si uccide dopo aver assistito alla levata del sole19. In «Vexilla regis…» del 1897 agisce come moglie una fastidiosa, anche se non diabolica, Aennchen (chiamata anche Anny, Hans e Riesin, ad indicare la mutevolezza del perso— 497 —

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naggio), padrona di un cane che ha il nome Mopchen o Mopy di un dalmata posseduto da Pirandello durante il soggiorno a Bonn20. Si può pertanto affermare che nel passaggio dalle lettere del 1890 e dalla novella del 1896 alla novella del 1897 e alle successive redazioni (dal 1901 al 1926) della Levata del sole si notano costanti la rinuncia ai valori realisticobiografici del personaggio e l’incremento della coloritura simbolica. Ne deriva la necessità di retrodatare il «passaggio [pirandelliano] da una produzione che punta sullo svelamento umoristico delle contraddizioni a una che tende a rivelare e a celebrare liricamente l’Essere, nella sua immobilità astorica», cioè sostanzialmente simbolica: passaggio che Luperini colloca, per i racconti, nel periodo che va dal 1931 al 1936, in cui il critico colloca temi, come la contrapposizione fra città e campagna o fra civiltà e natura, da noi individuati anche nel nostro testo21. Riepiloghiamo ora i dati del simbolismo della Levata del sole considerata nella redazione 1926. Le due parti del testo accolgono tre diversi momenti cronologici che disponiamo secondo l’ordine della fabula: 1. In una città in cui si trova per un viaggio (il mondo e il viaggio della vita) il protagonista incline ai piaceri incontra Aennchen, la quale guida una caccia infernale, lo tenta e lo fa suo schiavo. La città mondo è caratterizzata dalla posizione della Höhe Strasse in cui avviene l’incontro. Il fatto che a Colonia esistesse realmente una Höhe Strasse22 nulla toglie al valore simbolico di quella collocazione (höhe), che si definisce in netto contrasto con la posizione ipogea del luogo del secondo momento. 2. Gosto Bombichi è con Aennchen in un luogo chiuso di prevalente dimensione sotterranea. Il suo proposito di fuga è un tentativo di suicidio secondo lettura realistica; una rinascita secondo lettura simbolica. Egli è presentato come primo e ultimo uomo sulla faccia della terra, inizio e fine, nascita e morte. Le antitesi sono facili ingredienti del simbolico, ed altre è facile scorgerne nel testo, fra notte e sorgere del sole, sozza città e rasserenante campagna, ombre domestiche e cittadine e luci delle stelle in campagna. 3. Il viaggio per i campi è altrettanto simbolico. Gosto acquista dal lato destro e verso l’alto, in direzione del quale getta lo sguardo. L’iter faticoso potrebbe concludersi con un’illuminazione, una presa di coscienza, un riscatto del peccatore edonista. Ma questi non si redime: nella natura percepisce elementi di disturbo (l’abbiamo visto) oppure di piacere edonistico, perché lui non la percepisce come un eden tranquillante e consolatorio, ma soltanto come una femmina da accarezzare, possedere, magari ingravidare. Il sole Go— 498 —

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sto non lo vede nemmeno: davanti all’astro flammeo e trionfale una sporca creatura dorme fragorosamente. NOTE L. PIRANDELLO, Il vecchio Dio, Firenze, Bemporad, 1926. Per lo studio dei tempi verbali nel racconto sono indispensabili E. BENVENISTE, Le relazioni di tempo nel verbo francese, in ID., Problemi di linguistica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971 (ed. orig. 1966), pp. 283-297; H. WEINRICH, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, Bologna, Il Mulino, 1978 (ed. orig. 1964), soprattutto le pp. 1-36, 147-190, che contengono analisi di novelle pirandelliane; P. RICOEUR, Tempo e racconto II. La configurazione nel racconto di finzione, Milano, Jaca Book, 1994 (ed. orig. 1984), pp. 104-165. Ultimamente la questione è stata ridiscussa in modo chiaro da L. LUGNANI, Del tempo. Racconto discorso esperienza, Pisa, ETS, 2003, pp. 193-206 (cap. Tempi verbali e tempo). 3 Potremmo chiamarla anche «analessi completiva» per usare la terminologia di G. GENETTE, Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976 (ed. orig. 1972), pp. 99 e sgg. 4 Per le citazioni dalle novelle pirandelliane ci siamo avvalsi dell’edizione a cura di M. COSTANZO, Milano, Mondadori, 1986-1990, 3 voll. 5 Cfr. U. ECO, Sulla letteratura, Milano, Bompiani, 2002, p. 164 (è il cap. Sul simbolo, coincidente con la relazione tenuta al Convegno su Il simbolo oggi. Teorie e pratiche, Siena, 24-26 novembre 1994). Meno utile risulta la definizione del simbolo come significazione «indiretta» o «secondaria» data da T. TODOROV, Teorie del simbolo, a cura di C. DE VECCHI, Milano, Garzanti, 1984 (ed. orig. Théories du symbole, Paris, Seuil, 1977): giustamente è stato detto che, essendo «il linguaggio per sua natura produttore di sensi secondi», non c’è «bisogno di chiamare simbolica questa proprietà. Al contrario Todorov finisce, suo malgrado, per avvalorare un’ipotesi per cui il simbolico si identifica col semiotico» (G. MANETTI, La semiotica e il simbolo, in Simbolo, «L’immagine riflessa», n.s., IV, 1995, 1, p. 12, Atti del Convegno Il simbolo oggi. Teorie e pratiche, di cui è già stata fatta menzione in questa nota). 6 T. TODOROV, Introduction à la littérature fantastique, Paris, Seuil, 1970, pp. 83-84. 7 Abbiamo ovviamente presente la definizione del «fantastico» come genere che richiede una doppia spiegazione, naturale e soprannaturale, degli eventi raccontati. Cfr. B. TOMASˇEVSKIJ, La costruzione dell’intreccio, in I formalisti russi, a cura di T. TODOROV, Prefazione di R. JAKOBSON, Torino, Einaudi, 1968 (il saggio di Tomasˇevskij è del 1925), p. 332; T. TODOROV, Introduction à la littérature fantastique, cit., p. 37. Il problema era stato già posto da H. MATTHEY, Essai sur le merveilleux dans la littérature française depuis 1800, Paris, Payot et C.ie, 1915. 8 Si fornisce una bibliografia molto sommaria sul «fantastico»: N. BONIFAZI, Teoria del «fantastico» e il racconto fantastico in Italia: Tarchetti – Pirandello – Buzzati, Ravenna, Longo, 1982; R. CESERANI ET AL., La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983; I messaggi dell’angoscia. Quattro saggi sulla letteratura del fantastico e del soprannaturale, «Quaderni dell’Istituto di Lingua e Letteratura Germanica dell’Università di Parma», Roma, Bulzoni, 1983; M. FARNETTI, Il giuoco del maligno. Il racconto fantastico nella letteratura italiana tra Otto e 1 2

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Novecento, Firenze, Vallecchi, 1988 (con bibliografia); R. CESERANI, Il fantastico, Bologna, Il Mulino, 1996 (con bibliografia). 9 Per Effetti d’un sogno interrotto cfr. N. BONIFAZI, Teoria del «fantastico», cit., pp. 124128; L. LUGNANI, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in R. CESERANI ET AL., La narrazione fantastica, cit., pp. 208 e sgg. 10 Il personaggio di Belfagor interessò molto il giovane Pirandello. Su questo interesse cfr. E. PROVIDENTI, Il giovane Pirandello e il poemetto Belfagor, «L’osservatore politico-letterario» di Milano, XXIV, 1978, 1-2. Il primo canto di un Belfagor in versi risalente al 1886 e pubblicato sulla rivista «La Tavola rotonda» del 10 luglio 1892, vedilo ora in L. PIRANDELLO, Saggi, poesie, scritti vari, a cura di M. LO VECCHIO MUSTI, Milano, Mondadori, 1960, pp. 691-701. 11 Ecco qualche testimonianza: A. WESSELOFSKY, Alichino e Aredodesa, «Giornale storico della letteratura italiana», XI, 1888, pp. 325-343; G. RAYNAUD, La Mesnie Hellequin, in Études romanes dédiées à G. Paris […] par ses élèves français et ses élèves étrangers des pays de langue française, Paris, Bouillon, 1891; O. DRIESEN, Des Ursprung des Harlekin, Berlin, A. Duncker, 1904; E. CAFFI, La questione d’Arlecchino, «Rassegna Nazionale», XXX, 1908, CLXIII, pp. 210-214. 12 Per le figure dell’inkende Teufel e dello zuppiddu, cfr. G. L. BECCARIA, I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Torino, Einaudi, 1995, pp. 121-130, con rimandi a J. e W. Grimm, G. Pitré, S. A. Guastella. 13 PH. HAMON, Pour un statut sémiologique du personnage, in R. BARTHES ET AL., Poétique du récit, recueil réalisé sous la direction de G. GENETTE et T. TODOROV, Paris, Seuil, 1977, p. 128. 14 «Strategia decettiva» è espressione di Ph. Hamon (ivi, p. 150), usata però a proposito dei nomi trasparenti attribuiti a personaggi che non vi si rispecchiano. 15 Pubblicata in «Il Marzocco» del 6 gennaio 1901. 16 Sul soggiorno del giovane Pirandello a Bonn si possono ancora leggere F. V. NARDELLI, L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, Milano, Mondadori, 19442, pp. 105-119; L. BIAGIONI, Bonn im Leben und Werk des italienischen Dichters Luigi Pirandello, «Bonner Geschhichtsblätter», XII, 1958, 12; F. RAUHUT, Der junge Pirandello oder das Werden eines existentiellen Geistes, München, C. H. Beck, 1964. Non ho trovato invece W. HIRDT, Bonn im Werk von Luigi Pirandello, Tübingen, Narr, 1990. 17 «Ieri sera intanto, per divagarmi, mi son recato al Beethoven Halle, dove s’inaugurava il carnevale con un gran ballo in maschera. Ho indossato anch’io un domino e – inorridite – ho anch’io ballato, o per dir meglio saltato, e meglio ancora, pestato i piedi al prossimo mascherato. Fui a dirittura forzato a farlo da una mascherina azzurra da un cappellaccio di paglia spropositato – che mi si attaccò al braccio e non mi lasciò più per tutta le sera. A mezzanotte, ora in cui è costume di tôr via le maschere, fui meravigliatissimo di riconoscere nella mia diabolica incognita, una delle bellezze più luminose, che io mi abbia mai visto […] Ella ha nome Jenny Lander…». Nella lettera però del 25 marzo 1890 l’incontro con Jenny è presentato diversamente: «Senza dubbio, presso la signora Lander starò molto meglio. Ella è di buona famiglia, vedova di un bravo ufficiale morto il 1870 nella campagna franco-prussiana, e piena di modi cortesi e gentili. Le fui presentato due mesi or sono, una sera nevosa,

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dalla stessa sua figlia, la quale uscendo dalla casa di alcune sue amiche un po’ tardi, e temendo di incontrare qualche ubriaco per via, mi pregò (come s’usa in Germania) che la volessi accompagnare sino a casa». Le due lettere sono alle pp. 82-83 e 105-107 di L. PIRANDELLO, Lettere da Bonn (1889-1891), Introduzione e note di E. PROVIDENTI, Roma, Bulzoni, 1984. 18 Vedile alle pp. 62-63, 82-83, 106-107 della cit. ed. di E. Providenti. 19 Il Nardelli (L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello, cit., p. 119) afferma che la madre di Jenny, Alvina, ebbe un secondo marito, «di cui è un profilo nella pirandelliana novella La levata del sole»: «s’era ucciso lasciando scritto che andava a veder l’alba in punto di morte: dappoiché s’era levato sempre troppo tardi in vita e non l’aveva vista mai». La notizia è riportata anche da L. BIAGIONI, Bonn im Leben und Werk des italienischen Dichters Luigi Pirandello, cit., p. 215. 20 Di questo cane dalmata Pirandello parla nelle lettere del 17 dicembre 1889 e del 25 gennaio 1890: cfr. la cit. ed. di E. Providenti, pp. 84-85. 21 R. LUPERINI, Appunti su allegoria e simbolo nell’ultimo Pirandello, «Allegoria», IV, 1992, 11, pp. 40-52 (da p. 42). Altrove Luperini è più risoluto nell’attribuire a Pirandello il modo allegorico: cfr., per esempio, Allegorismo versus simbolismo. Pirandello e D’Annunzio novellieri, in Pirandello e D’Annunzio. Atti del XXI Convegno internazionale di studi pirandelliani, Palermo, Palumbo, 1989, pp. 109-129. 22 Cito dalla lettera pirandelliana del 13 gennaio 1890 in cui si parla di una gita di due giorni a Colonia (vedi Lettere da Bonn, cit., p. 78): «Per l’Hohe Strasse (alto corso) ad esempio, ieri, sul pomeriggio, andava tanta gente, che a fatica si poteva camminare…».

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NATALE TEDESCO DUE MODALITÀ DELL’INVENZIONE NARRATIVA PRIMO-NOVECENTESCA IN FRANCESCO LANZA Nell’ambito della prosa novellistica dei primi tre decenni del secolo scorso, diede testimonianza di una duplice modalità del narrare una singolare figura di letterato: Francesco Lanza. Nato nel 1897 a Valguarnera in provincia di Enna, dove prematuramente si spense nel 1933, egli è autore dell’Almanacco per il popolo siciliano1, la cui generale ideazione risale a Giuseppe Lombardo Radice e si ricordi la realizzazione di un’opera analoga da parte di Corrado Alvaro per la Calabria; di Poesie di gioventù2 e dei Mimi siciliani3. Ha fondato e diretto la rivista «Lunario siciliano», cui collaborarono Cecchi, Bacchelli, Soffici, D’Amico, Ungaretti, Vittorini, Brancati. Di fronte a queste e ad altre opere non so se valga ancora la pena chiedersi se Lanza sia da intruppare tra gli scrittori cosiddetti minori4! Peraltro è questione del tutto ininfluente ai fini del nostro esame di talune prove di modalità narrative, perché, certo, c’è da affermare intanto che un contributo unico alla prosa italiana di quegli anni rimane il volume dei Mimi siciliani, singolare raccolta novecentesca di exempla, testimonianza del vivere e modelli d’interpretazione di un mondo contadino alla rovescia. Qui egli pare ispirarsi all’ammaestramento di Bartolomeo da San Concordio: «Che il dire brieve è migliore che ’l lungo». Dobbiamo a Fra Bartolomeo da San Concordio (1262-1347) la lezione della brevità dello scrivere cui alla lontana si può pure apparentare la misurata energia paradigmatica cui Lanza tende. Nel capitolo sesto di Ammaestramenti degli antichi, dove si ha appunto l’assioma «che il dire brieve è migliore che ’l lungo», si indicano sette ragioni che esplicitano questo convincimento. La quarta delle sette ragioni «per le quali è meglio lo parlare breve che il lungo», dichiara altrettanto epigrammaticamente «perché le brevi cose talora più innovano». — 503 —

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Questa affermazione è da meditare in rapporto sia alle opere del tempo di Bartolomeo che di quelle del primo Novecento. Oggi il riconoscimento dei valori stilistici del Novellino è pieno, non lo si considera più una raccolta di aneddoti. La sua brevità stilistica è voluta e si percepisce bene l’ideale stilistico dell’autore: puntare ad una espressione sintetica, essenziale, dove trionfa una concentrazione della sintassi espositiva. La concisione espressiva conferisce al dettato una particolare qualità. I Mimi siciliani, titolo che alle ‘storielle’ pose Ardengo Soffici pubblicandone alcune per primo nel 1923 sul «Corriere italiano» di Roma, furono scritti, come affermava lo stesso autore, in «opposizione a tutta la letteratura corrente». Questa sua orgogliosa convinzione ha trovato poi straordinario riscontro nel positivo giudizio di Giuseppe De Robertis, in una sua pagina del 1941, che, dopo avere definito i Mimi siciliani «libro perfetto», così osservava: «Non c’è quasi esempio, in tutta la letteratura contemporanea, di un così severo e schietto lavoro di stile, d’una così essenziale e proverbiale maniera di presentare un fatto o farlo parlante»5. Nella letteratura greca e latina, si sa, il mimo è una forma di commedia breve, di ambientazione popolare a carattere buffonesco; Lanza mescola il mimo come azione scenica basata sulla mimica, con la commedia, per cui gestualità e parola s’incontrano. Se è vero, come dice Italo Calvino, che «secondo l’“anatomia” di Northrop Frye potremmo classificare questi Mimi come “commedia ironica”»6, dobbiamo aggiungere che il procedimento ironico, nella concentrazione della parola come gesto, giunge in conclusione alla trasgressione irridente. Teatralmente potremmo dire che le parole diventano segni di aggressiva comunicazione totale. I mimi più brevi, che sono di solito i migliori, sono costruiti con un ritmo che corre alla conclusione, la sinteticità, la concisione del periodare, tiene desta l’attenzione fin dal principio, per cui la tensione narrativa s’incanala e si scioglie nel punto voluto dallo scrittore, che è quello della sentenza, della scoperta, del significato contraddittorio dell’accadere. In rapporto ai contenuti essenziali, lo stile asciutto, perspicuo, che mira al sodo, è perfettamente funzionale a quella realtà a dimensione unica in cui la battuta contadinesca, il sentenziare popolaresco, solo sono rivolti ad illustrare una versione pessimistica dell’esistenza. Guidati da siffatta angolazione dell’autore, siamo all’interno di un mondo di stupidi e ignoranti, di pazzi e di crudeli. Può ricordare «l’inferno contadino» di cui pure ha parlato Calvino per l’opera di Serafino Amabile Guastella, Le Parità e le storie morali dei nostri villani, ma, — 504 —

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attenzione: la linea demotica siciliana nel beffardo ma sofferente teatro dei Mimi abbandona la rappresentazione sociologica orizzontale, obiettiva e privilegia lo scandaglio verticale, il taglio soggettivo apprestati dallo scrittore novecentesco. Quelle che dovevano apparire nel primo concepimento come le «storie di Mino Scardino», narratore popolare, sono attraversate dall’irrisione violenta di Lanza, accolte in un registro di percezione autobiografica che le sconvolge. In ciò è coinvolto il lettore, che viene impegnato a seguire la traiettoria del percorso narrativo, e si scopre felicemente partecipe del disvelamento della fabula. Voglio dire che in strutture narrative siffatte il rapporto autore-lettore risulta necessario e fecondo. Come ho già osservato presentando una breve raccolta di «storie di Giufà», la figura più singolare della narrativa popolare siciliana, se i contenuti di essa intrigano, e vieppiù coinvolgono quelli pur popolareschi ma originalmente e modernamente reinventati di Lanza, bisogna dire che è il linguaggio il vero protagonista di quelle storie come di questi mimi. Negli stessi anni in cui lo scrittore di Valguarnera va componendo la sua originale raccolta di exempla, egli si volge pure a saggiare prove narrative diverse, di più ampio respiro. Precisamente nel 1927, un anno prima di licenziare per la stampa i Mimi siciliani, Francesco Lanza scrive un racconto straordinario, Re Porco e lo pubblica nel giugno di quell’anno sulla «Fiera letteraria». Si tratta di una novella che, insieme all’altra intitolata Proserpina nella masseria e ad alcune prose fra cui spiccano Febbre, Principio di stagione, L’ora del circolo, costituisce una parte assai significativa dell’opera di questo autore. Re Porco, pur mantenendo i caratteri paradigmatici dell’esempio, ne travalica i limiti e si struttura come una novella di più ampia invenzione. È la vicenda del contadino che trova un’antica moneta d’oro e riesce a sottrarsi ai raggiri di diversi pretendenti che vogliono impadronirsene, ma non sa sfuggire al supremo incanto sensuale di Caterina, con gli occhi «come due smeraldi» e il «petto sotto il corpetto allentato che pareva la luna e il sole», che gliela ruba seducendolo. Il racconto ha una freschezza straordinaria, un ritmo, più che veloce, libero e continuo, con gli indugi, le pause e anche gli scatti, le fughe di chi narra in prima persona. E, veramente, sembra che lo scrittore si sia immedesimato qui con il suo personaggio, aderendo fino al suo respiro di balordo eppure accorto contadino che sta dietro alla sua natura, per cui nella perdita del bene insperato ha il suo tornaconto e, comunque, trovando il sugo sapienziale dell’esperienza («Caterina un giorno fece fagotto e non si vide più. Era il destino che la chiamava, disse la gente; ma io vi — 505 —

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dico che era Re Porco che se la tirò per i capelli»), ripassa dalla straordinarietà alla normalità, fatto più attento alle cose e alle persone che lo circondano, a cominciare dalla sua donna («Solo Angiola non disse mai nulla, ma le sue labbra erano più strette e più amare»). La novella ha una misura diversa dai Mimi e la sua ampiezza rispetto a quelli corrisponde ad una varietà di situazioni e personaggi: le sorelle del protagonista, Angiola e Caterina (l’amor sacro e l’amor profano), il parroco, Luppie, il panniere, Don Carmine, il gioielliere, il maresciallo dei carabinieri, il cavaliere Amé e Don Calorio Macone, tutte figure disegnate con tratti brevi ma sicuri ed esaurienti. Lo stesso protagonista non è il contadino monocorde e subalterno dei Mimi; sa bene la differenza tra popolani e borghesi, e comprende benissimo le motivazioni politiche ed elettorali dell’agire di questi ultimi nei suoi confronti. Ma la qualità della novella di Re Porco è quella di essere un testo arioso, con un linguaggio più disteso ma attento, espressivo ma sostenuto. Per testi siffatti è perfino inutile discorrere di realismo o di classicismo, tanto più è inutile riferirsi al rondismo, qui, la tradizione novellistica classica italiana viene ripresa, ma contemporaneizzata con esiti originali. Anche in un ambiente agreste alla Watteau, in un’atmosfera da rivisitazione arcadica razionalista e preilluminista, quali sono quelli di Proserpina nella masseria, la divinità appunto si mescola agli umani conservando la sua natura immemoriale e acquistando una sensibilità femminile moderna. Per questo impasto ultimo d’antico e moderno – siamo nel 1932, un anno prima della morte – Lanza utilizza gli esercizi d’arte, gli elzeviri, tra moralità e illustrazione ironica dei costumi paesani, così come per Re Porco aveva ripreso, rinnovandolo ideologicamente e stilisticamente, il microcosmo contadino dei Mimi. Con le novelle e le prose, stese tra il 1928 e l’anno della morte, il 1933, lo scrittore più apertamente consegna al periodare in prima persona le sue inquietudini e la sua più matura considerazione delle cose e delle persone. Al centro, due prose del 1930, Febbre e Villeggiatura, lasciano scoprire con l’adozione del vero e proprio registro autobiografico le zone più fonde dell’amarezza esistenziale e della tremebonda partecipazione alla vita del giovane narratore. In Febbre, con un senso acuto della precarietà dell’esistenza che ricorda Brancati, si presenta quasi la premonizione della morte effettuale di Francesco Lanza: «Nella cupa e affocata solitudine della febbre, come quando bam— 506 —

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bino invocavo con uno sforzo inane mia madre, sento che basta appena uno strappo, mentre sono sospeso a un filo, perché la mia anima si libri e s’immerga senza ricordo nel vuoto, come una piuma bianca in un gorgo buio e senza fondo». Dal «gorgo nero e impenetrabile», dai «piaceri campagnoli», dalle febbri e dalle delizie dell’infanzia, in cui s’involgono «le misteriose carezze» materne e il «petto bianco della serva», risale lo scrittore per attingere la sapida ma turbata comicità delle atmosfere e delle scene paesane. Già da Paese al sole, occhieggiano «i civili che hanno lungamente boccheggiato al circolo senza la forza di dire una parola più del necessario», «le ragazze, le veneri e le giunoni in fiore, mentre ossessionate dal fuoco che è nell’aria vagano come ardenti fantasime da una stanza all’altra, nelle torride stie domestiche donde invano i loro desideri dalle ali di gallina cercano di spiccare il volo. Di soprassalto volgono il capo verso la porta, i balconi e le finestre, aspettando che da un momento all’altro si schiantino e dentro balzino con la scimitarra in pugno gli arcangeli paesani dei loro sogni». Abbandonato il mondo contadino, Lanza trascorre dalla crudezza infernale di quello al tedio purgatoriale del mondo borghese di paese. In L’ora del circolo, che ha precedenti in Serafino Amabile Guastella e avrà sviluppi in Leonardo Sciascia, egli dichiara un’ora topica della giornata ‘sociale’ del «borghese acquoso», e di lui e dei luoghi deputati alla conversazione, ovvero alla non conversazione, di una cittadina di provincia, ci lascia affreschi indimenticabili per arguzia sorniona, quale quello esemplare del risveglio dal sonno pomeridiano: in una pagina con la rappresentazione di un microcosmo domestico si stringe una psicologia, impalpabile eppure densa, di un individuo che si è fatto orma di un modo di vivere di classe. Egli dissimula quasi il suo distacco, come la sua appartenenza al mondo che descrive, per cui la satira si rivolge alle persone, l’elegia carezza cose ed atmosfere, ma se nell’Ora del circolo i ritratti sono disegnati a caldo, al contrario il vero e proprio Ritratto di politico risulta un’esercitazione a freddo. Voglio dire che sulla ‘memoria’ che egli vuole lasciare di una figura minore di uomo politico, prima liberale, poi fascista, fondamentalmente trasformista, è volutamente distesa, forse pure per ragioni contingenti, una patina classicistica e guicciardiniana, talché l’umorismo, a chi lo sa cogliere, sembra venire dall’eloquio falso che distanzia sornionamente il personaggio dalla realtà del tempo. Una parte originale della ricerca di Lanza anche qui riguarda il sesso. Ma se il lettore dei Mimi è informato fin nei particolari del comportamento ses— 507 —

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suale del contadino siciliano, e solo non sa se sono costumi del passato o del presente del narratore, il lettore dell’Ora del circolo o di Principio di stagione vi sorprende il clima di un’epoca e questo non lo coglie nella rappresentazione di accadimenti precisi, ma l’avverte nella delineazione di atti appena allusivi, di atmosfere che solo suggeriscono: Paffuti e fatui come capponi, i galletti di razza, gli adoni feudali, i ricchi ereditieri, fatali, vittimari e navigati, che si trascinano dietro come una filza di fichi secchi i cuori butirrosi delle fanciulle da marito, sembrano portare in fondo alla pupilla sgargiante l’ineffabile peso dei trionfi amorosi; con una gamba sull’altra, suddivisi tra la segretezza e la pubblicità, squartano sull’altare del ricordo e del desiderio le veneri inveterate e immaginarie dei loro peripli; ed ebbri della carneficina, guardano le ragazze che passano o si pigiano ai balconi della piazza, sorridono con una lenta, rotonda soddisfazione di pavoni a se stessi, quanto più irresistibili e bellicosi altrettanto facili a basire e a invischiarsi, imbambolati, buacci e quattrinosi, dietro la prima gonnella che faccia loro un po’ di vento sotto il naso… Per l’ennesima volta, le fanciulle che maturano lentamente in casa come i fichi secchi e l’uva passa al sole, appannando a furia di sospiri ardenti i vetri dei balconi, pensando al corredo, si rianimano in una fugace illusione nuziale… I volti consumati dall’insonnia sono pieni di un’ansia patetica e ritenuta, gli occhi tra le lunghe ciglia hanno umili e promettenti fulgori da focolare domestico. Nei paltoncini chiari col collo e le maniche di pelo, le forme s’arrotondano con un’arcana voluttà che fa pensare alle pure gioie coniugali.

Prima di Brancati, al modo di un cronista della borghesia paesana, lunatico, sognatore e beffardo, coinvolto e impartecipe, Lanza ci consegna i singolari documenti della dimensione primo-novecentesca dell’erotismo siciliano, tra commedia e vagheggiamento lirico. In queste novelle e prose dell’ultimo Lanza, all’insegna del «dire brieve», alla possibile lezione di concentrata stringatezza dell’Anonimo medievale, si sostituisce, saltando la struttura ‘chiusa’ boccacciana, quella della novellistica cinquecentesca tra ripresa fiabesca e incursioni dell’attualità. Ci pare, dunque, che nelle due modalità descritte il percorso di Francesco Lanza testimoni esemplarmente, per la sua parte, della significativa elaborazione inventiva della prosa primo-novecentesca italiana.

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DUE MODALITÀ DELL’INVENZIONE NARRATIVA IN LANZA

NOTE Roma, Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, 1924. Roma, Berlutti, 1926. 3 Milano, Alpes, 1928 (ma scritti tra il 1923 ed il 1928). Una nuova edizione, con l’aggiunta di altre prose è quella pubblicata a Firenze nel 1946 da Sansoni. Oggi ci si può riferire al volume di tutte le Opere, a cura di S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Catania, La Cantinella, 2002. 4 Ad ogni buon conto, mi pare utile rinviare alle acute osservazioni sull’argomento di A. Di Grado, sviluppate nel suo saggio Il mondo offeso di Francesco Lanza. Dalla casa del nespolo al giardino dei ciliegi, Acireale, Bonanno, 1990. 5 Cfr. G. DE ROBERTIS, Il buon viaggio, Firenze, Le Monnier, 1941, p. 622 (antologia). 6 Cfr. I. CALVINO, Introduzione a F. LANZA, Mimi siciliani, Palermo, Sellerio, 1971, p. XII. 1 2

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ELISABETTA DE TROJA SOLITUDINE E SOLITUDINI IN ADA NEGRI Paul Valéry così scriveva nella Soirée avec Monsieur Teste: «Souffrir c’est donner à quelque chose une attention suprême, et je suis un peu l’homme de l’attention»1. Mi ritornava in mente questa riflessione di Valéry perché nelle Solitarie2, raccolta di diciannove prose di Ada Negri, pubblicata per la prima volta da Treves nel 1917, sofferenza ed attenzione, sofferenza ed attenzione unite, cercano verità in meditati exempla di identità femminili. Exempla ma non vite esemplari in una possibile accezione civile o religiosa dell’esistenza delle donne: sono circostanze, situazioni spesso ignorate dalla società, dalla letteratura e dalla cronaca. Questi racconti risalgono a qualche anno prima; Ada è sola a Zurigo, dopo la separazione dal marito, sola e «in una condizione difficilissima», come dice in una lettera a Laura Orvieto del 21 luglio 19133, con il terrore che la figlia Bianca le venga sottratta e con non poche difficoltà economiche; sola «come nella bara», ed il termine ritorna ossessivo nelle lettere a Laura. Forse è proprio da questa condizione privata che l’attenzione verso le donne, già precipua del suo impegno giornalistico, si traduce, questa volta, in letteratura. «Io sono sola»; ed è ancora una lettera a diventare spia dell’isolamento zurighese, con la guerra alle porte, in una città che, come lei stessa dice, è più tedesca di Lipsia e di Berlino. Sono necessari poi degli anni, e sono gli anni della guerra, per questa lenta rielaborazione e perché il destino della scrittura scelga la forma del racconto4. Renato Serra, scettico sulla poesia della Negri («E le liriche son tutte di motivi astratti, generici, sviluppati su una metafora o su un’allegoria»), parlerà invece di «prosa nervosa, viva a tratti, che val molto meglio dei versi»; «Son passeggiate, interviste, spiragli sopra un mondo che ha qualcosa di nuovo, non ancor rivelato»5. Quelle di Ada sono «figure di donna intessute a filo liscio bianco su bianco», che nascondono in sé non «minor tragicità di altre tele di esistenza a tra— 511 —

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me aggrovigliate d’oro»6. E la metafora di quelle gugliate da vecchio corredo ci riconduce alla precisa scelta di Ada; saranno vicende di vita comune, di donne comuni, all’interno di fabbriche, di uffici o di certe terribili famigliole piccolo-borghesi. Quell’attenzione di Ada apparve indubbiamente troppo dura e provocatoria se pensiamo che alle lettrici cattoliche fu vietata la lettura delle Solitarie e che una recensione su «Azione muliebre» (del 15 gennaio del 1918) così diceva: «Nessuna di queste figure può ispirare stima nella donna come di creatura superiore, fornita di intelletto e di volontà»7; in realtà Le Solitarie rappresentano una delle punte più disperate del pessimismo esistenziale della Negri che non trova né nella fede né nell’ideologia, in questo caso socialista, una possibile molla di riscatto: un’antiprovvidenza verghiana di ritorno che nega soluzioni è il solo orizzonte possibile. Se indubbiamente questi racconti risentono di un energico protofemminismo lombardo in cui sfilano, e neppur tanto in sottofondo, i profili di Anna Maria Mozzoni, della Marchesa Colombi e di Ersilia Majno (ma il ricordo della carcaniana Angiola Maria e delle sue infelici sorelle in spirito è più vivo che mai), ritrovo però come spezzato e inesorabilmente dissolto quell’«impeto giovanile e quella sorta di melodia zingaresca» che lo scettico Serra notava nelle prime liriche. Un lento corteo di donne meste ed offese vaga senza insegne di riferimento: la vergine rossa ha provveduto ad espellere dalla sua opera i falsi miti del progresso e della giustizia sociale; e, al di là della disperazione, c’è rimasto ben poco. Max Nordau quei miti li aveva chiamati menzogne, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà 8. Nordau, positivista e reazionario, ma estremamente sistematico sempre, passa dalla menzogna religiosa a quella matrimoniale attraverso le vie della politica e dell’economia: ad ogni menzogna il suo spazio e il suo tempo. Ma senza dubbio molte sue riflessioni sulla convenzionalità dei rapporti tra coniugi o sulla solitudine di tante esistenze femminili devono aver ispirato non poco la Negri. La dedica del volume è per Margherita Sarfatti, lei, invece, tutt’altro che solitaria, ma «ammirevole e gentilissima amica», che Ada, preziosamente, definisce «nimbata d’oro», «donna di bellezza, di soavità e di letizia» (come cambiano le virtù delle amiche rispetto agli anni dell’impegno milanese!). Le si contrappone, in quei giorni del maggio del ’17 – e lo sfondo non sono i campi di battaglia, ma il giardino del Soldo, «rifugio di verde pace» — 512 —

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nella Villa di Cavallasco, presso Como – l’offerta di un «grigio, torbido manoscritto di prose» che l’autrice dichiara di voler distruggere e che Margherita salva, «umili scorci di vite femminili sole a combattere»9. Sono le donne che Ada conosce, quelle che ha incontrato a Lodi, a Motta Visconti, a Milano, nell’esilio svizzero; le donne delle fabbriche, delle scuole, o quelle eterne pellegrine cosmopolite che sembrano trovare nel viaggio una consolazione. Libro della penombra, lei lo chiama, quasi in contrapposizione alla luminosità della donna d’avventura e di successo, la donna «nimbata d’oro» appunto; attributo dal ricercato bagliore dannunziano: o meglio è un approdare a D’Annunzio però attraverso Pascoli. «Avanti la pura / tua fronte ricinta d’un nimbo», dice il poeta alla piccola sposa dei Due cugini di Myricae: la luce modesta e misteriosa del ‘nimbo’ pascoliano diventa aureola abbagliante per la nuova donna, vista come ‘regina’ di una nuova civiltà di ordine e di virtù che sembra nascere nel ‘buen retiro’ di un luogo non scalfito dalla brutalità della guerra o semplicemente del vivere. Poco prima aveva scritto a Patrizi, l’ingegner Ettore Patrizi, suo promesso sposo in gioventù, socialista milanese poi emigrante di lusso in America: «Non dò importanza a questo volume di prose; eppure vi è concentrata tanta parte di me, e posso dire che non una delle figure di donna che vi sono scolpite o sfumate mi è indifferente. Vissi con tutte, soffersi, amai, piansi con tutte. Ognuna di esse è una verità» (lettera del 25 aprile 1917)10. Forse aveva ragione Gide quando affermava che ci avviciniamo di più alla realtà nella narrativa piuttosto che nell’autobiografia o nei diari poiché la verità è nella finzione, nella bugia della letteratura che, in fondo, semplifica le cose: nella vita «tout est toujours plus compliqué qu’on ne le dit. Peut-être approche-t-on de plus près la vérité dans le roman»11. In questa raccolta «quel frammento di sé e delle proprie esperienze» di cui ci parla Antonia Arslan12, diventa lievito per tracciati di vita che non sono più i suoi, ma che da Ada non possono prescindere, in una sublimazione della scrittura dell’io che non è portatrice di esperienze verificabili, ma di figure, di personaggi da racconto. Hans Carossa (citato da Bachelard) nei Secrets de la maturité13 ci dice che l’uomo è l’unica creatura della terra che abbia voglia di guardare all’interno di un’altra. Ma certi uomini o certe donne guardano anche ciò che non si vede o non si deve vedere; è una visione violenta, la loro, che scopre la fenditura, l’incrinatura, la crepa attraverso la quale si può carpire il segreto del— 513 —

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la cosa nascosta. Non si tratta di una curiosità passiva, tesa al sorprendente, ma di una curiosità aggressiva, «ispettiva» in senso etimologico. Questa è la curiosità dolente di Ada che fruga nel non detto, in ciò che è palese ma nello stesso tempo è taciuto. Nel racconto Il posto dei vecchi che apre la raccolta, la protagonista è Feliciana, operaia e vedova che, dopo una vita di sacrifici e di figli da mantenere, una volta vecchia ed inutile, viene ‘scaricata’ dal figlio maestro e dall’altro operaio, entrambi attivisti socialisti. Il socialismo non è più un’ideologia che salva, non arriva alla coscienza individuale e non trasforma il rapporto con le donne; la delusione presente si ricollega alle lucide e disincantate considerazioni di Anna Kuliscioff, sua grande amica degli anni milanesi insieme a Luigi Majno e Filippo Turati («sorelle ideali di ideale: voi incarnerete la lotta, io il sentimento», le aveva scritto); ed Anna (in Critica Sociale, XX, 1910) aveva parlato del filisteismo degli stessi socialisti di ‘sesso forte’ che «dimenticano la donna, la donna proletaria, tre volte schiava, nell’officina, nella famiglia, nella società». Realtà non dimenticata neppure dalla più cauta Neera. Ma lo sfinimento di Feliciana non è solo legato allo sfruttamento ed alla fatica del lavoro, quanto alla brutalità del vivere per cui la vita si riduce ad essere il libro dei conti, «pigione, carne, legumi», e la vecchiaia perde ogni dignità perché la gravità degli anni è solo un opaco equilibrio, «una rilassatezza giallognola che fiacca i muscoli del corpo e del volto». Ma nonostante l’apparente dimensione engagée del racconto, l’impegno sembra retrocedere in una pietas senza rancori, non politica, non ideologica, non religiosa, nell’osservazione disincantata di un «così è» senza accuse dirette. In questa, come nelle altre prose14, possiamo dire che il pensiero e l’idea sovvertono l’intreccio. Il fine di Ada è di porre la protagonista (la solitaria, perché gli altri personaggi la isolano nel cupo fulgore dell’abbandono) in situazioni che la rivelino provocandola; lo scopo è far incontrare e scontrare le persone tra loro, ma in modo che esse non restino nell’ambito di questo contatto d’intreccio e vadano al di là di esso. I veri legami cominciano laddove il consueto intreccio finisce, dopo aver svolto la sua funzione accessoria; ed in quella selva di figli, nuore, nipoti, ex padroni o compagne di telaio, leggiamo in trasparenza un pulsare di sensazioni, di ricordi e di attese che rappresentano l’aspetto luminoso della solitudine di Feliciana e il segreto del narrare di Ada. Questo forsennato e dolente frugare conduce la scrittrice, nel racconto Il crimine, alla storia di un aborto clandestino, quello di Cristiana, sposata sen— 514 —

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za amore con un marito lontano e abbandonata dall’amante impaurito. Ada si insinua nello spazio della strega-mammana e delle sue alchimie velenose, mentre Cristiana è solo un povero essere fatto di dolore e di spavento: «Cristiana si lasciò cadere a terra, tutta in un gomitolo, con un gemito lungo di cagna. Solo allora vide la vecchia levarsi a fatica (e non le parve più alta di quando era seduta) e strisciar sulle ciabatte fino ad un usciolo che si richiuse dietro di sé» (p. 111). È l’incontro muto tra due donne, fatto di cenni perché tutto è chiaro e le parole sono inutili per questo patto cupo e disperato. Il filtro è un liquido brunastro da bere in tre volte, in un oscuro ed allusivo rituale di morte. E Cristiana morirà nella fabbrica dove lavora, tra lo stridore degli ingranaggi e lo ‘strepito dei telai’, circondata dalle sue compagne riunite in una sentita quanto inutile preghiera. Se l’amante ha abbandonato Cristiana, l’Imperatrice (perché, come dice la Negri, «camminava a testa alta, con l’innata dignità di portamento» e così in paese la chiamavano, quasi a sottolineare per antifrasi un destino dove non si «impera» nemmeno su se stesse), anche Dio l’ha abbandonata e c’è in questa, come in altre protagoniste, uno stato di orfanezza, di allontanamento non dell’uomo da Dio, ma di Dio dall’uomo per cui il pregare è una pura nenia senza risposta e senza conforto. In questi racconti non è presente la religiosità, pur fervente, di Ada e l’indignazione umana e sociale che è la forza di questa scrittura evita ogni forma di compiacimento e di giudizio, rimanendo scevra da ogni seduzione. Ma nel mondo delle donne si può morire non solo per aborto provocato ma anche per l’onore perduto. Rosanna, protagonista di Anima Bianca è un’ingenua maestra di campagna che parla con i grilli e con le foglie; violentata nel corpo e massacrata nell’anima, finirà per morire o meglio per lasciarsi morire e questa sarà l’ultima moneta di scambio per una dignità che tutti le negano. Il ricordo di Italia Donati, giovanissima maestra della Valdinievole (la cui vita di recente è stata ricostruita nel bel romanzo di Elena Gianini Belotti15) vittima di false accuse e per questo suicida, è più che mai presente; ma ciò che colpisce di Rosanna è quel vaneggiamento lieve da cantilena infantile in cui lenta lenta si spenge la sua lucidità, è quel Pascoli riletto e citato da Ada, quel canto da ninna-nanna ossessiva che ritma le ore degli ultimi giorni dell’anima bianca: «Il bimbo dorme e sogna i rami d’oro, / gli alberi d’oro, le foreste d’oro…» (p. 81). Regressione ad un’ingenuità che è delirio, vaneggiamento misterioso ed oscuro che mi richiama la pazzia balbettante di Lucia di — 515 —

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Lammermoor nel terzo atto, il bellissimo larghetto: «Sparsa è di rose! Un’armonia celeste…». Papini, nella sua misoginia da doppio manganello, scriverà nelle prose morali e precisamente nel Rimorso dell’uomo: «Gli uomini desiderano, torturano, detestano, adorano, uccidono la donna ma nessuno la vede […] nessuno vede le ragazze povere, le stracche, le pallide, quelle che hanno studiato troppo, quelle che devono lavorare di mani e di spalle per scansare i rinfacci e salvare la libertà»16. Credo che Ada Negri abbia contribuito non poco ad additare all’amico scrittore, l’illustre amico, come lo chiama nelle lettere che di lei sono conservate all’archivio Primo Conti di Fiesole (che ho potuto consultare) proprio coloro che nessuno vede o piuttosto sente17. In Storia di una taciturna è indubbia la presenza della Teresa neeriana; la conflittualità e la violenza che anche qui si consumano in famiglia, non sono fatte di atti clamorosi, ma di una lenta strategia di annientamento per cui Caterina, da subito, capisce che «bisognava giocar negli angoli, adagio, senza far rumore» (p. 208), per non turbare il padre, impiegato di banca e che Ada definisce «tirannucolo borghese, senza bontà, tirchio e sentenzioso». Caterina crescerà obbediente, anzi chiusa nella sua obbedienza come in un bozzolo; a scuola, naturalmente, riuscirà solo in «condotta, diligenza e calligrafia», «tacita e laboriosa per sempre». Quanto al marito, così definirà il rapporto: «Era il mio padrone. Io ero il suo cane». Non lo aiuterà durante un attacco apoplettico e vivrà sola e finalmente anche un po’ felice, lontana ormai anche dai figli grandi dei quali dirà: «Si vive soli, abbandonati, così in famiglia, a contatto degli altri, delle creature del proprio sangue. E della famiglia, e anche dei figli, si finisce per aver la nausea, una nausea mortale». Ed è questa nausea che Caterina sentirà come la peggiore delle colpe, ancor più grave del mancato soccorso al marito, quasi chiedendosi il perché: «Non è mostruoso questo?… Non è peggiore di un delitto?» (p. 220). La claustrofobia delle famigliole piccolo-borghesi era stata già intuita dalla giovane Ada che così scrive al fidanzato Ettore a proposito di quella futura unione che non si realizzerà: «Io non la chiedo, non la voglio [la famiglia] perché fatta prevalentemente di lotta per il guadagno; di pettegolezzi di serve e di grida di bambini» (la lettera è del 1894). Ma la solitudine, le solitudini di questi racconti diventano anche una conquista, identificandosi con un orgoglio di isolamento che è libertà: «Libera. Comprendete?… Voglio dire da tutto», suggerisce nel racconto omoni— 516 —

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mo Clara Walser, compagna di quelle viaggiatrici che Ada ha incontrato in Svizzera, le donne che, come affermava Serra, vivono nel mondo degli alberghi di legno sui prati verdi. E di quelle donne, diceva il critico, si conserva nei racconti della Negri «una giovinezza nel grigio, una inquietudine incerta, un bisogno acuto di crearsi una ragione propria di vivere, di vivere solo, femminile…»18. Del resto è questo il prezioso consiglio che Eleonora Duse dava ad Ada Negri, in una lettera del ’13, spedita a Zurigo (e citata da Olga Signorelli): «Certo no, certo no la celebrità ma l’isolamento e la possessione di voi stessa […] cara, se non guadagnate la forza di esser sola, non troverete consolazione»19. La dolorosa solitudine delle Solitarie si trasforma nella necessità di un distacco che Eleonora sa di poter condividere con Ada, all’insegna dell’arte e della creazione. Libro questo, o meglio raccolta di racconti non autonomi l’uno dall’altro perché uniti da un disegno comune; se Guido Guglielmi può dire che novella e racconto considerano per lo più solo un tratto significativo della storia20, forse possiamo considerare Le Solitarie come un romanzo in cui le singole vicende costituiscono in realtà dei capitoli, frazioni narrative dal forte disegno unitario, intimamente connesse da una tematica che si rilancia ogni volta. E questa esigenza di equilibrio e di simmetria ritengo sia una delle principali preoccupazioni compositive di Ada che, in una lettera inedita – ed ancora si tratta di Giovanni Papini (del 5 gennaio 1929, Archivio Primo Conti) – congratulandosi per gli Operai della vigna così scriveva: «Trovo il lavoro dell’uomo illuminato dalla grazia di Dio: i capitoli si allacciano l’uno all’altro come gli archi di un ponte: sotto il ponte l’acqua scorre azzurra, riflettendo il cielo». Se gli archi di Ada svettano, anche loro, uno dietro l’altro, con perfetta simmetria, l’acqua del suo fiume non ha bagliori, ma solo il colore denso e cupo di una chiusa palude. NOTE 1 P. VALÉRY, La soirée avec Monsieur Teste, apparve per la prima volta nel settembre 1896 nel vol. II del Centaure e fu riprodotta in Vers et prose qualche anno più tardi. La citazione è tratta dalle Éditions de la Nouvelle Revue Française (Gallimard, 1919, p. XXIII) presente nella Biblioteca della Facoltà di Lettere di Firenze. Sul retro della copertina un’annotazione a penna: «Suivi du déjéuner avec Giovanni Papini. Le 22 mai 1933. Paul Valery. Florence». 2 A. NEGRI, Le Solitarie, Milano, Treves, 1917. Ma l’edizione che ho seguito è quella del ’20.

