Le armi del comico. Narratori italiani del Novecento 8804493496

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Le armi del comico. Narratori italiani del Novecento
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Si è avverata la profezia con cui Baudelaire assegnava al riso il Novecento? In realtà sono moltissimi i narratori italiani che negli ultimi cento anni hanno optato per uno dei tanti gra-

di del comico: dal più basso, la farsa di Campanile, al più alto, l'umorismo di Pirandello. Un secolo bellicoso, veloce e nevrastenico,

per costringere l’uomo contemporaneo a confessare chi è e cosa vuole ha impugnato le armi del comico e con esse ha condotto il massacro di ideologie dopo il quale trionfa sempre il tragico. Qui la comicità è vista solo come la

prima delle strategie di spiazzamento per sfuggire al logoramento delle idee e dei linguaggi. Nel movimento pendolare che caratterizza un secolo attento alle periferie ma attratto dal centro hanno infatti un ruolo decisivo anche il gioco (Landolfi), il fantastico (Palazzeschi), il

sogno (Savinio), il plurilinguismo (Gadda) e l’informale (Malerba, Celati). Tra il futurismo

di Palazzeschi, Marinetti e Bontempelli e il neosperimentalismo degli anni Sessanta (Manganelli, Arbasino) spiccano inoltre il grottesco, l'ironia o la parodia di Brancati, Flaiano,

Calvino, Parise e Pizzuto. Il riso conduce dappertutto, persino all'unità degli opposti: il comico che è anche tragico (Zavattini). Il gioco si ribalta in una realtà più logica e spontanea; dalla trasgressione discende un ordine ulteriore; attraverso

il fantastico

si accede alla

magia della quotidianità; i linguaggi bassi innalzano al sublime e il comico diventa fratello inseparabile della tragedia. Questa raccolta di saggi avvia il discorso dal comico ma non si nega nessun territorio. Un secolo decentrato lo si vede bene pure da altri estremi. Dalla sua periferia geografica (Trieste), politica (il socialismo), filosofica (Schopenhauer), l'ebreo Svevo, per combattere l’in-

differenza per la vita, cerca a ogni costo l'originalità, mito fondante del Novecento. La

nevrosi di Tozzi, malattia psichica diventata salute culturale, guida a quel romanzo moderno del quale Debenedetti ha, individuato

la mossa

vincente nell’epifania. Infine*dal

Sud sconfinano le donne ribelli di cui Alvaro...

ha interpretato il silenzio di gesti molto. eloquenti e le indimenticabili figure femminili dî Lampedusa e D'Arrigo. Nei due siciliani la vita, inesauribile, affronta la “questione ultiIn sovraccoperta: Illustrazione di Valeria Maggiani

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Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/learmidelcomicon0000pedu

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Walter Pedullà

LE ARMI DEL COMICO Narratori italiani del Novecento

MONDADORI

ISBN 88-04-49349-6

LEEDS METROPOLITAN È UNIVERSITY LIBRARY

© 2001 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione aprile 2001 bttp://www.mondadori.com/libri

Le armi del comico Narratori italiani del Novecento

Premessa

Questi saggi sono stati scritti quasi tutti negli ultimi cinque anni. Il secondo, il terzo, il quarto, il settimo e il dodicesimo, in

particolare, fra il 1999 e il 2000. Uno sguardo all'indietro dagli anni Novanta, una visione essenziale della narrativa italiana del

Novecento, alcuni protagonisti e due o tre questioni centrali del secolo appena concluso. Di tali questioni il titolo (Le arzi del comico) privilegia quella che ha impegnato profondamente la teoria e la pratica della letteratura contemporanea. Era vera o falsa la profezia con cui Baudelaire assegnava al riso il Novecento? Può essere anche un falso problema, ma in concreto sono davvero una folla i narratori che hanno optato per uno dei tanti gradi della comicità (dal più alto, l'umorismo di Pirandello, al più basso, la farsa di Campanile) o che vi sono pervenuti dopo avere lungamente frequentato il versante del tragico (l’ultimo Svevo) o che l’hanno attraversata prima di assestarsi definitivamente in uno dei linguaggi con cui è proibito ridere. Cominciando dal riso, si arriva dappertutto: compresa la pacificazione e persino l’unità degli opposti. A Bontempelli piacque — e la consigliò a Debenedetti — la formula sintetica: il comico che è anche tragico. Trarrebbe in inganno il titolo, se inducesse a credere che qui si parla solo di comicità. Nella sezione ad essa dedicata, cioè la seconda parte, da cui

è ricavato il titolo della raccolta, si è andati a indagare cosa succede se si esamina la narrativa del bellicoso Novecento che, per costringere l’uomo contemporaneo a confessare chi è e cosa vuole, ha usato le armi del comico. Sono coinvolti anche gli autori della terza parte, dove attraverso i titoli delle loro opere si

fanno essenziali, anzi telegrafici, ritratti di Savinio, Gadda e Landolfi, narratori che hanno frequentato il versante della comicità: spesso o quasi sempre Gadda, nella giovinezza Savinio. L’irridente fratello di De Chirico nell’età matura invece denunciò la veloce deperibilità del comico. Che si intreccia e si alterna o va a coincidere col tragico nel saggio complessivo sul Novecento, secolo veloce, estremista, violento e casuale, sempre in

movimento dalle periferie al centro. Qui scorrono rapidamente le figure di coloro che Rabelais chiamava gli «agelasti», cioè chi non ride mai, o quasi: i vociani, Bilenchi, Buzzati, Delfini, D’Arzo, Fenoglio, Testori, Ortese, Morante, Pasolini, Sciascia,

Volponi e altri. L’altra faccia di una letteratura divisa più o meno equamente a metà: magari pure perché la poesia sta in grande maggioranza fra quelli che la fanno tragica.

Nella raccclta c'è quanto è peculiare del Novecento: quello d’avanguardia (per esempio, Palazzeschi, Marinetti e Campanile) e non (è un innovatore inconsapevole il Tozzi espressionista di Debenedetti), il fantastico (Savinio) e il realistico (magari il realismo magico di Bontempelli e Alvaro), il plurilinguista (Gadda e D'Arrigo) e il monolinguista (italiano puro: Landolfi, nonché Bontempelli; o impuro: Svevo e Pirandello), la narrativa che guarda al centro dal Sud (Pirandello, Alvaro, Lampedusa, D'Arrigo) o dal Nord (Svevo, Bontempelli, Gadda, Za-

vattini). C'è chi guarda il centro dal centro: Tozzi, Landolfi, Campanile, e Palazzeschi (per il quale Debenedetti parlò di un narratore che «fa centro fuori del centro»). E c'è chi come Savinio ha osservato l’Italia dall’estero: non solo dalla Grecia natale — accanto al fratello Giorgio De Chirico — ma anche dalla parte dell'Europa più moderna: la Germania dell’adolescenza e la giovinezza francese accanto ad Apollinaire. Viaggiò molto per tutto il nostro continente pure Corrado Alvaro, che fece la spola tra la sua Calabria e la non meno sua Europa. Alla letteratura italiana del Novecento, che sa di dover essere anche euro-

pea, riesce persino di andare oltre l'Europa: con Pirandello, col futurismo, con Savinio surrealista, con lo Svevo caro a Joyce e con Lampedusa, che ha inventato il mito universale dell’immobilismo mobile. Se saranno tradotti come si deve Gadda e D'Arrigo, ne uscirà arricchita la letteratura mondiale. I protagonisti qui sono, in ordine di apparizione, Svevo, Pirandello, Campanile, Zavattini, Savinio, Gadda, Landolfi, De-

benedetti, Tozzi, Alvaro, Lampedusa e D'Arrigo. Altri autori hanno in questa raccolta il ruolo di comprimari, ma si è ben consapevoli che nella realtà del Novecento scrittori come Palazzeschi e Bontempelli, che hanno occupato la scena per oltre mezzo secolo, avrebbero meritato — insieme a parecchi altri che non

hanno torto, se sono assenti — d’essere «titolari» di un capitolo proprio. Ora stanno stretti in un saggio che racconta «come ridono le avanguardie» dal primo decennio del Novecento agli anni Sessanta: nel quale, dopo essere passati nei paraggi di Brancati, Calvino, Flaiano, Parise, Mastronardi, Pizzuto e altri, si incontrano con il neosperimentalismo di Manganelli, Malerba, Arbasino e Celati. La comicità è qui una delle tante strategie di spiazzamento con cui il Novecento sfugge alla routine delle idee logorate e dei linguaggi che si ripetono per non mettere in crisi ben più che le parole. Prendendo più o meno consapevolmente la spinta, su una direttrice, dall’Urzorismzo di Pirandello e, sull’altra, dal Controdolore di Palazzeschi e dal manifesto marinettiano sul «Teatro di Varietà», Savinio, Bontempelli, Campanile, Za-

vattini e Landolfi disegnano una memorabile caricatura del secolo, per scoprirne dal volto i segreti. Il linguaggio del corpo prende avvio dall’espressionismo? Anche Gadda — che «devia dalla norma» ma non in direzione delle avanguardie storiche — insiste sul potere conoscitivo della deformazione. Senza sapere di essere gaddiano, il Novecento ha osservato la legge fondamentale del suo sistema: quel «deformarsi integrativo» per cui si comincia col dissacrare un disegno culturale e artistico egemonico ma si finisce sempre per integrare la trasgressione den-

tro un ordine ulteriore. Il brutto genera una bellezza che non si sarebbe mai vista, se non avesse fatto esperienza del contrario attraverso la maschera comica. La comicità come via alla verità, avrebbe detto Gadda, che si preparò al primo romanzo scegliendo fra cinque maniere di umorismo. Il Novecento ha deciso di «delinquere», oltre che con il comico, col gioco o col fantastico o col plurilinguismo, con ogni linguaggio decentrato. Prima o poi anche queste eccezioni rientre-

ranno nella norma e faranno pace con il sistema culturale che, variamente coniugandosi, contribuiranno a trasformare. Dall’informe — che è natura naturans — nasce una forma con cui si aggiunge qualche connotato originale all’uomo che viene dal passa-

to; il gioco genera una diversa realtà, più logica e più spontanea; attraverso il fantastico si accede alla magia della quotidianità; dal disordine discende un ordine nuovo; i linguaggi bassi si innalzano fino al sublime e il comico diventa un fratello inseparabile della tragedia. Nel Novecento le facce della moneta di Socrate si vedono contemporaneamente, in sovrimpressione. Se in quella moneta Campanile si specchia sulla faccia comica, Manganelli vede in trasparenza al di là, il tragico che c’è di qua e il comico dell’al di là, e viceversa.

Palazzeschi ordina da un paradossale manifesto futurista: non piangete con le tragedie di cartapesta. Si può piangere solo di ciò di cui non si riesce a ridere. Poi consiglia: sottoponete alla prova del riso i pensieri, le azioni e le parole degli uomini. Colui che era già l’autore di Perelà uomo di fumo chiama in scena un Dio che ride a crepapelle dinanzi allo spettacolo quotidianamente offerto da quei buffi personaggi che sono gli esseri umani. Fuori scena, si immagina, quello stesso Dio potrebbe avere scoperto una verità assoluta (e cioè che alla fine l’esistenza è sempre tragica) ma non lo confesserebbe mai: teme giustamente che ogni più drammatica affermazione, se la si ripete spesso, diventi una farsa. Lo dimostrerà in due battute Achille Campanile, che, convinto della risibilità congenita in ogni affermazione, è sempre allertato per scoprire quando le idee nuove e geniali meritano di entrare a far parte dello sciocchezzaio di Flaubert. Può essere anche oggi il comico una efficace terapia della malattia cronica di cui soffrono le culture vittoriose che impongono alla collettività valori di cartapesta? Purché non si ripeta quanto già detto nel Novecento (e lo stesso dicasi dell'avanguardia e del surreale). La letteratura notoriamente fa il doppio gioco: mentre si concentra a fare di un tema un racconto o un poema, si interroga e

risponde su come si deve trattare — la metaletteratura, passione confessata del Novecento — l’oggetto d’interesse in quel preciso momento. Come e quando si scrive, mentre si vive: la vita attuale come scrittura in disponibilità. Problemi personali che sono radicali, cioè fondamentali. Dai ritratti individuali alle questioni generali. Che non sono solo quelle evidenziate dall’indice: dove, oltre alla comicità dell’ultimo secolo, ci sono la ricerca dei tratti

peculiari del Novecento e la risposta della letteratura (il de profundis di Lampedusa e la vitalità del dialetto in D'Arrigo) alla crisi ideologica, politica e culturale degli anni Cinquanta. 6

Interrogandosi sul Novecento, si è redatto un essenziale consuntivo di questo secolo frettoloso (le rivoluzioni), fuori centro (le digressioni, le deviazioni, le trasgressioni) e assurdo (si ignora perché si fa così) che ha mutato strutture e significati del vivere. Arriva sempre il momento in cui per una cultura, lungamente al potere, giunge il tramonto che nessuno potrà fermare. Nel ’56 scrivono i loro romanzi maggiori Lampedusa e D'Arrigo, narratori che vanno ben oltre la questione dello scrivere «magro» o «grasso», lingua nazionale o insulare. Stanno raccontando addirittura come muore l’uomo, come scompare il suo modo di pensare e di scrivere. Contemporaneamente il loro linguaggio è un lascito al futuro: che è poi un presente infinito, come si conviene ad autori che non pensano solo al loro decennio. Con quale linguaggio racconteremo l’attuale desiderio di rinascita? Anche la critica ha il medesimo problema. Questi saggi hanno scrittura «grassa» (Svevo, Campanile o il duello siciliano fra Lampedusa e D'Arrigo) o «magra»: i tre capitoli sui titoli delle opere di Savinio, Gadda e Landolfi. Sarà sempre più scheletrica la critica che voglia sopravvivere alla minaccia di estinzione? Di sicuro le toccherà trovarsi ogni giorno un linguaggio diverso da quelli che quasi nessuno vuole stare a sentire. Basta farsi inoculare il contagio dalla prosa dei grandi del passato (la nevrastenia di Savinio, la metaforizzazione scatenata di Gadda, la

farsificazione giobale di Campanile)? Anche per la critica è sempre l’ultima spiaggia. La critica deve meritarsi la sopravvivenza rinnovando idee, composizione e scrittura. Faccia sul se-

rio il linguaggio che racconta come i personaggi di Svevo (o di Tozzi e Bontempelli) perdono l’accordo tra le loro azioni e le parole con cui le si narra. È ammesso il ricorso alla comicità per mettersi in sintonia con Campanile. E si può fare il gioco dei «titoli» per andare a scovare, con prosa fulminea che li fa a pezzi, qualche segreto di Savinio, Gadda e Landolfi, mistero in piena luce. Non finiscono mai i misteri su cui far luce. Abbiamo un luminoso futuro davanti a noi, anche se ora non sappiamo precisamente che fare. Non c’è un profeta come Baudelaire; non è più pensabile una struttura delegata cui affidare il prossimo periodo storico; nessuno crede più alla novità assoluta. Ci saranno naturalmente ancora, come nei secoli e nei millenni precedenti, il comico e il tragico, il fantastico e il reale, la tradizione e la svolta radicale, il 7

frammento e il sistema, i linguaggi alti e i linguaggi bassi, l'espressività e il grado zero della scrittura, l'attualità e il romanzo storico, il monolinguismo e il plurilinguismo, nonché gli altri connotati perenni che le varie culture richiamano in servizio, come fanno coi miti, nella speranza di poterne inventare uno nuovo o di ottenere originalità attraverso una inedita combinatoria di elementi già usati. Proviamo col tragico, torniamo all’attualità, o cos'altro ancora?

Lampedusa riproverà a scoraggiarci: si cambia per lasciare le cose come stavano prima. Abbiamo abusato col linguaggio? Col finto persiano di Landolfi, con la scrittura spastica di Gadda, con i linguaggi deperibili di Savinio? E noi torniamo alle cose, alle idee diverse, alle scoperte delle scienze: quelle che magari vengono da altri mondi. Se sono davvero nuove, spiazzano quanto nel Novecento il comico, il gioco e il fantastico. Quando una cultura è al collasso, si ricorre sempre alla stessa medicina: si ridescrive il mondo, si fa un altro bagno nella realtà. Proviamo ancora con la confusione degli stili di cui si compiace il realismo, che sempre eterno ritorna in alternanza con il classicismo? Come Alvaro, cioè per andare oltre la realtà? Il realismo magico di Bontempelli ha spento la lampada di Aladino. Come Zavattini, alla ricerca di ciò che genera stupore? Come D’Arrigo, che tenta di ridurre tutto a uno: in un arcano che, essendo irreperibile e insieme indispensabile, elettrizza il campo di tensione dove, secondo Calvino, è condannata a vivere la letteratu-

ra che cerchi illuminazioni? La metafora è troppo facile ma il Novecento ha sempre desiderato una narrativa che dà la scossa, come quella dell’ingegnere Gadda: sia in ogni pagina, sia nella relazione del particolare con l’intero sistema. Chi però l’ha fatto in special modo è Italo Svevo, il triestino che sfuggiva all’indifferenza per la vita solo quando un’idea originale circolava nella sua grossa testa. Oltre alla strada che va dall’autore alla questione generale, nelle Armi del comico si fa il percorso opposto: dal comico tipico di un'epoca allo stile di uno scrittore che, letto oggi, sembra sconfinare nel tempo, dalla secentesca commedia dell’arte al Novecento più astratto-concreto (Campanile o Malerba); dai linguaggi bassi e dal plurilinguismo per i quali parteggia vistosamente la narrativa del secolo alla cifra stilistica di un autore

(D'Arrigo); dallo sperimentalismo — avanguardia ma non solo — che è peculiare del Novecento al linguaggio che da singolare diventa essenziale per tutti (Savinio); dalla periferia da cui si guarda verso il Mediterraneo (Lampedusa) o verso la Mitteleuropa (Svevo) per andare a conquistare il luogo mentale intorno a cui ruota il mondo (Pirandello); dalla più libera fantasia delle figure e della lingua all’invenzione di una sagoma intellettuale che è bersaglio e insieme meta (Zavattini, Landolfi, Manganel-

li); dalla quotidianità più dimessa alla scoperta di una non deperibile traccia umana (Tozzi); dal barocco che è rinato a nuova vita nel Novecento al realismo esasperato e spastico che restituisce conoscenza alla letteratura (Gadda); da uno sterile

uomo di fumo a un esercito di personaggi che ignorano cosa fanno, dove vanno e quando arriveranno (Palazzeschi); dalla più estremistica autonomia del linguaggio alla magia di una realtà che è conquista non precaria del possibile e dell’impossibile (Bontempelli). Occupa un posto centrale nel volume la figura di Giacomo Debenedetti, che è stato definito «il maggiore critico militante del Novecento». Purché ci si intenda sull’aggettivo che sembra ridurre il ruolo del critico. Debenedetti fu militante nel senso che partecipò in prima linea alle battaglie letterarie del secolo. Saba o gli ermetici? Ognuno al momento giusto ha fatto quanto poteva e doveva. L’avanguardia o la modernità? Il moderno che non finisce mai di esserlo, risponde Pirandello. L’epica della realtà o l’epica dell’esistenza? Sì al realismo ma a quello magico di Bontempelli. Sì al futurismo ma non in letteratura: semmai nelle altre arti, nella musica nel cinema o nella grafica. No al personaggio-particella e sì al sempre vegeto personaggio-uomo. Sì ai dialetti, se nutrono la poesia non locale di Noventa. Sì sempre o di nuovo a De Sanctis, e no sempre più spesso a Cro-

ce, quello che rifiuta la scienza nuova, microfisica o psicanalisi che sia. Indagando sulla struttura dell'atomo, Debenedetti ha scoperto come l’attualità, se genera un’epifania — il trascurabile che diventa assoluto —, sfida i secoli, non solo il Novecento. Nel

quale Giacomo Debenedetti ha militato quotidianamente alla ricerca di ciò che è tanto dentro la storia da accedere alla Verità. La realtà che è altrove, quella consegnata al «narratore nascosto», colui che suggerisce qualcosa che non è nella lettera. Si dice: ma che sarà mai il destino? È la realtà, tagliò corto Gad-

da, naturalmente quella dell’inconscio. Debenedetti, militante della Verità, ha combattuto con l’inconscio per trovarla nella vita quotidiana. L’epifania di un povero bambinello che diventa Dio. Così un oscuro prosatore di provincia illuminò e indicò la strada alla narrativa del Novecento. E un «umile» recensore si trasformò nel superbo saggista che inventò per il suo secolo un modello di critica. AI gusto Tozzi sembrava un epigono del verismo toscano, un bozzettista che non si reggeva oltre la pagina, un impressionista attardato, ma, proseguendo la lettura, Debenedetti ebbe

la sorpresa, o meglio, un’epifania critica: quel provinciale senza saperlo era andato a occupare il linguaggio cui era affidata la verità del primo Novecento: l’espressionismo, quello stesso che poi sarà trovato in Pirandello, Gadda, Savinio e altri che pirandellianamente miscelano oro e terra. Fu allora che il critico riscoprì l’importanza fondamentale del progetto. Il destino di Debenedetti incontrò il progetto espressionista, e così nacque un capolavoro della critica letteraria: I romanzo del Novecento. Ci sono scrittori che prima cercano e poi trovano: anzi alcuni

trovano pure quello che non hanno mai cercato. La cultura del Novecento ha fatto bene a puntare di volta in volta sul futurismo, sull’ermetismo, sul neorealismo, sulla neoavanguardia, sul comi-

co, sul surreale e sul gioco. Purché si sappia che l’arte arride veramente a pochi: i fortunati che hanno calcolo pari all’estro. Sono siffatti Fenoglio, D’Arzo, Calvino, Delfini, Testori e altri narratori che qui sfortunatamente non trovano spazio.

Sembra avere carattere «profetico» un saggista letterario che, come Debenedetti, procede per divinazioni, cui solo il genio sa dare buone ragioni. È così che lavora il critico militante, colui che legge quanto per caso arriva sul suo tavolo. All’improvviso il testo esplode fenomenologicamente senso verso di te. Non te l’aspetti, è fuori tempo, è in anticipo o è in ritardo,

non sarebbe dovuto essere così come appare. È una rivelazione di destino per il critico e per il lettore. Nel ’37 Debenedetti cala nel decennio la sua «verticale» analisi e scopre attraverso ricerca profonda che Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli e Moravia sono i narratori che hanno disegnato tratti umani che sono peculiari dell’intero secolo. Sia sempre militante il critico o lo storico letterario che voglia scoprire ciò che mette d’accordo per sempre il testo con il lettore. Come? Con il mito, rac10

conto semplice che il lettore può complicare a proprio piacimento, nonché deformare come si vuole o come serve. Essendo duttile e servizievole, è incorruttibile.

Al momento di passare il posto di frontiera con il nuovo secolo, i narratori qui chiamati a raccolta mostreranno i documenti. Non si vede ma c’è il numero chiuso, non tutti vengono ammessi, moltissimi gli esclusi. Non conta avere urlato per le strade, è trascurabile il fatto d’essere stati a capo di un esercito di piccoli narratori, non basterà essere raccomandati da milioni di entusiastici lettori. Conta solo ciò che è stato messo per iscritto: il linguaggio unico come l’impronta digitale. Il critico deve saper scommettere tutto quello che ha e sa.

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Come ridono le avanguardie

Furono chiamati a consulto per pronunciarsi sulla sorte che sarebbe toccata al nuovo secolo quattro grandi saggi: un poeta, Charles Baudelaire; un narratore, Carlo Alberto Pisani Dossi;

uno psicanalista, Sigmund Freud; e un filosofo, Henri Bergson. Il responso fu unanime: il Novecento era destinato al riso. Lo misero per iscritto, alcuni di loro prima che il secolo nascesse, altri poco dopo: Baudelaire nel saggio Su/l’essenza del riso; Dossi nelle Note azzurre; Freud nel volume intitolato I/ z20tto

di spirito e la sua relazione con l'inconscio; Bergson nella sua opera più celebre, I/ riso. Saggio sul significato del comico. Che fu pubblicata nel 1899, proprio mentre moriva l’epico e melodrammatico Ottocento, nell’immediata vigilia del Novecento, secolo dell’«uomo che ride» anche nella tragedia. Alcuni anni dopo, nel 1908, Luigi Pirandello confermò la diagnosi o profezia. Per essere più precisi, mentre aderiva alla loro tesi fondamentale, proponeva una variante. Il comico è solo l’inizio. Il bello viene dopo, ed è l’umorismo. Suffragò la teoria con delle cifre e dei nomi: da alcuni decenni aumentava significativamente il numero di scrittori nei quali erano riconoscibili iconnotati che, secondo lui, erano peculiari dell'umorismo. Il Novecen-

to si preparava quindi ad essere anzitutto umorista. Lo aveva già scritto Carlo Dossi: l'umorismo caratterizzerà l’arte del nuovo secolo. Anzi, il narratore scapigliato che piaceva a Svevo andò oltre: l’umorismo era il vero successore del romanticismo e avrebbe egemonizzato il Novecento come il romanticismo aveva fatto con l’Ottocento. In principio dunque, cioè suppergiù all’inizio del Novecento, il verbo è ridere, l’infinito che è pure un imperativo. Molti 89

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anni dopo l'inaugurazione del secolo Walter Benjamin — cui era naturalmente noto che il comico e il riso non sono la stessa cosa, ma spesso convivono 0 si identificano — scrisse che il riso è un ottimo avvio per la dialettica. Ora, se torniamo alla storia, il primo a ridere nel Novecentoè il Dio di cui Palazzeschi ha la visione nel Controdolore, manifesto futurista scritto nel 1913. È un Dio che si diverte a giocare con il giocattolo che ha creato, cioè il mondo degli uomini, esseri fatti a sua somiglianza. Sono invitati a imitarlo, ridendo di ogni cosa che fanno, pensano e dicono: a partire dalla tragedia, genere letterario ormai infrequentabile. E Palazzeschi, a suo modo sempre singolare, obbedisce subito: rendendo ridicolo con i paradossi persino il proprio manifesto futurista. Suppergiù nello stesso modo in cui il suo Dio alla fine del secolo e del millennio potrebbe essere capace di ridere di se stesso per avere eternamente — o almeno per tutto il Novecento — scommesso sul comico. L’autore del Controdolore riderebbe pure di Marinetti, se il fondatore del futurismo nel coetaneo manifesto sul «Teatro di Varietà» non avesse ordinato ai suoi adepti di scatenarsi ai massimi gradi del riso (che lui chiama caricature possenti, abissi di ridicolo, cascate d’ilarità irrefrenabile, buffonate e parole storpiate: peraltro da porre accanto a ironie impalpabili e a intrecci di motti spiritosi, bisticci e indovinelli). Sia per Palazzeschi che per Marinetti in quel 1914, alla vigilia della prima guerra mondiale, la parola d’ordine futurista non è il sublime, è più terra terra, anzi è la meno eroica: ridete. Dio lo vuole. Naturalmente

lo vuole il Dio di Palazzeschi, che tanto gli assomiglia in altezza di corpo e in umiltà di idee. Si ride di qualcuno perché ci si sente superiori, perché si è vinta la paura? Lo dice Baudelaire. E lo conferma Freud: «Il piacere comico presuppone un sentimento di completa sicurezza

dal pericolo». Chi ha buoni motivi per non aver paura e così sentirsi superiore a tutti è Dio, quello che però, secondo millenaria tradizione, ignora o almeno non pratica il riso. Forse per paura di dover ridere di se stesso, si è pensato; ma, secondo un detto

ebraico, Dio ride quando l’uomo pensa. Il Dio tanto simile a Palazzeschi da identificarvisi invece ride di ogni azione e parola umana, anche se non ha alcun senso di superiorità: gli uomini sono come lui, cioè dei buontemponi, o predestinati ad esserlo prima o poi. Sono così perché solo in questo modo ha un senso il 90

mondo: perché si può ridere gli uni degli altri, alla pari. Il re come il buffone. Guai se il re ammazzasse il buffone: il mondo annegherebbe nella noia, nella tristezza, nell’insensata tragedia che

fa piangere quelle salatissime lacrime per cui diventa troppo amara la nostra già ridicola esistenza. Viva quindi il buffone, quello che è in noi tutti. Il Dio di Palazzeschi è infatti un omino comune simile a tanti che si incontrano per la strada o nel Palio dei buffi. Chi sono questi buffi? Siamo tutti buffi, prima o poi, se è vero quanto scrive il freudiano Kris: «Ciò che abbiamo temuto ieri è destinato ad apparirci buffo oggi». Ci è ora concesso dal Dio palazzeschiano di dire che egli creò il mondo perché fosse sempre Carnevale? Dopo però deve averci messo la coda proprio il diavolo (già evocato da Baudelaire per spiegare la natura del riso), se la più intelligente creatura (per intenderci, l’uomo) non è riuscita secondo le previsioni divine. E allora per riuscire almeno come scrittore — unica forma umana calcolata da Baudelaire e da Palazzeschi — l’uomo cosa deve fare o non fare? Non faccia tragedie dinanzi alla vita. Che è una commedia perenne: non come il Carnevale cioè, che dura pochi giorni all’anno. Chiamiamola la «carnevalizzazione totale», anche per distinguerla da quella che Michail Bachtin ha analizzato attraverso i millenni. Quindi il verbo è ora, all’inizio del Novecento, questo: farsi beffa, cioè prendersi gioco, insomma dissacrare, subito, ogni

giorno. Naturalmente non lo dice né lo pensa nessun Dio. Al quale anzitutto non sfugge la differenza fra tempo (l’uomo ride da sempre e sempre riderà) e storia (ci sono epoche che debbono aiutarsi con la comicità per prendere le distanze da alcuni problemi urgenti). Ispirato comunque dal suo Dio (in parole povere, la sua perpetua vocazione al riso), anche Palazzeschi consiglia, che dico?, ordina, il comico alla letteratura: alla poesia e alla narrativa, nonché alla saggistica e alla teoria letteraria, cioè alla prosa stessa del suo manifesto, che si intitola non solo Il controdolore ma anche L’antidolore. Il motivo non sarà questo, ma l'impressione rimane: Palazzeschi comincia col dare un analgesico a chi soffre la vita sino a bestemmiarla. La comicità dà sollievo e felicità, mito perenne che si è incarnato splendidamente nella nostra epoca quant’altre mai allegra. Secondo il narratore e poeta fiorentino, tuttavia, è sempre il momento buono per ridere se si ha il punto di 91

vista giusto (una prospettiva parziale e magari partigiana) e il linguaggio (un pensiero fisso dell’avanguardia: inafferrabile è la realtà) adatto alle necessità storiche di chi ha urgenza di sfuggire agli automatismi verbali (a questo s'era ridotto l’Ottocento) per dire cose mai viste e mai dette. Danno felicità, gioia e ilarità le idee originali a Svevo, a colui che — prima con la tragedia e poi con l’umorismo — ha innovato profondamente la narrativa del Novecento, senza però essere mai — come invece fu Palazzeschi — uno scrittore d'avanguardia. Non tutti gli innovatori in effetti fanno parte dell’avanguardia. E questo, alla fine del Novecento, lo dicono tutti.

Quasi tutti ora pensano che i migliori risultati artistici di un movimento d’avanguardia vengano dopo: nel dopo-avanguardia, arte che cerca ciò che di nuovo a livello strutturale è stato

già trovato da quegli «inventori» per i quali notoriamente ha un debole quel matto di Ezra Pound. Attualmente risulta a tutti assai difficile inventare una comicità nuova (né è più facile inventarsi tragedie) ma il Novecento ci ha faziosamente, accanitamente, estremisticamente (tre avverbi peculiari dello sperimentalismo) provato. C'è riuscito? A Pirandello pare di sì, con l'umorismo — o almeno con il proprio —, che per il siciliano è creazione assolutamente moderna. Palazzeschi non è Pirandello, non è di solito un umorista,

bensì un narratore comico fino quasi all’assurdo. Ecco: è questo l’altro modo novecentesco di ridere come mai prima s'era fatto. L’umorismo e l’assurdo sono le due grandi invenzioni del secolo dalla parte del comico. È vero che erano stati degli umoristi, secondo Pirandello, pensatori come Machiavelli e Bruno, ma non si tratta certo di gente felice. I due filosofi non avrebbero riso a crepapelle come il Dio di Palazzeschi. E nemmeno Pirandello, che forse nessuno ha mai visto ridere. Siamo ancora nell'infanzia del Novecento, età esaltante an-

che prima che Freud invitasse a scavarci dentro chi volesse sapere dell’uomo quanto ancora è inconscio. Per Debenedetti, Palazzeschi diventa grande non da giovane — quando cioè creò Perelà — ma nella maturità — cinquantenne, o quasi — negli anni Trenta. E parimenti il migliore Bontempelli sarebbe — sempre secondo il massimo critico letterario del Novecento - quello de-

gli anni Venti e Trenta: decenni che hanno quasi smesso di ridere. A Debenedetti, che ne scrive nella Verticale del’37, se fossero 92

stati interpellati, avrebbero risposto coi loro esilaranti testi letterari e teatrali Campanile, Zavattini e Petrolini. In Italia e forse anche nel resto dell'Europa e del mondo, si è riso per iscritto in ogni decennio, ancorché tragico quanto lo è quello dell'avvento del nazismo. Ci sono sempre tragedie e commedie nella stessa epoca. La verità è che, secondo Bontempelli e Debenedetti, pure il comico, se vale, è sempre anche tragedia: come può esserlo l'umorismo di Pirandello. Il quale era maestro di Bontempelli, ma non di Palazzeschi e di Campanile, non a torto ritenuti da alcuni artisticamente più maturi nella giovinezza.

Non è solo tuttavia Debenedetti a credere — succede nelle fasi distanti dalle avanguardie quale è quella attuale — che Palazzeschi e Bontempelli siano maggiori negli anni Trenta (rispettivamente Le sorelle Materassi e Gente nel tempo) che negli anni Dieci o Venti: il decennio in cui Bontempelli scrisse i racconti di Donna nel sole, che parecchi non gratuitamente considerano il suo capolavoro. Sicuramente si è esagerato da parte delle avanguardie nell’attribuire la migliore qualità alla loro fase sperimentale e alla loro opzione in favore del comico, ma la reazione di chi preferisce comunque il «ritorno all'ordine» non è meno estremistica. «Il giusto mezzo»: ecco cosa continuereb-

be a consigliare il protagonista della Coscienza di Zeno, che ora risulta per tutti il maggiore romanzo del Novecento sia dalla parte del comico che da quella del tragico. Dopo questo giudizio radicale possiamo tornare a fare storia. L’alternativa, come questa fra comico e tragico, furoreggia quando è acuto il conflitto culturale. Così non è il nostro tempo, sempre più recalcitrante verso estremismi ideologici e contrapposizioni formali, ma nel primo decennio del secolo faceva notoriamente positive considerazioni sulla violenza George Sorel. Autonomamente ma quasi contemporaneamente fu allora che il pacifico Palazzeschi cominciò a ridere: quindi fu all’avanguardia pure rispetto al Dio che esilara nel Controdolore. Lo fece anche prima dei dadaisti: quelli che mettevano nel sacco le parole per tirar fuori sensi nuovi e molto rorserse, i precursori

di ogni risata blasfema e dissennata. Lo scrittore fiorentino nelle poesie d’esordio aveva ridicolizzato i significati e le forme per cui erano venerati come divinità Carducci, Pascoli e D’Annunzio, indossando i loro ritmi e riducendo a onomatopee prive di significato ogni parola. La neoavanguardia, oltre che da 95

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Gadda satirico, ha imparato a ridere di tutto, prima che dai dadaisti, da Palazzeschi, scrittore leggero che andava giù pesante su ogni significato assurto a celeste verità.

Si metta alla berlina il sublime che vola troppo alto con le parole, avrebbe poi detto il surrealista Max Jacob, che nel 1921 consigliò ai poeti di raggiungere il sublime tenendo i piedi per terra, o comunque, in basso. Da questa condizione di fondo il Novecento talvolta si è distaccato ma spesso vi è tornato, sempre più in basso. Per fare il vuoto, non c’è niente di meglio del riso demenziale. A Gadda, che nel primo tentativo di romanzo sceglie fra cinque maniere di essere umoristi, piaceva moltissimo il comico «cretinoski». Dal quale forse discendono i mentecatti di Malerba, gli stupidi di Frassineti, gli imbecilli di Celati e gli idioti di Cavazzoni. In Gadda l’unico animale capace di eroismo è uno scarafaggio che agisce silenziosamente nell’ Ada/gisa. Nel Novecento si accede al sublime attraverso il comico. D'altronde il sunnominato Dio di Palazzeschi non ride sul vuoto sottostante?

Un'avventura terrena e insieme dotata di una naturale tensione verso l’alto è quella di un singolare personaggio inventato prima degli anni Dieci da Palazzeschi. È un uomo di fumo e ha nome Perelà. A trentatré anni scende in terra, visita un regno sull’orlo della bancarotta, riceve l’incarico di redigere un nuovo codice (da cui il titolo della sua «favola futurista»: I/ codice di Perelà) e infine viene condannato a morte. La condanna ovviamente non è eseguita perché il fumo rende inutile il taglio della testa, la fucilazione e la sedia elettrica. Col fumo in realtà non ci fai niente ma, secondo Palazzeschi, nemmeno la lettera-

tura fa praticamente, cioè politicamente, mai niente. Parola dell’Incendiario che è protagonista dell’omonimo poemetto del poeta e narratore fiorentino, cui caro è il fuoco purificatore. Il suo fantastico uomo di fumo, bruciando strutturalmente ogni concretezza, d’altronde non ha più consistenza del riso o

del linguaggio: cioè la coppia che nel Novecento stermina o fa fuori la realtà, quella che stava sopra sotto e accanto ma che talvolta scompare alla vista dei pensatori e degli artisti dell’ultimo secolo. Alla fine del secolo la realtà ha ripreso a farsi sentire, con la conseguenza che ora si dà meno credito al comico e a ogni teoria per la quale tutto è linguaggio. Forse non sono meno numerosi di prima sia — parlando per metafora — gli uomini

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di fumo, sia — alla lettera — gli uomini molto leggeri: si chiamino così o altrimenti gli esseri virtuali in cui il palazzeschiano uomo di fumo potrebbe riconoscere dei remotissimi discendenti, ancorché venuti male. Il codice di Perelà è un romanzo che fra l’altro invita a ridere di tutti e di tutto. Del re e della regina, del cardinale e del banchiere, dello scienziato e del filosofo, del poeta e del narratore,

del pittore e del fotografo, dello scultore e del critico. Si ride della guerra e dell’amore, della ricchezza e del potere, nonché della morte. I soli esseri veramente vivi sono una guardiana di cimite-

ri, una suora, due prostitute e un pazzo, che, avendo la testa a posto, evita la camicia di forza solo perché non grida più di 88 volte. A suo modo, è vivo anche Perelà, che però è di fumo: non piccolo vantaggio rispetto all’umanità concreta, che si distingue da quella astratta pure perché è molto ciarliera. Tutti, o quasi tutti, gli uomini in carne e ossa infatti, anche se ne sono ignari,

parlano per far ridere. Ma essi non sanno fare altro che parlare. Nessuno scopo pratico si riprometta l’artista: non vada oltre le parole, sua unica ed estrema azione. Sono parole ridicole ma questa è la vita. La si racconti in modo da riderne ed essa sarà viva. La tragedia invece è definitivamente morta. Parola di Dio, protagonista del Cortrodolore. Ovviamente anche un simile Dio può sbagliare. Potrebbe essere sbagliato pure leggere I/ codice di Perelà come un romanzo eminentemente comico. I grandi romanzi frequentano la doppiezza. Nell'Ottocento il doppio è fantastico, nel Novecento è comico. Il romanzo di Palazzeschi, che è scritto quasi a cavallo fra i due secoli, è insieme comico e fantastico, ma chissà cos’al-

tro ancora esso è. Più tardi egli si metterà a scrivere tragedie ma il germe è qui: in questo suo uomo di fumo che non ride e non piange, per evitare ogni ridicolo. La grande letteratura accetta di essere così elastica o ambigua che a distanza di tempo i lettori sono inclini a ridere o a piangere dello stesso testo. Sono stati interpretati come romanzi politici dei libri che non sanno per chi votare. La migliore letteratura o si astiene o vota scheda bianca? I/ Gattopardo fu condannato a morte dalla sinistra e fu tratto in salvo dalla destra. Un doppio equivoco di cui comunque ha goduto Lampedusa ma di cui ancora soffre la critica. Lasciate narrare agli uomini le loro tragedie e constaterete quanto esse siano esilaranti. I drammi d'amore raccontati dalle 95

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nobildonne in molte parole sono farse. E fanno ridere i lamenti dei poeti privi di lettori, nonché le proteste dei critici che aspirano a superare i creatori d’arte. L’arte non è più una cosa seria ma è bene che sia così. Il bello dell’arte moderna è proprio questo, a sentire José Ortega y Gasset: essa fa arte mettendo alla berlina se stessa. Solo se susciterà risate, sarà degna del Dio che si sbellica dalle risate all’inizio del Cortrodolore. Nel Codice di Perelà Dio è invece solo nominato: con voce alta ma da un pappagallo. Nemmeno Dio dunque può evitare il ridicolo in un mondo siffatto. Qualcuno perciò ha riso di lui, della sua creazione e della sua onnipotenza. Il comico è un onnipotente fattore di miscredenza. Finché esiste tuttavia, si dia al Dio che ha ogni colpa e ogni virtù anche il merito di avere inventato e nutrito per sempre il comico e la tragedia: con manifesta preferenza ora per l’uno, ora per l’altra. Nel primo Novecento si è certi: Dio ci impone di ridere. Questa è ora la via che — secondo il cattolico Jacob — conduce al Signore. Detto con linguaggio più umile, il riso guida alla Verità, che, quant'è vero Iddio, esiste da qualche parte. Conduce in fondo a Dio anche Satana, cui Baudelaire attribui-

sce la creazione del riso. Il Dio di Palazzeschi ci ha voluto provare e ha vinto usando l’arma del nemico. Si è riso in modo satanico, ma lo si può fare anche in modo angelico. Zavattini è il creatore di Totò il Buono, il personaggio che alla fine dell’omonimo romanzo, cavalcando un manico di scopa, vola in cielo verso il paese dove buongiorno significa solo buongiorno. Naturalmente è solo una favola, più precisamente la favola del realismo che cerca lo smarrito accordo tra parola e cosa. Il loro divorzio ha dato origine a tanti equivoci di cui ancora ridiamo. Sui lapsus dello sveviano Zeno, che era uomo satanico in sembianze d’angelo, esplodono le scoppiettanti risate di lettori attratti dalla feroce ambiguità del personaggio. Nel Novecento gode di maggiore credito la «letteratura del Male». D'altronde il Bene non fa ridere; semmai sorridere. Palazzeschi, quand’era vecchio quasi quanto il suo Dio,

scrisse un romanzo, I/ Doge, dove non si fa altro che parlare, così, a vanvera, dicendo tutto quello che passa per la testa: avanguardia di quello Stefanino che aveva la testa dove gli altri hanno il sesso e viceversa. Tra comicità, in cui si scatena verso 96

l’alto l'erotismo, e sesso, verso il quale si abbassa ogni attività mentale, c'è un fitto e oscuro scambio. Ci trafficano in modo

palese o latente tutti gli umoristi, in un loro special modo degradato i comici della televisione. Palazzeschi invece non fa differenza fra i gradi del comico e si diverte anche coi doppi sensi. Se non diverte, non c’è speranza per l’arte (specialmente ora che la si fa e la si consuma quasi solo per piacere). Non è serio? E voi fate arte «non seria». Parola di José Ortega y Gasset in Disumanizzazione dell’arte, la Bibbia dell’arte moderna.

Negli stessi anni Massimo Bontempelli racconta le avventure davvero poco edificanti dei Sette savi. Anzi è addirittura un’opera distruttiva quella che l’autore conduce contro ogni modo d’essere saggi in quell’inizio di secolo. Fanno ridere tutti questi suoi personaggi che vanno mettendo a dura prova i valori fondanti della società ottocentesca: l’eroismo, la nazione,

la guerra patriottica, il colpo di fulmine, il popolo, l’uguaglianza, la libertà, il progresso, la giustizia, l’amore per la vita e per il sapere. Prendete per esempio lo studioso che in un racconto del volume dedica la propria esistenza alla felicità del prossimo suo: 0 più precisamente di coloro i quali desiderano visitare la Città Eterna nel mese di agosto ma ne sono scoraggiati dal solleone che liquefa i cervelli. Con la dedizione alla causa dell'umanità che caratterizza i progressisti dell’Ottocento, il ricercatore romano sperimenta e descrive una dettagliatissima mappa dei percorsi che in una determinata ora risultano all'ombra dei palazzi e dei cornicioni. Al momento però di mettere la parola finale al testo che contiene una scoperta di così svettante valore scientifico, l’infaticabile studioso muore,

ovviamente di insolazione. Si ride forse perché Bontempelli si sente superiore al suo personaggio, a un così augusto rappresentante della scienza positivista? Ebbene, no. Bontempelli si sente solo superiore a se stesso, al se stesso di prima, al carducciano che dedicava anni a

inutili ricerche erudite su fenomeni insignificanti. Rispetto a Papini, che in un racconto del 1906 affoga in una vasca il suo doppio (un lagnoso chiacchierone che lo tormenta con romantiche nostalgie ottocentesche e con anacronistici sogni che ormai sarebbe una disgrazia realizzare), Bontempelli annega il se stesso di prima nella risata più irriverente. Il narratore ride perché si è liberato di tutti i residui già bellici della cultura roman97

tica e verista, compresi il Risorgimento, il socialismo e la letteratura impegnata a rendere l’uomo migliore: mito illuminista, romantico, positivista, socialista e infine futurista. Con Bontempelli non si ride per approdare a quell’umorismo di Pirandello per il cui «sentimento del contrario» uno ha compassione di un altro del quale ha riso. Bontempelli ride per allontanare da sé colui che sinora era stato. Bisogna annegare nel ridicolo tutto ciò che siamo stati precedentemente, cioè nell’Ottocento, stupido secolo. Pirandello perdona i suoi personaggi, ne ha compassione e ne diventa complice, Bontempelli no. Lui non vuole avere più nulla in comune con uomini che gli ricordano quello che fu. Ora è diventato savio e ride. E tuttavia non trema, come constata per intimidire una anonima ci-

tazione («Il Saggio ride tremando») cara a Baudelaire. Bontempelli era un intrepido, e fu anche un fascista. Cercava l’ordine nuovo l’accusatore di se stesso. E da se stesso più tardi capì d’aver fatto una stupidaggine come nemmeno nell’Ottocento si facevano. Nemmeno per scherzo si deve tornare al passato. Tocca andare sempre avanti, dove l’uomo sempre farà cose di cui si riderà (la comicità) e si avrà compassione (l'umorismo). Più in là c'è la tragedia, che sempre ritorna ma non è come nel passato. Il lager ce l’ha solo il Novecento, secolo delle grandi invenzioni non solo comiche ma anche tragiche. Circa dieci anni dopo Sette savi, Bontempelli racconta come, per diventare futurista, il carducciano che egli era stato dovette far fuori (o meglio, accantonare, non si sa mai) il neoclassicismo, il naturalismo e il simbolismo, dei cui capolavori è piena

la biblioteca dello zio cui si intitola il romanzo mensile (Mio zi0 non era futurista) raccolto nella Vita intensa, dove l’autore si di-

verte a raccontare come, irridendolo, si è liberato del futurismo. Suo zio era lui stesso; e se voleva scrivere grande letteratura, era necessario uccidere in se stesso, spietatamente, il futurista. Come? Col riso, suprema igiene del mondo.

Nel dopoguerra, quando scrive La vita intensa e La vita operosa, il narratore è dunque così superiore al se stesso di prima da ridere fragorosamente pure della propria sterile gioventù devota alla prima avanguardia nazionale ed europea. Al momento in cui lo zio futurista che era stato Bontempelli sta pet scrivere le prime parole «nuove», si accorge che sono «impossibili»: fuori da quella stanza scoppia infatti la prima guerra 98

mondiale. L’azione finale è incongrua con il racconto — come un freudiano «dislocamento psichico», uno spiazzamento rivelatore — ma è coerente col futurismo, che letteratura vera è in-

capace di esserlo (questa l’idea subdola del pentito): il futurismo resterebbe sempre fermo al prima della scrittura, al progetto, al manifesto. Bontempelli, che può rimettersi a scrivere, allora cosa fa? Ecco: il narratore già futurista comincia col prendere in giro il futurismo e Marinetti, insieme a se stesso: peraltro senza la pietà accordata dall’umorismo. Grazie alla comicità si può essere spietati verso se stessi. Come capiranno le

neoavanguardie quando, concluso il massacro comico con cui hanno condannato a morte tutto un sistema culturale, accor-

gendosi di farne parte, saranno obbligate ad autoeliminarsi. Non si è stati spietati quanto avrebbero meritato con quelli che parlavano di morte dell’arte. Poi, come capita non solo alle avanguardie, Bontempelli mise metaforicamente la testa a partito. Letteralmente si iscrisse al PNF, come i futuristi russi si iscrissero al PCUS. Fine delle avan-

guardie. Si abbia più rispetto delle masse, potrebbero essere un esercito di nuovi lettori. Sarà il contrario di quanto prevede l'avanguardia, ma Bontempelli ora desidera scrivere tanti bei romanzi in cui l'immaginazione non sia futuristicamente senza fili. E che si consumino. C'è il lieto fine: fuori, cioè nelle librerie, questi libri si vendono. Almeno si vendevano allora, perché ora quasi nessuno legge Bontempelli, avanguardia, post-avanguardia o realismo magico che sia. Eppure fu anche in questo caso il primo a capirlo: l’intreccio, la trama, l’avventura, la prosa accessibile, la sospensio-

ne dell’incredulità possono essere utili alla narrativa che, come ogni attività culturale, tenda all’innovazione. Mettete lo stetoscopio sul cuore della sartina, consigliò Debenedetti, e ausculterete i battiti del nostro tempo meglio che sul cervello di un intellettuale affetto da manierismo. Nemmeno a Gadda dispiaceva essere uno «scrittore venduto». Non è duratura la bramosia d’essere fischiati. La postavanguardia ama gli applausi del popolo. Che, passata la paura della guerra, va matto per i libri comici; non sempre altrettanto

per quelli umoristici, troppo amari per palati infantili. Nel secondo dopoguerra infatti neppure l’eccelso umorismo della Coscienza di Zeno vende le mille copie della tiratura. Forse i let99

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tori hanno avvertito che sotto il riso c'è la tragedia di Alfonso Nitti e di Emilio Brentani. C'è il consumismo di coloro che abbandonano il futurismo (Marinetti, Corra e altri: romanzi di eros o avventura) per scrivere la narrativa comica più spregiudicata e superficiale, di cui si fa sempre un gran consumo nelle fasi di bonaccia o deriva culturale (per intenderci, la navigazione attuale). La neoavanguardia scriverà invece romanzi che vanno forte al mercato rinunciando alla comicità (Arbasino, Malerba, Celati e altri: ro-

manzi politici, il «nuovo realismo» degli anni Settanta che è figlio della contestazione studentesca, il contenutismo di quelli che erano stati formalisti e degli sperimentalisti). Dalla comicità si esce o vi si entra per motivi opposti. Quasi sempre si ap-

proda alla tragedia o all’elegia. La poesia esce dalla narrativa? Lo pensava Montale, che credeva a una feconda alternanza di prosa. Calvino nelle sue ultime opere prese tanto le distanze dai conflitti terreni che da Palomar nemmeno col telescopio distingueva più il comico dal tragico. C'è il riso che porta al Nulla, e c’è il riso che conduce a una nuova realtà. C'è il comico che crea e avvia una fase e c’è quello che la conclude. Il secondo è costruttivo e conservatore, il primo è distruttivo e innovativo? Riderà bene chi riderà per ultimo? Da ultimo si ride di tutto e di tutti, di chi edifica e di chi distrugge. Anche perché nulla di reale si crea e nulla si distrugge nell’epoca in cui il linguaggio è tutto. La comicità è diventata sempre più autoreferenziale, come può esserlo in Manganelli, scrittore che non si sa dove porta ma con cui volentieri ci si ferma a meditare. Sia il comico che il tragico sono forme del Nulla. Non bisogna prendersela col diavolo, se piace tanto ridere. Vuol solo dire che si è felici e che il mondo piace com'è, cioè tutto da ridere. Chi lo dice più esplicitamente è un argentino, amico e maestro di Borges, Macedonio Fernandez. Per il quale «la comicità è 1) emozionante, 2) piacevole, 3) inaspettata, 4)

nata dalla percezione immediata di un qualsiasi atto di indole edonistica che, sebbene interamente egoistico, non è dannoso,

e si basa su uno sbaglio scaturito da un’eccessiva prudenza o da un'illusione impossibile; oppure nasce dal credere momentaneamente all’assurdo». Ora, non sappiamo per quanto, crediamo all’assurdo, e crediamo pure che esso sia la forma in cui si manifesta la comicità più nuova del Novecento, da Palazzeschi 100

a Campanile, da Manganelli a Malerba, da Celati a Cavazzoni. Questi narratori si vergognerebbero non tanto di essere giudicati edonisti ed egoisti (ora in verità lo siamo tutti o quasi, senza alcuna vergogna) quanto piuttosto di vedersi attribuita eccessiva prudenza. Semmai abuseranno in imprudenze pur di essere emozionanti e piacevoli, ancorché dannosi a quelli che ingrassano in finte tragedie. La tragedia bisogna sapersela meritare. La tragedia la si sconta ridendo per assurdo, riso tragico. Bontempelli non aveva finito di edificare che già bisognava radere al suolo. Non si sarebbe risentito però, se gli avessero detto che i suoi erano edifici di carta. Crollano così le più salde culture che si avvicendano per l'egemonia. Basta una bella risata quando e come si deve. Il come e il quando: ecco la coppia feconda di chi vuole cambiare forma e sostanza di un’epoca. Bontempelli pensa sempre al futuro, quello che è già cominciato e che inventerà nuovi miti: con la comicità o col tragico, poco conta, vinca il migliore. Era stato comico, sarà tragico, se

serve. La cultura nel Novecento fa così. Cambia spesso le carte in tavola; meno bene le riesce di fare mutamenti con gli edifici economici e sociali, per i quali non basta una risata a buttarli giù come meriterebbero. Purtroppo continua ad esistere la realtà che nel Novecento credevamo di poter annullare col gioco, col fantastico, col comico, col linguaggio e con tutto ciò che abbiamo creato per surrogare l’assenza della verità. Col comico non si torna indietro, ma si avanza, sia pure nel deserto che ansiosamente cerca. Invece l’umorismo pirandelliano ci ripensa e abbraccia il risibile come un fratello, anzi come un altro se stesso. Fa l’umorista Gadda con la madre e lo fa col Carlo dell’Adalgisa: che forse sono entrambi lo stesso Gadda. Lo fa il brancatiano Paolo il Caldo che, guardando la squillo dallo spioncino, ci scorge come in uno specchio la propria inconscia voglia di morire. Campanile si commuove per il destino della povera seppia che, dovendo essere la prova tangibile della freschezza del pesce, dieci volte al giorno viene tramortita ma non condotta a morte. L’umorismo è transitivo, si è detto; intransitivo è il comico, anche se corre verso l’Altro. È solo giovanile la comicità; arride ai vecchi l'umorismo? Forse sì, risponde Palazzeschi. Che però nella vecchiaia torna giovane, cioè al comico che tanto lo divertiva non solo nei primissimi versi ma anche nelle prose d’esordio narrativo. 101

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Con l’umorismo si conquista e ci si ingrassa. Col comico si resta sempre leggeri: il riso non consente accumulo. Il riso è smemorato, senza storia, né spessore. Col riso si procede velo-

cemente in mezzo alle distruzioni, calpestando i detriti degli edifici culturali, morali, religiosi e artistici. Se poi Bontempelli scriverà le favole metafisiche Eva ultima e La scacchiera davanti allo specchio, è perché chi fa il deserto, ci finisce dentro come eremita. Questa non è un’idea di Bontempelli, che pure ha pensato molte fra le più originali idee del secolo, bensì di Bachtin. Il quale in Dostoevskij riscontrò conversione religiosa nei miscredenti che risero di tutto prima dell’avvento di Cristo e prima della restaurazione cattolica successiva alla Riforma luterana. Bontempelli aveva fede solo nella letteratura, che lo ricambiò di un amore non sterile. Il riso tiene più della parola che della cosa. Il riso, che pur è tanto spontaneo, è barocco? Certamente ha le sue «acutezze»: pungenti in superficie e penetranti in profondo. È molto fisico, ma ancor più è metafisico. Chi lo dice? Potrebbero averlo detto o pensato i lettori di Beckett e di Ionesco. Parole umili e comiche che portano su messaggi terrificanti. Come prima o poi fanno Frassineti, Malerba, Celati, Cavazzoni e altri «matti pa-

dani». Coi giochi di parole scoprono idee durature Savinio, Gadda, D'Arrigo, Massimo Ferretti, Eco e altri scrittori accu-

sati di manierismo. Con la retorica Manganelli ha costruito un mondo verbale che sembra un incubo ma che ora pare il più vicino alla verità: magari quella funerea della letteratura barocca. Per l’antistoricismo del Novecento cinque secoli sono comunque il presente. Nelle Cosrzicorziche Calvino intreccia dialoghi fra i millenni. Dopo, Bontempelli scrisse molte opere ma nessuna di esse si addentra nel comico se non con l’ironia, che in quanto comicità fa sorridere. Quanto mutato il realista magico rispetto alla giovinezza futurista e post-futurista! O ha solo cambiato pelo, mentre il vizio resta quello di creare fantasie che non stanno in cielo né in terra? Il comico in Svevo e in Landolfi fa persino piangere. Nell’uno e nell’altro narratore, il fantastico va d’accordo con la comicità. Anche nel Calvino di Cosmicoriche. Con le quali però non si ride molto, perché la mente del narratore è altrove. Anche col comico si va da un’altra parte. Il Novecento usa ogni mezzo, pur di allontanarsi dal già visto, dal ri102

saputo e dallo scontato. Comico, fantastico, sperimentalismo, gioco, sogno, avanguardia, dialetti e linguaggi bassi scappano dal centro. Debenedetti inventò per Palazzeschi una formula critica che si adatta a tutta un’epoca: «far centro fuori del centro». Sono fuori centro, e persino decentrati, anche i grandi narratori tragici: da Tozzi a D’Arzo, da Fenoglio a Testori, da Volponi a D'Arrigo. Oltre a Palazzeschi, anche Svevo, Pirandello, Bontempelli, Savinio, Gadda, Zavattini, Landolfi e altri narratori, umoristi o no, vanno in periferia per avere una prospettiva diversa sul mondo e sulla vita. Il comico è una periferia mentale da cui si osserva uno spettacolo che si spera gradevole, magari perché dice di un altro cose spiacevoli. Può essere cattivo Totò i/ Buono, dove la corsa degli amici per abbracciarsi si trasforma in un attimo in inseguimento per strozzarti. Un gesto semplice fa spesso il doppio gioco nella narrativa — e nell’arte astratta o informale — del Novecento. L’autore della Vita intensa ride invece con la sfrontata, spavalda e beffarda comicità di cui potrebbe compiacersi il Marinetti di 8 arzzzze in una bomba, quello che racconta l'episodio di guerra durante il quale i soldati italiani possono fare oltraggiosamente la pipì sul pianoforte tedesco che ha sino allora suonato musica tedesca. È irridente anche il Bontempelli della Vita intensa, opera sorniona e ammiccante, gratuità che ha un alto valore intellettuale, feroce smascheramento dei luoghi comuni del dopoguerra. La comicità come spedizione punitiva? Bontem-

pelli non intende punire nessuno ma farebbe un massacro di tutto quello che pensano e dicono i piccolo-borghesi (sono dentro di noi, vanno espulsi attraverso il pensiero critico, direbbe Benjamin). Non è vita la loro, non è vita quella che fanno fare ai loro figli. Anche Savinio dalla tradotta militare si diverte e si accanisce a schernire gli stolidi borghesi che si rinchiudono in casa. La Vita arride a chi coltiva il riso? Nel riso Bergson invece ha sentito profumo di morte. Se ora non lo si sente, è perché siamo già defunti, direbbe invece Manganelli, che è l’autore di un immortale Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti. Savinio, che ha quale mito supremo la morte (con accanto suo fratello, il sogno rigeneratore), faceva il funerale ogni giorno alla famiglia, al padre, alla borghesia e ai miti greci. Un estremista alzava uno sguardo di sfida verso il cielo, sogghi103

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gnando e facendosene beffe, nella speranza che gli dei della sua terra se ne avessero a male e facessero sentire se c'erano. Cosa di cui dubitava, questo miscredente che a lungo non ebbe fede nemmeno nell’arte (nell’altrui, perché nella propria ha sempre creduto). Con le sue funamboliche ed estremistiche idee l’ateniese fratello di Giorgio De Chirico arrivò alla sapienza di Nuova Enciclopedia. Questo «ipocrita» (cioè «chi esamina le cose da sotto») nell'opera postuma ha concentrato ogni verità acquisita a partire da una giovinezza irridente e giocosa. La sua saggezza alternativa ha molti debiti con la comicità «infantile»

di Tragedia dell'infanzia e Angelica o la notte di maggio. Dove torna sbertucciato il mito di Amore e Psiche. La smitizzazione attraverso il comico è una specie di malattia esantematica da cui tocca passare per crescere. Siamo tornati anche al Carnevale, che va e viene ogni anno da secoli. Secondo Bachtin, il riso carnevalesco è «diretto verso

l’alto, all’avvicendamento dei poteri e della verità, all’avvicendamento degli ordinamenti del mondo» e già Locke vede peculiari del riso anzitutto «la sconvenienza, l’estraneità e la subitaneità». Ebbene, folgorante è il comico del giovane Bontempelli, teso a tenersi estraneo a ciò che gli è ormai irrimediabilmente sconveniente. Sconveniente è per lui tutta la cultura di cui egli si è nutrito fino al futurismo. Il riso — non la continuità dell'umorismo, ma piuttosto la frattura improvvisa provocata dal comico — aiuti a farla finita con un passato col quale non è più possibile il dialogo. Non la continuità dell’umorismo, ma piuttosto la frattura improvvisa provocata dal comico. Un’immane risata annegherà la cultura che fa la seria per meglio difendere gli interessi sublimati dal linguaggio dei classici. Palazzeschi s'è fatto di fumo per non toccare D'Annunzio. Tocca essere estranei, isolati sul versante opposto, e di là guardarsi l’allegro spettacolo. L’estraneità è il mito di ogni contestazione nel Novecento, compresa quella del ’68, il Carnevale più lungo della seconda metà del secolo. C'è un «pescecane» — cioè un industriale arricchitosi nel dopoguerra — che nella Vita operosa viene a lungo scambiato dal protagonista per l’intellettuale, mentre lo scrittore famoso che aveva pontificato nella conversazione alla fine risulta essere solo un cretino. Anche Bontempelli fa la guerra marinettiana all’Intelligenza, se questa si è ridotta a dire banalità d’alta scuo104

la e nobili sciocchezze. Trafficando quotidianamente con la realtà materiale dei soldi e facendosi venire le idee per procurarsele nel mondo nuovo che è il primo dopoguerra, l’industriale moderno arriva più tempestivamente degli epigoni ottocenteschi alla cultura che spiega l'epoca storica e la sua arte. Di fronte alle teorie e ai discorsi di chi si attarda a conservare un grande passato ridotto a sterile ideologia, meglio la reazione istintiva e franca, parodistica e farsesca di chi si sente tanto superiore da sganasciarsi dalle risate. Ciò è superficiale ma è anche radicale. Il superficiale radicalismo di Bontempelli è quello stesso che nei divertentissimi corsivi di premessa ai «romanzi mensili» della Vita intensa irride le teorie del romanzo in cui restano impantanati i narratori nostalgici del realismo ottocentesco. Si è scritta molta buona narrativa con la riflessione sul romanzo. Come aveva detto Ortega y Gasset, raccontando perché l’arte non è più una cosa seria, ne nascerà un bel racconto, serio in

quanto bello e bello in quanto comico. Questa è la paradossale positività del negativo più estremista, della quale si avranno conferme specialmente con gli autori della controcultura. La riflessione teorica più avanzata diventa arte nuova. Il metaromanzo è romanzo di se stesso ma anche è il romanzo che prende in giro se stesso. È questa una delle vie del romanzo moderno. Palazzeschi, Savinio e Bontempelli l'hanno imboccata fra i primi e sono arrivati così a risultati che molti collocano al più alto livello della narrativa italiana del Novecento. I/ codice di Perelà, Hermaphrodito, La vita intensa sono un’alba che ci dà ancora una gran luce. Per cambiare profondamente il linguaggio, cominciate dalla lingua, ordina Pirandello dal suo manifesto per il futuro, dall’Urzorismo. Non si può scrivere come D'Annunzio, è dannoso andare verso i linguaggi alti: per prendere le distanze dal centro, è necessario il percorso inverso. Pirandello, cercando

umorismo e umoristi, trova in basso la struttura linguistica vincente della letteratura del primo Novecento. Contro D’Annunzio che è sempre attirato da ciò che brilla, egli sceglie una miscela di oro e terra (per comodità si ricorda un passo logorato dall’uso: «L'oro, in natura, non si trova frammisto alla terra?