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ELISABETTA DE TROJA 3 Le lettere a Laura Orvieto sono conservate presso l’Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti» di Firenze. 4 Ma l’unico racconto in cui la guerra è presente è Mater admirabilis in cui il figlio di Assunta, la protagonista, è in trincea sul Carso. Per Assunta che fa la portinaia e che sferruzza calze di lana per i soldati, l’Italia è qualcosa di vago e di indeterminato: «L’Italia?… Il Paese… Assunta non vi aveva mai pensato». Poi, dopo la morte del figlio soldato, la patria è solo il luogo dove si seppelliscono i morti: «L’Italia, ora, per lei, non è che un grande camposanto nel quale il suo ragazzo sta sepolto con tanti altri» (pp. 256, 263). 5 R. SERRA, Le Lettere [ristampa] con l’aggiunta dei frammenti inediti del secondo volume e di un indice onomastico, Roma, La Voce, Soc. An. Editrice, 1920, pp. 89-91. 6 A. NEGRI, Storia di una taciturna, in EAD., Le Solitarie, cit. p. 212. 7 Citato in M. DE GIORGIO, Le italiane dall’Unità ad oggi. Modelli culturali e comportamenti sociali, Bari, Laterza, 1992, p. 394. 8 M. NORDAU, Le menzogne convenzionali della nostra civiltà, trad. di O. Cimonea, Torino, Bocca, 1898. Titolo originale: Die conventionellen Lugen der Kulturmenscheit. 9 Ma la revisione dei racconti comporta per Ada un duro lavoro, come lei stessa dichiara ad Ettore Patrizi in una lettera del 27 maggio 1917 (le lettere ad Ettore Patrizi sono conservate presso la Biblioteca Civica Laudense): «Da un mese mi affatico sulle bozze di stampa […] Correggo moltissimo, faccio un’infinità di cambiamenti; resto intere giornate a tavolino, e me ne stacco completamente inebetita. È un libro al quale non tengo affatto, ma dato che ormai deve uscire, tanto vale che esca il meno brutto possibile. Poi quest’accanita, assorbente occupazione, mi fa dimenticare il vuoto della mia vita». Per le lettere mi sono avvalsa della Tesi di Laurea della dott.ssa Laura Giardini (Vita e scrittura nell’opera e nell’epistolario di Ada Negri), discussa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze nell’Anno Accademico 2000/2001. 10 Cfr. nota precedente. 11 A. GIDE, Si le grain ne meurt, Paris, Gallimard, 1976, p. 87. 12 Fondamentale il saggio di A. ARSLAN dedicato ad Ada Negri in Dame, galline, regine. La scrittura femminile italiana tra Otto e Novecento, Milano, Guerini Studio, 1998. Ma vedi anche di A. FOLLI, Penne leggere. Neera, Ada Negri, Sibilla Aleramo. Scritture femminili tra Otto e Novecento, Milano, Guerini Studio, 2000. 13 G. BACHELARD, Le immagini dell’intimità. La terra e il riposo, Como, Red, 1994, p. 17. 14 Afferma Laura Fortini a proposito di questa raccolta: «Si compone davanti agli occhi il quadro vivido di un mondo fatto di donne diverse e differenti ma accomunate da una condizione esistenziale, l’esser solitarie, che poco o nulla fino ad oggi è stato considerato dalla storia come dalla cultura corrente» (L. FORTINI, Ada Negri la solitaria, «La scrittura», 1997, 3, p. 5). Ma per questo aspetto sociale vedi M. PALAZZI, Donne sole. Storie dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, Mondadori, 1997. 15 E. GIANINI BELOTTI, Prima della quiete: storia di Italia Donati, Milano, Rizzoli, 2003. 16 G. PAPINI, Il rimorso dell’uomo. Costole di Adamo, in ID., Lezioni ed esperienze di vita. Prose morali, Milano, Mondadori, 1959, p. 890. 17 Ma la forza di questa raccolta è indubbiamente sentita da subito, se lei può scrivere al Patrizi (lettera del 15 settembre 1917): «Le Solitarie va ottenendo un successo di discussio-

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ni, di pubblico, come io non avrei mai immaginato. Tutti i principali giornali – Secolo, Corriere della Sera, Gazzetta del Popolo, Nazione, Popolo d’Italia, ecc. – hanno dedicato ad esso colonne e colonne di consenso e lode. È un libro di pura vita, di pura arte, te l’ho già detto: un libro di aspra e corrosiva verità, come io attraverso gli anni l’ho veduta e sofferta: la guerra mondiale non c’entra: non c’entra che la pura umanità e la verità esterna dell’esistenza. La prosa di questo libro è considerata da tutti (anche da quelli che lo combattono eticamente) come fortissima e di una grande sobrietà» (cfr. n. 9). 18 R. SERRA, Le Lettere, cit., p. 90. 19 Vedi di O. SIGNORELLI, Lettere di Eleonora Duse, «Nuova Antologia», 16 ottobre 1939, p. 329. 20 G. GUGLIELMI, La prosa italiana del Novecento, II, Tra romanzo e racconto, Torino, Einaudi, 1998, p. 4.

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FAUSTA SAMARITANI MIO CARO AMICO… LA LETTERA D’AUTORE COME GENERE LETTERARIO MICROSTORIA E MACROSTORIA Lo storico che spulcia le vecchie carte ha l’opportunità di calarsi in una microstoria con caratteri suoi propri, strettamente legati ad un luogo, a una o più persone, ad un particolare evento. Egli può far in modo che questa microstoria esca dalla marginalità di una raccolta isolata di documenti e si confronti in termini concreti con la macrostoria, che è fatta di alta politica, di guerre, di rivoluzioni. La documentazione conservata negli archivi è sempre specchio della società che ha prodotto questi particolari residui cartacei: relazioni tra persone, azioni che hanno ricadute sugli altri si ricostruiscono incrociando e raffrontando documenti depositati in fascicoli, anche in archivi diversi. Secondo il parere di Roger Chartier, la ricerca incentrata su una microstoria è l’unica che permetta di cogliere «sans réduction déterministe, les relations entre systèmes de croyances, de valeurs et de représentations d’un côté et appartenances sociales d’un autre»1. La microstoria impone di continuo la rilettura attenta di interi capitoli di macrostoria; sembra che, osservati in campo lungo, cioè visti da un punto periferico, da un particolare accadimento, i grandi eventi, i grandi temi della storia siano più comprensibili, meno astratti e che d’altra parte la microstoria, uscendo da circostanze marginali e locali, assuma caratteri sempre più generali, di livello storico superiore. Prendiamo in considerazione tre lettere, custodite in un fascicolo, depositato in un pubblico archivio: è la nostra finestra su una microstoria legata alla storia della letteratura. Poiché fanno parte di un fascicolo omogeneo, non avrebbe senso pubblicarle senza fare ampio riferimento alle altre carte contigue: la nuda estrapolazione da un contesto organico, in cui una lettera è sta— 521 —

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ta custodita, è uno dei limiti di certi carteggi che vengono pubblicati e spesso le note non compensano le fratture, perché non creano l’indispensabile dentello di dati sensibili, aperti all’ambiente circostante. LETTERA E MATERIA LETTERARIA Che valore dobbiamo attribuire ad una vera lettera, pubblica o privata, che nelle intenzioni dell’autore poteva o doveva essere effettivamente recapitata, quando in calce c’è la firma di una persona comunemente accettata nella nostra repubblica letteraria? Si tratta di semplice comunicazione, oppure di letteratura? È solo un documento o una creazione d’artista? È un messaggio o fa parte dell’Opera omnia del suo Autore, con lo stesso diritto di cittadinanza delle altre opere? Tutt’altra considerazione abbiamo per un epistolario fittizio, quando rappresenta l’ossatura di grandi opere letterarie, come l’Ortis: il valore letterario, qui, non si discute. Le lettere, i biglietti, i fogli sparsi di un diario, una raccolta disomogenea di pensieri fanno parte di un genere letterario che possiamo dire ‘frammentato’, o ‘non finito’, o ‘poco controllato’, in opposizione ad un’opera letteraria compiuta, come un romanzo o un poema, creati con una vera architettura e le cui parti sono scandite secondo un preciso equilibrio formale. Quando questa forma di scrittura, continuamente interrotta, acquista una sua interna armonia, entra a buon diritto nella storia della letteratura. Il dubbio sulla complessiva validità letteraria rimane, quando l’epistolario non viene raccolto dal suo autore. E la singola lettera? E una lettera che sia frutto di lunghe e passionali riscritture, fino alla perfezione del linguaggio, che valore ha? Frammentato poco controllato e non finito, oppure controllato compattato e finito? E i suoi avanzi, i ritagli, le varianti, gli scorci, i residui, i brani che valore hanno? Storico, documentario, immaturo, marginale? Sono elementi di formazione ed è ‘utile’ segnalarli in nota o sono parte essenziale di un progetto arrivato, e a volte non arrivato a maturazione? TIPI DI LETTERA Un genere tanto polimorfo come la lettera, questa comunicazione a distanza, a volte sofferta e a volte effimera e fugace, non si presta ad una esatta — 522 —

LA LETTERA D’AUTORE COME GENERE LETTERARIO

classificazione: è il parere di Gino Tellini2, che lo espone nella introduzione ad una recente pubblicazione da lui curata. Eppure, secondo Tellini, si possono individuare alcuni filoni: le lettere officiali, di raccomandazione, di domanda, di ufficio, diplomatiche, commerciali, dedicatorie, le istanze, le esortazioni, i verbali, gli elenchi ecc. fanno parte di una unica grande categoria; le lettere familiari invece, intime, officiose, i ricordi di viaggio, le epistole didascaliche, narrative, di discussione letteraria, i carteggi confidenziali, le curiosità, le confessioni d’amore, le notizie sulla propria e altrui salute, le riflessioni private su politica e affari appartengono ad una diversa categoria. Ci sono lettere renitenti per motivi particolari, come la censura; ci sono lettere dall’esilio e dal carcere; lettere di discussione filosofica e con giudizi letterari; ci sono bozze e frammenti, ciarle e ritratti d’autore, lettere erotiche, allusive, cifrate. Una riflessione sul supporto: carta da lettere, cartolina, biglietto e telegramma condizionano il messaggio e ne determinano la lunghezza, il frasario, il modo di comunicare. È in costante aumento l’interesse su questo genere letterario, rara è tuttavia la pubblicazione di interi carteggi, soprattutto di quelli d’amore. QUANDO LA CORRISPONDENZA RACCONTA UNA STORIA VERA Tre lettere: un uomo, una donna: una storia. Sullo sfondo, molti comprimari. Non sono lettere d’amore. Estrapolate da un fascicolo d’archivio che ne contiene altre, insieme a documenti, a pro-memoria, a copie di telegrammi3, queste carte rappresentano l’essenza della nostra microstoria. Ha scritto Gérard Genette: «Nell’epitesto privato [l’autore] si rivolge inizialmente a un confidente reale, percepito in quanto tale, la cui personalità è così importante in questa comunicazione, da caratterizzarne la forma e il tono. […] L’autore ha un’idea precisa (particolare) di ciò che vuole dire sulla sua opera a un determinato corrispondente particolare, un messaggio che può al limite avere un valore o un significato solo per quest’ultimo; egli ha un’idea molto più vaga, talvolta noncurante, circa la pertinenza di questo messaggio per un pubblico futuro, e reciprocamente il lettore di una corrispondenza è del tutto naturalmente portato a far “parte delle cose”».

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LA PRIMA LETTERA Composta di quattro fogli scritti a lapis e con frequenti sottolineature della stessa mano, la prima lettera appartiene al genere dell’epitesto privato. La grafia incerta, i caratteri grandi tradiscono una persona anziana, sofferente e con qualche problema di vista. Questa lettera ha accompagnato un libro, sul quale Roberto Bracco aveva probabilmente appuntato alcune modifiche al suo dramma La Piccola fonte. Roberto Bracco ad Emma Grammatica [Pozzuoli ?, primi di novembre 1936] Emma carissima, la telefonata del tuo amministratore o segretario che chiedeva di me mi ha fatto ben capire che tu ignori le mie condizioni di salute. Io sono inchiodato a letto da un male atroce. Sono già tre mesi che io soffro tormenti che forse neanche Cristo ha conosciuti nelle sue tre ore d’agonia. Adesso, sto un po’ meglio. La febbre alta è stata vinta da rimedi pazienti e violentissimi. Ma non posso sperare nella guarigione. Il male che mi [ha] azzannato non è un male veramente guaribile. Qualche amico e la mia Laura4 che legge qualche giornale mi avevano detto che tu avresti rappresentata per la serata d’addio la mia povera decrepita Piccola fonte. Io avevo esultato! Un onore grande essere interpretato da Emma Grammatica nel maggior fulgore della sua gloria!… E anche un ausilio finanziario, di cui non posso, ahimè, non tener conto. Per le mie cure ho bisogno d’un fiume di quattrini. E c’è anche per giunta la malattia di Laura!… Ti giuro che le lotte di questa mia estrema vecchiaia sono tremende! La richiesta d’un libro di La Piccola fonte mi ha intontito! (Come farà Benassi che non l’ha mai recitata?) Intanto, le poche copie residuali sono presso il mio nuovo Editore, che va pubblicando la mia opera omnia5. Per fortuna ho potuto rimediare. La Piccola fonte è nel volume di cose mie che Matilde Serao volle compilare per le fanciulle: Col permesso del babbo6. È la migliore edizione, ma nulla vi è mutato. C’è la correzione di qualche frase, di qualche parola. Il suggeritore potrà adottare o no la correzione, di piccolissima importanza. Lo scrivere queste poche parole mi ha tanto stancato. Non ho modo di muovermi. Con infinita tenerezza e devozione e riconoscenza t’abbraccio. Laura ti bacia le mani. Roberto

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La Piccola fonte era stata rappresentata per la prima volta a febbraio 1905, al Manzoni di Milano, con Emma Grammatica nella parte della protagonista. È la storia di Teresa, umile moglie di Stefano, un poeta vanitoso e cinico che, invasato dall’idea di essere un genio, va in cerca di avventure di classe. Valentino, un gobbo che gli fa da segretario, assiste alle angherie di Stefano contro Teresa che trova qualche conforto nella simpatia della povera gente, mentre la sua mente a tratti è attraversata dalla follia. Il dramma si chiude con l’urlo di Valentino che vede Teresa tendere le braccia al mare, mentre Stefano riconosce alfine che la moglie era la fonte unica della sua opera poetica. La situazione economica di Bracco era precaria. Il 5 settembre 1935 confessava a Lucio D’Ambra7: «Quasi tutto il mio residuale patrimonio consisteva in titoli esteri. Il governo li ha requisiti. Seicento lire di meno al mese quando mi saranno consegnati certi buoni in cambio dei titoli esteri. Ho bisogno d’un po’ di lavoro – dunque – per il mio bilancio rovinato». Il 9 settembre, dopo aver comunicato notizie disastrose sul suo stato di salute egli aggiungeva, con tono di grande melanconia: «Il problema finanziario, sì, si fa ogni giorno più grave. Ma se il mio male si decide a farmi sparire, le grosse spese cesseranno, e quel che rimane del frutto della mia onestà e della mia (non abbondante) attività di giornalista e di artista basterà alla mia Laura abituata a una vita molto modesta».

LA SECONDA LETTERA Questa missiva accompagnava la trasmissione immediata della precedente lettera ad un altro destinatario – circostanza non prevista da Roberto Bracco. È composta di tre fogli con il logo e l’intestazione del Grand Hotel de Londres di Napoli. Frequenti sottolineature, in matita blu, posteriori e d’altra mano (probabilmente di Dino Alfieri) non sono state evidenziate in questa sede. Emma Grammatica a Dino Alfieri 5 nov. ’36-XV Eccellenza – permetta che io mi rivolga a Lei Ministro e a lei amico quale la ricordo – gentile – di cuore. Le accludo una lettera ricevuta stasera da Roberto Brac-

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co. Da questa Ella comprenderà. Ma una volta io mi feci coraggio e andai personalmente dal Duce nostro a parlare di lui e avevo ottenuto da Lui parole e assicurazioni di infinita bontà – ma purtroppo allora – il lavoro di Bracco «I pazzi», da me rappresentato a Roma – diede luogo a incomprensioni penosissime per il povero Bracco e per me che ne sopportai dure conseguenze. Da allora né avevo più rappresentato nulla di Bracco – né oserei più riparlarne al Duce. Oso parlarne a Lei – uomo di cuore – perché la situazione di Bracco è grave, come Ella vede. Io farò quanto posso, ma il mio aiuto è ben poco: se Ella potesse trovare un modo pietoso per alleviare la vita che si spegne di quest’uomo di ingegno che ha avuto gravi torti ma non ha mai fatto nulla di male e se non ha tentato nulla per riparare i suoi errori non è stato per orgoglio ma per dignitoso riserbo, temendo di essere mal giudicato. Perdoni se l’ho importunata e se mi sono permessa di scriverle questa lettera confidenziale. Mi abbia sua Emma Grammatica

Sulla prima pagina, di traverso e a matita blu, sono state aggiunte queste parole: «Il Duce dispone d’urgenza 10mila». E in alto, a lapis: «per esistenza a Roberto Bracco» e «per espresso Lunedì». Nello stesso fascicolo, ma anche in altri fascicoli conservati nello stesso Fondo dell’Archivio, ci sono alcuni documenti sulla sfortunata rappresentazione de I Pazzi di Bracco, a Napoli, nel 1929: delirio di pubblico alla prima serata, con 33 chiamate al palcoscenico, commenti favorevoli sui giornali (quattro colonne su «Il Mattino», titolo su cinque colonne su «Il Mezzogiorno»); fischi di un gruppo di fascisti alla prima replica; pubblico scarso ma composto alla seconda replica. Da allora, in Italia, il teatro di Bracco non era più andato in scena, per mancanza del necessario nulla osta da parte delle preposte autorità. I Pazzi erano stati pubblicati nel 1922, prima dell’ascesa al potere di Mussolini. In questo dramma le creature sono «incomplete» e aspirano ad elevarsi; mentre si sforzano a trovare una qualche via d’uscita dalla loro angoscia, si smarriscono sempre più. Bracco, che considerava questo dramma il suo capolavoro, era stato accusato di «pirandellissismo» e definito «l’autore dei pazzi»; ma a queste interpretazioni grossolane aveva reagito con vigore, dimostrando che gran parte suo teatro era stato scritto quando quello di Pirandello era in mente Dei: semmai, era stato il drammaturgo napoletano ad influenzare quello siciliano. Alcuni personaggi di Bracco vivono nella sofferenza, ma la loro penosa condizione è sempre riferibile a fatti concreti; mentre quelli di Pirandello riducono la vita stessa a problema. Roberto Bracco scris— 526 —

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se il 25 settembre 1925 queste amarissime parole al critico Luigi M. Personè: «Non posso fare altrimenti per difendere un’opera che, lo confesso, ancora mi sta a cuore, I Pazzi, da un’opinione la quale non è un’accusa – ed è, anzi, deferentissima e lusinghiera – ma giustifica, in un certo modo, quell’accusa, infame che colpì quest’opera mia e mi disorientò fino al punto d’indurmi a rinunziare per sempre al teatro e a gettare alle fiamme (tre amici miei ne furono testimoni) due lavori scenici quasi compiuti, che avevo in serbo. Quell’accusa sorgeva da circostanze che non avevano nulla in comune con l’Arte […] e trovava un terreno propizio in altre circostanze determinate dall’industrialismo e dal vento iconoclastico che hanno messo a soqquadro il mondo intellettuale italiano parallelamente… al fascismo da cui è stato capovolto il mondo morale»8. Segno dei tempi, questa velenosa lettera anonima contro Bracco, datata Napoli 24 gennaio 1926, fu spedita a Mussolini, insieme all’articolo Io e gli altri. Il Genio in anticamera, firmato «Boby» (pseudonimo di Roberto Bracco) e pubblicato sul «Roma della domenica»9: «Questa prosa arruffata slegata è di Roberto Bracco che aspira all’immortalità dell’Accademia, e – pertanto – sta a Roma e – come al solito spruzza fiele e veleno da tutti i pori». Diamo un passo di quell’articolo di Bracco ‘incriminato’: «Oggi come oggi, Aragno, è pur anco l’anticamera d’un fatto compiuto. L’anticamera dell’immortale Accademia d’Italia: il novello pascolo del novello gregge a trentamila lire annue per capitale. Prima della “Farmacia” montecitorina; prima della Galleria dei busti o de’ passi perduti (ove il tempo perduto, qualche volta, non è perduto invano); prima dell’atrio parlamentare; prima ancor dell’anticamere dei nostri ministri segretari di Stato; prima di tutto ciò importa conquistare l’anticamera Aragno». Nel 1924 Giovanni Amendola aveva invitato Roberto Bracco a presentarsi alle elezioni, nella lista d’Opposizione Democratica e Bracco aveva accettato, giustificando il suo consenso con la necessità che ci fosse anche una opposizione. Squadristi scalmanati avevano allora invaso la sua casa e dato alle fiamme le sue carte sulla pubblica piazza, distruggendo l’unica bozza esistente del nuovo dramma La Verità. Bracco si era ritirato nel silenzio del suo studio. Negli ultimi mesi tuttavia, nel tentativo di superare l’isolamento cui il fascismo l’aveva condannato, aveva mandato timidi cenni di presenza. Il 24 giugno 1936 Libero Bovio, calcando la mano su una presunta ‘conversione’ di Bracco, aveva scritto a Cornelio Di Marzio, Segretario Generale della Confederazione Nazionale Fascista Professionisti ed Artisti10: «Bracco è — 527 —

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quasi ottantenne; è malato di cuore, i suoi giorni sono contati. In queste condizioni egli fa domanda di appartenere al Sindacato degli Scrittori Napoletani. È un grande gesto che rivela una grande anima. Ho visto piangere di gioia Bracco all’indomani della Vittoria, poi gli ho sentito esclamare queste semplici e profonde parole: “La colpa è mia: non avevo capito”. Questa domanda è sacra, perché è firmata da un vecchio che nulla ha da chiedere e da sperare e travisarne il significato sarebbe piccolezza che non ci appartiene. La invio a te con infinita commozione, perché so di compiere in questo momento tutto il mio dovere di fascista. Forse l’onesta conversione di questo nobile vecchio non dispiacerà al grande Poeta della più poetica rivoluzione». Prese una netta posizione a favore di Bracco anche il presidente della S.I.A.E., senatore Emilio Bodrero, il quale scrisse ad Osvaldo Sebastiani, il segretario del Duce, chiedendo l’erogazione di un sussidio a favore del drammaturgo napoletano, viste le sue condizioni precarie, economiche e di salute. Mussolini dunque autorizzò, anche perché con l’autarchia si sentiva assoluto bisogno di mettere in cartellone teatro italiano contemporaneo e di eccellente qualità. LA TERZA LETTERA Due fogli, con frequenti sottolineature a matita blu che sono posteriori e d’altra mano, compongono al terza lettera. La grafia di Bracco è più controllata e sicura, rispetto a quella della precedente missiva. Roberto Bracco a Dino Alfieri Napoli, Via Crispi 116 Li 9 gennaio 1937 – XV A S. E. Dino Alfieri Ministro della Stampa e della Propaganda Roma Eccellenza, per una serie di circostanze che sarebbe qui inutile precisare, mi è pervenuto con molto ritardo lo chèque di Lire diecimila da lei inviatomi. Mi perdoni, dunque, se con molto ritardo io faccio pervenire a Vostra Eccellenza l’espressione dell’animo mio. Una profonda e benefica commozione ha prodotto in me l’atto generoso da Lei compiuto con eleganza di gran signore e con una squisita riservatezza, in cui ho sen-

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tito la bontà e la comprensione di chi amorosamente e validamente vigila le sorti della famiglia artistica italiana. Ma la commozione profonda e benefica non deve far tacere la mia coscienza di galantuomo, la quale mi avverte che quel danaro non mi spetta. Come mi permisi di scriverLe affinché non raccogliesse le voci allarmanti che corrono sulle mie condizioni finanziarie, io posso affrontare con tranquillità le spese, non lievi cui mi costringe il mio male, ahimè, inguaribile. Chi sa quante imprese d’arte non fortunate potrebbero giovarsi del bel sussidio di diecimila Lire! Chi sa quanti autori, quanti artisti, vecchi o giovani, veramente bisognosi, potrebbero trarre da un tal sussidio una qualche nuova energia. Mi sembra ch’io non abbia da aggiungere altro. Ho già nel cuore la lieta certezza dell’adesione alla quale anelo. La nostra grande Emma Grammatica, che è stata il prezioso tramite della generosità di Vostra Eccellenza, mi ha fatto l’onore di assumere il delicato incarico della doverosa restituzione. E accetti, Eccellenza, insieme con i miei omaggi, l’assicurazione della mia cordialissima gratitudine d’oggi e di domani. Devotamente Roberto Bracco

Non poteva certo sfuggire a Dino Alfieri il tono troppo cerimonioso, quasi venato di ironia, della lettera di Bracco; ma il drammaturgo aveva saputo anche scindere la persona del ministro dal regime che rappresentava e i cui sistemi il drammaturgo napoletano non condivideva: mostrava quindi rispetto per il lavoro e per la personalità del singolo ministro, indipendentemente dal sistema entro cui svolgeva le sue funzioni. Era un antifascismo non strettamente ideologico, aprioristico e astratto, ma dettato da considerazioni pratiche su rapporti reali tra cittadini e istituzioni. Forse questo era il motivo per cui Bracco, nelle alte sfere non era più considerato un nemico da condannare, bensì il portatore di una devianza non grave, recuperabile con i buoni uffici di una cara amica che aveva rapporti col sistema. Quel sussidio straordinario di 10 mila lire era una cifra enorme, per quei tempi, tanto più che in circostanze simili di solito si autorizzava un esborso di 300-500 lire. L’erogazione di cifre contenute aveva lo scopo di indurre il beneficiario, dopo pochi mesi, alla umiliazione di una nuova richiesta. Si decise dunque di consegnare il sussidio a Bracco attraverso Emma Grammatica che garantì di portare a termine, con grande tatto, la delicata operazione. Nel fascicolo d’archivio si conserva sia la regolare ricevuta dell’assegno, sia la sua restituzione: i due documenti sono firmati dalla Grammatica. — 529 —

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Bracco aveva scritto a Lucio D’Ambra11 il 26 dicembre 1937: «Ho fatto chiedere al Capo del Governo se sia permesso di ridurre per la cinematografia opere mie. Il Capo del Governo ha risposto: Sì. Io ne sono contento. E lodo il Capo del Governo. Ma, scusa, Lucio caro, perché avrebbe dovuto rispondere: No? […] Tutti… volete fare passi risolutivi affinché Starace tolga al Dopolavoro il divieto di rappresentare le mie cose. Sono certo che la proposta è venuta da te, e non dubito che Marinetti – alla testa di tutti come tu mi scrivi – abbia accettato e caldeggiato la proposta». Pochi giorni più tardi, su proposta di Marinetti fu offerto a Bracco un forte sussidio dalla Cassa del Sindacato Centrale. Grato per «l’idea graziosa e generosa» avuta dai colleghi, il 13 gennaio 1938 Bracco scriveva Lucio D’Ambra12: «E avete avuto un dubbio delicato: “Le accetterà Bracco o non le accetterà, visto che, cortesissimamente e con parole di riconoscenza rifiutò il forte sussidio del Ministero della Propaganda?” Rispondo. Dai miei compagni di lavoro, dai miei compagni d’arte sarei stato pronto ad accettare qualunque conforto, qualunque sussidio, qualunque dono. Ma l’anno passato, per un telegramma doveroso e affettuoso che feci a un congressino d’autori furono dette di me, anche in alcuni giornali, le cose più strane, le cose più assurde e, implicitamente più offensive che si potevano dire. La mia accettazione del dono offertomi dal Sindacato Centrale, con alla testa Marinetti, sarebbe necessariamente strombazzata da tutti i giornali d’Italia, se ne inventerebbero sul conto mio di tutti i colori». Bracco confidava poi di aver accettato l’assegno, ma desiderava donare una pari somma in beneficenza. Si chiedeva tuttavia come questa decisione sarebbe stata interpretata. Roberto Bracco è morto a Sorrento il 20 aprile 1943. Aveva 81 anni. Le sue lettere hanno suscitato interesse frammentario e discontinuo14. Maggiore attenzione si dovrebbe dare alla corrispondenza dei grandi uomini di spettacolo, soprattutto quando manca o è carente la documentazione sonora e visiva. Di queste lettere si dovrebbe analizzare la struttura, ma anche il segno grafico, evidenziando le sottolineature, le pause, la distanza tra le parole: contengono informazioni preziose sulla psiche e sull’universo poetico di un Autore, e talvolta sono anche una straordinaria ed inaspettata lezione di teatro.

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NOTE R. CHARTIER ET AL., La sensibilité dans l’histoire, Brionne, Monfort, 1987, p. 26. Scrivere lettere. Tipologie epistolari nell’Ottocento italiano, a cura di G. TELLINI, Roma, Bulzoni, 2002. 3 Fascicolo Roberto Bracco, in Archivio Centrale dello Stato. Ministero Cultura Popolare, Gabinetto, b. 280. 4 G. GENETTE, Soglie. I dintorni del testo, a cura di C. M. CEDERNA, Torino, Einaudi, 1989, pp. 365 e 367. 5 Laura Del Vecchio, la giovane moglie di Bracco. 6 La Piccola fonte uscì nel IX volume dell’opera omnia, pubblicato nel 1937 dall’editore Carabba di Lanciano. 7 R. BRACCO, Col permesso del babbo. Versi dialettali. Teatro. Novelle. Scritti vari, Prefazione di M. SERAO, Palermo, Remo Sandron, 1926. 8 R. CRISTALDI, E forse verrà un giorno… Confidenze di Roberto Bracco, Milano, Airoldi, 1948, pp. 163 e 178. 9 Lettere inedite di Roberto Bracco a Luigi M. Personè, «L’Osservatore Politico Letterario», III, 1957, 8, pp. 65-66. 10 Lettera anonima a Mussolini, in ACS, S.P.D.C.O., b. 74. 11 Lettera di Libero Bovio a Cornelio Di Marzo, in ACS, S.P.D.C.O., b. 74. 12 R. CRISTALDI, E forse verrà un giorno…, cit., p. 180. 13 Ivi, p. 181. 14 M. GASTALDI, Una coscienza. Roberto Bracco con 15 lettere inedite, Milano, F.lli Bocca, 1945, pp. 39-77; M. SPAZIANI, Con Gégé Primoli nella Roma bizantina, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962, pp. 261-265 e passim; U. GALEOTTA, Roberto Bracco. Con lettere di Bracco a Galeotta, Napoli, Arti Grafiche Ardenza, 1967; F. SAMARITANI, Due lettere di Roberto Bracco e Luigi Albertini, in La Repubblica Letteraria 2002, a cura della stessa, Cd-Rom, Roma, repubblicaletteraria.net, 2003, file Roberto Bracco_lettere.html. 1

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SIMONETTA BARTOLINI LA MEMORIA RIMOSSA. VOCI E ATMOSFERE DELLA RSI Prima di affrontare i testi che compongono quella che per ora chiameremo genericamente ‘memorialistica’ della Rsi armata, occorre fare qualche premessa teorica, poiché ci troviamo in presenza di un materiale che deve ancora essere sottoposto al vaglio di uno studio serio e approfondito. Dobbiamo infatti notare che, a fronte di un numero significativo di scritti narrativi riguardanti la Rsi, non corrisponde alcun tipo di interesse critico, di classificazione storiografica o di registrazione letteraria. Quei libri si limitano ad esistere, disiecta membra di un organismo che non ha ancora trovato composizione coerente, né codificazione alcuna. Allo stato attuale delle cose dovremo dichiarare che, nonostante i pur numerosi testi memorialistici pubblicati (se pure spesso in edizioni semiclandestine, per case editrici minori e senza diffusione), non esiste una letteratura della Rsi, come invece ne esiste una della Resistenza. Eppure le produzioni letterarie delle due parti, in campo in armi in quei venti mesi della metà degli anni ’40, sostanzialmente si equivalgono, rappresentando due volti, come vedremo in seguito, di una stessa medaglia: la storia d’Italia. La letteratura della Resistenza esiste perché è stata codificata1, ovvero è stata riconosciuta come genere letterario omogeneo, complesso, dalle caratteristiche tali da poter costituire un organismo letterario con i suoi scrittori celebri (si pensi al Calvino del Sentiero dei nidi di ragno, al Fenoglio del Partigiano Johnny, al Vittorini di Uomini e no, e al Pavese della Casa sulla collina) e con una sua costellazione di minori ai quali è affidato il compito della memoria, vorrei dire, documentaria, ovvero di costituire quel terreno letterariamente e poeticamente meno significativo, ma fondamentale per fungere da substrato ideologico tale da giustificare, come per ogni genere che si possa e voglia dir tale, la necessità di una codificazione. Dunque un genere letterario tematicamente coeso, ideologicamente coerente, poeticamente riconoscibile. — 533 —

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Viceversa la stessa cosa non è avvenuta per la produzione memoriale di coloro che combatterono dalla cosiddetta ‘parte sbagliata’ (sintagma coniato da Rimanelli, presentando a Pavese il suo romanzo, Tiro al piccione), col risultato che accennavamo: la letteratura della Rsi non esiste; non se ne trova traccia nelle storie letterarie, nei regesti, nelle bibliografie tematiche2. Dunque la prima operazione da fare è quella di codificarne l’esistenza, ovvero cominciare a trattarla come quell’organismo complesso e coerente che, di fatto, essa è. Innanzi tutto occorre delimitare cronologicamente il campo di indagine, sia dal punto di vista tematico sia da quello della produzione. Per quanto riguarda l’oggetto delle narrazioni il limite cronologico è facilmente individuabile: il periodo in esame è senz’altro quello che dal 25 luglio, o se si vuole dall’8 settembre del ’43, va al 25 aprile del ’45. Per quanto riguarda invece la produzione sul tema, non porremo limitazioni temporali poiché, se è vero che nell’immediato dopoguerra uscirono alcune testimonianze – in particolare il libro di Enrico de Boccard, Donne e mitra, l’unico vero romanzo di ambientazione repubblicana3, e quello di Giose Rimanelli, Tiro al piccione che ebbe anche trasposizione cinematografica nel ’634 – esse ebbero una diffusione limitata, quando addirittura semiclandestina come il caso del libro di de Boccard, poiché in quegli anni l’Italia, uscita dalla guerra, era impegnata a costruire, anche letterariamente5, il mito della resistenza come punto di partenza della nuova Italia; e a scardinare, anche da un punto di vista culturale, le strutture dell’Italia fascista; operazione che non poteva lasciare spazio, dare valore o riconoscere sistematicità storico-letteraria alle testimonianze di quel mondo uscito sconfitto dalla guerra, e prendere le distanze dal quale, significava anche cancellarne le tracce. Da qui, per ragioni di opportunità, oltre che per l’ostracismo decretato nei loro confronti, il sostanziale silenzio di coloro che avevano militato dalla ‘parte sbagliata’. Il clima politico italiano cominciò a registrare se non proprio un’inversione di tendenza, almeno una possibilità di apertura verso testimonianze extravaganti rispetto alla vulgata resistenziale, intorno alla metà degli anni ’80, precisamente nel 1986 che vide la pubblicazione presso l’editore Mondadori (l’unico più aperto a siffatte pubblicazioni insieme a Mursia, che dedicò una collana alle «Guerre fasciste e la seconda guerra mondiale») del libro di Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte. Il libro di Mazzantini fu in qualche modo l’artefice dello ‘sdoganamento’ di questo genere di memorie, seguì in— 534 —

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fatti a distanza di due anni, nel 1988 il libro Giorgio Albertazzi, Un perdente di successo, nato soprattutto come tentativo di restaurare la verità storica sulla sua partecipazione alla Rsi che in quegli anni era al centro di una campagna giornalistica che lo indicava come fucilatore di partigiani6. La parte più significativa dei testi memorialistici, riguardanti la Rsi armata e chi vi partecipò, si registra nella seconda metà degli anni ’90, e in particolare fra il 1998 e il 2000, un biennio che vede la pubblicazione di testimonianze importanti, sia dal punto di vista squisitamente letterario – per esempio il libro assai bello di Mario Castellacci, La memoria bruciata7 –, sia dal punto di vista della memorialistica tesa alla ricostruzione storica di quel periodo, e finalizzata a spiegare il perché di scelte che si rivelarono perdenti – e a questo riguardo penso al libro di Roberto Vivarelli, La fine di una stagione8. Sarebbe dunque gravemente limitativo e fuorviante, nel nostro caso, prendere in esame il ristretto periodo dell’immediato secondo dopoguerra, come invece ha potuto fare Falaschi nel suo saggio sulla Resistenza armata nella narrativa italiana. D’altra parte bisogna segnalare che quanti in questi ultimi anni hanno pubblicato le testimonianze sulla propria partecipazione alla Repubblica di Salò, e in particolare alla lotta armata nelle milizie repubblicane, non tradiscono il principio del protagonismo autobiografico, seppure mediato dalla riflessione che il lungo spazio di tempo, intercorso fra gli avvenimenti e il loro racconto, ha provocato. Semmai potremo registrare talvolta una deriva automitografica che ha solitamente una funzione di risarcimento rispetto al tentativo di rimozione della memoria dei fatti che li videro protagonisti, dello spirito con cui essi intrapresero quell’avventura, dei valori nei quali essi credevano, del valore del loro essere combattenti. Tutto ciò potrà porre solo qualche problema di valutazione soprattutto per quanto riguarda l’immediata freschezza della memoria, contro la sua rielaborazione avvenuta, in gran parte dei casi, alla luce della damnatio memoriae di cui sono stati oggetto. Ma in effetti la freschezza della memoria rimane inalterata nonostante il passare degli anni, perché non è stata consumata, dall’uso, non è stata coltivata come qualcosa da poter arricchire di volta in volta con particolari creati dalla fantasia a beneficio del nuovo ascoltatore, perché a lungo non c’è stato pubblico al quale narrarla. Così quella memoria ha subito una sorta di processo di ibernazione che l’ha, il più delle volte, mantenuta intatta. Nel confrontare questi testi con quelli resistenziali – a parte il fatto che il più delle volte si tratta della stessa storia, con gli stessi protagonisti, che si ri— 535 —

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flette in due specchi posti uno di fronte all’altro – le maggiori diversità le registriamo in ordine alle motivazioni che presiedono il rispettivo nascere e la seguente evoluzione. Infatti la memorialistica della Rsi armata nasce dalla necessità di affermare un riscatto personale, dalla rivendicazione del diritto al ripristino della verità storica, dall’orgoglio di appartenere alla schiera di quei vinti che, in nome dell’onore, avevano combattuto e sofferto, per poi essere dimenticati o ostracizzati9. Per la letteratura della Resistenza invece il problema è piuttosto fare i conti con la celebrazione e la sua deriva retorica (che peraltro già Calvino vedeva come un pericolo per la giusta valutazione di un periodo doloroso della storia nazionale10), nonché con la forte carica ideologica – promossa soprattutto dal partito Comunista per un verso, e dal «Politecnico» di Vittorini, per un altro – che contribuirono a creare intorno a questa letteratura un alone eroico di epopea generosa e patriottica, investendola del compito di indirizzare la cultura in una direzione opposta a quella che il fascismo aveva cercato di imprimerle11. Viceversa non ci sembra di riscontrare alcun genere di carica ideologica, nel senso appena detto per la letteratura resistenziale, nella memorialistica di chi partecipò alla Rsi, indirizzata piuttosto al riscatto della memoria da una parte, e alla rivendicazione della qualità dell’esistenza dall’altra. Dunque tentare di ricostituire un tessuto letterario del quale facciano parte le due opposte voci, testimonianza della partecipazione alla guerra civile sui due fronti, significa restaurare un affresco storico nel quale contemplare, nella sua completezza, il biennio ’43-’45. In questo modo la storia nella letteratura, o se vogliamo la letteratura della storia, in quanto testimonianza dell’identità italiana, potrà essere letta alla luce di quello che chiameremo il cronotopo del fronte, utilizzando la categoria individuata da Michail Bachtin nel saggio Le forme del tempo e del cronotopo del romanzo, nel quale, trattando della Biografia e l’autobiografia antica, formula l’idea dell’esistenza di un «tempo biografico» ovvero «una nuova immagine, specificamente costruita, di un uomo che percorre il suo cammino di vita»12. Questo tempo biografico si sviluppa in uno spazio storico: per definire il legame inscindibile dello «spazio-tempo della vita raffigurata», Bachtin ricorre al termine cronotopo, una categoria dove «i connotati del tempo si manifestano nello spazio al quale il tempo dà senso e misura». Il tempo storico, protagonista della accreditata e accettata letteratura della Resistenza, racconta la guerra svoltasi su un fronte frantumato nei molte— 536 —

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plici luoghi della battaglia, combattuta contro tedeschi e repubblicani che a loro volta narrano la loro parte di storia e nella storia. Questa frantumazione spazio-temporale-ideologica ha un’unica possibilità di composizione e dunque di esistenza nella categoria bachtiniana di quello che appunto abbiamo definito il cronotopo del fronte, impossibile a realizzarsi se non contempla le due voci memorialistiche. Dunque il cronotopo del fronte ha un senso solo se la letteratura comprende le due voci, resistenti e repubblicani. Analizziamo adesso alcune delle memorie dei protagonisti della Rsi in quei venti mesi. Le memorie appunto. Ci troviamo in presenza, salvo rari casi, di una memorialistica per la quale è necessario uscire dalla genericità di tale definizione, per approdare ai generi letterari che fanno capo all’autobiografia: romanzo autobiografico, memoria storica, diario, romanzo storico in terza persona. Ritengo importante soffermarsi un momento sul concetto di autobiografia poiché mi sembra sia fondamentale per spiegare le necessità letteraria, umana e storica dalle quali scaturiscono questi testi, e li qualificano come corpus omogeneo e internamente coeso al quale sarà giusto dare il titolo di «letteratura della Rsi»: si tratta di una vera e propria autobiografia di una generazione. Il filosofo tedesco Wilhelm Dielthy, in La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910), concepisce l’autobiografia come «perfetta esplicazione» del significato inteso come categoria, ovvero, dice Dielthy, poiché solo l’uomo, fra gli esseri viventi dispone di «significati» ha un privilegio che lo distingue, in questo senso «l’autobiografia è la forma più alta e più istruttiva sotto la quale ci viene incontro la comprensione della vita». Ne deriva che il testo autobiografico può essere inteso come espressione della coscienza del tempo e dei suoi saperi, esso dunque è una forma di autocoscienza. Partendo da questa categoria Manfred Schneider definisce l’autobiografia come «scrittura del cuore», dove la locuzione deve essere intesa non in senso romantico, ma, ontologicamente, come soggettività interiore, di fatto nascosta allo sguardo dell’altro. L’autobiografia nasce dall’esercizio della memoria che recupera, reinterpretandoli, gli avvenimenti del passato recente o remoto. Reimar Klein definisce questo rapporto dell’individuo con la memoria che recupera il passato: «una riscrittura che vuole rendere leggibili le oscillazioni di un’esperienza originaria interpretandole come cifre del divenire, muti e ambigui messaggi di una storia ancora magmatica. Sta qui – prosegue Klein – l’unica spinta trascendente ancora concessa all’autobiografia: recuperare un’esperienza storica — 537 —

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che non si ferma alla superficie solidificata delle concatenazioni causali»13. Ecco dunque l’ottica entro la quale dovremo porre i testi memorialistici, che d’ora in poi potremmo chiamare autobiografici, nel senso appena detto, dei protagonisti della lotta armata nella Rsi. Se poi assumiamo come vera la definizione di follia data da Schopenhauer, di turbamento della ‘memoria’ (e non della ragione), ecco che possiamo individuare l’area esistenziale e ideologica dalla quale scaturiscono i testi repubblicani. L’assenza di una storia riconosciuta, documentata, e chiarita con le sue luci e le sue ombre, della Rsi; la sua condanna aprioristica ha innescato di fatto il meccanismo della rimozione di quei venti mesi vissuti da una parte di italiani, i perdenti; insomma l’aver proceduto ad una obliterazione dell’esistenza (di uomini e fatti), ha posto quei protagonisti ai margini della normalità, li ha imprigionati in una sorta di lager psicologico, mentale, emozionale e storico (la storia dei vincitori che però è l’unica accertata, accettata e riconosciuta) che coincide con la ‘follia’ come turbamento della memoria collettiva, e provoca nei vinti la percezione della propria esclusione come relegazione nel mondo della ‘follia’. Infatti dobbiamo intende l’assunto schopenaueriano in senso attivo e passivo: ovvero c’è una follia determinata nel soggetto in cui la memoria venga, volontariamente turbata (in questo caso l’Italia del secondo dopoguerra, che rimuove l’esistenza di una parte di combattenti), ma c’è anche una follia che contamina chi ne sia oggetto, chi subisca, per altrui volontà, il turbamento della memoria, in questo caso i repubblicani, i quali, al contrario del soggetto smemorato hanno la coscienza di essere vittime di questa rimozione. Da qui, da questo sentirsi dei ‘folli’, che hanno vissuto un periodo che storiograficamente sembra non esistere o esistere in forme interpretative nelle quali non tutti possono riconoscersi, la necessità dei questi protagonisti di riaffermare il diritto al senno; diritto che può essere esercitato solo tramite il recupero di quella memoria cancellata. Diritto al senno che dunque coincide con l’affermazione di esistenza. Nasce da qui la necessità della testimonianza autobiografica, della memoria del proprio esserci, della ricostruzione talvolta capillare e minuziosa di una porzione di vita. In quest’ottica si comprende la presenza delle molteplici affermazioni programmatiche, ideologiche, talvolta dal sapore di excusatio, o di puntualizzazione che spesso caratterizzano i libri in questione. Affermazioni che potrebbero sembrare giustificazioni, o ingenue captatio benevolentiae da parte di chi sa di parlare di qualcosa di spinoso, scomodo, mal digeribile da parte di chi — 538 —

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gli ha dichiarato ostracismo a priori. In realtà, se certo alcune dichiarazioni si possono intendere in questo senso, esse vanno interpretate proprio come affermazione della necessità del risarcimento della memoria ‘turbata’. Scrive ad esempio Carlo Mazzantini: E l’altra storia, quella che si svolgeva alle nostre spalle, a noi ignota, che veniva in primo piano e prendeva tutto lo spazio. In essa eravamo noi ad apparire soltanto in negativo, appiattiti sullo sfondo come ombre confuse, fantasmi senza volto, i cui atti non avevano né ragioni né giustificazioni, marchiati solo di malvagità e d’infamia.14

E ricordando le motivazioni che lo spinsero a fare la sua scelta: Ciò che riuscivi a ricordare era il senso di nausea e di rivolta che ti aveva preso dopo i giorni di vergogna dell’Armistizio, davanti alla miseria in cui si era ridotta da un giorno all’altro la vita; un impulso a andartene, abbandonare quella gente pesta e rassegnata, mescolato al sentimento di aver subito un torto da parte loro, e la volontà rabbiosa di trovare un responsabile a tutti i costi, su cui sfogare la tua delusione e il risentimento per essere stato ingannato.15

E ancora: Quella storia cominciata tanti anni prima, prima che noi nascessimo, da altra gente, per ragioni che nemmeno conoscevamo, e che toccò a noi chiudere.16

Una scelta che risulta obbligata anche se poi provocherà una sorta di scissione dell’esistenza, quella accettata dal mondo e quella nascosta al mondo: Le sue parole mi risuonavano nelle orecchie: «E che te ne fai di questa vita monca, dalla quale dovresti cancellare tutta la tua infanzia e la tua adolescenza? Che ci resta di te? Chi sei più te?». Neppure a me riusciva di accettare quella mutilazione. Era come se avessi dovuto acconsentire ad un discorso nel quale non c’era posto per me tutto intero.17

Roberto Vivarelli in La fine di una stagione, affronta il problema del giudizio storico: L’onestà riguarda le intenzioni e il modo particolare del proprio agire, sicché ci si può mantenere moralmente integri indipendentemente dal valore della parte in cui si milita. Il non tener conto di questa semplice verità ha portato e porta ad attribui-

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re ingiustamente meriti o demeriti morali non in base al comportamento e alla buona fede di ciascuno, ma alla parte nella quale ci si trova schierati, che poi significa dalla parte dei vinti o dei vincitori. Ma le cose sono assai meno semplici.18

E ancora: In quei giorni [dopo il 25 aprile] era colpa sufficiente, anche meritevole della morte, il semplice fatto di essere dalla parte degli sconfitti. […] anche più tardi, quando le acque si calmarono e la vita tornò gradualmente alla normalità, dovemmo ugualmente nascondere il nostro passato e negare una parte importante della nostra storia e della nostra vita. E questa specie di esilio è durato a lungo, in un certo senso è durato sino ad ora, ed io ne esco soltanto scrivendo queste pagine.19

Rivendicando, in conclusione, la scelta fatta in questi termini: No, di quella scelta non mi pento affatto, e ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, non mi dispiace essermi trovato dalla parte dei vinti, e tanto più avendo fatto la mia scelta quando era già prevedibile come sarebbero finite le cose. Certi debiti di fedeltà vanno pagati, anche se costano la sconfitta. Eppoi trovarsi dalla parte dei vinti ha i suoi vantaggi: è una buona lezione di modestia. Costringe ad un approfondito esame di coscienza, o almeno lo consente, assai più che non trovarsi dalla parte dei vincitori. I quali sono invece esposti alle tentazioni di una superbia che può fare dei brutti scherzi. Può fare sì intanto che si perda il senso di pietas nel considerare i propri avversari, deformandone i tratti sino a negare loro ogni umanità, e continuando a vederli come irriducibili nemici non solo nel corso del tempo, ma addirittura anche dopo morti. È successo e succede nell’Italia civile dei nostri giorni. Inoltre questa superbia ha portato ad una impostura, cioè ad una deformazione della verità storica, e su questa impostura si è preteso fondare la nostra repubblica. Si sono chiamati «liberatori» gli Alleati e «invasori» i tedeschi, dimenticando che i primi sono sbarcati sulle nostre coste con un’azione di guerra, mentre i secondi queste coste le difendevano, accanto alle nostre truppe, come alleati. […] Meglio, molto meglio esser stato dalla parte dei vinti, e non aver perso la propria pietas nel giudicare gli avversari, e neppure aver avuto occasione di prendere parte alla fabbricazione di quella impostura.20

Mentre Fernando Togni premette alla sua storia di giovane fascista ingoiato dal buio di una storia ignorata, Avevamo vent’anni anche meno: Questo è un libro di fatti, una piccola storia comune, come tante altre, come le vostre, tessuta col filo e nella trama della grande storia. Esso non è stato scritto nel-

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l’illusione di dire chissà che cosa, e di nuovo, ma per sollevare un angolo del velo, perché si veda tutto, perché la realtà appaia anche da altre angolazioni, dato che negli avvenimenti ci sono sempre, in primo luogo, degli esseri umani, e ciò che conta è capire di che cosa sono fatti […]21