Ebbene, gli scrittori ordinariamente buttano via la terra e presentano l’oro in zecchini nuovi, ben colato, ben pesato, e con la 105

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loro marca e il loro stemma bene impressi»). Setacciate la terra, cioè la vita e il parlato d’ogni giorno, e troverete l’oro cui è stato attaccato l’odore della terra e che D'Annunzio invece si procura già infiocchettato dal gioielliere. Urge ridicolizzare il poeta e narratore abruzzese, se si vuole attingere a quello che sta sotto la patina brillante della prosa dannunziana. Con la sua proverbiale cautela persino Panzini fa umorismo con un linguaggio da conversazione incompatibile con la declamazione del Vate. Costui risultava insopportabile anche per Gadda, che pure insieme a D'Annunzio aveva urlato nelle piazze: «Abbasso Giolitti!» e che dopo urlerà l’«Abbasso D'Annunzio!» con la prosa parossistica e persino scurrile, sismografo di un inconscio che si esprime con male parole. Il Novecento ha dunque scelto Pirandello. Gozzano miscela prezioso e colloquiale; Savinio vuole l’urto di registri linguistici; per Gadda il plurilinguismo è salute morale e artistica. Lo «scrittore di cose» sa di essere anche «scrittore di parole». Alla commedia, alla tragedia, all’arte si arriva con ogni lingua, ma la narrativa del Novecento preferisce spesso i linguaggi bassi, dove le parole non sono meno tangibili delle cose. Sono un ottimo concime naturale non solo per la comicità ma anche per la tragedia: sia il monolinguismo di Tozzi, Alvaro, Bilenchi e Moravia, sia il mistilinguismo di Fenoglio, D'Arrigo e Testori. Se non bastano i dialetti, si trovino le parole che servono in altra terra: lo spagnolo di Gadda, l’inglese di Fenoglio, Bianciardi e Pagliarani, il tedesco o il latino di Sanguineti, ogni lingua straniera con cui si allea lo sperimentalismo degli anni Sessanta per trovare nuove cose da cercare negli incroci linguistici. «Anche il linguaggio è storia», dice Gadda. All’inizio del secolo alla lingua conviene mescolarsi con i dialetti, latori di comicità o di grottesco, e per questo cari alla storia del primo Novecento. Nel secondo Novecento la mescolanza di lingua e dialetto serve di più a raccontare tragedie: Fenoglio, D'Arrigo, Pasolini, Testori, oltre a Gadda, che traffica coi due versanti fino a stare

in bilico sul crinale. Le parole dialettali aiutano a irridere le falsità di una lingua che si ubriaca di suoni insensati e dissennati. Solo nel dialetto ci può essere poesia satirica, comica, umoristi-

ca? La grande poesia è quasi sempre tragica? Rispondono di no (oltre ovviamente a Porta e a Belli) Palazzeschi, Folgore e altri futuristi, nonché i neodadaisti della neoavanguardia, che di106

sprezza i dialetti. Ma si ride bene con Pascarella e Zavattini. E vanno forte i dialetti anche a teatro. Vedi, o meglio senti, Eduardo. Il teatro napoletano frequenta la comicità assoluta che Baudelaire prende a modello di riso metafisico. Non c'è solo l’arte popolare, ma questa è un esempio fecondo per chi nel Novecento vuol fare un’arte «elementare». Breve è il riso ma non finisce mai l’interpretazione. Esilarante e devastante quella con cui in Eros e Priapo Gadda interpreta i comportamenti delle masse femminili sotto il Duce. Gadda non ne ha pietà, lui sa bene quando si deve essere umoristi e quando non si può usare la comicità più elementare, anzi volgare. Per sterminare il nemico, quelle donne, quelle fasciste, serve la co-

micità più efferata. Sono le madri ridicole della massima tragedia nazionale. C'è da sempre una comicità realistica legata all’attualità, storia rovente. E c’è la comicità antirealistica e astratta nel Novecento. La quale è come il romanzo d’avanguardia, comico o tragico che sia: leggera purché profonda, superficiale purché radicale, e breve purché essenziale. Sono così Savinio (in Hermaphrodito), Bontempelli (nella Vita intensa e nella Vita operosa), Zavattini (in Parliamo tanto di me), Manganelli (in Centuria), Celati (in Corziche), Cavazzoni (in Vite brevi di idioti). È

brevissimo il Palazzeschi di Lazzi, frizzi, schizzi, girigogoli e ghiribizzi, ma non è un’opera profonda. Calvino è diventato più magro, dopo Le città invisibili. Nel tassello di legno, diceva, c'è virtualmente un albero. La narrativa dell’umorismo ci gira intorno. L’umorismo è più realista del comico. L’assurdo non vuole spiegazioni. Le interpretazioni lo ammazzano. Campa di poco ma così è eterno. La comicità realistica invece campa poco: quanto i suoi bersagli storici, cioè datati. Futuristi e dadaisti puntarono anzitutto sul riso e sui suoi effetti più velocemente distruttivi (ovviamente c’è anche il tragico futurista, che è l’altra faccia di una comicità consapevole di andare a morte precoce). Toccava essere feroci o crudeli come Baudelaire aveva visto fare a scrittori inglesi e tedeschi. All’inizio si è tutti «francesi», scrittori che satireggiano voltairianamente: comicità che prelude persino a una rivoluzione. Palazzeschi avrebbe riso come gli veniva naturale, cioè da italiano. E da italiano amava ridere anche Baudelaire, che agli italiani attribuisce il riso «innocente», astratto e privo di scopo morale: 107

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non diverso dunque da quello metafisico dei tedeschi. Cosa fa Hoffmann infatti nel racconto che Baudelaire assegna al comico assoluto? Si ispira alla commedia dell’arte: comicità gestuale e corporale che si limita a mettere in moto una macchina nata per far ridere. Anche Palazzeschi ma specialmente Campanile ridono per ridere: come un altro farebbe l’arte per l’arte. Le loro parole sono incinte ma non figliano mai. Le cose ci sono ma non serve vederle o toccarle. Brilla nell'arte dell’ambiguità il palazzeschiano uomo di fumo, di cui nessun lettore ha ancora afferrato il senso concreto. Anche nella comicità è meglio non sapere di cosa precisamente, storicamente, si ride. Co-

me delle parole di Max Jacob, anche di quelle di Palazzeschi si può dire che «hanno la leggerezza degli angeli e il peso della posta in gioco». Il Novecento ha scommesso sulla «leggerezza profonda». Giocandosi tutto ha vinto anche il primo Zavattini, spettatore incantato del «Cabaret 17», l’autore di Parliamo tanto di me, comicità che non ce l’ha con nessuno. Campanile se la prende con gli imbecilli, ma non li eliminerebbe: senza di loro la vita sarebbe invivibile. Da Pirandello e da Palazzeschi partono le due linee direttrici della comicità italiana nel Novecento. Su una strada dunque l'umorismo, sull’altra il comico. O meglio all’inizio la strada è una sola: c'è per entrambi il riso, ma, mentre nell’umorismo esso ripiega verso il soggetto (secondo Dossi, «in un libro d’umorismo il protagonista è sempre l’autore»), nel comico si ferma all’«avvertimento del contrario»: che, a sentire Pirandello, è

un'esplosione incontenibile e spietata che fa saltare in aria l’oggetto osservato. Ciò potrebbe piacere a Marinetti e ad altri futuristi (tra cui il Corra di Sar Dunn è morto, nonché al surrealista Savinio di Angelica o la notte di maggio) e alla controcultura degli anni Sessanta (Malerba, Manganelli, Balestrini, Eco, Giuliani, Massimo Ferretti, Arbasino, Spinella, nonché ai successori, Celati, Vassalli, fino a Busi e a Cavazzoni): la dissacrazione

del riso come premessa del mondo futuro. Pirandello non coltiva sogni di palingenesi sociale. E nemmeno Campanile o Palazzeschi, ai quali pare già troppo nascere una volta sola. Campanile, per consolarsi, è felice d’essere lasciato a divertirsi con i giochi di fantasia e di parole che si procura da sé. Per lui il mondo va anche bene così ora che sta così male: è pur sempre una fonte perenne di risate. Il che è sempre meglio che piangere. 108

Campanile avrebbe detto che non si vive poi tanto male in questo manicomio che è la vita degli uomini. Intanto lui si industria per renderlo anche più divertente ed euforico di quello palazzeschiano, dove peraltro i matti si dissetano con lo champagne. Nel Novecento è alla tragedia, genere letterario nobile, che tocca trovarsi lo spazio vitale. Lo fa indossando la maschera co-

mica sotto quella tragica, come succede nel grottesco, compagno di strada dell’umorismo. Un arrovellato grottesco è quello del Padrone e del Cremzatorio di Vienna di Parise, narratore che

non andava oltre il ghigno. Era uno che non si divertiva per niente, ma, secondo Max Jacob, i grandi comici non fanno mai

sentire una squillante risata. Rideva Flaiano? Semmai dà amarezza da mezzo secolo a chi lo legge Un marziano a Roma, mito comico più vero di quello conservatore per cui Lampedusa è diventato proverbiale. Oggi è inutile pure il miracolo, un uomo nuovo invano scende dal più alto dei cieli, e lascia indifferenti come evento cui ci si abitua presto la rivoluzione: a Roma, caput mundi, dopo un po’ non ci accorgiamo nemmeno dei più glamorosi scandali. Il Cupolone lo ripete da secoli con la sua forma circolare, che è simbolo di contemplazione conservatrice. Se il mondo è inscritto in un cerchio, sono solo ridicoli, o almeno

grotteschi, coloro che lottano per cambiarlo radicalmente. Campanile, che è un comico, direbbe che è un girotondo, balletto in-

fantile con cui è impensabile rompere un cerchio perpetuo. A furia di pensarci sopra, il Novecento è andato progressivamente diventando sempre meno euforico. L’aveva previsto Bergson: l’eccesso di riflessione conduce a farsi una pessima opinione (il cosiddetto pessimismo) della vita. Come sono tristi infatti Malerba, Arbasino, Celati e Cavazzoni nelle loro ultime

opere. I primi tre ne fanno addirittura una tragedia. Il quarto continua a ridere, in sempre più piccola compagnia. Una novità: alcune narratrici hanno già cominciato a ridere dell’uomo. Non sarà per questo una tragedia. Basta non pensarci e saremo presto tutti allegri, uomini e donne. Tuttavia i critici non hanno dubbi: dal punto di vista dell’arte letteraria ha vinto l'umorismo di Pirandello, ultima trincea

del comico dinanzi al ritorno trionfale del tragico. Alla grandezza si arriva meglio dalla parte dell’umorismo, linguaggio che fa due parti in commedia. Lo fanno pensare anche quei grandi tragici (Fenoglio, D'Arrigo, Lampedusa), che non han109

no disertato l’umorismo. Quando il comico è sconfitto, si lascia

dietro un esercito di umoristi. Saranno risparmiati dai narratori tragici, che pur non vorrebbero fare prigionieri (Croce invece stermina ogni artista, comico o umorista che sia, con l’accusa di

contraddizione in termini). Sopravvive sempre l’umorismo ebraico: gli ebrei riescono a ridere anche quando hanno spavento. Zeno lo fa magnificamente con i suoi lapsus, lampi autolesionisti di un bugiardo. La comicità e l'umorismo ovviamente possono essere contemporanei o fanno staffetta fra di loro: come d’altronde fanno già da secoli con la tragedia. Provano a far ridere negli stessi anni Marinetti e Panzini; il primo con la comicità, il secondo con l’umorismo. Il quale, per il fatto che è al confine con l'ironia (in cui è maestro Pizzuto) e coi gradi più alti del comico, dista poco dalla tragedia. Ci sono narratori che attraversano tutti i gradi della comicità e dell'umorismo, per approdare infine alla tragedia. Succede a Svevo (che in verità fa il percorso inverso, come Moravia d’altronde: più che Racconti romani, Io e lui), a Pirandello, a Palazzeschi, a Bontempelli, a Savinio, a Zavattini, a Landolfi, a Flaiano, a Calvino, a Malerba, a Pizzuto, a Manganelli, ad Arba-

sino e a Celati, cioè ai narratori che sono stati più a lungo attivi sul versante della comicità. La tragedia è il suo sbocco naturale? Il comico è una via obbligata per arrivare al tragico che caratterizza il Novecento? Non tutti ci hanno guadagnato a tradire il comico con la tragedia. Ci perdono Zavattini, Malerba e Arbasino. Celati tragico funziona perché il mondo reale delle ultime opere è un ribaltamento «fedele» di quello creato dalla mente stralunata dei suoi primi personaggi. Vengono da Corziche, dalle Avventure di Guizzardi, dalla Banda dei sospiri e da Lunario del paradiso i «narratori della palude». Sulla foce del Po è stata avvistata la fine di un’esperienza che aveva necessità di partire dal comico per capire che tipo di tragedia è la vita contemporanea. Dopo, Celati, uno dei massimi talenti comici del Novecento, approda al grottesco di Quattro novelle sulle apparenze, e di lì alla tragedia o altra scrittura disperata, come Malerba. La tragedia regna in arte assai più a lungo del comico, conflagrazione di breve e intenso periodo. Tuttavia il Novecento consuma molto rapidamente anche le tragedie. Diventano presto ridicole, con la velocità dei fenomeni culturali che, come gli 110

amori infantili di Savinio, sono assoluti e insieme passeggeri, ancorché intensi. Il destino del Novecento è segnato dal Dio ridens di Palazzeschi? Anche il comico non dura a lungo come verità assoluta, ma cerca alleati per non farsi liquidare rapidamente. Cosa fa lo sperimentalismo che cancella le vecchie forme per sostituirle, se non lo stesso lavoro di critica, dissacrazione e azzeramento che compie la comicità? Il riso e lo sperimentalismo, funambolici compagni di strada, sono produttori di morte, ancorché allegri? Ridono perché sanno che dopo questa c'è un’altra vita, cioè un’altra cultura? È colpa della comicità che ha trionfato all’inizio del secolo, se non si riesce a

prendere sul serio nulla. Il padre di Zeno voleva spiegare al figlio cos'è la vita, ma il sorriso sardonico di Zeno lo scoraggia, lo riduce al silenzio, lo uccide. Sarà punito dal padre, che morente gli dà un indimenticabi-

le schiaffo, e dal figlio, che prenderà maledettamente sul serio la vita. Ecco: nel Novecento può anche capitare che siano paradossalmente dalla parte del comico i padri, ma in questo caso sono i figli a farsi carico della tragedia. Può essere consolante per i suoi fautori che, quando sarà finito questo interminabile Carnevale, sarà di nuovo tempo di tragedia? Col loro proverbiale realismo i politici consigliano l’alternanza. Serve all’economia della mente: la routine non fa bene alla cultura, compresa l'economia di mercato, che preferisce la competizione e il ricambio. I sociologi della letteratura post-moderna non sanno cosa scegliere, anzi consigliano di non tenere in vita l’alternativa fra comico e tragico. Ce n’è per tutti. Ognuno faccia liberamente ciò che gli aggrada. Solo nel passato un linguaggio era depositario della verità storica. Ora che è morta la storia, abbiamo soltanto il problema di come tenere in vita la letteratura. Guardando dal nostro neonato secolo a quello appena morto, si vede che, se nel Novecento è stata affidata alla comicità

una generazione e la successiva alla tragedia, almeno due volte in cento anni l’iniziativa è del comico. Forse anche tre, se Zavattini, Campanile, Petrolini e altri comici minori degli anni

Trenta possono essere presi sul serio. Funziona la comicità repressa dalla dittatura: quella, per esempio, dei giornali umoristici in cui nascono fra gli altri Flaiano e Fellini. Le barzellette non hanno abbattuto il fascismo, ma non alligna bene la retorica nella comicità. 111

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Ci sono dunque almeno due stagioni in cui è fiorita con particolare vigore la comicità: la stagione protonovecentesca delle avanguardie e la stagione del neosperimentalismo degli anni Sessanta. Le due primavere della letteratura italiana del Novecento. La prima volta ci fu il futurismo, una stagione sempre più invidiata agli italiani nel mondo. Nella seconda fiorì la controcultura, tifosa di astrazioni, gioco, risate. Seguirono drammi,

conflitti, conquiste sociali e civili. Ridendo, si creano tragedie e migliori condizioni di vita. Le forme vuote sono capaci di generare significati di più piena umanità.

Di Lichtenberg Goethe disse che i suoi scherzi e le sue burle nascondono problemi tanto interessanti che di per sé rasentano la soluzione. Chi sa fare burle così settecentesche, cioè logiche e spontanee, è il Gadda del Sar Giorgio in casa Brocchi, dove un giovinetto in primavera approda all’«ordine naturale delle cose» — che poi all’atto pratico sarebbe far l’amore con la formosissima Jole —, dopo essersi fatto beffa di tutte le sciocchezze con cui l’ha educato la madre. Tocca sempre andare alla radice delle questioni. E burle, scherzi, beffe e ogni altro gioco conducono sulla buona strada. Alla cui fine c'è La cognizione del dolore, tragedia di uno che ha passato la vita ad aggredire con ogni linguaggio la madre. «L’inverso del gioco non è la serietà, bensì la realtà», scrive

Freud. Il gioco è fratello del riso, compagni di squadra nella gara con un mondo che è ormai impossibile prendere sul serio. Fannulloni che sembrano inutili, giocando e ridendo, essi possono

partorire un nuovo modo di comportarsi e di pensare. Le nuove forme, giocose e astratte, sono madri di nuovi significati. Fine del gioco! Siamo tutti figli della comicità del primo e del secondo

Novecento. Se non ci piace il gioco attuale, invertiamolo. Dalla realtà torneremo al gioco? Di fatto non lo abbiamo mai smesso. Il gioco diventa realtà e viceversa. Col post-moderno facciamo tutto contemporaneamente: anche la tragedia e la commedia. Capace di suscitare, alla più luminosa luce del giorno, il terrore che di solito frequenta la più buia notte, Landolfi racconta commedie che sono sempre «in latente presenza» del tragico. La sua comicità gioca a fare la tragedia e ci riesce. Il gioco, «vacanza del super-io», «è uno dei mezzi per trasformare un’idea astratta in comportamento, attività». Parola di Lotman. Le parole se-

guenti sono invece anonime: giochiamo per evitare la realtà? 112

Nelle fasi come l’attuale in cui sembra assente la storia trionfa la farsa, comicità forsennata che non si dà pensiero di ciò che deride. Quando lo scontro culturale è acceso e radicale, invece ha il sopravvento la satira, comicità che va all’attacco in nome della virtù e dei valori. La comicità però è deperibile, disse un giorno Savinio, rileggendo le altrui e le proprie pagine satiriche contro i genitori, contro i benpensanti, contro la famiglia borghese, contro il romanzo realista, contro il «dolorismo», contro

il comunismo, contro il fascismo e contro ogni is7z0 che ammorba la mente dei critici. Rinasce la satira ogni volta che nasce o torna un nemico potente. E di volta in volta il padre di Svevo, di Gadda, di Savinio,

che è il massimo nemico della borghesia greca, italiana e francese; la guerra mondiale guidata da un re scemo e da generali dissennati nel racconto di Gadda; il dannunzianesimo deriso da crepuscolari, da vociani, da futuristi, da Palazzeschi, da Gozzano e da Gadda; il fascismo meridionale visto da Brancati

e quello femminile fatto a pezzi da Gadda; la Capitale d’Italia vista come cialtrona da Flaiano o come fatiscente da Malerba; il

lavoro culturale del dopoguerra ridicolizzato da Bianciardi; la società industriale «fumettizzata» da Parise; i «calzolai di Vigevano» straziati dal furore iconoclasta di Mastronardi; i «colletti

bianchi» resi mostruosi dall’invenzione linguistica di Frassineti; i nuovi ricchi del Nord nella visione offesa di Arbasino; i guasti delle culture egemoni, ancorché moribonde, nella sorridente finzione di Eco; la civiltà del benessere osservata da Roversi; lo spirito della Resistenza soffocato dal montaggio di Balestrini; l’idiozia delle masse nei racconti di Malerba e Cavazzoni; la vita presente, passata e futura messa a nudo da Manganelli, e tan-

ti altri miti da dissacrare col ridicolo. La satira ha solo un’egemonia provvisoria. Ammenocché non sia come quella di Gadda, che si scatena furiosa e straripante contro il mondo esterno ma in funzione del suo inconscio ulcerato, e prima o poi si rivolge contro lo stesso autore. Non si può però salvare solo lui, non si può mettere al sicuro dalla morte solo l’arte. Va ridicolizzato ogni estetismo, dannunziano, fascista, rondista, nonché resistenziale. Non resiste nien-

te insomma a chi va a fondo partendo da un qualsiasi punto di un sistema culturale. La critica profonda prima o poi diventa contestazione totale o globale. Come la farsificazione globale di 113

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Campanile. Nel quale la satira c’è ma si vede per poco. Ed è subito riso. La comicità di Gadda spera di padroneggiare l’ansia, ha fatto bene a ridere della sua nevrosi il Berto del Male oscuro. L’ansia può dunque essere un fattore di comicità, oltre che una delle sue terapie? Landolfi, Flaiano, Manganelli, Malerba, Massimo Fer-

retti, ridono in un loro modo singolare sperando che la risata sia un’epifania, rivelazione in superficie dell’Essere. Il riso non satirico è un corto circuito mentale e accende imprevedibili fiammate. Le illuminazioni del comico però non fanno luce sui veri moventi. La migliore comicità ignora il fine? Non erano solo dei contestatori politici i narratori e i poeti (da Malerba a Manganelli, da Giuliani ad Arbasino) che rinnovavano le forme, con

l’astrattismo e l’informale. I significati sono figli di quelle forme, ma non sono figli unici come ipotizza l’ideologo che in fondo è sempre un interprete partigiano del testo. Il riso è, alla lettera e per metafora, dilettante. Anche nel senso usato da Macedonio Fernandez — che oppone al comico realistico il comico concettuale o assurdo — per spiegare la comicità: nel piacére del comico «c'è un individuo che difende la sua felicità». Ora è l’intera collettività dell'Occidente a difendere la condizione felice che si è procurata con un'esistenza appesantita da drammi sociali. Finché non ci sarà nuovamente di che avere spavento, gli uomini hanno ogni diritto di ridere, spensieratamente, cioè senza darsi pensiero del pur sempre ansiogeno futuro. La comicità del Novecento tende ad essere surreale, stralu-

nata e immotivata, e negli anni Sessanta ce la fa. All’inizio il riso ha un motivo o un bersaglio preciso (scatenata è la satira di Gadda, compressa quella di Brancati, sorniona e tuttavia implacabile quella di Flaiano), ma diventa «asociale» nelle neoavanguardie prive di ideologia. Finché, come tutti i formalisti,

anch'esse non tirano fuori la morale della favola (il moralismo finale di Malerba e Arbasino). Palazzeschi e Campanile invece optano quasi sempre per il riso «assoluto», «innocente» e me-

tafisico, quello che ride senza alcuna ragione, messaggero della più oscura Verità. Che, secondo Max Jacob, si manifesta nel nostro secolo, come nel Seicento, con lo «stile del ventre».

Nei narratori del Novecento la comicità sarà spesso oscena, come piace ai vecchi contadini e alle nuove masse. Sulla scurri114

lità dell’arte comica hanno idee memorabili Freud e Propp mentre Bachtin registra l’inclinazione popolare a giocare coi materiali del proprio corpo, comprese le feci. Con queste le nobildonne del Codice di Perelà abbattono un re che aveva fondato sui rifiuti e altre miserie il suo diritto ad accedere al regno. Linguaggi bassi, passione e ossessione del Novecento, secolo in cui il popolo, magari degradandosi, è andato al potere. E in verità la televisione d’oggi — farsesca oscena e scurrile come non di rado è l’arte popolare — fa quasi soltanto ridere. In Paolo il Caldo di Brancati lo zio del protagonista chiede il permesso di andare al bagno, e lì scoppia in una grassa risata. Il narratore siciliano, che non ama ridere sotto gli occhi degli altri, nasconde spesso la comicità scurrile e mostra il volto nobile della tragedia o del grottesco. Si sente che si trattiene: il comico non è decente. Con le feci dipingeva Max Jacob, non avendo i soldi per i colori. Che invece la tv attuale ha in abbondanza. Era migliore la vecchia cultura popolare, che era in bianco e nero, ma i mass media d’oggi sono i suoi ultimi discendenti. Si può ridere di tutto: è questione di velocità. Parola di Ionesco: accelerate la lettura di una pagina tragica e questa provoca il riso. Persino la velocità futurista ora che ha trionfato nel mondo fa ridere. Fiorisce nel Novecento la letteratura tragicomica. Più che un ircocervo, è un ossimoro, figura retorica con cui si può ridere per non piangere e si piange come se si ridesse.

Ridevano gli amici cui Kafka leggeva i suoi romanzi, e con loro rideva anche uno dei proverbiali scrittori tragici del Novecento. Rideva persino di colui che gli aveva dato la vita. La cosiddetta «tragedia familiare», dice Kafka, è in effetti solo una commedia. Se la si sa leggere. Non vanno sempre d’accordo narratore e lettore nel Novecento. Si legge come un romanzo comico La coscienza di Zeno. «Il comico che è tragico», ripete

Bontempelli, le cui commedie sono oltremodo tragiche. Il comico e il tragico forse non esistono di per sé. Il Novecento ha teorizzato la massima libertà del lettore e ora non si ride più come prima leggendo i testi di Gadda, di Malerba e di Manganelli. Viceversa emerge da una lettura «aperta» l'umorismo di D'Arrigo e di Lampedusa. Zeno soffre le pene dell’inferno mentre racconta le proprie goffe imprese che divertono assai i personaggi presenti e i lettori. Nella maturità passa a tutti la voglia di ridere: tranne che a Pa115

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lazzeschi, che a ottant'anni ride come un bambino. Può essere

però saggio ridere anche da vecchi: come succede a Svevo, che ridendo concede un paradossale perdono alla vita. «Che strano!», dice la ragazza abbracciando l’amante molto anziano. «Sai che non mi fai schifo?» Con la comicità attenuiamo lo schifo che ci fanno la vecchiaia, la morte, nonché la vita? Per non essere ri-

sibili, abusiamo in litoti, figura retorica con cui si fa un’affermazione usando due contrari. Il doppio negativo per non nominare il positivo, che presto diventa quasi sempre innominabile. Il Novecento insegue col riso lo squilibrio e vince. Frassineti fa il montaggio di espressioni del parlato popolare o piccoloborghese. Celati fa impazzire la sintassi. Cavazzoni spiazza il lessico: la parola è quella ma parla d’altro. I suoi idioti sono portatori di significati che non capiscono. Il problema non è la lingua. È come la si assembla. Meglio se i vari pezzi non combaciano. È una strana macchina ma può essere la macchina della verità. Ionesco: «L’umorismo permette di prendere coscienza della condizione tragica e ridicola dell’uomo... Prendere coscienza di ciò che è atroce, e riderne, significa diventare padroni di ciò che è atroce». Forse preferiamo ridere, per perdere la coscienza. Zola si entusiasmava per la mimica irresistibile del clown fino a «diventare pazzo». Ora ridiamo anche di chi identifica follia e verità, grande mito degli anni Sessanta, il decennio più pazzo, più divertente e più visionario del Novecento. Fu un'epidemia e non fu trovato il vaccino. Si può morire ridendo, diceva il Pulci. Chi ha narrato meglio la disperazione di non poter prendere sul serio nulla della vita è forse Manganelli, il metafisico dinanzi

al quale la vita non ha difese. È lui il più «triviale» e insieme il più «quadriviale» dei prosatori contemporanei. Può far ridere ma lui non lo fa. Semmai sghignazza. Per la disperazione non resta che giocare con le parole, quelle che Savinio chiamava cadaverini per il segno nero che lasciano sulla carta bianca. Chi mette nero su bianco, lo sappia: sta andando al proprio funerale. Una buona parte della letteratura moderna è «dialogo sull’estrema soglia». Stiamo esorcizzando la morte, estrema paura, con la comicità. Ci stiamo abituando solo perché, secondo Manganelli, oltre che morti, siamo all’inferno, del quale la vita è il più riuscito e duraturo prototipo. Naturalmente è solo una metafora apocalittica ma questa è peculiare dell’arte mo116

derna. Di peculiare in Manganelli c'è che ha raccontato la nostra vita usando come personaggi ed eventi quelli che si trovano nella più antica grammatica: i protagonisti sono i verbi, i sostantivi, gli aggettivi, i segni di interpunzione ecc. Siamo poco

più di un punto e virgola, di un’esclamazione e soprattutto di un’interrogazione, alla quale è inutile rispondere. Siamo al sicuro dentro una retorica che è un’arte praticata da chiunque scriva da millenni. Lasciate ogni speranza, o voi che entrate nella comicità d’avanguardia degli anni Dieci e Sessanta del Novecento. La Virginie citata da Baudelaire non ci mette molto a scoprire che si può ridere della Parigi che le era parsa intollerabilmente orrida. Bisogna saper scegliere bene il girone. Per esempio, gli anni Sessanta hanno scelto di vivere in Malebolge, dove i diavoli giocano, scherzano, spetazzano, litigano, perseguitano i pecca-

tori su mandato del loro supremo nemico. Per sopravvivere, è stato necessario dissacrarlo. È diabolico ma è divertente: quanto possono esserlo Luigi Malerba e Gianni Celati. Ridendo come il Dio ridens e ludens di Palazzeschi, essi hanno compiuto una totale desertificazione dei cosiddetti «valori», ma non chia-

miamola desemantizzazione (lussureggiante come fata morgana in Manganelli) o derealizzazione dei significati. Sono parole cadute giustamente in disuso, seppellite da chi prima o poi trova ridicolo il proprio già trionfante vocabolario. L’avanguardia ha un mandato breve: alla cui fine c’è l'ordine di suicidarsi. Celati lo fa nel modo più radicale, col lungo silenzio prima del ritorno alla letteratura, peraltro sul versante opposto alla comicità. Luigi Malerba ha narrato storie che hanno inizio, svolgimento e fine come se oggi fossero ancora possibili. Diversamente dalla leggerezza epidermica di Campanile, Malerba monta una «abissale» comicità che soffia all’esterno con incontenibile energia: dalla Scoperta dell'alfabeto al Serpente, da Salto mortale a Testa d’argento. Una civiltà idiota per quanto è sensata; demenziale per quanto è saggia; beata per quanto è incosciente.

Gli equivoci paradossali della logica più ferrea, la coerenza delle più sfrenate pazzie, lo squilibrio di menti che giustamente si ritengono normali. Ordinaria follia per cui non è previsto il ricovero nei manicomi, nemmeno prima che li chiudessero. Malerba più tardi ha chiuso con la comicità. E tuttavia i racconti di Testa d’argento sia dalla parte concava della calotta me117

tallica (la deformante specularità da cui si vede cosa succede nel cervello dell’uomo d’oggi), sia da quella convessa fanno vedere a quale grado di pazzia individuale e collettiva si è arrivati in questa stagione felice dell’umanità. I personaggi parlano purché dicano banalità, agiscono purché facciano sciocchezze, pensano purché si tratti di idee stupide. . Il mito di Malerba è fare del vuoto l’inizio, la fine e il motore di un'esistenza centrifugata dove ogni movimento è un «salto mortale» intorno al Nulla. Un salto che è anche un cerchio. In questa speciale fase della «metamorfosi del cerchio», dove mancano sia il cerchio sia chi compie il salto mortale, esiste solo il linguaggio. È lui il vero protagonista dei romanzi di Malerba. Il venditore di francobolli del Serperte confessa di avere ucciso Miriam, che nella realtà non esiste. E potrebbe non esistere nemmeno Roma. La metafora dice la verità sulla Capitale d’Italia. La comicità è ciò che più rassomiglia al linguaggio. Entrambi cercano di annullare la realtà. Tuttavia il linguaggio comico di Malerba, quanto più è metafisico e assoluto, tanto più è realistico, in un suo modo paradossale ed estremisticamente negativo. Forse che esistono veramente gli individui, gli ambienti cittadini, le azioni che ci sembra di compiere, i sentimenti che

ci par di provare? Il linguaggio è tutto perché, mentre smentisce la realtà, afferma la propria verità assoluta, cioè il Nulla.

Negli anni Sessanta Arbasino ha trasformato la più «pettegola» conversazione in piacere della comunicazione come alternativa all’incomunicabilità degli individui e dei gruppi. Personaggi che parlano stando seduti, quindi negati alla tragedia, suggerisce il Napoleone di Bergson. Chiacchiere spiritose ma con sempre più isteria, linguaggio di chi invoca aiuto, Massimo

Ferretti corre su una struttura che è vitalità del giorno per giorno, eterno presente che è anche permanente corsa alla morte. Riuscirebbe il Dio del Cortrodolore a ridere di queste tragedie che Ferretti e Arbasino, nonché Malerba, Celati e Manganelli

hanno travestito da esilaranti commedie? Il Novecento ha davvero riso in modo nuovo rispetto ai secoli precedenti? E soprattutto è riuscito a dire dell’uomo attraverso la comicità qualcosa che era impossibile esprimere con la tragedia? Per rispondere lanciamo in alto la moneta di Socrate. Si dà il caso che la moneta socratica, o platonica, su una faccia

abbia la tragedia e su quella opposta la commedia. Quella che 118

circola oggi è invece trasparente. Osservando attentamente la prima, con lo stesso sguardo scorgerete l’altra faccia. Dalla comicità si vede anche la tragedia. Non è solo un’impressione. Chiamiamola piuttosto sovrimpressione. Insomma tesaurizziamo questa conquista del Novecento. Potrebbe tornare utile al nuovo secolo, se vorrà tentare, come è inevitabile, un nuovo

modo di ridere con cui difendersi dalla paura che anche gli uomini futuri avranno nella prossima vita. Cosa fare dunque alla fine: che notoriamente è pure un inizio, se siamo dentro un cerchio non immobile? «Il comico nelle sue forme tendenziose non può in realtà trovare un bersaglio là dove prevale l’indifferenza; il tipo di denigrazione ch’esso ci consente suggerisce peraltro che il suo oggetto solo di rado può essere ciò che è proibito da sempre.» Lo dice Benjamin e noi lo constatiamo: è un’epoca indifferente quant’altre mai l’attuale. E anche questa potrebbe essere una novità rivoluzionaria del Novecento. Pure d’ora in poi però il comico «va ricercato in ciò che ancor oggi è circondato da stima, in ciò che ancor oggi è rappresentato nel super-io». Usciti dall'infanzia, dovremmo ormai saperlo che è inutile prendersela con la vita, l’irriducibile e invincibile nemico di sempre. Solo di rado, a sentire Benjamin, essa può essere 0ggetto di denigrazione. Ora invece succede il contrario: solo raramente si trova qualche pensatore o artista che confessi di apprezzare la vita. Ha ragione Benjamin: bisognerebbe proibirlo. Come quel personaggio zavattiniano che aveva vietato ai suoi dipendenti di parlare di morte. Ignoriamo con buona dose di empirismo cos'è la morte, ma anche con l’aiuto dell’empirismo o di altra filosofia meno concreta risulta impossibile dire cos'è la vita. Dopo millenni di ricerche condotte da materialisti e da metafisici siamo al punto di prima anche su tale questione fondamentale: cioè se essa è veramente tragica o comica, o cos’al-

tro. Pare proibito saperlo.

119

La «farsificazione globale» di Achille Campanile

Quanti misteri non solo nell’arte ma anche nella vita di Campanile! Per esempio, Achille Campanile nacque nel 1899 o nel 1900? Sul momento, cioè appena nato, naturalmente non trovò le parole né i numeri per esprimere preferenza, ma quando la maggiore età lo mise in grado di fare opzione cosciente, Campa-

nile scelse di nascere nel 1900, pur lasciando inalterato il suo destino, cioè l’oroscopo (28 settembre, Bilancia, ascendenti: la commedia dell’arte, Palazzeschi, Marinetti e Bontempelli; discendenti: Zavattini, Malerba, Celati, Cavazzoni e altri, sempre più numerosi). E così si è trasformato, da ultimo degli scrittori dell'Ottocento che sarebbe stato, in uno dei primi narratori del

secolo XX, anzi cent'anni dopo risulta ai critici uno dei narratori maggiori del Novecento. Non lo sarebbe diventato tanto facilmente se avesse scelto di nascere nell’Ottocento. Così abbiamo risolto il primo mistero della vita di Campanile? L’interrogativo è d’obbligo, direbbe uno di quei critici letterari che, secondo l’autore di Ma cos'è questo amore?, sono quasi tutti degli imbecilli, o quasi: naturalmente a seconda del giudizio che danno dell’opera di Campanile. Qualcuno ha pensato non so quanto acutamente che per lui fosse di importanza fondamentale essere «un uomo del Novecento», ma è difficile che gli venisse in mente una definizione del genere, cioè una di quelle idee che più tardi avrebbe incluso nello sciocchezzaio universale. E allora? Facciamo un’ipotesi audacissima, e persino un po’ assurda, che poi ormai è come dire campaniliana: Campanile amava che nella sua vita ci fossero più zeri possibile sin dalla nascita. Non è molto ma almeno essere un uomo con due zeri! 120

A lui infatti non piaceva, come pare gradissero — o così fanno credere gli storici della letteratura — tutti i suoi contemporanei, essere definito «uomo senza qualità». Secondo gli stessi critici di prima, per lo meno avrebbe preteso la grafia «uomo del °900»? I numeri gli stanno dando ragione: Campanile è ormai incluso tra i primi dieci o venti narratori del nostro secolo. E noi novecentisti siamo felici di avere un grande narratore in più da commemorare ogni dieci, cinquanta o cento anni. Senza le commemorazioni non ci sarebbe più neppure la critica militante. Tutti lottiamo per campare il più possibile. Lo zero, si sa o si dice, simboleggia il Nulla. Tuttavia quell’O maiuscola che rassomiglia a un uovo, cioè addirittura al principio generatore di vita, è pure un globo, nonché un anello che dentro ha il vuoto: il contrario dell’uovo quindi, che infatti è quasi sempre pieno. Come si vede, siamo in un circolo vizioso. Per chi invece desidera un pensiero virtuoso ci sarebbe questo: che si addice alla vita quando essa si ripete pressocché identica nei secoli e quando, come ora, sembra finita la storia (che notoriamente cambia per innovare, o innova per cambiare): Campanile sarebbe stato felice di essere oggi con noi nel 2000, che di zeri ne ha addirittura tre. Qualcuno obietterà che ce ne sono quanti nel 1000, ma in quell’anno nessuno pensava al Nulla. Mille anni fa 1 era nientemeno che il simbolo di Dio. Il Nulla — sia detto a consuntivo — è la massima conquista del secondo millennio cristiano. Tre zeri rappresentano il vuoto che più assoluto non potrebbe essere ma non c’è solo questo nella vita di un uomo se c’è un numero intero: il 2 di 2000. Si affollano le domande su quel numero 2 seguito da tanti zeri. Siamo concreti, torniamo alla letteratura: Campanile, scrittore che azzera tutto rendendolo assurdo, pensava a un futuro in cui si potesse salvare dal Nulla qualcosa, magari due cose? Ci sono 2 valori positivi nella vita dell’uomo del 1900? Aggrappiamoci a questo ’900 e facciamo festa a quel 2 di 2000, se non vogliamo cadere nel vuoto, nel Nulla, che oggi ci minaccia più che mai per via di un nichilismo che non dà solo i numeri. E lo si scriva anche in tutte lettere: nel Nulla di Campanile ridiamo a crepapelle perché ci sentiamo garantiti dalle due cose che, sia pure simbolicamente, stanno all’origine e a fondamento della nostra vita attuale. Sarà lunga e appassionante questa guerra del 2 contro tutti quegli zeri, che per ora sono al suo seguito e che gli stanno die121

tro in fila indiana. Non c’è stata la fine del mondo minacciata dall’avvento dei tre zeri, e ora ci tocca riprendere il cammino nel deserto. Seguiamo però il ragionamento che partendo da 2 arriva a tre zeri: quelli che ci accompagneranno per un anno.

Nel 2001 cominceremo a risalire la china: non è un auspicio, è una certezza, avremo un crescendo di numeri interi. Essendo

così tranquillizzati, possiamo ora tornare per un attimo al 2. Il 2 è il simbolo delle alternative radicali con cui il Novecento credeva di correre più veloce e più felice verso il 2000? E una sciocchezza alla quale Campanile non ha mai creduto. L’unica alternativa che gli piaceva è quella che oppone gli imbecilli che non ridono mai di se stessi a coloro che ridono di tutto e di tutti. Siamo seri: ci sono oggi due cose di cui si può non ridere? Sarebbe l’inizio della rinascita ma Campanile non lo direbbe mai: gli verrebbe subito da ridere. Non avrebbe riso se gli avessero assicurato la vita fino a oggi, fino a cent'anni. Aveva in corpo tanta birra che volentieri sarebbe vissuto sino a 200 anni? Forse no. Desiderava forse vivere 2000 anni? Sicuramente sì

ma così non si risolve definitivamente il mistero della sua scelta a favore del 1900 come data di nascita. 2 ragioni per vivere le avrebbe trovate a cent'anni ma 1899 — o anche solo 19 — cose positive nella vita e nella storia sarebbero troppe anche per un ottimista. Campanile non tollererebbe d’essere considerato un pessimista ma sarebbe scoppiato in una bella risata dinanzi all’alternativa fra ottimista e pessimista che una cultura tutta da ridere si rimanda da secoli credendo di fare filosofia. Siamo empirici: è un dato di fatto: Campanile scelse il 1900 ed è un mistero: quali buone ragioni c'erano per iniziare la vita nel ’900? Non prendiamo in considerazione la tesi di chi sostiene che lasciando dubbio o doppio l’anno di nascita può festeggiare il centenario della nascita per due anni di seguito. Un suo qualsiasi personaggio anche a rischio di passare per un idiota avrebbe maturato la seguente riflessione: ci sono casi in cui è utile lasciare irrisolti i misteri umani. E ora finalmente possiamo procedere più tranquilli e sicuri del futuro. Non è una cosa da ridere: non è ridicolo pensare che a lui la vita piacesse viverla 19, anzi 1899, volte. È possibile, Campanile c’è riuscito: anche se non tutto riesce perfettamente nemmeno

nella sua vita. Tutto sta nel riuscire a farsi una bella risata in ogni anno, mese e giorno di vita sia dell'Ottocento sia del Novecento, 122

cioè fino a oggi. Non so se c’è da ridere su quest'altro fatto ma oggi — dopo essere stato dato per morto e sepolto — Campanile è più vivo che mai, perché fa ridere in ogni minuto di lettura della sua prosa. Non è un mistero: Campanile da solo suscita più risate che non 19, per non dire 1899, scrittori comici. E non parliamo di autori che valgono zero. Per esempio, vale più di Panzini, di cui Serra, Pirandello e Gadda stimavano l'umorismo e che ora

ci fa ridere (o meglio, sorridiamo per l’alta opinione di critici e narratori: la sua comicità invece non ci fa ridere per niente). E ora alcuni lo preferiscono — è ciò assurdo, cioè campaniliano? — persino a Pirandello umorista e a Gadda satirico. Loro erano in fondo dei moralisti, mentre Campanile non farebbe mai la morale a nessuno: era un amorale. Che è pur sempre un modo d’essere comico più vicino a quell’immoralità di cui si compiace questo nostro secolo nato con tre zeri. Torniamo indietro verso i due zeri della sua nascita preferita. Essi marcano la tendenza irreversibile dello scrittore a ridere di tutto, azzerandolo progressivamente (non c’è due senza tre, confermerebbe uno dei numerosi idioti che danno i numeri

nei suoi romanzi). Purché si sappia che la comicità di Campanile non ammazza nessuno, non abbatte nessuna società, non mi-

na alle basi né il mondo né la vita. Era felice di vivere in un mondo assurdo e non si infelicitava per il fatto che non si riesca a cambiarlo. Non vi sembri assurdo ma è sempre politicamente un conservatore uno che non salva nulla e nessuno dal riso. Sono d’altronde così anche i contestatori, metafisici che fingono di accontentarsi di nulla di meno che il mutamento radicale del mondo. Guariremo mai di tali follie? L'affermazione che il mondo d’oggi è folle non comporta una sua futura salute mentale, come invece hanno sempre creduto i progressisti sia dell’Otto che del Novecento (non quelli del 2000, perché non esistono più, o quasi): i quali non potendo guarire la follia l'hanno identificata con la più alta saggezza. Con lo stesso ragionamento si potrebbe dire che lo zero, che dovrebbe essere il Nulla, è anche tutto. Lo si è pensato fino al 1999, che di zeri

non ne aveva nemmeno uno. Nel 2000 l’idea vincente è campaniliana: ridiamo ed è tutto, e ce ne infischiamo persino del Nulla se ce la facciamo a ridere 2000 volte del mondo e della vita, della follia e della contesta-

zione, per non dire della saggezza. Che nel 2000 non esiste più, 123

xx

o quasi, se non in forma di proverbi: con i quali, secondo Malerba, si è scritta la Bibbia dei poveri. Per l’accanimento che

Campanile manifesta contro i proverbi, si direbbe che preferisse nettamente essere ricco. E anche se non l’ha mai detto o scritto, preferiva la Bibbia a tutti i proverbi del mondo; nonché

il Vangelo, libro sacro a ogni buon cristiano. Campanile lo era, lui che ride più da angelo che non da diavolo. Il discorso si fa alto ma lo sentite pure voi che stiamo toccando questioni fondamentali. Siamo infatti già oltre tutti quegli zeri che sembrano evidenziare l’odierno trionfo di Satana. E invece c’è un ritorno alla religione dei padri. Stiamo tornando indietro nel tempo e nella storia ma non perdiamo l’allegria. Anzi, poveri diavoli, ridiamo più di prima. Qualcuno degli sciocchi che popolano i romanzi di Campanile e che si esprimono per proverbi dovrebbe aver detto almeno una volta che il riso fa buon sangue. Magari ridendo lo si dica pure: il sangue Campanile lo ha addirittura buttato pur di trovare il modo di far esplodere una risata dei lettori con ogni frase. Lo dicono tutti che il riso è immediato come un'esplosione. Se ha funzionato la miscela. Lo scrittore romano fa una fatica del diavolo (lo diciamo tra parentesi che questo buon uomo non farebbe male a una mosca? Purché ovviamente non troppo insistente e mor-

dace) per ottenere un bello scoppio quando combina gli ingredienti a regola d’arte (la sua personale arte, l’inconfondibile marchio di fabbrica). Questi per fortuna sono offerti gratuitamente dalla vita e dalla cultura di tutti, e come si apprende dai proverbi a caval donato non si guarda in bocca. Pensiero gratuito: se non ci fossero state la vita e la cultura degli altri, Campanile non sarebbe vissuto e forse nemmeno nato in quanto scrittore. I

poveri no, mai proverbi li ha sfruttati. E in verità lui campa sopra i detti memorabili della buona borghesia: che è insistente, anzi persistente. Campanile, come la suddetta borghesia e la succitata mosca, non demorde finché una cosa non dà il meglio di sé. È ridicola anche quando morde? C'è del parassitismo in un autore che prende pezzi di conversazioni altrui e monta una macchina infernale per provocare scoppi di riso. Facile imitarlo allora? Ebbene, Campanile s’è portato nella tomba il segreto della sua arte tanto più misteriosa quanto più è lampante, nonché avvincente. Come l’edera, che proverbialmente dove si attacca muore? No, perché muore 124

la cultura dove Campanile si attacca: mentre invece l’autore, che insaziabilmente succhia linfa vitale dalle sciocchezze altrui, diventa sempre più vispo. Un paradossale e generoso altruismo questo di Achille Campanile, che ha fatto capire quante sciocchezze si dicono coi poveri proverbi e con ogni bibbia o vangelo dei ricchi. Lo diciamo ma potrebbe essere una scemenza. Sarà conservatore quanto si vuole ma Campanile in conclusione è un egalitario assoluto: sono assolutamente tutti scemi o matti quelli che aspirano a dire verità perenni. Perenne è semmai una macchina che produce comicità a getto continuo. Ma nemmeno questa è

una verità perenne. S'è guastata per l’uso eccessivo persino la macchina comica di Campanile. Per contrappasso talvolta diventa scemo anche Campanile? Se così non fosse, egli non avrebbe mai scritto il Trattato delle barzellette. I critici letterari — gli stessi imbecilli di prima — l'hanno ripetuto tanto che ora è vox populi: che vocazione, quale talento, un uomo nato per ridere, uno che il riso ce l’ha nel sangue. In emorragia di proverbi, non si può tamponare il flusso: e dunque mi arrendo: insomma «buon sangue non mente». Campanile non era sempre certo di dire la verità ma non pare preoccuparsi molto della questione. Sembra uno scandalo della logica ma non scandalizziamoci della conseguenza: se uno scoppia a ridere, significa che è stata toccata una verità sconosciuta o inconscia:

magari perché mette in luce che un luogo comune, assurto a proverbio, dice il falso. Verità millenarie vanno in fumo a causa del-

la comicità di Campanile. Il quale brucia anche verità fresche di stampa o da poco uscite di bocca agli imbecilli che subito diventano gli uomini quando ripetono formule per non comunicarsi nulla. Perciò ora vi si proibisce di dire che «il silenzio è d’oro». Campanile era capace di generare dieci frasi da ogni parola altrui per comunicarci il Nulla che ora rappresenta la nostra massima ricchezza intellettuale, filosofica e artistica.

Non parliamo di vocazione. Campanile costruisce in laboratorio i suoi dialoghi con zolfo, fosforo e inchiostro, indelebile più che il sangue dei romantici. Si può scrivere con l’inchiostro, o sennò col sangue, almeno una verità assoluta? Ebbene, Cam-

panile sapeva trasformare un nonnulla in una battuta esplosiva dotata della potenza d’urto di una bomba, ovviamente ad orologeria. Cioè ingranaggi mentali, rotelline linguistiche, spirali 125

fantastiche e molte lancette acuminate. Alto artigianato, anzi sofisticata ingegneria e, per associazioni foniche, innumerevoli

sofismi. Basta con quest’elenco da laboratorio. Il lettore potrebbe scoppiare. È una bomba anche quella che esploderà ora. Quando una cosa insignificante fa saltare in aria improvvisamente un senso inatteso, si parla di epifania, altrimenti indicata come «rivelazione dell’essere». Ebbene, cosa fa l’Essere di Campanile, per scovare il fondo di sé e insieme quello dell’oggetto? Ha scoppi di risa e così si rivela, pozzo ridens cui non strappereste mai uno scoppio di pianto. Si ride sempre, detto metaforicamente, come una mitragliatrice che spara all'impazzata e che colpisce a ogni colpo il bersaglio. A Campanile non mancano certo le cartucce: le produce lui stesso lì per lì simultaneamente. Lui è davvero un cecchino infallibile: nel senso che scopre un obiettivo dove altri non vedono nulla, o magari percepiscono un significato, idea, parola trascurabile che non sono degni di attenzione. Un oggetto o persona o idea insignificante corrono incon-

tro alla comicità campaniliana che li polverizzerà. La metafora è stanca ma con un filo di voce fa in tempo ad avvertirci che l’Essere di Campanile non ha mai le polveri bagnate. Fa veramente miracoli questo scrittore per il quale non c’è nulla che non sia ridicolo: ovviamente se il linguaggio obbedisce al mandato di trovare il punto debole di un uomo, di un ragionamento, di una situazione. Ce l’hanno tutti ma non tutti lo trovano.

Campanile sì, quasi sempre. Il riso è un valore assoluto per Campanile, il riso «assoluto» (cioè non moralistico) è uno dei 2 suoi valori assoluti. Possiamo ora anticipare, senza ridere, che all’inizio del 1914

Palazzeschi ha visto Dio all’origine della comicità? Baudelaire invece ci vide Satana, che prima di cadere in basso era stato il numero 2 nella gerarchia celeste. Detto terra terra, Campanile traffica con questioni elevate fingendo di divertirsi con cose da nulla. Insistiamo col Nulla? Il Nulla non esiste per un narratore che sa dare la felicità con i materiali di scarto dell’umanità. Con l’aiuto di Dio o di Satana Campanile prende in mano un granello di polvere, cioè parole e fatti che volerebbero via col semplice respiro, e ci soffia dentro la vita più festosa. Morale della favola (se si potesse dire, senza passare per un imbecille): la gente non è che non ride perché manca la materia prima bensì perché manca 126

la materia grigia. Cercate di riceverla in eredità (è Dio a donare l'intelligenza all'uomo?) e sennò procuratevela, con la cultura (che è sempre attività satanica). La cultura dà la prospettiva giusta per sentirsi superiori e ridere degli altri. Siate insomma esseri superiori e riderete a più non posso di tutti gli altri. Bisogna pensarle tutte con un narratore simile, anche se è sempre pericoloso, anzi è mortale — il ridicolo è l’umana vera malattia incurabile per l’uomo — metterle per iscritto 0 solo enunciarle a voce. Sperando che Campanile non ci senta, avanziamo una ipotesi, come dire, colta, ricavata dalla riflessione sul

comico che tanto ha dato da pensare negli ultimi cento anni. Forse Campanile aveva sentito parlare della profezia di Baudelaire, il quale nel saggio Sull’essenza del riso destinò alla comicità più sfrenata e stralunata il secolo futuro, il Novecento. Prima però di intrattenerci con Baudelaire, consentitemi una digressione: il Novecento che per noi è un secolo passato (se è cominciato l’1 gennaio del 1900) forse invece è ancora presente (se si conta a partire dall’1gennaio 1901). Pensateci: la fine del mondo potrebbe non esserci stata e perciò forse arriverà prossimamente, il 31 dicembre del 2000. È meglio non pensarci: quei tre zeri ci minacciano non con il Nulla, cui abbiamo fatto il callo, ma con la morte, che non è una cosa da ridere. Quanti misteri ci sono nella vita di un uomo! Sembrava

chiaro, per esempio, che il saggio di Henri Bergson intitolato I/ riso fosse del 1900 e invece pare che sia stato pubblicato alla fine del 1899. Il destino dunque lega Campanile a Bergson, filosofo che ride a cavallo di due secoli. Chi non si rassegna alla persistenza irriducibile dei misteri potrebbe pensare che Campanile discenda da quella linea della comicità più cara a Baudelaire (il quale preferiva l’italiana commedia dell’arte alla satira dei francesi) che poi passa attraverso Bergson: cioè colui che aveva suddiviso il comico fra quello derivante da situazioni, da caratteri o da parole. Chi guarda avanti può pensare persino che il riso caro a Baudelaire, alla commedia dell’arte e a Hoff-

mann approdi alla comicità futurista e dadaista. Andando indietro, scopriamo insomma — sempre così: scopriamo ciò che

già sapevamo? — che Campanile era uno scrittore d’avanguardia, quella storica. Per la storia: Se la luna mi porta fortuna è un metaromanzo di Campanile in cui si scatena il riso contro la narrativa dell'ultimo 127

Ottocento e del primo Novecento: senza escludere l’ultimo Novecento e il primo Ottocento. Campanile non è il primo a farlo e non sarà l’ultimo ma, finché ci sarà la luna, la sua comicità dadai-

sta gli, ci, porterà fortuna. Molta letteratura d'avanguardia è jellata, mentre quella di Campanile piace a tutti i critici che non abbiano la luna storta. E così abbiamo cominciato a raddrizzare il giudizio sull’autore di Tragedie in due battute, testo col quale si ride meno di quanto facessero gli spettatori tifosi d'avanguardia. E ora potete ridere anche dell’avanguardia. Tuttavia, quando avete finito, pensate al fatto che per l'avanguardia un linguaggio egemone tende a diventare presto ridicolo, oltre che bugiardo. È quindi un’eredità d’avanguardia la strategia campaniliana con cui si accelera il processo di azzeramento comico di quello che identifichiamo con la verità, coi proverbi? Una cultura non ha finito di imporre un linguaggio che Campanile comincia a deriderlo: con velocità futurista. Solo che a differenza dei testi futuristi, il linguaggio di Campanile non si allontana mai: semmai ci è sempre più vicino. Ora anzi ci annegheremmo dentro, se la testa vuota non ci tenesse in superficie.

Campanile — futurista o dadaista o surrealista che sia e ammesso che lo sia davvero — non è un voltairiano (cioè non c’è un mondo più ragionevole di un altro), non profetizza nessuna rivoluzione francese (semmai gli piace la reazione italiana), non porta lumi a nessuno (tutto si svolge alla luce del sole, forse Napoli, per via delle maschere e della commedia dell’arte; forse Roma, per via della Chiesa, che è cattolica). Egli cerca invece «le situazioni, i caratteri e le parole» con cui suscitare il riso assoluto, quello che trionfa quando la storia non incita gli umoristi a contribuire col riso a «castigare i costumi». Il riso d’oggi, che è tanto campaniliano, non vuole castigare nessuno. E oggi giustamente Campanile, erede della euforica commedia dell’arte, figlio della comicità satanica di Baudelaire e del riso rassicurante di Bergson, padre dell’assurdo di Ionesco, è considerato lo scrittore che fa più ridere: più di Malerba, Arbasino e Celati che hanno smesso di ridere da oltre vent'anni, e forse anche più di Cavazzoni, che dalla comicità voltairiana è approdato al comico metafisico di chi ride senza pensare più a come cambiare il mondo. Non essendoci più nulla da cambiare, o risultata impossibile tale impresa, oggi ci nutriamo del riso «innocente» che tanto piaceva a Baudelaire e che è anche innocuo. L’attuale 128

comicità ci solletica. È solo questione di pelle o c’è qualcosa sotto una così diffusa ilarità da sembrare il principale costume nazionale degli italiani? Ora ridiamo tutti spensieratamente: non c’è difatti più in nessuno la riflessione che trasforma, secondo Pirandello, la comicità in umorismo. L’umorismo è la via migliore per arrivare a

commuoverci per coloro dei quali sinora abbiamo riso, ma ora non abbiamo più pietà di nessuno: nemmeno di noi stessi che, anche senza rifletterci, sappiamo di essere ridicoli con le parole e con le azioni, se non le cambiamo (l’unica azione consentita è

cambiare parole, ovvero linguaggio?). Essendo spensierati, la comicità diventa felicemente demente e, non essendoci più i manicomi, è impossibile distinguere il pazzo dal saggio. Se poi a qualcuno viene in mente la citazione di Baudelaire, secondo la quale «il Saggio ride tremando», ebbene possiamo rassicurare chi ride. Forse succedeva ai suoi tempi ma ora non tremiamo dinanzi a niente che ci faccia ridere. Questo pensiero potrebbe risultare delizioso per i progressisti e per chi crede ai mutamenti storici ma lascia indifferente Campanile, che non è uno storicista, non è un saggio e certa-

mente non trema quando con mente fredda e mano ferma scrive una scena capace di provocare una folle risata. Insieme a Campanile ci stiamo dando alla pazza gioia, senza pensare al domani. Il nostro tempo è il presente e altrettanto gioioso speriamo, da folli, che sia il futuro. Se avessimo umorismo, avremmo pietà di noi, ma invece, siccome ce la ridiamo spensieratamente, siamo

nella commedia dell’arte a interpretare la vita ridotta a canovaccio. Si può cambiare almeno canovaccio? Al presente no. Fine della storia, e dello storicismo e della saggezza. È finito il tremore? Lo sentite? Un altro dei soliti misteri. Non finiscono mai: e ciò è forse una misteriosa vendetta della storia. Il mistero della nascita, della vita e dell’arte invece Achille Campanile — repetita iuvant, ripetevano quei latini che sono la causa prima di tanti ridicoli neoclassicismi di cui si celebra l’eterno ritorno — se l’è portato nella tomba. Lì sarebbe opportuno lasciarlo riposare in pace ma non è così facile ora che è resuscitato, ora che è tornato in vita artistica come un grande del Novecento. Ci piacerebbe dire che ormai è un immortale, ma lui stesso ci pregherebbe di non esagerare con le formule critiche che diventano ridicole non appena le si pronuncia. Per lo 129

stesso motivo non possiamo indicare crocianamente ciò che è

vivo e ciò che è morto della sua narrativa o nella sua drammaturgia. Secondo lui, anche in questa occasione di festa sarebbe sempre preferibile il silenzio, ma solo negli stadi si fissa un minuto di silenzio per commemorare un defunto. In un minuto io per esempio non ce la farei neppure a rompere il silenzio. Anche un breve discorso sarebbe troppo lungo per uno come Campanile. Il quale, se fosse davvero vivo, starebbe qui a ridere con voi mentre ascoltate una commemorazione per il centenatio della sua nascita. Pur di non ascoltarla, sono certo che preferirebbe essere in vita. Voi vi domanderete: si può fare una commemorazione con una battuta di spirito? Non si potrebbe, ma siamo incoraggiati dal fatto che stiamo parlando di uno che scriveva addirittura tragedie in due battute. Ecco: bisognerebbe saper scrivere un saggio critico in due battute e in sostanza ci stiamo arrivando

per via dei «telegrammi critici» cui s'è ridotta la critica militante. Senonché, ammesso e non concesso che la prima battuta funzioni, tocca pur sempre trovare la seconda. Coraggio, avanti, chi cerca trova, dice un proverbio anche più significativo di quello che intitola il maggiore romanzo di Campanile: Agosto, moglie mia non ti conosco. Non è necessario cercare solo nei ro-

manzi. Ebbene, cambiamo arte, senza per questo mettere da parte la letteratura. Come un poliziotto in un film americano, anche Achille Campanile avvisa: «Qualunque cosa voi direte potrà essere usata contro di voi». In altri termini, tacete, ma, se parlate, sappia-

telo: rischiate sempre di dire una sciocchezza: ovviamente se parlate alla presenza di Campanile o se osate fissare un pensie-

ro sulla carta o su Internet. A proposito: va salutato con esultanza il suo avvento: lo sciocchezzaio, che con Flaubert lo era solo metaforicamente, ora è davvero universale, oltre che reale.

Non bisognerebbe toccare certi tasti quando si traffica con un autore appena resuscitato. Il linguaggio di chi ride sempre e di tutto è sempre involontariamente suicida. La comicità metafisica, assoluta e innocente, è autolesionista: dopo avere demolito i luoghi comuni degli avversari, i discorsi si indirizzano pure contro colui che li pronuncia. La frase gira finché non va a colpire alle spalle chi parla. Ha detto delle sciocchezze anche Campanile parlando e scrivendo. Il vero delitto è la parola, scritta o par130

lata. Un altro circolo vizioso? Non si tratta di un vizio ma siamo in un cerchio sempre più soffocante. Non avendo quasi nulla di nuovo da dire, ci stanchiamo con chiacchiere che ci affogano nel ridicolo. L'uomo non riesce a tenere la bocca chiusa nemmeno nell’acqua. E allora i pesci? Loro aprono la bocca ma non parlano. Potrebbe essere un buon esempio, ma su questo problema Campanile ha fatto calare il silenzio. Lo so bene, ci ripetiamo ma stavolta non giova, malgrado il parere opposto dei latini. Che però non conoscevano l’assurdo di Campanile, ignoto anche ai romantici. Lui è noto per aver scritto L'inventore del cavallo. Pareva che fossero stati già cavalcati tutti imodi di esser comici e invece nel Novecento se ne inventa uno capace di arrivare primo nella corsa verso un nuo-

vo riso. E Campanile l’inventore dell’assurdo? Una domanda da girare a Ionesco. Non è una risposta ma lo si dica lo stesso: Campanile ha inventato un modello comico che ora è adottato come il migliore nella televisione, demenziale e non. Anche se lui da bravo critico televisivo qual era ha dimostrato che essa è sempre e comunque demente. Facciamo dunque pure noi ora un ragionamento per assur-

do. Gli uomini sono vivi in quanto parlano? Ebbene, nessuna illusione: quando parlano, si capisce meglio che sono morti. Vivi sono soltanto i meccanismi del linguaggio umano quando vengono inventati. Sono meccanismi che inducono a ridere attraverso il montaggio più «scombinato» (che però è pur sempre una combinazione, coincidenza di calcolo e caso). Soltanto chi ride è vivo ma chi ride tende anche ad autoannullarsi, se

non trova una o due cose per cui valga la pena di vivere comechessia, parlando o tacendo o ridendo. Conclusione provvisoria del ragionamento, sempre per assurdo: Achille Campanile ha realizzato la «farsificazione globale». In parole povere, anche se facciamo la tragedia siamo destinati alla farsa. Non è solo una battuta, eppoi le battute sono con questa già due. Se però sono due, la nostra farsa potrebbe essere in effetti una tragedia. Il poeta tragico tedesco Hélderlin se ne accorse quasi due secoli fa: se tu ridi sempre e soltanto, e non puoi fare altro che ridere, questo è sintomo di disperazione. Campanile potrebbe ribattere che lui quando ride non è mai disperato. Secondo Max Jacob, i grandi umoristi non ridono mai. Pur di ridere, Campanile non volle essere un umorista, Tool

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bensì un comico. E così ridiamo ora felicemente privi di umorismo, comicità che gela al pensiero che anche noi siamo come quegli imbecilli di cui ridiamo allegramente. La sua «riduzione a farsa» è globale anche nel senso che investe ogni abitante o situazione o azione del globo. Si può impazzire, sosteneva Emile Zola uscendo da uno spettacolo di clown, ma Campanile ha letto in un manifesto di Marinetti che è sintomo di salute la «fisicofollia». Il riso di Campanile cura tutti i malanni mentali con lo stesso radicalismo con cui un medico del Lasca sostenne che l’amore carnale guarisce qualsivoglia dolore fisico e mentale. Non potendo fare l’amore carnale, i protagonisti di Agosto, moglie mia non ti conosco (il comandante della nave, e-

quivocando, aveva imposto le cinture di castità invece di quelle di salvataggio) infilano innumerevoli battute a doppio senso: che tuttavia anche per coazione irresistibile sono pensieri a senso unico. Ovviamente nessuno dà la colpa al comandante, gli ordini non si discutono, e fa follie marinettiane il fisico, cioè il corpo. In quanto alla mente, non si può dire che abbia una malattia: non ha niente, non ha idee il piccolo-borghese, e nemmeno il grande, né la lotta per la conoscenza impegna la mente degli intellettuali grandi e piccoli, né in agosto né in altri mesi più freschi. Campanile non concede privilegi corporativi: sono ridicoli non solo i popolani che si esprimono per proverbi, o i borghesi che parlano per frasi fatte, ma anche i filosofi, gli psicologi, gli scienziati e gli artisti. Lasciate scrivere gli scrittori ed essi vi faranno ridere irresistibilmente col loro linguaggio presto divenuto farsesco. Campanile non sapeva di dovere tanto non solo a Baudelaire, forse non riconosceva i propri debiti verso Bergson, ma era cosciente che lui forse non sarebbe stato com'era senza i precedenti della tradizione comica italiana, sia remota che prossima: in altri termini, oltre alla secentesca commedia dell’arte, due scrittori futuristi (due italiani dopo due francesi, ripetendo il 2, che è

davvero un numero che esce spesso nel nostro gioco circolare) che sono autori di manifesti in cui si consiglia un uso estremistico e smodato del riso. Si tratta di Aldo Palazzeschi, cui si deve I/ controdolore, pubblicato all’inizio del 1914, e Filippo Tommaso Marinetti, che poco prima pubblicò il manifesto sul «Teatro di Varietà». Anche loro volevano azzerare il mondo ma pure loro cercavano almeno un paio di verità su cui fondare il futuro. Che 152

di per sé non sarebbe una sciocchezza ma che in quel 1914 pronto a mettere a ferro e a fuoco il mondo era una necessità. Anzi ci fossero anche oggi due buone verità! Saremmo disposti a fare di nuovo almeno un paio di sciocchezze. Nel manifesto del Controdolore Aldo Palazzeschi aveva invitato i lettori a riflettere su tutto ciò che si presenta come dramma o tragedia. Ebbene, si sarebbe presto capito che quelle vicende in apparenza dolorosissime non meritavano le lacrime con cui si inondavano i teatri. A pensarci come si deve, la reazione giusta sarebbe stata una grande risata, lunga quanto cento risate. I lutti, i funerali, le malattie, le delusioni d'amore? Tutto da ridere. I/

controdolore incita a ridere di tutto: a cominciare dagli argomenti più seri, compresa l’arte. Nulla è in grado di resistere alla contestazione globale avviata dal riso. Prima o poi sarebbe stato chiaro che il ridicolo minaccia ogni azione dell’uomo. Solo ridendo, egli scoprirà la propria identità, solo col riso svelerà la verità sul mondo. Sottoponete la vita alla prova della comicità: è drammatico soltanto ciò che, preso da ogni punto di vista e con ogni linguaggio vecchio o nuovo, resiste al riso. Palazzeschi non cerca esempi per dimostrare che nell’uomo c’è qualcosa di veramente serio e comunque non li trova nemmeno per caso. E allora ridete dinanzi alle tragedie di Sofocle, Shakespeare e Ibsen. Se riuscite a farlo, esse diventeranno delle grandi commedie: senza alcun danno per l’arte. Ne soffrirebbero solo i teorici della distinzione fra generi letterari. Della quale ora ridono quasi tutti coloro che si accontentano di leggere una bella pagina senza pensare a quale genere letterario appartiene. State a sentire cos'altro scrive Palazzeschi, il quale è così coerente con la sua teoria che tutto è risibile da rendere ridicolo anche il lessico di Marinetti, suo compagno di strada nel futurismo e nella comicità. «Quello che si dice il dolore umano non è che il corpo caldo e intenso della gioia ricoperto di una gelatina di fredde lacrime grigiastre. Scortecciate e troverete la

felicità.» Oppure: «Maggior quantità di riso un uomo riuscirà a scuoprire dentro il dolore, più egli sarà un uomo profondo». Poi Palazzeschi dà un consiglio che non pretende d’essere saggio: «Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente non appena ne sentano la necessità...». Fra le altre conclusioni c’è infine l'imperativo di «trasformare gli ospedali in ritrovi divertenti, 133

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mediante five o’clock thea esilarantissimi, café-chantants,

clowns». Insomma un rovesciamento totale per cui è falso il dolore ed è unica verità il riso: attraverso il quale capirete com'è davvero l’uomo, e quanto in sostanza e in profondità egli è risibile. Così ci siamo liberati di ogni dolore o angoscia o disperazione: come a nessun altro secolo precedente era mai riuscito. Naturalmente bisogna essere molto profondi. Solo chi lo è potrà ridere dei dolori propri e altrui. Qualche mese prima di Palazzeschi (un caso o un calcolo di chi voleva a ogni costo arrivare prima dappertutto?) aveva pubblicato cose non molto diverse Filippo Tommaso Marinetti nel manifesto sul «Teatro di Varietà». Questo, ridotto all’essenziale, il programma: inventare incessantemente nuovi elementi di stupore, caricature possenti, cascate d’ilarità irrefrenabile, abissi

di ridicolo, «tutta la gamma della stupidaggine, dell’imbecillità, della balordaggine e dell’assurdità, che spingono insensibilmente l’intelligenza fino all’orlo della pazzia». «Il “Teatro di Varietà”, insiste Marinetti, è una scuola di sottigliezza, di compli-

cazione e di sintesi cerebrale... meccanizza bizzarramente il sentimento, deprezza e calpesta igienicamente l’ossessione del possesso carnale, abbassa la lussuria alla funzione naturale del coito, la priva di ogni mistero, di ogni angoscia deprimente e di ogni idealismo anti-igienico.» Il «Teatro di Varietà» distrugge il Solenne, il Sacro, il Serio, il Sublime dell’Arte con l'A maiuscola,

tutte le nostre concezioni di prospettiva, di proporzione, di tempo e di spazio. Insomma una mescolanza di stupore, sorpresa, follia, disordine, complicazione, l’imprevisto e la semplicità più istintiva e insieme più inverosimile o assurda. È ciò che ha fatto Campanile, naturalmente disponendoli in un ordine diverso. Bisognava trovare la combinazione giusta per ottenere i risultati stupefacenti, sorprendenti, folli, imprevisti, semplici e insieme

complessi di Campanile, l'allievo che ha superato il maestro. La regola inventata da Palazzeschi per svelare i veri motivi delle azioni umane e quella auspicata da Marinetti per suscitare la «grande ilarità futurista che deve ringiovanire la faccia del mondo», Achille Campanile le applica alle parole dette o scritte degli uomini. Fategli raccontare una storia, anche la più tragica, ed essi non appena iniziano a parlare si vanno a infilare in

un discorso insensato, ancorché abituale e garantito dalla ripetizione. Gli uomini parlano per non dirsi nulla di nuovo o di di134

verso da quello che s'erano detti prima. La conversazione fila diritta, se nessuno fa notare che è insensata. Gli uomini si di-

stinguono dagli animali perché hanno il linguaggio? Allora, se è per questo non sono migliori degli animali, che semmai, avendo il vantaggio di non parlare, non dicono sciocchezze. E tuttavia pure gli animali in quanto a comportamenti somigliano agli uomini: a parte i pesci suddetti, fanno le stesse cose dei loro padroni. Ogni modo di fare e di dire, se è ripetuto, è destinato a diventare ridicolo. Che è una ragione in più per incitare a usare linguaggi originali, mai parlati e non ancora pensati. I libri debbono essere sempre unici. Questo non lo pensano solo gli autori d'avanguardia, tranne ovviamente gli imbecilli che ritengono la novità un valore assoluto. Campanile infatti cominciò come autore d’avanguardia futurista e dadaista. Poi ci fu «il ritorno all’ordine» in cui Campanile ebbe compagni altri artisti d'avanguardia, quali Pirandello, Savinio, Bontempelli, Palazzeschi e Marinetti, cioè i cinque

narratori che con Gadda meglio hanno alimentato la letteratura comica o umoristica del Novecento. Forse Campanile ha scritto le sue opere più belle da giovane, e tuttavia ad alcuni il suo capolavoro sembra Gl asparagi e l'immortalità dell'anima. Fu pubblicato nel 1974, un anno dopo Manuale di conversazione (che fu scritto a partire dal 1923). Sono due suoi volumi di racconti esemplari, non meno di quanto lo siano i due suoi romanzi maggiori, cioè Se la luna mi porta fortuna e Agosto, moglie mia non ti conosco. Da questi titoli emerge la doppia linea su cui opera Campanile: la conversazione quotidiana e il trattato, per così dire, metafisico. Un linguaggio nato per irridere il parlato e la mentalità di piccolo-borghesi funziona benissimo, e spesso anche meglio, con le riflessioni degli intellettuali e del loro gergo prezioso o sofisticato. Campanile attraversa con la comicità le più profonde teorie scientifiche, i calcoli supremi della retorica, la più sottile argomentazione filosofica, la più acrobatica comparazione dei diversi, la più intricata unità dei contrari, l’audacia delle metafore ebbre, il maniacale gusto dell’originalità, la vertigine della novità, la potenza degli interdetti morali e l’eloquenza irresistibile di chi propaganda nobili principi umanitari. Forse si sta discutendo in un salotto o in un’aula universitaria o in un circolo culturale o in un istituto filosofico o letterario, e tuttavia 135

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non sarebbe assurdo pensare che a dare voce a quelle idee siano dei matti rinchiusi in manicomio. Paranoia, schizofrenia,

ogni tipo di malattia mentale, vera o finta: come nel teatro di Campanile e della nostra vita. I misteri campaniliani si trovano dappertutto a migliaia. Per esempio, in apparenza nulla accomuna gli asparagi all’immortalità dell’anima. Secondo Campanile, nulla li accomuna nemmeno nella sostanza, ma è necessario dimostrarlo razionalmente. È

quanto fa da loico inflessibile Campanile, che dal surrealismo ha imparato ad associare situazioni assai remote. Non sappiamo

quasi niente dell’anima e della sua immortalità ma un fatto è certo: Campanile ha fatto diventare immortali gli asparagi. Finché ci saranno gli asparagi e finché si discuterà intorno all’immortalità dell’anima, Campanile sarà uno scrittore ben vivo: insomma non morrà questo suo linguaggio comico con cui ridiamo a crepapelle. La metafora in verità non si addice a un autore immortale ma non possiamo tirare avanti il discorso all'infinito. E allora diamo un taglio netto al discorso, agli asparagi e, se fosse possibile, pure all'anima, anche se notoriamente è inafferrabile. Quasi quanto l’uomo di fumo dell'omonimo romanzo di Palazzeschi, colui che

insegnò a Campanile quel «controdolore» per cui proviamo solo piacere leggendo o ascoltando l’autore del quale ora qui celebriamo il centenario della nascita. Abbiamo lasciato in sospeso la questione del 2 seguito da tre zeri: che sono il pieno di zeri che l’umanità potrà fare nell’anno 10.000. In verità Campanile non crede che nei prossimi 8000 anni l’uomo possa cambiare profondamente. Questa è la vita che ci tocca e questa dobbiamo adoprarci a conservare il meglio possibile. Uno dei due valori fondamentali resta il riso. Finché rideremo, potremmo anche essere felici. C'è quello che nasce dalla società in trasformazione, ma tale comicità è deperibile, legata com'è alla variabilità delle situazioni. La comicità «significativa» o voltairiana, cioè storica, è effimera. La sua produzione è immensa ma è anche destinata a morire presto. Noi invece ora siamo impegnati a vivere il più a lungo possibile, se non proprio ad essere immortali, come pur tentiamo di fare con ogni mezzo. Campanile allora è un’ottima terapia. Può far ridere di ogni parola, azione, sentimento o percezione. Campanile ride persino del Nulla. Zero a chi scoccia con que-

sta storia del Nulla. Anzi non uno ma tre zeri. Azzeriamo la cul136

tura del Nulla e godiamoci la vita così com'è: dissennata, ridicola, assurda ma allegra, un’eterna commedia.