Infine la Memoria bruciata di Mario Castellacci, in cui il titolo, epitome icastica di quanto abbiamo detto sull’autobiografia, compendia nell’aggettivo che accompagna il sostantivo la necessità del racconto di sé, della scrittura che ricorda, fa rivivere e nello stesso tempo commenta, chiosa, riflette, rivendica, risarcisce, e urla ironicamente il dolore provocato da quell’ustione: È giusto difendere le ragioni di un re che se l’è svignata abbandonando il suo esercito? È morale «non esserci», tirarsi fuori in privato dalla tragedia collettiva aspettando il domani? È possibile da un giorno all’altro cambiare bandiera e fronte, e mettersi di punto in bianco a sparare contro il tuo alleato di ieri? O tutte le risposte erano già in te, in termini universali, o c’era poco altro da scegliere. Fu così che il giovane Sgràub andò dalla parte che gli appariva più bella. Era sopra ogni considerazione brutto – ossia insopportabile – che la guerra finisse in quel modo, senza che nessuno pagasse il debito.22

E a proposito delle reazioni di coloro con quali egli, in seguito, si trova a parlare della sua esperienza bellica, ecco un significativo passo nel quale il protagonista si rivolge ad uno dei poeti i cui libri lo avevano accompagnato in quella ingrata bisogna: «Lo sa» disse credendo di dire chissà che cosa di importante «che nella Repubblica Sociale noi leggevamo le sue poesie?» «Ah!» rispose il poeta. E passò ad altro argomento. Insomma non si lasciò compromettere. Sgràub seppe in quell’occasione, una volta di più, che di quanto aveva letto, fatto o pensato lui nella Repubblica Sociale non gliene fregava niente a nessuno. La Storia era già scritta e non si ammettevano intrusioni di sorta che incrinassero le compatte certezze. I suoi ricordi non riuscivano nemmeno a lusingare un poeta. Il che era tutto dire, essendo i poeti proverbialmente vanesi.23

Quella storia già scritta, che non contempla la parte recitata dai vinti, cancella nell’oblio della sua notte ogni aspetto: non solo la guerra combattuta; non solo gli orrori necessariamente e disgraziatamente perpetrati; non solo la scelta di una parte ‘sbagliata’, ma anche la vita oltre la guerra. Ininfluente, non degno di attenzione, né rimarchevole il reduce della Rsi, e il ‘poeta’ non — 541 —

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è neppure semplicemente curioso di capire la biblioteca del milite repubblicano, perché la sua memoria è stata arsa nel fuoco della Storia scritta dai vincitori. E il fuoco della Storia scritta dai vincitori va a consumare anche il linguaggio, epurato di tutta quella terminologia, che, linguisticamente neutra, diviene ideologicamente segno della parte dei vinti. Ancora Castellacci scrive in proposito: Ecco, per esempio: commilitoni. Camerati non si può più dire, considerò tra sé il vecchio Sgràub. I francesi se lo possono permettere, di darsi fra loro del camarade. Gli italiani, no. Mai più fuorché ai raduni dei veterani. O tra i ragazzi ingenui dell’estrema destra, che usano quella parola come un vecchio distintivo da appuntarsi l’un con l’altro sul petto con orgoglio, quasi per dire: «Arrivo tardi ma ci sono anch’io». Peccato, camerati! Una parola storicamente così bella fino ad una cert’epoca! Poi svilitasi in un uso collettivo improprio, quando fu estesa anche ai militesenti e ai vecchi borghesi pantofolai purché si trovassero nei paraggi del regime. E poi sbertucciata dai «vincitori», che pure erano stati camerati un tempo. Camerati, ossia traduceva il vecchio Sgràub – quei soldati che dormivano insieme con te nello stesso stanzone. Come prima di te i braccianti e le mondine. […] Invece no: commilitoni. Parola pesante, affardellata, marmittonesca, con un fucile a tracolla e un brutto elmetto in testa. C’est la guerre! La guerra persa, naturalmente.24

A questo forzato oblio della memoria, sintomatico paradosso linguistico, ossimoro significativo della nostra storia, a questa cancellazione di una parte di esistenze ci sono un paio di eccezioni, quelle rappresentate dal libro di Giose Rimanelli, Tiro al piccione, e quella del già citato Carlo Mazzantini, con il suo A cercar la bella morte. Questi due libri hanno avuto un discreto successo di pubblico e di critica, se pure in diversa maniera e con esiti differenti, per un tratto comune che li caratterizza. Si tratta di due libri che, se aprono un varco in quell’oblio della memoria, e affermano l’esistenza di chi è stato cancellato, lo fanno sottolineando, più dell’orgoglio di una scelta, la sua ‘necessità’ quasi indipendente dalla volontà del protagonista (senz’altro in quello di Rimanelli meno in quello di Mazzantini). Ma essi se pure noti e apprezzati rappresentano nella nostra storia letteraria casi isolati, come dicevamo all’inizio, disietca membra di un corpus ancora non riconosciuto come organismo complesso di un genere letterario pure esistente. — 542 —

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NOTE 1 Cfr. G. FALASCHI, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976. Lo studio di Falaschi prende in esame le memorie, i racconti, i romanzi di argomento partigiano pubblicati in Italia nell’immediato secondo dopoguerra fino al 1950. L’analisi prende le mosse dalla pubblicistica partigiana, semiclandestina ovviamente, per cominciare a delineare uno stile di scrittura che rompe con la tradizione retorica del fascismo per giungere, attraverso l’esame dei memoriali meno celebri e celebrati – da Banditi di Pietro Chiodi, a Vecchi partigiani miei di Piero Carmagnola, a Storie di Partigiani di Gino Pieri, a Un uomo un partigiano di Roberto Battaglia –, all’analisi dei due testi forse più significativi della letteratura partigiana, ovvero Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Il partigiano Johnny di Fenoglio. Vedremo in seguito che per la letteratura della Rsi si potrebbe applicare lo stesso percorso analitico tracciato da Falaschi, col risultato di una sostanziale identità, con poche, ma significative differenze, che non riguardano comunque l’omogeneità strutturale del genere letterario. E ci si dovrà allora porre il problema se si debba parlare di un altro genere, la letteratura della Rsi, oppure di un genere comune a Rsi e Resistenza che diventerebbero due facce di una stessa medaglia, quella che cronologicamente si situa nel periodo della guerra civile dall’8 settembre, o se si vuole dal 25 luglio del ’43, al 25 aprile del ’45. 2 A dire il vero esiste una Bibliografia della Repubblica Sociale, curata dalla Delegazione di Milano dell’Istituto Storico della Repubblica Sociale Italiana, Milano, 1989. 3 Per quanto riguarda l’oscillazione lessicale repubblichini/repubblicani, non è stato ancora chiarito quale termine usare per gli aderenti alla Repubblica di Salò. Il primo, repubblichini, ha un valore chiaramente spregiativo, ma bisogna segnalare che per molti di quei combattenti esso è diventato una sorta di bandiera dell’orgoglio della sconfitta e come tale rivendicato a dispetto del suo valore negativo. Poiché questo lavoro si propone un’analisi impregiudicata, da ora in avanti verrà usato il termine ‘neutro’ di repubblicani. 4 Il libro di E. DE BOCCARD, Donne e mitra (Roma, L’Arnia, 1950) ha la struttura del vero e proprio romanzo, mentre quello di G. RIMANELLI, Tiro al Piccione (Milano, Mondadori, 1953) è piuttosto un romanzo autobiografico. 5 Cfr. più avanti nota 11. 6 Si veda a questo proposito R. ALLEGRI, Sì Albertazzi sparò il colpo di grazia, «Oggi», 10 agosto 1989, p. 11; e G. ZAGATO, Il tradimento inventato. «Caso Albertazzi»: una speculazione fallita, «Candido», 9 settembre 1989. Un contributo, senz’altro importante, se non a livello interpretativo per la vulgata che introdusse nella valutazione dei fatti del biennio ’43’45, è stato quello del libro di C. PAVONE, Una guerra civile (Torino, Bollati Boringhieri, 1991) che introdusse il concetto di guerra civile, un’idea – assai contestata da sinistra – che in qualche modo autorizzava a considerare la lotta armata fra partigiani e repubblicani come guerra fratricida e dunque metteva le due parti contendenti sostanzialmente su un medesimo piano. 7 Cfr. M. CASTELLACCI, La memoria bruciata, Milano, Mondadori, 1998. Castellacci è scomparso nel 2003. 8 Cfr. R. VIVARELLI, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, Bologna, Il Mulino, 2000. Il libro di Vivarelli è particolarmente interessante non solo per il valore della sua te-

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stimonianza, ma perché l’autore è uno storico contemporaneista che trasferisce nel testo letterario il metodo dello studioso. 9 In questo senso il libro di Vivarelli. 10 Si veda I. CALVINO, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in ID., Romanzi e racconti, ed. diretta da C. MILANINI, a cura di M. BARENGHI e B. FALCETTO, I, Milano, Mondadori, 1991. 11 Scrive Luti a proposito del progetto culturale del «Politecnico» di Vittorini: «E certamente il “Politecnico” prese origine da una impellente necessità di rompere con il passato per rinnovare lo spazio culturale italiano, individuando e definendo ex-novo il ruolo dell’intellettuale nella formazione dell’auspicata nuova cultura dell’Italia e del mondo democratico e socialista (cfr. Una nuova cultura del 29 settembre 1945) […]. D’altronde Vittorini puntava decisamente alla rottura con il passato, con tutto il passato, considerando esaurita per sempre l’ambigua connotazione dell’intellettuale e del letterato italiano nel ventennio fascista, si trattasse o no dell’isolamento letterario o della battaglia avviata dal vecchio antifascismo militante, nel quadro di un sistema ancora saldamente vincolato al vecchio liberalismo e all’idealismo crociano» (Cfr. G. LUTI, Dalla «nuova cultura» al «grado zero», in G. LUTI, C. VERBARO, Dal Neorealismo alla Neoavanguardia (1945-1969), Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 14-15). Per la polemica fra il «Politecnico» di Vittorini e il Partito Comunista sul ruolo dell’intellettuale nella società si veda ancora il saggio di Luti alle pp. 16-22. Scrive a questo proposito Calvino: «Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi della sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era il senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero, un rovello problematico generale, anche una nostra capacità di vivere lo strazio e lo sbaraglio; ma l’accento che vi mettevamo era quello di una spavalda allegria. […] Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un umore come di bravata, una ricerca di effetti angosciosi o truculenti. […] la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi e amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo per essere. Il “neorealismo” per noi che cominciavamo di lì, fu quello […]. Perché chi oggi ricorda il neorealismo soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo» (cfr. I. CALVINO, Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, cit., pp. 1185-1187). Sul rapporto fra la lette-

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ratura della resistenza e il Neorealismo qui accennato da Calvino come un legame di stretta dipendenza, segnaliamo la posizione di G. FALASCHI, La resistenza armata nella narrtiva italiana, cit., il quale ritiene non si debba porre detta letteratura sotto l’ala della scrittura del reale, rivendicando ai partigiani scrittori e agli scrittori partigiani una autonomia e una dignità di genere che se non è in contrasto, né in opposizione con il Neorealismo, non vi si esaurisce. 12 Cfr. M. BACHTIN, Estetica e romanzo, trad. it. Torino, Einaudi, 1979, poi 1995, p. 277. 13 Cfr. R. KLEIN, Premessa, in Il testo autobiografico del Novecento, a cura di R. KLEIN e R. BONADEI, Milano, Guerini Studio, 1993, p. 13. 14 Cfr. C. MAZZANTINI, A cercar la bella morte, Milano, Mondadori, 1986, poi Venezia, Marsilio, 1995, p. 221. 15 Ivi, p. 192. 16 Ivi, p. 206. 17 Ivi, p. 198. 18 Cfr. R. VIVARELLI, La fine di una stagione, cit., p. 16. 19 Ivi, pp. 94-95. 20 Ivi, pp. 104-105. 21 Cfr. F. TOGNI, Avevamo vent’anni anche meno, Milano, Greco & Greco, 1992, p. 5. 22 Cfr. M. CASTELLACCI, La memoria bruciata, cit., p. 55. 23 Ivi, p. 110. 24 Ivi, p. 196.

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LUISA AVELLINI SPAZI DELLA CITTÀ RINASCIMENTALE NEI ROMANZI STORICI ITALIANI ED EUROPEI DI MANO FEMMINILE Nel gioco cronotopico che ognuno si attende da un romanzo, soprattutto se connotato da una prospettiva dichiarata di verosimiglianza storica, sono fondanti (volendo utilizzare la terminologia di Genette)1 le strategie della spazialità significante (o delle procedure d’esposizione e d’espressione) nonché la scelta del punto di osservazione temporale della spazialità significata. Tuttavia, l’altezza e l’estensione dell’orizzonte rappresentato possono essere figli non solo della distanza secolare che le prime pagine della narrazione denunciano, ma anche della collocazione personale e di genere dell’autore: non del profilo anagrafico documentato di chi scrive, ma dell’autore implicito, della figura attiva e intenzionale che, dietro le righe e tra le pagine, tira le fila del rapporto con il lettore. Qui peraltro vorrei rapidamente chiarire, rispetto al metodo, che non si tratta di rielencare né discutibili teorie della specificità stilistica della scrittura femminile, né constatazioni ovvie e acquisite su le Moi des demoiselles2 o sulla predominanza del domestic Novel nella proposta di fiction femminile europea (soprattutto inglese) sull’apertura del XIX secolo. Piuttosto interessa quella che Mona Ozouf3, studiando les mots des femmes nella singolarità francese, ha chiamato «l’arte femminile del tempo». Un tempo – si potrebbe aggiungere con il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore – che emerge in scrittura in quanto anche e soprattutto frutto di un taglio di lettura: un modo da Lettrice, un modo di stare nei libri – all’origine o nella destinazione – vivendo con fluidità il confine fra documentazione e immaginazione. Un secondo aspetto importante da sottolineare, mentre colloco al centro del discorso gli oggetti concreti, i testi e le figure autoriali di cui intendo ragionare (rispettivamente Romola di George Eliot, Artemisia di Anna Banti e — 547 —

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Rinascimento privato di Maria Bellonci) è che, a mio avviso, in tutte tre le prove, persino nell’ultima che se ne fa emblema nel titolo, non c’è il predominio del ‘privato’, e tanto meno la dimostrazione dell’incapacità di rappresentare il ‘pubblico’. Anzi: sembra proprio che le tre scrittrici scommettano ironicamente sulla possibilità di sgomberare il campo da un equivoco, da una lettura rozza e superficiale della loro abilità nel modulare ritmi e sequenze di palcoscenici cangianti e articolati, ma all’interno di una sfera in ogni caso unificante del vivere quotidiano. Che si sia del resto di fronte a una precisa volontà autoriale determinata a non rinchiudersi nel ‘privato’, né spaziale, né tanto meno familiare o sentimentale, lo dimostra la scelta delle protagoniste delle tre narrazioni, o, per meglio dire, dei tre profili guida di cui si segue l’esperienza interiore e il volto pubblico, identificati con uno scorcio epocale e con una condizione storica (Romola de’ Bardi, Artemisia Gentileschi, Isabella d’Este Gonzaga). Certo, si può dire che le autrici non mancano di dichiarare apertamente, in forme dirette e indirette, la consonanza specifica che il loro essere donne accende con le tre rispettive ‘condizioni femminili’; ma questo dato fa parte di quell’orientamento dello sguardo, di quella denuncia del punto di osservazione temporale prescelto di cui appunto si diceva all’inizio: nessuna delle tre scrittrici rinuncia a guardare la storia come una lunga battaglia femminile per conquistare il diritto alla scena, senza doversi nascondere dietro una maschera inadeguata e parziale. D’altra parte, per chi deve sfidare la marginalità e tendere a conquistare il diritto al centro del discorso, l’unica ambientazione cronotopica verosimile e fruttuosa, almeno nella tradizione rappresentativa d’Occidente, è la città in espansione, fatta di spazi gerarchici ma interdipendenti che conserva continuità simboliche dalla prima età moderna fino alla fine dell’ancien régime, concentrando i segni del proprio mito esattamente nei luoghi urbani d’Italia culle, fra Quattrocento e Seicento, dell’apice di un modello antropologico poi europeo: Firenze, Roma, Ferrara, Mantova. Come è evidente, la scelta di una spazialità significata o di contenuto di per sé così eloquente ed evocativa impone alle autrici un compito arduo sul piano della modulazione formale, e di tutti gli accorgimenti di regìa utili a evitare il rischio di una ricostruzione filologica da museo posta a fondale di un feuilleton. Proprio recensendo Romola, un lettore della qualità di Henry James non mancava di notare che le pagine della Eliot, nel complesso riuscite fra le migliori sue prove, avevano «sentore di lucerna»: presentavano in— 548 —

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somma un palcoscenico fiorentino ridisegnato a tavolino. Lo stesso James tuttavia indicava nella figura del Savonarola, introdotto a incrociare e segnare la vita della protagonista a racconto avanzato, dopo un sapiente crescendo di riferimenti indiretti e dunque di sospesa aspettazione, la più viva rappresentazione artistica, accanto allo sviluppo del carattere del giovane greco Tito sposo di Romola. La stessa Eliot giustifica il proprio scrupolo storico-filologico mettendo in campo, come dichiarava in risposta alle osservazione di un altro recensore, Hutton, un’idea tutta personale di cultura: i dettagli documentari e di costume (così come per gli altri romanzi suoi non storici, l’insieme dei fatti e delle ambientazioni concrete) sono gli strumenti tramite i quali lo scrittore entra nei personaggi e i personaggi trovano una voce nello scrittore; la questione è quella di una «simpatia morale e religiosa con la vita storica dell’uomo» da raggiungere appunto attraverso una minuziosa ricostruzione degli scenari esterni ed intimi nella loro intersecata e complessa diacronia di influenze. Quanto di manzoniano si possa identificare in questi spunti di antropologia romanzesca lasciamo giudicare a chi ascolta; d’altronde la conoscenza diretta del romanzo di Manzoni, dapprima forse tradotto in inglese, è un dato sicuro nella formazione della Eliot, attenta lettrice anche della Morale cattolica. Fatto sta che le lettere e i diari della scrittrice disegnano con chiarezza un’ideazione del romanzo nata da un’ispirazione ambientale (la suggestione delle antiche strade di Firenze durante un primo soggiorno nella città) che prende subito la forma di palcoscenico dell’avventura savonaroliana, come radice della crisi di coscienza religiosa dell’Occidente esplosa poi nel secolo successivo. Forse l’età rinascimentale nel mitico acme fiorentino accende un furor ideativo costantemente legato al dialogo con una questione morale incarnata in un ambiente. Da un canto la ricezione scenografica (pittoricodrammatico-musicale) di eventi emozionali che si proiettano fra passato e presente, dall’altro la crisi del teorema umanistico sul gusto del bello corporeo come valore, fra roghi di libri e bellezze artistiche bollate come vanitas vanitatum, ma subito anche la sconfitta sul rogo di un’utopia etico-politica fondata sull’idea biblica di ‘elezione’ e di ‘rivelazione’, ossia sul signum concesso a una ‘nazione’ e al suo ‘profeta’. Romola è il romanzo dei padri (Bardo e Baldassarre, il Savonarola padre di Firenze), delle guide viventi e contraddittorie che la tradizione ci offre fra percorso cristiano e riscoperta dei valori dell’humanitas, della loro crisi all’aprirsi di un’era (il Quattrocento o l’Ottocento?) che chiede non itinerari esemplari da emulare, ma spazi di autonoma — 549 —

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e responsabile (quanto lacerante) realizzazione di sé nell’esperimento degli impulsi attitudinali interiori. Nella vita del Frate e nella vita di Romola, dentro l’intreccio, campeggia il medesimo interrogativo centrale: a che punto cessa la sacralità e dunque il dovere dell’obbedienza (al padre, al marito, al papa) e dove comincia la sacralità e dunque il dovere della ribellione. Questo tema dell’inadeguatezza dei padri, e in generale della tradizionale guida maschile, nella grande crisi di transizione verso la modernità, a fronte di figlie (Romola, Artemisia) o di mogli e madri (come Isabella) che assumono il ruolo di punta positivo, della profondità riflessiva e dell’assunzione di responsabilità etica in un arduo ma incontenibile percorso di Bildung al femminile, accomuna – e direi non per caso – i tre romanzi che analizziamo. Nel lavoro della Bellonci, l’unico profilo maschile che non risulta inadeguato al confronto con l’intelligenza attiva e immaginosa e con la sensibilità equilibrata espressa in prima persona dalla marchesana di Mantova è l’enigmatico ecclesiastico inglese Robert de la Pole, amante platonico e discretissimo, in scena di fatto per un fuggevole incontro iniziale e in seguito soltanto come firmatario di dodici lettere inviate nell’arco di trent’anni che, allineate nello scrigno principesco fino a quella che si dichiara ultima, scandiscono i punti emergenti di un percorso memoriale di Isabella, integrandone, da un altro punto di vista, ragioni e vicende. Nella stanza dei non sincronizzati orologi che cronotopicamente non potrebbe essere più significativa («i miei cento orologi [che] sgranano battiti diversi in diversi timbri»; «Che cosa è il tempo, e perché deve considerarsi passato? Fino a quando viviamo esiste un solo tempo, il presente») correnti vorticose di eventi vissuti fluenti in «immagini disunite» entrano in relazione con una volontà di autoesame («Riordino i miei tempi a volta a volta presenti nella loro successività»): e nei tempi di Isabella, alla solidità irruente ma non priva di fascino del padre Ercole d’Este o di papa Giulio II subentrano, in una spirale di progressiva decadenza caratteriale, due papi (Leone X e Clemente VII), due imperatori (Massimiliano e Carlo V), il marchese suo marito, per non parlare del figlio prediletto, Federico. Alla fine del percorso, dopo aver sperimentato la reggenza dello stato salvandolo da molti pericoli e avendo brillato sulla scena italiana ed europea di un’età terribile (la rievocazione dall’interno del Sacco di Roma in un palazzo colonnese assediato è fra le parti più vive del libro), la conclusione è sofferta e profonda: «Sono sospinta alla ricerca delle ragioni che mi hanno resa come sono tra un’occasione e l’altra delle mie giornate. Scorre il tempo e vale pensare. Ho scoperto che la mia condizione di donna non è — 550 —

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predominante in assoluto e non m’impedisce di diventare un essere compiuto, purché io non sia ingannata da me stessa». Quella che è stata definita da Praz l’«ipertesa chiaroveggenza» dell’autrice, già sperimentata nella Lucrezia Borgia del 1939 a partire da una riappropriazione sensitiva di uno stile di vita tramite gli oggetti che ne sono cifra, si misura di nuovo, nelle pagine degli anni Ottanta, con un «Rinascimento di interni» in cui il tessuto del quotidiano, fra luci e ombre, emozioni, umani limiti caratteriali e destino, è di una grana assai simile a quella delle Cronache italiane di Stendhal. La scelta però di dare la parola a Isabella medesima – mossa inequivocabilmente romanzesca – con l’aggiunta dello specchio epistolare dell’anglico (quasi un contrappunto inquietante e consolante insieme, che per undici delle dodici missive preannuncia o rivela a posteriori l’affannosa ricerca di un incontro fortuito negli spazi mitici della politica europea di prima età moderna – Roma, Parigi, Londra, Milano, Venezia, Ferrara, la Bologna del 1530 – sempre destinato a fallire o alla rinuncia al momento di farsi riconoscere) accende di echi emozionali più intensi l’esito narrativo. Isola di fatto e mette in rilievo la maestria, colta già da Giacomo Debenedetti fin dalle prime prove della Bellonci, nel trasporre quanto è storicamente dato in un orizzonte ancora plurimo di probabilità. Isabella «riordina i suoi tempi», i punti nodali della sua avventura di donna-regina ridisegnando ad alta voce colori suoni e pensieri come se fossero sempre «della vigilia». La memoria fa riemergere soprattutto preparativi, progetti di accoglienze e di partenze, un’energia che si organizza nello spazio (nelle sale di Castello, nella successiva residenza di Corteveccha, negli studioli, in viaggio, in carrozza, in barca, nel palazzo romano assediato dai lanzichenecchi) per imporre un preciso esito al tempo, sapendo tuttavia (e facendo sentire al lettore) che la partita non ancora vinta si può perdere. È fra i maggiori meriti di queste pagine, messi in rilievo da Ernesto Ferrero nella sua introduzione ai romanzi della Bellonci, «trovare il vero con ciò che, fino al momento di accadere, è ancora incerto, anziché trovare il vero col certo». Riaccendere nella visione memoriale del passato le luci trepide che ne facevano in quell’hic et nunc un futuro imminente, desiderato o temuto, è un effetto spazio-temporale in gran parte prodotto dalla spazialità significante connessa però con talune risonanze strutturali. Si tratta di una tecnica espositiva che anche la Banti pratica in Artemisia, ma in un contesto assai più complesso. «Il crepuscolo ci è sopra, ieri sera tutte le pietre di Firenze erano salde, tutte le cose che esse riparavano erano intatte. Là sotto gli ultimi travi — 551 —

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cedono: si dice che misteriosi incendi ardano fra le macerie». Come è noto, la storia di Artemisia era quasi pronta nel 1944, ma il manoscritto rimase sotto le macerie della casa dell’autrice distrutta durante i bombardamenti e la battaglia di Firenze. Una volta cancellato brutalmente senza possibilità di risarcimento il «tempo raccontato, ragionevole» di una vicenda storica illuminata e ombrata da luci caravaggesche in prospettiva femminile – una storia che è stata anche di recente di nuovo raccontata di là dall’Atlantico da Susan Vreeland (La passione di Artemisia, New York 2002, appena tradotto da Neri Pozza) sorprendentemente senza un cenno al lavoro della Banti uscito nel 1947 – l’autrice trasforma il suo dialogo con la «compagna di tre secoli prima» in quello che è stato definito «testo convulso», «oroscopo», addirittura «diario aperto», secondo una definizione di Garboli che lo accosta a Conversazione in Sicilia di Vittorini. Sta di fatto che ci si trova di fronte a una straordinaria sperimentazione di «arte femminile del tempo». Artemisia che «respirava adagio, coricata da me su cento pagine di scritto» si ribella all’incenerimento della sua seconda vita, come si era ribellata intimamente allo stupro, al matrimonio comprato, all’ingiustizia di una vocazione artistica pagata duramente perché femminile. Il romanzo si apre su Firenze, come quello della Eliot in volo sulle ali dell’angelo dell’alba, ma in uno spazio-tempo che ha infranto atrocemente ogni continuità e senso dell’eterno umanistico. Sulla contemporaneità di uno scorcio di Firenze distrutta («gente che alle quattro del mattino si spinge come gregge spaurito a mirare lo sfacelo della patria, a confrontare colla vista i terrori di una nottata che le mine tedesche impiegarono, una dopo l’altra, a sconvolgere la crosta della terra. Senza rendermene conto, piango per quello che ciascuno di loro vedrà dal Belvedere…»), la prima persona della donna autrice, dell’intellettuale e storica dell’arte divenuta scrittrice forse per non soggiacere, praticando lo stesso mestiere, all’ombra imponente di un marito maestro come Roberto Longhi, avvia il racconto di un lungo duello – fra dare e avere coraggio, ostinazione, pietà per il dolore diffuso senza rinunciare all’affermazione di sé – in cui Artemisia sembra guidare il gioco di chi la pone davanti allo specchio della sua vita, ma in realtà le squaderna di fronte «un’altra negazione, un’altra perdita, la vanità delle nostre immaginazioni e delle nostre favole»4. Se l’autrice si lamenta di non potersi più «liberare di Artemisia», quest’ultima sarà ripagata con l’inevitabile definizione delle sue scelte di vita, nella scrittura: «… tanto a Roma non tornerà». L’aspettativa del viaggio, preannunciato per tempo dal padre Orazio, ma che tarda a verificarsi, è fra gli — 552 —

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scorci meglio realizzati (insieme alle pagine finali dedicate al fantasticare di Artemisia sulle modalità possibili della propria morte) del senso dubitoso del futuro ristabilito nel passato. Come osservava Contini, l’effetto è raggiunto attraverso un’elaborazione stilistica complessa: si rincorrono la persona prima e la terza, il discorso diretto e indiretto e il monologo interiore, la mimesi linguistica e l’interpretazione interiore: ma sono soprattutto i fantasmi, incrociati e sovrapposti nella dialettica autrice-eroina, delle notazioni cronotopiche ad assorbire il lettore in un convulso vortice di tempi che tuttavia riesce a lasciar spazio a visioni improvvisamente ferme o alla quiete di un paesaggio che non si può non credere eterno. Il trasferimento di Artemisia a Firenze, insieme con la morte a Londra di Orazio Gentileschi, è il punto chiave anche dell’enigmatico rapporto col padre, su cui varrebbe la pena di approfondire lo scandaglio. Il viaggio che era sembrato un risarcimento di una parte dell’infanzia frustrata di Artemisia, apre invece il cammino alla solitudine definitiva, prezzo spesso richiesto per la libertà intellettuale femminile. Ed ecco che il racconto della professionalità compiuta dell’artista, maestra di donne aspiranti pittrici e impegnata nella posa dell’inquietante capolavoro dell’Oloferne, ci riapre la strada per analizzare il peso retorico di una drammatizzazione visivo-pittorica della scrittura, còlta anche nella Eliot. Abbiamo ricordato in altra sede il potere di suggestiva rivelazione di un emblema umano universale che la Eliot attribuiva all’Annunciazione di Tiziano vista a Venezia nella Scuola di San Rocco. Consapevole del fatto che il romanzo storico, come il melodramma soprattutto verdiano, sono forme di recupero di effetti visionari e memorabili realizzati intanto uscendo dal provincialismo temporale di chi sta fermo alla contemporaneità, e poi da tonalità e modulazioni retoriche tendenti a enfatizzare i gesti di ogni giorno in senso «cosmico e morale», la Eliot costruisce in prima istanza un modello di manicheismo melodrammatico nella scelta ambientale dominata dal Savonarola. Passa poi a forgiarsi e sperimentare, sulle linee guida di un’immaginazione melodrammatica, una retorica melodrammatica che sostituisce la musica, la colonna sonora verdiana, con una partitura iconica, tessuta di citazioni e complicità con l’arte coeva al tempo del romanzo. Si prenda l’icona della Vergine annunciata, visto il suggerimento autoriale proveniente dalla contemplazione di Tiziano. Si tratta di un vero e proprio tema musicale di fondo: i partecipanti alla Fierucola che rendono omaggio alla chiesa dell’Annunziata; il capitolo centrale della visita di Romola al fratello malato in S. Marco in cui spetta al Savonarola delineare la regìa rituale di una scena di annunciazione, non — 553 —

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di salvezza ma di sciagura, chiedendo a Romola di inginocchiarsi in presenza dell’angelo della morte, mentre il fratello le profetizza il destino di morte morale dovuto al grande tentatore. Simmetricamente, sul finire del romanzo, il fatale arrivo della barca di Romola presso un villaggio spazzato dalla pestilenza e il suo apparire ai superstiti recando in braccio un piccolo orfano scampato realizzano la coincidenza visionaria e la sovrapposizione simbolica fra la giovane donna e la Madonna col bambino. Se tale è la prospettiva che deve orientare il lettore a comprendere lo spazio drammatico in cui l’autrice lo invita a dialogare, sarà ovvio concludere che il classicismo moderato e flessibile della Eliot azzarda qui una vera e propria prova di epica moderna in prosa, naturalmente e sperimentalmente melodrammatica nel senso che abbiamo delineato, dove Ifigenia, Antigone, Elettra, Eva e Maria di Nazareth accendono di bagliori mitografici sostenuti da citazioni pittoriche il romanzo di formazionevocazione di una giovane donna fiorentina del XV secolo. Volendo accanto a Romola profilare il percorso di Bildung diversamente drammatico di Artemisia, la colonna sonoro-iconica dovrebbe arricchirsi della presenza carsica del profilo irremovibile di Giuditta e del senso di colpa di Maria Maddalena; anche se la sinfonia visionaria della Banti ha la sua cifra visiva più vera negli autoritratti speculari e dialettici dell’autrice e del suo personaggio: una tentazione ostinata che tre secoli di distanza possono in ogni momento dichiarare illegittima. Per quanto i due volti coincidano almeno nella vocazione di leggere e rappresentare volti, soprattutto di donne, di uomini visti dalle donne, e quindi anche del proprio volto cangiante nel riflesso di donne lontane. Per Artemisia, per la sua autrice, come per le altre due autrici di romanzi storici che perseguono nei profili delle loro eroine l’arte del tempo, il segreto sembra lo stesso, come si diceva all’inizio, della Lettrice di Italo Calvino: «Come potrai tenerle dietro, a questa donna che legge sempre un altro libro, in più di quello che ha sotto gli occhi, un libro che non c’è ancora ma che, dato che lei lo vuole, non potrà non esserci?». NOTE 1 G. GENETTE, Figures III, Paris, Éditions du Seuil, 1972, trad. it. Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976, pp. 82-84. 2 PH. LEJEUNE, Le Moi des demoiselles. Enquête sur le journal de jeune fille, Paris, Éditions du Seuil, 1993. 3 M. OZOUF, Les mots des femmes. Essai sur la singularité française, Paris, Gallimard, 1999. 4 C. GARBOLI, Anna Banti e il tempo, «Paragone. Letteratura», n.s., XLII, 1991, 498, p. 63.

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GIUSEPPE BONIFACINO «NEGARE VANE IMMAGINI». POETICHE DI ROMANZO IN GADDA Nel progetto di romanzo impostato da Gadda nei discontinui percorsi autointerrogativi – e già autoesegetici – del Cahier, cui faceva pendant un abbozzo di poetica affabilmente ironico, improntato ad un realismo gnoseologico temperato da minimalistico buon senso, si andava delineando – com’è noto – un profilo autoriale di matrice manzoniano-balzachiana, demandato, dalla tradizione cui si rifaceva, a ‘comprendere’ nel tempo ‘sinfonicamente’ tripartito di un romanzo-poema il pulsante ritmo «combinatorio» del ‘reale’ (sdoppiato nei ‘poli’ della «vita» e dell’«essere»: SVP 4151): nella fattispecie, della società italiana dei primi anni Venti. Emergeva, in quella costruzione problematica e desultoria di una poetica (e di una ‘tecnica’) romanzesca – tra paradigmi di retaggio aristotelico e lessico di suggestione crociana –, una insoluta, ma feconda, contraddizione, destinata a durare, nella narrativa gaddiana, e ad alimentarne i tortuosi percorsi: quella – a suo tempo illustrata da Roscioni in un binomio tematico ormai classico – tra vorace scrutinio analitico («singula enumerare») e onninvolgente prospezione sintetica («omnia circumspicere»): ovvero, tra spazio (catalogazione positivistico-leibniziana) del «dato» e tempo («comprensione»-«giudizio») della ragione onnisciente del narratore, moltiplicata, nello strenuo quanto vano inseguimento di una totalità che «vuole, e non può essere specificata»2, a espandersi e contraddirsi nell’interferenza dei punti di vista e nell’embricatura degli stili adibiti a dar loro voce. Garante della meccanica narrativa era la tenuta di una polimorfa ma ancora centripeta soggettività autoriale, luogo di congiunzione-integrazione «teoretica e lirica» di una ‘pluralità’ di forme (lo «spiritus pluralitatis» come motore di una conoscenza ‘realistica’ animava il vagheggiamento epico-romanzesco di Retica3) connesse dalla poiesi positivistica della «polarità», dal suo schema diadico costitutivamente antinomico. Sulle mostruose antinomie — 555 —

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«racchiuse nella falsa unità della persona»(SVP 541), sul fermentante «tumulto delle dissonanze umane» (SVP 541), si distendevano, a ‘comprenderle’ nell’ordine – nella semantica morale – del «racconto», lo sguardo già pluriprospettico e la trama composita della voce – non ancora personaggio di se stessa, come poi nel Pasticciaccio – di un autore pensato quale intersezione fra il tempo orizzontale dei fenomeni e il tempo verticale della coscienza morale, cioè in quanto sintesi di tempo umano e tempo universale4. Un autore, dunque, già insidiato da una costitutiva antinomia, destinata a reduplicarsi, non già a ricomporsi: quella che giaceva irredenta al fondo del vitalismo logico del «reale». Contro i poeti simbolisti, pur tacitamente introiettati, quasi per una simpatetica mise en abîme, il Gadda ‘solariano’ riaffermava il primato dell’esperienza etica, la necessità del suo tempo produttivo di senso, la sua pretesa inconcussa di verità. La letteratura – ‘poesia’ bisognosa di un dispiegamento temporale della sua intrinseca finalità etica: romanzo – era il mondo dell’autentico: perché in essa sembrava possibile attraversare la pluralità del «reale», e restituirne, raccontandola, un ordine. Ma, tra Manzoni e Leibniz, tra Kant e Dostoevskij, il principio ordinatore della ‘rappresentazione complessa’, colmo di un ‘realismo’ segnato da una tensione ‘combinatoria’ già al di là del canone naturalistico, era affidato a un autore novecentescamente coinvolto nel teatro-evento che era oggetto della sua visione. Nella Meditazione filosofica che costituisce il segreto terreno di coltura e il (clamoroso) punto di svolta della poetica gaddiana, perché ne arricchisce e ‘deforma’ l’opzione narrativa di una tormentata giustificazione gnoseologica, la realtà era intesa (ma già, nel Cahier, l’antropomorfizzato fiume Devero ne allegorizzava l’immagine) come «un processo autodeformatore di infinite relazioni […] in cui ad ogni attimo si differenzia un essere o io o pausa da un tendere o conglomerarsi o deformarsi» (SVP 789), e perciò il tempo, che, «eccipiente primo» della percezione, doveva strutturarne il corso, si identificava con un movimento di interna auto-differenziazione del molteplice, che del reale costituiva il ritmo incessante, il nucleo autopoietico e a-teleologico. La ‘verità’ del ‘reale’, del mobile «dato» che lo allaccia e lo crea, stava nell’incontro, nel nesso sempre cangiante, sempre oltre l’istante compiuto della forma, tra il lavoro coinvolutivo delle «polarità» e quello, prensile e ‘spastico’, della mente protesa a conoscerlo. L’autenticità della parola non riposava più in una classica adaequatio rei et intellectus: era pensabile solo come segno di una relazione perpetuamente mutevole tra i due attori coinvolti nel duello: tra lo scrittore e « la cosa giudicata» (narrata: SGF I 430). — 556 —

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Coerentemente, e conseguentemente, era un diverso statuto del tempo, della sua figura, aperta a cercarsi e sempre di nuovo a perdersi, che – nel laboratorio gnoseologico della poetica gaddiana – veniva messo in gioco (e il suo schema sarà fissato, poi, et pour cause, nell’icona allegorica che suggellerà la prima edizione della Cognizione, dove l’eco ‘deduce’ dal tempo svuotato il «nome del dolore»: RR I 714)5: «A me uomo e mente finita l’effetto pare un seguito, come l’eco profonda che i monti mi rimandarono di ogni cannonata. […] Ma nell’adempimento totale la cannonata e i monti e l’eco sono già connaturati e legati e necessari» (SVP 1321). Un assai problematico statuto della narrazione, della ‘poiesi’ euristica che la alimenta e governa, è implicato da questa esemplificativa presa d’atto (sottesa ma pervasiva nella riflessione di Gadda en philosophe) della ‘simultaneità’ plurirelazionale degli elementi che generano e gremiscono il ‘divenire’: cioè dalla sottolineatura della figuralità coassiale della loro infinitamente complessa meccanica, e dunque del punto di contrasto interno, dell’istanza di autonegazione che la tessitura narrativa necessariamente contiene e sedimenta nelle sue immagini. Nella «coinvoluzione» combinatoria sottesa all’atto narrativo cresce una dynamis aporetica: ogni tessera del mai conchiuso mosaico testuale, ogni sua figura o frammento, è funzione metonimica di una temporalità ‘simultanea’ che in essa si occulta e si nega: è ‘parvenza’ di una scissione inconciliata tra la durata della parola narrante e l’istante logico-fenomenico da essa evocato, o istituito. Nella parola – nel suo spasmo d’‘euresi’ – si svolge un conflitto mai sciolto tra il tempo ‘etico’ del racconto e il tempo ‘logico’ del «dato»: tra le due dimensioni, opposte e complementari, della «deformazione» del «reale» e delle sue rappresentazioni. Il romanzo etico-gnoseologico della Cognizione ne inscenerà la tragica antitesi, fissando in allegoria6 il problema della funzione tematica e iconica del tempo, della sua struttura, della sua intima vis euristica: un tempo remoto ad ogni sguardo che voglia interrogarlo e comprenderlo (la Madre), estraneo e imprendibile alla parola che si protenda a catturarne movimento ed immagine, a raccontarne la vicenda, restituendole ordine e senso, e può, invece, solo fissarne, nella trascorrenza alterna di luci ed ombre, la struttura aporetica, la giunzione ossimorica delle «polarità» che ne scandiscono e ‘inventano’ il corso, come a negarne sempre di nuovo lo svolgimento, annodandolo alla radice della sua contraddizione non sedata tra buio e splendore, tra sterile sovranità della mente e perduto fasto del mondo. Alla temporalità complessa ma lineare della «causa», alla dispersa armonia della sua durata, che la Madre si ostina a evocare nel buio teatro della sua me— 557 —

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moria, letteraria e/o esistenziale, non altro misurandone che la fine e la perdita, si oppone, in Gonzalo – a comporre l’allegorica tragedia del tempo che egli, con la Madre, interpreta –, la temporalità «molteplice», irretita e confusa tra le immagini, della co-esistenza logica delle cose e delle anime. È il tempo di un «essere» non più predicabile – nella Meditazione – come «sostanza» (come soggetto-sistema), ma come rapporto, trama di funzioni, plesso di instabili orizzonti esperienziali, connessione perennemente inquieta di percezioni e linguaggi: come figura mobile – spettro ottico – di una disgregazione e reintegrazione senza fine. Per questo, la forma temporale (la «deformazione» narrativa) entro cui percepirlo ed esprimerlo deve intendersi come la rappresentazione – non più la sintesi – di quel movimento, il campo di visibilità – l’esposizione in codice figurale – di quella interminata deformazione logico-fenomenica: «il tempo è la parvenza di questo processo deformatore» (SVP 1349). E l’immagine – la «Parvenza» – nel suo ‘spasmo’ deformatore, assume, per contro, statuto e funzione radicalmente temporale: «qualcosa accade e per accade intendiamo ‘si deforma’» (SVP 742). Il ‘tempo’ della Meditazione è quello che cinge d’assedio la mente di Gonzalo: identificato col movimento mai finito delle «parvenze», senza più il dominio dell’esperienza acquisito e garantito nella «certezza» di una immagine che la fissi per sempre: nel lume della memoria e nella parola che la salvi in racconto. E nell’ambiguo statuto semantico della «parvenza» – nello schermo d’immagini entro cui la ‘deformazione’ distende le figure della sua «ontologia temporale»7 – cresce il paradosso del «male», «polarità» costitutiva dello stesso ductus combinatorio, per il quale l’euresi non sembra avere – in Gonzalo – ‘amore per il divenire’. Perché la sua meditazione ‘conosce’ il nucleo distruttivo del divenire. L’euresi gli si svela segnata da una sterilità intrinseca, dovuta alla sua stessa struttura ‘duale’, che deve negare se stessa per svolgersi, lacerarsi per crescere, perdere la vita per trovarla. È il male di una mancata continuità della conoscenza, non di una mancante volontà di cognizione: e deriva dalla passione gnoseologica di Gonzalo, le pulsa dentro, come un segreto cuore di tenebra. È l’approdo necessitato della sua «ermeneutica a soluzioni multiple» (SVP 748): che logora e irretisce la diegesi interdetta, la staticità carceraria di un ‘romanzo’ che racconta, a ben guardare, solo di una impotenza della mente ‘ordinatrice’ a salvare il fenomeno narrandolo, e al gesto assertivo della verbalizzazione organica del ‘reale’ sostituisce la tormentata diffrazione nomenclatoria del dubbio e della ripulsa. Pensare fino in fondo l’essere in quanto divenire, pensarne il tempo in quanto composizione narrativa della «combina— 558 —

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zione-possibilità», non è lecito, senza coglierne anche la intima contraddizione che concorre a costituirlo, la «polarità» negativa che lo scompone e lo spezza: la morte. Che è, dell’essere, l’estrema figura, è il suo mancare a se stesso, in quanto sua estrema pensabilità: dispersione/disperazione dei «compossibili». Ed è prodotta nel pensiero, dal pensiero: è il pensiero, nella sua radicalità noumenica – non se ne possono, perciò, dare immagini. È irrappresentabile: anzi, è l’irrappresentabile. La morte toglie ad ogni rappresentazione la sua relazionale «sostanza», il divenire che la ricolma di tempo (di «possibilità») – e toglie all’essere ogni rappresentazione. È l’altera facies ‘logica’ dell’essere, cresce nella sua pausa: alterità pervasiva del molteplice, essa non ha, non può avere ‘immagine’. La sua verità sta tutta nella negazione dell’immagine. Il suo accadere, il suo istante, si nega alla figura. Nell’autobiografismo per così dire «noumenico» della Cognizione, a questo allude il «male invisibile» di Gonzalo: patologia dell’anima in quanto spasmo «caravaggesco» della mente. Il processo logico che crea, o ‘inventa’, il ‘reale’ non può essere pensato immune dalla sua negazione, che ne è l’approdo necessario, l’orizzonte che lo compie e lo toglie. Pensare il divenire, il tempo, comporta pensarne la morte (il suo ‘racconto’ nasce per esser tolto, negato). E la morte è confitta nel tempo: nella tensione dinamica dei «compossibili» che ne suscita il movimento-parvenza, e proprio in quanto radicale pluralizzazione di quel movimento in un molteplice non «polarizzato». Essa è il «male» del tempo – la «malattia» che ne abita originariamente la forma, il vuoto che ne ritma la genealogia. È la non-forma che imprigiona il ‘noumeno’: ciò che non può essere conosciuto in rappresentazione, ma semplicemente ‘pensato’ – appunto come la morte, che gli è ‘logicamente’ contigua. Ne è il margine metonimico, perché, come quello, non ha tempo né immagine. Non è, per statuto, visibile: come sa bene Gonzalo, malinconico contemplatore di un «tempo dissolto» e della vanità di ogni percorso euristico, testimone della impossibile salvezza richiesta al tempo in quanto principio d’ordine – forma – della deformazione. È la condanna euristica della «parvenza», dalla cui luce è avvolto il «divenire»: «Oh, lungo il cammino delle generazioni, la luce!… che recede, recede… opaca… dell’immutato divenire» (RR I 604); e in essa l’operare umano trova rappresentazione, si dà un’immagine – ma non attinge riparo dalla legge distruttiva che vige nel nucleo logico del tempo. La luce si fa opaca – prolessi del «lento pallore della negazione» che insidia e consuma il ‘cammino’ di Gonzalo nel mondo – a mano a mano che il viaggiatore – ispirato, contro ogni ebbrezza simbolista, — 559 —

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dal vano fulgore di una finalità senza adempimento – attraversa, nella sua quête spaziale, il tempo: Ogni prassi è un’immagine… […] e l’impresa chiamava avanti, avanti, i suoi quartati: a voler raggiungere il fuggitivo occidente… […] Fino allo incredibile approdo. (RR I 604)

La fuga regressiva della luce verso un orizzonte irraggiunto profila in emblema araldico la parabola discenditiva dell’euresi. Il divenire non è che opaco destino, processo elaborativo senza adempimento teleologico: «fatica de’ cantieri» cui non sovviene il labile ristoro di «un’idea» (RR I 291). L’approdo etico dell’«immutato divenire» – il compimento della «prassi» suscitata e alimentata dall’«immagine» – è la necessità euristica del nulla. Il tempo dell’euresi – la navigazione dei donchisciotteschi cavalieri (i «quartati») che lo incarnano – culmina nella morte del simbolo etico («impresa» o «bandiera»), nella sanzione del suo spettrale approdo allegorico. Al fondo del voyage nel tempo, come nel vagabondaggio spaziale dei viaggiatori senza ritorno di Baudelaire e Rimbaud, giace la vanità di ogni immagine. La ‘comprensione’ causalistica del mondo – il filo del tempo aggrovigliato nella deriva del bateau ivre – si rovescia e precipita nella nomenclatura barocca di un «catalogo vano». Al cuore del tempo non c’è che la tenebra del non-essere – e la dissipazione metamorfica delle «parvenze». Il cielo si distende sopra Gonzalo e la Madre come la pittura arcana di un «tempo dissolto». I muti paradigmi della scienza kepleriana ne misurano il vuoto, l’assenza in esso di ogni finalità e di ogni causa. Tempo degli astri («sub specie aeternitatis») e tempo umano8 si intersecano, nel cielo della Cognizione9, come lacerati dalla decostruzione euristica della loro caduca («grama») ‘sostanza’. E le immagini tematiche del romanzo, in un paradossale adempimento anti-narrativo del progetto «sinfonico» e «poematico» del Cahier, si ripetono, intrecciandosi e divaricandosi in una curva di isomorfie che, destituendole di ogni durata narrativa10, le espone nella loro rastremata tensione diegetica di «parvenze» dell’inappropriabile processo deformatore. Sono frantumi di una tessitura musiva logorata, lembi di terre emerse di un continente perduto. Non più colme del «flusso antico della possibilità», né protette dalla «sicurezza fondata della memoria» (RR I 678), musa e vestale di un tempo ‘finito’, non più legate da una concatenazione ‘molteplice’ ma unitaria, entro l’arco di una «continuità che s’adempie» (RR I 680), quelle immagini, da più lati traguardate, per minime o plurime — 560 —

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variazioni prospettiche, producono e agiscono – nella partitura contrappuntistica delle loro disgiuntive riprese – una temporalità a-costruttiva, una curva diegetica inerziale, viva solo nella dislocazione iterativa e speculare delle focalizzazioni: e talora – come nella progressiva epifania del dolore che ‘deforma’ l’astratto incanto dell’idillio contemplato dal terrazzo –, scandita dall’eco di una «pausa» logica fissata in contrastiva sinestesia («il numero di bronzo» che ne infigge in parvenza acustica il vuoto trascorrere verso la «negazione»: RR I 714). Si pensi, ad esempio, al momento nel quale Gonzalo coglie, nel rintocco rituale dell’ora – nel prolettico sdoppiamento che alimenta la semantica binaria della temporalità in sé antinomica («buia» o «splendente», lutto o parvenza) dell’opera – l’anticipazione di un messaggio funebre, e proprio nel suono che scandisce il ritmo ripetitivo atto a simulare la continuità del «fine» rinviene l’immanenza del «decreto inappellabile» della ‘fine’, la ‘verità grave’ di una parabola temporale precipitante dalla clamorosa «sequenza bugiarda» della vita alla opaca e silente «decombinazione» della morte, in un rituale idillico presto incupito dal minaccioso presagio (l’anticipazione straordinaria») che ne prepara la tragica lacerazione o ne suscita e sottende lo spettrale ritorno nei punti-chiave del romanzo (la desolata elegia del tempo che ne chiude il settimo «tratto», e la deserta apoteosi della parvenza che ne sospende, infine, ed illumina l’apocalisse dolorosa): Tutto doveva continuare a svolgersi, e adempiersi: tutte le opere. Il domani dalle bocchette d’oriente affacciàndosi con dorati cigli avrebbe ritrovato le cose: come il fabbro, dove lo ha lasciato nella fucina, ivi si ripiglia il martello […] ma non molto, non molto! e sarebbe scoccata l’ora vera, la verità grave: il decreto inappellabile di Lukones. (RR I 629)

Lo spazio del romanzo non contiene più verità custodite nel tempo. Non contiene più il tempo. È questo, invece, che ne incide, con la forza disgregante della sua non sedata antinomia, e ne logora la forma: la tradizionale vocazione alla ‘forma’. La cognizione romanzesca è dolore: non fonda più rappresentazioni di verità, non sa, non può ricomporre entro i suoi codici l’infinita deformazione del reale (e meglio si direbbe: la ‘realtà’ non-finita della deformazione). Non può ricostruire sistemi, né perseguire sintesi. «Non [le] è dato affermare» (SGF I 429). Può solo raccontare la «favola della malattia», l’ancora non dispiegata «negazione», il suo «lento pallore» – il dato cromatico che ne testimonia l’intima temporalità regrediente, come quella illusa dal — 561 —

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sogno delle virtù, verso l’azzeramento euristico del tempo –: che invade e sfigura il presente, e allontana e abbandona il passato, dissipandone le perse certezze. E tuttavia la poetica gaddiana non rinunzia a conoscere, a rappresentare. Gadda non rinunzia al romanzo. Né rinunzia esplicitamente alla sua forma classica, cui si era educato nel sogno demiurgico della sua gioventù milanese: ma ne intrica l’ordito ‘sinfonico’ (la deformazione euristicamente ‘positiva’) in un ‘tempo’ che non può più costruire una forma radicata in un nucleo di verità, ma solo una figura («parvenza») contigua ad essa, ma ad essa mai ricongiunta. Vi resiste la ostinazione etica della parola, non garantita da tradizione di valori, né protetta da modelli, se non quello, furente e melanconico, della parodia. Il processo deformatore dissipa, mentre la nutre, la voce narrante: imprigionata nel groviglio delle apparenze, o in sdegnosa fuga da esso, verso un remoto universo lirico-sublime del quale la stessa struttura composita e multigenere11 della Cognizione dichiara la contaminazione antilirica e lo storico esaurimento. Il vitalismo logico del mondo pulsa come irretito in se stesso: ‘deformare il reale’ vale – per Gonzalo, doppio non simmetrico dell’autore, ma problematicamente complementare ad esso12 – a respingerne le ingannevoli forme: e, per il narratore che vi si specchia, ad opporre l’intarsio lirico o il ghigno grottesco della satira alla irredimibile deformità della ‘parvenza’. L’etica, e il romanzo, che ne trascrive la perfetta inattualità, possono resistere solo nell’estrema denuncia dell’esproprio euristico del «fenomenico mondo», nella ripulsa dei suoi miseri allettamenti, nella spietata «cernita» delle immagini «vane» che lo gremiscono. Non possiede che questo, la letteratura: una definitiva assenza di una verità positiva, ‘affermabile’, e una conoscenza, e un’etica, che durano nella sontuosa stilizzazione della propria fine, nella «deformazione» non-finita – nello scrutinio semantico inesauribile e sempre mancante alla forma – di una ‘realtà’ esposta e insieme celata nella sconfinata rete dei fenomeni. Su di essa il dolore – stremata parola dell’etica, «fulgurata» reliquia del tempo, della sua dispersa Erlebnis13 – infigge lo stigma che può, ancora, significarlo: che ancora può mostrare, racchiuse nella superficie inattraversabile della Parvenza, la «verità» e la «conoscenza», nudi segni senza luce di ‘noumeno’. La negazione è l’estremo confine cui perviene la deformazione gaddiana del romanzo: che ‘vuole’ la parvenza per negarla, per restaurarne e contrario il nucleo di verità che l’attraversa e la fugge – e non ne attinge che la maschera tragica, il «disegno» che ne rovescia in allegoria la teatralità vuota: — 562 —

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Ma […] negare vane immagini […] significa negare se medesimo. Rivendicare la facoltà santa del giudizio […] è lacerare la possibilità, come si lacera un foglio inturpato leggendovi scrittura di bugìe. Lo hidalgo […] era a negare se stesso: rivendicando a sé le ragioni del dolore, la conoscenza e la verità del dolore, nulla rimaneva alla possibilità. Tutto andava esaurito dalla rapina del dolore. Lo scherno solo dei disegni e delle parvenze era salvo, quasi maschera tragica sulla metope del teatro. (RR I 703-704)

Non restano, allo scrittore coinvolto e travolto dalla negazione della società, e della sua ‘euresi’ demandata a ‘comprenderla’ nell’assoluto, ora infranto, del romanzo, che «astinenti lettere e pagine» (SGF I 429). Egli rifiuta la salvezza bugiarda di una disincantata resa al gioco ‘disgiuntore’ delle Parvenze. La salvezza – la durata etica della sua funzione – per lui, è nella negazione: delle parvenze e di sé, che solo attraverso parvenze può rappresentarsi. Sommo gesto etico è lacerare, nel pensiero, la «possibilità»: negando l’inganno della rappresentazione, esponendone il nudo spasmo mascherale. La durata dell’io, nel rifiuto dell’immagine, si spezza. Il suo tempo cade, si svuota. L’atto narrativo, proprio in quanto deformazione euristica, non investe altro oggetto che la parvenza dei fenomeni, la loro falsa e vera immagine. Il ‘contenuto di realtà’ implicato nell’immagine è negato: ma nella negazione si libera il suo ‘contenuto di verità’. Lo statuto bipolare dell’immagine si divarica: tra etica e retorica si stende la contraddizione che ne lacera l’ordito simbolico. Non c’è verità da salvare nel fenomeno – e, per converso, non c’è ‘noumeno’ da catturare e verbalizzare nel ‘segno’. In Gadda, la verità (il ‘noumeno’ non è esso solo il vero: ne fa parte, nella sua ‘polarità’ al fenomeno) si ritrae in questa relazione conflittuale delle parvenze con l’altro che le nega ma fuori di esse non trova figura, ad esse immanente e da esse sempre diviso. La verità del romanzo non ha più un intero da significare, una ‘totalità’ da raccontare: l’intreccio dei tempi è strozzato nella gemmazione delle «polarità» che li costituiscono. La voce narrante può solo negarne – deformarne – l’inganno simbolico, la vana immagine armonica. Ma la sua negazione non conduce all’acquisto e al dispiegamento di una verità. La sua parola sfocia nel vuoto. La verità è solo allegorica. Trattenuta, nel Pasticciaccio, entro la parola liminare («quasi»: RR II 276) che ne intermette l’enunciazione, è allegoria di un’euresi – di una cognizione narrativa – sospesa nella bìvoca negazione delle sue immagini, sospinta e come perduta per sempre fuori e dentro di sé.

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NOTE 1 Tutte le citazioni da testi gaddiani saranno tratte dall’edizione delle Opere di Carlo Emilio Gadda, diretta da D. ISELLA, Milano, Garzanti, 1988-1993, adottando le seguenti sigle: RR I=Romanzi e Racconti I, a cura di R. RODONDI, G. LUCCHINI, E. MANZOTTI, Milano, Garzanti, 1988; RR II=Romanzi e Racconti II, a cura di G. PINOTTI, D. ISELLA, R. RODONDI, ivi, 1989; SGF I=Saggi Giornali Favole e altri scritti I, a cura di L. ORLANDO, C. MARTIGNONI, D. ISELLA, ivi, 1991; SVP=Scritti vari e postumi, a cura di A. SILVESTRI, C. VELA, D. ISELLA, P. ITALIA, G. PINOTTI, ivi, 1993. 2 G. C. ROSCIONI, La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Torino, Einaudi, 1969, p. 73 (ma, complessivamente, cfr. pp. 31-81). 3 Cfr. P. ITALIA, Agli albori del romanzo gaddiano: primi appunti su «Retica», in Le lingue di Gadda. Atti del Convegno di studi (Basilea, 10-12 dicembre 1993), a cura di M. A. TERZOLI, Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 179-202 (in particolare, p. 184, n. 11); ma anche EAD., Le carte di «Retica», «I quaderni dell’Ingegnere. Testi e studi gaddiani», III, 2003, 2, pp. 295-311. 4 Sul tema, cfr. i densi contributi di C. BENEDETTI, La storia naturale nell’opera di Gadda, «Italies-Narrativa», 1995, 7, pp. 71-90, e di L. LUGNANI, Il tempo umano in letteratura, «Italianistica», XXXI, 2002, 2-3, pp. 163-180, e Racconto ed esperienza umana del tempo, «The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)», 2001, 1, poi in ID., Del tempo. Racconto discorso esperienza, Pisa, ETS, 2003. 5 Ci sia consentito, al riguardo, di rinviare al nostro Il groviglio delle parvenze. Studio su Carlo Emilio Gadda, Bari, Palomar, 2002, pp. 233-246. 6 Fondamentale, sul problema dell’allegorismo in Gadda, l’analisi di R. LUPERINI, La ‘costruzione’ della «cognizione» in Gadda, in ID., L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 259-278. 7 Cfr. G. GUGLIELMI, Gadda e la tradizione del romanzo, in La coscienza infelice. Carlo Emilio Gadda, a cura di A. ANDREINI e M. GUGLIELMINETTI, Milano, Guerini Studio, 1996, p. 30. 8 Sulla complexio temporum della Cognizione, cfr. C. SAVETTIERI, Il tempo nella «Cognizione del dolore», «Italianistica», XXXI, 2002, 2-3, pp. 237-251. 9 Sul cielo nella Cognizione si veda il fine e suggestivo studio di F. PEDRIALI, Il cielo scritto di Gonzalo, «EJGS», 2002, 2. 10 Cfr., in proposito, l’Introduzione di E. MANZOTTI alla ed. critica commentata della Cognizione, da lui curata (Torino, Einaudi, 1987, pp. XXIII e sgg.). 11 Cfr. R. LUPERINI, La ‘costruzione’ della «cognizione» in Gadda, cit., e C. FAGIOLI, Una «chiave antilirica» di interpretazione. La poesia «Autunno» nella «Cognizione del dolore», «Allegoria», XIV, 2002, 40-41, pp. 21-52. 12 Al riguardo si veda C. FAGIOLI, «In limine»: rilettura della «Cognizione» attraverso il «saggio esplicativo», «Moderna», IV, 2002, 1, pp. 87-106. 13 Su questo nodo tematico decisivo della modernità letteraria nel Novecento cfr. R. LUPERINI, Estraneità e tramonto dell’esperienza nella autocoscienza del moderno, «Allegoria», XII, 2000, 36, pp. 5-17.

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COSTANZA GEDDES DA FILICAIA ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA DIMENSIONE SPAZIO-TEMPORALE NEL GATTOPARDO «Nunc et in hora mortis nostrae. Amen». Con queste parole, evocanti la fragile provvisorietà della vita terrena (nunc) e l’assoluta definitività della morte (in hora mortis nostrae), termina la recita del Rosario e inizia il Gattopardo, opera postuma e pressoché unica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il romanzo riscosse, come è noto, un immediato, enorme successo (basti ricordare che a un anno dalla pubblicazione, avvenuta nel 1958, se ne contavano già quarantotto ristampe) a cui fecero seguito numerosi studi critici vòlti ad analizzarne i molteplici aspetti. Intendo formulare alcune osservazioni su uno di tali aspetti, la questione della dimensione spazio-temporale, nella convinzione del ruolo di fondamentale importanza giuocato, nel romanzo, dall’intricata relazione fra lo spazio, primariamente ma non esclusivamente quello della Sicilia, e il tempo (il tempo della vicenda narrata, certamente, ma anche il tempo transeunte della vita e quello eterno della morte echeggianti nell’incipit del romanzo). Innanzitutto, alcune osservazioni oggettive: il Gattopardo è ambientato in Sicilia e abbraccia un arco di tempo ampio, dallo sbarco dei Mille, nel maggio 1860, al maggio 1910, cinquantesimo anniversario di quell’evento storico, delle cui celebrazioni Angelica, vedova di Tancredi e ormai prossima alla settantina, vuol far partecipe Concetta, triste zitella vissuta nel rimpianto del cugino invano amato. Circolarmente, il romanzo si apre e si chiude nello stesso periodo dell’anno, il mese di maggio, e nello stesso luogo, quella Palermo che era stata teatro, nella prima parte, della visita notturna di Don Fabrizio a Mariannina, e che infine vede Concetta e le altre sorelle Salina1 malinconicamente invecchiare nel decadente palazzo avìto. A fronte di un arco di tempo così ampio, appunto dal 1860 al 1910, le vicende narrate in ognuna delle otto parti in cui è articolato il romanzo si svolgono ciascuna in non — 565 —

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più di ventiquattro ore, con l’unica rilevante eccezione della parte quarta che si snoda per alcune settimane ed è incentrata sulle giornate trascorse da Tancredi e Angelica, novelli fidanzati, a Donnafugata. Le prime cinque parti del romanzo sono ambientate nello stesso arco di tempo, dalla primavera all’autunno del 1860. Al contrario, il ballo a Palazzo Ponteleone, oggetto della sesta parte, si svolge nel 1862, con uno scarto cronologico di due anni rispetto al capitolo precedente. La morte del Principe, narrata nella settima parte, è datata 1883: in questo caso, lo scarto è di ben ventuno anni. Infine, tra la settima e l’ottava parte, l’ultima, gli anni intercorsi sono addirittura ventisette. Tuttavia, è netta la continuità tra l’episodio del ballo nel 1862 e la morte del Principe nel 1883: già durante il ballo sono presenti numerosi segni di disfacimento e di decadenza, preludio all’agonia di Don Fabrizio che si concluderà a distanza di oltre venti anni nell’albergo «Trinacria», tra l’irritazione di uno svizzero, gestore dell’esercizio, non casualmente definito ‘borghesotto’, e nel sudiciume, anch’esso niente affatto casuale, di una stanza infuocata dal sole di luglio2. Importante ricordare, in questo senso, che, come è noto, Tomasi compose il capitolo dedicato alla morte del Principe precedentemente a quello del ballo e si raffigurò dunque la morte del protagonista prima di descriverne i lontani prodromi dell’agonia. Lo spazio del racconto è, dunque, la Sicilia3, di cui l’autore coglie i più vari aspetti: dalla capitale, Palermo, maestosa nella sua sonnecchiante grandiosità, ai paesaggi arsi dal sole e costellati di miseri paesini invasi dal tanfo e dalla sporcizia4 quali Prizzi e Bisacquino, a Donnafugata, luogo centrale nell’economia dell’opera in quanto qui è ambientato l’innamoramento tra Angelica e Tancredi, unico vero nodo d’intreccio del romanzo, a San Cono, patria di Padre Pirrone, dove il religioso si reca nella quinta parte. Fra tutti questi luoghi, Donnafugata è senza dubbio il più caro al Principe che lì ritrova le memorie di tutta una vita e alcune consuetudini immutabili nei secoli (il «Te Deum» di ringraziamento all’arrivo, la visita al monastero): questo paese non corrisponde però a nessuna località specifica, essendo ‘Donnafugata’ un toponimo di origine araba frequente in Sicilia e atto ad indicare le sorgenti d’acqua5. Vi sono poi gli spazi della Sicilia pastorale, dei boschi e delle campagne, che Don Fabrizio attraversa in compagnia di Don Ciccio Tumeo durante battute di caccia prese a pretesto per lunghe passeggiate che permettevano al Principe, cito le sue parole, «di sentirsi lontano da tutto e da tutti nello spazio e ancor più nel tempo». Infine, vi sono gli interni, quelli dei palazzi Salina a Palermo e a Donnafugata, di Palazzo Ponteleone a Palermo, e an— 566 —

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cora del monastero di Donnafugata e delle povere case di San Cono. Proprio le stanze della residenza di Donnafugata sono teatro delle travolgenti, sensuali scorribande di Tancredi e Angelica agli albori del loro innamoramento. Ma Don Fabrizio, esperto astronomo, conosce anche un altro spazio, quello incommensurabile dei pianeti e delle stelle, che egli guarda dal suo amato osservatorio. Nella passione per gli astri collocati nella loro, appunto, siderale distanza si rivela l’amore del Principe per uno stato di cose persistente nei millenni e molto simile dunque all’eternità: si realizza così un profondo connubio fra l’infinito dello spazio e l’infinito del tempo. Segnalo ora come in molte occasioni, nel romanzo, l’autore indulga su anticipazioni di eventi futuri, ottenendo così anche di distinguere la sua voce da quella di Don Fabrizio. Tali anticipazioni sono di due tipi: possono riguardare il destino dei personaggi oppure eventi storici successivi ai limiti cronologici della vicenda narrata. Rientrano nel primo caso i numerosi riferimenti alla vita matrimoniale di Angelica e Tancredi, che sarebbe stata infelice e turbolenta. Per quanto riguarda poi la bella Sedàra, Tomasi accenna al ruolo di «viperina di Montecitorio» che essa avrebbe interpretato negli anni trascorsi a Roma, e, nell’ultimo capitolo, alla malattia che di lì a poco l’avrebbe colpita. Sono rilevanti, in particolare, le notazioni sulla decadenza fisica di Angelica, quasi che l’autore nutra uno specifico interesse per questo suo lento ma inesorabile processo di invecchiamento. Nello stesso capitolo ottavo l’autore paragona lo stato dei rapporti tra Angelica e Concetta a quello tra Austriaci e Italiani durante la prima guerra mondiale, naturalmente ancora di là da venire, in quanto questo incontro tra le due donne è ambientato nel 19106. Costituisce ugualmente un’anticipazione l’accenno a personaggi appartenenti a epoche successive rispetto al tempo della storia: Sergej Eisenstein, innanzitutto, ma anche Sigmund Freud, citato nella terza parte (ambientata nell’estate 1860). Freud avrebbe sicuramente mostrato interesse, sostiene l’autore, per il comico lapsus nel quale incorre Don Calogero Sedàra, anch’esso legato, tra l’altro, alla dimensione cronologica: parlando della celerità con cui il nuovo governo sabaudo avrebbe fatto realizzare l’impianto di fognature a Donnafugata, l’intraprendente sindaco afferma che esso sarebbe stato pronto per il 1961, avendo naturalmente inteso dire 1861, cioè di lì a un anno, ma involontariamente esprimendo una previsione molto vicina al vero. Tuttavia, la più celebre ‘intromissione’ del futuro negli eventi narrati ha luogo nella parte sesta, dedicata al ballo di Palazzo Ponteleone. Parlando di come le divinità affrescate sui soffitti del Palazzo appaiano sentirsi eterne — 567 —

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nella loro grandiosità, Tomasi afferma che, nel 1943, una bomba fabbricata a Pittsburgh, Pennsylvania, le avrebbe convinte del contrario7. È in questo caso evidente il riferimento ai gravissimi danni che subì Palazzo Tomasi a Palermo a seguito di un bombardamento durante la seconda guerra mondiale. Inoltre, nell’indicare il luogo così remoto dove la bomba è stata fabbricata, l’autore intende evocare una dimensione spaziale inconsueta, aliena alla realtà siciliana: quale sarà stata, sembra egli domandarsi, la sorpresa di quei maestosi dèi della Trinacria nell’essere all’improvviso polverizzati per mezzo di un moderno ordigno venuto da non si sa dove? Una volta osservata e descritta la dimensione spazio-temporale nel Gattopardo, resta da chiarire ulteriormente quale ruolo venga svolto da tale dimensione all’interno dell’opera. Si noti innanzitutto come questo romanzo sia segnato dalla morte in maniera pervasiva: essa è evocata nelle parole del Rosario, con le quali si apre l’opera (Nunc et in hora mortis nostrae), e ugualmente è mortuaria l’immagine conclusiva della narrazione, il volo dalla finestra della carcassa del cane Bendicò, della quale Concetta ha infine deciso di liberarsi. La morte fa la sua apparizione fin dalle prime pagine, allorquando l’autore rende conto del ritrovamento del cadavere straziato di un giovane soldato nel giardino di Casa Salina, si palesa all’arrivo della famiglia a Donnafugata, dove le campane della chiesa suonano per annunciare un funerale, si materializza nel coniglio agonizzante colpito da Don Fabrizio durante la caccia, si personifica infine nella figura della giovane e bella donna che il Principe, negli ultimi spasimi dell’agonia, vede venirgli incontro per avvolgerlo nel suo abbraccio. È dunque possibile trarre una prima conclusione: l’allusione così frequente alla morte e anzi il corteggiamento compiaciuto che il Principe riserva a essa («Corteggi la morte?», chiede Tancredi allo zio, sorprendendolo assorto a contemplare un quadro raffigurante l’agonia di un malato durante il ballo a Palazzo Ponteleone) suggerisce l’aspirazione verso un tempo eterno e immutabile nella sua fissità. Ugualmente riconducibile a un’agognata dimensione di eternità che sfugga al tempo transeunte e ai mutamenti della storia è il frequente riferimento alla mitologia greco-romana: il Principe viene paragonato a Zeus per il suo imponente aspetto fisico e Giuseppe Garibaldi a un «barbuto Vulcano», mentre gli dèi dipinti a Palazzo Ponteleone si sentono, da parte loro, eterni, ed eternamente risplendente è la luce di Venere che Don Fabrizio osserva nel cielo durante la sua passeggiata di ritorno dal ballo8. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», afferma Tancredi nella più celebre frase del Gattopardo: ancora — 568 —

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un’aspirazione alla fissità nel tempo della società e delle sue strutture, quantomeno nella sostanza, se non nella forma. Si pone a questo punto, necessariamente, una domanda: di cosa tratta il Gattopardo? Qual è, cioè, l’argomento principale della storia? Di fronte a una vicenda che ha come unico nodo d’intreccio, lo accennavo in precedenza, l’innamoramento fra Angelica e Tancredi e nella quale le descrizioni avvengono secondo il punto di vista del maturo Principe di Salina9, pur in presenza di non rari interventi da parte dell’autore, si può certamente aderire a quanto sostenuto da Romano Luperini nello studio Il «gran signore» e il dominio della temporalità. Saggio su Tomasi di Lampedusa10, risalente al 1997: il cuore del Gattopardo non è il racconto delle vicende di un eroe, Don Fabrizio, ma il tema del tempo, cioè della persistenza e dell’estinzione, appunto nel corso del tempo, di una grande famiglia. Di tutto questo la storia privata del Principe non è che l’emblema allegorico. È dunque estremamente significativo, vorrei aggiungere da parte mia, che un segno della decadenza dei Salina sia rappresentato proprio dall’infrazione di una regola temporale: essi sono infatti costretti ad arrivare puntuali al ballo dei Ponteleone (era norma acquisita e anzi distintiva della classe nobiliare giungere agli eventi mondani quando essi erano già entrati nel vivo) nel timore di non trovarsi ad accogliere i Sedàra, per i quali è stato faticosamente ottenuto un invito e che, ignari dell’usanza aristocratica, potrebbero presentarsi in perfetto orario. Il prossimo imparentamento con il ricco ma plebeo Don Calogero e la sua bella figlia impone ai Salina di modificare i comportamenti tradizionali, suscitando peraltro la malevole ironia dei Ponteleone. Scriveva Tomasi, nelle sue pagine critiche dedicate a Stendhal, che il romanziere è il «padrone del tempo»11: parole che valgono a suffragare ulteriormente la chiave di lettura del Gattopardo quale sublime e intensa osservazione degli effetti che il tempo, potente e spietato rullo compressore di ogni aspetto del reale, inesorabilmente provoca sugli uomini e sulla società.

NOTE Si tratta di Caterina e Carolina. Una quarta sorella, Chiara, sposata a Napoli, è appena nominata e priva di rilievo nell’economia del romanzo. 2 Ricordo, per inciso, che mentre il plebeo Mastro-don Gesualdo muore in un palazzo nobiliare, l’aristocratico Don Fabrizio si spegne in un albergo borghese. Entrambi, dunque, 1

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in luoghi a loro alieni. Ciò a conferma delle affinità che legano il Gattopardo al romanzo verghiano. 3 Si ricordino comunque gli accenni a Napoli nella parte prima (la visita del Principe al re Borbone), nella parte settima (l’inutile consulto presso un luminare della medicina) e nella parte ottava (il riferimento a una delle sorelle Salina, Chiara, lì sposata). Infine, viene menzionata anche Londra, città nella quale Giovanni, il secondogenito sottrattosi agli agi di Palermo, si è trasferito. 4 Quello della sporcizia è un tratto su cui Tomasi spesso si sofferma nelle sue descrizioni di Bisacquino e Prizzi, ma anche di Donnafugata e San Cono, nonché degli interni delle case (i cortili luridi di Palazzo Salina a Donnafugata, gli orinatoi ricolmi di Palazzo Ponteleone a Palermo durante il ballo). 5 È tuttavia noto come, nella descrizione di Donnafugata, Tomasi si sia ispirato al paese di Santa Margherita Belice, dove egli aveva trascorso lunghi periodi della sua giovinezza. 6 Ha scritto pagine interessanti su questa ottava parte A. SERVELLO, La «Parte» VIII del «Gattopardo» fra letteratura e teatro, «Otto/Novecento», XVII, 1993, 6, pp. 183-191. 7 Si veda, a proposito di questa particolare ‘intromissione’ del futuro nella vicenda narrata, il saggio di C. A. RUBINO, A Bomb manufacted in Pittsburgh, Pennsylvania. Past, Present and Future in «The Leopard», «Forum Italicum», Spring 1987, pp. 16-25. 8 È probabile che quando il Principe descrive al piemontese Chevalley, che gli offre la carica di senatore, l’immutabilità della società siciliana e l’inutilità di ogni tentativo di cambiarla, egli esprima, oltre a rendere conto di tale condizione oggettivamente persistente in ogni epoca, anche la sua personale aspirazione a questo stato di cose. 9 Nel primo capitolo, ambientato nel 1860, si afferma che il Principe ha quarantacinque anni, nel settimo, datato 1883, che ne ha settantatre: dunque, egli potrebbe essere nato nel 1815 o nel 1810. 10 In «Allegoria», IX, 1997, 26, pp. 135-145. 11 G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Lezioni su Stendhal, a cura di P. RENARD, Palermo, Sellerio, 1977, p. 50.

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FRANCA SINOPOLI SULLA FUNZIONE TRASFORMATIVA DEL GENERE LETTERARIO NELLE OPERE DI LUIGI MENEGHELLO Partendo da una cornice storico-letteraria basata su tre elementi solitamente non considerati come fondanti il canone della letteratura nazionale, e cioè: l’espatrio, la migrazione e la vita tra due o più lingue e culture, in antitesi al rapporto – viceversa centrale nel canone italiano di derivazione ottocentesca – tra inclusività e stanzialità nel territorio nazionale, e tra lingua madre, cultura e lingua letteraria, vorrei portare in questa sede qualche elemento di riflessione intorno alla questione del ‘genere’ narrativo nella scrittura letteraria di un grande espatriato italiano del Novecento qual è Luigi Meneghello. Un autore decentrato rispetto al canone monolinguistico e nazionale italiano? oppure centrato su un canone antitetico, e di fatto marginale, quale quello plurilinguistico e regionale? oppure – terza ipotesi, lanciata qui come via di fuga rispetto alla consueta contrapposizione tra le prime due e che forse varrebbe la pena di verificare – si tratta di uno scrittore pienamente comprensibile solo all’interno della ‘mobilità’ non solo biografica ma consustanziale all’identità ‘autoriale’ di gran parte degli scrittori europei del Novecento? Utile semmai, come sostiene Antonio Prete, a «ripensare la storia letteraria in una relazione – aperta e mobile – tra una singola area geografica e il gioco delle tradizioni, delle fonti, delle presenze, delle rispondenze che altrove rinviano e altrove hanno radice»1. È dunque l’opera di Meneghello più ampiamente interpretabile secondo la logica di una sorta di decostruzione della stessa idea di canone? Il campo di tensioni che attraversa la sua opera dà forma alla questione dell’identità e dell’appartenenza nazionali nei termini di una sorta di critica ‘di lunga durata’ al sistema linguistico e ideologico del canone letterario italiano del Novecento. Tale aspetto può essere rintracciato anche sotto il profilo dell’idea di genere letterario e, in particolare, di forma narrativa coltiva— 571 —

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ta dall’autore combinando il modo romanzesco con altre tipologie testuali, principalmente il saggio storico, la memoria e l’indagine storico-linguistica. In termini più generali, è senso comune che la questione del ripensamento della prigione in cui si trasforma la storiografia nazionale possa e debba essere di volta in volta messa a fuoco attraverso la pietra di paragone della singolarità e concretezza della scrittura letteraria. Perché dunque il genere letterario avrebbe una funzione trasformativa nell’opera di Meneghello? Mi riferisco ovviamente alle sue opere ‘narrative’ o ‘narrazioni’, come le definisce l’autore stesso, il quale ha inteso con ciò non solo mettere in questione l’etichetta attributiva e la natura di ‘romanzo’ ad esse riferite, ma anche indicare alla fine degli anni Ottanta la sua partecipazione ad un ripensamento delle convenzioni italiane intorno alla definizione del romanzo che risale al periodo precedente la pubblicazione del suo primo libro, Libera nos a Malo, che è del 1963, e proprio a proposito del quale dirà nel 1989: Quando ho scritto il mio primo libro […], mi sono divertito a sfidare le convenzioni ricorrenti allora in Italia circa ‘il romanzo’, giocando liberamente con vari schemi narrativi e improvvisando legami coi registri della filologia, della poesia lirica, del saggio antropologico, delle ‘memorie’ private. Così ho continuato poi a fare: volevo che ciò che scrivevo avesse il richiamo (appeal) di un racconto, e lo speciale mordente (bite) di un buon saggio non convenzionale […].2

È interessante notare l’uso di termini quali ‘divertirsi’, ‘giocare’, ‘improvvisare’, ma il riferimento al momento ‘ludico’ non è fine a se stesso, è piuttosto espressione di una vena satirica, dell’ironia e della trasgressione fantastica, come aveva messo in luce Maria Corti solo tre anni prima in un intervento apparso su «Alfabeta»3 a proposito della mancata ricezione dello scrittore. L’ironia non va fraintesa pertanto nei termini di una messa in crisi della ricerca del senso nel rapporto tra storia e romanzo, messa in crisi che è stata patrimonio della cultura italiana degli anni Settanta e Ottanta, alla quale del resto Meneghello non ha partecipato direttamente, essendo vissuto per quarant’anni in Inghilterra. I suoi testi non sono novels in senso convenzionale, come egli stesso dice, cioè non si identificano totalmente con il modo realistico-mimetico4, pur utilizzandone la vocazione di ricerca delle caratteristiche esistenziali e delle dinamiche profonde di una certa cultura in una determinata epoca storica. Domina in essi un carattere instabile e il ricorso al frammentismo e alla pluralità degli stili e dei punti di vista, come ha messo in luce — 572 —

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Ernestina Pellegrini5 o alla riduzione della memoria al meccanismo montaliano delle ‘occasioni’, come ha notato Cesare Segre6, pur essendo Montale un bersaglio negativo della critica letteraria in nuce che troviamo sparsa qua e là nelle pagine meneghelliane, una sorta di antidoto all’effetto imbalsamatore dei testi fondativi del canone italiano, ben evidenziato da Pier Vincenzo Mengaldo7. Per usare le stesse parole di Meneghello, l’instabilità narrativa è piuttosto una «forma rotta», in cui del resto culminano Le Carte8, la quale non può essere d’altra parte facilmente presa a pretesto per assegnare l’opera di Meneghello ad un capitolo neo-sperimentale o viceversa tardo-modernista della narrativa italiana. Ernestina Pellegrini parla di «altre nature o competenze» che agirebbero all’interno del narratore Meneghello9, includendolo in una schiera di scrittori-professori quali Maria Corti, Gesualdo Bufalino, Claudio Magris ed altri, che hanno coniugato attitudini diverse, ma si deve tener conto anche della sua vocazione filosofica, maturata durante gli anni di università e poi riconvertita secondo una «impostazione letteraria», come ricorda lo stesso autore10, che lo ha portato ad utilizzare la «precisione capricciosa della fantasia», con cui traduce il termine inglese imagination e a sfruttare le «misteriose potenze della lingua». Gli stessi saggi raccolti in Jura (1987) sono da lui intesi come «aggiunte ai “romanzi”, quasi dei nuovi capitoli»11 e la letteratura stessa è «una funzione del capire». Così come sul piano della sua attività di traduttore egli parla piuttosto di ‘trapianti’, di innesti e di incroci complessi tra culture diverse, l’inglese, l’italiana, la locale del paese di nascita, Malo, basti pensare ai numerosi riferimenti all’argomento sparsi nelle sue prose saggistiche o al recente esperimento condotto in Trapianti. Dall’inglese al vicentino (2002). Se prendiamo in considerazione, poi, oltre la compresenza di diversi generi (narrativo, saggistico, antropologico), anche quella di diversi stili o modi di dar forma all’esperienza della realtà12 o addirittura il ricorso ad una ‘scrittura per immagini’, si deve parlare di un vero e proprio attraversamento di forme e codici, a cui si accompagna una altrettanto ricca rete tematica, funzionale al rifiuto del monotematismo e della narrazione autofinalizzata, e la già ampiamente studiata pratica dell’ interplay ossia delle interazioni linguistiche13. Questa identità dislocata, a diversi livelli, della scrittura meneghelliana, interpretata ad esempio da Franco Marenco come frutto di una poetica ‘modernista’14 può essere esaminata non solo sul piano del rapporto con la tradizione letteraria e con la storia – di cui la seconda irrimediabilmente persa nel— 573 —

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la sua dimensione evenemenziale e riconducibile all’unico ordine di lettura possibile, quello a ‘caleidoscopio’ e la prima sempre più ridotta a riferimenti irriconoscibili – ma anche su quello più particolare del genere. Vorrei passare ora, seppur per brevi sondaggi, alla questione del genere rintracciabile in una delle sue ‘narrazioni’, Fiori italiani, volume pubblicato nel 1976. Com’è noto il tema del libro è l’educazione della gioventù italiana durante gli anni Trenta, cioè durante il Fascismo. Tema molto caro a Meneghello, come ha ben messo in luce Mengaldo trattandolo quale vero e proprio universo narrativo dell’autore, incentrato sulla dimensione civile e pedagogica, accanto a quello archeologico-linguistico, entrambi generatori di testi. La natura saggistica di Fiori italiani sarebbe evidenziata, secondo Mengaldo, dall’uso dell’inglese (la lingua del presente di Meneghello), che produrrebbe una sorta di sovrapposizione del presente vissuto dallo scrittore al passato narrato nel testo, dovuta per altro alla dominanza della componente anglosassone della cultura di Meneghello, già evidenziata da Maria Corti nell’articolo pubblicato su «Alfabeta» dedicato in particolare proprio a Fiori italiani, dove la studiosa rintracciava in tale componente, insieme alla non appartenenza dell’autore ad un gruppo o ad un movimento italiani, una delle due cause principali della sua mancata ricezione e della sua marginalizzazione, in Italia. Un altro carattere che proverebbe la natura saggistica del testo è, secondo Mengaldo, la prevalenza della descrizione sull’uso dei modi narrativi15, ed è proprio in questa scelta di organizzare la materia e l’immaginazione, i desideri e le intenzioni conoscitive secondo la ‘modalizzazione’ descrittiva del discorso che dobbiamo misurare la questione del genere preferito da Meneghello, che per comodità collochiamo al confine tra saggio e romanzo, ma che lui stesso giustifica allo stesso tempo come rifiuto delle ‘forme stabilite’ e come matrice di libri mai veramente finiti16, cioè come contaminazione tra generi diversi e come messa in discussione della stessa esistenza del genere, che per esistere concretamente deve pur incarnarsi in una qualche stabilità e riconoscibilità. La funzione trasformativa del genere letterario in Meneghello coincide in breve con la sua negazione di genere, o meglio con la negazione della sua ‘teologia’, negazione dispiegatasi lungo il percorso di tutta la sua opera, che culmina come ho già accennato nei tre volumi perigliosi e difficili de Le Carte. In particolare in Fiori italiani il racconto della diseducazione approntata dalla scuola fascista, in nome del regime della convenzione fuori della quale tutto era sbaglio, da segnare in blu o in rosso, è rivolto a condannare i danni — 574 —

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della ripetizione di formule prestabilite, comprese quelle nei cui limiti veniva trasmessa la competenza della scrittura, attraverso cioè l’assorbimento passivo della lingua aulica e delle forme liriche della tradizione, in sintonia con un’idea della cultura, dice Meneghello, «esposta come la Sindone, non trattata come un servizio pubblico»17. È infatti lo scrittore che parla in prima persona, seppure sdoppiato nel protagonista S., la cui Bildung negativa è seguita nei vari settori disciplinari e livelli dell’educazione che lo allontanano progressivamente dalla realtà empirica e dunque dal rapporto con le ‘cosecose’, a cui si sostituiscono via via le ‘cose-parole’18. La seconda parte del capitolo 2 di Fiori italiani19 è incentrata sul rapporto tra educazione letteraria di tipo mnemonico, competenza scritta dell’italiano e praticabilità in proprio della scrittura letteraria. I generi (e i testi) dominanti della tradizione nazionale, cioè il poema epico classico (Omero e Virgilio), la lirica foscoliana e il romanzo manzoniano, diventano un vero e proprio impaccio alla costruzione e all’uso della prosa, producendo al suo posto un ‘poetare indistinto’: L’effetto più vistoso fu quello degli sciolti. La loro struttura si diffuse nelle provincie [sic] linguistiche della testa di S., creando in quelle centrali un sistema di governo così fermo che sopravvisse in seguito alla scomparsa delle parole. Per anni la testa di S. continuò a generare composizioni omeriche, molto robuste e drammatiche, fatte di sillabe e gruppi di sillabe senza significato.20

L’esito di questa acculturazione formale è il desiderio di S. di comporre un’Iliade moderna, l’Astianatteide, poema incompiuto, consistente in un’unica introduzione su cosa avrebbe trattato. L’altra ‘deficienza’ fondamentale denunciata dal narratore della storia dell’educazione di S. è quella relativa alla mancanza di letture di romanzi al di fuori di quello manzoniano, infarcito di «pezzi sagomati come le poesie; poesie in prosa, distinte piuttosto che belle»21, che «si sentivano non come prosa ma come poesia rientrata»22. La ragione è che «la prosa appariva del tutto in subordine rispetto alla poesia: davvero un genere diverso, e inferiore»23. Anche qui il risultato sul piano emulativo è deludente: S. vuole comporre un romanzo sull’unica esperienza di lettura di quello del Manzoni, ma fallisce anche stavolta, per eccesso di allegoria e difetto di intreccio narrativo. Vale la pena di riportarne qualche rigo: […] S. in terza mise in cantiere un importante romanzo storico-psicologico sul Risorgimento, che cominciava in una carrozza, anzi in una diligenza. Essa saliva ver-

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so sera per contrà Lovara al passo. Dentro c’erano personaggi col mantello che rappresentavano tutto. Uno la viltà, uno la fede ingenua, uno la furberia, ecc., come nel Manzoni. Questa carrozza però non riusciva ad arrivare in cima alla salitella di Corbelli. Un giorno S. si stufò e scese. E fece un proposito, che non avrebbe mai, mai più scritto un romanzo.24

Al ‘sistema di ingabbiature’ che era la cultura letteraria negli anni Trenta e Quaranta in Italia, Meneghello contrappone costantemente, in questo come negli altri volumi da angolature diverse, l’idea e la pratica della cultura, e della letteratura in particolare, apprese durante il lungo soggiorno inglese. La lettura di Fiori italiani è difatti costellata di richiami contrastivi all’impianto educativo anglosassone, specie quando la cattiva avventura educativa di S. si sposta all’università alla fine degli anni Trenta, dove esperisce una sorta di continuazione dell’impianto intellettuale appreso al liceo: «esercizi di lettura […] senza mai mettere in discussione i presupposti»25. Ma nel libro il richiamo all’esperienza inglese, così come si è detto per l’uso di parole inglesi, ha l’effetto di attualizzare il testo, riportarlo al ‘senno di poi’, dal quale ha proceduto la critica del sistema educativo italiano di epoca fascista in cui consiste Fiori italiani. È insomma il dispositivo che fa sì che la narrazione da romanzo quale poteva essere sia in effetti un saggio narrativo, l’autobiografia di una generazione di italiani26. Il richiamo all’esperienza inglese non fornisce, cioè, il finale risolutivo dell’intreccio di disamine dei danni causati da quel tipo di educazione. Lo schema cronologico che sottostà alla narrazione e che coincide con le diverse tappe di attraversamento del sistema educativo da parte di S., culmina in un’altra rieducazione, antecedente a quella oltremanica, narrata poi ne Il dispatrio (1993). L’ultimo capitolo, il settimo, racconta infatti «la conclusione della nostra educazione»27, una conclusione che è in verità la trasformazione di ciò che c’era stato sino ad allora e di ciò che abbiamo letto sino a quel momento. Quello che può essere inteso come un saggio narrativo sul sistema educativo italiano degli anni Trenta e dunque come un anomalo ‘romanzo di formazione’, niente affatto edificante, finisce nella morte di tutte le certezze acquisite (le cose-parole) e nel passaggio alle cosecose, reso possibile attraverso la storicizzazione della propria esperienza e di un decennio della storia d’Italia attraverso di essa. Il narratore Meneghello racconta infatti come il protagonista, S., incontri ad un certo punto il maestro antifascista (Antonio Giuriuolo), che dice essere stato anche suo maestro. Da questo punto in poi parte una lunga riflessio— 576 —

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ne del narratore sulla figura del partigiano Giuriuolo, nutrito di letture letterarie e filosofiche europee, e sulla sua funzione anti-educativa (rispetto all’educazione fuorviante e vuotamente retorica ricevuta sino ad allora, e dunque si tratta di una rieducazione basata sulla concretezza). Tale riflessione, mettendo in scena anche l’io del narratore Meneghello e le vicende della sua trasformazione in testimone diretto del prender forma di un mondo di idee ‘oggettivate’, trasforma l’andamento del testo da saggio-narrativo in pagine allo stesso tempo di biografia (quella di Giuriuolo) e autobiografia. In conclusione, direi che nelle opere di Meneghello compaiono elementi sufficienti per operare una rilettura a tutto campo di questo autore anche alla luce della (de)costruzione del genere ‘romanzo’ come interplay di forme narrative e saggistiche. NOTE 1 A. PRETE, Stare tra le lingue, http://www2.unibo.it/boll900/numeri/2003-i/Prete.html, «Bollettino ’900», 2003, 1. 2 L. MENEGHELLO, Fiori a Edimburgo (1989), in ID., La materia di Reading e altri reperti, Milano, Rizzoli, 1997, p. 64. 3 M. CORTI, Luigi Meneghello, «Alfabeta», 1986, 81, p. 3. 4 Cfr. R. CESERANI, Guida allo studio della letteratura, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 561-562. 5 E. PELLEGRINI, Luigi Meneghello, Fiesole, Cadmo, 2002, p. 45; della medesima si veda anche Nel paese di Meneghello, Bergamo, Moretti & Vitali, 1992, cap. V, par. 2, Un sistema per points, p. 95. 6 C. SEGRE, Prefazione, in L. MENEGHELLO, Opere, a cura di F. CAPUTO, I, Milano, Rizzoli, 1993, p. XII. 7 P. V. MENGALDO, Prefazione, in L. MENEGHELLO, Opere, a cura di F. CAPUTO, II, Milano, Rizzoli, 1997, p. XXII. Sulla lettura ironica di Montale da parte di Meneghello e sulla poesia del primo come «contrappunto» alla prosa del secondo cfr. D. ZANCANI, Montale in Meneghello, in Su/Per Meneghello, a cura di G. LEPSCHY, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp. 109-117. 8 L. MENEGHELLO, Le Carte, III, Milano, Rizzoli, 2001, p. 159. 9 E. PELLEGRINI, Luigi Meneghello, cit., p. 10. 10 L. MENEGHELLO, Fiori a Edimburgo, cit., p. 64. 11 Ivi, p. 65. 12 ID., Bau-sète! L’uovo dello stile (1988), in ID., La materia di Reading e altri reperti, cit., p. 280. 13 Cfr. ID., Jura. Ricerche sulla natura delle forme scritte, Milano, Garzanti, 1987, p. 108.

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FRANCA SINOPOLI 14 M. MARENCO, Libro come mondo: il modernismo in «Libera nos a malo», in Su/Per Meneghello, cit., pp. 61-72, in particolare per le fonti nel modernismo inglese cfr. p. 69 e per i caratteri del modernismo nella prima opera di Meneghello (aspirazione alla totalità e conciliazione degli opposti) cfr. p. 68. 15 Cfr. P. V. MENGALDO, Prefazione, in L. MENEGHELLO, Opere, cit., p. XVIII. 16 Vedi nel primo caso Le Carte, III, cit., p. 292 e, nel secondo, Fiori a Edimburgo, cit., p. 65. 17 Cfr. ID., Fiori italiani (1976), Milano, Mondadori, 1994, p. 38. 18 Ivi, p. 42. 19 Ivi, pp. 53-63. 20 Ivi, p. 54. 21 Ivi, p. 61. 22 Ivi, p. 62. 23 Ivi, p. 60. 24 Ivi, pp. 56-57. 25 Ivi, pp. 119. 26 Su altri scrittori, come C. E. Gadda, C. Alvaro e V. Brancati, che seppero leggere nel fascismo una vera e propria – in termini gobettiani – «autobiografia della nazione», si veda G. FERRONI, Passioni del Novecento, Roma, Donzelli, 1999, in particolare i capitoli 1-3. 27 L. MENEGHELLO, Fiori italiani, cit., p. 165.