È per questa via che Campanile arriva alla seconda cosa che aspira a festeggiare insieme col suo centenario ricco di zeri preceduti dal 2 (ambiguo è il numero, sia chiara e univoca la lettera: si tratta dell’altro valore da salvare oltre che il riso). Lo scrittore è felice di essere italiano, notoriamente è un nazionalista, si

considera un buon patriota. Ama l’Italia e ama specialmente l'italiano: inteso come lingua italiana. Proprio in virtù della sua fervida conoscenza della nostra lingua Campanile sa ricavare la massima comicità possibile dalla vita (anche in traduzione si può ridere tuttavia della nostra vita). In verità gli altri popoli non sono meno ridicoli, scemi o matti, ma non vorrete confron-

tarli con l’italiano: stavolta inteso come popolo. Ebbene, c’è un primato degli italiani di cui andare orgogliosi, non solo nazionalisticamente ma anche universalmente. A

nessun altro riesce come a noi di essere assurdi. Gli altri se ne lamenterebbero ma gli italiani sono contenti di esserlo: non ci trovano niente di male, per loro anzi è naturale, da noi l’assurdo si respira con l’aria. Sono scemi forse, sono matti? Non più degli altri. Sono più assurdi? L’assurdo non ha comparativo, è un assoluto. Non accetta differenza di tempo e di luogo: come una maschera comica o una marionetta. Gli italiani, che non hanno la testa di legno e che hanno incorporato le maschere nel volto, sono perfettamente, assolutamente assurdi. O almeno così li vede e li rappresenta Achille Campanile. Li ha inventati lui, il futurista, il dadaista? Potrebbe essere di-

ventato un realista il surrealista? A guardare bene, dopo aver letto i suoi testi, ci vediamo così anche noi, concretamente, tangibilmente assurdi. E siamo felici. In assoluto? No, felicissimi no.

Comunque non potremmo dirlo a Campanile. Se glielo diciamo due volte, già gli sembriamo scemi o matti. Prima o poi diventerà una scemenza — non lo è forse diventata già la letteratura del Nulla? — anche questa storia dell’assurdo. E assurdo ma lo diciamo ugualmente: rischiando di diventare matti, sentiamo una gran voglia di correre verso il 3000. Gli stessi zeri di oggi ma un valore assoluto in più. E ora cominci pure il court down. Forse non abbiamo storia dinanzi a noi, ma certamente abbiamo tempo.

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Il comico che è anche tragico: Cesare Zavattini

Nei Poveri sono matti il protagonista esprime un desiderio che dev'essere dell’autore: «vorrei scendere nella tomba senza una data». Accontentiamolo, lo merita: i tre primi libri, spesso riuniti e intitolati come per antonomasia Tre libri, non sono opere datate. Datato semmai sarebbe chi considerasse determinante il fatto che sono state pubblicate rispettivamente nel 1931, nel 1937 e nel 1941. Non è narrativa da anni Trenta e ancor meno da anni Quaranta. Semmai richiama gli anni Venti. È questo il decennio in cui erano così «matti» i narratori, così «poveri» 0

scarni gli scrittori. Lasciamolo pure senza data un autore che sfida il tempo, o almeno il secolo, coi Tre libri, ma non dimentichiamo la data di nascita di Zavattini come narratore. Le prime prose di Parliazzo tanto di me sono del ’28. Si scriveva così nel secondo decennio del Novecento? Anche nel primo decennio: frammentisti, futuristi, dadaisti, dopo Palazzeschi, per antonomasia narratore leggero, e dopo Campanile, che componeva tragedie in due battute. Sono in molti a fantasticare così. «Più uno!», cioè tanti

prosatori che parlano di se stessi, più Zavattini: l’autore che fece fare un salto logico alla narrazione da ragionieri per conquistare la vittoria su scrittori che sommano miliardi di parole senza toccare una verità duratura. Uno che pensa così — una svolta dell’aritmetica e dell’immaginazione — conta in un modo che, se non ci rende miliardari, ci arricchisce per sempre. «Zavattiniano» è infatti un aggettivo che entra nel vocabolario come un proverbio. Miliardi di proverbi e di aggettivi, più uno. Uno scrittore «unico» che i lettori farebbero bene a non lasciare so138

lo come ora sembra succedere a questo narratore dopo il quale la vita, fatti i conti, ha qualcosa in più. Anzi più di una. A chi un giorno gli chiese come fossero nate quelle storielle tanto divertenti, Zavattini rispose: «Svolgevo le sorprese del pensiero della logica nel mio piccolo ambito, direi, quasi in astratto, più vicino al nonsense che a una forma di osservazione critico-satirica sui fatti. Era un gioco mentale, più geometrico che sociale». Insomma prima il meccanismo, poi i significati. Potreste riconoscere il comico assoluto come l’arte per l’arte, quello che non deride perché il mondo cambi. Prima la forma: andasse a cercatsi ciò che la fa funzionare meglio. Dopo si riderà di un mondo insensato, ma è una risata la vita. Solo questo? No, il meccanismo

innocente non è innocuo per chi ci traffica: deposita in fondo anche malinconia. Possono venire delle brutte sorprese da meccanismi in cui la forma è sostanza. Il rorserse di Zavattini fa il vuoto. Che spesso non è assurdo. La sua geometria non fa paura, anzi fa ridere, allegramente. Nel vuoto assoluto Zavattini prima o poi precipita a terra. È il suo modo di essere realista. Dopo aver volato tanto, Zavattini atterra come neorealista.

Zavattini ignorava dove andassero a parare gli spettacoli di cabaret futuristi, dada e surrealisti che lo divertivano tanto da giovanissimo con gag assurde, con nonsense sfrenati, coi gesti

dei mimi che sollecitano le più eccentriche interpretazioni. Andate avanti col linguaggio che vi stupisce, i significati seguiranno. Succede così coi linguaggi d’avanguardia, che partono dalla superficie: come la «favola futurista» di Palazzeschi, Perelà uomo di fumo. Ebbene, Zavattini sarebbe stato più leggero del fumo per andare a visitare le anime dei morti e apprendere i segreti della vita. «Uscimmo all’aperto attraverso i muri come fossero di carta velina.» È leggera la carta su cui Zavattini scrive i suoi romanzi, anche se non è trasparente come può sem-

brare al tatto. Bisogna che il lettore ci metta il fiuto per avere il senso esatto dell’autore di Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo. Zavattini non è mai sulfureo.

Povero diavolo un po’ matto, Cesare Zavattini esordì però contestando addirittura il padre della nostra letteratura, il Dante della Comedia. Avrebbe viaggiato pure lui nell’inferno, nel purgatorio e nel paradiso ma ben diversamente. Era così pesante il poeta medioevale. Come sarebbe stato invece Zavattini, lo 139

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disse Bontempelli, il creatore del «realismo magico»: «leggero e profondo». È magico anche il realismo — leggero e profondo come solo sa esserlo la letteratura surreale di Zavattini —: vita quotidiana che meraviglia come verità radicale e imprevista. Vola la verità di Zavattini, portata da li colorati che sono una festa degna del paradiso. Non è ovviamente l’unica differenza, se rispetto a Dante Zavattini scrive in prosa. Sulla questione fondamentale, sulla tripartizione degli spiriti, non aveva quasi nulla da obiettare: l’inferno esiste, e anche purgatorio e paradiso sono luoghi frequentati dall’anima umana. Zavattini preferiva il purgatorio: vita in salita ancora per chissà quante centinaia di anni ma con la prospettiva

ridente almeno del paradiso terrestre: magari in virtù di una rivoluzione popolare, la sua Beatrice. Nel Novecento si sale in paradiso su un manico di scopa, come Totò il Buono. Naturalmente,

se c’è la scopa, vuol dire che c’è parecchio sporco sulla terra. Gli stava bene pure che si continuasse a fare la «commedia». Il lieto fine non manca mai in un’opera di Zavattini, nemmeno se i fatti sono tragici. Anche perché nell’inferno ci si può divertire come quelli del paradiso nemmeno si sognano. Sennò, perché vengono mandati angeli a strappare ai diavoli Cesare Cadabra, le cui storielle rendono tanto felici i dannati da far schiattare d’invidia i beati? Paradisiaco è l’inferno di Zavattini, narratore che strappa una risata anche ai fatti più lugubri della vita umana, compresi i funerali di uomini così poveri che gli manca persino il cadavere. Credeva che fosse una condanna eterna quella della critica che lo considerava anzitutto un umorista (termine lungamente spregiativo nel secolo di Croce). Poi venne l’amnistia. Sono finiti in paradiso tanti umoristi da quando è diventato un dio del Novecento Luigi Pirandello, colui che nel riso ci mise il sentimento e così definì 1 umorismo il sentimento del contrario. C'è anche l’avvertimento del contrario, cioè abbonda la comicità in

Zavattini, specialmente in Parliamo tanto di me, ma quanta compassione egli sente per il contrario, per l’avversario ridicolo! Zavattini dunque è buono, ma non abbastanza perché prima non derida le persone che poi compiangerà. Ha qualcosa di infernale questo essere da paradiso che all’improvviso butta giù una bestemmia, come quell’anima buona torturata dai cori angelici che disturbavano il suo sonno con la loro musica celeste. 140

Ci sono momenti in cui uno ha il diritto di prendersela persino con gli angeli, notoriamente alieni da ogni umorismo. Che ora con entusiasmo è accolto nei cieli più alti della critica. Quella di Zavattini non sarebbe mai stata «divina commedia»? Ebbene, non ci sarebbe stata nemmeno la «commedia

umana». L’autore di Parliamo tanto di me contestò infatti agli esordi anche il dio dei realisti, Honoré de Balzac. Sarebbe stato un narratore, avrebbe scritto di eventi reali ma non grossi romanzi: ci avrebbe impiegato ad esempio poche righe per passare dall'inferno al paradiso e viceversa. La salita non è poi tanto diversa dalla discesa per uno che ha fantasia aerea e verso giusto. Questione di punto di vista. La commedia da umana diventa divina, la prosa la puoi leggere come poesia, una pagina racconta una commedia che in fondo è una tragedia. Totò il Buono poteva dire «Zac!» ed era in grado di fare miracoli. La miracolosa fantasia di Zavattini non obbedisce alla legge di gravità nemmeno dinanzi ai più ponderosi drammi umani. Attenti al punto di vista. Ce n’è più d’uno, anche se qualcuno fa pressioni perché ce ne sia uno solo («Anselmo non aprì bocca, le sue spalle erano dure sotto le mani di Paolo che lo muoveva dolcemente perché osservasse il paesaggio dal suo stesso punto»). Guardate Zavattini almeno da due prospettive diverse: doppio è più bello che non quando è singolare con le trovate e le battute per cui facciamo salti di gioia. Non trascurate i salti di dolore, gli attacchi di malinconia per un pensiero «andato a male». La commedia umana ora la possono raccontare anche i bambini: per i quali notoriamente il re è nudo. Avrebbe narrato i fatti reali con l’immotivata essenzialità infantile. Da povero scrittore del Novecento avrebbe risparmiato persino sui nomi: che infatti in Zavattini sono monosillabi, come nei fumetti: a lo-

ro volta figure seccamente disegnate e poche parole scolpite nelle nuvole. Coi microracconti Zavattini avrebbe fatto tornare all’infanzia pure i lettori più maturi. Non si invecchia mai con le svelte storiette zavattiniane. Semmai invertite il discorso,

parlate di regressione. La commedia dell’infanzia. Un gioco per denudare l’anima umana. Non ha corpo il protagonista di Parliamo tanto di me. Di un romanzo si salvino solo le pagine che mostrano l’anima. Il resto è zavorra. Zavattini avrebbe parlato di sé più di quanto avesse fatto quel narcisista di Dante ma sarebbe andato giù assai più legge141

un

ro nelle pene. Il suo Dio non riesce a prendersela davvero coi peccatori. Obiettivamente tanti peccati a guardarli bene meriterebbero d’essere considerati virtù. È una bestemmia? Zavattini non ha mai l’impressione di trasgredire, e comunque si perdona tutto. O il suo Dio è più terribile di quello di Dante perché condanna a un oltretomba che è ùna replica della vita terrena? Nemmeno Dio riesce a immaginare niente di più infernale della vita? O sta suggerendo l’idea materialista che il bello della vita è la vita terrena? «Non è accaduto niente, le acque non sono uscite dai mari. Che cosa importa che avvengano certe cose? Bisognerebbe morire e poi tornare al mondo un attimo per dire era vero. Se no, non importa che avvengano.» Così scrive Zavattini nel capitolo dei Poveri sono matti intitolato I sassi hanno un'anima. Il narratore tenga conto che non succede più nulla di eccezionale nel nostro tempo. Solo la quotidianità, fatti insignificanti della vita d’ogni giorno. Che siano almeno vere certe cose che avvengono! Tocca però morirci sopra (in un attimo, in poche righe si brucia un'esistenza, bisogna tenere il fuoco acceso, se si vuole che la letteratura riscaldi) e tornare a riferire. Sembrano realmente cose dell’altro mondo. Che sta sotto o sopra il nostro mondo. Basterà essere profondi o aerei. Non c’è molto tempo per farlo, viene accordato solo un attimo al narratore moderno. Zavattini sa che deve essere veloce e concreto, pensieri «tangibili». Così pagine da leggere in un attimo, ogni frammento della sua prosa, arriveranno a dire cose che risultino vere. Se non la sassata, il sibilo di chi è andato vi-

cino a una dura verità. Negli iniziali Tre libri Zavattini non sarà mai fluviale. Gli bastano poche gocce d’inchiostro per rendere importanti e pietrose cose che di per sé sarebbero trascurabili. Tocca tirar fuori anche l’anima dal sasso. L’una e l’altro sono notoriamente volanti. L'anima di Zavattini può andare giù pesante sul bersaglio. Si possono vedere le stelle leggendo i Tre libri di Zavattini, narratore che quanto più è celeste, tanto più è terrestre. Una sua goccia d’inchiostro può solidificarsi e lasciare un segno indelebile. Piace che un suo libro, non appena cominciato, sia

pure sulla via di finire. Può succedere però che il lettore si fer142

mi a lungo in un suo volume, o ci torni, per non anticipare la

conclusione dell’avventura.

«Prese un granellino di polvere e si chiuse in casa a guardarlo.» Zavattini parla ancora di sé. È sempre profondamente intrigato dai problemi della terra, il suo mondo è quello contadino: sarà polveroso, ma lui non lo abbandona, anche se non affronta le grandi questioni sociali con cui hanno fatto fortuna i romanzieri realisti. Zavattini è attento al minuscolo e al microscopico: sa che al momento buono da un granellino di polvere può svilupparsi una storietta di enorme peso. La polvere naturalmente lo fa pensare alla morte, ma Zavattini soffia sulla polvere per darle la vita. «Oh, quegli occhi pensosi che mi fissano!» Guardando e pensando, l’autore di Parliamo tanto di me penetra nel granellino di polvere che è l’anima umana, toglie la polvere sotto la quale l'hanno seppellita migliaia di pagine di psicologi, e scopre la parola rivelatrice. All'improvviso, come uno starnuto. Il granellino di polvere sta dicendo che la realtà non esiste? Almeno un granellino di realtà c'è sempre, anche in un secolo tanto formalista. I personaggi di Zavattini vanno alla ricerca di idee ma ci arrivano per iniziativa non del pensiero (un giorno dirà che è ora di cominciare davvero a pensare) bensì del corpo. Un gesto è capace di tutto, di buone come di cattive azioni. Una volta Bat,

protagonista dei Poveri sono matti, «nel passare la mano sulla fronte, un momento, sente di essere suo padre». Non è il solo

al mondo come crede di essere quando fa certe cose. «...Che spavento quando dice a Maria: “accarezzami” e sente che la voce ha il tono di quella di suo padre.» Gelosia del padre, terrore della ripetizione, angoscia per una ricerca di sé che è sempre uno smacco dell’originalità? Il linguaggio del corpo non consente differenze essenziali ma solo modeste varianti? Un'altra volta, rientrato a notte tarda, vedendo la moglie a

letto, immagina quello che potrebbe farci quella canaglia di Dod, l’odiato padrone cui muore dalla voglia di dare uno schiaffo da quando gli ha negato un prestito. «Dod tremante di gioia solleva adagio le coltri, accarezza le braccia, il fianco tene-

ro, morde la bocca.» Bat «prende il posto» del suo acerrimo nemico col quale si è identificato e ora, eccitato dalla gelosia, si 143

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mette a baciare «furiosamente» la moglie, a morderle la bocca. «Essa lo stringe al seno e in breve si addormentano.» Ci sono tanti significati, persino opposti, in un gesto d’amore, nonché in tutti gli altri gesti degli uomini. Mordendo la moglie per geloso desiderio, forse Bat la odia, magari paradossalmente per essersi «concessa» al suo nemico in una situazione creata dalla

mente del marito. Fermiamoci qui, perché sul corpo della moglie Bat compie gesti di complessa interpretazione: specialmente se essa lo stringe al seno con un gesto materno in cui egli trova la tranquillità e il sonno. Bat è forse geloso dell’amore che la madre ha donato a un altro uomo, quand’anche fosse il padre? A Totò il Buono succederà qualcosa di ancor più sorprendente e «significativo». Per la strada vede venirgli incontro i suoi vecchi amici, i quali, non appena si accorgono di lui, si mettono a correre per abbracciarlo. Totò inverte la marcia e accelera il passo fino a farlo diventare corsa. Allora gli amici lo inseguono, dapprima festosi e poi quasi senza accorgersene furiosi, da averne paura. Su quella linea che è la strada, in quel movimento che è la corsa, amore e odio si avvicendano in iden-

tità di gesto e in opposizione di sentimento. Un personaggio di Zavattini non sa mai quello che effettivamente fa. Lo puoi mandare all’inferno ma potrebbe non essere colpevole. Perciò Dio ha riproposto un oltretomba identico al mondo reale: prende tempo, ci vuole ripensare, nemmeno lui sa che pesci pigliare con questi esseri umani che passano in un attimo dal bene al male. Come fa un Dio giusto a prendere una decisione eterna su uomini che sono sinceri nel bene e nel male quasi solo per effetto del caso? Si può bloccare l’attimo fuggente ma poi avrebbero ragione i dannati a bestemmiare un Dio che non s'è accorto che sono cambiati i tempi e che l’uomo non ha più l'identità dell’epoca, mettiamo, di Dante. E nemmeno lui è il Dio di prima. Verità sì, sono possibili ancora, ma precarie. Per Zavattini Dio esiste, perché esiste il sesso femminile. La verità come un orgasmo, amore e morte, cui segue la rinascita.

Il racconto di Zavattini corre spesso sul crinale che divide i due versanti dai quali i fatti appaiono diversi secondo i punti di vista. Niente è buono o cattivo in assoluto, non ti puoi fermare a guardare i fatti solo da una parte, devi correre da una parte all’altra del crinale, osservando dall’alto e dal basso, cedendo a

un'impressione ma sapendo che è passeggera. Ciò che non è

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precario è l'ambiguità del segno: hai appena preso posizione a favore di un comportamento che ti tocca constatarne la crudeltà. Mentre ridi di un fatto esilarante, il riso ti si gela sulle labbra perché senti la tragedia. In un’altra occasione ti stai rassegnando dinanzi a un evento insignificante e sordo, ma all’improvviso esso si mette a sprigionare significati e sentimenti che

ti tengono in bilico, in difficile equilibrio: anzi sarebbe meglio dire squilibrio, quanto non vertigine, perplesso stupore. Sarebbe bello riparare in un «paese dove buongiorno vuol dire solo buongiorno», ma ormai e per sempre tanti saluti a chi si affida al naturalismo per scrivere delle cose del mondo e della vita. State attenti dunque anche alle pagine zavattiniane sulle quali sembra essere scesa la notte perché non sono luminose come quelle d’immediato effetto grottesco. «Ah, l'Arte è una cosa ben misteriosa per me!», esclama umoristicamente un personaggio

che potrebbe aver detto una cosa vera.

I personaggi di Zavattini parlano tanto di morte. Ci pensano così spesso che il «padrone» deve proibirlo, minacciare pene a chi viene scoperto a pensare alla morte. Non potendo nemmeno per idea morire, si addormentano spesso, o si appisolano, fanno un fragile sonnellino. Chissà quanto dormirebbero i beati in paradiso se gli angeli e le musiche celestiali lo permettessero! Dio che sa tutto sa anche che c’è qualcosa di proibito nel loro stato di dormiveglia. Il fatto è che sognano, e i sogni non sempre sono innocenti come quella volta che Bat, sognando a occhi aperti, vide gli operai usciti dalla fabbrica levarsi in volo sopra gli alberi e sparire in cielo. O anche questo è un sogno pericoloso? Gli operai del sogno se la prendono col cielo per come vivono in fabbrica? Nemmeno per sogno lo Zavattini dei Tre libri fa polemica sociale. Quegli operai riappariranno in Totò il Buono e sogneranno una società di esseri liberi, uguali e fraterni. Meglio quando Zavattini non interpreta i sogni. Basta che li racconti, anzi basta che racconti perché il lettore sogni. Tengono sempre del sogno i microracconti di Zavattini. In sogno Zavattini parla tanto di sé, del suo Essere più profondo. Volando insieme con gli operai, i poveri, tutti gli esseri leggeri che si muovono come i desideri. Un racconto di Zavattini va continuamente dalla terra al cielo e viceversa. Un breve tratto coi piedi per terra, frasi innocue della conversazione senza pre145

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tese, e all'improvviso un colpo d’ali con cui il discorso, senza finire mai nelle nuvole, si posa su un’idea abbagliante che si vede da ogni angolo della terra. Zavattini porta a terra concetti che è andato a raccogliere folgoranti in cielo. Sono davvero toccanti le sue surreali illuminazioni. Mentre i personaggi dormono, il racconto sogna. Non ha gravità, un evento è contiguo a ogni altro, una parola corre ad abbracciare un significato che sembrava incompatibile. Che il cadavere è squisito lo avevano detto i surrealisti a Zavattini e lui assaggia anche il surrealismo pur di evitare il racconto che va diritto verso l’inutile verità scontata. Nel sogno un narratore onirico non ci mette niente a scartare dalla linea retta o dalla curva e a resuscitare una storiella che sennò rischierebbe di restare stecchita sotto la logica dei razionalisti, che credono sempre di essere i più svegli. Zavattini non fa i miracoli solo a Milano. Procedendo lungo un percorso che fa il matto, Zavattini svetta leggero verso verità infernali o precipita senza peso in paradisiaci impatti. Cose da sgranare gli occhi per lo stupore. Dormendo e meravigliandoci, Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo ci hanno fatto vedere la cosa dell’al-

tro mondo che può essere la nostra esistenza se uno coltiva con la fantasia la visione. Ma diciamo la verità più sorprendente: questo dormiglione non ha mai gli incubi. Zavattini sogna a colori vivaci anche l’inferno.

«Il sospetto che io sia il diavolo mi è venuto ieri. Niente di sulfureo: ascoltavo un uomo alla fermata del tram e provai improvvisamente un urto di vomito alle sue parole, parlava di cose comuni, del tempo troppo spesso piovoso.» Nell’incipit di Io sono il diavolo Zavattini continua a parlare tanto di sé. Ora parla di quando scoprì la sua vera natura, di uomo e di scrittore. Sta in mezzo alla gente, preferibilmente i poveri, che sono di poche parole, oltre che di limitate sostanze. Sarebbe un angelo, se riuscisse a tollerare che ci si dilunghi a discorrer del tempo e di altre cose comuni. E invece all'improvviso il diavolo ci mette la coda e uno si accorge che lo fanno vomitare i soliti discorsi quotidiani. Ecco: una giornata può essere pure come tutte le altre, è ammesso parlare del più e del meno, ma la frase improvvisamente deve urtare in qualche modo, vomito o euforia inattesa e immotivata. 146

Il discorso di Zavattini «si volta di scatto per sorprendere qualcosa di nuovo». Così un buon uomo scopre a sorpresa di essere cattivo, di avere sentimenti e idee che sarebbe giusto definire diabolici. Non bisognerà esagerare (non sempre si tratta di vomito, il risentimento non sempre colpisce allo stomaco e di rado così duramente), né allarmarsi troppo: tra le sorprese possibili c'è anche che un essere satanico abbia momenti angelici. Si consiglia perciò di non distrarsi mai dinanzi alle cose comuni, ai periodi che avanzano con parole dalle quali non ti aspetteresti niente: di colpo una parola scarta dal suo percorso abituale e manda un messaggio di imprevista efficacia emotiva

e concettuale. Si direbbe che un frammento svetti con una cima, piccolo acrocoro. La sua figura canonica tiene dell’appuntito rilievo. Si innalza rapidamente il sentimento o il risentimento che spinge le parole dall’interno. Se l’aneddoto promette comicità, la narrazione sale verso la risata. Invece il frammento di Zavattini procede non di rado in pianura. Altra sorpresa: non succede niente di quello che ti aspetti. E allora svetta un significato «modesto», un umile senso, un sentimento flebile che non è meno forte per il fatto di non alzare la voce. Dio appare a Zavattini «impalpabilmente» per dirgli che non esiste. Ci sono parecchie frasi zavattiniane che danno notizie di fondamentale importanza a voce molto bassa. Così si limitano a metterti la pulce nell’orecchio.

Potete interpretare come volete i titoli dei Tre libri, purché ci mettiate ironia e fantasia. Parliamo tanto di me, I poveri sono matti, Io sono il diavolo. C'è molto l'Io di Zavattini, non si finisce mai

di parlarne, e il lettore alla fine non ha dubbi: «si è parlato tanto anche di me» in queste frasi brevi di un narratore che riprende fiato ogni tre o quattro righe. Povero è il racconto di Zavattini in cui succedono cose da matti che affidano al nonsense una vicenda ben pensata o danno senso a discorsi dissennati. Ora viene il diavolo e confessa che è lui a scombinare fatti coerenti e idee correnti. Il diavolo non esiste in realtà? È vero, nella realtà c’è l’io, ci

sonoi poveri, ci sono i matti ma il diavolo esiste solo nella fantasia dei moralisti, di chi divide il mondo fra bene e male. Ora che l’abbiamo evocato, il diavolo esiste ma, essendo anzitutto una me-

tafora, ci ricorda la sua doppiezza. Nessuno dimentichi che è sta147

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to un angelo e che è stato degradato per scendere fra i peccatori, fra la gente che ride, dove si fa la commedia e si dice ad alta voce: «Io sono il diavolo». Teatro, finzioni, marionette, spettacoli per

bambini con cui si divertono soprattutto i grandi che soffrono di essere cresciuti. I microracconti di Zavattini non debbono crescere e diventare adulti. Alla sua narrativa si addice la povera, matta e diabolica infanzia, età e linguaggio di uno scrittore che ha ricevuto la grazia. Zavattini ha scritto a scuola le prime storielle della sua narrativa. Più tardi ha fatto scuola a parecchi scrittori, che sono cresciuti e che magari non sono rimasti poveri. Leggendo i romanzi

e i testi dei più celebri matti padani, da Malerba a Celati, da Frassineti a Guerra, da Benni a Cavazzoni, Zavattini può dire

con orgoglio a Cesare Cadabra, a Mac Namara e altri immortali narratori orali frequentati nell’oltretomba: «Parlano tanto anche di me».

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Parte terza

IREREO [SI

Alberto Savinio,

o della deperibilità dei linguaggi

I titoli di Savinio non sono tutti suoi. Sono gli editori ad avere intitolato le numerose opere postume. La morte è sempre feconda con Savinio. Titoli impliciti o estratti a caso. Sarebbe d’accordo Savinio? Quante domande pone questo scrittore problematico. C’è ad esempio una ragione per cui alcune parole tornano nei suoi titoli? Sono quelle fondamentali? La risposta alla statistica, scienza del probabile. Non sapremo mai più la verità: così pensava Savinio, seguace di Nietzsche. Era il suo vero filosofo? Eraclito morì nel letame. Un buon concime naturale per Savinio, artista artificiale. Frutti saporiti e nutrienti. Meglio gli aspri (quelli giovanili, d'avanguardia post-futurista o pre-surrealista)? O meglio quelli della maturità (post-avanguardia, tradizione del nuovo, neoclassicismo d’avanguardia)? Siamo maturi per cominciare. Dunque, quali titoli ha questo autore per essere un classico

del Novecento? Ha montato in laboratorio il «classicismo di domani». Fuori le prove. O almeno i titoli delle opere. Li smorfieremo. Non ci accontenteremo dell’evidenza né dell’apparenza. C'è molto da scoprire sotto. E non dite a un freudiano come Savinio che è un gioco infantile. Si dia inizio al gioco, si diano i numeri e le parole. Presto arriveranno le cose. Torna quattro volte la Vita (Casa «La Vita», Tutta la vita, La vita di Enrico Ibsen, La seconda vita di Gemito), anzi

cinque (una volta in francese: Introduction à une vie de Mercure), che sarebbero sei con la traduzione italiana. Due volte si vede la Casa, accompagnata anche dalla Vita, primaria fonte d’ispirazione di Savinio (La casa ispirata, Casa «La Vita»). La morte è sempre presente (tbazatos e ypnos i due miti radicali di Savinio) ma 151

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appare, dimezzata, in un solo titolo, in francese (Les charts de la Mi:i-Mort). E l Amore, che muove ogni fantasia, pensiero e senso di Savinio? L'amore di Achille (Achille innamorato) impazza anche in Angelica o la notte di maggio e nella Nostra anima. Non appare mai nei titoli Psiche, resuscitata nelle due precedenti opere. L’anima non è più quella, nel Novecento c’è l'inconscio. È inafferrabile. Come Mercurio, che vola sui titoli due volte: la prima,

in coppia e in greco (Herzzaphrodito), la seconda, in francese e in italiano (Introduzione a una vita di Mercurio). Savinio non riesce a staccarsi dall’Infanzia. È due volte infantile (La tragedia dell'infanzia, L'infanzia di Nivasio Dolcemare). L'infanzia, mito freudiano. Sei altri personaggi mitici sono venuti dalla materna Grecia: Hermaphrodito,

Mercurio, Clio, Achille, Giocasta e

Ulisse. Con una sola presenza ci sono molte parole chiave: Altro, Anima, Avventure, Canto, Città, Considerazioni, Cuore, Enciclopedia, Gradus, Guardia, Notte, Palchetti, Parnassum, Partita, Scatola, Sogno, Sorte, Souvenir, Storia, Tragedia, Uomini.

Andate avanti con il gioco, collegate questi sostantivi, queste parole essenziali, e fateci un racconto. Solo Capri è un’isola. In fondo appare la Calabria, che è prossima alla Sicilia. Di là discende la famiglia De Chirico. Dalla Magna Grecia alla Grecia, andata e ritorno. Si torna sempre in Grecia. Torniamo in Italia. Chirico ossia kerzx, l’annunciatore greco. Cosa scende ad annunciare questo precursore che non alza mai la voce? Lin-

guaggi umili e idee apicali, ritmi vertiginosi, pungolo lacerante. Non temete l’oscillazione del gusto. È pur sempre movimento. Un nevrastenico non ha paura della mobilità del corpo e della mente. Ne ha sempre il desiderio. L'ha confessato questo ipocrita? Chi sarà mai dunque veramente questo pioniere venuto dal Mediterraneo? «Colui che esamina le cose da sotto.» Si esamini Savinio da ogni lato. Sarà da rivoltare incessantemente. Non confesserà mai il suo segreto questo gran chiacchierone che intrattiene conversando su ogni tema. Les chants de la Mi-Mort (1914)

È francese la prima parola di questo ateniese (1891-1952) di origine italiana. All’inizio il canto delle parole. Il musicista, singolare compositore: suo Mercurio, Apollinaire. Picabia non ha mai dimenticato: Savinio rompeva le corde dei pianoforti. Pestate la 152

musica con la violenza di un intonarumori futurista ed essa canterà una musica, sia pure dissonante e assordante. Cosa canta Andrea De Chirico ovvero (dal ’14) Alberto Savinio? Per ora la «mezza-morte»: stato di transizione perenne, fase di passaggio fra la vita e la morte, territorio mentale a doppia faccia, eterno processo di fine e rinascita. Morte e vita nuova. Come l’arte

d’avanguardia. Ogni giorno la morte e ogni giorno un linguaggio nuovo. «Il brivido della cosa nuova.» Les charts de la MiMort: nasce e subito muore la poesia di Savinio. Poi solo prosa: magari una prosa lirica, tenore o basso. Sempre una nuova idea, finché è viva: sennò muoia. Ora è più vivo che mai. Se poi è sempre mezzo morto, a quando la completa resurrezione? Negli anni Sessanta, decennio d’avanguardia. Nessuno più è immortale. La mezza-morte minaccia ogni grande artista. Introduction à une vie de Mercure (1929 e 1945)

Mercurio, l’argento vivo. Un nevrastenico corre come i futuristi. Arte veloce come un dio con le ali ai piedi. Dimmi come

cammini e ti dirò chi sei. Savinio osserva gli uomini da un seminterrato. Non è la massima profondità ma non è nemmeno

così in superficie. Sempre oltre, sempre l'Altro. C'è l’oltretomba? Mercurio dice di sì: tante anime buone o cattive. Gli si può credere? L’impossibile prima o poi sarà vero. Se sarà stato nuovo. Chi l’ha detto? L’amico Bontempelli. È questo pure il desiderio di Savinio: nuovo, impossibile e vero. Mercurio lo ha esaudito, anche se non in vita. Non vola invece il libro. La seconda vita di Gemito (1938) e La vita di Enrico Ibsen (1979, ma 1943)

Ancora la vita. Anzi la doppia vita. Due vite: uno scrittore, un artista. Una prima vita e una seconda vita. Gli artisti non sono come Mercurio. Solo il dio non muore mai. Un dono divino: possono rinascere. Se Ibsen ha una vita e Gemito ne ha due, quante ne ha Savinio? Sette anime, sette forme, per due: poeta, narratore, drammaturgo, saggista, pittore, musicista e critico.

Tornerebbe in vita Savinio? Alcesti no. Cosa non si farebbe per la vita! Darebbe Savinio la prima vita per la seconda? Meglio la seconda, o Ibsen. 153

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Souvenirs (1945, ma 1922) Savinio ricorda tutto. Parigi, o cara, addio. Ti scriverò, ne scriverò. Memoria non involontaria. Savinio non è Proust. Quanto

la fa lunga. Mega biblion, mega kakon. Spremete le meningi: poche gocce bastano. Infanzia ateniese, adolescenza tedesca, giovinezza francese e maturità italiana. Uno che si fa in quattro. Fulmini di psicologia, di erudizione, storia, memoria. Gli basta un filo: lo tira. Idee stiracchiate. Si dilatano malati il tempo e lo spazio. Associate la mente arguta di Savinio ai cento occhi di Argo. Il pittore non è un cane — un giorno vedrà l’uomo come animale — e non è fedele. Reale la vista, surreale la visione. Di-

venti presente il passato e passato il futuro. Savinio ricorda persino quello che ancora non è avvenuto. Torre di guardia (1977, ma scritti del 1933) Non è una torre d’avorio questo scrittore «volgare». Non è

nemmeno la torre di Babele. Lassù vivrebbe benissimo il plurilingue Savinio (sei lingue e molti dialetti). È una torre quadrata. Quattro verbi all’infinito: vedere, ascoltare, leggere e capire; poi altri quattro: scrivere, dipingere, musicare e giudicare. Savinio si è dato degli imperativi per il presente. Una torre di controllo? Discorsi terra terra che prendono sempre il volo. Anche i refusi tipografici rivelano verità perenni. Facciamo il suo gioco: tra D'Annunzio e Verga chi butteresti giù? Giù entrambi. E giù uno per volta quasi tutti, dai genitori ai grandi romanzieri. Giù Balzac, Tolstoj e Dickens. Grande formato, pic-

coli scrittori. Salverebbe Breton? Avrebbe buttato giù il fratello Giorgio? Alberto si mette in guardia, finge di non sentire. Rispondano allora i pittori: chi salvereste tra Savinio e De Chirico? Un dilemma insolubile. Se buttate giù dalla torre questo libro, si salveranno molti pezzi.

Hermaphbrodito (1918) Un personaggio che viene da lontano. Savinio greco, presocra-

tico, eracliteo. Il Divenire dell'Essere. La doppiezza dell’uomo moderno, più di un’anima. Una combinazione di due energie. Un incrocio divino nel Mediterraneo: Hermes e Afrodite. La154

dri d’amore in viaggio. Bisogna «rubare» per «La Voce» il meglio, i frammenti più acuti e più scottanti: in guerra e in pace. Dalla finestrella della tradotta ti fulmina l'evento da salvare. Il racconto stia dentro un piccolo spazio. Non scriverà mai grandi libri. Si urli no ai piccolo-borghesi rinchiusi in casa. Savinio invece va in prima linea. Va difesa la patria comune. Cosa ci tocca vedere! Una finestra da incorniciare. Lo scrittore corre verso il pittore? Epifanie, visioni divine. Astuzie degne di Hermes e passioni degne di Afrodite. Davvero una bella coppia. Si mescolano le lingue. Qualcuno dice espressionismo, linguaggio del destino comune ai vociani. Il destino? Essere breve (racconti meglio che romanzi), essenziale (frammenti più che storie complete), scottante e pungente (solo ciò che è caldo e acuto può essere salvato). L’ultima opera, Nuova Enciclopedia, ha lo stesso destino della prima. In principio la fine. Mercurio ruba idee al cielo e le porta in terra. Veneri eccitanti. L’afrodisiaca intelligenza calcolatrice di Savinio, scrittore singolare e sempre doppio. Un’opera che vale il doppio delle altre vociane. Avventure e considerazioni di Innocenzo Paleari (1995, ma 1921)

Glielo aveva detto Nietzsche: i fatti non contano, determinanti

sono le interpretazioni. Poche quindi le avventure, molte le considerazioni. Inascoltato il consiglio di Coleridge. Impossibile «sospendere l’incredulità». Lo impediscono le considerazioni, le interpretazioni. Le avventure di Savinio sono sempre incredibili. Non è razionale darsi e dare ragione di ogni cosa inventata o reale. Questo scrittore non è mai innocente (troppe le interferenze) e non è nemmeno innocuo (è una polveriera il cervello di Savinio). Non c’è spazio per la magia. Che scocciatura per il lettore. Quanti commenti, straniamenti e deviazioni dalla norma. Ci saranno miracoli? Nessuno potrà resuscitare

quest'opera di Savinio. La casa ispirata (1925)

Lo ispira la forma della casa (il cubo) ma non la sostanza (abiterà sempre in appartamenti d'affitto). Guerra al patriottismo di borghesi che fanno la guerra in casa. Il romanzo è bellicoso ma 155

non bello. Cari giochi di parole. La guerra quotidiana nella retrovia. I conflitti tra figli e genitori. Gli interni della casa di ieri e l’interiore degli uomini d’oggi. L'anima «disoccupata» ascolta discorsi, registra, commenta, dissacra e ridicolizza. Quante parole per così povere cose. Si faccia tesoro di tutto. L’eroismo è morto da un secolo, non c’è che la vita quotidiana. I borghesi sono sempre più piccoli. Scompariranno un giorno? Non è ancora un surrealista Savinio. La casa è ispirata ma il romanzo no.

Angelica o la notte di maggio (1927) e La nostra anima (1944)

Due libri per parlare di Psiche e Amore. Non fa bene all’anima vedere com'è fatto l’amore. Amore pretende il buio? Come l’arte? Il mito di una trasgressione e di un perdono: sarà premiata l'amante che continuerà ad amare il dio messo a nudo. Sarà invece punito Atteone, colui che ha osato guardare con desiderio blasfemo Diana nuda alla fonte. Saranno sbranati dai cani gli artisti d’avanguardia. È blasfemo mostrare a tutti come è fatta un’opera d’arte. La si fa a pezzi per togliere o aggiungere magia? Savinio non è Brecht, l’amore oggi non è più eterno, c’è l'interesse, il tornaconto. Psiche sposa il barone Rothspeer. Si domanda il protagonista di Argelica: che senso ha osservare quella carne nuda di donna che presto sfiorisce e si decompone? Il destino del nome: la lancia del Barone è spezzata. Psiche giace con l’Angelo. L’amore finisce (Amore scappa impallinato), non dura a lungo la bellezza di un corpo o di un’opera d’arte. Nel racconto omonimo ecco i «due giovani» fidanzati, finalmente sposi. Che profumo prima, che puzzo intollerabile poi. Non trascurate gli odori. Sono in grado di raccontare una storia d’amore dall’inizio alla fine. Così è fatta la nostra anima, appassionata e presto infedele. Tale è anche il destino dell’arte. L’amore — come l’arte — dura quanto una notte di maggio? Gli uomini lo fanno di notte e di giorno, in primavera e in inverno, con e senza calore. L’eros si può fare anche a freddo. Solo le creature angeliche credono ancora all'amore divino. Chi ha profanato questo sentimento? Savinio ride a ogni domanda. È un mistero la nostra anima. Cosa le è successo nel mondo d’oggi? Si ride anche con le idee «serie». La tragedia è comica. Non è una commedia molto divertente. Dopo questa notte, per Sa-

vinio comincia un nuovo giorno. 156

Maupassant e l’«Altro» (1944 e 1960) È un saggio. Meglio essere sapiente, intelligenza numinosa e un po’ folle. Il pazzo in realtà è Maupassant, grande narratore francese. All’inizio non lo era, lo è diventato: sia pazzo che grande narratore. Anzi è diventato un grande narratore solo dopo essere diventato pazzo. Finché era saggio, Maupassant era mediocre, fedele seguace del naturalismo. Le visioni lo hanno trasformato in romanziere. Il novelliere è sempre meno verista e sempre più veritiero. Solo i matti credono all’esistenza della verità dopo Nietzsche: altro pazzo le cui idee non fanno credere a nulla. Quel pazzo di Maupassant ha scoperto chi era. C'è sempre un pazzo dentro l’uomo d’oggi. C’è un Altro all’interno di ognuno di noi. Il «male di vivere», il «male invisibile»,

il «male oscuro». C'è una parte oscura di noi ma non tutti diventiamo narratori come Maupassant. Nemmeno Savinio? Ha

forse scritto narrativa all’altezza dell'autore francese? Alla sua altezza, alla sua profondità, c’è questo libretto. Un saggio. Sembra folle, ma si può diventare grandi scrittori anche con la saggistica. Un capolavoro. Critica letteraria? Così sia. Scatola sonora (1955), Palchetti romani (1982, ma 1937-39)

e I/ sogno meccanico (scritti inediti cinematografici, 1981)

Savinio va a teatro. I propri spettacoli ma soprattutto quelli degli altri (specialmente Pirandello e Bontempelli). Sente più l’altrui che non la propria musica (silenzio nel cartellone). Le scatole che sono i teatri lirici e di prosa. Sa leggere gli spartiti e sa prendere partito a favore o contro la musica. Sia contemporanea, non moderna. Il critico militante fa suonare ogni strumento linguistico. Un interprete d’eccezione. Applausi fragorosi dei lettori per Scatola sonora. Si replichi. Si scrivessero libri così. Un sogno. Uno straordinario critico musicale, teatrale e cinematografico. Una recensione può essere arte? Che domande! Capri (1988, ma 1926) Savinio non va mai in vacanza. S'è sposato, un turista normale in

viaggio di nozze. Una festa della scrittura e del pensiero. Parole scendono come coriandoli d’ogni colore. Il Carnevale in agosto? 157

Il ribaltamento, mito del Novecento. Solo una volta all’anno è

lecito essere di mente sana. La sua testa non gira mai a vuoto. Gira invece il corpo di Savinio per l’isola. Una meraviglia della natura questa cartapesta. Sono letteralmente disgustosi questi turisti. Buttate, metaforicamente, a mare il loro gusto. Preferiscono

la copia all’originale. E non siamo ancorà arrivati al turismo di massa. Sono sulla buona strada i turisti degli anni Venti. L’avanguardia di massa arriverà mezzo secolo dopo. Kitsch, simil-arte e simil-natura, il gusto dell’orrido. Affiora sotto gli occhi dell’osservatore spietato un’altra Capri, e poi un’altra, e altre ancora. Savinio fa di un’isola un arcipelago. Lievita la sua visione ed è una gioia infinita il gioco delle metafore, menzogne che suggeriscono la verità. Legga Capri chi giudica Savinio uno scocciatore. Sono vere molte obiezioni. Savinio sospetta sempre che ci sia il pelo nell’uovo. Gli basta un pelo per associare una vista insignificante a un concetto nutriente. Va a nozze chi si addentra in questo Capri. Fate dunque «vacanze intelligenti» con questo libello. Non sarebbe stato un isolato, se avesse scritto sempre così. Si intitoli a Savinio un arcipelago di linguaggi del Novecento. O una costellazione. Savinio decolla. Achille innamorato. Gradus ad Parnassum (1938)

Il Pieveloce ha perso la testa. Succede anche a Savinio, narratore intellettuale. L'amico di Breton non sarà mai un surrealista ortodosso. Il surreale di Savinio è fantastico ma molto razionale. I suoi cadaveri non sono squisiti. Puzzano i piedi ad Achille, i miti si stanno decomponendo. Chirone non ha più nulla da insegnare. Possiamo licenziare i vecchi dei della mitologia. C'è modo di rigenerarli? L’ars corzbinatoria crei nuove figure scultoree con i pezzi rimasti di antiche statue. Con due miti frantumati se ne può montare uno che è quasi nuovo e che funziona. Savinio resta sempre un figurativo. Non è mai informale né materica una sua pittura. Attenti a ogni pennellata, a ogni disegno. Un'operazione simbolica? Dite piuttosto allegoria. L’intelligenza di Savinio succhia tutto il senso di un mito e poi lo butta via. Ingravidate con un altro significato i miti, storie libertine che vanno con tutti. Savinio, monogamo, nutre sempre un amore

assoluto: tu non avrai altro senso che quello che io ti ho dato. Dopo un mito, un altro, racconto che è perenne come un dio. 158

Hermaphrodito, Mercurio, Amore e Psiche, Alcesti, Aurora, e

Ulisse. Savinio lo nomina sul campo, e sul palcoscenico, Capitano. Se lo merita. Ha abbandonato Penelope, ha cambiato la coda a un mito millenario. Indietro non si torna. Scappiamo dalla ripetizione, non ci facciamo imprigionare nel cerchio, figura conservatrice. Arriverà mai Savinio in Parnaso con tutti

questi racconti? Sarebbe fantastico. Anzi surreale. Capitano Ulisse (1944) e Alcesti di Samuele (1949)

È tornato Savinio, autore di teatro! Torna il mitico Ulisse, gridando sulla scena: dissacrate il vecchio mito dell’eroe. Non rientra in famiglia. E torna il mito di Alcesti. Penelope? Una rompiscatole. Ulisse scappa subito di casa: in cerca di altre terre e di altre donne, di cui fare conoscenza. Savinio non è Dan-

te. Urla Alcesti: mai più a casa mia. Intollerabili i genitori. E il marito? L’accompagni nell’altro mondo. Meglio morti che non l’esistenza borghese. La seconda Alcesti non torna al posto di prima. Il mito è quello di prima? No, mai, se lo interpreta Savinio. I suoi miti? In cauda venenum. Savinio avvelena sempre la conclusione. Ulisse rifiuta Penelope, Alcesti la famiglia. Quanto la fa lunga, dissero i registi teatrali e tagliarono. E gli spettatori, e i lettori? Tagliate la lingua a questo scrittore. Mette bocca su tutte le questioni: le vitali, e le mortali. È migliore del secondo Savinio (A/cesti di Samuele) il primo (Capitano Ulisse)? Non si finirebbe mai di discutere. Perciò, non facciamola lunga, anzi tagliamo corto: Savinio drammaturgo è un mito del teatro moderno. Era stato processato e fischiato. Ha fatto bene a tornare. Faremmo bene a farlo tornare in scena. Festeggiamolo, ma si continui a processarlo. Ovviamente non col rito breve. E ci sia pubblico. Savinio lo odia sempre di meno. L’avanguardia si è convertita. Lasciate che i lettori, o almeno gli spettatori, vengano a me.

La tragedia dell'infanzia (1937, ma iniziata nel 1919)

Che tragedia l'infanzia! Dentro l'infanzia c'è anche l’ansia («inf-ansia»). L’età che non parla ma che capisce tutto. L’ansia, la nevrosi. Savinio lesse giovanissimo Freud. Tu non amerai altra donna se non me. C'è il complesso d’Edipo nella Tragedia 159

dell'infanzia. È una tragedia la vita dell’infante: per colpa dei genitori. O è forse una commedia, a lieto fine? È ridicola la vita della famiglia borghese di Atene. E allora il piccolo Savinio denudò i vizi capitali dei greci. Quanto è arretrata Atene, mitica capitale del rinnovamento culturale. Lo intuisce l’infante, l’eroe silenzioso che sta imparando a vivere. La legge segreta dell’esistenza: amate fervidamente quello che piace. Prima un uccellino, poi il maggiordomo, poi il medico, infine una ballerina. L'amore sia assoluto come quello per la madre. È questa la morale della favola «immorale»? Ebbene, tu vivrai sostituendo continuamente l’amore proibito e vivrai ogni amore passeggero

come se fosse assoluto. Così fatta è la vita del bambino. Così è fatta la vita dell’artista che ha perso la verità e Dio. Rendi divino, se ci riesci, ciò che è effimero. Questa è la vita della cultura e dell’arte d’avanguardia. Il linguaggio è tutto. Finisce un amore ma al risveglio è pronta una nuova avventura. La vita non è mai di per sé noiosa. Se hai fantasia infantile (ansia che non si può dire) la vita è una continua sorpresa: tragica o comica. L’aveva detto in Atene Socrate a Platone. Ora lo dice il presocratico Savinio. Tutta la vita (1945)

Non buttate niente della vita e della scrittura di Savinio. Né i testi editi (Achille innamorato) né gli inediti. Tutta la vita impegnata a formare i cittadini di domani. «Surrealismo il mio? Dite piuttosto supercivismo.» Urge comprendere la vita di tutti. Scavate nella vostra vita e scoprirete che non è diversa da quella degli altri. Non è come la vedete nemmeno la vostra. Siate spensierati ma dopo pensateci sopra: non è inutile la vita spensierata e priva di scopo. Vi dilettate di una cosa? Continuate a farla. Solo i dilettanti arrivano alla conoscenza profonda. Non appaia subito profonda la narrazione: lasciatela libera d’andare dove vuole ed essa vi condurrà nel vostro più profondo essere. Potrebbe esserci il Nulla ma non si vede. Insistete su Tutto. Narrate, uomini, la vostra storia (1942)

Tenete lontani gli storici dai personaggi della storia: da Verdi, da Bocklin, e da Nostradamus. Solo i narratori sanno racconta160

re cosa è veramente successo all'uomo. Narrando, si dicono cose che vanno oltre i fatti: che di per sé non esistono. È di nuovo

possibile raccontare per filo e per segno gli eventi della storia umana. Il prima e il poi, il come e il perché. Fine del surrealismo. Il surreale è reale. Le profezie di Nostradamus. A noi invece tocca essere profetici con la storia passata. Vedremo il senso sfuggito a chi era presente? Bécklin aveva la visione della vera realtà perpetua. E poi metteteci la musica, anche quella popolare. Un esempio: la fisarmonica di Verdi. Finalmente è popolare pure Savinio. Narrata da questo Savinio, la storia degli uomini come artisti e profeti sembra vera. Una storia vera tanto bella quanto può essere una bella storia inventata. Narratore fantastico, Savinio inventava la realtà. E noi ora ci credia-

mo. Tenete lontani i critici che ancora diffidano di questo grande personaggio storico che è Savinio. L'infanzia di Nivasio Dolcemare (1941)

Passata è la tempesta, il Mediterraneo non è più agitato, Savinio può guardare indietro verso la propria infanzia senza rancori. Si è calmata anche l’ansia che rendeva la giovinezza tanto aggressiva verso i genitori. Savinio è maturato, la narrazione non si lancia coi cavalloni contro la propria famiglia, se ne può parlare con distacco olimpico. Le correnti sono sempre molto forti e urtano la nave dal fondo. In superficie è dolce il mare: che è madre e morte. I genitori non sono più in vita, se ne può rimpiangere la

presenza. «Padre, perché non torni?» Savinio non torna al passato remoto, il suo tempo è sempre il presente, è scomparso il romanzo dell'Ottocento, la narrativa del nuovo secolo è cresciuta

e dà i suoi «moderni» capolavori. È forse L'infanzia di Nivasio Dolcemare il capolavoro della narrativa saviniana? Si tenga in vita l’interrogativo: nessuno può dare una risposta sicura. Il lettore di Savinio è stato educato a non aver certezze. La prosa è più distesa, il racconto è più fluido, latitano gli scogli palesi o posti sotto il pelo dell’acqua, non si sfascia la scrittura sui concetti dello scrittore. Questo narratore rischia sempre d’essere più intelligente della propria fantasia. L’autore non sta sempre addosso ai fatti, a porre domande e a dissacrarli. L'infanzia non è più una tragedia furibonda, semmai è una commedia in bonaccia. La risata non è più irriverente, l’umorismo ha il soprav161

vento sulla comicità blasfema, si può sentire compassione per i genitori e per iloro ridicoli amici. È l’alba, all'orizzonte appare la crisi ma non c’è da allarmarsi. Toccherà abituarsi a questa vita. «La crisi è permanente» ma dà felicità questo gioco infantile di chiudere e riaprire le questioni. Oh, poter restare sempre nell’infanzia! Non maturi mai l'artista, nemmeno in età matura, e si salverà. Questo romanzo si salverà. Dico a te, Clio (1940)

Savinio è sempre più sicuro di sé. Sempre fecondo, e sempre incinto. Evviva! Le sue forme letterarie hanno generato i significati di cui erano pregne. Ora si può raccontare la storia, personale e sociale. Lo dice a Clio, quasi un ordine: è tempo per la Musa di tornare a fare storia come si deve. Un occhio rivolto all’attualità passeggera, l’altro al senso sepolto sotto la nostra epoca. Serve sempre il terzo occhio, servono ancora di più le visioni. Sembrano surreali ma sono loro ad avvicinarsi di più alla verità. Nella maturità Savinio considera verità le proprie opinioni. Il lettore continui a considerare opinioni le verità di Savinio. È fondamentale dirle bene, come un dio. La prosa è classica, chiara e metafisica, come la «voce del pianoforte». Come se si parlasse a una Musa che se ne intende. Dico a te, Clio, Musa che racconti storie. Proteggi questo scrittore devoto alla storia, vera o fantastica che sia.

Sorte dell'Europa (1945, ma 1943-44)

«La grandezza del disastro nel quale siamo piombati è esattamente proporzionata all'altezza della “montagna retorica” in cima alla quale il nostro paese era stato innalzato. Nostra cura costante dev'essere la caccia ininterrotta e spietata alla retorica;

perché non c’è soltanto la retorica della “grandezza”: c’è la retorica della “piccolezza”, la retorica della “modestia”, la retorica della “bontà”, la retorica dell’“onestà”, che non sono meno

pericolose di quella. Il fascismo fece uso di “tutte” le retoriche: dalla retorica del francescanesimo a quella del mare nostrum, passando attraverso la retorica della regalità, del papato, del materialismo, della santità, del guerrierismo, del sociale, del-

l’aristocraticismo ecc.» 162

Ascolto il tuo cuore, città (1944)

Gli uomini possono non avere il cuore ma non gli oggetti. Specialmente se animati quanto una città. La circolazione andava male, ma il cuore batteva forte. Mai sentito un ritmo simile. La città è il cuore del mondo moderno. Se vuoi capire la vita, non puoi più vivere in campagna. All’intellettuale e all’artista tocca stare dove si concentra e riparte il sangue della nazione. Savinio ausculta le arterie e le viuzze delle città. Sono disumane? Sarà Savinio a renderle umane. Solo in città l’uomo è davvero vivo. La prosa non dà più l’infarto, s'è calmata la giovanile tachicardia. Savinio muove le pietre. Non è Ruskin, ma come diventano belle le brutte o belle città visitate, viste o visionate da Savinio. Pulsa sempre più a sinistra il cuore del cittadino Savinio. Presto sarà socialista democratico, in Calabria. Partita rimandata (1995, ma 1948)

L’ateniese va in Magna Grecia, in Calabria. Di fronte c’è la Sicilia, l’isola del padre. In compagnia dell’economista, un ministro socialdemocratico. «L'America dà denari e lavoro agli altri, per salvare il proprio lavoro e i propri denari.» C'è calcolo in ogni generosità, il materialista ha i migliori ideali. Impressioni «vive, fresche, vere». Dalla vita quotidiana alla verità. Questa la lezione neogreca. La differenza? I greci camminano con passo di danza, i calabresi invece «stanno dentro le cose, grave-

mente». Gravissima la condizione sociale. «Spettacolo desolante. Poverismo. Tristezza. Umiliazione della fatica, soprattutto nelle donne, nelle povere donne.» La ripetizione? «La mancanza d’infinito mostra quanto greci sono i calabresi.» Savinio alla ricerca di se stesso come aborigeno. «Uomo e animale, uomo e pianta, uomo e natura qui sono più vicini.» É sia guerra all’estetismo. «Si vuol sapere perché l’esteta cambia apparenza alle cose? Per vergogna.» In Calabria l’ateniese Savinio ha scoperto le cose che si salvano dall’apparenza. E capisce chi fu, chi è e chi sarà l’ateniese che andò in giro per l'Europa, dalla Grecia alla Magna Grecia, attraverso Parigi e Roma. Alla fine vince sempre il cerchio sul cubo. Una prosa solare.

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Nuova Enciclopedia (1977, ma 1941 e seg.) È un illuminista Savinio? In un modo mai visto: il suo illuminismo è surrealista. Le idee fondino una scienza della fantasia. Si ricominci dall’alfabeto. Non è necessario mutare l'ordine delle lettere. Attenti alle idee e soprattutto alle cose nuove. Una parola per volta. Ripensata. Savinio sta ripensando a tutto quello che ha scritto. Ha cambiato idea ma ha ragione anche stavolta. Le cose non sono vere 0 false, sono l’una e l’altra cosa. Anche le più intelligenti prima o poi diventano sciocche. Era un’idea di Flaubert? Savinio è intelligente anche quando l’idea è scema. Lo «stato scemo del genio». Vi pare un’idea da ridere? La comicità è effimera: presto vi verrà da piangere. La modernità è una tragedia, anche se ride di tutto. Tanti pensieri ma non sai dire se sono da ridere o da farci un dramma. Questo prosatore «scemo» è spesso geniale. Voltaire, Diderot? Saremmo pazzi a dirlo ma talvolta il lettore lo pensa. Gli italiani non hanno grandi filosofi? Dopo Leopardi, ci saranno Gadda, Bontempelli, Savinio. Non dureranno come pensatori? È da cinquant'anni che Savinio illumina la notte dei contemporanei. Scritti dispersi (1989) È quasi un’altra Nuova Enciclopedia. Savinio ci ripensa, teme la precarietà delle sue idee. Eppoi bisogna campare. Le disperde su ogni quotidiano, settimanale o mensile disposto a ospitarle. Alcune sono morte ma molte sono tornate. Sono state accolte con gran favore. Scripta manent, verba volant. Volando, le parole di Savinio arrivano all’orecchio di chi lo conosceva. Molti scritti sono dispersi. Dove? Nelle opere di saggisti che avevano dimenticato dove avessero letto quelle idee. Non sempre si vede ma ora Savinio ce l’abbiamo tutti nel sangue. Se non credete a questo modo di sintetizzare, continuate pure le analisi. Gli esami non finiscono mai. Questo non l’ha detto Savinio, ma lo pensava.

Casa «La Vita» (1943)

Quest'opera narrativa intitolata alla vita è quasi interamente dedicata alla morte. La morte come tema centrale, e non solo finale, della vita. Chi muore male è il signor Munster. Il corpo 164

si va progressivamente disfacendo mentre è ancora vivo. Moriamo ogni giorno un po’. Dobbiamo averne consapevolezza. Chi è cosciente d’essere solo un mortale ha mente viva. Questo conta veramente. Molti credono di essere vivi e invece sono morti: nella mente, che i piccolo-borghesi mandano prima in pensione. Muore solo chi non è in grado di reggere alla vita: che è finita solo quando la fantasia non sa resuscitarla. Reale è solo la morte? Reale è solo la vita: purché la si sappia vivere, con arte. Questa sola dà la vita: e solo fino a quando uno sa creare una storia che si abbia voglia di ascoltare. Rinasce ogni sera Sheherazade, che inventa quotidianamente un racconto con cui ammaliare il tremendo sposo. È una favola da Mille e una notte ma è anche la verità. Potremmo morire ogni notte, se non riusciamo a pensare una favola cui affidare il senso della giornata di vita che ci è stata concessa dal sovrano. In quanto alla casa, essa è illuminata, è piena di calda vita anche se non si vede nessuno, c’è solo la musica di un violino. In una stanza del piano superiore della casa un violino suona all’altezza della spalla di un musicista che non c’è. C’è magia, c'è il mare, c’è il ricordo della madre. Chiedetene il senso

all’ebreo. La sua lingua ha la stessa radice per tre parole: mare, madre, morte. Dalla madre alla morte la vita è navigazione in un mare in tempesta. Lo zio dello scrittore rumoreggia irriverente ma Savinio relega in appendice la scena di vita. Qui ora c'è l’arte del narrare ed è magica. C'è il fatto ma l’interpretazione è assente. Così fatto è il mito, racconto che attira mille inter-

pretazioni ma non ne accetta nessuna da sola e definitivamente. Savinio vivrà finché si daranno interpretazioni diverse delle sue magle narrative.

Il signor Dido (1978, ma 1949-52) È sempre lui, Savinio, il doppio Savinio che è nato «ermafrodito». Si traveste in mille modi ma lo riconoscerete subito. Un uomo ha poco meno che il nome di una sventurata regina africana. Questo scrittore raddoppia o triplica la propria autobiografia. Doppia è anche la direzione: una verso la superficie, verso la vita quotidiana; un’altra verso il significato profondo. Verso il mito? I miti sono fra noi ma sono finiti all’Upim. Qual è il mito che un uomo comune sta interpretando? Si innalza la 165

vita quotidiana e si abbassa il mito. Si ricorra ai linguaggi bassi, alla comicità alta o bassa, alla riflessione più elevata. Per insaporire la vita, vale la prima regola: farla a pezzi: aneddoti, scene, dialoghi, novelle o racconti brevi. Non manca certo la materia a Savinio. È grigia e insieme fosforescente. Contraddizioni, rovesciamenti, paradossi, ambiguità. Dido chiacchiera: come una donna, direbbe un siciliano. Non c’è più disperato dolore. Savinio rinnovella tutto quello che fa pensare alla morte. Della celebre coppia romantica — non Enea e Didone, bensì Amore e Morte — va progressivamente rubando la scena il secondo personaggio. È il 1952. Muore Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico.

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Carlo Emilio Gadda, o della «deformazione integrativa»

Era destino — Gadda lo faceva coincidere con la più vera realtà — che il Gran Lombardo non portasse a termine le sue narrazioni di maggiore dimensione. Incompiuti restano tutti i suoi romanzi: Racconto ttaliano di ignoto del Novecento, La meccanica, Novella seconda, L’Adalgisa, La cognizione del dolore, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Gadda ha apposto la parola «fine» solo ai racconti: magari lunghi quanto il romanzo breve che è Sar Giorgio in casa Brocchi, meraviglia dell’Italia letteraria. Non è definitivo nemmeno l’elenco dei titoli che seguono. È arrivato infatti fuori tempo massimo un altro inedito: Ur fulmine sul 220. Non è un fulmine inatteso: se ne parlava da anni. Esisteva un ulteriore tentativo di Gadda: sempre all’inseguimento del romanzo, genere canonico della narrativa, ossessivo oggetto del desiderio di uno scrittore che non voleva essere ridotto nei confini minori del «poemetto in prosa» e che in sostanza è diventato per almeno due testi un grande romanziere. Non ha mai pensato che i suoi non fossero romanzi «come quelli dell'Ottocento», suo modello narrativo. Il destino — la realtà, della sua psiche e del suo linguaggio — ha preteso che Gadda scrivesse romanzi «decentrati» come sono i maggiori del Novecento. Giunto alla periferia del sistema, un capitolo di Ur fulrine sul 220 è finito dentro i «disegni milanesi» dell’Ada/gisa. Era destino che i capitoli dei suoi romanzi fossero servi di almeno due padroni. Hanno fatto i racconti dentro Accoppiamenti giudiziosi molti capitoli di romanzi come La meccanica e La cognizione del dolore. Alta chirurgia narrativa, sofisticati trapianti, nessun rigetto. Gadda tiene pronti e rifiniti gli organi per il momento in cui si renderà necessario l'innesto. Dopo l'operazione il romanzo, ogni roman167

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zo gaddiano, procede lento, dinoccolato e circospetto ma, pieno di energia, sta in piedi che è una bellezza. II giornale di guerra e di prigionia (1955, ma 1915-18) I tre sostantivi della sua vita e della sua arte. Giornale, guerra,

prigionia. Dal diario della propria vita una narrativa ad alta percentuale di autobiografia. Raccontare ciò che ha visto e sentito, con molto sentimento. Brucia soprattutto il risentimento. Sotto il fuoco di nemici reali o immaginari. Sempre in fiamme. Come se fosse successo oggi, anzi in questo momento. Detto così, a caldo, sarebbe potuto piacere a un vociano. È questo un espressio-

nista? Un cattivo soggetto ha gli incubi. Sempre in guerra, con gli austriaci e coi militari italiani, nonché coi borghesi; coi superiori e con le classi inferiori: povere vittime della dissennatezza propria e dei generali! Ma c’è anche altro, c'è un uomo che urla dall’interno. Il prigioniero tenta di uscire dalla nevrosi: lo ha messo in catene. Ha ragione a prendersela con la madre o è pazzo? Se Gadda fosse stato saggio, non sarebbe mai diventato il grande narratore che è. Quanta energia nella camicia di forza che è un romanzo di Gadda. È un simulatore questo «demente». Lo confessa anche il prigioniero. Una sapiente finzione è il linguaggio del pazzo. Artifici per essere più naturali. E allora viene naturale chiedersi pure: il diario è un libro? Ogni libro gaddiano è un giornale di guerra che tiene prigioniero un romanzo? C'è guerra tra i critici. Alcuni sono prigionieri del luogo comune: Gadda non sarà mai un romanziere. È un mito. Dissacriamolo. Liberiamo Gadda dalla prosa d’arte. Non lo tollererebbe la vita romanzesca di questa infelice creatura che è sempre in guerra ed è sempre prigioniera del suo «carattere involutivo». Riuscirà ad evolvere? Si chiami a consulto Freud. Risponda all’interrogativo fondamentale di colui che presto diventerà un suo seguace. Le bizze del capitano in congedo (1981, ma 1918) È falso che Gadda sia andato mai in congedo. Metaforicamente parlando. In pratica sì magari, ma nella sua mente non c’è pace che tenga. L’ufficiale è convinto d’essere diventato bizzoso da quando si è congedato, ma anche prima era molto nevrastenico, irascibile, furioso. Potesse essere freddo e dissimulatore! Starebbe meglio coi nervi e verrebbe meglio la letteratura. Si 168

faccia una bella confessione (in verità il racconto bello non è), si scriva quel che viene in mente. Però è meglio se c’è la memoria, ricordi di vita vissuta, autobiografia dissimulata. Com'era

felice in guerra! Meglio sentire le bombe fuori di sé. E in pace? Non c'è pace per il combattente. Solo in guerra, sola igiene, se non del mondo, del suo cervello, Gadda è contento di sé. È

sempre più involuto il suo carattere involutivo. Lì c’era un nemico visibile, il bersaglio era chiaro: era urgente colpirlo. Si spara su tutto e su tutti per futili motivi, ma abbattuto è sempre Gadda: tranne quando urla. Spari a salve ma, se la ferita è aperta, basta la polvere a farti urlare. Ti arrovelli contro avversari inesistenti o nascosti. Qualcuno fa del cecchinaggio dal tuo interno, dal più profondo te stesso. Verrebbe voglia di congedarsi dalla vita per questo male invisibile. Racconto italiano di ignoto del Novecento (1983, ma 1924) La parola è detta. Ecco cosa scriverà. Il racconto è la sua vocazione. L’Ingegnere sarà un narratore e vincerà un premio.Viva i premi letterari, tengono in vita chi sta morendo di fame o quasi. Perciò Gadda scrive un romanzo. Resterà incompiuto: quando si dice il destino. Forse per scaramanzia lo chiama racconto. I racconti infatti Gadda li finisce a regola d’arte. In questo romanzo di formazione un irregolare tenta di comporre un’opera narrativa. Prima o poi questo esordiente, da milite ignoto della letteratura, andrà a diventare un celebre romanziere nel Novecento. Attenti alle date, non perdete di vista la storia, bisogna raccontare il proprio tempo, l’Italia uscita a pezzi dalla guerra. Bisogna essere assolutamente contemporanei. C'è il fascismo, ci sia il ritorno all’ordine: è tempo di edificare: ricominciando dal romanzo. Se è necessario, si faccia «La Ronda» a

difesa del buon italiano. Gadda tirerà ancora fuori la sua biforcuta lingua contro l'italiano dei benpensanti ma non è ancora nata la miscela linguistica esplosiva di Gadda. E il romanzo va in mille pezzi. Raccogliete quelli di teoria del romanzo. Sono migliori quelli di Teoria della prosa di Sklovskij? Anche Gadda prepara la mossa del cavallo: darà scacco matto a tanta narrativa del Novecento, scartando e gettando dal cavallo ogni dannunziano. L'animale più intelligente è qui però un mulo, un incrocio naturale. Gadda li farà innaturali ma così si va più veloci. A tal fine tenetevi pronte cinque maniere umoristiche di 169

raccontare e qualcuna potrebbe funzionare. Sennò inventatela. Non ha inventato lui l’ars corzbinatoria. Gadda non è un gesuita, non è del Seicento, non ha ancora trovato la combinazione con cui arrivare al proprio segreto. Il romanzo viene sbranato e

i frammenti sono sparsi in tanti altri libri. È carne viva e palpitante ma non regge lo scheletro. Urge una nuova struttura del romanzo. Lo pretende il Novecento ma essa è ancora ignota al

nuovo narratore. Che fare? Ci deve pensare il romanziere, se vuole essere noto e vincere il premio Bagutta. Prima o poi arriverà la vittoria che premia tutti i sacrifici di uno scrittore sempre in guerra con le parole e con le idee. Meditazione milanese (1974, ma 1928)

Non si tratta di filosofia provinciale. C'è metodo in questo discorso che a qualcuno sembra folle. L'ha sentito un medium, cioè un critico: ci batte più d’un colpo lo spirito di Cartesio. Lo stile è «bertoldesco», è molto spiritoso, alta gradazione di pensiero con linguaggio basso. Si sente l’odore del vino come in osteria, ma lo scrittore non parla da ubriaco. Né Gadda è un cacasenno. Gli uomini, secondo lui, non ne hanno abbastanza da buttarlo via. Non è una meditazione milanese, l’ha pensato anche a Firenze e a Roma, nonché in Argentina. Quell’aggetti-

vo così puntuale e locale è una metafora? A Milano si pensa così. Le idee vengono meglio se si parte da terra, dalla propria terra. E allora diciamolo: questo lombardo fa meditazioni più elevate di tanta filosofia italiana. Così pensano almeno i lettori del saggio gaddiano. Che ora si domandano: i poeti italiani sono pensatori più grandi dei filosofi di professione? In Meditazione milanese c'è un disegno — è evidente, sulla copertina del libro postumo —, ed è pure una poetica. Attenti agli spigoli del poliedro che il milanese accampa in una pagina! Sono davvero acuti i pensieri di questo ingegnere. Se non gli altri, Gadda ha pungolato se stesso. Gliene è grata la sua narrativa, ma questa saggistica non è servile come la critica. È già padrona di sé, scrittura che rimane in testa, prosa magnifica su cui farebbe bene a meditare ogni autore di romanzi. Accorrano tutti i lettori che non temono i pensieri con cui si va controcorrente.

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La meccanica (1970, ma 1928)

Serve il genio lirico espressivo ma che ci fai se non hai la tecnica? Si possono compiere miracoli con l’infinito presente. C'è del futurismo? Ha problemi di dinamica la macchina narrativa. La ruota sembra quadrata. È il cubismo? Guardate sulla faccia opposta del lato del cubo. La forma e la sostanza di un oppositore. Non sono poemetti in prosa. Quanti conigli in questi cilindri. È nato un grande clown. Nasce l’acrobata della parola. Talvolta si procede a singhiozzi (piange la solita madre) ma spesso si ride (del padre e della madre). Combaciano perfettamente il motore di Paolo e la carrozzeria di Zoraide. E si prende la scossa. Gadda non ha ancora fatto il pieno, consuma parecchia benzina per i primi episodi, che sono davvero travolgenti. Gadda resta a secco nei capitoli finali, e la macchina si ferma. Ci ha lasciato se stesso dentro (un sottotenente che è idealista quanto l’operaio socialista). Dopo coi pezzi di ricambio usati Gadda comincia a montare altre macchine. Ci si possono fare «accoppiamenti giudiziosi», ma questo è il primo bel romanzo dell’Ingegnere. Un imprevisto incidente blocca però Gadda. Il romanzo è in guerra con il suo creatore, scrittore interventista e antisocialista. Perché questa

macchina che sembra perfetta è in panne prima che finisca il viaggio? La meccanica lascia una scia. Non appiccicate i capitoli

pubblicati postumi. Il sistema ha le porte aperte. Tira un forte vento dalla periferia. Soffia il dialetto veneto di Zoraide. Uno schianto. Urge fare marcia indietro: lo impone il romanzo al suo autore. Chi ha ragione? I socialisti, risponde il romanzo all’esterrefatto Gadda. La polifonia (dicano la loro anche i nemici) le ha suonate alle sue idee politiche. Vince sempre «il narratore nascosto». Senza saperlo Gadda è stato socialista? Il castello di Udine (1934)

Proteggeteiconfini, innalzate castelli contro il caos e la dissennatezza. Il narratore come poliziotto. In difesa delle patrie lettere. Non bastano i documenti: come osano questi barbari parlare in dialetto dentro il territorio nazionale? Non si abbatte così l'alta costruzione di Petrarca. E Dante? I poveri stanno «malamente». Un napoletano sul Carso? Quasi La paura di De Roberto. C'è anche panico a quella quota. Che silenzio nelle segrete! Il prigioniero non si vede, e per ora si sente poco, forse è rassegnato. Qualcu171

no però canta, il narratore è lirico. Non è un trovatore, ma è alla

ricerca di se stesso. Qualcuno abbassa il ponte levatoio. Si vuole comunicare. Non con le avanguardie, che sono rimaste a Caporetto. Bisogna frenare il magma, dare forma all’informe. Una roccaforte per un soggetto debole. Non è ancora caldo l’olio bollente della prosa gaddiana. È scritta guardando dall’alto. Ora però tocca scendere in pianura, a valle, in linguaggi più bassi. Ci sarà di nuovo Caporetto ma anche la rinascita. Qui nasce ufficialmente la narrativa del sottotenente Carlo Emilio Gadda, l’imbecille di famiglia. Non bastano l’alta quota sentimentale, i picchi

morali, i cocuzzoli del commento. L’aria è pura, ma non è arte pura quella di Gadda. Anche lui va in paradiso passando dall’inferno. Gadda sta diventando un narratore dantesco? Dal castello si guarda e si racconta da almeno tre punti di vista: manca il quarto, tocca scendere, servono linguaggi più bassi. Urge ritirarsi da Udine e portare la guerra in Italia e all’estero. È tempo di viaggiare. La letteratura di viaggio non si riposa mai con Gadda. Ha il mal di mare? Ha il male invisibile: non si vede ma si sentono gli urli, soffocati rispetto a quelli del Giornale. Quale italiano ha messo il coperchio sull’anima bollente di Gaddus? Tiri fuori la lingua il Gran Lombardo, e farà vedere a tutti cosa sa fare il romanziere.

La Madonna dei filosofi (1931)

La religione del pensare. Il pensiero però sia anche ispirato. Il filosofo cerchi la Verità, anche se ora sembra solo un punto di vista. La «madre adorata» di un povero cristo schiaccerà il serpente penetrato nel cervello di Gadda. Non si scrive col cranio scoperchiato di Joyce. Quanti pensieri per scegliere ogni parola. Ci vuole l’aiuto della Madonna per avere il «genio lirico espressivo», ma è il diavolo a offrire le idee giuste per andare all’inferno. Non sembrava un predestinato. Tutti lo consideravano uno scemo, un imbecille. Gadda ha forse il pensiero debole? La teoria c’è ma sono ancora piccole le buone azioni. Il castigo di Dio cali sopra questo miscredente. Non sarà mai perdonato il delinquente, colui che abbandona la retta via della letteratura, il narratore che fa il doppio gioco. Peccati veniali, piccoli furti, timide trasgressioni. Qualcuna l’ha pensata bella. Sia ringraziata la Madonna per non averlo lasciato così com'era in natura. Filosofi, con una cultura diversa pensate una grande idea nuova e credete172

ci. Ci credano anche i narratori: la Madonna concedela grazia solo a chi ha pensieri e fantasie mai visti, magari brutti, cioè deformati. La deformazione è premessa di conoscenza e di bellezza. L’Adalgisa (1944) Cherchez la femme nella narrativa di Gadda. È un imperativo di Contini. Più che il francese, è una rivelazione il milanese. Vengono bene anche le venete (Zoraide) e le romane (Liliana, Ines, Zamira) ma l’Adalgisa non devi cercarla: ti viene incontro prepotente e non la dimentichi più. Potrebbe essere sua madre? Non sono domande da farsi, a chi pensa carota e dice carota. È lo smacco del realismo. Tocca essere più espressivi, usi i traslati chi vuole avvicinarsi, ma solo fulmineamente arriva la verità più segreta. Meglio scappare dalla tangibile e scottante patata dei naturalisti. Il prigioniero tenta la fuga in abiti femminili. Zoraide, Jole, l'Adalgisa, figure a tutto tondo. A proposito, cosa sta rotolando lo scarafaggio del geologo? Così va il mondo. Una palla di sterco. Un mondo di merda, ma quali nobili cose non si possono fare con la materia! L’epica dello scarafaggio: la si prenda dove c’è. Ateucus Sacer è valoroso come Aiace. Lo dice uno scienziato dilettante. La scienza trasforma tutto, lo deforma e così conosce.

Riconoscete Bouvard e Pécuchet? Che ci fanno questi due imbecilli in Italia? Non sono morti, si sono trasferiti nel nostro secolo. Se sono un mito moderno, non moriranno mai. Circola il fanta-

sma di Flaubert nei romanzi di Gadda? L’Adalgisa fa pulizia al cimitero. Come è facile scrivere sul marmo malo stile non è epigrafico. Bloccate chi vorrebbe scalpellare le digressioni di Gadda. Si chiami il poliziotto, lo si rinchiuda, ma nulla può trattenere

Gadda dalle trasgressioni morali, culturali e linguistiche. Che temperamenti queste donne di Milano! Nemmeno la madre scherza. Gadda è il sior Carlo o è lAdalgisa? Le si faccia un brutto scherzo: si rida e così la ferisci mortalmente. Una figura quadrata che non rotola via, nemmeno se l’ammazzi. È un’esperienza da fare, Gadda tenta in quasi tutti i libri. L’Ingegnere le prova tutte ma l’Adalgisa non l’ammazzerà mai nessuno. Novella seconda (1971, ma 1928)

Non si può andare avanti così, è intollerabile restare prigioniero della prima novella, quella raccontata dalla madre. È insop173

n

portabile la lingua madre, quello che si può dire con essa e quello che si pensa con la testa di una borghese dell'Ottocento. Sheherazade racconti una novella seconda, se vuole vivere per un altro giorno. Pure il caffè di cicoria è caffè. Una novella eccitante, anche se poi ti butta giù. O meglio, se butta via la madre, il suo linguaggio tragico, il suo pensieto benpensante. Faccia luce il figlio nell’inconscio, con ogni mezzo, con tutti i metodi vecchi e nuovi, con ogni psicanalisi. Paradisi artificiali,

artifici tecnici, overdose di metafore, visioni incongrue, giochi dall'interno e dall’esterno, babele di lingue, ossessivo rincorrersi di immagini, precipitare di digressioni, frasi che si annodano, voci che urlano o ridono. Scendere nel profondo e poi risalire col proprio segreto. Quali orrendi desideri, che insane voglie! Non ci si era mai visti così feroci. Altro che burle e beffe, non

siamo più nel Sar Giorgio in casa Brocchi. Ora una madre la puoi anche uccidere. Invece Tozzi, Savinio e Kafka fanno fuori il proprio padre. Tocca colpire il male invisibile alle origini. La colpa della nascita. È questa la natura o è solo una cultura? Si può raccontare diversamente la vita? Bisogna «delinquere» come il latino, cioè lasciare il vecchio modo di pensare e bere il

caffè di cicoria. E allora si aggredisca la madre, la sua mentalità e il suo essere: genitrice di una vita dissennata. Dalla beffa al matricidio? Mente o braccio che sia l’organo che lo compie, il gesto o pensiero è strutturalmente identico. Data la N (la natura?), poi la conoscenza procede così: N+1, N+2, N+3 ecc. La storia ha i numeri per cambiare le cose. Urge cambiare lettera, se si vuole cambiare la sostanza della questione privata e collettiva. Lavoriamo alla lettera, ma attenti alla metafora.

La cognizione del dolore (1963) Duole tutto, il fegato, il cuore e il resto del corpo ma duole specialmente l’anima. La devastante nevrosi, l'invisibile male in-

sensato, l’angoscia che deforma all’interno e all’esterno. Un dolore per cui si urla e per cui gridano i colori dei pittori espressionisti. Questa smorfia aiuta a conoscersi. Si può smorfiare l’anima? Il personaggio è piagato dentro. Quanti mostri in questo romanzo. C'è anche la caricatura. E allora si ride. La comicità che è pure tragedia. La madre preferisce la tragedia, fa la tragica, non è più comica come quando era la madre del «meccanico» o del contino Brocchi. Qui si parla con cognizione di

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causa: Gadda sa tutto della psicanalisi. Si può morire senza ragionevole motivo. Da quando è morto il positivismo, come s'è ridotto il personaggio uomo! Che rovello! Un trapano. Si faccia un foro per lasciar sfiatare l'angoscia. Come ferire la madre che ha dimenticato il figlio imbecille e folle? Uccidete quel linguaggio, e tuttavia abbiate pietà della madre e del figlio. Un viaggio agli inferi. L’indovino Tiresia tace e la madre guarda indietro, verso altre ombre. Nemmeno agli inferi è consentita la conoscenza della verità. È proibito l'ingresso al profondo. Si possono fare tutte le smorfie che si vogliono ma non c’è comunicazione tra le anime. Quell’abbraccio alla madre è soffocante. Alla lettera: il poliziotto non scopre mai il colpevole. Nessuno vuole confessare, non c’è da credere a nessuno. «I pronomi sono i pidocchi del pensiero.» Gratta gratta c'è sempre una tragedia dentro l'umorismo. La cognizione del fascismo. Una malattia dell'anima italiana? Hanno visto in tutto il mondo il male visibile degli italiani e il male invisibile di Gadda. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) Dopo la via milanese (Sar Giorgio in casa Brocchi, L'incendio di via Keplero, La meccanica), ecco la via romana al capolavoro. Letteratura di strada. Il palcoscenico naturale ora è la città dei papi. Il centro dove confluiscono tutti i modi di parlare, il grande quadrivio che prima ancora è un trivio. Una grossolana città, un narratore pantagruelico che si allarga verso la periferia. Strade ma anche sotterranei, un reticolato di arterie e capillari con cui si butta il sangue per sopravvivere. Se fate l’analisi, è un cancro, immensa metastasi che invade ogni spazio e che cresce inesauribilmente. In questo pasticciaccio, c'è uno straordinario consumo di energie. Non vi accontentate della celebre gallina della Zamira che offende le forze dell'ordine. C’è una saporitissima porchetta al mercato di Piazza Vittorio. Non si butta proprio niente della cucina gaddiana. Troppe calorie nelle lardose digressioni? Non si vede l'osso, sembra assente la struttura, gronda di saporite metafore la scrittura. Se manca la parola per dire una cosa, la si inventi. Creazione o rappresentazione? Il realismo di una catastrofica visione. Quale pasticcio è mai questo, se quanto più metti in ordine tanto più aumenta il caos? Le braccia di san Pietro non ce la fanno più a trattenere il dilagante magma. Impazza la mente di Gadda, vulcano che 175

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erutta lapilli da cui non si salva nessuno. Verrà la polvere e seppellirà un’umanità così dissennata. Si salva solo Ingravallo? Salvate Liliana Balducci, la Zamira, Ines Cionini. Come vengono bene le donne a Gadda, anima femminile!

I viaggi la morte (1958)

Meditazioni non solo milanesi. Sono saggi ma ci sono molte idee matte. Con esse si viaggia oltre la morte? Viaggiando tra

un secolo e l’altro (dall’Ottocento di Manzoni e Flaubert al Novecento di Moravia), dalla lingua al dialetto, da un dialetto settentrionale a uno centro-meridionale, da un linguaggio all’altro (dal naturalismo al cubismo e all’espressionismo),

dall’«onnipotenzialità» (maschio e femmina) alla polarizzazione (maschio o femmina), dal gioco ab exterzore al gioco ab interiore, dalla natura alla cultura e viceversa, dal tragico al comico,

dal serzzo bumilis a quello prezioso, dal discorso indiretto libero al monologo interiore camuffato, dalla prosa alla poesia, dal poemetto in prosa alla narrativa, dalla favola al romanzo. Sempre in viaggio per sfuggire al linguaggio che deperisce e muore. Dal Giornale di guerra e di prigionia al Pasticciaccio. Teoria, storia, tecnica, critica. Con un simile saggista si va lontano, all’indietro e in avanti. I grandi stili, secondo Heisenberg, sono sem-

pre complementari al presente. Gadda viaggia verso il futuro per essere sempre presente. Un mito? Il mito gaddiano. Il pasticciaccio in cui dolcemente affoghiamo per l’eternità. Questo è solo l'ordine naturale delle cose, ma viaggiando nel tempo e nella storia le cose cambiano. Deformando, ne fa conoscere di

cose ignote questo spastico saggista! Gadda non avrebbe mai parlato di morte della letteratura, anche se poca gliene piaceva, compresa la propria. Pare che il Gran Lombardo sia morto facendosi leggere I promessi sposi. Il viatico e l'estrema unzione. Si può vivere per scrivere solo Quer pasticciaccio brutto de via

Merulana? Basta e avanza per concludere che Gadda è un grande romanziere, anche se il racconto non è concluso. Il romanzo non è finito alla lettera ma metaforicamente è infinito. Eros e Priapo (1967)

Il sesso divinizzato. Gliel’ha detto Freud che si tratta degli dei del nostro tempo e Gadda ci ha creduto. Naturalmente a paro176

le, così si dice. L’erotismo della parola ha il suo dio in Gadda. Sa fare di tutto con la lingua. Metaforicamente parlando. Ricordate il brigadiere insonnolito sulla moto verso i Castelli? Gadda ha messo un tigre nel proprio motore. Ogni strada conduce a Roma con l’energia trasmessa alla frase. Il kamasutra della sintassi. Mille posizioni contro la routine. La deviazione dalla norma, effetti shock, straniamenti. Ogni tecnica dell’amore per la letteratura. Un manierista, un onanista, un formalista? Barocca è la vita. Anche così si cerca la vera vita. Questa prosa

non ha figli ma quanti nipotini, a cominciare da Pasolini. La lingua di Gadda non è sterile. Pensate a Zoraide e a Jole. Supremo è il linguaggio del corpo. Un pittore molto sensuale. In verità c’è anche satiriasi, priapismo figurale, tasso elevato di traslati osceni, periodi masturbatori, maniacale partenogenesi verbale. Il parossismo di chi si sta avvicinando al centro della questione. Sul proprio fascismo Gadda gira un po’ intorno. Non hanno tante colpe le donne che hanno generato i fascisti per la guerra del Duce. Gadda perde la testa dietro ai propri fantasmi. Un visionario della satira politica. Ha deformato la verità storica? Esagerazioni.

Accoppiamenti giudiziosi (1963, ma 1924-58) Le coppie di Gadda. Natura e cultura, forma e sostanza, lingua e dialetto, struttura e scrittura, autobiografia e romanzo, filosofia e letteratura, deformazione e conoscenza, comico e tragico, narrazione e dialogo, maniera e vita, gioventù e bellezza, ordine naturale e ragionevolezza, metafora e verità, caos e mondo, padre e dissennatezza, borghesia e stupidità, fascismo e farsa, esi-

stenza e follia. Sterilizzate padri, fascisti, borghesi e, perché no?, madri. Possono nascerne imbecilli, matti, nevrastenici, psicopatici. S'ha da fare questo matrimonio: fra avanguardia e tradizione, fra naturalismo ed espressionismo, tra liricità e nar-

razione. Il frutto non è più proibito. Non è peccato prendere capitoli della Meccanica e trasformarli in racconti, ma il romanzo è un’altra cosa: dagli accoppiamenti di un romanzo nascono più significati, più profondi sensi. Ce li ha anche una coppia di racconti di Accoppiamenti giudiziosi, San Giorgio in casa Brocchi e L'incendio di via Keplero: starebbero bene assieme ai più belli del Novecento italiano. Si possono esportare: l'italiano è traducibile. Intraducibile è solo il Pasticciaccio. 177

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Novelle dal Ducato in fiamme (1953)

Non è andato a fuoco solo il Ducato. I danni irreparabili del Duce. Questa non era una novella nel secondo dopoguerra. Era sotto gli occhi di tutti, era tangibile, era reale. Aiuto! al fuoco! attenti al neorealismo. La seconda novella è che brucia non solo l’Italia fascista, non è in fiamme solo l’Italia. Chiamate

i pompieri, è in pericolo tutto il mondo, e non viene risparmiata la vita, questa dissennata. Non è nuova nemmeno questa, ma nessuno prima l’aveva raccontata in modo così scottante. La buona novella è che, anche quando il fascismo è in fumo, il racconto resta caldo. Gadda ha la struttura infiammata, non c’è

acqua che possa spegnerla. Al suo contatto prende fuoco ogni tema. Questo narratore è a suo modo un piromane. Con l’anima ulcerata ha sentito che questo è un mondo da bruciare. Fiamme, esplosioni, scoppi di risa. La legna Gadda se la procura da sé per il rogo sul quale è celebrato il rito funebre. Onore a un narratore che teme sempre d’essere un’araba fenice. Dove sia il focolaio ce lo dice lo psicanalista, cosa sia Gadda la critica lo sa. Non date fuoco alla critica gaddiana, ma gettate acqua su alcune sue idee preconcette. Gadda non ha scritto solo novelle o poemetti in prosa. L'ultima novella: Gadda è autore di tre grandi romanzi, di più di dieci racconti bellissimi. Nonché di almeno cento pagine di diario. Lo dice il Giorrale. I Luigi di Francia (1964) Un monarchico, un liberale di destra, un conservatore. Conser-

vare l’Italia dopo Caporetto? Fosse pazzo. Che disordine, che confusione, che gran pasticcio! Non bastava un re qualsiasi. Non poteva essere Mussolini, una macchietta. C’è qualche macchia sull’antifascismo di Gadda. «Franza o Spagna purché se magna»? Gadda ha sempre masticato poco la politica. E non è ingrassato nemmeno con la letteratura. Davvero una vita non regale, ma il portamento, il comportamento, è sempre nobile. Avrebbe volentieri fatto i luigi o i franchi o lire coi libri. Gli sa-

rebbe piaciuto essere uno scrittore venduto al libero mercato. Non chiedeva protezione per le sue opere, non pretendeva un editto regale per stabilire che era lui, Gadda, il re dei narratori

italiani. Comunque è pur sempre migliore di tanti scrittori di Francia che fanno i napoleoni. 178

Il primo libro delle favole (1952)

Non è un libro per bambini. Gadda non racconta mai favole. Sono troppo brevi e fanno la morale. Questi animali usano una lingua troppo preziosa. Sarebbe forse bello far parte del gregge, essere uno come gli altri? Che variante è la propria vita rispetto alla altrui? La favola è sempre la stessa. Non gli è permesso comporne una del tutto nuova. Chi gli impedisce di scrivere il «secondo libro delle favole»? La sua arte consisterà sempre nel deformare le favole degli altri, nel mettere la gobba alle parole della tradizione? Oh, fosse possibile raccontare in poche e chiare parole la sua vera favola! Nel Novecento questo sarebbe favoloso. Nessuno però sa più dire la verità. Nemmeno ai bambini. Ai quali si continua a fare la morale su vecchie favole. Le meraviglie d’Italia (1939) Non finiscono mai di meravigliare Quer pasticciaccio e La cogni-

zione del dolore. Sono quasi al livello dei capolavori alcuni racconti (Sar Giorgio in casa Brocchi e L'incendio di via Keplero). Non meravigli che si giudichi un gran bel romanzo La meccani ca. Da quel dì poi L’Adalgisa è considerata un’opera meravigliosa. Non meraviglia più invece che continui a farsi leggere come un libro di cocente attualità I/ giornale di guerra e di prigionia. Vi meravigliereste, se si dicesse che la prosa di Meditazione milanese merita di far parte dell’antologia universale della scrittura filosofica? Non vi meravigliate: acuto pensatore, Gadda è anche un grande saggista nei Viaggi la morte. Lo ha scritto qui che il suo fine non è la meraviglia. Certo vorrebbe far girare la testa con ogni parola: lo sguardo sempre rivolto dalla parte da cui potrebbe apparire la verità. Quando si spalancano gli occhi, c’è la rivelazione? Purché non sia un abbaglio. Un narratore illuminante. Non meravigli che, tra i suoi titoli, in questo

abbia un posto così eminente l’Italia. Ci meravigliamo invece che non sia celebre come merita nel resto del mondo questo narratore. Ha raccontato meravigliosamente, non solo a Roma

ma ad ogni gente, quale pasticciaccio brutto è la condizione umana nel Novecento.

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Verso la Certosa (1961)

Gadda non va verso Stendhal né in convento. Non sta mai fermo, il suo linguaggio è tarantolato, avrebbe bisogno dell’esorcista. Etica, stilistica e metafisica ma non sarà mai un certosino.

Avere l'imperativo di andare e insieme l’interdetto di arrivare. Versus: cioè contro. Non è questione di gambe, Gadda ha una testa che raggiunge ogni obiettivo. Gli piaceva il Parmigianino? Con tutta la sua metafisica, sarebbe potuto diventare un abate. Gli anni (1943)

Dal 1957 al 1967 Gadda ha avuto un decennio glorioso. Sono gli anni dello sperimentalismo, del mistilinguismo, della priorità del linguaggio, della trasgressione, dei linguaggi bassi, della comicità. Gadda ha messo su famiglia, ha molti nipoti, assai più piccoli, detti «i nipotini dell’Ingegnere». Negli anni Venti era già un eccellente narratore (La meeccarica). Gli anni Trenta: Firenze, gli ermetici, gli inizi dei romanzi «infiniti», e infine La cognizione del dolore. Scrisse il Pasticciaccio nei neorealistici anni Quaranta, che non amano il «barocco» Gadda. Negli anni Cinquanta, dopo i fatti d'Ungheria, il mondo è un pasticciaccio sempre più brutto. Gnommero gaddiano gli anni Sessanta, il disordine programmato, la contestazione, lo schizomorfismo, l’alienazione, il ribaltamento dei valori, l’integra-

zione della malattia ecc. Ormai è fatta. Gadda è narratore massimo anche negli anni Settanta, decennio di nuovo realismo sempre più ostile ai formalismi. Negli anni Ottanta la parola torna al centro, non piace più il gioco agli estremi, si scrive in

italiano «puro», vengono epurati gli espressionismi, gli sperimentalismi, e tutti i linguaggi moderni. Nel post-moderno c’è posto anche per Gadda? Il suo posto, dopo Svevo e Pirandello, non glielo toglie nessuno, almeno per ora, negli anni Novanta del Novecento. E nel terzo millennio cristiano? Se Gadda vive per mille anni, è fatta: è immortale. Metaforicamente parlando.

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Tommaso Landolfi,

o del finto persiano

Fingiamo che sia vero, e cioè che per Landolfi il gioco sia tutto, o quasi. Così abbiamo anche noi il permesso di giocare: con tutto e quindi pure con i titoli dei suoi libri. Ci sono quasi tutte le parole fondamentali del suo vocabolario: compreso gioco (significa qualcosa che appaia in un volume postumo?). Sono in evidenza sulle copertine: dialogo, sistema, lunare, amore, morte, nulla (in francese), mare, tempo, pazzo, caso, impossibile, infelice, racconto, ombra, realtà, memoria, società, scena, diario, vita, tre, due, uno, breve, sottosuolo, canzoniere, tradimento, meno, falso, storia. Facciamoci una storia combinandoli a caso. Non vi lasciate smontare dall’obiezione di Lotman che «il gioco può solo

confermare conoscenze acquisite». Ci accontentiamo di conferme; se arriva qualche spicciolo in più si vince: per combinazione o per caso, ma c’è anche il calcolo. Rier va plus, comincia a girare la roulette dei libri delle opere di Landolfi. Sono 37 i numeri, cioè i titoli, di romanzi, raccolte di racconti, di poesie, di saggi, favole,

testi teatrali, nonché traduzioni. Qualcosa resta sempre fuori del cerchio, perché non ha i numeri. Dialogo dei massimi sistemi (1937)

La prima parola di Landolfi è dialogo. Discorso a due: la dialettica o l'opposizione tra vero e apparente, palese e latente, autentico e inautentico, significante e significato. Le coppie dei «massimi sistemi»: l’Essere e il Nulla, il permanente e il divenire, il chiaro e l'oscuro, avanguardia e tradizione, realtà e fanta-

sia, concreto e astratto e ogni altro contrasto universale. Il 2 diventerà mai 1, numero che contiene tutto? Il doppio diventerà 181

mai semplice? C’è anche un terzo elemento: l’ironia, che è doppia. Pure il titolo è un’imitazione, una citazione. Tutte le parole sono state usate. Tutte le storie sono state raccontate? Si può

essere galileiani in un mondo tolemaico? Il mondo è sempre lo stesso, eppure si muove, se uno si inventa una lingua, magari il

«finto persiano». Sarà mai vero il finto Landolfi? Landolfo VI (1959) Ci sono almeno 6 Landolfi. Il narratore, il poeta, il saggista, il traduttore, lo scrittore di teatro e il memorialista. Ci sono almeno 6 narratori in Landolfi romanziere e autore di racconti: il metafisico, il surrealista, il moralista, il frammentista, il lirico, il

metalinguista. Uno scrittore «aristocratico» che è felice di non andare versc il popolo. Un re burlone per il Carnevale del nostro tempo. Ci sarà da ridere. L’umorista è nero. Parola di Breton. Landolfi invece è chiaro. Almeno in superficie. Uno scrittore mascherato. Ci sono almeno 6 maschere. Faust 67 (1969)

Forse ci sono 67 Landolfi, e c'è Nessuno. C’è con i suoi cento-

mila anche Pirandello. Lo sperimentalismo di Faust, uno che non sa chi è e che si cerca in decine di linguaggi diversi. È impossibile essere «qualcuno»? Non è augurabile. Parola di Dio. Il vuoto dell’Essere e le mille tentazioni del linguaggio. Siamo negli anni Sessanta e si sente. Si sente aria di controcultura. Sin dagli anni Trenta. A Landolfi non basta il doppio. Scene dalla vita di Cagliostro (1963)

Il mago, l’imbroglione, l’avventuriero. Il personaggio «fa scena». Potrà mai così essere dentro la vita? Trovate un impostore che sappia inventare una bella storia e credeteci. Il teatro cerca

la vita e non la trova. Chi va dietro le quinte saprà la verità. O è solo questione di magia? Landolfi è un mago del racconto nel quale si crede, anche se si vede l’inganno.

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Racconto d'autunno (1947) E autunno per la narrativa, ingiallisce la fiorente letteratura dell'Ottocento, muore il millennio. È impossibile scrivere i racconti di una volta ma chi scrive così nel secondo dopoguerra, quando c’è l'inverno del neorealismo? Sono cadute quelle foglie, una brutta stagione. Fa notte e tornano gli incubi. La narrativa è di nuovo in un labirinto. C'è il Minotauro ma non c'è il filo d'Arianna. Non c’è via d’uscita. Si può ancora volare con la fantasia? La «nostalgia della dignità perduta» di Poe. Non siamo degni di raccontare come si faceva in estate, quando c’era tanto caldo, e tanto romanticismo. Nell’autunno della narrativa, le mode, le forme di sempre, sono secche. Come rin-

verdirle? Un post-moderno? La sua parodia non è «bianca», non è incolore, né neutrale. Landolfi invece è fazioso, dell’al-

dilà. C'è il fantasma di una narrativa d’altri tempi. Il racconto è esangue? Nel labirinto torna il colorito, torna il pallore e torna il tremore. La spada (1942) Un narratore armato, uno scrittore in guerra. Narrativa di taglio ma anche di punta. Non risparmia niente e nessuno. Una ricca e forte armatura culturale, una lingua che infilza le parole più minuscole, non c’è oggetto, sensazione o situazione che

non venga toccato al cuore da questo spadaccino. Non ci sono più combattenti così capaci di uccidere e insieme di dare l’impressione di fare sport. C'è la maschera a proteggere il volto. È una rete ma non acchiapperete mai il suo vero volto. Il duello infinito col lettore. Non la spunterà mai. Ombre (1954)

Le ombre dei grandi scrittori dell'Ottocento e del primo Novecento. Poe, Baudelaire, Mérimée, Hoffmann, Novalis, Cechov, Dostoevskij, Verne, Gogol’, Gonfarov, Puskin, Kafka e tutti gli

altri fantasmi che appaiono nell’opera di Landolfi. Linguaggi da cui attingere gocce di stile con cui resuscitare. Tutte le finzioni sono eredità del passato e sono «eternamente» complementari al presente, una per volta o contemporaneamente. Farsi anzitutto un’ombra, un linguaggio, una finzione, un doppio, poi le ossa e dargli sangue. Incontrerà mai l’uomo la propria ombra? Il lin183

guaggio toccherà la cosa prefigurata? Come Puskin: «E io piansi sopra le mie finzioni». Landolfi ci può anche ridere sopra, ma trasmette un brivido. Ci sono anche luci in questa raccolta. Gogol” a Roma (1971)

Anime morte convenute in Italia per dare i connotati a un narratore che le evoca con passione. «Non si fa critica senza passione, senza cioè lasciarsi al caso ingannare.» L’impostura romantica. Sade ha invece un «culto fanatico dell’intelligenza». Verne va altrove perché disprezza il mondo contemporaneo. Dostoevskij ha accettato di convivere con i diavoli e gli angeli che si sono dati convegno nella nostra epoca. Hanno portato qualche messaggio? L'artista ne è privo. Il lettore ha il diritto di attribuirgli quello che vuole, caso per caso. Passione, inganno, intelligenza, evasione surreale, nostalgia, satanismo, assenza di messaggio: materiali per un autoritratto: con impostura. Quan-

te anime morte deve richiamare in vita uno scrittore del Novecento per sopravvivere! Un astratto materiale da costruzione.

Bisognerebbe cambiare lo scheletro della narrativa, la sua struttura. Basterà mettere molta carne al fuoco. È un inferno, detto

con ironia. Se c'è Roma, c’è in fondo sempre un cattolico. La buon’anima del cattolicesimo di Landolfi. Un amore del nostro tempo (1965)

L’amore del nostro tempo pretende la trasgressione. Bisogna sconfinare per avere una forte emozione. Sembrano morti i sentimenti nel Novecento, si sono solo spostati. Bisogna inse-

guirli. Con la mente. Ci vuole molto cervello per arrivare al punto in cui è di nuovo possibile amare. A rischio di essere cervellotici o matti. Capire la trasgressione e amarla. Chi ha paura delle trasgressioni? Pensateci e tutto vi parrà naturale. Non ci sono tabù da rispettare. Nemmeno Landolfi. Potete parlar male di questo romanzo. Le due zittelle (1945)

La scimmia: il gioco non è il contrario del sacro, è come il sacro. Due citazioni: «non c’è per niente rottura tra gioco e sacro; [...] il gioco può trasformarsi in “gioco sacro” e il sacro in gioco». Lo 184

ricorda Ehrmann nel saggio L’uozzo în gioco. È sua la seconda citazione: «Il gioco implica (ed esplica) il fuori-gioco. La legge ciò che è fuori legge. Ogni cultura inventa le sue leggi, determina i limiti di un dentro e di un fuori, ritagliando così il suo campo simbolico. Ma il gioco è anche superamento e liberazione dei limiti della legge: alla violenza della legge risponde la legge della violenza. Il loro gioco: la messa in gioco di ogni civiltà». Il narratore del Novecento come «scimmia». Un’imitazione perfetta o quasi, con qualcosa di selvaggio. Le due zittelle destinate a restare senza sposo sono la parola e la forma? La scimmia dice messa meglio di tanti sacerdoti. Basta una scimmia se è così brava a fare le stesse cose degli uomini. Nessuno sa trasgredire come lei e come Landolfi. Vince su tutti il processo alla scimmia nella seconda parte di un romanzo vittorioso.

Cancroregina (1950) Che pena vivere in una terra siffatta. Bisogna evadere, mettersi in orbita, stare più lontano dal proprio nucleo, dal proprio io. Il viaggio con la fantascienza non dà molto, si resta a girare intorno alle cose viste da sempre. Non basta il mutamento di prospettiva. Meglio non ricadere nella solita narrativa italiana terra terra del neorealismo. È tutto una presa in giro, ma almeno ci si muove. Non si va mai in nessun posto ed è già tanto che si pas-

si tanto più in alto della terra, della vita comune. Purché non diventi contemplazione, che è un cancro. Non è un romanzo così a terra come si dice. Ottavio di Saint-Vincent (1958)

Se sei squattrinato, se sei senza un’idea in testa, basta una mo-

neta regalata dalla sorte, basta una parola trovata a caso e ti puoi arricchire. Mettere insieme una bella storia su cui far ingelosire principi e duchi della narrativa. Non è reale, è surrealista, ma una parola ti può condurre da tutte le altre. Se hai testa e se le conosci per il loro significato e per il loro suono e se le sai usare. Associazioni libere? Magari anche quelle, ma soprattutto connessioni della logica, una logica molto libera anzi libertina. Non ti sposi, ma puoi innamorarti di questi paradossi: ti conducono a inattese rivelazioni di senso. Non te l’aspettavi? 185

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Saint-Vincent. Il santo che vince al gioco. Secondo Debenedetti, è anche un successo di Landolfi. A caso (1975)

Il caso è il padrone, ma non bisogna lasciare nulla al caso. Conoscere perfettamente ogni parola, informarsi di ogni idea, fare tesoro di tutto ciò che la vita offre, o meglio, che costringe a

conquistarsi. Liberare col caso la necessità. Il vero soggetto del gioco è il caso: caso cosmico, caso biologico e loro leggi. «Il gioco si esprime per mezzo del caos e della possibilità di organizzarlo» (Ehrmann). Il caos vuole regole e forme. La forma dell’informe. Sotto il narratore figurativo c’è un informale. Il caos è fuori scena, ma non è mai fuori gioco. C'è il caso che alcuni racconti possano piacere.

Racconti impossibili (1966) Impossibile raccontare, non c’è più nulla da raccontare, non si sa che raccontare. Raccontiamo dunque questa impossibilità. Una narrativa sul punto di morire. È da mille anni che Sheherazade ogni notte racconta storie diverse. È arrivato il giorno della morte per la narratrice, per la narrativa? E invece no, si può narrare tutto, si può fare narrativa con tutto, anche con questa agonia del raccontare. La narrabilità del nulla. Basta un nonnulla per filare una storia guidando le parole a disegnare personaggi e a tessere pensieri, magari impossibili. La metanarrativa di uno capace di far sopravvivere il racconto quando pare proprio morto. Qualcuno pare vivo. Non è possibile continuare a scrivere così, senza crederci almeno un po’. La morte della letteratura? Mancano ancora alcuni anni alla fine del secolo che ha creduto alla morte dell’arte. Un paniere di chiocciole (1968) Una bava di parole copre tutto. Può essere repellente l’acrobatica bravura di chi non ha più nulla da dire. O è un dramma per chi non sa fare altro? Guardate sotto la bava e troverete il guscio. C'è un significato in tanta spumeggiante scrittura. È nutriente questo «manierista» (Perniola), ma si fatica a trovare la 186

carne. Col sale aumenta la bava. Landolfi non è mai insipido, ma non bastano le spezie. Una scala da cui si scende. La bière du pécheur (1953)

La bara del peccatore o la birra del pescatore? L'importanza dell’accento e del suono. L’equivoco, il cadavere squisito: si chiude una bara, si stappa una birra, dove non si arriva con la schiuma delle parole? Chi è che pecca tanto da meritarsi la morte? C'è un sepolto vivo che urla dall’interno. Colui che vuole pescare sotto tenti con l’ebbrezza. O è vertigine? Bisogna fare l'autopsia, trinciare il romanzo, guardarci dentro. Quand'è

che una serie di racconti diventa un romanzo? Nel Novecento la narrazione procede per contiguità di episodi che si inebriano della propria intensa brevità. Sulle bollicine della metafora surrealista la birra conduce alla bara e un pescatore si scopre peccatore. Un complesso di colpa? La birra del peccatore. Con questa Brrra si diventa immortali. Condannate chi non è d’accordo ai Lavori forzati. Sarà un premio per chi cerca la bellezza dell’orrido. C'è molto da pescare qui. In società (1962)

Siamo tutti in società, anche chi crede di essere fuori, di abitare

nella letteratura. Magari da isolato, da dandy, da estraneo. Cattolico ma miscredente, ermetico ma maniaco del dialogo, loico

ma dell’irrazionale. In società? Semmai contro la società. Far vita di società per essere altrove. Un metafisico? C'è anche il corpo. Non ci si può denudare in società, tanto meno in quella attuale. La società è borghese, ma non si può essere così fanatici del denaro e del successo mondano. Landolfi odia la società del benessere, così piccolo-borghese. Meglio essere un «aristocratico», un nobile mascherato. Tante belle maniere per essere un «contestatore». Uno che non sa stare in società, né in questa

né in nessun'altra. Se non la realtà (1960)

La realtà è solo un’apparenza? Ma allora cos'è questo impatto, che cosa ha urtato il linguaggio, se si è fermato? E la verità? Non basta nominarla, non serve il realismo, non c’è nulla di 187

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tangibile. O è vero che c'è solo la realtà, la sua apparenza, ed è da essa che bisogna partire? Tocca raccontare fatti di realtà quotidiana che suggeriscono qualcosa di diverso da quello che nominano. Se non la realtà, cos'è che tormenta tanto? Potreb-

be essere metafisica, ma di sicuro c’è anche la nevrosi. «La psiche è una cosa» (Debenedetti). Si tocca la nevrosi di Landolfi,

ma stavolta non è toccante. Il tradimento (1977)

Tradire se stesso. Essere diverso, nascondersi, per «tra-dirsi»,

per avere la rivelazione dell’altro, del se stesso da mettere in versi. Porsi al servizio del nemico per vincere la propria guerra. Come si tradisce la «vera personalità». Il traditore finisce sempre per confessare. Nel verso giusto, nel 7720t juste, epigrammi con cui Landolfi si tradisce. Non è questo il suo linguaggio. Dategli

spago. Così si strozza, così strozza il discorso. Il mar delle blatte (1939)

Il mare che è madre. L’inconscio è infestato dagli insetti. L’informe mare si è trasformato in blatta. La metamorfosi di un’arte che era stata informale e ora ci prova a essere di nuovo figurativa. Ci vuole la psicanalisi per navigare dentro. Stanno arrivando altri animali domestici. Sono di casa i ragni, i gechi e i topi ma non sarà facile addomesticarli, assegnar loro un significato psicologico. Forse si sta parlando di morte. Il gioco della torre (1987)

C'è sempre qualcuno da buttare giù e qualcuno da salvare. C'è un sopra e un sotto. Ci sono molte alternative e altrettanti morti ammazzati. Uno schema verticale per opzioni letali. Non muoiono solo gli altri. Due piani: l'intelletto e i sentimenti. Un tuffo al cuore. Ogni due parole una è da buttare, ma l’altra resta su. Non si possono amare con la stessa intensità due linguaggi? Landolfi non butterebbe nessuno, ma solo uno dice la verità in un determinato momento. Sceglie il cuore, l’intelletto non basta da solo. Landolfi ha sempre il cuore in testa.

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Rien va (1963) e Des moîs (1967)

Il nulla in francese suona quasi alla fine del gioco. Urge e corre implacabile: bisogna che si affretti chi vuole ancora puntare. Un gioco a cui si perde quasi sempre. Ci sono casi in cui il nulla può essere vinto? Quando entrano in gioco i «suoi», gli affetti familiari, i figli, esce qualche numero vincente. Dopo Rier va viene Des mois. La struttura landolfiana che annullava tutto si è messa a liberare significati «positivi»? Briciole contro il nulla ma sono nutrienti, anche se passeggeri, come tutti i numeri della roulette che è la vita. I «suoi» contro il nulla, i«mesi» contro il tempo. Landolfi dunque dove va? Torna in sé? Non è però quello di prima. Per essere diverso, si è fatto a pezzi. A pezzi va bene, ma l'insieme è quasi edificante. Piedi per terra e sguardo in cielo. Manca il sottosuolo, manca la fantasia del giovane narratore. I vecchi toccano con mano la verità. Una finzione? A Landolfi pare finalmente vera la sua vita, ma è solo autobiografia, scrittura in sembianza di verità. Tre racconti (1964)

Due racconti su tre non sono belli. Meglio restare muti? La perfezione è nel silenzio, ma Landolfi ha una gran voce. Ci sono tre livelli di discorso: una vicenda tragica, un personaggio che ci arzigogola sopra, il senso del racconto che non confessa. Tre meno due fa uno. «Il pastiche di un pastiche immaginario» (Debenedetti). Non c’è nessuno sotto? C’è da immaginarlo. Con La muta si resta senza parole. Bello il silenzio eterno. Del meno (1978)

Meno di così non è possibile. Difficile conoscere il momento in cui aggiungere qualcosa, quando si va a caso. Nel vuoto una parola si mette a tessere una storia che non ha né capo né coda. Vengono sempre meno le occasioni con cui costruire un bel racconto. Racconti che possono essere fatti di nulla e che spesso sono nulla. Però bisogna tenersi pronti con la penna a mezz'aria. Ogni momento potrebbe essere quello buono. Più o meno. Qualcuno è anche ottimo.

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Le labrene (1974)

Uno scrittore attirato dalla luce. Va a caccia di farfalle. Dove non arriva la lingua di Landolfi! Non c’è cosa che non sappia nominare. Questo narratore è ancora più bravo se suggerisce. È capace di arrampicarsi sugli specchi, ma ci sono cadute. Rispecchiamenti per avere visioni. Si vede poco, che paura! Al servizio di chi sono questi animali notturni? Restano gli interrogativi, hanno la coda, e c'è anche il veleno. Chiedetelo ai cri-

tici: un libro tossico. La pietra lunare (1939) La scrittura è solare, il romanzo è lunare. Cosa c’è sotto tanta

luce lessicale e sintattica? C'è una pietra, il nucleo oscuro e inaccessibile del racconto. Colpisce nella fantasia specialmente all’inizio Gurù, personaggio ambiguo. Cercate la filosofia di Landolfi, consiglia Calvino. Ne ha di significati questo narratore, tanto significante. Ora è chiaro come il sole che è un grande scrittore questo selenita così lunatico. La luna è piena e non mancano i brividi. Traduzioni (dal russo, dal tedesco e dal francese)

Almeno sei: Puskin e Gogol’; Novalis e Hoffmann; Mérimée, quello dei Falsi Derzetri e Dostoevskij, quello delle Mezzorze

del sottosuolo. L’ultimo potrebbe essere il primo e stare alla base della narrativa di Landolfi, scrittore da sottosuolo. Difficile tradurre fedelmente la voce che sale dal fondo. È ermetica.

«S'è perso il modello» (Savinio). Tradurre è tradire, contraffare il modello romantico. Breve canzoniere (1971)

Versi come epigrammi o aforismi? È il componimento breve la misura più adatta a Landolfi. Racconti (magari lunghi), romanzi brevi (Le due zittelle), romanzi a pezzi (La bière du pécheur) o

frammenti narrativi (Rie va e Des m0ts) spesso lirici: breve modo di cantare quel poco che di volta in volta consente di alzare la voce. Romanze? La migliore musica di Landolfi può nascondersi nel recitativo. Un narratore che «recita». Finché una frase non gli tocca il cuore, o la mente o la fantasia, oppure tutti e tre gli organi 190

insieme. Strumenti metafisici per versi che tambureggiano idee dell’altro mondo. Epifanie di non nati. Mezzacoda (1958)

L’ultima fase della produzione narrativa di Landolfi? È dura da scorticare. La si può tagliare via come la coda di una lucertola? Guardate come si agita, quanta frenesia. Non porta lontano, è priva di capo. Con una testa siffatta non muoiono così presto Le labrene. Che metamorfosi, eppure sembra rinato il giovane autore del Mar delle blatte. La metà della produzione dell’ultimo Landolfi — racconti, diari, poesie — non è da buttare via.

Anche con mezza coda colpisce il lettore. Alla testa? Anche al cuore. Con Tre racconti, Le labrene, Il gioco della torre, Viola di morte, Rien va e Des mois il narratore non resta in coda alla let-

teratura degli anni Sessanta e Settanta. Si respira la morte dell’arte, ma si sente un buon profumo. A Landolfi basta mezza coda per rimanere in testa. Quando lo fisseranno in mente i lettori? Landolfi li vede con la coda. Basterà un testacoda del gusto per far correre come si deve la fama del narratore? Siamo ancora a metà strada.

Il principe infelice (1954) La critica lo acclama, si aspetta da un momento all’altro l’investitura popolare. Non per questo è infelice l’eterno principe ereditario della nostra narrativa. Diventerà mai re un narratore che ha scritto tanti piccoli capolavori, ma non l’opera con cui coronare la sua principesca letteratura? Portate fiori sulla tomba di questo infelicissimo scrittore. Bisognerà fare un’antologia. Magari diversa da quella di Calvino. Si facciano altre antologie dei suoi racconti. Almeno saranno felici i sudditi del principe. Se fosse stato «machiavellico» ora li avrebbe sotto tutti, i lettori.

La raganella d’oro (1954)

Il metallo non potrebbe essere migliore, ma la musica disturba. Non ci tiene a fare melodia uno che ama le dissonanze logiche. Il cervello non sempre gradisce. Uno scrittore di testa che talvolta deve essere cerebrale per arrivare a un motivo inaudito. L91

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Cercate altrove, in altre opere. Molti racconti sono aurei, specialmente quelli del filone fantastico. Una moneta dal suono sinistro. Chi suona in modo così orrido? Il silenzio è d’oro nei narratori del surreale. Landolfi batte moneta per tenere svegli. Un falsario conia biglietti che valgono più di quelli della zecca. Non è mai nuovo di zecca Landolfi? E allora perché è così «assordante»? Cosa vuole coprire con questo chiasso? Viola di morte (1972)

È questo il colore della morte? Si tratta anche di un fiore. Un’esistenza piena di lividi. Questa vita non profuma. Sarebbe stato meglio stare zitti? Epigrafe: «In molte parole tacque». Molte parole potevano essere risparmiate, in versi e in prosa. Ma sono molte le parole scritte sul marmo. Anche sulla Pietra lunare, per cominciare. Non poteva finire così. Dopo la morte Landolfi sta crescendo di statura. Eppure s'è portato nella tomba un segreto... «inviolabile». E di esso vive «sempreverde»: ovviamente dove è. Dove? E un segreto? Dite un titolo, così, a

caso e potreste indovinare, potreste vincere. A leggere Landolfi non si perde mai.

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Parte quarta

L'EPIFANIA DI GIACOMO DEBENEDETTI

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Lettere al padre di Tozzi

Finché non dovette rileggerlo per un corso di lezioni universitarie sulla narrativa italiana del Novecento, a Giacomo Debenedetti non piaceva per niente Federigo Tozzi. Eravamo nei

primi anni Sessanta, non era una fugace impressione, gliel'ho sentito dire più d’una volta: uno scrittore fiacco, senza nerbo, quasi «invertebrato». Nei suoi giudizi non era tanto evidente l’avversione — che è pur sempre un coinvolgimento profondo — quanto piuttosto quel disinteresse che confina con l’indifferenza. Poi la «rivelazione», che preannunciò la «rivoluzione»: quel provinciale era un grande scrittore senza il quale sarebbe diversa la storia della narrativa italiana contemporanea. Da allora Debenedetti lo disse sempre più spesso, sempre più persuaso, lo andava dicendo ad alta voce nelle aule universitarie, l’avrebbe scritto. E me lo ripeté, argomentandolo con efficacia pari alla convinzione, anche quel giorno in auto a Siena, dove accompagnai Debenedetti, che avrebbe tenuto in un convegno la relazione da cui trasse un memorabile saggio per una rivista e per il volume I/ personaggio uorzo. Da allora lo dicono tutti — sia pure per ragioni diverse — che Tozzi è un narratore che ha impresso una svolta al romanzo italiano del Novecento. Fu una tesi audacissima pure per gli ascoltatori, fra i quali c'era Cassola. Questi lesse anche allora Tozzi come se il senese

fosse un eccellente erede del bozzettismo toscano: molto ma non più di un piccolo narratore datato Ottocento. Debenedetti invece lo aveva ingigantito nella qualità e lo aveva innalzato al ruolo di padre del romanzo moderno (quasi come, se non quasi quanto, Pirandello: fra l’altro uno scrittore che da recensore, fatale coincidenza, s'era subito collocato «dalla parte della narrativa di 195

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Tozzi»). Risultato «inaudito» di quei discorsi, delle lezioni universitarie: nel Romanzo del Novecento Tozzi diventa «il secondo» dei grandi narratori italiani del Novecento: dopo Pirandello, naturalmente, ma, sorprendentemente, prima di quello Svevo che, secondo Debenedetti, aveva sprecato, in romanzi «rimpic-

cioliti» da una «reticenza morale», il talento di narratore che gli era stato regalato dalla natura in sommo grado. Debenedetti, che cambierà opinione su Tozzi, conserverà il giudizio negativo su Svevo quarant’anni dopo il primo no. È stato un grave errore: sia per Svevo sia per Debenedetti. Svevo aveva indicato al critico la strada che lo avrebbe condotto alla sua verità: sua di Svevo e di Debenedetti. C'erano tutte le condizioni perché il critico capisse che i personaggi sveviani nel profondo sono della stessa «razza» di quelli di Tozzi. Né gli uni né gli altri sanno ciò che fanno e perché lo fanno, semmai fanno ciò che non sanno. Comunque, fu questa la classifica finale di Debenedetti: primo, Pirandello; secondo, Tozzi.

E Svevo?

Retrocesso. Un errore di calcolo più che di gusto, da parte di un critico che nello stesso tempo è il più penetrante interprete del narratore triestino. Debenedetti avrebbe potuto chiudere definitivamente il conto con se stesso — avrebbe capito dove stava andando, cosa stava facendo — ma sbagliando giudizio ritardò di trent'anni la rivelazione che si aspettava in quanto critico alla ricerca del mito personale che lo trasformasse in artista: cioè in scrittore che racconta combinando materiali forgiati ° nell’officina dei grandi narratori. È con Tozzi invece che Debenedetti risale dal «secondo grado» al primo della letteratura. Ancora ai tempi del suo Verga messinese Debenedetti da crociano ancorché eretico si sarebbe vergognato di definire con l’aggettivo nato da un zs7z0 un artista, ma ormai la parola «espressionista» negli anni Sessanta aveva per lui acquistato senso decisivo, non convenzionale. Ebbene, Tozzi si poteva di-

re un espressionista, anche se era uno di quelli che non sapevano di esserlo. L’espressionismo d’altronde è una sigla che vale perché prima lo si fa e poi lo si scopre: a differenza del futurismo, dadaismo, surrealismo e neosperimentalismo, letteratura che è andata a scuola per diventare come bisogna essere in quel preciso momento. Ciò potrebbe spiegare pure il silenzio di Debenedetti su Gadda, la cui teoria della conoscenza come defor-

mazione calza perfettamente all’arte caratterizzata dalla brut196

tezza che urla per moventi interiori. «Colpa» del lombardo, secondo il critico cui è caro il linguaggio dell’inconscio (anzi, il linguaggio è l'inconscio): Gadda è un narratore che sa anche troppo quello che fa: a partire dalla psicanalisi, la scienza dell’anima che è la madre dell’espressionismo. Debenedetti non lo disse mai ma il suo silenzio su Gadda è molto eloquente. Debenedetti non disse nemmeno ciò che segue ma si potrebbe provare a interpretare il suo silenzio, facendo confronti che lui non fece. Due modi di essere espressionisti ma quanto diversi! Se Tozzi scrive «con poco cervello», Gadda ce ne metteva moltissimo, ancorché bacato. Il secondo ci metteva pure «tutta l’anima» e si vede che fa psicologia; non si vede invece quanta ne fa il primo, che reprime l’uno e l’altra. Tozzi è spesso astenico, al limite del collasso, ma la sua anima sfiatata è nello

stesso tempo irresistibile: tanto più perché la narrazione afferra il lettore e non lo lascia fino alla fine di una vicenda in cui peraltro non succede quasi niente di travolgente. Gadda scende, armato di scafandro freudiano, nei territori da cui partono i messaggi dell’inconscio; Tozzi invece registra dalla superficie i movimenti inspiegabili del suo profondo. Tozzi è — alternativa stevensoniana — narratore «magro», Gadda «grasso». Questo è

bulimico, quello anoressico. Gadda è insaziabile, Tozzi spilluzzica tra i cibi che arrivano sulla tavola degli scrittori che hanno assistito alla frana del razionalismo. Si è ammalata la ragione di entrambi. Sembra illogico questo paragone ma insisto su Gadda perché Debenedetti lesse Tozzi negli anni in cui trionfava la narrativa di Gadda. Questo infatti era il vento che tirava mentre il

critico affrontava il caso assai spinoso di un narratore che senza accorgersene, e con strumenti tecnici arrugginiti, era arrivato al

centro della questione umana nel Novecento. «Con gli occhi chiusi» di giorno ma avendo gli occhi ben aperti di notte. Un narratore «da incubi», ma senza darlo a vedere. Gadda invece

gli incubi li aveva di giorno. Ovviamente sono più forti i suoi colori, nonché i suoi dolori, anche se era capace di riderne.

Tozzi non ride mai, non fa umorismo, scrive dal versante opposto a quello di Gadda e di Pirandello. Tozzi è il narratore che tiene in vita la tragedia in un secolo che ha optato per la comicità. E anche è un buon motivo per cui il critico lo preferisce all’autore della Coscienza di Zeno e del Pasticciaccio. 197

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All’inizio degli anni Sessanta Debenedetti allungò la mano sui libri di Tozzi per verificare quanto era successo nel frattempo, cioè dalla propria giovinezza dei primi saggi critici alla maturità dei corsi di lezioni. Ci fu subito la scossa, cui si accompagnò l'illuminazione. Aveva scoperto qualcosa di fondamentale non solo su Tozzi ma anche su se stesso. Un’epifania critica: Debenedetti era stato un «tozziano» e non lo sapeva. Era lì il suo destino, e la storia aveva legittimato il progetto. Solo dopo avere scoperto il progetto vincente, ebbe la rivelazione: erano espressionisti sia Tozzi che lui. Due scrittori notturni che interrogano i propri sogni. Misteri in cerca di luce che li protegga contro l’invadenza dei curiosi. Entrambi intuiscono che c'è qualcosa d’altro anche dietro la Causa Prima - il padre — cui danno la colpa di tutto. Era tornato dunque di moda il linguaggio che mescola lingue e dialetti nella seconda metà degli anni Cinquanta. Al seguito di Gadda erano arrivati Pasolini, Testori, Arbasino, Ma-

stronardi e altri «neoespressionisti». Non era un «nipotino dell’Ingegnere» il siciliano D'Arrigo, ma si tratta comunque di un narratore ad alto tasso di espressività. Al suo confronto Federigo Tozzi sembra un prosatore semplice, essenziale, di buone maniere, ridotto all’osso o comunque a scheletro affiorante. Ecco, anche se non si vede, il senese opera più profondamente a livello di struttura (un procedere sulle punte emerse per caso) che non di scrittura (apparente impersonalità e perspicuità di stile). Sono molte le alternative alle quali Gadda e Tozzi danno origine ma questa tra «narratori di struttura» e «narratori di scrittura» potrebbe vedere in loro due i capifila se non i capiscuola di due modi di scrivere la narrativa nel primo e nel secondo Novecento. In Gadda fa metastasi la scrittura in inseguimento spasmodico della struttura profonda. Tozzi invece non esibisce la propria scrittura, che sembra naturale: il dire pane al pane, e il resto. Lui è al servizio della propria struttura. Dove è lancinante la singola parola, non il grappolo di metafore con cui si esprime, incontentabile, Gadda. In fondo ce l’ha pure lui la struttura delegata a reggere l’intero sistema, ma il narratore lombardo è costretto a

«baroccheggiare» sopra mentre va a sbattere contro il significato che dice l’impervia verità. Tozzi invece non ci prova ad andare a vedere cosa succede laggiù: aspetta al varco le parole nel 198

momento in cui il linguaggio è maturo per espellere lo spezzone di frase che porta su una notizia d'importanza fondamentale. Non sembra, ma dei due è narratore più verticale Tozzi che non Gadda. Comunque non è meno pescoso il fulmineo movimento dal basso in alto di Tozzi della spirale che affonda vorticando nella prosa di Gadda. Fa molta schiuma la sua prosa, mentre pare limpida la prosa vischiosa di Tozzi. Stiamo parlando di due modi di essere espressionisti, ma ce ne sono molti più dei due su cui insistiamo. In quanto a cosa significhi esserlo, potremmo fare un'ipotesi: in sostanza significa conservare il massimo di figuratività quando l’informe preme per rompere gli argini sotto la spinta di materiali inconsci, preconsci e subconsci. Alla fine degli anni Cinquanta si sarebbe avuta la conferma che si tratta della privilegiata via di uscita dal realismo: sia come naturalismo ottocentesco sia come neoreali-

smo. I neorealisti si sentirono più vicini a Gadda che non a Tozzi. Non per niente Tozzi piaceva di più agli ermetici, scrittori che suggeriscono ma non nominano.