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FLORINDA NARDI LA FORMA BREVISSIMA DEL NARRARE DI ACHILLE CAMPANILE Fino a qualche anno fa affrontare una lettura critica dell’opera di Achille Campanile imponeva una preliminare denuncia dell’ingiusta mancanza d’attenzione mostrata nei confronti di un autore letto da tanti, se non da tutti, amato da chiunque lo abbia letto, ma da troppo pochi considerato un autore degno, se non di essere uno dei classici del Novecento (come lo ha poi definito Carlo Bo), almeno di far parte degli autori cui dare rilievo critico nelle storie della letteratura italiana. Oggi, nonostante siano state scritte soltanto tre monografie su di lui, non si può più dire lo stesso, non si può più mettere in discussione il valore di uno scrittore perché si considera il genere comico una sottoclasse della letteratura con la «l» maiuscola, né è più lecito domandarsi se Campanile sia uno scrittore umoristico oppure uno scrittore tout court. Dubbi di tale sorta non hanno più ragion d’essere, soprattutto dopo le celebrazioni per il centenario della nascita – protrattesi dal 1999 al 2000 in virtù del mistero anagrafico che per tanti anni ha avvolto la data di nascita di Campanile –, che hanno portato tante manifestazioni, mostre, nuove edizioni delle opere dell’autore e l’attivazione di un sito internet ufficiale curato dal figlio Gaetano (e realizzato da Silvio Moretti e Angelo Cannatà)1. Il valore del giornalista, dello scrittore, del drammaturgo proprio in quanto umorista è stato definitivamente legittimato da acuti primi lettori come Pietro Pancrazi ed Eugenio Montale2; da critici quali Umberto Eco, Carlo Bo, Oreste Del Buono, Giovanni Calendoli e Walter Pedullà3; oltre che dagli studi critici citati di Caterina De Caprio, Barbara Silvia Anglani e Giorgio Cavallini4. Ed è forse ora possibile, una volta legittimato il valore dello scrittore a dispetto del contenuto comico-umoristico delle sue opere, dedicarsi, con minori pregiudizi, alla forma che veicola quel contenuto. Anzi, proprio alle mille forme che impediscono la definizione di uno scrittore che voleva — 579 —

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essere ricordato «senza aggettivi», forme nelle quali tutte le strategie del comico e dell’umorismo si scatenano e tutti i codici espressivi vengono sperimentati. Del resto sull’intercambiabilità del contenuto delle storie, sulla sua secondarietà, è lo stesso Campanile che ci indirizza attraverso i personaggi dei suoi romanzi. Un esempio, in Ma che cosa è quest’amore?5 il protagonista Carl’Alberto – dopo aver raccontato «una lunga storia da ridere»6 – scopre con stupore che tra i suoi uditori c’è anche il personaggio di cui stava narrando le gesta attraverso una lunga serie di variazioni perché non ricordava il finale che avrebbe dovuto far ridere: Ero io. [lo aiuta allora l’uomo che si era riconosciuto nella storia] Però – aggiunse subito – la cosa non andò precisamente come ella ha narrato. Anzitutto, il fatto non avvenne a Perugia, ma nelle vicinanze di Roma. Poi, non si trattava di un albergo, ma d’un bosco. In terzo luogo, è completamente inventato il particolare del pellirossa.7

Cambiano dettagli molto significativi, ma il riconoscimento della storia non cambia e, invitato a raccontare la sua versione, il nuovo narratore propone tutta un’altra storia, il contenuto non è più lo stesso, ma cosa cambia? L’effetto è sempre il riso, anche e soprattutto nell’assurdità del contrasto. Molti anni più tardi, nel 1934, Chiarastella, il protagonista dell’omonimo romanzo, in uno dei suoi numerosi viaggi si ritrova a visitare un luogo fonte di ispirazione di molte canzoni di argomento africano e commenta: «Qui […] tornano le canzoni vecchie e già sfruttate, dopo aver fatto il giro del mondo, e vengono ricomposte. In fondo, si lavora sempre con la stessa materia»8. Non si può che essere d’accordo con la Anglani quando legge in questo brano l’intenzione autoreferenziale dell’autore al suo metodo di scrittura. Per Campanile, infatti, il serbatoio da cui trae tutte le sue storie è la vita quotidiana, usi e costumi della società in cui vive, i tanti luoghi comuni, le singole parole del linguaggio italiano ciascuna delle quali può contenere una storia. È tutta dunque «la stessa materia» ed è allora nella forma del narrare che è la differenza, è la forma a creare il contenuto, se non altro nel suo effetto appunto quello comico, umoristico, di non-sense o dell’assurdo. Pur volendo prescindere dal contenuto, però, entrare nel laboratorio di scrittura di Achille Campanile rimane sempre un enigma, come del resto lo sono stati per anni la data di nascita dell’autore o la presunta identità di Gino Cornabò. — 580 —

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Si sa quanto sia difficile definire la scrittura o la struttura narrativa di qualsiasi opera di Campanile, soprattutto quando è esplicita volontà dell’autore non volersi far catturare in definizioni. Si è parlato di ‘scrittura modulare’, di collage, di un mosaico di narrazioni, di riuso continuo dello stesso materiale alla cui origine dovrebbe essere l’unità minima della tragedia in due battute. Ha praticato tutti i generi letterari, dal romanzo, alla commedia, dalla tragedia al diario di viaggio, ma il suo laboratorio di scrittura sembra fondarsi su un unico meccanismo che, a ‘riusare’ le parole del figlio Gaetano, potrebbe essere definita la tecnica del ‘taglia e incolla’: Chi sa come avrebbe vissuto l’era del computer mio padre, lui che già utilizzava il ‘taglia’ e ‘incolla’ quando riordinava i propri lavori. Sì quando li ordinava, perché quando sedeva alla sua scrivania aveva già tutto scritto. Ovunque si trovasse quando gli veniva un’idea la scriveva utilizzando ciò che aveva a portata di mano: foglietti di carta velina o buste per lettera aperte in tutti i lati, rivoltate e utilizzate all’interno; biglietti del tram e persino foglietti dove recentemente aveva disegnato qualche personaggio. Così allargava i suoi foglietti sulla scrivania aumentando, per quanto fosse possibile, la confusione, prendeva le lunghe forbici, la coccoina in vasetto con pennellino, e cominciava a tagliare ed incollare, ogni tanto scriveva qualche frase per legare i periodi e faceva alcune aggiunte. Terminato il collage, radunava le carte e chiamava mamma, la dattilografa che ha ispirato La caduta del ragno, che trascriveva a macchina.9

I travasi di materiale narrativo – sempre «la stessa materia» – da un genere all’altro, da un romanzo all’altro, da una tragedia in due battute a una commedia, sono la cifra distintiva della scrittura di Campanile sin dagli esordi. Si pensi al brevissimo dialogo tra Le due locomotive che l’autore in Autoritratto10 ricorda come il suo primo lavoro teatrale in due battute: «– Le dà fastidio il fumo? – Per carità, s’immagini, fumi pure. Fumo anch’io»11, battute che ottengono una variazione sul tema entrando nelle pagine di Ma che cosa è quest’amore?, più esattamente nel dialogo alla stazione tra Carl’Alberto e una signora: «Le dà fastidio il fumo?» chiese Carl’Alberto alla signora, pronto a parare uno schiaffo. «No, fumi pure». «Grazie, non fumo». «E perché me lo domanda?» «Alludevo al fumo del treno».12

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Gli esempi sono davvero numerosi, sempre nel primo romanzo campaniliano si trova, quasi per intero, l’atto unico Centocinquanta la gallina canta13, rappresentato nel 1925 al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia (28 Febbraio, Roma), in una versione, però, che molto richiama, nei modi e nei ritmi, anche la discussione tra Jolanda e Goffredo che apre Campionato di calcio ovvero far l’amore non è peccato14. Per evitare di fare un elenco che coinvolga tutte, o quasi, le opere di Campanile, dalla commedia in quattro atti L’Anfora15 (del 1935, presentata appena finita la guerra nella versione Il Barone e la baronessa Calamari al teatro Quirino di Roma) alla La lettera di Ramesse16 (pubblicata nel 1931 nel romanzo In campagna è un’altra cosa, pubblicata poi tra le quindici commedie inserite nella raccolta L’inventore del cavallo, e addirittura trasmessa in TV il 24 ottobre 1953, nella rubrica «Il Caffè delle Muse», regia di Alessandro Brissoni); da Chiarastella a La moglie ingenua e il marito malato17 (che subisce il passaggio inverso, dalla pagina stampata del romanzo, prima a puntate sull’«Oggi» nel 1941, si traduce sulla scena nel 1942 quando viene rappresentato per la prima volta al Teatro Eleonora Duse di Genova), illuminante può essere l’unico esempio de Il povero Piero18. Il romanzo esce nel 1959, per la Rizzoli, ma contiene una riflessione sulla morte che molto deve a Il pensiero della morte pubblicato nel 1933 nella raccolta di articoli giornalistici usciti nel 1926 (sulla «Tribuna» e sulla «Stampa») con cui Campanile vinse il suo primo premio Viareggio nel 1933, Cantilena all’angolo della strada19. Vi si legge, però, anche la ‘trovata’ di Visita di condoglianze20, una pièce teatrale rappresentata nel 1940 al Teatro Nuovo di Milano (per la regia di Alessandro Brissoni, poi trasmessa in TV nel 1968, per la regia di Flaminio Bollini). Il romanzo è poi destinato a ritornare integralmente sulla scena nel 1965 quando viene rappresentato al Sant’Erasmo di Milano. E, ancora nel 1973, un esempio di mirabolante conversazione per esperti di scioglilingua diviene un invito alla lettura del romanzo stesso in Il povero Piero perì a Pavia, contenuto appunto nel Manuale di Conversazione21. Ancora una volta, la materia è sempre la stessa, ma nel passaggio da un codice espressivo all’altro, dal giornalismo al teatro, dal teatro alla narrativa (e più avanti si vedrà persino al cinema e alla televisione) anche la scrittura e la struttura letteraria sembrano rimanere le stesse. Un’ipotesi affascinante, allora, anche se tutta da verificare, è quella che vede nel passaggio da un codice all’altro una mancata transcodificazione del testo verbale, vale a dire che la — 582 —

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tecnica di scrittura, se pur ricca di strategie narrative bene esaminate da Giorgio Cavallini e caratterizzata da altrettanti meccanismi del comico cui si riferisce Umberto Eco, in realtà si fonda non soltanto su una scrittura modulare e una universalità e versatilità dei contenuti, ma anche sull’indifferenza verso la specificità dei codici espressivi: una tecnica di scrittura che come un passepartout entra e esce a piacere dalla narrativa al teatro, dalla cronaca alla canzonetta, dalla radio-televisione al cinema. Campanile giornalista, narratore e drammaturgo, dunque, ma anche autore radiofonico – il suo Autoritratto, pubblicato su «Ridotto» nel marzo del 1984 fu prima trasmesso alla radio per i programmi nazionali il 6 novembre del 1960 –; autore e attore televisivo – La lettera di Ramesse fu portata in TV nel 1968 per la regia di Flaminio Bollini con Campanile professore che la interpretava, e ancora prima, nel 1953, quando la televisione non era ufficialmente nata, ma si sperimentavano i programmi, i paradossi di L’amore fa fare questo e altro furono scelti da Alessandro Brissoni per il suo «Caffè delle Muse». Per non parlare poi del Campanile sceneggiatore cinematografico: nel 1937 lavora al soggetto del secondo film di Totò, poi ne scrive la sceneggiatura con suo padre Gaetano e Ivo Perilli. Diventerà il film del 1939, Animali Pazzi di Carlo Ludovico Bragaglia, in cui tornano alcuni degli animali descritti da Chiarastella nei suoi viaggi. Scrive poi sceneggiature per il cinema comico degli anni Cinquanta: Ho scelto l’amore (1953) di Mario Zampi con Renato Rascel e Martin Toccaferro (1953) di Leonardo De Mitri, con Titina e Peppino De Filippo. E, infine, lo sketch Il bacio22, tratto dalla tragedia in due battute omonima, diventa uno degli episodi di Tempi Nostri (1954) di Alessandro Blasetti, parabola del cinema italiano in cui Campanile trova il suo posto. Ma per evitare un altro lungo elenco e per l’impossibilità di parlare di immagini che non si vedono, due esempi potrebbero avallare l’ipotesi di una forma di scrittura brevissima, o meno, che prescinde dai codici espressivi che la veicolano. Ovvero il ruolo descrittivo della musica nella commedia, Autoritratto, e la presenza della tecnica cinematografica nel romanzo La moglie ingenua e il marito malato. Del resto le ingerenze del teatro nel romanzo, o viceversa, sono un fenomeno piuttosto conosciuto e basterà pensare a quello che Campanile ricorda come il suo esordio teatrale, cioè Colazione all’aperto23, per capire che le due fulminanti battute del giovane timido e del giovane robusto non avrebbero nessuna efficacia senza la lunga preparazione descrittiva della scena, che però — 583 —

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non è riducibile soltanto alla didascalia di scena, quanto a una descrizione narrativa, persino psicologica, in piena regola. Allo stesso modo, in un percorso inverso, basterà pensare al tanto discusso incipit di Ma che cosa è questo amore? Che – come ha ricordato Oreste Del Buono – è stato cambiato dalla versione a puntate a quella in volume proprio nell’intenzione di dargli un effetto maggiormente teatrale. Questo dovrebbe far capire che in realtà non si tratta di prestiti, piuttosto di una tecnica di scrittura sintetica e sinestetica che si esprime allo stesso modo in entrambi i codici. Si potrebbe dire che, in realtà, si tratta di una scrittura per immagini narrative polifunzionali che evita il processo di transcodificazione, non rispetta le specificità di ciascun codice narrativo, drammatico, televisivo o cinematografico, perché li confonde in una sintesi che non è soltanto futurista, d’avanguardia o vicina al teatro dell’assurdo, ma è prettamente ed unicamente campaniliana. In Autoritratto il procedimento è ancora più evidente, e non deve essere un caso se questa è la forma scelta da Campanile per narrare se stesso. Autoritratto è una commedia, sottoforma di un’intervista che la Storia fa all’autore, nel corso della quale tutte le sue opere, romanzi compresi, si materializzano sul palcoscenico in una parata di personaggi che recitano l’opera cui appartengono «in due battute» o poco più. Si apre con «una voce maschile che canta», seguono squilli di tromba, musica da banda, l’aria di Leporello del Don Giovanni di Mozart, l’entrata di Dulcamara nell’Elisir d’amore, effetti sonori quando necessari e stacchi musicali a volontà. Ovviamente si conclude con un canto corale intonato da Battilocchio e Alvaredo, già protagonisti di un altro finale canterino l’«Addio, mio bel castello. Tarutino e Tarutello» che chiudeva L’amore fa fare questo e altro24. Anche la musica dunque, presente in molte altre opere di Campanile, e non solo teatrali, – si pensi sempre a Centocinquanta la gallina canta – ha un ruolo tutt’altro che secondario, diviene un codice espressivo piegato ai fini della narrazione. Altrettanto facile dovrebbe essere trovare il cinema nella narrativa di Campanile prima ancora che si realizzi il cinema di Campanile. La moglie ingenua e il marito malato, infatti, è scritto nel 1941, ma porta i segni di una tecnica cinematografica, dal montaggio al flashback, che potrebbero far pensare persino a una sceneggiatura dilatata. Anche qui non deve essere stato un caso che un regista come Mario Monicelli abbia scelto questo romanzo per farne un film televisivo nel 1989. — 584 —

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Basti un esempio di struttura narrativa. Il romanzo si apre con la voce narrante, di un uomo – divertito dall’«interrogare i tipi più vari per fare raccolta di ‘casi umani’»25, c’è tutto Campanile – che racconta un bizzarro incontro con un ladro gentiluomo scoperto con le mani nel sacco. Ne nasce una conversazione, da Manuale si potrebbe dire, e la parola passa, mediata prima da un dialogo tra i due, al ladro. Un primo flashback ad episodi vissuti dal ladro. Durante la narrazione, però, con un processo che si potrebbe dire di ‘dissolvenza’ dichiarata, la parola, anzi, la scena passa ai protagonisti di questo ricordo: «lascerò la parola – dice il ladro – ai personaggi stessi che sfilarono in quella drammatica giornata nel salotto»26. La scena fin qui descritta dal ladro era a telecamera fissa, dal buco della serratura del ripostiglio in cui si era rifugiato, aveva visto passarsi davanti il marito malato, la portinaia, il dottore e un paio di vicini, ma per rendere più agevole la narrazione ha bisogno di cambiare inquadratura ed entrare nelle stanze della casa per seguire le vicende della storia. Quando la narrazione riprende, infatti, tutti i protagonisti si muovono liberamente nello spazio scenico, ma i continui riferimenti extratestuali, che il ladro fa al suo ascoltatore, riportano l’attenzione al primo palcoscenico. I due livelli della narrazione rispettano i ritmi di un montaggio fatto ad arte e si articolano non soltanto in una serie continua di flashback, ma anche in una materializzazione in immagini di pensieri o racconti nel racconto che solo alla rappresentazione cinematografica (o all’immaginazione) sono possibili. Ad esempio, tanto per fare anche qui un esempio nell’esempio, la teoria espressa dall’austero professor Pertusius (si ricorda che anche questo è un personaggio cui l’autore ha dato vita indipendente insieme al professor Gaius sulle pagine della «Gazzetta del Popolo» già dal 1938) si materializza in una Ipotesi in tre quadri dal titolo Se gli uomini avessero la coda, un bel pezzo di teatro con tanto di dramatis personae. Teatro, dunque, in un romanzo montato come un film. Un esempio di altro tipo, meglio un’altra tipologia d’esempio possibile, si trova ancora una volta in Ma che cosa è quest’amore?: Lucy lo guardò con un dolce sorriso. I suoi occhi parevano dire: ma come, non avete riconosciuto l’uomo che era con me stamattina? Carl’Alberto la guardò lungamente. I suoi occhi pareva dicessero: no, non l’ho riconosciuto. Allora gli occhi di Lucy parvero dire: andiamo, era il barone Manuel! A questo il giovane rispose con uno sguardo che voleva dire: il barone Manuel? Strano che non l’abbia riconosciuto!27

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Una tecnica narrativa decisamente vicina ad un significativo montaggio di primi e primissimi piani. In realtà, allora, quando si parla di montaggio in Campanile si può intendere non soltanto, come ha ben detto Eco, la capacità dell’autore di montare le sue storie: una «virtù letteraria [che] non sta nell’elocutio, ma nella dispositio [… non] nel disporre parole ma nel montare e rimontare, secondo una logica Altra gli avvenimenti»28, ma si può parlare persino di tecnica cinematografica. Il montaggio inteso come attribuzione di senso nell’accostamento di immagini anche quando, o soprattutto quando, queste contrastano le une con le altre. Non solo un montaggio di parole o di storie o di temi, ma anche un montaggio di codici espressivi, che nell’equilibrio dei loro contrasti diventano il veicolo più adatto e molteplice per il comico, l’assurdo, l’umorismo, la parodia, la satira, persino la meditazione di Achille Campanile e che in quel sistema di contrasti trovano la forma ideale per i propri, esistenti o meno, messaggi. La forma del narrare attraverso un montaggio assurdo, il senso del nonsense fatto di situazioni contrastanti, di voci alternate, di rotture dell’orizzonte d’attesa tanto ben costruite nel gioco con il lettore, divengono tecnica (sempre la stessa) indispensabile per il comico del discorso, il comico di situazione, l’umorismo o quelle altre mille strategie della comicità campaniliana basata sulla velocità narrativa. Alla fine, dunque, si torna al legame indistruttibile della forma con il suo contenuto: quella materia che è sempre la stessa, in quanto contenuto indifferente purché finalizzato alla comicità nelle sue mille sfaccettature, si realizza nell’unica forma che le può essere congeniale, un montaggio di codici espressivi che rispecchia la molteplicità e la ricchezza di quelle stesse strategie comiche. Un legame tanto indistruttibile da ricordare Il Ciambellone fatale29, il bellissimo e invitante dolce portato in dono da uno zio a Carlotta, protagonista dell’omonima commedia, e che innesca una serie di esilaranti gags intorno al tentativo di affettare con coltelli, seghe, martelli e infine la dinamite un indistruttibile, e appunto fatale, ciambellone. Spero solo che, a forza di tagliare, incollare e montare le tessere di un’ipotesi interpretativa, io non finisca come tutti i personaggi del Ciambellone che, nel rozzo e disperato tentativo di mangiare quel dolce bellissimo e invitante – in questo caso dono dello zio Achille – sono finiti a gambe all’aria facendo ridere tutto il pubblico presente.

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NOTE 1 L’indirizzo del sito ufficiale curato da Silvio Moretti e Angelo Cannatà è www.campanile.it 2 Per un discorso sul ruolo critico di Pietro Pancrazi nei confronti dei primi romanzi di Campanile cfr. O. DEL BUONO, Fortuna critica, in A. CAMPANILE, Opere. Romanzi e Racconti 1924-1933, a cura di O. DEL BUONO, Milano, Bompiani, 2001, pp. 1519-1534, in particolare pp. 1521-1524 e si legga di P. PANCRAZI, Il riso scemo di Campanile, recensione a Ma che cosa è quest’amore, uscita sul «Corriere della Sera» nel 1927 e poi raccolta in P. PANCRAZI, Scrittori italiani del Novecento, Bari, Laterza, 1934; di E. MONTALE si segnalano le importanti recensioni a Cantilena all’angolo della strada e ad Amiamoci in fretta, pubblicate in «Pan», 1 dicembre 1933. 3 Si vedano di U. ECO, Ma che cosa è questo Campanile?, introduzione ad A. CAMPANILE, Se la luna mi porta fortuna, Milano, Rizzoli, 1975; Il sorriso di Campanile, introduzione ad A. CAMPANILE, Ma che cosa è quest’amore?, Milano, Corbaccio, 1992; Campanile: il comico come straniamento, in U. ECO, Tra menzogna e ironia, Milano, Bompiani, 1998 e I meccanismi del comico in Campanile, in Letteratura italiana. Novecento. I contemporanei, V, Milano, Marzorati, 1979, pp. 4450-4457; di C. BO, Il Manuale senza regole di Campanile, in Letteratura italiana. Novecento. I contemporanei, V, cit., pp. 4442-4447 e I classici di Campanile, «Europeo», 13 settembre 1972; di G. CALENDOLI, Achille Campanile, in Letteratura italiana. Novecento. I contemporanei, IV, Milano, Marzorati, 1974, pp. 399-413; di O. DEL BUONO, Introduzione e Fortuna critica, in A. CAMPANILE, Opere. Racconti e romanzi 1924-1933, cit., e in A. CAMPANILE, Opere. Romanzi e scritti stravaganti 1932-1974, a cura di O. DEL BUONO, Milano, Bompiani, 1994; di W. PEDULLÀ, Il terzo braccio di Campanile, in ID., Miti, finzioni e buone maniere di fine millennio, Milano, Rusconi, 1983. 4 C. DE CAPRIO, Achille Campanile e l’alea della scrittura, Napoli, Liguori, 1990; B. S. ANGLANI, Giri di parole. Le Italie del giornalista Achille Campanile (1922-1948), Lecce, Manni, 2000; G. CAVALLINI, Estro inventivo e tecnica narrativa di Achille Campanile, Roma, Bulzoni, 2000. 5 A. CAMPANILE, Ma che cosa è quest’amore?, Milano, Corbaccio, 1927, ma prima pubblicato a puntate su «Il sereno» nel 1924; ora in ID., Opere. Racconti e romanzi 1924-1933, cit., pp. 1-195 ed è questa l’edizione cui si fa riferimento per il romanzo. 6 Ivi, p. 11. 7 Ibidem. 8 ID., Chiarastella, Milano, Mondadori, 1934, p. 125. 9 G. CAMPANILE, Ricordo di mio padre, in B. S. ANGLANI, Giri di parole, cit., p. 11. 10 A. CAMPANILE, Autoritratto, «Ridotto. Rassegna mensile di teatro», 3 marzo 1984, pp. 73-102. 11 In ID., Tragedie in due battute, Milano, Rizzoli, 2001, p. 20. 12 ID., Ma che cosa è quest’amore?, cit., p. 9. 13 ID., Centocinquanta la gallina canta, in ID., L’inventore del cavallo e altre quindici commedie, Introduzione di F. TAVIANI, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 35-51.

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FLORINDA NARDI 14 ID., Campionato di calcio ovvero far l’amore non è peccato, 1935, mai rappresentata, ma alcuni episodi pubblicati separatamente nel 1927 su «La Stampa» e «La Gazzetta del Popolo», ora ivi, pp. 379-427. 15 ID., L’Anfora, ivi, pp. 187-251. 16 ID., La lettera di Ramesse, ivi, pp. 177-186. 17 ID., La moglie ingenua e il marito malato, Milano, Rizzoli, 1941, ora con Introduzione di V. MARINELLI, Milano, Rizzoli, 2003. 18 ID., Il povero Piero, Milano, Rizzoli, 1959, ora con Introduzione di M. MARI, Milano, Rizzoli, 1999. 19 ID., Cantilena all’angolo della strada, Milano-Roma, Treves-Treccani-Tumelli, 1933; ora in ID., Opere. Romanzi e racconti 1924-1933, cit., pp. 1309-1517; anche con Introduzione di S. BARTEZZAGHI, Milano, Rizzoli, 2000. 20 In ID., L’inventore del cavallo e altre quindici commedie, cit., pp. 253-270. 21 ID., Manuale di conversazione, Introduzione di C. BO, Milano, Rizzoli, 2001, contiene Il povero Piero perì a Pavia, pp. 109-113. 22 In ID., L’inventore del cavallo e altre quindici commedie, cit., pp. 91-95. 23 Ivi, pp. 109-112. 24 ID., L’amore fa fare questo e altro, Milano, Treves, 1931; ora ivi, pp. 113-175. 25 ID., La moglie ingenua e il marito malato, cit, p. 9. 26 Ivi, p. 16 27 ID., Ma che cosa è quest’amore?, cit., p. 37. 28 U. ECO, Ma che cosa è questo Campanile?, cit., p. 6. 29 In A. CAMPANILE, L’inventore del cavallo e altre quindici commedie, cit., pp. 53-71.

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STEFANO GIOVANNUZZI BERTOLUCCI E IL «ROMANZO IN VERSI», OVVERO COME RICOSTRUIRE UN’IDENTITÀ POETICA FORTE 1. L’andamento autobiografico de La camera da letto inscrive un paradigma narrativo ancora prettamente ottocentesco: un modello forse arretrato1 ma scelto in piena consapevolezza – non a caso il Libro primo reca l’epigrafe «romanzo famigliare / [al modo antico]» – per ricomporre vicenda personale e vicenda collettiva, famigliare in specie, sanando una frattura esistenziale e psicologica ripetutamente attestata fra Sirio e Viaggio d’inverno. La ricetta parrebbe dunque collaudata e consolatoria allo stesso tempo, ma anche inguaribilmente premoderna. La camera da letto riproduce alla lettera «il conflitto della poesia del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l’accidentalità delle circostanze esterne» con cui nell’Estetica Hegel descrive la natura del romanzo. Al punto che il protagonista, quello che da un certo momento si chiama «A.», come l’autore, «dapprima in contrasto con l’ordine comune del mondo», «impara a riconoscere in esso l’autentico e il sostanziale, si riconcilia con i suoi rapporti e vi entra operosamente»2. Da lucido epigono, Bertolucci finirebbe per mettere di nuovo in scena il prototipo del Bildungsroman, in una declinazione novecentesca su cui agiscono ormai categorie freudiane, psicologiche e psicanalitiche3. Nel referto c’è sicuramente molto di vero, ma non si tratta ancora di una rappresentazione adeguata: muove infatti da un postulato astratto che isola l’opera – hors d’oeuvre la chiama Lenzini, a sottolinearne l’anomalia4 – da un contesto storico in cui, peraltro, gli arretramenti e la pluralità delle direttrici non sono poi così esorbitanti. Avanguardie e pronunce dimidiate non intercettano l’intero quadro, e forse proprio la presenza massiccia de La camera da letto sollecita una rivisitazione del secondo dopo guerra che faccia ricorso a categorie più sfumate e inclusive. In primo luogo quelle formulate dallo stesso Bertolucci, altrimenti la lettura si rivelerà ad altissimo coefficiente di ri— 589 —

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duzionismo. La forma del «romanzo in versi» non si compone semplicemente come privatissimo medicamento, se il progetto intende controvertire un pregiudizio radicato della modernità, ovvero che non si può dare poesia che non sia poesia lirica, frammento: «ho sentito che dovevo, anche a costo di un fallimento, tentare di uscire dai piccoli carceri che noi poeti ci siamo costruiti, e che sono le nostre piccole – qualche volta noiosamente perfette –, poesie liriche»5. La carica – blandamente – polemica e militante è confermata persino nei risvolti di copertina del primo volume de La camera da letto: […] uno dei motivi che mi spinsero al «poema» fu il proposito di contraddire, in qualche modo al veto che in un famoso saggio Edgar Poe aveva posto al genere «poema», per lui necessariamente destinato a cadute di tensione, impossibile a venire tenuta alta a lungo anche da grandi come Milton. Quel saggio, diffuso da Baudelaire e Mallarmé, apre la via al simbolismo, alla «poesia pura», all’ermetismo, a più di un secolo glorioso, forse concluso di poesia. Ma, perché consapevole del fatto che il lavoro da me intrapreso avrebbe avuto i suoi momenti stanchi, i suoi passaggi obbligati, la cosa mi tentava […].6

Questione di generi senz’altro, che però non può essere sollevata in termini esclusivi di teoria della letteratura, come è stato fatto7. Sono le circostanze storiche a fissare le regole di una partita che senza dubbio coinvolge anche i generi. Negli anni Cinquanta – gli anni in cui Bertolucci progetta e avvia La camera da letto – l’approdo a soluzioni narrative non rappresenta un processo privo di implicazioni rispetto alla poesia, intesa nella sua facies lirica. Ma anche gli ‘anni Cinquanta’ sono un contenitore troppo generico e comprensivo: nella seconda metà del decennio il clima officinesco comporta una secca semplificazione dello scenario e una ridislocazione dell’orizzonte culturale verso l’impegno, la politica, l’ideologia. Arretrando invece di poco, nel passaggio critico fra gli anni Quaranta e Cinquanta, Bertolucci si aggancia ancora alla deviazione verso la prosa e il racconto che interessa non poche figure di un Novecento poetico ormai maturo. Basti pensare a Saba con Ernesto, a Montale con Farfalla di Dinard, o persino al più giovane Sereni, ripiegato sulla prosa, non sempre ad alto tenore narrativo. L’arrestarsi di Saba nella stesura del romanzo non è mai stata posta in relazione – da Saba medesimo – con il movente autobiografico e la pulsione omosessuale. «Ernesto – scrive Saba in una lettera alla figlia – deve rimanere un libretto, se no quel mascalzone mi ammazza il Canzoniere»8. L’autobiografismo al limite della confessione, per quanto scabroso, non è veramente in ballo: «[…] la non — 590 —

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pubblicabilità del racconto non sta tanto nei fatti narrati quanto nel linguaggio che parlano i personaggi. E tutta la novità, tutta l’arte, tutto lo stile del racconto […] sta proprio qui. Se potessi continuare […], il libro si intitolerebbe Intimità»9. In un palcoscenico preziosamente lirico come quello della poesia degli anni Trenta, non solo ermetica, l’interferenza di genere, ma talora il semplice passaggio alla prosa, il mutamento di registro linguistico, profilano una minaccia per la poesia, che può essere giocata con notevole crudeltà dal Montale di Farfalla di Dinard, alla stregua di un esercizio di autodemolizione, e nello stesso tempo per aprire la strada al «poeta diveuto “mestre” di “gay saber” rovesciato paradossalmente» che si ritrova nelle ultime raccolte10. L’ambivalenza è costitutiva. Il romanzo moderno – quello definito da Hegel nell’Estetica – ambisce a riassorbire la lirica. O più correttamente – ma non meno ambiguamente – «cerca di ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò è possibile con i presupposti dati, il diritto da lei perduto»11. Ma in un universo ormai ordinato dalla dialogicità e pluridiscorsività bachtiniane, con cui il monologismo della lirica deve mettersi pericolosamente a repentaglio, si possono aprire estese frane, specie nel panorama aspramente ideologizzato dell’immediato secondo dopoguerra. In un’epoca di ribattuto primato del romanzo e di sconfessione della poesia, la partita della narratività – ma più in generale della prosa – è una tentazione che può risolversi per i poeti che vi si avventurano in un’arma a doppio taglio: novità esaltante di linguaggio (Saba), ma anche corrosivo che dissolve un’intera carriera poetica (Montale, Saba stesso). La posizione di Bertolucci non risulta così estrema e aggressiva. Probabilmente l’opzione per il poema narrativo, ovvero per una scrittura poetica che si faccia direttamente carico del racconto, e dunque il rifiuto di passare dalla poesia alla prosa, costituisce una risorsa in più. A Sereni, che parla della prosa come surrogato tutto sommato liquidatorio della poesia («almeno aiuta a piantarla con l’attesa dell’ispirazione»12), Bertolucci risponde in una lettera del 30 dicembre 1970: «Intanto procedo con quell’impresa un po’ folle del poema. Che forse assolve in parte alla funzione che per te ha lo scrivere ora in prosa. Dico in parte, perché poi le singole sequenze […], che partono bassissime […] per poi impennarsi e finire chi sa dove…»13. Nonostante l’impegno, il «romanzo in versi» si ferma prima della vertigine della poesia. La coscienza del limite – l’aspirazione mancata/negata alla lirica – non ammette equivoci; racchiude la certezza che solo entro le maglie piane del «romanzo in versi» («dover dire che “una mattina di giugno la sorella della ragazza amata passa dalla farmacia a com— 591 —

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prare californian poppy Atkinson”»14) si offre la possibilità di negoziare uno spazio meno conflittuale per la poesia. 2. Nella sua trentennale gestione La camera da letto intavola una articolata trattativa con le raccolte anteriori, fino alla Capanna indiana, e con i testi coevi, confluiti in Viaggio d’inverno e, per quanto molto meno rilevante, Verso le sorgenti del Cinghio. I fatti narrati nel «romanzo in versi» si esauriscono fra il 1950 (cap. XLV, Il taglio dei riccioli), l’anno in cui Bertolucci pubblica La capanna indiana, e il 1951 (cap. XLVI, La partenza), il trasferimento da Parma a Roma. La stagione successiva, quella in cui La camera da letto prende materialmente corpo, ma che de La camera da letto non è oggetto, ricade di nuovo entro la formula novecentesca della lirica, attenuata, dialogica, per rifarci a Testa15, mai perentoria e oracolare. Si può forse mettere in discussione la qualità intrinseca della narratività di Bertolucci16, ma l’opposizione fra l’asse del tempo su cui comunque si organizza la storia de La camera da letto e l’assenza del racconto come trama unificante in Viaggio d’inverno è decisiva, anche a fronte di procedure diegetiche anomale e della intensa spinta alla «presentificazione»17. Tra poema narrativo, sia pure a struttura debole, e poesia lirica Bertolucci instaura un’amministrazione separata dei rispettivi territori: il passato è oggetto di storia e dunque di racconto; il presente che accompagna passo passo la scrittura del romanzo non si lascia invece ridurre entro le maglie ordinatrici del ‘romanzo’. La stagione in cui le nozioni di poeta e di poesia si fanno più problematiche – a partire dagli anni Cinquanta – rappresentano in realtà una zona di resistenza, di dispersione ed entropia, di sanguinamento per impiegare la metafora ricorrente in Viaggio d’inverno. Il modello de La camera da letto esercita una formidabile attrazione su Viaggio d’inverno, ma non può impedire la divergenza degli esiti, soprattutto nei testi più tardi. Malgrado gli sforzi per tenere in equilibrio il sistema, Bertolucci non riesce mai del tutto a far tornare i conti: la partita rimane indecisa e la tensione è anzi destinata ad accrescersi negli ultimi anni, soprattutto dopo l’epilogo del «romanzo famigliare», come parrebbe dimostrare La lucertola di Casarola18. Il progetto del «romanzo in versi» comporta perciò un parziale fallimento. Più intrigante il legame a ritroso fra La camera da letto e le raccolte iniziali, che in certa misura costituiscono una zona fredda, scarsamente reattiva a paragone del coevo Viaggio d’inverno. L’esito di Lettera da casa – la sezione della Capanna indiana che riunisce le poesie degli anni Quaranta – conduce — 592 —

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ormai sulla soglia dell’afasia: la debole struttura lirica della poesia bertolucciana è al punto di non ritorno, chiusa nella rete angosciosa di un autobiografismo in via di sgretolamento e irrigidita in tessiture verbali ossimoriche, neutralizzanti o a somma zero. Bertolucci è tra i poeti che registrano con più acutezza le difficoltà e il mutamento di prospettiva del dopoguerra: saltando il fosso, il disegno latamente narrativo de La camera da letto permette di uscire dalla condizione di blocco inevitabile in una scrittura segnata dalla coazione a ripetere, dall’angustia di uno sguardo che si esaurisce sul soggetto, e di ridistribuire una materia autobiografica dolente in forme più estese, in cui la tensione si allenta, o almeno si dispone secondo un ordine – il tempo – e con un senso dicibili. Con la sua struttura formale preordinata – l’asse dello spazio-tempo, ma anche i personaggi – il racconto agisce come un prezioso solvente sugli addensamenti della lirica. Nell’unico orizzonte possibile per la scrittura, quello della percezione soggettiva e dell’autobiografia, la mossa non introduce un azzardo di poco rilievo, perché rischia di entrare in collisione con il referto concreto, impossibile da cancellare, delle raccolte che precedono La capanna indiana: quanto era accaduto a Saba con Ernesto. Sennonché nel romanzo del giovane rampollo di una famiglia borghese parmigiana, che passa dalla condizione di estravaganza e di marginalità rispetto alle solide pratiche economiche del ceto di appartenenza ad una sorta di riconquista etica delle ragioni famigliari (basti pensare al rilievo che in questo processo assume lo sfondo della guerra), il vero oggetto è la poesia. Bertolucci azzarda una quadratura del cerchio che in altri autori resta aperta o mal definita. Estravaganza e marginalità determinano novecentescamente la condizione del poeta: La camera da letto ricostruisce l’autobiografia di Bertolucci as a poet e nello stesso tempo ricolloca socialmente e storicamente il poeta e la sua opera. L’autobiografia è dunque un traliccio metaforico che sta per altro e produce una sistematica messa a fuoco della poesia; è quasi per statuto metaletteratura, nel senso che il poeta coincide con la sua poesia e, circolarmente, non c’è altra autobiografia se non quella racchiusa nella poesia. Il prototipo ha radici remote: la Vita nuova edifica una storia della poesia di Dante e della sua progressiva conquista di autonomia nelle forme del romanzo a forte caratura sentimentale e psicologica, spesso però intessuto a partire dagli stessi testi poetici. Ed anche senza risalire troppo addietro, Storia e cronistoria del Canzoniere rappresenta un modello – intriso di richiami vitanoveschi – per molti aspetti limitrofo, benché non sovrapponibile, dal — 593 —

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momento che Saba elegge proprio la forma scartata da Bertolucci, il saggio. In maniera assai prossima a Storia e cronistoria del Canzoniere, la struttura portante dell’autobiografia consente di organizzare e giustificare le svolte che segnano la carriera letteraria: nel «romanzo in versi» al critico Carimandrei subentra la figura dell’annalista/narratore, nella sostanza però non muta il bisogno di ossature organizzative più forti della poesia per legittimare di fronte a se stessi e al pubblico dei lettori la coerenza e la modernità della propria opera. Un tratto drammaticamente ribattuto in Storia e cronistoria del Canzoniere19, che come La camera da letto reca impresso il marchio dei tempi, di una difficoltà della poesia che impone allo scrittore altri mezzi che la scrittura lirica, giacché il libro di poesia non appare più sufficiente a se stesso. Allo stesso modo la carica etica, lo sfondo sociale de La camera da letto, sono una risposta, spesso da un’angolatura forzosa o anomala, alla pressione dei tempi, ad una eteronomia dell’arte che si fa sempre più imponente nel dopoguerra. E tuttavia, rispetto alla dinamica contraddittoria che si attiva fra Storia e cronistoria e il Canzoniere, per cui Storia e cronistoria rischia di rovesciarsi in anti-Canzoniere, il progetto de La camera da letto riconferma il primato del testo poetico, che, in opposizione alle dichiarazioni di poetica o ai pasoliniani ‘allegati’, conserva piena autonomia e in cui poetica e poesia sono saldate come le due facce di una stessa medaglia. Nella sua valenza metaletteraria, il racconto autobiografico fornisce dunque lo spaccato diacronico in cui si dispiega la formazione e la storia della poesia di Bertolucci20. Nel cap. XXIII de La camera da letto (O salmista) uno zio paterno, Don Attilio, prete modernista, con il «peccato […] / della poesia» (vv. 215-216) funge da battistrada e da mallevadore nei confronti del nipote che, guardacaso, porta il suo stesso nome, lasciandogli in eredità un «Tassino» (v. 171). Da lui il protagonista, A., «avrà accettato in lascito con gioia a tremore / una fiamma vacillante per la poesia» (vv. 314-315). L’anno è il 1928: a distanza ravvicinatissima dalla nascita di Sirio. Nel cap. XXV (Vagabondaggio fruttuoso) compare per la prima volta il «vizio consolatorio della poesia» (v. 29), ed è il 1929, la data di Sirio. Siamo al centro di sofisticate mediazioni simboliche tra la famiglia amata/odiata e la poesia: risulta però chiaro che Sirio, dunque la poesia, arriva al termine di un ciclo biografico in cui ragioni famigliari e ragioni soggettive, individuali, divergono. L’analogia tra la vicenda di A. e quella di don Attilio aiuta a collocare il giovane poeta ai margini della sua condizione sociale, in una zona di privilegio da cui germoglia un’idea di poesia che è quella degli anni Venti e Trenta. Così come è al— 594 —

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trettanto evidente che un nuovo ciclo si inaugura a partire dall’incontro con la futura moglie: l’epilogo riconduce di nuovo alla poesia, ma dopo il passaggio cruciale della paternità e della guerra. Il cap. XLV (Il taglio dei riccioli) mette in scena il poeta «irresponsabile» (v. 126) mentre scrive La capanna indiana. Con questa mise en abîme, che è anche il rispecchiamento della storia di Bertolucci (o A. nella finzione) in quella dei figli, il «romanzo in versi» ha termine: la tappa successiva è La camera da letto, ovvero l’opera che ripercorre la storia della maturazione poetica di Bertolucci fra Sirio e La capanna indiana, in un movimento circolare che fa blocco, solidamente ancorato a se stesso. Resta l’immagine del «quieto poeta / irresponsabile» di Sirio e Fuochi in novembre, ma fusa in uno con il poeta responsabilmente conscio di sé de La camera da letto. Non c’è dubbio che nei fondali sociologizzanti de La camera da letto si rispecchi il dibattito in corso negli anni Cinquanta e Sessanta e un certo tasso di giustificazionismo; ma disegnando il percorso di una maturazione esistenziale e sociale – per quanto forzata – a cui corrisponde, tappa dopo tappa, inestricabile, la crescita della poesia, Bertolucci si promette di tratteggiare un’immagine forte del poeta, tutt’altro che in crisi, anzi in grado si raccontare la propria storia e di metterla in gioco, dimostrandone la straordinaria adattevolezza verso i cambiamenti sociali in corso nel Novecento. Sia pure nei modi bertolucciani la sfida è netta. La camera da letto diviene così luogo di autorappresentazione coerente e unitaria del poeta e delle stagioni della sua opera, rigettando ogni discontinuità o conversione sul discrimine della guerra che invece sono luogo comune nelle letture della poesia novecentesca. In questo modo, con poche scosse, una poesia formatasi fra gli anni Venti e Trenta viene fatta transitare nella modernità ostile del secondo dopoguerra. Inutile dire che quella di Bertolucci è una ricostruzione che tiene solo a posteriori, eleggendo il punto di vista dell’approdo, ma l’orientamento narrativo del discorso le offre il sostegno indispensabile. 3. In effetti, La camera da letto bandisce ogni discontinuità dal proprio orizzonte: da Sirio, secondo una linea coerente che dalla chiusa soggettività si apre agli altri – sia pure nell’ambito della continuità famigliare –, si approda al «romanzo in versi», attraverso lo snodo de La capanna indiana. L’ossessione della coerenza, dell’assenza di fratture all’interno del corpo dell’opera poetica spinge a inscrivere una sorta di causa finale. L’analogia con la Vita nuova è di nuovo stringente: individuato il punto di arrivo diventa possibile riorga— 595 —

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nizzare tutta la materia precedente in funzione di esso. Si tratta, com’è naturale, di una falsificazione macroscopica dei dati storici, molto più discontinui, ma obbedisce all’urgenza di fissare un itinerario del poeta e della sua opera esente da sbalzi e rotture. Una strategia del genere, di ricomposizione poetica, ne La camera da letto si affida proprio alle risorse di una forma narrativa e autobiografica che consente di riutilizzare agevolmente come materiali da ricucire e metabolizzare nella scrittura le raccolte precedenti, facendo leva sul loro alto tasso memoriale e autobiografico. La sottolineatura può sembrare eccessiva; è però senz’altro con il «romanzo in versi» che il primato dell’autobiografia diviene in modo così esibito il legante della poesia e dell’identità del poeta. Come già il volume La capanna indiana, La camera da letto è opera nuova e insieme antologia, o meglio compendio delle situazioni e delle occasioni poetiche della poesia bertolucciana, in cui però sullo scarto prevale decisamente l’omogeneità. Un’omogeneità spesso realizzata grazie al processo che converte contesti lirici in situazioni narrative: se non si registra mai una potenziale opposizione fra poesie delle raccolte iniziali e poema, è perché le poesie sono disciolte, depurate dagli eccessi lirici e assorbite come parte strutturante nella trama e nel linguaggio del poema. La fabula del cap. V, Elsa, ad esempio, utilizza Alle mani di Wanda e Per una sorellina morta a sei anni, due testi di Fuochi in novembre, restituendo in pubblico la cronaca, famigliare e autobiografica, che nel 1934 era confinata nell’antefatto privato, nel non detto del libro. L’assolutezza lirica viene insomma ricondotta entro la macchina della parafrasi narrativa che sovraespone il connettivo autobiografico delle raccolte precedenti indicandolo come chiave esegetica indispensabile (e unica). Una dinamica del genere condiziona un’interpretazione dei testi che si riverbera a ritroso sulle raccolte originarie, rendendone di fatto impossibile la lettura disgiunta dal «romanzo in versi». È anche questo un corollario della volontà unificante con cui Bertolucci ridefinisce l’intero corpus della sua opera21. Persino La capanna indiana – il testo forse più reimpiegato ne La camera da letto – viene smontata attraverso un’operazione di autoesegesi nei vari elementi, che poi sono rimessi singolarmente in circolo nel romanzo: in questo modo scompare quanto ancora di ineffabile sopravviveva nel poemetto del 1950 e si stringono le fila della continuità. Da La capanna indiana si sviluppano almeno due episodi narrativi: il misterioso ospite dei vv. 150-168 trova il suo commento nella visita di don Attilio narrata in Fola e passeggiata (cap. — 596 —

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IX), mentre Il viaggio alla terra dei sigari (cap. XIV) ricompone l’avventura dei due fratelli alle sorgenti del Cinghio, saldando i frammenti dispersi nel poemetto. In ogni caso, per un testo fondamentale come La capanna indiana o per i testi/occasione desunti da Sirio e Fuochi in novembre, il riutilizzo comporta sempre il passaggio da una strategia lirica, assolutizzante, alla ricostruzione attenta di un contesto di epoche e persone: che è quanto Calvino chiedeva ai poeti in Il midollo del leone22. La continuità dell’opera si salva a prezzo di tradimenti e infedeltà, attraverso un radicale rovesciamento dei modi del discorso: dai coaguli lirici, alla relativa semplificazione narrativa. Non è però un caso che Bertolucci trasformi il viaggio de La capanna indiana in un prototipo intorno a cui è possibile tessere episodi chiave – dalla migrazione dei maremmani (cap. I), a La fuga a Monte Navert, alla chiusura circolare del libro sui figli di A. che nel cap. XLV ripetono l’avventura del padre adolescente – o secondari – l’avventura dei figli di Gemma nel cap. VI (Sciopero) –, che tendono comunque a far sistema intorno al mito del viaggio/avventura. Struttura narrativa ricorrente, La capanna indiana viene elevata a nucleo mitologico – basti pensare alle metamorfosi della «capanna»23 – che inscrive la persistenza paradigmatica della poesia nel «romanzo in versi». Utilizzando materiali antecedenti nella trama del racconto o estraendo da alcuni di essi impianti narrativi adattevoli e insieme simbolici, La camera da letto ritesse la tela della continuità all’interno dell’opera di Bertolucci. A prezzo, come si diceva, della riduzione dell’orizzonte poetico ad una predominante narrativa che non è senza contraccolpi in Viaggio d’inverno e nelle raccolte successive, centrifughe rispetto all’ipotesi della narrazione in versi e quindi anche a quel modello di consolidamento dell’identità poetica. E tuttavia nella sua precarietà Il «romanzo in versi» offre una via d’uscita dal sistema di forze, culturali e ideologiche, che si profila nell’Italia del dopoguerra: in anni in cui le abiure e le pronunce desolate e dimesse, così come le pratiche sperimentali e ‘contro’, vengono elevate a prassi della poesia, Bertolucci individua nel racconto – spesso usato dagli avversari come un maglio contro la poesia – lo strumento rischioso ma efficace per proteggere e corazzare la sua storia poetica. Si tratta di un’esperienza isolata, che disturba, ma difficilmente eludibile da chi voglia tracciare una storia della poesia italiana del secondo dopoguerra.

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NOTE 1 Cfr. P. ZUBLENA, Narratività (o dialogicità?). Un addio al romanzo familiare, in Gli anni ’60 e ’70 in Italia: due decenni di poesia, a cura di S. GIOVANNUZZI, «Quaderni della fondazione», 1, Genova, «Fondazione Giorgio e Lilli Devoto» – Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2003, p. 70. 2 G. W. HEGEL, Estetica, trad. it. Torino, Einaudi, 1963, p. 1223, passim. 3 Cfr. P. ZUBLENA, Narratività (o dialogicità?). Un addio al romanzo familiare, cit., pp. 71-73. 4 L. LENZINI, Breve viaggio intorno alla «Camera da letto», in ID., Interazioni. Tra poesia e romanzo: Gozzano, Giudici, Sereni, Bassani, Bertolucci, Trento, Temi, 1998, p. 183. 5 S. CHERIN, Attilio Bertolucci. I giorni di un poeta, Milano, La Salamandra, 1980, p. 74. 6 A. BERTOLUCCI, La Camera da letto, Milano, Garzanti, 1984. 7 Cfr. L. LENZINI, Breve viaggio intorno alla «Camera da letto», cit. 8 Lettera a Linetta del 12 agosto 1953, in Tredici lettere di Umberto Saba in cui si parla di «Ernesto», con una nota di S. MINIUSSI, in U. SABA, Ernesto, Torino, Einaudi, 1953, p. 151. 9 Lettera a Linetta del 30 maggio 1953, ivi, p. 141. 10 T. ARVIGO, La parola cambiata. Esperienze di ri-scrittura negli anni ’60 e ’70, in Gli anni ‘60 e ‘70 in Italia, cit., pp. 248-249. 11 G. W. HEGEL, Estetica, cit., p. 1223. 12 Lettera del 20 dicembre 1970, in A. BERTOLUCCI, V. SERENI, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di G. PALLI BARONI, Prefazione di G. RABONI, Milano, Garzanti, 1994, p. 225. 13 Ivi, p. 226. 14 Ibidem. 15 Cfr. E. TESTA, Per interposta persona. Lingua e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999. 16 Lo fa Lenzini, ad esempio, con notevole ricorso alle categorie linguistiche dei tempi commentativi e narrativi e all’opposizione tipologica fra discours e rêcit, per concludere che lo spazio descrittivo prevarica su quello narrativo e che, in ultimo, Bertolucci mira ad «uno stato di ricerca soggettiva, sognante e sospesa» (Breve viaggio intorno alla «Camera da letto», cit., p. 189), con esiti inequivocabilmente idillici, come viene più volte ripetuto (cfr. pp. 213 e sgg). 17 In ogni caso il narratore tende ad accorciare le distanze fra tempo del racconto e tempo della narrazione, a porsi cinematograficamente dietro il personaggio, o a coincidere con esso, provocando smottamenti rispetto alle più convenute formule narrative. Mi sembra essere questo il senso della «presentificazione» – indubbia, non sconvolgente –, o della «fusione sincronica» di cui parla a più riprese Lenzini (Breve viaggio intorno alla «Camera da letto», cit., pp. 186 e 192). 18 La sezione centrale, Versi negli anni (1928-1996), contiene un’ipotesi di rilettura della carriera poetica di Bertolucci in cui il Capitolo perduto e ritrovato de «La camera da letto» – il frammento più vasto del «romanzo in versi» mai riproposto, 134 versi – viene riassorbito in una trama predominata dalle poesie brevi. È come se Bertolucci si provasse adesso a ri-

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aprire la partita della poesia, contrapponendo il corpus eterogeneo delle poesie – allargato a lacerti del romanzo – alla struttura rigorosamente incatenata del poema. Il meccanismo sembra esattamente simmetrico a quello messo in opera nella Camera da letto, ma invertito il senso di marcia. 19 Mi permetto di rinviare a S. GIOVANNUZZI, Tempo di raccontare. Tramonto del canone lirico e ricerca narrativa (1939-1956), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999, pp. 152-158. 20 Riduttiva la lettura di Lenzini che individua «le zone più riuscite del poema […] nella prima parte, là dove il narratore finge un romanzo al modo antico, calandosi nel mito familiare, o ci parla della giovinezza di A., il proprio mito individuale» (Breve viaggio intorno alla «Camera da letto», cit., p. 212). In realtà è l’intera storia della poesia di Bertolucci ad essere portata in primo piano, come vero tema dominante dell’opera. 21 L’analogia con Proust è in questo caso cogente: il punto d’arrivo consente di reinterpretare tutto ciò che lo precede: non si capisce perché Lenzini respinga una simile strategia in Bertolucci (cfr. ivi, p. 204). 22 «Paragone. Letteratura», LXVI, 1955, poi in I. CALVINO, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980. 23 Il capanno (cap. XXX) è il titolo del capitolo e il luogo dove «si compiono i riti dell’amore» (v. 127) fra A. e N.: il luogo deputato dell’avventura adolescenziale viene eletto come teatro del passaggio fra perdita dell’adolescenza e maturità.

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MASSIMO SANNELLI LINGUA IN EXITU. LA «SIMULAZIONE DI PARLATO» DI GIOVANNI TESTORI 1. PARATESTO E TESTO Nel paratesto: «In exitu» è stato «finito di stampare / il 25 febbraio 1988 / dalla Garzanti Editore s.p.a. / Milano» (colophon); il libro è un romanzo, secondo la definizione editoriale che appare sulla sovraccoperta, in cui il titolo non è chiuso tra virgolette, come appare sul frontespizio. Tanto basta ad abbassare la potenza di in exitu, mentre le virgolette lo segnalano più evidentemente come citazione del salmo 114 [113] («In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo barbaro»). Nel testo: la parlata di «Riboldi Gino» tende naturalmente alla scena («la forma suprema del teatro è il monologo»1: 1988), e l’autore colloca «In exitu» tra le «sue ultime cose di teatro» (1989)2. Testori indica la condizione mortale e purgatoriale (= salvifica) dei mezzi umani come ipotesi di lettura anche per «In exitu»: «Credo nella parola e nella sua distruzione, e, quindi, come possibilità d’essere l’ultimo, o il primo baluginìo, o l’annuncio di qualcosa che non è più dicibile; la parola che si lascia investire da un oltre, da un prima che la fa essere proprio nel momento in cui la si distrugge»3. Il massimo della chiusura (l’Aegyptus reale, morale, anagogico e allegorico; la morte fisica) prepara dunque il massimo dell’apertura (la salvezza, il primo passo verso Dio, attraverso la purificazione del Purgatorio: al quale nella fictio dantesca – Purg., II, 46 – si accede cantando il salmo 114). È il momento del principio del giorno4.

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2. QUALE LINGUA? Nella stampa del febbraio 1988 la teatralità implicita – che si realizzerà in scena già l’otto luglio, al Festival di Spoleto – consiste in un’oralizzazione della narrazione (infatti la conferenza, di pochi mesi dopo, sulla Parola come ammette che «la parola del teatro non è neanche l’azione»). «Riboldi Gino» non è tanto un agens quanto un loquens, che usa una specie di petel di ritorno (ad es.: «L’Empireo. Dìcesi l’En. L’En. L’En. Et l’Eden anca. Adamus et Evis. Evis che evi»: p. 29), con anafore da cui scattano sistemi ritmici soprattutto ascendenti, giambici (-+) e anapestici (--+)5: «Dell’oppio che op, che op, che op, che op?» (p. 26); «Son esse sui libri del Pa? Padre Emì? Padre Emì? Mi rimontan su, Padre Emì. Mi rimontan su, Padre E, Padre E» (p. 29); «Ma Tu dì! Tu dì! Ma dì! Una, dì! Una sola, dì! Una sola, dì! Una sola, dì!» (p. 53); «Verso la. Verso la. La bocca ver. Est la bo? Est la bo? Est la bo? Mamma, rispund: l’è la bu?» (p. 88); «La vision dove. Lì dove. Lì dove. Mi stroiàvo, dove. “E dèrvila ‘lora?”; cosa?; “La patta”. Già è. Già è, signor. Già è. Già è. Già è, rex culattorum. Dumà che ‘des. Dumà che ‘des. L’usèl, dès… ‘Dès, l’usèl. ‘Dès… Stracch l’è.’Dès. ‘Dès. ‘Dès…» (p. 105). In primo luogo, sono evidenti due caratteri generali di questo modo di parlare: non è completamente parafrasabile e non nasce per essere trasformato in una parafrasi esatta. La scrittura orale si svolge cioè su un piano espressivo (ma con un’espressività di superficie, che è funzionale alla dichiarazione di valori non artistici, se non opposti all’arte, come è implicito nel trionfo di una parola «che si lascia investire da un oltre»). L’unità fondamentale sembra la sillaba, anche assoluta (distorta e isolata dalla parola originaria), a costo, chiaramente, di soppiantare la parola e la stilizzazione colloquiale dell’italiano parlato. Ma la parola del loquens è inscindibile da una teoria del teatro, sulla quale Testori insiste: «[…] il teatro è un linguaggio che, seppur scritto, ha già in sé le labbra, la faccia e il corpo che lo pronuncia» (e nella stessa intervista del 1973 Testori non distingue tra il teatro in senso proprio e il possibile teatro ‘oratoriale’ di un testo di poesia come gli Inni sacri)6; nel 1988 il discorso è sostanzialmente uguale: «[…] il teatro non deve far altro che cercare, che ascoltare questa macchia di sangue, questo grumo di sangue, questo lacerto umano, entrarci dentro, perché non può stare fuori, mescolarsi con lui e pregarlo, supplicarlo attraverso tutto quello che è possibile dalla preghiera all’abbraccio, all’insulto, al coito: tutto quello che è possibile per far in modo che questa macchia di sangue ripronunci la paro— 602 —

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la. […] quando il teatro si stacca dalla sua ritualità […] e diventa narrazione e diventa luogo mimetico della vita, tradisce la sua natura, rinuncia a prendere parte alla constatazione della propria essenza e quindi alla possibilità di essere rito, meditazione, abbraccio, ingresso, precipitazione dentro al ganglio della vita, dentro a questa macchia di sangue, dentro alla bocca di quello lì che aveva rubato la mucca»7. Abbraccio (o pietà: cfr. «In exitu», pp. 111-112), insulto e coito sono i motivi conduttori della corporeità di Gino nel romanzo orale. La parola del rito (actus tragicus) è la realtà, della quale il corpo patiens è parte integrante e costruens, consapevole della passio. 3. CARNE Per Testori l’essere si identifica con la corporeità – la creatura nasce –, e quindi con il Cristo e con la realtà (anche «il luogo del teatro è il corpo di Cristo»8), al punto che i concetti di ‘alto’ e ‘basso’ non hanno più senso, una volta stabilito il primato divino-umano della carne: il sesso orale coincide con l’eucaristia (pp. 98-102, tra le più aggressive di «In exitu») e l’esclamazione «Oh sanguis meus!» si completa in «O sanguis del Gesù! O sanguis Christi!» (p. 125). L’Incarnazione del Verbo è il cuore della simbiosi divinoumana: «Questa corporalità santa, questa santa fisicità, questa incarnazione dolce e fermissima, lucida e misteriosa è la lezione più profonda che ci viene da queste pagine; sconvolgenti perché piene solo di certezza; inevitabili proprio perché tale certezza è fatta di vivente Amore e di vivente Speranza»9. È anche la possibilità di affrontare quello che dopo i Preliminari sulla lingua del Petrarca di Contini (1951) è (o è considerato) il dato essenziale di ogni realismo: l’immersione nella storia, con una catena di parole che, della storia, deve rispecchiare-riprodurre l’irregolarità e il caos. L’atteggiamento opposto, ideologicamente non accettabile, è l’«evasività»10 rispetto agli elementi canonici del realismo e del materialismo. Nei termini di Testori, «In exitu» si è lasciato «investire da un oltre». La sua situazione è quindi assolutamente marginale, come minimo, all’italiano standard. Nel ‘romanzo’ la nonlingua è coessenziale alla scelta di non-scegliere: «Invece no. Scelgo no. A meno ne. Vuol vedere che si può? Farne a meno sì? E, allora, incomincio» (p. 11). Senza scelta, la volontà si deve ridurre ad una condizione minore, immediatamente additata dallo scrittore-scriba («Sì, ma tu voluto non hai. Mai — 603 —

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voluto hai. Niente, hai. Niente, mai. Niente hai. Et mai»), al quale Gino risponde con una raffica di giambi: «Ver’è. Ver’è. Ver’è» (p. 89). Il risultato, in tutto il testo, è la distruzione della sintassi e dell’univocità del lessico, che acquista anche una certa intercambiabilità delle forme: «anche (anca)» (p. 23); «il (lo) scrittore» (p. 45); «Scusàtelo. Il. Lo. Il. Egli. Esso. Ello. Lui» (p. 67); «Siamo. Sèm» (p. 79). Il problema, grandissimo, non è tanto la storia (tutto è storia, perché tutto è vita) quanto la volontà di far agire un linguaggio a partire dal significato filosofico e religioso, e non solo espressivo, del suo mimetismo (il linguaggio tout court può essere visto come imitazione: «Naturalmente il linguaggio è qui indagato non come evento intellettualistico, ma come azione, come azione vicaria che sta al posto della manipolazione delle cose. In questo senso è possibile dire che il linguaggio è una tecnica sostitutiva dell’azione materiale che consente, grazie all’esonero dell’azione reale, una produzione senza fine di azioni virtuali che ampliano l’orizzonte della progettualità umana, senza impegnarla materialmente»)11. Vale a dire che non può esistere – da un punto di vista teoretico – una vera «evasività», se il discorso è inevitabilmente a confronto con le cose: al limite, potranno apparire solo nuove prove tecniche, o nuovi tentativi di virtualizzare la «manipolazione» del mondo. La ‘materia’ e l’‘osceno’ di «In exitu» ci appaiono ora come elementi letterali da interpretare, seguendo il processo ermeneutico che ‘taglia’ la littera e individua – anche a titolo di progetto culturale, senza la pretesa di una definizione permanente – la sententia12. 4. CA-RI-TÀ (--+) Il linguaggio dell’ultimo stadio è irregolarità, follia13 e morte. Nello stesso tempo, Testori spiega il significato del (suo) linguaggio, che coincide con la realtà e la vita, quindi con il Cristo-carne: «Quando parlo di linguaggio, naturalmente, non mi riferisco al linguaggio inteso in senso estetico, ma a quel dirsi, raccontarsi, di essere nella vita in modo che questo corrisponda alla miseria, alla povertà ma anche all’inevitabilità della vita»14. Parallelamente, Testori esprime il timore che l’incarnazione e la carne del Cristo si riducano a «simbolo»15. Nel romanzo dell’exitus, la nullità del linguaggio di Gino corrisponde alla sconfitta del ‘diverso’; ma, insieme, la sua potenza ritmica – la sua ricchezza — 604 —

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prosodica, individuabile anche per la sua ripetitività, che comporta la riconoscibilità – mostra altro. Dunque, se «la carne domanda di farsi parola, di farsi Verbo», come è detto nella Parola come, l’ornatus fonico-ritmico è modalità irrinunciabile della parola-carne che si dispiega nel libro. Ad esempio, nella Traduzione della prima lettera ai Corinti (1991) il ritmo anapestico di carità diventa il marchio dello stesso intervento di Testori. Nell’intervista in limine alla Traduzione la risposta alla domanda: «Si è prese molte libertà?», è la seguente: «Poche – credo; e sempre solo perché me le richiedeva la struttura; e in essa, la lingua, il ritmo; persino, ecco, la rima, che poggia tutta sulla tà di Carità» (p. 14). La dichiarazione, inequivocabile, è importante per definire questa azione come ‘ritmosimbolica’, in opposizione ad un più superficiale (e veramente mimetico e onomatopeico) fonosimbolismo: se c’è Carità, il linguaggio non è più «luogo mimetico» ma invocazione e primizia di una Presenza. Il suono -tà e la ritmica ascendente – che è un punto di forza di «In exitu» – ha la funzione automatica di imporre, per forza di suono, la presenza e l’entusiasmo della Carità. Non a caso, Testori colloca questa parola alla fine della Traduzione, riscrivendo I Cor., 16, 22 (p. 116: «A tutti, / in Cristo Gesù, / da me, / l’aborto, / carità»16: e in una lettura prosodica continua queste 15 sillabe rivelano la stessa natura giambicoanapestica: -+ -+ --+ -+ -+- --+). Non è l’unico esempio di ritmosimbolismo nell’ultimo Testori: penso alla frammentazione grosso modo riconducibile all’ottosillabismo di Factum est, e in particolare alla litania a Cristo con cui la parlata si apre e che mostra trisillabi abnormi, modellati su carità («Cri, va / criverà, / tracrà, jeserà. / Cri! Crerà! Sacrà! / Cri! Estoscrì! / La parò… Cri! / Anacrì. Matacrì. Stasacrì. / Stascarì! Jesecrì! / Scrigerè… / Dà la pa! Gescristò. / Gescristè. Cruxcrirè. Teocrerà»17, e così via, in un petel – assolutamente paragonabile a quello di «In exitu» – che le successive tredici sezioni normalizzano, mantenendone la cadenza ascendente). 5. OLTRE LA PAROLA Testori ha parlato dell’«atto tragico per antonomasia; l’atto, cioè, del Golgota»18. Dalla Croce deriva, per il cristiano, una parola che «non è più letteratura, che non è più teatro o poesia, ma disfa in sé, esaltandoli e bruciandoli, teatro, letteratura e poesia». Questa parola è doppia: «ultimo» o «primo balugino», come sopra, oppure capace di formare «la nostra vergogna ma an— 605 —

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che la nostra salvezza». La Carità si impone, allora, come super-parola, indifferente all’estetica e all’estetico: «Infatti io penso che non resisterà niente, per fortuna. Sparirà la Divina Commedia, Dante, Michelangelo, il Partenone, le Piramidi, tutto sparirà, finalmente. E sarà quando staremo finalmente nella Carità, nell’amore. E quindi anche le parole spariranno, sebbene siano quelle che resistono di più»19. In pratica, la libera disseminazione sillabica simula questa (futura) morte della parola dentro il ritmo-simbolo della carità: l’exitus diventa condizione dell’introibo in un altro spazio. NOTE 1 G. TESTORI, La parola come: è la trascrizione di una conferenza inedita, dell’ottobre 1988, disponibile, attualmente, solo nella Rete (www.associazionetestori.it), il che impedisce di fare riferimento ad un’impaginazione precisa nelle citazioni. Testori spiega anche che il monologo non implica necessariamente un unico agonista: si tratta, invece, dell’incarnazione delle diverse parlate in un lógos univoco. In uno scritto più controllato, e precedente di vent’anni (Il ventre del teatro, «Paragone. Letteratura», 1968, 40, pp. 93-107), Testori riconosce lo stesso principio: tutto è monologo, e l’eventuale presenza di un deuteragonista è puramente strumentale (cfr. p. 100: «Che significato può avere il deuteragonista? Quello di moltiplicare e ulteriormente arroventare il movimento che è nelle parole del protagonista. Può esistere, replicare e raddoppiare quel movimento, come in uno specchio in cui l’uno e l’altro finiranno per schiantarsi, uccisi dal loro stesso tentativo d’interrogazione; ma non ne è l’elemento primo e necessario»; di «enucleazione d’una domanda», che è immediatamente, con espressività, «la ‘domanda’», si parla ancora a p. 105 del saggio; di «estroduzione del ‘problema’» a p. 107). Questa «domanda» è in funzione di una fede ancora in fieri, priva della perentorietà che avrà in séguito; ma la posizione dei ruoli nella forma mentis di Testori è già acquisita (e sarebbe da verificare lessicologicamente, a parte, il rapporto di estroduzione – il contrario di introduzione, e probabilmente un ápax della lingua letteraria italiana – con exitus, che è il contrario di introitus). Sul senso del monologo cfr. quello che è detto infra nella n. 17. 2 M. SCULATTI, Intervista a Giovanni Testori, «Poesia», 1989, 12, p. 31. 3 Ibidem. 4 Mi riferisco ad un titolo di E. DE SIGNORIBUS, Principio del giorno, Milano, Garzanti, 2000, nel quale – come in tutto il libro – è evidente la volontà di orientare il «percorso poetico» dal buio ad una luce che può essere anche la scoperta, per pietas più che per engagement, del politico e della pluralità. Cfr. la mia recensione in «Semicerchio», 2000, 23, p. 70, poi riscritta e ampliata in M. SANNELLI, La femmina dell’impero. Scritti per un seminario sulla «vera, contemporanea poesia», Genova, EEditrice.com, 2003, pp. 22-24. E sarebbe utile uno studio sulla (ipotetica) funzione purgatoriale nella letteratura italiana del tardo Novecento: anche perché, ad esempio, la messa in scena di «In exitu» è quasi contemporanea a

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quella della «drammaturgia di un’ascensione» di Luzi (la prima è del 2 marzo 1990; cfr. M. LUZI, Il Purgatorio. La notte lava la mente, Genova, Costa & Nolan, 1990). Sul Purgatorio come «regno del passaggio» e luogo di «interiore animazione» cfr. TH. SPOERRI, Introduzione alla Divina Commedia, trad. di M. Cerruti, Milano, Mursia, 1974, pp. 111-113. 5 Cfr. un principio che è, soprattutto, il modo di operare di uno dei più potenti laboratori poetici di fine/inizio secolo: «Lo schema semplice, rigido, è una piccola sfida, un esercizio, e insieme una verifica di come nessuno schema possa semplificare e irrigidire l’infinita varietà dei ritmi. Gli schemi sono argini, che possono delimitare solo esteriormente il fluire ritmico (e fonico-ritmico, sempre)» (G. MESA, Nuvola neve. Nove nuvole in forma di versi, Napoli, Edizioni d’if, 2003, p. 130). 6 E. POZZI, Manzoni precede Brecht? [intervista a Giovanni Testori], «Sipario», 1973, 324, pp. 12-13: p. 13. 7 G. TESTORI, La parola come, cit. Sulla storia del ladro della mucca cfr. ID., La maestà della vita e altri scritti, a cura di G. FRANGI e D. RONDONI, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 489490. 8 La maestà della vita, cit., p. 148. 9 G. TESTORI, Notizia, in G. BELTOTTO, Ho intervistato il silenzio, Reggio Emilia, Città Armoniosa, 1979, pp. 195-197: p. 197. 10 G. CONTINI, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in F. PETRARCA, Canzoniere, Torino, Einaudi, 1991, pp. VII-XXXV: p. XXXII. Sull’argomento, letto dal punto di vista di una poetologia più problematica che schematica, mi permetto di rinviare a M. SANNELLI, Il gioco del massacro. Appunti sui contemporanei, «Smerilliana», 2004, 3, pp. 363-370. Il sintagma che forma il titolo è estratto da una poesia di Antonio Porta, dedicata, polemicamente, a Edoardo Sanguineti. 11 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 226. 12 Cfr., in particolare, lo studio di J.-Y. TILLIETTE, Pour une approche littéraire des textes latins du moyen âge, «Mittellateinisches Jahrbuch», 2001, 36, pp. 325-335, che vale anche come esempio di una particolare sensibilità autocritica rispetto al proprio lavoro. 13 Cfr. la «stoltezza» della morte in croce del Cristo secondo Paolo (I Cor., 1, 23), in un passo in cui la traduzione poetica di Testori (Traduzione della prima lettera ai Corinti, Milano, Longanesi, 1991, p. 22) colloca la parola insensatezza. 14 La maestà della vita, cit., p. 458. 15 Ivi, p. 461 (ma l’argomento è affrontato, ad esempio, anche nella conferenza La parola come, cit. supra). 16 Non deve sfuggire che la parola aborto comporta una lieve imperfezione nel corso ascendente dei versi. Si tratta, in effetti, di un’aggiunta di Testori ad un versetto che, nella versione letterale, è molto più lineare («Il mio amore a tutti voi in Cristo Gesù!»). Aborto (éktro-ma) è la metafora autodescrittiva che Paolo usa, nella stessa lettera, ad un’altezza superiore del testo (I Cor., 15, 8). 17 Factum est è stato ristampato in G. TESTORI, Conversazione con la morte, Interrogatorio a Maria, Factum est. La seconda trilogia, a cura di F. PANZERI, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 107-168. Cito i vv. 1-11 della sezione I. Nella Postfazione di F. Panzeri, a p. 178, si cita una

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riflessione – di cui non è dato il riferimento bibliografico – di Testori, che mantiene la fedeltà al programma del monologo: «scatenamento drammatico di natura molto più estrema» rispetto a quello dell’Interrogatorio a Maria. Il non plus ultra del monologo è, evidentemente, la ricreazione poetica di un feto nel ventre materno, come accade in Factum est. 18 La maestà della vita, cit., p. 150, come la citazione subito dopo. 19 V. DI MAJO, intervista a Giovanni Testori: «Con i dementi», «Il Giornale» (allegato «Lettere e arti»), 18 aprile 1993, p. VI.

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MARIA GIOVANNA TURUDDA FABRIZIO DE ANDRÉ: NARRAR PER MUSICA E VERSI. STORIE, MICROSTORIE, SUGGESTIONI «… sono un raccontatore di storie, non sono né un filosofo, né un politico»1: così si definì Fabrizio De André, rifiutando un ruolo, quello del pensatore, che tanti, troppi, avrebbero voluto attribuirgli e scegliendo, invece, un profilo basso, quello del raccontatore, appunto, neanche quello del narratore che troppo sa di accademie, di ‘scuole’, di programmi, di regole. Inequivocabilmente e apertamente egli manifestò, in questo modo, la predilezione per la veste più ordinaria di cantastorie. E tuttavia, di famiglia e d’educazione raffinata, egli non poté non attingere ai modi e ai temi di una tradizione artistica alta che costantemente trapelerà nella sua produzione con modalità sempre più percepibili (anni ’80-’90) man mano che il suo universo ideale, allontanandosi dall’ispirazione popolare (della cronaca o della storia) si avvarrà di un linguaggio più rarefatto, qualche volta ermetico o abbondantemente simbolico, a volte concettoso, qualche altra oscuro o involuto, a meno di una profonda conoscenza del suo vissuto personale ed artistico, sicuramente intrigante dal punto di vista del significato e della suggestione musicale. Gli anni ’60, quelli dell’esordio, chiaramente denunciano, sul versante dei temi e delle musiche, suggestioni non originali che attingono alla ballata ed alla canzone (in origine canto orale d’accompagnamento della danza, canzone a ballo di stampo popolare), generi che largamente dominarono nell’Italia settentrionale e nell’Europa del XII e XIII sec. e che ebbero fra i loro frequentatori quel François Villon (La ballade des dames du temps jadis) spesso evocato da De André, assieme con Cecco Angiolieri e George Brassens, come poeta ‘anarchico’ affetto, quanto lui, da randagismo mentale, da un’irrequietezza ribelle agli schemi ed alle regole di un mondo ridotto a sistema. De André vi si accostò mosso da un vigoroso interesse per le situazioni a valenza so— 609 —

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ciale, oltre che da un prepotente bisogno di raccontare la sua realtà e di esprimere, attraverso storie paradigmatiche, una propria eccentrica, anarchica, visione di vita. La manifesta passione per la musica popolare (alla quale, come al dialetto – cfr. la stagione di Creuza de mä – egli riconosce intrinseche qualità d’autenticità e di spontaneità) e per quella medievale spinge il cantautore genovese ad impegnare le note musicali nel racconto di fatti ‘esemplari’ dai quali trapela, però, anche il piacere della costruzione di una situazione narrativa. Un dato esterno, inoltre – la larga ricorrenza del termine ballata (La ballata degli impiccati, La ballata dell’amore cieco, La ballata dell’eroe, La ballata del Miché) nell’intitolazione dei suoi componimenti che ne riprendono, seppur in modi non strettamente canonici, struttura metrica, orchestrazione (il tono recitativo, il largo uso di trombe, liuti, tamburi, clavicembali), temi (è dominante il filone narrativo che attinge dalla cronaca o dalla storia) – conferma la radice trobadorica dell’ispirazione. Abelardo R. Borzini, raffinato cantore della vita genovese (Malamore, Osterie genovesi, I tabernacoli dell’onesto peccato), ebbe a dire in proposito: «[Fabrizio] Passava le giornate tormentando la sua chitarra ed evocando inconsciamente quella poesia trobadorica che aveva infiammato la fantasia di Raimbaut de Vaqueiras e di Sordello da Goito e che, un giorno, avrebbe pure lui posseduta»2. Lo stesso De André confessò in un’intervista: «il mio genere deriva da un particolare tipo di cultura, sia letteraria che musicale. Mi appassionano e mi affascinano, ad esempio, i poeti e gli scrittori di Provenza e di Francia, da François Villon a Baudelaire»3. Se non bastasse, altri testi, che mantengono predominante la chiave narrativa, adottano nel titolo accezioni equivalenti a ballata: canzone, canto, cantico. Così, La canzone di Marinella, Cantico dei drogati4, Canto del servo pastore, Canzone del maggio, Canzone del padre, Canzone per l’estate, La canzone dell’amore perduto, La canzone di Barbara svelano nel testo e nello spartito la suggestione ‘medievale’ dell’ispirazione di De André, cantante pop di cultura raffinata che assume il mondo della quotidianità umile e bassa a nucleo tematico di una scrittura musicale via via più raffinata, destinata ad un pubblico di cultura medio-alta. Ai modi ed ai temi della canso occitanica egli s’ispira, per esempio, per La canzone di Marinella (1968) e per Carlo Martello (1969). Il primo componimento, a schema fisso (7 stanze di 4 versi ciascuna), svolge, in modi narrativamente esaustivi, all’interno di una fronte e di un congedo quasi regolamentari, il topico motivo dell’amore tragico. Movendosi, in aderenza alla delicatezza del testo, con voce e musica ritmate lente e piane, De André racconta — 610 —

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tutte le fasi salienti di un incontro che, nella realtà dei fatti, gli era stato suggerito dalla cronaca nera: l’assassinio di una prostituta sulle rive di un fiume. Liberata da ogni contingenza storica, la mondana si trasforma nel testo deandreano in fanciulla pura e appassionata cui il tocco leggero di una musica scarna e l’incanto di uno scenario romantico regalano la dimensione dell’atemporalità. Il racconto esordisce con un’attestazione di verità sui fatti narrati – passaggio canonico, premessa rituale per il cantastorie tradizionale – («Questa di Marinella è la storia vera…»), autenticità di cui De André, autore di un’operazione di maquillage morale con cui si restituisce dignità ad una vittima della violenza umana, si fa garante e testimone. Della crudezza del fatto di cronaca, perciò, non sopravvive più niente e i dati temporali, volutamente indefiniti, agevolano la dislocazione della storia in una dimensione favolistica (qualcuno ha citato in proposito Chagall) assecondata dalla silhouette di quel cavalleresco Re protagonista, con l’innocente fanciulla, di un’intensa giornata d’amore. Se la fronte del componimento viene impegnata a garantire la veridicità dell’episodio, quello che potremmo definire il commiato (corrispondente alla tornada provenzale) si rivolge direttamente all’eroina alla quale rende omaggio riconoscendole quella purezza che De André intravedrà, poi, in tutte le sue graziose. Allo stesso ambito ‘medievale’ appartiene Re Carlo, componimento che, forse più platealmente ed esplicitamente, veste abiti cavallereschi, da chanson de geste, sia sul versante testuale sia su quello musicale al quale, parallelamente alle parole, il troviero genovese affida la sua volontà dissacratoria, antieroica, demistificatoria. Vi si racconta, anche per sequenze dialogiche che simulano con un caricaturale falsetto il ruolo maschile e quello femminile, la vicenda del mitico Carlo Martello (689-741) che, tornando dalla vittoriosa battaglia di Poitiers (732 d.C.), incontra nel bosco una pulzella d’irresistibile bellezza che egli crede di poter possedere gratuitamente, fatto forte delle prerogative regali. L’epopea carolingia, imbrigliata nella struttura metrica della chanson de geste (il decasillabo), è evocata da una lingua di sapore antico, alta, e da un accompagnamento strumentale solenne i quali non celebrano, però, gesta gloriose; il mito subisce, infatti, un drastico declassamento in virtù dell’evidente sarcastico stridore fra contenuto e forma: un registro linguistico raffinato ed un supporto strumentale trionfalistico sono messi al servizio di un ridicolo equivoco, una vile storia di sesso mercenario che riduce il Sire vincitore dei Mori in un «gran cialtrone». Così, con l’uso di strumenti a contrasto, il duo De André-Villaggio trasforma l’epica in parodia, — 611 —

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l’epopea in canzone beffarda, i «fatti egregi» in risibile avventura sessuale cui trombe e corni fanno da caustico sfondo musicale. D’ambiente e d’ispirazione cortese è anche Il re fa rullare i tamburi (1970), componimento che ha, ancora una volta, come nucleo tematico l’aberrante tracotanza del potere: attraverso il dialogo fra il re di Francia ed un suo ambizioso vassallo, è spudoratamente rivendicato dal sovrano lo jus primae noctis sulla sposa del marchese. La prevedibile indignazione del cavaliere è arginata dalla lusinga di un congruo risarcimento, il titolo di maresciallo di Francia, che l’uomo deve giocoforza accettare limitandosi ad una debole protesta e ad una altrettanto fievole dichiarazione di rincrescimento alla dama, vera vittima dell’avidità maschile. La mordace evocazione di un passato protervo serve a De André per proiettarsi anche nel suo presente, contro il quale manifesta astio e malcontento, nucleo della sua ispirazione artistica che, in seguito, con Sogno numero due (1973), Le nuvole (1990), Smisurata preghiera (1996), adotterà toni più meditati e sagaci attraverso un impegnativo discorso in musica: l’indignazione morale filtrerà attraverso un linguaggio figurato fatto di immagini complesse, di rinvii, di echi. Ancora lungo il solco della tradizione trobadorica si muove Fila la lana, canzone a metà strada fra la chanson de départie e quella de toile: il cantautore genovese ricostruisce, sostenendosi con un registro musicale alto, la vicenda del Signore di Vly partito per la guerra e non ancora tornato alla sua dama, una Penelope occitanica che si ostina ad attenderlo cullata dalla speranza in un suo ritorno. Il testo, la cui istanza narrativa è assunta interamente dal trovatore, si articola, sul versante strumentale, sul contrasto fra un ritmo marziale, guerresco, di esclusiva pertinenza del prode eroe, e quello lirico, lento e malinconico, di un refrain dagli accenti intimistici che si connota come spazio peculiarmente femminile, solo universo al quale De André sembra riconoscere la prerogativa del sentimento5. L’istintiva avversione alla guerra, del resto, consolidata da dolorose esperienze familiari spingono De André su posizioni decisamente antimilitariste (non nuove nel panorama musicale d’Oltreoceano ed europeo: Joan Baez, Bob Dylan, ma anche Boris Vian con Le diserteur) ed ispirano i versi di tre suoi componimenti: Andrea (1978), La guerra di Piero (1968), La ballata dell’eroe (Karim 1961, 1969). Se la prima canzone offre un tessuto narrativo tenue che, attraverso immagini ellittiche accentuatamente metaforiche, racconta il destino di morte del giovane contadino ucciso sui monti di Trento durante la Grande Guerra, demitizzata dal larvato accenno all’omosessualità — 612 —

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del soldato, la Ballata – quasi ampliamento narrativo di Andrea (uguale la situazione tematica, analoga la condizione dell’uomo costretto ad un destino crudele da falsi alibi ideali) – si riallaccia nel contenuto a Fila la lana di cui riprende il tema antimilitarista e quello della separatezza fra mondo maschile (guidato da una visione bellicista della vita) ed universo femminile costretto dal primo ad un’interminabile, desolata attesa e ad una solitudine sgomenta, condizione condivisa da Franziska (1982), Penelope barbaricina, questa volta, condannata dal suo uomo ad un futuro incerto, ad un’esistenza ininfluente: la vita corre via sotto i suoi occhi insonni, vigili quanto quelli del compagno obbligato a rotte perigliose e disincantate tra i boschi. Anche in La guerra di Piero il tema della morte s’intreccia con quello della giovinezza illusa e spezzata. Tutto l’impegno dell’istanza narrativa (adulta, ricca d’esperienza, parrebbe) sta nel fare da contrappunto saggio alla sprovvedutezza del giovane soldato ancora sostenuto da una humanitas che lo perderà: all’invito alla diffidenza, alla prudenza, al cinismo egoistico rivoltogli dal cantastorie («Fermati Piero, fermati adesso… Sparagli Piero, sparagli ora…»), il soldato oppone la sua fede nella natura e nell’uomo, la sua visione di un mondo pacificato nel quale l’acqua dei fiumi, non più contaminata dai cadaveri, sarà di nuovo il regno dei lucci argentati. La sua ingenua fiducia, però, lo esporrà al mortale fuoco nemico, anch’esso impaurito ma ormai affrancato da scrupoli umanitari. L’ultima immagine di Piero – il corpo irrigidito dalla morte, il volto fermato in un’espressione di stupita interrogazione – stride con un paesaggio primaverile di straordinario rigoglio: un campo di grano disseminato d’innumerevoli papaveri rossi è lo scrigno che gelosamente racchiude la consapevolezza di Piero, acquisita con l’esperienza della morte, della disumanità del mondo. Quel grano e quei papaveri (rossi, a rappresentare la giovinezza e il sacrificio) sono, però, opportunamente accoppiati dal raccontatore De André per rafforzare il valore rasserenante della vicenda del giovane militare che ora, in quel campo rifiorente, è restituito alla terra e alla natura, principio e sede della morte e della rinascita. Non la rosa o il tulipano, ma il grano ed il papavero, evocatori della ciclicità perenne delle stagioni e sacri a Demetra, confermano il profondo legame di Piero con la Natura e l’immutata fiducia nella sua sostanziale armonia: la morte che restituisce alla terra il suo corpo non nega la vita, si pone, anzi, come principio di un ciclo nuovo nel quale tutto può riprendere il suo antico ritmo. Un altro filone tematico che inizia a prendere forma già negli anni ’60-’70, cruciali nella formazione artistica di De André, mette a nudo la sua ribellione — 613 —

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al conformismo e la sua caratteriale affinità con un universo fuori-schema, il mondo periferico di Bocca di rosa, di Miché, di Prinçesa, di Jamina, del Fannullone, di Geordie, dei Rom, degli indiani d’America, creature marginali ed emarginate, vittime di un mondo senza pietà. In loro difesa, De André usa la musica come un acido con cui corrodere il titanico pilastro delle certezze borghesi, il gigante d’argilla della morale comune. Così, la solare generosità sessuale di Bocca di rosa (ma anche delle tante graziose di Via del Campo o di Jamina o di Susan) si contrappone al tenebroso moralismo delle comari di Sant’Ilario e all’inacidito livore di zitelle ingelosite e maligne. Il racconto della disavventura (l’espulsione dal paese) toccata alla prodiga dispensatrice di sesso si muove disteso – venato di un’ironia leggera che il ritmo a tarantella accentua – alternandosi con versi in cui il cantastorie stigmatizza la morale comune, fraudolenta e pedante: storia e riflessione si avvicendano nella pungente rappresentazione di vizi privati e di pubbliche virtù di un piccolo universo di provincia. Il componimento, che, nonostante l’amarezza di fondo, mantiene costante fino alla fine una sua radiosa leggerezza, si chiude sul raro sorriso del cantautore ancora fiducioso sulle potenzialità della tolleranza. I giovani, il loro universo d’illusioni, il loro orizzonte d’ingenuità e d’attese impossibili (già protagonista di Andrea e di La ballata dell’eroe) ritornano in La ballata del Miché e in Geordie, entrambi del 1969. I due componimenti, accomunati da un accompagnamento musicale vivace congegnato a contrasto con la tragedia raccontata nel testo, hanno in comune il nodo tematico (la morte, per suicidio nel primo caso, come misura penale, nel secondo) ed il fattore età dei protagonisti, entrambi giovani vittime dell’insensatezza degli uomini di legge. Uguale è, anche, lo strumento di morte (la corda) volontariamente scelto, nel primo caso, come affermazione di sé e come protesta estrema; imposto, nel secondo. La ‘risposta’ di De André all’inflessibilità del sistema arriva per bocca delle vittime di una Giustizia che nega la redenzione in vita: La ballata degli impiccati (1969) è, infatti, il terribile anatema contro i vivi incapaci di perdono. Inesorabile quanto la Legge, lo staffile musicale del cantautore s’abbatte su chi «riprende tranquillo il cammino» dopo aver compiuto l’ultimo atto – la sepoltura dell’impiccato – di un provvedimento impietoso. La ballata, che s’apre sulla cruda descrizione della terribile sofferenza fisica dei condannati («Tutti morimmo a stento / ingoiando l’ultima voce / tirando calci al vento / vedemmo sfumare la luce…») si chiude sull’implacabile risentimento, sull’aggrumato livore degli impiccati contro gli uomini dagli «occhi bianchi e vuoti» – giudici eletti, uomini di legge (cfr. — 614 —

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anche Corale, 1969) – che provano vergogna per la pietà, che si mettono in tasca la compassione. L’indignazione marca il componimento imperniato sull’alternanza ritmica cui il suono chiaro e lacerante di una tromba fa da contrappunto, segnalando l’ingresso della diegesi dentro il ‘terreno’ dell’invettiva ripresa, in chiusura, anche in Corale. La morte, protagonista di larga parte della produzione di De André (Tutti morimmo a stento, Non all’amore, non al denaro né al cielo; La morte in Volume I, 1967), rovescio speculare della vitalità dilapidata ed eccentrica di tanti suoi eroi, è quasi sempre un trapasso plateale e cruento: suicidi, condannati a morte, morti ammazzati – a vario titolo capri espiatori di una società opulenta, perbenista, beghina – s’avvicendano nei testi del cantautore per disegnare un universo violento che non ha orrore delle proprie atrocità: Miché, Geordie, Andrea, gli innumerevoli ‘figli della guerra’, Bert, Tom, Charley, Ella, Kate, Maggie – i sepolti della collina di Spoon River – gli impiccati, Cristo infine, primo storico zimbello del Potere, protagonista di un concept-album, La buona novella, rivoluzionario nel panorama della discografia italiana degli anni ’70. La vena narrativa, assolutamente laica, ritrae la famiglia di Nazareth nella sua umana quotidianità già gravata, però, del peso di un destino eccentrico. Ispiratore ideale dell’album, Gesù non ne è, tuttavia, il protagonista assoluto: altri personaggi, che si muovono intorno a lui ed alla sua vicenda terrena, sono ritratti da una prospettiva originale, ‘ordinaria’, che li sottrae all’intangibilità dell’agiografia ufficiale. Ispirandosi agli Evangelisti Apocrifi (in particolare al Protovangelo di Giacomo)6, il cantastorie genovese coglie, soprattutto, la dimensione intima di Maria vittima di un potere (quello religioso) che in nome di un voto e di un destino privilegiato le assegna il tormento, sottraendole l’infanzia, il gioco, l’affetto familiare, l’innocenza, il pudore, imponendo regole austere e intransigenti alla sua normalità quotidiana scandita da rituali incongrui e spietati (L’infanzia di Maria). Un De André in stato di grazia sia dal punto di vista musicale che testuale racconta le tappe di un destino immodificabile: straordinaria è la tenerezza riservata a Maria bambina (L’infanzia di Maria, Il ritorno di Giuseppe), accorata la partecipazione al suo patimento e al suo terrore davanti alla Croce (Via della Croce), sapiente la ricerca lessicale nel racconto dell’estasi onirica (Il sogno di Maria)7, senza attenuanti, infine, la condanna di un potere ipocrita che si ‘veste d’umana sembianza’. Dal punto di vista strutturale e strumentale la tipologia degli otto componimenti è mista: se in L’infanzia di Maria il cantastorie narra le sequenze salienti della vita di Maria su una tessitura mu— 615 —

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sicale esile che lascia spazio all’indignazione di un coro poderoso che con l’uso dell’anafora (ricorrente in questo album: cfr. Il testamento di Tito, Laudate hominem) trasforma il dato temporale in energica disapprovazione di una società che fa della mortificazione femminile un’arma di potere; se in Maria nella bottega del falegname e in Tre madri il dialogo ricostruisce la Passione e la Crocifissione, in Il ritorno di Giuseppe e in Ave maria, il ‘cantastorie’ gestisce in toto, da dietro le quinte, scene, tempi, emozioni. In Il testamento di Tito, infine – canzone che chiude l’album e che conclude l’avventura del randagio De André nel territorio rischioso di una ricostruzione storica antiretorica, rivoluzionaria, impopolare – il ladrone maggiore assume l’intera istanza narrativa intrecciando la propria vicenda terrena, dilapidata nella disobbedienza ai precetti, con la confessione dei propri peccati e le amare riflessioni su un sistema fariseo, violento, incapace di perdono. Tito, ‘cane randagio’ senza legge e senza dolore, chiude la sua indocile esistenza terrena aprendosi alla compassione. In La buona novella, album con il quale De André si congeda dall’esperienza di cantastorie ‘popolare’, si possono già intravedere alcuni elementi di novità (un registro iconico più complesso, una struttura ritmica che tende ad affrancarsi dalla rima legata, un accompagnamento strumentale aperto alla sperimentazione)8 dominanti in Ricordi di un impiegato (1973), album ispirato al Maggio francese (Canzone del maggio): l’amara riflessione sull’immutabilità del potere (Nella mia ora di libertà) cerca un tessuto testuale che «dia la parola ad aree ormai allargate della coscienza, che coniughi in una dimensiona nuova la realtà, il sogno, il viaggio mentale con le esperienze estreme, sfuggite ormai alle forme consuete della narrazione»9. Molto esile appare, in questo album, infatti, il peso del racconto sul quale s’impone la riflessione politica intessuta di citazioni letterarie più o meno esplicite10, di immagini analogiche, oniriche e surreali (La bomba in testa, Al ballo mascherato, Canzone del padre)11, riflessione veicolata da un accompagnamento strumentale moderno (esordiscono in quest’album gli strumenti elettronici). L’esilità della storia, dispersa entro le sinuosità di una lingua sempre più rarefatta e simbolica, barocca, comincia a divenire contrassegno della produzione deandreana degli anni ’80 e ’90 volta, a nostro parere, ad una totale fusione di testo e di musica in virtù della quale rilucono atmosfere, aromi, sapori più che le ‘storie’. Il fatto, la riflessione, l’argomentazione ci sono ma vengono di seguito, come effetto ultimo della degustazione dell’eufonica armonia di testo e di strumento: Creuza de mä (1984)12 è, da questo punto di vista, esemplare. — 616 —

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L’angiporto ligure, affrancatosi dal ruolo di emblematica ‘periferia’ del mondo (La città vecchia, Via del Campo), è emozione pura conseguente all’amalgama del genovese antico con strumenti esotici di provenienza medio-orientale: chi ascolta il brano vede, ma più che vedere le storie, che, pure, stanno ‘alle spalle’ – per così dire – del suono (cfr., per esempio, Sinan Capudan Pascià, Jamina, ‘A pittima), sente la dimensione astratta e simbolica di una città, Genova, trasformata dalla saudade deandreana in cangiante luogo dell’anima, in ombelico di un universo, il Mediterraneo, pervaso di suoni, di aromi, di elementi cromatici comuni e condivisi. I suoni, chiusi o aperti, della lingua nativa, infatti, fondendosi con il ‘colore’ di strumenti inusuali e lontani, diventano anch’essi musica: Genova, convertita in città onirica, in archetipo, alla stessa stregua della Bisanzio di Guccini o della Venezia calviniana (Le città invisibili), è odore, atmosfera, sogno. Con Creuza de mä, però, parentesi di libertà prima del ritorno di De André alla canzone ‘sociale’, si è già molto avanti nel processo di distacco dalla narrazione tradizionale ancora viva in Non al denaro non all’amore né al cielo (1971)13, volume ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1869-1950). Il cantautore rielabora, privilegiando l’asse tematico dell’invidia e della scienza e senza alterare la sostanza, alcuni destini di Spoon River, quelli di Un matto (Frank Drummer)14, di Un blasfemo (Wendell B. Boyd), di Un giudice (Selah Lively), di Un malato di cuore (Francis Turner), di Un chimico (Trainor il Farmacista), di Un medico (Siegfried Iseman), di Un ottico (Dippold). Ai compendi funebri in versi liberi del poeta statunitense De André attribuisce la rima ed un sostegno strumentale congruo poiché, secondo quanto egli stesso afferma in una conversazione con Fernanda Pivano (prima traduttrice dell’opera di Masters), trasformare un testo poetico in canzone significa convertire in rima e in ritmo storie che devono racchiudere un’idea: «Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c’era la necessità di farle diventare canzoni. Cioè storie e una storia non è un pretesto per esprimere un’idea, dev’essere proprio la storia a comprendere in sé l’idea»15. Così, rime ed assonanze danno al testo di Masters una veste popolare valorizzata dal ritmo allegro dell’accompagnamento musicale che svolge una forte funzione simbolica o mimetica: se Un ottico, per esempio, s’avvale della cadenza del valzer spezzata dal ritmo ineguale di un intermezzo schizofrenico che sembra mimare, nel gioco ad eco, a piani sfalsati, delle voci dei clienti, una sorta di strabismo che trasforma un mondo incolore in radioso balocco, il ritmo lento (quasi libero, è detto nello spartito) di Un malato di cuore simula la condizio— 617 —

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ne ‘frenata’, l’inabilità alla vita di Francis Turner, il cardiopatico. Sul fronte dell’interpretazione, la prospettiva deandreana è laica, terrena, libertaria: se in Wendell B. Boyd la mela è dal punto di vista del poeta statunitense il simbolo della conoscenza negata all’uomo che, solo ubbidendo, può godere dell’Eden (il giardino) e non sperimentare il male, in Un blasfemo essa è emblema di un potere esclusivamente umano («è qui sulla terra la mela proibita, e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, ci costringe a sognare un giardino incantato…»); l’invidia, che in Masters frequenta le stanze divine come attributo di un Dio timoroso di perdere le sue prerogative, in De André è male assolutamente terreno, specificità di un sistema geloso di un privilegio («il giardino»)16 in difesa del quale è disposto ad uccidere. Ormai, però, il robusto tessuto ‘popolare’ delle origini s’è ridotto considerevolmente di spessore, lacerandosi in piccole sottili pezze ‘esemplari’ dissimulate tra le pieghe di una riflessione, ideologica in senso lato, sempre più energica pur se mai De André rinunciò definitivamente al ruolo, che sentiva confacente, di ‘raccontatore’: la vita, e, soprattutto, quella ignorata dal sistema, anti-eroica, piccola e oscura se non fosse il fascio luminoso della sua attenzione ad illuminarla, continua a frequentare ed a sollecitare la sua creatività; ma, trenta anni di attività musicale, di vicende personali anche dolorose, di fruttuosi incontri professionali affinano la tecnica ora, sul finire del secondo millennio (e della sua vita), più esigente ed assorta, meno attratta dalle facili suggestioni dell’intreccio narrativo, mascherata dalla colorata filigrana musicale che sostiene la riflessione, l’invettiva, la protesta talvolta avviluppate da fulminee contorte corrispondenze, da parallelismi audaci, da sotterranee analogie, dai più svariati echi intertestuali o extradiegetici17. In ogni caso, la sostanza narrativa – l’idea – che sopravvive in background, filtra, sobria ed essenziale, tra il fitto intrico di metafore, dando alimento alla meditazione: Smisurata preghiera è esemplare chiave di lettura dell’innata, incorreggibile ribellione all’intruppamento, all’imborghesimento mentale, alla colonizzazione intellettuale, mali dai quali la moltitudine di sfigati e di ribelli, ‘di servi disobbedienti’ che popola l’universo di De André è immune e di cui è, però, vittima. Il componimento si chiude con un lungo brano strumentale che svela la più recente propensione del cantautore a dar spazio e ‘parola’ allo spartito come strumento capace di garantire leggerezza ad un materiale concettualmente gravoso, di rendersi gradevole eco della parola, pazientemente cercata e sapientemente adottata in ciò che essa ha di più inafferrabile ma anche di più profondo, il suono, che, alla stessa stregua di uno stru— 618 —

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mento musicale e, anzi, di concerto con questo e con un timbro vocale persuasivamente modulato, intriga, scuote dall’indifferenza, trascina emotivamente e intellettualmente18. Per quanto Mario Luzi giudichi assolutamente complementare in De André il nesso testo-musica, questi, a nostro parere, manifesta negli ultimi anni della sua produzione un’attrazione ‘fatale’ (stimolo per una continua incuriosita sperimentazione) per ciò che la partitura musicale può riuscire a dire giocando con le parole-idea (spesso celate dietro il gergo o il dialetto: Zirichiltaggia, Khorakhané, Jamina) delle quali cerca, esaltandone il ‘colore’, l’effetto sonoro in funzione della «necessaria avvenenza estetica del verso»19: parole – spesso ‘contaminate’ – e musica, intrecciando le rispettive risonanze acustiche, si amalgamano con effetti straordinari, mentre, contemporaneamente, l’idea (la storia narrata ed il suo senso profondo) traluce come ciottolo di mare tra l’increspatura dell’onda musicale: parole e musica, mediate dalla voce, producono in definitiva un suono ermeneutico che non intacca, ‘illumina’, anzi, il significato del componimento: Prinçesa, Monti di Mola, Jamina, Â cúmba, Dolcenera ne sono qualche esempio.