Tozzi non se la prende mai calda: semmai è la situazione ad accendersi e ad estendere il fuoco dentro. Gadda invece è uno che incendia coi suoi risentimenti morali, culturali e politici. Puoi non condividere le opinioni ma, se vuoi cambiare il mondo, devi cominciare a bruciare quello vecchio. L’espressionismo che scatena la scrittura in Gadda è rovente, quello di Tozzi è a temperatura ambiente: con improvvisi sbalzi termici, come si addice a una struttura che c'è ma non si vede. E nel Novecento ci sarà un filone tozziano e uno gaddiano del romanzo il cui vero protagonista è il «narratore nascosto», cioè l'Altro. In Gadda urla, in Tozzi è quasi taciturno: finché non rompe il silenzio con una comunicazione urgente dall’aldilà, cioè dai territori dell’inconscio. Debenedetti non leggeva Tozzi da molti anni ma ricordava di averne ricavato alla prima lettura soprattutto noia. Non provo nemmeno a citare letteralmente il suo giudizio di allora, cioè della prima fase del corso di lezioni, ma non sono molto lontano se lo riassumo così: Tozzi è uno scrittore opaco, sgangherato e «scriteriato». Un tardo «provinciale» toscano, un po’ Fucini e un po’ Pratesi, per giunta snervati. Un epigono capace di

quella giornata fortunata in cui anche un narratore minore si 199

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regala un bel racconto, ma nulla di più. Allora non pensava alla Casa venduta, che solo più tardi gli sembrò un capolavoro della narrativa breve del Novecento. «Ti consiglio di includere questo», mi disse quando preparavo con Pagliarani un’antologia del racconto italiano. Ero «maturo» per accogliere il consiglio: il linguaggio tozziano possiede alcuni vistosi connotati — per esempio, la struttura decentrata e la preferenza per la narrazione di superficie — che erano peculiari dello sperimentalismo degli anni Sessanta. Nell’età dello sperpero, causava una forte impressione quel testo troppo povero che presto risultava latore di molti e ricchi significati: tanto più abbondante l’interpretazione quanto più era avaro il linguaggio. Si afferrano senza fatica le vicende e tuttavia si fatica a liberarsi delle ventose di un racconto che allarga a dismisura le branchie di una famelica piovra che non demorde mai. Adesca in superficie con qualche brano nutriente per poi trascinare il lettore nel profondo, la narrazione tozziana. Che intanto raggiunge contemporaneamente un doppio obiettivo: aiuta non solo a capire Debenedetti ma anche una delle strategie vincenti della narrativa contemporanea: quella che scatena energie dalla più scontata quotidianità. Il romanzo non è romanzesco, e l’intreccio risulta fatto a pezzi da una mente che perde spesso il filo del discorso, per riprenderlo dove pare e piace. La lettura è un piacere accoppiato a sofferenza: come per il masochismo, malattia non rara nei personaggi tozziani. AI punto che la repulsione per questi è stata trasmessa al loro non innocente autore. Nessuna contraddizione: La casa venduta è un prototipo toz-

ziano eccezionale per qualità ma non fa eccezione rispetto al modello migliore di cui è capace l’autore di Cor gli occhi chiusi. È questa la struttura-madre trovata da Debenedetti, quando si convertì alla causa di Tozzi e del se stesso ritrovato o scoperto dopo tanti anni di ricerca. Divenne un «integralista» — quasi un’ideologia della discontinuità narrativa — per essere fedele al linguaggio di Cor gli occhi chiusi, e condannò a morte un romanzo di ineludibile fatalità come Tre croci. Lo sacrificò per non contraddire la sua nuova fede nella struttura che ha perso la guida, la verità, il padre. Per Debenedetti, che ha fondato il

Novecento sul rapporto tra padre e figli, ecco finalmente la struttura lungamente cercata: pretendeva fratellanza, ugua200

glianza e libertà. Ebbene, Tre croci non è un romanzo libero fra eguali. E un romanzo coatto e travolgente. Libero per lui era Cor gli occhi chiusi. Che ha naturalmente delle coazioni a ripetere, ma non più secondo il determinismo freudiano. Una novità: Debenedetti si è intanto convertito a Jung, lo psicologo della probabilità: che è lo stesso sostantivo di Heisenberg. Tutte le scienze concorrono insomma a dare ragione al linguaggio di Tozzi. Un apostolo del moderno e insieme un untore. Tozzi ha avuto più avvenire col linguaggio decentrato di Con gli occhi chiusi che non con il maniacalmente centripeto Tre croci. Quand'è che un critico ha il diritto di rifiutare un’opera che ha contribuito a far amare in quanto molto bella? Può la Bellezza contrastare con la Verità? Ebbene, la Verità è moderna e indica ciò che è davvero bello. Bello e vero è, per esempio, il rac-

conto La casa venduta. Facile da trattenere il primo giudizio di Debenedetti su Tozzi: un fallimento della stessa misura della grandezza attribuitagli da critici indulgenti. Irrecuperabile: una voce sempre più fievole che sta approdando al silenzio cui sono destinati gli autori che hanno parlato fuori tempo massimo. Per uno che aveva fatto di D'Annunzio il proprio dio, si trattava della conferma che in basso non succede niente per cui pregare. Tuttavia De-

benedetti, che aveva lungamente cercato il proprio mito frugando nelle carte alte del Vate, in effetti aveva sbagliato non giudizio, bensì direzione. L’Essere aveva abbandonato i linguaggi elevati e aveva scelto i linguaggi bassi, ma il critico è ancora caricato ad epica e a tragedia borghese. Quanto ha guadagnato la prosa di Debenedetti a scendere dallo stile prezioso di D'Annunzio a quello umile che anni prima aveva disprezzato nel crepuscolarismo («maniera di una maniera»)! Gli farà bene la mescolanza di aulico e dimesso già odiata nel corregionale Gozzano. Le lezioni universitarie lo obbligarono all’oralità e lui la tesaurizzò in colloquialità. Anche questa è la forza del destino. Ecco la parola giusta: Tozzi si impose a Debenedetti con la forza del destino comune. Ancora negli anni Cinquanta Debenedetti è certo che D’Annunzio è il massimo poeta della modernità, specialmente in virtù del Canto novo e dell’Alcyone. Quando si accorse quindi il critico che il superuomo era da cercare fra gli uomini senza qualità? C'è qualche evento e qualche data: fra D'Annunzio e Tozzi s’e201

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rano intromessi Verga e Pascoli, i due grandi dell'Ottocento riscoperti a Messina in due corsi di lezioni (1952-55) poi trasformati in volume. Nel 1956, in seguito alla rivolta ungherese che aveva abbattuto le statue di Stalin, la crisi del neorealismo e di ogni realismo, socialista e non, è «la fine del mondo». Tornò d’attualità la guerra ai padri nella quale si era distinta la narrativa variamente segnata dall’espressionismo (non solo Gadda ma anche Savinio). E Kafka cominciò ad essere unanimemente considerato il maggiore narratore del Novecento. Non la faccio lunga e faccio più di un salto. Più che i poveri di beni materiali, divennero attuali i poveri di spirito, gli psicotici, i depressi, i malati di mente. E in tal senso erano dei pionieri gli squilibrati protagonisti dei romanzi del narratore senese. Fu di nuovo il turno dei visionari dopo tanta egemonia dei visivi. E fu una fortuna per Tozzi essere un visionario che racconta come se le cose si toccassero con mano. Chi tocca l’alta tensione di Tozzi è folgorato e Debenedetti lo fu. E fu una svolta per la fortuna critica di Tozzi, scrittore che fulmina con materiali solitamente refrattari. I poveri vanno in cielo non più spinti dall’ideologia, bensì dal caso. Debenedetti lo trasformò in necessità: ora o mai più. Ebbe pure lui la visione. Al seguito di Tozzi il critico vide la struttura che regge il modo di narrare delegato a raccontare cosa stava davvero succedendo all’uomo moderno. Fu un progetto e fu destino che molti dei maggiori scrittori del Novecento — da Svevo a Pirandello, da Palazzeschi a Savi-

nio, da Gadda a Moravia, da Fenoglio a D'Arrigo — corressero coi linguaggi umili. Ed era anche destino che il più acuto critico di Pirandello fosse anche il più profondo interprete di D'Annunzio. L'alternativa andava sostituita con l’alternanza: un giorno tornerà D'Annunzio. Anzi è tornato: quando si è fatto notare che il suo decadentismo era fattore di dinamismo come sa essere un reazionario di genio. Ora però che è stato ac-

certato che il realismo merita di essere detronizzato, il primo Novecento italiano scappa lontano da D'Annunzio, per collocarsi sulla sponda opposta: da cui talvolta si specchia per agevole ribaltamento di immagine e di linguaggio. Dunque addio D'Annunzio, addio linguaggi alti! Ora è tempo di antieroi, di modesti impiegati, di poveri soldati della vita che sono in trincea per guadagnarsi un’altra giornata. Attenti insomma alla vita 202

quotidiana di esseri esplicitamente inferiori. Addio quindi alla grandezza? No, ad essa ora si arriva dal basso, con personaggi che sono a terra: più che socialmente, psicologicamente (cioè «realmente», postilla Gadda, che identifica psiche e realtà). Agli occhi di Debenedetti di quei primi anni Sessanta inizialmente la narrativa «ottocentesca» di Tozzi era un reato verso la storia e verso la verità. Lo confermava una scienza «assolutamente moderna»: il de profundis per Tozzi era convalidato dallo smacco della scienza, la biologia del positivismo, che ormai

mal sorreggeva quella narrativa «di ambito locale». Dunque il caso poteva dirsi chiuso: Tozzi chiude un’epoca e non apre alcuno spiraglio sul futuro. Insomma, addio Novecento per l’autore del Podere. Ma non finisce così. Questa stroncatura «orale» risultò un reato dell’interprete nei confronti della storia e della verità. Infatti allora Debenedetti ignorava ciò di cui più tardi fu consapevole: quel provinciale aveva adottato inconsapevolmente la strategia della materia infinitesimale, quella della particella atomica. Come questa, non sapevano dove andavano, ignoravano quando sarebbero arrivati i personaggi tozziani, invisibile la meta. Il critico tardò a capire che era stata assunta dalla microfisica la guida intellettuale dell’uomo moderno. Il narratore ritardatario era un precursore ma il critico pionieristico che giovanissimo si iscrisse a Matematica ci mise qua-

rant’anni a prendere coscienza della verità. Per la storia, fu comunque Debenedetti ad arrivare primo alla scoperta che la narrativa di Tozzi era all'avanguardia pure rispetto alla scienza. La letteratura insomma si vendicava su chi la metteva al servizio di una politica, un’ideologia e una scienza che non fossero state all’altezza della crisi dell’uomo del Novecento. Torniamo dunque alla letteratura: dove, lavorando dalla parte dell’«anima», Debenedetti e Tozzi cercano e trovano identità di verità e bellezza (e così ho nominato i tre più sostanziosi sostantivi della religione letteraria di Debenedetti). E torniamo di corsa alla storia letteraria di quel secondo decennio del Novecento. C'era stata «La Voce» e c’era stato il frammentismo vociano. I frammenti di Tozzi, che erano vociani, erano

impressionisti? Erano degli impressionisti i moralisti della «Voce»? Debenedetti giudicò entrambi in ritardo sul Novecento. Anche quando cambiò idea nei confronti di Tozzi, confermò la condanna all’anacronismo dei vociani. Però allora già si comin203

ciava a pensare che fossero dei «protoespressionisti» quegli scrittori che urlavano per ragioni morali, per motivi fisici e metafisici. In verità così parve alla giovane critica, proprio per influenza dello stesso Debenedetti, che salvando un individuo

(Tozzi) riaprì il processo da cui uscì assolto il gruppo, cioè gli autori della «Voce». Il fatto è che Debenedetti aveva scommesso sul romanzo, sulla durata bergsoniana, piuttosto che su frammenti caldi che si vantano di aver perso i collegamenti col resto del sistema culturale. Tozzi servì pure a dimostrare che il romanzo è vivo anche quando quelli che non sanno o non possono farlo in quel momento sostengono che è spacciato e che ha dato il mandato di sostituirlo al frammento. Invece toccava solo capire come andava fatto il romanzo quando non è più possibile quello verista. Ebbene, Tozzi riempiva magnificamente il vuoto che sembra esistere (ma ci sono Svevo, Pirandello,

Bontempelli e Palazzeschi a smentire) fra D'Annunzio — peraltro vegeto — e Gadda, o magari il Moravia degli Indifferenti. Di questi «impressionisti» il critico amava più Jahier che non Slataper, più Soffici che non Boine, più il Cardarelli vociano naturalmente che non il rondista. Ricordo le sue domande agli esami e le risposte agli studenti che «classicheggiavano» con Cardarelli. A Debenedetti piaceva molto di più il prosatore di Prologhi che non il poeta fanatico della «tradizione classica». Una volta mi disse esplicitamente che per lui Cardarelli esisteva in quanto autore di Pro/oghi. Che di fatto sono frammenti di prosa «espressionista», magari per urto di idee dotate di elementare ma gridato cromatismo più che per urto di registri linguistici (il monolinguismo cardarelliano è già roccioso e persino levigato). È lecito parlare di affinità elettiva del critico con l’espressionismo? Naturalmente a Debenedetti non interessava la parola, bensì la cosa. Lui cercava «grandi anime». E l’anima nel Novecento si esprime con ignota violenza manifestandosi di sorpresa. C'era un prigioniero laggiù e urgeva liberarlo. C'erano due direttrici di ricerca: registrare i materiali dell’inconscio (le avanguardie futuriste, dadaiste e surrealiste) oppure selezionare gli impulsi interni dall'esterno. Forse si tratta solo del prima e del

poi: fallita o solo parzialmente riuscita l’impresa di abbandonarsi al flusso di coscienza o di incoscienza, toccava provare a

rimettere sotto controllo la condizione umana. Successe nel 204

primo dopoguerra, ritorno all'ordine (compreso certo surrealismo), cioè «La Ronda», «Valori plastici» e infine il ritorno al

romanzo, festeggiato con lo champagne della Coscienza di Zen0. Debenedetti non amava Svevo: lo «ammirava ma non lo invidiava». E fu Svevo quello che andò più a fondo nell’anima umana. Naturalmente presero strade differenti i narratori che volevano restaurare il romanzo come genere, e come scuola. Insomma no al romanzo naturalista; sì al romanzo moderno: quello di Pirandello, Svevo, Gadda, Tozzi, Palazzeschi, Bontempelli, Campanile, Savinio, Alvaro, Zavattini e Moravia. Le

grandi anime del primo Novecento italiano. Tozzi fece cambiare storia a Debenedetti, e gli cambiò il gusto. Il fiuto non basta più: lo si capiva anche da Serra, che si turava il naso dinanzi a Pirandello e a Palazzeschi. Al fiato dunque! AI fiato persino di Borgese, ampi polmoni di storico che pompano meglio l'attualità. Tozzi era attuale, era moderno, era un nar-

ratore da cui si capiva il Novecento. Sarà stato un figlio cattivo ma fu un ottimo padre del romanzo contemporaneo. Ora che sapeva la verità su come era fatta la narrativa di Tozzi, Debenedetti ci prendeva gusto a quella prosa che prima quasi lo disgustava. Aveva veramente tanto gusto Serra? Debenedetti ebbe paura di avere un gusto ottocentesco. E tuttavia meglio di Carducci è De Sanctis, miscela di fiuto e fiato che non cesserà mai di fare miracoli. Comunque Tozzi non fu mai per Debenedetti una questione di naso e di bocca. L’anima non è un vento. E il critico sta riscoprendo che il cervello può avere ragione più spesso che non il palato. Alla cultura tocca essere assolutamente moderna, anzi in assoluto moderna, cioè profondamente logica. Debenedetti, «narratore della critica», comincia un’indagine che la pensa in un modo e finisce per pensarla in modo diverso se non opposto. Il critico è un uomo in disponibilità ogni volta che rilegge un autore: si rimette sempre in discussione, cerca

nell’altro un se stesso che ancora non è venuto fuori. La verità gli era più amica del se stesso di prima. Non gli piaceva ad esempio per niente Pizzuto: finché non ne parlò lungamente con Contini, che illustrò l’inafferrabile modernità dell’autore di

Signorina Rosina. La nuova verità ripagava ampiamente della resa alle buone ragioni dell'amico. Debenedetti esce sempre con connotati cambiati quando ha concluso l’interpretazione del mistero che sempre è un grande artista. 205

Debenedetti cambiò molto insieme a Tozzi. Si potrebbe scrivere un romanzo sulla mobilità della sua critica. La ricerca porta sempre la buona novella: si legge per diventare diversi e per scoprire la propria identità. Nemmeno il lettore esce dai suoi saggi come era entrato. Il racconto critico o il romanzo critico come storia di un cambiamento profondo di mente e d’anima. Sicché ora è bello quello che prima non piaceva. Il piacere della lettura nasce spesso da ciò che si patisce per arrivare a capire il linguaggio di un autore. Morale della favola critica: attenti al libro che suscita orrore, odio e repulsione. Potrebbe es-

sere l’inizio di un grande amore. Un giorno ci fu un'iniziativa del destino: riprendendo in mano i testi di Tozzi e inoltrandovisi, quello scrittore dimesso, slegato e fastidioso si rivelò a Debenedetti un avvincente narratore: pure nel senso che legava bene col suo, col nostro tempo. Non solo: quello scrittore così sfiorito e polveroso, risultava, a leggerlo nei primi anni Sessanta, uno dei più radicali «inventori» della narrativa del Novecento. Sorpresa: lo era proprio in quanto era decentrato, disarticolato e persino repellente. Ecco: i «difetti» erano la sua maggiore virtù. Prova paradossale: quella narrativa che era così squilibrata faceva anzitutto perdere l'equilibrio al lettore. Lo squilibrio è negativo? Ebbene, il negativo sarà trasformato in qualità nel decennio in cui Debenedetti scrive le lezioni per il postumo Romanzo del Novecento. Un lettore dell’ultimo secolo non teme di stare sull’orlo del burrone, anzi ama il salto

di livello, è persino attratto dal vuoto che sta giù nello sprofondo. Con Tozzi si costeggia sempre una voragine, e il vuoto è

una privazione che dà le vertigini al corpo e all'anima. Fatica a tenersi in piedi quell’anima fragile del protagonista della Casa venduta: finché non si libera dell’eredità paterna. Come è felice di essere diventato povero, di non avere più niente! Ha esaudito il desiderio che un giorno era venuto fuori casualmente dalla sua mente. Quanto è profonda una mente che non è zavorrata dalle idee di un benpensante, di un buon borghese per cui la proprietà è tutto! Il vero negativo è il padre, colui che sapeva concentrarsi sui

propri obiettivi e far di tutto per raggiungerli. Se fosse stato un narratore, il padre avrebbe continuato a rappresentare la vita 206

secondo leggi di causa ed effetto, come i veristi. Come liberarsi del padre senza ucciderlo, o meglio come eliminarlo senza toccarlo con un dito, con una mano? Forse con la mano che scrive, azione oltremodo astratta nel codice culturale paterno, ma

che i personaggi tozziani trasformano in strumento del parricidio simbolico. Che il cervello dà ordini alla mano lo si sapeva ma Tozzi glieli fa dare dal loro inconscio. Era dunque così complesso questo narratore così semplice, era tanto profonda quella scrittura superficiale? «Candidamente» — anche se macchiando la pagina con improvvise emorragie — Tozzi butta per aria l’intero sistema, decapitandolo. Un gesto simbolico, antropologico, storico, psicologico e scientifico. Nella Casa venduta si festeggia la morte del capo con la polca finale che allieta il protagonista destinatosi a una notte senza cibo e senza letto. È una tragedia l’esserne privo, o meglio, l’essersene privato, ma si respira con tutta l’anima

in quel vuoto che per lui è suprema conquista. Al momento di concludere la vendita, il protagonista mette «la più bella firma» di cui è capace. Con la penna Tozzi infilza ogni giorno il proprio padre, ferendolo a morte. Mai l’inchiostro è stato così vicino ad avere il colore del sangue. Negli anni Sessanta vinceva su ogni fronte la strategia del rovesciamento: quella per la quale, altro esempio, un folle non sarà mai un saggio (colui che ha imparato per esperienza cos'è la vita) ma può essere benissimo un sapiente (il visionario che è anche un profeta). Fuor di metafora, Tozzi fu l’involontario profeta della struttura che avrebbe retto il modo di pensare e di agire di un secolo che per antonomasia è nevrastenico. Un linguaggio «demente» si è assunto incoscientemente l’incarico, attraverso Tozzi, di dire verità negate all’intelligenza. Questo narratore scrive il meglio di sé in parole povere. Le arricchirà l’interpretazione, critica che congettura ma che non sa. I suoi testi sembrano leggeri ma sopportano bene il peso di motiva-

zioni in cui pullulano significati di ogni provenienza culturale. Il risparmio fa sperperi, il semplice è complesso, il superficiale è profondo, la chiarezza è oscura, la parola sola è un’essenza in-

torno alla quale c’è un arcipelago di significati affini. Il suo pareva un pensiero assai debole ma poi si seppe che Tozzi lo aveva irrobustito con molte letture «moderne». Si fac207

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cia allora l'ipotesi «irragionevole» che il narratore abbia educato la sua mente a farsi da parte: cioè andasse a nascondersi, e lasciasse vivere la vita senza darsi sempre oppressivo pensiero.

Non si dirà mai di Tozzi quello che si dice di scrittori che illustrano le loro tesi geniali: il senese non corre il rischio di apparire «più intelligente dei suoi libri». È questa una delle fondamentali comparazioni o alternative del Novecento. La narrativa di Tozzi intuisce molto più di quanto ne sappia il suo autore. Tozzi promette all’acrobata appigli che all'improvviso svaniscono. Debenedetti vola con le parole di Tozzi per vedere le verità che non si toccano ma che contano di più. «Assenza del pensiero», sintassi malferma, procedere a zig zag: così i romanzi tozziani approdano dove non arriverebbero mai quelli dei naturalisti: cioè nel cuore della modernità lacerata dalla nevrosi. A questa malattia dell'anima Tozzi ha offerto la mano come un sismografo, magari sottoalimentato. Ebbene, la prosa di Debenedetti asseconda la mobilità di mente di un narratore sgusciante da tutte le parti. Attenzione: Savinio l’aveva già scritto che la mobilità della mente e la mobilità del corpo sono peculiari del nevrastenico. Corrono con affanno sulla superficie i periodi del critico: forse si è accorto che Tozzi è lo scrittore del suo destino. Ogni epoca ha la sua malattia e non era vaccinato nemmeno Debenedetti. Che non si può certo limitare a segnalare la presenza delle fosse oceaniche della mente tozziana. Un critico deve scoprire l’intero reticolato che unisce i vari dislivelli. Le lezioni universitarie gli consentono le digressioni con cui ci si allontana dal nucleo per accerchiarlo. E la prosa vortica, attratta dall’oscuro bersaglio. Non tutto quello che qui si è scritto e che di seguito si aggiungerà l’ho sentito dire da Debenedetti o letto nei suoi libri. Non è tutta farina del mio sacco, non è tutta farina del sacco di Debenedetti. Potrebbe zoppicare anche la mia memoria: alti e bassi da mettere a fuoco per vedere meglio Tozzi. Debenedetti comunque faceva crescere negli studenti e nell’assistente la voglia di leggere questo sconosciuto: tutti corremmo a leggere Tozzi, suppergiù come i lettori di Cervantes che avessero già letto Unamuno. Eravamo stati tuttavia allertati da Debenedetti: non c’era da fidarsi di quella narrativa: si scivola e magari ci si rompe l’osso del collo. Che è pur sempre alla base della testa. Se però c’è 208

una testa rotta, non si può dire, come aveva fatto Svevo per Joyce, che Tozzi circolasse col «cranio scoperchiato». Il narratore senese stringe il coperchio sopra il proprio cranio che difende «duramente» un inconfessabile segreto. Debenedetti scalpella la prosa tozziana alla ricerca del movente interno. Ho sempre in mente La casa venduta, potrebbe esserci dentro tutto Tozzi. È un testo breve, ma la brevità promette grandezza come la povertà del protagonista promette felicità. La narrazione di Tozzi striscia al livello più basso, come il millepiedi di Kafka. Non si può dire che abbia fretta: semmai si possono poggiare mille idee su ogni dettaglio. Si nomina una cosa facendo il vuoto tra mille altre. Facile mettere il piede in fallo. Ci sono buche ovunque: appaiono all’improvviso e spesso si inciampa. Questo narratore dà le traveggole, anche se la strada è pianeggiante. La scrittura procede con cautela, guardandosi intorno, sempre da una diversa prospettiva. Sembra la più naturalistica vista ma è spesso una visione.

La distonia altera sensi e ragione. Un narratore che pare sfibrato ha i nervi a fior di pelle ma non ha voce per gridare: flebile la pronuncia, invertebrati i periodi, che tuttavia danno malessere. «Carattere involutivo» come quello di Gadda, Tozzi tuttavia non perde mai la pazienza, manca di isteria, si arrende al destino: che nel suo masochismo potrebbe giudicare amico. Non resiste alla legge di gravità che lo trascina nel precipizio: al cui fondo avrà finalmente pace. La sconfitta dà l’aureola a questi esseri che si umiliano e si offendono. Una narrativa gelida, ghiaccio che scotta, si rabbrividisce per l’angoscia che attacca dal fondo. Nel mare agitato correnti sotterranee si scatenano all'improvviso con tanta virulenza che solo per miracolo non riducono in pezzi il fragile guscio in cui Tozzi ha raccolto il racconto. Quanta fatica mantenere figurativa una narrativa che sembra destinata all’astrattismo! Viene dall’essere stata ridotta a pezzi dal frammentismo vociano ma ora tocca rimettere insieme i cocci. Ed è così che diventerà romanziere Tozzi, narratore che graffia con ogni periodo, anche col più inerte. Se Gadda bolle, Tozzi gela: anche nel senso che si iberna, in attesa di una primavera che non arriverà mai. La superficie sembra fragile, ma la psiche è ghiacciata, inflessibile come il destino e come un'ossessione. Galleggiano le parole che fanno da picco dentro un discorso in apparente bonaccia. «Non voleva avere 209

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niente.» Tozzi mette a fuoco la punta acuminata come un iceberg: quale massa di sofferenze c’è sotto! Quando il personaggio non ne può più, viene proiettata fuori con violenza la parola rivelatrice. È la prova più evidente: egli vive sotto pressione, schiacciato dai rancori, dalle paure e dall’ansia. Hanno l'ansia anche tante pagine che sembrano tranquille. Il senese folle che era parso un epigono ora appariva come un anticipatore. Non era Gadda, che aveva aperto una scuola oltre che una strada; ma anche Tozzi, che non avrebbe dato le-

zioni a nessuno, avrà i suoi nipotini. Molti toscani sono suoi discendenti: anche se Tozzi non è scrittore con cui vantare paren-

tela. L’espressionismo è il figlio illegittimo del verismo come il neoespressionismo è il figlio degenere del neorealismo? Sono tornati alla fine degli anni Cinquanta gli scrittori che trafficano con i traumi e che gridano coi colori e che provocano urti stridenti fra lingua e dialetti. In comune con i nonni hanno l’elefantiasi dell’interiore. Il soggetto nevrotico non mette più a fuoco la realtà esterna bensì i territori che bruciano più profondamente. Bruciano però anzitutto gli occhi, che presto incendiano tutto il panorama. C'è il fuoco dentro narratori come Gadda e Testori, che fanno il malocchio ai loro personaggi, al loro, al nostro tempo. Non si salverà niente e nessuno. Tozzi fa il malocchio anzitutto a se stesso, ma così si salva co-

me narratore «futuro». Alcuni lo rinnegano come nonno perché porterebbe male, ma il senese è il progenitore di una narrativa che racconta tragedie fatte di cose trascurabili, storia da niente. Per esempio, è un evento risibile, secondo Kafka, un conflitto fa-

miliare. Che tragedia è invece per Tozzi l’essersi messo in guerra col padre! Nella Casa venduta in verità si fa la commedia: pare che tutto nasca dalla necessità di vendere per cancellare un’ipoteca, peraltro di valore pari all’intera proprietà del protagonista. Anche Zeno in lotta col padre racconta come commedia la tragedia. Ed è una commedia pure la saviniana Tragedia dell'infanzia. Le situazioni limite sono sempre a doppia faccia? A Debenedetti piacque molto la metafora del critico tedesco, Babinski, che privilegiava l'occhio sinistro. È quello che a Tozzi serve per guardare il mondo esterno come se fosse un brutto sogno. Per lui è tutto un incubo in forma di vita quotidiana. Ecco: Tozzi è colui che ha estratto i più tremendi mostri 210

dalla normale vita quotidiana. E il piccolo-borghese, nella sua pochezza, diventa un grande personaggio drammatico. È una storia già raccontata: l’uomo senza qualità ha avuto in sorte dal destino, dalla storia, il mandato di rappresentare il personaggio-uomo del Novecento. Il personaggio tozziano corre per perdere prima possibile la suprema qualità borghese: la proprietà, più precisamente quella ereditata dal padre. Con l’occhio sinistro, il critico diagnosticò un complesso di castrazione,

trauma che è invisibile ma che sanguina senza sosta. E ora anche chi legge Tozzi «con l’occhio destro», quello più empirico, conferma che questa potrebbe essere la verità fondamentale dell’arcano linguaggio tozziano. «Butti giù anche quello», disse, indicando il ritratto del padre, il proprietario della casa da vendere al compratore che, per cominciare le pulizie, aveva buttato giù le foto della madre e della sorella attaccate al muro. Una battuta automatica che è pure un lapsus: questi piccolo-borghesi desiderano buttare giù ogni valore ereditato dal padre. I personaggi tozziani credono di odiare solo il loro padre ma non salvano nulla del mondo in cui vivono. I futuri proprietari non potrebbero essere più brutali, rozzi, repellenti. L’avvenire è insomma tremendo anche

senza i padri. E del presente l’unica nota felice è la polca, che d’altronde non è mai grande musica. Tozzi è scrittore che finge semplicità, ma non credeteci. Che fanno gli autori di romanzi «fisiologici», opposti da Pirandello a quelli «psicologici»? Ebbene, Tozzi racconta i nudi e opachi fatti sapendo sempre che c’è qualcosa sotto. Lui non va a vedere cosa lo assale dall'interno nel modo imprevisto e violento di uno schiaffo. Lo fa invece Debenedetti, il critico psicanalitico che è penetrato più a fondo nell'anima molto complicata del narratore senese: come aveva fatto con quella di Pirandello, Svevo, Palazzeschi, Saba, Landolfi, Moravia, Morante, scrittori

di sovrabbondante psicologia. Tra i romanzieri psicologici sono più grandi quelli che a furia di pensarci hanno avuto rivelazioni che possiedono la consistenza dei fatti tangibili. Con Tozzi non si riesce mai a stabilire precisamente se quello che è avvenuto è reale o sognato. Non dovrebbe succedere così e tuttavia quanto succede al personaggio sembra subito spontaneo e logico: che sono gli aggettivi con cui si manifesta la verità di Gadda. È stata ottenuta scartando rispetto al percorso che la 201

norma psicologica ha sinora prescritto. Per dire la verità insomma il personaggio ha dovuto ribellarsi alla vecchia psicologia, come il narratore ha l'obbligo di rompere con il linguaggio del naturalismo. Tutto si deve complicare in Tozzi prima di diventare semplice. Questa però è anche la strada maestra attraverso la quale Debenedetti arriva al centro del personaggio tozziano, della narrativa moderna, dell’interpretazione del testo e infine nella zona centrale dove il critico abbraccia il proprio autore come un fratello gemello. E ora tutto è più semplice pure per il lettore. Che così ha capito qualcosa di se stesso che ignorava. Il narratore, il critico e il lettore come fasi diverse della storia della

riconciliazione con la parte negativa di se stessi. Condannato alla sconfitta, l’uomo moderno la trasforma psicologicamente,

cioè «realmente», in una vittoria. E la polca può suonare allegramente alla fine disperata della Casa venduta. Qui si racconta come un narratore «mediocre» che pareva in ritardo rispetto al linguaggio del suo tempo sia diventato un grande romanziere e per giunta anche un pioniere, sia pure inconsapevole, del nuovo modo di narrare. Qui di seguito inoltre

si narra come Tozzi si rivelò a Debenedetti e in che modo Debenedetti rivelò il vero Tozzi a chi non aveva ancora capito quanto egli fosse straordinario in quanto innovatore. Nello stesso tempo il critico ebbe la rivelazione della struttura delega-

ta a raccontare la storia dell’uomo contemporaneo in quanto uomo mediocre. Nello stesso tempo, Debenedetti, da massimo,

sottilissimo e geniale critico letterario che era già, diventò popolare come storico della letteratura scrivendo il capitolo tozziano che fa da avanguardia e da centro irradiante al Romanzo del Novecento, il suo capolavoro. Il Tozzi debenedettiano rivela poi anche questo: con la psicanalisi si può fare critica letteraria, che delle opere d’arte illumina, oltre che il prima — l’«anima» dell’autore — e il dopo — la ricezione dei lettori —, specialmente il «durante»: il tempo fondamentale e la sua specificità letteraria: il presente che aspira a diventare futuro perenne. La psicanalisi al servizio della letteratura e non il contrario: come più spesso avviene in critici che non vanno quasi mai oltre il metodo. La psicanalisi del testo più che del suo autore. Nel profondo essi coincidono ma in effetti coincidono parecchie altre cose, se si analizzano profonda212.

mente le strutture di ogni materia di cui è fatta un’opera. Una è però la struttura, anche se ha molteplici manifestazioni storiche, psicologiche, fisiche. Debenedetti cerca sempre l’Uno, il numero della Verità e del mito. Tozzi guida Debenedetti a trovare il proprio, e il suo, mito. Letto come scrittore espressionista e interpretato con la psi-

canalisi, Tozzi diventa uno dei protagonisti di quella che in Personaggi e destino Debenedetti avrebbe chiamato «epica dell’esistenza», per opporla all’«epica della realtà». Storica ora è l’esistenza, non la realtà, detto così, a fiuto. Il fiato comunque

insiste: non dimenticate la realtà; e inoltre cambiatela più radicalmente possibile. Poi si sarebbe constatato che talvolta — negli anni Zero, Venti e Sessanta — nel Novecento la cambia meglio la letteratura dell’antirealismo, onirico o fantastico, che

non quella realista. Ci prese gusto Debenedetti a rileggere Tozzi dopo aver capito che questi stava «parlando una lingua diversa». Un linguaggio con cui si parla sempre d’altro. Solo la struttura può far capire di cosa stanno parlando i vari contenuti. La lingua di Tozzi parla di esistenza fingendo di parlare della realtà più concreta, magari autobiografica, provinciale, cioè senese. Periferia di una nazione? Anacronismi? Ebbene, Tozzi, come Svevo, Pirandello

e Gadda, trasforma la periferia in centro da cui si vede a che punto è la condizione umana. E l’anacronismo diventa la premessa di una così prolungata durata del dialogo che non è ancora finito. Se non in anticipo, meglio in forte ritardo. Lo consigliava pure Sklovskij. «Un programma d’arte che ha il doppio merito di nascere da un’inesorabile necessità umana, e per di più da una necessità umana comune agli uomini capaci di sentire la situazione del loro tempo fino a esprimerla in quelle forme annunciatrici, pioniere che sono le forme dell’arte nelle età di profonda metamorfosi delle coordinate interne e sociali» (Debenedetti, I/ rorzazzo del

Novecento). Da Siena Tozzi ha fatto passare sulla propria vita le coordinate interne ed esterne della vita collettiva del primo Novecento. Non lo sapeva, credeva di farsi i fatti propri: era obbli-

gatorio raccontare questo e non altro. Un punto che è un crocevia. I personaggi di Tozzi sono spesso per la strada ma il pioniere ha fatto innumerevoli scoperte senza muoversi da casa. Questo grande narratore «domestico» trova in famiglia tutto quello che 213

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gli serve. Un provinciale, la cui provincia può diventare il centro del mondo. E tuttavia la dimessa vita locale riserva sorprese tali che il romanzo fa epica con vicende e personaggi vili. Un fannullone fa una vita trascurabile muovendosi nella metafisica con la capacità di astrazione di un intellettuale di Musil. L’impiegato della vita è sempre sul punto d’essere licenziato. Non rispetta né il tempo né le buone maniere. Sarà punito, se l'è meritato, e non sarà compatito. Logicamente verrà deriso dagli interlocutori. Con un personaggio simile si farebbero matte risate e invece Tozzi trasforma il ridicolo in tragedia. In controcorrente rispetto a un secolo che ha riso delle tragedie pubbliche e private. Anche a prenderlo a torte in faccia, il personaggio tozziano irrita al punto di togliere ogni senso di colpa ai persecutori. E questo non s'era mai visto così. Quando la frase dovrebbe ristagnare, in Tozzi guizza aggressiva e velenosa per paralizzare. I piccolo-borghesi di Palazzeschi, Campanile e Zavattini, ridendo,

perdonano la vita. Invece è imperdonabile la vita risibile e tragica di Tozzi. Nel Controdolore di Palazzeschi tutto è ridicolo, anche

il più terrificante dolore; nei romanzi di Tozzi suscitano panico personaggi che di solito fanno ridere la comunità in cui vivono. Si manifesta nella narrativa del senese quel divorzio tra personaggio e destino — il linguaggio non concorda con la vicenda — che, secondo Debenedetti, è la lacerazione fondamentale di cui soffre

l’uomo del Novecento, quella che rompe di sorpresa la crosta dell’esistenza borghese, in veste di vita provinciale e periferica. Ai margini, in periferia, dentro i linguaggi bassi è annidata l’epifania che darà casualmente quella rivelazione di destino che andrà a coincidere con la necessità storica dell’esistenza. La rivelazione di Tozzi è una di quelle epifanie che sono il contrassegno linguistico indicato da Debenedetti come peculiare della narrativa del Novecento. Cos'è letteralmente e simbolicamente l’epifania per lui, Debenedetti lo ha detto e scritto «osses-

sivamente»: è la rivelazione del divino nell’umano più dimesso e quotidiano. L’epifania del Cristo. Un bambino qualunque, povero e trascurabile, diventa Dio in un’umile mangiatoia. La Sacra Famiglia, poi i re magi. A suo modo è un mago questo contadino che raccontava slegate vicende, ambientate nella campagna e nei paesi del senese e interpretate da personaggi impegnati in duri conflitti familiari. Si è parlato di fedeltà verghiana di Tozzi, ma rispetto a quelli di Verga i protagonisti dei romanzi tozziani sono 214

più accaniti nel disfarsi che non nel procurarsi la roba. Sono forse anche degli eremiti per come fuggono la compagnia degli altri, ma di sicuro non sono dei francescani questi suoi personaggi tanto feroci da desiderare anzitutto la morte del padre. Poiché non possono ammazzarlo, dilapidano le ricchezze per le quali egli era vissuto. Scottano nelle loro mani i denari ereditati. Sono felici di essersene liberati? No, non si può dire questo, loro non hanno alcun motivo per essere felici, ma sono sollevati se restano senza niente: come il protagonista del racconto La casa venduta. Si son tolti un peso. Missione compiuta. Una satanica epifania che condurrebbe all’inferno se i personaggi di Tozzi non fossero da sempre dannati senza speranza. Uno scrittore apparentemente uguale a tanti altri diventa un dio di scrittore come il bambino della prima epifania cristiana. La narrativa modesta, insignificante, immotivata e logora quale all’inizio sembrava a Debenedetti quella di Tozzi, si rivela presto dotata di un’enorme energia negativa. Debenedetti celebra il battesimo di Tozzi come narratore «moderno», uno di quei narratori cioè che provocano shock, che compiono atti gratuiti, che frequentano linguaggi «infanti» coi quali si suggerisce più di quanto si dice. Era lui stesso una deviazione dalla norma, ma la critica lavorava a farlo stare dentro vecchie regole. Liberate Tozzi dal frammentismo, ordina Debenedetti alla critica. Giù le mani, ordina Debenedetti a Borgese, che si era messo a segare le

parti che gli sembravano in eccedenza rispetto al canone naturalistico. Tozzi è un narratore che ha necessità di esorbitare. Tozzi è il primo di una serie di scrittori che di volta in volta sembreranno narratori «poetici» o «prosatori lirici», realisti magici, ermetici ecc., cioè scrittori che variamente, smettendo

di «nominare», si dedicano a suggerire, magari segnando i confini entro i quali è più elettrico il campo di tensione. Riconoscete voi in Tozzi il capostipite del linguaggio con cui in splendido isolamento componete i vostri testi? Delfini, Bilenchi, Loria, Vittorini, D’Arzo, Cassola, Landolfi, Pratolini, Tobino e Lam-

pedusa forse risponderebbero di no, ma all'esame del sangue risulterebbe il contagio. Un medico partigiano potrebbe parlare di epidemia. Si tratta di una malattia ricorrente che si alterna da una parte con il realismo e dall’altra con l’informale delle avanguardie. Ma torniamo alla scienza.

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La microfisica aveva spiegato come si comportano le particelle atomiche, a cominciare dal mistero della loro velocità e direzione. Ecco un’altra delle tante rivelazioni: quelle particelle si comportavano come i personaggi della narrativa di Tozzi (e degli altri grandi narratori tra le due guerre, non escluso lo Svevo di Zeno dove la vita prende a pugni o bacia il protagonista quando costui meno se lo aspetta). E la microfisica aveva pure raccontato che tra le particelle atomiche ce n’è una che combina singolari stranezze. Ecco: Tozzi era una particella atomica ed era anche una particella strana dentro l’imprevedibile atomo della narrativa contemporanea. Aveva cioè un suo modo particolare di essere autonomo rispetto alle altre particelle; ma innanzitutto non c’era nulla che potesse determinare rigidamente i suoi atteggiamenti. La velocità non era più così uniforme da garantire il punto di incontro con una situazione attesa, la direzione era diventata imprevedibile. Il nuovo linguaggio: la vicenda non arriverà più in tempo all’appuntamento col destino del personaggio. Tutto perciò diventava assurdo. Ma l’assurdo è naturale in Tozzi, che ha perso ogni criterio per distinguere il bene dal male, il bello dal brutto e la salute dalla malattia. Gli opposti si alternano ma possono coincidere. Ora, direbbe Debenedetti, ai personaggi tocca essere brutti (lo sono sempre quelli di Tozzi), se vogliono essere veri, cioè belli per sempre. Tozzi non ce la fa ad accordare la vicenda e il destino. Il suo destino dà appuntamenti occasionali e privi di senso. Come quello di Svevo: che pur ci pensava sopra tanto: suppergiù quanto Pirandello e tutti gli scrittori (Bontempelli, Savinio, Gadda ecc.) che illuminano il percorso intellettualmente. In modo diverso da questi, perché Tozzi è uno che scommette di più sui sensi e sui sentimenti. Gli altri trasudano concetti audaci, Tozzi inonda coi sentimenti più strani (al protagonista della Casa venduta possono essere simpatici personaggi odiosi per comportamenti e mentalità). Arriveranno ad analoghe conclusioni i due filoni della modernità ma Tozzi non fa venire — come Bontempelli, Gadda e Savinio — il mal di testa, bensì il mal

di cuore. Un enfisema minaccia l’infarto in ogni periodo, se lo si sa auscultare. Si direbbe che Tozzi «non ha polso»: la frase ha il minimo dei battiti, e le parole stanno su a malapena. Prosa come scrittura sull’estrema soglia. Rare ma assassine le extrasistoli. Si ferma il cuore per un attimo ma in così breve tempo 216

muore qualcosa di vecchio e nasce qualcosa di nuovo. Quando riprende a battere, il cuore impazzito di Tozzi fa salire il sangue alla testa, che allora, spiazzata, capisce. Prima o poi la frase grida la parola proibita. Gliel’aveva detto d’altronde il suo amico, maestro e datore di lavoro Pirandello (aveva assunto Tozzi in un giornale romano): lo scrittore moderno deve sapere «scomporre, disordinare, discordare». Una volta Gargiulo stroncando un volume di Saba polemizzò con Debenedetti, accusandolo di aver abusato in psicologia: secondo lui, la psicologia giustificherebbe tutto. Allora Debenedetti racconta come Gargiulo è due volte vittima della psicologia, stringendolo sul suo stesso terreno. Una prima volta, in una parentesi che come al solito non nasconde l’imputazione: in Gargiulo c’è una resistenza psicologica, oltre che culturale; la seconda volta, quando Debenedetti sveltamente dà una lettura stilistica della prosa di Tozzi, e ne svela la matrice inconscia. Senza psicanalisi l’interpretazione è fuori tempo massimo per capire un uomo che la nevrosi ha travolto. Quello insomma che al rondista sembrerebbe un errore, a Debenedet-

ti appare invece una splendida dote espressiva. A giudicarlo con la vecchia stilistica, Tozzi è un fuorilegge della grammatica. Chi invece conosce le virtù della nuova stilistica (quella che procede per deviazioni dalla norma) sa che egli finirà per imporre la propria legge alternativa. Tozzi infatti contribuisce in misura determinante alla nascita del nuovo ordine della narrativa fra le due guerre mondiali. Lui ovviamente non è come i rondisti un nostalgico del vecchio ordine. Tozzi, che non è mai

un conservatore, guarda avanti anche quando ha in testa idee reazionarie. Il suo linguaggio continua sempre a essere in rivolta rispetto a quelli che danno notizie scontate e rassicuranti. Debenedetti, per esempio, registra in Tozzi la presenza di congiunzioni incongrue dal punto di vista strutturale: quell’avversativa non segnala una contrapposizione; quella temporale non segnala una contemporaneità ma una successione inspiega-

bilmente legata. La questione sembra solo linguistica ma Debenedetti (per il quale linguaggio e psiche vanno d’accordo da assai prima che si traducesse Jakobson) ne individua l’origine emotiva. Quelle congiunzioni incongrue rappresentano l’emozione conscia destata dall’affollarsi di quelle figure. Le immagini possono essere coatte: l’intenzione, oltre che di registrarle, è 217

di esprimerle. E Tozzi desidera farsi l’autore della loro apparizione, renderne con mezzi espressivi, e cioè consapevoli e volontari, l’effetto traumatico. Lo stile «sano» di Gargiulo non

avverte però che la malattia sintattica di Tozzi è salutare per la sua narrativa. Il rondista, che così è convinto di difendere la grammatica e lo stile canonico, invece fa resistenza a ciò che di nuovo c’è nella letteratura moderna, o meglio, nell'uomo mo-

derno. Tozzi lo scopre proprio perché rompe le vecchie forme sintattiche e grammaticali: i«ma» e i «mentre» segnalano ribellione. La quale è notoriamente odiosa per i rondisti, non solo

per ragioni linguistiche ma anche ideologiche. Attenti insomma a chi parla in nome dei classici, sublimi complici di tante basse azioni culturali. Un'altra rivelazione Debenedetti ha mentre legge Tozzi. Partito alla ricerca di una struttura psicologica, scopre il potere della struttura storica. Struttura è un termine che viene coniugato

con la storia dal marxismo (magari il marxismo eretico della sociologia di Wright Mills), al quale nello studio su Tozzi Debenedetti rende un caloroso omaggio, specialmente quando iscrive la voracità ossessiva e parricida dei tre fratelli di Tre croci nella mentalità piccolo-borghese di una città di provincia all’inizio del secolo. È un fatto: sono piccolo-borghesi i protagonisti della narrativa di Pirandello, di Palazzeschi e di Campanile. Anche

Benjamin invitava a cercare nella testa dei piccolo-borghesi: sono una tremenda cartina di tornasole questi personaggi che erano insieme dei routiniers e degli esseri inafferrabili. Sono i più pressati e sono i più esplosivi. Sono «incoscienti» e proprio per questo non hanno remore, a saperli sondare. Sono innocenti ma non innocui. Anzi sono fonte di inauditi pericoli politici e sociali. Stesse attenta la storia alla loro psiche: avrebbe guidato alla conoscenza meglio degli intellettuali. Si capisce meglio l’epoca dai personaggi di Tozzi che non da Rubè. È assai più ricco e intricante il linguaggiò «superficiale» di questi piccolo-borghesi che non sanno quello che fanno, ma che intanto lo fanno con gratuito e sospetto accanimento.

A ogni epoca la sua struttura, il suo mito. AI gioco della struttura vince uno solo: chi possiede il linguaggio con cui si afferra e si coordina il caos quotidiano. Non è un regalo divino, bisogna farla, inventarla, costruirla, con arte, anzi pure con artificio. Nel laboratorio del Novecento sono state montate pa218

recchie strutture ma una sola trionfa, una per volta. Tozzi è quasi un ragazzo di bottega a confronto dei maggiori fabbri di struttura del Novecento, eppure a lui è riuscito il colpo di indovinare il linguaggio pertinente all’epoca, oltre che alla sua storia, prima personale e poi collettiva. Se nella stortura di tante pagine di Tozzi c'è la bellezza, e in quella frattura c’è la più genuina unità, e in quell’oscurità c’è la più viva luce, e in quei travagli c’è il più fecondo godimento, cosa significa cid? Cosa c'è al fondo, all’origine del terremoto? C'è una sola causa? La si può scoprire o sono ammesse solo congetture? Tra le scienze moderne il testimone è passato alla statistica, scienza della probabilità cui è negata l’unica certezza. Si può farne a meno solo a condizione che non si smetta mai di cercare la verità. Quella di Debenedetti è una teologia senza Dio, ma è pur sempre ricerca di un Dio scappato dal mondo e che potrebbe tornare. Il protagonista di un racconto di Tozzi invece ha trovato il diavolo: cioè il proprio padre. Anche Debenedetti invita a guardare al genitore: cercate il padre, è sua la responsabilità storica e psicologica. Lo si trova dappertutto nella narrativa tozziana, anche quando è assente o magari presente in effigie come nella Casa venduta. Ogni padre o quel padre di particolare violenza che fu il padre di Tozzi? Debenedetti deve evitare il rischio mortale di ricadere nel determinismo, sia pure quello freudiano, a causa del quale Savinio definì «veristi dell'anima» gli espressionisti. Fu allora che Debenedetti chiese aiuto al probabilista Jung. La causa prima forse non c’è ma se ci fosse, ebbene, essa sarebbe una struttura elastica ed aperta ché non sposerà mai un solo contenuto. Poi

Lacan avrebbe spiegato che il significato, per non farsi acchiappare dal significante, slitta sempre inafferrabile. E d’altronde Debenedetti non vuole la morte del padre, bensì che diventi più democratico, fraterno, cioè uguale. La colpa del padre di Federigo? Averlo castrato, come una volta da ragazzo Tozzi gli aveva visto fare con un animale. Non succede mai che un padre castri realmente un figlio ma succede spesso che questi si senta castrato. I personaggi tozziani sono,

se non impotenti, depotenziati, privi del desiderio di conquistare qualcuno o qualcosa. Quando il compratore della Casa venduta manda in mille pezzi il vetro del ritratto della madre, il protagonista prova a far buttare giù il ritratto del padre ma non 219

viene esaudito. E allora che stia a guardare attaccato al muro la svendita della casa che gli era costata enormi sacrifici! Un parridicio armato dall’inconscio che finalmente dichiara il proprio massimo desiderio. Tozzi lo condanna ad assistere al fallimento del suo progetto di insaziabile borghese che accumula ricchezza da lasciare in eredità a un figlio cui ha tolto ogni energia. Per il padre è come se fosse lì in carne e ossa. L’indigeno di Lévy-Bruhl ammette di essere stato lui per invidia a far morire l’amico che è stato più fortunato nella ricerca del miele: in sostanza era lui il leone che s’era mangiato l’amico. I fratelli di Tre croci a loro modo, in modo simbolico, si sono

mangiati il padre, divorando avidamente tutte le sue sostanze e la sua dignità sociale. La narrativa di Tozzi ha perso il padre che stabiliva ciò che doveva essere fatto e perché. Il racconto tozziano è dunque in termini strutturali orfano, persino decapitato, incapace di ristabilire una gerarchia. È insomma simbolicamente privo di padre il linguaggio di uno scrittore che procede in una narrazione piatta come la vita di un piccolo-borghese che ignori il motivo e la direzione della propria marcia. Il padre è lì appeso in effigie per vedere coi propri occhi come è possibile vivere in piena libertà, quella in cui ognuno è come vuole il caso. Il padre c’è ma è impotente a intervenire. E la narrazione si mette in disponibilità per accogliere ogni evento interno che rompe la scorza della banale esistenza quotidiana. Letteralmente un linguaggio che allena a vigilare su ogni evento minuscolo: può arrivare da un momento all’altro la sorpresa che ti farà capire chi sei, dove vai e cosa desideri profondamente. Si potrebbe continuare sul piano simbolico che è insieme tanto concreto. Si prendano per esempio con le molle i frammenti dei vetri rotti del ritratto materno. Se uno li accosta di piatto, sono freddi e lisci come l’indifferenza. Senonché, quando li si avvicina di taglio, non potrebbero essere più cruenti. Danno coltellate quando si mettono di punta. Molte pagine che al primo contatto risultano a grado zero di calore e di senso all'improvviso si mettono a sanguinare. La prosa tozziana è caricata a dolore: prima o poi lo incontrano tutte le frasi, anche se parecchie fanno le «indolenti». Non sai mai prima quale di esse ti ferirà: magari perché è rimasta in basso, calpestata. È una narrativa «femminile»? È sicuramente una struttura gravida. Non si sa cosa e quando verrà fuori ciò che è dentro 220

prigioniero. La madre è a terra e tuttavia è lei a vincere sul padre che osserva la scena dall’alto in basso ma non determina più gli eventi. E materno il caso che riesce a trasformarsi in necessità? La narrazione deve andare a trovarsi le situazioni latrici di emozioni intellettuali e di rivelazioni di senso. Il mandato è stato restituito alla natura: lo ha capito la cultura moderna, che ha tolto il dominio al padre. Il racconto indica il padre per colpevolizzarlo e farlo buttare giù ma la narrazione sottolinea che il linguaggio è diventato il vero padrone del campo. Sta a lui decidere cosa di decisivo emergerà pungendo e ferendo o invitando a ballare con la polca. I frammenti del primo Tozzi erano già selezionati per ferire: angoli acutissimi che vanno a toccare i nervi. Nel Tozzi maggiore dei romanzi della maturità i vari pezzi sono stati ricomposti in modo che non fosse possibile distinguere i frammenti dotati di senso da quelli che fungono da supporto. Sarà necessario allora tenersi pronti all’aggressione: spuntano da ogni parte gli eventi e le parole emozionanti. Alcune urlano ma più spesso sono prive di voce: e l’afonia non è meno espressiva. La pagina di Tozzi è sempre indolenzita, come una persona che non sia capace di smaltire il trauma. La sua prosa ha grande sensibilità anche quando è devitalizzata. Tuttavia, se ogni esperienza tende a spegnersi, tutti i particolari possono accendersi. Il dolore analogamente può procurare piacere, un personaggio trascurabile diventa un protagonista, una vita persa si guadagna il livello nobile del capro espiatorio, il vuoto suscita energia. Cosa succede nel protagonista della Casa venduta se alla fine è così tranquillo? È successo ma non è dato sapere perché. La narrativa di Tozzi è piena di perché sui quali pesa l’interdetto a cercare la risposta univoca. Troppo facile dare la colpa di tutto al padre. Lui ha solo prestato il volto a ciò che non si trova. I personaggi tozziani si muovono tanto, ma sono demotivati, e contemporaneamente sono in tensione. Non hanno nessun

appuntamento ma sono sempre in attesa di incontrare qualcuno o qualcosa. E tuttavia sono gli eventi, le persone e i paesaggi ad andargli incontro col volto ostile, in modo subdolo. L’Esse-

re c'è ma non è più dove si trovava prima, anzi si ignora dove sia andato a collocarsi. Bisogna snidarlo di sorpresa, con le situazioni più innocue, con i fatti più insignificanti, nelle fasi più stagnanti, con le parole più comuni e rassicuranti. DA

La struttura della narrativa di Tozzi non accetta l'eredità dei valori e delle gerarchie ottocentesche, ma se ne disfa con la rapidità con cui i tre fratelli di Tre croci consumano la ricchezza e il buon nome borghese del padre. Il romanziere produce «scene, dialoghi, situazioni che a lui magari paiono necessari ma che si producono al di fuori di ogni plausibile, motivabile logica». Un modo di mettersi in quella disposizione ricettiva e passiva atta a registrare ciò che essa produce. L’emarginazione dell’io. Questa struttura genera anche il socialismo anarcoide di Tozzi. «La sua rivolta si inasprisce proprio perché tenta di arrivare all’atto rivoltoso in un momento di sproporzione tra la maturità delle esigenze nuove, che lo portano al livello della coscienza di crisi a cui sono giunti gli uomini e i gruppi di punta del suo tempo, e una sorta di immaturità culturale che lo priva di quegli strumenti tecnici e operativi per accertare, maneggiare la

crisi, ai quali viceversa gli uomini e i gruppi di punta sono arrivati» (Debenedetti: I/ rorzanzo del Novecento). I polmoni hanno fatto un buon lavoro, hanno respirato aria nuova, c'è stato il ricambio del sangue. Ora che hanno sturato le narici, può tornare a funzionare il fiuto. Debenedetti è quasi rinato. Non l’avrebbe mai detto: i testi inodori e insapori di Tozzi risultano tanto più squisiti quanto più prima sembravano repellenti. E stato necessario chiedere il parere della storia, della scienza e della psicanalisi. Hanno risposto di sì tutt'e tre: ha ragione la letteratura, avanguardia che ha sempre operato per congetture, o magari scommettendo che quanto essa intuiva potrebbe essere benissimo la verità. Anche la critica deve fare la propria scommessa: il saggio su Tozzi è uno dei capolavori della critica italiana e il capitolo di Debenedetti su Tozzi è un capolavoro della critica psicanalitica internazionale.

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Dalla parte di Pirandello, Bontempelli, Palazzeschi e Moravia

A Debenedetti la formula «rivoluzione inconsapevole» piaceva tanto che la usò almeno due volte: la prima per Pascoli, la seconda per Tozzi. Avrebbe potuto adattarla una terza volta anche al «suo» Alfieri, colui che per natura fu in anticipo sulla propria cultura, il memorialista che senza accorgersene avviò il «romanzo dell’anima». Il fatto è che sempre, secondo lui, in ar-

te le rivoluzioni contano se sono inconsapevoli. Forse che lui stesso non è stato protagonista di una rivoluzione inconsapevo-

le della critica col Rorzanzo del Novecento, opera involontaria? In che consiste questa rivoluzione? È la svolta compiuta da un autore che attraverso un linguaggio innovativo fa una scoperta inaudita ma che ancora non sa quel che fa. Quand'è che diventa consapevole? Quando arrivano a capirlo tutti gli altri, magari guidati dal critico. Talvolta succede pure che la scoperta rivoluzionaria l’abbia fatta una scuola, corrente o movimento artistico. Nel Novecento capita ai vociani, ai futuristi, al femmini-

smo e all'avanguardia. Che però fa rivoluzioni consapevoli e di gruppo. Invece a Debenedetti interessano le rivoluzioni individuali. L’individuo al servizio della collettività. Dunque la «rivoluzione inconsapevole» di Pascoli, impressionista che non sapeva d’esserlo, un poeta che ora sappiamo essere all’altezza dei migliori simbolisti, e la «rivoluzione inconsapevole» di Tozzi, inconsapevole espressionista che ha cambiato il linguaggio alla narrativa italiana del primo Novecento. Due pionieri arrivarono per primi in terre inesplorate e indicarono la strada lungo la quale si sarebbero incamminati i poeti e i narratori che volevano essere «all’altezza dei tempi». Due «inventori» li avrebbe definiti Ezra Pound, maestro di avanguardie. 223

Debenedetti preferiva i pionieri agli artisti d'avanguardia, colpevoli di voler imporre la letteratura da farsi. Perlui in arte ci si fa ragione più tardi del percorso compiuto. C’è sempre tempo per fare luce: l’arte ama il buio. La pensava così anche Max Jacob, che diffidava degli autori che diventano presto molto chiari. Debenedetti stesso è saggista che dimora a lungo nella notte della letteratura. Sarà il critico a illuminare i testi che all’inizio sono oscuri anche all’autore. Alcuni aspettano per decenni l’interprete che li capisca davvero. Debenedetti ha capito da pioniere molti artisti, a cominciare da Montale, sul quale da giovane arrivò per primo con un racconto-saggio di Arzedeo e altri racconti. Da vecchio intuì subito la grandezza di Stefano D'Arrigo, dalle poesie di Codice siciliano e da due capitoli di Horcynus Orca. AI critico può succedere quel che è successo al poeta e al narratore? Ebbene sì, c’è anche la «rivoluzione inconsapevole» di Debenedetti. La troverete nella seconda serie dei Saggi critici, quasi tutti scritti negli anni Trenta. La rivoluzione di Debenedetti diventerà invece consapevole negli anni Sessanta, nel Romanzo del Novecento. Dove il pioniere scopre l’importanza dell'avanguardia o comunque di un progetto rivoluzionario d’arte. Per esempio, l’espressionismo, arte che deforma per conoscere la bellezza del proprio tempo. Negli anni Trenta non sapeva di essere un critico espressionista: accesi cromatismi,

deformazione del disegno, urto di registri linguistici alti e bassi. E l’occhio sinistro, quello delle divinazioni. Un visionario vedeva a fondo in testi resi torbidi dall’angoscia e dalla nevrosi. Nel corso di lezioni su Verga, due anni prima di quelli su Pascoli, Debenedetti ancora rifiuta l’idea dominante della

«conversione» di Verga al verismo. Il seguace, ormai scismatico, di Croce, non aveva smesso di vedere nelle poetiche solo

«convenzioni», esterne al reale processo creativo. Temeva la precettistica, la normativa che dice all’arte cosa deve fare. Alla

fine degli anni Cinquanta (corso di lezioni sulla poesia del Novecento) scoprì che non era stato dannoso ai poeti parteggiare per l’ermetismo; all’inizio degli anni Sessanta (lezioni sul romanzo) dovette ammettere che era nata dall’espressionismo la migliore narrativa del secolo. Fu una rivelazione, anzi due rivelazioni, per il critico che continuava a credere che il linguaggio è l'inconscio. L’arte non è solo destino, è anche progetto. Bisognava rifare i calcoli. . 224

Debenedetti dedicò mesi di ricerche al naturalismo per capire meglio Verga. Non fu allora però che constatò che le poetiche possono essere «di spirito profetico dotate». Era ancora vivo il neorealismo: che non era per Debenedetti il migliore avvocato del verismo. Sia il verismo che il neorealismo — chiarezza, fatti, determinismo, documenti reali — erano entrambi nemici della letteratura per cui si batteva un critico che cercava sotto i fatti e i documenti. Fu Pascoli a metterlo in crisi. Scavando da isolato, il poeta s'era ritrovato in mezzo al gruppo che in Europa aveva guidato nel secondo Ottocento la rivoluzione della lirica. Credeva di fare in politica la rivoluzione, da anarchico o da socialista, e

invece si trovò ad aver fatto in poesia la rivoluzione simbolista. Va detto anche che si ignorava come fosse un simbolista, finché Debenedetti non interpretò I/ gelsorzino notturno. Per Debenedetti «inconsapevole» significa anche irrazionale, o meglio inconscio, il più profondo (aggettivo di Jung, più amico di Freud). Così è sempre la maggiore, più autentica e necessaria attività letteraria. Arriveranno mai a incontrarsi la poetica e il testo, un progetto culturale e l'artista? Il critico adottò la formula di compromesso che si riassume nel binomio «progetto e destino»: conciliazione di vocazione o coazione individuale e di finalità coscienti che cultura e storia fissano alla letteratura. Dalla coincidenza di progetto e destino nascono, secondo Debenedetti, icapolavori: la poesia di Pascoli e la narrativa di Tozzi. Così ha teorizzato e profetizzato la nascita del Rorzanzo del Novecento, testo in cui si realizza la coincidenza fra il destino dell’arte che

si fa per necessità e il progetto di un’arte che va fatta così in quel preciso momento storico. Deve essere assolutamente moderno chi vuole scrivere pagine perenni. Fu destino e nacque un progetto. Un giorno, mentre studiava testi per Verga, Debenedetti lesse un saggio di Thomas Mann, scrittore che gli era particolarmente caro. La tesi del narratore tedesco è che nell’Ottocento corre un filone che indica la strada maestra della modernità. Inaugurato da Schopenhauer, esso forma una staffetta della quale faranno parte Nietzsche, Wagner e infine Freud. A quel filo è attaccato ogni linguaggio che voglia ottenere la delega di rappresentare un’epoca. C'è dunque una costante in mezzo alle innumerevoli differenze di cui attestano individualmente gli autori più diversi. E c’è una direttrice: un 225

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pensiero che si sviluppa col passaggio del testimone da una testa all’altra. Da Leopardi a Pascoli, a D'Annunzio. Questo per l’Ottocento, ma per il Novecento? Era possibile prolungare quella linea, quel filone, nel nostro secolo? Chi erano gli eredi in poesia e in narrativa? O bisognava rompere con quella linea? Debenedetti decise di continuarla ma intanto scoprì che inconsapevolmente lui si era già mosso su quella linea. I suoi Saggi critici non sapevano dove mettevano i piedi ma in-

tanto calpestavano la riga che addita non solo il centro del presente ma anche il senso del futuro. Non è casuale che la seconda serie si concluda con i saggi su D'Annunzio. A causa dei suoi rapporti con Nietzsche e Wagner. Debenedetti amava molto la musica di Wagner, nonché D'Annunzio. E in quanto alla musica, il critico non dimenticava che essa è l’arte con cui si esprime quella volontà pura di Schopenhauer che si comporta già come l’inconscio di Freud. Nel Romanzo del Novecento dunque la «rivoluzione» della narrativa contemporanea è diventata «consapevole», o meglio, ne è diventato pienamente consapevole il critico. Debenedetti nelle lezioni del ’59-60 sulla poesia del Novecento aveva, per esempio, riconosciuto all’ermetismo il merito storico più importante: quello di dare il linguaggio più pertinente all’orfano che è l’uomo del Novecento. Gli ermetici avevano cioè messo in versi oscuri quella «condizione orfana» che a lui sembra «istitutiva» della modernità. Dall’anno dopo scopre nell’espressionismo la poetica che ha indirizzato la narrativa a disegnare i connotati essenziali dell'età caratterizzata dalla «perdita del modello». Il romanzo espressionista? È la risposta a una situazione segnata dalla rivolta verso il padre o verso la massima gerarchia familiare o collettiva o verso la causa prima o altro causalismo meccanicistico, 0, con più esplicito riferimento all’arte, dalla ribellione al naturalismo. Debenedetti, che non usava ancora quella parola — in nessuno suo scritto si parla di espressionismo —, tuttavia frequentava la cosa nella seconda serie dei Saggi critici. Non era in questo volume forse Pirandello il narratore massimo del nostro secolo? Nel Rozzarzo del Novecentolo scrittore siciliano è un espressionista, magari senza saperlo. Ora lo si sa per merito

massimo di Giacomo Debenedetti. Che ovviamente non si limita alla definizione culturale. Sa bene che ci sono tanti espressionismi quanti sono gli individui che formano quella costellazione. 226

C'è già la rivoluzione in sostanza — cioè con molte prove, e tutte ricavate dalla letteratura italiana contemporanea — ma a quella stessa rivoluzione mancano le motivazioni che fanno del Rozanzo del Novecento uno dei modelli più avanzati di storia della narrativa del nostro secolo. Un personaggio di Tozzi, a sua volta personaggio del Rorzanzo del Novecento, si muove nel mondo «con gli occhi chiusi»? Ebbene, il lettore, il recensore degli anni Trenta aveva compiuto «con gli occhi chiusi» il percorso sul quale lo storico avrebbe gettato tanta luce negli anni Sessanta. Forse lui non sapeva dove stava andando con questi saggi ma noi ora lo sappiamo: stava andando verso quel grande «melodramma critico» espressionista che è I/ romanzo del Novecento. Qui si mette in musica un «libretto» in buona parte scritto o comunque intuito nei Saggz critici. Debenedetti ora racconta meglio quella storia. E naturalmente nel «racconto critico», se è un racconto, c'è sempre qualcosa di inconsapevole. Ha l’inconscio anche il linguaggio del critico. C’è un «narratore nascosto» pure nei saggi. Il prigioniero manda messaggi all’esterno battendo colpi sulle sbarre. I saggi critici di Debenedetti, così secchi, sono da smorfiare: I/ romanzo del Novecento, così

grasso, è più chiaro. Suppergiù: «ora vi racconto io per filo e per segno come è andata questa storia».

Naturalmente resta sempre qualcosa di oscuro in un’opera letteraria, includendo nella categoria anche le opere di saggistica. Debenedetti fu folgorato e fu affascinato da quell’X che, a sentire Barthes, segue A, B e C (cioè le lettere di significato lampante): quella X che rende una incognita perenne l’arte. E tuttavia non si lasciò mai scoraggiare dall’impossibile impresa. Il pioniere che è Debenedetti corre e sprofonda verso l’incognita. E quante volte la X diventa attraverso la sua mente una lettera dell’alfabeto italiano. Debenedetti ha insegnato ABC a molti autori da molto tempo sconosciuti. A questo pioniere in-

teressa arrivare per primo non su una ipotesi o congettura bensì sulla verità. Diversamente da Pirandello, non è così perché così gli pare. Un autore investigato da Debenedetti è davvero così: per così tante persone e per così tanto tempo che potrebbe essere vero per sempre. L’ipotesi «statisticamente» più veri-

ficata è confermata. Va subito fugato un sospetto: i saggi non valgono solo in quanto preistoria di una maggiore opera successiva. Hanno futuro nel 227

senso che non smettono mai di essere presenti questi scritti senza i quali tuttora sarebbe più difficile capire De Sanctis, Svevo, Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli, D'Annunzio, Marinetti, Pa-

pini, Moravia, Cecchi e gli altri. Se ne faccia dunque un doppio uso. Infatti mentre da una parte risultano «definitivi» (vanno cioè benissimo come sono: ci sono fra questi capolavori della critica contemporanea), dall’altra sono «disponibili» a diventare materiale da costruzione del monumento letterario rappresentato dal Rorzanzo del Novecento. Notoriamente se ne fa anche un terzo uso: si leggono i saggi

critici di Debenedetti per l’energia letteraria della loro prosa. Saggi «ad altezza d’arte». E ci sono ancora lettori che li preferiscono al Rozzanzo del Novecento. Che è più articolato, dettagliato e spiegato; nonché più parlato. Ciò si addice a lezioni e a romanzi: o, meglio, a un romanzo «polifonico» come quelli del Dostoevskij di Bachtin. Nei saggi si sentono gli scatti del cervello di Debenedetti, nel Rorzarzo si sente la voce. Questo critico prende sempre di petto le questioni più intime, le questioni ultime dell’esistenza. E ci mette cuore. Nei saggi invece splende la sua mente, un'intelligenza che potremmo definire con gli stessi termini usati da Debenedetti per Bontempelli: disegna «modelli di fatti possibili» per trasformarli in veri. O meglio ancora: la sua critica attraversa, come la letteratura bontempelliana, l’impossibile e il nuovo per diventare vera. E ci riesce: sia nei Saggi critici che nel Romanzo del Novecento. Due facce diverse — una «magra» e una «grassa» — della stessa medaglia. Proviamo a dirla così: nei saggi c’è il «destino» e manca il «progetto» (o almeno è solo sulla direttrice). Sono anni in cui Debenedetti, che già di suo è indifferente alla progettualità dell’arte in generale, più concretamente è ostile ai progetti che in particolare la letteratura va proponendo al decennio: il quarto del secolo e il secondo del regime. Ha preso posizione subito a favore di Montale e di Ungaretti ma è severo verso gli ermetici. Una scelta di versante lo colloca dalla parte di Saba. Successe quel che non avrebbe mai immaginato. Nelle lezioni sulla poesia del Novecento è il triestino a doversi giustificare dinanzi alla storia. Il destino parteggia per Saba ma il progetto premia gli ermetici. A loro la storia aveva dato il mandato di rappresentare quel periodo. Trionfa il linguaggio pieno di incognite. E allora ecco Debenedetti impegnato a scoprire la lettera sotto il traslato, a 228

trasformare in racconto ciò che è negato a svolgimento. Il critico ha scritto splendidi racconti sulle immobili immagini della lirica di Montale e di Ungaretti, nonché di Saba e di Noventa, poeti

per i quali avrebbe potuto dire quello che poi disse per Landolfi: i loro testi «sono misteri in piena luce».

Debenedetti ha imparato da De Sanctis l’arte di difendere i poeti che ama, anche se la storia dà loro torto. In nome della poesia De Sanctis salva Ariosto, Debenedetti protegge Saba: con ragioni che permettono all’autore del Carzoriere di essere un poeta centrale nel panorama letterario del primo Novecento. A Debenedetti piacciono gli autori che «fanno centro fuori del centro»: metafora che non è lontana da quelle con cui le avanguardie storiche hanno parteggiato per lo straniamento, la deviazione dalla norma, gli effetti shock, gli atti gratuiti, la mossa del cavallo e ogni altro disarcionamento della logica più prevedibile. Naturalmente poi, come disse a Marinetti, bisogna cominciare a fare la poesia. Non bastano a farla i manifesti tecnici. Ci vuole la vocazione: senza temere il termine troppo romantico. C'è tecnica e c'è vocazione in Debenedetti. Nei Saggi critici c'è una stroncatura di Marinetti che è anzitutto una demolizione del futurismo. Non è una novità che Debenedetti allora non amasse le avanguardie: troppo chiasso e troppo caos, nonché troppi imperativi. Verso di esse sarà più generoso negli anni Sessanta: decennio in cui c’è una vigorosa e prepotente ripresa di teorie e pratiche di radicale sperimentalismo linguistico. Negli anni Trenta però i futuristi avevano perso. E tuttavia Debenedetti non nascose nemmeno allora i meriti dei perdenti. Si può perdere storicamente in un’arte e vincere in un’altra. D'altronde, gli italiani che venivano sconfitti nell'Ottocento come romanzieri, non s'erano forse rifatti col trionfo nel melodramma? Insomma, consiglia Debenedetti, cercate l’arte futurista dove non è sopraffatta dai manifesti e dai comizi di Marinetti, uomo d’avanguardia che fra l’altro eccelle specialmente in retromarce. A Debenedetti tuttavia non era sfuggito quanto di inedito e di bello avesse consentito la tecnica delle parole in libertà alla poesia di Marinetti, sia pure in qualche episodio di un’opera tarda quale il Poerza africano. Senza quella scoperta tecnica non si sarebbero mai potute esprimere certe umane sensazioni: natura che aveva bisogno di artifici per rivelarsi. Altri riconoscimenti 229

Debenedetti da critico artistico e cinematografico dette al futurismo: ad esempio per la decorazione murale e per la musica del film sonoro. Secondo lui, la lirica dei rumori di Balilla Pratella e Russolo «sta per diventare la più autentica sostanza fonica del film sonoro». Dei pionieri hanno aperto la strada a una nuova arte: gli sia dato merito non solo dai seguaci. Debenedetti fu un pioniere infatti anche nei confronti del cinema (fu il primo critico cinematografico di Torino e uno dei primi d’Italia). E il cinema lo aveva guidato verso alcune scoperte che avrebbero inconsapevolmente segnato il suo destino. Al cinema Debenedetti intuì il progetto con cui avrebbe sostenuto anche l’attività del critico letterario. Parlando di cinema suppergiù negli stessi anni, in realtà (vedi i saggi raccolti in Cinema) Debenedetti «si lascia andare» a qualche dichiarazione di poetica in cui ricicla un paio di is777 (romanticismo a parte, che il critico ha ormai «naturalizzato»). In particolare gli sembrano buone le «intenzioni» di chi fa «realismo integrale» e «impressionismo». Fu dunque un giorno realista Debenedetti, amò egli mai l’impressionismo? Rispondiamo per ora che fu uno speciale realista e un singolare impressionista: magari in senso opposto a quello con cui i due termini circolano nel Novecento, e anche nei libri di Debenedetti. Attenti specialmente al secondo termine: vedrete che tale «impressionismo» sostanzialmente va identificato con l’epifanizzazione: cioè con la cifra strutturale che l’autore del Rorzanzo del Novecento considera il tratto distintivo della narrativa moderna. Ora lo sappiamo: aveva già intuito le epifanie l’«impressionismo» di Debenedetti. E pensare che più tardi, parlando dei vociani, respingerà all'Ottocento l’arte impressionista. Aveva rovesciato le parole ma la sostanza è la stessa. Comunque nei Saggi critici c'era la cosa, cioè l’epifania, ma non l’idea, e tanto meno la parola. E qui c’è la storia di Debenedetti dalla giovinezza crociana alla maturità fenomenologica. Una storia fitta di ribaltamenti sia nelle cose che nelle parole. Avanziamo l’ipotesi: il «progetto» (almeno dal punto di vista della «modernità», col passare degli anni sempre più tenacemente perseguita come ricerca di una risposta negata alla tradizione) è negli anni Trenta contraddittorio, conflittuale, trattenuto (magari da Croce, la cui estetica funziona bene in teoria e

male nella pratica dei libri attuali) e irrisolto; forse anche in ri230

tardo (dal punto di vista del Debenedetti futuro e maturo) e forse solo non ancora maturo come sistema organico e coerente di idee. Debenedetti non sa dove va ma di sicuro non se ne sta accucciato a far da cane da guardia all’estetica crociana. Gli omaggi al maestro sono sempre più cauti, sempre più incauta

semmai è la lettura complice degli autori che non scrivevano col Breviario di estetica in mano. Dieci anni prima Piero Gobetti lo aveva definito «la rivelazione della critica post-crociana». Nello spazio limitato offerto dal quel «post» (meglio i post-pascoliani che non il pascolismo, scrisse una volta Debenedetti), da eretico non ancora pronto alla miscredenza, l’autore dei Saggi critici realizza un «destino» di critico che «inconsapevolmente» lo rende il più libero e più penetrante lettore della letteratura del suo tempo. Un lettore modernissimo per il quale non era ancora pronto il progetto con cui dare un disegno e un senso alla letteratura. Si sarebbe capito più tardi dove era diretta, e tuttavia già da ora appariva chiaro che nei migliori narratori «camminava» a grandi passi. La letteratura avanzava «saltando gradini»: e così saltava sia Croce che il piatto racconto naturalistico. Dunque, Ottocento, addio! Anzitutto cominci a saltare gradini il critico in quanto lettore, il santommaso che prende in considerazione l'oggetto che tiene in mano. Da quel libro particolare che è sotto gli occhi, urge sconfinare dentro l’autore. Ci si introduca con grimaldelli metodologici, filosofici, storici e psicologici. Non è ammesso strabismo, bisogna mettere a fuoco quell’opera visibile e tangibile. Debenedetti è un critico «in disponibilità» che dialoga «alla pari» col testo. Non si trascuri l’«impressione» che l’opera disobbedisca all’autore; si presti attenzione alla «realtà integrale», quella che è rimasta prigioniera dentro un codice repressivo. Salti il critico, che anzitutto è un lettore, oltre il muro eretto da estetiche e da poetiche. Gli si aprirà dinanzi l’immensa distesa di un mondo che non rientra nelle regole. Nel caso di Pirandello, Debenedetti si trovò a constatare il

divorzio di Platone dalla verità: peggio per l’estetica crociana che non prevedeva l’arte pirandelliana. Per ora in effetti Debenedetti lavora a fargli ottenere il diritto d’ingresso nel paradiso crociano. Non lo camuffa né gli cambia qualche connotato, bensì dimostra che c’è la vocazione, che ci sono le doti e la pratica delle virtù poetiche, che c’è la fantasia al di là dell’immagi201

nazione. Un «genio» artistico di tale grandezza e potenza da abbattere il sistema estetico che insistesse nell’escluderlo. Amico è Croce ma più amica è la verità. E la verità pretendeva che si dicesse che il massimo narratore del Novecento italiano è Luigi Pirandello. La verità ora è parimenti che il saggio di Debenedetti è una pietra miliare nella bibliografia pirandelliana e nella letteratura critica del Novecento. Arrivò più tardi il pioniere? La verità è che Debenedetti è arrivato per primo là dove la sua interpretazione ha collocato un artista con connotati «perenni».

Gli altri si avvicinano, Debenedetti penetra sino al nucleo. Nel cerchio in cui secondo lui sempre si inscrive un’opera d’arte ogni testo dello stesso autore è equidistante dal centro. Perciò non conta qual è il testo da cui parte. Il nucleo è uno solo, come la verità. Aveva torto Croce a dire che individuum est ineffabile. Debenedetti lo fa parlare, fa parlare l’infanzia di un artista: come sa bene chi ha letto il suo saggio sull’Alfieri. Nei saggi di Debenedetti cercate sempre quel lettore che è il critico senza vincoli ideologici e moralistici, il «lettore» che c’è sotto l’intellettuale: come dire l’uomo che nei «primordi» è lo stesso per tutti. Non fate gli schizzinosi, non disprezzate il lettore popolare, la massa: quella che negli scritti sul cinema Debenedetti avrebbe chiamato la «sartina», colei che intuisce la

grande bellezza delle opere capaci di assurgere a «proverbi». Bisogna tenere lo stetoscopio sul cuore del popolo, consiglia il critico al cinema e pure alla letteratura, anche se sa (lo dice nel saggio E parliamo del romanzo) che «la bontà dell’arte non deve né può misurarsi dal suo grado di popolarità». Comunque attenti alle masse ignoranti e «inconsapevoli»: se non leggono un autore o un libro, una ragione, a loro ignota, ci deve essere. La cercò al momento di esaminare l’opera di Svevo, poco letto anche dopo l’esplosione del «caso», ma dette una risposta che verrà smentita dai fatti, o almeno dal fatto che i romanzi del narratore triestino ora sono molto letti e amati dal grande pubblico. Le masse possono non capire se Svevo scrive bene o se usa linguaggi ottocenteschi ma avrebbero intuito che in lui c'è una reticenza morale: quella reticenza per cui evita di identificare i suoi personaggi con quell’uomo ebreo che avrebbe ispirato i miti per i quali sono grandi artisti Kafka e Chaplin. Naturalmente si può sbagliare la sartina, nonché il popolo, e anche il critico. Che non dette tempo alle masse di sentirsi rappresen232

tate da Zeno. Zeno forse non vale meno di K. o di Charlot, ma

Debenedetti si prese un cazzotto da Svevo, che lo stordì con un colpo da cui il critico non si è mai ripreso. Aveva sbagliato a travestirsi da sartina il raffinatissimo interprete di romanzi. Per riconoscere un mito rivolgetevi al lettore popolare che c'è in ogni uomo, anche il più sofisticato. E il mito per Debenedetti è il segno più eloquente e duraturo della grandezza artistica. Quella di Verga e di Pascoli, di D'Annunzio e di Pirandello, di Tozzi e di Saba, di Proust e di Joyce, di Kafka e di Mann, di Montale e di Ungaretti, nonché, per tornare a questo volume,

di Palazzeschi e Bontempelli. Ne sa qualcosa Cecchi, l’autore di Corse al trotto, che il mito «se lo impresta», non lo crea, come ha il dovere di fare l’artista che voglia lettori dalla sua epoca in poi. I miti sono racconti perenni che non finiranno mai di commuovere il lettore, da quello presente a quello futuro. Un lettore onnipresente e quindi fuori del tempo? Nemmeno per idea; anzi l’idea va esplicitamente in senso contrario; «e quandola critica oggigiorno cerca di portare nell'esame dell’arte che questa sia gustata e sentita anche dalla nuova e attuale “società di massa”, in fondo non si propone che questo: commisurare le espressioni contemporanee in base alla loro capacità di far vivere miti importanti e autentici, autenticamente sentiti». La questione dunque è quella di «cercare il linguaggio» necessario: espressione che Debenedetti interpreta come tendenza cosciente a ricucire quella frattura fra personaggi e loro vicende che gli sembra il contrassegno dell’età dell’assurdo. Con un nuovo linguaggio la contemporaneità si metterà in grado di dire una cosa diversa e definitiva senza la quale un’epoca registra un fallimento artistico. E forse non solo artistico: visto che lo smacco investe la capacità di capire, di sentire e di agire nel rispetto delle novità che la storia non cessa mai di apportare nel mondo e nella vita. È la storia la madre dei nuovi miti: come dire che «tocca essere assolutamente moderni» se si aspira a esprimere le verità perenni che l’uomo incessantemente crea e che l’artista deve cercare. Debenedetti non aveva paura delle parole, e certo non abbassa la voce se deve parlare di verità, di mito, di assoluto. Lui alla

letteratura chiede tutto, nulla di meno che tutto. E ha il coraggio di issare le maiuscole che squillano nei melodrammi e nella più ingenua fede popolare. Questo critico, solitario frequentatore di 255

viottoli psicologici impervi dai quali si passa uno per volta, dotato di sofisticatissimi strumenti di interpretazione, aspirava a trovare le parole nuove e insieme naturali con cui potessero raccontarsi la sorte uguale tutti gli uomini che in un’epoca sono capaci di grandi, maiuscoli sentimenti. A questi debbono saper rispondere gli autori che sono cari a Debenedetti: non solo il «sentimentale» Saba ma anche i «cerebrali» Pirandello, Bontempelli, Savinio, Landolfi, nonché Palazzeschi e Moravia, due autori che

arrivano al cuore passando dalla testa. Il critico non solo come lettore e come scrittore, ma anche come personaggio. Ecco: come il personaggio della narrativa moderna; a partire da quello sveviano che all'improvviso si sen-

te dare dalla vita un cazzotto proprio quando si aspetta una carezza, e viceversa. È la prima sorpresa del personaggio naturalista che sino ad allora era garantito dalla legge di causa ed effetto e che, approdato alla modernità, scopre che d’ora in poi non sarà più possibile arrivare come prima all'appuntamento con la propria vicenda, malgrado gli impegni fissati sulla carta dalla scienza meccanicistica. Debenedetti spiegherà negli anni Sessanta il passaggio dalla macrofisica alla microfisica, ma è dagli anni Venti che egli ha intuito come l’uomo del Novecento, lo stesso che fa una delle sue prime apparizioni nei romanzi di Svevo, si comporti suppergiù come una particella atomica di cui si ignorino direzione e velocità. Debenedetti se ne intendeva di scienza, non era un dilettante

di matematica, ma le aveva per anni trascurate su consiglio di Croce: fino alla «rivolta» del ‘49, quando il critico disse al filosofo che bisognava abbandonare, non la scienza, bensì la

scienza dell'Ottocento. Da lettore disponibile e inconsapevole, comunque, Debenedetti nota, registra e segnala il comportamento «gratuito» del personaggio della narrativa moderna, dagli eccentrici di Pirandello ai buffi di Palazzeschi, dai «viziosi» di Moravia colti da crisi immotivate ai personaggi di Bontempelli che vivono solo il «tempo pesante». Anche al critico del Novecento gli autori arrivano improvvisamente pesanti o eccentrici o

gratuiti come l’inatteso cazzotto di Svevo. L'autore di questi Saggi critici è fuori dalla vecchia legge, che disponeva come era fatto il grande scrittore contemporaneo, e non ha ancora ricevuto la nuova legge, che lo inviterà a passare dalla causalità meccanicistica alla probabilità. Debenedetti intuisce l’eccezionalità di al234

cuni autori e la convalida col massimo di certezza possibile nell’epoca in cui è negato andare oltre la probabilità statistica. La divinazione del genio. Sembrava solo un oscuro destino e invece c’era già, anche se ignorato più che ignoto, un progetto di quella branca della cultura, la scienza, che scopre i «progressi» storici della natura. Per Debenedetti la scienza è unità di natura e cultura, una delle tante unità ardue che egli insegue dappertutto, da quella di Diveni-

re ed Essere, a quella di progetto e destino. Heisenberg l’aveva rassicurato, quando, difendendo le scoperte scientifiche come

rivelazione di differenze rispetto alla scienza precedente, mise sull’avviso i detrattori delle scoperte superate: esse sono sempre «complementari al presente»: come gli antichi stili letterari, spiegò lo scienziato; come i vecchi miti, avrebbe aggiunto Debenedetti. Il quale va a farsi dire da qualche ingegnoso esperto di scienze umane come è l’uomo per natura e per effetto della storia. In particolare, «per fatto personale», Weininger gli rivela come è l’ebreo, ad esempio. L’esempio, che tanto bene calza a Svevo, calza bene anche a

Debenedetti, anzi, soprattutto a lui. Il critico ebreo così scopre di essere «diseredato di ogni felice istinto del vivere e privo di abbandono»; che «una instabile molteplicità del fondo morale lo rende plastico, disponibile e deformabile a tutti gli urti», nonché «femminilmente passivo». Non importa stabilire se e quanto ciò sia vero: conta invece il fatto che il Debenedetti di allora ci crede (poi rinnegò Weininger, «cattivo maestro»). «Disponibile» abbiamo già detto che era (la formula di «uomo in disponibilità» la usò efficacemente anche per Tommaseo); era pure plastico, deformabile, passivo e instabile nel giudizio etico ed estetico. Non farebbe mai del moralismo, uno che esalta l’importanza conoscitiva dei viaggi all'inferno e delle tentazioni del «negativo» e del dinamismo culturale implicito nelle crisi. Il critico era maturo per sentire autenticamente la condizione dell’uomo moderno per destino o natura e per progetto o logica della cultura e della storia. Ci fu destino e ci fu progetto nel fatto che sia ebreo l’uomo che per primo diventa numero di matricola. Coincidenza: quella di progetto e destino che genera i capolavori; quella di fiuto e di fiato da cui nasce il grande critico; quella di occhio destro e occhio sinistro che mette a fuoco la visione più complessa del mondo, nonché tutti gli altri casuali incontri 235

di opposti che aspirano alla reductio ad unum: non esclusa ovviamente la coincidenza tra dato superficiale ed essenza profonda. Casuale non è però, anche a tal fine, la scelta di Debenedetti di collocare al centro di questo volume i saggi di Verticale del 37. Casuale può essere che l’indice del libro mette in evidenza alcune parole-guida del discorso debenedettiano. Prima, l’interpretazione. Fino all’ultimo, all'ultimo suo corso universitario, Debenedetti difenderà contro la Sontag il diritto alla critica come interpretazione, che un concorso di scienze rendono molto probabile se non certa: attraverso una omologia che assegna lo stesso disegno profondo — o struttura — alla microfisica, alla sociologia, alla psicologia e alla letteratura. Secondo, il romanzo, due volte richiamato per segnalare in modo vistoso la preferenza di Debenedetti per tale genere letterario. Terzo, il poeta nuovo, con o senza virgolette (si fa il critico militante per trovare autori nuovi che dicano qualcosa di diverso che è già nell’aria). Quarto, i contemporanei (quelli che quanto più stanno dentro il loro tempo tanto meglio esprimono qualcosa di perenne; contemporanei, ad esempio, come il Montaigne e

l’Alfieri dei saggi di Debenedetti). Quinto, tempo di «edificarci» (Debenedetti dal «maestro» De Sanctis ha imparato che chi compie viaggi all’inferno non deve mai dimenticare che gli tocca tornare sulla terra per portarvi illuminazioni di destino con le quali affrontare il futuro). Sesto, l’età dell’oro (la condizione primordiale, l’infanzia dell’uomo, l'adolescenza, ad esempio, di D'Annunzio). Settimo, commemorazione (meglio se memoria,

«involontaria» come quella di Proust, le cui intermittenze del cuore sono le sorelle naturali di quelle joyciane epifanie, cioè le due vie essenziali al profondo dell’uomo). Sono rimaste fuori dall’elenco tre parole: lettera (Debenedetti va sempre oltre la lettera, la sua critica è un discorso a due, dialogo intimo o privato); disintegrazione (ne ha constatato l’efficacia artistica nelle «tripudianti, sensuali, immediate rivelazioni della materia» del simultaneo Marinetti); ritratto. Debenedetti non fa «ritratti», lui racconta, la sua critica avanza finché non ar-

riva dove può guardare il volto autentico dell’autore. Più che disegnare ritratti critici, Debenedetti va a svelare il ritratto segreto, narrando come si arriva all’imprinting di uno scrittore. Torniamo al punto di partenza, alla Verticale del’37. La metafora indica subito la direzione della ricerca di Debenedetti: 236

dall’alto in basso o viceversa. Alla lettera, un critico «verticale»,

uno che si proietta verso il fondo, da cui comincia l’avventura di un uomo e di un artista. Con quel numero, col ’37, entra la Storia in questa necessità che Debenedetti ha di compiere viaggi verticali dentro la psiche di personaggi e autori. Non è un caso che il primo saggio del volume sia dedicato a Francesco De Sanctis. Ecco un critico che era arrivato puntuale all'appuntamento con il suo secolo. Nell’Ottocento si può scrivere una storia della letteratura, nel Novecento no. Ora la storia è storia interiore che pretende l’impiego della psicologia. Rispetti le date chi scrive, chi dà inizio a un’opera, chi sceglie un genere, un linguaggio, un metodo critico. Nella prima metà del Novecento la critica letteraria deve rivolgersi alla psicanalisi per avere le risposte più puntuali sulla condizione dell’uomo contemporaneo. L’autore del saggio su Svevo è un critico psicanalitico molto prima di essere l’esperto di psicanalisi quale appare nel Rorzarzo del Novecento e nel Personaggio uomo. Per Svevo è obbligatoria l’analisi psicologica, solo ad essa egli rivelerà i propri segreti. E infatti nessuno ne ha scoperti più di Debenedetti. Quando la letteratura ha l'obbligo di addentrarsi nei percorsi oscuramente arbitrari della psiche per capire cosa sta succedendo all’uomo che nell'Ottocento naturalistico faceva tutto alla luce del sole,

allora anche alla critica toccherà attrezzarsi per tali discese nel profondo, se vuole trovarsi nel luogo dove si svolgono gli eventi essenziali di un periodo storico. Non è vero che la psiche fa a meno della storia. Quando sarà passato il momento utile, sarà lo stesso Debenedetti ad avvertire, in Corzzerzorazione provvisoria del personaggio uomo, che la psicanalisi esce di scena, essendo cambiati i tempi. Un metodo come gli altri, una scienza destinata ad essere sostituita o a trasformarsi radicalmente, secondo più attuali esigenze storiche. Morta una psicologia, se ne fa un’altra, se tocca alla psicologia. E sennò si cercasse altrove e con altro metodo, scienza, tecnica. Insomma da Freud a Jung, come dalla

macrofisica alla microfisica. Anche le scienze umane e fisiche hanno la loro storia. Verticale del ’37. Un sondaggio che non piomba diritto ma che scende lungo una spirale i cui cerchi concentrici stringono progressivamente il nucleo dentro il quale ha chiuso il proprio 237

segreto un autore. La «verticale» critica di Debenedetti finisce sempre per colpire nel segno. Prima, con analisi che dribblano sempre le genericità culturali, filosofiche, psicologiche, retoriche per puntare sul particolare che concentra su di sé un congruo significato; poi, con definizioni che ti danno l’impatto violento dell’imprevedibile scoperta con cui senti di essere arrivato al fondo del problema. Poche volte una critica che abbia navigato in acque così buie ha ottenuto risultati tanto «rocciosi». Alla fine il lettore ha quasi sempre l’impressione di essere arrivato dove veramente desiderava andare: nel punto dove tutto era cominciato e là donde era partito un processo che ora il critico sa ripercorrere fedelmente, dalla chiara superficie all'oscuro movente. Il quale sta sotto ma spesso ha inviato su a «rappresentarlo» un dettaglio minuscolo e in apparenza sordo od opaco, oggetto insignificante con cui si rivela nientemeno che un connotato dell’essere. Debenedetti tratta ogni particolare di un testo come eventuale «epifania». Come la narrativa di Svevo, Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli, Moravia e gli altri autori «rivelati», anche

la saggistica di Debenedetti racconta l’epica del quotidiano. Hanno ruolo di eroi, che danno una svolta decisiva alla vicen-

da, alcuni personaggi dall’esistenza trascurabile all’interno di un mondo piccolo-borghese da cui si desidera scappare per andare «a libertà». E sono «eroiche» molte rivelazioni con cui certi particolari insignificanti folgorano senso. Giochiamo d’azzardo: anche quel verticale e superficiale ’37 cerca la riduzione a uno. È un anno qualsiasi di un decennio non particolarmente luminoso ma il critico trova il modo di «valorizzarlo». Scelta o necessità che sia, in quel 1937 a Debenedetti si offre l'occasione di andare a verificare lo stato della letteratura italiana. I libri sono quelli che sono ma ben diversa è la loro importanza se si penetra dove si custodisce gelosamente la cifra stilistica e umana di narratori e poeti di cui ancora si ignora il valore, cioè il loro grado di bellezza e verità. Sono autori che più tardi sarebbero diventati i più celebri o significativi del secolo: da Cecchi a Vigolo, da Palazzeschi a Savarese, da Bontempelli a Moravia, da Marinetti a Moretti, da Bacchelli a Papini, a Pirandello, nonché Panzini e Ojetti e due

scrittori poi dimenticati, Gaudenzio e Descalzo. È buona regola infatti che il critico militante non trascuri lo scrittore «igno238

to»: ogni «dettaglio» è in attesa di diventare «epifania». Due critici, Ravegnani e Nicastro, allargano l’esame di Debenedetti alla saggistica letteraria. D’altronde sarebbe stato paradossale che un critico, per il quale la saggistica è letteratura a pieno titolo, non le trovasse posto nel panorama letterario del decennio. Anche dai generi minori, anche da scrittori minimi può arrivare la rivelazione che riguarda tutti. Andiamo oltre nell’azzardo. A quel ’37 manca l’indicazione di secolo e di millennio che è contenuta nel numero completo dell’anno 1937. Siamo audaci e diciamo allora che a Debenedetti basta un anno (magari il ’28, o il ’37 o il ’46 o il ’57: gli anni suppergiù in cui Debenedetti fece critica militante, una volta per ogni decennio) per scovarci qualcosa che è caratteristico del decennio, del secolo. E persino del millennio, se uno

indovina il mito capace di raccontare una storia che non finisce mai di emozionare. C'è, per esempio, l’anno in cui Nabokov scrisse Lolita e da allora «non morirà mai». Debenedetti in sostanza dice sì a ben pochi autori e a non molti libri (la differenza? stronca I/ bacio di Lesbia ma riabilita la prima produzione di Panzini, come più tardi darà la «serie A» al Deserto dei Tartari ma retrocede i Sessanta racconti di Buzzati). Non ha in odio il proprio secolo o la letteratura italiana, ma semmai è complice dell’uno e dell’altra: anche quando ha minacciato di rivolgersi ai classici e agli stranieri per le risposte negate dai connazionali e contemporanei. Chi vuole un mito deve andarselo a cercare al di sotto delle varietà di lingua. Talvolta l’Essere si esprime in italiano, altre volte in francese, in tedesco o in inglese. E sennò in altra arte. Debenedetti è anzitutto un critico «contemporaneo». È «at-

taccato» al Novecento, sa indugiarvi dentro, è capace di interrogarlo come si deve e di dialogarci, non recalcitra moralisticamente dinanzi ai suoi vizi ma ci si compromette, non fa piagnistei sulla corruzione dei costumi (sa distinguere il mutamento dalla degradazione), non si sdilinquisce di nostalgie per le virtù antiche. Ad esempio, nell’epoca della temutissima civiltà di massa, lui, magari con qualche eccesso di ottimismo, elogia «quell’istinto di vita, quella chiarezza di accenti, quella “ingenuità calda”, con cui oggi le masse riscoprono e, forse, inaugurano per proprio conto il mondo». Un giorno aveva preferito l’autenticità senti-

mentale della sartina al cinismo sussiegoso dell’intellettuale. 259)

Non avrà avuto gli entusiasmi futuristi per la macchina, ma Debenedetti non è mai andato alla «scuola di Francoforte» per avversione alla società industriale e alle sue più avanzate tecnologie. Amava quelle applicate all’arte dalle quali è nato il cinema: cui il critico ha dedicato attenzione, studi, accanimento analitico

non diversi da quelli impiegati per la letteratura. E a questa Debenedetti ha fatto da sacerdote, dicendo messa con la devozione

di chi spera un giorno di dialogare con Dio in persona. Una volta si credeva di sapere a quali preghiere avrebbe risposto. Debenedetti invece ne deve confermare la scomparsa insieme alla sua «corte» di verità, leggi, modelli e criteri. Lui non parla di morte della verità, e non rinuncia mai alla speranza di scoprire il gerarchico punto di riferimento. La Verità può essere dappertutto, si nasconde in ogni linguaggio, genere, lessico: alto o basso, comicità o tragedia, realismo o invenzione

fantastica, avanguardia o tradizione, lingua o dialetto. Non è Dio ma c’è qualcosa di divino, o divinatorio, nel cazzotto della vita a Svevo o negli inspiegabili eventi magici che sconvolgono il ritmo uniforme dell’esistenza dei personaggi di Bontempelli. Debenedetti si aspetta ogni giorno la sorpresa che è epifania di

destino collettivo. Non serve più la vecchia logica né la struttura naturalistica. I personaggi si sono messi a fare i matti, a farsi succedere cose incredibili, ad avere reazioni incomprensibili. E tuttavia i singola-

ri protagonisti della narrativa di Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli hanno più di un connotato in comune. I loro autori li nutrono con l’umorismo. Sono degli umoristi i narratori del Novecento avallati da Debenedetti, contando anche il fatto che

il critico più tardi aggiungerà alla schiera Zavattini e Landolfi. Per Baudelaire e per Dossi, il nostro secolo è destinato all’umorismo e a ogni altro grado di comicità. Debenedetti non avrebbe mai detto che questo è il destino del secolo e non avrebbe condiviso il progetto ma la sua predilezione inconsapevole per gli autori che esprimono il «sentimento del contrario» rafforza il sospetto che abbia quasi fatalità storica la collocazione della maggiore narrativa del Novecento nel versante della comicità. Se il fenomeno fosse casuale (inconsapevole? inconscio?), non si farebbe che aggravare, cioè dargli maggiore peso, un fenomeno la cui frequenza nel manifestarsi incita a considerarlo esemplare. 240

Tanto più se nel gruppo si includono Kafka, nonché Svevo, che è poi colui il quale ci mette più accanimento nell’irridere nientemeno che il padre. È proprio lui però che aiuta Debenedetti a trovare la soluzione non estremistica con cui salvare la tragedia: che è il genere sul quale è incline a scommettere per destino e per progetto il critico. È uno solo e trino il personaggio dei romanzi di Svevo, e si presenta nei primi due come protagonista di tragedia, mentre Zeno fa la commedia; affidando poi il modello umoristico a Una burla riuscita e a Corto viaggio sentimentale e via di seguito sino alla fine. E allora, in altri saggi, con saggezza socratica Debenedetti potrà con sollievo scrivere: «comico, che significa anche tragico». Da una sponda all’altra si vanno incontro le due schiere per concordare sul fatto che si può anche ridere ma si tratta sempre e comunque di una tragedia. Ai personaggi in crisi di Moravia non passa mai la paura, cioè non salgono mai al livello dal quale la si domina fino a riderne. No, non è la comicità il vero spartiacque tra i due secoli (semmai lo è tra due comicità), né la sola costante dei personaggi di Svevo, Pirandello, Palazzeschi, Bontempelli. Invece sotto, invisibile, inconscia, è attiva quella

struttura assurda o illogica (o è nuova logica) per la quale il Debenedetti di Personaggi e destino parlerà di incongruenza tra personaggio e vicenda («Il mondo ha cessato di rispondere al personaggio; ciò che succede a costui apparirà quindi gratuito»). Il modello più eloquente, più grottesco e più tragico? Quello di Kafka, nei cui romanzi «niente si spiega coi nostri criteri e tutto è naturale». L’assurdo ormai è affiorato in superficie, ha i piedi per terra, abita in mezzo a noi. La comicità è assurda, perché ormai l’esistenza è inguaribilmente assurda. O almeno lo sarà, finché non troverà il senso perduto o uno nuovo. Ecco, optiamo per il naturale, dice Debenedetti, magari partendo da quel naturale che è la realtà dimessa della vita quotidiana. Non quella del naturalismo ma nemmeno il suo contrario. Nel Novecento la natura si è messa a fare le bizze in un modo per cui il reale appare gratuito finché non ci spiega l’arcano e l’assurdo della materia la fisica atomica. Ebbene, si

prenda la materia più umile mettendosi in disponibilità dinanzi alle sorprese che esplodono dall’interno. Il più inquietante e più potente testimone di questi terremoti sotterranei è Pirandello, che è anche colui che sembra più at241

trezzato per illuminazioni filosofiche, ma per il quale Debenedetti mette in guardia il lettore che si fosse fatto irretire nel pirandellismo. Un’astuzia della Provvidenza, dice Debenedetti, sulla quale non si finisce mai di dover fare chiarezza. E allora ricordò che «la critica vera, che è sempre antagonistica» deve «guardare, come sa e come può, dietro le' astuzie della Provvidenza». Per andare a snidare il disegno divino, Debenedetti tenta sempre imprese «irreali» che prima o poi diventano naturali: anzi «creaturali». È questo il termine che designa l’originario di cui nulla è più autentico, il prodotto della fantasia trionfante, oltre che sul dato superficiale, anche sull’immaginazione. L’«eterno presente» di Pirandello, colui che ha «liberato le sue creature dal personaggio, e se stesso con loro», liberando così pure la.sua poesia; quello cioè che la critica di Croce e dei crociani negava al drammaturgo dei Sei personaggi in cerca d'autore. Disponibile verso la «trascurabile» realtà di esseri insignificanti quali sono quelli di un’epoca in cui Ulisse è diventato Leopold Bloom, anche Pirandello «s’è ritrovato in uno di quei temi semplici e umani, che sono al fondo del messaggio di tutti 1 poeti veri».

Il percorso di Bontempelli non è diverso, se il suo impegno è di «colmare gli intervalli insignificanti per poter giungere alle date significative». Gente nel tempo è «compromesso con la vita più di quanto la sua vistosa sprezzatura non voglia lasciar credere». Si suole insistere più sull’aggettivo «magico» che non sul sostantivo «realismo», quando si nomina il progetto letterario di Bontempelli. Giusto, sembra dire Debenedetti, purché non si dimentichi che prima va posto il termine che viene prima e che rimanda alla realtà: quella realtà quotidiana, che è in attesa dell’evento che liberi la sua essenza, la sua verità fuori

del tempo, nata in un tempo preciso. Uno scrittore complicato che è obbligato ad attingere alla semplicità. | «Bontempelli inventa dei casi complicati per forza di immaginazione, e li rende semplici per forza di fantasia.» E i suoi racconti «sono come modelli di fatti possibili»; la sua fantasia «alacre e seducente» è un «appressamento alle cose elementari e supreme». Sono queste le qualità estreme di un’immane impresa «metaforica» con cui l’arte tenta di unificare gli opposti, il superficiale e il profondo, il particolare e l’universale, l’umiltà e la grandezza, la quotidianità e l’essenza, la storia e l’eterno 242

presente, il racconto reale e il mito. L’uno, l’unico, il singolare,

la struttura privilegiata dentro la quale convivono le creazioni individuali. Bontempelli è citato più di una volta da Debenedetti, qui e altrove, e non solo per aver capito Pirandello, che a Bontempelli deve anche altro (tra parentesi si dica che Debenedetti cita pure Savinio, al quale deve qualche formula illuminante sul destino dell’arte moderna, a cominciare da quella «forma dell’informe» che il critico adotta efficacemente come strategia fondamentale per la letteratura: specialmente quella delle avanguardie storiche che sollecitarono l’annegamento nel materico). Scegliamo questa che Debenedetti definisce «rivelazione veramente preziosa» di Bontempelli: «L’opera scritta è in un certo modo fatta di due piani paralleli, il piano delle parole e il piano delle cose [...] l’ideale supremo dello scrittore è saper talmente accostare l’uno all’altro quei piani paralleli ch’essi alla vista si confondono in uno [...] ma la duplicità rimane, e questa è la tragedia dell’arte dello scrivere». Debenedetti è consapevole della tragedia dello scrivere critica: è destinata questa ad essere ormai attività parallela a quella della letteratura creativa? Il piano della critica resterà separato dal piano dell’arte? Solo «alla vista» si potranno fondere, anzi confondere? È un’impresa che in un’altra occasione Debenedetti avrebbe paragonata a quella di Tristano: il quale non desidererebbe tanto avere Isotta, quanto piuttosto essere Isotta, per totale identità degli opposti o finale reductio ad unum. Ha trovato il lieto fine alla propria tragedia la critica di Debenedetti? I suoi saggi sono autonoma letteratura, e critica che fa pienamente il proprio dovere e dice tutta la verità possibile sull’autore indagato. Non deve essere «casuale», ma tanto meglio se lo è, che il primo di questi saggi critici sia dedicato a Francesco De Sanctis. Non solo per via di quel particolare rapporto tra ideale e reale, e neppure perché suggerisce di cercare qualche «ideale di ritorno» di Debenedetti. Il suo Novecento comincia nell'Ottocento, quello romantico ma più tardi anche quello cosiddetto «decadente»: da quel filone di cui si è già detto (Schopenhauer — Nietzsche — Wagner — Freud), per il quale nel corso di una lezione su Verga Debenedetti «tradisce» Verdi, nonché De Sanctis. Questo infat243

ti è il vero inventore del saggio, un genere letterario con cui il critico si mette a competere a livello d’arte col narratore. Nel saggio i due piani bontempelliani si accostano moltissimo, sino a fondersi. O almeno così pare nei saggi critici di De Sanctis, di Bontempelli e di Debenedetti. Il critico Tristano sarà Isotta, la poesia? Forse è solo un'illusione, ma certo è che chi

legge i saggi di Debenedetti finisce col credere che si tratti di letteratura «di primo grado». E se c'è qualche dubbio, ci si accosti al Romanzo del Novecento, l’opera (più wagneriana che verdiana) con cui Debenedetti si è collocato degnamente accanto all’autore della Storia della letteratura italiana. E prima ancora si accosti a questi Saggi critici, degni davvero del maestro. Critica narrata, saggi come racconti; inizio, svolgimento e fi-

ne? Semmai il cammino inverso, con il movente posto in fondo: fondo che significa fine e che indica la conclusione di un percorso in discesa, dopo aver attraversato i territori più bui, per penetrare sino alla fonte luminosa che Debenedetti chiamò anche «gemma». La metafora non segnala solo la qualità molto brillante di una ricerca che è illuminante anche nei passaggi, ma attesta la solidità dei risultati cui perviene una critica che spesso procede su fili assai sottili, quasi impalpabili, con costante timore che il discorso possa non reggere il peso. È il lettore non si distragga mai, nemmeno su un dettaglio o su una parola, se vuole sapere come andrà a finire. Come nei racconti gialli? Ebbene, c’è sempre un giallo in questi saggi-racconto di Debenedetti. Il critico come investigatore e come interprete di indizi molto ambigui che possono tanto accusare quanto difendere. Nessuno è colpevole o innocente finché non è concluso il processo o l'istruttoria: nemmeno Marinetti, scrittore d'avanguardia cui Debenedetti scopre tre «retromarce» dopo avere testimoniato a favore di alcune doti e riuscite. Né Papini, che ha parte di eroe negativo; né Cecchi, che non ha creato un proprio mito ma che ha gettato luce su tanti di quelli altrui. Arriva sempre nel saggio di Debenedetti il momento in cui il critico deve dare il giudizio: conclusione obbligata di una investigazione che non si può consentire insufficienza di prove dopo avere avviato il processo critico (dove c’è insufficienza di prove Debenedetti non pubblica gli atti: restano inediti a lungo infatti i corsi di lezioni universitarie su Verga, Pascoli, Montaigne, Tommaseo, la

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poesia e il romanzo del Novecento). Il critico deve chiudere con un «fermaglio», cerchio dove la fine combacia con l’inizio: a convalida della circolarità di una struttura che cerca l’assoluto, la verità elementare che è anche suprema. Splendono così nella pagina e alla fine del periodo le auree definizioni che inchiodano l’autore e la sua opera. Raccontando la critica, Debenedetti ha risolto alcuni dei ca-

si più intricati della letteratura contemporanea. Quando si riaprono i processi peri reiterati appelli con cui la critica legittima la propria esistenza, gli investigatori si trovano spesso a dover ammettere che le prove, soprattutto quelle indiziarie, portate da Debenedetti, sembrano ancora di testimoni oculari. Provia-

mo a fare un esempio. Ecco: quello di Palazzeschi. Per l’autore delle Sorelle Materassi Debenedetti trova la definizione che folgora il narratore toscano. Che fa di strano Palazzeschi, creatore di personaggi buffi che, senza sembrare in rivolta, non si mettono in regola col mondo circostante? Ebbene, Palazzeschi «fa centro fuori del centro». Questa è la sentenza di Debenedetti, che ovviamente si guarda bene dal condannarlo per tale «eccentricità». Anche perché si comporta così pure il critico. Debenedetti lavora dentro a una figura d’assoluto come un cerchio che dà la certezza del ritorno: magari il ritorno ai suoi concreti e personali «assoluti», cioè la verità, il racconto, il personaggio-uomo, il mi-

to. Se li cercate al centro, non li troverete più: sono altrove, non hanno più regole, sono liberi di collocarsi dove capita. Perciò ti ci imbatti per caso, ci vai a sbattere anche se stai fermo, dicono i personaggi di Svevo colpiti dal cazzotto della vita. Non è ancora chiaro perché Debenedetti dette a Svevo il cazzotto di un giudizio così negativo sui «piccoli romanzi». Tuttavia Debenedetti è il critico che ha fatto più volte centro con le sue interpretazioni e con i suoi giudizi. Naturalmente fuori del centro, dove gli altri critici inutilmente cercavano gli stessi autori. La lezione di Debenedetti? Tocca ancora far centro. Nel Novecento non si sa dov'è, ma non dubitate: c’è sempre. Bisogna saperlo cercare. Lo troverete: se farete come Debenedetti, il maggiore critico letterario del Novecento.

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Parte quinta

MITI MEDITERRANEI

Le donne ribelli di Corrado Alvaro

A Corrado Alvaro si addice la narrativa «breve»: il racconto,

magari lungo, e il «microracconto» che si annida e vola in poche righe come nel diario. Lo dicono in molti, anche gli ammiratori dei suoi maggiori romanzi. La sua migliore raccolta di racconti — questo lo dicono tutti — è L’arzata alla finestra: dove ce ne sono alcuni fra i più belli del nostro Novecento. Infine — questo lo dico io, ma non sono il solo a pensarlo — almeno uno di essi è un capolavoro che sfida i migliori del suo genere nella lingua di Boccaccio, cioè di colui che per primo dette la buona novella: si può essere grandi narratori con i «piccoli» racconti. L’amata alla finestra raggiunge il culmine subito, non appena comincia: cioè col primo di essi, Ritratto di Melusina. I racconti successivi sono sempre a livelli alti e comunque non precipitano mai nella zona d’ombra dove giacciono gli scrittori privi di luce. Alvaro non è mai opaco o piatto. Non leggetelo solo in superficie: è ricco specialmente il sottosuolo di questo scrittore calabrese che negli anni Venti è penetrato con più d’un racconto dove arriva solo la maggiore narrativa europea. L’amata alla finestra uscì nel 1929, cioè alla fine di un decennio in cui Alvaro si è vaccinato contro gli sperimentalismi più manieristici e ha imparato l’arte moderna del narrare dai più rinomati «fabbri» di parole e di idee di Francia e Germania. Così, prima dei trent'anni, ha pagato il pedaggio alle avanguardie del primo Novecento, ha allenato la vista, la mente e la lingua

con i più innovativi modi di vedere la vita e il mondo, e può lasciare le scuole in cui si formano gli scrittori più originali del periodo. «Achille lascia Sciro ed entra nella vita»: nella vitalissima, combattiva e rovente prosa che avrebbe condotto Alvaro a Gente in Aspromonte, del 1930. 249

«Bisogna scrivere di qualcosa di più che della realtà», si disse un giorno questo autore che alcuni insistono a definire un nostalgico, se non un epigono, del verismo. Dunque, addio naturalismo? Alvaro non dà l’addio a Verga, maestro indimenticabile per chiunque osservi il mondo dal Sud, ma con Proust sa che va operato di cateratta l'occhio dei veristi e che va cambiata la vista. Nessuna rinuncia alla realtà, ma serve qualcosa di più della realtà, qualcosa di più della vista. Negli anni Venti ha avuto le visioni l’autore dell’Armata alla finestra, anche se un critico espressionista direbbe che in questi racconti nulla sfugge soprattutto all’«occhio destro», quello con cui i naturalisti guardavano il mondo esterno. Alvaro aveva visto «più della realtà» con i racconti «fantastici» dell'Orto e la siepe, che è del 1920, e col romanzo L'uomo nel labirinto (1926), che è oltre la realtà. Come si vede, la realtà sta sempre in mezzo, ma, se realismo deve pur esserci sempre,

che sia magico, il realismo magico per il quale Alvaro andò a scuola da Bontempelli, e lo superò, allontanandosene. Il narra-

tore calabrese sa dall’infanzia che cos'è la magia della vita quotidiana. Non è facile togliere la fattura a tanti episodi della sua narrativa.

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Alvaro di occhi ne ha forse pure più di due, dei due naturali. Per vedere meglio, specialmente in se stesso, s'è procurato o fabbricato le lenti, d’ingrandimento, con cui guardano nell’in-

conscio espressionisti e surrealisti. Vede lontano in Alvaro l’occhio della mente, quello che genera i sapienti e i saggi. Alvaro è un saggio che mette a fuoco ogni ambiente e persona. Prima per far luce, e poi per scottarli. «Non ho mai visto un uomo guardare così», dicono alcune ragazze del loro ospite calabrese nel racconto I/ barore. Hanno ragione: l’investigatore non si ferma alle apparenze quando narra storie di donne in questo volume. Guardando nei loro occhi, non ci ha visto solo il sentimento. Sono un po’ maghe, leggono nella mano il destino, e vedono cose su cui per pietà tacciono. Spesso intuiscono un futuro tragico che sfugge agli uomini. Ha uno sguardo penetrante questo scrittore che sta dalla parte delle donne: ha intuito che sono loro le vere protagoniste della tragedia meridionale. L’amata alla finestra èa suo modo un libro molto «femminile». È spesso una donna la protagonista di questi racconti. È 250

sottoposta socialmente ma sta molto in alto. Il narratore la innalza ben al di sopra di una finestra in Nozze insonne, dove il nome dell’amata del fuochista, Susanna, arriva persino in cielo con i botti. E una di esse, la Capitana, guida addirittura una ri-

volta popolare. Ma attenti a quelle che non parlano e che hanno assai eloquente il silenzio. Non dice una parola Melusina. «Melusina? C'est moi», potrebbe rispondere Alvaro. L’amata alla finestra è oltre il verismo e oltre il surrealismo, che è l'avanguardia più «fantasiosa» degli anni Venti. Chi legge Tre vestiti usati (un uomo vende i suoi abiti a tre persone diverse, che ne sono condizionate finché non si ribellano e li buttano

via come se si levassero la camicia di Nesso), può anche credere che il racconto stia addosso ad Alvaro secondo la moda firmata da Kafka. Forse invece veste come Bontempelli, che è l’autore,

tutt'altro che provinciale o locale, di Nostra Dea (dove la protagonista smentisce drammaticamente il detto popolare secondo cui «l’abito non fa il monaco»). Se continuiamo a fare il gioco degli «abiti usati» da Alvaro, vedremo che, mentre il primo è il verismo verghiano, il secondo è il realismo magico. E il terzo? Qualcuno ha suggerito D'Annunzio, ma Alvaro non ha mai alzato la voce come lui: anche perché era stato a scuola d’umorismo da Pirandello, maestro e «allievo» di Bontempelli. Comunque non si può passare la vita a vestirsi cogli abiti dei fratelli maggiori o dei padri. Alvaro l’ha sempre saputo che le misure vanno prese anzitutto sul proprio corpo e sulla propria testa. Così, non appena è sicuro di «avere la stoffa», si cuce da sé l’abito che meglio gli si attaglia. Nell’ Amata alla finestra riconoscerete i migliori stili dell’epoca; constaterete che Alvaro sa usare come meglio non si potrebbe gli abiti creati dai grandi «sarti» del passato prossimo o remoto; avrete le prove di come è bravo a rivoltarli e farli sembrare appena usciti di laboratorio. Attenti però: in mezzo ad essi c’è un abito nuovo, fiammante. Alvaro fu presto, se non il fabbro (sempre di prim'ordine l’artigianato del narratore e del prosatore),il «sarto» della propria fortuna. Più di un racconto gli sta a pennello: metafora che intanto consente di elogiare le sue descrizioni di ambienti e i ritratti. Nonché gli autoritratti. Un giorno il narratore si lasciò sfuggire il suo più autentico desiderio: «Vorrei poter scrivere come se ricordassi un altro mondo». Una singolare narrativa di memoria. «Autobiografia 251

sì» rispose Svevo, «ma l’autobiografia di un altro.» L’altro mondo, ma anche il mondo dell’altro. L’io c'è in Alvaro, ed è

forte il soggetto che è il genitore di quella liricità che a lungo è sembrata la cifra stilistica essenziale di un narratore celebrato per l'attacco musicalissimo di Gente in Aspromonte («Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque»). Alvaro ha un io che «è di questo mondo», ma non si limita certo ad «orecchiare» l’esistenza. Altro si deve ora raccontare, anche a rischio che il racconto possa essere «scordato». Pure Alvaro, oltre alla corda civile, ha una «corda pazza». La musica non può essere una consolazione per chi deve soffocare o smaltire lo smacco della conoscenza. Bisogna andare a guardare sempre cosa c’è sotto l’armoniosa orchestra di Alvaro. I suoi suoni «alloppianti» potrebbero nascondere il «mistero» di uno scrittore che passa per essere uno che lavora accanitamente in piena luce, alla luce della ragione più chiara. Una ragione c’è, intanto, se si intitola Mzsteri e avventure una

raccolta di racconti, quasi coetanea dell’Azzata alla finestra. C'è un’avventura della musica in ogni racconto di Alvaro, narratore che si fa guidare dai suoni verso l’irraggiungibile senso delle sue storie. Questo scrittore usa la musica una volta per sottolineare, ma un’altra volta lo fa per nascondere. La lirica piange per quello che succede dentro personaggi che non confesseranno mai il loro segreto. Non basta la ragione, non è solo un illuminista questo scrittore che coi saggi fa tanto chiaro sui problemi del nostro tempo. Tira aria di Settecento nella sua prosa, ma non è nelle ariette il meglio della narrativa lirica di Alvaro. Prestate orecchio al recitativo, altrimenti farete a pezzi un narratore che non è solo l’autore di molti incantevoli frammenti. Qui ce ne sono tanti in ogni racconto. E tuttavia non leggete solo con l'orecchio. Alvaro impegna tutta la testa: dopo la sua, anche quella del lettore. C'è sempre altro in questo narratore concettoso. Verrà fuori col passare degli anni e Alvaro ci scriverà i suoi finali romanzi-saggio. In A piedi nudi ci sono tutte le condizioni per un racconto verista, ma Alvaro dentro ci sta stretto. Procopio ha moglie e otto figli quando il paese è colpito da un devastante terremoto. Addio campagna, addio monti sorgenti da altri monti, dalla catena dell’Aspromonte in cui è nato anche il narratore! Proco257

pio si reca alla stazione ferroviaria e chiede come possa risparmiare sul biglietto. Il consiglio che riceve gli pare buono: alla prossima stazione in direzione della meta scelta pagherà di meno. Il calabrese di Alvaro fa finta di non capire, ma il senso dell’esperienza non gli sfugge. Se non ci fosse un po’ di candore, sarebbe più difficile andare avanti in tanta miseria. Così, di stazione in stazione, a piedi nudi la famiglia, dopo

chissà quanti chilometri e giorni, approda in città, dove trova domicilio sotto un ponte. Prima di addormentarsi, Procopio, che ha fatto buon viso a cattivo gioco e che ha «giocato» coi bigliettai e coi familiari, tira la morale della sua favola: «Sapete che vi dico, ragazzi, sentenziò Procopio; che la città è una bella cosa,

nessuno vi conosce, e potete dormire sotto i ponti della ferrovia se così vi fa comodo. Sei libero insomma. Ma già i ragazzi dormivano, e soltanto sua moglie lo guardava con quegli occhi che gli davano sempre, non capiva perché, un vago rimorso». Alvaro ci mette spesso una buona dose di umorismo nei suoi racconti, ha appreso direttamente dal suo amico Pirandello che cos'è il «sentimento del contrario», ma il sorriso scompare quando il suo sguardo incrocia gli occhi delle donne. Se ne stanno in silenzio e Alvaro si sente in colpa, è turbato ma non confessa, né dice menzogne. Non tace ma nemmeno spreca le parole. Semmai ne duplica il significato con l'ironia. Le donne di Alvaro interpretano solo la tragedia. Gli uomini invece si possono ancora permettere di fare la commedia. Non c’è molto dialogo in questi racconti. I personaggi non parlano e Alvaro teme di inventarsi il «parlato possibile» di questi esseri taciturni. Di registrare il povero dialetto non se ne parla nemmeno. Alvaro non può né liberarli né «tradurli» in Italia. E comunque, trattandosi di prigionieri, risulta più saggia e reale la seconda soluzione: la traduzione italiana delle poche parole con cui i personaggi dicono l’«essenziale». D'altronde, se essi hanno secca la lingua — né è fluviale il dialetto — e se povero è il linguaggio orale, ricco è quello del corpo. I calabresi di Alvaro mandano messaggi complessi col corpo e il narratore deve interpretarli. Meglio ancora se si limita a «registrare» quelli che mostrano di avere più senso, e meglio se non li si riduce a uno solo, quello di cui è capace il codice culturale dell’interprete. Davvero un uomo di poche parole, un narratore scarno cui conviene mostrare lo scheletro del racconto. Darebbe l’anima 253

per risparmiare: così fa tesoro del suo disegno di non perdere mai il particolare che conta veramente. La sua narrativa è sempre mirata ad arrivare all’«anima» dei personaggi: specialmente gli occhi sono «animati» nei «misteriosi» personaggi alvariani, ma essi mettono l’anima anche nelle altre parti del volto. Ci vorrebbe molta psicanalisi per interpretarli, ma fa bene Alvaro a limitarsi, a raccontare solo i sintomi. Non c’è terapeuta che conti: non di rado il suo è racconto di destini. E non la si può far lunga. Un particolare al momento giusto è un’epifania. Narrativa che suggerisce perché non basta più nominare realisticamente? In Alfabeto il contadino che vuole imparare a leggere si fa dire cosa c’è scritto in quella pagina. «Qui dice: L’asino è paziente. Egli rimase sconcertato: Soltanto questo? Oh, no! diceva. Oh, no. Non è possibile. Chi non sa queste cose? Che bisogno c’è di metterle sui libri? Oh, no! Così poco, così poco?» Dice poco ormai la narrativa che registra la realtà

minuziosa e scontata. Si ottiene il risultato di rendere impaziente il lettore e di lasciarlo «asino»: cioè non capirebbe di più dinanzi a tanta prodigalità verbale. Ad Alvaro non conviene spiegare quel che succede: la ricchezza di motivazioni impoverisce il racconto, che invece ci guadagna a non mettere troppa carne al fuoco. «Arrivo a credere, dice un suo personaggio, che i poeti non capiscano quello che dicono, ma dicono prima di capire, e quella è la verità.» Alvaro fa l’altalena fra tante alternative. Città e campagna, storia e natura, cultura moderna e primitivismo, progressismo ed eterno ritorno, racconto «saggistico» e lirismo, innovazione linguistica e nostalgia di un passato non massificato, ribellione e rassegnazione. Però non sta fermo sulla riva finché non vede il cadavere del nemico. Lui fa il traghettatore fra le due sponde e resuscita così tante idee morte. Naturalmente trasporta merce di contrabbando. Come dire che sa essere un trasgressore questo scrittore cui tutti attribuiscono grande saggezza. Ad Alvaro piacciono le teste calde, purché pensino con freddezza a ciò che va fatto in un preciso momento, pubblico o privato, storico o psicologico, e meglio se l’uno è il risvolto dell’altro. Nella Capitana si narra di un’insurrezione contadina contro i francesi guidata dalla Capitana, che gira per i paesi e le campagne ad arruolare combattenti in nome del re e di Dio. Si fa avanti un giovane: «Ho un buon cavallo e un fucile». Uno della 254

folla però lo accusa: quest'uomo sa leggere e scrivere; legge il francese. La reazione del giovane è immediata ed efficace. Prende uno dei due libri che porta con sé, fa vedere alla Capitana che si tratta delle Epistole di San Girolamo e issa il volume sulla punta di una canna per mostrarlo alla folla. Intanto ha buttato via e allontanato con il piede l’altro suo libro. Il portabandiera però lo raccoglie da terra, lo appende a un’altra canna, e lo fa vedere, senza intenti delatori, alla folla di analfabeti: Voltaire, rorzans allegoriques, philosophiques, ecc.

Il racconto di Alvaro è anche una novella: alla fine la narrazione sfocia in un evento che fa notizia e che è novità rispetto a prima. Una coda che però è ambigua, fa il doppio gioco, genera interrogativi invece di dare in uscita una risposta univoca e perentoria. Narratore laico, Alvaro tollera più di un’interpretazione. Ha sempre una domanda sulla punta della lingua. Ad esempio, ci sono davvero delle occasioni in cui l’illuminista e miscredente Voltaire merita d’essere gettato via e preso a calci? Dunque, c’è un giovane ambizioso e spregiudicato che vuole fare molta strada (ha «un buon cavallo») e che è disposto a sparare per la nuova causa, anche se restano ignoti i motivi della «conversione». Ha due libri con sé, san Girolamo e Voltaire, sui cui testi si è formato. Dovrebbero essere come il diavolo e l’acqua santa, ma egli li fa convivere benissimo: almeno fino a quando non è costretto a scegliere. Così, per salvare la vita, gli tocca elevare verso il cielo un libro di alta devozione religiosa qual è quello di san Girolamo e gettare a terra le allegorie politiche di un dissacratore qual è Voltaire. Che significa allora il fatto che uno del popolo, magari un analfabeta, raccoglie il libro buttato a terra dal giovane? Certamente non che il popolo è sempre voltairiano e rivoluzionario. È vox populi: il fervore lirico non può essere disgiunto dalla riflessione critica. Alvaro ha inclinazione a convertire in fede, in «poesia», i progetti di chi, pensando a un mondo nuovo, butta via idee vecchie e linguaggi logori. Trovare un pensiero profondo, o solo una traccia, una trama, un mito, e crederci. Così scrive il migliore Alvaro. Bisogna essere moderni e miscredenti come Voltaire dinanzi a ideologie losche e prepotenti, ma tocca penetrare laddove c'è la rivelazione di una condizione che la vecchia cultura ha interesse a nascondere. E spesso non c’è liberazione, specie se ti viene svela255

to il mistero e ti sei visto prigioniero come si ritrova Melusina

alla fine del primo racconto dell’Armata alla finestra. All’inizio del Ritratto di Melusina colui che narra la storia della bellissima quindicenne calabrese — non necessariamente il narratore, anche se le coincidenze sono tante e molto significative — introduce alla vicenda con una premessa antropologica. Le donne della sua regione — c’è al riguardo una testimonianza di Savinio, che estende il fenomeno a tutta l’area del Mediterraneo — hanno una paura atavica di farsi ritrarre: temono di perdere o cedere l’anima. Di chi è poi l'occhio che osserva lo spettacolo tremendo degli inaccessibili e invalicabili monti che circondano il paese di Melusina? È l’occhio di uno che vede «sbarrati» i confini del proprio inferno? Il narratore sembra limitarsi a descrivere l’ambiente in cui vive il suo personaggio. Si sente anche lui in carcere quando sta in Calabria? Il discorso non cambia se l’occhio dovesse essere di Melusina. A guardare «con naturalismo», è impassibile il glaciale osservatore di quel terribile spettacolo. Ha smesso di soffrire, distrutta è la persona di chi qui osserva in modo «impersonale».

Ancora prima di apparire, la ragazza occupa lo spazio col suo occhio, forse fidando nella complicità di colui che narra, Alvaro o personaggio narrante che sia. La quindicenne arriva in sce-

na come un animale indocile che ha intuito di essere trascinato al macello. Cosa teme la «selvaggia» dall’invito pur tanto normale a farsi ritrarre? Quando si siede fra il padre e il nonno, è come se essi fossero due carcerieri, che la difenderebbero dal

bel giovane pittore venuto dal Nord soprattutto per non perdere la proprietà della «schiava». Sotto lo sguardo del pittore biondo che assomiglia al Cristo della chiesa in cui va a messa, Melusina però si scioglie e, per così dire, cede l’anima al ritrattista in modo così totale che sem-

bra cedere anche il corpo: ha intense sensazioni mai provate, la quindicenne. C’è innamoramento e persino un darsi che si avverte intimamente come possesso. Melusina piange perché ha perso l’anima, rubata da quel pittore che subito dopo si prepara a partire dal paese in cui è stato inconsapevole attore di un dramma? Piange per molti altri motivi alla fine di un racconto dove si intrecciano tanti fattori diversi, che fanno del Ritratto

di Melusina un nodo inestricabile, un «mistero» sul quale non finirà presto l’avventura dell’interpretazione critica. 256

La scena ha il suo centro — o trattandosi di un terremoto è più preciso dire epicentro? — là dove è collocata la bocca di Melusina. Guardando il disegno, il narrante nota che la ragazza ha la bocca tagliata come da una ferita: «un bacio cattivo su un volto ignaro». Melusina inconsapevolmente ha stretto le labbra nel momento in cui viene ritratto il suo volto. Il pittore non s'è lasciato sfuggire l’attimo in cui la faccia della bellissima quindicenne si è «deformata» per proiettare in superficie un segnale di odio: magari da consegnare a colui che porterà altrove il ritratto. Chi odia in quell’attimo forse irripetibile e comunque inconscio Melusina? Sicuramente non sta inviando un bacio cattivo al pittore che le sta rubando l’anima. E tuttavia sta rivelando un segreto, di cui lei non è consapevole ma che la sua bocca ha trasmesso. Portasse via il pittore quella «smorfia» che la deturpa: qualcuno un giorno avrebbe capito che una ragazza prigioniera stava chiedendo aiuto. Il preciso naturalismo del pittore che registra la «ferita» è l’inconsapevole tramite di una rivolta che gli espressionisti hanno raccontato attraverso deformazioni del volto. Così è l'apparente verismo di Alvaro: prende un dato esterno e lo trasforma in un segnale del profondo. Il corpo ha preso l’iniziativa di rivelare la verità e il ritratto presto sarà in viaggio verso terre lontane, come alla ragazza invece non è concesso né dal padre né dal nonno né dal padrone né dalla storia o antropologia della Calabria. Ritratto di Melusina potrebbe essere un episodio della guerra che l’arte e la letteratura del Novecento hanno dichiarato al padre: colui che può obbligare a vedere uno spiraglio di vita diversa e che presto può di nuovo legare la prigioniera all’esistenza precedente. Le tenebre sono più fitte dopo la luce, e la schiavitù è più disperata dopo la felicità d’essere come una ragazza può desiderare. Melusina non finisce mai di piangere. Per tenere viva la rivolta, Alvaro si è travestito da donna? Si ribellano specialmente le donne in Alvaro, sono loro le vere voltairiane: la Capitana che guida la sommossa popolare, la moglie di Procopio che segue in silenzio un marito troppo ottimista, la donna che in Stazione di notte si domanda come sia possibile vivere in una condizione simile di arretratezza sociale e civile. E forse le più «crudeli» sono quelle che non hanno le parole per dire quanto si sentono schiave degli uomini e che per non essere punite si trincerano dietro il silenzio accusatorio 257

o il pianto rassegnato di chi come Melusina non avrà un’altra occasione per denunciare il sopruso di padri e padroni. Può cambiare il destino della giovanissima calabrese? È segnato dalla nascita, forse da quando le fu dato il nome di Melusina. Si chiamava così il personaggio leggendario di una ragazza che, avendo ucciso il padre, ebbe condanna eterna per cui pagarono un alto ed evidente prezzo i figli bellissimi deturpati nel volto. Siamo andati troppo avanti, troppo indietro nell’interpretazione? Ebbene, un racconto di Alvaro fa la spola fra presente e passato, fra storia e psicologia, fra razionalità e irrazionale, fra realismo e avanguardia, fra vista e visione, fra dato concreto e invenzione, fra musica e significato, fra consapevo-

lezza e inconscio, fra superficie e profondo. Quando è in forma smagliante, Alvaro è un narratore notturno che getta luce solare sugli incubi dei personaggi del nostro tempo. Non dimenticate però che egli è capace anche di illuminare il buio con i fuochi artificiali con i quali il protagonista di Notte insonne scrive in cielo il nome della sua Susanna. L’iniziale maiuscola è capovolta come nelle insegne di certe osterie? Alvaro lo nota ma non fa lo schizzinoso, non è un calligrafo, sta

attento ai lapsus, cerca alte rivelazioni. Eppoi è interessato all'energia necessaria a proiettare il nome là dove lo possono vedere tutti i sentimenti più accesi e brucianti. Chi siamo profondamente lo si sa meglio a terra, o anche più giù, dove si è

Melusina e si è anche il fuochista innamorato. Nel cielo scoppiettano i fuochi artificiali, come nella pagina splendono i sentimenti, specialmente l’elegia, ma non dimenticate che c’è stata un’esplosione e che è come un terreno minato la vita dei personaggi di Alvaro. Si vede la fiammata ma determinante è il fatto che sotto ci sia tanta polvere da sparo. Non è escluso che il narratore se la stia prendendo con il cielo per le sventure che colpiscono gli uomini. Per ora è festa ma non durerà a lungo. E presto sarà buio profondo. Nella «notte insonne» del Sud qualcuno è sveglio, ma i più dormono. Questi sono rassegnati, quello è senza speranza per il domani. L'artista, il pittore, il narratore, per denunciare la condizio-

ne dell’uomo — e prima ancora della donna — del Sud, manda in giro il ritratto di Melusina e questi racconti dell’Arzata alla finestra. Ci sono dentro fuochi artificiali e fuochi autentici; il cie-

lo mette la propria volta a disposizione di chi vuole mandare al258

ti messaggi d'amore; la situazione, sotto, è comunque esplosiva.