NOTE L. VIVA, Vita di Fabrizio De André. Non per un dio ma nemmeno per gioco, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 63. 2 Ivi, p. 39. 3 D. FASOLI, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, Roma, Edizioni Associate, 2003, p. 91. Nella Discografia completa di Fabrizio de André che Luciano Ceri pone in appendice al volume, si cita un album dei Li Troubaires de Coumboscuro «A toun souléi» (Target 1995) in cui l’artista genovese esegue Mis amour (testo XIV sec. di D. Arneodo). 4 Componimento lirico tradizionalmente di argomento religioso cantato o declamato da una sola persona, assume in De André il valore di preghiera, testo per alcuni versi equivalente alla ballata. Il lamento, rivolto ad un interlocutore muto, è assunto in prima persona dal drogato che esprime la sua amarezza ed il suo rimpianto per la vita normale. 5 «… le donne di De André non sono passivi oggetti del desiderio. Sono persone “vive”, vittime di tre grandissimi sacrifici: della maternità, della verginità, dell’egoismo maschile… (con gli uomini) hanno in comune un solo fattore: l’essere perdenti, quel filo rosso che congiunge tutti i personaggi nati dalla tastiera di Fabrizio. Ma non ci sono nelle figure femminili descritte da Faber la malvagità o la violenza che contraddistingue gli uomini», A. FRANCHINI, Uomini e donne di Fabrizio De André, Genova, F.lli Frilli Editrice, 2000 (Cagliari, Demos Editore, 1997), p. 103. 1

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MARIA GIOVANNA TURUDDA 6 Le didascalie che si alternano alle strofe del testo musicale sono citazioni dirette dal testo greco importato in Europa da Guglielmo Postel, umanista del secondo Cinquecento, ed edito in volume, con traduzione di L. Scartabelli, nel 1867. Cfr. F. DE ANDRÉ, Come un’anomalia, Torino, Einaudi, 1999, p. 94. 7 «… va notato l’affiorare di una poesia visionaria, soprattutto in Il sogno di Maria, di immagini e voli linguistici ancora racchiusi in una struttura classica del verso (a rima o ad assonanza baciata in questo caso) e dello schema armonico, che De André comincerà a sciogliere e modificare di lì a poco. Non sembra casuale, riflettendo su questo disco a venticinque anni di distanza, l’interesse di De André per le sonorità dell’Oriente mediterraneo, che daranno i loro frutti più pieni nell’ambito del progetto musicale di Creuza de mä, nella piccola e commovente Sidun» (D. FASOLI, Fabrizio De André, cit., p. 136. Discografia a cura di L. CERI). 8 «La Buona Novella è un disco colto, carico di stratificazioni visive e letterarie, basti pensare, nelle Tre madri, a quella ripetizione del termine «figlio», che ha un precedente antico nel duecentesco Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, e ai soffusi riferimenti iconografici ed ambientali, nell’Infanzia di Maria, agli affreschi di Cimabue e di Giotto. Tutti elementi che De André utilizza e trasforma, trasfigura allo scopo di creare immagini, visioni, di penetrare tra gli occhi ed il cuore di chi ascolta, e ascoltando, vede» (D. FASOLI, Fabrizio De André, cit., p. 136). 9 Ivi, p. 176. 10 In occasione del Convegno internazionale di Studi su Poesia e musica in Fabrizio De André (Cagliari, 26-28 giugno 2003), G. FLORIS si è occupata di questo aspetto della produzione artistica di De André in un brillante e acuto saggio (Amistade e «Disamistade»). 11 Forse è qui, sul versante di un linguaggio più complesso, tortuoso, di ardua comprensione, che l’influsso trobadorico appare più evidente; soprattutto, è quasi innegabile l’assimilazione della lezione stilistica di Arnaldo Daniello il cui «trobar clus» viene adottato da De André (che, tra l’altro, dava una motivazione ‘genetica’ alla sua attrazione verso la cultura occitanica ipotizzando un’origine provenzale del suo cognome: cfr. D. FASOLI, Fabrizio De André, cit., p. 34) per tradurre il suo originale vigoroso mondo interiore: rime ‘petrose’, impegnative sia sul versante contenutistico sia su quello ritmico riproducono fedelmente la sua speciale eccentrica posizione ideologica. 12 «[…] è un flusso continuo di suoni strumentali e vocali: non tanto canzoni […] quanto veri e propri incontri tra i fonemi dell’idioma genovese […] e i suoni di strumenti etnici dell’area mediterranea» (ivi, p. 233). 13 De André, però, aveva già percorso autonomamente la strada del racconto di profili individuali nella fase della collaborazione artistica con Riccardo Mannerini col quale scrisse i testi e le musiche dell’album dei New Trolls Senza orario senza bandiera (Fonit Cetra, 1968): Signore, io sono Irish, Susy Forrester, Padre O’ Brien, Tom Flaherty sono stati per certi versi il laboratorio, la premessa al concept-album ispirato all’Antologia di Masters. Cfr. la dettagliata, preziosa discografia curata da Luciano Ceri (ivi, p. 324). 14 Il titolo in parentesi rinvia al titolo del componimento di E. L. Masters. 15 Cfr. F. DE ANDRÉ nella Cover dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo, Ricordi, 2002.

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FABRIZIO DE ANDRÉ. NARRAR PER MUSICA E VERSI 16 Nell’intervista rilasciata a Fernanda Pivano, De Andrè aggiunge: «… per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall’uomo e comunque la “mela proibita” è ancora sulla terra e noi non l’abbiamo ancora rubata» (cfr. D. FASOLI, Fabrizio De André, cit., p. 159). 17 A vario titolo, in modo più o meno esplicito, sono evocati Collodi, Luciano Lama, Renato Curcio, Dante, Brassens, Sandro Pertini, Garibaldi, Grimilde, Nelson, Leopardi, Versace, I Vangeli, Guttuso, Sofocle, Napoleone, Michelangelo, Villon, Brel, Giuseppe Giusti, de Andrade, Craxi (cfr. i componimenti Prinçesa, Fiume Sand Creek, Disamistade, Sogno numero due, Le Nuvole, Canto del servo pastore, Al ballo mascherato, Canzone del padre, La domenica delle salme, la dylaniana Via della povertà). 18 Dagli appunti del cantautore e dalle sue dichiarazioni ad amici e collaboratori si sa del suo progetto di comporre quattro lunghe suite per un nuovo album; di una di collaborazione con il maestro Luciano Berio; della sua intenzione di svolgere in chiave musicale, ispirandosi al De rerum natura di Tito Lucrezio Caro, il tema della notte come scenario e come metafora della cecità del potere; del suo grande interesse per Boccherini e Schubert. La narrazione pura delle origini avrebbe, forse, in futuro, ceduto il passo a sempre più esili ma paradigmatiche storie, quasi abbacinanti silhouettes narrative poste a puntello tematico di uno screziato tessuto musicale, come, del resto, è dato vedere già nella sua ultima fatica artistica, Anime salve (1996), nella quale i motivi deandreani vestono ricercati abiti fonetici e strumentali. Nel gioco armonioso di note e di timbro vocale, modulati congruentemente con un materiale tematico sfumato, passano sia l’energico desiderio d’utopia dell’autore ligure, sia la immutata sensibilità verso il suo universo-tema, sia la malia che la musica esercita sul cantautore prima ancora che sui suoi aficionados. 19 D. FASOLI, Conversazione con Fabrizio De André, in ID., Fabrizio De André, cit., p. 36.

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DOMENICA PERRONE ALCUNE FORME DEL NARRARE DEL NUOVO MILLENNIO (L. PARIANI - M. MAZZUCCO - E. SANTANGELO)

Obiettivo della mia comunicazione è quello di cogliere qualcuno dei numerosi fili che compongono la fitta tela di cui è intessuta la narrativa italiana di inizio millennio. Se ci limitiamo, per esempio, a considerare gli scrittori che si sono affacciati sulla scena letteraria soprattutto nell’ultimo decennio del secolo scorso saremo sorpresi dal loro numero: si pensi a Michele Mari, a Eraldo Affinati, a Maurizio Maggiani, a Antonio Moresco, al compianto Sandro Onofri, a quel gruppo di scrittori meridionali come Roberto Alaimo, Giosuè Calaciura, Domenico Conoscenti, Erri De Luca, Francesco Piccolo, Giuseppe Montesano (molti di questi sono stati riuniti, insieme ad altri, nell’antologia Luna nuova curata da Goffredo Fofi); né voglio tacere di scrittori come Aldo Nove, Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa e Tommaso Pincio; e ancora si pensi a scrittrici come Silvana Grasso, Marosia Castaldi, Laura Pariani, e alle più giovani ma altrettanto agguerrite Melania Mazzucco, Simona Vinci, Evelina Santangelo. Fra questi è facile riconoscere scrittori che nei primi tre anni del nuovo millennio hanno consolidato la loro fisionomia, la loro personalità artistica. Peraltro alcuni dei nomi che ho fatto sono diventati ancora più familiari al grande pubblico in questi mesi e, possiamo dire, in queste settimane anche in virtù del discutibile can can dei premi letterari che si sono svolti di recente. Ovviamente in questa sede non è mia intenzione fare una rassegna della narrativa contemporanea, impresa difficile (e incompatibile con il tempo concesso ad una comunicazione), impresa che è stata condotta da Giulio Ferroni in modo magistrale, con quella capacità di rapide sintesi e insieme di illuminanti valutazioni a tutti noi nota, nei suoi Quindici anni di narrativa ricapitolati per la Storia della letteratura italiana della Garzanti1. — 623 —

DOMENICA PERRONE

Io mi limiterò invece a puntare il riflettore solo su qualche scrittore nella cui opera è possibile individuare forme del narrare che mi sembrano estremamente interessanti ed esemplari. Una scrittrice che ha dimostrato di possedere una rara sapienza narrativa e una grande capacità di orchestrare storie attraverso avvedute strategie linguistiche è senza dubbio Laura Pariani. La sua voce dal timbro sicuramente originale e di grande spessore è diventata, oserei dire, necessaria con la sua inesausta declinazione del dolore e dell’offesa. La scrittrice, è il caso di ricordarlo, si è imposta in questi ultimi dieci anni sulla scena letteraria italiana come una delle protagoniste più significative della nostra narrativa per una sua inconfondibile pronuncia e una sua decisa opzione tematica. Ha esordito infatti nel ’93 con Di corno o d’oro edito da Sellerio e ha continuato a pubblicare, con cadenza, possiamo dire, biennale, raccolte di racconti e romanzi: del ’95 sono Il pettine e La spada e la luna, del ’97 La perfezione degli elastici; del ’99 La signora dei porci; del 2001 La foto d’Orta, del 2002 Quando Dio ballava il tango e a distanza di un anno, da ultimo, ha pubblicato L’uovo di Gertrudina. E non le sono mancati certo i riconoscimenti, difatti i suoi libri sono stati pluripremiati2. Un successo di critica e di pubblico che è dovuto, io credo, all’originale combinazione nei suoi libri di una tensione affabulatoria, una fame di storie da raccontare, e di una scrittura estremamente mobile e pronta ad adottare molteplici punti di vista e ad attraversare vari piani temporali. Nella misura a lei congeniale del racconto, per cui spesso anche i romanzi vengono organizzati in più unità narrative, in un mosaico di racconti, la Pariani declina il grande tema della memoria, innestandovi quello dell’emigrazione, dello sradicamento, della condizione femminile e della violenza subita dagli inermi e dai più deboli e con questo anche quello dello scontro fra le culture e dunque della salvaguardia delle identità delle minoranze. Questi grandi temi vengono articolati attraverso una sintassi narrativa estremamente moderna e inquieta, non lineare, che procede per approssimazioni, per continue dislocazioni spazio temporali, molteplici punti di vista, e inoltre si interroga costantemente sul senso della letteratura, sul valore della scrittura. Ma debbo subito precisare che l’insistenza metaletteraria, di cui è fortemente segnata la narrativa della Pariani non è mai fine a se stessa, non è puro gioco intellettuale, anzi è il nodo, la questione fondamentale in cui si sostanzia e prende forza una particolare forma di autobiografismo. Un autobiogra— 624 —

ALCUNE FORME DEL NARRARE DEL NUOVO MILLENNIO

fismo tematico, è ovvio, di ascendenza sveviana, per cui non è tanto la «somiglianza» degli eventi narrati con alcuni fatti reali della vita della scrittrice che lo rende tale, ma il modo di conoscere e di giudicare le cose e il mondo e di giudicarsi3. A rafforzare questi rilievi giunge ora il racconto eponimo dell’ultima raccolta L’uovo di Gertrudina dove metaletteratura e autobiografismo si coniugano esemplarmente. Sulla traccia della Gertrude manzoniana, immaginata al suo quinto compleanno mentre riceve in dono una bambola vestita da suora, prende forma tra gli altri personaggi del libro, quello della scrittrice bambina, a quattro anni, fotografata a Milano, la stessa città di Gertrude e di un’altra protagonista del libro, suor Carla Francesca4. Rivivendo il momento che la vede passare dall’immobilità della posa fotografica alla libertà della corsa, la scrittrice immagina altri momenti simili vissuti dai suoi personaggi creando una perfetta circolarità con essi: E allora nel cuore i nomi mi si mescolano, i tempi si incrociano: apriti sesamo chiuditi sesamo… Ché mi pare a volte che tutti i miei personaggi siano racchiusi nella stessa storia, la mia; e che, senza che davvero me ne rendessi conto, episodi intimi da conservare sigillosamente nel chiuso delle mie fantasie o dei miei rimorsi siano passati sulla bocca di tutti, diventando interpretazioni di altri, pagine di libri.5

Così, ogni volta, scrivere, è per la Pariani soprattutto una scommessa esistenziale. «Io sono, io scrivo», leggiamo in un racconto del ’97, L’amore vuoto, raccolto nella Perfezione degli elastici, ma tutta la sua narrativa è disseminata di dichiarazioni simili che siglano questo protagonismo, o meglio, agonismo della scrittura. Leggiamo nella sua ultima raccolta di racconti: «Scrivere una storia ha a che vedere con il caso, ma soprattutto con il desiderio: è la sua urgenza – direi quasi: la sua ossessione – che ti spinge ad andare avanti»6; un’ossessione, quella della Pariani, che confina con l’amore. E sulla traccia di essa, sulla sua urgenza, una folla di personaggi, una fitta trama di avvenimenti catturano il lettore attraverso una narrazione che con grande abilità passa dal racconto in terza persona alla prima persona, dal dialogo al monologo, dall’indiretto libero al discorso diretto fino a dare consistenza grafica, con il ricorso al corsivo, al non detto, cioè ai pensieri più segreti dei personaggi, o alle riflessioni della scrittrice, in un andirivieni di presente e passato che usa i tempi verbali in modo non canonico. — 625 —

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Contadini della valle del Ticino, emigranti, donne processate per stregoneria, donne abbandonate, penelopi in eterna attesa, indios decimati, suore vocate e non, un’umanità ferita e irredenta, allenata al dolore e alla fatica del vivere trova la parola, e dunque una possibilità di riscatto, nella pagina della Pariani, in una lingua che mescola dialetto, italiano e castigliano ed è capace di attraversare l’immediatezza dell’oralità, la razionalità dell’investigazione, la riflessività dell’autoesame che coinvolge anche l’operazione, il processo della creazione artistica. Valga per tutti come esempio la scansione in otto notti della materia narrativa nel romanzo La signora dei porci, dove le otto notti non sono quelle dei personaggi, ma sono quelle trascorse dalla scrittrice e da un suo ideale interlocutore che la segue nella composizione del romanzo e dialoga con lei accompagnandola nella fatica della scrittura fino alla fine: È stanca la Scrittrice: ha accompagnato fino al confine i personaggi delle sue storie; al limite del cielo della luna. Piove, dalla finestra aperta entra la musica degli scrosci sull’ardesia dei tetti; e lei recita, più alto che può per superare la voce dell’acqua: «a un tratto, con fragor d’arduo dirupo che frana, il tuono rimbombò di schianto», «O Ermione», «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena». […] «Perché hai voluto contarmi proprio questa storia?» chiedo. «Perché l’ho fatto il mio Mietitore?» mi risponde con gli occhi che le si fanno un po’ lustri. E fa un mezzo sorriso. Non a me, se non per il fatto che sto qui alla finestra davanti a lei.7

Una materia, allora, in sé non nuova – che, nei modi della denuncia, ha alle spalle una tradizione – si fa inedita appunto per una modalità narrativa che tende a spezzare la visione in quadri parziali e insieme a comporli in una forma che fuoriesce dal genere romanzo e vi ritorna dopo essersi contaminata con altri generi (il diario, l’inchiesta, il reperto documentario, ecc.). La moltiplicazione dei punti di vista, le continue pause riflessive tra metaletteratura, commento, autosservazione e racconto di sé, un uso del tempo (non mimetico), che non corrisponde all’effettiva cronologia degli eventi, ma che aspira a diventare tempo della coscienza, smontano la forma romanzo rifondandola. In questa direzione ricca di prospettive mi pare si possa individuare una tendenza importante del narrare contemporaneo che è praticata non solo da — 626 —

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Laura Pariani. Si pensi a un’altra scrittrice, più giovane, ma che sin dal suo primo romanzo, Il bacio della Medusa8, si è guadagnata uno spazio ragguardevole nel panorama letterario odierno, cioè a Melania Mazzucco. E ne parlo non per il successo fin troppo scontato dell’ultimo romanzo (che ha anche goduto del battage pubblicitario della casa editrice) quanto per quei libri meno conosciuti dal grande pubblico, ma che hanno fatto notare subito le sue straordinarie qualità di narratrice. Una forte tensione costruttiva sostiene questa volta la ricchezza inventiva della scrittrice, eppure dentro la sua mirabile architettura il romanzo si contamina. Nella Camera di Baltus9, ad esempio, tre storie si richiamano vicendevolmente in un gioco di corrispondenze, di simmetrie e di necessari slittamenti temporali. Così la vicenda del Maestro pittore degli affreschi quattrocenteschi ritrovati nel castello di Bastia del Garbo fa da specchio a quella del critico venuto a fare l’expertise dell’opera d’arte, nel settembre del 1992, e a quella di Baltus, il giovane ufficiale francese che, ferito gravemente durante la guerra delle Alpi combattuta tra francesi repubblicani e piemontesi, alla fine del Settecento, venne lasciato nella camera che prese il nome da lui. Ma l’espandersi, il lussureggiare della fabula non scalfiscono la forte coesione interna del romanzo che conferma, in tal modo, la propria vitalità di genere plurimo e aperto, capace di annettere linguaggi diversi, di smembrare il proprio corpo per poi ricostituire una nuova e più salda interezza. In questa pratica di una narrativa impura che vuole saggiare le infinite possibilità di lettura del mondo mi pare anzi che la Mazzucco pronunci il suo inequivocabile atto di fede nel romanzo. In Lei così amata ad esempio la scrittrice combina materiale biografico (lettere, diari, fotografie riguardanti Annemarie Schwarzenbach) e invenzione dopo avere aperto il romanzo con una prova di bravura: gli ultimi momenti della vita della protagonista, che precedono l’incidente mortale in bicicletta, sono raccontati al rallentatore mentre simultaneamente vengono sorpresi in varie situazioni e in vari luoghi del mondo gli altri personaggi che l’hanno accompagnata nella sua breve, inquieta e appassionata esistenza10. Non sorprende, dunque, che anche nell’ultimo romanzo, Vita, presente e passato si intreccino e che ai capitoli che narrano in terza persona la storia di Vita e Diamante, i due emigranti ragazzini approdati nel 1903 a New York, si alternino quelli in cui la scrittrice in prima persona racconta di sé, di come, arrivata nella metropoli americana, sente affiorare il ricordo di racconti familiari su quei luoghi visitati:

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Prince Street. Perché mi sembrava di aver già sentito questo nome? L’avevo letto da qualche parte? Guardai le case a tre piani, le finestre, i cortili, le scale antincendio. A Prince Street c’è stato il padre di mio padre, dissi distrattamente a Luigi. […] Era una vecchia storia, e da molto tempo nessuno me ne parlava. Non avevo mai avuto molto interesse per la storia della mia famiglia. In realtà, desideravo solo liberarmene.11

Così, in uno dei resoconti autobiografici inseriti nel romanzo12, apprendiamo che la scrittrice, mentre va in giro per New York, sulle tracce di Annemarie, la protagonista di Lei così amata, viene presa dal bisogno di ricostruire un’altra storia che la interessa più direttamente. Tornata in Italia, allora, mettendo insieme il materiale raccolto tra archivi e soffitte, inizia a immaginare, a «romanzare», come lei stessa dice13, la vicenda dei suoi antenati. A Ranieri Polese, che intervistandola la sollecita a pronunciarsi sul romanzo, la Mazzucco dichiara: Credo che il romanzo sia vivo. Anche perché può inglobare forme e generi diversi, documenti, materiali di ricerca. E nel suo raccontare le storie di persone senza storia, sa comporre un’autobiografia della nazione.14

Una dichiarazione che, in primo luogo, nei suoi termini generali, a me richiama alla memoria un’altra dichiarazione rilasciata nel 1894, a conclusione dell’esperienza naturalistica e ad apertura del realismo critico novecentesco, da un grande costruttore e rifondatore del romanzo, Federico De Roberto, in risposta ad una domanda di Ugo Ojetti: «Il romanzo è la vera forma ancora perfettibile, il romanzo si matura, si compone, si evolve verso il poema»15. E mi pare poi un’altra coincidenza interessante che proprio di «autobiografia della nazione»16 abbia parlato Leonardo Sciascia per il romanzo derobertiano e brancatiano. Senza voler bloccare e sistemare una materia che rimane per forza di cose fluida e in movimento, aggiungo velocemente un ulteriore esempio di questa che si configura, a mio avviso, come una modalità narrativa praticata dai giovani scrittori che credono fortemente nella possibilità di leggere il mondo attraverso il romanzo. Mi riferisco a un’altra scrittrice, Evelina Santangelo, che, nel suo primo romanzo, pubblicato quest’anno da Einaudi, La lucertola color smeraldo (ma — 628 —

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aveva esordito, sempre da Einaudi, nel 2000, con la raccolta di racconti L’occhio cieco del mondo), racconta di uno stupro subito da una ragazza, Irene, attraverso tre storie intrecciate fra di loro. Quella di Ivan, paralizzato testimone della violenza, narrata in prima persona a caratteri maiuscoli, in forma di annotazione diaristica; quella di Irene, sempre in prima persona, come la immagina Ivan; e, infine, quella di Vian, che è poi la storia che Ivan vorrebbe fosse la sua e che, nella sua finzione, egli fa raccontare ad Irene. Lo stesso avvenimento viene ogni volta ‘raccontato’ da un punto di vista diverso approfondendone la conoscenza. Non può apparire, dunque, una semplice coincidenza il fatto che tutte e tre queste scrittrici sentano il bisogno nelle loro opere di rilanciare con forza il valore del raccontare. Laura Pariani, che esordisce mettendo al riparo di una dedica il suo ultimo libro di racconti, L’uovo di Gertrudina: a tutti coloro che, raccontandomi storie, hanno suscitato dentro di me emozioni spaventosamente impreviste

dichiara, infatti, nella pagina finale della raccolta che «la letteratura può anche essere gesto di libertà, di salvezza, perfino di redenzione». Ancora, Melania Mazzucco ribadisce, nel suo ultimo romanzo, l’idea che la verità è la letteratura: «solo ciò che viene raccontato è vero». Infine, Evelina Santangelo, nell’epigrafe della Lucertola color smeraldo, non esita a rivendicare la capacità che ha la scrittura di ricostruire il mondo: «“A VOLTE, CON UNA STORIA TI RICUCI IL MONDO, O ALMENO CI PROVI”, DICEVA MIO NONNO».

NOTE 1 Cfr. G. FERRONI, Quindici anni di narrativa, in Storia della Letteratura Italiana, fondata da E. CECCHI e N. SAPEGNO, XI, Il Novecento, direzione e coordinamento di N. BORSELLINO e L. FELICI, progetto e realizzazione editoriale di F. MIGIARRA, Milano, Garzanti, 2001. 2 A cominciare dal libro d’esordio Di corno o d’oro, che ha ricevuto Il Premio Grinzane Cavour, il Premio Donna Città di Roma e il Premio Piero Chiara, tutte le opere della scrittrice hanno avuto riconoscimenti, si ricordano qui, fra gli altri, il Premio Procida-Elsa Morante, Dessì, Selezione Campiello, Vittorini.

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DOMENICA PERRONE 3 Per la nozione di «autobiografismo tematico» si veda quanto afferma N. Tedesco a proposito dell’autobiografismo di Svevo: «Più che il parere, l’accadere di ogni giorno, ci viene consegnato come l’essere genetico fondante. In sostanza, il vero scrittore autobiografico, che ha scelto e persegue un punto di vista deliberato ed esclusivo, va oltre il dato materiale, giudicandolo e giudicandosi rispetto ad esso» (cfr. N. TEDESCO, La coscienza letteraria del Novecento. Gozzano Svevo e altri esemplari, Palermo, Flaccovio Editore, 1999). 4 Al secolo Antonia Pusterla, protagonista del racconto Se tu ti formi una rosa, costretta a rinchiudersi in convento per sfuggire alla furia vendicativa del marito, il conte Marliani, già abbattutasi con violenza sul giovane amante Cesare Visconti sorpreso con lei. 5 L. PARIANI, L’uovo di Gertrudina, Milano, Garzanti, 2003, p. 218. 6 Ivi, p. 46. 7 EAD., La signora dei porci, Milano, Rizzoli, 2000, p. 239. 8 Cfr. M. MAZZUCCO, Il bacio della Medusa, Milano, Baldini e Castoldi, 1996. 9 Stampato ancora da Baldini e Castoldi, nel 1998. 10 Cfr. La caduta. 7 settembre 1942, in EAD., Lei così amata, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 7-21. 11 EAD., Vita, Milano, Rizzoli, 2003, p. 44. 12 Si legga il capitolo intitolato Una gita a New York, ivi, pp. 40-45. 13 «Di Diamante e di Vita negli anni di Little Italy non sono riuscita a sapere molto, così ho immaginato. Ma con l’aspirazione di romanzare il reale, di trovare cioè il modo di far vivere in un libro quelle grandi storie che gli emigranti non hanno mai raccontato». Cfr. R. POLESE, Il sogno italiano al tempo degli emigranti, «Corriere della Sera», 16 marzo 2003. 14 Ibidem. 15 Cfr. U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Fratelli Dumolard, 1895; ma si cita dall’edizione a cura di P. PANCRAZI, Firenze, Le Monnier, 1946, p. 137. 16 È in rapporto all’analisi della storia italiana, fatta da De Roberto e poi da Brancati, che Sciascia rileva come nella lettura dell’uno e dell’altro «non c’è soluzione di continuità: i fascismi vengono fuori uno dall’altro, sicché il fascismo vero e proprio si configura agli occhi di Brancati come una sintesi di autobiografia della nazione». Cfr. L. SCIASCIA, Del dormire con un solo occhio, in V. BRANCATI, Opere, Milano, Classici Bompiani, 1987, p. XII. Come il nodo del risorgimento e del fascismo, per i due scrittori siciliani è fondamentale per ricostruire una memoria privata e collettiva, per la Mazzucco quello dell’emigrazione deve essere affrontato per restituire una realtà che, come lei afferma, sempre nell’intervista citata, è parte «del nostro corpo nazionale».

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III SCUOLE DI DOTTORATO

BARBARA BELEGGIA IL DOPPIO SOGNO DI MASSINISSA E SOFONISBA NELL’AFRICA DEL PETRARCA Il Petrarca non crede ai sogni, o almeno così dice nel trattato De somniis nei Rerum memorandarum libri 1, eppure nelle sue opere egli si serve spessissimo dell’espediente onirico2. Nell’Africa, opera concepita a suggello e celebrazione del suo fare poetico, amatissima, ma incompiuta, il Petrarca racconta quattro sogni3. Dopo la protasi e l’invocazione a re Roberto il poeta, sulle orme del Somnium Scipionis di Cicerone e dei commentari di Macrobio, descrive il lungo sogno di Scipione: sul lido che il mare separa dall’Africa l’eroe romano pensa angosciosamente al modo di condurre la lotta contro Annibale. La stanchezza e l’ansia lo colgono insieme al sonno ed egli ha una mirabile visione: l’ombra del padre Publio lo rassicura sulla futura vittoria contro il nemico, indica al figlio le schiere degli eroi romani che popolano la sfera celeste, profetizza la costituzione dell’impero con Augusto e l’inizio della decadenza romana. Si tratta di una visio in somniis in cui il protagonista viene edotto sulle vicende future, guidato nelle proprie scelte, ammonito sulle proprie debolezze. All’alba, quando il sole colpisce il volto di Scipione, egli si sveglia con rinnovata fiducia nelle proprie capacità e, pronto a combattere a viso aperto, chiama il fedele Lelio perché appresti la battaglia4. Nel IX libro, alla fine del poema, il sogno si scoprirà veritiero. L’eclatante sconfitta di Annibale permette a Scipione di abbandonare le coste africane. Veleggiando verso Roma, dove lo attende il trionfo, egli tiene un lungo discorso con il poeta Ennio. Sollecitato dal duce, il poeta latino parla della poesia, forma del vero che rifugge dalla menzogna e che, ora celando, ora mostrando, canta tutte le opere della storia, della virtù e della vita. A questo punto Ennio racconta di un sogno avvenuto alla vigilia dell’ultima battaglia. In uno stato di semicoscienza, quando i suoni delle armi im— 635 —

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pediscono un sonno profondo, egli vede Omero, il poeta tanto echeggiato nei suoi versi: è magro, mal vestito, quasi irriconoscibile, si presenta al discepolo, lo prende per mano e in un ideale pellegrinaggio lo accompagna attraverso i regni della poesia. Nell’ultima tappa di questo viaggio5, Ennio vede da lontano un giovane seduto tra gli allori, con un calamo in mano e il capo reclinato nell’atto dello scrivere. Omero lo designa come il futuro cantore delle imprese di Spagna e di Libia, il poeta di Scipione e di un poema dal titolo Africa. Il poeta latino, preso d’amore per questo tardo alunno delle Muse, gli si appressa, ma nel momento di dialogare con lui, il sogno s’interrompe e la visione scompare. Il racconto onirico in questo caso ha una complessa funzionalità: si presenta come esemplificazione ed epilogo della digressione sulla poesia, immediatamente precedente e, più in particolare, come esposizione della poetica del Petrarca e celebrazione di quel poema storico che stava con difficoltà completando6. I due sogni raccontati all’inizio e alla fine dell’Africa, dunque, intrattengono uno stretto rapporto di reciproca dipendenza: nella figura del poeta si fondono le gesta dell’eroe, celebrato nei primi due libri, e la funzione della poesia, che di quelle imprese è strumento vivificante, chiarita nell’ultimo. Lo stesso fantasma Publio aveva ricordato quel doppio filo che lega immortalità e poesia, profetizzando al figlio: «cernere iam videor genitum post secula multa / finibus Etruscis iuvenem qui gesta renarret, / nate, tua et nobis veniat velut Ennius alter»7. La circolarità contenutistica si rovescia nella costruzione formale: mentre il Somnium Scipionis viene raccontato in medias res, nel momento stesso in cui si verifica, costituendo un elemento propulsore della storia, il sogno di Ennio è raccontato a posteriori, con una evidente razionalizzazione e interpretazione del messaggio onirico: perfino il sistema diegetico è più complesso, visto che il parlante Ennio si sdoppia nel doppio ruolo di protagonista/narratore del sogno. Gli altri due sogni del poema si concentrano in un unico libro, il V, dedicato completamente alla triste vicenda di Massinissa e Sofonisba. Il Petrarca sceglie ancora una volta di servirsi dell’elemento onirico in un punto strategico del poema, in quella sezione centrale, composta di getto in un unico felicissimo momento creativo, durante il soggiorno parmense tra il 1341 e il 1342, dopo che mille vicissitudini lo avevano allontanato dall’opera storica e dalla sua ispirazione. — 636 —

IL DOPPIO SOGNO DI MASSINISSA E SOFONISBA

In quegli anni il Petrarca riprese in mano il testo di Livio8 e rilesse con nuovo spirito, nei capitoli 12-15 del XXX libro, la vicenda dei due amanti9. Se prima un’ammirazione un po’ rigida, quasi religiosa, della virtus romana e del solitario eroe Scipione lo avevano indotto ad evitare nel poema inserti romanzeschi, ora ad anni di distanza quella vicenda lo commosse profondamente. Nel fascino della donna, nella divampante passione amorosa dei due amanti, nel conflitto insanabile tra l’amore e il dovere il Petrarca rivedeva tutti gli sviluppi di quell’intima, conflittuale riflessione che allora variamente si dispiegava nel suo animo e nella sua poesia. Per questo motivo egli si gettò a capofitto nella composizione dei libri V-X dell’Africa, con l’illusione di terminare finalmente il poema. La materia ben più ampia e ricca di particolari di quella liviana lo costrinse probabilmente a trascrivere parti dell’episodio nella biografia di Scipione, la più lunga e impegnativa del De viris, l’opera la cui composizione corre quasi parallela al poema storico, dapprima senza una traccia prestabilita e fuori da un ordine sequenziale (testo b), correggendolo poi più tardi, nel momento in cui riprese il De viris e in particolare la vita di Scipione (testo a), per completarla10. Questa complessa vicenda redazionale spiega in parte la lacuna del libro IV dell’Africa, difficilmente imputabile alla perdita di fogli durante la trascrizione del manoscritto11, ma con ogni probabilità dovuta ad una mancata revisione di collegamento tra parti composte in momenti cronologici differenti. Così abbandonato Scipione e la visione del mondo ultraterreno, abbandonata la fredda descrizione della missione di Lelio in Africa, il Petrarca trascorre senza collegamenti all’incontro tra Massinissa e Sofonisba, nella reggia di Cirta. Qui l’eroe romano vede la vinta Sofonisba, un tempo a lui promessa, poi sposata dal padre Asdrubale a Siface per scopo politico. Ora il rivale è lontano e sconfitto e la regina splendida, la gemma di gran lunga più bella tra quelle che adornano la lussuosa abitazione. L’eroe non può evitare di ammirarne estasiato ogni dettaglio fisico e mentre il suo sguardo trascorre lungo le belle forme della donna egli sente sempre più forte il fuoco della passione12. Le promette subito che non farà parte del trionfo romano, non seguirà il carro che ascenderà al Campidoglio, e in nome dell’antico amore le chiede di sposarlo, pronto, egli assicura, a darle egli stesso la morte se un giorno il destino volesse separarli e rivendicare la vittoria delle armi13. Un dardo d’amore, dice il Petrarca, colpisce con più forza di mille dardi di guerra: Massinissa, seduto nella sua stanza, da solo, pensa agli ostacoli che — 637 —

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dovrà superare, a Scipione e all’ordine cui ha trasgredito, ma avvinto ormai dalla ben più imperiosa legge del cuore egli si lascia trascinare come un naufrago che di fronte alla tempesta abbandona il comando della nave. Le nozze vengono celebrate in fretta, senza grandi apparati, ma nella notte in cui Sofonisba è tornata regina e donna innamorata, i mille baci del nuovo marito, i riconquistati diritti del regno non riescono a scacciarle dal cuore un angosciante timore: ella ha sempre di fronte agli occhi l’immagine del sepolcro, ode le minacce del primo marito e il suo sonno è agitato da un incubo: […] Illi non blanda mariti Oscula mille novi, non regni iura vetusti Per cunctos promissa deos, de corde pavorem Funditus expulerant: sempre tremefacta sepulcrum Ante oculos mortemque tulit. Nec somnia letum Portendere aliquid. Visa est sibi nempe, secondo Rapta viro, sentire minas et iurgia primi, Et tremuit, sopita licet. Tum vertice montis Aerii traducta sedens, subiecta videbat Regna sibi populosque vagos; monstrumque repente Concurrisse alium maiori corpore montem; Tum vero tremuisse iugum, cui nixa sedebat; Impulsusque gravi gelidos de vertice fontes Descendisse duos; montemque abiisse minorem Inde retro; ast illam rapido per inania lapsu Tartara nigra quidem et Stigem tetigisse paludem.14

Quello di Sofonisba è chiaramente un sogno profetico, anticipatore dell’imminente morte che l’attende. Il Petrarca costruisce la sezione onirica secondo i dettami della retorica del sogno15: – l’antefatto rappresenta una situazione di pericolo con l’ossessivo indugiare della protagonista su pensieri angosciosi: ricorrono termini funebri: sepulcrum, mortem, nec letum, mentre un pavorem profondamente radicato nell’animo rende Sofonisba tremefacta; – il passaggio dalla veglia al sogno è attestato da un cambiamento dei tempi narrativi: dal perfetto (visa est e tremuit) all’imperfetto (videbat) che inserisce nell’atmosfera sospesa e confusa dell’esperienza onirica; – le sequenze di cui si compone la rappresentazione sono collegate per asindeto e con perfetta coerenza temporale, in modo da rendere chiaro e fruibile — 638 —

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lo svolgimento cronologico dell’azione: Sofonisba è dapprima traducta sul monte e da lì, rimanendo seduta (sedens) osserva gli straordinari eventi del sogno, anticipati da quel mostrumque; – la rapida successione degli infiniti concurrisse, tremuisse, descendisse, tetigisse16 creano una climax ascendente di tensione, che nel riproporre materialmente il movimento dei monti che sovrastano la protagonista, accelerano il ritmo della narrazione, quasi in consonanza con l’agitato stato d’animo della sognante; – l’esperienza onirica si conclude con un’immagine violenta, tanto spaventosa da ridestare Sofonisba. Paludem non è solo il punto fisico dove si arresta il moto, ma anche l’elemento che segna la conclusione del sogno. La chiara intelligibilità del messaggio onirico fa sì che il Petrarca eviti di descrivere le successive reazioni della protagonista: l’incubo scandaglia, riverbera, materializza le angosciose sensazioni e le viscerali paure dell’impudens regina e indica con la nefandezza dei segni il tragico immutabile destino di morte che l’attende. Attraverso il sogno il Petrarca ispessisce la narrazione, anima i personaggi di una psicologia complessa e tormentata, ricrea la storia dei sentimenti, eroici e comuni. La fredda ricostruzione liviana, priva di questa, come di qualunque altra concessione romanzesca, è superata dal Petrarca nello spazio immaginoso della poesia. Quando la scena si sposta su Massinissa è ancora un sogno ad indicare la direzione della scelta: nella notte in cui Scipione ha rimproverato il suo osceno amore, contrario a virtù e castità, l’eroe romano, da solo, nella propria tenda, inizia un lacerante pellegrinaggio interiore: i ricordi delle carezze femminili, della passione e della dolcezza dell’amore si sovrappongono, confondono, intrecciano con quelli delle battaglie e degli onori17. Nel tormento dei pensieri, in uno stato di semicoscienza egli rivede, frugando nella memoria, le immagini dei sogni trascorsi e di una terribile visione: Somnia nunc, tacite quondam mihi tempore noctis Visa, non recognosco turbate orrenda quietis Non satis intellecta prius. Tune illa fuisti Candida prostrato per vim subducta marito Cerva, sed imperio tandem pastoris iniqui Custodi prerepta novo? tunc nempe placebas, Vel sic visa, michi. Sed quid coniuncta ferebat Mors tua? Dii, visis omen removete malignum. Permetuo, nam cuncta sibi constantia certo Ordine cernebam, nec me sopor ille fefellit.18

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La stessa profezia di morte per la donna amata, dunque, lo stesso senso di separazione violenta, di impossibilità ad agire, eppure questo sogno, nella coincidenza dei significati profondi, ha una formulazione strutturale molto diversa rispetto a quello di Sofonisba. Dapprima nella semplicità costruttiva: nessun articolato periodo di subordinate, ma una lunga, inquietante domanda, il sogno qui si rapprende in un frammento, compare come risultato di un impulsivo processo di codificazione-razionalizzazione; quindi nella scelta dei significanti: cerva, custos, pastor sono signa allegorici propri di una codificata tradizione bucolica, intelligibili, dietro il velamen della poesia, ad un esperto lettore: l’interpretazione del testo onirico nasce nello iato tra figure bucoliche e contesto tragico: la cerva sottratta al cervo e al pastore è Sofonisba, separata al primo marito dalla guerra e dal secondo dalla morte; infine nella forma diegetica: il sogno di Sofonisba è raccontato in terza persona, nel momento stesso in cui si verifica, con un’evidente funzione prolettica rispetto alla risoluzione della vicenda; il sogno di Massinissa è raccontato in prima persona, all’interno di un monologo interiore, quando il tragico finale è intuibile, ma non realizzato. In entrambi i casi il punto di vista è interno: Sofonisba si vede precipitare nello Stige, Massinissa osserva impassibile la separazione tra la cerva e il pastore. Se all’indomani della visione Sofonisba non agisce, perché non può, Massinissa, al contrario, dopo la tormentata notte e il ricordo del sogno, ha coscienza del suo fare: non potendo realizzare per sé e per la donna amata un futuro d’amore, egli può evitarle la vergogna della sconfitta, dandole la morte e sottraendola così al giogo romano19. Il V libro si chiude così con la punica regina che beve impavida il velenoso filtro inviatole dall’amante, senza versare una lacrima20, con il ricordo di un amore che fu e il pensiero di un’eterna libertà. Se la narrazione di Livio s’interrompe con la morte della regina, il Petrarca vuole ancora seguire la sua eroina tra gli amanti dell’Eaco, all’inizio del VI libro dell’Africa, per ricongiungerla di nuovo al suo Massinissa nell’eterno sogno dei Trionfi, dove, in testa al corteo trionfale dell’Amore, essi passano finalmente insieme «mano a mano», «dolcemente lacrimando»21.

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IL DOPPIO SOGNO DI MASSINISSA E SOFONISBA

NOTE 1 Il trattato occupa quasi per intero il quarto libro e si presenta come una raccolta di sogni dell’antichità, per lo più tratti da Svetonio, Valerio Massimo, Cicerone, compilata con lo scopo di fornire degli exempla: «Sompniorum causa scrutentur alii, nos hoc libro […] rerum exempla conquirimus» (Rer. Mem. IV, 40, 1). Sotto il peso delle auctoritates, il Petrarca, raccontando sogni ora quotidiani ora autorevoli (come quello di Calpurnia e Cesare), cerca di dimostrare l’estraneità divina alle immagini oniriche, prodotto, come testimonia Aristotele, solo delle terrene pulsioni quotidiane. Sulla complessa e spesso contraddittoria visione petrarchesca dei sogni si veda G. CREVATIN, Quid de nocte? Francesco Petrarca e il sogno del conquistatore, «Quaderni petrarcheschi», IV, 1987, pp. 139-166. 2 A voler considerare l’aspetto quantitativo, i fenomeni onirici sembrano aver costituito per il Petrarca una fonte inesauribile di ispirazione: oltre alle opere-visione dei Trionfi e del Secretum, il racconto di sogni è presente in tre Familiares (II, 5; V, 7; VII, 3), nell’epistola metrica I, 6 dove l’immagine di Laura, protagonista di tremendi insomnia, arriva ad assumere i connotati ambigui ed aggressivi del fantasma, e naturalmente nel Canzoniere. Per una panoramica sui componimenti onirici nei RVF si veda il recente contributo di B. BELEGGIA, I sogni nel «Canzoniere» di Petrarca, in Sogno e racconto. Archetipi e funzioni. Atti del Convegno di studi (Macerata, 7-9 maggio 2002), a cura di G. CINGOLANI e M. RICCINI, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 57-69. Sui singoli testi la bibliografia è naturalmente sterminata. Si segnalano, per la maggiore attenzione al tema onirico, i contributi di F. ROMANI, Laura nei sogni del Petrarca, Prato, Passerini, 1905 (poi nel «Giornale Dantesco», XVII, 1910, pp. 101117); F. MAGGINI, La canzone delle visioni, «Studi petrarcheschi», I, 1948, pp. 37-50; F. CHIAPPELLI, Studi sul linguaggio del Petrarca. La canzone delle visioni, Firenze, Olschki, 1971; M. FEO, Il sogno di Cerere e la morte del lauro petrarchesco, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di studi (Arquà Petrarca, 6-8 novembre 1970), a cura di G. BILLANOVICH e G. FRASSO, Padova, Antenore, 1975, pp. 117-148; ID., Pallida no, ma più che neve bianca, «Giornale storico della letteratura italiana», CLII, 1975, pp. 321-361; O. BÜDEL, Parusia Redemptricis: Lauras Traumbesuche in Petrarcas «Canzoniere», in Petrarca 1304-1374. Beiträge zu Werk und Wirkung, hrsg. von F. Schalk, Frankfurt am Main, Klostermann, 1975, pp. 33-50. Più in generale sui sogni e le visioni in Petrarca si vedano A. BELLONI, Il Petrarca e i sogni, in Padova in onore di Francesco Petrarca, II, Padova, 1909, pp. 33-39; C. CABAILLOT, Quand Pétrarque rêvait, in Rêves et récits de rêve, textes réunis par CL. PERRUS, Paris, Presses de la Sorbonne Nouvelle, 1997, pp. 13-71; C. VECCE, La «lunga pictura»: visione e rappresentazione nei Trionfi, in I Triumphi di Francesco Tetrarca. Atti del Convegno di studi (Gargnano del Garda, 1-3 ottobre 1998), a cura di C. BERRA, Milano, Cisalpino-Istituto Editoriale Universitario, 1999, pp. 299-315; M. C. BERTOLANI, Il corpo glorioso, Roma, Carocci, 2001. 3 Per l’Africa, si rinvia al testo dell’edizione nazionale curato da N. FESTA, Firenze, Sansoni, 1926. In generale, sulle fasi di composizione e le tematiche dell’opera, si vedano A. CARLINI, Studio su l’Africa di Francesco Petrarca, Firenze, Successori Le Monnier, 1902; G. PIAZZA, Il poema dell’Umanesimo. Studio critico sull’«Africa» di Francesco Petrarca, Roma, La Vita Letteraria, 1906; N. FESTA, Saggio sull’«Africa» del Petrarca, Palermo-Roma, Sandron, 1926; G. MARTELLOTTI, Sulla composizione del «De viris» e dell’«Africa» del Petrarca, «Anna-

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li della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, X, 1941, pp. 247-262; V. FERA, La revisione petrarchesca dell’«Africa», Messina, Centro di studi umanistici, 1984; M. FEO, Il poema epico latino nell’Italia medievale, in I linguaggi della propaganda, a cura dell’Istituto storico della Resistenza in Piemonte, Milano, Mondadori, 1991, pp. 30-73. 4 Sul sogno di Scipione nell’Africa si vedano: P. COURCELLE, La Postérité chrétienne du Songe de Scipion, «Revue des études latines», XXXVI, 1958, pp. 205-234; A. S. BERNARDO, Petrarch, Scipio and the «Africa». The Birth of Humanism’s Dream, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 1962; E. GIANNARELLI, Cicerone, Virgilio e l’ombra di Scipione: una sosta nell’officina poetica del Petrarca, «Quaderni petrarcheschi», IV, 1987, pp. 205-224; S. BRAMBILLA, Per la fortuna volgare del «Somnium Scipionis»: da Zanobi da Strada alla cerchia di Giovanni dalle Celle, «Studi petrarcheschi», XI, 1994, pp. 200-238; E. FENZI, Dall’«Africa» al «Secretum». Nuove ipotesi sul sogno di Scipione e sulla composizione del poema, in Il Petrarca ad Arquà, cit., pp. 61-115. 5 È questa l’unica tappa descritta nell’Africa: dopo il verso 215 il poema presenta una lacuna. Ai margini del ms. Acquisti e doni 441 (=Lr.), scoperto dal Fera, il Petrarca scriveva: «hic somnium interiectum debet esse». Tralasciando le dispute tra i filologi sulla paternità della postilla, il Fera ricorda che quella parte del sogno in cui Omero doveva guidare Ennio in un ideale pellegrinaggio per tutte le regioni della poesia, dall’antichità fino al tempo del Petrarca, era apparsa in modo simile nel Bucolicum carmen. Il poeta, pertanto, vedendo scemare sempre più la tensione e l’interesse per la versificazione dell’Africa, avrebbe preferito ometterla: si veda V. FERA, La revisione petrarchesca, cit., pp. 443 e sgg. 6 Sul sogno di Ennio nell’Africa si veda G. CREVATIN, Il poeta dell’Africa. Omero in Petrarca, in Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato nella cultura umanistica, a cura di G. LAZZI e P. VITI, Firenze, Polistampa, 2000, pp. 135-148; B. BELEGGIA, Rappresentazione onirica e ritratto nell’Africa del Petrarca, in Tra parole e immagine. Effigi, busti, ritratti nelle forme letterarie. Atti del Convegno di studi (Macerata-Urbino, 3-5 aprile 2001), a cura di L. GENTILLI e P. OPPICI, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2003, pp. 169-184. 7 Africa, II, 441-443. 8 Sul Livio del Petrarca restano fondamentali gli studi del Billanovich. Si ricordano in questa sede: G. BILLANOVICH, Petrarch and the textual tradition of Livy, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XIV, 1951, pp. 137-208; ID., Il Boccaccio, il Petrarca e le più antiche traduzioni delle Decadi di Tito Livio, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXX, 1953, pp. 311-337; ID., Dal Livio di Raterio (Laur. 63,19) al Livio del Petrarca (B.M, Harleianus 2493), «Italia Medioevale e Umanistica», II, 1959, pp. 103-179; ID., Nella biblioteca del Petrarca, «Italia Medioevale e Umanistica», III, 1960, pp. 1-58; ID., Tradizione e fortuna di Livio tra Medioevo e Umanesimo (1981), in ID., La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, I, Padova, Antenore, 1981. 9 La vicenda dei due amanti è narrata dal Petrarca anche in Vir. ill., XXI, 6, 53-86; Fam., XVIII, 7, 3; TC, II, 4-93. Verrà ripresa anche dal Boccaccio in A.V., X, 17-21 e soprattutto in De claris mulieribus, LXX dove la figura di Sofonisba è tratteggiata con una maggiore adesione alla fonte liviana. Le biografie delle donne illustri furono composte nell’estate del 1361, dopo il volgarizzamento delle deche di Tito Livio e dopo l’incontro con Leonzio Pilato e la traduzione dei poemi omerici: operazioni filologiche tra le più importanti dell’U-

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IL DOPPIO SOGNO DI MASSINISSA E SOFONISBA

manesimo italiano lungo l’asse dell’amicizia Petrarca-Boccaccio. Il nodo delle relazioni è dunque strettissimo: lo ha felicemente illuminato V. ZACCARIA, Boccaccio narratore, storico, moralista e mitografo, Firenze, Olschki, 2001. 10 Della vita di Scipione si possiedono tre testi: il testo a, il definitivo, contenuto nel codice Parigino 6069 F (Lm.), il testo b, intermedio, edito dal Razzolini, e il testo g, il più antico, noto per ora solo dal codice Marciano Lat. Cl. XIV. Come ha osservato il Martellotti, il testo b fu composto dopo i libri V-IX dell’Africa, nell’intento di adeguare l’opera storica all’eccessiva lunghezza del poema: l’episodio di Massinissa e Sofonisba, impropriamente collocato dopo le richieste di pace avanzate dai Cartaginesi a Scipione, dovette essere scritto ex novo dal Petrarca. Le parti corrispondenti tra questo stadio della Vita Scipionis e il poema storico sono da individuare proprio nella grande lacuna che precede il libro V. L’assenza dell’episodio dei due amanti nel testo g permette poi di concludere che: «il testo g non è anteriore al ’38, il testo b non è posteriore al ’43 e segue la composizione dei libri V-IX dell’Africa» (Cfr. G. MARTELLOTTI, Sulla composizione del «De viris», cit., p. 254). 11 Come sostiene il Festa in Saggio sull’«Africa», cit., p. 21. 12 Sulla descrizione di Sofonisba si veda il ricco commento di E. RAIMONDI, Ritrattistica petrarchesca (1970), in ID., Metafora e Storia. Studi su Dante e Petrarca, Torino, Einaudi, 1970, pp. 163-187. 13 «Si dura (quod horret / Mens omen) fors illa vetat, tunc ultima sero / Mors dabitur promissa tibi; per sidera testor / Alta poli, regnumque fidem Manesque deosque» (Africa, V, 148-151). 14 Africa, V, 257-272. 15 Sulla funzione narratologica del sogno nella letteratura medievale si rimanda alla ricca sintesi di C. CAZALÈ-BÉRARD, Il sogno dell’avventura, l’avventura del sogno. «Exempla», novella, romanzo, in Sogno e racconto. Archetipi e funzioni, cit., pp. 7-20. Sul piano teorico accessibili ed esaustivi sono i testi di S. F. KRUGER, Il sogno nel Medioevo (1992), trad. it. di E. D’Incerti e G. Imartino, Milano, Vita e Pensiero, 1984, e I sogni nel Medioevo. Atti del Seminario internazionale (Roma, 2-4 ottobre 1983), a cura di T. GREGORY, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985. Un quadro completo della bibliografia sul sogno è presente nel sito www.unimc.it/sogno. 16 Nel ms. Lr., le postille petrarchesche a questi versi sono interessanti: egli intendeva sostituire «concurrisse» con «incurrisse» e «tetigisse» con «penetrasse» in modo da rendere più intensamente realistica l’immagine dei monti che precipitano l’uno sull’altro e della protagonista che sprofonda nella voragine: si veda V. FERA, La revisione petrarchesca, cit., pp. 170 e sgg. 17 Il personaggio di Massinissa è storicamente presentato dedito ai Romani e a Scipione: così in Cicerone, Somn. Scip., I, 9; Sallustio, Iug., V, 4-5; e soprattutto in Livio, XXVIII, 16, 12 e 35, 5-12, ma anche in Petrarca, Vir. ill., XXI, 6, 53-86 e Fam., XVIII, 7, 3. Nell’Africa e poi anche nei Trionfi, invece, il poeta tratteggia una figura più contraddittoria, lacerata da una tensione tutta intima tra amore e dovere. 18 Africa, V, 604-613. 19 La scelta petrarchesca di costruire un sogno doppio, con il quale preavvertire i due amanti del tragico evento che li separerà, non è isolata: accanto ai sogni contemporanei di Tristano e Isotta nella Tavola Ritonda (per i quali si veda M. RICCINI, Episodi onirici nella

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«Tavola Ritonda» e nei romanzi italiani di Tristano, in Sogno e Racconto. Archetipi e funzioni, cit., pp. 84-96), in un contesto ancor più vicino al poeta, si colloca il doppio sogno di Andreuola e Gabriotto nel Decameron del Boccaccio (IV, 6). Le analogie in questo ultimo caso sono interessanti: sia per Andreuola che per Sofonisba il sogno interviene a spezzare una situazione idilliaca, si caratterizza per elementi semplici, quasi archetipici, come la paura, l’ignoto, una potenza negativa fuori dall’ordinario e si conclude con l’immagine dei sotterranei recessi dello Stige. La costruzione formale è, nelle due sezioni, articolata, ricca di subordinate, quasi un tortuoso labirinto che ripercorre il crescente turbamento delle protagoniste. I sogni di Massinissa e Gabriotto sono, invece, più semplici, lineari nella frammentaria giustapposizione delle scene e si traducono in codificate immagini allegoriche. Si possono notare altre simmetrie: Andreuola sogna la morte di Gabriotto, Massinissa la morte di Sofonisba. Per loro che sopravvivranno il sogno è uno stimolo all’azione e alla ridefinizione di sé, per Gabriotto e Sofonisba, invece, il sogno sottolinea la statica immobilità di fronte ad un destino fatalmente prescritto. Naturalmente il confronto meriterebbe, come detto, un approfondimento che in questa sede non è possibile: rinvio per l’analisi del doppio sogno del Decameron a G. CINGOLANI, «Una cosa oscura e terribile»: Boccaccio, Decameron, IV, 6, in Sogno e racconto. Archetipi e funzioni, cit., pp. 70-83. 20 Gli unici momenti in cui Sofonisba piange si collocano prima delle nozze, durante il colloquio intimo con lo sposo (V, 41, 105-106). Nella scena finale, invece, ella si staglia dignitosa e superba e, mentre tutti intorno a lei piangono, muore «sine lacrimis» (così anche in Scipio, VI, 86). Per il resto è sempre Massinissa a piangere, gemere, sospirare (V, 119, 141142, 448-451, 474-475, 719). 21 TC, II, 5-6. Per l’analisi della sezione dedicata ai due amanti rimando al commento di V. Pacca in F. PETRARCA, Trionfi, rime extravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. PACCA, Milano, Mondadori, 1996, pp. 97-114.

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CAMILLA GIUNTI FRANCESCO DA BARBERINO NARRATORE Una forte tendenza alla narrazione e alla drammatizzazione interessa diversi luoghi del Reggimento e costumi di donna di Francesco da Barberino, sia nella parte didascalica, sia nella cornice allegorica. Nel corso della trattazione didascalica può accadere che la forma conativa ceda il posto, senza soluzione di continuità, ad una forma referenziale descrittivo-narrativa. Mi riferisco a casi come il seguente, ricavato dalla quinta parte dell’opera, che tratta della donna maritata: […] faccia reverenza / umile più, ma temorosa a tutti / […] lì non dimandi, ma s’è domandata, / risponda brieve, basso e pauroso. / Or si conviene ogimai di mangiare. Suonan le trombe e li stormenti tutti, / canti soavi e sollazzi dattorno, / frondi con fiori, tapeti e sendali / sparti per terra e gran drappi di seta alle mura, / […]. (parte V, p. 49)1

In prossimità delle miniature poste in testa alle singole parti del trattato2, ognuna dedicata ad una virtù differente al cui cospetto sta la donna da educare, il testo riporta un dialogo fra la donna e la virtù e suggerisce una sorta di animazione virtuale dell’immagine, creando un effetto di mise en scène. Per l’evocazione di queste ‘immagini in movimento’, che ho studiato più diffusamente in altra sede3, basti un esempio tratto dalla sesta parte, dove la donna vedova è consolata da Costanza: […] priegovi che guardiate suo figura / e quella di Costanza e udiate il gran pianto / che questa donna fa del suo marito, / e poi il conforto che le dà Costanza. / […] La vedova che vedi qui pinta, / se ben la guardi, piatà n’avrai; / se non hai duro il cor(e), tu plangerai. / E guarda in prima il gran dannaggio al mondo / d’una così compita e alta donna, / piena di tutte adornezza e beltate, / fendersi tutta colle mani il viso; / […] Quivi piangono i figli e la figliuola / e tutti gli uomini e le

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donne stanti / […] Allor(a) Costanza la piglia per mano / e dà conmiato alla gente di fuori; / […]. (parte VI, pp. 95-99)

La tendenza alla drammatizzazione si palesa soprattutto nella parte allegorica, costituita da una serie di episodi ‘teatrali’, che vedono l’autore stesso farsi personaggio (lo scriba Francesco) e interagire con diverse figure, tutte gravitanti intorno a Madonna (la committente dell’opera). Queste digressioni allegoriche interrompono la trattazione didascalica dando l’impressione del farsi del libro ‘in presa diretta’. Anche per questo aspetto rimando al saggio già citato4 e mi limito a fornire un breve esempio di costruzione dell’illusione scenica mediante le parole di Francesco che si dirige verso la dimora di Madonna: […] – Ai! Siri Iddio, dove n’hai tu menata / questa gran donna! Che ripe son queste! / Che sassi e che roine e che pruni / e quali spine! Che scontri d’animali / feroci e aspri! […]. (parte IX, p. 139)

La tendenza narrativa trova invece la sua più naturale espressione nelle «belle novellette» introdotte nel trattato «ad exemplo»5, cioè con funzione esemplare. La collocazione di questi inserti narrativi sembra non essere priva di senso. Se guardiamo l’altro trattato di Francesco da Barberino, i Documenti d’Amore, qui l’exemplum (rubricato anche come novum) è immerso nel mare magnum del commentario latino6, è anch’esso in latino e spesso si presenta in sequenza, con evidente funzione di rinforzo. Nel Reggimento, che si compone del solo testo volgare e, a differenza dei Documenti, non contiene exempla tratti dalla storia antica, né dai testi sacri, gli inserti narrativi compaiono sia nel corso della trattazione didascalica, sia, con studiata sistematicità e con chiara funzione demarcativa, alla fine delle singole parti dell’opera. La consapevolezza di un piano dell’opera che preveda di concludere ogni parte del trattato con un racconto esemplare è evidente nelle formule che introducono alcune delle novelle (es. parte V, IX e X), dove si allude all’«ordine cominciato» e allo «’ncominciato stilo», e nei finali delle parti XI e XII, in cui l’autore provvede a giustificare l’assenza della consueta novella di chiusura. Se è vero che gli inserti narrativi del Reggimento sono accomunati da quei tratti che sono riconosciuti come caratteristici dell’exemplum (brevitas, auctoritas, veritas, delectatio), e se è vero che la fluidità terminologica non permette una distinzione netta fra di essi, poiché i termini «novella», «novelletta» ed — 646 —

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«essemplo» paiono il più delle volte intercambiabili, è però innegabile che le novelle di chiusura siano dotate di uno statuto particolare, percepibile già sul piano codicologico, dal momento che sono separate dal testo che le precede da una serie di segni paragrafematici e presentano l’iniziale maiuscola decorata. Vien da pensare che tale collocazione suggerisca la possibilità di una lettura autonoma, slegata dal contesto didattico di riferimento, e che comunque possa agevolare una pausa di riflessione sul testo dopo la lettura, possibilità forse non prevista nel caso dei brevi raccontini inseriti nel corpo del testo, fra una norma di condotta e l’altra. Se dal piano codicologico ci spostiamo sul piano contenutistico e formale, tale considerazione invita ad una riflessione sul rapporto fra parte didascalica e inserti narrativi nel trattato del Barberino. In generale, rispetto ai racconti intercalati alla trattazione didascalica, le novelle finali denunciano un impegno estetico non inferiore all’impegno pedagogico, in linea con quella tendenza all’autonomia della delectatio che si suole invocare a proposito della nascita della novella italiana. In qualche caso, benché nasca, come è proprio dell’exemplum, «come espansione narrativa», «a dimostrazione di una tesi precedentemente data»7, il racconto, oltre a risultare costruito con una sapiente tecnica narrativa e largamente intessuto di non-detto8, sembra veicolare un messaggio non riducibile unicamente all’affermazione teorica alla quale dichiara di essere subordinato. Mi riferisco, ad esempio, alla novella che cade verso la fine della seconda parte dell’opera: penso che questo racconto sia un buon esempio di equilibrio fra impegno pedagogico e impegno estetico, quest’ultimo volto non soltanto all’alleggerimento del discorso didascalico, ma anche alla trasmissione, attraverso la necessaria cooperazione interpretativa del lettore, di un messaggio aggiuntivo rispetto a quello che si suppone già noto. La seconda parte del Reggimento si apre nel nome di Verginità e tratta «della giovane che venuta èe già nel tempo del maritaggio». La novella in questione compare nella sezione dedicata alla «figliuola di cavaliere da scudo, giudice o d’altro che simile grado mantengono per ricchezza o gentilezza o simile cagione». Riporto il testo della novella preceduto dal passo didascalico a cui essa è abbinata nel trattato, per poi fornire sinteticamente i risultati di un’analisi semiologica condotta al fine di «cogliere la specificità» di un testo che rientra nell’«ampio ventaglio di linee di sviluppo che per certi versi sono percorse dal genere in via di formazione»9: Ora vi vengo ad uno vizio che regna spessamente in queste donzellette, lo quale vorria, s’io potessi, sturbare. E’ ne sono molte che quando per vezzi e — 647 —

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tal fiata per una sciochezza c’han voglia di vedere com’elle sono amate da lor gente, e talora per alcuno disdegno d’alcuna paroletta ch’odon ch’a lor non piace, e tal fiata perch’altri le lasci poi fare a lor senno, e tal s’infinge che le duole il fianco e tale lo dente e tale la testa e tal dice mattezze per dimostrar ch’elle siano fuor del senno, tal mostra che sia indemoniata e fugge tutte le cose di Dio per farlo credere meglio. E tal cominciano questo non credendo durar gran tempo in questo, ma poi c’han cominciato van pure innanzi temendo ch’altri non dicesse poi: – Vedi che s’infingea? –; sì che per questi modi e per molti altri se ne perdon molte d’onore e di stato, e tal fiata per mostrarsi ben si conducono a tale che poi si muoiono sì villanamente. A queste cose non so ben ch’io dica, ché gran fatica seria a potere mendare una sì folle e grande mattezza, ma voglio almen che sapiano tutte quante che non è alcuna sì scaltrita in questo che l’uomo saggio ben non se n’aveggia; e poi si pensi quella che per colpa di sua mattezza si conduce a morte dove ne va la misera anima sua, e sapiano bene le loro bestialitadi. E ben cognoscono li medici sperti che infermitadi e che dolor son questi; ben sanno i savi como indemoniate e per che modo si possono savere e vedere: onde fariano bene di non esser folle in lor dannaggio e dispiacer di Dio e molti altri e altre. E di ciò vi dico una brieve novella, la qual di fatto fu lunga e noiosa. Una si mostrava indemoniata ed era molto bella e i suoi capelli avea molto cari, e certo di ciò non mi meraviglio, ché molto gli avea belli. Durò gran tempo; e ’l padre e la madre non n’aveano più, e tutto dì piangeano e scongiuri e altre cose aveano fatte assai, e non valea. Andòvi un mio caro amico in compagnia d’uno suo cugino; vide sua maniera ed ebe conosciuta sua mattezza. Pensò di guarirla. Trassesi in parte col padre e dissegli il vero; accordossi col padre e colla madre di fare ogni vista che potesse, non venendo ai fatti però che troppo n’erano teneri, acciò che facesse lor vedere che dicea vero. Tenne questa via in presenza di loro due e di lei e di me. Disse: – Questi diavoli che costei ha in corpo sono di sì fatta generazione che non n’andranno se non è per fuoco. Fatemi portare una conca grande di fuoco e uno ferro sottile, e leghiamo lei in su questo desco e col ferro caldo le foriamo la testa –. Diss’io: – El ci saria forse rischio –. Diss’ello: – Sanza rischio non è mai. Forse che campa; e s’ella campa ella si è guarita –. Disse il padre: – Io la voglio anzi in questo rischio che vederla così fatta –. E ella pure cinguettava e mostrava di non intenderci. Disse l’amico mio: – Legatela! –. Fue presa e legata a forza. Disse ello: – Per vedere meglio come noi dobiamo fare e per poi meglio sanare la piaga, portami le forfici, e, intanto — 648 —

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che il ferro si scalda, tondianle i capegli –. Inmantanente che questa parola fue detta e ella chiamò la madre e disse: – Io mi sento per questo legare e per questo fuoco tutta mutata; forse che i diavoli hanno paura -. A questo dicemo noi: – Ora è buono andare dietro alla medicina –. Allora pigliò il padre le trecce e disse: – Taglia! –. E, a questa, ella disse alla madre in segreto: – Non vi bisogna, ch’io sono guarita –. Or non vi dico più della novella, ché ben la ’ntendete. 1. STRUTTURA DEL RACCONTO 1.1. Intreccio e fabula L’intreccio della novella è assolutamente lineare, la successione degli avvenimenti nel racconto rispecchia l’ordine della loro disposizione nella storia10. Le discrepanze tra racconto e storia si possono, invece, apprezzare sul piano della durata, ed è proprio nella gestione dei rapporti di durata che si può individuare una precisa strategia narrativa. 1.2. Sequenze narrative Se adottiamo come parametri il tempo e il modo della narrazione, il testo della novella può essere comodamente e utilmente diviso in tre sequenze narrative, l’ultima delle quali si presta ad essere suddivisa in quattro sottosequenze, e un sigillo. La prima sequenza, che rappresenta il preambolo («Una […] valea»), è caratterizzata dall’uso dell’imperfetto narrativo. Il passato remoto «Durò» non segna una svolta decisa a livello di aspetto verbale, bensì presenta chiare marche di duratività e iteratività dovute alla scelta del verbo durare accompagnato dal sintagma gran tempo. All’inizio della seconda sequenza («Andòvi […] di me»), il passato remoto fissa il tempo zero della storia. Il ritmo della narrazione è alquanto sostenuto: la durata accelerata è ottenuta attraverso una successione serrata di passati remoti, che comunicano in maniera sbrigativa una serie di azioni cognitive che pure sono fondamentali nell’economia del racconto. Con la terza sequenza («Disse […] guarita») la narrazione si fa mimetica e il ritmo subisce un deciso rallentamento, sì da ottenere una durata isocro— 649 —

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na rispetto al tempo della storia. L’inserzione delle battute di dialogo e la descrizione accurata della gestualità invitano il lettore a seguire passo passo lo svolgimento dell’azione. L’azione drammatica è costruita secondo un’alternanza di dichiarazioni d’intenti, caratterizzate da un argomentare disteso e particolareggiato, e di azioni concrete, riportate con estrema concisione. Se consideriamo la dichiarazione d’intenti come preambolo rispetto all’azione concreta, possiamo distinguere all’interno di questa terza sequenza due preamboli e due azioni concrete. Abbiamo dunque quattro sottosequenze, le ultime due delle quali sono costruite secondo un meccanismo di azione e reazione: 1. primo preambolo («Disse […] intenderci»): in presenza della ragazza e di tre testimoni, l’amico intraprende la sua performance illustrando la diagnosi ufficiale e la terapia adeguata. L’intervento verbale di due dei testimoni, che sottolineano il rischio connesso all’impresa, rafforza le parole intimidatorie dell’amico. 2. prima azione («Disse […] a forza»): il passaggio all’azione è segnato dal verbo conativo «Legatela!». L’azione entra nel suo stadio ‘terminativo’ e ‘durativo’, con conseguente attivazione dell’effetto suspense, preparato dalle informazioni contenute nella parte diegetica e dal dialogo che si svolge nella parte mimetica. Compiuta la fase preliminare dell’operazione, l’azione viene momentaneamente sospesa e, nell’attesa di prendere in mano «il ferro», viene inserito un terzo progetto apparentemente secondario. 3. secondo preambolo («Disse ello […] medicina»): il taglio dei capelli viene prospettato come un’azione accessoria, ma di fatto rappresenta la minaccia più temibile per la sedicente indemoniata. La dichiarazione «Ora è buono andare dietro alla medicina» fa da ponte tra i propositi teorici e la messa in atto di tali propositi. 4. seconda azione («Allora […] guarita»): l’azione concreta, che anche in questo caso viene riportata con estrema concisione, viene appena intrapresa e subito interrotta dalla reazione della ragazza. L’effetto suspense raggiunge il suo culmine per sciogliersi immediatamente, scaricando la tensione tutta d’un colpo. La novella è sigillata da una proposizione di tipo metadiscorsivo che sembra voler fare la morale della storia in negativo: senza il bisogno di esplicitarla, la morale è facilmente estrapolabile dal racconto e dovrebbe mostrarsi in tutta la sua evidenza nell’ultima battuta di dialogo, che rappresenta il clou dell’azione drammatica. Oltre a chiudere bruscamente l’azione, il sigillo sem— 650 —

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bra denunciare la consapevolezza autoriale circa il fatto che «via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità»11. 2. ATTORI, RUOLI ATTANZIALI E RUOLI TEMATICI Tra i sei attori possiamo distinguere due coprotagonisti in relazione polemica e quattro figure di contorno, che rivestono ruoli subordinati al programma narrativo del protagonista maschile. Vediamo come è introdotta la protagonista: la sedicente indemoniata è presentata in modo massimamente indeterminato («Una») e, secondo un procedimento caratteristico del racconto esemplare, viene caratterizzata attraverso rapide notazioni (il mostrarsi indemoniata, la bellezza, i capelli) strettamente connesse all’azione e prive di inutilia. 2.1. Ruoli attanziali Sul piano della sintassi strutturale12, la novella rappresenta lo scontro delle strategie di due soggetti in relazione polemica. Nonostante il ricorso a performanze pragmatiche, la partita si gioca sul piano cognitivo, in particolare sul piano della persuasione. La prima sequenza presenta una situazione di mancanza. Possiamo attribuire ai genitori il ruolo attanziale di soggetto che desidera ricongiungersi col bene perduto (la figlia sana), ma fa abortire ogni azione intrapresa, poiché non è in possesso delle competenze adeguate. La seconda sequenza vede l’entrata in campo di un altro soggetto desiderante già dotato di competenze (non c’è prova qualificante) e la stipulazione di un contratto bilaterale. I genitori vengono a rivestire il ruolo di destinante sui generis, in quanto non sono i mandanti (ma possiamo ipotizzare che, dopo aver detto al padre il vero, l’amico abbia chiesto e ottenuto il permesso di agire) e non daranno la sanzione finale (tuttavia, se la novella non si interrompesse così bruscamente, non ci sorprenderemmo di trovare in chiusura un’allusione al riconoscimento della validità della diagnosi e a eventuali ringraziamenti). Nell’amico possiamo riconoscere il destinatario-soggetto e, di fatto, anche il destinante di se stesso, poiché decide spontaneamente di voler — 651 —

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guarire la donna (destinante) e deve guarirla (destinatario), se, come è suo desiderio, vuole dimostrare di aver detto il vero (soggetto). La terza sequenza è occupata dalla prova decisiva: alla performance del soggetto e dei suoi aiutanti si oppone la performance dell’anti-soggetto. In entrambi i casi si tratta di una performanza cognitiva che si serve sia di manifestazioni comportamentali, sia di messaggi verbali. 2.2. Programmi narrativi (PN) La bella che si mostra indemoniata è depositaria di un programma narrativo complesso. L’antefatto ci mostra l’attuazione di un programma narrativo d’uso, che rimanda ad un implicito programma narrativo di base: la donna (soggetto desiderante) vuole ottenere x e, per ottenerlo, fa credere ai propri genitori di essere indemoniata. Nell’attuare questa manipolazione la donna riveste il ruolo di soggetto del fare ed opera una trasformazione congiuntiva ai danni dei genitori, che diventano soggetto di stato. Nella prima sequenza i genitori, oltre ad essere l’oggetto del PN della figlia, sono soggetti depositari di un programma narrativo semplice, ma impossibile da attuare, perché fondato su una falsa credenza. Avendo individuato nel diavolo l’antisoggetto a cui opporsi, essi hanno dichiarato guerra ad un nemico che non c’è; di conseguenza, tutti i loro tentativi di esorcismo non possono che fallire. In termini semiotici potremmo dire che essi, cercando di fare uscire il demonio dal corpo della figlia, mirano ad attuare una trasformazione disgiuntiva, quando invece dovrebbero rendersi conto che tra la figlia e il demonio c’è una relazione di non congiunzione. Sarà l’amico a svelare questo stato di non congiunzione definendosi come soggetto di un programma narrativo complesso e colpendo l’antisoggetto nel suo punto debole. Il programma narrativo di base del soggetto è costituito da una doppia manipolazione (indurre la sedicente indemoniata a sospendere la finzione e persuadere i genitori della validità della propria diagnosi). Il programma narrativo d’uso consiste, a sua volta, in una manipolazione (far credere alla donna di essere l’oggetto di una pratica esorcistica). Nella terza sequenza la donna è chiaramente l’antisoggetto. Il suo PN di base (ottenere x) passa in secondo piano, e quello che era un PN d’uso (far credere di essere indemoniata), dal momento in cui viene messo in discussione, diventa il suo PN di base. Lo scontro tra soggetto e antisoggetto si gioca, dunque, sulla capacità di persuasione: l’oggetto della contesa è la gestio— 652 —

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ne del vero (che il soggetto vuole divulgare e l’antisoggetto vuole nascondere). Per il soggetto si tratta, in realtà, di una battaglia già vinta in partenza (ha già detto il vero), ingaggiata a fini dimostrativi e per costringere l’antisoggetto a dichiararsi sconfitto (ciò che equivale a esprimere indirettamente la sanzione positiva dell’operato del soggetto). Anche i capelli compaiono come oggetto di una contesa, ma di fatto solo per l’antisoggetto rappresentano un oggetto di valore, anzi l’oggetto di valore per eccellenza. 2.3. Ruoli tematici La presentazione degli attori e la loro interazione suggerisce di attribuire ruoli tematici sulla base di relazioni di opposizione. Avendo presente l’introduzione didascalica, si può agevolmente assegnare all’amico il ruolo tematico di ‘uomo saggio’. La novella invita a magnificare, tra le varie proprietà che caratterizzano un uomo saggio, la disposizione analitica, una certa competenza in materia di psiche umana e la non credulità. Se rapportata ai genitori, la donna riveste il ruolo di scaltra, di colei che approfitta della credulità altrui, ma questa sua proprietà è secondaria e puramente funzionale alla manifestazione della sua vanità e della sua sostanziale mancanza di saggezza. La «mattezza» di cui è preda la donna, e che viene giustamente smascherata dall’uomo saggio, deve essere tradotta nei termini di una mancanza di misura. Anche per i genitori, se si considera il loro stato di vittime della scaltrezza della donna e di soggetti carenti di mezzi rispetto all’amico, si deve parlare di una mancanza di saggezza, ma questa volta nel senso di carenza analitica, credulità e facilità a cadere nella superstizione. 3. LA MESSA IN SCENA E L’INTENTO DIDASCALICO La parte mimetica della novella può essere letta come il ‘controcanto’ di un rito esorcistico, costruito su una serie di richiami e di opposizioni, a cominciare dalla stessa messa in scena, se è vero che «la possession est un théatre où se jouent des questions fondamentales»13, e dall’adozione della parola come strumento terapeutico, poiché, a parte gli accessori di rito, anche l’esorcismo, in quanto dialogo col diavolo attraverso la bocca del posseduto, è una terapia della parola14. Non a caso nel testo i verbi di dire prevalgano sui — 653 —

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verbi di fare e, a parte l’evocazione di strumenti (il fuoco, il ferro, le forbici) che di fatto restano inutilizzati, l’‘operazione’ è limitata a due soli gesti di grande portata psicologica, che consistono nel legare la ‘paziente’ e nel prendere in mano le sue trecce. Tornando ai dati materiali, i capelli femminili, simbolo di vanità e di seduzione, qui associati sia alla menzione della bellezza, sia al far mostra di essere indemoniata, sono spesso chiamati in causa nelle rappresentazioni della possessione diabolica di ambito letterario e iconografico15, oltre ad essere evocati in antiche formule battesimali di espulsione del diavolo «de capite de capillis de vertice de cerebro […]»16. Così il fuoco, che pure appare nell’iconografia dei posseduti (i capelli in fiamme), è elemento opposto al tipico rimedio dell’acqua benedetta. E le forbici che minacciano di tagliare i capelli sortiscono sulla giovane il medesimo effetto che gli oggetti sacri (ad esempio la croce) esercitano sul diavolo. L’atteggiamento della falsa indemoniata, poi, è un evidente rovesciamento rispetto all’immaginario della possessione diabolica: mentre il posseduto non ha coscienza della possessione e perciò non può affermare di essere posseduto, la giovane parla esplicitamente dei diavoli che la abitano; se tanti posseduti hanno manifestazioni animalesche, mostruose e scomposte, il cinguettare della nostra giovane evoca un atteggiamento frivolo, magari animalesco, ma non certo mostruoso, che però non le impedisce di essere legata, al pari dei posseduti dotati di forza bruta; e se gli indemoniati rivelano in pubblico i peccati altrui non confessati17, la giovane, una volta smascherata, confessa agli astanti la propria bugia18. Inoltre, la finta indemoniata richiama, per affinità, casi di finzione o di illusione attestati già a partire dal sec. XIII19. Lo pseudoesorcista, invece, pare la caricatura dei ‘malìfici’, i maghi che si oppongono al medico e al santo, in quanto sono dotati di poteri di guarigione illegittimi20. Di conseguenza, se l’esorcismo serve a provare la santità di un santo, questo rito pseudoesorcistico serve a provare la saggezza dell’«uomo saggio», in opposizione alla superstizione, alla credulità e insomma alla mancanza di sguardo critico. La novella pare dunque veicolare due insegnamenti distinti: il primo, già desumibile dalla parte didascalica, suona come un monito rivolto al destinatario femminile perché eviti di assumere certi atteggiamenti, e l’altro, rivolto a chi si prende cura dell’educazione della donna, pare un invito ad assumere un atteggiamento critico e analitico, non viziato dalla superstizione e dal pregiudizio.

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NOTE Ricavo le citazioni dall’edizione critica curata da G. E. SANSONE, Roma, Zauli, 19952. Nei manoscritti conservati, il Barberiniano latino 4001 e il descriptus Capponiano 50, le miniature non sono state eseguite, ma compaiono gli spazi riservati. 3 C. GIUNTI, L’interazione fra testo e immagini (perdute) nel «Reggimento» di Francesco da Barberino, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 2002, 104, pp. 121-144. 4 Ivi, pp. 139-142. 5 Per la dicitura «belle novellette […] ad exemplo», che viene pronunciata da Eloquenza nella dichiarazione proemiale (Proemio, p. 5) e viene ribadita con variazioni nelle formule incipitarie di alcune novelle, rimando al saggio di L. BATTAGLIA RICCI, «Una novella per esempio». Novellistica, omiletica e trattatistica nel primo Trecento, in «Favole parabole istorie». Le forme della scrittura novellistica dal Medioevo al Rinascimento. Atti del Convegno di studi (Pisa, 26-28 ottobre 1998), a cura di G. ALBANESE, L. BATTAGLIA RICCI, R. BESSI, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 31-53. 6 Il trattato maschile si compone del testo volgare in versi, della traduzione latina in prosa e del commentario latino in prosa, entrambi d’autore. 7 L. BATTAGLIA RICCI, Introduzione a Novelle italiane. Il Duecento, il Trecento, a cura della stessa, Milano, Garzanti, 1982, p. XII. 8 Per la formula del non-detto si veda U. ECO, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1993 (1a ed. 1979), p. 51. 9 L. BATTAGLIA RICCI, Introduzione a Novelle italiane, cit., p. XLI. 10 I termini racconto e storia, così come i seguenti durata, tempo e modo, fanno riferimento alla terminologia adottata da G. GENETTE in Figure III. Discorso del racconto (1972), trad. it. Torino, Einaudi, 1976. 11 U. ECO, Lector in fabula, cit., p. 52. 12 Per la terminologia si vedano A. GREIMAS, Maupassant. La sémiotique du texte: exercices pratiques, Paris, Seuil, 1976, e F. MARSCIANI, A. ZINNA, Elementi di semiotica generativa. Processi e sistemi della significazione, Bologna, Esculapio, 1991. 13 M. DE CERTEAU, Le langage altéré. La parole de la possédée, in ID., L’écriture de l’histoire, Paris, Gallimard, 1975, pp. 249-273. 14 Per una ricca documentazione rimando al mémoire de DEA di M. TAMM, Le diable incarné. Les représentations de la possession démoniaque dans l’Occident médiéval (fin du XIe-début du XIVe siècles), Paris, EHESS, 1999. 15 Marek Tamm (ivi, pp. 87-88) ricorda un episodio della Vita Norberti relativo al primo esorcismo praticato dal santo su una giovane posseduta: i tentativi del monaco, prima del ricorso alla comunione liberatoria, consistono in un bagno di acqua benedetta e nel taglio dei capelli, dovuto al sospetto che il diavolo risieda proprio lì. 16 Traggo il riferimento da A. ANGENENDT, Der Taufexorzismus und seine Kritik in der Theologie des 12. Und 13. Jahrhunderts, «Miscellanea Medievalia», 1977, 11, pp. 388-409. 17 Si vedano, ad esempio, i dati forniti da J. C. SCHMITT, Il gesto nel Medioevo (1990), trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 110-113. 1

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CAMILLA GIUNTI 18 Forse proprio l’idea della confessione può dare ragione di quella battuta rivolta alla madre «in segreto». 19 M. TAMM, Le diable incarné, cit., p. 102, richiama alcune fonti, in primis francescane, che dimostrerebbero un certo scetticismo nei confronti della possessione demoniaca. Sull’argomento, dal punto di vista della teologia scolastica, si veda anche A. ANGENENDT, Der Taufexorzismus, cit., p. 409. 20 Per la categoria del maleficus si veda J.C. SCHMITT, Le corps, les rites, les rêves, le temps, Paris, Gallimard, 2001. Un caso di denuncia dell’inattendibilità dei «malìfici che ’mpromettevano di guarire» una donna posseduta si trova, ad esempio, nei Frutti della lingua (n. 53) di Domenico Cavalca.

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FRANCESCA TOMASI PER UN’EDIZIONE DIGITALE DEL NOVELLIERE ARIENTESCO. LE NOVELLE PORRETANE DI SABADINO DEGLI ARIENTI: UN ESPERIMENTO DI ANALISI NARRATOLOGICA La necessità di definire gli obiettivi della resa computazionale di un testo si pone all’atto dell’analisi della fonte. Ogni intervento che preveda il trasferimento delle sequenze di segriani «significanti grafici»1 nella memoria di un calcolatore elettronico determina infatti la scelta delle caratteristiche della fonte che si intendono rappresentare e le ragioni per le quali si prevede una conversione al digitale di un oggetto testuale. Come è noto la definizione del concetto di testo è una delle più ambigue e sfuggenti nell’ambito degli studia humanitatis. Il «problema del testo»2 letterario, così come formulato nell’ambito della semiotica e della linguistica testuale, diviene dunque oggetto di riflessione anche nel settore delle scienze dell’informazione3. La trascrizione di un testo nella memoria di un calcolatore non può prescindere dalla conoscenza della pluralità dei possibili livelli analitici4. È infatti un’operazione innanzitutto duplice, ma foriera di multiformi stratificazioni: da un lato è la rappresentazione della successione dei singoli grafemi, le unità grafiche minime, dall’altro è l’interpretazione del valore espresso dal segno, con la consapevolezza dell’interazione fra testo e componenti paratestuali o meglio del rapporto fra testo nel suo valore astratto e logico e documento inteso come concretizzazione materiale del testo5. Il «grado zero della codifica»6 (inteso come trasmissione della serie di caratteri nella memoria di un calcolatore elettronico), è quindi seguito da un secondo momento ermeneutico, rappresentato dall’intervento sul testo, espresso secondo l’intentio auctoris (che diviene così quella di chi rappresenta e interpreta i significanti)7. L’importanza della rappresentazione del testo in machine readable form per le discipline umanistiche si scontra infatti con la complessità del processo comunicativo di trasmissione dell’informazione veicolata da una fonte ad — 657 —

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un elaboratore elettronico8. La necessità che tale trasmissione avvenga senza perdita di informazione conduce ad interrogarsi sui principi che regolano la qualità e l’adeguatezza della trascrizione elettronica. La sola modalità rappresentativa delle informazioni tramite le tavole dei codici (come il codice ASCII) non consente una trasmissione dei dati che permetta di indagare le molteplici sfaccettature di quel complesso prodotto culturale rappresentato dal testo. Questo perché le fonti testuali sono portatrici di contenuti che esulano dal solo set di caratteri visibili. Le informazioni relative alla struttura astratta (partizioni logiche) e alle variabili semantiche del testo (dimensione del significato) non sono rappresentabili e limitare la codifica al solo character set condurrebbe ad una perdita. È allora necessario approdare ad un secondo più analitico livello di codifica. Codificare significa effettuare un’analisi del testo, individuarne le caratteristiche e formulare quindi un’interpretazione della fonte, vale a dire definire un modello descrittivo9 da implementare con il ricorso ad un linguaggio formale. I linguaggi elaborati per consentire un’adeguata rappresentazione delle caratteristiche di un testo sono noti come linguaggi di codifica o markup languages. Con i linguaggi di codifica la possibilità di mettere in atto le capacità ermeneutiche può essere espressa in text, cioè inserendo direttamente nel testo, tramite un sistema notazionale alfabetico, il vocabolario utile a descrivere fenomeni testuali di interesse per lo studioso10. La codifica è dunque un processo autoriflessivo, una descrizione della struttura tramite il sistema stesso di scrittura, che «permette di esplicitare caratteri altrimenti impliciti nel testo»11. Potremmo dire che la codifica è un intervento metatestuale in senso genettiano12 che ci consente di intervenire, ma certamente non senza ambiguità, sul rapporto esistente nel segno tra piano dell’espressione e piano del contenuto13. L’operazione di codifica non è dunque un atto neutrale ma il riflesso di un’attività interpretativa volta alla rappresentazione dei multiformi livelli del testo; con una precisazione: è necessario che il codice, per il suo stesso essere una convenzione condivisa dalla comunità, una volta stabilito renda chiunque in grado di conoscerne e comprenderne le regole. Il primo linguaggio di codifica dichiarativo14 recepito in ambito umanistico è l’SGML (acronimo per Standard Generalized Markup Language)15, un metalinguaggio16 che fornisce una serie di regole sintattiche utili a definire molteplici linguaggi di codifica che si occupano invece della semantica del markup. La TEI (Text Encoding Initiative)17 è uno di questi linguaggi (precisamente è una DTD, una Document Type Definition SGML), elaborata al — 658 —

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fine di fornire la serie di marcatori utili ad effettuare un’interpretazione di dati testuali di natura letteraria (dalla struttura logica del testo, ai costrutti ipertestuali complessi fino ai sistemi di analisi del testo, alla trascrizione delle fonti primarie, alla codifica dell’apparato critico, alla gestione di corpora linguistici). La codifica si basa infatti sul concetto della ricorrenza degli elementi testuali e documentari all’interno di gruppi di testi omogenei, vale a dire che suppone che ogni classe di documenti presenti le medesime caratteristiche di struttura18. La DTD elenca e descrive la serie dei marcatori (elementi ed attributi relativi) utili a codificare corpora testuali omogenei dal punto di vista strutturale (p. e. testi in prosa, testi in poesia, testi drammatici, descrizioni uniformi di manoscritti, gestione degli strumenti di corredo archivistici, ecc.). A questo si aggiunga che i linguaggi di codifica si fondano su una precisa teoria del testo basata sul presupposto di una «gerarchia ordinata di oggetti di contenuto testuale»19 dove la serie degli elementi caratterizza una speciale classe di documenti. Gli elementi strutturali che afferiscono alla classe sono caratterizzati cioè da relazioni di tipo gerarchico; il testo per i linguaggi di codifica è il riflesso di una struttura gerarchica ad albero delle sue sezioni logiche. Il più recente linguaggio XML (Extensible Markup Language)20 eredita quasi completamente da SGML sintassi e logica di funzionamento del markup con un rispetto di norme meno flessibili nella notazione, per consentire il riversamento sul Word Wide Web dell’informazione così codificata. Lo schema di codifica della TEI, basato sulla sintassi dello Standard Generalized Markup Language e ora ripensato in funzione XML, consente di rappresentare i due macrolivelli di intervento sul testo: la struttura di diverse tipologie testuali (testo in prosa, testo poetico, testo teatrale, fonte manoscritta, ecc.) e le caratteristiche rilevanti per diverse aree di ricerca (filologia, paleografia, codicologia, analisi linguistica, tematica, narratologica, ecc.)21. L’edizione digitale delle Novelle Porretane, raccolta di sessantuno novelle di tradizione boccaccesca che l’autore immagina narrate, nell’estate del 1475, da una «nobilissima e graziosa compagnia» (Porretane, Lettera Dedicatoria) di dame e gentiluomini della corte felsinea ai Bagni di Porretta22, è un tentativo di rappresentazione dell’informazione su supporto elettronico tramite il ricorso ai linguaggi di markup23. Assieme alla codifica della struttura del documento24, le possibilità di lavorare sugli aspetti diversi dell’analisi testuale (morfologia, sintassi, metrica, retorica, fonetica e semantica) ci consentono di definire un’ipotetica gamma — 659 —

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dei fenomeni testuali passibili di interpretazione. La riflessione condotta sul novelliere arientesco ha portato nello specifico ad interrogarsi su: – codifica dei lessemi (nomi di persona, di luogo, date). Oltre ad interpretare i dati, ed assegnare quindi un valore semantico al segno, è possibile indicizzare automaticamente il vocabolario codificato e ottenere liste dei fenomeni (elenchi di lessemi); – normalizzazione delle forme (forme normali nella qualificazione dei nomi rispetto alle varianti grafiche – gestione degli allografi). L’utilità del procedimento è di rispettare le peculiarità grafematiche del testo ma anche raggiungere un alto livello di precisione nella risposta fornita, in fase di interrogazione, dal testo25; – riduzione di tutte le forme relative alle stesso oggetto (nomi di persona e di luogo) tramite chiave identificativa univoca (sinonimi o perifrasi). In questo modo è possibile qualificare tutte le espressioni che si riferiscono al medesimo contenuto informativo; – codifica del lessico tecnico per la definizione di basi di dati semantiche e per successive analisi stilometriche; – disambiguazione degli omografi (codifica morfologica e sintattica). È il punto di partenza per la gestione di concordanze su base di dati lemmatizzata; – codifica delle istanze materiali (correzioni, riscritture, abbreviazioni, lacune, aggiunte; errori del copista: sauts du même au même, aplografie, dittografie, ecc.; individuazione del tipo scrittura, cambi di ductus, inchiostro; segnalazione di congetture e integrazioni di lacuna); – codifica dell’apparato critico (codifica delle varianti testuali e creazione di un sistema di corrispondenza biunivoca fra testo e apparato). Ovviamente nel testo letterario «il segno è sempre connotativo e per sua stessa natura polisemico e richiede una complessa chiave di lettura e diversi livelli di approccio interpretativo»26. È dunque necessaria l’assunzione di un preciso punto di vista sull’oggetto dell’analisi27. Tale assunzione comporta evidentemente modalità diverse nel trattamento delle informazioni fornite dal testo. Lo stesso concetto di testo assume dunque un significato differente a seconda degli interessi del singolo studioso, che elaborerà, di conseguenza, diversi modelli di riferimento. È chiaro che non è possibile codificare, cioè interpretare, tutta l’informazione trasmessa da una fonte testuale ed è dunque necessario chiarire quali aspetti del testo si intendono rappresentare affinché siano oggetto di recupero — 660 —

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in fase di interrogazione del testo elettronico, cioè con l’obiettivo di un information retrieval sul dato interpretato, sui fenomeni oggetto di codifica. Nel caso del novelliere arientesco la necessità di scegliere il livello analitico ha condotto a concentrare la codifica sull’analisi narratologica, con l’obiettivo della rappresentazione dell’informazione pertinente. Le possibilità offerte dal lavoro di intervento sulle istanze semantiche del testo consente un’interrogazione dell’oggetto digitale per ricerche non banali sulle stringhe codificate e permette di ottenere indicizzazioni automatiche di dati. Su suggestione della narratologia teorizzata dai formalisti russi e sulla base dei precetti della narratologia strutturalista, l’analisi si è orientata sull’individuazione degli elementi pertinenti alle sezioni di interesse del racconto, individuando, per ciascuna, strategie diverse di codifica. Ovviamente la definizione delle caratteristiche dei personaggi e l’enucleazione dei temi dominanti contribuiscono all’individuazione del topic e alla definizione delle isotopie narrative28. Questi gli elementi: – Personaggio: individuazione dei nomi e associazione degli attributi (o stati) e dei predicati; – Tema: definizione del lessico specifico con l’obiettivo di implementare basi di dati semantiche29; – Fabula: codifica delle partizioni strutturali interne e definizione della successione temporale delle partizioni; – Intreccio: assegnazione di un valore semantico alle porzioni testuali; – Genere: individuazione del costrutto strutturale globale. Un’attenzione speciale si è prestata alla figura del personaggio per un esperimento di analisi30. Ipotizzando una scheda descrittiva tipo per la figura del personaggio, oltre al nome, è possibile codificare i termini utilizzati al posto del nome e gli stati (aggettivi, attributi, sostantivi, verbi) che lo qualificano. Il fine è la ricostruzione del personaggio a partire dagli elementi connotativi tramite associazione di marche semantiche esplicite nel testo. Possiamo ipotizzare un modello di scheda descrittiva di questo tipo: personaggio, qualità, oggetto, luogo, evento. Esemplificando il processo sulla novella XXIV (che è stata utilizzata per l’esperimento di analisi narratologica), vediamo come possono essere rappresentati gli elementi che connotano uno dei personaggi del racconto: – Personaggio: Jannes, Janes, franzese, studente, scholaro, lui, egli,… — 661 —

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– Qualità: giovane, nobile, ricco, expenditore sanza misura, sciocco, impaurito,… – Oggetto: cavallo, scarseletta cum denari, diavoli,… – Luogo: Bologna, Francia, campo boario, monte de la giustizia,… – Evento: mancandoli denari, andare in Francia, andare a cavallo, se faceva incantare dagli spirti, gettare nel fossato, ferrito, fu altamente giuntato, facto fabula del populo,… Questa l’esemplificazione di codifica XML/TEI su una porzione testuale dell’autografo:

NOVELLA XXIV

Uno Scholaro monta ad cauallo di Bellocchio: credendo sia uno Diauolo chel porti in França: il quale poi el getta nelle Spine.



Et cosí de uno: et in unaltro parlamento entrando ad certo proposito me dixe: che dimoró inla terra nostra cum uno nobile et richo Scholaro dele parte di Franza studente in jure ciuili. A cui altro nome non uoglio fare che miser Janes: jmperció che per vergogna: se parti de Bologna piu presto: che non haurebbe facto: perche fu altamente giuntato: come intendereti da uno nostro Bolognese nominato maestro Zohanne Zoppo pictore uicino di uui Magnifico Conte: etda Bellocchio: et Guardabasso suoi compagni: j quali unaltra uolta beffarono..





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Questa la tabella riassuntiva dello schema di codifica della novella XXIV (ma estensibile all’intero corpus): Partizioni strutturali (Fabula e Intreccio) Struttura di ogni singola novella. Albero gerarchico delle partizioni.





Personaggi (Qualificazione dei nomi e associazione degli attributi e dei predicati)