L’anno dopo l’uscita di questi racconti il protagonista di Gente in Aspromonte prende il fucile e spara, per farsi giustizia da solo. Naturalmente non fa che mettere a fuoco la solitudine del meridionale. Antonello va incontro ai carabinieri che gli danno la caccia da molto tempo ed esclama sardonico: «Finalmente potrò parlare con la Giustizia. Che ci è voluto per poterla incontrare e dirle il fatto mio».

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Lampedusa e D'Arrigo, ovvero Morte in Sicilia

Tomasi di Lampedusa e Stefano D'Arrigo scrissero la loro opera maggiore negli anni Cinquanta ma per i due narratori sicilia-

ni erano pochi non solo dieci anni, bensì anche cinquanta. Misuravano il tempo a secoli (il primo), se non a millenni (il secondo). Avevano tempi diversi pure in altro senso: Lampedusa ha avviato e concluso il suo romanzo in un anno; D'Arrigo invece ci ha impiegato quasi un ventennio. In comune ave-

vano il desiderio di essere attuali (come si scrive oggi e cosa?), ma una volta per tutte, come fanno il mito e la logica. Anche a loro, come a Pirandello, piaceva solo il moderno che non passa mai di moda. Di moda, Lampedusa lo è da quarant'anni, D’Arrigo si aspettava di diventarlo quaranta, trenta, venti, dieci anni fa, ma sia Tomasi di Lampedusa che Stefano D'Arrigo si danno tempi «smodati». Il primo ha lunghissima l’incubazione — tutta la sua esistenza passata —, il secondo non la finisce mai con la scrittura che scava nell’infinito presente, passato e futuro. Tutta la vita al servizio di un solo libro. Due libri davvero unici, che, nati nella storia — la crisi morta-

le ma anche la crisi vitale degli ultimi anni Cinquanta —, prendono le distanze dal decennio in cui vennero totalmente o parzialmente alla luce, per sfidare tutto il nostro tempo (due risposte adatte all'uomo di questo secolo, a ogni sua domanda sul vivere e sullo scrivere), forse ogni tempo (i siciliani cullano sempre l'illusione dell'immortalità, sollecitati e insieme scoraggiati dai più remoti avi greci). Due dei più singolari romanzi del Novecento, non solo di quello italiano: per quanto uno è vecchio e per quanto l’altro è nuovo. Del Gattopardo — scritto in italiano traducibile — lo si dice anche all’estero; di Horcyrus Or260

ca — scritto in una lingua parlata che nessuno parla — non lo si dice da molti nemmeno in Italia. È «da un'eternità» che i lettori amano di più l’opera di Lampedusa. Invece sono pochi ancora quelli che hanno finito di leggere l’infinito, l’indefinibile Horcynus Orca. Aiutiamo questo romanzo a diventare di moda, cioè a farlo leggere a tutti, e poi vinca il migliore. Il Gattopardo è uno di quei romanzi che sono così prepotenti da imporsi al gusto più estraneo e alla cultura più avversa. Si fatica a farsene una ragione, spesso sopraffatta da un modo di pensare che non elude le invasioni dell’irrazionale e comunque dice qualcosa che non è solo un concetto. Con la sola ragione non si capisce nemmeno Horcynus Orca, la cui musica a ondate fa tempesta per annegare l'immenso «libretto». Come succede ai proverbi, pure ai due capolavori siciliani capita di dire verità opposte sulla medesima questione. Relativismo? Ora sembrano entrambi due romanzi straordinari in assoluto. I/ Gattopardo dice verità che sono «complementari al presente», come sono,

secondo Heisenberg, le «scoperte scientifiche» superate ma non false. D'Arrigo invece, cercando il passato e il futuro più remoti, è il nostro presente, transitorio, inafferrabile e arcano.

Lampedusa da parte sua non fa mistero: il nostro è il mondo di sempre. Il ciclo in lui non fa vortice; D'Arrigo invece fa la spirale con l'eterna natura. Come le fere trentenarie che vanno a morire nel vulcano che eviterà la putrefazione della carne. Brucia in eterno la carne umana di cui D'Arrigo teme la decomposizione, fonte inesauribile di panico. Entrambi cercano oltre la vita, che per i due miscredenti è tutto: come la morte, pensiero che non fa mistero di voler trapanare dall’interno il cranio. AI presente Horcynus Orca è molto più di un bel romanzo. È uno di quei libri che possono cambiare la vita, nonché la morte: come al suo protagonista, che accetta la fine solo dopo avere fatto esperienza di ogni modo e livello di vivere e di morire. Per il principe si muore sempre nello stesso modo: a parte il fatto che stavolta muore lui. Insieme a’ Ndrja invece sembrano morire tutti, come nell’Apocalisse, preannunciata dall’arrivo nello Stretto dell’Orca, cioè del Leviatano. Un romanzo «biblico». Al contra-

rio del Gattopardo, che è un romanzo realista, il romanzo realista di uno che ama il simbolismo. Il realismo di entrambi ha attraversato il simbolismo: il «visto cogli occhi» che ha frequentato il «visto cogli occhi della mente», direbbe lo spiaggiatore di D'Arrigo. 261

La realtà della Sicilia, isola mediterranea che galleggia in mezzo al mare ma è sempre pronta ad affondare per la gravosa pesantezza della sua storia passata e presente. Ovviamente i siciliani come Lampedusa sanno che quest’isola non morirà mai. Di nuovo non succede nemmeno chela Sicilia abbia una fine. E sempre Apocalisse in un’isola intorno alla quale l’Orca gira instancabilmente. La fine del mondo, dice Frank Kermode nel Senso della fine, è immanente, non imminente.

Si scontrano due culture coi romanzi di Lampedusa e di D'Arrigo. Si stia attenti alle forme nel caso di narratori per i quali lo stile è quasi tutto. Ha un senso pure il fatto che, mentre Il Gattopardo è quasi un romanzo smilzo che una mano contiene facilmente, Horcynus Orca è un libro quasi incontenibile in due. Dai due romanzi emergono due mondi simili e insieme profondamente dissimili. Nessun dubbio: D'Arrigo non ha sprecato nessuna delle sue 1300 pagine. Horcynus Orca scappa da tutte le parti per raggiungere la sola verità che conta; I/ Ga topardo si tiene stretto a ciò che sa. Il primo avanza interrogando, il secondo rispondendo. Dove l’uno risponde, l’altro inter-

roga. Uno si concentra, l’altro getta la rete sempre più lontano dalle proprie coste. Cui sempre torna dopo aver circumnavigato non solo la Sicilia ma anche il resto del globo. Nella testa del delfino sono incise le avventure di ogni mare ma il mammifero non parlando non svela il segreto: si interroghi il corpo, canale culturale che è all’avanguardia negli anni Sessanta. Hanno avuto la meglio i lettori che cercano risposte, anche se non sempre si accorgono che Lampedusa le dà multiple, cioè di quelle che rispondendo pongono quesiti. Uno scrittore davvero ambiguo: a cominciare dal fatto che una persona è l’autore (narratore che si è mascherato), un’altra è il principe di Salina (personaggio che si confessa). Nel romanzo di D'Arrigo una persona è fatta di mille individui diversi, che però aspirano a diventare

un solo essere (l’uomo e il delfino = l’uomo è il delfino). Ha avuto la peggio D'Arrigo coi lettori perché pare voglia spiegare tutto. Stava cercando di dire che non è più permesso mettersi al sicuro dentro un vecchio mito: ora la storia è diversa, ci abbiamo

pensato più a fondo. La ripetizione è comoda ma è consolatoria; la salvezza per la vita e per la letteratura arriva dalla differenza. Ulisse non può più morire nel letto di Penelope. ’Ndrja muore remando per allenarsi a vincere una gara mai fatta prima. 262

Lampedusa e D'Arrigo parlano della fine del mondo dei due protagonisti: un ricco principe astronomo che traffica con le stelle (forse anche per tenersi a distanza di sicurezza dagli uomini, borghesi o popolani che siano) e un pescatore che, sopravvissuto alla guerra, fatica a trarre sostentamento in lotta quotidiana col mare. La terra dell’uno e dell’altro è la Sicilia: quella dell'Ottocento post-garibaldino nel Gattopardo, quella del secondo dopoguerra in Horcynus Orca. Entrambi raccontano come muoiono i due protagonisti dopo che ha perso Garibaldi, nella realtà storica che a distanza di un secolo replica fallimenti rivoluzionari. Il principe non perde alcuna illusione perché non l’ha mai avuta; il secondo, che sperava di potere un giorno prendere il posto di capo cui sembrava destinarlo la comunità di pescatori, porge la fronte alla pallottola che casualmente lo ucciderà. Il principe non si muove da casa se non per andare in campagna, il pescatore di D'Arrigo passa la vita sul mare per buscarsi il pane o per partecipare a una guerra che porta solo corruzione e morte. Per arrivare al cervello di ’Ndrja, bisogna attraversare tutto il corpo, sistema di segni che non si finisce mai di interpretare. Il principe non ha che cervello, un vecchio cervello che capisce quanto succede agli uomini reali e razionali. Dell’irrazionale, che c'è, meglio non parlare. E invece ’Ndrja non parla d’altro. Tutto ciò che da sempre è reale è stato però già detto. °Ndrja corre in cerca di una nuova realtà, quella che si sente dentro dopo avere sperimentato ogni tipo di morte. Si chieda alla morte il senso della vita. E naturalmente anche all'amore. Anche questo è diverso. Si faccia luce sull'amore e sulla morte e sarà diversa la storia. Dopo la seconda guerra mondiale gli uomini amano e muoiono come mai hanno fatto prima. Forse così facevano i delfini, cioè gli antenati e i successori degli uomini nel dominio della terra.

Per il principe di Salina «si cambia per lasciare le cose come stavano prima». Questa è la tesi contro cui sono andati a sbattere la testa i lettori impegnati politicamente a cambiare realmente le cose in quei finali anni Cinquanta in cui i «fatti d’Ungheria» dettero il KO ai fautori della rivoluzione proletaria. E per D'Arrigo? Le cose possono anche sembrare identiche a quelle passate (il mare è il mare, Ulisse è Ulisse, e così via verso 263

ogni altra identità, compresa quella per cui °Ndrja è un Ulisse dei nostri giorni) ma l’uomo non è più quello di una volta. È migliore o è peggiore? Ora sembra peggiore, a guardarlo sia dal punto di vista di un nobile sia da quello di un pescatore. Però °Ndrja Cambria durante quel viaggio di ritorno ha cambiato idea e visione su tutta la vita propria e altrui. D'Arrigo ci ha consegnato un uomo che è «più uomo», molto più uomo di quanto sperasse per sé Vittorini. Che però «ermeticamente» osserva dalla superficie. La superficie è anche il terreno preferito da Lampedusa; D'Arrigo invece nuota sempre in apnea nelle più inesplorate profondità del mare e dell’uomo, o più precisamente della donna, della figura materna che è «liquida» come il mare. Il romanzo di Lampedusa al contrario è paterno, libro che possiede legge e valori insostituibili. Nel romanzo di D'Arrigo i vecchi si sono rimbambiti. Horcynus Orca è un’opera «giovane». Ed è sempre gravida di significati che dalla superficie non si vedono. Lampedusa scrive a occhi chiusi, D'Arrigo usa il microscopio per osservare cellule e microbi, Lampedusa ripete verità macroscopiche con cui è più facile morire. D'Arrigo cerca quelle

che aiutano a vivere, e a morire, diversamente. Con ’Ndrja muore un uomo che ha sostituito tutti i valori; anzi, secondo

lui, i valori sono sostituibili dinanzi alla legge della natura, divinità sovrana che spesso viene detronizzata dalla storia «a fin di bene». La natura, per D'Arrigo, non è il male: sondatelo, e ve-

drete che esso genera spesso il bene. Come la materia. Insomma si torni alla materia e alla natura. Così si fa la storia quando non si crede più alle vecchie storie con cui si conforta chi non vuole che le cose cambino. Paradossalmente potremmo ipotizzare che D'Arrigo ribalti l'ideologia di Lampedusa: si vorrebbe che tutto restasse identico a prima ma invece tutto cambia; o meglio, cambia il tutto, se si trovano le parole con cui nominare ciò che c’è sotto, dentro l’uomo. Un nuovo linguaggio totale è un uomo mai visto prima. E se l’uomo è diverso, più ricco e più sottile, se la mente si fa acqua

per arrivare dove mai le era successo prima, il cambiamento c'è, eccome. La replica di Lampedusa conferma, quella di D'Arrigo crea: magari riciclando il passato più remoto. Una piccola differenza nel modo di sentire e già il mondo non è più quello di prima. Riparta dai cinque sensi chi cerca il senso della vita sfuggito 264

alla precedente cultura. Non è la fine del mondo: ha solo fallito quella marxista-stalinista, nonché quella laica di Lampedusa. Si continui a cercare nella materia. Siano davvero materialisti i marxisti, siano meno moralisti i laici, e forse le nuove parole cor-

risponderanno a cose nuove. Ne ha scoperte di cose il materialismo di D'Arrigo. Quello di Lampedusa invece si lagna — magnifica elegia — della morte delle buone e vecchie cose di una volta. Che però i pescatori non hanno mai toccato. Non sono più le stesse né Itaca né la Sicilia né la vita d’oggi rispetto a quella di ieri. Con D'Arrigo cambiano pure i fatti, a forza di interpretarli. I miti millenari, arrivati nella testa di D’Arrigo, mutano: nella coda, cioè nel finale: come in Savinio, dove

Capitano Ulisse scappa lontano da Penelope. ’Ndrja Cambria sempre scappa nell’oltretomba (lo fa un altro personaggio saviniano, in A/cesti di Samuele) per raggiungere la sua donna, moglie e madre. In Lampedusa si è naturali per essere normali, in D'Arrigo lo si è per fare un’esperienza che possa diventare leggendaria. Delira'Ndrja prima di passare «di là», il principe invece non si muoverebbe mai di qua: sapendo, come Achille, che è meglio essere un vivo chicchessia che non il re dei morti. La gran questione è sempre la stessa: come si vive, come si muore? ’Ndrja, temendola, corre incontro alla morte: e così capisce cos'è la vita. Una pallottola vaga nella notte in cerca della sua fronte, che si è sollevata per riceverla. Un suicidio «psicologico»? Pone ancora domande la morte di ’Ndrja. E naturalmente ce ne sono tante anche per il principe di Salina. Che non ammetterebbe di non saper rispondere. Il Nulla. La sua però è una risposta tutt'altro che metafisica. Anzi è volutamente scontata, fatale. Ebbene, per D'Arrigo la risposta non è ovvia. Si sa ancora poco della morte. Interroghiamola. Potrebbe riservare qualche sorpresa. Non realisticamente, è ovvio, ormai è tardi per fare realismo sulla morte. Il protagonista prima di morire si abbandona al delirio, mezza morte reale. Inutile il «visto cogli occhi». A furia di sentirlo dire nel Mediterraneo da pescatori e da viaggiatori essi si ritrovano dentro qualcosa che pare solo immaginario, cioè «visto cogli occhi della mente», e che invece è tangibile, o così pare. Dinanzi a Ciccina Circé nella notte profonda dello Stretto °Ndrja si è sentito dire perché si vive e che forse è già morto. Quand'è allora che si muore veramente? Per Lampedusa c’è solo la morte natura265

le. D'Arrigo non esclude il sovrannaturale: quello ovviamente che è sepolto nella mente umana. Forse è più esatto dire subnaturale. Non basta più il naturale dei pescatori, che sono empirici e chiamano ogni cosa col suo nome: cioè quello che essi le hanno dato. Semmai l'immaginario che diventa gigantesco, quando la vita reale è molto povera di eventi e di interpretazioni. Lampedusa racconta il poco in cui si condensa il tutto. Una storia essenziale: una di quelle però che non nominano ciò che non può essere nominato ma che fanno immaginare altro. In tale altalena o fisarmonica di racconto scarno che suggerisce altro e di racconto che aspira a dire esplicitamente tutto si svolge la storia della narrativa del Novecento. La graduatoria popolare manda avanti Lampedusa, scrittore globale in piccolo spazio. Cominciamo dunque da Lampedusa. È provocazione democratica chiedergli quali rapporti avesse con il decennio in cui è nato come narratore? Lui non risponde a simili domande. Non è un figlio legittimo degli anni Cinquanta ma potrebbe esserne un figlio illegittimo e naturale: nel senso che si limita a ribaltare la loro cultura con la stessa perentorietà ideologica: cioè l’antimpegno, un realismo di segno contrario, pur sempre un romanzo politico, ancorché di versante opposto. Invece D'Arrigo ha chiaramente parentela, linguistica e ideologica, con un decennio che lo ha allenato a stare in tutti imodi dalla parte del popolo, del suo parlato. Per lui è stato naturale (o così pare essere la sua artificialissima miscela di parole) passare per via interna o sotterranea dai linguaggi del neorealismo a quelli del neoespressionismo o d’altro sperimentalismo, sempre tifosi di «umiltà» di cose e di parole. Lampedusa è arrivato dove voleva (qui vi aspettavo, e ora statemi a sentire, la vera storia ve la rac-

conterò io), D'Arrigo è sempre in viaggio: l'avventura del linguaggio che cerca un nuovo approdo, cioè del personaggio straviato che cerca il proprio destino. Il destino è invece noto a Lampedusa, narratore che sopra ci costruisce una tragedia. E lascia a D'Arrigo la commedia, teatro dove vanno in scena l’infimo, il trasgressivo, il riso, l’osceno e l’assurdo. Dopo la crisi mortale del neorealismo — come Pirandello e Svevo dopo il verismo — fa bene ricominciare dal basso: anzi sempre più in basso, nel delirio, nel materico che è premessa di un nuovo modo di vivere da eguali: maschi e femmine, etero e 266

omosessuali, fantasie erotiche di uomini che non hanno dimen-

ticato d'essere stati e d'essere animali, censure di accoppiamenti già «contro natura»: insomma tutta la controcultura che non sarebbe mai stata tanto trasgressiva come in questo romanzo darrighiano che sconfina senza fratture insanabili. Guarisce ogni male naturale in Horcynus Orca: inclusi il cannibalismo, l’incesto, la necrofilia e ogni forma d’amore e di fame. Uguaglianza come essere tutti capaci di tutto, dopo aver scrostato la patina di culture repressive. Niente di ciò che è umano, o meglio animale, è alieno dall’uomo di D'Arrigo. Che in termini culturali è pur così estraneo allo scandalo o alla provocazione con cui avrebbero urlato gli anni Sessanta. Il suo linguaggio assorbe lo scandalo come una spugna. Strizzatela, e verrete inondati da idee scandalose che ora sono normali. Questo narratore fa scandalo naturale con ciò che poi rientrerà nella cultura successiva. Savinio e Debenedetti avrebbero parlato di «forma dell’informe». Lo straripante informe che vorrebbe trasformarsi in informale ma cui D'Arrigo trova nuove, ancorché fluttuanti, forme. In Horcynus Orca c'è ogni malessere degli anni Sessanta ma c’è anche il rimedio. Sanato è lo scandalo della logica con un modo diverso di pensare. Lampedusa non si scandalizza di nulla, ma non affronta tutti gli scandali. Dove lui mette gli 0772ss1s, lì D'Arrigo indaga. Lampedusa andava a ritroso, D'Arrigo correva in avanti. Il primo retrocedeva verso gli anni Trenta, il secondo anticipava gli anni Sessanta. Questo affilava la penna per renderla adatta all’informale che è il caos da cui tutto ha inizio e che mai finisce; quello cercava il tutto tondo del ritratto ottocentesco. Lampedusa toglieva, come uno scultore, D'Arrigo aggiungeva un ennesimo dettaglio, come se al pittore servisse sempre un'ultima goccia, l’estrema pennellata. Lampedusa inseguiva l’ambiguità di un discorso in apparenza perspicuo, D'Arrigo si faceva in mille per esprimere le più minuscole sensazioni. Il primo metteva severamente a dieta la propria narrativa già «magra», il secondo «ingrassava» insaziabilmente ogni pagina, magari «ubriacandola». Perde la testa anche D'Arrigo seguendo le tracce che conducono avanti e indietro, sopra e sotto. Il monologo interiore è indietro, e così gli straniamenti della narrazione, nonché tutte le

deviazioni dalla norma e gli effetti shock con cui corteggiano 267

n

l’informe i neosperimentali degli anni Cinquanta e Sessanta. D'Arrigo desidera andare oltre: e soprattutto arrivare (l’esperimento soltanto dopo che è riuscito). La sua frase deve conciliare gli opposti: nominare e suggerire, il sovrannaturale che è naturale, il fantastico che è anche reale, lo scandalo che merita di

diventare buona norma di vivere. È un ritorno alla civiltà dopo tante selvagge rivolte ma si tratta di una nuova civiltà. Nello Stretto di Messina di cinquant’anni fa si respirava un’aria che sarebbe diventata il vento che tira oggi. Arrivano dunque a urto frontale le due correnti principali della narrativa del Novecento: quella che fa galleggiare l’essenziale, ciò che va diluito dalla ricezione di chi legge (per intenderci, una specie di effetto Tozzi, per non dire Kafka), e quella che — una parola tira l’altra, un livello ha sempre qualcosa sotto in cui continuare a indagare ansiosamente per scoprire l’origi-

ne del mistero — travolge in un pulviscolo di particolari che a loro volta sono anche essenze di un’ulteriore vertigine di incroci (un effetto Gadda, ma si potrebbe dire Proust). Lampedusa tace o in poche parole suggerisce senza mai avallare, D'Arrigo straparla per assillo incurabile. Entrambi si nascondono ma per riapparire come

personaggi

esemplari, miti che esimono

dall’obbligo di confessare una colpa individuale. Forse non desiderano scoprire l'arcano nella cui ricerca si affannano per tutta la vita. Entrambi raccontano come l’uomo finisce nell'Ottocento e nel Novecento ma ambedue dimostrano che c’è ancora qualcosa da dire prima di chiudere la tragedia (Lampedusa) o la commedia (D'Arrigo). Il primo si esprime con gli occhi: che sono più gorgonici (quelli che impietriscono) che non argolici (sono due, non cento: quanti potrebbero essere semmai quelli darrighiani); il secondo con la lingua, che si scatena per nominare l’innominato e l’innominabile. Non finirà mai la guerra tra il semplice e il molteplice, specialmente se il duello è fra uno scrittore attico e un alessandrino del valore di Lampedusa e di D'Arrigo: l’aristocratico e il plebeo, chi conserva e chi spreca, l’avaro e il prodigo. Prima di Lampedusa avevano risparmiato sulle parole con Tozzi, Bontempelli e Bilenchi, Vittorini e Calvino, D’Arzo e Fenoglio, Landolfi e Sciascia, Zavattini e Primo Levi. Prima di 268

D'Arrigo era stato oltremodo prodigo Gadda, nonché Svevo e Pirandello, Moravia e Palazzeschi, Testori e Pasolini, Ortese e

Morante. Più tardi Calvino si chiese: è più ricco di significati il tassello di legno o l'albero da cui è stato ricavato? D'Arrigo rispose: meglio l’intera foresta. Nella foresta si nasconde un uomo di cui va esaminata ogni molecola. Lampedusa racconta invece solo la sua storia e lì raccoglie tutto quello che vede il protagonista; D'Arrigo racconta cento storie ma esse non ba-

stano per essere certi che il lavoro è stato portato a termine. Intanto però si arriva in porto con ogni pagina. Lampedusa non s'era nemmeno mosso: lui canta da fermo. Se incanta, vuol dire

che avrà avuto le sue buone ragioni a non spiegarle. Lampedusa guarda dall’alto in basso le situazioni, D'Arrigo desiderava affondare dove esse sono nate e fanno ingorgo. Lampedusa raggruma, D'Arrigo diluisce la prosa: urge passare di là dalle colonne d’Ercole del pensiero che ora è il più astratto, dopo essere stato il più concreto. Il secondo è un ulisside, il primo ha già trovato: il sovrano non lascerebbe mai la sua isola. Lampedusa ha saggezza contadina; D'Arrigo ha la sapienza degli uomini di mare. La prosa del primo ha la solidità del terreno pietroso, quella del secondo si agita e respira come un’onda. In Lampedusa acceca la luce del sole, in D'Arrigo assordano le correnti più profonde. Il primo è un grande solista, il secondo è un’intera orchestra. Lampedusa contempla la morte; D'Arrigo la sfida in ogni pagina, o meglio in tutte le parole. Lampedusa resuscita quelle che gli servono, D'Arrigo le genera a getto continuo, come un lattonzolo destinato a diventare un gran pesce, un enorme e impensato concetto: l'immensa reductio ad unum per la quale si annega nel molteplice in attesa che un suo dettaglio guidi alla scoperta dell’arcano, l'origine della vita. Sulla quale si interroga il vecchio ittiologo, che, ossessionato dall’idea di trovare l’uovo dell’anguilla, si fa riempire la casa di ogni tipo di pesce minuscolo pescato. D'Arrigo, come il suo personaggio, cerca di capire il senso della vita dalla sua origine. Per lui il cerchio non si chiude mai, Lampedusa invece non lo apre nemmeno. Poulet, raccontando la storia della «metamorfosi del cerchio», potrebbe riscontrare che quello di D'Arrigo s’è sformato per introdurre la nuova vita. Il cerchio di Lampedusa è perfetto: geloso e inflessibile custode della ripetizione in cui dorme la storia. 269

Lampedusa ha la verità in testa, D'Arrigo ce l’ha sulla lingua. Il primo vincerà ogni volta che trionfa la ragione, il secondo ogni volta che si scatena il corpo. Lampedusa abbaglia con le idee, D'Arrigo ammalia con le percezioni più impalpabili. I/ Gattopardo è un romanzo che viene dopo le avanguardie storiche, tanto da averle rimosse, Horcynus Orca viene prima degli sperimentalismi del secondo dopoguerra e li ha già assimilati. Nel romanzo di D'Arrigo sono risolte questioni sulle quali gli anni Sessanta fanno le prime prove. Horcynus Orca non cessa mai di scoprire quello che l’autore ha dovuto nascondere. La critica che sa scandagliare tirerà su messaggi difficili da smorfiare. Lampedusa cerca l’arcano e indica pure dov'è; in Horcynus Orca è dappertutto. Non lo trova ma è sempre sulle sue tracce un discorso d’inestinguibile sete. Gli anni Cinquanta della narrativa italiana con quel che essi significano per connotati canonici (cioè neorealismo, priorità dei fatti, le parole al servizio delle cose, contadini e operai che

conoscono solo il proprio dialetto, il senso della storia, il prospettivismo politico della realtà, l’impegno sociale, l’arte al servizio del partito che farà la rivoluzione) Giuseppe Tomasi di Lampedusa li aveva sotto gli occhi ma pareva non vederli nemmeno. Per un narratore che considera trascurabile un periodo lungo quanto un secolo e che, per tenersi al largo dall’attualità

si fa «rappresentare» da un astronomo, sono poca cosa non solo gli anni Cinquanta del Novecento ma anche tutti gli altri decenni di ogni secolo della storia e della letteratura italiana. E tuttavia Lampedusa dovrebbe accendere ogni giorno un cero al santo protettore dell’ Attualità più passeggera. Una fortuita coincidenza storica, e fu luce per decenni sul Gattopardo. A guardarli dalle stelle gli 75777 contemporanei sono fuochi fatui con cui giocano i critici militanti o gli storici letterari di vista corta. Uno scrittore deve saper rispondere definitivamente delle verità o menzogne che ha messo per iscritto e diffuso per il mondo. E che Dio l’aiuti a trovare le parole giuste, le parole buone all’uso. Anche le parole cattive, aggiunge il diavolo che ispira ogni letteratura del male. Ecco: è proprio dentro tale letteratura che prospera pure I/ Gattopardo, romanzo che si posa spesso sul negativo col radicalismo di un metafisico che desideri fare il deserto di ogni positiva illusione. Il tic tac che scandi270

sce il tempo del romanzo ripete il ritornello della perenne condizione dell’uomo impegnato a capire e a cambiare: «sciocchezze e insieme il diniego delle sciocchezze». Forse è una «sciocchezza» anche l’idea fondamentale del Gaztopardo, ma non fu intelligente nemmeno il giudizio di chi ha negato ogni valore al romanzo di Lampedusa sulla base dell’opinione di un personaggio. Gli is7z7 sono «sciocchezze» con cui si possono dire parole che risultano intelligenti «in quel preciso momento». In verità I Gattopardo sembra un’opera intelligente anche in questo preciso momento, cioè trent'anni dopo la sua

pubblicazione. Potrebbe non essere più una sciocchezza dire che è un romanzo ricco di inesorabili verità-sciocchezze questo libro che, fuori da ogni polemica ideologica e politica, ora si legge «senza difese» anche da parte di chi allora temeva che fosse vera quella tesi centrale del Gaztopardo per la quale la Sicilia è irredimibile. Sicuramente la Sicilia è da allora socialmente progredita ma anche ora sembra davvero moralmente irredimibile. Non così è tutto il mondo, terra di sciacalli e di fere: quelle che, secondo Horcynus Orca, si son date appuntamento nello Stretto per l’attacco finale agli uomini che hanno usurpato il potere dei delfini, loro genitori e loro successori in circolarità infinita. Anche questa profezia è una «sciocchezza» ma dinanzi all'invasione del mondo d’oggi da parte di esseri feroci e bestiali la si può credere vera. D'Arrigo deve insinuare che molte cose, normalmente ritenute sciocche, sono invece sagge. Ciccina Circé non è Proserpina

e tuttavia ’Ndrja le rivolge fervide e schiette preghiere. Quando sono al buio, gli uomini sono capaci di nutrire fedi, magari sciocche, che però danno un senso luminoso al mondo. Il contenutismo dominante in quel finale di decennio neorealista avrebbe dovuto ammazzare I/ Gattopardo ma invece lo ha fatto nascere. Nascendo, il neonato strillò contro il progressismo e contro il neorealismo, e li mise a tacere. Strillarono al-

lora i progressisti del neorealismo, nonché quelli del neoespressionismo. Furono sciocchi? Certamente non perché credevano nel progresso; semmai perché lo cercavano indietro, in linguaggi che conservavano la realtà dalla cui sublimazione traeva vantaggio l’ideologia della rivoluzione che di fatto cambiava per lasciare le cose come stavano prima. L'ideologia come falsa coscienza. Serviva un’altra feconda «sciocchezza». Quella della 271

controcultura che avrebbe fatto la contestazione? La storia ora andava in tale direzione, verso un nuovo linguaggio. Bisognava cambiare coscienza, non idee come fa Lampedusa. Il mutamento doveva essere più radicale, cioè strutturale (parola magica degli anni Sessanta, per coincidenza paradossale di marxismo e strutturalismo). Il mutamento sia formalistico e persino barocco come quello di D'Arrigo, e si arriverà alla svolta dalla quale pare doveroso correre incontro a un futuro che ha rotto definitivamente col passato. Anche questa risulterà essere una sciocchezza ma è di quelle sciocchezze con cui l’uomo si concilia col presente al punto di credere a un avvenire nuovo. Tuttavia, non sono tutti sciocchi coloro i quali sostengono che sono cambiate molte cose concrete dopo il terroristico avvertimento di Lampedusa: cioè, non vi fidate di chi

parla di mutamento. Con le idee del principe di Salina le cose andrebbero anche peggio di così. Quelle idee hanno fatto bene solo a Lampedusa? Non tutti i lettori furono d’accordo. Qualcuno ha letto I/ Gattopardo come il simbolo dell’immobilismo, altri ci legge denuncia della mentalità dominante, in Sicilia e in Italia: dove cambierebbero le parole ma non le cose. Nella sostanza la struttura del mondo e della vita è sempre la stessa: anche quando al posto dei nobili vanno al potere i borghesi. Comunque, non cambia la vita, pensa il principe facendo metafisica: che naturalmente viene sempre abbracciata con entusiasmo da chi non ha interesse a cambiare. Si cambia solo in peggio: al cane succederà lo sciacallo. Progressismo, addio! Addio, rivoluzione proletaria ed egalitaria! Era una sciocchezza dirlo, ma Lampedusa lo disse in quel preciso momento in cui sembrava la verità. Eppoi era detta bene, con ogni regola d’arte. Naturalmente la vecchia e sempre vegeta arte del romanzo flaubertiano. Tra i due padri della narrativa moderna, tra Flaubert e Dostoevskij, Lampedusa ha infatti scelto il primo: non però l’ultimo Flaubert di Bouvard e Pécuchet, i due imbecilli che invano vogliono imparare tutto, bensì quello dei romanzi «conclusi», a tutto tondo. Era cambiato molto Flaubert dall Educazione sentimentale. D'altronde lo Sciocchezzaio l’ha scritto il narratore francese. Forse non avrebbe incluso la tesi che ora è un luogo comune. Nel Gattopardo finisce solo il mondo di Lampedusa. Anzi, per far capire meglio aggiunse al suo «animale» la coda, un ca272

pitolo con cui «prolunga» comechessia la vita alla figlia, il suo amore più gelosamente protetto. In realtà quello che stava dicendo fondamentalmente, con la sua struttura, il romanzo era che era finito un mondo. E stavolta l’Apocalisse riguardava insieme la nobiltà e il popolo. Si sarebbe presto capito che brutto animale è la borghesia, la classe più egoista e volgare. Un romanzo antiborghese dalla parte dell’aristocrazia, ma anche «i migliori» sono impagliati come cari cani morti. Forse D'Arrigo voleva dire che le fere sono le masse che hanno preso il potere nel mondo? E allora toccava entrare nella testa del nemico. Inizialmente Horcynus Orca si intitolava La testa del delfino. D'Arrigo non ha il ribrezzo che Flaubert e Lampedusa manifestano per i poveri. Gliel’avrebbe fatto vedere a tutti di che cos’erano capaci i non-abbienti. L’autore di Horcynus Orca nutriva un’ammirazione sconfinata per Tolstoj, i cui contadini sono molto più ricchi di sentimenti e di idee che non i nobili. Anche i suoi personaggi in loro umile discorso conoscono la vita molto meglio degli intellettuali che limitavano l’esistenza entro i recinti fissati da una politica candidamente e insieme loscamente ottimistica. D'Arrigo non si fa illusioni nemmeno sulle virtù palingenetiche del popolo. E tuttavia è in esso, nelle sue parole, che bisogna scavare: solo così si saprà cosa siamo e come siamo diventati. La «sapienza» di questi ignoranti che sono i suoi pescatori.

Cosa c’è nella testa di quel nobile essere che è l’uomo, tanto più se è umile? Ripartiamo dall’animale che è in noi. L'elegante delfino non può evitare di defecare e di scorreggiare e tuttavia è insuperabile per cervello fino e incline alla bella musica. Strano destino però quello di fere che muoiono di bulimia. Questo è il sintomo, l’interpretazione psicologica è del lettore. Si consiglia tuttavia il ricorso allo psicanalista, se non per i delfini, almeno per D'Arrigo. Alla fine dell’impegno sociale e politico dell’arte, molti comunque corsero a chiedere aiuto alla psicanalisi. Si cerchi insomma dentro la testa del delfino, dell’animale sollazzevo-

le e insaziabile che è l’uomo traumatizzato dal fallimento di un grande progetto. Sicuramente c’è stato un trauma. Il delfino ha stampato sul volto un sorriso ma non è felice la sua risata. D’Arrigo l’aveva letto in Hélderlin che il riso, se è ossessivo, è disperato. Il delfino come animale intelligente, quasi un intellettuale degli ultimi anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta. 273

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Allora, cioè nel 1956-57-58 parve a molti vero che si cambia per lasciare sostanzialmente le cose come stanno: in perfetta sintonia di storia e metafisica. E sembra la verità ogni volta che fallisce il dio della rivoluzione: sia la guida dei Mille nel secolo scorso, sia la guida dei milioni di uomini che in questo dopoguerra credettero nel progresso capace di rendere gli uomini uguali, liberi e persino fratelli. Chi invece pensò che fosse una menzogna se la prese a male e aggredì l’opera letteraria per attaccare i suoi contenuti politici. Cambiando linguaggio, si potrebbe capire che era stata una fortuna per tutti il fallimento del dio bolscevico: e che non fu un disastro, come allora e a lungo ci sembrò, la sconfitta del Fronte Popolare. Fu una sciocchezza non capire che era morto il comunismo di scuola sovietica, come d'altronde sosteneva una letteratura del dissenso che, essendo laica, non sacrifi-

cava nulla a quella religione. Non lo capirono subito i progressisti in quegli anni Sessanta che sarebbero stati il decennio del boom economico, della società del benessere, della controcultu-

ra e dello sperimentalismo più radicale. E le cose non sarebbero rimaste come erano prima; nemmeno per il popolo, nemmeno per il Sud. Ebbene, toccava scendere molto in basso, se si voleva risalire. Insomma si ricominciasse dall’acqua, quella del Mediterraneo, culla di civiltà che sono morte per resuscitare in altra forma, in diversa sostanza. Sciacalli e fere hanno il diritto di sfamarsi, e non c'è moralismo

che possa bloccarli perché azzannano chi gli sottrae la preda. D'Arrigo intuì che ormai era un corpo a corpo: l’unica proprietà dei poveri. Si sarebbe vista la furia degli elementi. Si cominciasse da ciò che è elementare. Lampedusa invece continuava a guardare da astronomo. Due visioni: una, ideologica e conservatrice (il principe); l’altra, corporale e plebea. D'Arrigo sa che l’elementare è anche plebeo. E laggiù egli cercherà le parole capaci di cambiare persino il corso delle stelle. Naturalmente ciò succede solo a chi ha visioni notturne, madri di incubi e di utopie. Secondo Lampedusa, non cambia nulla nella storia, tanto

meno con le rivoluzioni. In Sicilia poi non vengono bene nemmeno le rivoluzioni tecnologiche: fallisce pure nel romanzo chi rivoluziona l’agricoltura, un amico del principe di Salina. Che certamente è più reazionario di Lampedusa; ed è stata una sciocchezza identificarli. Se non una rivoluzione però, serve al274

meno una riforma del modo di leggere l’autore del Gaztopardo. Lampedusa non pensa tutto quello che fa dire ai suoi personaggi. Il romanzo dà voce a idee non condivise dall’autore. Forse era vero che la rivoluzione non sarebbe venuta dalla campagna, tanto meno da quella siciliana. Si fece l’errore di identificare la Sicilia con l’Italia e con l'Europa. Non si sbagliò invece a ritenere che Lampedusa non credesse nemmeno nella rivoluzione industriale. Tuttavia, era una sciocchezza pensare che le rivoluzioni non cambiano niente, se le parole hanno scosso le coscienze degli uomini. Alcune sono benfatte e fanno bene. Quella attuata dal linguaggio di D'Arrigo è una rivoluzione dopo la quale l’uomo ha percezioni, sensazioni e intuizioni che ne potenziano il rappor-

to col mondo. Lampedusa invece dà forza alle idee che allenano allo scetticismo. Aveva scelto l’ideologia che scoraggia, il linguaggio che rende felice chi ha interesse a non cambiare. D'Arrigo invece per vivere e sopravvivere alla sua epoca deve inventare un linguaggio che mai prima aveva frequentato il Mediterraneo. Lampedusa può accontentarsi d’essere flaubertiano, D'Arrigo deve cambiare il romanzo, se vuole cambiare il proprio destino. Lampedusa può essere un grande seguace, D'Arrigo preferisce non trovare nessuno sul proprio cammino.

Ai grandi narratori si fa obbligo di trovare l’«uovo» di un nuovo modo di raccontare. L’arcano di uno scrittore è anzitutto un linguaggio mai parlato e che non appena è detto produce l’effetto perentorio dell’uovo di Colombo, la nutriente semplicità di un nucleo. D'Arrigo ha davvero inventato il «nuovo romanzo» italiano. Il suo occhio è analitico e oggettivo, come dire?, fenomenologico e neopositivista, glaciale descrizione di livelli di realtà che non consentono sintesi, riassunto o fedeltà

ideologica. A qualcuno è sembrato che l'occhio di ’Ndrja fosse l'occhio di un morto. E allora si usi il linguaggio come resurrezione. Invece Lampedusa celebra l'agonia. ; Il ’56 è l’anno più fortunato di Tomasi di Lampedusa, che ci scrisse il suo unico romanzo. In quello stesso ’56 alla sinistra rivoluzionaria era quasi passata la fantasia di fare politica. Era presto per farsene una nuova al grido: «Morta una politica, se ne fa un’altra». Per Lampedusa la politica è una sola, e non ci sono due letterature. Contava solo quella che lui sapeva pensa275

re (la politica più moderata) o scrivere (la letteratura più canonica dell’Ottocento). In quell’anno si poteva scrivere di politica come sempre aveva sognato di fare uno che aveva assistito a tanti mutamenti effimeri e tuttavia tragici. Fu così felice di aver pensato la verità che si mise a buttar giù il suo unico romanzo. Forse l’unico testo che gli sia davvero venuto bene. Una coincidenza di progetto e destino. Ecco: I/ Gattopardo è per Lampedusa il libro del destino. L’aveva sempre pensato (che il mondo andasse avanti così, con meri cambiamenti di facciata) e ora poteva scrivere di getto, o quasi, una storia che raccontava la fine della storia. Anche questa è una sciocchezza,

ma Lampedusa la racconta in un modo per cui sembra verità incontrovertibile. Educato alla letteratura che avanza per epifanie, la befana gli aveva regalato un’occasione da non perdere per darsi ragione della scelta di guardare gli eventi storici da «astronomo». Un astrologo invece direbbe che Lampedusa ebbe le stelle dalla sua, mentre avvertiva l’impellente necessità di mettere sulla carta quanto aveva in testa. Lampedusa è scrittore che racconta una storia nuova per

confermare che si cambia linguaggio solo per lasciare la narrativa com'è nel suo modello trionfante. I/ Gattopardo non è un romanzo conservatore: è un grande romanzo reazionario. Si

cercava il realismo nei narratori di sinistra (il Pratolini di Mete/lo) e invece esso arrivò da destra. Paradosso provvisorio: il libro di Lampedusa vede una realtà negativa che oggi risulta, anche storicamente, più vera di quella descritta dai progressisti. E allora non è paradossale dire che è sempre progressista un qualsiasi fattore di dinamismo: tanto più se il panorama è immobile e il «rivoluzionario» si limita al lamento, come succede-

va in quel 1956. I/ Gattopardo arrivò come un cazzotto: alcuni caddero KO, altri si dettero una mossa. Un pugno salutare. Lampedusa si sedette e tornò con la mente a quegli anni Sessanta del secolo precedente. Se doveva muoversi sarebbe andato controcorrente: magari verso la narrativa che era la più avanzata cento anni prima. L’astronomo non fatica a credere nella ciclicità del movimento storico. Secondo Lampedusa, era tornato il momento per scrivere come ai tempi dell’«epica del Terzo Stato», cioè del romanzo realista dell'Ottocento. Ogni dieci anni d’altronde, dopo alcuni radicali esperimenti, si torna al ro-

manzo basato sulle regole narrative che confermano la validità 276

di raccontare i fatti come nel secolo scorso. Ma ovviamente la restaurazione sa che dopo due passi avanti farne uno indietro non significa replicare il passato. Il grande romanzo del Novecento è spesso «post-avanguardia» ovvero «tradizione del nuovo». I{ Gattopardo non pensa al nuovo e ancor meno all’avanguardia ma certamente ha fatto tesoro delle scoperte della narrativa moderna. E ora lo va spendendo come meglio non si potrebbe. Ha fatto «dimagrire» il «grasso» romanzo realista dell'Ottocento. Come dire che ci vuol poco per cambiare profondamente, se non il mondo, la sua visione. Smentendo la

sua tesi che si cambia solo per lasciare le cose come stanno, Lampedusa col suo stile ha aggiunto connotati nuovi all'uomo del Novecento. Insomma, una inconsapevole rivoluzione «dall'interno del sistema» letterario in cui si era formato. Lampedusa è più moderno delle sue idee.

Si era cominciato a dirlo nella letteratura: morto il neorealismo, quale letteratura dopo? Ci fu chi cercò un altro realismo, e ci fu chi cercò dalla parte dell’antirealismo, dello sperimentalismo o neoavanguardia. Lampedusa fece parte per se stesso e mandò a dire che è destinato alla sconfitta chi combatte armato di infantili velleità quale era l’impegno civile di una letteratura al servizio della politica. Che per giunta è sbagliata, velleitaria più che ambiziosa, e quasi ingenua: tanto più ora che la lotta politica diventa sempre più incivile. La prosa del Gattopardo non promette nulla di buono a chi pretende troppo dall’animale politico che è l’uomo. Lampedusa se ne infischia anche delle rivoluzioni letterarie. E tuttavia ricicla linguaggi maturati nelle avanguardie del secolo. Lampedusa è post-moderno da prima che nascesse la neoavanguardia. Il moderato non sempre riconosce i propri debiti verso gli estremisti che hanno sconfinato in territori destinati a essere alla portata di tutti. Con Lampedusa arriva a nobiltà sublime il linguaggio che fu «stile del ventre» (Max Jacob) nei decenni di mezzo del primo Novecento. La retroguardia di un esercito vittorioso ha consolidato le conquiste. Lampedusa sa fare raccolto abbondante spigolando nel terreno coltivato dagli altri. La sua cucina mescola anche ingredienti che erano stati incompatibili. Ogni sua pagina ha frequentato tutti i sapori. Intingoli da raffinato, non il cibo dei pescatori che si limita a far passare la fame. 200)

Il Gattopardo è diventato un classico ma, se fate l’analisi, troverete tracce incontrovertibili di modernismo: umorismo,

ambiguità, «fisiologia narrativa» (Pirandello) — narrazione scarna per interpretazioni «grasse» —, frase oggettiva per lettu-

re di parte ecc. E ora risulta che Lampedusa, oltre ad essere più realista di molti neorealisti, era più materialista dei marxisti che idealizzavano l’URSs. Lampedusa idealizza l'Inghilterra. Il figlio del principe di Salina forse non scappa a Londra? Qualche critico molto amico non lo esclude: era un progressista, se non proprio un laburista. Ovviamente si fa per dire: il Gattopardo è semmai un inguaribile nichilista, ed è irredimibile quanto la sua Sicilia. Lampedusa potrebbe difendersi come Gadda accusato d’essere barocco: conservatrice è la vita, anzi reazionaria. Su una visione di parte Lampedusa comunque

fondò un mito che torna ad essere vero ogni volta che la vita replica una sconfitta storica. Dio salvi I/ Gattopardo ma demolisca il gattopardismo: anche perché esso è malattia mortale per un romanzo nato per distruggere un’ideologia. Chi di ideologia ferisce di ideologia perisce? Andiamoci adagio. Si scrivono ottimi romanzi a partire da un’ideologia: purché naturalmente si perdano per strada i legami che strozzano un discorso cui serve andare altrove. Diverso sia l’arrivo. Lampedusa gira intorno al suo centro ideologico (non succederà mai nulla di nuovo che sia importante per la vita umana), bilanciando una possente spinta centrifuga con una tenace forza centripeta. Si spinge fino al confine, dove una frase ha significato doppio, come i due versanti di un territorio. Lampedusa conquista cedendo. Sconfina ma resta nei paraggi della frontiera. Un pendolare della narrativa e della scrittura. D'Arrigo è invece sempre sul punto di decentrarsi con digressioni che fatica a tener legate alla storia fondamentale. Horcynus Orca è già un romanzo senza padrone, come ameran-

no essere quelli che si scriveranno negli anni Sessanta. Nel Gaztopardo invece spadroneggia un narratore che ha maturato una tesi da dimostrare raccontando; nella narrativa di D'Arrigo si scatena un linguaggio che, non sapendo quale sarà l'approdo, accetta di farsi trascinare dove vuole il romanzo: persino di girare a vuoto, di rifare un tratto di strada, di deviare dal percorso sotto la spinta di venti irresistibili, di protrarre la sosta più a lungo del previsto, di darsi al puro piacere del racconto, di fer278

marsi ad ascoltare le sirene o altra musica marina. Lampedusa fa musica da camera, D'Arrigo fa risuonare l’universo mondo. ’Ndrja non arriverà nella sua Itaca un giorno prima che maturi il tempo assegnato dal destino. E il destino, cioè la realtà prepotente di quel preciso momento storico e psicologico, pretendeva che si facesse esperienza totale, a ogni livello, su ogni tema. Bisognava affrontarlo sul punto di confine dove si è attirati dall’opposto, eterna transizione delle culture che hanno perso la verità, nonché il criterio per scoprirla. Il mito di Ulisse è sempre di moda ma alla fine degli anni Cinquanta toccava pagare la pena per avere incendiato Troia. Era bruciato in Ungheria tutto il bottino della Rivoluzione d'Ottobre, della Rivoluzione proletaria, del Progresso inarrestabile verso l’Uguaglianza. Tutto era tornato minuscolo e da questo urgeva ripartire: il minuscolo, pulviscolare, atomico mondo della materia che è sempre uguale ma che diventa diverso appena gli si indirizza un sistema sofisticato di osservazione o una mente visionaria capace di penetrare dove nessun occhio, e nemmeno telescopio, arriverebbe.

Se Lampedusa è copernicano, D'Arrigo è un seguace di Einstein. D'Arrigo porta a compimento il compito che la modernità ha assegnato alla scienza dell’uomo: psicologia o antropologia che sia. Viene dopo Lampedusa e ci dà una visione più vicina alla verità sull'uomo d’oggi: da quasi cinquant’anni, da quando cioè Horcynus Orca fu iniziato. Il 56, l’anno della svolta, l’anno in cui bisognò guardare il mondo diversamente. La mente di D'Arrigo conosce la fissione dell’atomo. E tuttavia aspira a pacifica fusione. La sua energia negativa è trasformata in positiva, quella di Lampedusa sa che la bomba atomica è già esplosa. La sua Apocalisse è senza futuro, D'Arrigo invece sa che la fine del mondo è solo la fine del suo mondo. Non è questa la legge della relatività, ma egli è cosciente che l’uomo trova sempre il modo, il linguaggio, che farà da arca nel diluvio universale. E scriverà Cima delle nobildonne, lingua alta e sintassi solenne, l’epica della chirurgia che rigenera la fonte della vita. Nel 1957 Lampedusa finisce I/ Gattopardo e muore; Gadda pubblica «scodato» il Pasticciaccio e smette di scrivere; D'Arrigo scrive i primi capitoli di Horcynus Orca; Pasternak resuscita e trasmette al mondo il messaggio fallimentare con I/ dottor Zivago: il sole dell’avvenire non sta tramontando, non è mai 279

sorto all’Est. C'è più sole in Occidente. Comunque non il sole siciliano, sotto il quale non può succedere nulla di nuovo e nulla di buono. Brucia ogni speranza: non spunterà mai il nuovo giorno, se non si guarderà altrove ma soprattutto in altro modo. Lampedusa lo sapeva anche perché leggeva e rileggeva Edgar Allan Poe. Faremmo notte a confrontare due romanzi diversi e persino alternativi: I/ Gattopardo e Horcynus Orca. È quasi un gioco, ma non vi sarà detto chi sarà buttato giù dalla torre, quando si fosse costretti a scegliere solo uno dei due. Sono da tener in alto sulla torre sia Lampedusa che D'Arrigo. Eppoi non basta buttarli giù perché essi ci muoiano. Nella peggiore delle ipotesi restano vivi molti pezzi: ad esempio è grande narrativa la terza parte del Gattopardo. Non si contano invece le parti belle di Horcynus Orca. Il Gattopardo è indubbiamente scritto da un «maestro», uno cioè che può insegnare quello che ha appreso da altri e dalla propria vita. Horcynus Orca invece va ancora a scuola per imparare: formazione permanente, è un romanzo infantile. Anzi è precedente all’infanzia: in esso si ‘assiste continuamente al parto di qualcosa, di qualche visione colta nel momento in cui prende figura ed è ancora parzialmente di là, in una prenatalità che non cesserà mai d’essere rimpianta. Il romanzo di Lampedusa è intenzionalmente vecchio. Un saggio in là cogli anni racconta la sua storia dal punto di vista della morte. Quello di D'Arrigo racconta la vita di tutti dalla nascita alla morte. Dalla mente alla materia, alla ricerca dell’arcano

in cui è impresso il senso del vivere. Lentamente, come onda che lambisce la sabbia e la trascina con sé dove ogni cosa è solo mare, il mare che, secondo Savinio e Bachelard, è madre: unità di maschile e femminile, nonché di tutte le altre alternative.

Horcynus Orca contiene Il Gattopardo? Intanto sono due «animali» reciprocamente indigesti che peraltro in natura non si incontrano mai. Il secondo sta coi piedi per terra, ben visibile; il primo appare e scivola, più spesso sott'acqua e invisibile. Generosa è l’Orca, che regala cicinella ai pescatori affamati; avaro è il gattopardo, sempre aggressivo e famelico. I/ Gattopardo sottrae vita, Horcynus Orca la nutre. Dunque Giuseppe Tomasi di Lampedusa nacque nel 1896, tre anni dopo Gadda, e morì nel 1957 a dicembre, nello stesso 280

anno in cui trionfava il Pasticciaccio. Un anno dopo, nel 1958, uscì I/ Gattopardo, scritto quasi tutto nel 1956. Che è un anno fatale, non solo per gli ungheresi. Lampedusa veniva dal silenzio, o quasi, e non gli era dispiaciuto conviverci, o quasi. Leggeva in attesa che venisse il momento di scrivere il suo libro. La c'è la Storia, toscaneggerebbe Manzoni. In altri termini ci fu un dono della provvidenza. Fu consegnato dai carri armati sovietici a Budapest. La tragica coincidenza storica giovò assai al Gattopardo, che calò come un coperchio sulla mummia dello stalinismo. Il tremendo rumore tuttavia risuonò come un vade retro per ogni

«programma massimo», per ogni massimalismo, della sinistra. Il successo del Gattopardo fiorì sulle ceneri della politica rivoluzionaria nata dallo «spirito della Resistenza». Per un equivoco letterario Lampedusa fu respinto, per un equivoco politico fu esaltato. Citazione anacronistica ma attuale dal Gattopardo: «Erano quelli [...] gli anni durante i quali, attraverso i romanzi si andavano formando quei miti letterari che ancor oggi dominano le menti europee». I Gattopardo da allora domina le menti italiane. Il gattopardismo può essere una malattia mentale, e mortale. Il romanzo di Lampedusa è diventato proverbiale per una frase di Tancredi: «Perché tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi». Da allora I/ Gattopardo viene chiamato in causa ogni volta che mutamenti di facciata sono pensati per evitare cambiamenti di sostanza. La pensava così Lampedusa? Faceva pensare questo il suo romanzo: che è magistrale per come rende esplicite certe idee e insieme per come nasconde il proprio senso. Il narratore non risponde delle dichiarazioni rilasciate dai suoi personaggi e da lui «registrate». Ma come è faziosa la sua neutralità, serva di due padroni! «Riservo a me il diritto di mentire per omissione.» Con le omissioni Lampedusa ha detto anche le cose più vere, ossia le più pregnanti. : Il romanzo di Lampedusa non cambia perché la narrativa rimanga come è dall’Ottocento, secolo che ha fatto del romanzo il genere eterno del raccontare. Si illude chi vuole cambiare il romanzo realista dell'Ottocento. Non vinceranno i garibaldini nemmeno nella narrativa. Saranno azzoppati tutti gli sperimentalisti, tutti gli innovatori e ogni avanguardia. Pochi anni dopo sbarcarono a Palermo gli informali, i neosurrealisti, i neoespressionisti e i neoavanguardisti. Non passeranno, ha lasciato detto nel testamento Tomasi di Lampedusa. Per lui non conta281

vano i Mille e non sarebbero stati temibili nemmeno quelli del Gruppo 63. Gente che dà i numeri, avrebbe ironizzato il principe. Il verbo è sempre lo stesso: tutti quei nei non cambieranno il volto del mondo. Più che un passo avanti, meglio due passi indietro. E Ungaretti emise il verdetto: un brutto romanzo flaubertiano. Lampedusa invece era dell’idea che toccasse mettere tra parentesi i miti letterari del Novecento. Il Gattopardo ha creato un mito negativo (il gattopardismo) con una battuta perentoria e intimidatrice ma la narrativa di Lampedusa vive meglio per la sua doppiezza che non per la fedeltà alle idee del suo autore. Opera «a doppia faccia», I/ Gattopardo «schiaffeggia» su una di esse, dove provoca, ma sull’altra (dove attira differenti interpretazioni) ammicca a un diverso senso. L’ambiguità, virtù somma, spicca come cifra stilistica di un romanzo che attira l’attenzione dei lettori sui rilievi palesi della prosa per salvaguardare quelli latenti. Il più grande personaggio del romanzo potrebbe essere quella taciturna figlia del principe che non abusa nemmeno del linguaggio del corpo. Chi abusa del proprio sguardo è invece il protagonista, che non perde mai di vista quella figlia che lui ha destinato a se stesso. Si è rassegnato troppo presto al matrimo-

nio di Tancredi con Angelica. Concetta resta intatta per motivi che si direbbero misteriosi se la psicanalisi non avesse gettato un bel po’ di luce nell’interno dell’uomo. Gadda ci avrebbe scritto sopra cinquanta pagine, Lampedusa meno di cinquanta parole. Si potrebbero scrivere cinquanta pagine per interpretare questo

rapporto tra padre e figlia ma per Lampedusa non c’è nulla di più eloquente del cenno di Giove. Il principe aveva piegato la testa come dinanzi al fato. Obbediva ma in effetti solo a se stesso,

al proprio desiderio di non far toccare Concetta da Tancredi, il suo carissimo rivale in amore. Se si è ambigui, è perché ci sono due cose, non di rado contrarie fra loro, da suggerire. Il Gattopardo forse non era un romanzo ideologico come parve allora — conservazione contro progresso —, bensì un romanzo che dal modernismo novecentesco ha ereditato il dovere di non far obbedire le parole alle cose. La parola di Lampedusa obbedisce a più cose. La franchezza potrebbe essere un modo di dire una bugia. Lampedusa si tiene nei paraggi in modo da dare l’impressione che sia facile afferrarne il senso, ma in effetti alimenta la frustrazione dell’interprete che pensi di averlo acchiappato. Il 282

suo espressionismo è glaciale, non rovente come quello di Gadda o tempestoso come quello di D'Arrigo. Da aristocratico, Lampedusa non gesticola: anche perché sa che il corpo è un terribile delatore. Ed è invece molto nobile non svelare i propri segreti. Basta un cenno: una parola che sia perspicua e che insieme suggerisca altro. L'antica guerra fra realismo e simbolismo. Lampedusa è oltre questo, D'Arrigo al di là di quello. Il sole dell’avvenire? Tramontato. Secondo I/ dottor Zivago (1957) quel sole non era mai sorto nell’Oriente sovietico. In Sicilia, in Italia, trionfa invece soltanto il sole che fiacca, d’estate

e d'inverno, ogni volontà di lottare. Non sorgerà mai più un nuovo giorno. E non ci sarà mai una narrativa che non sia l’ottocentesca «epica del Terzo Stato». Finché sarà romanzo, la narrativa è figlia dell'Ottocento, il secolo del principe. Il giudizio lapidario di Ungaretti («un pessimo Flaubert») non è un buon giudizio. Lampedusa non è Flaubert ma è tutt’altro che un pessimo narratore. Alla luce del sole presente appare chiaro che non si tratta di un epigono del flaubertismo. Un ritorno all’ordine? La restaurazione come sguardo all'indietro e come bilancio del passato che conta. In certi periodi sembra più bella l’estetizzazione del sapere innovativo. Lampedusa però non si limita a mettere in bella la narrativa moderna. Semmai la sua è la brutta copia di quella stessa vita che molti moderni avevano visto bella. Il sole di Lampedusa è nero come nelle eclissi. Un romanzo mortuario, assai più di quanto lo sia Horcynus Orca, che parla quasi solo di morte. Dopo I/ Gattopardo non c’è più nulla, dopo il romanzo di D'Arrigo c'è un altro mondo: come l’attuale, terreno e infero. Entrambi i narratori siciliani tuttavia ignorano il paradiso. E ambedue raccontano il purgatorio: l’uno e l’altro hanno peccati di cui lavarsi. Hanno vissuto entrambi per la letteratura, per non morire. Degli esteti? Certamente non più di Flaubert, il narratore che viveva per combinare parole in modo che ne nascesse nuova vita: magari la vita del secolo successivo affollato da Bovary, Bouvard e Pécuchet. Angelica e Ciccina Circé sono magnifiche allegorie della vita e della morte. La prima agisce in astuto silenzio che sarà buona norma dell’amore borghese; la seconda straparla, sgravandosi di parole che l’hanno implenata. Lampedusa toglie di bocca le parole alle donne, o almeno glie283

ne fa usare non quante conoscono bensì quante servono alla loro sempre misteriosa causa; D'Arrigo trasforma la donna in un mondo inesauribile di parole: schiette, urlate, scatenate come possono essere quelle di persone lungamente costrette a tacere. Diceva Max Jacob: usate lo stile del ventre; qui è il sublime del nostro tempo. Ciccina Circé è un personaggio sublime nella sua immedicabile chiacchiera. Angelica si sublima invece nei comportamenti, nel saperci fare con la vita. Come Concetta fa col silenzio e con lo sguardo. Non saranno eloquenti ma mettono in moto l’accanito inseguimento degli interpreti costretti a fare chiacchiera sopra i pochissimi cenni. Il 1956 è un anno fatale anche per Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che in quell’anno scrisse velocemente I/ Gattopardo. Fatata fu anche la puntualità con cui arrivò all’appuntamento con la cronaca politica di quegli anni. Un colpo di fulmine che illumina un periodo della storia italiana e che ha acceso una polemica letteraria non ancora spenta. Fu anche un colpo di fortuna, ma questa notoriamente aiuta gli audaci. Lampedusa ebbe il coraggio di andare in direzione opposta a quella frequentata dai più e così ha costretto i progressisti a trovare le buone ragioni con cui risalire la corrente. I/ Gattopardo è una fontana che dà l’acqua a stille. I/ Gattopardo è costruito a regola d’arte come le inaffondabili barche di Horcyrus Orca. Giornate intere passate ad allenarsi sull’opera di maestri d’ascia. Lampedusa ha imparato a tagliare, a piallare e a curvare il legno. Filtrano pochi umori dalla fitta struttura del suo romanzo. Ora fila che è una bellezza; più del romanzo di D'Arrigo, che

non ha fretta. Lui sonda il fondo, più di Lampedusa. Di ciò di cui non si può parlare, si taccia: come ha fatto per decenni. Finché non si ruppe la scorza che reprimeva l'interno. Alcuni daranno la stura ai materiali inconsci: Lampedusa disse quello che non poteva non dire. E ci fu la rivelazione dello scrittore: la gigantesca epifania che è I/ Gattopardo. L’autore si presentò in splendida forma all’incontro fra lo smacco di una cultura politica che si impicciava di tutto e il trionfo di una letteratura che diceva di volersi fare solo i fatti suoi. Era da tanti anni che si preparava all'evento. Bentornato, romanzo fatto «come si deve», cioè secondo il modello del suo secolo, l’Ottocento! E addio al «dover essere» del romanzo va284

riamente impegnato nella politica o nell’avanguardia artistica! La bella letteratura? No, la letteratura che ha il dovere di essere

bella dopo essersi assicurata la possibilità di dire la verità. Che però non può essere svelata. Lampedusa parla chiaro a condizione che possa conservare il proprio segreto: difeso meglio dalla parola esplicita che non dal silenzio. Lo dice anche la Cabala, modello segreto della letteratura moderna. Questo aristocratico siciliano non sarebbe mai stato però così relativista da permettere ad altri di identificare il proprio punto di vista con la verità. Niente poliprospettivismo, taccia il romanzo polifonico. Se I/ Gattopardo affida eccezionalmente un capitolo a don Pirrone, è perché questi deve andare a riferire al popolo ciò che pensa il principe. L'eccezione confermi la regola: il popolo non è migliore della nobiltà. Né la sua lingua, il dialetto, aggiunge qualcosa all'italiano illustre, che magari si nutre di un po’ di quella. No al dialetto, no ai materiali preconsci, torni tutto al centro. Dove la testa del principe tiene ogni dettaglio sotto severo controllo. Un romanzo monolitico, sia pure con molte venature: sangue pietrificato. Sacrosanto l’uso di uno stile epigrafico, come di parola scalpellata. Un romanzo scritto sopra una tomba? Dunque, in quel ’56 si dette l’addio al neorealismo e al comunismo stalinista che in Italia aveva fatto Fronte Popolare nascondendosi dietro l’effigie di Garibaldi. All’eroe dei due mondi Tomasi di Lampedusa non ha mai perdonato l’impresa dei Mille. Azzoppato sull’ Aspromonte, il guerriero poteva essere sepolto. E il principe, sornione, canta a lui e ai suoi seguaci il de profundis. Addio dunque, garibaldini d’ogni secolo moderno! Ma muoia con loro pure il re dei Borboni, sovrano «dialettale», cioè volgare. E così addio anche ai dialetti e alla loro miscela con la lingua. Bentornato, italiano della migliore tradizione letteraria nazionale. E che a nessuno venisse più voglia di disseppellire l’ascia di guerra per far vincere linguaggi barbari. L’aristocratico invita in pratica: torniamo ai linguaggi alti, alla lingua nazionale. Invece altri narratori, i cosiddetti «neoespressionisti» della seconda metà degli anni Cinquanta, insistevano e rilanciavano: teniamoci in basso, sui linguaggi bassi, sui dialetti mescolati con l’italiano; sui poveri, romani, piemontesi, milanesi e siciliani; pescatori, contadini, borgatari, e su altra pe285

riferia sociale e linguistica. Come i neorealisti? No, piuttosto che sotto, nel profondo, terreno di caccia per psicanalisti. Lampedusa sa di averlo, ma non lo vuole mostrare. Dalla sua prosa esso si affaccia per segnale ambiguo, negli altri impazza sotto e sopra. Quelli scendono, lui domina la scena dall’alto. Anche la dominazione comunque ha moventi inconsci, come sa bene uno che frequenta, come Lampedusa, la psicanalisi, se non la psicanalista che ha sposato. Gli altri danno spago all’inconscio, Lampedusa lo tiene a bada, come fa col suo cane: non lo lascia abbaiare. Toccherà esse-

re infedeli al suo messaggio esplicito, se si vuole arrivare più vicino al non-detto: quello che trapela dalla fuga del figlio, colui che ha sempre taciuto, e dalla «prigione» mentale di Concetta, che è quasi muta. Il principe spia ossessivamente la figlia più cara e rimuove il figlio più amato. Vanno spiate le poche parole del padre. L’omissione è premessa di silenzio col quale si nascondono le turbe. Smorfiatelo. Il principe ama troppo la figlia e lo fa vedere con i tic, mania dello sguardo. Scrittori di strada, Gadda, Fenoglio, Testori, Pasolini e D°Arrigo, contro uno scrittore di palazzo, Lampedusa. Uno contro tutti, ma Lampedusa tenne testa: non con la teoria, che

non gli dà necessariamente torto, ma con la pratica, che dà ragione al Gattopardo: oltre che naturalmente al Pasticciaccio, al Partigiano Johnny e a Horcynus Orca. Si possono scrivere con-

temporaneamente testi tanto diversi? Tomasi di Lampedusa spera solo di aver fatto la sua differenza dentro la ripetizione del romanzo classico. Essere un narratore moderno? Non gl’importa esserlo ma ora, in età post-moderna, lo è quanto può esserlo oggi uno scrittore che miscela arguzie barocche del Seicento, ironia illuminista del Settecento, ambiguità simboli-

sta dell’Ottocento e urto linguistico del Novecento. Lampedusa mescola, combina e accorda linguaggi che già furono nemici. Lampedusa non teme di essere anacronistico. Chiuso nel suo augusto laboratorio mentale, impasta la sua prosa con gli ingredienti prodotti da altri narratori. A lui non interessa essere uno degli inventori cari a Pound. Nella cui tipologia l’autore del Gattopardo potrebbe rientrare come «diluitore». Purché si sappia che il suo inchiostro non è mai acqua.

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Andrebbe fatta un po’ di storia della lingua ma non c’è tempo né spazio. All’interno della guerra nazionale per il nuovo romanzo in Sicilia si rinnovò la lotta fra chi optava per il mistilinguismo, al seguito di Verga, e chi, episodicamente dialettale, scelse l’italiano, ad esempio Pirandello. Tomasi di Lampedusa imboccò la seconda via: quella su cui in concreto gli italiani seguirono più lui che non D'Arrigo. Non è ancora finito il duello cavalleresco fra lo straripante plurilinguismo di D'Arrigo e la corazzata lingua di Lampedusa. È meglio esprimersi coi linguaggi della periferia o con quelli del centro d’Italia? Lampedusa preferisce tradurre nel proprio italiano i suoi siciliani, il proprio siciliano; invece D'Arrigo è più fedele ai suoi personaggi, alla loro sintassi, al loro lessico. La sua traduzione non vuole diventare tradimento. Lui è un democratico: a ogni personaggio dà la sua parola. E Horcynus Orca è molto più parlato del Gattopardo. Le molteplici voci di Horcynus Orca contro la lingua essenziale del Gattopardo. È la guerra del secolo questa ingaggiata in Sicilia da Lampedusa e da D'Arrigo. La lingua e i dialetti, l'essenziale e il molteplice, la superficie e il profondo, la mente e il corpo. In quel 1956 che registra un’altra sconfitta di Garibaldi, come succede ai più sconvolgenti eventi storici, sono arrivati al pettine i nodi fondamentali del pensare, del narrare e dello scrivere. D'Arrigo sa che i suoi poveri pescatori comunicano, oltre che coi gesti, col suono delle parole. Anche se usano le parole come se fossero cose. I pescatori ignorano i significati di cui so-

no inconsciamente latori i vocaboli e la loro fonetica. D'Arrigo ha fatto sentire a tutti gli italiani di quale ricchezza intellettuale è capace la lingua popolare. Lampedusa potrebbe credere di padroneggiare meglio l’italiano. Lo ha solo asservito e, se non l’ha impoverito, ha fatto capire che bastava quello che c’era nel vocabolario. Aristocratica è la sintesi, democratica la minuziosa

analisi? Ovviamente servono entrambi quando servono: più tardi, per il secondo romanzo, D'Arrigo adotterà un italiano

meno analitico: suppergiù come Fenoglio, che dal plurilinguismo originario arriva alla lingua classica di Una questione privata. Per la storia della lingua italiana — o meglio, per chi credeva che l’italiano avesse storia, cioè sviluppo — allora serviva, anche

e forse di più, il plurilinguismo di D'Arrigo. In verità anche per la storia della narrativa: attraverso i dettagli arrivati sull’onda 287

dei dialetti siculi e calabresi Horcynus Orca approda a risultati molto originali, magari in forma di interrogativo e di congettura. È sempre in forma di sintesi il linguaggio analitico di D’Arrigo. Se Lampedusa pone mille quesiti con le sue ambiguità o omissioni, D'Arrigo ne pone una a ogni frase del suo immenso, chiacchierato romanzo. Lampedusa può fermarsi, D'Arrigo deve andare lontano e guadagnarsi nel mare della lingua e dei dialetti ogni goccia d’acqua, se vuole arrivare dove nessuno è mai approdato prima di lui. Lampedusa cerca conferme, D'Arrigo trova novità inaudite. Per esempio, la fera non mangia l’uomo perché è la sua remotissima progenitrice? L’uomo non mangia il delfino, ma, se è affamato, lo mangia, sia pure con il disgusto che debbono aver provato i naufraghi che mangiarono carne dei compagni morti. La insaporiscono con mille spezie le mogli dei pescatori, per soffocare un sapore intollerabile: come risulta essere la carne umana a chi è costretto per sopravvivere a diventare cannibale. Per morderla, tocca salarla con l’odio che si nutre per un nemico da uccidere. E allora mangiare è anche un po’ mangiarsi. E ammazzare è come scannarsi, se il pescatore riconosce gli occhi della figlia in quelli di una fera cui si deve dare il colpo di grazia. Mentre non si saprà mai quanta commedia ci sia in

quella tragedia cui il pescatore sta assistendo. La commedia è anche una tragedia, il neoclassicismo torna attuale, una parola semplice è anche un simbolo, la scrittura «grassa» è a sua volta «magra» rispetto a quanto resta arcano a chi frequenta il molteplice. E il dialetto è una lingua. In Horcynus Orca sopra un cacciatorpediniere due marinai già pescatori discutono di dialetto e lingua (se il delfino è nei fatti una fera, io lo chiamo fera) con un raffinato ufficiale vene-

ziano (come si può chiamare un animale sulla cui gentilezza fioriscono da secoli fantastici racconti?). Vince con la forza il nobile veneziano (ti ordino di usare, di sillabare, la parola delfino) ma il dubbio intanto si insinua nella testa del marinaio. Potrebbe essere giusto chiamare delfini le fere. Invece l’ufficiale non ammette il contrario: se una parola suona bene, la si usi: anche

se non dice la verità convalidata dall’esperienza diretta. L’ufficiale non è un fascista ma in difesa del delfino si comporta con 288

pari arroganza. Non sono fascisti quelli che parlano solo in italiano ma Lampedusa considera volgari quelli che si esprimono in dialetto. D'Arrigo invece è convinto che si possono dire verità sublimi con una miscela di lingua e dialetti. Le frasi di D'Arrigo non sono state dette così nella realtà dai siciliani, ma non appena le senti sei certo che è così che essi parlano: una lingua necessaria, non solo a loro. Seguite dunque la fera: vi guiderà verso significati che vanno oltre la vita e la morte. Ci sono momenti in cui all'uomo conviene mostrarsi ru-

de, schietto e aggressivo. Questi aggettivi designano il negativo ma stenta la lingua che si illude che per non essere morsi basti chiamare delfino la fera. Lampedusa chiamando sciacalli gli uomini che succederanno ai cani d’oggi di fatto chiede il permesso di sterminarli. D'Arrigo sa invece che sono solo un altro livello dell’esistenza umana. E allora si vada a vedere come si muovono, cosa fanno, quale linguaggio usano. Lampedusa sa che non succederà nulla di nuovo, D'Arrigo vuole sapere che mondo è questo mondo che si presenta così brutto. I suoi delfini amano proprio come gli uomini, e forse pensano con non minore intelligenza. Anzi sono gli uomini, come sono in natura. È qui bisogna cercare, ora che la storia ha fatto quanto poteva, cioè non molto. I/ Gattopardo è un romanzo «storico», Horcynus Orca è un romanzo «naturale». Quando fallisce la storia, tocca chiedere nuovamente notizie alla natura

umana: naturalmente con gli strumenti di indagine scientifica più avanzati e più sofisticati, e ovviamente con la più penetrante intelligenza. Che è pur sempre una dote naturale. Dunque, alla natura! alla natura! Comprese le arti magiche. Il realismo barocco di D'Arrigo deve integrare le magie con cui i siciliani oppressi socialmente si difendono psicologicamente da quelli cui basta la lampante e tangibile condizione economica superiore. E così diventano intellettualmente, culturalmente, antro-

pologicamente più ricchi quelli che ogni giorno faticano a mettere sotto i denti — cioè il pover’uomo del Novecento - un po’ di sapori e un po’ di saperi. Lampedusa ignora o rifiuta le virtù del mistilinguismo e del dialetto: stecca ad esempio con la traduzione forzata dell’esclamazione «focu d’infernu!» in «fuoco d’inferno!». Col plurilinguismo si va, col monolinguismo si sta. La lingua? Quella che ser289

ve a ognuno in quel preciso momento. Lampedusa e D'Arrigo la mettono al proprio servizio, si mettono al suo servizio. Servivano due cause diverse il vecchio scrittore e il nuovo, il narratore del

vecchio e il narratore del nuovo. A Lampedusa il monolinguismo serviva per raccontare bene le cose che conosceva; a D'Arrigo invece il plurilinguismo serviva a dire cose che ancora non sapeva nessuno. Il dialetto di Lampedusa è una «volgare» citazione; quello di D'Arrigo è un atto creativo. Con la sua miscela linguistica l’autore di Horcyrus Orca ha inventato una realtà che era di là da venire; l'italiano del Gattopardo conferma che si può suggerire qualcosa che non si può dire, se lo si sa combinare in modo originale. In D'Arrigo è nuova la parola mai pronunciata, in Lampedusa la composizione fatta di antiche parole usate. Questo mantiene la promessa che si è dato, quello ne fa una che prima era inimmaginabile. Il monolinguismo inchioda una verità per cantarla, il plurilinguismo insegue quella irriducibile, di cui si avverte la prepotente e oscura presenza. Lampedusa e D'Arrigo scrivono i loro romanzi nei medesimi anni dalla stessa riva dello Stretto ma lavorano linguisticamente sulle opposte rive: il secondo dalla parte dell’isola, il primo dalla parte del continente. La sintesi — come si è detto e come Lampedusa ha detto quando ha optato per la scrittura «magra» — è la qualità del primo, del secondo l’analisi, che perlustra le minuzie, anzi le disintegra. Lampedusa riassume e chiude un’epoca; D'Arrigo la apre: o meglio, dà la stura all’immensa massa di parole salate che formano il mare in cui negli anni Sessanta si va a fondo fino ad annegare. Il contrario di Lampedusa, che usa un filo d’acqua, e con esso si sazia. Sembra acqua pura ma non credeteci se qualcuno vi dice che è un narratore neoclassico uno che ha sentito «desiderio di bellezza presto fiaccato dalla pigrizia». Oppure quando scrive: «La luce dell’alba si insinuava dai giunti delle imposte, plebea». Era la stessa alba che quotidianamente illumina i primi minuti della giornata dei pescatori ma tanto di cappello a chi folgora con aggettivi che esprimono molto più che un’irritazione classista. Quell’attributo è più di una frase. Naturalmente non sarebbe mai venuto in mente a un plebeo, ma il protagonista di Lampedusa se ne infischia di chi lo accusasse d’essere un aristocratico. Il principe, che è ricco, è spilorcio con le parole; ’Ndrja, che è povero, è uno scialacquatore. Non è scrittore solo di parole 290

D'Arrigo, né è solo scrittore di cose Lampedusa. Questi va dalle cose alle parole, quello parte dalle parole per arrivare a cose ignote che desidera rendere tangibili. Lampedusa sa tutto e vuole ricavare emozioni dall’attrito di elementi incompatibili, D'Arrigo rimette in discussione il proprio sapere e insegue l'ignoto che dia sorprese. Il primo è insediato nel suo e nel nostro mondo già visto e pensato, il secondo cerca il fondo sotto metri d’acqua oscura, nonché sporca. Lampedusa è scrittore orizzontale (la sorpresa arriva dalla parola accanto), D'Arrigo è verticale (la novità emerge dai sotterranei della mente). L’autore del Gattopardo avanza per mosse fulminanti, quello di Horcynus Orca perfora con la pazienza del gutta cavat lapiderm. Mentre Lampedusa accelera il movimento del periodo per arrivare a un traguardo che ha sotto gli occhi, D'Arrigo si accanisce ossessivamente a sbriciolare la pagina per renderla fluida e adatta a filtrare verso un segreto difeso dalla roccia di un interdetto e di un sistema sclerotizzato e ideologizzato. Dal primo vengono splendide ratifiche della tradizione, dal secondo scandalose scoperte. In quanto alla musica Lampedusa orchestra da solo la sinfonia, D'Arrigo è polifonico. Nel Gattopardo si dice solo quello che pensa o ascolta l’autore, in Horcynus Orca ogni personaggio canta la romanza che gli piace.

La quantità non fa da sola la qualità di un testo, ma non si escluda dal calcolo che nel libro di D'Arrigo ci sono cinquanta piccoli romanzi destinati a diventarne uno. La mente di D’Arrigo si perde in digressioni con cui si ritrova non solo più in là ma molto oltre; Lampedusa è il padrone assoluto del suo romanzo, comprese le battute scappate dalla testa di un personaggio che in quell’occasione è assente. Uno è il romanzo di Lampedusa, e uno resta. Può anche bastare ma, mentre l’astro-

nomo di Lampedusa gira il telescopio solo sulla terra, l’osservatore marino che è D’Arrigo vede meglio l’universo, nonché l’oltretomba: ossessione e terrore perenne. Va detto comunque, a scanso di equivoci, che il microscopio di D'Arrigo cerca anch’esso le leggi dell’universo: quelle depositate e nascoste nell’uomo, nel suo DNA. Le scienze fisiche di Lampedusa contro le scienze umane di D'Arrigo. Ciccina Circé è l’amore ma è anche la morte. Una coppia che il principe frequenta quanto il pescatore. Si muore in cinquanta modi in Horcynus Orca: tanti quanti sono i modi di 291

amare in un romanzo in cui si ama diversamente ma con uguale

intensità: uomo-donna; donna-macchina (il ferry-boat delle femminote); uomo-uomo; madre-figlio; fera-delfino; uomo-fera; fera-Orca, insomma si accoppiano tutti gli animali di ogni specie. Muore un delfino facendo l’amore, muore una delfinotta per un ragazzino, se ne muore la mente di Cata strappata violentemente all'amore. Lampedusa invece conosce un solo amore: quello fra l’uomo e la donna, sia essa moglie, prostituta o figlia. Vorrebbe per moglie la figlia il principe di Salina? Non lo confesserebbe mai, ma nel suo comportamento c’è sicuramente una censura, una rimozione psicologica. D'Arrigo non ha reticenze del genere: tranne quella di Sasà Liconti che consuma con gli occhi la fotografia della persona amata: un uomo o una donna? Anche D'Arrigo conosce l’arte di non dire. E tuttavia si scatena nella ricerca della parola che fra mille può condurlo alla meta, cioè all'origine di ogni cosa o sentimento o gesto. A cominciare naturalmente dalle parole che possono realisticamente usare i suoi pescatori dello Stretto, quegli stessi che frequentano mentalmente il surreale. Per loro l’Orca è un’orca ma è pure il simbolo della morte: che qui dà la vita quando porta in superficie quintali di cicinella, lattonzolo con cui sfamare muccuselli, madri e vecchi, nonché tutti gli altri.

«Andavano a dialetto» dunque in quegli stessi anni Gadda, Fenoglio, Pasolini, Mastronardi, Testori e D'Arrigo, nonché il

Moravia dei Racconti romani o lo Scotellaro dell Uva puttanella. Lampedusa invece «andava a lingua», un italiano nobile che guarda dall’alto in basso il dialetto, anche se parlato da un re,

sia pure un volgare Borbone. Il principe però non usa mai una lingua preziosa. E minestra d’ogni giorno: sia pure il giorno di un aristocratico che conosce bene e sceglie con gusto le pietanze del mondo. L'italiano che si conviene a un narratore che vuole dire pane al pane e vino al vino. Meglio si direbbe tuttavia che il pane e il vino sono masticati insieme. Mai nulla di ubriacante, ma sbaglierebbe chi pensasse che il suo italiano, il suo pane, sia toscano nel senso che è sciapo. Nella lingua del romanzo c’è non solo sale ma anche pepe: un pizzico, una punta che non incide ma stuzzica a cercare un sapore, un senso, celato. Al palato non si sente quasi niente di aspro o irritante: non lo permetterebbe il gusto di Tomasi di 292

Lampedusa, scrittore per il quale non va mai servita al lettore la lingua inacidita dei neorealisti. Lampedusa non digerisce bene la vita e la lingua non è rosea. Una lingua biforcuta ne dice di cotte e di crude contro tutto e tutti. La lingua di Lampedusa frequenta però più il negativo dei metafisici che non quello satirico dei realisti, i quali hanno a portata di lingua e di mente il positivo promesso dall’avvenire. Nel monologo che è I/ Gattopardo il protagonista nasconde pure a se stesso la verità. «Concetta aveva le spalle voltate; ricamava al tombolo e, poiché non udì passare il padre, non si volse neppure.» Il principe ha una coazione a guardare la figlia amata. Quando adocchia il comportamento e il silenzio della figlia che più gli rassomiglia, la sintassi è imperturbabile ma l’occhio vede solo ciò che interessa al cuore e alla mente del principe. L'elegante impassibilità del principe surroga l’urlo con cui i personaggi di altri narratori esprimono una condizione intollerabile. In Lampedusa l’espressività è non di rado repressa. In D'Arrigo dilaga, in Lampedusa è una goccia: umore che è conduttore di elettricità: almeno quel tanto che basta ad accendere una spia. Ne ha sparse tante il narratore che finge di usare materiali inerti. Tocca ripassare più volte sullo stesso punto prima che appaia il senso vero. Gli espressionisti gridano una cosa al servizio di un’altra che non confessano. La lingua del Gattopardo si mostra compassata, distaccata, quasi neutra, ma, se incontrate un termine oggettivo, diffidate dell’apparente impersonalità. Giuseppe Tomasi di Lampedusa si limita a registrare una parola ma le parole e le cose per questo romanziere sono sempre fatti personali. Dove

vi pare di vedere una parola piatta, lì c'è spesso un rilievo. Uno scrittore che si annoda per meglio liberare intreccio di immagini («Vi era copia di esaltata sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta», «Il desiderio diventava tormento, i freni a loro volta, delizia»). E la constatazione è un punto di vista («La sua gioia era così intensa da farle salire le lagrime agli occhi»), la battuta di uno o una che non capisce quanto succede veramente a Concetta. Attenti però ai colpi di coda: quelle chiuse fulminee che capovolgono il senso della frase che sinora è filata liscia, e magari pure insipida. Gli ossimori sono sempre espressionisti? Lampedusa suggerisce un ossimoro anche tra la mente del narratore e quella del protagonista. 293

La sua prosa non disseta, semmai lascia l’amaro in bocca, anzi nel cervello. Lampedusa ci mette il sale non solo per insaporire ma soprattutto per provocare la sete. L’ambiguità, che qui è strategia di chi ha rinunciato alle verità troppo semplici, dice due cose «salate» che alternano significati estremi. L’aggettivo non si fa metter sotto dal sostantivo ma si confronta alla pari («giocondità disillusa»). Un pensiero dall’avvio tranquillo si avvita per portare la guerra nella mente e vincere un concetto troppo utile per essere romantico come crede il personaggio («Ed egli si rallegrò della decisione di Tancredi che veniva ad assicurare la sua soddisfazione carnale, effimera, e la sua tran-

quillità economica, perenne»). L'amore va, l'interesse sta. Lampedusa non ignora né nasconde i vizi del suo protagonista. Sull’amore Lampedusa la pensa come il Verga di Dal tuo al mio e come il Brecht di sempre. È già un bel po’ «sciacallo» il principe di Salina? Gli sciacalli non li ha creati la storia ma questa riabilita di volta in volta l’animale capace di riassumere il comportamento sociale di un’epoca. Il figlio più «caro e scontroso», che è scappato in Inghilterra, non è stato dimenticato. È fuoco sotto la cenere, pensiero ri-

mosso che torna a galla nella testa del padre morente. Un rapido accenno folgora significati sepolti cui fa bene mantenere il segreto. Una parola fredda che venga sfregata nel verso giusto sprigiona calore. Di quello di cui non si può parlare, bisogna tacere? Lampedusa contravviene al consiglio con una deviazione piccola ma non insignificante: una sola parola o segmento di frase, il tempo di aprire bocca può lasciare il segno, nonché la curiosità di saperne di più. Qualche parola è «assoluta», finché non si capisce da dove è arrivata lì e chi l’ha pronunciata. La parola di Lampedusa non è la stessa di prima quando torna nel vocabolario. Gli inglesi hanno tra gli altri un eccellente modello letterario: sono di poche parole — gli scrittori «magri» di Stevenson — e con esse dicono quasi tutto, o lo suggeriscono. La vera rivoluzione è quella del linguaggio: una scarna e inflessibile trama di

fatti (tu non avrai altra struttura che questa) e massima flessibilità delle interpretazioni. Proprio come un mito: racconto essenziale del sempre identico che diventa diverso in ogni epoca o testa. Nella narrazione tutto si stringe per entrare nel minore 294

spazio: associazioni, condensazioni, intrecci, accostamenti,

contiguità, specularità, coniugazioni. Matrimoni fecondi: nascono tante belle pagine da questi accoppiamenti. Non morganatici: si sposano tra di loro solo concetti di buona famiglia («Aveva sperimentato la collera rumorosa ma anche l’indifferente bontà»). Le parole stando così vicino si riscaldano e si danno piacere, e lo danno anche al lettore («Sensualità risvegliata ma non più diretta verso chi l’aveva ridestata»; «gli occhi verdi erano ansiosi e smarriti; parlavano di voluttà»; «vi era co-

pia di esaltata sensualità tanto più acre quanto maggiormente rattenuta»; «il primo — don Fabrizio — anzi aveva provato, in aggiunta al piacere di uccidere, anche quello rassicurante di compatire»; «desiderava uccidere quanto desiderava morire»). Sanno amare e morire così i narratori inglesi? Che sia la Spagna barocca il paese natale di Lampedusa? Forse il barocco di Shakespeare. Sapeva usare le parole come uno scalpellino Lampedusa, narratore di terra, anzi di montagna. Invece D'Arrigo, scrittore di mare, trasforma in liquido le parole che perdono senso quando si fermano alla concretezza realistica. A qualcuno Horcynus Orca ha fatto venire in mente Finnegan’s Wake, testo joyciano scritto sull’acqua di un fiume. Lampedusa, forse perché è sull’ultima spiaggia, non appoggerebbe mai il discorso se non su argomenti e lessico rocciosi. D'Arrigo pesca al largo, fa procedere il discorso goccia dopo goccia, è sempre salatissimo, assottiglia la frase per passare attraverso ogni fessura del mondo tangibile. Lampedusa non ci prova nemmeno a oltrepassare lo stretto: a lui non serve la trasgressione, lui non crede alla rivoluzione, a lui basta girare nel cerchio che assicura eterni ritorni. Non c’è nulla di peggio della malinconia nel Gattopardo, romanzo che non frequenta la tragedia o che la nasconde accuratamente. Il Gattopardo è centripeto, anzi trasmette da un centro irradiante; Horcynus Orca è un romanzo decentrato, anzi centrifugo, che scappa da tutte le parti, sia pure per arrivare a un punto originario: una smisurata reductio ad unum. D'Arrigo è un ulisside, Lampedusa è uno che si fa portare in casa la vita. Altissimo il tasso concettuale del Gattopardo, è una festa dei sensi Horcynus Orca: odori, sapori, visioni, percezioni prima inafferrabili. Nessuno ha fatto concorrenza alla vita come D'Arrigo, 295

narratore che si liquefa per condensare poi idee impensate. Lampedusa s'è fatto delle idee e le applica al mondo. Al quale è più esatto dire che applica gli elettrodi. Dà spesso la scossa questo scrittore che unisce i poli: «Il proprio riso represso gli addolcì la bocca, fino alla nausea».

Una sensazione funziona meglio se è veloce: un attimo in più e arriva quella opposta. Il riso represso è subito dolce ma presto diventa nauseabondo. Lampedusa non ride mai. Sotto c'è sempre una tragedia ma non è da uomini, da nobiluomini, la-

mentarsene. Piuttosto si taccia. Non potendolo fare, omette: pratica cioè il taglio che nasconde un segreto innominabile. Gli ossimori logici sono un bagliore che può guidare ad esso, ma sono gli orzissis il luogo arcano di Lampedusa. Intanto sono la cifra linguistica di uno scrittore consapevole che il segreto non va rivelato. «U jornu è masculu e fa i fatti, ’a notti è fimmina e fa i chiacchiri» (D'Arrigo). In questo senso I/ Gattopardo è un romanzo maschile, Horcynus Orca è un romanzo femminile. Se lo scodamento dell’Orca segnala complesso di castrazione, si intuisce l’altissimo tasso figurale, la smisurata abbondanza di metafore. Il chiacchiericcio delle metafore guida verso significati cui si arriva per audaci e minuziose connessioni. Il maschile Lampedusa invece trasmette significati della cui verità si è garantito in tutta una vita. Lui sottolinea, illustra o condensa concetti, an-

corché ambivalenti, D'Arrigo si fa travolgere dalle avventure delle parole. Lampedusa dà una forma intensa a ciò che sa, D'Arrigo trova o inventa, all'infinito. Lampedusa è figurativo, in D'Arrigo la figuratività è insidiata dall’invasione del materico. Questo è gonfio al punto che sembra esplodere, quello butta acqua sul fuoco. Ma con Lampedusa si potrebbe annegare in un suo bicchiere d’acqua. Che è pur sempre una metafora per dire che si può consumare una grande tragedia in pochissimo spazio.

D'Arrigo, fermandosi sulla pagina, inonda il territorio e fa vortice: finché non scopre la fessura da cui penetrare dove nessuno era andato prima. Lampedusa racconta per rendere intensa una storia che avrà molte ripetizioni e poche differenze; D'Arrigo «sta» con lo scopo di rivelare il punto di fuga da significati che paralizzano. Ruotando su se stesso e trapanando la 296

superficie dei luoghi comuni, rivela che si può convivere, oltre che coi delfini o fere, coi femminomo, con le femminote, e con

tutte le persone verso le quali c’è l’interdetto della comunità dei pescatori e di ogni cultura sicura dei propri valori. Il linguaggio di D'Arrigo allena al diverso e all’opposto, il linguaggio di Lampedusa non si piega mai verso il basso se non per accarezzare il cane o magari per fare elemosina, e, se non può farne a meno, accetta l'integrazione di coloro che si ribellano per entrare nel sistema culturale e sociale egemone (di cui convalidano il potere dei pochi, sia pure in numero superiore, di borghesi, a quello della nobiltà). Il principe dà il visto d’ingresso al nemico con cui fa il compromesso; ’Ndrja prima subisce, poi fa sue le idee del nemico che l’abbia convinto delle proprie ragioni. D'Arrigo è un egalitario, Lampedusa è un inguaribile aristocratico. Questo è sempre di qua, dove si governa la società, quello è sempre di là, dove si sta sottoposti o ai margini. Ma da qui insidia sempre il centro, anzi trasforma la periferia in punto focale. Parlano i personaggi più taciturni del Gattopardo quando non li blocca o intimidisce il principe. Parla don Pirrone, ma la difesa dell’aristocrazia sembra fatta alla presenza del padrone. Non potendo parlare, parte il figlio più caro, il ribelle. Perde la pazienza il fedele Tumeo e gliene dice quattro al principe, che prende cappello. Parla quasi soltanto il principe, che molte ne pensa prima di dirne una. Ma non dica che il cambiamento sociale lo lascia come prima. Non è solo la vecchiaia a indebolirlo. Di Lampedusa si dica che non gli mancano né l’intelligenza né la cultura. E aggiungete l’ironia, all’opera molto spesso. Un voltairiano «di destra»? Nella voce gli è rimasto l’accento francese. Parla tre lingue, e almeno tre culture, il principe: Inghilterra, Francia e Spagna. Le miscela efficacemente, magari arricchendole di sapori venuti di Germania. Naturalmente l’ingrediente base è l'italiano, o meglio la sua traduzione italiana dal siciliano. Le sottigliezze del pensiero sono un prodotto genuino e inconfondibile dell’isola. Lampedusa traduce in italiano le altre lingue, D'Arrigo annega nel siciliano per trasformarlo in una lingua nazionale. Lampedusa preferisce al parlato il silenzio: quello del figlio lontano, che tace per sempre, e quello di Concetta, che il padre non perde mai di vista: piange, non si volta al suo passaggio, 297

finge di non accorgersi che Tancredi offeso se n’era andato lontano dal convento preclusogli. Il principe ritiene orgogliosamente di capire quelli che non parlano ma le vicende successive lo smentiscono. Serviva al romanzo dare nel capitolo finale la parola a Concetta, che sinora era stata molto più eloquente coi gesti? Non appena parla o pensa apertamente, Concetta è

perduta. Il padre la punisce rivelando la propria mediocrità intellettuale più che il rimbambimento senile. Un colpo di coda, serpentino. Degno di uno di quegli sciacalli di cui ha profetizzato l'avvento. L’uomo è uno strano animale: può parlare molto per nascondersi, e rivelarsi con semplici gesti. Ne suggeriscono di cose i gesti dei personaggi del Gattopardo. Non smettono di parlare invece i personaggi di Horcynus Orca. Ci sono tuttavia casi in cui è più eloquente la mano che non la lingua. Lampedusa se la morde per non dire alcune cose che lo assillano. D'Arrigo potrebbe scrivere romanzi di cui siano protagoniste le mani. Dalla mano che uccide a quella che scrive. La scrittura uccide o dà vita? D'Arrigo per arrivare dalla periferia al centro si dà una strategia che pare decisamente antieconomica. Sembra spreco e invece è risparmio. Lo si osservi al lavoro sulla struttura, che D’Arrigo deve far coincidere con quello condotto sulla scrittura. Anzitutto, collocatosi in una figura globale, non procede diritto dal cerchio al nucleo. Si mette invece a vorticare in cerchi sempre più piccoli. Così cambia tutti i versanti, così collega tutte le esperienze, così avvicina gli opposti: fino a identificarli. Prende un gesto, il più elementare, quello di una mano — potrebbe essere il centro dell’universo —, e comincia a sciogliere il gomitolo che prima ha arrotondato e ingrassato. Il filo si annoda costringendo a una pausa, a un racconto e a uno scioglimento. Cinquantasei tappe in movimento circolare. Si diceva della mano. Che una volta viene offerta in segno di amicizia ma sembra una . pistola puntata (un carrista tedesco spera così di aver salva la vita dagli scugnizzi napoletani che prima ha bombardato); un’altra volta serve a congratularsi per un’impresa eccezionale (Caitanello è offeso perché nessuno gli corre incontro per dirgli bravo dopo che ha affrontato in mare un gigantesco delfino); un’altra, per stabilire la comunicazione fisica interrotta da un incidente di guerra (suppura in continuazione la ferita di un amico 298

di Ndrja in metastasi di tessuti umani irrefrenabile); un’altra ancora, spara proiettili su un delfino (il gerarca fascista che lo «inchioda» con sei colpi nello stesso punto del cervello); o quella volta in cui lo scatto della fotografia immobilizza e simbolicamente ammazza un delfino (Monanin fotografa delfini al seguito di una nave da guerra). E così il gentile ufficiale aristocratico in modi ed eloquio si identifica col fascista. Anche perché entrambi impongono ai due ex pescatori siciliani di dire delfino, anzi di sillabarlo del-fi-no, invece che fera. E tornano selvaggi aristocratici e fascisti, non meno dei rigattieri che affamano i pescatori dello Stretto in lotta quotidiana con le fere, che poi sono la stessa cosa dei delfini. I quali in fondo sono identici agli uomini, nel bene e nel male. Porta bene e porta male lo scrittore, colui che usa la mano per esprimere amore, odio, disprezzo, stima, terrore

e ogni altro sentimento. In quel gesto si racchiude tutto il senso della vita di un uomo che deve scialacquare tutto se vuole risparmiare e arrivare all’arcano, cioè al suo «uovo di anguilla», insomma al principio immobile dell’esistenza umana.

La bestia che il principe di Salina frequenta di più è un cane, animale fedele al padrone. Don Fabrizio deve essere il padrone di tutto e di tutti. Concetta è fedele al padre come un cane. Per essere fedele al padre, però, non diventerà mai sciacallo, come

il principe profetizzava per il futuro prossimo. Con Concetta il Gattopardo ha sbagliato il futuro e il presente. E così soffrirà anche dopo la morte, nel capitolo in cui, assente lui, tenta di fare il Gattopardo Concetta. La figlia però non ha denti né unghie. Nobile e superbo il capo ma la sua vita è impagliata come la mummia del cane paterno. D'Arrigo frequenta il delfino, animale intelligente quanto

l’uomo e insofferente di ogni laccio. È un antagonista, l’uomo si sta contendendo il mondo coi delfini: fu loro il mondo quando il mare copriva la terra: che tornerà a loro quando sarà di nuovo coperta dalle acque. Gli manca solo la parola per essere uguali agli uomini, ma sono crudeli, scavezzacollo, turtpi, persecutori,

spregiudicati, intesi a soddisfare fame e brame, quanto lo sono gli uomini. Amano, defecano, giocano, come gli uomini. Sono

capaci di gratuiti delitti come di inattese generosità. Rappresentano un altro livello di civiltà, anzi di umanità. D'Arrigo s'è fatto delfino per sentire come si ama in natura, e come in natura si 299

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mangia, magari per bulimia, malattia della psiche, per cui ci si ingozza fino a morire di rutto bloccato. Ha la più vorace e insaziabile bulimia anche il linguaggio di D'Arrigo. D'Arrigo non può non tentare di attraversare lo strettissimo canale che conduce di là, dove si muove qualcosa che ancora si ignora cosa sia. Tocca essere liquidi, accettare il delirio, coltivare la follia, perdere la testa. Il discorso sottile e impalpabile pretende un calibro piccolissimo attraverso cui passare di là dalla ragione e dal buon senso. C'è della logica nella necessità che D'Arrigo ha di essere scrittore «grasso»: almeno quanto ne ha Lampedusa di essere scrittore «magro». Rispetto a Lampedusa — la cui mente ha un calibro dal quale passano pensieri di maggiori dimensioni —, D'Arrigo si è dato l’obbligo di raggiungere zone che prima erano intatte dai linguaggi letterari ereditati dalla tradizione. Lampedusa ha chiuso con la ricerca: ora gli tocca mettere in bella, ricondurre a bellezza d’arte, quanto

di essenziale ha appreso per esperienza di vita e di cultura. Lui desidera l'essenziale che tutto contiene, D'Arrigo il molteplice che guida verso una nuova essenzialità di principi. Lampedusa va indietro di un secolo, D'Arrigo di molte migliaia d’anni. Lampedusa rivolta il discorso nella propria testa: saltando da una tesi a quella opposta; non usa il pendolo per ipnotizzare bensì per svegliare. Una constatazione, riflessione o giudizio ondula fra i poli opposti: un dato negativo si ribalta in positivo, ma presto torna sul negativo. Così incide nella carne o nel cervello, e la ferita resta a lungo aperta. Allora lo scrittore interviene con la sutura, cicatrizza con una bruciante miscela. E Lampedusa scrive l’ossimoro principesco: quando il suo protagonista avverte

«una sorta di disperata euforia». Scrittore di terra, Lampedusa è scrittore scabroso: nel senso che non ti addormenti per gli irti rilievi di ossimori che pungono o soltanto svettano. Questa prosa montagnosa si avvalla per meglio evidenziare i picchi mentali. Né ci si può sdraiare sulla pianura delle descrizioni. Scotta anche la frase di raccordo. Fa acuti il recitativo, ha i nervi il tessuto connettivo, può essere

flessibile l’ossatura, se il lettore sa fare l’ecografia dei tessuti del romanzo. Ora lo si sente pure a orecchio che ogni parola di Lampedusa è suscettibile di un significato imprevisto, che arri300

va dove la mente inciampa in un concetto come il piede in un ciottolo nascosto. E tuttavia meglio la strategia del linguaggio di Lampedusa che ricorda i movimenti di un pendolo (se non l’oscillazione di un’altalena mossa da spinta sempre diversa). Dunque, un movimento ondulatorio la cui curva si solleva fino ai due poli. Importante è il moto ma decisivo è il punto dove si blocca: una pratica del male, ovvero del reale, della vita reale che, dopo

aver tentennato verso il bene, si toglie la maschera. L’orologio di Lampedusa è caricato a negativo: magari il negativo di ciò che a volo uno giudica positivo. Quando si tocca terra, l’impatto è sempre doloroso. Solo la fantasia può far credere nel sublime, o il sogno o magari un amore che ti illude. Non appena ti fermi, comunque, detto in sintesi, non si salva niente e nessuno

nel tempo del principe. Il titolo di «principe» viene usato da Angelica per indicare il «capitanuccio garibaldino» che era Tancredi, ma ciò «provocava in Salina un sentimento buffo tessuto nel cotone dell’invidia sensuale e nella seta del compiacimento per il successo del caro Tancredi; sentimento, a conti fatti, sgradevole». Il sentimento che prima era buffo diventa sgradevole per colui che si sente il solo vero principe, passando attraverso il sentimento contrario, il compiacimento generoso e altruistico. Il pendolo va a fermar-

si sul punto più basso della curva quando la visita della ragazza finisce per alimentare l’«acuto ribrezzo verso la congiuntura sociale» nella quale era incappato il «civilizzatissimo» e lussurioso principe. Il pensiero ha dunque assolto il proprio compito solo quando approda a sentimento o giudizio negativi. Lì si ferma l’oscillazione ma la situazione è assai peggiorata per chi è ritratto, ad esempio, in un gesto innocente, o quasi: «fregando-

si le mani per congratularsi della propria perspicacia proprio nell’istante in cui questa si era eclissata». Non salva nessuno e niente dalle obiezioni mortali del principe, nemmeno la vita, che non è mai innocua. L’odore di un fiore del giardino si estende ben al di là delle narici del principe e va da una parte a posarsi sul profumo della coscia di una ballerina dell'Opera, dall’altra parte verso il puzzo del cadavere del soldato morto in giardino. La morte e l’amore oscillano come pensieri dominanti del principe. Il pendolo di Lampedusa va avanti e indietro su un tratto breve, nel301

lo spazio di chi pensa una cosa e il suo contrario. Una pagina basta a far passare il principe dal senso del peccato all’autoassoluzione, e far guadagnare alla principessa un alto «Gesummaria!» a risarcimento del «Principone!» con cui Mariannina poche ore prima aveva dato voce al proprio orgasmo. Era giusto premiare la moglie che aveva allungato una mano innocente sul marito ma che così l’aveva eccitato per folgorante associazione e spedito fra le braccia dell'amante. Nella mente del principe di Salina le cose contrarie non sono lontane, sono sempre a portata, se non di mano, di mente. Il principe genera figli da una donna che non ama. Fecondo è insomma il suo incrocio di dati incompatibili, ma lo sposo più felice della morte è il sesso. Al quale dedica centinaia di pagine artisticamente felici e psicologicamente strazianti Stefano D'Arrigo. AI principe succede don Calogero, al cane succederà lo sciacallo? A don Calogero succederanno i pescatori, lo sciacallo sarà sostituito dal delfino, mammifero che è intelligente e cattivo non meno dell’uomo. E dopo Lampedusa verrà D'Arrigo. Proprio mentre morivano il principe, il romanzo e Tomasi

di Lampedusa, D'Arrigo iniziava a scrivere Horcynus Orca, il romanzo dove all’uomo succede come padrone del mondo il delfino. Quindi pur sempre un animale, un mammifero al quale manca solo la parola: perché, in quanto a intelligenza, il delfino non lo batte nessuno. Gli animali cosiddetti «inferiori» possono riservare sorprese col linguaggio del corpo, con gli altri linguaggi bassi, nel loro dialetto. E se Lampedusa se ne ritrae, rifiuta il contatto e reagisce con alterigia intellettuale e linguistica, D'Arrigo si attrezza perla discesa dentro un mondo ignoto da cui provengono misteriosi e invitanti segnali. Lampedusa si solleva all’italiano più elevato nella sintassi e nel lessico, D'Arrigo affonda nel significante che non ha ancora codice, nel rumore che può diventare musica nuova, se lo si sa smorfiare. Quanta ricchezza di idee e di sensazioni

in quei suoi taciturni o logorroici pescatori di vita spartana! D'Arrigo diminuisce il calibro del foro da cui deve uscire la frase: che si liquefa, come si conviene a uno scrittore che ha scelto il mare per capire la vita. Lampedusa invece, scrittore di terra, è saldo e pressante. Il periodo di Lampedusa trascina idee che ha rapidamente concentrato. D'Arrigo fa filtrare odori, perce302

zioni, sensazioni e altri materiali impalpabili. Lampedusa è tangibile, D'Arrigo è inafferrabile. D'Arrigo fa il giro dell’isola che è tutto il mondo per raggiungere l’antipodo; Lampedusa fa un breve percorso tra due punti che si vedono. Lampedusa procede tra scogli, D'Arrigo «cammina sulle acque» di un’audace immaginazione. Se affonda, è per ritrovarsi dalla parte opposta del mondo: dove si pensa e si vive in modo assai diverso, mai sentito dire. Dove si vedeva la pazzia, lì c’era la vera saggezza; dove si scatena il delirio, là sta per arrivare la rivelazione; quando pensano gli umili, stanno manifestandosi idee nuove; chi attinge al dialetto, estingue la sete di conoscere quanto ancora non è stato detto in nessuna lingua. D'Arrigo corteggia l’irrazionale per strappargli qualche segreto; in Lampedusa la razionalità è costretta ad alludere a qualcosa che sarebbe inutile nominare. D'Arrigo è sotterraneo e notturno; Lampedusa è solare, ma ama

le eclissi. È troppo saggio per avere la luna, e tuttavia un ostacolo si frappone tra l’osservatore e gli eventi. Molte parole fanno ombra senza avere alle spalle la luce. L’unica vittima del Gattopardo è Concetta: solo la sua è una tragedia, gli altri sono nell’elegia: il genere del principe, o almeno così sembra. Soltanto alla fine Concetta intuisce di avere sbagliato nella vita, d’avere sbagliato vita. Ma forse a lei la vita gliel’ha sbagliata il padre, colui che vive per tutti i figli e così li ammazza. Si salva solo il figlio che scappa in Inghilterra. L’ultimo capitolo, estremo ma non estraneo, è scritto dal ri-

morso del principe? Solo morendo — dopo la morte — lui «capisce» veramente quale responsabilità si è assunto impedendo inconsciamente a Concetta di vivere la propria vita? Abituato a gestire da padrone la replica perenne della stessa vita, obbliga i figli a una ripetizione che li travolge. È una colpa individuale o è il destino? Questo significa il fatto che i metodi con cui si arricchisce don Calogero impoveriscono sempre più il principe? Per mettersi la coscienza in pace dinanzi a chi esalta il mutamento, il principe ricorda la rovi-

na economica del proprietario che ha rimodernato le tecniche di produzione agricola. Non c’era nulla da fare. Nulla può cambiare, se si è prigionieri di un codice culturale, quand’anche fosse il più elevato e ricco e flessibile. Tocca morire e la303

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sciare il posto al successore: don Calogero, lo sciacallo; oppure il delfino, i pescatori, il plurilinguismo, D'Arrigo. Concetta si è specchiata nell'immagine dell’orgoglioso genitore ma così la sua esistenza è andata in frantumi. Incrudelisce la coda del romanzo ispirandole la rivelazione che è solo colpa sua se ha rovinato la propria vita. Chi gliel’ha ispirata è però il narratore, alter ego del padre e suo difensore. Il principe si è tirato fuori dall’ultimo capitolo ma l’assenza insinua e accresce il sospetto: colpevole è il padre, colui che mette tutti a tacere. I migliori erano i figli che non parlavano. La migliore scrittura è quella che è più vicina al silenzio. La prosa «magra» fa parlare d’altro e cela il segreto del narratore. Quel gran lettore di Manzoni che era Giovita Scalvini non si sentiva sotto il cielo stellato bensì sotto la cupola di una chiesa? Analogamente chi legge I/ Gattopardo potrebbe avvertire sopra la testa non la volta celeste ma il tetto di un palazzo dell’aristocrazia siciliana. O meglio, la volta del cranio di un uomo che difende accanitamente il codice che ha maturato per tante ragioni culturali e sociali. L’intelligente e arguto padrone di un enorme edificio mentale apre la porta a tutti i visitatori ma raramente si muove per far visita al mondo, e comunque non si allontana dai propri domini. Uno di quei galantuomini che nei paesi del Sud, secondo Corrado Alvaro, vedevano il mondo da dietro i vetri della finestra ma che non scendevano mai per la strada. Inevitabile che, inorriditi e schifati dallo spettacolo offerto dai terrestri, si sia tentati di fissare lo sguardo verso le stelle, magari senza telescopio. Il principe capisce tutto quello che era consentito dal suo codice, dal suo linguaggio. Già gli sfuggiva il senso del comportamento del figlio più caro, scontroso, e della figlia più amata,

così taciturna. Arrivato al confine che si dà, il razionalista si ferma. Sciacalli, delfini, neoespressionisti, plurilinguisti, dialettali e sperimentatori di linguaggi informali, ogni ricerca, secondo . Lampedusa, è destinata al fallimento. Utopie, vaneggiamenti, infantilismi, velleità di persone che non conoscono com'è fatto dall’origine e per sempre il mondo. Nulla è cambiato davvero, malgrado tante rivoluzioni ed esperimenti, rispetto al romanzo ottocentesco: un solo punto di vista, un’idea centrale, e tutto il resto a girare intorno. Lampedusa non ha occhio, interesse, at304

tenzione, comprensione per il periferico, marginale, digressivo, decentrato. Che è invece il molteplice centro della.narrativa di Stefano D'Arrigo. Se l’uomo è sempre lo stesso, dunque è vero, non c’è storia? C'è ed è quella del suo linguaggio, delle sue interpretazioni nel tempo. L'uomo di D'Arrigo non vuole cambiare la realtà esterna, i fatti sono quelli che sono: i ricchi e i poveri, i cattivi e i buoni, gli onesti e i ladri, i bugiardi e i sinceri, i laconici e i chiacchie-

roni, i prepotenti e i vigliacchi, gli ingenui e i furbi, e ogni altra alternativa umana. Sono intanto però mutate molte cose che sembravano astrazioni, elementi inafferrabili per un narratore. Il ritmo, la voce, la mano, gli occhi, la pelle, l'olfatto, il fegato, il cuore di Ndrja e Caitanello Cambria, di Ciccina Circé, di don

Luigi Orioles, di Monanin, del Maltese e di tanti altri personaggi maggiori e minori di Horcyrus Orca. Tanti personaggi di romanzo più questi di D'Arrigo. E già così il mondo non è più quello di prima. Hanno portato la loro cultura, il loro parlato, le loro fantasie dentro l’italiano. E l'italiano non è più quello di prima. Dalla petiferia sono arrivate al centro notizie di una realtà di parole e di percezioni che ora sono a disposizione di tutti. Si cambia per lasciare le cose come prima? D'Arrigo ci ha provato lo stesso ma senza fare il «garibaldino». Il suo mutamento l’ha portato avanti lentamente, gradualmente, globalmente: cambiando, rispetto a Lampedusa, versante (più comicità), livello linguistico (il serzzo burzilis), stile (il molteplice), lessico (una miscela di dialetti e lingua) e musica (un immane ritornello che è penìo e nenia). Così egli ha raccontato una nuova tragedia che attinge al sublime e che si solleva a visione essenziale (la reductio ad unum: cui approda la tensione al tutto) creando

una lingua che fa dire sull’uomo quello che era ancora impensabile. Non s’è mai parlato così in italiano, l’italiano non era mai stato messo in musica come in Horcynus Orca. Dopo il romanzo

di D'Arrigo le cose non stanno più come prima. Per non dire delle parole. Che sono la vera e grande novità di Horcynus Orca. Qui le parole sono tutto? Meglio si direbbe che nelle sue inaudite parole c’è tutto, tutta la vita. Quella degli anni Cinquanta in cui del romanzo fu scritta la prima stesura, quella degli anni Sessanta in cui fu corretto, quella degli anni Settanta in cui fu portato a termine. Fine della corsa? Siamo ancora all’inizio.

305

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4

xx

I numeri in corsivo segnalano i capitoli dedicati esplicitamente a un autore.

Indice dei nomi

Addamo Sebastiano, 58

Alain (pseud. di Emile-Auguste

Benni Stefano, 148 Bergson Henri, 57, 60, 65, 89,

Chartier), 85 Alfieri Vittorio, 66, 223, 232, 236

Bernari Carlo (pseud. di Carlo

Alighieri Dante, SOIA

139-42,

103 MOSS

R27SM52

Bernard), 81 Bianciardi Luciano, 84, 106, 113 Bilenchi Romano, 4, 81, 85, 106,

144,

Alvaro Corrado, 4-5, 8, 72, 79-

215, 268

80, 106, 205, 249-59, 304

Apollinaire Guillaume, 4, 152

Bloom Harold, 17, 20-1, 36 Boccaccio Giovanni, 249 Boccioni Umberto, 58 Bécklin Arnold, 160-1 Boine Giovanni, 83, 204 Bonaviri Giuseppe, 58, 81 Bontempelli Massimo, 3-5, 7-10,

Arbasino Alberto, 5, 67, 83, 100, 108-10, 113-4, 118, 128, 198

Ariosto Ludovico, 229

Babinski Jozef, 210 Bacchelli Riccardo, 72, 238 Bachelard Gaston, 280 Bachtin Michail, 32, 76, 84, 91,

22,57,59, 64, 67, 69-71, 80, 84, VIBO IO]

F5RR0

555140

Mo

1164 204557216, 223722812352

102, 104, 115, 228

Balestrini Nanni, 69, 72, 108, 113 Balzac Honoré de, 18, 141, 154 Barthes Roland, 227 Baudelaire Charles, 3, 7, 22, 65-

4,238, 240-4, 250-1, 268

Borges Jorge Luis, 100 Borgese Giuseppe Antonio, 58, 2050215,

Bourget Paul, 20

© TOISLIL 9107 117, 126-9, 132, 183, 240

Brancati Vitaliano, 5, 58, 67, 83, 113-5 Brecht Bertolt, 44, 156, 294 Breton André, 154, 158, 182 Brooks Peter, 71 Belli Giuseppe Gioachino, 106 Bruno Giordano, 92 Benjamin Walter, 57, 67, 69-70, ‘. Bufalino Gesualdo, 58 7800010392418 Bava Beccaris Fiorenzo, 57 Bazlen Roberto (Bobi), 33 Beckett Thomas, 84, 102

309

MB DISVZIZALO2A 106, 109, 115, 198, 202, 224,

Busi Aldo, 108 Buttitta Ignazio, 58 Buzzati Dino, 4, 64, 81, 239

260-305

Darwin Charles, 17, 20, 35, 39

D’Arzo Silvio (pseud. di Ezio Calvino Italo, 5, 8, 10, 64, 67, 71,

Comparoni), 4, 10, 71, 81,

TO NS1ES5 00021070) 190-1, 268-9

103, 215, 268

Debenedetti Giacomo, 3-4, 9-10,

Campana Dino, 80

29, 58, 66-7, 77-8, 83, 92-53, 99, 103, 186, 188-9, 195-206, 208219 22222345207

Campanile Achille, 3-8, 22, 67, SO ROZILO LR LO STORIA ISTE SSZ05ZAI4:

De Chirico Giorgio, 4, 104, 154

218

De Filippo Eduardo, 107

Cangiullo Francesco, 80 Caproni Giorgio, 69

Del Buono Oreste, 81 Delfini Antonio, 4, 10, 66, 72,

Cardarelli Vincenzo, 65-6, 69,

80, 215

72-3, 81, 204

De Roberto Federico, 171 De Sanctis Francesco, 9, 205,

Carducci Giosue, 93, 205 Cartesio (René Descartes), 170 Cassola Carlo, 71, 81, 85, 195, 215 Cattafi Bartolo, 58 Cavazzoni Ermanno, 94, 101-2,

228-9, 236-7, 243-4

Descalzo Giovanni, 238 Dickens Charles, 154 Diderot Denis, 164 Dossi Carlo (pseud. di Carlo Alberto Pisani Dossi), 22, 28,

107-9, 113, 116, 120, 128, 148 Cecchi Emilio, 72, 82, 228, 233,

65, 89, 108, 240

238, 244 Cechov Anton Pavloviè, 183 Celati Gianni, 5, 94, 100-2, 107-

Dostoevskij Fédor Michailoviè, 183-4, 190, 272

10, 116-8, 120, 128, 148

Cervantes Miguel de, 208 Chaplin Charlie, 232 Coleridge Samuel Taylor, 155

Eco Umberto, 102, 108, 113 Ehrmann Jacques, 185-6 Einstein Albert, 60, 62-3, 279 Eraclito, 151

Compagnone Luigi, 81 Consolo Vincenzo, 58 Contini Gianfranco, 173, 205 Corra Bruno, 80, 100, 108 Croce Benedetto; 9, 82, 110, 140,

Fellini Federico, 111 Fenoglio Beppe, 4, 10, 58, 69,

224, 230-2, 234, 242

TAB TO AS0AN ALOE 109, 202, 268, 286-7, 292

Fernandez Macedonio, 100, 114

D'Annunzio Gabriele, 28, 82, 93,

Ferretti Massimo, 102, 108, 114,

104-6, 154, 201-2, 204, 226, DI SIZ3ZNZ3 625

118

D'Arrigo Stefano, 4-9, 58, 64, 69,

Flaiano Ennio, 5, 109-11, 113-4 310

Flaubert Gustave, 6, 16, 130,

Heisenberg Werner, 76, 78, 176,

164, 173, 176, 272-3, 283

Folgore Luciano

(pseud.

2018235 MV]

di

Hobsbawm Eric J., 57 Hoffmann Ernst Theodor Ama-

Omero Vecchi), 106 Frassineti Augusto, 94, 102, 113,

deus, 108, 127, 183, 190

Hélderlin Friedrich, 34, 70, 131, 273

116, 148

Freud Sigmund, 17, 20-1, 30, 36,

Hugo Victor, 82-3

47, 50, 59-60, 63-5, 78-9, 81, SITES ON LIZEE5 159) 1168,11176, 225-6; 237, 243 Fucini Renato, 199

Ibsen Henrik, 133, 151, 153 Ionesco Eugène, 75, 79, 84, 102, 115-6, 128, 131

Gadda Carlo Emilio, 4-5, 7-10, 22, 32-3,50, 58, 64, 66-9, 71-6, TOSI TOAMISMI0LSTA106-75 112-5, 123, 135, 164, 167-80, 196-9, 202-5, 209-11, 213,216, 268-9, 278-80, 282-3, 286, 292

Jacob Max, 82-3, 94, 96, 108-9, 114-5, 131, 224, 277, 284

Jahier Piero, 66, 80, 204 Jakobson Roman, 72, 78, 217

Jean Paul (pseud. di Johann Paul

Gargiulo Alfredo, 217-8

Friedrich Richter), 22, 82

Garibaldi Giuseppe, 263, 285,

Jesenské Milena, 36 Jovine Francesco, 81

287

Gatto Alfonso, 66, 81

Gaudenzio Luigi, 238

Joyce James, 4, 21, 30, 33, 36, 64, 25M S4M1722099233 Jung Carl Gustav, 201, 219, 225, PE

Gemito Vincenzo, 151, 153 Gentile Giovanni, 77 Gide André, 70, 78, 82

Giotti Virgilio, 81 Girolamo (santo), 255 Giuliani Alfredo, 108, 114 Gobetti Piero, 62, 231

Kafka Franz, 21-3, 30, 36-7, 42SIG MIDS ATOM a MoraA43 183, 202, 209-10, 232-3, 241, 251, 268

Goethe Johann Wolfgang, 112 Gogol’ Nikolaj Vasil’evié, 183-4,

Kermode Frank, 71, 77-8, 86, 262

190

Kris Ernst, 91 Kundera Milan, 34-5, 49

Gonéarov Ivan Aleksandroviò, 183

Govoni Corrado, 66 Gozzano Guido, 69, 80, 106, Lacan Jacques, 71, 219 La Cava Mario, 71 Landolfi Tommaso, 4-5, 7-9, 29, 67, 70-1, 77, 83-4, 102-3, 110,

113, 201 Gramsci Antonio, 57, 58, 62

Guerra Tonino, 148 Guinizelli Guido, 74

MO

MARSI

229, 234, 240, 268 311

224692157

Montale Eugenio, 80-1, 100,

Lasca, Anton Francesco Grazzini detto, 132 Lenin Nikolaj (Vladimir Il’ié

2234), 228-9, 233

Morante Elsa, 4, 72, 81, 83, 211, 269 Moravia Alberto, 10,72, 81-3, 106,

Ul’janov), 74-5 Leopardi Giacomo, 164, 226

liL0K176X202X204>82:10822537 228, 234, 238, 241, 269, 292

Levi Primo, 268

Lévy-Bruhl Lucien, 220 Lichtenberg Georg Christoph,

Moretti Marino, 69, 238 Mosca Gaetano, 75 Musil Robert, 214 Mussolini Benito, 62, 75, 178

12

Locke John, 104 Loria Arturo, 81, 215

Lotman Jurij Michajloviè, 112, 181

Nabokov Vladimir, 239 Nicastro Luciano, 239 Nietzsche Friedrich, 17, 20, 28, SI, CR), Meno), di IL 155, 157, 225-6, 243 Nostradamus Michel (Michel de Nostredame), 160-1

Lukacs Gy6rgy, 67, 81 Luzi Mario, 81

Machiavelli Niccolò, 92

Majakovskij Vladimir Vladimirovié, 62

Malerba Luigi, 5, 8, 66-7, 70, 72,

Novalis (pseud. di Friedrich Leo-

84, 94, 100-2, 108-10, 113-5, 117-8, 120, 124, 128, 148

pold von Hardenberg), 183, 190 Noventa Giacomo (pseud. di Giacomo Ca’ Zorzi), 9, 81,229

Manganelli Giorgio, 5-6, 9, 61, 67,70, 76-7, 84, 100-3, 107-8, 110, 113-8

Ojetti Ugo, 238 Ortega y Gasset José, 66, 70, 75,

Mann Thomas, 63, 225, 233 Mannoni Octave, 62 Manzoni Alessandro, 69, 176,

96-7, 105 Ortese Anna Maria, 4, 72, 269

281, 304

Marinetti Filippo Tommaso, 4, 60, 64-5, 69: 71, 80, 90) 99100, 103, 108, 110, 120, 1325, 228-9, 236, 238, 244

Pagliarani Elio, 66, 69-70, 84-5, 106, 200

Marx Karl, 20, 30, 36, 39, 62-4 Mastronardi Lucio, 5, 73, 80, 84, IMSA

Palazzeschi Aldo, 4-6, 9-10, 22, 56, 58, 62,64, 67,70-1,79-80, 83-6, 90-7, 100-1, 103-8, 110-1, 1137,120, 126, 132-6, 138-9, 202, 204-5, 211, 214, 218, 223, 228, 233-4, 238, 240-1, 245, 269

S292

Maupassant Guy de, 39, 157

Mazzaglia Giuseppe, 58 Meneghello Luigi, 80 Mérimée Prosper, 183, 190

Panzini Alfredo, 22, 67, 106,

Mills Charles Wright, 218 Montaigne Michel Eyquem de,

Papini Giovanni, 97, 228, 238,

110, 123, 238-9

236, 244

244 312

Pareto Vilfredo, 63, 75 Parise Goffredo, 5, 64, 81, 84-5,

Puskin Aleksandr Sergeeviè, 68, 183-4, 190

109, 113

Parmigianino, Francesco Mazzola detto, 180 Pascarella Cesare, 107 Pascoli Giovanni, 66, 69, 93,

Quasimodo Salvatore, 58, 81

Rabelais Frangois, 4, 49, 84 Racine Jean, 82 Ravegnani Giuseppe, 239

202, 223-6, 233, 244

Pasolini Pier Paolo, 4, 69, 71, 79SISSA 286, 292

VORO

N69]

Rea Domenico, 72, 81, 83-4

Pasternak Boris Leonidovié, 279 Pavese Cesare, 69, 81

Rebora Clemente, 80

Pea Enrico, 80 Penna Sandro, 81

Rosso di San Secondo Pier Maria, 58 Rousseau Jean Jacques, 83 Roversi Roberto, 72, 113

Renan Joseph Ernest, 40

Perniola Mario, 186 Perriera Michele, 58

Ruskin John, 163 Russolo Luigi, 230

Petrarca Francesco, 74, 171

Petrolini Ettore, 93, 111 Picabia Francis (Francisco Martinez de Picabia de la Torre), 152 Piccolo Lucio, 58 Pirandello Luigi, 3-5, 9-10, 17, 21-

Saba Umberto, 9, 81-2, 211, 228, 233-4

Sade Donatien-Alphonse-Francois de, 184 Sanguineti Edoardo, 106

2, 34, 30) 59-6, 58, 60-70; 72, 74-5,82-4,86,89,92-3,98,103, 105-6ARI0S=10 123,629 1358 140-157, 180) 1182: 195-7 202, ALZI, 2 ZI 2225) 226-8, 231-4, 238, 240-3, 251, 253,260, 266, 269, 278, 287

Savarese Nino, 58, 238

Savinio Alberto (pseud. di Andrea De Chirico), 4-5, 7-10, 22, 32, 58, 61, 64, 67, 69-70, 72-7, 7986, 102-3, 105-8, 110-1, 113, INCROCI I901 202, 205, 208, 216, 219, 234, 243, 254, 265, 267, 280

Pizzuto Antonio, 5, 58, 61, 67, 72, 76, 84, 86, 110, 205

Platone, 160, 231 Poe Edgar Allan, 68, 183, 280 Porta Carlo, 106

Scalvini Giovita, 304 Scholem Gershom Gerhard, 21 Schopenhauer Arthur, 16-20, 23,

Poulet Georges, 269 Pound Ezra, 74, 92, 223, 286 Pratella Francesco Balilla, 230 Pratesi Mario, 199 Pratolini Vasco, 72, 81, 215, 276

0 MITO 83, 225-6, 243

0,

Sciascia Leonardo, 4, 58, 81, 268 Scotellaro Rocco, 72, 292 Seminara Fortunato, 81 Sereni Vittorio, 80-1 Serra Renato, 67, 123, 205

Propp Vladimir JakovleviÈ, 115 Proust Marcel, 18, 28, 60, 64, 74, 80, 154, 233, 236, 250, 268

Pulci Luigi, 116 313

Shakespeare William, 133, 295 Silone Ignazio, 62

174195222223:

A225MZZIA

233, 268 Trockij Lev Davidoviè (Lev Da-

Sklovskij Viktor BorisoviÈ, 16,

vidovié Bronitein), 58

IGES) 2105)

Slataper Scipio, 204

Turati Filippo, 40

Socrate, 6, 118, 160 Soffici Ardengo, 66, 80, 204 Sofocle, 133

Tzara Tristan, 76, 83

Unamuno Miguel de, 208

Solmi Sergio, 36 Sontag Susan, 236 Sorel George, 57, 60, 93 Spinella Mario, 108 Stalin, Iosif Visarionoviè DZugaSvili detto, 58, 202 Starobinski Jean, 66 Stendhal (pseud. di Henri Beyle),

Ungaretti Giuseppe, 80-1, 84, 228-9, 233, 282-3

Vann’Antò (pseud. di Giovanni Antonio Di Giacomo), 58 Vassalli Sebastiano, 108 Veneziani Lidia, 21-2

180

Verdi Giuseppe, 160-1, 243

Stevenson Robert Louis, 294 Strati Saverio, 72, 81

Verga Giovanni, 44, 154, 196, 202, 214, 224-5, 233, 243-4,

Svevo Italo (pseud. di Ettore

250, 287, 294

Schmnitz) N 4609554582 9, 63-5, 67-8, 70-6, 83, 89, 92, TO 23M BAL RE808 TO. 620282 VASI 0020 DB RZ RZ. 825 2825581 240-1, 245, 252, 266, 269

Verne Jules, 183-4 Viani Lorenzo, 80

Vigolo Giorgio, 238 Vittorini Elio, 58, 73, 81, 215,

264, 268 Volponi Paolo, 4, 77, 83, 103

Voltaire (pseud. di Frangois-Marie Arouet), 65, 82-3, 164, 255

Tadini Emilio, 72 Tessa Delio, 81 Testori Giovanni, 4, 10, 69, 71,

Wagner Richard, 17, 63, 83, 225-

75, 79-80, 83-4, 103, 106, 198, 210, 269, 286, 292

6, 243

Weininger Otto, 235

Tobino Mario, 215 Tolstoj Lev Nikolaevit, 154, 273

Tomasi di Lampedusa Giuseppe, ASSO ORVIETO 260-305

Zavattini Cesare, 4-5, 8-9, 67, 78,

5

SOMOSSO 651058 072 SLONE 120, 138-48, 205, 214, 240,

Tommaseo Niccolò, 235, 244 Tozzi Federigo, 4-5, 7, 9-10, 64,

268 Zola Emile, 17, 19-20, 36, 39,

66, 70, 79-80, 84, 103, 106,

116, 132

314

Indice generale

Premessa

Parte prima

LA NOVITÀ, LA VELOCITÀ E IL CASO Italo Svevo, o dell’importanza di essere originali Un secolo in movimento: dalle periferie al centro

Parte seconda LE ARMI DEL COMICO

120 138

Come ridono le avanguardie La «farsificazione globale» di Achille Campanile Il comico che è anche tragico: Cesare Zavattini Parte terza FIITOLI

IS1 167 181

Alberto Savinio, o della deperibilità dei linguaggi Carlo Emilio Gadda, o della «deformazione integrativa» Tommaso Landolfi, o del finto persiano Parte quarta L’EPIFANIA DI GIACOMO DEBENEDETTI

195 223

Lettere al padre di Tozzi Dalla parte di Pirandello, Bontempelli, Palazzeschi e Moravia Parte quinta MITI MEDITERRANEI

249 260

Le donne ribelli di Corrado Alvaro Lampedusa e D'Arrigo, ovvero Morte in Sicilia

309

Indice dei nomi

n

«Le armi del comico» di Walter Pedullà Arnoldo Mondadori Editore

Questo volume è stato impresso nel mese di aprile dell’anno 2001 presso la Milanostampa S.p.A. Stabilimento di Farigliano (CN) per conto della Mondadori Printing S.p.A. Stampato in Italia - Printed in Italy

ma”,la morte: del loro romanzo, della loro cultura, dei loro linguaggi. Debenedetti insegna come si legge un libro, come lo si interpreta, come lo si giudica. Uo-

mo in disponibilità, a lui gli scrittori che trovano quello che cercano (i seguaci di un movimento) interessano meno degli scrittori che trovano quello che non hanno mai cercato (la rivoluzione inconsapevole di Tozzi). L'arte arride solo ai pochi fortunati nei quali il calcolo è pari al talento. Così nascono i capolavori: dalla coincidenza di progetto e destino. Contano i creatori di miti, il cui linguaggio è unico

come l'impronta digitale. Anche per Pedullà la critica è una questione di stile. Ha una cifra originale il suo modo, assil-

lante o persino divertente, di raccontarla. Il saggio lungo procede circospetto, quello breve è febbrile come un telegramma; l’analisi diventa conflitto o dialogo brioso. E la scrittura, policroma e polivalente, vola con potenti metafore verso la più vera identità di un narratore. Walter Pedullà insegna Letteratura italiana

moderna e contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza» dal 1958. Critico letterario dell’«Avanti!» per oltre trent'anni, collabora attualmente al «Messaggero». Dirige la rivista di cultura «L’Illuminista» e, con Ermanno Cavazzoni e Gianni Celati, «Il Caffè il-

lustrato». Ha diretto con Nino Borsellino la

Storia generale della letteratura italiana, in 12 volumi (1999) e la Letteratura italiana del Novecen-

to, in 3 volumi (2000). Tra le sue opere: I maestri del racconto italiano (con Elio Pagliarani, 1964); La letteratura del benessere (1968 e 1972); La rivoluzione della letteratura (1970 e 1972); Il

morbo di Basedow ovvero Dell'avanguardia (1975); L'estrema funzione (1975); Alberto Savinio (1979

e 1991); Miti, finzioni e buone maniere difine millennio (1983); Il ritorno dell'uomo di fumo (1987 e 1992); Lo schiaffo di Svevo (1990); Le caramelle

di Musil (1993); Sappia la sinistra quello chefa la destra (1994); La narrativa contemporanea 194090 (1996); Carlo Emilio Gadda (1997). Dirige per il Poligrafico dello Stato la collana di classici italiani «Cento libri per mille anni».

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GRAPHIC

ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO DESIGNER: VALERIA MAGGIANI

“Ancora

poche generazioni e il riso, riservato agli iniziati,

sarà impraticabile

quanto

l’estasi.” Cioran

ISBN 88-04-4934

9 788804"4934

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